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Notizie 1-15 febbraio 2016


In Gran Bretagna sarà reato boicottare i prodotti israeliani

Il governo di David Cameron si prepara a mettere al bando il boicottaggio di beni e servizi di Tel Aviv. Proteste della società civile e dei laburisti: "Il governo impone le sue politiche anche agli enti locali".

di Giovanni Masini

Boicottare i prodotti israeliani diventerà reato penale: lo avrebbe deciso il governo britannico, secondo le indiscrezioni che stanno trapelando in queste ore sulla stampa britannica ed israeliana.
Nel dettaglio, la discriminazione contro i prodotti di Tel Aviv sarà vietata per tutti quegli enti pubblici, gli organi amministrativi locali e perfino quelle associazioni di studenti universitari che ricevono finanziamenti pubblici. Secondo fonti governative, la scelta di non acquistare o di favorire attivamente il boicottaggio di beni e servizi israeliani potrebbe "minare le relazioni tra comunità, avvelenare e polarizzare il dibattito ed alimentare l'antisemitismo".
La campagna di boicottaggio, rivolta soprattutto contro i prodotti di aziende coinvolte nel commercio di armi, carburanti fossili e tabacco, ha conosciuto grande successo in tutta la Gran Bretagna, con adesioni che hanno avuto del clamoroso. Nel 2014, ad esempio, il consiglio comunale della città di Leicester - dove oltre il 15% della popolazione è di fede musulmana - aveva messo al bando tutti i prodotti "made in Israel".
La decisione del governo, però, ha incontrato le critiche durissime delle associazioni che aderiscono al boicottaggio e del partito laburista. Il leader dei labour, Jeremy Corbyn ha criticato la decisione di Downing Street spiegando che "i cittadini hanno il diritto di eleggere rappresentanze locali in grado di prendere decisioni autonome dalle scelte del governo centrale, comprese quelle che riguardano gli investimenti o l'acquisto di beni e servizi considerati non etici."
"Il bando che il governo di Londra si prepara ad approvare - conclude Corbyn - avrebbe messo fuori legge tutte le proteste della società civile contro il Sudafrica dell'apartheid. Il governo impone le politiche del Partito conservatore agli organi amministrativi locali."
Secondo il quotidiano londinese The Independent, l'annuncio formale della nuova misura di legge verrà ufficializzato in settimana durante la visita in Israele di Matt Hancock, ministro per il Cabinet Office di David Cameron.

(il Giornale, 15 febbraio 2016)


Rabbini generazione under 40: Laurea, musica e computer

Orgogliosi della nostra tradizione spesso vanno a studiare in Israele. Sono pronti a una sfida: fondare un'istituzione educativa religiosa.

di Ariela Piattelli

 
Rav Roberto Di Veroli
Sono tutti laureati, studiano musica, seguono i mercati finanziari e programmano software. Hanno respirato l'ebraismo sin da bambini, orgogliosi della tradizione italiana, ma vanno a studiare anche in Israele, nelle yeshivot (Istituti religiosi ebraici), dove apprendono l'approfondimento. E' la generazione under 40 di giovani rabbini italiani. E ha il compito di dare continuità a duemila anni di tradizione rabbinica italiana.

 La bellezza
  Una tradizione «in cui c'è uno stile di bellezza, passione linguistica e filologica, e una grande apertura alle scienze. Quest'ultimo è un elemento importantissimo», spiega il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni. E' questa la cifra che accomuna i grandi maestri dell'ebraismo italiano, che hanno fatto scuola in tutto il mondo. Come Ovadia Sforno, medico e filosofo del '500, ed Elio Toaff, che ha risollevato l'ebraismo italiano dopo la Shoah e lo ha guidato fino ai giorni nostri. Oggi i giovani rabbini sono testimonianza della continuità e le scuole rabbiniche d'Italia, che hanno una lunga tradizione, continuano ad essere prolifiche. L'ultimo laureato al Collegio Rabbinico di Roma è Jacov Di Segni, che a 29 anni dirige l'ufficio rabbinico della Capitale. Viene da una famiglia religiosa, suo padre è rabbino e biologo. Jacov, mentre frequentava il Collegio, ha trovato il tempo per studiare musica, sposarsi, ascoltare Battisti, Shlomo Carlebach, rabbino e grande musicista, e soprattutto di andare a Gerusalemme, in yeshiva.

 II nuovo fenomeno
  L'internazionalizzazione infatti è la grande novità che caratterizza la nuova generazione. Il fenomeno è iniziato negli Anni 80 quando le scuole italiane invitavano rabbini israeliani, e gli studenti li seguivano poi nelle yeshivot. «Le passate generazioni di rabbini italiani studiavano, per una serie di ragioni, in Italia - spiega Jacov Di Segni -. Ora si va anche nelle yeshivot, e ognuna di queste ha tradizioni diverse. Assistiamo, forse, alla globalizzazione del mondo rabbinico, ma le tradizioni vanno mantenute. Io in yeshvva ho cercato di portare la mia, ho sempre pregato con il libro di rito italiano e ho continuato nella pratica delle mie tradizioni, tanto che i maestri israeliani, incuriositi, mi hanno aiutato ad approfondirle». Approfondire per mettere la tradizione sotto la lente d'ingrandimento. E' la lezione israeliana.
  Un esempio in odore di stampa è il libro di Roberto Di Veroli, rabbino romano, 36 anni, esperto in shechità (macellazione rituale), che ha fatto una lunga esperienza in yeshivà. Il suo libro in lingua ebraica, spiega come si controlla il polmone secondo l'antico uso romano, per poter considerare l'animale kasher. Di Veroli tra la yeshivà, una laurea in psicologia e l'hobby di seguire i mercati finanziari, è andato anche in Argentina per studiare la macellazione. Si deve uscire dai confini per studiare e insegnare. Anche virtualmente. Perché i tempi cambiano, e con loro le esigenze dei religiosi. «A Torino c'è una comunità molto attiva - racconta il Rabbino Capo Ariel Di Porto -. Abbiamo un canale YouTube dove mettiamo online le lezioni. Il web ha rivoluzionato anche il mondo rabbinico. Cambia il tuo senso di responsabilità quando sai che sono migliaia le persone che assistono alle tue lezioni. Per me Internet è un mezzo di comunicazione fondamentale. Io l'ho quasi inventato Face-book - scherza -. Su Fb rispondo a domande esistenziali e sulle pratiche religiose».
  Di Porto, 37 anni, laurea in filosofia, ha respirato l'ebraismo in famiglia, quando da bambino accompagnava suo nonno nella Sinagoga di Roma, dove era gestore del Tempio. «Posso dire di essere nato rabbino - dice -. Credo ci sia continuità tra le generazioni precedenti e questa. Ma la nostra è caratterizzata dalla formazione di stampo israeliano, che si concentra sullo studio del Talmud e della normativa ebraica». E c'è chi vuole portare il modello della yeshivà in Italia. «II mondo delle yeshivot è un punto di riferimento universale. La sfida dei giovani rabbini italiani potrebbe essere fondare una yeshiva qui». Lo dice Paolo Sciunnach, di Genova, che insegna nel liceo ebraico di Milano e, mentre coltiva la passione per l'informatica, fa gruppi didattici con gli studenti nei social network per condividere risorse. Ogni generazione ha le sue guide ispiratrici. Cosi è scritto nel Talmud.

(La Stampa, 15 febbraio 2016)


Berto l'edicolante. Una campana stonata

di Mario Pacifici

 
Non fosse stato per la collaretta e per la croce di legno, nessuno lo avrebbe preso per un sacerdote. Vestiva di nero, certo, ma in modo più trasandato che informale. Jeans, maglie, giacconi. Una tonaca non la indossava dai tempi del seminario e da allora ne era passata d'acqua sotto i ponti: i capelli erano ormai bianchi, gli occhi erano ridotti a uno spiraglio e le rughe gli mangiavano il viso.
Don Mario era così. Ai più sarebbe passato inosservato ma bastava conoscerlo appena per scoprire dietro il sorriso bonario, un'insospettabile energia e un carattere spigoloso, da uomo poco incline ai compromessi. Con Berto si conoscevano da una vita e di sua moglie era stato il confessore fino all'ultimo. Fino a quando l'aggravarsi della malattia aveva spazzato via ogni speranza, rendendo prossimo l'inesorabile momento del congedo.
Berto aveva apprezzato la sua presenza discreta e l'aiuto che aveva saputo offrire a sua moglie nel momento più difficile.
Erano rimasti amici, nei limiti almeno che Berto attribuiva a un tale sentimento. Apprezzavano la compagnia l'uno dell'altro e conversavano volentieri, pur sapendo di ritrovarsi il più delle volte su posizioni diametralmente opposte. E forse era proprio questo che li intrigava: la consapevolezza di potersi aprire senza ritrosie con un compagno pronto a valutare anche idee non condivise.
Spesso Don Mario si presentava all'edicola cercando qualcuno di quei libri allegati ai quotidiani o, magari, solo per rovistare fra le riviste alla ricerca, diceva, di qualche spunto per le sue omelie. Ma Berto era convinto che venisse soprattutto per conversare.
"E allora... Domani il Papa si reca in visita dai tuoi amici..."
Berto gli sorrise sornione.
"O meglio, i miei amici domani ricevono il Papa.."
Don Mario lo squadrò divertito. "E dov'è la differenza?"
"Ci si reca in visita da un malato, da un carcerato o, che Dio ci liberi, da una famiglia in lutto. E chi lo fa mostra una benigna e lodevole disponibilità a chinarsi verso un malcapitato. Si viene ricevuti invece da un amico, su un piano di perfetta parità."
"Sofismi..." brontolò il prete, incapace di trattenere un sorriso. "Importante è l'incontro, tutto il resto sono chiacchiere. Tu ci vai, comunque...."
Berto scrollò le spalle.
"Per chi mi hai preso? La gente se li litiga gli inviti. C'è la fila per entrare nella lista. E poi, da quando rifiutai l'invito per la visita di Wojtyla, mi hanno messo all'indice. Non mi prendono nemmeno in considerazione."
Don Mario aggrottò la fronte, un po' stupito.
"Questa è bella...! Non la sapevo! Un evento storico di quella portata e tu rifiuti di assistere! Ma che ti è passato per la mente?"
Berto esitò un istante.
"Se non sei d'accordo, non sei d'accordo! E io all'epoca ero una campana stonata... Una voce fuori dal coro."
"Davvero non volevi il Papa in Sinagoga? Quell'incontro ha cambiato la percezione dei rapporti fra il Vaticano e gli ebrei! Dopo di allora nulla è stato più lo stesso!"
"Può essere. Ma io non ero contrario. Pensavo solo che un incontro del genere dovesse essere predisposto in tutt'altro modo. Duemila anni di soprusi e prepari in quindici giorni un colpo di spugna in mondovisione? Senza un chiarimento? Senza interpellare i membri della Comunità...? No, fu tutto troppo frettoloso."
"Ma quel che conta è il risultato. E il risultato fu straordinario!"
"Straordinaria fu l'occasione perduta. Venti secoli e poi ecco una prima volta...! Beh, di prima volta può essercene una sola. Nessun'altra avrà mai lo stesso valore. E allora doveva essere pazientemente concordata anche a costo di rinviarla di anni. Doveva sancire una piena, totale e incontrovertibile amicizia. Non una sorta di tregua, lacerata ad ogni piè sospinto da gravi incomprensioni."
"Capisco. Ma l'amicizia si costruisce un po' per volta... E il Nostra Aetate aveva già spazzato via tutti i pregiudizi."
"L'amicizia si costruisce solo sulla base di una reciproca comprensione... O almeno di uno sforzo in quella direzione. I tempi all'epoca non erano maturi."
"Ma se il Papa abbracciò Toaff chiamandolo fratello e chiedendo perdono per i misfatti della Chiesa!"
"Non della Chiesa... Di alcuni uomini della Chiesa... C'è una bella differenza! E non fratello ma fratello maggiore: come Esaù che dette via la sua primogenitura."
"Ancora sofisrni. Tu sei prevenuto! Guardi a dettagli insignificanti e perdi di vista lo spirito rivoluzionario di quel grande pontefice."
Berto annuì condiscendente.
"Quel che ricordo io è che mentre il Papa parlava in Sinagoga, all'ingresso di Auschwitz campeggiava una grande croce. E al suo interno si era insediato un monastero di suore. Non era un viatico di amicizia."
"Ma come sai, furono entrambi rimossi dopo qualche tempo..."
"Già... Dopo interminabili polemiche e odiosi rifiuti. E poi il Vaticano non riconosceva Israele. Non lo nominava nemmeno. Terra Santa, diceva. Come se gli ebrei da quelle parti fossero degli intrusi. In compenso riceveva quel terrorista di Arafat con tutti gli onori, senza mai chiedergli conto dei suoi misfatti. Altro che comprensione! Questo per gli ebrei era sale sulle ferite della storia!"
Don Mario sospirò.
"Ma da qualche parte si doveva pur cominciare. E quell'incontro ha dato i suoi frutti. Oggi Israele è stato riconosciuto..."
"Ma questo non ha impedito a Francesco, in visita a Gerusalemme, di fermarsi a pregare sul Muro di Protezione. Come se quello fosse davvero uno strumento di apartheid, piuttosto che uno scudo contro la barbarie delle stragi! Quelle immagini per noi furono un pugno nello stomaco! Un boccone amaro, difficile da trangugiare!"
"Ma ha pregato anche al Muro del Pianto" replicò Don Mario esasperato. "E ha reso omaggio alle vittime della Shoah."
"E' vero" riconobbe Berto. "Poi, subito dopo, quasi dovesse ristabilire gli equilibri, ha riconosciuto alla Palestina il rango di Stato. Senza porre alcuna precondizione! Senza nemmeno chiedere l'abbandono del terrorismo e la cessazione dell'istigazione alla violenza!"
Don Mario si fece forza per non perdere la calma.
"La politica internazionale è complicata" disse "piena di insidie. E' fatta di equilibri planetari che a volte sfuggono a una immediata comprensione. Ma Israele non c'entra nulla con l'incontro di domani! Non puoi trasformare la visita del Vescovo di Roma ai suoi amici ebrei, in una specie di simposio internazionale!"
Berto sollevò un dito ma lo abbassò subito, per tema di dare alle parole un tono ultimativo.
"E' proprio questa la più grande delle incomprensioni. Il Vaticano non percepisce fino in fondo cosa Israele rappresenti per gli ebrei. Per altri può essere una pedina sullo scacchiere internazionale. Non per noi. Per noi è un legame che ci coinvolge in modo inestricabile. Un cordone ombelicale che ci vincola a un amore millenario. La violenza, le menzogne, le minacce che Israele subisce, noi ebrei le viviamo in prima persona! Tanto più di fronte ai nuovi scenari globali che pongono ebrei e Israele all'epicentro di una rinnovata, brutale violenza."
Don Mario annuì stancamente.
"Tutto questo il Vaticano lo comprende perfettamente!"
Berto sospirò.
"Davvero...?" disse. E non aggiunse altro.

(Shalom, febbraio 2016)


Tour di archeologia biblica a Gerusalemme

Il previsto tour EDIPI di archeologia biblica a Gerusalemme programmato per giugno 2016 (dal 15 al 22 giugno) si farà! Seppur con un numero ridotto di partecipanti rispetto alla previsioni, si è allestito un gruppo quanto mai qualificato ed interessato.
A Gerusalemme si aggregherà anche la giornalista Fiamma Nirenstein, se nel frattempo non sarà nominata ambasciatrice di Israele in Italia (carica per cui è in predicato da alcuni mesi); inoltre sempre a Gerusalemme ci raggiungerà dagli USA la regista Deborah Brown per girare un film sul tour archeologico di Dan Bahat.

Intervista a Dan Bahat
Locandina

Per informazioni 3475788106 o ivan.b@edipi.net

(EDIPI, 15 febbraio 2016)


L'ex premier israeliano Olmert in carcere: sconterà 19 mesi per corruzione

GERUSALEMME - Per la prima volta nella storia un ex primo ministro israeliano è entrato in carcere per scontare una pena. Ehud Olmert, 70 anni, ha varcato oggi l'ingresso del carcere di Maasiyahu, a sudest di Tel Aviv, poco dopo le 10 di questa mattina. Dovrà scontare una pena di 19 mesi per corruzione e ostruzione della giustizia. Primo ministro fra il 2006 e il 2009, alla testa del partito Kadima fondato dal suo predecessore Ariel Sharon, Olmert dovrà sottostare a condizioni di detenzione particolari, isolato da altri detenuti, per garantirne la sicurezza dato che è a conoscenza di molti segreti di Stato.
Trascorrerà dunque la condanna nel blocco 10, che la stampa chiama «l'ala Vip», dove sta scontando la sua pena a sette anni per molestie sessuali l'ex presidente israeliano Moshe Katsav. «La vita non mi offre una prova facile. L'affronto con grande tristezza», ha detto Olmert in un video girato nel salotto di casa sua, poco prima di recarsi in carcere. «Ho commesso degli errori», ma non dei reati, ha proseguito l'ex premier, negando di aver mai intascato mazzette. Per alcuni di questi errori «pago oggi un caro prezzo, forse troppo caro», ha detto ancora Olmert, che è sposato, con cinque figli e 11 nipoti.
La vicenda che ha provocato la rovina politica di Olmert, succeduto a Sharon quando questi cadde in coma, risale agli anni 1993-2000 quando fu sindaco di Gerusalemme. Si tratta dello scandalo edilizio Holyland, per il quale Olmert fu inizialmente condannato a sei anni di carcere, poi commutati in 18 mesi dalla Corte Suprema. L'ex premier dovrà scontare un mese aggiuntivo per ostruzione della giustizia, dopo che alcune intercettazioni hanno rivelato il tentativo di influenzare la testimonianza della sua segretaria Shula Zaken.

(Il Secolo XIX, 15 febbraio 2016)


Se qualcosa del genere si potesse fare anche nei territori palestinesi, quanti ne finirebbero in carcere?


Hip Hope: il dispositivo israeliano anticaduta. Intervista al CEO Amatsia Raanan

 
Per il nostro giro di interviste ad imprenditori israeliani oggi la redazione di siliconwadi.it ha contattato il CEO di Hip Hope Technologies, Amatsia Raanan.
Hip Hope è un dispositivo indossabile, intelligente e rivoluzionario che fornisce protezione in tempo reale contro la frattura dell'anca causata da una caduta.
Il dispositivo ha la forma di una cintura che incorpora un sistema di rilevamento di caduta altamente avanzato, costituito da un unico insieme di sensori. Una volta che il sistema registra una caduta imminente, si attivano automaticamente due airbag che attenuano radicalmente l'impatto della caduta. Il dispositivo in futuro fornirà funzionalità aggiuntive, come ad esempio: il lancio di una allarme a distanza, la registrazione dei dati di attività, un pulsante di richiesta di soccorso, un localizzatore GPS e delle tasche per riporre oggetti personali di piccole dimensioni.
  1. Siete una azienda israeliana che ha sviluppato Hip Hope, un dispositivo destinato a ridurre gli impatti delle cadute che spesso provocano le fratture dell'anca negli anziani: In cosa consiste questa tecnologia e quali passi la hanno condotta al successo?
    Hip-Hope ™ è un dispositivo indossabile intelligente, progettato come una cintura, che viene indossato intorno alla vita dall'utente. Un sistema di rilevamento della caduta attiva due airbag di grandi dimensioni per proteggere i fianchi di chi lo indossa. Il dispositivo incorpora un metodo proprietario di rilevamento di caduta, l'algoritmo e il meccanismo di gonfiaggio degli airbag. Hip-Hope ™ è tecnologia innovativa e di design, che ci consente di superare i problemi di affidabilità di altri precedenti progetti che non hanno raggiunto l'efficacia desiderata.
  2. Qual è la differenza nel coltivare una startup nell'ecosistema israeliano rispetto a farlo negli altri paesi?
    Credo che le startup israeliane possano beneficiare di un ecosistema unico: Israele deve affrontare le minacce in corso sulla sua mera esistenza. Questa situazione unica è ciò che si cela dietro le innovazioni orientate verso difesa e sicurezza, molte delle quali in seguito vengono tradotte in innovazione in altri campi.
  3. Indicaci tre aggettivi che meglio descrivono un giovane uomo d'affari che vuole entrare a far parte di questo innovativo ecosistema israeliano.
    A mio parere, le caratteristiche di un imprenditore di successo sono sostanzialmente le stesse in tutti gli ecosistemi: Leadership, Creatività, Persistenza.
  4. Dove sarà Hip Hope tra cinque anni?
    L'obiettivo è quello di giocare un ruolo chiave nel mercato dei dispositivi indossabili per la sicurezza personale.
(SiliconWadi, 15 febbraio 2016)


Oltremare - Libertà

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Un ex Primo Ministro in galera non è cosa da tutti i giorni. E abbiamo un bel dire, fra israeliani, che è un bene, che la legge è davvero e senza dubbio uguale per tutti, se perfino Olmert, ex ministro, ex sindaco di Gerusalemme, ed ex primo ministro, adesso è un carcerato, uguale a tutti gli altri carcerati e privato delle stesse libertà. Ora poi, che gli abbiano dedicato una ala intera del carcere di Ramle, manco fosse Magneto che può piegare le sbarre della cella con la sola forza del pensiero, è in fondo logico.
Lui e i suoi colleghi di crimine, responsabili di uno dei più brutti e inutili ecomostri del Medio Oriente, stanno bene lì, chiusi dentro e noi fuori, anche se questo significa che noi l'ecomostro lo vediamo ogni volta che passiamo per Gerusalemme e loro invece sono liberi almeno da quella visione. A pensarci, un gran bel paradosso. Mentre loro passano un paio d'anni a Ramle, noi restiamo fuori a rimirare l'orrenda altitudine delle cinque torri già sbiadite e scrostate, collegate ai piani alti da una specie di corona che fa sembrare il tutto un pezzo di nave spaziale di qualche pianeta lontano, incagliato dopo una battaglia galattica di cui noi umani non sappiamo nulla e neanche vogliamo troppo sapere.
La battaglia in tribunale, invece, quella è arcinota: la segretaria che smistava le mazzette, le intercettazioni e le registrazioni fatte un po' da tutti, chi per accusare altri chi per salvare se stesso. Quando stamattina Olmert ha fatto pubblicare un video in cui sostiene ancora di non essere un criminale, non è tanto quello a spaventare - ognuno interpreta la realtà a proprio vantaggio. Spaventa pensare che a Ramle si aggirerà come un leone in gabbia e molta voglia di uscire un uomo che conosce per filo e per segno tutti i segreti belli e brutti d'Israele. Altro che ala personale: una navicella spaziale lasciata fluttuare - liberamente - nello spazio per 19 mesi sarebbe meglio.


(moked, 15 febbraio 2016)


La doppia umiliazione delle statue coperte

di Pierluigi Battista.

Sono passati circa venti giorni da quando la Venere Capitolina è stata sbeffeggiata e inscatolata per non urtare la suscettibilità del presidente iraniano in visita a Roma. 17 miliardi di scambio commerciale con Teheran sono stati sufficienti per infliggere all'Italia una figura umiliante, ma sull'onda del discredito internazionale la presidenza del Consiglio e il ministero per i Beni e le Attività culturali hanno fatto la faccia feroce promettendo di avviare un'indagine e di scoprire i colpevoli di una vicenda grottesca e sconfortante. Venti giorni invece non sono stati sufficienti per dimostrare la serietà di quella faccia feroce. Di quell'inchiesta non si è poi saputo più niente. Il colpevole non è venuto fuori, figurarsi. La percezione che i colpevoli siano solo dei fantasmi appare sempre più credibile, a meno che per colpevoli si facciano passare i solerti funzionari che hanno applicato con zelo direttive politiche probabilmente concepite ed emanate nelle stesse stanze che poi, per scaricare gli effetti di una brutta figura sulla solita «burocrazia» senza volto, hanno messo in scena il copione dell'indignazione tardiva.
Venti giorni passati inutilmente. Di più: al ridicolo si aggiunge il ridicolo di indagini senza costrutto, di inchieste senza sbocco, di ricerche senza risultati. Ma è davvero così complicato scovare il misterioso e imprendibile colpevole? Forse sarebbe il caso di sollecitare i goffi indagatori, e di non confidare sull'oblio degli italiani che, figuraccia per figuraccia, sono addestrati a perdonare il solito chiacchiericcio dei governanti che non mantengono ciò che hanno promesso.

(Corriere della Sera, 15 febbraio 2016)


Gaza: per la prima volta aperto il valico di Rafah

Nel 2016 non era mai stato concesso il passaggio nel principale collegamento tra la Striscia di Gaza e il mondo esterno

CITTÀ DI GAZA - Per la prima volta quest'anno l'Egitto ha aperto oggi il valico di Rafah, il principale collegamento tra la Striscia di Gaza e il mondo esterno. L'apertura, di due giorni e in entrambi i sensi riguarda palestinesi "bloccati" al valico e "casi umanitari".
Si tratta della prima apertura dopo quella 'umanitaria' con oltre 2000 passaggi del 3 e 4 dicembre scorsi, ricordano media egiziani citando l'agenzia ufficiale egiziana Mena. Il passaggio è quasi permanentemente chiuso dall'ottobre 2014 in seguito a un attacco di terroristi islamici nel Sinai settentrionale che causò la morte di oltre 30 militari.
All'origine del blocco c'è anche l'attrito dell'Egitto del presidente Abdel Fattah Al Sisi con Hamas al potere a Gaza. Sisi ha più volte dichiarato che un'apertura regolare del valico di Rafah, l'unico di quelli della Striscia non controllato da soldati israeliani, dipende dal grado di controllo che verrà affidato all'Autorità nazionale palestinese.

(tio.ch, 14 febbraio 2016)


La forza degli israeliani: felici nonostante tutto

Il report Ocse 2016 racconta di una società sempre più diseguale.

di Daniel Reichel

Avete imboccato la strada giusta ma la meta è ancora lontana. È quanto scrivono gli economisti dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse, ente internazionale basato a Parigi) nel report pubblicato a fine gennaio in cui fotografano la situazione socioeconomica di Israele. Dall'indagine arriva la conferma che i tasti dolenti del Paese sono quelli noti da tempo - conflitto a parte - ovvero un costo della vita troppo alto, una forbice delle diseguaglianze sempre più ampia e una bassa produttività. Il livello di povertà, seppur da interpretare, suona come un campanello di allarme: Israele, ribadisce il report, è seconda nelle classifiche che valutano il tasso di povertà all'interno dei paesi Ocse (il calcolo fa riferimento alle famiglie con reddito inferiore alla metà del reddito mediano della popolazione totale, che in Israele corrisponde a 18mila dollari). Anche il divario tra ricchi e poveri è molto elevato: il 10 per cento dei più ricchi del paese guadagna quindici volte di più del 10 per cento più povero, ben oltre la media Ocse che si attesta su un più basso 9.6. Detto questo, gli israeliani rimangono soddisfatti della propria vita, in particolare rispetto ai servizi sanitari e scolastici erogati dallo Stato. Anzi, se prendiamo un'altra classifica, quella dei Paesi più felici del mondo (stilata nel 2015 dal Sustainable Development Solutions Network), Israele è addirittura all'undicesimo posto, andando a braccetto con Paesi come Nuova Zelanda, Danimarca, Svizzera (la prima in assoluto). Questo nonostante il conflitto in corso con i palestinesi, nonostante i vicini non siano esattamente paragonabili a Francia, Italia o Austria, e nonostante la critica analisi dell'Ocse. Non che quest'ultima sia passata inosservata a Gerusalemme, almeno ufficialmente. Il ministro delle Finanze israeliano Moshe Kahlon si è affrettato a spiegare che l'esecutivo si sta muovendo per rispondere alle criticità elencate nel report. Tra queste la riforma ribattezzata dei cornflakes che vuole abbattere il costo del cibo. Tra i suggerimenti degli economisti di Parigi, la correzione di alcuni interventi definiti distorsivi sull'agricoltura (previsione di quote e tariffe doganali) che "costituiscono l'80 per cento del sostegno che Israele fornisce al settore - si legge nel documento - rispetto al 20 per cento degli Stati Uniti e dell'Europa" e che ricadono sui consumatori, con un rincaro dei prezzi del 7 per cento. E ancora, in Israele i costi di produzione per latte e carne sono superiori ai paesi Ocse rispettivamente del 37 per cento e del 73 per cento. Per dare un'idea sul costo della vita: il raffronto con due paesi con Pil simile, Spagna e Corea del Sud, parla di una Israele più cara rispettivamente del 20 e del 30 per cento.
  Uno dei tasti più dolenti è poi la questione della povertà, in particolare tra rispetto alle condizioni dei più anziani a causa di pensioni base e dei settori haredi (ovvero gli ultraortodossi, circa 800mila persone) e arabo (1,5 milioni). Il problema è soprattutto l'inserimento di questi due ultimi mondi nel mercato del lavoro, con un tasso di inoccupazione ancora alto, seppur da Parigi arrivi un riconoscimento per le politiche statali dirette a modificare la situazione. Come spiegava l'economista Aviram Levy in un suo articolo su Pagine Ebraiche, due sono le problematiche di questa situazione: da un lato il fatto che due minoranze che contano oltre due milioni di persone (su una popolazione complessiva di 8 milioni) facciano "ricorso sistematico alla pubblica assistenza rappresenta un drenaggio di risorse dalle casse dello stato". "Dall'altro lato un'economia che vuole mantenere tassi di crescita elevati - spiegava Levy - ha bisogno di una continua immissione di manodopera giovane e istruita, da impiegare in settori ad alta produttività (come l'high tech) e che produca reddito, che consumi e crei ricchezza. Senza questa immissione di capitale umano l'economia israeliana perderebbe un importante propulsore".
  Da ricordare dall'altra parte che il Paese continua a crescere, come sottolineano del resto gli economisti dell'Ocse, ha un'economia sana e forte, a differenza dei suoi vicini. E, come si diceva all'inizio, gli israeliani sono - stando a classifiche e statistiche - generalmente felici. "Gli esperti di psicologia sociale di solito mettono la Danimarca in cima alla lista dei più felici del mondo - scriveva il giornalista Nahum Barnea, commentando la classifica dei paesi più felici - In effetti la vita in Danimarca è felice: tutto è rilassato, piacevole, equilibrato. In Israele d'altra parte la vita è bella: interessante, dinamica, coinvolgente. E per gli israeliani, a quanto pare, è preferibile una vita bella".
  Secondo la professoressa Zahava Solomon, dell'Università di Tel Aviv, per capire gli israeliani bisogna tenere presente come da un lato siano costantemente consapevoli e temano la propria potenziale scomparsa, vista la situazione geopolitica in cui si trovano; dall'altra, sono senza paura, proprio perché hanno tanti motivi per avere paura, non temono nulla spiegava Solomon alla giornalista americana Tiffanie Wen. Una parziale dimostrazione di ciò arriva dallo studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association che suggerisce che gli israeliani riescano a recuperare più rapidamente in caso di disturbi post-traumatico da stress (DPTS) rispetto a cittadini di altre nazioni occidentali. Lo studio comparava israeliani che avevano vissuto 18 mesi sotto la pressione del terrorismo durante la seconda intifada e dei newyorchesi dopo l'11 settembre. Secondo lo studio, il numero di casi di disturbi post traumatici registrati nelle due situazioni era simile. Però, a distanza di uno e due mesi dall'attacco alle Torri Gemelle, il tasso dei DPTS era significativamente più alto negli Stati Uniti piuttosto che durante la Seconda intifada, indicando una capacità di recupero degli israeliani più alta. La "cultura del conflitto", afferma Solomon, ha permesso ai cittadini in Eretz di avere un atteggiamento a metà tra il fatalismo e l'assenza di paura che permette di confrontarsi con tutto il blocco delle complessità del paese.
  "Non so cosa riserva il futuro a Israele. - scriveva l'analista Aaron David Miller sulla rivista Foreign Policy - Ma sono abbastanza certo che il prossimo anno il livello della felicità del paese nelle classifica sarà di nuovo alto.

(moked, 14 febbraio 2016)


Netanyahu smentisce la Mogherini su rilancio iniziativa di pace

Federica Mogherini ne combina un'altra delle sue. Con un lancio sul suo blog ufficiale annuncia il rilancio di una iniziativa del quartetto (Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu) per raggiungere un accordo tra Israele e i palestinesi per una soluzione a due Stati e annuncia che tale iniziativa arriva dopo consultazioni dirette con Netanyahu e Abu Mazen. Solo che Netanyahu non ne sapeva nulla....

(Right Reporters, 14 febbraio 2016)


Quella battaglia dei tunnnel tra Egitto e Hamas a Gaza

I miliziani ogni giorno scavano gallerie per contrabbandare armi. Sul fronte opposto gli egiziani cercano di scoprirle e farle crollare.

di Massimo Russo.

 
Palestinesi in una pozza d'acqua accanto all'ingresso di uno dei tunnel utilizzati per le forniture di contrabbando tra l'Egitto e la Striscia di Gaza a Rafah
KEREM SHALOM (Israele) - Non è una guerra aperta, ma uno scontro a bassa intensità: la battaglia della sabbia e del cemento. I camion fanno manovra, caricano i detriti e si allontanano. I lavori procedono alla luce del sole, l'aria del mattino è tersa. Tuttavia non si tratta di un cantiere normale: a scavare sono i militanti di Hamas, e i tunnel servono a collegare la Striscia di Gaza con il Nord del Sinai, in Egitto, per contrabbandare armi. Dall'altra parte del confine, poco più in là, i militari egiziani bucano il terreno a caccia di gallerie. Provano diverse volte. Quando ne trovano una la allagano con potenti getti d'acqua che pompano dal mare, e la fanno crollare.
   E' una sfida quotidiana, un gioco che può avere esiti drammatici, quando le armi sfuggite ai controlli vengono utilizzate per gli attentati o per fabbricare i razzi che colpiscono gli insediamenti israeliani. O ancora quando ci scappa il morto, come è successo anche questa settimana. Giovedl l'ultimo annuncio da parte degli egiziani: «Abbiamo distrutto un tunnel nell'area di Dalhia, a Rafah, 35 metri di lunghezza, un metro e 20 di larghezza». La segnalazione era giunta dagli israeliani. Due giorni prima in un crollo era morto un militante palestinese delle brigate al Qassam. Solo nel mese di gennaio altre sette vittime. Ormai è ordinaria amministrazione.
   Il punto di osservazione privilegiato per raccontare la battaglia del cemento è Kerem Shalom, in terra israeliana, l'unico valico per le merci aperto in modo stabile. A quasi due anni di distanza dall'ultima guerra, la situazione è lontana dalla normalità. Una giornata qui, dove si incrociano i confini tra Israele, Egitto e Gaza, è sufficiente per capire quanto l'equilibrio sia fragile. La Striscia è lunga 45 chilometri, ha una larghezza trai 5 e i 12, ed è delimitata a Ovest dal mar Mediterraneo. Vi abita oltre un milione e mezzo di persone. Le uniche vie di entrata e uscita sono il valico di Erez a Nord, usato ogni giorno da 1500 persone, e i due passaggi a Sud: Kerem Shalom, in Israele, aperto 12 ore al giorno, attraverso cui viaggiano cibo, materiali da costruzione, vestiti, aiuti umanitari e Rafah, in Egitto. Questo punto di passaggio è stato riaperto ieri a sorpresa, e rimarrà transitabile fino a domani. Si tratta della prima apertura dopo quella umanitaria con oltre 2000 passaggi del dicembre scorso. Il valico è quasi sempre chiuso dall'ottobre 2014, in seguito a un attacco di terroristi nel Sinai settentrionale che causò la morte di oltre 30 militari. All'origine del blocco c'è lo scontro dell'Egitto del presidente Abdel Fattah Al Sisi con Hamas, che comanda a Gaza. La presenza dell'Autorità Palestinese è solo formale, dopo la presa del potere violenta da parte di Hamas nel 2007. Ma con Hamas né Egitto né Israele hanno rapporti.
   A Kerem Shalom si capisce quanto sia forte invece il legame di collaborazione tra il Cairo e Gerusalemme. A occhio nudo dalle torrette, e attraverso le telecamere, gli israeliani monitorano gli scavi da parte di Hamas, e poi avvisano gli egiziani, che intervengono con le pompe. Al tempo stesso una task force composta di 200 persone del ministero della Difesa israeliano fa funzionare il sistema circolatorio che tiene in vita gli abitanti della Striscia. Già di primo mattino i Tir sono in coda per passare nelle aree di controllo. Qui poi i palestinesi vengono a caricare le merci. «Da noi transitano 850 camion al giorno in entrata», spiega Ami Shaked, 56 anni, capo del valico. Trecento per prodotti di uso quotidiano, 300 di materiali da costruzione e altri 250 per i cantieri dove si riedifica ciò che è stato distrutto durante la guerra di due anni fa». I mezzi in uscita sono molti meno: una cinquantina al giorno, per la maggior parte alimentari che Gaza esporta verso la Cisgiordania. Il problema è che fertilizzanti, carburante, sabbia e cemento in entrata possono servire anche a scopi bellici. «I cittadini di Gaza hanno il diritto di vivere ed essere protetti come gli israeliani», afferma Shaked. Nel 2015 da Kerem Shalom sono entrati a Gaza 153 mila camion. Di questi 754 sono stati fermati, perché il carico era diretto ad Hamas. «Niente di personale», mormora Shaked, che è stato ferito tre volte. Qualche mese fa un razzo sparato dall'interno della Striscia è piovuto sul piazzale qui a fianco. Impossibile fare una stima su quanti siano i camion fuorilegge che riescono a eludere i controlli degli scanner: «E la domanda con cui vado a dormire ogni notte», esclama Shaked. E scuotendo la testa aggiunge: «Ma non so darmi risposta».

(La Stampa, 14 febbraio 2016)


Mistero nel deserto di Gaza: la sabbia ribolle

Misteriosi sbuffi di aria o di gas che provengono dal sottosuolo stanno facendo alzare la sabbia del deserto.

Un equipe di studiosi stanno cercando di capire da dove arrivano queste bolliture anomale. Tra le ipotesi al vaglio dei ricercatori c'è anche quella della possibili formazione di cavità sotterranee nate in seguito a qualche bombardamento.
Un'altra ipotesi, forse quella più plausibile, è la formazione di gas sotterranei che risalgono in superficie.

(NanoPress, 14 febbraio 2016)


"Shores of Light". La speranza di una nuova vita

I campi di transito nell'Italia del dopoguerra

Dopo la presentazione del libro di Fiamma Nirenstein "Il Califfo e l'Ayatollah", la seconda iniziativa della ricostituita Associazione Italia-Israele di Firenze è dedicata a un tema poco conosciuto, i campi di transito dove, dopo la II guerra mondiale, venivano raccolti gli ebrei reduci dai lager nazisti o comunque dispersi per l'Europa per essere poi avviati verso la Palestina.
Verrà proiettato il film-documentario in italiano "Shores of Light" della regista israeliana Yael Katzir, che poi ne discuterà il significato insieme a due noti studiosi, Fabrizio Lelli e Amira Meir; sarà presente anche la protagonista del film, Shuni Lifshitz. Parteciperanno anche l'Ambasciatore Gideon Meir, che ha retto la sede di Roma fino al 2012, il Presidente del Consiglio regionale della Toscana Eugenio Giani, il Rettore dell'Università di Firenze Luigi Dei, la Presidente della Comunità ebraica di Firenze Sara Cividalli e il Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze Valentino Baldacci. Presiederà Ida Zatelli, che ha progettato l'evento.
E' un'occasione straordinaria per far conoscere una realtà in gran parte sconosciuta, quella, appunto, dei campi di transito. Mentre sui lager e sui campi di sterminio nazisti esiste una vastissima memorialistica e anche una notevole quantità di studi e di analisi, sui campi di transito (che spesso - anche se non nel caso presentato da Yael Katzir - erano anche campi di preparazione in vista della dura vita in Palestina, e talvolta anche di addestramento militare) è sceso l'oblio.

Lunedì 15 febbraio 2016, ore 16.00,
Sala del Gonfalone, Palazzo Panciatichi,
Via Cavour 4, Firenze

Invito

(Federazione Italia-Israele, 13 febbraio 2016)


Febbraio al museo: si gioca con l'alfabeto ebraico

Nel secondo appuntamento nomi, lettere e numeri: dalla Tav all'Alef

SIENA. Prosegue il viaggio alla scoperta della storia e delle tradizioni del mondo ebraico con il secondo appuntamento di "Febbraio al Museo", la rassegna organizzata dal Comune di Siena che fa tappa anche alla Sinagoga.
Un mese tra workshop, laboratori di scrittura, musica e visite guidate per grandi e piccini che ruotano intorno a due filoni tematici: Jewish Lives - una galleria di ritratti di personaggi ebrei di ieri e oggi intorno ai quali verranno costruite iniziative specifiche - e Objects in focus con approfondimenti narrativi intorno a oggetti del passato o del presente, opere d'arte, documenti, oggetti. Dopo Tu Bishvat - Il Capodanno degli alberi, l'attività di workshop che si è tenuta domenica 7 febbraio, sarà la volta di un laboratorio di scrittura per tutta la famiglia, in programma domenica 14 febbraio (alle 11), dal titolo Nomi, lettere e numeri: dalla Tav all'Alef. Un'occasione giocosa ed educativa per apprendere i fondamenti di un alfabeto sconosciuto, quello della Creazione: un antico racconto introdurrà bambini e adulti nel meraviglioso mondo dell'alfabeto ebraico in cui ogni lettera possiede una forma, un nome e un valore numerico. Tutti saranno invitati a cimentarsi con la scrittura di semplici parole e a memorizzare l'alfabeto attraverso il canto. Non tutti sanno inoltre che l'ebraico è una lingua che si scrive da destra a sinistra e che l'alfabeto è composto da ventidue lettere (tutte consonanti).
Per il ciclo Jewish Lives andrà in scena domenica 21 febbraio, alle 10.30, l'omaggio a Edwin Elias Gordon (1927 - 2015), già presidente onorario di Aigam (Associazione Italiana Gordon per l'Apprendimento Musicale). Gli insegnanti Aigam svolgono in tutta Italia i corsi di Musicainfasce® rivolti a bambini da 0 a 36 mesi: al matroneo della Sinagoga i bambini fino a 3 anni potranno partecipare a una lezione di Musicainfasce®, un progetto di educazione musicale basato sulla Music Learning Theory di Gordon, riconosciuta dal Ministero dell'Istruzione Università e Ricerca. A guidarli sarà Nora Iosia, soprano e insegnante Aigam. Completa il ciclo "Febbraio al Museo" alla Sinagoga, domenica 28 febbraio alle 11, Objects in focus: La Sedia di Elia. La nascita nella tradizione ebraica: il percorso di visita prenderà ispirazione dalla preziosa Sedia di Elia per la cerimonia della circoncisione, conservata nella Sinagoga di Siena e realizzata da artisti senesi attorno al 1860, per compiere un viaggio intorno al tema della nascita e delle tradizioni familiari ebraiche, attraverso filmati, canti e narrazioni.

(Il Cittadino on line, 13 febbraio 2016)


2015: verrà ricordato come l'anno record per antisemitismo

Mai in Europa, dalla fine della guerra, tante azioni contro gli ebrei e le loro istituzioni

di Mario Del Monte

Avraham Gigi, Capo Rabbino della Comunità Ebraica belga, in seguito agli attentati terroristici di Parigi del 13 Novembre 2015 disse che "per gli ebrei non c'è più futuro in Europa". Sebbene l'attacco non fu diretto ad obiettivi ebraici le parole di Rav Gigi sono state applaudite da moltissimi ebrei del Vecchio Continente che nonostante gli appelli delle massime autorità nazionali e sovranazionali non hanno visto calare il numero di incidenti e violenze di stampo antisemita nel 2015. In molti paesi gli ebrei scelgono di non mostrare più nelle strade i loro simboli religiosi e meditano l'eventualità di emigrare in Israele perché non si sentono adeguatamente protetti dalle istituzioni.
   Ancora non sono stati forniti i dati ufficiali sugli incidenti registrati lo scorso anno ma è facile intuire attraverso gli episodi segnalati dalle varie organizzazioni ebraiche sparse per l'Europa come rispetto all'anno precedente ci sia stato un sensibile aumento dei casi di antisemitismo. Senza contare poi i veri e propri attentati terroristici che hanno colpito le Comunità di Parigi e Copenaghen ad inizio 2015. L'attacco non mortale che più ha spaventato gli ebrei europei è quello che ha coinvolto la sinagoga di Bonneuil sur Marn in Francia dove 14 persone sono state avvelenate da un liquido tossico sparso sulla porta dell'edificio.
   Altri incidenti molto gravi accaduti durante il 2015 sono quello verificatosi a Marsiglia con l'accoltellamento di tre persone, il pestaggio di un israeliano nella metropolitana di Berlino, l'assalto alla sinagoga di Londra da parte di un gruppo di ragazzi ubriachi e il rogo di un manichino raffigurante un ebreo religioso durante una marcia anti immigrazione in Polonia.
   Il 2015 però ha segnato, almeno a parole, la presa di coscienza dell'Unione Europea riguardo al problema antisemitismo. E' stata infatti costituita la prima Commissione Europea per contrastare l'odio antiebraico con Katharina von Schnurbein nominata coordinatrice. In linea con l'andamento degli ultimi dieci anni la maggior parte delle azioni violente contro gli ebrei europei non proviene più dall'ultradestra ma dall'estrema sinistra e dalla popolazione di religione musulmana. Molti leader delle comunità ebraiche europee infatti, pur riconoscendo un certo impegno degli Stati nell'affrontare la questione, lamentano il fatto che sia diventato normale demonizzare Israele nei principali media nazionali, cosa che, inevitabilmente, spesso si trasforma in ostilità e disprezzo nei confronti degli ebrei locali. Inoltre in paesi come Francia e Belgio, dove un'altissima percentuale degli attacchi è stata compiuta da giovani ragazzi di fede musulmana, si fatica ad accettare l'idea che esista un antisemitismo di matrice islamica inculcato nelle popolazioni da Stati che vedono Israele come un nemico e che sono spesso i luoghi d'origine di chi attua le violenze. Infine i leader delle comunità ebraiche europee hanno evidenziato che una migliore e sistematica raccolta di informazioni sugli incidenti di natura antisemita aiuterebbe i policy maker nel momento in cui vorrebbero colpire concretamente i crimini d'odio razziale o religioso.
   In particolare spesso i casi di antisemitismo non vengono più neanche segnalati alle autorità permettendo ai perpetratori di pensare che sia facile compiere determinate azioni restando impuniti.

(Shalom, febbraio 2016)


Resistenza Ebraica in Europa - Convegno internazionale a Ferrara

Lunedì 15 febbraio, al Ridotto del Teatro Comunale di Ferrara, si terrà per l'intera giornata il convegno internazionale di studi storici e storiografici "Resistenza Ebraica in Europa - Jewish Resistance in Europe". Un evento di portata internazionale che raccoglierà studiosi e docenti universitari da Francia, Germania e Polonia.
   Per la prima volta in Italia si tenteranno di capire le ragioni per cui gli Ebrei del continente si siano lasciati distruggere così. Una domanda radicata a fondo nella memoria collettiva che necessita di una risposta, specie per gli studenti. L'iniziativa è stata promossa e organizzata da Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Memorial de la Shoah di Parigi e Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS). Il Comitato Scientifico, composto da Anna Quarzi, Laura Fontana e Alberto Cavaglion, ha inteso porre in evidenza le molte fisionomie che la reazione degli Ebrei ha assunto durante i regimi nazista e fascista: la partecipazione organica ai movimenti resistenziali armati dei vari Paesi occupati, le lotte all'interno dei ghetti, la fuga, la consapevole e lucida passività.
   La panoramica che i diversi relatori offriranno, prenderà il via dalla dimensione europea - con le tre relazioni del mattino - per poi esaminare quelle italiana e locale nel pomeriggio. Le prime relatrici di rilievo affronteranno il tema analizzando la Resistenza Ebraica in Francia (Il salvataggio degli ebrei e la Resistenza in Francia: dalla narrazione storica alla storiografia - Rescue of the Jews and the Resistance in France: from History to Historiography, Renée Poznanski, Ben Gurion University of the Negev, Beer Sheva, Israel), in Germania (La Resistenza degli ebrei in Germania e il salvataggio degli ebrei - Resistance of Jews in Germany and the Rescue of Jews, Beate Kosmala, German Resistance Memorial Center, Berlin, Germany) e in Polonia (Combattenti ebrei a Cracovia durante l'occupazione nazista, nel contesto della Resistenza ebraica in Polonia - Jewish Fighters in the nazi-occupied Kracow in the context of the Jewish Resistance in Poland, Edyta Gawron, Krakow Jagellonian University, Poland).
   Nel pomeriggio, sarà la storia italiana e ferrarese a fornire elementi per una ricostruzione degli episodi che hanno caratterizzato il binomio Ebrei-Resistenza: Ebrei e Resistenza in Italia: una questione storiografica aperta - Jews and Resistance in Italy: an open historiographical debate, Alberto Cavaglion, Università di Firenze; La Resistenza di fronte alla persecuzione degli ebrei in Italia - The Italian Resistance and the persecution of Jews, Matteo Stefanori, Università della Tuscia, Viterbo; La partecipazione degli ebrei ferraresi alla Resistenza - Contribution of Jews to the Resistance in Ferrara, Antonella Guarnieri, Responsabile del Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara.
   I lavori avranno inizio alle 9.30 per interrompersi alle 13. Dopo una pausa, riprenderanno alle 15, e si concluderanno con una tavola rotonda, dalle 17.30 alle 19, alla quale parteciperannoAlberto Cavaglion, Edyta Gawron, Beate Kosmala, Renée Poznanski, coordinati da Liliana Picciotto, Responsabile della ricerca scientifica del CDEC Milano.
   L'appuntamento ha ottenuto il patrocinio della Regione Emila-Romagna, del Comune di Ferrara, dell'Università di Ferrara, della Comunità Ebraica di Ferrara, e la collaborazione di CDEC e INSMLI di Milano.

