Notizie 1-15 febbraio 2023
Israele: alle radici del cambiamento. La svolta politica, i nuovi scenari
L'ascesa del nuovo nazionalismo religioso, dopo uno stallo politico durato tre anni. Folle oceaniche sul Monte Meron. La passeggiata di Ben Gvir sulla Spianata e cinquantamila ebrei saliti sul Monte del Tempio nel 2022. Infine, un milione di israeliani affluiti al Kotel a ottobre, per Sukkot. Cifre record, mai viste. Frutto di una spinta redentiva e messianica come risposta a un'instabilità sociale sempre più acuta. Questo il terreno in cui affonda le radici il nuovo governo. Ma di che cosa parliamo quando diciamo "nuovo nazionalismo religioso"? Per capire, ascoltiamo le parole dei suoi stessi leader.
di Aldo Baquis
GERUSALEMME - Uno spirito nuovo aleggia in Israele negli ultimi anni, e di sicuro negli ultimi mesi. «Nei dieci giorni compresi fra il Capodanno e il digiuno del Kìppur, un milione di fedeli sono affluiti al Muro del Pianto. Venivano da tutto il Paese. C'era chi proveniva da Kiryat Shmona, chi da Eilat. Hanno fatto anche quattro ore di viaggio in ciascuna direzione, pur di essere presenti alle cerimonie». In un colloquio dello scorso dicembre il rabbino del Muro del Pianto Shmuel Rabinovic era ancora pieno di meraviglia davanti a questa folla. «Una cifra da record. La stessa moltitudine si è ripresentata anche per Sukkot, ad ottobre». Il Muro del Pianto sembra peraltro avere una attrazione peculiare, sugli israeliani come sui turisti. «Nel 2003 i visitatori furono 3 milioni, che sono saliti a 12 milioni nel 2019, prima del Covid». Quest'anno si è tornati a questo livello. Dalla finestra dell'elegante ufficio di Shmuel Rabinovic si ammira la Spianata antistante il Muro del Pianto. Volendo, si può quasi "toccare con mano" il Monte del Tempio, Har ha-Bait. Ossia anche la Spianata delle Moschee. Essendo ortodosso, il rabbino Rabinovic, che si trova a 200 metri di distanza, dice di non averci mai messo piede in vita sua. «Noi non possiamo entrarci, perché siamo impuri. Solo col Messia potremo purificarci», spiega, adducendo la posizione ufficiale e tradizionale del rabbinato israeliano. Circa la visita sulla Spianata del Ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir (leader del partito di estrema destra Otzmà Yehudit, ossia Potenza ebraica), il rabbino Rabinovic si era detto contrario per principio. «Dal punto di vista della Halachà, io la trovo molto negativa. La visita di Ben Gvir non cambierà comunque lo status quo», aveva precisato. In ogni caso, aveva anche osservato, rispetto ai milioni di fedeli che tuttora pregano al Muro del Pianto, quelli che "salgono sul Monte" sono - a suo modo di vedere - una percentuale molto ristretta. Ma secondo Makor Rishon, il giornale del sionismo religioso, "dopo decenni di letargo, il pubblico ebraico si risveglia" Nel mese di ottobre, precisa, durante le feste solenni ebraiche, sono saliti sul Monte 7.384 ebrei religiosi. E nel corso dell'intero 2022 è stato raggiunto un record assoluto: 48.230 ebrei religiosi (su un totale di 300 mila visitatori che includono anche turisti ed escursionisti israeliani), contro i 14 mila del 2016. Più che triplicati. La tendenza è chiara, e le previsioni - secondo il giornale - lo sono altrettanto: "Il cambiamento è in corso di fronte ai nostri occhi meravigliati. Deriva dalla spinta interiore possente delle persone semplici che vi ascendono, nonostante le difficoltà frapposte dalle autorità. Altrimenti salirebbero sul Monte in centinaia di migliaia ogni anno, se non milioni", scrive Makor Rishon. «Per molti anni siamo saliti sul Monte in tre o quattro la settimana. Le ispezioni erano molto severe. Ci controllavano anche nelle tasche, perfino in bocca. Se in un anno salivamo in cento, era un miracolo», ha ricordato al settimanale nazional-religioso Be-Sheva il rabbino Yehuda Kreuser. Si tratta del rabbino che ha diretto il collegio HaReayon ha-Yehudi (Il concetto ebraico) fondato dal rabbino oltranzista Meir Kahane, e che per decenni ha guidato spiritualmente Itamar Ben Gvir. «Oggi, ogni giorno, salgono in 200, recitano regolarmente Mincha e tengono lezioni di Torah». La visita a sorpresa di Ben Gvir sul Monte del Tempio a gennaio, appena pochi giorni dopo la presentazione del governo, ha destato scalpore internazionale e forte preoccupazione da parte palestinese e di diversi Stati arabi, fra cui Giordania, Egitto, Emirati e Bahrein. Netanyahu ha assicurato che lo status quo non cambierà. Ma secondo il rabbino Kreuzer il concetto che deve ispirare Israele circa il Monte del Tempio è che la arrendevolezza è controproducente. «Quando noi diamo prova di forza - ha affermato - tutto poi si calma». E in prospettiva occorrerà, a suo parere, celebrare sacrifici pasquali sul Monte del Tempio. «In passato, per questa mia tesi, sono stato interrogato dalla polizia». Ma adesso che Ben Gvir è ministro e il figlio deputato alla Knesset, il rabbino Kreuzer spera che le cose cambieranno. «Dal punto di vista della Halachà - ha concluso - non c'è alcun problema per iniziare i sacrifici già domani». Intanto, gli ebrei ortodossi mostrano di sentirsi sempre più consapevoli di aver conquistato un ruolo centrale nella società israeliana, dopo aver mantenuto per decenni uno status di marginalità. La demografia fa la sua parte: secondo dati diffusi di recente dall'Istituto israeliano per la democrazia (Idi) gli ebrei ortodossi sono oggi 1,28 milioni, il 13,5 per cento degli israeliani. Il loro tasso di crescita è del 4 per cento: il più elevato fra le diverse componenti del Paese. Entro la fine di questo decennio saranno il 16 per cento degli israeliani. Il loro peso specifico è inequivocabile. In occasioni particolari - come nei funerali di grandi rabbini o nei pellegrinaggi annuali sul Monte Meron, in Galilea - il loro fervore religioso si combina a una impressionante capacità logistica che consente, in poche ore, a decine di migliaia di persone, di convergere nello stesso posto, dando vita a vere fiumane umane. Nei loro agglomerati urbani lo Stato laico di Israele si fa da parte. Può accadere (come a Beit Shemesh) di vedere marciapiedi separati per uomini e donne, o anche un divieto di transito alle donne nelle immediate vicinanze di un collegio rabbinico. Nei loro autobus gli uomini siedono davanti, le donne dietro.
Schematizzando molto: meno frequenti fra gli israeliani che orbitano su Tel Aviv, questi assestamenti profondi nella società israeliana riguardano piuttosto quanti fanno riferimento all'area geografica che spazia fra Gerusalemme e la Giudea- Samaria. In collegi rabbinici nazional-religiosi si insegna che la nascita dello Stato d'Israele - con il ritorno degli ebrei a Sion dopo 2000 anni nella Diaspora - rappresenta la realizzazione della profezia di Geremia e che si tratta di un evento storico talmente sconvolgente nella storia del popolo ebraico da poter essere accostato all'Esodo dall'Egitto. Si insegna anche che la Guerra dei Sei giorni - ossia "la liberazione della Giudea-Samaria" - era stata profetizzata da un importante rabbino di Gerusalemme e che essa stessa era espressione di una precisa volontà divina. In quei collegi rabbinici si discute di una "salvazione" (Gheulà) ritenuta già in atto, e di messianesimo. Si afferma che il sionismo laico, avendo esaurito il suo ruolo nella storia dell'ebraismo, è destinato ad uscire di scena e si polemizza anche con il mondo ortodosso, ritenuto troppo passivo. Si vagheggia anche una mahapechà emunit, una rivoluzione nella fede, che sarebbe adesso nell'aria.
Come spiega lo studioso Tomer Persico (autore del libro Un uomo ad immagine di Dio), notevoli evoluzioni sono in corso nello stesso sionismo religioso. In passato il cosiddetto Mizrahi era una forza sionista moderata, più colomba che falco, anche con venature di socialismo. Era una forza "modernizzatrice" aperta al mondo laico e alle novità. Adesso al suo interno si è imposta una corrente più "rigorista" e rigida ( 'Harda'T, ossia con influenze degli haredim ortodossi) che vede con ostilità il liberalismo occidentale in varie forme: il femminismo, l'emancipazione del movimento Lgbt, l'individualismo, il concetto per Israele di uno "Stato di tutti i cittadini" Sarebbe quindi la modernità occidentale quella da ridimensionare. Uno dei personaggi emergenti nel nuovo governo Netanyahu è Amichay Shikly, dello schieramento nazional-religioso. Nelle elezioni precedenti era nel partito di Naftali Bennett, Yemina. Nel frattempo è approdato nel Likud ed è stato nominato Ministro per la Diaspora e per l'Eguaglianza sociale. In un discorso pronunciato nel marzo scorso, su invito di una organizzazione nazionalista, Shikly ha rilevato fra l'altro che, nel corso della Storia, il popolo ebraico ha dovuto misurarsi con imperi diversi. «Così avvenne con l'impero egizio, - ha detto testualmente - con gli Assiri e con i Babilonesi, con i Greci e con i Romani e, trascorso un lungo periodo - anche con l'impero della Germania nazista. Oggi - ha proseguito - ci confrontiamo con un altro impero, ma la lotta è diversa. Il popolo ebraico non ha ancora notato la lotta ingaggiata contro di lui dall'Impero occidentale. Esso non ci manda contro legioni armate e non intende distruggerci fisicamente. Ma quell'impero, mediante una forza morbida, vuole cancellare la nostra identità nazionale, destabilizzare la nostra sovranità politica, espellerci dai lembi della terra patria in Giudea.
(Bollettino della Comunità ebraica di Milano, febbraio 2023)
Tra gli ebrei ultraortodossi
che mi tirano le pietre
se soltanto faccio il nome di Gesù
e gli ebrei liberal
che inseriscono la persona di Gesù
tra gli eroi dellamore universale
SCELGO SENZA ESITAZIONE I PRIMI
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La riforma della giustizia in Israele, spiegata
La proposta del governo di Netanyahu contro cui ci sono proteste da settimane toglierebbe poteri alla Corte suprema e secondo i critici sarebbe un pericolo per la democrazia.
Da settimane migliaia di persone in Israele protestano contro la riforma del sistema giudiziario proposta dal nuovo governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, il più di destra della storia di Israele. I manifestanti sostengono che la riforma, che toglie poteri di controllo alla Corte suprema per affidarli al governo, sia un pericolo per la democrazia israeliana, perché di fatto elimina ogni contrappeso al potere del governo in carica. Il governo e i suoi sostenitori, al contrario, sostengono che la riforma sia un necessario ribilanciamento dei poteri dello stato, che negli ultimi decenni avrebbero favorito eccessivamente il potere giudiziario, e in particolare avrebbero amplificato troppo la capacità d’intervento della Corte suprema in diversi ambiti. Le proteste vanno avanti da tempo: lunedì a Gerusalemme hanno protestato circa 100 mila persone, e la manifestazione è considerata particolarmente importante sia perché si è tenuta in un giorno infrasettimanale (le manifestazioni precedenti erano state tutte di sabato) sia perché si è tenuta a Gerusalemme, dove sono molto forti i conservatori e i fondamentalisti religiosi ebraici. In precedenza le proteste più grosse erano state a Tel Aviv, la città più laica del paese. La riforma è stata presentata dal ministro della Giustizia Yariv Levin, e all’interno del governo è sostenuta sia dai partiti della destra nazionalista laica, come il Likud di Netanyahu e dello stesso Levin, sia dai partiti ultraortodossi. Entrambi i gruppi hanno ragioni per essere scontenti delle decisioni della Corte suprema. Netanyahu in questo momento è sotto processo per corruzione e altri reati, e ritiene che le accuse contro di lui siano politicamente motivate. Gli ultraortodossi invece accusano la Corte di limitare le loro libertà religiose, perché negli anni avrebbe cercato di limitare le numerose esenzioni e i privilegi di cui godono. Per esempio, il servizio militare è obbligatorio per tutti i cittadini israeliani, maschi e femmine, ma non per gli ultraortodossi. La Corte suprema ha un ruolo eccezionalmente importante nella vita politica di Israele perché il paese non ha una costituzione (ha tuttavia una serie di Leggi fondamentali che sanciscono i diritti individuali e le relazioni tra cittadini e stato) e ha relativamente pochi contrappesi al potere del governo in carica al momento. Per esempio il parlamento è unicamerale, cosa che impedisce la dialettica tra camera alta e camera bassa che esiste in molte democrazie, e il presidente di Israele ha ancora meno poteri che negli altri sistemi parlamentari: non può mettere il veto alle leggi approvate dal parlamento e non può “rimandare una legge alle camere”, come può fare in alcune occasioni particolari il presidente della Repubblica italiana. Per questo soprattutto a partire dagli anni Novanta (anche grazie a una serie di riforme giudiziarie approvate al tempo proprio dal Likud) la Corte suprema israeliana ha assunto il ruolo di principale contrappeso al potere esecutivo, con una serie di sentenze che le hanno dato il potere di abolire qualunque legge approvata dalla Knesset, cioè il parlamento israeliano. Attualmente, la Corte suprema non si limita soltanto ad abolire le leggi che sono contrarie alle Leggi fondamentali, come fa per esempio la Corte costituzionale italiana, ma ha il potere di abolire qualunque legge. Questo potere, inoltre, si estende ai provvedimenti amministrativi del governo e degli altri enti. Questo avviene sulla base della cosiddetta “clausola di ragionevolezza”: se i giudici della Corte suprema ritengono che un provvedimento sia in qualche modo “irragionevole”, lo possono abolire senza che il parlamento possa fare niente per intervenire. È successo anche di recente, quando la Corte ha fatto dimettere dal suo incarico da ministro Arye Dery, il leader del partito ultraortodosso Shas che era stato nominato da Netanyahu ministro dell’Interno e della Salute. Nel gennaio del 2022 Dery era stato processato per evasione fiscale, ed era riuscito a evitare una condanna (che probabilmente avrebbe compreso un’interdizione dai pubblici uffici per 7 anni) grazie a un patteggiamento con sospensione della pena. Allora, Dery aveva fatto credere al tribunale che lo stava giudicando che si sarebbe ritirato dalla vita pubblica, ma non è avvenuto. Per questo, il mese scorso la Corte suprema ha usato la “clausola di ragionevolezza” e ha decretato che fosse «estremamente irragionevole» che Dery mantenesse il suo posto al governo. Il ministro si è dimesso qualche giorno dopo.
• LA RIFORMA Semplificando alcuni passaggi, la proposta di riforma del sistema giudiziario voluta dal governo ha due elementi principali. Il primo elemento è un profondo cambiamento delle modalità di nomina dei giudici. Attualmente tutti i giudici del paese, sia quelli della Corte suprema sia quelli delle corti inferiori, sono selezionati da una commissione composta da nove membri di cui soltanto quattro, cioè la minoranza, sono scelti dal governo (i membri della commissione sono: tre giudici della Corte suprema stessa, due rappresentanti dell’associazione forense israeliana, due membri del parlamento e due ministri del governo: già adesso comunque la Corte non è isolata dalla politica, e la maggior parte dei giudici ha tendenze conservatrici). Il governo vorrebbe portare a 11 i membri della commissione che seleziona i nuovi giudici, e portare a otto i membri di nomina politica. In questo modo, il governo avrebbe il dominio totale delle nomine, sia dei giudici della Corte suprema sia dei giudici delle corti inferiori. Il secondo elemento importante della riforma colpisce il potere della Corte di abolire le leggi approvate dal parlamento. Anzitutto, il governo vorrebbe eliminare la “clausola di ragionevolezza”, lasciando alla Corte suprema il compito di esaminare esclusivamente se una legge è aderente o meno ai princìpi espressi dalle Leggi fondamentali. Il governo Netanyahu vorrebbe poi indebolire anche questo potere residuo, dando al parlamento la facoltà di annullare le decisioni della Corte suprema. Funzionerebbe così: se la Corte suprema decide di annullare una legge approvata dal parlamento, il parlamento può votare di nuovo per ignorare la decisione della Corte suprema e mantenere la validità della legge. Basta un voto a maggioranza semplice e la sentenza della Corte suprema può essere ignorata. È stata in particolare quest’ultima proposta a preoccupare l’opposizione e parte della società civile, che ritengono che in questo modo la Corte suprema finirebbe assoggettata al controllo politico. Questo, dicono i critici, sarebbe un danno enorme per la democrazia in Israele.
• COSA SE NE DICE
Non soltanto l’opposizione è contraria alla riforma del sistema giudiziario del governo di Netanyahu, ma la maggior parte degli esperti legali ritiene che la legge sia un potenziale pericolo per la democrazia. Di recente anche il presidente di Israele Isaac Herzog ha detto che la riforma provoca «gravi preoccupazioni per gli impatti negativi sulle fondamenta democratiche dello stato di Israele» e ha chiesto che le forze politiche facciano una pausa nei lavori parlamentari per consentire una più ampia discussione all’interno della società su come riformare la giustizia nel paese. Le forze politiche di governo però l’hanno ignorato, e il percorso legislativo della riforma sta proseguendo. Che in questo momento la Corte suprema israeliana abbia poteri probabilmente eccessivi e che abbia un ruolo molto interventista nella vita politica del paese è una considerazione condivisa non soltanto dalla destra nazionalista e dagli ultraortodossi al governo, ma anche dalle forze di centro e di sinistra che compongono l’opposizione. La gran parte delle forze politiche in Israele ritiene che attualmente ci sia uno squilibrio di poteri che favorisce il sistema giudiziario. Il problema, dicono i critici, è che la soluzione proposta dal governo di Netanyahu finirebbe per creare un nuovo squilibrio, potenzialmente più pericoloso: da un sistema in cui la Corte suprema ha troppi poteri, si passerebbe a un sistema in cui la maggioranza al governo è decisamente dominante, e soprattutto non avrebbe più nessun limite e contrappeso. Se fosse approvata la riforma, una volta che il parlamento ha approvato una legge non ci sarebbe più nessun organo superiore che ne sorveglia l’operato e che, eventualmente, abbia il potere di correggere gli errori e le storture, come avviene nella maggior parte dei sistemi democratici.
(il Post, 15 febbraio 2023)
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Colonnello dell’unità 8200 rivela l’utilizzo dell’ia durante l’operazione “guardiani delle mura”
di Luca Spizzichino
Il colonnello Yoav, comandante dell'Unità 8200 dell’esercito israeliano, ha rivelato che durante l’operazione “Guardiani delle Mura” nel maggio 2021 il suo reparto è stato in grado di utilizzare il suo sistema di intelligenza artificiale (IA) per identificare due comandanti delle unità missilistiche di Hamas e diversi terroristi a Gaza.
“I nostri strumenti di data science e IA hanno notevolmente aumentato la nostra capacità di contrastare gli attacchi terroristici", ha affermato durante la AI Week, una conferenza organizzata dall’Università di Tel Aviv
Il colonnello ha anche sottolineato che in dieci giorni l'intelligence è stata in grado di creare una banca dati con 200 nuovi target. “Durante l'operazione l'unità è riuscita ad aggiornare e potenziare il sistema circa 150 volte, migliorando così le capacità nel campo di battaglia e mantenendo uno standard elevato” ha aggiunto.
“Uno degli strumenti più significativi che abbiamo costruito e stiamo utilizzando oggi, è un programma che è in grado di localizzare persone pericolose sulla base dell'input di un elenco di persone precedentemente incriminate. - ha spiegato - Il software può completare questo processo in pochi secondi. In passato, avrebbe richiesto settimane e centinaia di feedback".
Quest’ultimo sistema d’intelligenza artificiale si aggiunge a quelli sviluppati precedentemente dall'IDF: "Gospel”, che genera raccomandazioni per le truppe dell'intelligence militare, e che fornisce poi i dati necessari per colpire chirurgicamente gli obiettivi con l’aviazione; e “Alchemist”, che attraverso l’IA e il Machine Learning avvisa le truppe sul campo di battaglia di possibili attacchi di Hamas o della Jihad Islamica palestinese. Questo software è in dotazione ai comandanti che ricevono le informazioni in tempo reale su un tablet.
(Shalom, 14 febbraio 2023)
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Il docufilm, «Covid 19: dodici mesi di pensiero critico»
Il Covid19 ha cambiato le nostre vite. Non solo perché - tragicamente - ne ha spezzate molte, ma perché ha dato avvio a un nuovo modo di essere: ci è infatti stato chiesto di smettere di pensare. Di non ragionare, dubitare, discernere; di non fare domande.
Guarda il docufilm della Verità che raccoglie la testimonianza di pensiero critico, argomento dopo argomento, mese dopo mese: un anno di riflessioni, un diario ragionato per capire meglio cosa è stato e ciò che sarà. Alla fine del documentario, un contenuto extra tutto dedicato alla blockchain e al green pass.
«Covid 19: dodici mesi di pensiero critico»
(La Verità, 15 febbraio 2023)
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Vaccini, il «New York Times» denuncia la Von Der Leyen
Il quotidiano più famoso del mondo intraprende un'azione legale per conoscere il contenuto dei messaggi tra la capa della Ue e il manager della Pfizer: «Basta segreti sull'acquisto di dosi per miliardi di dollari».
di Francesco Borgonovo
Alla fine, per tentare di fare emergere la verità, è dovuto intervenire un giornale americano, che si è coraggiosamente assunto l'ingrato compito di colmare il clamoroso vuoto lasciato dalle istituzioni europee. La notizia è tra le più clamorose di quest'anno, e l'ha rilanciata ieri mattina Politico con un titolo brutale nella sua secchezza: «Il New York Times fa causa all'Ue per i messaggi a Pfizer di Ursula von der Leyen», Ecco i fatti, nudi e crudi. Il principale quotidiano americano, forse il più famoso al mondo, ha deciso di muovere un'azione legale contro la Commissione europea affinché si decida a mostrare i messaggi che la presidente Von der Leyen si è scambiata con Albert Bourla, ceo della multinazionale farmaceutica Pfizer. Tali messaggi, specifica Politico, «potrebbero far luce sugli accordi per l'acquisto di miliardi di euro di vaccini Covid-19»
. I grotteschi contorni della vicenda sono purtroppo noti. Si sa per certo che Ursula e l'amico Albert abbiano chattato, ma non è dato sapere che cosa si siano detti. Entrambi, da mesi e mesi, mantengono il più totale silenzio sulla vicenda. La Commissione - per bocca di Vera Jourovà, commissario per i Valori e la trasparenza - sostiene che quelle chat siano state cancellate per via della loro «natura effimera e di breve durata». Bourla, dal canto suo, ha ripetutamente rifiutato di farsi ascoltare dal Parlamento europeo - nonostante fosse stato più volte convocato ufficialmente - e si è limitato mesi fa a inviare una sottoposta che ha pensato bene di ridere in faccia a chi le chiedeva informazioni. Una situazione imbarazzante, che dimostra evidente disprezzo nei confronti dei cittadini europei tutti: privi di vergogna, Ursula e Bourla si ostinano a tenere segreti i propri affari e le trattative che hanno arricchito mostruosamente l'azienda farmaceutica a spese dei contribuenti del Vecchio Continente. Nelle scorse settimane, persino l'Ombudsman europeo - una autorità battagliera ma secondaria che dovrebbe fare da mediatrice tra la popolazione e le istituzioni comunitarie - per bocca della responsabile Emily O'Reilly si è espresso con toni durissimi. «Siamo stati sostanzialmente ostacolati dalla Commissione. E la Commissione non ha ancora ammesso realmente che gli sms esistano, ma è chiaro che ci siano», ha detto la dirigente. E ancora: «Penso che la Commissione abbia la responsabilità di fare chiarezza, anche se questo è politicamente difficile. Perché si tratta della fiducia dei cittadini in relazione a una questione molto importante». Già: gli europei hanno diritto a sapere la verità, ma chiunque finora abbia provato a ottenerla è stato rapidamente rimbalzato. Tra i primi a farsi avanti ci sono stati alcuni media indipendenti tedeschi, poi è intervenuta la Bild (che appartiene all'editore Axel Springer esattamente come Politico), ma le azioni non sono andate a buon fine. Adesso, dunque, tocca al New York Times, che ha preso la faccenda di petto battendo le vie legali. Come scrive Politico, il quotidiano americano «affronterà gli avvocati dell'Ue nella più alta corte dell'Unione, sostenendo che la Commissione abbia l'obbligo legale di rendere noti i messaggi, che potrebbero contenere informazioni sugli accordi per l'acquisto di miliardi di euro di dosi di Covid-19». La pratica, prosegue il giornale, «è stata depositata il 25 gennaio e pubblicata lunedì nel registro pubblico della Corte di giustizia europea». Particolare curioso, quest'ultimo: ma online non sono ancora disponibili informazioni dettagliate. La trasparenza obbliga l'Ue a dare notizia del contenzioso legale. Però Ursula, in virtù del medesimo principio, non si sente obbligata a rendere pubbliche le sue conversazioni con il capo di una azienda a cui abbiamo versato una montagna di soldi. Davvero suggestivo. Per ora il New York Times ha rifiutato di rilasciare commenti in proposito, e la stessa Commissione Ue ha incredibilmente fatto finta di nulla. Ieri pomeriggio i cronisti si aspettavano che arrivassero comunicazioni o dichiarazioni durante la conferenza stampa, ma niente: ancora una volta silenzio assoluto. Ora dunque non resta che attendere la Corte di Giustizia europea, nella speranza che esista, da qualche parte, qualcuno ancora in possesso di un pizzico di dignità. Nel frattempo, tuttavia, possiamo trarre da questa storia alcune lezioni piuttosto interessanti. La prima riguarda, ovviamente, il disgustoso livello di ipocrisia a cui le istituzioni europee sono riuscite aggiungere. Ursula von der Leyen, negli anni passati, non ha perso occasione per fare la morale a chiunque, per cianciare di diritti umani, rispetto delle minoranze, libertà e giustizia. Eppure continua a sputare in faccia a tutti i popoli europei di cui ha gestito in totale opacità le finanze e, soprattutto, la salute. Dai test mancanti sui sieri alla scandalosa segretezza degli accordi commerciali, l'Ue si è comportata come una succursale di Big Pharma e non come un'entità politica degna di rispetto. La seconda parte della lezione riguarda l'Italia. Dalle nostre parti ogni accenno di dibattito sulla gestione della partita vaccinale è stato militarizzato, ostracizzato, ridotto a spettacolo gladiatorio. La maggioranza dei nostri impavidi media ha inteso liquidare ogni dubbio, ogni interrogativo e ogni critica come rigurgito no vax, e per oltre tre anni questo pensiero prevalente ha dettato legge. Ora arriva il più celebre giornale al mondo a muovere un'azione legale contro le istituzioni che la nostra stampa e la nostra politica hanno servito ben oltre il limite della piaggeria. Certo, il New York Times è un giornale grande e potente (e progressista), dunque può permettersi una disinvoltura che altri possono soltanto sognare. Ma se questa causa andrà in porto riuscirà a dimostrare che i vari organismi Ue non sono soltanto inutili (come molti nostri politicanti): sono dannosi.
(La Verità, 15 febbraio 2023)
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Vaccini, il grande spreco: tra giacenze e nuovi acquisti l'Italia rischia di buttare 173 milioni di dosi
Un conto salato da oltre tre miliardi di euro
di Paolo Russo
Il Covid batte in ritirata, gli italiani si vaccinano sempre meno e i magazzini si riempiono di dosi destinate al macero. A fine 2023 potrebbero essere 173 milioni le dosi inutilizzate, visto che ora dai contratti secretati spunta a sorpresa una clausola capestro che obbliga l’Europa ad acquistare quest’anno da Pfizer altri 450 milioni di dosi, 61,1 destinate all’Italia, alla quale spetta il 13,6% del totale. Uno spreco che alla fine rischia di costarci oltre tre miliardi di euro, che sarebbe stato utile investire nella nostra sanità pubblica a corto d’ossigeno.
Partiamo dagli ultimi antidoti arrivati a fine estate, quelli aggiornati su Omicron 4 e 5, dominanti fino ad ora in Italia. Di questi ancora da somministrare resterebbero 15 milioni di dosi acquistate nel 2022, più altri 61,2 milioni che ci verranno scaricati dalla Pfizer nel corso del 2023 in base alle clausole concordate a livello di Commissione Ue. Ora si sta cercando di spalmare questa valanga di nuovi arrivi su più anni. Ma comunque vada sono fiale destinate a restare imballate nelle scatole, visto che in sette giorni, dal 6 al 12 febbraio, la media delle somministrazioni è stata di 3.421 al giorno e il numero è in costante calo. Facendo due conti, con questo passo da lumaca per smaltire la montagna di fiale ci vorrebbero qualcosa come 139 anni.
Ieri è trapelata la notizia che il New York Times avrebbe deciso di portare la Commissione Ue in tribunale per non aver reso pubblico lo scambio di messaggi tra la presidente von der Leyen e il Ceo di Pfizer, Albert Bourla, riguardo al negoziato che ha portato all’acquisto dei vaccini anti-Covid. Certo è che resta difficile comprendere come mai in questi 76 e passa milioni di dosi siano compresi i 19 milioni aggiornati su Omicron 1. Acquistati dall’Ue e autorizzati dall’europea Ema appena una manciata di giorni prima che venisse accesa la luce verde a quelli aggiornati sulle nuove sottovarianti di Omicron 4 e 5. Come se non si fosse saputo che a quel punto quasi tutti avrebbero preteso i «nuovi modelli», nonostante gli esperti dell’ex Cts si affannassero a dire che erano più o meno simili a quelli tarati sulla versione originaria di Omicron, ormai scomparsa in Italia.
La conta non è comunque finita qui, perché al fardello vanno aggiunte 9 milioni di dosi della francese Sanofi, acquistate nel lontano 2020 ma in consegna solo ora. Così si arriva a un totale di 80 milioni. Fin qui per restare all’era Omicron. Perché alla conta degli antidoti inutilizzati vanno poi aggiunti i 28 milioni andati in scadenza a fine 2022, secondo quanto affermato a suo tempo dallo stesso generale Tommaso Petroni, a capo della task force per il completamento della campagna vaccinale. A questi vanno infine sommati i 60 milioni di dosi donate all’Africa. Rimaste in larga parte inutilizzate, soprattutto per problemi logistici, visto che spesso sono arrivate dove non c’erano nemmeno i frigoriferi per conservarle.
Fatta la somma si arriva a 173,1 milioni di dosi inutilizzate, salvo improbabili e non augurabili nuove e impetuose ondate. I contratti con le case farmaceutiche sono secretati ma il vaccino Pfizer nella prima versione è costato 16 euro a dose, quello aggiornato su Omicron 19 euro, nonostante il fatto che per aggiornare il vaccino ci siano voluti poco più di due mesi e che di solito all’aumentare delle dosi acquistate il prezzo scende. In tutto fanno oltre tre miliardi di euro gettati al vento. Anche se, è bene ricordarlo, gli acquisti sono sempre stati fatti a livello centralizzato dall’Ue. Fermo restando che l’Italia sarà comunque chiamata a pagare il conto, perché è poi la nostra struttura commissariale che ha dovuto stipulare e onorare i contratti con Big pharma, all’interno degli accordi quadro definiti con la Commissione Ue.
L’Europa ha puntato a garantire la massima copertura vaccinale possibile, hanno sempre ricordato in passato Aifa e Css. Ma resta da capire perché si sia deciso a settembre di partire subito con milioni di vaccini che sarebbero stati superati a breve da prodotti più aggiornati, pur avendo in cascina ancora milioni di dosi inutilizzate di antidoti tarati sul ceppo originario di Wuhan. Tra l’altro ampiamente efficaci a prevenire i rischi di ospedalizzazione e di morte. Ma soprattutto non si comprende per quale motivo la Commissione europea abbia dovuto accettare da Pfizer clausole capestro che la vincolano all’acquisto di centinaia di milioni di dosi, 450 nel 2022 e altrettante quest’anno, indipendentemente dall’andamento epidemico o dallo spuntare di nuove varianti. Si dirà che questi sono ragionamenti validi con il senno del poi, non quando tutti i Paesi erano lanciati alla corsa all’acquisto per frenare una pandemia che stava seminando morte e distruggendo l’economia. Ma il potere contrattuale delle aziende si sarebbe dovuto in qualche misura attenuare, considerando che Pfizer, Moderna, Johnson&Johnson, Novavax e Astra Zeneca hanno ricevuto complessivamente quasi 10 miliardi di finanziamenti pubblici per sostenere la ricerca da Usa, Gran Bretagna e Ue. E che anche senza clausole vessatorie alle industrie non sarebbe comunque andata male lo dicono i ricavi 2021: circa 45 miliardi Pfizer, 16 miliardi per Moderna, che nel 2019 non andava oltre i 55 milioni.
Che non tutto abbia funzionato per il meglio deve averlo pensato del resto anche la Corte dei Conti europea, che a settembre ha bacchettato von der Leyen in un report che menziona come «un caso di cattiva amministrazione» il «rifiuto della Commissione europea di concedere l’accesso del pubblico ai messaggi di testo scambiati tra la presidente della Commissione e l’amministratore delegato di Pfizer durante i negoziati preliminari». Manchevolezze pagate a caro prezzo anche dall’Italia.
(La Stampa, 15 febbraio 2023)
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Picco di miocarditi tra i giovani in Svezia dopo la corsa all’hub
Boom di infiammazioni dalla seconda metà del 2021 tra under 20. Studio danese: rilevato mRna nel plasma a 28 giorni dal vaccino.
di Irene Cosul Cuffaro
Mentre i nostrani ultrà vaccinali non placano il loro tifo da stadio per i richiami infiniti dei miracolosi vaccini, emergono altre evidenze che minano la narrazione che nega con forza l'esistenza di effetti avversi gravi . Dalla Svezia, per esempio, arrivano dei dati interessanti sui giovani colpiti da miocardi e pericarditi. Analizzando i registri della Socialstyrelsen (l'agenzia governativa svedese per il welfare e la sanità) salta all'occhio come le infiammazioni siano aumentate nei giovani tra i 10 e i 19 anni proprio nel secondo semestre del 2021 e siano rimaste più alte, rispetto al periodo pre Covid, per tutto il 2022. Ovvero, le patologie hanno avuto una crescita impetuosa proprio nei periodi successivi alla corsa all'hub a cui anche i ragazzi sono stati spinti, nonostante lo scarso rischio per la loro fascia d'età derivante dal contagio. Nel dettaglio, il picco di eventi si è registrato nella seconda metà del 2021, con 216 ricoveri di under 20, poi scesi a 187 nel primo semestre del 2022 e a 157 in quello successivo. Certo, non si conoscono le caratteristiche dei pazienti: se fossero all'epoca vaccinati o meno o se avessero contratto il Covid. Miocarditi e pericarditi potrebbero essere anche conseguenza dell'infezione. E però, a tal proposito, risultano ancora più interessanti i numeri registrati prima della vaccinazione di massa degli adolescenti: come evidenzia la tabella in pagina, durante la fase acuta della pandemia, il 2020 e i primi mesi del 2021 (quando il virus aveva inoltre effetti più pesanti) le infiammazioni cardiache risultano inferiori agli anni pre Covid: 106 nel primo semestre del 2021, 104 e 114 nei due semestri del 2022, contro le 135 e 128 dei rispettivi semestri del 2019. Numeri che fanno risultare quanto meno sospetti i picchi registrati l'anno scorso e nella seconda metà del 2021. Dalla Danimarca, invece, arriva un altro studio sulla presenza della proteina Spike - presente sia nel Sars-Cov-z, sia nei vaccini a mRna - più a lungo del previsto nel sangue dei vaccinati. La ricerca, pubblicata sul Journal of Pathology, Microbiology and Immunology, è stata condotta su 108 pazienti affetti da epatite C cronica. In dieci dei loro campioni di plasma, sequenziati da maggio 2021 alla fine di giugno 2021, i ricercatori hanno trovato frammenti di mRNA del vaccino anti Covid (sia Pfizer che Moderna) fino a 28 giorni dopo la vaccinazione. Gli studiosi descrivono la presenza di mRna come «sorprendente». La questione della pericolosità per l'organismo della proteina Spike, bollata dagli autoproclamati fact checkers come una bufala antiscientifica, è già stata trattata in numerosi studi, come quello pubblicato sulla rivista Circulation condotto da Harvard medical school e Mit, su giovanissimi pazienti ricoverati in due ospedali di Boston, che individuava proprio nella Spike la causa delle miocarditi post iniezione nei bimbi e negli adolescenti. I ricercatori avevano infatti riscontrato, nei giovani analizzati colpiti da miocarditi, degli alti livelli di Spike libera, cioè non aggredita da anticorpi specifici. «La proteina», spiegava il virologo Francesco Broccolo, dell'Università del Salento, alla Verità, «non è legata agli anticorpi neutralizzanti che circolano nel sangue, che nei bambini e nei giovani adulti non si sono formati dopo la prima dose. Negli adulti» sottoposti al secondo shot, «la risposta immunitaria è più forte e gli anticorpi riescono a legare la proteina S, mentre nei bambini che sviluppano la miocardite, la proteina Spike resta libera, senza legarsi agli anticorpi neutralizzanti». E così che essa attiva «l'infiammazione che sta alla base» del danno cardiaco. Sul tema, aveva avuto importante rilevanza uno studio uscito su Cell nel marzo 2022, che aveva certificato che la proteina poteva restare in circolo due mesi dopo l'iniezione, mentre altri esami ne avevano trovato traccia nel sangue dei vaccinati fino a sei mesi dopo l'ultima dose. La persistenza nell'organismo della Spike, e la sua potenziale tossicità, erano state oggetto anche dello studio, pubblicato sulla rivista Pathogens, dei tre ricercatori dell'Iss che evidenziavano la necessità di ricalcolare i rischi e i benefici dei vaccini. Gli studiosi sono poi stati richiamati all'ordine dall'Istituto, dissociatosi dai suoi stessi scienziati, rei di aver messo in discussione la religione vaccinale.
