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Notizie 1-15 febbraio 2019


Le radici dell'odio: genesi e storia dell'antisemitismo

di Paolo Salom

Citando Jean-Paul Sartre, lo storico Roberto Pinzi, nel suo Breve storia della questione antisemita (Bompiani, pagine 240, €12 ), scrive che «l'esperienza non fa sorgere la nozione d'ebreo, al contrario è questa che chiarisce l'esperienza; se l'ebreo non esistesse, l'antisemita lo inventerebbe». Parole che da sole inquadrano un fenomeno, l'antisemitismo appunto, tutt'altro che teorico ma, al contrario, parte concreta della cultura occidentale - e arabo-islamica - da circa due millenni. Gli effetti di questo atteggiamento pregiudiziale sono in parte noti: la Shoah, massacro industriale di cinque milioni di ebrei capace di cancellarne la presenza in gran parte dell'Europa centro-orientale; in parte meno: le stragi periodiche in Europa prima, durante e dopo il Medioevo alimentate da accuse di omicidio rituale o semplicemente portate a compimento (per esempio dall'esercito di crociati in marcia verso la Terrasanta) per «ripulire» la cristianità dagli «infedeli».
   Nel saggio, rielaborato e aggiornato dall'autore rispetto a un suo precedente lavoro uscito nel 1997, Pinzi prova a rispondere a una domanda che aleggia con pervicacia in Occidente: perché esiste l'antisemitismo? E, in subordine, al quesito che persino alcuni ebrei hanno fatto proprio: dipende forse, almeno in parte, da qualcosa che gli ebrei stessi hanno fatto? La citazione di Sartre aiuta a dare sollievo per quanto riguarda la seconda questione: l'odio contro gli israeliti è sganciato dai loro atti e, spesso, persiste anche in loro assenza. Per quanto riguarda la prima, fondamentale domanda, la risposta è un excursus attraverso le tappe fondamentali della problematica convivenza tra ebrei e cristiani in Occidente, con esempi pertinenti all'universo arabo-islamico.
   Leggendo le pagine di questo interessante studio, colmo di citazioni e riferimenti storico-letterari, si entra nella genesi del fenomeno chiave ( almeno per il Ventesimo secolo) passando dal suo precursore, l'antigiudaismo di matrice cristiana (non c'è spazio qui per affrontare le profonde implicazioni teologiche), con l'accusa di «deicidio» che ha attraversato i secoli attribuendo agli ebrei l'aura di «intrinseca crudeltà» trasmessa di generazione in generazione: un popolo capace di mettere in croce Gesù Cristo (peraltro incappato, da ebreo, nella giustizia romana) non meritava che disprezzo e ostilità. Da qui la separazione fisica che nel tempo portò alla costituzione dei ghetti; le leggi che impedivano agli ebrei la gran parte delle professioni (tranne quella di prestatori di denaro) e il diritto di possedere la terra; le espulsioni in massa da città e territori dove avevano abitato per secoli (per esempio dall'Inghilterra di Edoardo I nel 1275; dalla Spagna e tutti i territori da essa controllati a partire dal 1492).
   L'antigiudaismo sarebbe diventato antisemitismo solo nel Diciannovesimo secolo. Il termine, coniato a Berlino nel 1879 dal «nazionalista» Wilhelm Marr, era la trasformazione lessicale indispensabile per la prosecuzione dell'odio contro gli ebrei, emancipati a partire dalla Rivoluzione francese in quasi tutta l'Europa (Russia zarista e Stato della Chiesa esclusi). Serviva perché gli ebrei che uscivano dai ghetti e provavano ad assimilarsi nelle società dell'epoca dovevano in qualche modo rientrare nello stigma, non più per il loro credo, ma per la loro intima essenza: la razza «semita». L'affare Dreyfuss, i pogrom, l'Olocausto non sarebbero stati altro che l'inevitabile conseguenza di una convivenza impossibile con l'«altro», visto necessariamente come nemico e traditore. Il risorgere dell'antisemitismo (o della sua nuova forma, l'antisionismo) nel nostro tempo dimostra che il virus è tutt'altro che debellato.

(Corriere della Sera, 15 febbraio 2019)


Blair contro Corbyn sull'antisemitismo

Il caso Berger e le troppe connivenze del Labour con l'odio per gli ebrei


 
I falchi corbyniani hanno minacciato di sanzioni Luciana Berger, celebre parlamentare ebrea del Labour, per le sue ripetute critiche a Jeremy Corbyn e alla sua gestione della questione antisemitismo nel partito. L'ex primo ministro britannico e già leader del Partito laburista, Tony Blair, ha criticato il partito per il suo uso massiccio della retorica antisemita in un'intervista a Sky News, domandando: "Come possiamo dire che è tollerabile avere un certo livello di antisemitismo?". Dopo che l'intervistatore gli ha chiesto delle pesanti critiche all'antisemitismo nel Labour, Blair ha risposto che "dovrebbero sradicare l'antisemitismo dal partito laburista". "Dovremmo essere un partito politico progressista", ha spiegato Blair. "Ci sono alcune parti della sinistra, non l'intera sinistra, che hanno un problema con l'antisemitismo, e lo vedete nel loro atteggiamento verso lo stato di Israele". Blair si riferiva all'attuale capo del Partito laburista Jeremy Corbyn, che in numerose occasioni ha parlato e agito in modo a dir poco antisemita: posare una corona per uno dei terroristi delle Olimpiadi di Monaco del 1972, flirtando con islamisti di vario tipo, negando a Israele le ragioni storiche della sua esistenza, sostenendo il boicottaggio dello stato ebraico, assecondando parlamentari e attivisti laburisti apertamente antisemiti.
   Blair ha chiarito che le persone possono criticare Israele. Tuttavia, "la loro continua concentrazione su Israele per tutto il tempo, per un lungo periodo ... ti rimane la sensazione che in un certo senso lo prendono di mira perché è uno stato ebraico". Poi Blair ha decifrato il vero motivo di tanta omertà. "C'è, temo, una specie di. .. alleanza tra il tipo di politica islamica e la sinistra, e non la vedi solo nel Regno Unito, puoi vederla in tutta Europa", ha detto Blair. "E dà origine all'antisemitismo".

(Il Foglio, 15 febbraio 2019)


Antisemitismo in Germania, nel 2108 aumento del 10%

L'antisemitismo spaventa la Germania, dove nel 2018 gli episodi di odio antiebraico sono saliti del 10%. Un dato che il governo ha trasmesso al parlamento dopo un'interrogazione del partito di sinistra Linke.
Secondo l'esecutivo di Berlino gli atti violenti da parte di antisemiti sono saliti a 62 nel 2018 (37 nel 2017) e per lo più hanno una matrice di estrema destra.
Numeri che mettono in imbarazzo il paese che vorrebbe essere il capofila dell'Europa e che dopo decenni non è riuscito ad arginare l'avversione nei confronti degli ebrei.
Numeri che hanno destato sorpresa solo in chi voleva farsi sorprendere o chi per un anno intero non ha voluto ascoltare i numerosi allarmi sull'argomento, che costantemente arrivano dal paese in cui il nazismo trovò linfa vitale.
Ecco alcuni episodi di antisemitismo in Germania di cui vi abbiamo parlato nel 2018.
Aprile: La comunità ebraica tedesca porta alla luce il problema del bullismo religioso fra i banchi di scuola.
Aprile: Berlino, aggrediti due ragazzi perché indossavano la kippah (il copricapo ebraico).
Giugno: Magonza, la 14enne Susanna Feldmann, scomparsa la sera del 22 maggio viene trovata morta dopo esser stata violentata.
Luglio: Berlino, un allievo della John F. Kennedy denuncia aggressioni da parte dei compagni di scuola.
Agosto: Chemnitz, a margine degli scontri scoppiati nella città, viene assaltato un ristorante ebraico.
Davanti a tutto questo come si può rimanere sorpresi? Così ci si può stupire dei rigurgiti antisemiti?
Da anni è scattato l'allarme antisemitismo in Europa, soprattutto in Germania e in Francia. Solo chi non vuol vedere, non vede.

(Progetto Dreyfus, 15 febbraio 2019)



«L'antisemitismo è una malattia mentale da cui non si guarisce»

Iddo Netanyahu, il fratello dell’eroe Yoni e del presidente Bibi, nell'opera teatrale «Meaning» parla della Shoah.

Memoria
Oggi il rischio di genocidio non esiste più. Ma occorre tenere alta l'attenzione
Potenza
Lo Stato d'Israele è il deterrente anche contro il populismo peggiore

di Fiamma Nirenstein

Anche Iddo Netanyahu prende la storia per il collo, come i suoi due fratelli maggiori, Yonì, il comandante dell'impresa di Entebbe in cui furono salvate più di cento persone sequestrate dai terroristi ( e lui ci si lasciò la vita), e Bibi, Benjamin, il primo ministro di Israele il quale, incurante delle critiche, ha portato il suo Paese fra i primi al mondo quanto a economia, scienza, difesa. Ma Iddo affronta il rischio dal lato intellettuale. Medico e commediografo, 66 anni, alto e asciutto, marito e padre, è divenuto negli anni uno scrittore schivo e concentrato in riflessioni che sfidano il pensiero comune, e le cui opere vengono rappresentate da Mosca a New York. I suoi personaggi occupano il palcoscenico e le pagine con ironia amara e senza mezzi termini, come nel romanzo Itamar, o come nel dramma Un lieto fine.
In Meaning, la sua ultima opera appena rappresentata a Baku, affronta il rifiuto di guardare in faccia l'antisemitismo. Lo fa usando come protagonista la figura storica di Viktor Frankl (1905-97), austriaco, sopravvissuto ai campi di sterminio, neurologo, psichiatra e filosofo, fondatore della logoterapia. Le sue memorie di prigioniero sono raccolte in un libro che fu un super bestseller mondiale, Man's search for meaning, uscito nel 1946, tradotto in 24 lingue e venduto in decine di milioni di copie. Frankl vi racconta il percorso per superare le sofferenze e per vivere una vita degna che dissipi le nebbie dell'antisemitismo. Per farlo, secondo lui ognuno deve trovare il suo «buon» significato. Frankl ad Auschwitz identifica il suo «meanìng» nella logoterapia. Iddo Netanyahu mette a confronto le illusioni di Frankl con la disillusione di Betty, una madre cristiana il cui compagno ebreo è morto ad Auschwitz e il cui figlio è costretto a subire, anche dopo la guerra, attacchi antisemiti dai compagni di scuola. Betty non crede nel «meanìng» di Frankl, anzi ne mostra la debolezza, svelando una realtà che lo psicanalista non può curare: la permanenza dell'antisemitismo in Europa dopo la Shoah. Betty va da Frankl per farsi aiutare. «Frankl - spiega Iddo - cerca di convincerla che le sue sono fantasie, che con la sconfitta del nazismo il bene ha sconfitto il male. E rifiuta di affrontare la realtà».

- La delusione, protagonista di altre sue opere, è un elemento necessario della conoscenza?
  «La delusione è necessaria, capire la realtà è un antidoto contro il male. Ma il mondo è diviso in due, fra chi pensa che l'uomo possa cambiare, che curandolo se ne possa estrarre il nocciolo buono, e chi capisce che c'è una realtà spesso immodificabile. L'antisemitismo è con noi da migliaia di anni, il suo male è una pietra ideologica inamovibile».

- Frankl pensa di poterlo fronteggiare con la psicanalisi...
  «Secondo Frankl, con la morte di Hitler il male si è esaurito. Il nazismo è stato un episodio, e hanno vinto i buoni. E i cattivi ... diventeranno buoni se troveranno un buon meaning. Ma in verità è stata l'ideologia nazista a fornire il guscio all'antisemitismo persistente. Secondo Frankl, Betty fantastica. Finché il figlio non tenta di uccidersi ... È un punto di vista simile a quello di chi pensa che il comunismo sia stata un' esperienza fallimentare perché guidata da uomini cattivi. Mentre è l'ideologia stessa a essere oppressiva e totalitaria. Così per l'antisemitismo. Persiste come malattia ideologica capace di trasformarsi da millennì, dai tempi dell'antico Egitto».

- Ma cercare un «significato» ha aiutato Frankl a sopravvivere. Non è già tanto?
  «Certo. Penso sia commovente la sua insistenza nel perseguire il bene, che sia infantile il suo credere che l'uomo ha uno scopo morale. Ma non ce l'ho con lui».

- Tuttavia per sopravvivere finge di ignorare che una copia dei suoi appunti sia in salvo a Vienna e trascina la moglie verso la morte per proteggerli con lui nel campo. E alla fine si salva perché può usare le scarpe di un compagno morente. Non ci fa una bella figura.
  «Ma fu anche generoso, raccontano le sue memorie. A Baku, dove ora la pièce ha avuto molto successo, molti si sono innamorati del suo ottimismo ... Lessi il libro di Frankl per la prima volta da ragazzo, me lo regalò mia madre. Rileggendolo 40 anni dopo notai che la parola "ebreo" non veniva usata neppure una volta, e nemmeno "tedesco" ... Per Frankl ci sono soltanto anime universali, la gente cattiva e quella buona. Oggi del resto si fantastica sull'idea che i giovani militanti dell'Isis che fanno attentati e tagliano teste siano poveri sfruttati, disgregati socialmente, e che, se aiutati, diventeranno buoni».

- Lei che ha militato nell'unità migliore dell'esercito come i suoi due fratelli, lei che fa del sionismo la sua bandiera, come può pensare che la ricerca del «significato» sia un'idea sbagliata? La sua vita è piena di «meaning» ...
  "Sì, ma di un "meaning' realista, non ideologico. Frankl indica nel "meaning” buono un'astratta appartenenza a un'umanità destinata a essere redenta, come dall'altra parte ci sono i cattivi. Le cose non stanno così».

- L'antisemitismo genocida può essere praticato da chiunque? Colti, ignoranti, cristiani, islamici?
  «Certo, è una malattia della mente. L'impero romano d'oriente la trasmise all'Europa Occidentale, e l'Europa l'ha trasmessa a tutte le altre culture».

- All'Islam?
«  A parte dell'Islam. Quando Hitler decise di cavalcare l'antisemitismo, lo fece perché sin da quando frequentava la scuola d'arte a Vienna vide quanto fosse popolare l'antisemitismo ... »

- Il populismo odierno può scatenare l'antisemitismo?
  «Soltanto se ai leader convenisse. Ma oggi è molto difficile immaginare che ciò accada, soprattutto perché si inimicherebbero Israele. Questa è la grande novità: che adesso Israele esiste».

- Però dichiarare la fine dell'antisemitismo con la nascita di Israele fu un errore. Oggi c'è un antisemitismo israelofobico.
  «Non fu un errore. Il fatto che gli ebrei non possano più essere oggetto di una guerra di sterminio è importante. Possono essere odiati, ma non più sterminati. L'antisemitismo è un'ideologia genocida, ma ora il genocidio non è più possibile. I padri fondatori capirono che il popolo ebraico doveva avere la sua casa, e anche la sua forza, che occorreva andarsene e potersi difendere. L'antisemitismo oggi è molto meno pericoloso. Oggi l'unico antisemitismo che minaccia direttamente il popolo ebraico è quello puntato contro Israele con un obiettivo genocida, quello dell'Iran. L'antisemitismo europeo è pericoloso per i singoli: può odiarci, ma non eliminarci».

- È un'ideologia, quindi lo si potrebbe battere con armi ideologiche, con le leggi.
  «Sono contrario alle proibizioni, alle condanne penali, alla criminalizzazione».

- In uno dei dialoghi finali di Meaning, Frankl cerca invano di bloccare il desiderio di vendetta di uno dei suoi compagni nel campo di sterminio.
  «Il desiderio di vendetta verso chi ti ha ucciso i figli o i genitori o la moglie era naturale. Ma quando c'è un potere organizzato non ci si deve vendicare con le proprie mani».

- Se lo Stato d'Israele fosse esistito al tempo della Shoah, avrebbe impiegato l'esercito?
  «Certo, avrebbe usato la forza. Purtroppo siamo arrivati dieci anni dopo».

- Sono rimasta in pena per il figlio di Betty. Il ragazzo morirà?
  «Se avessi voluto farlo morire, sarebbe morto ... Invece, è all' ospedale».

- Allora Frankl potrà parlare di nuovo con Betty? Capire la realtà? Darle una speranza?
  «Speriamo».

(il Giornale, 15 febbraio 2019)


E tu Europa che fai? A Varsavia Netanyahu e i paesi arabi contro l'Iran

Il tweet cancellato del premier israeliano, i dispetti diplomatici tra America ed europei e il dilemma sull'accordo nucleare.

di Paola Peduzzi

MILANO - Benjamin Netanyahu, premier israeliano, ha cancellato il tweet di mercoledì sera postato sul suo account ufficiale, ma nulla scompare davvero nella rete, non certo quell'espressione, "guerra contro l'Iran" che anzi è risuonata ancora più fragorosa proprio perché velocemente cancellata. "Questo è un incontro aperto con i più importanti rappresentanti dei paesi arabi che si siedono con Israele per portare avanti l'interesse comune della guerra contro l'Iran", ha scritto Netanyahu, spiegando il senso e l'importanza della conferenza sul medio oriente organizzata a Varsavia ieri e oggi dagli americani. Il tweet è stato poi sostituito con un po' più morbido "interesse comune nel combattere l'Iran", ma è circolato un video in cui Netanyahu ha ripetuto il termine "guerra" (in ebraico) parlando con dei cronisti polacchi. E' una conferenza di pace o di guerra?, chiedevano ieri i commentatori, mentre arrivavano a parlare gli americani e ribadivano che la minaccia iraniana deve essere contenuta, e che i paesi arabi presenti a Varsavia erano pronti a collaborare per questo obbiettivo - Mike Pompeo, segretario di stato americano, in Europa già da lunedì, Mike Pence, vicepresidente, Jared Kushner, il genero del presidente Donald Trump (per ascoltare il suo discorso a porte chiuse, Netanyahu ha fatto aspettare un'ora il premier polacco, Mateusz Morawiecki, che lo attendeva per il loro bilaterale). Pence ha sottolineato che i paesi arabi "spezzano il pane" assieme a Israele, vogliono difenderlo, mentre le tv si riempivano di strette di mano con Netanyahu e molti resoconti raccontavano l'incontro inizialmente segreto ma poi pubblicissimo con la delegazione dell'Oman, che è un mediatore rilevante nella costituzione di questo fronte tra arabi e Israele.
   Come spesso accade a questi eventi, il ruolo principale lo hanno svolto gli assenti. Il Qatar e la Turchia, ma soprattutto gli europei, che hanno per lo più mandato inviati di medio livello, con gli inglesi che si sono fermati per qualche ora (dobbiamo tornare a Londra per la Brexit è la scusa sempre valida) e Federica Mogherini, capo della diplomazia dell'Unione europea, che non si è presentata, perché questo summit avrebbe finito soltanto per evidenziale le divergenze tra le due sponde dell'Atlantico sulla questione iraniana. E infatti è andata proprio così, oltre al dispetto diplomatico - ormai i dispetti tra Europa e America sono un genere - di aver organizzato la conferenza soltanto con i polacchi e con gli interlocutori mediorientali e non con le altre cancellerie europee. Non che ci fosse bisogno di un palco e di una platea per mostrare le divergenze sull'Iran: gli Stati Uniti sono usciti dall'accordo sul nucleare con Teheran, hanno introdotto delle sanzioni e a maggio potrebbero togliere l'esenzione per ora concessa ai paesi che continuano a commerciare con l'Iran. Gli europei stanno tentando di tenere in piedi l'accordo anche senza gli americani, ma se c'è un ambito in cui la presenza o l'assenza di una superpotenza fa la differenza è proprio questo dei trattati internazionali - per non parlare del fatto che non c'è una superpotenza "di ricambio", nel mondo, non per l'Ue per lo meno. L'accordo con Teheran traballa, gli iraniani minacciano di abbandonarlo, gli americani minacciano sanzioni, gli europei inventano meccanismi tecnico-finanziari per ovviare alle sanzioni di Washington, ma l'equilibrio non c'è più e difficilmente si potrà trovare. E Netanyahu ripete: non è usuale che Israele e i paesi arabi siano d'accordo in modo così netto, ma quando accade gli altri dovrebbero ascoltare.

(Il Foglio, 15 febbraio 2019)


John Pawson trasforma un ospedale dell'800 in uno spettacolare cinque stelle

Tel Aviv applaude. Volte a Crociera, pizzi arabescati, marmi damier: il re del minimalismo riscrive la storia con l'hotel The Jaffa

di Fabiana Magrì

 
Uno scorcio del The Chapel, tra design e storia
 
La corte ospita il ristorante Don Camillo, che propone una cucina tradizionale italiana
«Abbiamo stimolato una conversazione intelligente tra due secoli, in modo che nulla li unisse, nessun orpello artificiale, solo la zona sotterranea. Come una coppia che si tocca sotto il tavolo, ma in pubblico mostra facce da poker». Ramy Gill è l'architetto israeliano che, in collaborazione con il maestro inglese del minimalismo John Pawson, ha armonizzato la struttura abbandonata di un ospedale francese del XIX secolo con un edificio completamente nuovo. Così è nato The Jaffa, la prima proprietà del gruppo americano RFR Holding a Tel Aviv affidata a Marriott International per la Luxury Collection: 120 tra camere e suite (più 32 appartamenti residenziali), che dal promontorio dell'antica Jaffa dominano lo 'Shuk Hapishpishim' (il mercato delle pulci) e il porto. La stratificazione millenaria del luogo ha imposto a Pawson un equilibrio delicato: «Preservare il ricordo della storia dell'edificio senza dare l'impressione di disonorare la sua vita precedente, ma senza nemmeno mettere a repentaglio la sua attuale funzione e vitalità».
  Aby Rosen, il potente tycoon immobiliare di RFR - il cui legame con Israele risale all'infanzia e alle origini della sua famiglia -, parla del The Jaffa come del suo progetto più complesso e personale. E non stupisce che questo cinque stelle sia già diventato un'icona di Tel Aviv, specialmente grazie allo spettacolare lounge bar The Chapel, nuovo hot spot della vita notturna con soffitti a volta originari della vecchia cappella, affreschi, dettagli in stucco (da cui sono stati rimossi i simboli sacri) e un altare trasformato in bancone bar con consolle per dj set. Al posto delle austere panche di mogano, la morbidezza Seventies delle sedute Botolo di Cini Boeri in velluto senape e dei puf rosa polvere. Mentre dall'alto, accanto alle vetrate colorate originali, Frank Sinatra, Gregory Peck e altri divi hollywoodiani nei loro panni da preti si godono ogni weekend uno spettacolo decisamente pagano. La pietra, la luce e il tempo sono i materiali con cui è stato concepito The Jaffa. «Per un architetto», spiega Pawson, «luce e ombra sono materiali chiave a sé stanti e questo è particolarmente vero a Jaffa, dove la luce potente getta su tutto una luminosità dorata».
  Con grande sensibilità, l'architetto ha incorporato, esaltandola, la cultura locale. Come nel caso delle mashrabiya, le grate protettive in legno che ornano usci e finestre delle architetture tradizionali e che si ritrovano negli schermi metallici a motivi arabeggianti e nei balconi finemente perforati. Nella lobby modernista, un frammento di antica fortificazione erompe dal pavimento ed è tanto più straordinario perché è l'unico esemplare di bastione circolare superstite di epoca crociata in tutto il vicino Medio Oriente. Convive con pezzi classici di design di Shiro Kuramata e Pierre Paulin, con l'arte contemporanea di Damien Hirst e con i tavoli Shesh Besh (backgammon) concepiti da Pawson stesso come omaggio al tradizionale passatempo dei mercanti arabi. In un contesto di straordinaria ricchezza storica, oltre alle trame, ai motivi e alla diversità culturale dell'area, Pawson ha saputo esaltare, soprattutto nella King David, la suite di 128 metri quadrati, «le spettacolari vedute panoramiche sui tetti della città vecchia, sulla vasta distesa della spiaggia e sullo skyline di Tel Aviv».

(Corriere della Sera, 15 febbraio 2019)


Quando l'ebraismo è severo con se stesso

Jacobson e «L'enigma di Finkler»

di Diego Zandel

Nel 2011 uscì con le edizioni Cargo, otto anni dopo viene ripubblicato da La nave di Teseo. Un cambio di bastimento per L'enigma di Finkler di Howard Jacobson, che mantiene intatta, per il pubblico italiano, anche la traduzione di Milena Zamira Ciccimarra. Magari nel 2011 il libro aveva, rispetto ad oggi, un più forte motivo di curiosità avendo vinto l'anno prima l'importante premio Man Booker Prize. Oggi però ha forse la possibilità di veleggiare più lontano grazie alle vele più larghe della casa editrice di Elisabetta Sgarbi (tant'è che anche le testate maggiori mostrano nei confronti di questo libro un'attenzione critica che allora è mancata, confermando le difficoltà che la piccola editoria incontra anche quando, come nel caso della Cargo, si rivela attenta ad autori e prodotti di qualità).
   In questo senso, vedremo l'incidenza che una casa editrice maggiore come La nave di Teseo avrà nel successo da noi di un'opera di questo scrittore inglese di origine ebraica, il cui pubblico di riferimento è soprattutto quello britannico, non tanto per il tipo di umorismo che lo contraddistingue, molto britannico con l'aggiunta del pepe di quello ebraico, bensì quasi l'avesse concepita, appunto perché ebreo inglese, per scusarsi, senza con ciò volerla giustificare, con i suoi concittadini della politica di Israele nei confronti dei palestinesi.
   Per il resto, Howard Jacobson è uno scrittore di allettante lettura, una sorta di Mordecai Richler inglese che veste gli stessi panni di humor nero del suo correligionario canadese, o del primo Philip Roth, ma con un senso di colpa tale da arrivare all'auto afflizione. Dialoghi del tipo «Ti vergogni della tua carne di ebreo. Abbi rachmones, abbi compassione per te stesso. Solo perché sei ebreo non vuol dire che sei un mostro» per sentirsi rispondere «Mi vergogno delle azioni degli ebrei, anzi, degli israeliani ... » per poi più volte tornare su questo sentimento di vergogna, rivelando tutto il disagio di una identità della quale l'autore sembra quasi volersi farsi così perdonare, seppur giocando sui tasti, appunto, dell'umorismo. Un po' come il gusto di certi ebrei nel raccontare barzellette sugli ebrei.
   La trama mette a confronto in particolare due personaggi, anzi tre, Samuel Finkler, scrittore di manuali, tipo Piccolo Manuale di Stoicismo Domestico, ospite di fortunate trasmissioni radiofoniche e televisive, fondatore dell'Associazione Ashamed Jews, di ebrei antisionisti, e Julian Treslove, suo amico, piuttosto sfigato nella vita, sia quella professionale che sentimentale (sempre lasciato dalle tante donne che ha avuto) da nutrire una sorta di ammirazione per Finkler, per quelle sue enigmatiche doti (l'enigma di Finkler!) che lo fanno uomo di successo. Il terzo uomo, amico di entrambi, è Libar Sevik, un ebreo cecoslovacco novantenne emigrato in Inghilterra, professore di storia, che ha una funzione di coscienza equilibratrice all'interno del terzetto di amici. Ma è Finkler che, agli occhi di Treslove, rappresenta il prototipo dell'ebreo, tanto che, dopo aver subìto una rapina da parte di una donna, vuole diventare ebreo egli stesso, ovvero Finkler, assumendo il nome dell'amico, per lui, il significato stesso della parola ebreo. E sta proprio qui il nocciolo del romanzo: che ad ammirare gli ebrei e a volerlo diventare, diventare Finkler appunto, sia proprio uno sfigato, deriso anche dai figli che alla notizia che il loro padre abbia deciso di essere ebreo, di esserlo addirittura fin dalla nascita, è tale al punto da accendere il loro sarcasmo da dare vita a dialoghi di un razzismo agghiacciante, seppur in chiave humor, nei confronti degli ebrei, come se a scrivere il libro fosse davvero un antisemita. Un atteggiamento che non è solo di non ebrei come possono essere i figli di Treslove, ma anche degli accesi discorsi dei membri del club ASHmed Jews, gli ebrei antisionisti, come capita a Treslove di sentire dalla bocca di una donna Tamara Krausz «la cui pacata autorità incuteva rispetto non solo in Inghilterra, ma anche in America e in Medio Oriente, ovunque vi fossero degli antisionisti, Finkler non sarebbe mai arrivato a dire ovunque vi fossero degli antisemiti». Indubbiamente, un libro che, mostra un altro volto dell'ebraismo. Anche se, forse, troppo crudele con se stesso.

«L'enigma di Finkler» di Howard Jacobson, La nave di Teseo, pag. 479, euro 19,00

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 15 febbraio 2019)


Israele e sunniti, a Varsavia la rete anti-lran Pompeo porta l'Italia nella nuova coalizione

Al summit in Polonia Netanyahu dialoga con gli arabi. Europei divisi, tedeschi e francesi assenti. La presenza di Moavero rilancia i rapporti con gli Usa.

di Francesca Paci

VARSAVIA - Sotto un cielo bianco e compatto Varsavia ha accolto le delegazioni dei 65 Paesi che stamattina siederanno intorno al tavolo della conferenza «Promuovere un futuro di pace e sicurezza in Medioriente» voluta da Washington proprio qui, nella capitale polacca, l'estrema trincea americana nel vecchio continente ancora una volta diviso. Mentre le principali cancellerie europee hanno reagito infatti con freddezza all'invito, a partire da Parigi e Berlino presenti con funzionari minori per marcare la distanza dalla decisione americana di rompere l'accordo sul nucleare iraniano, l'Italia ha scelto di esserci al top con il ministro degli Esteri Moavero che, unico rappresentante Ue insieme al collega britannico Hunt, compare nella lista degli alleati citati esplicitamente dal Dipartimento di Stato.
   Gli Stati Uniti tenevano molto a questo appuntamento per il quale hanno schierato un parterre de roi, il segretario di stato Mike Pompeo, il vice presidente Pence, il genero di Trump e architetto del piano di pace per il Medioriente Jared Kushner. Secondo fonti italiane che hanno lavorato all'appuntamento, il nostro far parte di questa coalizione di fatto contro l'Iran (seppure mai definita tale) va letto proprio nel quadro di una ribadita amicizia atlantica, notata e apprezzata alla Casa Bianca, soprattutto dopo le divergenze sul Venezuela (l'Italia tra l'altro, seppur esonerata per sei mesi delle sanzioni, ha già smesso di comprare petrolio iraniano).
   Originariamente il focus avrebbe dovuto essere il contenimento della Repubblica Islamica al suo 40o anno di vita, ma le defezioni di molti attori importanti hanno orientato gli organizzatori a un format più ampio in cui si parlerà di Siria, Yemen e di pace israelo-palestinese. Al netto di tanti tavoli tecnici però, dietro le quinte c'è l'Iran, intorno cui gli americani stanno cercando di creare una cintura di sicurezza mettendo insieme Israele, Arabia Saudita, buona parte del mondo arabo sunnita e quel che c'è dell'Ue in una prossimità senza precedenti dai colloqui di Madrid all'inizio degli anni '90.
   L'appuntamento è allo stadio nazionale Narodowy, dove da due giorni stazionano chiedendo il «cambio di regime» mujaheddin del popolo iraniano, sigla fuorilegge in patria ma sdoganata in Europa e negli Stati Uniti. I tassisti chiedono con insistenza ai giornalisti cosa abbia da guadagnare la Polonia dall'inimicarsi un Paese che non la minaccia ma la risposta è nella visita alla base Nato di Orzysz, nei pressi del confine russo, dove Pompeo ha implicitamente assicurato agli ospiti protezione americana extra contro Mosca.
   «L'Unione europea ha bisogno degli Stati Uniti per stabilizzare il Medioriente» ripete il ministro degli Esteri polacco Czaputowicz rivolgendosi implicitamente a Parigi, a Berlino ma anche all'alto rappresentante degli affari esteri Federica Mogherini che, a detta del quotidiano Guardian, «ha boicottato l'incontro» e vedrà Pompeo domani a Bruxelles. Tra Washington e l'Ue i rapporti sono tesi sull'Iran ma anche sull'annunciato ritiro americano dalla Siria, mentre Francia, Germania e Regno Unito hanno appena varato il sistema finanziario Instex per aggirare le sanzioni indirette a Teheran.
   Le carte, sebbene l'Iran minimizzi il vertice cui non è stata invitata, sono in tavola. «Varsavia è fredda ma le nostre relazioni diplomatiche si stanno riscaldando» commenta il premier israeliano Netanyhau dopo la stretta di mano con il ministro degli Esteri dell'Oman. E arrivato in Polonia dopo aver rivendicato l'ultimo blitz contro obiettivi iraniani a Qunetra e Jubata al Khashab, il terzo attacco in Siria in un mese e mezzo, ma Bibi sa che la partita è più ampia. Il «New York Times» ha rivelato ieri l'esistenza di un programma di sabotaggio dei missili iraniani che l'amministrazione Trump avrebbe accelerato in questi mesi.

(La Stampa, 14 febbraio 2019)


Netanyahu incontra il ministro degli esteri dell'Oman

Il primo ministro israeliano e ministro degli esteri Benjamin Netanyahu ha incontrato mercoledì il ministro degli esteri dell'Oman, Yousuf bin Alawi bin Abdullah, a margine della conferenza sulla pace e la sicurezza in Medio Oriente co-sponsorizzata da Polonia e Stati Uniti a Varsavia, che vede la partecipazione di 60 paesi. L'ufficio di Netanyahu ha diffuso un video dell'incontro, durante il quale Netanyahu ha lasciato intendere che altri paesi arabi presenti a Varsavia stanno dialogando con Israele. "Devo dire che la coraggiosa decisione di Sultan Qaboos di invitarmi in Oman sta cambiando il mondo" ha detto Netanyahu, che lo scorso ottobre è stato in vista in Oman nonostante il paese arabo del Golfo non intrattiene ufficialmente rapporti diplomatici con Israele. Netanyahu ha aggiunto: "Molti, anche tra coloro che sono qui oggi alla conferenza, stanno seguendo la strada da voi indicata: non restare bloccati nel passato ma per cogliere il futuro". Il ministro dell'Oman ha detto a Netanyahu che i popoli in Medio Oriente hanno "sofferto molto" restando bloccati nel passato, e ha convenuto che l'incontro di mercoledì riflette una "nuova e importante era per il futuro" della regione.

(israele.net, 14 febbraio 2019)


Antagonisti indagati? Già pronto nuovo blitz contro Brigata ebraica

Procura al lavoro sulla violenza del 25 Aprile. Ma i centri sociali preparano un altro assalto

Davide Romano
«Ci urlano con la bava alla bocca, però quell'odio riguarda tutti non solo noi»
La paura
«Chissà cosa accadrebbe se non ci fossero le forze dell'ordine a proteggerci»
La sfida
«Noi sfileremo sempre per ricordare quegli eroi morti per la democrazia»

di Alberto Giannoni

Odiare è la vera priorità, pare che non pensino ad altro. E già si preparano a nuove pagine di odio.
   Gli antagonisti si proclamano grandi difensori del popolo palestinese, ma tutto questo afflato in cosa si traduce concretamente? Nel brutto spettacolo di urla e insulti che da anni si ripete il 25 aprile, macchiandolo.
   Ogni anno in piazza San Babila gli esponenti della Comunità ebraica di Milano, che prendono parte al corteo celebrativo della Liberazione, vengono verbalmente aggrediti. Loro e lo Stato di Israele, un Paese amico dell'Italia ( e di Milano) che viene definito «terrorista» o «assassino», in quella come in altre manifestazioni che si ripetono nelle strade del centro. Da lì scaturisce tutto questo odio. E in alcuni casi, paradosso dei paradossi, non ne vengono risparmiati neanche i reduci dei campi di sterminio, a loro volta incredibilmente fischiati.
   Questo spettacolo va in scena da anni, ma per l'anno scorso - ne ha dato notizia ieri Il Giornale - nove nomi sono finiti nel registro degli indagati: nomi dell'area antagonista evidentemente citati nel rapporto della Digos. La giustizia ora farà il suo corso, ma qualcosa si può già dire sull'ideologia che genera questa vergogna, contro la quale meritoriamente, ha sempre detto parole chiare il presidente milanese dell' Anpi, Roberto Cenati. La Brigata ebraica ha contribuito alla Liberazione dell'Italia. E quegli uomini hanno partecipato alla nascita di Israele. È questo che gli antagonisti non possono tollerare. Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica, che ha sede in corso Lodi, commenta così le notizie sugli odiatori: «Li vediamo ogni 25 aprile, molto aggressivi verbalmente e non so cosa succederebbe se non ci fossero le forze dell'ordine a proteggerci. Quello che ci urlano con la bava alla bocca è sintomo di un odio che deve preoccupare tutta la società italiana. La loro non è una normale e legittima critica politica ma un vero e proprio desiderio di cancellare la nostra presenza dal 25 aprile. Fosse per loro, l'intera storia della Brigata ebraica andrebbe cancellata, alcuni di loro ne negano addirittura l'esistenza». «Noi invece restiamo - avverte - per difendere la memoria di quegli eroi caduti per il ritorno della democrazia nel nostro Paese. E per difendere la storia di quei soldati ebrei migrati nel nostro Paese insieme agli anglo-americani per portarci la libertà. Quella libertà che queste persone non possono tollerare».
   Intanto, a riprova della ossessione anti-Israele, l'area antagonista si prepara a una nuova contestazione: in un comunicato delirante on line si parla di «campagna di strumentalizzazione della Brigata ebraica all'interno delle mobilitazioni per il 25 Aprile», si accusa la «Milano istituzionale» di aver creato «attorno alla Shoah una vera e propria industria propagandistica». «Di fronte a tutto questo - si legge ancora - abbiamo la possibilità e la responsabilità di opporci a chi da tempo a Milano (e nel resto d'Italia) vuole trasformare il 25 Aprile in una "parata della vergogna"».
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(il Giornale, 14 febbraio 2019)


Ebrei al Carnevale di Colonia

Erano 15 mila prima di Hitler; ma si ridussero a 60-80 alla fine della seconda guerra mondiale. E' un ritorno alle origini. Sono famosi per l'ironia.

di Roberto Giardina

BERLINO - Colonia è stato fondato il Kkk, dieci giorni fa. Non una sezione del Ku Klux Klan,
come si potrebbe equivocare, ma il Koleche Kippa Kopp, l'associazione carnevalesca degli ebrei coloniensi. Con autoironia non hanno voluto rinunciare alle tre equivoche «K», il nostro primo scherzo di Carnevale, hanno risposto a chi li metteva in guardia. Ma eviteranno di metterle come sigla sul loro logo e sulla medaglia commemorativa. Gli ebrei furono espulsi dal Carnevale appena i nazisti presero il potere, nel 1933. Nel 1938, nella notte dei cristalli furono bruciate le sei sinagoghe. La presenza degli ebrei risale di fatto alla fondazione della città romana, ma già nel Medioevo avvennero diversi sanguinosi pogrom.
   Il Carnevale era ed è importante lungo il Reno. Chi vuol fare carriera politica entra nei comitati che organizzano veglioni e sfilate dei carri, e pagano di tasca loro feste e costumi. Una spesa di decine di migliaia di euro. Un «Re del Carnevale» è una carica più importante di quella di presidente di una squadra di calcio. Bisogna saper parlare in dialetto, fare battute e accettarle, e reggere bene la birra e il vino renano. I «carri degli ebrei» erano tra quelli che avevano più successo nella cattolicissima Colonia. Anche perché gli Juden sapevano per primi prendersi in giro da soli. La loro associazione aveva sempre tre K, il Kleiner Kolner Klub, il piccolo club, per questo oggi non si è voluto rinunciare all'antica sigla, sempre tre kappa, uguali eppure diverse.
   All'interno del nuovo comitato si è discusso a lungo se fosse opportuno, poi hanno vinto quanti sostenevano che fosse importante ricordare il passato. Il Kkk torna a essere una delle cento società carnevalesche a Colonia. Negli Anni Trenta, alcuni membri del comitato carnevalesco riuscirono a fuggire nella vicina Francia, o in Belgio. E furono catturati allo scoppio della guerra dagli occupanti nazisti. Finirono nei campi di sterminio con buona parte degli ebrei della città renana. Alle sfilate di Carnevale continuarono a essere presenti nei carri violentemente antisemiti. Le solite caricature degli ebrei avidi e antitedeschi, i traditori che avevano fatto perdere la Grande Guerra.
   Erano circa 15mila prima dell'avvento di Hitler, nel 1945 alla fine del III Reich non più di 60 o 80. Nella Colonia di Konrad Adenauer, e dello scrittore Heinrich Böll (che vincerà il Nobel nel '72), entrambi cattolici e antinazisti, si preferì tuttavia dimenticare gli anni del Reich. Lentamente la comunità andò crescendo, gli ebrei erano un migliaio trent'anni fa prima della caduta del Muro. Poi cominciarono arrivare gli ebrei dall'Europa dell'Est. Oggi, sono poco più di 4.500. E' una buona notizia la nascita dell'associazione carnevalesca degli ebrei a Colonia, ha commentato Henryk Eroder, editorialista della Welt. Un comitato aperto a tutti, anche chi non ebreo sarà benvenuto.
   I tedeschi sono precisi anche nella quinta stagione dell'anno, come viene indicato il Karnival: comincia alle ore 11 e 11 minuti di novembre, e quest'anno finirà il 6 marzo. Ma il Kkk non farà in tempo per far sfilare un suo carro.

(ItaliaOggi, 14 febbraio 2019)


Árpàd Weisz, l'allenatore dei record che morì ad Auschwitz

di Gian Antonio Stella

«Siamo un po' sfortunati, caro Mario, ma forse verrà ancora un po' di sole anche per noi». Mette i brividi leggere esattamente ottant'anni dopo, nel libro di Paolo Balbi Árpàd Weisz: Il tempo, gli uomini, i luoghi», editore Serra Tarantola, la lettera inviata da Árpàd Weisz al suo amico Mario Montesanto. Il grande allenatore ungherese, il primo a vincere uno scudetto a soli 34 anni (record imbattuto), il primo a vincere un campionato di serie A a girone unico, il primo a vincere uno scudetto italiano con due squadre diverse, l'Internazionale-Ambrosiana e il Bologna, il primo a scoprire il talento del diciassettenne Pepìn Meazza.
  Fu anche il primo a trionfare al Torneo dell'Esposizione Universale di Parigi, «una competizione che valeva la Coppa dei Campioni, a quel tempo non ancora istituita, battendo 4 a 1 in finale i maestri londinesi del Chelsea», scriveva sulla carta elegante della brasserie Café de Paris di Boulevard Montmartre, a Parigi. Dove era stato costretto a rifugiarsi lasciando l'amata Italia, la sua seconda patria, sotto il peso di una colpa infamante, nel regime mussoliniano: era ebreo. In realtà, racconta Paolo Balbi, non dava molto peso alle sue origini, la sua storia, alla sua religione. Non risulta che facesse parte «di comunità o associazioni ebraiche, né in Ungheria, né a Milano, né a Bologna» e al momento della nascita dei figlioletti, Clara e Roberto, non si fece problemi a battezzarli. Sperando forse di rendere loro più facile l'inserimento nella comunità.
  Le leggi razziali del 1938 colpirono anche lui e la sua famiglia. Al punto che, nonostante le vittorie, il Bologna non cercò neppure, per quanto si sa, di resistere alla pretesa che l'allenatore vincente non fosse confermato. Un'umiliazione cocente. Che spinse Weisz, sempre più preoccupato per l'aria che tirava, ad andarsene con la famiglia dall'Italia per cercare di ricostruirsi una vita all'estero. A partire dalla Francia e da Parigi dove aveva vinto quel prestigioso torneo. «Caro Mario», scrive in quella lettera, dandogli del lei, all'amico calciatore che aveva avuto un infortunio, «avevo l'intenzione di stare in silenzio fino a che non potevo darvi novità concrete di me. Ma ieri ho letto una notizia che mi ha fatto un gran dispiacere. Rompo quindi il silenzio e mi affretto di farle i miei auguri. Spero che l'incidente di Bari non porterà alcuna conseguenza per quanto riguarda la sua salute...».
  L'Europa andava verso la catastrofe, lui era in difficoltà e si preoccupava dell'amico infortunato. Era inquieto, però. Come se presagisse l'arrivo della burrasca che l'avrebbe spazzato via. «Quanto a me, come vede, sono ancora a Parigi. Ma non più tardi di questa sera dovrò prendere una decisione. Per essere preciso, le devo dire che ho perso quattro settimane coll'aspettare un visto olandese...». Fu arrestato con la moglie e i figli il 4 agosto del 1942. Tre mesi dopo l'introduzione dell'obbligo per gli ebrei che vivevano in Olanda, dove era finito ad allenare una squadretta, di portare sul petto la stella gialla. Deportato a Westerbork. E non ci fu, per lui e la sua famiglia, quel po' di sole che sperava. Morì ad Auschwitz nel 1944.