(La Prima Pagina, 12 febbraio 2016)


Tregua in Siria, ok di Putin. Ma l'accordo è una farsa

Le minacce di guerra con Turchia e Arabia spingono Mosca a cedere. I ribelli però rifiutano l'intesa. E Assad: «La riconquista non si ferma». Alla pace crede solo Obama.

di Carlo Panella

 
Staffan de Mistura e Barack Obama
«Si vis pacem, para bellum», se vuoi la pace preparati alla guerra, a questa saggia massima latina si deve la debole speranza accesa dall'accordo sul cessate il fuoco in Siria raggiunto la notte di giovedì a Monaco di Baviera. Tayyip Erdogan e re Salman dell'Arabia Saudita, appoggiati da un largo fronte arabo, hanno infatti rovesciato la lagnona liturgia dell'Onu di Staffan de Mistura e di Barack Obama. Non più appelli umanitari, ma muso duro: se entro poche ore non cessa l'assedio di Aleppo la Turchia apre le sue frontiere e lascia che centinaia di migliaia di profughi invadano l'Europa e obbligherà gli Stati Uniti a concordare una no fly zone sulla Siria per richiuderle. Da parte sua, l'Arabia Saudita ha aggiunto il sovrappeso della decisione « irrevocabile» di scendere col suo esercito in Siria. Si è delineata insomma la prospettiva dell'inizio di quella che il premier russo Dmitri Medvedev, allarmatissimo, ha definito una nuova guerra mondiale: «Le offensive terrestri conducono generalmente a far si che una guerra diventi permanente. Tutte le parti devono impegnarsi a sedersi al tavolo dei negoziati piuttosto che innescare una nuova guerra mondiale».
  Nei fatti, Mosca ha capito di avere fatto male ad affidarsi alla irruenta politica oltranzista degli ayatollah di Teheran. Sono stati infatti i Pasdaran iraniani e il «riformista» Rohani ha spingere per lanciare l'offensiva per riconquistare Aleppo e Putin li ha assecondati. Ma Rohani, Khamenei, Assad e Putin hanno fatto male i loro conti, si sono fidati troppo dell'«effetto Obama», sono troppo abituati a poter fare quello che vogliono senza che nessuno reagisca perché alla Casa Bianca siede un presidente che, quanto a politica estera, è peggio di Ignazio Marino. Hanno trovato una reazione durissima da Riad e Ankara. La «battaglia per Aleppo», infatti, mette in evidenza due elementi. Il primo è che i russi e gli iraniani non combattono affatto l'Isis in Siria. Anzi. Da quando sono iniziate le operazioni russe, ad ottobre, solo poche decine di bombe sono state lanciate contro il suo territorio e non è stata iniziata una operazione di terra che sia una contro i suoi presidi né dagli iraniani, né dai libanesi, né dalle milizie siriane. Il secondo elemento evidenziato dall'offensiva di Aleppo riguarda la strategia iraniana che - forte della legittimazione e dei miliardi riacquisiti con l'accordo sul nude-are regalato da Obama - farebbe di questa città, con Damasco e Latalda, il baricentro di una enorme provincia dell'Iran, in cui formalmente regna Assad, ma in realtà tutto il potere è nelle mani dei Pasdaran che - soli - lo tengono in vita con le loro armi.
  Questa assunzione di straordinaria potenza regionale da parte dell'Iran, non è infatti tollerabile per una Turchia e un'Arabia Saudita che - a differenza di Obama - non vivono nel mondo politically correct e sono certi che - riconquistata Aleppo - l'Iran inizierebbe subito azioni destabilizzatrici dentro le loro frontiere agendo sulla minoranza alauita in Anatolia e sciita nella penisola arabica. Da qui, la minaccia di guerra immediata lanciato a Pu-tin, che l'ha subito compresa, allarmato, da qui il cessate il fuoco entro una settimana (il Cremlino voleva imporne due), da qui una piccola speranza. Molto piccola, perché i giochi sono ancora aperti. Già in mattinata è arrivato il rifiuto dell'accordo da parte delle opposizioni siriane in esilio che rifiutano con forza la proposta per un cessate il fuoco. Riad Hijab, presidente dell'Alto consiglio dell'opposizione siriana, ha affermato che «nessun accordo è possibile fino a quando rimarrà i carica il presidente Assad e rimarranno in Siria i Pasdaran». Però anche dall'altra parte della barricata sono arrivate parole che fanno capire come tutti stiano barando: sia Assad sia Lavrov infatti hanno chiarito che la guerra «contro i terroristi» non è compresa nella tregua. E si sa che siriani e russi con «terroristi» non si riferiscono solo a Isis e al Qaeda bensì a tutti i loro oppositori.
  Ma quello che soprattutto affloscia le speranze di pace è che per la prima volta da un secolo gli Stati Uniti giocano una partita come apparenti principali interpreti, ma senza usare la pressione militare. E questa ignavia, questa paralisi militare suicidale degli Stati Uniti, sono oggi i principali elementi di destabilizzazione e di alimento della guerra in Medioriente.

(Libero, 13 febbraio 2016)


L'Iran islamico celebra l'anniversario insultando l'Occidente

di Fiamma Nirenstein

La celebrazione, due giorni or sono, del trentasettesimo anniversario della rivoluzione che ha portato alla creazione khomeinista dello Stato islamico non avrebbe potuto mostrare un Iran più classicamente aggressivo, nonostante il recente accordo con i P5 1 e la conseguente caduta delle sanzioni. La folla ha festeggiato cantando «morte all'America, morte a Israele», con buona pace di chi si immagina un Iran signorile, bonario, garbato... stile Rouhani in visita in Europa.
   La consueta grinta antioccidentale si è trasformata nella smorfia dello sberleffo. Proprio il presidente Rouhani nel suo discorso in piazza Azadi ha ribadito che l'Iran, nazione orgogliosa, difende il diritto all'energia nucleare: «La nostra vittoria nucleare - ha detto - ha mostrato al mondo che gli iraniani sono capaci di vincere qualsiasi battaglia, incluse quelle diplomatiche». Intanto, il missile balistico Emad e lo Shahed 29 sfilavano; l'Emad può portare una testata nucleare, e si sa che mercoledì verrà esposto un missile Emad nuovo, balistico, che può colpire un obiettivo a 1700 chilometri. La tv e i giornali iraniani hanno descritto la piazza strabordante di «milioni» di cittadini entusiasti, la France Presse ne riporta centinaia di migliaia, la NBC decine di migliaia. Chi c'era ha potuto partecipare, oltre che alla gioia della nuova era post-sanzioni e quindi alla speranza di un futuro florido, a roghi di bandiere americane e israeliane; hanno sfilato cartelloni in cui sia Obama che Kerry, presi a pugni in faccia, sprizzano sangue di un bel rosso vivo.
   La hit della serata è stato un ammirato spettacolo con attori in costume da marinai americani e da soldati iraniani che ha riprodotto la scena del 12 gennaio apparsa su tutti i giornali del mondo: gli americani, in ginocchio e mani dietro la testa, catturati dagli iraniani nel Golfo Persico dove la loro barca si era persa. Grasse risate di fronte all'umiliazione degli yankees, su cui è stato diffuso un video in cui uno di loro piange. Khamenei ha consegnato medaglie al valore ai comandanti della marina per aver catturato i marinai americani. Alla sfilata era presente il comandante della potente guardia rivoluzionaria generale Wassem Suleimani, lo stratega della tentacolare presenza iraniana in Iraq e in Siria.
   Strani modi per dimostrare disponibilità al partner che ha riabilitato Teheran di fronte al mondo. Ma l'Iran fida nell'attrazione dei business promessi dalla caduta delle sanzioni. Inoltre il 26 sono previste le elezioni sia del parlamento che dell'Assemblea degli Esperti, che eleggerà il prossimo «leader supremo» dopo Khamenei. Lo stile classico-aggressivo ma post sanzioni, il misto nucleare-nazionale condito dalla promessa di un nuovo benessere è una buona carta elettorale.

(il Giornale, 13 febbraio 2016)


A Tel Aviv, nella sede della prima start up d'intelligence marittima

L'idea semplice è che gli aeroporti sono sorvegliati ma nessuno sa chi o cosa sta entrando nei nostri porti.

di Daniele Raineri

Al terzo piano di un palazzo qualsiasi nel quartiere delle start up di Tel Aviv c'è la sede della Windward, una azienda di intelligence fondata da due ex ufficiali della marina israeliana. L'idea di base è semplice: il traffico delle navi commerciali nei mari del mondo è un wild west sregolato, il volume di navi e carichi è enorme e ci sono informazioni strategiche per chi riesce a decifrarle. Per vedere queste informazioni, è necessario creare e aggiornare ogni minuto un database che conserva i dati di tutte le navi commerciali del mondo, del loro comportamento in navigazione, dei porti in cui attraccano, e anche del loro dna, vale a dire i loro precedenti storici, i proprietari presenti e quelli passati. Michal Chafets e Alon Podhurst fanno vedere al Foglio un caso semplice a mo' di presentazione: un cargo che parte da Rio de Janeiro, in Brasile, in direzione di Lisbona in Portogallo e che davanti alle coste della Mauritania, in Africa, fa una sosta imprevista di qualche ora e spegne il transponder, che segnala la sua presenza sui radar, un altro cargo che viene dalla Spagna si avvicina con una rotta errabonda al luogo della sosta, in mezzo al mare, e poi torna indietro verso il Mediterraneo. "Ogni nave commerciale è un'unità economica, vale a dire che si muove seguendo i criteri di un'impresa commerciale, non manovra a caso. Se compie una deviazione oppure una sosta, vuol dire che ha una ragione per farlo e che ha calcolato i costi e i benefici", dice Alon al Foglio. Long story short, per dirla con gli anglosassoni, per tagliare corto: la polizia italiana ferma la seconda nave vicino Cagliari, sequestra un carico record di venti tonnellate di hashish nascosto sotto un finto carico di granito.
  Il corollario dell'idea base "il mare è un wild west senza regole" è che se lo osservi abbastanza a lungo e hai i dati completi puoi cominciare a vedere pattern, percorsi regolari, ripetizioni. Quando qualcosa rompe il pattern, allora si ha un evento interessante. Più eventi interessanti, per esempio una nave che inverte la rotta, oppure che costeggia un litorale ma non entra in alcun porto, diventano un caso da seguire. Il difficile è tenere tutto d'occhio, migliaia di rotte, di carichi, di scarichi, di deviazioni che s'incrociano negli stessi porti e avvengono nello stesso intervallo di tempo. A guardare il viluppo delle rotte senza scegliere un singolo bastimento l'impressione è di seguire una di quelle carte radar affollate che tengono conto in tempo reale dei voli di ogni singolo aereo. Il difficile è cogliere il segnale in mezzo a tutto il rumore, come spiegava l'esperto di statistica Nate Silver in un campo del tutto dissimile, i sondaggi elettorali (è il titolo del suo libro: "The Signal and the Noise"), quindi captare il dato interessante in mezzo agli altri che fanno soltanto da sfondo.
  Si capisce che il cargo che bighellona vicino alla Sardegna con la stiva piena di hashish è soltanto un caso didascalico per giornalisti, ma è anche chiaro che questo tipo di dati può avere applicazioni interessanti per i governi. Due esempi, facili. Uno dei segnali che hanno tradito l'imminente intervento russo in Siria nel 2015 è stato l'incremento dei trasporti via nave attraverso il passaggio del Bosforo verso le coste siriane e in particolare verso il porto di Tartous. Un dato che permetteva di controllare le sanzioni imposte all'Iran nel settore petrolifero era l'uso delle petroliere come cisterne galleggianti poco al largo del paese - un sintomo rivelatore del fatto che l'Iran stava producendo troppo greggio rispetto a quello che riusciva in effetti a piazzare sul mercato e che aveva serbatoi terrestri ormai pieni fino all'orlo, tanto da dover imbarcare il greggio invenduto sulle petroliere e tenerle all'ancora.

 Cinquecentoquaranta navi da paesi terroristi
  La Windward è nata nel 2010 e sta esplodendo adesso che la minaccia terroristica è aumentata. Lo staff è di circa sessanta persone, ma è previsto un raddoppio - già in corso - e un cambio di sede per mancanza di spazio. A comprendere questa tendenza così espansiva può servire un terzo esempio, questa volta non tratto da avvenimenti reali ma soltanto ipotetico. Un'imbarcazione carica uomini o armi davanti alla costa dello Yemen o della Libia, li trasferisce su una nave commerciale, la nave commerciale li sbarca in uno dei porti dell'Europa. L'opacità delle rotte è in aumento: l'anno scorso c'è stato un aumento del 400 per cento dei casi in cui una nave ha cambiato identità. Più di cinquemila navi usano una "flag of convenience", una bandiera che è soltanto una copertura di comodo. Cinquecentoquaranta navi sono arrivate da acque di paesi associati con il terrorismo (Libia, Siria e Libano).
  Tra gli investitori della Windward ci sono anche l'ex direttore della Cia, David Petraeus, l'ex ad di Thomson Reuters, Tom Glocer, e Aleph Ventures, un fondo d'investimenti israeliano specializzato in start up. Gabi Ashkenazi, ex capo di stato maggiore, ha un posto al tavolo dei consulenti.

(Il Foglio, 13 febbraio 2016)


Bit 2016, dal turismo mondiale conferme e novità per l'Italia. Un esempio su tutti è Israele.

 
MILANO - Alla Borsa Internazionale del Turismo 2016 il ruolo da protagonista è come d'obbligo affidato ai padiglioni ed agli stand dedicati alla proposta di viaggi nel mondo. Il mercato italiano ha sempre flussi ben definiti e vincenti: come nel caso dei Caraibi, con Cuba in testa che vanta una crescita nella stagione invernale 2015-2016 ampiamente a doppia cifra. I voli da e per l'Havana di Cubana de Aviacion, operati dall'italiana Blue Panorama, vantano riempimenti d'eccellenza e la Isla Grande, dopo le aperture di Obama, ha trovato anche un testimonial d'eccezione, Papa Bergoglio, che l'ha scelta anche per lo storico incontro con il patriarca ortodosso Kirill.
Bene anche Repubblica Dominicana e Messico, mentre spostandoci ad Est, nel cuore e nei desideri del turista italiano resta la Thailandia, che affida proprio alla sua speciale cultura dell'ospitalità il segreto del suo successo. Juthaporn Rern gronasa, deputy governor del Tat, l'ente del turismo thailandese:
"La nostra proposta punta alla scoperta del cosiddetto Thainess, cioè proprio il complesso della cultura Thai, il modo thailandese di vivere da scoprire attraverso il nostro turismo locale".
Dal focus su chi sorride all'impegno forte di chi promuove aree sempre amate dagli italiani ma in un momento storico non favorevole al turismo di massa. Nessuno però molla, anzi tutti rilanciano. Un esempio su tutti Israele che si affida al suo dinamismo e alla vicinanza culturale mediterranea con l'Italia, come conferma Avital Kotzer Adari, direttrice dell'ente del turismo di Israele in Italia:
"Chi arriva in Israele per la prima volta vede prima di tutto la Israelianità, la nostra cultura molto calda, dove si fa amicizia con poco e gli israeliani amano il popolo italiano, siamo molto vicini".

(askanews, 13 febbraio 2016)


Oggi nell'Unione europea si respira l'aria Weimar". J'accuse di Harold James

Il grande studioso americano le suona alla democrazia permissiva e cieca ai nemici: "Ieri i nazisti, oggi gli islamisti e l'Isis".

di Giulio Meotti

ROMA - "De te fabula narratur". E' di te che si parla in questa favola, sembra dire Harold James all'Unione europea gettando lo sguardo su Weimar. La prima Repubblica tedesca che, tra inflazione, opposti estremismi e vertigine del ballo, venne drammaticamente smantellata dall'ascesa di Hitler. Quella Repubblica che rappresenta un enigma culturale, la "culla del moderno", il capolavoro di democrazia-teorica dedita a un pacifismo mutilato, la faglia fra umanesimo e irrazionalismo. In Weimar c'è tutto secondo James: "L'avanguardia della cultura, i bruschi cambiamenti della morale, il riformismo politico, il primo welfare altamente sviluppato. E la pregnanza di una sventura imminente". E' il primo caso di "vita e morte di una società permissiva" secondo Walter Laqueur. Harold James, lo storico a cui Mario Draghi ha aperto gli archivi della Banca centrale europea, docente a Princeton, intellettuale liberal di rango e massimo studioso dell'integrazione europea, ha scritto un saggio dal titolo "Gli ebrei europei hanno buone ragioni per essere preoccupati". "L'Unione europea oggi è una sorta di replica di Weimar con la sua perfezione istituzionale e le forze violente che vogliono abbattere il 'sistema'", scrive James.
  "Se la Costituzione tedesca, scritta a Weimar, è stata considerata come un modello di documento, il sogno costituzionale sembrava scollegato dalla vita pubblica". Come allora, scrive James, "oggi l'establishment cerca di rassicurare gli ebrei con argomenti simili a quelli del 1933. Le istituzioni politiche di Weimar erano abilmente progettate per essere le più rappresentative possibile. La maggior parte dei tedeschi vedeva la loro società come straordinariamente tollerante. E gli ebrei tedeschi vivevano in una società inclusiva". Questo equivoco, continua James, si estese perfino dopo che Hitler divenne cancelliere. "Fino all'aprile 1933, quando il regime ha lanciato un 'boicottaggio' degli ebrei" (echi nella marchiatura dell'Unione europea dei prodotti israeliani?). Oggi, al posto del nazismo, scrive James, "le minacce più violente provengono dal terrorismo islamico, da gruppi affiliati o che imitano lo Stato islamico". Secondo James, che pure è per le frontiere aperte, c'è da temere per l'immigrazione massiccia incontrollata: "Testi antisemiti come il 'Mein Kampf' o i 'Protocolli dei Savi di Sion' sono ampiamente disponibili nei paesi da cui i migranti provengono e l'antisemitismo, di solito legato all'antisraelismo, è un ingrediente naturale del milieu sociale e culturale di chi si sta muovendo verso l'Europa".

 Nel 2016 altri 10 mila ebrei francesi in fuga
  Mentre James licenziava questo saggio, da Israele giungeva la notizia che lo stato ebraico prevede l'arrivo di altri diecimila ebrei francesi nel 2016, dopo i diecimila arrivati già nel 2015. Arielle Di Porto, responsabile immigrazione dell'Agenzia ebraica, parla anche di un venticinque per cento in più di partenze dal Belgio. Il paragone di James fra la Ue e Weimar è seducente anche per quanto riguarda una certa stampa. Come il quotidiano spagnolo Jueves, sul quale è appena uscita una striscia di fumetti in cui si legge di una Torah realizzata con la pelle umana, di un soldato israeliano che urina in bocca a un palestinese e Gesù molestato dagli ebrei. "Queste vignette potevano essere pubblicate dallo Stürmer e nessuno avrebbe notato la differenza", ha detto il capo della comunità ebraica di Madrid, David Hatchwell.
  Dietro i grugni maialeschi di George Grosz e i suoi grassi borghesi, le loro lingue canine che paiono risucchiare l'universo, si affacciò il terrore nazista. Allora si disse "senza gli ebrei non ci sarebbe Weimar". Oggi un primo ministro francese rassicura: "Senza gli ebrei non ci sarebbe la Francia". Ma anche allora, la fragile Repubblica parlamentare votata all'ordinata convivenza divenne miope e vulnerabile ai pericoli.

(Il Foglio, 13 febbraio 2016)


Milano - Passera: garantire presenza e sviluppo comunità ebraica

MILANO - "Garantire la presenza e lo sviluppo della comunità ebraica della nostra città, che proprio quest'anno celebra i suoi 150 anni, significa dare sicurezza a tutti i milanesi, difendere i nostri valori e le nostre radici". Lo ha detto Corrado Passera, candidato sindaco di Milano, commentando l'incontro con i presidenti della comunità ebraica di Milano, Raffaele Besso e Milo Hasbani, e altri rappresentanti del consiglio direttivo della comunità."Durante l'incontro - prosegue Passera - ci siamo confrontati sulle azioni necessarie per rilanciare la crescita e lo sviluppo che possono far diventare Milano una delle principali metropoli europee. Bisogna ripristinare la legalità, rivitalizzare le zone di Milano maggiormente colpite dal degrado, creare lavoro, combattere la lentezza e la farraginosità della macchina burocratica comunale e lavorare sulla diffusione di una cultura di integrazione e della memoria. Milano può tornare a essere quel modello di dinamismo che negli anni ha attratto tanti da ogni parte del mondo, proprio come accaduto nell'800 con i cittadini ebrei che qui risiedono. Possiamo e dobbiamo farlo, anche sostenendo concretamente il Memoriale della Shoah e rafforzando il gemellaggio tra due grandi metropoli come Tel Aviv e la nostra Milano".

(Adnkronos, 13 febbraio 2016)


Israele ed Egitto mai così vicini grazie alla guerra ai tunnel di Hamas

Dal punto di vista israeliano, al Sisi è "una sorta di miracolo".

di Giulia Belardelli

 
Militari israeliani lavorano al confine sud con Gaza per sviluppare una tecnologia anti-tunnel
 
La barriera che separa il villaggio di Netiv Haasara, in territorio israeliano, dalla Striscia di Gaza
 
Sul muro di cemento il progetto dell'artista Tsameret Zamir
Visto da Israele, l'Egitto del generale Abd al Fattah al Sisi è un partner pragmatico e affidabile per quanto riguarda la sicurezza. Entrambi gli stati sono determinati a neutralizzare Hamas, la versione palestinese dei Fratelli musulmani, ed entrambi devono fronteggiare le minacce di gruppi terroristici sunniti, da Daesh a Jabat al-Nusra. Di questa partnership in Egitto si parla poco: il regime non vuole passare agli occhi della popolazione come "collaboratore" di Israele. Dall'altra parte del confine, invece, questa collaborazione è considerata, seppur in maniera discreta, un risultato importante dal punto di vista della sicurezza. Uno dei pochi elementi positivi in un Medio Oriente sempre più esplosivo.
"Dal punto di vista israeliano, al Sisi è una benedizione, una sorta di miracolo. È salito al potere dopo i Fratelli musulmani, secondo i quali noi non abbiamo alcun diritto a esistere", ci dice un senior official del ministero della Difesa israeliano. Fonti del ministero degli Esteri confermano: "La nostra collaborazione con l'Egitto è eccellente. Le autorità egiziane ci hanno chiesto di aumentare il numero di truppe nel Sinai per contrastare la minaccia jihadista. In base agli accordi di pace, ci devono essere poche truppe. Ma noi abbiamo acconsentito".
   Dopo l'era di Mohamed Morsi, la politica di chiusura totale adottata da al Sisi nei confronti di Gaza è una rassicurazione importante per Israele, anche se concentra sul valico di passaggio di Kerem Shalom tutte le merci destinate alla Striscia. Qui, tra un via vai di camion israeliani e palestinesi, incontriamo Ami Shaked, direttore del valico di frontiera. È lui il responsabile di tutto ciò che entra ed esce da Gaza. "Fino a settembre 2013, questo lavoro era metà nostro e metà egiziano: il 50% dei camion arrivava dall'Egitto, l'altra metà da Israele. Poi al Sisi ha deciso di chiudere questo valico e considerare Hamas suo nemico giurato. Adesso noi facciamo entrare il 100% delle merci", spiega Shaked.
   I camion contengono di tutto: generi alimentari, coperte, vestiti, materiale per la ricostruzione. Dopo la campagna militare israeliana Protective Edge dell'estate 2014, il numero dei camion è lievitato: nel 2014 sono entrati 69mila camion, nel 2015 153mila. "Una parte di questi mezzi viene fermata perché nei controlli sono stati trovati materiali sospetti come fertilizzanti o altre sostanze che possono essere utilizzate come carburante per i razzi di Hamas", spiega ancora Shaked. Nel 2014 le autorità israeliane hanno sequestrato 250 camion, l'anno seguente 754. "Il mio è un lavoro costante di contrasto al contrabbando", prosegue il direttore del valico. "Alcune merci che arrivano qua nascondono dei 'regali' per Hamas, a volte dentro le vernici per i muri o nei materiali per costruire i pavimenti... Non voglio aiutare Hamas, voglio aiutare la popolazione innocente. Se andassero a votare oggi, sono certo che Hamas non vincerebbe più".
   Dentro, nella Striscia, oltre un milione e mezzo di persone vive in una condizione di povertà che anche da questa parte della barriera è difficile negare. Il lavoro a Gaza è un lusso, come ci spiega H., uno degli autisti palestinesi che tutte le mattine, dopo aver passato i controlli, entra nel piazzale di Kerem Shalom per caricare sul suo camion le merci appena depositate dai tir israeliani. "A Gaza non c'è lavoro, la situazione è molto grave. La disoccupazione è il problema più grande. Da quando l'Egitto ha completamente chiuso il valico di Rafah, chi lavora deve considerarsi un miracolato. Dentro la Striscia Hamas controlla tutto: chi è vicino a loro riesce a strappare qualche lavoro, per gli altri non resta nulla".
   Dai monitor di Kerem Shalom si osservano i movimenti di mezzi che, secondo il personale del valico, sono impegnati a costruire nuovi tunnel per Hamas. È questo l'incubo più grande delle autorità israeliane e soprattutto degli abitanti dei villaggi appena fuori Gaza. "Quando Hamas scava i tunnel, lo fa 30 metri sottoterra", dice una donna che vive con la sua famiglia a Netiv Haasara, moshav a poche centinaia dalla barriera di Gaza. "Nel tunnel più grande che hanno trovato qui sotto ci passavano le macchine, era dotato di elettricità e di un sistema di ventilazione. Mancava solo l'uscita. L'intelligence sapeva di questi tunnel da tre anni. Quando è iniziata l'operazione militare del 2014 sono andati direttamente a colpirli. Soltanto dopo abbiamo saputo qual era il piano di Hamas: uscire nella notte del capodanno ebraico, mentre festeggiavamo con le nostre famiglie, per uccidere quante più persone possibile e rapire i bambini. Volevano tenerli nei tunnel e utilizzarli come ostaggi".
   Da queste parti nessuno vede una soluzione per Gaza in tempi brevi. È così da quando, nel 2007, Hamas ha preso il potere nella Striscia. Lo conferma un senior official del Centro per la ricerca politica del ministero degli Esteri, dove un team di analisti e diplomatici lavora per scandagliare le minacce alla sicurezza di Israele. "Purtroppo nel breve periodo non c'è soluzione per Gaza. Hamas non lascerà che l'Autorità palestinese riprenda il controllo, e allo stesso tempo l'Anp non ha né la forza né la volontà di fare qualcosa. Facciamo il possibile per fare arrivare a Gaza tutte le merci necessarie, ma purtroppo non è facile: in molti casi i materiali vengono venduti sul mercato nero ad Hamas. Da un lato vogliamo che Gaza respiri, che abbia una vita normale; dall'altra sappiamo che parte di ciò che arriva lì viene utilizzato per rafforzare le capacità operative di Hamas. Di certo la popolazione di Gaza è molto stanca. La situazione è peggiorata dopo l'ultima guerra. E pesa la chiusura del valico da parte del Cairo".
   La priorità, qui, è distruggere i tunnel di Hamas e impedire che ne vengano costruiti altri. "Stiamo elaborando un sistema tecnologico anti-tunnel. Tra circa un anno lo avremo, e sarà efficace come l'Iron Dome per i razzi", assicura un alto funzionario del ministero degli Esteri. Nel mentre il pugno duro utilizzato dall'Egitto con i tunnel di Hamas è molto apprezzato. Dalla sua salita al potere, nel giugno 2014, il generale al Sisi ha condotto una campagna durissima nei confronti dei guerriglieri islamisti del Sinai, colpendo duramente i tunnel di contrabbando considerati il sistema linfatico di Hamas e della Striscia. Molti tunnel sono stati fatti esplodere, altri sono stati allagati, spesso con acqua di fogna per renderli definitivamente inutilizzabili. Quanto basta per rendere l'Egitto di al Sisi un ottimo vicino di casa. "Non pensiamo che al Sisi sia perfetto, ma è molto meglio del resto e soprattutto di ciò che c'era prima", spiegano dal Centro per la ricerca politica del ministero degli Esteri. "L'Egitto di al Sisi ostacola Hamas, combatte con determinazione i jihadisti nel Sinai e riconosce lo Stato di Israele".
   Pochi giorni fa un ministro del governo di Benjamin Netanyahu ha fatto innervosire l'establishment militare per aver rivelato informazioni top secret sulla collaborazione difensiva tra Israele ed Egitto. L'incauto ministro - Yuval Steinitz, titolare del dicastero che si occupa di Infrastrutture, Energia ed Acqua - ha detto durante un evento a Beersheba che l'allagamento di alcuni tunnel da parte del presidente egiziano è stato condotto "in un certo senso su richiesta israeliana". Steinitz, citato dal Jerusalem Post, ha anche definito la collaborazione sulla sicurezza tra Israele ed Egitto "migliore che mai". Pressato dall'establishment militare, il ministro ha poi ritrattato dicendosi rammaricato per "l'impressione non voluta" causata dalle sue parole.
   È all'insegna della realpolitik che va letta l'intesa con al Sisi, spiegano fonti di alto livello della Difesa israeliana. "Dal punto di vista pragmatico, al Sisi è una sorta di miracolo. Il Medio Oriente non è un luogo per le illusioni, viviamo nell'area più terribile del mondo. Si può star certi che quando si rimuove dal potere un'opzione terribile, la seguente sarà ancora più terribile. Il caso di Mu'ammar Gheddafi in Libia è esemplare: era un dittatore, un pedofilo, uno stupratore. Ma adesso cosa abbiamo in Libia? In Medio Oriente solo le monarchie sono sopravvissute. Per il resto vedo solo stati artificiali collassati senza che la sofferenza delle popolazioni interessi a nessuno. Oggi l'Egitto, con una popolazione di quasi 90 milioni di persone, è il vero leader del Medio Oriente. Sta combattendo una coraggiosa guerra contro Daesh, e merita il supporto di tutto il mondo".

(L'Huffington Post, 12 febbraio 2016)


Peres: la crisi è mondiale, siamo ancorati al passato

L'ex presidente israeliano: sciiti e sunniti fermano il nuovo.

di Massimo Russo

 
«Si è chiusa l'epoca dei territori e si è aperta quella della scienza». Siamo in crisi perché non riconosciamo il cambiamento, ci ostiniamo a pensare che la crescita dipenda dall'allargamento dei confini a spese del vicino: «Ma la conoscenza oggi permette di diventare grandi senza bisogno della guerra».
  L'ufficio di Shimon Peres, nella parte vecchia di Tel Aviv, ha una parete che si apre sul Mediterraneo, come il ponte di una nave che stia per prendere il largo. Sarà anche per questo che da qui, la missione impossibile di dare pace al Medio Oriente pare solo questione di prospettiva. Più che mai fedele al suo motto «Ottimisti e pessimisti muoiono entrambi, per questo preferisco essere ottimista», il 92enne ex presidente israeliano e premio Nobel sembra in buone condizioni, malgrado i recenti capricci del cuore: si alza per salutare e ci accompagna sicuro. Appare dimagrito e parla a voce bassa, ma senza tradire stanchezza.

- Presidente, il processo di pacificazione tra Israele e palestinesi è bloccato, una situazione molto diversa dalla foto qui in corridoio, che la riprende con Clinton e Arafat nel '93, alla storica firma sugli accordi di Oslo.
  
«Ogni negoziato parte da una situazione di conflitto, non esistono guerre che durino per sempre. Trent'anni fa con Egitto e Giordania eravamo in una condizione oscura. Per trovare la pace bisogna essere creativi. In fondo è semplice, dobbiamo arrivare ad avere due Stati, non ci sono altre soluzioni».

- La crisi e la violenza nella regione si sono riacutizzate.
  
«La crisi non appartiene solo a quest'area, è mondiale. Le nostre istituzioni sono costruite per l'era della terra, dei confini. Ma nell'epoca di Internet si può crescere senza conflitto. Il problema è che non abbiamo ancora divorziato dal passato».

- Sembra difficile.
  
«Gli imperi stanno sparendo, così come accade ai Paesi nati sulla base di convenzioni artificiali, pensiamo agli accordi del 1916 che disegnarono il Medio Oriente. Ma i sunniti, gli sciiti non lasciano che la nuova età inizi. Ogni persona ha uguale diritto di essere diversa. Molte aziende private lo hanno capito meglio degli Stati».

- La scienza è sufficiente?
  
«La scienza in sé non ferma la violenza, è neutrale e può essere usata per la guerra. La scienza senza morale, senza la centralità dell'essere umano, non è nulla. Ma c'è differenza tra conflitto e terrore. Il primo nasce per guadagnare qualcosa, il secondo è un grido di protesta, un insulto fine a se stesso».

- Come sconfiggerlo?
  
«Non so come ucciderlo, ma possiamo sopprimere le cause che lo provocano».

- Lei fa riferimento alle grandi aziende. Ma gli amministratori delegati non sono eletti dal popolo, i governi democratici sì.
  
«La politica è in crisi, perché fatica ad adattarsi al cambiamento. Trump e Sanders in America ne sono il simbolo. Le aziende globali non cercano di governare, ma di servire. Sono elette ogni giorno, dalla scelta dei consumatori».

- Il cambiamento è possibile anche in Medio Oriente?
  
«Ci sono 370 milioni di arabi, il 60% ha meno di 25 anni. Nelle università il 60% degli studenti sono donne, vogliono il cambiamento. Oggi quando finiscono di studiare non hanno lavoro. Ma qui vedo giovani che si mettono insieme e creano nuove aziende. Trentamila imprese per costruire il futuro attraverso l'economia. Vanno incoraggiati. Ecco cosa ci porterà nella nuova epoca. Guardate ciò che è avvenuto in Cina, il miglioramento delle condizioni di vita si è verificato in 40 anni».

- Gli esperti sono pessimisti.
  
«Perché conoscono quel che è accaduto in passato, non ciò che potrebbe accadere in futuro. Bisogna sognare, pianificare, usare l'immaginazione. Il passato è morto. Nulla è immobile, niente si ripete. Abbiamo bisogno di nuovi errori, non di imparare dal passato».

- Pensa che Hamas possa accettare di discutere la pace?
  
«Hamas è un fenomeno transitorio, non esisterà in futuro. Una protesta non è un messaggio».

- Perché la costruzione dell'Europa è così difficile?
  
«L'America è figlia dell'Europa ed è divenuta grande. Ha imparato a dare, non solo a chiedere. Oggi la madre non riesce dove i figli hanno avuto successo: perché ha troppa storia. Pensiamo solo alle lingue. La Ue ne ha 17, una cosa da pazzi. Bisognerebbe sceglierne una se si vuol costruire un solo Paese. Invece la madre insiste negli antichi errori».

- Come dovremmo affrontare la crisi dei rifugiati?
  
«Esportando lavoro e sviluppo, non importando persone. La scienza non ha confini, né bandiere, può portare crescita. Personaggi come Stalin, Hitler, Mussolini hanno mandato a morte le persone. Bill Gates non ha mai tagliato la testa a nessuno, Mark Zuckerberg non ha creato la ghigliottina».

- Dovremmo comportarci da startupper?
  
«In un certo senso sì».

(La Stampa, 12 febbraio 2016)


Kerry da Lavrov per evitare la «guerra mondiale» in Siria

Proposta una no-fly zone per aiutare i civili di Aleppo

di Carlo Panella

La battaglia russo-irano-siriana per la conquista d'Aleppo, dove non esiste praticamente l'Isis, rischia di produrre a giorni uno scontro militare diretto sul suolo siriano con le forze di aria e di terra dell'Arabia Saudita e della Turchia. È infatti evidente che la grande offensiva di terra e d'aria di Mosca e Teheran, in atto da giorni, non ha affatto l'obbiettivo di combattere il terrorismo, ma solo di permettere a Bashar al Assad di sconfi :4: ere le forze che da anni combattono contro il suo regime - in parte anche laiche - e di ritornare - riconquistata Aleppo - saldamente sul trono, anche se come «fantoccio» di Teheran e Mosca a cui ornai deve tutto, forse anche la vita. Per questo, l'incontro tra John Kerry e Serghjej Lavrov che si è tenuto ieri a Monaco non è parte della inutile e rituale routine del più inefficace Segretario di Stato della storia americana. Barack Obama ha compreso che gli avvertimenti ultimativi e le minacce d'intervento boots on the ground in Siria di Tayyip Erdogan hanno un fondamento drammatico e soprattutto che sono «coperti» e appoggiati da un vasto fronte arabo-sunnita. Ieri, il presidente turco ha annunciato che «la Turchia ha perso la pazienza» e ha minacciato l'apertura delle frontiere per permettere a due milioni di profughi di invadere l'Europa e l'immediata instaurazione di una «no fly zone» sui cieli della Siria, inclusa Aleppo, per impedire che ai 50.000 profughi delle ultime ore se ne aggiungano altre centinaia di migliaia.
   A fronte della reazione turco-araba, Washington ha compreso che l'ignavia di Obama rischia di trasformarsi in uno spaventoso boomerang che può sconvolgere la campagna per le presidenziali e affossare qualsiasi candidato democratico. Minaccia evidente e sottesa nell'articolo di Michael Ignatieff e Leon Wieseltier pubblicato mercoledì dal Washington Post, quotidiano progressista: «E' il momento che chi ha a cuore lo standard morale degli Stati Uniti dica che la politica adottata in Siria è vergognosa. Aleppo è la nuova Sarajevo, è un'emergenza, siamo ancora capaci di studiare azioni d'emergenza? C'è un percorso realistico per non risultare complici di crimini di guerra nei confronti del popolo siriano: la creazione di una no fly zone protetta dalle forze occidentali, un rifugio per chi scappa, un corridoio umanitario permanente. Se i russi e i siriani non partecipano, ci saranno conseguenze militari. E' rischioso, certo, ma così capiranno che non possono vincere la guerra in Siria secondo i loro termini ripugnanti». E questo, fermare i russi e gli iraniani nella loro marcia vincente su Aleppo e obbligarli a una tregua, se non altro, per non «essere complici di crimini di guerra nei confronti del popolo siriano», è il tentativo che Kerry sta sviluppando nei suoi incontri con i russi nella conferenza internazionale sulla Siria che si apre oggi. Tentativo tardivo, ma forse possibile. Kerry ha chiesto un «immediato cessate il fuoco» e Lavrov ha avanzato una proposta di tregua che sarà sul tavolo nei prossimi giorni.
   Quel che è certo è che l'Arabia Saudita ha ribadito ieri che «la nostra decisione di mandare truppe in Siria per combattere contro l'Isis è irreversibile». Dichiarazione dal significato inequivocabile: sauditi - e turchi - faranno come Russia e Iran e, col pretesto di combattere l'Isis, combatteranno contro le truppe irano-siriane. Non a caso Medvedev, premier russo, ha evocato la «guerra mondiale».

(Libero, 12 febbraio 2016)


IsraAid, in tutto il mondo per aiutare quando c'è un'emergenza

E' un gruppo di volontari che interviene ed aiuta nelle calamità anche dove Israele è odiata. Perché salvare una vita è un dovere civile e un comandamento divino.

di Pieraolo P. Punturello

Spesso, di fronte ad una crisi umanitaria, ad un sisma particolarmente violento, ad un momento migratorio cosi massiccio e così tragico, siamo abituati a vedere i gruppi di aiuto umanitarìo e di primo soccorso senza chiederci la loro nazionalità o la loro provenienza.
   Eppure se analizzassimo la presenza dei gruppi di volontari accorsi in aiuto delle situazioni di emergenza verificatesi in Sierra Leone, nel sud del Sudan, nelle Filippine, in Giappone, in Haiti, in Kenya in Giordania e negli ultimi tempi sulle coste delle isole greche dove approdano, per cosi dire, i barconi carichi di migranti. [frase incompleta, NsI]
   Chi sostiene, guida e supporta gli israeliani che lavorano nel mondo delle emergenze umanitarie? IsraAid, una associazione no profit e non governativa fondata nel 2001 che ha come scopo l'intervento in situazioni umanitarie di emergenza che richiedono un immediato supporto e diversi interventi rispetto ai disastri. Da quindici anni IsraAid invia squadre di medici, di professionisti, di persone capaci di interventi post trauma e di gestori di comunità in tutto il mondo dove le necessità politiche, climatiche, sociali e sismiche lo richiedano.
   Ad oggi IsraAid ha risposto a realtà di crisi in più di 31 paesi, raggiungendo più di 1.000.000 di persone, distribuendo più di 1.000 tonnellate di cibo e medicinali, istruendo più di 5.000 professionisti a livello locale, impegnando uno staff di più di 750 persone tra volontari e professionisti all'interno dei quali più di 156 tra dottori, infermieri, fisioterapisti, psicologi ed assistenti sociali.
   In ogni luogo dove la realtà d'emergenza lo richieda ogni minuto che passa, ogni ora riduce la percentuale dei sopravvissuti ed amplia l'esigenza di interventi sempre più invasivi e precisi, IsraAid risponde a questi bisogni immediatamente con protocolli di intervento che hanno ormai una consolidata tradizione ed esperienza. Superata la fase di prima emergenza e di aiuto immediato, IsraAid interviene creando progetti di sviluppo sostenibile, facendo in modo che le realtà locali possano continuare a vivere e a riprendersi dalla crisi che li ha colpiti in maniera autonoma senza dover più contare sulla presenza delle squadre di aiuti umanitari.
   I progetti che seguono questa linea di intervento sono ovviamente legati alla formazione di operatori locali, alla creazione di una coscienza di genere più forte contro la violenza sulle donne, di sviluppo economico, di impatto sociale, di potenziamento delle strutture sanitarie. Se ad un mondo distratto sfugge la costante presenza di un team israeliano in vari punti del globo, la cosa non dovrebbe sfuggire al mondo ebraico ed ai cittadini di Israele. Non dovrebbe sfuggire l'impatto culturale, sociale ed educativo, in alcuni luoghi del mondo, dove la parola Israele e la presenza di Israeliani è un concetto tabù, se non avversato e
 
Tali Shaltiel, un medico israeliano, prende un bambino siriano da un gommone che è arrivato sull'isola greca di Lesbo
considerato illegale. Negli ultimi mesi in realtà il contatto tra un certo mondo antìsìonista ed antisemita non ha avuto più bisogno di confini da superare perché il flusso di migranti dalla Siria o dall' Afghanistan è giunto in Israele in alcuni casi o si è incontrato con i volontari di IsraAid sulle coste della Grecia o della Turchia. In questo modo centinaia di siriani, di afgani abituati ad associare la parola ebreo ed israeliano con la parola "satana" sono stati salvati da quegli stessi satana. Con le ginocchia nell'acqua i satana come Tali Shaltiel, un dottore di Gerusalemme di 31 anni, hanno salvato bambini ed anziani nell'arcipelago greco da morte per annegamento o per assideramento. Se quindi fino a qualche anno fa gli interventi umanitari di IsraAid erano organizzati in paesi non direttamente ostili ad Israele, oggi i beneficiari degli interventi di IsraAid sono i "nemici."
   Shaltiel afferma, da medico, che non le interessa chi sia il bambino avvolto nelle coperte termiche, se arabo siriano o afgano, anche se poi ammette che spera che da questo contatto umano possa nascere un passo in avanti verso l'incontro con gli israeliani ed Israele. Di fatto non possiamo ignorare che per migranti che vengono dall'Iraq, dal Pakistan, dalla Siria e dall'Afganistan il contatto con un israeliano può essere fonte di shock se non di forte tensione. Shaltiel spiega che se da un lato tutti i volontari indossano tshirts con l'inconfondibile logo di IsraAid, parlando in ebraico tra di loro, dall'altro non vogliono creare barriere tra loro e chi ha bisogno del loro aiuto.
   Un'altra volontaria Majeda Kardosh, infermiera di Nazareth che ha il vantaggio di poter parlare con i rifugiati in arabo, afferma che in situazioni come quelle degli sbarchi non si notano neanche le loro magliette con il Maghen David ed anche dopo averle notate il quesito più insistente dei rifugiati è: "Ma davvero voi siete israeliani? Davvero voi siete ebrei?"
   Ed allora la risposta positiva diventa stupore per gli arabi di Siria o di Iraq e per i Pakistani musulmani ed Afgani, ma è anche un richiamo morale per i dottori ebrei israeliani che sentono di agire moralmente nel nome di Ippocrate ed onorano la moralità della storia del loro popolo.

(Shalom, febbraio 2016)


Unità 9900: Israele arruola gli autistici: sono bravissimi!

Soldati straordinari.

di Clara Attene

Si chiama Unità 9900 ed è un reparto di intelligence dell'esercito israeliano che, in collaborazione con l'organizzazione Roim Rachok (in ebraico «vedere il futuro»), sta inserendo alcuni giovani autistici. Fino al 2008, la legge prevedeva per loro l'esenzione dal servizio militare: otto anni fa, però, l'esercito ha iniziato a valutare caso per caso l'inserimento di persone autistiche nei segretariati o come volontari civili presso scuole e ospedali.
   Nell'Unità 9900, invece, il compito assegnato è analizzare immagini satellitari ad alta risoluzione: un lavoro cruciale e al tempo stesso noioso per la maggior parte delle persone perché richiede di trascorrere ore ad analizzare nel dettaglio sequenze di fotografie del territorio, scattate da angolazioni differenti e in momenti diversi, per cogliere cambiamenti anche minimi. Una capacità che, in genere, è particolarmente sviluppata in persone con disturbi dello spettro autistico.
   «Le persone autistiche spesso si esprimono in termini di immagini» spiega Geraldine Dawson, direttrice del Duke Center for Autism and Brain Development di Durham, in North Carolina «e il loro modo di pensare somiglia più all'integrazione di una serie di elementi che poi compongono l'intero: questo permette loro di individuare molti più dettagli rispetto a un approccio olistico»,
   L'inserimento dei volontari si svolge in tre fasi: la prima consiste nella verifica della capacità di analizzare correttamente le immagini e di integrarsi nella struttura dell'esercito. Chi supera questa selezione, inizia un corso di tre mesi per imparare a leggere le mappe satellitari; in parallelo, gli aspiranti analisti sono seguiti da uno staff di terapisti che li aiutano a far fronte alle nuove responsabilità e a eventuali stress che esse possono comportare. La terza e ultima fase, che dura altri tre mesi, si svolge a Tel Aviv, dove continua l'addestramento e l'attività di supporto psicologico che mira ad aumentare l'autonomia dei giovani arruolati. Da lì in avanti, sarà una loro scelta se proseguire o meno il servizio militare.

(il venerdì di Repubblica, 12 febbraio 2016)


Sciare fra mine e mortai

Sulle alture di confine sotto la minaccia dei colpi vaganti di Isis e di Hezbollah.

di Davide Frattini

I cartelli avvertono di non sciare fuoripista, i prati adesso coperti di neve sono disseminati di mine, anche se la guerra sta dall'altra parte: su queste montagne non si combatte più da quarantatre anni. Dai duemila-duecento metri di altitudine si vede Damasco nei giorni limpidi — è a quaranta chilometri — e in quelli foschi il fumo delle esplosioni nei villaggi siriani. Quassù gli israeliani vengono a sciare da quando le alture del Golan sono state tolte al regime di Assad e annesse. Il lato israeliano del Monte Hermon è l'unica stazione sciistica del Paese affollata per i pochi mesi (a volte settimane) in cui il sole del Levante non scioglie la neve. Le cabine d'arrivo delle seggiovie sono affiancate dagli avamposti dell'esercito, fanno da punti d'osservazione verso le valli dove dal conflitto del 1973 si muove ancora l'esercito nemico.
   In realtà il confine con la Siria è stato il più tranquillo in questi decenni, le analisi dell'intelligence si sono complicate quando gli scontri della guerra civile si sono avvicinati alla frontiera: con i ribelli che combattono il presidente Bashar Assad alle torri di guardia israeliane si sono appressati anche i gruppi legati ad Al Qaeda e quelli fedeli allo Stato Islamico. La vera preoccupazione degli ufficiali di Tsahal non sono le infiltrazioni o un possibile attacco via terra. II rischio per chi scia o si ferma negli chalet a prendere il sole è rappresentato dai colpi mortaio: non vengono sparati per colpire da questa parte, spesso sono tiri finiti fuori bersaglio, sarebbero stati indirizzati a qualche villaggio siriano.
   Nel gennaio di due anni fa le piste sono state bersagliate da lanci di razzi ma da un altro confine, quello con il Libano, da dove l'organizzazione sciita e filo-iraniana Hezbollah tiene sotto pressione Israele in uno scambio di colpi che sembra non finire mai. Le seggiovie sono rimaste chiuse per due giorni, poi gli israeliani hanno ricominciato ad arrivare come se nulla fosse successo. Da Tel Aviv, sulla costa del Mediterraneo, sono tre ore di auto e venire tra queste montagne è un po' come andare all'estero.

(Corriere della Sera, 12 febbraio 2016)


Turchia-Israele - Colloqui con Gerusalemme positivi ma non vi è ancora un accordo

ANKARA - I colloqui tra Turchia e Israele per riallacciare i rapporti starebbero procedendo in modo positivo, tuttavia un accordo non sarebbe ancora stato raggiunto dalla parti per migliorare le relazioni e aumentare la cooperazione energetica nel Mediterraneo orientale. È quanto emerge dalle dichiarazioni alla stampa fatte dal portavoce del partito di governo Giustizia e sviluppo (Akp), Omer Celik. "Abbiamo informazioni che i colloqui stanno andando bene, ma finché non vi saranno delle implicazioni pratiche nel quadro negoziale, non possiamo affermare che vi è un accordo", ha dichiarato Celik intervistato ad Ankara dai media turchi. All'incontro avvenuto ieri Ginevra hanno partecipato Yosef Ciechaniover, inviato del premier israeliano Benjamin Netanyahu, il responsabile del Consiglio di sicurezza nazionale dello Stato di Israele, Yaakov Nagal, e il viceministro degli Esteri turco, Fereydoun Sinirlioglu. Secondo gli analisti, vi sarebbero le basi per un futuro accordo fra Gerusalemme e Ankara, soprattutto dopo lo strappo con Mosca e lo stallo nella realizzazione del gasdotto Turkish Stream.
  Lo Stato di Israele guarda però con apprensione i legami fra il governo di Ankara guidato dal partito Giustizia e sviluppo (Akp) e il movimento islamista di Hamas. Ieri il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, ha sottolineato che qualsiasi richiesta di riconciliazione con la Turchia dovrà includere la restituzione dei corpi dei militari israeliani uccisi da Hamas nella Striscia di Gaza e attualmente nelle mani del gruppo islamista sostenuto dalla Turchia. Le prime avvisaglie di una futura normalizzazione delle relazioni fra Turchia e Israele erano emerse durante un'intervista rilasciata lo scorso 13 dicembre dal presidente turco Erdogan, nella quale il capo dello stato aveva sottolineato che "il riavvicinamento turco-israeliano è cruciale per la regione" e che la normalizzazione delle relazioni andrebbe "a beneficio dell'intera regione". Il presidente turco aveva ribadito le tre condizioni per la riconciliazione: le scuse da parte di Israele per l'uccisione di 10 turchi nel raid israeliano alla Mavi Marmara del 31 maggio 2011; il risarcimento delle famiglie delle vittime; e la rimozione del blocco navale sulla Striscia di Gaza.
  La conferma del riavvicinamento era stata in seguito confermato dal quotidiano israeliano "Haaretz", che il 17 dicembre sottolineava in un editoriale come Israele e Turchia avessero raggiunto un'intesa sulla bozza di un accordo di riconciliazione che potrebbe mettere fine alla lunga crisi tra i due paesi e normalizzare le relazioni". Il quotidiano citava i punti salienti dell'accordo di riferimento: il pagamento da parte israeliana di 20 milioni di dollari per risarcire le famiglie delle vittime della Mavi Marmara; la normalizzazione dei rapporti e la nomina dei rispettivi ambasciatori; l'approvazione di una legge da parte del parlamento turco per annullare qualsiasi denuncia contro membri dell'esercito israeliano relative al raid sulla Mavi Marmara; la limitazione dell'attività di Hamas sul territorio turco e l'espulsione di espellere Salah Aruri, uno dei principali membri del braccio armato del movimento palestinese; infine, dopo la firma dell'accordo finale, i due paesi discuteranno di importazioni di gas naturale da Israele e di un gasdotto che, attraverso la Turchia, colleghi Israele all'Europa.