(La Verità, 12 febbraio 2023)
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La riforma necessaria
di Niram Ferretti
Alla luce delle violente critiche rivolte al neo-eletto governo Netanyahu in merito all’annunciata riforma della giustizia, presentata dall’opposizione come un attentato alla democrazia, riproponiamo ai nostri lettori un articolo di Niram Ferretti del 2019, da cui emerge evidente che ci troviamo al cospetto di un vecchio copione con i soliti attori e il solito frasario. Già nel 2019 l’autore dell’articolo sottolineava come la riforma della giustizia in Israele fosse dovuta e non fosse ancora stata messa in atto, e auspicava che l’allora governo riuscisse a vararla. Non accadde. Ora sembra, finalmente, l’occasione giusta. La necessità della riforma è spiegata con chiarezza nell’articolo. (N.d.R)
La volontà espressa da Benjamin Netanyahu di volere riformare l’impianto giudiziario israeliano fa subito urlare a un attentato alla democrazia. Fu così già nel 2015, quando l’allora ministro della Giustizia, Ayelet Shaked annunciò il suo programma di riforma. E’ il riflesso pavloviano degli oppositori, i quali, in campagna elettorale e assai prima, hanno dipinto Netanyahu a colori forti, paragonandolo a Ceausescu (Ehud Barak) o a Erdogan (Benny Gantz). Nonostante ciò, le urne hanno nuovamente premiato il futuro dittatore consegnando al Likud una smagliante vittoria, come non avveniva dal 2003. La riforma della giustizia, o meglio, la riforma dei poteri della Suprema Corte di Israele, quella che il giurista di sinistra già membro di Meretz, dunque certo non un falco di destra, Amnon Rubinstein ha definito “uno stato nello stato”, dovrebbe aver luogo con il prossimo esecutivo ancora in formazione. Sotto la presidenza di Aharon Barak dal 1995 al 2006, la Corte si è progressivamente trasformata in un organo imperiosamente decisionista, condizionando e limitando in un modo che non ha paralleli con nessun altro Stato democratico il potere esecutivo e quello legislativo. Ciò è avvenuto in virtù di una debolezza di Israele, quella di non possedere di fatto una costituzione vera e propria ma una serie di leggi cosiddette base, che ne fanno le veci. Ed è dunque in virtù di esse che Aharon Barak ha trovato il modo di forzare la “clausola delle limitazioni” contenuta nella legge Base sulla Dignità Umana e la Libertà del 1992, e stabilire che essa arginerebbe la facoltà del Parlamento di passare delle leggi che, a suo parere, la violerebbero. Tutto ciò ha fatto sì che la Corte Suprema, sotto la lunga tutela di Barak si sia fatta organo supplente della Knesset attraverso un attivismo che ha inciso in profondità sulla sua operatività legislativa e continui a farlo fino ad oggi. In questo senso custodi ultimi della interpretazione della “dignità umana e della libertà”, sarebbero unicamente i giudici secondo il loro insindacabile giudizio. Essi avrebbero piena potestà non solo sul ramo legislativo ma anche su qualsiasi azione dell’esecutivo, considerata non consona. Come ha scritto il giurista americano Richard Posner in un articolo apparso su The New Republic nel 2007, la concezione dell’ex presidente della Corte Suprema e suo plasmatore, prevede che: “I rami dell’esecutivo e dell’legislativo non abbiano alcun grado di controllo sul ramo giudiziario…il potere giudiziario è illimitato e la legislatura non può rimuovere i giudici“. Si tratta di una situazione che non ha precedenti in nessuna altra democrazia, e sicuramente non in quella americana, come non ha precedenti il fatto che solo in Israele i giudici della Corte Suprema abbiano il potere di veto sulla nomina di altri giudici. Ciò che rende Israele ulteriormente assai speciale in merito all’azione della Suprema Corte è che, rispetto ad altre democrazie, dove le istanze che possono essere presentate dinanzi all’ultimo grado di giudizio è assai circoscritto, esse non trovano alcun limite dinanzi alla funzione da lei svolta. E’ sempre Richard Posner a sottolinearlo: “Ogni cittadino può chiedere a un tribunale di bloccare l’azione illegale da parte di un funzionario governativo, anche se il cittadino non ne è personalmente colpito; qualsiasi azione governativa che sia “irragionevole” è illegale (“in parole povere, l’esecutivo deve agire ragionevolmente, perché un atto irragionevole è un atto illecito”); un tribunale può proibire al governo di nominare un funzionario che ha commesso un reato (anche se è stato graziato) o che è messo sotto esame etico in un altro modo, e può ordinare il licenziamento di un ministro se deve affrontare un procedimento penale. In nome della “dignità umana” un tribunale può costringere il governo ad alleviare i senzatetto e la povertà e un tribunale può revocare gli ordini militari e decidere “se impedire il rilascio di un terrorista nel quadro di un ‘accordo politico’, e indirizzare il governo nello spostare il muro di sicurezza che impedisce ai kamikaze di entrare in Israele dalla Cisgiordania”. La Suprema Corte israeliana è di fatto una istituzione castale e autoperpetuante, la quale risponde solo a se stessa e ha poteri che in altre democrazie sono delegati all’esecutivo. Tuttavia, secondo il professor Mordechai Kremitzner, la Knesset verrebbe meno frequentemente nei confronti della “sua responsabilità di proteggere il pluralismo religioso, le libertà civili e i diritti dei palestinesi”. Dunque, la corte non avrebbe “altra scelta se non quella di riempire il vuoto morale e legale” determinato dal Parlamento. In altre parole, nella visione massimalista di Kremitzner, la Corte sarebbe la vera garante della democrazia dello Stato di Israele e non, come dovrebbe essere di fatto, il Parlamento. Questa visione è in perfetta consonanza con quella di Aharon Barak. Un potere giudiziario indipendente, aggiunge Kremitzner, serve come contrappeso al pericolo della “tirannia della maggioranza”. Vero. Ma non è questo il punto. La riforma proposta da Netanyahu e non ancora incardinata non vuole minare l’indipendenza del potere giudiziario. Si tratta di una fola. Vorrebbe unicamente limitarne l’estensione. Infatti, il potere giudiziario indipendente, che è alla base degli ordinamenti democratici e la cui specifica autonomia è stata teorizzata da Montesquieu ne Lo Spirito delle Leggi, non prevede che al posto della tirannia della maggioranza si insedi la propria. E’ lo stesso Montesquieu a scrivere: “Non c’è più libertà se il potere di giudicare non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo. Infatti se fosse unito al potere legislativo, ci sarebbe una potestà arbitraria sulla vita e la libertà dei cittadini, in quanto il giudice sarebbe legislatore” (Lo Spirito delle Leggi, XI, 6), Il giudice legislatore è esattamente il ruolo che Aharon Barak aveva avocato a sé e, discendendo da lui, quello che è stato impresso alla Suprema Corte, e che già l’ex Ministro della Giustizia, Ayelet Shaked riteneva di dovere modificare. Ma, la riforma della giustizia proposta non ha avuto luogo. E’ necessario dunque ripristinare il potere legislativo che è prerogativa del Parlamento e non del potere giudiziario, impedendo alla Corte Suprema di intervenire sulla stessa operatività del processo legislativo, così come è necessario che l’esecutivo abbia la prerogativa di bilanciare un potere abnorme che ne umilia la funzione. La riforma della giustizia che Ayelet Shaked avrebbe dovuto portare avanti già nel 2015 e che è rimasta disattesa, è ora che venga finalmente eseguita per consegnare Israele, in rapporto alla sfera della Giustizia, a una pienezza democratica in linea con quella delle altre democrazie occidentali.
(L'informale, 13 febbraio 2023)
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La riforma della giustizia non è pericolosa per la democrazia israeliana, è essenziale
di Russel A. Shalev
Israele è unico tra le democrazie occidentali, ha un sistema giudiziario autonominato che è, allo stesso tempo, legislatore, esecutivo, redattore e creatore della Costituzione israeliana. Questo enorme potere funziona senza controlli, equilibri o supervisione efficaci. Come conseguenza di ciò, le riforme che sono state discusse per quasi tre decenni si stanno avvicinando alla loro realizzazione.
Dopo l’insediamento di un governo di destra a seguito di quasi tre anni di caos politico, la questione della riforma giudiziaria è diventata una richiesta chiave della coalizione. Tra le riforme proposte vi sono modifiche al sistema delle nomine giudiziarie, una chiara definizione delle condizioni alle quali la Corte suprema può annullare le leggi e una clausola di revoca. Quest’ultima clausola consentirebbe alla Knesset di approvare una legge che impedirebbe alla Corte Suprema di annullare la legge.
L’establishment legale israeliano e i suoi alleati, a grande maggioranza a sinistra, afferma che queste riforme porteranno alla morte della democrazia israeliana e alla fine dei diritti delle minoranze. In verità, queste riforme sono essenziali per restituire un equilibrio di base al sistema politico israeliano perché, per decenni, di fatto, il potere supremo su quasi ogni questione della vita politica è stato nelle mani di un’aristocrazia giudiziaria autoperpetuante, non eletta, la quale gestisce il paese non secondo una legge scritta ma in base alla propria visione del bene.
Il paradigma di base attraverso il quale l’establishment legale interpreta il proprio ruolo è quello dei ‘guardiani’. I giudici e i consulenti legali si vedono come l’avanguardia nella difesa della democrazia israeliana, proteggendola dai barbari alle porte. In questo caso, i barbari sarebbero i membri e i politici della Knesset, i quali, o complottano o possono essere facilmente tentati di limitare o ignorare le libertà civili e i diritti umani fondamentali.
Mentre ogni sistema democratico richiede controlli ed equilibri tra i propri rami, la dottrina del guardiano ha un effetto pernicioso e corrosivo sulla democrazia israeliana. I funzionari eletti che agiscono come rappresentanti dei cittadini, vengono visti con sospetto e fastidio. Come amano ripetere i sostenitori dello status quo, la democrazia non è solo il governo della maggioranza. La democrazia potrebbe non essere solo il governo della maggioranza, eppure è, principalmente e fondamentalmente, il governo della maggioranza. I guardiani, piuttosto che agire come argini nelle circostanze più estreme, si sono costituiti come sovrani alternativi ai cittadini e alla Knesset.
Nonostante tutti i discorsi sui pesi e contrappesi, ai cittadini israeliani resta una Knesset debole e una Corte Suprema quasi onnipotente e onnipresente. Una regola fondamentale della democrazia è che ogni ramo sia controllato e limitato. Queste limitazioni esistono già nei confronti della Knesset. Ogni governo in Israele è composto da una coalizione di più partiti, ciascuno con i propri interessi e visioni del mondo. La natura della politica di coalizione è quella del compromesso e del dare e avere. Inoltre, la Knesset e l’esecutivo sono limitati dalle elezioni e sono direttamente responsabili nei confronti dei cittadini israeliani, che possono fare campagna elettorale, protestare o scendere in piazza. Se la Knesset dovesse adottare politiche che limitano i diritti dei cittadini israeliani, saranno prontamente espulsi alle prossime elezioni. Ciò è in contrasto con la Corte Suprema, che è isolata dalla responsabilità popolare e non deve affrontare nessuna conseguenza per la legislazione giudiziaria o la creazione di specifici indirizzi politici.
Il ruolo onnipresente della Corte Suprema nell’arena politica di Israele è una storia (o una tragedia) raccontata in molte parti. Alla sua fondazione Israele ha adottato il sistema parlamentare originario del Regno Unito. Contrariamente al sistema americano, il ramo esecutivo è scelto dal parlamento. Similmente al Regno Unito, un principio di questo sistema è la supremazia parlamentare, il che significa che la Corte Suprema non ha il potere di controllo giurisdizionale e non può abbattere la legislazione. Il ruolo della Corte Suprema è quello di risolvere controversie specifiche tra le parti e garantire che il governo rispetti la legge. Il luogo delle decisioni politiche è la Knesset.
Fino agli anni ’80, la Corte Suprema si è astenuta dal coinvolgimento in alcune questioni, basandosi sulla dottrina della “giurisdizionalità”. Questa dottrina significava che c’erano alcune questioni sulle quali il tribunale non aveva competenza, per le quali non esistevano parametri legali e nelle quali il coinvolgimento giudiziario sarebbe stato inappropriato. Le questioni non giudicabili includevano decisioni politiche, questioni politiche, procedimenti interparlamentari e affari esteri. Un punto di svolta cruciale fu la decisione Ressler del 1988, in cui la Corte annullò la decisione del Ministro della Difesa di esentare gli studenti ultraortodossi delle yeshivot dalla leva dell’IDF. La Corte aveva precedentemente ritenuto che la questione fosse una questione di natura politico-sociale e non giurisdizionale. Il giudice Barak spiegò che non esiste un vuoto giuridico e che tutte le questioni sociali hanno risposte legali.
Poiché la Corte ha limitato l’uso della non giurisdizionalità, ha ampliato la dottrina della ragionevolezza. La ragionevolezza consentiva ai giudici di annullare qualsiasi decisione amministrativa che ritenessero irragionevole, consentendo essenzialmente ai giudici di sostituire il loro giudizio a quello del ramo esecutivo. Allo stesso tempo, la Corte ha eliminato il requisito della “legittimazione”, il che significava che solo le parti direttamente interessate potevano adire al tribunale. Ciò ha aperto la porta alle ONG e a vari “firmatari pubblici” che presentavano petizioni contro leggi e politiche a cui si opponevano. La Corte ha iniziato a pronunciarsi su questioni diverse come quella relativa al budget che il governo dovrebbe investire in rifugi antiaerei vicino al confine di Gaza, avviando un’inchiesta pubblica sui guasti durante la seconda guerra del Libano e sul percorso corretto per la barriera di sicurezza della Giudea e Samaria.
La fase critica dell’attivismo in continua espansione della Corte giunse nel 1992 con l’approvazione della legge conosciuta come “Legge fondamentale sulla dignità umana e la libertà” e della “Legge fondamentale sulla libertà di occupazione”. Queste furono le prime leggi fondamentali (leggi intese a servire come base della futura Costituzione di Israele) che sancivano i diritti umani; le leggi fondamentali precedenti si limitavano a delineare i meccanismi istituzionali.
Il giudice capo Aharon Barak annunciò che si era verificata una “rivoluzione costituzionale”, che le leggi fondamentali avevano uno status costituzionale e che queste davano alla corte il potere di annullare le leggi contrarie ad esse. Proprio così, Israele aveva una Costituzione, senza che i membri della Knesset, il governo o il pubblico ne fossero a conoscenza. Naturalmente, le leggi fondamentali non menzionano da nessuna parte il potere di annullare le leggi. Per questo, Barak si è guadagnato il titolo conferitogli dall’alto giudice statunitense Richard Posner di “pirata giudiziario” e “despota illuminato”.
Tre decenni di attivismo giudiziario hanno lasciato un sistema fondamentalmente squilibrato in cui un tribunale onnipotente affronta una Knesset debole. Nella famosa decisione “Mizrahi”, Barak ha sostenuto che le leggi fondamentali erano la norma costituzionale suprema di Israele e quindi giustificavano il controllo giurisdizionale. Tuttavia, nel 2018, la Corte ha accettato di esaminare una petizione contro la legge fondamentale dello Stato-nazione, nonostante la sua precedente affermazione secondo cui le leggi fondamentali erano le norme più elevate. La Corte ha flirtato con teorie legali radicali come “l’emendamento costituzionale incostituzionale”, che consentirebbe alla Corte di decidere in primo luogo cosa inserire nella Costituzione di Israele. Ciò è molto al di là di qualsiasi cosa i tribunali possano fare nelle democrazie occidentali, ed è un’ulteriore ed estrema usurpazione del mandato della Knesset.
Questa prepotenza giudiziaria genera una instabilità politica cronica. Le questioni politiche di cui si occupa la Corte sono antitetiche alle sentenze legali e al linguaggio di ciò che è giusto o sbagliato. Richiedono compromessi e concessioni, il vero pane quotidiano del lavoro parlamentare. Ad esempio, il ripetuto annullamento delle leggi sulle esenzioni alla leva per gli ultraortodossi non ha favorito in alcun modo l’integrazione ultraortodossa. I rapporti con la comunità ultraortodossa sono una grande sfida sociale che non può essere risolta legalmente o giudiziariamente.
L’influenza della Corte va ben oltre l’annullamento delle leggi. In tutte le fasi del processo legislativo e decisionale, i decisori devono chiedersi se la legge o la decisione sopporteranno il controllo della Corte. Il governo è ulteriormente svantaggiato nei confronti della Corte a causa dell’affermazione fatta dai consulenti legali del governo secondo cui la loro assistenza è legalmente vincolante. I tribunali hanno rifiutato di consentire agli avvocati privati di rappresentare i ministri, il che significa che il governo è alla mercé di consulenti legali che possono presentare opinioni più in linea con la loro coscienza personale.
Gli oppositori della riforma giudiziaria spesso chiedono “e se la Knesset annullasse le elezioni democratiche?” Tuttavia, la Corte Suprema si è avvicinata pericolosamente a farlo. Nel 1993, la Corte Suprema ha stabilito, nel famigerato precedente Deri-Pinhasi, che il Primo Ministro era obbligato a licenziare un ministro indagato per azione penale. La Corte ha riconosciuto che non vi era alcuna base per questa affermazione nella Legge Fondamentale del Governo, ma che il suo servizio continuato sarebbe stato fonte di “irragionevolezza che va alla base della questione”. Naturalmente, questo termine della frase è un puro sofisma, con nessuno oltre ai giudici stessi che sia in grado di prevederne o definirne il significato. In qualità di esperta legale, la professoressa Ruth Gavison ha avvisato che questo precedente è stato “un passo drammatico per subordinare il sistema politico-ufficiale al controllo giudiziario”. Nel maggio 2020, la Corte Suprema ha discusso se applicare questo precedente alla presidenza di Netanyahu. Ciò avvenne dopo un’elezione e dopo che Netanyahu era riuscito a formare un governo di unità nazionale e a guadagnarsi la fiducia della Knesset. In Israele, la Corte Suprema è l’ultima parola su chi può anche ricoprire cariche pubbliche, sulla base dell’amorfa “ragionevolezza” e senza una base legale esplicita.
Gran parte della discussione nazionale e internazionale su queste riforme si concentra su una clausola di deroga che richiede 61 membri della Knesset. La necessità di 61 membri della Knesset su 120, così sostiene l’argomentazione, consentirà al governo di annullare facilmente qualsiasi sentenza della Corte Suprema. Tuttavia, questo ignora diversi fatti importanti. In Canada la clausola di annullamento può essere attivata a maggioranza semplice. In Israele esiste già una clausola di deroga nella Legge fondamentale sulla libertà di occupazione (che garantisce a ogni cittadino o residente israeliano il “diritto di esercitare qualsiasi occupazione, professione o commercio”), che richiede anch’essa una maggioranza semplice. Nel sistema politico polarizzato di Israele, ottenere il sostegno di 61 membri della Knesset non è un’impresa facile. Il precedente governo Bennett-Lapid non aveva nemmeno una coalizione di 61 membri. C’è un consenso pressoché totale nella destra israeliana sul fatto che la richiesta di qualsiasi tipo di super maggioranza trasformerà la clausola di esclusione in una lettera morta. 61 è uno standard abbastanza alto; in Israele, ancora di più, è praticamente impossibile.
Questa anomalia non può essere risolta semplicemente chiedendo la moderazione giudiziaria. I giudici della Corte Suprema di Israele sono nominati da un comitato composto da nove membri. Cinque membri provengono dall’establishment legale: tre giudici della Corte Suprema e due membri dell’Ordine degli avvocati. Gli altri quattro membri sono funzionari eletti. Ciò significa che i giudici hanno essenzialmente un diritto di veto sulle nomine giudiziarie. Questa situazione è unica rispetto ad altre democrazie. In molti paesi come gli Stati Uniti e il Canada, i giudici sono scelti dai funzionari eletti. Nel Regno Unito, dove i giudici sono nominati da un comitato professionale, non hanno il potere di squalificare le leggi.
La sinistra israeliana sostiene che se dovessero essere approvate le riforme, i cittadini di Israele sarebbero lasciati con un tribunale castrato incapace di difendere i loro diritti. Questa affermazione semplicemente non regge. Israele era certamente una democrazia durante i suoi primi 50 anni prima della Rivoluzione Costituzionale. Ancora oggi, la Knesset potrebbe revocare la Legge Fondamentale sulla Dignità Umana a maggioranza semplice, sciogliere il tribunale e approvare qualsiasi legge desideri. Questo scenario da incubo è puro allarmismo per il semplice motivo che Israele è una democrazia vibrante con una cultura politica tollerante e liberale. Basta guardare al Regno Unito e alla Nuova Zelanda, dove la Corte non ha potere di controllo giurisdizionale. Questi paesi difficilmente possono essere definiti antidemocratici.
Dopo decenni di tentennamenti, il governo israeliano ha finalmente il potere di ristabilire l’equilibrio tanto necessario nel sistema politico israeliano. Le riforme proposte sono un tardivo contrappeso a decenni di usurpazione giudiziaria e mano pesante. Il ruolo originario della Corte deve essere ripristinato: pronunciarsi su controversie concrete e garantire lo stato di diritto. Le riforme proposte vanno al cuore stesso della democrazia israeliana. La questione fondamentale in gioco è, chi decide alla fine. Sono i cittadini di Israele o i suoi giudici?
--- Originale inglese: Judicial Reform is Not Dangerous for Israeli Democracy – it is Essential
(L'informale, 12 febbraio 2023, trad. Niram Ferretti)
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Una grave crisi politica in Israele sulla riforma della giustizia
di Ugo Volli
• I disordini Lunedì 13 febbraio 2023 è stata una delle giornate più difficili dei settantacinque anni di storia della Knesset, il parlamento israeliano. Era in programma la discussione in Commissione affari costituzionali della prima parte della riforma dell’ordinamento giudiziario, che fa parte del programma con cui l’attuale maggioranza ha vinto le elezioni appena tre mesi fa. Vi sono state manifestazioni e disordini.
Intorno all’edificio della Knesset si sono riunite decine di migliaia di persone e qualcuno è riuscito perfino a penetrare nell’edificio, interrompendo la riunione del gruppo parlamentare UTJ (i religiosi askenaziti, che fanno parte della maggioranza di governo). La riunione della commissione costituzionale è stata turbata da schiamazzi e perfino da violenze, i deputati dell’opposizione hanno cercato in ogni modo di impedire la riunione, scavalcando i tavoli e buttandosi contro la presidenza, trattenuti a stento dai commessi, e vi sono state 14 espulsioni. Nel frattempo vi sono state minacce di morte a Netanyahu e in generale alla maggioranza di governo: per esempio il sindaco di Tel Aviv, che è una delle persone più potenti del paese e sostiene l’opposizione, ha dichiarato pubblicamente che “solo un bagno di sangue” può “riportare la democrazia” in Israele.
• Le proposte di legge In concreto i provvedimenti da discutere nella commissione erano due. Il primo modifica la composizione del comitato che sceglie i giudici della corte suprema, spostandone l’equilibrio interno, che finora prevedeva una maggioranza automatica dell’apparato legale e un sostanziale diritto di veto per i vecchi giudici, in favore del Parlamento (il che naturalmente significa della sua maggioranza), come accade in molti paesi fra cui in parte anche l’Italia. L’altra proposta di legge elimina la possibilità di annullamento da parte della Corte Suprema delle “Leggi Fondamentali” che in Israele tengono il posto di una Costituzione che non è mai stata scritta in forma organica. Anche questo corrisponde a quel che accade in molti paesi: né negli Stati Uniti, né in Francia né in Italia, per esempio, i giudici costituzionali possono abrogare articoli delle leggi costituzionali.
• Che succede adesso Le due proposte di legge sono state approvate a maggioranza dalla commissione, che ne ha autorizzato l’esame del plenum della Knesset. Dato che si tratta di un parlamento con una sola camera, le proposte di leggi in Israele devono passare tre votazioni per essere approvate. La prima di queste votazioni dei due progetti di legge avverrà mercoledì o più probabilmente lunedì. Questa settimana e anche il tempo fra le successive votazioni potrebbe essere usato per raggiungere un compromesso. L’ha chiesto anche il presidente Herzog, in un messaggio trasmesso in televisione domenica sera, in cui proponeva anche le linee di un possibile accordo: un gesto del tutto inconsueto nel sistema politico israeliano, dove il presidente è una figura sostanzialmente formale, con poteri legali anche minori del presidente italiano. Qualche voce disposta all’accordo si è sentita, inclusa quella di chi ha proposto la riforma giudiziaria, il ministro della giustizia Yariv Lévin.
• Le scelte dell’opposizione Ma vi è molta intransigenza, tacita nella maggioranza di governo e molto esplicita nell’opposizione, che ha scelto la strada della piazza e della denuncia plateale di una “fine della democrazia” in Israele. Ma la democrazia consiste nell’esistenza di elezioni regolari, nel governo della maggioranza secondo i programmi sottoposti all’elettorato, nel diritto della minoranza di esprimere liberamente la propria opposizione, in una stampa libera ecc. Tutte queste condizioni in Israele ci sono da sempre e anche la crisi attuale le dimostra largamente. Bisogna solo sperare che tutte le parti politiche agiscano in maniera responsabile, accettando le regole del gioco e soprattutto quella fondamentale, che la sovranità appartiene al popolo.
(Shalom, 14 febbraio 2023)
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Israele: proteste senza precedenti contro la riforma della Corte Suprema, nel giorno della prima lettura alla Knesset
di Giovanni Panzeri
In mattinata, durante una seduta particolarmente tesa e caotica, la Commissione sulla Costituzione, la Legge e la Giustizia della Knesset ha approvato in prima lettura la controversa riforma del sistema giudiziario israeliano, che di fatto pone la Corte Suprema sotto il controllo del governo e che adesso dovrà essere votata dal parlamento in seduta plenaria. Oltre 90.000 cittadini israeliani, un numero in continuo aumento, si sono riversati per le strade di Gerusalemme circondando la Knesset, per protestare contro il serio “pericolo di una dittatura”, come ha affermato Eliad Shraga, uno dei leader della protesta e capo del Movimento per la Qualità di Governo, intervistato dal Times of Israel. Il disegno di legge approvato, spiega il ToI, conferisce al governo il pieno controllo delle nomine nel sistema giudiziario israeliano, compresa la Corte Suprema, mentre impedisce a quest’ultima di abrogare o emendare le leggi fondamentali di Israele. “ Questa riforma sta lacerando la società israeliana” ha affermato il leader dell’opposizione Yair Lapid. “Se viene votata, sarà la fine della democrazia. Sapete bene – ha continuato rivolgendosi ai parlamentari del Likud che si sono opposti alla riforma – che ciò che vi stanno chiedendo di votare è sbagliato e terribile. Non potete farlo.” In seguito alle richieste di compromesso e di tempo per negoziare presentate dal presidente israeliano Isaac Herzog il ministro della Giustizia Yarin Levin ha chiarito che le votazioni non si terranno oggi, ma questo mercoledì o lunedì prossimo. Lo staff del ministro ha, inoltre, ribadito che il governo, pur essendo aperto al dialogo e a qualche compromesso, non ha alcuna intenzione di fermare o ritardare il processo legislativo. Il ministro Levin e il parlamentare Simcha Rothman, capo della Commissione, hanno comunque invitato i leader dell’opposizione ad un abboccamento presso gli uffici del presidente Herzog. Un invito che, finora, è stato decisamente respinto: “l’arresto immediato del processo legislativo è una condizione imprescindibile per l’inizio delle negoziazioni” ha detto Yair Lapid, chiarendo che senza di esso quella del governo del governo non può essere considerata una proposta seria.
• LE MANIFESTAZIONI Lo scontro sta coinvolgendo ampi settori della società israeliana, come testimoniano non solo le recenti proteste ma anche la presa di posizione di 7 premi nobel israeliani e la richiesta di dialogo presentata da 70 autorità locali, tra cui diversi sostenitori della manovra. Tuttavia le ramificazioni della questione si sono diffuse ben oltre i confini di Israele, nella diaspora ebraica, come dimostra il dibattito scatenato nelle scorse settimane da una lettera aperta firmata da centinaia di leader della comunità ebraica negli Stati Uniti.
(Bet Magazine Mosaico, 13 febbraio 2023)
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Un team di soccorso israeliano evacuato dalla Turchia
Uno dei team israeliani inviato in Turchia per prestare soccorso dopo i devastanti terremoti degli scorsi giorni, è dovuto tornare a casa per una “concreta e immediata minaccia” alla loro incolumità.
L’organizzazione di servizi di emergenza United Hatzalah ha informato domenica scorsa che le circa 25 persone del proprio team hanno dovuto sospendere le operazioni di ricerca e soccorso delle vittime e lasciare il paese. A causa della mancanza di aerei di linea disponibili ad evacuare il team, la filantropa Miriam Adelson ha messo a disposizione il suo jet privato per far tornare tutti in Israele il prima possibile. Il vice presidente delle missioni di United Hatzalah si è detto a conoscenza del fatto che mandare il team in quell’area della Turchia così vicina al confine con la Siria poteva rappresentare un rischio, ma sono state prese delle misure per portare comunque soccorso alla popolazione così duramente colpita. Misure che non sono evidentemente bastate: dopo l’informativa dei servizi segreti su concrete minacce, l’unica scelta era mettere al primo posto la sicurezza del personale.
• Durante la missione poi interrotta, il team israeliano ha messo in salvo 15 sopravvissuti. Circa 500 israeliani sono volati in Turchia per prestare aiuto nelle ricerche e nel soccorso. L’IDF, le forze di difesa israeliane (che rimarranno in Turchia), hanno estratto da sotto le macerie 19 persone ancora vive e hanno dato medicinali a più di 180 feriti; hanno anche localizzato i corpi di Saul Cenudioglu leader della comunità ebraica di Antiochia, la cui fondazione risale a 2500 anni fa. Saul è morto insieme a sua moglie Fortuna per il crollo del palazzo dove abitavano e la gloriosa comunità ormai ridotta a poco più di una decina di fedeli rischia di sparire per sempre. La delegazione israeliana ha ricevuto dal capo rabbino askenazita di Israele, David Lau, lo specifico permesso di lavorare di Shabbat, vista l’urgenza di intervenire per trovare ancora vivi sotto le macerie.
• Le allerte per la sicurezza di israeliani ed ebrei in Turchia non sono un novità. La scorsa estate Israele ha rimpatriato i suoi cittadini da Istanbul dopo che si era scoperto un tentativo di attacco iraniano contro israeliani. Il giorno prima del terremoto la polizia di Istanbul ha arrestato 15 terroristi accusati di far parte di un piano dell’ISIS per attaccare sinagoghe turche. Inoltre il terremoto ha colpito una zona al confine con la Siria, storico nemico di Israele e base di irriducibili militanti filopalestinesi.
(Riflessi Menorah, 14 febbraio 2023)
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Gilberto Ventura: "Comunità ebraica molto diffusa in Sicilia e strettamente legata al territorio"
Forum con Gilberto Ventura, Rabbino capo della città di Catania
di Chiara Borzi
Intervistato dal vice direttore, Raffaella Tregua, il Rabbino capo della città di Catania, Gilberto Ventura, risponde alle domande del QdS.
- Nel 1493 l’Inquisizione costrinse gli ebrei a lasciare la Sicilia. Quanto è numerosa la comunità ebraica nell’Isola e in particolare a Catania? “Il 20 per cento della popolazione catanese è composta da persone con radici giudaiche. La nostra comunità nasce dall’iniziativa di venti soci provenienti da Washington, Philadelphia, Roma e Bologna. L’evidente risveglio locale è stato accompagnato dall’interesse in prima persona del World Jewish Congress, arrivato a Catania per conoscere la nostra attività. A livello regionale la Carta delle Giudecche di Sicilia ha associato 54 sindaci dell’isola (e 27 in Calabria), con il patrocinio dell’assessorato regionale agli Enti locali. Sono state riscontrate chiare evidenze ebraiche in tutta l’Isola. A Bivona, in provincia di Agrigento, per esempio, il 90 per cento della popolazione lo è di origine”.
- L’espulsione degli ebrei dalla Sicilia ha avuto un impatto importante? “Il 50 per cento degli ebrei fu espulso, mentre un altro 50 per cento restò nell’Isola dichiarando la conversione, ma continuando a vivere rispettando i precetti in casa. In Spagna e Portogallo la storia è stata più dura”.
- Lei è nato in Brasile. Cosa l’ha portata qui in Sicilia” “Nella storia gli ebrei che lasciarono la Spagna si rifugiarono in Olanda, mentre gli ebrei che abitavano il Portogallo furono mandati in Brasile. Questo era l’esilio per le prostitute, i ladri e le persone che non rinnegavano il giudaismo. Dopo cinque secoli gli ebrei in Brasile non conoscono questa storia, ma quattro milioni di persone conservano radici giudaiche, vivendo in una società dove guarda caso c’è molto poco antisemitismo. Ecco perché vengo dal Brasile. Su cosa mi ha portato qui, probabilmente è una domanda che devo condividere con mia moglie: insieme condividiamo la missione di insegnare il giudaismo, i suoi valori, ma ancora più importante diffondere il messaggio della religione ebraica che trascende dalla sinagoga”.
- Dove si trova la sinagoga a Catania? “Si trova in via Leucatia, nell’ultimo piano del Castello di Leucatia. L’abbiamo ricevuta in concessione e crediamo che nulla accade per caso: di solito andiamo a finire in un immobile anonimo, ma in questo caso siamo all’interno di uno stabile costruito da ebrei, diventato Comando tedesco durante la Seconda guerra Mondiale e alla fine sinagoga. All’interno c’erano già le Stele di Davide. Oggi contiamo una trentina di fedeli, che diventano un centinaio riunendo le persone a noi vicine. Il nostro obiettivo è accrescere la fede e il numero di fedeli. La nostra è l’unica comunità funzionante da Napoli in giù. In Sicilia sono vicini a noi persone da Siracusa, Agrigento, Palermo”.
- Quanto è forte l’impronta giudaica in Sicilia? “Basta riconoscere cognomi come Di Dio per comprenderne l’origine ebraica e immaginare quanto sia in realtà ampia la base della nostra comunità nell’Isola. Ma è altrettanto possibile trovare in giro per il mondo radici siciliano-ebraiche, come accade per esempio con la Comunità del Canada. Abbiamo costituito un’associazione impegnata a cercare i luoghi in cui ha vissuto la comunità ebraica della Sicilia: parliamo davvero di archeologia, ma diamo anche la possibilità di analizzare la genealogia per riscoprire la propria discendenza. Gli ebrei sono venuti in Sicilia nel Duecento e non sono più andati via”.
- Come vi ponete nei confronti delle conversioni religiose? “La nostra comunità resta aperta all’accoglienza di tutti i fratelli e nei casi che lo richiedono valuta la veridicità della fede. Il nostro obiettivo è fare crescere il credo e il numero di credenti. Come già detto, il vero messaggio del giudaismo è l’apertura: non delegittimiamo nessuno né respingiamo chi si avvicina a noi con una fede differente”.
• Il terribile insegnamento dell’Olocausto e le riflessioni sull’umanità di ieri e oggi
- Qual è il messaggio della fede ebraica? “Il senso del messaggio del giudaismo, del Profeta, è un messaggio importante perché parla del particolare e dell’universale. Abbiamo un nucleo in cui nell’immaginario vogliamo racchiude l’importanza del pensiero di giustizia o fratellanza tra le persone. Poi c’è il messaggio universale secondo cui tutti noi esseri umani discendiamo da una coppia, Adamo ed Eva, quindi in ultima istanza, in quanto uomini, siamo tutti fratelli. Il vero messaggio del giudaismo è l’apertura verso i fratelli, andare nelle strade per provare a costruire una società migliore. È bene conoscere quello che pensano i Profeti e cosa c’è scritto nella Torah, ma dobbiamo fare, agire, e non solo per i giudei. Il giudaismo non è un credo chiuso, è aperto, per creare una società con più amore, giustizia e pace. Il nostro scopo deve essere vivere da bravo cittadino, bravo dottore, bravo vicino”.
- Nel ricordare l’Olocausto qual è la giusta riflessione da compiere secondo lei? “Nei giorni scorsi siamo stati nelle scuole per parlarne. Ritengo che la domanda abbia una risposta nella Torah: pensando a quel tristissimo evento tutti ci facciamo domande sulla condotta di Hitler, ma difficilmente riflettiamo su noi stessi e le comunità di persone che vivevano in quel tempo? Cosa è stata l’umanità negli anni dell’Olocausto? Cosa facevano le persone quando ogni giorno sentivano giudizi negativi sugli ebrei? Dio ha domandato a Caino: ‘Dov’è tuo fratello?’. La domanda più importante nella Torah è: ‘Dove sei tu?’. Così si può dare una risposta quando si pensa alle condizioni riservate agli ebrei, ma anche per esempio agli omosessuali”.
• Un impegno condiviso per un futuro più roseo
- Viviamo ancora oggi in una società di conflitti… “Viviamo in un mondo in cui tutti gli uomini sono in lotta. L’educazione delle persone è verso l’Io. Se la mia religione crede nel paradiso va bene, altrimenti andrò all’inferno. Questo è pericoloso: contrappone le persone e delegittima le diverse posizioni. Ognuno conserva invece naturalmente la propria identità e capendo questo il giudaismo parla di universalità. Conosciamo la storia, ognuno ha la propria identità e per questo noi parliamo di universalità. Se sei cristiano hai una religione differente, d’accordo, ma discendiamo dalla stessa coppia. Com’è possibile allora che oggi gli uomini siano in lotta? In tutte le scritture ebraiche c’è l’insegnamento a promuovere giustizia, fratellanza e pace. Impegniamoci per questo futuro”.
(QdS.it, 14 febbraio 2023)
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“Curiamo centinaia di vittime del sisma, molti bambini tra i nostri pazienti”
In 72 ore sono state curate oltre trecento persone nell’ospedale da campo allestito da Israele in Turchia. E lo sforzo per aiutare le vittime del sisma continua senza sosta, ha dichiarato il viceambasciatore d’Israele ad Ankara Nadav Markman. L’ospedale, pienamente operativo da venerdì mattina, fornisce una serie di cure, dalla terapia intensiva alla pediatria, dalla chirurgia generale all’ortopedia. È stato allestito nella città di Kahramanmaraş, nella Turchia meridionale.
“Da quando siamo arrivati qui, abbiamo fornito cure a centinaia di pazienti, non solo del terremoto, ma anche affetti da malattie croniche che non hanno potuto trovare un ospedale dove farsi visitare”, la testimonianza del medico Raymon Mokalled, parte della delegazione. Tra i pazienti, molti bambini “che hanno perso le loro famiglie sotto le macerie, e arrivano in condizioni molto critiche”. Il medico ha raccontato ad alcuni media locali dell’arrivo tra gli altri di un bambino siriano che aveva tra i 4 e i 5 anni. Era rimasto sotto le macerie per cinque giorni senza mangiare né bere prima di essere salvato. “È stato difficile per noi vedere un bambino di 5 anni in condizioni così critiche. Piangeva e voleva vedere la sua famiglia, ma noi sapevamo che fosse morta”, il racconto di Mokalled. Il piccolo è stato poi dimesso dall’ospedale quando le sue condizioni sono migliorate. “Non le dimenticheremo mai. – ha proseguito il medico – “questo ci fa capire l’importanza della nostra presenza qui e l’importanza di curare queste persone”.
