Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 1-15 febbraio 2020


Scoperto misterioso tempio "biblico" vicino a Gerusalemme

Il complesso di Tel Motza è stato rinvenuto fuori Gerusalemme nel 2012, ma gli scavi del sito dovrebbero continuare questa primavera, con gli archeologi che sperano di trovare più artefatti a conferma della loro teoria dei templi "proibiti".

 
Nel 2012 gli archeologi universitari insieme ai loro colleghi dell'Autorità per le antichità israeliane hanno portato alla luce il complesso del tempio di Tel Motza e una struttura sottostante. Il tempio prende il nome dalla città biblica di Motza, situata nel regno di Giuda.
Nell'area della struttura gli archeologi hanno scoperto figurine umane a forma di cavallo e a forma di animali, nonché un tavolo decorato con leoni e sfingi che i ricercatori hanno suggerito potesse essere utilizzato per un antico culto.
Inoltre, gli archeologi hanno trovato un altare in pietra, un tavolo per le offerte in pietra e una fossa piena di cenere e ossa di animali nella zona.
Secondo i ricercatori le scoperte dimostrano che potrebbero esserci altri templi "proibiti" oltre al famoso tempio di Salomone a Gerusalemme, che fu distrutto durante la conquista babilonese della Città Santa tra il 587 e il 586 a.C.
Fox News ha citato lo studente di dottorato Shua Kisilevitz dell'Università di Tel Aviv il quale si è chiesto se "un tempio monumentale esistesse davvero nel Regno di Giuda, fuori Gerusalemme" e se "Gerusalemme lo sapesse?"
"Se fosse così, questo altro tempio avrebbe potuto far parte del sistema amministrativo giudaico? La Bibbia descrive in dettaglio le riforme religiose del re Ezechia e del re Giosia, che consolidarono le pratiche di adorazione al tempio di Salomone a Gerusalemme, ed eliminarono l'attività di culto oltre i suoi confini", domandò Kisilevitz.
Gli ha fatto eco il professore Oded Lipschits dell'Università di Tel Aviv, che ha insistito sul fatto che "nonostante le narrazioni bibliche che descrivono le riforme di Ezechia e di Giosia, c'erano templi proibiti nel Regno di Giuda oltre al tempio ufficiale di Gerusalemme".
"Finora le nostre scoperte hanno radicalmente cambiato il modo in cui comprendiamo le pratiche religiose dei Giudaiti", ha sottolineato.
(Sputnik Italia, 15 febbraio 2020)



Il sindaco di Tel Aviv fa rimuovere un poster di estrema destra

ROMA - Ron Huldai, il sindaco di Tel Aviv, ha ordinato di rimuovere il manifesto gigante in cui Abu Mazen e Ismail Haniyeh, in ginocchio e bendati, implorano la resa. Lo slogan del manifesto di un gruppo della destra estrema dice "La pace è possibile SOLO con i nemici che sono stati sconfitti".
Il presidente della Autorità palestinese e il capo di Hamas sono quindi nemici da sconfiggere, da bendare e mettere in ginocchio prima di poter far una pace che evidentemente è quella proposta dal "piano del secolo" di Donald Trump.
In Israele si vota il 2 marzo, la terza elezione in meno di un anno, e il clima è polarizzato dalle scelte politiche del premier uscente Benjamin Netanyahu, che ha messo in piedi alleanze della destra più radicale pur di rimanere alla guida del paese.
Il sindaco Ron Huldai, laburista, ex pilota dell'aeronautica militare israeliana, ha detto che tutti i manifesti verranno rimossi perché "incitano alla violenza e richiamano le azioni dell'Isis e dei nazisti, ai quali noi non vogliamo essere accostati".

(Italian news platform, 15 febbraio 2020)



L'isola degli ebrei ultraortodossi

Canvey Island, alla foce del Tamigi, si è improvvisamente popolata di una comunità satmarica, con molte sfide e qualche difficoltà.

Nelle principali città europee le comunità di ebrei ultraortodossi sono vecchie di decenni e in alcuni casi di secoli. La più estesa e popolata è considerata quella del quartiere di Stamford Hill, a Londra, ma negli ultimi anni centinaia di persone nate e cresciute nel quartiere si sono trasferite a circa cinquanta chilometri di distanza formando una nuova comunità a Canvey Island, una piccola isola alla foce del Tamigi e affacciata sul Mare del Nord.
   Canvey Island non è un posto qualsiasi: fa parte di una circoscrizione elettorale fra le più convinte di uscire dall'Unione Europea - al referendum su Brexit il Leave vinse col 72,7 per cento - e per molti è un microcosmo che rappresenta bene lo spirito di autosufficienza e diffidenza verso gli stranieri ancora vivo in molte comunità britanniche.
   Come si può intuire, il flusso massiccio dei nuovi abitanti ha scombussolato la vita locale e causato moltissime piccole sfide e difficoltà quotidiane, raccontate di recente in un lungo articolo del quotidiano israeliano Haaretz.
   Tutto è iniziato con un problema familiare a chi frequenta o abita a Londra: gli affitti altissimi, anche in periferia. In un documentario del 2018 su Canvey Island, BBC ha semplificato la questione spiegando che l'arrivo a Stamford Hill di nuovi abitanti giovani e benestanti - come in molti altre zone simili - aveva alzato il prezzo degli affitti, cosa che di conseguenza aveva reso insostenibile la vita di molte famiglie della comunità ultraortodossa. Molti di loro vivono grazie a lavori saltuari, dato che devono dedicare gran parte della giornata allo studio della Bibbia e alla preghiera, e hanno parecchi figli, poiché la dottrina sconsiglia l'utilizzo di anticoncezionali; nonostante i membri della comunità si aiutino fra di loro, non hanno grandi disponibilità economiche.
   Qualche anno fa i leader della comunità avevano iniziato a guardarsi intorno in cerca di un posto migliore dove trasferirsi. «Per esaminare le opzioni possibili venne formato un apposito comitato», racconta Haaretz, «che mise insieme un elenco di priorità. Il posto non doveva essere più lontano di un'ora di mezzi pubblici da Londra, doveva avere a disposizione degli spazi per espandere la comunità, e case sufficientemente larghe ed economiche». Dopo un'accurata selezione fu scelta Canvey Island: rispondeva quasi perfettamente a tutti i criteri della comunità, anche se non aveva abitanti ebrei da circa 80 anni. A distanza di quattro anni dalla prima casa acquistata da un membro della comunità, oggi a Canvey Island vivono circa 75 famiglie ultraortodosse, cioè circa 500 persone sulle 38mila che abitano l'isola.
   A prima vista, Canvey Island era tutto tranne che un posto accogliente per una comunità nota per essere piuttosto chiusa e dai costumi molto diversi da quella autoctona. Nella circoscrizione di cui fa parte l'isoletta i candidati di estrema destra sono andati sempre piuttosto bene, il tasso di abitanti con una laurea è fra i più bassi del paese, e anche gli abitanti locali ammettono di avere una certa diffidenza verso il diverso. Come tutti gli ultraortodossi, anche le famiglie che si sono trasferite da Stamford Hill si vestono in maniera molto riconoscibile - completi neri e trecce di capelli per gli uomini, vestiti molto coprenti per le donne - e fra di loro non parlano inglese ma yiddish, la lingua parlata dalle comunità ebraiche provenienti dall'Europa centrale.
   Eppure, nelle interviste con BBC e Haaretz, diversi membri della comunità ultraortodossi si dicono soddisfatti della scelta di trasferirsi. «È stata una questione di qualità della vita», ha spiegato Joel Friedman, il portavoce informale della comunità: «nessuno si è trasferito cercando una soluzione di lusso, ma soltanto per avere la propria casa e un po' di spazio per far crescere la propria famiglia». Non che avessero molta scelta: quasi tutti sono cittadini britannici, e inoltre gran parte della comunità segue la dottrina satmarica, secondo cui il popolo ebraico dovrà tornare nella terra promessa soltanto quando verrà un nuovo messia. Per questa ragione un eventuale trasferimento in Israele non era nemmeno un'opzione.
   I nuovi abitanti hanno portato dei cambiamenti visibili alla città: grazie a una donazione da 2 milioni di euro di un filantropo ultraortodosso, da poco sono stati aperti un negozio di alimentari, una pasticceria kosher e una yeshiva, cioè una scuola di studi biblici. A giudicare dai pareri di diversi membri della comunità, il processo di integrazione sta procedendo bene: «ci sentiamo più accolti qui rispetto a un ortodosso in Israele, dove si sente minacciato», ha raccontato ad Haaretz un giovane ultraortodosso riferendosi forse ai frequenti scontri fra coloni ultraortodossi e palestinesi in Cisgiordania (spesso provocati dagli ultraortodossi).
   Non tutti però sono convinti che la convivenza fra le due comunità stia funzionando. Haaretz nota che la zona dove sono situate la sinagoga e la yeshiva sono circondate da un muro metallico blu che impedisce di vedere cosa c'è dietro. La pasticceria, «dopo un iniziale turbinio di eccitazione», è stata giudicata troppo costosa dalla comunità inglese, che ha raccontato ad Haaretz alcune delle sue perplessità. «Dovrebbero farsi vedere in giro, quando invece stanno molto sulle loro. Mi piacerebbe anche che salutassero la gente per strada», ha spiegato un abitante 77enne. Ci sono anche stati tentativi di avvicinare le due comunità: il documentario di BBC mostra ad esempio una cena di benvenuto organizzata da alcuni membri della comunità inglese per quella ortodossa.
   «Non vorrei suonare troppo soddisfatta, ma credo che stiamo cercando un problema di cui per ora non abbiamo traccia», ha spiegato la deputata locale, la conservatrice Rebecca Harris: «È soltanto una questione di cortesia reciproca. Qualcuno dei nuovi arrivati si è appena trasferito e l'accusa è che non stiano badando come devono al loro giardino, ma le cose si sistemeranno».
   Altri non ne sono così certi: Dave Blackwell, il consigliere comunale in carica da più tempo, sostiene che Canvey sia un piccolo paese e che anche piccoli problemi possano causare incomprensioni e difficoltà nella convivenza: «non ho alcun dubbio che un giorno nasceranno dei problemi», ha spiegato ad Haaretz.

(il Post, 15 febbraio 2020)



Startup e innovazione, continua la collaborazione tra Italia e Israele

Il ministro Pisano: rafforziamo la cooperazione tra i nostri due Paesi. A giugno il primo Innovation Day.

 
Italia e Israele rafforzeranno la collaborazione sull'innovazione, sulla base di esigenze complementari in ambito di sviluppo di nuove tecnologie e sostegno alle startup e alle aziende del Made in Italy, secondo quanto riferito dal Ministro per l'innovazione tecnologica e la digitalizzazione Paola Pisano al ritorno da una missione nel Paese.
   "L'Italia è l'ingresso naturale per l'Europa per le tecnologie all'avanguardia che nascono in Israele", ha detto Pisano, raccontando l'esito di una lunga serie di incontri bilaterali effettuati durante la missione. "Israele ha bisogno di scalare le sue innovazioni e noi abbiamo bisogno di spingere le nostre aziende a diventare rapidamente più innovative". Secondo il ministro, "la tecnologia e l'innovazione sono una questione internazionale. Per riuscire a crescere come Paese dobbiamo ragionare a livello globale, portare nel nostro Paese le migliori innovazioni per permeare e contaminare le nostre aziende, trovare nuove soluzioni e migliorare la produttività".
   Il ministro Pisano è intervenuta all'OurCrowd Global Investor Summit a Gerusalemme, uno dei principali eventi internazionali dedicati al tech e alle startup, per esporre l'attuale scenario dell'innovazione tecnologica in Italia e la strategia "Italia 2025". Nei giorni successivi Pisano ha incontrato Eli Cohen, Ministro dell'Economia e dell'Industria israeliano e Ami Appelbaum, Presidente dell'Innovation Authority israeliano.
   "Sono stati colloqui molto proficui", ha detto Pisano. "Abbiamo discusso le linee di collaborazione che ci vedranno impegnati nei prossimi mesi, rafforzando programmi che già esistono e sviluppandone di nuovi. Dobbiamo migliorare le nostre competenze su alcune tecnologie chiave, e per raggiungere questo obiettivo il rapporto di collaborazione con Israele così come con altri paesi è fondamentale".
   A seguito degli incontri, il ministro ha annunciato il coinvolgimento dell'autorità israeliana in un progetto per lo sviluppo di hub tecnologici in Italia, e l'organizzazione di una serie di "Innovation day" che coinvolgeranno aziende e startup italiane e israeliane, focalizzati di volta in volta su settori diversi. "Abbiamo delle realtà imprenditoriali che eccellono in diversi settori come l'aerospazio, l'agrifood, la moda, il manifatturiero", ha detto Pisano. "Sono settori dove operano grandi aziende con grandi competenze ma dove c'è grande domanda di innovazione. Proprio per rispondere a questa domanda può essere utile mettere a sistema l'innovazione sviluppata in Israele. Dall'altra parte, la collaborazione con questo Paese può essere preziosa per far crescere anche il nostro settore delle startup". Il primo Innovation Day si potrebbe già svolgere a giugno in Israele e nei mesi seguenti in Italia.

(Ministero per l’innovazione, 14 febbraio 2020)




Il nuovo fronte

di Guido Olimpio

L'ala egiziana dello Stato Islamico è passata all'offensiva e nell'arco di pochi giorni ha rivendicato numerosi attacchi nel Sinai. Ha colpito postazioni, unità militari e danneggiato il gasdotto Israele-Egitto. Il Cairo ha replicato sostenendo di aver eliminato diversi guerriglieri. È ben noto che la situazione nella penisola è precaria. Le migliaia di soldati schierati non bastano ad evitare sorprese e incursioni. L'addestramento delle truppe non è di massimo livello e le posizioni fisse, spesso prive di adeguate contromisure, sono un bersaglio facile.
   È poi interessante rilevare che i jihadisti, prendendo di mira la pipeline, hanno risposto all'appello lanciato il 27 gennaio da Abu Hamza, il nuovo portavoce del Califfato. Con un audio di 37 minuti l'estremista ha annunciato l'inizio di una campagna contro target israeliani, quindi si è rivolto esplicitamente ai combattenti nel Sinai e in Siria esortandoli ad impiegare missili «chimici».
   L'uscita propagandistica è stata interpretata come un modo per recuperare terreno, sfruttare un fronte - l'Egitto - dove i mujaheddin rappresentano una forza significativa, cavalcare le tensioni provocate dal piano di pace di Trump per il conflitto israelo-palestinese. Ed è anche una mossa per collegare un'agenda locale ad una più internazionale. Vedremo se davvero agli episodi di guerriglia - abituali nel Sinai - seguiranno operazioni più eclatanti. A Gerusalemme sono in guardia e, in passato, hanno collaborato con il Cairo nell'azione di contrasto dei militanti.

(Corriere della Sera, 15 febbraio 2020)


Antisemitismo. Un allarme eccessivo

Lettera che Davide Riccardo Romano, portavoce della sinagoga Beth Shlomo di Milano, ha scritto a Dagospia sul presunto allarme antisemitismo di cui diversi media hanno dato risalto negli ultimi giorni.

Sono portavoce della sinagoga Beth Shlomo di Milano, e vorrei dire in tutta franchezza che l'allarme dei media sull'antisemitismo mi pare eccessivo. Capisco il desiderio di fare notizia, ma il fascismo non è alle porte. Le leggi razziali neppure. Contrariamente a Germania e Francia, in Italia gli ebrei non vengono picchiati o uccisi. Non ci sono politici rilevanti che negano la Shoah o fanno dell'antisemitismo la loro politica. E io, come italiano, ne sono orgoglioso e ho il dovere morale di dirlo, anche se va contro quello che troppi media vogliono sentirsi dire. Esiste dell'intolleranza antiebraica in Italia? Certo che sì, ed è sempre troppa.
Ma quell'immagine di antisemitismo che traspare dai nostri media non corrisponde al paese reale. Non si cura l'antigiudaismo attribuendo agli italiani colpe che non hanno. Abbraccio con affetto e ringrazio chi mette in prima pagina le scritte antisemite, ma consideriamo che c'è anche il rischio dell'effetto emulazione. Proviamo a vedere che succede se proviamo a abbassare i toni, almeno per qualche settimana. Grazie e shalom.
Davide Riccardo Romano    

(il Giornale, 15 febbraio 2020)


Bonifiche ferraresi chiude l'aumento e prepara alleanze agritech in Israele

Sottoscritto il 100%, le risorse destinate al piano industriale. Vecchioni: partnership nell'agritech. Dieci le startup israeliane interessate alla condivisione del knowhow.

di Sergio Bocconi

 
Federico Vecchioni
Saranno destinati allo sviluppo del piano industriale 2018-2020 i 166 milioni che Bf Bonifiche ferraresi ha raccolto con gli ultimi due aumenti di capitale, il secondo dei quali si è chiuso ieri con la sottoscrizione integrale dei 45 milioni previsti. Al termine dell'operazione i primi cinque azionisti sono Fondazione Cariplo con il 20,07%, Cdp equity con il 18,8%, Dompé con il 13,23%, il ceo Federico Vecchioni per via diretta e indiretta con il 6,8% e Aurelia (Gavio) con il 5,26%.

 Read show
  Il piano strategico ha fissato le linee di un'ulteriore crescita del perimetro della società e di un consolidamento della marca commerciale «Le stagioni di Italia». Crescita orientata sul percorso tecnologico dell'agricoltura di precisione. E su questa linea a Jolanda di Savoia (Ferrara), dove Bf, la più grande azienda agroalimentare italiana, ha la sede storica, si è tenuto un road show al quale hanno partecipato dieci imprese e startup israeliane dell'agritech: Agritask (piattaforma di gestione agronomica), AgroScout (soluzioni su cloud per il rilevamento di parassiti e malattie), Biobee (agricoltura biologica), Farmentor (hub di consulenza agritech), Galcon (infrastrutture idriche su cloud), Grofit (sensori e software per l'agricoltura di precisione ), Manna ( software per l'irrigazione basate su modelli satellitari), Mottes (tensiometri), Rivulls (irrigazione a goccia), Virdix (irrigazione con sensori wireless ). «Insieme svilupperemo partnership e know how nell'agricoltura di frontiera, digitale e sostenibile», ha detto Vecchioni.

 La delegazione
  Preceduto da incontri informali in Israele fra il ceo di Bf ed esponenti del mondo economico e governativo del Paese, il road show ha portato in Italia la delegazione guidata da Jonathan Radar, plenipotenziario per l'Italia del ministero dell'Economia israeliano.
  Le imprese hanno incontrato dirigenti e tecnici di Bf e Ibf servizi, l'hub tecnologico per l'agricoltura nato in partnership fra Ismea e Bf e che ora vede nella compagine societaria anche Leonardo e A2A. «Le nostre startup», ha detto Radar, «vedono nell'eccellenze dell'agrifood italiano un importante interlocutore con cui avviare processi di produzione sempre più sostenibili grazie all'impiego di soluzioni internet, sensori intelligenti e droni». Il road show secondo Vecchioni «conferma il ruolo di Bf come piattaforma con caratteristiche uniche nel panorama internazionale poiché include l'intera filiera, da sementi, genomica e agricoltura di precisione agli scaffali della distribuzione». Obiettivo: lo sviluppo «attraverso condivisione di know how e partnership delle nuove frontiere agritech con residuo zero, non utilizzo di chimica di sintesi, genomica, gestione della risorsa acqua».

(Corriere della Sera, 15 febbraio 2020)


Le promettenti prospettive della joint venture italo-israeliana nello spazio

Saccoccia, direttore dell'Agenzia Spaziale Italiana: "È vero ciò che si dice: Israele è una startup nation e la cooperazione scientifica con l'Italia non fa che rafforzarsi"

Un lancio nello spazio davvero unico, quello che avrà luogo alla fine di marzo 2020 finalizzato a effettuare una serie di esperimenti medici che potrebbero portare a importanti scoperte.
Il lancio è frutto di un progetto congiunto italo-israeliano e la cooperazione tra i due paesi in campo spaziale non è che un riflesso dei rapporti sempre più saldi, sulla Terra, tra Gerusalemme e Roma.
A meno di due mesi dal lancio, il direttore dell'Agenzia Spaziale Italiana Giorgio Saccoccia è stato in Israele come ospite della 15esima Conferenza Internazionale "Ilan Ramon", nell'ambito della Israel Space Week organizzata dal Ministero israeliano della scienza e della tecnologia....

(israele.net, 15 febbraio 2020)


L'Onu mette il cappio a Israele e salva l'Iran

Lista nera per lo stato ebraico, salvacondotto per i mullah

L'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha pubblicato un rapporto che contiene i nomi di 112 aziende israeliane e straniere che lavorano negli insediamenti in Cisgiordania. Della lista nera si parlava da anni e ci sono colossi israeliani (banche, società di trasporto come Egged e delle telecomunicazioni come Bezeq e Cellcom), ma anche Airbnb, Bookìng, Expedia e Motorola. Si tratta di costringere queste aziende ad andarsene, impoverendo anche l'economia palestinese che dal lavoro israeliano trae un terzo della propria ricchezza. Si tratta della vecchia ossessione dell'Onu, che criminalizza e marchia la sola democrazia liberale in una mezzaluna che va dal Marocco all'India. L'Alto commissariato, che è molto basso quanto a moralità politica, si accanisce contro il solo stato ebraico al mondo, l'unico che garantisca democrazia, diritti e libertà alle sue minoranze, imponendo la propria agenda dettata dai regimi islamici che la fanno da padroni all'Onu su una zona contesa dal 1967. Va da sé che non abbia mai applicato o stilato liste nere per il Tibet cinese o la Cipro turca. Va da sé che l'Onu abbia deciso di ignorare l'ultimo rapporto sull'Iran di Nessuno tocchi Caino, che recita: "Oltre 3.883 prigionieri sono stati giustiziati dal 1o luglio 2013, inizio della presidenza di Rohani. Almeno 310 persone, compresi sette minorenni al momento del fatto e cinque donne, sono state impiccate nel 2018. Nell'anno appena passato, le esecuzioni sono state almeno 285, tra cui quelle di otto minorenni e diciassette donne". E ancora: "Il 1o gennaio 2020, era il 48o giorno in cui cittadini iraniani in massa scendevano in piazza contro il regime, nonostante la repressione di quelle manifestazioni avesse già provocato almeno 1.500 morti tra uomini, donne e bambini, freddati per lo più da proiettili sparati a bruciapelo dai Pasdaran e almeno 12.000 persone fossero state arrestate. Di questi iraniani inermi oggi non si sa più nulla e nessuno se ne interessa, nonostante penda su di loro la minaccia di finire con un cappio intorno al collo". L'Onu ha pensato bene di dare all'Iran un salvacondotto e di mettere quel cappio attorno al collo di Israele.

(Il Foglio, 15 febbraio 2020)


Rudolf Höss: non solo un assassino

 
Rudolf Höss
Forse qualcuno ancora non sa (è strano, ma potrebbe essere così) che il primo comandante del campo di sterminio di Auschwitz, Rudolf Höss, prima di essere impiccato ha scritto un libro di memorie, con il titolo italiano "Comandante ad Auschwitz". Ne riportiamo qui un estratto.
    «Questo sterminio in massa, con tutti i fenomeni che lo accompagnarono, per quanto so, non mancò di lasciare tracce in coloro che vi presero parte. In verità, tranne pochissime eccezioni, tutti coloro che erano comandati a questo mostruoso «lavoro», a questo «servizio», ed io stesso, ebbero abbondante materia di riflessioni, e ne serbarono impressioni assai profonde. La maggioranza di essi, quando compivo i giri d'ispezione agli edifici destinati allo sterminio, mi si avvicinavano per sfogare con me le loro impressioni e le loro angosce, nella speranza che potessi aiutarli. La domanda che inevitabilmente sgorgava dalle loro conversazioni confidenziali era sempre una: è proprio necessario ciò che dobbiamo fare? È proprio necessario sterminare cosi centinaia di migliaia di donne e di bambini? E io, che nel mio intimo mi ero posto infinite volte le stesse domande, ero costretto a rammentar loro il comando del Führer, perché ne traessero conforto. Dovevo affermare che questo sterminio degli ebrei era veramente necessario, affinché la Germania, affinché i nostri discendenti, per il futuro fossero finalmente liberati dai loro nemici più accaniti.
       È vero che l'ordine del Führer era indiscutibile per tutti, così come il fatto che questo compito dovesse essere assolto dalle SS. Ma ciascuno era tormentato da dubbi segreti. Quanto a me, in nessun caso avrei potuto esternare i miei dubbi. Per costringere i miei collaboratori a tener duro, dovevo a mia volta mostrarmi incrollabilmente persuaso della necessità di realizzare quell'ordine cosi spaventosamente crudele. Gli occhi di tutti erano fissi su di me; tutti scrutavano le impressioni suscitate in me dalle scene che ho descritto, tutti studiavano le mie reazioni. Insomma, ero al centro dell'attenzione di tutti, e ogni mia parola era oggetto di discussione. Dovevo perciò controllarmi all'estremo, perché sotto l'impressione di simili avvenimenti non venissero alla luce dubbi ed angosce. Dovevo apparire freddo e senza cuore, di fronte a fatti che avrebbero spezzato il cuore di ogni essere dotato di sentimenti umani. Non potevo neppure voltarmi dall'altra parte, quando sentivo prorompere in me emozioni anche troppo comprensibili. Dovevo assistere impassibile allo spettacolo delle madri che entravano nelle camere a gas coi loro bambini che piangevano o ridevano.
       Una volta vidi due bambini talmente immersi nei loro giochi da non udire neppure la madre, che cercava di portarli via. Perfino gli ebrei del Sonderkommando non ebbero cuore di afferrare quei bambini. Lo sguardo implorante della madre, che certamente sapeva che cosa sarebbe accaduto di lì a poco, è qualcosa che non potrò mai dimenticare. Quelli che già erano entrati nelle camere a gas cominciavano a diventare irrequieti, e fu giocoforza agire. Tutti guardavano me: feci un cenno al sottufficiale di servizio e questi afferrò i due bambini che si dibattevano violentemente e li portò dentro, insieme alla madre che singhiozzava da spezzare il cuore. Provavo una pietà cosi immensa che avrei voluto scomparire dalla faccia della terra, eppure non mi fu lecito mostrare la minima emozione. Era mio dovere assistere a tutte le operazioni. Era mio dovere, fosse giorno o notte, assistere quando li estraevano dalle camere, quando bruciavano i cadaveri, quando estraevano i denti d'oro, tagliavano i capelli; dovevo assistere per ore e ore a questi spettacoli orrendi. Nonostante la puzza orribile, disgustosa, dovevo essere presente anche quando si aprivano le immense fosse comuni, si estraevano i cadaveri e si bruciavano. Attraverso le spie aperte nelle camere a gas dovevo assistere anche alla morte, perché i medici richiedevano anche la mia presenza. Dovevo fare tutte queste cose perché ero colui al quale tutti guardavano, perché dovevo mostrare a tutti che non soltanto impartivo gli ordini e prendevo le disposizioni, ma ero pronto io stesso ad assistere ad ogni cosa, cosi come dovevo pretendere dai miei sottoposti.
       Il Reichsführer delle SS inviava spesso alti funzionari del Partito e delle SS ad Auschwitz, affinché assistessero alle operazioni di sterminio degli ebrei. Alcuni di costoro, che per l'innanzi erano stati zelanti assertori della necessità di queste stragi, assistendo a questa «soluzione finale della questione ebraica» diventavano molto silenziosi e pensosi. Spesso mi venne chiesto come potevo io, come potevano i miei uomini assistere di continuo a queste operazioni, come facevamo a resistere. Rispondevo sempre che tutte le emozioni umane dovevano tacere di fronte alla ferrea coerenza con la quale dovevamo attuare gli ordini del Führer. Ciascuno di quei signori dichiarava che non avrebbe voluto ricevere un compito analogo.
       Perfino Mildner ed Eichmann, che senza dubbio erano tra i più «corazzati», non avrebbero affatto voluto prendere il mio posto: era un compito che nessuno mi invidiava. Spesso ho discorso a lungo, e a fondo, con Eichmann, su tutte le conseguenze legate alla soluzione finale della questione ebraica, senza però esternargli mai le mie intime angosce. Ho cercato anche, con tutti i mezzi, di scoprire quali fossero le sue vere convinzioni riguardo a questa « soluzione finale»; ma perfino sotto l'influenza dell'alcool - ciò che avveniva soltanto quando eravamo tra noi - egli sosteneva, in modo addirittura fanatico, la necessità di sterminare incondizionatamente tutti gli ebrei di cui potevamo impadronirci. Senza pietà, a sangue freddo, dovevamo eseguire il loro sterminio nel più breve tempo possibile. Ogni esitazione o compromesso, sia pure il minimo, un giorno sarebbe stato scontato amaramente».
E questo è un estratto dalla prefazione che ne ha fatto Primo Levi.
    «A noi superstiti dei Lager nazionalsocialisti viene spesso rivolta, specialmente dai giovani, una domanda sintomatica: com'erano, chi erano «quelli dall'altra parte»? Possibile che fossero tutti dei malvagi, che nei loro occhi non si leggesse mai una luce umana? A questa domanda il libro risponde in modo esauriente: mostra con quale facilità il bene possa cedere al male, esserne assediato e infine sommerso, e sopravvivere in piccole isole grottesche: un'ordinata vita famigliare, l'amore per la natura, un moralismo vittoriano. Appunto perché il suo autore è un incolto, non lo si può sospettare di una colossale e sapiente falsificazione della storia: non ne sarebbe stato capace. Nelle sue pagine affiorano bensì ritorni meccanici alla retorica nazista, bugie piccole e grosse, sforzi di autogiustificazione, tentativi di abbellimento, ma sono talmente ingenui e trasparenti che anche il lettore più sprovveduto non ha difficoltà ad identificarli: spiccano sul tessuto del racconto come mosche nel latte.
       Il libro è insomma un'autobiografia sostanzialmente veridica, ed è l'autobiografia di un uomo che non era un mostro, né lo è diventato, neppure al culmine della sua carriera, quando per suo ordine si uccidevano ad Auschwitz migliaia di innocenti al giorno. Intendo dire che gli si può credere quando afferma di non aver mai goduto nell'infliggere dolore e nell'uccidere: non è stato un sadico, non ha nulla di satanico (qualche tratto satanico si coglie invece nel ritratto che egli traccia di Eichmann, suo pari grado ed amico: ma Eichmann era molto più intelligente di Höss, e si ha l'impressione che Höss abbia prese per buone certe vanterie di Eichmann che non reggono ad un'analisi seria). È stato uno dei massimi criminali mai esistiti, ma non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese; la sua colpa, non scritta nel suo patrimonio genetico né nel suo esser nato tedesco, sta tutta nel non aver saputo resistere alla pressione che un ambiente violento aveva esercitato su di lui, già prima della salita di Hitler al potere.»
Se Primo Levi dice che Höss non era un mostro, dobbiamo forse pensare che voglia alleggerire la gravità di quello che ha fatto? È vero il contrario. Rudolf Höss non è “solo un assassino”: è molto di più. Perché “non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese”; perché era l’espressione di un’ideologia assassina che ha coinvolto nel crimine un’intera società costituita da persone “normali” come lui. E’ questa mostruosità sociale che deve sconvolgerci, non la mostruosità personale, tanto più caricata di colore oscuro quanto più se ne vuole prendere personalmente le distanze. Lo stesso può dirsi del “medico maledetto”, Josef Mengele. Anche lui, come Höss, voleva “soltanto” lavorare per il bene della sua nazione, mettere a profitto le sue capacità scientifiche e sfruttare l’ambiente “favorevole” che la società in quel momento gli metteva disposizione. E’ la mostruosità di questa normalità sociale che deve farci inorridire, più che l’anormalità di un mostro personale.
Ritengo, per inciso, che questo abbia voluto dire Giulio Meotti con il suo articolo “Professor Mengele”, riportato anche sul nostro sito. Ma molti non l’hanno capito. E in certi casi la cosa appare quasi incomprensibile. M.C.

(Notizie su Israele, 15 febbraio 2020)


Israele risponde alle minacce iraniane. Attacco su Damasco. Sette morti

Israele risponde alle minacce iraniane e lo fa in maniera decisa attaccando postazioni e basi iraniane nei pressi di Damasco, in Siria.
Ieri il Ministero degli esteri iraniano aveva minacciato Israele che se avesse attaccato ancora postazioni iraniane o di proxy legati a Teheran in Siria o da qualsiasi altra parte nella regione, l'Iran avrebbe "risposto duramente".
La risposta israeliana alle minacce iraniane si è fatta attendere solo poche ore.
Nella notte scorsa un attacco attribuibile quasi certamente a Israele ha colpito diverse postazioni e basi iraniane nei pressi di Damasco provocando, secondo fonti locali, almeno sette morti tra i miliziani iraniani.
Fonti siriane affermano di aver udito e visto diverse "grandi esplosioni" nell'area compresa tra l'aeroporto internazionale di Damasco e il quartiere Sayeda Zeinab, a sud della capitale.
L'agenzia di stampa siriana SANA ha riportato dell'attacco affermando che i missili piovuti sulla capitale siriana provenivano dalle Alture del Golan e ha diffuso un video dove si vede la contraerea siriana in azione.
Per il momento da Gerusalemme non arrivano dichiarazioni ufficiali, ma ci sentiamo di azzardare l'ipotesi che la vera dichiarazione ufficiale, la vera risposta alle minacce iraniane, sia rappresentata da qui missili piovuti sulla testa degli iraniani che inopportunamente occupano la Siria minacciando Israele.

(Rights Reporters, 14 febbraio 2020)



Dall'agrifood alla difesa, Pisano rilancia in Israele le pmi italiane

A giugno il progetto di un "lnnovation Day" a Tel Aviv con le aziende

di Fabiana Magri

                                    Paola Pisano                                                            Gianluigi Benedetti
TEL AVIV - Sul palco di OurCrowd, la conferenza internazionale degli investitori a Gerusalemme, la ministra per l'Innovazione, Paola Pisano, ha presentato, il piano strategico 2025 per l'Italia e l'ha portato in dote negli incontri a tu per tu con i grandi della Start-Up Nation, da Ami Appelbaum, presidente del CdA dell'Innovation Authority israeliana, a Erel Margalit, presidente del fondo di investimenti "Jerusalem Venture Partners".
   «L'Italia deve diventare la porta di entrata per l'Europa - ha detto in un incontro a cui ha partecipato anche l'ambasciatore Gianluigi Benedetti - Israele ha bisogno di scalare le sue innovazioni e noi di spingere le nostre aziende a diventare più innovative». Il tandem tra i due Paesi del Mediterraneo, che già pedala a gran velocità in comparti come l'aerospaziale, potrebbe essere pilotato verso altri settori di eccellenza naturale per l'Italia, come l'agrifood, la moda e la produzione. Come evoluzione del patto di collaborazione firmato a novembre tra Torino City Lab e l'Israel Innovation Authority, la missione del ministro Pisano intende ampliare l'accordo su scala nazionale.
   «Vogliamo applicare l'intelligenza artificiale nel pubblico affinché diventi un richiedente d'innovazione. Così come dovrebbero fare le grandi aziende partecipate dallo Stato - come Fs, Poste, Rai - che possono aumentare la domanda di innovazione». La ministra Pisano ha elogiato, come esempio da ripetere da parte di altre aziende, il caso di Enel che a Tel Aviv ha aperto un hub, supportato dai governi israeliano e italiano, per sviluppare innovazione e attrarre start-up. Dal dialogo con il ministro dell'Economia israeliano, Eli Cohen, e con l'ambasciata italiana, è nato invece il progetto di un «Innovation Day», a Tel Aviv a giugno, dedicato a un settore specifico da individuare, per sollecitare incontri bilaterali tra aziende. «Per crescere come Paese - conclude - bisogna pensare a livello globale, importare le migliori competenze e spingere pubblico e privato a collaborare».

(La Stampa, 14 febbraio 2020)


*


Sixth Millennium apre le porte della Startup Nation agli investitori italiani

Partita su Crowdfundme la campagna di equity crowdfunding per sostenere startup ad alto contenuto tecnologico in Israele

di A.Mac

 
Investire nella Startup Nation. Fino a oggi l'opportunità di partecipare con capitali all'innovazione in una realtà come Israele era riservata perlopiù a investitori istituzionali o a family office. Ora chiunque - a partire da 5mila euro - può partecipare all'equity crowdfunding di Sixth Millennium. «Vogliamo contribuire ad allargare gli orizzonti italiani consapevoli che solo con benchmark internazionali si può crescere» spiega Jonathan Pacifici, general partner di Sixth Millennium.
Da qualche giorno sulla piattaforma italiana CrowdFundMe è partita la campagna di equity crowdfunding di Sixth Millennium, veicolo di investimento che partecipa in startup ad alto contenuto tecnologico con un progetto industriale di medio-lungo termine. Fa parte del gruppo di Venture Capital Sixth Millennium Venture Partners, che opera nel mercato israeliano.

 Startup Nation
  Con circa 7 miliardi di dollari di investimenti in startup ed exit per 21 miliardi (dato 2018), Israele è oggi uno dei principali hub tecnologici del pianeta. "Abbiamo iniziato qualche anno fa - spiega Jonathan Pacifici, che ha fondato il gruppo di venture capital israeliano assieme a Reuven Ulmansky (veterano della "8200", unità delle forze armate israeliane specializzata in cybersicurezza e docente di Technology Entrepreneurship alla Ben Gurion University) - Ci siamo focalizzati su una dozzina di startup ad alto contenuto tecnologico, cybersecurity, IoT, Big Data Analytics e fintech. Le cose stanno andando bene per cui stiamo facendo un salto. Stiamo raccogliendo capitali per 15 milioni in Lussemburgo da familiy office e istituzionali. Allo stesso tempo essendo io italiano, originario di Roma, volevo estendere questa opportunità ai piccoli investitori "retail" interessati a scommettere su un portafoglio diversificato di diverse startup israeliane".

 L'operazione in Italia
  L'obiettivo della campagna italiana è raccogliere 500mila euro in due mesi. Gli investimenti sono finalizzati alla realizzazione di plusvalenza dalle posizioni nelle singole startup, attraverso la cessione delle quote delle partecipate a raggiungimento di exit (M&A, Ipo etc.). In tutti questi casi la holding non accumula capitali, ma ridistribuisce gli utili ai soci. Una volta consolidato il portafoglio delle partecipate, Sixth Millennium ha tra i suoi obiettivi quello di puntare alla quotazione in modalità crowdlisting.
"Un altro motivo della campagna è una sorta di volontà di giving back al mio paese. L'ecosistema è un po' chiuso, autoreferenziale - spiega Pacifici - Negli anni ho compreso che uno dei motivi è la carenza di benchmark a livello internazionale, ovvero conoscere altre realtà e comprendere quali sono i riferimenti. Guardare fuori dai confini nazionali è fondamentale per migliorare le competenze e i benchmark. Per esempio le startup che crescono di più in Israele sono quelle con tecnologia proprietaria. È un fenomeno da conoscere. In Italia si punta di più sul servizio".

(Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2020)


*


In Israele torna OurCrowd: per la prima volta l'Italia sul palco con Paola Pisano

di David Casalini

 
Il più grande evento dedicato alle startup fuori dagli Stati Uniti. Promosso da Jon Medved, quest'anno ha visto la partecipazione dell'Italia con l'intervento del Ministro dell'Innovazione e la presenza istituzionale di ICE.
Jonathan Medved è un imprenditore 'seriale' (ma seriale veramente, non di quelli da social network), un venture capitalist ed è fondatore e CEO di OurCrowd. Parlando a un incontro con la stampa prima dell'evento per il Summit di OurCrowd, Medved ha spiegato un po' di più sulla logica che sta dietro alla messa in scena di un evento focalizzato sulla startup tecnologica in Terra Santa.
"We need to move on from thinking about technology progression in terms of last year to next year. It's more important to think about how things are developing in terms of last decade to next decade."
che tradotto in italiano suona più o meno: "Dobbiamo passare dal pensare alla progressione della tecnologia in termini di progresso dell'anno scorso all'anno prossimo. È più importante pensare a come si stanno sviluppando le cose in termini di evoluzione dall'ultimo decennio al prossimo".
"Stiamo anche cercando di concentrarci sull'effettivo impatto umano fondamentale che queste tecnologie stanno avendo sulle vite umane. Lo scopo di questa conferenza è quello di portare l'ecosistema faccia a faccia con l'altro e metterli tutti in una grande sala… e quando lo si fa, le cose accadono", ha aggiunto Medved nel suo keynote di inaugurazione.
"Adesso non abbiamo più scuse come ecosistema italiano: c'è la volontà politica, ci sono i fondi e ci sono partner come Israele. E' il momento di provarci, di crederci e di far funzionare questo approccio anche in Italia" è stato il senso dell'intervento del Ministro per l'Innovazione Paola Pisano. "In un'ottica di Open Innovation, dobbiamo coinvolgere le grandi aziende del nostro Paese a collaborare con le startup israeliane, forti del modello che ENEL porta avanti qui da tempo".
ENEL è presente in Israele con un presidio strutturato, sia a Tel Aviv che ad Haifa, terza città della regione per dimensioni ed è partner storico proprio di OurCrowd. "Israele è stato il nostro primo di dieci hub che abbiamo oggi in tutto il mondo e qui in Israele ci permette di lavorare con 15 startup in un laboratorio che abbiamo realizzato sulle smart city e sulle reti del futuro insieme a partner del calibro di Schneider Electric ed Amazon" è il commento di Ernesto Ciorra, Chief Innovation Officer di ENEL. "Israele è la Disneyland degli innovatori e permette a tutti quelli che veramente lo vogliono di trovare nuove soluzioni tecnologiche, di sperimentarle e di avere il supporto governativo necessario per incontrare potenziali player con cui collaborare".
Nello stesso evento Carlo Maria Ferro, Presidente di ICE ha annunciato: "Il progetto global startup program nel 2020 sbarca in Israele, abbinandosi a quello già in essere promosso dall' Ambasciata Italiana guidata da Gianluigi Benedetti: 20 startup italiane saranno ospitate nei migliori acceleratori israeliani".
Proprio in questi giorni Sixth Millennium, fondo di venture capital specializzato in startup ad alto contenuto tecnologico con sede a Tel Aviv e guidato da Jonathan Pacifici, ha lanciato una campagna di equity crowdfunding su CrowdFundMe.
Dal 2013, quando ha lanciato le prime operazioni, OurCrowd il numero di investitori accreditati e le iscrizioni ai vertici sono aumentati del 2.000 per cento. A partire da poco meno di 2.500 investitori, la piattaforma ne conta ora oltre 40.000, che hanno investito oltre 500 milioni di dollari solo nel 2019, portando il totale a oltre 1,4 miliardi di dollari in sette anni per un totale di 36 exit.

(Startup Italia, 14 febbraio 2020)


Coronavirus, l'ennesima bufala antisemita

Cosa hanno a che fare il coronavirus e l'antisemitismo? Nulla, almeno in linea puramente teorica. Nella pratica, però, quando l'odio è accecante e dirompente tutto viene legato per giustificare l'idea di base: l'avversione verso gli ebrei.
Al riguardo sta circolando una bufala secondo cui la responsabilità della creazione del virus, che sta spaventando mezzo pianeta, sarebbe attribuibile agli ebrei, che l'avrebbero generato per aumentare il proprio potere e la propria influenza.
Non è stato un errore, il termine usato dai complottisti è stato proprio "aumentare", segno che l'opinione di partenza è quella secondo cui gli ebrei dominano già il mondo e il coronavirus altro non è che l'ennesimo mezzo per raggiungere i propri scopi.
A denunciare l'ennesima bufala antisemita è stata l'ADL (l'Anti Defamation League), la quale ha affermato che, sia sul web e in diversi social, in molti si augurano che questo virus possa uccidere ebrei e africani.
Ricapitoliamo. Secondo tanti internauti a creare il coronavirus sarebbero stati gli ebrei per aumentare il proprio controllo sul mondo. Gli stessi internauti si augurano che gli ebrei possano esser vittime proprio del virus nato in Cina.
In sostanza gli ebrei sarebbe così bravi da controllare il mondo e così "poco bravi" da farsi uccidere da una cosa creata da loro.
In un mondo normale, si rasenterebbe la follia. In quello in cui viviamo oggi, invece, tutto diventa plausibile. Come l'odio, come l'intolleranza, nonché l'avversione per l'altro.
A rendere ancora tutto più "terribile" c'è un altro elemento. La lista di coloro che attribuiscono agli ebrei la creazione del coronavirus annovera accademici e valenti studiosi, o almeno ritenuti tali.
Questa non è solo l'ennesima etichetta antisemita. È un marchio d'infamia che gli ebrei non possono tollerare. Non si può accettare l'idea che il popolo ebraico abbia creato un virus letale per tantissime persone.
Virus che, tra l'altro, ha fatto riscontrare un'intolleranza inimmaginabile anche nei confronti del popolo cinese e tutto il materiale proveniente dalla Cina: una sorte di untori 2.0.

(Progetto Dreyfus, 14 febbraio 2020)


Ultimi ebrei uccisi a Monaco

Colpevoli? I neonazisti. Poi si scoprì che erano dei Br. Sei bruciarono vivi e uno morì lanciandosi dalla finestra, 50 anni fa, in un attentato.

di Roberto Giardina

 
L'incendio del 13 febbraio 1970 a Monaco
 
L'lnstallazione in memoria delle vittime dell'attentato contro gli ebrei a Monaco
BERLINO - Nel centro di Monaco hanno posto un'installazione che ricorda l'incendio in una residenza per anziani, cinquant'anni fa, la sera del venerdì 13 febbraio 1970, alle 20.50. Bruciarono vivi sei ebrei, un settimo si uccise lanciandosi dalla finestra, alcuni erano sopravvissuti ad Auschwitz, ancora vittime dei nazisti un quarto di secolo dopo la fine del III Reich.
   Un container trasformato in una vetrina, con le figure umane come manichini tra le fiamme. Nelle prime ore si volle credere a un incidente, ero arrivato da pochi mesi ad Amburgo come corrispondente, ma volai a Monaco per vedere. Allora si lavorava ancora viaggiando per andare sul posto. In una mattina di fine inverno vidi le macerie fumanti, tutto qui, ma l'odore del rogo e dei morti mi è rimasto dentro. Un incendio doloso, gli attentatori, tra loro una donna, erano andati su per la scale, per i tre piani della vecchia casa nella Reichebachstrasse 27, versando da una tanica di venti litri petrolio e benzina, poi scesero e appiccarono le fiamme. La miscela prende fuoco subito ma brucia lentamente. Gli ospiti non ebbero scampo.
   Erano stati i neonazi, decise la polizia. A settembre il loro partito l'Npd aveva raggiunto il 4,9% a un soffio dall'entrare in parlamento, a Monaco, Hitler iniziò la sua carriera, la Baviera era una roccaforte della destra. Perché avrei dovuto dubitare? I responsabili non vennero mai trovati, forse non li si volle nemmeno cercare. L'omicidio non va in prescrizione in Germania, mai, e così si è continuato a indagare fino al 2017, quando infine il dossier è stato chiuso. E invece i colpevoli erano i Tupamaros München, della sinistra radicale, il nucleo che, in poco tempo, si sarebbe trasformato nella Rote Armée Fraktion. Uno dei leader, Fritz Teufel è morto nel 2010, Irmgar Möller, Brigitte Mohnhaupt e Rolf Heißler sono vivi e scontano in carcere la condanna per diversi omicidi.
   C'erano tre piste. I palestinesi all'inizio dell'anno avevano tentato di dirottare un aereo della El-Al a Monaco ( un morto israeliano, undici feriti). Gli estremisti di destra, ma non si trovò il minimo indizio. Infine, gli estremisti di sinistra, probabilmente il gruppo Aktion Sudfront,
   Il teste Gerhard Müller, un gregario della Baader-Meinhof che «tradì» nel 1976, riferì il commento di Gudrun Ensslin: «Questi stronzi, bene che quest'azione venga addossata ai neonazi». Secondo Dieter Kunzelmann, dei Tupamaros West Berlin, uno dei fondatori della Kommune I, i responsabili del rogo erano stati «i sionisti, per seminare il terrore tra gli ebrei in Germania, e spingerli a emigrare in Israele».
   Nel novembre del '69, nel 31o anniversario della notte dei cristalli, i Tupamaros di Berlino deposero una bomba nella sinagoga della Fasanenstrasse, ma l'attentato fu sventato per caso. Anche in questo caso furono sospettati i neonazisti, ma i responsabili erano da cercare tra i membri del Republikanischen Klub, che era sovvenzionato dalla Stasi, il servizio segreto della Germania comunista. La Ddr aiutò i terroristi dell'Ovest aiutandoli a raggiungere i campi palestinesi dove venivano addestrati. Kunzelmann in una lettera giustificò l'attentato fallito: «La Palestina deve essere il nostro Vietnam, la sinistra deve capirlo... », La Sds, il gruppo studentesco di sinistra, era a favore della «lotta al sionismo, ma non contro gli ebrei. Ulrike Meinhof in carcere, avrebbe giudicato l'aggressione dei palestinesi al villaggio olimpico a Monaco nel 1972 «come un atto contro l'imperialismo americano».
   Nel 2013, lo storico Wolfgang Kraushaar scrisse «Wann endlich beginnt der Kampf gegend die heilige Kuh Israel?», «quando finalmente comincia la lotta contro la sacra mucca Israele?», ma il saggio, in cui si raccontano gli attentati di Monaco e Berlino, venne rifiutato dalla fondazione Reemtsma, che l'aveva commissionato. L'autore si sarebbe basato su indizi senza prove. Poi il libro è stato pubblicato dalla Rowohlt (880 pag.; 34,95 euro).
   Christian Springer scrisse nel '70 una cronaca del rogo per un giornaletto scolastico. Oggi è un artista di cabaret, e si è fatto promotore di un'azione con l'appoggio dello Jüdisches Museum per chiarire il retroscena, «che Monaco ha cancellato dalla sua memoria». Sul container è scritto «Hilfe! Wir werden verbrannt!», aiuto ci stanno bruciando, il grido lanciato da uno degli occupanti. Per Springer è inconcepibile come la polizia abbia abbandonato le indagini poche settimane dopo l'attentato, e che la tanica degli attentatori sia sparita, oggi sarebbe possibile trovare tracce del Dna dei colpevoli. L'installazione resterà nella Gärtnerplatz fino al primo marzo.