(Agenzia Nova, 12 febbraio 2016)


Germania, a processo un ex guardiano di Auschwitz

Il 94enne Reinhold Hanning è accusato di concorso in omicidio di almeno 170mila prigionieri

di Alessandro Alviani

 
Reinhold Hanning
Concorso in omicidio in almeno 170.000 casi. È questa l'accusa di cui deve rispondere da oggi di fronte al tribunale tedesco di Detmold il novantaquattrenne Reinhold Hanning, un ex guardiano del campo di concentramento di Auschwitz.
Nella prima udienza di quello che si annuncia come uno degli ultimi processi per i crimini nazisti, Hanning è rimasto in silenzio per tutto il tempo, nonostante il drammatico appello lanciato in aula da Leon Schwarzbaum, un sopravvissuto all'Olocausto che ha raccontato le atrocità vissute ad Auschwitz, dove i nazisti ammazzarono 35 suoi parenti. «Abbiamo quasi la stessa età, presto ci ritroveremo entrambi davanti al giudice supremo, La prego di raccontarci la verità storica», ha detto Schwarzbaum all'indirizzo dell'imputato.
Secondo il pubblico ministero, Hanning sarebbe stato ad Auschwitz dal gennaio 1943 al giugno 1944 e, come membro di un reparto delle SS, avrebbe tra l'altro sorvegliato sia il campo di Auschwitz I, sia la selezione degli ebrei presso la rampa. Hanning, che oggi vive a Lage, una città a circa dieci chilometri da Detmold, ha ammesso finora di essere stato ad Auschwitz, ma ha negato di aver partecipato allo sterminio. Secondo il pubblico ministero, invece, era al corrente di tutti i metodi usati per uccidere gli ebrei.
Circa 40 sopravvissuti all'Olocausto provenienti da Israele, Stati Uniti, Ungheria, Canada, Germania e Gran Bretagna si sono costituiti parte civile. Dodici le udienze previste, ognuna delle quali non potrà superare le due ore a causa delle condizioni di salute dell'imputato.
A margine del processo la polizia è dovuta intervenire per scortare l'ottantasettenne Ursula Haverbeck, già condannata per aver negato l'Olocausto. Alcuni presenti l'avevano circondata all'ingresso, per impedirle di entrare. La Haverbeck è andata via a bordo di un'auto.
Quello di Detmold non è l'unico processo per crimini nazisti previsto quest'anno in Germania. Il 29 febbraio davanti a un tribunale del Meclemburgo-Pomerania occidentale dovrà comparire un novantacinquenne ex membro delle SS, stazionato ad Auschwitz nel 1944 e accusato oggi di concorso in omicidio in 3.861 casi. A metà aprile si apre invece in Assia un processo contro un novantatreenne ex guardiano del campo di sterminio di Auschwitz.

(La Stampa, 11 febbraio 2016)


I tentativi degli Ebrei di opporsi ai carnefici

A Ferrara un convegno internazionale sulla 'Resistenza ebraica in Europa'

di Carolina Fiorini

Sarà un "convegno dal contenuto di altissimo livello dal punto di vista storico e accademico, un percorso di avvicinamento all'apertura del Meis - afferma Massimo Maisto, vicesindaco e assessore alla cultura del Comune di Ferrara -; un forte segnale del rafforzamento della rete internazionale utile al futuro del Meis, unico museo statale dell'ebraismo italiano e della Shoah che dovrà avere l'ambizione di dialogare con tutto il mondo".
  Il convegno internazionale di studi storici e storiografici "Resistenza ebraica in Europa - Jewish resistance in Europe" avrà luogo lunedì 15 febbraio al ridotto del Teatro Comunale di Ferrara, promosso ed organizzato dall'istituto di storia contemporanea di Ferrara, dal memorial de la Shoah di Parigi e dal museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah Meis di Ferrara.
  Nel corso della mattinata, a partire dalle 9,30, verrà affrontato il tema della resistenza ebraica grazie all'intervento di tre studiose di fama internazionale: Renée Poznanski analizzerà la resistenza ebraica nella realtà francese, Beate Kosmala si occuperà della resistenza degli ebrei in Germania, ed infine si affronterà la dimensione della Polonia assieme a Edyta Gawron.
  L'incontro proseguirà nel pomeriggio visionando la storia italiana e ferrarese ricostruendo gli episodi che hanno caratterizzato il binomio ebrei-resistenza, grazie all'intervento dei tre relatori Alberto Cavaglion, Matteo Stefanori e Antonella Guarnieri.
  A concludere una tavola rotonda dalle 17,30 alle 19 alla quale parteciperanno i relatori menzionati coordinati da Liliana Picciotto, responsabile della ricerca scientifica Cdec Milano.
  "Il fine del convegno - ha illustrato Anna Quarzi - è di portare alla luce un tipo di resistenza sommersa. A tal proposito, le relazioni delle studiose internazionali che caratterizzeranno la mattinata del prossimo lunedì, indagheranno le reazioni dei nuclei ebraici in Francia, Germania e Polonia. Nel pomeriggio, invece, l'Italia tornerà al centro del discorso con la relazione portante di Alberto Cavaglion, docente dell'Università di Firenze, membro anche del Comitato scientifico. Seguiranno gli interventi del giovane Matteo Stefanori dell'Università della Tuscia, e di Antonella Guarnieri, che si occuperà di Ferrara nello specifico. Inoltre l'aiuto di Laura Fontana, direttrice del Memorial de la Shoah italiano, è stato fondamentale per impostare un sodalizio con la sede di Parigi".
  "Dal Cinquecento la Comunità Ebraica di Ferrara è stata un punto di forza per lo sviluppo della città - ha concluso Andrea Pesaro, presidente della comunità ebraica di Ferrara - e data la nostra progressiva riduzione numerica ci siamo dovuti appoggiare al passato, l'unica risorsa per avere un futuro. Spesso in Israele mi domandano perché gli Ebrei in Europa si sono lasciati distruggere così; perciò spero che nel convegno si inizi a rispondere a questo interrogativo e a ricordare i tentativi di opporsi ai carnefici da parte dei reclusi nei campi di concentramento. Tentativi che vennero facilmente soffocati, data la sproporzione di forze. E ci tengo a precisare che l'obiettivo principale dei reclusi non fu la salvezza delle loro vite, bensì la possibilità di tramandare ciò che stava avvenendo".
  L'appuntamento ha ottenuto il patrocinio della regione Emilia Romagna, del Comune di Ferrara, dell'Università, della comunità ebraica di Ferrara, della collaborazione di Cdec Milano e Insmli Milano. Il Convegno ha valore come corso di formazione/aggiornamento per studenti e docenti.
  E' prevista la traduzione simultanea degli interventi.

(estense.com, 11 febbraio 2016)


Berna - Parmelin incontra il ministro della difesa israeliano

I due ministri della difesa hanno all'ordine del giorno discussioni su temi di politica di sicurezza oltre alle relazioni bilaterali

 
BERNA - Il consigliere federale Guy Parmelin ha accolto oggi con gli onori militari il ministro israeliano della difesa Moshe Ya'alon, presso la residenza governativa del Lohn, a Kehrsatz (BE).
Con questa visita in Svizzera il ministro israeliano ricambia quella compiuta dal consigliere federale Ueli Maurer in Israele del 2010.
I due ministri della difesa hanno all'ordine del giorno discussioni su temi di politica di sicurezza oltre alle relazioni bilaterali.
E' stato un dialogo franco e leale: così il consigliere federale Guy Parmelin ha definito il suo colloquio odierno con il ministro israeliano della difesa Moshe Ya'alon, accolto con gli onori militari presso la residenza governativa del Lohn, a Kehrsatz (BE).
Con questa visita in Svizzera il ministro israeliano ha ricambiato quella compiuta dal consigliere federale Ueli Maurer in Israele del 2010. Le discussioni sono state dedicate in particolare alla questione palestinese, "punto delicato", ma anche alla collaborazione militare.
La tematica dei Territori occupati (dagli israeliani) non è stata tralasciata, ha indicato Parmelin in un incontro con i media al termine dei colloqui. Per lui si è trattato del primo ricevimento ufficiale di un ministro estero da quando ha assunto la guida del Dipartimento federale della difesa, della protezione della popolazione e dello sport (DDPS).
Su certe questioni "abbiamo punti di vista differenti, è chiaro", ha riconosciuto il ministro elvetico, affermando che il Consiglio federale è preoccupato per l'escalation della violenza nel Medio Oriente. Soltanto il negoziato e non i mezzi militari può regolarizzare la questione dei Territori, ha detto ancora Parmelin, rammentando il sostegno della Svizzera alla soluzione dei due Stati, "con quello palestinese sovrano e in grado di sopravvivere".
Dal profilo del diritto internazionale le colonie israeliane sono illegali, "sono un ostacolo alla pace e chiediamo di interrompere gli insediamenti" nei Territori palestinesi, ha dichiarato il capo del DDPS.
  
   Siria, terrorismo, Iran
  Nelle discussioni si è parlato pure della situazione siriana, della minaccia terroristica in Europa e della crisi dei rifugiati che scappano dai territori di guerra. Al riguardo il ministro israeliano ha messo in relazione gli attentati terroristici in Europa, quelli di Parigi e Bruxelles, e "gli attacchi contro Israele compiuti da individui isolati, organizzazioni e Stati. E' una lotta comune", ha detto.
A proposito di quanto avviene in Siria, ha affermato di ritenere che in futuro sarà impossibile "riunificare il territorio, poiché ci sono troppe fazioni e movimenti che si combattono. La riconciliazione è ardua".
Quanto alla questione iraniana, il ministro Moshe Ya'alon si è limitato a ribadire la posizione ufficiale del suo governo, che considera "un errore strategico e storico" l'accordo sul nucleare con il regime di Teheran e l'abolizione delle sanzioni internazionali. Prossimamente in Iran si recherà il capo del Dipartimento dell'economia Johann Schneider-Ammann, ma ciò "non influirà sulle relazioni tra Svizzera e Israele", ha assicurato Ya'alon.

 Cooperazione militare
  I due ministri hanno anche affrontato il tema della cooperazione militare. "Intratteniamo da sempre una relazione importante con Israele, che è un partner essenziale della Svizzera nel Medio Oriente", ha esclamato Parmelin.
La Svizzera ha acquistato l'anno scorso sei droni israeliani non armati per l'esplorazione, per una fattura di 250 milioni di franchi. La decisione aveva suscitato in parlamento l'ira della sinistra, che si era opposta con virulenza, invocando i diritti umani e il fatto che questo genere di droni sono stati utilizzati nell'attacco alla Striscia di Gaza da parte dello Stato ebraico, nel 2014.
Il fabbricante dei droni non è lo Stato ma un'azienda privata, aveva ribattuto l'allora capo del DDPS Ueli Maurer, ora passato al Dipartimento delle finanze. Secondo il Consiglio federale l'acquisto di armi presso un Paese in guerra non è per forza contrario alla neutralità e al diritto internazionale pubblico.
Intanto alcune associazioni svizzere impegnate per la pace e la giustizia in Palestina, in un comunicato affermano che la visita del ministro israeliano contraddice l'impegno elvetico per una giusta pace nel Medio Oriente e chiedono al Consiglio federale, tra le altre cose, di interrompere immediatamente la collaborazione militare con Israele e di adoperare tutti i mezzi necessari per togliere subito il blocco della Striscia di Gaza.

(tio.ch, 11 febbraio 2016)


Vivere nel moshav col cuore in gola. Gli occhi sul rifugio anti-razzi

Al confine tra Israele e Gaza, dove passano 850 camion al giorno: «Li controlliamo tutti». «Qui viviamo nella continua paura di un attacco, giorno e notte»

di Maurizio Caprara
inviato a Kerem Shalom

Non ha un codino, i suoi capelli brizzolati e lunghi li ha raccolti in una robusta coda di cavallo. Se domandassero di individuare il suo mestiere, verrebbe da rispondere che fa il chitarrista in un complesso rock della terza età. Invece Ami Shaked, israeliano, età «56 anni, ma è come se ne avessi vissuti cento, sono stato ferito tre volte però so di stare dalla parte giusta», fa un lavoro un po' più stressante e un po' più delicato: direttore del valico meridionale tra Israele e la Striscia di Gaza, quello di Kerem Shalom. È un passaggio riservato alle merci, in questo periodo 850 camion al giorno, la principale iniezione di energie e prodotti dall'esterno per il pezzo di terra vicino all'Egitto abitato da un milione e 800mila palestinesi, oltre il 60% al di sotto dei 24 anni. Un posto con una delle più alte densità di popolazione del pianeta, base di partenza per ricorrenti lanci di razzi e colpi di mortaio diretti contro villaggi e cittadine israeliani vicini, a sua volta bersaglio periodico di reazioni israeliane con artiglieria e aviazione.

Soldato israeliano sorveglia il confine verso Gaza da una postazione in cemento armato 
Camion palestinese visto da un buco nel muro tra Israele e Gaza 
Muro tra Israele e Gaza al valico di Kerem Shalom
Muro verso Gaza sul lato israeliano dipinto per evitare troppo grigio
Coperte italiane in attesa di raggiungere Gaza dal valico di Kerem Shalom
Pezzi di vecchi missili e razzi palestinesi collezionati nell'ufficio del direttore israeliano del valico di Kerem Shalom 
Fermata di autobus-rifugio per scolari nel moshav Netiv Haasara 
Proiettili e scharpnel conservati nell'ufficio del direttore di Kerem Shalom
Un angolo del valico 
Soldato israeliano sorveglia il confine verso Gaza da una postazione in cemento armato 
Muro antimissile dipinto da abitanti e ospiti del moshav
Decorazioni in ebraico, arabo e altre lingue che invocano la pace sul muro antimissile 
Soldato israeliano sorveglia il confine verso Gaza da una postazione in cemento armato
Riproduzioni di fiori attaccati da israeliani su un muro antimissile nel moshav
Una palma dipinta e decorata da israeliani sul muro antimissile 
Muro verso Gaza sul lato israeliano dipinto per evitare troppo grigio   mootools lightbox gallery by VisualLightBox.com v6.0m

 I controlli
  Il direttore si presenta così: «Mi scuso per il ritardo, vengo da un controllo: materia grezza che potrebbe essere usata come propellente per missili».
Come fate a scoprirla tra i carichi che passano di qui?
«Abbiamo scanner, diversi strumenti. Poi ho la mia bocca. La assaggio. In genere i materiali che possono essere impiegati per attacchi a Israele si trovano dentro contenitori impensabili o sono presentati come altro materiale. E' una lotta tra il cervello di chi li ha nascosti e il mio che deve capire dove stanno», spiega Shaked. Disincantato. Essenziale. Riferisce che nel 2014 su 49 mila camion con materiale per Gaza ne sono stati individuati 250 con carichi vietati o sospetti. L'anno scorso, su 153 mila autocarri, quelli bloccati allo stesso modo sono stati 754. «Io e il personale che lavora con me ci sentiamo l'ultima fermata prima di Gaza. Il lavoro per scoprire i carichi rischiosi per la sicurezza cominciano nei porti, lontano da qui, con intelligence altrove», racconta Shaked.

Poi?
«Tocca a noi. Alcuni materiali che possono servire a impiegare esplosivi o a realizzare missili rientrano in filiere per la produzione di plastica o per l'agricoltura. Vale anche per l'acqua ossigenata».

Acqua ossigenata?
«Può servire per imbiondire capelli, ma anche per scopi di tipo offensivo. Di materiali dal doppio uso (civile e militare, ndr) permettiamo la fornitura a persone di Gaza, tuttavia non ad Hamas», sottolinea riferendosi all'organizzazione fondamentalista islamica che ha nella Striscia un potere assoluto conquistato quasi dieci anni fa con un golpe successivo a una vittoria elettorale. «Se viene usato per qualcosa di diverso dagli usi previsti lo veniamo a sapere», continua il direttore del valico.

Come fate a capire che chi riceve quel materiale da voi non lo darà ad Hamas?
«Glielo può dare. Però lo vengo a sapere», è la risposta, tanto allusiva quanto chiara nel riferirsi alla capacità di Israele di ricevere informazioni da dentro Gaza.

Catturate chi agisce così?
«No, gli impediamo di poter lavorare con merci di passaggio per qui».

 Il percorso
  Per superare il confine cataste di merci attraversano un percorso a compartimenti stagni. A Kerem Shalom le partite di materiali provenienti da Israele vengono scaricate in un piazzale di decantazione, delimitato da mura di cemento armato alte una decina di metri. Uomini con mitra in mano sorvegliano. Balle di coperte provenienti dall'Italia, partite di cemento israeliano, liquidi in barili, cibi e prodotti vari vengono lasciati sull'asfalto da camion israeliani. L'ingresso del piazzale verso Gaza resta chiuso, poi viene aperto affinché autocarri palestinesi entrino per prelevare le merci dopo che i mezzi israeliani sono già usciti e per tornare indietro e l'ingresso verso lo Stato ebraico è stato richiuso. Sottratta nel 2013 con un colpo di Stato la guida dell'Egitto ai Fratelli musulmani, il generale Abd al Fatah al Sisi ha chiuso il valico del suo Paese con Gaza a Rafah. Adesso viene aperto una settimana l'anno. L'attuale presidente al Sisi ha fatto inondare molti dei tunnel clandestini scavati da Hamas e contrabbandieri per far passare dai territori egiziani armi e merci del mercato nero. Novità grande, non però completamente risolutiva. Un ventisettenne di Gaza, ha informato Hamas, è morto nei giorni scorsi nel crollo di un tunnel del quale non è stata rivelata la posizione.

 Nel moshav
  Nel container ufficio di Shaked uno schermo mostra in diretta camion palestinesi in un altro lato della Striscia. «Ecco: scavano ancora gallerie», dice indicando negli autocarri i mezzi che trasportano terra e attrezzi. Se innanzitutto cielo e sottosuolo restano ad Hamas per produrre cortocircuiti in ogni tentativi di far progredire una pace, è il caso di guardare che cosa succede intorno al confine. «Ero incinta del primo figlio quando il primo razzo cadde nella nostra fattoria. A Gaza andavo a mangiare, frequentavamo abitanti di lì. Oggi per mio figlio entrare nella Striscia è fiction, impensabile nella realtà», racconta Hila, 38 anni, un figlio di 15 e uno di dieci. Fa parte di Netiv Haasara, un moshav, una delle cooperative-comunità agricole che hanno lontane origini in un filone di sionismo socialista. Una sua estremità è a 800 metri dalla frontiera in cemento armato con Gaza ed è abitata da 800 persone. «Io sono di sinistra, molto di sinistra», dice, e le si illuminano gli occhi alla parola «comunista». Sullo sguardo cala l'ombra invece mentre descrive una quotidianità impensabile altrove: «Qui quasi tutte le case sono state danneggiate da un razzo. I nostri figli studiano in un rifugio, dormono in un rifugio, è un rifugio anche la fermata dell'autobus. Abbiamo avuto ance vent allarmi al giorno. Significa interrompere ciò che si fa, avere quattro secondi per andare nel rifugio e capire come i tuoi figli possono raggiungerlo». A intermittenza, è così da 15 anni. Da un paio di mesi non cadono razzi, perché Israele ha reagito a un'offensiva dal cielo colpendo Gaza, ma potrebbe ricominciare da un momento all'altro. Tornano in mente parole del direttore di Kerem Shalom: «In questa zona gli attacchi sono come un linguaggio. Quando nel 2014 Hamas ha sparato con i mortai su questo valico significa che lo voleva chiuso, noi avevamo detto che sulle merci avremmo distinto tra esigenze della popolazione e dei combattenti. Loro non la volevano, la distinzione». Ancora Hila, tra le villette basse del mushav che potrebbero trovarsi in California o in un posto di mare italiano: «La nostra prevenzione ha fatto sì che i morti tra noi siano stati tre. Le ferite comunque sono dentro, psicologiche. Quando un bambino nuovo viene a trovare i tuoi figli non chiede "dove sono i giochi?", "dov'è il bagno?". Prima domanda: "Dov'è il rifugio?". Da noi si costruiscono rifugi, il 70% delle spese della comunità è per la difesa. Hamas i soldi li usa per scavare tunnel e attaccarci. I palestinesi sono vittime di Hamas come noi. È questo a darmi la speranza che devo insegnare ai miei figli: accomuna noi e loro e ai ragazzi insegno di non crescere nell'odio».

(Corriere della Sera, 11 febbraio 2016)


*


Sul valico di Kerem

Hamas cerca di far passare materiale di contrabbando, "è un duello di cervelli, i loro e i nostri". Il capo della sicurezza ci spiega, contando i Tir, il paradosso del triangolo Israele-Gaza-Egitto.

 
KEREM SHALOM (Israele) - "A volte faccio così": Ami Shaked fa il gesto di intingere il pollice e se lo passa sulla lingua, per mostrare come a volte scopre che quello che ha davanti è il carburante speciale che Hamas usa per i razzi e non carburante normale. "Assaggiandolo". Coda di cavallo, berretto da baseball, maniche della giacca di pile tirate su, è il capo israeliano della sicurezza a Kerem Shalom, 900 Tir al giorno, un intrico di barriere di cemento e reticolati, l'unico valico attraverso cui le merci passano dal mondo esterno alla Striscia di Gaza - eccetto quelle che transitano attraverso i tunnel segreti sotto il confine egiziano, che però sono stati quasi tutti distrutti. Nel 2014 i suoi uomini hanno controllato 64 mila Tir e ne hanno bloccati 250 - arrestando i guidatori - perché contrabbandavano carichi pericolosi verso Hamas. Nel 2015 hanno controllato 153 mila Tir e ne hanno bloccati 754. "Il nostro primo criterio è: non interferire con la gente - dice Shaked - noi vediamo la differenza tra la popolazione palestinese e Hamas che controlla loro e il territorio. Personalmente, sono convinto che se oggi ci fossero di nuovo le elezioni, Hamas perderebbe a Gaza, perché qui ormai li hanno sperimentati, e che invece vincerebbe in Cisgiordania, dove non hanno ancora assaggiato il loro governo". Torna ai numeri del checkpoint: "Poche centinaia di Tir bloccati su più di 150 mila. Non fa alcuna differenza per la gente che sta dentro la Striscia di Gaza, ma fa la differenza per noi, perché intercettiamo il materiale pericoloso prima che finisca ad Hamas". Materiale pericoloso tipo? "A volte dipende dall'utilizzatore finale. L'acqua ossigenata può essere usata per farsi i capelli biondi o per fare esplosivi, dipende da chi l'acquista".
   Ami Shaked continua con la sua spiegazione: "Noi sappiamo cosa va a finire a chi dentro Gaza, perché abbiamo le nostre informazioni, e decidiamo di conseguenza. Quando scopriamo che uno dei compratori poi vende sottobanco a Hamas, entra anche lui nella lista di chi non può più acquistare". Come fanno a far passare materiale di contrabbando? "E' un duello di cervelli, i loro e i nostri. Ogni giorno sappiamo che proveranno a fare qualcosa di nuovo per non farsi scoprire. A volte il carburante che poi è usato per caricare i razzi è contenuto dentro latte di vernice, o all'interno di sacchi di cemento". E qual è la percentuale di carichi pericolosi che sfugge al controllo? "E' la domanda che mi tiene sveglio la notte".
   I Tir israeliani entrano dentro un piazzale di cemento e scaricano le merci - guardiamo la bolla di un grosso carico avvolto nella plastica verde, tessile italiano - poi arrivano i guidatori palestinesi, che caricano tutto il materiale su altri Tir e lo portano a un altro punto di sosta, questo fuori dalla visuale, a due chilometri di distanza. Lì Hamas controlla le merci in arrivo, prende le sue e impone una tassa d'ingresso. Ci sono anche Tir palestinesi che esportano merci in uscita, frutta, fiori e verdure, quindi fuori da Gaza e verso Giordania e Cisgiordania, sono cinquanta al giorno e però passano attraverso un controllo totale in un piazzale cui la stampa non ha accesso. "Gaza ha bisogno di trecento Tir in entrata al giorno per funzionare, merci comuni e cibo. Poi di altri trecento Tir al giorno per lavorare, per esempio materiale edile per costruire. A questi vanno aggiunti almeno altri duecentocinquanta Tir al giorno extra, aggiuntivi, per le ricostruzioni dopo la guerra del 2014".
   Shaker spiega con i Tir il grande paradosso del triangolo Gaza-Egitto-Israele. Hamas e Israele non si parlano e sono in guerra, ma c'è bisogno di collaborazione tacita perché nella Striscia vivono un milione e ottocento mila palestinesi. Il Cairo non è in guerra con Hamas, ma ha una posizione politica molto più dura. Fino all'ottobre 2013 "passavano 300 Tir da noi e 300 dalla parte egiziana, poi il loro presidente (Abdul Fattah al Sisi) ha chiuso del tutto il confine. Non passa più nulla, passa tutto da noi. Gli egiziani stanno distruggendo anche i tunnel - indica su una mappa alla parete la riva del mare molto vicina - hanno scavato un canale che taglia in parallelo il confine per allagare i tunnel con l'acqua salata". Secondo una fonte militare israeliana, sono i droni israeliani a segnalare agli egiziani l'ingresso dei tunnel.

(Il Foglio, 11 febbraio 2016)


Una risposta al boicottaggio accademico di Israele

Israele ha firmato con il California Institute for Regenerative Medicine un accordo sulla ricerca biotecnologia, il primo di questo genere, con particolare riferimento alla ricerca sulle cellule staminali. "Questa è la risposta più netta a tutte le folli iniziative per il boicottaggio accademico di Israele" ha detto mercoledì il ministro israeliano per la scienza Ofir Akunis, spiegando che "l'accordo approfondirà il partenariato tra Israele e California unendo gli sforzi degli scienziati di maggior talento per spingere sempre più avanti i confini della ricerca sulle cellule staminali e promuovere innovazioni mediche nel trattamento di malattie che vanno dal cancro al diabete, al morbo di Alzheimer, all'AIDS".

(israele.net, 11 febbraio 2016)


Israele non deve temere il terrorismo palestinese ma la politica europea

Lo Stato ebraico ha sopportato ondate di terrore e violenza ben peggiori dell'intifada dei coltelli. Deve invece lottare contro la delegittimazione e l'isolamento internazionale.

di Ugo Volli

Al momento in cui scrivo, poco dopo la metà di gennaio, sembra che l'ondata di "terrorismo a bassa intensità" che è cresciuta fra il Capodanno ebraico e quello civile facendo una trentina di vittime in tre mesi, sia in fase di stallo. Ancora micidiale quando colpisce, priva di ogni umanità, ma meno frequente in un certo senso residuale. Del resto la "resistenza popolare", come nell'Autorità Palestinese e fra i diplomatici europei chiamano questa forma di terrorismo poco tecnologico fatto con coltelli sassi e automobili, dura ormai da un paio d'anni ma non ha prodotto risultati significativi neppure dal punto di vista dei terroristi. Non è riuscita a spaventare gli israeliani, non ha provocato né nuova simpatia né nuova centralità per la causa palestinese, non ha ottenuto neppure di diventare un tema dominante per i media, soffocata da conflitti molto più gravi e sanguinosi come quelli provocati dallo Stato Islamico in Siria Iraq, Libia, Nigeria. Ha provocato molte più morti arabe che israeliane, ha rafforzato la convinzione dell'elettorato di Israele che non si possa venire a patti con chi vuole accoltellarti solo perché sei ebreo, se la prende coi vecchi, con le donne e i bambini, minaccia le case, le fermate degli autobus, i centri commerciali, le sinagoghe tanto dentro la "linea verde" che in Giudea e Samaria. Insomma, un disastro politico e militare, sanguinoso e orribile, privo di ogni senso, anche per i criminali.
  Non è purtroppo realistico pensare che come d'incanto il serbatoio dei potenziali assassini, per lo più ragazzi disposti a cercare di ammazzare la prima persona dall'aria ebraica che capitasse loro sotto tiro, quanto più innocua e indifesa tanto meglio, e probabilmente a morire per le reazioni di autodifesa delle vittime e degli astanti, si svuoti di colpo, anche perché esso è rifornito dall'incitamento delle maggiori organizzazioni terroriste come Fatah e Hamas e da quello dell'Autorità Palestinese. Ma è chiaro che questa nuova forma di guerra a Israele, sperimentata per alcuni anni, sta fallendo come in precedenza erano fallite le grandi invasioni degli eserciti arabi, le guerre d'attrito alla frontiera dei "fedayn", i dirottamenti aerei, il terrorismo suicida delle cinture esplosive, i missili e i tunnel di Hamas. Israele sa difendersi e vuole farlo, rapidamente trova la giusta forma di protezione rispetto alle tattiche terroriste, per insidiose che siano come questa offensiva apparentemente individuale, fatta di singoli attentati vigliacchi e imprevedibili. Il rischio è semmai che esse si diffondano in Europa, dove stati e società non hanno quasi gli anticorpi giusti contro queste minacce. Si può dunque sperare in una fase più tranquilla e meno preoccupante per Israele e per gli ebrei di tutto il mondo? Purtroppo non è così. In realtà la minaccia terrorista non è mai arrivata a minare davvero l'esistenza di Israele. Ha provocato moltissimi danni e lutti, ha cercato e cerca di eliminare gli ebrei dal Medio Oriente e magari dal mondo, ma non ne ha mai avuto la forza da sola. Il problema è altrove, nel suo gioco di sponda con la politica dei nemici "rispettabili" dello Stato ebraico. Che agiscono assai più razionalmente e pazientemente, hanno risorse politiche, economiche mediatiche e giuridiche che ai terroristi mancano e hanno un piano di lunga durata, che ha bisogno della violenza araba, la suscita e la protegge, ma funziona su piani diversi. Sto parlando dell'Unione Europea, dell'America di Obama (che potrebbe diventare l'America di Clinton o addirittura di Sanders) e anche dei loro agenti in Israele e nel mondo ebraico. Insieme essi conducono l'equivalente felpato e diplomatico di quella che Mao chiamava "guerra di lunga durata" .
  Questa guerra diplomatica consiste nella progressiva delegittimazione e nell'isolamento di Israele oltre che nel realizzare "fatti compiuti" sul terreno diplomatico, economico e anche nello spazio fisico di Israele. Così l'Unione Europea ha finanziato negli ultimi anni decine di insediamenti arabi illegali nella zona C di Giudea e Samaria (quella riservata all'amministrazione israeliane) e di recente un'intera strada che congiunge la zona del Gush Etzion con quella di Gerico: tutte costruzioni che vanno contro la legge, perché non sono previste nei piani territoriali, non hanno le necessarie infrastrutture ecologiche e sconvolgono gli equilibri della popolazione (che è l'evidente obiettivo dell'Unione Europea). Non esistono altre situazioni in cui un'organizzazione internazionale infranga sistematicamente la legge dello Stato in cui dovrebbe avere solo una rappresentanza diplomatica: un atteggiamento neocoloniale di cui, lo vogliamo o no, tutti noi cittadini europei siamo complici con le nostre tasse. Ma la stessa Unione finanzia a questo stesso scopo sovversivo della sovranità di Israele associazioni come B'Tzelem, la cui scandalosa funzione di provocazione è di recente venuta alla luce grazie a una trasmissione televisiva, in cui si vedevano suoi associati agire da agenti provocatori e delatori a favore delle squadracce palestinesi contro gli arabi che apparissero disposti a vendere dei terreni agli ebrei. E la stessa Unione Europea ha dichiarato di recente che intende aggravare l'illegale etichettatura dei prodotti di Giudea e Samaria con lo scopo di dividere gli abitanti di questi territori da Israele. Allo stesso modo procede l'offensiva nelle organizzazioni internazionali come l'Onu, il suo comitato per i diritti umani e l'Unesco dove i rappresentanti dell'Europa e dell'amministrazione Obama accettano la messa sotto accusa di Israele, mentre in sostanza si ignorano le stragi che si commettono in tutto il Medio Oriente. Insomma, per quanto orribili siano i crimini dei tagliagola che svolgono attentati antisemiti in Israele, il vero pericolo è altrove.

(Shalom, 11 febbraio 2016)


Due ragazze arabo-israeliane incriminate per l'attacco della scorsa settimana a Ramle

Coltelli usati nell'attacco a Ramle
GERUSALEMME - La autorità israeliane hanno incriminato due ragazze arabo-israeliane per l'attacco avvenuto la scorsa settimana alla stazione centrale degli autobus di Ramle, in cui è stata accoltellata una guardia giurata. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem post" precisando che le due ragazze, di 14 anni, sono state accusate di tentato omicidio e che puntavano a diventare "shadee" (martiri, in arabo) uccidendo in nome della religione nella nuova ondata di violenza in Medio Oriente. Le due ragazze, armate di coltello, una settimana fa hanno ferito una guardia giurata presso l'ingresso di un centro commerciale vicino alla principale stazione degli autobus della città. Secondo gli inquirenti le due avrebbero voluto colpire dei militari israeliani, ma dopo aver visto che nella zona non ve ne erano hanno colpito la guardia giurata.

(Agenzia Nova, 11 febbraio 2016)


Bernie sfata un tabù: è il primo ebreo a vincere le primarie

«Come ti chiami?», «Bernie Sanderswitsky, ma quando arriverò in America cambierò nome: suona troppo ebreo». E' uno dei passaggi più divertenti del duetto televisivo andato in onda sabato sera durante il Saturday Night Live: lo scrittore e attore satirico Lany David, ebreo anche lui, che spesso imita Sanders in Tv, nei panni di un viaggiatore su un transatlantico d'inizio Novecento che discute col vero Bernie, travestito da povero immigrato socialista ebreo che attraversa con lui l'Atlantico per andare a cercare fortuna in Usa. La vittoria di Sanders in New Hampshire fa sensazione non solo per le dimensioni e per il forte messaggio socialista, così insolito per le tradizioni politiche di un'America da sempre allergica al marxismo, ma anche perché è la prima nella storia di un candidato ebreo che si impone in una competizione elettorale Usa. Anche la settimana scorsa le primarie avevano fatto storia: Cruz primo ispanico vittorioso in Iowa. Per gli ebrei, comunità piccola ma autorevole e potente, c'è, però, una sensibilità particolare. «Mai un presidente nero, italiano o ebreo» recitava un vecchio detto americano, caduto in disuso dopo l'elezione di Obama. I tabù sono fatti per essere abbattuti, ma fin qui la Casa Bianca è stata davvero «off limits» per gli ebrei, anche per loro scelta. I due che si sono presentati fin qui, il senatore della Pennsylvania Arlen Specter e quello del Connecticut, Joe Lieberman, sono stati sconfitti nel 1996 e nel 2004. E Lieberman, il candidato più forte, non fu appoggiato nemmeno dagli ebrei: temevano che una sua vittoria avrebbe alimentato l'antisemitismo e che gli ebrei sarebbero stati considerati in qualche modo responsabili dei sacrifici richiesti dalle manovre di risanamento. Un rischio anche per Sanders. E c'è uno scenario ancora più insidioso: se saranno Trump e Sanders ad avere la «nomination», scenderà in campo Michael Bloomberg: miliardario di Wall Street, anche lui ebreo. Chissà cosa potrà uscire dalle labbra di Trump.

(Corriere della Sera, 11 febbraio 2016)


I giudici: no alle benedizioni pasquali a scuola

Il Tar accoglie il ricorso di un gruppo di genitori e insegnanti: ''Atti religiosi siano privati"

di Franco Giubilei

BOLOGNA - La battaglia delle benedizioni pasquali era scoppiata un anno fa in un plesso scolastico bolognese, quando il consiglio d'istituto autorizzò l'ingresso dei parroci perché officiassero il rito all'interno delle elementari e delle medie. Un gruppo di insegnanti e genitori, sostenuti dall'associazione Scuola e Costituzione, la prese malissimo e si rivolse al Tar in nome della laicità, per ottenere l'annullamento della delibera e la sua sospensione immediata. Per la sospensione non ci fu nulla da fare e i preti benedissero le scuole nel mese di marzo, sia pure in orario extrascolastico, poco prima delle vacanze di Pasqua, mentre le polemiche divampavano e la storia finiva sul New York Times. Ieri, quasi alla vigilia della prossima Pasqua, il tribunale ha deciso che quella delibera non s'aveva da fare e l'ha annullata, dando ragione al fronte del no alle benedizioni.
   «Con l'accoglimento del nostro ricorso si è affermato un principio importantissimo non solo per la scuola di Bologna, ma per la scuola italiana - esulta Monica Fontanelli, una delle insegnanti che si erano rivolte alla giustizia amministrativa -. L'indicazione è estremamente chiara: la scuola è laica. A scuola si insegna a vivere insieme, si fa cultura, le pratiche religiose restano fuori. È stato affermato un principio della Costituzione».
   Ma se i laici fanno festa, la pronuncia del Tar riaccende la discussione sul rispetto della tradizione cristiana che già si era infiammata a Natale con la decisione dei presidi di rinunciare al presepe in alcune scuole: «Ancora una volta una decisione incomprensibile che va contro il buon senso e, soprattutto, contro i nostri valori, la cultura che ci caratterizza e la nostra identità».
   E così, a distanza di un anno, si ripropone lo scontro che aveva opposto il consiglio dell'Istituto comprensivo 20, presieduto per inciso da uno dei nipoti di Romano Prodi, Giovanni, da subito favorevole alle benedizioni, a un gruppo formato da undici insegnanti e sette genitori, che si erano rivolti al Tar chiedendo di impedirle. Con una sorta di blitz, il consiglio aveva anche fissato la visita dei sacerdoti a una data anteriore alla decisione del tribunale sulla richiesta di sospensiva, permettendo che le benedizioni venissero effettuate. Tutto era nato dall'iniziativa dei parroci di tre chiese della zona fra porta Santo Stefano e Castiglione, che avevano chiesto alla scuola di potervi svolgere il rito.
   Ora il Tar, con una sentenza «senza consolidati precedenti giurisprudenziali», mette un punto fermo che potrebbe avere conseguenze importanti nel futuro. I giudici Italo Caso e Giuseppe Di Nunzio spiegano che il principio costituzionale della laicità o non confessionalità dello Stato «non significa indifferenza». La scuola però non può «essere coinvolta nella celebrazione di riti religiosi che sono essi sì attinenti unicamente alla sfera individuale di ciascuno».

(La Stampa, 11 febbraio 2016)


Siria: la riconquista dei confini

di Pino Cabras

L'esercito siriano, in combinazione con l'aviazione russa, gli Hezbollah libanesi e le forze armate iraniane, sta riprendendo - villaggio dopo villaggio - i territori persi da Damasco lungo i confini nel corso dei cinque anni di guerra. Non controllare i confini è stato l'incubo per chi resisteva all'assalto dei jihadisti, che ottenevano così armi e aiuti per miliardi di dollari. Le linee di rifornimento che collegavano ISIS-Daesh, Al-Nusra e altri soggetti all'entroterra turco e giordano vengono spezzate una ad una. Ora sono prevedibili nuove reazioni da parte degli alleati internazionali della galassia terrorista.

(PandoraTV, 10 febbraio 2016)


L'Enel lancia un programma per le start-up in Israele

ll nuovo programma israeliano è solo la più recente delle iniziative di Enel a sostegno delle start-up, nell'ambito del suo nuovo approccio all'innovazione tecnologica. Il progetto replica il modello già avviato con il programma di accelerazione 'Energy Start', in America Latina, e con quello 'INCENSe', promosso dalla Commissione Europea, per sostenere le start-up in Europa e Israele. Il programma israeliano, presentato oggi, segue l'annuncio del gennaio scorso relativo alle 28 start-up europee e israeliane che riceveranno fino a 150.000 euro di finanziamento a seguito del secondo bando di 'INCENSe' che, nelle sue due 'open call', ha selezionato 42 aziende per ricevere i finanziamenti.Enel sostiene la crescita delle start-up, migliorando e testando le loro soluzioni, e offrendo loro l'accesso al suo ecosistema, nell'ambito del quale possono trarre beneficio dalle competenze aziendali, dalle strutture del Gruppo e dalla base di 61 milioni di clienti in oltre 30 paesi del mondo. Attualmente, Enel sta assistendo circa 50 start-up. Enel ha adottato un nuovo approccio all'innovazione tecnologica per supportare il suo posizionamento strategico a lungo termine come azienda sostenibile e concentrata sullo sviluppo del progresso in tutti i campi della generazione, distribuzione e gestione dell'energia. Il Gruppo identifica e coinvolge le start-up che abbiano le potenzialità di precorrere le tendenze e sviluppare nuovi prodotti e servizi. Enel ha costruito un ecosistema di fondi di venture capital, università, acceleratori, altre aziende e istituzioni, in cui le start-up trovano tutto ciò che serve per crescere e diventare storie di successo, con il fine di integrare i loro avanzamenti tecnologici nelle attività commerciali e industriali di Enel.

(Adnkronos, 10 febbraio 2016)


Delegazione europea in visita in Israele per superare contrasti

GERUSALEMME - Le autorità israeliane e quelle dell'Unione europea starebbero tenendo colloqui per superare la crisi diplomatica nata dopo che Bruxelles ha deciso di etichettare i prodotti della Giudea e della Samaria come provenienti da "zone di occupazione" israeliana. L'emittente israeliana "Arutz sheva" ha riferito oggi che la scorsa settimana una delegazione europea guidata da Helga Schmid, vicesegretario generale dell'Unione per il servizio per le azione esterne, si è recata nel paese per discutere del problema ed avrebbe incontrato il direttore generale del ministero degli Esteri israeliano. I colloqui sarebbero anche funzionali alla ripresa della questione palestinese bloccata da Israele tre mesi fa. Funzionari israeliani hanno riferito che le parti stanno lavorando per trovare un'intesa soddisfacente e che faccia ripartire il dialogo. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e l'Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini, si sono incontrati tre settimane fa a margine del World economic forum di Davos anche per discutere la questione.

(Agenzia Nova, 10 febbraio 2016)



Antisemitismo e omofilia

Antisemitismo e omofilia
sono due binari paralleli
su cui l'umanità ribelle e peccatrice
corre veloce verso la resa dei conti
con l'unico Dio Creatore e Legislatore.

Capofila dell'antisemitismo
è l'islamico Oriente.
Capofila dell'omofilia
è il marcio Occidente.


*


Salvatevi da questa perversa generazione

“E Pietro disse a loro: Ravvedetevi, e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo. Poiché per voi è la promessa, e per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore Dio nostro ne chiamerà. E con molte altre parole li scongiurava e li esortava dicendo: Salvatevi da questa perversa generazione.”
dal libro degli Atti, cap.2

 


Ronaldo fa arrabbiare i palestinesi

Il portoghese ha recitato in uno spot pubblicitario per la compagnia israeliana di Tv via cavo.

Cristiano Ronaldo ha fatto arrabbiare i suoi followers palestinesi annunciando di aver preso parte a uno spot pubblicitario per la compagnia israeliana di Tv via cavo 'Hot'.
''Corrono voci - ha scritto scherzosamente - che sto per diventare una star in Israele. Non per il calcio, ma per una pubblicita' della 'Hot' ''.
Nello spot (in cui Ronaldo ha recitato a distanza, senza recarsi in Israele) c'è uno scambio di battute scherzose con tre comici israeliani, nello spogliatoio di una squadra di periferia.
''Con te ho finito. Ora tifo Messi'', la reazione di un suo (ex) tifoso palestinese.

(Sportal, 10 febbraio 2016)


Incontro israeliani-palestinesi sulla sicurezza

RAMALLAH - Palestinesi e israeliani si vedranno questa settimana a Gerusalemme per parlare di sicurezza alla luce delle violenze degli ultimi mesi in Cisgiordania e in Israele. Lo riferiscono varie fonti di Ramallah anche se al momento - vista la sensibilità del dossier- manca una conferma ufficiale. Il primo a parlarne è stato il segretario generale dell'Olp Saeb Erekat su 'Voice of Palestine'. Raggiunto dall'Ansa, Erekat ha detto che da parte palestinese "c'è la volontà di mettere fine alla situazione di violenza". Anche il portavoce delle forze di sicurezza palestinesi, Adnan Dmeiri, ha confermato la necessità di un meeting "per riportare la calma nella regione", senza però scendere nei dettagli del possibile incontro. Secondo fonti locali che preferiscono restare anonime l'incontro ci sarà e la delegazione palestinese "porterà un messaggio scritto riguardo al futuro degli accordi firmati in passato con Israele". Le stesse fonti hanno ricordato che lo scorso marzo il 'Palestinian Central Council' ha deliberato di interrompere il coordinamento alla sicurezza tra l'Autorità nazionale palestinese e Israele per lo stallo del processo di pace.

(ANSAmed, 10 febbraio 2016)


Netanyahu: "Barriere attorno a Israele"

L'annuncio del primo ministro durante un sopralluogo lungo il confine con la Giordania. Le nuove fortificazioni serviranno a proteggere il paese dalle "belve feroci" dello Stato islamico.

GERUSALEMME - Il primo ministro Benjamin Netanyahu è convinto che chiudere tutte le frontiere di Israele con una barriera protettiva o un Muro come nella Cisgiordania aiuterà il suo Paese a sentirsi più protetto e scoraggiare attacchi da oltre confine, dove agiscono «le belve feroci», Un chiaro riferimento al Califfato islamico e al pericolo che la "debole" Giordania possa essere la prossima tappa di conquista dei miliziani del Daesh. Se i tunnel da Gaza sono una minaccia primaria e immediata, nel giro di pochi anni Israele sarà interamente chiuso da una barriera, ha annunciato il premier durante un sopralluogo compiuto a nord di Eilat, lungo il confine con la Giordania, dove è in fase di costruzione una barriera di 30 chilometri per proteggere la zona Natanyahu ha anche avvertito che saranno presto chiuse anche le attuali "parti mancanti nel Muro con la Cisgiordania e sarà rinforzato quello con Gaza.
   La nuova barriera sul confine giordano è stata avviata con una decisione del governo nel 2015, i 30 km in costruzione partono, dalla più meridionale località turistica di Eilat e arrivano fin nella valle di Timma, dove è in costruzione un nuovo aeroporto internazionale. Quello attualmente in uso a Eilat è stato quasi circondato dall'abitato negli anni e la pista consente - per le normative internazionali - soltanto lo scalo di piccoli aerei turboelica non in grado di soddisfare le aspettative degli albergatori della città-vacanze israeliana. Nel 2013, Israele ha anche completato un recinto di cinque metri di altezza filo spinato lungo i 200 chilometri di confine con il Sinai, cercando così di impedire ai gruppi terroristici, trafficanti di droga e migranti africani di infiltrarsi territorio israeliano dalla penisola egiziana
   Per motivare la scelta della barriera da costruire tutto intorno al Paese, il premier è ricorso ad una definizione dell'ex primo ministro Ehud Barack secondo cui Israele è una "villa nella jungla", «Diranno: ma cosa volete fare, circondare la villa? La mia risposta - ha ripetuto Netanyahu - è sì. Nell'ambiente in cui viviamo dobbiamo guardarci dalle belve. Un'opera del valore di miliardi da costruire gradualmente in più anni ma da completare per difendere il Paese».

(la Repubblica, 10 febbraio 2016)


La pace parla in romanesco

Parla la regista Calò Livne, ebrea nata a Roma, allieva di Toaff, candidata al Nobel, vive in Galilea al confine col Libano dove «costruisce» dialogo col teatro multiculturale. In un libro discute di speranza con un angelo nel dialetto della sua gioventù.

di Laura Badaracchi

 
Angelica Edna Calò Livne
Ha vissuto tre guerre e due Intifade; tre dei suoi quattro figli sono stati richiamati più volte dall'esercito. Eppure la 60enne Angelica Edna Calò Livne, allieva romana di Elio Toaff trapiantata in Israele da quattro decenni, crede nella pace da costruire attraverso il dialogo e l'arte: dal 2001 coordina la Fondazione Beresheet LaShalom (Un inizio per la pace) e il teatro multi culturale Arcobaleno, a cui partecipano giovani musulmani, ebrei, cristiani di differenti etnie e tradizioni. Per questa attività nel 2005 è stata candidata al Nobel per la Pace. Con altre 80 famiglie vive nel Kibbutz Sasa in Alta Galilea, alla frontiera col Libano, dove ha scritto un dialogo immaginario con un angelo che parla in dialetto romanesco (alter-ego narrativo originale e autoironico), intitolato Memorie di un angelo custode. Un manuale per chi ha perso la speranza, pubblicato da Cantagalli (pp. 144, euro 14).

- Ha deciso di scrivere il suo libro come un dialogo col suo angelo che parla in romanesco. D'altronde lei è nata nel quartiere di Testaccio. Quanto conta l'ironia nel costruire la speranza?
  
«È fondamentale! Quando hai bisogno di coraggio fischi, canti, pensi a qualcosa che ti fa ridere, di cui hai nostalgia. Il mio angelo è la voce di mio padre e mia madre che mi tranquillizzano. Sono perfezionista fin da bambina. Ogni tanto devo ascoltare quella voce interna che mi fa distendere i muscoli delle spalle sulle quali sostengo i dolori del mondo e mi consiglia di calmarmi, rallentare e riempirmi gli occhi delle belle cose che mi è stato dato di creare. E quando sento parlare in romanesco mi rilasso, ritorno bambina e mi si risvegliano le endorfine».

- Si è sentita un po' angelo (in senso etimologico) in alcune circostanze?
  
«Devo dire di sì. A volte mi sembra che l'energia e la pazienza, che mi inducono ad andare avanti, provengano da mondi sconosciuti. Le idee che mi affollano la mente, quando mi chiedo come posso unire e recare gioia, stupiscono anche me. Senza dubbio il mio essere regista-educatrice è il dono più grande che ho ricevuto e che mi dà la forza di andare avanti, di affrontare paure, conflitti, tensione, stanchezza. Serbo con affetto tutte le lettere ricevute dai miei ragazzi del teatro, dai miei figli, dalle donne che hanno partecipato ai miei corsi. A molti è cambiato qualcosa nella vita. Questa riconoscenza afferma la validità dei miei sforzi e mi colma l'animo di aria pura».

- Lei ha visto in faccia il conflitto: come si vive con la guerra sotto casa?
  
«Nel corso della storia il popolo ebraico ha sviluppato una sorta di antidoto a conflitti, persecuzioni, stragi e crudeltà. Il dolore e la paura ci hanno unito e ci hanno reso più forti, ci hanno indotto a creare una fonte di energia potentissima che ci fa risorgere da ogni tragedia, sopruso e disperazione. È un' energia fatta di fede, "ricordo collettivo", anelito a una terra-madre che accoglie, ma anche da accudire e proteggere. Il filo sottile della tradizione che ci unisce, anche se sparsi nel mondo, ci dà la sicurezza che anche questi conflitti avranno fine, che la coscienza dell'uomo avrà il sopravvento e che positività, creatività, rispetto, responsabilità sono gli ingredienti indispensabili per mantenere vivo il mondo».

- Pace: un sostantivo forse abusato, talvolta astratto. Come renderlo concreto nella vita quotidiana?
  
«Trasmettendo i valori della diversità, dell'accoglienza. Insegnando a conoscere l'altro, a capire che non si può avere tutti le stesse idee, lo stesso aspetto fisico, la stessa casa, la stessa famiglia. Coinvolgere attraverso l'arte, il gioco, la musica di terre sconosciute, inventando percorsi in cui si possa attraversare la strada dell'altro con curiosità, affetto e stupore. Dialogando con noi stessi, trattando ci con indulgenza. Perdonandoci per gli errori commessi involontariamente e volgendo questa indulgenza verso chi ci circonda. Insegnare a dare e pretendere rispetto fin dall'infanzia, coltivando l'amicizia e l'aiuto reciproco. Sforzarsi di creare una comunità forte e feconda che dà risposte a tutti. E soprattutto aborrire la violenza, la prepotenza e l'individualismo che squalifica deboli e diversi».

- La paura di attacchi terroristici ha fatto aumentare i pregiudizi nei confronti di tutti i musulmani e diffondere l'equazione "islamico uguale potenziale terrorista". Come far crescere, invece, una cultura del dialogo?
  
«La password è: educazione. Educare e dare spazio alle donne, consolidando la loro identità. Dare loro la possibilità di progredire, di sviluppare una coscienza di madre sana che ama i propri figli, vuole la vita della sua gente, trasmette tradizioni con amore: dal cibo alla musica, dalla danza alla letteratura. Aiutarla a trasmettere i valori del rispetto per l'altro. Si deve fare un lavoro efficace per estirpare la violenza, riportare alla luce il vero splendore dell'Islam autentico e dare spazio a chi vorrebbe un'esistenza serena ma teme profondamente di essere radiato dalla propria comunità. Il male deve essere bloccato, e subito. E per farlo bisogna essere uniti e forti».

- La massiccia ondata migratoria verso l'Unione Europea sollecita a rifondare una politica che consideri i migranti non un'emergenza da contenere ma una realtà da accogliere. Con quali strumenti i cittadini possono vivere questo cambiamento?
  
