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Notizie 1-15 febbraio 2017


Netanyahu ricevuto dal segretario Stato Tillerson, "incontro eccellente"

GERUSALEMME - Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha incontrato a Washington il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson. Si è trattato di un "incontro eccellente", come scrive Netanyahu sul profilo personale di Twitter. "L'alleanza Usa-Israele è sempre forte e diventerà ancora più forte", ha aggiunto il premier israeliano. Le questioni regionali e l'Iran sono stati al centro del colloquio fra Netanyahu e Tillerson, durato circa due ore. Il premier israeliano ha inviato il segretario di Stato Usa in Israele per stabilire contatti diretti con il suo entourage a Gerusalemme.

(Agenzia Nova, 15 febbraio 2017)


La Casa Bianca: "I due Stati non sono la soluzione". Ira dei palestinesi

A poche ore dall'incontro tra Trump e Netanyahu arrivano le proteste dell'Olp per le nuove posizioni americane

di Giordano Stabile

BEIRUT - A poche ore dal vertice fra il presidente americano Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, è allarme fra i palestinesi per un possibile accantonamento della soluzione «due popoli, due Stati» per arrivare alla pace in Medio Oriente.
Fonti dalla Casa Bianca hanno fatto trapelare a media israeliani la possibilità che questa strada, percorsa dagli accordi di Oslo in poi, possa essere sostituita da altri tipi di accordo. La reazione fra i palestinesi è stata subito di massimo allarme: «Non ha senso - ha detto all'Afp la componente del comitato esecutivo dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina Hanan Ashrawi -. Non è una politica responsabile e non serve alla causa della pace. Non possono dirlo senza un'alternativa».

 Altre soluzioni
  «La pace è l'obiettivo, sia che arrivi sotto forma di una soluzione con due Stati, se è quello che le parti vogliono, o qualcos'altro se è quello che le parti vogliono», aveva detto ieri la fonte della casa Bianca, voluta rimanere anonima. Una posizione che rispecchia quella di gran parte della maggioranza che sostiene il governo Netanyahu.

(La Stampa, 15 febbraio 2017)


Bloomberg classifica i paesi più innovativi. Israele nella top 10

Israele, conosciuta anche come la Startup Nation, è il decimo paese più innovativo al mondo, secondo Bloomberg News, che ha recentemente pubblicato il suo Innovation Index Bloomberg 2017.
L'indice si basa sulla forza della ricerca e sviluppo, produttività, alta tecnologia, istruzione superiore, concentrazione di ricercatori, valore aggiunto nel settore manifatturiero e attività brevettuale di ciascun paese.
Israele è leader mondiale nel numero di ricercatori per abitante, è secondo in ricerca e sviluppo, e il terzo in densità di alta tecnologia. Nel complesso, lo Stato si colloca alla posizione numero 10, salendo di un posto rispetto al 2016.

La nazione più innovativa al mondo, secondo l'Indice innovazione Bloomberg, è la Corea del Sud, seguita da Svezia e Germania. A completare la top-five list sono la Svizzera e la Finlandia; gli Stati Uniti sono alla posizione numero 9; Francia, Irlanda, Cina e Regno Unito sono tutti classificati sotto Israele.
Il rapporto di Bloomberg arriva sulla scia del Global Competitiveness Report del World Economic Forum, che ha classificato Israele come la seconda nazione più innovativa del mondo. Il WEF analizza la competitività dei paesi in base a 12 categorie, tra cui l'innovazione, la prontezza tecnologica, sofisticazione di business e l'istruzione superiore.

 Anno stellare per startup israeliane
  Nonostante un rallentamento in alcuni settori, Israele ha avuto un enorme successo 2016, con startup che hanno sollevato un record di 4,8 miliardi di dollari di investimenti, secondo IVC Research Center. Inoltre, le aziende high-tech e le startup lo scorso anno sono state vendute per un circa 10,02 miliardi di dollari - ad altre società o attraverso offerte pubbliche iniziali (IPO). Con il maggior numero di startup pro capite al mondo, Israele è la patria di:
  • 2.000 nuove imprese fondate negli ultimi dieci anni;
  • 3.000 startup e imprese high-tech imprese di piccole e medie dimensioni
  • 30 società in crescita
  • 50 grandi aziende di tecnologia
  • 300 centri multinazionali di Ricerca e Sviluppo, secondo un rapporto pubblicato di recente dall'Israel's Innovation Authority.
(SiliconWadi, 15 febbraio 2017)


Hamas: la nomina di Yahya Sanwar è un passo verso l'Iran e la guerra

di Maurizia De Groot Vos

La scelta di Hamas di nominare al proprio vertice il terrorista radicale Yahya Sanwar non è stata casuale. Nessuno si aspettava quel nome e addirittura i più ottimisti speravano che Hamas potesse scegliersi un leader che uscisse dalla logica della guerra a tutti i costi con Israele. Si è andati invece sulla strada diametralmente opposta, quella del conflitto armato e del conseguente avvicinamento all'Iran.
Contrariamente a quanto da più parti affermato, Yahya Sanwar è uno dei più ferventi sostenitori di un avvicinamento di Hamas a Teheran e non allo Stato Islamico. E' vero che strategicamente e per convenienza approva la collaborazione di Hamas con Ansar Bait al-Maqdis, il gruppo terrorista legato allo Stato Islamico che opera nel Sinai, ma tale collaborazione è unicamente funzionale all'apertura di un nuovo fronte sul Sinai e ad aprire una via che permetta l'ingresso di armi a Gaza. Per il resto la strategia a lungo termine di Yahya Sanwar è volta a riallacciare l'alleanza strategica con l'Iran dopo lo strappo dovuto alla guerra in Siria....

(Right Reporters, 15 febbraio 2017)


Brunch in Sinagoga con cibo e scrittori

Assaf Gavron per il via, ad aprile il premio Pulizer Chabon.

di Ivana Zuliani

 
Assaf Gavron
«Balabrunch con l'autore» è come aggiungere un posto a tavola a un pranzo della domenica: chiacchiere, discorsi che si intrecciano, persone che si incontrano per la prima volta o si conoscono un po' meglio, davanti a pietanze che già da sole raccontano un mondo. La Comunità ebraica di Firenze in collaborazione con le Comunità di Siena, Pisa e Livorno, organizza dal 19 febbraio a giugno incontri gastronomico-letterari in compagnia di scrittori ebraici contemporanei. L'idea è quella di abbattere pregiudizi attraverso il dialogo tra persone e culture diverse, partendo dalle parole ma anche dal cibo.
   «Conosceremo un autore al di là di una semplice presentazione di un libro. Scopriremo il suo vissuto per creare un rapporto empatico con il pubblico, scambiandoci riflessioni e pensieri in una chiacchierata conviviale», spiega l'assessore alla cultura della Comunità ebraica fiorentina Laura Forti. «Balabrunch con l'autore», che nasce all'interno della Rete Toscana Ebraica, è l'evoluzione del festival estivo «Balagan Cafè» che è «il nostro modo per parlare e aprirci alla città» afferma Forti. Dopo ogni chiacchierata ci sarà un brunch a base di piatti tipici preparati dallo chef Jean Michel Carasso, che per le domeniche letterarie cucinerà un'antologia di ricette che esprimono la cultura del suo popolo, ispirandosi anche agli scrittori ospiti e alle loro storie. Ogni autore dopo la tappa a Firenze, farà anche un minitour nelle altre Comunità toscane: le impressioni saranno raccolte nella pubblicazione, Balagan con vista e lette in una serata del Balagan Cafè 2017-
   A inaugurare la rassegna sarà questa domenica Assaf Gavron, scrittore israeliano che affronta argomenti attuali e molto dibattuti come la questione dei coloni e dei kamikaze palestinesi (alle 11,15 a Firenze, alle 17,15 a Livorno. Il giorno prima sarà a Pistoia e il 20 febbraio a Siena). Seguirà il brunch: nel menu chakchouka, hummus di ceci, salmone marinato, babà ganush, crostata di ciliegie e semi di papavero, pane hallà. Il cartellone prosegue il 26 marzo con la linguista israeliana Elana Shohamy, il 9 aprile con il premio Pulitzer 2001 Michael Chabon e la moglie Ayelet Waldman con i quali si parlerà di fumetti. Il 14 maggio sarà la volta di Shifra Horn (nel pomeriggio sarà a Livorno e il 15 maggio a Siena). L'11 giugno (al mattino a Firenze, nel pomeriggio a Livorno e il giorno dopo a Pisa) ci sarà la scrittrice Lizzie Doron, di cui ad aprile uscirà la traduzione italiana del libro Ma chi c. è Kafka sul difficile rapporto tra arabi ed ebrei in Israele.

(Corriere Fiorentino, 15 febbraio 2017)


Perché c'è da preoccuparsi se uno youtuber ha un vizietto antisemita

Lo svedese "Pewdiepie" ha oltre 53 milioni di iscritti

di EugenioCau

ROMA - La più grande star di YouTube in tutto il mondo nonché uno degli uomini più influenti di internet è stato accusato in questi giorni di aver diffuso battute antisemite nei suoi video online e riferimenti al nazismo nei suoi sketch comici. Chi ha più di trent'anni probabilmente non ha mai sentito parlare di lui; chi ne ha meno lo conosce come PewDiePie, ed è praticamente impossibile che non abbia mai visto uno dei suoi video. Felix Kjellberg, questo il suo nome, ha oltre 53 milioni di iscritti al suo canale, i suoi video online hanno spesso più spettatori della finale di Sanremo e intorno a lui c'è un giro d'affari da decine di milioni di dollari. PewDiePie è influente in una maniera che è difficile da quantificare per chi non conosce YouTube: i prodotti che lui consiglia diventano dei successi planetari, e la sua vita sentimentale è seguita come quella di una star di Hollywood, anche se lui non finisce mai sui rotocalchi. Quando, negli ultimi mesi, alcuni suoi video hanno iniziato a popolarsi di riferimenti - sempre scherzosi, a volte velati - al nazismo e all'odio verso gli ebrei, molti utenti hanno iniziato ad allarmarsi. E' montata una polemica sempre più grande, spinta anche da alcuni articoli pubblicati in questi giorni dal Wall Street Journal. Lunedì, alla fine, la Disney, che a partire dal 2013 aveva stipulato con lui un contratto di produzione attraverso una controllata, ha deciso di rescindere tutti i rapporti. Ieri la stessa Youtube ha annunciato di aver cancellato un reality show a pagamento realizzato su misura per PewDiePie e di averlo eliminato dal suo circuito pubblicitario più importante, anche se ha mantenuto aperto il canale video.
   Un po' di storia: Felix Kjellberg è un ragazzo svedese di 27 anni, nato a Kjellberg e trasferitosi in seguito in Inghilterra, che nel 2010 ha iniziato a pubblicare video in cui filmava se stesso mentre giocava a videogiochi horror e paurosi. Le sue reazioni divertenti e il talento comico gli hanno guadagnato prima migliaia, poi milioni di visualizzazioni e iscritti, tanto che il canale fai-da-te del ragazzino di Kjellberg si è trasformato negli ultimi anni in una corazzata online, con un introito di oltre 15 milioni di dollari all'anno.
   A gennaio (ma c'erano state già alcune avvisaglie nei mesi precedenti) PewDie Pie ha iniziato a pubblicare video con evidenti riferimenti antisemiti. In un video dedicato a Fiverr - un sito in cui per piccole somme di denaro si può chiedere alla gente di fare qualsiasi cosa davanti alla telecamera - PewDiePie ha chiesto a due ragazzi indiani di mostrare in video un cartello con scritto: "Morte a tutti gli ebrei". In un altro video, ha chiesto a un attore travestito da Gesù che lavora per lo stesso sito di dire: "Hitler non ha fatto assolutamente niente di male". In una serie di video a gennaio, PewDiePie ha prima filmato se stesso mentre indossa un'uniforme nazista e ascolta un discorso di Hitler, poi ha inscenato un rituale nazista. Altri riferimenti sono sparsi nei suoi filmati recenti.
   Dopo lo scoppio della polemica, PewDiePie si è scusato più volte, ha detto che si trattava di scherzi e di paradossi, e sul suo blog ha scritto che stava cercando di mostrare "quanto è assurdo questo mondo" (il riferimento è agli utenti di Fiverr, che per cinque dollari farebbero o direbbero qualsiasi cosa). Ma l'ironia, nei video "nazisti" di PewDiePie, è spesso impercettibile, la frequenza di riferimenti antisemiti è sospetta, e i milioni (decine di milioni) di spettatori dello svedese sono spesso minorenni. La combinazione è sufficiente per essere pericolosissima. Lo sdoganamento e la penetrazione per osmosi di certi concetti è per molti versi più terribile della propaganda esplicita. Tanto che la parola finale sulle "buone intenzioni" di PewDiePie l'ha messa il famoso sito neonazista The Daily Stormer, che negli ultimi giorni si è ribattezzato "Il sito numero uno di fan di PewDiePie" e lo ha ringraziato per "rendere le nostre idee appetibili alle masse". Enormi multinazionali con enormi responsabilità, da Disney a YouTube, hanno legato il loro nome a un ragazzo-bambino che per anni è stato una macchina fabbricasoldi e che ora sembra andato fuori controllo.

(Il Foglio, 15 febbraio 2017)


Online l'archivio storico dell'Unione Comunità Ebraiche Italiane

Uno squarcio sulla storia dell'ebraismo italiano attraverso le carte dell'UCEI

di Francesca Pala

Ketubà, 1900. Archivio storico della Comunità Israelitica di Senigallia
Tutelare, rappresentare e promuovere sono le tre parole chiave che da sempre animano l'attività dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei). Le stesse parole rappresentano il fil rouge della decisione dell'Ucei di rendere disponibili on line gli strumenti di ricerca relativi al proprio patrimonio archivistico.
   L'Ucei, impegnata nel promuovere l'unità degli ebrei italiani in modo da garantire la continuità e lo sviluppo del patrimonio ebraico in ambito religioso, spirituale, culturale e sociale, ha scelto di impiegare xDams per descrivere i propri materiali ed ha affidato a Regesta.exe la realizzazione del sito di consultazione online.
   L'Ucei è un ente senza scopo di lucro, con sede a Roma, che rappresenta le 21 Comunità ebraiche presenti in Italia. Queste ultime, istituzioni tradizionali dell'ebraismo sul territorio nazionale, sono delle formazioni sociali originarie, organizzate sulla base della legge e della tradizione ebraica con l'obiettivo di soddisfare le esigenze spirituali, culturali, sociali e associative del popolo ebraico (dal sito Ucei, Statuto dell'ebraismo italiano). La necessità di coordinamento tra le diverse comunità condusse nel 1911 alla costituzione del Comitato delle università israelitiche che, dopo esser stato riconosciuto ente morale, tramite Decreto Reale del 1920, assunse la denominazione di Consorzio delle comunità israelitiche italiane. Successivamente divenne Unione delle Comunità Israelitiche Italiane ed infine mutò la sua denominazione in Unione delle Comunità Ebraiche Italiane nel 1987, quando venne firmata, come previsto dall'articolo 8 della Costituzione Italiana, l'intesa tra l'allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi e Tullia Zevi, rappresentante delle Comunità Ebraiche Italiane.
   L'importante attività svolta nel corso degli anni dall'Ucei è documentata dal prezioso archivio dell'ente, che conserva documentazione a partire dal 1909 e in cui confluiscono man mano le carte anteriori all'ultimo trentennio. L'archivio risulta di notevole importanza per chiunque voglia ricostruire una parte della storia dell'ebraismo italiano, soprattutto durante gli anni Venti e Trenta. Tale constatazione non è sfuggita alla Sovrintendenza ai Beni Archivistici dei Lazio che nel 1990 ne ha dichiarato il notevole interesse storico.
   Dal 13 febbraio gli strumenti di ricerca di tale patrimonio sono fruibili on line. Il sito dell'archivio storico Ucei permette la consultazione della Guida e degli inventari ai fondi conservati presso l'Istituto. La Guida ai fondi archivistici presenti presso il Centro Bibliografico consente, grazie alla visualizzazione delle schede descrittive di ciascun fondo, di avere una visione generale e sommaria del posseduto e, laddove presente, il rapido collegamento al relativo inventario.
   Dalla home page è possibile accedere alle due sezioni: inventari on line e inventari in formato pdf.
 
Firma dell'Intesa. La Presidente Ucei Tullia Zevi con Craxi, Scalfaro, Amato. 27.02.1987
   Selezionando uno qualsiasi dei fondi on line è possibile navigarne la struttura e muoversi agevolmente da un livello all'altro.
   Dal sito è possibile navigare anche gli strumenti di ricerca relativi ad altri fondi conservati presso il Centro Bibliografico. In particolare gli inventari ai fondi Samuel David Luzzatto e Augusto Segre (entrambi personaggi di spicco dell'ebraismo italiano le cui carte hanno ricevuto la dichiarazione di notevole interesse storico, rispettivamente nel 1966 e nel 1999) l'inventario dell'Archivio Storico della Comunità lsraelitica di Senigallia e la serie Corrispondenza del Fondo Comitato ricerche deportati ebrei.
   Il sito permette due tipologie di ricerca:
  • la ricerca multiarchivio che permette di interrogare simultaneamente la Guida e tutti gli inventari presenti (fatta eccezione per gli inventari pdf);
  • la ricerca sul singolo inventario o sulla Guida
Sui record risultanti è possibile effettuare ulteriori e ancora più mirate ricerche attraverso il form "raffina la ricerca" oppure consultare direttamente la scheda descrittiva del record d'interesse.
   Infine, dalla galleria fotografica presente in home page, è possibile avere un assaggio del prezioso patrimonio che l'Ucei conserva.
   Tra i materiali d'archivio spiccano alcune Ketubot, contratti di matrimonio ebraico, scritti in aramaico, i cui i primi esemplari sono databili tra il 70 e il 500 d.C, ricchi di decorazioni poiché destinati ad essere appesi nelle case degli sposi dopo la lettura in pubblico. Insomma, non solo documenti storici ma vere e proprie opere d'arte.

(regesta.com, 14 febbraio 2017)


Arkia Airlines, nuovo volo Milano Bergamo-Tel Aviv

Presentato oggi all'aeroporto di Milano Bergamo il nuovo collegamento con Tel Aviv operato dalla compagnia israeliana Arkia Airlines. Il volo, disponibile dal 28 di maggio con aeromobile Embraer 195 da 120 posti, avrà frequenza bisettimanale con partenza il giovedì e rientro la domenica.
Nei mesi di luglio e agosto la compagnia aggiungerà la terza frequenza il martedì. «Siamo certi che questa nuova rotta servirà a incrementare il numero di turisti israeliani in visita nelle città del nord Italia, così come il numero degli italiani che avranno un'opportunità in più per visitare Israele e i luoghi della Terra Santa», ha affermato Orly Peleg Mizrachi, business development manager & spokesperson di Arkia Airlines.
Soddisfazione anche per Sacbo, la società che gestisce l'aeroporto di Orio al Serio, che aggiunge così un ulteriore tassello nel ventaglio di destinazioni raggiungibili da Bergamo.
«Tel Aviv è una meta molto richiesta da passeggeri di Lombardia e dalle regioni del nord Italia, in generale - ha sottolineato Giacomo Cattaneo, direttore aviation SACBO -, non soltanto per il turismo leisure ma anche business, essendo il maggiore centro di attività imprenditoriali e commerciali. E il volo operato da Arkia Airlines rappresenta un'alternativa alle offerte tradizionali».
I passeggeri potranno portare un bagaglio di 20 chilogrammi a persona. A bordo, saranno serviti snack e bevande calde e fredde, «ma si potranno acquistare anche i pasti. Inoltre, per ciò che concerne la sicurezza aeroportuale verranno osservate le rigide normative israeliane», ha tenuto a precisare Mizrachi.

 City break a poche ore di volo
  Un collegamento diretto con due voli a settimana, «una frequenza perfetta per organizzare un city break tra Gerusalemme e Tel Aviv. A tre ore di volo circa, Israele offre il perfetto mix tra cultura, storia e divertimento», ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttrice dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo, intervenendo alla conferenza.
«Senza dimenticare gli eventi che Israele organizza: il 9 giugno sarà la volta del Gay Pride, balli, musica e divertimento affolleranno le strade di Tel Aviv, mentre il 29 giugno la Notte Bianca della città che non dorme mai accenderà le luci del lungo mare fino a condurci nelle boutique di Jaffa, per uno shopping al chiaro di luna».
Settanta chilometri circa separano Tel Aviv dalla città Santa di Gerusalemme, che oltre a custodire luoghi ricchi di storia e suggestioni, propone un calendario di manifestazioni a respiro internazionale come il festival del cinema di Gerusalemme, in programma dal 28 giugno al 6 luglio.

 Israele, sale la fiducia
  Intanto Israele prosegue nel suo piano di promozione turistica con il rinnovo a marzo della campagna pubblicitaria "Two cities one break" su TV, stampa, outdoor, online e social. E, dati alla mano, Israele cresce per richiesta e vendite. Come conferma Kotzer Adari, che parla di un +50% nel mese di dicembre 2016 rispetto allo stesso periodo del 2015 e di un inizio 2017 in ascesa con un +20% circa rispetto al periodo precedente. In testa alle preferenze dei turisti italiani, la formula del city break.

(L’Agenzia di Viaggi, 14 febbraio 2017)


Israele espone all'Unesco la Menorà dell'Arco di Tito

Una prova documentale della verità storica, incisa nella pietra duemila anni fa, contro le campagne di menzogne

Il Ministero degli esteri israeliano ha deciso di mettere permanentemente in mostra, presso la sede dell'Unesco a Parigi, una replica fedele della Menorà, il candelabro a sette braccia, rappresentato sull'Arco di Tito a Roma.
La decisione di mettere in mostra la scultura all'Unesco fa parte di una battaglia culturale che il governo israeliano sta conducendo contro la falsa narrazione palestinese che nega ogni collegamento storico fra gli ebrei, Gerusalemme e più in generale la Terra d'Israele: una versione di pura fantasia che ha trovato uno sponsor d'eccezione nell'Unesco stessa quando l'agenzia Onu ha approvato, lo scorso ottobre, una controversa risoluzione che disconosce qualunque legame storico, religioso e culturale fra gli ebrei e il Monte del Tempio di Gerusalemme. Come sia stata effettivamente interpretata quella risoluzione nel mondo arabo è apparso evidente quando, a gennaio, il Segretario generale del'Onu Antonio Guterres è stato violentemente criticato da parte palestinese per aver affermato che esisteva un Tempio ebraico in cima al Monte del Tempio...

(israele.net, 14 febbraio 2017)


Hamas sceglie per Gaza il leader più feroce. In libertà grazie a un ostaggio

di Davide Frattini

 
Yahya Sinwar
GERUSALEMME - Dentro l'Hamas dei misteri è uno dei leader più misteriosi. Poche apparizioni in pubblico, solo due dopo essere stato liberato sette anni fa dalle prigioni israeliane assieme ad altri 1.026 palestinesi nello scambio per il caporale Gilad Shalit.
   Ci aveva passato un ventennio, condannato a quattro ergastoli anche per aver ucciso quelli che considerava collaborazionisti, accusati di aver passato informazioni al nemico.
   Un ruolo di guardiano che Yahya Sinwar si è costruito per sé, negli anni Ottanta ha fondato la polizia interna del movimento. E adesso che dell'organizzazione è diventato il capo dei capi a Gaza, riemergono le storie della sua ferocia. Perché Sinwar - commenta al New York Times uno scrittore vicino ai fondamentalisti - vuole che il suo esercito sia puro e per questo fine non accetta compromessi. O come spiega il quotidiano israeliano Haaretz: «Perfino tra i suoi è considerato un estremista, parla della guerra con Israele in termini apocalittici». La nomina al posto di Ismail Haniyeh segnala che l'ala militare del movimento ha vinto su quella che si occupa della linea politica. Haniyeh - primo ministro dalla vittoria delle elezioni nel 2006 fino alla rottura armata con il Fatah di Abu Mazen un anno dopo - è il candidato più probabile alla guida del gruppo fuori dalla Striscia. E dal Qatar, che ospita la leadership, dovrebbe provare a moderare le strategie oltranziste di Sinwar.
   Ammesso che sia possibile. Ne dubita l'intelligence israeliana e ne dubitano i palestinesi. Un'indagine di Human Rights Watch ha ricostruito l'uccisione nel 2015 di Mohammed Ishtiwi, tra i comandanti delle Brigate Ezzedin Al Qassam. Sarebbe stato Sinwar, 55 anni, a ordinarne l'arresto per «purificare» il suo esercito e per dimostrare agli altri boss che nessuno è intoccabile. Isthiwi è stato portato via dalla polizia segreta di Hamas con l'accusa di essersi intascato denaro destinato all'acquisto di armi per le truppe irregolari. Da quel momento - ha raccontato la sorella al New York Times - è cominciata «la telenovela delle torture». Gli viene estorta la confessione in cui ammette - scrivono gli inquisitori - «azioni immorali»: i soldi sarebbero serviti anche a pagare un uomo perché non rivelasse la loro relazione omosessuale. La famiglia è potente dentro ad Hamas, un clan che ha fornito un migliaio di combattenti durante i 50 giorni di guerra contro Israele nell'estate di due anni e mezzo fa. Gli appelli ad Haniyeh non bastano, il destino di Ishtiwi viene deciso dai duri delle Brigate e dalla spietatezza di Sinwar: il corpo viene ritrovato all'alba del 7 febbraio del 2015 con tre proiettili nel petto.

(Corriere della Sera, 14 febbraio 2017)


*


Hamas sceglie un falco. A Gaza vince l'ala militare

Yahya Sinwar, 22 anni in carcere, sostituirà Hanyeh come leader .

di Fabioscuto

GAZA CITY - Dai tunnel e dai bunker, scavati nel ventre della Striscia di Gaza, è uscito l'uomo che promette una guerra perpetua contro Israele. È stato scelto dal Comitato esecutivo di Hamas, un'oscura istanza i cui membri sono naturalmente segreti, la scorsa notte dopo una votazione a maggioranza. In sostituzione di Ismail Hanyeh, che sarà nominato da queste stesse consultazioni segretario generale al posto di Khaled Meshaal e dovrà vivere all'estero, così come si conviene al leader supremo. I boss del movimento islamista che controlla Gaza da dieci anni hanno scelto un comandante militare di alto profilo, il cui nome viene pronunciato da tutti i gazawi con un misto di rispetto e timore, si chiama Yahya Sinwar. Una delle figure della linea più dura del gruppo dirigente islamista che indica il crescente potere dell'ala militare di Hamas a spese della sua ala politica nella Striscia di Gaza. Prima di finire nelle galere israeliane per 22 anni per omicidio, Sinwar è stato uno dei fondatori delle Brigate Ezzedin al Qassam insieme al fratello Mohammed.
   Il volto cadente, occhi sempre ombrati ma mobilissimi e una voce tagliente, Yahya Sinwar non ha il volto rassicurante dell'uomo che ha superato la mezza età. È tornato nella sua casa di famiglia a Khan Younis, che si trova a metà della Striscia, nel 2011 quando Israele liberò un migliaio di prigionieri palestinesi in cambio del rilascio del soldato Gilad Shalit, che era stato rapito 5 anni prima. Una trattativa estenuante con Israele, condotta per anni grazie ai buoni uffici del Bnd, lo spionaggio esterno tedesco, e nella quale fu coinvolto direttamente suo fratello Mohammed. Yahya all'epoca era in un carcere di massima sicurezza israeliano dove stava scontando 4 ergastoli per una serie di reati gravi tra cui l'organizzazione del rapimento e dell'uccisione di due soldati israeliani.
   In questi sei anni Sinwar ha consolidato il suo potere personale. Fa parte di una famiglia di militanti di Hamas, è stato parte integrante dell'ala militare, è duro, spietato, ascetico, con un forte senso di autodisciplina. Detesta la stampa ed è quindi relativamente sconosciuto fuori dalla Striscia. Si è abilmente ritagliato un ruolo che prima non esisteva dentro Hamas, quello di «ministro della Difesa», di raccordo tra l'ala militare e quella politica. Riuscendo in questo modo a eclissare altri «pezzi da 90» del movimento come Mohammed Deif (il comandante delle Brigate) e Marwan Issa (il vice di Deif). Diversamente da tutti gli altri dirigenti di Hamas ha sempre trattato da pari a pari con Khaled Meshaal e Ismail Haniyeh. Il suo potere, ancor prima dell'elezione della scorsa notte era molto ampio, un potere di vita o di morte. A Gaza i ben informati raccontano che sia lui dietro l'uccisione senza precedenti di un «emiro» (la Striscia è divisa militarmente da Hamas in quattro zone, ciascuna delle quali è sotto il controllo di un emiro), da parte di un commando armato e mascherato. L'eliminazione di una spia come si dice o uno scomodo oppositore nella lotta interna? Qui, a Hamastan, nessuno ha posto domande. Nel mese di settembre 2015, Sinwar è stato aggiunto alla lista nera del terrorismo degli Stati Uniti insieme ad altri due membri del braccio armato di Hamas. Fra l'altro ha fondato «Majd», uno dei numerosi servizi di intelligence di Hamas nella Striscia.
   La risposta a quale direzione Hamas prenderà con il suo nuovo leader nella Striscia la sapremo presto. Se Mohammed Deif è stato lo stratega dei tunnel d'attacco che furono la sorpresa militare nella guerra del 2014, Sinwar sembra incoraggiare un'altra strategia, quella di intraprendere altri rapimenti di soldati israeliani per ottenere la liberazione di altri prigionieri palestinesi.
   Lo spionaggio israeliano lo conosce bene e il profilo che ne ha ricavato non suggerisce nulla di tranquillizzante per il futuro, è considerato un falco anche all'interno di Hamas, e si oppone a qualsiasi compromesso per quanto riguarda l'Autorità palestinese e Israele. «È stato scelto un uomo molto, molto pericoloso», spiega una fonte dell'intelligence, «un radicale estremista, odia l'Egitto e vuole la distruzione di Israele. Con lui, l'orologio della guerra si avvicina alla mezzanotte».

(La Stampa, 14 febbraio 2017)


Podismo - Ente Turismo Israeliano: Giorgio Calcaterra ospite alla Maratona d'Italia

ROMA - L'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo è lieto di partecipare all'evento dedicato alla MEZZA MARATONA D'ITALIA (prevista per il 29.10.2017 ad Imola) che verrà dedicato allo straordinario Giorgio Calcaterra ospite della Maratona di Gerusalemme nel 2016, posizionatosi primo degli Europei, che parteciperà nuovamente all'edizione del 2017. All'evento del prossimo 16 febbraio 2017, h 17, presso Hotel Cusani, Milano, sarà presente anche la direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo Avital Kotzer Adari che racconterà la magia di Gerusalemme ed il significato di un viaggio in Israele in occasione di un evento sportivo come la Maratona e non solo.

(Agenparl, 14 febbraio 2017)


La maschera dell'odio

Un bel convegno oggi a Roma sull'antisemitismo e la sua nuova forma sottile: la guerra a Israele.

di Giulio Meotti

ROMA. Si svolge oggi a Roma il convegno "L'antisemitismo contemporaneo" presso il Centro studi americani (ore 17), organizzato dal Solomon, l'osservatorio sulle discriminazioni presieduto da Barbara Pontecorvo. Interverrano Ruth Dureghello (presidente della comunità ebraica di Roma), il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, Paola Balducci del Csm, il professor David Meghnagi e Mark Weitzmann, direttore dell'International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione che si batte contro ogni revisionismo della Shoah. "Dopo la Shoah, l'antisemitismo in occidente era effettivamente emarginato", spiegherà oggi Weitzmann. Nel 1984 lo studioso di antisemitismo Robert Wistrich individuò nell'antisionismo una forma nuova e "accettabile" di antisemitismo in un mondo post-Olocausto. Osservava Wistrich che "nelle democrazie occidentali del Dopoguerra l'antisionismo ha fornito un veicolo per far riemergere atteggiamenti antiebraici". Ma da quando Wistrich formulò questa tesi, trent'anni fa, la tendenza si è solo intensificata. "L'ex ministro canadese della Giustizia e avvocato per i diritti umani, Irwin Cotler, ha identificato nove componenti chiave di questo nuovo antisemitismo, di cui almeno sei direttamente riferim a Israele", spiega Weitzman. "In altre parole, la discriminazione di Israele come entità politica al posto dell'antisemitismo classico. Non tutti erano d'accordo con questa definizione. Illustri studiosi di antisemitismo, come Yehuda Bauer, si chiedevano se ci fosse davvero una cosa come il nuovo antisemitismo. Eppure, il consenso è apparso deciso ad adottare questa nuova definizione di antisemitismo che si è concentrata sull'elemento politico-nazionale".
   La giurisprudenza in Europa non sembra affatto adeguata. "Un tribunale tedesco ha stabilito che l'attacco alla sinagoga di Wuppertal nel 2014 non era antisemita, ma un tentativo di attirare l'attenzione sul conflitto ardente tra Israele e palestinesi'. Se l'antisemitismo si è rigenerato, adattandosi a nuove forme e varietà, allora la nostra risposta deve essere formulata in un modo che risponda a queste nuove sfide". Urge quindi una nuova definizione di antisemitismo che contempli anche la recente "distorsione dell'Olocausto", che non è più l'osceno negazionismo delle camere a gas, ma la banalizzazione a fini politici. Perché come ha scritto Alvin Rosenfeld nel libro "The end of the Holocaust", "il termine Olocausto' è diventato plastico e senza significato", è stato "de-giudaizzato", ovvero svuotato del carattere religioso etnico specifico di distruzione del giudaismo europeo. "Più diventa mainstream, più l'Olocausto diventa banale", avverte Rosenfeld. "Una versione della storia ancora ricolma di sofferenza, ma una sofferenza senza peso morale, quindi più facile da sopportare". Mai quanto oggi la memoria è disseminata, eppure mai quanto oggi la Shoah viene usata contro l'eredità vivente dei sei milioni, il piccolo stato ebraico sotto assedio. Un odio più sottile e, paradossalmente, perfino più difficile da combattere.

(Il Foglio, 14 febbraio 2017)


Un piccolo esempio pratico di questo “nuovo antisemitismo” (non più tanto nuovo ormai) si può trovare nell’articoletto che segue.


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Pax Christi: così Israele ha passato la linea rossa

ROMA - Abbiamo assistito attoniti (domenica, n.d.r.) ai video dell'ultimo raid dei soldati nel villaggio palestinese di At-Twani, dopo quello dell'invasione dei coloni tra le case dello stesso villaggio, afferma un comunicato di Pax Christi Italia. Dopo la legalizzazione degli avamposti delle colonie israeliane, prosegue il comunicato, Israele è andato oltre la linea rossa , come già affermato dall'Onu. Il «regulation bill» di fatto «legalizza» 4mila case già costruite su terreni appartenenti a cittadini palestinesi. Di fronte a una situazione che si va aggravando, Pax Christi constata l'indifferenza e l'inerzia del governo italiano e della comunità internazionale. Intanto, la cancelliera Angela Merkel ha annullato un incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu in programma per il prossimo maggio. Un portavoce del governo tedesco ha spiegato che lo slittamento è dovuto ai molti impegni internazionali per la presidente tedesca del G20. Ma secondo il giornale "Haaretz" l'appuntamento sarebbe saltato proprio a causa della politica sugli insediamenti israeliani in territorio palestinese.

(Avvenire, 14 febbraio 2017)


L'aeroporto Fellini guarda a est, da aprile si vola da Rimini per Tel Aviv

RIMINI - Battezzato "Progetto Israele", prosegue a gonfie vele il nuovo piano di AIRiminum 2014, società di gestione dell'Aeroporto di Rimini e San Marino "Federico Fellini": nella giornata di lunedì, la compagnia aerea Israir ha pianificato tre voli per il prossimo aprile al fine di testare l'attrattività del territorio romagnolo per un mercato caratterizzato da esigenze particolari quale quello israeliano.
In dettaglio, i voli Tel Aviv-Rimini sono pianificati per i giorni 7, 14 e 19 aprile e dovrebbero interessare circa 320 turisti con la possibilità, qualora le aspettative di Israir venissero soddisfatte, di pianificare altri 12 voli in questa prima Summer 2017 - nei mesi di giugno, settembre e ottobre, - che dovrebbero interessare circa 2.000 turisti israeliani ulteriori.

(altarimini.it, 14 febbraio 2017)


Netanyahu verso l'incontro con Trump. Livni all'Onu?

Il Premier frena Bennet,'serve moderazione'. Bene Usa su Fayyad

di Massimo Lomonaco

Mentre spunta il nome di Tipzi Livni come vice di Guterres, Benyamin Netanyahu mette le mani avanti, soprattutto nei confronti della sua coalizione di governo a trazione tutta di destra: l'incontro con Donald Trump del 15 febbraio è importante ma, avverte, "serve ponderatezza". Il messaggio è rivolto in particolare al suo ministro dell'educazione Naftali Bennett: il leader di 'Focolare ebraico', vicino al movimento dei coloni, vorrebbe che il premier, nel vertice alla Casa Bianca, non pronunciasse mai la parola "stato palestinese" o "Soluzione a due stati". "Pensare che non ci siano limitazioni ora - ha detto il premier ai suoi ministri - sarebbe sbagliato. La mia considerazione suprema è garantire la sicurezza di Israele e rafforzare la già forte alleanza con gli Usa. E per questo occorre una politica responsabile". Del resto lo stesso presidente Usa in un'intervista concessa al quotidiano Israel HaYom (vicino al premier) ha ripetuto di non essere "uno che pensa che andare avanti con le colonie aiuti la pace". Ed ha aggiunto con il giornalista Boaz Bismuth: "E' rimasta una porzione di terre limitata e ogni volta che prendi terre per le colonie resta meno terreno. (Le colonie) non sono una forza positiva per quanto concerne un accordo". E se questo non esclude che "anche i palestinesi debbano pensare a un buon accordo" e che come presidente Usa non attaccherà mai i diritti di Israele, tuttavia il pensiero di Trump sembra essersi recentemente distaccato rispetto ai toni usati in campagna elettorale e a quelli dell'arrivo alla Casa Bianca. Del resto che il dossier colonie (non quelle già stabilite ma la loro espansione) sia un problema non solo per Trump ma anche all'interno di Israele, non è una novità. La legge votata alla Knesset di 'regolarizzazione' delle case costruite su terre palestinesi private negli insediamenti ebraici in Cisgiordania è sotto appello alla Corte Suprema e i pronostici sono favorevoli alla sua bocciatura. Contro il provvedimento - oltre all'opposizione di centro sinistra al governo del premier - si è schierato anche il Procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. E in questa direzione vanno anche le dichiarazioni attribuite oggi dai media al presidente israeliano Reuven Rivlin che è uno storico quadro del Likud, il partito di Netanyahu.
    "Israele - ha spiegato secondo quanto attribuitogli dai media ma non confermato dal suo portavoce - ha adottato la legge internazionale". E questo - ha insistito - "non permette ad uno stato di agire applicando e forzando le proprie leggi a territori che non sono sotto la sua sovranità. E' una cacofonia legale. Israele rischia di essere visto come uno stato dell'apartheid, cosa che invece non è". Con Trump, c'e' invece piena armonia con la decisione Usa di bloccare all'Onu la nomina dell'ex primo ministro dell'Autonomia palestinese (Anp) Salam Fayyad come inviato speciale in Libia.
    "E' tempo che ci sia reciprocità nel trattamento verso Israele. - ha osservato Netanyahu - Ed è tempo che si diano anche status e riconoscimenti alla parte israeliana, se Fayyad venisse nominato". Ed ecco allora che spunta il nome dell'ex ministro degli esteri Tizpi Livni - che oggi è all'opposizione di Netanyahu - come vice segretario generale dell'Onu. Lei assicura di non aver ricevuto nessuna proposta formale, ma non nega che "un primo contatto" ci sia stato.

(ANSAmed, 13 febbraio 2017)


Lavrov: Washington riconosca che Hezbollah combatte il terrorismo in Siria

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha dichiarato ieri che la soluzione politica in Siria è prematura, nonostante il fatto che le condizioni siano notevolmente migliorate. Lavrov ha aggiunto che l'entità sionista deve riconoscere che Hezbollah sta combattendo i gruppi terroristici in Siria, ed ha invitato Washington a fornire le prove delle sue accuse circa il sostegno militare russo ad Hezbollah.
Lavrov ha anche sottolineato che impedire all'Iran di combattere l'Isis in Siria è inutile e non costruttivo.

(il faro sul mondo, 13 febbraio 2017)


Notizia breve, che se corrisponde al vero è altamente significativa. Il ministro degli Esteri russo dice che Hezbollah combatte il terrorismo e chiama Israele “entità sionista”. In altre parole, Hezbollah combatte il terrorismo dell'Isis e il terrorismo di Israele, e non si deve impedire che l'Iran faccia la stessa cosa. M.C.


Doppia cittadinanza. Risposta a Marine Le Pen

di Fiamma Nirenstein

Quando la signora Le Pen dice che poiché la cittadinanza israeliana comunque segnerebbe uno sgarro rispetto all'idea che un cittadino europeo debba avere soltanto la cittadinanza europea e che sarà proibito ai francesi avere i due passaporti francese e israeliano, da un segnale molto allarmante rispetto alle sue dichiarazioni di affidabilità a fronte dei sospetti di antisemitismo che si possono ragionevolmente attribuire a lei, il suo partito, la sua stessa famiglia.
   Infatti una discriminazione, qualsiasi discriminazione, nei confronti di un Paese, di un'etnia, di una religione, devono, per essere accettati da uno schieramento democratico come quello cui la Le Pen dice di appartenere, partire da una motivazione concreta, sostanziale, storica. A me, pluralista e sempre impegnata nel campo dei diritti umani, occorre uno sforzo notevole per capire cosa fa Trump quando blocca l'ingresso ai detentori di certi passaporti: ma sono pronta a ragionare con calma e con comprensione sul fatto che Donald Trump, con cui comunque si può essere in disaccordo, ritenga opportuna l'esclusione di alcuni Paesi islamici dall'ingresso negli USA: Trump la spiega col fatto che gli islamici, ed è vero, sono stati negli ultimi anni un pericolo sostanziale nell'ambito del terrorismo antioccidentale.
   Invece l'esclusione di Israele dall'ambito delle nazioni con le quali si può avere un patto di doppia cittadinanza ha un carattere puramente ideologico, non sostanziale, è inspiegabile se non con un'ignobile mossa politica di captatio benevolentiae verso il ventre antisemita francese: infatti non c'è ragione al mondo di impedire una doppia cittadinanza francese-israeliana, non c'è nessun pericolo per la sicurezza né per l'identità francese in un cittadino israeliano; la sua religione, la sua ideologia, la sua storia sono chiaro segnale di amichevolezza, quasi di appartenenza (si è parlato tante volte, Pannella ne era l'alfiere) all'Europa stessa. Tanto meno ha un senso proibirgli la kippà, cui si sa benissimo che il Popolo Ebraico è legato da un impegno identitario imprescindibile.
   Allora bisogna dedurre che la Le Pen ha una preclusione ideologica verso Israele: non è dunque sincera quando dice che l'antisemitismo è retaggio paterno con cui lei non ha niente a che fare. Oppure è la sua passione per l'Europa, davvero mai percepita prima, che le fa velo? Strano, perché davvero l'Europa lei mostra in tante circostanze di non poterla soffrire.
   In sostanza c'è un elemento di smascheramento nella sua dichiarazione che dà da pensare: c'è il rischio che l'anti-islamismo delle nuove destre europee sia contaminato da un dato ideologico come sostiene la sinistra, e questo certo con gli ebrei non va. E' antisemitismo, e lo combatteremo.

(Blog di Fiamma Nirenstein, 13 febbraio 2017)


Hamas cambia leader, al vertice il capo dell'ala militare Yahya Sinwar

Scarcerato sei anni fa nello scambio di prigionieri per Gilad Shalit, prende il posto di Haniyeh

di Giordano Stabile

 
Yahya Sinwar
Cambio al vertice di Hamas, il movimento islamista che governa la Striscia di Gaza dal 2007. Yahya Sinwar, vicino all'ala militare del gruppo ha preso il posto del leader politico storico Ismail Haniyeh. Non si conoscono i dettagli del cambio, non annunciato.
Negli scorsi mesi si erano moltiplicati i segnali della crescente influenza di Sinwar Il nuovo leader, 55 anni, è stato liberato sei anni fa dopo aver passato 22 anni nelle carceri israeliane, nel mega scambio di prigionieri per il rilascio del caporale Gilad Shalit. Nato a Khan Yunis, nel Sud della Striscia, Sinwar era considerato uno degli ispiratori del sequestro.
Dopo la liberazione, Sinwar è diventato progressivamente l'uomo forte di Hamas, punto di collegamento fra l'ala militare, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, dove il fratello Mohammed è uno dei comandanti più influenti, e l'ala politica.
Sinwar è riuscito a ricucire in parte con l'Egitto, nonostante Hamas sia la branca palestinese dei Fratelli musulmani combattuti dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, e a rompere l'assedio totale della Striscia. Ne ha approfittato per un riarmo massiccio, soprattutto missilistico. Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le provocazioni con Israele, con lancio di razzi e l'incremento dell'attività nei tunnel che dalla Striscia cercano di raggiungere in profondità il territorio israeliano.

(La Stampa, 13 febbraio 2017)


Fatah critica Turchia e Qatar per "rafforzare divisione palestinese"

RAMALLAH - Il partito politico palestinese di Fatah, che fa capo al presidente Mahmoud Abbas, ha accusato la Turchia e il Qatar di lavorare per "rafforzare le divisioni nel campo palestinese". Il partito al governo a Ramallah si dice stupito per "le parole espresse da Mohammed al Amadi, presidente della commissione qatariota per la ricostruzione di Gaza, che parlando ai media israeliani ha accusato una parte palestinese di ostacolare la soluzione alla crisi della mancanza di energia elettrica nella striscia di Gaza". Inoltre Fatah ha criticato "l'organizzazione in Turchia di un congresso popolare palestinese senza che ne sia stata informato l'Olp. Queste azioni hanno lo scopo di dividere il campo palestinese".

(Agenzia Nova, 13 febbraio 2017)


Le soluzioni israeliane per salvare le api

Le soluzioni israeliane per salvare le api. La situazione delle api è allarmante. Il loro numero diminuisce drasticamente per ragioni che non sono ancora pienamente comprese. Ma in Israele la popolazione di api diminuisce molto meno che altrove e la produzione del miele è buona.
  Le api svolgono un ruolo cruciale in agricoltura per l'impollinazione di frutta e verdura e una loro riduzione è talmente preoccupante (30-50% negli Stati Uniti) che Barack Obama prima della fine del suo mandato ha lanciato un piano strategico nazionale per salvarle.

 Perché il problema in Israele è molto meno grave? Ecco i motivi:
  Le specie di piante per le fioriture invernali sono state introdotto in modo che gli apicoltori non siano più obbligati a nutrire le api con acqua e zucchero, una pratica costosa che produce un miele di qualità media. Come sottolinea Hagay Yavlovich, specialista in semi e vivai:
Noi non facciamo ricerca sulle api, ma cerchiamo sempre di sapere quali piante le api amano.
La ricerca israeliana ha come obiettivo l'individuazione di strategie biologiche e botaniche.
Hertzel Avidor, CEO di Honey Board:
Stiamo cercando tutti I modi possibili per stimolare il sistema immunitario delle api sviluppando dele piante ricche di nettare.
Israele aiuta i suoi circa 500 apicoltori ad implementare tattiche innovative a sostegno collettivo dei 110,000 alveari. La lieve diminuzione del numero delle api non influenza la fornitura di miele perché ogni anno vengono inserite numerose colonie per compensare la perdita. Il clima è la variabile principale per raggiungere una produzione annua ideale di 3,000 tonnellate di miele.
  Un'altra strategia consigliata è quella di produrre il miele proveniente dall'eucalipto, dove le api sono più sane e più abbondanti, anche se l'eucalipto è un albero minacciato dall'urbanizzazione. Così numerosi eucalipti sono stati piantati lungo il confine con Israele.
  Gli apicoltori hanno il terreno ma non hanno abbastanza fiori e arbusti per attirare le api. Per 20 anni gli apicoltori hanno cooperato con le organizzazioni ambientali per rendere la terra più verde per attirare le api. In precedenza gli apicoltori dovevano disporre gli alveari per tutto il paese per massimizzare le aree di alimentazione e ciò comporta un aumento dei costi di trasporto e monitoraggio.
  Un'altra causa della penuria di api � la monotonia dei terreni agricoli. Come spiega Hagay Yavlovich direttore del KKL, nel Kansas, per esempio, le api vedono solo campi di semi di soia e mais e ciò non va bene. Supponiamo che offrire alle api differenti varietà di fiori abbassi la diminuzione delle api.

 Cooperazione
  I ricercatori dell'Istituto indiano di ricerca agricola Nimbkar sono recentemente stati in visita al centro nazionale israeliano di semi Beit Nehemia per beneficiare di consigli sulla coltivazione di eucalipto e di altre piante che contribuiscono a migliorare la produzione di miele, consigli di cui hanno beneficiato anche apicoltori giordani.
  In ultimo, grazie all'aiuto di alcuni esperti è stato pubblicato e tradotto in inglese un catalogo per aiutare gli apicoltori di tutto il mondo a produrre del buon miele.

(SiliconWadi, 13 febbraio 2017)


Lo Stato d’Israele aiuta a costruirsi una famiglia

 
Famiglia di immigrati francesi
Israele posto ideale dove costruirsi una famiglia. Almeno secondo la classifica stilata dall'organizzazione InterNations all'interno del suo report annuale Expat Insider (2016), dedicato a chi espatria in altri Paesi. Secondo infatti l'indagine, l'81 per cento dei genitori trasferitisi in Israele è felice dell'assistenza all'infanzia che riceve dallo Stato. Soddisfazione che sale al 84 per cento alla domanda sulla qualità generale delle opzioni educative garantite dallo Stato. E grazie a questi risultati positivi, Israele sale quest'anno sul podio della classifica stilata da InterNations rispetto alla vita famigliare (sotto cui rientrano sottocategorie come la percezione della qualità dell'assistenza medica per l'infanzia e il livello del sistema educativo offerto), posizionandosi al terzo posto dopo Finlandia e Repubblica Ceca.
L'indagine ExpatInsider - che per il 2016 ha coinvolto 45 Paesi diversi mentre oltre 14mila persone hanno risposto ai quesiti - si propone di classificare i paesi in base alla qualità della vita che offrono per un intero nucleo familiare espatriato, compilando i punteggi nelle categorie di benessere famigliare, della qualità della formazione, del costo delle cure per i bambini, dell'istruzione e della disponibilità di assistenza all'infanzia, per dare un quadro complessivo delle esigenze della vita familiare.
Tra questi vari punti presi in considerazione dall'indagine, Israele è al primo posto per la salute dei bambini, con il 56% dei genitori espatriati che affermano che il livello dell'offerta è molto buona. Non solo, le famiglie intervistate affermano di essersi sentite benvenute: il 69 per cento considera l'atteggiamento che vi è nello Stato ebraico nei confronti delle famiglie con bambini eccellente. Il paese è, tuttavia, considerato meno favorevole per la sicurezza e la vita familiare dei bambini in generale, classificandosi rispettivamente al 25esimo e 29esimo posto. d.r.

(moked, 12 febbraio 2017)


Ma quali due stati, i primi a non volere la Palestina libera sono gli arabi
      Articolo OTTIMO!


L'obiettivo finale è includere le terre dal Giordano e il mare nella grande umma islamica. Lo dice la storia.

di Emanuel Segre Amar

Stato di Palestina: dietro queste due parole, che sembrano avere la massima priorità per l'Onu e per i governanti del mondo intero, si nasconde una realtà che appare sconosciuta ai più.
  Nel mondo arabo non vi è una tradizione dello stato e, a parte l'Egitto, la cui storia risale a migliaia di anni fa, di molto antecedente all'arrivo dei conquistatori/predicatori musulmani (e che tuttora è abitato anche da popolazioni non arabe, come non lo erano gli antichi egizi), non si è mai parlato di stati nel senso esportato da inglesi e francesi dopo la fine della Prima guerra mondiale. Le popolazioni arabe riconoscono, come legame fondamentale, la tribù. Se si considera quanto accade in stati artificiali, tracciati con un righello sulle mappe, come sono la Libia, la Siria o l'Iraq, vediamo che, abbattuto il dittatore, sono le tribù che riemergono con tutta la loro forza. Sopra la tribù non può esistere uno stato, inevitabilmente dilaniato da vere e proprie guerre tribali (all'interno della stessa "setta" religiosa) oltre che dalla millenaria guerra tra sunniti e sciiti.
  La storia insegna che solo un impero, come quello ottomano, o un califfato, è riuscito a mantenere un certo controllo grazie a metodi di governo impensabili in occidente. Se poi si volge lo sguardo al Maghreb - che, non a caso, in arabo significa luogo del tramonto - troviamo una realtà molto simile, a eccezione del Marocco dove il re, grazie alla sua riconosciuta discendenza diretta da Maometto, ha poteri al tempo stesso religiosi (può perfino annullare le fatwe) e amministrativi. Non è certo casuale se le terre dell'Impero ottomano si fermavano ai confini del Marocco.
  Torniamo ora alla realtà palestinese. Dopo una iniziale decisione della Società delle Nazioni, nel 1922, di creare una Jewish National Home su un territorio comprendente le attuali Giordania ed Israele, la Striscia di Gaza, la Giudea e la Samaria, nel 1923 gli inglesi tirarono fuori dal cilindro quel Regno di Transgiordania che oggi sembra riuscire a sopravvivere- non solo economicamente - grazie ai determinanti aiuti dell'occidente, e anche, in maniera poco pubblicizzata, di Israele. Ed è compito del re (e della regina) tenere unite le diverse etnie che vivono nel regno (artificiale), con difficoltà sempre crescenti.