(Corriere della Sera - Sette, 14 febbraio 2019)



Il rifugio in Val Seriana dei piccoli orfani ebrei

Il documentario. La regista Francesca Muci racconta in "La casa dei bambini" la storia di un gruppo di sopravvissuti ai lager nazisti che ha ritrovato in varie parti del mondo: "Il popolo italiano è sempre stato aperto all'accoglienza".

di Simona Spaventa

MILANO - Un treno corre tra la pianura e i boschi, sferraglia come i convogli che portavano ai lager. Il vecchio ebreo che guarda scorrere il paesaggio dal finestrino lo sa bene: ai tempi della guerra era un ragazzino, ha perso tutto ma allo sterminio è scampato, e ora ritorna nel posto sulle montagne bergamasche che gli ha ridato la gioia di vivere. Immergono lo spettatore nella trepidazione del ricordo le prime immagini di "La casa dei bambini", il documentario di Francesca Muci (che lo presenta stasera alle 21,15 all'Oberdan, replica domenica alle 15) sulla storia delle centinaia di orfani ebrei che, scampati alla Shoah, vennero salvati dalla brigata di genieri ebraici dell'esercito britannico, la Solel Boneh, e tra il 1945 e il 1948 furono ospitati nel piccolo paese di Selvino, in Val Seriana, in un'ex colonia fascista fatta costruire da Mussolini per le estati dei balilla e delle giovani italiane, detta Sciesopoli in onore dell'eroe del Risorgimento. La maggior parte di loro avrebbe poi raggiunto il neonato Stato di Israele.
  Nei 70 minuti del film, prodotto da Camelot 2014 e Istituto Luce, la regista tesse le fila tra questa bella storia di accoglienza e il presente, andando a rintracciare a Tel Aviv molti dei bambini di allora e facendosi raccontare, al di là dell'esperienza felice della salvezza, anche i mesi o anni durissimi che hanno dovuto affrontare prima di poter tornare a una, mai completa, normalità. Passando anche da Milano, dove in via Unione 5 c'era un importante punto di raccolta degli orfani, e mostrando ahinoi l'incuria in cui è caduta Sciesopoli, luogo importante della nostra memoria. Cancello arrugginito, muri scrostati, erbacce sugli scalini d'ingresso accolgono il vecchio del treno: è Sidney Zoltak, nato a Bologna nel 1931 ed emigrato in Canada. Eppure lui alle finestre cadenti vede ancora i volti sorridenti degli insegnanti di allora, capeggiati da Moshe Zeiri, e nel cortile innevato la marcia rigorosa e piena di allegria dei piccoli sopravvissuti: immagini che si materializzano con le foto e i filmati in bianco e nero dagli archivi dell'Istituto Luce e della Fondazione Spielberg, il più grande sulla Shoah. «Tra la ricostruzione storica e il rintracciare gli ex bambini ho impiegato circa un anno - racconta la regista - Ne ho intervistati una trentina, molti oggi vivono in Israele, in kibbutz che hanno fondato al loro arrivo, nel 1948.
  Le immagini di Selvino con la vita dei bambini all'epoca sono state girate dallo stesso Moshe Zeìrì», Ossia "il padre", come molti dei vecchi bambini ancora lo chiamano. Giovane direttore d'orchestra convertito alla pedagogia, volto aperto e un po' beffardo, dev'essere stato un istruttore spassoso: gli spezzoni e gli scatti d'epoca sembrano confermarlo, con ragazzini che giocano a palla, ridono al tavolone della mensa, posano felici per le foto ricordo. E Sciesopoli, con i suoi imponenti quattro piani, la vegetazione meravigliosa, la piscina, la mensa e soprattutto i letti con le lenzuola pulite, per loro era «un paradiso», «un sogno», «una reggia», ripetono anche oggi a settant'anni di distanza. Ma soprattutto era «la casa, la nostra casa, dove per la prima volta abbiamo avuto il piacere di una vita umana». Perché quel che è più scioccante nel documentario sono proprio i racconti dei mesi randagi, passati soli, senza la famiglia finita in campo di sterminio, a vagare tra boschi e villaggi come bestie braccate. «Ancora prima di arrivare a Selvino ho fatto una lunga strada - ricorda Rivka - I tedeschi erano entrati a settembre nella mia città, Varsavia. Mio padre, allevatore, mi affidò al padrone della fattoria, non ho mai più rivisto né lui né mamma e i miei fratelli. Dopo sette mesi ci dissero che dovevamo andarcene, era troppo pericoloso nasconderci. Avevo dieci anni, ho dormito in stalle, cimiteri, ho vagato quasi un anno da un villaggio all'altro». Le fa eco Matehau: «Eravamo in tre, di nove, undici e tredici anni. Di giorno dormivamo da qualche parte, di notte camminavamo. Il più piccolo bussava a qualche porta per avere cibo».
  «Dopo anni di paura e fame, con il cibo come unico pensiero - conclude la regista - ridotti a piccoli animali come dice un testimone, Selvino ridà loro una vita. Con un modello moderno, che ci deve far rìcordare come il popolo italiano sia sempre stato tra i più aperti all'accoglienza. E l'accoglienza genera vita».

(la Repubblica - Milano, 14 febbraio 2019)



Leonardo vende gli Aw119 a Israele

Commessa di elicotteri

Leonardo vende elicotteri militari da addestramento a Israele. Il gruppo guidato da Alessandro Profumo dovrebbe firmare oggi una commessa per fornire a Tel Aviv elicotteri Awn 9 Koala, del valore stimato sui 330 milioni di euro per i primi 16 elicotteri, ampliabile ad altre macchine. La commessa rientra in un ampio accordo tra i due governi, da formalizzare, la formula «G to G», che prevede anche la vendita al ministero della Difesa italiano di simulatori per addestrare i piloti italiani di elicotteri prodotti dall'israeliana Elbit Systems, per un valore sui 320 milioni di euro. Il contratto iniziale prevede la fornitura di sette elicotteri più il simulatore e l'assistenza, con opzione per almeno ulteriori 9 macchine da esercitare entro agosto. La formula ricalca quella applicata nel 2012 quando Alenia Finmeccanica vendette 30 aerei addestratori M-346 a Israele per un miliardo di dollari. Il governo italiano comprò da Israele due satelliti e un aereo da ricognizione per un miliardo di dollari. L'operazione si è sviluppata sulla base di un accordo raggiunto nel 2015 tra l'ex ad di Agusta Westland Daniele Romiti e l'ad di Elbit, Butzi Machils.

(Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2019)


Germania: antisemitismo in netto aumento nel 2018

BERLINO - Nel 2018 i reati di matrice antisemita sono nettamente aumentati in Germania, con 1.646 registrati dalla polizia. Il dato rappresenta un incremento di circa il 10 per cento rispetto ai 1.504 reati di antisemitismo compiuti in Germania nel 2017. Le cifre sono state rese note oggi dal governo tedesco nella risposta a un'interrogazione parlamentare presentata da La Sinistra. Se si considerano esclusivamente i crimini violenti di matrice antisemita, l'aumento nel 2018 rispetto all'anno precedente è stato di oltre il 60 per cento, con una crescita da 37 a 62 casi accertati, 43 dei quali caratterizzati da feriti. Nel 2018, la polizia ha identificato 857 sospetti autori di reati antisemiti in Germania, 19 dei quali sono stati arrestati. Secondo il governo tedesco, l'antisemitismo potrebbe continuare a crescere. Le cifre diffuse oggi "non sono definitive" e il fenomeno registra una tendenza al rialzo negli ultimi anni. Nel 2017, i reati di matrice antisemita sono, infatti, aumentati del 2,5 per cento su base annua, mentre nel 2016 l'incremento è stato del 7,5 per cento rispetto all'anno precedente.

(Agenzia Nova, 13 febbraio 2019)


Un vincitore alle primarie israeliane c'è già: il ricambio generazionale

Stanchezza nel partito laburista e nel Likud verso i rispettivi leader. Emergono volti nuovi e giovani. La «Resilienza» dell'ex generale Gantz funziona. E il dato religioso diventa determinante.

di Fiammetta Martegani

 
Itzik Shrnuli                                                           Stav Shafir

Questa settimana in Israele si sono svolte le elezioni primarie e un vincitore c'è già: il ricambio generazionale. Da destra e sinistra sono spuntati volti nuovi e candidati e candidate under 35. Nel partito laburista, si sono fatti avanti Itzik Shrnuli e Stav Shafir, numeri due e tre della formazione, peraltro in aperto conflitto con il numero uno Avi Gabbay. Stesse dinamiche nel Likud, dove i risultati delle primarie evidenziano il voltafaccia del partito nei confronti del suo leader, Benjamin Netanyahu, che si trova a dover fare i conti non soltanto con l'elettorato ma anche, e forse soprattutto, con i suoi stessi compagni di squadra.
   Leader indiscusso in queste prime settimane di campagna elettorale resta l'ex Capo di Stato Maggiore Benny Gantz. Lo slogan «Israele prima di tutto, prima della destra e della sinistra», con cui ha esordito a fine gennaio, sembra funzionare. E funziona lui, l'ex generale, che continua ad attirare una fortissima attenzione mediatica con il suo "Partito della resilienza'', sempre più "spartiacque" tra le due fazioni che solitamente costruiscono le principali alleanze nel marasma di partiti e partitucoli che caratterizzano lo scenario politico israeliano.
   A soffrirne di più, il Likud di Bibi Netanyahu. I sondaggi continuano ad assegnargli 30 seggi (rispetto ai 61 necessari per ottenere la maggioranza, su un totale di 120), ma il partito comincia a dare segni di debolezza. Tanto da aver lanciato una campagna su Facebook in cui vengono contattati personalmente gli elettori per indagare le preferenze politiche del Paese. Dall'altra parte c'è il partito laburista, il cui leader Gabbay ha chiesto di potersi alleare a Gantz, incassandone però un netto rifiuto.
   La formazione, già in crisi da anni, sembrerebbe aver raggiunto il suo minimo storico, almeno stando ai sondaggi che pronosticano tra i 6 e gli 8 seggi. Secondo Shmuel Rosner, ricercatore presso la Tel Aviv University e analista politico per il New York Times, tra le varie cause che avrebbero portato a questo tracollo, oltre alla scelta di un leader come Gabbay, con scarso carisma e nessuna esperienza politica, c'è il totale scollamento del partito dai valori dell'attuale società israeliana, in cui il ruolo della religione, all'interno dell'identità ebraica, diventa sempre più importante. Un elemento completamente trascurato dal gruppo laburista, e sui cui invece stanno puntando, in questa campagna, la maggior parte dei partiti in corsa al governo. Incluso quello di Gantz.

(Avvenire, 13 febbraio 2019)


Mondo arabo spaccato sull'Iran alla Conferenza di Varsavia

Oggi il summit voluto dagli Usa per contrastare Teheran.

di Giordano Stabile

I Paesi arabi si dividono di fronte alla nuova coalizione anti-Iran che gli Stati Uniti lanceranno al summit di Varsavia. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha scelto la capitale europea più allineata con la politica estera americana, ma questo ha pesato sulla riuscita del vertice. A Varsavia arriveranno delegazioni guidate da ministri di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein, Marocco, Oman, Yemen, Giordania. Mentre Egitto e Tunisia manderanno solo dei viceministri. Fatte le sottrazioni vuol dire che Teheran può contare sul sostegno o la neutralità di Algeria, Libia, Sudan, Libano, Siria, Iraq, Kuwait, Qatar, oltre che su quello della Turchia, potenza sunnita non araba. Al fronte filoiraniano si è unito all'ultimo momento il presidente Abu Mazen, che ha rinunciato a partecipare perché «gli Stati Uniti non hanno un ruolo credibile dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d'Israele».

 Nethanyahu e i leader arabi
  Se alcune defezioni erano prevedibili, il fronte antiayatollah appare meno folto di quanto sperato. Per questo Pompeo ha ammorbidito i toni. Da mobilitazione contro «l'influenza destabilizzatrice di Teheran» l'obiettivo dell'incontro è diventato quello di favorire la «stabilità e alla pace regionale», una formula più neutra che può trovare il consenso di tutti. Ma, al di là del contrasto alla politica iraniana nella regione, il summit di Varsavia serve anche come occasione di incontro fra il primo ministro Benjamin Netanyahu, che partecipa in qualità di ministro della Difesa e degli Esteri, e i leader arabi. Il premier israeliano ha avviato un'offensiva diplomatica nei Paesi musulmani sunniti, con visite in Oman, in Ciad e a fine marzo anche in Marocco. Le strette di mano serviranno anche ad aprire nuove porte.
  Vista in questa prospettiva il vertice fa comunque gioco alla politica mediorientale del duetto Trump-Netanyahu anche se ha lasciato freddi i maggiori Paesi europei, con l'eccezione della Gran Bretagna, che invierà il ministro degli Esteri Jeremy Hunt.

 La stoccata di Trump
  L'Europa è impegnata in una difficile trattativa per salvare quel che resta dell'accordo sul programma nucleare firmato nel luglio del 2015. Le tensioni con Teheran sono sempre più forti e una sfilata di ministri a Varsavia le avrebbe aggravate. La Repubblica islamica, impegnata nei festeggiamenti per il 40esimo anniversario della rivoluzione, ha cercato di minimizzare l'impatto dell'iniziativa americana, un «disperato circo anti-iraniano» secondo il ministro degli Esteri Javad Zarif.
  Zarif ha anche ribattuto alle accuse di antisemitismo e ha ricordato l'aiuto dell'Iran «a centomila ebrei polacchi durante la Seconda guerra mondiale», mentre nelle strade di Teheran migliaia di manifestanti sfilavano con cartelli come «con grande dispetto dell'America, la rivoluzione compie quarant'anni». Alle autocelebrazioni degli ayatollah ha risposto con un tweet, in lingua farsi, Donald Trump: «Quarant'anni di corruzione, 40 anni di repressione, 40 anni di terrore: il regime iraniano ha prodotto soltanto 40 anni di fallimenti».

(La Stampa, 13 febbraio 2019)


«Israele Stato assassino». Insulti alla Brigata ebraica, indagati nove antagonisti

Identificati dalla Digos e segnalati alla Procura per le minacce durante il corteo del 25 Aprile

L'accusa
«Raduno non autorizzato». E si profila l'aggravante di istigazione all'odio razziale
I responsabili
Forse anche altri coinvolti. Il pm ha già notificato la proroga delle indagini

di Luca Fazzo

Un rito che si ripete praticamente ogni anno, una vergogna annunciata che macchia le celebrazioni della Liberazione. Anche l'anno scorso, nel corteo per il 25 Aprile lo spezzone della Brigata Ebraica venne fatto segno di insulti e minacce. Ma stavolta l' aggressione non resterà impunita. La Digos ha identificato i principali protagonisti della gazzarra e li ha segnalati alla Procura della Repubblica. Qui il sostituto procuratore Leonardo Lesti, del pool antiterrorismo coordinato dal pm Alberto Nabili, ha deciso di iscrivere i nove estremisti nel registro degli indagati. L'ipotesi di reato è per tutti quella di manifestazione non autorizzata, cui si potrebbe aggiungere l'aggravante della istigazione all'odio razziale. Quattro rispondono anche di minacce, uno di resistenza a pubblico ufficiale, due di getto pericoloso di oggetti.
   I nove nomi finiti nel rapporto della Digos sono di altrettanti appartenenti all'area antagonista, in particolare si tratta di militanti dei centri sociali della zona Barona particolarmente attivi nelle occupazioni abusive. Sono stati ritratti dalle telecamere di sicurezza di piazza San Babila, i cui filmati sono stati setacciati dalla Digos per dare un nome ai promotori della contestazione. E i nove, già noti alla questura, sono stati identificati senza possibilità di dubbio.
   Ma non è detto che rimangano gli unici indagati. Nei giorni scorsi il pm Lesti ha notificato ai nove la richiesta di proroga delle indagini preliminari: vuol dire che la Procura non si accontenta dei risultati già acquisiti e vuole completare il più possibile la ricostruzione dei fatti del 25 aprile.
   Quel giorno, replicando lo stesso copione già messo in scena negli anni scorsi, gli antagonisti avevano aspettato ai margini del corteo che sfilasse in piazza San Babila la Brigata Ebraica, con le bandiere con la stella di David che ricordano il contributo dei partigiani ebrei alla Resistenza. E al passare della Brigata sono piovuti insulti di ogni genere: «assassini», «fascisti», «uscite dal corteo»; bersaglio preferito Israele, definito «Stato terrorista». I carabinieri avevano dovuto fare da cuscinetto per impedire che gli antagonisti entrassero fisicamente in contatto con i manifestanti con le bandiere di David. E a venire contestata era stata anche l'Anpi, organizzatrice del corteo, colpevole secondo gli antagonisti di avere ospitato la Brigata Ebraica.
   A guidare l'attacco, il gruppo «Fronte Palestina», vicino agli estremisti palestinesi del Fplp, che ieri dopo avere appreso dell'indagine reagisce rilanciando: «Il Sionismo ha paura e invoca la Procura».

(il Giornale, 13 febbraio 2019)


Francia, paese dell'intolleranza contro ebrei e cristiani

Nuovi attacchi del fanatismo musulmano

di Renato Farina

La Francia, maestra presunta della tolleranza e della libertà, oggi è travolta da un'ondata di antisemitismo e di cristofobia. Se l'oltraggio contro l'ebraismo è un fatto noto, e certo mai abbastanza deprecato, quello che ha per oggetto la Chiesa cattolica è sconosciuto, e perfino silenziato dalle autorità non solo governative ma episcopali.
  Antisemitismo. Secondo i dati del ministero dell'interno nel 2018 c'è stato un incremento del 74% degli atti ingiuriosi contro sinagoghe e cimiteri giudaici. Nel 2017 sono stati 311, l'anno scorso 541. Ma nei giorni scorsi c'è stato un incremento ulteriore. In particolare la svastica ha deturpato l'immagine di Simone Veil ed è stato vandalizzato l' albero piantato in memoria di Ilan Halimi, un ragazzo ebreo assassinato nel 2006. a Saint-Geneviève-des-Bois, a sud di Parigi. Il ministro Christophe Castaner ha definito questo crimine «un attacco contro la speranza». E ha promesso: «Faremo blocco, non passeranno».

 Minacce islamiche
  Questi episodi, di matrice quasi sempre islamica, interrogano la comunità israelitica di Francia, che è assai numerosa: 460mila persone. Negli ultimi anni è iniziato un esodo non solo verso Israele ma anche verso il Canada. Circa 20mila ebrei sono stati indotti dalla paura e dalle pressioni ambientali a riprendere il mai finito cammino dei figli di Abramo.
  Cristofobia. Il termine rientra in pochi documenti, ma è stato introdotto nella scienza giuridica proprio da un professore ebreo, Joseph Weiler. Negli ultimi giorni - ha denunciato ieri Le Figaro - «nove luoghi di culto cattolici sono stati oggetto di profanazione e vandalismi». Questa recrudescenza del fenomeno ha fatto scoprire un fatto ignoto: nel 2017 sono stati censiti 878 attentati contro le chiese. Vuol dire più di due al giorno! Per il 2018 non si hanno ancora statistiche. C'è un altro dato impressionante, questa volta positivo: le piccole borgate, i quartieri di grandi città che vedono incendiata la loro basilica, profanato il tabernacolo della cattedrale, si radunano con un dolore che pervade anche i non credenti. La stampa nazionale non ne parla, e il governo non se ne preoccupa troppo, ma il fenomeno percuote la Francia profonda. La Chiesa non alza la voce, teme l'effetto emulazione. Ma il tam tam attraversa specie le zone rurali. Monsignor Olivier Ribadeau Dumas, il portavoce della Conferenza episcopale, si è accontentato di un tweet: «Chiese incendiate, saccheggiate, profanate. Non potremo mai abituarci al fatto che questi luoghi di pace siano preda di violenze. E ciò che noi abbiamo di più bello e più prezioso, il Corpo di Cristo, sia calpestato».
  Il rituale è costante, per quanto riguarda le profanazioni. Si penetra nella chiesa, si aprono i tabernacoli, si fa scempio dei vasi sacri, e compaiono scritte ostili o sataniste. Con dolore ha denunciato Christiane Roux, una signora, membro del consiglio pastorale della chiesa di Notre- Dame-des-Enfants, a Nimes: «Il tabernacolo è stato forzato, le ostie consacrate buttate in giro, frantumate. Hanno tracciato con gli escrementi una croce sul muro, e vi hanno appiccicato le ostie. Le statue dei piccini raccolti intorno alla Madonna, sono stati anch'essi cosparsi di feci».

 Il silenzio del potere
  Ci sono zone della Vandea che ormai subiscono con regolarità questi assalti. A Fontainbleu è stata incendiata la basilica di Saint Louis. A Digione la messa di riparazione e di purificazione ha raccolto sabato scorso migliaia di persone intorno all'arcivescovo Roland Minnerath. Una sarà celebrata oggi a Nimes. La polizia indaga con scarso successo. Soprattutto è il governo a essere indifferente. Se si è rivolto pubblicamente agli ebrei, e bene ha fatto, tace invece con i cristiani. Il vescovo Bernad Ginoux, a Montauban, alza la voce: «Ci sono reazioni scarse sul piano nazionale, dato che si tratta di un attacco diretto e sistematico conto la fede cattolica». Sarebbe opportuno, dice, che il ministro dell'interno, che ha la delega ai culti, mandasse «un messaggio alla comunità cattolica». Un prefetto però, quello di Yvelines, Jean-Jacques Brot, ha raccolto l'allarme e ha «condannato con la massima fermezza queste violenze gravi e inammissibili. Sono estremamente preoccupanti». Oggi all'udienza generale è probabile che si alzi in San Pietro la voce di papa Francesco.

(Libero, 13 febbraio 2019)


Attacchi israeliani in Siria su obiettivi iraniani: parla Netanyahu

Netanyahu non era mai stato così "diretto" nell'ammettere gli attacchi israeliani in Siria contro obiettivi iraniani, segno che la situazione al nord di Israele si sta facendo veramente seria

«Operiamo ogni giorno, anche ieri, contro l'Iran e i suoi tentativi di stabilire la sua presenza nell'area». Con queste parole pronunciate ieri sera poco prima di partire per una conferenza internazionale a Varsavia, il Premier israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato ufficialmente gli attacchi israeliani in Siria su obiettivi iraniani.
«Nel giorno del 40o anniversario della rivoluzione l'Iran ci minaccia» ha detto Netanyahu. «Hanno minacciato di distruggere Tel Aviv e Haifa e ho detto che non ci sarebbero riusciti, ma se ci provano, ripeto che questo sarà l'ultimo anniversario della rivoluzione che questo regime festeggia»....

(Rights Reporters, 13 febbraio 2019)


Mahmood: «Rappresenterò l'Italia all'Eurovision con Soldi»

Il vincitore di Sanremo scioglie le riserve. E a Milano il sindaco Sala lo chiama.

ROMA - «Ok ve lo posso dire, rappresenterò l'Italia all'Eurovision Song Contest con Soldi. Non vedo l'ora». Mahmood, fresco vincitore del festival di Sanremo, ha sciolto la riserva annunciando ieri sulla sua pagina Facebook che parteciperà alla manifestazione in programma dal 14 al 18 maggio a Tel Aviv, in Israele, grazie alla vittoria dell'israeliana Netta Barzilai con la canzone Toy nell'edizione precedente. Il vincitore di Sanremo partecipa di diritto in rappresentanza dell'Italia. Nel caso di rinuncia, sarebbe subentrato il secondo classificato.
   Intanto il trionfatore dell'Ariston si è raccontato ai microfoni di RTL 102.5: «Mi fa strano essere chiamato "personaggio del momento", non riesco ancora a realizzare. Sono soddisfatto perché la gente che non mi conosce, magari, pensa sia nato tutto da Sanremo ma in realtà dietro c'è un lavoro di anni in cui ho scritto pezzi per me e per altri e sono molto orgoglioso del lavoro e trovarmi qui mi fa un po' strano ma era quello che volevo da sempre», ha raccontato durante l'intervista.
   E a coinvolgerlo in prossimi progetti potrebbe essere anche il Comune di Milano: «L'ho invitato a Palazzo Marino, per congratularmi personalmente della vittoria, ha annunciato il sindaco di Milano, Beppe Sala - ma l'idea è anche quella di coinvolgerlo in qualche iniziativa o progetto dell'amministrazione. Questi giovani artisti sono degli interlocutori importanti. Sono voci autorevoli del mondo giovanile che non ignoriamo - ha aggiunto - Mi son fatto intervistare da Marracash tempo addietro, adesso incontrerò Mahmood».

(Leggo, 13 febbraio 2019)


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Eurovision 2019 - Kobi Marimi rappresenterà Israele a Tel Aviv

Questa sera si è svolta la finale del talent-show, HaKokhav HaBa (La prossima stella), che funge da selezione nazionale israeliana. A vincere è stato Kobi Marimi che dovrà rappresentare in casa, Israele, all'Eurovision Song Contest 2019.
Le emittenti IPBC e Keshet 12 insieme a Tedy Productions hanno organizzato lo show presentato da Assi Azar (che presenterà anche l'Eurovision 2019) e da Rotem Sela.
Quattro i finalisti in gara:
  • Maya Buskila
  • Ketreyah Fouch
  • Kobi Marimi
  • Shefita (Rotem Shefy)
 
Una giuria di professionisti del campo musicale, composta da Shiri Maimon (Israele 2005), Harel Skaat (Israele 2010), Keren Peles, Assaf Amdursky e Static & Ben El Tavori hanno giudicato gli artisti nelle fasi precedenti dello show.
Tuttavia, durante la finale di stasera, è stato solo il pubblico, tramite televoto, a scegliere il rappresentante all'Eurovision 2019.
La canzone con cui Marimi si esibirà a Tel Aviv, verrà scelta in un secondo momento. L'emittente KAN organizzerà tre show televisivi in cui sarà determinata la canzone definitiva da abbinare a Kobi.
Kobi Marimi ha 27 anni ed è nato e cresciuto a Ramat Gan, in Israele, e si è trasferito a Tel Aviv dove ha lavorato in un cocktail bar. Marimi ha una laurea in recitazione e ha vinto il premio per l'attore più promettente del Festival del Teatro Musicale in Israele. Marimi canta dall'età di 13 anni, ma non si è mai esibito da solista fino alla sua partecipazione alla selezione israeliana.

(EurofestivalItalia, 13 febbraio 2019)


La Rivoluzione islamica ancora ci tormenta

Ricordate l'omìcidio del giornalista ebreo Farzami? Fa parte delle 860 penne perseguitate

di Giulio Meotti

ROMA - Poliglotta, coltissimo, spirito europeo (era nato in Svizzera), Simon Farzami era un'istituzione fra i giornalisti iraniani. Faceva lo stringer per il Daily Telegraph, firmava sul Journal de Teheran (chiuso subito dai khomeinisti) ed era il numero due dell'ufficio della France Presse nella capitale iraniana. Farzami si rifiutò di abbandonare il paese nel 1979, quando Khomeini lanciò la sua Rivoluzione islamica. Diceva che a settant'anni non avrebbe retto all'angoscia dell'esilio. Adesso, grazie a un dossier di Reporter senza frontiere (Rsf) presentato a Parigi con la Nobel Shirin Ebadi, proprio mentre in Iran si celebrano i 40 anni della Repubblica islamica, sappiamo che Farzami è stato giustiziato dopo un processo di sette minuti. Aveva la "colpa" di essere ebreo ("sionista", in gergo rivoluzionario).
   Farzami compare fra gli 860 nomi di giornalisti processati, arrestati, imprigionati e in molti casi giustiziati in Iran tra il 1979 e il 2009. Un archivio realizzato da Rsf grazie ad alcuni whistleblower del regime. C'è il nome della giornalista iranocanadese Zahra Kazemi, uccisa in carcere, accanto a quello del blogger Omid Reza Mir Sayafi, che si è tolto la vita dietro le sbarre. C'è il principale scrittore e giornalista dissidente, Ali Akbar Saidi Siriani, morto sotto tortura, reo di sostenere che gli iraniani avevano una tradizione preislamica di rispetto dei diritti individuali e di lotta contro la tirannia. C'è Saeed Soltanpour, portato via dal regime durante la propria festa di nozze e il cui cadavere fu riconsegnato il giorno dopo alla moglie. Era stato accusato di "fare guerra ad Allah", giudicato e fucilato, tutto in sole dodici ore. C'è Rahman Hatefi, romanziere e giornalista, gli aprirono le vene durante l'interrogatorio e lo lasciarono morire dissanguato. C'è Mehdi Shokri, ucciso con due pugnalate agli occhi perché aveva scritto una poesia che derideva la tesi ufficiale secondo cui l'immagine dell'ayatollah Khomeini era apparsa in cielo. Il segretario generale di Rsf, Christophe Deloire, ha detto che il gruppo ha passato mesi a controllare i casi documentati. Oltre ai giornalisti, Rsf sciorina la cifra di 61.900 prigionieri politici dagli anni Ottanta. Ci sono anche le prove del massacro del 1988 in cui quattromila dissidenti furono giustiziati per ordine di Khomeini. L'Iran ha sempre negato che un simile massacro abbia avuto luogo.
Tecnicamente, Siamak Pourzand non è stato ucciso. Si è buttato dal sesto piano della sua casa a Teheran. Era il decano del giornalismo iraniano, accusato di "propaganda contro il sistema islamico", scriveva per i Cahiers du Cinema e venne interrogato e torturato nonostante avesse settant'anni. E di penna si continua a morire sotto il "moderato" presidente Rohani.
   Come Hashem Shabani, poeta iraniano giustiziato con l'accusa di essere "un nemico di Dio". Aveva scritto prima dell'esecuzione: "Per sette giorni mi hanno urlato: 'Stai facendo la guerra ad Allah. Non è abbastanza per morire?"'. 1979-2019, quarant'anni di Rivoluzione islamica che continua a tormentare l'occidente, Israele e il popolo iraniano. Pochi giorni fa, gli ayatollah hanno mandato alla forca un altro cittadino accusato di omosessualità. Si calcola che tra quattro e seimila omosessuali sino stati giustiziati dall'Iran in questi ferali quarant'anni di rivoluzione islamica e di appeasement occidentale.

(Il Foglio, 13 febbraio 2019)


Netanyahu tratta con Putin l'adesione all'Unione Eurasiatica

di Giordano Stabile

Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin si incontreranno a Mosca il 21 febbraio, per il loro undicesimo vertice in poco più di tre anni. Il dossier più caldo sarà quello della presenza iraniana in Siria. Ma ce n'è un altro dalle implicazioni altrettanto decisive. Ed è l'ingresso di Israele nell'Unione eurasiatica, la comunità di Stati lanciata dalla Russia nel 2014 e che ora potrebbe compiere un salto di dimensioni impressionanti. Le trattative sono state riaperte lo scorso aprile. Le tensioni siriane le hanno rallentate in autunno ma ora, secondo il Times of Israel, siamo al dunque. Per lo Stato ebraico si tratta di entrare in un mercato che già adesso conta 183 milioni di abitanti ma che potrebbe arrivare a un miliardo e mezzo se sarà finalizzata l'adesione dell'India. Ma fra i candidati ci sono anche l'Egitto e, questo a Netanyahu certo non piace, persino l'Iran.
  L'Unione eurasiatica, il progetto più ambizioso di Putin, è partita cinque anni fa con Russia, Bielorussia, Kazakhstan ma amputata dell'Ucraina che proprio all'idea di essere assorbita nella sfera di influenza russa si era ribellata all'allora presidente Viktor Yanukovich. Nel 2015 sono entrati il Kirghizistan e l'Armenia.Nel corso degli anni il progetto, denominato con la sigla Eaeu, è stato rivisto e modellato sull'Unione europea. Un «mercato unico di beni, servizi, capitali e persone», senza barriere doganali, con norme armonizzate, dotato di una Commissione economica eurasiatica, simile a quella di Bruxelles, e di una Corte di giustizia per dirimere i contrasti legali. Il modello più democratico ha permesso uno sviluppo accelerato. Nel primo semestre del 2018 il commercio estero dell'Eaeu è cresciuto del 22,7 per cento, quello interno del 13,8.

 Il nodo dell'Iran
  L'Eaeu è diventata allettante per Israele, soprattutto in prospettiva dell'ingresso dell'India. Le relazioni con New Delhi sono eccellenti, come quelle con Mosca del resto. L'India è un mercato enorme che cresce dell'8 per cento all'anno e conta di superare il dieci con l'adesione all'Unione eurasiatica. Anche l'Egitto si è candidato, così come l'Iran. La repubblica islamica potrebbe diventare un ostacolo nelle trattative fra Netanyahu e Putin, ma anche una merce di scambio. Il premier israeliano vuole strappare allo Zar un impegno concreto per ridurre la presenza militare dei Pasdaran in Siria. Conta di mantenere la libertà di azione per i raid contro le loro installazioni militari, nonostante i nuovi sistemi anti-aerei S-300 russi che saranno attivati a marzo. Nelle trattative metterà sul piatto la potenza tecnologica israeliana, nel campo dell'intelligenza artificiale, delle biotecnologie. Tutti settori che la Russia vuole sviluppare, e in fretta.

(La Stampa, 12 febbraio 2019)


Francia: è allarme crescita antisemitismo

Sta avendo un grande impatto sulla politica e sull'opinione pubblica francese l'inquietante ondata di atti antisemiti registrata nei giorni scorsi a Parigi e in alcune zone periferiche della capitale. "L'antisemitismo si sta diffondendo come un veleno. Il governo prendera' provvedimenti", ha detto ieri il ministro dell'Interno, Christophe Castaner, rivelando che nel 2018 la Francia ha registrato un boom del 74% degli atti antisemiti, passati da 311 l'anno prima a 541. Svastiche sono apparse su cassette delle poste decorate dall'artista Christian Gue'my col volto di Simone Veil, sopravvissuta all'olocausto e deceduta lo scorso anno. Graffiti antisemiti e la parola Juden ("ebrei" in tedesco) sono stati apposti in piu' punti di Parigi, tra cui sulla vetrina di un panificio "Bagelstein" nel quartiere ebraico sull'isola Saint Louis. Tra gli atti vandalici piu' sentiti, c'e' anche lo sradicamento di un albero piantato del sobborgo di Sainte Genevie've du Bois, in memoria di Ilan Halimi, un giovane ebreo torturato a morte nel 2006. "Graffiti antisemiti fino ad avere la nausea. L'odio per gli ebrei corrisponde all'odio per la democrazia. Il linguaggio fascista si ritrova su tutti i muri. Mi sono rivolto al prefetto di polizia e al procuratore di Parigi" ha scritto su Twitter Fre'de'ric Poitiers, rappresentante speciale del governo francese su razzismo, antisemitismo e discriminazione. All'unisono la classe politica francese ha condannato atti "insopportabili" e "inqualificabili". C'e' chi, come il portavoce del governo Benjamin Griveaux, ha collegato l'aumento degli episodi al deteriorarsi del clima sociale, citando direttamente il movimento di protesta dei gilet gialli accompagnato da gravi violenze. "Il livello di antisemitismo e' sempre stato un barometro affidabile dello stato di salute della societa'. Questo odio non e' ordinario, e' un vero veleno e ha registrato una progressione impressionante negli ultimi mesi" analizza Le Monde in un editoriale. Per l'autorevole quotidiano se da una parte la crisi dei gilet gialli "ha incoraggiato alcuni comportamenti, con esponenti dell'estrema destra che cercano di approfittare di questa dinamica sociale per diffondere i suoi slogan", dall'altra "il risorgere di un antisemitismo che spesso non ha volto non puo' essere attribuito al movimento di protesta sociale". Prima delle manifestazioni, cominciate lo scorso novembre, gli atti antisemiti nel Paese tra gennaio e ottobre 2018 erano gia' aumentati del 69%.

(Shalom, 12 febbraio 2019)


Così l'Italia di Sonnino aiutò la nascita di Israele

Finita la guerra il nostro ministro degli Esteri, nella conferenza di Parigi, dettò la linea agli Alleati

Strategie
L'Inghilterra appoggiava i sionisti ma la Francia temeva di perdere influenza
Appoggio determinante
Roma fu la prima potenza a prendere posizione a favore del ritorno degli ebrei

di Ofir Haivry*

Da sinistra: il primo ministro francese Clemenceau, quello britannico Lloyd George, quello italiano Orlando e Il ministro degli esteri Sidney Sonnino durante la Conferenza di Parigi nel 1919
Cent'anni fa, si apriva la Conferenza di Parigi (18 gennaio 1919 - 21 gennaio 1920) che segnò la conclusione formale della Prima guerra mondiale. Tra le varie conseguenze che ebbe, una delle più importanti fu il riconoscimento dei diritti nazionali del popolo ebraico. Quasi ignoto è il ruolo a tratti decisivo che ebbe l'Italia nel raggiungere questo obiettivo. Il personaggio centrale fu il barone Sidney Sonnino, già premier nel 1906 e 1909-1910, ma influente ministro degli Esteri tra 1914-1919. Figura insolita nell'Italia di allora, Sonnino era un anglicano di padre italiano d'origine ebraica e madre inglese; per molti aspetti simile a Benjamin Disraeli: era un intellettuale e un outsider che diventò il leader della destra nel suo Paese, rimanendo consapevole e fiero delle origine ebraiche.
  Quando scoppiò la Prima guerra mondiale nell'agosto 1914, il Movimento sionista riconobbe che gli assetti internazionali stavano per cambiare e che si offrivano nuove alleanze al fine di realizzare il sogno dello Stato ebraico. In Italia gli sforzi furono diretti principalmente da Angelo Sullam, segretario della Federazione Sionistica Italiana. Già nel 1914 Sullam, assieme al sionista Russo Pinhas Ruthenberg, incontrò Gaetano Mosca, anche lui ebreo e al tempo sottosegretario per le Colonie. I due gli proposero di far partecipare l'Italia alla creazione di unità militari ebraiche che combattessero a fianco degli Alleati - Gran Bretagna, Francia e Russia, guadagnando cosi un posto ai tavoli diplomatici del dopoguerra. Ma l'Italia, al tempo ancora formalmente alleata agli Imperi Centrali e il tentativo sionista sfumò. Dopo maggio 1915, l'Italia entrò nel conflitto mondiale dalla parte degli Alleati e si aprirono nuove prospettive.
  Gli sforzi sionistici cominciarono ad aver frutto verso la fine del 1916, quando il premier britannico Asquith, molto avverso al sionismo, fu rimpiazzato nel ruolo da David Lloyd George. Già rappresentante legale in Inghilterra di Teodoro Herzl (il fondatore del Movimento Sionista), Lloyd George era, come il suo ministro degli Esteri Lord Arthur Balfour, entusiasticamente pro-sionista. Per di più il governo britannico riteneva che gli accordi Sykes- Picot per la futura spartizione tra Gran Bretagna e Francia dei territori Ottomani fossero stati troppo generosi. Un territorio ebraico sotto protezione Britannica avrebbe migliorato le posizioni.
  Il principale ostacolo alla creazione di un entità politica ebraica sotto protezione Britannica, era la prevista opposizione della Francia a cambiamenti negli accordi Sykes-Picot. Diventò cruciale per i sionisti portare una potenza alleata che non fosse la Gran Bretagna ad appoggiare il loro progetto. La potenza ideale forse sarebbe stata la Francia, ma Parigi si provò schiva e ambigua.
  La svolta venne durante la visita a Roma del Segretario Generale del Movimento Sionista, Nahum Sokolow, nel maggio 1917. Fu deluso del vago ed elusivo incontro con il premier, Paolo Boselli. Ma il 21 maggio, insieme ad Angelo Sereni, presidente del Consorzio delle Comunità israelitiche Italiane, Sokolow incontro Sidney Sonnino, ministro degli Esteri.
  Successivamente all'incontro il ministro preparò una lettera formale indirizzata a Sokolow, in cui dichiarava che, sebbene non potesse esprimersi definitivamente in merito a una proposta riguardante tutti gli alleati, in linea generale non era contrario alle legittime rivendicazioni degli ebrei sulla loro patria storica. Fu questo in assoluto il primo riconoscimento da parte di una potenza mondiale dei diritti nazionali ebraici - esattamente l'apertura che il sionismo aveva lungamente cercato.
  Con la lettera di Sonnino in tasca, Sokolow partì per Parigi. Fino a quel punto i diplomatici Francesi che aveva incontrato, nella tradizione del Quai D'Orsay, sembravano in parti eguali simpatetici, evasivi e frustranti. Ma con la lettera italiana Sokolow poteva far penzolare davanti ai suoi interlocutori la prospettiva di salire sul treno sionista o rischiare di restare a piedi. Infatti, il 4 giugno, con l'approvazione di Alexandre Ribot, premier e ministro degli Esteri francese, una lettera che esprimeva «guardinga» simpatia francese per la causa sionista fu rilasciata a Sokolow da Iules Cambon, capo della sezione politica del ministero degli Esteri.
  A Sokolow era proibito rendere pubbliche le due lettere ma al suo ritorno a Londra, le presentò al Foreign Office britannico, come prova della disponibilità delle due potenze alleate ad appoggiare un'iniziativa britannica. Dopo mesi di preparativi, il 2 novembre 1917,
  Lord Balfour finalmente rilasciò la famosa lettera pubblica in cui dichiarava il sostegno britannico per erigere una «Casa Nazionale» degli ebrei, nella antica terra di Israele. Negli anni successivi, anche gli altri alleati, Francia, Stati Uniti e perfino Giappone pubblicarono simili lettere di sostegno per l'obiettivo sionista. La versione italiana affermava l'impegno del governo italiano di facilitare la formazione di «un centro nazionale ebraico».
  L'atto finale in questa vicenda diplomatica avvenne durante la conferenza di Parigi, dove furono formulate le disposizioni politiche e le nuove frontiere risultanti dalla guerra. Il 25 gennaio 1919 la conferenza approvò la fondazione della Lega delle Nazioni sotto i cui auspici si sarebbe creato un sistema di «mandati», per guidare aree dell'ex-impero ottomano verso l'autogoverno. Il passo cruciale per i sionisti divenne allora il ruolo a loro assegnato nel «mandato» britannico. Il 3 febbraio, il movimento sionista presentò agli Alleati un documento che proponeva di promuovere «il diritto degli ebrei a ricostituire» nella loro storica terra, una «Casa Nazionale» attraverso il sostegno di immigrazione, insediamento e autogoverno nell'area designata.
  Il 27 febbraio 1919 si tenne l'incontro decisivo dei rappresentanti sionisti con le delegazioni degli Alleati alla conferenza, per discutere il documento. Partecipano da parte sionista oltre a Sokolow anche Haim Weizmann presidente della Federazione Sionistica Britannica, e Menachen Ussishkin, segretario del Congresso sionista. I delegati presenti all'incontro erano Balfour e Lord Alfred Milner (Gran Bretagna), Stephen Pichon e André Tardieu (Francia), Robert Lansing e Hemy White (USA), Makino Nobuaki (Giappone), e per l'Italia, Sonnino. Ma prima che iniziasse l'incontro, si apprese che la delegazione francese aveva aggiunto a sorpresa un ulteriore invitato, Sylvain Lévi, presidente del' organizzazione educativa ebraica-francese Alliance Israélite Universelle. L'incontro si aprì con la presentazione della proposta da parte dei rappresentanti sionisti. Poi si alzo Lévi e confermò i sospetti sionisti riguardo ai motivi per cui era stato invitato dai francesi. Con ovvio intento di minare il progetto sionista, Levy espresse gravi dubbi a proposito della sostanza e praticabilità del medesimo. Dopo la replica di Weizmann all'intervento di Levi, fu il turno delle delegazioni. A nome della Gran Bretagna, Balfour fu esplicito nel suo sostegno al punto di vista sionista. I francesi, non sorprendentemente, furono scettici ma si astennero da ripudiare esplicitamente la proposta. Lansing, il segretario di Stato Usa chiese ai sionisti cosa significasse l'espressione «casa nazionale» nel loro documento. Weizmann rispose che la frase indicava l'aspettativa che, grazie all'immigrazione e sviluppo della popolazione ebrea, la terra sarebbe diventata ebraica come l'America era diventata americana e l'Inghilterra inglese. Il delegato Giapponese invece mostrò indifferenza e non partecipò al dibattito. Fu allora il turno di Sonnino. Si alzò e tenne un discorso risoluto, chiarendo che, come Balfour, anche lui era «molto soddisfatto» della replica di Weizmann alle obiezioni di Lévi, e che l'Italia sosteneva la posizione sionistica. L'intervento schietto e diretto di Sonnino, allineando la posizione italiana a quella britannica, ebbe l'impatto necessario per rompere l'impasse che i francesi avevano tentato di creare. La delegazione sionista lascio l'incontro con la sensazione che, nonostante i tentativi francesi, gli Alleati rimanessero fedeli all'interpretazione sionistica della dichiarazione di Balfour.
  La sensazione si confermò esatta nei giorni successivi, quando discussioni diplomatiche rivelarono che gli Alleati avevano raggiunto un consenso circa l'emanazione di un mandato britannico, destinato a realizzare gli obiettivi sionistici. La caduta del governo Italiano il 23 giugno, terminò la partecipazione attiva di Sonnino alla conferenza (lasciò Parigi dopo aver firmato i Trattati di Versailles, il 28 giungo). Ma il suo intervento era già stato decisivo.
  Nel luglio del 1922, dopo altri contrattempi e divergenze, la Lega delle Nazioni conferì alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina (Erez-Israel). Quattro mesi dopo, Sonnino era già deceduto, ma aveva vissuto quanto bastava per vedere realizzato il grande obiettivo al quale l'Italia aveva fornito un impulso decisivo.
* Vice-Presidente dell'Istituto Herzl di Gerusalemme

(il Giornale, 12 febbraio 2019)


Stati Uniti - I democratici richiamano la loro deputata islamica per i tweet antisemiti

 
Ilhan Omar
WASHINGTON - I leader democratici della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che condanna Ilhan Omar, una delle due prime donne musulmane elette al Congresso, per aver scritto sui suoi profili social che gli ebrei controllano la politica Usa con il denaro. "Siamo e saremo sempre forti sostenitori di Israele al Congresso, perché comprendiamo che il nostro sostegno si basa su valori condivisi e interessi strategici. Le critiche legittime alle politiche di Israele sono protette dai valori della libertà di parola e del dibattito democratico che gli Stati Uniti e Israele condividono", si legge nella dichiarazione sostenuta dalla presidente della Camera, Nancy Pelosi. "L'uso da parte del deputato Omar di retorica antisemita e le accuse pregiudizievoli ai sostenitori di Israele sono profondamente offensive", si legge nella nota. "Condanniamo queste osservazioni e chiediamo al membro del Congresso Omar di scusarsi immediatamente". Poco dopo la parlamentare del Minnesota si è scusata, riconoscendo che "l'antisemitismo è reale. Omar, uno dei nuovi volti della corrente socialista interna al Partito democratico, ha però alle spalle una lunga serie di commenti e dichiarazioni antisemite: nel 2012, ad esempio, ha scritto sul proprio profilo Twitter che "Israele ha ipnotizzato il mondo", ed ha esortato "Allah a risvegliare le persone alle malefatte compiute da Israele"; l'anno successivo, la deputata neoeletta ha suggerito un paragone tra le Forze armate Usa e al Qaeda, ed espresso apprezzamento nei confronti di Hamas ed Hezbollah. Omar sostiene il movimento di boicottaggio e disinvestimento di Israele.