«Ancora, educazione. Serbando le usanze e i costumi, ma preoccupandosi di infondere i valori umani del mondo occidentale in molti casi sconosciuti. Abbiamo il dovere di accogliere persone in difficoltà, in pericolo di vita, senza imporre le nostre tradizioni, ma chiedendo rispetto per la nostra cultura, religione e forma di vita. C'è una grande differenza tra buonismo e altruismo: aiutare un altro non può significare annullare me stesso».

- Lei crede nella formazione delle nuove generazioni. Quali frutti ha raccolto e quali semi continua a gettare per il futuro?
  
«La cosa migliore è sentire cosa dicono i ragazzi: Abir Hleihel, 19 anni musulmana, è felice" di poter dimostrare attraverso il nostro spettacolo, con un esempio viva, che la convivenza è possibile". Mentre Nemi Kassis, 21enne arabo cristiano di Fassouta, racconta: "Quattro dei miei migliori amici sono morti in un attentato. Quando l'ho sentito volevo smettere di partecipare allo spettacolo. Non credevo più a nulla. Ma dobbiamo reagire. Dobbiamo continuare a credere in qualcosa. Non possiamo smettere di sognare"».

(Avvenire, 10 febbraio 2016)


"E quando sento parlare in romanesco mi rilasso, ritorno bambina e mi si risvegliano le endorfine»".
Grazie Angelica dei tuoi faticosi sforzi di pace. E visto che la pace parla in romanesco e questo ti rilassa, proveremo anche noi a risvegliarti le endorfine:
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Genova - A Palazzo Doria Spinola si parla della Comunità Ebraica

di Stefano Villa

Giuseppe Momigliano, Rabbino capo di Genova
Domani alle 17 nel salone del Consiglio metropolitano la presentazione del saggio di Chiara Dogliotti che ne discuterà con il professor Giovanni Battista Varnier e il rabbino capo Giuseppe Momigliano.
   Nel primo dopoguerra il piccolo tempio alla Malapaga dove gli ebrei di Genova si erano raccolti dal 1707 per oltre due secoli non bastava più perché la Comunità da qualche centinaio di persone era cresciuta, anche con gli afflussi dall'estero compresi molti studenti universitari, soprattutto in medicina, fino a superare le duemila persone.
   La Comunità ebraica si dedicò allora alla costruzione della nuova sinagoga in via Bertora, una delle quattro monumentali italiane del '900 e l'unica costruita nel periodo fascista. La data della sua inaugurazione è il 3 giugno 1935 quando "mancano tre anni esatti alla proclamazione delle leggi razziali. Così fa un certo effetto contare il numero delle camicie nere presenti all'inaugurazione del nuovo tempio israelitico" scriveva otto anni fa l'indimenticabile Raffaele Niri su Repubblica nell'articolo 'Quelle giornate particolari a Genova e la memoria ebraica'.
   Una memoria che dalle leggi razziali del 1938 si declina in discriminazioni, esclusioni, umiliazioni, confische che dal 1943 alimenteranno poi negli abissi della Shoah persecuzioni e deportazioni "fino alla Liberazione - dice il rabbino capo Giuseppe Momigliano - perché due giorni prima del 25 aprile a Genova furono ancora arrestati alcuni ebrei. Fortunatamente non ci fu il tempo di deportarli, ma l'ostinata perseveranza dei nazisti nel progetto di sterminio del popolo ebraico non si fermò sino all'ultimo."
   A quegli anni drammatici e terribili ritorna il saggio "La Comunità Ebraica di Genova. Gli sviluppi demografici e sociali tra Otto e Novecento, le persecuzioni e la rinascita" di Chiara Dogliotti che nelle iniziative per il Giorno della Memoria presenterà domani, giovedì 11 febbraio alle 17, nel salone consiliare della Città metropolitana a Palazzo Doria Spinola, il saggio, tratto dal volume "Genova 1943-45 - occupazione tedesca, fascismo repubblicano, Resistenza" curato da Maria Elisabetta Tonizzi e Paolo Battifora, edito da Rubbettino e promosso da ILSREC.
   Con Chiara Dogliotti domani interverranno il professor Giovanni Battista Varnier e il rabbino capo di Genova.

(Notizie metropolitane, 10 febbraio 2016)


Sulle alture del Golan, Israele cura i feriti della guerra siriana

Le squadre di medici israeliani accolgono i feriti in tre ospedali, La strategia di distensione c il calcolo geopolitico. Il dottore con la croce al collo.

di Daniele Raineri

GOLAN - Israele svela alla stampa una strategia della distensione con i ribelli e i civili siriani al suo confine nord, lungo la linea di difesa ipermilitarizzata che corre tra le alture del Golan. Squadre di paramedici dell'esercito israeliano accolgono feriti sul confine e li portano in tre ospedali della zona, dove ricevono cure e poi sono riportati al confine con la Siria. L'assistenza è offerta a chiunque si presenti davanti ai soldati. Ci sono casi che vanno in oncologia - una bambina di 8 anni alla quale è stato asportato un tumore di sei chilogrammi - il 10 per cento dei pazienti è composto da donne e il 17 per cento da bambini. Ma è una zona di guerra e la maggior parte delle ferite è conseguenza di bombardamenti e combattimenti: per il 90 per cento, i feriti sono uomini e per lo più vanno in ortopedia. "Qumbula'ncudia", dice un giovane dal suo letto, in arabo vuol dire "bombe a grappolo", mostrando la gamba imprigionata in una incastellatura complicata di metallo che dovrebbe salvargliela.
   L'operazione è sospesa tra lo sforzo umanitario, la diplomazia locale (perché questo tipo di assistenza ha un impatto diretto sulle comunità di siriani che vivono appena al di là del confine) e la fantapolitica mediorientale (Israele e Siria sono ancora in guerra dal punto di vista formale e il governo del presidente Bashar el Assad ha stretto una alleanza strategica con due avversari diretti di Gerusalemme, Hezbollah e l'Iran). "Alcuni feriti siriani ci arrivano in anestesia, quando si risvegliano gli diciamo: 'Sei in Israele"', spiega al Foglio Khassis Shoukry, un chirurgo arabo-cristiano che gira per i reparti con una croce appesa al collo dando spiegazioni in tre lingue, con leggero accento romano: "Sono appena tornato da una vacanza in Italia - dice - mia moglie mi ha costretto a una sessione intensa di shopping all'outlet di Serravalle". Nella guerra brutale che si combatte in Siria, dove la maggior parte degli ospedali è stata distrutta e che ha per vittime principali i civili, l'assistenza sanitaria è un asset cruciale e basta considerare quello che accade all'altro capo del paese, sul fronte nord di Aleppo, dove i feriti sul fronte devono essere trasportati verso il confine turco e da lì sopravvivere fino agli ospedali.
   Shoukry ci accompagna tra le corsie dello Ziv Medical Center di Zefad, un piccolo ospedale universitario da 330 letti a 15 chilometri dal confine con il Libano e a 30 dalla Siria. Come fate a essere sicuri di chi state curando? "Il nostro compito è salvare vite, noi non facciamo distinzioni fra i pazienti". Su quattro uomini visitati solo uno dice di essere un combattente, con il Jaish al Hur, l'Fsa, che rappresenta il 70 per cento delle forze d'opposizione qui al sud, dicono al Foglio fonti militari israeliane. Ha perso una gamba e l'altra è malridotta per un bombardamento russo. "Conoscete qualche caso di ricovero di uomini di Jabhat al Nusra, al Qaida in Siria, qui con voi?". Gli uomini nei letti scuotono la testa, "Eravamo in otto qui, nessuno di Nusra". Dice Shoukry che tutto è cominciato con sette ricoveri il 16 febbraio del 2013, in modo molto più discreto e riservato, ma ora il numero dei casi trattati è arrivato a 570. Spiega che le tecniche usate sono all'avanguardia, i casi che potrebbero essere risolti con un'amputazione sono invece affrontati con procedure mediche più complesse e lunghe - che però salvano l'arto. Sarebbe un paradosso per Israele offrire cure mediche avanzate a uomini che potenzialmente potrebbero fare parte di battaglioni islamisti che odiano Israele, ma all'origine dell'operazione deve essere stato fatto un calcolo: è meglio che i siriani che vivono a ridosso del confine capiscano che hanno un vicino che riconosce il fattore umano prima dell'inimicizia politica e che quindi esiste una speranza di coabitazione futura. Uno dei paramedici racconta al Foglio: "Una volta ho intubato un ragazzino colpito da un proiettile alla testa. Sono andato a trovarlo in ospedale, quando mi ha visto mi ha abbracciato".

(Il Foglio, 10 febbraio 2016)

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Nell'ospedale che cura i "nemici" senza chiedere da che parte stanno

I feriti siriani in Israele. Dentro il centro medico Ziv di Safed dove sono passati 570 ribelli, il dottore: per noi sono solo pazienti.

di Maurizio Caprara

Un medico israeliano controlla un paziente nell’ospedale Ziv di Safed: è un giovane ribelle siriano ferito in battaglia
Ha lo sguardo risoluto e i lineamenti maschili di un giovane uomo con aria da atleta. Capelli castani ricci e corti. Spalle e braccia muscolose, levigate come se frequentasse regolarmente una palestra. Inquadrato a mezzobusto potrebbe essere su un rotocalco, fotografato in una pubblicità di un profumo. Invece è seduto in un letto di ospedale, i muscoli se li è fatti lavorando da fabbro. Il ricovero si deve al suo mestiere successivo: soldato nell'Esercito libero siriano, quello rivale di Bashar el Assad. La guerra gli ha troncato la gamba sinistra e ferito la destra, coperta dalle lenzuola. E l'ospedale nel quale si trova non è nel suo Paese, ma in Israele. Lo Stato considerato da decenni in Siria un regno del male.
   Chi ha lanciato la bomba? «Un aereo russo», risponde il giovane con i ricci e lo sguardo serio, da persona alla quale dietro un viso fiero non mancano pensieri su nuove prove da affrontare. Lo chiameremo Hassan, perché nell'era di Internet sarà meglio non scrivere il suo vero nome esponendolo al rischio di ritorsioni quando tornerà a casa. L'ospedale è lo Ziv di Safed (Zefat in ebraico), Galilea, un paesino con colline verdi di macchia mediterranea e palazzine biancastre di case popolari che si potrebbe scambiare per un pezzo di Puglia o di Grecia. Hassan è soltanto uno dei 570 siriani accolti in questo centro medico israeliano dal 2013: sia persone ferite nel proprio Paese durante una guerra fratricida alla quale partecipano anche militari stranieri russi e iraniani sia malati impossibilitati a ricevere cure adeguate in Siria. Il 70 per cento dei pazienti viene assegnato al reparto di ortopedia.
   Il viso di Hassan colpisce perché ricorda quanto un conflitto può sviare bruscamente il corso di una gioventù vitale. I suoi compagni di stanza, anche loro tra i venti e i trent'anni, hanno una gamba ciascuno avvolta in una sorta di gabbietta cilindrica di metallo opaco: uno dei due è senza un pezzo polpaccio, l'altro è privo di un piede. «Quei metalli servono a evitare le amputazioni. La terapia dura mesi», spiega Khassis Shokry, chirurgo plastico dal perfetto italiano, un palestinese cristiano di cittadinanza israeliana.
   Grossolano imprigionare la realtà in schemi rigidi, in questa parte di mondo. Israele tende la mano a persone sofferenti di una terra con la quale non ha un trattato di pace. L'accoglienza ai siriani denota umana solidarietà, ma evidenzia una scelta strategica: se possibile attirare disponibilità verso Israele tra le popolazioni di frontiera di uno Stato ostile oggi di fatto smembrato, diverso dal monolite che era. Gli stereotipi poi sono inadeguati perché Shokry è tornato da poco da un viaggio in Europa per sciare a Saint Moritz, in corsia una donna delle pulizie ha i capelli coperti da un hejab nero musulmano, sulle autolettighe che hanno portato i feriti fin qui dal confine tra Siria e Israele sono dipinte stelle di Davide.
   Le diversità abbondano. Eppure basta una domanda a riportare in un punto dell'ospedale uniformità. Come immaginate il futuro della Siria? «Di male in peggio», rispondono tutti insieme Hassan e gli altri due siriani della stanza, uno studente di ingegneria con la gioventù mutilata da una mina, l'altro un agricoltore al quale non viene di chiedere particolari su perché gli manca carne in un polpaccio e un suo piede è contorto e strappato.
   La frontiera si trova a pochi chilometri. Damasco sarebbe a meno un'ora di macchina. «I siriani ce li portano i militari israeliani. Arrivano combattenti, bambini, donne in gravidanza», racconta il chirurgo. All'esercito israeliano chi dà i feriti? «Ribelli siriani». L'impatto con Israele? «Per noi sono pazienti. Non domandiamo da quale parte stanno. Se uno ha idee, le blocca in mente», continua il dottor Shokry. Una parte dei pazienti viene ricoverata qui, altre in due ospedali più a sud.
   Per cambiare reparto si attraversa un ingresso sovrastato da cerchi di metallo. «Filtri dell'aria. In caso di attacchi a Israele chiudiamo il settore per proteggerlo da eventuali armi chimiche», spiega Shokry. Dal tetto dell'ospedale si vede la Siria. Per saperne di più raggiungiamo barellieri militari israeliani sul monte Bental, sopra il confine. Lungo la strada sulle alture del Golan, mucche al pascolo tra campi minati. Le mine furono sotterrate i soldati di Damasco nella guerra del Kippur, anno 1973. «Mio padre è arabo, cristiano. Mia madre ebrea. Con i siriani da ricoverare parlo in arabo», dice Michel, 20 anni, divisa grigioverde e fucile mitragliatore a tracolla.
   Dal monte si notano la barriera che divide dalla terra dei feriti e la parte nuova di Quneitra, località siriana in mano all'esercito di Bashar el Assad, e Quneitra vecchia controllata dai ribelli. Nella seconda, tetti a terra di case distrutte. Non adesso, però. Nel 1973. «Laggiù si è sparato anche oggi, poco fa», riferisce un militare israeliano. C'è chi ci indica in quali zone della pianura sono i ribelli moderati, i ribelli salafiti, l'esercito regolare, le milizie più distanti affiliate a Daesh. Un mosaico scomposto. Effetto e a sua volta causa di assetti geopolitici in movimento, non più identici a prima.

(Corriere della Sera, 10 febbraio 2016)


Hamas cura a Gaza i terroristi feriti dello Stato Islamico

In cambio di armi e denaro

di Fiamma Nirenstein

Hamas e Fatah da domenica scorsa, con quale sponsor se non con l'aiuto del Qatar che è da sempre il protettore di tutte le tendenze più estreme del mondo arabo, cercano di nuovo l'unità in colloqui che si tengono a Doha. Un'unità in cui ci si deve accordare sui finanziamenti, sulla leadership, sugli organismi burocratici, ma che pur esprimendosi in tanti modi diversi, alla fine porta il segno del terrorismo e dell'odio antisraeliano.
   E' di queste ore la notizia che Hamas accoglie i terroristi di Isis a casa sua a Gaza per sottoporli, nei suoi ospedali, alle cure mediche di cui necessitano. I guerrieri più feroci del mondo vengono introdotti nella Striscia in cambio di denaro, di armi, di beni vari, provengono naturalmente dal Sinai attraverso i tunnel costruiti da Hamas lungo il suo confine, e vengono condotti poi all'ospedale Nasser nella città di Khan Yunis.
   La notizia l'ha data, sulla base di fonti arabe, il generale israeliano Yoav Morde-chai. Che l'Isis si annidi a Gaza, territorio di estremismo sunnita, è piuttosto naturale, ed è già stato notato. Ma ancora di più lo è che Hamas si presti volentieri a dare aiuto all'organizzazione dei tagliagole dopo che l'Egitto ha rotto qualsiasi rapporto amichevole. Non si tratta di un'inimicizia che si esprime a parole: l'Egitto ha distrutto a decine i tunnel che da Gaza portano nel suo territorio in Sinai, inondandoli o facendoli esplodere. Il portale arabo Elaph ha scritto persino che l'Egitto utilizza le foto dei droni israeliani per identificare e demolire i tunnel.
   Le gallerie sotterranee, vere retrovie del terrore, spesso anche casematte e rifugi, sono la perla della strategia di Hamas, il suo modo di rifomirsi di beni, di denaro, di armi, di portare in territorio israeliano attacchi terroristici. La loro costruzione procede ogni giorno. Ultimamente una serie di crolli hanno ucciso i giovani palestinesi che scavano e murano i passaggi sotterranei: l'ultimo morto, lunedì scorso, aveva 24 anni.
   Hamas ha celebrato le vittime dei tunnel come eroi e martiri. Oltre le parole, queste vicende segnalano una febbrile attività unita a difficoltà strategiche ed economiche che ormai assediano Hamas da tempo e lo spingono a cercare di nuovo l'alleanza con Fatah. In Israele il capo di stato maggiore generale Eisenkot fa sapere che l'esercito si sta dotando di nuovi mezzi per identificare e colpire i tunnel. E di domenica la chiamata di Hamas a servirsi degli attacchi suicidi per colpire Israele: con un video musicale, Hamas loda i terroristi di fronte a un autobus in fiamme: è l'autobus verde e bianco della Egged, la compagnia israeliana, e dice «L'Intifada non è Intifada se l'autobus non vola in pezzi». La memoria corre immediatamente alla seconda Intifada, con i tanti autobus esplosi fra il 2001 e il 2005. II clip di sei minuti mostra anche un terrorista di Hamas che sale sull'autobus.
   La stretta di Hamas si è vista due giorni fa anche nell'esecuzione di uno dei suoi capi militari, Mahmoud Eshtawi, responsabile dei tunnel: «Le brigate Al Qassam (il braccio militare di Hamas, ndr) annunciano la pena di morte contro il suo membro, eseguita alle 16 di oggi» dice un laconico comunicato. Siti collegati a Fatah hanno detto che Eshtawi aveva condotto gli israeliani al nascondiglio del comandante Muhammed Deif, mitica primula rossa del terrore, che tuttavia, come altre volte, l'ha scampata.

(il Giornale, 10 febbraio 2016)


Vuoi andare a tagliare teste per l'Isis?

Aggregati alla scampagnata terzomondista partita da Londra e diretta a Gaza

di Giulio Meotti

Fu una sorta di Overland terzomondista. Un carico che comprendeva veicoli, attrezzature e cinquecento tonnellate di merci, cibo e medicinali. Ad accompagnarlo oltre trecento attivisti filopalestinesi provenienti da trenta paesi (tante le adesioni anche dall'Italia). Il convoglio lasciò l'Inghilterra, attraversando Francia, Spagna, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto e, via Rafah, arrivò nella Striscia di Gaza il 7 gennaio 2010, salutato dai capi di Hamas. A guidare la spedizione Ron Kovic, il veterano del Vietnam in sedia a rotelle che ha ispirato il film "Nato il quattro luglio", e "Gorgeous George" Galloway, il paladino dei diseredati fondatore dell'ente di beneficenza Mariam Appeal (dal nome di una ragazzina irachena "devastata per gli effetti delle sanzioni" contro Saddam), il parlamentare di Bethnal & Green, nel cuore del Londonistan, invischiato nello scandalo dell'Onu "Oil for Food".
   I membri di quella spedizione, con a capo la ong Viva Palestina, all'arrivo nella città francese di Vaulx-en-Velin, furono accolti dal sindaco Bernard Genin come eroi, esponendo bandiere palestinesi. Uno dei tanti a omaggiare la carovana delle buone intenzioni antisemite. All'Università di Manchester, per citarne una, i gruppi studenteschi approvarono una mozione: "Tutte le forniture degli edifici che vengono rinnovati devono essere mandate a Gaza attraverso il convoglio di Viva Palestina ... ". Dodici ambulanze vennero donate dai vigili del fuoco inglesi della Fire Brigades Union. Dall'America arrivò Cynthia McKinney, democratica della Georgia, prima donna nera eletta al Congresso degli Stati Uniti.
   Ieri il Times di Londra ha rivelato che ben otto fondamentalisti islamici, compresa la gang di decapitatori dell'Isis dallo smaccato accento british, usarono quel convoglio diretto a Gaza per andare in Siria a combattere. Fra questi fondamentalisti ci sono Jamal al Harith, un ex detenuto di Guantanamo che adesso combatte per il Califfato con moglie e figli; Munir Farooqi, un ex guerrigliero tale bano condannato per aver reclutato volontari per l'Afghanistan; due membri dello Shabaab soma lo e Alexanda Kotey, il compagno di decapitazioni di "Jihadi John" nei video dello Stato islamico, un cristiano convertito all'islam. Kotey fa parte dei "Beatles", così chiamati dalla stampa per il loro accento londinese, e ha partecipato all'esecuzione di David Haines e Alan Henning, due degli ostaggi inglesi uccisi dall'Isis con la decapitazione rituale. Di lui facemmo la conoscenza quando segarono la testa del reporter americano J ames Foley.
   Il convoglio della pace delle charities londinesi includeva anche Amin Addala e Reza Afsharzadegan, altri due sodali di Jihadi John. Dopo l'ingresso a Gaza, tutti gli islamisti, i "London Boys", scomparvero per farsi vivi nuovamente nella ridente Raqqa, in Siria, la capitale dello Stato islamico. In un video ad alta definizione in cui minacciano di tagliare la testa agli infedeli. Cittadini inglesi che decapitano altri cittadini inglesi dopo essere arrivati nel Califfato grazie alla scampagnata organizzata da una ong riconosciuta dal governo di Sua Maestà. Per usare il titolo di un fortunato libro, è davvero la carità che uccide.

(Il Foglio, 10 febbraio 2016)


L'opportunità del gas nelle relazioni tra Israele e Italia

Parla Dore Gold, direttore generale del ministero degli Esteri di Gerusalemme: "Passi avanti nel dossier sull'etichettatura dei prodotti, preoccupazione per il disgelo con l'Iran"

di Massimo Russo

GERUSALEMME - In mezzo alle difficoltà e alle incertezze nel dialogo tra Israele e l'Europa, dal dossier scottante sull'etichettatura dei prodotti israeliani che provengono dagli insediamenti in Cisgiordania, fino al disgelo nei confronti dell'Iran, assai temuto da Gerusalemme, «c'è una stella brillante, una grande opportunità: la scoperta, nel Mediterraneo Orientale di grandi riserve di gas, tra Cipro, Israele ed Egitto». Non usa mezzi termini Dore Gold, direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, nel definire le potenzialità offerte dalla diplomazia dell'energia: «Stiamo cercando partner», spiega, «società e paesi europei con cui sfruttare l'occasione di rafforzare la sicurezza energetica».
I giacimenti nel Mediterraneo possono cambiare gli equilibri della regione. A cominciare dal più grande, Zohr, scoperto dall'Eni nell'agosto dello scorso anno al largo dell'Egitto, fino a Leviatano, che si trova al largo di Israele, e le cui riserve ammontano a 450 miliardi di metri cubi. Ma le potenzialità potrebbero essere assai maggiori. Nello scorso ottobre la russa Gazprom si è aggiudicata concessioni rilevanti, l'Eni finora ha mantenuto una linea di collaborazione riguardo alle infrastrutture di trasporto, ma non di presenza diretta.

 La scelta dell'Eni
  A fine ottobre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi si sono incontrati a Gerusalemme. In quell'occasione Descalzi aveva parlato soprattutto di sinergie per «mettere a fattore comune le risorse future e le infrastrutture di trasporto e di export di Israele, Cipro ed Egitto». Gerusalemme era stata solo l'ultima tappa del tour di Descalzi, che in precedenza aveva incontrato anche il presidente egiziano Al-Sisi e il suo omologo cipriota Nicos Anastasiades. L'indicazione delle parole di Gold ora è chiara, ed è di forte apertura all'Europa e all'Italia. Finora è stata soprattutto l'azienda americana Noble a cimentarsi nell'area, ma i nuovi giacimenti sono a una profondità maggiore e richiedono diverse tecniche di scavo. L'Eni non conferma un ulteriore coinvolgimento, ma l'offerta è sul tavolo.

 L'etichettatura dei prodotti dei territori occupati

  Segnali di distensione arrivano nelle ultime ore anche da un capitolo finora spinoso nei rapporti tra Israele e l'Europa, l'etichettatura dei prodotti della Cisgiordania. L'Unione ha stabilito che vadano indicati come «provenienti dagli insediamenti», adottando quella che alti funzionari del ministero degli Esteri israeliano definiscono «una narrativa palestinese», una sorta di boicottaggio. L'impatto al momento è molto limitato, si tratta circa dell'un per cento dei 13 miliardi di dollari degli scambi tra Israele ed Unione, ma il timore di Gerusalemme è che ciò che viene definito un atteggiamento discriminatorio possa essere allargato anche ad altri ambiti, come la finanza. Interpellato su cosa chiede riguardo a questo argomento al governo italiano, Gold afferma che «ogni paese europeo dovrebbe stabilire da sé come implementare le decisioni dell'Unione. Ritengo, prosegue, che l'etichettattura sia un atto di discriminazione, e mi auguro ci sia presto una sua revisione». Nelle ultime ore a questo riguardo qualcosa si muove. Come riporta oggi Haaretz (http://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.702381), sono iniziati contatti riservati con l'Unione per trovare una via d'uscita.

 La partita iraniana
  Su dossier Iran, invece, la disapprovazione di Israele nei confronti dell'atteggiamento europeo e dell'Italia resta molto netta. Commentando i recenti incontri tra il premier Matteo Renzi e il presidente iraniano Rohani, che potrebbero valere intese commerciali per 17 miliardi di dollari, Gold afferma che «ogni paese dev'essere assai prudente prima di addentrarsi in accordi con Teheran. Miliardi di dollari stanno per finire nelle casse del Tesoro iraniano e non verranno utilizzati per riparare le strade. Le forze rivoluzionarie che sostengono gli attacchi contro Israele e contro l'Occidente sono la nostra prima preoccupazione, e dovrebbero esserlo anche per l'Europa».
Secondo i calcoli di funzionari del governo israeliano, se anche solo l'un per cento dei benefici economici che verranno all'Iran con il disgelo dei rapporti con l'Europa venisse trasferito a forze come Hezbollah, il movimento sciita attivo oggi nella guerra civile in Siria potrebbe raddoppiare le sue capacità militari.

 Il quadro delle alleanze
  L'Iran resta oggi il nemico numero uno di Israele, seguito da Hamas e dalla Jihad. Salde sono invece le alleanze con Giordania ed Egitto, mentre si assiste a una significativa ripresa di rapporti con i paesi del Golfo. Qui le valutazioni israeliane sono duplici: da una parte le monarchie sono state l'unico baluardo contro il trasformarsi delle Primavere arabe in forti fattori di instabilità nella regione. Dall'altra i sunniti e i sauditi condividono con Israele la preoccupazione verso una crescita dell'Iran e dello Stato Islamico. Non si tratta ancora di un'alleanza strategica, ma di un rapporto tattico che - come confermano fonti di Gerusalemme - si sta stringendo ogni giorno di più. E in questa terra anche piccoli cambiamenti di equilibrio possono avere una portata assai significativa.

(La Stampa, 10 febbraio 2016)


Il governo israeliano diviso sulla risposta da opporre ai tunnel di Hamas

GERUSALEMME - Il governo israeliano, riferisce la "Jerusalem Post", è in dubbio sulla risposta da opporre alle gallerie scavate da Hamas nella Striscia di Gaza: da una parte, infatti, l'organizzazione palestinese imputa a Tel Aviv i crolli di tunnel sotterranei che hanno provocato la morte di diversi membri dell'organizzazione; dall'altra, i residenti nelle comunità del sud di Israele, in prossimità della Striscia, imputano a Tel Aviv un'eccessiva esitazione nel fronteggiare la minaccia rappresentata dai tunnel sotto il confine. L'acceso dibattito interno alla squadra di governo coinvolge da un lato il ministro dell'Istruzione, Naftali Bennett, che chiede un'azione immediata, e dall'altro il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Moshe Ya'alon, che si oppongono ad azioni immediate dalle conseguenze imprevedibili, anche per la tenuta politica della maggioranza di governo. Durante le discussioni a porte chiuse del governo sulla minaccia dei tunnel di Gaza, nelle ultime settimane, Bennett ha sollecitato ripetutamente azioni immediate contro le gallerie sotterranee di Hamas, mettendo in guardia contro le gravi conseguenze che potrebbero arrivare in futuro dal mancato intervento.

(Agenzia Nova, 9 febbraio 2016)


Israeliano malato di poliomelite costruisce scooter per disabili

Ci sono decine di milioni di persone in tutto il mondo che, pur non essendo totalmente disabili, hanno difficoltà a muoversi fisicamente e, di conseguenza, tendono a rimanere a casa, rinunciando a gran parte di ciò che la vita ha loro da offrire.
Nino Ransenberg, un israeliano vittima di poliomelite, ha inventato uno scooter che gli ha donato nuovamente l'indipendenza.

Le parole non possono descrivere la sensazione di essere discriminati perché si utilizza una sedia a rotelle. Ci sono poche città al mondo dove un tassista si ferma a prendere un passeggero con una sedia a rotelle, per non parlare di bar e ristoranti che le persone evitano perché semplicemente non c'è spazio per il loro "veicolo".

Nino Ransenberg sul suo scooter per disabili
Da questa volontà di non mollare nasce Moving Life Atto Freedom Scooter, il primo motoveicolo al mondo compatto, che si ripiega e può essere posto nel bagagliaio di un'auto.
Secondo Yuval Chomski, un imprenditore che ha sviluppato l'idea con Ransenberg, oggi moltissimi scooter sono utilizzati da disabili e da anziani per spostarsi in città. Ma li usano solo una piccola frazione di quelli che ne hanno bisogno. Purtroppo però gli scooter attualmente in commercio non sono confortevoli. Uno degli ostacoli è sicuramente la dimensione, molti non riescono ad oltrepassare una porta.
Atto è stato progettato per essere abbastanza stretto da passare attraverso le porte, con il sedile e il poggiapiedi anch'essi abbastanza stretti da riuscire a passare attraverso porte di dimensioni standard, scale, scale mobili, piccoli ascensori, o passaggi stretti, tenendo conto della larghezza del conducente.
Oltre ad essere l'unico scooter pieghevole al mondo, è anche uno dei più leggeri: pesa 25 kg. Lo scooter è attualmente in versione beta e molte di queste versioni si trovano in Israele ma l'obiettivo è quello di far arrivare il prodotto anche in Europa e negli Stati Uniti. La società si trova a Ra'anana e spera di ricevere a breve dalla Food And Drug Administration la designazione di dispositivo medico, in modo che possa essere sovvenzionato dalle compagnie di assicurazione.
Pur essendo vittima di ciò che è spesso una malattia debilitante, Ransenberg ha lavorato per decenni come imprenditore di successo in una vasta gamma di imprese tecnologiche israeliane.
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(SiliconWadi, 9 febbraio 2016)


Siamo contro l'Ue che abbraccia l'Iran ed è ostile a Israele

La stanza di Gian Galeazzo Biazzi Vergani
    Egregio Biazzi Vergani, come possiamo esultare per il recente accordo sul nucleare raggiunto con l'Iran che da decenni persegue il «sogno» islamico di cancellare Israele dalla faccia della Terra? Che è sponsor di organizzazioni terroristiche quali Hamas e Hezbollah; che considera gli abusi commessi in seno alla famiglia, ai danni di donne e bambini, come «affari privati»; dove le donne non hanno alcun diritto genitoriale e non possono dare la cittadinanza ai propri figli; dove alcuni imam professano l'idea che fare sesso con la propria figlia di almeno nove anni è lecito; dove è illegale il possesso di cani come animali domestici perché considerati esseri impuri? Invece, l'Ue si è attivata per boicottare i prodotti israeliani, cioè da uno Stato esempio di democrazia. Pur essendo di fede cristiana, ci sentiamo israeliani al 101 per cento.
    Susanna Boscaro e Sergio Celin
    Padova
Cari Boscaro e Celin, gli americani sono contenti dell'accordo con l'Iran perché sperano che possa contribuire a normalizzare la situazione politica della zona. Voi, invece, siete fortemente contrari per le ragioni che elencate. Fra queste, la più preoccupante è quella che riguarda il futuro di Israele, tanto più che questa minaccia perenne coincide con un'ondata anti israeliana che pervade l'Europa. Al punto che l'Ue sta boicottando i prodotti israeliani. Questa situazione preoccupa perché mi ricorda, almeno in parte, le atrocità che abbiamo vissuto in Europa, Italia compresa, all'epoca dell'ultima guerra. In quei tempi avevo un compagno di scuola ebreo che non aveva nessuna colpa dei provvedimenti decisi contro di lui. Un giorno suo padre, un avvocato, mi disse: «Io ho combattuto con l'Italia nella guerra del '15-18; allora ero considerato un bravo italiano. Mi sai spiegare perché ora sono diventato un cattivo italiano?». Naturalmente non seppi spiegare. Così come ora non mi so orientare nei confronti di questa nuova ondata di ostilità nei confronti di Israele.

(il Giornale, 9 febbraio 2016)


Scienza e diplomazia, il sistema Israele: la start up nation

Intervista a Stefano Boccaletti, addetto scientifico a Tel Aviv

ROMA - Da qualche anno Israele si è imposta sulla scena mondiale dell'innovazione come la nuova Start Up Nation, il Paese paradiso dell'alta tecnologia a cui guardano gli startupper di tutto il mondo. In occasione dell'ultima riunione degli addetti scientifici alla Farnesina, Askanews ha chiesto a Stefano Boccaletti, dal 2013 addetto scientifico presso l'ambasciata d'Italia a Tel Aviv, di spiegare le ragioni di questo primato.
   ''Negli ultimi anni - ha detto Boccaletti - Israele ha messo insieme un sistema integrato di collaborazione attiva fra Università e innovazione che fa sì che oggi ogni Università o Ente di ricerca abbia associato un parco tecnologico avanzatissimo che ospita direttamente le start up companies, i piccoli laboratori di sviluppo delle idee dei ricercatori di quell'Università. E' un sistema misto, che vede una partecipazione del pubblico e soprattutto una forte partecipazione del privato, con fondi d'investimento che permettono lo sviluppo di questi parchi tecnologici. Un sistema che è stato testato negli ultimi 30 anni e noi adesso vediamo il frutto finale di questo processo trentennale e che porta Israele ad essere chiamata la Start Up Nation, un Paese in cui c'è il numero di start up per abitante più alto al mondo proprio grazie a queste facilitazioni, che fanno sì che dalla ricerca di base si passi quasi sempre alle applicazioni industriali, ai brevetti che poi vengono venduti alle grandi multinazionali o sviluppati ulteriormente in loco''.
   Numerosi i terreni di cooperazione scientifica con l'Italia: ''C'è un accordo tra i due Governi molto visionario stipulato nel 2000, che negli anni si è accresciuto quanto a dotazione di fondi e oggi può contare su circa 3 mln di euro all'anno, e che si è articolato su 6 diversi strumenti di cooperazione. Poi abbiamo un fitto calendario di attività internazionali, 12 conferenze all'anno per 160 esperti che vengono dall'Italia in Israele per discutere su tutti i settori della ricerca. Sempre ogni anno abbiamo un bando per la collaborazione industriale, che permette il finanziamento di 6/7 progetti congiunti di collaborazione fra imprese italiane e il sistema d'innovazione israeliano. Poi ogni anno c'è anche un bando di collaborazione accademica che finanzia 8/9 progetti fra Università italiane e israeliane. Abbiamo sistemi di sostegno per borse di studio che hanno permesso di creare una comunità di studenti italiani di circa 100 ragazzi che lavorano nelle 7 Università israeliane, che sono i nostri 'occhi' nei laboratori più importanti del Paese e infine abbiamo anche un nuovo strumento che è stato lanciato quest'anno: il Premio binazionale Rita Levi Montalcini che consente l'interscambio di 'scholars', cioè di periodi sabbatici di gruppi di ricercatori dei due Paesi che si cambiano le esperienze. Quindi la collaborazione - ha concluso - è molto florida e si sviluppa praticamente in ogni ambito''.

(askanews, 9 febbraio 2016)


"Io sono Shylock", dice Jacobson, scrittore ebreo che non censura il Bardo

Le accuse di antisemitismo a Shakespeare e la statua di Rhodes

di Antonio Gurrado

Volete Shylock, vero?". Quando la Hogarth Press lo aveva scritturato per un progetto editoriale di riscrittura di classici shakespeariani da parte di affermati romanzieri, Howard Jacobson aveva scelto "Amleto", ma la tragedia del principe era finita in mani altrui; e "Macbeth" a Jo Nesbo, "Otello" a Tracy Chevalier, "La tempesta" a Margaret Atwood, "Il racconto d'inverno" a Jeanette Winterson. Da lui, il più affermato romanziere ebreo britannico, volevano proprio "Il mercante di Venezia". Adesso che il libro sta per uscire in Inghilterra, la conclamata intelligenza di Jacobson fa sì che il titolo "Shylock is my name" non implichi un'appropriazione indebita alla #jesuishylock, né un'identificazione confusa e piatta né una rivendicazione di ebraicità da parte di un ebreo chiamato a riscrivere un classico dell'antisemitismo che, francamente, ai tempi della scuola non sopportava affatto. Al Telegraph ha dichiarato che quando era uno dei venti alunni ebrei di un liceo non confessionale non detestava "Il mercante" per le contumelie antiebraiche ma perché glielo propinavano come issue drama, uno spettacolo a tema su cui imbastire ricerche sull'antisemitismo.
   Scrivendo "Shylock is my name" Jacobson ha soprattutto voluto evitare di farne un romanzo a tema, persuaso che "una lettura grossolana di qualsiasi opera letteraria sia prerogativa degli ignoranti". Sa che secondo alcuni Shakespeare meglio avrebbe fatto a non scrivere "Il mercante", visto che poi sarebbe diventato un caposaldo della propaganda antisemita e addirittura nazista; su Radio Times però ha ribadito che "l'unica ragione di auspicare che un testo non sia mai stato scritto è che è stato scritto male. Non possiamo criticare un'opera perché la riteniamo offensiva, in quanto l'offesa è soggettiva e ogni lettore differisce quanto a suscettibilità.
   Probabilmente tutte le opere prima o poi hanno offeso qualcuno". Se il pubblico non si capacita di questo principio è perché sceglie deliberatamente di non capacitarsene. Sicuramente "non c'è bisogno di Shakespeare per sminuire l'umanità di quelli che ancora oggi strillano contro gli ebrei". Probabilmente si riferiva a questa storia: nel 2012 il Globe, tempio shakespeariano di Londra, aveva invitato la compagnia nazionale israeliana Habima ad allestire "Il mercante di Venezia" causando l'inevitabile lettera aperta da parte di attivisti pro-palestinesi che esortavano a ritirare l'invito. L'unico nome di grido rimasto impigliato fra i sottoscrittori era quello di Emma Thompson. Jacobson aveva definito la lettera kafkiana e maccartista, specificando che "chiunque si rivolga all'arte con mente pregiudiziale non capisce a cosa serva", e che quindi per un artista firmare una lettera del genere era "non solo tradimento ma anche masochismo".
   La caratteristica dello Shylock di Jacobson - uguale identico all'originale, appare a un ebreo inglese di oggi in un cimitero di Manchester - è voler scrollarsi di dosso l'antisemitismo senza rivendicare un'ebraicità positiva. Imbarcandosi nel lavoro quasi tre anni fa, Jacobson aveva spiegato all'Independent che ai tempi di Shakespeare la Shoah era inimmaginabile e il concetto di antisemitismo nemmeno esisteva; la sfida risiedeva nel riuscire a raccontare la stessa storia con queste nuove consapevolezze, in un'epoca in cui "ogni riferimento implica un fardello ben differente". L'altro giorno, a lavoro ultimato, ha scritto un lungo articolo sul Guardian per spiegare che "molti cinici ritenevano che avrei operato un lavoro di ripulitura rimuovendo da Shakespeare il materiale offensivo, un po' come quelli che disapprovano il colonialista Cecil Rhodes vogliono rimuoverne la statua da Oxford". Invece Shakespeare è teatro, non un trattato, è storia e non militanza, quindi non ha senso vagliarlo sulla scala dei permalosi valori d'oggi: "Chi è irritato da ciò che vi scorge come ostile agli ebrei si colloca, secondo me, dallo stesso versante di chi si gloria della medesima ostilità".

(Il Foglio, 9 febbraio 2016)


Salgono a 300 i prof. anti Israele. "Firmano per opportunismo o ignoranza"

Gabriella Steindler contro gli ex colleghi dell'Orientale di Napoli

di Giulio Meotti

 
Gabriella Steindler
ROMA - Aumentano le adesioni in tutte le università italiane all'appello lanciato da 168 accademici per boicottare le istituzioni israeliane, in particolare il Technion di Haifa, per via del ruolo che, spiegano i firmatari, questo istituto "riveste nel supportare e riprodurre le politiche israeliane di espropriazione e di violenza militare ai danni della popolazione palestinese". I professori e i ricercatori dichiarano che "non accetteremo inviti a visitare istituzioni accademiche israeliane; non parteciperemo a conferenze finanziate, organizzate o sponsorizzate da loro, o comunque non collaboreremo con loro".
   In una settimana il numero di adesioni è salito a trecento. Si sono aggiunti anche molti nomi del Cnr: Manlio Bacco, Emanuela Grifoni, Giovanni Lombardi, Gian Paolo Pazzi, Ornella Terracini e Monica Zoppé. Molti boicottatori di Israele provengono dall'Università Orientale di Napoli. Dove il Centro di studi postcoloniali e di genere ha persino ufficialmente adottato il Bds, il boicottaggio di Israele. "Non mi stupisco che tanti vengano dall'Orientale", dice al Foglio la studiosa Gabriella Steindler, già Fulbright Scholar a Berkeley e che all'Orientale ha insegnato per tanti anni.
   Steindler è stata protagonista di un precedente, terribile caso di propaganda antisraeliana proprio nel cortile della sua facoltà. "Ero all'Orientale, nella sede dove ho l'ufficio a Palazzo Corigliano, sono scesa giù nel cortile ed ho visto 'ricostruito' un check point israeliano con un pupazzo che doveva simboleggiare un soldato israeliano naturalmente, del filo spinato e la bandiera israeliana imbrattata di sangue. Ho telefonato immediatamente al rettore, Pasquale Ciriello, che ha tergiversato. La Comunità ebraica di Roma telefonò alla Digos, che è venuta, ma il rettore non ha autorizzato che procedesse. In breve, la bandiera è rimasta al suo posto".
   Steindler trova allucinante che così tanti accademici abbiano firmato l'ostracismo accademico di Israele. "I miei ex colleghi, prima di votare ciecamente contro Israele, avrebbero dovuto studiare più la storia, le guerre subite e vinte da Israele e come vivono lì gli arabi rispetto al medio oriente", dice Steindler al Foglio. "In Israele ci sono parlamentari arabi e scrittori arabi che scrivono in ebraico. Penso che queste iniziative di boicottaggio siano un misto di opportunismo e ignoranza. Noi italiani, dopo la Prima guerra mondiale, ci prendemmo il Sud Tirolo, dove si parla tedesco. Non lo abbiamo mai dato indietro. A Israele, che non ha mai perso una guerra, chiediamo di fare diversamente. I miei ex colleghi dovrebbero vedere i traguardi che Israele ha raggiunto, compresi i premi Nobel. Non dovrebbero far finta di ignorare che gli ebrei hanno sempre vissuto in quella terra, da Gerusalemme a Safed. Non è vero, come dice Dario Fo, che 'sono arrivati' dalla Luna. E' una terra più piccola della Lombardia, non abbiamo tolto niente a nessuno. Ma forse conviene stare contro Israele? Possibile che ignorino tutto? Non li leggono i giornali? I cristiani vengono massacrati in Siria e Iraq, le loro chiese distrutte, eppure non dicono nulla su questo. Forse cercano visibilità questi professori antisraeliani?".
   La rettrice dell'Orientale, Elda Morlicchio, contattata dal Foglio per avere un commento sui suoi colleghi schierati contro i professori israeliani, ha fatto sapere di "essere all'estero". Speriamo che, ovunque la rettrice si trovi, lì nessun accademico boicotti lo stato degli ebrei.

(Il Foglio, 9 febbraio 2016)


Per i migranti in Israele il soggiorno a Holot ridotto a dodici mesi

Migranti dal Sudan: non siamo un pericolo per la sicurezza

Sara' ridotto da 20 a 12 mesi il soggiorno forzato per i migranti africani nel 'Campo di accoglienza' di Holot, nel Neghev. Lo ha stabilito il governo israeliano, accogliendo in parte le obiezioni mosse dalla Corte Suprema di Gerusalemme. Si tratta - fa notare Haaretz - del quarto emendamento alla 'Legge contro l'infiltrazione' formulato dal governo in seguito alle critiche della Corte Suprema.
In un dibattito in parlamento deputati dell'opposizione hanno pero' espresso insoddisfazione perche' il governo, a loro parere, non ha approntato alcuna misura a favore dei rioni a sud di Tel Aviv, dove e' piu complessa la coabitazione fra i migranti e la popolazione ebraica locale che versa in condizioni di indigenza.
Nel frattempo esponenti dei migranti dal Sudan hanno tenuto a Tel Aviv una conferenza stampa per assicurare che la loro comunita' non rappresenta un pericolo per la sicurezza di Israele. Si riferivano al caso di un loro connazionale, Jamal Hassan, ucciso due giorni fa ad Ashqelon (a sud di Tel Aviv) dopo aver accoltellato e ferito un soldato. Contrariamente a quanto riferito dalla polizia, Hassan ''non ha agito - hanno detto - in solidarieta' con i palestinesi''; egli soffriva piuttosto di problemi psichici, emersi proprio - secondo i portavoce - durante il suo soggiorno forzato a Holot.

(ANSAmed, 9 febbraio 2016)


Israele e il nuovo Medio Oriente. Analisi di Ehud Gol, già Ambasciatore di Israele in Italia

Registrazione video di "Israele e il nuovo Medio Oriente. Analisi di Ehud Gol, già Ambasciatore di Israele in Italia negli anni 2001-2006", registrato a Roma lunedì 8 febbraio 2016 alle 20:58.
L'evento è stato organizzato da Associazione Romana Amici di Israele.
Sono intervenuti: David Meghnagi (chair International Program for Modern Jewish Civilization and Israel Studies Roma Tre University), Ehud Gol (ambasciatore di Israele in Italia dal 2001 al 2006), Riccardo Pacifici (rappresentante Israeli Jewish Congress).
Sono stati discussi i seguenti argomenti: Esteri, Israele, Medio Oriente, Politica.
La registrazione video ha una durata di 1 ora e 13 minuti.
Il contenuto è disponibile anche nella sola versione audio.

(Radio Radicale, 9 febbraio 2016)


Attacchi nei bus israeliani: la nuova strategia di Hamas in un video

Hamas invoca gli attacchi-bomba nei pullman israeliani: la "chiamata alle armi" in un video musicale.

di Giulia Bonaudi

Dicono: "Due stati per due popoli che vivano
l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza"
Hamas cerca il salto di qualità nella cosiddetta "intifada palestinese" e ieri ha lanciato un appello per attacchi suicidi negli autobus israeliani.
Lo ha fatto attraverso un video musicale messo online nel quale elogia i terroristi che uccidono i civili israeliani e chiede di bruciare gli autobus verde/bianco della Egged, principale fornitore di servizi in Israele.
"Morire come martire di Al-Aqsa dà all'ordigno esplosivo ancora più forza" dice la canzone diffusa dal canale ufficiale di Hamas, Al-Aqsa TV. "L'intifada non è intifada se il tetto dell'autobus non vola via" continua la canzone. Il video continua mostrando un terrorista che si prepara a un attacco suicida in un autobus israeliano pieno di civili.
Da diversi mesi Hamas incita i giovani palestinesi ad aumentare il livello della violenza contro i civili israeliani. Di recente, i portavoce di Hamas hanno richiesto apertamente una ripresa degli attacchi suicidi contro Israele.

(il Giornale, 8 febbraio 2016)


Ricerca e Sviluppo nelle università israeliane

Come nelle università di tutto il mondo, lo sviluppo delle conoscenze scientifiche è l'obiettivo principale dei ricercatori nelle università israeliane. Libri e articoli redatti da israeliani, che comprendono tutti i campi scientifici, sono una espressione primaria della produzione del settore universitario.
Israele pubblica una percentuale sproporzionata (circa l'1 per cento) delle pubblicazioni scientifiche mondiali, e in molti campi, come la chimica e scienze informatiche, hanno un particolare impatto sulla comunità scientifica di tutto il globo.
Come emerge da un articolo presente sul portale web dell'Israel Ministry Of Foregn Affais, in rapporto alle dimensioni della sua forza lavoro, Israele ha un numero maggiore di pubblicazioni nei settori come scienze naturali, ingegneria, agricoltura e medicina.
Per integrare la scienza israeliana nella comunità scientifica internazionale, la ricerca post-dottorato, nonché la partecipazione a congressi scientifici stranieri viene incoraggiata con una vasta gamma di programmi di scambio e progetti comuni. Israele è anche un importante centro di conferenze scientifiche internazionali, che ogni anno ospita molti di questi incontri.
In concomitanza con le attività di ricerca scientifica, le università continuano a svolgere un ruolo importante e innovativo nel progresso tecnologico di Israele. Il Weizmann Institute è stato tra i primi al mondo a creare un'organizzazione per l'utilizzo commerciale della sua ricerca; oggi, esistono organizzazioni simili in tutte le università israeliane.
Le università hanno anche istituito attività industriali di spin-off per la commercializzazione di prodotti specifici sulla base della loro ricerca, spesso in collaborazione con le aziende locali e straniere.

(SiliconWadi, 8 febbraio 2016)


Quei miasmi antisemiti nel boicottaggio di Israele

di Plerluigi Battlsta

E così, secondo un sondaggio del Journal de Dimanche, il 60% dei francesi, interpellati tra il luglio del 2014 e il giugno 2015, crede che la crescita spaventosa dell'antisemitismo in Francia e in Europa sia colpa degli stessi ebrei. Se la sono andata a cercare, e del resto anche con Hitler si diceva che certo, se gli ebrei suscitavano tanto odio, qualche colpa dovevano pur averla. Se la sarebbero andata a cercare, i perfidi ebrei che mentre andava avanti il sondaggio sono stati nel frattempo massacrati in un supermercato kosher a Parigi. Se la sono cercata, la fuga che costringe molti di loro ad andare via dall'Europa.
   Ricalcando alla lettera gli stereotipi micidiali dell'odio antiebraico di sempre, dicono che gli ebrei godono di uno strapotere nei media e questo genera risentimento e rancore, che controllano l'economia globale e dunque diventano i responsabili di ogni disagio, che hanno in mano uno Stato prepotente come Israele e dunque non possono lamentarsi se l'immagine delle loro vittime alimenta l'avversione nei confronti degli ebrei padroni del mondo.
   Come sempre avviene nella storia degli stereotipi antisemiti, il 60% dei francesi nel sondaggio commissionato dalla Fondation du judaìsme Français, non coglie la contraddizione tra il presunto strapotere ebraico nel mondo dei media e la corale ostilità che la grande maggioranza dei media coltiva a favore di Israele. Ma non importa. Resta che in una fetta consistente della popolazione francese, colpita dallo jihadismo fondamentalista, gli ebrei messi all'angolo sono colpevoli del loro stesso destino. Sconvolgente, ma non imprevisto.
   In Italia, dove pure i veleni antisemiti sgorgano con meno virulenza della Francia, i risultati di un sondaggio simile non dovrebbero essere tanto diversi. In Italia, a proposito di miasmi antisemiti che si avvolgono di nobili panni antisionisti, un gruppo di professori universitari incita al boicottaggio della cultura israeliana, degli studiosi israeliani, dei testi scientifici israeliani. Accademici che dovrebbero promuovere i valori della cultura e dello studio mettono al bando un'intera cultura, invocano il linciaggio simbolico e l'esclusione dei singoli studenti ebrei, dei singoli professori ebrei, dei singoli libri scritti da autori ebrei. E la cosa non suscita scandalo. Viene vista come uno dei tanti appelli che gli intellettuali sottoscrivono in cerca di un quarto d'ora di celebrità. Se la sono andata a cercare.