Il numero dei morti del sisma che ha colpito Turchia e Siria ha superato le quarantamila. Delegazioni da tutto il mondo sono arrivate per prestare soccorso alle popolazioni colpite. Israele, oltre all’ospedale da campo, ha fornito anche squadre di salvataggio, che hanno iniziato a operare poche ore dopo il sisma in Turchia. Per questioni di sicurezza però uno dei team è dovuto rientrare. “Purtroppo, abbiamo appena ricevuto informazioni su una minaccia concreta e immediata alla delegazione israeliana. – ha fatto sapere la United Hatzalah, una delle realtà israeliane presenti in Turchia – Dobbiamo mettere la sicurezza del nostro personale al primo posto”.
(moked, 13 febbraio 2023)
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Vaccini Covid, il Nyt fa causa a von der Leyen: "Nascose i messaggi al Ceo di Pfizer"
La richiesta riguarda il negoziato che ha portato all'acquisto delle dosi di vaccino.
Il New York Times ha deciso di portare la Commissione Europea in tribunale per non aver reso pubblico lo scambio di messaggi tra la presidente, Ursula von der Leyen, e il Ceo di Pfizer Albert Bourla, riguardo il negoziato che ha portato all'acquisto delle dosi di vaccino per il Covid. Il quotidiano sostiene che la Commissione aveva l'obbligo di rendere pubblici i messaggi, in nome della trasparenza, perché potrebbero contenere informazioni utili legate all'acquisizione per miliardi di dollari di dosi di vaccino. Lo riporta Politico, svelando l'ultimo passaggio della grande attenzione che il Nyt ha dedicato alla trattativa. Il New York Times si è limitato a emettere un comunicato, evitando ogni ulteriore commento. "Presentiamo - si legge - molte richieste di accesso a documenti di interesse pubblico. Non possiamo fare commenti questa volta sul soggetto al centro della causa". La Commissione Europea non ha rilasciato dichiarazioni. La causa segue un filone investigativo avviato nel gennaio 2022, quando era risultato che la Commissione non avesse ottemperato alla richiesta del giornalista Alexander Fanta, di netzpolitik.org, sito tedesco specializzato in diritti digitali, che aveva chiesto di poter leggere lo scambio di messaggi tra von der Leyen e il ceo di Pfizer. La commissaria alla Trasparenza per l'Unione Europea, Vera Jourová, aveva risposto che i messaggi potevano essere stati cancellati, a causa della loro "natura effimera". La risposta non è stata ritenuta soddisfacente. Il quotidiano tedesco Bild aveva presentato un'analoga richiesta di accesso ai documenti, ma legati ai negoziati che avevano portato all'acquisto da parte dell'Unione Europea dei vaccini prodotti da Pfizer/BioNTech e AstraZeneca. I documenti a cui Bild ha avuto accesso non contenevano lo scambio di email tra la presidente della Commissione Europea e il ceo di Pfizer.
(la Repubblica, 13 febbraio 2023)
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L’ondata terroristica non si ferma
di Ugo Volli
- Una catena di omicidi L’offensiva terroristica in Israele, esplosa già nella scorsa primavera, prosegue. Sabato un arabo israeliano di 31 anni, Hossein Karake, ha investito con la sua automobile un gruppetto di persone in attesa dell’autobus alla fermata di Ramot, un quartiere di Gerusalemme, uccidendo due fratelli bambini di 8 e 6 ann, Asher e Yaakov Menachem e un giovanissimo studente rabbinico, il ventenne Alter Shlomo Liderman. Diversi altri feriti, fra cui il padre dei due bimbi. Pochi giorni prima, un altro terrorista aveva sparato sui fedeli che uscivano da una sinagoga, uccidendo sette persone; il giorno successivo, il 29 gennaio, un ragazzino di 13 anni, ha ferito gravemente un padre e un figlio, sempre a Gerusalemme. Nel frattempo, le forze di sicurezza israeliane sono dovute intervenire ripetutamente in diverse località di Giudea e Samaria, dove erano state segnalate cellule terroristiche pronte a entrare in azione. Quasi sempre queste operazioni di arresto incontrano resistenza armata, che per lo più si concludono con la morte dei terroristi.
- “Terza intifada”? Qualcuno, anche da parte israeliana, chiama questa ondata terrorista “intifada”, che è una parola araba indicante il “sussulto” o lo “scossone” di un animale, da cui “sollevazione” e “rivolta”, che fu già applicata ai disordini degli anni Ottanta e poi a quelli fra il 2000 e il 2005. Anche il ministro della Sicurezza Pubblica Ben Gvir vi ha accennato, chiedendo alle forze dell’ordine di preparare una seconda operazione “Muro di difesa”, che fu il nome dell’intervento massiccio nelle città arabe capace finalmente di soffocare quell’ultima grande ondata di disordini. Ma alla situazione attuale manca il carattere di massa che caratterizzava le agitazioni precedenti. Vi sono piuttosto gruppi e cellule di giovani collegati ai principali gruppi terroristici, da Fatah (presieduta dallo stesso leader dell’Autorità palestinese Abbas) a Hamas, fino alla Jihad Islamica. Costoro sono ben armati di fucili mitragliatori, anche se sono capaci di usarli piuttosto contro i civili che contro le forze militari israeliane; spesso sono stati addestrati dall’Autorità Palestinese e risultano membri della sua “polizia” o dei suoi “servizi”; agiscono in maniera autonoma ma coordinata con le centrali del terrorismo.
- Perché scegliere la morte? Al di là delle etichette, ci sono due domande su cui vale la pena di soffermarsi. La prima è che cosa spinga giovani uomini di vent’anni o poco più, o addirittura ragazzini di 13, ad andare ad ammazzare dei passanti che non hanno alcuna colpa, con la certezza che nella maggior parte dei casi anche loro ci rimetteranno la vita. Guardando i filmati di questi attentati, è evidente che chi li compie cerca la morte di vittime che non conosce e anche la propria. Non c’è quasi tentativo di proteggersi, ma solo desiderio di sangue e di strage. Si tratta del frutto di un culto della morte che non ha eguali al mondo, venendo istillata fin da quando i futuri terroristi sono bambini piccoli. Si trovano in rete (e soprattutto nell’impressionante documentazione meritoriamente raccolta da memri.org) migliaia di esempi di indottrinamento alla morte: recite all’asilo, bambini che si esercitano con fucili più grandi di loro o mimano catture ed esecuzioni di “sionisti”, fumetti, canzoni, trasmissioni televisive, discorsi, manifestazioni di piazza, in cui si ribadisce che quel che più conta è “ammazzare gli ebrei”. Neanche le SS subivano un lavaggio del cervello così intenso e continuo. Bisogna dire che in buona parte esso è finanziato dagli Usa e dall’Europa (dunque anche dalle nostre tasse), attraverso quell’organismo incorreggibile che è l’UNRWA, il braccio dell’Onu che fra l’altro gestisce buona parte delle scuole in Giudea, Samaria e Gaza.
- Gli obiettivi politici La seconda domanda è quali siano gli obiettivi politici di questo terrorismo. Esso certo non è in grado di disarticolare la difesa israeliana - neanche ci prova in realtà -; o di indurre gli israeliani ad arrendersi o fuggire, come ogni tanto suggeriscono i deliranti filmati propagandistici di Hamas. Se lo scopo è quello di attirare simpatia alla loro causa, anche in questo è un fallimento. Non solo non vi è vera solidarietà internazionale alla “lotta” di questi assassini di bambini, ma si sono avute dissociazioni significative, per esempio da parte degli stati arabi del Golfo e perfino del primo partito arabo alla Knesset, il Ra’am guidato da Mansour Abbas. Vi è senza dubbio il potenziale di odio e vendetta indotto dall’indottrinamento che gli attentatori vogliono esprimere e sfruttare. Ma gli obiettivi politici sono probabilmente altri. In primo luogo, paradossalmente, si tenta col sangue e con l’estremismo di estrarre il movimento palestinista dall’insignificanza cui proprio il sangue versato e l’estremismo l’ha confinato. Si vuole mostrare cioè che senza dar posto ai terroristi e alle loro istanze irrealistiche non potrà esservi pace in Medio Oriente. Ma è proprio il loro obiettivo politico, cioè la distruzione di Israele, a renderli insignificanti. Naturalmente chi li appoggia nonostante tutto, come ha fatto per esempio il sindaco di Barcellona Ada Colau rompendo nei giorni scorsi i rapporti con Israele per l’“apartheid” dei palestinesi, e anche i manifestanti antigovernativi in Israele che hanno avuto la sciagurata idea nei giorni scorsi di esporre bandiere palestinesi alle loro manifestazioni, agevola il pensiero delirante dei terroristi.
- La lotta interna In secondo luogo vi è una lotta interna per la successione ad Abbas, dittatore ottantasettenne malato e corrotto, che tutti vorrebbero sostituire. Dato che le elezioni non sono contemplate dalla costituzione politica reale del movimento palestinista, l’uso della violenza è la premessa del potere e prima di lottare fra loro ognuno di questi gruppi esibisce le sue armi contro l’obiettivo che pensano più gradito al loro pubblico, i civili israeliani. Infine i terroristi possono avere l’illusione di avere un peso nella lotta politica israeliana, che nelle ultime settimane ha assunto forme parossistiche, con discorsi di “colpi di stato” di cui è imputato il governo, “guerra civile” che alcuni oppositori auspicano, addirittura di minacce di omicidio a Netanyahu. Si tratta di bestialità inaccettabili, ma chi ne sente parlare attraverso il filtro propagandistico dei media palestinisti può credere che sia venuto il momento di entrare in azione. È facile diagnosticare che si tratta di illusioni, ma illusioni armate e sanguinose
(Shalom, 13 febbraio 2023)
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Bensoussan: “Il conflitto arabo-israeliano ora è uno scontro tra due tipi di società”
Molto commentato ma poco conosciuto, perché lungi dall’essere una questione di storia il conflitto è diventato una questione ideologica.
da Le Figaro (2/2)
Sullo sfondo di una nuova spirale di violenza tra Israele e Palestina, lo storico francese George Bensoussan, fra i massimi studiosi di antisemitismo e medio oriente, analizza le origini del conflitto in un libro appassionante, “Les origines du conflit israélo-arabe (1870-1959, pubblicato dalla casa editrice Inédit. Dagli anni Venti del Novecento, il conflitto si è trasformato in uno scontro tra due tipi di società.
Le Figaro – Venerdì 27 gennaio, una sinagoga di Gerusalemme è stata colpita da un attentato che ha provocato sette vittime civili. Questo attacco è stato commesso all’indomani delle operazioni dell’esercito israeliano contro il jihad islamico in Cisgiordania, ma anche lo stesso giorno delle commemorazioni internazionali delle vittime della Shoah e durante la preghiera. Che cosa indica la data di questo attacco terroristico? Georges Bensoussan – Non penso che ci sia un legame tra la giornata internazionale di commemorazione della Shoah il 27 gennaio e il passaggio all’azione dell’assassino. Tanto più che in Israele la commemorazione della Shoah non si svolge il 27 gennaio, ma nel mese di aprile – è una delle tre giornate di commemorazione assieme alla giornata del Ricordo dei soldati morti per l’esistenza dello Stato ebraico e alla giornata dell’Indipendenza immediatamente successiva. Ma è assolutamente possibile, detto questo, che i fatti avvenuti a Jenin la vigilia abbiano accelerato il passaggio all’azione di quest’uomo.
- Anche la scelta del luogo, Gerusalemme, non è casuale. Perché la Città santa è da sempre l’epicentro del conflitto? Gerusalemme è l’epicentro del conflitto dalla fine degli anni Venti con la politica condotta da colui che gli inglesi designarono nella primavera del 1921 come muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini. Il quale capisce rapidamente che il nazionalismo non può smuovere delle folle il cui paesaggio mentale è estraneo al concetto di nazione nel senso moderno del termine, è anzitutto familiare e clanistica, ancorato alla umma, la comunità dei credenti. Al-Husseini capisce che l’islam, da solo, federerà la lotta per la Palestina araba trasformando un conflitto nazionale in un conflitto religioso, concentrato sul Muro del pianto confinante con la spianata delle Moschee degli uni e il monte del Tempio degli altri. Fatto che gli permetterà di creare una mobilitazione che arriva fino all’islam indiano. La focalizzazione su Gerusalemme è dunque il risultato dell’islamizzazione di una battaglia di cui gli arabi cristiani erano stati i principali iniziatori. Un secolo dopo, l’influenza religiosa, musulmana o ebrea, sancisce il fallimento della politica, con tutti i rischi che ciò implica.
- Lei spiega che la genesi del conflitto arabo-israeliano, la cui attualità è abbondantemente raccontata dai media, resta poco conosciuta. Come spiega questo paradosso? Se il conflitto è ben raccontato nella prima metà del Ventesimo secolo, passa in seguito in secondo piano con la Guerra fredda, e questo almeno fino alla Guerra dei sei giorni (1967) a partire dalla quale, invece, viene abbondantemente raccontato dai media, soprattutto se si paragona con le recenti tragedie avvenute nell’Africa nera. Abbondantemente commentato ma poco conosciuto perché, lungi dall’essere una questione di storia, il conflitto è diventato una questione ideologica. Chi non ha notato il biasimo quasi universale di cui è oggetto lo Stato di Israele all’Onu: 240 condanne per Israele all’assemblea generale delle Nazioni unite tra il 2015 e il 2021, contro 22 per la Russia, 8 per la Corea del Nord, 10 per la Siria e 0 per la Cina, la Libia, il Pakistan, etc.
- Secondo lei, fin dall’inizio, non si tratta soltanto di uno scontro tra due nazionalismi, ma anche di uno scontro culturale e religioso? Fin dagli anni Venti, il conflitto si è trasformato in uno scontro tra due tipi di società. Non è uno scontro islam/giudaismo (all’epoca, il movimento sionista era profondamente secolarizzato), ma lo scontro tra una società moderna figlia dell’Europa dei Lumi, occidentale nel modo di pensare, e una società rurale, clanistica e islamica, estranea all’occidente. Questa linea di confine è una delle chiavi della vittoria israeliana del 1948.
- La questione dell’antisemitismo è presente fin dall’inizio del conflitto arabo-palestinese? Qual è il legame con la dhimmitudine e la sua abolizione? Non si tratta di antisemitismo, ma dello status dell’ebreo in terra arabo-musulmana, dello status di dhimmi, questo individuo protetto ma inferiore a livello normativo e ontologico. Con l’affermazione di un’emancipazione dell’individuo e con la rivendicazione di una sovranità nazionale su una terra che struttura l’immaginario del mondo ebraico, il sionismo spezza per numerosi ebrei un’antica sottomissione e, per molti musulmani, una visione del mondo impermeabile all’uguaglianza di tutti gli esseri umani.
Il Foglio, 13 febbraio 2023)
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"Così seppellimmo Priebke in segreto nel cimitero di un carcere": intervista a Giuseppe Pecoraro
Parla l'ex prefetto di Roma che nascose la salma del capitano delle SS: "Penso si debba partire dai valori che sono alla base della democrazia e che ci impongono di avere rispetto per il corpo del vinto, anche se colpevole".
di Ezio Mauro
- Giuseppe Pecoraro, 72 anni. Lei oggi coordina la lotta all'antisemitismo dopo aver passato tutta la sua vita professionale nelle prefetture d'Italia, a Rovigo, Prato, Benevento. È stato vicecapo della polizia e soprattutto, dal 2008 al 2015, è stato Prefetto di Roma. Per lei questa storia comincia l'11 ottobre del 2013, quando il telefono squilla nel suo ufficio. Chi la sta chiamando e perché? "È il professor Ignazio Marino, sindaco di Roma, che quasi urlando, mi dice: "E' morto Priebke, e io non ritengo di provvedere alla sua sepoltura. I motivi sono di ordine pubblico: tra i neofascisti che lo vogliono celebrare, la sinistra che lo vuole contestare, io non me la sento di ospitare rito funebre e funerale, e avverto il governo"".
- Ma il sindaco ha questo potere di vietare un funerale? "Il sindaco non può impedire che si svolga un funerale, ma può far sì che avvenga in forma privata".
- Quindi in quel momento irrompe tra i suoi doveri un compito non previsto: gestire funerale e sepoltura di Priebke, l'ufficiale delle SS che era stato vicecomandante della Polizia di Roma occupata, che dava la caccia agli antifascisti, che li torturava nel carcere di via Tasso e che alle Fosse Ardeatine teneva la contabilità dei giustiziati, 335, 5 in più di quanto era stato deciso per rappresaglia dopo l'attentato di via Rasella. Si rende immediatamente conto della delicatezza del caso? "Non c'è dubbio. Il nome di Priebke è tristemente famoso e a Roma tutti ricordano le Fosse Ardeatine, tutti conoscono il Male causato da quest'uomo, che per di più non si è mai pentito. Sapevo cosa stava per succedere ed ero molto preoccupato".
- La figura di Priebke aveva già creato problemi di ordine pubblico? "Sì, periodicamente c'erano state delle azioni di protesta nei suoi confronti, come pure iniziative nostalgiche, ad esempio la festa per i suoi cento anni".
- Un caso di rilevanza mondiale. Lei cosa decide di fare come prima mossa? "Sapevo che Priebke si trovava nella Cappella del Gemelli, dov'era morto. Per cui ho pensato che lì si potesse svolgere il rito funebre, e ho chiamato il Cardinal Vallini, Vicario di Roma: subito si è detto d'accordo, ma quando si è reso conto che molte persone di destra e di sinistra si stavano mobilitando per andare al Gemelli, mi ha chiesto di trovare un'altra soluzione. Dovevo ricominciare".
- Decide subito di contattare i figli di Priebke? "Sì, vivono all'estero, uno in Patagonia e l'altro negli Stati Uniti. La prima idea che mi viene è quella della cremazione".
- Perché? "Sono sincero: era la cosa più semplice, perché con la cremazione veniva meno il corpo, elemento simbolico e materiale per i nostalgici, al centro di possibili conflitti politici. Ma i figli non mi hanno concesso l'autorizzazione".
- Lei si è trovato davanti una domanda millenaria: che fare col corpo del nemico? C'è il problema che quel corpo da vivo non ha mai voluto separarsi dalla colpa, e quindi ne è ancora in qualche misura investito. Bisogna evitare che diventi un sacrario nazista, o un luogo d'oltraggio. Cosa si può fare? "Io penso che si debba partire dai valori che sono alla base della nostra democrazia, e che ci impongono di avere rispetto per il corpo del vinto, anche se colpevole".
- Sta dicendo che la Repubblica processa perché vuole giustizia, rispetta la condanna ma non cerca vendetta? "Non pratica vendette, la democrazia, e questo è un insegnamento per tutti".
- Ma c'è una contraddizione: tocca a lei provvedere alla sepoltura di Priebke, come prefetto di Roma, ma Roma non vuole questi funerali perché è la città delle Fosse Ardeatine. Come si scioglie questo nodo? "Innanzitutto tenendolo ben presente. Non era possibile avere uno dei colpevoli dell'eccidio delle Fosse Ardeatine vicino a chi era morto in quella strage. La popolazione di Roma non avrebbe mai accettato".
- Il sindaco dice di no, il Vicariato di Roma si tira indietro, al Gemelli non è possibile fare questi funerali, i figli negano il permesso per la cremazione. Dunque? "Si pone il problema di cosa fare della salma. Una soluzione sta diventando urgente. Ed ecco che mi arriva un telegramma dalla Comunità lefebvriana di Albano Laziale, che si dichiara disponibile a officiare i funerali di Priebke".
- Ma la Comunità lefebvriana di Albano era finita nell'occhio del ciclone nel 2009, quando Monsignor Richard Williamson disse che nei campi nazisti non c'erano le camere a gas, e poi si dovette scusare con Papa Benedetto XVI. In più proprio in quei giorni, la commissione giustizia del Senato istituisce il reato di negazionismo: forse i lefebvriani non erano la soluzione più giusta, non crede? "Ma lei non considera che io dovevo togliere la salma dall'ospedale Gemelli, perché la gente stava affluendo, col rischio di scontri. Bisognava andare ad Albano Laziale dove c'era questa Cappella disponibile. E dove, altrimenti?".
- Ma quando il furgone con la salma di Priebke arriva davanti all'Istituto San Pio X succede il finimondo. Se lei tornasse indietro, considererebbe ancora quella dei lefebvriani la soluzione migliore? "Non so se era la soluzione migliore, certo in quel momento era l'unica".
- Il sindaco però, nella sua ordinanza, invoca problemi di ordine pubblico. Come mai lei decide di andare comunque avanti? "Perché il sindaco non poteva rivendicare motivi di ordine pubblico, in quanto si trattava di un rito funebre in una cappella privata, in un suolo privato. Per cui non poteva interferire. Anzi, dovevamo sbrigarci perché gruppi di estremisti stavano arrivando da Roma".
- La situazione è questa: alle 19.30 la funzione, che doveva cominciare due ore prima, non è ancora iniziata. Alle 19.50 è definitivamente sospesa. Cosa sta succedendo? "Come temevo cominciano gli scontri. Per evitare il peggio annullo il funerale in attesa di trovare il momento opportuno per portare via la salma di Priebke".
- Ma quel corpo adesso è dentro l'Istituto San Pio X assediato dai fascisti. Come pensa di impadronirsi della bara? "Faccio arrivare ad Albano Laziale un furgoncino anonimo con agenti di polizia in borghese. Quando i neofascisti vanno a mangiare gli agenti penetrano all'interno, trasportano la bara fuori attraverso la finestra, la caricano sul camioncino e partono".
- Siamo al rocambolesco, la bara trafugata dalla finestra. Quel furgoncino col corpo di Priebke in fuga è un po' l'immagine del fallimento di questa prima fase e mette lei al centro delle polemiche. C'è chi chiede le sue dimissioni, molti l'accusano di fare scelte di parte, ideologiche. Lei pensa di gettare la spugna, di rinunciare? "Non ci penso proprio, in quel momento cerco solo di portare la bara altrove, evitando incidenti. L'unica preoccupazione non riguarda gli attacchi a me, ma il rischio che nel trasferimento il furgone con la salma possa essere intercettato".
- Dove lo sta dirigendo? "Verso Pratica di Mare, dove c'è una caserma dell'aeronautica, e quindi nel caso posso chiedere l'aiuto dei militari presenti".
- Intanto i suoi piani saltano ad uno ad uno. Che ipotesi rimangono sul suo tavolo? "Guardi, a un certo punto ho ipotizzato un trasferimento della salma in Argentina, dove Priebke aveva vissuto per un lungo periodo, ma Buenos Aires non ha mai risposto ai nostri sondaggi. Poi ho pensato alla Germania, ma i tedeschi non ne volevano proprio sapere, chiedevano soltanto che noi arrivassimo infine alla sepoltura del corpo. Rifiuto netto anche dai cimiteri militari tedeschi, perché Priebke non era morto in guerra: e dai sindaci di quattro città, che contatto e mi dicono di no".
- Nessuno vuole il corpo del nemico. Lei però è in una tenaglia. Per il rispetto della storia deve evitare un'altra Predappio, per il rispetto della democrazia deve dare sepoltura al corpo di Priebke. La bara è ferma in un hangar con la finestra aperta a Pratica di Mare. Quanto può reggere una situazione del genere? "Infatti, non poteva reggere. Sentivo anche la pressione dell'aeronautica, affinché io portassi via la salma, i soldati mormoravano, tant'è che per evitare complicazioni ho disposto un'altra zincatura della bara. Ma tutto questo non basta".
- Cioè lei capisce che deve compiere una scelta, deve prendere una decisione? "Certamente. Dovevo uscire da questa impasse, toccava a me. Prima di tutto perché me ne ero assunta la responsabilità di fronte al governo. Poi, e soprattutto, perché la sepoltura di Priebke era diventata una questione internazionale".
- Si è reso conto allora che il nome di Priebke rendeva il caso universale? "Certo, il mondo ci guardava per la difficoltà di decidere ma soprattutto per ciò che Priebke era stato, con le sue azioni e le sue parole".
- Siamo in una situazione in cui l'urgenza incalza fortemente, ma il muro dei no impedisce una soluzione. Come si può forzare questo sbarramento? "Ragionando su Priebke, sulla sua vita, sui crimini, sul giudizio, la condanna. A un certo punto mi trovai a pensare: ma era un detenuto... è morto da detenuto...".
- Lei trova un bandolo nella sentenza del 1998 che condanna Priebke e fa sì che al momento della morte Priebke fosse tecnicamente un carcerato: è così? "Esattamente. Era la svolta. Mi sono detto, ma se muore un detenuto dove viene sepolto? Se nessuno richiede la salma, viene sepolto nel cimitero del carcere".
- Quindi? "Quindi io potevo utilizzare la condizione giudiziaria di Priebke - detenuto - per arrivare alla sepoltura nel cimitero di un carcere. Così c'è l'inumazione della bara, ma il muro della prigione impedisce ogni pellegrinaggio e ogni oltraggio".
- Ma anche in questi casi bisogna chiedere l'autorizzazione ai sindaci? "Certamente. Quindi dovevo trovare un carcere il cui cimitero non era amministrato da un sindaco. Con fatica lo abbiamo individuato, ho chiamato il direttore del carcere e l'ho informato di dover svolgere un'azione coperta dal segreto di Stato".
- Senza dire chi era il detenuto che veniva sepolto? "Certo, senza dire nulla".
- E lo ha vincolato al segreto? "Per forza: anzi, mi ero fatto fare dal Ministro dell'Interno una delega per cui tutta l'operazione era coperta da riservatezza. Tutti dovevano mantenere il segreto".
- Non crede il segreto assoluto, il "segretissimo", sia la conferma di quanto è ancora difficile un rendiconto pubblico sulla tragedia del secolo scorso? "Infatti. Era necessario mettere il "segretissimo" proprio per evitare speculazioni e manifestazioni nostalgiche".
- Sono le 11 di sera di un venerdì, 14 giorni dopo la morte di Priebke. È l'ora della scelta: il cimitero di un carcere. In questo modo Priebke avrà la sua tomba come voleva, ma l'avrà nella terra del paese che è stato profanato con l'eccidio, e sarà una terra prigioniera. È questa la soluzione? "Sì, una soluzione capace di soddisfare i valori della democrazia e anche la famiglia Priebke. Informo i figli che verrà sepolto in forma riservata e in un luogo segreto. Tanto è vero che il direttore del carcere e gli uomini che portano la bara nel cimitero non sanno di chi è la salma che viene sepolta".
- È verso quel cimitero che si dirige la station wagon partita da Pratica di Mare: la bara coperta da un telo passa davanti all'ultima bandiera italiana, entra nel carcere nella sospensione della domenica, quando non ci sono visite né lavori, mentre i detenuti sono tutti in cella. Chi si occupa della sepoltura? "Due carabinieri partiti da Roma con una zappa, un piccone e una croce che verrà messa sulla tomba, con un numero. Quel numero è riportato su un foglio che io ho custodito nella cassaforte in prefettura. Serve a identificare la tomba, se un giorno i figli vorranno visitarla".
- Sono venuti? "Non mi risulta".
- Lei è andato a visitare la tomba di Priebke? "Sono andato per controllare l'esito finale di questa vicenda incredibile, e per avere la prova che lo Stato democratico in silenzio ha fatto il suo dovere. Oggi finalmente la vicenda Priebke è chiusa".
- Lei sta dicendo che la democrazia, compiuto il suo dovere, può riprendersi i suoi diritti, a partire dalla distinzione tra il bene e il male? "Proprio distinguendo tra il bene e il male si afferma la forza della democrazia e il dovere della giustizia".
- Prefetto, da questa vicenda si può trarre la lezione che non esistono situazioni impossibili, perché c'è sempre la possibilità della scelta, il dovere della scelta? "Le lezioni sono due: l'impossibile può essere sfidato, l'importante è assumersi la responsabilità di una scelta, che c'è sempre. Ma i fantasmi del Novecento sono ancora pericolosi, soprattutto per i giovani. Per questo non bisogna avere nessuna indulgenza: guai a essere indifferenti, la storia insegna".
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Sintesi dell’intervista di Ezio Mauro a Giuseppe Pecoraro sulla sepoltura di Erich Priebke per il programma “La Scelta”, prodotto da Rai Approfondimento e Stand By Me. L’intervista integrale il 13 febbraio su Raitre alle 23.15
(la Repubblica, 13 febbraio 2023)
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Netanyahu: «Sulla riforma giudiziaria è possibile il dialogo»
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha invitato «l'opposizione» al suo governo «ad agire in modo responsabile» aggiungendo che «è possibile discutere e dialogare» sulla riforma del sistema giudiziario presentata dal suo esecutivo.
«È possibile suggerire alternative, questo è necessario, ma le linee rosse – ha aggiunto aprendo la riunione di governo -, non possono essere attraversate. Le linee rosse sono state attraversate negli ultimi giorni da elementi estremisti che hanno un unico obiettivo: provocare intenzionalmente l'anarchia».
«Sono certo che la stragrande maggioranza dei cittadini di Israele, che sostengano o meno la riforma, si oppongono a questo estremismo e non permetteranno – ha concluso – che il paese cada nell'anarchia».
Il Gabinetto di sicurezza israeliano è pronto «a preparare un'operazione più ampia verso coloro che praticano il terrorismo, e i loro sostenitori, a Gerusalemme est e in Giudea e Samaria», ha detto il premier israeliano dopo gli ultimi attentati a Gerusalemme.
Inoltre – sempre secondo il premier – il governo autorizzerà il Consiglio di gabinetto «a rafforzare gli insediamenti nella nostra terra, che i terroristi stanno cercando di sradicare».
(blueNews, 12 febbraio 2023)
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Scienza: ecco il robot bio-ibrido in grado di riconoscere gli odori!
di Melissa Marocchio
In Israele un team di ricercatori è riuscito a dare vita a un robot dotato di un senso dell’olfatto centinaia di volte migliore di quello umano. Come per l’uomo, anche il “naso” di queste macchine ha avuto un’importante storia evolutiva, arrivando a perfezionarsi sempre di più; ora, questo nuovo esemplare potrà rivestire un ruolo fondamentale anche nel fiutare esplosivi e narcotici…
• Un robot bio-ibrido
I ricercatori israeliani dell’Università di Tel Aviv non hanno creato qualcosa di completamente artificiale: la peculiarità dell’automa sta infatti nell’essere bio-ibrido. I cosiddetti cyborg sono dispositivi che integrano cellule biologiche e materiali sintetici per emulare le caratteristiche di un organismo vivente. Questo studio, riportato da Focus, è stato realizzato utilizzando come sensori le antenne di una locusta del deserto. Le antenne sono collegate a un sistema elettronico capace di misurare la quantità di segnale elettrico prodotto quando rilevano un odore; ognuno di questi viene quindi trasformato in un specifico bit. Per analizzare ogni bit, gli scienziati si sono serviti di un particolare software basato su machine learning che li identifica e li distingue perfettamente tra loro. Nel suo complesso, il sistema ha una estrema sensibilità: riconosce gli odori 10.000 volte meglio di tutti gli altri dispositivi mai realizzati per questa specifica funzione (riconoscere odori). Il range di odori puri che la macchina è in grado di riconoscere è per ora limitato; infatti, tra gli unici otto, troviamo il limone, il geranio, il marzapane e qualche mix di alcune di queste sostanze.
• Fiutare esplosivi o narcotici Secondo le previsioni dei ricercatori, il robot in un futuro non troppo lontano potrà essere utilizzato per fiutare esplosivi o narcotici nascosti in luoghi che gli uomini e i cani delle forze dell’ordine non riescono a raggiungere. Già nel 2016 un gruppo di scienziati della US Navy aveva cominciato una sperimentazione sulle “locuste-cyborg”; in questo caso, i ricercatori avevano insegnato alle locuste a riconoscere l’odore degli esplosivi… Per rimanere sempre aggiornato sulle ultime invenzioni e notizie dal mondo continua a seguire Nasce, Cresce, Ignora.
(nascecresceignora.it, 12 febbraio 2023)
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Un nuovo Medio Oriente? La strategia di Netanyahu secondo Michael (Inss)
Fermare l’Iran e normalizzare le relazioni dell’Arabia Saudita per ripensare il Mediterraneo allargato e portare i palestinesi al tavolo dei negoziati. Ecco cos’ha in mente il premier israeliano secondo l’esperto.
di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi
Benjamin Netanyahu “ha ben chiaro il suo orizzonte strategico”, dice Kobi Michael, docente all’Institute for National Security Studies presso l’Università di Tel Aviv, a Formiche.net. Una visione chiara e netta, che il primo ministro israeliano vuole portare avanti nonostante, se non addirittura sfruttando, i suoi alleati di governo, compresa la destra religiosa che sembra rappresentare a volte un ostacolo nei rapporti con gli Stati Uniti di Joe Biden, aggiunge. L’obiettivo di Netanyahu è “la ristrutturazione del Medio Oriente e oltre”, spiega indicando quello che per l’Italia è il Mediterraneo. Il professore cita, infatti, anche l’Italia assieme alla Grecia e alla Turchia. Raggiunto questo scopo, “allora i palestinesi saranno costretti a sedersi al tavolo negoziale”, afferma. Come fare? Due sono le direttrici che l’esperto, ex militare delle Forze di difesa israeliane, individua: “Fermare l’Iran e i suoi proxy nella regione è la prima. Per farlo, Israele ha bisogno di raggiungere una capacità di deterrenza ‘da solo’ e del sostegno internazionale degli Stati Uniti nelle sedi multilaterali come le Nazioni Unite”. La seconda è la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita. “Ormai è la potenza leader del mondo arabo, avendo superato da tempo l’Egitto”, osserva Michael. “Israele può andare incontro all’Arabia Saudita alla luce della volontà di quest’ultima di un nuovo approccio da parte degli Stati Uniti nella regione”. Questo è lo schema Netanyahu secondo Michael. Che è pure convito che una visita presso la Spianata delle moschee di Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza pubblica israeliano e figura di spicco dell’ultradestra israeliana, definita dai governi dei Paesi arabi come una “violazione inaccettabile”, non si vedrà più “per molto, molto tempo”. Netanyahu è “pragmatico, e sa come usare anche questi episodi innescati dai suoi alleati di governo”, conclude.
(Formiche.net, 12 febbraio 2023)
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Un targa in vetro di Murano alla memoria dell'ex questore Giovanni Palatucci
Per salvare centinaia di ebrei dalla Shoah fu imprigionato nel campo di concentramento di Dachau dove morì il 10 febbraio 1945. Giovedì la cerimonia con il presidente della Comunità ebraica Davide Calimani e il questore di Venezia.
di Maurizio Masciopinto
Nel mese di febbraio, la Polizia di Stato ricorda Giovanni Palatucci, ex questore di Fiume, che per salvare centinaia di ebrei dalla Shoah fu imprigionato nel campo di concentramento di Dachau dove morì di stenti il 10 febbraio 1945, all’età di 36 anni. Giovedì, alla presenza del presidente Dario Calimani e dei rappresentanti della Comunità ebraica e del questore di Venezia, Maurizio Masciopinto, al centro comunitario della Comunità ebraica di Venezia, si è tenuta la cerimonia di commemorazione con lo scoprimento di una targa alla memoria, realizzata in vetro di Murano, sulla quale è stato riprodotto un ramo d’ulivo stilizzato.
La scelta di collocare una targa in un’aula del centro comunitario, luogo particolarmente significativo per la formazione culturale e religiosa della Comunità ebraica (dove si svolgono infatti gran parte delle attività educative e culturali che coinvolgono soprattutto bambini e giovani), ha come proposito quello di rinnovare il ricordo di un valoroso servitore dello Stato e, allo stesso tempo, coinvolgere anche le nuove generazioni a mantenere viva e pulsante la memoria di quanti, a rischio della propria vita e senza alcun interesse personale, hanno agito in modo eroico con il solo intento di salvare anche una sola vita umana in ragione del rispetto di una legge morale radicata nel proprio animo.
(VeneziaToday, 12 febbraio 2023)
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Al di là del visibile
«Dietro le quinte della storia è in corso una guerra spirituale e questa battaglia spirituale nel mondo invisibile provoca gli avvenimenti nel nostro mondo visibile. Nel mondo materiale non v'è pace poiché nel mondo spirituale sta infuriando una guerra.»
di Mark Hitchcok
C.S. Lewis pensava: «Vi sono due errori, al tempo stesso grandi e tuttavia opposti, che gli esseri umani possono commettere riguardo al diavolo ed ai suoi demoni. Uno è quello di non credere alla loro esistenza e l'altro di credere in loro e nutrire nei loro confronti un interesse eccessivo e morboso. Essi si rallegrano di entrambi gli errori allo stesso modo ed accolgono con lo stesso entusiasmo sia il materialista sia il mago». Percorrendo una galleria d'arte in Europa, un campione di scacchi si imbatté in un dipinto che lo affascinò. L'immagine mostrava un giovane che giocava a scacchi col diavolo. Il viso dell'avversario appariva estatico, quello del giovane in panico. Il dipinto recava il titolo "Scacco matto". Mentre il campione di scacchi guardava l'immagine, lo disturbò qualcosa - nel dipinto c'era qualcosa che non andava. Cercò il curatore della Galleria e lo pregò di eliminare il quadro. Poiché ciò non fu possibile, egli lo pregò di fargli incontrare l'artista. Questi acconsentì e gli diede appuntamento nella galleria. Il campione di scacchi portò con sé una scacchiera ed i pezzi. Dispose la partita esattamente come l'artista l'aveva rappresentata nel dipinto e disse: "C'è qualcosa che non va nel suo dipinto". Quando l'artista s'informò su cosa potesse essere, il campione pensò: "Lei ha dato al suo quadro il titolo "Scacco matto" ma ciò presuppone che il giovane non possa più fare alcuna mossa". Il campione spostò il re del giovane su un'altra casella e disse: "Ora è il diavolo che riceve lo scacco matto". Allora guardò il giovane nel quadro e gli disse: "Giovanotto, stai erroneamente valutando il tuo nemico con conseguenze funeste. Non devi perdere. Sei tu che vinci!". Forse ti senti di tanto in tanto come l'uomo del dipinto. È possibile che ti senta così anche in questo momento. Paura e preoccupazione ti perseguitano giorno e notte, mentre ti immagini che il diavolo stia facendo l'ultima mossa nella tua vita. Hai l'impressione di subire scacco matto da parte di problemi coniugali, finanziari, lavorativi, di salute o numerosi altri. Ho grandiose novità per te. Se confidi in Gesù Cristo come tuo Salvatore, sarai tu a vincere! Il tuo Campione ha vinto l'avversario. Il Re ha fatto la sua ultima mossa ed annuncia, attraverso la sua risurrezione dai morti: "scacco matto". La battaglia è già vinta. Tutto ciò che io e te dobbiamo ancora fare è portare a termine la partita sotto la guida della sua mano e nella nostra vittoria in Lui. Il popolo di Dio combatte contro l'avversario sulla base di una vittoria già realizzata, non per la vittoria. Al contrario di ciò che gli esseri umani potrebbero pensare, la lotta spirituale non è affatto una cosa spaventosa o inquietante. Se la capiamo, ci dà speranza, coraggio e la sicurezza che la vittoria è nostra attraverso il Signore Gesù Cristo.