 Tra Corano e Nazioni Unite
  Furono gli inglesi che decisero che il territorio destinato allo stato ebraico, già ridotto del 78 per cento con la sottrazione delle terre a est del Giordano, dovesse ulteriormente suddividersi in due "stati", uno dei quali "arabo", come poi deliberato dalle Nazioni Unite nel 1947. Questa decisione venne bocciata in blocco da tutti i paesi arabi per ragioni diverse, ma complementari. Nelle terre che sono già state conquistate dalla umma, parola araba che significa nazione come la identica parola ebraica, non è possibile, secondo il Corano, che nasca una amministrazione che non sia islamica, come appunto è lo stato di Israele. Ma, per gli arabi, non era chiaro nemmeno perché avrebbe dovuto nascere un nuovo "stato" su quella che per loro era sempre stata, semplicemente la Siria meridionale.
  Auni Bey Abdul-Hadi, un leader arabo locale, aveva già dichiarato alla Commissione Peel nel 1937: "Non esiste alcun paese noto come Palestina! Palestina è un termine che i sionisti hanno inventato! Il nostro paese è stato per secoli parte della Siria". Il rappresentante dell'Alto comitato arabo alle Nazioni Unite rilasciò la seguente dichiarazione in Assemblea Generale, nel maggio 1947: "La Palestina era parte della provincia della Siria; politicamente, gli arabi di Palestina non erano indipendenti, nel senso che non formavano un'entità politica separata".
  Ahmed Shuqeiri, ex presidente dell'Olp, dichiarò poi, nel 1956, davanti al Consiglio di Sicurezza dell'Onu: "E' comunemente noto che la Palestina non è altro che la Siria meridionale". Zahir Muhsein, in un' intervista al giornale olandese Trouw del 31 marzo 1977, dichiarò:
    "Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è soltanto uno strumento per la continuazione della nostra lotta contro lo stato di Israele per la nostra unità araba. In realtà oggi non c'è differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. E' soltanto per ragioni politiche e tattiche che noi parliamo dell'esistenza del popolo palestinese, dato che l'interesse nazionale arabo richiede che noi presupponiamo l'esistenza di un 'popolo palestinese' distinto, che si opponga al Sionismo. Per ragioni tattiche la Giordania, che è uno stato sovrano con confini delimitati, non può avanzare diritti su Haifa e Jaffa, mentre come palestinese io posso senza dubbio rivendicare Haifa, Jaffa, Beer-Sheva e Gerusalemme. Tuttavia, nel momento in cui reclamiamo il nostro diritto su tutta la Palestina, non aspetteremo neanche un minuto a riunire la Palestina e la Giordania". E ancora Farouk Radoumi, capo diplomatico dell'Olp, nel 1998 chiarì nuovamente il fine ultimo di quell'arma tattica nota come 'popolo palestinese': "Appena lo stato palestinese avrà guadagnato un riconoscimento dalla maggior parte delle nazioni del mondo, come ci aspettiamo, la presenza israeliana su terra palestinese diventerà illegale e noi la combatteremo con le armi. La battaglia contro le forze israeliane è un diritto a noi riservato". (Farouk Radoumi, al giornale Al Hayat al-Jadeeda, 15 ottobre 1998).
 Le parole di Arafat
  Arafat, che alla sua anima di terrorista affiancava anche un'intelligenza politica non comune, aveva - a un certo punto - iniziato a parlare di stato palestinese, ma chissà che cosa aveva in mente. Non dimentichiamo, infatti, che subito dopo la firma degli accordi di Oslo, il 10 maggio 1994, a chi provava a rimproverarlo per tale riconoscimento del nemico sionista rispose: "Questo accordo non lo considero che come l'accordo siglato dal nostro Profeta Maometto con Kureish, e ricordate che il Califfo Omar aveva respinto tale accordo come una tregua disgustosa". E infatti, nonostante gli impegni sottoscritti, non li fece mai ratificare dall'Olp, e questo dovrebbe aprire gli occhi ai tanti che pensano, nel mondo, di poter imporre dall'alto la soluzione dei due stati. Non si deve nemmeno dimenticare, a ulteriore riprova della non esistenza di questo stato di Palestina, che la maggior parte dell'odierna popolazione non è nemmeno autoctona, come non lo era lo stesso Arafat (lui stesso egiziano). Lo stesso ministro dell'Interno di Hamas, Fathi Hammad, alla tv al Hekrna, il 23 marzo 2012, protestando con gli egiziani per il blocco delle forniture di petrolio, diceva loro:
    "Tutti i palestinesi, a Gaza e in Palestina, possono dimostrare le loro origini arabe, dalla Arabia Saudita, dallo Yemen, o da tutte le altre terre. Noi abbiamo legami di sangue. La mia famiglia è egiziana. Più di trenta famiglie si chiamano al Masri (egiziano); metà dei palestinesi sono egiziani, e l'altra metà sono sauditi. Chi è palestinese? Noi siamo arabi. Noi siamo musulmani. Noi siamo una parte di voi".
Questi sono i fatti troppo spesso ignorati dai tanti che, almeno dal 1947, continuano a credere che ciò che vale in occidente, possa valere anche in Medio oriente. Se questa divisione in due stati non si è ancora realizzata, non è a causa delle colonie ebraiche: forse che gli ebrei che sono tornati, nel 1967, a Hebron o a Gerusalemme, dove avevano vissuto per 3.000 anni, fino a quando i conquistatori giordani li avevano cacciati nel 1948, possono essere considerati coloni? La mancanza di una soluzione non è dovuta a questioni di confini: sono state fatte ben 3 offerte che prevedevano la concessione fino al 97 per cento dei territori; e non è nemmeno dovuta al governo di Netanyahu e dei tanti "falchi" del suo governo: forse che non era considerato un terribile falco anche Begin che fece la prima pace firmata tra gli ebrei e gli arabi? No, forse la causa vera di questa terribile impasse, al momento senza via di uscita, è che gli arabi non vogliono uno stato palestinese, piccolo o grande che sia. No, loro vogliono tutta quell'area, dal Giordano al mare, mostrata in tutti i loro simboli, in tutti i loro libri scolastici, in tutte le loro carte geografiche, per unirla alla Umma, la grande nazione musulmana.

(Il Foglio, 11 febbraio 2017)


Il pieno di energia si fa a bordo strada, e si ricarica il bus elettrico

L'idea di ricaricare un veicolo senza fili sfruttando la stessa strada su cui esso si muove è della startup israeliana Electroad. Il primo test a Tel Aviv.

di Jessica Fabiano

 
Ricaricare un veicolo senza fili, semplicemente sfruttando la stessa strada su cui esso si muove. È l'idea della startup israeliana Electroad, che ha creato un nuovo sistema wireless che permette ai mezzi con batteria elettrica di ricaricarsi in modo assolutamente green, grazie all'induzione elettromagnetica.

 Funziona come uno smartphone
  Il concept su cui si basa è piuttosto semplice, visto che si tratta dello stesso principio legato all'alimentazione degli smartphone in modalità wifi. I veicoli elettrici sono attrezzati di sensori in grado di ricevere l'energia elettrica quando si trovano su tratti stradali che sfruttano la tecnologia di Electroad, mentre i tratti stradali sono a loro volta muniti di una particolare striscia in gomma e rame. Sui lati della carreggiata vengono poi installati degli inverter in grado di trasmettere elettricità che passa attraverso la bobina posta all'interno del mezzo. Il risultato è che il veicolo non ha più la necessità di lunghe soste per fare il pieno di energia: basta che si sposti sulla parte green del tratto stradale.

 Il test su venti metri di strada di Tel Aviv
  Il sistema, che ha ottenuto un finanziamento dal progetto europeo Horizon 2020 e che nasce principalmente per ridurre l'impatto ambientale del trasporto pubblico, è ancora in fase iniziale, anche se è già stato testato su un tratto di strada di venti metri di Tel Aviv, dove è riuscito ad alimentare un bus elettrico della città. L'obiettivo della startup è di offrire delle vere e proprie "corsie verdi", iniziando fornendo maggiori soluzioni di ricarica che permettano agli autobus di utilizzare batterie più piccole, riducendo il peso e il costo complessivo di questi veicoli elettrici.

 Gli altri progetti
  Non è la prima volta che un progetto del genere viene testato: a livello europeo, l'azienda Scania sta sperimentando un autobus ibrido in Svezia, il Citywide LE4x2, che monta due motori, uno a biodiesel e l'altro elettrico, in grado di lavorare insieme. Il nuovo modello del veicolo è capace di ricevere l'elettricità tramite l'induzione elettromagnetica.

(Corriere Innovazione, 13 febbraio 2017)


L'ultima risoluzione Onu e il "regalo" avvelenato di Obama

Tutte le conseguenze e i danni di una diplomazia delle anime belle. E della loro ipocrisia.

di Paolo Shalom

La Storia corre in fretta, nel lontano Occidente. Ma, in apparenza, solo quando c'è Israele di mezzo.
   Le sorprese di fine anno alle Nazioni Unite - difficili da digerire - sono state preparate e messe al voto nello spazio di pochi giorni. Il riferimento è alla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza che, per la prima volta, definisce "illegali" gli insediamenti nei Territori, compresi quelli a Gerusalemme Est. In poche parole, la Comunità internazionale ritiene che il Muro Occidentale (non solo il Monte del Tempio), e il Quartiere ebraico della Città Vecchia siano zone "occupate", territorio straniero e non afferente allo Stato Ebraico. Il tutto con l'imprimatur degli Stati Uniti del presidente (ormai non più) Barack Obama che ha ordinato l'astensione al momento del voto. Dov'è la logica in tutto questo? Perché l'America ha promosso un testo che ignora volutamente lo scopo in sé della nascita di Israele, e cioè il ritorno alla terra degli avi, liberi di fronte al mondo, in pieno possesso dei luoghi che hanno nutrito l'anima del popolo ebraico nei millenni?
   Intanto, così facendo, Obama ha esercitato la sua vendetta personale contro Netanyahu, l'unico leader che abbia osato sfidarlo ripetutamente nel corso dei suoi otto anni alla Casa Bianca (e ora capiamo perché lo abbia fatto). E, poi, ha anche impresso il suo "marchio" sulla politica dell'attuale presidente Usa, Donald Trump, al potere dal 20 gennaio. Perché una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, per quanto abborracciata e contraddittoria, difficilmente può essere cancellata: il diritto di veto è esercitato con grande cura e su basi di real-politik dagli altri Stati che ne beneficiano (oltre agli Usa: Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna), ragion per cui, per esempio, il regime siriano di Assad è stato accuratamente protetto da Mosca, nonostante stragi e orrori di una guerra civile durata sei anni, secondo il principio che gli "alleati non si tradiscono". Perciò difficile immaginare l'approvazione di una nuova risoluzione che cancelli le follie di quest'ultima.
   Almeno l'Amministrazione Trump sarà, nelle future avversità, una sincera amica di Israele? Forse. Ma anche lui, Trump, dovrà considerare gli equilibri mondiali. Perciò è realistico non farsi troppe illusioni. Come è purtroppo un dato di fatto che l'ultima carta giocata da Obama allontanerà la pace invece che avvicinarla, come ha stoltamente affermato il suo segretario di Stato, John Kerry. Perché? Che fareste voi, dovendo trattare per avere qualcosa che vi viene assicurata ancor prima di sedervi al tavolo? Ecco: i palestinesi non hanno mai mostrato una seria propensione ad accettare compromessi: ora che hanno vinto una battaglia senza colpo ferire, saranno ancora più determinati a vincere la guerra a modo loro. Queste sono le conseguenze della diplomazia delle anime belle nel lontano Occidente.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, febbraio 2017)


Maratona di Tel Aviv: attesi oltre 40mila persone per il 24 Febbraio

Maratona di Tel Aviv 2016
Preparativi ormai ultimati a Tel Aviv per la maratona annuale che si terrà il prossimo 24 Febbraio. Sono attesi più di 40mila corridori (di cui solo 2mila circa percorreranno interamente i 42,195 km) per quello che negli ultimi anni è diventato uno degli eventi internazionali più importanti in Israele, e prevede oltre alla maratona completa anche la mezza maratona, i 10 km e i 5 km di corsa, ed anche una corsa ciclistica in hand bike per le persone portatrici di handicap.
La maratona è già una tradizione per gli appassionati sportivi ed offre ai partecipanti la possibilità di correre attraverso un percorso urbano unico nel suo genere pensato per poter mettere in evidenza il meglio della Città Bianca, riconosciuta ufficialmente come patrimonio mondiale dell'Unesco, passando lungo le sue vie principali come Dizengoff Street, Rothschild Boulevard, Kikar Rabin e la Tayelet (il lungomare), per costeggiare il Parco Hayarkon, vero polmone verde dell'area.
Le iscrizioni sono aperte fino al 18 Febbraio e anche quest'anno sono previste numerose adesioni, soprattutto da parte di chi vuole godersi una giornata all'insegna dell'attività sportiva e della semplice partecipazione agli eventi collegati alla maratona: l'evento infatti è denominato "Tel Aviv SAMSUNG Marathon - Non Stop Party in a Non Stop City!", ad ulteriore conferma del fatto che la Città che non dorme mai è pronta anche quest'anno a proporre una esperienza unica a tutti gli iscritti!
Con una serie di eventi tra cui una maratona completa, mezza maratona, 10 km e 5 km corsa, così come corsa ciclistica 42 km a mano per le persone con esigenze particolari, il giorno della maratona sarà pieno di azione come i partecipanti potranno vedere alcuni dei più grandi siti di questa bella città. Questo è il più grande evento sportivo in Israele, con più di 35 mila corridori!

(Cool Israel, febbraio 2017)


Come ha fatto Israele a diventare eccellenza mondiale nel campo della cybersecurity

Il futuro è già qui, e non sembra un futuro accogliente. Virus, malware, cyber attack, ransomware, fenomeni in ascesa che dipingono uno scenario a tinte fosche, e neanche troppo lontano, stando alla velocità di crescita ed espansione del cyberspazio e del suo utilizzo da parte nostra.

di Cecilia Scaldaferri

Girando per gli stand della CyberTech di Tel Aviv, la seconda più grande fiera al mondo in materia di cyber security (una vera e propria celebrazione della leadership dello Stato ebraico nel settore), gli allarmi sono ovunque e invitano a mettere al sicuro i tanti strumenti tecnologici che usiamo quotidianamente: Non basta più l'antivirus sul computer, la nuova frontiera è la sicurezza dei dispositivi mobile, il nostro 'cordone ombelicale' con un mondo sempre più interconnesso.
  Allarmi da prendere seriamente alla luce del 2016, "un anno cruciale" secondo Nadav Zafrir, cofondatore e ad del Team 8, per 25 anni nei ranghi delle forze armate israeliane, di cui gli ultimi dieci alla guida della leggendaria unità 8200, l'elite dell'esercito dedicata alla lotta contro i nemici dello Stato ebraico nel profondo della Rete. Una preparazione d'eccezione che l'ha portato, una volta abbandonata la divisa, a creare la propria società, percorso naturale per molti ex militari impegnati nel settore.

 Intercettare le menti migliori fin dal liceo
 
  Proprio questa è una delle ragioni del successo israeliano nella sicurezza cibernetica: sicuramente gioca a suo favore la situazione geopolitica - un paese piccolo, con tanti nemici e minacce costanti - ma la vera chiave di volta è il modello formativo, con i migliori talenti selezionati fin dai tempi del liceo, indirizzati all'università verso le facoltà scientifiche e tecnologiche e poi assorbiti dalle forze armate, in unità dedicate, per i due/tre anni obbligatori di leva. Così facendo, sottolinea Zafrir, Israele "ha trasformato un costo per l'economia (la leva obbligatoria, ndr) in una spinta": questi giovani "talentuosi, motivati e pratici, messi nel giusto ambiente con stimoli continui, creano qualcosa di magico". Da lì, escono a 25/26 anni con un bagaglio di esperienza invidiabile, capacità manageriali e di gestione delle crisi, un approccio ai problemi che non prevede l'impossibile, una forte motivazione e dedizione, insieme a idee spendibili sul mercato. Sono nate da questo ecosistema quasi unico al mondo centinaia di start up, di cui molte acquisite dai colossi tecnologici mondiali, e decine continuano a vedere la luce ogni giorno.
  C'è un turn over continuo nelle unità militari. E quelli che lasciano l'esercito per lanciarsi nel settore privato si portano via "non 'i segreti' del mestiere ma l'approccio, come si affrontano sfide" che sembrano impossibili, spiega Zafrir, sottolineando che quando vengono selezionati, a contare maggiormente non sono le nozioni (a 16 anni sono quasi inesistenti), ma la velocità di apprendimento. "Questo è un settore dove si ha uno sviluppo continuo, a un ritmo incredibile ed esponenziale: quello che si inizia a studiare il primo anno di università, pochi anni più tardi è già obsoleto".

 Il 2016 è stato un anno cruciale, colpiti i pilastri del nostro sistema
  Una potenza di fuoco, non fisica ma virtuale, che sembra quasi eccessiva a occhi profani. Ma nella realtà, ad ascoltare i principali attori impegnati nella cyber sicurezza - imprenditori, accademici, esponenti governativi e militari - è assolutamente giustificata. Il 2016 è stato un anno cruciale, ribadisce Zafrif, mettendo in luce i principali attacchi che hanno funestato l'anno appena passato e che hanno interessato i gangli vitali del nostro sistema: il settore finanziario, le infrastrutture civili, il sistema elettorale e la stessa rete internet.
  Si va dagli hacker che hanno colpito la banca centrale in Bangladesh rubando 80 milioni di dollari (e potevano essere molti di più se non avessero fatto un microscopico ma decisivo errore che li ha fatti scoprire) al black out della rete elettrica ucraina fino alle violazioni nel sistema elettorale americano e l'oscuramento di Internet sulla costa orientale Usa lo scorso ottobre.

 Sempre più attaccati al telefonino… ma senza protezioni adeguate
 
  "Siamo tutti connessi, e sempre di più. Questa è la realtà di oggi e dobbiamo difenderci", ricorda Gil Shwed, enfant prodige che 'smanettava' sui computer già a 10 anni, cofondatore di Check Point, una potenza da 100mila clienti nel mondo, più di 4.300 dipendenti e 1,78 miliardi di fatturato nel 2016. "Il 90% delle aziende ha dispositivi mobile non protetti perché pensano che non sia necessario", sottolinea, puntando l'attenzione sulla maggiore sfida (e minaccia) attuale.
  I numeri stupiscono: circa il 99% delle organizzazioni non hanno protezioni sui dispositivi mobile, il 96% non usa firewall di prevenzione avanzata e il 98% delle aziende nel mondo non usa sistemi di sicurezza del cloud. Si nega la realtà del pericolo e si prendono talvolta rischi troppo grandi, salvo poi disperarsi, dopo. "La parola chiave - scandisce Shwed - è prevenzione". Altro tema ugualmente in agenda, la sicurezza del cloud: la prospettiva è che le aziende lo usino sempre di più come estensione della propria struttura. "Bisognerebbe sviluppare un'architettura e integrare varie tecnologie di cybersecurity in un singolo sistema da offrire ai clienti, dando loro una protezione efficace contro attacchi diretti verso il cloud, i dispositivi mobile, i data center e i sistemi informatici".

 Israele ecosistema per seimila startup
  Nel 2016 il 20% degli investimenti privati mondiali sono finiti in aziende israeliane, sono tra 450 e 500 le start up nel settore della cyber sicurezza, con 40-50 che si uniscono ogni anno. Ma l'innovazione in Israele non si limita a questo settore, "è la base stessa della nostra economia", ricorda Avi Hasson, il chief scientist del ministero dell'Economia a capo dell'Autorità Israeliana per l'Innovazione (AII). Due gli elementi caratterizzanti del modello israeliano: "la profonda partnership tra pubblico e privato", insieme a una "politica di lungo periodo" che dagli anni '70 è stata adottata dal governo, a prescindere da chi lo guidi, dando una stabilità di lungo periodo. Gli investimenti dell'Authorità riguardano qualsiasi settore dell'economia, tranne quello militare e della formazione. Il risultato sono le seimila startup innovative esistenti nello Stato ebraico, "un numero in crescita" anche se sono anche tante - fino a un centinaio - quelle che ogni anno chiudono i battenti.
  "La nostra missione - spiega Hasson - è quella di trasformare l'innovazione in prosperità economica". Da qui, una serie di misure messe in atto per attrarre capitali, dalle esenzioni fiscali per gli investitori, ai visti per società e imprenditori, fino a regolamentazioni ad hoc. L'Autorità, spiega Hasson, è "la voce dell'ecosistema innovativo all'interno del governo". Uno sforzo di sistema che solo nel 2016 ha visto investimenti nelle start up israeliane per 4,8 miliardi di dollari, per l'85% provenienti dall'estero. Il 50% dell'export israeliano deriva dall'hi-tech. Centinaia di multinazionali hanno qui centri di ricerca e sviluppo, con "mutui benefici", senza contare i 70 accordi bilaterali con strutture sparse nei cinque continenti, dal Cile al Giappone. A decidere su quali progetti investire, sono 150 analisti indipendenti che vagliano approfonditamente ogni singola iniziativa e presentano i risultati a una commissione mista, pubblico e privato. Le risorse sono limitate, "il budget riesce a coprire solo il 20% delle domande che ci vengono sottoposte, il che significa che sono 5 volte tanto".

 Matania, lavoriamo allo sviluppo di un 'Iron Dome' digitale
  L'AII lavora a stretto contatto con l'Israel National Cyber Directorate, l'ente dedicato a raccomandare una politica nazionale, promuovendola in accordo con le leggi e le indicazioni governative. L'obiettivo è rendere lo Stato ebraico pronto ad affrontare qualsiasi minaccia virtuale. Per questo, ha annunciato il responsabile dell'ufficio Eviatar Matania, si sta lavorando alla creazione dell'"equivalente digitale dell'Iron Dome" (il sistema mobile per la difesa anti-missile, ndr). Un simile scudo difensivo non sarà composto da "un solo sistema, ma da una loro combinazione" in modo da difendersi in maniera molto più efficace. "Nel giro di alcuni anni, penso che saremo in una posizione molto diversa, con tutti i sistemi che lavorano insieme".
  Un primo passo in questa direzione è stata la realizzazione di Cyber Net, che permette al Cert (il Comupter emergency response team con sede a Beer Sheva, 'capitale' israeliana della cyber security) di mettersi in connessione con i team dedicati alla cyberdefense sia nel settore pubblico che nelle organizzazioni private, per condividere informazioni sugli attacchi ed evitarne altri.

 Cooperare per affrontare le minacce terroristiche
  E' un'ecosistema che funziona e che ha portato Israele a raggiungere una posizione dominante nel settore: "La grandezza fisica del Paese non ha limitato il suo potere nella cyber technology", ha sottolineato il premier Benjamin Netanyahu, rivolgendosi alla vasta platea di addetti al settore, 'nerd', appassionati, imprenditori, esponenti governativi e big della Silicon Valley accorsi alla CyberTech a Tel Aviv. Il rischio, ha aggiunto, è una "sovraregolamentazione: una volta imposta, si ostacola lo sviluppo dell'industria cybertecnologica". Quello di cui invece c'è bisogno sono gli investimenti, e per questo il governo è attivo con diverse misure: "sosteniamo programmi per le aziende che vogliono venire per stabilire centri di sviluppo, inoltre sviluppiamo il capitale umano d'Israele attraverso programmi formativi nel settore militare e accademico".
  Uno sforzo imponente, di fronte a minacce crescenti. Come ha ricordato Netanyahu, "negli ultimi anni l'Iran ha sviluppato un'infrastruttura terroristica in Medio Oriente. L'internet delle cose può essere usata da queste organizzazioni terroristiche per scopi pericolosi". Senza andare troppo lontano, all'inizio di gennaio l'esercito israeliano ha annunciato di aver svelato un cyber attacco da parte di Hamas: miliziani, spacciandosi per avvenenti ragazze, contattavano soldati di Tsahal e così erano riusciti a infettare decine di dispositivi, alla ricerca di informazioni di intelligence per operazioni militari ai confini della Striscia di Gaza. "In questo contesto - ha sottolineato il premier - Israele, Stati Uniti e altri Paesi dovrebbero cooperare a livello governativo così come tra imprese".

(Agenzia giornalistica Italia, 12 febbraio 2017)


Onu, l'israeliana Tzipi Livni verso il ruolo di vice-Guterres

Un rappresentante di Gerusalemme per la prima volta candidato al piani alti delle nazioni unite. Deciderà il Consiglio di Sicurezza

di Paolo Mastrolilli

Tzipi Livni, 58 anni, è una politica e un avvocato, con un'esperienza nel Mossad: è stata la prima donna a guidare la diplomazia israeliana dopo Golda Meir. È leader del partito HaTnuah e parlamentare della Knesset
NEWYORK - Gli Stati Uniti bloccano la nomina di Salam Fayyad come nuovo inviato dell'Onu in Libia, ufficialmente perché è palestinese. Così provocano una crisi e uno shock al Palazzo di Vetro, perché la scelta dell'ex premier era stata approvata dall'ambasciatrice Nikki Haley. Fayyad infatti è considerato il palestinese più vicino agli Usa e ad Israele, e godendo dell'appoggio degli Emirati Arabi Uniti e dell'Egitto, può cambiare il governo di Tripoli e fare l'accordo con quello di Tobruk per stabilizzare il Paese. Forse però è un gioco delle parti: Israele otterrà un posto all'Onu per l'ex ministro degli Esteri Tzipi Livni, e Washington sbloccherà Fayyad.
   Il segretario generale Guterres aveva inviato una lettera ai membri del Consiglio di Sicurezza 1'8 febbraio scorso, informandoli dell'intenzione di nominare Fayyad al posto di Kobler. I membri avevano tempo fino alla mezzanotte di venerdì per obiettare, e alle sei e mezzo è arrivato questo comunicato di Haley: «Gli Usa sono delusi nel vedere una lettera che indica l'intenzione di nominare l'ex premier dell'Autorità palestinese alla guida della missione in Libia. Per troppo tempo l'Onu ha ingiustamente favorito l'Autorità palestinese a scapito dei nostri alleati in Israele. Gli Usa non riconoscono attualmente uno Stato palestinese e non sostengono il segnale che questa nomina manderebbe all'interno delle Nazioni Unite». Il portavoce di Guterres, Stephane Dujarrie, ha prima sottolineato che Fayyad era stato scelto «per le sue capacità personali», non perché è palestinese, e poi ha aggiunto che il segretario generale, sulla base delle consultazioni fatte, «aveva avuto la percezione, ora dimostrata erronea, che la proposta sarebbe stata accettabile al Consiglio». Quindi ha aperto uno spiraglio: «Israeliani e palestinesi sono entrambi sotto rappresentati all'Onu, e Guterres intende correggere questa situazione».
   La verità è che Haley aveva approvato Fayyad, che era diventato premier palestinese con l'aiuto dell'amministrazione Bush, e poi aveva rotto con Abbas proprio perché si opponeva allo scontro con Israele. L'ex premier ha un rapporto stretto con gli Emirati Arabi Uniti ed era appoggiato dall'Egitto, sostenitori chiave del generale Haftar, capo militare della fazione di Tobruk. Il suo obiettivo era formare un nuovo governo di accordo nazionale a Tripoli, probabilmente con l'ambasciatore libico negli Emirati Aref Ali Nayed come premier al posto di Sarraj, e Haftar ministro della Difesa, in modo da creare un esecutivo unitario accettato da tutti per stabilizzare il Paese, e combattere i terroristi e i trafficanti di esseri umani. Quando però la nomina è arrivata a Trump è stata bloccata, obbligando la Haley a smentire se stessa. Forse così il presidente pensava di fare una cortesia a Netanyahu, che riceverà mercoledì alla Casa Bianca, ma secondo il giornale Haaretz il governo israeliano non era stato consultato sulla decisione. La soluzione ora potrebbe essere uno scambio: un posto per Livni all'Onu in cambio del via libera a Fayyad.

(La Stampa, 12 febbraio 2017)


Trump, segnale a Israele (e i nuovi rischi per l'Italia)

La designazione di Fayyad è sembrata alla Casa Bianca un elemento di disturbo alla vigilia della visita di Netanyahu.

di Franco Venturini

Il grande disordine libico, che per l'Italia si identifica con una immigrazione massiccia pronta a riesplodere nella prossima primavera, dovrà fare a meno del palestinese Fayyad che a molti, anche agli italiani, pareva un valido mediatore di pace. L'ambasciatrice statunitense all'Onu ha il merito di aver evitato ogni ambiguità: gli Usa non riconoscono uno Stato palestinese, e la nomina di Fayyad proposta dal Segretario generale Guterres, se approvata dal Consiglio di sicurezza, lancerebbe «un segnale sbagliato» . Anche perché non sono più accettabili le parzialità del Palazzo di vetro contro Israele. Vanamente Guterres ha replicato che l'economista di scuola americana ed ex premier palestinese era stato scelto per i suoi meriti. E vanamente l'Autorità palestinese ha parlato di discriminazione identitaria, mentre Israele invece si compiaceva. Trump ha voluto lanciare i «suoi» segnali: Guterres ci consulti prima di prendere iniziative; ricordiamoci che i palestinesi sono osservatori, non membri dell'Onu; è finito il tempo di Obama e delle astensioni Usa su risoluzioni critiche verso Israele; e soprattutto, la casa Bianca non vuole turbare la visita che il premier Netanyahu farà a Washington tra pochi giorni.
   In quella occasione, accanto alla conferma della grande amicizia che ha già ripetutamente espresso verso Israele, Trump intende discutere il nodo irrisolto dei nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania, il possibile trasferimento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, e un rilancio dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi forse con l'aiuto di Giordania, Egitto e Arabia Saudita. Si può capire allora che la designazione dell'incolpevole Fayyad sia parsa alla Casa Bianca un elemento di disturbo in un momento cruciale. Ma resta, intatto, il problema della Libia.
   Tanto più che il Dipartimento di Stato, in un comunicato, si è schierato a spada tratta dalla parte del «Governo di accordo nazionale» che ha sede a Tripoli ed è guidato (ironicamente con il pieno appoggio dell'Onu) da Fayez al Serraj. Posizione non nuova per gli Usa, e sulla carta pienamente coincidente con quella italiana. Ma gli ultimi sviluppi sul tema Libia-migranti avevano fatto pensare a una evoluzione che evidentemente non si è rivelata possibile, o che non è ancora matura.
   Il memorandum d'intesa sottoscritto il 3 febbraio scorso da Gentiloni e dal traballante Serrai, nel migliore dei casi, potrebbe garantirci la benevolenza di Tripoli e forse la sorveglianza di alcuni tratti di costa. Ma anche questi risultati minimi sono fortemente in dubbio fino a quando il generale Haftar non sarà positivamente coinvolto nella trattativa, la Cirenaica non sarà più divisa come è oggi dalla Tripolitania, e la Libia avrà un solo esercito nazionale. Chi può convincere, allora, Haftar e Bengasi a mostrarsi ragionevoli? Di sicuro l'Egitto e la Russia, perché la Francia è indebolita dal voler tenere i piedi in troppe staffe. E poi, si aspettava Trump. Che con l'egiziano al-Sisi è in grande cordialità e che vuole dialogare con Putin, anche se il dialogo difficilmente si spingerebbe fino ad accettare una nuova base militare russa sulla costa della Cirenaica.
   Il Dipartimento di Stato vuole segnalare che l'aggancio di Haftar risulta troppo problematico? Oppure si tratta di una posizione di partenza prima di parlare con il Cairo e con Mosca? Con Trump tutto è possibile, anche per il meglio. Ma intanto la Libia affonda, e proietta i suoi tormenti sull'Italia.

(Corriere della Sera, 12 febbraio 2017)


Gli ebrei di Tortona e la conversione di Michaela

Breve storia degli ebrei nella provincia di Tortona

 
La cattedrale di Tortona, edificata al posto di una sinagoga che fu demolita
La prima attestazione della presenza ebraica a Tortona, risalente alla seconda metà del XV secolo, consiste nelle disposizioni impartite dal Duca al feneratore (prestatore di denaro ad interesse) locale, Madius (Meir), circa i pegni che non dovevano essere trasportati fuori, durante l'anno in cui erano impegnati.
   Nel 1452 e nel 1453, l'ebreo che prestava veniva menzionato con il nome di Mosè che, l'anno seguente, fu accusato dal Comune di aver fatto promesse, al momento del suo insediamento in loco che, in seguito, non aveva mantenuto. Il Duca, dopo aver ordinato al Podestà di accertare la verità, esortò a comporre la vertenza in modo pacifico. Venivano menzionati nei documenti di quell'anno anche i prestatori Elia e Davide, per i quali il Duca ordinò il risarcimento dei debiti, onde potessero far fronte alla sovvenzione alle casse ducali.
   Inoltre, nel 1454, il Duca intervenne in favore di Mosè, in contenzioso con Pietro Monga di Pontecurone, che lo aveva fatto arrestare, mentre vi si trovava di passaggio durante un viaggio d'affari. Il Duca si adoperò anche, ripetutamente, perché Elia e il figlio Davide recuperassero i propri crediti mentre, sempre nel 1454, alcuni abitanti di Tortona protestarono contro gli ebrei e il Podestà ricevette ordine di appurare la verità delle accuse e di agire secondo giustizia sine strepitu. L'anno seguente, il Duca ordinò al proprio funzionario di comporre la vertenza tra un debitore e Mosè, causata dallo smarrimento di un pegno di notevole valore, che il debitore riteneva sottratto dolosamente e, nello stesso anno, incaricò lo stesso funzionario a fungere da giudice anche nella disputa scoppiata tra il Comune, Elia e il figlio Davide. In seguito, ordinò di pagare i debiti agli ebrei e, tra l'altro, di risarcire con 266 ducati Menasse e Giuseppe, mentre, poco dopo, intervenne affinché venissero corrisposti i crediti di Elia e di Davide, il quale, dopo il furto di alcuni pegni depositati presso di lui, si appellò perché fosse inviato un funzionario ad esigere il danaro dovutogli, dato che il Podestà non intendeva eseguire l'ordine ricevuto a questo proposito.
   Nel 1456, tra gli ebrei cui il Duca condonò la pena per atti illegali commessi, c'era anche Mosè di Tortona, perdonato nuovamente l'anno seguente, insieme a Manno di Pavia, per aver violato le disposizioni rispetto alla peste. Sempre nel 1457, alcuni correligionari fecero causa allo stesso Mosè, provocando l'intervento del commissario, per far luce sul caso: l'anno dopo, quest'ultimo ricevette ordine di convocare Mosè e, se le lagnanze di Giacobbe (Giacobone) e di Abramo fossero state fondate, di rendere loro giustizia. Del resto Mosè ed altri israeliti di Tortona furono protagonisti anche di una disputa, di poco successiva, circa la quota delle tasse che il primo avrebbe dovuto pagare. Quanto alle imposte cittadine, gli ebrei di Tortona ne erano esentati, nel 1458.
   Sempre nel 1458, il luogotenente di Tortona chiese al Duca istruzioni per risolvere un caso scabroso: dopo le pressioni esercitate da Mosè sul genero, accusato di impotenza, perché divorziasse da sua figlia, quest'ultima aveva dato alla luce un bimbo, rivendicato, tuttavia, come proprio dalla moglie di Mosè. Nel 1459 il Duca intervenne affinché Mosè e Mazo di cessassero di essere fatti oggetto di ostilità e di essere ostacolati dai consoli cittadini nell'esercizio del prestito su pegno e, contemporaneamente, venne proposto ai funzionari del Comune di rimpinguare le casse ducali, multando un ricco ebreo, accusato di coabitazione con una cristiana, mentre l'ideatore del piano avrebbe trattenuto come ricompensa un quarto della multa.
   Qualche anno dopo, due monaci (o frati) di Pallenzona chiesero l'appoggio delle autorità per riavere i denari che sostenevano di avere dato ad un israelita tortonese.
   Nel 1470, 105 ebrei risultavano presenti alle nozze del figlio di Mazio (Meir) di Tortona ed un gruppo di nobili che desiderava partecipare alle nozze era stato da loro scacciato in malo modo, provocando il proposito del commissario di punirli, arricchendo, al contempo, il Tesoro. Inoltre, dalla testimonianza dei consiglieri comunali, risultò che, mentre veniva celebrato lo sposalizio, un gruppo di giovani aveva fatto irruzione in casa e nel banco di Mazio, rubandogli alcuni beni ed alcuni pegni, con la copertura di funzionari governativi che avevano mosso false accuse contro il prestatore. Il Duca, pertanto, intervenne a tutela di quest'ultimo, mentre, riguardo al primo episodio, ordinò che fosse chiarito l'accaduto e giustizia fosse fatta.
   Nel 1471 Madius (Meir) ricevette ordine dal Duca di recarsi a Piacenza, per far parte della commissione d'appello sulla ripartizione delle imposte. Nella absolutio ducale del 1471, figurava anche un non meglio identificato Magister di Tortona.
   Nel 1474 il Duca ordinò alle autorità di Tortona di non introdurre nessun cambiamento nel privilegio degli ebrei locali e, nel 1478, dispose di prendere le necessarie misure per proteggerli dalle ostilità provocate dai sermoni dei predicatori, durante la Quaresima e la Settimana Santa. Nel 1480 gli ebrei di Tortona, come quelli di una serie di altre località del Ducato, ricevettero ordine di recarsi a Piacenza per stabilire la ripartizione delle tasse dovute all'erario ducale.
   In tema di conversioni, nel 1483 vi fu quella di Michaela, vedova di Simone di Totona, che provocò a uno scontro con gli ebrei di Piacenza.
   Nel 1490, secondo il noto cronista Yosef ha Kohen, ebbe luogo, vicino a Tortona (in una località non meglio precisata), un episodio di accusa di omicidio rituale, simile a quello di Trento e, come a Trento, anche qui il fanciullo fu chiamato Bia Zannin e fu fatto oggetto di culto.
   Nel 1513 i governatori di una serie di città, tra cui Tortona, ricevettero ordine di fare un accurato censimento segreto di tutte le famiglie ebraiche residenti in loco, includendovi le informazioni sulla loro situazione finanziaria.
   Nell'elenco dei banchieri del Ducato, stilato nel 1522, a Tortona (indicata come Terdona) figurava operare tale Vita, mentre nel 1558 era titolare del banco tale Elia.
   Nel 1567, dalla dichiarazione del Podestà, si evince che non vivevano più ebrei a Tortona. Il governatore di Milano, in occasione del rimborso dei crediti ebraici nel 1595, dietro petizione di alcune città, tra cui Tortona, accordò tutto il mese di dicembre per il pagamento delle quote: tuttavia, Tortona si rifiutò di partecipare alla spesa, dichiarando che non vi abitavano più ebrei e che, pertanto, la questione relative alla loro espulsione o meno non la riguardava.
   Dalle testimonianze attualmente a disposizione, non risulta un'ulteriore presenza ebraica nella città. (Nella foto, la cattedrale di Tortona, edificata al posto di una sinagoga che fu demolita).

(Alessandria Oggi, 12 febbraio 2017)


Ritratto di famiglia con girasoli

di Alessandro Izzi

 
Ritratto di famiglia con girasoli
è in realtà il terzo capitolo di una ideale trilogia del silenzio e della parola che Vittorio Pavoncello ha iniziato già nel 1999 con Roma una breve eternità e che era proseguito poi nel 2010 con Il cielo come destino.
   Diciamo qui ideale perché ad essere centrale nel disegno di composizione dei singoli tasselli di questo interessante trittico non è semplicemente il tema comune della Shoah, ma il principio formale che sottende alla definizione delle scelte estetiche di volta in volta portate avanti.
   Del resto, a uno sguardo appena superficiale sui tre titoli, sorprende, in fondo, la straordinaria eterogeneità degli argomenti trattati, malgrado il comune sfondo doloroso degli orrori dei campi di sterminio. Se il primo tassello della trilogia, infatti, era una riflessione a tratti scorata della realtà romana prima e dopo la promulgazione delle leggi razziali e il secondo ricostruiva l'odissea dei profughi ebrei che cercavano rifugio nella nascente Israele, questo Ritratto di famiglia con girasoli, forte delle pagine bellissime di Wiesenthal che è l'aggancio letterario al disegno, si rivela una pregnante riflessione sul tema della colpa e del perdono.
   Al di là dell'evidente varietà tematica il principio di fondo che Pavoncello rintraccia in tutti e tre i titoli della trilogia è un nucleo comune che riguarda in specifico la persistenza dell'orrore e delle cause che l'hanno generato anche all'interno della società contemporanea. Il punto di vista dell'autore non è quindi vuotamente museale né si pone nella posizione della semplice commemorazione da svolgersi nell'occasione comandata (come molte, troppe, produzioni relative alla Memoria), ma riflette con insistenza disturbante sulle continuità tra l'atteggiamento razzista di allora e l'intolleranza nei confronti del diverso di oggi.
   Messa in scena di fantasmi che popolano il nostro vivere, i tre film sono, quindi, espressione di una perturbanza dell'inconscio collettivo, sale e aceto su una ferita che non si è ancora rimarginata per la semplice ragione che il nostro contesto culturale ha preferito ignorarla, rimuoverla a porla nello statuto di un'odiosa amnesia collettiva.
   Non è un caso che in queste opere sia così portante la messa in scena di un trauma che, addirittura in Roma una breve eternità prende la forma della seduta psicanalitica in cui spettri del passato riversano nel presente, rispecchiandovisi, identiche ipocrisie e reticenze.
   Per far fronte a tanta messe di suggestioni e a tanta complessità di sovrapposizioni tra privato e pubblico tra sociale e culturale, il linguaggio cinematografico da solo non basta più ed ecco che nei tre film Pavoncello, alla ricerca di un'utopica fusione tra la dimensione passivizzante della ricezione cinematografica e quella invece brechtianamente attiva del teatro, avvera un'interessante crocevia di diverse istanze estetiche.
   Posto a metà strada tra teatro e cinema, tra musica e pittura, il cinema di Pavoncello aspira alla dimensione di unicum che disturbando invita alla riflessione e mostrando impone nello spettatore il bisogno di una presa di posizione che sia anche azione.
   In Ritratto di famiglia con girasoli, nella messa in scena di una famiglia distrutta dalle ombre della Shoah, dilaniata dal conflitto tra un figlio neonazista e il fratello che non trova risposta agli interrogativi del passato, questa riflessione passa per una ridefinizione dello spazio memoriale.
   Il racconto prende le mosse in una casa strategicamente a metà strada tra il ghetto da dove furono deportati gli ebrei romani e il carcere di Regina Coeli da dove furono invece prelevati gli ebrei destinati all'eccidio delle Fosse Ardeatine. Qui in questo spazio ponte, la casa è solo un insieme di muri che nascondono scheletri negli armadi e scomode verità che si vorrebbe nascondere a se stessi prima ancora che agli altri.
   In questo quadro silenzi e parola (e non, come di solito, silenzio e parole) tessono un complesso ordito che aspira alle altezze di un contrappunto filosofico sugli orrori della storia e i mostri che nascono dalla rimozione di scomode responsabilità.
   Sullo sfondo l'estremo nitore della posizione di Wisenthal che ha dedicato la sua esistenza al perseguimento di una giustizia sempre lontana dalla semplice vendetta e capace di illuminare l'ordinario squallore del semplice sopravvivere al passato.
   Seguendo un disegno a tratti volutamente ostico, ma sempre assolutamente rigoroso Pavoncello ci consegna un ritratto non pacificato del nostro rapporto con il passato e ci lascia con il disperato bisogno di guardare in faccia il nostro presente costruito sulle macerie senza indulgenze o false ipocrisie.

(close up, 12 febbraio 2017)


Città Santa del fotografo

di Laura Leonelli

Yehuda Amichai, il grande poeta israeliano, diceva che per capire Gerusalemme «bisogna guardare le vetrine dei negozi dei fotografi, e osservare gli sposi e il loro tenero ab braccio, una classe di bambini abbagliati dalla luce e dal futuro, i vecchi nello splendore della loro memoria, e poi un ragazzo e una ragazza soldato, chiusi nel profilo pesante della cornice. Che l'invenzione di Daguerre aiuti ad avvicinarsi ali' enigma di questa città unica al mondo, lo conferma l'origine stessa della parola fotografia, che al suo apparire nel XIX secolo venne tradotta in ebraico con il termine Tselem Or, immagine di luce. Ma anche l'uomo era stato creato a immagine, di nuovo Tselem, di Dio e risultò quindi che la fotografia fosse una copia della copia della potenza divina.Sull'onda di questa esegesi così lusinghiera, l'ultima edizione di Open House Jerusalem - che ha luogo ogni anno ed è un modo inedito di scoprire la Terra Santa, grazie al sostegno del Ministero del Turismo di Israele, del Comune di Gerusalemme e di El Al - ha inserito in una collezione di edifici storici e case private da visitare in libertà anche il negozio di Elia Kahvedjian, Elia Photo Shop, inaugurato nel 1949 nel quartiere cristiano, e ancora oggi attivo grazie agli eredi del famoso fotografo armeno.
  Eppure, al suo annuncio nel 1839 la fotografia era stata accolta con sospetto dagli abitanti della Città Santa, come ricordano Shimon Lev, Lavi Shay e Meier Appelfeld, autori del bel volume Camera Man. Women and Men Photograph Jerusalem 1900-1950. Al contrario i fotografi europei si erano precipitati a immortalare le bellezze del Vecchio e Nuovo Testamento, e aprendo i negozi lungo la Jaffa Road e nella Cittadella avevano cominciato a ritrarre i turisti, vestiti da beduini e portatrici d'acqua, e poco dopo gli stessi residenti, ebrei, musulmani e cristiani. I primi fotografi locali furono invece armeni e spetta a Yessayi Garabedian, sacerdote, battezzare la tradizione fotografica di Gerusalemme, tanto che una volta divenuto Patriarca nel 1865 allestì sul tetto del suo monastero uno studio fotografico, attivo per vent'anni. Nel 1898 un suo allievo, Garabed Krikorian, si unì ai fotografi dell'American Colony per documentare la visita dell'imperatore Guglielmo II in Terra Santa. Ancora un passo e all'epoca del Mandato in Palestina, gli inglesi ampliarono il catalogo dei soggetti, e accanto alle immagini di propaganda dei missionari cristiani e dei nuovi insediamenti ebraici, apparvero le prime fotografie aeree e un timido inizio di fotogiornalismo. Era il 1917.
  Contemporaneamente a Urfa, nel sud della Turchia, un bambino armeno assisteva all'uccisione della sua famiglia per mano dei Giovani Turchi. Sembra incredibile, ma di questa e di altre esperienze che avrebbero potuto alimentare un odio infinito, non vi è traccia nelle fotografie "candide" che un giorno quello stesso bambino avrebbe realizzato a Gerusalemme. Elia Kahvedjian era arrivato nella Città Santa a sedici anni, nel 1926, dopo un lunghissimo viaggio. A cinque, vittima del genocidio, si era incamminato lungo la marcia della morte attraverso il deserto siriano. Per salvarlo la madre lo aveva affidato a un mercante curdo, che per due soldi d'oro lo aveva venduto come schiavo a un maniscalco di Mardin, a sua volta costretto dalla nuova moglie a ributtare il bambino in strada. Mendicando, Elia era sopravvissuto alla carestia e dopo quattro anni era tornato nella sua città natale, Urfa, accolto in un orfanotrofio. Della sua famiglia non sapeva più nulla, neppure il cognome. Ricordava solo che il padre vendeva caffè, kahve in turco, ed a quella parola, nella lingua ormai nemica, era nata la sua nuova identità, Kahvedjian.
  Le peregrinazioni continuano ed Elia, assistito dall'American Near East Relief Foundation, si ritrova in Libano e poi a Nazareth, dove un insegnante, colpito dalla sua abilità nel disegno, lo presenta a Krikor Boghosian, fotografo, anche lui armeno. L'incontro è illuminante. Tappa successiva, lo studio fotografico dei Fratelli Hananya, cristiani di Gerusalemme. In poco tempo il giovane assistente di straordinaria bravura rileva l'attività e sul biglietto da visita si legge Elia Photo Service. Approved military photographer n. 7. Anni dopo, osservando una foto di gruppo, il figlio, Kevork Kahvedjian, scoprirà che il padre apparteneva alla Massoneria inglese e forse per questo due giorni prima dello scoppio della guerra arabo-israeliana, un ufficiale britannico suggerisce a Elia di chiudere lo studio e di rifugiarsi altrove. L'archivio dei negativi, caricato su due camion militari, viene nascosto in una cantina lungo la Via Dolorosa.
  Nel 1949 Elia riapre il negozio, oggi gestito dal nipote allo stesso identico indirizzo, al 14 di Al-Khanka Street. Nel 1987 Kevork e sua moglie decidono di fare pulizia nella vecchia cantina non lontano da casa. Dal buio riemerge un tesoro di tremila negativi scattati dalla fine degli anni '20 alla metà degli anni' 40. Persino Elia, conosciuto da tutti come "il fotografo invisibile" per la sua discrezione e velocità, si era dimenticato di quelle fotografie, prese durante il fine settimana per puro piacere. Pochi mesi e nella sala dell'American Colony Hotel, nella vetrina di Elia Photo Shop e in un bellissimo libro, Jerusalem through my Jather's eyes, splendono le immagini di una ragazza gitana, di un ciabattino musulmano, di una bambina armena alla fonte, quindi di un gruppo di arabi intorno a un piatto di humus, e poi di un monaco all'ingresso del Santo Sepolcro, e di una fila di ebrei al Muro del Pianto, dove negli anni '30 uomini e donne pregavano ancora insieme. Infine appare lo Zeppelin che sorvola e riprende la Città Vecchia, prima di dirigersi verso il Sud America. Se Yehuda Amichai fosse passato di lì, guardando la vetrina del negozio di Elia Kahvedjian, avrebbe visto una Gerusalemme luminosa, di tutti, Tselem divina e umana di una possibile pace.

(Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2017)


I nuovi barbari

Nazionalismo, crisi demografica, islam, debito pubblico, ipertrofia, panem et circenses: il crollo dell'antica Roma un monito per l'Europa d'oggi. Parla lo storico David Engels.

di Giulio Meotti

Tante sono le somi- glianze: "Disoccupa- zione, immigrazione, fondamentalismo,
crisi della famiglia, tecnocrazia, Molenbeek"
"L'assurdo è che, mentre la cultura europea si sta diffondendo in Asia e in Africa, l'Europa diventa sempre meno europea" "Non è l'islamismo che frattura l'Europa, ma l'autoscioglimento della cultura occiden- tale che porta all'ascesa dell'isla- mismo" "Come l' Ue, anche il mio paese, il Belgio, cerca di escludere tutti i riferimenti alla storia, alla cultura, alla tradizione e alla religione"


Le cause della decadenza di Roma costituiscono un tema dominante del pensiero storico dal mondo antico ai giorni nostri, quasi un paradigma. Ma è vero anche che nelle storie di quella decadenza gli europei occidentali amano rispecchiarsi. Uno storico belga, David Engels, legge la storia di Roma come un ammonimento all'Europa contemporanea. Engels lo ha appena detto al maggiore quotidiano austriaco, Kronen Zeitung: "Seguiremo l'esempio della decomposizione della Repubblica romana. Proprio come la tarda Repubblica romana, anche l'Europa si trova su un vulcano che può scoppiare in qualsiasi momento".
  Docente di Storia romana alla Libera Università di Bruxelles, un bastione del secolarismo intellettuale, Engels su questo tema ha scritto anche un libro affascinante, "Le déclin". Nel recensirlo, il Monde scrive che "la parte più incisiva del libro sta nella critica di una concezione disincarnata della costruzione europea". Engels, infatti, nel saggio spiega che "il disperato e infruttuoso tentativo di rifiutare i valori tradizionali del passato e costruire una nuova identità collettiva europea basata su ideali universalistici è più un sintomo della crisi che la soluzione".
  Apriamo l'intervista a Engels partendo dai motivi del suo pessimismo. "Perché la storia sembra ripetersi e non vedo nulla di buono per le prossime generazioni di europei", dice lo storico belga al Foglio. "Ovviamente, come storico, evito di pensare in termini di pessimismo e ottimismo, e non ho una agenda politica tale da sviluppare uno sguardo realistico e pragmatico. La mia prospettiva specifica sulla storia è condizionata dal metodo delle analogie storiche, ovvero sono persuaso che il presente e il futuro possano essere meglio compresi paragonandoli a periodi simili del passato. Nel mio libro, 'Le déclin'. La crise de l'Union europèenne et la chute de la République romaine', ho cercato di spiegare che la presente crisi della società occidentale riflette gli ultimi decenni della Repubblica romana: disoccupazione di massa, polarizzazione sociale, declino demografico, globalizzazione, materialismo; immigrazione di massa, cosmopolitismo, individualismo, scomparsa della tradizione religiosa, fondamentalismo, declino della famiglia, tecnocrazia, guerra asimmetrica, politicamente corretto, populismo, spesa sociale, apolitismo, debito pubblico, lobbismo e una cultura basata su 'panem et circenses'. Questi paralleli sono, ovviamente, poco lusinghieri per il presente, e le analogie sono così ovvie e pericolose che penso andremo incontro allo stesso destino della Repubblica romana ".
  Engels: continua con la rievocazione. "Negli ultimi decenni della Repubblica romana, ossia a metà del Primo secolo a. C., era diventato evidente che lo stato romano non era più in grado di affrontare le numerose crisi che ho appena elencato e impostare le riforme politiche, istituzionali ed economiche necessarie per la propria sopravvivenza. Infatti, da un lato, l'élite senatoriale ricca e potente si era sclerotizzata nelle proprie rivalità interne nonché nell'impossibilità costituzionale di prendere decisioni a lungo termine. D'altra parte, l'ascesa di politici populisti, come Catilina o Clodio, aveva contribuito a destabilizzare ulteriormente l'intero sistema attraverso l'emanazione di leggi demagogicbe e pericolose. In combinazione alla crescente insoddisfazione e alla povertà della gente, questo alla fine ha portato al disastro economico e politico, allo scoppio della decennale guerra civile e, alla fine, all'ascesa al potere di un individuo, Augusto, che ha restaurato legge e ordine, ma al prezzo della libertà politica. Temo che questo possa essere il modello esatto del destino dell'Europa nei prossimi due o tre decenni: un immobilismo crescente, l'ipocrisia e la corruzione delle élite politiche, la compromissione degli ultimi residui di stabilità attraverso la rivolta delle masse, e un aumento di movimenti populisti ovunque in occidente (Trump è solo l'inizio), il tutto portando a una graduale perdita di controllo dello stato e allo scoppio della grande guerra civile".
  Contrariamente a Roma, però, Engels non si aspetta la guerra tradizionale, quanto la guerriglia stile Molenbeek, il nido jihadista di Bruxelles: "Sarà piuttosto una situazione in cui gran parte delle città saranno dominate da milizie in competizione e da gruppi religiosi, in cui la legge ufficiale diventerà cosi inefficace che i problemi saranno regolati con i capi locali, dove la sicurezza sociale diventerà più o meno inesistente e la differenza tra ricchi e poveri aumenterà ancora di più, e dove l'odio tra i fondamentalisti, i gruppi europei e gli immigrati porterà a continui atti di terrorismo. Tutto questo porterà alla rovina economica dell'Europa e, alla fine, quando la gente sarà diventata cosi disperata da pensare di non avere nulla da perdere, all'affermarsi della dittatura. Come Augusto con la sua 'Res publica restituita, questo nuovo governo proclamerà il 'restauro' della democrazia, della legge e dell'ordine, ma, in realtà, avrà istituito un governo autoritario di lunga durata, non dissimile dalla Russia di Putin. E come a Roma, temo che la gente applaudirà, piuttosto che opporsi ad essa".
  Engels indica il paradosso della cattiva coscienza europea. "Ancora una volta, come storico, credo che il nostro stato politico mentale attuale, caratterizzato da insicurezza e cattiva coscienza, debba essere visto in una prospettiva a lungo termine, e mi sembra interessante notare che nel mondo antico tardo-ellenistico e tardo-repubblicano vediamo un'evoluzione abbastanza simile. Sappiamo che a Roma anche la legittimità di espansione imperiale è stata fortemente discussa, che le differenze etniche o culturali sono state criticate e sostituite dalla fede nel cosmopolitismo e nell'umanesimo, e la religione tradizionale è stata combattuta nel nome della ragione e della logica. Naturalmente, la contemporanea 'correttezza politica' è molto più influente di duemila anni fa, a causa delle esperienze traumatiche delle guerre mondiali e della decolonizzazione, e ha raggiunto un grado di disgusto di sé abbastanza unico nella storia, tanto che è diventata una corrente di pensiero criticare la cultura occidentale in tutti i suoi aspetti - politica, religione, cultura, economia, ecc. - per i suoi precedenti crimini storici e chiedere scusa per la nostra mera esistenza, mentre, allo stesso tempo, siamo invitati a valorizzare, a volte anche ad abbracciare, culture straniere al fine di mostrare la nostra 'tolleranza' e la redenzione. Questa antinomia mi sembra molto pericolosa, tanto più che la presunta 'apertura' è in ultima analisi basata sulla prospettiva eurocentrica, dove i valori occidentali specifici e ancora abbastanza giovani - la democrazia rappresentativa, l'ultra-liberalismo, il secolarismo, il materialismo, la radicale uguaglianza di genere - sono unilateralmente considerati come diritti 'umanisti' onnicomprensivi e più o meno brutalmente imposti in tutto il mondo sui popoli e culture con una prospettiva molto diversa su come una società ideale e armonica dovrebbe essere".
  Qui entra in gioco un paradosso: "Il risultato assurdo è che, mentre la cultura 'europea' si sta diffondendo in Asia e io Africa e fa scattare risentimenti crescenti, la stessa Europa e sempre meno europea, diventando la casa di gruppi stranieri che vogliono beneficiare delle straordinarie opportunità materiali offerte dalla nostra società, mentre sono paradossalmente rafforzati nel loro desiderio di non essere assimilati da un'interpretazione di ciò che 'tolleranza' dovrebbe significare".
  E' l'islam che sta fratturando il sistema europeo o è l'emergenza islamista una conseguenza della faglia? "Nel mio punto di vista comparativo, non è l'islamismo che frattura il progetto europeo, ma piuttosto l'autoscioglimento della cultura occidentale che sta portando in tutto il mondo all'ascesa di gruppi religiosi o movimenti identitari che cercano di opporsi a ciò che percepiscono come la decadenza, aggrappati a una interpretazione tradizionalista dell'identità, spesso totalitaria. In questa prospettiva, l'islamismo radicale mi sembra in continuità diretta con i movimenti anarchici, comunisti e fascisti della prima metà del XX secolo, e non c'è da meravigliarsi che la guerra civile siriana assomigli in molti aspetti alla Guerra civile spagnola degli anni Trenta: i giovani delusi dalla superficialità spirituale e intellettuale della loro società, disgustati dalla ingiustizia del sistema politico e giuridico, ed esclusi dalla mobilità sociale, sviluppano un nuovo, 'totale' sistema utopico di pensiero in cui ognuno ha il proprio posto. La differenza principale sembra, ovviamente, il fatto che l'islam è in qualche modo 'importato' in Europa da gruppi esteri. Tuttavia, è da notare che la maggior parte dei terroristi fondamentalisti ha goduto di una socializzazione tipica occidentale, e che sempre più giovani europei che vivono nella periferia tentacolare delle nostre megalopoli si stanno convertendo all'islam al fine di trovare un nuovo senso di appartenenza sociale e la spiritualità della loro vita che la cultura occidentale con il suo materialismo, l'individualismo e l'ipocrisia, non sembra in grado di fornire. In questa prospettiva, l'ascesa dell'islam e la lenta scomparsa delle forme tradizionali di cristianesimo, cattolico e protestante, è l'esatto equivalente morfologico delle religioni orientali che hanno sostituito lentamente il declino della religione romana repubblicana nel Primo secolo a. C. e nel Primo secolo d. C. Le prime sette cristiane nutrivano ostilità radicale verso la società pagana e desideravano cercare la propria morte, al fine di ottenere il paradiso ...".
  Nel romanzo "Cuore di tenebra", Joseph Conrad definì Bruxelles la città dei sepolcri imbiancati. Il caso belga insegna qualcosa sul destino dell'Europa? "Appartengo alla minoranza di Lingua tedesca del Belgio, quindi il mio punto di vista è, in una certa misura, la prospettiva di un estraneo e non può essere totalmente rappresentativo", conclude Engels in questa intervista al Foglio. "Tuttavia, spesso mi chiedo se la decisione dell'Unione europea di istituire la maggior parte delle sue istituzioni in Belgio sia stata davvero una buona idea, o fino a che punto alcuni problemi o modelli di comportamento tipici del Belgio potrebbero rovesciarsi sull'Unione europea. Cosi, esattamente come l'Unione europea, il Belgio ha a che fare con il problema di come definire la propria identità e il modo di mediare tra gli interessi contrapposti dei suoi principali gruppi di popolazione, e cerca di escludere tutti i riferimenti alla storia, cultura, tradizione e religione. Esattamente come l'Unione europea, i politici belgi hanno anche sviluppato una vera e propria maestria nell'arte del compromesso e del 'bricolage' istituzionale, che è quello di non prendere mai una decisione vera ma piuttosto di spingere i problemi sempre crescenti da una legislatura all'altra, con il risultato negativo che la loro soluzione diventa semplicemente a poco a poco impossibile. Esattamente come l'Unione europea, e in nome della sussidiarietà e del federalismo, il Belgio troppo spesso ha sviluppato le sue istituzioni ufficiali fino a un tale grado di complessità e di ipertrofia che è diventato assolutamente impossibile realizzare una riforma a lungo termine o di reagire adeguatamente alle numerose minacce dei tempi pericolosi in cui viviamo. Inoltre, esattamente come l'Unione europea, il Belgio ha messo a punto una politica di frontiere aperte e di multiculturalismo e, grazie alla sua complessità interna, è diventato un obiettivo del terrorismo islamico. E, infine, esattamente come l'Unione europea, il Belgio, invece di ammettere apertamente i suoi numerosi problemi interni, continua a promuovere una immagine di sé grandiosa e anacronistica composta da un curioso misto di ricordi di tempi ormai passati quando il Belgio è stato tra i paesi più sviluppali del mondo, e da un orgoglio pieno di sé, della propria tolleranza e 'correttezza politica' tale che, paradossalmente, cresce nella stessa misura in cui la società belga è piagata da terrorismo, criminalità e populismo".
  Dopo la Repubblica fu l'Impero. E nel giro di una sola generazione il crollo. Cominciò con un affanno fatto di incubi mascherati, ansie, presentimenti, lucidità dolente, nostalgie e cattiva coscienza. Sotto l'apologia, si sentiva il tedio del presente e la paura del futuro. E anche questa fase successiva ci appare come il dejavù di un'epoca del disincanto, fatta di disperata rinuncia ed elegante scetticismo, che tiene di mira l'Europa contemporanea.