(Corriere della Sera, 8 febbraio 2016)


Ospedale israeliano risveglia la speranza per i malati di SLA

 
Una nuova ricerca condotta dall'Hadassah Hospital insieme alla Therapeutics BrainStorm sta destando l'attenzione della comunità scientifica globale.
Fino ad oggi, non ci sono stati metodi collaudati per rallentare la progressione della Sclerosi laterale amiotrofica (SLA), conosciuta anche come morbo di Lou Gehrig.
Tuttavia, l'ospedale sta implementando un metodo sperimentale per il trattamento di 26 pazienti affetti da SLA che utilizza una tecnologia innovativa. La tecnologia comporta la raccolta di cellule staminali dal midollo osseo del paziente per poi trattarle in un successivo processo.
Le cellule vengono ripristinate nel fluido spinale del paziente con una tecnica particolare ma occorre sottolineare che la ricerca sulle cellule staminali e le loro proprietà curative è ancora in fase di studio.
Sottolinea il Dott. Dimitrios Karussis:

In alcuni dei pazienti, la malattia non solo ha smesso di progredire, ma si è evidenziato anche un notevole miglioramento nelle loro funzioni neurologiche. Abbiamo visto un miglioramento nel 90 per cento dei pazienti sottoposto a test. È stato riscontrato anche un miglioramento nelle mani e nella capacità respiratoria. Se anche ulteriori trial clinici dovessero continuare a fornire tali risultati, questa metodologia potrebbe cambiare la vita dei pazienti affetti da SLA.

Il Dott. Karussis sostiene che in caso di successo, l'approccio potrà essere usato anche per trattare la malattia di Alzheimer, la sclerosi multipla e lesioni del midollo spinale.
È ancora troppo presto per affermare con certezza che si è vicini ad una cura per SLA ma questa scoperta ha risvegliato una speranza per i pazienti, cosa che prima non c'era.

(SiliconWadi, 8 febbraio 2016)


Così proviamo a riparlare con l'Ue, ci dice un diplomatico di Israele

Parla Aviv Shir-on, vice degli Affari europei al ministero degli Esteri di Israele, che sta lavorando a un piano per riportare le relazioni tra israeliani e Unione europea di nuovo "back on track". "Ci sono contraddizioni in quello che ascoltiamo dall'Europa e a volte gli israeliani sentono di avere un trattamento che non è equo o decente".

di Daniele Raineri

Aviv Shir-on
GERUSALEMME - Cena a Gerusalemme con Aviv Shir-on, vice degli Affari europei al ministero degli Esteri di Israele, dalla finestra si vede la linea di confine del 1967 tagliare la collina (il ristorante è fuori). Il diplomatico lavora a un piano per riportare le relazioni tra israeliani e Unione europea di nuovo "back on track". Perché, le relazioni con Bruxelles sono ora in un fosso? "Ci dovrebbe essere tra poco una telefonata tra Federica Mogherini, il capo della diplomazia europea, e il primo ministro Benjamin Netanyahu. Ci sono contraddizioni in quello che ascoltiamo dall'Europa e a volte gli israeliani sentono di avere un trattamento che non è equo o decente. Prendiamo la questione del labeling, dell'etichettare in modo diverso i prodotti che arrivano da fuori la linea della tregua nel 1967. L'Europa vuole negoziati diretti tra israeliani e palestinesi, continua a dire di volerli. Ma poi decide in anticipo qual è la linea di demarcazione territoriale". La misura interessa una percentuale inferiore all'1 per cento delle esportazioni israeliane, ma "è la questione di principio. L'Europa ha già deciso la divisione del territorio e poi noi dovremmo negoziare direttamente con i palestinesi? Non sto dicendo che Israele non ha commesso errori o non commette errori, ma ci sono casi in cui il trattamento è unfair. Un altro esempio. La lotta al terrorismo. Israele ha un'esperienza lunghissima in questo campo. Abbiamo una misura di sicurezza che si chiama 'detenzione amministrativa' che consente di far fronte al fenomeno delle cosiddette ticking bomb. Cosa fai quando hai informazioni solide di intelligence sul fatto che ci sarà un attentato e sai chi è coinvolto ma non hai già in tuo possesso le prove che di regola giustificano un arresto e un processo? Noi possiamo detenere per un certo tempo un individuo a rischio. Riceviamo molte critiche per questo, ma in Francia è stato fatto lo stesso dopo l'attentato di Parigi. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza e il Parlamento ha approvato l'estensione e tra i nuovi poteri c'è anche una forma di detenzione preventiva. E di nuovo: ora che c'è questa ondata di attacchi con i coltelli, la polizia israeliana risponde alle aggressioni sparando. Siamo stati criticati, ma cosa è successo in Francia quando un aggressore ha tentato di attaccare un commissariato a Parigi con un coltello? Gli hanno sparato e lo hanno ucciso prima che varcasse la porta".
  Il diplomatico cita, in questo lavoro di preparazione, anche una recente sessione di brain storming a Gerusalemme cui sono stati invitati ex ministri degli Esteri europei, l'olandese Uri Rosemberg e l'italiano Giulio Terzi (ministro del governo Monti tra il novembre 2011 e il marzo 2013). "Il fatto che stiamo facendo questo tipo di lavoro non vuol dire che non abbiamo relazioni ottime con molti singoli paesi europei. Ma quando si ha a che fare con l'insieme riunito a Bruxelles, allora tocca fare i conti con il minimo comune denominatore di tutti i governi, e non con i governi. A volte la sensazione è che non si conosca bene la realtà di qui. Ricordo quando ero ambasciatore in Europa e gli svizzeri presentarono a sorpresa e in pubblico la cosiddetta iniziativa di Ginevra, la proposta di pace tra israeliani e palestinesi, che allora era discussa con molta discrezione e non dai governi. Ero nell'ufficio del ministro degli Esteri svizzero (Micheline Calmy Rey) e chiesi: lei è mai stata a Gerusalemme? Rispose: you have a point, è un'osservazione giusta, non ci sono mai stata. C'è da dire che venne tre volte nel corso dell'anno successivo".
  E sulla lotta allo Stato islamico? "Non si vincono le guerre soltanto dall'aria. Non so chi metterà i boots on the gorund, per ora vedo che sono alleati locali molto coraggiosi come i curdi che combattono a terra, ma soltanto con gli aerei le guerre non si vincono. Sono preoccupato da quello che succede in Siria, perché questa guerra è anche un'occasione per i nemici di Israele, stanno aumentando la loro presenza: gli iraniani, i libanesi di Hezbollah. Israele ha sempre individuato i nemici in anticipo. Ricordo che quando bombardammo il reattore nucleare di Saddam Hussein nel 1981 in Iraq fummo criticati, ma quanti vennero da noi dieci anni dopo, durante la prima guerra del Golfo, a dirci nell'orecchio: 'Grazie, senza di voi oggi avremmo un Saddam con l'arma atomica'. Abbiamo messo in guardia anche su Assad, quando tutti s'illudevano che fosse un riformista arabo, e invece sta ammazzando siriani. Come ha fatto prima suo padre. E' come lui. Ricordo quando ci attaccarono a sorpresa nel 1973, ero carrista sul Golan, arrivavano centinaia di carri armati siriani, noi ne avevamo qualche decina, tenemmo la posizione in condizioni di svantaggio assoluto".

(Il Foglio, 8 febbraio 2016)


Confidenze da una voce ignota

Modiano: sappiamo pochissimo di Françoise Frenkel, questo è il fascino del suo libro.
   

di Patrick Modiano
La copia di Niente su cui posare il capo che, a quanto mi è stato riferito, è riemersa di recente a Nizza da un mercatino di beneficenza della Comunità di Emmaus mi ha provocato una strana impressione. Forse
Il testo qui pubblicato è una sintesi della prefazione scritta da Patrlck Modiano per Il volume di Françoise Frenkel Niente su cui posare il capo, che esce in libre- ria giovedì 11 febbraio per le edizioni Guanda (traduzione di Sergio Levi, Simona Lari, Claudlne Turla, pag. 299, €18)
perché fu stampata in Svizzera nel settembre 1945 da Jeheber, la stessa casa editrice ginevrina, oggi non più attiva, che nel 1942 aveva pubblicato L'aventure vient de la mer, traduzione francese del romanzo Donna a bordo di Daphne du Maurier. Apparso a Londra un anno prima, era uno dei tanti romanzi inglesi o americani messi al bando dalla censura nazista, che nella Parigi dell'occupazione venivano venduti sottobanco o perfino al mercato nero.
Non si sa cosa ne sia stato di Françoise Frenkel dopo la pubblicazione di Niente su cui posare il capo. Nelle ultime pagine del libro l'autrice ci racconta come dall'Alta Savoia abbia attraversato illegalmente il confine svizzero nel 1943. Stando alla nota che appare in basso nella quarta di copertina, avrebbe scritto Niente su cui posare il capo in Svizzera, «in riva al lago dei Quattro Cantoni, fra il 1943 e il 1944».
   Che fine ha fatto Françoise Frenkel dopo la guerra? Finora, le poche informazioni che sono riuscito a raccogliere su di lei sono le seguenti: l'autrice rievoca nel suo racconto la libreria francese che ha fondato a Berlino all'inizio degli anni Venti — l'unica libreria francese presente in città — e che avrebbe gestito fino al 1939. Nel luglio di quell'anno, lascia Berlino in fretta e furia per Parigi. Ma da uno studio di Corine Defrance si apprende che la Frenkel gestiva la libreria insieme al marito, un certo Simon Raichenstein, di cui però nel libro non si dice nulla. Questo marito fantasma avrebbe lasciato Berlino alla fine del 1933 per andare in Francia con un passaporto Nansen. Le autorità francesi gli avrebbero negato una carta d'identità e inviato un avviso di espulsione. Ma lui rimase a Parigi. E partì per Auschwitz da Drancy nel convoglio del 24 luglio 1942. (...)
 
   E' davvero necessario saperne di più? Non credo. A rendere speciale Niente su cui posare il capo è l'impossibilità di identificare la sua autrice in modo preciso. Questa testimonianza della vita di una donna braccata nel Sud della Francia e in Alta Savoia durante il periodo dell'occupazione è ancora più sorprendente in quanto sembra la testimonianza di un'anonima, come lo è stato Una donna a Berlino, anch'esso pubblicato in Svizzera, negli anni Cinquanta.
   Se pensiamo alle prime opere letterarie che abbiamo letto a quattordici anni, anche dei loro autori non sapevamo nulla, si trattasse di Shakespeare o di Stendhal. Ma quella lettura ingenua e diretta ci ha segnati per sempre, come se ogni libro fosse una sorta di meteorite. Oggi, gli scrittori vanno in televisione e ai festival della letteratura, si frappongono di continuo fra le loro opere e i lettori, trasformandosi in commessi viaggiatori. E noi finiamo per rimpiangere i tempi dell'infanzia quando leggevamo Il tesoro della Sierra Madre pubblicato sotto falso nome da un certo B. Traven, un uomo di cui nemmeno gli editori conoscevano la vera identità.
   Preferisco non conoscere il volto di Françoise Frenkel, né le peripezie della sua vita dopo la guerra, né la data della sua morte. Così il suo libro rimarrà per sempre ai miei occhi la lettera di una sconosciuta, rimasta in fermo posta per un'eternità, una di quelle lettere che magari riceviamo per errore, ma che sembravano destinate proprio a noi. La strana impressione che ho provato leggendo Niente su cui posare il capo è la stessa che a volte ci coglie quando sentiamo la voce di una persona di cui non distinguiamo il viso nella penombra raccontarci qualche episodio della sua esistenza. Mi ha ricordato i viaggi notturni della mia giovinezza, non nei vagoni letto, ma negli scompartimenti con posti a sedere, in cui fra i viaggiatori si creava talora un'intimità così forte che qualcuno, sotto la fioca luce da notte, finiva per confidarsi o addirittura per confessarsi. A rafforzare questa improvvisa intimità era la certezza che non ci si sarebbe mai più rivisti. Erano incontri fugaci, di cui custodiamo un ricordo in sospeso, il ricordo di una persona che non ha avuto il tempo di dirci tutto. Lo stesso vale per il libro di Françoise Frenkel, scritto settant'anni fa, ma nella confusione del presente e sull'onda dell'emozione.
   Sono riuscito a scoprire l'indirizzo della libreria di Françoise Frenkel: Passauer strasse 39; fra i quartieri Schöneberg e Charlottenburg. Me li immagino in questa libreria, lei e suo marito, che nel libro non compare mai. Simon Raichenstein aveva il passaporto Nansen degli apolidi perché era uno dei tanti immigrati di origine russa. A Berlino all'inizio degli anni Venti se ne contavano più di centomila. Si erano stabiliti nel quartiere di Charlottenburg, che proprio per questo veniva chiamato «Charlottengrad». Molti di questi russi bianchi parlavano francese e suppongo fossero i principali clienti della libreria dei signori Raichenstein. Sicuramente Vladimir Nabokov, che abitava nel quartiere, avrà varcato almeno una volta la soglia della loro libreria. (...)
   Nelle ultime cinquanta pagine del suo libro, Françoise Frenkel descrive un primo tentativo fallito di varcare il confine con la Svizzera. Viene portata alla gendarmeria di Saint-Julien per comporre con altri «un gruppo miserabile»: «due ragazze in lacrime, un bambino inebetito e una donna sfinita dalla fatica e dal freddo». Il giorno seguente, insieme ad altri fuggiaschi arrestati, viene tradotta in una camionetta alla prigione di Annecy.
   Sono sensibile a queste pagine perché ho trascorso parecchi anni nell'Alta Savoia: Annecy, Thônes, l'altopiano di Glières, Megève, Le Grand Bornand... Il ricordo della guerra e della Resistenza era ancora vivo in quella regione all'epoca della mia infanzia e della mia adolescenza. Impronte digitali. Manette. L'autrice finisce in una sorta di tribunale. Per fortuna viene condannata «al minimo della pena con la condizionale e dichiarata libera». Il giorno dopo viene scarcerata e uscendo di prigione cammina sotto il sole per le strade di Annecy. Il percorso che sceglie a caso mi è familiare. Sente il mormorio di una fontana che sentivo anch'io, nelle silenziose, roventi ore del primo pomeriggio in riva al lago, in fondo alla passeggiata del Pâquier.
   Un nuovo tentativo di varcare illegalmente la frontiera svizzera va a buon fine. Alla stazione degli autobus di Annecy prendevo spesso la corriera per Ginevra. Avevo notato che passava la dogana senza mai subire il benché minimo controllo. Ciò nonostante, avvicinandomi al confine, dalla parte di Saint-Julien-en-Genevois, sentivo sempre una leggera stretta al cuore. Forse aleggiava ancora nell'aria il ricordo di una minaccia.

(Corriere della Sera, 8 febbraio 2016)


Oltremare - Sicurezza

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Non sono un giardiniere né un pasticcere, e forse per questo ci sono due cose che davvero non capisco di questa stagione a Tel Aviv. La prima è la potatura invernale degli alberi fino all'osso. La seconda è l'inaugurazione di un numero esorbitante di pasticcerie, tutte fra l'altro lungo Ivn Gvirol. Non credo che ci sia un legame fra i due fenomeni, a meno che le brioches non producano ossigeno, e sarebbe una bella rivoluzione. Ma credo che anche nella terra che stilla latte e miele, le brioches al burro producano solo calorie e felicità. Quindi l'ossigeno è chiaramente in discesa.
Qualche giorno fa ho guardato con sofferenza fisica i giardinieri del comune azzerare tutti gli alberi rigogliosissimi dall'altro lato della piccola e fu-verdissima strada in cui vivo. Uno di loro deve aver visto la mia espressione, e mi ha detto "eh, erano diventati troppo grandi, erano un pericolo per la sicurezza della scuola" - la scuola, che per anni non ho visto, coperta com'era dal verde di quegli alberi tutti intrecciati, è il palazzo davanti a casa mia, color bianco sporco e piastrellato con piastrelle piccole piccole, che sembra l'interno di un bagno pubblico, ma via questa è Tel Aviv mica Parigi.
Oggi la stessa sorte è toccata a tutto il filare degli alberelli alti meno di due metri piantati da poco lungo Ivn Gvirol, e mentre mi domandavo se anche loro erano pericolosi per qualcuno, ho notato che la concentrazione di pasticcerie in quella zona è diventata pericolosa di certo, almeno per le nostre arterie. Perché se una volta la dieta già non rigorosissima dell'israeliano medio comprendeva le burekas di sfoglia più o meno strabordante di margarina con dentro patate, funghi o formaggi, da anni c'è stato il salto di qualità: dalla burekas alla margarina alle brioches al burro. Grazie ai francesi, veri colonizzatori alimentari, che hanno portato il profumo del pain au chocolat per le strade di Tel Aviv e ora non possiamo più stare senza. L'ossigeno invece, beh, è sopravvalutato.


(moked, 1 febbraio 2016)


Visita a Berna del ministro israeliano della difesa Moshe Ya'alon

Il ministro della difesa israeliano Moshe Ya'alon effettuerà giovedì una visita ufficiale in Svizzera. Sarà ricevuto dal consigliere federale Guy Parmelin con il quale discuterà di relazioni bilaterali e questioni attuali in materia di sicurezza internazionale.
Ya'alon ricambia così la visita del consigliere federale Ueli Maurer in Israele del 2010, precisa un comunicato del Dipartimento federale della difesa (DDPS).
Svizzera e Israele intrattengono da anni un dialogo regolare su temi di politica di sicurezza. Vi sono inoltre contatti puntuali, in primo luogo in relazione ad acquisti di armamenti, precisa ancora la nota.
L'incontro con Guy Parmelin avviene nell'ambito di un viaggio in Europa di Ya'alon.

(swissinfo.ch, 8 febbraio 2016)


La maggior parte dei palestinesi non vuole la "Terza Intifada"

Emerge da un sondaggio condotto dall'Arab World for Research and Development Institute. Il cambiamento di clima è dovuto, secondo l'istituto, alle peggiorate condizioni economiche e di sicurezza.

di Giordano Stabile

Dopo quattro mesi di scontri caratterizzati da "attacchi con i coltelli" la maggior parte dei palestinesi in Cisgiordania è stanca della violenza non appoggia più una "Terza Intifada". E' quanto emerge da un sondaggio condotto dall'Arab World for Research and Development institute (Awrad). A ottobre, un analogo sondaggio aveva mostrato invece una maggioranza favorevole alla insurrezione.

 Condizioni peggiorate
  Il cambiamento di clima è dovuto, secondo l'istituto, alle peggiorate condizioni economiche e di sicurezza, ma anche alla convinzione che un nuova Intifada impedirebbe la nascita di uno Stato palestinese. Una maggioranza ancora più netta si oppone alla dissoluzione dell'Autorità palestinese (Anp, guidata dal presidente Mahmoud Abbas, Abu Mazen).

 Abu Mazen ancora popolare
  Il sondaggio è stato condotto su un campione di 1200 persone nella West Bank e a Gaza fra il 27 e il 28 gennaio. I risultati sono stati pubblicati ieri. Oltre all'opposizione alla nuova Intifada, emerge anche la richiesta, sostenuta dai quattro quinti del campione, di nuove elezioni legislative e presidenziali. In quest'ultimo caso a vincere sarebbe proprio Abu Mazen, che sconfiggerebbe l'eventuale avversario di Hamas Ismail Haniyeh, anche nel suo feudo di Gaza .

 Direzione sbagliata
  La maggior parte delle persone interpellate, specialmente in Cisgiordania, denuncia il peggioramento delle condizioni di vita, le ridotte opportunità di investimento, la perdita di reddito e posti di lavoro. La maggior parte pensa che la Palestina sia andando nella "direzione sbagliata". Ma la metà resta comunque "ottimista" per il futuro.

(La Stampa, 7 febbraio 2016)


Israele: una legge contro i deputati che vanno a trovare i terroristi

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha raggiunto un accordo con i capi della coalizione di governo su una legge che consenta alla Knesset di sospendere quei deputati che si siano macchiati di comportamento disdicevole.
L'iniziativa - concordata secondo i media questa mattina - segue la reprimenda che Netanyahu ha riversato su alcuni deputati della Lista Araba Unita per aver incontrato 10 famiglie di "terroristi palestinesi", tra cui anche quella di uno che ha ucciso tre israeliani.
"I membri della Knesset andati a confortare le famiglie dei terroristi che hanno ucciso israeliani non dovrebbero stare - ha detto pochi giorni fa Netanyahu - nel Parlamento israeliano".

(swissinfo.ch, 7 febbraio 2016)


I lupi solitari lasciano ora cadere la maschera e puntano a un nuovo terrorismo del branco

L'attentato alla Porta di Damasco, a Gerusalemme, in cui è stata uccisa la giovane agente di polizia Hadar Cohen
Hadar Cohen
ha posto diversi interrogativi alle autorità israeliane. Non era mai accaduto in questi mesi, dall'inizio della cosiddetta intifada dei coltelli (esplosa in ottobre), che tre terroristi palestinesi colpissero insieme, armati di fucili, coltelli ed esplosivo. "Siamo di fronte a un escalation rispetto a quanto accadeva in passato - ha dichiarato il vicecapo della polizia di Gerusalemme Avshalom Peled - Gli agenti di polizia hanno sventato un attacco combinato molto più grande rispetto al passato". L'intenzione dei terroristi, morti nello scontro a fuoco con le forze di sicurezza israeliane, era di portare un attacco su larga scala, affermano le autorità, e solo l'intervento della polizia di frontiera ha evitato che i tre riuscissero nel loro intento. Nessuno di loro, a quanto risulta, era direttamente affiliato a organizzazioni terroristiche, il che rispecchia l'identikit degli attentatori palestinesi che hanno colpito in questi mesi di violenza. Diversa però la modalità di azione, sottolinea Amos Harel su Haaretz: nel caso della Porta di Damasco, l'attentato ha richiesto un piano ben preciso. Non si è trattato di un'aggressione con il coltello da cucina ma di un progetto studiato e che richiedeva una certa preparazione. I tre, provenienti dal nord della Cisgiordania, sono riusciti a evadere i controlli e passare oltre confine armati, arrivando fino a Gerusalemme. Lo Shin Bet sta indagando per capire quale sia stata la falla nella sicurezza, scandagliando in particolare l'area di Qabatiya, nel nord della West Bank, da dove provenivano due dei tre terroristi che hanno ucciso la diciannovenne Hadar Cohen.
  "L'attacco bloccato dagli agenti di polizia e della guardia di frontiera, così come altri attacchi verificatisi nei giorni scorsi sono stati fatti con armi da fuoco e riflettono una transizione naturale della terza intifada", scrive su Yedioth Ahronoth Ron Ben-Yishai, secondo cui l'attentato della Porta di Damasco potrebbe aprire il via alla costruzione di reti di gruppi armati locali palestinesi, al di fuori delle organizzazioni terroristiche tradizionali. La transizione a questa nuova fase, scrive Ben-Yishai, è dimostrata dall'esperienza storica: finché la guerriglia e il terrorismo hanno motivazioni forti, spiega l'analista, continueranno a cercare il modo più efficace per colpire il proprio nemico, senza badare al prezzo da pagare per farlo. Diversi opinionisti israeliani, infatti, sottolineano come l'intifada dei coltelli abbia una componente simile agli attentati suicidi, perché gli attentatori sono consapevoli che attaccando civili e soldati israeliani saranno con ogni probabilità uccisi. Questa idea distorta di martirio - come dimostrano proprio le violenze iniziate a ottobre - ha preso sempre più piede, trovando il desiderio di emulazione nelle fasce più giovani della società palestinese. Il problema posto da Ben-Yishai è che queste emulazioni si allarghino e riprendano lo schema dell'attentato della Porta di Damasco: le autorità israeliane in questo caso si troveranno di fronte non più a lupi solitari ma "branchi" sempre più organizzati di terroristi, con tutte le conseguenze che questo comporta sul fronte della sicurezza.

(moked, 7 febbraio 2016)


«L'antisemitismo va studiato all'università»

Intervista a Manuela Consonni, Direttrice del Vidal Sassoon a Gerusalemme

 
Manuela Consonni
- Professoressa Consonni, lei è la nuova direttrice del Centro Internazionale Vidal Sassoon per lo Studio dell'Antisemitismo alla Hebrew University di Gerusalemme. In cosa consiste il suo incarico?
 «II mio obiettivo è riportare lo studio dell'antisemitismo all'interno dell'università ebraica, con studenti di Master e di dottorato. Il mio predecessore Robert Wistrich era soprattutto proiettato verso l'esterno, ma credo sia importante, in questo momento, concentrarsi sullo studio e l'analisi dell'antisemitismo in cui la delegittimazione dello Stato d'Israele svolge ancora un ruolo importante, ma non l'unico».

- Il premio Nobel Elie Wiesel disse nel '45 che dopo Auschwitz non ci sarebbe più stato antisemitismo, ma ha dovuto ricredersi. Come mai?
 
«Purtroppo il pregiudizio antiebraico continua a essere molto forte. Credo che sia un fenomeno mai sopito in quanto è legato ai modelli di inclusione ed esclusione della società. L'antisemitismo è una malattia del corpo sociale: in Giappone, dove non ci sono mai stati ebrei, c'è un pregiudizio antiebraico nutrito dagli stessi topoi dell'antisemitismo storico».

- Lei cosa cerca di insegnare?
 
«La storia del pregiudizio dell'antisemitismo nei secoli, mi trovo in grande accordo con l'approccio di David Niremberg della Chicago University nel suo libro Antijudaism and the Western Tradition. Non a caso lui usa il termine "antìgiudaismo" perché sostiene che anche nella società secolarizzata moderna esistano pregiudizi teologici».

- Oggi le cose sono cambiate. Tre pontefici diversi si sono recati in visita alla sinagoga di Roma. Da Giovanni XXIII in poi il pregiudizio liturgico è stato abolito?
 
«Malgrado il fatto che gli ebrei siano integrati nelle società in cui vivono questo non cancella l'insorgere del pregiudizio antiebraico nei momenti di tensione, di conflitto o di crisi come quelle che stiamo vivendo oggi».

- La sua definizione di razzismo qual è?
  «Attribuire delle caratteristiche individuali a un intero gruppo umano».

- Essere anti israeliano spesso è confuso con l'essere antisemita?
 
«Sì, da entrambe le parti però. Ci sono critiche che ripetono le forme e le modalità del pregiudizio. Ad esempio l'idea che esista una lobby ebraica mondiale che influenza il governo Usa perché non obblighi Israele alla pace, è costruita su un classico pregiudizio verso gli ebrei. Nessuno pensa agli interessi politici americani ad avere un Medio Oriente diviso, per esempio. Questo non aiuta il dialogo dentro Israele, tra ebrei e arabi. Le critiche verso i governi sono sempre legittime, verso il governo israeliano c'è una critica in più, con aspetti che esulano dal conflitto e investono soprattutto gli ebrei. Da parte sua il governo israeliano legge tutte le critiche in chiave di antisemitismo, anche quando non è così».

- Come si fa a separare la critica alla politica israeliana dall'antisemitismo storico?
 
«Se si arrivasse alla pace questa tendenza sarebbe depotenziata».

- Quali sono i rapporti tra gli israeliani e gli ebrei della diaspora?
 
«C'è una sovrapposizione tra essere ebreo e israeliano che esiste fin dalla nascita dello Stato di Israele nel' 48».

- Gli ebrei europei e americani si sentono israeliani?
 
«Sì e no, certo vengono chiamati in causa e devono sempre esprimere un'opinione sulla politica israeliana. Mentre non si chiede per forza a un italiano che vive all'estero cosa pensa del governo italiano. Per gli ebrei è diverso. È di questa diversità che parlo».

- Le persecuzioni avvenute sotto il fascismo, il nazismo, lo stalinismo oggi non potrebbero più avvenire?
 
«Questo tipo di antisemitismo non si ripropone per il momento. Non credo alla possibilità di un nuovo sterminio proprio perché la memoria della Shoah è ancora troppo vicina. Per fortuna l'Occidente è molto attento a commemorare lo sterminio degli ebrei. Anche se in questa ipertrofia di memoria, eccessiva, ci sono insidie e pericoli».

- Dove è presente l'antisemitismo oggi?
 
«Una domanda difficile, complessa. Penso al fenomeno del boicottaggio accademico, ad esempio, dove la critica legittima verso la politica del governo israeliano è contaminata da derive pericolose al cui interno funzionano elementi del pregiudizio antiebraico. Il Bds (Boycott Disenvestement and Sanctions), nato nel mondo anglosassone, è un fenomeno da non sottovalutare e di cui oggi si parla troppo poco. Molti professori si rifiutano di venire a convegni delle università israeliane perché il Bds sostiene la loro correità con l'oppressione dei palestinesi, perché sono finanziate in parte da soldi governativi. La partecipazione in attività accademiche congiunte "normalizzerebbe" l'occupazione».

- Come sono i rapporti con l'Italia? Oggi 170 studiosi di varie università hanno firmato una petizione contro il Technion.
 
«È un vero peccato, perché fino ad oggi l'accademia italiana non si era mai espressa in questo modo».

- In Israele vi sentite a disagio?
 
«L'accademia israeliana si sente un po' isolata e a disagio. Il boicottaggio economico è meno forte, il boicottaggio accademico è diventato uno strumento politico per obbligare il governo a fare la pace. Invece il governo va avanti nella sua politica e vede nel boicottaggio un figlio del pregiudizio contro gli ebrei. Mentre viene penalizzata l'intellighenzia democratica liberale del paese e Israele viene lasciata in balia degli estremismi».

(La Stampa, 7 febbraio 2016)



Monte Sion e Monte Mario

A chi gli faceva notare che "gli ebrei non credono in Cristo" un ebreo messianico ha risposto: "Ma perché, gli italiani credono in Cristo?"Analogamente, a chi facesse notare che lo Stato d'Israele non riconosce in Gesù il suo Messia si potrebbe rispondere: "Ma perché, lo Stato italiano ha riconosciuto in Gesù il Messia d'Israele?" Che differenza c'è, su questo punto, tra Israele e Italia, tra ebrei e italiani? Esiste forse una nazione al mondo che, in quanto tale, dichiara istituzionalmente di riconoscere Gesù come sovrano e di volersi riferire a Lui per ogni aspetto del suo governo? No, verrebbe subito fatto di rispondere, e invece bisogna fermarsi e modificare la risposta: una nazione che dichiara una cosa di questo genere esiste: lo Stato del Vaticano. I paramenti da imperatore medievale con cui va in giro il Papa non sono folclore, ma segni di regalità. Vogliono dire al mondo che la sovranità politica di Dio si è già manifestata visibilmente sulla terra ed è presente nello Stato del Vaticano, il quale attende, con pazienza e costanza, il giorno in cui tutto il mondo lo capirà, a cominciare da quei testardi di ebrei che se non sono più "perfidi" come prima restano comunque un bel fastidio. Perché se il regno messianico sulla terra ha localizzato il suo centro a Roma, ai piedi del monte Mario, che senso ha tutto l'interesse degli ebrei per Gerusalemme e il monte Sion? Chi crede questo, resti pure o diventi cattolico, ma sappia che si colloca in una posizione oggettivamente antiebraica, quali che siano i suoi sentimenti di personale simpatia per gli ebrei.


 


Mosca e Riad alla disfida di Aleppo

di Maurizio Molinari.

A cinque anni dall'inizio della guerra civile siriana la massiccia offensiva militare russa contro Aleppo e la disponibilità saudita ad inviare truppe di terra cambiano lo scenario del conflitto. I jet del Cremlino hanno compiuto negli ultimi sette giorni almeno 800 raid dentro e attorno alla più grande città siriana di cui il regime di Bashar Assad vuole ottenere il completo controllo per infliggere ai ribelli una sconfitta tale da cambiare le sorti del confronto bellico.
   Mohammed bin Salman, ministro della Difesa di Riad e figlio del re saudita, ha dato la disponibilità ad inviare in Siria contro Assad contingenti di truppe di terra - seguito da Bahrein ed Emirati Arabi Uniti - prospettando un intervento pansunnita modellato su quanto realizzato in Yemen contro ribelli filo-iraniani e gruppi jihadisti. Mosca e Riad si confermano in questo modo nel ruolo di leader delle opposte coalizioni in lotta per decidere il controllo di Aleppo, le sorti della Siria e gli assetti del futuro Medio Oriente.
   Dietro Vladimir Putin vi sono l'Iran, il regime di Assad, l'Iraq e una legione straniera di miliziani sciiti coordinata dalla Forza al Qods mentre re Salman guida una coalizione di almeno 30 nazioni sunnite. In comune hanno l'avversione per il Califfato jihadista di Abu Bakr al-Baghdadi, che si rimproverano l'un l'altro di appoggiare.
   La novità è nel cambiamento che matura a Washington sul duello fra russi e sauditi. Questa settimana a Bruxelles il capo del Pentagono, Ashton Carter, vedrà Mohammed bin Salman per discutere le modalità di un possibile intervento saudita in Siria nell'ambito della coalizione occidentale. Fra le ipotesi c'è l'accesso di contingenti arabi dalla Turchia - Paese Nato nonché alleato dei sauditi - per proteggere le decine di migliaia di civili in fuga da Aleppo in fiamme.
   A confermarlo c'è la reazione di Walid al-Muallem, ministro degli Esteri siriano fedelissimo di Assad, che avverte i Paesi sunniti: «I soldati stranieri che entreranno nel nostro Paese lo lasceranno dentro le bare». Jeffrey James e Sooner Cagaptay, analisti del «Washington Institute», descrivono quanto sta avvenendo come una conseguenza del «risveglio» dell'amministrazione Obama, paragonabile alla decisione che portò il presidente americano Bill Clinton ad intervenire nelle guerre balcaniche a metà degli Anni Novanta per porre termine tanto a crimini di massa quanto ad un pericoloso domino di instabilità regionale. Sarà l'esito della missione europea di Carter a dare il polso di quanto avverrà con gli sceicchi del Golfo ma l'interesse del presidente Barack Obama è invertire una dinamica mediorientale che al momento premia i suoi avversari: i jihadisti dello Stato Islamico sul piano tattico e il Cremlino su quello strategico.
   La maggiore debolezza della coalizione occidentale in Siria è venuta finora dalla mancanza di valide truppe di terra alleate. In più occasioni i leader di Washington, Londra e Parigi hanno auspicato l'impegno di contingenti convenzionali arabi, per sostenerli dall'aria. La disponibilità di re Salman e degli altri sceicchi a fornirli apre dunque un nuovo scenario. Anche perché c'è una coincidenza di interpretazione fra Washington, Ankara, Riad e Abu Dhabi sui motivi della sospensione dei negoziati di Ginevra per la transizione in Siria: attribuita all'offensiva aero-terrestre russo-siriana per impossessarsi di Aleppo.

(La Stampa, 7 febbraio 2016)


Prima iniziativa dell'Associazione Italia-Israele di Firenze

Riceviamo da Valentino Baldacci.

Mi fa piacere informarvi che l'Associazione Italia-Israele di Firenze - che si è ricostituta lo scorso 12 gennnaio - ha organizzato ieri 5 febbraio la sua prima iniziativa, la presentazione del libro di Fiamma Nirenstein "Il Califfo e l'Ayatollah". Di seguito il post che ho inserito nel mio profilo FB per dare conto dell'evento.
"Come avevo scritto in un post di ieri, a Firenze la ricostituita Associazione Italia-Israele ha ripreso la sua attività. Come molti hanno detto, non ci poteva essere inizio migliore: presso la Fondazione Spadolini Nuova Antologia abbiamo presentato il libro di Fiamma Nirenstein "Il Califfo e l'Ayatollah". E' stata una presentazione tutt'altro che formale, è stato un pomeriggio denso per le analisi e le riflessioni che il libro di Fiamma ha provocato. Merito della stessa Fiamma, soprattutto, che è intervenuta più volte ed ha concluso la discussione. Ma merito anche degli amici che hanno discusso con lei: Franco Camarlinghi, che ha stimolato tutti con le sue acute osservazioni; Leonardo Tirabassi e Edoardo Tabasso. E' intervenuto anche Adam Smulevich, il giornalista che qualche giorno fa ha messo in difficoltà il primo ministro iraniano Rohani con la sua domanda sui diritti civili. Sono orgoglioso di poter dire che Adam fa parte della nostra associazione fiorentina. Anch'io ho cercato di dare un contributo, ricordando le figure di alcuni illustri fiorentini che - come Fiamma - hanno contribuito allo sviluppo dello Stato d'Israele. Ed è proprio sul ruolo insostituibile dello Stato d'Israele come baluardo contro la barbarie islamista che si è conclusa la serata".

(Notizie su Israele, 6 febbraio 2016)


Iran - Come si uccidevano gli oppositori in Italia

di Dimitri Buffa

Mohammad Hossein Naghdi, geologo, contestatore dell'assolutismo dello Shah, quando cadde il regno di Palevi divenne diplomatico accreditato presso la Santa Sede; si dimise dall'incarico quando passò nelle file della resistenza iraniana che si opponeva al regime teocratico instaurato dagli ayatollah; venne assassinato a Roma da sicari del governo iraniano. Questa lapide si trova in piazza Elba, a Roma.
Erano le nove di mattino del 16 marzo 1993, quindici anni dopo la strage di via Fani, quando l'oppositore politico del regime degli Ayatollah iraniani, Mohammad Hossein Naghdi, viene assassinato a Roma in via delle Egadi, a pochi passi dal suo posto di lavoro politico, la sede della resistenza iraniana in Italia.
   A poche settimane da questo triste anniversario, ed a 23 anni di distanza, la giustizia penale italiana non è riuscita a dare un volto e un nome ai sicari che stroncarono la giovane vita dell'ex oppositore di Khomeini. Ma nelle due sentenze scritte nel 2006 e nel 2008, di primo grado e di appello, almeno si capisce la catena di comando dei mandanti. Che inizia proprio con una fatwa di Khomeini stesso nei primi anni Ottanta, poi ribadita dal suo successore Khamenei nei primi anni Novanta.
   In mezzo alla catena di comando e prima degli attualmente ignoti esecutori, tutto lo staff diplomatico in Italia dell'epoca, a cominciare dall'ex ambasciatore Hamid Abutalebi, oggi capo di gabinetto del leader del presunto nuovo corso di Teheran, Hassan Rohuani. Per l'accusa dell'epoca "l'omicidio di Naghdi deve considerarsi un delitto politico deciso in ambienti governativi iraniani nel quadro di un generale progetto di disarticolazione della resistenza all'estero".
   A parlare del calvario del marito la signora Ferminia Moroni, che rievoca in dibattimento l'angoscia del marito a cominciare da quando, da comunista, appoggiò la rivoluzione di Khomeini da cui poi in seguito venne emarginato prima di essere eliminato. Una storia simile a quella del nonno della fumettista Marjane Satrapi se ci si pensa. Ancora due giorni prima del delitto, il 13 marzo del 1993 moglie e marito incontrano "per caso" altri due barbuti simil-hezbollah a via del Boschetto e costoro apostrofano il malcapitato promettendogli quella morte che avverrà il 16 marzo a via delle Egadi. Naghdi morirà crivellato dai colpi di uno Skorpion. Proprio come Aldo Moro.
   "Gia nel 1982, quando un gruppo di hezbollah l'aveva sequestrato in ambasciata, Naghdi aveva intuito che il distacco dal regime e la conseguente azione politica lo avrebbero colpito", dice la sentenza di primo grado. Nel 1982, subito dopo la decisione di abbandonare il posto all'ambasciata a Roma, il dissidente viene in effetti affrontato da un energumeno (alla fermata dell'autobus) che gli dice che lo avrebbe strangolato con le proprie mani. L'uomo era di chiare fattezze persiane, riferirà poi agli inquirenti la moglie di Naghdi. E la frase è sinistramente simile a quella che l'ex ambasciatore a Roma ed attuale capo di gabinetto di Rohuani avrebbe proferito secondo il racconto di una sorta di pentito della rete dei killer iraniani, tale Abolghasen Mesbahi, arrestato in Germania dopo l'attentato al ristorante Mykonos a Vienna del 13 luglio del 1989. Il sospetto è che avesse partecipato alla strage di iraniani del partito curdo riuniti lì per un summit apparentemente riconciliatorio con emissari del regime di Khamenei e fatti fuori da sicari con il mitra dopo il pasto come in un'imboscata mafiosa. Mesbahi inizia a parlare due anni dopo la morte di Naghdi, cioè nel 1995, e racconta che Abutalebi gli avrebbe personalmente detto di volere uccidere Naghdi con le proprie mani "perché lo conosceva personalmente". Abutalebi proveniva dai famigerati pasdaran della rivoluzione.
   Il problema del processo fu tutto sull'individuazione della vera identità di questo Assl Mansur Amir Bozorgian, presunto capo della cellula incaricata di uccidere i dissidenti in Italia, e di stanza all'ambasciata a Roma. Il suo nome venne fatto proprio da Mesbahi. Le varie rogatorie con cui la polizia tedesca interrogò Mesbahi alla fine si rivelarono però contraddittorie. Soprattutto sulla vera identità dei membri del commando che il pentito sosteneva di avere incontrato raccogliendone le confidenze. E alla fine questo Bozorgian, che neanche si sapeva se si chiamasse davvero così, fu assolto in primo grado. E in appello addirittura fu prosciolto perché non era sicura neanche l'identificazione.
   Resta il quadro descritto dai giudici di primo e di secondo grado in realtà molto inquietante sulla presenza di killer di Teheran in tutta Europa, a cominciare dall'Italia, e tutti alle dipendenze delle ambasciate locali trasformate in covi spionistici più che in luoghi diplomatici. Oggi quegli uomini che negli anni Ottanta e Novanta uccidevano gli oppositori di Khomeini prima e di Khamenei dopo hanno tutti acquisito meriti agli occhi del moderato premier Rohuani.

(L'Opinione, 6 febbraio 2016)


Iran - Per un ex-prigioniero politico Rouhani è un criminale

 
Hassan Rouhani
rPer incontrare Farzhad Madadzadeh, l'attivista iraniano per i diritti umani di 29 anni fuggito dal suo paese ad Agosto 2015, bisogna prendere grosse precauzioni.
Questo attivista ha passato cinque anni nelle tristemente famose carceri di Tehran e Karaj. "E' stato torturato fisicamente e psicologicamente", scrive un quotidiano francese.
Secondo un articolo pubblicato da molti organi di stampa francesi, come Le Fait de Jour, Farzad ha denunciato "la compiacenza" dei paesi occidentali nei confronti dell'Iran. "Questo è un errore fatale. Incoraggiare l'Iran con benefici economici equivale a dargli il denaro per esportare il terrorismo, continuare la repressione e quindi perpetuare questo regime". Questo ex-prigioniero politico vorrebbe che la Francia condannasse le violazioni dei diritti umani e "condizionasse le relazioni diplomatiche e le sue politiche alla fine della repressione". L'Iran resta, secondo lui, "il padrino del terrorismo ed un fattore destabilizzante in Medio Oriente".
"Il fuoco sotto la cenere", ha detto.
Il fatto che Hassan Rouhani venga definito "un moderato" lo fa sorridere. "Ci sono stati altri moderati, come Khatami, ma Rouhani, un importante esponente del regime da 37 anni, è a conoscenza di tutti i crimini.... Lui è là solo per proteggere il regime, non per servire gli interessi del popolo iraniano".
Farzhad Madadzadeh era in carcere quando Rouhani è stato eletto. "La repressione è aumentata, le donne vengono aggredite con l'acido, la situazione è peggiorata. 2000 persone sono state giustiziate dal suo arrivo. Ogni otto ore una persona viene uccisa in Iran per le sue opinioni politiche o religiose".
Il riavvicinamento all'Occidente e la "normalizzazione delle relazioni", non hanno spazzato via le sue speranze. Ultimamente ci sono state molte manifestazione nel paese. "I giovani sono vigili e vogliono la libertà. C'è fuoco sotto la cenere. Questo è il momento migliore per fare pressione sul regime".

(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 6 febbraio 2016)


La cucina Kosher approda al Carnevale della Serenissima

VENEZIA - La cucina kasher o kosher, della tradizione ebraica, esce dal Ghetto e si coniuga con il Carnevale di Venezia per dare l'occasione a tutti di apprezzarne la qualità e le caratteristiche. Fino al 9 febbraio in Campo San Geremia, AepeE20, società di organizzazione eventi dell'Associazione Esercenti, propone "Il campo dei sapori e delle tradizioni", all'interno del quale sarà presente uno stand gastronomico curato da Ghimel Garden, ristorante di cucina kosher di Campo del Ghetto nuovo, che servirà assaggi e prelibatezze dolci e salate, tipiche della tradizione ebraica veneziana, accompagnate dal Caffè Hausbrandt e una speciale birra Theresianer che hanno meritato la severa certificazione Kosher. L'iniziativa rientra nel Progetto triennale Venice beyond the Ghetto, Oltre il Ghetto, oltre i ghetti presentato in maniera più ampia nel sito web www.venicebeyondtheghetto.com e nell'omonima pagina Facebook. Nel 2016 il Ghetto di Venezia compie 500 anni.

(Venezia-Mestre, 6 febbraio 2016)


Viterbo - Piero Terracina racconta la Shoa

Lo sterminio ricostruito da uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz davanti a centinaia di studenti

VITERBO - Centinaia di studenti ricordano la Shoah assieme a Piero Terracina, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz.
Ad organizzare l'incontro di ieri mattina al complesso universitario di San Carlo a Viterbo, il Dipartimento di studi storico-filosofici (Distu) dell'Università degli Studi della Tuscia.
Con Piero Terracina, la prorettrice Anna Maria Fausto, il direttore del Distu Giulio Vesperini, il professore di storia contemporanea Leonardo Rapone e la studiosa della Shoah Elisa Guida.
Distu che lo scorso anno fece richiesta delle "Pietre d'inciampo" posate poi ai piedi della casa a Porta della Verità di tre ebrei viterbesi deportati nei campi: Vittorio Emanuele Anticoli, Bruno Di Porto e Letizia Anticoli.
Terracina racconta la deportazione agli studenti dell'Università e degli istituti superiori viterbesi attraverso i suoi ricordi e la sua testimonianza diretta di uno sterminio che costò la vita a 11 milioni di persone, sei milioni gli ebrei.
"Siamo stati cacciati, venduti per 5mila lire e deportati - ha detto Terracina - Deportati nei campi di sterminio, luoghi costruiti con criteri scientifici per assassinare le persone. Un inferno dove c'erano i demoni, le SS, i dannati e i caronti che traghettavano migliaia di esseri umani dal mondo dei vivi al mondo dei morti". "Non si moriva solo nei campi - ha poi aggiunto - ma anche durante il percorso per arrivarci, di fame e di sete, con il pianto dei bambini e le invocazioni. E quando si ha sete si perde la ragione, qualcosa di veramente terribile. Nell'indifferenza di tutti, senza che nessuno fece niente di fronte alla tragedia".
Piero Terracina racconta anche del fascismo e degli italiani complici dello sterminio e del nazismo: "Italiani in piazza ad esultare per una dichiarazione di guerra, senza pensare che in guerra si muore".
Racconta infine un episodio che gli è capitato di vivere proprio nel viterbese, a Soriano nel Cimino dove da bambino il medico lo aveva spedito per respirare un po' di aria buona rispetto a quella romana. Ma la famiglia Terracina restò poco a Soriano, cacciata da un comandante dei carabinieri che li costrinse a ritornare nella Capitale perche gli ebrei non potevano stare in luoghi dove insistevano siti militari di importanza strategica. Quel luogo "così importante" era solo il carcere del Castello.

(Tusciaweb, 6 febbraio 2016)


La festa ebraica fa anticipare le elezioni in Friuli Venezia Giulia

Governo intenzionato a spostare la data delle amministrative dal 12 al 5 giugno per rispettare la ricorrenza dello "Shavu'òt". La Regione pronta ad adeguarsi.

di Marco Ballico

TRIESTE - Si chiama "Shavu'òt", termine che significa "settimane", ed è una delle principali feste ebraiche. Appunto la festa delle settimane. Quest'anno cade da sabato 11 a lunedì 13 giugno. E la comunità ebraica, in quei giorni, non gradirebbe per nulla andare a votare per le amministrative. Anzi, più precisamente, non lo potrebbe proprio fare: quando c'è lo Shavu'ot, gli ebrei non lavorano, nemmeno scrivono. Per questo a Roma è in corso un ragionamento che potrebbe portare il Consiglio dei ministri, confermano fonti romane, ad anticipare la data delle elezioni di primavera dal 12 al 5 giugno. In tutta Italia. La Regione Fvg, che ha competenza primaria in materia, si adeguerebbe al volo e così la decisione coinvolgerebbe tutti i comuni chiamati alle urne in primavera, compresa ovviamente Trieste.
  Fu Debora Serracchiani, poco prima di Natale, ad anticipare l'appuntamento del 12 giugno. «Quasi sicuramente», aggiunse prudentemente la presidente della Regione davanti ai militanti e ai simpatizzanti democratici all'incontro "La Trieste del futuro. Idee e proposte sulla giusta rotta", otto tavoli tematici per costruire i programma del secondo mandato di Roberto Cosolini.
  Una data, quel 12 giugno, che interessa le amministrative di tutt'Italia: da Milano a Roma, da Bologna a Napoli, e naturalmente anche Trieste, Monfalcone e Pordenone, i principali dei 42 Comuni del Friuli Venezia Giulia chiamati al rinnovo del Consiglio, di cui 6 con popolazione superiore ai 15mila abitanti e dunque con la possibilità di dover ricorrere al secondo turno.
  Certo Serracchiani non era a conoscenza della concomitanza con la festa ebraica. Ma il Pd, qualche settimana dopo, ne è stato informato. E starebbe per decidere lo spostamento del primo turno e conseguentemente del secondo (che si terrebbe non più il 26, ma il 19 giugno).
  L'indiscrezione è stata confermata dal prefetto Franco Gabrielli al consigliere regionale della Regione Lazio Francesco Storace, candidato a sindaco di Roma. «Ho chiesto a Gabrielli indicazioni sulla data del voto e ha risposto con nettezza il 5 giugno - le parole del leader della Destra -. Hanno discusso anche della settimana successiva e di quella precedente, ma anche a Palazzo Chigi sono orientati su questa data del 5 giugno».
  Ad avanzare la richiesta è stato il presidente della Comunità ebraica Renzo Gattegna. Il 12 giugno, ha fatto sapere alle autorità nazionali, sarebbe di fatto impraticabile. Una tesi confermata anche da Mauro Tabor, assessore alla Cultura della comunità ebraica di Trieste: «Noi, in quel periodo, in particolare il 12 e il 13 che sono giornate di festa solenne, non possiamo creare alcun tipo di lavoro, tanto meno scrivere. Ci sarebbe dunque impossibile partecipare al voto».
  Shavu'òt, informa il sito "Ebraismo & dintorni", commemora l'evento più importante nella storia del popolo, il dono della Torah ("insegnamento") sul monte Sinai ed è il compimento del conteggio dell'Omer delle sette settimane dopo Pesach, la Pasqua ebraica. Poiché Shavu'òt cade 50 giorni dopo il primo giorno di Pasqua, a volte è conosciuto come Pentecoste (ma non c'è alcun collegamento con la festa cristiana).
  La storia da un lato, ma anche i sospetti dall'altro. Non manca infatti chi ritiene che Matteo Renzi possa prendere a pretesto la concomitanza per fissare una data, il 5 giugno, che, in clima di ponte vacanziero, potrebbe determinare un'affluenza bassa, favorevole al Pd. Tesi respinta dai dem, ma che inevitabilmente scatenerà polemiche.
  L'ultima volta alle comunali di Trieste? Si votò il 15 e 16 maggio 2011 e si chiuse con il 56,7% di partecipazione alle urne. Curiosamente quell'anno si votò anche il 12 giugno per i referendum sull'acqua, i servizi pubblici locali, l'energia elettrica nucleare e il legittimo impedimento. Ma Shavu'òt era caduto tra il 7 e il 9 giugno.