(Agenzia Nova, 12 febbraio 2019)


Torino - Sulla Mole i "fuochi" per i diritti di tutti

Valdesi ed ebrei celebrano il 17 febbraio 1848 impegnandosi per chi oggi è discriminato

di Maria Teresa Martinengo

Quest'anno il 17 febbraio a Torino non verrà acceso il falò in piazza Castello, com'è avvenuto dal 2017, per ricordare la promulgazione delle Lettere Patenti con cui Carlo Alberto nel 1848 concedette i diritti civili ai cittadini e alle cittadine di religione valdese ed ebraica del Regno sabaudo. Da venerdì a domenica sarà la Mole ad annunciare l'anniversario con la proiezione di una fiamma stilizzata e la scritta «Valdesi ed Ebrei per i diritti di tutti». A questo segno si accompagnerà una serie di iniziative presentate ieri a Palazzo Civico, promosse da Città, Chiesa Evangelica Valdese, Comunità Ebraica e Centro Culturale Protestante.
   «Quella del 17 febbraio è una ricorrenza importante - ha sottolineato l'assessore comunale ai Diritti, Marco Giusta - che pone due temi centrali: l'estensione a tutti di una serie di diritti, compreso quello della cittadinanza, e la libertà religiosa che in questo momento in Italia è ancora in una situazione di limbo. Siamo contenti di aver rimesso questa ricorrenza al centro della vita sociale e politica della comunità».
   Patrizia Mathieu, presidente del Concistoro Valdese, ha spiegato che «le manifestazioni che da alcuni anni organizziamo, sono pensate per la città, una città dove i rapporti tra comunità religiose sono molto buoni. Questa festa va ricordata e celebrata con forza: il 1848 sembra lontano, ma non lo è. Fa rabbia pensare che fino ad allora la nostra gente non godeva dei diritti civili elementari, scuola, proprietà. Per altro, bisognerà aspettare il pieno 900 per ottenere tutte le effettive libertà. Per questo i valdesi hanno sempre "il fuoco dentro", ma lo hanno sempre avuto nel rispetto delle leggi. Quel fuoco quest'anno sarà sulla Mole per sottolineare ancora la Dichiarazione dei Diritti Umani, perché ci sono ancora molte libertà per cui lavorare».
   Il presidente della Comunità Ebraica, Dario Disegni, ha ricordato come «gli ebrei gioirono per essere stati riconosciuti e poter uscire dai ghetti: si impegnarono per essere più italiani degli altri. Penso al contributo di caduti della Grande Guerra. Poi, nel 1938, l'arrivo delle infami leggi razziali. Nel 2018 abbiamo ricordato quell'anniversario e quello della Dichiarazione dei Diritti Umani: per la nostra storia, le nostre comunità devono essere alla testa delle battaglie per i diritti di tutti, oggi compromessi da nuovi razzismi e intolleranze».

 Il programma
  Sabato, dalle 19,45, in piazzetta Primo Levi, cittadini, migranti, rappresentanti delle istituzioni parteciperanno alla lettura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Alle 21, alla Casa Valdese di corso Vittorio Emanuele II 23, si proseguirà con corsi ebraici e valdesi. Domenica, alle 16, al Polo del '900, corso Valdocco 4, convegno «Diritti umani oggi» con il costituzionalista Andrea Giorgis, deputato, Andrea Greppi, docente di Diritto internazionale umanitario all'Università, Philippe Poirier dell'Università del Lussemburgo, Luciano Scagliotti del Comitato regionale Diritti Umani, a coordinare Alberto Sinigaglia presidente dell'Ordine dei giornalisti del Piemonte.

(La Stampa - Torino, 12 febbraio 2019)



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Culti tollerati conformemente alle leggi. E non più di due

Con le Lettere Patenti Carlo Alberto non concesse tolleranza di culto a tutti, ma soltanto a ebrei e valdesi. Gli "evangelici liberi", già presenti in Italia a quel tempo, non ne beneficiarono. E i valdesi di allora non avevano ancora quel "fuoco dentro" per la difesa dei diritti di tutti che adesso dicono di avere.
Presentiamo un breve estratto dal libro "L'Evangelo e il berretto frigio" di Giorgio Spini.
    «In Piemonte ed in Liguria si era diffuso dopo il 1848 un movimento evangelico, ispirato dal «Risveglio» svizzero e britannico, che si era sviluppato in un clima formalmente liberale, e quindi senza essere costretto alla clandestinità come quello toscano, ma aveva subito ugualmente dure traversie. I governanti liberali di Torino, compreso il Cavour, erano stati quanto mai renitenti ad abbandonare un'interpretazione restrittiva dell'art. 1 dello Statuto. Come è ben noto, questo articolo, mentre proclamava «religione dello Stato» quella cattolico-romana, sanciva che «gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». Poteva dunque interpretarsi nel senso che non vi fosse tolleranza se non per i culti degli ebrei e dei valdesi, già esistenti nello Stato sabaudo, ed anche nel loro caso «conformemente alle leggi», comprese dunque le norme penali della legislazione sarda. che punivano la propaganda anti-cattolica. Molti evangelici, pertanto, erano stati vittime di processi e condanne per la loro attività proselitistica, oltre che di violenze brutali di folle fanatizzate dal clero.
    Proprio negli Stati Sardi, inoltre, si era giunti nel 1854 alla rottura fra valdesi e «liberi».
    [...]
    I valdesi parevano più stranieri che italiani, per il loro uso del francese e la loro scarsa familiarità con le tradizioni italiane, derivante da un secolare isolamento nel ghetto alpino delle Valli. E ciò per tacere di un fatto, spesso pudicamente sorvolato, ma in realtà fondamentale, e cioè che gli esponenti dei «liberi» erano quasi tutti provenienti dalle file della Sinistra rivoluzionaria, laddove i valdesi ostentavano il proprio lealismo sabaudo ed appoggiavano il governo Cavour, considerando i «rouges» della Sinistra come esaltati o peggio.»
(Notizie su Israele, 12 febbraio 2019)


Parma - Itinerario della memoria alla scoperta delle pietre d'inciampo

Tour per le vie della città dove si trovano le formelle dell'artista tedesco Denmig che ricordano i prigionieri dei lager.

di Antonio Bertoncini

 
Mai avrebbe pensato Gunter Denmig, settantaduenne artista tedesco, che le sue pietre d'inciampo avrebbero fatto il giro d'Europa. Denmig produce queste formelle della memoria nel suo laboratorio artigianale di Frechen: dopo la prima pietra posata a Berlino nel 1996, ne ha installate oltre 70.000. Dal 2017 le pietre d'inciampo hanno fatto la loro comparsa anche sui marciapiedi di Parma, grazie all'iniziativa di Comune e Istituto storico della Resistenza. In un triennio ne sono state collocate 26 (di cui alcune provvisorie realizzate dai ragazzi del liceo Toschi), ma il progetto continuerà per rendere vivo il ricordo delle migliaia di persone deportate nei campi nazisti, oltre alle vittime della Shoah, partigiani, antifascisti e militari.
   Circa cento cittadini hanno accolto l'invito di Comune e Isrec per una visita guidata, con l'assessore Nicoletta Paci, dinanzi a cinque pietre d'inciampo scelte da Marco Minardi e Teresa Malice.
   In piazza Garibaldi, davanti alla Duchessa, c'è la pietra di Giorgio Nullo Foà. Parmigiano, era stato studente al Romagnosi fino a quando le leggi razziali lo hanno espulso dalla scuola. Da clandestino lavorava nel negozio di sementi di Bonelli (attuale ristorante Duchessa), ma il 29 settembre del '43 fu identificato e catturato dai nazisti e trovò la morte ad Auschwitz nella camera a gas.
   Non lontano da lì, in via Università 9, «inciampiamo» nella targa provvisoria che ricorda la mamma, Doralice Muggia. I tedeschi la catturarono con l'ultimo rastrellamento e Doralice non arrivò neppure nei campi polacchi, morì di stenti a Bolzano.
   In via Bixio 116 c'è la pietra di Fortuna e Libera Levi: avevano 76 e 82 anni, quando il 21 luglio del '44 furono prelevate da due soldati tedeschi. Loro ad Auschwitz ci arrivarono il 6 agosto, ma solo per essere eliminate all'arrivo perché ebree, inutili e improduttive. La pietra di Luigi Longhi si trova in strada della Salute 46, dinanzi alla casa dove ancora oggi vive la sorella. Luigi subì la tortura a palazzo Rolli, la deportazione a Dachau, i lavori forzati, fino alla morte ad un mese dalla liberazione.
   Ma fra tante vittime c'è anche qualcuno che è tornato a casa: in viale Martiri della Libertà troviamo la pietra di Samuel Spritzman. Nel '43 fu catturato e deportato a Birkenau. Dopo la liberazione arrivò a Parma con documenti falsi, dove fu aiutato da Giacomo Ferrari e dal Pci, e sposò Ada Tedeschi prima di trasferirsi per vent'anni a New York, e tornare infine a Parma, dove morì nel 1982.

(Gazzetta di Parma, 11 febbraio 2019)


Palestinese uccide figlia di rabbino. Netanyahu: «È un attentato terroristico»

Il delitto in un bosco vicino a Gerusalemme. L'assassino. rischia la pena di morte, ma solo con il consenso di tre giudici militari.

 
Ori Ansbacher
ROMA - Un atroce delitto di una ragazza potrebbe essere classificato come «un attentato terroristico». O almeno così prospetta il premier Benyamin Netanyahu a Tekoa (presso Betlemme, in Cisgiordania) durante la visita di condoglianze alla famiglia di Ori Ansbacher, 19 anni, figlia di un noto rabbino uccisa in un bosco vicino a Gerusalemme.

 La confessione
  Il presunto assalitore - il palestinese Arafat Irfaya, 29 anni, originario di Hebron - è da venerdì nelle mani dei servizi di sicurezza israeliani. Ha ricostruito il delitto e ha descritto agli investigatori della polizia come abbia sorpreso la ragazza mentre passeggiava da sola nel bosco, come l'abbia sopraffatta e poi ripetutamente accoltellata. Lo ha tradito una traccia biologica lasciata sul terreno. «Un assassino disgustoso» ha affermato Netanyahu. Da parte sua la ministra della giustizia Ayelet Shaked ha affermato che per Irfaya sarà opportuno chiedere la pena di morte.
  Si tratta di una misura prevista in teoria dalla legge per le Corti marziali che operano in Cisgiordania. Ma essa è condizionata ad una esplicita richiesta da parte della pubblica accusa e all' approvazione unanime di un collegio di tre giudici militari. Finora non ci sono precedenti.
  L'immagine sorridente di Ori domina le prime pagine dei giornali. Cresciuta in una comunità di ebrei osservanti, svolgeva un periodo di servizio civile in un centro sociale per giovani disadattati. Nei momenti più difficili, hanno raccontato gli amici, amava camminare nella natura. Nell'insediamento di Tekoa non si sono sentite invocazioni alla vendetta.

 Allerta
  Ma i servizi di sicurezza israeliani restano egualmente in stato di allerta nel timore che coloni-ultrà siano indotti da questo delitto a compiere attacchi di ritorsione contro la popolazione palestinese. Netanyahu ha preannunciato che l'uccisione di Ori accelererà un provvedimento: la deduzione dai fondi che Israele versa mensilmente all'Anp (come restituzione di dazi doganali) della cifra che il governo di Abu Mazen versa ai palestinesi detenuti in Israele per crimini legati all'intifada. La famiglia di Ifraya (se sarà trovato colpevole) potrebbe ricevere assegni mensili da Ramallah. Un pensiero che indigna e che ha indotto il ministro delle finanze Moshe Kahlon a preannunciare che da marzo quella deduzione avrà effettivamente inizio. R.Es.

(Il Messaggero, 11 febbraio 2019)


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La figlia del rabbino uccisa a 19 anni. I ministri: «Pena di morte al terrorista»

La chiedono i responsabili di Giustizia e Sicurezza. Il killer è un palestinese che ha trovato rifugio a Ramallah, culla integralista.

Dibattito aperto
Il premier Netanyahu non si è ancora pronunciato: in passato si è opposto
Il precedente
La pena capitale usata solo una volta nel processo contro Eichmann

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - A volte la persecuzione terrorista (solo l'anno scorso 13 morti, centinaia di feriti alle fermate degli autobus, bambini neonati uccisi, impiegati innocenti giustiziati da compagni di lavoro, 341 missili da Gaza su case e scuole) cui è sottoposta Israele arriva all'estremo, e allora si solleva di nuovo la richiesta della pena di morte. Così è stato anche questa volta: il viso sorridente di Ori Ansbacher, figlia di un noto rabbino, bella quanto lo si può essere a 19 anni, stringe il cuore a tutta Israele dopo che nel week end è stato ritrovato il suo corpo accoltellato e nudo in un parco di Gerusalemme. Immediatamente le ricerche della Shin Beth, i servizi di sicurezza interna, e della polizia hanno condotto tramite l'incrocio sofisticato di informazioni a un ventinovenne di Hevron, Arafat al Rifaiyeh.
   Il giorno stesso aveva lasciato la sua casa con un coltello per raggiungere Beit Jalla, presso Betlemme. Da là è facile raggiungere Gerusalemme evitando i check point, e l'uomo è andato a caccia. Dopo avere ucciso Ori, una volontaria della natura, nei boschi che hanno segnato il suo destino, è stato rintracciato e catturato a Ramallah, dove aveva probabilmente sostegno e amici. E da cui ogni giorno parte il messaggio ripetuto senza fine dalle moschee alla tv ufficiale ai discorsi politici: parla della santità del terrorismo antiebraico, distribuisce stipendi ai terroristi e alle loro famiglie, premia i «martiri» cui vengono dedicate piazze e scuole.
   Lo Shin Beth fra pietre e spari dei difensori di Arafat ha catturato l'assassino, e mentre Netanyahu lodava l'efficienza dell'ordine pubblico e il Paese risuonava dei pianti per Ori, ieri alcuni chiedevano la pena di morte, altri il taglio definitivo del premio in denaro che arriva, tramite l'Autorità Palestinese, nelle tasche dei terroristi, e in quelle di Rifaiye stesso. Secondo la legge palestinese ha diritto a decine di migliaia di euro fino alla fine dei suoi giorni. La Ap ha allocato sul suo budget del 2018, 183 milioni di dollari per le famiglie dei martiri, spende il 7% del bilancio per stipendi e compensi, e alla minaccia di Israele di trattenere il denaro Abu Mazen ha risposto che «non accetteremo un taglio dei salari alle famiglie dei martiri e prigionieri... anche se ci resterà un solo penny».
   Ma probabilmente il Gabinetto taglierà tutti i finanziamenti che possono finire nelle mani dei terroristi, Netanyahu lo ha già promesso, mentre si tiene più coperto sulla pena di morte anche se ritiene legittimo porre il problema. La ministra della Giustizia Ayelet Shaked la richiede, e così il ministro della sicurezza Gilad Erdan. La possibilità già esiste in Israele, ma è stata usata una volta sola, nel 1962, quando è stato giustiziato Adolf Eichmann dopo il processo epocale che mise a nudo le sue responsabilità nella Shoah.
   La pena di morte per i terroristi ha sempre trovato dei sostenitori, ma alla fine non si è mai staccata dai preliminari parlamentari. Nel 2015, quando Yvette Lieberman la portò in discussione, fu Netanyahu che vi si oppose fino a sconfiggerla 94 voti contro 6. Adesso probabilmente andrà più vicina all'obiettivo perché siamo in campagna elettorale, mentre la Corte Suprema discute la misura della distruzione della casa del terrorista, l'unica forse efficace per distogliere dalle sue intenzioni una persona che sostiene di amare la morte quanto noi amiamo la vita.

(il Giornale, 11 febbraio 2019)



"Juden" scritta antisemita su una vetrina della capitale francese

di Leonardo Martinelli

 
Scritta antisemita sulla vetrina di un ristorante di Parigi
Sabato mattina il pianista e compositore Jean-Yves D'Angelo, uscendo da casa, sull'isola di Saint-Louis, l'ha subito notata quella scritta: «Juden», «ebrei» in tedesco.
  Proprio lì, nel cuore di Parigi, fatta con vernice spray gialla, ben visibile sulla vetrina di uno dei punti vendita di Bagelstein, una catena di fast food specializzata nei bagel imbottiti, i panini ad anello della tradizione ebraica. D'Angelo ha sottolineato: «Non sono ebreo, ma ho trovato tutto questo assurdo». Ha scattato una foto e l'ha postata su Facebook, scatenando, naturalmente, un putiferio.
  Nel fine settimana la notizia è stata la più commentata sui social in Francia. D'Angelo ha dovuto addirittura sopprimere il suo profilo Facebook, vista la valanga di messaggi ricevuti. In tanti paragonano quel «Juden» alle scritte simili che comparvero in Germania sulle vetrine di molti negozi a partire dal primo aprile 1933, quando i nazisti iniziarono a boicottare commercianti e professionisti liberali ebrei. Gilles Abecassis, cofondatore di Bagelstein, ha ammesso che la scritta è stata trovata il sabato mattina, all'apertura, e che non è la prima volta: stavolta ha denunciato il fatto alla polizia. La Procura di Parigi ha aperto un'inchiesta per incitamento all'odio razziale. Il responsabile dell'atto, secondo la legge francese, rischia un anno di carcere e 45mila euro di multa.

 Attacchi in crescita
  L'indignazione è forte, anche perché l'antisemitismo sta crescendo in Francia. Nei primi nove mesi del 2018, sono state 385 le aggressioni (fisiche e verbali) a ebrei denunciate alla polizia ( e non tutte lo sono), in aumento del 69% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Reuven Rivlin, presidente israeliano, in visita a Parigi il 23 gennaio, ha denunciato il fenomeno a Emmanuel Macron. Intanto, ieri su Twitter è intervenuto il ministro degli Interni Christophe Castaner a proposito della scritta sulla vetrina di Bagelstein (sarà fatto tutto il possibile perché l'autore di quest'atto vergognoso venga condannato»). Sulla rete in tanti hanno messo in relazione l'accaduto con la manifestazione dei gilet gialli sabato nella capitale. Il fumettista e romanziere Joann Sfar ha accusato esplicitamente il movimento di antisemitismo. Ma secondo Abecassis, «i gilet gialli non hanno niente a che vedere con la scritta, che è stata fatta prima, nella notte tra venerdì e sabato. E poi i cortei non sono passati dal nostro quartiere».

(La Stampa, 11 febbraio 2019)


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Una scritta «juden», e le pulsioni antisemite nella Francia in giallo

di Stefano Montefiori

La scritta gialla «juden! » è apparsa nella notte tra venerdì e sabato sulla vetrina di un ristorante della catena Bagelstein nell'Île Saint-Louis, a Parigi. Significa «ebrei» in tedesco, ed è una citazione dei marchi di infamia che i nazisti apponevano sui negozi tenuti dagli ebrei a partire dal 1933. Il ministro Castaner ha denunciato l'atto di antisemitismo e ha lamentato il fatto che «le lezioni più tragiche della Storia non rischiarano più le coscienze». Il proprietario si è affrettato a precisare che la scritta risale a qualche ora prima della manifestazione dei gilet gialli e che il corteo poi non è passato di lì. Si comprende la preoccupazione di non inimicarsi manifestanti poco teneri con chi osa criticarli (lo chef stellato Yannick Delpech ha avuto il suo ristorante di Tolosa incendiato per questo), e in ogni caso è sacrosanto non incolpare nessuno a sproposito.
   Ma un problema resta, ed è il clima di irresponsabilità che questa rivolta contribuisce a creare, ogni sabato, in Francia. Nei cortei c'è di tutto: tanta gente pacifica e rispettabile, qualcuno che dà fuoco alle auto, altri che gridano o scrivono scempiaggini, e nessuno contesta l'altro. Così si vedono scritte come «Macron prostituta degli ebrei» e sugli striscioni ricorre l'equazione ricchi-banche-ebrei; a Strasburgo una settimana fa alcuni ebrei sono stati insultati da gilet gialli mentre pregavano in sinagoga, per non parlare dell'ex comico antisemita Dieudonné e del neonazista Hervé Ryssen che esibiscono fieri il loro gilet giallo. I manifestanti non sono tutti così, ovviamente, e abbiamo visto sfilare anche i famosi pensionati che non arrivano alla fine del mese. Ma chi decide chi è il gilet giallo autentico? Chi è «rappresentativo del movimento»? E perché queste minoranze sono tollerate dal 17 novembre, giorno del primo corteo? Chi ha scritto «juden» sulla vetrina forse non portava un gilet giallo. Ma lo indossano alcuni che, se anche lo avessero visto all'opera, si sarebbero girati dall'altra parte, o avrebbero applaudito.

(Corriere della Sera, 11 febbraio 2019)


"B-B Tv", l'arma segreta di Netanyahu è su Facebook

Un canale in streaming continuo dedicato alla campagna elettorale del partito di centrodestra ma di fatto consacrato al premier e alla sua difesa contro le fake news.

di Giordano Stabile


Nella scritta in alto: QUESTO MUCCHIO DI SINISTRA - O - CON ISRAELE                   

Il nome ufficiale è Likud Party Tv ma tutti la chiamano "B-B Tv", dalle iniziali di Benjamin Netanyahu. Un canale in streaming continuo su Facebook, dedicato alla campagna elettorale del partito di centrodestra ma di fatto consacrato al premier e alla sua difesa contro le fake news, come le ha definite lui stesso, che riguardano soprattutto le inchieste giudiziarie a suo carico. E la "B-B Tv" avrà il compito di contrastare i media tradizionali, in particolare quotidiani storici come Haaretz o Times o Israel, se arriverà l'incriminazione per corruzione prima del 9 aprile, data delle elezioni parlamentari.
   Il Likud è in testa ai sondaggi, con una proiezione di 30-31 seggi sui 120 della Knesset. Quanto basta a Netanyahu per ricostruire una coalizione di centrodestra e conquistare un quarto mandato da primo ministro. Ma "Bibi" teme la rimonta del generale Benny Gantz e la sua possibile alleanza con il centrista Yair Lapid e ancor più la "trappola giudiziaria". Per questo è corso ai ripari: la sua armata mediatica comprende già un giornale a diffusione popolare allineato sulle sue posizioni, Israel Hayom, e la tv Channel 20, ma il premier ha deciso un massiccio investimento sui social.
   L'offensiva arriva in contemporanea con le voci sempre più insistenti su una sua imminente incriminazione da parte del procuratore capo israeliano Avichai Mandelblit. Netanyahu ha deciso di seguire una via "trumpiana". Accusa i media tradizionali di essere ostili a prescindere nei suoi confronti e li bypassa sul Web. La "B-B Tv" ha in palinsesto trasmissioni live ogni sera alle 7, linkate alla pagina Facebook ufficiale del primo ministro. Un modo per poter dire la sua a centinaia di migliaia di persone, senza contraddittorio o quasi. Dirette Facebook di questo tipo sono state usate dallo stesso Donald Trump nel 2016, con grande efficacia.
   Il lancio del nuovo canale è arrivato dallo storico quartiere generale del Likud di Metzudat Ze'ev a Tel Aviv. Per il debutto Netanyahu si è fatto intervistare da Eliraz Sade, noto soprattutto per aver partecipato al "Grande Fratello" locale. Un altro modo per fare breccia nell'elettorato più giovane, che segue poco tv e giornali "main stream" e si informa attraverso i social. L'intervista è stata così definita "orwelliana", per il riferimento al Grande Fratello, da quotidiani come "Haaretz". Ma alla fine tutto fa il gioco di "Bibi" che ancora una volta dimostra di essere in contatto istintivo con il suo elettorato, consolidato o potenziale.

(La Stampa, 11 febbraio 2019)


Lo stato più pericoloso del mondo!

di Ugo Volli

Da sempre nella politica internazionale ci sono due tipi di soggetti diversi o se si vuole due politiche: quelli che sono interessati a mantenere lo status quo, perché sono soddisfatti della loro realtà geopolitica e vogliono concentrarsi sullo sviluppo interno, sull'economia, sul benessere della popolazione. E coloro che invece vogliono rovesciare lo status quo, eliminare dei nemici, acquistare dei territori, magari convertire delle popolazioni o costruire un'egemonia militare. Il primo gruppo di paesi vuole la pace, il secondo è fonte di instabilità ed è disposto a sostenere una guerra per realizzare i proprio obiettivi, che spesso si presentano come "rivincite" rispetto a sconfitte o ingiustizie subite in passato.
  Nel Medio Oriente oggi gli stati che difendono lo status quo sono l'Egitto, l'Arabia Saudita, i paesi del Golfo, la Giordania e naturalmente Israele. Quelli che vogliono modificarlo sono Iran, Turchia, Qatar, le varie entità terroristiche come Isis, Hezbollah, le fazioni palestinesi come Hamas (di più) e Fatah (in parte). Dietro il primo gruppo ci sono gli Stati Uniti, il secondo è massicciamente appoggiato anche sul piano militare dalla Russia. Fra le potenze aggressive la più importante è l'Iran, che svolge azioni sovversive, spesso chiaramente militari, in Iraq, Yemen, Siria, Libano, Afghanistan, Emirati Arabi - e proclama la volontà di cancellare Israele dalla mappa geografica, preparando concretamente questo obiettivo avvicinando le proprie forze armate al confine dello stato ebraico (che dista 1000 chilometri), armando e organizzando dei satelliti fra Siria (Assad e Hezbollah), Libano (ancora Hezbollah), Gaza e Giudea e Samaria (Hamas e in maniera ancora più diretta la Jihad Islamica).
  La politica di riarmo e riconquista dell'Iran consegue all'antichissima rivalità fra persiani e arabi, ma anche alla frattura del mondo islamico fra Sciiti e Sunniti; nei tempi recenti risale all'aggressione dell'Iraq, fra il 1980 e il 1988. E' alla fine di quella guerra, trent'anni fa, che gli ayatollah decisero di procurarsi l'armamento nucleare e missilistico. Il paese allora era isolato, privo di relazioni internazionali, ma aveva l'ambizione di conquistare l'egemonia sul Medio Oriente e di guidare l'Islam alla rivincita sull'Occidente. In questo periodo la situazione politica dell'Iran è migliorata strepitosamente: l'arcinemico Saddam è stato eliminato dagli Stati Uniti, col risultato di portare al potere nel paese gli sciiti, la Siria è crollata e poi è stata conquistata dall'Iran insieme alla Russia, la Turchia si è staccata dall'Occidente per cercare una strada sua fra islamismo e restaurazione dell'impero ottomano, la Russia ha pensato bene di sceglierla come alleato strategico. Il colmo è avvenuto quando la stessa scelta è stata fatta da Obama, tradendo alleati storici come Egitto e Arabia, oltre a Israele. Obama ha permesso all'Iran di ottenere le cifre ingenti che gli servono per coltivare il suo imperialismo (solo Hezbolla costa 700 milioni di dollari l'anno), gli ha riconosciuto l'egemonia regionale, ha firmato un patto che rallenta solo la realizzazione delle armi atomiche, senza interdire all'Iran la preparazione di missili potenti per trasportarle e senza bloccare la sua aggressione in tutto il Medio Oriente.
  Il risultato è una corsa sfrenata alle armi. Solo negli ultimi giorni si è visto il secondo lancio di un satellite iraniano (che vuol dire che i suoi missili sono intercontinentali e sono protetti con imponenti fortificazioni), si è scoperta una nuova fabbrica di razzi in Siria, si sono avute minacce di distruzione per le navi americane, oltre naturalmente alle solite sparate contro Israele.
  Insomma in questo momento l'Iran è il singolo fattore più aggressivo della politica internazionale, così pericoloso da aver indotto i paesi arabi sunniti, tradizionali nemici di Israele, a cambiare atteggiamento e a cercare un'alleanza con lo stato ebraico per difendersi dagli ayatollah. E non è un caso che ben due conferenze internazionali, una a Monaco e una a Varsavia, siano centrate sulla minaccia iraniana.
  Ma l'Iran ha un paio di talloni d'Achille. Ci sono i giovani che protestano da anni perché vogliono più libertà, ci sono le minoranze etniche profondamente insoddisfatte. C'è grande corruzione ai vertici dello stato, dove il clero sciita fa quel che gli pare. Ma soprattutto c'è una gravissima crisi dell'economia, incrementata dalle sanzioni che Trump ha imposto di nuovo, dopo gli anni della complicità di Obama. E qui bisogna dire che l'atteggiamento dell'Europa, che prosegue la politica di Trump fino a preparare dei meccanismi finanziari per aggirare le sanzioni, è peggio che criminale, completamente stupido. E' proprio l'Europa il principale obiettivo del fronte dei paesi revanscisti, dall'Iran alla Turchia alla Russia che li appoggia. Perché favorire l'imperialismo iraniano, che già minaccia coi suoi missili (che prima o poi se si va avanti così, diventeranno nucleari) il territorio europeo? Perché appoggiare economicamente il principale alleato della Russia, che dell'Europa è nemica? Perché ignorare le violazioni dei diritti umani, la repressione dei giovani, le impiccagioni degli omosessuali, la caccia alle minoranze religiose, l'odio di stampo nazista contro Israele? E' proprio vero che l'ideologia è un veleno che impedisce di vedere perfino i propri interessi fondamentali.

(Progetto Dreyfus, 11 febbraio 2019)


Netanyahu annuncia la riduzione dei trasferimenti di denaro all'Anp

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di ridurre, dalla prossima settimana, i trasferimenti di denaro all'Autorità palestinese. La decisione dopo l'omicidio di una giovane israeliana per mano di un palestinese, avvenuto tre giorni fa.
In reazione a questo delitto, che ha provocato una forte emozione nel Paese, Netanyahu ha annunciato che il suo governo prenderà le misure necessarie per applicare, a partire dalla settimana prossima una legge votata a luglio scorso dalla Knesset, ma mai applicata. La legge permette a Israele, in risposta ai pagamenti dell'Anp a famiglie di palestinesi incarcerati da Israele per attacchi terroristici, di bloccare parzialmente i fondi che trasferisce all'Anp, dalla quota sui dazi doganali sulle merci destinate al mercato palestinese. "Netanyahu ha annunciato la convocazione del governo per domenica prossima e ha assicurato: "Prenderemo tutte le misure necessarie per ridurre i trasferimenti".
Il ministro per gli Affari civili palestinese, Hussein al-Sheikh, ha avvertito che l'Autorità palestinese si rifiuterà di accettare i fondi se Israele ne taglierà anche solo una minima parte e quella di Netanyahu - ha sottolineato - "è un minaccia per seminare il caos".

(askanews, 10 febbraio 2019)


Da Rio de Janeiro a Cancun, la sfida di rav Eli

Oggi rav Eli Bari vive a Cancun, in Messico. Lui, di Rio de Janeiro, si occupa della comunità ebraica locale. La sua intonazione in inglese è molto brasiliana, una allegra cantilena che rivela anche la sua giovane età. Un trentenne diventato rabbino dopo aver studiato a San Paolo e in yeshiva in Brasile. "Sono arrivato un anno fa a Cancun - racconta -. Ho incontrato la comunità e ci siamo piaciuti reciprocamente così ho deciso di rimanere qui. L'atmosfera è come a Rio, c'è il mare e tutto è molto rilassato". La Comunità è relativamente piccola, oltre un centinaio di famiglie (in tutto il Messico gli ebrei sono circa 60mila), e la difficoltà è mantenere attiva la vita comunitaria. "Qui non c'è il problema dell'antisemitismo, ti vedono per strada con la kippah e nemmeno sanno cosa sia. Il nostro problema è soprattutto la mancanza di una scuola ebraica ma riusciamo a portare avanti corsi di educazione ebraica per i più piccoli e c'è partecipazione", spiega Eli, che sostiene di non aver avuto difficoltà ad integrarsi nella realtà messicana. "Brasile e Messico sono molto simili: sono economie emergenti, entrambe con grossi problemi di corruzione e di povertà ma con uno spirito forte e predisposto al divertimento. È quell'animo positivo che unisce un po' tutto il Latino America". Entrambi i paesi stanno vivendo un cambio radicale anche in termini di politica, seppur in direzioni opposte: il Brasile ha eletto Jair Bolsonaro, uomo della destra estrema che ha più volte espresso il suo apprezzamento per la dittatura militare: il Messico ha eletto Andrés Manuel Lòpez Obrador, un populista di sinistra che ha dato il suo appoggio al presidente venezuelano Maduro.
   Quest'ultimo con un passato da sindaco di Mexico City è stato sostituito alla guida della più grande città del Messico (e una delle più grandi del mondo) da Claudia Sheinbaum, progressista, esperta di temi ambientali (nel 2007 ha fatto parte del team che ha vinto il premio Nobel per la pace per il lavoro sul cambiamento climatico) nonché di origine ebraica. "Non ha mai parlato pubblicamente del suo ebraismo. È una donna laica, molto apprezzata a Mexico City" sottolinea Eli che preferisce non parlare di politica seppur non nasconda una certa preoccupazione per entrambi i presidenti, sia quello messicano, sia quello brasiliano. "Entrambi hanno promesso di sradicare la corruzione. Obrador ha espresso delle idee socialiste, vuole la redistribuzione dei redditi e combattere la povertà. D'altra parte la sua vicinanza alla leadership venezuelana e a Cuba è un punto interrogativo. Avrà sei lunghi anni per cambiare il paese: spero ovviamente faccia bene ma in caso contrario sarà un mandato lungo per il Messico".
   Su Bolsonaro Eli si sbilancia un po' di più: "Ha dichiarato la sua amicizia per Israele e per il mondo ebraico ma ha anche rilanciato delle idee un po' pazze. In più ha attaccato altre minoranze e questo da ebrei deve preoccuparci". Per il giovane rabbino, cresciuto a San Paolo, le critiche politiche però è meglio che rimangano interne alla Comunità. "Credo nel confronto sano interno alla Comunità, anche duro, ma avrei preferito che il dibattito non arrivasse sui giornali". Lui comunque ora vive in Messico e la sua battaglia personale è mantenere viva la comunità di Cancun, molto recente rispetto alla plurisecolare storia dell'ebraismo messicano. "Qui gli ebrei arrivarono già nel '500 ma soffrirono a lungo sotto l'inquisizione messicana. Oggi è una realtà molto organizzata: ci sono sinagoghe ashkenazite e sefardite, ben strutturate, meglio che in Brasile. L'animo però rimane simile: si vive alla mano e con il sorriso, nonostante tutto".

(Pagine Ebraiche, febbraio 2019)



Giovane ebrea trucidata da un affiliato ad Hamas

di Francesca Paci

Ha confessato il ventinovenne palestinese accusato di essere l'assassino della diciannovenne israeliana Ori Ansbacher, trovata giovedì sera orrendamente mutilata in un bosco a Sud di Gerusalemme. L'uomo è stato arrestato nei pressi della città cisgiordana di Ramallah, dove si nascondeva nella zona residenziale della moschea Abdel-Nasser, durante un'operazione congiunta dell'unità speciale Yamam e dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna.

 Corpo trafitto da almeno 12 coltellate
  Arfiyeh Arafat, 29 anni, originario di Hebron, sarebbe uscito di casa giovedì armato di coltello per dirigersi a Gerusalemme. Secondo un reporter di Ynet Elior Levy, che cita fonti palestinesi, Arafat è un affiliato di Hamas, proviene da un distretto di Hebron dove il gruppo islamista ha un forte radicamento ed è già stato più volte nelle carceri israeliane.
  La tensione tra israeliani e palestinesi è tornata a salire negli ultimi mesi, con la spaccatura fra l'Autorità palestinese e Hamas a livelli da insolubilità nonostante i negoziati egiziani in corso. Gli scontri al confine tra Israele e Gaza, dove due giorni fa sono stati uccisi due palestinesi di 13 e 17 anni, continuano. L'intelligence ha letto subito la morte di Ori Ansbacher come un crimine legato al contesto politico.
  Venerdì diverse centinaia di persone hanno partecipato ai funerali della giovane donna a Tekoa, nell'insediamento ebraico di Gush Etzion, in Cisgiordania, dove viveva con la famiglia e il padre, il rabbino Gadi Ansbacher. A settembre, sempre a Gush Etzion, un israeliano era stato accoltellato e gravemente ferito da un palestinese in un attacco che media e politici avevano associato alla minaccia «dell'intifada dei coltelli».
  Nello stallo in cui stanno annegando i negoziati di pace, con il riconoscimento di Gerusalemme da parte dell'amministrazione americana e la polarizzazione della regione nello scontro tra sciiti e sunniti, il tema degli insediamenti resta rovente come quello del «diritto al ritorno» dei profughi palestinesi, per cui da mesi si moltiplicano i venerdì della rabbia.
  Giovedì Ori Ansbacher aveva detto di volersi immergere nella natura. Ore dopo il suo corpo è stato trovato nella foresta di Ein Yael, tra lo zoo biblico e il villaggio di Walaja, in Cisgiordania. L'assassino l'avrebbe accoltellata «almeno 12 volte», lasciando sul suo corpo numerose profonde, ferite. Il portavoce della polizia ha ammesso che si tratta di uno dei crimini «più orrendi» mai commessi.

(La Stampa, 10 febbraio 2019)


National Interest: S-300 una minaccia per Israele

Gli S-300 minimizzano i rischi per la Siria in caso di un attacco israeliano

I lanciarazzi (SAM) S-300, in allerta in Siria, rischiano di diventare una seria minaccia per le forze aeree israeliane, la distribuzione del nuovo sistema sarà utilizzata per fare pressione su Israele nel corso dei negoziati per la soluzione siriana, scrive The National Interest.
   Come indica il giornale, immagini, scattate dal satellite israeliano "Eros-B", testimoniano che i sistemi missilistici antiaerei S-300 della Siria sono in allerta. Dalla foto si vede che i lanciatori sono stati osservati per la prima volta dall'arrivo del complesso in Siria.
   L'autore dell'articolo ritiene che non ci sia stata fretta di distribuirli non solo perché l'esercito siriano non aveva la necessità. Secondo l'autore, questa è una strategia di Mosca, poiché il trasferimento dei complessi S-300 alla Siria è stata, prima di tutto, una misura per limitare la situazione di conflitto nel paese. La Russia, come dice l'autore, ha cercato di dissuadere Israele riguardo gli attacchi aerei sulla Siria, ma non ha fretta di distribuire i complessi, per evitare l'escalation della situazione.
   Queste speranze, come osserva il giornale, "sono state eliminate" dopo la recente ondata di bombardamenti israeliani sulla Repubblica araba, secondo l'autore, questa potrebbe essere "l'ultima goccia", che ha spinto Mosca a distribuire gli S-300. Inoltre, un altro motivo potrebbe essere l'inefficienza delle armi disponibili dell'esercito siriano, scrive il portale.
   Tenendo conto dei recenti problemi, le forze aeree israeliane hanno avuto problemi per i vecchi complessi sovietici S-200, e per i S-300, come dice l'autore, probabilmente, saranno una grave minaccia per aerei israeliani, che agiscono in Siria occidentale, dove si concentrano le forze dell'esercito governativo. In questo modo, la distribuzione di sistemi S-300 in Siria potrebbe essere una delle leve di pressione russa su Israele, nel corso delle trattative per risolvere la situazione nella Repubblica Araba; esse sono in programma a fine mese a Mosca, conclude The National Interest.

(Sputnik Italia, 10 febbraio 2019)



Dubai: la comunità ebraica esce dall'ombra

di Elisabetta Norzi

Alcuni segnali c'erano già stati nei mesi passati, ma dopo il documento sulla Fraternità Umana firmato la settimana scorsa ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dal Grande Imam al Tayeb, che riconosce tutte le minoranze religiose della penisola arabica, la notizia è ufficiale: la comunità ebraica del Paese, circa 150 famiglie, può ora uscire allo scoperto. E come confermato dal rabbino Marc Schneier, presidente della Fondazione per il dialogo interreligioso Islam-Ebraismo e coautore del libro "Celebrare la tolleranza", pubblicato dal Ministro della Tolleranza emiratino in occasione della visita del Pontefice, sono in corso colloqui per valutare addirittura l'apertura di una sinagoga.
   Forse proprio sul terreno, a Saadiyat Island, dove il principe ereditario Al Nayahn, dopo l'arrivo del Papa, ha ordinato la costruzione della "Casa della famiglia di Abramo", figura riconosciuto da tutte e tre le religioni monoteiste, con la posa della prima pietra per una Moschea e una Chiesa una accanto all'altra.
   Finora la religione ebraica era l'unica che non si poteva dichiarare di professare, anche se la comunità si riunisce da anni ogni sabato per pregare in una casa privata. Negli Emirati Arabi anche la minoranza musulmana sciita è libera di professare la propria religione, in una regione sempre più divisa fra le due principali correnti dell'Islam, ma con l'ebraismo il Paese non si era ancora confrontato.
   Complice il disgelo dei rapporti con Israele, con il mega progetto di quella che è già stata ribattezzata la "ferrovia della pace", che partendo da Haifa, attraversando la Giordania e l'Arabia Saudita, dovrebbe arrivare fino agli Emirati Arabi e all'Oman, le prospettive stanno decisamente cambiando.
   E se non va dimenticato che la tolleranza negli Emirati Arabi è soprattutto una necessità, poiché solo l'apertura permette la crescita economica del Paese, e vige comunque la legge della Sharia, per la quale la conversione di un musulmano a qualsiasi altra religione è considerato reato d'apostasia punibile anche con la morte, grazie alla visita del Papa e all'impegno delle istituzioni con leggi molto severe per chi incita l'odio religioso e un attento controllo sui sermoni del venerdì, potrebbe davvero aprirsi un nuovo capitolo. Non solo per la libertà religiosa, ma per tutti i diritti umani, molti dei quali qui devono ancora affermarsi.