Un motivo ulteriore per cui dovremmo occuparci della lotta spirituale e del mondo invisibile intorno a noi è che Dio ce li ha rivelati. Ciò basta a giustificare il nostro interesse per il tema ed il tempo che dedichiamo al suo studio. Se Dio ha descritto, nella Sua Parola, il mondo spirituale che si cela dietro la cortina del visibile, allora spetta a noi prendere sul serio questa rivelazione. Il diavolo viene menzionato per la prima volta nel capitolo 3 della Genesi e l'ultima volta nel capitolo 20 dell'Apocalisse. Non si esagera dicendo che non si può comprendere correttamente la Bibbia dall'inizio alla fine se non si sa nulla del diavolo e dei suoi complici. Dio ci ha concesso rivelazioni sul mondo invisibile dalla Genesi all'Apocalisse. Pertanto, devono essere importanti per noi. Un terzo motivo per il quale dovremmo occuparci del combattimento spirituale è che esistono molte diverse opinioni su questo tema. Sostenitori dell'odierno movimento della "Spiritual Warfare" (guerra spirituale) approvano una Cosmic-Level Spiritual Warfare (una guerra spirituale a livello cosmico), una Spiritual Mapping (mappa spirituale) così come l'identificazione ed il confronto con spiriti territoriali. Sono bibliche queste pratiche? I credenti dovrebbero partecipare a tali cose? Cosa dicono le Scritture? Sulla scorta di diverse opinioni e pratiche, i seguaci di Cristo oggi devono capire ciò che la Scrittura dice sul combattimento spirituale per non essere travolti da pratiche non scritturali e non finire nella lista delle vittime. Il combattimento spirituale non è un gioco. Per avere la meglio sul nemico, la battaglia deve essere condotta con la forza di Dio ed in base ai suoi principi. Un quarto motivo per lo studio del diavolo, dei demoni e del combattimento spirituale è che l'azione dei demoni e la battaglia spirituale, secondo la Bibbia, aumenteranno drammaticamente negli ultimi tempi (v. Apocalisse 9). Possiamo partire dal presupposto che l'azione dei demoni si accelera più ci avviciniamo a loro e proprio questo appare il caso attuale. Mentre aumenta l'intensità dell'azione dei demoni, non dovremmo tollerare che la nostra comprensione e consapevolezza della guerra invisibile diminuiscano. Si tratta di una combinazione pericolosa. Il nostro studio della battaglia spirituale deve corrispondere alla sua diffusione nel nostro mondo di oggi. Non possiamo permetterci di essere disarmati. Un quinto motivo per comprendere il mondo invisibile intorno a noi è che ci aiuta ad individuare un senso dietro a ciò che possiamo vedere. Secondo la Bibbia, un'invisibile guerra mondiale imperversa tutta intorno a noi. Per comprendere questa guerra, ci dà una prospettiva unica che gli esseri umani non hanno senza queste informazioni. Ray Stedman ci dà un'importante spiegazione del perché dobbiamo capire la guerra spirituale intorno a noi. Leggi attentamente la seguente citazione:
"Dovendo i più grandi leader mondiali combattere il dilemma della vita moderna, possono solo dire: 'Cosa c'è che non va? Qual è l'elemento ignoto che sta dietro? Non possiamo né capirlo né spiegarlo! Qualcosa sfugge alla nostra comprensione della natura e della condotta umane. Cosa è mai?'
La risposta è: dietro le quinte della storia è in corso una guerra spirituale e questa battaglia spirituale nel mondo invisibile provoca gli avvenimenti nel nostro mondo visibile. Nel mondo materiale non v'è pace poiché nel mondo spirituale sta infuriando una guerra.“
Nulla è più significativo, importante e reale della nostra partecipazione a questa violenta guerra spirituale nella causa di Dio. La dottrina biblica della battaglia spirituale ci mostra la verità sul problema basilare dell'esistenza umana e della storia ... O forse dirai: «tutto ciò è piuttosto deprimente. Preferirei non pensarci». Anche io non ci penso volentieri, ma ho capito che non si può eludere facilmente la verità. Ci si può avvicinare realisticamente a questa battaglia in un solo modo e cioè essendo forti nel Signore e nella forza della Sua possanza. Chi ignora questo appello e la battaglia che infuria intorno a lui, è condannato a caderne vittima. Non possiamo rimanere neutrali. Dobbiamo schierarci. Dobbiamo collocarci dietro la potenza di Dio, la potenza del bene. Quando comprendiamo questa guerra invisibile, possiamo vedere il mondo così com'è. Una delle verità fondamentali della Parola di Dio è che dietro la sottilissima facciata di questo mondo infuria una battaglia invisibile e spietata. Le armi del diavolo sono cariche e senza la sicura, ed il nostro nome sta sulle sue pallottole. Se non vogliamo essere annoverati fra le vittime, dobbiamo comprendere questa battaglia ed impugnare le potenti armi di Dio. Ci troviamo nel mirino del nemico. Una volta ho visto una vignetta della serie «Far Side» di Gary Larson rappresentante due cervi che stavano uno accanto all'altro. Uno dei due abbassa lo sguardo su un bersaglio collocato sul suo ventre. L'altro gli dice: "che stupida macchia hai". Che ci piaccia o no, quando vogliamo vivere per Cristo ed alla Sua gloria, siamo diventati dei bersagli. Il mio amico, il pastore Philip De Courcy mi narrò la storia che Jill Briscoe, alcuni anni fa, raccontò ad un gruppo. Essa giunse da oltre Oceano negli Stati Uniti l'11 settembre 2001. Il loro aereo venne dirottato verso Reykjavik, in Islanda, dove l'equipaggio ed i passeggeri dovettero trascorrere alcuni giorni prima di poter riprendere il loro viaggio. All'aeroporto, Jill Briscoe notò una giovane soldatessa americana. Si comportava come se fosse piena di preoccupazione e sconvolta. Infine Jill Briscoe le parlò per scoprire se stesse bene e per infonderle coraggio e consolazione. Gli avvenimenti dell’11 settembre avevano esaurito la giovane donna. Quando Jill le chiese ciò che la commuoveva così, la giovane donna disse, riferendosi alle prospettive del suo futuro: "non mi sono arruolata per andare in guerra". Molti credenti sono oggi come quella giovane soldatessa. Essi non si sono impegnati ad andare in guerra. Molti non vogliono neppure pensarci. La verità è, tuttavia, che ogni cristiano deve andare in guerra. Non abbiamo alcuna scelta, pertanto dobbiamo assicurarci di conoscere la strategia del nemico e tenere pronte le nostre armi. Il nostro nemico è spietato e cerca costantemente un'occasione propizia. Sir William Slim era comandante nell'esercito britannico; si distinse per il suo servizio in entrambe le guerre mondiali e fu ferito in tre occasioni. Quando una volta gli venne chiesto dove avesse imparato la sua più importante lezione come soldato, raccontò una storia, che è così semplice e, tuttavia, così decisiva da essere inclusa nel libro di testo del corpo di fanteria dei marines statunitense:
"Molti anni fa, come cadetto, speravo di diventare un giorno ufficiale. Studiavo i «fondamenti della guerra» nelle vecchie disposizioni del Servizio esterno, quando il maresciallo maggiore mi si avvicinò. Mi guardò con gentilezza e allegria. «Non romperti la testa con tutte queste cose, giovanotto. C'è solo una regola basilare nella guerra, non una di più. Colpisci l'altro più in fretta e più duramente che puoi, dove gli arreca più danno e dove non presta attenzione»”.
Il diavolo applica questa strategia quotidianamente contro il popolo di Dio. I nostri pensieri sulla battaglia spirituale debbono naturalmente essere equilibrati. I credenti possono essere sedotti a questo riguardo e portati ad ignorare il nemico o ad occuparsi troppo del diavolo. Entrambi gli estremi sono nocivi ed entrambi giovano al nemico. Non tenere conto del diavolo e delle sue strategie equivale a un suicidio spirituale. Al contrario, occuparsi troppo di lui e del suo regno è altrettanto pericoloso. A.W. Tozer evidenzia il pericolo di concentrarsi troppo sul diavolo e fa appello ai cristiani perché facciano di Cristo il centro di tutte le cose:
"Per vedere le cose come le vede la Scrittura dobbiamo avere costantemente il Signore davanti agli occhi e fare di Cristo il centro del nostro campo visivo. Quando il diavolo si aggira furtivamente, allora compare ai margini e viene visto come ombra vicino ad un chiarore raggiante. Il contrario è sempre sbagliato - collocare il diavolo al centro del nostro campo visivo e spingere Dio ai margini. Un tale distorto modo di vedere può soltanto avere come conseguenza una tragedia. Il modo migliore per tenere fuori il nemico è focalizzarsi su Cristo. Le pecore non hanno bisogno di temere il lupo; debbono solo rimanere vicine al pastore. Il diavolo non teme la preghiera delle pecore ma la presenza del pastore. Un cristiano istruito nella Bibbia, le cui capacità sono state formate dalla Parola di Dio e dallo Spirito Santo, non avrà paura del diavolo. Se necessario, si opporrà alle potenze delle tenebre e le vincerà attraverso il sangue dell'Agnello e la sua testimonianza. Riconoscerà il pericolo in cui si trova e saprà ciò che deve fare. Si rifugerà nella presenza di Dio e non permetterà al diavolo di determinare il suo pensiero".
Dobbiamo rammentare che Paolo usa la parola "Satana" solo dieci volte e "diavolo" solo sei volte. Al contrario, troviamo le parole "Gesù" in 219 versetti, "Signore" in 272 versetti e "Cristo" in 389 versetti. È chiaro che dovremmo dirigere la nostra attenzione su Cristo, non sul diavolo. Dobbiamo mettere al centro Cristo, non il diavolo. Apocalisse 5:5-7 ci dice che l'agnello immolato è al centro di tutto il cielo. Se l'Agnello crocifisso e risorto è il punto focale del cielo, quanto più dovrebbe essere, pertanto, il centro di tutto qui sulla terra - nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie, nel nostro matrimonio e nella nostra vita. Non possiamo permettere che la nostra attenzione venga distolta dal nostro caro Agnello che fu immolato per noi. Il nostro centro di gravità dovrebbe trovarsi nell'adorazione, non nel combattimento spirituale. Il nostro atteggiamento verso i nemici spirituali dovrebbe corrispondere allo sguardo del capitano di una squadra di calcio nei confronti della difesa avversaria. Quando egli si occupa troppo dei difensori dell'altra squadra, non noterà mai se i suoi compagni di gioco corrono in una posizione favorevole. Chi conduce il gioco deve prestare attenzione innanzitutto ai propri difensori ed attaccanti. Contemporaneamente non può perdere di vista i difensori avversari e deve prevedere le loro mosse, altrimenti il suo lancio non arriverà. Un capitano capace deve analizzare i video per delle ore per studiare le modalità di gioco dell'avversario. Quando egli si trova in campo, deve concentrarsi sul suo stesso gioco ed i suoi compagni. Così dovremmo agire anche noi nel campo spirituale. Il nostro sguardo si rivolge a Cristo ed alla sua tattica di gioco per la nostra vita. Se, tuttavia, ignoriamo il diavolo ed i suoi piani, siamo pazzi. Due passi essenziali nella Scrittura mostrano l'origine di Satana e l'inizio della guerra invisibile: Isaia 14:12-19 ed Ezechiele 28:11-19. Entrambi questi testi trattano del suo originario stato in Cielo, del suo peccato e della sua caduta. Descrivono ciò che potremmo chiamare la caduta cosmica dal Cielo. Chiariscono la creazione, la corruzione e la condanna del diavolo. Non tutti sono dell'opinione che questi passi descrivano il diavolo. Peraltro, se non dovesse intendersi il diavolo, non avremmo alcun resoconto biblico della sua caduta e della sua ribellione contro Dio. Credo che il tema di entrambi questi passi sia il diavolo e possiamo trarne la storia della sua caduta. Ezechiele 28:11-19 contiene l'ascesa e la caduta di una persona, che viene chiamata il re di Tiro:
11 La parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini: 12 “Figlio d'uomo, pronuncia una lamentazione sul re di Tiro, e digli: Così parla il Signore, l'Eterno: 'Tu mettevi il sigillo alla perfezione, eri pieno di saggezza, di una bellezza perfetta; 13 eri in Eden il giardino di Dio; eri coperto di ogni sorta di pietre preziose: rubini, topazi, diamanti, crisoliti, onici, diaspri, zaffiri, carbonchi, smeraldi, oro; tamburi e flauti erano al tuo servizio, preparati nel giorno che fosti creato. 14 Eri un cherubino dalle ali distese, un protettore. Io ti avevo stabilito, tu stavi sul monte santo di Dio, camminavi in mezzo a pietre di fuoco. 15 Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, finché non si trovò in te la perversità. 16 Per l'abbondanza del tuo commercio, tutto in te si è riempito di violenza, e tu hai peccato; perciò io ti caccio via come un profano dal monte di Dio, e ti farò sparire, o cherubino protettore, di mezzo alle pietre di fuoco. 17 Il tuo cuore si è insuperbito per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saggezza a causa del tuo splendore; io ti getto a terra, ti do in spettacolo ai re. 18 Con la moltitudine delle tue iniquità, con la disonestà del tuo commercio, tu hai profanato i tuoi santuari; io faccio uscire in mezzo a te un fuoco che ti divori, e ti riduco in cenere sulla terra, alla presenza di tutti quelli che ti guardano. 19 Tutti quelli che ti conoscevano fra i popoli restano stupefatti al vederti; tu sei diventato oggetto di terrore e non esisterai mai più'”..
Ezechiele scrisse queste parole nel VI secolo a.C., durante i 70 anni della cattività di Giuda a Babilonia. Le sue profezie possono essere suddivise in tre brani principali:
Ezechiele 1-24: giudizio su Giuda.
Ezechiele 25-32: giudizio sui vicini di Giuda.
Ezechiele 33-48: ristabilimento di Giuda ed Israele.
Nel secondo di queste tre porzioni principali, Ezechiele narra dell'imminente giudizio sugli stati pagani confinanti di Giuda e predice la caduta del capo di Tiro (28:2). I commentatori della Bibbia concordano in generale sul fatto che Ezechiele 28:2-10 tratta del re fenicio Etbaal III, il quale dominava sulla fortezza di Tiro sulla costa del Mediterraneo. Era un monarca arrogante ed avido ed Ezechiele profetizzò il giudizio che lo avrebbe colpito dopo poco tempo. Ma in Ezechiele 28:12 assistiamo ad una svolta improvvisa. Di punto in bianco, viene presentato il re di Tiro. Non è la stessa persona del capo di Tiro del versetto 2. Il capo in 28:2-10 viene definito due volte come uomo (versetti 2 e 9), mentre il re di Tiro è caratterizzato da una descrizione soprannaturale che supera di gran lunga ciò che può essere detto di un essere umano. Nessuna persona, in particolare non il cattivo capo di Tiro, potrebbe essere descritta con parole come "Perfezione, pieno di saggezza e perfetta bellezza". Inoltre il re di Tiro fu creato (versetti 13 e 15), il che sarebbe un'affermazione strana per un re umano. Gli esseri umani nascono, non sono creati. Sulla base di queste affermazioni e descrizioni, credo che questo testo parli del diavolo prima del suo stato decaduto. Citando prima il capo umano di Tiro (versetti 2-10) e subito dopo il re di Tiro (versetti 12-19), Ezechiele pare mostrare la potenza soprannaturale dietro il capo umano, così come il diavolo nel tempo della fine sarà la forza motrice dietro l'Anticristo (Apocalisse 13:2-4). Se questa comprensione è corretta, allora, prima della sua caduta,il diavolo godeva di privilegi senza pari. Era il più potente ed il più maestoso di tutti gli angeli. Il "santo monte di Dio" nel versetto 14 potrebbe riferirsi al seggio del diavolo alla presenza di Dio prima della sua caduta. Egli godeva della desiderata vicinanza di Dio stesso. Egli viene anche definito come "cherubino unto protettore" (versetti 14 e 16). Gli angeli sono divisi in due classi ed i cherubini sono una classe speciale, che è particolarmente responsabile di tutelare la presenza e santità di Dio. Le parole "tamburelli" e "flauti" (versetto 13) sostengono l'idea che Satana servisse come sommo sacerdote celeste e presiedesse l'adorazione di Dio in cielo. Il versetto 18 parla dei suoi santuari. È impossibile essere assolutamente certi del pieno significato di tutte queste affermazioni ma Donald Grey Barnhouse dà una spiegazione, che riassume le diverse parti: "L'idea che viene espressa dalla parola protettore è stata oggetto di ampie discussioni da parte dei commentatori biblici ... Qui lo vediamo nella sua funzione sacerdotale, in collegamento coi cherubini, i quali presiedono, anche oggi, l'adorazione in cielo (Apocalisse 4:9-10; 5:11-14) e si trattengono vicini al trono di Dio. Il fatto che Lucifero avesse dei santuari allude ad adorazione e sacerdozio. Sembra che avesse ricevuto l'adorazione dell'universo sotto di lui e l'avesse portata al Creatore sopra di lui... Qui, in presenza di Dio, Lucifero rappresentò l'adorazione di un universo pieno di creature e ricevette i suoi ordini dall'Onnipotente come il profeta di Dio e li comunicò alla creazione adorante". Prima della sua caduta, il diavolo era apparentemente il portinaio della gloria divina, il sommo sacerdote celeste e colui che presiedeva l'adorazione. Tuttavia il tragico punto di svolta giunse al versetto 15: «Tu eri perfetto nelle tue vie dal giorno in cui fosti creato, finché non si trovò in te la perversità». In nessun passo la Bibbia spiega più chiaramente l'origine del peccato. Satana era perfetto in tutte le sue caratteristiche ed azioni fino allo spaventoso attimo in cui fu trovato in lui il peccato. In un momento, esso non c'era e l'attimo dopo esisteva. Il diavolo fu il primo peccatore dell'universo. La caduta del diavolo viene rappresentata nei versetti 16-19. Innanzitutto si dice: «Per l'abbondanza del tuo commercio, ti sei riempito di violenza e hai peccato». Arnold Fruchtenbaum ne spiega il significato:
"Questa affermazione si trova anche in relazione ai prìncipi umani di Tiro nei versetti da 1 a 10. In relazione al principe di Tiro significa che egli si spostava di porto in porto ed accumulava ricchezze (versetto 5). Per il re di Tiro, il diavolo, significa che egli andò da un angelo all'altro per screditare Dio ed ottenere la loro lealtà ... Che l'abbondanza del suo commercio .. .lo riempì di violenza si riferisce al fatto che trattò con gli angeli e bestemmiò Dio. Nella sua violenza guidò in cielo una rivolta contro Dio".
Il diavolo iniziò una campagna denigratoria, andando da un angelo all'altro a parlare male di Dio. Con riferimento al tentativo del diavolo di vincere Dio e strappargli il dominio in cielo, qualcuno ha detto una volta: "Satana tirò i dadi ed ottenne solo due 1". O come ha osservato Erwin Lutzer: "Egli ha perso il suo futuro ad una macchinetta da gioco d'azzardo, che non restituisce alcuna vincita". Il versetto 17 mostra che il peccato del diavolo, il primo peccato mai commesso, fu l'orgoglio. "Il tuo cuore si era innalzato per la tua bellezza; hai corrotto la tua sapienza a motivo del tuo splendore". Questo peccato ha corrotto il diavolo ed egli è stato precipitato. La sua caduta inquietante è stata completa. Il secondo passo, che, a mio avviso, rappresenta l'originaria caduta del diavolo è Isaia 14:12-20. Qui viene narrata una storia simile a quella di Ezechiele:
«12 Come mai sei caduto dal cielo, o Lucifero, figlio dell'aurora? Come mai sei stato gettato a terra, tu che atterravi le nazioni? 13 Tu dicevi in cuor tuo: "Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell'assemblea, nella parte estrema del nord; 14 salirò sulle parti più alte delle nubi, sarò simile all'Altissimo". 15 Invece sarai precipitato nello Sceol, nelle profondità della fossa. 16 Quanti ti vedono ti guardano fisso, ti osservano attentamente e dicono: "È questo l'uomo che faceva tremare la terra, che scuoteva i regni, 17 che ridusse il mondo come un deserto, distrusse le sue città e non lasciò mai andar liberi i suoi prigionieri?". 18 Tutti i re delle nazioni, tutti quanti riposano in gloria, ciascuno nel proprio sepolcro; 19 tu invece sei stato gettato lontano dalla tua tomba come un germoglio abominevole, come un vestito di uccisi trafitti colla spada, che scendono sui sassi della fossa, come un cadavere calpestato. 20 Tu non sarai riunito a loro nella sepoltura, perché hai distrutto il tuo paese e hai ucciso il tuo popolo; la discendenza dei malfattori non sarà più nominata. »
I commentatori della Bibbia concordano che Isaia 14:4-11 descrive il re storico e terreno di Babilonia, tuttavia, come per Ezechiele 28, regna il disaccordo se il passo successivo passi a parlare di una guida terrena o della potenza che lo muove. Credo che il concetto di "Lucifero" nel versetto 12 si riferisca al diavolo prima del suo stato decaduto. I versetti da 12 a 14 indicano i suoi peccati e nei versetti 15-19 viene descritta la sua caduta. Isaia 14 somiglia ad Ezechiele 28 in almeno due punti. Primo, il diavolo viene rappresentato in entrambi i testi come una potenza dietro un cattivo re terreno. In Isaia 14 egli è la potenza dietro il re di Babilonia ed in Ezechiele 28 sta dietro il re di Tiro. Secondo, entrambi i brani mostrano che l'orgoglio fu il peccato originario del diavolo. Isaia 14:13-14 viene spesso descritto come i cinque "Io voglio" del diavolo. Inspiegabilmente, egli pose la sua volontà al di sopra della volontà di Dio.
- Io voglio "salire in cielo". Il diavolo voleva essere uguale al suo Creatore.
- Io voglio "innalzare il mio trono al di sopra delle stelle di Dio". Le stelle di Dio sono gli altri angeli. Il diavolo voleva stare al di sopra dell'intera creazione e ricevere la sua adorazione.
- Io voglio "sedermi sul monte dell'assemblea, nella parte estrema del nord". Il monte dell'assemblea viene normalmente equiparato al luogo in cui Dio regna. Il diavolo volle possedere il culmine dell'autorià.
- "Io voglio salire sulle parti più alte delle nubi". Le nubi simboleggiano spesso, nella Scrittura, la gloria di Dio. Il diavolo volle la gloria che spettava solo a Dio.
- Io voglio "essere simile ali' Altissimo!" Il diavolo voleva sostituire Dio.
In breve, il diavolo voleva impossessarsi della creazione di Dio ed avere autorità esclusiva su di essa. Egli tentò di arrivare in alto ma fu precipitato. Il diavolo perse definitivamente il suo posto nel cielo. Come afferma Erwin Lutzer: "Non c'è da stupirsi che il diavolo sia furioso ... Pensate solo a tutto quello cui egli ha dovuto rinunciare. Non può più essere un profeta che parla per Dio. Non può più essere un sacerdote che trasmette l'adorazione a Dio. Egli, che voleva essere come Dio, alla fine è diventato diversissimo da Lui. In breve, ha perso tutto senza guadagnare nulla". È il contrario di ciò che il Figlio di Dio fece. Egli perse il posto più elevato nell'universo, alla destra di Dio, abbassò se stesso e percorse tutta la via fino all'onta della croce. Perciò Dio Lo ha innalzato al di sopra di ogni cosa (Filippesi 2:5-11). Per Gesù vi fu solo vincita senza alcuna perdita. Secondo i pensieri di Dio, la via verso l'alto conduce in basso e la via verso il basso conduce in alto. Ci deve incoraggiare il fatto che Dio innalza gli umili (Giacomo 4:10; 1 Pietro 5:6). Se Isaia 14 ed Ezechiele 28 descrivono effettivamente la caduta del diavolo, sappiamo che egli è un angelo decaduto, precipitato da questa elevata posizione. Ma quando avvenne ciò? Tutti sono dell'opinione che il diavolo cadde in qualche momento prima del capitolo 3 della Genesi, allorché sedusse Adamo ed Eva, portandoli alla disubbidienza. La domanda è: quando precisamente peccò e cadde prima del 3° capitolo della Genesi? Su questo tema vi sono due opinioni basilari. Alcuni credono che la sua caduta ebbe luogo anteriormente al primo versetto della Genesi e che Dio si propose di fare della creazione il palcoscenico sul quale dimostrare chi avesse diritto di regnare. Altri ritengono che egli cadde in qualche momento dopo la creazione dei cieli e della terra, ma ancora prima del terzo capitolo della Genesi. Ciò significa che dovrebbe aver avuto luogo fra Genesi 1:31 e 3:1. Su detta questione è impossibile essere sicuri. Tuttavia, alcune indicazioni ci possono aiutare a ricostruirne l'epoca. Incominciamo dal fatto che il diavolo è un angelo creato e che apprendiamo da Giobbe 38:7 che gli angeli si rallegravano del mirabile capolavoro di Dio quando creò l'universo. Questo significa che Dio ha fatto gli angeli prima della creazione dell'universo. Questo chiarisce anche che, in quel momento, non era ancora caduto alcun angelo e regnava l'armonia poiché essi si rallegravano insieme. Subito dopo sappiamo che Dio considerò come molto buona la Sua opera del sesto giorno (Genesi 1:31). Anche questo fa comprendere che nel nuovo universo di Dio era tutto a posto, il che potrebbe essere inconciliabile con l'esistenza di tante creature decadute. Pertanto, appare meglio collocare la caduta di Satana e della sua schiera dopo il settimo giorno, quando Dio si riposò e dichiarò buone tutte le cose (Genesi 1:31) ma ancora prima che il diavolo comparisse come tentatore in Genesi 3:1. Anche se non possiamo essere sicuri, è concepibile che il diavolo, vedendo il proprio stato immacolato dopo il completamento della creazione, comprensiva di Adamo ed Eva e la loro adorazione di Dio, divenne geloso e bramò questa adorazione per se stesso. Come portinaio della gloria divina e guida dell'adorazione nel cielo anelò questa adorazione. In lui fu trovato il peccato e la sua caduta fu definitiva. Secondo la Scrittura Dio, ha creato tutte le cose, compresi gli angeli (Colossesi 1:16). Poiché Dio è santo e senza peccato, anche gli angeli all'inizio erano santi e senza peccato. Non possiamo dimenticare che Dio non ha creato il diavolo ed i suoi demoni. Il cherubino unto capeggiò un'insurrezione contro il suo Creatore che comportò la caduta sua e di un terzo degli angeli (Apocalisse 12:4). Rimane, tuttavia, la domanda: Perché Dio permise questo? Essendo Dio onnisciente, gli era chiaro ciò che sarebbe successo. Ed essendo Egli sovrano, egli avrebbe potuto impedirlo. Perché non lo fece? Questa è in generale una delle domande più difficili, insieme ad una domanda simile: Perché Dio permette la sofferenza ed il male nel mondo? Da un certo punto di vista, non possiamo rispondere esaurientemente a queste domande ma, ciononostante, possiamo sapere che anche la presenza del diavolo e dei suoi demoni in qualche modo serve alla glorificazione di Dio, cioè a farlo conoscere. Dio lascia esistere il diavolo per i suoi motivi sovrani, molti dei quali indubbiamente solo Lui conosce. Tuttavia noi possiamo basarci sul fatto che Dio è infinitamente saggio ed amorevole e realizza il suo piano - il miglior piano per la Sua massima glorificazione. Il diavolo compare sul palcoscenico della storia dell'umanità nel terzo capitolo della Genesi. Egli fa la sua apparizione come tentatore e seduttore dell'essere umano:
«1 Ora il serpente era il più astuto di tutti gli animali dei campi che l'Eterno Iddio aveva fatto; ed esso disse alla donna: “Come! Dio vi ha detto: 'Non mangiate del frutto di tutti gli alberi del giardino?'”. 2 La donna rispose al serpente: “Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare; 3 ma del frutto dell'albero che è in mezzo al giardino Dio ha detto: 'Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete'”.
4 E il serpente disse alla donna: “No, non morirete affatto; 5 ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri si apriranno, e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male”.(V. 1-5).
Dopo la caduta nel peccato di Adamo ed Eva, Dio maledisse tutti i protagonisti:
«14 Allora l'Eterno DIO disse al serpente: Poiché hai fatto questo, sii maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le fiere dei campi! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita. 15 E io porrò inimicizia fra te e la donna e fra il tuo seme e il seme di lei; esso ti schiaccerà il capo, e tu ferirai il suo calcagno» (V. 14-15).
Il terzo capitolo della Genesi non cita il diavolo né lo chiama per nome ma il contesto ed altri passi biblici chiariscono che egli stava dietro al serpente (Apocalisse 12:3,9). Nei primi cinque versetti del terzo capitolo della Genesi si parla per tre volte del "serpente". Questo fatto suscita molte domande, incluso il costante problema di determinare la relazione fra il diavolo ed il serpente. Tutto ciò va inteso solo come simbolo e deriva dalla mitologia pagana? Il diavolo si tramutò effettivamente in un serpente per nascondersi dietro di lui? O il diavolo agì tramite un vero serpente? Io credo che questa storia si sia svolta realmente così e non sia affatto mitologia. Nulla nel testo indica al lettore che deve intendersi come mitologica ed il Nuovo Testamento considera storico il racconto su Adamo ed Eva ed il diavolo nel giardino dell'Eden (Matteo 19:4-6; Giovanni 8:44). L'intero racconto della creazione viene considerato come il resoconto di fatti realmente avvenuti. Altri passi biblici parlano di come il diavolo ha utilizzato il corpo di altre creature ed ha agito attraverso le stesse: il re di Babilonia (Isaia 14), il principe di Tiro (Ezechiele 28) e, infine, l'Anticristo (Apocalisse 13). Dalla Scrittura sappiamo anche che i demoni possono entrare negli esseri umani ed assumere il controllo dei loro corpi. Quando prendiamo questo in considerazione, possiamo ammettere che il diavolo reputò idoneo il corpo del serpente per mascherarsi mentre tentava Eva. Successivamente, la Scrittura definisce il diavolo in modi diversi: incluso serpente e dragone (2 Corinzi 11:3; Apocalisse 12:4,7,9,13). Naturalmente questo racconto fa sorgere molte altre domande. Che aspetto aveva il serpente prima della maledizione? Venne condannato a divorare la polvere ed a strisciare sul ventre - ciò significa che prima si spostava eretto? E perché non parve strano ad Eva di udire un serpente parlare? Potevano parlare gli animali prima della caduta nel peccato? Le risposte a queste domande sconfinano dai limiti di questo scritto ma Henry Morris ci fornisce un interessante ed utile commento:
"Non vi è di fatto alcun motivo per cui non dobbiamo ammettere che il serpente, nel suo stato originario della creazione, non fosse un animale meraviglioso che procedeva eretto ed era capace di comunicare con gli esseri umani. Una tale interpretazione renderebbe almeno più facilmente comprensibile questo brano, anche se lo rende difficile da credere ... D'altronde è possibile che tutti gli animali (a parte gli uccelli) fossero quadrupedi, solo il serpente fosse un bipede, che - con un forte scheletro della colonna vertebrale ed il sostegno di piccole membra - possedeva la notevole capacità di rizzarsi e mantenersi eretto, mentre parlava con Adamo o Eva. Dopo la tentazione e la caduta nel peccato, Dio cambiò le capacità vocali degli animali, inclusa la struttura del centro del linguaggio nel loro cervello ... Il corpo del serpente fu sottoposto addirittura a maggiori mutamenti, venendo privato della capacità di stare eretto e di guardare gli esseri umani direttamente negli occhi. Dovrebbe ancora essere evidenziato che questa interpretazione non deve essere intesa dogmaticamente. La Bibbia non fa alcuna chiara affermazione su queste cose e simili spiegazioni sono per il «pensiero moderno» molto difficili da accettare. Ciononostante non sono impossibili o del tutto assurde nel contesto dell'originaria creazione ed appaiono addirittura emergere da una lettura ovvia e letterale di questo passo".
Un'ulteriore domanda collegata a questa è: Perché Dio maledisse il serpente per qualcosa che aveva fatto il diavolo? Perché il serpente dovette strisciare sul ventre per le azioni del diavolo? Pur non potendo trattare questo tema con assoluta sicurezza, è tuttavia concepibile che l'infima posizione del serpente da quel giorno venisse considerata come un esempio. La maledizione, che pesava sul serpente, era un'immagine o un'ombra di ciò che infine successe al diavolo quando egli fu assoggettato da Dio. Attraverso la maledizione del serpente, Dio disse al diavolo: "Hai voluto presentarti come il serpente? Così sia! Cambierò le caratteristiche dell'orgoglioso serpente e ne farò un animale vile e, allo stesso modo, tu sarai, infine, considerato come una creatura vile, assoggettata e il discendente di Eva ti schiaccerà la testa!" Qualsiasi risposta diamo a questi dettagli nel testo, possiamo essere certi che il diavolo è reale, e in occasione della sua prima tentazione si travestì per rendere la sua seduzione più appetitosa. Ancora oggi egli è il maestro dei truffatori. L'inganno è la sua carta da visita. Che ne siamo consapevoli o meno, come dice John Blanchard: "Siamo di fronte ad un nemico vivente, intelligente, ingegnoso e scaltro, il quale può sopraffare il cristiano più anziano, superare il più diligente, colpire il più forte e prendere in castagna il più saggio". Efesini 6:11 parla delle "insidie del diavolo". L'espressione greca tradotta con "insidie" è methodeias. Si trova al plurale, pertanto sappiamo che il diavolo applica molti metodi e piani per danneggiare la nostra vita ed il nostro servizio. Secondo E.M. Bounds:
"I pensieri del diavolo sono pieni di progetti. Ha molte possibilità, molte cose da fare. Forse dispone addirittura in ogni cosa di molte possibilità. Per lui nulla è fisso. Non scade mai nella solita routine. Il suo modo di agire è produttivo, vario e sempre nuovo. I suoi piani sono indiretti, raffinati ed eleganti. Agisce in modo ingannevole e costantemente perfido".
Anche in 2 Corinzi 2:10-11 si parla dei piani del diavolo ma qui viene utilizzata la parola greca noema che significa "pensiero" o "intenzione". Il diavolo lavora febbrilmente sui suoi metodi, piani ed intenzioni. La Bibbia chiarisce che egli si occupa di una pluralità di attività perniciose. Distrugge, inganna, scoraggia, demoralizza e falsifica. Imita, si traveste, tradisce e semina dubbi. Il suo metodo principale è far apparire il peccato innocuo per renderlo attraente agli occhi degli esseri umani. Conferisce al peccato un bell'aspetto e ci seduce fino al punto di farci credere di poter dominare il nostro peccato e le sue conseguenze. Il diavolo tenta di privarci della nostra soddisfazione in Cristo e di convincerci che egli è in grado di offrirci qualcosa di meglio. Egli attira persone ignare con la promessa della felicità ma nasconde il prezzo che debbono pagare. Erwin Lutzer espresse questa strategia in modo penetrante:
"il meglio di ciò che può fare è interrompere la nostra comunione con Dio; egli vuole che noi ci sporchiamo col peccato e perdiamo il contatto diretto con Dio ... Se non può tenerci lontani dal cielo, egli può almeno impedire che noi siamo utili sulla terra. Egli vorrebbe con enorme piacere dimostrare di essere in grado di soddisfare i nostri bisogni più profondi meglio di Dio. Se lo ascoltiamo, egli sostiene che abbiamo più possibilità, realizzazione e felicità. Vuole fare per noi ciò che Dio non può. Non dobbiamo essere umili per essere benedetti. Non dobbiamo riconoscere il nostro peccato o sottometterci all'Onnipotente. Noi dobbiamo solo occuparci di noi stessi e concentrarci su noi stessi. Questo, sibila il serpente, è tutto ciò che conta veramente nella vita ... Il diavolo teme più di tutti i cristiani che hanno in Dio la loro gioia. Egli non ha nulla che possa paragonarsi a questo".
Contro queste azioni del nostro avversario possiamo farcela solo se ci rallegriamo nel nostro Signore. Georg Müller, conosciuto per la costruzione e direzione di orfanotrofi in Inghilterra, trascorreva ogni mattina un tempo considerevole nella preghiera e lettura della Bibbia. Credeva che fosse il primo dovere di ogni cristiano acquietare la propria anima in Dio. Müller racconta di come ogni mattina si occupava del Signore finché la sua anima era "felice in Dio". La nostra gioia nel Signore è di gran lunga il valore più prezioso di tutto ciò che il diavolo ha da offrirci. Potremmo ancora descrivere molte altre strategie del diavolo ma vogliamo accontentarci di questa semplice lista:
Tenta gli esseri umani a cadere ... nel peccato (Genesi 3:1-6), nell'ira (Ef 4:26-27), nell'orgoglio (1 Tim 3:6), nella presunzione (1 Cron 21:1), nell'immoralità sessuale (1 Cor 7:5), nelle menzogne (Atti 5:3), nello scoraggiamento (1 Piet 5:6-10). Il suo maggiore inganno è sicuramente convincere gli esseri umani di non aver bisogno di Gesù Cristo come loro Salvatore dal peccato. Non lasciarti ingannare dal diavolo. Non cadere vittima di questa grande truffa. Se non lo hai ancora fatto, vieni oggi a Cristo e credi in Lui.