(ItaliaOggi, 14 febbraio 2020)


Le minacce antisemite: dall'odio sui muri e porte, all'odio contro le persone

di Iaia Vantaggiato

Nello sgradevole mutamento del clima antropologico in cui, giorno dopo giorno, identità negative si vanno consolidando intorno all'"altro" da odiare e da considerare quindi responsabile delle proprie vere o presunte disgrazie, il riaffacciarsi dell'odio antisemita - oggi alla ribalta anche in Italia con la proliferazione di scritte sui muri, sulle porte di casa e sui selciati - non poteva ovviamente mancare. Opera di esaltati che si compiacciono di profanare la memoria degli orrori passati e di offendere insieme agli ebrei tutti i valori positivi della nostra civiltà. Gesti per ora anonimi e furtivi che qualificano da sé la viltà di chi li commette, atti che non possono più essere considerati come semplici campanelli d'allarme. E certo neanche aiuta classificarli come semplici "episodi di emulazione", nel comprensibile desiderio di ridimensionarne la portata.
   Possiamo ancora dire di non essere di fronte al punto di non ritorno oltre il quale c'è solo l'irreparabile. Ma è altrettanto vero che nel contesto attuale queste ripugnanti bravate suonano molto più sinistre di quanto potessero apparire pochi anni o decenni fa: fasce sempre più ampie della popolazione italiana ed europea (per limitarci alla realtà in cui concretamente viviamo) tendono a sposare semplicistiche teorie dell'odio come reazione al senso di impotenza indotto dai complessi e angosciosi problemi del presente. E' lo stesso l'humus velenoso attraverso il quale si è tentato di ricostruire la genesi delle spaventose tragedie del Novecento. Molte teste pensanti invitano a non gridare "al lupo" e in un certo senso hanno ragione, perché è necessario mantenere la calma ed evitare travisamenti interpretativi che con una retorica inadeguata possono rivelarsi controproducenti. La lucidità è un obbligo, ma la promessa del peggio è già tra noi.
   Se così è, siamo però di fronte a un altro punto di non ritorno: quello della resistenza civile all'imbarbarimento delle coscienze. Non bastano l'indignazione generica e la solidarietà di circostanza a coloro che di volta in volta vengono colpiti: oggi tutti sono chiamati a reagire in modo attivo, e per primi devono farlo coloro che costruiscono ponti all'odio per acquistare consenso. C'è il dovere di un più impegnativo lavoro di trasmissione di valori - fatto di aiuto e di ascolto vero - alle nuove generazioni cui tocca l'onere del futuro e che si sentono non a torto abbandonate a se stesse. Ma è soprattutto indispensabile una ferma stigmatizzazione sociale di qualsivoglia forma di cedimento alla barbarie. Colpiscono le parole del deputato Pd Emanuele Fiano: "Alla fine noi ebrei siamo soli". No, non dobbiamo sentirci soli e non dobbiamo far sentire soli altri che rischiamo di esserlo. Tornano alla mente le parole di Hanna Arendt in merito al comportamento del popolo e del governo danese che in piena seconda guerra mondiale riuscirono a salvare dalla deportazione la gran parte degli ebrei che si trovavano in Danimarca. "Su questa storia", scrive Arendt in "La banalità del male", "si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie (…) per dare un'idea della potenza enorme della non violenza e della resistenza passiva, anche se l'avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori". Fortunatamente il livello del pericolo che corriamo oggi non raggiunge quelle drammatiche proporzioni, ma a maggior ragione sarebbe indegno non darsi da fare per evitare che accada ancora.

(Shalom, 14 febbraio 2020)


Da oggi Teheran risponderà "duramente" ad ogni attacco israeliano nella regione

di Sadira Efseryan

Da oggi l'Iran risponderà "duramente" a ogni attacco israeliano in Siria o da qualsiasi altra parte nella regione dove sono in gioco gli interessi iraniani.
Lo ha annunciato il Ministero degli esteri iraniano attraverso l'agenzia di stampa Mehr.
«La Repubblica islamica dell'Iran darà una risposta schiacciante che provocherà rimpianti per qualsiasi tipo di aggressione o stupida azione da parte del regime sionista contro gli interessi del nostro paese in Siria e nella regione», ha detto il portavoce del Ministero degli esteri, Abbas Mousavi.
La bellicosa dichiarazione è avvenuta in occasione della rimessa in servizio di un aereo destinato alla tratta Teheran-Damasco precedentemente danneggiato da un attacco israeliano.
Solo qualche giorno fa il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva dichiarato che Israele stava operando per espellere gli iraniani dalla Siria e che per farlo avrebbe intensificato gli attacchi contro obiettivi iraniani.
Poco dopo il Ministro della difesa, Naftali Bennett, aveva rincarato la dose affermando che la Siria sarebbe stato «il Vietnam iraniano».
Questa è la prima volta che un membro del regime iraniano parla apertamente di "risposta" agli attacchi israeliani in Siria dove nell'ultimo raid attribuito a Israele sono morti 23 miliziani e militari iraniani.

 Nel mirino israeliano anche l'Iraq
  Non è un caso che il portavoce del Ministero degli esteri iraniano abbia parlato di "attacchi agli interessi iraniani nella regione". In almeno tre occasioni i caccia israeliani avrebbero infatti attaccato anche postazioni iraniane in Iraq.
Da mesi Teheran cerca infatti di aprire quello che gli esperti della intelligence israeliana chiamano "il quarto fronte", quello iracheno.
È di ieri la notizia che gli Hezbollah libanesi stiano coordinando le operazioni anche in Iraq per portare a termine il piano ideato dal defunto Qassem Soleimani per trasformare l'Iraq in una piattaforma da dove lanciare attacchi missilistici contro Israele, il quarto fronte dopo quello siriano, libanese e di Gaza.

(Rights Reporters, 13 febbraio 2020)


Israele, una falla nell'app espone i dati personali di 6,5 milioni di elettori

 
In Israele lo scorso fine settimana è stato scoperto che l'app Elector utilizzata dal partito Likud ha esposto per diversi mesi i dati appartenenti a 6.453.254 cittadini, su una popolazione complessiva del territorio pari a circa 9 milioni di abitanti.
La causa dell'enorme violazione di sicurezza dei dati è da ricercare in un errore di configurazione del servizio. Il database, raggiungibile in modo semplice senza bisogno di possedere alcuna conoscenza avanzata dell'hacking permettendo di conoscere le credenziali di autenticazione riportate in chiaro, contiene quasi 6,5 milioni e mezzo di record, ognuno dei quali con nome, cognome, indirizzo, telefono, numero di documento identificativo, genere e altre informazioni personali se fornite dai diretti interessati.
Come ha riferito la Cnn, le informazioni sensibili sono rimaste potenzialmente accessibili da chiunque per un lungo periodo, ma al momento non è possibile sapere se il database sia stato scaricato o distribuito da soggetti non autorizzati. Si presume che Likud abbia caricato sul servizio l'intero registro degli aventi diritto al voto.
Quello di Netanyahu non è l'unico partito o movimento che utilizza Elector per rimanere in contatto con i propri elettori in modo da fornire loro notizie e aggiornamenti in vista della chiamata alle urne, spingendoli a coinvolgere altre persone in quella che può essere descritta come una nuova forma di propaganda. L'app viene utilizzata anche in altri paesi come Stati Uniti, Cina e Russia, ma al momento per questi territori non sono state segnalate violazioni.

(Federprivacy, 13 febbraio 2020)


Lista nera Onu sulle aziende negli insediamenti. Rabbia di Israele

di Giordano Stabile

Ci sono anche Airbnb e Booking.com fra le 112 aziende israeliane e internazionali finite nella lista nera dell'Onu. Sono accusate di operare negli insediamenti israeliani in Cisgiordania, considerati illegali. La pubblicazione della lista è stata ritardata per tre anni, su pressione degli Stati Uniti. L'iniziativa non ha ripercussioni legali immediate ma potrebbe spingere i governi a prendere provvedimenti come il taglio di contratti e commesse. Immediata la reazione di Israele, che ha denunciato l'iniziativa come «una resa vergognosa» con il ministro degli Esteri Israel Katz, mentre il premier Benjamin Netanyhu ha accusato l'agenzia dell'Onu di essere «di parte» e avvertito che «chi boicotta Israele boicotta se stesso». Il presidente Reuven Rivlin ha invece annunciato misure di sostegno alle imprese.

 94 aziende nel mirino
  La lista è stata compilata dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite peri diritti umani, guidato dall'ex presidente del Cile Michelle Bachelet. Comprende 94 aziende israeliane e 18 di altre sei nazioni, comprese le americane Airbnb e Booking.com, Expedia, TripAdvisor, i giganti delle prenotazioni di viaggi online. Il timore israeliano è che finiscano nel mirino della campagna Boycott, divestment and sanctions, ovvero Bds, sostenuta da ong internazionali. La maggior parte delle imprese sono attive nel settore agricolo e producono frutta, verdura e vino, anche esportati.
  Oltre all'Autorità palestinese, già ieri alcune ong hanno espresso soddisfazione per la decisione dell'Onu. Human Rights Watch, con il vicedirettore esecutivo Bruno Stagno, ha sottolineato che fare affari con le aziende negli insediamenti «è complicità in crimini di guerra». L'Alto commissario Bachelet ha però precisato che «nonostante gli insediamenti siano considerati illegali per la legge internazionale, il rapporto non fornisce una caratterizzazione legale delle attività in questione». «Sono conscia - ha osservato - che questo sia un tema altamente controverso» ma il rapporto è «basato sui fatti» e redatto al termine di un «vasto e meticoloso processo di esame».
  Dovranno quindi decidere i singoli governi. La Cisgiordania è considerata un «territorio occupato» da gran parte dei Paesi ma non dagli Stati Uniti, che ha cambiato la definizione in «territori contesi» con Donald Trump. Il piano di pace americano prevede poi l'annessione da parte di Israele di tutti gli insediamenti e della Valle del Giordano che a quel punto sarebbero sotto piena sovranità israeliana. La decisione dell'Onu irrompe anche nella campagna per le elezioni del 2 marzo. Ieri il principale rivale di Netanyahu, l'ex generale Benny Gantz si è detto favorevole al piano Usa e ha rotto l'alleanza con i partiti arabi.

(La Stampa, 13 febbraio 2020)


*


La lista di proscrizione dell'Onu per chi fa affari con gli israeliani

Ennesima vergogna antisemita

di Daniel Mosseri

L'ufficio dell'Alto commissario dell'Onu per i diritti umani (Unhchr) ha pubblicato una lista con i nomi di 112 compagnie private attive a diverso titolo negli insediamenti israeliani in Giudea e Samaria. 94 fra queste sono domiciliate in Israele «e 18 in altri sei Stati», ha reso noto l'Unhchr, aggiungendo che la lista è stata redatta «in risposta a una specifica richiesta del Consiglio per i diritti umani dell'Onu», Di quale reato si siano macchiate le 112 imprese per finire additate dall'Alto commissario - un ufficio oggi guidato dall'ex presidente del Cile Michelle Bachelet - è presto detto. Nessuno. Lo spiega lo stesso Unhchr. «Sebbene gli insediamenti in quanto tali siano considerati illegali ai sensi del diritto internazionale, il presente rapporto non fornisce una caratterizzazione giuridica delle attività in questione, né del coinvolgimento di imprese commerciali in esse». Per esser certi di scadere nel ridicolo, a Ginevra hanno anche aggiunto: «Il riferimento a queste entità commerciali non è e non pretende di essere un processo giudiziario o quasi giudiziario».
   Viene dunque da chiedersi il perché di questa mossa. Una spiegazione la fornisce l'ambasciata israeliana presso l'Onu a Ginevra. «L'Alto commissario ha ceduto alle pressioni per la pubblicazione di questa lista nera diffamatoria», trasformando il suo ufficio in un megafono del BDS (il movimento internazionale per il boicottaggio di qualunque attività legata a Israele). Liste analoghe erano già state preparate da Amnesty International e lo sdoganamento da parte di Donald Trump degli insediamenti israeliani ha spinto il mondo delle ong a un maggiore pressing sull'Onu. Così mentre sentenze in Francia e risoluzioni del Parlamento in Germania riconoscono la natura antisemita del BDS, l'Onu abbraccia la retorica antisionista promossa fra le ong e parte del mondo arabo.
   Seconda aggravante: nessuno a Ginevra ha pensato di avvertire le 112 imprese dell'imminente pubblicazione della lista, salutata invece dell'Autorità palestinese come «una grande vittoria del diritto». Una vittoria che rischia di far perdere molti posti di lavori di arabi palestinesi impiegati da queste aziende, in nome di una vuota non-condanna.

(Libero, 13 febbraio 2020)


Israele porta le sue startup in Italia

Si è concluso il roadshow di startup israeliane in Italia per sviluppare opportunità di innovazione tra le due sponde del Mediterraneo

di Tommaso Cinquemani

 
Un momento dell'incontro presso il Consorzio Casalasco
Dall'irrigazione di precisione al monitoraggio delle colture fino alla gestione digitale dei campi. Erano undici le startup israeliane che hanno partecipato al roadshow di tre giorni in giro per l'Italia.
  Un evento organizzato dalla Missione economica in Italia del governo israeliano per mettere in contatto realtà innovative israeliane con aziende nostrane. La prima tappa è stata presso il Consorzio Casalasco, la seconda da Ibf - Bonifiche ferraresi, mentre il terzo giorno la delegazione si è spostata al Crea di Conegliano.
  Durante gli eventi aziende italiane lungo tutta la filiera agroalimentare si sono confrontate con i team creativi israeliani. Obiettivo quello di far nascere collaborazioni tra Italia ed Israele per rendere più innovativo il settore primario.

 Israele, la startup nation
  Come abbiamo scritto in questo articolo, Israele, pur essendo un piccolo Stato, punta moltissimo sull'innovazione e in ambito agroalimentare si è guadagnato la fama di essere uno dei leader in ambito digital and precision farming. Nel campo dell'irrigazione ad esempio, dovendosi confrontare con un clima ostile come quello mediorientale, gli agricoltori israeliani hanno dovuto sviluppare tecnologie per valorizzare ogni singola goccia d'acqua.
E infatti molte delle startup che hanno presentato i propri prodotti lavorano in questo segmento. Un esempio è Manna, spin-off della più conosciuta Rivulis, che ha sviluppato una piattaforma di supporto alle decisioni che grazie all'analisi di dati satellitari, dati provenienti dalle centraline meteo e informazioni sulla coltura, è in grado di assistere l'agricoltore nel fornire la giusta quantità di acqua al campo.
  Nell'ambito dell'irrigazione lavorano anche Galcon, Grofit, Mottes e Viridix. Quattro startup che hanno sviluppato sensori e algoritmi per affiancare l'agricoltore nel fornire la giusta quantità di acqua e nutrienti alle colture. Presente all'incontro c'era anche Haifa, uno dei maggiori player mondiali in fatto di concimi idrosolubili, che ha illustrato il suo impegno nel campo della nutrizione sostenibile delle colture.
  Tra soluzioni più o meno innovative, Viridix si è distinta per la proposta di un tensiometro di nuova generazione, in grado di misurare con precisione il potenziale idrico del terreno (nonché la temperatura) e
che non richiede alcun tipo di manutenzione, come invece necessitano i sensori oggi in commercio.
  Lavora in ambito strettamente digital Agritask, una startup che ha sviluppato una piattaforma per la gestione agronomica dell'azienda agricola. Il software è capace di importare dati da più fonti e di elaborarli per fornire all'agricoltore suggerimenti utili alla gestione del campo. Di condivisione della conoscenza tramite lo strumento digitale si occupa Farmentor, che è in grado di fornire a distanza consulenza specifica su qualunque tipo di coltura.
  Due startup lavorano invece nel controllo degli insetti. AgroScout ha sviluppato un algoritmo di riconoscimento delle immagini che utilizza i dati raccolti da un drone per identificare insetti e malattie in campo, avvertendo l'agricoltore.
  Biobee è invece una azienda ormai strutturata nel campo del biotech che commercializza insetti utili e affianca gli operatori del settore nell'implementare strategie di lotta attraverso tecniche come quella del maschio sterile.

 Collaborare per innovare
  Solo il tempo potrà dire se questi eventi sono serviti a contaminare le aziende italiane con le idee innovative provenienti da Israele. L'ostacolo più rilevante alla collaborazione, secondo Jonathan Hadar, ministro per gli Affari economici, commerciali ed investimenti in Italia, sono i tempi delle collaborazioni. Per le startup ogni secondo è vitale, mentre per le compagnie più strutturate iniziare una partnership richiede tempo ed energie che spesso scarseggiano.
  D'altronde come ricordato da Moti Patriano, responsabile del comparto agro dell'Israel export and international cooperation institiute, l'interscambio tra i due paesi è forte: ogni anno Israele esporta circa 400 milioni di euro di prodotti agro verso il nostro paese. E sono molte le aziende italiane che lavorano a Tel Aviv. E viceversa.

(Agronotizie, 13 febbraio 2020)


"Calpesta l'ebreo", scritte antisemite in scuole Pomezia

POMEZIA, 12 feb - Sono apparse questa mattina scritte antisemite di fronte all'ingresso del liceo Pascal e dell'Istituto Largo Brodolini di Pomezia (Roma). La scritta choc 'Calpesta l'ebreo' con una croce celtica al posto della 'o' e una stella di David è stata tracciata sulla strada. Come fa sapere il Comune di Pomezia, gli operatori sono già al lavoro per ripulire le aree.
   Il sindaco Adriano Zuccalà ha condannato l'accaduto: "Un atto gravissimo che condanno a nome di tutta l'amministrazione comunale. A pochi giorni dalla Giornata internazionale della Memoria, e nella giornata di oggi in cui proprio l'Istituto Brodolini organizza un incontro che vede ospite Gabriele Sonnino, testimone di quella pagina buia della nostra storia, sono rammaricato e indignato per quanto accaduto. Questo ci spinge a lavorare ancora di più con le scuole per trasmettere alle nuove generazioni una memoria collettiva che è il messaggio di chi c'era e il ricordo vivo di una comunità che difende i diritti umani".
   "Spero si possa fare luce quanto prima sugli autori di questo vile gesto - conclude Zuccalà -. Intanto gli operatori ambientali del Comune di Pomezia sono già al lavoro per ripulire le aree".
   Le immagini delle scritte choc sono state pubblicate su Twitter dal ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina, che ha condannato duramente il gesto: "Vergognoso quello che è successo a Pomezia, al liceo Pascal e all'Istituto di Largo Brodolini. Lo considero un attacco alla scuola e al suo ruolo educativo. Sono già in contatto con i dirigenti scolastici. Razzismo e antisemitismo non entreranno MAI a scuola".
   "Il nazifascismo è una piaga costata milioni di morti, sconfitta dalla storia grazie al sacrificio di decine di migliaia di giovani, donne e uomini che hanno lottato per riconquistare la libertà e la dignità di ogni essere umano. Oggi tenta di rialzare la testa approfittando della crisi economica, culturale e sociale che attanaglia il nostro Paese, ma sarà nuovamente sconfitto". Lo afferma in una nota il comitato provinciale dell'Anpi di Roma ed "esprime la più dura condanna per le scritte antisemite e i simboli nazisti che 'ignoti' hanno lasciato davanti ad alcune scuole di Pomezia".
   "L'Anpi provinciale di Roma - prosegue la nota - chiede fermamente alle Autorità competenti di individuare e sanzionare severamente gli autori delle infami scritte, e che, applicando le leggi, sciolgano tutte le organizzazioni che al nazismo e al fascismo si richiamano. Invita la cittadinanza alla mobilitazione che si svolgerà nelle prossime ore, per la difesa della democrazia e della Costituzione".
   "Dobbiamo continuare a denunciare, a contrastare, ad arginare e a reprimere l'antisemitismo, trovando tutte le forme per creare quel distinguo necessario tra bene e male, tra valori e odio, specialmente nelle scuole, che dovrebbero essere per antonomasia i luoghi della comprensione, dell'educazione, della cultura, della conoscenza storica, della memoria", afferma Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica romana, all'AdnKronos. Per Dureghello, "questo atto è solo l'ultimo segnale di un cedimento generale, della volontà di qualcuno di andare oltre, di provocare, di uscire allo scoperto. E allora - chiede la presidente della comunità ebraica romana - queste uscite allo scoperto devono essere indagate e represse in tutte le loro forme, al di là se abbiano o meno una regia comune. E' l'effetto emulazione quello che più ci preoccupa: non si può permettere che diventi un fenomeno da emulare con leggerezza e spavalderia".
   "Unanime la condanna, senza se e senza ma" da parte della preside, professoressa Laura Virli, e di tutta "la Comunità Educante" del Liceo Pascal di Pomezia. "Con profondissimo sdegno" spiega una nota apparsa sul sito web della scuola "questa mattina, la Comunità Educante del Liceo Pascal, "ha dovuto constatare la presenza di una vergognosa scritta razzista apparsa di fronte al cancello di ingresso, laddove, da diverso tempo, campeggiava un bellissimo 'Buongiorno, cuore'. E' per noi - prosegue la nota - assolutamente inaccettabile una simile vergogna. La scritta in sé, e ancor più il suo posizionamento di fronte ad un'istituzione, quale è la nostra, preposta alla coltivazione della conoscenza e del bene, nel senso più ampio e completo, ci fanno rabbrividire".
   "Questa comunità, in tutte le sue componenti, prende la più assoluta distanza da tanta ignoranza, culturale e morale - sottolinea la nota - Il Liceo Pascal, che condanna senza riserve qualsiasi forma di razzismo ed esclusione, che considera da sempre la multiculturalità una risorsa, e che crede fermamente nella possibilità di aprire orizzonti sempre più ampi nelle giovani menti di cui si prende cura, continuerà a lottare con decisione, con determinazione e tenacia, perseguendo la sua missione educativa, perché aberrazioni di tal fatta, che non ci appartengono nel modo più assoluto, possano essere cancellate per sempre dal nostro territorio e dovunque".
   "Gli studenti, al pari sdegnati, si sono attivati tramite i loro rappresentanti - conclude la nota - e discuteranno tempestivamente, nel Comitato straordinario previsto per oggi, quanto accaduto, nella piena consapevolezza che solo una comunità unita nella condivisione di principi inderogabili e irrinunciabili possa costituire un saldo punto di riferimento".

(Adnkronos, 13 febbraio 2020)


Noi ebrei, soli con le ferite e la memoria

di Emanuele Fiano*

Sei sempre sul filo.
Non sai se devi parlarne, se stai esagerando, se stai venendo a noia. Ma ogni volta quelle scritte e quelle stelle sono una scossa, un fremito sulla pelle, un brivido. Come una febbre improvvisa. E solitaria. Perché alla fine, siamo soli. È troppo grande il peso della memoria, per avere voglia ogni volta di farlo pesare agli altri, è troppo grande per non sentirsi soli.
Lo dico con il grande amore e la grande riconoscenza che porto verso i miei amici e compagni di mille battaglie di democrazia in questo paese. Vi sono grato, profondamente, della vostra esistenza, e della vostra solidarietà. Senza, non avrei forza.
Alla fine però, quando ogni giorno compaiono, come ieri a Pomezia, quelle odiose scritte dal sapore antico, come l'altro ieri a Torino, come prima a Mondovì, come a Milano, come a Bologna, eccetera, alla fine io, so di non riuscire a trasmettervi fino in fondo il mio privatissimo sentimento di rottura, che provo dentro.
Alla fine, se abbiamo bevuto in casa, da ragazzi, alla fonte dei racconti patemi e materni, delle scritte, degli sputi, degli schemi, delle angherie, e poi delle violenze e poi del resto, alla fine ci è rimasto un marchio. Quello che è successo a loro negli anni '30 e '40 del '900 ha imbevuto anche i nostri tessuti. Ci ha marchiato.
Quel marchio lavora dentro, è una cicatrice interna, ti mostra una ferita non sempre richiusa. Quando è iniziata la mia attività politica, io sentivo ancora aperta quella ferita; lavorare per il bene comune, ha richiuso quella ferita. Ma oggi, quando mi spiegano che queste scritte sono frutto di emulazione, io mi chiedo, ma emulazione di chi, di che? Quanti cattivi maestri ci sono ancora in giro? E poi che tipo di eccitazione porta parlare ancora di uccidere gli ebrei, di insultare Anna Frank o Liliana Segre o di segnalare le nostre case?
È sufficiente dire che sia ignoranza? O non dobbiamo piuttosto investigare meglio i meccanismi antichissimi della necessità di costruirsi un nemico, di additarlo, di segnarlo. C'è spesso, in questo tempo confuso, la sensazione che le nostre identità corrano il rischio di perdersi, di attraversare un deserto senza bussola. Per alcuni rafforzare la propria identità debole, si fa individuando ciò che non si è, e segnando l'altro. È la traccia della nostra origine tribale. È questo ritorno indietro che ti fa sentire solo. Se torniamo alle tribù, ognuno è solo. Io posso solo dirvi che ogni volta, ogni scritta, ogni stella, quella ferita pizzica.

* Deputato Pd, figlio di Nedo Fiano, deportato ad Auschwitz

(la Repubblica, 13 febbraio 2020)


Naama e lo scambio con Mosca

 
Manifesti per la liberazione di Naama Issachar
 
Naama dopo la scarcerazione dalla prigione russa con la madre Yaffa Issachar
A fine gennaio, quando i leader del mondo si sono riuniti a Gerusalemme per celebrare la liberazione di Auschwitz e dichiarare il proprio impegno congiunto contro l'antisemitismo, la città era tappezzata di un messaggio diverso, diretto a un solo dei grandi della Terra: Free Naama / Naama Libera, scritto in ebraico, in inglese e in russo. Il messaggio era per Vladimir Putin e Naama Issachar) è la giovane di 27 anni che per 10 mesi è rimasta reclusa nelle prigioni russe con l'accusa di detenzione di droga (9 grammi di marijuana). La giustizia russa le aveva comminato 7,5 anni di detenzione e in Israele c'è stata una mobilitazione di massa per chiederne la liberazione attraverso un perdono da parte di Putin: in televisione passavano spot a riguardo, in molti programmi erano state invitate la madre e la sorella di Naama per dimostrare solidarietà, a Gerusalemme manifesti fin nei meandri della nuova stazione ferroviaria invocavano la sua liberazione. E alla fine è arrivata. "Non è stata una notte facile, ho dormito forse un'ora" le parole di Yaffa Issachar, la madre di Naama, il giorno dell'annuncio dell'avvenuto perdono. "Sono emozionata. L'ho immaginato molte volte, anche lei. Ma non avremmo mai immaginato che il primo ministro sarebbe venuto a prenderla. È finita, grazie a tutta la nazione israeliana". Netanyahu infatti si è recato a prendere la giovane, che ha cittadinanza anche americana, per poi riportarla trionfalmente in Israele.
  Il caso di Naama, per la sua stranezza, era finito sulle pagine del New York Times secondo cui i funzionari israeliani avevano collegato il destino della giovane a quello di un russo poco conosciuto, detenuto in Israele e che rischiava l'estradizione negli Stati Uniti con l'accusa di crimini informatici. La ragazza israeliana, scriveva il Times, "è stata travolta da quel tipo di forze geopolitiche che hanno impigliato anche altri. In Cina, due canadesi sono stati accusati di spionaggio quest'anno, giorni dopo che il Canada ha avviato un procedimento di estradizione contro un dirigente cinese accusato negli Stati uniti. In Iran, due escursionisti australiani sono stati trattenuti per settimane in un caso inspiegabile, ma che è arrivato in un momento di crescente animosità tra Teheran e l'Occidente". Alexei Burkov era il nome del presunto criminale informatico. La corte suprema israeliana in realtà aveva già approvato l'estradizione di Burkov verso gli Stati Uniti, il più stretto alleato di Israele, e il processo legale era nell'autunno scorso nella sua fase finale, in attesa solo della firma del ministro della giustizia israeliano. La pedina di scambio dunque non poteva essere quella. Detenuta in una prigione a circa 50 miglia da Mosca, senza permesso di telefonare alla famiglia, Naama è stata messa alla prova in questi mesi. Per Natan Sharansky, ex dissidente sovietico ed ex ministro del governo israeliano che ha seguito il caso, il procedimento legale contro la giovane Issachar era una "farsa" e i russi si comportavamo come se avessero un "ostaggio" per il riscatto.
  "È un precedente molto pericoloso - ha detto in un'intervista - perché molti israeliani hanno la cittadinanza americana". Rimane ora la domanda cosa Israele abbia dato in cambio a Mosca, una fonte vicina al primo ministro israeliano ha detto a ynet che la grazia non faceva parte di nessun tipo di accordo con il governo russo. I media, tuttavia, hanno suggerito che un'intesa c'è stata ed è stata facilitata da dalle promesse fatte dal governo israeliano sulla proprietà di un edificio a Gerusalemme, importante per la Chiesa ortodossa russa. Il cortile Alexander, situato nella Città vecchia di Gerusalemme, è stato conteso per anni e un tribunale israeliano si è recentemente pronunciato a favore della Russia.

(Pagine Ebraiche, febbraio 2020)



Gantz: non farò alleanze coi partiti arabi

Il rivale di Netanyahu ribadisce il sì al Piano Trump.

A poco meno di un mese dalle elezioni del 2 marzo, il maggiore antagonista del premier Benyamin Netanyahu, il leader centrista Benny Gantz, ha escluso ogni alleanza di coalizione con i partiti arabi (Lista Unita) ed ha precisato che intende, se eletto, attuare il piano di pace di Trump. Al tempo stesso ha spiegato di non accettare di quel Piano la possibilità che, in uno scambio di terre, le città arabo israeliane del nord passino sotto il controllo palestinese. "Non ho paura - ha detto Gantz - di parlare con qualsiasi legittimo partito politico, ma la Lista non farà parte del governo che formerò. Il mio disaccordo con la leadership della Lista sui temi nazionali e di sicurezza sono profondi, difficili e non possono essere superati". Sul Piano Trump Gantz - ex capo di stato maggiore dell'esercito - ha osservato che "intende attuarlo in coordinamento con tutti gli altri elementi della regione".

(ANSAmed, 12 febbraio 2020)


Onu, Abu Mazen "Il piano Trump non è una base per il negoziato"

di Giordano Stabile

Uno Stato che non è uno Stato «ma un pezzo di gruviera», e che «rafforza il regime di apartheid». E il giudizio impietoso sul piano di pace americano del presidente palestinese Abu Mazen. Il raiss, ormai 85enne, non ha però chiuso le porte al dialogo e si è detto pronto a riprendere i negoziati «se troverà un partner in Israele», perché «la pace è ancora possibile». E cominciata così ieri, al Consiglio di sicurezza dell'Onu, la «intifada diplomatica» del leader palestinese, deciso ad arrivare a un voto di condanna dell'iniziativa di Trump all'Assemblea generale. Con un gesto nello stile di Benjamin Netanyahu, Abu Mazen ha anche mostrato la mappa allegata al piano americano: «Questo è quello che vorrebbero darci - ha rincarato-: è come un formaggio svizzero, cioè un territorio frammentato e pieno di buchi».
   Abu Mazen ha ribadito che non può più accettare gli Usa come «unico mediatore» ma ha aperto a un nuovo negoziato «sotto gli auspici del Quartetto», il gruppo guidato dall'ex premier britannico Tony Blair che comprende Washington, anche se «sulla base dei riferimenti internazionali», cioè le risoluzioni dell'Onu che secondo i palestinesi garantiscono loro uno Stato nei confini del 1967. «Sono pronto a rimanere qui e a cominciare subito», ha concluso. Gli ha replicato l'ambasciatore israeliano al Palazzo di Vetro, Danny Danon, che si è detto disponibile a «negoziati diretti», anche se Abu Mazen «non è sincero» quando parla di pace e doveva venire «a Gerusalemme, non a New York» e assumere una «posizione da leader invece che lamentarsi».

 La via diplomatica resta aperta
  Il discorso di Abu Mazen chiarisce comunque un punto importante. Il raiss non crede a una escalation sul terreno ma continua a privilegiare la via diplomatica. «Noi umili, quando vogliamo lamentarci, abbiamo soltanto due indirizzi - ha detto ai suoi-: Dio e le Nazioni Unite». La strategia dell'Intifada diplomatica non convince però neppure il suo stretto entourage. «Crede di poter suonare lo stesso spartito fino a consumare le corde - ha riassunto l'ex segretario generale dell'Olp Yasser Abed Rabbo - quando in gioco c'è il futuro del nostro popolo: andrà all'Onu, farà un altro discorso, ma chi lo terrà in considerazione?», Il raiss, a capo dell'Anp dal 2005 non ha altre carte da giocare. Una Intifada violenta avrebbe l'appoggio solo di Iran e forse Turchia, mentre i Paesi arabi sono ormai schierati con gli Usa. Sarebbe stroncata dalle forze di sicurezza israeliane. E forse finirebbe per travolgere quel poco di autogoverno che i palestinesi hanno ottenuto.

(La Stampa, 12 febbraio 2020)


*


Abu Mazen contro Trump: «Voglio una pace giusta». Ma all'Onu resta da solo

Il leader Anp puntava all'approvazione di un testo di condanna. Non ha ottenuto i numeri

di Valeria Robecco

NEW YORK - Il piano di Donald Trump per il Medio Oriente «deve essere respinto completamente» e «non deve essere considerato un riferimento internazionale per i negoziati». Abu Mazen arriva all'Onu a due settimane da quando il presidente americano ha presentato la sua «visione per la pace», e boccia la proposta senza appello. Il leader dell'Anp voleva che nel corso della riunione di ieri del Consiglio di Sicurezza venisse votata una bozza di risoluzione che condannava il piano Usa, ma il testo, preparato con Indonesia e Tunisia, secondo fonti diplomatiche del Palazzo di Vetro rischiava di non ottenere la maggioranza - 9 voti su 15 - a prescindere dall'eventuale veto degli Stati Uniti. E così, è stato per ora ritirato per continuare le discussioni. È «un piano preventivo israeliano-americano per porre fine alla Palestina, respingendo tutti gli accordi per creare due stati sui confini pre-1967. Non porterà pace e stabilità nella regione», continua Abu Mazen. «Io sono venuto a nome di 13 milioni di palestinesi per chiedere una pace giusta». Per questo si dice «pronto a rimanere alle Nazioni Unite per iniziare i negoziati immediatamente se trova un partner in Israele, sotto gli auspici del Quartetto e sulla base dei riferimenti internazionali». Ma «non può più accettare il ruolo degli Usa come unico mediatore». A suo parere, infatti, il piano dell'inquilino della Casa Bianca «rafforza il regime di apartheid di cui pensavamo di esserci sbarazzati molto tempo fa». «Questo è lo stato che ci darebbero - prosegue mostrando una mappa dei confini secondo Trump -. È come il formaggio svizzero».
   La prima dura replica alle sue parole arriva da Israele: «Se Abu Mazen fosse serio riguardo ai negoziati, sarebbe a Gerusalemme o a Washington, ma non è interessato a trovare una soluzione realistica al conflitto», ribatte l'ambasciatore all'Onu, Danny Danon. «Non ci saranno progressi verso la pace finché rimarrà nella sua posizione. Solo quando si dimetterà, Israele e i palestinesi potranno fare passi avanti». Cerca di mediare invece il segretario generale Antonio Guterres: «Questo è il momento del dialogo, della riconciliazione, della ragione. Esorto i leader israeliani e palestinesi a dimostrare la volontà necessaria per far avanzare l'obiettivo di una pace giusta e duratura, che la comunità internazionale deve sostenere».
   L'ambasciatrice americana al Palazzo di Vetro, Kelly Craft, non chiude la porta al negoziato, spiegando che il piano di pace Usa «non è un "prendere o lasciare", è l'inizio di una conversazione, non la fine». «Non è un accordo, ma un'opportunità, e oggi è stato l'inizio». Per i paesi europei ex ed attuali membri Ue del Consiglio di Sicurezza, tuttavia, la proposta di Washington si discosta dai «parametri concordati a livello internazionale». «In linea con la posizione Ue, rimaniamo impegnati in una soluzione negoziata a due stati, basata sui confini del 1967, con scambi equivalenti di terre», chiosano i rappresentanti di Belgio, Francia, Germania, Estonia e Polonia, con la promessa di continuare ad «impegnarsi con gli attori interessati per rilanciare un processo politico in linea con il diritto internazionale». E da Strasburgo, l'Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell'Ue, Josep Borrell, spiega che «non possiamo permetterci una nuova ondata di violenza in Palestina», e che questo piano è un punto di partenza, non certo di arrivo. Intanto a Ramallah, in Cisgiordania, decine di migliaia di palestinesi sono scesi in piazza contro il progetto Usa, e in appoggio ad Abu Mazen alle Nazioni Unite.

(il Giornale, 12 febbraio 2020)


Perché anche la sinistra israeliana appoggia il piano di pace Trump

di Einat Wilf

Einat Wilf
Nata a Gerusalemme, è un'intellettuale tra i più originali in Israele in materia di politica, economia e istruzione. I suoi articoli compaiono regolarmente su testate internazionali, Tv e programmi radiofonici. Autrice di sei libri sulla società israeliana, è stata membro del parlamento tra il 2010 e il 2013 nel partito laburista.
Gran parte delle critiche sincere al piano di Donald Trump "Pace verso la prosperità" per il Medio Oriente nascono dal presupposto che si sarebbe potuto trovare un altro piano migliore, più giusto e più equo: un piano a cui i palestinesi avrebbero detto sì e che avrebbe portato davvero la pace. Magari fosse così. Purtroppo, nulla fa pensare che tale presupposto sia fondato.
  Come molti altri israeliani di sinistra, anch'io avrei preferito che il piano Trump destinasse ai palestinesi più territorio, una maggiore presenza a Gerusalemme est (quasi tutti i quartieri arabi della città, e non solo tre), più voce in capitolo nei Luoghi Santi e un maggiore controllo sui loro futuri confini. Tuttavia, decenni di proclami e di comportamenti, determinati e inequivocabili, hanno chiarito oltre ogni dubbio che la dirigenza palestinese dirà di sì solo a un piano che comporti la fine di Israele come stato sovrano del popolo ebraico.
  Va dato atto ai palestinesi che non hanno mai mentito né tentennato circa il loro obiettivo finale di arrivare a una Palestina araba che si estenda "dal fiume al mare". Sono sempre stati coerenti e perseveranti nel perseguire tale obiettivo, vuoi con le guerre e il terrorismo, vuoi cercando di isolare Israele sulla scena internazionale diplomatica, economica, culturale.
  E non hanno mai smesso di affermare e ribadire che sono titolari di quello che definiscono un inalienabile "diritto al ritorno" dentro lo stato sovrano d'Israele. Sancire ed esercitare questo "diritto al ritorno" trasformerebbe a tutti gli effetti Israele in uno stato arabo islamico con al suo interno una minoranza di ebrei, ponendo fine così all'autogoverno del popolo ebraico. Anche quando hanno negoziato con Israele per una soluzione a due stati, i palestinesi sono sempre rimasti inflessibili sul fatto che questo "diritto al ritorno" (che non è né un diritto né un ritorno) è inalienabile. Quando alcuni palestinesi affermano di sostenere la soluzione a due stati ma al contempo respingono qualsiasi formulazione che negherebbe il "diritto al ritorno", appare chiaro che i due stati che alla fine ne risulterebbero sono uno stato arabo-palestinese in Cisgiordania e Gaza e un altro stato arabo-palestinese al posto di Israele.
  Gli occidentali che sinceramente vogliono credere che esista da qualche parte un piano che consentirebbe a un Israele ebraico e una Palestina araba di vivere fianco a fianco in pace, cercano sempre di quadrare i conti con i decenni di costante rifiuto dei palestinesi impegnandosi in una pratica che personalmente indico col termine "westplaining" (westerner+explaining, la spiegazione dell'occidentale ndr). Westplaining significa che quando i palestinesi dicono "no", gli occidentali spiegano che intendono "forse". E quando i palestinesi insistono sul fatto che il "diritto al ritorno" è sacro e non negoziabile, in realtà sotto sotto "sanno" che non si realizzerà davvero. Ciò che il westplaining cerca sempre di mascherare è la ferma convinzione palestinese secondo cui, se il prezzo per avere uno stato arabo di Palestina è che al popolo ebraico sia permesso mantenere il suo stato sovrano e il suo autogoverno in un'altra parte della terra, qualunque sia quella parte di terra, allora è un prezzo troppo alto da pagare. Messi di fronte a questa scelta, sia alle origini nel 1937 e nel 1947 che poi successivamente nel 2000 e nel 2008, finora i palestinesi hanno sempre considerato molto meglio continuare a combattere.
  Il piano del presidente Trump è tutt'altro che perfetto, ma il suo merito principale è che nasce dalla semplice cognizione che non esiste un piano, a parte la fine del sionismo, al quale i palestinesi direbbero di sì. Per molti israeliani di sinistra come me si tratta di una constatazione dolorosa, acquisita in decenni di speranze infrante davanti allo spettacolo di leader palestinesi che lasciavano cadere un'occasione dopo l'altra, e del sangue di intere famiglie fatte a pezzi da attentatori suicidi negli stessi giorni in cui i palestinesi avrebbero già potuto avere un loro stato. Ecco perché il piano di Trump viene abbracciato dalla stragrande maggioranza degli ebrei israeliani, sia di sinistra che di destra.
  E persino un certo numero di paesi arabi ha espresso sostegno al piano, se non altro come legittima base per un rilancio dei negoziati. Gli Emirati Arabi Uniti, l'Oman e il Bahrein hanno mandato i loro ambasciatori alla cerimonia di annuncio del piano. Anche Egitto, Arabia Saudita e altri lo hanno sostenuto. Dopo il bagno di sangue seguito alla cosiddetta primavera araba e l'ascesa dell'Iran, questi paesi arabi si sono poco a poco discostati da decenni di virulenta pratica e retorica anti-sionista, considerando sempre più Israele come un possibile alleato stabile e affidabile.
  Il piano dell'attuale amministrazione americana non porterà né pace né prosperità ai palestinesi, poiché essi, come era prevedibile, continueranno coerentemente a dire no. Ma potrebbe per lo meno portare un po' di pace tra Israele e il mondo arabo, che auspicabilmente un giorno arriverà a riconoscere Israele e la sovranità ebraica come una presenza legittima nella regione.

(JoiMag, 12 febbraio 2020)


Studi sul Talmud, il premio a una donna

Israele, prima volta

Per la prima volta nella storia del paese una donna ha vinto l'Israel Prize nella sezione dedicata al Talmud, la dottrina ebraica.Appannaggio fino ad ora maschile e rabbinico, il prestigioso onore è andato alla professoressa Vered Noam dell'Università di Tel Aviv. Una prima volta riportata con risalto dai media che hanno messo in risalto questo risultato come una eccezione in un universo saldamente maschile. Anche perché l'Israel Prize è considerato nelle sue varie sezioni il massimo riconoscimento del paese ai suoi cittadini. E se in passato è stato vinto già da altre donne - come Golda Meir - la sezione dedicata agli studi ebraici invece non aveva mai visto nulla di simile.

(Il Messaggero, 12 febbraio 2020)


«Benigni ha ridotto il Cantico a un poemetto erotico»

«Nel testo non si parla d'amore in modo generico, ma del rapporto monogamico eterosessuale, immagine del rapporto tra l'uomo e il Mistero». Parla Vittorio Bendaud.

di Emanuele Boffi

 
«Irritante e nauseante». Vittorio Robiati Bendaud, coordinatore del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia, racconta a tempi.it la sua reazione alla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo, in cui l'attore ha prima spiegato e poi recitato il Cantico dei cantici.
Proprio in questi giorni, Bendaud ha girato l'Italia per spiegare il Cantico e lo ha fatto sulla scorta di approfondite letture e anni di studio sul testo biblico che è solito frequentare dopo esservi stato introdotto e guidato da un grande rabbino italiano, Giuseppe Laras, scomparso nel novembre 2017.

- Benigni ha parlato del Cantico come di una presenza "strana" all'interno della Bibbia, come se si trattasse di un testo "imbarazzante", eterodosso rispetto al libro sacro. Il messaggio che Benigni voleva far passare è che un testo così carnale, fisico, erotico desse fastidio a quei "sessuofobi" di ebrei e cristiani?
  Abbiamo assistito ad un uso aggressivo e strumentale del testo biblico contro il testo biblico. Come se il Cantico fosse la parte bella e buona della Bibbia, in mezzo a tanti racconti brutti e malvagi. Appunto, un uso strumentale e indebito di parti della scrittura contro altre parti della scrittura.

- Un'operazione che non tiene contro del fatto che la Bibbia è composta da testi plurali, diversi per epoca e genere.
  E che non tiene conto di un altro aspetto fondamentale che Benigni s'è ben guardato dal ricordare puntualmente: è scritta in ebraico, mica in inglese. Altro che «song of the songs». Voglio dire che fa riferimento a una semantica e a una storia specifica, quella ebraica passata e presente che, forse questo Benigni non lo sa, ha una vastissima produzione letteraria erotica in lingua ebraica e araba, scritta sovente in età medioevale e rinascimentale da insigni rabbini che erano al contempo teologi e mistici. Sa Benigni quante storie d'amore sono raccontate nella Bibbia? Pensi a Isacco e Rebecca, ad Abramo, Agar e Sara, a Giuda e Tamar: storie a volte narrate con tratti di estrema delicatezza e riserbo, a volte con tratti a tinte vivide. La sua è stata una ricostruzione ideologica, falsante, trita ed esausta.

- Ha anche voluto far notare che il Cantico è stato probabilmente scritto da una donna, dando alla "notizia" l'enfasi dell'eccezionalità, come se la peculiarità del Cantico fosse questa, all'interno - è il non detto - di un testo "maschio", pieno di guerre e assassinii.
  Ma di che parla? Ma che significa? E che notizia sarebbe? Ma, poi, soprattutto, e allora il libro di Ester? Il libro di Ruth? Il cantico di Debora, il cantico di Miriam? Come si vede, tutte donne. E questa sarebbe sessuofobia? Aggiungiamo che la tradizione successiva di commento rabbinica ha, per esempio, sempre sostenuto che il livello di profezia di Sara era più "alto" di quello posseduto dal patriarca Abramo… Non è un caso che Abramo esca di scena immediatamente dopo la morte di Sara.

- Sul palco dell'Ariston Benigni ha anche detto che il Cantico non doveva essere inserito tra quelli biblici.
  Sì, ma per la ragione opposta a quella che ha spiegato lui. Innanzitutto, punto numero uno, il problema di inserimento del testo è la stessa tradizione a narrarcelo. Poi, punto numero due, il dilemma che ci si pose è se un tale testo potesse essere frainteso nella stessa maniera con cui lo ha frainteso Benigni a Sanremo. Benigni ha citato rabbi Akivà il quale disse anche in relazione al Cantico dei cantici che «se ogni libro della scrittura è santo, il Cantico dei cantici è il santo dei santi». Il problema non è soltanto di esaltare il mezzo espressivo della materia narrata, ma di coglierne il significato più autentico, quello allusivo. La cosa grandiosa non è che il Cantico sia riducibile e una poemetto erotico, ma che si sia ritenuto, per descrivere il rapporto di Dio con il creato e con il popolo ebraico, che non vi fosse nulla di sufficientemente nobile e ricco oltre all'erotismo e alla fisicità umana.

- Sta dicendo che la discussione sull'inserimento del testo non dipendeva dalle immagini erotiche usate, ma dal fatto che qualcuno potesse fraintenderlo e manipolarlo?
  Esatto. Ed è proprio quello che ha fatto Benigni.

- Si spieghi meglio.
  Ovviamente un non credente può leggere i testi sacri come semplici testi narrativi o storici. È qualcosa che si può fare legittimamente, ma bisognerebbe cercare di farlo con una certa onestà intellettuale, una certa gravitas e un certo decoro. Questi sono testi che, per il popolo che li ha trasmessi, sono sacri sin dal momento della loro stesura e non tenerne conto è opera intellettualmente disonesta, non tanto nei confronti di Dio, ma nei confronti del testo stesso e dei suoi lettori.

- L'altra impressione che si è avuta dallo show di Benigni è che abbia trasformato il Cantico in un testo in cui Dio, il sacro, il Mistero non c'entrano nulla. Ciò che conta è l'amore, in tutti i suoi generi, «tra uomo e uomo, tra donna e donna, tra donna e uomo».
  Qui sta l'altro grande inganno del suo discorso. Il Cantico non parla d'amore in modo generico. Sta parlando invece esattamente e precisamente del rapporto monogamico eterosessuale perché, a detta del testo, è solo nella coppia monogamica che il rapporto d'amore è elettivo, peculiare ed esclusivo. Quindi stiamo parlando di un rapporto tra diversi, uomo e donna (Dio e umanità/popolo ebraico) in cui ognuno dei due partner è esaltato e apprezzato nella sua irriducibile diversità. Questo, ovviamente, non significa squalificare altre esperienze di amore umano o negare che vi sia dignità e rispettabilità in altre declinazioni affettive e che ciò non costituisca una sfida oggi per l'ortodossia delle tradizioni religiose.

- Il punto è che si cerca di far dire al Cantico ciò che il Cantico non dice.
  Mi lasci fare due esempi: nel libro di Heinz Heger (Gli uomini con il triangolo rosa) ci viene consegnata la testimonianza drammatica e altissima di martirio e fede cristiana di un pensatore omosessuale protestante. Un simile esempio di fede, spiritualità e determinazione deve essere compreso, apprezzato e valorizzato. Consiglio anche la lettura proprio su queste questioni delicate e ineludibili del saggio del pensatore omosessuale Douglas Murray (The Madness of Crowds: Gender, Race and Identity). E, ancora, rimanendo su questi temi, alla lettura del libro del rabbino ortodosso Steve Greenberg, Wrestling with God and Men: Homosexuality in the Jewish Tradition. Chiaramente capisco che vi siano persone che legittimamente rifiutano o hanno difficoltà serissime con la prospettiva proposta dai testi biblici. Ci si trova spesso di fronte a contraddizioni, ipocrisie, imbarazzi e dolenti drammi esistenziali. Ma, come dice lei, pretendere di far dire al testo ciò che chiaramente non afferma, mi pare un po' troppo.

- Prima ha accennato al fatto che nel Cantico si parla di un rapporto tra diversi: uomo e donna, Dio e umanità. Può spiegare meglio?
  In ebraico uomo si dice Ish e donna Ishà, con l'aggiunta, ora semplifico per farmi capire, di una "à". È come se in italiano dicessimo "uoma". La parola , Dio, è l'unione delle lettere diverse delle parole ebraiche per "uomo" e "donna". Capisce cosa significa? Che per la tradizione ebraica il rapporto uomo-donna è un mistero, avendo a che fare, anche nel suo aspetto sessuale, unitivo, col Mistero: è un mistero che comunica il Mistero. Il Cantico dei cantici è il tentativo di descrivere questo rapporto tra Dio e il mondo, tra Dio e il singolo orante, tra Dio e Israele e, proprio sulla scorta di questa lettura per i cristiani, tra Dio e la Chiesa.

- Quindi è un rapporto d'amore elettivo ed esclusivo, come un rapporto tra un uomo e una donna.
  È così misterioso il rapporto tra uomo e Dio che per renderlo comprensibile, descrivibile, lo si paragona, lo si illustra con il rapporto umano, sessuale, tra uomo e donna. Come nel rapporto tra uomo e Dio, così anche nel rapporto tra uomo e donna essi si "conoscono" (termine biblico) rimanendo però irriducibili a se stessi, ovvero con una zona di inconoscibilità strutturale ove si incontra il totalmente altro.

- E perché sono "abusive" le altre forme?
  Perché il Cantico dei cantici non è evidentemente solo descrittivo, ma anche normativo: cioè indica alla società come essa si debba strutturare, ovvero basandosi in via ordinaria, archetipica e privilegiata sul rapporto monogamico (e non poligamico - ed è qui che si individua, per la prima volta nella storia, una svolta decisiva nel riconoscimento e nelle possibilità di implementazione dei diritti della donna) ed eterosessuale.