(SMTV San Marino, 10 febbraio 2019)


Gli accordi rimossi e quelli negati. I patti del Duce con Chiesa ed ebrei

II primo riconoscimento giuridico della comunità israelita in Italia avvenne con il fascismo pochi mesi dopo la firma della conciliazione in Vaticano, una volta giorno di festa scolastica. L'artefice fu un cattolico liberale.

dì Marcello Veneziani

Compie 90 anni domani la conciliazione tra Stato e Chiesa. Ma a proposito di concordati, anche il primo riconoscimento giuridico degli ebrei in Italia, dopo secoli di semiclandestinità, avvenne con lo Stato fascista, sulla scia del concordato con la Chiesa cattolica. Ma andiamo con ordine. Quando andavo a scuola, e non era sotto il regime fascista ma molto dopo, l'11 febbraio era festa a scuola. La conciliazione che ricucì la ferita tra Stato e Chiesa dopo la breccia di Porta Pia, fu difesa pure dal leader comunista Palmiro Togliatti, che da capo del Pci e da Guardasigilli nel primo governo repubblicano difese tanto il codice Rocco che i Patti lateranensi.
  Con la conciliazione il duce rinnegava le origini anticlericali del fascismo e il progetto futurista e del primo fascismo di «svaticanare» l'Italia. E spiazzava quei fascisti neopagani e idealisti che vedevano la religione come una specie di stadio infantile e popolare della filosofia. Da Julius Evola a Ugo Spirito, da Giovanni Gentile allo stesso Benedetto Croce, per intenderci. Sulla Conciliazione è uscito da poco un bel libro di Giancarlo Mazzaca. Quei Patti benedetti (Mondadori).
   Ma accanto a quel vistoso concordato con la Chiesa cattolica, lo Stato fascista firmò anche un concordato a latere, con gli ebrei che nessuno ricorda. Lo scoprii da ragazzino dalla viva voce di uno dei suoi protagonisti. Una volta mio padre mi portò a casa di un illustre vegliardo che viveva tra Roma e Bisceglie. Lo chiamava zio Nicola per via della parentela. Era Nicola Consiglio, giurista, direttore generale degli Affari penali e degli affari di culto, stretto collaboratore del ministro Rocco. Su una parete di questa casa che sembrava imbalsamata, ferma all'antico, c'era una medaglia d'oro che la comunità israelitica gli aveva donato nel 1930. Erano grati a quel giurista che aveva portato a compimento il riconoscimento pieno, giuridico e morale, delle comunità israelitiche. Spiegò don Nicola, che le governanti e i fattori chiamavano Sua eccellenza, di averla avuta per il concordato tra Stato ed Ebrei, voluto da Benito Mussolinl. D'altra parte, ricordava don Nicola, che fascista non fu mai, molti erano stati i fascisti ebrei dalla Marcia su Roma in poi. Lo Stato pontificio del Papa re e poi lo Stato laico e liberale non avevano mai riconosciuto giuridicamente la comunità israelitica in Italia; il regime fascista rimediò a questa lacuna. Consiglio era un cattolico liberale che come molti magistrati conservò la sua autonomia durante il fascismo. Pur non essendo allineato, Mussolini e Rocco lo vollero a condurre le trattative con il Vaticano e poi con la comunità degli ebrei. Cosi fu chiamato a far parte del ristretto gruppo che doveva definire la conciliazione.
   Succeduto a Domenico Barone, Consiglio si riuniva con Rocco, con Francesco Pacelli, giurista della Chiesa e fratello del futuro papa, il cardinal Pietro Gasparri (che con Maurizio non c'entra un beato fico), e monsignor Francesco Borgoncini Duca. Si vedevano di nascosto la sera, e la governante di don Nicola, vedendolo uscire come un ladro per incontri misteriosi, pensava a chissà quale relazione amorosa. Invece, vedeva prelati e giuristi. A volte in quegli incontri c'era anche il duce. Grazie a Consiglio, come attestano i verbali, la durata dei Patti non fu limitata a soli 5 anni, fu sdoppiata giuridicamente la parrocchia in chiesa e patrimonio; furono letti in chiesa gli articoli del codice civile sul matrimonio. Consiglio era timido e Mussolini si spazientiva per la sua ritrosia a parlare, e una volta lo incoraggiò a mormorare, aggiungendo che in Italia era stata abolita la critica ma non la mormorazione. Un'altra volta si spazientì per la riservatezza di Consiglio che non beveva neanche un caffè e ordinò d'imperio alla sua governante Cesira una camomilla che il timido don Nicola trangugiò ubbidiente. Ai nemici il duce dava l'olio di ricino, ai magistrati la camomilla. Quando il giorno fatale raggiunsero l'accordo, chiesero a don Nicola cosa bevesse per festeggiare. Lui chiese «acqua e zucchero» e Mussolini si associò: brindarono cosi con acqua (santa?) e zucchero al concordato.
   Subito dopo la conciliazione, Consiglio elaborò la legge sulle comunità israelitiche. La commissione che se ne occupò era composta da tre rappresentanti degli ebrei e tre giuristi, rappresentanti dello Stato Italiano. Salomonica. Scrive Renzo De Felice: «Il governo fascista accettò quasi in toto il punto di vista ebraico». Il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e - sulla rivista Israel - Angelo Sacerdoti definì la nuova legge «la migliore di quelle emanate in altri Stati». Poi arrivò l'alleanza con Adolf Hitler e con lui le sciagurate leggi razziali.
   A cent'anni suonati, don Nicola ricordava che Mussolini gli disse l'11 febbraio del 1929 «lei passerà alla storia». E lui rispose: «Sono stato semplicemente la mosca cocchiera». Alla storia in effetti don Nicola non passò, in compenso concorse a lasciare due benemeriti fondamenti giuridici, il concordato con la Chiesa e con gli ebrei. Il primo rimosso, il secondo negato.

(La Verità, 10 febbraio 2019)


Antifascisti ed ebrei attaccano giustamente il fascismo e le conseguenze storiche che ne derivarono, ma sembrano molto indulgenti verso la CCR (Chiesa Cattolica Romana) il cui “Stato” forse non sarebbe mai “risorto” se non fosse stato per la confluenza di interessi col fascismo in quella particolare svolta storica. Ricordare atteggiamenti come quelli di Angelo Sacerdoti e Palmiro Togliatti può servire a far riflettere. M.C.



Predica la parola, a tempo e fuor di tempo

Ti scongiuro dunque davanti a Dio e al Signore Gesù Cristo, che ha da giudicare i vivi e i morti, per la sua apparizione e il suo regno: predica la parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, rimprovera, esorta con ogni pazienza e dottrina. Verrà il tempo, infatti, in cui non sopporteranno la sana dottrina ma per prurito di udire si accumuleranno maestri secondo le loro proprie voglie e distoglieranno le orecchie dalla verità per rivolgersi alle favole. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, sopporta le sofferenze, fa' l'opera di evangelista e adempi interamente il tuo ministero.

(dalla seconda lettera dell’apostolo Paolo a Timoteo, cap 4)

 


L'esercito americano adotta il sistema israeliano Iron Dome

Un bel colpo per l'industria della difesa israeliana, proprio quando gli iraniani presentano nuovi missili.

Il Pentagono ha annunciato la decisione di acquisire il sistema di difesa israeliano Iron Dome per impiego immediato. Ne verrà equipaggiato lo US Army, senza al momento specificare quanti e in che zone del paese o in quali basi fuori area verranno dislocati.
Un bel colpo per l'industria aerospaziale israeliana, in un paese come gli Stati Uniti diffidente nell'acquistare tecnologia "not invented here".
Il sistema missilistico Iron Dome (Cupola di Ferro), come dice il nome, non è un sistema offensivo ma difensivo, non è progettato contro le persone ma contro gli altri missili e razzi lanciati da Hezbollah a nord e Hamas/Jihad Islamica a sud. Sistema che salva vite umane nelle città e nei kibbutz nel raggio di azione dei razzi Grad e Katiusha dei terroristi islamici....

(Rights Reporters, 9 febbraio 2019)


I numeri del terrorismo antisraeliano e le sue cause

di Ugo Volli

Su temi che suscitano passioni e schieramenti contrapposti, ci possono essere molte argomentazioni retoriche, ideologie politiche, simpatie partigiane. Ma poi ci sono i numeri, che spiegano com'è davvero la situazione, chi sono gli aggrediti e chi gli aggressori. Così è anche per Israele, che sostiene da quasi cent'anni, ben prima della sua costituzione in stato, una guerra intesa a "sterminare gli ebrei" (così il capo della Lega Araba nel momento dell'attacco nel 1948), a "cancellare Israele dalla carta geografica" (così dicono continuamente i capi politici e militari dell'Iran) a "eliminare l'occupazione" (come si esprimono i dirigenti di Hamas e Fatah). Naturalmente le tre espressioni vogliono dire la stessa cosa.
  Ecco alcuni di questi dati, riferiti al 2018. L'anno scorso vi sono stati "1.119 proiettili di mortaio, missili e razzi esplosi in territorio israeliano, rispetto ai 31 del 2017: il numero annuale più alto negli ultimi dieci anni, ad eccezione dell'Operazione Protective Edge nell'estate 2014." Per rendere la cosa più concreta, si tratta di più di tre missili al giorno. Ma non basta. "Il capo della Shin Bet (Agenzia per la sicurezza israeliana), Nadav Argaman, che ha informato la commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset a novembre, ha rivelato che sono stati prevenuti 480 attacchi terroristici significativi, ovvero circa nove attacchi significativi sono stati evitati per ognuno portato a termine." Anche in questo caso, su base quotidiana, un attentato terroristico tentato ogni giorno.
  Vi è poi il tema del "terrorismo popolare", condotto con mezzi minori, ma sempre mortale:
    "L'Autorità palestinese e Fatah in Giudea e Samaria hanno continuato a sostenere la cosiddetta "resistenza popolare", cioè il terrorismo, ma hanno impedito a Hamas di trasformarlo in un terrorismo di livello militare che avrebbe portato a una rivolta di massa contro Israele e destabilizzato l'Autorità palestinese. [Sono stati registrati] un totale di 22 attacchi a coltellate nel 2018, rispetto ai 46 del 2017. Il secondo tipo più comune di terrorismo sono stati attacchi con armi da fuoco, 13 nel 2018 e 20 nel 2017. D'altra parte, il numero di attacchi veicolari è aumentato nel 2018 con 13, rispetto a 10 nel 2017. Il 2018 è stato meno letale, con 12 civili e soldati israeliani uccisi, contro i 18 del 2017. In totale 74 israeliani sono stati uccisi tra l'inizio dell'ondata di terrorismo popolare nell'ottobre 2015 e la fine di dicembre 2018."
Il tutto accade in un piccolo paese. Per capire l'impatto di questa ondata terrorista, per esempio paragonandola all'Italia, bisognerebbe moltiplicare le cifre sette volte per compensare la differenza della popolazione. Si vedrebbe allora che i livelli dell'assalto terrorista sono superiori a quelli del periodo più caldo del terrorismo rosso, alla fine degli anni Settanta.
  Al contrario però di quel che accadde all'Italia in quel momento e in parte a Israele durante la terribile ondata dei bombardamenti suicidi all'inizio degli anni Duemila, il paese non è affatto ferito e ripiegato su se stesso. L'economia continua a fiorire, soprattutto nell'alta tecnologia alimentata dai progressi scientifici; non vi è un sentimento di insicurezza collettiva, neppure da parte di un'industria sensibilissima a questo rischio come il turismo, che ha battuto record dopo record e continua a fiorire; i sondaggi mostrano una popolazione soddisfatta e fiduciosa.
  Insomma il terrorismo colpisce, riesce a fare qualche vittima e a spedire sul territorio israeliano proiettili che la tecnologia riesce però a bloccare. Ma non riesce a terrorizzare, non appare assolutamente in grado di ledere la posizione interna e internazionale di Israele, anche perché i suoi governanti saggiamente reagiscono con rappresaglie agli atti di aggressione, ma non si lasciano catturare in una dinamica di guerra aperta che sarebbe dannosa per lo stato ebraico.
  Il fallimento di questa strategia è chiaro ed è ormai registrato a livello internazionale dagli stessi stati arabi che non nascondono più di essere disposti ad alleanze con Israele per ragioni economiche, politiche o militari, cioè per la lotta a nemici comuni come Isis o Iran. E allora perché i capi terroristi continuano a mandare innanzitutto la loro stessa gente a morire? E' sempre difficile interpretare in termini di psicologia individuale i fenomeni storico-politici. Bisogna notare però che nonostante gli ingenti aiuti internazionali, gli arabi di Giudea e Samaria (sotto l'Autorità Palestinese e il suo soci di maggioranza Fatah) e quelli di Gaza (sotto Hamas), vivono malissimo, mancano dei più elementari diritti politici e sociali, sono sottoposti a violenze e torture ogni volta che non compiacciono ai loro padroni, per lo più vivono in condizioni economiche miserabili, senza speranze di miglioramento, salvo una piccola casta di straricchi, di solito legati alla direzione politica e alla sua correzione. Ci sarebbero tutte le ragioni per rovesciare regimi corrotti e inefficienti, forse i peggiori del mondo. Ciò che mantiene al potere Abbas e i capi di Hamas è la guerra con Israele che essi amministrano. Se dicessero ai loro sudditi che la guerra è perduta, che bisogna accomodarsi nello status quo o cercare di negoziare una vita migliore, non avrebbero nessuna giustificazione per la loro tirannia. Insomma si tratta di una dirigenza per cui rifiutare la "normalizzazione" per cui un governo è giudicato dai suoi risultati civili o economici è questione di vita o di morte.
  Un'altra domanda più difficile è perché i loro sudditi si lasciano condurre verso azioni terroriste, cioè omicide e spesso in sostanza suicide. Anche qui c'è una risposta economico-sociale: i terroristi processati e incarcerati e le loro famiglie se muoiono nel corso della loro azione criminale, ricevono grandi privilegi e soprattutto stipendi a vita; anche i terroristi inquadrati nelle formazioni di Hamas e Fatah sono pagati e hanno un evidente potere mafioso nei confronti dei loro concittadini. Insomma, il terrorismo è l'industria più florida di Gaza e dei territori dell'Autorità Palestinese. Ma questo non basta, c'è la propaganda continua e martellante che inizia da bambini e non finisce mai e inoltre si radica sul tradizionale antisemitismo musulmano. Riuscire a rompere questo meccanismo infernale è la condizione perché la pace possa finalmente affermarsi davvero fra quelle popolazioni.

(Progetto Dreyfus, 9 febbraio 2019)


John Bolton spinge per la guerra contro l'Iran

di Roberto Vivaldelli

Nonostante l'annunciato ritiro delle truppe americane dalla Siria, l'amministrazione Trump non ha alcuna intenzione di rinunciare alla "massima pressione" verso il principale alleato di Damasco insieme alla Russia, ossia l'Iran. Trump ha definito le agenzie di intelligence "ingenue" dopo che queste ultime hanno dichiarato nel loro rapporto annuale che l'Iran non rappresenta nessuna minaccia atomica e rispetta il trattato del 2015 stracciato proprio dall'amministrazione Usa.
  "Il popolo dell'Intelligence sembra essere estremamente passivo e ingenuo quando si tratta dei pericoli dell'Iran", ha scritto il presidente su twitter. "Si sbagliano!". "Stanno testando i missili (la settimana scorsa) e altro, e stanno arrivando molto vicino al limite", ha continuato. "L'economia ora è vicina al collasso, che è l'unica cosa che li trattiene. State attenti. Forse l'intelligence dovrebbe tornare a scuola!". Oltre all'ostilità verso Teheran, i problemi interni di Donald Trump, uniti all'attuale composizione del suo team di politica estera - in particolare i falchi John Bolton e Mike Pompeo - potrebbero spingerlo verso azioni ancora più aggressive verso Teheran - ad oggi demandante in terra siriana al principale alleato regionale di Washington, Israele.
  Come conferma The Hill, infatti, non più tardi di due settimane fa John Bolton, il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Trump, ha chiesto al Pentagono opzioni militari contro l'Iran. Un messaggio che non è di certo passato inosservato.

 Massima pressione contro Teheran: obiettivo Regime change
  Donald Trump potrebbe decidere di spostare tutta l'attenzione dai suoi problemi domestici - l'inchiesta sul Russiagate, l'ipotesi impeachment - verso una politica estera intervista. Allo stesso tempo, i principali consulenti di politica estera di Trump hanno sperato per anni in una guerra contro l'Iran. Secondo notizie recenti, l'ex capo del Pentagono James Mattis avrebbe fermato un piano, architettato proprio da John Bolton, che prevedeva una ritorsione militare contro la Repubblica Islamica dopo un presunto attacco di mortaio da parte di una milizia sciita che ha rischiato di colpire l'ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad, in Iraq. Episodio nel quale Teheran non era nemmeno direttamente coinvolta.
  Come nota Jim Lobe su LobeLog, dopo l'addio di James Mattis "c'è la convinzione che Bolton stia cercando un pretesto per un attacco" contro l'Iran o i suoi alleati regionali. In effetti, prosegue, John Bolton "era un accanito sostenitore della guerra in Iraq e fece false affermazioni per giustificare l'invasione del 2003". Da allora, prosegue, "ha dedicato grande parte della sua carriera, lavorando a stretto contatto come ambasciatore presso le Nazioni Unite o con l'ex vicepresidente Dick Cheney e gli israeliani, per preparare una guerra contro l'Iran o promuovere un cambio di regime". All'inizio di questo mese, per esempio, il consigliere per la sicurezza nazionale ha detto che non vi sono dubbi sul fatto che l'Iran sia impegnato nella costruzione di un'arma nucleare - anche se l'intelligence lo smentisce.

 I falchi anti-Iran nella squadra di John Bolton
  Non è affatto un caso se, nelle ultime settimane, John Bolton abbia rafforzato il suo staff con due falchi anti-Iran come Charles Kupperman e Richard Goldberg. Quest'ultimo, come riporta The National Interest, "considera il regime di Teheran simile all'Unione Sovietica, un centro di una controcultura globale anti-americana" che occorre far cadere attraverso un cambio di regime.
  E sebbene non sia stato ancora nominato ufficialmente nel personale del Consiglio di sicurezza nazionale (Nsc), David Wurmser, uno degli architetti intellettuali della guerra in Iraq, che ha lavorato a stretto contatto sia con Bolton sia con Cheney, è stato visto spesso alle riunioni.
  In questo scenario, qualsiasi probabile incidente che possa coinvolgere l'Iran da una parte e Arabia Saudita o Israele dall'altra, potrebbe spingere gli americani a intervenire. Il fatto che Bolton abbia allertato il Pentagono per un episodio minore, dove l'Iran non era nemmeno direttamente coinvolto, la dice lunga sulle reali intenzioni di John Bolton - il quale, dopo l'addio di Mattis, è diventato sempre più potente e influente all'interno dell'amministrazione Trump.

(Gli occhi della guerra, 8 febbraio 2019)


Hamas chiede aiuti in bitcoin

di Ettore Bianchi

L'organizzazione di Hamas, asfissiata finanziariamente e assediata militarmente, ha chiesto ai propri sostenitori esteri di inviarle donazioni in bitcoin per rimpolpare il proprio budget. L'ala militare del movimento islamista palestinese che governa la Striscia di Gaza spera di aggirare così il blocco israeliano in atto da un decennio, secondo quanto ha riportato Le Figaro. Tuttavia, sostenere un'organizzazione considerata terroristica non soltanto da Israele, ma anche dagli Stati Uniti e dalla Ue non è semplice e può dimostrarsi molto pericoloso. La grande maggioranza delle banche, prudentemente, si rifiuta di effettuare trasferimenti in denaro legati ad Hamas per non trovarsi nei guai con la giustizia. Per questo Hamas vede il bitcoin sempre più come una forma di possibile finanziamento alternativo. Infatti, la criptovaluta presenta l'immenso vantaggio di non lasciare tracce che permettano di determinare da dove viene o dove va il denaro. Ogni transazione crea un nuovo indirizzo online in maniera che ogni utilizzatore può avere migliaia di indirizzi nel proprio portafoglio virtuale, cosa che assicura un totale anonimato e evita di incappare nella giustizia americana o europea. Questo spiega l'interesse per la moneta virtuale da parte di Hamas che quest'anno vedrà salire a 250 milioni di dollari il proprio budget militare, secondo le stime dei servizi segreti israeliani. Finora Hamas si è servita delle vie tradizionali, banche, uffici di cambio, utilizzando dei sotterfugi che però sono stati messi a mal partito dalle nuove tecnologie utilizzate dall'intelligence israeliana. Seguire i meandri delle criptovalute però è tutta un'altra sfida. La startup israeliana Whitestream ha detto al giornale economico Globes, ripreso da Le Figaro, d'aver messo a punto un software in grado di recuperare transazioni sulla blockchain, banca dati sulla quale si fonda l'attività dei bitcoin. Ha recuperato informazioni fra i donatori e Hamas via Coinbase, la principale piattaforma di transazioni di criptomonete americane e le ha inviate ai servizi americani e israeliani. La battaglia finanziaria è solo all'inizio.

(ItaliaOggi, 9 febbraio 2019)


Dio vide tutto quello che aveva fatto e allora creò l'umorismo ebraico

Dalla Bibbia al cabaret, un saggio di Devorah Baum sulle barzellette. Spesso la battuta diventa un larvato test d'intelligenza a spese dell'ignaro ascoltatore.

di Elena Loewenthal

 
Devorah Baum
Tutto cominciò con una sghignazzata. Breve, sommessa, con una mano che dobbiamo immaginare avvizzita e costellata di macchie scure di vecchiaia davanti alla bocca, nel vano tentativo di passare sotto silenzio quello sfogo di ilarità. Quando infatti, tramite dei viandanti per il deserto che nella realtà del testo sacro sono angeli, l'Altissimo annuncia al patriarca Abramo che sta per dargli un figlio con Sara, che intende cioè aprirle finalmente l'utero tristemente occluso, quella povera donna che in novant'anni suonati di vita ne aveva già viste tante di quelle tante, scoppia a ridere. «Ma figuriamoci!», «Questa è buona!», «Che scherzo di cattivo gusto», e tanto altro dice il sottotesto della prima risata di tutta la Bibbia, frutto della disillusione e dell'amarezza di una donna che non è riuscita a procreare sino a quel momento ed è ormai certa che non ci riuscirà mai più. Altissimo o non Altissimo. Di lì a nove mesi, nello stupore generale, Sara metterà al mondo Isacco, il cui nome in ebraico significa per l'appunto riderà.
   Dalla tenda di Abramo e Sara in poi, ridere è per i figli d'Israele una faccenda alquanto seria: «Metropolitana di NewYork. Un nero sta leggendo un giornale in yiddish. Qualcuno si ferma e gli domanda: - Lei è ebreo?-. Oygevalt (tipica esclamazione di sconforto in yiddish) - risponde - mi ci manca solo quello».
   «La barzelletta ebraica è vecchia come Abramo. Insieme agli ebrei in carne e ossa ha errato per il mondo, imparato svariate lingue, lavorato con una vasta gamma di materiali e dato il meglio di sé al cospetto di folle piuttosto ostili», spiega Devorah Baum in apertura del suo libro, La barzelletta ebraica (in uscita per Einaudi) con un eloquente sottotitolo che chiarisce trattarsi di «Un saggio con esempi (meno saggio più esempi». Perché se tutto comincia con Abramo, non si può negare che a fare la prima battuta sia stata Sara, e suo marito - a quanto pare - non l'ha presa troppo bene. In quanto donna, discendente cioè in linea diretta della spiritosa matriarca e del suo umorismo irriverente, fors'anche un pizzico macabro, anche Devorah Baum - giovane scrittrice americana - la sa lunga in fatto di battute ebraiche.
   E' vero, nel libro ci sono più battute che argomentazione, più esempi che saggio. Ma è anche vero che quando si fa umorismo ebraico non si può fare a meno di parlarne.
   Che sia battuta fulminante o lenta narrazione, la storiella ebraica porta sempre con sé un significato, anzi di più. E come se dicesse sempre, in sottofondo: «Cari gentili (di nome ma spesso non di fatto), oltre a perseguitarci, emarginarci e cacciarci ai quattro angoli del mondo, non state anche a ridere di noi ebrei. Quello lo facciamo da soli, e di sicuro meglio di quanto non possiate fare voi».
   L'umorismo è insomma da secoli un'arma di sopravvivenza per il popolo d'Israele, un modo per conciliarsi con il mondo, con le avversità, con i contrattempi. Altro che contrattempi: «Burt: ti importa dell'Olocausto o pensi che non sia mai successo? Harry: Non solo so che abbiamo perso sei milioni di ebrei, ma quello che mi preoccupa è che i record sono fatti per essere battuti». ( Copyright Woody Allen).
   Baum affronta uno dei tanti percorsi possibili nell'umorismo ebraico con una serie di domande che echeggiano il rituale della Pasqua ebraica e marcano la differenza fra la sera festiva e quella feriale. Non per niente la tradizione ebraica si costruisce sull'analisi puntuale, sul pelo nell'uovo: «Che differenza c'è fra l'uomo e Dio?», «Che differenza c'è fra moralità e nevrosi?», «Che differenza c'è fra un ebreo e un pappagallo?», «Che differenza c'è fra uno shlemiel e uno shlirnazel?» (spoiler: lo shlemiel è quello che si sbrodola, e quello su cui si rovescia la minestra è lo shlimazel). Nel riscontro di una serie di differenze, Baum traccia una storia della battuta ebraica, o meglio un percorso divertente e interessante in questo umorismo che può piacere o non piacere, che a volte è immediato e a volte criptico - soprattutto quando più che una battuta diventa un larvato test d'intelligenza a spese dell'ignaro ascoltatore -, ma che ha sempre molto da raccontare.
   Baum spazia dal cinema alla tradizione orale, dalla letteratura contemporanea al Talmud, ma ha una particolare - e giustificata - predilezione per quella stand-up comedy americana (a malapena traducibile con «cabaret») che ha dato il meglio di sé con una certa comicità ebraica fatta tanto di improvvisazione quanto di sapienza, con giganti quali Lenny Bruce e Mrs Maisel - che sarà pure il protagonista dell'omonima serie televisiva, ma è più reale e fantastica che mai.
   E in fondo, fra le tante, davvero tante cose confortanti che l'umorismo ebraico porta con sé da secoli e millenni, c'è anche una parità di genere che non fa sconti a nessuno, perché quando si tratta di ridere - o far ridere - non c'è sesso che tenga. E da che mondo è mondo, le donne si tramandano ricette, segreti, saggi consigli: «Mia mamma diceva sempre che per denaro non ci si sposa. Si divorzia».

(La Stampa, 9 febbraio 2019)



Iran. Presentato il nuovo missile

Ahmad Khatami: “Pioveranno come fulmini sui nemici”


Il nuovo missile balistico iraniano "Dezful" è stato presentato nella giornata di ieri dai Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran) e, secondo quanto riferito dai militari, ha una gittata superiore ai 1000 chilometri.
Per l'occasione, citato dall'agenzia Mehr, l'ayatollah Seyed Ahmad Khatami, membro dell'Assemblea di Esperti, nel corso del suo sermone durante la preghiera islamica del venerdì, ha rinnovato le consuete minacce di Teheran contro i nemici della nazione, implicitamente identificati con Stati Uniti e Israele, affermando che, se l'Iran dovesse essere attaccato "i suoi missili cadranno come fulmini sui suoi avversari".
Le dimostrazioni di forza e la presentazione al pubblico di armi dalla tecnologia, almeno apparentemente, sempre più sofisticata sono il mezzo di Teheran per rispondere all'ostilità di Washington e Tel-Aviv, cercando di dimostrare che le sue forze armate potrebbero resistere ad un eventuale attacco di due dei paesi che dispongono degli apparati militari tra i più potenti al mondo.

(Notizie Geopolitiche, 8 febbraio 2019)


Nuove luci sulla Sinagoga di Roma, con Acea

Alla cerimonia erano presenti anche l'ambasciatore degli Stati Uniti d'America in l'Italia, Lewis Eisenberg, e di Israele in Italia, Ofer Sachs.

di Giacomo Kahn

Luci nuove sulla Sinagoga di Roma. È partito da ieri sera il nuovo progetto di illuminazione artistica permanente del Tempio Maggiore. L'accensione ufficiale delle luci è avvenuta alla presenza della sindaca Virginia Raggi, del Rabbino Capo Riccardo Di Segni, della presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello e della presidente di Acea Michaela Castelli. La Sinagoga è illuminata a led con un intervento che ne valorizza gli elementi caratteristici a partire dalla cupola a padiglione, con le 12 finestre. Complessivamente sono stati installati 44 proiettori di diversa potenza e luminosità. Per Acea si tratta dell'ultimo progetto, in ordine cronologico, della lunga serie di illuminazioni artistiche realizzate nel corso degli ultimi mesi nella città di Roma e area metropolitana come il Palatino, la Piramide Cestia e Porta San Paolo, Piazza del Campidoglio e il Castello di Santa Severa.
   "L'illuminazione artistica della cupola della Sinagoga - ha spiegato la sindaca Raggi - rientra in un percorso di valorizzazione della nostra Capitale che vuole mettere in evidenza gli spazi della citta' e della sua storia attraverso una chiave di lettura particolare".
   "Il Tempio Maggiore e' l'emblema della presenza ebraica in questa citta' - ha affermato la presidente Dureghello -. Una struttura maestosa edificata dopo trecento anni di reclusione nel Ghetto dagli ebrei romani per condividere e affermare la propria dignita' e le radici storiche e culturali della nostra presenza in questa citta'. Un luogo vivo che simboleggia un ebraismo che contribuisce al bene della collettivita' e che e' parte del patrimonio artistico della citta' di Roma. Sono riconoscente al Comune di Roma per l'attenzione mostrata nella valorizzazione di luoghi come questi, dal grande valore culturale e religioso. Da oggi, grazie al lavoro realizzato da Acea la luce della cupola del Tempio Maggiore si irradiera' anche all'esterno: e' un messaggio significativo non solo perche' segue altre illuminazioni importanti di luoghi simboli della citta' ma anche perche' contribuisce a portare luce in un momento in cui il buio del pregiudizio e dell'ignoranza si riaffacciano".
   "Ogni Sinagoga e' un piccolo santuario con una scintilla della luce che brillava nel Tempio di Gerusalemme - ha sottolineato il rabbino capo di Roma, Rav Di Segni -. Molti hanno voluto oscurare questa luce e riportarci nel buio. La grande Sinagoga di Roma e' luogo simbolo di sofferenza e di persecuzione ma anche di resistenza, di pace di amicizia. La Sinagoga di Roma che si accende di nuova luce rinnova questa promessa e ci aiuta illuminando la giusta via".
   Infine la presidente di Acea, Castelli che ha sottolineato l'impegno dell'Azienda a proseguire nel progetto di illuminare con led i luoghi della memoria "illuminando una storia che ci appartiene, e questa nuova illuminazione della sinagoga vuole essere un ulteriore ponte verso la comunità ebraica. Un ponte che speriamo duri in eterno".

(Shalom, 8 febbraio 2019)


Tutte le ansie di Israele per il nuovo sito missilistico segreto in Siria

Il sito è stato realizzato da iraniani, siriani e Hezbollah per costruire una fabbrica di missili nella città siriana di Safita. Le conseguenze? Potranno colpire obiettivi nello Stato ebraico con un'accuratezza senza precedenti.

di Francesco De Palo

Perché il nuovo sito missilistico segreto in Siria sta togliendo il sonno a Israele? Realizzato da iraniani, siriani e Hezbollah per costruire una fabbrica di missili nella città siriana di Safita potrebbe cambiare lo scenario. Infatti i missili di Hezbollah potranno essere tramutati in munizioni guidate con precisione, in grado di colpire obiettivi nello stato ebraico con un'accuratezza senza precedenti.

 Missili
  Secondo la stampa israeliana, sarebbero noti ai servizi dallo scorso settembre, quando era stato il premier Benjamin Netanyahu dinanzi alle Nazioni Unite a far presente alla comunità internazionale i movimenti iraniani in Siria. Già erano noti alcuni siti a Beirut, dove disse che Hezbollah aveva tentato di convertire missili terra-terra in missili di precisione. Adesso il nuovo rapporto israeliano indica i dettagli dell'operazione.
  Secondo il premier israeliano uno dei siti in questione si trovava all'interno di uno stadio di calcio appartenente al gruppo terroristico libanese, mentre un secondo sito era nell'aeroporto internazionale di Hariri e un terzo a 500 metri dalla pista dell'aeroporto, nel cuore del quartiere residenziale di Ma'aganah. Tutti con il comun denominatore di un piano particolareggiato, attuato in beffa alle sanzioni internazionali.

 Qui Teheran
  Nel frattempo le Guardie rivoluzionarie iraniane hanno inaugurato un missile balistico terra-terra con una gittata di 1.000 km: ciò in violazione alle richieste occidentali rivolte a Teheran di interrompere il suo programma missilistico. Il riferimento è alla risoluzione Onu del 2015 che sancisce l'accordo nucleare e che invitava il Paese ad astenersi per otto anni dallo sviluppo dei missili.
  La fabbrica si troverebbe in un sito denominato "città sotterranea". Ma non è tutto, perché Teheran ha annunciato una potenzialità maggiore, ovvero di disporre di missili con un'autonomia anche doppia (da 2.000 chilometri) per cui con la possibilità di colpire non solo Israele ma anche molte basi militari statunitensi nella regione.

 Qui Gerusalemme
  Ma come è riuscito l'Iran a ignorare le sanzioni? Secondo quanto apparso sulla stampa israeliana, sono state utilizzate due compagnie di facciata istituite dal Centro Studi e Ricerche Scientifiche (SSRC) della Siria, un'agenzia governativa che produce armi. Si tratta della Organizzazione delle industrie tecnologiche (OTI) e ANAS Group, guidata dal noto intermediario Jamal Said, e sono state create per acquistare materiali dall'Italia e dalla Cina.
  Se da un lato Gerusalemme ha ammesso la paternità di centinaia di attacchi aerei contro obiettivi iraniani, dall'altro Mosca, alleata di Damasco, aveva accusato l'esercito israeliano nel settembre scorso dell'abbattimento di un aereo russo con 15 militari a bordo. Ma Gerusalemme respinse quelle accuse. Una contingenza che si lega alle nuove direttrici di marcia di Teheran e che stanno provocando una serie di reazioni multi livello.

 Strategie
  È chiaro che la novità della potenza balistica iraniana si mescola al dato di fatto relativo alla più ampia strategia nella guerra civile siriana, dove Teheran ha giocato un'attenta partita, fatta di tattica tout court per invogliare nei combattimenti le milizie siriane con la regia di Hezbollah. Ciò non solo per limitare le perdite iraniane, ma per integrare le milizie siriane addestrate e finanziate dal Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC).

 Dopo il ritiro?
  Inoltre Teheran e Hezbollah hanno appoggiato la decisione del presidente Donald Trump di ritirare le forze americane dalla Siria, dipingendola come un'altra vittoria per l'Asse della resistenza. Un passaggio che porta in dote alcune variabili: se la decisione di Trump lascia spazio anche all'Iran in Siria, parallelamente accentua anche la concorrenza in corso tra chi dovrà farsi player nella Siria di domani.
  Russia e Turchia non gradirebbero un Iran regista univoco e dalla forte influenza, anche se Mosca non ha fatto nulla per impedire il radicamento militare iraniano in Siria. Sul punto Israele non intende fare marcia indietro, come dimostrano le 200 bombe sganciate contro obiettivi iraniani in Siria definiti sensibili, come depositi di armi, installazioni antiaeree e convogli di rifornimenti. Gli israeliani puntano così a limitare il radicamento iraniano, ma Teheran non mostra alcun segno di resa, come dimostra ampiamente la nuova mossa sui missili.
  Un ruolo lo giocherà anche Ankara: come annunciato dal presidente Erdogan, la Turchia è pronta ad assumersi la responsabilità nella lotta contro le organizzazioni terroristiche nei territori siriani. Resta da capire con quali margini e con quali conseguenze.

(formiche, 8 febbraio 2019)


"L'ebraismo va difeso"

Anche il mondo ebraico è alle prese con il problema dei giovani. Riportiamo un'intervista fatta a Riccardo Di Segni da un responsabile di HATIKWA, giornale dell'Unione Giovani Ebrei d'Italia. NsI

Abbiamo incontrato rav Riccardo Shmuel Di Segni, rabbino Capo di Roma dal 2001.

- Rav, lei ha assistito al Congresso UGEI di quest'anno, che era a Roma. Quali differenze e affinità ha notato rispetto a quando era lei a partecipare attivamente all'organizzazione?
  Ho visto tanta gente e questo mi ha fatto piacere. All'epoca si chiamava FGEI, Federazione Giovanile Ebraica Italiana, poi è divenuta Unione Giovani Ebrei d'Italia. Per andare ad un congresso, "ai tempi nostri': bisognava fare prima l'elezione dei delegati, quindi le persone che andavano erano rappresentative delle realtà locali con apposita delega. Mi pare di capire che oggi non sia tanto un congresso, quanto un regime assembleare nel quale si decide a seconda di chi è presente. Chi c'è si rappresenta, ma bisogna capire quanto sia realmente rappresentante, è una forma diversa di democrazia.

- In questi anni stiamo assistendo ad un progressivo allontanamento dei giovani dalle Comunità. Secondo lei qual è la causa?
  Non è assolutamente una novità, c'è sempre stata una percentuale considerevole di giovani ebrei che si sono allontanati ed una percentuale, invece, che ha sentito la partecipazione agli eventi ebraici come un fatto positivo e coinvolgente. Un conto è allontanarsi dalle attività giovanili organizzate ed un altro è allontanarsi dall'identità ebraica. Esistono diversi modelli di identificazione ebraica e non è detto che quello proposto dall'UGEl sia quello che soddisfa tutte le persone che cercano un'identità ebraica. Non c'è solamente un problema di allontanamento dall'ebraismo, ma anche un allontanamento da quello che si pensa che sia il modello dell'UGEI. Ho la sensazione che a Milano, ad esempio, esista una fascia considerevole di giovani di famiglie, in media più osservanti, che non considerano l'UGEl il posto ideale dove affermare il proprio ebraismo, perché vi circolano idee, pensieri e comportamenti che non considerano sufficientemente religiosi. Forse succede anche il contrario, che si rifiuta l'UGEl perché la si pensa fin troppo chiusa e confessionale. Per fare un confronto con il passato: questi fenomeni, decenni fa, erano forse molto più contenuti. Nella struttura dell'UGEl c'era una notevole molteplicità di identità e di partecipazione alla religiosità, ma si conviveva tutti insieme fissando del paletti comuni da non attraversare.

- Entro quali paletti dobbiamo muoverci?
  L'associazionismo ebraico, di qualsiasi tipo sia, che sia un'associazione giovanile, ricreativa o una Comunità o l'Unione delle Comunità, si basa su regole condivise, che ne stabiliscono l'identità. Necessariamente queste regole includono ed escludono. Entra quindi in gioco la stessa finalità del movimento. In Italia, a differenza di altre nazioni del mondo, abbiamo realizzato, direi fino ad ora con molta saggezza, un modello di coesistenza derivato da un compromesso: ognuno fa a casa sua quello che vuole, ma l'istituzione è formalmente ortodossa, ovvero che rispetta determinate regole identitarie e di comportamento. Un'antica regola degli anni '30 della FGEI era che nei campeggi il cibo era kasher e "non si arriva e non si parte di shabbat". Questo fa sì che, malgrado ci sia una totale libertà individuale, la nostra compagine sia riconosciuta come ortodossa ed ebraica in tutto il resto del mondo. Il fatto che una persona si professi non ortodossa, in tutte le sfumature possibili, che vanno dal conservative, al reform o al non credente, non le preclude l'iscrizione nelle nostre strutture. È sempre il benvenuto nella sua diversità di pensiero. Il momento in cui si crea la possibile conflittualità è quando una persona è riconosciuta come ebrea da un movimento reform e non lo è secondo le regole dell'ortodossia ebraica. È una decisione apparentemente molto soft, ma che cambia completamente i connotati alle nostre strutture. Nel momento in cui questi connotati cambiano si paga un prezzo considerevole, si diventa un'associazione diversa e generica, non basata su un legame che ha un significato più profondo. Di tutto ciò bìsogna tenerne conto quando si decide chi siamo e qual è il nostro futuro.

- Come dovrebbero interagire giovani e maestri?
  Intanto ci sarebbe bisogno di giovani maestri (ride, ndr). Dovrebbe esserci una certa reciprocità e fiducia, che molto spesso manca. Le responsabilità sono sempre di entrambe le parti.

- Che cosa dovrebbe fare un rabbino per incrementare il rapporto con la gioventù ebraica?
  Cercare di trasmettere un esempio ed una proposta formativa. Dall'altra parte deve esserci un minimo di interesse e disponibilità all'ascolto. Ciò non significa che il giovane non debba essere critico, anzi, la critica è fondamentale nel processo formativo. Ma ci si dovrebbe fidare e rispettare un po' di più.

- Lo slogan di HaTikwà è "Un giornale aperto al libero confronto delle idee" Sul confronto siamo d'accordo, ma gli interlocutori quali devono essere?
  Questo slogan è stato fatto, che io sappia, intorno agli anni '60. Credo fosse uno slogan polemico contro le istituzioni, che erano considerate sempre rigide e non aperte alla discussione. È ovvio che bisogna discutere e confrontarsi, e va bene. Quando si discute però deve esserci spazio uguale per tutti. Questo qualche volta nelle direzioni non è così scontato.

- L'ultimo Congresso UGEI ha stabilito che nel 2019 ci sarà un Congresso straordinario per accettare nell'organizzazione i figli di matrimonio misto, a prescindere dal ghiur in corso. A livello locale, in alcune città, sono già accettati, mentre a livello nazionale no. Come si pone il rabbinato sulla questione che dovremo discutere?
  Dico che non sarebbe più un'associazione veramente ebraica, ma di dialogo, come potrebbe essere l'Amicizia Ebraico Cristiana, che non è certo da rigettare, ma è altra cosa, che cambierebbe i connotati alla nostra identità. L'ebraismo va difeso. Ci sono sempre stati casi, non ufficiali, di persone non halakhicamente ebree che frequentavano e che poi avrebbero scelto in un senso o nell'altro. Nessuno chiude la porta, ma se da casi singoli diventano regole istituzionali significa che noi abbiamo cambiato i nostri connotati e spostato avventatamente i paletti della convivenza. Pensiamo cosa succederà nella generazione futura, bisogna avere una visione a medio e lungo termine. Che piaccia o no l'ebraismo si basa sul rispetto delle regole. Non è la pressione di qualcuno o un regime assembleare che può cambiare regole millenarie. I conti poi sono fatti male e sotto pressione, tutte queste aperture possono fare entrare nell'associazione qualcuno, ma farne uscire o tenere lontani molti altri. Cambiare i connotati in questo modo significa escludere una parte considerevole del pubblico potenziale.

- Quant'è importante la Memoria per un giovane? Lei ha parlato dì "Shoaismo". Che si intende?
  La Memoria della Shoah è fondamentale, è la nostra storia ed è un grande monito universale. Questa però non deve diventare l'ossessione e la causa della nostra ebraicità. Posso riassumerlo in un breve concetto: non dobbiamo essere ebrei in quanto ci perseguitano, ma essendo ebrei sappiamo che possiamo essere perseguitati.

- Su che cosa dovrebbe concentrarsi oggi un giovane ebreo italiano?
  Un ebreo, in quanto tale, ha tantissimi impegni. Ci sono impegni riguardanti la sua ebraicità e quelli che riguardano il suo futuro.
  Oggi un giovane ebreo italiano deve capire bene qual è il suo posto nel mondo in cui vive e dov'è che è giusto e più sicuro vivere in base ai suoi desideri, ai suoi ideali e alla realizzazione ebraica. Deve prepararsi professionalmente e coltivare la sua ebraicità. Mai dare per scontato quello in cui ci si trova e valutare con una prospettiva allargata il proprio futuro.
  Il rav conclude con questo auspicio: "Auguri di ottimo lavoro, con la massima disponibilità a collaborare. Questa è una porta aperta per la collaborazione, non un muro di divieti, come viene da molti percepito".

(Pagine Ebraiche, febbraio 2019)



Bambini palestinesi: le vittime del vero apartheid (arabo)

Le organizzazioni che ostentano grande indignazione per le sofferenze dei palestinesi resteranno zitte, come al solito, di fronte a questa tragedia solo perché il bambino è morto in un paese arabo, e non si può incolpare Israele?

Mohammed Majdi Wahbeh, un bambino palestinese di tre anni del campo profughi di Nahr al-Bared, nel nord del Libano, è l'ultima vittima delle leggi discriminatorie e segregazioniste che colpiscono i palestinesi che vivono in un paese arabo. Il piccolo Mohammed è morto lo scorso dicembre dopo che gli ospedali libanesi si sono rifiutati di curarlo perché i suoi genitori non erano in grado di coprire i costi dell'assistenza sanitaria. Secondo quanto riportato dai mass-media libanesi, un ospedale ha chiesto alla famiglia del bambino di pagare 2.000 dollari per ammetterlo al ricovero. Il bimbo è rimasto in coma per tre giorni prima di morire, ma nessun ospedale ha accettato di ricoverarlo perché i genitori non potevano sostenere le spese sanitarie....

(israele.net, 8 febbraio 2019)


Attivista italiano fermato per cinque ore dagli israeliani

di Giordano Stabile

Un attivista italiano, assieme a un collega statunitense, è stato arrestato e rilasciato dopo qualche ora dalle forze di sicurezza di Israele a Hebron.
Un ulteriore segnale della tensione nella città della Cisgiordania, dopo che la scorsa settimana il governo di Benjamin Netanyahu aveva deciso di porre fine alla missione degli osservatori internazionali. Il consolato italiano si è attivato subito dopo la diffusione della notizie dell'arresto - data dall'agenzia palestinese Wafa - per il rilascio del nostro connazionale. E dopo qualche ora il giovane è stato liberato
  I due attivisti appartengono alla Ong International Solidarity Movement (Ism), e sono stati fermati mentre erano vicino a una scuola nel centro della città. La Wafa ha precisato si tratta «della Scuola elementare Cordoba», vicino all'insediamento ebraico di Beit Hadassah, e che i due volevano «garantire l'uscita degli studenti» proprio in assenza degli osservatori internazionali della Tiph (Temporary international presence in Hebron), che in genere sorvegliavano quella zona critica in modo da disinnescare eventuali incidenti fra le due comunità.