(Chiamata di Mezzanotte, Nr. 1/2 2017
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Auto sulla folla: due morti. "È la nuova Intifada"
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Ogni volta è un nuovo sguardo nella perversione della natura umana, qualche giorno fa il terrorista ha aspettato per ammazzare le persone che uscivano dalla preghiera e ne ha uccise sette; il giorno dopo, il 29 gennaio un ragazzino di 13 anni, ha sparato su un padre e un figlio usciti dal tempio. E ieri un cittadino arabo israeliano di 31 anni, Hossein Karake, padre di tre figli, si è annidato col motore acceso di fronte a una fermata dell'autobus nel quartiere Ramot e, quando la folla gli è sembrata abbastanza fitta, ha lanciato l'auto addosso a un bambino di 6 anni, Israel Pelay, uccidendolo, a suo fratello di 8 anni, in fin di vita, a Alter Shlomo Lederman, uno studente di 20 anni sposato da due mesi, morto, e ad altri 5 rimasti feriti fra cui il padre dei bambini. Due poliziotti gli hanno imposto invano di uscire dall'auto e nello scontro l'hanno ucciso. Karake viveva a Issawiya, 25mila abitanti, un sobborgo di Gerusalemme Est, un mondo di circa 300mila persone per la maggioranza arabe. Aveva documenti e targa che gli consentivano libera circolazione come agli altri terroristi che hanno ammorbato la capitale in questi mesi. Ma vi abitano anche le decine di migliaia che lavorano nelle banche, negli ospedali, negli uffici, sugli autobus, nei supermercati. Un puzzle impossibile che non consente una chiusura generica né un attacco di sicurezza, come invece il ministro alla sicurezza interna Itamar Ben Gvir è sembrato suggerire promettendo una nuova operazione «Muro di Difesa» come quello con cui Sharon mise fine alla seconda Intifada. Israele è confusa e sofferente e si domanda cosa fare. È sempre più evidente che Fatah di Abu Mazen coltiva la stessa cultura dell'incitamento dei terroristi più riconosciuti, fra i palestinesi, il 58% rifiuta la soluzione di due stati, il 70 non vuole tornare a parlare senza precondizioni, il 73 crede fermamente che il Corano preveda la distruzione di Israele. L'Iran e la Turchia, l'uno sul fronte sciita che vede sempre più convertiti e affezionati alla sua promessa di distruggere Israele, e l'altro sul fronte della Fratellanza Musulmana vecchia sodale di Hamas e dotato di una visione ottomana di Gerusalemme islamica e imperiale, sono ormai presenti in molte forme e in molti luoghi, mentre la grande rete dei testi scolastici e delle tv palestinesi affiancata da Al Jazeera, vede Israele come un estraneo e finanzia Hamas e le sue armi. Da 22 anni l'Autonomia Palestinese non permette elezioni, si permette qualsiasi violazione dei diritti umani nel silenzio e soprattutto nel finanziamento internazionale, Abu Mazen si sostiene sulla politica di finanziamento dei terroristi uno a uno, con stipendi fino a 3mila dollari al mese, uno stipendio enorme per l'Autonomia palestinese, nel mentre un patto di sicurezza con Israele, violato ogni giorno, lo protegge dall'odio di Hamas e lo copre come «moderato». Gli arabi israeliani si abbeverano di questo messaggio, il terrorista viene festeggiato anche da loro la sua memoria santificata, dolci vengono distribuiti anche adesso in memoria dell'eroico Shahid. L'anno passato così Israele ha avuto 31 morti, 129 feriti, gli attacchi a fuoco per le strade che dimostrano l'ormai vasta diffusione di armi è salita a 300 agguati. Quest'anno già 8 sono stati uccisi, e centinaia di attacchi sono stati scoperti. Le risposte ci sono state, l'esercito agisce in difesa per catturare terroristi che avevano colpito o che stavano per colpire, e i morti palestinesi sono causati da conflitti a fuoco. Netanyahu l'ha detto più volte: «Attenzione, l'aria in questo periodo è incandescente» e William Burn l'ha appena minacciato: «Siete a un millimetro dall'Intifada». Ormai Israele di fatto c'è dentro fino al collo, non ancora con i numeri spaventosi dei morti dal 2001 al 2003, quando le strade furono sommerse dal sangue di 1500 innocenti. Ma ormai è chiaro che non si tratta di «lupi solitari». Gli attacchi se non pianificati in anticipo, sono tuttavia preparati da una cultura di massa che delegittima l'esistenza di Israele, da una vasta distribuzione di armi, e anche dalla continua promessa che Israele verrà distrutto, e che gli ebrei verranno uccisi. Si chiama antisemitismo.
(il Giornale, 11 febbraio 2023)
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Il diario critico di un anno di diktat
Da mercoledì, sul sito della «Verità», arriva il docufilm sulla folle gestione pandemica, come mai è stata raccontata. Un'analisi inedita da accademici, giornalisti e scienziati.
di Martina Pastorelli
Conto alla rovescia per Covid-19, dodici mesi di pensiero critico: dal 15 febbraio, sul sito della Verità sarà disponibile il docufilm che racconta la pandemia da un punto di vista assai diverso rispetto a quello che ci è stato imposto, e mostra «l'altra storia» su ciò che essa ha rappresentato. Gli avvenimenti che si sono susseguiti in un crescendo kafkiano sono ripercorsi mese dopo mese (a partire da agosto 2021, data di introduzione del green pass) attraverso la testimonianza di chi formulava un'analisi che non è mai stato possibile leggere sui «grandi» giornali né esprimere in televisione. Quello che è accaduto sotto il cappello della crisi sanitaria ha segnato una cesura storica: ci è stato chiesto di non pensare più, di non fare domande, di non discernere; ma di indossare i paraocchi e accettare supinamente palesi illogicità, continue contraddizioni, plateali soprusi, spudorate menzogne e laceranti divisioni, senza curarci delle conseguenze e dei precedenti creati. Il lascito di questa esperienza è infatti una cittadinanza spaccata, incattivita, diffidente; e una società molto più sorvegliata, in cui libertà e diritti fondamentali possono essere trasformati in concessioni appena se ne presenti l' occasione. Mentre calava il sonno della ragione, c'era però chi vegliava: accademici, medici, giornalisti, economisti, studenti, religiosi, giuristi ... persone anche molto diverse per formazione ed esperienze, ma accomunate dall'amore per l'uomo e la sua dignità intrinseca, che hanno posto questioni tuttora aperte e in molti casi anticipato ciò che oggi si avvera. Nel docufilm, che ne raccoglie il pensiero, si ragiona così di come il Covid abbia definitivamente sdoganato mutamenti che annunciano un nuovo autoritarismo e sono destinati a impattare sul nostro futuro: la falsificazione operata da informazione e politica mediante la trasformazione di una discutibile politica sanitaria in un fatto etico e l'obliterazione della democrazia per mano della tecnocrazia (il filosofo Andrea Zhok); il sovvertimento dello Stato di diritto classicamente inteso, laddove la libertà non è più radicata nella persona ma è tale in virtù del potere che la prevede e la attua (il costituzionalista Daniele Trabucco); la subordinazione dei diritti di cittadinanza a un lasciapassare - il green pass - estendibile a nuove emergenze e l'avvio di una gestione biopolitica della società (il sociologo Andrea Miconi); il sacrificio della salute individuale sull’altare di una presunta salute collettiva (il bizantinista Paolo Cesaretti); la riduzione continua di spazi di vita, che ricalca una condizione di prigionia e impedisce di vedere la realtà nel suo insieme (il geografo Alessandro Ricci). Tutti passaggi che evidenziano come si stia scivolando in un totalitarismo dove il potere, sfruttando la paura e militarizzando la società, entra nel profondo degli uomini e li trasforma in novelli agenti della Stasi (il filosofo Carlo Lottieri). Questo processo, fondato sulla creazione di un capro espiatorio (il «no vax»), ha provocato un'isteria collettiva, pericolosa poiché esasperata dai gestori del potere pubblico, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato (l'islamista Giuliano Lancioni). La rassegna di pensiero critico fotografa anche il misterioso allineamento di tutte le istituzioni - inclusi gli organi di garanzia costituzionale - sulla strategia di prevenzione del governo (il costituzionalista Vincenzo Baldini) e lo zelo conformista con cui si è comportato il mondo accademico (il filologo Francesco Benozzo). Cruciale l'analisi medicoscientifica: dalla perplessità sull'uso di vaccini considerati rischiosi, nei giovani per il potenziale pro-infiammatorio (il farmacologo Marco Cosentino) e nelle donne per la capacità di interferire con l'apparato riproduttivo (l'endocrinologo Giovanni Frajese); all'inspiegabile riluttanza del personale sanitario nel segnalare eventi avversi (il biologo Leonardo Guerra), nell'effettuare triage pre-vaccinale e nel concedere esenzioni (il cardiologo Giuseppe Barbaro). Una gestione insensata che, secondo lo scienziato Jay Bhattacharya, ha provocato ovunque sfiducia nelle istituzioni preposte alla salute pubblica. Non manca un'analisi sul ruolo della comunicazione, tramutatasi in marketing (il massmediologo Alberto Contri), del giornalismo che oscilla tra incompetenza e servilismo nei confronti dell'industria farmaceutica (la reporter d'inchiesta Serena Tinari) e di un'informazione pubblica che censura il dibattito e consente alle autorità di mentire spudoratamente (lo scrittore Thomas Fazi). Sul piano etico, viene smentita la retorica dell'obbligo vaccinale per il bene comune - che quando è autentico non contrappone mai salute e lavoro e permette di decidere in libertà di coscienza (il missionario don Antonello Iapicca) - e si denuncia il relativismo postumano che soggiace all'uso di farmaci a base mRNA (l'ex vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica, Luca Marini). Nel docufilm si spiega anche come il Covid abbia segnato l'entrata in una «permacrisi» (l'accademico Fabio Vighi) funzionale alla demolizione controllata di un sistema economico fallito (il documentarista Giorgio Bianchi) e a un enorme spostamento di investimenti in nuove direzioni (l'economista Vladimiro Giacché). Da queste, e molte altre testimonianze, emerge insomma un quadro inquietante, che porta a concludere che la pandemia, lungi dall'essere un episodio isolato, sia stato un caso di formazione di massa che introduce un distopico «mondo nuovo» (lo psicologo clinico Mattias Desmet). Appuntamento, dunque, il 15 febbraio per ascoltare la ragione che ha retto alla prova della pandemia; ed essere più pronti al domani che ci attende.
(La Verità, 11 febbraio 2023)
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Si direbbe che tra i vaccinati, molti di loro con il semplice atto di accettare l'inoculazione coatta abbiano affidato alle autorità decisionali non solo il bene del corpo ma anche il ben dell'intelletto. E' avvenuto un blocco. Fini intellettuali capaci di fare acute analisi sui valori di libertà e giustizia promossi dalla nostra democrazia liberale si sono arrestati davanti a semplici inviti alla coerenza perché era in gioco la posizione da prendere sulla vaccinazione. E la posizione di sì al vaccino, una volta presa, ha imposto a chi l'ha fatta con dichiarata convinzione il dovere morale e intellettuale di difenderla a tutti i costi. Anche a costo di dire bianco al nero e nero al bianco. Come poi è accaduto. Non si parla qui di tutti coloro che per vari motivi hanno accettato di vaccinarsi per essere stati posti brutalmente davanti a una scelta in stile mafioso, perché non esiste la categoria universale dei «sì vax», a meno che non si voglia chiamare così l'insieme di tutti quelli che parlano con spregio dei «no vax». Tra questi ci sono i «sì vax» intellettuali, quelli che con elaborati argomenti si sono lanciati contro la parte avversa in una difesa ad oltranza della posizione ufficiale. Per loro sarà difficile tornare indietro, perché troppo umiliante. Molti di questi quindi, soprattutto tra quelli che scrivono su giornali pensosi come Il Foglio, ormai lasciano cadere l'argomento: non se ne parla più, il vaccino non fa più argomento. Adesso ci sono altri temi da discutere, come la guerra, che offre un interessante diversivo. Basta coi «no vax», adesso c'è Putin da prendere di mira. E' probabile quindi che fra di loro non se ne troveranno molti che andranno a vedere questo docufilm. Ma sarebbe un bene, per loro e per tutti. Appuntamento dunque al 15 febbraio. M.C.
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Il premio Pulitzer Hersch accusa: «Nord Stream distrutto dagli Usa»
Per il reporter, il sabotaggio del gasdotto è opera di Biden e Cia. Washington smentisce.
di Valerio Benedetti
Per mesi si è sostenuto che il sabotaggio del Nord Stream, avvenuto lo scorso 26 settembre, fosse opera della Russia. In realtà, di informazioni se ne avevano poche e la logica faceva supporre il contrario: perché mai Mosca avrebbe dovuto danneggiare un gasdotto che gli fruttava miliardi di dollari di entrate? E infatti, poco prima di Natale, il Washington Post - quotidiano liberal di proprietà di Jeff Bezos, il patron di Amazon, da sempre antitrumpiano a antirusso - pubblicò un'inchiesta che fece molto rumore, in cui si sentenziava che non c'erano prove che fosse stato Putin a sabotare il Nord Stream. Ora, però, arriva un'accusa molto forte. Ma l'obiettivo non è più il Cremlino, bensì la Casa Bianca. La «bomba» è stata sganciata dal Seymour Hersh, autorevole giornalista investigativo, esperto di intelligence e settore militare. Vincitore del Premio Pulitzer nel 1970, Hersh ha lavorato per testate liberal come il New York Times e il New Yorker. Nel 2013, una sua inchiesta provò che l' attacco con armi chimiche nell'area di Ghuta, nei pressi di Damasco, non era stato compiuto dalle truppe di Assad, bensì dai cosiddetti «ribelli» siriani e dalla Turchia. L'altro ieri, Hersh ha pubblicato sul suo sito internet un'inchiesta molto dettagliata sul sabotaggio del Nord Stream. Già il titolo non lascia adito a dubbi di sorta: Ecco come l'America ha fatto fuori il gasdotto Nord Stream. All'interno del dossier, il giornalista sostiene che l'esplosione che ha danneggiato irreparabilmente la condotta è stata un' operazione ideata dalla Casa Bianca e realizzata dalla Cia. Nella specifico, gli Stati Uniti avrebbero predisposto il piano nel giugno dello scorso anno, sfruttando un'esercitazione militare della Nato: l'operazione Baltopszz, che ha avuto luogo a Kiel, è durata 13 giorni e ha coinvolto 7.000 soldati della Nato, nonché 47 navi militari e 89 aerei. Durante le manovre, i sommozzatori della Marina militare americana avrebbero piazzato cariche di C4 lungo il gasdotto che, attraverso il Mar Baltico, connette la Russia alla Germania. Per piazzare le cariche sottomarine, la Cia avrebbe sfruttato la Norvegia. La Marina militare norvegese avrebbe cioè identificato il punto ideale per realizzare l'attentato, vale a dire a poche miglia da Bornholm. Nei pressi di quest'isola danese, infatti, le condotte del Nord Stream 1 e del Nord Stream 2 si intersecano a soli 80 metri di profondità. Per non destare sospetti, la Cia avrebbe quindi scartato l'ipotesi di utilizzare i sommergibili, che avrebbero potuto essere identificati dai russi, affidando il compito ai sommozzatori. La detonazione delle cariche esplosive, piazzate a giugno, sarebbe poi avvenuta tre mesi più tardi, ossia il 26 settembre. A fondamento della sua tesi, il premio Pulitzer cita «una fonte che ha conoscenza diretta della programmazione operativa». Tuttavia, come c'era da aspettarsi, il governo degli Stati Uniti ha negato ogni addebito: «Tutto ciò è completamente falso», hanno commentato all'unisono Adrienne Watson e Tammy Thorp, portavoce rispettivamente della Casa Bianca e della Cia, contattati da Hersh. Molto dura, invece, è stata la presa di posizione di Mosca: «Niente di sensazionale o inaspettato. Ipotizzavamo il coinvolgimento degli Stati Uniti e di alcuni alleati di Washington in questo crimine oltraggioso», ha commentato il viceministro degli Esteri russo Sergei Ryabkov, mentre il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha invocato un'«inchiesta internazionale» per far luce sull'attentato. Insomma, l'articolo di Hersh ha scatenato un vero terremoto geopolitico, mettendo in forte imbarazzo la Casa Bianca. Del resto, Joe Biden era stato esplicito già in tempi non sospetti. Il 7 febbraio 2022, il presidente americano aveva detto chiaro e tondo: «Se la Russia invade l'Ucraina, non ci sarà più un Nord Stream 2. Vi porremo fine, siamo in grado di farlo». In effetti, non era un mistero per nessuno che Washington volesse accaparrarsi - al suo prezzo - le forniture di gas all'Europa ai danni di Mosca. Forse, una volta tanto, le cose sono più semplici e lineari di quanto si pensi.
(La Verità, 10 febbraio 2023)
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Napoli aprì le braccia agli ebrei
Ma il popolino aizzato dai preti li fece di nuovo fuggire
di Cesare Maffi
Fra le tante manifestazioni legate alla «Giornata della memoria» e alle leggi anti ebraiche un piccolo posto occupa un volumetto intitolato Contro le leggi razziali, di Mirko Grasso. Lo scopo è rifarsi a uno scritto di Benedetto Croce apparso su La Critica del 20 gennaio 1938 e dedicato ad Antonio de Ferrariis detto il Galateo (1444-1517). L'apparizione proprio in quell'anno non fu casuale, perché contestava l'introduzione di emarginazioni o persecuzioni agli ebrei in alcuni Paesi. Come spiega lo stesso Croce, il quale già nell'età giovanile delle ricerche erudite aveva incontrato questo scrittore, «tra le epistole dell'umanista Antonio Galateo così vivace e spontaneo scrittore in latino e volgare ed ottima espressione del miglior sentimento e giudizio italiano di quel tempo, ce n'è uno sugli ebrei, sugli ebrei convertiti e sugli ebrei in generale, che è pochissimo nota e merita di essere tenuta presente nelle rievocazioni storiche con fine polemico che si fanno ai nostri giorni». Il riferimento è all'espulsione degli ebrei da Castiglia e Aragona, nel 1492, quando in decine di migliaia dovettero lasciare la Spagna, trovando nel regno di Napoli un'accoglienza inattesamente favorevole. Dalla concessione della cittadinanza, alla presenza di università ebraiche, dalla giurisdizione esclusiva sulle controversie degli ebrei sottratte a quella ecclesiastica, al libero esercizio del culto, molte furono le possibilità di religione, di lavoro e di vita che gli ebrei incontrarono. Furono pure incoraggiate attività finanziarie. Tuttavia presto il popolino reagì per cacciarli, tanto che agli stessi ebrei fu imposta l'espulsione entro il marzo 1511. Il motivo addotto non permetteva eccezioni, per la condanna della coabitazione dei cattolici con i giudei e con convertiti cristiani da loro discendenti e per le pretese superstizioni e cerimonie giudaiche che praticavano. Non c'era bisogno di alcuna prova, perché gli ebrei erano accusati di vivere pubblicamente come tali, facendo e conservando molti riti e cerimonie giudaiche. Quindi, chi riceveva, accoglieva, ospitava ovunque un ebreo subiva la confisca «di tutti i beni personali e possedimenti, vassallaggi, fortezze e altre eredità». L'epistola del Galateo, segnala Croce, non reca data, ma non può essere in alcun caso anteriore al 1505, e più probabilmente deve porsi tra il 1505 e il 1517, anno della morte dello scrittore. Gli ebrei, accresciuti di connazionali scacciati dalla Spagna e di moltissimi convertiti, «marrani» o «neofiti», versavano nel regno in condizioni pericolose. Re Ferrante si oppose alle persecuzioni tentate dagli uomini di chiesa, e sventandole e punendole, non solo li pregiò come elemento importante nell'economia del paese, ma provò per essi pietà e accoramento e sollecitudine quando dalla Spagna giunsero, in miserrime condizioni, a cercar rifugio nel suo regno. Raccomandò ai suoi funzionari di usare riguardi per «questi poveri giudei, i quali saprete quanti danni e dispiacimenti hanno patito». Gli ebrei poterono allora aprire case di commercio e banche, esercitando e quasi monopolizzando le operazioni di prestito, provvedendo altresì a professioni liberali, specie la medicina, e coltivando studi dotti. Negli anni in cui il Galateo scriveva la sua lettera, il popolo napoletano, aizzato contro di loro e partecipe delle rapine, aveva avvertito il pericolo politico «che, col pretesto della difesa religiosa contro gli ebrei, s'introducesse nel regno l'aborrita inquisizione di Spagna, e sentiva altresì il pericolo economico della mancanza di prestiti ai bisognevoli e dell'assai più grave usura che gli indigeni avrebbero preso a esercitare». Per usare le parole di Croce, Antonio Galateo, che aveva nell'anima il ricordo della Napoli indipendente, retta da suoi propri re, avviata verso maniere più moderne di governo, di economia e di costruire, fiorente di cultura, continuava la difesa dei perseguitati ebrei. Ricordava con parole elevate quanto la civiltà cristiana dovesse a quel popolo e spregiava il pregiudizio della nobiltà riposta nella razza.
(ItaliaOggi, 10 febbraio 2023)
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Una piccola preghiera per Burt Bacharach
In ricordo del suo “lato ebraico silenzioso” e del suo legame con Israele
di Roberto Zadik
Subito dopo la sua scomparsa, il web è stato invaso da omaggi a questo grande della musica e questo è normale, quasi scontato. Infatti, il leggendario musicista e compositore ebreo americano Burt Bacharach, scomparso mercoledì 8 febbraio a 94 anni, è stato uno dei più grandi compositori pop del Novecento. Raffinato e romantico egli è passato alla storia come acclamato autore di brani immortali come Say a little prayer for you, portata al successo da Aretha Franklin e Rain Keeps fallin on my head colonna sonora della commedia western Butch Cassidy. Tuttavia, in tutta questa fiumana di elogi, non si è parlato assolutamente delle sue radici ebraiche; infatti, il compositore era estremamente riservato riguardo a questo particolare che egli, come altri personaggi del mondo dello spettacolo Usa, tendeva a nascondere. Ma che “tipo” di ebreo era Burt Bacharach? A questo proposito, un interessante articolo sul sito israellycool.com spiega alcuni dettagli inediti. Nato il 12 maggio 1928 a Kansas City ma cresciuto a New York, in una agiata e colta famiglia ebraica di origine tedesca, figlio di Bert, rinomato giornalista e di Irma Freeman artista, fin da piccolo, stimolato dalla passione materna per la musica cominciò a suonare il pianoforte, crescendo nel terrore dell’antisemitismo. Una volta, a questo proposito, disse “sono cresciuto con coetanei non ebrei con cui giocavo a pallone e c’era molto pregiudizio sugli ebrei; questo quando sei bambino ti sconvolge. Non volevo che nessuno sapesse che fossi ebreo“.
• La collaborazione con Hal David
Successivamente, durante la sua lunga e fortunata carriera, il suo incontro decisivo fu quello col paroliere e correligionario Hal David, di famiglia ebraica austriaca, con cui collaborò fra gli anni ’60 e i ’70, componendo pezzi musicali per una serie di artisti di primo piano, dalla già citata Aretha Franklin fino alla straordinaria cantante Dionne Warwick; per quest’ultima compose due capolavori come Dont make me over e Walk on By. Bacarach fu parte anche del successo di band, celebri negli anni ’60, come I Carpenters e del vocalist grintoso Tom Jones. Compositore estremamente prolifico, ha scritto oltre 500 canzoni descrivendo, con umiltà e sottile ironia, il proprio talento parlando di sé come “uno che cerca di aver a che fare con la melodia”. Descritto come elegante nei modi e distaccato, dotato di un notevole magnetismo e molto irrequieto sentimentalmente, si sposò quattro volte; la sua moglie più celebre fu l’attrice Angie Dickinson ed ebbe quattro figli una dei quali, Nikki, si suicidò a soli 40 anni nel 2007. L’artista nutriva un forte e insospettabile legame con Israele; sempre il sito israellycool.com, ricorda la sua emozione quando a trentadue anni, nel 1960, ci andò assieme all’attrice tedesca Marlene Dietrich, nota oppositrice del nazismo e sua amica, tornandoci nel 2013 durante una tourneè internazionale. A questo proposito egli disse “sono molto emozionato di essere in Israele, per me è molto importante essere qui. Era qualcosa che volevamo fare in questo tour”. Pur essendo cresciuto come ebreo non praticante, in una famiglia totalmente laica, la sua collaborazione con David e i suoi viaggi in Israele rivelano una identità ebraica nascosta ma, in qualche modo, presente. Molto apprezzato nel mondo dello spettacolo internazionale, dopo la sua scomparsa per cause naturali, molte star l’hanno ricordato. Come riporta il sito The Guardian, molto dispiaciuta della sua scomparsa la cantante Dionne Warwick, la sua collaborazione più duratura, che ha detto “è stato come perdere un membro di famiglia”.
(Bet Magazine Mosaico, 10 febbraio 2023)
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ACN e il viaggio in Israele: speriamo abbia studiato il “modello” cibernetico
di Livio Varriale
L’ACN ha raggiunto un obiettivo di primissimo ordine dal punto di vista delle relazioni internazionali. L’Ente Governativo è stato invitato a sedere in un panel al convegno annuale Cyber di Tel Aviv. Non solo un viaggio di studio e di piacere, ma un posto sul palco tra le migliori aziende del mondo e soprattutto nella capitale dell’intelligence cibernetica mondiale. Non solo software scandalosi che hanno messo in difficoltà le Big Tech statunitensi, ma anche le speciali infrastrutture cibernetiche al servizio del paese dilaniato da anni da conflitti interni ed una guerra oltre ogni limite. Quello che sorprende più di tutti non è solo il modello di business e di contrasto al terrorismo messo in piedi dal prezioso sistema di intelligence, ma è il modo con cui viene trattata la cybersecurity. Un telefono matrix pronto a ricevere segnalazioni da parte dei cittadini, l’opposto di chi in Italia, invece, abbia messo Una mappa delle minacce informatiche in tempo reale, con informazioni lampeggianti su potenziali attacchi in tutto il mondo, viene visualizzata su un grande schermo in una stanza di Be’er Sheva, una città biblica nel sud di Israele che ora è un centro di sicurezza informatica ad alta tecnologia del Paese. Da qui funziona l’Israeli Cyber Emergency Response Team (CERT-IL), che combatte le minacce e gli attacchi informatici. L’unità opera sotto la Direzione nazionale israeliana per la cibernetica, incaricata di proteggere il cyberspazio di Israele. L’INCD è il consulente del Primo Ministro israeliano per tutte le questioni relative al cyber.
• Cupola cibernetica in costruzione La cupola di ferro di Israele è stata un’armatura contro i razzi lanciati da Hamas. Ora il Paese sta progettando uno scudo per proteggere il suo spazio cibernetico da attacchi mortali nel mondo virtuale in grado di paralizzare le infrastrutture critiche e i servizi essenziali. Il robusto meccanismo che fungerà da scudo virtuale è stato chiamato “cupola cibernetica”. Spiegando il concetto, Gaby Portnoy, direttore generale della Direzione nazionale israeliana per la cibernetica, ha dichiarato a India Today: “Questo meccanismo migliorerà la sicurezza informatica a livello nazionale. Tutte le organizzazioni, pubbliche e private, lavoreranno insieme. Il mio obiettivo non è costruire la nostra cupola cibernetica, ma cupole cibernetiche per il mondo. È uno sforzo nazionale e internazionale”.
• Linea di assistenza informatica 24×7 Nell’ambito della strategia di lotta agli attacchi informatici, Israele dispone di una linea telefonica 119, alla quale i civili possono rivolgersi per registrare i reclami relativi agli attacchi informatici. L’organismo lavora in piena collaborazione con l’industria e i civili. “Riceviamo quasi 20.000 chiamate all’anno. Per un Paese come l’India non sono molte, ma per noi sono tantissime. Diventa un punto di partenza per indagare sui casi di attacco informatico”, ha detto Portnoy. Il punto di vista della cooperazione internazionale in questo campo è condiviso da altri. Robert Silvers, sottosegretario per le politiche del Dipartimento per la sicurezza interna degli Stati Uniti, intervenendo a una delle sessioni del Cybertech, ha dichiarato: “Abbiamo bisogno di un cambiamento radicale, non possiamo farlo da soli. È indispensabile la collaborazione tra i diversi governi e tra questi e l’industria”. L’Israel National Cyber Directorate ha sventato circa 1.000 grandi attacchi informatici che avrebbero potuto causare danni diffusi e sostanziali all’economia israeliana, ha dichiarato Portnoy intervenendo all’evento annuale CyberTech Global a Tel Aviv. “Il cyberspazio israeliano subisce attacchi come gli altri Paesi del mondo, con la differenza che noi abbiamo anche l’Iran. Abbiamo l’Iran in cima a tutti, che conduce una campagna aggressiva e orchestrata contro il cyberspazio di Israele. Ma la nostra difesa è forte come sempre. Vediamo come funzionano, spesso senza successo”, ha dichiarato durante l’evento che ha visto la partecipazione di oltre 20.000 persone provenienti da 90 Paesi e 257 relatori. “Come nel mondo dell’antiterrorismo e del controspionaggio”, ha detto Portnoy, “il pubblico in generale non sa degli attacchi che interrompiamo e degli aggressori che subiscono il colpo. Il nostro lavoro consiste nel prevenire migliaia di attacchi all’anno che, se avessero successo, causerebbero danni per milioni di dollari. Per la maggior parte del tempo, il nostro lavoro viene svolto dietro le quinte”. I funzionari attribuiscono l’individuazione degli attacchi informatici alla linea telefonica 119, alla solida ricerca condotta dal mondo accademico e dalle forze armate israeliane e alla sinergia tra il governo e l’industria privata che lavorano sulla sicurezza informatica. L’impulso alla sicurezza informatica ha fatto sì che oltre il 40% degli investimenti delle aziende informatiche nel mondo sia in Israele.
• Hub informatico Il Cyber Park di Be’er Sheva, dove ha sede il CERT, è il cuore dell’ecosistema tra aziende high tech, università, governo e industria informatica. All’interno del cyber tech park sono presenti anche tre arene per l’innovazione, specificamente rivolte all’esplorazione di modi innovativi di affrontare le nuove minacce informatiche nei settori dei trasporti, del fintech e dell’energia. Il CERT dispone di cinque sotto-centri dedicati a diversi settori e destinatari, che operano 24 ore su 24. Le informazioni fornite forniscono una visione macroscopica delle minacce e degli attacchi informatici in Israele. Il centro principale è il centro nazionale di gestione degli incidenti. Il centro, che opera 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, riceve regolarmente rapporti su attacchi informatici, minacce e vulnerabilità.
(Matrice Digitale, 10 febbraio 2023)
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Terrorismo palestinese e regime iraniano
Alla camera le spiegazioni dello studioso israeliano Kobi Michael
di Luca Spizzichino
Gli ultimi mesi si sono caratterizzati per il proliferare di attentati palestinesi in Israele: ad analizzare le complesse dinamiche che si celano dietro a questo rifiorire del terrorismo è stata dedicata un’iniziativa istituzionale, che ha rilevato la regia dell’Iran in questa violenta azione anti-israeliana.
Organizzata dal deputato di Forza Italia Andrea Orsini, la conferenza si è tenuta presso la Camera dei Deputati e si è potuta avvalere del contributo dello studioso israeliano Kobi Michael, ricercatore senior presso l’Institute for National Security Studies di Tel Aviv. Michael è stato anche vicedirettore generale e capo dell'ufficio palestinese presso il Ministero per gli affari strategici. L’incontro è stato organizzato da Oliver Bradley dell’EIPA - Europe Israel Press Association.
“Ormai c’è una crescente consapevolezza, anche in parte del mondo arabo, dell’atteggiamento aggressivo dell’Iran atto a destabilizzare tutto il Medio Oriente - ha affermato Orsini. “In questo contesto gli Accordi di Abramo mostrano come da un lato Israele sia capace di costruire la pace con il mondo arabo, mentre dall'altro si rileva che nel mondo arabo c'è una crescente con consapevolezza della necessità di percorrere la strada della pace - ha aggiunto - Mi auguro che l’Autorità Palestinese partecipi in modo responsabile a questo processo”.
Alla conferenza hanno partecipato anche l’on. Silvia Fregolent di Azione-Italia Viva e Simone Billi della Lega. “Tutelare Israele vuol dire tutelare la democrazia” ha dichiarato l’on. Fregolent sottolineando l’importanza di queste iniziative, attraverso le quali si può conoscere meglio la complessità del conflitto israelo-palestinese e capire che schema c’è dietro a quanto sta succedendo negli ultimi mesi. “Condanno fermamente il terrorismo” ha affermato l’on. Billi. “È un fattore non trascurabile il riconoscimento del diritto dello Stato d’Israele ad esistere” ha aggiunto.
“Quella degli ultimi dieci mesi è una campagna terroristica, ben orchestrata e ben organizzata, che è gestita dietro le quinte dal regime iraniano” ha affermato Michael. Il fulcro di questa campagna è Jenin, città storicamente simbolo della lotta palestinese già dagli anni Trenta, ormai controllata dalla Jihad Islamica Palestinese, che ha visto nel vuoto di potere lasciato dall’ANP un’opportunità di controllo del territorio. Come ha spiegato il ricercatore israeliano durante la conferenza, questa organizzazione è una delle proxy dell’Iran nell’arena palestinese.
La Jihad Islamica Palestinese è finanziata dal regime degli Ayatollah attraverso criptovalute e raccoglie altro denaro dal traffico di stupefacenti provenienti dalla Siria, un narco-stato secondo Michaeli, al quale fornisce anche il know-how per la produzione di armi ed esplosivi direttamente nei territori controllati dall’organizzazione terroristica palestinese.
Perché tutto questo? “L’Iran vede se stesso come una potenza regionale e per questo è necessario avere l’egemonia di tutto il Medio Oriente. Chi ostacola questo progetto d'impero voluto dal regime iraniano? Israele, l’unico Paese che attualmente si batte attivamente contro gli iraniani” ha affermato Kobi Michael.
Per indebolire lo Stato ebraico, secondo il ricercatore, l’Iran sta orchestrando un’ampia campagna di destabilizzazione che si muove contemporaneamente su cinque fronti: il Libano, la Siria, l’Iraq, lo Yemen e infine proprio l’arena palestinese, con Hamas e la Jihad Islamica. “I palestinesi si ritrovano ad essere delle pedine in una più ampia tavola di scacchi” ha sottolineato.
Michael ha spiegato come, secondo lui, la situazione sia ormai fuori controllo e che per lo Stato ebraico il rischio sia quello di un ciclo di violenze. Cosa si può fare a livello internazionale per impedire che ciò avvenga? Secondo il ricercatore è necessario prima di tutto “condizionare i fondi destinati all’Autorità Palestinese a una responsabilizzazione della sua governance e a un blocco di tutte quelle cause portate dai palestinesi nei tribunali internazionali”. Ma innanzitutto è necessario che il mondo, e in particolare l’Unione Europea, sia molto più dura nei confronti dell’Iran, perché è una minaccia internazionale, le cui aspirazioni sono anche più ampie e profonde della sola egemonia regionale.
(Shalom, 10 febbraio 2023)
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La terra trema e fa paura. Le calamità naturali nell'ebraismo
Intervista a rav Riccardo Di Segni
di Michelle Zarfati
La notte tra il 5 e il 6 febbraio 2023 un terribile evento calamitoso ha sconvolto la Turchia e la Siria. Due forti scosse hanno colpito l'area meridionale della Turchia e le regioni settentrionali della Siria. La terra ha poi tremato di nuovo, causando circa 19 mila vittime. Shalom ha intervistato il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni sull'approccio dell'ebraismo nei confronti delle calamità naturali.
- Qual è l’approccio dell’ebraismo alle calamità naturali? Ci sono episodi nelle scritture che parlano di queste tematiche?
Calamità naturali sono citate in abbondanza nel Tanach, basti pensare alle carestie e alle piaghe in Egitto. Per quanto riguarda specificamente i terremoti, ai tempi del re di Giudea Uzzià (circa 783-742 av.e.v.) vi fu un rà'ash, lett. un gran rumore, che si interpreta come un terremoto, e la cosa è ricordata come un evento storico all'inizio del libro del profeta Amos e poi dal profeta Zecharia al cap. 14, che dice che in quell'occasione la gente scappò in massa; in quel brano il profeta annuncia un altro evento sismico che farà dividere in due il monte degli Ulivi, con una parte che si sposterà verso nord e l'altra verso sud.
- Esistono benedizioni contro questo tipo di eventi? Può farci qualche esempio?
Si prega sempre per scongiurare calamità naturali o umane (come nella preghiera serale dell'hashkivenu). In occasione di pericoli imminenti o quando sono avvenute certe catastrofi (tra cui inondazioni, crolli di edifici, terremoti) si fa digiuno. Rambam (Hilkhot Ta'aniot 2:12) scrive: "per i crolli, quando? Se in una città c'è stato un aumento di crolli di mura sane che non stanno in riva al fiume [e per questo motivo è più probabile che crollino], questa è considerata una disgrazia [eccezionale] e si fa digiuno e si suona lo shofàr; e così anche per il terremoto e per i venti che abbattono le costruzioni e uccidono".
La tradizione inoltre prescrive di recitare delle benedizioni collegate al verificarsi di fenomeni naturali o alla vista di spettacoli naturali di grandezza e bellezza insolita per chi li contempla. Quindi c'è una benedizione da recitare per "saette, terremoti, tuoni, venti, lampi" come dice un antico manuale italiano di berakhòt: "sia benedetto il Signore della cui forza e potenza è pieno il mondo". La regola potrebbe sembrare strana perché quando c'è un terremoto si pensa in primo luogo a scappare piuttosto che recitare benedizioni; ma l'idea è che ogni fenomeno naturale debba essere riconosciuto come il segno del dominio divino sulla natura; e poi è diverso il caso di chi improvvisamente si vede tremare e crollare tutto intorno, e ha l'obbligo di proteggere se stesso e gli altri, da chi con maggiore tranquillità, o a distanza avverte una scossa di terremoto. E poi l'idea è che bisogna benedire il Signore sia per le cose buone che per le cose negative. In ogni caso, nel momento del maggior pericolo è sempre bene pregare per la salvezza propria e altrui, e di frasi da dire ne sono state proposte diverse, la più semplice, che non richiede speciali preparazioni, è lo Shemà.
- C'è anche una preghiera che il Coen Ghadol diceva per proteggere "gli abitanti della pianura", potrebbe spiegarlo? Dove lo troviamo?
"Sulla gente dello Sharon diceva: Sia Tua volontà che le loro case non diventino le loro tombe" (pag. 394 del machazor di Kippur ediz morashà). Si spiega che il combinato effetto di piogge abbondanti in quella zona e di abitazioni precarie poteva produrre crolli, ma può essere anche legato a una situazione sismica; in ogni caso l'effetto del terremoto è proprio quello di trasformare l'abitazione in una tomba quindi l'espressione è purtroppo decisamente appropriata. Non dimentichiamo in ogni caso che oltre al quadro liturgico quello che è importante in queste situazioni è attivarsi per soccorrere, aiutare i soccorritori e assistere le vittime.