(Il Foglio, 12 febbraio 2017)


Israele attaccata con tre razzi da Isis egiziana

di Marica Lieto

Attacco su Eilat, il porto israeliano sul Mar Rosso. Lo ha detto il portavoce militare. La città turistica ha vissuto attimi e momenti di paura, le sirene hanno suonato l'allarme, non ci sono al momento vittime, feriti o danni. Sirene, terrore in città. Secondo quanto riferiscono i media di Gaza rilanciati dal Jerusalem Post, la propaggine dell'Is attiva nel Sinai sarebbe responsabile della raffica di razzi lanciati contro Eilat, nel sud dello Stato ebraico. Lo Stato Islamico ha rivendicato il lancio di razzi dall'Egitto a Israele avvenuto nella notte. Già nel 2012 un razzo Grad era esploso a Eilat, proveniente dal Sinai. Poche ore prima, in seguito alla cannonata di un tank siriano sulle Alture del Golan occupate e annesse da Israele, l'esercito israeliano aveva risposto colpendo una postazione dell'esercito di Damasco dall'altra parte del confine. Due anni prima dalla Penisola era stata attaccata la città giordana di Aqaba, che si trova davanti alla gemella israeliana.

(ReggioNotizie, 11 febbraio 2017)


Turismo, l'Italia è una delle mete preferite dagli israeliani

Dorina Bianchi, Sottosegretario per i Beni culturali ed il Turismo
Si è conclusa la visita in Israele del Sottosegretario per i Beni culturali ed il Turismo, Dorina Bianchi. La missione si e' svolta in concomitanza con la fiera turistica israeliana di maggiore rilevanza (International Mediterranean Tourism Market, IMTM). Nel 2016 il settore turistico in Israele ha visto una crescita costante e gli operatori italiani del settore mostrano sempre maggiore interesse per il mercato israeliano, caratterizzato da una propensione al viaggio tra le più elevate al mondo. L'Italia è una delle mete preferite dai turisti israeliani, attirati in modo particolare dal patrimonio culturale, dal settore moda e dall'enogastronomia. L'attenzione del pubblico israeliano verso l'Italia è in costante aumento anche grazie alle numerose iniziative mirate e di sistema effettuate dalle istituzioni italiane in Israele (Ambasciata, ICE, Camera di Commercio, Istituti di Cultura).
   La partecipazione delle aziende italiane alla Lera IMTM è infatti in continua crescita (quest'anno 14 aziende lombarde e venete, tra cui spicca Gardaland, il grande parco divertimenti sul Lago di Garda) . "Dobbiamo potenziare sempre di più i legami tra Italia e Israele sul piano del turismo con la promozione di iniziative congiunte. La presenza dell'Italia all'International Mediterranean Tourism Market (IMTM), la Lera turistica israeliana di maggiore rilevanza, è riprova di questo rapporto consolidato che negli ultimi dieci anni ha visto crescere del 3,9% l'interscambio tra i due Paesi". E' quanto il Sottosegretario Bianchi ha ribadito a margine dell'incontro bilaterale con il ministro israeliano Levin nel corso dell'International Mediterranean Tourism Market. "Nel corso del bilaterale - ha continuato il Sottosegretario - abbiamo concordato che per incrementare i rapporti bisogna puntare su iniziative in materia di turismo religioso ma non solo, soprattutto promuovendo triangolazioni di viaggiatori provenienti da Paesi terzi attraverso pacchetti congiunti promozionali partendo dall'estremo oriente e dall'America Latina, aree di grosso interesse per entrambi i Paesi. Lavoreremo poi per istituire concreti meccanismi di lavoro tra il MiBACT e gli UfLci per il Turismo israeleiani". " Israele è un Paese accogliente e amico dell'Italia. Analogamente l'Italia è un Paese sicuro e viene percepito come tale anche in Israele. Questo è un valore aggiunto per rinforzare i rapporti tra i due Paesi", ha concluso.

(Il Fogliettone, 11 febbraio 2017)


Da oggi riapre per tre giorni il valico di Rafah

IL CAIRO - Le autorità egiziane hanno riaperto oggi il valico di Rafah, al confine con la Striscia di Gaza, per tre giorni. Lo ha reso noto l'ambasciata palestinese al Cairo in un comunicato. Il valico sarà riaperto da entrambi i lati fino a lunedì 13 febbraio per motivi umanitari. Il passaggio di Rafah costituisce l'unico accesso al resto del mondo per i palestinesi di Gaza, ma nel corso degli ultimi tre anni è rimasto chiuso per la gran parte del tempo per ragioni di sicurezza. Il governo egiziano del presidente Abdel Fatah al Sisi, infatti, accusa il movimento palestinese di Hamas di sostenere i presunti terroristi che compiono attacchi nella regione del Sinai. Nel 2015, il valico di Rafah è stato chiuso per 344 giorni. Tuttavia, l'apertura del passaggio è stata più regolare nel 2016.

(Agenzia Nova, 11 febbraio 2017)


Milizie iraniane nella lista nera Usa del terrore

È la proposta che Trump farà mercoledì al premier israeliano Netanyahu in visita

di Fiamma Nirenstein

A 38 anni esatti dalla presa del potere degli ayatollah sull'Iran, la canzone nella piazza di Teheran è sempre la stessa: «morte all'America». Le agenzie locali danno a centinaia di migliaia i manifestanti, l'aria è sempre più arroventata da quando Donald Trump è diventato lo scomodo interlocutore che ha minacciato di cancellare il «pessimo accordo», così l'ha chiamato, sul nucleare, che in verità fa acqua da tutte le parti.
   Il trattato del luglio dell'anno scorso registra delle violazioni, i missili balistici che, come minaccia Khamenei «possono colpire Tel A viv in sette minuti» seguitano a essere sperimentati e a aspettare una testata nucleare degna di tanta potenza. I sorrisi diplomatici del ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif stanno svanendo nell'aria come il sorriso del gatto di Alice: il tempo e i fatti hanno fatto scolorire la mano tesa di Obama, si profila all'orizzonte una stretta di mano speciale, quella che il 15 vedrà a Washington a discutere insieme il presidente Trump e il primo ministro israeliano Netanyahu, e certo l'Iran sarà il primo argomento in agenda.
   Fonti della Casa Bianca svelano una proposta americana di mettere nella lista nera delle organizzazioni terroriste proprio la Guardia Rivoluzionaria Islamica stessa, la spina dorsale del regime. Una milizia di 125mila uomini, padroni delle guerre iraniane, che controlla i 90mila basiji addetti al fronte interno, guidano le azioni terroriste, gestisce i fronti di Siria, in Iraq, in Libano, in Yemen, si occupa dei propri proxy hezbollah e hamas, porta la bandiera della distruzione antisemita. Sono credenti sciiti di diamante, che hanno represso nel sangue il disperato tentativo insurrezionale del popolo nel 2009 per cambiare il regime.
Un rapporto americano dell'Istituto per lo Studio della Guerra ha spiegato che l'Iran sta trasformando la sua struttura militare (esercito regolare e Guardia rivoluzionaria) per affrontare guerre a centinaia di chilometri dai suoi confini. Questa capacità che hanno pochissimi Stati nel mondo cambierà l'equilibrio del potere in Medio Oriente. Dice il rapporto che la leadership militare ha dislocato sia la Guardia, che i basiji in Siria in modo sperimentale, così da esporre una porzione significativa delle sue forze a questo tipo di guerra. L'Iran si appresta così a un ruolo fisso di superpotenza, di conquista; si stacca dalla preparazione delle sue forze per la guerra asimmetrica e costruisce una forza convenzionale, un vero grande esercito.
   Teheran ha già saputo dispiegare migliaia di soldati di tutte le sue unità in un'operazione di 15 mesi in Siria: ha ottenuto un grande successo e si propone di usare la sua forza come deterrenza verso Israele e gli Usa mentre sa che può cambiare qualcosa anche con gli alleati russi: la rivoluzione islamica iraniana è quella che nei progetti di Khamenei e odierni riporterà il Mahdi, il loro profeta nascosto, alla conquista del mondo, e l'apocalisse non fa paura, anzi, è benvenuta.
   L'Iran, col disegno implacabile di un ruolo imperialista e antisemita è in lizza con chiunque non sia dalla sua parte, in prospettiva persino con Putin, che sa benissimo, meglio dell'Unione Europea, che fare affari con una banda enorme e determinata come la Guardia alla lunga contrasterà non solo con i suoi fini, ma impedirà ogni accordo con la componente sunnita del Medio Oriente. Sarà una guerra continua fatta di stragi oltre anche il 40o compleanno iraniano, a meno che Trump e Putin non convengano per arginare lo strapotere degli ayatollah.

(il Giornale, 11 febbraio 2017)



I rotoli del Mar Morto e la dodicesima grotta

Scoperto dagli archeologi a Qumran, in Cisgiordania, un nuovo sito con tracce della presenza di altri manoscritti millenari. È il primo dopo oltre 60 anni.

di Michelle Z. Donahue

 
L'esterno della grotta trovata sulle alture rocciose del Qumran che conserva tracce di antiche pergamene
 
Vasi nascosti nella roccia e fatti a pezzi
 
Frammenti di pergamena senza tracce di scrittura
La scoperta di una dodicesima grotta collegata al ritrovamento dei cosiddetti Rotoli del Mar Morto può fornire agli studiosi nuovi mezzi per scoraggiare i saccheggiatori e, allo stempo tempo, individuare falsi degli antichi documenti.
Un gruppo di archeologi della Università Ebraica di Gerusalemme e della Liberty University ha scavato un nuovo antro che ospitava manoscritti. Era dal 1956, ossia più di 60 anni, che i ricercatori non identificavano nuovi siti collegati ai preziosi documenti e le tracce, in quest'ultimo, sono inequivocabili: la squadra israeliana ha trovato numerosi vasi che erano stati nascosti in alcune nicchie scavate nelle pareti della grotta, fatti a pezzi (foto) e con il contenuto, evidentemente, rimosso. Ma alcuni manufatti come cinturini di pelle e panni per avvolgere i rotoli e un paio di picconi arrugginiti risalenti agli anni '50, sono stati lasciati sul posto, segno che la grotta prima dell'evidente saccheggio, avvenuto alcuni decenni orsono, doveva contenere una nutrita collezione di pergamene conservate in vasi di creta.
"Gli studi indicano al di là di ogni dubbio che la grotta conteneva rotoli che sono stati rubati", ha dichiarato Oren Gutfeld, archeologo e direttore degli scavi per conto dell'Università Ebraica di Gerusalemme.
Il team di archeologi ha trovato anche frammenti di pergamena senza tracce di scrittura (foto in basso). "Questi manoscritti sono diventati ambiti, con prezzi molto elevati sul mercato antiquario", spiega Randall Price, archeologo della Liberty University che ha collaborato al progetto.
Gran parte dei reperti è finita in mano ai tombaroli che in questi anni hanno saccheggiato le grotte del Mar Morto.
L'Israel Antiquities Authority (IAA) ha arrestato in flagrante un numero crescente di cacciatori di antichità che tentavano di entrare nelle grotte, di solito nottetempo, afferma Price. L'aumento degli scavi illegali ha spinto la IAA a lanciare un'operazione di monitoraggio e studio, un rinnovato sforzo di individuare ed esplorare sistematicamente le grotte della regione. Lo scopo è quello di impedire che importanti conoscenze e testimonianze del mondo antico vengano cancellate dalla storia. "E ci sono altri 50 siti pronti ad essere indagati nell'area", aggiunge Price.

 Attenti al falso
  I rotoli del Mar Morto sono da molti ritenuti la più grande scoperta archeologica del XX secolo. Datati tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C. comprendono i più antichi manoscritti della Bibbia ebraica. I primi rotoli furono scoperti alla fine del 1946 o all'inizio del 1947 da pastori beduini in una grotta di Khirbet Qumran, sulla sponda Nord-ovest del Mar Morto. Da allora i ricercatori hanno rinvenuto oltre 900 manoscritti, per lo più su pergamena ma anche su papiro, in altre dieci grotte.
Negli ultimi 15 anni il mercato antiquario privato ha visto aumentare l'offerta di presunti frammenti dei manoscritti del Mar Morto, dice Lawrence Shiffman, professore di Studi Ebraici alla New York Universtity, un'autorità in materia, ma per la maggior parte si tratta di contraffazioni.
Alcuni testi sono stati riprodotti con perizia su pergamene antiche quanto i rotoli, spiega Schiffman. E' possibile che questi frammenti provengano dal saccheggio delle stesse cave.
Lo studio della pergamena priva di scritte (foto) che gli archeologi hanno trovato di recente può aiutare a far luce su questi falsi di "alta qualità" e a scoprire come sono arrivati sul mercato antiquario.
Rivelazioni e rivendicazioni
  La prospettiva di scoprire nuovi rotoli ha già dato adito a voci e speculazioni, ma Schiffman non si aspetta che sarà portato alla luce materiale fonte di ispirazione per romanzi alla Dan Brown, l'autore de Il codice da Vinci. "Non troveremo il diario dei tre saggi", scherza. "Potremmo più verosimilmente scoprire nuovi testi che ci aiutino a capire passaggi del Nuovo Testamento o la letteratura talmudica.
L'idea che venga fuori un "testo-bomba" a ribaltare le basi consolidate di questa antica religione non è affatto realistica. Né è realistico aspettarsi, secondo Schiffman, che Israele presti la benché minima attenzione alle rivendicazioni dei palestinesi, i quali sostengono che i rotoli del Mar Morto siano di diritto parte del proprio patrimonio culturale.
Le operazioni di ricerca e recupero dei rotoli, infatti, si svolgono in Cisgiordania, che palestinesi e Nazioni Unite considerano territorio occupato, e Israele nel 1954 ha firmato la convenzione Unesco che proibisce lo scavo e l'asportazione o rimozione di beni culturali di un paese da parte di occupanti stranieri. Ciò detto nessun governo di Israele rinuncerà mai al possesso delle più antiche copie dei testi sacri della Bibbia e della letteratura ebraica. Molto semplicemente, non accadrà.

(National Geographic Italia, 11 febbraio 2017)


E fu lite su Israele

1948, guerra fredda a Washington: il segretario di stato Marshall era contrario a riconoscere la nazione ebraica, ma vinse Truman

di Antonio Donno

La questione del medio oriente fu il caso più clamoroso di contrasto tra il generale salito al dipartimento di stato e il presidente Roosevelt riteneva che gli Stati Uniti non dovessero occuparsi della questione della Palestina, ma lasciarla nelle mani di Londra Gli esiti della guerra ponevano nuovi problemi per l'assetto del medio oriente. Gli interessi della Gran Bretagna e quelli dell' Urss Marshall e il dipartimento si adoperarono per affossare la spartizione. Le minacce arabe e la svolta di Ben-Gurion

Il 21 gennaio 1947 George C. Marshall divenne segretario di stato americano per volere del presidente Harry Truman. Il generale Marshall, da tutti considerato un eroe nazionale per aver comandato le armate americane durante il Secondo conflitto mondiale, fu chiamato a ricoprire una carica politica diversa dalle mansioni militari che fino a quel momento aveva svolto. Questa nomina, di primo acchito, lasciò perplessi i funzionari del dipartimento di stato, avvezzi ad avere al vertice un uomo politico. Ma Marshall portava con sé l'apprezzamento incondizionato di Roosevelt e questo era il dato politico che metteva a tacere qualsiasi discussione, dato che gli uomini del livello più alto del dipartimento di stato avevano servito durante le presidenze di Roosevelt. La vera questione era che questi uomini non avevano lo stesso concetto per il nuovo presidente, considerato un personaggio di secondo o terzo livello sul quale si spendeva una certa ironia. Truman lo sapeva bene e le sue memorie riferiscono della sua irritazione nei confronti dei subalterni, eredi della grandezza rooseveltiana e per questo dotati di una certa presunzione.
  La questione del medio oriente e soprattutto del progetto sionista di dar vita a uno stato ebraico in Palestina fu il caso più clamoroso di contrasto tra il dipartimento di stato e il presidente, contrasto che vide in prima linea George Marshall, che non aveva fatto mai mistero della sua contrarietà verso la politica sionista. Questa contrarietà si evidenziò non solo dopo la sua nomina a segretario di stato, ma fu una posizione che Marshall condivise con Roosevelt negli ultimi anni di vita del presidente. Roosevelt fu sempre contrario a una eventuale spartizione della Palestina e alla nascita di uno stato ebraico in quella regione. Marshall era di quest'avviso. Ripercorrere le fasi del suo pensiero su questo problema è importante per comprendere lo sviluppo della politica americana al proposito e il ritardo con cui Washington si espresse a favore della nascita di Israele a tutto vantaggio, momentaneo, dell'Unione sovietica.
  Il momento culminante del contrasto, il climax di mesi di contrapposizioni tra Truman e il suo consigliere speciale Clark Clifford, da una parte, e il dipartimento di stato, e Marshall in particolare, dall'altra, si verificò in un meeting del 12 maggio 1948, due giorni prima della dichiarazione d'indipendenza dello Stato di Israele. Si trattava di riconoscere il nuovo stato, atto finale della lunga marcia del movimento sionista verso la sua meta storica. In quella circostanza i nodi vennero al pettine. Clifford espose le ragioni, condivise da Truman, per le quali occorreva che Washington riconoscesse il nuovo stato ebraico; Robert Lovett, il sottosegretario di stato, quelle contrarie. A questo punto, Marshall obiettò che Clifford non dovesse far parte di quella riunione. Al che Truman rispose seccamente: "Generale, Clifford è qui perché gli ho chiesto io di essere qui". Marshall divenne paonazzo ma non osò obiettare. Questo episodio non è riportato - per ovvie ragioni - nel memorandum ufficiale dell'incontro, ma Clifford lo riporta nelle sue memorie ed è ormai inserito in tutte le ricostruzioni dell'incontro del 12 maggio. Washington, poi, riconobbe, ma solo "de facto" lo Stato di Israele, preceduta da Mosca, che lo riconobbe, invece, "de jure". Differenza sostanziale, che stava a indicare l'interesse dell'Unione sovietica a ottenere l'appoggio israeliano in funzione anti-americana nel contesto mediorientale.
  Ma, come si è detto all'inizio, l'opposizione del dipartimento di stato alla nascita di uno stato ebraico in Palestina risaliva ai tempi di Roosevelt. Roosevelt riteneva che gli Stati Uniti non dovessero occuparsi della questione della Palestina, reputando che dovesse essere demandata ancora alla politica di Londra dopo la fine della guerra. E' ben strano, tuttavia, che il presidente americano non avesse valutato per tempo le condizioni insopportabili, dal punto di vista economico, di fronte alle quali si sarebbe trovata Londra una volta terminato il conflitto. Eppure, lo stesso Churchill aveva messo in guardia Roosevelt sul problema della possibile ingerenza sovietica nella regione mediorientale: "Non dobbiamo essere troppo sicuri che la perdita dell'Egitto e del medio oriente non avrebbe gravi conseguenze", ma, nello stesso tempo, dichiarava di essere fortemente impegnato a difendere la causa sionista. L'atteggiamento ondivago di Churchill aveva una realizzazione pratica molto semplice in Roosevelt. Per tutti gli anni delle sue amministrazioni aveva più volte ricevuto delegazioni sioniste e arabe, alle quali aveva sempre promesso ciò che esse chiedevano, anche se si trattava di richieste opposte. Ma un punto era fisso: assicurava gli arabi che nulla si sarebbe modificato nella regione senza l'accordo tra le due parti, il che si traduceva nella possibilità per gli arabi di opporre sempre un diniego a ogni trattativa con i sionisti.
  Marshall concordava con il comportamento di Roosevelt. Nel febbraio 1944, due democratici, Sol Bloom, chairman del House Committee for Foreign Affairs, e Tom Connally, chairman della stessa commissione al Senato, presentarono una risoluzione a favore della più ampia immigrazione ebraica in Palestina e della creazione di un commonwealth ebraico nella stessa regione. Gli estensori richiedevano che la risoluzione fosse pubblica. Immediatamente il War Department entrò in allarme. Il segretario alla Guerra, Edward Stimson, riferì che avrebbe trattato la materia con il generale Marshall, il quale "era ansioso che la lettera non fosse resa pubblica". Marshall era dell'avviso che l'approvazione della risoluzione avrebbe portato a "un alto grado di tensione in Palestina". Ancora: "Non intendo esagerare le conseguenze che deriverebbero dall'adozione di questa risoluzione, [ma] penso che sia del tutto evidente che da un punto di vista militare si dovrebbe preferire che i cani continuino a dormire". In sostanza, Marshall e il War Department avanzavano critiche alla risoluzione esclusivamente sul piano bellico.
  Ma non era solo questo l'unico motivo dell'opposizione; altrimenti, finita la guerra, le ragioni belliche non avrebbero dovuto più rappresentare un motivo di contrasto. Invece, come scrive Clifford nelle sue memorie, "Truman e Marshall collidevano a proposito della politica mediorientale". Marshall, infatti, era sulle posizioni di Londra. La Gran Bretagna era dell'avviso che la Dichiarazione Balfour del 1917 e la risoluzione della Società delle nazioni del 1920 non avessero più senso, perché gli esiti della Seconda guerra avevano posto sul tappeto nuovi problemi relativi all'assetto del medio oriente. Naturalmente, dietro la posizione di Londra v'erano interessi precisi della Gran Bretagna a mantenere la propria egemonia sulla regione e sui suoi regnanti arabi, senza considerare che le condizioni politiche ed economiche di questa egemonia sarebbero venute meno alla fine della guerra. Da parte di Marshall e del dipartimento di stato ci si riferiva, invece, alle prospettive di una presenza sempre più incisiva dell'Unione sovietica nella regione. Per la verità, negli ultimi anni della guerra e nei successivi due-tre anni l'analisi sovietica sul mondo arabo era negativa. Secondo la dogmatica marxista, il mondo arabo non poteva rappresentare alcun vantaggio per la causa della rivoluzione mondiale dei lavoratori. Si trattava di regimi feudali, anacronistici, inservibili per la rivoluzione proletaria. Solo qualche anno più tardi Mosca muterà atteggiamento e sceglierà di avvicinarsi al mondo arabo nella sfida della Guerra fredda con gli Stati Uniti nella regione.
  Negli anni in cui l'Unione sovietica era ideologicamente lontana dai regimi arabi, Marshall non conosceva la dogmatica marxista, oppure prevedeva l'evoluzione sovietica riguardo alle dinamiche della Guerra fredda. Fatto sta che, fin dal febbraio 1944, Marshall era contrario a un'eventuale spartizione e alla nascita di uno stato ebraico in Palestina, per ragioni che muteranno nel corso degli anni fino alla drammatica seduta del 12 maggio 1948. Quando, il 21 gennaio del 1947, Truman nominò Marshall alla guida del dipartimento di stato, evidentemente riteneva che le posizioni del nuovo segretario si sarebbero acconciate sulle sue. Si sbagliava, perché, come si è detto, Marshall era ancora legato alle posizioni di Roosevelt a proposito della Palestina. Scrive Truman nelle sue memorie: "Mi rendevo sempre più conto che non tutti i miei collaboratori guardavano al problema della Palestina con i miei occhi". Marshall rientrava tra quei collaboratori, ai quali Clifford imputava una certa dose di antisemitismo, di cui, però, non v'è alcuna traccia nelle posizioni di Marshall.
  Eppure Marshall, dopo la sua nomina, non sembrò ostile alla spartizione e, quindi, alla nascita di uno stato ebraico. Quando, nel maggio del 1947, la United Nations Special Committee on Palestine (Unscop) approvò a maggioranza un documento che prevedeva la spartizione, Marshall lo approvò. Che cosa poi lo indusse a cambiare idea è una questione che non è esplicitata nei due libri di memorie che egli dettò a Rose Page Wilson (1968) e a Forrest C. Pogue (1991). Anzi, nei due libri non v'è traccia della questione della Palestina. Il primo segnale del suo cambiamento di rotta avvenne il 17 settembre, quando, parlando alle Nazioni Unite, Marshall si limitò ad affermare che gli Stati Uniti guardavano con eguale interesse alla relazione di maggioranza e a quella di minoranza. Ma, già nel marzo, Marshall aveva approvato un documento in cui si leggeva: "La posizione degli Stati Uniti è che il governo inglese è nella migliore posizione per determinare la natura della formulazione del problema che desidera presentare alle Nazioni Unite". Con queste parole, Marshall si piegava di fatto alle richieste di Ernest Bevin, segretario agli Affari esteri inglese, che nei mesi precedenti aveva letteralmente tartassato il dipartimento di stato con documenti contrari a qualsiasi ipotesi di spartizione. Da quel momento in poi, grazie anche alle pressioni dei suoi sottoposti, che condividevano le posizioni inglesi, Marshall divenne sempre più convinto delle ragioni di Londra e, soprattutto, di quelle del dipartimento di stato che dirigeva. E così, il 17 settembre, in una riunione della delegazione americana alle Nazioni Unite, Marshall gettò definitivamente la maschera e affermò che sostenere il documento di maggioranza dell'Unscop avrebbe scatenato la reazione del mondo arabo e provocato il suo passaggio dalla parte dell'Unione sovietica. Il che avvenne, ma non perché gli Stati Uniti avessero infine sostenuto la nascita di Israele (o, almeno, questo non fu il motivo principale), ma perché gli arabi vedevano negli Stati Uniti la continuazione del dominio coloniale inglese e nell'Unione sovietica il paese che avrebbe difeso i diritti dei popoli del Terzo mondo. Nasser fu sempre esplicito nel sostenere questa posizione.
  La situazione era tale che Truman aveva perso il timone della politica americana sulla Palestina. Il dipartimento di stato produceva documenti in continuazione, cercando di dimostrare l'inapplicabilità della risoluzione maggioritaria dell'Uunscop. Marshall non si scopriva con il presidente, ma approvava l'operato dei suoi sottoposti. Nella vastissima documentazione ufficiale è impossibile trovare un documento firmato da Marshall che si pronunci esplicitamente contro la spartizione. Ma gli esiti del confronto con il presidente non lasceranno dubbi sulla sua posizione. Il 19 marzo, il governo americano rese pubblico un documento in cui si raccomandava la sospensione della proposta di spartizione in favore di un temporaneo prolungamento del mandato sulla Palestina, da affidare questa volta alle Nazioni Unite. Il movimento sionista esplose di rabbia. Il responsabile di questo drammatico voltafaccia fu George C. Marshall.
  L'approvazione della spartizione nella seduta dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre 1947, voluta espressamente da Truman, non mutò l'atteggiamento del dipartimento di stato e dello stesso Marshall. Al contrario, Marshall e il dipartimento si adoperarono incessantemente per affossare la spartizione, contrastando la volontà del presidente. Marshall non fu leale con Truman.
  E così, nei mesi che seguirono la decisione delle Nazioni Unite, in cui Londra continuava a esercitare un ruolo di opposizione alla spartizione, i paesi arabi minacciavano di invadere il territorio assegnato agli ebrei e il dipartimento di stato tesseva la sua tela in combutta con gli inglesi, si giunse al fatidico 12 maggio 1948, in cui i nodi vennero al pettine all'interno del governo americano. Si può dire che, grazie a Ben-Gurion che, il 14 maggio, dichiarò la nascita di Israele, Marshall fu definitivamente sconfitto. Si dimetterà dalla sua carica, per ragioni di salute, il 7 gennaio 1949.

(Il Foglio, 11 febbraio 2017)


Crisi libica: la Casa Bianca blocca la nomina di un palestinese come inviato Onu

di Daniele Basili

Salam Fayad
REGGIO CALABRIA - La linea dura pro Israele del neo Presidente Donald Trump inizia a sortire i suoi effetti. Gli Stati Uniti d'America hanno posto il veto sulla nomina dell'ex premier palestinese Salam Fayad a nuovo inviato per la Libia, bloccandone l'iter di investitura all'Onu.
Gli Usa hanno bloccato la nomina dell'ex premier palestinese Salam Fayad come nuovo inviato dell'Onu per la Libia.
L'ambasciatrice statunitense, Nikki Haley, il cui mandato è cominciato il 27 gennaio, ha sottolineato che le Nazioni Unite sono state "per troppo tempo sbilanciate a favore dell'Autorità nazionale palestinese a discapito dei nostri alleati in Israele".
Haley si è detta anche "delusa" dalla scelta del segretario generale, Antonio Guterres, per la persona scelta per il delicato incarico, mettendo definitivamente la parola fine sulle voci che circolavano da alcuni giorni in merito alla scelta di Fayad.
La diplomatica ha ricordato che il suo Paese "non riconosce attualmente uno Stato palestinese e non è favorevole al segnale che questa nomina invierebbe in seno alle Nazioni Unite". "Andando avanti, gli Usa -ha aggiunto- agiranno, non solo parleranno in appoggio dei nostri alleati".
La polemica è scoppiata dopo che il Segretario Generale dell'Onu ha informato, con una missiva, il Consiglio di Sicurezza circa la sua intenzione di nominare Fayad in sostituzione del tedesco Martin Kobler, il cui mandato termina quest'anno. Una decisione che però non è mai stata resa pubblica e, dopo le parole di Haley, probabilmente non lo sarà mai.
La posizione americana è stata accolta con estremo favore da Israele, che ha fatto notare il cambio di passo rispetto all'era Obama. "Questo e' l'inizio di una nuova era nell'Onu, in cui gli Usa sono fermamente con Israele contro qualunque tentativo di danneggiare lo Stato ebraico", ha commentato in un comunicato l'ambasciatore israeliano, Danny Danon.

(infoOGGI, 11 febbraio 2017)


"Israele potrebbe non esistere più nella sua forma attuale entro i prossimi venti anni!"

Riportiamo questa notizia da un sito che ha un nome programmatico: "Palestina Felix". La massima felicità per loro naturalmente sarebbe la sparizione dello Stato d'Israele, quindi accolgono con piacere una "rosea" previsione di fonte imprevista: la CIA. NsI

di Suleiman Kahani

La CIA, di norma, è una ricchissima, avanzatissima, iperaddestrata agenzia di pasticcioni, che seminano "un milione di chicchi per raccogliere una spiga", quando non si impelagano in 'catastrofi perfette' come confermano eventi quali la Baia dei Porci oppure il rapporto secondo cui "L'Iran non è in una situazione rivoluzionaria e nemmeno pre-rivoluzionaria" (scritto sei mesi prima della cacciata di Reza Palhevi).
Il che non toglie che, a forza di grandi numeri, qualche volta "ci azzecchi" pure.
Speriamo che questo sia il caso del rapporto inviato dalla 'Compagnia' ad alcuni membri della Commissione Senatoriale per l'Intelligence nel quale si prevede che l'entità sionista occupante la Palestina "potrebbe non esistere più nella sua forma corrente entro i prossimi venti anni".
Personalmente chi vi sta scrivendo é sempre stato persuaso di questa tesi, ed è abbastanza stupito di trovare nell'analisi della CIA il primo e più importante parallelo storico di cui ha fatto uso più volte su queste stesse pagine per sostanziare tale sua convinzione.
Quello, ovviamente, col Sudafrica dell'Apartheid.
Anche in quel caso, un regime militarmente iper-forte (specie in relazione a chi ad esso si opponeva) si sciolse e si liquefò in breve tempo e scomparve, sostituito da uno Stato che, con tutti i propri limiti, cerca di essere una democrazia e sperimenta tassi di crescita economica tali da posizionarlo nella cerchia dei paesi emergenti (BRICS) del nuovo mondo multipolare che sta nascendo.
Nel rapporto CIA si legge che il consenso internazionale si sta gradatamente spostando dalla impossibile e impraticabile "Soluzione a Due Stati" (sulla cui irrealizzabilità ci siamo spesi più volte) alla possibilità di una "Soluzione a Uno Stato", che preveda, tra l'altro il "Diritto al Ritorno" per i profughi palestinesi e i loro discendenti.
Questo fatto, prosegue la relazione, potrebbe portare "di rimbalzo" a un contro-esodo di sionisti che si sposterebbero in Usa, Europa Occidentale e, in misura minore, in Russia.

(Palestina Felix, 11 febbraio 2017)


Cia sees end of Israel


Lancio di razzi su Eilat. Legami di Hamas con lo Stato del Sinai e Il Cairo

GERUSALEMME - Il lancio di razzi dalla penisola del Sinai verso la città israeliana di Eilat, avvenuto lo scorso 8 febbraio, giunge a poche settimane dagli incontri organizzati al Cairo tra funzionari dell'intelligence egiziana e rappresentanti del movimento palestinese di Hamas. Lo scorso 22 gennaio il numero due dell'ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha incontrato al Cairo il capo dell'intelligence egiziana, Khaled Fawzi. Mentre il 3 febbraio scorso è stato il capo di Stato maggiore delle Brigate al Qassam (braccio armato del movimento palestinese Hamas), Marwan Issa ad incontrare i funzionari della sicurezza egiziana. Inoltre, da tempo Hamas, che dal 2006 governa la Striscia di Gaza, è impegnata da un lato a combattere i gruppi salafiti attivi nel territorio palestinese. Dall'altro, tuttavia, il gruppo palestinese ha relazioni con i gruppi estremisti legati allo Stato islamico attivi in Sinai. Attraverso i tunnel che collegano i Territori palestinesi all'Egitto vengono smistate armi, come riferiscono diversi rapporti di analisi. Parallelamente il governo del presidente Abdel Fatah al Sisi è impegnato in una lotta contro il gruppo Wilyat Sinai, affiliato allo Stato islamico, ma noto fino al 2014 come Ansar Beit al Maqdis, che letteralmente significa "sostenitori della Città santa", ovvero Gerusalemme. Come sottolinea un rapporto del think tank "Carnegie Endowment for International Peace", i tunnel sono diventati negli anni anche un luogo attraverso cui passano beni di altro tipo, come il cibo, il carburante, a causa del blocco imposto dalle autorità israeliane. Il Cairo apre periodicamente il valico di Rafah proprio per consentire agli abitanti della Striscia di Gaza di rifornirsi di beni di prima necessità e ricevere cure mediche.

(Agenzia Nova, 10 febbraio 2017)


Israele d'inverno

di Riccardo Barlaam

Una settimana di stacco, dalla nebbia e dal freddo. Un viaggio in Israele d'inverno è una sorpresa: non troppo distante dall'Europa, con un clima mite, almeno nelle ore centrali del giorno, e tante cose da fare e da vedere, oltre a quelle solite a cui uno pensa quando si parla della Terra Santa.
   Prima tappa Gerusalemme, antichissima città adagiata sulle colline con tutti gli edifici dal caratteristico colore pietra. Città di contrasti e storia con i tre luoghi importanti per le tre religioni monoteiste - ebraismo, cristianesimo, islam - situati a poche centinaia di metri di distanza.
 
Segway tour a Gerusalemme
   Un modo diverso di girare la città vecchia, percorrere le sue antiche mura e il centro storico è uno smart tour guidato con il Segway: i giri partono dalla vecchia stazione ferroviaria dismessa dei tempi dell'impero ottomano, ora trasformata in area di street market e parco giochi, a poche centinaia di metri di distanza dall'Hotel King David e dal Mulino a Vento.
   Una visita merita il Mahane Yehuda Market, il mercato della frutta e verdura che, un po' come avviene in tante città europee, la sera si trasforma in una zona molto frequentata dai giovani con tanti chioschi che vendono cibo di tutti i tipi, a buon prezzo, per passare qualche ora in un'area davvero caratteristica, con i suoi colori e odori mediorientali.
   D'obbligo, oltre a una passeggiata nei luoghi sacri della Città vecchia, anche una visita a Yad Vashem, il Memoriale dell'Olocausto, per non dimenticare i 6 milioni di morti - di cui 1,5 milioni di bambini, non solo ebrei ma anche disabili, zingari, omosessuali. E il Giardino dei Giusti in cui sono ricordate le persone - più di 600 italiani, tra cui Gino Bartali, Giorgio Perlasca, i Carabinieri - che salvarono vite e aiutarono tanti ad evitare la deportazione nei carri bestiame diretti ai campi di concentramento nazisti. Particolare emozione si prova - un po' la stessa sensazione che si ha visitando il memoriale dell'attentato dell'11 Settembre a Ground Zero a Ny - nel ripercorrere la storia dall'ascesa di Hitler al 1948. Situato in un bell'edificio contemporaneo completato dal 2005 e progettato dall'architetto Moshe Safdie, interamente in cemento armato - e non in Pietra di Gerusalemme come tutto il resto della città, ma in cemento, come una ferita, una cicatrice che resta visibile - con una forma prismatica, non a caso leggermente in salita. Il museo ripercorre la storia delle deportazioni, in un itinerario che è fisico, visivo, architettonico, ma anche storico e interiore, tra buio e luce. Si parte dal buio, dai 6 milioni di vittime della Shoah e si finisce camminando leggermente in salita nella luce: le vetrate che danno sul sole, il cielo, la speranza, il futuro.
   Il Museo storico è stato ultimato da pochi anni, ed è circondato, come detto, dal Giardino dei Giusti, oltre 450 alberi, ulivi e altre essenze, in cui vengono ricordati, simbolicamente, tutti i Giusti, persone di ogni credo ed etnia che, come accennato, sfidando le leggi e i divieti dell'epoca, hanno aiutato tanti a salvarsi dall'Olocausto. Una visita davvero toccante - consigliato farsi accompagnare da una guida per comprendere bene tutto il percorso e il significato di quello che si vede e si sente - che resta impressa nella memoria.
   La giornata a Gerusalemme si può concludere con una serata al Museo della Torre di David per assistere a "The Night Spectacular" spettacolo multimediale, coloratissimo che attraverso luci e suoni e proiezioni digitali sui resti archeologici delle dell'antica fortezza, in poco più di un'ora, ripercorre in modo visivo - un film di animazione proiettato sulle mura attraverso speciali proiettori - i 5mila anni di storia di Gerusalemme.
   In questo periodo dell'anno poi è molto piacevole, viste le temperature non troppo elevate in Israele, trascorrere qualche giorno in uno dei diversi resort sul Mar Morto, il lago salato a 415 metri sotto il livello del mare. Tra cure termali, buon cibo, e bagni nell'acqua salata dove è impossibile nuotare - si resta a galla e non si va giù - e dove bisogna stare attenti a non immergersi con gli occhi che rischiano di bruciare
 
Il kibbutz Sde Boker nel Negev
 
Le tombe di David Ben Gurion e della moglie Paula
per le alte concentrazioni di sale presenti nel bacino. Un bagno nel Mar Morto in ogni caso è un'esperienza diversa da tutte le altre, per certi versi indimenticabile, che una volta nella vita bisogna provare.
   Sulla strada per il Mar Morto si possono visitare diversi kibbutz, le comuni agricole nate nei primi anni Cinquanta, come quello di Sde Boker, nel deserto del Negev, dove visse gli ultimi anni della sua vita il primo ministro Ben Gurion, oggi trasformato in un'oasi dove si vive di agricoltura ma soprattutto di turismo grazie alla spa e ai piccoli bungalow in affitto, dove si possono ammirare le colture di Mirra, la pianta aromatica tipica del Medio Oriente, diffusa in Kuwait e in Sudan, che da queste parti era sparita ma è stata reintrodotta in questi anni, o come gli enormi Baobab cresciuti nel deserto grazie alla cura e alle tecniche agronomiche degli agricoltori del Kibbutz.
   E poi si incontra Masada, le rovine della fortezza del Re Erode, in cima alla montagna, simbolo della resistenza degli ebrei contro i romani nel 73 d.C., oggi candidata a entrare nel patrimonio dell'umanità dell'Unesco e dove, nei periodi estivi, con lo sfondo del deserto del Negev, si svolgono suggestivi spettacoli dal vivo di Opera lirica.
   Continuando la strada verso l'estremo Sud di Israele si percorre la wine route nel Negev, la strada dei vini dove si incontrano diverse aziende vitivinicole, come ad esempio Carmey Avdat Farm, che sono sorte in quest'area desertica, grazie alla tenacia e alla capacità dei viticoltori locali che sono riusciti a far attecchire, nel deserto, le piante della vite e - grazie alla irrigazione a goccia e agli impianti di desalinizzazione dell'acqua di mare - a farle crescere tanto da produrre ottimi vini rossi e bianchi.
   Scendendo verso la città costiera di Eilat si attraversano il monte Negev e la riserva naturale e geologica di Makhtesh Ramon con l'omonimo cratere dal quale, deviando per qualche chilometro dalla strada asfaltata e avventurandosi nei sentieri poco battuti, magari su una jeep, accompagnati da una guida naturalistica locale, non è difficile arrivare a delle Antiche oasi e ai resti dei Caravanserraglio, gli "alberghi" dell'antichità che venivano utilizzati per la sosta dalle carovane che attraversavano il deserto.
   Eilat è nell'estrema punta a sud di Israele. Un lembo di terra che dà sul Mar Rosso, dove da un lato vedi il confine con la Giordania. E dall'altro, a pochi chilometri di distanza, l'Egitto. Eilat sembra un pezzetto di Florida. Miami Beach piantata nel mezzo del Mar Rosso. Un'oasi di Occidente, grandi alberghi, palme, mall e fast food, circondata dal mondo arabo, dal mare e dal deserto. Trascorrere qualche giorno qui in questo periodo dell'anno può essere davvero riposante. La temperatura è mite e non è eccessivamente caldo come d'estate. Si può fare il bagno nelle ore assolate anche senza muta. Il posto ideale per fare sport di resistenza - qui si svolge l'Israman, la gara di triathlon lungo più importante di Israele - e le immersioni subacquee.
   La settimana ideale in un tour di Israele d'inverno non può non terminare a Tel Aviv. La città balneare del mediterraneo, con i suoi 1.200 dance bar e la sua vivace vita notturna è il completamento di un viaggio indimenticabile, in un paese ricco di culture e di inventiva. Tel Aviv, la città "che non dorme mai", il suo mare, i suoi hotel e i suoi locali da ballo è un po' il simbolo di una nazione che, nonostante tutto, tra mille difficoltà, si sforza di guardare avanti. Al futuro.
   Il mare di Tel Aviv rispetto a Eilat in inverno è più mosso: ci sono onde alte che ricordano l'Oceano. Tanti giovani dal mattino presto si gettano nelle sue acque con le tavole da surf e la muta. Restano fermi in attesa, distesi sulle loro tavole. Lunghi minuti che sembrano ore. In attesa dell'onda migliore da cavalcare che arriverà. Prima o poi.

(Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2017)


Le Pen: i franco-israeliani scelgano o Francia o Israele

La candidata del Front National contraria alla doppia cittadinanza, ma c'è chi sente odore di anti-semitismo.

Lei parla di una norma generale che si applica a tutti, ma molti l'hanno già tacciata si antisemitismo strisciante.
Opposta alla doppia nazionalità per i cittadini extra-europei, la candidata del Front National, Marine Le Pen, è stata a chiamata a rispondere a una domanda su quello che attende i cittadini franco-israeliani nel caso di una sua vittoria all'Eliseo.
Nel corso dell'Emission Politique, il grande talk show politico di France 2, la tv di Stato, la giornalista Le'a Salame', ha chiesto a Le Pen se domanderà "agli ebrei francesi di rinunciare alla doppia nazionalità israeliana?".
La candidata Fn ha risposto prima così: "Israele non è un Paese europeo, credo anche che Israele accetti di dirlo e pensarlo. Sono contro la doppia nazionalità extra-europea". Quindi - ha incalzato Le'a Salame' - "stasera chiedete agli ebrei francesi di rinunciare se vogliono una doppia nazionalità?. "Loro come gli altri - risponde Le Pen - non è agli ebrei ma agli israeliani a cui chiedo di scegliere la propria nazionalità". E però, ha tenuto a puntualizzare davanti alle telecamere di France 2: "Questo non significa che, se non scelgono la nazionalità francese, debbano andarsene dalla Francia. La Francia ha assolutamente la possibilità di accogliere sul suo territorio, incluso per tanto tempo, gente straniera che conserva la propria cittadinanza, a partire dal momento in cui rispetta le leggi e i valori francesi. Raramente abbiamo avuto problemi con Israele su questo tema", ha concluso Le Pen.

(globalist, 10 febbraio 2017)


Quei cimiteri europei restaurati dalla Cdu

di Simone Porrovecchio

Il villaggio di Sdolbuniw, nell'Ucraina occidentale, ha appena inaugurato il suo nuovo cimitero. Vecchio quasi 300 anni. Lo storico cimitero ebraico, raso al suolo dalle SS nell'ottobre del 1942, è stato infatti riscoperto, ricostruito e restaurato nelle poche parti rimaste intatte, grazie a un progetto dello European Jewish Cemeteries Initiative, coordinato da Gerusalemme da Philip Carmel. Al piano di recupero, fortemente voluto dall'ex ministro israeliano Yossi Beilin, hanno partecipato anche la Konrad Adenauer Stiftung, la fondazione tedesca vicina al partito della Cdu, e il Ministero delle finanze tedesco che, intanto, ha messo a disposizione un milione e mezzo di euro. «La prima tranche di finanziamento servirà al recupero di 45 cimiteri, tra Polonia, Ucraina, Repubblica Ceca, Moldavia e Serbia. Secondo le stime, tuttavia, almeno altri 50 andranno ricostruiti nel prossimo futuro. E parliamo solo di quelli di cui esistono tracce» spiega Gerhard Wahlers, direttore generale della Konrad Adenauer Stiftung.
   Ma perché ricostruire cimiteri ebraici in località dove, quasi sempre, una comunità ebraica non esiste neanche più? «Solo a Sdolbuniw, in una sola settimana, sono stati massacrati con un colpo alla nuca circa 17 mila ebrei. Il 70 per cento della popolazione che allora aveva quel villaggio» afferma Carmel. «Tra il fiume Elba e il Dnepr, che attraversa Russia, Bielorussia e Ucraina, prima della guerra c'erano 7 mila cimiteri ebraici, molti dei quali eretti già nel Trecento. Questi cimiteri sono il ricordo della ricchissima cultura ebraica che fino al 1943-44 permeava quest'area d'Europa. Sta a noi riportare in vita il ricordo. E con esso la coscienza delle radici di questo continente».

(la Repubblica, 10 febbraio 2017)


Droni e terrorismo, tecnologia israeliana in Italia

Presentata a Udine, in anteprima nazionale, con simulazione sul campo. Hanno assistito oltre 60 persone tra forze dell'ordine e privati: gli alti rappresentanti di polizia e carabinieri e i rispettivi corpi speciali e anche i responsabili sicurezza dell'Enac e di grande aziende multinazionali.

 
La presentazione a Udine della tecnologia MC-Horizon
 
Sistema anti-drone MC-Horizon
UDINE - Al mondo esiste una sola tecnologia in grado di identificare, intercettare e neutralizzare i droni a distanza: si chiama MC-Horizon e il 10 febbraio è stata presentata, per la prima volta in Italia, a Udine, all'interno degli spazi della Fiera cittadina. A farla conoscere è McTech, l'azienda israeliana che, grazie alla collaborazione con le aziende friulane Saroal srl e MD Systems, che ne sarà partner in esclusiva per l'Italia, ha scelto Udine per la prima dimostrazione in real time sul campo.

 Tecnologia anti-drone
  Otto persone tra ingegneri e addetti sono arrivati da Israele con uno speciale simulatore per la presentazione: questa tecnologia anti-drone è l'unica al mondo che riesce a identificare un 'oggetto volante' a 300 metri di distanza, intercettarne la rotta e i comandi per portarlo lontano dalle eventuali zone a rischio. «La tecnologia di MC-Horizon è stata sviluppata circa 2 anni fa: ci è voluto circa un anno di lavoro per ottimizzarla e continua ad essere costantemente aggiornata e migliorata» spiega la McTech. «È un sistema che funziona a 4 livelli: Detection, l'identificazione del drone attraverso radar e RF scanning, Acquiring, rilevamento e «cattura» attraverso telecamere termiche a lungo raggio, RF neutralization che disturba la trasmissione neutralizzandone il segnale, e la Distruction, la distruzione finale attraverso laser».

 La soluzione ottimale per la sicurezza pubblica e privata
  Si tratta di un'innovazione notevole (il costo va dai 150mila ai 300mila euro) in quanto gli altri sistemi in uso nel mondo riescono soltanto a intercettare la frequenza del drone interrompendone il volo e facendolo precipitare con il rischio di far detonare a terra l'eventuale materiale esplosivo a bordo o di fare disperdere le sostanze nocive con effetti disastrosi su persone e cose nel giro di metri o kilometri. «Questa tecnologia anti-drone - spiega Marco Cavalli, analista della MD Systems - rappresenta la soluzione ottimale per la sicurezza pubblica e privata: basti pensare a zone militari, edifici governativi e siti nucleari, ai grandi luoghi pubblici a rischio attacco come stadi, aeroporti, stazioni, piazze, mercati, oppure agli stabilimenti delle aziende che possono essere facilmente violati e spiati da un drone in volo». Per questo il 10 febbraio hanno assistito alla simulazione oltre 60 persone tra forze dell'ordine e privati: presenti gli alti rappresentanti di polizia e carabinieri e i rispettivi corpi speciali e anche i responsabili sicurezza dell'Enac (Ente nazionale per l'aviazione civile), dei principali aeroporti italiani e di grande aziende multinazionali che sempre di più hanno bisogno di tutelare i luoghi di produzione, gli stabilimenti e le proprie sedi nel mondo.

(Diario di Udine, 10 febbraio 2017)


Un palestinese spara sulla folla. Cinque colpiti a Tel Aviv, arrestato 18enne

GERUSALEMME - Un palestinese ha sparato sulla folla a Petah Tikva, poco fuori Tel Aviv, e poi ha accoltellato diverse persone. Il bilancio è di almeno 5 feriti, nessuno dei quali rischia la vita. Lo ha riferito la polizia israeliana.
L'uomo, un giovane dell'età apparente di 18 anni proveniente da Nablus, in Cisgiordania, è stato arrestato poco dopo. I soccorritori hanno riferito di aver ricoverato un uomo sulla cinquantina e una donna di circa 30 anni con ferite da armi da fuoco nella parte inferiore del corpo. Un altro uomo, di circa 40 anni, è stato soccorso dopo aver ricevuto una pugnalata. I feriti sono stati ricoverati al Rabin medicai center. Almeno altri due passanti sono stati feriti lievemente. La polizia ha ricevuto una segnalazione della sparatoria alle 16.45 a Hirsch Street e all'ingresso di un mercato all'aperto di Petah Tikva. La polizia ha riferito che il sospetto attentatore, fermato in Montefiore street, aveva con sè una bomba.