 Il ruolo della Ong
  La forza internazionale vegliava sul rispetto dell'intesa siglata nel 1997 da palestinesi e Israele nell'ambito degli accordi di Oslo, e cercava di smorzare gli attriti tra gli abitanti ebrei e arabi.
  Erano 64 uomini provenienti da Italia, Svizzera, Norvegia, Svezia e Turchia, compresi 15 nostri carabinieri. Ora l'Ism sembra volere in qualche modo sostituire gli osservatori e perciò si è andata a scontrare con le forze di sicurezza israeliane. Netanyahu ha accusato la Tiph di essere «parziale» e di aver avuto atteggiamenti aggressivi nei confronti degli abitanti ebrei. Tanto meno il governo israeliano è a questo punto disposto a tollerare la presenza di «osservatori» delle Ong senza un mandato ufficiale.
  Hebron conta circa 200 mila abitanti palestinesi, ma nel centro storico, adiacente alle Tombe dei Patriarchi, uno dei luoghi sacri dell'ebraismo, c'è un quartiere ebraico con 700 persone, alle quali vanno aggiunte le settemila che vivono nel vicino insediamento di Qyriat Arba. Il massacro del 1994, quando un estremista israelo-americano uccise 19 musulmani in preghiera nella moschea costruita sopra le Tombe, ha segnato la città e portato all'intesa per istituire la missione internazionale. In base agli accordi il 20% della città è sotto il controllo israeliano, il resto è competenza dei palestinesi. Ora però manca il «cuscinetto» delle forze internazionali. -

(La Stampa, 8 febbraio 2019)


Memoria, all'Università di Bari un'aula per Renzo Fubini

Il ricordo dei docenti ebrei

di Francesco Altamura

 
Renzo Fubini
«C'è in realtà un modo di ricordare discreto, privo di enfasi e di retorica», ha affermato Adachiara Zevi rispetto alle celebrazioni del Giorno della Memoria: «Quello di restituire a ciascuno il proprio nome». È ciò che lo scorso 29 gennaio si è provato a fare da queste pagine per Renzo Fubini, docente di economia a Bari nei primi anni Trenta, espulso dalle università italiane con le leggi razziali per poi morire ad Auschwitz. Con la luce portata su una vicenda rimasta nell'oblio per 80 anni, la sensibilità mostrata per quel collega allora "colpevole" di essere ebreo ha condotto alla proposta di intitolargli un'aula presso il Polo di Economia dell'Università di Bari. L'iniziativa, promossa dal professor Ugo Patroni Griffi, ha trovato il sostegno dei direttori dei dipartimenti di Economia, Giovanni Lagioia e Vito Peragine, oltre che del rettore Antonio Felice Uricchio, per il quale il passo successivo potrà essere una giornata di studi sui docenti ebrei perseguitati nell'allora Regia Università "Benito Mussolini". Sulla scorta di studi condotti qualche anno fa dal sociologo Enzo Persichella, non sarà inutile ricordare come l'Ateneo vide iscritti in quegli anni anche studenti provenienti dai Paesi balcanici e dell'area danubiana. Il divieto d'iscrizione negli atenei del Regno sarebbe entrato in vigore per gli studenti ebrei, su disposizione del ministero dell'Educazione nazionale, a partire dall'anno accademico 1938-39. Una ricerca condotta tra le carte dell'archivio di Ateneo potrebbe dunque consentire di recuperare, con le storie dei docenti espulsi, anche quelle degli studenti dichiarati "decaduti" o "cessati" per le leggi razziali. La disponibilità a erogare delle borse di studio renderebbe possibile, nel realizzarla, il diretto coinvolgimento degli studenti, essendovene di iscritti anche in discipline storiche e archivistiche. Infine, il confronto allargato con l'associazionismo democratico, con fondazioni e istituti di ricerca, resta quanto mai auspicabile per una storia che non riguarda solo l'Università, ma che parla, anche da queste pagine, alla città tutta.

(la Repubblica, 8 febbraio 2019)


Jüdenrein

''La Francia senza ebrei". Danny Trom preconizza la fine della più grande comunità in Europa

di Giulio Meotti

ROMA - Il numero di aggressioni antisemite in Inghilterra è aumentato del 16 per cento nell'ultimo anno, salendo a 1.652 incidenti. E' il più alto mai registrato da quando il Community Security Trust ha iniziato a contarli nel 1984. Quasi 150 incidenti sono stati collegati al partito laburista, che sotto la leadership di Jeremy Corbyn ha visto l'esplosione di una radicale ostilità antisemita, una novità per un Regno Unito dove la comunità ebraica ha sempre vissuto in sicurezza. A sud invece, la Francia ha già vissuto tutto questo.
   E proprio lì nei prossimi giorni uscirà un libro il cui titolo dice tutto: La France sans les Juifs. Lo ha scritto il sociologo Danny Trom. E' un saggio sulla fine del giudaismo europeo. "Mi sono ispirato alla frase di Manuel Valls un anno dopo l'attacco del novembre 2015: 'Senza gli ebrei, la Francia non sarebbe più la Francia'", raccontava ieri Trom al Figaro. Ci sono fatti, già ben documentati, su un grande movimento di emigrazione che è aumentato in modo particolare dal 2006, dopo l'assassinio di Ilan Halimi. Dei 470 mila ebrei che ci sono in Francia, più di 50 mila hanno già lasciato il paese, verso Israele, Canada o altrove. Altri sono tornati, a causa della difficoltà di integrarsi nello stato ebraico (chi parte lascia spesso posizioni professionali ed economiche consolidate).
   "Se gli ebrei, in Francia, hanno avuto a lungo un rapporto teso, a volte doloroso, con il loro paese nel corso dei secoli, oggi affrontano una realtà nuova, particolarmente funesta", aveva detto qualche mese fa il filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut. "Sono estremamente preoccupato, sia per gli ebrei francesi sia per il futuro della Francia", ha dichiarato nel corso di un'intervista al Times of Israel. "L'antisemitismo che stiamo vivendo ora in Francia è il peggiore che abbia mai visto in vita mia, e sono convinto che sia destinato a peggiorare. A causa della crescente ostilità che gli ebrei stanno affrontando, soprattutto in
   certe periferie di Parigi, molti sentono il bisogno di lasciare i luoghi dove hanno vissuto per molto tempo. In anni recenti, decine di migliaia di ebrei si sono spostati, alcuni in Israele, alcuni in quartieri dove si sentono più sicuri. Una situazione simile sarebbe stata inimmaginabile vent'anni fa. E' senza precedenti in Francia e, quel che è peggio, è destinata a continuare".
   Prima della nascita di Israele, gli ebrei avevano cercato protezione sotto regimi più o meno benevoli. Trom analizza questa "strategia di sopravvivenza", teorizzata a lungo nella letteratura rabbinica e nel Libro di Ester. Dopo la creazione di Israele, il nuovo stato ebraico offre una garanzia unica. "In Israele non è l'individuo ebreo a essere preso di mira, ma lo stato che lo protegge, gli ebrei non si sentono presi di mira come persone, ma attraverso uno stato che li rappresenta". Ma secondo Trom, oltre all'ascesa dell'islam radicale in Francia, c'è un altro motivo che spinge a partire. "Non viene dall'islam ma dalla nuova etica penitenziale che regna in Europa. Una filosofia del vittimismo, basata sul rifiuto dei confini, l'ideologia inclusiva dell'accettazione incondizionata. Alla luce di questo muto irenismo, lo stato di Israele, che umilierebbe i palestinesi, può apparire solo osceno e arcaico. L'europeo è diventato cosmopolita e pacifista, l'israeliano è diventato un nazionalista disinibito".
   Chi offre oggi la miglior protezione agli ebrei francesi, la Repubblica laica o il sionismo? Fino agli anni Duemila era prevalsa la scelta francese. Ma da allora, dopo dodici ebrei uccisi, gli attacchi quotidiani, gli assalti alle sinagoghe, è iniziato un forte movimento di uscita dal paese. E qui si ritorna al titolo pessimista del libro. Trom pensa che questo movimento, fra accelerazioni e pause, è ormai "irreversibile". A quel punto, allora, si invererà forse anche la cupa premonizione dell'ex primo ministro Manuel Valls. E la Francia non sarà più la Francia.

(Il Foglio, 8 febbraio 2019)


EuroLega 22a giornata: Spettacolo Maccabi contro tutto e tutti. Olympiacos al tappeto

Prova ferrea del Maccabi che prosegue nel proprio grandioso periodo di forma.

Un duello di nervi, forse, ancor prima che una partita di basket. Sospinto dal proprio pubblico, il Maccabi Tel Aviv vince una sfida importantissima in chiave rincorsa playoff, battendo meritatamente l'Olympiacos. Troppo poco gioco messo in campo dagli ospiti, che sono parsi stanchi e confusionari e sono rimasti in partita solo grazie a qualche fischio generoso e a canestri da campione di Spanoulis. Partita a basso punteggio in cui, quindi, alla fine ha prevalso la difesa rocciosa del Maccabi, fisica, veloce nelle letture e nei movimenti. Due squadre agli antipodi come forma fisica, con i gialloblu di casa che centrano il terzo successo consecutivo e continuano la rincorsa a un posto in zona playoff, mentre per l'Olympiacos sono tre ko in fila che costringono la banda di Blatt non solo a una sana riflessione, ma anche a guardarsi le spalle dalla concorrenza agguerrita per la post season. La battaglia nella pancia della classifica, che coinvolge anche l'Armani Exchange Milano, è più che mai attiva.

(basket.inside, 7 febbraio 2019)


Addio all'uomo che aprì la «Porta di Sion»

Si è spento all'età di 97 anni Aharon Adolfo Croccolo, responsabile del culto della comunità ebraica spezzina, partigiano, organizzatore di quella che venne definita "Porta di Sìon" la speranza del ritorno nella terra dei padri. Nell'aprile del 1946 fu uno degli organizzatori dell'esodo di più di mille ebrei dal Molo Pirelli con le navi «Fede» e «Fenice». Anche il sindaco della Spezia Pierluigi Peracchini a nome dell'intera città si è unito al dolore della famiglia e della comunità ebraica.
«E' stato uno spezzino autentico, schietto e generoso verso tutta la comunità, ebraica in particolare e spezzina in generale - ha dichiarato il sindaco -. Partigiano ebreo, ha combattuto strenuamente per la libertà del suo Paese e contro le odiatissime leggi razziali riuscendo a sfuggire alla deportazione in Germania. Se La Spezia è conosciuta nel mondo come "Porta di Sion" ed è stata annoverata nell'Elenco dei Giusti, il merito è soprattutto di Aharon».

(il Giornale, 7 febbraio 2019)


Chanel apre due store in Israele

Per la prima volta Chanel entra con investimenti diretti in Israele, e apre due store monomarca dedicati alla bellezza e agli accessori. I negozi, attualmente in fas e di allestimento, saranno inaugurati a Tel Aviv, e precisamente negli shopping mall Tlv Gindi e Ramat Aviv Mall. Lo riferisce il sito israeliano Globes, specificando che il primo sarà di 80 metri quadrati e che, fino ad ora, il marchio francese era distribuito nel Paese mediorientale solo in alcune catene di farmacia e benessere.
Chanel Beauty è commercializzato in Israele attraverso Alpha Group, che importa e distribuisce diversi brand cosmetici.
Il marchio di bellezza della maison francese ha aperto il suo primo store dedicato 5 anni fa a Firenze, e da allora sta portando avanti la sua strategia retail in Italia e nel mondo.

(Pambianconews, 7 febbraio 2019)


Georgia-Israele, un legame indissolubile

di S. Bedarida

Ho avuto la recente opportunità di fare un breve viaggio di due giorni a Tbilisi, la capitale della Georgia. Ex Repubblica Sovietica, indipendente dal 1992, il Paese oggi si trova sulla sponda orientale del Mar Nero e conta circa 4 milioni di abitanti.Il suo paesaggio è tipico della regione caucasica, montano, e l'architettura è splendida e unica, a rappresentare davvero il ponte geografico, artistico e culturale tra Europa orientale e Asia centrale. Come ogni capitale di una nazione, a Tbilisi si possono vedere frequentemente bandiere georgiane sventolare dai balconi dei principali edifici istituzionali e non, unite alle bandiere dell'Unione Europea, a cui la Georgia si sente profondamente legata e di cui spera in futuro di poter fare parte. Inoltre, c'è anche un buon numero di bandiere israeliane, a cominciare dall'unione delle due issate sul terrazzo del palazzo che ospita la Camera di Commercio israelo-georgiana, sita lungo la centralissima Rustaveli Avenue.
   Ho deciso perciò di affrontare con interesse l'argomento assieme alla guida, un ragazzo della mia età. Gli ho detto che sono ebreo, e la sua reazione ha manifestato stupore e grande rispetto nei miei confronti. Lui infatti non aveva mai incontrato prima d'allora persone di appartenenza ebraica, ma ha dichiarato che quello che ha sempre sentito da suo padre sugli ebrei è di "esserne sempre amici, perché si tratta di persone estremamente brillanti e intelligenti, da cui poter imparare". Sono rimasto letteralmente senza parole: in un contesto globale in cui ancora oggi quando esplicito la mia identità sono spesso oggetto di domande non sempre poste con fine di interesse, ma talvolta con lo scopo di generare sfottò e imbarazzo, non mi era mai capitato di avere a che fare con qualcuno che avesse come unica immagine di noi, pervenutagli tramite un sentito dire, qualcosa di simile a questo. Un sentito dire estremamente positivo e privo dei più comuni stereotipi.
   La guida allora ha sottolineato con fierezza la grande amicizia fra la Georgia e Israele, e il legame anche a livello non solo politico ma anche umano, da parte dei singoli. Il rapporto fra i due stati nasce innanzitutto dal profondo senso di ospitalità e accoglienza della popolazione georgiana nei confronti degli stranieri. Gli ebrei georgiani hanno infatti da sempre trovato un'oasi di grande pace in territorio georgiano, e la popolazione locale è fiera di poter ospitare una comunità ebraica.
   Gli ebrei georgiani, che hanno toccato anche le 50mila unità, sono ridotti oggi a qualche migliaio, a causa della massiccia emigrazione proprio verso Israele, avvenuta prevalentemente per ragioni economiche e di opportunità lavorativa.
   In ogni caso, la rottura e la tensione dei rapporti fra la Georgia e la Russia, a causa del contenzioso politico legato ai territori di Abcasia e Ossezia del Sud, con conseguenti sanzioni commerciali da parte dei secondi, e la relativa vicinanza geografica tra la Georgia e Israele hanno permesso l'intensificarsi delle relazioni commerciali fra i due paesi e l'attrazione di investimenti nel paese caucasico proprio da parte di quegli ebrei georgiani emigrati e figli di emigrati, i quali hanno potuto beneficiare dell'ottenimento della doppia cittadinanza e investire in proprietà immobiliari nel paese d'origine. Infine, nel febbraio 2014, a cementare ulteriormente l'amicizia fra i due paesi, l'allora primo ministro georgiano Garibashvili, alla presenza dell'omologo israeliano Netanyahu, ha piantato un albero nella Foresta delle Nazioni, in occasione di Tu Bi Shvat. La Georgia è un paese davvero interessante e particolare da visitare, per i paesaggi, l'architettura e la cucina. Aver avuto l'opportunità di scoprirvi anche un sincero alleato e amico del popolo ebraico e di Israele ha reso questo viaggio ancor più significativo e memorabile.

(UGEI - HaTikwa, 7 febbraio 2019)


Forze israeliane fermano un libanese che ha attraversato la linea demarcazione

BEIRUT - Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno arrestato un cittadino libanese che ha attraversato la linea di demarcazione tra Libano e Stato ebraico. Lo riferisce il sito informativo israeliano "Walla!". L'uomo ha attraversato la linea di demarcazione vicino a Har Dov, vicino alle fattorie di Shebaa, lungo la parte orientale della demarcazione tra Israele e Libano. Secondo quanto riferisce l'emittente televisiva libanese "Lbci", l'uomo fermato è Omar Bahij Hakim, originario dell'area dello Chuf, nel Libano centromeridionale. Le autorità israeliane hanno poi consegnato l'uomo alle forze della missione ad interim delle Nazioni Unite in Libano (Unifil), attraverso il valico di Naqura, secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa libanese "Nna". Infine, le forze di Unifil hanno consegnato l'uomo ai servizi di intelligence dell'esercito.

(Agenzia Nova, 7 febbraio 2019)


In Siria i missili russi capaci di abbattere i jet di Gerusalemme

di Giordano Stabile

 
S-300 di produzione russa
La Siria attiva i sistemi di difesa anti-area S-300 e il premier Benjamin Netanyahu annuncia che andrà Mosca per incontrare Vladimir Putin. La battaglia nei cieli siriani non è finita e il confronto fra Israele e Iran coinvolge sempre più direttamente la Russia.
   Il nuovo allarme è scattato quando la società ImageSat International ha pubblicato immagini satellitari che mostrano tre dei quattro lanciatori dislocati a Masyaf, nella Siria nordoccidentale, in posizione operativa. Un quarto lanciatore è ancora coperto dai teli mimetici. Quando a settembre Mosca ha annunciato che avrebbe fornito i sistemi a Damasco, gli analisti avevano previsto che ci sarebbero voluti circa sei mesi prima che fossero pronti. A conferma di ciò fonti siriane ribadiscono che l'addestramento dei militari siriani dovrebbe concludersi a marzo e a quel punto la Siria, sotto supervisione russa, sarebbe in grado di abbattere i cacciabombardieri israeliani fino a 150 chilometri di distanza, in pratica anche se attaccassero senza entrare nello spazio aereo siriano.
   È un cambio degli equilibri che preoccupa il premier Benjamin Netanyahu. Il 21 febbraio ci sarà un vertice con Vladimir Putin a Mosca. È il primo incontro dall'abbattimento per errore di un aereo militare russo il 17 settembre scorso, durante un raid israeliano. Subito dopo Putin ha deciso di fornire gli S-300 a Damasco e ha avuto soltanto colloqui telefonici, anche burrascosi, con Netanyahu. I rapporti però non si sono mai interrotti. Dopo una pausa di alcuni mesi i bombardamenti israeliani contro obiettivi iraniani sono ripresi, in «coordinazione» con le forze armate russe che hanno il controllo dei cieli siriani. Prima limitati, questi attacchi hanno assunto proporzioni mai viste un mese fa, quando ondate di bombe di precisione e missili hanno causato gravi danni all'aeroporto internazionale di Damasco. Almeno 21 persone sono morte compresi, secondo fonti dell'opposizione al regime, 12 Pasdaran.
   I raid hanno distrutto parte delle difese anti-aeree di fabbricazione russa attorno a Damasco: alcuni vecchi S-125 e un più moderno lanciatore Pantsir S-1. Nulla di paragonabile però agli S-300, che costituiscono una seria minaccia anche alle versione più avanzate degli F-15 e F-16 di fabbricazione americana. L'aviazione israeliana ha ribadito di essere in grado di aggirare queste difese ma il rischio che si ripeta l'abbattimento di un cacciabombardiere, come è avvenuto con un F-16 il 10 febbraio dell'anno scorso, è reale. Mosca cerca di tenere una posizione equidistante. Ha fatto pressioni, almeno a parole, sull'Iran perché allontani i suoi consiglieri militari a 100 chilometri dalla frontiera israeliana. La scorsa settimana sono arrivati in Israele l'inviato speciale per la Siria Alexander Lavrentiev e il viceministro degli Esteri Sergey Vershinin con l'obiettivo di allentare le tensioni e proporre una «coordinazione» più avanzata fra russi e israeliani in Siria. Ma i nodi dovranno essere sciolti da Netanyahu e Putin.

(La Stampa, 7 febbraio 2019)


Israele, primarie nel Likud: in testa gli avversari di Bibi Netanyahu

A sorpresa gli uomini del premier scavalcati da "nemici" come l'ex ministro Saar

di Vincenzo Nigro

Un passaggio delicato per la vita politica israeliana, anche se apparentemente minore, ha fatto scattare un campanello d'allarme per il premier Benjamin Netanyahu. Il Likud ha tenuto ieri le primarie per decidere quali saranno i candidati alle elezioni del 9 aprile e in quale posto saranno nella lista del partito. Il primo di diritto sarà Netanyahu. Ma immediatamente dopo ci sono tutti avversari interni del premier, fra cui alcuni che il premier da mesi ha messo nel mirino, come l'ex ministro dell'Interno Gideon Saar.
   Il primo degli eletti nelle primarie è il presidente della Knesset, Yuli Edelstein: Bibi aveva litigato con lui l'anno scorso perfino per chi fra i due aveva diritto a tenere un discorso in un'occasione ufficiale. Poi c'è il ministro dei Trasporti, Yisrael Katz, con cui Bibi è in fredda da tempo. Immediatamente dopo un "nemico" vero, l'ex ministro Gideon Sàar che da 4 anni non era più in politica e che Netanyahu era arrivato ad accusare di un complotto ordito con la complicità addirittura del capo dello Stato Reuven Rivlin, altro oppositore del primo ministro nel Likud. Altro nome nella testa di lista l'attuale ministro della Pubblica sicurezza (polizia), il fedele Gilad Erdan, che però secondo lui non ha fatto abbastanza per fermare le inchieste della polizia che certamente porteranno alemno a una incriminazione del premier prima delle elezioni. Gli uomini e le donne di Bibi (come la responsabile della Cultura Miri Regev) arrivano immediatamente dopo, nessuno si è classificato abbastanza in alto. In Israele i sondaggi danno ancora il Likud come primo partito, con probabili 30 seggi sui 120 della Knesset. Ma presto il procuratore generale del paese dovrebbe incriminare formalmente il premier per una delle inchieste a cui è stato sottoposto in questi mesi. E da quel momento in poi la battaglia per la successione a Bibi nel partito potrebbe accendersi anche rapidamente. Netanyahu rimane un leader politico popolare e capace, soprattutto per il modo in cui ha saputo gestire il lungo periodo di miglioramenti economici e nella sicurezza che Israele ha vissuto negli anni del suo "regno". Ma il panorama politico del paese sta cambiando. Rimane alto nei sondaggi il nuovo partito ("Resilienza") di un ex capo di stato maggiore, Benny Gantz, che ha annunciato la sua candidatura solo pochi giorni fa. Nei sondaggi Gantz viaggia sui 22 deputati, che gli permetterebbero di avere un ruolo decisivo nella formazione del nuovo governo dopo il 9 aprile. Ieri nella prima intervista rilasciata a un quotidiano, Gantz ha parlato di palestinesi; secondo l'ex capo dell'esercito che guidò Israele nell'ultima sanguinosa guerra a Gaza, Israele potrebbe ritirarsi anche dalla Cisgiordania. Gantz ha assicurato che Israele "non cerca di dominare nessuno, non deve dominare un altro popolo". L'uscita di Gantz ha scatenato le reazioni del Likud, e di Netanyahu in persona: "Abu Mazen si è felicitato perché ha capito che Gantz compirà un altro ritiro, in Cisgiordania. E gli ha augurato successo. Dobbiamo vincere noi: la scelta è chiara: o un governo di sinistra guidato da Gantz, oppure un governo del Likud, diretto da me".

(la Repubblica, 7 febbraio 2019)


Il deportato a Dachau, militari e bimbi sul palco d'onore

di Paolo Mastrolilli

WASHINGTON - Il sopravvissuto dei lager scampato anche dalla strage nella sinagoga di Pittsburgh; il poliziotto ferito sette volte mentre cercava di fermare il killer; il deportato a Dachau e i veterani americani che avevano contribuito a liberarlo; il padre di un marinaio ucciso nell'attentato di al Qaeda contro la nave USS Cole. Gli ospiti di Trump al discorso sullo stato dell'Unione, come sempre accade in queste occasioni, sono stati scelti per sottolineare con storie di vita reale i suoi punti politici.
   Judah Samet, 81 anni e originario dell'Ungheria, è sopravvissuto tanto all'Olocausto, sfuggendo alla morte a Bergen Belsen, quanto all'attacco dell'ottobre scorso contro la Tree of Life Congregation di Pitts burgh, perché era arrivato quattro minuti in ritardo. Timothy Matson invece è il poliziotto che era accorso per fermare la strage, ed è stato ferito sette volte mentre cercava di fermare il killer. Trump ha usato questa tragedia per sottolineare il pericolo dell'antisemitismo risorgente, e insieme esaltare il meglio dello spirito americano nelle forze dell'ordine.
   Joshua Kaufman, 90 anni, a Dachau era stato costretto a rimuovere i cadaveri degli ebrei uccisi nelle camere a gas con il Zyklon B. Dopo la guerra si era trasferito in Israele, dove aveva prestato servizio nelle forze armate, e poi a Los Angeles. Martedì sera ha ritrovato Irving Locker ed Herman Zeitchik, veterani che avevano partecipato allo sbarco in Normandia, e poi avevano liberato dei campi di concentramento, tra cui proprio Dachau. Vite evidenziate per ricordare il meglio della storia americana, e unificare il paese oggi diviso intorno ai suoi valori fondanti.
   Tom Wibberley è invece il padre del marinaio Craig Wibberley, ucciso nell'attacco contro la nave americana Cole, che aveva rappresentato l'inizio dell'offensiva di al Qaeda, e ricorda la necessità di continuare a combattere il terrorismo.
   Debra Bissell, Heather Armstrong e Madison Armstrong sono parenti di Gerald e Sharon David, uccisi da un immigrato del Guatemala ritenuto illegale, e insieme all'agente della Homeland Security Elvin Hernandez hanno richiamato l'attenzione sul tema delle migrazioni e del muro. Buzz Aldrin, il secondo uomo a mettere piede sulla Luna, ha rilanciato l'ambizione degli Usa e tornare nello spazio, mentre la ragazzina di dieci anni Grace Eline, sopravvissuta ad un tumore al cervello, ha commosso e rafforzato l'impegno per debellare il cancro soprattutto fra i bambini.

(La Stampa, 7 febbraio 2019)


Le persecuzioni del popolo ebraico

Lettera a "il Giornale"

Opinionisti e storici si sono chiesti la ragione del male che per duemila anni ha attanagliato il popolo ebraico. Tutti vedono l'origine dell'infinita serie di tragici eventi nell' antisemitismo cristiano, nella follia di Hitler o più genericamente alle sventure della storia. Solo rarissimi studiosi si sono azzardati ad affrontare la questione nell'ottica delle Sacre Scritture. Come narrano i Vangeli, la moglie di Ponzio Pilato ricevette in sogno il «suggerimento» di non condannare Gesù. Il governatore romano prese alla lettera l'esortazione onirica ricevuta dalla moglie. Per dimostrare la riluttanza ad assumersi la responsabilità di versare il sangue di Cristo, dapprima lo difese asserendo che «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa» (Giovanni 19,4), poi, quando realizzò che la folla persuasa dai capi dei sacerdoti lo voleva morto a tutti i costi, sentenziò un laconico «Non sono responsabile di questo sangue, vedetevela voi!» (Matteo 27,24). Enigmaticamente e senza apparente senso, al lavaggio di mani di Pilato il popolo rispose «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Matteo 27,25b ). Quasi tutti gli esegeti non hanno saputo esplicare l'arcano sibillino. Secondo alcuni classici dell'esegesi neotestamentaria ebraica tra cui l'americano Samuel Sandmel, tale formula di automaledizione avrebbe «causato lo scorrere di un oceano di sangue umano, e un'inarrestabile corrente di miserie e di desolazione». Sarà un caso, ma di lì a pochi anni dall'enigmatica «auto profezia» sul popolo eletto piombarono sciagure di ogni sorta. Poi si dice che le parole non hanno peso…

Gianni Toffali
Dossobuono (Verona}

(La Stampa, 7 febbraio 2019)


In Emilia potrebbe capitare di sentire qualcuno che grida infuriato a qualcun altro: "Cat vègna un cancher", che è una vera e propria formula di maledizione. Anche l’imprecatore però in fondo non pensa che il suo nemico sarà davvero colpito da un cancro in conseguenza delle sue parole. Nel caso invece della "automaledizione" qui presentata qualcuno è convinto che abbia avuto una letterale, strabiliante efficacia. Forse perché ci vede la conferma di quello che ha sempre creduto e sperato sia vero: cioè che quegli antipatici di ebrei sono stati letteralmente e definitivamente maledetti da Dio. E così pensando, con questa semplice, interna aspirazione attira su di sé una vera, autentica “automaledizione”.
Proponiamo un'altra spiegazione del contesto di quel versetto, tratta da “La superbia dei Gentili”. M.C.


La Tomba dei Re fa discutere Francia ed Israele

Il sito archeologico è chiuso dal 2010 e gli ebrei ultra-ortodossi chiedono la riapertura per poter pregare

 
Ebrei ortodossi fuori il sito archeologico
Dal 1843 fu stabilito a Gerusalemme un consolato francese sotto la cui amministrazione ricade, in base ad accordi firmati con l'Impero ottomano, l'antico complesso di catacombe noto come Tombe dei Re.

 La vicenda
  Il sito archeologico, che risale almeno a due millenni fa, è stato chiuso nel 2010. Secondo quanto riporta "Le Figaro", gli ebrei ultra-ortodossi ne rivendicano da tempo l'accesso. In questi giorni, il quotidiano "Israel HaYom" ha riferito di presunti colloqui in corso in questi giorni tra Israele e Francia per l'apertura delle grandi catacombe scavate nella roccia. Il quotidiano "Israel HaYom" riporta fonti del Ministero degli esteri di Tel Aviv secondo cui la Francia concederebbe l'apertura dopo aver avuto la certezza del riconoscimento della sovranità e della proprietà sul complesso. Due punti su cui il governo israeliano non sarebbe d'accordo.

 I colloqui
  Le autorità locali chiedono da tempo al consolato transalpino di consentire ai fedeli di pregare in loco. La risposta finora, però, sarebbe stata sempre la stessa, secondo quanto riferito: il sito è in ristrutturazione e non vi si può accedere. "Israel HaYom" riferisce anche che negli incontri tra il presidente Macron e il suo omologo Netanyahu la questione del riconoscimento della sovranità e della proprietà sarebbe stata sollevata. L'inquilino dell'Eliseo ne avrebbe parlato anche al presidente dello Stato d'Israele, Reuven Rivlin, nella visita ufficiale di quest'ultimo a Parigi.

(In Terris, 7 febbraio 2019)


Israele, elezioni 2019: tutto quello che c'è da sapere

di Ugo Volli

Chi segue le elezioni israeliani anche dall'Italia, dove i partiti non mancano - non parliamo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna dove sono due o tre - non può che essere un po' sconcertato. Alle elezioni si presenta senza dubbio, il Likud, il partito di Bibi Netanyahu, cui viene accreditato, nei sondaggi che si succedono quasi quotidianamente, ora un po' di più ora un po' di meno di un quarto degli eletti (di solito fra i 28 e 32 parlamentari dell'unica camera, la Knesset, che ha 120 membri). Alla sua destra, la "casa ebraica" dei sionisti religiosi si è divisa in due, con la scissione del leader Bennett e del ministro della giustizia Ayelet Shaked che hanno costituito "La nuova destra".
   Ma vi sono altri due partitini che sono al limite del quorum (3,25%) necessario per avere rappresentanti. Sempre a destra, anche se è uscito dalla coalizione, vi è il partito di Liberman, anch'esso come "casa ebraica" poco sopra (ma a volte sotto) il quorum. Il che significa che c'è il rischio concreto che il 10% del corpo elettorale a destra non abbia rappresentanza.
   Vicino al Likud, ma più al centro vi è il partito del ministro dell'economia Kahlon, che dovrebbe farcela. A sinistra è poco sopra al quorum il post-sionista (un eufemismo per dire che non credono allo stato ebraico) Meretz, e anche il vecchio partito laburista, in caduta libera. La sua ex-alleata Tzibi Livni è sotto. Il partito centrista e antireligioso di Lapid perde molto anche lui, ma dovrebbe farcela. Tutti questi voti dispersi dovrebbero andare al nuovo partito del generale Ganz, cui si è associato anche l'ex ministro della difesa Ya'alon. Gli sono attribuiti 20 seggi, circa il 15% dei deputati; ma se come è possibile riuscisse ad attirare Lapid e altri del centro sinistra, potrebbe tentare di superare Netanyahu verso quota 30. Ma il Likud sta reagendo cercando anch'esso di aggregare forze sulla destra. Non si tratta di una competizione a vuoto, perché al leader del partito più forte viene assegnato di solito il primo tentativo per formare la maggioranza di governo.
   Oltre a quelli che ho citato, sono in gioco tre partiti arabi, che questa volta forse non riusciranno a fare una lista unitaria, i due partiti religiosi uno askenazita e uno sefardita (più un secondo partito sefardita che non era riuscito a entrare in parlamento alle ultime elezioni) e diversi altri partitini, di cui qualcuno potrebbe anche riuscire a superare il quorum.
   La ragione di questa molteplicità, oltre il sistema elettorale proporzionale con collegio unico nazionale e scarsa barriera all'ingresso, che non ha mai consentito in Israele se non governi di coalizione, e al proverbiale gusto ebraico per il dissenso, sta nel fatto che l'asse destra/sinistra rappresenta male gli schieramenti: vi sono distinzioni etniche fra arabi ed ebrei, la differenza fra i settori religiosi e quelli laici, il contrasto fra liberisti e filosocialisti, quello fra chi pensa che la sicurezza del paese si difenda rafforzando gli insediamenti e non crede alle trattative con l'Autorità Palestinese e coloro che pensano esattamente il contrario.
   Vi è anche il fatto che Netanyahu, senza dubbio il miglior primo ministro dai tempi di Ben Gurion, è in carica da molto tempo e un po' l'elettorato si fida di lui e teme di non poter fare a meno della sua esperienza di statista, un po' ha voglia di cambiamento ed è tentato dalle facce nuove, anche da quella di Ganz, che ha solo esperienza militare e non ha spiegato chiaramente dove vorrebbe guidare Israele nella difficile situazione che lo circonda, ma è prevalentemente percepito come portatore di una visione del mondo di sinistra.
   Bisogna aggiungere che queste elezioni sono turbate dall'intervento dei magistrati inquirenti che - ormai sembra sicuro - in piena campagna elettorale incrimineranno Netanyahu per tre accuse che a me, da lontano, sembrano piuttosto assurde. Bibi avrebbe ricevuto da amici imprenditori dei doni in sigari o champagne dell'ordine delle migliaia di euro in dieci anni; avrebbe discusso con due diversi proprietari di media della possibilità di avere una migliore copertura dell'attività di governo in cambio di favori che di fatto non si sono mai concretizzati. Aggiungete che la moglie è stata accusata di non aver mai contabilizzato i centesimi che riceveva restituendo le bottiglie dell'acqua usata e avete il quadro di un castello d'accusa che - lo ripeto - a me da lontano appare molto pretestuoso e vuoto, ma che è stato pompato con grande energia dalla stampa e dai concorrenti politici.
   E' difficile capire l'effetto che avrà sull'elettorato questa incriminazione annunciata. E ancor più difficile fare previsioni sulle elezioni, ancor prima del consolidamento delle alleanze e della presentazione delle liste.
   Ma in Israele tutto può accadere fino all'ultimo; nelle elezioni scorse, Netanyahu era dato per perdente e riuscì a recuperare solo negli ultimi giorni. I sondaggi mostrano un elettorato che non vuole un governo di sinistra o centrosinistra, perché ha capito quanto disastrosa sia stata la linea di Peres (più che di Rabin che la subì) delle cessioni territoriali alle entità terroriste.
   I dati economici sono buoni, la posizione internazionale di Israele è la migliore da sempre. Ma i rischi non mancano, dentro e fuori il paese. Dunque le elezioni non sono affatto scontate, implicano una scelta vera. Bisognerà seguirle con molta attenzione e rispetto, sperando che la scelta dell'elettorato rafforzi Israele e gli permetta di affrontare con una guida sicura le sfide che verranno.

(Progetto Dreyfus, 6 febbraio 2019)


Gantz apre al ritiro dalla Cisgiordania. Abu Mazen: "Incoraggiante"

Il generale allude a una possibile evacuazione di alcuni insediamenti

di Giordano Stabile

 
Il candidato premier Benny Gantz ha aperto alla possibilità del ritiro di Israele da alcuni insediamenti in Cisgiordania. Gantz ha detto al giornale Yedioth Ahronoth che il precedente ritiro da Gaza «è stato un processo legale condotto dal governo israeliano e portato a termine dall'esercito dagli abitanti degli insediamenti, in un processo doloroso, ma positivo: dobbiamo fare tesoro delle lezioni che abbiamo imparato in quella occasione e applicarle altrove».
La presidenza dell'Autorità palestinese ha accolto con favore queste dichiarazioni. Il portavoce di Abu Mazen Nabil Abu Rdeineg ha precisato che le parole di Gantz sono «incoraggianti, soprattutto se avrà successo e manterrà le sue posizioni». Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha invece replicato su Facebook che l'ex capo delle Forze armate «punta a formare un governo di sinistra, con l'aiuto dei partiti arabi e impedendo alla destra di ottenere la maggioranza».
   Gantz ha poi precisato che un governo da lui diretto «non prenderà decisioni unilaterali sull'evacuazioni di comunità». Il tema degli insediamenti è così entrato di prepotenza nella campagna elettorale. Due giorni fa una dozzina di ministri e deputati hanno firmato una dichiarazione in appoggio al movimento Nahal, che promuove il piano di nuovi insediamenti in Cisgiordania lanciato dall'ex primo ministro Yitzhak Shamir. Prevede a termine una popolazione di due milioni di ebrei israeliani in Giudea e Samaria, cioè la Cisgiordania.
   La dichiarazione chiede anche un impegno da parte dei candidati premier a escludere la «soluzione a due Stati», cioè la nascita di uno Stato palestinese indipendente. Fra i firmatari ci sono il presidente della Knesset Yuli Edelstein e i ministri Yisrael Katz, Yariv Levin, Zeev Elkin, Gilad Erdan, Ayelet Shaked, Naftali Bennett, Miri Regev, Tzachi Hanegbi. Un fronte che va dai partiti religiosi alla destra del Likud e che farà valere il suo peso nella sfida fra Netanyahu e Gantz.

(La Stampa, 6 febbraio 2019)


Israele denuncia rapporti tra terrorismo e Ong

Israele ha denunciato intensi rapporti fra il terrorismo islamico e alcune Ong. Il Ministero dello Stato ebraico per gli affari strategici ha distribuito alla stampa un rapporto intitolato "Terroristi in guanti bianchi", in cui vengono sviscerati nel dettaglio i legami tra il terrorismo e queste organizzazioni non governative, alcune delle quali ricevono finanziamenti da paesi europei e da fondi filantropici.
Secondo il rapporto esistono più di cento precisi collegamenti tra Hamas e Fplp e ong, atte alla promozione di campagne in favore della delegittimazione di Israele:
"Hamas ed il Fronte popolare per la liberazione della Palestina utilizzano una rete di Ong che perorano il boicottaggio di Israele come una tattica addizionale nel loro obiettivo finale di smantellare lo Stato di Israele".
Il ministro di pubblica sicurezza israeliano Gilad Erdan ha affermato nel corso della conferenza stampa:
"Il rapporto rivela la vera natura e i veri obiettivi del movimento BDS, e la sua connessione con il terrorismo e l'antisemitismo. Quando la gente parla degli obiettivi del movimento BDS, non si preoccupa di andare a leggere le dichiarazioni ufficiali dei suoi dirigenti. Se lo facesse, apparirebbe chiaro che gli obiettivi di quei dirigenti sono gli stessi dei capi delle organizzazioni terroristiche palestinesi. Il movimento BDS rifiuta il diritto di Israele ad esistere come stato nazionale ebraico all'interno di qualsiasi confine: vogliono che Israele venga cancellato dalla carta geografica. Per i terroristi, promuovere il boicottaggio è un modo diverso per perseguire lo stesso obiettivo".
Gilad Erdan ha continuato, sottolineando che membri di Hezbollah si presentano nei parlamenti europei come attivisti della società civile quando in realtà il loro obiettivo è di far rilasciare i terroristi.
Erdan ha l'intenzione condividere il rapporto con l'International Homeland Security Forum:
"Chiediamo loro di esaminare i legami terroristici delle ong che operano nei loro paesi. Faccio appello a tutti i governi, alle istituzioni dell'Unione Europea, agli enti filantropici, alle banche e alle piattaforme on-line per la raccolta fondi affinché pongano fine a ogni tipo di sostegno a favore di organizzazioni legate al terrorismo".
Questi tipi di legami non sono nuovi. Già nel dicembre scorso il quotidiano britannico The Daily Telegraph ha accusato la Commissione europea di aver finanziato l'Islamic Human Rights Commission (IHRC), un'organizzazione non governativa di chiaro stampo antisemita.

(Progetto Dreyfus, 5 febbraio 2019)


Bergoglio è diventato un leader planetario

di Giuseppe Scanni

Quando ieri il Papa è atterrato a Roma, la stampa che lo ha accompagnato, i diplomatici che l'hanno atteso per inviargli subito lettere di ponderata congratulazione, hanno respirato l'aria nuova che ha reso questo viaggio diverso dagli altri.
   Era partito un missionario, è tornato assieme a lui un leader planetario.
   Soltanto il 31 gennaio, pochi giorni or sono, il più influente capo di Stato del mondo, senza il conforto di una ragionevole motivazione, ha spiegato che diciotto anni di politica estera mondiale, di guerre e di scontri e di attentati e di violenze, erano passati invano perché, così come accaduto con l'Impero britannico, con l'Armata Rossa, anche le Forze armate a stelle e strisce dovevano lasciare il territorio afghano senza aver raggiunto i propri obbiettivi, ammettendo implicitamente la vittoria dei talebani. No. Non ci sarà la dolorosa fuga che segnò l'uscita precipitosa dal Vietnam.
   Ma Americani ed alleati, ad iniziare dagli Italiani, iniziano a studiare le modalità ed a contare i giorni che li separano dalla ritirata. La legittimazione della guerra per battere il terrorismo, una teoria che fu la base essenziale della politica estera statunitense dopo l'11 settembre, non ha germinato i frutti desiderati. Anzi, siamo spinti dall'empiria a sospettare che si può sconfiggere il terrorismo con l'intelligence, con addestrate forze di polizia, con reparti specializzati, non con gli eserciti. La teoria del conflitto asimmetrico si è dimostrata una teoria, che ha attratto molti, compreso chi scrive. Tuttavia una teoria che, sconfitta dalla realtà, può generare catastrofi.
   Anche perché questa logica è stata accompagnata dalla generale opinione che la molla che innesta il terrorismo è la religione, segnatamente quella musulmana.
   Spetterà ad altri disquisire tra la Provvidenza del santo Spirito e la casualità degli avvenimenti, ma è un fatto che il programmato viaggio di Papa Francesco è seguito a pochi giorni dallo smantellamento, persino indecoroso nella forma, della logica che aveva sorretto sinora gli equilibri mondiali. Nulla è più pericoloso del vuoto e Francesco il missionario lo ha riempito, facendosi accompagnare da parte influente dei maomettani sunniti e da un influente gruppo di Rabbini. Il papa ha firmato, assieme al sapiente e coraggioso Iman Ahmad al-Tayyib e dinnanzi ai rabbini presenti, un documento essenziale, che appare anzitutto singolare per la chiara esposizione lessicale, che lo distingue da espressioni giuridico-diplomatiche o teologiche non facilmente comprensibili. Ahmad al-Tayyib, che presiede la più prestigiosa ed autorevole sede religiosa ed accademica sunnita, l'Università di al-Azhar, fu affascinato dal pellegrino Francesco che gli rese visita a Il Cairo nel 2017, intervenendo alla Conferenza internazionale per la pace organizzata dalla sua Università, e si espresse, non senza critiche nel variegato mondo dei governi arabi, sul ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell'opera di consolidamento dei principi di cittadinanza e integrazione.
   La dichiarazione comune siglata ad Abu Dhabi muove "da una riflessione profonda sulla realtà contemporanea", condanna l'ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali - delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra - che porta a far "morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani" in "un silenzio internazionale inaccettabile".
   Condanna tutte le pratiche che minacciano la vita e chiede a tutti di "cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all'odio, alla violenza, all'estremismo e al fanatismo cieco" e chiede di "smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione".
   Perché Dio "non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza", "non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente".
   Si dichiara perciò "fermamente" che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue.
   "Queste sciagure - è scritto - sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell'uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione".
   Da qui, pertanto, in accordo con i precedenti documenti internazionali che hanno sottolineato l'importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, viene attestata tra le altre anche la protezione dei luoghi di culto, templi, chiese e moschee e che "ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale".
   Soltanto pochi anni fa, quel santo teologo che è papa Benedetto XVI provocò un appannamento del prestigio internazionale della Santa Sede, certamente non agevolato dalla opacità della iniziativa estera del suo Segretario di stato dell'epoca, il cardinale Bertone. Quel pontificato capì meno di quanto ci si potesse attendere la nuova sfida che la globalizzazione, la società liquida, imponevano alla Chiesa.
   Perso con il Cardinale Parolin, allontanato da Roma a Caracas nel 2009, il polso dei nuovi quesiti internazionali, sembrò che si fosse dispersa la grande eredità lasciata da Giovanni Paolo Il, pontefice che godeva di universale popolarità anche per la spallata all'impero sovietico.
   La Santa Sede subì l'avvitamento su schemi bipolari, oramai in disuso dopo la fine della guerra fredda, individuando nella secolarizzazione, quasi fosse un redivivo comunismo, il nemico ideologico da abbattere.
   Le ansie per una nuova evangelizzazione affrontate con ampie denunce sui pericoli generati dal relativismo morale. Il prestigio internazionale della Chiesa non è monetizzabile come quello degli Stati, ma ha un peso nel sistema delle relazioni internazionali di difficile ponderazione.
   Papa Bergoglio è sicuramente un innovatore, molto razionale, che persegue la sua diplomazia per realizzare le stesse indicazioni di contenuto di Papa Paolo VI: tutelare la Chiesa Cattolica e le Chiese locali; tutelare la pace e qualsiasi premessa a questa, ovvero - ispirandosi alla Legge naturale - operando per i diritti umani e la giustizia.
   Con il ritorno a Roma del cardinale Parolìn e con un impegno personale non sospettato papa Francesco ha pian piano ricostituito un nuovo, solido prestigio per la Santa Sede. Oggi nessun poliziotto belga penserebbe di sequestrare per ore l'intera Conferenza Episcopale del Belgio alla inutile ricerca di prove per vergognosi supposti reati.
   Pian piano sono tornate aperte le ambasciate presso la Santa Sede, che nell'ultimo quinquennio ratzingheriano avevano chiuso i battenti perché considerate troppo costose per svolgere esclusivamente compiti di rappresentanza in pubbliche cerimonie. Oggi si torna a lavorare. Lo scontro reale tra Trump ed il papato eccita le migliori fantasie, e ogni iniziativa del Pontefice, dalla Conferenza di Bari con la Chiesa Ortodossa, al viaggio natalizio (coraggioso oltre che missionario) del segretario di stato Parolin in Iraq, a conforto ed aiuto di una Chiesa locale martirizzata, sono, ad esempio, seguite dal sistema diplomatico mondiale con forte interesse, leggendo contro luce pagine di relazioni con le crisi regionali in atto. Il Papa, nel momento in cui il titolare dell'unica super potenza mondiale ha tirato i remi in barca, perdendo la fiducia di chi sicuramente si sentiva alleato certo e si scopre socio di minoranza e pagante in una società per azioni che lo ha escluso dal management attivo, ha offerto con il documento di Abu Dhabi, con la sua preghiera in comune con le altre religioni, con il conforto ai cattolici che in quell'Emirato rappresentano la parte assolutamente più umile della popolazione, la speranza che non saranno sconvolti gli equilibri che sostengono la pace, per definizione, mai certa.
   Francesco ha tracciato una suggestiva similitudine tra la fraternità e l'arca costruita da Noè per salvare l'umanità dalla distruzione:
   "Noi oggi, nel nome di Dio, per salvaguardare la pace, abbiamo bisogno di entrare insieme, come un'unica famiglia, in un'arca che possa solcare i mari in tempesta del mondo: l'arca della fratellanza". Il punto di partenza per cogliere la fratellanza come nuova 'arca di salvezza' per l'umanità è "riconoscere che Dio è all'origine dell'unica famiglia umana. La fratellanza - ha sottolineato il Papa, citando il suo predecessore Benedetto XVI - è vocazione contenuta nel disegno creatore di Dio". Per questo "non si può onorare il Creatore senza custodire la sacralità di ogni persona e di ogni vita umana".
   Per questo rappresenta "una grave profanazione del Nome di Dio utilizzarlo per giustificare l'odio e la violenza contro il fratello"; "non esiste violenza che possa essere religiosamente giustificata".
   Papa Francesco riconosce che la volontà di affermare sé stessi e il proprio gruppo sopra gli altri è "un'insidia che minaccia tutti gli aspetti della vita", perfino l'apertura al trascendente e la religiosità. Per questo anche la condotta religiosa va "continuamente purificata dalla ricorrente tentazione di giudicare gli altri nemici e avversari". "Ciascun credo è chiamato a superare il divario tra amici e nemici, per assumere la prospettiva del Cielo, che abbraccia gli uomini senza privilegi e discriminazioni". Occorre riconoscere - ha aggiunto Papa Francesco delineando la giusta relazione tra l'esperienza religiosa e la fratellanza - che quest'ultima si fa carico della stessa pluralità religiosa.
   La fratellanza, dal punto di vista delle diverse identità religiose, non comporta "né l'uniformità forzata, né il sincretismo conciliante: quel che siamo chiamati a fare, da credenti, è impegnarci per la pari dignità di tutti, in nome del Misericordioso che ci ha creati e nel cui nome va cercata la composizione dei contrasti".
   Per "custodirci a vicenda nell'unica famiglia umana" e "alimentare una fratellanza non teorica, che si traduca in autentica fraternità", papa Francesco ha chiamato in causa le religioni e la loro vocazione a essere "canali di fratellanza anziché barriere di separazione". Il contributo delle religioni al bene della famiglia umana avviene innanzitutto, "come in ogni famiglia, mediante un dialogo quotidiano ed effettivo", richiede "il coraggio dell'alterità, che comporta il riconoscimento pieno dell'altro e della sua libertà, e il conseguente impegno a spendermi perché i suoi diritti fondamentali siano affermati sempre, ovunque e da chiunque. Perché senza libertà non si è più figli della famiglia umana, ma schiavi". È certo che negli Stati Uniti o in Italia, o in qualche 'sovrana' Repubblica si leveranno voci, anche dall'interno della Chiesa, critiche verso la rinnovata leadership di papa Francesco.
   Ho raggiunto l'età sufficiente per ricordare quando parte della stampa americana qualificò papa Montini come 'marxista riscaldato' a causa della sua enciclica Populorum progressio.
   Non è che andò meglio a Leone XIII che nella Rerum novarum chiese la proibizione del lavoro minorile. Fiato sprecato.
   Il Papa ha parlato sempre in italiano. Meno male che c'è ancora chi all'estero può ricordare che esiste l'Italia, mentre il capo del governo va di tutta fretta in Libano, a cercare di nascondersi dal richiamo del Quirinale per l'assenza italiana dal concerto delle nazioni, e del Vaticano, che difendono in Venezuela i diritti dell'uomo e chiedono le dimissioni di Maduro: mentre l'auto isolamento in Europa ci danneggia giorno dopo giorno, ed i nostri conti se ne accorgono meglio dei nostri occhi; mentre continuiamo a sfidare quel sistema mondiale che abbiamo contribuito a costruire, e che per tutta risposta ci ignora.