(Shalom, 10 febbraio 2023)
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Tre anni fa scoppiò nel mondo la pandemia del coronavirus. Oltre a non sapere che cosa fare, molti si accorsero di non sapere che cosa pensare; altri chiesero in giro come si deve pregare. Da parte ebraica non mancarono contributi, dati o richiesti, Anche in quella occasione il Rabbino Riccardo Di Segni fece arrivare la sua parola attraverso una lettera al Messaggero, e il quotidiano La Stampa informò in un suo articolo che il rabbinato israeliano aveva "redatto una formula per l'emergenza del Covid-19". A questo articolo associammo alcune considerazioni che riteniamo ancora valide e qui riproponiamo. M.C.
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Ma perché Dio dovrebbe risponderci?
Ma per quale ragione Dio dovrebbe esaudire le preghiere fatte nel nome di una generica umanità? Questa umanità, che si vanta della sua autonomia decisionale in tutto ciò che riguarda il bene e il male, il vivere e il morire, quale diritto ha di chiedere a un Dio di cui pregiudizialmente si disinteressa di venire in suo aiuto? E se proprio si vuole scomodare Dio, perché non farsi venire il dubbio che potrebbe essere proprio Lui a mandare certi flagelli sulla terra al fine di ottenere quel timore che in altra via non Gli è liberamente accordato?
«Suona forse la tromba in una città, senza che il popolo tremi?
Piomba forse una sciagura sopra una città, senza che lEterno ne sia l'autore?»
dichiara il profeta Amos (3:6). E più avanti aggiunge, riportando la parola di Dio:
«Da parte mia, vi ho lasciati a bocca asciutta in tutte le vostre città; vi ho fatto mancare il pane in tutti i vostri villaggi;
ma voi non siete tornati a me, dice lEterno.
Vi ho anche rifiutato la pioggia, quando mancavano ancora tre mesi alla mietitura; ho fatto piovere sopra una città e non ho fatto piovere sullaltra; una parte del campo ha ricevuto la pioggia e la parte su cui non ha piovuto è inaridita. Due, tre città si trascinavano verso unaltra città per bere acqua, e non potevano dissetarsi;
ma voi non siete tornati a me, dice lEterno.
Vi ho colpito con ruggine e carbonchio; le locuste hanno divorato i vostri numerosi giardini, le vostre vigne, i vostri fichi, i vostri ulivi;
ma voi non siete tornati a me, dice lEterno.
Ho mandato la peste in mezzo a voi come in Egitto; ho ucciso i vostri giovani con la spada e ho catturato i vostri cavalli; vi ho fatto salire al naso il fetore dei vostri accampamenti;
ma voi non siete tornati a me, dice lEterno.
Vi ho sconvolti, come Dio sconvolse Sodoma e Gomorra, e voi siete stati come un tizzone strappato dal fuoco;
ma voi non siete tornati a me, dice lEterno.
Perciò, ti farò come ho detto, o Israele. Poiché farò questo contro di te, prepàrati, Israele, a incontrare il tuo Dio! Poiché, ecco, egli forma i monti, crea il vento, e fa conoscere alluomo il suo pensiero; egli muta laurora in tenebre, e cammina sulle alture della terra. Il suo nome è lEterno, Dio degli eserciti»(Amos 4:6-13).
Ma ci sono anche altri passi nella Scrittura:
"Cercate l'Eterno, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino. Lasci lempio la sua via e luomo iniquo i suoi pensieri; si converta egli allEterno che avrà pietà di lui, al nostro Dio che non si stanca di perdonare. «Infatti i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie», dice l'Eterno. «Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri. Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui lho mandata».; (Isaia 55:6-11).
Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero» (Matteo 11:28-30).
Oggi abbiamo più tempo per riflettere su queste cose. Facciamolo! M.C.
(Notizie su Israele, 18 marzo 2020)
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Dopo la rottura con Barcellona, Tel Aviv riceve una proposta di gemellaggio da Madrid
di David Fiorentini
Il Sindaco di Madrid, José Luis Martínez-Almeida, ha inviato una lettera al Sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, offrendo un gemellaggio tra le due città dopo che Barcellona ha sospeso tutte le relazioni con Israele. L’annuncio è arrivato poco dopo che il Sindaco di Barcellona, Ada Colau, ha dichiarato di “sospendere le relazioni istituzionali con lo Stato di Israele, compresi il gemellaggio con Tel Aviv, fino a quando le autorità israeliane non porranno fine alla sistematica violazione dei diritti umani contro la popolazione palestinese e non rispetteranno pienamente gli obblighi imposti loro dal diritto internazionale e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite”. La scelta catalana, fortemente influenzata da decine di movimenti catalani filopalestinesi e dalla petizione di Decidim.Barcelona, interrompe una proficua relazione intrapresa nel 1998. Per questo motivo, il primo cittadino madrileno ha sentito la necessità di esprimere immediatamente la sua vicinanza allo Stato ebraico: “Oggi stesso invierò una lettera al Sindaco di Tel Aviv offrendo un gemellaggio con la città di Madrid. Non conosco i motivi per cui non eravamo già gemellati, ma si tratta di una grande opportunità per dimostrare che Madrid ha ben chiara la sua posizione, che ha ben chiara quale sia la parte giusta, rafforzando quindi le relazioni con una democrazia e uno Stato di diritto come Israele”. “Non approvo questa rottura delle relazioni con Israele, né con l’interruzione del gemellaggio. Penso che abbia una forte connotazione antisemita”, ha continuato Almeida nella conferenza stampa riportata da TeleMadrid. “Per la sinistra la colpa è sempre di Israele, ma arriverà il momento in cui il populismo di sinistra dovrà rendersi conto che ciò non può che portare ad atteggiamenti e comportamenti antisemiti che non giovano in alcun modo non solo allo Stato di Israele, ma anche a una convivenza plurale e diversificata”. Parole di apprezzamento arrivano da tutto il mondo ebraico, a partire dall’European Jewish Congress, che ha twittato: “Bravo. Dobbiamo costruire ponti tra i popoli, non distruggerli”. Un sentimento condiviso anche dalla FEJJE, la federazione dei giovani ebrei di Spagna, che ha pubblicato un comunicato stampa di condanna della decisione di Colau.
(Bet Magazine Mosaico, 10 febbraio 2023)
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Il ciclone Barbara si abbatte su Israele provocando seri danni
di Marco Castelli Meteorologo
Il violento Ciclone Barbara si è abbattuto sull'Israele tra il 7-8 Febbraio 2023 provocando venti tempestosi fino a 120km/h, piogge torrenziali e copiose nevicate sulle alture montuose.
(il Meteo, 6 febbraio 2023)
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Un viaggio al Cairo
Cosa ci faceva (se confermato) il leader di Hamas in Egitto? I contatti con Israele
Ismail Haniyeh è il capo dell’organizzazione terroristica Hamas e, secondo la televisione del gruppo Al Aqsa, sarebbe arrivato in Egitto per tenere dei colloqui con vari funzionari egiziani. Haniyeh non esce da Gaza dal 2019 e dal 2017 non mette piede in Egitto. Dopo il Cairo i suoi spostamenti dovrebbero proseguire verso la Russia, il Qatar e la Turchia. Parallelamente, in Egitto sarebbe arrivata una delegazione dell’altro gruppo terroristico che minaccia Israele – la lista non include soltanto questi due ma è più lunga e articolata – il Jihad islamico, che avrebbe specificato di essere stato invitato dall’Egitto. Questi spostamenti sono da tenere d’occhio, perché che l’intelligence egiziana abbia contatti con questi gruppi si sa, ma una visita al Cairo è di altro rilievo soprattutto in un periodo in cui il crescendo di violenza contro Israele ha convinto alcuni analisti che non c’è bisogno di altro terrorismo per parlare di Intifada. L’Egitto è un paese in evoluzione dal punto di vista diplomatico, vuole rafforzare la sua centralità e la sua capacità di influenza su alcuni dossier e vuole dare prova di abilità diplomatiche. Dall’altro lato è uno dei paesi che hanno capito quanto le buone relazioni con Israele siano importanti per il medio oriente e la collaborazione con Gerusalemme è di giovamento a tutta l’area. E’ questo il principio che ha seguìto la maggior parte dei paesi firmatari degli Accordi di Abramo, un passo importante nei rapporti tra Israele e i suoi vicini. Il medio oriente ha capito ormai da tempo quanto sia cruciale il ruolo di Gerusalemme. La grande minaccia rimane l’Iran che continua a fomentare i gruppi terroristici nel piano mai abbandonato di attaccare Israele da tutti i suoi confini. Il legame fra Teheran e la Russia ora dovrebbe rafforzare a livello internazionale la convinzione della pericolosità della leadership iraniana, ferina con i suoi stessi concittadini e pericolosa fuori dai suoi confini, e la necessità di fermarla.
Il Foglio, 10 febbraio 2023)
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Israele, tra instabilità politica e nuovi scoppi di violenza
di Francesco Petronella
Israele è di nuovo in preda all’instabilità sia sul fronte interno che su quello internazionale, in particolare per i nuovi focolai di tensione in Cisgiordania. La debolezza dei governi di coalizione, che ha portato lo Stato ebraico alle urne per ben cinque volte in soli quattro anni e mezzo, è d’altronde una delle cifre distintive di questa fase della storia di Israele. L’ennesima escalation con i palestinesi, poi, è solo una prova ulteriore di quanto gli accordi di Oslo e la cosiddetta soluzione a due Stati siano ormai un progetto dalla realizzazione quanto mai remota e improbabile. Il 26 gennaio le Forze di difesa israeliane (IDF, Israel Defence Forces) hanno effettuato un raid nella città di Jenin, in Cisgiordania. Il vecchio campo profughi, che ha dato rifugio a molti palestinesi fuggiti dopo il 1948, è storicamente anche una roccaforte della resistenza nazionale degli arabi di Palestina. Obiettivo del blitz, hanno spiegato le autorità israeliane, erano alcuni obiettivi legati al gruppo denominato Jihad islamico, molto attivo anche nella Striscia di Gaza. Il bilancio dell’assalto si è rivelato il più letale tra quelli effettuati dalle IDF in Cisgiordania negli ultimi due decenni: dieci morti lasciati sul selciato, a seguito di quello che le autorità israeliane hanno ricostruito come un violento scontro a fuoco con i miliziani palestinesi. Nel confronto è rimasto coinvolto anche un ospedale pediatrico: una vetrata è stata sfondata da un lacrimogeno. Le IDF hanno negato che si sia trattato di un’azione intenzionale. L’operazione ha rappresentato la miccia dell’ennesima spirale di violenza. Il 27 gennaio, giornata internazionale dedicata alla memoria della Shoah, sette persone sono rimaste uccise in un attentato compiuto da un ventunenne palestinese a Gerusalemme. Il giovane ha aperto il fuoco sparando a distanza ravvicinata fra la folla, radunata nei pressi di una sinagoga per celebrare lo Shabbat. Il governo dello Stato ebraico ha promesso il pugno di ferro, mentre il terreno di scontro si è ben presto spostato nella Striscia di Gaza. Nei giorni successivi, infatti, le IDF hanno lanciato una serie di attacchi aerei sull’enclave costiera palestinese, soprattutto nella notte tra il 1° e il 2 febbraio: obiettivo, secondo quanto assicurato dalle forze dello Stato ebraico, un centro di addestramento delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato del movimento Hamas. Dalla Striscia sono invece partiti razzi verso le città a ridosso del confine. Le sirene sono risuonate in particolare nella cittadina di Sderot. La nuova escalation arriva in un momento particolarmente delicato anche per la politica interna israeliana. Benjamin Netanyahu, chiamato a formare il governo per la sesta volta nella sua carriera, è nel mirino dei critici per l’annunciata riforma della giustizia. Secondo il progetto legislativo, le attività della Corte suprema (in ebraico Bagatz) andrebbero subordinate al controllo del Parlamento (la Knesset). La riforma, infatti, prevede che quest’ultimo possa annullare una decisione della Corte con un voto a maggioranza semplice, aumentando il potere dei funzionari eletti sui tribunali. Occorre precisare che Israele non ha una Costituzione, se non la dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 1948. Le sentenze del massimo tribunale, quindi, hanno rivestito finora il ruolo di principale fonte di elaborazione del diritto israeliano. L’esecutivo di centrodestra guidato da Netanyahu è stato bersagliato da critiche, e gruppi di opposizione hanno organizzato manifestazioni di protesta contro il progetto di riforma. Migliaia di persone si sono date appuntamento per cinque settimane consecutive, soprattutto per le strade di Tel Aviv. Folle innalzanti bandiere israeliane bianche e blu hanno riempito le piazze con cartelli che etichettavano il nuovo governo come una «minaccia alla pace mondiale». Le proteste sono diventate un appuntamento settimanale ogni sabato sera. In una delle ultime manifestazioni a Haifa, l’ex primo ministro israeliano Yair Lapid ha dichiarato: «Salveremo il nostro Paese perché non siamo disposti a vivere in un Paese non democratico». La situazione in Israele è stata seguita molto da vicino da un osservatore particolare: gli Stati Uniti d’America. Il segretario di Stato USA, Antony Blinken, è stato in visita sia nello Stato ebraico che nei territori palestinesi, dove ha incontrato il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, proprio durante la fase acuta delle tensioni. Il capo della diplomazia di Washington ha chiesto a entrambe le parti di intraprendere «passi urgenti» per riportare la calma. Vale la pena sottolineare che in Israele il segretario di Stato ha fatto riferimento, anche se indirettamente, anche alla situazione politica interna. Come ricostruisce un’analisi del quotidiano The Times of Israel, il 30 gennaio Blinken ha lanciato un appello diplomatico, cortese ma inequivocabile e molto dettagliato, al premier Netanyahu affinché «custodisca la democrazia israeliana e riconsideri i termini dell’annunciata riforma giudiziaria».
(Treccani, 9 febbraio 2023)
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Secondo l'autore dell'articolo:
- i terroristi uccisi da Israele il 26 gennaio sono definiti “miliziani” “morti” (la parola terrorismo non viene mai usata)
- l’attentato del 27 gennaio è stato compiuto da “un ventunenne palestinese”; ma non era un tredicenne, e anche terrorista?
- non viene detto che “gli attacchi aerei della notte tra il 1° e il 2 febbraio” compiuti da Israele sono stati in risposta al lancio di razzi che vengono invece ricordati solo successivamente nell’articolo, quasi fossero stati questi razzi la risposta di Hamas all’attacco israeliano.
- viene detto che Israele non ha una Costituzione ma viene omesso che ha delle “Leggi fondamentali” che hanno la stessa autorità.
- vengono riportate le parole dell’ex premier Lapid (premier ad interim senza maggioranza parlamentare), mentre non vengono riportate quelle del premier eletto dal popolo di Israele.
Insomma, anche questa testata disinforma i suoi lettori quando deve parlare di Israele. E.S.A.
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Gerusalemme, scoperta una perlina d’oro di oltre 1.600 anni
di Jacqueline Sermoneta
Una rara perlina d’oro puro, risalente alla fine del periodo romano, è stata recentemente ritrovata nel corso degli scavi, condotti dall’Israel Antiquities Authority (IAA), nell’antica Città di David, a Gerusalemme.
Il prezioso oggetto è stato scoperto da una giovane volontaria durante il lavoro di setacciatura della terra rimossa da un’imponente struttura d’epoca romana, costruita lungo la strada dei pellegrini.
“In tutti questi anni dedicati agli scavi archeologici – ha affermato Amir Golani, studioso di gioielli antichi dell’IAA - ho trovato oro solo una o forse due volte. Per questo la scoperta del gioiello è qualcosa di veramente molto speciale”. Il ricercatore ha poi sottolineato che la perlina è intatta e fatta a mano e che, probabilmente, insieme ad altre faceva parte di una collana o di un braccialetto. “Chiunque poteva permettersi questo oggetto d’oro, era di sicuro benestante” ha aggiunto.
Gli studiosi ritengono, inoltre, che la perlina sia stata realizzata in un periodo antecedente a quello dell’edificio in cui è stata trovata. La scoperta è significativa non solo per la sua rarità, ma anche per l’unicità della tecnica con cui è stata creata. Una tecnica particolare e complessa, diffusa nella regione della Mesopotamia circa 4.500 anni fa.
“L’aspetto più interessante dell’oggetto è il suo metodo di produzione. – ha commentato Golani - È necessaria una buona conoscenza dei materiali e delle loro proprietà, così come la capacità di controllare il calore in modo da fissare insieme le piccole sfere a forma di anello per creare la perlina, evitando il surriscaldamento che potrebbe portare tutto l'oro a fondersi". Secondo Golani, "solo un artigiano esperto ha potuto creare un tale oggetto. E questa è un'altra ragione per cui la scoperta ha un grande valore".
È possibile che la perlina sia arrivata a Gerusalemme grazie alle importanti relazioni commerciali che aveva la città con altre regioni in quel periodo. Un'altra ipotesi è che sia stata un dono, o, forse proprio per la sua unicità, che sia stata trasmessa da generazione in generazione come eredità familiare.
Secondo Eli Escusido, direttore dell'IAA, “sebbene sia una piccola scoperta, sono proprio gli oggetti personali e quotidiani che riescono più di ogni altra cosa a toccarci e connetterci in modo diretto alle persone. Anche attraverso la tecnologia avanzata odierna, creare qualcosa di simile sarebbe molto complesso. Un attento esame di questo oggetto riempie di un profondo senso di ammirazione per l'abilità tecnica di coloro che vissero molti secoli prima di noi".
(Shalom, 9 febbraio 2023)
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Gli Ebrei a Benevento e dintorni
Con l’occupazione di Gerusalemme e la sua distruzione arrivano in Italia molti ebrei prigionieri. In Italia meridionale infatti, gli Ebrei aumentano soprattutto dal 115 al 135 d. C., deportati come schiavi.
di Antonietta Pezzullo
Secondo molte fonti storiche durante la Roma repubblicana dell’Impero romano gli ebrei si stabiliscono in Puglia a Brindisi e poi in Campania a Pozzuoli, Pompei e nel Sannio. E a Pozzuoli viene confermata durante il regno di Erode una grande comunità ebraica. Anche a Benevento viene rilevata una forte presenza ebraica che nell’Epoca romana, diventa una città cosmopolita. Benevento nel II secolo vive un periodo di prosperità. Intorno al V secolo molti ebrei si stabiliscono a Telesia, la città romana situata tra Telese Terme odierno e San Salvatore Telesino. Luogo dove ancora è possibile trovare i resti della città. Per alcuni storici invece la Telesia sannitica si trova nel territorio dell’attuale Castelvenere e poi spostata verso la piana. Telesia viene citata la prima volta intorno al 217 a.C. con la conquista del generale cartaginese Annibale. Anche due lapidi del V sec. confermano le loro tracce. In seguito verso l’836 gli ebrei durante il regno dei Longobardi sotto il principato di Sicardo a Benevento sono noti come mercanti. La comunità ebraica si sviluppa maggiormente intorno all’anno Mille favoriti dal commercio del grano con gli ebrei pugliesi e dalla posizione strategica di Benevento. E dal XVI secolo si commercia anche il mais. I prodotti pugliesi vengono scambiati con la loro produzione di sete, drappi, tessuti e pellame. Si occupano anche di funi e della vendita di panni vecchi. Nel 1077 quando la chiesa romana prende il controllo di Benevento impone la tassa sulle tintorie, assicurando la loro protezione. Ma intorno al 1290-1294 i Frati Domenicani diffondono il terrore con delle campagne antigiudaiche e imponendo le conversioni che ridimensiona la comunità. A Benevento gli ebrei vivono nei quartieri che coincidono oggi con Corso Garibaldi, Porta Somma (Rocca dei Rettori), Piano di Corte e la chiesa di Santa Sofia. E nel 1165 si registrano circa 200 famiglie di ebrei. Il loro cimitero è collocato fuori delle mura, nella zona di Creta Rossa, vicino alla masseria Saberiana. Gli ebrei sono considerati grandi esperti tintori e tessitori, tra questi il noto tessuto il Fustaneus Albus de Benevento, Drappo Beneventano. Il declino di questa attività inizia verso il XIII secolo con l’arrivo di altri commercianti dell’Italia settentrionale. L’attività ebraica continua comunque ma intorno al XV secolo, si diffonde il prestito, a cui ricorrono personalità e persino il Comune, almeno fino al 1500 e oltre. E sembra che prima, intorno al 1165 gli ebrei vivano principalmente a Caserta, Alife, Nocera, Eboli, Teano, Sorrento, Aversa. Questa situazione almeno prima delle conversioni imposte nel 1294. La comunità ebraica in questi anni si ritrova coinvolta nei conflitti tra papato e impero, le guerre e le invasioni. La loro presenza a Benevento è testimoniata dai codici, manoscritti e anche dalle tre chiese S. Nazarii a Judeca, S. Stephani de Judeca, S. Januarii de Judeca, che dal nome indicano il quartiere dove risiedono. Il loro rapporto con la comunità del luogo in alcuni periodi appare più tollerata, come ricordano le disposizioni di papa Gregorio IX, in cui vieta l’obbligo del battessimo, permettendo di festeggiare le loro tradizioni senza repressioni. Ma la comunità resta distante dai cristiani e non integrata. Vengono emanate poi nuove disposizioni per limitare i ruoli anche pubblici. Tra i divieti quello di vestirsi in un certo modo e di non apparire durante la Settimana Santa, restrizioni usate per contrastare la loro ascesa economica. Nel 1458 la Bolla Papale di Pio II limita ulteriormente la libertà degli ebrei e molte concessioni e privilegi vengono abrogate. La giudecca, inoltre è l’area della città dove vivono e la sinagoga è il centro economico e sociale in cui si riunisce la comunità per celebrare matrimoni, affari e dove si deliberano persino le scomuniche. I sacerdoti leggono il sabato il Pentateuco ai fedeli. La giudecca quindi non è da confondere con il ghetto, che viene istituito con Paolo IV nel 1555 a Venezia e prevede le mura e la sorveglianza, pagata dagli stessi ebrei. Infatti con il Concilio di Trento e le disposizioni di Paolo IV la loro situazione peggiora ulteriormente. Benevento accoglie anche i profughi spagnoli nel 1492, alcuni però si spostano a Guardia San Framondi dedicandosi al commercio del pellame. Da ricordare tra gli arrivi nella città alcune famiglie importanti come la Usillo. Inoltre dal 1400 gli ebrei si dedicano soprattutto all’usura, dopo nuove disposizioni che vietano di possedere granai e viene concesso solo l’uso domestico. Le loro abitazioni sono provviste di un giardino pensile dove coltivano frutta e ortaggi per evitare di comprare da altri commercianti, i quali mal li tollerano. Gli ebrei a Benevento vengono espulsi dai territori pontifici nel 1569 con le disposizioni generali di papa Pio V del 26 febbraio. A parte alcuni luoghi come Venezia, Roma e Ancona in cui si istituiscono i ghetti. Agli ebrei dopo l’ordinanza di abbandonare la città viene concesso solo due mesi di tempo e in caso contrario soggetti alla confisca dei beni e alla perdita della libertà. Alcuni decidono di restare e sono circa 27 le conversioni a cui si aggiungono personalità noti nel luogo come lo spagnolo ebreo Raffaele Usiglio. In seguito gli ebrei vengono riammessi nel 1617, ma con la peste sono di nuovo colpevolizzati di esserne la causa. Bisogna aspettare al 1800 quando alcune famiglie ritornano dedicandosi all’attività commerciale. Insomma per gli ebrei non esiste pace, in balia di editti e discriminazioni, costretti continuamente a vagare. Un popolo in fuga, disperso in tanti luoghi, mondi e usi diversi, ma sempre facilmente distinguibili e fedeli alla loro identità.
(ilformat.info, 9 febbraio 2023)
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Un nuovo climatizzatore ai musei ebraici di Casale
Donato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, a cui verrà dedicata una targa
CASALE - Un museo aperto in ogni stagione, con temperature ottimali, in primis per i visitatori, ma anche per gli oggetti e le opere che vi sono custodite: è questo che permetterà il nuovo impianto di climatizzazione che da questo mese è attivo nel complesso museale ebraico di Casale Monferrato, in vicolo Salomone Olper. Realizzato dalla Comunità Ebraica con un importante contributo economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, costituisce un valido tassello per la valorizzazione dei beni turistici della città e di tutto il territorio monferrino. «I musei sono luoghi educativi per eccellenza, soprattutto per le nuove generazioni e per i ragazzi che stanno formando la propria coscienza e il proprio intelletto. Sono fonte di cultura, di formazione e di informazione – afferma il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, Luciano Mariano – ed è un dovere di tutti noi salvaguardarne il patrimonio. L’intervento a favore del Museo Ebraico di Casale rappresenta uno dei tanti esempi dell’interesse che l’ente rivolge alla tutela della storia e della cultura del nostro passato e, naturalmente, anche alla promozione del territorio». I vantaggi del nuovo impianto sono evidenti: fin da quando gli edifici nel cuore del ghetto sono stati riaperti al pubblico nel 1969, la fruizione del Museo di Arte e Storia Antica Ebraica e della Sinagoga (che è comunicante con il Museo attraverso i matronei), è stata per i visitatori difficoltosa a causa delle temperature particolarmente calde dei mesi estivi e fredde dei mesi invernali, il complesso, per queste ragioni, veniva chiuso ad agosto approfittando della pausa per fare manutenzione o nel cuore della stagione fredda. «L’impianto di climatizzazione ci dà la possibilità non solo di aumentare le giornate di apertura in quanto rende il museo accessibile anche in pieno inverno e in piena estate – spiega Roberto Gabei, Presidente della Fondazione Casale Ebraica ETS - ma anche di facilitare la permanenza dei visitatori nelle sale rendendo la visita più gradevole dal punto di vista climatico». La previsione è quindi di aumentare il già considerevole flusso turistico che fa di questo sito il più visitato della provincia di Alessandria, con oltre 16mila ospiti all’anno provenienti un po’ da tutto il mondo. Per testimoniare e ricordare l’importanza dell’intervento e ringraziare chi l’ha reso possibile domenica 12 febbraio alle 11.30 sarà apposta nel Museo una targa dedicata alla Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Nella mattina di domenica sarà inoltre possibile la visita guidata gratuita dei musei con permesso di testare con mano i vantaggi del nuovo impianto.
(Il Piccolo, 9 febbraio 2023)
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Le donne soldato contro i jihadisti: gli israeliani come i curdi
Nel raid di Gerico contro una cellula di Hamas nei territori è stata inviata un’unità a maggioranza femminile, la "Leone della Valle"
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME – Un veicolo militare, tre soldati con equipaggiamento pesante, armi in pugno e passamontagna. Le foto ufficiali diffuse dall’esercito israeliano lunedì che ritraggono le truppe che hanno condotto il raid contro una cellula di Hamas da poco operativa nella città palestinese di Gerico a prima vista possono sembrare immagini come tante altre. Eppure, a fare più attenzione, si può notare che le mani di uno dei militari sfoggiano unghie laccate di bianco, mentre dal casco di due soldati spunta una lunga treccia. A eliminare i terroristi infatti è stata l’unità 47 “Leone della Valle”, uno dei quattro gruppi di fanteria leggera dell’esercito israeliano aperto anche alle donne, in uno dei più straordinari successi operativi mai realizzati dai battaglioni misti.
• L'unità "Leone della Valle" Fondata nel 2016, Leone della Valle è considerata un’unità laboratorio per la presenza oltre che di donne, di soldati gay e transgender, e anche di ragazzi con precedenti penali a cui normalmente è proibito servire in questo tipo di posizione. Di stanza nella valle del Giordano, il compito principale dei "leoni" è la sorveglianza del confine con la Giordania, soprattutto al fine di evitare il contrabbando di armi. A differenza di altri centri palestinesi come Jenin e Nablus, Gerico è una zona relativamente tranquilla. E tuttavia solo pochi giorni prima due miliziani palestinesi si erano presentati al ristorante israeliano vicino allo svincolo autostradale di Almog pronti a falciare i clienti con un fucile. Dopo il primo colpo però l’arma si era inceppata e i due erano riusciti a dileguarsi. Per catturarli e neutralizzare la cellula appena fondata nel campo profughi di Aqabat Jaber affiliata alle Brigate al-Qassam di Hamas, l’esercito israeliano aveva mobilitato servizi di sicurezza, unità di élite e polizia di frontiera. Come svelato dal quotidiano Yedioth Ahronoth, alla 47esima era stato affidato il compito di bonificare un edificio limitrofo alla zona calda, considerato secondario, una guest house per turisti. E invece è proprio lì che le 15 leonesse, insieme a 12 compagni, si ritrovano sotto il fuoco dei miliziani. E riescono a neutralizzarli.
• La svolta di Alice Miller Sin dalla fondazione di Israele nel 1948, il servizio di leva è obbligatorio sia per gli uomini sia per le donne. Inizialmente le donne erano escluse da molti ruoli, inclusi tutti quelli di combattimento. Nel corso dei decenni la situazione è progressivamente cambiata. La svolta decisiva si è verificata nel 1995, quando la giovane Alice Miller si rivolse alla Corte Suprema dopo che la sua domanda di ammissione al corso di addestramento piloti era stata respinta. Con la sentenza fu sancito il diritto delle donne a venire trattate alla pari nell’esercito, sia dal punto di vista formale che sostanziale. Da allora sono stati sempre di più i ruoli aperti alle reclute di sesso femminile, al punto che oggi secondo l’Idf circa il 95% delle posizioni sono accessibili a tutti e le donne rappresentano il 51% degli ufficiali. Lo scorso maggio è stata aperta per la prima volta alle donne la possibilità di arruolarsi nell’Unità speciale di ricerca e soccorso 669, uno dei gruppi di élite dell’esercito israeliano, infrangendo un altro tabù. D’altronde le donne in Israele avevano già partecipato da combattenti alle Guerra di Indipendenza, prima che la fine dell’emergenza di garantire allo Stato di sopravvivere chiudesse loro le porte.
• Come i curdi Va ricordato come, in Medio Oriente, le ragazze israeliane non sono le sole a impugnare le armi per difendere il proprio popolo: a solo alcune centinaia di chilometri le donne curde giocarono un ruolo fondamentale nel combattere l’Isis. Con i terroristi islamici che fuggivano di fronte a loro, convinti che morire per mano di una donna li avrebbe condotti dritti all’inferno
(la Repubblica, 8 febbraio 2023)
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Ciro il Grande e il secondo Tempio di Gerusalemme
«Le radici ebraiche di Gerusalemme affondano in tremila anni di storia, eppure la cecità di gran parte di questo mondo nega pervicacemente l’esistenza di ogni legame tra gli ebrei, la terra d’Israele, Gerusalemme e il monte del Tempio». Accogliamo con gratitudine la segnalazione di questo prezioso articolo storico di un fratello nella fede. NsI
di Tommaso Todaro
Ai tempi di Sedekia, re di Giuda (597-586), Gerusalemme era divenuta una città corrotta, che aveva “voltato le spalle” al Dio dei Padri e offriva sui tetti delle case profumi a Baal e libazioni ad altri dei, ponendo delle abominazioni finanche «nella casa sulla quale è invocato il mio nome, per contaminarla» ed «edificato gli alti luoghi di Baal che sono nella valle dei figlioli d’Hinnon, per far passare per il fuoco i loro figliuoli e le loro figliuole, offrendoli a Moloc1». (Geremia cap. 32:34-35).
«Nessuno muove causa con giustizia, nessuno la discute con verità; si appoggiano su ciò che non è, dicono menzogne, concepiscono il male, partoriscono l’iniquità». (Isaia Cap. 59). «Sono come tanti stalloni ben pasciuti e ardenti; ognun d’essi nitrisce dietro la moglie del prossimo».(Geremia cap. 5).
Correva il decimo giorno del decimo mese del nono anno del regno di Sedekia2, re di Giuda (anno 558), quando Nabucodonosor, per domare la ribellione giudaica, giunse con tutto il suo esercito alle porte di Gerusalemme, cingendola d’assedio e costruendovi tutto intorno delle trincee e delle fortificazioni. (II Re cap. 25; II Cron. Cap. 36).
«Ecco, un popolo viene dal paese di settentrione, e una grande nazione si muove dalle estremità della terra. Essi impugnano l’arco ed il dardo; son crudeli, non hanno pietà; la loro voce è come il muggito del mare; montan cavalli; son pronti a combattere come un solo guerriero, contro di te, o figliuola di Sion». (Ger. 6:22-23).
Durante l’assedio, Geremia, che aveva profetizzato la catastrofe, era rinchiuso nel cortile della prigione sita nel palazzo del re. (Ger. cap. 32). Il nono giorno del quarto mese dell’undicesimo anno di Sedekia (anno 586) la città era allo stremo e per cercare scampo fu praticata una breccia «in prossimità del giardino del Re» per la quale tutta la gente di guerra s’incamminò in silenzio, di notte, «per la via della porta fra le due mura», prendendo la via della pianura. Avvenne però che nella valle di Gerico l’esercito, inseguito dai babilonesi, si disperse abbandonando il re che fu fatto prigioniero, i figli scannati in sua presenza, e lo stesso re condotto in catene di rame a Babilonia, dopo che gli erano stati cavati gli occhi. Dopo un assedio durato 19 mesi, la resistenza degli assediati era stata fiaccata dalla peste, dalla fame e dalla spada. (Ger. cap. 21, 39 e 52). Il settimo giorno del quinto mese dell’undicesimo anno di Sedekia (era il 19° anno di Nebucadnetsar - Nabucodonosor in altre versioni della Bibbia - anno 586) Nebuzaradan, capitano delle guardie del corpo, giunse a Gerusalemme ed arse il Tempio, la casa del re, tutte le case della gente più ragguardevole e fece radere al suolo le mura della città. Deportò quindi a Babilonia i superstiti rimasti in città, i fuggiaschi che si erano arresi e il resto della popolazione, non lasciando che alcuni tra i più poveri a coltivare le vigne e i campi. I tesori e gli arredi del Tempio, comprese le grandi strutture di rame, opportunamente frantumate, vennero trasportati a Babilonia e finirono in parte nel palazzo di Nabucodonosor e in parte a Scinear, nel tempio del suo dio (II Re 25, Ger. 52).3 Babilonia era una immensa città fortificata che si spandeva ai due lati del fiume Eufrate, il quale vi scorreva, quindi, nel mezzo. Un doppio, poderoso muro di cinta munito di porte di bronzo circondava la città (Erod. 1,181), fortificata anche lungo le due sponde del fiume. (v. cartina) La fine dell’impero avvenne come un’inondazione. Ciro il Grande, nipote di Cambise, salito sul trono nel 559, dopo una serie di fulminee conquiste nel corso delle quali, ad Opis e Sippar sconfisse i Babilonesi (539), entrò in Babilonia senza colpo ferire. La città fu devastata e ridotta in macerie, le mura spianate al suolo e i luoghi ridotti a un deserto perenne.
«Essa non sarà mai più abitata, d’età in età nessuno vi si stabilirà più; l’Arabo non vi pianterà più la sua tenda, né i pastori vi faran più riposare i lor greggi; ma vi riposeranno le bestie del deserto, e le sue case saran piene di gufi; vi faran la loro dimora gli struzzi, i satiri vi balleranno. Gli sciacalli ululeranno nei suoi palazzi, i cani salvatici nelle sue ville deliziose». (Isaia 13:20-22).
«Babilonia la Grande è caduta! Il soggiorno dei morti, laggiù, si agita per te, per venire a incontrarti al tuo arrivo; esso sveglia per te le ombre, tutti i principi della terra; fa alzare dai loro troni tutti i re delle nazioni …» (Isaia Cap. 14).
Il devastatore, un feroce e spietato popolo di molte nazioni, i Medi, provenienti da Nord, nel furore del saccheggio, non risparmiarono neppure le donne e bambini. Nel primo anno del suo regno (538) Ciro statuì, con apposito editto, il ritorno degli ebrei nella loro patria e la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme.
«Così dice Ciro, re di Persia: L’Eterno, l’Iddio de’ cieli, m’ha dato tutti i regni della terra, ed egli m’ha comandato di edificargli una casa a Gerusalemme, ch’è in Giuda. Chiunque tra voi è del suo popolo, sia il suo Dio con lui, e salga a Gerusalemme, ch’è in Giuda, ed edifichi la casa dell’Eterno, dell’Iddio d’Israele, dell’Iddio ch’è a Gerusalemme. Tutti quelli che rimangono ancora del popolo dell’Eterno, in qualunque luogo dimorino, la gente del luogo li assista con argento, con oro, con doni in natura, bestiame, aggiungendovi offerte volontarie per la casa dell’Iddio ch’è a Gerusalemme.» (Esdra 1: 1-4).
Tornarono dalla dispersione 42.360 persone oltre ai servi, cantanti, e gran quantità di bestiame (Esdra 2:64-67) e si stabilirono, ciascuno, nelle città d’origine, liberi e senza alcun prezzo di riscatto. Gli esuli trovarono una Gerusalemme desolata e ridotta a un cumulo di macerie, le mura diroccate, il Tempio distrutto. Trascorsi due anni, nel secondo mese, iniziò l’opera di riedificazione del Tempio e mentre si ponevano le fondamenta, tutti coloro che avevano visto il primo Tempio piangevano ad alta voce, altri gridavano per la gioia, «al punto che non si poteva distinguere il rumore delle grida di gioia da quelle di pianto del popolo». (Esdra 3:12-13). I lavori procedevano a rilento, ostacolati soprattutto ad opera degli abitanti delle città di Samaria (che oggi ricade in gran parte nella Cisgiordania o West-Bank), i quali non erano israeliti, ma vi erano stati trapiantati da Nabucodonosor, provenienti dalle più svariate province dell’impero babilonese. Le molestie durarono per tutta la vita di Ciro e fino al regno di Dario. Sotto il regno di Artaserse quelle genti riuscirono finanche a sospendere i lavori, forti di un decreto che avevano sollecitato al re, presentandosi in armi a Gerusalemme. L’opera rimase sospesa fino al secondo anno di Dario, re di Persia (334) e riprese su iniziativa di Zorobabele e di Jesua ma l’ostruzionismo non era finito. Stavolta Tattenai, governatore delle terre oltre il Giordano (sostanzialmente l’attuale Giordania), scrisse una lettera al re Dario lamentando che la “casa del gran Dio” veniva costruita con ogni cura, impiegando blocchi di pietra e legname e puntualizzando che i lavori non erano ancora conclusi. Dario ordinò le ricerche d’archivio per accertare l’esistenza dell’editto di Ciro e il rotolo fu rinvenuto nel castello di Ameta, situato nella provincia di Media. Il testo è il seguente:
«Memoria. - Il primo anno del re Ciro, il re Ciro ha pubblicato quest’editto, concernente la casa di Dio a Gerusalemme: La casa sia riedificata per essere un luogo dove si offrono dei sacrifizi; e le fondamenta che se ne getteranno, siano solide. Abbia sessanta cubiti d’altezza, sessanta cubiti di larghezza, tre ordini di blocchi di pietra e un ordine di travatura nuova; e la spesa sia pagata dalla casa reale. E inoltre, gli utensili d’oro e d’argento della casa di Dio, che Nebucadnetsar avea tratti dal tempio di Gerusalemme e trasportati a Babilonia, siano restituiti e riportati al tempio di Gerusalemme, nel luogo dov’erano prima, e posti nella casa di Dio». (Esdra 6:1-6)
Dario intimò di conseguenza a Tattenai e ai suoi colleghi d’oltre il fiume di stare lontani da quel luogo, di lasciar continuare i lavori e di versare ai costruttori, dai tributi d’oltre il fiume, il necessario per la loro prosecuzione. Gravissime le sanzioni per i contravventori.