(Il Piccolo, 6 febbraio 2016)


Secondo fonti palestinesi c'è Israele dietro il crollo dei tunnel di Gaza

GERUSALEMME - I tunnel sotterranei che Hamas sta scavando nella Striscia di Gaza in vista di nuove ostilità con Israele porteranno ancora morte e distruzione ai cittadini dell'enclave palestinese: lo ha detto il coordinatore delle attività di governo nei Territori (Cogat), il maggiore generale Yoav Mordechai, all'agenzia d'informazione palestinese "Ma'an". L'ufficiale ha dichiarato che i "tunnel della morte" di Hamas vengono realizzati a scapito degli sforzi di ricostruzione di Gaza, utilizzando i materiali da costruzione inviati nella Striscia dalla comunità internazionale e teoricamente destinati all'edilizia civile. Intanto fonti palestinesi dichiarano che dietro ai crolli dei tunnel ci sarebbe la mano d'Israele. Mercoledì sera è crollata un'altra galleria nella zona di Gaza Zeitoun. L'incidente è stato il terzo nelle ultime settimane. Alla domanda se Tel Aviv abbia effettivamente un ruolo nei crolli delle gallerie, Mordechai ha risposto evasivamente: "Lo sa soltanto Dio".

(Agenzia Nova, 5 febbraio 2016)


L'antropologo nell'Isis

"L'odio dello Stato islamico per il cristianesimo è paragonabile a quello dei nazisti per gli ebrei. Gli islamisti non sono pazzi, vogliono distruggere il mondo e crearne uno nuovo".

ROMA - Scott Atran ci mostra un messaggio che gli è appena arrivato da Rachida, una delle sue ricercatrici in Marocco:
  "Salve dottore, qui l'Isis è un pericolo collettivo che minaccia il paese e l'intera regione. Le università marocchine sono nel sangue". Atran definisce lo Stato islamico mutuando un termine dal linguaggio informatico: "The bug", il baco che si insinua in un sistema e lo distrugge. Scott Atran ci mostra un altro messaggio: "Ho ricevuto una telefonata dal capo di una scuola di medicina, mi diceva che i suoi migliori studenti hanno appena lasciato per andare a costruire un ospedale da campo per l'Isis in Siria".
Alcuni giorni fa, Atran ha pubblicato sul Nouvel Observateur il saggio lungo più originale sullo Stato islamico: "L'Isis è una rivoluzione". Un testo che Atran apre con una citazione da Maximilien Robespierre del 1794: "La virtù, senza la quale il Terrore è cosa funesta; il Terrore, senza il quale la virtù è impotente. Il Terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile. Esso è dunque una emanazione della virtù".
  Sessantenne direttore del dipartimento di Antropologia al Centre national de la recherche scientifique di Parigi, Atran nel 1974 fece parlare di sé partecipando al dibattito sulla natura umana nell'Abbazia di Royaumont, assieme allo psicologo Jean Piaget, all'antropologo Claude LeviStrauss e al premio Nobel François Jacob Come si spiega la riluttanza occidentale a riconoscere l'appeal dell'Isis sui giovani occidentali? "Vi è una reazione istintiva, purtroppo tanto ai più alti livelli di governo, quanto per l'uomo della strada", dice Atran al Foglio. "Non è meglio capire il motivo per cui qualcuno vuole uccidere, se non altro per trovare modi migliori per impedire loro di ucciderti? Ho provato a spiegarlo all'ufficio del primo ministro francese ma con scarsi risultati. Poi c'è anche un rifiuto volontario, spesso con l'aiuto di nozioni insulse come 'nichilismo' e 'lavaggio del cervello'. Tutto anziché riconoscere la profondità della motivazione morale e dell'impegno di coloro che cercano di ferire o uccidere. Senza un profondo impegno per una virtù morale per salvare il mondo, anche se si deve distruggere gran parte o la totalità di esso, non è pensabile voler uccidere masse di persone innocenti".
  Il Califfato come altre utopie totalitarie del passato. "L'Isis rappresenta la punta di diamante del più dinamico movimento rivoluzionario e di controcultura dalla Seconda guerra mondiale", dice Atran.
  "George Orwell nel suo commento su Adolf Hitler del 1939 ha descritto l'essenza del problema. Egli ha detto: 'Il signor Hitler ha scoperto che gli esseri umani non solo vogliono la pace, la sicurezza, il comfort e la libertà dal bisogno, ma vogliono avventura, gloria e sacrificio di sé'. L'Isis è attraente per lo stesso tipo di sentimenti, ma non abbiamo imparato molto dalla storia".

 "La banlieue sta con lo Stato islamico"
  Nel suo saggio, lei parla di una popolarità incredibile dell'Isis nei ghetti multiculturali d'Europa. "In alcuni posti è profonda, in altri ancora no", continua Atran. "Un sondaggio dice che un quarto dei francesi di età compresa tra i 18 e i 24 anni ha un atteggiamento 'alquanto favorevole' verso l'lsis
  Tra i giovani nei progetti di edilizia delle banlieue di Parigi, abbiamo trovato una tolleranza piuttosto ampia o il sostegno per i valori dell'lsis, e anche per le azioni brutali svolte in suo nome". Secondo Atran, l'obiettivo dell'lsis "è creare un arcipelago jihadista globale che finirà per distruggere il mondo attuale e creare un mondo nuovo di giustizia universale e di pace sotto la bandiera del Profeta".
  Per comprendere la rivoluzione dell'lsis, il gruppo di ricerca di Atran ha realizzato decine di interviste ai giovani di Parigi, Londra e Barcellona, così come a combattenti dell'lsis in Iraq. L'antropologo è andato nella periferia di Parigi di Clichy-sousBois e Epinay-sur-Seine. E oggi parla di "una missione profondamente allettante per cambiare e salvare il mondo. Quando abbiamo chiesto ai combattenti dello Stato islamico catturati in Iraq 'Cos'è l'islam?', questi hanno risposto: 'La mia vita'".
  L'antropologo franco-americano Scott Atran attacca Olivier Roy, islamologo di riferimento di tanti media, che ha scritto sul Monde che i cospiratori di Parigi sono disadattati. "Nella nostra democrazia liberale, l'intenzionale spargimento di sangue è considerato il male, espressione della natura umana andata storta", dice Atran. "Ma attraverso la maggior parte della storia e delle culture umane, la violenza contro altri gruppi è stata considerata come una virtù morale necessaria per uccidere masse di persone innocenti e danneggiare gli altri. La violenza dello Stato islamico potrebbe essere meglio caratterizzata da quello che Edmund Burke ha chiamato 'il sublime': la volontà, anzi il bisogno e la passione, per il 'delizioso terrore"'. Secondo Atran, il terrorismo islamico non è affatto causato da sacche di povertà. "Il Califfato attrae tutti quei giovani, fornendo scopo e libertà da ciò che vedono come il vizio di un mondo materiale privo di senso. Un rapporto ancora non pubblicato della Banca mondiale mostra che non c'è relazione tra lavoro e riduzione della violenza. Se le persone sono pronte a sacrificare la loro vita, allora non è probabile che le offerte di maggiori vantaggi materiali le fermino. Lo Stato islamico dovrebbe conformarsi alla visione salafita dei seguaci del Profeta, un'impresa imperiale che richiede il jihad offensivo, o guerra santa, contro gli infedeli (kafir), come un obbligo individuale (fard al Ayn) di tutti coloro che appartengono alla 'Casa dell'islam' (Dar al islam)". Particolarmente forte, secondo Atran, è il richiamo simbolico dell'Isis al cristianesimo. "In particolare il cristianesimo storico, che è visto come 'crociato'. Questi governi e le persone che li sostengono sono considerati predatori, barbari crudeli, e possono essere uccisi, ovunque, in qualsiasi momento e con qualsiasi mezzo, come per una questione di 'salvaguardia' della comunità musulmana. E' lo stesso sentimento che il movimento nazionalsocialista provava per gli ebrei". Neanche allora l'Europa decifrò in tempo l'odio profondo che voleva incenerire il continente per costruirne uno nuovo. Più puro.

(Il Foglio, 6 febbraio 2016)


«L'Occidente si fonda sull'opposizione agli ebrei»

La tesi nel libro di Nirenberg. La traduttrice: teorie con cui tutti dovranno confrontarsi

di Andrea Rossi Tonon

 
David Nirenberg
TRENTO - Il mondo occidentale soffre di una «pigrizia del pensiero» che ne ha condizionato la costituzione nel corso dei secoli, determinando la definizione di un'immagine errata della cultura ebraica, contro la quale è però nato e cresciuto un sentimento d'odio che fonda l'Occidente stesso.
   A sostenerlo è David Nirenberg, docente di Storia medievale all'università di Chicago e autore del libro Antigiudaismo, la tradizione occidentale (Viella editore, pp. 444, euro 39) che ieri è stato presentato in una prima uscita italiana alla fondazione Caritro nel corso di un incontro organizzato dalla neonata associazione culturale «Piazza del mondo». A illustrarne i contenuti sono stati la professoressa Giuliana Adamo, docente del Trinity College di Dublino che ne ha curato la traduzione con il professor Paolo Cherchi dell'Università di Chicago, e il direttore del Corriere del Trentino e del Corriere di Bologna Enrico Franco.
   L'antigiudaismo esaminato da Nirenberg non è solamente un insieme di pregiudizi ma una delle modalità fondamentali con cui il pensiero occidentale ha definito se stesso. L'essere diverso, in contrapposizione, diventa quindi proprietà ontologica e fondativa. Un «filo rosso», come lo ha definito Adamo, che collega tutte le tappe dello sviluppo della nostra intera cultura.
   Nirenberg, infatti, ripercorre la storia del rapporto tra l'Occidente e il mondo islamico con l'idea di giudaismo partendo dagli Egizi, passando da San Paolo e Karl Marx, fino ad arrivare alla riflessione novecentesca. Ma il confronto è impari, perché l'Occidente si rapporta costantemente con un riflesso abbagliante e mai con l'ebraismo e le sue numerose declinazioni, che anzi non coglie.
   «Gli ebrei vengono percepiti come altro, come il diverso, senza però considerare che l'altro serve a riconoscerci - commenta Franco - È agghiacciante pensare che la cultura occidentale sia costruita sulla contrapposizione a un'altra cultura». Quasi a far da eco, Adamo aggiunge che «il lettore può rimanere scosso» di fronte alle tesi di Nirenberg, perché si ritrova a doversi confrontare con «una struttura di odio e la creazione volontaria di vittime e capri espiatori» innalzati da grandi pensatori come Hegel, Shakespeare o Heidegger, «anche in maniera involontaria».
   La docente ha definito il volume come «il libro sull'antigiudaismo più importante che ci sia», con il quale «tutti gli storici e i sociologi dovranno confrontarsi».

(Corriere del Trentino, 6 febbraio 2016)


Tutta colpa dei giudei

Il sessanta per cento dei francesi incolpa gli ebrei per l'antisemitismo

Il settimanale Journal du Dimanche ha gettato una bomba non da poco nel dibattito francese. Si tratta di un sondaggio, intitolato "Percezioni e aspettative della popolazione ebraica. Il rapporto con gli altri e con le minoranze", realizzato dall'Ipsos e commissionato dalla Fondation du judaìsme français, per affrontare il tema del "vivere insieme", uno dei pilastri della retorica Repubblica francese. Il sessanta per cento dei francesi crede dunque che una parte della responsabilità della crescita dell'antisemitismo nel paese sia degli ebrei stessi. La realizzazione del sondaggio-choc è durata un anno e mezzo e le interviste si sono svolte tra il luglio 2014 e il giugno 2015, ovvero in un arco temporale che comprende sia il periodo precedente sia il periodo successivo agli attentati di Charlie Hebdo e dell'Hypercacher. Fra le motivazioni addotte per scaricare sugli ebrei la responsabilità dell'antisemitismo che li perseguita nuovamente (quest'anno diecimila francesi se ne sono andati dal paese) ci sono il loro strapotere economico, la loro esposizione sui media e il trattamento che Israele riserverebbe ai palestinesi. Il sondaggio consente di comprendere appieno la profondità del nuovo odio per gli ebrei che attraversa la Francia. E' il ritorno del vecchio argomento dei nazisti per cui "l'ebreo è causa della nostra sfortuna" (anche allora era l'ebraismo causa dell'iperinflazione tedesca). E' l'ossessione che dopo la guerra fece scrivere a un filosofo come Martin Heidegger che nelle camere a gas dell'Olocausto gli ebrei "si autoannientarono". E' la solita Europa.

(Il Foglio, 6 febbraio 2016)


Dio non cambia

Il senatore di Forza Italia Domenico Scilipoti, nel suo intervento in aula del Senato del 3 febbraio scorso ha citato le parole del Levitico e del Nuovo Testamento per ricordare quello che dice la Bibbia in tema di matrimonio e omosessualità.

Qualcuno pensava che questo intervento avrebbe provocato chissà quale clamore, invece no. Qualche citazione, ma nessun argomentato contrasto: meglio non attirare l'attenzione su qualcosa che potrebbe essere scomodo per molti: la Parola di Dio rivelata nelle Sacre Scritture ebraiche e cristiane. Qualunque sia l'esito politico che avrà la votazione, resta il fatto che il marciume morale della nostra società ha assunto negli ultimi tempi una progressione impressionante. Bastano le proposte di legge per farlo capire. Giudaico-cristiana la società europea? o libertino-pagana? Ciascuno risponda come crede. Al di là di ogni considerazione di schieramento partitico e confessionale, siamo contenti che qualcuno abbia letto quelle parole della Bibbia in pubblico, anzi in sede legislativa. Molti faranno finta di non averle sentite, ma la finzione non durerà per sempre. M.C.

(Notizie su Israele, 6 febbraio 2016)


Droga e auto usate per finanziare le armi di Hezbollah

Nel complesso meccanismo di riciclaggio coinvolti libanesi a Torino, Cuneo e in Liguria

di Massimiliano Peggio

TORINO - Fiumi di cocaina e denaro riciclato per finanziare le armi di Hezbollah, mentre il prezzo del petrolio cala costringendo i grandi finanziatori a tagliare i fondi a sostegno del «Partito di Dio». Così analisti di Washington inquadrano l'operazione svelata nei giorni scorsi dalla Dea americana che ha portato alla luce una vasta rete criminale alle spalle del partito Iibanese, con gruppi di affiliati specializzati nel riciclaggio di denaro sporco, sparsi in Europa e in Italia, con rivoli scovati dalla Guardia di Finanza che lambiscono Torino, il Cuneese e la Liguria.
   Cinque fratelli Iibanesi, in sospettabili commercianti di auto e macchinari industriali usati e destinati al mercato africano, da un anno sono sotto inchiesta della procura torinese, su segnalazione della Dea e dell'Fbi. Accusati di associazione con finalità di terrorismo internazionale e riciclaggio di denaro, con gli altri «colleghi» individuati dalle autorità americane con l'aiuto dell'Europol in Belgio, Francia e Germania, sarebbero inseriti in un network di società create con l'unico scopo di riciclare soldi per «approvvigionare» le attività di Hezbollah.
   Il «Partito di Dio», considerato terrorista da Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Israele, ma nemico del Califfato, da anni fa affari con i carteUi sudamericani. Affari che gli analisti di Washington ritengono in crescita, per compensare la diminuzione di aiuti economici da parte dell'Iran. L'operazione della Dea, chiamata «Progetto Cassandra», conclusa con l'arresto di quattro attivisti operativi e la scoperta di numerosi fiancheggiatori, è il coronamento di una lunga indagine partita già nel 2011, con l'individuazione delle operazioni illecite della Lebanese Canadian Bank, istituto costretto alla chiusura dopo una sanzione di 102 milioni di dollari. Ed è proprio seguendo queste transazioni internazionali che le autorità americane hanno individuato in Italia uno dei terminali del network. Nei fascicoli redatti dall'intelligence americana, il ruolo centrale è attribuito ad Ayman Saied Joumaa, un colombiano di origini libanesi nato nel 1964, che ha dato vita ai traffici di cocaina, spedendo ingenti carichi in Africa e in Europa attraverso le rotte atlantiche. Secondo la Dea e l'Fbi, che hanno coinvolto nelle indagini le autorità italiane, i flussi di denaro derivanti dal traffico di droga confluivano direttamente nelle filiali della Lebanese Canadian Bank. Da qui, con società di cambio e money transfer tra cui la Ellissa Exchange Companyo anche con l'impiego di corrieri di valuta, finivano a società specializzate nella compravendita di veicoli usati e macchinari industriali dismessi da aziende in crisi. Secondo le indagini del nucleo di polizia tributaria di Torino, solo una parte della merce finiva in Africa, il resto era costituito da movimentazioni fittizie: semplice passaggio di carte per giustificare i flussi di denaro in entrata e in uscita.
   I cinque fratelli libanesi, considerati da fonti di intelligence vicini al movimento sciita di Hezbollah, avrebbero movimentato con le loro società 70 milioni di euro in pochi anni. Per questi motivi la Ellissa Exchange, di cui erano titolari Ali Mohamad e Jamal Kharoubi, era stata inserita dal Dipartimento del tesoro degli Stati Uniti nella lista nera dei capitali dell'Ofac - Office of Foreign Asset Control -, poiché ritenuta direttamente coinvolta nel riciclaggio dei proventi illeciti del traffico di cocaina. Come i cinque libanesi attivi in Italia, avrebbero fatto gli altri gruppi europei, seguendo uno schema identico. Non è escluso che dall'indagine torinese, tutt'altro che conclusa e concentrata da mesi nell'analisi di migliaia di file sequestrati ai 5 commercianti, possano emergere novità.
   Per documentare il reale flusso di veicoli in rapporto alle fatturazioni, le autorità americane hanno utilizzato anche satelliti spia per fotografare i depositi in Africa. L'intreccio di investigazioni ha consentito così di completare l'indagine e arrivare nei giorni corsi ad una svolta. Secondo la Dea la rete ha utilizzato i proventi della droga e il traffico di veicoli usati per acquistare armi per Hezbollah per attività sia in Libano che in Siria. Ma il panorama, mutato con l'escalation del Califfato rischia ora di stravolgere i fronti. Così come il nuovo atteggiamento dell'Iran.

(La Stampa, 6 febbraio 2016)


La Shoah spiegata con la cultura pop. Buon libro contro il male della banalità

Immaginari del genocidio ebraico senza luoghi comuni

di Guido Vitiello

Ogni volta che si parla di banalità del male (ed è capitato spesso, in questi giorni, per via del 27 gennaio e del nuovo film sul processo Eichmann) mi torna in mente una pagina dell'autobiografia di Raul Hilberg, "The Politics of Memory". Il bersaglio era Hannah Arendt e la sua immagine del tenente colonnello delle SS come un burocrate ottuso e disciplinato. Hilberg ricostruiva per sommi capi la stupefacente carriera di Eichmann, l'astuzia e la diplomazia fuori dal comune che dovette impiegare per portare a termine le sue atroci imprese, e concludeva grosso modo così: vedo il male, altroché, ma la banalità proprio non la vedo.
  Mi torna in mente questa pagina non tanto per la questione della banalità del male ma per quella, assai meno importante, del male della banalità. Tutte le volte che la cultura pop - musica, cinema, tv, fumetti, pubblicità, social network - si accosta alla Shoah o si serve dei suoi simboli, l'accusa di "banalizzazione" è in agguato. Non so chi sia stato il primo a usarla. Di certo il più influente è stato Elie Wiesel nella sua requisitoria sul New York Times contro la miniserie "Holocaust" nel 1978, che s'intitolava appunto "Trivializing the Holocaust". Poi la parola è diventata una specie di formula liturgica un po' ovunque e soprattutto in Francia, ossia nella patria di quel Flaubert che avrebbe potuto metterla in appendice al dizionario dei luoghi comuni: "Film sulla Shoah: se piacciono al pubblico, dire che banalizzano l'indicibile".
  Bisogna dunque salutare "Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico" (il meIangolo), a cura di Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli, come uno dei primi tentativi - ma ce ne sono stati altri, negli ultimi anni - di prendere sul serio i richiami al genocidio nella cultura pop e di recuperare il ritardo spaventoso che la riflessione italiana sul tema, non meno della francese, ha accumulato rispetto a quel che si è già fatto in America e perfino in Germania. Certo, sulle pagine di "Pop Shoah?" - e il punto interrogativo già tradisce una timidezza, un'esitazione - lo spettro di quella parola, banalizzazione, aleggia un po' troppo; e di vero pop, a dirla tutta, potrebbe essercene di più. Ma alcuni dei saggi - quello di Damiano Garofalo sulle migrazioni di un'icona, ossia la bambina con il cappotto rosso di "Schindler's List", o quello di Claudio Gaetani sulle locandine dei film, per non citarne che un paio - si scrollano di dosso qualche idea ricevuta un po' stantia e mettono in gioco materiali di solito negletti, serie tv come "Seinfeld" o "Pretty Little Liars", film come "Galline in fuga" (dove il lager è un pollaio) o "X-Men", tratto da un fumetto. Rispetto a queste e ad altre rivisitazioni pop della Shoah, la retorica della banalizzazione vale poco più di una presa di distanze moralistica, di un interdetto sacerdotale, di un guanto sterilizzato che il critico indossa per non contaminarsi.
Quanto si guadagnerebbe a sfilarselo! Poche cose sono labirintiche e profonde come la Pop Shoah. Penso a Magnete, il mutante degli "X-Men" che acquisisce i suoi superpoteri ad Auschwitz perché così volle un fumettista ebreo londinese dopo aver passato qualche mese in un kibbutz tra i sopravvissuti; penso all'incredibile cocktail culturale dei B-Movie italiani di fine anni Settanta che mescolavano Mann, Sade e le SS; penso a quel ragazzo israeliano convinto di essere la re incarnazione di un deportato, creatore di un videogame per sparare sui nazisti. Penso a queste e a mille altre cose e mi vien voglia di parafrasare Hilberg: vedo il kitsch, l'approssimazione storica, il gusto grossolano; ma la banalità proprio non la vedo.

(Il Foglio, 6 febbraio 2016)


Abu Mazen e parlamentari arabo-israeliani rendono omaggio ai terroristi

Nello stesso giorno in cui in Israele vengono condannati (non certo celebrati) gli assassini dell'adolescente palestinese Abu Khdeir

Poche ore dopo l'attacco terroristico palestinese di mercoledì alla Porta di Damasco a Gerusalemme costato la vita all'agente di polizia Hadar Cohen, di 19 anni, il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha ricevuto nel suo ufficio a Ramallah i famigliari di undici terroristi rimasti uccisi nei mesi scorsi nell'atto di compiere sanguinosi attentati dalla zona di Gerusalemme.
Tra loro, la famiglia di Baha Aliyan, originario di Jabel Mukaber (Gerusalemme est), che lo scorso ottobre partecipò all'attentato con armi da fuoco e armi bianche su un autobus nel quartiere di Armon Hanetziv (Talpiot Est) causando la morte di tre israeliani: Haviv Haim, di 78 anni, Alon Govberg, di 51 anni, e Richard Lakin, di 76 anni....

(israele.net, 6 febbraio 2016)


In Israele una serie TV rilancia la darija marocchina

di Roberta Papaleo

 
I personaggi del serial "Zaguri Imperia"
Il sito Al-Masdar ha rivelato che la darija, il dialetto marocchino, ha di nuovo preso vita tra i cittadini israeliani. Infatti, molti ebrei marocchini che per anni hanno vissuto nel Paese nordafricano hanno avuto modo di imparare la darija e ora, tornati in Israele, hanno mantenuto e ripristinato il legame con quella cultura.
La fonte ha segnalato che questa "rinascita" del dialetto marocchino in Israele è avvenuta negli ultimi mesi grazie a una serie televisiva, dal titolo "Zaguri Imperia". La fiction racconta la storia di una modesta famiglia di Be'er Sheva (città nel sud del Paese) che utilizza diverse espressioni che appartengono alla darija marocchina, retaggio di una tradizione marocchino-ebraica ereditata dai nonni e le nonne che vivevano una volta in Marocco.

(ArabPress, 6 febbraio 2016)


Gli ebrei di Libia tra memoria e storia

"850 mila profughi ebrei dal mondo arabo hanno dovuto vivere l'esilio più amaro come se appartenesse loro soltanto".

di David Meghnagi

Nella memoria degli ebrei di Tripoli, il pogrom del '45, fu vissuto come un tradimento delle autorità britanniche. L'intervento dopo tre giorni, quando il peggio era accaduto e la folla pogromista era stata respinta alle porte del quartiere ebraico della città, non poteva essere un caso. Ben altra sarebbe stata la reazione delle truppe britanniche, se a essere colpiti fossero stati i soldati britannici. I notabili della comunità, angosciati per quel che stava accadendo, avevano ripetutamente sollecitato l'intervento in forze delle autorità per por fine ai massacri. Inoltre i soldati della futura Brigata ebraica, che in seguito sarebbero sbarcati in Italia, avevano ricevuto l'ordine di non uscire dalle caserme. Il pregiudizio antiebraico diffuso tra molti ufficiali e soldati britannici, unito all'ostilità esplicita dei red fez, poteva spiegare solo in parte il problema. La risposta che s'impose per molti dirigenti ebrei, era che gli inglesi avessero fatto cinicamente ricorso a una politica di divide et impera. Poiché la Libia aspirava all'indipendenza, il modo migliore per ritardarla, era dimostrare che il paese non era maturo. Che a farne le spese fossero gli ebrei, poco importava, tanto più che agli occhi dei britannici, le rivendicazioni nazionali dell'Yshuv rischiavano di mettere a repentaglio l'intero loro sistema di dominio nella regione. Il guaio è che l'argomentazione guardava al problema con occhi puramente "occidentali", che aveva come riferimento una "razionalità politica strumentale". Pensare che il pogrom fosse una conseguenza diretta delle macchinazioni britanniche nel Vicino Oriente e a quanto vi accadeva, impediva in realtà di cogliere la profondità dell'ostilità che si era accumulata lungo l'arco di due secoli nella società araba nei confronti delle aspirazioni ebraiche all'uguaglianza e alla libertà.
   Non essendo maturati dall'interno della società che nell'arco di un secolo aveva visto tre successive dominazioni straniere, di cui due europee, i cambiamenti intervenuti nello statuto degli ebrei rispetto alla maggioranza islamica, erano visti con ostilità crescente, e considerati come l'esito di un complotto finalizzato ad assoggettare la società islamica al mondo occidentale. L'idea che gli ebrei fossero sfuggiti grazie a questi cambiamenti storici alla condizione d'inferiorità giuridica e teologica per loro prevista nell'assetto tradizionale della società islamica, li trasformava, loro malgrado, in un capro espiatorio ideale per tutti i mali della società. In questa logica perversa l'aspirazione ebraica alla libertà diventava la... colpa" più grave. L'odio contro la dominazione straniera, si saldava con l'odio contro gli ebrei e contro la democrazia. In questa luce la fuga in massa degli ebrei dal mondo arabo appare come l'espressione violenta del rifiuto dell'idea stessa che gli ebrei potessero vivere da liberi e uguali nelle società che sarebbero nate dalla fine del dominio coloniale. Non volendo accettare gli ebrei come uguali, la società araba li espelleva dal suo interno.
   Chiamati ad attingere nel profondo della loro resilienza per non andare a pezzi, 850 mila profughi ebrei dal mondo arabo hanno dovuto vivere l'esilio più amaro come se appartenesse loro soltanto. In un impeto di orgoglio e di vitalità hanno saputo cantare la perdita di un intero mondo come fosse un grande riscatto. La vita nelle baracche e nelle tende, come un grande miracolo. Con la Torah in mano gli ebrei dello Yemen, dopo avere attraversato a piedi il deserto, salirono sugli aerei come fossero le aquile cantate dai profeti. Nelle navi che salpavano da Tripoli, si rinnovava il miracolo dell'esodo. Intonando la... Cantica del Mare", si rendeva il futuro meno incerto, e il mare amico. La vita dura nelle periferie parigine come l'inizio di un nuovo mondo, sino a quando i figli di coloro che li avevano perseguitati, non hanno cominciato a rendere loro la vita impossibile nelle periferie in cui avevano creduto di trovare un rifugio, lasciandosi dietro per sempre i ricordi di un passato doloroso. Uno sforzo di sublimazione unico, figlio di una grande visione del mondo, che ha permesso di sognare e immaginare un futuro diverso e migliore, che è stato purtroppo reso più difficile per il ritardo con cui la classe politica israeliana e le leadership della diaspora hanno preso coscienza di un problema che non era solo umanitario, ma anche politico e culturale. Una risposta unica contro i luoghi comuni che avvolgono il dibattito politico sul vicino oriente.

(Shalom, gennaio 2016)


Turchi e sauditi in Siria: è iniziata la spartizione

II conflitto si complica. Lealisti e pasdaran cingono d'assedio Aleppo. Mosca rivela: Ankara sta ammassando truppe. Riad manda le sue.

di Carlo Panella

Il poderoso attacco che le forze di terra iraniane, con la massiccia copertura dell'aviazione russa e il supporto delle milizie siriane hanno scatenato mercoledì contro Aleppo non ha solo fatto fallire le trattative di Ginevra sulla Siria. Ha creato una situazione sul terreno che impone alla Turchia e all'Arabia Saudita una contro escalation che sicuramente non tarderà. Questo attacco, che mira a prendere d'assedio da tutti i lati la "capitale morale della Siria", indica che Russia, Iran e ovviamente Beshar al Assad non hanno nessuna intenzione di combattere solo l'Isis, ma puntano a sbaragliare soprattutto le forze ribelli anti Assad. Aleppo, infatti, non è affatto una città in mano al "Califfato" ma è controllata a spicchi: innanzitutto, quasi a metà, dalle forze ribelli anti Assad filo Ankara e Ryad (con una posizione forte della laica Free Syrian Army); meno di un quarto è controllato dalle milizie di Assad, ben più di un quarto è controllato da al Nusra e l'Isis occupa posizioni marginali.
   Il dispositivo militare messo in campo da Iran, Russia e Assad è talmente massiccio che ha effettivamente la possibilità non tanto di conquistare la città, ma di cingerla d'assedio per prendere gli avversari per fame e isolamento, esattamente come avviene a Madaya (dove i civili continuano a morire di fame) e in molti altri centri. Nessun dubbio, peraltro, che l'offensiva terrestre sia condotta essenzialmente dai Pasdaran iraniani e da Hezbollah (che obbedisce formalmente agli ayatollah di Teheran), ieri infatti è ufficializzata la morte in battaglia del colonnello dei Pasdaran iraniani Mohsen Qajaryan, che si aggiunge ai 4 generali iraniani dei Pasdaran caduti ad Aleppo negli ultimi due mesi.
   Ma la concreta possibilità di una vittoria militare irano-russa-baathista su Aleppo non può essere assolutamente tollerata né da Ankara, né da Ryad, né dai Paesi sunniti, Egitto in testa. Se si avverasse, infatti l'Iran degli ayatollah consoliderebbe in maniera definitiva il suo controllo di una parte determinante del territorio della Siria. È quindi ovvia la loro reazione che probabilmente non si limiterà all'incremento delle forniture militari - in particolare i micidiali missili Tow - ai ribelli. È invece probabile che la Turchia - con un qualche facile pretesto - decida di penetrare nel territorio siriano, peraltro pienamente legittimata dal fatto che questa striscia lunga circa 90 chilometri al di là del confine tra Turchia e Siria, si estende tra le città siriane di Jarabulus e Marea, ed è occupata dall'Isis. Quindi, anche dal punto di vista formale e della legalità internazionale, questa mini-invasione contro l'Isis non darebbe problemi. Anche se Obama ha sempre imposto di non attaccare l'Isis su questo facile fronte, come più volte chiesto da Erdogan. Ma ora, questo fronte è "caldo", per più tentativi di provocazione di parte turca, tanto che ieri al Amaq, organo ufficiale del "Califfato" ha scritto che i propri jihadisti «hanno aperto il fuoco contro soldati turchi che volevano infiltrarsi nella terra del Califfato nei pressi di Tarabulus». L'eventualità di una "mini invasione" turca è data peraltro per certa da Mosca, tanto che il generale Igor Konashenkov portavoce del Ministro della Difesa russo ieri ha denunciato: «Abbiamo seri motivi per sospettare una intensa preparazione della Turchia per una invasione militare della Siria; osserviamo con crescente frequenza i segnali di preparazione segreta da parte delle forze militari turche ad azioni concrete sul territorio della Siria». L'invio delle truppe da parte saudita invece non ha nulla di segreto. Lo ha dichiarato ieri il portavoce militare di Riad: siamo pronti a inviarle, ha detto, «Se la coalizione internazionale sarà d'accordo».
   Dunque, la "non strategia" siriana di Obama sul Medio Oriente, così come la sua piena legittimazione di un Iran ormai non più frenato dalle sanzioni, permettono ora agli ayatollah di tentare una sostanziale annessione della Siria al proprio dominio. Il tutto, condito da insulti sprezzanti dell'alleato siriano di Teheran nei confronti di Washington e Parigi, che ieri hanno chiesto la fine dell'assalto a Damasco. Secondo il ministro degli Esteri di Damasco, infatti «le parole di Kerry e Fabius provano la relazione tra i terroristi e i Paesi che cospirano contro la Siria e che continuano a essere coinvolti nel bagno di sangue». Siamo al punto che Assad ornai si premette di dare del terrorista a Obama e Hollande.

(Libero, 5 febbraio 2016)


Israele punta ad aggiornare la propria linea ferroviaria con motori elettrici e nuove linee

 
GERUSALEMME - Israel railway punta ad aggiornare la propria linea nei prossimi anni prevedendo un largo uso di motori elettrici e la costruzione di nuove stazioni. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem post". Il ministro dei Trasporti israeliano, Israel Katz, ha approvato il nuovo piano da 28,3 miliardi di Nis (6,5 miliardi di euro) per i prossimi quattro anni, il più grande stanziamento mai varato in favore delle ferrovie israeliane. Per convertire l'intero sistema ferroviario a base elettrica saranno acquistati nuovi vagoni e riviste le infrastrutture, assegnati a questa parte del progetto 12 miliardi di Nis (2,7 miliardi di euro). Katz ha spiegato che i lavori di ammodernamento avverranno in più fasi, le prime linee saranno pronte entro il 2020 mentre le altre successivamente. Il bilancio ha assegnato 3,7 miliardi di Nis (840 milioni di euro) alla sostituzione della segnaletica e dei sistemi di comunicazione.

(Agenzia Nova, 5 febbraio 2016)


Una veduta su Israele dal Politecnico di Torino

Lettera a Furio Colombo
    Caro Furio Colombo, ho appreso che quasi duecento professori e ricercatori del Politecnico di Torino chiedono al loro ateneo di "interrompere ogni forma di cooperazione con il Technion", Politecnico di Haifa. La ragione? Quel Politecnico "fa ricerche in tecnologie e armi utilizzate per opprimere e attaccare i palestinesi". Possono indicare, i docenti di Torino, un Politecnico, un sistema industriale, un Paese che non ricerchi, fabbrichi e venda armi che, come sappiamo, sono molto usate nel mondo? È una rivolta generale o solo contro Israele?
    Fabrizio
Il senso esclusivamente politico della richiesta dei docenti e ricercatori torinesi è dato nella motivazione, dove dicono (cito da Repubblica) "per opprimere e attaccare i palestinesi". Infatti, a quanto pare, la colpa di lsraele (e del suo Politecnico) non sarebbe altrettanto grave se Israele fosse un Paese debole e noi, l'Italia, dovessimo inviare soldati, come in Iraq, per fronteggiare le aggressioni casa per casa, visto che non riescono a farlo da soli. Naturalmente i soldati italiani avrebbero un buon equipaggiamento Finmeccanica di cui non c'è nulla da vergognarsi, sia perché è di buona qualità, con la collaborazione di docenti e ricercatori dei nostri politecnici. Sia perché non hanno legami con un centro di studi ebreo. La controprova è nella benevolenza riservata all'Arabia Saudita. Da mesi quel Paese è impegnato nella distruzione sistematica dello Yemen con bombardamenti quotidiani da Seconda guerra mondiale, che non disturbano nessuno. Le armi non sono israeliane e dunque si può anche non sapere quanti bambini muoiono durante ciascun raid. Lo stesso destino fortunato tocca al Sudan. Poiché le sue truppe e i suoi mercenari non sono israeliani, possono impunemente fare strage, giorno per giorno, delle popolazioni del Sud-Sudan. Basta che un commando si apposti intorno a un pozzo in attesa che donne e bambini vengano a prendere acqua. Ma docenti e ricercatori di Torino dovrebbero interrogarsi sui loro rapporti con studiosi ed enti di ricerca in Thailandia, in Malesia, in Myanmar, in India, in Bangladesh a proposito di ciò che sta accadendo ai Rohingya. Ecco un testo dall'Huffington Post: "Migliaia di persone sono abbandonate in mare tra il Myanmar e la Thailandia, e rischiano di morire di fame. Le fotografie fanno impressione. I Rohingya sono una minoranza di cultura islamica e di origine indiana venduti come lavoratori forzati, nell'epoca coloniale, da schiavisti locali o inglesi (per loro disgrazia, non da ebrei) che vengono sistematicamente scacciati dai villaggi (compresi tutti i bambini) stipati su barche, spinti al largo e abbandonati in mare. La situazione, per questi migranti senza alcun soccorso, è molto grave e diverse organizzazioni peridiritti umani parlano di crisi umanitaria. Il problema dei Rohingya va avanti da diversi anni ma finora i governi del sud-est asiatico lo hanno ignorato". La conclusione è triste e semplice. I nostri docenti di Torino non stanno legittimamente criticando la politica di un governo (del resto non sembrano essersi mai accorti dei tre governi di quello stesso Paese che hanno stretto mani arabe, fatto la pace tre volte in trent'anni e non hanno mai rotto per primi quegli accordi). A loro appare esecrabile nel mondo che è tutto selvaggiamente in guerra, solo il luogo in cui i colpevoli sono israeliani, dunque ebrei. Secondo una solida tradizione secolare.

(il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2016)


Isis e Iran: due chele, la stessa tenaglia.

Oggi la presentazione a Firenze del libro di Fiamma Nirenstein

di Edoardo Semmola

FIRENZE - Due strade diverse «viste da un medesimo punto di partenza: il terrorismo». Che condividono lo stesso fine: «L'idea di vedere la propria religione dominare il mondo». Il Califfo e l'Ayatollah, il ramo sunnita e quello sciita. «Due chele della stessa tenaglia — li definisce Fiamma Nirenstein — che per sbagliata abitudine, per semplificazione mediatica in Occidente tendiamo a guardare separatamente, a seconda del momento storico l'attenzione è focalizzata una volta su un lato, una volta su un altro». La giornalista e scrittrice ebrea-fiorentina invece vuole fare l'esatto opposto: «Unire i punti, tentare di spiegare la fonte del terrorismo contemporaneo sia dal versante sunnita che da quello sciita, sgombrando il campo dai molti parametri di valutazione errati che creano confusione su questo tema».
Due diversi Islam. Due modi diversi di confronto con l'Occidente. Nirenstein li racconta a confronto nel suo ultimo libro edito da Mondadori e intitolato appunto Il Califfo e l'Ayatollah. Sottotitolo esplicito: Assedio al nostro mondo. Lo presenta oggi alle 17 alla Biblioteca della Fondazione Spadolini Nuova Antologia, in via Pian de' Giullari 36/a, in occasione della ripresa dell'attività dell'Associazione Italia-Israele. Con lei il presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia Cosimo Ceccuti e Valentino Baldacci del Centro fiorentino di studi storici e di scienze sociali «Passato Prossimo», con interventi di Franco Camarlinghi, Marco Carrai, Edoardo Tabasso e Leonardo Tirabassi.
È di pochi giorni fa la visita del presidente iraniano Hassan Rouhani con lo strascico di polemiche sulla copertura delle statue romane. «A parte lo concomitanza con il Giorno della Memoria — commenta la scrittrice — si possono capire benissimo le ragioni pratiche del contatto con l'Iran, ma penso che Rouhani abbia già dimostrato in passato di essere un personaggio da prendere con le pinze. Personalmente penso che l'Iran e Rouhani siano inaffidabili e che la fiducia che gli viene data oggi sia mal riposta» . Infine, «da fiorentina cresciuta in mezzo all'arte, la storia delle statue coperte l'ho vissuta come un dolore indicibile che va al di là della inesprimibilità». Obiettivo de Il Califfo e l'Ayatollah è «cercare di far capire cosa sia il terrorismo, capirlo per poterlo battere — prosegue l'autrice — per questo parto dalle due fonti. Mentre oggi tutti gli occhi dell'Occidente sono concentrati sul mondo sunnita a causa dell'esposizione mediatica eccezionalmente vasta di cui godono l'Isis e il Califfo, mentre l'attenzione sulla Shia iraniana si è molto placata». È un errore sia strategico che metodologico, sostiene Nirenstein: «La realtà dei fatti è che vanno visti non insieme ma come due chele della stessa tenaglia, due Islam in conflitto tra loro ma che fanno capo a un'unica idea, che l'imposizione della sharia alla fine dei tempi sia un risultato raggiungibile soltanto con il predominio definitivo».
Precisa l'autrice che il volume lo ha scritto prima degli attentati di Parigi. È invece frutto della consapevolezza di quanto «l'antisemitismo e l'israelofobia siano in netta crescita, continuamente alimentati da una macchina di trasmissione dell'odio con un pieno incitamento all'omicidio». Fenomeni, accusa l'autrice, che «purtroppo non trovano un'adeguata risposta da parte dell'Europa" indicando nel dibattito sul «labeling», l'etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie israeliane, che hanno acceso un nuovo clima di scontro politico con l'Ue.

(Corriere Fiorentino, 5 febbraio 2016)


Per meglio ricordare. Ebrei e Italia fino al 1943

Lettera a Sergio Romano
    Ho trovato molto interessante un articolo che smentisce la vulgata comune dell'italiano brava gente. Non so se vi sia un qualche riscontro con I volontari carnefici di Hitler di Goldhagen e se uno spione sia paragonabile ad un kapò, ma certo coloro che rischiarono la propria vita per salvare gli ebrei non furono la maggioranza.
    Alberto Cotechini
Caro Cotechini,
Esiste la retorica degli «italiani brava gente», ma esiste anche un'altra retorica, piuttosto diffusa in Italia: quella dell'auto-denigrazione. Forse la Giornata della Memoria sarebbe stata più completa se fossero state ricordate altre vicende a cui molti studiosi israeliani, fra cui lo storico Daniel Carpi, hanno reso omaggio frequentemente.
Uno dei casi più interessanti è quello di Guelfo Zamboni, console generale a Salonicco durante la Seconda guerra mondiale. Nella zona occupata dai tedeschi, Zamboni rappresentava l'Italia in una città dove la comunità ebraica (55.000 persone) era, proporzionalmente, la più importante in Europa occidentale. Non poté impedire le persecuzioni e le deportazioni organizzate dalle autorità germaniche, ma distribuì 350 passaporti italiani a ebrei sefarditi che potevano essere considerati di origine italiana. Fece con documenti italiani, in altre parole, quello che Giorgio Perlasca, due anni dopo, avrebbe fatto a Budapest con documenti spagnoli.
Quando Zamboni tornò a Roma, agli inizi del 1943, il suo successore, Giuseppe Castruccio, riuscì a organizzare un treno che trasferì molti ebrei da Salonicco ad Atene dove avrebbero potuto godere della protezione militare italiana.
La storia degli ebrei di Salonicco è stata raccontata in un libro scritto da Antonio Ferrari, Alessandra Coppola e Jannìs Chrisafis, e in un dramma rappresentato all'Università di Tel Aviv nel 2008.
Accanto a queste iniziative individuali, caro Cotechini, vi furono altri casi politicamente più importanti. Nelle zone occupate da forze militari italiane, soprattutto in Francia, gli ebrei trovarono accoglienza e poterono vivere pressoché indisturbati sino all'8 settembre 1943. Soltanto quando le autorità tedesche succedettero alle autorità italiane, scattò per quelle comunità ebraiche la macchina della persecuzione e dello sterminio. Fu così che perdette la vita a Auschwitz la giovane Charlotte Salomon, una delle più originali pittrici della sua generazione (era nata a Berlino nel 1917). Nei pressi di Nizza, al riparo delle persecuzioni di cui erano vittime gli ebrei nella Francia di Pétain, Charlotte aveva realizzato la sua opera più originale, ora custodita in un museo di Amsterdam.
Lo stesso accadde in Dalmazia dove il governatore italiano era Giuseppe Bastianini. I tedeschi lamentavano questa «mancanza di collaborazione» e protestavano, ma le autorità italiane nelle regioni adriatiche della Jugoslavia poterono contare, sino all'8 settembre 1943, sul tacito consenso dei loro superiori romani.

(Corriere della Sera, 5 febbraio 2016)


Palestinese arso vivo, ergastolo a un minorenne ebreo

Con un altro sedicenne, al quale sono stati inflitti 21 anni, partecipò all'omicidio di Mohammad Abu Khdeir nel 2014.

di Susan Dabbous

GERUSALEMME - Ergastolo per un minorenne ebreo ultraortodosso. È volutamente dura la condanna della magistratura israeliana, che ha sentenziato ieri la prigione a vita per uno dei tre responsabili dell'efferato omicidio di un palestinese sedicenne, Mohammad Abu Khdeir, bruciato vivo nel luglio del 2014 a Gerusalemme.
   Il diciassettenne, di cui non è stata diffusa l'identità perché minorenne, avrebbe partecipato attivamente al rogo di Khdeir versandogli sopra della benzina. Gli altri due arrestati, anche loro ebrei ultraortodossi, sono un sedicenne, condannato ieri a 21 anni di prigione per aver «aiutato logisticamente», e il 31enne Yosef Haim Ben-David, considerato l'istigatore del sequestro e della successiva uccisione del palestinese. I suoi legali sostengono però che l'uomo sia squilibrato e che quindi non era responsabile delle proprie azioni. Il tribunale ha comunque già stabilito la sua colpevolezza, ma deve ancora pronunciarsi sulla sua sanità mentale. Un'udienza è prevista l'11 febbraio, ma la famiglia della vittima già grida allo scandalo. «Mio figlio non tornerà più - ha dichiarato la madre, Suha Abu Khdeir - mentre i due che lo hanno ucciso tra dieci anni saranno fuori». Il brutale omicidio del palestinese aveva contribuito all'escalation delle violenze che culminarono nella guerra di Gaza del luglio-agosto 2014. La sentenza all' ergastolo arriva in un rinnovato periodo di violenze, che anche ieri ha visto un nuovo attentato.
   Due tredicenni arabo-israeliane sono state arrestate dopo aver accoltellato e ferito lievemente una guardia di sicurezza alla stazione degli autobus a Ramla, a sud-est di Tel Aviv. Le ragazzine hanno tirato fuori coltelli da cucina dallo zainetto della scuola, confermando un terribile trend che vede i teenager protagonisti di violenze imprevedibili.

(Avvenire, 5 febbraio 2016)


Polemica in Australia: venduti mappamondi senza Israele

Il colosso di abbigliamento casual e articoli di cancelleria Cotton On/Typo, ha scatenato le proteste della comunità ebraica: gli articoli sono stati ritirati.

Su alcuni piccoli mappamondi venduti in Australia manca Israele che è stata sostituita da un simbolo. E il nome che identifica il territorio è Palestina.
Il colosso di abbigliamento casual e articoli di cancelleria Cotton On/Typo, ha scatenato le proteste della comunità ebraica. Gli articoli sono stati ritirati dalla vendita nei 60 negozi Typo in Australia e online, pur restando per alcuni giorni in vetrina. Il presidente della B'nai B'rith Anti-Defamation League, Dvir Abramovich, ha detto al quotidiano The Australian che quando un cliente aveva reclamato, la risposta è stata che i mappamondi "erano considerati accurati a fini commerciali - e continua - Hanno risposto con il ridicolo argomento che non avevano abbastanza spazio per mettere la parola Israele ma avevano abbastanza spazio per mettere 'Palestina', che è un paese non esistente".
Una portavoce di Cotton On ha dichiarato che Israele non era stato escluso dalla mappa, ma per ragioni di scala era stato sostituito da un simbolo, con alcuni altri paesi, e una legenda dei simboli era inclusa nel globo. "Dopo aver ricevuto commenti dai clienti riguardanti la rappresentazione di alcuni paesi nel nostro mappamondo Typo, è stato deciso di ritirare il prodotto dalla vendita e di fermarne la produzione. Typo si scusa per ogni offesa causata dal prodotto e ribadisce di non seguire alcuna agenda politica", ha aggiunto.

(globalist, 4 febbraio 2016)


Tecnologia israeliana per produrre latte in Africa

di Leo Bertozzi

La zootecnia da latte israeliana è una delle più reputate al mondo, sia per il livello produttivo per vacca che supera i 100 quintali all'anno, sia per la tecnologia impiegata, che riguarda l'alimentazione animale, le condizioni di allevamento degli animali, il monitoraggio delle loro condizioni di salute, le modalità di mungitura.
Il "modello israeliano" per produrre latte viene adottato in varie parti del mondo, comprese USA e Russia, ma soprattutto in Asia. In Cina l'azienda israeliana AlefBet planners, specializzata nel fornire know-how e soluzioni tecnologiche, ha realizzato nella regione di Pechino il maggior impianto per produrre latte del paese ed il secondo mai realizzato al mondo, mentre a Shanghai ha progettato le attività di produzione di latte della Bright Dairy. In Vietnam ha predisposto il progetto per un allevamento da 15 mila vacche da latte su di un area di 800 mila metri quadrati. In India invece ha individuato specifici ricoveri per le vacche, considerate animali sacri nel paese.
Proprio con investitori indiani, l'azienda israeliana realizza ora un investimento da 600 milioni di Dollari in Sudan del sud, paese indipendente dal 2011 ma che ha sofferto una guerra civile che ha portato allo spostamento di oltre due milioni di abitanti. In questo paese verranno costruite cinque aziende da latte da 2.000 vacche ognuna, con adiacente impianto di mungitura. Le infrastrutture comprenderanno impianti con soluzioni adeguate alle complesse condizioni locali, che vanno dal reperimento dalle fonti idriche a quelle energetiche, agli impianti di ventilazione e rinfrescamento nelle stalle dato il clima caldo del luogo. Il progetto dovrà poi prevedere il reperimento degli alimenti per gli animali, che saranno sia prodotti localmente che importati. Altro intervento riguarderà la progettazione e realizzazione degli impianti di refrigerazione e dei mezzi per il trasporto di latte e derivati in tutto il paese.