- Da ormai diversi anni Benigni ha smesso i panni del giullare per vestire quelli del predicatore. Sono finiti i tempi dell'Inno del corpo sciolto, ora si misura con la Shoah, con Dante…
  Su La vita e bella mi limiterò a ripetere quel che disse a suo tempo Liliana Segre: «Un filmetto senza pretese nella prima parte, terribilmente falso nella seconda». Per quanto riguarda Dante, ho l'impressione che Benigni sia molto scaltro. Ha capito che la tradizione ebraica e cristiana, anche se spesso negata e avversata, è ricca di capolavori, che ebrei e cristiani se ne rendano conto o meno. A fronte di una cultura laica ormai imbesuita, saccheggiata e in crisi, essa cerca di appropriarsi dei tesori di quelle tradizioni, spogliandoli dell'aspetto religioso, della fede in Dio.

- Eppure in prima fila ad applaudire Benigni vediamo così tanti uomini di fede…
  Appunto. Purtroppo oggi molti credenti sono così privi di spirito e fede, o disincantati o così confusi che s'innamorano di queste vacue riduzioni progressiste che stuprano i testi delle loro tradizioni, talora con persino la pretesa di rivolgerli contro la tradizione di appartenenza. È anche colpa dei dirigenti delle varie comunità religiose che, non riuscendo più a essere sufficientemente credibili e offrire contenuti esistenziali seri alle folle, accettano oziosamente le letture "benignesche" che svendono i tesori della loro tradizione al supermarket di una religiosità indistinta e superficiale, atea nel senso deteriore del termine. È colpa della loro sciatteria e arrendevolezza, che risponde alla logica del "tutto va bene, purché se ne parli". Ma così, intanto, si diffonde un altro tipo di religione: quella di un "umanesimo post ebraico e post cristiano" senza più nulla né di ebraico né di cristiano. E questo non è nemmeno rispettoso di tante serie e buone persone rigorosamente "non credenti".

(Tempi, 12 febbraio 2020)


Quando i comici si atteggiano a profeti.
Confermo un mio giudizio sintetico di qualche anno fa su questo giullare aspirante profeta. Sempre di più Benigni appare come un furbastro che sceglie un tema “serio” del momento per attirare su di sé l'attenzione presentandosi come un artista che con le sue indubbie capacità teatrali sa offrire profondi spunti di riflessione su temi di cui in qualche modo si parla. Valga per tutti l'esempio del film "La vita è bella", che se qualcuno considera profondo è perché è caduto nella trappola benigniana. Da tempo Benigni non mi fa più ridere e non mi ha mai fatto riflettere. M.C.


Schlein, la paladina delle Sardine al convegno con uno dei killer di Tobagi

La neo vice di Bonaccini nel 2018 all'incontro dei filopalestinesi con un ex terrorista del commando che uccise il giornalista.

di Alberto Giannoni

 
Elly Schlein
MILANO - Buona, brava e naturalmente «coraggiosa», proprio come il nome della sua lista. Elly Schlein è la nuova stella della sinistra-sinistra, ha incassato il pieno di preferenze in Emilia-Romagna (22.098) e per questo ieri è stata nominata vicepresidente della giunta regionale.
   «Elly» è una sardina al cubo: ha nel suo sito una foto con Romano Prodi ed è sorridente come Mattia Santori, l'altro anti-Salvini, che ieri ha incontrato il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano e presto vedrà forse il premier Giuseppe Conte. Elly però di politica ne capisce: nonostante la giovane età l'ha masticata già parecchio nel mondo da cui arriva, quello a cavallo fra Nichi Vendola e Pippo Civati. Qualcuno quindi guarda alla sua santificazione con una buona dose di scetticismo, e pensa che se le sue priorità sono davvero i diritti, il femminismo e il contrasto dell'odio, Elly avrà il suo bel daffare anche fra compagni e amici dei compagni.
   Circola in questi giorni in rete il «volantino» della sua partecipazione al 16o convegno dei palestinesi in Europa, celebrato il 29 aprile 2018 ad Assago (Milano). Illustrando il programma ne aveva dato notizia l'imam di Segrate, Ali Abu Shwaima, noto per aver dichiarato che per una donna non è molto decoroso andare in bicicletta. L'imam aveva indicato fra gli organizzatori l'associazione dei palestinesi in Italia, la stessa che aveva organizzato le discusse manifestazioni anti-Israele del dicembre 2017 a Milano.
   Elly ad Assago era stata annunciata in un «panel» dedicato all'«ingerenza» di Trump e a «Gerusalemme capitale di Palestina», con altri deputati di sinistra, fra cui Maria Pia Pizzolante, che fra l'altro alla Camera aveva già convocato una conferenza stampa con una delegazione dell'Api di cui faceva parte Sulaiman Hijazi, apparso alla manifestazione delle sardine a San Giovanni. Fra i partecipanti al congresso di Assago, nel volantino ancora reperibile on line compare anche un referente del movimento Bds, quello che propone il boicottaggio dello stato ebraico. E compare !'«attivista» Francesco Giordano, che in questi anni si è messo in evidenza per gli appelli alla contestazione della Brigata ebraica al corteo del 25 aprile. Come hanno ricordato in una di quelle occasioni gli «Amici di Israele», Giordano ha fatto parte della «Brigata XXVIII marzo», responsabile dell'omicidio del giornalista Walter Tobagi. Sono passati 40 anni e Giordano ha scontato la pena. Di recente si era parlato di lui per un attacco a testa bassa rivolto a Lele Fiano, deputato Pd ed ex presidente della Comunità ebraica milanese, che resta bersaglio di farneticanti polemiche, come Roberto Cenati, presidente dell' Anpi Milano e come il sindaco Beppe Sala. Ma di recente ha definito la Schlein «una truffa». Oggi Giordano inneggia alle foibe e partecipa alle iniziative filo palestinesi e anti-israeliane, comprese quelle del dicembre 2017. Allora si parlava di Gerusalemme capitale d'Israele e il 9 dicembre, va ricordato, furono gridati slogan jihadisti e antisemiti, nonché insulti allo stato ebraico, come il 16 quando lo stesso Shwaima aveva parlato al megafono, infuocando i partecipanti e invocando una «intifada nuova contro questo progetto».

(il Giornale, 12 febbraio 2020)


L'ambasciatore di Israele invitato ad Asti per i 15 anni dell'Associazione Italia-Israele

Il presidente dell'Associazione Italia Israele, Luigi Florio, ha incontrato nei giorni scorsi a Loano l'ambasciatore di Israele, Dror Eydar.
L'incontro si è svolto nell'ambito della visita del diplomatico mediorientale in Liguria per la ricorrenza del centesimo anniversario della Conferenza di Sanremo, che nel 1920 vide i Paesi vincitori della Prima Guerra Mondiale pronunciarsi in favore della ricostituzione in Palestina di una nazione per il popolo ebraico.
Florio, che era accompagnato dalla vicepresidente Francesca Bassa e dal consigliere Giovanni Matta, ha discusso con il diplomatico israeliano del preoccupante fenomeno dell'antisemitismo, che negli ultimi tempi proprio in Piemonte si è fatto sentire con gli stessi squallidi sistemi in voga ai tempi delle leggi razziali varate dal fascismo.
L'ambasciatore Dror ha ringraziato l'Associazione Italia Israele di Asti per le molteplici iniziative "per fare conoscere la vera realtà di Israele, una Nazione che in Medio Oriente ha saputo creare dal deserto una delle più floride economie del mondo senza mai venire meno ai principi di autentica democrazia".
L'avvocato Florio ha invitato l'ambasciatore Eydar ad Asti per celebrare, nei prossimi mesi, il 15o anniversario della nascita dell'Associazione Italia Israele.

(ATnews, 12 febbraio 2020)


L'esercito di Assad uccide altri cinque soldati di Ankara

di Giordano Stabile

La battaglia per Idlib è ormai uno scontro aperto fra Turchia e Siria, con il bilancio dei militari morti che ieri ha fatto un nuovo balzo e riportato le relazioni fra Mosca e Ankara al livello più basso da anni. Altri cinque soldati turchi sono rimasti uccisi, e cinque feriti, dopo gli otto morti la scorsa settimana, quando nel pomeriggio l'artiglieria governativa siriana ha colpito una base appena costruita a Taftanaz, vicino all'aeroporto militare di Idlib. La rappresaglia è stata ancora più massiccia. I cannoni turchi hanno martellato le postazioni dell'esercito di Damasco, con «101 soldati neutralizzati, 3 carri armati distrutti e un elicottero colpito».
  Il governo siriano non ha confermato. Già la scorsa settimana almeno 13 soldati siriani erano caduti nella rappresaglia condotta da Ankara, anche se il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva parlato di « 76 nemici neutralizzati». Ieri la presidenza turca ha sottolineato che «i soldati turchi continueranno a servire la pace, annientando chiunque osi colpire la nostra bandiera». Una delegazione di Mosca è ad Ankara per trovare un nuovo compromesso per Idlib.

 Tensioni con Mosca
  Ieri i colloqui si sono interrotti, e anche un prossimo vertice fra Erdogan e Vladimir Putin è stato messo in dubbio. Nei giorni scorsi la Turchia ha reagito all'attacco di Bashar al-Assad con l'invio di un contingente massiccio. Sono entrati nel Nord-Ovest altri 300 tank e veicoli blindati, più cinquemila soldati. Ieri sera la 20esima brigata corazzata è stata spostata proprio da Afrin al fronte di Idlib.
  Il contingente si è disposto attorno al capoluogo, ma al di qua delle autostrade M4 e M5, primo obiettivo dell'offensiva governativa. Ma anche il dispositivo di Assad è imponente, con 60 mila soldati regolari e 20 mila miliziani sciiti. Fra domenica e ieri i governativi hanno conquistato quasi tutta l'autostrada M5 Hama-Aleppo, mentre lungo la M4 sono a 8 chilometri da Idlib. In città, che prima della guerra contava 150 mila abitanti, sono ammassati mezzo milione di rifugiati. Erdogan ha detto che è quella la «linea rossa» e non permetterà un assalto.
  Ieri però ha dato un nuovo ultimatum chiedendo il rispetto degli «accordi di Sochi». Era il patto con Putin che nessuno dei due ha mai rispettato. La Turchia non ha disarmato i ribelli jihadisti di Hayat al-Tahrir al-Sham, legati ad Al-Qaeda, mentre Damasco non ha rinunciato a riprendersi tutta la provincia, «fino all'ultimo centimetro», come promesso da Assad.

(La Stampa, 11 febbraio 2020)


Momento Iowa per Bibi

Storia dell'app vulnerabile del Likud che ha fatto venire fuori nomi e indirizzi di chi vota in Israele

di Micol Flamini

 
Micol Flammini
ROMA - La corsa israeliana verso la terza elezione in un anno si arricchisce di scontri, dettagli e follie. E' una corsa complicata - si voterà il 2 marzo - in cui in ballo ci sono molte cose: un governo, la sicurezza nazionale, un piano di pace con i palestinesi e le sorti di Benjamin Netanyahu, capo dell'esecutivo da dieci anni e ora con tre incriminazioni sulle spalle per corruzione, frode e abuso d'ufficio. Bibi vuole vincere a ogni costo, ha puntato il più in alto possibile, anche grazie all'accordo offerto da Donald Trump, molto vantaggioso per Gerusalemme. La corsa è forsennata, i rischi sono numerosi, soprattutto per il premier, e l'arrivo per il Likud del suo momento Iowa non era previsto e sicuramente nemmeno desiderato. Dopo gli Stati Uniti, Israele, altro grande centro dell'innovazione mondiale, ha avuto un problema che collega le applicazioni e il voto.
  Come raccontato da Haaretz, il Likud, il partito del primo ministro, ha caricato su un'applicazione, Elector, il registro completo degli elettori: 6.453.245 cittadini che hanno fornito nome cognome, indirizzo mail, numero di telefono e altri dettagli. I partiti politici israeliani ricevono i dati personali degli elettori, si impegnano a proteggere la loro privacy, a non fornire i dati a terzi e a cancellare definitivamente tutte le informazioni al termine delle elezioni. Dopo aver ricevuto i dettagli, il Likud li ha caricati sull'app Elector, sviluppata dalla ditta Feed-b, che non si è premurata di potenziare le misure di sicurezza. Un incidente, non un atto voluto, una sciatteria nella programmazione che ha reso l'applicazione più vulnerabile: il codice sorgente si vedeva integralmente e da lì era possibile arrivare ai nomi utente e alle password degli amministratori del sistema consentendo di accedere al registro e di scaricarlo. Il Likud ha preferito non commentare e non è ancora chiaro quante persone abbiano avuto accesso al registro.
  Come avvenuto in Iowa, l'app è il prodotto finale di un sistema che dovrebbe consentire di gestire meglio le elezioni: il sistema rende possibile l'invio di messaggi oltre alla gestione dei dati degli elettori o delle postazioni di voto. Ma secondo la rivista TheMaker, citata da Haaretz, oltre al fallimento del sistema, e all'inaspettata violazione della privacy degli utenti, c'è anche altro da denunciare. L'applicazione consente anche la creazione di un database in cui finiscono i dati di persone segnalate dai sostenitori del partito. Gli utenti infatti vengono invitati a fornire i dati di potenziali elettori e anche questi nomi, cognomi e numeri di telefono sono stati resi pubblici.
  Per il Likud non è la prima volta, il database dei suoi sostenitori già in passato aveva dimostrato di non essere molto sicuro. Anche durante le primarie, che si sono tenute e dicembre, in cui qualcuno nel partito aveva sperato e disperato di trovare la strada per un'èra post Bibi, il sistema per il voto online era stato scritto in modo approssimativo, tanto che qualsiasi utente connesso a internet sarebbe stato capace di apportare delle modifiche. In questo caso la situazione è più delicata, sono stati i dati di 6.453.245 cittadini a essere resi pubblici. E se si considera che la popolazione di Israele conta quasi 9 milioni di cittadini, sul registro del Likud si potevano trovare i dettagli di quasi tutto lo stato ebraico.
  Sono tanti i fattori che rischiano di complicare questa terza elezione, che secondo alcuni analisti non sarà nemmeno l'ultima (i rapporti tra Benny Gantz, il leader di Kahol Lavan, e il premier non sono cambiati e l'ipotesi di un governo di unità nazionale non sembra ora più probabile rispetto a cinque mesi fa). Al primo posto, in cima alle preoccupazioni, c'è lo stesso Benjamin Netanyahu, agitato e vorace, dopo il piano di pace per il medio oriente offertogli da Trump era disposto ad annettere immediatamente gli insediamenti in Cisgiordania e la Valle del Giordano prima delle elezioni. Gli Stati Uniti sono intervenuti e il voto sul tema è stato rinviato. Lungo la Striscia di Gaza aumentano le tensioni: la scorsa settimana un uomo si è lanciato in macchina contro 12 soldati israeliani, il premier ha promesso che prima delle elezioni Israele è pronta per una guerra. I cittadini dello stato ebraico sanno tutti che devono molto a Netanyahu, soprattutto in fatto di sicurezza, lo sanno anche i suoi avversari e questa elezione sembra sempre di più un voto su di lui, sul premier. La storia di un'app del Likud fatta male, che ha rivelato i dati degli elettori in uno dei paesi più avanti in materia di innovazione, è un altro atto di questa corsa forsennata, il sintomo di una confusione politica che per ora non sta mettendo a rischio la sicurezza nazionale, ma che sarebbe meglio risolvere prima di una quarta elezione.

(Il Foglio, 11 febbraio 2020)


Sui blocchi di partenza il 19o Raduno Nazionale Edipi

Torino sarà la sede del 19o Raduno Nazionale EDIPI, città scelta proprio per la recente recrudescenza di molti vergognosi atti di antisemitismo e nel contempo per ricordare il

100o Anniversario della Dichiarazione di Sanremo

La data sarà quella del 25 e 26 aprile 2020 coincidente appunto con la Risoluzione di Sanremo che definì il principio del mandato di Palestina affidandolo alla potenze vincitrici della prima guerra mondiale e in questo caso alla Gran Bretagna per l'area geografica destinata al nascente Stato di Israele.
Il mandato per la Palestina evidenziava gli aspetti legali dei diritti internazionali ebraici e sintetizzava i due eventi più significativi nella storia moderna che hanno portato alla creazione della patria nazionale ebraica: in particolare la fondazione del sionismo moderno e la "Dichiarazione di Balfour" che divenne parte integrante della risoluzione di Sanremo.
Per il 19o Raduno abbiamo previsto 3 sessioni:
  • sabato pomeriggio: "A 100 anni dalla Dichiarazione di Sanremo"
  • domenica mattina: "Ignorare la storia alimenta l'antisemitismo"
  • domenica pomeriggio: "Attualità della risoluzione di Sanremo".
Abbiamo già avuto conferme di partecipazione da Mark Surey, Marcello Cicchese, Ugo Volli, Claudio Vercelli, il senatore Lucio Malan oltre a due invitati speciali da Israele: Fiamma Nirenstein e Alex Kerner di Keren Hayesod.
Nutrita anche la partecipazione di relatori targati EDIPI.
Considerando che il ponte del 25 aprile è già segnalato come uno dei più problematici, turisticamente parlando, sollecitiamo quanti fossero interessati di contattarci urgentemente per facilitare l'aspetto logistico.
L'evento si farà al Circolo della Stampa del palazzo Ceriana Mayneri in Corso Stati Uniti 27 a Torino.
Per ulteriori informazioni; info@edipi.net

(EDIPI, febbraio 2020)



La spia che salvò ventimila ebrei dell'Etiopia

Yola Reitman, eroina anche di un film Netflix.

di Andrea Morigi

MILANO - Anche i Falascia, gli ebrei fuggiti in Etiopia 2.500 anni fa, guardavano a Gerusalemme come alla loro capitale e i loro discendenti volevano tornarvi, senza nemmeno sapere dell'esistenza dello Stato di Israele. Erano e sono un unico popolo e per questo fra il 1981 e il 1985 scattò l'Operazione Fratelli, che ne riportò ventimila nella madrepatria.
  Yola Reitman, l'agente del Mossad che ne fu la protagonista, ripercorrerà quella vicenda oggi, alle 20.00, nella sede del Comune di Milano, a Palazzo Marino. Parlando con Libero, l'ex 007 israeliana ne ripercorre le fasi epiche, che sono state oggetto di un film trasmesso da Netflix, "Red Sea Diving Resort".

- Quando vi siete accorti che era venuto il momento di salvare gli ebrei etiopi'?
  «Quando uno di loro, Fédéré Akloum, dopo essersi rifugiato in Sudan in seguito alla persecuzione del regime etiopico di Menghistu, si rivolse con una lettera alle autorità dello Stato ebraico, chiedendo soccorso per la comunità dei cosiddetti Beta Israel. Fu allora che il primo ministro Menachem Begin affidò al Mossad il compito di attivarsi per portarli in Israele».

- Lei come fu scelta?
  «Io ero un'assistente di volo della compagnia di bandiera El Al, ma avevo un brevetto da subacquea. Mi misero a capo di una struttura che, sotto la copertura di un villaggio turistico sulla costa sudanese del Mar Rosso, avrebbe dovuto organizzare il trasferimento. Di giorno eravamo un paradiso delle vacanze, Di notte, compivamo la nostra missione, ma senza mai coinvolgere il resort».

- Come si svolgevano le operazioni'?
  «In un primo momento, gli ebrei etiopi venivano messi su voli civili diretti in Europa e da lì imbarcati per Tel Aviv. Poi, a mano a mano che si spargeva la voce, i numeri dei profughi aumentavano e durante il primo anno e mezzo venivano trasportati su navi della nostra Marina Militare, partendo dalla spiaggia con dei gommoni, duecento alla volta. Ma non era ancora sufficiente e in più, per arrivare al punto di imbarco erano costretti a 900 chilometri a piedi».

- Come avete risolto il problema'?
  «Abbiamo organizzato dei voli segreti di Hercules C 130, su piste improvvisate nel deserto, per caricarne il più possibile».

- Il governo islamico di Khartown vi era ostile. Non vi hanno mai scoperti o individuati con i radar'?
  «Avevo finto di perdere la strada vicino a una base militare, i soldati mi avevano fatta entrare e mi ero accorta che i radar non funzionavano. Certo, eravamo ricercati, soprattutto sulla costa. Qualche incidente avvenne, ma l'esercito locale credeva si trattasse di contrabbandieri. Non collegarono mai l'attività al villaggio turistico, anche se una volta vi fecero irruzione e mi interrogarono. Ma li convinsi che non avevo nulla a che fare con quell'attività».

- Fino a quando siete riusciti ad agire'?
  «Fino all'inizio del 1985, quando dal quartier generale ci avvisarono che stavano venendo a prenderci. Alcuni Beta Israel rimasero indietro. Ma furono salvati in seguito».

(Libero, 11 febbraio 2020)


Loner: «Ragazzi, vi pregò: coltivate la memoria»

L'avvocato studioso del Lager di Bolzano sarà premiato a Innsbruck

di Giancarlo Riccio

Arnaldo Loner
BOLZANO - Dopo la Croce al merito sette anni fa a lui, unico italiano, ecco un secondo riconoscimento - ufficiale e ancora più prestigioso - da parte del Land Tirol. Arnaldo Loner se lo aspettava? «Ma figuriamoci, proprio no», risponde questo combattivo e insieme mite avvocato bolzanino, bibliofilo raffinato e instancabile divulgatore e comunicatore della Shoah e contro il negazionismo.
  All'antivigilia dei suoi (primi) 86 anni il prossimo novembre, Loner andrà ad Innsbruck il prossimo 19 febbraio. Al mattino del 20 sarà insignito del «Segno d'onore» del Tirolo. Motivazione: «Contributo alla cultura, alla tradizione e alla comunicazione sul processo Seifert e sul Lager di Bolzano».
  Loner è stato vent'anni fa il principale accusatore di «Misha», il «boia di Bolzano» e dei suoi gregari in una causa legale che ha stravinto per conto del Comune di Bolzano, costituitosi parte civile. «Da allora, vado in tutte le scuole che mi invitano a parlare di Shoah», dice nel suo studio stracolmo di libri, molto più grande ( e ben fornito) di tante piccole biblioteche pubbliche.

- Loner, che effetto le fa un secondo riconoscimento?
  «Ho attraversato l'intero Triveneto per parlare con gli studenti del grande sacrificio degli ebrei e della Memoria. Man mano i testimoni diretti stanno scomparendo e questa Memoria va salvaguardata e conservata. A questa divulgazione, a queste centinaia di incontri sto dedicando l'ultima parte della mia esistenza».

- Un riconoscimento a uno studioso che è anche nonno ...
  «Di due nipoti quasi adolescenti. Quando ho regalato seicento libri sull'Olocausto alla biblioteca bolzanina "Claudia Augusta", ho detto ai miei nipoti che per leggere quelle pubblicazioni avrebbero dovuto comportarsi come tutti gli altri ragazzi: mettersi i fila e richiederle in prestito. Hanno capito».

- Due riconoscimenti dal Tirolo e ancora nessuno in Italia.
  «Non è proprio così... In Italia mi assegnano un riconoscimento importante ogni volta che mi invitano a parlare in pubblico, soprattutto nelle scuole. Per colpa dell'influenza ho saltato alcuni appuntamenti, ma prima e dopo il 20 febbraio tornerò a Merano, a Cavalese e dove mi hanno già chiamato».

- Per dire che cosa?
  «Invitare questi ragazzi a trasmettere la Memoria, dopo che uno dopo l'altro i testimoni diretti muoiono a causa dell'età. Io racconto, spiego, approfondisco. E loro mi ascoltano. Così, impariamo tutti: loro e anche io. Tutto questo è fondamentale in un Paese democratico. Dove il Ricordo presuppone la conoscenza».

- Tutte cose che tocca con mano.
  «Eh sì. Ricevo testimonianze di genitori che descrivono i propri figli trasformati dopo aver assistito a uno dei miei incontri pubblici. Tempo fa, lo rivelo ora per la prima volta, un ragazzo mi ha inseguito per i corridoi della sua scuola e mi ha chiesto come mi chiamassi. "Mi chiamo Loner", ho risposto". E lui: "E di nome di battesimo?" "Arnaldo". Mi ha salutato dicendo "grazie Arnaldo" e poi è scappato in classe"».

- Torniamo al riconoscimento ufficiale che riceverà a Innsbruck il 20 febbraio. Avere organizzato due anni fa a Castel Tirolo una grande mostra di antiche vedute tirolesi può essere una delle motivazioni?
  «Credo di sì. Si tratta di una mia ricerca di anni e anni. Che metto a disposizione di chi me la chiede, come anche i volumi "Educare all'odio" e "Buchenwald" (edizioni Cierre di Verona) che quando posso regalo agli insegnanti che mi invitano».

(Corriere dell'Alto Adige, 11 febbraio 2020)


Scritte antisemite a Torino, caccia tra cento volti ripresi dalle telecamere

Tre casi, si indaga per minacce aggravate da odio razziale.

di Massimo Massenzio e Massimiliano Nerozzi

Un uomo che entra nell'androne con le buste della spesa, una donna che si infila in ascensore, un ragazzo che si dirige a passo svelto verso il portone. Partono dalle immagini sgranate riprese dalle telecamere di via Monferrato le indagini della polizia sulle scritte antisemite e gli slogan nazisti comparsi nelle ultime settimane sui muri e sui campanelli di tre palazzi torinesi. Tre episodi in 16 giorni, più un quarto avvenuto a Mondovì, che hanno fatto crescere l'allarme per un crescente clima di odio in Piemonte culminato domenica mattina con il ritrovamento di una stella di David e la scritta «Jude» sulla porta di casa di Marcello Segre. La Procura ha aperto un nuovo fascicolo per minacce aggravate dall'odio razziale e gli inquirenti stanno valutando tutte le ipotesi investigative, ma finora non sono emersi collegamenti evidenti fra i diversi casi.
  Nelle ultime 24 ore gli agenti della squadra tecnologica della Digos, coordinati dal dirigente Carlo Ambra, hanno acquisito i filmati dei sistemi di videosorveglianza presenti nella zona di via Susa, anche se nessun occhio elettronico punta direttamente verso la casa del presidente di Piemonte Cuore. Per il momento al centro dell'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Emilio Gatti, restano i cento volti che gli investigatori sono riusciti a isolare sbobinando i filmati registrati in via Monferrato. Nel palazzo, con doppio accesso da corso Casale, è presente una telecamera interna che ha ripreso le persone che hanno varcato l'ingresso fra le 18.30 del 26 gennaio e le 10 del mattino successivo. In quell'arco orario qualcuno è salito al terzo piano e ha scritto sul muro «Crepa sporca ebrea». Una minaccia rivolta a Maria Bigliani, pensionata di 65 anni, figlia di Ines Ghiron, ebrea e staffetta partigiana nel Partito d'Azione durante la Resistenza.
  Maria è un'ex dipendente comunale, non ha mai frequentato assiduamente la Sinagoga e non è certo un personaggio particolarmente in vista della comunità ebraica torinese. L'autore (o gli autori) di quelle scritte sapeva dove abitava e ha vergato la sua minaccia accanto al campanello dove non compare il suo cognome. E quindi ipotizzabile che il responsabile conoscesse la donna e non è da escludere neppure che l'episodio possa essere collegato a banali attriti nati all'interno della palazzina. Una conferma potrebbe arrivare dagli interrogatori dei condomini che in questi giorni vengono chiamati in Questura per dare un nome a quelle «ombre» - non troppo definite - immortalate dagli occhi elettronici. Sembrano decisamente più complicate le indagini sullo slogan nazista «Sieg heil, rauss guth» incollato sul citofono di una pensionata di 71 anni, figlia di un partigiano della Sap Grandi Motori, in via Bava, a Vanchiglia. Quasi tutte le telecamere (private) presenti nei pressi dell'edificio sono spente e la donna, anche lei un'ex dipendente del Comune, ha staccato le due etichette adesive e poi le ha rincollate su un foglio di carta prima di consegnarle alla Digos: riuscire a ritrovare eventuali impronte sarà impossibile. Per individuare l'autore della stella di David disegnata sulla porta di Segre, invece, i tecnici della Questura sperano invece in un aiuto delle immagini appena acquisite. Stanno esaminando la fascia oraria dalle 23 di sabato fino alle 9 del mattino, quando il presidente di Piemonte Cuore è uscito di casa. La vernice utilizzata sembra indelebile, molto diversa da quella di via Monferrato. Verrà analizzata dalla Scientifica, a cui è stata chiesta una consulenza. «Si occuperà anche di eseguire una perizia calligrafica sulle tre scritte, alla ricerca di eventuali caratteri in comune o di particolari utili alle indagini - conferma Ambra - Per sapere, ad esempio, se l'autore delle scritte è un mancino o un destro».

(Corriere Torino, 11 febbraio 2020)


Quanto tempo servirebbe all'Iran per costruire una bomba atomica?

Con un accordo internazionale seriamente in pericolo, le capacità dell'Iran di costruire armi nucleari stanno di nuovo aumentando. Tuttavia non ci sono prove solide che il paese stia lavorando attivamente verso questo obiettivo o che sia già in grado di farlo velocemente.

di Davide Castelvecchi

L'Iran ha accumulato 1200 chilogrammi di uranio arricchito, più che raddoppiando la scorta che aveva appena tre mesi fa, secondo le dichiarazioni fatte il 25 gennaio di un alto funzionario dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica.
  Basterebbero per costruire una bomba atomica, se l'uranio venisse ulteriormente raffinato per renderlo adatto a un uso militare, con un processo che potrebbe richiedere solo due o tre mesi, dice David Albright, esperto di politica nucleare all'Institute for Science and International Security di Washington. Ma la costruzione di armi vere e proprie richiederebbe molto più tempo, aggiunge.
  Se fosse confermata, la velocità con cui aumentano le scorte di uranio dell'Iran "cambia radicalmente le cose", aggiunge Albright. Ma lui e altri avvertono che non ci sono prove che l'Iran stia cercando di costruire una bomba, almeno non ancora.
  Nelle ultime settimane, le tensioni tra Iran e Stati Uniti sono cresciute. Il 3 gennaio, un attacco con droni degli Stati Uniti ha ucciso Qasem Soleimani, l'architetto chiave dell'influenza militare regionale dell'Iran. In risposta l'Iran ha lanciato missili contro le basi statunitensi in Iraq.
  Il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l'accordo del 2015 tra l'Iran e sei potenze globali che ha limitato le sue capacità nucleari in cambio della revoca delle sanzioni economiche, è ora in grave pericolo. Il presidente statunitense Donald Trump si è ritirato dall'accordo nel maggio 2018, e nel maggio dello scorso anno l'Iran ha annunciato che avrebbe ripreso l'arricchimento dell'uranio.
  "Nature" ha interpellato alcuni esperti di nucleare per scoprire in quanto tempo l'Iran può costruire una bomba e se è probabile che questo accada.

- L'Iran ha cercato di costruire armi nucleari in passato?
  Costruire armi nucleari è costoso e richiede competenze tecniche, come l'arricchimento dell'uranio. L'isotopo fissionabile uranio-235, che costituisce meno dell'uno per cento dell'uranio naturale, deve essere separato dall'uranio-238, che è di gran lunga l'isotopo più comune.
  L'Iran ha una forte tradizione nel campo della fisica e ha un programma nucleare attivo da decenni. Il paese ha sempre sostenuto che si trattava di un programma a scopi puramente pacifici, come la produzione di isotopi per uso medico. Ma all'inizio degli anni duemila, secondo valutazioni dei servizi segreti statunitensi e di osservatori internazionali, l'Iran sembrava avere un programma rapido e intensivo per costruire almeno cinque bombe a fissione all'uranio.
  Attorno al 2005, i rapporti dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (o IAEA, da International Atomic Energy Agency) delle Nazioni Unite suggerivano che l'Iran avrebbe potuto lavorare attivamente alla costruzione di un arsenale nucleare. Sarebbe una violazione del Trattato di non proliferazione nucleare (o TNP, da Non-Proliferation Treaty) del 1968, che l'Iran ha firmato. Nel 2003, cedendo alle pressioni internazionali, il paese ha accettato di ridurre drasticamente, ma non completamente, le sue attività nucleari.

- L'accordo del 2015 ha ridotto le capacità nucleari dell'Iran?
  Al 2015, il paese disponeva di scorte per 11 tonnellate di esafluoruro di uranio arricchito fino al 20 per cento di uranio-235. L'uranio per uso militare deve essere arricchito al 90 per cento. L'uranio è comunemente processato come gas esafluoruro di uranio, che viene separato per isotopi in centrifughe ad alta velocità, e l'Iran aveva più di 10.000 di queste centrifughe. Quando nel luglio 2015 è stato firmato il JCPOA, gli esperti avevano stimato che il paese era lontano mesi, forse settimane, dalla produzione di uranio per uso militare.
  Ma il JCPOA ha costretto l'Iran a spedire la maggior parte delle sue scorte all'estero e a mettere in naftalina la maggior parte delle sue centrifughe. L'obiettivo era in parte allungare di almeno un anno il cosiddetto breakout time, cioè il tempo necessario all'Iran per accumulare materiale fissile sufficiente per una bomba. L'accordo ha anche sottoposto l'Iran a un rigoroso regime di ispezioni dell'IAEA. Negli anni successivi, l'agenzia ha periodicamente riferito che l'Iran stava rispettando pienamente l'accordo.
  Il JCPOA è stato anche una "grande vittoria" per gli sforzi di non proliferazione globale, dice Seyed Hossein Mousavian, che era il portavoce del gruppo di negoziazione nucleare dell'Iran nel 2003. "Più di 200 scienziati nucleari hanno lavorato per anni sui dettagli tecnici", dice Mousavian, ora esperto di politica nucleare alla statunitense Princeton University. Di conseguenza, dice, il regime di ispezione dell'Iran è più dettagliato di quello descritto nel TNP, che potrebbe rendere l'accordo del 2015 un precedente e un modello per i futuri accordi di disarmo.

- Qual è stato l'impatto del ritiro degli Stati Uniti dall'accordo nucleare?
  Nonostante il successo riportato nel limitare le capacità nucleari dell'Iran, alcuni oppositori dell'accordo si sono lamentati del fatto che il JCPOA non si è spinto abbastanza lontano. Nel 2018 gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente, imponendo nuove e schiaccianti sanzioni economiche all'Iran. Mousavian dice che gli iraniani si sono sentiti ingannati. Ora la percezione nel paese è che "non si può negoziare con gli Stati Uniti o fidarsi di loro" e l'impatto potrebbe essere molto più ampio. Per esempio, potrebbe rendere potenze nucleari come la Corea del Nord riluttanti a sedersi al tavolo delle trattative, aggiunge.

- Ora l'Iran ha abbastanza uranio arricchito per costruire bombe nucleari?
  Lo scorso novembre, l'IAEA ha scoperto che l'Iran ha accumulato circa 550 chilogrammi di esafluoruro di uranio "moderatamente arricchito" a meno del 4,5 per cento in uranio-235. Non è chiaro a quale materiale si riferisse il funzionario iraniano nella sua dichiarazione del 25 gennaio, ma si presume che si tratti di 1200 chilogrammi di esafluoruro di uranio moderatamente arricchito. Se ulteriormente arricchita, questa quantità potrebbe produrre più di 30 chilogrammi di uranio militare, sufficiente per costruire una bomba a fissione. L'IAEA dovrebbe pubblicare il suo ultimo rapporto sul programma nucleare iraniano, compresa la valutazione delle scorte, al più tardi a inizio marzo.

- Ma quando avrà abbastanza uranio per uso militare con quale velocità potrebbe riuscirci?
  Il possesso di materiale fissile non è sufficiente: un paese deve anche essere in grado di progettare e fabbricare una bomba. In particolare, l'esafluoruro di uranio dev'essere convertito in uranio metallico, il che non è semplice, dice Richard Johnson, specialista di proliferazione alla Nuclear Threat Initiative, un centro di ricerca politica di Washington.
  Uno studio preparato per il Congresso degli Stati Uniti e aggiornato lo scorso dicembre suggerisce che quando l'Iran ha parzialmente congelato lo sviluppo delle sue armi nel 2003 non padroneggiava ancora tutte le abilità necessarie per costruire bombe e che probabilmente non ha fatto progressi significativi negli anni successivi.
  Secondo Albright, in base a queste informazioni, alcune agenzie di intelligence stimano che il paese potrebbe impiegare circa due anni per costruire le prime due bombe, se volesse farlo.

- Se l'accordo nucleare fosse smantellato, l'Iran sarebbe legalmente autorizzato ad armarsi con bombe nucleari?
  No. Poiché l'Iran ha firmato il TNP, si è impegnato a usare la tecnologia nucleare esclusivamente per scopi pacifici. I membri del TNP devono permettere all'IAEA di verificare il loro rispetto del trattato, o affrontare conseguenze come le sanzioni della Nazioni Unite. Tuttavia, l'Iran potrebbe ritirarsi dal TNP, come ha fatto la Corea del Nord nel 2003, mentre stava diventando una potenza nucleare. Il 20 gennaio il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha dichiarato che il paese è preparato a ritirarsi se il suo programma di arricchimento continuo sarà riferito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

- Quindi l'Iran sta lavorando attivamente per una bomba?
  "Tutto fa pensare che non è così", dice Zia Mian, fisico ed esperto di politica nucleare della Princeton University. Il paese ha rispettato il rigoroso regime di ispezione dell'IAEA stabilito dal JCPOA, dice. Questo significa che un programma di armi nucleari è "nascosto così bene che nessuno è stato in grado di trovarlo finora o che non esiste un programma del genere", dice. Albright è d'accordo, e dice che l'Iran potrebbe accumulare uranio arricchito per aumentare la sua influenza nei futuri negoziati. "Non si vedono alcuni degli indicatori che implicherebbero una decisione ben ponderata" per costruire effettivamente bombe, dice.
  "Continuerei a sostenere che l'Iran non ha iniziato una corsa per la bomba", aggiunge Oliver Meier, specialista nel controllo delle armi all'Institute for Peace Research and Security Policy di Amburgo, in Germania. "Questo richiederebbe una serie di altre attività, anche per poterla rendere pronta all'uso, che non abbiamo visto".
  I funzionari iraniani continuano a negare qualsiasi intenzione di costruire ordigni nucleari. Ma allontanarsi dagli obblighi del JCPOA - e in particolare l'aumento delle scorte di uranio arricchito - porta il paese più vicino ad avere la capacità di farlo.
  "Continuo a pensare che non siano in corsa per una bomba", dice Johnson, ma aggiunge che la comunità internazionale dovrebbe rimanere vigile. "La preoccupazione c'è".

(le Scienze, 10 febbraio 2020)


Incontro di ministri di Cipro e di Israele a Tel Aviv, focus su Mediterraneo e sicurezza

NICOSIA - Il ministro della Difesa cipriota, Savvas Angelides, incontra oggi a Tel Aviv l'omologo Naftali Bennett. Secondo quanto riferito dal ministero della Difesa di Nicosia, al centro dei colloqui saranno gli sviluppi legati al Mediterraneo orientale e le azioni provocatorie della Turchia nella Zona economica esclusiva (Zee) cipriota. Angelides dovrebbe discutere con il suo omologo anche delle modalità per rafforzare le relazioni bilaterali tra i due paesi, questioni regionali, energetiche, e il contrasto alle forme di minacce asimmetriche per la sicurezza della regione.

(Agenzia Nova, 10 febbraio 2020)


Savona, l'ambasciatore di Israele: "Antisemitismo è spia di decadenza, prefigura crollo società"

di Andrea Chiovelli

 
Dror Eydar, ambasciatore di Israele in Italia
SAVONA - "La storia del mondo occidentale ha dimostrato che l'antisemitismo è una cartina al tornasole della decadenza di una società, e ne prefigura il crollo. Chiunque abbia a cuore la società in cui vive dovrebbe combattere l'antisemitismo". Lo ha affermato questa mattina Dror Eydar, ambasciatore di Israele in Italia, durante il suo discorso nel palazzo della Provincia di Savona in occasione del convegno "100 anni di Israele in Liguria".
   Accolto da un dispiegamento imponente di misure di sicurezza, l'ambasciatore è intervenuto di fronte a una platea composta da sindaci del territorio, rappresentanti di istituzioni e forze dell'ordine, componenti di associazioni locali e savonesi appartenenti alla comunità ebraica.
   "Il nostro desiderio di tornare a Sion è stato più forte dei Romani - ha raccontato - siamo sopravvissuti senza patria e la Shoah ha rafforzato la nostra aspirazione di vivere come un popolo normale. Lo stato di Israele è la 'polizza assicurativa' di tutti gli ebrei del mondo. Antisionismo significa opporsi alla nostra esistenza come nazione libera: siamo l'unica nazione al mondo di cui alle Nazioni Unite si discute della sua stessa esistenza. Ma va messo in chiaro questo: chiunque si opponga all'esistenza dell'unico stato ebraico al mondo è antisemita. L'ironia della storia è che la fondazione dello Stato di Israele ha permesso ai vecchi antisemiti di nascondere il loro odio dietro soltanto alla loro opposizione allo stato ebraico".
"Anche il presidente Sergio Mattarella - ha proseguito Dror Eydar - ha ripreso nel suo discorso la lotta contro il vecchio e il nuovo antisemitismo, che è prima di tutto una lotta a beneficio della società e del Paese. Desidero ringraziare in maniera particolare la Regione Liguria, per essere stata la prima istituzione in Italia ad adottare la definizione di antisemitismo, e il consigliere Angelo Vaccarezza che è stato il promotore di quella definizione: non c'è dubbio che abbiano avuto una influenza sulla successiva decisione del governo nazionale".

(IVG.it, 10 febbraio 2020)


L'UE è rassegnata alla volontà iraniana di distruggere Israele?

di Emanuele Calò

Josep Borrell, da ministro degli esteri spagnolo (ora è responsabile degli esteri dell'Unione Europea), ebbe a concedere un'intervista a «Politico» spiegando che "Iran wants to wipe out Israel; nothing new about that. You have to live with it" (Iran vuole cancellare Israele. Non c'è nulla di nuovo in quello. Devi vivere con quello).
   Non è così, come attuale responsabile della politica estera dell'Unione Europea (Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza) potrebbe domandare ai suoi interlocutori iraniani se pensano che sia conforme alle regole dell'estetica (il bello salverà il mondo) l'intenzione di voler cancellare dalla carta geografica lo Stato d'Israele, considerando (anche se questo, per molti, potrebbe essere un dettaglio), che Israele non è vuota, ma sembra che qualcuno vi abiti.
   Vista la quantità industriale di anatemi su Israele, sarebbe ragionevole domandarsi se voler distruggere un altro Stato non sia passibile di qualche affettuoso rimprovero da parte dell'Unione Europea. Nell'estate del 1969 Borrell ha lavorato come volontario presso il Gal On kibbutz in Israele, dove ha incontrato quella che sarebbe stata sua moglie, francese Caroline Mayeur, da cui ora è divorziato. Allora vi era ancora lo Shah Reza Pahlevi; se ci fosse stato l'attuale governo iraniano, si sarebbe preoccupato del rischio di essere cancellato anch'egli dalla faccia della terra o, da persona matura, avrebbe dimostrato la santa rassegnazione che più tardi ha esibito col tono del vecchio saggio?
   Pur essendo un europeista di ferro, mi domando quale credibilità pensa di avere l'Unione Europea con un Alto (alto?) rappresentante che si adagia così facilmente su tali intenzioni senza accennare alla minima possibilità o intenzione di contrastarla. Visto che l'Italia ha deciso di essere combattiva in seno all'Unione europea e di farsi sentire: dirà qualche cosina oppure continuerà ad essere retoricamente presente e materialmente vedremo? Per ora, il profluvio di parole sembra che appaghi molti, però appagarsi delle sole parole è una bella responsabilità; aprite qualche libro di storia e date un'occhiata.

(Shalom, 10 febbraio 2020)


Europeista di ferro? Dopo quell’elenco di domande retoriche, pudicamente rimaste prive di risposta, forse sarebbe stato meglio dirsi, quanto meno, “europeista perplesso”. Se non antieuropeista. M.C.


Israele sceglie l'etiope Eden Alene per l'Eurovision

La cantante 19enne appartiene alla comunità ebraica fuggita dall'Africa.

di Meir Ouziel

Eden Alene
TEL AVIV - La votazione per eleggere il rappresentante israeliano all'Eurovisione è stata drammatica. Dopo una serie di dieci programmi televisivi, durante i quali sono stati eliminati candidati di grande talento, alla finale sono arrivati quattro giovani. E, grazie ai voti del pubblico da casa, la scelta è caduta su Eden Alene: una soldatessa di 19 anni dalla pelle nera, appartenente alla comunità etiope ritornata in Israele dopo 2000 anni di esilio.
   Gli ebrei etiopi sono una comunità unica nel mondo israelita. Secondo le loro tradizioni sono diretti discendenti degli ebrei dei tempi biblici. Per centinaia di anni hanno mantenuto fede e usanze ebraiche, hanno serbato antichi libri religiosi contenenti preghiere ebraiche e hanno avuto nostalgia di Gerusalemme. Dopo la nascita dello Stato di Israele questa comunità si aspettava di lasciare l'esilio in Etiopia per fare ritorno in patria, realizzando così un sogno di secoli, ma ben presto si è dovuta ricredere.
   Le istituzioni religiose in Israele hanno iniziato a domandarsi se gli appartenenti a tale collettività fossero effettivamente ebrei, procrastinandone così il ritorno. Ed è insorta un'altra difficoltà: le autorità etiopi si rifiutavano di concedere loro di partire.
   Quando il Gran rabbinato d'Israele (il supremo organo religioso del Paese), dopo aver esaminato la questione, decise che la comunità etiope era effettivamente composta da ebrei, questi ultimi si misero in marcia. Percorrendo con enorme difficoltà il Sudan e altri territori desertici, a prezzo della perdita di vite umane, riuscirono infine ad attraversare il Mar Rosso grazie anche all'intervento del Mossad.
   Nei periodi in cui fu possibile stipulare accordi con il governo etiope, Israele inviò aerei che portarono in patria migliaia di ebrei. Nel 1984 ne arrivarono 8000 con I 'Operazione Mosè e nel 1991 altri 14.500 con l'Operazione Salomone.
   Eden, che è stata votata dagli israeliani per rappresentare il loro Paese all'Eurovisione, non ha dimenticato di proclamare che la sua vittoria è motivo di orgoglio per l'intera comunità etiope.
   Va detto che i membri di questa comunità non sono considerati immigrati o stranieri in Israele, come potrebbero esserlo nei Paesi europei, per esempio. Qui sono a casa, nel loro Paese, e ne ricevono la cittadinanza non appena vi mettono piede. Tuttavia l'incontro tra gli ebrei etiopi, provenienti per lo più da villaggi africani, e la società moderna, non si è rivelato privo di difficoltà. E anche il colore della pelle li distingue dai loro concittadini.
   A fronte di decine di commoventi storie di integrazione in ambito militare, universitario, politico ed economico, si registrano anche proteste. L'ultima è degenerata in violenza allorché un giovane ebreo etiope è stato colpito e ucciso da un ufficiale di polizia, che non era neppure in servizio. L'ufficiale ha sostenuto che il giovane stava mettendo in pericolo la sua vita e quella dei suoi famigliari, con lui in quel momento, ma i manifestanti, molti dei quali giovani, hanno replicato che la polizia sospetta automaticamente di loro a causa del colore della pelle.
   La storia di Eden Alene dimostra però che gli israeliani si sono innamorati di lei, delle sue doti canore, della sua personalità. E non sarebbe la prima volta che giovani etiopi sanno conquistarsi il favore del pubblico e raggiungere la popolarità. Sette anni fa una giovane donna di origine etiope, Tahunia Rubel, vinse il programma del Grande Fratello israeliano.
   A detta dei rappresentanti della comunità questo però non basta. Personaggi famosi nel campo dello spettacolo non compensano la mancanza di scienziati, di alti ufficiali dell'esercito, di leader. D'altro canto, nessuno potrebbe sostenere che la strada per raggiungere questi risultati non sia aperta ai membri della comunità.

(La Stampa, 10 febbraio 2020 - trad. Alessandra Shomroni)


Stella di David sulla porta di Segre: «Spero li trovino. Non ho paura, ma ho pianto»

Nel mirino una figura di spicco del volontariato torinese. «Queste cose si devono sapere. Bisogna parlarne nelle scuole»

Lo stupore
«Qualcuno mi vuole male? Ma con la mia associazione facciamo solo del bene»
Il cognome
«Non sono parente della senatrice Segre, ma condivido quello che dice»

di Floriana Rullo

 
«La stella di David disegnata sulla porta della mia casa? Non mi spaventa. Questa notte dormirò tranquillo nel mio letto. Ho fiducia nelle istituzioni. Per questo ho deciso di denunciare quanto accaduto». Marcello Segre è l'ennesima vittima di un gesto antisemita a Torino.
Dopo Maria Bigliani, la figlia della staffetta partigiana presa di mira con una scritta antisemita sul muro di casa, e il caso di Mondovì, ieri mattina lo stesso sfregio, insieme con la scritta «Jude», è comparso sulla porta dell'abitazione dove l'uomo vive da solo. «Non riesco a pensare che qualcuno mi voglia male. Con la mia associazione - è presidente dell'Associazione italiana cure e rianimazione Lorenzo Greco onlus - faccio solo del bene agli altri. Salviamo delle vite. E nemmeno politicamente, come simpatizzante delle Sardine, ho mai fatto nulla».

- Marcello Segre, quando ha visto la scritta?
  «L'ho vista quando sono uscito di casa. Erano le 9 del mattino. Non è stato un bel risveglio. Io non sono un personaggio di spicco, sono impegnato nel sociale, nel volontariato, non penso di aver fatto del male a nessuno. Grazie ai nostri defibrillatori salviamo vite. Ne abbiamo salvata una vita proprio nelle scorse settimane in una scuola di Torino».

- Ha pensato di non raccontare l'accaduto.
  «Sì, non sapevo se denunciare oppure no. Sono impegnato per il sociale. E ho capito che molto spesso purtroppo queste cose possono essere emulate. Ma non bisogna darla vinta. Non mi piace accusare nessuno, la mia famiglia aiuta gli altri in tutti i modi. Poi però ho pensato che c'è davvero bisogno di fare conoscere agli altri certi episodi, così da non farli accadere più. Allora ho chiamato la Digos. E loro hanno avviato indagini. Ho fiducia nelle Istituzioni. Nelle scorse settimane la polizia ci ha anche aiutato a ritrovare un defibrillatore che avevano rubato in strada».

- Si è fatto un'idea su chi possa essere stato?
  «No, non voglio nemmeno pensarci. Forse sono emulatori. Penso a quanto accaduto a Mondovì, per esempio».

- Crede che abbiano colpito lei per via del suo cognome?
  «Non sono parente della senatrice Segre, ma il cognome è lo stesso. Io condivido i pensieri di Liliana Segre. Ho anche partecipato alla Fiaccolata a Torino nei giorni scorsi. Credo abbia ragione quando dice che la storia deve essere raccontata a scuola per non essere dimenticata».