«Si tragga dalla casa di lui una trave, la si rizzi, vi sia egli inchiodato sopra, e la sua casa, per questo motivo, diventi un letamaio».
La casa fu finita il terzo giorno del mese di Adar, il sesto anno del regno di Dario (330). Poi i reduci dell’esilio celebrarono la Pasqua, il quattordicesimo giorno del primo mese (Abib o Nisan), secondo le disposizioni che Dio aveva dato a Mosè. (Esodo cap.12). Quanto alle mura della città, esse furono riedificate ai tempi di Artaserse e ultimati il venticinquesimo giorno di Elul (anno 445), nel tempo di cinquantadue giorni e in tempi difficili, al punto che gli operai lavoravano cingendo la spada. Di fronte alle rimostranze dei popoli circonvicini (arabi, ammoniti, Samaritani, etc.) Nehemia, che era stato autorizzato allo scopo da Artaserse, ebbe a rispondere: «Voi non avete né parte né diritto né memoria a Gerusalemme». Pare che la storia si sia fermata in quei luoghi a 2400 anni fa, poiché le pretese dei popoli circonvicini che vantano diritti su Gerusalemme sono rimaste immutate. Questa in breve la storia della ricostruzione del Tempio ai tempi di Esdra, quello preesistente, distrutto dai babilonesi, era stato costruito da Salomone. Tale secondo Tempio, magnificamente restaurato, ampliato e abbellito da Erode il Grande (73 – 4 a.C.), venne incendiato e ridotto in macerie, a seguito della rivolta giudaica contro i Romani nell’anno 70 da Tito, figlio di Vespasiano e gli arredi del Tempio, trasportati a Roma, passarono sotto l’arco di trionfo insieme al corteo dei prigionieri. (v. bassorilievo). Era il Tempio dove insegnava il Gesù dei Vangeli «Ogni giorno sedevo nel tempio ad insegnare, e voi non m’avete preso» (Matteo 26:55) e del quale aveva predetto: «Non sarà lasciata qui pietra sopra pietra che non sia diroccata». (Matteo 24:1-2). La cronaca dettagliata della guerra fu descritta dallo storico ebreo Giuseppe Flavio nella Storia della Guerra Giudaica.4 Sono trascorsi pochi giorni dalla visita del ministro della Pubblica Sicurezza Itmar Ben-Gvir sul Monte del Tempio (per gli arabi Spianata delle Moschee) e della scomposta reazione che ne è seguita da parte della stampa e della diplomazia internazionale. Lo status quo dei luoghi è stato di recente ben sintetizzato da David Elber in un articolo del 27 gennaio 2023.5 Le radici ebraiche di Gerusalemme affondano in tremila anni di storia, eppure la cecità di gran parte di questo mondo nega pervicacemente l’esistenza di ogni legame tra gli ebrei, la terra d’Israele, Gerusalemme e il monte del Tempio. Non desta meraviglia che i palestinesi (con sprezzo definiti “Palestinisti” da alcuni giornali di basso profilo che circolano nel web) ne abbiano fatto un vessillo, proclamando in ogni sede che la Palestina va dal fiume (Giordano) al mare, con ciò intendendo la cancellazione dello Stato di Israele. Chi conosce un poco di storia del Medio Oriente sa però benissimo che storicamente non è mai esistito uno Stato di Palestina e che i moderni stati mediorientali dell’area sono nati per intervento delle Potenze Occidentali, dal disfacimento dell’impero Ottomano. Fa specie però che l’Organizzazione delle Nazioni Unite esprima pesantemente il suo antisemitismo in ogni sede. Una per tutte: tra mercoledì 4 e giovedì 5 novembre 2020, 139 paesi delle Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione che parla del Monte del Tempio di Gerusalemme esclusivamente come di un luogo sacro islamico, facendovi riferimento con il solo nome musulmano di al-Haram al-Sharif, di fatto eliminando i legami ebraici (e cristiani) con quei luoghi. Il testo, frutto delle pressioni della Autorità Palestinese e di diversi paesi arabi, denominato “Risoluzione di Gerusalemme” è stato approvato con 129 voti favorevoli tra cui quello dell’Italia, a fronte di soli 11 voti contrari. Ovviamente, anche nel popolo ebraico non mancano i soliti giannizzeri, anche italiani, che cozzano rabbiosamente contro i loro confratelli, odiatori irriducibili dello Stato di Israele e di tutto quanto esso possa rappresentare. Storicamente i giannizzeri provenivano dalle fila dei cristiani (si fa per dire) e militavano nell’esercito turco, dandosi al saccheggio e al massacro nelle terre cristiane. Uno dei più famosi è stato certamente Scipione Gigala o Cicala (1555-1605) di origini genovesi, convertito all’Islam, noto come Sinan Paşa, corsaro dell’impero ottomano e terrore di tutte le coste del Mediterraneo. Nel mondo ebraico i giannizzeri storicamente più accaniti erano senz’altro i convertiti al cattolicesimo, provenienti dalla casa dei neofiti, fondata nel 1582 da Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti, che accoglieva e indottrinava prevalentemente gli elementi provenienti dal mondo ebraico. Uno tra i più aggressivi fu certamente Paolo Sebastiano Medici, che scrisse il virulento Usi e costumi degli ebrei (II edizione, Madrid, 1738) cui vennero aggiunte alcune riflessioni di Niccolò Stratta, ex rabbino divenuto cattolico, il quale (Medici) si era spinto finanche a pubblicare un “Catalogo dè neofiti illustri usciti per misericordia di Dio dall’ebraismo” (Firenze, 1701). Sin dall’inizio del testo il Medici cozza violentemente contro i suoi fratelli ebrei, ebbro com’era del veleno assorbito dalla scuola gesuitica, in quanto che la Divina Misericordia si era degnata di svellerlo «dall’arido terreno della sinagoga, trapiantandolo nel bel giardino della Chiesa Santa». «Diletto, nel rappresentarvi con ogni fedeltà gli strani riti che pratica al presente la misera sinagoga, priva della cognizione di Dio, e da lui, in pena di Deicidio, abbandonata e riprovata …». Un perfetto antefatto per quel falso storico che furono i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. È il solito ritornello della scuola di Loyola che predicava finanche (risum teneatis) l’assurdo secondo cui non erano i cristiani a perseguitare gli ebrei, ma viceversa6 e la cui filosofia violentemente antisemita è concisa nella Civiltà Cattolica in quattro corrispondenze da Firenze del 1881 che torna utile leggere, per una migliore conoscenza dei seguaci di Loyola.7
Anche ai giorni nostri non mancano i rinnegati ebrei che odiano lo Stato di Israele, del quale desiderano la cancellazione dalla carta geografica e l’elenco sarebbe lungo, come non mancano i figli di Israele che preferiscono fare a meno del Dio dei Padri, e lo denigrano con sarcastiche storielle del tipo: Signore, tu dici che siamo il popolo prescelto. Ma se scegliessi qualcun altro non sarebbe meglio? La storia d’Israele, però non dipende né da chi vuole, né da chi corre, ma da Dio che usa misericordia. (Romani 9:16).
«Avverrà, negli ultimi giorni, che il monte della casa dell’Eterno si ergerà sulla vetta dei monti, e sarà elevato al disopra dei colli; e tutte le nazioni affluiranno ad esso. Molti popoli v’accorreranno, e diranno: ‘Venite, saliamo al monte dell’Eterno, alla casa dell’Iddio di Giacobbe; egli ci ammaestrerà intorno alle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri’. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola dell’Eterno». (Isaia 2:3).
«Sia benedetto il nome di Dio, d’eternità in eternità! poiché a lui appartengono la sapienza e la forza. Egli muta i tempi e le stagioni; depone i re e li stabilisce, dà la sapienza ai savi, e la scienza a quelli che hanno intelletto. Egli rivela le cose profonde e occulte; conosce ciò ch’è nelle tenebre, e la luce dimora con lui.» (Dan. 2:20).
Note 1.Moloc era divinità degli ammoniti, il suo nome, similmente a Baal, significa “signore”. Gli scavi, particolarmente in Palestina, hanno portato alla luce mucchi di scheletri calcinati di bambini, intorno ai santuari di Moloc - Renè Pache, Nuovo Dizionario Biblico, edizioni Centro Biblico, Napoli, 1987, p.237 2. Il nome di Sedekia gli fu imposto da Nabucodonosor che lo aveva posto sul trono di Giuda, ma il suo nome era Mattania. Iniziò il suo regno all’età di 21 anni e regnò in Gerusalemme 11 anni, dal 598 al 587 (II Re 24:17-18). Fu l’ultimo re di Giuda. 3. Nel corso del precedente assedio, avvenuto pochi anni prima, al tempo di Joiakin, lo stesso Nebucadnetsar si era presentato sotto le mura di Gerusalemme. In quell’occasione il conquistatore aveva portato via tutti i tesori del Tempio e del palazzo del re che in parte finirono nel palazzo reale a Babilonia. 4. Giuseppe Flavio, Storia della Guerra Giudaica, vol. I e vol. II, Milano, Sonzogno, 1822. 5. D. Elber, Cosa si intende con il termine Staus quo?, L’Informale, 27.01.2023. 6. Anonimo – Dell’ebraica persecuzione contro il cristianesimo. La Civiltà Cattolica, Serie XIII, Vol. II, quaderni 862 e 864, 1886. 7. La Civiltà Cattolica, varie corrispondenze da Roma, vol. VI della 11.a serie, 1881.
Tutte le citazioni bibliche sono tratte dalla Versione Riveduta in testo originale dal Dott. Giovanni Luzzi, Roma, 1925.
(Nuovo Monitore Napoletano, 8 febbraio 2023)
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Israele allestisce un ospedale da campo in Turchia
Mentre cresce il numero delle vittime del terremoto in Turchia e Siria, continuano le operazioni di soccorso sul campo, supportate da aiuti che giungono da molti Paesi. È arrivato oggi in Turchia un team di medici israeliani per allestire un ospedale da campo.
La squadra di soccorritori israeliani, arrivata ieri in Turchia, è riuscita ad estrarre una ragazza turca dalle macerie.
Il ministero della Sanità israeliano era "pronto ad assistere con attrezzature, personale e supporto professionale per la riuscita della missione", ha dichiarato la portavoce del ministero della Sanità Shira Solomon in una dichiarazione.
La Turchia ha annunciato martedì che più di 8.000 persone sono state salvate dalle migliaia di edifici crollati e circa 380.000 persone rimaste senza casa sono state evacuate in rifugi in moschee, centri commerciali e stadi. Alcuni che non potevano o non volevano essere evacuati così hanno trascorso un'altra fredda notte nelle zone di devastazione.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha affermato che 13 su 85 milioni di abitanti della Turchia sono stati colpiti dal terremoto. Martedì ha dichiarato lo stato di emergenza in 10 province gravemente colpite. Le condizioni meteorologiche hanno reso più difficile raggiungere le aree più remote e i sopravvissuti hanno lottato per estrarre le persone da sotto le macerie perché le squadre di soccorso non sono arrivate.
(Shalom, 8 febbraio 2023)
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Turchia, il rabbino Mendy Chitrik tra le macerie di Antiochia: "Il terremoto cancellerà la presenza ebraica in città"
Qui sopravviveva una delle più antiche comunità ebraiche del mondo, ridotta a una dozzina di membri appena. Ma col centro della città raso al suolo, saranno costretti ad andarsene. "Sono corso qui per aiutare gli anziani e salvare gli antichi rotoli della Torah", racconta il capo dell'Alleanza dei rabbini negli Stati Islamici.
di Anna Lombardi
"Ad Antiochia sopravviveva una delle comunità ebraiche più antiche del mondo. Risaliva alla fondazione della città da parte di uno dei generali di Alessandro Magno più di 2.500 anni fa. Ormai era anche una delle più piccole, una dozzina di persone appena, tutte molto anziane. Ahimè, temo che questo terremoto segnerà la fine della sua storia". Mendy Chitrik, 46 anni, capo dell'Alleanza dei rabbini negli Stati Islamici, rabbino della locale comunità ashkenazita ed emissario Chabad, subito dopo il terremoto, lunedì, è partito da Istanbul dove vive con la moglie e gli otto figli, per portare aiuto ai sopravvissuti della comunità di Antiochia e mettere in salvo pure gli antichi rotoli della Torah conservati nella sinagoga. Ha molta fretta e al telefono con Repubblica parla velocemente: cercando di dare tutte le notizie necessarie nel minor tempo possibile.
- Che situazione ha trovato?
"Il centro di Antiochia non esiste più. È qualcosa davvero di sconvolgente. Quando siamo arrivati, abbiamo temuto a lungo per la sorte del capo della minuscola comunità e sua moglie, Saul e Fortuna Cenudioglu. La loro casa è stata rasa al suolo e per molte ore non abbiamo avuto notizie. Invece sono entrambi sopravvissuti, così come tutti gli altri anziani. L'edificio della sinagoga non è molto antico, risale alla fine dell'Ottocento, è seriamente danneggiato ma è rimasto in piedi. Al suo interno erano però conservati i rotoli in pergamena di Torah molto antiche, custodite in città da centinaia di anni. Li ho portati personalmente in salvo e ora li custodiremo ad Istanbul fin quando la sinagoga non sarà restaurata. Chissà fra quanto tempo".
- Quando la terra ha tremato lei era a mille chilometri da Antiochia...
"Sì, mi sono messo in macchina all'alba con altri amici, abbiamo guidato per ore, per arrivare fin qui. Sapevamo che la comunità ebraica locale era formata da anziani bisognosi di aiuto e ci siamo sentiti in dovere di accorrere. Purtroppo anche loro, come tanti altri, hanno perso tutto. Ora li portiamo con noi ad Istanbul, consapevoli che forse non vivranno abbastanza per rivedere la loro città. La comunità ebraica di Antiochia potrebbe essere finita per sempre. Purtroppo, sono tempi durissimi per tutti in questa parte di mondo. Quel che è accaduto agli ebrei di Antiochia è solo un piccolo aneddoto nella devastazione di un'intera regione".
(la Repubblica, 7 febbraio 2023)
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I dilemmi della giovane Rivca (davanti a Joe Biden e Papa Francesco)
La politica da dietro le quinte. Il sodalizio con Reuven Rivlin che ne ha fatto il suo braccio destro. L’incontro col Papa e col Presidente degli Stati Uniti. Una carriera più unica che rara quella di Rivca Ravitz. Ma come si riesce a far coesistere la carriera politica, dodici figli e una religiosità ultraortodossa? Come conciliare ambizione e famiglia, la Knesset e gli schnitzel preparati per la prole? Un’intervista esclusiva.
di David Zebuloni
Dodici sono i suoi figli. Non due, non sei, non dieci: ben dodici sono le vite che Rivca Ravitz è riuscita a portare al mondo. Eppure, quello demografico, non è il suo unico contributo alla società israeliana. Nonostante l’identità da ultraortodossa convinta, la giovane Ravitz è riuscita a segnare la storia della politica israeliana intrufolandosi nella Knesset come assistente parlamentare all’età di diciott’anni, già incita del primo figlio, e diventando anni dopo il braccio destro del Presidente Rivlin, nonché una delle donne più influenti del Paese. Ruolo affatto scontato per chi proviene dalla comunità più conservatrice di Israele. Quando, durante il nostro incontro nella Hebrew University a Gerusalemme, ripercorriamo insieme le tappe della sua vita, ciò che più stupisce di Rivca è lo stupore che lei stessa nutre per tutto ciò che le è capitato. Non il destino di mamma e nonna che ha fortemente voluto, ma quello di figura pubblica che lei non ha scelto, ma dal quale non si è mai sottratta. “Dio mi ha voluta in quella posizione e io ho assecondato il suo volere”, mi racconta. Oggi Dio sembra avere per lei altri piani.
- Qual era il suo sogno da bambina? Essere una maestra, era la mia vocazione, ed ero già indirizzata verso quella strada. All’età di diciott’anni ero pronta ad insegnare. Avevo superato gli esami necessari per farlo e mi era già stata assegnata una classe. Poi, un attimo prima dell’inizio dell’anno scolastico, mi è stato offerto un lavoro nella Knesset, e da allora la mia vita è cambiata per sempre.
- Come ci è arrivata? Mio suocero, all’epoca, era un parlamentare di spicco all’interno del partito ortodosso Deghel HaTorah. Proprio in quel periodo venne eletto presidente della Commissione Finanze e mi propose di lavorare per lui come assistente parlamentare. Io rifiutai, dissi che sognavo di fare la maestra, e lui mi fece capire che mi stava offrendo una prospettiva lavorativa che non potevo rifiutare. Così, accettai.
- Com’è stato per la Rivca cresciuta in una realtà modesta, entrare nel luogo più importante e prestigioso del Paese? Ero del tutto spaesata. La Knesset è grandissima e io mi ci persi molte e molte volte. Poi, scoprii di essere l’unica donna in mezzo a decine di uomini, per la maggior parte non religiosi. Capii immediatamente di trovarmi in una realtà molto diversa da quella che conoscevo.
- C’è stato un momento in particolare che ha segnato questo passaggio? Quando arrivai alla Knesset avevo diciott’anni e mezzo, ed ero incinta del mio primo figlio. Ricordo che nel momento in cui entrai in ufficio, qualcuno fece un commento sulla mia pancia e domande sulla gravidanza. Io ne rimasi sconvolta. Vede, nel mondo ultraortodosso non si usa commentare la pancia di una donna, certo non in pubblico, per questioni di pudore. Poi ricordo che mi sedetti davanti al computer, senza avere la più pallida idea di come attivarlo. Cominciai a scorrere il mouse sullo schermo, ma nulla accadde. Piano piano imparai. Fu una cosa graduale. Lentamente cominciavo a capire meglio la loro lingua e loro la mia. Mia madre partorì il suo decimo figlio quando io ero alla fine della gravidanza del mio primo, e ricordo che entrai in ufficio euforica, dicendo a tutti che il bambino era nato. Loro fissavano la mia pancia senza capire di cosa stessi parlando. Quando scoprirono che si trattava di mia madre, rimasero senza parole. Fu un momento esilarante.
- In che modo il suo cammino e quello di Reuven Rivlin si sono incrociati? Quando la Knesset approvò una legge che proibiva ai suoi membri l’assunzione di parenti per ruoli istituzionali, mio suocero mi dovette licenziare, ma mi trovò lavoro come assistente parlamentare per un membro abbastanza anonimo del Likud. Uno che all’epoca non aveva rivestito ruoli politici di spicco. Quello era Rivlin. Da allora affrontammo insieme ogni avventura politica, fino alla Presidenza. Fui io a gestire tutta la campagna elettorale e, quando venne eletto Capo dello Stato, fu per me una soddisfazione enorme. Mi domandò quale ruolo desideravo rivestire e io chiesi il più importante di tutti, ma anche quello che conoscevo meglio. Chiesi di essere capo del suo team personale, e lui accettò.
- Perché desiderava proprio questo ruolo? Sono abituata a dirigere gruppi di persone, lo faccio da quando sono nata, prima in casa dei genitori e poi in casa mia. Ero convinta di poter svolgere questo lavoro al meglio, ma solo quando mi sono ritrovata a dirigere persone molto più adulte di me e con un passato militare e politico decisamente più corposo del mio, ho capito l’importanza del ruolo.
- Quali sono le maggiori difficoltà che una donna ultraortodossa incontra lungo il proprio cammino politico? Le difficoltà sono tantissime. Durante la presidenza Rivlin, ho trascorso molto tempo fuori da Israele, per accompagnarlo nei suoi viaggi diplomatici. Non è facile lasciarsi una casa piena di bambini alle spalle, come non è facile poter rispettare tutte le norme religiose in luoghi privi di vita ebraica. Spesso mi sono ritrovata a digiunare per giorni interi. Venivo invitata nei posti più esclusivi del mondo, in palazzi reali e case presidenziali sulle cui tavole venivano disposte decine di posate dorate di tutte le forme e le misure. Tutti attorno a me assaporavano le prelibatezze mentre io sorridevo e sorseggiavo un bicchiere d’acqua. Poi, quando tornavo in Israele, prima di andare a casa facevo tappa al chiosco in fondo alla via, ordinavo una pita piena di falafel e la divoravo mentre tutta la tahina mi colava sulle mani. La dissonanza tra queste due realtà mi fa sempre sorridere.
- Le risulta complicato non poter stringere la mano agli uomini, considerando il suo ruolo diplomatico? Nel 2015 accompagnai Rivlin a Roma, nella sua visita ufficiale al Vaticano. Visita importantissima per lo Stato di Israele, con giorni e giorni di preparativi. L’ambasciatore ci diede delle direttive ben precise. Dovevamo stare in fila aspettando il nostro turno e, una volta davanti al Papa, dovevamo fare un lieve inchino e stringergli la mano. Io spiegai all’ambasciatore che, in quanto donna ortodossa, non potevo stringergli la mano e lui mi rassicurò dicendomi che si sarebbe occupato della questione. Il giorno stesso del grande incontro, un attimo prima di incontrare il Papa, l’ambasciatore mi disse mortificato di essersi dimenticato del mio problema e io andai letteralmente nel panico. Cosa dovevo fare? Andare contro i miei principi? Assecondare il Papa? Pregai Dio e in men che non si dica ero davanti a Papa Francesco.
- Si aggrappò alla mano di Dio o strinse quella del Papa? Decisi di non rinunciare ai miei principi, capii che temevo Dio più di quanto temevo il Papa. Lui mi porse la mano e io risposi con un sorriso. Gli spiegai che sono una donna ultraortodossa e, pertanto, non toccavo altri uomini al di fuori di mio marito. Lui si rivelò estremamente interessato, forse affascinato. Mi fece moltissime domande e, quella che doveva essere una visita di pochi secondi, si prolungò diversi minuti. Al termine della nostra conversazione, lui fece un bellissimo gesto. Coprì la croce appesa al collo con la mano destra e mi congedò con un inchino. Un fotografo lì presente colse quel momento e l’immagine del Papa inchinato davanti ad una donna ebrea ultraortodossa fece immediatamente il giro del mondo. Quando riaccesi il cellulare, scoprii di aver ricevuto centinaia di messaggi. Ci misi un po’ a realizzare cosa fosse realmente accaduto.
- Anche Joe Biden si inchinò davanti a lei… Quello fu un attimo incredibile. Al termine del suo mandato presidenziale, Rivlin fu invitato alla Casa Bianca per un incontro con il Presidente americano. Un attimo prima di entrare nella Sala Ovale dove lo attendeva Biden per un incontro a quattr’occhi, Rivlin mi chiese se volevo entrare anch’io. Ovviamente accettai. Biden inizialmente non capì chi fossi, poi Rivlin mi introdusse e gli disse: “Presidente, indovini quanti figli ha Rivca”. Quando scoprì che ne ho dodici, rimase senza parole. Si inginocchiò letteralmente davanti a me e disse: “Se la mia mamma avesse saputo che ho incontrato una madre di dodici figli, mi avrebbe ordinato di inginocchiarmi immediatamente davanti a lei. La mia mamma amava le famiglie grandi, per lei il mestiere di madre era più importante di quello di presidente”.
- Che cosa pensò in quel momento? Mi commossi, ma soprattutto mi preoccupai per il suo completo. Era così bello ed elegante, non volevo che si strappasse. Poi, realizzai che spesso perdiamo di vista ciò che è importante davvero. Ci confondiamo dando al lavoro troppa importanza, quando l’unica cosa che conta davvero è la famiglia. Sia il Papa che il Presidente Biden, infatti, non si sono inchinati davanti a me in quanto Rivca, ma in quanto simbolo. In quanto mamma.
- So che la mia è una domanda banale, naif, so che oggi si può essere sia madri sia donne in carriera, ma il suo caso è davvero fuori dal comune. Come si fa a gestire l’ufficio più importante del Paese con dodici figli in casa? Con l’aiuto di Dio, e quello di mio marito ovviamente. Senza di lui, nulla sarebbe stato possibile. È un padre molto presente.
- A che ora si sveglia la mattina? Alle quattro e mezza. Prego, leggo le e-mail, cucino. Entro le sei mezza solitamente è tutto pronto.
- Come si cucina per dodici figli? Il segreto sta tutto nelle stoviglie. Bisogna avere dei tegami enormi, delle pentole giganti. Preparo solitamente cose semplici: couscous e polpette, riso e schnitzel. Non è poi così complicato, al posto di buttare in acqua un pacco di pasta, ne butto tre. Tutto qui.
- Crede di poter eccellere come madre pur avendo un lavoro tanto ambizioso? Qui la questione si fa più complicata. Questo è certamente un tasto dolente. Io faccio il possibile, ma ovviamente ho i miei limiti. I miei figli spesso sottolineano la mia assenza. Talvolta, scherzando, dicono che non sono una brava madre, ma sotto ogni scherzo c’è un fondo di verità. Guardi, io credo che la vita sia fatta di compromessi. Questo è il mio compromesso: svegliarmi ogni mattina con la consapevolezza di svolgere un lavoro importante, accettando di non essere una madre perfetta.
- C’è stato un attimo in cui ha pensato che il suo lavoro fosse privo di valore, se le impediva di stare vicino ai suoi figli? Infinite volte. Quasi ogni mattina mi svegliavo con l’impulso di volermi licenziare, ma senza mai farlo per davvero. Ci sono stati diversi momenti di rottura, ma ne ricordo uno in particolare. Era il compleanno di mio figlio, tutti lo festeggiarono in casa, mentre io ero con Rivlin in India per una visita ufficiale. Trascorsi tutta la notte a piangere, mi sentii una madre fallimentare.
- E la sua esperienza di nonna? Bella, bellissima, decisamente più semplice di quella di mamma, avendo meno responsabilità, ma non meno emozionante. Tuttavia, spesso si creano dinamiche scomode tra il mio ultimo figlio e i miei primi tre nipoti, che sono più grandi di lui. Quando uno ruba un giocattolo all’altro, mi domando: a chi devo dare ragione? A mio figlio o a mio nipote? Mio figlio è nato già zio e quando gli chiedono chi è la sua mamma, lui risponde: “la nonna è la mia mamma”.
- Dopo aver rivestito un ruolo tanto importante che cosa fa oggi? Al termine della carica di Rivlin, il neo Presidente Herzog mi ha chiesto se volevo continuare a lavorare per lui, ma ho rifiutato. Oggi mi dedico di più alla famiglia, lavoro in una società di hi-tech, faccio un dottorato alla Hebrew University a Gerusalemme e realizzo il sogno di quando ero ragazza: insegno.
- La sua carriera attuale la soddisfa come quella precedente? No, ma credo di essere in un’altra fase della vita, e mi va bene così. Dentro di noi abbiamo tante identità e io mi rispecchio in tutte. Non avevo alcuna ambizione di diventare ciò che sono diventata, eppure sono convinta che nulla capiti per caso. È Dio che mi ha voluta in quella posizione e io ho assecondato il suo volere, cercando di svolgere il mio lavoro al meglio.
- Signora Ravitz, non possiamo salutarci senza parlare di politica. Durante la presidenza Rivlin lei è stata una delle donne più influenti del Paese. Eppure, se non fosse stato per gli incontri con il Papa e con Biden, il suo nome non sarebbe mai emerso. Spesso prendeva decisioni di ordine internazionale, ma sempre dietro le quinte. Se oggi lei volesse entrare a far parte di un partito ultraortodosso, non potrebbe, perché le donne non sono ammesse. Cosa dovrei dedurne? Che le donne ultraortodosse possono cambiare il mondo solo se lontane dalla luce dei riflettori? Credo che lei stia traendo una conclusione sbagliata.
- Non crede che una donna debba avere l’opportunità di rivestire il ruolo di parlamentare per conto di un partito ultraortodosso? Personalmente credo che un cambiamento sia necessario, ma credo che non debba venire dall’esterno, bensì dall’interno. Nessuno può decidere per conto nostro cosa sia giusto e cosa sia sbagliato fare. Sono i nostri rabbini a dover decidere per noi, e io mi fido di loro. Se preferiscono non avere donne in politica, mi va bene così.
- Non vorrebbe essere lei la promotrice di questo cambiamento? Penso di aver cambiato molti aspetti della realtà israeliana nei miei anni alla Knesset, ma credo che questa sia una battaglia che non mi spetta. Certamente sarei molto felice se i miei figli studiassero la matematica e l’inglese a scuola, oltre che la Ghemarà, ma sono ancora più felice che loro facciano parte del mainstream ebraico ultraortodosso. Ed ecco il motivo per il quale credo che lei stia traendo una conclusione sbagliata: io non cambierei la mia realtà e la mia comunità per nulla al mondo. Io sono ultraortodossa per scelta, felice e fiera di essere tale.
(Bet Magazine Mosaico, 7 febbraio 2023)
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Svelato dopo 80 anni il nascondiglio che salvò ebrei veneziani dall'olocausto
di Filippo Fois
VENEZIA - Un gruppo di ebrei veneziani scampò all'Olocausto nascondendosi nella soffitta di un palazzo del '500. Una storia svelata per la prima volta in 80 anni, alla nostra emittente. || Anna Frank ha abitato anche a Venezia, perché Anna Frank non è solo la bambina uccisa in un campo di sterminio tedesco, dopo oltre due anni nascosta in una soffitta di Amsterdam con la famiglia. Anna Frank è anche il simbolo dei milioni di innocenti che anche in Italia hanno vissuto nel terrore della morte durante la Seconda Guerra Mondiale.Questa è una storia che ancora non conosce quasi nessuno. Ed è una storia a lieto fine. Perché davanti al portone di questo elegante palazzo del ‘500, il Comune di Venezia non deporrà mai delle pietre d’inciampo per commemorare chi da qui fu deportato e assassinato in un campo di concentramento. Per raggiungere questa soffitta rimasta intatta com’era 80 anni fa quando durante la Repubblica di Salò ha vissuto nascosto un gruppo di ebrei, bisogna attraversare eleganti saloni, persino una cucina, un dedalo di stanze che nascondono porte che come passaggi segreti conducono a scale nascoste fino ad un sotto tetto dove in epoche remote alloggiava la servitù del palazzo. Maurizio Crovato è colui che ha contribuito a rendere pubblica una storia rimasta segreta per 80 anni. E’ la prima volta che una telecamera entra qui. Tra materassi ancora distesi sul pavimento, un altro passaggio nascosto conduce a quello che sarebbe stato l’ultimo estremo tentativo di salvezza.Nel sottotetto sono rimaste ancora le grate di un pollaio. A testimonianza di un’epoca in cui non solo sopravvivere ma anche riuscire a mangiare poteva essere difficile.
(antenna3, 8 febbraio 2023)
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«Chi uccide in nome di un’entità straniera non può essere parte della nostra società»
Intervista alla parlamentare dell’opposizione Sharren Haskel
di Luca Spizzichino
Negli ultimi anni, una delle figure emergenti nel panorama politico israeliano è stata senza dubbio Sharren Haskel. Membro della Knesset dal 2015, è stata eletta alle scorse elezioni nelle fila del partito HaMaḥane HaMamlakhti, che fa parte dell’Opposizione. Nata a Toronto nel 1984, all’età di 18 anni si è arruolata come volontaria nel Magav, la polizia di frontiera israeliana, prestando servizio come soldato combattente durante il periodo della Seconda Intifada, nel 2002. “Sentivo di poter fare la differenza, così ho deciso di far parte di un’unità speciale”, racconta la parlamentare israeliana. Finito il periodo di leva, Haskel si è trasferita in Australia, dove ha vissuto sette anni. Ha deciso di tornare in Israele dopo aver capito quanto fosse forte “il rapporto con il mio popolo e cosa significasse per me e per la mia famiglia poter vivere in un paese dove possiamo essere noi stessi”. Una volta tornata a casa, ha mosso i primi passi nel complesso mondo della politica israeliana. Prima nel Likud, dove è diventata la più giovane parlamentare del partito e la seconda di tutta la 20esima Knesset, e successivamente con Tikvà Hadasha di Gideon Sa’ar, al quale ha aderito immediatamente, mossa dalla necessità di far parte di uno schieramento conservatore alternativo a quello guidato da Benjamin Netanyahu. Sharren Haskel ha parlato in esclusiva per HaTikwa della sua carriera politica e dei temi più caldi attualmente in Israele: la riforma giudiziaria del ministro Yariv Levin e la sua proposta di legge in risposta alla recente ondata di attentati.
- Come è iniziato il suo viaggio nel mondo della politica? È iniziato tutto durante i miei studi qui in Israele, dopo aver passato sette anni in Australia. Prima di allora, però, non ho avuto molto a che fare con la politica. Ho aderito ad alcuni gruppi che erano molto attivi allora, e ho iniziato lentamente un po’ di attivismo politico. Successivamente mi sono unita al Likud, dove insieme ad altri giovani ho fatto dimostrazioni sul costo della vita. Tempo dopo, in occasione delle elezioni municipali, la sezione di Kfar Saba del Likud mi ha chiesto di correre con loro. All’inizio ero riluttante, non avevo alcuna esperienza e non ero sicura che facesse per me. Ma una volta che ho iniziato, ho compreso come la politica sia uno strumento incredibile per aiutare le persone e cambiare il Paese. Un anno e mezzo dopo, ho deciso di candidarmi alle primarie del Likud, che ho superato grazie al supporto di tutti quei gruppi con cui sono stata molto attiva negli ultimi tre anni. Successivamente, sono diventata un membro della Knesset.
- La seconda più giovane di tutto il parlamento israeliano e la più giovane del tuo partito… Esatto! E proprio in quel momento ho capito che se noi, le giovani generazioni, non ci alzeremo e combatteremo per ciò in cui crediamo e per i cambiamenti che vogliamo vedere, nessuno lo farà per noi.
- Due anni fa è passata dal Likud a Tikvà Hadashà. Che cosa l’ha spinta a lasciare il partito che l’ha lanciata? È stato molto impegnativo per me, perché ho a cuore i valori del Likud: essere sionista, comprendere la sicurezza di Israele e le sue esigenze, ma anche le libertà individuali ed economiche, ridurre la burocrazia e lottare per il libero mercato. E soprattutto la missione più importante, che è difendere Israele, il rifugio per il popolo ebraico. Tuttavia, negli ultimi due anni ho visto il Likud sempre più seguire le persone invece che credere in quei valori. Perciò ho pensato che l’unico modo per far uscire Israele dalla crisi politica che sta vivendo ancora oggi fosse dare un’alternativa di Destra al Likud. Così ho deciso prima di sostenere Gideon Sa’ar per la leadership del partito, che ha perso, e successivamente di unirmi a lui per formare il nuovo partito Tikvà Hadashà.
- Si immagina un suo ritorno nel Likud in futuro? Al momento no, non riesco a immaginarlo. Questo corso che il Likud sta prendendo, dove l’interesse personale e quello di una sola persona vengono prima di qualsiasi tipo di ideologia e valore, non è il mio modo di essere. Io metterò sempre al primo posto i valori e l’interesse pubblico rispetto a quello personale. Israele è molto più grande di ognuno di noi, e dobbiamo proteggerlo e difenderlo per le prossime generazioni, per i nostri figli e per i nostri nipoti. Dopo tutto ciò che i nostri antenati hanno passato, non possiamo distruggere il nostro rifugio, il nostro Paese speciale. Non in nome di una persona o di un interesse personale.
- Parliamo di attualità. Cosa pensa delle manifestazioni delle ultime settimane? Sono davvero preoccupata, come la maggior parte dei cittadini israeliani. Netanyahu ha ricevuto un mandato per governare, ma ciò che sembra stia cercando di fare questo Governo è di agire mossi dall’interesse personale piuttosto che dagli interessi del Paese. Per quanto ci sia bisogno di una riforma nel sistema giudiziario israeliano, pare che stiano tentando di eliminare il controllo e il bilanciamento reciproco tra i poteri, così da dare molto più potere al primo ministro, che potrà di fatto controllare anche il sistema giudiziario, oltre che quello esecutivo e indirettamente anche la Knesset. Avere tutti i poteri di un paese nelle mani di un Primo Ministro, a prescindere da chi sia quest’ultimo, è qualcosa che preoccupa e dovrebbe preoccupare tutti i cittadini israeliani.
- Ma questa riforma è veramente una minaccia alla democrazia israeliana? Israele rimarrà sempre una democrazia. Anzi, credo che se questa coalizione si spinge troppo oltre, perderà le prossime elezioni. E purtroppo il nuovo Governo sarà estremo come quello attuale e farà l’esatto opposto. La riforma serve, ma non in questo modo. Dare tutto questo potere a un Primo Ministro può diventare una minaccia per la democrazia. Personalmente, credo che questa non sia la vera intenzione di Netanyahu: penso sia mosso dall’interesse personale a causa dei problemi legali che sta affrontando al momento. Spero davvero che non sia così.
- C’è un pericolo però? Al momento sì. Per questo faremo tutto il possibile per assicurarci che si arrivi a una riforma più equilibrata.
- Cosa c’è da riformare nell’attuale sistema giudiziario? Ci sono problemi legati alle sentenze, alla trasparenza, e riguardo a ciò il Ministro della Giustizia dello scorso Governo (Gideon Sa’ar, ndr) ha approvato l’istituzione di un comitato per l’elezione dei giudici. Tuttavia, ci sono cambiamenti che dobbiamo fare per migliorare il sistema giudiziario. Ma c’è una differenza tra cercare di migliorarlo e prenderne il controllo. Lo abbiamo detto anche a Netanyahu: siamo d’accordo a fare la riforma, ma c’è bisogno di discuterne e raggiungere un accordo il più ampio possibile”.