(Avvenire, 10 febbraio 2017)


Celebriamo Tu Bishvat, perché "l'uomo è come un albero del campo"

Come ogni anno la comunità ebraica celebra il capodanno degli alberi, che quest'anno cade l'11 febbraio.

di Daniele Cohenca

Tu Bishvat viene da sempre chiamato capodanno degli alberi. Ma il concetto di capodanno si rispecchia particolarmente negli essere umani; e allora perché i Testi sacri ci impongono la celebrazione e il tradizionale assaggio delle sette specie della Terra d'Israele, enfatizzando la festa proprio con il nome di "capodanno degli alberi"?
Il celebre versetto "Ki haadam etz hassadé - Perché l'uomo è come un albero del campo" (Numeri 20:19) ci fornisce la risposta: oltre al messaggio evidentemente ecologico che traspare dal versetto, dobbiamo cercare di cogliere gli elementi comuni: l'albero, solidamente radicato alla terra, da cui trae il nutrimento, si sviluppa armoniosamente fino a produrre frutti che una volta consumati dall'uomo gli procureranno il senso del "piacere" e della "delizia".
Questo è in realtà solo uno dei tratti dell'essere umano il cui sviluppo spirituale, intellettuale e morale si basa in principio solo sulla robustezza delle sue radici e sulla qualità del "suolo" in cui sono fissate. Così come l'albero non avrà futuro se non avrà radici solide nel terreno, non darà frutti se non viene curato e protetto, non ci può essere un futuro per l'essere umano senza un passato solido di tradizioni e di fede, né senza una continua attenzione al suo sviluppo individuale e nelle società. Inoltre, l'albero raggiunge la perfezione tramite i suoi frutti che sono lo scopo della sua stessa esistenza e ne sono l'incoronamento.
La vita dell'uomo è paragonabile a quella dell'albero, in quanto la vita umana assume un senso se è promettente, prolifica e creatrice di un futuro, di messaggi e valori che l'uomo sarà in grado di tramandare ai discendenti, i quali potranno a loro volta godere anch'essi delle "delizie", morali e spirituali che gli sono state lasciate.
Nella società moderna non è un compito facile: tracciare dei limiti entro quali muoversi, come quelli della Torà e delle Mizvot, mantenendo allo stesso tempo relazioni sociali di ampio spettro è compito arduo. A questo proposito, recita la Mishnà (Pirqè Avòt Cap. 3 Mishnà 24): Egli affermava: colui, la cui sapienza supera le sue azioni, a che cosa si puo' paragonare? Ad un albero i cui rami sono numerosi, ma ha poche radici; viene un vento, lo sradica e lo rovescia; secondo quanto e' detto: egli sarà come un arbusto in mezzo alla steppa e neppure si accorgerà quando verrà il bel tempo; avrà per dimora le aridità del deserto, la terra salsa non abitabile (Geremia, 17 6). Invece colui le cui opere superano la sua sapienza, a che cosa si può paragonare? Ad un albero che ha pochi rami ma abbondanti radici, che anche se dovessero soffiargli contro tutti i venti del mondo, non riuscirebbero a smuoverlo dal suo posto, secondo quanto e' scritto: egli sarà come un albero piantato vicino all'acqua, che dirama le radici presso un ruscello; esso non si accorgerà neppure quando giungerà la stagione calda, le sue foglie rimarranno verdi e non avrà da preoccuparsi della stagione di siccità, perché invece continuerà a dare frutti (Geremia, 17,8).
Come l'albero, l'uomo è una creatura che si coltiva, le cure e le premure che le si prodigano agevoleranno la piena espressione della sua potenzialità. E tutto ciò comincia dall'educazione che gli verrà proposta.

(Mosaico - Comunità ebraica di Milano, febbraio 2017)


Follia: fanno rieducare i terroristi dagli imam

L'antijihadismo creativo del tribunale di Bari. La deislamizzazione è affidata ai predicatori musulmani. Ma non si sa nemmeno chi siano quelli più estremisti

di Carlo Panella

Negli anni bui del terrorismo italiano non sarebbe mai venuto in mente a un magistrato di affidare a un Costituzionalista un fanatico simpatizzante delle Brigate Rosse, che esaltasse le loro gesta più cruente e minacciasse il governo di sovversione e distruzione. All'ammiratore delle Br sarebbe andata già di lusso non essere condannato come membro di associazione sovversiva. A fronte di un cittadino albanese islamico che esalta le peggiori imprese del jihadismo, il tribunale di Bari ha però adottato, neanche coercitivamente, il principio della «autoeducazione» e gli ha consigliato, non imposto, «l'avvio di un percorso di studio dei valori della religione islamica che consenta di acquisire elementi di conoscenza che gli consentano di comprenderne gli insegnamenti senza confonderli con il fondamentalismo religioso e la propaganda islamista». Per fortuna, il consiglio buonista è accompagnato da misure restrittive: la sorveglianza speciale per due anni, l'obbligo di soggiorno nel Comune di residenza, del ritiro del passaporto e di ogni altro documento valido per l'espatrio. Il minimo concepibile. Pure, la Digos ha fornito al magistrato un'impressionante documentazione sull'attività di esaltazione del terrorismo jihadista da parte dell'albanese: nei suoi computer e smartphone, post che esaltano gli attentati di Parigi, foto che lo ritraggono mentre imbraccia un fucile mitragliatore, la condivisione di video di azioni terroristiche dell'Isis, di esecuzione di prigionieri, con commenti nei quali si afferma che il vero terrorismo è quello dei governi occidentali, la visualizzazione di un noto videogioco (Assassin's Creed) nel quale le voci originali sono sostituite da altre che esaltano l'Isis, la condivisione in rete di un video inneggiante alla conquista islamica dello Stato italiano e la condivisione on line dell'intervista del fondamentalista islamico inglese Anjem Choudary che minaccia l'Italia annunciando che l'Isis conquisterà Roma per affermarvi la Sharia. Non però attività di proselitismo e indizi sulla sua propensione a commettere reati, né ad arruolare foreign fighters o ad andare a combattere in Siria con l'Isis. Questo ha evitato all'albanese di incorrere nelle dure pene previste dalla nuova legge antiterrorismo del 2015.
   Resta però una certezza sconcertante: de-radicalizzare un esaltato filo-jihadista consigliandogli di «comprendere il vero Islam» è un non senso assoluto, così come chiedere assistenza alla comunità islamica barese perché lo segua in questo percorso. Ammesso e non concesso che a Bari vi siano imam solidamente preparati (il 90% degli Imam in Italia sono fai-da-te e assolutamente inadeguati), è evidente che nulla possono fare per scalfire le convinzioni sanguinarie ed eversive del «non condannato». È come affidare uno scatenato e violento No Tav alla «rieducazione» di un magistrato. Linguaggi, aspirazioni e strutture mentali incomunicabili.
   L'episodio è dunque sintomatico di una scabrosa realtà: in Italia non esiste una minima struttura per affrontare percorsi di de-radicalizzazione. E così in Europa. I giornali francesi sono pieni di report sul fallimento vergognoso dei tentativi fatti: Julien Revial, studente di 24 anni «rieducato», racconta in un libro la «cronaca di una disillusione»: la storia della sua cellula di de-radicalizzazione voluta da Hollande, dove c'erano «più giornalisti che famiglie», un puro spot pubblicitario per il governo. Il settimanale Marianne denuncia: su 12 centri di de-radicalizzazione annunciati dal governo, ne funziona uno solo, con tre ospiti sui trenta previsti!
   Un ritardo inconcepibile, emblema del disarmo culturale europeo a fronte del jihadismo, che il Parlamento italiano tenta ora di colmare con una legge che prevede, appunto, strutture ad hoc per la de radicalizzazione. Sarebbe opportuno che queste strutture usufruiscano dell'esperienza degli esperti del Marocco, che da anni hanno elaborato e praticato programmi seri, e funzionanti, per demotivare i jihadisti.

(Libero, 10 febbraio 2017)


Dimmi come ti chiami e ti dirò cosa sei. E soprattutto a chi appartieni.

La sterile battaglia dei toponimi per decidere se c'era prima la Giudea o la Palestina

di Claudio Vercelli

 
"E poi c'era lo Stato di Palestina e sono quindi arrivati i sionisti ad impossessari ingiustamente del suoi territori". A credere in questo falso storico sono ancora in tanti. In fondo, a conti fatti, si rivelano essere i più sprovveduti. Lo Stato non c'era. Punto e a capo. Semmai, una volta costretti a rettificare l"'errore", il fuoco della polemica si sposta dall'inesistente sovranità statale palestinese ai territori in quanto tali e, in immediata successione, al nome che essi storicamente portano con sé. Nella convinzione che la denominazione di una porzione di terra istituisca una legittimità politica che, con l'arrivo di "stranieri", ossia di estranei a quei luoghi, sarebbe stata in qualche modo conculcata. Se parliamo della mutevole geografia di un'ampia area che comprende, ai giorni nostri, sia lo Stato d'Israele sia le terre che si trovano ad occidente del fiume Giordano, non costituendo queste ultime parte d'esso bensì territorio conteso in un regime di temporanea amministrazione mista, allora i nomi che quei luoghi, e quelli ad essi attigui, hanno assunto nel corso del tempo, sono cambiati ripetutamente. Poiché denominare uno spazio di territorio è un atto politico dal momento in cui su di esso si istituisce una sovranità o la si rivendica (o la si immagina come esistente).
   Sulla parola "Palestina", sulla sua radice storica, si sta svolgendo da decenni un conflitto parallelo a quello delle armi. Per retrodatarla, nella convinzione che ciò rafforzi le pretese di una parte a scapito dell'altra. Brevemente, al netto dei rimandi biblici (Eretz lsrael, Pheleshet, Canaan), va ricordato che il primo richiamo secolare al suo nome, riferendosi all'intera area tra la Fenicia e l'Egitto, risale al quinto secolo ante era volgare, quando Erodoto nelle «Storie» chiamò la parte meridionale dell'area siriaca come «Palaistine». L'autore afferma che i suoi abitanti erano circoncisi, riferendosi in tutta plausibilità agli israeliti. Il termine fu invece usato in chiave politica, ossia per indicare una provincia ufficiale, solo nel 135, quando le autorità romane, dopo aver represso la rivolta di Bar Kokhba, cambiarono il nome della provincia di Giudea in «Syria Palaestina».
   L'imposizione del nome Palestina da parte dell'Imperatore Adriano era la sanzione definitiva della sconfitta ebraica sul piano militare e non il riconoscimento di una preesistente comunità politica non ebraica. Doveva quindi servire a occultare il carattere prevalentemente giudaico del territorio. Il termine arabizzato «Filastin» venne invece assunto dopo la conquista dell'VII secolo, anche se la segmentazione amministrativa e politica dei territori fece sì che non indicasse un'unità politica omogenea, semmai ripetutamente definita come Siria o Grande Siria. È con l'inizio del Ventesimo secolo che la parola iniziò ad assumere la fisionomia di endonimo (il modo in cui una collettività definisce il proprio territorio), tra gli arabi cristiani e con lo strategico avallo dei britannici. La «Palestina», da questo punto di vista, è una creazione della potenza mandataria. Detto questo, vogliamo fare un passo oltre o continuiamo con la sterile battaglia dei toponimi?

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, febbraio 2017)


Lo "Stato del Sinai" rivendica il lancio di razzi contro la città di Eilat

IL CAIRO - Il gruppo terroristico "Stato del Sinai" (gruppo affiliato allo Stato islamico) ha rivendicato il lancio di razzi contro la città israeliana di Eilat nel sud del paese. Lo riferiscono i media egiziani, secondo il messaggio di rivendicazione è stato pubblicato su alcuni profili del social network Twitter riconducibili al gruppo terroristico. "Grazie alla forza di Allah un gruppo di nostri insorti è riuscito a lanciare missili Grad contro un raduno di ebrei a Um al Rashrash (antico nome arabo di Eilat, ndr)", si legge nella rivendicazione. "Ebrei e crociati - continua il messaggio - devono sapere che questa guerra per procura non andrà a loro vantaggio". Nella sua rivendicazione lo Stato del Sinai ha promesso nuovi e peggiori attacchi contro Israele.

(Agenzia Nova, 9 febbraio 2017)


Si sposa con la bandiera della Lazio. La particolarità? Vive in Israele

di Arianna Di Pasquale

Torna l'appuntamento con la rubrica 'L'angolo del tifoso' in cui i veri protagonisti siete voi. Oggi è il turno di Liad Mazor, un israeliano che vive lontano da Roma ma che non conosce altri colori oltre il bianco ed il celeste. Non a caso, al suo matrimonio era presente la bandiera della prima squadra della capitale. Il suo sogno è quello di estendere il tifo laziale, un "qualcosa" di magico che lui stesso definisce impossibile da descrivere a parole.

- Da quanto tempo sei tifoso della Lazio?

  "Tifo la Lazio da quando avevo 14 anni, è stato amore a prima vista. La seguo a distanza da 22 anni".

- Qual è stata la prima partita che hai visto?

  "Lazio-Parma, vincemmo 2-1. Parlo dell'anno 1995.

- Cosa significa per te essere della Lazio?

  "Questa squadra significa tutto per me, è la mia vita. Io non posso vivere senza la Lazio, è nel mio cuore, nel mio sangue e nella mia testa 24 ore al giorno".

- Qual è stato il suo giocatore preferito? E quale preferisce attualmente?

  "Il mio preferito rimane sempre Paolo Di Canio, è veramente un tifoso prima di essere un calciatore. Attualmente mi piace molto Immobile, bravo tecnicamente e molto carismatico".

- Qual è il suo gol preferito?

  "Impossibile non pensare al gol di Lulic al 71?. Parliamo di un trofeo e, soprattutto, di un derby. Un'emozione unica".

- Quante volte riesce ad essere presente in Italia per seguire le partite?

  "Io sono all'Olimpico una o due volte l'anno, purtroppo sono lontano altrimenti non mi perderei neanche una partita della mia amata Lazio".

- Qual è stata l'ultima partita che ha visto all'Olimpico?

  "Sono stato pochi mesi fa a Roma a vedere Lazio-Sassuolo, ho portato fortuna: abbiamo vinto 2-1?

- Un matrimonio in pieno stile biancoceleste. Anche sua moglie è una tifosa?

  "Mia moglie è diventata lazialissima dal primo giorno che mi ha conosciuto. Impossibile non amare questi colori sei fai parte della mia vita. La Lazio, appunto, è la mia vita ed è diventata anche la sua".

(Laziopress, 10 febbraio 2017)


La redazione prende rispettosamente atto di questa strana passione di un israeliano per la Lazio, tiene comunque a precisare che la "prima squadra della capitale" porta il nome della capitale, cioè Roma.


Chiude il centro di stoccaggio dell'ammoniaca di Haifa

Su ordinanza della magistratura

GERUSALEMME - Il giudice della Corte per gli affari locali di Haifa, Sigalit Gatz-Ofir, ha emesso ieri, 8 febbraio, un ordine di chiusura dello stabilimento per lo stoccaggio dell'ammoniaca della città israeliana, in attesa di una nuova valutazione della sicurezza dell'impianto fissata per la giornata di oggi. L'ordine è una risposta all'appello della municipalità di Haifa per la chiusura dell'impianto, dopo che un rapporto pubblicato la scorsa settimana ha rivelato gravi deficit strutturali che metterebbero a rischio la vita di decine di migliaia di persone. Da anni attivisti e politici si battono per la chiusura dell'impianto, che lo scorso anno Hezbollah ha minacciato di colpire con i propri razzi. Un team di ricercatori, guidato dal professore Ehud Keinan dell'istituto Technion Israel of Technology, ha concluso che un attacco nemico all'impianto per lo stoccaggio di 12 mila tonnellate di ammoniaca causerebbe un disastro ambientale di proporzioni "apocalittiche", mettendo a rischio ben 800 mila persone.

(Agenzia Nova, 9 febbraio 2017)


Le due anime d'Israele

Hanno combattuto assieme nella guerra del 1973, oggi litigano sulle colonie. Parlano Barnea e Harel

di Giulio Meotti

 
                                  Israel Harel                                                                    Nahum Barnea
ROMA - Il viaggio verso l'Egitto cominciò molte ore prima, in una Tel Aviv illuminata come in tempo di pace. Due giovani paracadutisti israeliani, Nahum Barnea e Israel Harel, varcarono assieme il canale di Suez, nella battaglia che cambiò le sorti del medio oriente. Dieci giorni dopo l'attacco a sorpresa della Terza armata egiziana nel Sinai, Harel e Barnea, sotto il comando di Ariel Sharon, aggirarono le linee nemiche rovesciando le sorti della guerra. Sappiamo come andarono le cose: lo sfondamento delle linee israeliane, l'angoscia di non "tenere", di essere ricacciati in mare, come avevano promesso Nasser nel 1967 e Sadat nel 1972, il cedimento dell'Europa al ricatto arabo e l'invito a Israele di ritirarsi dai Territori, come se per Israele si trattasse di una provincia in più o in meno e non d'una questione di vita o di morte. Da allora i "Territori occupati" fiatano sul collo di Israele un enigmatico destino. Oggi Barnea e Harel sono su fronti opposti: il primo è il più famoso giornalista israeliano, firma di punta di Yedioth Ahronoth e arcinemico dei coloni e di Bibi Netanyahu; il secondo è l'abitante degli insediamenti più noto della stampa israeliana. Harel ha, infatti, una rubrica storica su Haaretz, il giornale della sinistra intellettuale, da quando perorò la causa delle colonie assieme ai due più grandi poeti israeliani, Nathan Alterman e Uri Zvi Greenberg.
  Barnea e Harel sono le due anime opposte di Israele, laico e pragmatico il primo, religioso e ideologico il secondo. Con loro parliamo dei territori su cui la Knesset, il Parlamento di Gerusalemme, ha appena varato la legge più controversa che legalizza le case costruite su terre contese ai palestinesi. "Non c'è visione né dibattito su cosa fare dei territori", dice al Foglio Barnea, che ha perso un figlio in un attentato durante la Seconda Intifada. "La domanda non è se queste case siano legali, ma un'altra: annettiamo i territori o ci ritiriamo? Non puoi lasciare che gli israeliani ci vadano a vivere mantenendo i territori sotto un regime di occupazione militare". Perché non sono stati annessi? "Paura della demografia e che il mondo ci condanni. Non siamo la Cina che annette il Tibet. Siamo una potenza regionale. Non possiamo permettercelo. Così abbiamo colonizzato e usato quelle terre come moneta di scambio". Israel Harel, per vent'anni presidente del Consiglio dei coloni, non potrebbe essere meno d'accordo. "Non puoi cambiare la terra come se fosse un'auto usata", dice Harel al Foglio. "Siamo sopravvissuti come popolo ebraico per tornare a Sion. Il nord Italia, il Trentino, apparteneva agli austriaci, ma nessuno di voi darebbe indietro quelle regioni".
  Entrambi i movimenti, "Pace Adesso" e i coloni, nacquero allora, sull'onda del terrore della guerra del 1973, convinti ambedue di portare il verbo a un paese allo sbando. Per la sinistra, il peccato d'Israele era "l'intossicazione del potere", i Territori, Moshe Dayan che diceva "fra la pace senza i territori e i Territori senza la pace io preferisco la seconda opzione". Per la destra religiosa, il peccato era l'ingratitudine, aver ignorato l'occasione offerta nel 1967 di ripristinare l'integrità della nazione. Fu allora che Yossi Beilin, il rampollo di una famiglia religiosa, abbandonò la kippà per diventare la colomba degli accordi di Oslo. In quei giorni, Israel Harel avrebbe compiuto il percorso inverso, andando a fondare Ofra, la prima colonia, nel cuore della Cisgiordania.
  Ieri tanti alleati di Israele, oltre ovviamente all'Unione europea e alle Nazioni Unite, hanno criticato duramente la legge che retroattivamente legalizza quattromila case ebraiche nei Territori. Secondo Nahum Barnea, lo status quo nei Territori non durerà a lungo: "E' questo il fallimento del governo. Da un lato il premier Netanyahu si dichiara a favore dei due stati, dall'altro il governo cede alla lobby dei coloni. La Knesset ha approvato una legge che apre la strada all'annessione. Preferirei un governo che si dichiara a favore dell'annessione. Ma l'annessione comporterebbe di dare la cittadinanza israeliana a due milioni di palestinesi. Attualmente i palestinesi vivono sotto una 'autonomia', ma con l'esercito che controlla i territori. Questo non può continuare all'infinito. L'annessione sarebbe la nascita di uno stato unico". Cosa sono per lei, i territori? "Li vedo dalla mia finestra a Tel Aviv, sono vicini, non è come andare in Abissinia dall'Italia. E' vero quindi che ritirarsi sarebbe un rischio per la sicurezza, ma restare è un rischio maggiore. I territori sono diventati un problema, più che una risorsa. Israele è un grande successo dopo settant'anni, la vita qui è migliore che in molti stati occidentali per tanti aspetti, ma il conflitto con i palestinesi mette a rischio questi successi".
  Israel Harel è nato Hasenfratz prima della Shoah in quella parte di Romania nota come Bucovina del nord, la terra del poeta Paul Celan. "Se smetti di pedalare, cadi", dice Harel a giustificazione che gli insediamenti vadano avanti. "Dobbiamo insediare altri ebrei, costruire, è questo il sionismo. Quarant'anni fa, quando fondai Ofra, sognavamo di portarci un milione di ebrei e di edificare dieci città. Oggi ci dobbiamo accontentare di mezzo milione di ebrei e di tre, quattro grandi città, come Maaleh Adumim. Nahum Barnea appartiene a quegli ebrei che hanno la mentalità dell'esilio. Dopo tanti anni, il senso ebraico di inferiorità sarebbe dovuto estinguersi, invece sopravvive. Senza la Giudea e la Samaria, Israele non ha diritti ad alcuna terra. I territori sono solo un aspetto di una più grande questione: siamo venuti qui come rifugiati o come popolo sovrano? In molte parti della Diaspora oggi un ebreo sarebbe più al sicuro che in Israele. Siamo qui per avere un posto sicuro? Allora è meglio andarcene. Israele è in pericolo. E non siamo venuti a vivere in un ghetto".
  Harel non è d'accordo con Barnea neppure sull'annessione totale: "Dobbiamo annettere soltanto le zone dove ci sono gli insediamenti. Poi, un giorno, si concretizzerà l''opzione giordana': la monarchia di Hussein si trasformerà in una repubblica a maggioranza palestinese e creeremo un corridoio con la Cisgiordania".
  Ma come farete a convincere l'Olp? "Ci penseranno un milione di ebrei che vivranno nei Territori a convincerli. In Tanzania ho visto leoni divorare prede deboli, ma arretrare di fronte a un altro animale feroce. Non dobbiamo esitare, il terrorismo continuerà, ma il progetto palestinese fallirà. Un giorno i palestinesi capiranno che non torneranno mai a Haifa, Giaffa, Acco. Ci sono ventidue stati arabi e un solo stato ebraico. Deve rimanere così. La sinistra di Barnea sogna il giorno in cui i palestinesi si accontenteranno della Giudea e della Samaria. Non lo faranno mai".
  Molti in Israele ritengono che, così come c'è una cospicua minoranza araba nello stato ebraico pre-1967, non dovrebbe esserci problema se israeliani intendono restare a vivere in uno stato palestinese. "Scordatevelo", conclude Harel. "Non vivremo mai sotto un regime dell'Isis o di Hamas. Verremmo massacrati come accadde agli ebrei a Gerusalemme nel 1921 e a Hebron nel 1929. Soltanto i pacifisti e gli scrittori scollegati dalla realtà, come Abraham Yehoshua, possono pensare che gli ebrei rimarrebbero sotto controllo palestinese. Nessun ebreo sano di mente lo farebbe. Siamo venuti qui per essere indipendenti, altrimenti sarebbe meglio tornare a vivere in Italia".

(Il Foglio, 9 febbraio 2017)


“Avaro”

di Adriano Sofri

Ieri un giovane interlocutore curdo che prova ad arrangiarsi con l'inglese, come me del resto, a un certo punto mi dice di un suo collega di lavoro che è "jew". Jew? - chiedo stupito, perché il contesto non gli si adatta. Vuole dire che è molto attaccato ai soldi, dice. Voleva dire avaro. Qualcuno gli ha detto che si dice così. Non si dice così, obietto, e provo a spiegargli perché. Gli consiglio di tradurre "mean", o "niggard". Più tardi controllo il dizionario italiano-inglese, alla voce Avaro. Il dizionario italiano-inglese WordReference.com, largamente consultato, recita: "Avaro (agg) (tirchio, spilorcio, taccagno) mean, cheap, stingy, miserly, avaricious". E più sotto, nelle esemplificazioni: "avaro found in these entries: ebreo - pidocchio - pitocco - taccagno - tirato - tirchio". "Ebreo" è la prima entry, magari solo per l'ordine alfabetico. (Verificate, per favore. Presto, perché spero che la mia segnalazione faccia cancellare questa spicciola infamia).

(Il Foglio, 9 febbraio 2017)


Verifica



Parashà della settimana: Beshalach (Fece partire)

Esodo 13:17-17:16

 - "Quando il faraone fece partire (be-shalach) il popolo ebraico" (Es. 13.17) questo si ritrovò rapidamente nelle vicinanze del mare minacciato dall'esercito egiziano lanciato al suo inseguimento. Protetto dalla colonna di fuoco, gli ebrei, durante la notte, attraversano il mare all'asciutto essendosi le acque ritirate per volontà di D-o Benedetto. L'armata egiziana nella sua cieca precipitazione di raggiungere la preda, continua il suo inseguimento e viene travolta e sommersa dalle acque del mare che si richiudono su di loro.
Miriam, sorella di Moshè, innalza un inno di lode al Signore d'Israele per il miracolo ricevuto con queste parole: "Chi è come Te, tra le Divinità dei popoli" (Es. 15.11). Secondo un midrash queste parole sono state ascoltate e ripetute dal faraone che si pentì (teshuvà) del suo comportamento verso il popolo ebraico, nel riconoscere l'esistenza di un Unico Creatore.
L'antisionismo del faraone ha un limite a differenza dell'antisionismo di Amalek, che attacca il popolo ebraico alle spalle appena uscito dalla terra d'Egitto debole e indifeso. Riguardo a questo nemico storico d'Israele, la Torah aggiunge: "il Signore combatterà contro Amalek di generazione in generazione, affinché la sua memoria sia cancellata da sotto il cielo" (Es. 17.15).
Difatti ogni qualvolta gli ebrei hanno cercato di costruire la propria Nazione, puntuale è stata la presenza di Amalek ad impedirlo e fino ai nostri giorni. Cosa dire della avversione delle Nazioni verso Israele?
Ma gli ebrei invece di prestare "fede" a queste parole del Signore, si ribellarono a Moshè dicendogli: "Non vi erano abbastanza cimiteri in Egitto per averci trascinato a morire nel deserto?" (Es. 14.11).
Rashì spiega che coloro che accusavano Moshè erano la schiuma nera della "Erev rav" (lett. Grande miscuglio) uscita dall'Egitto insieme al popolo e capeggiata da Datan e Aviram, delatori di Moshè presso il faraone. Attraverso questi due personaggi la Torah vuole mostrarci l'identità degli "ebrei dell'esilio". E' una malattia che fa cadere gli ebrei nella psicosi e nella paura, per cui è meglio essere schiavi del potere del faraone che liberi nella propria terra. Datan e Aviram sono usciti dall'Egitto, ma incapaci di far uscire l'Egitto dalla loro coscienza, essendo l'esilio presente nella loro testa "malata". E' l' esilio "mentale" dell'ebreo, che pur trovandosi in terra d'Israele, è rimasto ancorato al desiderio della golà (esilio). Questo insegnamento è di una bruciante attualità. Datan e Aviram un tempo schiavi del faraone oggi sono schiavi del potere politico-religioso delle Nazioni del mondo, assimilati e senza memoria. Sono costoro le vittime preferite dal cosmopolitismo pacifista (Occidente) e dalle feroci dittature delle società islamiche (Iran e compari).

La Manna e lo Shabat
"E Moshè disse loro: «Questo è il pane che il Signore vi ha mandato per cibo»" (Es. 16.15). Era la manna che cadeva dal cielo.
I figli d'Israele ne raccolsero un "omer" a testa e Moshè ordinò che nessuno ne lasciasse avanzare fino al giorno dopo. Ora avvenne che nel sesto giorno (venerdì) gli ebrei ne raccogliessero una doppia razione per osservare il riposo sabatico. "Domani è giorno di riposo è il Sabato del Signore" (Es. 16.23).
Il sabato era già rispettato in Egitto secondo quanto riportato negli scritti di Schemoth Rabbà. Il popolo ebraico iniziò a conoscere lo shabat proprio in Egitto inteso come un riposo fisico dal duro lavoro di costruire mattoni. A questa dimensione materiale si aggiunge ora anche quella spirituale legata alla liberazione dalla schiavitù, liberi cioè di servire D-o. Questo giorno che è la pietra angolare del Giudaismo, alla fine della nostra parashà viene menzionato tre volte. Il sesto giorno (venerdì) quando cade una doppia porzione di manna, l'avvertimento di Moshè al popolo che nel giorno del sabato la manna non cadrà ed infine il legame tra la manna (nutrimento) e il sabato. Questi tre aspetti si ritrovano ancora oggi nelle nostre tefilloth (preghiere). F.C.

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 - Il popolo parte: lascia l'Egitto e si avvia in direzione di Canaan. Il viaggio potrebbe avvenire tutto sulla terra ferma, senza nessun passaggio su acqua. Hanno già fatto un po' di strada quando Dio ordina a Mosè di tornare indietro: vuole che il popolo vada a mettersi in una posizione "fra Migdol e il mare" (Es. 14:2). Il fatto indubbiamente è strano, perché adesso il popolo se vuole continuare il viaggio senza tornare indietro dovrà attraversare il mare. Come mai?

Dio mette alla prova sia gli egiziani, sia gli ebrei.
"Il Faraone dirà dei figli d'Israele: «Si sono smarriti nel paese; il deserto li tiene rinchiusi»" (Es. 14:3), dice Dio a Mosè. «Sono in trappola», penserà il Faraone, e questo gli farà venire la voglia di rincorrerli e farli tornare indietro. Si confermeranno così le sue malvagie intenzioni verso gli ebrei, nonostante il tremendo giudizio ricevuto. "Ma io trarrò gloria dal Faraone e da tutto il suo esercito, e gli egiziani sapranno che io sono l'Eterno" (Es. 14:4). Ancora una volta, il Signore vuole farsi conoscere.
Anche gli ebrei però sono messi alla prova. Avevano visto coi loro occhi tutta la potenza di Dio spiegata a loro favore, ma quando vedono arrivare l'esercito egiziano dimenticano tutto: "... ebbero una gran paura e gridarono all'Eterno" (Es. 14:10). Gridano a Dio, certo, ma invece di aspettare la risposta passano subito a prendersela con Mosè. Possiamo immaginare quello che gli avranno detto, in uno stile tipicamente ebraico: "Te l'avevamo detto noi: hai messo la spada in mano al Faraone per ucciderci. D'accordo, lui non è riuscito a farlo mentre eravamo nel paese, ma si prepara a farlo adesso che siamo usciti"; "... e dissero a Mosè: «Mancavano forse tombe in Egitto, per portarci a morire nel deserto?» Che cosa hai fatto, facendoci uscire dall'Egitto? Non è forse questo che ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare, che serviamo gli egiziani? Poiché meglio era per noi servire gli egiziani che morire nel deserto" (Es. 14:11-12).
Il popolo voleva essere liberato dalla sofferenza, non dalla schiavitù. E perché avrebbe dovuto? liberi? di fare che? di andarsi a mettere in un deserto e chiedersi ogni giorno come sfamare una massa di centinaia di migliaia di persone e di bestie? per andare dove? in un paese dove gli abitanti ti accolgono a frecciate?
Un simile dilemma ha tormentato spesso il popolo ebraico: restare o partire? Qui si sta male, ma seguire audaci condottieri che promettono decoro e libertà potrebbe farci stare ancora peggio.

Tutti sono costretti a dare gloria a Dio
La prova alla fine non è stata superata, né dagli egiziani né dagli ebrei, e tuttavia, sia gli uni che gli altri alla fine sono costretti a dare gloria a Dio.
"Fuggiamo d'innanzi ad Israele, perché l'Eterno combatte per loro contro gli egiziani" (Es 14:25), dicono i primi, riconoscendo la sovrana potenza di Dio.
"E Israele vide la gran potenza che l'Eterno aveva spiegata contro gli egiziani; il popolo dunque temette l'Eterno e credette nell'Eterno e in Mosè suo servo" (Es. 14:31), dicono i secondi, manifestando una fede in Dio che viene sempre dopo averlo visto all'opera, mai prima.
Subito dopo aver cantato insieme a Mosè un meraviglioso canto trionfale all'Eterno per la distruzione dell'esercito egiziano (Es. 15:1-21), il popolo si mette in marcia, e alla prima tappa incontra subito il primo problema: non trova l'acqua. Un problema non piccolo, indubbiamente, ma che il Signore in questo caso risolve subito facendo arrivare l'acqua attraverso Mosè. Allo stesso tempo però dona al popolo un'altra cosa: "Quivi l'Eterno dette al popolo una legge e una prescrizione, e lo mise alla prova" (Es. 15:25). E' un passaggio importante, perché per la prima volta il Signore si rivolge al popolo facendogli una promessa condizionata:
"Se ascolti attentamente la voce dell'Eterno, che è il tuo Dio, e fai ciò ch'è giusto agli occhi suoi e porgi orecchio ai suoi comandamenti e osservi tutte le sue leggi...", è la condizione posta al popolo; a cui segue l'impegno di Dio: "... io non ti manderò addosso alcuna delle malattie che ho mandate addosso agli egiziani, perché io sono l'Eterno che ti guarisco" (Es. 15:26).
Qualcuno dirà che come promessa non è una gran cosa, e si chiederà se la condizione posta non sia troppo pesante. Quanti e quali saranno i comandamenti da osservare come condizione? Qualcuno penserà ai 613 precetti della Torah - che a dire il vero non sono pochi - e si chiederà se la condizione posta non sia eccessiva rispetto alla promessa: in fondo, il diritto alla salute è una rivendicazione legittima al giorno d'oggi...
Qualcun altro spiegherà che ordini e divieti devono essere considerati prove di ubbidienza, puro e semplice segno di sottomissione della propria volontà a quella di un Altro. Se è così, è chiaro che più l'ordine è strano, irrazionale, privo di scopo, più è adatto a mettere alla prova la sottomissione dell'esaminato. L'esecuzione puntigliosa dell'ordine servirebbe dunque a dare prova di "obbedienza cieca, pronta e assoluta", come scriveva Giovannino Guareschi nelle sue satiriche vignette?
Diciamo subito che non è così, se si rimane sul terreno biblico. I profeti si scaglieranno più volte contro la pura e semplice osservanza formale di precetti codificati: "Che m'importa la moltitudine dei vostri sacrifici? dice l'Eterno; io sono sazio d'olocausti di montoni e di grasso di bestie ingrassate; il sangue di tori, di agnelli e di capri, io non lo gradisco" (Isaia 1:11).

La prova di Dio non è un test attitudinale
Il Signore non mette alla prova il popolo dandogli un ordine per sapere quello che è capace di fare; il Signore comincia col fare qualcosa di benefico; poi promette qualcosa di benefico; poi dà un ordine per vedere se il popolo è grato per quello che ha fatto e crede in quello che ha promesso.
Dio fa così quando manda la manna come cibo e ordina di prenderne ogni giorno soltanto il necessario e di astenersi dal prenderne in giorno di sabato. "«Riflettete che l'Eterno vi ha dato il sabato; per questo, nel sesto giorno egli vi dà del pane per due giorni; ognuno stia dov'è; nessuno esca dalla sua tenda il settimo giorno». Il popolo dunque si riposò il settimo giorno" (Es. 16:29-30).
Il comandamento del sabato, che qui compare per la prima volta e come unico precetto fino all'arrivo al Sinai, non è una difficile opera meritoria da compiere con grande fatica, ma una prova di fede. E' la fiducia in Lui che il Signore chiede al suo popolo, perché è in questo modo che si esprime l'asimmetrico rapporto d'amore tra Dio e la sua creatura.
Anche il resto dell'avventura di Dio con il suo popolo deve essere visto in questa chiave. Dopo gli incidenti legati alla fame e alla sete, compaiono per la prima volta nuovi nemici: gli amalechiti. Ancora una volta Dio mette alla prova la fede del popolo, ma in modo diverso da prima. Quando l'esercito egiziano si avvicinava minacciosamente, Mosè aveva detto al popolo: "Non temete, state fermi, e vedrete la liberazione che l'Eterno compirà oggi per voi" (Es. 14:13), dunque un esercizio di fede passiva, uno dei più tremendi. In questo caso invece gli ebrei devono combattere, ma la vittoria non dipende da loro: l'esercito guidato da Giosuè vince quando Mosè tiene le mani alzate in preghiera e perde quando le abbassa. In questo caso il Signore impone al popolo un esercizio di fede attiva e comunitaria: una parte deve combattere, una parte deve pregare.
L'opera di istruzione del popolo da parte di Dio continua. M.C.

  (Notizie su Israele, 9 febbraio 2017)


Lancio di razzi dal Sinai contro Israele

Lo Stato Islamico ha rivendicato il lancio di razzi dall'Egitto a Israele avvenuto nella notte. Secondo quanto riferiscono i media di Gaza rilanciati dal Jerusalem Post, la propaggine dell'Is attiva nel Sinai sarebbe responsabile della raffica di razzi lanciati contro Eilat, nel sud dello Stato ebraico.
Tre dei quattro razzi lanciati dal Sinai sono stati intercettati dal sistema israeliano anti missile Iron Dome, un quarto e' esploso in un'area disabitata. Secondo i media di Gaza, i razzi lanciati sarebbero stati in tutto sette.
In risposta all'attacco le forze israeliane all'alba hanno condotto un raid aereo al confine tra la parte meridionale della Striscia di Gaza e l'Egitto. Nel raid, secondo fonti mediche palestinesi e testimoni, due palestinesi sono rimasti uccisi e altri cinque feriti. I caccia israeliani hanno colpito un tunnel sotterraneo utilizzato per il passaggio di merci e persone.

(Adnkronos, 9 febbraio 2017)


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Israele: non abbiamo effettuato alcun raid su Gaza nella notte

Le forze armate israeliane negano di aver condotto la scorsa notte alcun raid su Gaza, come invece affermano fonti palestinesi, lamentando la morte di due civili. Lo riferisce la radio militare. Intanto la normalità è tornata ad Eilat (Mar Rosso) dopo che mercoledì quattro razzi sono stati sparati dal Sinai egiziano nella sua direzione e sono stati intercettati dal sistema Iron-Dome.

(TGCOM24, 9 febbraio 2017)


Casa Bianca: Fratelli musulmani e Guardie della Rivoluzione iraniane nella "lista nera"?

NEW YORK - I consiglieri del presidente Usa Donald Trump stanno discutendo un decreto che comporterebbe l'iscrizione dei Fratelli musulmani nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali del dipartimento di Stato Usa. I Fratelli musulmani, organizzazione sociale e politica che conta milioni di sostenitori, è uno dei più vecchi e influenti gruppi islamisti del Medio Oriente. Ufficialmente, ha rinunciato alla violenza decenni fa: nel 2011 ha conquistato democraticamente il potere in Egitto con Mohamed Morsi, deposto dalle Forze armate nel 2013. Gruppi affiliati allo Stato islamico sono parte integrante del sistema politico in paesi come Tunisia e Turchia. L'ex presidente Usa, Barack Obama, ha resistito a lungo alle pressioni tese a derubricare l'organizzazione a gruppo terroristico. I Fratelli musulmani, però, professano un modello di società dominato dalla legge islamica, e alcune delle sue derivazioni - primo tra tutti il gruppo palestinese Hamas - hanno un orientamento decisamente più radicale. Alcuni dei consiglieri del presidente Usa, scrive il "New York Times", ritengono i Fratelli musulmani una setta radicale che da anni si infiltra nel tessuto sociopolitico Usa per diffondervi la Sharia.
   Se l'amministrazione Trump iscrivesse davvero i Fratelli musulmani alla lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, il quadro delle relazioni Usa nel Medio Oriente subirebbe quasi certamente un mutamento radicale. I leader di alcuni paesi autocratici come l'Egitto e di monarchie come gli Emirati Arabi, che da anni combattono quell'organizzazione politica, insistono da tempo perché Washington "metta al bando" il partito islamista. I Fratelli musulmani, però, sono un vero e proprio pilastro dell'ordine sociale e politico in diversi altri paesi musulmani. Il piano della Casa Bianca fa il paio con un secondo atto a classificare come organizzazione terroristica anche il Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica dell'Iran: questo piano, afferma il "New York Times", godrebbe a Washington di numerosi sostenitori.
   Inoltre, l'amministrazione Trump sta esaminando una proposta che porterebbe all'inserimento del Corpo delle Guardie Rivoluzione islamica dell'Iran nella lista delle organizzazioni terroristiche del dipartimento di Stato. Lo riferiscono fonti vicine all'amministrazione riprese dal quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Stando alle fonti, diverse agenzie governative Usa sono già state consultate in merito alla proposta, che se si concretizzasse inasprirebbe ulteriormente le restrizioni e le misure sanzionatorie già varate da Washington nei confronti del più potente corpo militare iraniano. Se adottata, però, tale decisione rischierebbe anche di causare effetti destabilizzanti nel quadro già compromesso della sicurezza regionale mediorientale. Il Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche, ricorda il quotidiano israeliano, è di gran lunga la più potente organizzazione militare dell'Iran, ed esercita il controllo su grandi partecipate dell'economia di Teheran e una rilevante influenza nel suo sistema politico.

(Agenzia Nova, 8 febbraio 2017)


Sul Golan, in Israele, trovato un nuovo teatro romano

di Stefano Sassi

Resti del teatro romano trovato nella città di Sussita (Hippos)
Un grande teatro romano è stato scoperto in uno scavo archeologico condotto dall'Università di Haifa nella città di Sussita (Hippos) sulle alture del Golan.
Il teatro si trova al di fuori delle mura della città vecchia, cosa che ha portato ricercatori ed archeologi a credere che è stato utilizzato principalmente per riti religiosi, piuttosto che come un luogo di intrattenimento. Nuovi scavi archeologici si stanno moltiplicando in tutto Israele soprattutto in prossimità delle città romane, che a loro volta seguivano le costruzioni lasciate soprattutto da Alessandro Magno, e si vengono a scoprire nuove verità storiche che arricchiscono la cultura del paese e creano nuovi siti da visitare.
Gli scavi al di fuori della città di Hippos (che vuol dire cavallo) negli ultimi anni sono diventati "un giallo", come ha affermato Michael Eisenberg dell'Università di Haifa, che è responsabile del gruppo di lavoro presente sul Golan, e che ha presentato la nuova scoperta alla conferenza annuale dei ricercatori presso l'Istituto Zinman di Archeologia.
"In primo luogo abbiamo trovato una maschera del dio Pan, poi la porta monumentale che conduce a quello che abbiamo iniziato a considerare che fosse un grande complesso pubblico, probabilmente un santuario. E ora, quest'anno, abbiamo trovato un bagno pubblico e un teatro nello stesso luogo, entrambe le strutture del periodo romano potrebbero essere associate con la medicina del dio Asclepio o agli dei della natura come Dioniso e Pan. Tutti questi ritrovamenti suggeriscono che un grande santuario era al di fuori delle mura della città", una struttura che cambia tutto ciò che i ricercatori sanno di Sussita.
E' del tutto possibile che migliaia di visitatori vennero a teatro su queste colline non per vedere l'ultimo spettacolo in città, ma a partecipare a riti in onore di uno degli dei del pantheon greco-romano. A quei tempi Sussita o Hippos era una città di primo piano nella zona a est del Mar di Galilea e le alture del Golan. il ritrovamento del teatro testimonia l'importanza della città stessa, posta in una zona, il Golan, ai confini con il Libano e la Siria, che anche in un recente passato, per altre ragioni, è stata strategica. Ora questa area di Sussita ( che è una parola ebraica) è diventata un parco nazionale tutta tesa allo sviluppo del turismo culturale.

(Itinerari nell'arte, 8 febbraio 2017)


Assordanti silenzi

di Francesco Lucrezi

La battaglia legale in corso negli Stati Uniti intorno alla validità del decreto firmato dal Presidente Trump (che, com'è noto, impedirebbe ai cittadini di sette Paesi islamici di fare ingresso negli States per 90 giorni), si presta a diverse considerazioni.
   Nel merito e nella forma del provvedimento, dico subito che lo considero sbagliato, controproducente e illegittimo. La lotta al terrorismo non si fa certo adottando la stessa rozza e violenta mentalità dei terroristi e degli estremisti, che considerano gli uomini nemici da colpire esclusivamente sulla base della loro nazionalità, religione o etnia. Trump fa bene a contrastare tutti i Paesi che foraggiano la violenza e il terrore, ma, se vuole davvero farlo, sbaglia completamente bersaglio prendendosela con i loro cittadini, anche quelli che bussano alla porta dell'America per fuggire dai loro regimi oscurantisti, in cerca di libertà e sicurezza. Niente fa più il gioco dei violenti che la logica brutale del muro contro muro, senza alcuna sfumatura e alcun distinguo.
   In un Paese democratico, poi, il Presidente non è un padrone di casa che decide lui, di volta in volta, a chi aprire l'uscio e a chi no. Queste cose, in uno stato di diritto, le decide la legge, non il governo, e neanche il potentissimo Presidente degli Stati Uniti è al di sopra della legge. Sto quindi dalla parte del Procuratore dello Stato di Washington, Bob Ferguson, che ha chiesto di bloccare il provvedimento, del giudice di Seattle, James Robart, che ha accolto il ricorso, e della Corte di Appello di Washington, che ha respinto il contro-ricorso presentato dal Dipartimento di Giustizia, contro la sentenza di Robart. E gli insulti contro i magistrati (il "cosiddetto giudice…"), pronunciati dall'incollerito Trump - che a noi italiani suonano tristemente familiari -, rafforzano la loro ragione, e il torto del Presidente.
   Ciò detto, mi dissocio nettamente dal coro universale di critiche a Trump, per un semplice motivo. Non ha nessun titolo morale per criticare il provvedimento del Presidente americano chi resta in assordante silenzio - come è stato opportunamente ricordato - innanzi alla scandalosa vergogna di ben 16 Paesi che impediscono - sulla base non di ragioni di sicurezza, per quanto opinabili, ma per motivi squisitamente razzisti - di entrare nei loro confini ai cittadini dello Stato di Israele. Una vergogna a cui si aggiunge l'altra, ancora più eclatante, costituita dal fatto che alcuni di questi Paesi impediscono l'ingresso non solo ai cittadini israeliani, ma anche a chiunque, di una qualsivoglia nazionalità, porti sul proprio passaporto un timbro dell'aeroporto Ben Gurion. Una misura disgustosa, che discrimina, tra l'altro, anche i cittadini italiani (moltissimi dei quali si recano ogni giorno in viaggio in Israele), e i Paesi democratici che la subiscono passivamente, senza neanche fiatare (tra cui, ovviamente, l'Italia), danno una tale prova di cinismo, viltà e doppia morale che dovrebbero solo andare a nascondersi, altro che dare le pagelle a Trump o a Putin.
   C'è un altro posto, poi, che si chiama Gaza, dove i cittadini israeliani sono invece sempre benvenuti: vengono infatti accolti a braccia aperte, e trattenuti per lunghi anni, o per sempre - anche se si tratta, come dimostrano le notizie di questi giorni, di giovani etiopi o beduini che soffrono di disturbi psichici, e che sono entrati nella striscia perché hanno perso la strada -, come una preziosissima risorsa, vero e proprio "oro umano", utile a intavolare estenuanti ma lucrosissime trattative per il loro rilascio, attraverso le quali estorcere al nemico, come scambio, quanti più tagliagole possibile. Ma anche su questo, ovviamente, il mondo tace.
   Tutto questo non mi porterà certo a mutare il mio giudizio sulle scelte del Presidente americano, le sue logiche e il suo linguaggio. Ma, sia chiaro, le mie critiche le farò sempre in beata e assoluta solitudine, mille miglia lontano dai chiassosi e affollatissimi cortei degli ipocriti manifestanti anti-Trump.

(moked, 8 febbraio 2017)


I nuovi insediamenti in Palestina svelano l'ipocrisia contro Israele

Indignazione a senso unico

di Fiamma Nirenstein

 
Eppure è difficile abituarsi a un atteggiamento saccente e punitivo quando guarda con un occhio solo. Come è possibile che l'Ue abbia scoperto una improvvisa efficienza cancellando sine die per punizione il summit previsto con Israele? Come può accadere che nelle stesse ore né l'Unione Europea, né l'Onu, né il governo francese o quello inglese facciano qualcosa di fronte alla notizia che il governo siriano ha impiccato 13mila dissidenti; come mai nessuno chiede di che si tratta quando il capo degli hezbollah Nasrallah annuncia una «grande sorpresa» a Israele proprio mentre si viene a sapere che aveva preparato eccidi di bambini ebrei in Brasile; come può capitare che nessuno da Bruxelles dica una parola all'Iran che spiega che può colpire Tel Aviv in 7 minuti. E invece tutti trovano il fiato per condannare una legge votata alla Knesset che consente di conservare certi «outpost», ovvero parti periferiche di insediamenti, costruite su terreni di proprietà palestinese? Tutta Europa si è alzata in piedi abbaiando, e sembra però che nessuno abbia letto la legge. Che detta «regolamento per gli avamposti» potrebbe essere obliterata dall'Alta Corte di Giustizia, cui hanno promesso di denunciarla i partiti di opposizione: presto altrimenti, dicono, la Corte dell'Aia criminalizzerà Israele. I palestinesi promettono azioni immediate. Netanyahu, che si trovava in Inghilterra da Theresa May mentre la legge veniva votata, avrebbe preferito rimandare il voto a dopo l'incontro con Donald Trump previsto per il 15 febbraio. Ma bruciava lo sgombero di Amo-na, appena avvenuto, e il voto c'è stato.
   I settler lo vedono come un evento che stabilisce un diritto anche su territori controversi. La legge stabilisce che si sospenda per un anno l'ordine di smantellamento per 6 outpost contrastati, che per ordine della Corte dovevano andare distrutti, e intanto l'Amministrazione civili indaghi. Gli ordini possono venire sospesi tuttavia solo se le costruzioni sono state fatte in buona fede e con l'approvazione dello Stato. Sono previste compensazioni per gli ex proprietari palestinesi del 125 per cento del valore o a scelta della sostituzione con altra terra. I palestinesi la chiamano una legge che «legalizza il furto», il mondo arabo gli va dietro, l'inviato dell'Onu Nickolay Mladenov dice che «la legge stabilisce un principio molto pericoloso» perché apre le porte all'annessione totale della West Bank, il ministro inglese Tobias Ellwood dice che la legge «minaccia la soluzione di due Stati» e il ministro degli Esteri francesi Jean Marc Ayrault non ha fatto mancare la sua condanna. Ma si consenta di dire che migliaia di case, secondo Eugene Kontorovitch esperto di diritto internazionale, sono state costruite sul latifondo, terre date via dalla monarchia Ashemita durante la presenza giordana là, dal 1949 al 67. Poche famiglie sono mai venute a richiedere la terra in questione negli anni: sotto la legge giordana, la questione della proprietà sarebbe in gran parte caduta in prescrizione. Se poi ci fosse stata una vendita segreta agli ebrei, sarebbe stata punita con la pena di morte, e quindi nessuno la confermerà. Non solo: la terra intanto è diventata abitata e produttiva, e per esempio alcuni settler di Amona accettano la cacciata da casa, ma non quella della terra coltivata e hanno fatto ricorso. L'occupazione turca di Cipro permise ai settlers turchi di restare nelle proprietà greche nel 2005. Se si pensa poi allo sgombero di Gaza, alle serre fatte a pezzi, alle case e alle sinagoghe distrutte in poche ore col fuoco e il piccone una volta sgomberati i settler, è difficile capire il sacro fuoco europeo.
(il Giornale, 8 febbraio 2017)


“... è difficile capire il sacro fuoco europeo”. Si capisce, si capisce: è sacro odio antiebraico. Si legga l’articolo che segue. M.C.


Il dilemma d'Israele: insediarsi o ritirarsi dalle terre del 1967?

Un capo dei coloni e uno della sinistra bohème a confronto.

di Giulio Meotti

ROMA - "La domanda è una sola: la Giudea e la Samaria sono la nostra Alsazia e Lorena o sono territori occupati?". Si capisce perché Mordecai Richler uscì frastornato dall'incontro con Elyakim Haetzni, ritratto nel libro "Quest'anno a Gerusalemme" (Adelphi). Haetzni passa dalla musica di Schubert agli attentati dell'Intifada nella stessa frase. E' nato con il nome di Georg Bombach a Kiel, in Germania, prima dell'avvento del nazismo, ferito nella guerra arabo-israeliana del 1948 e di casa a Hebron da mezzo secolo, dov'è l'intellettuale laico di riferimento dei coloni israeliani. Quando inizia a parlare non si ferma più. Lo abbiamo intervistato dopo che lunedì la Knesset, il Parlamento israeliano, ha legalizzato gli insediamenti ebraici su terre private palestinesi. In cambio, i palestinesi possono scegliere fra risarcimento e appezzamento alternativo. Per la prima volta, Israele legifera sulla presenza israeliana oltre la Linea verde, quei Territori che chiamano "Giudea e Samaria" e che il mondo considera "occupati". Ne parliamo con due intellettuali opposti. Uno è Haetzni, editorialista di Yedioth Ahronoth, avvocato, ex deputato. L'altro è Yossi Klein Halevi, corrispondente di New Republic, ricercatore allo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme e fra gli esponenti di punta di quella bohème intellettuale israelo-americana.
  "La legge varata al Parlamento israeliano è un punto di non ritorno", dice al Foglio Elyakim Haetzni, uno dei padri storici degli insediamenti israeliani. "Dopo la guerra del 1967, Meir Shamgar, futuro capo della Corte suprema, tenne una conferenza sull'applicazione delle convenzioni internazionali in Giudea e Samaria: 'Il territorio conquistato non sempre diventa occupato. La Francia avrebbe dovuto agire in Alsazia-Lorena in conformità con le regole della Convenzione dell'Aia. Come è noto, la Francia ha trattato l'Alsazia-Lorena come territorio 'liberato'". Continua Haetzni: "Gli inglesi ebbero il Mandato britannico non per farci una colonia, ma al fine di preservarla per il popolo ebraico. Oggi Israele sta ripristinando quei diritti storici. Queste terre furono prese con la forza dagli arabi nel 1948, Israele li ha ripresi in un'altra guerra nel 1967 e oggi ci siamo noi ad amministrarli. Per mezzo secolo, Israele non ha saputo cosa fare di queste terre. Da qui la contraddizione. Oggi ci sono quasi mezzo milione di ebrei nei territori. Indietro non si torna".
  Israele si ritirerà mai dai territori? "Neville Chamberlain era il ritratto della naìveté, ci ha dato Monaco '38, ma non ha commesso due volte lo stesso errore e ha dichiarato guerra alla Germania. Pensava di placare Hitler dandogli la Cecoslovacchia. Così abbiamo fatto noi portando via i coloni di Gaza. Noi non faremo la fine della Cecoslovacchia". Due giorni fa, Yossi Klein Halevi ha scritto sul Wall Street Journal un lungo articolo sul dilemma israeliano. "Io vivo qui da 35 anni e come ebreo mi sento più a casa a Hebron che a Tel Aviv", dice Halevi al Foglio. "Ma in Giudea e Samaria c'è un altro popolo, i palestinesi, che considera anche Israele come parte della Palestina. Possiamo continuare a combattere, oppure possiamo accettare un livello di 'ingiustizia'. La soluzione due stati due popoli è quella ingiustizia minima. Dubito che sarà uno stato palestinese in pace con noi, ho dubbi sulla sicurezza, perché se ci ritiriamo ancora ci sarà un'altra Gush Katif (le colonie di Gaza evacuate e sostituite dai missili di Hamas, ndr). Ma se rimaniamo? Un giorno dovremo scegliere fra stato democratico ed ebraico e io non voglio scegliere. Capisco i coloni, li sento vicini, ma non sanno rispondermi a una domanda: cosa facciamo se rimaniamo? Israele diventerebbe come la Yugoslavia, la Siria, il Libano, l'Iraq. Non esiste un esempio di stato multietnico che funzioni. Non mi fido dei palestinesi, ma come posso vivere in uno stato in guerra con se stesso?".
  Se c'è una cosa su cui il colono e la colomba concordano è l'avversione per l'Europa. "Non mi faccio illusioni", conclude Haetzni al Foglio. "Hitler ha avuto successo grazie all'antisemitismo, fu questo a spingere i popoli europei, anche voi italiani, a collaborare. Perché oggi l'Europa ama tanto i palestinesi fra tante ingiustizie nel mondo? Perché hanno occhi bellissimi? No, perché Israele è il loro 'aggressore'. Anche i palestinesi vivono per il conflitto. Se finisse, diventerebbero irrilevanti come il Bangladesh. Prendi l'Inghilterra: ha combattuto Hitler, ma qui sobillava gli arabi ad attaccare gli ebrei. Basta leggere il monologo di Shylock in Shakespeare per capire questa ossessione". All'Europa, anche Halevi riserva parole di fuoco: "Il medio oriente non è un posto per i pacifisti. Qui la signora Mogherini non sopravviverebbe cinque minuti. La mia scelta non è fra terra e pace, ma fra una vulnerabilità e un'altra vulnerabilità. L'Europa tenga per sé le lezioni sulla pace".