(CIAL News, 4 febbraio 2016)


Emergenza Virus Zika: virologo israeliano intensifica la ricerca

 
Con i crescenti timori che il virus Zika possa trasformarsi in un'emergenza globale e che l'epidemia possa diventare peggiore di quella dell'Ebola, uno scienziato israeliano ha intensificato il suo lavoro per cercare di capire il motivo per cui questo virus, apparentemente innocuo, si sia trasformato in un'epidemia devastante.
  È stato il Brasile a lanciare l'allarme lo scorso mese di ottobre quando vi furono casi di microcefalia, una condizione devastante in cui un bambino nasce con un anomalia: circonferenza del cranio notevolmente più piccola della media per età e sesso. Da allora, ci sono stati 270 casi confermati, e 3.448 casi sospetti, contro i "soli" 147 nel 2014.
  Il virus si sta diffondendo in modo esplosivo attraverso le Americhe, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e in Brasile, 1,5 milioni di persone sono state infettate. Circa 23 paesi in tutto il mondo hanno messo in guardia le donne al fine di evitare una gravidanza fino al 2018 tra cui: Guyana Francese, Guatemala, Haiti, Honduras, Martinica, Messico, Panama, Paraguay, Suriname, Venezuela e Porto Rico.
  All'inizio di questa settimana, l'OMS ha convocato un comitato di emergenza. In risposta a questa crisi profonda, il virologo israeliano Dott. Leslie Lobel, del dipartimento di microbiologia, immunologia e genetica presso Università Ben Gurion, e altri colleghi di tutto il mondo stanno intensificando la loro ricerca contro il virus Zika che si trasmette all'uomo con una puntura di zanzara.

Vogliamo individuare cosa c'è di diverso in termini di risposta immunitaria genetica e virale. Perché, dopo più di 60 anni, questa patologia virus sta iniziando a cambiare e a diffondersi?

Lobel ha lavorato per diversi anni con gli scienziati ugandesi che hanno raccolto gli insetti nella Zika Forest in Uganda a studiare i virus. Recentemente sono impegnati nell'indagare se questo virus potrà avere alcun impatto su altre malattie gravi come Ebola.
  L'infezione Zika fino ad ora ha sempre causato solo lieve febbre, eruzioni cutanee, dolori articolari e congiuntivite per circa una settimana.
  Lobel ha recentemente iniziato l'esame di campioni di sangue appartenenti a persone infettate con Zika in Uganda e sta collaborando con un gruppo di San Paolo per studiare i ceppi virali Zika che si trovano in Brasile.

Solo se si riuscirà a dimostrare scientificamente che esiste una causa ed effetto tra infezione da Zika e microcefalia ci sarà la necessità di ricercare approcci terapeutici.

La loro ricerca è finanziata da sovvenzioni. Ma Lobel afferma che i governi debbano stanziare più fondi per la ricerca sulle malattie infettive e le scuole di medicina devono incoraggiare più studenti di specializzarsi in virologia e malattie infettive perché questi settori diventeranno ancora più problematici nei prossimi anni.

(SiliconWadi, 4 febbraio 2016)


Choc a Gerusalemme: soldatessa israeliana uccisa dai palestinesi

Ancora un attentato

di Fiamma Nirenstein.

 
Hadar Cohen
Ha il volto bello della diciannovenne la guardia della polizia di frontiera Hadar Cohen, uccisa nel primo pomeriggio di ieri dai terroristi palestinesi, il nuovo gradino compiuto ieri dal terrore antisraeliano: Hadar, che solo da due mesi era in servizio, insieme a una collega ventenne anch'essa ferita gravemente sorvegliava la Porta di Damasco della Città Vecchia a Gerusalemme. La giovanissima guardia insieme alla sua collega ha fermato col suo corpo una strage programmata da tre giovani palestinesi. Ahmed Zaharneh, Mohammed Kmail e Najeh Abu Al Rub sono riusciti a arrivare nel centro della capitale con le armi automatiche, i coltelli e, sembra anche con l'esplosivo di due congegni ritrovati pronti a essere detonati. I tre hanno sollevato i sospetti delle due giovani che hanno richiesto i documenti: allora i terroristi hanno cominciato a sparare e pugnalare.
   Le guardie hanno salvato la folla di ebrei e di arabi che come al solito circola nell'area dell'ingresso alla Città Vecchia. I tre assassini, poi uccisi in uno scontro seguito all'attacco, provenivano tutti dalla zona di Jenin; uno di loro era stato compagno di scuola di un altro palestinese ucciso dopo il suo attacco terrorista. Per arrivare da Jenin, i tre hanno certamente dovuto passare molti check point, portando con sé le armi oppure ricevendole lungo la strada. La complessità dell'azione e la pluralità delle armi mostrano una crescita del terrorismo che ha già fatto decine di vittime, e anche una specie di determinazione suicida che infatti Hamas ha subito lodato chiamandola «un duro colpo» alle misure di sicurezza israeliane.
   Il presidente Rivlin ha ringraziato le forze di sicurezza e le ha chiamate «un muro di difesa» dei cittadini d'Israele. Un muro molto assediato intorno al quale si infittiscono gli attaccanti: secondo la polizia dell'Autorità Palestinese sono stati appena arrestati 5 membri di un gruppo finanziato dall'Iran a Gaza e incaricato di compiere terroristi. L'organizzazione di nome a'Sabrin era passata anche in Cisgiordania dove anche gli Hezbollah, braccio armato dell'Iran, erano stati scoperti con una base terrorista.
   Dovrebbe dare da pensare che Hamas oltre a lodare i terroristi, si sia spesa in questi giorni in lodi per ringraziare «accademici e ricercatori delle università italiane per boicottare le istituzioni di ricerca e le università israeliane», un'esaltazione del boicottaggio accademico di 168 firmatari (pochi anche quelli, per altro) che hanno firmato contro conferenze, ricerche, incontri... insomma tutto quello che aiuta la cultura e la scienza, se in cooperazione con le istituzioni israeliane. Migliore prova del nesso fra boicottaggio e terrorismo non potrebbe esserci. Gli accademici italiani si accaniscono particolarmente contro l'Università di Haifa, città particolarmente colpita dai missili degli Hezbollah, dove si studia l'alta tecnologia con cui si producono i droni in grado di fotografare dall'alto. Una straordinaria performance della mente scientifica quella di negare il diritto di Israele a difendersi, che cela poco bene il desiderio di vederla distrutta. Meno male che ieri il rettore del politecnico di Torino, Marco Gilli, abbia reagito alla petizione precisando che si «tratta di un numero abbastanza esiguo di ricercatori... la scienza non deve avere confini ideologici o politici».

(il Giornale, 4 febbraio 2016)


La vice sindaca etiope di Tel Aviv. «Io, il Mossad e la terra promessa»

Mehereta Baruch-Ron, salvata a 9 anni grazie all'Operazione Mosè.

di Elisabetta Rosaspina

«Operazione Mosè»: lei c'era. Aveva nove anni quando, nel 1984, il Mossad e la Cia organizzarono un ponte tra il Sudan e Israele per mettere in salvo oltre nove mila ebrei etiopi. Mehereta Baruch-Ron, attuale vicesindaca di Tel Aviv, era una di loro. Con due sorelle, camminò per più di tre settimane dal suo villaggio, nel nord dell'Etiopia, fino a un campo profughi in Sudan, a 800 chilometri di distanza, dove rimase a bivaccare per sei mesi. Poi la traversata per l'Europa, infine il volo El-Al verso la «terra promessa», l'elettricità, l'acqua corrente, un vero bagno, la scoperta di oggetti ignoti, come il frigorifero, o di meraviglie tecnologiche, come una tubatura funzionante.
   Sull'esodo il governo sudanese aveva chiuso gli occhi. Ma, dopo pochi mesi, se ne accorsero i suoi alleati arabi; e le partenze furono bloccate. Fino a nuovi trasferimenti predisposti dai servizi segreti: l'Operazione Ioshua e l'Operazione Salomone, nel 1991. «Ci sono voluti sei anni perché la nostra famiglia potesse ricongiungersi in Israele».
   Mehereta Baruch-Ron sa di che cosa si parla quando si parla di immigrati, di fughe notturne, di ordini sussurrati nel buio, di profughi ammassati come merci, di clandestinità e di riscatto. Anche per questo era a Milano, l'altra sera a Palazzo Marino, alla cerimonia per il conferimento a don Virginio Colmegna del premio «Uomo dell'anno 20l6», attribuito dagli Amici del Museo d'arte di Tel Aviv: «Per la sua dedizione ai poveri e ai più deboli - si legge nella motivazione - e per aver fatto dell'arte e della cultura strumenti di accoglienza e di integrazione».
   La sua Casa della carità somiglia ai collegi di Hadera (nel distretto di Haifa) e del Monte Carmelo che accolsero Mehereta quando sbarcò ad Ashkelon, nel Negev occidentale, senza i genitori e senza conoscere una parola di ebraico. I musei e il teatro colmarono le distanze, ruppero le barriere.
«Ci chiamano falasha, il nome etiope per chi è forestiero - racconta Mehereta -; non è un bel termine, ma !'idea di essere fuori posto e che ci fosse una terra promessa, la mia vera patria, ad attendermi, mi ha accompagnata fin da bambina. Ricordo che una delle mie zie aveva studiato e poi lasciato il villaggio per andare in città a insegnare. lo avevo 7 anni e tremavo per lei, costretta a nascondere di essere ebrea».
   E ora, che cosa prova per il suo Paese natale? «Non ho più nessuno della mia famiglia laggiù. Non è rimasta alcuna emozione dentro di me. L'Etiopia è bellissima; è diventata un Paese moderno, con un ottimo esercito, una nazione fiera di non essere mai stata invasa, a parte il breve periodo di occupazione italiana. Ma la mia terra, come quella di milioni di russi, polacchi, americani e altri ebrei arrivati da tutto il mondo, è Israele. Dove siamo nati una seconda volta».
   Grazie alla fede comune, certo. Ma non solo, per Mehereta: «Ha ragione don Colmegna quando dice che dobbiamo cercare una nuova umanità. Non è più rilevante che l'Italia sia formata solo da italiani o Israele solo da israeliani. La globalizzazione ha creato nuove sfide e gli aspetti negativi dell'immigrazione non superano quelli positivi. È un costo, sì, ma arricchisce. Ci sarà pur in Italia un sindaco nato in Africa, in Siria, vero?».

(Corriere della Sera, 4 febbraio 2016)


Obama è ostaggio della politica dell'Iran, che estorce riscatti e crea precedenti pericolosi

Perché il deal è l'opposto del celebrato trionfo della diplomazia. Il regime è riuscito di ottenere un risultato politico facendo leva su un prigioniero americano, cosa gli impedirà di fare la stessa cosa in futuro per per evitare ispezioni nucleari?

di Mattia Ferraresi

New York. Con l'enfasi delle grandi occasioni, Barack Obama ha magnificato i "progressi storici" fatti con l'Iran "attraverso la diplomazia" nel contesto dell'accordo nucleare appena implementato, il New York Times e la stampa d'establishment si tolgono il cappello per salutare la liberazione del giornalista Jason Rezaian e nello stesso respiro esalta la "visionaria determinazione" del presidente che ha scelto la strada della "paziente diplomazia". E' una vittoria "intelligente e disciplinata" delle arti diplomatiche che rende "il mondo più sicuro" e Obama un leader più autorevole. Questa versione trionfale del fine settimana di prigionieri rilasciati, sanzioni revocate e introdotte, scricchiola se si considera che Rezaian e gli altri tre americani detenuti in Iran non sono stati liberati nel contesto di uno scambio di prigionieri, ma l'Amministrazione ha pagato un riscatto per riavere le persone che Teheran teneva in ostaggio. Il prezzo è l'amnistia per sette cittadini con passaporto iraniano a processo negli Stati Uniti, e il ritiro delle denunce per altri quattordici ricercati dalle autorità. Oltre a questo ci sono i cento miliardi di dollari in sanzioni scongelate che la Casa Bianca ha ufficializzato domenica, inaugurando la fase operativa dell'accordo nucleare con l'Iran.
   La Casa Bianca insiste che le due partite, i prigionieri e le sanzioni, sono separate, ma anche volendo credere che la loro risoluzione contemporanea sia una pura coincidenza, la Reuters sabato scriveva che, nel corso delle trattative sulle sanzioni, "il ministro degli Esteri Javad Zarif ha avvertito il segretario di stato, John Kerry, che una mossa avrebbe potuto far saltare lo scambio di prigionieri che le parti negoziavano in segreto da mesi". Se anche Washington le considerava vicende separate, per Teheran erano unite, eccome. Così si è chiarita la dinamica: Rezaian era un ostaggio del regime, è stato fermato e imprigionato per diciotto mesi ingiustamente, senza potersi difendere da accuse nebulose e inafferrabili, e come per tutti gli ostaggi la sua custodia era funzionale al riscatto. Non è stata dimostrato alcun reato commesso dal giornalista del Washington Post, l'idea stessa che possa essere parte di uno scambio di prigionieri condannati da tribunali americani mostra chi, in questo rapporto, impugna il manico e chi arretra di fronte alla lama. E' ardito rappresentare tutto questo come il trionfo della diplomazia, che è la disciplina che dovrebbe evitare le estorsioni malavitose di concessioni fra stati sovrani.
   La "visionaria determinazione" di Obama è talmente visionaria che non si è resa conto che la concessione alla politica degli ostaggi fatta a Teheran è un precedente pericoloso. Se al regime è riuscito una volta di ottenere un risultato politico facendo leva su un prigioniero americano, cosa gli impedirà di fare la stessa cosa in futuro per ottenere nuove concessioni, per evitare ispezioni nucleari, per non dovere sottostare a tutte le condizioni imposte - queste sì - dalla diplomazia? Nelle prigioni iraniane ci sono già un paio di ostaggi che potrebbero tornare utili per il prossimo round di negoziati. In questo contesto la liberazione immediata dei marinai americani - ma non dopo avere umiliato l'avversario imponendo scuse ufficiali dei soldati in favore di telecamera - si mostra per ciò che è: una sceneggiata canzonatoria messa in piedi per mostrare che l'Iran è un paese normale che rispetta le norme internazionali, non un regime che cattura nemici appena può. Anche su questo il New York Times ha le idee chiare: "Normalmente questo episodio avrebbe causato una crisi", mentre un paio di telefonate hanno risolto tutto. Il fatto è che l'ostaggio non era su quella nave, ma in una prigione di Teheran. Infine, Obama ha trovato anche la foglia di fico per coprire le sue debolezze: le sanzioni per il programma missilistico convenzionale. L'America ha punito undici soggetti che collaborano all'espansione dell'arsenale iraniano, manovra che gli consente di dire che "rimaniamo saldi nell'opporre il comportamento destabilizzante dell'Iran", incluse le "minacce a Israele e ai nostri partner del Golfo". Ma la punizione è talmente lieve e la minaccia tanto incerta che a breve giro di posta Teheran ha annunciato che il programma missilistico continuerà indisturbato. La Casa Bianca spiega al mondo che l'America in questo negoziato parla a bassa voce ma ha in mano un bastone bello grosso, come vuole l'antica regola di Teddy Roosevelt; peccato che Teheran tenga in ostaggio Obama e la sua politica.

(Il Foglio, 4 febbraio 2016)


La prima volta di Samantha Cristoforetti in Israele

Samantha Cristoforetti
TEL AVIV - Invitata dall'Agenzia spaziale israeliana (Isa), l'astronauta italiana Samantha Cristoforetti è arrivata per la prima volta in Israele nell'ambito della undicesima edizione dell''Ilan Ramon International Space Conference' importante evento del settore che prende il nome dall'astronauta israeliano perito nel 2003 in Texas nell'incidente dello Shuttle Columbia. Cristoforetti oggi ha incontrato alla Tel Aviv University, in una riunione organizzata dall'ambasciata italiana in Israele, i giovani israeliani interessati alla tecnologia spaziale e alla sua esperienza. Ieri sera Cristoforetti ha visto invece la comunità italiana e quella scientifica israeliana in un evento presso la residenza dell'ambasciatore Francesco Maria Talò. Il presidente dell'Agenzia spaziale italiana (Asi) Roberto Battiston nel su discorso ha sottolineato "la stretta cooperazione scientifica" nel settore tra Italia e Israele. Nel pomeriggio di ieri Cristoforetti - insieme ai due astronauti, Shannon Walker (Nasa) e Yi So-yeon (Korea) - ha fatto parte di un panel dedicato dalla Conferenza alle sfide spaziali del futuro.

(ANSAmed, 3 febbraio 2016)


Attentato a Gerusalemme, uccisa una agente israeliana

Nuovo attacco a Gerusalemme. Tre palestinesi di Jenin in Cisgiordania hanno ucciso a colpi di arma da fuoco un'agente della polizia israeliana di 19 anni e ferito due suoi colleghi che versano in condizioni medio gravi, prima di essere uccisi dal fuoco di reazione delle forze di sicurezza. Il premier Benyamin Netanyahu ha convocato stasera una riunione di emergenza dei capi della sicurezza per discutere della situazione. L'assalto dei 3 palestinesi è avvenuto nei pressi della Porta di Damasco che immette nella Città Vecchia, luogo fatale per i molti episodi analoghi accaduti. I fatti di oggi - compiuti con fucili automatici, coltelli e ordigni esplosivi - rappresentano, secondo il comandante del distretto di polizia di Gerusalemme, «un'escalation» nell'ondata di attacchi terroristici ai danni di civili e militari israeliani a Gerusalemme e in Cisgiordania. L'ipotesi delle autorità è che i palestinesi volessero compiere «un attacco su più larga scala». Un nuovo episodio dello «scenario da incubo», a giudizio di alcuni analisti, che preoccupa da mesi Israele. Preceduto, domenica scorsa, dall'assalto a colpi di arma da fuoco compiuto da un ufficiale delle forze di sicurezza palestinesi contro tre soldati israeliani al posto di controllo per diplomatici e funzionari di Beit El a nord di Ramallah in Cisgiordania. Un fatto che ha spinto, per la prima volta, l'esercito dello stato ebraico a chiudere per una notte e un giorno gli accessi e le uscite della capitale amministrativa palestinese (circa 30 mila abitanti), dove risiede il presidente Abu Mazen (Mahmoud Abbas) e la leadership dell'Olp. Nessuna organizzazione per ora ha rivendicato i fatti di oggi a Gerusalemme, ma Hamas da Gaza ha lodato l'azione che, a suo giudizio, ha costituito un serio colpo alle misure di sicurezza israeliane. Secondo una ricostruzione della polizia, i tre palestinesi - Ahmed abu Al-rub, Mohammed Kamil e Ahmed Zakarna tutti ventenni di Kabatia, vicino Jenin - sono arrivati alla Porta di Damasco armati di fucili Carl Gustaf, coltelli e ordigni esplosivi. Due agenti donna - di cui una poi uccisa - e un loro collega li hanno avvistati ed hanno avuto dei sospetti. Alla richiesta dei documenti, uno dei tre palestinesi ha presentato una carta di identità israeliana all'agente e subito dopo l'ha accoltellata, mentre gli altri due hanno aperto il fuoco contro di lei e gli altri poliziotti ferendoli tutti. Poi sono stati colpiti dagli spari degli altri agenti accorsi. Mentre l'intera area - una delle più centrali della città - è stata chiusa al traffico e ai pedoni, gli specialisti hanno disinnescato due tubi bomba portati dai tre palestinesi. Hadar Cohen - questo il nome della poliziotta, morta in ospedale - era da poco entrata in polizia così come l'altra agente che versa in condizioni gravi in ospedale, mentre il terzo agente non sarebbe in pericolo.

(Online News, 3 febbraio 2016)


Il cielo di Auschwitz: incontro col sovravvissuto Piero Terracina

 
Piero Terracina
Quando il 16 ottobre 1943, i nazisti rastrellarono il ghetto ebraico di Roma, arrestando e deportando 1.259 persone, Piero Terracina non aveva nemmeno 15 anni. In un primo tempo era riuscito a nascondersi con la sua famiglia ma, qualche mese dopo, nell'aprile 1944, un delatore li denunciò. Dopo un breve transito nel campo di Fossoli, Piero e tutti i suoi famigliari (genitori, fratelli e sorella, zii e nonno) furono caricati su un carro bestiame e, insieme a molti altri, portati in Polonia, nell'immenso campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove tra il 1941 e il 27 gennaio 1945, furono uccise oltre un milione e centomila persone. Piero fu l'unico della sua famiglia a fare ritorno.
Chi è stato ad Auschwitz-Birkenau avrà forse notato il cielo. Un cielo molto diverso da quello cui siamo abituati noi. Là non ci sono catene montuose che chiudono e rallentano i venti, perciò il cielo di Auschwitz è un cielo veloce, mutevole, instabile: è capace di essere sereno e un attimo dopo di scaricare pioggia o neve, per poi tornare, subito dopo, sereno. È un cielo che cambia velocemente e non mantiene traccia del suo passato umore.
A noi, quel cielo, ricorda il nostro vivere d'oggi: veloce, mutevole, instabile. Un vivere che cambia velocemente nelle sue abitudini e nei suoi punti di riferimento e, spesso, rischia di dimenticare il suo passato. È per questo che abbiamo voluto mettere sotto quel cielo un racconto, quello di Piero Terracina, che dovrebbe tutti tenerci ancorati all'importanza del nostro passato.
Il 9 febbraio 2016, all'Auditorium Paganini (parco Eridania, via Toscana 5), ore 17.00, in occasione della Giornata della Memoria, Piero Terracina incontrerà la città per raccontare la sua esperienza a Birkenau. L'incontro è organizzato dal Centro studi movimenti, dalla Comunità Ebraica di Parma e da Sinagoga e Museo "Fausto Levi" di Soragna, in collaborazione con l'Assessorato alla cultura del Comune di Parma, il Consorzio solidarietà sociale e la Fondazione Matteo Bagnaresi. info: centrostudimovimenti@gmail.com, jewishparma@gmail.com.

(ParmaDaily, 4 febbraio 2016)


Accordo di collaborazione fra Onu e Agenzia spaziale israeliana per missioni civili

GERUSALEMME - L'Ufficio delle Nazioni unite per gli Affari spaziali (Unoosa) ha siglato un accordo con l'Agenzia spaziale israeliana (Isa) per la collaborazione nel campo delle missioni spaziali civili. Lo riferisce il quotidiano "Jerusalem post" riportando una dichiarazione del ministero della Scienza, tecnologia e spazio israeliano. L'accordo tra le parti è stato firmato da Simonetta Di Pippo, direttore dell'Unoosa, e da Menahem Kidron, direttore di Isa. In virtù dell'accordo siglato oggi Israele diventa un membro ufficiale dell'Unoosa e gli esperti israeliani del settore potranno partecipare alle sottocommissioni ed a progetti innovativi a livello globale. Daniel Brook, un consulente Isa per la cooperazione internazionale, ha detto che la firma dell'accordo "costituisce un'ulteriore nel rafforzamento dei legami tra Israele e Anoosa. Israele contribuirà con la propria preparazione tecnologica e cercherà di aumentare la cooperazione internazionale nello spazio".

(Agenzia Nova, 3 febbraio 2016)


La diplomazia dell'hummus: a Tel Aviv sconto se il cibo è condiviso da arabi e israeliani

L'idea è di Kobi Tzafrir, ebreo israeliano: "I giornali, le televisioni, i social network parlano continuamente di estremisti, e sembra che qui tutto sia brutto e pericoloso. Voglio dimostrare che non è così: generalizzare è sbagliato".

di Ambra Notari

 
 
 
 
Per chi non lo sapesse, lo hummus è una salsa a base di pasta di ceci e pasta di semi di sesamo, aromatizzata con olio di oliva, aglio, succo di limone e paprica, semi di cumino in polvere e prezzemolo finemente tritato. È molto diffuso in tutti i Paesi arabi, ed è un classico anche della cucina israeliana. Kobi Tzafrir è il proprietario di un hummus bar in un centro commerciale a Kfar Vitkin, a nord di Tel Aviv, ed è la mente di quella che è stata ribattezzata 'la diplomazia dell'hummus': nel suo locale propone lo sconto del 50 per cento sull'hummus se condiviso, allo stesso tavolo, da un arabo e da un ebreo. Un hummus servito kosher e halal. L'annuncio dal profilo Facebook: "Hai paura degli arabi? Hai paura degli ebrei? Da noi non ci sono né arabi né ebrei: da noi ci sono solo esseri umani, un eccellente hummus arabo e un magnifico falafel israeliano". Il post è stato condiviso oltre 8 mila volte, e l'iniziativa ha fatto il giro dei media mondiali, dagli Stati Uniti al Giappone.
   L'idea a Tzafrir è venuta il 13 ottobre, nel pieno della nuova ondata di violenza che ha colpito Israele. "I giornali, le televisioni, i social network parlano continuamente di estremisti, e sembra che qui tutto sia brutto e pericoloso. Voglio dimostrare che non è così: generalizzare è sbagliato", spiega. Tzafrir è un ebreo israeliano, appassionato di hummus ed estremamente fiducioso nei poteri di questa salsa. Cresciuto nella periferia di Tel Aviv, è cresciuto con l'hummus confezionato, comprato ai supermercati. Ma a 20 anni, l'epifania, con il primo piatto di pasta di ceci servita caldissima in un ristorante arabo. "Se mangi del buon hummus, ti innamori di chi l'ha preparato. L'ultimo tuo desiderio è di volerlo accoltellare".
   L'hummus bar di Tzafrir è aperto dalla scorsa estate e da quando ha annunciato l'iniziativa ribattezzata 'Peace of hummus' è già stata sfruttata diverse volte, e gli affari sono aumentati del 20 per cento, "merito anche dei tanti giornalisti locali e internazionali arrivati per raccontare la sua storia", sorride, e spiega che la sua idea, nata per durare solo qualche settimana, visti i buoni risultati probabilmente durerà per sempre.
   Shooky Galili, giornalista di Tel Aviv, ma anche storico e amante dell'hummus (si autodefinisce hummus-attivista, suo il sito www.humus101.com) spiega come l'hummus abbia una lunga storia come collante tra arabi ed ebrei. "Prima della nascita, nel 1948, del moderno Israele, gli ebrei di queste zone andavano a mangiare l'hummus nei ristoranti arabi. E fino a poco tempo fa - spiega - molti ebrei si spingevano in quartieri arabi per la stessa ragione: la pasta di ceci. Con i tempi che corrono, gli hummus bar sono diventati una vera e propria cartina tornasole dei rapporti tra i due gruppi: le violenze recenti hanno convinto gli israeliani ebrei che frequentavano i locali arabi a starne alla larga". Lettura confermata anche da Abu Hassan, gestore di un hummus restaurant a Jabba, il quartiere arabo di Tel Aviv, che ai giornalisti di Npr, radio di Washington, ha raccontato di avere visto precipitare i suoi affari.

(Redattore sociale, 4 febbraio 2016)


''Febbraio al Museo'', la rassegna fa tappa alla Sinagoga di Siena

Quattro appuntamenti da non perdere per scoprire l'universo ebraico. Si parte domenica 7 febbraio con il "Capodanno degli Alberi" per grandi e piccini, alla scoperta di un'importante festa ebraica che celebra i frutti della terra insegnando il rispetto dell'ambiente.

Quattro domeniche per un viaggio imperdibile alla scoperta della storia e delle tradizioni del mondo ebraico. La Sinagoga di Siena apre le porte e svela al pubblico i suoi preziosi segreti aderendo alla rassegna "Febbraio al Museo" organizzata dal Comune di Siena. Un mese tra workshop, laboratori di scrittura, musica e visite guidate per grandi e piccini inaugurando due filoni tematici che saranno sviluppati in futuro: Jewish Lives - una galleria di ritratti di personaggi ebrei di ieri e oggi intorno ai quali verranno costruite iniziative specifiche - e Objects in focus con approfondimenti narrativi intorno a oggetti del passato o del presente, opere d'arte, documenti, oggetti.
  Si comincia con domenica 7 febbraio alle ore 11 con il Tu Bishvat - Il Capodanno degli alberi: workshop per adulti e bambini sull'importanza della natura declinata attraverso i suoi risvolti più ecologisti. Mentre imperversa l'inverno, in Israele fioriscono i primi alberi: il "Tu Bishvat" celebra l'inizio dell'anno agricolo e le sette specie sacre ricordate nella Bibbia, dal grano all'orzo, dalle vite al fico, passando per il melograno, ulivo e datteri.
  Tradizioni ebraiche di nuovo sotto la lente d'ingrandimento domenica 14 febbraio, sempre alle 11, in occasione di Nomi, lettere e numeri: dalla Tav all'Alef. Un laboratorio di scrittura per tutta la famiglia durante il quale sarà possibile ascoltare antichi racconti ebraici e spiegare l'alfabeto sia ai bambini che agli adulti.
  Per il ciclo Jewish Lives andrà in scena domenica 21 febbraio, alle 10.30, l'omaggio a Edwin Elias Gordon (1927 - 2015), già presidente onorario di Aigam (Associazione Italiana Gordon per l'Apprendimento Musicale). Gli insegnanti Aigam svolgono in tutta Italia i corsi di Musicainfasce® rivolti a bambini da 0 a 36 mesi. Al matroneo della Sinagoga i bambini fino a 3 anni potranno partecipare a proprio una lezione di Musicainfasce®, un progetto di educazione musicale basato sulla Music Learning Theory di Gordon, riconosciuta dal Ministero dell'Istruzione Università e Ricerca. A guidarli sarà Nora Iosia, soprano e insegnante Aigam.
  Completa il ciclo "Febbraio al Museo" alla Sinagoga, domenica 28 febbraio alle 11, Objects in focus: La Sedia di Elia. La nascita nella tradizione ebraica: il percorso di visita prenderà ispirazione dalla preziosa Sedia di Elia realizzata da artisti senesi secondo lo stile "purista" di fine '800 per la cerimonia della circoncisione, conservata nella Sinagoga di Siena, per un viaggio attorno al tema della nascita nella tradizione ebraica, le cerimonie familiari, sapori e i canti. Sullo sfondo, filmati, canti e narrazioni alla scoperta del mondo ebraico.

(SienaFree.it, 4 febbraio 2016)


Dentro una fabbrica di bottiglie

Le fotografie della Phoenicia Glass Works, con distese di cocci di vetro che sembrano prati e montagne

Il fotografo israeliano di Associated Press Oded Balilty ha visitato l'unica fabbrica di contenitori in vetro di Israele, la Phoenicia Glass Works Ltd. di Yeruham, nel sud del paese. Ogni giorno alla fabbrica arrivano circa decine di migliaia di bottiglie da riciclare, che vengono tritate, ridotte in frammenti poi accumulati in gigantesche "dune" nel deserto, alte fino a 15 metri e che ricoprono una superficie pari a quella di diversi campi da calcio.
I frammenti di vetro vengono poi raccolti per essere fusi e trasformati in nuove bottiglie: ogni giorno la fabbrica ne produce circa 1 milione, per grandi aziende come Coca Cola, Pepsi, e Heineken e per produttori di vino e di olio locali. Quotidianamente, circa 300mila bottiglie escono dai forni con dei difetti, e finiscono insieme a quelle da riciclare. La fabbrica è attiva tutti i giorni dell'anno, 24 ore al giorno: i forni non possono essere spenti, perché il vetro fuso si solidificherebbe ostruendoli. Questo significa che alcuni dei circa 250 operai della fabbrica devono lavorare anche nel giorno dello Yom Kippur, la festa più sacra della religione ebraica, nella quale è vietato lavorare (oltre a fare moltissime altre cose). La Phoenicia Glass Works è l'unica fabbrica di contenitori in vetro di Israele, e estrae la sabbia, il principale ingrediente nella produzione del vetro, da una cava vicina.

(il Post, 3 febbraio 2016)


Herzog a Kerry, "l’attuale situazione tra israeliani e palestinesi non può continuare"

GERUSALEMME - L'attuale situazione tra israeliani e palestinesi non può continuare. Lo ha detto oggi Isaac Herzog, leader dell'Unione sionista israeliana, al Segretario di Stato Usa John Kerry come riferisce il quotidiano "Jerusalem post". Nel corso di un incontro tra i due, avvenuto a Roma, il principale leader dell'opposizione israeliana ha detto che "una politica di separazione tra i due stati è l'unico modo di rilanciare la sicurezza nella regione". Il politico israeliano ha aggiunto che dovrebbe essere formato un consiglio di sicurezza regionale comune comprendete l'Egitto, la Giordania, Israele ed altri paesi per affrontare al meglio la questione del terrorismo islamico radicale e promuovere le misure più adeguate a rafforzare la fiducia in Medio Oriente. Herzog ha poi aggiunto "gli israeliani vengono uccisi per le strade e i movimenti anti ebraici stanno guadagnando attenzione in tutto il mondo. Israele non può attendere lunghi negoziati diplomatici"

(Agenzia Nova, 3 febbraio 2016)


lo parlo ai nemici, come Giona

L'ultimo libro di Lévy «Essere ebrei è rivolgersi agli altri»

di Stefano Montefiori

Bernard-Henri Lévy
PARIGI - «In questo libro difendo l'umanesimo contro il comunitarismo. Sostengo che l'essere ebrei è rivolgersi agli altri uomini e mai restare chiusi in se stessi. Difendo una concezione aperta del giudaismo», dice al «Corriere» Bernard-Henri Lévy, alla vigilia dell'uscita in Francia del suo nuovo, saggio L'esprit du judaisme (Grasset). E un'opera filosofica e politica, un manifesto e un racconto personale. Sono 438 pagine che spiegano come sia stato inevitabile, per l'uomo che ha avuto la fortuna di conoscere Emmanuel Lévinas e diventarne allievo, sporcarsi le mani con la realtà. Difendere Israele, a partire dalla guerra dei Sei giorni fino a oggi. E accanto a questo, provare a modificare gli eventi e rifiutarsi di assistere all'orrore. Pensare, scrivere e agire, dal Bangladesh all'Ucraina, dal Darfur al Ruanda, dal Kurdistan alla Libia: cause teoricamente lontane, sentite come una chiamata individuale alla quale sarebbe stato illogico e ignobile resistere.
   «Il personaggio centrale del mio volume è il profeta Giona, l'unico che non parla ai suoi, ma che si rivolge al popolo più lontano, il più ostile. Ed è questo il suo dovere. Il libro di Giona è il mio libro preferito all'interno dell'Antico Testamento. Quello che nei viaggi ho portato sempre con me». Giona predica agli abitanti di Ninive, la capitale corrotta dei nemici, gli Assiri, sui quali sta per abbattersi la punizione divina. Giona parla ai nemici, e li salva. Oggi Ninive è Mosul, cuore dell'Isis in Iraq. «Sono stato a Ninive - scrive Lévy - non una ma molte volte. E ho passato una parte non trascurabile della mia vita ad agire in favore di popoli che non erano i miei, la cui sorte avrebbe potuto essermi indifferente e che erano talvolta, in potenza o in atto, i nemici di chi io sono».
   Oggi Ninive è anche la Libia. Nel 2011 Lévy si è impegnato di persona per convincere l'allora presidente francese Nicolas Sarkozy a intervenire in favore dei ribelli, per evitare il bagno di sangue promesso da Gheddafi. I raid aerei dell'Occidente fermarono i carri armati che stavano per compiere un massacro a Bengasi, Gheddafi è stato ucciso, ma le speranze di una primavera libica sono andate tradite, il Paese è in preda all'espansione dello Stato Islamico. Molti si indignano perché l'Occidente non è intervenuto in Siria e non ha salvato i siriani dalla furia di Assad, ma allo stesso tempo si rimpiange Gheddafi e la sua funzione stabilizzatrice. Si è pentito, Lévy, di avere aiutato i ribelli libici?
   «No, non ho cambiato opinione su quel che ho fatto in Libia e quel che continuerò a fare per tutta la mia vita - risponde -. Lo scontro tra democratici e fondamentalisti, tra moderati e integralisti è la battaglia della nostra epoca. Bisogna fare tutto il possibile per appoggiare coloro che, con molto coraggio, si battono all'interno dell'Islam contro la sua versione mortifera». Lévy crede nell'universalità dei diritti dell'uomo: è il suo spirito del giudaismo. «Niente di quel che ho fatto l'avrei fatto dice -, se non fossi stato ebreo».

(Corriere della Sera, 3 febbraio 2016)


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L'estratto - Non credere, ma capire. La missione degli ebrei

Maimonide parla di veridicità, non di convinzione religiosa. Dice che la conoscenza di questo presupposto è il primo dei comandamenti.

di Bernard-Henri Lévy

Uno dei miei figli, cui faccio leggere qualche pagina di questo libro e che si meraviglia del mio modo di evocare, evitare, senza però invocarlo mai veramente, il nome del divino, mi pone la domanda che forse si porranno altri lettori: credi in Dio?
A una domanda così diretta, rispondo altrettanto direttamente che non è lì il problema e che, in ogni caso, non si pone in quei termini.
Infatti, se tutto quello che ho scritto finora è, se non vero, almeno sensato, se il genio di Rashi, di Maimonide o di Giona somiglia a ciò che asserisco, se il Talmud è proprio quel getto di scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonata e riattivata a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevoli, di sensi costruiti o de costruiti, di enunciati ben articolati o bruscamente aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per adorare, ma per comprendere; e significa che il più alto compito al quale li convocano i libri santi non è di ardere d'amore, né di estasiarsi davanti all'infinito, ma di sapere e di insegnare.
Ricordo i testi di Levinas che accompagnarono i miei primi passi e che insistevano sulla grande ostilità del pensiero ebraico al mistero, al sacro, alla mistica della presenza, alla religiosità.
Ricordo i suoi ammonimenti, ripresi da Blanchot, contro il grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la precedenza sugli obblighi verso gli altri, al punto di vista sull'etica, all'indiscrezione nei confronti del divino la precedenza sulla sollecitudine verso il prossimo. (...)
Maimonide parla di veridicità, non di convinzione religiosa. Dice o, piuttosto, sotto-intende che la conoscenza, e la conoscenza solamente, di questo presupposto è il primo dei comandamenti. Senza retorica, senza parola di scongiuro, magica o mistica, insiste che l'edificio dei mondi riposa su un sapere originario, un pensiero, un da' at, mai su una fede iniziale. (...)
E tutti i testi ebraici che conosco lo dicono e lo ripetono: l'uomo non può vedere e vivere; stare nello spazio e nel tempo significa condannare se stessi a non vedere colui che è fuori da questo spazio e da questo tempo; se lo si vedesse, se si rivelasse in un vero vedere, ecco che io stesso non sarei più né in questo spazio né in questo tempo.
Ma soprattutto, mai e poi mai si tratta di crederci.
Mai, da nessuna parte, è pronunciato il «credo in unum Deum» richiesto da coloro ai quali si domanda se «credono in Dio».
La verità è che tutta questa storia del credere riguarda un'altra storia, molto bella, intensamente intrecciata nei cuori e negli affetti: è la storia della «fede che salva» dei paolini. Ma non è la storia di chi insiste nel dirsi ebreo...
Il «credo quia absurdum», per esempio, la rinuncia a entrare nel mistero della tomba aperta il giorno di Pasqua che fa così bella la cieca preghiera di Agostino o di Claudel: nulla è più contrario alla non meno grande bellezza della volontà di capire che è al centro del giudaismo. (...)
Sono lontano, molto lontano dall'essere all'altezza del nome ebreo e del mio nome.
Ma questo io so e ripeto un'ultima volta: non viene chiesto all'Ebreo, dal più istruito al più ignorante, dal più grande (che è anche il più piccolo) al più piccolo (che è anche il più grande) di «credere in Dio».
Il riferirsi a Dio come credenza è il punto di inizio, l'atto di nascita della religione, voglio dire del cristianesimo: ma per l'Ebreo può essere un errore; infatti l'abbandonarsi al cuore, il ricorrere alla fede dei semplici in nome dell'impossibilità del sapere, è un modo di differire l'intellezione che è ciò per cui, ancora un volta, l'Ebreo è giunto.
E non significa offendere i cristiani, tutti i cristiani, quelli della comunione come quelli dell'amore per il debole, i cristiani della confessione come quelli del cuore, se ricordiamo che la loro teologia, nata da una relazione geniale e al tempo stesso tragica al testo ebraico e al suo uso non è il punto di partenza di tutti gli atteggiamenti umani e che ne resta uno, quello ebraico, che si ostina a dire questo: ciò che si sa, lo si sa; ciò che si sa e si conosce, non è necessario crederlo; e se lo si crede, significa che si è rinunciato a conoscerlo, che si è voluto guadagnare tempo, tentare un azzardo che abolisca non il caso, ma la necessità di ostinarsi nel pensiero: e questa impresa, questo salto al quale Pascal ha dato la carica esistenziale, emotiva, intellettuale più grande che si possa immaginare, questo salto che fece di lui un genio prodigioso e infelice, all'ebreo si chiede soprattutto di non compierlo.

(Corriere della Sera, 3 febbraio 2016 - trad. Daniela Maggioni)


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Una bella forma d’uomo

di Marcello Cicchese

"Credi in Dio?" chiede il figlio di Levy al padre filosofo. Domanda diretta, semplice, infantile forse, ma ai bambini, si sa, bisogna rispondere in modo altrettanto semplice, diretto: sì o no. Poi aggiungere spiegazioni. Il padre invece risponde filosoficamente: non è questo il problema, la questione non va posta in questi termini. Non so se questo tipo di risposta si possa dire ebraico, ma in ogni caso non è originale: ricorda tanto i sessantottini (1968), per i quali il problema era sempre "un altro" e invocavano il "discorso a monte" ogni volta che si chiedeva loro qualcosa di concreto e pratico da fare. Ma a proposito di Bernard-Henri Lévy, mi viene in mente quella candida preghiera di bambino: "Signore, fa che i cattivi diventino buoni, e fa che i buoni diventino simpatici". Non so se il guascone Levy possa dirsi buono, ma certo è simpatico. Si è confezionato il suo giudaismo su misura, cosa lecita, per carità, non saranno certo gli ebrei (laici) a impedirglielo, e neppure i veri democratici. Come cristiano che si basa soltanto sulla Bibbia, avrei qualche domanda da fare all'ebreo filosofo. Visto che il tuo pensiero trae spunto da un libro del Tanach, che cosa pensi degli altri libri? Del libro di Isaia, per esempio. Qual era il male fondamentale in cui erano immerse le nazioni? e qual era il rischio più grande che correva Israele? La risposta in entrambi i casi è una sola: l'idolatria. Ed era questo che avrebbe dovuto distinguere Israele da tutti gli altri popoli. Ma gli idoli dei pagani come si presentavano? Erano brutti? No, al contrario, erano belli, molto belli. a misura d'uomo, e proprio per questo attraenti. La semplice, infantile domanda che vorrei rivolgere a Levy è questa: non ti sorge il dubbio che con la tua elaborata, stimolante costruzione teorico-etica tu ti sia costruito un bell'idolo? Proprio come quel costruttore di idoli di cui parla il profeta Isaia: "Il falegname stende la sua corda, disegna l'idolo con la matita, lo lavora con lo scalpello, lo misura col compasso, e ne fa una figura umana, una bella forma d'uomo" (Isaia 40:13).
Mi si perdoni il fatto che a causa dell'età mi venga naturale citare fatti e commenti del passato, ma mi torna in mente un articolo che scrissi subito dopo la caduta del muro di Berlino, nel lontano 1989. Ne riporto alcuni passaggi.
    «Dunque, il marxismo è definitivamente affondato.
      Il naufragio è stato lungo e travagliato; molti sono stati i tentativi di aggiustare la rotta e di alleggerire la stiva della merce inutile e pesante. Alla fine il maestoso transatlantico si è inabissato per sempre, in acque profonde da cui non risalirà mai più.
      Eppure era bello a vedersi, attraente, soprattutto a guardarlo di lontano. Era un meraviglioso progetto di salvezza dell'umanità che coinvolgeva tutti gli aspetti migliori della persona: stimolava l'uomo intellettuale a produrre analisi rigorosamente scientifiche della realtà; spingeva l'uomo politico ad operare concretamente per trasformare questa realtà, senza limitarsi ad interpretarla; parlava alla coscienza dell'uomo comune, esortandolo ad avere una sensibile "coscienza di classe" e a inserire la sua ricerca di felicità personale nel grandioso progetto di liberazione dell'uomo che nel nome del marxismo si stava perseguendo.
      Sarebbe grossolano e fuorviante fermarsi adesso a considerare le nefandezze dei protagonisti delle varie incarnazioni storiche di quello "spirito" che per circa un secolo ha percorso la storia mondiale con il nome di comunismo. Le sopraffazioni, le ingiustizie, le crudeltà non sono certo una caratteristica esclusiva dei paesi "a socialismo reale", ma appartengono, in misura più o meno accentuata, a tutte le forme di governo umano, e in particolare a molti di quei governi che precedettero l'avvento del comunismo. Non è questo dunque il metro adatto per valutare una poderosa manifestazione dello spirito umano come il marxismo.
      Interessante e istruttivo è proprio considerare la dottrina marxista nel suo aspetto più attraente: quello teorico.
      Innumerevoli sono stati i pensatori che si sono richiamati al marxismo, che lo hanno chiosato, modificato, adattato. Lo hanno fatto anche molti cristiani, non solo cattolici (il che non sarebbe strano: ci deve essere un interfaccia cattolico per ogni immaginabile ideologia umana), ma anche protestanti. "Ci confessiamo cristiani e ci diciamo marxisti", proclamavano con compiaciuta sicurezza qualche anno fa i protestanti "storici" italiani di una certa corrente. E la cosa si può capire, perché la dottrina marxista era grandiosa, avvincente, bella. Sì, era bella, perché si poneva al servizio dell'uomo e gli offriva una percorribile via di liberazione. Appariva intelligente nelle analisi, realistica nelle valutazioni, concreta nelle proposte: come avrebbero potuto, dei cristiani preparati attenti e impegnati, non prenderla in seria considerazione? Il falegname marxista aveva costruito un'ammirabile "figura umana", una "bella forma d'uomo", di cui poteva andare fiero.
      Era bella, ma era un idolo. Era un dio che "non aveva fatto i cieli e la terra", e quindi era inesorabilmente destinato "a scomparire di sulla terra e di sotto i cieli" (Geremia 10:11). E il falegname marxista, nella sua follia, si è prostrato davanti all'opera delle sue mani, l'ha adorata, l'ha pregata, e le ha detto: "Salvami, poiché tu sei il mio dio".
    "Si tagliano dei cedri, si prendono degli elci, delle quercie, si fa la scelta fra gli alberi della foresta, si piantano dei pini che la pioggia fa crescere. Poi tutto questo serve all'uomo per far del fuoco, ed ei ne prende per riscaldarsi, ne accende anche il forno per cuocere il pane; e ne fa pure un dio e l'adora, ne scolpisce un'immagine, dinanzi alla quale si prostra. Ne brucia la metà nel fuoco, con l'altra metà allestisce la carne, ne cuoce l'arrosto, e si sazia. Ed anche si scalda e dice: 'Ah!! mi riscaldo, godo di veder questa fiamma!' E con l'avanzo si fa un dio, il suo idolo, gli si prostra davanti, l'adora, lo prega e gli dice: 'Salvami, poiché tu sei il mio dio!'" (Isaia 40:14-15).»
L’idolo marxista è defiinitivamente crollato, ma i costruttori di altri magnifici idoli, di belle forme d’uomo adatte ai tempi ci sono ancora. Anche all’interno del popolo che Dio s’è scelto.

(Notizie su Israele, 3 febbraio 2016)


Israele, l'università sforna-invenzioni e il riflesso vetero-arabo dei nostri prof

169 docenti italiani contro gli scambi di ricerca con l'ateneo di Haifa. Il 20% degli alunni e il 15% degli insegnanti è palestinese. Il plauso di Hamas per l'iniziativa.

di Leonardo Coen

Il Technion di Haifa
Alla fine del 2014, il Politecnico di Torino, l'Università di Torino e il Technion di Haifa stringono un accordo di collaborazione e di ricerca che riguarda alcune problematiche essenziali: la salute, l'energia, l'acqua. L'Israel lnstitute of Technology di Haifa (conosciuto come Technion) è una delle università più prestigiose al mondo. Un polo d'eccellenza che vanta 4 Nobel, l'ultimo è Dan Shechtman, che lo ottenne nel 2011 per la scoperta sui quasicristalli. Lo scorso novembre, quando al Campus di Agraria di Grugliasco si tenne il primo incontro previsto dalla convenzione - sulla tematica dell'acqua - un gruppo di studenti interruppe i lavori.
   Il giorno dopo apparve sulla facciata del Politecnico uno striscione di protesta in cui si accusava l'università torinese di aver stretto accordi con un ateneo israeliano che forniva sostegno scientifico all'occupazione "militare" e alla "colonizzazione" della Palestina. Tre mesi e mezzo dopo, esplode il caso: circola infatti per le università italiane una petizione di accademici e ricercatori italiani per boicottare l'accordo col Technion e, più in generale, contro le istituzioni universitarie israeliane. La sottoscrivono in 169. Nel documento si legge: "Non accetteremo inviti a visitare istituzioni accademiche israeliane; non parteciperemo a conferenze finanziate, organizzate o sponsorizzate da loro, o comunque non collaboreremo con loro". La petizione piace ad Hamas (Movimento per la Resistenza Islamica egemone nella striscia di Gaza), che ne parla con enfasi sul suo sito ufficiale e lancia un saluto ai firmatari.
   Federico Bussolino, vice-rettore dell'Università di Torino (che conta 2 mila docenti), insegna biochimica a Medicina, si occupa di oncologia sperimentale. Pare sinceramente indignato per l'iniziativa: "Rispetto le opinionixxx i altrui, è il gioco della democrazia, però la decisione di avviare questi progetti con Technion furono approvati a larga maggioranza dal nostro Senato accademico, lo stesso è avvenuto per il Politecnico. La democrazia ha un suo significato, anche a questi livelli. La cultura e la scienza non devono essere strumentalizzate dalla politica. La libertà totale della scienza va a vantaggio dell'umanità, nella sua totalità. L'accordo con il Technion è totalmente accademico. Quanto a certe accuse, se noi abbiamo rapporti con industrie israeliane, la risposta è no. La scienza va oltre le ideologie, nel nostro caso prevede scambi tra studenti, dottorati e ricercatori su tematiche biomediche. La collaborazione internazionale a livello scientifico è per il benessere di tutti".
   L'indipendenza dalla politica, sostiene Marco Gilli, rettore del Politecnico, è uno dei "valori cardine dell'università". Gli accordi non prevedono nulla che abbia a che fare "con guerra o politica, la scienza è il miglior modo per superare le conflittualità. Boicottare Israele è boicottare la ricerca scientifica", ha detto, nel constatare che tra i firmatari della petizione ci sono alcuni docenti torinesi, "un numero esiguo di ricercatori", in rapporto ai 50mila accademici italiani. Più caustico Piero Abbina, presidente dell'Italian Technion Society (un ente privato che ha lo scopo di far conoscere in Italia l'attività dell'università di Haifa): "Il boicottaggio non è solo contro Israele e le sue politiche. È di chiaro stampo antisemita". La polemica è destinata a seminare zizzania. Il sindaco di Torino, Piero Fassino, è sceso in campo contro i firmatari del documento: "Il nostro obiettivo è far sì che Torino sia una città tollerante, aperta, capace di riconoscere ogni identità". Per questo, ha aggiunto, stigmatizza chi propone di boicottare l'accordo dell'Università e del Politecnico con il Technion. Dove, peraltro, il 15% dei docenti e il 20% degli studenti è arabo e dove l'eccellenza della ricerca non ha confini etnici o religiosi, in linea con la storia e la tradizione della città di Haifa. Forse è proprio questo ciò che infastidisce gli estremisti ideologici.

(il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2016)


I magnifici boicottatori italiani


Arrestato il professore che ha accusato Abu Mazen

Abed Sattar Qassem sostiene che il presidente e il capo dell'intelligence Majd Faraj non rispettino le leggi dell'Olp.