- Questi sono gesti che contraddicono la storia di Torino e del Piemonte, non trova?
  «Questo è un bellissimo paese, Torino e il Piemonte sono posti inclusivi. Sto andando a Palermo dove andiamo a portare messaggi positivi con Piemonte onlus. Noi adulti abbiamo grande responsabilità, mancano dei modelli. Ecco perché vado nelle scuole. Bisogna raccontare la storia, soprattutto la storia recente. Ma non voglio che questo episodio si trasformi in un circo».

- Ora ha paura?
  «No. So che chi ha fatto questo gesto è salito fin sul pianerottolo per sfregiare la mia porta. Ho pianto. Ma non ho paura. Dormirò sonni tranquilli. Devono essere loro ad avere timore. Sia per quello che hanno fatto, sia per la punizione che subiranno. Spero che si tratti del gesto di un isolato. Non voglio vederci niente altro».

(Corriere Torino, 10 febbraio 2020)


*


''Atti ignobili di emulazione che infangano la Memoria. La politica deve interrogarsi"

Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica: "Questi episodi sdoganati dal clima di odio. Temo che l’enfasi mediatica induca altri a unirsi a questa moda”.

di Lidia Catalano

Gli episodi di antisemitismo che si stanno moltiplicando a Torino e in Piemonte «sono covati e partoriti da menti malate». Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica di Torino, è scosso da fortissima indignazione». E si dice «preoccupato, perché questi atti ignobili trovano humus fertile nel clima generale di odio e intolleranza che attraversa il Paese da due anni a questa parte».

- Presidente Disegni, come si spiega ciò che sta accadendo nel territorio che è medaglia d'oro al valor civile della Resistenza antifascista e che ha avuto tra i suoi cittadini personalità come Primo Levi?
  «Purtroppo i dati dicono che l'antisemitismo è in crescita ovunque.Nelle ultime ore a San Daniele del Friuli è comparsa una svastica sulla porta della casa appartenuta a una deportata ad Auschwitz. Vari episodi sono avvenuti anche a Roma, dove sono state trafugate e imbrattate alcune pietre d'inciampo. Certo, che queste cose accadano qui, in una terra profondamente antifascista e in una comunità che sta facendo moltissimo per preservare la Memoria, fa particolarmente male».

- Crede esista un filo conduttore tra gli episodi avvenuti nell'ultimo mese in Piemonte?
  «Questo aspetto va appurato da chi sta portando avanti le indagini. Io credo che si sia innescato un pericoloso fenomeno di emulazione. Dopo che la prima mente malata ha deciso di prendere in mano uno spray e imbrattare una porta le altre sono seguite a ruota. Sia chiaro, anche in passato sono avvenuti episodi gravi, con lapidi vandalizzate o addirittura divelte. Oggi c'è molta enfasi mediatica attorno a queste vicende e il timore è che l'attenzione eccessiva possa indurre altri a unirsi a questa moda inquietante».

- I bersagli scelti dai vandali non sono figure simboliche. Perché a suo avviso sono stati identificati proprio loro?
  «Anche questo è un mistero. Le persone prese di mira, dal caso di Mondovì all'episodio di ieri, non sono parte della nostra Comunità. Si tratta semplicemente di persone di discendenza ebraica. Marcello Segre, presidente di un'associazione di volontariato, probabilmente è stato identificato per il cognome, ormai noto a tutti per via dell'omonimia con la senatrice a vita, ultimamente molto esposta dai media».

- Liliana Segre da tempo è vittima di odio e antisemitismo sui social. Questi episodi vanno oltre, travalicano la dimensione virtuale. Non teme che in questo clima possa innescarsi un'escalation di violenza?
  «Mi auguro di no e che vengano al più presto identificati i responsabili che meritano una punizione esemplare. Solo così forse si potrà spezzare questa pericolosa catena dell'emulazione di stampo antisemita. Che, va ricordato, non è un problema degli ebrei ma della società intera. Fatti come questi indicano che la democrazia e la civiltà sono ammalate. Curarle è compito innanzitutto della politica: quella nazionale come quella locale».

- In che modo?
  «Facendo proprie e mettendo in pratica le parole pronunciate dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della Giornata della Memoria: ha fatto appello a unirsi, a lottare contro ogni forma di antisemitismo. Ha detto che occorre vigilare, fare fronte comune. Mi auguro che le sue parole siano accolte e meditate».

- Si può dire che la scuola e la società civile in questo senso siano più avanti della politica?
  «Sì, le scuole stanno facendo un lavoro grandioso, accompagnando i ragazzi sui luoghi dei campi di sterminio nazista, approfondendo le storie delle vittime per preservarne la memoria. Ma anche il mondo dell'associazionismo è molto attivo in questo campo.Noi stessi domenica 16 febbraio, alla vigilia della ricorrenza della promulgazione dei diritti civili a valdesi ed ebrei da parte del re Carlo Alberto nel 1848, organizzeremo un incontro di riflessione che quest'anno sarà dedicato proprio al ritorno dell'antisemitismo. C'è un impegno di civiltà enorme portato avanti ogni giorno da migliaia di persone in Piemonte come nel resto d'Italia. Non dobbiamo permettere ai responsabili di quegli atti ignobili di infangarlo».

(La Stampa, 10 febbraio 2020)


Incredibile sondaggio arabo: Israele miglior progetto degli ultimi 120 anni

di Sadira Efseryan

Cosa succede se da un sondaggio arabo emerge che la maggioranza degli arabi pensa che Israele sia il progetto meglio riuscito degli ultimi 120 anni?
Succede che anche i nemici più acerrimi di Israele qualche domanda se la dovranno fare.
Faisal al-Qassem, conduttore di Al Jazeera, 5,5 milioni di follower su Twitter, da sempre critico dei regimi arabi, lancia una provocazione.
In un Twitt scrive che la maggioranza degli arabi quando ti vuole insultare ti dice che sei un "sionista" ben
sapendo che il miglior progetto del secolo scorso e di quello presente è proprio il progetto sionista mentre invece tutti i progetti arabi, in particolare il nazionalismo, hanno fallito.
Naturalmente il Twitt è divisivo, in tanti danno ragione al giornalista di Al Jazeera, in tanti lo insultano e gli danno del traditore.
Allora Faisal al-Qassem rilancia e ieri sempre su Twitter posta un sondaggio. Scrive il giornalista: «in un precedente tweet ho detto che il progetto sionista ha avuto successo, a differenza dei progetti arabi falliti, così tanti si sono ribellati e hanno considerato il tweet una sorta di elogio per i sionisti. Ok, facciamo un referendum: chi è il più avanzato, sviluppato, democratico e di successo … Israele o i
regimi arabi?»
E qui arriva la sorpresa. Più dell'80% delle migliaia di persone che hanno partecipato al sondaggio dichiara che è Israele il paese più avanzato.
Ed è qui che cade un mito che ha resistito per decenni, quello che a dispetto dei numerosi avvicinamenti dei Paesi arabi a Israele, specie negli ultimi periodi, corrispondeva una accentuata ostilità "dell'uomo della strada arabo".
La consapevolezza che si viva meglio in una moderna democrazia piuttosto che sotto un regime arabo comincia a prendere piede con particolare "pesantezza" in tutto il mondo arabo.

(Rights Reporters, 10 febbraio 2020)


Ebrei e valdesi. Due comunità unite contro l'antisemitismo

Un giorno di festa, ma anche un'occasione per riflettere sulla libertà, i diritti e gli ostacoli che si frappongono alla loro piena realizzazione. Domenica 16 febbraio, alla vigilia della ricorrenza della promulgazione dei diritti civili a valdesi ed ebrei da parte del re Carlo Alberto nel 1848, le comunità valdese ed ebraica di Torino organizzano un convegno che quest'anno sarà dedicato proprio al tema dell'antisemitismo. Una giornata aperta a tutta la cittadinanza per dare spazio alla riflessione «su un argomento mai esaurito, che ci costringe a ragionare sulla ricerca di identità e radici, sulla libertà, sulle terribili conseguenze dell'odio», spiegano gli organizzatori.
   L'appuntamento è alle 16 alla Casa Valdese di corso Vittorio Emanuele 23. Sul palco si confronteranno - Betti Guetta, dell'osservatorio Nazionale sull'Antisemitismo, Maurizio Molinari, direttore de La Stampa e Claudio Vercelli, esperto di Storia dei totalitarismi e di Storia del Novecento. L'incontro è moderato da Federico Vercellone, presidente del Centro Culturale Protestante e si chiuderà alle 18,30 con il concerto di Piero Nissim, figlio dell'antifascista Giorgio, medaglia d'oro al valor civile per aver tratto in salvo almeno 800 ebrei. Il convegno sarà preceduto, giovedì 13 alle 18, sempre alla Casa Valdese, dalla conferenza "Antisemitismo e musica", con il professore Enrico Fubini, insegnante di estetica musicale. Per cinque giorni, dal 13 al 17 febbraio, sulla Mole sarà proiettata la scritta: «No all'antisemitismo». L.C.

(La Stampa - Torino, 10 febbraio 2020)



Il rischio che per un regalo elettorale Israele perda un'occasione storica

di Ugo Volli

Nelle ultime due settimane, una serie di fatti importanti ha testimoniato dell'ottimo inserimento di Israele in politica internazionale. Il più importante di tutti, naturalmente, è il lancio della proposta di pace da parte di Trump, un piano che nei fatti viene incontro come non è mai accaduto prima alle esigenze di sicurezza di Israele. Un secondo fatto, simbolicamente anche più eminente, è stata la presenza di una cinquantina di capi di stato e di governo alla commemorazione del settantacinquesimo anniversario della liberazione dei prigionieri del campo di Auschwitz. Il fatto che la cerimonia si sia svolta a Gerusalemme e che sia stata gestita dalla massime autorità dello stato ebraico è un segno importante di riconoscimento - implicitamente anche del riconoscimento della città come capitale dello stato. C'è stata poi la grazia e la liberazione di Naama Issachar, una ragazza israelo-americana detenuta in Russia per essere stata trovata, durante un transito aeroportuale, in possesso di una piccola quantità di marijuana. Naama è stata liberata in seguito a un pressante intervento di Netanyahu, a seguito dei colloqui che il primo ministro israeliano ha avuto col presidente russo per consolidare la loro intesa dopo la presentazione del piano americano. C'è stato poi il viaggio di Netanyahu in Africa, il quinto nel continente in meno di tre anni, che oltre a consolidare e estendere i rapporti con i paesi subsahariani, è stata anche l'occasione di un incontro con il leader del Sudan, paese arabo una volta del tutto connesso con la rete terrorista islamista, che ha accettato di normalizzare i rapporti diplomatici con Israele. E c'è stata anche la notizia della possibile apertura dell'ambasciata della Bolivia (altro paese già molto ostile) a Gerusalemme; e sono anche emersi incontri fra rappresentanti di Israele e degli Emirati per una normalizzazione dei rapporti, che si vedrà già in maniera evidentissima con la presenza di Israele all'Expo di Dubai; e ancora prima l'accordo con Grecia e Cipro per un gasdotto sottomarino che porterà in Europa il prodotto delle perforazioni del mediterraneo orientale, per lo più israeliane, modificando profondamente il quadro strategico di questa indispensabile fornitura.
   Queste iniziative diplomatiche (cui corrispondono numerosi episodi militari che rafforzano la deterrenza di Israele in Medio Oriente) sono stati presentati da alcuni come "regali elettorali" a Netanyahu, in vista del voto che avverrà a inizio marzo. Ma è una sciocchezza: piuttosto sono risultati che Netanyahu ha ottenuto con uno straordinario lavoro decennale: solo gli ultimi, perché andando indietro si potrebbe parlare del riconoscimento di Gerusalemme, dell'incontro con il sovrano dell'Oman, della collaborazione con l'Egitto e l'Arabia: insomma di una crescita costante e veramente straordinaria della posizione diplomatica di Israele. Che tutto questo progresso sia legato alla figura di Netanyahu è chiarissimo ed è in qualche modo confermato anche dalla calunnia del regalo: che leader al mondo sarebbe capace di ottenere regali politici dall'America e dalla Russia, dal mondo arabo e un po' da tutti i leader che sono convenuti il 27 gennaio a Gerusalemme?
   Che poi come spesso capita questi risultati siano offuscati dalla rivalità personale, purtroppo fa parte delle logiche politiche in tutto il mondo. Ma Israele si trova di fronte a un'opportunità straordinaria: approfittare del piano Trump per far riconoscere e dunque consolidare la propria sovranità sugli insediamenti nelle zone storiche di Giudea e Samaria, dove vivono mezzo milioni di israeliani e sulle rive del Giordano, confine di sicurezza essenziale nei confronti delle minacce islamiste che vengono dall'Est. Il rischio è che questa opportunità vada sprecata, pur di eliminare dalla vita politica Netanyahu. A impedire l'estensione della legge israeliana su questi territori (che nel quadro giuridico israeliano si può fare con un semplice atto di governo, senza bisogno di una legge) sembra sia il procuratore generale Mandelblit, colui che ha costruito contro Netanyahu una rete di accuse "inconsistenti, che estendono il reato di corruzione in una maniera che non è mai stata accettata da un tribunale, né in Israele né in altri paesi democratici": così spiega Alan Dershowitz, il grande avvocato ebreo americano: la ragione è che nei contatti che Netanyahu ha avuto con gli editori di alcuni mass media, nessun accordo è stato stretto e non è nemmeno mai stato prospettato un vantaggio economico per Netanyahu, che semplicemente ha sentito delle persone influenti per sentire che azioni politiche avrebbero potuto rendere meno aspra l'opposizione di questi media - un tipo di sondaggio che i politici di tutto il mondo fanno spesso con forze economiche e sociali. Sembra che Mandelblit si opponga, senza che la legge lo prescriva, a qualunque azione del governo in proroga, che dura ormai da un anno, che non sia la più ordinaria delle amministrazioni.
   Ancora più grave è la notizia, ormai molto consolidata, di un accordo già stretto fra il partito "Kahol- lavan" di Gantz, il principale oppositore di Netanyahu, con l'estrema sinistra che si presenta unita alle elezioni, con Lieberman, che pur presentandosi come un nazionalista ha respinto e sottovalutato il piano di Trump e soprattutto con i partiti arabi federati, che essendo imparentati a vario titolo ai movimenti palestinisti di Ramallah e di Gaza, naturalmente respingono il piano e le sue conseguenze. Per dare a Gantz la maggioranza che non raggiungerebbe mai senza di loro, è chiaro che i partiti arabi pretenderanno la rinuncia al piano Trump - questo sì un regalo elettorale. C'è dunque il serio pericolo che per una serie di vendette personali, Israele perda un'occasione storica.

(Progetto Dreyfus, 7 febbraio 2020)


Colpo di pedale di Israele: ingaggia un musulmano e fa cadere un altro muro

Il team israeliano prende il marocchino Chokri La sua mission è quella di unire culture diverse. La formazione di Israele per la prima volta correrà il Tour de France

di Pier Augusto Stagi

È una strada, da percorrere e seguire sempre. È la strada dell'incontro e del confronto, ma anche della condivisione, fatta di stessi obiettivi e di una maglia di ugual colore. È una strada da percorrere per un fine comune, che può essere vittoria, ma sicuramente traguardo.
   Lo sport unisce e il ciclismo lo fa ancora di più e sempre meglio. In questi anni Io sport del pedale è diventato sport globale, che tocca e attraversa le strade del mondo, abbattendo muri e costruendo ponti. Si corre da un mese, dall'Argentina all'Australia, per passare agli Emirati e alla Malesia, oltre a Francia e Spagna. Si corre ad ogni latitudine, per inseguire sogni e ambizioni: traguardi.
   Uno di questi l'ha raggiunto in questi giorni la Israel Cycling Accademy, la formazione giovanile (Continental, ndr) che gravita attorno al progetto della Israel Start-Up Nation, che ha sempre avuto come mission quella di inglobare, avvicinare e portare sulla propria "arca" corridori di nazionalità diverse e dai differenti background. La svolta è arrivata in questi giorni, quando il team israeliano ha deciso di sfatare l'ultimo tabù, considerandolo per quello che è: la cosa più naturale del mondo. Mettere sotto contratto per la prima volta nella storia un corridore musulmano, il marocchino El Mehdi Chokri.
   Un calcio ai problemi geopolitici, un segnale forte e chiaro per il mondo, non solo del ciclismo. Chokri arriva dalla Dimension Data for Qhubeka, formazione sudafricana. È campione nazionale a cronometro e l'anno scorso ha chiuso anche al secondo posto il Gran Premio Industrie del Marmo (corsa del calendario giovanile italiana, ndr) oltre a vincere una tappa del Giro del Marocco. «Mi sono unito alla Israel perché punto a diventare professionista - spiega il ragazzo classe 1997 che sogna in grande -. Guardo già al futuro e spero presto di riuscire a unirmi alla formazione maggiore, quella del WorldTour. Il mio sogno è correre il Tour de France».
   A proposito, la Israel Start-Up Nation quest'anno oltre ad essere entrata a far parte del circuito di World Tour - la massima serie del ciclismo professionistico - farà per la prima volta il suo esordio in Francia alla Grande Boucle. Per Israele questa sarà la prima storica presenza dopo quella avvenuta al Giro due anni fa. «Il sogno di competere nel Tour, che era pressoché irraggiungibile quando 5 anni fa abbiamo formato il team, ora è diventato realtà» ha dichiarato qualche settimana fa il filantropo israelo-canadese Sylvan Adams, proprietario della squadra insieme a Ron Barton.
Nella formazione israeliana spicca anche l'italiano Davide Cimolai oltre ai quattro corridori israeliani Einhorn, Goldstein, Niv e Sagiv. Di questa bellissima realtà fa parte anche la "cantera" giovanile della Israel Cycling Accademy, quella nella quale è da poco approdato El Mehdi Chokri, un corridore marocchino di religione musulmana. Correrà per un team israeliano, sognando il Tour de France.

(il Giornale, 9 febbraio 2020)


*


Così il ciclismo supera i conflitti un musulmano corre per Israele

L'atleta africano: «Sono entrato in questa squadra per diventare finalmente professionista».

La Israel Cyclig Academy ha ingaggiato il marocchino El Mehdi Chokri, 22 anni È campione nazionale a cronometro e ha partecipato al Giro d'Italia under 23

di Francesca Monzone

ROMA Il ciclismo unisce e la squadra Israel Cycling Academy è l'esempio di come lo sport sia in grado di abbattere qualunque tipo di muro e oltrepassare ogni frontiera. La Start Up Nation ha lanciato un messaggio importante, ovvero culture e religioni diverse, capaci di convivere all'interno della stessa squadra. E arrivato così l'accordo tra il corridore marocchino di religione musulmana El Mehdi Chokri e il team continental Israeliano. Una squadra internazionale questa, che fin dalla sua nascita ha puntato a valori elevali, basati sulla convivenza pacifica tra i popoli. Un progetto quello della lsrael Start Up Nation, formazione world tour sopra la ICA, che vuole aiutare e formare giovani corridori israeliani, in un contesto internazionale, dove ogni atleta porta il suo contributo agli altri e alla squadra.

 Il protagonista
  El Mehdi Chokri, giovane campione marocchino a cronometro, dopo aver gareggiato dal 2017 al 2019 con la Dimension Data-Qhubeka, adesso è entrato a far parte della formazione più Internazionale del ciclismo. «Sono entrato in questo team per diventare un ciclista professionista - ha detto Chokri - grazie a questa opportunità potrò guardare al futuro con più serenità». Un giovane di talento Chokri, al quale è stata data una grande occasione per crescere e migliorare. Nonostante la sua carriera sia appena iniziata, nel suo palmares ci sono già vittorie di pregio. Lo scorso anno ha ottenuto il secondo posto nella classifica generale della Coupe des Nations de l'Espoir Blue Line, e nel 2016 il Tour de Cote d'Ivoire-Tour de la Riconciliazione. Ha partecipato al Giro d'Italia under 23.

(Il Messaggero, 9 febbraio 2020)


I crimini del nazismo si spiegano soltanto se si parla del diavolo

di Francesco Carella

«Senza Hitler, non avremmo avuto il nazismo, né la grande tragedia della Shoah. La sua parabola dimostra che una singola figura se dotata di capacità demoniache può essere in grado di esercitare un potere straordinario sui processi storici». Joachim Fest, autore di una monumentale biografia del führer tradotta in tutto il mondo, ha trascorso l'intera sua esistenza (è scomparso nel 2006) nel riflettere intorno al nesso profondo fra il Terzo Reich, la personalità di Hitler e l'antisemitismo. In occasione del Giorno della Memoria vale la pena di riprendere alcune considerazioni che lo storico tedesco fece durante una conversazione con Libero nel dicembre 2004 alla vigilia dell'uscita del film, "Der Untergang", tratto da un suo libro incentrato sugli ultimi giorni dell'autore del Mein Kampf nel bunker berlinese. «A trecento metri sotto terra - ricordava Fest - egli rivelò, forse più che in passato, tutta la sua carica di odio per il mondo intero e in particolar modo per il popolo ebraico. Aveva in mente, anche in piena catastrofe, una sola idea: portare a termine il progetto di annientamento degli ebrei. E dava ordini di conseguenza». Nessuno, però, si permise di contraddirlo. Egli esercitò la sua autorità fino alla fine. Ogni giorno, nel bunker, Hitler incontrava ufficiali di grande esperienza, per esaminare la situazione sia sul fronte della guerra che nei campi di sterminio. Tutti si limitavano a eseguire gli ordini che ricevevano, nonostante percepissero la follia che si celava dietro quelle decisioni. Resta l'interrogativo su cui ci si arrovella fin dal gennaio 1933: come è stato possibile consegnare le chiavi della civile Germania nelle mani di uno spietato demagogo? Molti storici fanno risalire le cause al clima di quegli anni segnato da un'inflazione fuori controllo, da una disoccupazione altissima e da continui disordini sociali. Condizioni che concorrono a far perdere definitivamente "l'anima" al popolo tedesco e che portano alla nascita della "comunità degli amareggiati", vero brodo di coltura del nazionalsocialismo. «Si consumò, in tal modo, una violenta cesura morale - ci disse l'ex condirettore della Frankfurter Allgemeine Zeitung - che coinvolse un numero sempre maggiore di tedeschi convinti dalla propaganda nazista che la ragione principale della crisi del loro Paese fosse da riportare in capo al mondo ebraico».

 Fenomeno unico nella storia
  In tanti, fino agli ultimi mesi del Secondo conflitto mondiale non capirono la portata distruttiva del pensiero hitleriano, a partire dalle élite politiche ed economiche e dalla stessa Chiesa cattolica. «La maggioranza pensava - spiegò Fest - che si stesse andando verso un regime simile a quello che Mussolini instaurò in Italia, mentre Hitler rappresentava un fenomeno unico nella storia dell'umanità. Le grandi potenze del passato, dall'antica Roma alla Francia di Napoleone, dall'Impero Britannico all'Urss di Stalin, nel momento in cui decidono di occupare altri Paesi si sforzano di legittimare, ovviamente con una buona dose di ipocrisia, il proprio operato richiamandosi a valori come libertà, pace, progresso. Nel caso di Hitler accade il contrario. Egli è convinto che valga solo il diritto del più forte e non ne fa mistero. È questa la ragione per cui dico che tutte le aberrazioni che seguirono negli anni successivi debbano essere ricondotte alla sua persona». La verità è che il "Male" negli esseri umani esiste e che, a volte, può presentarsi sul palcoscenico della storia attraverso le sembianze di un essere umano. «Con Hitler - ricordava il nostro interlocutore - crollano tutte le illusioni dell'Illuminismo circa la bontà degli uomini. È la cosa più amara che ho capito studiando il nazionalsocialismo e lo spietato progetto della persecuzione degli ebrei».

(Libero, 9 febbraio 2020)



La "religione dell'amore"

di Marcello Cicchese

Il tema dell'amore non passa mai di moda. Questioni come salvezza e perdizione, ravvedimento e perdono dei peccati, a molti oggi non interessano; ma in fatto di amore sembra che tutti siano interessati e competenti. Anzi, su questo piano molti sono convinti di avere parecchie cose da insegnare anche ai cristiani. L'incredulo può ammettere senza difficoltà di non essere proprio un campione in fatto di amore per il prossimo, ma spesso è convinto di sapere molto bene come i cristiani dovrebbero amare e, soprattutto, come dovrebbero amare lui. Facendo riferimento alle sue conoscenze del vangelo, può arrivare perfino a rivendicare una specie di "diritto ad essere amato", che naturalmente non vede soddisfatto dai cristiani che gli stanno di fronte. Di conseguenza si sente autorizzato a non prendere in considerazione il messaggio di salvezza che gli viene presentato.
  Esiste, oggi più che nel passato, un'indefinita "religione dell'amore" che vorrebbe comprendere tutte le altre. In questa religione si dà per scontato di sapere che cosa significa amare il prossimo, e di ogni altro culto, fede, convinzione, filosofia si sottolinea soltanto quello che serve all'esercizio dell'amore fra gli uomini. Tutto il resto viene tollerato, ma non ha molta importanza, e in ogni caso non deve interferire con la concreta pratica dell'amore. E si deve stare attenti a non parlare troppo dell'amore di Dio per gli uomini, se non si vuole che arrivino risposte del tipo: "Ma allora, se esiste un Dio così buono e onnipotente, com'è che ci sono ancora tante sofferenze nel mondo?". Nella religione dell'amore il Dio della Bibbia può essere messo sul banco degli imputati.
  Alcuni cristiani sono intimiditi da queste critiche e reagiscono dandosi molto da fare. Qualche volta sembra quasi che vogliano difendere la reputazione del loro Padre celeste aiutandolo ad essere buono. Le obiezioni degli increduli smuovono la loro incredulità e la fanno venire a galla. "Dio è veramente buono?", è la domanda che giace inespressa nel fondo del loro cuore.
  L'uomo naturale crede di potersi impossessare facilmente del tema dell'amore: lascia ad altri i discorsi sui cieli eterni e si dedica ad amare gli uomini su questa terra. Ma dalla Scrittura sappiamo che "Dio è amore" (1 Giovanni 4.8) e che "il cuore dei figli degli uomini è pieno di malvagità" (Ecclesiaste 9.3). Come può l'uomo sperare di riuscire ad amare il prossimo prescindendo dalla Parola di Dio e fondandosi sugli slanci del suo cuore, se è vero che "Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio" (Marco 10.18) e che "Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno" (Geremia 17.9)? Chi è interessato all'amore tra gli uomini e non alla salvezza eterna deve sapere che come non esiste una salvezza per opere, così non esiste un amore per opere. L'uomo non può sperare di riuscire ad amare gli altri disinteressandosi di Dio, perché "i giusti e i saggi e le loro opere sono nelle mani di Dio; l'uomo non sa neppure se amerà o se odierà; tutto è possibile" (Ecclesiaste 9.1).
  La religione dell'amore, come tutti i culti offerti a "dèi stranieri" (Deuteronomio 13.2), è idolatria. L'affermazione biblica "Dio è amore" viene invertita e diventa "L'Amore è dio". E un dio che non è "il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe" (Matteo 12.26),"il Padre del nostro Signore Gesù Cristo" (Romani 15.6), è un idolo.
  I sacerdoti della religione dell'amore, cioè coloro che si sentono chiamati ad amare il prossimo con la loro saggezza e le loro forze, e i fedeli della medesima religione, cioè coloro che reclamano il diritto ad essere amati, hanno bisogno, come tutti, della Parola di Dio che li invita a convertirsi "dagl'idoli a Dio per servire il Dio vivente e vero" (1 Tessalonicesi 1.9).

 Amore e verità
  Ma i rischi di riferimenti generici e strumentali all'amore non mancano neppure nella chiesa di Gesù Cristo. E' difficile che false dottrine e cattivi costumi riescano ad entrare in una chiesa senza che ci sia qualche richiamo a forme superiori di amore. Se poi si guarda con attenzione, si riconosce sempre che l'amore di cui si parla è staccato dalla giustizia e dalla verità di cui parla la Bibbia. E quindi non è amore.
   "L'amore non fa nessun male al prossimo" (Romani 13.10), quindi se voglio amare l'altro devo conoscere qual è il suo vero bene. Devo dunque cimentarmi con il problema della verità. E come potrò trovare la verità, anche per quello che riguarda il bene della persona che voglio amare, se non ricercando la sapienza che mi viene dall'Alto attraverso l'ascolto ubbidiente della Parola di Dio? A che serve fare riferimenti generici all'amore se non so spiegare e giustificare i concreti obiettivi di bene a cui l'amore mi spinge? Chi mi dirà come devo amare un amico che ha tendenze omosessuali, un figlio minorenne che si ribella, un coniuge che si vuole separare, un datore di lavoro che richiede prestazioni ingiuste?
  "L'amore sia senza ipocrisia" (Romani 12.9), dice l'apostolo Paolo, e aggiunge: "Aborrite il male e attenetevi fermamente al bene", perché tutto quello che dà spazio al male non può essere vero amore.
  Non esistono scorciatoie sentimentali per amare il prossimo in modo conforme alla volontà di Dio. Se non vogliamo cadere nella finzione di chiamare amore per l'altro quello che è soltanto un'egoistica forma di autocompiacimento e autodifesa, abbiamo bisogno di misurare continuamente i nostri pensieri, i nostri sentimenti e i nostri propositi con la Parola di Dio vivente e vera presente nella Scrittura e sostenuta dallo Spirito Santo. Altrimenti il nostro sarà un amore finto. E l'amore finto non solo non fa bene, ma fa male al prossimo.
  Se il vicino di casa mi venisse a chiedere, piangendo, di dargli una corda per impiccarsi, certamente il mio amore per lui non si esprimerebbe nell'accondiscendere gentilmente alla sua richiesta. Questo è chiaro. Ma in altri casi, è altrettanto chiaro che una falsa comprensione dell'amore può renderci strumenti di male e non di bene? Per capire se stiamo facendo bene o male dobbiamo basarci sulla verità di ciò che è giusto o sbagliato, non sulle nostre emozioni, e neppure sulle reazioni della persona che vogliamo amare.
  Il vero bene, nostro e degli altri, può essere compreso soltanto per grazia, mediante la fede. E per arrivare a questo è necessario vivere costantemente nel timore di Dio, perché
    "Il timore del Signore è il principio della sapienza; hanno buon senso quanti lo praticano" (Salmo 111.10).
 Gli obiettivi dell'amore
  L'apostolo Paolo aveva incaricato Timoteo di mettere ordine nella chiesa di Efeso. Si trattava di svolgere azioni delicate, di carattere anche disciplinare, ma fin dall'inizio Paolo avverte:
    "Lo scopo di questo incarico è l'amore che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Alcuni hanno deviato da queste cose e si sono abbandonati a discorsi senza senso" (1 Timoteo 1.5-6).
Di solito si pensa all'amore come a uno stato d'animo che accompagna l'azione. Se i sentimenti interni sono amorevoli, l'azione esterna è giusta, altrimenti no. Chi ha questa convinzione passa il tempo a misurare la temperatura interna del suo sentimento d'amore e di quello degli altri, e da queste misurazioni fa scaturire i suoi giudizi sulla giustizia delle azioni.
  Nel passo biblico citato vediamo invece che l'amore esercitato è uno scopo (telos), cioè un fine, un obiettivo, non una premessa. Parlando ai Tessalonicesi, l'apostolo Paolo li loda per le "fatiche" del loro amore (1 Tessalonicesi 1.3), perché l'amore biblico è un esercizio che ha come fondamento la verità. L'apostolo Giovanni lo ripete più volte:
    "L'anziano alla signora eletta e ai suoi figli che io amo nella verità (e non solo io ma anche tutti quelli che hanno conosciuto la verità)" 2 Giovanni 1.1).
    "L'anziano al carissimo Gaio, che io amo nella verità " (3 Giovanni 1.1)
L'incarico che Paolo affida a Timoteo ha dunque un obiettivo d'amore che per essere raggiunto ha bisogno di alcune premesse collegate alla verità, cioè a un rapporto veritiero, onesto e sincero con la Parola di Dio.

 Un cuore puro
  Per amare il prossimo all'interno del piano d'amore di Dio il cuore dell'uomo dunque deve essere puro, la sua coscienza buona, la sua fede sincera. Si tratta di condizioni di autenticità spirituale che sono possibili soltanto se la persona vive in un corretto rapporto con la verità. E per verità s'intende non un astratto ideale teorico, ma la persona, le parole e l'opera del Signore Gesù Cristo.
    "Avendo dunque, fratelli, libertà di entrare nel luogo santissimo per mezzo del sangue di Gesù, per quella via nuova e vivente che egli ha inaugurata per noi attraverso la cortina, vale a dire la sua carne, e avendo noi un grande sacerdote sopra la casa di Dio, avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi di quell'aspersione che li purifica da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo ferma la confessione della nostra speranza, senza vacillare; perché fedele è colui che ha fatto le promesse. Facciamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci all'amore e alle buone opere, non abbandonando la nostra comune adunanza come alcuni sono soliti fare, ma esortandoci a vicenda; tanto più che vedete avvicinarsi il giorno" (Ebrei 10.19-24).
Soltanto dall'interno del "luogo santissimo" è possibile esercitare l'amore e compiere quelle buone opere "che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo" (Efesini 2.10). Ma al luogo santissimo si può accedere e in esso si può dimorare soltanto se si ha "piena certezza di fede" nel Signore Gesù, che morendo sulla croce ha aperto una quot;via nuova e vivente" e con il Suo sangue può perfettamente purificare il cuore e la coscienza di coloro che si avvicinano a Lui.
  Questo significa che anche gli affetti naturali più stretti devono essere mantenuti sotto il controllo della Parola di Dio, perché il cuore dell'uomo oltre ad essere malvagio è anche ingannevole. Non spinge solo a fare cose manifestamente cattive, ma anche cose falsamente buone:
    "Dal cuore vengono pensieri malvagi, omicidi, adultèri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni" (Matteo 15.19);
    "Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno" (Geremia 17.9).
Non dobbiamo quindi mai fidarci del nostro cuore, anche quando sembra spingerci a nobili e altruistiche azioni, perché
    "Chi confida nel proprio cuore è uno stolto, ma chi cammina da saggio scamperà" (Proverbi 28.26).
Gli sfaceli che si possono compiere a voler seguire gli ingannevoli impulsi d'apparente amore di un cuore maligno sono tra i più disastrosi. L'amore di sé travestito da amore per l'altro ha una forza distruttiva impressionante.

 Una buona coscienza
  E tuttavia l'inganno potrebbe essere scoperto. Il cuore impuro cerca di far credere alla persona di stare perseguendo un obiettivo d'amore, ma le vie che suggerisce per raggiungere quest'obiettivo hanno inevitabilmente qualcosa che ferisce la giustizia e la verità. Si deve dire qualche bugia, si deve fare un po' di maldicenza, si deve accendere qualche inimicizia, si deve fare qualche torto, si deve coltivare qualche rancore. Tutto questo non può che portare ad avere una cattiva coscienza. Si capisce allora perché, per esercitare il vero amore, occorre avere anche una buona coscienza. Per ottenerla il Signore non si aspetta che la condotta sia sempre irreprensibile, ma chiede che il cuore sia asperso di quell'aspersione che lo purifica da una cattiva coscienza . Chiede cioè che si permetta alla luce della Sua Parola di penetrare nell'intimo della persona per compiere la sua opera di illuminazione, giudizio e purificazione.
    "La parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l'anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore" (Ebrei 4.12).
Non sugli ingannevoli sentimenti e pensieri del cuore deve dunque basarsi l'esercizio dell'amore, ma sulla Parola di Dio che giudica i sentimenti e i pensieri del cuore.

 Una fede sincera
  Ma per agire nella vita concreta la Parola di Dio deve essere creduta. E' quindi indispensabile avere una fede sincera. L'aggettivo "sincera" traduce un termine che letteralmente significa "non ipocrita" (anipokritos). Continua dunque ad essere sottolineato il rapporto indissolubile tra amore e verità: è possibile amare gli altri soltanto se si ha una fede vera nella Parola di Dio rivelata nella Scrittura.
  Ma abbiamo questa fede? Crediamo veramente che la Scrittura sia non solo "ispirata da Dio", ma anche "utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia" (2 Timoteo 3.16)? La nostra fede nel Dio che parla è vera o simulata?
   Prendiamo, ad esempio, una forma d'amore molto naturale come quella per i figli. Ciascuno di noi è convinto di amare i suoi figli e cerca di farlo nel migliore dei modi. Ma da chi riceviamo le istruzioni? Dalla Scrittura o dai pedagoghi più o meno qualificati che troviamo in giro? Intorno a noi si parla soprattutto di spontaneità, creatività, sviluppo armonico del bambino. La Bibbia invece usa termini del tutto diversi, come riprensione, verga, correzione. A chi crediamo? La Scrittura insegna che se vogliamo amare i nostri figli dobbiamo imparare dal nostro Padre celeste. E in che modo il Signore ama i suoi figli?
    "il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli" (Ebrei 12.6).
Il pericolo maggiore per la pianta che cresce sta dentro: per questo è necessaria la correzione. E questa deve avvenire anche attraverso la verga, cioè la punizione corporale.
    "Non risparmiare la correzione al bambino; se lo batti con la verga, non ne morrà; lo batterai con la verga, ma lo salverai dal soggiorno dei morti" (Proverbi 23.13-14).
A questo punto sono prevedibili le obiezioni collegate al tema dell'amore. Com'è possibile amare usando la violenza fisica? Le maniere forti non esprimono forse odio, invece che amore? La Bibbia dice esattamente il contrario:
    "Chi risparmia la verga odia suo figlio, ma chi lo ama, lo corregge per tempo" (Proverbi 13:24).
Sono parole che ci mettono in guardia da una delle tentazioni più insidiose, la tentazione diabolica per eccellenza: voler essere più buoni di Dio. Non cerchiamo forse di "aiutare Dio a essere buono" quando sorvoliamo pudicamente su certe espressioni bibliche un po' ruvide e con benevolenza ne mitighiamo le applicazioni o addirittura le sostituiamo con altre più sopportabili dalle orecchie moderne?
  I riferimenti alla verga non sono parole isolate, quasi fossero sfuggite di bocca in un momento di rabbia: si tratta proprio di un insegnamento ripetuto e variamente giustificato:
    "La follia è legata al cuore del bambino, ma la verga della correzione l'allontanerà da lui" (Proverbi 22:15);
    "La verga e la riprensione danno saggezza; ma il ragazzo lasciato a sé stesso, fa vergogna a sua madre" (Proverbi 29:15);
    "Correggi tuo figlio; egli ti darà conforto, e procurerà gioia al tuo cuore" (Proverbi 29:17);
    "É vero che qualunque correzione sul momento non sembra recar gioia, ma tristezza; in seguito tuttavia produce un frutto di pace e di giustizia in coloro che sono stati addestrati per mezzo di essa" (Ebrei 12.11).
Di nuovo, a chi crediamo quando da diverse parti ci arrivano parole contrastanti che vogliono istruirci su come si deve amare il prossimo? La nostra fede sincera è nel Dio che parla attraverso la Scrittura o in qualcun altro?
  Forse non si riflette abbastanza sulla gravità di certe posizioni che talvolta sono assunte in modo inespresso e forse inconsapevole. Se dico di non voler dare punizioni corporali a mio figlio perché penso in questo modo di fare il suo bene, mentre al contrario Dio dice che chi risparmia la verga odia suo figlio e quindi gli fa del male, la mia scelta significa "chiamare bene il male, e male il bene". Ma Dio avverte:
    "Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro!" (Isaia 5:20).
E quando il Signore dice "Guai!", sono guai seri.

 Discorsi senza senso
  Il riferimento all'educazione dei figli è soltanto un esempio. Purtroppo se ne potrebbero portare molti altri. La situazione sociale e il clima culturale del nostro tempo facilitano i generici richiami all'amore, dietro ai quali si nascondono spesso atteggiamenti idolatrici che spingono ad "allontanarsi dal Dio vivente" (Ebrei 3.12). La seduzione è sottile e non sembra che tutti se ne accorgano. Parole dirette e chiare della Bibbia vengono tranquillamente ignorate o sostituite con espressioni tecniche psicologizzanti che danno l'impressione di dischiudere comprensioni più profonde della realtà, mentre di fatto allontanano dalla semplice verità dell'insegnamento biblico.
    "Temo che, come il serpente sedusse Eva con la sua astuzia, così le vostre menti vengano corrotte e sviate dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo" (2 Corinzi 11:3).
Quali che siano i propositi d'amore che si perseguono, la deviazione dalla verità di Cristo porta inevitabilmente a non avere un cuore puro, una buona coscienza e una fede sincera; e di conseguenza si cade in "discorsi senza senso" (1 Timoteo 1.6), seguiti quasi sempre da azioni senza giudizio.
  E' necessario quindi, anche e proprio quando si parla di amore per il prossimo, restare rigorosamente attaccati alla Scrittura, senza farsi intimidire da dotte disquisizioni intellettuali o intenerire da commoventi sfoghi sentimentali. La posta in gioco è alta, perché amore e odio sono realtà collegate alla vita e alla morte. E quindi non è lecito sbagliare.
    "O Timoteo, custodisci il deposito; evita i discorsi vuoti e profani e le obiezioni di quella che falsamente si chiama scienza; alcuni di quelli che la professano si sono allontanati dalla fede. La grazia sia con voi" (1 Timoteo 6.20-21).
(Notizie su Israele, 9 febbraio 2020)

 


Shoah: svastica sulla casa di una deportata in Friuli

Una svastica è comparsa ieri a San Daniele del Friuli (Udine) sulla casa dove visse Arianna Szorenyi che il 16 giugno 1944 fu deportata assieme ai familiari ad Auschwitz.
Lo riporta il Messaggero Veneto. Sul caso indaga la Digos. Disegnata con un pennarello nero accanto alla porta, è poi stata ricoperta con un cuore. Nella cittadina si sono già avuti episodi di intolleranza: il 30 gennaio lettere antisemite erano state recapitate a consiglieri di minoranza con la scritta: "Dopo 75 anni l'ebreo è sempre ebreo". Oggi davanti la casa di Szorenyi è prevista una manifestazione.

(RaiNews, 8 febbraio 2020)


Ministro Agricoltura palestinese: Israele ha fermato esportazioni attraverso la Giordania

GERUSALEMME - Israele ha intensificato la guerra commerciale con i palestinesi, fermando le esportazioni agricole attraverso la Giordania. Lo ha dichiarato il ministro dell'Autorità nazionale palestinese, Riyal al Attari, in una dichiarazione rilasciata all'emittente "Voice of Palestine". "Ieri, il direttore delle dogane israeliano ha informato tutti gli esportatori e tutte le parti interessate che i prodotti agricoli palestinesi sarebbero stati banditi dalle esportazioni via Giordania a partire da domani, 9 febbraio", ha dichiarato Al Attari. "Siamo in un momento politico critico e comprendiamo completamente l'impatto negativo che deriverà da queste misure, ma dico con tutta fiducia che l'impatto negativo influenzerà anche l'economia israeliana", ha affermato al Attari. "Abbiamo diverse opzioni e misure con le quali possiamo rispondere a ogni decisione israeliana che mira a danneggiare la nostra economia nazionale", ha aggiunto il ministro dell'Agricoltura palestinese.

(Agenzia Nova, 8 febbraio 2020)


Per capire il nazismo, bisogna studiare la vita di Adolf Eichmann

Per parlare degli orrori della Shoah, c'è bisogno di guardare anche alla storia dei carnefici. E' ciò che fa Stefano Massini nel suo "Eichmann, dove inizia la notte", in un dialogo immaginario tra Hannah Arendt e Adolf Eichmann.

di Elisa Ghidini

 
Le settimane di fine gennaio sono quelle in cui, anche per caso, ci si imbatte in letture, film e spunti sulla Shoah. E' questa del resto la funzione della Giornata della memoria. Siamo obbligati a ricordare, a fermarci un attimo, a pensare anche per un secondo a quello che, magari, abbiamo frettolosamente studiato sui libri di scuola, con numeri, date, nomi di battaglie. La Giornata della memoria, intrinsecamente, ha come scopo invece quello di togliere la fredda maschera della contabilità al Nazismo e di fare emergere tante storie, semplici, complesse, di singoli, di famiglie, finite tragicamente in un campo di sterminio in Polonia o, insperatamente, a lieto fine. Sempre che si possa parlare di cose liete, quando si sopravvive, certo come esseri viventi, ma si torna a casa con il fardello psicologico di quel che si è visto e vissuto.

 Oltre la Giornata della Memoria
  Il 27 gennaio, quindi, ha un senso perché le persone non siano più numeri. Si raccontano storie di persone normali, la cui quotidianità è stata devastata in modo insensato senza che, spesso, ne capissero il perché. Sono storie di sofferenza umana, di morte, di distacco dai propri affetti, di abbandono forzato delle proprie terre. Si comprende la dimensione umana della tragedia: tante piccole storie all'interno della Storia ci fanno capire meglio il dramma personale di ognuno. Se siamo umani, si empatizza: ci si chiede come si faccia a sopravvivere, a raccontare ai propri figli cosa sta succedendo, a lasciare tutto.
Poi la giornata della Memoria passa, la commozione rientra e noi torniamo alla nostra quotidianità. E' proprio in questi periodi di minor "sentimentalismo", se vogliamo definirlo così, che urge invece informarsi più a fondo. Sarebbe opportuno documentarsi quando il sipario sulla Shoah cala e, irrimediabilmente, diventiamo più vulnerabili. Il limitare la memoria a un giorno sul calendario ci conforta. Ci illudiamo che esista uno spartiacque netto tra l'odio nazista e l'intolleranza di oggi. Ci tranquillizza sapere che è tutto passato, che appartiene a cose scritte nei libri, lontane da noi.

 Da dove partire?
  Presi da commemorazioni, proiezioni di film e letture in materia, che sono sacrosante, beninteso, ci lasciamo andare alla commozione, rinunciando alla riflessione della nostra parte razionale. Per capire e studiare il fenomeno, invece, la giornata della Memoria dovrebbe essere solo l'apice di un lavoro di approfondimento che portiamo avanti durante tutto l'anno. Sì, ma da dove partire?
Per capire la sofferenza è d'obbligo leggere la storia delle vittime, ma per cogliere cosa abbia portato a tutto questo dolore è forse più adeguato guardare alla storia dei carnefici. Sondare le loro vite, guardare a ogni singola ambizione, a ogni quotidiana frustrazione, alla loro formazione, alle loro passioni e all'interno della loro normalità. Senza fini pseudolombrosiani, chiaramente. Rendersi conto che di pazzo o di folle non c'è assolutamente nulla. Che, nelle teste e nelle vite dei nazisti, è tutto perfettamente logico, organizzato, razionale. E la persona da cui bisogna partire, più ancora di Adolf Hitler, è Adolf Eichmann, il responsabile operativo dello sterminio degli ebrei.

 Eichmann, l'essenza della mediocrità nazista
  Per farlo, può essere d'aiuto servirsi di un testo a metà tra il teatrale e il biografico: "Eichmann, dove inizia la notte", edito da Fandango. L'autore, Stefano Massini, costruisce un vero e proprio copione, mentre immagina un dialogo tra Adolf Eichmann e Hannah Arendt, la celebre politologa di origini ebraiche che riuscì a emigrare dalla Germania prima che il nazismo suonasse alla sua porta. Autrice de "La banalità del male", la Arendt è il personaggio che meglio ha colto, nella storia, l'essenza dei nazisti: persone banali. come potremmo esserlo tutti, che si trasformano in carnefici. Massini le assegna, nel suo copione, il ruolo di interlocutrice di Eichmann. Capace di farlo cadere in contraddizione, lo sfida, lo mette alla prova. Massini fa emergere la gigantesca statura culturale della Harendt, che si trova di fronte a un uomo minuscolo, che di gigante ha solamente la sua mediocrità.

 Contro il mito del genio del male
  Ma Massini non fa parlare la Harendt solo di massimi sistemi del mondo. Il dialogo è un'altalena continua tra aneddoti quotidiani e riflessioni sulla concezione di giusto e sbagliato, di bene e male. Eichmann parla della sua quotidianità, di quando da giovanissimo, è stato assunto grazie alla raccomandazione di un ebreo. Del fatto che mica odiasse gli ebrei: erano ebree anche le figlie dello zio, che Eichmann stesso aveva aiutato a scappare. Aveva avuto persino un'amante ebrea. La mediocrità del nazismo emerge in tutto il maldestro tentativo di deresponsabilizzazione, su cui si sono retti per anni, le difese dei nazisti sottoposti a processo.
  "La colpa è degli altri, non ho scelto io": è il fil rouge di tutto il dialogo. Non è stato Adolf Eichmann a scegliere di abbandonare la scuola, è stato il padre. Non è stato lui a convincere gli altri di essere ingegnere, pur non avendo il diploma, sono stati gli altri a crederlo da soli. Non è stato lui a ordinare la devastazione di sinagoghe e quartieri ebraici a Vienna, sono stati gli scalmanati che c'erano in giro. Le teste calde. Non è lui a voler fuggire in Argentina, sono gli altri ad averglielo offerto. Il ritratto che Massini ne fa è disarmante: emerge chiaramente come Eichmann pensasse che l'unica sua colpa fosse l'ambizione di voler stare nel posto in cui si decide e non quello in cui attendono le decisioni.

 Benaltrismi di ieri e di oggi
  Il lettore legge e vede le espressioni incredule di Hannah Arendt di fronte alla banalità di un uomo che, fino all'ultimo, già consapevole della condanna all'impiccagione, si perde in maldestri tentativi di benaltrismo. Il dialogo di Massini ricostruisce la storia, ma è allo stesso tempo terribilmente attuale. Le parole di Eichmann sono quelle che potrebbero benissimo essere digitate anche oggi, nel 2020, su un gruppo Facebook di negazionisti. E' per questo motivo, che, ciascuno di noi, ha il compito di informarsi e di approfondire. E' Massini stesso a spiegarci che, per un genio del male, esistono centinaia di persone normali, che lasciano correre, con l'alibi del "Hanno deciso gli altri".

(Ultima Voce, 8 febbraio 2020)


A Valenza i bambini con la stella gialla di Davide puntata sui grembiulini neri

È la commovente manifestazione che i bambini delle classi 4a e 5a dell'elementare 7 Fratelli Cervi hanno organizzato a scuola

 
Manifestazione sulla Shoah e sulle pietre d'inciampo della scuola 7 Fratelli Cervi a Valenza
VALENZA - I bambini con la stella gialla di Davide puntata sui grembiulini neri intonano canzoni di pace. Dietro di loro pannelli con la storia della Shoah, pietre d'inciampo come quelle che Gunter Demnig sta posizionando in tutta l'Europa in ricordo delle vittime dell'olocausto, e spiegazioni sulla giornata delle Memoria , documenti sulle leggi razziali, titoli di giornali del ventennio fascista.
   E' la commovente manifestazione che i bambini delle classi 4a e 5a dell'elementare 7 Fratelli Cervi hanno organizzato l'altro giorno a scuola. Tra le pietre d'inciampo quella dedicata a Cesare Carmi e Sergio De Simone, le cui vicende sono state conosciute dagli alunni l'anno scorso con il cartone animato Andra e Tati. E i bambini, nella rappresentazione sono diventati Cesare, un ragazzo di 20 anni «praticamente un nostro fratello maggiore» che fu portato al campo di concentramento di Fossoli e poi a quello di Auschwitz, da cui non tornò più a casa. I bambini nella loro ricerca hanno raccolto lettere che Cesare inviava all'amica Flavia Silvestri. Sergio De Simone era un bambino deportato ad Auschwitz anche lui su cui i nazisti si accanirono a provare gli effetti di virus e malattie. Alla Liberazione fu impiccato con altri ragazzi per non lasciare tracce.
   Gli alunni, aiutati dalle loro insegnanti e da Maria Luisa Laquinta che guida la direzione didattica di Valenza A hanno ricostruito la storia tremenda dell'Olocausto e lanciano un appello a Gunter Demnig perché installi una pietra d'inciampo anche per Cesare Carmi. Ognuno dei ragazzini ha recitato un pezzo di storia, riprendendo alla fine l'invito della senatrice Liliana Segre pronunciato al parlamento europeo il 27 gennaio, giorno della Memoria : «Siate farfalle che volano sopra i fili spinati». Poi sono state posate a terra pietre come quelle che in Israele accompagnano le tombe dei Giusti.