(Corriere Nazionale, 6 febbraio 2019)


“Religioni di tutto il mondo, unitevi!” E’ il potente grido rivolto al mondo dal “leader planetario” osannato in questo articolo. Forse questo leader sta preparando la sua nomina a Presidente dell’ORU (Organizzazione delle Religioni Unite), con il compito di gestire la nuova religione del dialogo fra le genti nel mantenimento della pace universale. C’entra qualcosa Gesù Cristo in tutto questo? No, niente. Ma un giorno c’entrerà. Sarà quando falsi pastori come questo “leader planetario” troveranno il loro giusto posto nel giorno del giudizio. M.C.


Israele, turismo in forte crescita

 
Oltre quattro milioni di turisti hanno visitato Israele nel 2018. un record per il paese che continua a migliorarsi, anno dopo anno, rispetto a un settore tanto importante quanto quello turistico. Il ministero del Turismo ha dichiarato che l'aumento è frutto, almeno in parte, di una ampia campagna di promozione di Israele come destinazione di viaggio in diversi paesi del mondo, tra cui Stati Uniti, Germania, Russia, Italia, lnghilterra, Cina. L'incremento di visitatori rispetto al 2017 è stato del 14% e le entrate hanno raggiunto circa 5,8 miliardi di dollari. "Questi numeri rappresentano un cambiamento rivoluzionario nella strategia di marketing del Ministero del Turismo, realizzato attraverso lo sviluppo delle infrastrutture, grazie all'apertura di rotte dirette da nuove destinazioni, grazie alla creazione di collaborazioni con alcuni dei più grandi agenti di viaggio del mondo", ha dichiarato il ministro del Turismo Yariv Levin. "Siamo ottimisti sul 2019 che inizia con l'apertura del nuovo aeroporto internazionale di Timna che ci consentirà di continuare a portare nuovi voli a Eilat. Ciò che era considerata una fantasia pochi anni fa è oggi una realtà: Israele è una delle destinazioni turistiche preferite al mondo", le parole di Amir Halevi, direttore generale del ministero del Turismo. I principali paesi di provenienza dei turisti nel 2018 sono stati: Stati Uniti (897.100), Francia (346.000), Russia (316.000), Germania (262.500), Regno Unito (217.900), Polonia (151.90) e Italia (150.600). Per l'Italia, dicembre ha rappresentato un mese record con ben 20.500 turisti, con una crescita del 46% rispetto al medesimo periodo del 2017 e del 92% rispetto al 2016.
   "L'Italia - spiega una nota dell'ufficio del Turismo israeliano in Italia - è così risultata poi a dicembre e complessivamente nel 2018 tra i 5 paesi con la crescita più elevata rispetto allo scorso anno e a due anni fa". "Abbiamo ottenuto un risultato davvero insperato e di questo dobbiamo ringraziare tutti i nostri partner che hanno avuto fiducia in noi - il commento di Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia -. Dagli operatori che hanno investito, dalla stampa che ha saputo raccontare in modo inedito le novità e lo splendore della nostra destinazione. Tutto questo è stato realizzato anche grazie all'ingresso di nuove compagnie aeree e all'intensificazione dei voli da parte delle compagnie più tradizionali. Davvero un grazie a tutti per la fiducia che avete voluto riporre nella nostra destinazione".
   L'accordo "Open Skies" raggiunto tra l'Unione Europea e Israele nel marzo 2012, spiegava il Jerusalem Post, è l'emblema della trasformazione del settore turistico israeliano: l'intesa ha consentito a tutte le compagnie aeree europee di operare voli diretti verso Israele da qualsiasi località dell'Unione europea e alle compagnie aeree israeliane di volare verso qualsiasi destinazione Ue. Questo accordo agevolerà ad esempio Eilat: vi è già stato un significativo aumento del traffico aereo verso la città israeliana sul Mar Rosso, ma l'inaugurazione quest'anno di un nuovo aeroporto sarà un ulteriore incentivo. "Con l'apertura all'inizio di quest'anno dell'aeroporto di Ramon, situato nella Timna Valley e in grado di gestire quattro milioni di passeggeri in transito internazionale all'anno, il mondo avrà finalmente una rotta diretta con Eilat, con non stop da Monaco e Francoforte su Lufthansa, e vettori economici che volano da Praga, Londra e in tutta Europa - sottolinea il New York Times mettendo Eilat tra le 52 mete da visitare nel 2019 - Nuovi hotel, tra cui il lussuoso Six senses shaharut che aprirà appena in tempo per il turno di Israele di ospitare il concorso canoro Eurovision 2019, sono pronti per la folla". Proprio occasioni come Eurovision o il Giro d'Italia organizzato nel maggio scorso, spiega il ministero del Turismo, sono le migliori vetrine per l'immagine d'Israele.

(Pagine Ebraiche, febbraio 2019)


Elan Carr, inviato speciale Usa per la lotta all'antisemitismo

Il presidente Usa Donald Trump ha nominato l'avvocato Elan Carr come nuovo inviato speciale americano nella lotta all'antisemitismo. Ex procuratore penale e riservista dell'esercito americano, Carr "è un esperto di antiterrorismo" che "ha svolto un ruolo di primo piano nella difesa della sicurezza del popolo ebraico in patria e all'estero", le parole del Segretario di Stato Mike Pompeo nell'annunciare la nomina che copre così un incarico rimasto vacante per due anni. Una scelta accolta con favore nel mondo ebraico americano: per l'Anti-Defamation League (Adl), è positivo il fatto che il nuovo inviato nella lotta all'antisemitismo abbia "esperienza nel perseguire crimini motivati dall'odio, omicidi e altre attività criminali". "Confidiamo che Elan Carr sarà in grado di portare a termine le impegnative responsabilità che lo attendono con attenzione e diligenza", il commento del presidente del World Jewish Congress Ronald Lauder. "L'antisemitismo è in aumento in tutto il mondo, anche negli Stati Uniti, ed è assolutamente importante che questa questione globale sia trattata con la serietà che merita. Gli Stati Uniti sono stati a lungo leader nella lotta contro l'antisemitismo e, nominando l'inviato speciale, il Presidente Trump ha compiuto un passo positivo e forte per riaffermare la leadership morale del suo governo in materia e rassicurare le comunità ebraiche che gli Stati Uniti sono al loro fianco", ha aggiunto Lauder.
   Secondo Jonathan Greenblatt, direttore nazionale dell'Adl, "Carr conosce fin troppo bene il flagello dell'odio. Suo nonno è stato imprigionato dopo un processo antisemita in Iraq, dove Elan in seguito ha prestato servizio come avvocato dell'esercito americano". Il nonno materno di Carr fu infatti imprigionato in Iraq nel 1948 per cinque anni in una forma di distorta rappresaglia per la nascita di Israele. Secondo quanto raccontato dal nipote, fu condannato con l'accusa di diffondere propaganda comunista e per aver chiamato i testimoni musulmani "bugiardi". Nel 1950, con il nonno in prigione, la famiglia materna si trasferì in Israele dove la madre prestò servizio nell'intelligence militare per poi trasferirsi a New York, laurearsi in studi mediorientali e islamici e incontrare il padre di Elan.
   Carr ha servito, come si diceva in Iraq, nel 2004: oltre ad analizzare le minacce e raccomandare azioni militari, si è occupato di perseguire i combattenti nemici davanti ai giudici iracheni presso la Corte penale centrale. Tornato negli Stati Uniti, Carr ha lavorato presso l'ufficio del procuratore distrettuale aggiunto della Contea di Los Angeles, occupandosi delle gang criminali.

(moked, 6 febbraio 2019)


Israele avvia la costruzione di un muro che circonderà la Striscia di Gaza

Negli ultimi mesi, la Striscia è stata avamposto per reiterate incursioni terroristiche contro la popolazione israeliana nonché base per il lancio di "razzi" diretti contro i villaggi del Sud dello Stato ebraico.

di Gerry Freda

Il governo israeliano ha in questi giorni annunciato l'avvio della costruzione di una "barriera anti-terrorismo" capace di "cingere l'intera Striscia di Gaza".
   Il ministero della Difesa di Gerusalemme ha infatti di recente comunicato l'inizio dei lavori per l'erezione di un muro costituito da "blocchi di acciaio", alto "oltre sei metri", sormontato da "filo spinato" e diretto a "circondare" l'enclave attualmente governata da Hamas. Obiettivo principale dell'opera è appunto prevenire le "infiltrazioni di terroristi e clandestini" dalla Striscia verso lo Stato ebraico. Lo sbarramento, inoltre, si prolungherà "per molti metri sottoterra", al fine di "spezzare" i tunnel utilizzati finora dalle organizzazioni terroristiche palestinesi per condurre incursioni in territorio israeliano.
   Lo stesso ministero della Difesa ha assicurato che il "muro di Gaza" sarà "invalicabile" e ha poi precisato che quest'ultimo sarà una "copia fedele" della barriera ultimata nel 2013 al confine tra Israele ed Egitto sempre al fine di "stroncare le infiltrazioni terroristiche" e i "flussi di immigrati irregolari". L'opera realizzata sei anni fa, a detta del dicastero di Gerusalemme, si sarebbe rivelata un "autentico successo", in quanto capace di ridurre il numero di clandestini entrati nello Stato ebraico a sole "14 unità l'anno", contro le "quasi quindicimila" che si registravano annualmente prima dell'erezione dello sbarramento. L'esecutivo Netanyahu spera quindi che il "muro di Gaza" possa conseguire "risultati altrettanto straordinari" sul fronte del contrasto alle infiltrazioni in Israele di "individui pericolosi".
   Lo stesso premier di Gerusalemme ha presentato la nuova opera come uno strumento adeguato a "rafforzare la sicurezza delle frontiere nazionali" e a "impedire che il terrorismo di Hamas si diffonda nell'intero Medio Oriente". Una forte condanna nei confronti del progetto in questione è stata invece espressa dalle istituzioni di Gaza. Ad esempio, Ismail Haniyeh, primo ministro dell'enclave palestinese, ha bollato la barriera promossa da Netanyahu come un "crimine contro l'umanità". Ad avviso del capo del governo della Striscia, il quale è anche leader di Hamas, il muro inteso a circondare l'enclave trasformerà Gaza in una "prigione a cielo aperto" e provocherà l'"isolamento totale" della popolazione di tale territorio.
   Negli ultimi mesi, la Striscia è stata avamposto per reiterate incursioni terroristiche ai danni della popolazione israeliana nonché base per il lancio di "razzi" diretti contro i villaggi del Sud dello Stato ebraico. Hamas, responsabile di tali attacchi, non ha però mai ricevuto una forte condanna da parte delle Nazioni Unite, accusate di conseguenza da Gerusalemme di essere dominate da "sentimenti anti-israeliani".

(il Giornale, 5 febbraio 2019)


La risposta alle Maxi Emergenze: seminario internazionale del MDA

di Luciano Bassani*

La prima settimana di dicembre il Magen David Adom (MDA) ha organizzato in Israele un Seminario Internazionale sulla risposta alle emergenze, indirizzato a medici e paramedici provenienti da diverse nazioni (Italia, Germania, Francia, Svezia, Australia, Svizzera) dove ho partecipato in qualità di vicepresidente di AMDA. Gli obiettivi? Portare a conoscenza dei partecipanti il sistema israeliano nelle grandi emergenze mediche; istruire il personale sui trattamenti e la gestione degli eventi di massa; rinforzare le relazioni tra MDA, altre organizzazioni amiche di MDA e varie associazioni nel campo della salute; condividere la prospettiva di Israele sulle risposte alle emergenze mediche e la gestione dei disastri. All'evento era presente il direttore del 118 della Regione Piemonte, Mario Raviolo che, frequentando MDA da anni, è diventato uno dei massimi esperti di emergenze di massa, creando l'unica realtà italiana di un ospedale da campo EMT 2 (nel mondo ce ne sono pochissimi), mentre solo Israele possiede un EMT 3. Durante il seminario sono state affrontate le tematiche inerenti alla gestione e organizzazione in caso di attacchi terroristici e in caso di incidenti di massa.
   Il seminario, pensato in chiave eminentemente pratica, è stato sviluppato in cinque giorni in cui il gruppo ha visitato varie realtà del MDA: la Scuola dei paramedici, il Centro Operativo (il call center su cui convergono tutte le emergenze), i centri di Tel Aviv e Gerusalemme. Di grande interesse l'incontro con Zalut Todd, direttore della Medicina del Trauma e Emergenza dell'Ospedale di Shaare Zedek di Gerusalemme, che ha illustrato le procedure in caso di guerra chimico-batteriologica e i presidi dell'Ospedale per ridurre gli effetti devastanti di tale evenienza. La visita al Training Center del Corpo Medico di IDF è stata guidata da giovani paramedici che ci hanno istruito sulla tecnica del blocco delle emorragie coi lacci emostatici e sulla tecnica dell'intubazione.
   Grande impatto emotivo per il triage in caso di attentato: suddivisi in ambulanze, abbiamo simulato e cercato di mettere a frutto le nozioni che ci erano state insegnate, in particolare la classificazione dei pazienti in codice verde, giallo, rosso e nero e la conseguente decisione sulle precedenze nel trasporto in ambulanza agli ospedali.
   L'ultimo giorno il gruppo è stato assegnato alle varie stazioni delle ambulanze di MDA e ogni partecipante ha condiviso coi paramedici le chiamate e gli interventi nelle case di persone in difficoltà.
   Questo corso ha in sé molte valenze positive perché mette in evidenza la grande esperienza di Israele nel settore dell'organizzazione in caso di attentati o catastrofi naturali e la grande capacità nella gestione degli eventi in tempi rapidi, che spesso fanno la differenza tra la vita e la morte. L'istruzione di personale medico e paramedico proveniente da altri Paesi a cui viene generosamente passato il proprio know how porta un messaggio al mondo chiaro e forte della grandezza di questo piccolo Stato. Quando nella caserma di IDF abbiamo assistito alla presentazione dell'attività di supporto che medici e paramedici israeliani fanno e hanno fatto andando oltre i propri confini, mettendo a rischio la propria incolumità, per portare aiuto a donne e bambini siriani devastati dalla guerra, abbiamo forse capito che la pace potrà arrivare anche dalla grande generosità e solidarietà di questo Paese e questo messaggio, assieme a tutte le nozioni apprese, spero i partecipanti a questo corso lo porteranno a casa e lo diffonderanno.

* Vicepresidente Associazione Amici di Magen David Adom in Italia Onlus

(Bet Magazine Mosaico, 5 febbraio 2019)


Grande attesa per il lancio "biblico" di Bereshit verso la Luna

Israele potrebbe presto diventare il 4o Paese al mondo ad eseguire un atterraggio "morbido" sulla Luna: Bereshit trasporterà una sorta di capsula del tempo che conterrà un "tesoro di informazioni" sulla storia e lo spirito del popolo israeliano.

di Beatrice Raso

 
 
Nonostante Neil Armstrong abbia posato piede per la prima volta sulla superficie lunare quasi 50 anni fa, solo altri due Paesi nel mondo sono riusciti a realizzare un atterraggio "morbido" sul nostro satellite: Unione Sovietica e Cina. Ora Israele intende unirsi a questo club esclusivo. SpaceIL è un'organizzazione israeliana che sta guidando la nazione verso le stelle dal 2011. Fondata con l'intenzione di promuovere l'educazione scientifica e tecnologica in Israele, il team ha immediatamente dichiarato un obiettivo ambizioso: portare Israele sulla luna. In quel momento, molti la considerarono un'idea ottimistica, un obiettivo su cui lavorare ma non qualcosa su cui contare troppo. In soli 8 anni, invece, SpaceIL si è assicurata una piattaforma di lancio, ha progettato una navicella in grado di raggiungere la superficie lunare e non vede l'ora di lanciare il progetto nelle prossime settimane.
  La prima navicella israeliana ad atterrare sulla luna si chiama Bereshit (parola ebraica che apre il Vecchio testamento e che tradotto significa "In principio") e ha diversi obiettivi: condurre test scientifici sulla luna, far avanzare l'industria spaziale israeliana grazie al traguardo dell'atterraggio sulla luna e un potenziale "effetto Apollo" in Israele per incoraggiare i giovani ad interessarsi alla scienza. La navicella è persino l'argomento di un libro per bambini pubblicato recentemente. Bereshit è la combinazione di una sonda lunare e di una navicella che dovrebbe partire il 19 febbraio da Cape Canaveral a bordo del Falcon 9, il lanciatore dell'azienda SpaceX di Elon Musk, come parte del suo carico di satelliti e apparecchiature da monitoraggio. A differenza di questi satelliti che rimarranno nell'atmosfera terrestre, dopo essersi separata dal Falcon 9, Bereshit orbiterà intorno al pianeta diverse volte per accumulare velocità prima di abbandonare la sua orbita attuale e fiondarsi verso la luna.
  Quando raggiungerà il satellite, eseguirà la manovra opposta, entrando nell'orbita della luna, diminuendo la sua velocità e abbassando la sua altitudine per un periodo di circa due settimane prima di raggiungere la superficie lunare con un atterraggio "morbido". Nel complesso, il viaggio durerà circa 3 mesi. Bereshit non avrà equipaggio a bordo e dipenderà dai sistemi di guida a bordo e dai comandi remoti dalla base di controllo a terra. Ma non pensate che, dal momento che è senza equipaggio, non porterà con sé niente dalla nostra Terra.
  Come il famoso Voyager Golden Record, Bereshit trasporterà una sorta di capsula del tempo costituita da 3 dischi separati che contengono file digitali. Questo "tesoro di informazioni" rappresenta tutto ciò che è molto caro alla storia e allo spirito del popolo israeliano. Tra gli oggetti inviati, anche una Bibbia a simboleggiare la fede di Israele e le benedizioni di Dio per renderli capaci di una simile missione. Bereshit conterrà anche una copia della Dichiarazione di Indipendenza di Israele, la sua bandiera e un inno, simboli di orgoglio da far vivere tra le stelle. Ma non solo: la capsula porterà anche lo spirito creativo e accademico del popolo israeliano sulla superficie della luna con centinaia di disegni di bambini, brevi registrazioni, libri di scienza e arte. I disegni arrivano dopo l'invito a tutti i bambini israeliani di contribuire al progetto, invito al quale hanno risposto in migliaia in maniera entusiasta.
  Il Premier Benjamin Netanyahu è consapevole dell'importanza di questa missione: "Questo importante progetto ci mette in linea con le grandi potenze del mondo. Penso che tutti noi, cittadini israeliani, possiamo esserne orgogliosi. Stiamo trasformando Israele in una crescente potenza internazionale". Il connubio fra alta tecnologia e toni religiosi suggerito da Netanyahu ha scatenato sul web l'ironia di molti israeliani. Qualcuno ha chiesto se sulla porta di Bereshit ci sia una 'mezuza', il cilindro metallico applicato agli stipiti delle case ebraiche che contiene una pergamena di benedizioni. Altri si sono ironicamente domandati se in ossequio all'ortodossia la navicella si fermerà durante il riposo sabbatico.
  Dal punto di vista strettamente scientifico, l'obiettivo di Bereshit è quello di creare un profilo del campo magnetico lunare e di comprenderne l'origine. Oded Aharonson, che ha curato gli aspetti scientifici della missione, ha spiegato che Bereshit è dotata di un magnetometro che compirà rilevazioni ancora in volo, durante l'atterraggio e anche una volta stabilizzatasi sul terreno. "Riceveremo dati precisi sulle anomalie magnetiche e potremo così creare un profilo del campo magnetico lunare", ha aggiunto.
  La Corsa allo Spazio sarà anche una notizia di vecchia data in Occidente, ma l'immaginazione di Israele ha un certo appetito per le stelle. Il progetto è nato quando Google ha lanciato una gara da 30 milioni di dollari per far atterrare una navicella sulla Luna. Quel premio in definitiva non fu assegnato, ma il progetto di SpaceIL andò avanti ugualmente con il sostegno di uomini d'affari, con la partecipazione dell'Istituto Weizman di ricerca scientifica di Rehovot e con quella dell'Industria aerea israeliana. In seguito un altro importante contributo è giunto anche dalla NASA.
  La sonda e la capsula rimarranno sulla superficie lunare con la speranza che un giorno possano essere recuperate, forse dalle generazioni future. Forse un giorno saremo talmente avanzati da inviare molte più persone sulla luna, trovare la navicella e recuperare tutti gli oggetti a bordo. Ma se anche così non fosse, rimarrà comunque qualcosa di molto bello. Se Israele raggiungerà questo storico traguardo nazionale, non sarà solo un successo tecnologico: con la capsula di Bereshit ci sarà sempre un pezzo di Israele e, più in generale, della cultura umana nello spazio.

(MeteoWeb, 5 febbraio 2019)


La sinagoga degli Emirati Arabi Uniti, prima segreta, ora allo scoperto

di Andrea Gagliarducci

Un dettaglio degli interni della Sinagoga di Dubai
DUBAI - Che le attività della sinagoga di Dubai siano divenute pubbliche non è per niente scontato. Perché, per quanto gli Emirati Arabi Uniti siano un Paese della tolleranza e la piccola comunità ebraica non abbia mai avuto problemi, c'era sempre stata una certa discrezione, dovuta al fatto che in molti, negli Emirati Arabi, fossero filo palestinesi, e poi anche ai rapporti tra Emirati Arabi Uniti e Israele.
   E infatti, per quanto la sinagoga sia uscita allo scoperto nel 2018, l'edificio non riporta insegne, non ha un sito internet, non è segnato nelle guide turistiche e l'indirizzo è fornito solo dopo aver accertato chi lo sta richiedendo. Ma le attività sono in piedi dal 2008, e hanno avuto una spinta ulteriore con l'arrivo di Ross Kriel nel 2012, un ebreo ortodosso proveniente dal Sudafrica con tutta la famiglia.
   La sinagoga si trovava in una abitazione nel quartiere residenziale di Dubai, ed era chiamata villa. C'era una zona per la preghiera, la mechiza, la cucina kasher, una zona per attività socio ricreative, qualche camera per ospitare chi osserva lo shabbat.
   Le attività sono diventate più "pubbliche" grazie a due circostanze.
   La prima è l'amicizia tra Mohammed Alabbar, che guida la più importante agenzia immobiliare del Paese, e Eli Epstein, che dirige una azienda americana fornitrice di acciaio e alluminio. I due hanno anche fondato una associazione, "The Children of Abraham", impegnata da anni nel dialogo tra Ebrei e Musulmani.
   La seconda, il "disgelo" tra Emirati Arabi Uniti e Israele, che ha portato le visite del primo ministro Benjamin Netanyahu e Miri Regev in Dubai e di Yisrael Kaz ed Eli Cohen in Oman. La presenza dei politici ha fornito l'occasione per inaugurare ufficialmente la sinagoga, che è stata fornita anche di un "sefer torah" donato da Epstein che regala la dedica in arabo all'amico Alabbar. Nella funzione del sabato, c'è sempre una preghiera speciale per il benessere del governo degli Emirati Arabi Uniti.
   Gli ebrei sono parte del variegato mondo degli Emirati, dove vivono 200 nazionalità diverse, anche se solo l'11 per cento ha la cittadinanza. Ma c'è ancora un sostrato di fondamentalismo islamico, molto percepito, e anche l'avvicinamento tra Gerusalemme ed Abu Dhabi non è visto di buon occhio.
   La comunità ebraica sta comunque crescendo, ed è un dato da non sottovalutare nel Paese arabo. Sono circa 150 i membri della comunità che si riuniscono nella "villa". Non c'è un rabbino, ma ci sono rabbini che visitano occasionalmente.
   Dopo l'uscita allo scoperto, c'è speranza che l'Anno della Tolleranza proclamato dagli Emirati Arabi Uniti renderà più tranquille tutte le comunità religiose, anche la piccola comunità ebraica.

(acistampa, 5 febbraio 2019)


Netanyahu prepara la prima visita a Casablanca

di Giordano Stabile

L'offensiva diplomatica di Benjamin Netanyahu nel mondo arabo-musulmano si prepara al colpo grosso in Marocco. Il premier israeliano si appresta alla prima visita nel Paese del Maghreb «attorno al 30 marzo», cioè a ridosso delle elezioni del 9 aprile. Sarebbe una spinta notevole nel duello con l'ex capo delle Forze armate Benny Gantz, in rimonta nei sondaggi. Israele e Marocco non hanno rapporti diplomatici, nonostante le relazioni cordiali fin dai tempi Mohammed V, il sovrano che ha portato all'indipendenza il regno nel 1956. Non è un problema, perché Netanyahu ha già visitato lo scorso 25 ottobre l'Oman, un'altra nazione araba senza relazioni ufficiali con lo Stato ebraico.
  Ora il sito marocchino in lingua francese Le Desk ha rivelato che il consigliere alla Sicurezza nazionale Meir Ben-Shabbat «sta lavorando» con il pieno appoggio americano a un incontro fra Netanyahu e re Mohammed VI. La visita, secondo la tv israeliana Channel 12, dovrebbe svolgersi negli ultimi giorni di marzo, subito dopo quella di Papa Francesco. Per il "Times of lsrael", le chance di successo sono alte, perché Rabat conta sull'appoggio di Washington per farsi riconoscere le proprie rivendicazioni sull'ex Sahara spagnolo, occupato nel 1975. In cambio, fra l'altro, è pronta a offrire la normalizzazione dei rapporti con Israele.

 La delegazione repubblicana
  I preparativi per la visita di Netanyahu hanno subito una accelerazione con l'arrivo di una folta delegazione di esponenti repubblicani dall'America. Il gruppo comprendeva i leader della Jewish Coalition Norm Coleman e Matt Brooks, il diplomatico di lungo corso Elliot Abrams, l'ex portavoce della Casa Bianca Ari Fleischer, oltre al lobbysta pro-Marocco Andrew King. Subito dopo sono cominciate le indiscrezioni, ora confermate dai media, anche se sia il governo israeliano che quello marocchino hanno evitato di commentare o ufficializzare.
  Per Netanyahu sarà un tassello importante nella sua politica di penetrazione diplomatica in Medio Oriente e Nord Africa. Oltre alla visita in Oman c'è stata quella in Ciad, Paese che aveva rotto i rapporti diplomatici nel 1972 e ora li ha riallacciati. Nel Golfo Israele adesso può contare anche su relazioni «semi-diplomatiche» con Arabia Saudita ed Emirati Arabi, visto che funzionari governativi e degli apparati di sicurezza si scambiano visite sempre più frequenti. E il leader di un'altra nazione musulmana, il primo ministro del Mali Soumeylou Boubeye, arriverà il prossimo mese in Israele. Lo scopo, come ha spiegato lo stesso Netanyahu durante l'incontro con il presidente ciadiano Idriss Déby a N'Djamena, «è aprire una breccia nel cuore del mondo musulmano». -

(La Stampa, 5 febbraio 2019)


I palestinesi producono solo se li allontani da casa

In Cisgiordania e Gaza vivono di sussidi e terrorismo. Ma i loro parenti emigrati si danno da fare: uno è diventato presidente del Salvador.

di Maurizio Stefanini

 
Nayib Bukele, leader del partito GANA, festeggia con la moglie Gabriela la vittoria alle presidenziali di domenica a El Salvador
Un palestinese è stato eletto presidente: però non in Palestina. Nayib Armando Bukele Ortez, 37 anni, è infatti diventato capo dello Stato in El Salvador. A chi la cosa potesse sembrare strana, va ricordato che non solo non è la prima volta, ma addirittura nel 2004 c'era stato un specie di derby, e il giornalista sportivo di Elias Antonio Saca, di origine palestinese, aveva sconfitto l'ex-guerrigliero Schafik Jorge Handal Handal, di origine palestinese, con 57, 71 % dei voti contro il 35,68%.
   Il primo era candidato per l'Alleanza Repubblicana Nazionalista (Arena), in passato espressione di sanguinari squadroni della morte di estrema destra; il secondo per il Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (Fmln}, in passato espressione di una guerriglia di sinistra in realtà con una immagine meno truce, ma di cui si è poi appurato che anch'essa ne aveva fatte di cotte e di crude. Da tempo i due partiti hanno smesso fortunatamente di uccidere, ma purtroppo si sono messi a rubare.
   Nayib Bukele aveva iniziato con la sinistra, pur essendo figlio di un noto imprenditore, e lui stesso un abile uomo d'affari. Concessionario della Yamaha in El Salvador, ha trovato comunque il tempo di studiare, e poi di diventare sindaco del Fmln: nel2012 a Nuevo Cuscatlàn; nel 2015 nella stessa capitale San Salvador. Ma ha poi rotto col Fmln, ed ha raccolto scontenti di destra e di sinistra in un nuovo partito che con lo slogan «restituite quello che avete rubato!» ha stracciato tutti: 53,03% a lui; 31,78% al candidato dell'Arena; appena il 14,42% al Fmln, che sembra ormai contagiato dal malessere della sinistra mondiale. Va ricordato che ora annuncia una rottura con Maduro e Ortega.
   Ma, come si è detto, Bukele colpisce soprattutto perché è palestinese, e contro di lui è stata fatta campagna anche definendolo un musulmano nascosto. Lui spiega che i suoi nonni paterni erano una cattolica di Betlemme e un greco ortodosso di Gerusalemme, e che il padre nato greco-ortodosso in El Salvador si era sposato con una salvadoregna cattolica con rito cattolico «soprattutto perché di chiese greco-ortodosse in
   El Savador non ce ne erano». Poi si fece musulmano e divenne un famoso costruttore e finanziatore di moschee, ma i figli comunque studiarono alle scuole cattoliche, e lui dice di rispettare tutte le religioni, pur non seguendone in realtà nessuna.
   Il dato interessante è che i palestinesi in casa loro e nei paesi vicini dove sono stati fatti vegetare in campi profughi hanno immagine di miserabili e cenciosi, ma la loro diaspora in El Salvador è invece in realtà ricca di imprenditori e professionisti. E altrettanto facoltosa e influente è anche la comunità palestinese in Cile, da cui sono venuti a esempio i banchieri e re dei media Carlos Abumohor Touma e Alvaro Saieh Bendeck e il re dell'immobiliare José Said, e dove ha addirittura una importante squadra in serie A di calcio: il Deportivo Palestina. I palestinesi latino-americani sono a loro volta all'interno di una più vasta comunità etnica che in America Latina definiscono "turcos" per il fatto che quando iniziarono ad arrivare avevano la cittadinanza ottomana, e in cui i due primi gruppi di provenienza sono libanesi e siriani. Tra di loro una quantità di Vip: dal miliardario Carlos Slirn alla cantante Shakira passando per l'attrice Salma Hayek, il manager Carlos Ghosn, l'ex-presidente brasiliano Michel Temer, quello argentino Carlos Saul Menem, il colombiano Julio CésarTurbay Ayala, gli ecuadoriani Abdala Bucaram e Jarnil Mahuad, e anche l'ex-vicepresidente del Venezuela e attuale ministro dell'Industria e Produzione Nazionale Tareck El Aissami. Che, è vero, dire ministro della Produzione del Venezuela di Maduro è quasi come dire ministro della Marina svizzero. Ma va detto che è di padre siriano e madre libanese: non palestinese.

(Libero, 5 febbraio 2019)


Benny Gantz, il generale che assedia "Re" Bibi

Sfida aperta in Israele

Elezioni il 9 aprile. Jeans e camicia, schivo, sguardo penetrante: nell'affollata arena politica, il partito "Resilienza per Israele" è dato già al 36%. A lezione di politica per vincere. Al suo fianco c'è Ya'alon, ex ministro della Difesa. Ma così sembra un partito di soldati ldf in pensione.

di Fabio Scuto

Jeans portati con disinvoltura, la camicia aperta sotto la giacca, con la sua faccia rassicurante si affaccia sui telegiornali, nelle interviste online. Lo sguardo penetrante ma sereno sembra voler dire a tutti gli israeliani: "Rilassatevi, adesso ci sono qui io". Nell'affollata arena politica israeliana dominata finora dalla personalità del premier Benjamin Netanyahu, l'ex generale Benny Gantz - l'ultimo dei novizi della politica -vola nei sondaggi. Con il suo partito "Resilienza per Israele" - la forza e la resistenza - guadagna terreno ogni giorno su Netanyahu e ormai nel gradimento come leader lo ha raggiunto al 36% dei consensi.
   Sarà lui l'avversario da battere e il nervosismo a Balfour Street, la residenza ufficiale del primo ministro, è già assai palpabile. Sessanta anni ben portati, ex attaché militare negli Usa, Gantz è stato Chief of Staff dal febbraio 2011 al febbraio 2015 con in mezzo due guerre con Hamas nella Striscia di Gaza. Di carattere schivo, ha resistito a lungo alle lusinghe della destra, poi infine ha scelto la sua strada, fondando un suo partito e sfidando direttamente Bibi.
   Per la prima volta in un decennio, l'opposizione a Netanyahu ha qualcuno con autorità ed esperienza militare, cosa che finora ha dato al premier un decisivo vantaggio sui suoi sfidanti. In molti vaticinano la fine "dell'era Netanyahu", la cui longevità alla guida del Paese ha superato per tempo quella di David Ben Gurion, il padre dello Stato di Israele. Ma "King Bibi" è un perfetto animale politico, in grado di rovesciare le sorti della sfida come fece nel voto del 2015 quando con il Likud nell'ultime due settimane riuscì a recuperare 10 punti percentuali sull'Unione Sionista - l'alleanza fra laburisti e centristi di Tzipi Livni - e vincere ancora una volta.
   Certo oggi l'uomo che la metà di Israele ha amato e l'altra metà ha amato odiare, è appesantito da quattro inchieste che lo vedono colpevole di corruzione, frode, truffa, tangenti, scambio di favori. Lui si difende come un leone - "è un vasto complotto contro di me" - ma su due casi l'istruttoria è pronta e il Procuratore generale Avichai Medelblit deve solo decidere quando mandarlo sotto processo, se prima o dopo il
   voto del 9 aprile. I partigiani di Bibi sono ancora molti e lui ha ancora in pugno il partito, il Likud, che è accreditato più o meno degli stessi seggi (30) che occupa attualmente alla Knesset (120 seggi). Ma non basta. La nuova alleanza che si è formata tra il partito di Benny Gantz e Yesh Atid - il partito centrista guidato dall'ex telegiornalista Yair Lapid - è accreditata di prendere 35 seggi e cresce ancora nei consensi. Sulla collocazione nel centrodestra di "Resilienza" non si discute ma l'apparizione e il successo di Gantz ha spazzato via le aspettative di altri leader di partito - come Lapid o Avi Gabbay del Labour - che rivendicavano la guida del campo anti-Netanyahu.
   Non è solo l'esperienza militare e diplomatica che Gantz ha, ma è anche la sua capacità di andare dritto al problema; come le critiche mordaci al primo ministro, allo stile della sua famiglia, alla sua corte e i suoi amici miliardari o alla sua alleanza con i partiti religiosi. Nessun altro finora era riuscito ad affinare un messaggio del genere. E anche nel suo primo discorso pubblico a Tel Aviv non ha mancato certo di franchezza. "Netanyahu non è un re, il suo governo semina divisione e provoca incitamento", e ancora "un primo ministro non può guidare il Paese quando è sotto gravi accuse e pronto per andare sotto processo". Difendere Israele da ogni minaccia interna e esterna è il suo mantra. Ha anche parlato del fronte di Gaza, dicendo che permetterebbe "il passaggio degli aiuti umanitari ai residenti della Striscia" e sostenere "uno sviluppo economico ma certo non il passaggio con valigie piene di dollari come avviene ora".
   Al fianco di Benny Gantz è comparsa una figura chiave come quella Moshe Yaalon. Un altro ex soldato, generale, capo di stato maggiore e infine anche ministro della Difesa. Il suo giovane movimento -Telem - si è fuso con "Resilienza". Due Gatekepeer, altri due guardiani di Israele, che si inseriscono nel solco tracciato da Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Ehud Barak e Ariel Sharon. Ma la nostalgia non è sufficiente per vincere le elezioni, anche se i primi risultati appaiono promettenti. Per battere Netanyahu, Gantz in questi due mesi prima del voto dovrà fare un corso accelerato in politica. Dovrà schierare una squadra con nomi noti. Per evitare che il suo partito "Resilienza" possa sembrare un ramo dello Tzevet - l'associazione degli ufficiali dell'Idf in pensione - dopo essersi alleato con i centristi di Yesh Atid, dovrà cercare di imbarcare il Labour e forse anche il partito Kulanu di Moshe Kahlon. Dovrà includere nelle sue liste elettorali donne, giovani e mizrahim - gli ebrei provenienti dal mondo arabo. L'obiettivo supremo e principale è sostituire Netanyahu e se la tendenza continua, e Gantz non commette errori lungo la strada, anche gli elettori di centrosinistra possono votare strategicamente per lui il prossimo 9 aprile e mettere così fine al lungo regno di "King Bibi".

(il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2019)


Israele - C'è chi vuole influenzare le elezioni (da fuori)

Un paese straniero cercherà di influenzare attraverso attacchi informatici le elezioni in Israele. Era una notizia già circolata negli scorsi mesi ma ora l'allarme arriva dai vertici dell'intelligence israeliana. Il direttore dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) Nadav Argman. parlando a una conferenza dell'Università di Tel Aviv. ha messo in guardia dal pericolo di un'interferenza da parte di un paese straniero nelle elezioni del prossimo 9 aprile. "Non so a favore di chi o contro chi il paese straniero interferirà. A questo punto. non posso dire quale interesse politico gioca un ruolo qui. tuttavia. un paese straniero tenterà di intromettersi nelle elezioni di aprile e so di cosa sto parlando", ha detto Argman. Per affrontare questo tipo di pericoli è stato creato un organismo governativo. la Direzione Nazionale Cyber. che possa confrontarsi con il problema: l'ente, che agisce sotto le direttive dell'Ufficio del Primo ministro. sta lavorando in collaborazione con i giganti dei social media per impedire che queste interferenze ci siano. Inoltre. dopo le parole di Argman, lo Shin Bet ha emesso una nota chiarendo che lo stato di Israele e la comunità dell'intelligence hanno gli strumenti e le capacità per identificare, monitorare e contrastare gli sforzi di influenza straniera, qualora ce ne fossero. L'apparato difensivo israeliano è in grado di consentire lo svolgimento di elezioni libere e democratiche in Israele".
   Nel frattempo, il controllore dello stato (figura indipendente dall'esecutivo che supervisiona e rivede le politiche e le operazioni del governo, rispondendo solo alla Knesset) Yosef Shapira ha annunciato che il suo ufficio sta già progettando di condurre un esame completo della questione della sicurezza informatica in relazione alle prossime elezioni. Secondo Shapira, le primarie e la campagna elettorale per la 21a Knesset pone una nuova, importante sfida, dal momento che parte della campagna elettorale sarà gestita su siti web e social media. "La fiducia del pubblico che il risultato delle elezioni rifletta la volontà degli elettori è una pietra angolare della democrazia israeliana.
   L'ingerenza straniera, che danneggerebbe la credibilità del sistema elettorale e dei risultati, potrebbe causare un profondo danno alla fiducia del pubblico nella democrazia", ha detto Shapira. "Pertanto, ho incaricato il mio staff di pianificare l'ispezione dei social media e del cyberspazio, così come di verificare la disponibilità delle autorità a proteggere i sistemi computerizzati dagli attacchi informatici". È arrivata poi l'excusatio non petita da Mosca: "La Russia non sta interferendo e non intende interferire nelle elezioni in nessun paese del mondo", ha detto il portavoce del Cremlino Dimitri Paskov ai giornalisti. Secondo il quotidiano russo Izvestia, ha anche aggiunto che la gente non dovrebbe leggere i media israeliani.