(Il Foglio, 8 febbraio 2017)


Fra Washington e Teheran torna lo spettro della guerra fredda

Ma Putin consegna all'Iran 169 tonnellate di uranio

di Carlo Panella

È iniziata la Guerra Fredda tra l'Iran degli ayatollah e Donald Trump, come abbondantemente preannunciato dal neo presidente durante tutta la sua campagna elettorale. L'occasione è stata data dalla ovvia reazione di Trump alla notizia del lancio il 29 gennaio scorso di un missile balistico iraniano a media gittata da parte della speciale brigata dei Pasdaran. In termini chiari: un missile in grado di raggiungere l'Europa, Israele e - naturalmente - l'acerrimo nemico politico religioso degli ayatollah: l'Arabia Saudita che secondo loro «usurpa» la Custodia dei Luoghi Santi, la Mecca e la Medina. Immediata, ma non durissima, la reazione della Casa Bianca che ha considerato quel lancio di missile balistico una violazione degli accordi Usa- Iran siglati in sede Onu e ha varato nuove sanzioni contro alcune personalità e alcune organizzazioni del regime di Teheran. Furiosa, ieri, la reazione della Guida della Rivoluzione, l'ayatollah Khamenei, che ha personalmente attaccato Donald Trump.
   Una escalation verbale che mette in luce il dilemma fondamentale della politica estera di Trump. Il suo asse portante, oltre al neo isolazionismo, è infatti una politica di appeasement con Vladimir Putin, ma non è facile impostarla se contemporaneamente si portano al calor bianco le relazioni con un Iran, che della Russia è il principale - e indispensabile - alleato in Medio Oriente e che ha di fatto garantito con i suoi Pasdaran e le sue milizie sciite la vittoria di Assad (e quindi di Putin) ad Aleppo. Un'alleanza che ha visto Putin in persona concordare col generale iraniano Ghassem Suleimaini tutte le offensive in Siria e in Iraq. La Russia, per di più, nei giorni scorsi ha consegnato all'Iran 169 tonnellate di uranio arricchito per lo sviluppo del suo programma nucleare. Una fornitura che si accompagna a quella delle stesse centrali nucleari - costruite con tecnologia e impianti russi - , così come di armamenti di vario tipo, il che dimostra che l'asse Mosca-Teheran è politico-militare, ma anche strategico dal punto di vista economico. Trump, sul nucleare iraniano, così come gli uomini che gestiscono la sua politica estera e militare è stato chiarissimo: "L'accordo sul nucleare con l'Iran è il peggiore possibile". Non l'ha ancora denunciato, ma è chiaro che farà di tutto per un suo azzeramento sostanziale.
   Si vedrà quindi nelle prossimi mesi se e come questo nodo gordiano della politica di Trump potrà essere troncato. Ma si è facili profeti nel prevedere che la Guerra Fredda tra Usa e Iran sarà il punto più scabroso nelle relazioni tra la nuova amministrazione Usa e Putin.

(Libero, 8 febbraio 2017)


L'Ambasciatore Sachs: Israele rispetta la legalità, non è più isolata di prima

di Benedetta Guerrera

ROMA - Dopo la decisione della Knesset di legalizzare migliaia di insediamenti su territorio palestinese "Israele non è più isolata di prima". Lo sostiene l'ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs che, in un forum all'ANSA, ha spiegato perché, rispetto al provvedimento passato in Parlamento, il suo Paese continua a procedere "nel rispetto della legalità".
   "In Israele abbiamo un governo di destra, la sua opinione è chiara", ha detto l'ambasciatore commentando la decisione della Knesset. "Detto ciò - ha precisato - siamo ancora nell'ambito di un processo, solo il tempo ci dirà se la legge sarà poi attuata. In secondo luogo, abbiamo visto in passato quanto Israele rispetti la cornice legale: solo una settimana fa, sono stati sgomberati degli insediamenti dopo vent'anni in virtù di una decisione della Corte Suprema". Indubbiamente la decisione "solleverà critiche, alcune delle quali saranno molto forti, ma anche con gli amici più stretti in Usa o in Europa non andiamo d'accordo su tutto". Per questo "Israele non è più isolata di prima".
   A proposito di alleanze di qua e di là dall'Oceano, per l'ambasciatore israeliano "è ancora troppo presto per dare un giudizio sull'amministrazione Trump che, per il momento, sta seguendo le linee della sua campagna elettorale". Il Medio Oriente non rientra tra le priorità del presidente americano per ora ma, è convinto Sachs, "durante il faccia a faccia tra Trump e Netanyahu il 15 saranno discusse diverse questioni".
   Non ci sono dubbi invece che per Israele "l'Iran è ancora la più grande minaccia nella regione". E sull'accordo con Teheran il governo israeliano non ha mai cambiato opinione: "Non ne siamo felici, ma è lì ormai e dobbiamo farci i conti", ha chiarito Sachs. "Ma qual è la ragione per cui l'Iran ha fatto quel test missilistico? Credo che il mondo debba fare di più", è il suo invito.
   Quanto all'Europa, l'auspicio di Israele è che ritorni "forte e unita" perché la "democrazia e il mondo" ne hanno bisogno contro le crescenti ondate populiste. Populismo che, secondo l'ambasciatore, si sta diffondendo fondamentalmente per due ragioni: le sfide economiche da cui l'Europa ha fatto più fatica ad uscire rispetto agli Usa e le tensioni sollevate dall'arrivo in massa di migranti. "Probabilmente se l'Ue avesse potuto agire con più forza in Siria o in alcune aree dell'Africa per creare stabilità e benessere, sarebbe stata in grado di diminuire queste tensioni", ha rilevato Sachs.
   Infine un appello al Paese che lo ospita a rafforzare la collaborazione economica e commerciale sull'esempio di quella in atto tra Israele e Stati Uniti. "L'Italia è una superpotenza economica. Dobbiamo fare di più per incrementare la cooperazione tra i nostri due Paesi", ha detto l'ambasciatore, invitando le imprese italiane "a guardare di più a Israele": "Il potenziale è enorme, dobbiamo cominciare - ha concluso - dal settore privato e dalle grandi imprese".

(ANSA, 8 febbraio 2017)



L'Onu è illegale

 


La Cia avverte il Mossad: Trump sarebbe ricattabile da Mosca

GERUSALEMME - Pochi giorni prima dell'insediamento di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, la stampa israeliana riferì che per settimane l'intelligence degli Stati Uniti aveva pressato il Mossad affinché cessasse la condivisione dell'intelligence con la nuova amministrazione presidenziale Usa: La Cia sosteneva che la presunta ricattabilità di Trump da parte di Mosca - mai comprovata - avrebbe rischiato di esporre le informazioni private alla Russia, e per suo tramite all'Iran. L'amministrazione Trump potrebbe davvero far trapelare a Mosca i segreti israeliani e di altri paesi alleati? Il quotidiano "Jerusalem Post" ha interrogato un certo numero di funzionari da entrambi i lati dell'Atlantico, giungendo alla conclusione che il rischio, di fatto, non sussiste. Secondo il consigliere per la sicurezza nazionale Uzi Arad, "è ridicolo ipotizzare che Trump possa intenzionalmente condividere i segreti israeliani con la Russia, chiunque sostenga questo è spinto da motivi politici". Il funzionario, però, aggiunge che "L'ultima cosa che il Mossad vuole fare è mettere in pericolo il suo rapporto con la Cia": data l'ostilità mal sopita tra Trump e la comunità d'intelligence statunitense, scrive il quotidiano israeliano, la condivisione dell'intelligence con il governo Usa potrebbe rivelarsi una lama a doppio taglio.

(Agenzia Nova, 7 febbraio 2017)


Il sottosegretario Bianchi incontra il ministro del turismo israeliano

Rafforzamento dei rapporti bilaterali tra Italia ed Israele nel settore del Turismo anche attraverso la promozione di iniziative congiunte. È quanto emerge dall'incontro avvenuto oggi a Tel Aviv, tra il sottosegretario al Turismo italiano, Dorina Bianchi, e il ministro israeliano, Yariv Levin, avvenuto a margine dell'International Mediterranean Tourism Market (Imitm). Lo riferisce un comunicato del ministero del Turismo. "Dobbiamo potenziare sempre di più i legami tra Italia e Israele sul piano del turismo con la promozione di iniziative congiunte. La presenza dell'Italia all'International Mediterranean Tourism Market, la fiera turistica israeliana di maggiore rilevanza, è riprova di questo rapporto consolidato che negli ultimi dieci anni ha visto crescere del 3,9 per cento l'interscambio tra i due paesi", ha dichiarato Dorina Bianchi

(Agenzia Nova, 7 febbraio 2017).


Gerusalemme senza tregua

Sono stati combattuti 118 conflitti per il controllo della città più contesa. Un saggio di Eric H. Cline (Bollati Boringhieri) ripercorre millenni di vicende complesse e sanguinose. I gebusei e re Davide, le gesta dei crociati e il dominio ottomano. Ma anche lo scarso interesse di Alessandro Magno e Napoleone.

di Paolo Mieli

In un'intervista concessa nell'ottobre del 1999 da Faysal al-Husayni a Jeffrey Goldberg per il «New York Times Magazine» compare una stravagante affermazione: «Sono discendente dei gebusei, coloro che vennero prima di re Davide; Gerusalemme era una delle più importanti città gebusee nella regione; noi tutti siamo discendenti dei gebusei». Husayni era cugino di Yasser Arafat, suo consigliere, ministro dell'Anp per le questioni di Gerusalemme e sarebbe morto nel maggio del 2001 per un attacco cardiaco mentre era in visita in Kuwait. I gebusei a cui si riferiva erano quel popolo dalla cui sconfitta intorno al 1000 a.e. ebbe origine il regno di Davide. Prima di loro quella terra era abitata dal 3000 a.e. dai cananei e dai fenici. Dei gebusei si ipotizza che potessero essere imparentati con gli ittiti stanziati in Anatolia (l'odierna Turchia). Gebuseo era nella Bibbia Uria l'Ittita, marito di quella Betsabea di cui si sarebbe invaghito Davide. E anche Araunà, colui che avrebbe venduto a Davide un piccolo terreno sul monte Moriah.
  Di queste storie si parla diffusamente in Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito (Carocci) di Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman. Qualche studioso ha avanzato l'ipotesi che Araunà ( o Oman) sia stato l'ultimo sovrano gebuseo prima della vittoria diDavide. I termini «Palestina» e «palestinese» sarebbero comparsi solo mille anni dopo, nel periodo della dominazione romana. Ma i conflitti per la città di Gerusalemme erano iniziati qualche centinaio di anni prima ancora dell'impresa di Davide e sono stati in tutto 118. Li ha studiati - tutti quelli di cui c'è documentazione, nell'arco di quasi quattromila anni - l'archeologo e storico americano Eric H. Cline (insegna alla George Washington University) per scrivere un libro, Gerusalemme assediata. Dall'antica Canaan allo Stato d'Israele, pubblicato da Bollati Boringhieri. Sono 118 conflitti, scrive Cline, «che spaziano dagli scontri religiosi locali fino alle campagne militari strategiche, sfumature intermedie comprese». La città è stata completamente distrutta almeno due volte, assediata in ventitré circostanze, attaccata in cinquantadue tempi diversi, conquistata e riconquistata in quarantaquattro occasioni. È stata teatro di venti rivolte e di innumerevoli tafferugli ed è passata di mano in modo del tutto pacifico appena due volte nell'arco di quattro millenni. Per nessun altro complesso urbano del pianeta si è combattuto, nel corso della storia, tanto aspramente. La denominazione di «città della pace» che spesso le viene attribuita e che fu ripresa dal presidente egiziano Anwar al-Sadat nella storica visita alla Knesset del novembre 1977, sostiene Cline, «è senza alcun dubbio un termine fuorviante, dal momento che la sua esistenza è stata tutto fuorché pacifica».
  Niente sembra giustificare questo poco invidiabile primato per una città, ha scritto Victor David Hanson della Stanford University, «che non aveva in sé particolari ricchezze o dimensioni imponenti, o una posizione strategica di qualche particolare importanza». Il sito - come ha evidenziato Karen Armstrong in Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e Islam (Mondadori)- era immerso in un'area per lo più priva di risorse naturali, distante dalle principali rotte commerciali che dall'Egitto conducevano alle regioni dell'Anatolia (a sud) e della Mesopotamia (a nord e a est), ma anche lontana dai porti marittimi che si trovavano sulle coste del Mediterraneo. La presenza della sorgente di Gihon (che forniva acqua per tutto l'anno) e la protezione garantita dalle gole circostanti furono probabilmente tra le ragioni principali che, nel corso del terzo millennio a.e., spinsero i cananei a insediarsi per primi in questo luogo relativamente abbandonato. Strabone, il geografo greco vissuto all'epoca di Cristo, scrisse che Gerusalemme si trovava in un luogo «non invidiabile» per il quale nessuno avrebbe mai «fatto una guerra seriamente». In realtà di guerre per Gerusalemme se ne fecero, eccome, e per secoli. Da prima che la grande roccia sul Monte del Tempio fosse identificata come la pietra su cui Abramo aveva offerto Isacco in sacrificio a Dio e come quella da cui Maometto era asceso in cielo.
  Centinaia di anni prima che Davide conquistasse Gerusalemme, si erano svolte battaglie per il controllo della città. A fine Ottocento furono scoperte, in Egitto, le cosiddette lettere di Amarna, che risalgono ai regni del faraone Amenofi III di suo figlio Akhenaton. Alcune di queste inviate attorno al 1350 a.e. dal governatore cananeo di Urushalim (Gerusalemme), Abdi-Heba, al sovrano d'Egitto per chiedergli aiuto: «Mi hanno attaccato da tutte le parti; Mi trovo come una nave in mezzo al mare», scriveva Abdì-Heba. Dopo quel primo episodio documentato, Gerusalemme sarà assediata da Hazael re di Aram, dall'assiro Sennacherib, dal babilonese Nabucodonosor (tre volte, con la distruzione del Tempio nel 585 a.C.), dai persiani di Ciro ( che consentiranno agli ebrei di rientrare dopo l'esilio babilonese e di ricostruire il Tempio), da Tolomeo I, Antioco m, Simone Maccabeo e Giovanni Ircano degli asmonei. Manca all'appello Alessandro Magno, che sarà - assieme a Napoleone - l'unico tra i grandi condottieri a non mostrare specifico interesse militare per Gerusalemme. Che invece attrarrà Pompeo, Tito e poi Adriano. E siamo alle guerre giudaiche durate intermittentemente dal 66 d.C. ( con la repressione del 70 che comportò la distruzione del secondo Tempio) alla vittoria dei romani sui rivoltosi ebrei di Bar Kokhba (135).
   Da quel momento gli israeliti furono espulsi, in loco ne rimarranno assai pochi e fino al 1948, cioè alla nascita dello Stato di Israele, non avranno più in loco nessuna forma di «patria». Poi sarà la volta dei musulmani in tutte le loro declinazioni. Nell'arco dei tredici secoli che vanno dal 638, sei anni dopo la morte di Maometto, all'11 novembre 1917, quando nella città entreranno le truppe del generale Edmund Henry Hynman Allenby, gli occidentali - nota Cline - hanno controllato Gerusalemme soltanto dal 1099, quando la conquistarono i crociati, al 1187 quando Saladino vinse nella battaglia di Hattin e la riconquistò. Ottantotto anni.
  Molto interessante è l'analisi delle turbolenze che si ebbero a Gerusalemme verso la fine del primo millennio e che precedettero le crociate «Prima dell'avvento dei crociati», fa notare Cline, «Gerusalemme fu travolta da grandi battaglie o piccole sommosse e ribellioni più di dieci volte». In particolare nel IX secolo, duecento anni dopo la scomparsa di Maometto: tra 1'800 e 1'815 la Palestina fu scossa da una serie di ribellioni prodotte da tribù musulmane del deserto in contrasto con i dinasti abbasidi; rivolte che fallirono ma non prima che a Gerusalemme venissero attaccate e saccheggiate numerose chiese. Tra 1'841 e l'anno successivo la regione fu sconvolta da un'insurrezione rurale guidata da Abu Harb Tamim al-Mubarqa (il velato) deciso a riportare al potere gli omayyadi. Stavolta l'intera popolazione di Gerusalemme dovette abbandonare la città mentre i ribelli razziavano, saccheggiavano magazzini, abitazioni, chiese e moschee. Solo una grande offerta in oro da parte del patriarca convinse i ribelli a desistere dall'intento di devastare e incendiare la Basilica del Santo Sepolcro.
  Qualcosa di simile accadde anche nel secolo successivo, all'epoca in cui gli eserciti cristiani bizantini si scontrarono con le armate islamiche in molte regioni del Medio Oriente: nel 938 d.C. durante la processione della domenica delle Palme, i cristiani furono attaccati e le chiese danneggiate o incendiate; nel 966, allorché i bizantini riportarono delle vittorie militari contro le forze islamiche, il governatore musulmano di Gerusalemme, che per l'ennesima volta aveva chiesto soldi al patriarca Giovanni II - non ottenendoli -, fece scoppiare tumulti anticristiani in tutta la città con assalti e incendi di chiese.
   Stavolta però toccò anche alla Basilica del Santo Sepolcro, che fu saccheggiata e danneggiata: la violenza fu tale da provocare un danno irreparabile alla cupola. Gli assalitori trovarono il patriarca nascosto nella chiesa dentro un recipiente per l'olio. Lo tirarono fuori e lo uccisero su due piedi. Trascorse un altro secolo e la persecuzione anticristiana a Gerusalemme raggiunse il suo apice quando il califfo fatimide d'Egitto al-Hakim ( che sarà poi adorato dai drusi) il 28 settembre del 1009 d.C. ordinò la demolizione di tutti gli edifici religiosi cristiani ed ebraici della città. Stavolta toccò anche alla Basilica del Santo Sepolcro, che fu rasa al suolo. Per reazione nel 1024 la popolazione cristiana di Gerusalemme appoggiò una rivolta beduina guidata da Hassan ibn Mufarrij contro i sovrani fatimidi, che ci misero cinque anni per riprendere in mano le redini del potere.
  Quando poi nel 1070 giunse nella regione l'esercito turcomanno di Atsiz ibn Uvaq, Gerusalemme era stremata dai conflitti degli ultimi due secoli e si arrese. Furono quasi subito nuove atrocità, sicché gli abitanti della città insorsero nel 1076, appoggiati dai fatimidi, rapirono le mogli e i bambini dei soldati turcomanni impegnati in battaglia altrove e ripristinarono l'ordine precedente. Nel 1077 Atsiz tornò, costrinse gli insorti dell'anno precedente a venire a patti con lui, infranse subito i patti di cui si è appena detto e ne uccise trentamila. Questa notizia fu all'origine della decisione papale di indire la prima crociata.
   Le crociate, a seguito di un successo iniziale, si conclusero, circa due secoli dopo il loro inizio, nel 1291 con la caduta di Acri.
  Dopodiché i vincitori mamelucchi dovettero fronteggiare l'invasione mongola del 1300. Furono poi due secoli e mezzo di dominio mamelucco, fino al 1516, quando il sultano Selim I e il suo esercito ottomano conquistarono la città. Anzi non la presero direttamente, dal momento che la battaglia decisiva si svolse ad Aleppo. Conquistata la quale, Selim, in dicembre, poté entrare a Gerusalemme senza dover combattere neanche per un minuto. E i suoi successori restarono nella città per quattrocento anni, fino a quel giorno del 1917 quando entrarono gli inglesi di Allenby. Il resto è storia più conosciuta di scontri tra ebrei e arabi con gli inglesi e poi tra di loro, una storia che arriva fino ai giorni nostri. Giorni nei quali la «città della pace» è ancora contesa.
  Quando Husayni pronunciò le parole di cui abbiamo detto all'inizio, Ekrima Sabri, gran muftì di Gerusalemme, si spinse addirittura a negare che sul Monte del Tempio esistessero reperti storici ebraici. Ne nacque una controversia che fu risolta (parzialmente) quando, uno storico non ebreo tirò fuori un libretto, pubblicato a Gerusalemme nel 1930 dal Supremo consiglio islamico, in cui si dava per certa l'esistenza del Tempio di Salomone. Il gran muftì comunque non si diede per vinto. «Vale davvero la pena di fermarsi a riflettere sulle vicissitudini della storia: un imperatore bizantino (Giustiniano) ha usato i resti del Monte del Tempio per costruire un'enorme chiesa e ha fatto il possibile per nasconderlo», ha scritto l'archeologo israeliano Meir Ben-Dov; «gli ebrei hanno distrutto la chiesa alla prima occasione; i musulmani hanno edificato l'area del Monte del Tempio utilizzando i resti di quella stessa chiesa demolita; e dopo centinaia di anni di silenzio, gli studiosi israeliani hanno riscattato questa intricata storia dalle profondità dell'oblio: ecco cosa è l'archeologia a Gerusalemme».
  A conclusione del libro Cline cita le parole del profeta Isaia che secondo la tradizione visse nell'VIII secolo a.C.: «Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta». Parole che, alla luce di ciò che è accaduto nei duemila e ottocento anni successivi, possiamo definire molto in anticipo sui tempi.

(Corriere della Sera, 7 febbraio 2017)


A Tel Aviv l'assemblea del Comites Israele

TEL AVIV - Presieduto da Raphael Barki, si è riunito a Tel Aviv il Comites di Israele che il 3 febbraio scorso ha tenuto la sua prima assemblea del 2017.
Tanti i temi all'ordine del giorno: bilancio; aiuto ai terremotati; progetti speciali; assistenza anziani; sportello pensioni presso l'ambasciata; eventi e comunicazione; varie ed eventuali.
Approvato il bilancio consuntivo 2016 all'unaimità, il Comites ha preso atto dell'arrivo del finanziamento straordinario (parziale) per il progetto "Aperikucha 2017".
Riferiti i ringraziamenti giunti da Arquata sul Tronto per i fondi destinati ai terremotati del Centro Italia (donazione privata di alcuni consiglieri Comites ed altri cittadini italiani in Israele), il Comites ha aperto il capitolo "assistenza anziani": ricordato che in caso di decesso di un beneficiario di vitalizio di benemerenza, per richiedere l'eventuale reversibilità è necessario avvertire l'ambasciata e presentare il certificato di morte apostillato, il Comites ha preso atto dell'esistenza di 220 beneficiari di assegni di benemerenza nella sola circoscrizione consolare di Tel Aviv.
Sportello di assistenza agli anziani presieduto da Lello Dell'Ariccia presso l'ambasciata: su questo punto - informa il Comites - il consolato conferma la disponibilità a sostenere l'iniziativa secondo la procedura prevista dal Ministero degli Esteri per la concessione di uno spazio pubblico presso l'ambasciata. Nel frattempo rimangono a disposizione i locali già offerti dal Comites presso il Beit Italia, previo appuntamento con Dell'Ariccia.
Assistenza sociale ad anziani che non sono autosufficienti e che non parlano l'ebraico: il Comites ha ribadito la necessità di aiutare queste persone volontariamente, sempre verificando l'idoneità dei volontari. È stato deciso di pubblicizzare l'annuncio e selezionare le persone adatte a dare assistenza.
Quanto alla linea di assistenza telefonica, essa è attiva ogni giovedi. Il Presidente "Giovane Kehila" Michael Sierra ha poi confermato la disponibilità dei giovani a portare assistenza agli anziani. La giovane comunità riesce a organizzare eventi a cui partecipano circa 45 ragazzi da tutte le parti di Israele. La comunità, però, ha bisogno di una sala con computer per organizzare un evento mirato all'assistenza degli anziani.
Il presidente Barki ha quindi proposto di "unire le forze" con Aperikutcha e organizzare un evento che veda il coinvolgimento della giovane kehila'.
Il Comites ha quindi discusso della possibilità di chiedere il rinnovo del sussidio per l'Irgun Ole Italia nazionale da parte dell'agenzia ebraica in occasione della prossima assemblea che si terrà entro marzo.
Quanto alle delegazioni italiane in Israele, durante l'assemblea è stata ricordata la visita del sindaco di Firenze Nardella a Gennaio; è stata citata la presenza del Paese di una delegazione di 40 parlamentari italiani impegnati in una serie di incontri amichevoli con i loro omologhi presso la Knesset; e, infine, annunciata per il 21 febbraio a Rishon Lezion una serata in onore della giornata internazionale della lingua madre, dedicata alla lingua italiana.

(Agenzia Internazionale Stampa Estero, 7 febbraio 2017)


Tel Aviv e la sfida dell'integrazione

di Cosimo Nicolino Coen

 
Noam Bar Levy
Noam Bar Levy è laureato in Scienze e storia del Medio Oriente all'Università Tel Aviv e in urbanistica all'Università Ebraica di Gerusalemme. Assistente di due parlamentari di Avodà alla Knesset e portavoce di Stav Shafir "la rossa", ha curato un progetto per la regolamentazione delle condizioni e dei prezzi degli immobili in affitto, cruccio per molti giovani israeliani. Oggi lavora nel "Innovation Team" della municipalità Tel Aviv - Yafo dedicandosi al tema dei rifugiati e dei lavoratori stranieri.

- Noam, anzitutto puoi darci il punto della situazione?
  La maggior parte dei lavoratori stranieri sono richiedenti asilo, di questi i più provengono dal Corno d'Africa. Per un certo periodo ogni giorno arrivavano rifugiati attraverso il Negev. Israele non sapeva che cosa fare. Li si accettava, venivano portati in centri di detenzione e dopo qualche mese liberati con un biglietto per Tel Aviv. E dov'è la stazione centrale degli autobus a Tel Aviv? Nel zona sud della città. Così arrivavano in un quartiere già povero e Iì si installavano.

- Sappiamo che i rapporti tra i residenti di questa zona e i lavoratori stranieri/richiedenti asilo non sono dei migliori. ..
  Si è creata una grande tensione tra i richiedenti e gli abitanti del sud Tel Aviv che si sono trovati a essere minoranza nel loro quartiere. Improvvisamente hanno visto tutto trasformarsi. Le insegne dei negozi in lingue sconosciute, alimenti africani. A questo bisogna aggiungere il problema demografico, strutturale a Israele. Comunque sono convinto che la questione centrale sia di ordine economico: la zona sud era già problematica prima e non poteva che esserlo di più con l'arrivo di nuovi poveri.

- Certo ci sono i problemi sociali. Ma le istituzioni come hanno reagito a questa situazione?
  Penso alla Germania, lì lo Stato ha adottato nel passato recente (fino ai nuovi provvedimenti dell'ottobre 2016) un metodo preciso, i richiedenti ricevono lo status di rifugiato. Israele non può permetterselo. Allo stesso tempo Israele ha firmato la Carta Internazionale e dato che il Sudan e l'Eritrea sono qualificati come stati pericolosi n0n può respingere i richiedenti. Quindi il richiedente non riceve lo statuto di rifugiato e allo stesso tempo non viene rimandato indietro. Sui documenti è scritto: "infiltrato regolare senza permesso di lavoro". E' intervenuta la Corte Suprema con una sentenza che sostanzialmente diceva: "non è permesso agli infiltrati di cercare lavoro", ma anche - sulla base di un'altra norma-: "è proibito alla polizia di imporre ai proprietari il licenziamento di infiltra ti".

- Gli effetti di questa situazione li vediamo nelle cucine di ogni locale di Tel Aviv. Oltre ai richiedenti ci sono i loro figli, eventualmente nati in Israele ...
  Ogni anno la municipalità di Tel Aviv deve inserire i bambini dei richiedenti asilo nelle scuole materne e come reazione i genitori residenti ritirano i loro bambini. Di recente la municipalità ha deciso di aprire una scuola secondaria ai figli dei richiedenti. Ci sono state manifestazioni dei residenti contro questa decisione che concentrava tutti i figli dei profughi in un'unica zona, in più assegnandole una posizione privilegiata, vicino al parco. Così la municipalità ha cercato un altro luogo, dovendo allo stesso tempo attenersi alla sua policy che è quella di individuare una struttura prossima alla zona di residenza degli utenti. Hanno individuato una scuola che è un vero status symbol dell'alto livello d'istruzione per gli olim russi i quali vi mandano i loro figli anche quando abitano in zone lontane, spesso fuori da Tel Aviv.

- Quindi la municipalità ha potuto utilizzare la policy della vicinanza per riservare ai figli dei richiedenti asilo, che risiedevano nella zona, un posto nelle scuole invece che agli olim russi, che risiedevano lontano?
  Non solo. Oltre a questa policy, che permette di dire "tel avivim prima di tutti", c'è anche il diritto-dovere dei ragazzini, vincolante per le istituzioni, ad essere inseriti nelle strutture. Così hanno deciso che dall'anno prossimo i figli dei richiedenti asilo saranno assegnati a quella scuola.

- Ora però raccontaci qualcosa del tuo lavoro specifico in questo ambito.
  Il progetto si occupa della convivenza delle diverse comunità: convivere, non per forza amarsi. Secondo noi si deve fare in modo che le diverse comunità stiano bene in quanto tali, dopo si può lavorare alla convivenza. A questo scopo abbiamo chiesto alle diverse tipologie di popolazione i servizi di cui sentivano di aver bisogno. Per quanto riguarda i profughi, il principale problema è rappresentato dagli adolescenti: dopo l'orario scolastico non hanno attività e finiscono in strada. Questi adolescenti imparano l'ebraico, studiano cos'è il sionismo e la storia dell'ebraismo. Si formano come israeliani e poi a 18 anni che cosa succede? Non entrano in Zahal. Il conflitto identitario è grande, a ciò si aggiungono le condizioni di povertà. Abbiamo proposto alla municipalità di organizzare dei centri sportivi e ricreativi, per fare attività di gruppo, dalle gite all'aiuto nei compiti a casa. Non possiamo risolvere il loro problema di identità dal punto di vista politico ma possiamo dare un significato alla loro vita, fornire una cornice dentro la quale si sentano di appartenere.

- Mentre per quanto riguarda le necessità dei residenti?
  La necessità più grande è quella della sicurezza. L'idea è di formare giovani che aiutino gli anziani a uscire, affinché non si sentano estranei nelle proprie strade e negozi. Inoltre è necessario un ragionamento più complesso. Tel Aviv guarda a se stessa come metropoli. L'immigrazione è un fenomeno comune di tutto il inondo occidentale, quindi si tratta di trasformare la cosa da negativa in positiva. Un punto di partenza è la cultura culinaria, qualcosa che tutti possono amare, attraente proprio per la sua diversità. Guardiamo a New York, cos'è successo lì? Le culture straniere, ad esempio quella cinese, sono diventate un punto di forza della metropoli, ci siamo detti: "bo naase China Town beTel Aviv" [facciamo una China Town a Tel Aviv].

(Pagine Ebraiche, febbraio 2017)


L'amica Israele e la minaccia Teheran: le due sfide di Trump

La nuova politica Usa in Medio Oriente

di Rodolfo Bastianelli

Oltre che ai già citati dossier sui rapporti con Russia e Cina, l'Amministrazione Trump dovrà fronteggiare anche le delicate questioni riguardanti Israele e, soprattutto, l'Iran. Entrati da tempo in una fase di freddezza, i rapporti tra il governo Netanyahu e la presidenza Obama hanno toccato il loro punto più basso lo scorso 27 Dicembre, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato, con l'astensione degli Stati Uniti che in passato invece avevano sempre opposto il loro veto, una risoluzione di condanna sugli insediamenti israeliani nei territori occupati, una decisione aspramente criticata non solo da Trump e dai Repubblicani, ma anche dalle associazioni ebraiche americane. Con la nuova Amministrazione all'interno del mondo politico israeliano ci si aspetta però un netto cambio di orientamento, visto che non solo Netanyahu ma anche il Presidente Rivlin ed il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat hanno accolto con grande favore l'affermazione del tycoon Repubblicano alla Casa Bianca. La designazione di David Friedman, un avvocato d'affari da sempre attestato su posizioni favorevoli a Gerusalemme, come Ambasciatore in Israele, unitamente alla presenza di persone di fede ebraica tra i più stretti familiari del nuovo Presidente - suo genero Jared Kushner è un ebreo ortodosso e la stessa figlia Ivanka si è convertita all'ebraismo prima del matrimonio - , rappresentano poi due elementi che dovrebbero ulteriormente rafforzare i legami tra la Casa Bianca e lo Stato ebraico, tanto che molti ritengono che Trump possa considerarsi forse il Presidente più vicino ad Israele eletto negli Stati Uniti negli ultimi venticinque anni.
  Sul piano politico, il governo israeliano si aspetta dalla nuova Amministrazione sia un atteggiamento più favorevole verso gli insediamenti in Cisgiordania che il ritorno ad una linea più dura nei confronti del regime iraniano. Sul primo punto però Trump, nonostante lo scorso Novembre il Ministro della Difesa israeliano Lieberman avesse auspicato il raggiungimento di un'intesa in base alla quale la Casa Bianca avrebbe autorizzato l'espansione degli insediamenti già esistenti in Cisgiordania in cambio del congelamento dei progetti di costruzione pianificati in altre aree, ha affermato come la costruzione di nuove colonie nei territori occupati non favorisca il dialogo con i palestinesi, anche se lo stesso comunicato presidenziale ribadisce comunque come la presenza degli insediamenti non costituisce un ostacolo ai negoziati di pace. E' probabile poi che Trump rafforzi le relazioni con l'Egitto e l'Arabia Saudita considerati entrambi come alleati fondamentali nella lotta al terrorismo e nel contenimento dell'influenza iraniana nella regione, un punto questo visto con favore negli ambienti politici e militari israeliani i quali collaborano con il governo de Il Cairo nell'azione di contrasto dell'ISIS ed informalmente con lo stesso regime saudita vista la comune ostilità verso Teheran.
  Ma il punto dove l'Amministrazione Trump potrebbe più distanziarsi da quelle passate riguarda il trasferimento dell'Ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, una mossa che mentre verrebbe accolta con estremo favore da parte israeliana, solleverebbe al contrario le dure proteste sia da parte palestinese che da quelle di diversi Stati europei per i quali in questo modo si distruggerebbe non solo ogni prospettiva di pace, ma si destabilizzerebbe anche l'intera regione. Approvato dal Congresso nel 1995 con il varo del "Jerusalem Embassy Act" a cui però sia Clinton che George W. Bush opposero il loro veto, il trasferimento, a detta di indiscrezioni recentemente trapelate dagli ambienti presidenziali, potrebbe essere annunciato ufficialmente il prossimo 24 Maggio, data che segna la riunificazione della città dopo la guerra dei "Sei Giorni", anche se in Israele non pochi restano comunque scettici sull'effettiva volontà di Trump di procedere alla rilocalizzazione.
  Va poi segnalato che, nonostante il grande ottimismo esistente negli ambienti governativi israeliani, non mancano tuttavia quelli che guardano invece con cautela alla linea politica di Trump. In un editoriale recentemente apparso sul "The Times of Israel", alcuni analisti hanno infatti sottolineato come l'amicizia tra Trump e Putin potrebbe portare ad un rafforzamento dell'influenza iraniana in Siria, mentre in un altro pubblicato sul "The Jerusalem Post" si fa notare come il ristabilimento di cordiali relazioni tra Washington e Mosca avrebbe sicuramente l'effetto di contenere il ruolo dell'Iran e degli Hezbollah, anche se non si può escludere la possibilità che Russia e Stati Uniti sulla crisi siriana raggiungano un'intesa i cui contenuti potrebbero non essere nell'interesse di Israele.
  Il vero snodo fondamentale della politica mediorientale dell'Amministrazione Trump sarà però rappresentato dall'atteggiamento che il nuovo Presidente assumerà verso l'Iran. Fin dalla sua elezione, Trump è stato fortemente critico verso l'intesa sul programma nucleare iraniano, sostenendo come questo dovesse essere completamente smantellato. Si tratta tuttavia di una questione estremamente difficile da gestire visti i riflessi che ogni decisione presa avrebbe sul piano internazionale. Come sottolineano gli analisti, un'eventuale abrogazione degli accordi avrebbe come conseguenza una crisi nei rapporti, che già non si preannunciano facili, tra Washington e l'Unione Europea, i cui Paesi membri con ogni probabilità non seguirebbero gli Stati Uniti nell'implementazione di nuove sanzioni dato che molte imprese e gruppi industriali europei hanno sottoscritto accordi commerciali con l'Iran. Allo stesso modo difficilmente percorribile appare anche l'ipotesi che la nuova Amministrazione tenti di aumentare la pressione sul governo iraniano per costringerlo a ritirarsi dall'accordo, dato che sembra quantomeno improbabile che l'Iran abbandoni un'intesa i cui termini restano estremamente favorevoli per Teheran.
  Tuttavia, la decisione della Casa Bianca di imporre nuove sanzioni al regime degli ayatollah sembra confermare che l'Amministrazione Trump sia intenzionata a seguire una politica assai più intransigente nei confronti di Teheran, come appare evidente anche dalle dichiarazioni rilasciate dal nuovo Segretario alla Difesa Mattis per il quale l'Iran costituisce oggi "il maggior sponsor mondiale del terrorismo". A detta degli osservatori, il Dipartimento del Tesoro potrebbe quindi introdurre delle limitazioni ad operare sul mercato americano per quelle compagnie straniere che fanno affari con società iraniane il cui capitale è riconducibile in maggioranza od in parte alle "Guardie Rivoluzionarie", nonché dichiarare come gli scambi off-shore in Dollari che siano collegati all'Iran vengano sottoposti alla legislazione statunitense così da impedire a Teheran di entrare in possesso di valuta americana.
  E' noto infatti come non solo le società controllate dalle "Guardie Rivoluzionarie" rappresentino un valore pari fino al 35% dell'economia iraniana, ma che i proventi realizzati vengano reindirizzati a gruppi terroristici come gli "Hezbollah" od al regime siriano. Non meno complessa si presenta infine la questione di come contrastare proprio il ruolo che l'Iran svolge indirettamente in diversi Paesi mediorientali sostenendo l'azione degli "Hezbollah" in Libano e degli "Houtis" in Yemen, visto che se da un lato appare improbabile l'avvio di un'escalation militare per ostacolarne l'azione, dall'altro però sembra evidente che la nuova Amministrazione adotterà verso Teheran un atteggiamento più risoluto proprio per dimostrare la determinazione degli Stati Uniti nel contenere la politica destabilizzatoria seguita finora dal regime iraniano.

(l'Occidentale, 7 febbraio 2017)


"Il razzismo immaginario è un mercato in crescita". Nuovo libro di Bruckner

Il "furto dell'olocausto" fa del musulmano un "ebreo surrogato"

di Giulio Meotti

ROMA - Come ha fatto il Mouvement contre le racisme et pour l'amitiés entre le peuples, nato da una rete creata per salvare i bambini ebrei dalla deportazione nazista, a diventare il grande accusatore che per poco non faceva indossare ai libri di Oriana Fallaci la fascetta con l'avvertenza "testo di natura antimusulmana", a tutela della salute dei consumatori?
   La risposta si trova nel nuovo libro dell'intrepido Pascal Bruckner, "Un racisme imaginaire" (Grasset). Il saggista francese parla del "continuo emergere di un 'nuovo razzismo' che viene registrato con eccitazione ansiosa". Quella parola, razzismo, "ha raggiunto una obesità dilagante". L'antirazzismo, come l'umanitarismo, "è un mercato in crescita", parliamo di "lobby che inventano nuove forme di discriminazione per giustificare la loro esistenza e ricevere la massima pubblicità". Il risultato è "un segugio razzista che dissotterra ogni mattina una nuova forma di segregazione, felice di aver aggiunto una nuova specie alla grande tassonomia del pensiero progressista".
   Bruckner difende l'algerino Kamel Daoud, che aveva osato legare violenza sessuale e islam a proposito degli stupri di Colonia. Daoud fu bruciato in effigie sui giornali della gauche: "Non siamo più nel dibattito intellettuale, ma nella demonologia", scrive Bruckner nel nuovo libro. "Una sorta di proibizione pesa quando si tratta di persone provenienti dal Nord Africa o dal medio oriente. Incredibile inversione caratteristica di una 'sinistra' multiculturale: il vangelo dell'antirazzismo è più importante degli stessi eventi, il rispetto per le culture della protezione delle persone. Così l'orrore dello stupro è diluito in una epica emancipazione dei dannati della terra. Guai ai musulmani liberali che osano criticare la loro religione o mettere in dubbio la moralità delle loro terre. La polizia religiosa si scatena contro questi rinnegati etnici". Di paradosso in paradosso, scrive Bruckner, "combattere l'oscurantismo diventa esso stesso
 
Ayaan Hirsi Ali
oscurantista". Come è successo ad Ayaan Hirsi Ali, la dissidente somala difesa nel libro di Bruckner. Il saggista francese nei mesi scorsi è stato trascinato in tribunale dalle associazioni antirazziste. "Si tratta di una caccia alle streghe guidata da marxisti fondamentalisti e dai loro alleati", scrive Bruckner nel libro. "L'accusa di 'islamofobia' non è altro che un'arma di distruzione di massa del dibattito intellettuale. Stiamo assistendo negli ultimi venti anni alla fabbricazione di un nuovo reato di opinione, simile a quello che un tempo c'era in Unione Sovietica contro i 'nemici del popolo'. La semplice menzione di un 'problema musulmano' scatena l'ira dei censori e la minaccia di azioni penali".
   Assimilando i popoli mediorientali all'islam, nota Bruckner, la sinistra fa suo un "determinismo insormontabile", così che "ogni tentativo di fuga è denunciato dalle anime belle come un atto razzista". In questa industria antirazzista si fa strada l"'ebreo surrogato", la stella gialla indossata dai musulmani vittimizzati, ovvero "la volontà di alcuni musulmani di essere più ebrei degli ebrei". Questo "furto dell'Olocausto" paradossalmente fa il paio con il contemporaneo rifiuto di Israele. E qui Bruckner cita un monarca arabo: "L'odio di Israele il più potente afrodisiaco nel mondo arabo", ha detto il defunto re Hassan II del Marocco. "Il monopolio di sventura da parte degli ebrei è un abuso che deve essere denunciato", continua il filosofo francese. Questa logica fa degli ebrei l"'incarnazione del colonialismo" attraverso la "sofferenze dei palestinesi". L'antisemitismo è così alla fine giustificato dall'antisionismo.
   L'islam finisce invece per incarnare una "alterità curativa" che pone rimedio al disagio della civiltà. "Non è consentita reciprocità. Ci sono moschee a Roma, non vi è nemmeno una chiesa a Riyadh o alla Mecca". Quanto alle chiese di Mosul, che vengano pure distrutte dallo Stato Islamico, odioso retaggio del "colonialismo".

(Il Foglio, 7 febbraio 2017)


Rossi Innerhofer: SS sudtirolesi, fuori tutti i nomi

Obermair: lager, basta negazionismo. Nuove rivelazioni nel libro «Quando la patria uccide»

Mayr
«Qui in provincia pochissimi aiutarono gli ebrei»
Donatini
«Le notizie vanno inserite nel contesto locale»

BOLZANO - Dopo le rivelazioni dell'Istituto polacco della memoria, che ha messo online i nomi di tutti gli aguzzini del lager di Auschwitz rivelando la presenza anche di quattro altoatesini, nuovi nomi emergono anche dal libro «Quando la patria uccide» degli storici Sabine Mayr e Joachim Innerhofer. «Certi concetti, come la crudeltà delle Ss, non vanno negati. Altrimenti si giustificherà sempre chi in Consiglio comunale indossa una maglia con la scritta «Charlemagne» in omaggio proprio a questi aguzzini» è la riflessione di Hannes Obermair, direttore dell'Archivio Storico di Bolzano, ieri sera fra i conferenzieri che al Centro Trevi hanno presentato il volume edito da «Raetia» (544 pagine, 25 euro, a cura del Museo Ebraico di Merano) insieme agli storici Antonella Tiburzi e Leopold Steurer. «Si tratta di un volume che non parla solo delle vittime, ma che rende noti anche i nomi di altri persecutori. Anche per questo parliamo di una pubblicazione che rispecchia il dna della nostra casa editrice, da sempre critica nei confronti di questi aspetti della storia locale» ha spiegato Thomas Kager, referente della casa editrice bolzanina.
   A colpire i ricercatori, nel corso della raccolta dei documenti per la redazione del volume, è stato ad esempio «l'atteggiamento di Chiesa e istituzioni che, al contrario che nelle altre province d'Italia, qui non aiutarono affatto gli ebrei» ha detto l'autrice Sabine Mayr. «Fare chiarezza, rivelando tutti i nomi degli altoatesini responsabili di crimini di guerra, è un processo doveroso e necessario che avviene ora quasi troppo tardi, dal momento che i protagonisti sono già morti da tempo» spiega la presidente della Comunità Ebraica di Merano Elisabetta Rossi-Innerhofer. «Questo - prosegue la presidente - non per una vendetta, ma per un senso di giustizia e di chiarezza e trasparenza rispetto a quanto accaduto in passato. Ogni dettaglio di questo passato deve essere oggetto di esposizione e di chiarimento, per consentire una sempre maggiore presa di coscienza».
   Determinato a approfondire in ogni modo la conoscenza del passato «nero» dell'Alto Adige anche il presidente dell'Anpi Orfeo Donatini. «Il passato va recuperato con uno sguardo storico a 360 gradi, contestualizzando i fatti con la realtà di 75 anni fa. Non sorprende dunque, in questo contesto, di scoprire questo passato di alcuni sudtirolesi, considerato il contesto delle opzioni e il fatto che 1'85% della popolazione della provincia optò per la "grande Germania"» ha chiarito Donatini. Sii. Fa.

(Corriere dell’Alto Adige, 7 febbraio 2017)


Vertice a Londra, l'Iran al centro dei colloqui fra Netanyahu e Theresa May

Incontro a Downing Street poi il premier israeliano vola in Israele per il voto sugli insediamenti

di Giordano Stabile

L'Iran è stato al centro dei colloqui fra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il primo ministro inglese Theresa May nel loro primo vertice. Nell'incontro a Londra, a Downing Street, i due leader hanno discusso soprattutto di Medio Oriente. Netanyahu ha avvertito che "Teheran cerca di annientare Israele, di conquistare il Medio Oriente, minaccia l'Europa, minaccia l'Occidente, il mondo intero, e mette in atto provocazione dopo provocazione".
Il premier israeliano ha accolto con favore le nuove sanzioni decise dal presidente americano: "Credo che altre nazioni dovrebbero seguirlo, certo le nazioni responsabili". Downing Street ha detto di condividere le "preoccupazioni riguardo l'ultimo test missilistico" di Teheran, ma ha precisato che riguardo l'accordo internazionale sul programma nucleare "è importante che venga monitorato molto attentamente e rigorosamente, ma deve anche essere chiaro che ha neutralizzato la possibilità per gli iraniani di acquisire in futuro armi nucleari per oltre un decennio".

 Passa la legge sulla legalizzazione degli insediamenti
  Londra ha anche espresso le sue preoccupazioni per gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Al termine della visita Netanyahu è tornato in Israele per l'approvazione della controversa legge sulla legalizzazione degli avamposti costruiti su terre private palestinesi, poi approvata con 60 voti a favore e 52 contrari. Il provvedimento arriva dopo la censura dell'Onu contro Israele dello scorso 19 novembre, e dopo la presa di posizione della Casa Bianca dei giorni scorso, sui "nuovi insediamenti" che "non aiutano" il processo di pace. Netanyahu incontrerà il neopresidente americano Donald Trump il 15 febbraio a Washington.

(La Stampa, 6 febbraio 2017)


Italia-Israele, sinergie su hi-tech e cybersecurity

Partnership fra aziende e universit? fra i temi emersi nel corso dell'incontro alla Knesset di 30 parlamentari italiani. Maurizio Bernardo presidente Associazione di amicizia Italia-Israele: "Presto un incontro a Milano con l'ambasciatore israeliano in Italia"
"Dobbiamo porre in essere fattive collaborazioni nel settore dei beni culturali, dell'hi-tech, della cyber-security, dell'energia e delle nuove tecnologie, anche applicate alla gestione e al riciclo delle acque". Lo afferma Maurizio Bernardo, presidente dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele, durante l'incontro svoltosi questa mattina alla Knesset, a conclusione del viaggio istituzionale di circa 30 parlamentari italiani, di tutti gli schieramenti, in Israele.
"L'associazione di amicizia, che ha promosso l'evento, conta oltre 180 aderenti ed ? la piu' numerosa nel panorama europeo- aggiunge Bernardo -. Il prossimo obiettivo dell'associazione e mio personale nell'immediato futuro sara' quello di avviare partnership tra aziende e universita' dei nostri due Paesi".
Per questo a breve verr? organizzato un incontro a Milano con l'ambasciatore israeliano in Italia sul tema della finanza e degli investimenti nel settore farmaceutico e sanitario". "Siamo certi - aggiunge Silvia Fregolent, vice-presidente dell'associazione - che le basi che abbiamo gettato in questo viaggio porteranno a fruttuose e importanti collaborazioni nell'interesse dello sviluppo dei due Paesi". "Una futura partnership tra Universita' Cattolica di Milano e universita' israeliane in campo biomedicale potra' essere un virtuoso risultato della visita istituzionale", ha concluso Bernardo.

(Corriere Comunicazioni, 6 febbraio 2017)


Siberia

Israele cerca nuovi immigranti in Siberia. Incontri in tre grandi città.

di Angelica Edna Calò Livne

 
Il lago Baikal in Siberia
Si, in Israele c'è ancora bisogno di gente. C'è bisogno di programmatori e programmatrici, di estetiste, di pasticceri/e, di chef, garagisti, meccanici, saldatori e di chiunque voglia dare un contributo secondo le proprie capacità. I sindaci delle città che desiderano accogliere nuove famiglie, da Katserin, a Nes Ziona, da Kiryat Shmone, a Nazaret Illit e a Eilat, si organizzano e insieme al ministero del Lavoro e al ministero dell'Interno, in collaborazione con i direttori delle grandi aziende israeliane e con il prezioso apporto della Sochnut, l'Agenzia Ebraica, si incontrano in tre grandi città della Siberia per reclutare olim hadashim, nuovi immigranti. Yehuda è invitato come rappresentante delle 7 fabbriche del Gruppo Beit El, cristiani sionisti della Germania, che nel 1963 compirono un'aliyah in massa per identificarsi con Israele in reazione alla Shoah. Si insediarono a Zichron Yaakov, fondarono un kibbutz e da allora si prodigano per incrementare lo sviluppo economico e industriale del Paese. Yehuda dirige due centri di formazione professionale di Beit El: uno nel Golan e uno nei pressi di Afula. Insieme al sindaco di Katserin, Dimitri Aparsev, è invitato a proporre il loro programma comune nel quale i candidati, dopo aver partecipato a un corso di meccanica industriale, riceveranno immediatamente un posto di lavoro e tutte le facilitazioni per integrarsi con le proprie famiglie: una casa, la scuola per i bambini e tutti i servizi sanitari.
   Della delegazione fanno parte, Hezi Barak presidente del sindacato delle Autofficine israeliane, Uzi Ben Ezra, delegato degli Chef, Igor Korol per la programmazione e i computer e i rappresentanti di Isrotel e Rimon Inn per il lavoro nel turismo alberghiero. Hani Zohar del ministero del Lavoro presenta poi un quadro generale delle esigenze di Israele, dei diritti e dei salari.
   Gli incontri si sono svolti a Irkutsk, a Khabarovsk e a Vladivostoc. Dopo molti viaggi in cui Yehuda ha guidato con me i ragazzi del Teatro multiculturale Arcobaleno per mostrare attraverso i progetti educativi di Bereshit LaShalom il volto pluralista, artistico e umanistico di Israele è il mio turno seguire lui per reclutare nuove braccia, nuove menti, estro ed entusiasmo per l'inizio di una nuova vita in questo Paese sorprendente che mi fa pensare a una principessa senza tempo che non smette di danzare, di curare le proprie ferite, di costruire e rinnovarsi.
   A ognuno dei tre incontri arrivano più di 400 persone. Dopo il fervente discorso della ministra dell'Interno e dell'Immigrazione, Sofa Landver, anche lei immigrata nel 1979 direttamente da San Pietroburgo ad Ashdod, gli intervenuti girano per la grande sala e prendono informazioni a seconda dei propri interessi professionali dai banchetti colmi di addobbi bianchi e azzurri e di brochure scritti scrupolosamente in russo. Famiglie con bambini sventolano le bandierine d'Israele che hanno ricevuto all'entrata dei grandi alberghi, dopo l'accurato controllo di sicurezza, dove si svolgono gli incontri. Nell'aria vibrano canzoni israeliane di ogni epoca, da Sarit Haddad a Arik Einstein a Idan Reichel. Molti rappresentanti della nostra delegazione sono russi, della grande Aliyah degli anni '90. Chi, come noi, non parla la lingua, ha un assistente volontario della Sochnut: ragazzi che hanno vissuto per un periodo in Israele con il Progetto di integrazione di NAALE (giovani che emigrano in Israele senza la famiglia) che rispondono a ogni domanda traducendo e spiegando le nostre informazioni sui vari programmi. I volti dei membri della delegazione luccicano di entusiasmo e gli intervenuti contano in una risposta positiva al proprio diritto della "Legge del ritorno" in seguito ai documenti presentati.
   Fuori c'è stato un bel sole per tutta la settimana. Siamo passati davanti a fiumi e laghi gelati. Nei parchi delle città si ergono statue di ghiaccio e di neve. La temperatura è di -29 gradi. Mi tolgo un guanto per fotografare il tramonto sul Lago Baikal e devo entrare in un bar per mettere la mano sulla stufa perché non la sento più, è quasi congelata dal freddo e il dolore è insopportabile.
   Mentre cammini sul ghiaccio è inevitabile pensare alle persone che venivano mandate ai lavori forzati in Siberia. È inevitabile pensare che la fiera è iniziata proprio il 27 Gennaio, mentre in Europa si celebrava il ricordo della Shoah. Non posso non pensare al freddo di Auschwitz, ai sopravvissuti al gelo, alla fame, alla nostalgia dei propri cari e della propria vita nel baratro della solitudine. Alla loro incredulità verso la crudeltà, l'odio e la determinazione di chi voleva cancellare il popolo ebraico dalla faccia della terra. Su uno schermo gigante si susseguono immagini di flash mob per le vie di Gerusalemme, di sport di ogni genere, di nuovi sistemi di ricerca nelle università e nei centri sperimentali, di distese verdi nel deserto del Negev. L'ultima sera Roman Polonsky, capo dell'Unità mondiale per l'ebraismo di lingua russa, sigilla con pacata emozione l'evento davanti all'intera delegazione, dinnanzi agli occhi di tutti coloro che non credevano di poter realizzare un simile progetto, in Siberia, dove non c'era mai stato un ufficio dell'Agenzia ebraica, in questa stagione, a questi freddi. Si sente nell'aria la sensazione di aver scritto un altro pezzetto di storia. Un'altra piccola vittoria della vita. E non riesco ad arginare questa voce che mi canta e mi grida dentro "Am Israel Hai!"