(La Stampa, 8 febbraio 2020)


Un numero record di incidenti antisemiti sono stati segnalati in Gran Bretagna lo scorso anno

Per il quarto anno consecutivo, l'attività antisemita in Gran Bretagna ha raggiunto un livello record l'anno scorso, secondo il quotidiano locale The Guardian.
Uno studio del Community Security Trust (CST), una società di consulenza di sicurezza fondata per la protezione delle comunità ebraiche britanniche, ha riferito che l'anno scorso aveva appreso di 1.805 attacchi verbali o fisici antisemiti. Questo è un aumento del 7% rispetto allo scorso anno, che è stato anche un record.
La stragrande maggioranza, circa l'80 percento, degli incidenti sono stati aggressioni verbali, graffiti e insulti attraverso i social media.
Il ministro dell'Interno Priti Pratel ha definito la tendenza preoccupante e disgustosa, dicendo che "incoraggia una più stretta cooperazione per rimuovere questa imperfezione dalla nostra società".
Robert Jenrick, segretario del CST, afferma che è "un duro colpo per tutti" che 75 anni dopo l'Olocausto, l'antisemitismo è in aumento nel Regno Unito.
Il CST, che tiene traccia degli incidenti antisemiti dal 1984, afferma che l'aumento dell'82% degli incidenti antisemiti su Internet, dai 384 del 2018 ai 697 dell'anno scorso, ha avuto un ruolo significativo nell'aumento.
Il numero di attacchi violenti è stato di 158, con un aumento del 25 percento rispetto all'anno precedente e 88 casi di proprietà ebraica sono stati danneggiati e profanati. Quasi la metà degli attacchi fisici ha avuto luogo in tre aree, London Barnet e Hackney e Salford nord-occidentale.
Degli incidenti, 330 si riferirono a Hitler, ai nazisti e all'Olocausto, parlarono nel solito tono dell'era nazista e mostrarono saluti nazisti o svastiche disegnate. In 505 casi, furono fatti riferimenti a Israele, Medio Oriente e sionismo e, in 63 casi, compararono direttamente o identificarono Israele con i nazisti.
La maggior parte degli incidenti si sono verificati a febbraio e dicembre 2019, rispettivamente 182 e 184, attribuiti dal CST a feroci dibattiti sul presunto antisemitismo nel partito laburista. Due terzi degli incidenti sono avvenuti a Londra e Manchester, le due più grandi città con le più popolose comunità ebraiche britanniche.
"Il 2019 è stato un anno difficile per gli ebrei britannici e non sorprende che il numero di casi segnalati sia nuovamente aumentato", ha affermato David Delew, direttore generale del CST. "È chiaro che sia i social media sia il mainstream della politica devono essere ripuliti dall'antisemitismo e dal razzismo se vogliamo migliorare la situazione in futuro", ha affermato.

(E-press.news, 8 febbraio 2020)


Nelle vetrine di Vienna "liberata" dagli ebrei niente più capi francesi, solo loden e fustagno

Una distopia che immaginò (con ironia) nel 1922 le conseguenze delle crociate antisemite dell'epoca: la città "finalmente" cristiana diventa un triste stagno, senza caffè, teatri e ragazze eleganti.

di Luigi Forte

Parlando della vita culturale berlinese il galiziano Joseph Roth esaltò l'apporto degli intellettuali ebrei, spesso provenienti come lui dall'Europa orientale, che avevano messo in luce la complessa stratificazione della civiltà urbana. «Essi hanno scoperto - dichiara - i caffè e la fabbrica, il bar e l'hotel, la banca e la piccola borghesia della città, i luoghi d'incontro dei ricchi e i quartieri poveri, il peccato e il vizio, la città diurna e notturna». A Vienna la situazione non era molto diversa: ben presto la capitale non fu più stazione di transito, ma meta definitiva per tutti quegli israeliti che cercavano una nuova patria e che già a fine Ottocento superavano le centomila unità per poi raddoppiare nei difficili anni del primo dopoguerra. Non pochi fra loro si facevano apprezzare come medici e avvocati o avevano un ruolo di primo piano nel mondo della moda, della finanza e dell'industria; e poi c'erano artisti e gente di teatro, giornalisti e scrittori. Come Hugo Bettauer, nato a Baden nel 1872, autore, fra le molte cose, di un singolare e attualissimo romanzo del 1922, La città senza ebrei, un vero bestseller per i suoi tempi, che l'editore Chiare lettere propone nella traduzione di Matilde De Pasquale con un'interessante prefazione di Marino Freschi.
   L'ebreo Bettauer era un personaggio romanzesco, inquieto e irriverente, amico e compagno di scuola del grande Karl Kraus, di cui condivideva insofferenza e ironia verso ogni forma di conformismo. A sedici anni se n'era andato di casa, più tardi divenne protestante, visse a New York, Berlino e Amburgo, affermandosi come giornalista e cabarettista. Fu un prolifico autore di romanzi gialli e lavorò altresì come sceneggiatore, ispirando anche con i suoi lavori film come La via senza gioia di Pabst, una delle prime interpretazioni di Greta Garbo. Fondò e diresse riviste scandalistiche dalle tirature altissime per l'epoca, come Lui e lei. Settimanale di cultura di vita e di erotismo, in cui difendeva divorzio, omosessualità e aborto promuovendo con spirito liberale un'adeguata educazione sessuale come forma di vera emancipazione, divenendo ben presto il bersaglio preferito della censura e della propaganda reazionaria. Perfino l'ideologo nazionalsocialista Alfred Rosenberg, ricorda Freschi, lo definì in un feroce articolo «modello esemplare della disgregazione giudaica». Del resto da anni a Vienna imperversavano antisemiti e pangermanisti a cui proprio il successo elettorale del partito cristianosociale con a capo Karl Lueger, beneamato sindaco della capitale, aveva offerto un ottimo alibi. Il fanatismo razzista confluì in un'ampia mobilitazione di massa sostenuta dal cattolicesimo più conservatore privo ormai di qualsiasi ambiguità. Ce n'era a sufficienza per lanciarsi in una gustosa e graffiante satira che pochi anni dopo fu spazzata via dagli orrori nazisti.
   La città senza ebrei rievoca attraverso vivaci flash la pesante atmosfera politica e sociale del momento: dalle pagine di Bettauer risuona fin dall'inizio un unico grido: Fuori gli ebrei e viva il liberatore d'Austria, il cancelliere Schwertfeger! E' il popolo di Vienna che assedia il Parlamento pronto ad emanare la legge per l'esclusione dal Paese di tutti i non ariani. Inutile lo sdegno dei socialdemocratici in quel tumulto di voci astiose che urlano in preda alla commozione: «Wotan è fra noi! Finalmente ci si potrà liberare di chi, come l'ebreo, ha in mano la stampa e i teatri, possiede le banche e accumula miliardi, dirige le industrie, affolla caffè e ristoranti».
   Bettauer costruisce attraverso i luoghi comuni dell'antisemitismo il ritratto incalzante di un'epoca di profonda crisi, di cui sa cogliere con gustose sfumature aspetti talvolta esilaranti. Come le chiacchiere delle varie Mitzi e Grete, graziose fanciulle piccolo borghesi per le quali l'ebreo era un vero tesoro: «Grazie a lui si poteva far vita mondana e sfoggiare abiti costosi. Mi sono sempre buttata solo sugli israeliti- dice anche una giunonica signora - e ora rischiamo di morire di fame!» Del resto l'entusiasmo popolare durerà poco perché col passare del tempo l'economia peggiora e l'inflazione aumenta, la corona è in caduta libera e i prezzi salgono alle stelle. I migliori locali sono vuoti, falliscono i teatri e perfino i più eleganti negozi di moda, che un tempo proponevano modelli parigini ora mettono in vetrina solo loden, fustagno e cotone. Come dice l'avvocato Haberfeld. Vienna senza ebrei si sta trasformando in uno stagno. E la gente è sempre più scettica di fronte all'idea di «complotto», mentre molti pensano con tristezza e dolore agli amici esuli.
   Come la giovane Lotte figlia del consigliere di corte Franz Spineder, innamorata di Leo Strakosch che a causa della sua origine si è trasferito a Parigi. La loro storia d'amore trasforma la riflessione sul razzismo in una delicata favola. Leo, artista sveglio e intraprendente ha in mente un piano ambizioso: raggiungere la capitale sotto mentite spoglie per cercare di convincere i propri connazionali a tornare sui propri passi. Ora è Henry Dufresne, un pittore parigino quasi trentenne, cattolico, celibe. Solo dall'amata Lotte si fa riconoscere mentre affigge di nascosto per tutta la città manifesti in cui esorta i viennesi a riconciliarsi con gli ebrei. Esiliandoli - vi si legge - avete scacciato il benessere e il futuro. Passano i mesi e perfino il borgomastro Laberl si convince che occorre cambiar rotta, mentre i lavoratori, piegati dalla fame, urlano davanti al Parlamento: Vogliamo nuove elezioni!
   L'utopia di Bettauer trasforma la politica in un gioco a lieto fine proprio quando la storia si sta avviando verso l'orrore. La favola si conclude con l'abrogazione della legge e il felice matrimonio dei due giovani mentre Leo, rivestiti i vecchi panni, viene salutato dalla folla come il primo ebreo di nuovo a Vienna. Peccato che il suo fantasioso autore, Hugo Bettauer, tre anni dopo l'uscita del romanzo, venga assassinato da un fanatico nazionalsocialista. Come qualcuno disse, morì per il suo libro, e molti altri ne seguirono, nell'abisso senza fondo dell'antisemitismo.

(La Stampa - Tutto Libri, 8 febbraio 2020)


A Villanova il commovente ricordo di Andrea Schivo "Giusto fra le nazioni"

Presenti Comuni, autorità e associazioni. Toccante l'intervento fatto dai bimbi delle scuole locali.

VILLANOVA D'ALBENGA - Emozionante e toccante la celebrazione in ricordo del villanovese Andrea Schivo "Giusto fra le nazioni" realizzata a Villanova d'Albenga. All'invito del sindaco Pietro Balestra, hanno risposto numerosi comuni del Ponente, sindaci, assessori, autorità civili, militari, religiose ed esponenti del mondo dell'associazionismo e del volontariato che hanno voluto essere presenti a quello che è divenuto un vero e proprio passaggio di testimone fra generazioni, animato dai bimbi delle locali scuole.
   Il primo cittadino di Villanova d'Albenga, ha introdotto l'evento, alla presenza dei famigliari della guardia carceraria deportata e uccisa il 29 gennaio del 1945 nel lager di Flossenburg per aver aiutato alcuni ebrei incarcerati a San Vittore.
   Balestra ha ricordando la figura di Schivo, la sua infanzia e i valori famigliari che lo hanno ispirato nella vita. Inoltre ha sottolineato l'importanza che la memoria della tragedia della shoah sia affidata alle giovani generazioni, confidando che proprio i bambini sappiano farsi portatori dei valori della fratellanza.
   Fiducia ben riposta vista la particolare sensibilità con cui gli alunni delle scuole di Villanova d'Albenga hanno raccontato la storia di Schivo e il suo coraggio in un'epoca di povertà, dominata dal terrore. Il ricordo corale fatto dai bambini è stato toccante e ha coinvolto tutti i presenti.
   I bambini di 5 anni delle tre sezioni della locale scuola d'infanzia "Andrea Schivo" e tutte le classi della Scuola Primaria, guidati dal Direttore della Sistema Bibliotecario "Valli Ingaune", Mariagrazia Timo, hanno ricostruito la storia della guardia carceraria villanovese. Un racconto sentito che ha approfondito il tema della persecuzione degli ebrei stimolando una convinta partecipazione dei presenti.
   Gli alunni, accompagnati dalle docenti, non hanno ripetuto delle frasi imparate a memoria, ma hanno raccontato la shoah con le loro parole, in maniera spontanea, esprimendo una condanna risoluta a ricevendo con convinzione i simboli di "testimoni" consegnati loro dai sindaci e dalle autorità presenti.
   I bambini hanno reso pubblico il bel lavoro di approfondimento sulla figura di Schivo realizzato a scuola insieme alle insegnati e approfondito in biblioteca attraverso un'iniziativa che il Comune attua con il Sistema Bibliotecario Intercomunale delle Valli Ingaune.
   Alla cerimonia erano presenti i parenti di Andrea Schivo: i pronipoti Ambrogio con la moglie Rossana e il figlio Giacomo autore del libro "Questo è un uomo", la pronipote Andreina con il fratello Claudio con la moglie Marina.
   Insieme al Sindaco di Villanova d'Albenga Pietro Balestra e a una folta rappresentativa del Consiglio Comunale vi erano i comuni di Albenga, Alassio, Andora, Arnasco, Erli, Garlenda, Laigueglia, Onzo, Ortovero, Stellanello, Testico, Vendone. Hanno presenziato alla cerimonia il Maggiore Massimo Ferrari, Comandante la Compagnia Carabinieri di Alassio, il Maresciallo Capo Davide Chaia della Stazione di Villanova d'Albenga, il Maresciallo Maggiore Scognamiglio del 15o Nucleo Carabinieri Elicotteristi di Villanova e Don Giancarlo Aprosio Parroco di Villanova d'Albenga. Presente anche l'ex sindaco di Villanova d'Albenga Domenico Cassiano e l'insegnante Luca Mazzara in rappresentanza del dirigente scolastico dell'Istituto Comprensivo Albenga Due.
   In sala anche i rappresentanti delle Associazioni locali: la Pro Loco Villanova, la Croce Bianca di Albenga e di Villanova, l'Associazione Culturale Villanovese, il Comitato la "Donna delle Violette", l'ANPI di Leca di Albenga, l'Unione Sportiva Villanovese, le Confraternite, il Circolo ricreativo di Ligo, il Lions Club Albenga Valle del Lerrone Garlenda, l'Associazione reduci e combattenti, la Protezione Civile.

(IVG, 8 febbraio 2020)


Boeing abbattuto in Iran, chiesto 1 miliardo da class action di avvocati canadesi

Se la causa fosse vinta, si tratterebbe di una delle compensazioni più alte mai pagate con una class action.

 
Un gruppo di avvocati canadesi ha appena avviato una causa per conto delle famiglie delle vittime dell'aereo della Ukraine Airlines abbattuto in Iran lo scorso 8 gennaio, chiedendo una compensazione per una cifra record pari a quasi un miliardo di euro.
A renderlo noto è l'agenzia di stampa Reuters, specificando che in qualità di imputati per "deliberato atto di terrorismo" saranno citati la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei, gli alti comandanti della Guardia Rivoluzionaria e altri.
Il querelante ha ricevuto lo pseudonimo di "John Doe" e ha voluto mantenere il proprio anonimato allo scopo di garantire la sicurezza degli altri membri della sua famiglia in Iran, i quali potrebbero a suo dire essere messi in pericolo di vita.
A farsi carico di portare avanti la causa è stato lo studio legale Weinman, di Mark e Jonah Arnold, uno dei più noti e rinomati di Toronto e che in passato ha già vinto alcune cause contro il governo di Teheran, per l'uccisione di alcuni cittadini americani in Libano e in Israele.
 Le indagini vanno avanti
  L'Iran finora ha cooperato con le autorità ucraine e canadesi nelle indagini sull'abbattimento del Boeing 737 della Ukraine Airlines, autorizzando una commissione di questi due Paesi a studiare a fondo il luogo dello schianto e fornendo tutta la collaborazione necessaria.
In settimana Teheran dovrebbe poi trasferire le registrazioni criptate della scatola nera all'Ucraina o ad un altro Paese terzo qualora i suoi tentativi di decifrarli dovessero fallire.
Alla fine di gennaio il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha annunciato che l'autore materiale della tragedia è già stato imprigionato dalle autorità di Teheran.

 L'abbattimento del Boeing 737 ucraino
  L'8 gennaio scorso un Boeing 737 della Ukraine International Airlines è precipitato nei pressi di Teheran poco dopo il decollo dall'aeroporto internazionale Imam Khomeini.
Tutte le 176 persone a bordo tra passeggeri e membri dell'equipaggio sono stati dichiarati morti; tre giorni dopo, l'Iran ha ammesso che il velivolo ucraino, scambiato per un missile cruise, era stato abbattuto per errore.

(Sputnik Italia, 8 febbraio 2020)


Gli israeliani ricordano, per questo non ci credono

Tutti i tentativi di negoziare un accordo e di stabilire frontiere sicure sono stati clamorosamente frustrati: per questo oggi i sostenitori della scommessa "terra in cambio di pace" si ritrovano relegati ai margini della politica israeliana.

Gli israeliani, nel loro complesso, non credono che sia possibile fare la pace con i palestinesi, o anche solo separarsi da loro in sicurezza, almeno per il futuro prevedibile.
Gli israeliani ricordano bene la seconda intifada, quando il ritiro delle loro Forze di Difesa dalle principali città palestinesi della Cisgiordania in applicazione degli Accordi di Oslo aprì la strada a una crescita incontrollata dell'infrastruttura terroristica di Hamas e Fatah, che fu in grado di scatenare una spaventosa aggressione fatta di anni di attentati suicidi nei centri commerciali, nei negozi, sugli autobus, rendendo la nostra vita quotidiana quasi insostenibile, con la perdita di centinaia e centinaia di vite di civili israeliani innocenti....

(israele.net, 7 febbraio 2020)


Allerta a Gerusalemme e Cisgiordania

Tensione anche a confine di Gaza, lanci di palloni con esplosivo

TEL AVIV - La polizia israeliana ha elevato oggi lo stato di allerta a Gerusalemme est, in particolare attorno alla Spianata delle Moschee, dopo che ieri in città si sono avuti due attacchi palestinesi, conclusisi con la uccisione di un assalitore e con il ferimento di 12 militari e di un agente di polizia. Nel timore di nuovi incidenti al termine delle preghiere del venerdì, la polizia ha bloccato alcuni torpedoni di fedeli islamici diretti verso Gerusalemme e li ha costretti a tornare in Galilea, da dove provenivano.
    In Cisgiordania, secondo la radio militare, sono stati fatti affluire nella nottata rinforzi militari dopo che in incidenti verificatisi negli ultimi giorni sono rimasti uccisi due dimostranti ed un agente della polizia palestinese. Tensione elevata anche al confine fra Gaza ed Israele. Per oggi, riferiscono fonti locali, non sono previste manifestazioni lungo i reticolati di confine. Ma nelle ultime ore proseguono i lanci dalla Striscia di grappoli di palloni collegati ad ordigni esplosivi.

(ANSAmed, 7 febbraio 2020)


Israele, tre attentati in un solo giorno. «Contro il piano di pace di Washington»

Il primo incidente nella notte. Un 'auto travolge un gruppo di reclute: 14 feriti. Ucciso un terrorista: ha ferito un poliziotto.

Incitamento alla violenza
Hamas rivendica e invita i palestinesi a moltiplicare le aggressioni
La mossa di Borrell
Voleva una mozione contro il progetto Trump: bocciata

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Da ieri, con un precedente pesante nel giorno avanti, in Israele ci si barcamena sull'orlo dello scontro duro. Che Abu Mazen si figurasse che ieri a Gerusalemme ci sarebbero stati tre attacchi terroristici di concerto con tutte le sue proteste, è realistico. Che sappia ora cosa farsene, meno. È cominciato alle due di notte, quando un giovane palestinese ha travolto con l'auto un gruppo di reclute di ritorno dal Muro del Pianto dopo il tradizionale giuramento. Quattordici sono stati feriti, uno è ancora in condizioni molto critiche, nove sono già a casa. Dopo una caccia di alcune ore, il terrorista è stato catturato. Più avanti, verso mezzogiorno è stata la volta di un attacco con la pistola in Città Vecchia, un poliziotto ferito e il terrorista (proveniente da Haifa) ucciso; e infine un altro attacco a fuoco a nordovest di Gerusalemme, dove un soldato è stato ferito da un'arma da fuoco, e il terrorista è fuggito.
   La notte prima durante gli scontri seguiti alla demolizione della casa di Ahmed Kunbam, l'assassino del rabbino Raziel Shevach, un poliziotto palestinese è stato ucciso; come a Hebron un giovane che aveva lanciato una bottiglia molotov sui soldati. In Israele la critica sul perché in tempi così delicati non si siano evitati questi sviluppi è vivace. La confusione è pesante e sanguinosa, ed è difficile capire se si va a un'Intifada, a chi conviene, se questo è ciò che Abu Mazen cerca quando attacca con disprezzo il piano di pace di Trump. Nella foga della rabbia, alla Lega Araba ha detto che in Israele non ci sono ebrei, ma russi e etiopi, e quindi questo non è lo stato ebraico. In realtà il capo dell'Autorità Palestinese poi non rivendica gli attentati e sembra non voler mantenere le minacce di rompere gli accordi sicurezza. Tali accordi di fatto lo proteggono da Hamas con cui è in atto da 14 anni uno scontro mortale. Hamas, sì, rivendica gli attacchi, incita a moltiplicarli con tutti i mezzi, lancia da Gaza grappoli di palloni con appesi esplosivi che possono cadere su scuole e case, e terrorizzano gli abitanti del sud.
   Hamas vuole mostrare di essere forte sul terreno, ma di fatto è Abu Mazen quello che inanella ancora la collana di «no» di cui i palestinesi hanno costellato la loro guerra dal 1948, rifiutando tutte le proposte, puntando su un sostegno internazionale fatto di paura e di opportunismo. Questo ha mostrato nelle scorse ore di volergli fornire il nuovo commissario europeo Josep Borrell. Il sostituto della Mogherini, noto per il geniale pensiero «si sa che l'Iran vuole distruggere Israele, dobbiamo convivere con questo», ha pensato bene di far coincidere la sua visita ufficiale in Iran per salvare l'accordo da cui ormai anche l'Ue dà segni chiari di volersi staccare, a una mozione di condanna della proposta di pace di Trump. La sua proposta aveva la forma di un «avvertimento» allo Stato d'Israele, cui si diceva che «qualsiasi passo verso eventuali annessioni non rimarrà, semmai, senza risposta» e aggiunge che «in linea con la legge internazionale e le relative risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, l'Ue non riconosce la sovranità israeliana su territori occupati». Una presa di posizione contestata giuridicamente e politicamente ma che piace ai palestinesi. Fattostà che sei Stati, fra cui l'Italia, hanno impedito quell'unanimità che rende attuative le mozioni della Commissione. E allora Borrell ha costruito una sua lettera contro ogni prassi istituzionale, per avere le firme dei vari Stati. Nel frattempo ha ricevuto una proposta scritta del rappresentante del Lussemburgo che vuole riconoscere lo Stato Palestinese. Da queste parti, questo si trasforma in incitamento, sulla pelle di israeliani e palestinesi.

(La Stampa, 7 febbraio 2020)


Da Israele a Cesarò: motivare gli insegnanti con le tecniche teatrali

Angelica e Yehuda Calo Livne hanno fondato un teatro multiculturale in Galilea. Educando all'empatia insegnano la corretta comunicazione con gli studenti: il loro corso nell'istituto comprensivo Capizzi-Cesarò.

(RaiNews, 6 febbraio 2020)


Le bugie russe sugli attacchi israeliani in Siria

Mosca accusa l'aviazione israeliana di usare aerei civili come scudo per attaccare postazioni iraniane in Siria

di Sarah G. Frankl

Questa mattina la Russia ha riferito che le difese siriane mentre rispondevano ad un presunto attacco israeliano ad alcune basi iraniane in Siria, avrebbero quasi abbattuto un aereo civile che stava atterrando a Damasco.
   Secondo quanto riferito dalla Russia, un aereo civile Airbus-320 con 172 persone a bordo ha rischiato di essere colpito dalla contraerea siriana mentre era in fase di atterraggio all'aeroporto di Damasco. L'aereo sarebbe quindi stato costretto ad atterrare nella base russa di Khmeimim.
   La Russia accusa Israele di usare gli aerei civili per "nascondersi" dalla contraerea siriana duranti gli attacchi in Siria.
   Non è la prima volta che Mosca lancia queste accuse verso Gerusalemme. Lo fece in occasione dell'abbattimento di un aereo spia russo da parte della contraerea siriana. In quella occasione addirittura diffusero un video poi risultato del tutto fasullo, con il quale pretendevano di dimostrare la loro teoria.
   Anche in questo caso, come allora, si cerca di nascondere l'incompetenza della contraerea siriana che praticamente spara a casaccio in ogni direzione, con l'accusa falsa che i caccia israeliani si nasconderebbero dietro ad aerei civili.
   Addirittura, secondo il portavoce del Ministero della difesa russo, ripreso da Sputnik, quella di nascondersi dietro ad aerei civili sarebbe diventata una "pratica comune" dell'aeronautica israeliana.
   Peccato che, come si evince anche dalle dichiarazioni russe in contraddizione tra di loro, i caccia israeliani difficilmente entrano in territorio siriano per colpire i loro obiettivi. Lanciano i loro missili da posizioni sicure al di fuori dallo spazio aereo siriano.
   Mosca cerca quindi di nascondere la pericolosa schizofrenia della contraerea siriana e allo stesso tempo cerca una scusa per fermare i raid israeliani contro obiettivi iraniani in Siria.
   Per di più, non risulta che l'accordo di coordinamento tra Russia e Israele in merito agli attacchi israeliani in Siria, sia venuto meno. Quindi con molta probabilità Mosca era stata preventivamente avvisata anche dell'attacco di giovedì notte.
   Un ufficiale dell'IDF, parlando in forma anonima, ha categoricamente respinto le accuse russe chiedendosi piuttosto se Mosca non voglia in qualche modo fare marcia indietro sull'accordo di coordinamento con Gerusalemme visto che gli attacchi israeliani in Siria sono così efficaci che stanno letteralmente impedendo all'Iran di posizionarsi in pianta stabile in Siria.

(Rights Reporters, 7 febbraio 2020)


Gli ebrei di Miller

Al Teatro Eliseo di Roma torna "Vetri rotti", un testo accidentato e complesso di Arthur Miller sull'identità ebraica e i suoi tormenti (non solo storici). Un'occasione ghiotta per una curiosa coppia di ottimi attori: Elena Sofia Ricci e Maurizio Donadoni.

 
 
Nel 1994 Arthur Miller scrive Broken Glass (Vetri rotti): affronta il tema del semitismo, filtrato attraverso lo sguardo di un americano colto e raffinato quale è sempre stato, quasi per liberazione delle ripercussioni subite sulla propria pelle agli inizi della sua carriera, in quanto rampollo di una famiglia ebrea benestante. Semitismo, termine coniato e decodificato nel XIX secolo, come forma di persecuzione razziale alla popolazione discendente dal mitico Shem, figlio di Noè e capostipite della popolazione Semita, la parola in realtà oggi non dovrebbe avere più alcun significato, eppure siamo ancora qui a discutere sulle etnie o sulle razze privilegiate. Il tema principale nel sostanzioso dramma, attraverso una serrata scansione degli avvenimenti in undici scene, è quello di come un ebreo americano possa aver vissuto e tollerato - oltreoceano - il grande affronto all'umanità compiuto da alcuni tedeschi impazziti attraverso l'Olocausto ai danni della popolazione ebrea che deteneva il potere politico ed economico in Germania.
  I coniugi Sofia e Philip Gellburg, sono degli ebrei benestanti statunitensi di base a Brooklyn, siamo nel 1938, sposati da un bel po', con un figlio in carriera militare, hanno un grosso problema da risolvere: la bella Sofia a seguito della Kristallnacht, notizia appresa attraverso la stampa, improvvisamente, progressivamente perde l'uso degli arti inferiori, a prenderla in cura è il dottor Harry Heiman, anch'esso di origini ebree. L'uomo tenterà fiducioso una terapia analitica, scoprendo vecchi e antichi segreti che hanno lacerato, dilaniato, allontanato inesorabilmente la coppia. Alla radice della problematica coniugale c'è un sentimento di ribellione circa quell'appartenenza così pesante e influente. I due coniugi rispettivamente avvertono un senso di responsabilità, impotenza, per quell'origine che li fa da una parte appartenere orgogliosamente a una comunità storicamente importante, ma dall'altra li fa sentire esclusi da una società laicale che va evolvendosi in tutt'altra direzione.
  I vetri rotti del titolo, oltre che ricordare i vetri frantumati dalle truppe delle SS nella notte fra il 9 e il 10 novembre, in Germania, in Austria e Cecoslovacchia, ai commercianti ebrei, rappresentano anche lo sgretolarsi della personalità della protagonista: un lavoro perso, un figlio lontano. In una caduta senza limiti, coscientemente porterà il proprio rapporto coniugale ad una inevitabile rottura. E a nulla di risolutivo condurranno un infarto che relegherà il povero Philip a letto e il suo licenziamento: un'ulteriore frattura si creerà nel loro rapporto. Solo la morte porterà purificazione e salvezza: la donna riuscirà a guarire del tutto solo riallacciando i fili con quel passato scomodo e ingombrante.
  Vetri Rotti, tradotto da Masolino d'Amico, dopo una prima messinscena italiana degli Anni Novanta, ritorna felicemente in scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 16 febbraio con la bella regia di Armando Pugliese e la singolare interpretazione di Elena Sofia Ricci che regala alla sua Sofia una umanità straripante, personaggio in bilico tra i suoi sentimenti contrastati viene decifrato dall'attrice con rattenuta e prepotente interpretazione, in una commovente fusione di intenzioni chiare e cristalline
  La regia di Pugliese isola il dettato drammaturgico in un impianto neutro, con la complicità del suo scenografo Andrea Taddei, in uno spazio quasi intermedio, fra il realistico e l'astratto, sollevando l'azione su di un praticabile all'antica italiana, delle seggiole di antica foggia che decifrano l'esiguo arredo scenico. Ma ciò è solo un punto di partenza per un taglio cinematografico scrupoloso. I pochi personaggi sono messi a fuoco con sfumature tutte diverse fra loro tali da narrare uno scavo profondo, che rispettivamente riflettono sia le ombre private che quelle della Storia.
  A quale razza speciale di attore Maurizio Donadoni appartiene? In quale categoria si può relegare? Un attore dalla tracotante fisicità che pure gestisce con una padronanza esemplare. Leggero, fantasioso, autoironico, infantile, potente. La sua prova è davvero mirabile e centrata: Philip Gellburg sembra non poter avere altro interprete se non lui. In scena con i due protagonisti anche un ottimo David Coco, elegante, brillante, nel ruolo del dottor Harry Heiman, che ha dalla sua anche una vaga somiglianza con il suo capostipite Sigmund Freud. Elisabetta Arosio, Alessandro Cremona, Serena Amalia Mazzone completano il buon cast.

(Succedeoggi, 7 febbraio 2020)



L'epopea orientale di Mish-Mish Effendi

di Aldo Baquis

Cinema: torna il "parente egiziano" di Mickey Mouse. Riscoperta l'opera pionieristica di tre fratelli ebrei al Cairo

 
TEL AVIV - Negli anni Trenta Mickey Mouse, il gatto Felix e l'avvenente Betty Boop avevano, forse a loro insaputa, dei parenti al Cairo. Il principale era Mish-Mish Effendi. Come loro, sullo schermo si muoveva in modo dinoccolato, ma si distingueva dai colleghi americani per il fez incollato in testa e per l'ambiente chiaramente orientale che lo circondava. Dimenticati ormai da molti decenni, quei pionieristici film di animazione sono stati recuperati di recente e riproposti in un documentario (Bukra fil Mish-Mish di Tal Michael) trasmesso ora dalla televisione israeliana.
   Quei "cartoons" erano stati prodotti in un appartamento del Cairo - con grande creatività, ma con mezzi di fortuna - dai fratelli Hershel, David e Shlomo Frenkel. Nel 1905, per sfuggire alle persecuzioni antisemite, il padre Bezalel aveva lasciato la Bielorussia e si era rifugiato nella Palestina, allora ottomana. Nel 1914 fu però espulso dalle autorità turche. In Egitto i Frenkel trovarono infine una società cosmopolita e accogliente.
   Là i tre fratelli ebbero i primi contatti con i film di animazione statunitensi. Anche loro, ne erano certi, avevano stoffa da vendere. Invece i produttori locali erano inclini allo scetticismo. Quando chiesero finanziamenti, la risposta fu "Bukra fil mish-mish". Letteralmente: "domani, con le albicocche". In parole povere: "ve lo potete sognare". Così nacque Mish-Mish Effendi, che esordì con un primo episodio nel 1936 in un grande cinema del Cairo. Il successo fu immediato. I Frenkel fecero anche pubblicità e un filmato per il ministero della guerra. Ma alla fine degli anni Quaranta dovettero trasferirsi in Francia perché in Egitto si era creato un clima politico avverso agli ebrei. «Là - racconta la regista Tal Michael - continuarono per tutta la vita a disegnare in una mansarda e a produrre filmati, che pochi però avrebbero visto». Fra questi Mimiche, versione francese di Mish-Mish, e il Sogno del bel Danubio Blu. In Francia, i Frenkel non seppero inserirsi nell'industria del cinema locale.
   Ormai prossimo alla morte l'ultimo dei fratelli chiese che il loro lavoro, accatastato in una cantina, fosse distrutto. Invece il figlio di Shlomo lo fece restaurare. Così recuperati, i loro personaggi hanno adesso ripreso vita: lasciando però un senso di rimpianto per quelle notevoli capacità espressive rimaste incomprese e prigioniere in una casa di campagna alle porte di Parigi.

(Bet Magazine Mosaico, 7 febbraio 2020)


Tunisia: ambasciatore all'Onu richiamato d'urgenza, voci su licenziamento

TUNISI - Il rappresentante permanente della Tunisia presso le Nazioni Unite, Moncef Baathi, è stato improvvisamente richiamato in patria e sarebbe stato rimosso dall'incarico. Secondo il quotidiano francese "Le Figaro", la presunta estromissione del diplomatico potrebbe essere legata alla sua posizione apertamente contraria al cosiddetto "accordo del secolo" messo a punto dagli Stati Uniti per porre fine al conflitto israelo-palestinese. Alcuni media tunisini ipotizzano che il presidente della Repubblica, Kais Saied, non abbia gradito la posizione di Baathi, considerata troppo vicina alle istanze dei palestinesi e potenzialmente dannosa per le reazioni tra Tunisia e Stati Uniti. Il richiamo d'urgenza sarebbe avvenuto prima di un incontro di Baathi con Jared Kushner, genero del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e promotore del piano di pace per il Medio Oriente. Dal primo gennaio di quest'anno la Tunisia siede per due anni al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come membro non permanente, in rappresentanza dei paesi arabi. La presidenza della Repubblica non ha ancora commentato il caso. Diplomatico con una lunga carriera alle spalle, Moncef Baathi era in congedo quando gli è stato chiesto nel 2019 di tornare in servizio come ambasciatore presso le Nazioni Unite e nel Consiglio di Sicurezza.

(Agenzia Nova, 7 febbraio 2020)


Che vergogna l'Unione Europea ai piedi degli ayatollah

di Michael Sfaradi

Un antico adagio recita che non c'è il due senza il tre per cui, dopo aver sopportato Catherine Margaret Ashton, Baronessa Ashton di Upholland e la meno blasonata Federica Mogherini, è giunto ora il turno di sopportare Josep Borrell. Un Mister PESC dopo due lady PESC, e, anche se c'è stato il passaggio dal femminile al maschile, per quello che riguarda la politica estera dell'Unione Europea, soprattutto nei confronti dell'Iran e di Israele, dopo il due è arrivato il tre. Come volevasi dimostrare.
Conoscendo il soggetto, e anche le sue affermazioni passate, possiamo dire che Borrell oltre ad essere il degno successore delle due che lo hanno preceduto in quell'incarico, rappresenta in pieno il vero volto dell'Europa nei confronti dello Stato Ebraico. Una delle prime missioni del nuovo Ministro degli Esteri europeo è stata, e su questo non avevamo alcun dubbio, a Teheran, dove ha promesso agli Ayatollah pieno appoggio dell'Europa.
  Nulla di nuovo in fondo, la linea continua e, dopo aver visto i sorrisi di Catherine Margaret Ashton, Baronessa Ashton di Upholland che al momento della firma sul nucleare iraniano andavano da un orecchio all'altro, e quelli velati della Federica Mogherini ogni volta che andava a passare un weekend in salsa persiana, l'Unione Europea continua a schierarsi dalla parte di chi finanzia il terrorismo, di chi vuole espandere con la forza il suo dominio nella regione mediorientale e di chi, pur a costo di scatenare una guerra di quelle che finiscono sui libri di storia, continua a minacciare Israele di distruzione totale.
  L'orologio di Piazza Palestina a Teheran continua instancabile il suo conto alla rovescia. Josep Borrell è spagnolo, ma rappresenta l'Europa a trazione Franco-Tedesca e sia i francesi che i tedeschi, questo lo sanno tutti, hanno grossi interessi economici in Iran. Sarà per questo che l'Unione Europea al completo, pur di salvaguardare questi interessi, si sta intestardendo a rimanere dalla parte sbagliata della barricata, anche a costo di inasprire ulteriormente i già non idilliaci rapporti con gli Stati Uniti? Possibile che gli affari siano più importanti del pretendere il rispetto per i diritti umani? Possibile che il pecunia non puzza al punto che a Bruxelles si continua a far finta di non vedere i corpi che penzolano dalle Gru Made in Europe? Anche questo, forse, fra non molti anni finirà sui libri di storia.
  Josep Borrell, se vogliamo dirla tutta, anche se è in carica da meno di due mesi è giunto lì dove nessuno prima di lui era arrivato, meglio di Star Trek, e cioè ad attaccare pubblicamente il piano di pace americano e a minacciare Israele nel caso dovesse annettere parte della Giudea e Samaria. Un atto di questo tipo, secondo Mister PESC, "non rimarrebbe senza risposta". Davanti a una minaccia così grave è oggettivamente inutile stargli a spiegare, a lui e a quelli come lui, che accecati dall'ideologia non riescono a vedere quanto Israele ha fatto e proposto pur di arrivare a una pace duratura, che sia Arafat che Abu Mazen hanno detto "no" a tutti i piani di pace proposti e che avrebbero creato benessere per la popolazione palestinese.
  Arafat e Abu Mazen che negli anni hanno, indisturbati, continuato a deviare i fondi, che dovevano essere di aiuto alla popolazione, destinandoli in parte al finanziamento del terrorismo e in parte a conti privati sparsi nei paradisi fiscali. A proposito di costruzioni illegali nei territori contesi che non hanno ancora uno status definitivo, è giusto ricordare che non solo i coloni ebrei, ma anche i coloni palestinesi stanno costruendo in quegli stessi territori. Con la differenza che i coloni ebrei lo fanno a spese loro, mentre quelli palestinesi lo fanno con finanziamenti europei. Infatti è facile vedere delle bandiere dell'Unione Europea accanto a quelle palestinesi ogni volta che il tribunale ordina sgomberi e abbattimenti di costruzioni illegali.
  Ordini e abbattimenti che sono da santificare quando colpiscono i coloni ebrei ma che diventano crimini contro l'umanità quando colpiscono edifici costruiti illegalmente e con finanziamento europeo. Anche questo, forse, finirà sui libri di storia. Poi, per chi non l'ha dimenticata, la querelle a più riprese fra Soha Arafat, la vedova del Leader Maximo con la Kefiah, e i vertici di Fatah, erano generati solo e unicamente da motivi economici. I dollari e gli euro finiti chissà dove erano tanti, ma proprio tanti, mentre la povera gente continuava, e continua, a vivere nei campi profughi.
  Ma mister PESC con il suo "non rimarrebbe senza risposta", cosa intendeva veramente? Vuole forse marchiare i prodotti israeliani che arrivano dai territori contesi? Già fatto. Vuole boicottare i prodotti israeliani, anche questo è già stato fatto, anche se non ufficialmente i boicottatori del BDS lavorano No Stop. Ne sanno qualcosa i palestinesi che erano impiegati per SodaStreem che, grazie all'intelligenza dei boicottatori che difendono a chiacchiere i loro interessi, si sono ritrovati disoccupati quando la multinazionale ha dovuto spostare la sua unità produttiva all'interno di Israele.
  Mai boicottaggio fu più stupido e dannoso. Se con la sua minaccia pensava di intimorire Israele è rimasto probabilmente deluso perché Lior Hayat, portavoce del Ministero degli Esteri israeliano, in un comunicato ha affermato: "L'alto commissario europeo, Josep Borrell, ha scelto di usare un linguaggio minaccioso nei confronti di Israele e lo ha fatto poche ore dopo i suoi incontri in Iran. La scelta di questa politica è il modo migliore per garantire che il ruolo dell'Unione Europea, in un qualsiasi processo di pace futuro, sia ridotto al minimo". Anche il Ministro degli Esteri, Israel Katz, ha replicato alla minaccia dichiarando alla stampa: "Noi non siamo ebrei dell'esilio che si inchinano e il suo stile non è corretto. Sono finiti i giorni in cui qualcuno minaccia gli ebrei e lo Stato Ebraico. Continueremo a costruire e sviluppare Israele con Gerusalemme sua capitale".
  Se vuole davvero contare qualcosa in Medioriente, mister PESC deve assolutamente cambiare atteggiamento perché per Israele le sue minacce sono meno dell'aria fritta. Tutti i boicottaggi o embarghi che potrebbe inventarsi, non riuscirebbero a cambiare nulla.
  Il Presidente Trump ha offerto un ultimo treno a coloro che, pur di dare retta a ideologie o dettami religiosi, i treni della storia li hanno persi tutti, anche i più vantaggiosi. E non saranno certo le minacce dell'ultimo arrivato, che tra l'altro ha già collezionato diversi rifiuti alla sua politica da parte di alcune nazioni della stessa Unione, a mettere paura a uno Stato, come Israele, che fin dalla sua nascita è abituato ad affrontare nemici più pericolosi di un gigante con i piedi d'argilla come è, soprattutto dopo l'uscita della Gran Bretagna, l'attuale Unione Europea.

(Nicola Porro, 6 febbraio 2020)


Gerusalemme, 15 soldati israeliani feriti in un attentato con un'auto

Erano in visita nella Città Santa, uno è grave. La polizia: terrorismo. L'attentato nella notte a Gerusalemme, dove un'auto ha travolto e ferito 15 soldati israeliani.

di Giordano Stabile

Un'auto lanciata contro un gruppo di soldati in visita a Gerusalemme ha ferito 15 militari, uno è grave. L'attacco è avvenuto vicino alla Prima stazione, il terminal della vecchia linea ferroviaria, vicino a quella che fino al 1967 era la Linea Verde. Il veicolo dell'assalitore è stato ritrovato a Beit Jala, vicino a Betlemme. La polizia indaga l'attacco come un "atto di terrorismo". Altri due militari sono ricoverati all'ospedale, 12 hanno subito solo ferite leggere e traumi, e sono stati medicati senza essere ricoverati.

 Il precedente del 2017
  I militari non erano in servizio ma in una delle visite organizzate dall'esercito per far conoscere Gerusalemme alle reclute. L'attacco è avvenuto attorno alle due di notte e sembra la fotocopia di quello dell'8 gennaio 2017, quando un arabo israeliano aveva lanciato il suo camioncino contro una pattuglia in gita nella Città Santa sullo spiazzo panoramico di Armon Hanatziv. Allora c'erano stati cinque morti e 17 feriti. Questa volta si pensa che l'assalitore sia originario di Betlemme. La "Prima Stazione" di Gerusalemme è sulla strada per Betlemme e Hebron e facilmente raggiungibile dai Territori.

 Tensioni in vista del voto del 2 marzo
  Quello di oggi è il primo attentato dopo la presentazione del piano americano, respinto da tutte le fazioni palestinesi. Hamas e la Jihad islamica hanno incitato i palestinesi a opporsi in tutti i modi alla "occupazione" e a quella che sembra l'imminente annessione di un terzo della Cisgiordania. Il premier Benjamin Netanyahu ha però rinviato la decisione a dopo il voto del 2 marzo, proprio per non incendiare la rabbia palestinese.

 Palestinese ucciso a Hebron
  Finora le proteste sono state limitate. Ieri però un palestinese di 17 anni è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Hebron durante un manifestazione contro il piano Trump. L'esercito ha precisato che il ragazzo "stava lanciando bombe Molotov contro i militari" che hanno reagito "per rimuovere la minaccia". Da Gaza sono arrivati invece sporadici lanci di razzi anche questa mattina.

(La Stampa, 6 febbraio 2020)


Il video sparito di Roger Waters e le sue posizioni contro Israele

SANREMO - Annunciato e poi improvvisamente sparito. Il video-messaggio che Roger Waters aveva preparato per Sanremo (doveva introdurre l'intervento di Rula Jebreal) è diventato un caso politico. Perché al di là della versione della Rai ( «la decisione è stata presa per motivi di scaletta») le ragioni sarebbero altre. E sarebbero legate alle posizioni dell'ex Pink Floyd da sempre considerato un nemico di Israele, arrivato fino a negare la stessa possibilità di esistenza dello Stato. In tante occasioni Waters ha espresso la sua durissima opinione: «Ciò che gli israeliani fanno ai palestinesi è simile a quello che gli ebrei dovettero subire nella Germania degli anni 30». Parole naturalmente intollerabili per gli israeliani. La profonda contrarietà sarebbe arrivata alla dirigenza Rai - e anche all'amministratore delegato Salini. Il rocker, che nega i diritti di Israele, e considerato antisemita, non sarebbe stato gradito per la grande visibilità che avrebbe avuto nell'evento televisivo più seguito d'Italia. Così la Rai per evitare l'incidente diplomatico - sarebbe diventato un vero casus belli - ha optato per la scelta di oscurare l'intervento di Roger Waters. Per la tv pubblica l'unico a esporsi è il direttore di Rai Stefano Coletta: «Le scalette ammettono possibilità di variazione. E quando l'abbiamo rivista, proprio io ho pensato che il preludio di Roger Waters fosse uno start ritardante rispetto al monologo di Rula, Questo quadro bastava da solo. Ho pensato che non avesse bisogno di alcuna introduzione». Il contenuto poi non era «sensibile»: «Era un benvenuto a Sanremo per Rula e un sottolineare quanto bene avesse fatto il direttore artistico a includere tante donne». R.Fra.

(Corriere della Sera, 6 febbraio 2020)


Le due morti di George Steiner il sionista antisionista

"Per lui la vera patria, se ne aveva una, era l'Europa". Empatico con gli israeliani e con i palestinesi.

di Emanuele Calò

 
George Steiner
Fra le rievocazioni di George Steiner, critico letterario, linguista, scrittore e accademico, appena deceduto, abbiamo quella di Wlodek Goldkorn, valido intellettuale e giornalista, il quale scrive su Repubblica che costui "si proclamava ebreo diasporista perché negava la centralità dello Stato ebraico e dell'esperienza sionista nel vissuto del proprio popolo. (.. ) Ripeteva che la sua patria fosse ovunque ci sia una macchina da scrivere. Ebraismo insomma come testo, invenzione e interpretazione. Per lui la vera patria, se ne aveva una, era l'Europa". Sennonché, sul Corriere della Sera dello stesso giorno, in un'intervista che Goldkorn non poteva conoscere perché destinata a essere diffusa dopo la sua morte, Steiner dichiara a Nuccio Ordine: "Sono antisionista (posizione che mi è costata molto, fino al punto di non riuscire a immaginare la possibilità di vivere in Israele) e detesto il nazionalismo militante. Ma adesso che la mia vita volge al tramonto, ci sono momenti in cui ho qualche vivo rimpianto: forse mi sono sbagliato? Non era meglio lottare contro lo sciovinismo e il militarismo vivendo a Gerusalemme? Avevo il diritto di criticare, comodamente seduto sul divano della mia bella casa a Cambridge? Sono stato arrogante quando, dall'esterno, ho cercato di spiegare a persone in pericolo di morte come avrebbero dovuto comportarsi?".
   La differenza fra George Steiner e, diciamo, un quisque de populo, anche per cercar di capire l'essenza del grande intelletto, la si ritrova nell'attitudine al pensiero critico e nella scoperta di ciò che costui chiama "l'irrazionalismo moderno", che contrasta ricorrendo all'apagoge: "Sono stato arrogante quando, dall'esterno, ho cercato di spiegare a persone in pericolo di morte come avrebbero dovuto comportarsi?". Appare incredibile, ma le lettere possono questo ed altro: che Goldkorn scriva un interessante articolo e che Steiner gli risponda dalla tomba.
   In comune, fra le due testate, abbiamo l'atteggiamento dei titolisti, che fanno del defunto Steiner un soggetto di "origine ebraica", al posto di "ebreo", un'usanza che rende perplessi molti, da parte ebraica, non escluso il sottoscritto.Nel riferirci all'atteggiamento di George Steiner nei riguardi di Israele, sarebbe proficuo gettare un'occhiata a un'intervista rilasciata a Forward il 27 marzo 2017, che accentua lo spartiacque fra gli schieramenti d'italico stampo e la più fortunata cultura francese: "Quando mi si presenta a un duca inglese, dico a me stesso 'la più alta nobiltà è quella di essere appartenuto a un popolo che non ha mai umiliato un altro'. O torturato un altro. Ma ora, Israele deve necessariamente (e sottolineo questa parola e la ripeterei 20 volte se potessi) inevitabilmente, senza vie di fuga, uccidere e torturare per sopravvivere; Israele deve comportarsi come il resto di questa cosiddetta umanità normale. Ebbene, confermo di essere uno snob etico, sono completamente arrogante dal punto di vista etico; diventando un popolo come gli altri, gli israeliani hanno rinunziato a tale nobiltà. Israele è una nazione fra le altre, armata fino ai denti. E quando vedo dall'alto di un muro la lunga fila di lavoratori palestinesi che cercano di arrivare ai loro lavori giornalieri, in piedi nel caldo soffocante, non posso evitare di vedere la loro umiliazione e mi dico che è un prezzo troppo alto da pagare. Israele mi risponde: 'Zitto, sciocco! Vieni qui! Vivi con noi! Condividi i nostri pericoli! Siamo il solo paese che accoglierà i tuoi figli se dovessero fuggire. Allora, quale diritto hai a essere così moralmente superiore?' E io non ho risposta".
   Certo, sarebbe troppo facile replicare (a parte l'inaccettabile riferimento alla tortura) che se gli ebrei nel Galut non hanno umiliato altri popoli, per contro, sono stati continuamente umiliati, con picchi elevatissimi e momenti di bonaccia. Ad esempio, gli africani sono stati schiavizzati in Asia e in America, ma nessuno ha dato loro la colpa per il loro stato, mentre per gli ebrei al martirio materiale si è unito quello spirituale, per via della costante diffamazione. Questo sarebbe un abbozzo di risposta, ma conta poco o forse, addirittura, nulla. Più importante ai nostri fini è spiegare (non opinare: spiegare) che Steiner è riuscito a essere empatico con gli israeliani e con i palestinesi; da noi non sembra che sia così frequente. E' un portato della sua sensibilità, oppure della sua intelligenza?