(Pagine Ebraiche, febbraio 2019)


Amnesty International e l'ossessione anti-Israele

di Niram Ferretti

 
Amorevole è la cura che Amnesty International riserva nei confronti di Israele, molto più di quanto lo sia nei confronti dell'Iran o della Corea del Nord, amorevole nel sollecitare riprovazione, azioni di protesta, tutto in nome del binomio lessicale più di successo dei giorni nostri, "Diritti Umani". Quelli dei palestinesi naturalmente, vittime per antonomasia delle "usurpazioni" ebraiche, nei territori occupati, per esempio, che in realtà sono contesi, privi come sono di un detentore sovrano legittimo, anche se gli inglesi del fu impero, li avevano destinati nel 1922 agli ebrei affinché potessero dimorarvi ovunque a occidente del Giordano.
   Le cose cambiarono, quando ci si accorse che forse era più opportuno strizzare l'occhiolino agli arabi, e fu così, che nel 1937 la Commissione Peel propose loro circa l'80% dei territori ma essi dissero di no, come dissero di no nel 1948 alla Risoluzione 181 dell'ONU che riducendo il territorio per il focolare ebraico, aveva previsto che Giudea e Samaria, da sempre luoghi ebraici, diventassero islamici. Ma anche in quel caso gli arabi dissero di no e attaccarono Israele allo scopo di distruggerla. Però Amnesty International, che tutte queste cose non le sa o finge di non saperle, recentemente ha suggerito a Airbnb e Trip Advisor di boicottare gli insediamenti nella cosiddetta Cisgiordania in quanto le compagnie in questione non terrebbero conto che essi sarebbero illegali in base a una inesistente "legge del diritto umanitario", in altre parole in base alle risoluzioni ONU che giuridicamente non sono vincolanti per nessuno e sono state volute e votate massicciamente dagli Stati arabi.
   E' dal 1967 ad oggi che gli arabi, in combutta prima con l'ex Unione Sovietica e poi con satrapie, teocrazie e dittature varie, hanno imposto a Israele lo stigma della occupante e della delinquente.
   Amnesty International che già si è avvalsa della collaborazione illustre del forsennato BDS ex Pink Floyd, Roger Waters, deve però pur fare il suo lavoro, sempre più selettivamente politicizzato e ideologizzato. In questo senso, per la ONG britannica, Airbnb e Trip Advisor lucrerebbero addirittura su "crimini di guerra". Sì, un po' come quelli su cui lucrava il governo di Vichy spossessando gli ebrei e mandandoli a morire nei campi di concentramento durante il periodo di un'altra occupazione, quella nazista a cui quella israeliana dei territori viene sovente paragonata. Ed è stato recentemente che, sempre Amnesty International, durante i tumulti ai confini di Israele e Gaza, cominciati il marzo scorso, in virtù dei quali Hamas tentava di infiltrare i propri miliziani nello Stato ebraico, ha chiesto che le venisse applicato l'embargo delle armi. Si rendeva necessario in virtù degli "omicidi" commessi dai soldati dell'IDF nei confronti di "inermi e pacifici ragazzi", anche quando la maggioranza delle vittime è poi risultata essere appartenente a Hamas e alla jihad islamica.
   Questi sono dettagli marginali, specificazioni deboli per chi si batte strenuamente per i Diritti Umani, soprattutto di coloro i quali, dal 1948 in poi (per non retrodatare troppo alle violenze arabe degli anni Trenta contro gli ebrei guidate dal filonazista Amin al Husseini), desiderano ardentemente la scomparsa di Israele.

(Progetto Dreyfus, 4 febbraio 2019)



Una tv per Netanyahu: «Solo vere notizie»

«Togliere il falso dalle notizie»: a prometterlo è la "Likud tv" che il premier Benyamin Netanyahu ha messo in campo per la sua campagna elettorale in vista del voto del 9 aprile. L'obiettivo - sulla falsariga di "Real News Update", web tv sostenitrice di Trump - è bypassare i media tradizionali ed arrivare direttamente al pubblico-elettore per «una copertura positiva» di Israele e dei risultati raggiunti. Il debutto su Facebook in compagnia di Eliraz Sadeh, noto agli israeliani per aver vinto "Il grande fratello" locale. Netanyahu è apparso spigliato. Del suo futuro competitor, il capo di Stato maggiore Benny Gantz ha detto: «Di sinistra? Lui è a destra di Gengis Khan».

(Il Messaggero, 4 febbraio 2019)


"Israele divisa, serve un cambio di rotta"

A colloquio con l'ex generale Benny Gantz, sceso in politica con il suo partito Resilienza per Israele.

di Daniel Reichel

Quando Pagine Ebraiche ha incontrato Benny Gantz, l'ex capo dell'esercito israeliano non aveva ancora annunciato la sua discesa nell'arena politica. Ma già allora - nei giorni in cui Israele festeggiava i suoi 70 anni - Gantz aveva più volte pronunciato la parola חוסוו (hosen), resilienza. "Il problema principale Israele lo ha dentro casa, non fuori - aveva spiegato l'ex capo di Stato maggiore, seduto in una caffetteria di un hotel milanese - Non è un tema di sicurezza ma di resilienza: la prima è legata a temi militari, di antiterrorismo e simili; la resilienza fa riferimento a una società resistente ovvero una società che in primo luogo ha gli strumenti per confrontarsi con i problemi di sicurezza, in secondo luogo, e soprattutto, ha la capacità di confrontarsi e risolvere i suoi problemi sociali, economici, infrastrutturali, di rapporti interni tra le diverse anime. Questi sono problemi molto molto complessi". Problemi che secondo Gantz, la leadership politica israeliana non è stata capace di affrontare. E per questo, qualche mese dopo quell'incontro, ha annunciato la sua discesa in campo scegliendo come nome del suo partito Hosen L'Yisrael, "Resilienza per Israele". "La nostra leadership politica vive delle divisioni e non promuove l'unità. È questa la lacuna più importante", le sue parole a Pagine Ebraiche. Dopo aver presentato il suo partito - una formazione centrista con l'obiettivo di sottrarre all'attuale premier Benjamin Neranyabu la guida del Paese alle elezioni del 9 aprile - Gantz è rimasto a lungo in silenzio, tanto da diventare bersaglio di ironie. Poi ha lanciato il video con lo slogan per la sua campagna elettorale: "Per me Israele viene prima di rutto. Unisciti a me e percorreremo insieme una nuova strada. Perché abbiamo bisogno di qualcosa di diverso e faremo qualcosa di diverso".
  59 anni, al comando dell'esercito dal 2011 al 2015 e in particolare durante l'operazione Zuk Eitan a Gaza (2014), Gantz vuole presentarsi all'elettorato israeliano come l'uomo forte. In particolare sul versante della sicurezza. Per questo ha pubblicato tre video, con una grafica militare, in cui rivendica le azioni compiute contro Hamas a Gaza e l'uccisione di terroristi palestinesi che si concludono con la frase "solo il forte vince". Sono video piuttosto cupi, "inquietanti" secondo il giornalista Shlomi Eklar che si chiede cosa abbia "spinto Gantz a lanciare la sua campagna elettorale in questo modo? Perché ha cacciato via innumerevoli potenziali elettori che pensavano che questo generale avrebbe portato un messaggio di speranza?" Secondo Eldar lo ha fatto per rispondere a Netanyahu che l'aveva definito un "sinistroide". Il duro messaggio di quei video contrasta con l'immagine cordiale a cui è associato l'ex generale, che poi ha rilanciato durante il suo discorso pubblico di fine gennaio. Un discorso improntato alla fiducia e di segno opposto rispetto ai video citati. Anche durante la conversazione con Pagine Ebraiche, il suo tono era molto controllato e affabile. In quell'occasione, aveva più volte sottolineato la necessità di ricostruire il tessuto sociale israeliano a suo dire profondamente lacerato. "Negli ultimi 10 anni le divisioni all'interno della società israeliana sono cresciute in modo drammatico. E, guerra a parte, credo che manchi una vera solidarietà al suo interno. È una società forte, costruita su persone eccezionali, c'è una quantità impressionante di organizzazioni impegnate nel sociale, nel tutelare i deboli, per cui la base è perfetta ma i vertici sono il problema".
  Ora Gantz si è candidato per cambiare quella leadership ma non ha ancora reso pubblico il suo programma per dare una soluzione ai problemi di cui parla. E sul fronte del conflitto palestinese - video a parte - la sua direzione sembra quella della ripresa dei negoziati e della costituzione di uno Stato palestinese a fianco a quello israeliano. Così aveva spiegato a Pagine Ebraiche: "C'è un problema di gestione diplomatica attorno alla questione israelo-palestinese, io sono tra quelli che pensano che bisogna arrivare a un accordo per uno Stato palestinese. Ma lo dico da un punto di vista israeliano non palestinese. Bisogna promuovere l'accordo senza ostacolare le attività importanti per la sicurezza dello Stato d'Israele". Altrimenti, la posizione di Gantz, Israele può muoversi unilateralmente: "Io non sono disposto a rinunciare a Gerusalemme, ai blocchi di insediamenti, al Giordano come confine di sicurezza, e tutto questo voglio che sia rafforzato. Allora che cosa stiamo aspettando? Volete (palestinesi) unirvi? Bene. Noi non ci faremo carico dei vostri problemi. Noi proseguiremo nella direzione che abbiamo scelto, costruiremo a Gerusalemme, nei blocchi, assicureremo il confine e vi lasceremo a consumarvi". Non è una situazione che può esplodere? "Cosa può succedere che non è successo? Un'altra intifada? Vediamo. Ero un soldato durante la prima intifada, ero comandante della divisione di Giudea e Samaria durante la seconda intifada, ero ramatkal (capo di Stato maggiore) durante la guerra a Gaza. Dal punto di vista della sicurezza, siamo pronti. Volete vedere chi è più forte? Ok. Ma perché questa paralisi? I palestinesi vogliono aggregarsi e avere una vita bella, prego, sono invitati".
  Per Gantz in ogni caso la soluzione a due stati sembra inevitabile. "Alla fine ci sarà lo Stato d'Israele, ci sarà un'entità statale palestinese in qualche forma, ci sarà una collaborazione economica tra i due stati perché loro non possono altrimenti, ci sarà una responsabilità sulla sicurezza da parte loro perché noi non accetteremo diversamente, e ci sarà una collaborazione sul fronte della lotta al terrorismo perché serva anche a loro: dimmi quando guardi cosa fa Daesh, a quanti israeliani hanno tagliato la testa? E invece a quanti musulmani? Chi minacciano questi integralisti, me o i palestinesi? Hamas pesa di più su di me o sui palestinesi?". Ma se è così inevitabile, allora quale è l'ostacolo? "Perché da noi hanno paura? Perché si paga un prezzo politico. Perché da loro si ha paura? Perché si paga un prezzo politico. Io ti dico che il problema non è tra i popoli ma è politico. Ma fai attenzione: io non ho intenzione di essere gentile, io voglio essere forte. Non ho intenzione di rimanere paralizzato e non fare nulla".

(Pagine Ebraiche, febbraio 2019)


Israele - Per il 52 per cento della popolazione Netanyahu deve dimmettersi se incriminato

GERUSALEMME - Circa il 52 per cento degli israeliani sostiene che il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, dovrebbe dimettersi se il procuratore generale, Avichai Mandelbit, raccomandasse la sua incriminazione per il reato di presunta corruzione. Lo rivela un sondaggio dell'Israel Democracy Institute. Il sondaggio mostra, tuttavia, una sostanziale differenza tra i sostenitori del partito di Netanyahu, il Likud, e i simpatizzati di altre formazioni politiche. Soltanto il 10 per cento dei sostenitori del Likuk intervistati sostiene che Netanyahu dovrebbe dimettersi nel caso fosse incriminato. A favore delle dimissioni del premier anche il 22 per cento dei sostenitori del partito ultraortodosso Shas. Al contrario la percentuale degli israeliani che vorrebbe le dimissioni di Netanyahu aumenta tra i sostenitori dei partiti all'opposizione. Favorevoli alle dimissioni del premier l'89 per cento dei membri del partito laburista, l'87 per cento della Joint List, l'86,5 per cento di Israel Resilience. A seguire, sostiene le dimissioni di Netanyahu in caso di incriminazione l'83 per cento dei sostenitori di Yesh Atid e il 78 per cento del partito Kulanu. Il sondaggio è stato diffuso oggi alla vigilia delle primarie del Likud in programma per domani.

(Agenzia Nova, 4 febbraio 2019)


«Papà era l'architetto di Hitler. Aiutare gli ebrei è la mia missione»

Hilde Schramm, figlia di Albert Speer, premiata per la sua Fondazione

Hilde Schramm, 82 anni, è la fondatrice della Fondazione Zurückgeben («restituzione»). premiata dalla Obermayer Foundation, creata da un filantropo americano per insignire coloro che mantengono viva l'eredità ebraica in Germania. II padre di Hilde era Albert Speer, che a 29anni divenne l'architetto scelto da Adolf Hitler per costruire la «nuova Germania». Più tardi sarà anche suo ministro per gli armamenti. Al processo di Norimberga sfuggì al patibolo perché chiese scusa.

di Michele Farina

Hilde Schramm al «Nido dell'Aquila» con Hitler. Quando era ospite con la sua famiglia del ritiro alpino del Führer, la piccola Hilde guardava i film di Mickey Mouse in compagnia di Eva Braun, la donna del capo.
Una Fondazione ebraica ha premiato la figlia dell'architetto di Hitler per la sua missione in favore degli ebrei. In una foto che ha fatto storia, Hilde Schramm ha un vestito rosa, le treccine bionde e la mano del Führer sulla spalla: sono passati i decenni, e questa donna dalla voce gentile ha fatto tanto per prendere le distanze dal nazismo che la vide bambina, dalla sua storia familiare, dalla figura ingombrante e controversa (è il meno che si possa dire) del padre Albert Speer, che a 29 anni divenne il «designer» scelto da Hitler per costruire la nuova Germania e più tardi suo ministro per gli armamenti. L'ultimo passo di questo lungo distacco è il riconoscimento che, a 82 anni, la veterana dei Verdi tedeschi ha appena ricevuto dalla Obermayer Foundation, l'organizzazione creata da un filantropo americano per insignire coloro che mantengono viva l'eredità ebraica in Germania.
   Lei, figlia di un alto gerarca che al processo di Norimberga sfuggì al patibolo solo perché chiese scusa, spergiurando di non sapere nulla dell'Olocausto, per poi essere definitivamente smentito da un lettera spuntata nel 2007. Se la storia ha tolto la maschera del «nazista buono» all'architetto di Hitler, che come responsabile degli Armamenti era a capo di un ministero che costruì i Lager e gestì il lavoro di milioni di schiavi prigionieri, la cronaca getta ora una luce tutta diversa sulla figlia che da piccola, quando la famiglia andava al «Nido dell'Aquila» a trovare Hitler nel suo ritiro alpino, guardava i film di Mickey Mouse in compagnia di Eva Braun, la donna del capo. Hilde ha cercato che la storia del padre «non fosse sempre messa al centro» della sua vita. E in qualche modo è riuscita nel suo intento. Accettando di parlarne, ma facendo qualcosa di concreto per scalfire quel senso di colpa che non ritiene «personale ma collettivo».
   È stata premiata per Zurückgeben, che in tedesco vuole dire «restituire». È il nome dell'organizzazione che Hilde ha fatto nascere 25 anni fa «su consiglio - ha raccontato a Christine Amanpour della Cnn - di alcune amiche donne». Nei primi anni Novanta scompare la madre. Il padre, dopo vent'anni di prigione, era morto nel 1981, in Gran Bretagna, da uomo libero che scriveva libri e si faceva intervistare dai giornali americani. Senza i genitori, Hilde Schramm si trova a gestire l'eredità di tre quadri, che il padre aveva comperato prima del 1945, e che la figlia non vuole tenere: «Allora non sapevo se si trattasse di arte rubata ai legittimi proprietari ebrei, cosa che poi è stata esclusa. Ma quei quadri erano il frutto di denaro sporco che non volevo».
   Morale: li vendette. E con il ricavato - «settantamila euro, certo non una grande cifra» - nel 1994 diede vita alla Fondazione Zurückgeben. «In quegli anni nessuno in Germania sembrava interessarsi a quanto era stato sottratto agli ebrei» ha raccontato Hilde ai media internazionali. Una delle mission della Fondazione è raccogliere donazioni da parte di chi crede di aver ottenuto guadagni ingiusti dal «grande furto» che la Germania nazista architettò ai danni dei cittadini di religione ebraica. Il denaro raccolto serve a finanziare borse di studio per donne ebree in Germania, nel campo dell'arte e della creatività.
   Subito dopo la guerra, il fratello di Hilde, Albert junior, futuro architetto, credeva che il «nuovo lavoro» del padre fosse quello di «criminale di guerra». Lei aveva meno di 10 anni quando sua madre seguiva il processo di Norimberga alla radio. Solo più tardi cominciò a sapere. «Mia madre con noi non ha mai giustificato quanto era avvenuto, ci ha lasciate libere», ha detto Hilde alla Cnn. Ha raccontato delle visite al padre nella prigione di Spandau, delle lettere che si sono scambiati. Oggi ritiene che «lui sapesse dell'Olocausto, e che si sia trovato come altri in un sistema di negazione della realtà». E che, dopo, «si sia pentito».
   La vergogna collettiva per questa signora di 82 anni dalla voce gentile è un sentimento ineludibile, «che forse le mie nipoti e i loro figli non si sentiranno più addosso». Ma «non è l'unico sentimento: dopo la guerra abbiamo avuto la possibilità di costruire una società più giusta, democratica, e ci siamo riusciti». L'avanzata dell'estrema destra, non solo in Germania, la preoccupa, «ma la storia non si ripete». E l'antìsemitismo?, le ha chiesto un giornalista del Daily Telegraph. «Il partito Alleanza per la Germania non si professa anti-semita, ma oggi non si tratta soltanto di anti-semitismo: cercano di dire che non sono anti-semiti, ma intanto sono apertamente antì-musulmani».

(Corriere della Sera, 4 febbraio 2019)


"Espulsi solo perché ebrei". Riabilitazione per dieci medici

L'Accademia di Medicina di Torino reintegra i soci discriminati nel 1938 dopo le leggi razziali. «Oltre al lavoro, persero la dignità, la considerazione e il rispetto di molti dei loro concittadini»

di Alessandro Mondo

Vennero liquidati con un breve ringraziamento: preludio ad una decisione odiosa, forse appena temperata dall'imbarazzo di chi la pronunciava. Senza citarne i nomi, il professor Luigi Bobbio, presidente dell'Accademia di Medicina di Torino, indirizzò loro il proprio «particolare saluto e il ringraziamento vivissimo per la loro attiva collaborazione di tanti anni ai nostri lavori, ritenendo con questo di essere interprete sicuro e sincero al riguardo di tutta l'Accademia».

 La censura
  Loro erano 10 Soci, tutti autorevoli e taluni molto anziani, espulsi durante l'inaugurazione dell'Anno Accademico 1938-1939: non per qualche pecca scoperta nei loro curricula, per errori medici o per atteggiamenti sconvenienti ma a seguito della promulgazione delle leggi razziali, il cui contenuto fu annunciato a Trieste il 18 settembre 1938. Una settimana dopo, come molti altri, persero il lavoro: il lavoro, la dignità, la considerazione, il rispetto della maggioranza dei concittadini. E questo, nonostante avessero onorato la cultura medica con onestà e trasparenza. Purtroppo contava altro, nel buio dell'Italia dell'epoca.
  Ecco perché la decisione dell'Accademia di Medicina, che in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico ha voluto riammettere ex-post e riabilitare quei 10 soci, colpevoli solo di essere ebrei, ha un valore che va aldilà dell'atto in sé e per sé: il valore della memoria, il riscatto - benché tardivo - di una vergogna che in quegli anni terribili coinvolse il mondo scientifico alla pari degli apparati statali. E che brucia ancora sulla pelle di questo Paese. «Abbiamo ritenuto necessario compiere un gesto, sebbene postumo, di riconoscimento di un grave torto che l'Accademia di allora rese a danno di illustri e coltissimi colleghi - spiega il professor Gian Carlo Isaia, presidente dell'ente, citandoli per nome durante il suo intervento -. Giusto ricordarne le figure, in questa stessa aula, e, citandoli, sentirli ancora presenti fra noi in questa antica istituzione». Un modo per sottolineare «la vergogna di una legge che, a parte la sua intrinseca iniquità, costituì la premessa per ulteriori tragedie nazionali ed internazionali».

 Il riscatto
  Eccoli, i dieci luminari considerati dei reietti e condannati dall'emanazione delle leggi «per la difesa della razza». Leggi in base alle quali, spiegavano i giornali, «l'ebreo non può prestare servizio militare, dirigere grandi aziende, possedere terre con estimo superiore a 5 mila lire, avere persone di servizio ariane, avere impieghi statali o parastatali», e via di questo passo.
  Niente da fare per Amedeo Herlitzka, professore di Fisiologia, suo fratello, Livio Herlitzka, libero docente in Ostetricia e Ginecologia, Giuseppe Levi, professore di Anatomia Umana Normale, Benedetto Morpurgo, professore di Patologia Generale, Nino Valobra, libero docente in Patologia Speciale Medica e Patologia Nervosa, Mario Donati, professore di Clinica Chirurgica, Carlo Foà, professore di Fisiologia Umana, Cesare Sacerdoti, professore ad interim di Patologia Generale, Arturo Castigliani, professore di Storia della Medicina, Tullio Terni, professore di Anatomia Umana Normale all'Università, La gran parte di loro insegnavano all'Ateneo torinese. Soci ordinari, onorari o corrispondenti dell'Accademia: cacciati perché ebrei, come tali indegni. Finalmente la Storia, e l'Accademia, si sono ricordate anche di loro.

(La Stampa - Torino, 4 febbraio 2019)



Al via il 15 marzo la Jerusalem "Winner" Marathon

Torna a Gerusalemme la Jerusalem "Winner" Marathon, uno degli appuntamenti più entusiasmanti del calendario sportivo della città. Venerdì 15 marzo la città verrà animata dalla manifestazione, giunta alla 9a edizione, a cui parteciperanno oltre 35.000 sportivi. In programma ci sono eventi di respiro internazionale come la mostra Expo Sport, una serata di gala e la tradizionale cena a base di pasta preparata da chef locali.
   Secondo una prima analisi, il numero di partecipanti iscritti alla manifestazione sportiva ha già toccato un numero record. La città ha registrato 1.800 iscrizioni anticipate - dato in aumento del 35% rispetto al 2018 - e ci si aspetta di accogliere più di 4.000 corridori provenienti da tutto il mondo. I partecipanti avranno la possibilità di disputare 6 manche su percorsi differenti: una maratona completa di 42.2 km, un percorso di 10 km, uno di 5 km, una gara di famiglia e una gara di comunità.
   Un'occasione unica per scoprire la destinazione sotto una nuova luce e unirsi alla più grande manifestazione sportiva sociale d'Israele. Il percorso attraversa quattro quartieri della città e le sue principali attrazioni storiche: dal Parlamento Israeliano attraverso la Città Vecchia e lungo le mura, il Sultan's Pool, Mt. Zion, la Colonia tedesca, il quartiere di Rehavia, Armon HaNatziv Broadwalk, Ammunition Hill, Sacher Park, il Monte Scopus e tanto altro.
   La Jerusalem "Winner" Marathon rappresenta per Gerusalemme un trampolino di lancio dal punto di vista sportivo tanto quanto da quello turistico. L'analisi dei dati infatti mostra che oltre 10.000 turisti, dopo aver partecipato alla maratona, proseguono il soggiorno a Gerusalemme. I dati relativi all'occupazione registrano una grande crescita in termini di occupazione durante il fine settimana, più di 30.000 pernottamenti infatti risultano essere direttamente collegati all'evento sportivo.
Iscrizioni

(Turismo & Attualità, 4 febbraio 2019)


«La Trattativa Stato Islam» di Francesca Musacchio ipotizza un patto coi terroristi

Ecco perché l'Italia si è salvata dagli attacchi dello Stato Islamico

di Maurizio Gallo

«Crociati, stiamo arrivando: metteremo a ferro e fuoco la Capitale dei cristiani!». Quante volte, dal 2014 in poi, abbiamo sentito (e visto) queste minacce online? I «combattenti» del sedicente Stato islamico hanno promesso, in un ossessivo refrain, sanguinose rappresaglie anche in Italia per gli attacchi alleati in Siria e Iraq, prendendo di mira Roma e il Vaticano. Ma, mentre Francia, Inghilterra, Belgio, Svezia e Germania piangono le loro vittime a centinaia, il nostro Paese è rimasto praticamente immune da attentati dinamitardi e assalti armati di kamikaze auto-nichilisti al grido di «Allah è grande». Perché? Francesca Musacchio, giornalista specializzata nel campo del terrorismo internazionale e preziosa collaboratrice de «Il Tempo», cerca di rispondere a questa domanda, che negli ultimi cinque anni si sono posti in molti.
   Nel suo bel libro «La Trattativa Stato Islam» (Curcio editore; 119 pagine; euro 14) Musacchio ipotizza un patto non scritto e non rivelato «che potrebbe intitolarsi non rompiamoci le scatole, stipulato nella vana illusione di prevenire il rischio di attentati terroristici in Italia», una sorta di «Lodo Moro» con gli jihadisti iniziato dopo assalto alle Torri Gemelle. Un accordo che si traduceva nel «lasciamoli fare in cambio di informazioni sui frequentatori delle moschee» (nella Penisola ce ne sono poche regolari e centinaia illegali) «e sui soggetti a rischio». Peccato, però, fa notare l'autrice, che in Italia è «impossibile trovare un interlocutore unico con cui discutere». Ecco che, allora, «la linea decisa è stata quella di un atteggiamento "morbido" verso la presenza islamica». Quindi, tolleranza verso i luoghi di culto abusivi, niente legge sul burqa, niente blocco dei finanziamenti da Qatar, Arabia Saudita, ecc.
   Dimostrare, prove alla mano, che la trattativa ci sia stata e che sia anche andata a «buon fine» non è facile. Ma i segnali, oltre alla «neutralità» di cui abbiamo beneficiato fino a oggi, ci sono. E non sono pochi. Francesca Musacchio, tuttavia, rivela nel suo libro una rara onestà intellettuale e cita anche tesi diverse dalla sua. Come quella dello studioso Massimo Introvigne, che individua come deterrenti l'assenza di ghetti come le banlieu parigine, la presenza capillare della Chiesa e della Caritas e il controllo capillare del territorio da parte delle nostre forze dell'ordine. Rimane il timore, e il rischio reale, che piccoli «shahid» (martiri) stiano crescendo nel vuoto normativo e nell'inerzia politica. In attesa di aderire alla jihad. E far piangere anche noi.

(Il Tempo, 4 febbraio 2019)


Che cosa succede davvero a Gaza: facciamo parlare i numeri

di Ugo Volli

Bisogna riconoscerlo: sono passati dieci mesi dall'inizio della serie di manifestazioni chiamate "marcia del ritorno" e la stampa, quando parla di Gaza, ormai abbastanza raramente, continua a riferirsi alla Striscia, da cui Israele si è ritirata nel 2005, come se fosse un territorio che lo stato ebraico "occupa" o addirittura "aggredisce". Le cose non stanno così, anzi è vero esattamente il contrario, che Israele non vorrebbe assolutamente occuparsi di Gaza, non ha la minima voglia di un confronto militare nella Striscia perché sa benissimo che non vi è in essa nessuna risorsa strategica e non ha certo voglia di perdere vite umane e subire danni nelle sue relazioni internazionali per controllare una popolazione ostile. Sono i terroristi che governano Gaza a cercare in tutti i modi il coinvolgimento di Israele per cercare di danneggiarlo, rapendo o uccidendo qualche suo cittadino, ma anche subendo le perdite che derivano dall'affrontare una forza militare superiore e bene organizzata e poi lamentando i danni.
  Questa è esattamente la logica della "marcia": assalire le frontiere con Israele, sperare in qualche errore o combinazione che permetta di uccidere qualche soldato che presidia il confine o di rapirlo. Ma comunque vantare le vittime provocate da questi assalti. La strategia di comunicazione di Hamas si è concentrata nello scorso anno su questa partita e senza dubbio ha ottenuto qualche risultato fra coloro che li appoggiano. Ma non è certamente riuscita a eliminare la marginalità politica di un gruppo terroristico che non ha altro obiettivo se non cercare di far male a Israele e agli ebrei: la diffidenza dell'Egitto, la freddezza di tutti i paesi arabi, l'indifferenza europea, perfino l'ostilità aperta da parte dei concorrenti di Fatah, che non ne sopportano il tentativo di impadronirsi del potere anche a Ramallah. Solo qualche estremista in Europa e l'asse del male Iran-Turchia-Siria-Hezbollah sta dalla loro parte.
  Vale comunque la pena di guardare ai dati. Sono uscite di recente due inchieste sulle perdite provocate dalle manifestazioni di Hamas: perdite arabe naturalmente, perché i manifestanti sono guidati all'assalto di un confine ben fortificato e difeso militarmente, che l'esercito israeliano non potrebbe abbandonare neanche se volesse, senza lasciare in balia dei terroristi i villaggi che sorgono in territorio israeliano poche centinaia di metri al di là della frontiera.
  La prima inchiesta riguarda i morti. Come documenta dettagliatamente nel suo bollettino il The Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center elencando nomi, cognomi, età, gradi militari, fotografie: "Gli eventi delle "marce di ritorno" nella Striscia di Gaza sono continuati per 42 settimane. Nella maggior parte dei casi, questi eventi sono caratterizzati da un alto livello di violenza, con conseguenti perdite tra i rivoltosi, soprattutto tra quelli in prima linea che si trovano di fronte alle truppe dell'IDF.
  Secondo lo studio dell'ITIC, basato su rapporti del Ministero della Sanità della Striscia di Gaza in combinazione con altre fonti, dall'inizio delle "marce di ritorno" del 30 marzo 2018, in questi eventi sono stati uccisi 187 palestinesi. Per quanto riguarda l'identità dei decessi (aggiornato al 16 gennaio 2019), 150 di loro sono stati trovati affiliati ad Hamas o ad altre organizzazioni terroristiche (circa l'80%). Tra gli incidenti mortali spiccano quelli appartenenti a Hamas o affiliati (96 morti, circa il 51% del numero totale di vittime). Un totale di 45 morti sono operativi dell'ala militare di Hamas (circa il 24% del numero totale di morti, circa il 47% del totale delle vittime di Hamas)[…] Il gran numero di vittime delle organizzazioni terroristiche in prima linea dimostra che la violenza contro le IDF vicino al confine non è "popolare", come vuole dire la falsa propaganda palestinese. È orchestrato da Hamas e coinvolge in modo significativo gli agenti dell'ala militare di Hamas o gli agenti affiliati ad Hamas. Mostra anche che i soldati delle IDF non sparano indiscriminatamente a manifestanti "innocenti" ma invece, nella maggior parte dei casi, prendono di mira e colpiscono specifici terroristi. Va notato che il Ministero della Salute della Striscia di Gaza, le cui segnalazioni sono utilizzate come fonte per i media in tutto il mondo (così come in Israele), non fornisce informazioni sull'appartenenza organizzativa dei decessi, contribuendo così a trasmettere una falsa idea che l'IDF uccida dimostranti "innocenti".
  La seconda inchiesta è di una fonte generalmente ostile a Israele, "Médecins Sans Frontières", un'organizzazione presente nella Striscia per assistere i manifestanti. Secondo MSF "un totale di 6.174 palestinesi sono stati feriti da proiettili sparati dalle truppe IDF negli ultimi 10 mesi da quando sono iniziate le proteste della Grande Marcia del Ritorno lungo la barriera di sicurezza che separa la Striscia di Gaza da Israele". Non sono certamente pochi e il loro numero è una prova della dimensione dell'assalto cui è stato sottoposto il confine, dato che sono stati colpiti tutti a distanza di pochi metri dalla frontiera. Non vi è stato un caso in cui durante questa manifestazioni gli israeliani abbiano inseguito i manifestanti al di là della frontiera.
  L'aspetto più interessante è però un altro: "Secondo MSF, quasi il 90% delle persone ferite dal fuoco israeliano ha riportato ferite agli arti inferiori.". Il significato è chiaro: l'esercito israeliano non spara a casaccio o a raffica, perché in questo caso le ferite si distribuirebbero su tutto il corpo, non spara per uccidere (sarebbe colpito allora prevalentemente il torso o la testa), colpisce per immobilizzare i terroristi e impedire loro di assaltare direttamente la rete di confine. Bisogna sottolineare che questo calcolo riguarda solo i feriti da armi da fuoco. Secondo 'ufficio dell'Onu che si occupa di Gaza UNCUA, vi sono stati " 6.744 feriti da munizioni vere [dato simile a quello di MSF] altri 9.430 per inalazione di gas [lacrimogeni], 741 da razzi e proiettili vari [gli strumenti con cui si diffondono i gas antisommossa] e altri 6.688 con altri mezzi. In sostanza l'esercito israeliano spara solo quando non riesce a fermare gli assalitori con altri mezzi.
  C'è un altro dato che fa riflettere: "La documentazione dell'OCHA ha anche riscontrato che la maggior parte dei feriti erano uomini (16.519), seguiti da 5.183 giovani maschi e 1.437 donne e 464 ragazze." In sostanza un'altra prova che chi assale il confine sono terroristi inquadrati nelle formazioni di Hamas, Fatah e degli altri gruppi. Donne e minori sono coinvolti solo marginalmente.
  Su questi dati vale la pena di riflettere e fare chiarezza. Quel che accade a Gaza è un tentativo di assalto militare suicida da parte dei gruppi terroristi. Purtroppo essi a Gaza hanno seguito e non si profilano alternative pacifiche. E' una logica poco soggetta al calcolo militare tattico e anche alla deterrenza. Difficile pensare che questa battaglia perdente auto-inflitta, per un gioco politico insensato, abbia presto termine.

(Progetto Dreyfus, 3 febbraio 2019)


Abbraccio fra Germania e Israele nel campo della cybersecurity

Tel Aviv ha ospitato il più importante evento mondiale sulla pirateria informatica

di Gabriele Carrer

L'annuale conferenza Cybertech tenutasi a inizio settimana a Tel Aviv è uno degli eventi più importanti per il mondo della sicurezza informatica: si parla di infrastrutture, assicurazioni, commercio, salute ma anche di governi, difesa, ricerca, manifattura, automotive. Perché in questo mondo interconnesso nessun settore può fare a meno di sistemi di difesa dalle cyberminacce. Presente tra gli speaker dell'evento a Tel Aviv anche Glorgio Mosea, responsabile strategie e tecnologie della divisione cybersecurity di Leonardo, l'uomo che ha voluto una tappa italiana di Cybertech, tenutasi a Roma lo scorso settembre.
   «Dal 2011 sono cambiati i bersagli delle cyberminacce e gli autori degli attacchi», spiega alla Verità Udi Mokadf, presidente e ad di Cyberark, società che si rivolge al mondo civile seppur con competenze a metà con il mondo militare, con oltre 4.200 clienti in 92 Paesi che operano in tutti i settori, compresa la pubblica amministrazione. «Non dobbiamo più pensare all'hacker in pigiama. E il tempo di professionisti, di Stati e di organizzazioni con importanti budget. I grandi target non sono più gli individui ma gli altri Stati e le grandi società». Mokady cita l'esempio dell'attacco alla Sony nel 2015 ricordando le parole dell'ad Miehael Lynton che disse: «Sono entrati nella nostra casa, hanno rubato tutto e poi l'hanno bruciata».E più andiamo avanti con la trasformazione digitale, maggiore sarà il costo di errori anche minimi, avverte il numero uno di Cyberark.
   Chiediamo a Mokady da dove nasca l'eccellenza israeliana che unisce i mondi civili e militari nel contrasto alle minacce informatiche. «i anche una questione di necessità, visti i nostri "vicini" che ci obbligano ad alzare le difese». Qual è il futuro del cybertech israeliano? Mokady non ha dubbi: «Il nostro Paese passerà da start up nation a scaleup nation»: le aziende israeliane devono cioè superare le sfide delle start up per attraversare il cosiddetto burrone della crescita e imporsi a livello internazionale in termini di mercato, organizzazione e fatturato. «E ciò non può che accadere rafforzando le nostre partnership in tutto il mondo», conclude Mokady.
   Per comprendere questa diplomazia in espansione è sufficiente dare un'occhiata agli interventi di punta della conferenza Cybertech: quello del premier israeliano Benjamin Netanyahu e quello di Dieter Kempf, presidente della Confindustria tedesca. Come ha spiegato alla Verità una fonte dell'ufficio del primo ministro israeliano, la collaborazione sul piano della sicurezza informatica tra Israele e Germania si sta intensificando da alcuni anni e la visita di ottobre della cancelliera tedesca Angela Merkel in Israele (con la prima intervista a una televisione straniera dopo l'annuncio del ritiro dalla scena politica concessa all'emettete di Stato israeliana Kan) ha sancito questo legame.
   Un abbraccio, quello tra Gerusalemme e Berlino, quasi inevitabile se si guarda il recente indice dell'innovazione pubblicato da Bloomberg. La Germania, grazie agli investimenti in ricerca dei suoi giganti industriali come Volkswagen, Daimlere Bosch, ha scalato la classifica fino a raggiungere la seconda posizione alle spalle della Corea del Sud, prima per la sesta volta in sette anni in questa classifica. Israele, invece, è passato dal decimo posto dell'anno scorso al quinto di quest'anno grazie al boom dei brevetti registrati.
   Dietro allo Stato ebraico, giganti come Singapore (sesto posto), gli Stati Uniti (ottavo) e il Giappone (nono). Insegue perfino la Cina, seconda maggiore economia del mondo, che è soltanto sedicesima nonostante colossi come Huawei e Boe.

(La Verità, 3 febbraio 2019)


La memoria della Shoah, studenti premiati al Quirinale

Il lavoro di ricerca dei ragazzi e delle docenti della primaria di Lenola e Monte San Biagio ha vinto il concorso del Miur

di Simona Gionta

 
«Ora in paese tutti parlano della maestra Passigli fino ad adesso dimenticata», cosi racconta Anna Rita Pascale, l'insegnante di religione che, insieme a una rappresentanza di quattro alunni, il 24 gennaio scorso è stata premiata al Quirinale dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il lavoro di ricerca storica svolto dalle classi quinte dei plessi della scuola primaria "Renzo Tatarelli" di Lenola e "Caduti di Nassirya" di Vallemarina dell'IC Giovanni XXIII di Monte San Biagio in provincia di Latina. Un lavoro interdisciplinare con le colleghe Immacolata Micalusi e Annalisa Grossi in risposta al bando nazionale indetto dal Miur "I giovani ricordano la Shoa" volto a ricostruire, attraverso testimonianze e letture, «storie di solidarietà, ma anche di indifferenza e ostilità avvenute in Italia in quel periodo storico».
   E' iniziata, così, la ricerca dei 33 studenti partecipanti e delle insegnanti che hanno deciso di circoscrivere lo studio al proprio territorio «perché era più vicino alla realtà dei ragazzi e, soprattutto, in continuità con il progetto "Incontro con l'autore" che ogni anno la scuola propone in occasione della Giornata della memoria in collaborazione con il "Sistema bibliotecario sud Pontino". Lo scorso anno abbiamo incontrato il giornalista Emilio Drudi che nei suoi libri, passando in rassegna gli ebrei salvati nei diversi territori, non citava il nostro», spiega la docente. Spinti dalla curiosità, grazie all'aiuto del parroco di Lenola don Adriano Di Gesù, i ragazzi hanno iniziato a cercare tracce di storie di rifugiati ospitati nei loro paesi. Nel testo di storia locale "Il martirio di un popolo" di Sandro Rosato veniva citata Claudia Passigli, una maestra ebrea molto amata che insegnava a Lenola durante il periodo della guerra. Alla notizia di non poter più insegnare a causa delle leggi razziali, fu aiutata dagli abitanti del posto fino alla sua partenza. Incrociando il testo con due significative testimonianze dirette, una sua alunna ancora in vita ed una sua amica, i ragazzi sono riusciti a ricostruire la storia della maestra dimenticata: «la sua ex alunna ha fornito addirittura una foto in cui, però, la docente non c'era, essendo ebrea aveva sempre evitato di apparire. La sua amica, invece, addirittura è riuscita a rivederla a Roma dopo la fine della guerra», afferma la Pascale. Accanto alla storia della maestra Passigli i ragazzi, continuando a "scavare" nella memoria, hanno presentato al ministero anche la storia della famiglia ebrea Di Verdi protetta da alcuni amici di Sezze: «nella nostra terra sono diverse le storie che hanno portato alla salvezza molti ebrei, solo tre sono stati portati nei campi di concentramento», continua la docente. La ricerca dei ragazzi è confluita nel cortometraggio "Oltre i silenzi e le ostilità" ambientato nella Lenola degli anni '40, il quale ha partecipato al concorso, superando prima la sezione regionale e poi quella nazionale. Gli stessi ragazzi sono diventati i protagonisti della Giornata della memoria nelle loro città con la proiezione del lavoro in contemporanea domenica scorsa al cinema teatro "Lilla" di Lenola e alla biblioteca comunale di Monte San Biagio dove hanno avuto l'occasione di spiegare il lavoro svolto e le tracce di memoria raccolte. «Anna Frank avrebbe avuto oggi 90 anni», si legge nella traccia del concorso, sarebbe contenta di questa pagina di diario scritta con tanta cura da questi giovani cittadini.

(Avvenire Lazio, 3 febbraio 2019)


Roma - Mostra, la diplomazia italiana e le persecuzioni degli ebrei

Ad accogliere i primi visitatori sono stati lo sguardo sereno e la stretta di mano vigorosa, nonostante gli 88 anni, di Sami Modiano, uno degli ultimi sopravvissuti alla Shoah e ai campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. «Parlate dell'Olocausto soprattutto ai giovani - ha ripetuto con forza -, la storia e la memoria sono importanti: i miei occhi di adolescente hanno visto un orrore che non voglio che i ragazzi di oggi debbano mai più rivedere». Le sue parole e il suo monito hanno introdotto nel modo più adatto alle immagini e ai documenti esposti alla Casina dei Vallati, sede della Fondazione Museo della Shoah, in via del Portico d'Ottavia, in occasione della mostra inaugurata nella Giornata della memoria: "Solo il dovere, oltre il dovere. La diplomazia italiana di fronte alla persecuzione degli ebrei {1938-1943)". Promossa dalla Fondazione Museo della Shoah in collaborazione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale (Unità di analisi, programmazione, statistica e documentazione storica), l'esposizione, che si avvale del patrocinio del Consiglio dei ministri ed è stata curata da Sara Berger e Marcello Pezzetti, «rappresenta una riflessione sulla memoria collettiva della diplomazia italiana e sul comportamento tenuto rispetto all'applicazione delle leggi razziali», ha chiosato Mario Venezia, presidente della Fondazione.
L'esposizione resterà aperta fino al 14 luglio, dalla domenica al giovedì, dalle 10 alle 17; il venerdì dalle 10 alle 13, escluse le festività ebraiche. Chiusa, invece, il sabato. L'ingresso è libero.

(Avvenire Roma, 3 febbraio 2019)


L'Emirato che guarda a Occidente

di Giordano Stabile

Nel puzzle delle alleanze occidentali in Medio Oriente gli Emirati Arabi Uniti sono il tassello più sicuro. La federazione di sette Stati si regge sul dualismo fra Dubai e Abu Dhabi, le due città più importanti. La prima è stata trasformata da villaggio di pescatori ed ex pirati in un hub commerciale e finanziario, che verte su gigantesco aeroporto, con 90 milioni di passeggeri all'anno e destinazioni in tutto il mondo. Questo ne fa un luogo tollerante nei costumi e nei confronti delle altre religioni, considerando che il 90 per cento della popolazione è costituita immigrati, soprattutto asiatici, e che il sistema legale è un misto di sharia e codice britannico. Abu Dhabi, dalla società più conservatrice, resta il centro politico e militare, imperniato sull'alleanza con gli Stati Uniti, rafforzata sotto la guida del principe ereditario Mohammed bin Zayef. La base di Al-Dhafra, 30 km a Sud della capitale, ospita 3.500 soldati americani ed è la retrovia logistica per la guerra in Afghanistan e il contenimento dell'Iran. L'incredibile sviluppo, a suon di record come il grattacielo più alto al mondo e un Pil pro capite di 40 mila dollari all'anno, è stata favorito dal petrolio, 3 milioni di barili al giorno, e dalla stabilità. Gli Emirati sono rimasti fuori dalle guerre che hanno indebolito i rivali, a cominciare dal Libano negli Anni Settanta. In più Abu Dhabi e Dubai hanno un vantaggio rispetto ai concorrenti nel Golfo. L'Arabia Saudita produce più greggio ma ha il triplo della popolazione e non può ospitare soldati occidentali. Lo vieta un hadith, un detto del Profeta: «Espellete ebrei e cristiani dalla penisola arabica». Le coste del Golfo non sono però considerate «penisola arabica», e per questo le truppe americane dal 2003 si sono spostate negli Emirati Arabi e nel Qatar. Quest'ultimo è legato agli Usa ma troppo vicino alla Fratellanza musulmana e poco disposto a normalizzare i rapporti con Israele. Dubai e Abu Dhabi restano insostituibili.