(moked, 6 febbraio 2017)


Israele, nascita rara di un rinoceronte bianco al parco Ramat Gan

E' una specie protetta a rischio di estinzione

GERUSALEMME - Il parco zoologico israeliano di Ramat Gan ha annunciato oggi la nascita rara in cattività di un rinoceronte bianco, una specie minacciata. Rami è nato da qualche giorno, dopo un anno e mezzo di gestazione: la madre è Rihanna, una femmina di sette anni e mezzo arrivata a quattro anni dal Sudafrica; il padre è Atari, maschio dominante di Ramat Gan, parco di 100 ettari, che comprende uno zoo e un safari.
Rihanna fa parte della sottospecie dei rinoceronti bianchi del Sud, originari dell'Africa australe, di cui restano 20.000 esemplari in tutto il mondo.
Il rinoceronte bianco è minacciato dal bracconaggio: un programma di protezione è stato messo a punto in Europa. Ne fanno parte 301 rinoceronti bianchi in 78 parchi zoologici: 14 sono a Ramat Gan.

(askanews, 6 febbraio 2017)


Se «giallorosso ebreo» non è reato. L'allarme della Comunità ebraica

Dopo il proscioglimento di due tifosi denunciati per odio razziale, Dureghello scrive a Orlando e a Legnini: «Sentenza dalla portata devastante. Necessario intervenire». Il ministero della Giustizia: acquisiremo le motivazioni

Ha scritto una lettera che esprime «grande inquietudine e preoccupazione» al guardasigilli Andrea Orlando e al vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. La decisione della presidente della Comunità ebraica romana, Ruth Dureghello, all'indomani della sentenza di proscioglimento di due tifosi che avevano intonato allo stadio il coro «giallorosso ebreo» ed erano stati denunciati per odio razziale.

 «Necessario intervenire»
  «Si tratta indubbiamente di un precedente allarmante per la giustizia di questo Paese - così Dureghello nella lettera - che, in sostanza, legittima l'utilizzo dell'aggettivo ebreo in forma dispregiativa e razzista e comunque come strumento di derisione durante gli eventi sportivi». Secondo la presidente «è ineluttabile il rischio che deriverà da una acritica e passiva accettazione di questa linea di pensiero». E perciò «è necessario intervenire per far sì che questa sentenza, che stentiamo a comprendere per la sua astratta devastante portata e le cui motivazioni attendiamo di leggere con interesse e allarme, non produca risultati nefasti soprattutto in prossimità di eventi sportivi carichi di rischi, tensioni e conflittualità».

 Il ministero: disposte verifiche
  Un appello a cui il ministero della Giustizia ha risposto nel giro di poche ore. In serata infatti il ministro Orlando ha detto: «Abbiamo chiesto di acquisire le motivazioni». Che verranno lette «prima di avviare qualunque procedura».

 Cicchitto: «Giudice cieco e sordo»
  «Ha perfettamente ragione la presidente della Comunità ebraica romana - interviene il presidente della commissione Esteri della Camera, Fabrizio Cicchitto - Il coro "giallorosso ebreo" ha una evidente intenzionalità razzista. Di fronte a ciò il gup di Roma è cieco, sordo o qualcosa di peggio».

(Corriere della Sera, 6 febbraio 2017)


Noto. Tre giorni di archeologia e scambio culturale con una delegazione Israeliana

News Noto: scambi culturali e visite nei siti archeologici del territorio. Queste le attività in programma per i prossimi 9, 10 e 13 febbraio al Consorzio Universitario del Mediterraneo Orientale (CUMO). Un'iniziativa resasi possibile grazie al protocollo d'intesa siglato tra Cumo, l'Istituto Internazionale di Cultura Ebraica e la Cartha delle Judeche.
   Il Cumo, nell'ottica dell'internazionalizzazione ed ampliamento dell'offerta formativa, ospiterà una delegazione del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Tel Aviv di Israele, al fine di porre le basi per una più vasta offerta formativa che potrebbe prevedere l'istituzione di 2 nuovi corsi di Laurea internazionali in Archeologia ed Agraria.
   In tale ottica di ampliamento delle attività didattiche, per l'anno accademico 2017/2018 verrà attivato il corso di psicologia con l'Università di Messina, il cui iter di ufficializzazione si sta completando proprio in questi giorni, come informa il direttore scientifico del Cumo Prof. Salvatore Cavallo.
   La delegazione israeliana, presieduta dal Direttore del Progetto Archeologico es-Safi-Gat Prof. Aren Maeir, e coordinata in Sicilia dal Avv. Baruk Triolo, Presidente della Charta delle Giudecche, sarà accolta dall'Amministratore delegato del Cumo dott. Rosario Pignatello che, in qualità di archeologo, nel corso dei tre giorni fungerà da "Cicerone" per le visite nei siti di Noto Antica, Eloro, Cittadella di Maccari, Cava del Carosello e Tomba del carciofo.
   Il professor Meier sarà inoltre ospite al Comune, del Sindaco Corrado Bonfanti, il quale presenzierà anche alla tavola rotonda con gli altri Sindaci dei Comuni di Noto, Avola, Pachino, e Portopalo di Capopassero. Secondo il Vice Presidente del Cda del Cumo, Corrado Spataro "l'obiettivo della tavola rotonda è quello di discutere su possibili ipotesi in merito a interventi ed attività, in ambito archeologico e non solo, da effettuare sui Comuni del territorio".
   A fungere da avvenimento centrale dell'incontro con la delegazione israeliana e da fulcro della collaborazione con l'Istituto Internazionale di Cultura Ebraica e il Bar Ilan University, sarà la lezione magistrale che si terrà lunedì 13 febbraio alle ore 18 nell'Aula Magna del Cumo. Moderato dal Prof. Antonello Capodicasa, Presidente del Cumo, l'evento sarà l'occasione in cui il professore Meier tratterà l'Archeologia di Gerusalemme.
   Prenderanno, inoltre, la parola il Dott. Giovanni Distefano (Università della Calabria) con un intervento su "Giudei nella Sicilia sud-orientale in periodo antico". Seguirà l'amministratore del Cumo dott. Rosario Pignatello, che interverrà con un contributo su "Cittadella di Maccari presso il pantano Rovereto (Noto) - alcune considerazioni topografiche".
   L'iniziativa sarà realizzata con l'importante collaborazione delle sedi Archeoclub di Noto, Avola e Rosolini. Le tre associazioni sono infatti da anni coinvolte nella realizzazione di eventi ed attività rivolte alla valorizzazione e tutela del patrimonio archeologico dei rispettivi Comuni. Le tre presidentesse Archeoclub, rispettivamente Dott.ssa Laura Falesi, Dott.ssa Clara Artale e Prof.ssa Milceri, ritengono che tale iniziativa sia un'occasione molto importante per il comprensorio sud - orientale della Sicilia.

(Siracusa Times, 6 febbraio 2017)


Colpire una sinagoga è "criticare Israele"

L'Europa di nuovo succube di quell'odio antico

da Israel Hayom

Alla fine della Shoah, il capitolo più buio della storia europea, la comunità internazionale e il popolo ebraico dissero coralmente 'mai più'. Eppure oggi, settantadue anni dopo, siamo qui di nuovo a dover ripetere: mai più. Per qualcuno questo può essere solo uno slogan vuoto. Non per noi: non per il popolo ebraico, non per lo stato di Israele ( .. .) Incredibilmente, un tribunale tedesco ha stabilito che l'attacco con bombe molotov a una sinagoga appena fuori Düsseldorf non costituisce un atto di antisemitismo, ma una forma di legittima protesta politica contro Israele. La stessa sinagoga era già stata attaccata durante la 'Notte dei Cristalli'. Questa è la triste e pericolosa realtà che si trovano di fronte oggi le comunità ebraiche in Europa, molte delle quali sono costrette a vivere nell'ombra con la paura costante dell'antisemitismo (. . .). L'attacco alla legittimità di Israele come stato nazionale del popolo ebraico, che comprende il ricorso a false accuse mascherate da legittima critica del sionismo e di Israele, costituisce la manifestazione odierna dell'odio pregiudiziale antiebraico, cioè dell'antisemitismo".

(Il Foglio, 6 febbraio 2017)


Israele: Nuovo programma per sostenere startup e imprenditori

L'Israel Innovation Authority, l'autorità che nella Startup Nation si occupa di innovazione, ha messo a punto un nuovo programma chiamato Technological Innovation Labs che mira a spingere le aziende a creare laboratori di innovazione per sostenere le startup nel loro campo di interesse.
Avi Hasson, Chief Scientist del Ministero dell'Economia e Presidente dell'Israel Innovation Authority, commenta:
L'innovazione è cruciale per lo sviluppo delle imprese nella nostra economia avanzata. Questo programma aiuterà le aziende israeliane che operano in questi laboratori a crescere e a rafforzare la loro posizione. [..] Questo darà una spinta nello specifico all'industria israeliana ed in generale all'economia israeliana.
Il programma mira a fornire un sostegno agli imprenditori e alle startup che hanno idee innovative e sono desiderose di sviluppare le loro idee in prodotti. Esso mira inoltre anche alle multinazionali le quali potranno utilizzare i laboratori per attingere dalle nuove tecnologie, ma anche sostenere le startup, dando loro accesso alla loro infrastruttura tecnologica.
Come parte del programma, sia gli imprenditori che startup potranno ottenere il sostegno di questi laboratori, tra cui gli strumenti di sviluppo, il know-how in materia di mercati e marketing, e l'esperienza nella valutazione e la creazione di prodotti.
L'Autorità fornirà un sostegno finanziario alle imprese che stabiliranno nel Paese i laboratori. Inoltre finanzierà il 33% dei costi di creazione delle infrastrutture di laboratorio e renderà accessibile la tecnologia. Questo importo salirà al 50% per i laboratori allestiti in aree periferiche del paese.
Un invito a presentare proposte sarà pubblicato alla fine del mese, con un massimo di cinque nuovi laboratori di innovazione tecnologica selezionati tra le proposte l'Autorità Innovazione, ha detto Hasson nella dichiarazione.

(SiliconWadi, 6 febbraio 2017)


Nuove manovre diplomatiche per l'ingresso di Israele nell'Unione Africana

ALGERI - Fonti etiopi, riprese ieri dal quotidiano algerino "Echourouk", hanno parlato di "nuove manovre diplomatiche in corso per consentire ad Israele di entrare nell'Unione Africana (Ua)". Dopo il ritorno del Marocco in seno all'organismo pan-africano, si torna di nuovo a parlare di un'idea di ingresso dello Stato ebraico nell'Unione africana. Nei giorni scorsi la stampa etiope aveva parlato della "possibilità di rivedere la posizione della maggioranza dei paesi africani che avevano boicottato le relazioni con Israele nel 1973 in solidarietà con l'Egitto". Resta l'incognita della reazione dei paesi arabi africani alla luce della presenza di numerose organizzazioni islamiche nella regione tra partiti politici e le organizzazioni non governative.

(Agenzia Nova, 6 febbraio 2017)


Quattro sudtirolesi tra gli aguzzini di Auschwitz

Online la lista delle SS messe a guardia del campo: tra loro i bolzanini Pichler, Hager e Kaufmann e il meranese Gufler

di Mario Bertoldi

BOLZANO - La pagina nera della storia sudtirolese riguardante la partecipazione convinta di poco meno di cinquemila optanti alla Germania di Hitler, si arricchisce di un nuovo importante tassello di ricostruzione storica. Lo ha fornito nelle ultime ore l'istituto polacco della memoria che sta lavorando da anni per dimostrare che i polacchi furono vittime e non attori della «fabbrica della morte» nazista realizzata ad Auschwitz-Birkenau in territorio polacco durate l'occupazione tedesca, dal 1939 al 1945.
   L'Istituto polacco della memoria (istituito nel 1989 dopo la fine della dittatura comunista) ha diffuso un elenco di 9686 nomi di persone che hanno operato all'interno del campo di sterminio secondo le disposizioni del comando nazista. Veri e propri aguzzini al servizio del Führer (con diversi ucraini, lituani e lettoni) e del piano di sterminio degli ebrei deciso nel 1942 alla conferenza di Wannsee presso Berlino dai gerarchi del Reich e organizzato con atroce efficienza e precisione industriale dal capo delle SS Heinrich Himmler e dal fedelissimo Adolf Eichmann.
   Il nuovo elenco di chi collaborò nella fabbrica della morte di Hitler è stato compilato dallo storico polacco Aleksander Lasik, a capo di un team di ricercatori che ha consultato archivi polacchi, tedeschi, austriaci, americani, russi e di altro Paesi.
   Nell'elenco compaiono anche i nomi di quattro sudtirolesi: Hans o Johann Pichler (nato a Bolzano nel 1901), Anton Hager (nato a Bolzano nel 1912), Hans Gufler (nato a Merano nel 1915) ed Ernst Kaufmann (nato a Bolzano nel 1920). Secondo quanto emerge dai documenti storici, i quattro avrebbero avuto ruoli diversi all'interno del campo di sterminio gestito dalle SS. Pichler sarebbe stato semplice tiratore (SS-Schütze), Hager artigliere (SS-Sturmann), Gufler e Kaufmann comandanti di pattuglia (SS-Rottenführer o SS-Unterscharführer). Secondo il direttore del Museo di Auschwitz, Piotr Cywinski, la ricerca è stata difficile, a causa della distruzione sistematica dei loro archivi da parte dei nazisti.
   Gli storici sudtirolesi, però, non si sono dimostrati sorpresi dalle nuove rivelazioni. E' probabile che col tempo emergano anche altri nomi di chi decise nel 1939 di lasciare l'Alto Adige e l'Italia fascista per mettersi al servizio della Germania nazista. Fu l'effetto delle opzioni. Forse anche per questo la percentuale di adesione al nazismo tra la popolazione sudtitolese fu più elevata rispetto ad altre zone di reclutamento.
   Un particolare già emerso due anni fa nel libro di Thomas Casagrande, studioso e storico di Francoforte, figlio di un SS sudtirolese mai pentito. Il padre Otto nativo di Laives, è morto nel 1990 di infarto durante un raduno di veterani dell'organizzazione paramilitare d'elite del partito nazionalsocialista tedesco. Nel libro Casagrande parla di «comportamento esemplare e convinzione fantatica» di molti sudtirolesi affascinati all'epoca dal regime di Hitler. Sarebberpo stati dai 3500 ai 5000. «Chi decise di arruolarsi nelle SS - spiega lo storico Leopold Steurer - non lo fecero certo contro la propria volontà. E' però strano che dopo il 1945 nessuno dei sopravvissuti abbia deciso di parlare».

(Alto Adige, 6 febbraio 2017)


Ong che flirtano con il terrore

L'Unione Europea finanzia gruppi dediti a distruggere Israele

da Yedioth Ahronoth

Il Consiglio d'Europa, organismo che si compone di tutti i paesi europei ed è più ampio dell'Unione europea, ha adottato un rapporto scritto da Eva-Lena Jansson, esponente del Partito socialdemocratico svedese, che accusa Israele di perseguire "uno spaventoso schema di uccisioni illegali, evidentemente sistematiche" di civili innocenti. Il columnist del primo giornale israeliano, Ben-Dror Yemini, rivela che il rapporto si basa sulle considerazioni della ong al Mezan, supportata da Svezia, Svizzera, Danimarca, Norvegia e Paesi Bassi.
"Al Mezan sostiene il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, che è parte di una più ampia campagna fondata sulla negazione del diritto di Israele a esistere", scrive Yemini. "Come al solito, ecco dei paesi europei che finanziano enti che diffondono rapporti teoricamente sui 'diritti umani', in realtà al servizio di una campagna contro la concreta esistenza di Israele (. .. ) Anche la ong israeliana Gisha ha pubblicato un rapporto, la settimana scorsa, sulle condizioni degli abitanti della striscia di Gaza. I finanziamenti provengono da fonti simili a quelle di al Mezan e le conclusioni sono quelle già note in anticipo: è tutta colpa di Israele. Stando alla propaganda horror di al Mezan e Gisha, supinamente adottata dal Consiglio d'Europa, è sempre tutta colpa di Israele". Il giornale israeliano li definisce "servizi che rendono bene, e gratuitamente, alla propaganda del jihad".

(Il Foglio, 6 febbraio 2017)


Servizi sociali, Italia e Israele a confronto

Domani all'Università di Bari il convegno di Fondazione Zancan e associazione di promozione sociale Carmela Giordano

Italia e Israele a confronto sull'organizzazione e la gestione dei servizi sociali con particolare attenzione alla tutela dell'infanzia.
Avverrà nel corso del convegno intitolato "Quale il contributo dei servizi socio-educativi all'innovazione del welfare nell'area del Mediterraneo?", curato e organizzato dalla Fondazione Zancan e dalla associazione di promozione sociale Carmela Giordano, con il patrocinio dell'Ordine degli Assistenti Sociali della Puglia e della Fondazione Firss. L'evento è in programma domani nell'Aula Magna dell'Università degli Studi di Bari, a partire dalle 9.30.
Il convegno rientra nel progetto di scambi internazionali dell'Istituto Haruv di Gerusalemme. L'obiettivo è di incentivare la collaborazione tra università, centri di studio, aziende sanitari locali, enti locali e ong, per la promozione di una condivisione delle conoscenze e delle competenze in materia di sviluppo di servizi, politiche sociali e politiche socio-sanitarie per bambini disabili, maltrattati e vittime di abuso.
Haruv, dal 2016, promuove un confronto con le realtà del Mediterraneo tra cui l'Italia ed in particolare la Puglia. Il progetto prevede momenti di scambio di esperienze in aula e nei servizi del territorio. Una delegazione italiana composta da assistenti sociali, anche consiglieri dell'ordine, è stata in Israele nel gennaio 2016. Nel corso della prossima settimana, invece, una delegazione di operatori israeliani visiterà diverse strutture pugliesi che operano nel settore dei servizi sociali dedicati ai bambini.

(Barilive.it, 5 febbraio 2017)


In viaggio per conoscere Israele, la visita dei parlamentari italiani

 
Gerusalemme e Tel Aviv, ma anche il parco tecnologico di Beer Sheva, una base dell'aereonautica, i villaggi al confine con Gaza. Queste alcune delle tappe del viaggio organizzato dall'Associazione Appuntamento a Gerusalemme guidata da Anita Friedman, in collaborazione con l'Ambasciata di Israele a Roma, per una delegazione di 26 parlamentari italiani appartenenti alle forze di tutto l'arco politico, dal Partito Democratico alla Lega, dal Movimento Cinque Stelle al Nuovo Centro Destra (tra loro, il presidente dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele Maurizio Bernardo). Per deputati e senatori, la maggior parte dei quali in visita nel paese per la prima volta, anche l'occasione di incontrare diversi esponenti della società civile e del mondo politico israeliano, tra cui il Ministro dell'Energia e delle risorse idriche Yuval Steinitz, che ha descritto la situazione del paese per quanto riguarda le tematiche trattate dal suo dicastero, ricordando anche le opportunità di lavoro comune, specie in materia di sfruttamento dei bacini di gas naturale recentemente scoperti.
A Tel Aviv la delegazione ha visitato tra l'altro la Sala dell'Indipendenza e la mostra sull'Alyah Bet al Museo di Eretz Israel, nella giornata a Gerusalemme sarà alla Knesset e a Yad Vashem.
A ricordare l'importanza di queste occasioni di incontro nella prospettiva di costruire una collaborazione sempre crescente è stato l'ambasciatore Francesco Maria Talò, accogliendo il gruppo nella sua residenza di Ramat Gan. "Italia e Israele condividono lo stesso mare, il Mediterraneo, e da questa dimensione comune dobbiamo partire per migliorare le relazioni tra i paesi dell'area".

(moked, 5 febbraio 2017)


Trump, scenari inquietanti

di Maurizio Del Maschio

La cauta soddisfazione per la vittoria di Donald Trump alle elezioni americane non è dovuta solo alla necessità di farla finita con le disastrose politiche internazionali della presidenza Obama, che sono state concretamente realizzate da John Kerry e da Hillary Clinton in veste di Segretari di Stato nel primo e nel secondo mandato obamiano e che sarebbero state certamente proseguite con pochi aggiustamenti se la Clinton avesse vinto. Il fatto di non avere più un presidente nemico della Russia e di Israele, protettore degli islamisti, che negozia in perdita con l'Iran né qualcuno che porti avanti il suo pericoloso disegno, è certamente un grande sollievo, perché gli errori della politica estera americana sono pagati da tutti noi. La fine del mandato di Obama è stata segnata da qualche insidioso colpo di coda, come la votazione USA all'ONU per tentare di imporre a Israele le richieste palestiniste di sovranità su gran parte della Giudea e sulla Samaria senza alcuna garanzia o la rabbiosa espulsione dei diplomatici russi senza che la pubblica opinione sia stata resa edotta delle motivazioni di un tale grave gesto.
  Ma i motivi che giustificano una cauta soddisfazione vanno oltre. La direzione politica e intellettuale dell'Europa, nell'ultimo decennio anche degli Stati Uniti, è stata dettata da un pensiero unico, autodefinito "progressista" mentre nei fatti è reazionario e revanscista, votato a rimettere in piedi i vecchi argomenti della propaganda comunista: il terzomondismo, le colpe dell'Occidente, l'insostenibilità del capitalismo sempre dipinto come in procinto di autodistruzione. In aggiunta, altri temi riciclati sono l'ecologismo radicale e l'allarme per il riscaldamento globale da combattere non con le tecnologie avanzate ma con la "decrescita felice", al grido di "proletari di tutto il mondo unitevi" che diventa opposizione cieca alla diffusione della ricchezza, lotta allo "Stato imperialista delle multinazionali" e, oggi, la giustificazione dell'invasione islamica dell'Europa vista con favore e come rimedio alla denatalità del nostro continente.
  Il vecchio marxismo di un secolo e mezzo fa aveva un impianto teorico serio, quantunque fosse clamorosamente inadeguato sul piano empirico e incapace di vedere i lati positivi, oltre a quelli negativi, del progresso. Esso era geneticamente oppressivo e illiberale anche prima di arrivare al potere. La versione aggiornata, inadeguata e confusa di esso è il pensiero neo-progressista e postmoderno che circola da almeno vent'anni. Il suo fondamento nel gergo universitario americano si chiama "intersectionality". Con tale termine si auspica che tutte le "lotte" confluiscano in un unico alveo: dalla questione omosessuale al sostegno al terrorismo di matrice islamista, dalla polemica contro la polizia che odia i neri (come se anche molti poliziotti non fossero neri e le vite umane non dovessero contare al di là del colore della pelle) al sostegno per il fossilizzato regime di Cuba, dal convincimento cieco e assoluto che la causa del riscaldamento globale sia dovuta solo all'attività umana al sostegno dell'immigrazione e così via. L'intersecazione di queste posizioni ritenute buone costituisce il luogo della civiltà e del progresso. Al contrario, coloro che si preoccupano di altro o si oppongono come Israele, i sionisti, i difensori dei diritti umani nelle dittature islamiste, gli antimarxisti, gli economisti liberali, sono il male da combattere. Come diceva Karl Marx, nella storia gli stessi fenomeni si presentano prima come tragedia e poi come farsa e il progressismo postmoderno è la caricatura farsesca della tragedia comunista con le sue decine di milioni di vittime. Essa è stata la fede che in questi decenni ha unito politici, intellettuali, studenti militanti e anche non pochi influenti uomini di chiesa, determinando le assurdità e i cedimenti della politica europea e americana i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. Nel gergo marxista si chiama "egemonia" quella situazione in cui una parte sociale "persuade" tutte le altre, compresi i suoi avversari, che i suoi obiettivi e l'ideologia che li giustifica sono giusti e utili per l'intera collettività. È proprio ciò che è avvenuto nella presente fase storica. Una classe di meschini burocrati e demagoghi da campus universitario o da salotto ha convinto molti che le sue convinzioni e i suoi comodi fossero il nuovo verbo da seguire: la regolazione universale, le tasse viste come un'inevitabile cosa buona, l'assistenza come ideale di vita, l'odio per l'intraprendenza e la ricchezza, l'"accoglienza" degli irregolari per compensare la sfiducia procreativa della popolazione europea e così via.
  L'ideologia postmoderna del progressismo fonde insieme istanze diverse e spesso incompatibili e contraddittorie: Buonismo contrabbandato da bontà, burocrazia cieca, antioccidentalismo, libertinismo edonista, dirigismo economico, pacifismo e comprensione giustificatrice per il terrorismo. Non è questo il luogo per discutere sulle radici che hanno dato frutti così velenosi e disomogenei. Spesso questa nuova forma di fede non tiene conto della realtà delle cose, ma ciò è nella natura dell'ideologia che, tra i fenomeni e le teorie, si concentra sempre su queste ultime senza curarsi dei primi. Resta il fatto che l'idolatria preventiva del Premio Nobel Obama e il trionfo mediatico del papa Francesco hanno dato origine ad una sorta di inedita e strana religione laica.
  Questa nuova e perniciosa tendenza ha trovato imprevisti ostacoli prima nella riconferma di Benjamin Netanyahu alla guida del governo israeliano, poi nella Brexit e infine nella vittoria di Donald Trump, oltre che da una serie di avversi risultati elettorali europei che probabilmente continueranno. L'egemonia si è incrinata, non riesce più a convincere chi non vuole più tollerare la minaccia alle proprie convinzioni e ai propri interessi. Ciò ha provocato la rabbiosa reazione in coloro, anche nei media e fra gli opinion leaders, che continuano a non voler capire perché le masse hanno cominciato a rifiutare di seguirli. La loro scomposta opposizione è giunta all'insulto nei confronti dei reprobi individuati con disprezzo fra i vecchi, i poveri, i provinciali, i rozzi, i razzisti, gli ignoranti. Nella loro delirante isteria, sono arrivati persino a mettere in dubbio una conquista democratica basilare come il suffragio universale. La costernazione per la sconfitta della Clinton ha assunto forme grottesche: seminari consolatori nelle università americane, editoriali sdegnati, intellettuali scandalizzati, manifestazioni di piazza in servizio permanente, gente di spettacolo dalle tasche piene e dalla testa vuota che ha minacciato di abbandonare gli States ma sicuramente non lo farà, giudici politicamente schierati che fanno strame delle leggi invocando a sproposito la costituzione. È un circolo vizioso che denuncia una confusione profonda. Ai loro occhi gli avversari non sono semplicemente concittadini di diversa opinione politica, ma dei mostri malvagi da condannare moralmente. Non è una novità, si sono viste analoghe reazioni contro Netanyahu e, al loro tempo, contro Vladimir Jabotinskij e Menachem Begin.
  Non funziona più la propaganda che per decenni è servita a plasmare le masse rendendole docili mascherando la vera natura di decisioni ingannevolmente assunte nell'interesse del popolo, a pianificare interventi militari basati su ipocrite giustificazioni morali. Viviamo un'epoca di risvegliata riscossa, perché un numero crescente di cittadini sta capendo l'inganno e rifiuta di vivere in un mondo dove le promesse restano virtuali mentre il malessere è sempre più reale e diffuso.
  Oggi si diffonde la percezione della parzialità dell'informazione e della manipolazione dell'opinione pubblica. L'influenza dei grandi media, fino a poco tempo fa dilagante e incontrastata soprattutto in Paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti ma anche l'Italia, risulta non avere più presa. La gente comincia a non credere più alla televisione, ai giornali prezzolati, ai politici tradizionali. Cerca altrove le risposte alle proprie domande, ai propri dubbi, trova il coraggio di ribellarsi di unirsi ad altri che hanno le stesse inquietudini, per difendere i propri valori, la democrazia, il proprio benessere minacciato. C'è da augurarsi che il processo di dissoluzione dell'ideologia progressista postmoderna possa continuare nonostante le sue scomposte reazioni. Abbiamo l'occasione per uscire da questa coltre ideologica così oscura e ingannevole. Occorre guardare la realtà con occhi limpidi e non farsi confondere dalla minaccia del progressismo postmoderno che reagisce rabbiosamente ed è solo uno strumento nelle mani dei veri poteri dominanti.

(Online News, 5 febbraio 2017)


Israele è più vicina: nuovi voli Ryanair ed Alitalia

di Simone Agutoli

Nuovi voli per Tel Aviv ed Eilat Ovda, nella parte meridionale dello Stato di Israele. Ad annunciarli sono stati, nei giorni scorsi, i vettori aerei Ryanair e Alitalia.

 Con Ryanair biglietti per Israele a € 14,99
  La compagnia aerea irlandese ha programmato ben 19 rotte (di cui 15 nuove) che collegheranno l'Europa con Tel Aviv e Eilat Ovda. L'annuncio, fatto con il Ministero del Turismo di Israele, è stato accompagnato da un'interessante offerta di lancio: fino a lunedì 6 febbraio sarà possibile acquistare i biglietti per voli di febbraio e marzo a partire da € 14,99. In particolare, Ryanair offrirà 6 collegamenti settimanali dall'aeroporto di Bergamo-Orio al Serio, 4 dei quali verso Tel Aviv ed altri 2 per Eilat Ovda, secondo scalo del paese. Quest'ultima città rappresenta una consigliata meta marittima e naturalistica per 365 giorni l'anno, grazie al clima mite anche d'inverno e all'ampia offerta turistica. Potete prenotare il vostro volo direttamente dal sito di Ryanair.

 L'offerta di Alitalia per Tel Aviv
  Il vettore aereo italiano ha invece annunciato, quasi in contemporanea, nuovi collegamenti diretti Roma-Kiev e Tel Aviv-Atene, a partire dall'estate. Un annuncio sicuramente importante in quanto per Alitalia è il primo collegamento che non riguarda un aeroporto italiano. Ricordiamo che, comunque, il vettore italiano collega già l'Italia con Israele, in particolare con voli in partenza da Roma-Fiumicino. Prezzi di andata e ritorno con partenza da un aeroporto italiano (con scalo a Fiumicino) a partire da €181. Potete vedere i voli e le relative promozioni direttamente da questa pagina.
Infine, Alitalia ha comunicato che dal mese di agosto entrerà in flotta il primo Boeing 777-300ER che diventerà così la nuova ammiraglia della compagnia.

(ViaggiNow, 5 febbraio 2017)


Nella base israeliana dove 007 e militari combattono i terroristi

Viaggio nel più importante centro di controllo per la sicurezza: "Puntiamo a isolare gli estremisti"

di Giordano Stabile

Nablus
NABLUS - Dalle pendici del Monte Gerizim si vede tutta Nablus. Il maggiore Elitsur Trabelsi mostra la grande area urbana, quasi mezzo milione di abitanti, dal suo binocolo. «Nota qualcosa?». La risposta la dà lui stesso: «Non ci sono più posti di blocco». È uno dei motivi di orgoglio di Trabelsi e della Brigata Shomon, piantata nel cuore di una delle aree palestinesi più difficili e conflittuali. La Seconda Intifada era stata un inferno. Quella «dei coltelli» era cominciata proprio qui, con l'uccisione di Eitam e Naama Henkin, vicino all'insediamento di Itamar, il primo ottobre 2015. Ma da allora, la strategia delle forze anti-terrorismo israeliane è cambiata.
   «Quando vedo Berlino, Parigi, altre città europee piene di blocchi di cemento mi viene un colpo - spiega Trabelsi -. É una vittoria dei terroristi. L'esperienza ci ha insegnato che meno barriere si creano, più si lascia la popolazione libera di muoversi, più si fa pendere la bilancia dalla parte di quelli che vogliono vivere in pace, e si isolano gli estremisti». La sindrome dell'assedio è la prima cosa che le forze anti-terrorismo vogliono combattere. Dalla strada che scende dall'insediamento di Har Bracha si sbuca a una rotonda che collega ai sobborghi meridionali di Nablus. Grossi cartelli rossi indicano l'ingresso nell'Area A, cioè quella sotto controllo palestinese.
   É uno dei «punti caldi», dove si è verificato più di un attacco. Non ci sono barriere. Solo paletti gialli, molto robusti, a proteggere la fermata dell'autobus. Trabelsi mostra un video sul cellulare. Un furgoncino che dirige a tutta velocità verso la fermata e rimbalza sui paletti. «Attacco sventato». L'altro cambiamento è nell'addestramento degli uomini. «Dobbiamo capire che la stragrande maggioranze dei palestinesi vuole lavorare, pensare alla famiglia. Ora tutti i soldati seguono corsi per imparare a individuare da piccoli segnali il potenziale terrorista, nervosismo, abbigliamento».
   L'altro cambio di strategia è nel lavoro di intelligence. «Siamo di fronte a cellule molto meno strutturate in superficie, ma con dietro reti complesse. Per l'attacco alla famiglia Henkin pensavamo che il gruppo fosse di tre individui. Poi abbiamo scoperto 40 complici». Il controllo del territorio serve alla lotta «in superficie», l'Intelligence, a quella «in profondità». Soprattutto sul web. Perché la nuova ondata di attacchi trova ispirazione soprattutto in rete. E qui è in corso una gara fra gruppi estremisti, compreso l'Isis, per attirare nelle proprie file palestinesi radicalizzati.
   Al più importante centro di comando dell'Intelligence militare si arriva scendendo per la famigerata Route 60, teatro di molti attacchi. «Abbiamo neutralizzato numerose cellule dell'Isis», conferma un maggiore alla base della Divisione Ayosh, vicino a Ramallah. La sua unità informatica batte i social media, controlla e-mail, in una corsa continua a prevenire attentati. «Gli aspiranti seguaci del Califfato cercano contatti all'esterno, con la leadership dell'Isis - spiega l'ufficiale-. E questo ci aiuta a individuarli. Ma il fenomeno mostra quanto lo Stato islamico sia determinato a soppiantare altri gruppi estremisti, come Hamas, e a radicarsi nei Territori».
   All'Isis, l'Intelligence imputa di sicuro l'attacco a Tel Aviv del 1o gennaio 2016, e quello al mercato Sarona di giugno. Un altro fenomeno che ha colto in contropiede l'anti-terrorismo israeliano è il proliferare delle fabbriche artigianali di armi. «A un cento punto - conferma l'ufficiale - il costo di una pistola era sceso a 300, 400 shekel, cento dollari. Nel 2015 non siamo riusciti a individuare neanche una fabbrica clandestina. L'anno scorso ne abbiamo scoperte 43. E i prezzi delle armi hanno ricominciato a risalire». I centri di produzioni sono soprattutto nascosti nei retro di officine meccaniche, fabbri. Ma possono essere anche in case private. Soprattutto per quanto riguarda la produzione di esplosivi.
   Alla base di Tel Hashomer c'è il laboratorio che si occupa di studiare le bombe artigianali, e tutti i possibili componenti. Ne elenca qualcuno il colonello Tuval Eron: «Acetone per togliere lo smalto delle unghie, cloro, soda caustica, farina di semola, acqua ossigenata, liquido anti-gelo». Tutta roba che si trova in casa o al supermercato. Ma che, per esempio, «serve a produrre esplosivi come il Tatp, o l'Egdn, quasi tre volte più potenti del tritolo, usato anche nell'attentato all'aeroporto di Bruxelles». Per dimostrazione, il colonnello fa detonare mezzo grammo di Egdn in un cucchiaino. Una bella fiammata. E nelle valige a Bruxelles ce n'erano «40 chili». Il laboratorio serve anche a testare i cani, le macchine usate da esercito, polizia, negli aeroporti, per individuare nuovi esplosivi: «É una gara che non finisce mai e noi dobbiamo essere più furbi e svelti di loro».

(La Stampa, 5 febbraio 2017)


Il destino degli ebrei già scritto nella Praga del '600

Torna il capolavoro di Leo Perutz ambientato all'epoca dell'imperatore Rodolfo II e di Rabbi Löw, creatore di un «Ecce Homo» giudaico. Più utile di tante giornate della Memoria per capire la Shoah.

di Felice Modica

 
Leo Perutz
Si dice che, al pari di Kafka, avesse un cattivo carattere e che ciò non abbia favorito i suoi rapporti con la critica mentre era in vita. Da morto, invece, tutti gli hanno tributato onori, a cominciare da Borges, Fleming e Adorno. Leo Perutz (1882-1957), popolarissimo presso un vasto pubblico negli anni Venti e Trenta, quando pubblica i suoi libri viene quasi sistematicamente ignorato dai critici, ma non sembra importargliene molto. Di professione è un matematico assicurativo - una formula porta addirittura il suo nome - e ha scritto sotto pseudonimo un manuale di bridge bestseller nei Paesi anglosassoni. Lui è ebreo, figlio di un industriale tessile di Praga, trasferitosi a Vienna alla fine dell'Ottocento a causa di un incendio che gli ha bruciato la fabbrica; è costretto dall'Anschluss, l'annessione del 1938 alla Germania nazista, a emigrare a Gerusalemme. Ma, nonostante vi abbia trascorso pochi anni d'infanzia, Praga resta la sua città, e le radici ebraiche e boeme saranno la personale ossessione letteraria.
   Di notte sotto il ponte di pietra (e/o, pp. 236, euro 16, traduzione di Beatrice Talamo e postfazione di Marino Freschi) è il capolavoro, che comincia a scrivere già nel 1927, completandolo solo all'inizio degli anni Cinquanta. Romanzo storico, ambientato nel Cinquecento, assieme al Processo di Kafka e a Il Golem di Meyrink è il libro più rappresentativo della letteratura ebraico-praghese. Sintesi di un'epoca e di un'atmosfera che non torneranno, tutte e tre le opere - come nota Freschi - sono state concepite nel secolo che ha visto la tragica scomparsa dell'ebraismo praghese e, pur nella loro diversità, rievocano «l'essenza spirituale di quella misteriosa koinè di popoli, lingue, etnie e religioni che era la Praga asburgica».
   Personaggi storici popolano il libro di Perutz, che si snoda per 14 racconti autonomi, ma tutti legati da un comune filo conduttore. È l'epoca di Rodolfo II (l552-1612), malinconico imperatore del Sacro romano Impero che ha spostato la sede dell'impero da Vienna a Praga. Qui il sovrano, amico degli ebrei, già colpito da malattia mentale, raccoglie una gigantesca collezione di opere d'arte e curiosità di ogni specie (la maggior parte delle quali andranno distrutte nella guerra dei Trent'Anni. Ma alcune, tra cui quadri di Brueghel il vecchio, Dürer, Correggio, il Parmigianino, si trovano ancora nella pinacoteca di Praga).
   L'imperatore è uno dei protagonisti del romanzo, innamorato di Esther, la bella ebrea moglie di Mordechai Mesl, la sua «banca privata», l'uomo che gli presta tutto il denaro di cui ha bisogno. Ma questo amore esiste solo nei sogni e, nondimeno, è qualcosa di reale, di perfettamente iscrivibile nella Praga magica e perduta di Perutz. Così infatti ha voluto Rabbi Lòw, il mitico Judah Loew ben Bezalel, rabbino, alchimista, esperto nella Cabala, nonché creatore del Golem. Rabbi Löw è un personaggio reale, ancora oggi venerato.
   Sullo sfondo, il ghetto di Praga, dove l'imperatore cristiano e il ricco ebreo Mesl si scontrano quasi senza accorgersene: due facce della stessa medaglia; due grandi perdenti a lungo inconsapevoli della loro rivalità. Sarà nel ghetto che il sommo Rabbi Löw ( che, annota ancora Freschi, «nella sua mistica pienezza» compare nel primo, nel settimo e nel quattordicesimo capitolo, rispettando la frequenza cabalistica del divino sette), nel racconto del quarto capitolo, intitolato «La sarabanda», compirà il prodigio di materializzare con un gesto un Ecce Homo giudaico, «che non era il Salvatore, non il figlio di Dio né il figlio del falegname giunto nella città santa dai monti della Galilea per insegnare alla gente e per patire la morte a causa del suo insegnamento», ma un Ecce homo di tipo diverso. «No, non andare nel ghetto», ammonisce l'autore, «lo cercheresti inutilmente. Gli anni, il vento, il tempo lo hanno distrutto e non ne sono rimaste tracce. Ma va' per le strade, dove vuoi, e quando vedi un vecchio venditore ambulante ebreo che trascina il suo fardello di casa in casa mentre i ragazzi di strada gli corrono dietro, gridando "Ebreo! Ebreo!" e gli buttano addosso pietre ed egli si ferma e li guarda con uno sguardo che non è il suo, che proviene dai suoi avi e antenati, che, come lui, hanno portato la corona di spine del disprezzo e hanno sopportato i colpi di frusta della persecuzione - se vedi questo sguardo, allora, forse, avrai visto qualcosa, poco, pochissimo, dell'Ecce homo del sommo Rabbi Löw». Il che, più di tante celebrazioni della Shoah, appare, insieme, la rivendicazione di una appartenenza e la descrizione perfetta - in pratica una fotografia - del destino di un popolo.

(Libero, 5 febbraio 2017)


Gaza si ribella ad Hamas e incorona nuovi leader. "Ci state solo affamando"

Mohammed, 24 anni, è il "Guevara" della Striscia Guida le proteste che stanno dilagando nelle città

di Fabio Scuto

GAZA CITY - Le notti di Gaza sono nere come la pece, senza illuminazione per le strade, senza luci nelle case. Agli angoli di qualche strada si vede il baluginio delle fiamme che ardono in un vecchio bidone, una piccola folla intorno riunita in cerca di calore. La Striscia e i suoi due milioni di abitanti stanno sprofondando in un Medioevo moderno. Alle carenze dell'assedio e delle tre guerre in dieci anni, si è sommata in questi mesi la mancanza di energia elettrica e presto gli abitanti di Gaza faranno i conti con una crisi ancora più grave per la terribile qualità dell'acqua che minaccia la vivibilità. In queste settimane non c'è energia per 19-20 ore al giorno, e quando viene fornita arriva a macchia di leopardo, quattro ore qui, cinque ore lì, esasperando la popolazione già provata da un'emergenza umanitaria che la guerra del 2014 non ha fatto che aggravare. Hamas che governa con bastone e kalashnikov la Striscia da dieci anni, per la prima volta è stato bersaglio di contestazioni nelle strade, un segno di coraggioso dissenso della popolazione civile contro gli islamisti. Una protesta spontanea che, partita dal campo profughi di Jabalya, è dilagata in tutte le città della Striscia. Manifestazioni di gente comune, famiglie intere, giovani, contro i continui black out che paralizzano ogni possibile attività, ma anche la vita normale nelle case.
  Gaza sente il bisogno di nuovi leader e li trova nelle strade, fra la gente comune. Come Mohammed Al Taluli, che tutti chiamano «Guevara di Gaza» per una vaga rassomiglianza con l'eroe della rivoluzione cubana di cui è un convinto sostenitore, come dimostra un grande poster del Comandante sul muro della sua stanza. «Guevara di Gaza» ha guidato le manifestazioni a Jabalya contro Hamas, represse duramente dalla polizia islamista.

 Latitante a 24 anni
  Mohammed-Guevara non ha mai fatto politica prima, 24 anni, un diploma in tasca e come la maggioranza dei suoi coetanei (il 53%) è disoccupato e vive con la famiglia. Non ha simpatie né per Hamas né per Fatah. La sua casa è stata perquisita più volte dal mukhabarat di Hamas, come racconta sua sorella Ahlam. «Per quattro volte - prima e dopo le proteste - hanno fatto irruzione cercando mio fratello, hanno confiscato pc e telefonini. Hanno lasciato per lui una convocazione al Quartier Generale della Polizia, ma non si presenterà, non ha fatto nulla di male». Bloccato dalla polizia islamista il suo account Facebook, così come quello su Twitter. «Guevara di Gaza», si è dovuto dare alla macchia, ed essere latitante nella Striscia non è cosa semplice. Gli amici di questo giovane scapigliato sono davvero tanti, ma anche le spie del General Investigation Department - il nuovo apparato della sicurezza interna a Gaza-, che hanno orecchie dappertutto. Lui però promette che la battaglia per i diritti non è finita qui.

 Proteste bloccate
  Hamas in qualche modo è riuscito a bloccare le proteste, prima con la mano dura - c'è stata un'ondata di arresti - poi con la promessa che, grazie agli aiuti di Qatar e Turchia, l'energia sarebbe stata ripristinata almeno otto ore al giorno. Una soluzione temporanea, soldi e forniture bastano per meno di 90 giorni. E poi? La frustrazione nelle strade di Jabalya, come in quelle di Gaza, Rafah, e Khan Younius rimane e la rabbia può tornare a esplodere in ogni momento. Perché il problema dell'energia è strutturale. Gaza ha una sola centrale elettrica a gasolio, che funziona a metà potenza per mancanze di pezzi di ricambio, parte dell'energia viene dall'Egitto (20MG) e la maggior parte è fornita da Israele (120 MG), la stessa potenza di venti anni fa quando nella Striscia viveva mezzo milione di persone, e che l'Ente elettrico israeliano rifiuta di aumentare per la morosità dell'Azienda elettrica palestinese. La somma di queste forniture (230-240 MG) arriva a soddisfare normalmente solo la metà della richiesta degli abitanti di Gaza (500 MG), che aumenta nei picchi estremi delle temperature in estate e in inverno.
  I costi dei generatori elettrici sono schizzati e la maggior parte delle famiglie non può permetterseli, e allora si arrangia con candele, lampade a gas e qualche legno di scarto da bruciare. Imad Reila, un piccolo negoziante con cinque figli, racconta come la sua famiglia ha adattato il ritmo di vita alle poche ore di energia al giorno. «Ho connesso una vecchia radio a una presa elettrica con il volume al massimo», racconta Imad, «e quando c'è elettricità a qualunque ora del giorno o della notte tutta la famiglia si sveglia per fare la doccia, asciugare i capelli, usare la lavatrice e stirare».
  Il blackout continuo non è l'unica urgenza nella Striscia. Fawzi Najar, che vive a Khan Younis, sono dieci anni che non beve acqua dal rubinetto di casa. Ogni mattina fa quattro chilometri a piedi per riempire una tanica da 20 litri in una stazione di desalinizzazione locale. «L'acqua è salata come se provenisse direttamente dal mare», spiega Najar, padre di sei figli. Si usa l'acqua desalinizzata per lavare le stoviglie e bere, mentre i pochi che possono permetterselo usano l'acqua in bottiglia anche per lavarsi. Le cause del problema dell'acqua sono molteplici, ma derivano principalmente dalla falda acquifera. Quella principale di Gaza contiene dai 55 ai 60 milioni di metri cubi in un anno, ma la domanda di due milioni di abitanti supera i 200 milioni di metri cubi. Rebhy al Sheikh, Magistrato delle acque di Gaza, dice che la falda acquifera è sovra-utilizzata e questo permette all'acqua di mare del Mediterraneo di infiltrarla, insieme a liquami e altre sostanze scaricate in mare. In questo mare, dove in qualunque paese europeo sarebbe vietata la balneazione per inquinamento grave. Il 96,5% dell'acqua estratta dalla falda non è adatta all'uso né umano né animale, né può essere usata nell'agricoltura. Un rapporto dell'Onu indica il 2020 come l'anno in cui il danno alla falda sarà diventato irreversibile e Gaza sarà dichiarata inabitabile.
  Di questo Hamas non pare occuparsi. Si dibatte nella sua più grave crisi finanziaria, sono finite le royalties milionarie che venivano dai tunnel del contrabbando con l'Egitto, si è inaridita la «vena» dell'oro iraniana. Resta un'organizzazione armata che usa la popolazione come ostaggio per la sua guerra, non spende un dollaro per i bisogni della collettività. Predica a voce una tregua di lunga durata con Israele, ma migliaia di «desert rats», topi del deserto, scavano tunnel d'attacco verso le zone circostanti Gaza a ciclo continuo. Prepara la prossima guerra, è solo questione di tempo.

(La Stampa, 5 febbraio 2017)


Alla Fenice di Venezia le commoventi musiche ebraiche di Bloch

Preghiera e poesia nell'interpretazione di Jan Vogler e Omer Meir Wellber

di Paolo Gallarati

 
Il Teatro La Fenice a Venezia
 Rapsodia ebraica
È stata una rara occasione quella offerta dalla Fenice di Venezia che ci ha fatto ascoltare un pezzo solitamente citato come famoso, in realtà di rarissima esecuzione: la Rapsodia ebraica Schelomo, per violoncello e orchestra di Ernest Bloch (1880-1959), il grande compositore e violinista svizzero naturalizzato americano, che rappresenta una delle coscienze più vive dell'ebraismo in seno alla musica occidentale. Chi vuol saperne di più vada a leggersi il limpido e interessantissimo volumetto di Enrico Fubini, appena uscito presso l'editore Giuntina: raccontando la storia secolare dei Musicisti ebrei nel mondo cristiano dal '500 ad oggi, e la ricerca della loro difficile identità, Fubini colloca la figura di Bloch, insieme a quella di Leonard Bernstein, tra coloro che con maggior perspicacia vollero trasmettere l'eredità della cultura e della religione ebraica nella loro produzione musicale.
   Proprio la presenza di questa eredità genera il nucleo poetico di Schelomo, lavoro composto in origine per voce e orchestra, poi affidato ad un dialogo tra questa e il violoncello. Bloch voleva celebrare la figura di Salomone, ma nessuna lingua parlata o morta gli sembrò adatta a tradurre la sublimità del personaggio. Il terzo re di Israele, figlio di Davide, famoso per la sua sapienza e ricchezza, fu dunque trasfigurato nella voce del violoncello che il provetto Jan Vogler , armato di uno splendido Stradivari, ha fatto rivivere, ieri sera, con una prodigiosa bellezza e mobilità di suono. Che dice Salomone, ossia la voce cantante, in questa Rapsodia? Il tono è meditativo, pacato, ma pieno di tensione. Il violoncello dipana lunghi recitativi, melopee ora tristi, ora energiche e ribelli, che girano su se stesse in modi orientaleggianti e andamenti labirintici, con intervalli che echeggiano canti liturgici e popolari ebraici di regioni ashkenazite, come nota Fubini.
   All'ascoltatore ignaro, il discorso musicale suona "filosofico", ossia pieno di minuzie deduttive, insieme solitario e triste, di una solitudine, però, senza disperazione. Jan Vogler, a mano a mano che suonava, accentuava l'effetto di commozione, sottolineato anche dal direttore Omer Meir Wellber, a capo dell'Orchestra della Fenice: alla voce di Salomone vengono incontro, infatti, alcuni strumenti solisti - l'oboe, il fagotto - che partecipano e commentano, piangono e pregano in momenti di grande poesia, mentre l'orchestra in blocco fa da sfondo e , verso la fine ammutolisce, lasciando il discorso del Re come sospeso in un inquieto presago. Siamo nel 1915-16 e altre tremende sventure, come sappiamo, attendevano il mondo ebraico dopo quelle passate.
   Un pezzo simile non può non commuovere e così, in un momentaneo silenzio, lo ha accolto il pubblico della Fenice che, all'inizio del concerto, aveva ascoltato in prima esecuzione mondiale il breve Minu, uno studio sul suono-rumore dell'orchestra sinfonica fatto di successive, piccole, ondate, di Hannes Kerschbaumer, nuova commissione nell'ambito del progetto «Nuova musica alla Fenice». Alla fine, la Quarta Sinfonia di Schumann, grazie al giovane Wellber, ha concluso la serata in un tono particolarmente festoso tra esplosioni di energia e intense, seppur fugaci, melodie.