(Il Foglio, 6 febbraio 2020)


Il Sudan consentirà voli diretti verso Israele su proprio spazio aereo

KHARTUM - Il Sudan ha accettato di consentire ai voli diretti in Israele di attraversare il suo spazio aereo. Lo ha riferito all'emittente "Al Jazeera" il portavoce dell'esercito sudanese Amer Mohamed al Hassan, secondo cui esiste un accordo "in linea di principio" per l'uso dello spazio aereo del Sudan da parte di aerei commerciali che viaggiano dall'America latina in Israele, anche se gli aspetti tecnici dei sorvoli sono ancora in fase di studio. "Il Sudan non ha annunciato la piena normalizzazione (delle relazioni con Israele), ma intende promuovere uno scambio di interessi", ha aggiunto il portavoce in riferimento al recente incontro fra il presidente del Consiglio sovrano sudanese Abdul Fattah al Burhan e il premier israeliano Benjamin Netanyahu avvenuto ad Entebbe, in Uganda. Il portavoce ha tuttavia precisato che le autorità di Khartum non accetteranno i sorvoli sul proprio spazio aereo del vettore israeliano El Al. In precedenza Netanyahu aveva affermato che l'apertura dello spazio aereo sudanese agli aerei civili israeliani avrebbe ridotto le ore dei voli diretti verso l'America latina, la quarta destinazione di viaggio più importante di Israele. Il corridoio aereo africano di Israele includerebbe anche l'Egitto e il Ciad, con cui lo Stato ebraico ha rinnovato le relazioni interrotte nel 2018.

(Agenzia Nova, 6 febbraio 2020)


La scrofa degli ebrei agita la Germania. Ma i giudici: «Non è antisemitismo»

Il bassorilievo della Cattedrale di Wittenberg è il simbolo dell'odio, ma campeggia nel luogo che fu il cuore della riforma di Lutero. Una corte dice: «Può restare»

La sentenza
«Non danneggia più, perché vicina alle steli che ricordano la Storia»
Il futuro
Ora l'ultima parola spetta alla Corte Costituzionale federale

di Daniel Mosseri

La "Judensau" sulla facciata della chiesa di Wittenberg
BERLINO - È giusto che un simbolo crudo violento dell'antisemitismo campeggi sulla facciata di un'importante chiesa tedesca? O è forse più opportuno staccarlo e destinarlo a un museo, illustrando ai visitatori la storia dell' antigiudaismo di matrice cristiana medievale? Secondo i giudici del tribunale distrettuale di Naumburg, che hanno respinto la sentenza di primo grado del tribunale di Dessau-Rofslau, vale la prima delle due tesi. La corte ha così deciso che la Judensau della cattedrale di Wittenberg può restare. Con Iudensau, letteralmente «la scrofa degli ebrei», si indica un topos raffigurativo antiebraico dei paesi di lingua tedesca. Quella di Wittenberg, cattedrale celeberrima perché diventata con Martin Lutero teatro della riforma protestante, ha la propria: una scrofa in pietra arenaria che allatta alcuni maialini e alcuni ebrei riconoscibili per il segno distintivo che erano obbligati a indossare - un cappellino a punta in questo caso. Il maiale è un animale impuro per la fede ebraica ma per assicurarsi che l'oltraggio antiebraico fosse completo, l'autore del bassorilievo datato 1305 ha aggiunto all'opera un rabbino che solleva la coda dell'animale per osservarne il posteriore.
   Come ricordato anche dalla storica Anna Foa nel 2017, l' oscenità del gesto del rabbino è stata spiegata quasi 250 anni dopo dallo stesso Lutero. Respinto con le sue idee dagli ebrei che pretendeva di illuminare e convertire, l'iniziatore della Riforma diventerà nel corso della sua carriera un virulento odiatore della religione ebraica e dei suoi fedeli, al punto di infarcire la sua opera di scritti e appelli contro il popolo ebraico. L'autore de «Gli ebrei e le loro menzogne», del 1543, scriverà nello stesso anno il «Vom Shem Hamphoras» in cui paragona gli ebrei al diavolo. Nel testo Lutero spiega che, con il gesto osceno del bassorilievo, il rabbino intendesse studiare il Talmud e leggervi il nome del Signore, imperscrutabile per gli ebrei. Non sorprende come la scritta «Shem Hamphoras», che campeggia sopra la scrofa del 1300, sia stata aggiunta nel 1570 in omaggio all'ex monaco. Né che interi brani dell'opera di Lutero siano stati ripubblicati prima e durante il nazismo da testate come lo Stürmer.
   Oggi però le cose sono cambiate, hanno osservato i giudici di Naumburg, aditi da un ebreo di Wittenberg offeso dalla scultura. Il presidente del tribunale, Volker Buchloh, ha spiegato che la Judensau non danneggia più gli ebrei poiché non può essere osservata ignorando il memoriale poco distante e le steli erette dalla chiesa locale, con la comunità ebraica di Wittemberg nel 1988, nel 50esimo anniversario della Notte dei Cristalli. Non la pensa così il commissario governativo contro l'antisemitismo, Felix Klein, che avrebbe preferito la rimozione. Alla vigilia della sentenza, il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania (ZdJ), Josef Schuster, ha comunque accolto con favore il dibattito. Il parroco di Wittenberg ha dichiarato di essere in contatto con la comunità ebraica su come aggiornare il memoriale legato «a quest'opera repellente». L'ultima parola sulla scrofa - e altre tre dozzine di raffigurazioni analoghe - spetta ora alla Corte costituzionale federale.

(il Giornale, 6 febbraio 2020)


Milano - Da Israele a Craxi, i Dem non ne azzeccano una

Nel Municipio Uno la sinistra boccia la mozione sull'antisemitismo che aveva approvato anche al Pirellone.

Il Pd, a Milano come ovunque, dovrebbe far pace con se stesso: due episodi indicano, se non una forma di schizofrenia, di certo un conflitto interno. Il primo riguarda una mozione presentata lo scorso 30 gennaio nel Municipio 1 del capoluogo lombardo: «Condanna verso ogni forma di antisemitismo» è il titolo, che prende spunto, cita il testo, dalla decisione del Parlamento di istituire, lo scorso 30 ottobre, la cosiddetta Commissione Segre, per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo e antisemitismo; e dalla mozione approvata il 5 novembre 2019 dal Consiglio regionale lombardo a sostegno della senatrice Liliana Segre.
   A firma del consigliere di zona Filippo Jarach, la mozione - nell'esprimere «una forte condanna rispetto ai tentativi di delegittimazione dello Stato di Israele» e «sostegno al suo diritto di difesa da organizzazioni terroristiche e dalle minacce di Paesi che chiedono la sua «eliminazione» - chiedeva al Comune di farsi portatore «presso il governo nazionale e le Istituzioni europee e internazionali, dell'istanza relativa alla stesura di un documento dal quale emerga una definizione chiara di antisemitismo che tenga in considerazione il necessario riconoscimento della legittimità dello Stato democratico di Israele» e di chiedere «al governo che le realtà firmatarie dell'appello di "Boycott, Divestrnent and Sanctions" siano escluse da finanziamenti o da qualsiasi altra forma di sovvenzione pubblica».
   Ora, mentre in Consiglio regionale parte della mozione venne votata dal Pd, congiuntamente con la maggioranza, e parte un'altra ha registrato l'astensione del solo Pd. Nel Municipio 1, invece, il Pd ha riscritto la mozione: ha inserito «la lotta all'antisemitismo», l'impegno a preservare «la memoria della Shoah», il contrasto a «ogni forma di violenza nei confronti dei cittadini ebrei» e «alla diffusione di propaganda ideologica basata sull'odio» (non sia mai che il Pd rinunci a un "uniti contro l'odio"), ma ha eliminato ogni riferimento a Israele. Risultato: bocciata la mozione di Jarach, bene invece!'"uniti contro l'odio".
   Non solo basta citare Israele perché il Pd sembri un vampiro la cui bara trabocca di aglio, ma è sufficiente cambiare sede di voto perché il Pd non vada più d'accordo con se stesso. Lo stesso problema comportamentale si registra sull'opportunità di dedicare una via a Bettino Craxi. «Nella mia comprovata lealtà verso il Partito democratico, mi permetto di dire che questa volta la gestione è stata veramente discutibile», ha scritto martedì il sindaco di Milano Giuseppe Sala su Facebook,«Il mio invito a discuterne in Consiglio comunale è finito nel nulla», ha sottolineato il primo cittadino dopo che, durante un dibattito di due ore a Palazzo Marino, le mozioni per dedicare una via al leader socialista sono state rinviate a data da destinarsi, dopo oltre tre anni di dibattito. Il Pd ha detto no, ma la maggioranza si è spaccata tra chi rifiuta del tutto ogni possibile riferimento e chi vorrebbe intitolargli qualcosa di diverso da una via, come una targa. I dem hanno quindi rimandato la decisione finale alla giunta: «Adesso si pretende che io decida», si legge infatti nel post di Sala, «che cosa poi? Se intitolargli una via? Se apporre una targa sulla casa dove abito? È tutta qui la riflessione?». Forse, sindaco, poteva essere utile essere presenti in Aula, anche per schiarire le idee al suo partito.
   Le polemiche, infatti, non si sono fermate nemmeno ieri: «Il partito sta sbagliando», ha dichiarato il consigliere regionale del Pd Carmela Rozza, «è ora che si riconosca il valore dell'uomo politico Bettino Craxi». Cos.Cav.

(il Giornale, 6 febbraio 2020)


La rivolta dell'enclave araba "Vogliamo restare con Israele"

Nel piano di Trump Umm al-Fahm dovrebbe passare ai palestinesi.

Sono 260mila le persone coinvolte nello scambio di territori La cittadina negli ultimi anni ha goduto del benessere economico israeliano

 
Nella cittadina di Umm el-Fahm, nel nord di Israele, vivono 50 mila persone. La popolazione raggiunge i 260mila abitanti contando i 14 villaggi satellite attorno al centro. Umm al-Fahm è diventata parte di Israele dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948-49.
I piano di pace americano è stato respinto in blocco dai palestinesi, che temono di ritrovarsi alla fine con un «mezzo-Stato», amputato di gran parte dei territori della Cisgiordania. Ma ci sono anche palestinesi che del futuro Stato non vogliono far parte e temono di essere staccati da Israele nelle future trattative. È il caso di Umm al-Fahm, una cittadina arabo-israeliana in cima a una collina nel Nord del Paese, 50 mila abitanti, citata a pagina tredici della corposa proposta di Donald Trump. La città, assieme a una corona di 14 villaggi, in tutto 260 mila persone, è adesso in allarme perché è stata «offerta» all'Autorità palestinese come territorio di scambio con parti dei Territori che saranno annessi dallo Stato ebraico.
   La maggior parte dei residenti è convinta da non avere nulla da guadagnarci. Umm al-Fahm è diventata parte di Israele dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948-49. La Nabka, la catastrofe dei palestinesi, con l'esodo di 700 mila profughi, aveva coinvolto anche questa parte del nascente Stato ebraico. Alla fine però gli abitanti rimasti erano stati riconosciuti come cittadini israeliani, con gli stessi diritti, compreso quello di voto, e doveri, a parte l'obbligo del servizio militare, come tutta la minoranza arabo-israeliana che ora conta 1,8 milioni di persone. La convivenza non è stata facile, specie durante dal Seconda intifada agli inizi degli Anni Duemila, quando è stato costruito un muro per separare il distretto dai confinanti Territori palestinesi ed evitare infiltrazioni.
   Nell'ultimo decennio però le cose sono cambiate. Anche Umm al-Fahm ha cominciato a beneficiare del boom economico israeliano e le condizioni sono cambiate. I cittadini sono anche protetti da uno Stato sociale di stampo europeo, con per esempio la Sanità gratuita, e possono spostarsi senza problemi in tutta Israele, dove hanno famigliari e parenti. Il che spiega l'ostilità all'idea di essere «trasferiti» al futuro Stato palestinese. «Sono arabo, palestinese, e sono anche un cittadino israeliano - puntualizza il parlamentare Yousef Jabareen, nativo di Umm al-Fahm -. Siamo parte delle minoranza araba e viviamo nella nostra terra nazionale. Dal piano non abbiamo nulla da guadagnare. Diventeremmo un cantone isolato, un ghetto separato dal resto della Palestina».
   Jabareen è stato eletto nella Lista unita araba, che alle ultime elezioni ha conquistato 13 seggi alla Knesset e spera di replicare l'exploit al voto del 2 marzo. Il timore è anche che gli «scambi di territori» previsti dal piano finiscano per «erodere» l'influenza degli arabo-israeliani, che adesso rappresentano il 21 per cento della popolazione in Israele e sono diventati indispensabili per formare una maggioranza di centrosinistra, come ha dovuto constatare Benny Gantz in questa legislatura. Con il piano Trump in 260 mila si ritroverebbero di colpo fuori dai confini di Israele e la minoranza scenderebbe a circa il 15 per cento. È il paradosso degli arabo-israeliani: con l'indipendenza della Palestina rischiano di perdere più di quanto possono ottenere.

(La Stampa, 5 febbraio 2020)


Il capolavoro di Bibi che vuol diventare re d'Israele

È lui, Benjamin Netanyahu, il grande vincitore del piano di pace americano. Cosi, presentandosi al popolo come un «salvatore», il premier più longevo dello stato ebraico ha messo In secondo piano gli scandali giudiziari che rischiavano di travolgerlo. Ora però affronta la sfida più difficile: trionfare alle elezioni del prossimo 2 marzo.

di Chiara Clausi

Un suv nero con la bandierina a stelle e strisce e quella con la stella di David sui lati arriva alla Casa Bianca. È il 28 gennaio, un giorno che farà la storia. Scende dalla macchina con un sorriso sicuro e sornione Benjamin Netanyahu. Indossa una cravatta rossa e un abito scuro. Viene accolto con uno guardo di intesa da Donald Trump, il suo alleato più prezioso. Si stringono la mano, scambiano qualche parola. È l'immagine che traccia un solco: King Bibi si prende tutto. Nessun dubbio.
   Benjamin Netanyahu è il grande vincitore nel piano di pace americano. Il duetto fra gli applausi con Trump segna il suo trionfo in politica estera, inseguito per 25 anni Bibi ha trovato nel presidente americano il partner ideale per imporre la sua visione: «massima pressione» sull'Iran ma anche sui palestinesi, costretti a concessioni inimmaginabili con BW Clinton o Barack Obama alla Casa Bianca.
   Il duetto, i sorrisi, gli sguardi d'intesa continuano quando presentano «l'accordo del secolo», che è soltanto fra loro due. Ai tempi delle strette di mano fra Ehud Barak e Arafat allo Stato ebraico sarebbe spettato soltanto il 4 per cento dei territori della Cisgiordania, oggi Netanyahu incassa il 30 per cento. Il processo di Oslo è morto e Abu Mazen, o il suo successore, dovranno accontentarsi di un semi-Stato, senza un esercito e con sicurezza ed economia controllati da Israele. Netanyahu lo sa. È il punto di arrivo nella sua politica verso gli storici avversari, lanciata nel famoso discorso all'università Bar-Ilan nel lontano 2009. Ma è anche il trampolino per vincere la sfida elettorale più difficile nella sua carriera, il prossimo 2 marzo.
   Dice Ely Karmon, analista dell'lnstitute for Policy and Strategy: «II piano di pace, l'incontro a Mosca con Putin, il rilascio della ragazza detenuta in Russia, il Forum sull 'Olocausto è lo spettacolo allestito prima del voto». Le concessioni richieste da Trump sono minime. Lo Stato ebraico dovrà congelare per quattro anni gli insediamenti ebraici, ma soltanto nelle aeree destinate a diventare in futuro il mini-Stato palestinese. Nel frattempo però Abu Mazen dovrà trovare il modo di disarmare Hamas e riprendere il controllo della Striscia di Gaza. I palestinesi hanno ottenuto solo promesse economiche, un pacchetto da 50 miliardi di dollari fomiti dalle monarchie del Golfo. Ma Gerusalemme resta ebraica e capitale «indivisibile», a parte il piccolo distretto di Abu Dis nella parte est.
   Bibi, però, ora dovrà affrontare la campagna elettorale sotto processo per casi di corruzione, e i sondaggi lo danno appaialo al rivale Benny Cantz, leader del partito sfidante «Bianco e blu»,
   Proprio nel giorno del piano di pace, con un altro colpo di teatro, ha rinunciato a chiedere l'immunità alla Knesset. Un modo per spingere il procuratore generale Avichai Mendelblit a rinviare le prime udienze successivamente alle votazioni, per non essere accusato di interferenze. Dopo aver ottenuto Gerusalemme «capitale unica e indìvisibile» dello Stato ebraico, la sovranità sulle Alture del Golan, l'eliminazione (per mano americana ma su suo suggerimento) dell'arcinemico, il generale iraniano delle Forze al Quds Qassem Soleimani, e ora il mantenimento di tutti gli insediamenti e un confine «blindato» lungo il fiume Giordano, Bibi può presentarsi agli elettori come un «fondatore» al pari del padre dello Stato Ben Gurion, e far passare in secondo piano gli scandali giudiziari.
   Già nel 2018 aveva esibito la sua straordinaria abilità comunicativa. Con uno show che fece il giro del mondo, dimostrò che l'Iran era in possesso di 100 mila documenti segreti, ottenuti poi da Israele: la prova che Teheran stava costruendo «la bomba». Tutti ricorderanno la sequenza di slide, soprattutto quella in cui si diceva «Iran lied», l'Iran ha mentito. La conferma di un fiuto politico da cavallo di razza, nonostante scandali e, a volte, arroganza.
   «Attenzione però» avverte Karmon «può assomigliargli ma non è Ben Gurion. Netanyahu non ha fatto nessuna guerra, come Sharon, Begin, Olmert. E Hamas, nonostante tre operazioni a Gaza, è più forte che mai». Vero, ma resta
   il premier più longevo nella storia dello Stato ebraico. Più di Golda Meir e di Ben Gurion stesso. È stato al comando per cinquemila giorni, quasi un quinto dell 'intera storia di Israele. Ha vinto la sue prime elezioni nel 1996, a soli 46 anni, ha un talento impareggiabile per non lasciar crescere nessuno sfidante all'interno del suo gruppo. Anche con gesti controversi. Nel 2011 ha rilasciato oltre mille terroristi palestinesi in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalir. Altro successo mediatico. Le immagini di Shalit che arriva alla base di Tel Nof ed è accolto con un abbraccio da Bibi sono entrate nel cuore degli israeliani. Ora, a 70 anni, combatte su tutti i fronti. Ha stoppato la fronda nel Likud guidata dall'ambizioso Gideon Saar, Ha sfilato a Gantz un alleato essenziale, il super-falco Naftali Bennett che in cambio ha nominato alla Difesa. E ha poi lanciato un'offensiva anti-terrorismo nei confronti della Jihad islamica, il più pericoloso gruppo palestinese legato all'Iran e ucciso, in un raid che ha anticipato quello contro Suleimani, il capo militare Baha Abu al-Aia a Gaza.
   È così arrivato alle terze elezioni anticipate e ha guadagnato tempo per rallentare i processi, la macchia sulla sua carriera, dove ha pesato la sfrenata propensione al lusso della moglie Sara, suo braccio destro e consigliera indispensabile.
   È accusato di aver ricevuto regali, champagne e sigari da migliaia di euro da miliardari amici, incluso il produttore di Hollywood, Amon Milchan, in cambio di aiuti. Di aver agevolato l'azionista del gigante delle telecomunicazioni Bezeq, Shaul Elovitch, con vantaggi per 500 milioni di dollari a fronte di una copertura positiva sul suo portale internet Walla. E di aver ottenuto dall'editore di Yediot Ahronot informazioni utili in cambio di norme per ostacolare la diffusione del giornale rivale Yisrael Hayom.
   La moglie Sara è finita nel vortice per aver speso 359 mila shekel dei contribuenti, circa 90 mila euro, in pranzi con chef all'ultima moda. Netanyahu ha sempre negato, accusa i giudici di «persecuzione» e di «colpo di Stato». E ha attraversato tutto ciò senza mai perdere di vista il grande avversario regionale, l'Iran, che ora sembra marciare di nuovo verso l'atomica (e anche in questo caso sembra dare ragione a King Bibi). Mancano ormai poche settimane alla prova decisiva. Passare alla storia o essere travolto come un politico qualsiasi.

(Panorama, 5 febbraio 2020)


Franco Perlasca: «I negazionisti sono a sinistra. Il sindaco non ama Israele»

Parla il figlio di Giorgio, che salvò ebrei ungheresi. E' in Campania per un giro di conferenze nelle scuole

In Sicilia
Leoluca Orlando, amico di de Magistris, intitola il lungomare di Palermo al terrorista Arafat
5,5
La percentuale (secondo Eurispes) dei meridionali secondo i quali «l'Olocausto non è mai avvenuto»
Vittime della Shoah
Mi sconcerta che alla manifestazione del 27 non abbia partecipato la comunità ebraica

di Gimmi Cuoco

NAPOLI - Da oggi a venerdì, con sua moglie Luciana, sarà impegnato in un piccolo tour de force in Campania. Franco Perlasca, figlio di Giorgio, Giusto tra le Nazioni per lo Stato di Israele per aver salvato, fingendosi un diplomatico spagnolo, quasi diecimila ebrei ungheresi dai lager nazisti, incontrerà per iniziativa del Rotary studenti e cittadini in numerose località della provincia di Salerno. Stamattina alle 10 sarà a Fisciano; oggi pomeriggio alle 16 al liceo classico di Nocera Inferiore; domani alle 8,45 a Cava de' Tirreni; alle 10,30 al liceo scientifico Da Procida nel capoluogo; alle 16 a Marcato San Severino; infine venerdì alle 8,45 a Battipaglia e alle 11,30 al liceo Cicerone di Sala Consilina.

- Signor Perlasca, recentemente a Napoli ci sono state polemiche per le pesanti affermazioni del nuovo assessore alla cultura Eleonora De Majo contro lo Stato di Israele. Molti si meravigliano che tali affermazioni provengano da un'esponente di un'amministrazione di sinistra. Cosa ne pensa?
  «Di certi fenomeni non parlo io, ma molto più autorevolmente parla l'Eurispes. A pagina 46 del Rapporto Italia 2020 ci sono dati inequivocabili. Tra coloro i quali negano che la Shoah sia esistita il 18,2 per cento è nell'area del Movimento 5 Stelle, il 23,5 nel centrosinistra, il 23 nell'area centrista, e 1'8,8 per cento sta a destra. Al di là dei decimali, si fotografa una situazione che tutti conoscono. I numeri sono lo specchio di questa situazione. In questo contesto accade che il sindaco di Palermo Orlando, molto amico di de Magistris, decida di intitolare il lungomare a un terrorista come Arafat. A Milano, in occasione del 25 aprile l'Associazione nazionale partigiani ha invitato la delegazione palestinese che ha sfilato con le bandiere e con gli striscioni con le scritte "a morte Israele", al punto da costringere la brigata ebraica a disertare».

- Insomma non è una questione di latitudine?
  «No. A Roma la brigata ebraica non ha partecipato alla celebrazione della Liberazione. Perché vengono invitati i palestinesi? Cosa rappresentano? I palestinesi ai tempi della Seconda guerra mondiale erano amici di Adolf Hitler, parecchie brigate musulmane volontarie hanno operato nei Balcani».

- Manifestazioni diverse di antisemitismo?
  «C'è qualcosa che salda questi antisemitismi: l'odio verso Israele, al di là dei facili distinguo di comodo tra lo stato d'Israele e gli Ebrei. Penso che in Italia il 90 per cento dell'antisemitismo pericoloso sia a sinistra. Forse non proprio il 90, ma l'80 certamente».

- Il rapporto Eurispes indica anche con chiarezza che al Sud la percentuale di negazionisti totali, che cioè pensano che la Shoah non ci sia stata, è superiore alla media nazionale e comunque molto superiore alle percentuali registrate al Nord. I negazionisti parziali, che ridimensionano il fenomeno dell'Olocausto, sono, invece più numerosi che in altre aree d'Italia. Come lo spiega?
  «Non lo so. Forse perché a Napoli, non c'è la sola De Majo. Lo stesso sindaco ha spesso sposato posizioni antiisraeliane. Non sono un sociologo, la mia è solo una presunzione. Ma sta di fatto che sia il sindaco che gli assessori non sono amici di Israele. E di qui a dire che gli ebrei sono brutti e cattivi il passo è breve, anche se magari le intenzioni sono diverse».

- Giusta dunque la decisione della Comunità ebraica napoletana di non partecipare alla Giornata della memoria organizzata dal Comune?
  «Poveretti. Da noi si direbbe becchi e bastonati. Meno male che la città ha risposto. È allucinante che alla manifestazione del 27 gennaio non abbia partecipato la comunità ebraica: meglio non farla senza di loro, le vittime della Shoah».

- Cosa racconterà ai giovani campani?
  «Che ciascuno di noi, se lo vuole, può sempre fare qualcosa contro il Male. Mio padre, Giorgio Perlasca, era un uomo normalissimo che per fare qualcosa per gli altri si inventò il ruolo di finto ambasciatore».

- Un esempio che va al di là dell'Olocausto?
  «Assolutamente sì, essere Giusti oggi non significa fortunatamente salvare persone dai lager, ma comportarsi ogni giorno, nei propri ambiti con coerenza e onestà intellettuale, cercando di aiutare chi ha bisogno».

(Corriere del Mezzogiorno, 5 febbraio 2020)


Per servire e custodire. Per una sostenibilità ebraica

La pubblicazione della nuova edizione de “Il Seder Tubishvàt”, ci dà l'opportunità di riflettere su come l'ebraismo ha elaborato il rapporto tra uomo e natura fin dai tempi della Torà, del Talmud e della Halakhà successiva. Il Capodanno degli alberi è soltanto un particolare in una rete di mitzvòt molto più ampia che in genere non è studiata in modo approfondito.

di Scialom Bahbout

Generalmente nel dibattito sull'atteggiamento da assumere su come preservare l'ambiente si confrontano due scuole: la antropocentrica, che pone l'uomo al centro del creato, e la biocentrica o naturocentrica, che pone la natura al centro del proprio interesse. La prima basa i suoi interventi sul presupposto filosofico che l'uomo è la corona della creazione: lo scopo della difesa della natura sarebbe solo strumentale e cioè servirebbe solo a garantire all'uomo migliori condizioni di vita e quindi l'ambiente va preservato in quanto serve ad assicurare l'esistenza dell'uomo: la distruzione dell'ambiente finirebbe per danneggiarne l'esistenza. Il pericolo di questa impostazione sta nel disinteresse per tutto ciò che non contribuisce a migliorare le condizioni di vita dell'uomo e potrebbe portare prima o poi alla distruzione del genere umano. Questa impostazione viene generalmente attribuita alla cultura "giudeo - cristiana" e quindi occidentale, accusata di volere attribuire all'uomo il diritto di dominare l'ambiente senza alcun limite.
  L'ecologia biocentrica si basa sulla concezione opposta: l'uomo non è che una parte della natura, una creatura tra le molte esistenti che hanno gli stessi diritti di vivere ed esistere: la protezione della natura ha quindi un suo valore indipendente e non è vincolata a servire gli interessi dell'uomo. Questa concezione che sembra trovare molti consensi di fronte alla crisi ambientale può indurre a preferire la natura selvaggia rispetto alla cultura e alla razionalità.
  Qual è la posizione dell'ebraismo? Possiamo trovare nelle fonti ebraiche un sostegno a ciascuna delle scuole menzionate.
  Nel racconto della creazione della Genesi troviamo queste parole (1: 28 - 29), che sostengono la posizione antropocentrica di un uomo dominatore della Natura. "Dio disse: Facciamo un uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, domini sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sugli animali domestici, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra…. Dio li benedisse e disse loro: Prolificate e moltiplicatevi empite la terra e rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare, sui volatili del cielo e su tutti gli animali che si muovono sulla terra … vi dò tutte le erbe che fanno seme, … tutti gli alberi che danno frutto d'albero producente seme, per voi saranno come cibo". Un'affermazione simile troviamo nel salmo 8, in cui l'uomo viene paragonato a un essere appena inferiore a Dio stesso ("tutto hai posto sotto i suoi piedi").
  Tuttavia l'interpretazione che dà il Midrash (Kohèlet rabbatì, 7, 28) è assai diversa:
    "Vedi l'opera di Dio, chi può riparare ciò che è stato contorto? (Ecclesiaste 7:13).
    Quando il Santo, benedetto sia, creò il primo Adamo, lo prese e lo portò in giro fra tutti gli alberi del Giardino dell' Eden e gli disse: Vedi quanto sono belle e degne di lode le mie opere. Tutto ciò che ho creato l'ho creato per te, ma sta attento a non rovinare e distruggere il mio mondo, perché se lo rovinerai e distruggerai il mio mondo, nessuno potrà ripararlo".
Un altro testo in cui si afferma che tutto ciò che Dio fa non è fatto ad esclusivo vantaggio dell'uomo, troviamo nei capitoli in cui Dio parla a Giobbe dalla tempesta e dice: "Chi ha aperto i canali agli acquazzoni e una strada al rombo dei tuoni? Per far piovere su terra disabitata, su deserti ove non c'è alcun uomo" (Giobbe 38: 26 - 27). Quindi l'opera divina non è fatta ad esclusivo uso dell'uomo.
  Maimonide (Guida degli smarriti, III, 13) afferma "di non credere che tutte le cose esistono per garantire l'esistenza dell'uomo" , ma che "tutti coloro che esistono sono destinati a se stessi e non per un'altra scopo".
  Rav Arieh Levin (il famoso rabbino dei carcerati) racconta che si trovava una volta a passeggio con rav Izchak hakohen Kuk, rabbino capo d'Israele, che rimase scandalizzato perché lui aveva staccato una foglia o raccolto un fiore. Rav Kuk rimase allibito per quanto stava facendo e gli disse che lui non raccoglieva nulla se non era strettamente necessario perché non c'è un'erba in basso che non abbia un mazal (stella) in alto che gli dice. "cresci". Ogni germoglio di erba dice qualcosa ogni pietra sussurra qualche mistero, tutta la creazione esprime un canto.
  Poiché entrambe le scuole sono rappresentate nella tradizione ebraica, si può concludere che l'etica ambientale ebraica appartiene a un terzo tipo diverso dalle prime due, che alcuni chiamano ecologia teocentrica.
  Secondo questo concetto, il Creatore è al centro della creazione (Al Signore appartiene la terra e tutto ciò che la riempie, salmo 24) e ordina a tutte le sue creature di realizzare i valori per i quali ha creato il Mondo. Ognuno fa parte di questo progetto e l'uomo, in quanto creatura pensante e raziocinante, ha un ruolo centrale nella realizzazione degli scopi per cui il mondo è stato creato.
  L'uomo quindi deve avere cura del proprio ambiente, basando i suoi comportamenti su ragionamenti sia antropocentrici che biocentrici: una modifica anche piccola nell'ambiente può rompere un equilibrio non visibile nel momento in cui avviene. L'uomo vede solo un segmento della realtà e non può capire in che direzione le cose si evolveranno.
  La Torà prima, il Talmud e la Halakhà successiva hanno affrontato vari aspetti inerenti all'ambiente: l'inquinamento, da quello dell'aria a quello acustico, la preservazione delle falde acquifere, la cura dell'ambiente cittadino, il riciclo, il disboscamento ecc: lo scopo finale è quello della protezione dell'ambiente nei suoi vari aspetti, senza rinunciare all'idea che l'uomo deve vivere con kavod, con dignità. Il mondo naturale è anche al servizio dell'uomo, ma può realizzare i suoi scopi anche senza la supremazia dell'uomo e può promuovere i valori di bellezza, armonia ecc anche senza servire l'uomo.
  L'uomo non deve assumere un atteggiamento arrogante, ma deve avere la consapevolezza che "è stato posto nel giardino dell'Eden le'ovdà ulshomrà (Genesi 2, 15) per lavorare e per custodire" , appunto per compiere un servizio e per custodire il giardino nel migliore dei modi.
  "Tutta la creazione recita una poesia", quindi deve essere protetta. Pertanto, il Midrash sottolinea che gli animali sono stati creati prima dell'uomo. Se l'uomo corrompe l'immagine divina che gli è stata donata, lo si può sempre apostrofare con le parole "una zanzara è stata creata prima di te". (Bereshit Rabbà 8, 1).
  Il canto delle erbe
  Un canto di Na'omì Shemer basato sugli scritti di rabbì Nachmàn di Bratzlav (Likutè Moharàn Teninà, 63)
    Sappi che ogni erba ha la sua canzone.
    E dal canto delle erbe viene creata la melodia del pastore
    Che bello e piacevole è ascoltare la loro canzone.
    È molto bello pregare in mezzo a loro e servire Hashèm con gioia
    E dal canto delle erbe il cuore si riempie di desiderio.
    E quando il cuore è riempito dal canto e desidera la Terra di Israele
    una grande luce viene attirata e va dalla santità della Terra alla luce .
    E dal canto delle erbe viene creata la melodia del cuore.
Chi è interessato ad approfondire l'argomento può leggere tra gli altri: Ekhut Hasvivà di Nahum Rakover, Gerusalemme 1993 Ekhut hasvivà bamoseret hayehudit (The Enviroment in Jewish Tradition: A Sustainable World (Jerusalem 2002).

(Kolot, 5 febbraio 2020)


Il viaggio degli ebrei del «Pentcho» e l'avventura della testimonianza

Torna a Milano il lavoro di Stefano Cattini che, con la voce dei protagonisti, ha raccontato una storia di disperazione e perseveranza. «Karl voleva parlassi dei marinai italiani che li salvarono dal naufragio. Poi mi ha detto: oggi ho 90 anni, ti consegno la mia memoria».

di Barbara Uglietti

Una foto del «Pentcho», il battello su cui si imbarcarono 500 ebrei.
video
MILANO - Pentcho era il nome del battello. Legno, ruggine e due gigantesche, sgangherate, buffissime ruote a pala sui fianchi. Ispirava tutto fuorché solidità. Nel maggio del 1940, durante l'occupazione tedesca, cinquecento ebrei - cechi, slovacchi, polacchi- decisero di salirci sopra lo stesso, al porto di Bratislava. L'idea era quella di navigare il Danubio fino al Mar Nero, dove li attendeva un'imbarcazione più grande che li avrebbe portati nella Palestina mandataria. Le cose non andarono esattamente così. Il Pentcho impiegò cinque mesi per scendere il fiume, tra blocchi, malfunzionamenti, mancanza di rifornimenti, malattie, incidenti. Quando arrivò a Sulina, la nave che li doveva raccogliere non c'era più. Decisero di affrontare il mare. Il battello finì per arenarsi su un'isola greca deserta, Camilonisi. E dopo dieci giorni, i naufraghi, ormai allo stremo, vennero salvati da una nave militare italiana, il Camogli. Furono portati a Rodi, territorio dell'Italia fascista, e internati un campo. E poi vennero trasferiti a Ferramonti di Tarsia, in Calabria, in un altro campo.
Ma si salvarono tutti.
Quella del Pentcho è una storia incredibile - di disperazione, di coraggio, di perseveranza - che viene voglia di ascoltare cento volte. Anche se si conosce il finale. Il regista Stefano Cattini ne ha fatto un capolavoro, intimo e coinvolgente. Il suo Pentcho, uscito nel novembre 2018, è un docu-film che dovrebbe circolare in tutte le aule di scuola. Che dovrebbe essere disponibile su tutte le piattaforme streaming e on demand (purtroppo non è così). Domani, alle 16, verrà proiettato al Salone degli Affreschi della Società Umanitaria (via San Barnaba 48). E ne seguirà un dibattito con il regista.
Cattini ha ripercorso la rotta del Pentcho e incontrato i protagonisti, molti dei quali vivono oggi in Israele. Di uno in particolare, Karl, oggi novantenne, parla come si parla di un padre. Nel film è fissato il momento in cui Karl gli consegna del materiale che sarà poi utile per girare, con uno sguardo misto di orgoglio e stupore per l'interesse verso una storia che, fino a lì, nessuno era andato a cercare. «Quando gli ho spiegato il mio progetto - racconta il regista parmigiano -, Karl mi ha detto che avrei dovuto piuttosto concentrarmi sui marinai italiani che li avevano salvati, uomini che meritavano di essere finalmente ricordati». C'è voluto un po' per convincerlo. «L'ho invitato a Parma - continua Cattini - ed è arrivato dall'aeroporto accompagnato in macchina da un amico. Hanno pagato mezz'ora di parcheggio. Invece sono rimasti fino a sera. Salutandomi, ha detto che lui aveva ormai 90 anni e che forse, sì, quello era il modo giusto per passare il testimone, consegnare la sua memoria .Il Pentcho è così ripartito, sulla pellicola del film. Ottanta minuti che fanno bene. E che restano. L'iniziativa di domani è promossa dall'Associazione Nestore (www.associazionenestore.eu), con Società Umanitaria, Sonne Film, Cdec (Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), Anmi Milano, Comunità Ebraica di Milano e Avvenire.

(Avvenire, 5 febbraio 2020)


Sanremo. Mistero Roger Waters. La rockstar anti-lsraele dà buca a Rula (e Rai)

La giornalista palestinese l'aveva invitato (in video), lui sparisce.

di Paolo Giordano

Signore e signori, lei è Rula Jebreal qui nel ruolo di paladina delle donne. Bellissima. Elegante. Super trendy nel suo accento uno e trino che mescola israeliano, italiano e inglese. Lui è Roger Waters, cofondatore dei Pink Ployd, anima di The Wall, qui nel ruolo di "endorser" del Festival di Sanremo. Dicono che tra loro ci sia stata una liasion amorosa qualche anno fa, ma non importa: all'Ariston avrebbero dovuto essere complici. Lei aveva annunciato un video della rockstar e la Rai aveva confermato. Ma poi nulla. Saltato all'ultimo minuto. Senza spiegazioni. Si era partiti con Fiorello vestito da Don Matteo (l'unico Matteo che funziona in Italia»] e poi il Festival decolla. Lei presenta con Amadeus prima Achille Lauro poi Diodato e le Vibrazioni prima dell'ingresso delle vere star della prima serata, ossia Al Bano e Romina (in full playback quando cantano l'inedito Raccogli l'attimo). Ma poi, ben dopo le 23, si lancia in un monologo sulla condizione delle donne partendo dalla violenza subita dalla mamma (che poi si suicidò) giusto dopo esser discesa dalle scale con un nuovo abito ed aver presentato Elodie. Poi avrebbe dovuto esserci il videomessaggio di Rogers Waters, misteriosamente cancellato. Oddio, la super mega rockstar non avrebbe detto altro se non quant'è bello il Festival di Sanremo. Ma era Roger Waters, non soltanto l'anima germinale dei Pink Floyd ma pure un accanito antisraeliano.
   Rula Jebreal aveva annunciato all'Ariston un grande del rock che è diventato grande anche in un altro campo: la contestazione a Israele. E non tanto per dire. Fatto salvo l'enorme rilievo musicale, Roger Waters è una delle icone anti-isrealiane più attive del mondo. Ecco una carrellata sul Roger Waters filo palestinese. «Ciò che gli israeliani fanno ai palestinesi è simile a quello che gli ebrei dovettero subire nella Germania degli anni '30». «Cara Madonna, non esibirti in Israele all'Eurovision». E via andare. Forse anche per questo è saltato tutto. Nella Rai imprevedibile può succedere anche questo, che un ospite mondiale sia annunciato e poi non vada in onda. Mistero. Un caso. In mattinata Rula Jebreal aveva partecipato alla rituale conferenza stampa al roof dell'Ariston. Distaccata e molto tranquilla, ha risposto alle domande come un candidato alle presidenziali Usa. Lucidissima. Manco Hillary Clinton. Aveva annunciato che alla sera avrebbe detto «cose che non ho mai avuto il coraggio di dire». Poi ha fatto parte dello show. E che show. In fondo la prima serata del Festival di Sanremo è stata una passerella di grandi nomi nazionalpop. Al Bano e Romina, su tutti, per di più con inedito scritto da Cristiano Malgioglio, la Malgy, che è coetanea di Rita Pavone. A proposito Rita è stata, ieri sera, una vera ira di Dio. Poi Tiziano Ferro, che ha omaggiato prima Modugno e poi Mia Martini. E infine lui, il più showman di tutti, ossia Fiorello, che ha aperto la serata: «In questo Festival sarò il Rocco Casalino di Amadeus», Confermando che, se non è il presentatore ufficiale, è comunque il maestro delle cerimonie. «Da ragazzino giocavo a pallone con il 7 come ala destra: per me è un onore mandare in gol un amico come Fiorello», aveva detto in mattinata Amadeus. In ogni caso, a parte le 12 canzoni dei Big - indimenticabile, nel bene e nel male, il look di Achille Lauro con mantello medievale e body dorato (ispirato a «Storie di San Francesco» di Giotto) e le 4 delle Nuove Proposte ( occhio a Tecla), il nazionalpopolare ha avuto la sua giusta razione sanremese già nella prima serata. Ma Rula ha alzato la quota radical chic. Per carità, nulla da dire sulle sue parole, anzi applausi. Ma tutto il resto è stato il trionfo delle snobismo mascarato, della provocazione consolatoria, delle scosse verbali che sono rumorose ma poi risultano spesso fini a se stesse.

(il Giornale, 5 febbraio 2020)


*


Roger Waters stasera al Festival di Sanremo con un videomessaggio

Non è uno scherzo. E nemmeno una bufala. Roger Waters, l'ex bassista e genio creativo dei Pink Floyd sarà presente al Festival di Sanremo stasera, nella prima serata.
Waters non sarà fisicamente al Teatro Ariston, ma invierà un videomessaggio che comparirà sul maxi schermo posizionato alle spalle del palco più famoso di Italia. L'iniziativa è stata organizzata dalla giornalista e scrittrice palestinese (con cittadinanza italiana e israeliana) Rula Jebreal, una delle prestigiose figure femminile fortemente voluta da Amadeus con lui sul palco del Teatro Ariston.
Rula Jebreal, 46 anni e Roger Waters, 76 anni, hanno avuto in passato una relazione sentimentale, conclusasi nel 2016. Entrambi sono grandi sostenitori dei diritti del popolo palestinese nel conflitto con Israele. Roger Waters, come noto, è un membro attivo del BDS, il movimento a guida palestinese per il boicottaggi e sanzioni contro lo Stato di Israele, sin da quando esso venne fondato nel 2005.

(Ondamusicale, 4 febbraio 2020)


Nuovo colpo di Netanyahu: "normalizzate" le relazioni con il Sudan

di Giordano Stabile

Dopo il Ciad anche il Sudan normalizza le relazioni con Israele e Benjamin Netanyahu incassa un altro successo nella sua «campagna africana». Un colpo che segue quello dell'accordo del secolo siglato a Washington con Donald Trump e potrebbe portare anche a un'intesa per il rimpatrio di decine di migliaia di immigrati irregolari, una nuova spinta alla campagna elettorale del premier. Il 2 marzo si avvicina e la politica estera si conferma l'asso nella manica di «King Bibi».
L'annuncio è arrivato da Kampala, la capitale dell'Uganda, dove Netanyahu è arrivato ieri in visita di Stato. Una missione che aveva come obiettivo principale l'incontro con Abdel Fattah al-Buhran, il generale al vertice del Consiglio sovrano supremo sudanese, massimo organo esecutivo a Khartoum dopo la rivoluzione dello scorso 30 luglio.
   I due leader hanno concordato di «cominciare una cooperazione che porterà alla normalizzazione delle relazioni fra i due Paesi». Un evento di portata storica, se si pensa che Khartoum, fino a un anno fa, era ancora una delle capitale arabe più ostili allo Stato ebraico, dopo essere stata la base dell'ideologia jihadista e dei gruppi militanti, compresa la prima Al-Qaeda di Osama bin Laden. Ma la caduta del raiss Omar al-Bashir, al potere per 30 anni, ha cambiato tutto. Adesso il Consiglio, per metà militare per metà civile, vuole riallacciare i rapporti con i Paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, dove il generale Al-Buhran andrà la prossima settimana. Washington ha promesso di togliere le sanzioni, primo obiettivo del governo di transizione. In soccorso di Khartoum sono poi arrivati i petrodollari dell'Arabia saudita e degli Emirati, altri due Stati arabi che vogliono avvicinarsi a Israele.
   Una configurazione geopolitica che ha favorito il blitz di Netanyahu. L'attenzione all'Africa nordorientale è anche dovuta alla questione immigrazione. Sul tavolo dei rapporti fra Israele e Sudan, e anche con l'Uganda del presidente Yoweri Museven, c'è anche la questione del rientro in Africa degli immigrati arrivati illegalmente in Israele fino al 2013, quando venne costruito un muro lungo il confine con l'Egitto nel Sinai. Sono circa 40 mila e Netanyahu vuole concludere accordi con gli Stati africani affinché se li riprendano in cambio di compensazioni economiche e accordi commerciali favorevoli. La maggior parte sono originari del Darfour e dell'Eritrea. Israele vuole convincere i Paesi di origine a lasciarli tornare o in alternativa a favorire lo spostamento in Uganda e Ruanda, che si sono già detti disponibili all'accoglienza.

(La Stampa, 4 febbraio 2020)


Putin e il forum che imbarazza gli israeliani

di Davide Frattlnl

GERUSALEMME - Il patto Ribbentrop-Molotov? Non è successo. La spartizione della Polonia? Dimenticata. I crimini commessi dall'Armata Rossa? Abbuonati. Il Forum mondiale sull'Olocausto e l'antisemitismo ha garantito a Vladimir Putin il palcoscenico internazionale per promuovere la sua revisione della Storia. L'evento a cui hanno partecipato quasi 50 capi di Stato è stato organizzato da Moshe Kantor, alla guida del Congresso ebraico europeo, dal presidente israeliano Reuven Rivlin con lo Yad Vashem e il ministero degli Esteri. Forse troppi padrini e con obiettivi diversi. Hanno finito con il creare intoppi diplomatici (il polacco Andrzej Duda è rimasto a casa perché non gli è stato concesso di tenere un discorso come a Putin) e qualche imbarazzo ai ricercatori del Memoriale dell'Olocausto.
   Adesso gli studiosi hanno scritto una lettera di scuse ed è stata pubblicata dal quotidiano Haaretz, il primo a sollevare i dubbi sulla corretta ricostruzione delle vicende attorno alla Seconda Guerra mondiale e a speculare sulle ragioni politiche: il premier Benjamin Netanyahu ha voluto onorare l'amico Putin e così la cerimonia per ricordare i 75 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz si è trasformata in una celebrazione della Russia. Kantor è un oligarca vicino al presidente russo e in questi anni ha sempre spalleggiato il leader nei suoi tentativi di ingraziarsi gli ebrei europei, nonostante le perplessità di altri leader della comunità. «Le inaccuratezze e la parziale presentazione dei fatti - spiegano gli storici israeliani - hanno fornito una visione sbilanciata. I video mostrati durante il Forum non rappresentano la posizione dello Yad Vashem». Le mappe riproducono i confini sbagliati della Polonia e dei Paesi vicini, l'accordo tra i sovietici e i nazisti non viene menzionato, cancellata è pure l'invasione e annessione da parte dell'Urss di aree europee nel 1940.

(Corriere della Sera, 4 febbraio 2020)


"Israele tutto digitale sennò la Sanità crolla"

Se non si vuole un sistema iniquo bisogna abbracciare i nuovi sistemi. L'intervista a Esti Shelly'

 
Esti Shelly ha un ruolo cruciale in Israele, è infatti a capo della divisione Digital Health del ministero della Salute. A Gerusalemme e dintorni, da circa cinque anni stanno digitalizzando a tappe forzate tutto il sistema sanitario. Convinti che sia l'unica rivoluzione che lo possa salvare da un declino inevitabile, sono anche consapevoli di difficoltà e pericoli. «La prospettiva è chiara - racconta quando la incontriamo a Roma - con l'invecchiamento della popolazione, l'aumento dell'aspettava di vita e la mancanza di medici, l'assistenza sanitaria pubblica è destinata a soccombere, con quel che ne consegue. Se non si vuole un sistema iniquo, inefficiente e costoso come quello americano, che ha trasformato in merce la salute delle persone, bisogna per forza abbracciare le nuove tecnologie».

- Cambiare la sanità non è semplice.
  «Non lo è. In molti ospedali si lavora già a ritmi folli. Non si ha il tempo di pensare in prospettiva quando si vive in una perenne emergenza Ma è proprio quello che bisogna fare. I nuovi sistemi di analisi e di monitoraggio delle condizioni delle persone permettono ad esempio di avere il quadro clinico prima ancora che si entri in pronto soccorso».

- Molte soluzioni basate su Ai, l'Intelligenza artificiale, vengono sviluppate con la raccolta di enormi quantità di dati. Tanti temono per la privacy.
  «Non è il solo problema. Supponiamo, ad esempio, che si chieda il consenso ai pazienti per i dati. A darlo saranno con buone probabilità i più giovani. Si finirebbe così per addestrare una Ai per la diagnostica di certe patologie su campioni non rappresentativi e con risultati parziali. Insomma, è un processo che va gestito con attenzione andando al di là della sola preoccupazione per la privacy visto quanto c'è in ballo».

(Corriere della Sera, 4 febbraio 2020)


Gerusalemme a basse emissioni.

Il Ministero della Protezione Ambientale israeliano e la Città di Gerusalemme hanno lanciato un piano per ridurre le emissioni dei veicoli nella capitale, a seguito del successo riportato da un progetto analogo nella città portuale di Haifa: nell'arco di un anno dalla sua attuazione, si è verificata una riduzione del 20% degli agenti inquinanti nell'aria.

 Diverse fasi
  Il progetto ecosostenibile di Gerusalemme si apre con il divieto di circolazione al centro della città ai veicoli diesel del peso di oltre 3,5 tonnellate e fabbricati prima del 2006, a meno che non siano dotati di filtri speciali.
Durante la seconda fase del programma, che si aprirà a luglio, le nuove norme saranno estese a tutto il territorio municipale della capitale israeliana.
Successivamente la regolamentazione sarà applicata anche ai veicoli più leggeri alimentati a gasolio, ma non alle auto private.

 Il progetto
  Il progetto fa parte di un più ampio programma ministeriale per depurare l'aria della città favorendo la mobilità elettrica e installando filtri su tutti i veicoli di trasporto pubblico più inquinanti.
Il governo ha investito circa 7 milioni di dollari nell'attuazione del progetto e per sostenere il costo dei filtri; inoltre 1,2 milioni di dollari saranno devoluti alla società di trasporti Egged per coprire le spese dell'introduzione nella propria flotta di 10 autobus elettrici, già in funzione da diversi mesi.
"È tempo per gli abitanti della nostra città e i suoi visitatori di respirare aria pulita", ha osservato Ze'ev Elkin, ministro per la protezione ambientale di Gerusalemme.