(La Stampa, 3 febbraio 2019)



Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti

Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, della stirpe di Davide, secondo il mio vangelo, per il quale io soffro fino ad essere incatenato come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata. Ecco perché sopporto ogni cosa per amor degli eletti, affinché anch'essi conseguano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Certa è quest'affermazione: se siamo morti con lui, con lui anche vivremo; se abbiamo costanza, con lui anche regneremo; se lo rinnegheremo anch'egli ci rinnegherà; se siamo infedeli, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

(dalla seconda lettera dell'apostolo Paolo a Timoteo, cap. 2)


 


Il Presidente Coleiro Preca guida una delegazione maltese in Israele

Visita ufficiale in Israele per il Presidente della Repubblica di Malta, Marie Louise Coleiro Preca. il Presidente ha infine incontrato anche il Presidente dello Stato della Palestina Mahmoud Abbas

 
La missione è iniziata affrontando diverse riunioni con investitori israeliani che stanno valutando nuovi investimenti a Malta e visitando un ospedale oncologico, da dove è emerso l'auspicio di una collaborazione più concreta tra scienziati maltesi e israeliani nella ricerca sul cancro. Contestualmente, il vice primo ministro Chris Fearne ha firmato un accordo di cooperazione bilaterale nel settore sanitario tra i due paesi.
   «È chiaro che c'è un grande interesse per la tecnologia - ha dichiarato il Presidente - quindi abbiamo discusso con diverse aziende, provenienti in particolare dal settore ICT. Abbiamo anche parlato con aziende che provengono dal campo della cosiddetta telemedicina che funziona in modo ibrido, utilizzando sia la tecnologia che scienza di base, ma anche l'Intelligenza Artificiale».
   Durante un forum aziendale organizzato da Malta Enterprise a Gerusalemme, il presidente Coliero Preca ha dichiarato che negli ultimi sette anni ben sette progetti di investimento israeliani sono stati approvati a Malta. In tutto, ci sono attualmente 100 società con partecipazioni israeliane. Tuttavia - ha aggiunto - esiste ancora un deficit commerciale tra i due paesi. Ha dichiarato inoltre che le opportunità per le imprese israeliane a Malta non vengono sfruttate correttamente.
   Il Presidente Coleiro Preca ha poi incontrato i rappresentanti della El Al Airlines per discutere della potenziale collaborazione con Air Malta, affermando che l'eventuale partnership potrà essere considerata come un altro modo per sviluppare ulteriormente le relazioni bilaterali, politiche e commerciali tra Israele e Malta.
   Durante la sua visita in Israele, il Presidente ha infine incontrato anche il Presidente dello Stato della Palestina Mahmoud Abbas, al quale sono state ribadite le buone relazioni tra Malta e Palestina, e confermata l'accettazione da parte di Malta dello stato palestinese. In proposito, Coleiro Preca ha dichiarato che «continueranno gli sforzi per riprendere il necessario processo di pace e raggiungere una soluzione che permetta a palestinesi e israeliani di vivere fianco a fianco, in pace».
   La delegazione maltese è stata completata dal ministro dell'ambiente e dei cambiamenti climatici Jose Herrera, e dal sottosegretario per il governo locale, Silvio Parnis.

(Corriere di Malta, 2 febbraio 2019)


Erdogan ai parlamentari palestinesi della Knesset: "non vi volteremo le spalle"

ANKARA - La Turchia "non volterà le spalle" alla causa palestinese e si impegnerà con "tutti i mezzi disponibili" per porre fine all'occupazione israeliana. Lo ha detto oggi il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, in un incontro con i parlamentari arabi della Knesset israeliana tenuto a Istanbul. La riunione a porte chiuse è durata circa 90 minuti, precisa l'agenzia di stampa turca "Anadolu", e si è tenuta in seguito all'annuncio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di non rinnovare il mandato della missione internazionale temporanea a Hebron (Tiph), in Cisgiordania. Tramite il suo ministero degli Esteri, la Turchia ha "condannato fermamente" la decisione israeliana. "Condanniamo fermamente l'interruzione unilaterale da parte di Israele del mandato della Tiph (...) e ci aspettiamo che questa decisione politica venga annullata", si legge in una dichiarazione del ministro degli Esteri turco.
   La missione Tiph è stata voluta dal governo d'Israele e dall'Autorità nazionale palestinese, firmatari dell'Accordo sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza del 28 settembre 1995. Tale accordo prevedeva oltre al ritiro delle forze di difesa israeliane da una parte della città di Hebron, anche la presenza temporanea di una forza di osservatori internazionali. Alla missione partecipano Danimarca, Italia, Norvegia, Svezia, Svizzera e Turchia. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva detto lo scorso 28 gennaio che non avrebbe esteso il mandato della Tiph scaduto il 31 dello stesso mese: "Non consentiremo la presenza di una forza internazionale che agisce contro di noi", aveva spiegato il premier. Ankara, tuttavia, ha respinto tali dichiarazioni. "Rifiutiamo con decisione l'accusa secondo cui la Tiph ha lavorato contro Israele, accusa presentata da Israele come giustificazione per la sua decisione".

(Agenzia Nova, 2 febbraio 2019)


Il «caffè della memoria» va in scena per restaurare la Torah

di Michela Pezzani

VERONA - Lo spettacolo "Il caffè della memoria" scritto da Francesca Varisco che è andato in scena a Verona per la giornata della memoria a Palazzo Camozzini dopo la prima nazionale di Padova, è un bene artistico culturale depositato in un Dvd al ICBSA (istituto centrale dei beni sonori e audiovisivi) di Roma, in collaborazione con il Centro di Cultura Ebraica della Capital e che verrà posto nella Discoteca di Stato.
   Il ricavato della serata, patrocinata dal Comune di Verona e ad offerta libera, è andato alla Comunità Ebraica per il restauro del documento antico della Torah. Il professor Finzi, ebreo, è il protagonista di una storia surreale che lo vede frequentare il suo bar di sempre in pieno tempo di guerra e legge razziali, dove però gli avventori come lui sono fantasmi e forse anche egli stesso. A dare voce a quest'uomo privato dal regime della libertà di essere e insegnare è stato l'attore veronese Stefano Scartozzoni accompagnato dalle musiche dal vivo del compositore Federico Bonetti Amendola (fratello dell'attore Claudio) al fianco dei musicisti del Trio Arcdia (i romani Laura Bianco al violino, Francesco Vignanelli al violoncelloe il veronese Stefano Tonellotto alla chitarra classica). Creato dalla Associazione 30 passi- Diritti verso la libertà, diretta da Stefano Tonellotto, il reading ha la finalità di commemorare attraverso l'arte l'Olocausto, così come affermava anche lo scrittore francese Victor Hugo il quale disse "così che la musica possa esprimere tutto ciò che non è possibile comunicare attraverso le parole".
   Al termine della rappresentazione è stato conferito a Federico Bonetti Amendola il titolo di Ambasciatore per i Diritti Umani. "La nostra associazione APS - 30 passi. Diritti verso la libertà ha lo scopo di promuovere e far conoscere, attraverso attività didattiche, culturali e artistiche, i 30 articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani - ha spiegato il presidente Stefano Tonellotto- coinvolgendo gli studenti e i giovani, futuri leader della nostra Società".

(L’Arena, 2 febbraio 2019)


Il duello fra Netanyahu e Gantz per conquistare i militari

Il più credibile rivale di Netanyahu è diventato Benny Gantz, che ha stretto alleanze con ex capi di Stato maggiore. La campagna elettorale si giocherà sul tema della sicurezza, per questo l'esercito viene corteggiato dai due candidati.

di Rolla Scolari

 
Nella fotografia in completo scuro, le bandiere di Israele sullo sfondo, i due generali si stringono la mano, le braccia alzate verso l'alto. Uno di loro, il fotogenico ex capo di Stato maggiore Benny Gantz, è il più credibile rivale del premier israeliano Benjamin Netanyahu al voto anticipato di aprile. E pochi giorni fa, quando ha aperto la sua campagna elettorale con un discorso a Tel Aviv, ha annunciato l'alleanza con un altro militare da poco entrato in politica: l'ex ministro della Difesa ed ex capo di Stato maggiore, Moshe Ya'alon. E Gantz starebbe corteggiando altri due ex capi di Stato maggiore: Gabi Ashkenazi ed Ehud Barak.
   Se da ex generale Gantz richiama i riservisti, colora i suoi cartelloni elettorali di verde militare, completandoli con una grafica che ricorda quella usata dall'esercito, pubblica video di quartieri di Gaza rasi al suolo nelle operazioni condotte sotto il suo comando, da politico Netanyahu decide di passare al contrattacco sullo stesso campo. D'altronde, dopo l'alleanza con Ya'alon, il movimento di Gantz sale nei sondaggi e accorcia il distacco con il primo ministro, che per contrastare l'assalto degli ex militari moltiplica le visite alle caserme e ai soldati in divisa, invitando giornali e televisioni a ogni uscita. Netanyahu, che soltanto pochi giorni fa ha annunciato dopo un'era di ambiguità che Israele bombarda da anni obiettivi iraniani in Siria, appare con i paracadutisti dopo un'ispezione a un loro deposito. Era stato prima in visita a una base nel deserto del Negev. In un Paese in cui due premier - Yitzhak Rabin ed Ehud Barak - sono arrivati al potere dopo carriere militari, dove vince il candidato capace di convincere sulla sicurezza, Netanyahu non può che difendere il suo soprannome di Mr. Security davanti a rivali che hanno lanciato una sfida in quella direzione: erodere elettorato alla destra che si vuole campione della sicurezza e alla sinistra che soffre perché in quel campo manca di credenziali.
   La trasversalità del movimento del rivale - Hosen L'Yisrael (Resilienza per Israele) potrebbe diventare una preoccupazione per Netanyahu: «Né destra né sinistra», è uno degli slogan della campagna di Gantz. E se l'immagine bellica del comandante convive con un messaggio di dialogo - «Non bisogna vergognarsi di volere la pace», recita lui in un video - la presenza di una figura come Ya'alon, che sostiene la presenza di insediamenti israeliani nei Territori palestinesi, va in direzione opposta a quanto detto da Gantz nel discorso del debutto. Il candidato ha parlato del rafforzamento di soli tre blocchi di insediamenti in Cisgiordania, suggerendo così la possibile evacuazione di quelli più isolati: una posizione che potrebbe avvicinargli elettorato di centro sinistra.

(La Stampa, 2 febbraio 2019)


Stampa israeliana: l'Egitto riaprirà il valico di Gaza se Hamas fermerà le proteste

GERUSALEMME - Il valico di frontiera tra Egitto e Gaza verrà riaperto in modo permanente se il partito armato palestinese Hamas fermerà le manifestazioni di protesta lungo la linea di demarcazione con Israele. Lo riferisce quest'oggi la versione online del quotidiano israeliano "Yedioth Ahronoth", spiegando che l'offerta sarebbe stata avanzata dagli ufficiali dell'intelligence egiziana in un incontro con il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, avvenuto ieri, primo febbraio, nella Striscia di Gaza alla presenza del coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolaj Mladenov. Il valico di Rafah tra l'Egitto e l'enclave palestinese era stato temporaneamente chiuso a inizio gennaio dopo che l'Autorità nazionale palestinese (Anp) aveva ritirato i suoi funzionari di sicurezza. Il passaggio di confine è stato in seguito riaperto martedì scorso, 29 gennaio.
   Secondo "Ynet", l'offerta di aprire definitivamente il valico di Rafah sarebbe allettante e Hamas starebbe seriamente considerando di fermare le manifestazioni contro l'Esercito israeliano. Nel novembre del 2018, L'Egitto ha mediato un cessate il fuoco tra Hamas e Israele dopo mesi di violenti scontri tra manifestanti palestinesi e forze israeliane lungo la barriera di Gaza. Mentre gli egiziani e i palestinesi negoziavano insieme all'inviato Onu, almeno 32 palestinesi sono stati feriti ieri dai colpi d'arma da fuoco esplosi dai militari israeliani durante l'ennesimo venerdì di protesta. Secondo Ashraf al Qodra, portavoce del ministero della Sanità palestinese, controllato dal partito islamico Hamas, nessuno dei feriti sarebbe in pericolo di vita. Le Forze di difesa israeliane (Idf), da parte loro, hanno spiegato che circa diecimila "rivoltosi" si sono radunati in varie parti di Gaza "lanciando pneumatici, pietre" e "ordigni esplosivi" contro le forze israeliane.
   Secondo un rapporto pubblicato dall'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Unocha), almeno 254 palestinesi sono stati uccisi dall'inizio delle proteste della "Grande marcia del ritorno" il 30 marzo 2018. Le vittime includono persone colpite dai proiettili dei militari israeliani durante gli scontri, ma anche palestinesi deceduti in seguito a raid aerei e colpi d'artiglieria dello Stato ebraico. Almeno 50 vittime sono state identificate come membri di Hamas. Nello stesso periodo di riferimento, due israeliani sono stati uccisi nell'ambito delle ostilità di Gaza, mentre altri 52 sono stati feriti, secondo il rapporto Unocha. Un soldato israeliano è stato ucciso da un cecchino palestinese durante le dimostrazioni, mentre un altro è morto in un'operazione di forze speciali all'interno dell'enclave di Gaza.

(Agenzia Nova, 2 febbraio 2019)


Shoah e migranti: perché assimilare due tragedie indebolisce la conoscenza

Lettera al Direttore di "La Stampa"

Caro Direttore,
il livello di scontro verbale fra leader ed esponenti politici tende a crescere in maniera vertiginosa. Gli insulti sono divenuti moneta corrente, le fake news dilagano, sembra nessuno badi più a nulla altro che offendere la controparte. Adoperando ogni argomento e termine come una clava. C'è un rimedio a tutto questo o dobbiamo rassegnarci alla degenerazione del linguaggio pubblico?
Ugo Fiori, Ivrea


Caro Fiori,
il rimedio è restituire alle parole il loro valore, dare importanza ai contenuti e rifiutare le generalizzazioni. C'è un esempio che lo riassume e dimostra in maniera cristallina. Viene dalla recente celebrazione della Giornata della Memoria in cui si ricorda lo sterminio di sei milioni di ebrei da parte dei nazifascisti nella Seconda guerra mondiale. Nel nostro Paese più celebrazioni, commenti e dichiarazioni in merito hanno sovrapposto la Shoah al dramma dei migranti. Si tratta di un errore perché due tragedie, in quanto tali, non sono mai assimilabili. Sovrapporre le persecuzioni naziste all'esodo dei migranti crea una confusione storica che non contribuisce a conoscere meglio nessuna delle due tragedie. La decisione di Adolf Hitler di adoperare l'intera macchina bellica e industriale tedesca per eliminare tutti gli appartenenti al popolo ebraico - senza eccezione - andandoli a prendere nelle loro case per ridurli in cenere è un orrore senza paragoni possibili nella Storia dell'umanità. Così come la fuga dei migranti da povertà, fame e violenze verso il Nord del Pianeta è un fenomeno epocale che dobbiamo comprendere, affrontare e risolvere perché appartiene alle nostre vite. Ma i due eventi non devono essere confusi o assimilati perché ciò non facilita ma complica la comprensione della loro specificità. Non c'è alcun dubbio che eventi storici diversi possono avere caratteristiche comuni: l'odio razziale contro gli ebrei e l'ostilità viscerale verso i migranti hanno in comune l'intolleranza per le diversità così come la scelta di più Paesi di chiudersi ai migranti evoca la conferenza di Evian del 1938 che vide la comunità internazionale dell'epoca decidere di non soccorrere gli ebrei in fuga dalla Germania nazista. È tuttavia un grave errore confondere singoli aspetti simili di queste grandi tragedie con una equiparazione o sovrapposizione totale perché ciò porta a considerare la Storia come una sorta di minestrone dove tutto si mischia e nulla alla fine conta. Con il risultato di nuocere alla conoscenza, banalizzare la Shoah e non dedicare la necessaria attenzione al dramma dei migranti. La forza di una nazione nasce dalla capacità di ricordare, conoscere e trasmettere ogni singolo evento della propria Storia nella sua peculiare specificità. La ricetta contraria porta alla cancellazione della memoria collettiva. Rendendo tutti più deboli.
Maurizio Molinari

(La Stampa, 2 febbraio 2019)


L'antisemitismo viaggia in barcone. Il paragone ebrei-immigrati è folle

L'antisemitismo oggi è islamico. Una bestemmia paragonare ebrei e migranti. Gli immigrazionisti arrivano a parlare di «nuovo olocausto», equiparando i clandestini ai perseguitati da Hitler. Peccato che dal mare arrivino islamici, ossia chi disprezza di più gli israeliti.

di Francesco Borgonovo

La settimana precedente la Giornata della memoria e quella immediatamente successiva sono state dominate da discorsi che, negli ultimi anni, sentiamo ripetere fin troppo spesso. In particolare, a farla da padrone è il paragone tra il popolo ebraico e migranti in arrivo sui barconi. A dirla tutta, sui media si è parlato più di razzismo e discriminazione nei confronti degli africani che della persecuzione degli ebrei. Oggi, per esempio, in varie città italiane si tiene una manifestazione chiamata «L'Italia che resiste». Dovrebbe essere una «autoconvocazione spontanea di cittadini e associazioni» allo scopo di «resistere alle scelte inumane di chi vorrebbe lasciar morire in mare chi scappa dalla guerra, dalla fame e dalla povertà, di chi interrompe i percorsi di assistenza ed integrazione».
   Insomma, una bella sfilata contro il governo colpevole di voler frenare l'immigrazione di massa. In sé, ovviamente, l'evento è del tutto trascurabile. È emblematico, tuttavia, ciò che gli organizzatori scrivono nel comunicato stampa.
   Spiegano di aver scelto la data del 2 febbraio perché arriva «pochi giorni dopo il Giorno della memoria, perché non vogliamo essere come quelli che in tempo di guerra hanno fatto finta di non vedere quello che stava accadendo».
   Di nuovo, l'improvvido paragone: i migranti in arrivo dall'Africa sono come gli ebrei ai tempi di Adolf Hitler. Anche le parole della senatrice a vita Liliana Segre, in alcune occasioni, sono state utilizzate per stabilire un parallelo fra la sorte di chi attraversa il Mediterraneo e quella del popolo ebraico negli anni Quaranta.
   In realtà, la stessa Segre, nel giugno scorso, pronunciò frasi piuttosto chiare in favore di telecamere: «So che cosa vuol dire essere respinti», disse, «perché nel caso della mia famiglia siamo stati respinti in quattro e sono tornata solo io a raccontare. Però quando sono stata respinta di qua c'era la morte, la persecuzione, la deportazione. Non si può fare di ogni erba un fascio. Non tutti quelli che chiedono asilo avrebbero la morte a casa loro».
   Questa presa di posizione dovrebbe bastare a chiudere il discorso, ma è evidente che le dichiarazioni della senatrice a vita vengono tenute in considerazione solo quando portano acqua al mulino della sinistra.
   E allora vale la pena di approfondire un pochino l'argomento, e di procurarsi un agile libretto intitolato L'ebreo emancipato. Attualità dell'antisemitismo in Europa. Lo pubblica Edb, e a firmarlo è Bruno Karsenti, directeur d'études all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, di cui è anche vicepresidente. Uno studioso autorevole, insomma, per altro estremamente sensibile all'argomento.
   Nel breve testo, Karsenti appare molto cauto. Evita riferimenti diretti e ruvidi, cerca di non violare la correttezza politica. Tuttavia, il senso del suo discorso appare piuttosto chiaro. «Il fatto è che l'antisemitismo, in Europa, non solamente non è scomparso», spiega, «ma ha trovato nuove vie per espandersi e prosperare.
   Emergono altre violenze, inedite, in particolare sotto forma di attentati che toccano indistintamente la popolazione degli Stati, e nei quali il bersaglio ebraico viene a collocarsi al fianco di altri bersagli [ ... ]. Del resto l'antisemitismo contemporaneo ha ben più a che vedere con la persecuzione che con la discriminazione».
   Poi aggiunge: «In Europa oggi vi è una violenza antisemita specifica, per certi aspetti inaudita - quale altra comunità in Europa vede i propri bambini correre il rischio di essere uccisi a bruciapelo perché ebrei? - ed è una violenza che, oltre alle vittime che provoca, oltre alla sofferenza che causa nei suoi bersagli e all'insicurezza che genera, tocca un punto fondamentale del nostro discorso comune. In un tale clima, che riguarda allo stesso modo gli atti e i discorsi, non ci si può sorprendere se gli ebrei, almeno da 15 anni, lentamente ma in modo costante abbandonano l'Europa».
   E evidente che Karsenti sta parlando dell'islam radicale, dei terroristi ma anche dei predicatori che alimentano il discorso antisemita.
   Lo studioso, dicevamo, la prende ala larga, ma il punto è proprio questo: il grande problema dell'antisemitismo oggi in Europa e in larga parte del mondo, è legato all'avanzata dell'islam. Esiste «una violenza antisemita specifica, che ha provocato attacchi e morti. Ed è una violenza che affonda le radici nell'universo culturale musulmano.
   Questo è un aspetto della faccenda che viene per lo più trascurato. I tanti che, negli ultimi giorni, si sono riempiti fa bocca con i concetti di accoglienza, inclusione, razzismo eccetera fanno sempre finta di non vedere l'antisemitismo di parte musulmana. Anzi, gli stessi che ora tifano per le navi delle Ong e per l'accoglienza sono gli stessi che, per anni e anni, hanno trovato ogni genere di scusa per giustificare il dilagare dell'estremismo e della follia jihadista.
   Tra l'altro, il sistema dei barconi e dei taxi del mare ha facilitato eccome l'approdo degli aspiranti terroristi sul suolo europeo. Ha facilitato eccome l'arrivo in massa dei musulmani dal nord e dal centro dell'Africa.
   Forse, allora, prima di riempirsi la bocca di paragoni impropri e irrispettosi, bisognerebbe affrontare il lato oscuro della faccenda. Bisognerebbe ammettere, in occasione della Giornata memoria, che l'antisemitismo islamico è un problema. Invece si preferisce rendere torbide le acque. Si preferisce trattare la Shoah come se fosse equivalente alle partenze dalla Libia.
   Ha ragione Karsenti: esiste una violenza antisemita specifica. E bloccare il meccanismo mortifero delle migrazioni di massa è (anche) un modo per arginarla.

(La Verità, 2 febbraio 2019)


Reggio Calabria - Il primo libro stampato in lingua ebraica nel XV secolo

di Anna Foti

 
Potrebbe essere questo l'anno in cui la stampa originale del Commentarius in Pentateuchum del rabbino ed esegeta francese di origini ebraiche Rashi (Rabbi Salomon ben Isaac), il più grande commentatore di Torah e Talmud, dato ai caratteri nella Giudecca reggina dal tipografo Avraham ben Garton ben Yishaq nel febbraio del 1475, tornerà a Reggio Calabria.
   Sarebbero ancora in corso le trattative con la Biblioteca Palatina di Parma (fondo di Giovanni Battista De Rossi, collocazione 1178), dove è custodito il libro in lingua ebraica più antico del mondo, stampato nella Giudecca reggina nel XV secolo. Forse, non c'è infatti ancora alcuna certezza o ufficialità, potrebbe essere esposto al museo nazionale della Magna Grecia.
   In questo clima sibillino, intanto nel Piano esecutivo annuale (allegato A) adottato dalla Giunta regionale con la prima delibera numero dell'anno (numero 1 del 10 gennaio 2019), in attuazione del piano regionale di Sviluppo e Turismo Sostenibile, si legge che la Regione finanzierà con i fondi Pac 2014/2020, tra le principali azioni previste per l'annualità 2019, proprio un "progetto di promozione in collaborazione con il Mibact da realizzarsi presso il museo della Magna Grecia di Reggio Calabria, per la valorizzazione dell'offerta turistica culturale regionale; l'importo presunto di spesa, è pari ad Euro 100.000,00". Un costo importante che potrebbe essere giustificato dalle imponenti misure di sicurezza che dovrebbero essere garantite per lo spostamento (da Parma a Reggio Calabria) e la custodia del prezioso libro. Quanto riportato al punto 7, tra le priorità tecnico-funzionali del paragrafo 3 dedicato alle Linee strategiche finalizzate alle Azioni di sistema per la Governance e la Promozione Turistica del sopracitato piano esecutivo annuale, è comunque generico e nulla riferisce nello specifico sull'esposizione del Commentario. Pertanto, allo stato, il condizionale è d'obbligo.
   Nuovo impulso è stato dato all'interlocuzione per esporre in Calabria il prezioso libro, qualche anno fa con la richiesta formulata dal presidente della Regione Calabria Mario Oliverio al ministro per i Beni culturali Dario Franceschini. Lo scorso anno è giunto l'assenso di Simone Verde, direttore del Complesso Monumentale della Pilotta di Parma, che comprende la Biblioteca Palatina, dove è custodito il prezioso commentario al Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio compresi nel Vecchio testamento e dagli ebrei chiamati Torah, 'legge'), la Galleria Nazionale, il Museo Archeologico Nazionale e il Museo Bodoniano.
   Sempre lo scorso anno anche il Comune di Reggio Calabria, il sindaco Giuseppe Falcomatà e l'assessorato alla Valorizzazione del patrimonio Culturale dello stesso Comune, retto da Irene Calabrò, avevano prontamente scritto al presidente della Calabria, Mario Oliverio, per manifestare la piena disponibilità ad accogliere il prezioso Commentario ebraico del Pentateuco nei palazzi istituzionali di Reggio, città "le cui trame leggendarie identificano in Aschenez il suo fondatore". Evidentemente, tuttavia, le prevedibili e legittime prescrizioni di sicurezza e l'osservanza di "tutte le necessarie misure di tutela e conservazione durante l'imballaggio, il trasporto e l'esposizione del volume", alle quali è ancorata l'esposizione fuori sede del pregiato incunabolo, hanno richiesto altro tipo di struttura e di investimento. Pare infatti che la trattativa si sia orientata sui locali del museo nazionale della Magna Grecia.
   Primo libro stampato in lingua Ebraica recante data certa, ed anche uno dei libri in lingua ebraica più antichi al mondo, il Commentarius in Pentateuchum è opera di colui che è considerato il "padre" di tutti i commentari talmudici, il rabbino ed esegeta francese di origini ebraiche Rashi (acronimo di Rabbi Salomon ben Isaac, nome italianizzato Rabbi Salomone Jarco, nome latinizzato Rabbi Šelomoh ben Yişhah), il più grande commentatore medievale di Torah e Talmud.
   L'incunabolo ebraico originale, scoperto da Giovanni Bernardo De Rossi (Sale Castelnuovo, Torino 1742 - Parma 1831), presbitero, orientalista, ebraista e bibliografo piemontese, studioso della letteratura giudaica medievale, curatore di una significativa collezione di scritti ebraici conservata nella Biblioteca Palatina di Parma, venne acquistato nel 1816 da Maria Luigia d'Austria, unitamente ad altri importanti documenti della cultura ebraica in Italia. Ella stessa poi ne fece dono alla Regia Bibliotheca Parmense, oggi biblioteca Palatina, dove il Commentario del Pentateuco di Rashi è custodito.
   A memoria di questo raro e prezioso tomo, simbolo della tradizione degli incunaboli, di cui anche Reggio fu fucina, una copia è, infatti, custodita presso la Biblioteca comunale "Pietro De Nava" di Reggio Calabria, richiesta e ottenuta nel 2006 dall'allora sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti, su impulso del direttore della biblioteca reggina Domenico Romeo e dello storico reggino Francesco Arillotta.
   Un'altra copia del Commentario, realizzata nel 1969, è custodita a Gerusalemme. Trecento sarebbero state in tutto le copie stampate del solo testo di Rashi da Avraham ben Garton ben Yishaq a Reggio, come riportato nella "Storia della Tipografia ebraica in Italia" di Fridberg. Di queste stampe originali sopravvive solo quella custodita a Parma, di cui vi è copia a Gerusalemme e a Reggio Calabria, che è anche l'unica opera sopravvissuta tra quelle stampate dallo stesso Avraham ben Garton ben Yishaq a Reggio. Rimane un'ipotesi la presenza di un altro commentario originale in Inghilterra, presso la Bodleain Library di Oxford.
   Stampò il suo primo libro in Europa, dunque, il tipografo tedesco di origini ebraiche Avraham ben Garton ben Yishaq. Ciò avvenne proprio nel XV secolo quando nell'antica Giudecca di Reggio Calabria lui stesso, nella sua tipografia sita tra Porta Mesa (attuale via Giulia) e la via Amalfitana (attuale via Felice Valentino), diede alla luce il primo libro ebraico stampato con data certa: il Commentarius in Pentateuchum di Rashi.
   Esso fu stampato su una base di 37 linee, standard tecnico all'epoca ritenuto all'avanguardia (la Bibbia di Gutenberg, stampata neppure venti anni prima a Magonza il 23 febbraio 1453, su 42 linee dal sesto foglio in poi, composta da 641 fogli, ovvero 1282 pagine, è inserita nel prestigioso elenco della Memoria del mondo dell'Unesco).
   L'Ebraismo, la sua ricchezza del patrimonio culturale e la sua storia millenaria lasciano, dunque, nella città calabrese dello Stretto la memoria di una fiorente espansione commerciale e di una preziosa eredità squisitamente culturale che si lega alla illustre tradizione delle prime stampe a caratteri mobili, di cui anche Reggio fu fucina, e alla presenza di altre comunità ebraiche - altre Giudecche - in Calabria. Pertanto l'esposizione a Reggio del Commentarius in Pentateuchum in lingua ebraica di Rashi scriverebbe una nuova, meritata e importante pagina di Storia per l'intera regione.

(strill.it, 2 febbraio 2019)


Netanyahu: il gasdotto East-Med ci collegherà con l'Europa e raggiungerà i paesi arabi vicini

GERUSALEMME - Il gasdotto East-Med che partirà dai giacimenti israeliani collegherà lo Stato ebraico con l'economia del gas dell'Europa e raggiungerà i vicini arabi. Lo ha detto ieri il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in visita ieri presso la struttura di perforazione della piattaforma gasifera del Leviathan. Ad accompagnare il capo dell'esecutivo c'era il ministro dell'Energia, Yuval Steinitz. "Il completamento della piattaforma del gas del Leviathan e il pompaggio del gas da questo sito alla fine del 2019 è una componente critica della forza strategica, energetica, economica e diplomatica di Israele", ha affermato Netanyahu. Il capo dell'esecutivo ha spiegato che "prima di tutto" il Leviathan fornirà "gas pulito ai cittadini di Israele". Per Netanyahu si tratta di una "grande rivoluzione" perché Israele "si sta trasformando in una potenza energetica".
   Israele, insieme a Italia, Grecia e Cipro hanno firmato a dicembre del 2017 un memorandum d'intesa per la costruzione del gasdotto East-Med che porterà - se realizzato - il gas israeliano e cipriota verso l'Europa. Da parte sua, il ministro dell'Energia israeliano Steinitz ha spiegato che lo sfruttamento dei giacimenti di gas consentirà di porre fine all'utilizzo del carbone con riduzione dell'inquinamento. Steinitz ha sottolineato anche l'importanza diplomatica del giacimento del Leviathan. "Quando la produzione inizierà alla fine di quest'anno, Israele inizierà a esportare il surplus verso la Giordania e l'Egitto, e, in futuro, verso l'Europa".
   Lo scorso 14 gennaio, il ministro dell'Energia israeliano ha partecipato al forum sul gas East Mediterranean al Cairo, alla presenza di rappresentanti di Italia, Grecia, Cipro, Egitto, Giordania e Autorità nazionale palestinese. Al termine dell'incontro le parti hanno deciso di creare un forum permanente sul gas al Cairo.

(Agenzia Nova, 1 febbraio 2019)


Un sistema di pagamento europeo con Teheran per sfuggire alle sanzioni Usa

Fatta la "legge" trovato l'inganno

Teheran ha accolto con moderata soddisfazione, definendolo "un primo passo", il lancio di un nuovo canale di pagamento promosso dall'Unione europea, per aggirare le sanzioni statunitensi contro la Repubblica islamica. Citato dall'agenzia ufficiale Irna, il vice-ministro degli Esteri Abbas Araghchi sottolinea che lo schema speciale di commercio rientra "nel novero degli impegni presi dagli europei" e che "mi auguro vengano applicati per intero". Lo schema di pagamento è stato annunciato ieri da Regno Unito, Francia e Germania, e permette agli uomini di affari di commerciare con la Repubblica islamica senza incappare nelle sanzioni Usa. I tre Paesi sono fra i critici più feroci della politica dello scontro frontale attuata da Washington. Nel maggio 2018 Donald Trump ha ordinato il ritiro dall'accordo nucleare (Jcpoa) voluto da Obama, introducendo le più dure sanzioni della storia contro Teheran. Una decisione che ha provocato un significativo calo nell'economia iraniana - confermato da studi Fmi - e un crollo nel petrolio, obiettivo della seconda parte delle sanzioni in vigore dal 4 novembre. Alcune delle sanzioni statunitensi rendono difficile per le banche del Vecchio Continente effettuare pagamenti diretti verso l'Iran. A più riprese la Casa Bianca ha minacciato "gravissime conseguenze" per quanti promuovono attività con gli ayatollah che possono essere oggetto di sanzioni.
   Con la creazione di un nuovo canale di pagamento - con sede a Parigi e gestito da un banchiere tedesco - i tre Stati europei sperano di consentire alle aziende di continuare i commerci. Gli attuali sistemi di pagamento in funzione hanno vincoli e legami - più o meno serrati - con gli Stati Uniti e questo rende difficile, se non impossibile, un loro utilizzo nei rapporti con la Repubblica islamica. Il ministero britannico degli Esteri sottolinea che il canale di pagamento ribattezzato Instex (Instrument In Support Of Trade Exchanges) rappresenta "un nuovo meccanismo per facilitare commerci legittimi fra entità europee e Iran". In un primo momento esso troverà applicazione nel settore alimentare, farmaceutico e beni di consumo, che non sono soggetti a sanzioni e, come ha spiegato il ministro dell'Economia francese Bruno Le Maire, «sarà un'istituzione europea, totalmente indipendente, che non avrà conti in dollari e nessun legame con la moneta statunitense».
   Escluso, invece, il settore petrolifero che rappresenta la principale fonte di ricchezza per Teheran ed è l'obiettivo numero uno delle sanzioni statunitensi, ma in realtà si apre un canale che potrebbe presto allargarsi anche perché appunto resta al di fuori del controllo Usa. In sostanza, il nuovo ente fungerà da intermediario tra le aziende e l'Iran. Come ha scritto Al Jazeera, «se gli italiani vorranno comprare del petrolio iraniano, trasferiranno i soldi [a Instex], che si occuperà delle transazioni finanziarie, e viceversa. Non ci sarà coinvolgimento di banche commerciali né di banche centrali, entrambe terrorizzate dalla prospettiva di ritorsioni da parte degli Stati Uniti». In una nota l'ambasciata statunitense a Berlino ricorda la politica del presidente Trump che intende colpire chiunque "attui attività con l'Iran che rientrano nel novero delle sanzioni". Tuttavia, prosegue il comunicato, il nuovo sistema di pagamento "non dovrebbe in alcun modo avere effetti sulla campagna di pressione economica" della Casa Bianca contro Teheran.

(Friuli Sera, 1 febbraio 2019)


Stop ad aiuti Usaid in Territori palestinesi dopo l’entrata in vigore della legge Atca

WASHINGTON - L'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) pone fine a tutti gli aiuti ai palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Lo riferisce un funzionario di Washington citato dalla stampa internazionale. La decisione è legata alla nuova legge statunitense in base alla quale dal 31 gennaio i beneficiari di aiuti all'estero saranno sottoposti maggiormente alla normativa antiterrorismo. A partire da oggi termina anche l'aiuto di 60 milioni di dollari destinati alle forze di sicurezza palestinesi, la cui cooperazione con gli agenti israeliani contribuisce a mantenere la calma in Cisgiordania. La legge del Congresso Atca (Anti-terrorism clarification act) autorizza i cittadini statunitensi a citare in giudizio i beneficiari di aiuti stranieri nei tribunali Usa per presunta complicità in "atti di guerra".

(Agenzia Nova, 1 febbraio 2019)



II nostro Stato non contribuì allo sterminio degli ebrei

Lettera al direttore di "La Verità"

Gentile direttore,
In un intervento a Rai News 24 l'ex ministro della Giustizia e presidente emerito della Consulta, Giovanni Maria Flick, ha sostenuto che l'Italia ha fornito «un valido contributo allo sterminio degli ebrei». Si tratta di un madornale falso storico, come si evince dall'esame di documenti ufficiali dell'epoca, e da molteplici testimonianze ebraico-israeliane tra cui, in modo particolare, l'opera di Menachem Shelal Un debito di gratitudine.
   Sta di fatto che nell'estate del 1985 una delegazione ebraica inviata dal Comitato per le espressioni di riconoscenza al popolo italiano fu ricevuta dal presidente Sandro Pertini, cui espresse «i sentimenti di gratitudine che gli ebrei provavano verso gli italiani che, durante la Seconda guerra mondiale, salvarono la vita di circa 30.000 ebrei, di cui 5.000 in Jugoslavia». Della delegazione facevano parte, oltre all'ambasciatore di Israele a Roma, Eyton Ron, anche Bernardo Grosser e Isso Doron.
   Da tali testimonianze ebraiche e da documenti italiani emerge inequivocabilmente che - nonostante le leggi razziali - da parte italiana si ebbe il rifiuto di contribuire al sistematico sterminio operato dai nazisti; e nello stesso tempo, che l'Italia non prese parte al genocidio, quale unico Stato dell'Asse a contrastare le direttive della «soluzione finale». Ne risulta inoltre che «ebrei di nazionalità italiana non furono deportati nei campi di sterminio finché l'Italia non cadde, dopo il settembre 1943, sotto diretto dominio tedesco».
   Personalmente, nella seconda metà degli anni Novanta ebbi ad assistere, a Varsavia, all'eloquente ringraziamento che un rabbino americano (sposato con un'ebrea figlia di italiani e in missione in Polonia) rivolse a Romano Prodi, il presidente del Consiglio dell'epoca che era venuto a rendere omaggio al memorial degli ebrei polacchi. Il rabbino gli espresse gratitudine «per quanto l'Italia aveva fatto durante la guerra per salvare e lenire le sofferenze dei suoi correligionari nei territori di Francia, ex Jugoslavia e altrove». Prodi non raccolse positivamente quanto gli veniva detto e cercò di schermirsi, affermando che «fu solo il popolo». Al che il rabbino rispose che «se lo Stato non l'avesse voluto, il popolo non avrebbe potuto!».
Gianfranco Giorgolo


(La Verità, 1 febbraio 2019)


Firenze - Carrai diventa console d'Israele

di Claudio Bozza

Marco Carrai
Israele istituisce un consolato a Firenze e ne affida la guida a Marco Carrai. Il manager, assai vicino a Matteo Renzi negli anni del potere, riceverà l'incarico di console onorario. Il via libera del ministero degli Esteri israeliano sarebbe già arrivato. Manca ancora l'ufficialità e la bocca di Carrai è cucita. La notizia gira da giorni negli ambienti politici fiorentini destando curiosità: oggi, in riva all'Arno, non esiste infatti un ufficio consolare dello Stato ebraico. «Sono molto legato a Israele e mi riconosco nella sua storia e identità. È un luogo sempre sull'orlo di una guerra, dove però si riesce a creare innovazione come solo in California. Le mie società trovano lì larga parte del loro sapere», disse Carrai al Fatto Quotidiano sui suoi affari nella cybersicurezza. Carrai vanta rapporti diretti con il premier Benjamin Netanyahu, accolto all'aeroporto di Firenze nella visita ufficiale del 2015. E da presidente di Toscana Aeroporti (impegnato in un duro braccio di ferro con il governo per il potenziamento dello scalo), ha istituito anche un nuovo volo diretto da Firenze a Tel Aviv.

(Corriere della Sera - Firenze, 1 febbraio 2019)



Quello che noi arabi dobbiamo a Israele

"Se fossimo riusciti a distruggere Israele saremmo passati alla storia come i nuovi nazisti, responsabili di un secondo genocidio del popolo ebraico"

Secondo un recente servizio di Times of Israel, "Israele si appresta a chiedere risarcimenti per un totale di 250 miliardi di dollari da sette paesi arabi e dall'Iran per le proprietà e i beni sottratti agli ebrei che furono cacciati o costretti a fuggire da quei paesi dopo la nascita dello stato d'Israele". Mi auguro che Israele ottenga quei risarcimenti, ma penso anche che Israele meriterebbe molto di più.
   Noi arabi abbiamo combattuto Israele per oltre 70 anni con due obiettivi apertamente dichiarati: distruggere Israele con la forza oppure distruggere Israele trasformandolo in uno stato arabo attraverso una "soluzione" che vedrebbe i cosiddetti profughi palestinesi invadere lo stato ebraico.
   Varie coalizioni di eserciti arabi hanno tentato il primo metodo nel 1948, nel 1967 e nel 1973, e varie entità terroristiche arabe credono ancora di poter conseguire l'obiettivo in quel modo. Il secondo approccio è diventata la politica ufficiale di Fatah (sebbene non esplicitata in quanto tale ai mass-media occidentali) dal momento che ha deciso di sostenere d'aver accettato l'esistenza di Israele ma non come stato ebraico....

(israele.net, 1 febbraio 2019)


Una riflessione sul Giorno della Memoria

di Ester Moscati

È appena passato il Giorno della Memoria. Ci sono diversi modi di viverlo: guardando al passato, al presente o al futuro. Secondo me l'unico modo onesto e costruttivo è farne occasione di riflessione a tutto campo. Una occasione per studiare la Storia, ma anche per riflettere sul Male, sulla indifferenza verso le sorti dell'Altro da noi, perché ciò che è accaduto non accada più nel futuro e neppure nel presente.
   Un insegnamento per il presente è quello di rendersi conto che le cose non accadono da un giorno all'altro, ma i fascismi, le dittature, costruiscono nel tempo un determinato risultato. Lo sterminio del popolo ebraico è stato deciso a tavolino nella conferenza di Wansee nel gennaio del 1942. Ma sarebbe stato possibile senza il Mein Kampf o le leggi di Norimberga? No. Almeno 10 anni prima erano state gettate le fondamenta dello sterminio attraverso la educazione all'odio contro gli ebrei (e non solo) in modo sistematico nelle scuole e nella società. (E tutto questo aveva la possibilità di attecchire su un substrato di duemila anni di anti giudaismo Cristiano). Ai bambini veniva inculcato che gli ebrei erano contro i "veri" tedeschi e che dovevano insegnare ai genitori a non servirsi dei negozi ebraici e a non frequentare ebrei (Consiglio a questo proposito un testo illuminante: "La scuola dei barbari. L'educazione della gioventù nel Terzo Reich" di Erika Mann - Giuntina).
   Poi ci sono cose che accadono da un giorno all'altro (o nell'arco di pochi mesi) come le leggi razziali. Sia in Germania sia in Italia, qualcuno che aveva dei diritti all'improvviso non li aveva più. In Italia, nel 1938, oltre agli ebrei italiani da secoli, c'erano circa 9000 ebrei stranieri che avevano trovato rifugio dalle persecuzioni hitleriane iniziate in Germania nel 1933, (tra questi, i miei suoceri Diwald e Rimalower) ma anche altri che, in Italia da qualche decennio, ne avevano acquisito la cittadinanza. Da un giorno all'altro questi ebrei stranieri sono stati dichiarati nemici, internati in campi come a Ferramonti, privati della cittadinanza se acquisita dopo il 1919.
   Ora, nel Giorno della Memoria, ma non solo, la senatrice Liliana Segre è stata accusata anche da diversi ebrei di aver paragonato la Shoah alla situazione odierna dei migranti. In realtà non lo ha fatto ma ha solo espresso comprensione e pietà per la sorte di persone che sono in balia di eventi epocali non per propria colpa. "Anche io sono stata clandestina" ha detto.
   Il "decreto sicurezza" fa quello che hanno fatto le leggi razziali contro gli ebrei stranieri in Italia nel 1938. Qualcuno che aveva dei diritti (di asilo, di residenza…) da un giorno all'altro non li ha più. Abolendo la "protezione umanitaria" come ha fatto il decreto, chi aveva questo diritto è stato automaticamente trasformato in un clandestino. Clandestino per legge. È un paradosso ma è così.
   Cosa accomuna la Shoah a quello che sta accadendo oggi? La nostra indifferenza a quanto sta accadendo sotto i nostri occhi a persone che avevano trovato rifugio e protezione umanitaria e da un giorno all'altro sono stati trasformati ex lege in clandestini.
   Ci sono cose che accadono da un giorno all'altro e cose che maturano in anni. Dalle leggi razziali del 1938 alla Razzia del Ghetto di Roma del 1943 alla Shoah …
   Che cosa sarà il nostro Paese tra 10 anni?

(Bet Magazine Mosaico, 1 febbraio 2019)


“Lo sterminio del popolo ebraico è stato deciso a tavolino nella conferenza di Wansee nel gennaio del 1942”, sostiene l’autrice. Non è vero, nessuno degli altissimi gerarchi nazisti era presente in quell’occasione. Lo sterminio era già cominciato ed è oggetto di studio l’individuazione del momento in cui fu realmente presa la decisione operativa dell’annientamento, che naturalmente non poteva che partire da Hitler in persona. Nella conferenza di Wannsee (con due enne) alcune autorità minori svolsero soltanto il compito di organizzare l’operazione di sterminio. A questa superficiale approssimazione dell’articolista si aggiunge il superficiale accostamento tra Shoah e immigranti. Purtroppo anche in ambito ebraico si contribuisce - in forma che vorrebbe essere attenuata ma in realtà è addirittura aggravata - alla banalizzazione di quella diabolica mostruosità unica che fu la Shoah. M.C.


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