(La Stampa, 4 febbraio 2017)


Gli ebrei novesi e l'attività finanziaria

Breve storia degli ebrei nella provincia di Novi

Novi, centro storico
Novi nel 1392 fu donata da Gian Galeazzo Visconti al doge di Genova, Antoniotto Adorno che, tre anni dopo, la cedette al re di Francia. Ritornata sotto Genova, il doge Pietro Fregoso (che, nel 1458, vendette Genova alla Francia) si riservò il dominio della città che rimase sotto ai Fregoso sino al 1528, tornando, in seguito, a Genova, della quale seguì le sorti anche dopo il successo della rivoluzione francese. Sotto il governo genovese, faceva parte del dominio montano denominato Oltregiogo, governato da un Capitano, in rappresentanza della Repubblica.
Il primo documento relativo ad una presenza ebraica a Novi risale al 1447, quando il doge Giano di Campofregoso concesse a Joxeph Judeo, habitatori in terra Novarum, un salvacondotto valido per Genova e Savona. Poco dopo, il doge rinnovò delle concessioni (a quanto si inferisce, date in precedenza) a Manasse de Alemannia e al figlio Yosef, presumibilmente, circa un banco di pegni. Da un documento dello stesso anno si apprende che Yosef di Manasse aveva qui dei crediti nei confronti di Jacob, ebreo savonese, e che il governatore di Savona aveva ricevuto ordine di sollecitare il debitore a saldare. Due anni più tardi, Manasse ed il figlio ebbero il permesso di stabilirsi a Genova, insieme ai soci ed ai familiari.
   È nuovamente attestata la presenza ebraica a Novi, dopo più di venticinque anni di silenzio, in un documento del 1475 che menziona Bonaventura del fu Anselmo da Novi, mentre sappiamo che, passati altri ventitré anni, Margherita, ebrea convertita di undici anni, era stata venduta da Teramo di Orerio a Simone da Novi (forse un ebreo) per 20 palmi di velluto nero doppio. Secondo la testimonianza di Yosef Ha-Kohen, risalente all'incirca al primo decennio del XVI secolo, un'accusa di omicidio rituale, nel periodo precedente la Pasqua ebraica, turbò per qualche giorno la vita del nucleo ebraico di Novi, sino al ritrovamento della presunta vittima, sana e salva. Dopo la cacciata degli ebrei da Genova del 1516, Ha-Kohen si stabilì a Novi con la moglie Paloma e vi seppellì il suocero, il celebre rabbino Avrahm Ha-Kohen, morto nel 1519.
   Nel 1533 alcune registrazioni attestavano il pagamento delle tasse alla Repubblica genovese da parte degli ebrei di Novi, menzionandone uno in particolare, di nome Mosè. Cinque anni dopo, Mosè di Novi si rivolse al Senato perché componesse una vertenza che aveva con Caterina di Novi, moglie di Alfonso Trotta, circa alcune mine di grano ed una cifra di denaro che Caterina doveva a Belleta, sua suocera.
   Nel 1540 Yosef Ha-Kohen e Giovanni Francesco Lavagnino, un convertito, tradussero dall'ebraico, di fronte a Francesco De Conversis di Correggio che rappresentava il podestà di Genova, il contratto nuziale, stipulato a Novi "nel tertio giorno de la luna de Tevet de l'anno 5277 dala creatione del mundo", in cui venivano menzionati svariati ebrei, tra cui Moisè De Contio, figlio del fu Giuseppe di Novi. Nello stesso anno, il medico Yosef Habendavid, del fu Magister rabbino Aron, cognato di Yosef Ha-Kohen (di cui aveva sposato la sorella Clara), chiese nel proprio testamento di essere sepolto nel cimitero di Novi "ubi sepeliuntur cadavera hebreorum", mentre le orazioni in suffragio della sua anima avrebbero dovuto essere recitate per un anno nelle sinagoghe di Mantova e di Bologna. Nel 1544 il Senato concesse un salvacondotto annuale a Mosè, del fu Giuseppe, e a Peres Sacerdote, del fu Matassia, per risiedere a Novi, mentre, tre anni più tardi, Pietro del fu Neptanelis di Trino e Mosè de Rivolta ebbero un salvacondotto per stare e commerciare a proprio libito a Novi.
   Nel 1549 il medico Yosef Sacerdote, figlio del fu Yehoshua, nominò Pietro, ancora residente in città, suo procuratore per riscuotere soldi, beni e mercanzie da due abitanti di Castelletto d'Orba. L'ipotesi che a Novi si fosse formata una comunità ebraica di una certa entità è corroborata dall'affermazione di tale Vito della stirpe di Yehudah che, nel 1550 circa, chiese l'autorizzazione a trasferirsi qui per motivi d'affari sostenendo che nella località già altre volte ebbero stanza li suoi maggiori e ancora oggi hanno i loro sepolcri. Una quindicina di anni dopo, Vito Levi scrisse ai Serenissimi Signori riferendo che gli ebrei di Novi e di Gavi che gestivano i banchi di pegno, avevano rifiutato il danaro offerto da altri correligionari, che avrebbero voluto lavorare in tali località. Vito si offrì di controllare i registri contabili in ebraico, per verificare se le tasse pagate dai feneratori fossero proporzionali ai guadagni.
   Nel 1568 i cittadini di Novi chiesero che Manuele Levita, che doveva abbandonare Serravalle, si trasferisse lì con la famiglia, in virtù all'aiuto che avrebbe potuto recare ai poveri, costretti, altrimenti, a recarsi ad Alessandria, Pavia e Capriata, dove erano obbligati a pagare un interesse più alto. Manuele (Emanuele), considerato uomo da bene e compassionevole, dai membri del Consiglio di Novi, fu autorizzato dal Senato a vivervi con la famiglia per un anno. Dalla condotta tra il Comune ed Emanuele Levita risulta che l'interesse per i prestiti su pegno ammontava a 6 denari per lira al mese per gli abitanti di Novi e del circondario, mentre era vietato ai novesi portare pegni ad Emanuele da parte di forestieri. Da un documento dell'anno successivo risulta che tale Guglielmo di Novi, ormai defunto, si era convertito in precedenza (senza indicazione di data) e che il suo lascito testamentario prevedeva una cifra annuale da distribuirsi dall'Ufficio di Misericordia.
   Nel 1570 la popolazione di Novi chiese al Doge ed ai Governatori di non autorizzare altri ebrei a venire in città per non interferire nelle attività di Emanuele Levita che vi risiedeva da due anni, aiutando la popolazione e rendendo buon servizio alla comunità, alla quale aveva prestato 500 scudi, senza interesse, per tre anni. L'anno successivo, tuttavia, dato che Emanuele non poteva far fronte da solo ai bisogni della popolazione, i cittadini chiesero al Senato di autorizzare a venire a Novi Lazzarino Poggetto di Asti che avrebbe abitato a casa del Levita e che aveva già aiutato i bisognosi durante la carestia. Da una lettera, scritta nel 1572, dal Doge e dai Governatori al podestà di Novi, vediamo che alcuni cristiani avevano aiutato la popolazione con derrate alimentari, traendone eccessivi profitti. Da una lettera dello stesso tenore indirizzata al podestà di Voltaggio, risulta che tali profitti erano decisamente maggiori di quelli degli ebrei. L'anno dopo, tuttavia, il podestà di Novi domandò al Doge ed ai Governatori di emettere una grida per obbligare l'ebreo locale a portare il segno distintivo giallo, dietro pena di multa.
   Da un documento del 1578 risulta che i prestatori, che avevano gestito il locale banco dei pegni nel corso degli anni, erano stati Emanuele Levita, Moisè Treves e Lazzarino e Vita Poggetto. Nello stesso anno, il Senato decretò che l'ebreo che viveva a Novi avrebbe potuto rimanervi per cinque anni, prestando a 4 denari per lira al mese, come sancito negli accordi tra lui e il Comune. Nel 1579 Fabio Treves inviò da Novi una petizione al Doge e ai Governatori chiedendo di proteggere i figli del defunto fratello, Mosè, dalle pretese di Vita Poggetto e di Lazzarino, che aveva gestito il banco locale con Mosè. Da un atto del 1581 si apprende che Francesco Doria, in qualità di Commissario di Novi, avrebbe esatto "uno scudo per ogni testa di hebreo" dimorante allora nella località. Dal 1582 Vita Poggetto fu autorizzato a vivere, lavorare e fare affari a Novi, Gavi e Ovada.
   Nel 1587 gli israeliti novesi ebbero ordine da parte delle autorità genovesi, tramite i Giusdicenti dell'Oltregiogo, di portare il segno distintivo giallo o lasciare la località entro due mesi. Poco dopo, in seguito alle loro proteste, furono introdotte limitazioni all'obbligo del segno, riguardanti i maschi di età inferiore ai 12 anni e le figlie femmine, purché uscissero accompagnate dalla madre, munita di segno. In viaggio gli ebrei non sarebbero stati obbligati al segno e neppure per i primi quattro giorni di soggiorno in un luogo nuovo: chiunque li avesse molestati, a causa del segno, sarebbe stato punito con dodici staffilate in pubblico, se minore di 12 anni, e con ammende pecuniarie, se di età superiore. In un documento del 1592, accanto a Vita del fu Lazzarino Poggetto, compariva, come residente in città, Abraham Artom. I due avevano ricevuto segale e denaro da cristiani, con cui si impegnavano a saldare i loro debiti.
   Nel 1592 un decreto del Senato, indirizzato ai podestà di alcune località, tra cui Novi, stabiliva che gli ebrei avrebbero dovuto lasciare il Dominio entro tre mesi, pena l'arresto e la confisca dei beni. Tuttavia, l'anno seguente il Doge e i Governatori permisero a Vita Poggetto ed ai suoi agenti di continuare a vivere qui e ad Ovada, a determinate condizioni, tra cui il segno distintivo e l'obbligo di tenere i libri contabili in italiano.
   Nel gennaio 1598 l'ordine di espulsione, decretato da Genova, fu ricevuto in una serie di centri, tra cui Novi: Vita Poggetto reagì con una petizione, cui fece seguito la richiesta del Senato per avere informazioni sulla sua buona condotta e sulle sue proprietà, estendendogli, allo stesso tempo, il permesso di restare a Novi per tutto il mese di febbraio. L'anno seguente, il sindaco di Novi inviò una petizione a Genova in favore di Vita Poggetto e dei suoi agenti, per farli restare per altri sei anni, con eventuali ulteriori due anni di soggiorno, per condurre a termine gli affari intrapresi. Le autorità genovesi ordinarono, pertanto, che venissero dati quattro giorni di tempo per permettere agli abitanti di esprimere il loro eventuale dissenso. La stessa procedura fu richiesta per l'agente del Poggetto, Abraham Artom. Tuttavia, fu concessa solo una proroga del permesso di residenza a Novi, per cui, in vista della scadenza, il sindaco chiese un'ulteriore proroga, ricordando al Senato il lungo servizio reso dai Poggetto, sempre ben visti, amati, anche desiderati: dato che tutti i cittadini si erano dichiarati favorevoli alla presenza del Poggetto e dei suoi agenti, il Senato concesse loro un periodo di residenza di sei mesi.
   Nel 1603 Abraham Artom, ormai a Tassarolo, ricevette un salvacondotto per recarsi a Novi (e, se necessario, anche a Genova) per riscuotervi i crediti, purché portasse un cappello rosso durante il viaggio nel distretto di Novi e non esercitasse l'attività creditizia entro i confini del Dominio.
   Nel 1678 nei documenti del Capitano di Novi compariva una prigioniera ebrea, condannata dal Santo Uffizio alla fustigazione come falsaria e vagabonda.
   Nel 1714 viveva a Novi Emanuele Lattes, presumibilmente per interessi economici, dato che aveva come procuratore Salomone Gubbia, che era anche procuratore a Marsiglia di Samuel Enriques, uomo d'affari algerino.

(Alessandria Oggi, 4 febbraio 2017)


Gorizia - Sinagoga, modellino restaurato

Non un semplice modellino, ma uno strumento fondamentale per consentire alle persone non vedenti di entrare in contatto con la sinagoga di Gorizia. Il modellino dell'edificio di culto di via Ascoli, insieme a tre dispense in Braille ad uso dei visitatori non vedenti, è stato riconsegnato dall'associazione Italia Nostra agli Amici di Israele, dopo un accurato restauro curato da Elisabetta Ceccaroni e Adriano Macchitella. L'iniziativa rientra nel più ampio progetto "Gorizia contatto", avviato lo scorso anno nella nuova esposizione di palazzo Coronini dedicata alle "Teste di carattere" di Franz Xaver Messerschmidt riprodotte in tre dimensioni, e interesserà anche il castello, il museo della Grande guerra, il museo della Moda e delle arti applicate, la chiesa di Sant'Ignazio e palazzo Attems. Le problematiche legate all'accessibilità al patrimonio artistico e culturale da parte delle persone con disabilità visiva sarà inoltre al centro di un seminario in programma nella nostra città lunedì e martedì prossimi, 6 e 7 febbraio, nella sede della Fondazione Carigo.

(Foglio Goriziano, 4 febbraio 2017)


La memoria della Shoah nell'era dei selfie. Per un'etica dello sguardo

di Maurizio Cau

Ora che un'altra "giornata della memoria" è alle spalle, ora che le luci sono tornate a spegnersi in attesa della prossima ricorrenza prevista dal calendario civile, ora che si ripongono nel cassetto le citazioni di Levi e le immagini dello sterminio (o della sua pluridecennale ricontestualizzazione cinematografica), ora che i palinsesti televisivi si sono svuotati del cerimonioso omaggio alle vittime della Shoah (un omaggio prevedibile e sempre uguale a se stesso), ora che tutto questo è passato, è forse possibile sviluppare un ragionamento sul senso e i limiti di quella ritualità retoricamente sovraccarica che, un giorno all'anno, inonda carta stampata, social network, TV.
   Come ricordava un paio di anni fa in un denso libretto Elena Loewenthal, che non può essere certo tacciata di scarsa sensibilità sul tema o, peggio, di aspirazioni negazioniste, «il 27 gennaio di ogni anno si evoca il ricordo della Shoah. Si organizzano eventi, incontri, celebrazioni ufficiali. Ma che cosa sta diventando questo Giorno della Memoria? Una cerimonia stanca, un contenitore vuoto, un momento di finta riflessione che parte da premesse sbagliate per approdare a uno sterile rituale dove le vittime vengono esibite con un intento che sembra di commiserazione, di incongruo risarcimento» (Contro il giorno della memoria, ADD editore, 2014).
   Da un certo punto di vista non c'è da meravigliarsi. La storia e, più in generale, il nostro rapporto col passato stanno subendo una significativa torsione a causa del ruolo sempre più rilevante che la retorica memoriale guadagna nel discorso pubblico. Lo ha ricordato di recente Francesco Benigno, uno studioso sensibile al tema, sottolineando come la storia tradizionale sia stata incalzata e scalzata da una nuova storia incentrata sulla memoria. Un processo che nella progressiva musealizzazione del passato e nella traduzione sul piano emotivo del patrimonio storico trova due tra le sue più evidenti concretizzazioni.
   Per riflettere su alcune caratteristiche del complicato rapporto che il mondo contemporaneo va maturando con alcune delle pagine più buie della sua storia vale la pena partire dalle caratteristiche e dai limiti che la monumentalizzazione della memoria sta conoscendo nella società attuale. Interessanti spunti vengono da due recenti operazioni artistiche, che con linguaggi e registri assai differenti riflettono sostanzialmente sullo stesso problema, ossia sul corto circuito cognitivo e comunicativo che spesso caratterizza il turismo della memoria: mi riferisco al progetto Yolocaust, opera di un artista satirico israeliano attivo a Berlino, e ad Austerlitz, il documentario di Sergej Loznitsa uscito nei giorni scorsi nelle sale italiane.
   Quello di Shahak Shapira è una riflessione sul ruolo che l'ipertrofica produzione di immagini propria dell'era del selfie ha nel processo di elaborazione della memoria della Shoah. È un progetto nato dall'esame delle immagini che i turisti scattano tra le colonne del Memoriale per l'assassinio degli ebrei progettato a Berlino da Peter Eisenmann. Colpito dalla fruizione giocosa e scanzonata che molti giovani riservano a un luogo sovraccarico di drammaticità, Shapira ha recuperato dai social network alcuni di quegli scatti e li ha rielaborati sostituendo lo sfondo reale con immagini tratte dalla più cruda iconografia della realtà concentrazionaria nazionalsocialista. Le animazioni, rese disponibili in rete un paio di settimane fa, ricontestualizzano le pose solari e divertite dei turisti (ma c'è anche chi sulle colonne del monumento di Eisenmann fa yoga…) riposizionandole nei luoghi dell'orrore; a fare da sfondo ai sorrisi e alle smorfie sono così fosse comuni, mucchi di cadaveri, corpi scheletrici adagiati nelle baracche. Lo stesso nome dato al progetto, "Yolocaust", ha una chiara valenza provocatoria: nasce infatti dalla crasi tra Yolo, acronimo dell'espressione you only live once, e Holocaust.
   Il risalto avuto dall'operazione ha indotto i ragazzi divenuti involontariamente protagonisti del progetto a scusarsi della leggerezza dei propri scatti. Dopo pochi giorni le gif sono state rimosse una dopo l'altra e sul sito è rimasta solo la presentazione del progetto e il racconto della sua brevissima storia.
   Un risalto meno massiccio ha avuto la distribuzione del documentario di Loznitsa, ma siamo di fronte a un lavoro che nella sovraffollata filmografia sul tema della memoria della Shoah rappresenta un'opera di grande rilevanza. Il film, presentato con grande successo di critica all'ultimo festival di Venezia, è una sorta di visita guidata a Sachsenhausen, il campo di concentramento alle porte di Berlino. Al centro della rigorosissima pratica di osservazione del regista non ci sono però i resti di ciò che è stato, ma le azioni di chi oggi visita quel luogo per fare esperienza, ognuno in modo diverso e personale, di ciò che quello spazio continua a rappresentare.
   Guardate dall'esterno, le forme della fruizione di uno dei luoghi simbolo della Shoah sembrano in tutto e per tutto quelle tipiche del turismo di massa. Nei dilatati piani sequenza in bianco e nero è un avvicendarsi di foto ricordo scattate nei forni crematori, di aste per i selfie brandite con disinvoltura davanti al cancello del campo (le foto di rito davanti alla nota scritta pensata da Goebbels non possono mancare), di siparietti macabri, di pranzi al sacco tra una baracca e una cella di tortura, di spostamenti a tappe forzate per rispettare i tempi di visita imposti dalle guide. In questo senso il film rappresenta una riflessione sul senso della testimonianza e sui problemi di ordine morale che ogni esperienza di quel mondo (e ogni sua forma di racconto) impongono.
   Come nel caso di Yolocaust, si tratta si un lavoro costruito intorno a un incrocio e a una sovrapposizione di sguardi. Dall'incontro tra lo sguardo del regista (che coincide col nostro) e le pratiche testimoniali visive tipiche del turismo memoriale si sviluppa un corto circuito che apre riflessioni non scontate sul processo di risignificazione memoriale che, attraverso la sua musealizzazione, ha trasformato un luogo di barbarie in un luogo di cultura. In uno spazio dove non sembra essere rimasto più nulla da vedere e dove quel che si vede è in buona parte ricostruito e rimesso in scena con finalità didascaliche, ogni sguardo (compreso quello dello spettatore che si rifrange nello sguardo dei turisti) sconfina nella profanazione. Per questo Loznitsa si chiede, senza fornire naturalmente risposte, se per fare esperienza di quei luoghi ed elaborare ciò che vi è accaduto non sia preferibile sostituire la preghiera alla conoscenza, il silenzio alla trasmissione solo parziale di contenuti.
   Temi su cui si è soffermato di recente anche Georges Didi-Huberman, tra i più raffinati studiosi della memoria visiva della Shoah, nel racconto fotografico di una visita fatta al campo di Auschwitz (Scorze, Nottetempo, 2014). Il potere dello sguardo è messo a dura prova dal velo banalizzante che ogni processo di musealizzazione del passato porta con sé, ma la ricerca non va interrotta. Come sottolinea il filosofo e storico dell'arte francese, «non si puòmai dire: non c'è niente da vedere, non c'è più niente da vedere». La questione, semmai, è capire cosa guardare, come vederlo e come mostrarlo.

(mente politica, 4 febbraio 2017)


Chiude il "Circolo ragazzi '48", memoria storica del ghetto di Roma

di Emanuela De Crescenzo

 
ROMA. - Il primo marzo chiuderà "il Circolo dei ragazzi del '48" nel cuore del ghetto di Roma e sua memoria storica. Intitolato a Raimondo di Neris, detto Zì Raimondo, sopravvissuto alla shoah e principale artefice della protesta contro Eric Priebke, il circolo è nato nel 2002 ed è un "Moadon", ovvero un centro culturale, dove si discute di politica, dei problemi della Comunità ebraica e si tiene viva la memoria del ghetto. In via Reginella venerdì sera, come tutti i venerdì si mangia e si beve insieme e si discute. Erano in tanti, seduti dentro e in piedi fuori e rigorosamente con la porta aperta.
"Abbiamo avuto l'onore di ospitare - spiega il presidente Angelo Sermoneta, più noto tra gli ebrei romani come 'Baffone' il presidente Ciampi, gli ambasciatori di Israele, Spielberg e Woody Allen. Ma tutti gli ebrei del mondo quando vengono a Roma ci vengono a trovare. Siamo un punto di riferimento praticamente il cuore del dibattito del ghetto".
Ma forse per i vertici della Comunità ebraica non è più così. "Prima c'era un contributo della Comunità ebraica - dice ancora Sermoneta - ma con la crisi c'è stato tolto e non riusciamo più a pagare mille euro di affitto al mese. Siamo andati avanti con delle collette ma ora non è più possibile e a fine febbraio dovremo chiudere".
Sui libri di storia argentini raccolti nella Biblioteca nazionale del Paese latinoamericano - spiega un magistrato argentino che 15 anni fa fu accolto dai ragazzi del '48 - "ci sono le foto esterne del circolo e i suoi cimeli".
Tra i tanti anche quelli realizzati con il filo spinato strappato trent'anni fa nel campo nazista di Auschwitz. Ma ci sono anche quadri di artisti importanti. "Per protesta - dice Sermoneta - non regalerò niente alla Comunità ebraica ma butterò tutti i ricordi nei sacchi dell' immondizia".
I "Ragazzi del circolo" stanno anche pensando di staccare le pietre collocate nella strada, fotografate dai tanti visitatori. C'è la pietra che raffigura la deportazione del 16 ottobre e quella con il candelabro a otto bracci.
"Siamo gli unici che all'interno del ghetto, davanti al bar Toto - dice 'Baffone' - accendono il candelabro negli otto giorni dell'hanukkah, siamo l'unica luce rimasta del ghetto e sta per spegnersi".
Speriamo tanto, dicono con rammarico in molti, che al posto del circolo non sorga l'ennesima paninoteca.

(Il Messaggero, 4 febbraio 2017)


Italia e Israele a confronto sui servizi socioeducativi nell'area del Mediterraneo

Italia e Israele a confronto sull'organizzazione e la gestione dei servizi sociali con particolare attenzione alla tutela dell'infanzia. Avverrà nel corso del Convegno intitolato "Quale il contributo dei servizi socioeducativi all'innovazione del welfare nell'area del Mediterraneo?", curato ed organizzato dalla Fondazione Zancan e dalla Associazione di Promozione Sociale "Carmela Giordano", con il patrocinio dell'Ordine degli Assistenti Sociali della Puglia e della Fondazione FIRSS. L'evento è in programma lunedì 6 febbraio presso l'Aula Magna dell'Università degli Studi di Bari, a partire dalle ore 9,30.
Il Convegno rientra nel progetto di scambi internazionali dell'Istituto Haruv di Gerusalemme. L'obiettivo è di incentivare la collaborazione tra università, centri di studio, aziende sanitari locali, enti locali e ONG, per la promozione di una condivisione delle conoscenze e delle competenze in materia di sviluppo di servizi, politiche sociali e politiche socio-sanitarie per bambini disabili, maltrattati e vittime di abuso.
Haruv, dal 2016, promuove un confronto con le realtà del Mediterraneo tra cui l'Italia ed in particolare la Puglia. Il progetto prevede momenti di scambio di esperienze in aula e nei Servizi del territorio. Una delegazione italiana composta da assistenti sociali, anche Consigliere dell'Ordine, è stata in Israele nel gennaio 2016. Nel corso della prossima settimana, invece, una delegazione di operatori israeliani visiterà diverse strutture pugliesi che operano nel settore dei servizi sociali dedicati ai bambini.

(Oltre, 4 febbraio 2017)


Federico II e gli Ebrei

Un itinerario guidato promosso da Nova Apulia

Nella mattinata di domenica 5 febbraio si svolgerà a Trani "Federico II e gli Ebrei", trattasi di un percorso guidato tra storia e arte, a ridosso della "Giornata della Memoria". E' dedicato all'imperatore svevo, ai suoi legami con il territorio tranese, nonché ai suoi rapporti con la cultura ebraica, ben radicata e tangibile nella storia di Trani, nei luoghi e nelle architetture, nella sua stessa toponomastica. L'appuntamento è alle ore 9,30 presso il Castello di Trani, ove particolare risalto verrà dato alle mensole a tema religioso, presenti nel cortile centrale, che rimandano alla consistente presenza giudaica nella Trani medievale, documentata a partire dal XII secolo, e all'alto senso di giustizia imparziale del sovrano svevo nei confronti dei sudditi dal credo differente. Seguirà un itinerario guidato nel centro storico di Trani, alla scoperta della Giudecca, il quartiere ebraico di origine medievale ricco di interessanti testimonianze storiche e architettoniche, con la visita della Sinagoga-Museo S. Anna ed alla Sinagoga Scolanova. Per ulteriori informazioni: Nova Apulia c/o Castello Svevo, Piazza Manfredi Re n.16, Trani(BT). La prenotazione è obbligatoria. La quota di partecipazione è €10,00, gratuita per i minori di anni 12. La quota comprende la visita guidata e l'ingresso ai monumenti (Sinagoga-Museo S. Anna, Sinagoga Scolanova). L'itinerario si attiva al raggiungimento di un numero minimo di prenotazioni.

(Canosaweb, 4 febbraio 2017)


Ma il vero nemico è il terrorismo degli ayatollah

di Fiamma Nirenstein

Il Medio Oriente, strapazzato dalla politica di Obama, subisce adesso l'accelerata ripresa di una rocciosa strada cui Trump si avvia con due gesti divaricati: una vigorosa messa in guardia alla Repubblica Islamica dell'Iran, accompagnata da sanzioni impellenti.
   E' un avviso a Israele: «attenzione» ha detto Spycer, il portavoce, «noi non pensiamo che l'esistenza degli insediamenti sia un impedimento alla pace come diceva Obama, ma riteniamo che costruire nuovi insediamenti possa non essere di aiuto». Un'affermazione che sembra in contraddizione con quello che Trump diceva in campagna elettorale quando dichiarava la sua totale neutralità sugli insediamenti, mentre annunciava anche che l'ambasciata sarebbe stata a Gerusalemme e il suo sdegno verso la persecuzione dell'Onu. Una retromarcia? Non si direbbe: l'Iran val bene qualche nuovo insediamento. Benjamin Netanyahu li ha annunciati per rimpiazzare l'insediamento di Amona, i cui abitanti sono stati dispersi dalle forze israeliane dopo che l'Alta Corte di Giustizia ne aveva stabilito l'illegalità. La dichiarazione americana sarà oggetto di discussione quando il 15 del mese Netanyahu incontrerà per la prima volta Trump: là sarà chiaro probabilmente che c'è insediamento e insediamento, che alcuni sono essenziali alla salvaguardia della vita di Israele, altri sono oggetto di negoziato. Perché è qui che probabilmente Trump vuole andare: costringere i palestinesi alla trattativa, senza aspettarsi il solito pacco dono di Obama coi confini del '67, garanzia di futura distruzione.
   Per l'Iran, dopo 12 esperimenti balistici abbiamo da Trump il discoscimento di quella atmosfera irenica che sostituiva la realtà, la gestione Obama. Nel tempo sono venute alla luce sia violazioni sia la ripetuta sperimentazione di missili inutilizzabile se non al loro scopo balistico, la cui messa in opera è stata accompagnata da manifestazioni di ostilità verso gli Usa, da promesse di distruzione dello Stato d'Israele, da voci di collaborazione fra Repubblica Islamica e Corea del Nord. Esso inoltre inquina con la sua azione il futuro della Siria e nel resto del Medio Oriente. L'Iran, che è il maggior fornitore di armi e supporto logistico degli hezbollah, è il guerriero più attivo sul campo grazie alla Russia: la guerra contro l'Isis gli ha dato uno spazio di intervento enorme in Siria, in Iraq, in Libano, ha armato le minoranze sciite nel Golfo e le imbarcazioni di Ormuz, ha mobilitato la Guardia Rivoluzionaria. La Russia se ne serve per mantenere le sue posizioni, ma sa bene che alla lunga questa presenza che terrorizza ogni sunnita in zona, lo radicalizza o ne fa massa in fuga, ha un risvolto insostenibile anche perché la sua presenza in zona alla fine rende nemici gli egiziani, i giordani, i sauditi e verrà alla fine usato per lanciare il suo attacco verso Israele e l'Occidente. Una strada lunga, ma l'Iran non ha fretta, e l'accordo e la connivenza americana e europea permettevano la ripresa armata. Adesso l'Iran è di nuovo sotto la lente d'ingrandimento, Israele, che ha certo un problema di insediamenti, è tuttavia soprattutto un Paese assediato dal terrorismo, e Trump vuole combatterlo.

(il Giornale, 4 febbraio 2017)


Turismo - Ora AiRiminum punta a Israele con un charter Rimini-Tel Aviv

di Cristiano Somaschini

 
L'aeroporto di Rimini
 
RIMINI - Il collegamento aereo tra Rimini e Tel Aviv, in Israele, potrebbe essere presto realtà. I vertici di Airiminum, la società che gestisce lo scalo rivierasco Federico Fellini, hanno incontrato questa mattina in aeroporto alcuni dei principali player turistici italiani che operano in Terra Santa, per esplorare questa nuova possibilità. Seduti al tavolo, tra gli altri, l'amministratore delegato, Leonardo Corbucci, in rappresentanza dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo la consigliera per gli Affari turistici, Avital Kotzer Adari, il direttore Marketing, Pietro De Arena e la direttrice dell'Ufficio stampa e responsabile del Turismo religioso Mariagrazia Falcone, alcuni rappresentanti della compagnia israeliana Israir. Con questi ultimi Airiminum sta organizzando un'operazione charter a partire dalla prossima estate. Sono stati così accompagnati in alcune delle principali strutture ricettive del territorio tra Ravenna e Cattolica.
Particolare attenzione è stata prestata all'entroterra con le sue eccellenze agroalimentari, dove la Repubblica di San Marino ha esercitato un "ruolo di primo piano". Si è mossa anche l'Apt per meglio illustrare le caratteristiche di tutto il prodotto regionale, mentre l'ufficio del Turismo di San Marino ha mostrato le bellezze del Titano. "L'elevato numero dei partecipanti dimostra come ci sia un'enorme voglia da parte degli operatori italiani di Israele", commenta Corbucci. Lo sforzo congiunto con gli operatori israeliani, aggiunge, potrebbe "entro breve" rendere fattibile un collegamento della Romagna con Israele tramite un volo di linea regolare.
"Creare una nuova rotazione da Rimini direttamente su Tel Aviv sarà un importante incentivo di promozione per il turismo verso Israele dall'area del centro Italia, offrendo la possibilità a sempre un maggior numero di Italiani di scoprire lo splendore e le bellezze di Israele". Il ministero del Turismo sarà a fianco degli operatori della zona e di Airiminum "per realizzare finalmente il sogno di un collegamento dalla costa adriatica", garantisce Adari. Airiminum parteciperà alla fiera di settore Imtm in programma a Tel Aviv il 7 e l'8 febbraio, dove sono già stati fissati appuntamenti con altri tour operator.

(Dire, 4 febbraio 2017)


Gli arabi detestano i palestinesi. Ecco perché

Gli arabi detestano i palestinesi. Non è una affermazione che viene da un sondaggio o da ipotesi frutto di ricerche ma dalla semplice constatazione dei fatti.
Come mai i paesi arabi che ospitano i cosiddetti "profughi palestinesi" negli ultimi 68 anni non hanno mai concesso loro la cittadinanza (se si fa eccezione per pochi casi in Giordania)? Coma mai alla caduta di Saddam Hussein la prima cosa che hanno fatto gli iracheni è stata quella di espellere migliaia di palestinesi? Perché gli arabi preferiscono tenere i palestinesi segregati all'interno di grandi campi profughi? Perché in Siria gli unici ad essere attaccati da tutti, siriani, Hezbollah e ISIS, sono stati i palestinesi? Come mai l'Arabia Saudita ha tagliato quasi tutti i finanziamenti alla Autorità Nazionale Palestinese? Perché l'Egitto perseguita i palestinesi di Gaza impedendo il passaggio di materiali dal proprio confine e vietando ai palestinesi di uscire da Gaza?...

(Right Reporters, 4 febbraio 2017)


Alla Comunità Ebraica di Vercelli si parla di antisemitismo

 
La sinagoga di Vercelli
Un incontro sull'antisemitismo di ieri e l'antisemitismo di oggi. È quello che propone la Comunità Ebraica di Vercelli domenica 5 febbraio alle 15.30 in Sala Foa. A parlare di questo problema Stefano Gatti, referente dell'Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea - CDEC di Milano, che era già stato ospite in via Foa per parlare dell'antisemitismo sui social.
   Gatti aveva sottolineato come dal 2004 ogni utilizzatore del web possa crearsi una sorta di doppia coscienza, reale e virtuale, parallelismo dal quale la seconda emerge in modo più dirompente: ogni individuo può scrivere, trasmettere e diffondere online le proprie opinioni e posizioni, apparentemente senza censura, spesso giocando la carta dell'anonimato. A questa grande conquista di libertà si deve tuttavia arrogare la facoltà di diffondere antisemitismo, antisionismo, odio razziale, attraverso contenuti sommariamente comprensibili nelle forme originali oppure volutamente negativi.
   La Presidente della Comunità Ebraica, Rossella Bottini Treves, ha fortemente voluto un nuovo incontro con Gatti, ed è da sempre attiva e sensibile ai temi trattati. I suoi molti anni di esperienza, anche in veste di Consigliere dell'UCEI, Unione Comunità Ebraiche Italiane, l'hanno costantemente indirizzata verso la necessità di divulgare al pubblico quali sono gli strumenti di controllo dell'antisemitismo, le ricerche sull'argomento e le attività di monitoraggio di fenomeni oggi più che mai preoccupanti. Antisemitismo e antisionismo, sono temi attuali non relegabili solo al popolo ebraico, ma capaci di coinvolgere tutta la società e di suscitare forti reazioni e scontri.
   Nota è la recente vicenda del seminario di studi "Collusioni tra sionismo e nazifascismo prima e durante la Shoah" tenutosi lo scorso 18 gennaio al campus Luigi Einaudi di Torino. L'iniziativa, organizzata da un gruppo di studenti, non è stata approvata né sostenuta dall'Università di Torino, ma il seminario ha comunque avuto luogo, corredato dalla distribuzione di dispense dal titolo "Ricordare Auschwitz per ricordare la Palestina". Ciò dimostra quanto questi temi siano caldi, attuali, spinti dall'incertezza degli equilibri politici e sociali.
   La Presidente Bottini Treves auspica che i centri di aggregazione, le associazioni e le istituzioni culturali religiose del territorio partecipino all'evento, al fine di creare un momento di dibattito utile alla comprensione della società contemporanea.
   L'ingresso è libero e non occorre la prenotazione.
   Per maggiori informazioni: 339.2579283 e segreteria.comunitaebraicavc@gmail.com

(TgVercelli, 4 febbraio 2017)


Il barbiere palestinese che dà fuoco ai capelli

Il barbiere palestinese Ramadan Edwan, che lavora nel campo profughi di Rafah, nella striscia di Gaza del sud, è solito usare un metodo inusuale durante il taglio dei capelli.
Edwan, che usa un accendino per accendere il fuoco dopo avere versato polvere o liquidi infiammabili sulla testa del suo cliente, ha dichiarato che "l'idea di usare il fuoco per scolpire i capelli è tradizionale qui da noi" ed ha continuato illustrando i benefici di questa pratica."Fa bene alla circolazione, nutre anche i capelli e protegge le radici".
Il "Fire Barbing" è parecchio usato anche in alcune parti dell'India e del Pakistan, dove i parrucchieri utilizzano candele per bruciare i capelli. Anche il famoso hairstylist spagnolo Alberto Olmedo ha usato questo particolare metodo.

(Il Mattino, 4 febbraio 2017)


Trump avverte Israele: "I nuovi insediamenti non aiutano a raggiungere la pace"

Il presidente Usa ne parlerà con Netanyahu durante la sua visita a Washington. L'ambasciatore di Tel Aviv all'Onu: "Non sempre siamo d'accordo".

di Edith Driscoll

"La costruzione di nuovi insediamenti o l'ampliamento di quelli esistenti al di là degli attuali confini potrebbe non aiutare il raggiungimento della pace con i palestinesi". Dopo aver fatto del sostegno a Israele una delle pietre miliari della sua politica estera, Donald Trump americano sembra cambiare rotta.
   Anche se con toni cauti e più gentili rispetto a alle precedenti amministrazioni, inclusa quella di Barack Obama, la Casa Bianca di Trump invia a Tel Aviv un messaggio chiaro sugli insediamenti, pur precisando che una posizione ufficiale sulle colonie non è ancora stata presa. E Trump intende discuterne con il premier Benjamin Netanyahu nel corso della sua visita a Washington nelle prossime settimane. Intanto però il monito è stato lanciato, con la Casa Bianca che in una dichiarazione al The Jerusalem Post, riportata dalla stampa americana, si spinge anche oltre chiedendo "a tutte le parti" di non intraprendere "azioni unilaterali che potrebbero mettere a rischio la capacità di fare progressi" verso la pace, "inclusi annunci su insediamenti".
   Il cambio di rotta arriva dopo l'incontro con il Re di Giordania, Abdullah II, giunto a Washington senza un appuntamento ufficiale con il presidente, ma che ha ottenuto un faccia a faccia con Mike Pence, e un colloquio con Trump. La Giordania non ha nascosto i suoi timori sulla promessa di Trump di spostare l'ambasciata a Gerusalemme, mossa che Obama e altri presidenti hanno rifiutato per paura di una risposta violenta. La Casa Bianca di Trump ha frenato già sullo spostamento dell'ambasciata, precisando che ha iniziato solo a discutere dello spostamento. L'intervento della Casa Bianca, dietro il quale sembrerebbe esserci il consigliere Jared Kushner, arriva dopo che Netanyahu ha annunciato la costruzione di un'ondata di nuove case, forte dell'appoggio incondizionato di Trump.
   "Non concordiamo sempre su tutto ed è troppo presto per dire se questo danneggerà la politica degli insediamenti" ha commentato l'ambasciatore israeliano all'Onu Danny Danon. "Non vorrei categorizzare questo - ha spiegato Danon, primo esponente a commentare il fatto - come un inversione di tendenza Usa ma il tema è nell'agenda.. e sarà discusso nell'incontro tra Netanyahu e Trump a Washington".

(In Terris, 3 febbraio 2017)


Per Netanyahu sarà più difficile contrastare chi si mostra ben disposto. Non gli è riuscito, per esempio, con Obama, quando si è presentato in Israele con la faccia dell’amicone e poi l’ha convinto a chiedere scusa a Erdogan per la questione della flottiglia. Trump ha detto “America first”. Che subito dopo per lui venga Israele è tutto da dimostrare. E' invece già dimostrato che non permetterà mai a Israele di far perdere all’America il “first” M.C.


I commando israeliani della cyber guerra

Vicino a Tel Aviv c'è una "palestra" dove mettere alla prova qualsiasi rete informatica e ogni tipo di software. E in Italia...?

 
La terza guerra mondiale è già iniziata nel cyber. L'addestramento, però, non riguarda solo i soldati: la difesa di aziende e governi è affidata a manager e responsabili della sicurezza.
   I coach dei nuovi campi cyber lavorano guardando il Mediterraneo. Hadera, 45 chilometri a nord di Tel Aviv, era una palude. Una comunità di ebrei dell'Est europeo l'ha trasformata in una città; ora è a una nuova svolta: la vediamo invasa dalle gru e dagli operai che alla velocità della luce stanno dando vita a un avanzatissimo polo tecnologico.
   Affacciata sul mare, la centrale elettrica Iec, la più grande del Paese, respinge da 6 a 15 mila cyberattack a settimana, provenienti da gruppi di tutto il mondo che vanno da Anonymous agli attivisti ai governi nemici: ognuno attacca con la propria tecnica, la propria cultura, il proprio know how.
   Come in un combattimento alla Bruce Lee contro tutti, la squadra di difesa cyber israeliana ha imparato a respingere malware di ogni tipo, anche i più innovativi e imprevedibili. Ora ha fatto di questa capacità un franchising da rivendere fuori da Hadera, in tutto il mondo. Infatti è qui che è nata l'idea di CyberGym: la cyber palestra dell'Israel electric corporation frequentata da manager di ogni continente dove al posto degli attrezzi ci sono server e schermi e al posto degli allenatori ci sono giovanissimi e schivi hacker col cappuccio della felpa tirato sulla kippah, pronti a bombardare i dirigenti seduti nella stanza accanto.
   L'area del CyberGym è vasta e contiene piccole costruzioni a cui si accede con l'impronta digitale invece che con la chiave. Alle pareti: graffiti, figure minacciose di hacker e monitor che mostrano gli attacchi in corso in tutto il mondo.
   In una stanza, cinque cyberwarriors col volto coperto. Nell'altra, i manager. Se l'attacco riesce la stanza si allaga, una turbina comincia a stridere e salta la luce. "Tutto deve essere come in una vera emergenza. La gestione delle emozioni è importante come la gestione delle tastiere" dice Ofir Hanson, ex generale dell'esercito e co-fondatore di CyberGym.
   In Israele, civile e militare sfruttano al meglio l'expertise in cybersecurity. Anche se non ha mai riconosciuto ufficialmente la propria collaborazione con gli Usa nella progettazione dell'attacco informatico alla centrale nucleare in Iran, Stuxnet, proprio in quel periodo, il 2009, l'esercito israeliano ha potenziato un'unità cyber che opera in tutti i domini: aria acqua, terra, spazio. Il cyber infatti li comprende tutti.
   I militari che escono da quella divisione sono i più esperti al mondo e molti di loro, dopo la leva, diventano imprenditori, fondando startup tech. Il chief executive officer (ceo) di Waze, ad esempio, l'app che ci guida nel traffico cittadino, è un ex generale dell'Unit 8200, specializzata in spionaggio elettronico. Israele esporta tecnologia difensiva per circa 4 miliardi di dollari l'anno.
   "Ogni Paese e ogni azienda ha un suo approccio alla difesa" prosegue Ofir. "Quello che bisogna imparare è come reagire ogni volta a un attacco diverso, a una nuova sfida, uscendo rapidamente dalla scatola della propria abitudine e del proprio metodo. Il tallone di Achille è quasi sempre l'errore umano. La formazione deve essere tecnica e psicologica allo stesso tempo e va studiata su ogni singola struttura".
   L'attacco informatico infatti può avere come obiettivo ogni punto della catena di lavoro nei settori finanziario, energetico, industriale e governativo; e passare attraverso qualunque dipendente, consapevole o inconsapevole.
   CyberGym alla fine del training dà un punteggio alla sicurezza e capacità di resilienza delle aziende. Un rating che verrà dunque studiato assieme agli altri fattori da potenziali investitori o alleati.
   Arene CyberGym sono presenti già in Portogallo e nell'Est Europa. In Asia l'arena è in costruzione a Singapore. E ora Ofir sta guardando all'Italia del Sud. In effetti, da noi, il percorso è in gran parte da costruire, anche se non siamo più all'anno zero.
   CyberGym non è l'unico wargame di Hadera. Non ha bisogno di ambienti fisici il gioco che si è inventato Reuven Aronashvili, cofondatore di Prosecs: basta osservare il suo sguardo acuto per capire che la sa lunghissima su come vanno le cose, nel web, nel dark web e anche, probabilmente, a casa nostra.
   La sua ultima creatura è Hyver, l'alveare: una community di informatici a cui hanno accesso solo i migliori del mondo: mille hacker di tutti i continenti che indossano il white hat, il cappello bianco, cioè che non hanno un passato da cracker (i cattivi,i mercenari senza scrupoli, detti cracker).
   Le "api" di Hyver sono ovunque, tranne in Iran. Il gioco funziona così: ad Hyver il cliente, il ceo, offre il sistema della sua azienda come bersaglio per un tempo limitato. Tutti e mille cominciano ad attaccarla simultaneamente. Come uno sciame. Ovviamente senza avere la possibilità di danneggiare realmente le strutture.
   "Ognuno attacca secondo la sua cultura. Noi esperti quando ci sono grossi attacchi - ad esempio l'ultimo in Ucraina, a Natale 2015, che ha mandato in tilt la centrale elettrica lasciando la popolazione isolata al buio e al gelo - riconosciamo dallo stile l'area di provenienza, sia pure con un inevitabile margine di incertezza. Questo anche se ogni cracker porta la sua personalissima variazione, che determinerà il successo o l'insuccesso dell'attacco" ci spiega Reuven
   Nel gioco viene pagato chi riesce a superare la difesa. L'hacker vincente avrà dunque soldi - tanti - dal cliente, e gloria nella sua comunità. La competizione è alta; la posta, anche. In gioco infatti c'è l'onore, la reputazione, ma anche il tempo: chi non riesce non verrà pagato.
   Risultato: il cliente otterrà la mappatura delle vulnerabilità della sua azienda, scoprirà il percorso da mettere in sicurezza e potrà prevedere il prossimo attacco reale prima che possa danneggiarlo.
   Reuven conoscerà i migliori hacker del mondo da ingaggiare al bisogno, e soprattutto combinerà le conoscenze di diverse culture sulla stessa piattaforma, aumentando la possibilità di anticipare nuove tipologie di attacco per difendere altre organizzazioni.
   I partecipanti si alleneranno in un contesto agonistico, affinando le capacità.
   Anche se qui l'intelligenza connettiva (collettiva, di più ragazzi, e connessa tramite internet) gioca in difesa, non può non tornare alla mente la serie tv Black Mirror, in cui le api sono minuscoli droni militari del Darpa, l'agenzia governativa americana per la difesa hi-tech, dotati di intelligenza artificiale e capacità di autoapprendimento che, finiti in cattive mani dopo un attacco dei cracker, venivano dirottati in sciame dagli hater del web diventando killer spietati; ma questa è un'altra storia, che ai leader israeliani molto probabilmente non accadrà mai.

(Panorama, 3 febbraio 2017)


L'odio anticristiano infiamma la Francia

Attacchi in crescita del 245 per cento in 8 anni. Altro che islamofobia

Il ministero dell'Interno francese certifica che, tra il 2008 e il 2016, gli attacchi contro i cristiani sul territorio nazionale sono cresciuti del 245 per cento, con un aumento di oltre il 17 per cento solo nell'ultimo anno. Il dato significativo è che il 90 per cento degli attentati (a luoghi di culto, per lo più) a sfondo religioso è diretto contro i cristiani. Un quadro ben diverso rispetto a quello raccontato quotidianamente dai giornali dell'intellighenzia laicista, che suonano la grancassa dell'islamofobia dilagante in un paese dove, però (ed è sempre il ministero dell'Interno a metterlo nero su bianco) gli attacchi alle moschee hanno invece subìto una contrazione evidente. E' l'ennesima dimostrazione della persecuzione in guanti bianchi che dilaga nell'Europa sempre più secolarizzata. Attuata, spesso, tramite leggi dello stato. La Francia ne è l'esempio lampante. E non da ora.

(Il Foglio, 3 febbraio 2017)


Israele: Effettuato con successo raro trapianto di polmone

Ad una donna di 39 anni, affetta da una malattia respiratoria, è stata donata una nuova prospettiva di vita grazie ad una rara procedura di trapianto di polmone effettuata presso il Rabin Medical Center-Beilinson Campus di Petah Tikva.
Come riportato da The Jerusalem Post, la paziente, dopo un lungo periodo attaccata ad un respiratore, ha subìto l'intervento chirurgico all'inizio del mese di gennaio ed è già tornata a casa. Ora riesce a parlare e a camminare di nuovo.
Il Dott. Milton Saute è colui che ha sviluppato e implementato una preziosa tecnica nel campo della videosorveglianza nella chirurgia polmonare.
Come commentato dal Dott. Saute, l'operazione è stata molto complicata:                                           

Ci sono volute molte ore perché non è stato un trapianto di polmone convenzionale. I suoi muscoli respiratori erano molto deboli perché non respirava da sola da tanti mesi. Sono lieto di comunicare che finalmente la paziente respira da sola ed è in grado di parlare.

Il Prof. Dan Aravot, capo del dipartimento di chirurgia cardiotoracica, ha sottolineato la rarità del caso:
È un caso molto raro. Altrove nel mondo, ci sono stati solo pochi casi di trapianti su pazienti che non respiravano da soli da così tanto tempo. Questo è il primo caso in Israele. Siamo felici che lei si stia riprendendo rapidamente.


(SiliconWadi, 3 febbraio 2017)


Ryanair lancia 19 rotte verso Israele

Il programma invernale 2017 comprende 7 nuove rotte da Tel Aviv e 8 nuove rotte da Eilat Ovda

Ryanair, insieme con il ministero del Turismo d'Israele, ha lanciato in data 1o febbraio il suo programma invernale 2017 in Israele con 19 rotte - di cui 15 nuove - da Tel Aviv e Eilat Ovda.
La compagnia opererà 7 nuove rotte da Tel Aviv verso Baden Baden, Danzica, Cracovia, Milano Orio al Serio, Paphos, Poznan e Wroclaw, e 8 nuove rotte da Eilat Ovda a Baden Baden, Berlino, Bruxelles Charleroi, Francoforte Hahn, Danzica, Milano Orio al Serio, Poznan e Varsavia; per un totale di 15 nuove città, a cui vanno aggiunte le esistenti per Bratislava, Budapest, Cracovia e Kaunas.
"La significativa entrata di Ryanair in Israele è una buona notizia che darà un contributo immediato sia in termini di incremento del turismo sia nel ridurre il costo dei voli interni e internazionali - ha dichiarato il ministro del Turismo d'Israele Yariv Levin -. Sono lieto che la collaborazione tra il nostro ministero del Turismo e la compagnia aerea Ryanair sia cresciuta e di come Ryanair abbia espresso grande fiducia nel prodotto turistico israeliano. Per la prima volta infatti la compagnia aerea sta espandendo le sue attività a Tel Aviv e sta quasi triplicando il suo impegno a Eilat. L'industria del turismo sta attraversando una rivoluzione significativa e l'ingresso di Ryanair in Israele è la prova del miglioramento attrattivo di Israele come destinazione turistica; questo miglioramento è già visibile nell'aumento di turisti e visitatori in Israele".
"Siamo felici di questa novità che crea un ulteriore ponte tra Israele e l'Italia, avvicinandole ancora di più. L'offerta turistica verso Israele è in continua crescita ed evoluzione, e adesso gli italiani hanno una chance in più per visitare la nostra Terra, scoprendo i luoghi sacri, vivendo i city break a Tel Aviv e Gerusalemme, esplorando il deserto del Negev o nuotando con i delfini nelle acque del Mar Rosso ad Eilat. L'ingresso di Ryanair nei cieli israeliani evidenzia un momento importante del turismo in Israele e delle sue potenzialità, non solo di città famose come Tel Aviv, ma anche di posti meno conosciuti come appunto Eilat sul Mar Rosso, paradiso per gli amanti del mare 365 giorni all'anno", ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia.

(Guida Viaggi, 3 febbraio 2017)


Tasso di disoccupazione, in Israele appena al 4 per cento

Ogni volta che ci tocca guardare i tassi di disoccupazione è un piccolo choc. Soprattutto se ci azzardiamo a comparare la situazione italiana e quella israeliana. Le ultime rilevazioni Istat in Italia ci hanno detto che c'è un tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni che supera quota 40 per cento, il livello, mentre il tasso di disoccupazione generale è intorno al 12 per cento.
E ad Israele? Bene, nel mese di dicembre 2016 il tasso di disoccupazione è sceso al 4,3 contro il 4,5 per cento del mese precedente, secondo i dati diffusi dall'Ufficio Centrale di Statistica israeliano. Su base annua, il tasso di disoccupazione è sceso dal 5,3 del 2015 al 4,8 per cento del 2016. Le cifre fotografano in modo spietato le economie dei due paesi.

(Italia-Israele, 2 febbraio 2017)


Calcio: «giallorosso ebreo»per il gip è tifo, non razzismo

Prosciolti due ultrà biancocelesti che avevano intonato il coro durante Lazio-Catania del 30 marzo 2013. Per il giudice le due parole incriminate hanno solo «la finalità di deridere la squadra avversaria». La procura aveva chiesto il rinvio a giudizio.

di Giulio De Santis

«L'espressione "giallorosso ebreo" ha la finalità di deridere la squadra avversaria ed è ricollegabile allo storico antagonismo» tra le due formazioni della Capitale. Con questa motivazione Alessandro Pasquazzi e Fabrizio Pomponi - due tifosi laziali sorpresi in Curva nord mentre intonavano un coro con dentro le due parole incriminate - sono stati prosciolti con la formula «perché il fatto non sussiste» dal gip di Roma Ezio Damizia: erano accusati di diffondere odio razziale.

 Il terrorista dei Nar
  A inchiodare i due ragazzi - difesi dagli avvocati Massimiliano Capuzi ed Emiliano Ferrazza - erano state le immagini registrate dalle telecamere a circuito chiuso durante la partita Lazio-Catania del 30 marzo del 2013. In particolare le riprese mostravano, tra le 15.38 e le 15.39, i due giovani incitare il resto dei componenti della Curva nord a cantare «Giallorosso ebreo, Roma va a caga'». Una volta osservate le immagini, la Digos aveva identificato e denunciato i tifosi. Nella perquisizione a casa di Pomponi erano saltati fuori un manganello retrattile, un manifesto del terrorista dei Nar Alessandro Alibrandi e una maglietta raffigurante il Duce. Nulla nell'abitazione dell'altro tifoso. Per entrambi, al termine delle indagini, la procura aveva chiesto il rinvio a giudizio.

 «Solo derisione sportiva»
  Ma il gip non ha accolto la tesi dell'accusa. Innanzitutto perché le espressioni incriminate «rimangono confinabili nell'ambito di una rivalità di tipo sportivo»: il coro, si legge nella sentenza, «si compone di un'espressione che aldilà della scurrilità esprime mera derisione sportiva». E poi secondo il giudice occorre tenere conto di una differenza: «Sebbene l'accostamento giallorosso con ebreo possa aver assunto nelle intenzioni del pronunciante valenza denigratoria, ricollegabile latamente a concetti di razza, etnia o di religione, le modalità di esternazione non costituiscono alcun concreto pericolo di diffusione di un'idea di odio razziale e di superiorità tecnica». Anche perché quel giorno non c'erano romanisti sugli spalti da provocare.

 Rischi futuri
  La sentenza è stata pronunciata lo scorso 15 dicembre, mentre le motivazioni sono state pubblicate in questi giorni. In vista del duplice incontro della semifinale di Coppa Italia, è prevedibile che il verdetto abbia delle ripercussioni sui cori delle partite. Le ragioni esposte dal gip potrebbero indirettamente sdoganare il ricorso ad altre espressioni irriguardose, in quanto i tifosi di Roma e Lazio le potrebbero ritenere scriminate grazie alla formula «storico antagonismo tra le squadre della Capitale».

(Corriere della Sera - Roma, 2 febbraio 2017)


È israeliano il miglior resort di lusso nel Medio Oriente

di Paolo Castellano

 
Secondo gli utenti di TripAdvisor il lussuoso resort di Eilat è il miglior hotel nel Medio Oriente, e si è classificato al 25esimo posto nella classifica mondiale degli alberghi più prestigiosi nella nuova edizione dei Taveler's Choice Awards.
Il sito più famoso al mondo per programmare le proprie vacanze e per prenotare gli alberghi, la scorsa settimana ha annunciato i vincitori della premiazione annuale generata dagli utenti, e l'Herods Vitalis Spa Hotel Eilat si è posizionato tra le migliori strutture turistiche nel mondo.
Migliaia di giudizi a 5 stelle sul sito di TripAdvisor hanno fatto sì che l'Herods sia balzato al primo posto nella categoria Medio Oriente come "Top Hotel", e venticinquesimo nella categoria globale.
L'Aria Hotel di Budapest, una lussuosissima struttura a tema musicale, si è invece aggiudicato il primo posto nella classifica generale del 2017.
I premi annuali dei viaggiatori sono stati assegnati basandosi sui feedback di milioni di utenti registrati per tutto lo scorso anno.
Per la classifica del 2017, i visitatori di TripAdvisor hanno votato nella categoria top 7,612 strutture in 109 Paesi basandosi sul servizio, sul prezzo e sulla qualità degli alberghi.
Queste sono le categorie dei premi: migliori hotel , destinazioni emergenti, spiagge, ristoranti, resort tutto compreso, attrazioni, luoghi d'interesse, musei e destinazioni.
«TripAdvisor si affida alle esperienze e alle opinioni della nostra comunità di viaggiatori per determinare i vincitori del premi per i migliori hotel», ha dichiarato in un comunicato Barbara Messing, la responsabile dell'ufficio marketing dell'azienda.
Come riporta il sito del resort israeliano, l'Herods ha ottenuto da TripAdvisor il certificato di eccellenza nel 2012, 2013, 2014 e ha vinto il Traveler's Choice nel 2013, 2014, 2015 e 2016.
Scorrendo le recensioni dell'albergo si nota che i turisti che hanno soggiornato nel resort sono rimasti molto soddisfatti. Per esempio un utente londinese di TripAdvisor ha scritto:
«Questo hotel è stato davvero una sorpresa. Ho passato una settimana tranquilla e rilassata perché siamo stati trattati come dei re. Il personale è ben preparato per soddisfare tutti i bisogni del cliente. Le camere sono molto spaziose e dispongono di un piccolo balcone che si affaccia sul mare. Il cibo è stato eccezionale: ci sono infatti 3 ristoranti. Sono molto belle anche la piscina e la Spa. Consiglio vivamente questo hotel e spero di tornarci».