(l’Automobile, 4 febbraio 2020)



La Shoah e lo sport: lezione di cittadinanza consapevole

Cgil Cisl Uil Lombardia. Oltre trecento studenti al seminario regionale in preparazione al treno della memoria.

di Stefania Olivieri

Oltre 300 studenti, arrivati dalle scuole superiori di diverse province lombarde, hanno partecipato nei giorni scorsi al seminario regionale "La Shoah e lo sport", organizzato da Cgil, Cisl e Uil Lombardia nell'ambito del progetto "In treno per la memoria" che dal 26 al 30 marzo prossimi li porterà in visita ai campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau. Ogni anno è stato approfondito un argomento specifico e il tema dell'edizione 2020, la dodicesima, è lo sport. "Non solo perché la storia dello sport è parte integrante della Storia con la "S" maiuscola - spiega Bruno Bersani, presidente del Comitato "In treno per la memoria" - ma anche perché nello sport costumi e abitudini, tradizione e innovazione, idee e valori di una società diventano azioni, modi di stare insieme e di confrontarsi". "Abbiamo pensato che un treno che abbia come tema lo sport - aggiunge - può essere un momento di incontro con donne e uomini del mondo dello sport, con cui condividere l'idea di una cittadinanza consapevole del passato e matura per immaginare il proprio avvenire".
   Una mattinata intensa, caratterizzata dall'emozionante spettacolo "Invasione di campo" con Giovanni Soldani, vincitore del premio "Marco Cassani" 2018 per la "Miglior Comunicazione a proposito di Storia dello Sport". Un monologo che racconta di Arpàd Weisz, Matthias Sindelar, la squadra dei panettieri di Kiev, campioni nelle cronache sportive degli anni Trenta, fatti sparire dai terribili eventi del secolo scorso. E' poi intervenuto Vittorio Munari, campione del rugby Petrarca, giornalista e commentatore Tv, in questo caso "intervistato" da Marco Gritti, dell'Uisp. "Lo sport è senz'altro un modo per aiutare giovani ad apprendere determinati valori e professarli - ha sottolineato Munari -. Ma una società civile di buon livello deve saper interpretare questi valori positivi e tradurli in pratica nella vita sociale". Munari ha inoltre esortato gli studenti ad avere coraggio, a non nascondersi dietro falsi alibi e a valorizzare piuttosto i loro talenti. "Tutti abbiamo talento - ha detto alla platea del teatro Fontana -. La differenza è l'uso che ne fa ciascuno di noi. Il rugby è una grande scuola di vita, ti insegna che il perdente è chi passa la giornata a spiegare perché ha perso, a cercare alibi per i suoi errori".
   Il seminario, come ogni anno organizzato in concomitanza al Giorno della memoria, è una tappa di avvicinamento al viaggio di fine marzo. Si parte dal Binario 21 della stazione centrale di Milano il 26 marzo, per farvi ritorno il 30. Nei giorni di permanenza a Cracovia si visiterà la città soffermandosi in alcuni punti particolarmente significativi, per prepararsi ad affrontare la visita ai campi di Auschwitz e Birkenau. Domenica 29 marzo al Kino Kuòw si terrà il consueto meeting per la condivisione delle ricerche, delle esperienze e delle testimonianze. Quindi, la partenza per il ritorno a Milano. Documentazioni, immagini, materiali delle passate edizioni del "treno per la memoria" di Cgil, Cisl e Uil Lombardia sono raccolte e consultabili sul sito www.intrenoperlamemoria.it.

(Conquiste del Lavoro, 4 febbraio 2020)


l Fatah di Abu Mazen rifiuta il piano Trump perché rifiuta qualunque spartizione. E lo dice chiaro

Continua martellante la propaganda per la cancellazione di Israele dalla carta geografica

Fatah, il movimento che fa capo al presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen, non si limita a dichiarare che il piano di pace proposto dall'amministrazione Trump "non passerà" e che i palestinesi "difenderanno la Palestina con il sangue e l'anima". In una serie di vignette pubblicate su Facebook e sul quotidiano ufficiale dell'Autorità Palestinese al-Hayat al-Jadida, Fatah proclama esplicitamente il suo rifiuto di qualunque piano di spartizione della terra in due stati: per Fatah, lo stato di Palestina dovrà includere tutto ciò che è oggi Israele, oltre a Cisgiordania e Gaza.
In una immagine postata sulla pagina Facebook ufficiale di Fatah il 30 gennaio 2020, la foto con la cupola della moschea di al-Aqsa (a Gerusalemme) viene introdotta dalle parole: "Non in vendita. L'accordo del secolo non passerà". Sull'immagine stessa, si legge: "Palestina. Non è una patria che viene venduta e acquistata, bensì un pezzo del Corano che difenderemo con il sangue e l'anima"....

(israele.net, 4 febbraio 2020)


Gaza, l'escalation di violenza da evitare

L'esercito israeliano rinforzerà le batterie dell'Iron Dome nella regione meridionale del paese a causa della minaccia del protrarsi di lanci di razzi da parte dei gruppi terroristici della Striscia di Gaza. Secondo il sito di informazione Walla News, l'establishment della Difesa è preoccupato che, sotto la pressione dell'Iran, il gruppo terroristico della Jihad islamica palestinese sfrutti la situazione di instabile equilibrio nella Striscia di Gaza per continuare ad aggredire Israele.
   Dopo settimane di calma relativa sul confine con la Striscia, le tensioni sono aumentate con l'uccisione a gennaio del generale iraniano Qassem Soleimani, eliminato dagli Stati Uniti, e con lo svelamento del piano di pace del presidente Usa Donald Trump, respinto dal mondo palestinese. Un rifiuto che i terroristi hanno tradotto negli ultimi giorni in razzi, mortai e palloncini esplosivi diretti contro la popolazione israeliana. Secondo i media locali, Hamas - impegnato con Israele in una lunga trattativa per un possibile cessate il fuoco prolungato - potrebbe aver sostenuto la recente escalation mentre in precedenza si era tenuto fuori dalle violenze. Questo per pressioni esterne. A spingere il gruppo terroristico a muoversi sarebbe infatti la pressione dell'altro partito del terrore, la Jihad islamica, che da tempo ne contende il potere a Gaza e ha trovato nel malcontento per il piano di pace Usa una giustificazione per aggredire. Il gruppo è finanziato dall'Iran, che, spiega il Jerusalem Post, sta facendo pressione sia sulla Jihad Islamica che su Hamas affinché compiano attacchi contro Israele come forma di vendetta dell'assassinio di Soleimani e per influenzare la terza campagna elettorale israeliana.
   Secondo Walla, l'establishment della Difesa è preoccupato che la Jihad islamica approfitti dell'incapacità di Hamas di trattenerlo per spingere sull'acceleratore e aumentare la portata dell'aggressione contro Israele. "L'escalation nel sud, iniziata giovedì, è uno di quegli eventi nell'arena palestinese che si è ripetuta nell'ultimo anno come se fosse un algoritmo digitale che gestisce i protagonisti nell'area meridionale. Tutte le parti conoscono le regole e tutti hanno una buona ragione per seguirle, anche se i risultati sono noti e ripetitivi e tutti li sanno in qualche misura", scrive su Yedioth Ahronoth Ron Ben-Yishai sottolineando come il ciclo di violenza non rappresenti nulla di nuovo. Secondo Ben-Yishai Israele e Hamas assieme agli egiziani lavoreranno per un obiettivo comune, mantenere la calma e cercheranno quindi di sedare l'irruenza della Jihad islamica.

(moked, 3 febbraio 2020)



3 febbraio 1572, a Siena nasce il ghetto ebraico sotto il governo dei Medici

di Maura Martellucci e Roberto Cresti

Siena - Ghetto ebraico
Il 3 febbraio 1572 il Collegio di Balìa venne incaricato di individuare in Siena un luogo dove far abitare gli ebrei. Con la caduta della Repubblica, infatti, si capì subito che la loro situazione sarebbe peggiorata. Anche a Siena gli Ebrei gestivano il prestito ad interessi. Certo sottostavano a varie restrizioni e dovevano essere sempre riconoscibili, con una 'O' gialla ed un copricapo nero, ma comunque erano tollerati, anzi, possiamo spingerci a dire che molti erano integrati.
La loro situazione peggiorò non appena cadde la Repubblica: il 19 dicembre 1571 il granduca Cosimo I emanò un bando che toglieva loro il Banco del Prestito senese, venendo meno ai patti stabiliti da lungo tempo, avvertendoli, inoltre, che di lì a poco sarebbero stati rinchiusi dentro un ghetto, come stava succedendo in altre città. L'incarico di individuare in "il luogo et habitatione degli Ebrei" fu affidato dal governatore Federigo Barbolani di Montauto (sì, i governatore mediceo, lui, quello che ha fatto sparire, probabilmente tutti i documenti su Montaperti) proprio al Collegio di Balia che nominò allo scopo quattro membri: il capitano Girolamo Bindi, il conte Guido d'Elci, Alessandro Luti ed Achille Santi. Dopo varie ipotesi, pensarono perfino a Fontebranda, fu scelto il Terzo di San Martino perché era una zona centrale ma malfamata, così gli ebrei, andandoci ad abitare, l'avrebbero risanata. Saranno loro stessi, stabilisce il bando, a provvedere alle opere necessarie alla recinzione dell'area (compresa tra la Via di Salicotto e la Via di San Martino) e tutti gli ebrei residenti in città furono costretti, sotto pena di precise sanzioni, ad indossare un "segno giallo" per contraddistinguersi dai cristiani. Solo nel 1859 vengono riconosciuti diritti civili e politici agli ebrei e il ghetto fu definitivamente chiuso e, quindi, aperto.

(Siena News, 3 febbraio 2020)


Ucraina: le autorità iraniane sapevano fin dall'inizio dell'abbattimento del Boeing

KIEV - Le autorità iraniane sapevano fin dall'inizio che l'aereo della Ukraine International Airlines (Uia) era stato abbattuto da un missile. Lo ha affermato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in un'intervista per l'emittente televisiva "1+1". Secondo il capo dello Stato, sarebbe possibile ascoltare le conversazioni registrate alla torre di controllo dell'aeroporto di Teheran al momento dello schianto, lo scorso 8 gennaio. Il presidente Zelensky ha poi annunciato che l'Iran ha invitato gli esperti ucraini a partecipare al processo per la decodificazione delle "scatole nere" del Boeing 737. "Sinceramente, siamo piuttosto sconcertati per questo invito, perché i nostri specialisti hanno già rilevato come la controparte non sia pronta per una vera decrittazione a livello tecnico. Temo che gli iraniani invitino i nostri esperti, ma senza dargli effettivamente le scatole nere", ha spiegato Zelensky. In quest'ottica, ha proseguito il capo dello Stato, gli esperti ucraini dovranno recarsi in Iran con il mandato di poter riportare a casa le scatole nere, qualora non fosse possibile decodificarle nei laboratori di Teheran.

(Agenzia Nova, 3 febbraio 2020)


La Puglia incanta gli operatori turistici israeliani

Anche una giornalista cinese ha fatto parte della delegazione del tour operator più importante in Israele invitata da Pugliapromozione

 
 
 
 
È in Puglia per la prima volta una delegazione del tour operator più importante in Israele, Mixoy, For better Life, interessato alla promozione della Puglia sia in ambito turistico che in quello agro-alimentare. Invitato da Pugliapromozione, su proposta dell'Ambasciatrice della Puglia e dei Pugliesi nel mondo, Nancy Dell'Olio, il gruppo di operatori turistici israeliani è arricchito dalla presenza della giornalista cinese Yu Weiwei, invitata da Pugliapromozione e dall'Assessorato all'Agricoltura- Coordinamento dei Servizi Territoriali della Regione Puglia.
   «Bellezza, cibo, qualità della vita hanno incantato gli operatori israeliani che sono rimasti particolarmente colpiti dalla luce di questa terra e dal calore della ospitalità. La Puglia viene promossa come centro del Mediterraneo, sintesi perfetta tra cultura occidentale e orientale - ha commentato Nancy Dell'Olio che in questi giorni accompagna la delegazione nel tour pugliese - Gli israeliani sono interessati a portare in Israele i nostri prodotti, in particolare olio e vini e a creare incoming turistico da Israele, anche attraverso la promozione di corsi culinari. Si è unita a noi una famosa giornalista cinese per la quale la Puglia è stata una grande scoperta».
   Già al secondo giorno di tour in Puglia, infatti, Yu Weiwei, per la prima volta in Puglia, ha detto: «Vorrei venire a vivere qui in Puglia«, un commento che la dice tutta sull'entusiasmo per la nostra regione. Yu Weiwei cura la comunicazione per il governo cinese per le celebrazioni dei 50 anni di rapporti Italia-Cina e collabora con diversi organi di stampa cinesi ma anche con testate italiane, come il Corriere della Sera. La sua presenza in Puglia è utile a consentire una conoscenza della regione, che sia di supporto allo sviluppo di successive strategie di promozione della Puglia in Cina.
   Intenso il programma del Tour organizzato da Pugliapromozione: sabato scorso la delegazione, che ha pernottato alla Masseria Pettolecchia, ha fatto una visita guidata nel centro storico di Locorotondo. Ieri, visita guidata del centro storico di Ostuni, quindi a Polignano nell'Azienda Presidio Slow Food Terre di San Vito, in visita al vigneto e alla cantina; dopo una passeggiata nel centro storico di Polignano a Mare, tappa a Bari per una passeggiata nel centro storico dove hanno incontrato Nunzia Caputo, «papessa delle orecchiette a Bari vecchia». Il programma prevede questa mattina un Incontro con il Presidente di Unioncamere, Sandro Ambrosi, presso la Sede della Camera di Commercio di Bari, quindi ad Andria presso Tenuta Zagaria e una visita dell'Azienda Agricola del Conte Spagnoletti Zeuli con degustazione. Ultima tappa Trani dove domani è prevista una visita al Museo ebraico Sant'Anna.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 3 febbraio 2020)


Tribunale, la Memoria dei giuristi espulsi (non) può attendere

di Paolo Conti

La Memoria legata alla vergogna delle leggi razziali del regime fascista nel 1938, confermate dall'ignominia della firma di promulgazione da parte di Vittorio Emanuele III, va sorretta da atti anche visibili perché le nuove generazioni possano capire e, a loro volta, ricordare. Un esempio concreto ed efficace sono le Pietre d'Inciampo dell'artista tedesco Gunter Demnig collocate sotto le case dei deportati nei campi di sterminio e portate in Italia per iniziativa di Adachiara Zevi. Ma a Roma manca qualcosa di molto importante, come spiega l'avvocato romano Roberto Coen, socio fondatore e consigliere dell'Associazione Avvocati e Giuristi Ebrei: una targa che ricordi, in un significativo ambiente del Tribunale romano, la ferita dell'espulsione di 56 avvocati ebrei da parte del direttorio del «sindacato fascista avvocati e procuratori di Roma», con un atto sottoscritto il 13 dicembre 1939. E anche di illustri magistrati di alto rango: tra i 14 cacciati dalla magistratura appaiono, come si legge in molti libri dedicati a quel periodo, Ugo Foà, sostituto procuratore generale del re presso la Corte di Appello di Roma, Edoardo Modigliani, pretore di Roma. Racconta l'avvocato Roberto Coen: «È più di un anno che cerchiamo, senza successo, di ottenere un tavolo tecnico per le autorizzazioni anche a Roma. Ma al di là di generiche approvazioni, non siamo riusciti nell'intento per l'80' anniversario della promulgazione delle leggi, come avremmo voluto».
   Targhe di Memoria dei giuristi espulsi dagli albi professionali per le leggi razziste del regime fascista sono già state recentemente apposte nei Tribunali di Milano, Torino, Ancona e Genova sempre per iniziativa dell'Associazione. Ma a Roma? «Abbiamo cominciato a muoverci nel settembre 2018. Nel maggio 2019 abbiamo incontrato il presidente del Tribunale, Francesco Monastero, che è parso subito disponibile ma cl ha raccomandato di contattare anche il presidente della Corte d'Appello, Luciano Panzani. Anche da lui è venuto un apprezzamento. Ma da allora, nonostante altre sollecitazioni, non siamo ancora riusciti a ottenere un tavolo tecnico operativo per decidere dove collocarla, come realizzarla e per stabilire una doverosa cerimonia». Analoga, fa capire Coen, a quella per esempio celebrata dal Tribunale di Milano con grande solennità nel giugno scorso. Spiega ancora Coen: «II Tribunale di Roma deve risolvere ogni giorno mille problemi di ogni tipo e ci sono continue emergenze da affrontare. Ma pensiamo sinceramente che non sia comprensibile non riuscire a trovare il tempo per stabilire una data per una riunione. La ferita di quelle espulsioni è ancora aperta. Così come riteniamo grave che negli ambienti della Corte Costituzionale sia ancora eretta la statua dell'ex presidente della Corte, Gaetano Azzariti, che fu presidente del Tribunale della razza. Su quella collocazione sarebbe tempo di aprire una approfondita riflessione».

(Corriere della Sera - Roma, 3 febbraio 2020)


Missioni 'segrete' per comprare hummus

Puniti agenti dei servizi di sicurezza di Israele

Divisi su molte cose, israeliani e palestinesi sono uniti nell'entusiasmo per l'hummus, una crema di ceci diffusa in tutto il mondo arabo. Una passione che è costata cara a due ufficiali di una unità di elite dell'intelligence militare israeliana, puniti per aver organizzato missioni 'segrete' in Cisgiordania all'unico scopo di procurarsi confezioni di tehina, la pasta di sesamo che è fra gli ingredienti del piatto. A far scoppiare lo scandalo era stata l'intervista dell'emittente Channel 12 ad un'ufficiale dell'Unità 504 dell'intelligence militare. Responsabile di reclutare agenti, l'uomo aveva raccontato che gli era stato chiesto almeno due volte di usare una delle sue spie palestinesi per comprare in Cisgiordania della tehina da regalare a uno dei suoi superiori. Pochi giorni fa le autorità militari hanno reso noto di aver punito due tenenti colonnelli: uno è stato costretto ad abbandonare l'esercito e l'altro, che ordinato le due missioni "non necessarie", dovrà scontare 28 giorni di carcere. Altri 4 ufficiali dell'unità di elite hanno ricevute censure per il loro comportamento: avevano inizialmente mentito, dicendo che la tehina era stata acquistata durante missioni per altri scopi. Ma in realtà c'era un solo obiettivo, quello gastronomico.

(Adnkronos, 3 febbraio 2020)



Shoah: la Germania celebra il dovere di ricordare, ma aumentano gli atti di antisemitismo

Il presidente della Repubblica Steinmeier dice con solennità e serietà che «la nostra responsabilità tedesca non si estingue mai», ma gli episodi di intolleranza sono legittimati da affermazioni sconsiderate di alcuni esponenti politici (Afd tra i primi).

 
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza molto sentita in Germania, per ovvie ragioni; il fatto poi che quest'anno ricorresse il settantacinquesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz ha dato ancora più rilevanza alle celebrazioni.
   Alla cerimonia tenutasi il 23 gennaio allo Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme, è intervenuto con un discorso anche Frank-Walter Steinmeier, il Presidente della Repubblica Federale: era la prima volta per un capo di stato tedesco. Segnale ulteriore del profondo significato attribuito in Germania a questo anniversario.
   In tanti hanno postato delle foto sui social media esponendo cartelli con la scritta #WeRemember, l'hashtag usato per la commemorazione: personaggi famosi della cultura, dello sport e dello spettacolo, ma anche esponenti di primo piano della politica.
   Tuttavia non sono mancate polemiche. Il fattore scatenante sono state le dichiarazioni di Philipp Amthor, giovane deputato della Cdu, che in un'intervista ci ha tenuto a sottolineare come una delle cause principali dell'antisemitismo in Germania sia da ricercare nelle ondate migratorie degli anni scorsi, vista la diffusione dell'odio contro gli ebrei nelle culture di fede musulmana. Parole che hanno suscitato aspre critiche anche da parte degli stessi compagni di partito di Amthor, ma che nondimeno hanno trovato un sostenitore in uno dei big dello schieramento conservatore: Friedrich Merz, il principale avversario interno dell'attuale leader Annegret Kramp-Karrenbauer.
   E naturalmente non poteva mancare AfD: una delle sue figure più note, Alexander Gauland - quello che aveva ridotto il nazismo a «uno schizzetto di guano in oltre 1000 anni di gloriosa storia tedesca» - pare essersi addormentato durante il discorso al Bundestag di Reuven Rivlin, Presidente di Israele, in ricordo delle vittime dell'Olocausto. Che Gauland si fosse effettivamente assopito o stesse solo riposando il capo, in molti hanno letto nel gesto come minimo i segni di un evidente disinteresse.
   Eppure se c'è un tema si cui i riflettori meritano di essere ben accesi è proprio quello dell'antisemitismo. Report diffusi lo scorso anno mostrano un numero crescente di attacchi contro cittadini israeliani o di fede ebraica (addirittura almeno cinque al giorno), per la maggior parte riconducibili all'estrema destra. Ma certo l'esclusiva non è di nostalgici e gruppi neonazisti: in un'interessante intervista di un mese fa allo Spiegel la storica americana Deborah Lipstadt ha ricordato quanto diffusi siano certi atteggiamenti antisemiti anche nell'estrema sinistra, alimentati soprattutto da posizioni di protesta contro i governi israeliani che sfociano però confusamente in generiche stereotipizzazioni razziste.
   Come dimenticare poi le tremende immagini dell'attentato neonazista alla sinagoga di Halle, che ha causato due morti e non si è trasformato in una strage ancora più grande solo grazie alla solidità di un portone?
   Un segnale di speranza, e probabilmente l'antidoto migliore alle dichiarazioni di Amthor e Merz, li si può però trovare proprio nelle parole del discorso di Steinmeier allo Yad Vashem. Tutto l'intervento del Presidente della Repubblica Federale è stato attraversato da una constatazione basilare e fortissima: siamo stati noi, noi tedeschi a fare questo. Una assunzione di responsabilità, una rivendicazione della colpa senza attenuanti né relativizzazioni.
   «Mi trovo davanti a questo memoriale come uomo - e come tedesco», ha sottolineato Steinmeier. Tedeschi erano coloro che hanno deportato gli ebrei nei campi di sterminio, tedeschi erano quelli che hanno tentato di disumanizzarli e di ridurli a un numero tatuato sul braccio. «E anche questo va ricordato ad alta voce, qui e oggi: i responsabili erano uomini. Erano tedeschi. Gli assassini, le guardie, gli scagnozzi, i complici: erano tedeschi. Lo sterminio su scala industriale di sei milioni di ebrei, il più grande crimine della storia dell'umanità - è stato commesso dalla mia gente. L'atroce guerra costata la vita a più di cinquanta milioni di persone è partita dalla mia terra».
   Un punto fermo, che è un dovere tenere ben saldo nella memoria. Come ha ricordato anche Justus Bender, giornalista della Frankfurter Allgemeine Zeitung ed esperto di AfD e dell'estrema destra tedesca.
   Un segnale di speranza, in un momento come questo, in cui - per dirne solo una - un gruppo dell'organizzazione giovanile di AfD ha deciso di ribattezzarsi in rete Höckejugend, "gioventù höckeniana", dal nome del leader dell'ala nazionalista Björn Höcke, e rivendica la cosa come «una provocazione ironica». O in cui, secondo dati davvero allarmanti, un tedesco su quattro avrebbe opinioni antisemite.
   Un segnale di speranza che va coltivato e tenuto in vita, incessantemente e senza esitazioni. Per citare ancora una volta il discorso di Steinmeier: «La fiamma dello Yad Vashem non si spegne mai. E la nostra responsabilità tedesca non si estingue mai».

(LINKIESTA, 3 febbraio 2020)


I rapporti tra fascismo e sionismo

di Simonetta Della Seta

Simonetta Della Seta
Come è sempre stato convinto il mio maestro, lo studioso Renzo De Felice, sionismo italiano e sionismo internazionale hanno costituito per Mussolini due questioni distinte: la prima di politica interna e la seconda, in quanto legata alla cosiddetta «questione palestinese», di politica estera. Un terzo filone, potremmo dire, è stato per Mussolini quello del rapporto con l'ebraismo e, più in particolare, con gli ebrei italiani, ma questo meriterebbe un intervento separato.1 L'atteggiamento del regime fascista nei confronti del sionismo è stato dunque diverso a seconda che si trattasse dei rapporti con il movimento sionistico mondiale inerenti agli affari palestinesi e agli equilibri di politica estera o se riguardasse piuttosto l'affiliazione di cittadini italiani al movimento sionista. Ciononostante, non sono mancate occasioni in cui i sionisti italiani siano stati loro stessi coinvolti dal regime al fine di passare ai sionisti generali o a organismi ebraici europei e mondiali messaggi strategici che riguardavano le aspirazioni internazionali dell'Italia.
  In generale, Mussolini provava verso il sionismo italiano lo stesso senso di diffidenza che era diffuso tra i nazionalisti e i fascisti, convinti che i sionisti coltivassero amore e fedeltà per due patrie, potendo perfino preferire quella ebraica a quella italiana. Ciò contrastava con il concetto totalizzante di «patria» che avevano i fascisti e rendeva i sionisti individui fondamentalmente sospetti. Inoltre, a seguito della cosiddetta Dichiarazione Balfour, emanata nel 1917 dal governo di Londra a favore di un «focolare nazionale ebraico in Palestina», nonché della creazione di un Mandato britannico su quella terra, si era divulgata l'opinione che i sionisti fossero facilmente influenzabili dagli inglesi.
  Verso il sionismo internazionale, invece, Mussolini ha sempre mostrato un certo interesse di tipo strategico. Mussolini vedeva infatti nel sionismo mondiale, e in quello palestinese, una preziosa carta da giocare per inserire l'Italia negli avvenimenti mediterraneo-orientali, soprattutto in senso anti-inglese. «In definitiva - scrive Renzo de Felice - non ci si sbaglia affermando che la carta "sionismo", così come quella "arabi" fu per Mussolini soprattutto un elemento del suo gioco mediterraneo e di eventuale baratto con l'Inghilterra».2
  Certi ambienti nazionalisti cattolici italiani hanno sempre covato la speranza che si sarebbe potuti giungere a una revisione del Mandato inglese sulla Palestina e all'apertura di nuove possibilità in quella area geografica, anche per l'Italia, Paese che manteneva da secoli aspirazioni di protettorato sui Luoghi Santi cristiani.3
  Infine la cosiddetta «questione ebraica» relativa alla Palestina era entrata da anni nelle considerazioni politiche e coloniali dell'Italia. Alla luce del successo della Dichiarazione Balfour, non pochi si erano convinti che il miglioramento dei rapporti con i sionisti avrebbe aiutato anche l'Italia — come era accaduto all'Inghilterra — ad aprirsi un varco di infiltrazione politico-economica nel Vicino Oriente.4 Alcuni ebrei e sionisti italiani avevano da sempre fatto pressione sul governo rafforzando l'idea che una politica sionista avrebbe ancor più legato all'Italia i suoi cittadini ebrei levantini, ovvero quegli italiani ebrei originari di Livorno che ora vivevano ad Alessandria d'Egitto, a Smirne, a Salonicco o a Rodi, quest'ultima diventata peraltro italiana nel 1912.5
  A questo proposito vale la pena ricordare le tre missioni mediterranee di cui era stato incaricato dal governo italiano il capitano di fregata della Regia Marina, l'ebreo Angelo Levi Bianchini tra il 1918 e il 1920: due tra i sionisti della Palestina, per attingere informazioni sulla convivenza tra ebrei e arabi, e una, al comando di una nave da guerra, per una missione perlustrativa tra gli ebrei del Levante. Un'ulteriore azione in favore del progetto italo-levantino era stata svolta nel 1920 dall'ufficiale ebreo Guido Jarach che, ancoratosi con la nave nel porto di Smirne, aveva fatto per ordine del governo opera di «proselitismo italiano» tra gli ebrei della città turca.
  Tratteremo più avanti del caso della fondazione di un Collegio Rabbinico Italiano nella città di Rodi con l'appoggio dell'Italia fascista e del sogno mai realizzatosi di alcuni ebrei italiani di creare a Palazzo Chigi, allora sede del Ministero degli Esteri, un ufficio per gli affari ebraici.
  I sionisti internazionali non avevano inizialmente motivi per non cercare un rapporto con l'Italia fascista. Prima che Mussolini decidesse di imporre agli italiani la «politica della razza», l'Italia era uno dei Paesi europei più liberali nei confronti degli ebrei e i capi del movimento sionista mondiale covavano addirittura la speranza che Mussolini potesse riuscire a moderare Hitler nella sua feroce politica antiebraica.
  L'Italia era per i sionisti un Paese importante anche per via del porto di Trieste, che permetteva il traffico di profughi ebrei in fuga dall'Europa nazista. Infine i buoni rapporti con l'Italia volevano dire evitare che Mussolini puntasse sulla carta araba - cosa che fece, ma molto più tardi - e che la Palestina rimanesse campo incontrastato degli inglesi, non sempre amichevoli nei confronti del sionismo e della immigrazione ebraica nel territorio del Mandato.
  Per Dante Lattes, uno dei più attivi sionisti italiani di quel periodo (la Federazione Sionistica Italiana era nata nel 1904 e ricostituita dopo la prima guerra mondiale nel 1918), mantenere un rapporto con il governo di Roma poteva aiutare i sionisti nella loro triplice battaglia: per Israele, per la salvezza dei propri fratelli europei in pericolo e per la pace che crollava sotto i colpi del nazismo.7
  «I primi anni dopo la marcia su Roma» - scrive ancora De Felice - «non videro sostanziali mutamenti in quella che era stata la politica verso la Palestina e il sionismo dei governi pre-fascisti. E l'atteggiamento genericamente filoarabo era la conseguenza, più apparente che reale, dell'irrigidimento creatosi dopo la Dichiarazione Balfour per non apparire troppo appiattiti sulle posizioni inglesi a favore del "focolare nazionale ebraico"».8
  Un concreto mutamento nella politica italiana vis à vis il sionismo ebbe luogo tra gli anni 1926 e 1928. Ciò avvenne per una serie di concause, ma soprattutto perché Mussolini cominciò a dare un indirizzo sempre più personale alla politica estera e, in particolare, a interessarsi sempre più concretamente e personalmente al Mediterraneo orientale.
  Nel settembre del 1926, Chaim Weizmann, allora a capo della Federazione Sionistica Mondiale, fu ricevuto da Mussolini. Si trattò - come sappiamo sia dai diari del leader sionista sia dagli scritti di Dante Lattes,9 - di una conversazione molto diversa da quella avuta da Weizmann quando aveva incontrato Mussolini nel gennaio del 1923, circa due mesi dopo la sua ascesa al potere, e quando quest'ultimo si era apertamente opposto al sionismo, definendolo «uno strumento della politica inglese».10
  Nel 1926 Weizmann sentì invece che l'incontro aveva avuto risultati positivi. Il leader sionista aveva descritto a Mussolini la situazione in Palestina con un particolare accento sulle problematiche imposte dagli inglesi circa l'immigrazione e aveva sottolineato l'importanza dei porti italiani per gli ebrei. Nelle sue memorie Weizmann scrive che il Duce era stato molto soddisfatto di aver appreso che gli ebrei avevano ottimi rapporti con i rappresentanti dell'Italia a Gerusalemme.11 Mussolini offrì aiuto per la colonizzazione ebraica in Palestina e, per cominciare, chiese che i lavori di costruzione del porto di Haifa fossero affidati a ditte italiane. A fine colloquio, Weizmann espresse una chiara impressione che il regime fascista avesse maturato un cambiamento sostanziale sul sionismo.
  Nello stesso anno Mussolini ricevette per un colloquio David Prato, il rabbino nato a Firenze designato a succedere al Gran Rabbino d Alessandria Raffaello Della Pergola, dopo la morte di quest'ultimo. Durante l'incontro, il Duce espresse soddisfazione per la partenza di un «fedelissimo» elemento ebraico italiano in Oriente alla volta dell'Egitto.12 Prato era stato uno dei firmatari della ricostituzione della Federazione Sionistica Italiana il 18 settembre 1918.13
  Nel febbraio del 1927 Mussolini incontrò un altro delegato dell'esecutivo sionista internazionale, Victor Jacobson, e a luglio autorizzò, a somiglianza di quelli che gli ebrei avevano creato in altri Paesi, la costituzione di un Comitato Italia-Palestina. Il 19 ottobre dello stesso anno Mussolini ricevette in udienza il capo dell'esecutivo sionista, Nahum Sokolov. Quest'ultimo non solo diede sulla stampa ebraica palestinese un giudizio estremamente favorevole su Mussolini, ma riconobbe esplicitamente e pubblicamente che il fascismo era «immune» da preconcetti antisemiti.14
  Per dirla ancora con De Felice:
    «… in questo periodo, e per qualche anno ancora, questa nuova politica [del regime fascista, n.d.a.] si estrinsecò soprattutto in un più attento guardar dentro gli avvenimenti palestinesi e agli sviluppi del sionismo e in un notevole incremento, nel frattempo, della penetrazione economica e culturale in Palestina e tra gli ebrei ivi stanziati».15
Tanto più che lo stesso Console italiano a Gerusalemme, Orazio Pedrazzi, in un esteso rapporto del maggio 1927, aveva sottolineato, esposto il quadro generale della situazione nuova che presentava la Palestina: «…la necessità di allargare al campo ebraico la nostra azione di penetrazione economica e culturale». Aggiungendo: «Se non faremo noi, faranno gli altri… qui anche i patriarchi e i frati si mettono d'accordo con gli ebrei mille volte al giorno».16 Due giorni dopo Pedrazzi avrebbe scritto a Grandi: «Gli ebrei sono le cimici della Palestina, ma comandano, lavorano e soprattutto cercano di avvicinarsi culturalmente all'Italia».17
  Il momento di piena attualità e fermento di temi ebraici e mediterranei fu anche il più adatto a rispolverare il progetto di una organizzazione italiana dell'ebraismo levantino. Il rabbino capo di Roma Angelo Sacerdoti riaprì la questione inviando a Mussolini un lungo memoriale «sul problema dei rapporti spirituali e culturali tra gli israeliti italiani e quelli che vivono nei paesi del bacino del Mediterraneo»18 nella convinzione che fosse giunto il momento di prepararsi, da italiani, a prendere il posto della francofona associazione ebraica Alliance Israelite nei contatti tra ebrei del Mediterraneo e l'Europa. Mussolini considerava da sempre l'Alliance la longa manus della politica francese in Nord Africa e nel Medio Oriente.
  Nella stessa atmosfera il Governatore fascista di Rodi, Mario Lago, presentò al Duce la proposta di fondare nell'isola italiana del Dodecanneso un collegio rabbinico di cultura italiana che fosse in grado di formare giovani rabbini legati all'Italia da inviare poi nelle comunità del bacino mediterraneo.19
  Lago si raccomandò di coinvolgere nel progetto l'ebraismo italiano e sefardita, il che non fu semplicissimo, dal momento che la comunità ebraica di Rodi non era ancora entrata a far parte del consorzio delle comunità ebraiche italiane, cosa che sarebbe avvenuta solo dopo il 1930, a seguito della legge che dette vita all'Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. Il Collegio Rabbinico di Rodi, fondato nonostante tutto nel gennaio del 1928, grazie anche a una visita decisiva a Rodi del gran rabbino di Alessandria David Prato, avrebbe rappresentato fino alla sua chiusura, dieci anni più tardi, l'unico progetto concreto delle aspirazioni fasciste di valorizzazione a scopi italiani della presenza ebraica e sionista nel Mediterraneo.
  I rapporti tra l'Italia fascista e i sionisti cominciano tuttavia a prendere una nuova piega nel 1929, con la drammatica acutizzazione del contrasto in Palestina tra arabi ed ebrei. L'opinione pubblica italiana, soprattutto cattolica, cominciò a chiedere una revisione del Mandato, da affidare a una potenza che non avesse «impegni e legami col sionismo». Virginio Gayda, un autorevole giornalista filoregime, scrisse su «Gerarchia», la rivista del Duce:
    La Palestina è anche terra sacra per tutta la cristianità. Il suo regime naturale dovrebbe essere quello della internazionalizzazione con una partecipazione al suo governo dell'Italia e della Francia, oltre che dell'Inghilterra».20
In questo nuovo contesto, Mussolini cominciò sempre più ad attenersi a una linea di prudenza, senza sbilanciarsi troppo e in attesa che l'Inghilterra pagasse i prezzi della sua stessa politica. Ciononostante, l'atteggiamento italiano in occasione dei moti arabi del 1929 rafforzò paradossalmente la stima per Mussolini di alcuni circoli sionisti, e in particolare dei sionisti revisionisti, guidati da Zeev Jabotinsky, il quale peraltro, aveva studiato in Italia e parlava correntemente l'italiano. Personalmente, Jabotinsky si era messo in contatto con Mussolini ancora prima che salisse al potere e nel luglio del 1922 gli aveva scritto una lettera in cui gli dimostrava la precarietà della carta araba per proporgli, già allora, una collaborazione italo-ebraica, con la quale addirittura si sarebbe ristabilito l'uso della lingua italiana tra gli ebrei di tutto il Mediterraneo.21
  Con l'inizio del nuovo decennio la posizione di Jabotinsky di aderenza, anche ideologica, all'Italia si venne sempre più accentuando, al punto che nel 1933 egli partecipò al diciottesimo congresso mondiale sionista in qualità di rappresentante dell'Italia. Insomma, se nel decennio precedente erano stati i fascisti a cercare spesso i sionisti per i loro obiettivi di politica estera, negli anni trenta sono più i sionisti a cercare Mussolini. In particolare i sionisti italiani - tra cui Lattes e Sacerdoti - corteggiarono Mussolini fino a fargli proporre a Weizmann di ospitare ad Abbazia (Oggi in Croazia, allora in Italia) il successivo congresso sionistico mondiale. In quel momento - spiega ancora De Febe - presentarsi come amico e protettore degli ebrei serviva al Duce per almeno quattro buoni motivi:
  1. «perché si rendeva conto che una drammatizzazione della condizione degli ebrei in Germania avrebbe introdotto nella già pesante situazione europea un ulteriore grave motivo di tensione;
  2. perché riteneva che così facendo avrebbe spianato la strada a quel "direttorio" (poi "patto a quattro") delle potenze europee sul quale egli fondava in quel momento gran parte della sua strategia politica;
  3. perché così facendo distingueva nettamente la politica e l'immagine del fascismo da quella del nazionalsocialismo e ciò avrebbe, pensava, reso più facile e credibile il suo ruolo di "arbitro" della politica europea;
  4. perché, infine, riteneva che mostrarsi amico e protettore degli ebrei tedeschi avrebbe giovato assai al suo personale prestigio nel mondo ebraico (la cui potenza politica ed economica egli considerava grandissima, certo superiore a quanto era in realtà) e, di riflesso, presso l'opinione pubblica dei paesi democratici e, insieme, avrebbe favorito molto la penetrazione italiana in Palestina e, più in generale, nel Mediterraneo».22
Mussolini diede anche adito ai sionisti di pensare che dopo l'ascesa al potere di Hitler sarebbe riuscito comunque a intervenire riservatamente su di lui per cercare di moderarne i furori razzistici. Al punto che molti autorevoli sionisti, abbagliati da questa prospettiva, non si accorsero che anche in Italia l'antisemitismo stesse riacquistando un certo vigore e gran parte della stampa sionista di Gerusalemme e Tel Aviv continuò a sottolineare solo l'atteggiamento filo-ebraico del governo di Roma.
  In questo contesto piuttosto intrigato, tra il '33 e il '34 si svolse un'intensa attività politica in Italia da parte di Weizmann e di altri rappresentanti del movimento sionista, proprio nella speranza di contrastare Hitler.23 Il primo di una serie di incontri tra Weizmann e Mussolini ebbe luogo il 26 aprile del 1933. E benché il suo protocollo non sia stato conservato e Weizmann stesso non ne abbia parlato nei dettagli nelle sue memorie, sappiamo bene da altre fonti che il leader sionista chiese al Duce di intervenire presso il Führer per salvare almeno cinquantamila ebrei tedeschi, facendoli transitare dall'Italia. Mussolini, dal canto suo, non aveva rinunciato all'idea di porsi come mediatore tra Hitler e gli ebrei e aveva già fatto muovere Vittorio Cerniti, suo ambasciatore a Berlino, perché passasse a Hitler «in modo fermo ma cordiale» un messaggio contro il boicottaggio tedesco degli ebrei. Hitler aveva ricevuto Cerniti il 31 marzo ma, senza nascondere la sua irritazione, aveva respinto completamente l'appello di Mussolini.24 Nonostante il fallimento della missione di Cerruti, Mussolini avrebbe visto Weizmann. I leader sionisti continuarono a credere che l'Italia sarebbe potuta essere d'aiuto, se non altro per il trasferimento dei profughi ebrei verso la Palestina, nonostante anche qui i problemi si stessero sempre più acutizzando con nuove rivolte arabe e nuove restrizioni all'immigrazione ebraica imposte dagli inglesi.
  Per Mussolini, invece, che, oltre a essersi ormai convinto dei rischi che avrebbe incorso facendo nuovi passi su Hitler, vedeva sbriciolarsi giorno dopo giorno la propria strategia sul «patto a quattro» (Italia-Francia-Gran Bretagna-Germania), la carta sionista stava ormai acquistando un valore diverso, sempre più proiettato verso un maggiore dinamismo italiano nel cosiddetto Levante. Ciò nella presunzione che la Germania sarebbe stata fermata e che prima o poi l'Italia sarebbe anche riuscita a ottenere da Francia e Inghilterra delle contropartite per essere riuscita a tenere a freno Hitler.
  Questo dinamismo è quello che alla fine fa scattare la conquista dell'Etiopia, ma anche quello che porta Mussolini a mettere contemporaneamente in atto la sua politica filo-araba, pur appoggiando la creazione di uno stato per gli ebrei su una parte del territorio e sostenendo il sionismo revisionista di Jabotinsky, in chiave anti-inglese. Secondo Renzo De Felice «il prosionismo di Mussolini del 1933-34 e in qualche misura ancora nei primi mesi del 1935, molto più che a porsi come mediatore tra ebrei e arabi e sostituire la propria egemonia a quella inglese in Palestina, mirava ad accrescere la tensione in Palestina e, quindi a creare ulteriori difficoltà all'Inghilterra in uno dei punti più nevralgici del suo impero».
  I successivi colloqui con Weizmann e Nahum Goldmann sono a questo proposito molto significativi, per capire le preoccupazioni delle due parti, ma anche perché, nonostante tutto, i leader sionisti considerarono fino all'ultimo Mussolini un amico e un potente capace di poterli aiutare, se non più a salvare gli ebrei tedeschi, se non altro ad appoggiare la nascita di due stati, ebraico e arabo, in Palestina.
  Nel colloquio con il Duce il 17 febbraio del 1934 a Weizmann interessava chiaramente che l'Italia appoggiasse anche la liberta di immigrazione in Palestina in sede di Commissione Permanente dei Mandati (cosa che non avvenne…). Nell'incontro avvenuto tra Mussolini e Nahum Goldmann il 13 novembre, il leader sionista si prodigò invece per salvare settemila ebrei della Saar, prima dell'annessione alla Germania con il plebiscito e l'applicazione delle leggi naziste antiebraiche. Grazie all'intervento italiano, l'accordo sottoscritto a Roma il 13 dicembre successivo tra Francia e Germania contemplò esplicitamente il problema e un articolo dell'accordo stabilì per gli ebrei della Saar il diritto di lasciare liberamente, e con i propri beni, il loro territorio. Cosa che avvenne quando la regione passò alla Germania.
  Così come Mussolini non era riuscito a convincere Hitler ad abbandonare la sua politica antisemita, in Palestina non riusciva a convincere gli arabi ad accettare l'idea di uno stato ebraico. Non è questa la sede per parlare dei rapporti tra l'Italia e il nazionalismo arabo degli anni trenta in Palestina - alcuni dei massimi esperti su questo tema, come il prof. Luigi Goglia e il dott. Nir Arielli, partecipano a questo convegno. Tuttavia è necessario ricordare che il governo fascista ebbe un forte coinvolgimento nei moti arabi del 1936-39 e che i contatti tra i funzionari italiani e Hajj Amin al-Husseini, colui che era allora il Gran Mufti di Gerusalemme e che guidò la lotta nazionalista araba, erano cominciati già nel 1933, per poi rafforzarsi sempre di più negli anni che seguirono.26 Il Mufti cercava allora appoggio contro gli inglesi e contro i sionisti che stavano costruendo il proprio insediamento in Palestina. L'assistenza dell'Italia alla rivolta araba in questa terra ha quindi assunto la forma dell'appoggio politico-diplomatico, della propaganda, dell'aiuto finanziario e perfino di tentativi di rifornimento di armi.
  Negli stessi anni - può sembrare contraddittorio ma il collegamento tra i due fatti è la politica anti-britannica di Mussolini - il regime fascista aveva permesso ai sionisti revisionisti addirittura di aprire una loro scuola navale Beitar a Civitavecchia (attiva dal 1934) alla quale, fino alla sua chiusura nel 1938, si formarono decine di uomini che avrebbero costituito il primo nucleo della marina israeliana. Il significato per Mussolini era evidente: per il fascismo era fondamentale formare un gruppo di giovani che sarebbero potuti diventare altrettanti propagandisti dell'Italia e del fascismo nel mondo e specialmente in Palestina dove poi i sionisti revisionisti avevano dato prova di essere i più accaniti anti-inglesi. I rapporti tra gli agenti di Jabotinsky e il governo italiano, anche tramite il Consolato di Gerusalemme, furono costanti per quasi tutti gli anni trenta, tanto da suscitare diverse denunce da parte inglese.
  La crisi provocata dal conflitto italo-etiopico nel 1936 ebbe notevoli ripercussioni sui rapporti tra Italia e sionismo. In quelle circostanze, infatti, il governo fascista da un lato cercò di creare sempre più difficoltà all'Inghilterra, dall'altro cercò di servirsi del sionismo per evitare le sanzioni e specialmente la loro applicazione da parte della Palestina, con la quale l'Italia aveva un forte interscambio commerciale. In questo senso Mussolini mandò diversi messaggi ai capi del sionismo «…perché non si gingillassero con la Gran Bretagna».28
  Nello stesso quadro va letta l'intensa attività diplomatica italiana tra la fine del 1935 e i primi del 1936 attraverso i sionisti e i maggiori esponenti dell'ebraismo italiano. Pare che il primo ad aver avuto l'idea di inviare i sionisti italiani a Londra per scongiurare le sanzioni all'Italia sia stato il Console Generale di Gerusalemme Mariano De Angelis. Come protagonisti della missione speciale a Londra, che si ripeté a Ginevra e a Parigi, furono scelti Dante Lattes e Angiolo Orvieto, i quali si appellarono ai capi del sionismo mondiale perché a loro volta facessero pressione sugli inglesi, facendo presente che le sanzioni avrebbero definitivamente buttato Mussolini nelle braccia di Hitler. Il fallimento della missione lasciò parecchie persone a Roma con la bocca amara.
  Con la seconda metà del 1936 e i primi mesi del '37 i rapporti tra l'Italia fascista e il sionismo entrarono nella loro ultima fase. Il 9 giugno 1936 Mussolini nominò Ministro degli Esteri il genero Galeazzo Ciano e ciò ebbe subito ripercussioni sulla politica nei confronti del sionismo. Se Fulvio Suvich in qualità di sottosegretario aveva guidato gli Esteri con moderazione, e da triestino aveva sempre messo in guardia Mussolini contro la Germania, Ciano appoggiò un riavvicinamento italo-tedesco. I rapporti con i sionisti divennero per Palazzo Chigi - allora sede del Ministero degli Esteri - sempre più rischiosi da non valer la pena di essere portati avanti. L'episodio più significativo del nuovo clima fu l'incontro Ciano-Goldmann, rimandato diverse volte e con risultati nulli. La carta sionista era ormai per i fascisti priva di valore. Le prime avvisaglie della fine del lungo, reciproco corteggiamento si erano avute già quando sulle colonne de «Il regime fascista» cominciarono ad apparire nell'autunno del '36 i corsivi antisemiti a firma di Roberto Farinacci. Quello del 24 ottobre si intitolava Fascismo e internazionale ebraica.29
  In quello stesso mese di ottobre del 1936 veniva inviato a Gerusalemme quale console generale Quinto Mazzolini, diplomatico di provata fede fascista, non ostile agli ebrei in quanto tali ma dichiaratamente contrario al sionismo e alle sue aspirazioni e realizzazioni in Palestina, in particolare. E contemporaneamente Mussolini dava il suo benestare all'avvio di aiuti cospicui, in armi e denaro, al movimento di ribellione arabo guidato dal Gran Mufti di Gerusalemme contro l'amministrazione britannica e la colonizzazione ebraica in Palestina. Alcuni mesi più tardi, nella primavera del 1937, durante la sua visita in Libia Mussolini brandì «la spada dell'islam» e se ne proclamò protettore nel Vicino Oriente, indicando così tangibilmente il nuovo corso della sua politica.
  La pubblicazione del libro di Paolo Orano Gli ebrei in Italia alla fine del marzo 1937 e l'incessante campagna stampa antisemita che ne seguì mostrarono senza ombra di dubbio la nuova strada intrapresa dal regime, che condusse a un'alleanza sempre più stretta con Hitler e al varo della legislazione antiebraica nell'estate del 1938.30
  Nell aprile dello stesso anno il sionista Goldmann aveva chiesto un colloquio con Ciano. Questa volta gli era stato direttamente negato.