RAMALLAH - È stato arrestato dalle forze dell'Autorità nazionale palestinese Abed Sattar Qassem, il professore che la settimana scorsa in un'intervista televisiva ha accusato il presidente Abu Mazen e il capo dell'intelligence Majd Faraj di non rispettare le leggi dell'Olp.
Lo ha riferito il portavoce dell'Anp Youssef al-Mahmoud secondo cui l'arresto dell'ordinario di scienze politiche, 69 anni, all'università di Al Najah di Nablus, è avvenuto dopo che l'uomo è stato «denunciato da ignoti».
Il fatto è stato criticato dalle altre principali fazioni palestinesi come Hamas, Jihad Islamico e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp). Quest'ultima ha denunciato in comunicato stampa le motivazioni «puramente politiche» dell'arresto, sottolineando che il miglior modo di rispondere alle accuse di Qassem è «attraverso la comunicazione e non con manganelli, la detenzione e la creazione di menzogne».

(tio.ch, 3 febbraio 2016)


Odeya, la 18enne israeliana che ha stregato Hollywood

Odeya Rush è una di quelle giovani attrici che fanno ben sperare per il cinema di domani

di Catharina Steiner

 
Odeya con Dylan Minnette (a sinistra) e Ryan Lee, che con lei hanno recitato in "Piccoli brividi".
LOS ANGELES - Ha appena compiuto diciotto anni e ha già interpretato ruoli importanti, in particolare in "The Giver - Il mondo di Jonas" (USA, 2014) e in "Piccoli brividi" (USA, 2015), una pellicola, quest'ultima, tuttora nelle sale cinematografiche.
Nel frattempo, la giovanissima attrice israeliana, si è anche messa dietro la macchina da presa e ha diretto il suo primo cortometraggio, "Thanks", in cui si prende gioco dell'industria cinematografica: «Ho avuto modo di vedere cose talmente ridicole a Hollywood che ho deciso di mettermi a scrivere il copione», ha spiegato Odeya a 20 minuten. Tant'è che lo script, alla fine, ha preso forma soltanto in una notte.
La vita della giovane attrice, comunque, non è stata sempre semplice: in particolare nel momento in cui, a nove anni, si è trasferita, con il padre e i suoi sei fratelli, da Haifa, in Israele, dove è nata, a Birmingham, Alabama.
La mamma li ha raggiunti soltanto un anno più tardi. «Sono cresciuta in fretta - rivela - Spesso stavo a casa ad accudire i miei fratelli». Lei, quindi, in casa era l'unica ragazza, e per questo motivo ammette: «Diciamo che non sono così femminile… Talvolta rutto e non mi dispiace nemmeno indossare capi un po' maschili…».
E prima di concludere, a proposito del suo ruolo in "Piccoli brividi" dice: «Per gli uomini, spesso noi donne siamo solo degli accessori… E ciò che c'è di bello in Hannah (il personaggio che interpreta, ndr) è che lei, a differenza dei maschietti, non ha paura di nulla…».

(tio.ch, 2 febbraio 2016)


Eccellenza e integrazione, la realtà del Technion di Haifa

di Francesca Matalon

"Per quattro anni ho visto con i miei occhi ragazzi ebrei, musulmani, cristiani e drusi sedersi nelle stesse aule e passeggiare l'uno di fianco all'altro nel pieno rispetto del prossimo". Questa la frase che sintetizza l'esperienza di Nathan Nacamulli, laureato in Ingegneria Civile e Ambientale, al Technion di Haifa. Come lui, sono molti gli studenti ed ex studenti italiani dell'ateneo pronti a smentire l'appello per il boicottaggio lanciato negli scorsi giorni da un gruppo di accademici italiani. "Collaborare con il Technion significa rendersi attivamente partecipi del regime di occupazione, colonialismo e apartheid d'Israele e in questo modo essere complici del sistema di oppressione che nega ai palestinesi i loro diritti umani più fondamentali", il delirante atto di accusa dei firmatari.
   "Personalmente posso dire di aver studiato in complete sintonia in classe con studenti arabi israeliani residenti a Gerusalemme est, oppure di aver lavorato in gruppo con studenti cinesi, tibetani e indiani che non hanno mai posto barriere politiche alla collaborazione negli studi", sottolinea Manuela Vaturi, che da un anno lavora come ingegnere civile dopo aver concluso i suoi studi al politecnico israeliano.
   "Come italiano, non mi identifico quando sento queste accuse dettate dall'ignoranza, la cui falsità è testimoniata dall'alta percentuale di studenti arabi israeliani che frequentano con profitto il Technion", aggiunge Dan Terracini, che dopo la mechinah inizia ora i suoi studi di ingegneria elettrica.
   "Ricordo che amavo pregare a Minchah, la preghiera pomeridiana, in un angolo poco frequentato della facoltà", la testimonianza di Nacamulli.
   "Lì spesso e volentieri trovavo ragazzi arabi inchinati a terra a fare la loro preghiera pomeridiana. Con il sorriso sulle labbra e con la massima discrezione, per non disturbare ovviamente, mi allontanavo e mi trovavo un altro angolino". Ma gli esempi virtuosi di convivenza tra le diverse anime di Israele sono molti, e come spesso accade anche lo sport aiuta a superare le barriere.
   "Ho fatto parte della squadra di calcio a 5 del Technion, che tra l'altro è seconda tra le squadre universitarie del paese", racconta ancora Nathan. "Avevo compagni di squadra ebrei, musulmani e cristiani, ragazzi religiosi, come me, ma anche atei o quasi. Durante gli allenamenti si rideva e si scherzava assieme e durante le partite davano tutti il massimo per i propri compagni e per il bene della squadra".
   A colloquio con Pagine Ebraiche, il presidente dell'Italian Technion Society Piero Abbina ha invitato a ridimensionare la portata dell'iniziativa di boicottaggio, sottolineando il numero poco significativo di aderenti,"come poco significativo è il curriculum di quasi tutti i firmatari, assolutamente non di primo piano. Si tratta - le sue parole - in gran parte di pesci piccoli". Ciononostante, Dan afferma di sentirsi "offeso", in particolare perché "la storia ha dimostrato quanto sia pericoloso quando si seguono le opinioni non fondate della massa". Quella del Technion è stata per lui una scelta dettata dalla buona fama dell'ateneo: "Certo, ho deciso di studiare in Israele perché amo Israele, ma in primo luogo perché so che ho scelto un'università che rappresenta lo sviluppo, la tecnologia e l'innovazione".
   "Educazione e politica - sottolinea Manuela - dovrebbero sempre distinguersi per poter assicurare l'imparzialità dell'insegnamento. Il Technion è un esempio eclatante di rispetto, integrazione e imparzialità. Ogni studente viene rispettato a prescindere dal suo orientamento politico o religioso. La missione del Technion - aggiunge - è quella di perseguire la strada della ricerca scientifica, i cui risultati portano vantaggi oggettivi, in svariate discipline, a tutta la popolazione mondiale". E sull'eccellenza dell'università in cui ha studiato, anche lei non ha alcun dubbio: "I miei quattro anni al Technion sono stati l'esperienza di formazione più significativa della mia vita. Se oggi dopo solo un anno dal termine dei miei studi posso dire di essere un giovane ingegnere di successo nel più grande progetto di infrastrutture del paese è sicuramente grazie alla qualità dell'insegnamento accademico e morale ricevuto".
   
(moked, 2 febbraio 2016)


Sono gli uomini di Abu Mazen a combattere la Terza Intifada

di Luca Gamb.

 
Amjad Sakari, agente di sicurezza dell'Autorità Palestinese che ha aperto il fuoco contro militari israeliani
Domenica scorsa un membro delle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese ha ferito gravemente tre militari israeliani al posto di blocco di Beit El, all'ingresso della West Bank. L'assalitore ha fermato la sua vettura al check point e alla richiesta delle guardie di mostrare il suo documento di identità ha impugnato la pistola e ha aperto il fuoco contro i militari. L'attentatore, che è stato ucciso, si chiamava Amjad Sakari, aveva 35 anni, ed era anche una guardia del corpo del procuratore di Ramallah. E' il terzo attacco in meno di una settimana: il giorno precedente un ragazzo con doppia nazionalità israeliana e americana era stato accoltellato a Gerusalemme; stessa sorte toccata a un altro israeliano, aggredito a nord della città quattro giorni prima.
   Gli agguati contro gli ebrei si succedono da mesi ma soltanto ieri, dopo l'attacco di Beit El, le autorità israeliane hanno deciso per la prima volta dall'inizio della Terza Intifada di chiudere gli accessi alla città di Ramallah. Un portavoce dell'esercito ha annunciato che "soltanto i residenti della città potranno entrare e uscire" e che la decisione è stata presa "per motivi di sicurezza". Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha accusato il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen, di non avere condannato l'accaduto: "L'attacco è stato compiuto da un suo uomo, che percepiva uno stipendio dall'Autorità palestinese e che è responsabile di aver fomentato il terrorismo contro Israele. Chiedo alla comunità internazionale di fermare questa ipocrisia", ha aggiunto Netanyahu. L'attacco al varco di Beit El è soltanto l'ultimo di una serie in cui gli assalitori erano membri delle forze di sicurezza palestinesi.
   Prima di agire, Sakari aveva scritto su Facebook alcuni post, ripresi dal quotidiano Times of Israel, che lasciavano presagire le sue intenzioni. "A questo mondo ci sono delle cose che rendono la vita degna di essere vissuta", ha scritto appena due ore prima dell'attacco. "Eppure, sfortunatamente, non serve a niente vivere sotto questa occupazione che ci soffoca e che uccide i nostri fratelli e le nostre sorelle. Allah, ti prego, abbi pietà dei nostri martiri, guarisci i nostri feriti e spezza le catene dei nostri prigionieri. Voi siete stati i primi e ora, a Dio piacendo, noi saremo i prossimi". E infine: "Buongiorno, diventerò uno shahid (martire, ndr) e mi unirò ad Allah e al suo messaggero Mohammed. Questa è una mattina di vittoria". A gennaio un'esclusiva del Foglio aveva raccontato come dietro ad alcuni degli agguati contro gli israeliani ci fossero dei membri della Guardia presidenziale di Abu Mazen, il corpo d'élite che ha l'incarico di assicurare l'incolumità del presidente palestinese.
   Tra questi c'è anche Husam Nabil Adwan che, dalla sua pagina Facebook, ha alimentato per mesi la propaganda dell'Intifada dei coltelli. Oltra ad Adwan, la settimana scorsa l'esercito israeliano aveva identificato un altro agente dei servizi segreti palestinesi, Ala'a Barkawi, accusato di aver collaborato con una cellula terroristica della Samaria a un attacco in cui due militari israeliani erano rimasti feriti. E ancora, lo scorso dicembre un altro agente dell'intelligence palestinese, Mazen Hassan Orebeih, aveva ferito due militari israeliani presso il valico di Hizme, a nord di Gerusalemme. Una serie di episodi che conferma le ricostruzioni delle forze di sicurezza israeliane, secondo cui molti delle aggressioni non derivano da una semplice ondata di violenza spontanea e senza controllo, bensì da uomini appartenenti ai quadri delle forze di sicurezza palestinesi, ben addestrati e che agiscono con il chiaro intento di uccidere. Secondo alcuni membri dell'esercito israeliano sentiti dal quotidiano in lingua ebraica Israel Hayom, gli attacchi delle ultime settimane, e in particolare quelli compiuti in Giudea e Samaria, sono stati pianificati e realizzati con tecniche di "maggiore qualità". E nel breve termine non si prevede una loro diminuzione.

(Il Foglio, 2 febbraio 2016)


La miope tentazione unilaterale di Parigi

Perché la Francia dà per scontato che la mancanza di progressi negli ipotetici colloqui tra Israele e palestinesi sarebbe colpa di Israele e solo di Israele?

Un giorno soltanto dopo aver srotolato il tappeto rosso ai piedi del presidente iraniano Hassan Rouhani, il governo francese ha rivolto le sue attenzioni a Israele annunciando un'iniziativa volta a riportare israeliani e palestinesi al tavolo dei negoziati e minacciando di riconoscere unilateralmente uno "stato palestinese" se il nuovo tentativo di rilancio dei negoziati dovesse fallire. "La Francia si impegnerà nelle prossime settimane per la preparazione di una conferenza internazionale che riunisca le parti e i loro partner principali per preservare e realizzare la soluzione a due stati", ha detto il ministro degli esteri Laurent Fabius ad una conferenza di diplomatici francesi a Parigi. E ha aggiunto: "Se questo tentativo di raggiungere una soluzione negoziata finirà in un vicolo cieco, ci prenderemo la responsabilità di riconoscere lo stato palestinese"....

(israele.net, 2 febbraio 2016)


La base segretissima? L'avevamo scoperta noi

Lo scoop: «Ecco la prova che i russi sono in Siria». Ma Il Giornale era già lì.

di Fausto Biloslavo

 
Nell'immagine si vedono sei aerei SU-34, sette SU-24, nove SU-25
Un satellite israeliano ha fotografato la base russa in Siria con i caccia bombardieri allineati «denunciando il massiccio dispiegamento aereo», come se fosse uno scoop. L'agenzia Ansa ha subito pompato la «notizia». Le immagini sono rimbalzate sui siti dei giornaloni, ma in realtà si tratta della scoperta dell'acqua calda. La settimana prima dello scatto delle foto dal satellite israeliano un gruppone di giornalisti televisivi di tutto il mondo è stato portato con un volo militare da Mosca proprio nella base di Khmeimim ad una trentina di chilometri da Lata-Ida. La stessa «scoperta» dallo spazio. Il Giornale era l'unico quotidiano italiano e chi vi scrive ha fotografato da vicino gli stessi caccia russi allineati, che sono sad immortalati dalla stratosfera. Le foto satellitari verranno presentate oggi dal Fisher Institute for Air and Space Strategic Studies di Herzliya con l'obiettivo di dimostrare che i russi sono piazzati in Siria per restare. Le immagini sono state scattate il 26 gennaio e mostrano sei aerei SU-34, sette SU-24, nove SU-25 e quattro SU-30. Il giorno prima il Giornale pubblicava il reportage con i russi in Siria e la sfilza di aerei in primo piano. Non occorreva utilizzare un satellite, ma bastava andare sul sito del nostro quotidiano, che ospitava decine di foto e video degli aerei russi sul portale di reportage www.gliocchidellaguer-ra.it.
   Grazie alla grancassa mediatica le foto satellitare fanno più impressione. E rilanciano il dossier israeliano, che scopre l'acqua calda spacciandolo come scoop: «Dall'arrivo delle forze russe a Latakia, abbiamo identificato la massiccia presenza di SU-24 nell'area di mantenimento. Per quanto ne sappiamo questa è la prova». Il rapporto fa riferimento anche al dispiegamento delle moderne batterie anti missile S400, che a Khmeimim nessuno smentiva. L'Ansa riprende gli israeliani parlando di «oltre 30 aerei di combattimento russi» in Siria. Per la precisione sarebbero 46 i caccia bombardieri e due dozzine di elicotten comprese le versioni più moderne degli Hind d'attacco. Negli ultimi giorni la Difesa russa ha fatto trapelare la notizia che sono volati in Siria anche cinque nuovi Sukoi 35 S. Se l'obiettivo è dimostrare il ritorno in forza di Mosca nello scacchiere mediorientale non va dimenticata la flotta di 12 navi e sommergibili schierata soprattutto nel Mediterraneo ed impiegata in appoggio alle operazioni contro i ribelli estremisti in Siria.
   Le foto satellitare israeliane, che non scoprono nulla di nuovo, hanno relegato in secondo piano l'accusa di Mosca alla Turchia di bombardare con l'artiglieria il territorio siriano vicino al confine. Ieri il generale Igor Konashenkov ha mostrato dei video girati dai governativi e confermati da altre immagini dell'opposizione armata al regime di Damasco, che fanno vedere i colpi di artiglieria turchi con tanto di pennacchi di fumo quando esplodono su una collina. Secondo l'alto ufficiale russo «questa è la prova inconfutabile che le forze armate turche hanno bombardato insediamenti di frontiera siriani attraverso sistemi di grosso calibro». A loro volta i militari di Ankara accusano i russi di avere di nuovo violato lo spazio aero turco con un Sukoi 34. Mosca chiede di mostrare le prove. Nella «guerra» dell'informazione che si combatte a fianco di quella vera il comando russo ha annunciato di aver condotto 468 raid in Siria, la scorsa settimana, colpendo 1350 obiettivi contro i 50 della coalizione occidentale.

(il Giornale, 2 febbraio 2016)


Missili di Putin in Siria per far guerra ai turchi

Nella base di Latakia non ci sono solo i cacciabombardieri ma anche ordigni che con il contrasto all'Isis non c'entrano.

di Carlo Panella

In Siria la Russia ha ben altri obiettivi della lotta all'Isis, come risalta con nettezza da due notizie di ieri. La prima, è inquietante anche per l'Italia: Mosca ha installato infatti nei pressi di Latalda una grande quantità non solo di armi da guerra - come si sapeva - ma anche di batterie missilistiche a medio raggio S400 e SA22 Pantsyr, oltre a 11 aerei Sukhoi 24,10 Sukhoi 25 e, 7 Sukhoi 34 e 4 Sukhoi 30 (questi effettivamente impiegabili per i bombardamenti sull'Isis). Quelle batterie di missili supportano armi funzionali solo a una guerra tradizionale, sono inutili nel contrasto all'Isis, e mettono in atto una formidabile escalation che può avere un solo obiettivo utile: la Turchia, membro della Nato. Dunque, l'Italia, sulla base dell'articolo 5 della Nato, può essere un domani costretta a intervenire in un conflitto tra Turchia e Russia, esacerbato da quando Vladimir Putin ha deciso di costituirsi una «Crimea nel Mediterraneo», approfittando della imminente caduta del regime di Bashar al Assad. La rilevanza strategica - e non contingente - per Mosca di questa «nuova Crimea» è sottolineata dalla rilevanza della flotta militare che Putin ha dislocato nelle basi navali siriane di Latalda e Tartus e lungo le coste siriane, di cui fanno parte ben 5 sottomarini della classe Rostov, armati di missili a medio ras o, ma anche di missili intercontinentali e ben 54 navi con in testa l'incrociatore lanciamissili classe Slava, il Moskva, il cacciatorpediniere classe Udaloy Viceammiraglio Kulakov e la piccola lanciamissili classe Nanuchka, il Mirazh.
   Il conflitto tra Russia e Turchia non va sottovalutato nelle sue potenzialità esplosive, anche se per ora si combatte verbalmente. Ha infatti già prodotto l'abbattimento di un Sukhoi che aveva sorvolato il cielo della Turchia, episodio che ha rischiato di replicarsi domenica scorsa quando un altro Sukhoi russo ha violato il cielo turco (Mosca smentisce, ma la Nato conferma la versione turca).
   Le installazioni missilistiche russe in Siria, sulle rive del Mediterraneo, sono state rilevate senza possibilità di smentita dal satellite israeliano Eros - oggi verranno illustrate alla stampa dal Fisher Institute, che ne ha anticipato il contenuto - e secondo Tal Inbar, direttore del Fisher Institute «costituiscono la prova che Mosca non è sbarcata in Siria per un'operazione temporanea in appoggio al presidente Assad. Il tipo di equipaggiamento e di armamenti dimostra che sono lì per rimanere e questo cambia la situazione strategica nella regione».
   Ma una seconda notizia conferma questo quadro: ieri ben 3.100 profughi turcomanni sono fuggiti disperati in Turchia a seguito dell'avanzata delle truppe lealiste di Assad nella loro regione, in cui hanno conquistato la località di Rabyia, solo grazie al massiccio apporto dei bombardamenti dell'aviazione russa. Ora, è assolutamente noto e appurato che i miliziani turcomanni non hanno assolutamente nulla a che fare con l'Isis - anzi, l'hanno sempre contrastata - e che combattono contro Assad per affermare i loro diritti di minoranza oppressa (peggio dei curdi).
   Mentre cresce l'escalation in Siria, va sempre in scena a Ginevra l'ennesimo tentativo dell'Onu di dare uno «sbocco politico» alla crisi, con possibilità nulle di esito positivo. Dopo due giorni dall'inizio della «trattativa» il rappresentante del segretario dell'Onu Staffan de Mistura è riuscito solo a organizzare un suo incontro con la delegazione dell'Alto Comitato per i Negoziati (Hnc), che riunisce le 15 più importanti organizzazioni anti-Assad sponsorizzate da Arabia Saudita e Turchia, a esclusione quindi dell'Isis, al Nusra e curdi del Ypg. Questi ultimi sono stati esclusi dal tavolo senza che le altre organizzazioni anti Assad abbiano minimamente protestato, elemento più che indicativo del loro auto isolamento settario. A indicare come siano ridotte al nulla le possibilità di un accordo - e forse anche di un incontro collegiale tra i due fronti - basta ricordare che Mohammed Alloush capo neogoziatore del Hnc è considerato un «terrorista» sia da Assad che dalla Russia (che ha tentato più volte di ucciderlo.

(Libero, 2 febbraio 2016)


I protocolli dei prof. contro Israele

Iniziarono in otto, oggi sono diventati un partito. 168 accademici italiani, fra cui alcuni dei Lincei, aderiscono al boicottaggio dello stato ebraico. I capi di Hamas li ringraziano. Qualcuno si ricorda di Tullio Levi Civita?

di Giulio Meotti

Alla sua destra Francesco Severi, alla sua sinistra Enrico Bompiani, i due matematici "ariani" che lo hanno sostituito in virtù delle leggi razziali fasciste
Il prof. Tullio Livi Civita
ROMA - Il movimento per il boicottaggio di Israele ufficialmente è arrivato in Italia nel febbraio 2003, quando una decina di professori dell'Università di Venezia Ca' Foscari invitò a boicottare lo stato ebraico. "Non assisteremo a conferenze in Israele e non risponderemo alle richieste scientifiche e culturali che arriveranno dallo stato ebraico", si leggeva nella decisione dei docenti veneziani guidati da Riccardo Zipoli, direttore del dipartimento di Studi eurasiatici dell'università veneziana. Contemporaneamente, all'Università di Bologna, un gruppo di professori fece circolare un documento agghiacciante: "Abbiamo sempre considerato il popolo ebreo intelligente, sensibile, forte forse più di tanti altri perché selezionato nella sofferenza, nelle persecuzioni, nelle umiliazioni subite per secoli, nei pogrom e nei campi di sterminio nazisti. Sentiamo purtroppo che la nostra stima e il nostro affetto per voi, per il popolo ebreo, si sta trasformando in dolorosa rabbia per quello che state facendo al popolo palestinese". Ma da allora, l'Italia era rimasta fuori dalle grandi iniziative culturali contro Gerusalemme che stavano prendendo piede in tutte le università d'Europa. Fino a oggi.
  Due giorni fa il salto di qualità, con tanto di apprezzamento da parte di Hamas, che sul suo sito ufficiale scrive: "Il Movimento per la Resistenza Islamica saluta una petizione di accademici e ricercatori italiani per boicottare le istituzioni e le università di ricerca israeliane". A parlare così è Sami Zuhri, il portavoce del regime islamista di Gaza. Il riferimento è al documento, firmato da 168 accademici italiani, che invita a boicottare l'accademia israeliana, a cominciare dal Technion di Haifa, fucina di ben quattro premi Nobel. I 168 docenti e ricercatori italiani hanno messo giù un vero e proprio programma di lavoro: "Non accetteremo inviti a visitare istituzioni accademiche israeliane; non parteciperemo a conferenze finanziate, organizzate o sponsorizzate da loro, o comunque non collaboreremo con loro". Ci sono nomi importanti: il fisico dell'Università di Firenze, Angelo Baracca; Cristina Accornero, docente all'Università di Torino e autrice per Donzelli; lo storico della Sapienza di Roma, Piero Bevilacqua, autore Einaudi e Laterza, già direttore della rivista Meridiana; Carlo Alberto Redi, docente all'Università di Pavia e membro dell'Accademia Nazionale dei Lincei; Angelo Stefanini, medico del Centro di salute internazionale dell'Università di Bologna; Giorgio Forti dell'Università di Milano; l'accademico e studioso di Nietzsche, Domenico Losurdo, fino all'azionista Angelo D'Orsi.
  Lo scorso ottobre il giornale inglese Guardian ha pubblicato un appello simile con trecento firme e fra queste molte italiane. Qualche mese prima, cinquecento antropologi avevano approvato il boicottaggio d'Israele e anche quella volta, fra i firmatari, comparivano tanti italiani. Come nell'appello all'allora commissario europeo alla Ricerca, Màire Geoghegan-Quinn, per chiedere l'esclusione delle università israeliane. La prossima primavera, la Società Italiana di studi sul medio oriente terrà una tavola rotonda sul boicottaggio durante la sua conferenza annuale. Per la prima volta un'associazione universitaria discuterà pubblicamente di come isolare i colleghi israeliani. Il panel si intitolerà "Conoscenza e Potere", è organizzato da Paola Rivetti dell'Università di Dublino e avrà come ospite Laleh Khalili, l'accademica di origini iraniane della University of London che, nel 2005, promosse il boicottaggio dell'Association of University Teachers, il più grande sindacato di insegnanti del Regno Unito. Da allora, il boicottaggio di Israele ha contaminato tanti pezzi dell'accademia europea.
  Ieri il giornale israeliano Haaretz riportava la notizia di un docente inglese che ha rifiutato di collaborare con uno dei suoi laureandi soltanto perché israeliano: "Temo che, come parte del boicottaggio istituzionale osservata da parte di alcuni studiosi nei confronti delle organizzazioni israeliane, non posso aiutarla con la sua richiesta".
  In Italia è già successo, nel 1938, quando l'Unione matematica italiana sostituì in quanto ebreo il suo rappresentante nel comitato della rivista tedesca Zentralblatt für Mathematik, il celebre scienziato Tullio Levi Civita, con due matematici "ariani", Francesco Severi ed Enrico Bompiani. Oltre a perdere la cattedra, Levi Civita fu cacciato da tutte le accademie italiane di cui era membro e venne addirittura vietata la ristampa del suo famoso trattato di meccanica razionale. Fu una prostituzione della scienza e della cultura. Come oggi.

(Il Foglio, 2 febbraio 2016)


Roma - Rassegna cinematografica sull'ebraismo ungherese

 
Da una scena del film "La rivolta di Giobbe"
Nell'ambito di una serie di manifestazioni previste in occasione della presidenza di turno dell'Ungheria alla International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) dal 4 all'11 febbraio all'Accademia d'Ungheria in Roma (via Giulia, 1 - Sala Liszt) si terrà una mini-rassegna cinema sull'ebraismo ungherese, organizzata dall'Accademia d'Ungheria.
   La rassegna prenderà inizio giovedì 4 febbraio, alle ore 19.00 con il documentario 'Fallo sapere ai tuoi figli, Nella terra dei rabbini miracolosi' (1985 - '60, titolo originale: Csodarabbikföldjén), opera dei registi Imre Gyöngyössy, Katalin Petényi e Barna Kabay. Durante i lavori di ricerca del film "La rivolta di Giobbe", gli autori Gyöngyössy, Kabay e Petényi hanno incontrato alcuni dei pochissimi sopravvissuti della Shoah nel Nordest dell'Ungheria. Una volta quasi mezzo milione di ebrei ungheresi, in gran parte semplici contadini e artigiani vivevano in pace ed armonia con gli altri contadini in piccoli villaggi seguendo fedelmente la ricca tradizione religiosa degli hasid. Quasi ogni centro religioso aveva il suo rabbino miracoloso e le loro tombe vengono ancora oggi venerate come luoghi dove possono accadere miracoli.
   La Shoah mise fine a questa ricca cultura pacifica e ridusse la comunità ebrea a sole venti famiglie … Il documentario rende omaggio alla profonda saggezza, all'amore per la vita di questa gente e al rispetto verso il mondo creato in deciso contrasto con la grande tristezza e l'enorme sofferenza sulla perdita dei propri familiari. Oltre a raccogliere le testimonianze dei pochi sopravvissuti, il film si confronta anche con il silenzio colpevole del dopoguerra e di un'altra dittatura che spesso ha impedito l'elaborazione dei traumi subiti.
   Lo stesso giorno alle ore 20.30 la rassegna proseguirà con la proiezione del film di finzione 'La rivolta di Giobbe' (1983 - '105, titolo originale: Jóblàzadàsa) diretto da Imre Gyöngyössy e Barna Kabay. Il film candidato all'Oscar racconta del periodo drammatico e doloroso della Seconda Guerra mondiale. L'ebreo Giobbe vive con la moglie Rosa in un piccolo villaggio magiaro. Hanno sepolto i loro sette figli prima che essi avessero raggiunto l'età adulta per cui sono rimasti senza discendenti. Nel 1943 adottano Lackó, bambino cristiano. Giobbe vuole prendersi cura del ragazzo come se fosse suo figlio per cui incomincia ad educarlo alle saggezze della vita e lo introduce nella ricchezza della religione ebraica. I coniugi sono felici perché credono di aver trovato nel bambino il loro erede. Un giorno però comincia la deportazione degli ebrei ungheresi … Il film oltre ad essere una grande lezione di moralità e d'umanità, è un'incantevole memoria della ricchezza culturale degli hasid ungheresi, scomparsi quasi completamente alla fine della Seconda Guerra mondiale.
   La mini-rassegna si concluderà giovedì 11 febbraio 2016, alle ore 20. 30 con la proiezione del documentario 'Ámos, pittore dell'Apocalisse' (2015-'55, titolo originale ÁmosazApokalipszisfestje) opera di Katalin Petényi e Barna Kabay. Il destino drammatico di Imre Ámos, detto anche lo "Chagall ungherese", è ancora oggi un tragico memento.
   Attraverso le opere e il diario del pittore ebreo e filmati d'archivio, il documentario mostra come la storia abbia trasformato questo artista profondamente credente, dal temperamento lirico, in un pittore profetico che leva la sua vibrante protesta contro il fascismo. Il film rievoca anche gli anni sereni durante i quali questo artista dalle profonde qualità umane dipingeva i suoi quadri sperando in un mondo migliore e si preparava a partire per l'esposizione universale di Parigi del 1937 e a incontrare Chagall. Dopo il ritorno dall'esposizione universale del 1937, la mite serenità delle opere del pittore borghese cresciuto secondo le tradizioni, la proiezione della "vita interiore" sono sostituite da visioni apocalittiche. La proiezione sarà preceduta dall'inaugurazione dell'omonima mostra, prevista per le ore 19.30 presso la Galleria dell'Accademia d'Ungheria in Roma.
   Tutti i film in programmazione verranno proiettati in lingua originale con sottotitoli in italiano. L'ingresso al festival è gratuito. Saranno presenti gli autori KatalinPetényi e Barna Kabay.

(Com.Unica, 2 febbraio 2016)


Torino - Il rettore del Politecnico: "Sbagliato boicottare Israele"

Dopo l'appello di 30 docenti contro l'accordo con l'ateneo di Haifa.

"La scienza è il miglior modo per superare le conflittualità. Boicottare Israele vuol dire boicottare la ricerca scientifica e questo non è mai un bene". Il rettore del Politecnico di Torino, Marco Gilli, critica così la petizione di alcuni docenti universitari torinesi, che hanno chiesto di boicottare l'accordo di collaborazione con Technion, l'Israel Institute of Technology di Haifa.
"Si tratta di una posizione emersa da parte di un numero abbastanza esiguo di ricercatori, nessuno del Politecnico di Torino - precisa Gilli ai microfoni di Radio Veronica One -. La nostra collaborazione con le università israeliane è di tipo scientifico. Riguarda il trattamento delle acque, le nanotecnologie e l'energia. E io credo che la scienza non debba avere confini ideologici o politici".
"Se c'è un modo per aprirsi è proprio quello di collaborare in ambito scientifico, dove non valgono le ragioni politiche, ma i risultati oggettivi degli esperimenti. La forza dell'università è la sua indipendenza, anche dalla politica.
Crediamo che l'università debba essere libera di stabilire collaborazioni con tutti quelli che coltivano la scienza e la formazione".
Una identica posizione critica nei confronti dei docenti che boicottano Israele era stata presa ieri dal sindaco di Torino, Piero Fassino.

(la Repubblica, 2 febbraio 2016)


Quei musulmani tra i Giusti di Israele

Dai tempi della Shoah ai giorni nostri, non solo conflitto tra islamici e ebrei: lo Yad Vashem di Gerusalemme onora le storie dei fedeli di Allah che si sono prodigati per mettere in salvo le vittime delle persecuzioni naziste.

di Karima Moual

Khaled Abdul-Wahab
Nel villaggio berbero di Arazan, Sud del Marocco, c'è un anziano signore che mantiene una promessa da decenni. Nel 1962 gli è stata lasciata la chiave della sinagoga dall'ultimo ebreo, abitante del villaggio. «Custodiscila», gli ha detto, «e se un giorno un ebreo si trovasse nel villaggio e chiedesse di una sinagoga, portagli questa chiave».
  Da quel giorno, Karim Ha-dad onora il patto del suo amico ebreo e custodisce la chiave della sinagoga come un gioiello prezioso. Ma non è il solo. Anche Lahsen ha un patto che mantiene da oltre 70 anni con l'amico di gioventù, Moshe. Prima di partire per Israele, negli Anni 50, gli aveva chiesto di prendersi cura delle tombe dei suoi antenati. Da allora Lahsen non le perde d'occhio e, in attesa del suo ritorno, ogni anno con una vernice nera riscrive in ebraico, con cura e dedizione, i nomi sulle tombe, anche se l'ebraico non lo ha mai studiato.

 Atti semplici ma concreti
  Sono alcune delle tante storie di umanità, di convivenza, di amicizia e rispetto che raccontano l'ebraismo e l'islam attraverso atti semplici ma concreti. Storie difficilmente ritrovabili nel racconto dello scontro che mette in ombra la straordinarietà dell'incontro, della solidarietà, della sintonia e della complicità che segnano queste due comunità certo religiose, ma prima di tutto umane.
  La Seconda guerra mondiale, con la tragedia della Shoah che si è commemorata nei giorni scorsi, custodisce nella sua barbarie anche le testimonianze di questa realtà. Quella dei «Giusti dell'islam», musulmani che hanno difeso amici o semplicemente sconosciuti cittadini ebrei che chiedevano un nascondiglio o un aiuto per scampare alle persecuzioni naziste.
  Alcuni di loro sono riconosciuti come «I Giusti tra le Nazioni». Solo in Albania sono 63 i Giusti annoverati da Yad Vashem, l'Ente nazionale israeliano per la Memoria della Shoah. Tra questi Beqir Qoqja, il sarto di Tirana. Aprì le porte della sua bottega all'amico Avraham Elia-saf, quando capi quanto stava per succedere agli ebrei. Lo custodi al sicuro riuscendo a farlo sopravvivere alla guerra. In una intervista del 2004 rilasciata a Norman Gershman, quando ormai era novantenne, il sarto di Tirana ha dichiarato di essere stato sempre un musulmano devoto, di non aver fatto nulla di speciale perché tutti gli ebrei sono nostri fratelli.
  C'è poi la donna coraggio di Sarajevo, la bosniaca Zejneba Hardagan. Insieme col marito Mustafa abitava proprio di fronte al quartier generale della Gestapo: i due ne approfittarono per avvertire gli ebrei quando i nazisti uscivano per le loro retate. Ospitarono poi l'amico ebreo Yossef Kabilio che tuttavia non scampò all'arresto. Senza perdere la speranza, Zejneba, con il suo velo nero, continuò tutti i giorni a visitarlo portandogli cibo e vestiario fino a ottenere dal capo della Gestapo il suo rilascio in cambio di una cospicua somma di denaro. Kabilio si salvò e non dimenticò la donna di Sarajevo. E stata la riconoscenza della sua famiglia a far si che il nome Zejneba Hardagan, nel 1985, fosse il primo nome musulmano inserito a Yad Vashem.
  La storia del tunisino Khaled Abdelwahhab è stata raccolta dallo storico americano di origine ebraica Robert Satloff, che ne ha proposto la candidatura come Giusti tra le Nazioni, perché questo figlio di un ex ministro della corte del Bey di Tunisi aveva protetto la famiglia Boukris, circa 20 persone, conducendole al sicuro nella sua casa di campagna a Tlelsa.

 «Solo sudditi marocchini»
  Necdet Kent, console turco a Marsiglia, venne svegliato in piena notte da un ebreo che lavorava come traduttore al Consolato, per informarlo che 80 ebrei turchi erano stati deportati su un treno. Senza esitazioni si presentò nella notte alla stazione facendo presente al capo della Gestapo che quegli ebrei erano cittadini turchi. Non bastò a salvarli se non quando sali lui stesso sul treno assieme agli 80 deportati, e una volta giunti fuori Marsiglia obbligò i tedeschi a fare marcia indietro per evitare un incidente diplomatico con la Turchia: così riuscì a riportare gli ebrei a Marsiglia. Ma c'è anche un altro diplomatico, questa volta iraniano, Abol Hossain Sardari, console a Parigi, che si adoperò per evitare la deportazione degli ebrei iraniani citando il Decreto di Ciro il Grande.
  «In Marocco non esistono sudditi ebrei, ma solo sudditi marocchini», aveva detto il monarca Mohammed V, per difendere i 250.000 ebrei marocchini dalle forze di occupazione francesi di Vichy e dai nazisti che gli chiedevano di applicare leggi discriminatorie verso di loro. Un ruolo e una decisione chiave che permette ancora oggi una convivenza esemplare nel Paese e che solo in questi giorni a New York è stata celebrata con una onorificenza postuma al defunto re, nella sinagoga newyorchese, con il «premio per la libertà Martin Luther King jr - Rabbin Abraham Joshua» consegnato alla principessa Lalla Hasna.
  Marocchini, tunisini, egiziani, turchi, algerini, albanesi o iraniani non importa. Sono i «Giusti dell'islam». Semplici cittadini o uomini di potere che fossero, hanno dimostrato la loro umanità nel momento in cui era stata seppellita. Storie di coraggio che piano piano emergono in superficie, alleviando il dolore di una pagina buia del nostro passato.

(La Stampa, 2 febbraio 2016)


La Cina si schiera a favore di uno Stato palestinese

Svolta di Pechino: "Supportiamo il processo di pace in Medio Oriente". Sullo sfondo il business con i Paesi arabi.

di Cecilia Attanasio Ghezzi

 
Gong Xiaosheng
PECHINO - "La Cina supporta il popolo palestinese e il processo di pace in Medio oriente". Parola di Gong Xiaosheng, l'inviato speciale in Medio oriente in visita a Ramallah, che ripropone la creazione di uno Stato palestinese sui confini del 1967 con capitale Gerusalemme est. Secondo l'inviato speciale, il recente viaggio del presidente Xi Jinping in Medio oriente segna l'inizio di una nuova era nelle relazioni tra Repubblica popolare, Palestina e Paesi arabi. E in effetti un'affermazione del genere è un forte segnale di discontinuità sulla politica del "non intervento" da sempre professata come alla base delle relazioni diplomatiche tra Cina e altri paesi: Gerusalemme Est è stata annessa al territorio di Israele nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni. E Israele non è mai stata d'accordo alla divisione della città santa.
  Se durante i primi anni dalla fondazione, la Repubblica popolare si è sempre schierata dalla parte dei palestinesi foraggiando l'Olp e chiamando Yasser Arafat "un vecchio amico del popolo cinese", dagli anni Ottanta si è cominciata ad avvicinare anche a Israele con cui ha stabilito relazioni diplomatiche nel 1992. Da allora le relazioni commerciali tra i due Paesi sono cresciute del 200 per cento, soprattutto per quanto riguarda i campi della tecnologia militare e informatica. Così la difesa cinese dello Stato palestinese ha perso forza in funzione dei nuovi accordi economici. Ma la Palestina è da sempre l'argomento chiave per guadagnarsi il rispetto e la fiducia della gran parte dei Paesi mediorientali, oggi sempre più importanti nella politica estera di Pechino.
  Il punto è che la seconda economia mondiale si trova costretta a riaffermare che la pace è la base necessaria per fare affari in quella parte di mondo che chiama in maniera approssimativa "mondo arabo" e che, considerato nel suo complesso è "ormai il primo fornitore di petrolio e il settimo partner commerciale della Cina". Non solo. Secondo molti analisti cinesi, gli investimenti portati dalla nuova via della seta saranno la risposta vincente al problema della pace in Medio oriente. Pechino aspira dunque a un ruolo di maggior rilievo nelle diplomazie mondiali e lo fa a modo suo: investendo denaro. Così, a confermare le parole dell'inviato speciale in medio oriente arriva anche la promessa di 7 miliardi di euro da investire per la costruzione di una centrale per l'energia solare nei territori palestinesi.

(La Stampa, 1 febbraio 2016)


Strage di sciiti a Damasco. L'Isis dichiara guerra all'Iran

Autobomba e kamikaze alla fermata del bus davanti alla «Mecca» dei fedeli all'Ayatollah. I jihadisti vogliono colpire Teheran, che aiuta il regime di Assad. Solo l'Onu crede alla pace.

di Carlo Panella

L'attentato che ieri ha fatto strage a Damasco lasciando sul terreno almeno 60 morti e 105 feriti suona come un voluto sfregio dell'lsis all'Iran. Feroce la tecnica, chiarissima la logica settaria, ma anche politica della scelta dell'obiettivo: il mausoleo di Sayyda Zeinab. Era costei la figlia di Fatima, figlia di Maometto, e di Ali, quarto Califfo e leader della guerra civile che separò gli sciiti dai sunniti. Ma era anche sorella di Hassan e Hussein, il secondo e terzo Imam -il più venerato- dello scisma sciita. Sopratutto, secondo la tradizione, fu lei a incitare il fratello Hussein a combattere il califfo sunnita Mudawwaya e - fatta da questi prigioniera dopo la morte in battaglia a Kerbala di Hussein- ebbe un tale orgoglioso comportamento durante la cattività a Damasco, da essere considerata nei secoli «il modello da imitare per le donne sciite».
   Il suo è dunque il monumento di fede degli sciiti più venerato della Siria ed è meta di un milione di pellegrini iraniani, libanesi e iracheni ogni anno. Il mausoleo era già stato preso di mira in passato, ma non dall'lsis: nel febbraio 2015 un attacco suicida vicino al sito provocò 4 morti e alcuni feriti. Nello stesso mese venne colpito anche un autobus di pellegrini libanesi diretto alla moschea, in un attentato rivendicato dal fronte al Nusra, legato ad al Qaida, e costato la vita a 9 persone. Nel reiterare con ferocia dieci volte più grande questi sfregi, ieri l'Isis ha dunque voluto mandare un suo netto e chiaro messaggio di morte che va ben al di là della abituale iconoclastia dei monumenti sacri sciiti, in nome della lotta alla idolatria. Messaggio indirizzato agli ayatollah sciiti iraniani che da tre anni inviano Pasdaran e Hezbollah a sostegno del regime di al Assad, che senza questo aiuto sarebbe già crollato da tempo.
   Raccapricciante la tecnica di morte: una autobomba è esplosa a fianco di una fermata dell'autobus adiacente al mausoleo, seminando morte. Poi, mentre si radunava la folla dei soccorritori, due kamikaze si sono fatti strada al suo interno e si sono fatti esplodere con cinica lucidità omicida.
   Questo attentato, così come i combattimenti che continuano in tutta la Siria, con città come Madaya i cui abitanti sono stretti d'assedio dalle milizie di Assad e muoiono letteralmente di fame, dimostra peraltro l'assurda perdita di tempo dei negoziati che 1'ONU per la terza volta ha organizzato a Ginevra. Trattative che hanno solo lo scopo di far vedere al mondo che l'ONU fa qualcosa, anche se non c'è la minima possibilità di successo.
   Indicativo quanto è successo nella notte di sabato. Qui, la delegazione dell'Alto Comitato per i Negoziati (Hnc), la coalizione che raduna 15 organizzazioni anti Assad, sponsorizzate da Arabia Saudita e Turchia, ha dovuto passare la notte alI'addiaccio in aeroporto perché l'ineffabile Staffan de Mistura, l'inviato dell'Onu, non aveva provveduto a predisporre i visti. Risolto il problema, de Mistura ha avuto incontri rigidamente separati con le delegazioni del governo siriano, con le delegazioni "addomesticate" della finta opposizione da anni messe sulla scena dallo stesso regime siriano (incluse quelle dei cristiani, purtroppo è da sempre compromesse con Assad) e con i rappresentanti del Hnc. Durante questi colloqui preliminari, il portavoce del Hnc Salim Mouslet ha chiesto «l'immediato rilascio di donne e bambini prigionieri, la fine dei raid aerei russi e del regime, la fine dell'assedio delle città», anche se ha specificato che queste non commettere questi crimini».
   Il drammatico problema è che è evidente, ma non all'ONU, che non ci sono le condizioni minime per ottenere anche l'obbiettivo minimo di un cessate il fuoco temporaneo, tanto è vero che lo stesso de Mistura aveva già clamorosamente fallito, dopo mesi di trattativa, l'obiettivo minimo di riuscire a concordare tra le parti un cessate il fuoco limitato alla sola Aleppo.
   Inoltre, a Ginevra sono ovviamente assenti sia l'Isis che al Nusra (che controllano un terzo della Siria e che combattono sia contro il regime, che tra di loro e contro le organizzazioni rappresentate dal Hnc), ma anche i curdi del Ypg. Esclusione dovuta al veto della Turchia, ma anche al fatto che i settari curdi siriani rifiutano - è il fatto è indicativo - qualsiasi rapporto con le altre organizzazioni anti Assad. Il solito fallimento ONU.

(Libero, 1 febbraio 2016)


Berlino, il Museo Ebraico affida un'area bambini

I concorrenti dovranno confrontarsi con l'architettura di Libeskind

di Mariagrazia Barletta

Il Museo ebraico di Berlino
Il Museo ebraico di Berlino, tra le maggiori istituzioni di riferimento per la storia e la cultura ebraico-tedesche, lancia un concorso internazionale per realizzare un nuovo settore espositivo dedicato ai bambini. La sede prescelta è la grande aula con tetto a shed dell'ex mercato dei fiori, situato proprio di fronte al grande contenitore - sede del Museo ebraico - rivestito di zinco e concepito dall'architetto Daniel Libeskind per coinvolgere il visitatore in un'esperienza unica. Un'architettura diventata una delle immagini emblematiche di Berlino e che ha innovato il rapporto tra museo e contenuto espositivo, in cui sono gli stessi spazi, prima ancora degli oggetti in mostra, a porre interrogativi e a invitare alla riflessione.
   Una sfida più che interessante per i progettisti, chiamati a confrontarsi con l'architettura, ricca di simbolismi, considerata la prima grande opera di Libeskind.
   Inoltre, proprio l'ex mercato dei fiori, il cosiddetto «Eric F. Ross Building», è stato oggetto di un altro progetto firmato da Daniel Libeskind. All'architetto di origini polacche, infatti, la Jewish Museum Berlin Foundation, in seguito al completamento del museo, affidò il compito di realizzare l'Accademia del Museo ebraico nell'ex mercato, terminata poi nel 2012, e che oggi ospita la biblioteca, gli archivi e un centro educativo. Con il bando appena pubblicato la Fondazione intende selezionare i migliori
   team che possano dare nuova vita agli spazi vuoti della restante parte dell'ex mercato, non occupata dall'Accademia, per collocarvi un'esposizione permanente dedicata ai bambini dai cinque ai dodici anni. L'obiettivo: generare un'esperienza di visita unica per i giovani utenti ed i loro accompagnatori.
   E di 3,44 milioni il budget già a disposizione per realizzare la nuova appendice del Museo, al quale si aggiungono ulteriori 2, Il milioni per la realizzazione dell'allestimento.
   L'obiettivo della committenza è completare l'opera entro la metà del 2018. Un'offerta culturale in continua crescita quella del museo berlinese, che oltre alle mostre permanenti e temporanee e ad un importante centro didattico multimediale, offre un vasto programma di manifestazioni per giovani e meno giovani: concerti e conferenze, workshop e proiezioni cinematografiche.
   Il concorso è in due fasi, precedute da una preselezione ed è rivolto a team pluridisciplinari. Possono partecipare squadre composte almeno da un architetto o interior designer e da un professionista esperto nel campo della scenografia o dell'exhibition design. Saranno dodici i gruppi ad accedere alla fase progettuale, selezionati da un'apposita giuria sulla base delle referenze nei campi dell'architettura e dell'exhibition design.
   Nella prima fase i partecipanti dovranno elaborare un'idea progettuale degli spazi espositivi, illustrando l'approccio che intendono seguire in relazione al contenitore già esistente. Nella seconda fase si tratta di approfondire il progetto. Il montepremi totale è di 61.500 euro. Al vincitore è riservato un premio di 15mila euro. Ai progettisti che si classificheranno al secondo e terzo posto andranno rispettivamente 9mila e 6mila euro.
   I restanti 3l.500 euro saranno suddivisi in maniera uguale ai partecipanti della seconda fase. L'intento della committenza è avviare, al termine del concorso, una fase di negoziazione alla quale potranno partecipare tutti i concorrenti premiati.
   La composizione definitiva della giuria sarà decisa in accordo con la Berlin Chamber of Architects, ma nel bando già si fanno i nomi dei probabili membri, tra i quali Peter Schafer, direttore del Museo ebraico, Dieter Bogner, exhibition designer di Vienna, Bulent Durmus e Matthias Sauerbruch, architetti di Berlino, e lo scenografo tedesco Jens Imig. Le lingue ufficiali del concorso sono sia l'inglese che il tedesco. Le date del calendario sono già tutte definite: il termine per la ricezione della candidature scade il 16 febbraio alle ore 18, la prima fase si conclude il 13 aprile, la seconda il 22 giugno 2016. La documentazione è disponibile sul sito c4c-berlin.de.

(Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2016)


Oltremare - Volare

di Daniela Fubini, Tel Aviv

È da quando ho fatto l'aliyah, oltre otto anni, che si parla del fatto che l'aereoporto di Sde Dov è destinato ad essere chiuso, per via del valore immenso dei terreni sui quali gli aerei decollano e atterrano. Sde Dov è di fronte al mare, subito a nord del Namal Tel Aviv, l'area del porto ristrutturata e pulsante di negozi e turisti. Una striscia sottile sottile di spiaggia e una strada attaccata alle reti della pista collegano il Namal con Hof Tzuk, stabilimento piccolo e meno affollato delle spiagge di Tel Aviv. Ogni anno viene decisa la data in cui l'aeroporto locale chiuderà, ci si agita tutti molto per il fatto che da quel giorno in poi gli aerei per Eilat partiranno da Ben Gurion; e poi puntuale come il chamsin, arriva la smentita e la proroga dei permessi per altri 12 mesi. Anche per quest'anno, continueremo a sentire gli aerei che sorvolano le case del nord Tel Aviv.
Noi telavivesi siamo abituati a pensare che Sde Dov sia il nord, ed Eilat il sud (cosa geograficamente corretta, ma relativa). In realtà, Sde Dov è nel centro, ed esiste un nord, udite udite, non fatto solo di fabbriche inquinanti a Haifa e kibbutz bucolici più verso l'interno. A Rosh Pinà - vero nord, si potrebbe dire estremo - c'è sempre stato un piccolo aereoporto. E da questa settimana, una compagnia privata ha iniziato a volare due volte la settimana fra Rosh Pinà e Eilat, con stop a Sde Dov per carico e scarico passeggeri. Pratica sconti automatici ai cittadini del nord, e propone pacchetti tutto compreso per il fine settimana negli hotel di Eilat.
Se la cosa prendesse piede, e la compagnia riuscisse ad aggiungere collegamenti con Masada e una linea Haifa-Cipro alle destinazioni, come prevede, potremmo sentirci nei suoi piccoli aerei da trenta passeggeri più o meno come ci si sente in Europa sui tanti low cost che si usano ormai come si userebbe un autobus. L'unico dettaglio mancante è ancora il low cost, ma ci arriveremo.


(moked, 8 febbraio 2016)


Sde Dov


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