(Mosaico, 1 febbraio 2017)


Regno Unito: il 2016 anno record per l'antisemitismo

LONDRA - Il Regno Unito ha vissuto lo scorso anno un consistente aumento degli episodi di antisemitismo: lo ha riferito il Community Security Trust (Cst), un ente di beneficenza che dal 1984 monitora i casi di antisemitismo nel paese. L'ente ha registrato lo scorso anno 1.309 incidenti antisemiti a livello nazionale, un aumento del 36 per cento rispetto ai 960 del 2015. Il record precedente, toccato nel 2014, era stato di 1.182 incidenti. L'abuso verbale rivolto alle persone visibilmente ebraiche in pubblico è stato il tipo più comune di incidenti registrati nel 2016 (29 per cento del totale). Il 22 per cento degli incidenti antisemiti sono stati perpetrati attraverso i social media, l'8 per cento attraverso aggressioni violente e circa il 5 per cento ha riguardato il danneggiamento e la profanazione delle proprietà ebraiche.

(Agenzia Nova, 2 febbraio 2017)


Israele smantella Amona. “E' un insediamento illegale"

di Ariel David

Lo sgombero
Circa 3000 tra poliziotti e militari israeliani hanno sgomberato l'insediamento illegale di Amona, una cinquantina di prefabbricati e container sparsi su questa collina della Cisgiordania, ma sono stati costretti a scontrarsi con la dura resistenza delle 42 famiglie di residenti, sostenute da centinaia di giovani militanti dell'ultradestra religiosa giunti da tutta Israele. Alcuni hanno bloccato le strade con barricate e cassonetti incendiati e lanciato pietre contro le forze dell'ordine, tra cui si contano 20 feriti lievi. Almeno tredici gli arresti tra i contestatori. La maggior parte dei dimoranti ha però scelto la via della resistenza passiva, incatenandosi l'uno all'altro all'interno delle abitazioni, tra preghiere, canti e inviti ai poliziotti a disobbedire agli ordini perché «gli ebrei non espellono altri ebrei». I poliziotti hanno usato le tenaglie per slegare i residenti, per poi trascinarli di peso, uno ad uno, verso gli autobus in attesa fuori dall'insediamento.
   Il lento sgombero è stato seguito in diretta da tutte le principali televisioni e ha fatto rivivere a Israele il trauma collettivo dell'evacuazione degli insediamenti nella Striscia di Gaza nel 2005.
   La polizia ha voluto evitare il ripetersi delle violenze del 2006, quando la demolizione di alcune case di Amona provocò duri scontri e circa 300 feriti. Questa volta, le forze dell'ordine si sono presentate disarmate, indossando giacche a vento e cappellini invece di caschi e tenute antisommossa.
   Costruito dal 1995 su terreni agricoli appartenenti a privati palestinesi, Amona è un avamposto del vicino insediamento di Ofra, nel cuore della Cisgiordania, a pochi chilometri da Ramallah. Lo sgombero arriva a più di 2 anni dalla decisione della Corte Suprema che ne ha sancito l'illegittimità malgrado diversi tentativi da parte del governo di ritardare ancora l'evacuazione o trasferire gli abitanti su terreni vicini. «Sono 20 anni che aspetto questo momento», dice Ibrahim Yacoub, abitante del villaggio palestinese di Ein Yabrud e proprietario di uno dei terreni. «Quel terreno appartiene alla mia famiglia da un secolo, non vedo l'ora di tornare a coltivarlo». Tra i manifestanti ancora asserragliati ad Amona ci sono diversi esponenti della maggioranza di governo. Betzalel Smotrich, parlamentare di Habayit Hayehudi (La Casa Ebraica), ha paragonato lo sgombero a uno «stupro», suscitando lo sdegno dell'opposizione. E mentre il ministro della Difesa Avigdor Lieberman invitava a «rispettare le regole del gioco» ed evitare violenze, il ministro dell'Istruzione Naftali Bennett, leader di Habayit Hayehudi, definiva «eroi» gli abitanti di Amona e prometteva che la loro resistenza avrebbe portato all'annessione di tutta la Cisgiordania.
   Il «movimento dei coloni» il cui appoggio è fondamentale per il governo Netanyahu, può infatti consolarsi della sconfitta con l'autorizzazione, annunciata alla vigilia dell'evacuazione di Amona, alla costruzione di 3.000 nuove abitazioni in vari insediamenti della Cisgiordania. Il governo sta anche lavorando per l'approvazione in Parlamento di una legge che permetterebbe allo Stato di espropriare i terreni su cui sono stati costruiti almeno 16 insediamenti illegali, che sarebbero così regolarizzati retroattivamente.

(La Stampa, 2 febbraio 2017)


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Completato lo sgombero degli abitanti di Amona, eccetto la sinagoga

Al suo interno le persone che resistono

Lo sgombero delle strutture dell'avamposto ebraico di Amona in Cisgiordania da parte delle forze di sicurezza israeliane è stato completato. Resta al momento, secondo la polizia, soltanto la sinagoga dove al suo interno sono asserragliati dozzine di residenti che rifiutano di lasciare il luogo e che gli agenti si apprestano a far allontanare. Dalli'inizio dell'operazione, secondo dati delle forze di sicurezza, sono stati 24 gli agenti feriti leggermente, le persone arrestate 13 e 800 i giovani manifestanti allontanati.
L'esercito mercoledì ha dato un ultimatum agli abitanti per lasciare Amona che è stata dichiarata zona militare chiusa. Da stanotte sono affluiti sul posto centinaia di giovani per dare mano forte ai residenti di Amona (in tutto circa 40 famiglie) nel resistere all'ordine di evacuazione.
Amona si trova nei pressi dell'insediamento di Ofra a non molta distanza da Gerusalemme. La Corte Suprema, dopo una lunga battaglia legale, ha deciso per lo sgombero del posto che è costruito su terra palestinese privata. Il governo ha poi raggiunto un accordo per ricollocare le famiglie in un altro luogo ma i terreni devono ancora essere individuati e la Corte si deve ancora pronunciare sulla validità dell'accordo con gli abitanti dell'avamposto. Ad Amona è presente anche il ministro dell'agricoltura Uri Ariel del partito 'Focolare ebraico' vicino al movimento dei coloni. Un deputato dello stesso partito Bezalel Smotrich, citato dai media, ha definito lo sgombero "come un brutale stupro" ai danni dei residenti e per questo è stato criticato dall'opposizione.

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(ANSA, 2 febbraio 2017)


E' certo che questa difesa della legalità da parte dello Stato ebraico non porterà nessuna simpatia in più a Israele. M.C.


Da domenica Netanyahu a Londra

Visita di due giorni, incontro con il premier Theresa May

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu partirà domenica prossima 5 febbraio per una visita di Stato di due giorni in Gran Bretagna dove è in calendario un incontro con il primo ministro inglese Theresa May. E' la prima volta tra i due da quando May ha assunto l'incarico. Subito dopo il viaggio a Londra, Netanyahu a metà febbraio volerà negli Usa dove a Washington vedrà il presidente Usa Donald Trump. Il nuovo capo della Casa Bianca ha di recente incontrato May nel suo esordio con un capo di stato estero.

(ANSA, 2 febbraio 2017)


«Sono cambiato dopo questo viaggio»

di Elettra Gullè

FIRENZE - «Sì, il treno della memoria mi ha davvero cambiato. Adesso, di fronte alle frasi razziste che si sentono in tv reagisco in modo diverso e, soprattutto, mi domando come si possa continuare ad avere pregiudizi. Non è bastato l'Olocausto come lezione per l'umanità?» Alice frequenta la quinta al liceo scientifico Leonardo Da Vinci ed è una dei 501 studenti toscani appena rientrati dall'esperienza nei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau. I ragazzi del Da Vinci lunedì mattina hanno organizzato un'assemblea per raccontare a tutti i compagni quello che hanno imparato e, soprattutto, provato durante la toccante esperienza. Al confronto ha partecipato anche Umberto Di Gioacchino. Aveva solo due anni quando venne prima nascosto in un convento a Settignano e, poi, in una cascina di campagna. «Quando a Birkenau si è levata la preghiera in lingua ebraica mi sono commossa - aggiunge Alice -. In quel silenzio assoluto, sembrava quasi che gli ebrei sterminati rimandassero l'eco di quella preghiera, che si disperdeva per il campo». «Solo quando sei lì riesci a capire la storia e a cosa può portare la pazzia dell'essere umano - riflette Leonardo, anche lui in quinta al Da Vinci -. L'esperienza del Treno ci insegna che non deve esistere una differenza di razza. E che non si può voltare le spalle a chi arriva». Gli studenti hanno anche messo insieme le foto e i video realizzati durante il viaggio. «Il PowerPoint coi ricordi dell'esperienza lo invieremo al Museo della deportazione», fa sapere la preside Donatella Frilli. La professoressa Silvia Fossati ha accompagnato gli allievi in quest'esperienza di vita: «Gli studenti hanno maturato una diversa consapevolezza», le sue parole.
Anche le ragazze dell'Isis Galilei sono entusiaste. «Quei luoghi ti cambiano dentro», dice Miriam. Che aggiunge: «Purtroppo però basta guardarsi attorno per notare che la storia rischia di ripetersi ... ». E Benedetta: «Ero già stata a Mauthausen la scorsa estate con degli amici. Ma l'esperienza del treno è ben diversa: molto più tosta e formativa. Perché si parte molto consapevoli di quel che andremo a vedere». Adesso, come riferisce Francesca, «faremo un'assemblea per raccontare ciò che abbiamo vissuto. Anche noi abbiamo tante immagini da mostrare». Un'assemblea è prevista pure al Saffi, dove proprio domani i ragazzi che hanno partecipato al viaggio incontreranno il preside Vagnoli. «Decideremo insieme cosa fare per condividere nel modo migliore questa bellissima esperienza», dice il dirigente.

(La Nazione - Firenze, 2 febbraio 2017)


Purtroppo non si può essere del tutto convinti del reale beneficio di questi viaggi. L’articolista parla di “pazzia del genere umano”, la ragazza dice che non sopporterà più “frasi razziste” e che “non deve esistere differenza di razza”, ma tutto questo non fa capire la particolarità di ciò che è avvenuto ad Auschwitz, legata in modo essenziale all’unicità del popolo ebraico e dell’odio contro di lui. Qualcuno dirà che anche parlare di “stato ebraico” è razzismo, e potrebbe essere che sia un docente a dirlo. Dopo un’ampia spiegazione sulla Shoah data da uno studioso ebreo ad una classe di studenti, il docente della classe ha concluso dicendo: “E pensate ragazzi che adesso sono proprio gli ebrei israeliani a fare cose simili ai palestinesi”. M.C.


Il tempo è denaro

di Rav Alberto Moshe Somekh

Nella scritta: "La mattina semina il tuo seme" (Ecclesiaste 11:6)
Il 24 agosto scorso l'orologio della torre di Amatrice si è fermato, ma non alle 3.36, l'ora in cui il terremoto è cominciato. Le sue lancette segnavano invece le 3,38: due minuti più tardi. Se teniamo conto del fatto che la scossa sismica si è protratta per 142 secondi, comprendiamo ciò che è accaduto: l'orologio ha fatto del suo meglio per resistere per tutta la durata della scossa stessa finché, stremato, ha dovuto arrendersi. L'orologio di Amatrice ci insegna che il tempo altro non è che la capacità di resistere al male. La Torah, aggiungo io, è strettamente legata al tempo. La Torah è un codice di istruzioni su come resistere al male.
   Analizzando il problema del male Maimonide lo descrive essenzialmente non come una realtà a se stante, bensì come mancanza di bene. "Non si può affermare che D. sia la causa diretta del Male! Al contrario, tutte le Sue azioni costituiscono il bene assoluto ... Tutti i mali sono privazioni, cui non si collega alcuna azione, se non nel senso ... che D. produce la materia con la natura che le è propria, perennemente associata alla corruzione: il che la rende causa di ogni male". Maimonide individua tre specie di mali nel mondo, due delle quali sono sotto la diretta responsabilità dell'uomo: i mali che gli uomini si infliggono vicendevolmente come la tirannia e le malattie, che in gran parte sarebbero la conseguenza dei nostri vizi ed eccessi. Una terza categoria di mali sopravviene all'uomo per la natura stessa della materia, che è soggetta a nascita e corruzione: un esempio di questa categoria che non dipende dal nostro comportamento sono, nelle sue parole, proprio gli sprofondamenti del suolo (Moreh Nevukhim 3, 10-12). C'è modo di intervenire in tutto ciò? Certamente. Uno dei significati della ricorrenza di Tu Bi-Shvat, il "capodanno degli alberi", è legato alla riscossione delle decime che aveva applicazione pratica solo ai tempi del Bet ha-Miqdash. La prima decima (ma'asser rishon) andava annualmente destinata ai Leviti, che non avevano un territorio dal quale derivare benefici materiali ma erano legati per il loro sostentamento alle donazioni altrui. La seconda decima (ma'asser shenì) era dovuta in alcuni anni al mantenimento economico della città di Yerushalaim. Gli agricoltori erano tenuti a portare un decimo dei loro frutti a Yerushalaim e consumarli entro le mura. Salvo il caso in cui la loro residenza fosse molto distante dalla città, in base a criteri stabiliti dalla Tradizione Orale: in tal caso avevano il permesso di "riscattare la decima" trasferendo la qedushah dalla frutta a una somma di denaro corrispondente. Si sarebbero impegnati a spendere quest'ultima a Yerushalaim.
   La Torah scrive testualmente: "Se il cammino sarà troppo lungo per te così che tu non possa trasportare quella decima e perché il luogo dove l'Eterno tuo D. avrà scelto di far risiedere il Suo Nome sarà molto distante da te, anche in considerazione del fatto che il S. tuo D. ti avrà benedetto (con prodotto troppo abbondante per essere trasportato), allora la riscatterai in cambio di denaro coniato e stringendolo in mano andrai al luogo che l'Eterno tuo D. avrà scelto. Impiegherai il denaro per comprare tutto ciò che il tuo animo desidera ... " (Devarim 14,25 sgg.).
   Il No'am Elimelekh dà di questo brano un'interpretazione parzialmente allegorica. Se il Bet ha-Miqdash è stato distrutto e non hai pertanto la possibilità di raggiungerlo portando là le tue decime e pur tuttavia il tuo prodotto è abbondante, sappi che forse proprio questo deve spingerti a riflettere: non pensare solo al denaro che stringi in mano! Dàgli un conio, dàgli una forma sacra, dàgli una qedushah! Dedica quel denaro a investimenti che lo vedano impiegato non al servizio di ciò che il corpo desidera, bensì di "ciò che l'anima desidera". Risparmia cifre ai piaceri della vita e destinale in tzedaqah, al servizio del prossimo che soffre; al servizio, nel nostro caso, delle vittime del terremoto.
   Le grandi catastrofi naturali non hanno forse una spiegazione causale ma hanno certamente una spiegazione finale: ci vogliono insegnare i valori dell'umana solidarietà intesa, in termini ebraici, come tzedaqah e ghemilut chassadim, che è ancora più grande. La tzedaqah, insegnano i nostri Maestri, si pratica con il denaro, mentre la ghemilut chassadim con il denaro e con l'aiuto di tutta la persona. La tzedaqah è verso i vivi, mentre la ghemilut chassadim è indirizzata tanto verso i vivi che verso i morti. Quando il Bet ha-Miqdash fu distrutto e non fummo più in grado di portarvi né decime, né sacrifici, Rabbì Yehoshua' piangeva amaramente strappandosi le vesti in segno di lutto ed esclamava: "Maledizione a noi, perché ecco è in rovina il luogo dove i peccati di Israel sarebbero stati perdonati". Rabban Yochanan ben Zakkay lo consolava: "Non essere troppo triste. Ora abbiamo un altro modo per farci perdonare i nostri peccati: la ghemilut chassadim". D'ora innanzi nelle nostre donazioni il nostro prossimo avrebbe in un certo senso preso il posto del S.B.: il nostro prossimo in quanto creato a immagine Divina.
   Ora comprendiamo anche la relazione esistente fra la prescrizione delle decime e le ricorrenze annuali come Tu bi-Shvat, che scandiscono il tempo che passa. Il tempo è denaro, sentenzia un proverbio: mettiamo le nostre fortune economiche al servizio di chi resiste al male. E che il S.B. ci benedica e ci protegga tutti.

(Pagine Ebraiche, 2 febbraio 2017)


Due terzi dei francesi indifferenti alla fuga degli ebrei

E per la sinistra islamofila di Hamon, Israele è "peggio dell'apartheid"

ROMA - Nei giorni scorsi, in occasione della Giornata della memoria, i cinema francesi hanno proiettato "Il viaggio di Fanny", la fuga dalla Francia di una ragazzina ebrea sotto l'occupazione nazista. Il film è tratto dalla storia vera di Fanny Ben-Ami, che oggi vive in Israele. Nell'ultimo anno, altri seimila ebrei francesi hanno fatto le valigie per andare a vivere nello stato ebraico. Una fuga, anche questa, dettata dall'antisemitismo. Cosa ne pensano i loro concittadini? Ce lo rivela il principale centro di sondaggi francesi, l'Ipsos, che ha diffuso un rapporto-choc dal titolo "Evoluzione delle relazioni con l'altro nella società francese". La Francia è diventata il primo paese d'origine degli "olim" (immigrati) in Israele, registrando duemila partenze nel 2012, tremila nel 2013, 7.231 partenze nel 2014 e ottomila nel 2015, quando si è verificato l'attentato islamista all'Hypercacher. Stando al sondaggio Ipsos, il sessanta per cento degli intervistati si è detto "indifferente" all'autoesilio degli ebrei francesi, il sette per cento si è detto "contento" e soltanto il trenta per cento si è dichiarato contrariato.
   L'indagine rileva anche che la metà dei sei milioni di musulmani francesi nutre sentimenti "antisemiti". Inoltre, gli ebrei francesi sono presi politicamente fra due fuochi: tradizionalmente divisi fra gollisti e socialisti, quest'anno alle presidenziali vedranno lo scontro fra la destra del Front national, l'incognita Macron e la sinistra radicale che Malek Boutih, deputato socialista dell'Essonne, ha appena definito "islamo-goscista". Il candidato socialista all'Eliseo, Benoît Hamon, nutre infatti legami forti con la galassia musulmana, mentre il suo avversario, Manuel Valls, aveva promesso che "non può esserci una Francia senza ebrei" e aveva scommesso sulla lotta al fondamentalismo islamico in nome della laicità. Durante le primarie socialiste, in una dichiarazione a Libération un ministro aveva chiamato Hamon "il candidato dei Fratelli musulmani".
   Il portavoce di Hamon, Alexis Bachelay, deputato dell'Hauts-de-Seine, non solo partecipa alle serate del Collectif contre l'islamophobie en France, ma ha definito la mostra del comune di Parigi "Tel Aviv sulla Senna" una "Pretoria-sur-Seine", perché Israele è come "il Sudafrica prima del rilascio di Mandela". Anzi, "dato ciò che sta accadendo in Palestina, il regime di Pretoria era forse più morbido dell'estrema destra che governa in Israele", ha continuato il portavoce di Hamon. Lo stesso Benoît Hamon ha definito il sostegno alla "causa palestinese" come "il modo migliore per recuperare l'elettorato nelle nostre periferie".
   L'intellettuale ispiratrice di Hamon, la sociologa belga Chantal Mouffe, studiosa di Georg Lukàcs e "portaborse" durante la guerra di Algeria, ha firmato il boicottaggio culturale di Israele. Un altro candidato alle primarie socialiste, l'ex ministro dell'Istruzione Vincent Peillon, nei giorni scorsi si è spinto in un parallelo tra l'antisemitismo e l'"islamofobia". Frasi che fanno seguito a quelle del primo segretario del Partito socialista, Jean-Christophe Cambadélis: "Vi è la stessa voglia di stigma. Sotto Vichy erano gli ebrei, ora sono i musulmani". Sabato, intanto, alla moschea di Roubaix, nel nord, l'Unione delle organizzazioni islamiche di Francia ospiterà Hani Ramadan, fratello del più noto Tariq e che ha più volte attaccato il "potere sionista". Vichy fu questo, indifferenza e omissione. Intanto, 40 mila ebrei hanno abbandonato la Francia negli ultimi dieci anni. Un decimo del totale. Un decimo.

(Il Foglio, 2 febbraio 2017)



Parashà della settimana: Bo (Vai)

Esodo 10:1-13:16

 - La parashà racconta la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù d'Egitto, che marcia verso la libertà fino ai piedi del monte Sinài, dove il popolo riceverà il dono della Torah.
Ad un ritmo accelerato le piaghe continuano ad abbattersi sull'Egitto. Le cavallette finiscono di distruggere quanto la grandine aveva risparmiato. Tre giorni di tenebre colpiscono il paese d'Egitto, piaga a cui fa seguito la decima e ultima piaga che è la morte dei "primogeniti", compreso il figlio del faraone.
Il Signore parlò a Moshè : "Questo mese è per voi il capo dei mesi…. prendete un animale senza difetti fra gli agnelli…. e tutta la comunità d'Israele lo scannerà" (Es 12.1 e seg.).
Per uscire del tutto dall'Egitto gli ebrei devono sacrificare l'agnello, espressione dell'idolatria e dell'ideologia egiziana. Perché proprio l'agnello? Perché questo animale era il "simbolo" della sottomissione al potere del faraone, che doveva essere venerato come una divinità. Essere ebrei significava sacrificare l'agnello, per testimoniare che nessun potere umano può essere Divino.
D-o disse a Moshè: "Vai dal faraone perché I-o ho indurito il suo cuore". E' il Signore che combatte i tiranni, ridicolizzando il loro potere ed è questo quello che tu insegnerai a tuo figlio: cercare D-o presso di Me, non presso il faraone in modo che egli sappia che "I-o sono il Signore".
La grandezza di D-o è quella di manifestarsi dove la Sua presenza appare sconosciuta. E' un messaggio di bruciante attualità. Dove si trova oggi D-o? Proprio nella Casa Bianca, nel centro degli Stati Uniti d'America, al fine di "indurire" il cuore di coloro che detengono il Potere.

Capo mese
In questa parashà viene dato da D-o ad Israele la sua prima mitzvà (comandamento): "Questo mese (Nissan) sarà per voi il primo dei mesi dell'anno" (Es. 12.2). L'idea di santificare il tempo è uno dei contributi dati al mondo dal giudaismo. Rashì a riguardo si domanda: «Non sarebbe stato più logico parlare del Sabato per santificarlo in accordo con la Creazione? L'ebraismo non è una religione, ma un modo di vita. In questo momento il popolo aveva bisogno di calcolare il tempo e da questo comandamento di D-o nasce il calendario ebraico "lunare"». Perché è stata scelta la luna?
Secondo un midrash durante la creazione degli astri (quarto giorno) la luna pretendeva di essere la più grande del firmamento e per questa sua superbia il Creatore la fece rimpicciolire, cosa questa che generò la sua invidia. Ugualmente accade con gli uomini, essendo l'invidia di costoro una delle fonti del male. L'osservazione della luna, nella sua apparente innocenza, esprime il simbolo del male. Il Signore Idd-o ha creato un mondo che contiene il bene ma anche il male e deve essere l'uomo a scegliere liberamente tra di loro. Pertanto quando D-o comanda all'uomo di celebrare il rinnovamento della luna (capo mese) vuole dire all'uomo che nell'imperfezione della luna è riflessa quella della natura umana. Il rinnovamento ciclico della luna vuole insegnarci che le nostre azioni con l'osservanza del comandamento portino ad un cambiamento verso il bene, verso una crescita dell'uomo. Il tempo dunque inteso come un farmaco per curare il male presente nella Creazione.

Pane azzimo (matzà)
"Per sette giorni mangerete pane azzimo" (Es. 12.15). L'obbligo di mangiare la matzà è nella sera del Seder di Pesah per ricordare l'uscita dall'Egitto avvenuta senza avere il tempo di far fermentare l'impasto di farina. L'ultima cena raccontata nei Vangeli è stata una cena pasquale, come tutti i cristiani sanno. Gesù con gli Apostoli in Gerusalemme ha partecipato al sacrificio dell'agnello (Seder di Pesah) per ricordare l'uscita dalla schiavitù d'Egitto e la conquista della libertà in Terra d'Israele. Cosa rappresenta per la tradizione ebraica la matzà? L'assenza di ogni lievito, di qualsiasi elemento di fermentazione, nel simbolismo della Torah, esprime l'unità del nostro potenziale umano. La matzà dà un senso alla sofferenza ed offre ricchezza spirituale dove c'è solo desolazione. La presenza della matzà all'uscita dall'Egitto, la sua composizione semplice, dona all'ebreo un valore non solo storico ma anche spirituale, designando il suo punto di arrivo, che è quello del servizio Divino.
"E alla fine di 430 anni in quel giorno, uscirono dall'Egitto tutte le schiere del Signore" (Es. 12.41). Quattro secoli di esilio non hanno piegato l'identità ebraica. Israele ha mostrato questa facoltà di resistenza morale che è stata ed è lo stupore delle nazioni del mondo. F.C.

*

 - Quando si riflette sull'uscita del popolo ebraico dall'Egitto, si tende a porre Dio, Mosè e gli ebrei da una parte, e Faraone e gli egiziani dall'altra. Le cose non stanno proprio così. Una schematizzazione più biblica sarebbe questa: Dio da una parte; ebrei ed egiziani dall'altra, ma in posizioni diverse; Mosè (col supporto di Aaronne) strumento scelto da Dio fra gli ebrei per svolgere la sua politica all'interno e per mezzo di Israele.
Nella storia dell'esodo biblico non c'è nulla che assomigli alle altre lotte di liberazione di popoli oppressi. Mosè non è il capo riconosciuto e acclamato di un popolo che vede in lui l'espressione e lo strumento della sua battaglia. Il popolo non è artefice della sua politica, ma subisce la politica di Dio.
In Esodo 4:27-31 Mosè ed Aaronne comunicano agli anziani il progetto di liberazione che Dio, non il popolo, aveva intenzione di compiere, "ed il popolo prestò loro fede. Essi compresero che l'Eterno aveva visitato i figli d'Israele e aveva visto la loro afflizione, e s'inchinarono e adorarono" (Es. 4:31).
Dopo di che Mosè ed Aaronne si presentano al Faraone con la loro richiesta, ed in questa occasione, e solo in questa, parlano in veste di rappresentanti di tutto il popolo, perché ne hanno ricevuto esplicitamente il consenso.

Un modo singolare di procedere
Il modo in cui i rappresentanti del popolo formulano la loro richiesta è davvero strano. Dio aveva detto a Mosè di informare il Faraone che Israele è il suo figlio primogenito, e che se non l'avesse lasciato andare, Lui avrebbe ucciso il figlio primogenito suo (Es. 4:22-23). Mosè ed Aaronne però non presentano subito la loro richiesta in forma di minaccia, non dicono: "Lasciaci andare altrimenti sono guai per te", come si fa, in forma più o meno velata, in certe trattative politiche; dicono invece: "Lasciaci andare altrimenti sono guai per noi".
"Essi dissero: «Il Dio degli Ebrei si è presentato a noi; lasciaci andare per tre giornate di cammino nel deserto, per offrire sacrifici all'Eterno, nostro Dio, affinché egli non ci colpisca con la peste o con la spada»" (Es. 5:3).
Un bel Dio, quello degli ebrei, penserà qualcuno: prima lascia che il suo popolo gema per secoli sotto tiranni stranieri, poi gli ordina di andarlo a festeggiare nel deserto altrimenti li punirà con la peste o con la spada. Com'era prevedibile, il Faraone respinge nettamente la richiesta dei rappresentanti e dice a Mosè che il popolo non stia a preoccuparsi di quello che gli farebbe il suo Dio, ma di preoccuparsi di quello che gli farà lui. E li sbatte fuori in malo modo.
Le angherie aumentano e i sorveglianti del popolo si scagliano contro Mosè ed Aaronne. Possiamo immaginare che abbiano detto parole come queste: "Al Faraone voi avete detto che se non avessimo ubbidito a Dio, Egli ci avrebbe colpito con la spada, invece è successo che la spada l'ha usata il Faraone, e siete stati voi che gliela avete messa in mano".
"Essi dissero: L'Eterno volga il suo sguardo su voi, e giudichi! poiché ci avete messi in cattiva luce davanti al faraone e davanti ai suoi servi e avete messo nella loro mano la spada per ucciderci» (Es. 5:21).
Anche Mosè fu fortemente scosso da questo svolgersi delle cose, ma Dio gli rinnovò la sua promessa di liberazione facendo riferimento al patto con Abramo, Isacco e Giacobbe (Es. 6:2-8). Mosè si lasciò convincere e ripeté al popolo le promesse di Dio, ma questa volta il popolo non credette alle sue parole e si rifiutò di seguirlo.
"Mosè parlò così ai figli d'Israele; ma essi non dettero ascolto a Mosè, a motivo dell'angoscia dello spirito loro e della loro dura schiavitù" (Es. 6:9).
Questa fu la prima, determinante ribellione del popolo d'Israele contro il suo Signore.

Mosè si presenta al Faraone a nome di Dio, non del popolo
Il rifiuto del popolo a credere alle parole di Dio è un fatto grave, e Mosè fa presente all'Eterno questa situazione: "Ecco, i figli d'Israele non mi hanno dato ascolto" (Es. 6:12). Come farà dunque Mosè a presentarsi al Faraone senza avere il consenso del popolo e il sostegno di un mandato popolare? Questo si direbbe oggi, e forse qualcosa del genere deve aver detto anche Mosè al Signore. Dio però tagliò corto:
"Ma l'Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne e comandò loro di andare dai figli d'Israele e dal Faraone re d'Egitto, per far uscire i figli d'Israele dal paese d'Egitto" (Es. 6:13).
Da questo momento Mosè agisce soltanto come strumento della volontà di Dio e non come espressione della volontà del popolo, anzi in opposizione diretta a questa volontà. C'è da immaginare il terrore con cui gli ebrei avranno saputo che "quei due pazzi forsennati" di Mosè ed Aaronne si sono presentati un'altra volta davanti al Faraone a fare le loro richieste. Se si è così arrabbiato la prima volta - avranno pensato - chissà che cosa succederà le prossime.
Invece poi vengono a sapere che chi si arrabbia è Dio. Certo, gli ebrei vedono avvenire cose grandiose: l'acqua mutata in sangue, le rane, le zanzare. Le prime calamità che devastano l'Egitto sono segni davvero potenti. Ma il fatto è che dentro all'Egitto ci sono anche loro, e nella posizione peggiore che si possa immaginare, perché certamente il Faraone non li avrà esentati dai loro lavori a causa dello stato di emergenza in cui si era venuto a trovare il paese. Quindi ad essere colpiti sono tutti, anche gli ebrei, che si saranno chiesti: ma sarebbe questa la nostra liberazione?
Soltanto alla quarta piaga, le mosche velenose, Dio avvisa che farà una distinzione:
"In quel giorno io risparmierò il paese di Goscen, dove abita il mio popolo; lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo" (Es. 8:22-23).
Alla fine il popolo d'Israele uscirà dall'Egitto, ma questo avverrà per l'opera di Dio con la mediazione di Mosè, e senza il consenso e l'appoggio del popolo, il quale subisce l'azione di Dio senza parteciparvi con la sua volontà.

Il passaggio dell'angelo. Che significa?
Quanto detto fin qui sembra essere fuori tema rispetto al contenuto della parashà di oggi, che ha come oggetto la pasqua. Vuol essere invece una premessa necessaria per cominciare ad inquadrare quello strano fatto del passaggio dell'angelo che colpisce i primogeniti egiziani ma risparmia gli ebrei che hanno osservato le disposizioni di Dio: uccidere un agnello per casa e spargere il suo sangue sugli stipiti della porta.
Egiziani ed ebrei sono entrambi in posizione di peccato rispetto a Dio, ma in modi diversi. Il Faraone e il suo popolo giacciono nel peccato perché vivono nelle tenebre dell'idolatria pagana; il popolo d'Israele invece no, perché è stato visitato da Dio e lo ha adorato (Es. 4:31). Il suo peccato però è di tipo diverso: ha rigettato la parola di Dio ricevuta attraverso Mosè. L'angelo è stato mandato per colpire tutti coloro che sono ribelli alla volontà di Dio, e tra questi ci sono anche gli ebrei. Ma gli ebrei sono il popolo che Dio ha promesso ad Abramo, ed ecco allora che, dopo aver manifestato la potenza della sua sovranità, Dio adesso manifesta una cosa nuova: la grandezza della sua grazia. Gli ebrei ricevono l'ordine di uccidere l'agnello nella forma prestabilita, e con questo Dio dice loro due cose: 1) voi siete peccatori della stessa pasta degli egiziani e meritate la stessa fine; 2) voi siete parte di un popolo con il quale ho deciso di portare a compimento un'opera di redenzione a cui parteciperanno tutti coloro che avranno accolto la mia parola nella forma in cui l'avranno ricevuta. Voi siete il primo popolo che ha commesso un peccato di incredulità, avendo respinto la parola di liberazione che vi era stata annunciata; voi siete il primo popolo che ha fatto l'esperienza della grazia di Dio, avendo creduto nella sua parola che vi offriva la possibilità di evitare giudizio di Dio attraverso l'offerta di un sostituto innocente e privo di difetti.
Il significato profondo di quell'agnello si trova nelle parole del profeta Isaia:
"Noi tutti eravamo erranti come pecore, ognuno di noi seguiva la sua propria via; e l'Eterno ha fatto cadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, umiliò se stesso e non aperse la bocca. Come l'agnello menato allo scannatoio, come la pecora muta dinanzi a chi la tosa, egli non aperse la bocca" (Isaia 53:6-7).
E nelle parole dell'evangelista Giovanni:
Il giorno seguente Giovanni vide Gesù che veniva verso di lui e disse: «Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo! (Giov. 1:29). M.C.

  (Notizie su Israele, 2 febbraio 2017)


Comincia lo sgombero dell'insediamento di Amona

Quaranta famiglie devono lasciare le case

di Giordano Stabile

 
 
L'esercito israeliano ha dato il via allo sgombero dell'avamposto illegale ebraico di Amona, in Cisgiordania. Giovani manifestanti e abitanti hanno reagito con resistenza passiva ma anche lancio di pietre. L'evacuazione è stata decisa dalla Corte Suprema di Gerusalemme. Nell'avamposto vivono 42 famiglie per un totale di oltre duecento persone, molti bambini.

 Dispiegamento imponente
  Oltre a centinaia di militari ad Amona ci sono circa 100 agenti della guardia di frontiera. La decisione della Corte risale al 2006 ma ora il governo Netanyahu ha rotto gli indugi e deciso di risolvere la questione. L'avamposto di Amona è stato costruito a partire dal 1995 su terre appartenenti a famiglie palestinesi da parte di giovani abitanti di un altro insediamento, Ofra, a metà strada fra Gerusalemme e Nablus, in Cisgiordania.

 Nuove case
  La decisione arriva dopo la presentazione di una legge per la legalizzazione di altri insediamenti e la costruzione di quasi diecimila case, nel complesso, nei Territori occupati e a Gerusalemme Est. Il premier Benjamin Netanyahu ha però deciso di sgomberare gli avamposti illegali, per lo più legati a gruppi religiosi oltranzisti, difesi dai partiti della destra religiosa.

 «Come uno stupro»
  Un parlamentare del partito Habayit Hayehudi, Bezalel Smotrich, ha paragonato lo sgombero allo «stupro di una donna». Sul posto, a dare sostegno ai manifestanti, sono arrivati anche un deputato del Likud, il partito del premier, e il ministro dell'Agricoltura Uri Ariel.

(La Stampa, 1 febbraio 2017)


L'atavico antiamencanismo europeo va di pari passo con l'antisemitismo

Perché l'Europa odia l'America. Un libro di Andrei Markovits

di Antonio Donno

Sono scettico sulla tradizione politica europea. Ed io, e molti altri, siamo ancor più scettici sulla realtà dell'Unione europea. La consideriamo come un elemento di divisione dell'occidente, e, invero, della stessa civilizzazione 'europea'; implicitamente, e spesso esplicitamente, antiamericana; e oggi, e ancor peggio in futuro, un incubo (immensamente corrotto) basato sulla burocrazia e sulla regolamentazione; contraria alla tradizione fondata su leggee-libertà", cioè la tradizione liberale della sfera angloamericana. Così scriveva Robert Conquest, insigne sovietologo, sulla New York Review ofBooks dell'll marzo 2000. E l'ultimo libro di Andrei S. Markovits, Uncouth Nation: Why Eurape Dislikes America (Princeton University Press) conferma la valutazione di Conquest. In più, fu Hannah Arendt, nel 1954, a definire l'antiamericanismo europeo come costituivo della stessa identità europea. Il "nuovo mondo" aveva finito per soverchiare il "vecchio mondo" e così l'antiamericanismo, scriveva Arendt, aveva finito per divenire un nuovo ism, fondato sull'invidia, nel vocabolario europeo. Markovits condivide la vecchia, insuperata analisi della Arendt e finisce con l'affermare che "l'avversione verso l'America è divenuta oggi più grande, più volgare, più determinata. E' divenuto il dato unificante gli europei occidentali più di ogni altro sentimento politico, ad eccezione della comune ostilità verso Israele".
  L'antiamericanismo è divenuto la "lingua franca" degli europei; tanto più dopo l'impegno americano, ai tempi di Bush, nel medio oriente. Ma la cosa più sorprendente, e per certi versi ancor più oscena, è che l'antiamericanismo europeo ha avuto un salto di qualità dopo 1'11 settembre, prima ancora delle decisioni di Bush di intervenire per abbattere il regime di Saddam Hussein. Insomma, in quella circostanza, nonostante l'evidenza dell'estrema gravità dei fatti accaduti, l'antiamericanismo degli europei ha avuto una valvola di sfogo in un atteggiamento, consapevole ma più spesso inconsapevole, di soddisfazione per ciò che era accaduto a "Mr. Big". Ma l'antiamericanismo, secondo l'analisi di Markovits, ma anche di una lunga tradizione di studi sull'argomento, ha le sue radici nel momento stesso in cui la rivoluzione americana aveva dato vita a una nuova nazione e questa nuova nazione aveva mosso i primi audaci - e perciò irritanti per gli europei - passi nel sistema politico internazionale di impianto eurocentrico. Un'audacia offensiva per gli europei che aveva lasciato un lungo strascico di insofferenza, dispetto e perfino odio negli europei verso gli americani, un popolo rozzo, ignorante, presuntuoso, insopportabile.
  In fondo, scrive Markovits, l'America era nata da una costola dell'Europa, ma si era affrancata dalla vecchia madre ben presto. E, così, l'anti-americanismo aveva preso la piega attuale: "Questi sentimenti e prese di posizione negativi sono stati determinati non solo - ma anche soprattutto - da ciò che gli Stati Uniti fanno, ma piuttosto da un sentimento contro ciò che gli europei credono che l'America sia". Cioè, in definitiva, una posizione contraria di natura esistenziale, nel cui ambito il termine "americanizzazione" acquista un significato spregiativo.
  Ma una parte assai interessante dell'opera di Markovits riguarda il binomio antiamericanismo/antisemitismo. Markovits fa presente che la sua attenzione verso l'antisemitismo è strettamente connessa all'antiamericanismo, in quanto "la violenza dell'ostilità verso Israele può essere compresa soltanto in stretta relazione all'antiamericanismo e all'ostilità verso gli Stati Uniti". Allo stesso modo, l'antisemitismo e l'avversione verso le politiche di Israele si connettono, comportando anche l'opposizione all'esistenza di Israele come stato. Mentre l'opposizione alle politiche di Israele e alla fondazione stessa dello stato di Israele non sono concettualmente segno di antisemitismo, afferma Markovits, nella realtà ambedue spesso ricadono nell'antisemitismo. Tutto ciò fa il pari con l'antiamericanismo: "Israele, a causa della sua associazione con gli Stati Uniti, è di fatto percepito dagli europei potente quanto l'America, essendo l'uno l'estensione dell'altro e viceversa". Inoltre, Israele è alleato degli Stati Uniti, ma gli Stati Uniti sono alleati di molti altri paesi. La cosa, allora, sembra non quadrare. La spiegazione che dà Markovitz va al fondo della questione. Israele è uno stato ebraico e l'Europa si porta dietro un grande problema con il popolo ebraico, un problema irrisolto e fastidioso per la coscienza europea. E allora, dal momento che l'antiamericanismo europeo, come si è visto, è della stessa stoffa dell'antisemitismo del Vecchio Continente, un problema altrettanto irritante per gli europei, l'associazione storica, politica e culturale tra i due paesi produce la medesima associazione antiamericanismo/antisemitismo. Il cerchio è chiuso.

(Il Foglio, 1 febbraio 2017)


Anche Bonnie Tayler in concerto a Tel Aviv!

Bonnie Tayler
Riconosciuta in tutto il mondo come icona della musica celtica, Bonnie Tyler si esibirà a Tel Aviv nei prossimi giorni. La cantante gallese, all'anagrafe Gaynor Hopkins, che ha iniziato la sua carriera negli anni '70, ha ottenenuto il successo internazionale nel decennio successivo con la hit "Total Eclipse of the Heart" e "Faster Than the Speed of Night", diventati nel tempo canzoni leggendarie nel mondo della musica e del cinema.
Famosa per la sua voce potente, rauca e graffiante, dal timbro particolarmente riconoscibile, nel corso delle ultime decadi ha continuato ad incidere canzoni ed ha partecipato alla stesura di alcune colonne sonore per film di successo, partecipando anche al'Eurovision Song Contest 2013 tenutosi a Malmoe (Svezia) nel quale ha rappresentato la Gran Bretagna con la canzone "Believe in me".
L'appuntamento con l'interprete di Swansea nella Città Bianca è per il 6 Febbraio 2017 all'Hangar e il 7 Febbraio 2017 al Palazzo della Cultura.

(Cool Israel, 1 febbraio 2017)


Israele si candida: «Costruiamo noi il muro col Messico»

di Ilaria Pedrali

Dopo che il Presidente americano Donald Trump ha firmato il decreto per la costruzione del muro tra Stati Uniti e Messico, rimangono da capire i dettagli su come il muro debba essere costruito. Trump non ha mai fatto mistero che il suo modello ideale è il muro tra Israele e Cisgiordania, e in un'intervista a Fax News ha dichiarato: «Il muro è necessario perché la gente vuole protezione e il muro protegge. L'unica cosa che bisogna fare è chiedere a Israele». Ha anche spiegato che il muro che divide lo stato ebraico dai Territori occupati blocca il 99,9% degli attraversamenti non autorizzati.
   La prima a farsi avanti è stata una società israeliana, che intende offrire il proprio know how. È la Magal Security Systems Ltd., una società di sicurezza che ha già costruito la barriera a Gaza, tra Israele e l'Egitto, e ha contribuito a costruire il muro in Cisgiordania. Pare che la società in questione abbia già messo a punto la tecnologia necessaria a Trump e la presenterà la prossima settimana in una conferenza in Virginia. Il Ceo di Magal, Saar Koursh, ha spiegato al Jerusalem Post che gli Stati Uniti hanno bisogno di un muro «intelligente», in grado di «dare le indicazioni, in tempo reale, su chi lo sta attraversando». Si potrebbe azzardare che il premier israeliano Benyamin Netanyahu caldeggi le referenze della Magal durante l'incontro che avrà a Washington il prossimo 15 febbraio con Trump. I due avranno molto da discutere, e parleranno a lungo dalla questione muro dato che sabato sera, appena finito lo shabbat, Netanyahu da Gerusalemme ha lodato il decreto firmato dal nuovo inquilino della Casa Bianca twittando: «Il presidente Trump ha ragione. Io ho costruito un muro lungo il confine meridionale di Israele. Questo ha permesso di arrestare l'immigrazione illegale. È un grande successo».
   Ma tra Trump e Netanyahu ci sono altre questioni da dirimere. In primis il trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. I membri del comitato esecutivo dell'Olp, del comitato centrale di Fatah e del governo palestinese, difronte alla concreta possibilità che Gerusalemme diventi sede di un'ambasciata per la prima volta nella storia dello Stato di Israele, hanno elaborato un piano d'azione in 25 punti, che mette in guardia dai pericoli del trasferimento per la stabilità dell'area, essendo «una provocazione» e «un atto ostile verso gli arabi e i musulmani». Infine, Trump e Netanyahu dovranno anche discutere di Iran, dato che Israele ha chiesto nuove sanzioni nei confronti di Teheran in seguito al test missilistico iraniano dei giorni scorsi, che secondo il governo di Gerusalemme è «una violazione flagrante» delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'Onu.

(Libero, 1 febbraio 2017)


Bensoussan a processo a Parigi

Parla Sansal: ''Utili idioti al servizio dell'ordine morale islamico"

di Giulio Meotti

 
Georges Bensoussan, direttore editoriale del Mémorial de la Shoah
ROMA - Tornano i fasti, primonovecenteschi, del délit d'opinion, il reato intellettuale. Lo ha spiegato ieri sul Figaro Véronique Grousset: ''Insidiosamente, la giurisprudenza si evolve rispetto alla distinzione sempre meno netta tra il dibattito sulle idee e l'attacco personale. Molte associazioni lottano per assicurare alla giustizia i loro avversari, intimorirli, rovinarli, screditarli, farli tacere. Senza contare che l'etichetta di 'islamofobo' equivale a rilasciare una licenza di uccidere''. A tanti giornalisti, scrittori e intellettuali di Francia è stato chiesto di alzare la mano destra davanti a un giudice e dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità. E' successo di nuovo nella diciassettesima sezione del tribunale di Parigi, dove il 25 gennaio è apparso per la prima volta come imputato un grande storico, Georges Bensoussan, il direttore editoriale del Mémorial de la Shoah e fra i massimi studiosi di antisemitismo di Francia. Bensoussan è andato a processo non per il suo nuovo, inquietante libro su ''Une France soumise'', ma per una frase che ha pronunciato due anni fa in una trasmissione radiofonica: ''Come ha detto un sociologo algerino, Smain Laacher, nelle famiglie arabe in Francia l'antisemitismo viene trasmesso con il latte materno". L'accusa cui deve rispondere Bensoussan è a dir poco infamante: ''Incitamento all'odio razziale''.
  A far causa a Georges Bensoussan sono state le principali associazioni antirazziste di Francia, la Lega dei diritti dell'uomo, la Licra, il Mrap, Sos Racisme e il Collettivo contro l'islamofobia, una ong molto attiva nella criminalizzazione delle idee critiche sull'islam. In tribunale si è presentato Alain Finkielkraut, che ha chiesto di testimoniare a favore dello storico di origini ebraiche. Di fronte al giudice che presiede il processo, Fabienne Siredey-Garnier, si è trovata Lila Charef, a capo del dipartimento legale del Collettivo contro l'islamofobia, che indossava il velo islamico. ''Non ho inventato Mohammed Merah'', ha ribattuto in aula Bensoussan, facendo il nome del terrorista islamico che ha sterminato i bambini ebrei di Tolosa. ''Non ho inventato i fratelli Kouachi''. ''Sarà una catastrofe intellettuale e morale'', ha detto Finkielkraut nel caso in cui lo storico venisse condannato. Nacira Guénif, sociologo presso l'Università di Parigi VIII, testimone delle parti civili, ha detto che l'insulto antiebraico è ''entrato nel linguaggio di tutti i giorni e non significa odio per gli ebrei''.
  Finkielkraut non poteva trattenere le risate. Bensoussan ha parlato di ''terrorismo intellettuale''. ''Le associazioni antirazziste non sono più in lotta contro il razzismo, il loro obiettivo è vietare il pensiero, sottrarre la realtà alle critiche'', ha proseguito Finkielkraut. ''Sono sorpreso di essere qui perché la questione non è se Bensoussan è colpevole: la questione è se ha detto la verità!''. Contro lo studioso della Shoah hanno testimoniato anche Mohamed Sifaoui, giornalista franco-algerino, e Michèle Sibony docente in pensione, membro della Unione ebraica francese per la Pace, che in tribunale ha accusato Bensoussan di ''un discorso degno di Drumont'' (un famoso ideologo antisemita degli inizi del XX secolo). Dall'Algeria è arrivata la lettera di sostegno a Bensoussan dal grande scrittore Boualem Sansal. Al Foglio, l'autore di ''2084'' spiega che il senso di questo processo è ''di impedire la libertà di parola e di dibattito. L'obiettivo è uno: mettere a tacere qualsiasi critica contro sull'islam. La tragedia è che funziona: nessuno osa farlo. Quello che i terroristi non hanno raggiunto assassinando coloro che criticano l'Islam, il Corano e il Profeta, è stato ottenuto dagli 'utili idioti' e dagli ipocriti attivisti che operano la 'giustizia' contro la minima critica ritenuta islamofoba o razzista. Sono riusciti a creare in Europa un ordine morale al servizio dell'islam, finanziato segretamente dai clienti sauditi e dal Qatar''. Sansal illumina un paradosso. ''Nel mio paese, la legge punisce severamente qualsiasi attacco contro l'islam, ma l'Algeria non prende in considerazione l'islamofobia come un crimine o un delitto. In Algeria non c'è, non c'è mai stato, e spero che non ci sarà mai, un affaire Bensoussan. Come non c'è mai stato un affaire Sansal. In Francia, per aver criticato l'islam io sono considerato da alcuni come un 'islamofobo'. In Algeria, niente di tutto questo. L'odio per l'ebreo è espresso in termini canonici, come nel Corano e negli Hadith. La maledizione del cristiano e dell'ebreo ha il suo linguaggio che deve essere rispettato alla lettera. Il conflitto israelo-palestinese, citato quasi quotidianamente nei mezzi di comunicazione e nelle preghiere del venerdì, aggiunge l'odio a Israele''. La prima udienza si è conclusa con l'arringa di Michel Laval, l'avvocato di Bensoussan: ''Per la prima volta nella mia vita ho avuto la tentazione dell'esilio''. La sentenza è attesa per il 7 marzo. Il processo a Bensoussan si è aperto quando se ne era appena concluso un altro, quello a scapito del filosofo e saggista Pascal Bruckner, finito sotto processo per aver parlato dei ''collaborazionisti degli assassini di Charlie Hebdo''. Bruckner è stato assolto, una fortuna che Bensoussan potrebbe non avere. Basta pensare a un altro processo simile, quello contro Yves de Kerdrel, direttore del settimanale Valeurs Actuelles, condannato per lo stesso reato, ''incitamento contro i musulmani'', per una copertina della sua rivista con la Marianna velata. ''A trascinare Bensoussan in giudizio sono gli attivisti antirazzisti, le associazioni musulmane, coloro che vogliono vedere l'islam trionfare e gli sciocchi che credono che sia una 'religione di pace''', dice al Foglio Richard Millet, l'ex editor di Gallimard che ha indossato i panni di pamphlétaire fra i più discussi di Francia. Cosa vogliono? ''Il silenzio, naturalmente; e la rimozione del 'problema'''.

(Il Foglio, 1 febbraio 2017)


Europa, movimenti senza fughe

di Ada Treves

 
 
 
Sono molti i politici e i giornalisti che negli ultimi tempi hanno affermato che il numero di ebrei che stanno lasciando l'Europa è in aumento, e che si tratta di un dato drammatico. Ma è vero?
  Dal 2000 i dati sulla migrazione ebraica verso Israele mostrano differenze evidenti tra due gruppi di paesi europei. Il trend presente in Francia, Italia e Belgio evidenzia numeri che vanno dalle due volte e mezzo (per il Belgio) alle sei volte e mezzo i dati medi relativi al periodo compreso tra il 1976 e il 2015. Nel Regno Unito, in Germania e in Svezia non si registrano variazioni statisticamente signifìcative. Molte ricerche portate avanti negli ultimi decenni hanno studiato e analizzato la popolazione ebraica europea, cercando di capire e raccontare quanto sia forte la percezione di un pericolo o quanto, al contrario, gli ebrei in Europa si sentano al sicuro. L'ultimo lavoro di Daniel Staetsky, intitolato "Are Jews leaving Europe?", ha un approccio differente: analizza le reazioni degli ebrei europei a ciò che succede intorno a loro. Staetsky - Senior Researcher Fellow dell'Institute for Jewish Policy Research di Londra - ha scelto di basarsi sui comportamenti, da lui ritenuti più affidabili come misura di opinioni e atteggiamenti. I movimenti migratori sono un elemento molto rilevante nella demografia ebraica: gli ebrei tendono a spostarsi da un paese all'altro, sia come risposta ai mutamenti delle condizioni economiche che al clima politico. Se non si sentono benvenuti in Europa, molto semplicemente, se ne vanno.
  In Europa sono due i processi rilevanti, da un punto di vista ebraico: la trasformazione demografica, dovuta principalmente ai movimenti migratori significativi provenienti da Medio Oriente, Africa e Asia, interroga i concetti stessi di integrazione e di acculturazione. In contemporanea una ripresa del ragionamento sul passato coloniale del continente e la nascita e successiva crescita dell'estremismo islamico hanno portato al tentativo - sia intellettuale che anche molto carico di emotività a volte eccessiva - di comprendere il significato di una trasformazione così importante e di capire a cosa può portare, e quali saranno le trasformazioni anche future delle istituzioni e delle tradizioni europee. Le comunità ebraiche, indipendentemente dal loro grado di religiosità o di impegno stanno cercando di comprendere l'impatto delle trasformazioni in atto, in un processo che non è preso alla leggera, e che preoccupa non poco ogni minoranza, vulnerabile per definizione. La scelta di Staetsky è di analizzare i dati della migrazione ebraica verso Israele relativamente a sei paesi europei - Belgio, Francia, Germania, Italia, Svezia e Regno Unito - scelti perché vi risiede quasi il 70 per cento della popolazione ebraica europea totale e il 7 per cento della popolazione ebraica mondiale. Si tratta di paesi che sono profondamente appartenenti alla cultura europea, e che condividono la sfida posta dalla crescente diversità sia culturale che religiosa. Per di più si tratta di paesi in cui la percezione dell'antisemitismo è stata recentemente monitorata, così da avere a disposizione sia i dati sull'esposizione all'antisemitismo che sul livello di preoccupazione relativa allo stesso.
  I dati sui fenomeni migratori che coinvolgono la popolazione ebraica sono documentati in maniera molto precisa. Il primo passaggio è quindi stato un confronto attento fra i dati più recenti sull'emigrazione ebraica dall'Europa verso Israele e le informazioni preesistenti, che risalgono al 1948, raccolte da un paese che, sin dalla sua fondazione, si è dimostrato attento e molto ben attrezzato per gestire i dati sia statistici che demografici. Sono evidenti, dai dati raccolti, due picchi di migrazione in corrispondenza della creazione dello Stato di Israele e dopo la Guerra dei Sei Giorni. Ma se vogliamo definire un esodo come - secondo lo studio - una migrazione del 30 per cento della popolazione, allora è possibile dire con certezza che non sta succedendo nulla del genere. In Belgio,
  Francia e Italia fra il 2010 e il 2015 circa il 4 per cento della popolazione ebraica è andata a vivere in Israele, mentre per Germania, Regno Unito e Svezia il dato non supera l'1,7 per cento, si tratta di una cifra molto diversa da quella forbice 25/50 per cento considerata rilevante in un'ottica comparatista. Il vero punto di debolezza dell'analisi presentata, secondo l'autore, è che non sono noti i dati relativi alla migrazione verso gli Stati Uniti, il Canada o altrove. Nè, in realtà, sono ancora state raccolte e analizzate sufficienti informazioni su coloro che provano a trasferirsi in Israele e decidono, per i motivi più svariati, di fare ritorno al paese d'origine.

(Pagine Ebraiche, febbraio 2017)


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