NOTE
  1. Cfr R. De Felice, Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1961; M. Michaelis, Mussolini and the Jews: German-ltalian Relations and the Jewish Question in Italy, 1922- 1945, Oxford 1978.
  2. R. De Felice, Il fascismo e l'Oriente, Bologna 1988, p. 126.
  3. F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla Grande Guerra alla Conciliazione, Bari 1966; S.I. Minerbi, Il Vaticano, la Terra Santa, il sionismo, Milano 1988; A. Gabellini, L'Italia e l'assetto della Palestina 1916-1924, Firenze 2000.
  4. U. Nahon, Gli echi della Dichiarazione Balfour e la Dichiarazione Imperiali del maggio 1918, in «La Rassegna Mensile di Israel», voi. XXXIV, n. 6,1968, p. 341.
  5. S. Della Seta, Gli ebrei del Mediterraneo nella strategia politica fascista sino al 1938: il caso di Rodi,in «Storia Contemporanea», n. 6, 1986, pp. 997-1032.
  6. Si. Minerbi, L'Italie e la Palestine 1914-1920, Paris 1970.
  7. S. Della Seta e D. Carpi, «Il movimento sionistico», in Storia d'Italia, Gli ebrei in Italia, Torino 1966, voi. Il, pp. 1321-1368.
  8. R De Felice, Il fascismo e l'Oriente, op. cit., p. 129.
  9. C. Weizman, Trial and Error, London 1984; N. Goldmann - D. Lattes - U. Nahon - G. Romano, Nel centenario della nascita di Teodoro Herzl, in «La Rassegna Mensile di Israel», 1961.
  10. D. Carpi, Weizmann's Politicai Activity in Italy from 1923 to 1934 (in ebraico), in «Zionism», voi. 2, 1971, pp. 169-207.
  11. C. Weizman, Trial and Error, op. cit., p. 371.
  12. R De Felice, Il fascismo e l'Oriente, op. cit., p. 131.
  13. S. Della Seta - D. Carpi, «Il movimento sionistico», op. cit., p. 1323.
  14. U. Nahon, La visita di Sokolov a Livorno nel 1927, in «Rassegna Mensile di Israel», voi. XXVTH, luglio-agosto 1972, pp. 147-166.
  15. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1961 e 1977, p. 190.
  16. ASMAE, AP, Palestina, b. 1460 f. 1, lettera del 19 maggio 1927.
  17. ASMAE, AP, Palestina, b. 1460 f. 1, lettera del 21 maggio 1927.
  18. S. Della Seta, Gli ebrei del Mediterraneo nella strategia politica fascista, op. cit., p. 1009.
  19. S. Della Seta, Gli ebrei del Mediterraneo nella strategia politica fascista, op. cit.
  20. V. Gayda, Sangue in Palestina, in «Gerarchia», settembre 1929.
  21. V.Z. Jabotinsky, Verso lo Stato, Firenze 1970, p. 27.
  22. R De Felice, Il fascismo e l'Oriente, op. cit., p. 139.
  23. Cfr D. Carpi, R De Felice, S.I. Minerbi, opp. citt.
  24. D. Carpi, Weizmann's Political Activity in Italy, op. cit.; e S.I. Minerbi, Gli ultimi due incontri Weizmann-Mussolini (1933-1934), in «Storia contemporanea», 1974, pp. 431-480.
  25. R. De Felice, Il fascismo e l'Oriente, op. cit., p. 149.
  26. L. Goglia, Il Muftì e Mussolini: alcuni documenti italiani sui rapporti tra nazionalismo palestinese e fascismo negli anni trenta, in «Storia Contemporanea», n. 6,1986, pp. 1201-1254; N. Arielli, Italian Involvement in theArab Revolt in Palestine 1936-1939, in «British Journal of Middle Eastern Studies», voi. 35, n. 2, agosto 2008, pp. 187-204.
  27. Italian Propaganda in Palestine, in «The Times», 12 ottobre 1935.
  28. R. De Felice, Il fascismo e l'Oriente, op. cit., pp. 168 e ss.
  29. S. Della Seta - D. Carpi, «Il movimento sionistico», op. cit.
  30. Cfr S. Zuccotti, The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue, Survival, New York 1987; L. Maggioni (a cura di), Dalle Leggi antiebraiche alla Shoah, Sette anni di storia italiana 1938-1945, Milano 2004; e B. Vespa - M. Pezzetti (a cura di), 1938 Leggi razziali: Una tragedia italiana, Roma 2009.
Italia - Israele: GLI ULTIMI CENTOCINQUANTA ANNI
Atti della Conferenza Gerusalemme 16-17 maggio 2011
FONDAZIONE CORRIERE DELLA SERA

(Kolot, 3 febbraio 2020)


Abu Mazen rompe con Usa e Israele. "Non venderò mai Gerusalemme"

di Giordano Stabile

 
Abu Mazen chiude la porta al piano di pace di Donald Trump e annuncia la rottura di «tutti i rap, porti con gli Stati Uniti e Israele». E lo sviluppo più importante della riunione di emergenza dei Paesi arabi ieri al Cairo. Il presidente palestinese era in rotta con la Casa Bianca da tempo, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale unica dello Stato ebraico, ma adesso ha voluto dare la massima enfasi allo scontro con Washington, ed escluso in maniera categorica la possibilità di riaprire un negoziato, non fosse altro per migliorare la proposta statunitense. Il perché, ha spiegato, sta nel fatto che non vuole «essere ricordato come colui che ha venduto Gerusalemme». La Città Santa, ha precisato, «non è mia ma di tutti» e in questo si è rivolto ai «fratelli» della Lega araba, per ricordare che la sconfitta dei palestinesi sarebbe una sconfitta collettiva. Il piano americano concede loro soltanto il piccolo sobborgo di Abu Dis, e nel complesso i due terzi della Cisgiordania che però, ha sottolineato ancora il raiss, rappresentano appena «il 22% della Palestina storica», cioè del territorio sotto mandato britannico, poi diviso fra ebrei e palestinesi dall'Onu nel 1947.
   «Combatteremo per evitare che il piano americano diventi una formula legittima adottata dalla comunità internazionale», ha continuato il leader palestinese. Poi ha rivelato di «aver incontrato Trump quattro volte» ma senza «alcun progresso». Il leader palestinese ha deciso di rivolgersi al Consiglio di Sicurezza dell'Onu per presentare «un piano alternativo». Ci sarà il veto degli Usa e la richiesta passerà quindi all'Assemblea generale, dove Abu Mazen spera di avere una tribuna mondiale per isolare Israele. Il problema è che a seguirlo non sono neppure tutti gli Stati arabi. Emirati, Bahrein, Egitto hanno detto di sì al piano e invitato ad aprire «negoziati diretti», e anche l'Arabia saudita ha espresso una posizione positiva, anche se ha ribadito l'appoggio ai «giusti diritti» dei palestinesi. Il raiss ha voluto precisare che Re Salman gli ha assicurato che «sta sempre con i palestinesi». Abu Mazen ha poi incontrato anche il presidente egiziano Al-Sisi. Alla fine la Lega araba ha condannato il piano come «ingiusto perché non rispetta i diritti e le aspirazioni fondamentali del popolo palestinese» e ha invitato i Paesi membri a «non collaborare con l'Amministrazione americana». I diplomatici arabi hanno insistito sulla necessità di una soluzione a due Stati, compreso uno palestinese nei confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale.

(La Stampa, 2 febbraio 2020)


Russi e Lega araba contro piano di pace Usa mentre la tensione sul terreno sale

L'aviazione militare israeliana ha colpito la scorsa notte alcuni obiettivi militari del gruppo terroristico di Hamas a nord di Gaza in reazione ai continui lanci dalla Striscia di razzi e di grappoli di palloni collegati ad ordigni esplosivi. Il portavoce militare israeliano ha spiegato che l'esercito ha colpito una "infrastruttura sotterranea" realizzata da Hamas per "fini terroristici".
   Tra gli israeliani costretti a correre nei bunker nelle scorse ore, anche il leader di Kachol Lavan Benny Gantz in visita al Kibbutz Nahal Oz (situato a breve distanza dal confine con Gaza).
   Questa nuova fiammata di violenza palestinese appare, spiegano i media israeliani, come una reazione al piano di pace annunciato dal presidente Usa Donald Trump: nessuna voce palestinese, né a Gaza né a Ramallah, ha accolto con favore la proposta Usa denunciandola come un favore alla sola Israele. Il leader dell'Anp Mahmoud Abbas, come già avvenuto in passato, ha minacciato di cancellare la cooperazione tra israeliani e palestinesi sul fronte della sicurezza in Cisgiordania. L'aver ottenuto al Cairo l'appoggio della Lega Araba ha reso Abbas più sicuro di poter portare avanti le sue minacce. Per la Lega araba, infatti, il piano Usa "non soddisfa il minimo dei diritti e delle aspirazioni del popolo palestinese" e l'unica iniziativa da cui si possa partire è quella proposta dalla Lega stessa, che include uno Stato palestinese sulle linee del 1967 con Gerusalemme Est come capitale. Anche il Cremlino si è messo di traverso agli Stati Uniti, esprimendo la propria contrarietà al piano: "C'è tutta una serie di risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu - ha affermato il portavoce Dmitry Peskov ai media russi - È ovvio che alcuni punti di questo piano non sono pienamente conformi alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU". "Abbiamo visto la reazione dei palestinesi, la reazione degli Stati arabi, che mostrano solidarietà con i palestinesi nell'opporsi a questo piano. Questo solleva certamente dei dubbi sulla sua fattibilità", il messaggio di Mosca che potrebbe intiepidire le azioni del Premier israeliano uscente Netanyahu che vorrebbe - sullo slancio del Piano Trump - annunciare già in questi giorni l'annessione della Valle del Giordano e l'estensione della sovranità israeliana sugli insediamenti in Cisgiordania (elementi previsti nel piano stesso). I russi potrebbero far sentire la loro voce a Gerusalemme, vista la loro influenza sempre più significativa sul Medio Oriente e rallentare il progetto di Netanyahu. Quest'ultimo in ogni caso deve attendere il via libera dell'avvocatura dello Stato perché Israele è guidato da un governo ad interim con un parlamento sciolto. Non è detto che vi sia quindi la legittimazione legale a promuovere un'azione così significativa come l'annessione.
   Intanto è tornato a parlare, entrando a gamba tesa sui vertici palestinesi, l'ideatore del piano di pace, il genero di Trump Jared Kushner. In un'intervista a un'emittente egiziana Kushner ha sostenuto che la sua proposta è l'ultima chance per i palestinesi di ottenere uno Stato: "Quello che sta succedendo da molti anni è che Israele si sta espandendo, mentre si continua a negoziare e non c'è stata una soluzione al conflitto". Kushner ha detto che gli Stati Uniti stavano lavorando per raggiungere un accordo con Israele in base al quale riconoscere la sovranità israeliana su alcune parti della Cisgiordania, permettendo così a Gerusalemme di procedere con i piani di annessione e che in questo quadro i palestinesi si devono inserire altrimenti rimarranno fuori dalla partita.
   A rivolgersi ai palestinesi, o meglio ad Abbas è stato il presidente d'Israele Reuven Rilvin che ha rispedito al mittente il tentativo del leader palestinese di screditare Israele. Abbas nel suo discorso aveva denunciato l'arrivo in massa di russi ed etiopi non ebrei affermando che per questo motivo lui non poteva riconoscere Israele come Stato ebraico. "Nessuno cambierà il carattere ebraico e democratico del nostro Stato", ha detto Rivlin. "Siamo uno Stato democratico per tutti i nostri cittadini ed è uno Stato ebraico per la semplice ragione che il popolo ebraico non ha un altro Stato. È tornato alla sua terra", ha continuato Rivlin. "Sono nato 80 anni fa, quando c'era un quarto di milione di ebrei in questa terra. Oggi sono il presidente di uno Stato con 9 milioni di cittadini e 7 milioni di ebrei, che parlano ebraico e sentono che questo Stato è ebraico - ha detto aggiungendo che - siamo venuti a vivere in pace con chi è nato e vive in questa terra".

(moked, 2 febbraio 2020)


Israele-Palestina: Mahmoud Abbas nell'angolo gioca la carta della minaccia

Il presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha annunciato ieri di aver deciso di interrompere tutte le relazioni con Israele e gli Stati Uniti comprese quelle sulla sicurezza.
  Lo ha fatto durante la riunione di emergenza dei Ministri degli esteri della Lega Araba che si è tenuta al Cairo, in Egitto, convocata per discutere il piano di pace americano.
  «Abbiamo informato israeliani e americani di questa decisione attraverso due lettere» ha detto Abbas durante la riunione.
  Secondo il Presidente della Autorità Palestinese, Israele e Stati Uniti avrebbero violato gli accordi internazionali su cui si basava la collaborazione tra lo Stato Ebraico e la stessa Autorità Palestinese con un chiaro riferimento agli accordi di Oslo.
  La cosa appare patetica detta da un dittatorino che per anni su quegli accordi ci ha sputato sopra, da un leader senza alcuna legittimazione che ha ininterrottamente fomentato odio verso Israele e ha pagato con ricchi vitalizi le famiglie dei terroristi che hanno ucciso civili israeliani come se fosse un premio.
  E si arriva persino a sfiorare il ridicolo quando Abbas (alias Abu Mazen) afferma che i palestinesi avrebbero «cercato di diffondere la cultura della pace» e che «il mondo non permetterà questa ingiustizia».
  Abbas fa affidamento, come sempre, sulla memoria corta dell'occidente e spera nell'appoggio dei Paesi arabi, delle potenze islamiche non arabe (Iran e Turchia) e dell'Unione Europea sventolando la stessa retorica che gli ha permesso per decenni di fomentare odio verso Israele e allo stesso tempo di beneficiare di tutte le opportunità che gli accordi con lo Stato Ebraico gli garantivano.
  Solo che questa volta potrebbe non funzionare. I Paesi arabi non lo seguono più e nemmeno le masse.
  Gli rimane l'appoggio della Fratellanza Musulmana guidata dalla Turchia e dell'Iran, un appoggio più configurato a nuocere a Israele piuttosto che a sostenere la causa palestinese.
  Chiudere i rapporti con Israele, specie quelli sulla sicurezza, vorrebbe dire poi consegnare i territori palestinesi nelle mani di Hamas oltre che infilarsi in un imbuto che potrebbe mettere in ginocchio la già fragile economia palestinese, non solo perché decine di migliaia di palestinesi lavorano in Israele ma perché le poche aziende palestinesi dipendono dallo Stato Ebraico sia per vendere ed esportare i loro beni che per le infrastrutture (luce, acqua, telefonia ecc. ecc.).
  E se per puro caso dovesse confidare in una sconfitta di Netanyahu alle prossime elezioni si troverebbe a fare i conti con Benny Gantz, che chissà per quale motivo viene considerato "una colomba" quando invece su certe posizioni è addirittura più intransigente del Premier israeliano.
  È una mossa disperata quella di Mahmoud Abbas, una mossa che potrebbe facilmente ritorcersi contro se stesso.
  Tenta ancora una volta l'arma del ricatto e della minaccia quando non è nelle condizioni di poterlo fare, anche considerando l'incondizionato appoggio dell'Unione Europea (come sempre) e di un paio di potenze islamiche che però lavorano contro Israele e non a favore delle istanze palestinesi.
  Ancora Abu Mazen non ha capito che è finito il tempo in cui gli bastava aprire la bocca per ottenere tutto quello che voleva. È un grave errore di valutazione che potrebbe avere conseguenze devastanti per la sua gente. Ma in fondo se gli fosse interessato veramente il bene della sua gente non si sarebbe arrivati a questo punto.

(Rights Reporters, 2 febbraio 2020)


Netanyahu atteso domani in Uganda

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si recherà domani, 3 febbraio, in Uganda per una visita di un giorno. Lo ha reso noto oggi l'ufficio dell'esecutivo di Gerusalemme. Si tratta della seconda visita negli ultimi quattro anni di Netanyahu in Uganda. Secondo i media locali, Netanyahu potrebbe annunciare l'apertura dell'ambasciata dell'Uganda a Gerusalemme. L'ufficio del primo ministro, tuttavia, ha rifiutato di commentare il motivo del viaggio. Il portavoce del governo ugandese, Ofwono Opondo, ha dichiarato ai media locali che la visita di Netanyahu, accompagnato da una delegazione di 45 persone, giunge su richiesta di Kampala. Se l'Uganda aprisse un'ambasciata a Gerusalemme, sarebbe il paese terzo a farlo, dopo Stati Uniti e Guatemala. Tuttavia, il segretario permanente dell'Uganda presso il ministero degli Esteri, Patrick Mugova, ha dichiarato ai media locali che i piani del paese per aprire un'ambasciata a Gerusalemme sono falsi. Kampala non ha una missione in Israele, mentre Israele ha un ufficio di rilascio dei visti nella capitale ugandese.

(Agenzia Nova, 2 febbraio 2020)


Il preside sospende la prof anti Segre Nardella. Incontro studenti-senatrice

La decisione della Mazzanti. E i docenti scrivono una lettera aperta contro la collega: indignati.

di Jacopo Storni

Frasi choc su Liliana Segre, il preside della scuola Mazzanti ha sospeso l'insegnante che, di fronte agli alunni di seconda media, avrebbe sostenuto che la senatrice testimone della Shoah «cerca solo pubblicità».
   «Ho sospeso la docente in via cautelare provvisoria - ha detto il preside Arnolfo Gengaroli - Da lunedì non sarà a scuola, dopo le sue parole credo che la sospensione sia la decisione più saggia, sia per lei e che per la scuola, affinché le lezioni possano svolgersi in un clima sereno».
   Ma la vicenda è uscita dai confini scolasti. Ieri anche il sindaco Dario Nardella è intervenuto con toni decisi: «Mi vergogno che questo episodio sia accaduto a Firenze, città medaglia d'oro alla resistenza e legatissima a Liliana Segre». Un fatto che il primo cittadino ha giudicato «gravissimo», motivo per cui la prossima settimana si recherà personalmente alla scuola di Coverciano «per incontrare i docenti e gli alunni». Non solo: «Inviteremo tutta la scuola in Palazzo Vecchio nel giorno in cui assegneremo la cittadinanza onoraria a Liliana Segre». E tornando nel merito delle presunte frasi pronunciate dall'insegnante, ha concluso: «Se queste parole così gravi venissero confermate, allora dobbiamo seriamente preoccuparci sullo stato di alcune delle nostre scuole e dobbiamo lavorare per aiutare la scuola ad essere un luogo di formazione civica, ha fatto bene il viceministro Anna Ascani ad annunciare seri provvedimenti».
   Nel frattempo, sono arrivate anche le reazioni degli altri 79 docenti dell'istituto comprensivo di Coverciano (di cui fa parte la media Mazzanti), che prendono le distanze dalle frasi della collega contro Liliana Segre. E lo fanno proprio in una lettera inviata, oltre che al proprio dirigente scolastico, alla stessa Segre: «I sottoscritti docenti dell'Istituto Comprensivo Coverciano - è scritto nella lettera - esprimono la loro totale ed estremamente indignata distanza dalle parole espresse da un'insegnante della scuola Mazzanti con le quali ha definito la senatrice Liliana Segre persona troppo mediatica. Si dissociano da tutto quanto avvenuto. Esprimono tutto il loro affetto e solidarietà alla senatrice».
   Inoltre, i docenti nella lettera «sottolineano le tante azioni e progettualità relative all'educazione democratica, ai valori civici e della Costituzione che vengono da sempre promosse nei nostri percorsi di studio e che fanno parte integrante della nostra offerta formativa». E ancora: «I sottoscritti si ritengono offesi e non ammettono alcuna giustificazione di quanto detto dalla collega». E infine, «sollecitano la dirigenza perché vengano prese tutte le misure possibili per sanzionare questo tipo di intervento».
   Dopo la decisione della sospensione da parte del preside, spetterà adesso all'Ufficio scolastico provinciale confermare o meno tale scelta. «Stiamo aspettando - ha detto Roberto Curtolo dell'Ufficio scolastico provinciale - una relazione ufficiale dell'accaduto da parte del preside, dopodiché valuteremo di conseguenza i provvedimenti disciplinari da intraprendere».
   Provvedimenti disciplinari che dovranno arrivare entro tre giorni dall'avvenuta ricezione del documento da parte del dirigente scolastico.

(Corriere Fiorentino, 2 febbraio 2020)


L’insegnante ha commesso senza dubbio una grave infrazione deontologica dando giudizi negativi su una precisa persona davanti agli allievi, ma la pesantezza della reazione e la risonanza che l’accompagna sono preoccupanti, per la società in generale e per la comunità ebraica in particolare. Non giova a quest’ultima la sovraesposizione mediatica a cui viene indotta a sottoporsi la senatrice Liliana Segre. M.C.


I supereroi sono stati creati dagli ebrei

Due generi fumettistici, apparentemente opposti, sono stati creati da autori ebrei americani: i supereroi e le graphic novel.
Lo vogliamo ricordare a pochi giorni dal 27 gennaio, la Giornata della memoria che commemora le vittime dell'Olocausto, la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico avvenuto durante la Seconda guerra mondiale a opera dei nazisti. Un evento terrificante avvenuto dopo i secoli di persecuzioni che le genti di religione ebraica hanno subito nel corso dei secoli.
Una straordinaria mostra itinerante realizzata dal Museo dell'arte e della storia dell'ebraismo di Parigi è ora al Museo ebraico di Bruxelles: "I supereroi non muoiono mai, fumetti e memorie ebraiche". La mostra ripercorre in cinque sezioni cronologiche lo sviluppo dei fumetti americani come prodotto della cultura ebraica e di una storia di persecuzioni, esodi e migrazioni forzate....

(GIORNALE POP, 2 febbraio 2020)


Doro Levi, archeologo ebreo, salvò la collana di Olbia dalle grinfie dei nazisti

 
Hermann Göring, grande collezionista di opere d'arte, in visita in Sardegna, mise gli occhi sulla collana di Olbia, appena rinvenuta negli scavi di Funtana Noa, ma il soprintendente Doro Levi si oppose decisamente.
Nel 1937, la Soprintendenza alle Antichità della Sardegna, intraprese una campagna di scavi nella zona di Fontana a Noa a Olbia. Ad occuparsi degli scavi Doro Levi, archeologo ebreo triestino, di fama internazionale. Durante gli scavi vennero scoperte molte sepolture del tipo a pozzo con camera scavata nella roccia, simili a quelle della necropoli cagliaritana di Tuvixeddu. La tomba 24, datata tra il IV e il III secolo a.C. custodiva il corpo di una donna, visto il corredo che l'accompagnava, la defunta apparteneva a una famiglia importante. La donna era stata sepolta con un corredo composto da alcune brocche, da una moneta punica e da uno specchio in bronzo posato sopra il petto, con il manico decorato con volute e un volto femminile, un oggetto molto pregiato, forse proveniente dalla Magna Grecia.
   Al collo della defunta si trovava la collana in pasta vitrea, composta da una testina femminile con riccioli, 4 testine maschili molto colorate con barba e orecchini, una testa di agnello e un piccolo gallo. Oltre ai ciondoli nella collana erano presenti vari cilindretti e sferette decorati con spirali, onde e grossi "occhi" colorati. La collana aveva una funzione apotropaica, cioè doveva difendere l'anima della defunta dagli spiriti maligni. Subito dopo il ritrovamento giunse in visita in Sardegna, Hermann Göring, il vice di Hitler. L'uomo grande collezionista d'arte voleva aggiungere la bellissima collana punica alla sua vastissima collezione, ma l'archeologo Doro Levi, all'epoca insegnante di Archeologia e Storia dell'arte greca e romana all'Università di Cagliari e Soprintendente, si oppose con tutte le sue forze e riuscì a salvare il prezioso reperto.
   L'anno successivo a Levi fu tolto l'incarico a causa delle leggi razziali, e l'archeologo si rifugiò negli Stati Uniti per sfuggire alla deportazione. A Doro Levi la Sardegna deve tanto, nei soli tre anni di permanenza nell'Isola, non solo si occupò dell'Anfiteatro romano di Cagliari, degli scavi preistorici della necropoli di Anghelu Ruju e quelli dell'insediamento nuragico di Serra Orrios, ma più in generale si batté per la tutela e la conservazione del patrimonio archeologico della Sardegna.

(Vistanet, 2 febbraio 2020)



Il corpo della nostra umiliazione

Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.

Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Filippesi, cap. 3

--> Predicazione
 Il corpo della nostra umiliazione
Marcello Cicchese
Giugno 2016

 


No al piano Usa, duri scontri sulla spianata delle moschee

Venerdì della collera nei territori: i palestinesi manifestano e si contano almeno cinquanta feriti

I palestinesi contro il Piano Trump. Nel primo venerdì di preghiere, dopo lo svelamento dell'Accordo "del secolo", in molte località della Cisgiordania e a Gaza, come annunciato nei giorni scorsi, si sono svolte le manifestazioni della "Giornata della collera" previste dall'Autorità nazionale palestinese (Anp) e da Hamas. Secondo i dati della Mezzaluna Rossa, si contano almeno 48 feriti, tra contusi e intossicati dai lacrimogeni, negli scontri con l'esercito israeliano segnalati a Ramallah, Hebron, Jenin, Kalkilya e a Gerico. Qui la Radio militare israeliana ha riferito di un soldato ferito al volto da una sassata. A Gerusalemme, gli scontri sono cominciati dopo le preghiere del mattino sulla Spianata delle Moschee; La polizia israeliana, dispiegata in grandi forze già da giorni, è entrata sul posto per riportare l'ordine al termine delle preghìere che, come nelle settimane passate, si sono poi trasformate in una manifestazione politica «nazionalistica». Secondo l'agenzia Maan, ci sono stati 10 feriti e la polizia ha compiuto 3 arresti. Sempre secondo la Mezzaluna Rossa, a Gaza invece i feriti sono stati 14, «di cui 10 colpiti da pallottole vere».
   In questa atmosfera, dalla Striscia sono stati sparati 3 colpi di mortaio verso Israele, uno di questi è stato intercettato in cielo, mentre gli altri 2 sono caduti in zone aperte senza provocare danni. L'esercito ha risposto centrando una postazione militare di Hamas. E' il secondo giorno consecutivo, oltre ai precedenti, che da Gaza sono lanciati razzi o proiettili di mortaio verso le zone israeliane a ridosso della Striscia: nell'attacco di ieri una donna israeliana che correva verso un riparo è caduta e la neonata che aveva con sé è rimasta ferita in modo grave. Se sul campo la situazione è di scontro, anche se appare meno grave di ciò che si temeva, sul piano politico l'opposizione palestinese continua a farsi sentire pesantemente. L'ambasciatore Usa, David Friedman, ha dovuto ricordare che il Piano, a questo proposito, prevede prima l'istituzione di un Comitato congiunto che studi le mappe.

(Il Messaggero, 1 febbraio 2020)


Russia, Putin libera la cittadina israeliana: torna a casa con Netanyahu

Benyamin Netanyahu ha incontrato all'aeroporto Vnukovo di Mosca Naama Issachar, la cittadina israeliana scarcerata in Russia dopo che Putin le ha concesso la grazia. Presenti all'incontro anche la moglie del premier israeliano, e la madre della giovane. La 26enne era stata arrestata lo scorso aprile all'aeroporto Sheremetyevo di Mosca dove si trovava per uno scalo durante un viaggio dall'India a Israele. Secondo quanto dichiarato dalle autorità russe Naama Issachar è stata scoperta in possesso di nove grammi di hashish nel suo bagaglio. Lo scorso ottobre un tribunale l'ha condannata a sette anni e mezzo di reclusione.

(Il Messaggero, 1 febbraio 2020)


"Gli ebrei qui sono benvenuti". Lo striscione contro il negazionismo

La provocazione di Gianfranco Pampaloni in via del Gelsomino: "Basta antisemitismo"

di Laura Montanari

Lo striscione appeso sulla facciata della casa ha una scritta in tedesco: «Juden hier willkommen» («Ebrei qui benvenuti») e la stella di David accanto. Via del Gelsomino a Firenze. Due passi più in là ci sono le pietre d'inciampo per ricordare a tutti che negli anni più bui del Novecento i rastrellamenti lì avevano nomi e cognomi, gente strappata a case e ad affetti e deportati nei campi di concentramento. «Lo striscione l'ho messo io» dice aprendo la porta della sua azienda Gianfranco Pampaloni, 64 anni, argentiere di un marchio storico (fondato nel 1902) conosciuto tante parti del mondo. «Non è per una questione di fede religiosa, io sono ateo. Ma è che ci sono stati episodi preoccupanti, di antisemitismo. E allora volevo che fosse chiaro il mio pensiero, volevo far presente da che parte stavo, dalla parte di chi si trova in una situazione difficile». Pampaloni ha aperto da sei anni proprio lì in via del Gelsomino un ristorante all'interno della fabbrica d'argenti - si chiama appunto In Fabbrica - , prima cucina giapponese e "comunista" («nel senso che decidevamo noi cosa servire» scherza Pampaloni), ora è diventato un ristorante di cucina kosher. Perché questa scelta? «Dipende da mia madre: era il 1946, era in vacanza a Bocca di Magra quando vide un gruppo di ragazzi sopravvissuti al campo di Auschwitz che stavano per imbarcarsi con destinazione Haifa in Israele. Rimase molto colpita e ce ne parlò spesso senza mai scendere nei particolari, da li ci siamo appassionati alla storia di Israele... Oggi i miei due figli studiano a Tel Aviv ... ».
   Torniamo a quello striscione che lei ha voluto appendere sulla facciata della fabbrica di argenti: «La mia è una provocazione. lo non penso che il pericolo di oggi siano le scritte sui muri o qualche cretino che segna la casa di qualcuno con il "qui abita un ebreo", quello che mi preoccupa di più è il revisionismo storico. È quando un'indagine di Eurispes ci dice che per il 15 per cento degli italiani intervistati, la Shoah non è mai esistita. Leggo queste cose e penso che sia il fallimento del nostro sistema di istruzione. Mai come in questo momento storico siamo andati tutti a scuola, eppure non studiamo abbastanza, non conosciamo abbastanza la Storia».
   A poca distanza dalla fabbrica di argenti ci sono le pietre d'inciampo messe dal Comune di Firenze in collaborazione con la Comunità ebraica: «Penso sia una bellissima iniziativa - riprende Pampaloni - dimostrano come le persone non venissero prelevate durante le manifestazioni o nei disordini o nei cortei. Non c'era niente di tutto questo: i nazifascisti andavano a prendere la gente dalle case, dalle famiglie, le strappavano alla loro quotidianità per deportarle nei campi di concentramento e molte da lì non sono mai più tornati».
   Pampaloni ha appeso lo striscione la sera prima: «Nessuno mi ha chiesto niente, soltanto un passante si è fermato e ho sentito che diceva che c'era una scritta "in nazista", forse ha visto che era in tedesco, forse ha letto che si parlava di ebrei e non ha pensato che il messaggio fosse proprio l'opposto ... », E cioè, lì sono benvenuti gli ebrei.

(la Repubblica, 1 febbraio 2020)


Il piano di Trump chiede ai leader palestinesi la scelta della realpolitik con Israele

Il Direttore di La Stampa risponde a un lettore

Caro Direttore,
Trump ha presentato un piano di pace che sembra scritto per andare incontro a tutte le richieste di Israele senza accogliere alcuna posizione palestinese. Non a caso Trump per annunciarlo ha invitato alla Casa Bianca il leader israeliano Netanyahu mentre il palestinese Abu Mazen era assente. Mi chiedo come possa aver successo una simile iniziativa e perché mai gli Stati Uniti abbiano adottato una posizione talmente unilaterale. E' davvero questa la strada alla pace in Medio Oriente, non rischia invece di innescare nuovi conflitti?

Augusto Re, Roma



Caro Re,
dagli accordi israelo-palestinesi di Oslo del 1993 ogni presidente degli Stati Uniti ha avuto un differente approccio al negoziato il Medio Oriente. Bill Clinton tentò di trasformarli in pace definitiva puntando sulla formula «pace in cambio di territori» ma si scontrò a Camp David nel 2000 con il rifiuto di Yasser Arafat di riconoscere al premier israeliano Ehud Barak, anche solo sul piano storico, il legame fra gli ebrei e il Monte del Tempio a Gerusalemme. George W. Bush, con la Conferenza di Annapolis del 2007, rinnovò l'approccio ma questa volta a rifiutare lo scambio offerto dall'israeliano Ehud Olmert - che avrebbe consegnato ai palestinesi Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est con condizioni migliori di quelle di Barak - fu Abu Mazen, successore di Arafat, contrario a porre la propria firma sulla completa fine del conflitto «contro il nemico sionista». Barack Obama era invece convinto che per far accettare la pace definitiva ai palestinesi l'America dovesse prima indebolire la posizione negoziale di Israele - su Gerusalemme, confini e insediamenti - e così fece, con una raffica di derisioni diplomatiche, ma anche in questo caso l'esito fu negativo per l'ostilità di Abu Mazen a rifiutare nel 2013 la richiesta del Segretario di Stato John Kerry di rinunciare al «diritto al ritorno» dentro i confini di Israele di 5,1 milioni di profughi palestinesi. Sono tali precedenti a spiegare perché Trump ha optato per un approccio radicalmente diverso dai predecessori, ovvero ha deciso di porre Abu Mazen di fronte alla necessità di rinunciare ai tabù ideologici del nazionalismo arabo-palestinese, riconoscendo dei dati di fatto: il legame fra popolo ebraico e Gerusalemme esiste da 3000 anni; i luoghi santi di Gerusalemme non sono mai stati così aperti e accessibili a tutti come dall'indomani del 1967 quando gli israeliani ne presero il controllo; i territori di Cisgiordania, Gaza e Golan furono presi da Israele al termine di un conflitto difensivo; la risoluzione 242 dell'Onu non obbliga Israele a tomare ai confini pre-1967; i confini fra Israele e nuovo Stato arabo-palestinese non possono mettere in pericolo la sicurezza dello Stato ebraico.
   Trump è convinto che se la pace ancora non è stata firmata è per la mancanza di realismo da parte dei leader palestinesi - Arafat prima ed Abu Mazen dopo -nel prendere atto della situazione sul terreno. Un rifiuto che si origina nell'idea che «ogni terra appartenuta all'Islam in ultima istanza tornerà sotto il controllo dei musulmani» come affermò perfino Anwar Sadat dopo aver firmato la storica pace Egitto -Israele del 1979. In ultima istanza, il maggior intento del piano di Trump è dunque di liberare il campo da ogni possibile dubbio sul fatto che Israele non sparirà dal Medio Oriente perché ciò che più ha spinto i leader palestinesi a rifiutare gli accordi di pace di Camp David ed Annapolis è stato il timore di assumersi la responsabilità di una pace definitiva, conclusiva, senza appello. Questo spiega perché la scelta di Trump nel sostenere Israele è così netta. E fa comprendere perché i maggiori Paesi arabi sunniti - Arabia Saudita, Emirati ed Egitto - hanno reagito al piano di Trump con il linguaggio della realpolitik chiedendo ad Abu Mazen di «iniziare a negoziare» ovvero di accettare anzitutto la premessa del piano della Casa Bianca: è ora di ammettere che Israele è parte integrante del Medio Oriente.

(La Stampa, 1 febbraio 2020)


Professor Mengele

Non solo un assassino. I grandi scienziati del tempo facevano a gara per lavorare al suo fianco. Una nuova biografia del dottor Morte.

Non era un "bel Sigfrido" e non portava guanti bianchi. "Si vedeva come un uomo di scienza", scrive Maxwell, che gli diede la caccia. "Usò il tempo ad Auschwitz per prepararsi alla carriera accademica. Nessuno prima di lui aveva avuto davanti tanto materiale umano".

di Giulio Meotti

 
Josef Mengele (a sin.) con Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz
Un album di fotografie fu spedito al Museo dell'Olocausto di Washington nel 2007 da un anonimo che lo aveva ritrovato in un appartamento di Francoforte. Erano immagini che, per la prima volta, raffiguravano Auschwitz non solo come un centro di sterminio, ma anche come un luogo dove si viveva. L'album era di Karl Höcker, l'aiutante di Richard Baer, ultimo comandante del campo. Tra le 116 fotografie in bianco e nero scattate nel 1944 ve ne erano un certo numero che raffigurano ufficiali delle SS a Solahütte, un sottocampo di Auschwitz a trenta chilometri da Birkenau e che funzionò da rifugio ameno per il personale addetto allo sterminio. Il dottor Josef Mengele, sorridente e rilassato, compare in otto fotografie.
  Nell'immaginazione popolare, Mengele è arrivato a personificare la Shoah. Tutti gli altri, da Hitler a Himmler passando per Eichmann, vi presero parte da dietro a una scrivania a Berlino. Mengele lo fece sul campo, o meglio, sulla "rampa" di Auschwitz. Nessuno più di lui incarna la frase di George Steiner secondo cui i nazisti crearono l'inferno sulla terra che per secoli i poeti e pittori europei avevano immaginato e raffigurato. Con una rotazione del pollice, il dottore decideva chi sarebbe vissuto, anche se solo brevemente, e chi sarebbe andato alla camera a gas. Il più famoso genetista tedesco Verschuer scrisse: "La tesi del dottor Mengele è un'opera accademica originale" Alla fine della guerra chi lo aveva aiutato al Kaiser Wilhelm (da cui uscirono venti Nobel) distrusse ogni traccia della ricerca di Mengele. Ci si domanda chi fosse quel medico con una laurea in medicina e una in antropologia, un uomo di grande cultura, nato in una famiglia cattolica, entrato molto tardi nelle SS, che prese parte alla selezione di centinaia di migliaia di esseri umani e che, quando nel 1944 scoppiò il tifo nel "campo ceco" di Auschwitz, mandò alla morte col gas tutti i detenuti, risolvendo così il problema.
  David Marwell, ex direttore del Museo del patrimonio ebraico di New York, è dal 1985 che pensa a Mengele, da quando lavorava all'ufficio che si occupava dei criminali nazisti al Dipartimento di stato e che gli diede la caccia fino in Brasile, dove Mengele è morto nel 1979. Adesso, in un libro per W.W. Norton e Company e in uscita questa settimana, "Mengele: Unmasking the Angel of Death", Marwell ci racconta non il mostro mitologico, ma lo scienziato.
  "Ciò che si sa del tempo di Mengele ad Auschwitz è più cliché che verità", scrive Marwell. "La reputazione fuori misura come mostro medico è inversamente proporzionale a ciò che si sa su quello che ha effettivamente fatto". No, Mengele non era un "bel Sigfrido", ma basso e scuro, con un goffo spazio tra i denti anteriori. No, non indossava guanti bianchi e monocolo che Elie Wiesel ricordava. No, non canticchiava Wagner mentre mandava a morte donne e bambini. No, non era un uomo di "insondabile perversitEagrave;. Mengele si considerava un serio uomo di scienza, che scandagliava i misteri dell'eredità per perfezionare il Volk. Auschwitz era il suo laboratorio, gli offriva soggetti infiniti e lo aveva liberato da fastidiose inibizioni etiche. "Dove più di un milione di persone hanno perso la vita, Mengele ha trovato la sua". E' questa la storia terribile raccontata da Marwell. E' la storia di un ricercatore che lavorava al Kaiser Wilhelm Institute per l'Antropologia, il miglior istituto scientifico in Europa all'epoca. Racconta Marwell che l'apprendistato del dottore ebbe inizio a lezione dell'etologo austriaco Karl von Frisch, che verrà insignito del Nobel per la Medicina nel 1973. Allora era il capo dell'Istituto di Zoologia dell'Università di Monaco ed era diventato famoso per il suo studio delle api. "Era qualcosa che non avevo mai provato prima in vita mia, Von Frisch accese la mia `fiamma zoologica', ma in modo così duraturo che ho tenuto questo fuoco per tutta la vita e ne sono stato troppo spesso riscaldato", scriverà Mengele. I suoi insegnanti erano fra i maggiori ricercatori del tempo, da Nikolaus von Jagic, capo della clinica medica dell'Università di Vienna, a Wolfgang Denk, capo della clinica chirurgica della stessa. Mengele studiò anche con Leopold Arzt, capo della clinica di dermatologia e malattie veneree, che venne cacciato dai nazisti nel 1939 per essersi opposto all'Anchluss. Poi a Monaco, dove assieme a Medicina, Mengele sceglie Antropologia sotto la guida del famoso Theodor Mollison, che divenne il suo "Doktorvater", supervisore. Poi l'Università di Francoforte, dove insegnava il mentore del dottore nazista, Otmar von Verschuer, il più famoso genetista del tempo.
  Era la "Oxford tedesca", un paradiso di conoscenza e ricerca. "A settembre 1937, Mengele aveva soddisfatto tutti i requisiti per la sua laurea in Medicina e aveva ricevuto la sua nomina come medico. Mengele ha iniziato il suo secondo dottorato, non ne aveva bisogno per esercitare, ma era necessario per una carriera accademica...". Mengele ambiva alla docenza universitaria. Per la sua tesi sull'ereditarietà delle malformazioni al labbro, Mengele identificò 110 bambini che erano stati curati per una palatoschisi dal dipartimento chirurgico della clinica universitaria di Francoforte tra il 1925 e il 1935. Da questi ha ridotto il numero a diciassette, selezionando quelli che vivevano a Francoforte e che avevano sia il labbro leporino sia la palatoschisi. Parlando con i genitori di questi bambini, Mengele ricostruì la genealogia delle diciassette famiglie. E presentò e difese la sua tesi nell'estate del 1938. Nella sua valutazione ufficiale, Verschuer scrisse: "La tesi del dottor Mengele è un'opera accademica originale, eseguita in modo indipendente, che ha richiesto non solo grande tenacia per superare tutti gli ostacoli ma anche acute capacità di osservazione e cura nell'esecuzione degli esami". Il lavoro di Mengele sarebbe stato pubblicato un anno dopo in un rispettato giornale, Zeitschrift für Menschliche Vererbungs und Konstitutionslehre (la rivista degli studi sull'ereditarietà umana) e avrebbe ricevuto la dovuta attenzione nel Handbuch der Erbbiologie des Menschen (Manuale di biologia genetica umana), che lo ha descritto come "un progresso nello studio della patologia genetica del labbro leporino".
  Una fotografia degli scienziati riuniti all'università rivela un giovane Mengele in posa sui gradini con i giganti della scienza: Eugen Fischer, Otmar von Verschuer, Alfred Ploetz e Theodor Mollison. Era nato un promettente scienziato. Verschuer scrisse la sua lettera di raccomandazione: "Dopo la mia esperienza degli ultimi due anni, sono diventato convinto che il dottor Mengele sia adatto per una carriera accademica". La guerra e la Shoah ne complicano il percorso. Mengele è assegnato ad Auschwitz. "Se fosse stato possibile osservarlo nella sua mente, immagino che rivelerebbe un'enorme soddisfazione nel percorso intrapreso dalla sua vita" scrive Marwell. "In giovane età - a soli trentatré anni - Mengele si trovò sulla cuspide del grande successo. Il suo studio, la preparazione e il duro lavoro lo avevano portato in un posto senza precedenti nella ricerca della scienza che era la sua passione consumante. Nessuno nella storia aveva avuto accesso alla materia prima che gli stava di fronte o era stato così liberato dalle restrizioni che domavano l'ambizione e limitavano il progresso scientifico". Ad Auschwitz Mengele andò di propria iniziativa o su invito di Verschuer? Il figlio di Mengele, Rolf, a un intervistatore nel 1985 disse che sua madre gli aveva detto che Verschuer aveva "motivato" Mengele ad andare ad Auschwitz e che gli aveva chiesto di farlo. Hans Sedlmeier, dirigente della società Mengele di Günzburg e amico di famiglia, ha riferito ai pubblici ministeri tedeschi nel 1984 che Mengele aveva affermato che Verschuer contribuì a organizzarne il trasferimento. "Mengele stava progettando di usare la sua ricerca di Auschwitz come base per la sua Habilitationschrift, la tesi post-dottorato, che era un prerequisito per una carriera accademica" scrive Marwell. Ad Auschwitz, Mengele avrebbe costruito un vero e proprio centro di ricerca, arruolando anche fra i prigionieri scienziati, come il pediatra di fama mondiale Berthold Epstein. Mengele continuò la sua ricerca sul labbro leporino e la nascita dei gemelli. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nel giugno del 1939, Otmar von Verschuer aveva tenuto una conferenza alla Royal Society di Londra, intitolata "Ricerca sui gemelli dal tempo di Galton ai giorni nostri". Il mentore di Mengele era molto interessato a quanto avveniva ad Auschwitz. Indubbio è che von Verschuer, autorità mondiale sui gemelli, ricevette da Mengele moltissimi "preparati umani", dagli occhi ai campioni di sangue di persone di diversa origine razziale.
  Hans Münch, medico nel campo, ha ricordato che "Mengele affermò che non utilizzare le possibilità offerte da Auschwitz sarebbe `un peccato' e `un crimine irresponsabile nei confronti della scienza". Secondo Horst Fischer, un altro medico di Auschwitz, Mengele parlava spesso "con entusiasmo" del suo lavoro scientifico e del "materiale" che aveva davanti, descrivendo "un'opportunità unica che non sarebbe mai stata più offerta". Un altro antropologo detenuto ad Auschwitz e che Mengele reclutò nel suo laboratorio, Erzsebet Fleischmann, dirà che il lavoro di Mengele, seppur moralmente aberrante, era "scientificamente legittimo". Lo storico Massin scrive: "A volte Mengele è rappresentato come l'incarnazione del medico pseudoscientifico delle SS, che, in completo isolamento, esegue i suoi esperimenti astrusi. In effetti, Mengele era strettamente legato alla comunità scientifica".
  Il dottore per tutto il tempo ad Auschwitz mantenne un legame molto stretto con i suoi superiori accademici. "La prima cosa che ogni coppia di gemelli ad Auschwitz ha dovuto fare è compilare un questionario dettagliato dell'Istituto Kaiser Wilhelm", ha ricordato il detenuto Zvi Spiegel. Alla fine del 1943, Mengele, fu invitato privatamente dai Verschuer per una cena. "Che succede ad Auschwitz?", chiese la moglie del professore. "Non posso parlarne, è orribile", rispose Mengele. Quando i sovietici si avvicinarono a Berlino nella primavera del 1945, il professor Verschuer diede l'ordine di distruggere tutti i "file segreti". Non rimase nulla della ricerca svolta da Mengele ad Auschwitz. Più tardi, quando Verschuer assunse la cattedra di Genetica umana a Münster nella neonata Repubblica Federale tedesca, non riuscì a ricordare nulla. "Auschwitz? Non so". Sospetti sarebbero stati sollevati anche sui legami di Mengele con Adolf Butenandt (1903-95), uno dei pionieri della ricerca genetica europea, premio Nobel e uno degli studiosi più influenti del suo tempo.
  La trasformazione di Mengele in un "angelo della morte" aveva la funzione di sollievo. La vera scienza doveva essere rimasta pura, soltanto dei pazzi sadici e criminali si compromisero col nazismo. Ma dal Kaiser Wilhelm in quegli anni non usci soltanto il medico di Auschwitz, ma anche venti Premi Nobel. Fu un ricercatore di grande talento e fu aiutato dai migliori scienziati del tempo. Ma per attenuare l'orrore di tanto "progresso" abbiamo dovuto trasformare il dottor Mengele in un dottor Mabuse.

(Il Foglio, 1 febbraio 2020)


«Cari ragazzi, vi racconto i lager». Ma il finto ebreo si inventava tutto

Da 15 anni girava per le scuole venete testimoniando la sua esperienza nei campi di concentramento nazisti. Uno storico lo ha smascherato: l'ingegnere di origine calabrese Gaetano Artale non è mai stato ad Auschwitz.

Domenica prossima era in cartello un suo incontro nel Veneziano. Ha pubblicato un libro intitolato «Alla vita», ricco di errori storici.

di Gabriele Gambini

A Pinocchio, quando raccontava- una panzana, si allungava il naso. All'ingegner Samuel Gaetano Artale von Belskoj-Levi, padovano, uno studio professionale ben avviato e una discreta popolarità in tutto il Veneto, si allungava il carniere di applausi ricevuti, inviti e incontri pubblici presso associazioni, scuole, Comuni. Solo che la menzogna raccontata da Artale non era poi così fanciullesca: pare che l'ottantatreenne abbia costruito la sua notorietà sulla descrizione minuziosa dei suoi trascorsi nel lager di Auschwitz da bambino prigioniero. Pubblicando un libro autobiografico e riscuotendo il plauso persino della senatrice Liliana Segre, che ha mandato un personale messaggio di saluto durante un evento in cui presenziava Artale.
   Ma la perplessità di alcuni tra i più elevati rappresentanti delle comunità ebraiche italiane, insospettiti da svariate incongruenze narrative e fino a oggi esitanti nel contraddirlo per non alimentare il fuoco del negazionismo, alla fine è saltata fuori. Soprattutto perché Artale, domenica prossima, è di nuovo in cartello per un incontro pubblico a Meolo, provincia di Venezia, chiamato a esporre quella che ormai pare sia l'infausta commemorazione di una personale mitomania.
   Lo spiega nel dettaglio il quotidiano Il Gazzettino, che ha ricostruito per intero la vicenda partendo dal luogo di nascita del soggetto. Artale sostiene di essere nato da famiglia ebreo-prussiana a Rostock, in Germania. Un veneziano appassionato di storia ebraica ha recapitato nella casella della posta del giornale un fascicolo per denunciare la prima mistificazione. Dalla visura camerale della Camera di Commercio di Padova emerge una storia del tutto differente: il finto deportato sarebbe nato a Laino Borgo, Calabria, provincia di Cosenza, il 22 marzo 1937. La verifica avrebbe fornito materiale per ulteriori .considerazioni, riassunte nella dichiarazione di Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano: «La storia che per anni ha raccontato Artale non è mai stata vissuta. Negli archivi di Rostock non c'è traccia della sua famiglia e gli ebrei di quella città sono stati tutti deportati due anni prima di quel che racconta. Nei Sonderkommando ad Auschwitz non hanno mai lavorato bambini, come lui sostiene. E lui stesso non è un ebreo tedesco, bensì un anziano signore che risulta nativo di Cosenza. Il libro che ha pubblicato lo scorso anno, intitolato Alla vita, è ricco di errori storici. Purtroppo in questi giorni l'amministrazione comunale di Cessalto, ultima di una lunga serie, ha deciso di offrire a 300 studenti la testimonianza di questo signore in occasione del Giorno della Memoria. Fatto più grave, ha chiesto e ottenuto dalla inconsapevole senatrice Liliana Segre un messaggio di saluto per la manifestazione, associando cosi la testimonianza vera a quella fasulla».
   Non è vero che le bugie hanno le gambe corte. Chi le sa raccontare bene finisce per autoconvincersi di essere nel vero, e finisce magari per convincere persino un uditorio qualificato. «Nel dopoguerra sono state raccolte migliaia di testimonianze di sopravvissuti allo sterminio. Ci sono stati alcuni casi noti di personaggi che, per motivazioni legate a dinamiche psicologiche insondabili, hanno offerto testimonianze. rivelatesi false. La testimonianza del signor Artale, da quindici anni invitato da istituzioni e amministrazioni pubbliche, rientra in questa categoria», prosegue Luzzatto.
   Quindici anni piuttosto redditizi in termini di notorietà. Pare siano state a parecchie decine, i comuni del Veneto che lo hanno invitato a conferenze sull'Olocausto. Fino a quando, nel 2016, un organizzatore veneziano di un incontro sul tema dello sterminio ebraico ha avanzato i primi sospetti sull'onda di alcune contraddizioni poco difendibili. Nel 2018, allo stesso organizzatore è stata recapitata una missiva da mittente anonimo - qualche caparbio ficcanaso che si prende la briga di controllare anche per puro spirito di contraddizione c'è sempre - con una ricostruzione dettagliata della vita di Artale. Dalla fotografia della sua casa di nascita, nella Calabria profonda, ad alcuni cenni biografici che riferiscono di un suo trasferimento per ragioni professionali in Nigeria nella metà degli anni Settanta, fino all'arrivo a Padova. Non scordando un certificato di matrimonio sul quale campeggia il timbro di una parrocchia calabrese.
   Il Gazzettino ha proseguito le verifiche, rivolgendosi all'International Tracing Service di Bad Arolsen, in Germania, spulciando le schede dei deportati nei campi nazisti. Curioso a dirsi, tra i nomi e cognomi elencati, quello di Samuel Gaetano Artale von Belskoj-Levl non figura. Vien quasi da rievocare una battuta di quella vecchia edonista chiamata Reagan: «Trust, but verify». Significa: «Fidati. Ma verifica».

(La Verità, 1 febbraio 2020)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.