- In concomitanza con il repentino aumento degli attacchi terroristici in Israele, nei giorni scorsi è passata in prima lettura alla Knesset la sua proposta di legge per negare la cittadinanza ai terroristi e a coloro che ricevono soldi dall’Autorità Palestinese. Ce la può spiegare? A chi uccide civili innocenti e semina il terrore l’Autorità Palestinese paga uno stipendio. Questi terroristi, che vengono pagati per commettere omicidi e terrorizzare il nostro Paese, vengono considerati dalla stessa Autorità come cittadini e soldati in cattività. Chi commette questo tipo di crimini non dovrebbe rimanere cittadino dello Stato d’Israele. Piuttosto, dovrebbero diventare cittadini di quell’Autorità per cui stanno combattendo. Chi semina il terrore e viene pagato da un’entità straniera per farlo tradisce il proprio paese. Per questo credo sia giusto che queste persone rinuncino alla loro cittadinanza e diventino cittadini palestinesi come desiderano.
- Quali sono le sue ambizioni per i prossimi anni? Essere in grado di portare stabilità e sicurezza per il mio Paese e per il mio popolo. Difendere loro e i loro diritti in qualsiasi posizione ricoprirò.
- Che Israele si immagina per le sue figlie? Voglio che le mie figlie crescano in un paese dove i loro diritti individuali siano protetti e difesi. Un paese dove possano avere le stesse opportunità di chiunque altro. Voglio dare loro una patria sicura in cui vivere e crescere e, soprattutto, apprezzare ed amare il nostro patrimonio e la nostra storia.
(Unione Giovani Ebrei d'Italia, 7 febbraio 2023)
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Il sapone “Graziano”, una storia della comunità ebraica in Libia
di Gisèle Lévy
Per anni, a causa di una mancanza di memoria scritta, unitamente a difficoltà obiettive subìte dalla popolazione ebraica residente in Libia fino alla fine della Guerra dei Sei Giorni nel 1967, non sono state documentate molte realtà che rendevano peculiare la vita di questo nucleo. Povero sì, ma industrioso e particolarmente motivato dal Sionismo.
Dopo la guerra italo-turca e la conquista italiana della Tripolitania (1911) e il successivo assoggettamento della Cirenaica (1930), città e villaggi in Libia ebbero un forte impulso sia di urbanizzazione che di industrializzazione. Il Governatore Italo Balbo voleva rendere la Colonia una vetrina dinanzi all’Europa. Gli ebrei di estrazione occidentale si dedicarono al commercio all’ingrosso, alle spedizioni di datteri e sparto per le corde navali, all’industria. Tra questi imprenditori nelle più grandi città, Tripoli e Bengasi, si annoverano anche miei antenati.
Mia madre proveniva da un’importante famiglia di Bengasi. Lo zio, Presidente della Comunità, fungeva da contatto con le Autorità coloniali, in particolare in occasione del censimento della popolazione ebraica nel 1933, e per la raccolta obbligatoria di oggetti preziosi da donare per sovvenzionare le sciagurate imprese di De Bono, Badoglio, Graziani per la campagna di Etiopia. Gli zii materni possedevano un grande emporio di orologi di lusso, pubblicizzati dai settimanali locali. A più riprese, tra il 1941-1942 gruppi di civili italiani ritennero di vendicarsi razziando i negozi degli ebrei, per il loro appoggio ai soldati inglesi. Le violenze e gli arresti culminarono con la deportazione in massa degli ebrei nel campo di concentramento di Giado.
A Tripoli i miei nonni paterni abitavano sin dalla fine del 1800 alla Hara, il quartiere ebraico a ridosso del Porto. Originari della Francia e produttori di olio d’oliva da alberi da loro stessi piantati, si dettero alla fabbricazione del “Savon de Marseille” (detto Graziano in onore del nonno imprenditore) che valse ai Fratelli Levy nel 1925 la Medaglia d’Argento di Chimica Pura ed Applicata all’Esposizione Nazionale di Torino, nel 1928 la Medaglia di Bronzo alla Mostra Coloniale di Torino, nel 1929 il Diploma di partecipazione alla Terza Fiera Campionaria di Tripoli. Il sapone, un blocco verde quadrato venduto a peso, veniva prodotto nel patio da nonni e zii ed era esportato in tutto il Nord Africa. Per decenni venne utilizzato per il bucato, per il bagno, per i capelli, perché composto da soli ingredienti vegetali. La produzione artigianale della Fabbrica, chiamata a Tripoli Dar El Sabun (Casa del Sapone) cessò nel 1965 per la moderna introduzione di detergenti e shampi europei. Nei piani superiori dell’edificio, esempio di architettura ottomana costruito alla fine del ‘700, vi erano varie stanze cui si accedeva con una scala ripida: lì viveva la famiglia. La casa, adornata da due grandi leoni di marmo, l’unico pianoforte del quartiere, tappeti persiani, specchi dorati e lampadari di Murano, venne assaltata e le sue suppellettili distrutte dopo l’esodo del 1967. Oggi l’edificio è adibito a Museo dell’Artigianato della Città, vittima di un restauro che non gli rende giustizia.
(Shalom, 7 febbraio 2023)
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Bennett: quando Usa e GB hanno fatto saltare l'accordo Mosca-Kiev
Due giorni fa l'ex premier di Israele, Naftali Bennett, ha rilasciato un'intervista ad un giornalista in cui ha dichiarato che l'Occidente ha scartato possibili soluzioni del conflitto Mosca-Kiev e ha deliberatamente scelto di far continuare la guerra dell'Ucraina contro la Russia. La cosa avrebbe dovuto essere esplosiva, avrebbe dovuto provocare reazioni accese di approvazione o rigetto, ma nulla di tutto questo è successo. Il video in cui compare l'intervista è in ebraico, ma dai siti ebraici in Italia, o da quelli che sostengono Israele e in molti casi presentano traduzioni di video interessanti, non è uscito nessuno che offrisse la traduzione e il commento di questa esplosiva intervista. Niente. Silenzio. Su ciò che disturba la comune narrazione ufficiale tutto tace. Stile covid 19. Abbiamo trovato qualcosa in un sito dal titolo significativo: "Piccole note". Sì, perché per i giornaloni queste sono noterelle di poco conto, la presenza di Zelensky a Sanremo, quella sì che è una notizia importante da analizzare e commentare nei minimi particolari . NsI
Nei primi giorni di guerra, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno “bloccato” la mediazione tra Russia e Ucraina ad opera di Naftali Bennet che stava portando frutti. A rivelarlo è stato lo stesso ex primo ministro israeliano in un’intervista su YouTube. Pochi ricorderanno, ma va ricordato per la Storia, che il 4 marzo 2022, agli inizi della guerra, Bennett si era recato in Russia per incontrare Vladimir Putin, visita che aveva lo scopo di trovare una soluzione al conflitto. Un viaggio sollecitato dallo stesso Putin, come rivela nell’intervista.
• LA MEDIAZIONE DI BENNET La mediazione aveva trovato terreno favorevole, ricorda Bennet, dal momento che le parti avevano accettato ampi compromessi. Putin aveva accettato di abbandonare l’idea di “denazificare” l’Ucraina, cioè di eliminare la leadership al governo e lo stesso Zelensky, e di disarmare l’esercito di Kiev. E aveva promesso che l’invasione si sarebbe fermata se la controparte avesse rinunciato alla richiesta di aderire alla Nato, richiesta che, come ricorda Bennet, ha innescato l’invasione. Bennet ricorda come Zelensky avesse accolto la mano tesa di Putin, accettando di ritirare tale richiesta. Non solo, l’ex premier israeliano spiega che aveva trovato un modo di risolvere anche il problema delle garanzie che tanto preoccupavano Kiev, che aveva timore di un accordo che non le garantisse di evitare un’invasione futura. Zelensky, nello specifico, voleva garanzie americane, ma Bennet gli aveva replicato: “Cerchi garanzie dall’America dopo che si è ritirata dall’Afghanistan?”. E così gli aveva proposto quello che ha definito il modello israeliano: Israele, aveva spiegato, sa che non riceverebbe alcun aiuto in caso di invasione, così ha creato un esercito in grado di dissuadere i nemici. Un’ipotesi che l’Ucraina aveva recepito. Certo, nel riarmo c’era il nodo dei missili a lungo raggio, continua Bennet, che la Russia evidentemente temeva. Ma sul punto, l’ex premier israeliano fa un cenno significativo, spiegando di aver detto agli ucraini “non ti servono i missili d’assalto”… insomma, bastava che nel riarmo di Kiev non fossero compresi missili a lunga gittata (per inciso, sono quelli che adesso vuole inviare la Nato). Per inciso, Bennet spiega che sia Zelensky che Putin erano stati entrambi “pragmatici”, aggiungendo che non c’era nulla di “messianico” nello zar russo (tale messianicità è stata declinata in vari modi dalla narrativa ufficiale; tale narrazione ha reso ancora più arduo adire alle vie diplomatiche, non essendo possibile trattare con un esaltato), La mediazione israeliana doveva ovviamente essere supportata dall’Occidente, così Bennet ricorda di aver fatto partecipi dei colloqui i leader in questione, alcuni incontrandoli, altri contattandoli. E ricorda come Francia e Germania si fossero mostrati “pragmatici”, mentre la linea di Boris Johnson era più “aggressiva”. Gli Usa, per parte loro, si barcamenavano tra le due posizioni. Ma alla fine, ricorda Bennet, in Occidente è prevalsa la linea dura. Si decise cioè di “continuare a colpire Putin e non [negoziare]”. Tale decisione, secondo Bennet, è stata “legittima”, ma è ovvio che non poteva dire diversamente, dal momento si tratta di rivelazioni già fin troppo pesanti, che gravano Stati Uniti e Gran Bretagna di tragiche responsabilità. Inutile aggiungere peso a peso. La parole di Bennet, fonte autorevole e non di parte, chiariscono in via definitiva che la guerra poteva finire subito, con un bilancio di un migliaio di morti, forse meno, e con l’Ucraina in possesso di una parte dei territori oggi occupati dai russi, parte dei quali, se non tutti (e altri ancora) probabilmente rimarranno sotto il controllo di Mosca a titolo definitivo. Milioni di sfollati, centinaia di migliaia di morti, un Paese totalmente devastato… tutto per “punire” Putin… per “indebolire” la Russia. Ricordiamo come, nonostante il fallimento della mediazione di Bennet, i negoziati tra Russia e Kiev furono comunque portati avanti, nonostante mille difficoltà, arenandosi dopo il fatale viaggio di Boris Johnson a Kiev, quando il premier britannico disse a Zelensky che l’Occidente non avrebbe supportato un’intesa con Mosca. Interessante anche l’accenno di Bennet sugli avvenimenti di Bucha, quando spiega che con l’emergere di quella vicenda capì che non c’era più alcuna possibilità per la pace. Anche di questo abbiamo scritto, spiegando come gli asseriti orrori di Bucha furono una messinscena creata ad arte per rendere impossibile il negoziato.
• REGIME-CHANGE ALLA DIFESA UCRAINA Intanto da Kiev arriva l’annuncio della destituzione del potente ministro della Difesa. Al suo posto andrà Kyrylo Budanov, che abbiamo citato su Piccolenote perché recentemente aveva rilasciato un’intervista al Wall Street Journal nella quale raccontava l’uccisione a sangue freddo di Denis Keerev da parte della SBU. Keerev stava partecipando ai negoziati con la Russia al momento del suo omicidio, ufficialmente presentato come non intenzionale (sarebbe stato ucciso perché ha resistito all’arresto) e fu fatto passare per una spia russa. Nell’intervista al WSJ Budanov dice invece che Keerev fu ucciso deliberatamente, aggiungendo che non era affatto una spia, anzi era un patriota. E, per confermare la sua affermazione, Budanov ha ricordato che è stato seppellito con un funerale di Stato. Il fatto che prima di essere nominato a un incarico tanto delicato Budanov abbia concesso un’intervista al WSJ nella quale ha apertamente criticato la Sicurezza ucraina, risulta di grande interesse. Di certo, c’è la necessità di rimettere mano ai meccanismi dell’esercito ucraino, che Zelensky sta mandando al macello, come dimostra in maniera plastica l’ordine di tenere a tutti i costi Bakmut nonostante sia ormai indifendibile (tanto che anche gli americani gli avevano chiesto di ritirare le truppe). Da notare che la notizia arriva dopo la bufera suscitata dal quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung, che riferiva di una proposta di pace pervenuta a Mosca dagli Stati Uniti che ha avuto come focus la visita a Kiev del Capo della Cia William Burns. Gli Usa avrebbero offerto il 20% dell’Ucraina in cambio di un accordo. La notizia è stata smentita da tutte le parti interessate, ma ha un evidente fondo di verità, come dimostra la visita di Burns. Washington e Mosca Hanno iniziato a parlare.
Ma è prematuro fare previsioni. In attesa di capire meglio se e come cambierà qualcosa sul piano militare, ci limitiamo a riferire un tweet di M. K. Bhadrakumar (acuto analista di Indian Punchline), che ha destato la nostra curiosità.
“Notizie esplosive da Kiev! Sostituito il ministro della Difesa Reznikov (ex ufficiale dell’aeronautica sovietica); lo sostituisce l’astro nascente Kyrylo Budanov, a capo dell’Intelligence militare (e beniamino degli americani); ciò consente al Pentagono un ruolo pratico nella gestione della guerra. Dove finirà Zelenskyj?”
Vuoi vedere che hanno invitato Zelensky a Sanremo pensando di ospitare una stella senza accorgersi che si tratta di una stella cadente? Nell’incertezza, forse era meglio soprassedere (soprattutto per altre e più importanti ragioni).
D’altronde l’ambito della politica estera italiana (di certo interpellata sull’invito), come anche quella interna, da tempo registra deficit di lucidità. Forse lo hanno capito solo adesso, o forse il ragazzo è in difficoltà, perché il giorno dopo la notizia di cui sopra si è saputo che piuttosto che apparire, come usa fare a mo’ di Madonna, Zelensky invierà un messaggio, in stile Medjugorje.
(Piccole Note, 7 febbraio 2023)
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Israele, torna a crescere il turismo: a gennaio 2023 ben 258mila visitatori, in media coi livelli prepandemia
di Daniele Toscano
Continua la ripresa del turismo in Israele con dati particolarmente significativi: a gennaio 2023 sono stati registrati 257.400 visitatori, con un incremento notevole rispetto ai 46.200 del gennaio 2022 e un distacco minimo rispetto ai 284.800 dello stesso mese nel 2019. Tradotto in percentuali, si tratta di un aumento del 457% rispetto allo scorso anno (quando i cieli di Israele erano ancora chiusi ai turisti) e una diminuzione di solo il 9,6% rispetto a gennaio 2019, che peraltro fu un anno record per il turismo in entrata, che proseguiva un trend in crescita in corso dal 2015. Nel 2020, infatti, si infranse nuovamente il record con 309mila turisti, prima di affrontare negli anni del Covid un crollo nel 2021 e una fiacca risalita nel 2022.
A confermare la piena ripresa del settore e il moltiplicarsi delle iniziative, anche l’arrivo in questi giorni, su invito del Ministero del Turismo israeliano, di circa 160 tour operator e agenti di viaggio da tutto il mondo. La maggior parte degli ospiti saranno alla loro prima esperienza in Israele e attualmente nel Paese di provenienza non lo promuovono tra le destinazioni turistiche. Un motivo in più per stimolare l’interesse e la curiosità attorno alle bellezze di Israele: gli operatori stranieri, infatti, durante il loro soggiorno, potranno apprezzare le diverse attrazioni e incontreranno i loro colleghi locali.
Il Ministero del Turismo offrirà agli agenti quattro possibili itinerari: Tel Aviv e Gerusalemme; il deserto ed Eilat; un percorso di spiritualità e religione; un viaggio tra il turismo culinario e gli aspetti multiculturali del Paese. Diversi tipi di viaggio per soddisfare le esigenze di ogni tipo di turismo, tra storia, cultura, natura e avventura.
La visita degli operatori stranieri si colloca in una fase strategica di rilancio del settore. Anzitutto, infatti, si svolge all'interno del quadro della annuale convention “Israel: Where Else?”, organizzata regolarmente dal Ministero del Turismo (con l'eccezione degli anni della pandemia). In secondo luogo, si tiene in concomitanza con un altro appuntamento importante quale l’International Mediterranean Tourism Market (IMTM) che si terrà presso l’Expo Centre di Tel Aviv il 14-15 febbraio, un evento globale per connettere tutti i professionisti del settore.
Inoltre, proprio la scorsa settimana, il Ministero del Turismo ha dato il via libera all'ingresso della Guida Michelin in Israele: dopo anni di trattative, le prestigiose classifiche culinarie debutteranno a Tel Aviv. Un risultato frutto dello sforzo realizzato dall'ex ministro del turismo Yoel Razvozov e finalizzato dal suo successore, il ministro attualmente in carica Haim Katz.
I dati incoraggianti, spinti dal moltiplicarsi di iniziative, favoriscono una ripresa della vita dopo le interruzioni dovute alla pandemia e rilanciano le numerose attrazioni dello stato israeliano. Sono segnali incoraggianti, in attesa delle vacanze primaverili ed estive quando visitatori di tutto il mondo avranno l’opportunità di apprezzare le virtù di Israele.
(Shalom, 7 febbraio 2023)
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Giustificare le ragioni del terrorismo non aiuta a sconfiggerlo
Israele può solo difendersi dall’odio palestinese. Il racconto di Jenin e il rifiuto del compromesso.
di Ben-Dror Yemini *
No, non ci sono “due parti”. E no, non è l’“occupazione”. E no, non è neanche che “non hanno una prospettiva politica”. Queste sono illusioni e false affermazioni che non serviranno ad abbassare il livello del terrorismo. Al contrario, ne incoraggeranno l’incremento. E il fatto che vi siano molti utili idioti, appartenenti ai circoli illuminati e progressisti del mondo, incluso in Israele, che adducono delle giustificazioni al terrorismo, non dà ragione a tutte queste persone. Non esiste una “spirale di violenza”. C’è una parte palestinese, che è filoiraniana o jihadista, che non è per nulla interessata alla riconciliazione e alla pace, ma piuttosto alla distruzione dello stato ebraico. Il leggendario leader degli arabi di Palestina era un islamista nazista, il Muftì Haj Amin al Husseini, che predicava lo sterminio degli ebrei. La sua eredità continua a vivere. Hamas e la Jihad sono suoi epigoni e proseguono sulle sue orme. L’incitamento all’odio contro gli ebrei continua. L’Ue minaccia di fermare i finanziamenti, ma sono solo minacce. E c’è poi un’altra parte, quella degli ebrei che, perseguitati in quasi tutti i paesi del mondo, fuggiti o espulsi, dall’Europa o dai paesi arabi, hanno infine ricevuto il diritto all’autodeterminazione e hanno costituito uno stato. Il rifiuto arabo al compromesso e alla partizione ha portato a una doppia Nakba: sia palestinese sia ebraica. Nel corso degli anni del conflitto, gli ebrei hanno ripetutamente teso la mano per la pace, disposti a fare concessioni di vasta portata. La mano tesa è stata ripetutamente respinta, e, quando i palestinesi preferiscono la jihad e il terrorismo, Israele deve rispondere. Quando gli americani uccisero il leader di al Qaida, Osama bin Laden, nessuno ha condannato “entrambe le parti”. Pertanto, ringrazio il Papa per aver condannato la violenza nel suo discorso settimanale della domenica, ma tutta la violenza appartiene alla parte che sostiene il terrorismo, che educa i suoi figli all’odio, che si identifica in messaggi di antisemitismo e razzismo.
Il problema non è mai stato una “prospettiva politica” o una “speranza di una vita migliore”, perché gli esecutori del terrorismo, chi li manda, chi li sostiene, chi li incoraggia, non vogliono alcuna prospettiva politica e alcuna speranza di una vita migliore. Vogliono un mondo oscuro, fatto dai “Fratelli musulmani”. Dopotutto, il loro modello è il Mufti. E il loro ultimo leader, e quello di tutti i “Fratelli musulmani” nel mondo, è stato lo sceicco Yusuf Qaradawi, che rivolgeva ai musulmani l’appello a “Completare l’opera di Hitler”. I suoi discepoli sono coloro che controllano la programmazione della televisione palestinese, dove continua la chiamata allo sterminio degli ebrei.
Proviamo allora a dire che il problema sia l’occupazione. Quando masse di giovani dall’Europa, centinaia o migliaia da ogni paese, hanno lasciato il carnaio urbano per unirsi allo Stato islamico, non è stato per via dell’occupazione o per una “prospettiva politica”. Tra loro c’erano medici, ingegneri e professionisti. Hanno subìto il lavaggio del cervello, attraverso i social network, attraverso i predicatori nelle moschee, attraverso un canale di incitamento come Al-Jazeera. Alcuni di loro si sono cimentati nelle decapitazioni. “La più grande minaccia per gli Stati Uniti è il Regno Unito”, scrisse la rivista New Republic quando emerse l’entità del sostegno dei giovani musulmani ad al Qaida nel Regno Unito. Era il 2006. L’articolo accese un dibattito. Quando in seguito migliaia di britannici si sono offerti volontari per l’Isis, è diventato chiaro che questi numeri non erano solo opinioni e sondaggi. E quando l’esercito americano si è mobilitato per sconfiggerli, nessuno ha detto che “la spirale di violenza dovrebbe essere fermata”. Esattamente come, nel caso in cui vi fossero un stupratore e una donna violentata, nessuna persona normale direbbe che “la spirale di violenza tra di loro deve essere fermata”. Il problema sono coloro che preferiscono la Jihad alla pace e alla riconciliazione, anche se sono descritti come la parte debole. Quelli che rifiutano tutte le proposte della comunità internazionale per togliere il blocco dalla Striscia di Gaza e preferiscono i razzi al benessere, sono loro il problema.
Finché non si inizia a parlare di Israele. A quel punto, la follia raggiunge nuove vette. Il canale Al-Jazeera dei Fratelli Musulmani e la Bbc hanno entrambe pubblicato lo stesso titolo: “Nove palestinesi uccisi a Jenin”. Questo è lavaggio del cervello. Perché a Jenin sono stati uccisi nove jihadisti, oltre a una donna, che purtroppo si è trovata nel fuoco incrociato. Progettavano di effettuare un attacco terroristico contro Israele, che ha risposto con un attacco preventivo. Il New York Times ha fatto un ulteriore passo avanti affermando che l’uccisione è stata un risultato del nuovo governo di destra. Il precedente governo forse non operava a Jenin? E il governo americano non combatte la jihad? Il linguaggio utilizzato determina l’effetto sulla mente del pubblico. Israele è una democrazia e, dopo tutto, ci sono israeliani stessi che diffondono la propaganda di bugie e giustificazioni al servizio del terrorismo. La maggior parte delle volte hanno buone intenzioni. Vogliono aiutare i deboli, adoperarsi per una soluzione pacifica. Ma nessuno può esimersi dai fatti. E quando i fatti basilari vengono ignorati, l’impatto sulla mente del pubblico è determinato di conseguenza. Sui media internazionali questa è ritenuta un’ulteriore aggressione israeliana, nel contesto dell’occupazione, e i poveri palestinesi sono costretti a rispondere con la loro follia omicida.
Solo pochi giorni fa c’è stato un attacco terroristico suicida in una moschea nella città di Peshawar, in Pakistan. Musulmani hanno ucciso altri musulmani. Almeno 92 morti, e i numeri sono ancora in aumento. Il vero nemico dei musulmani e dei palestinesi è il terrorismo, la Jihad e Hamas, e non chi lo combatte. Questo non vuol dire che tutto ciò che l’occidente ha fatto nell’ambito della guerra al terrorismo sia giustificato. E non è neanche necessario giustificare ogni soldato israeliano, uno su cento, che faccia del male a un palestinese senza giustificazione, né la creazione degli avamposti, che non fanno altro che recar danno alla sicurezza. Ma non dobbiamo dimenticare: la guerra israeliana contro il terrorismo, Hamas e la Jihad è una lotta necessaria e legittima. Non c’è bisogno di rinunciarvi a causa della follia che adduce loro scuse e giustificazioni.
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* Giornalista, conferenziere e ricercatore israeliano, autore del libro “Industry of Lies”
Il Foglio, 7 febbraio 2023)
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Dietro il Lodo Moro, l'azione dei servizi segreti
Le informative che oggi si possono leggere riguardano tutte la vicenda dei due lanciamissili Sam7 Strela sequestrati nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979. Dovevano essere imbarcati per conto di un militante dell'Fplp.
di David Romoli e Giordana Terracina
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Per «lodo Moro» si intende l'accordo che consentiva ai palestinesi di utilizzare il territorio italiano come base per armi e guerriglieri in cambio della garanzia di preservare la penisola dagli attentati.
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Cosa è stato davvero il "lodo Moro"? Coinvolgeva direttamente il potere politico o era un accordo semisegreto stretto essenzialmente dall'intelligence? Si trattava di un'intesa vaga e allusiva o di un accordo preciso, dettagliato e ben strutturato? Le informative inviate tra la fine del 1979 e i primi mesi del 1982 a Roma dal capo centro del Sismi in Medio Oriente Stefano Giovannone, già uomo di Aldo Moro nell'Intelligence, permettono di rispondere a queste domande in modo preciso.
Si tratta di 32 documenti che, come scritto nella copertina del fascicolo, afferiscono alla vicenda "Giovannone Olp" e sono stati acquisiti in copia dalla Procura della Repubblica di Roma, relativamente alla strage di Ustica. Desecretati dalla Direttiva Draghi del 2 agosto 2021 e attualmente custoditi presso la Sala delle Raccolte Speciali dell'Archivio Centrale dello Stato. Le informative riguardano tutte la vicenda dei due lanciamissili Sam-7 Strela sequestrati nella notte tra il 7 e 1'8 novembre 1979 a Ortona, nell'auto di tre autonomi romani che li avevano trasportati fino al porto dove dovevano essere imbarcati per conto di un militante dell'Fplp, organizzazione facente capo all'Olp, Abu Saleh. Il palestinese sarebbe stato a sua volta arrestato il 13 novembre.
I tre autonomi non facevano in realtà parte di organizzazioni terroriste e non erano neppure al corrente di quale fosse il contenuto della cassa che gli era stato chiesto di trasportare. I lanciamissili erano in transito e non dovevano essere utilizzati in Italia. Tuttavia sia Giovannone che l'Olp intravidero subito il rischio che l'incidente potesse danneggiare i rapporti tra palestinesi e Stati europei. L'agente del Sismi, il 15 novembre, definisce Saleh "elemento emarginato dall'Fplp" anche se legato a uno dei suoi dirigenti, Taysir Qubaa, anche perché suo parente. "Arafat, Gufo (nome in codice di un alto dirigente dell'Olp n.d.r.), e altri esponenti Olp sono costernati che compromette, se non addirittura annulla, quanto acquisito durante anni in corso nel campo politico-diplomatico", scrive l'agente e aggiunge che Arafat e l'Olp intendono "porre sotto accusa "esponenti del Fplp e in particolare Taysir Qubaa" perché sospettano che il fattaccio di Ortona "rientri in complesso iniziative ispirazione iraqena o libica miranti a sabotare attuale linea moderata Arafat”.
La preoccupazione sia dell'Olp che di Giovannone è attribuire l'azione a una frangia manovrata da Baghdad o da Tripoli. Se dovessero emergere collegamenti con il terrorismo italiano, l'Olp non ne sarebbe responsabile e neppure a conoscenza. Due giorni dopo, il 17 novembre, Giovannone aggiunge che Quuba potrebbe agire all'insaputa anche del Fplp ma per conto di Gheddafi: "Non escludesi che Saleh possa aver contribuito operazione Ortona su richiesta servizi libici". In effetti, specifica il colonnello "si sospetta da tempo" che Quuba fornisca uomini alle operazioni organizzate da Iraq e Libia. L'intento è palesemente quello di assolvere preventivamente l'Olp da qualsiasi responsabilità addossando ogni colpa a Quuba e a Saleh, per il cui permesso di soggiorno in Italia si era peraltro prodigato proprio Giovannone. Già nelle informative seguenti, infatti, la longa manus di Gheddafi scompare, Quuba non è più sospetto di doppio gioco e il 20 novembre Giovannone informa che i lanciamissili erano destinati a essere usati contro Israele: "Sono orgogliosi di farmi comprendere che l'operazione costituisce elemento di una offensiva" in territorio israeliano che dovrebbe costituire "decisiva escalation grazie a impiego armi sofisticate e procedure nuove e inattese".
È il caso di segnalare che il capo dell'Intelligence italiana in Medio Oriente parla di quella che
lui stesso definirà il 23 novembre "una rinnovata campagna terrorista in Israele" ma si raccomanda di non avvertire il Paese alleato: "Il capo centro a Beirut sottolinea l'opportunità di evitare divulgazioni di notizie attinenti all'obiettivo (Israele) perché, in caso contrario, potrebbe derivarne un grave rischio personale per lo stesso". Tre giorni prima, sullo stesso argomento, aveva usato toni anche più drammatici: "Avete praticamente la mia vita nelle vostre mani e tale affermazione non è retorica".
Per la fine del novembre 1979 il quadro è chiarito: i lanciamissili erano solo in transito in vista della campagna di attentati in Israele, i contatti con gli autonomi, che avevano agito in nome della solidarietà, erano stati presi da "frange autonome del Fplp". Resta il problema principale: la sorte di Saleh e dei due lanciamissili. È un problema che coinvolge direttamente il presidente del consiglio Cossiga. In una nota del 17dicembre Giovannone riassume "un difficile colloquio" svoltosi quella stessa mattina tra lui e Qubaa, nel quale il palestinese si è subito accertato che il contenuto di precedenti incontri sia stato "riservatamente riferito al presidente Cossiga". I palestinesi chiedono il rinvio del processo fissato per il giorno stesso a Rieti "onde consentire che collegio difesa possa ricevere nuovi elementi per dimostrare inconsistenza accusa 'importazione d'armi"' e soprattutto chiedono l'impegno di Cossiga a vietare che i lanciamissili e relativa documentazione siano "esaminati o consegnati" dai servizi di Israele o degli Usa. Giovannone segnala infine che l'interlocutore "habet minacciato immediata azione dura rappresaglia nel momento in cui venisse a conoscenza rifiuto aut non rispetto impegno richiesto".
Il 24 aprile Giovannone invia un lungo e dettagliato appunto ai vertici del governo: a Cossiga, ai ministri della Difesa e della Giustizia, al capo di gabinetto della presidenza del consiglio, al segretario generale del Cesis e all'ambasciatore Malfatti. Il testo veicola "le richieste definitive del Fronte". Il Fplp chiede che il processo d'appello contro i detenuti, condannati tutti in primo grado a 7 anni, si celebri in giugno-luglio e non, come previsto, in settembre-ottobre, che le condanne siano ridotte a quattro anni per i tre autonomi ma che Saleh sia assolto per insufficienza di prove, che ai detenuti siano concessi i benefici già applicati al ministro Tanassi, che i due lanciamissili vengano distrutti rimborsandone il prezzo di 60mila dollari al Fronte stesso. La conclusione è esplicitamente minacciosa: "L'interlocutore ha infine dichiarato che qualora la comunicazione da parte italiana attesa sentirò il 15 maggio p.v. fosse negativa e non desse sufficiente affidamento circa l'accoglimento delle richieste avanzate il FPLP riterrà definitivamente superata la fase del dialogo passando all'attuazione di quelle iniziative già reiteratamente sollecitate dalla base e da una parte della dirigenza". L'agente raccomanda una risposta positiva e chiede al governo di adoperarsi presso la magistratura a tal fine. I messaggi sempre più allarmati di Giovannone si susseguono per tutta la primavera finché il 27 giugno, incidentalmente data di Ustica, segnala "Habet informatomi tarda serata che Fplp avrebbe deciso riprendere totale libertà d'azione. Se processo dovesse aver luogo e concludersi in senso sfavorevole mi attendo reazioni gravi in quanto Fplp ritiene essere stato ingannato".
Il processo d'appello inizierà il 2 luglio e si concluderà con l'abbassamento delle pene da 7 a 5 anni. Saleh però resta in carcere. Il 22 maggio 1981 la Corte rigetta l'istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Il 4 giugno Giovannone allarmatissimo scrive al Vice Direttore del Servizio che "non si può più fare affidamento su sospensione attività Fplp in Italia decisa nel 1973 e segnala due possibili attacchi: un dirottamento aereo o l'occupazione di un'ambasciata italiana". Il 14 agosto 1981 Saleh viene scarcerato. I coimputati restano in carcere.
(Il Riformista, 7 febbraio 2023)
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Naftali Bennett: “l’Occidente ha preferito non negoziare con l’Ucraina e continuare il conflitto”
“L’occidente ha preferito continuare il conflitto tra Russia ed Ucraina”.
L’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett ha rivelato in un’intervista con il giornalista Hanoch Daum pubblicata sabato sul suo account YouTube che il presidente russo Vladimir Putin ha promesso di “non uccidere” il presidente ucraino Vladimir Zelenski e che l’Occidente ha preferito non negoziare con l’Ucraina e continuare il conflitto.
Bennett ha raccontato che durante la sua visita a Mosca lo scorso marzo, il leader russo gli ha “dato due grandi concessioni”. Secondo lui, il presidente ucraino “in quel momento era sicuro che i suoi giorni erano contati, che stava per essere eliminato”.
“Sapevo che Zelenski era minacciato, e che si trovava in un bunker… Ho chiesto a Putin ’Hai intenzione di uccidere Zelenski?’ Ha risposto: ‘Non ucciderò Zelenski'”, ha detto l’ex primo ministro israeliano.
L’ex leader israeliano ha poi aggiunto di aver chiesto a Putin se gli dava la sua parola sul fatto che non avrebbe ucciso Zelensky, il presidente russo ha risposto: “Non ucciderò Zelenski”.
Dopo l’incontro con Putin Bennett ha chiamato il presidente ucraino e gli ha riferito che aveva appena lasciato la riunione e che il presidente russo aveva assicurato che non lo avrebbe ucciso. Di fronte a questa affermazione Zelenski gli avrebbe chiesto se era sicuro, l’ex primo ministro israeliano ha risposto “al 100 per cento”.
Due ore dopo il presidente ucraino si è diretto nel suo ufficio dove ha fatto un video selfie, dichiarando che non ho paura, ha detto Bennett.
Dopo l’incontro con Putin ed il colloquio con Zelensky l’ex Primo Ministro israeliano ha affermato che Putin ha accettato di non chiedere il disarmo dell’Ucraina, mentre, Zelenski ha accettato di rinunciare all’idea che l’Ucraina faccia parte della NATO. “Tutto ciò che ho fatto [negli sforzi di mediazione del conflitto in Ucraina] è stato coordinato con gli Stati Uniti, la Germania e la Francia”, ha aggiunto.
Bennett dopo l’incontro con Putin si è diretto in Germania, dove ha incontrato il cancelliere tedesco Olaf Scholz, e ha anche aggiornato Francia, Regno Unito e Stati Uniti sui risultati dei colloqui.
Sui risultati della mediazione tra i due paesi belligeranti l’allora primo ministro britannico Boris Johnson “ha sostenuto misure più radicali”, mentre il presidente francese Emmanuel Macron e Scholz “erano più pragmatici”, e il presidente americano Joe Biden “ha sostenuto entrambi gli approcci”. In seguito però l’Occidente “ha preso una decisione di continuare a distruggere Putin invece di negoziare”, ha aggiunto Bennett. Ha inoltre assicurato che la scorsa primavera c’erano 17 o 18 bozze del progetto di accordo di pace.
Da parte sua la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharov ha definito le dichiarazioni di Bennett “un’altra confessione” che è stato l’Occidente ad “aver interrotto i negoziati” tra Mosca e Kiev.
Le rivelazioni di Naftali Bennett dimostrano che in questo conflitto Zelensky ed il suo governo non contano nulla, non hanno alcuna voce in capitolo e che invece a decidere sono gli Stati Uniti e la Nato. Le decisioni vengono prese alla Casa Bianca e non a Kiev come invece dovrebbe essere. Ciò ovviamente non esime il governo ucraino dalle responsabilità che ha in questa guerra per procura contro la Russia.
(Faro di Roma, 5 febbraio 2023)
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Censura, sorveglianza di massa e insetti: il World Economic Forum contro il mondo libero
Possono viaggiare su jet privati, ma alla fine, la congrega del World Economic Forum non è altro che la più grande concentrazione di mascalzoni che la criminalità organizzata sia mai riuscita a riunire nello stesso spazio, orchestrando i piani più efficaci mai concepiti per costringere popolazioni in passato libere a fare esattamente quello che dicono.
di J.B. Shurk
Il World Economic Forum (WEF), definito l'impero che distrugge le economie nazionali, sembra un'officina che ha rubato parti delle peggiori dittature al mondo per creare il mostro "woke" di Frankenstein. Ha rubato la predilezione degli Aztechi per i sacrifici umani al fine di scongiurare le intemperie, contrastare la propensione dei comunisti cinesi al controllo totale e allo sradicamento della cultura tradizionale, respingere la partnership distruttiva della società dei fascisti italiani con i monopolisti aziendali e la fede dei nazisti tedeschi in una "razza superiore a tutte le altre", innanzitutto le celebrità, i banchieri, i capitalisti clientelari e i potentati che si riuniscono a Davos e altrove per plaudire ai propri successi e continuare ad attuare ulteriormente il loro "piano generale" che il WEF chiama affettuosamente "Great Reset" – "Grande Reset". Come lo stesso Klaus Schwab ha di recente dichiarato al suo pot-pourri di insigni ospiti, il WEF intende "padroneggiare il futuro" e chi può "padroneggiare" ciò che non è stato ancora scritto se non coloro che considerano il resto degli abitanti del pianeta come poco più che semplici servitori e schiavi? Sarebbe bello pensare che i mostri totalitari del XX secolo sarebbero serviti da sufficiente monito all'umanità a non camminare mai più incautamente nella direzione sanguinaria dell'autoritarismo. Ahimè, sembra che le lezioni brevemente apprese in un secolo di guerre mondiali, genocidi, conquiste e rivoluzioni siano state spazzate via come i semini di un dente di leone, in modo che il male possa ancora una volta attecchire e crescere. Ovviamente, il World Economic Forum non si vede come Stalin, Hitler, Tojo, Mussolini, Pol Pot o Mao. Si vede come John Kerry: come un "gruppo selezionato di esseri umani" che salverà il pianeta per chiunque altro. I totalitarismi del secolo scorso vedevano se stessi in modo diverso? Come Albert Camus avrebbe potuto chiedersi: quando "il benessere dell'umanità" non è stato "l'alibi dei tiranni"? Quando gli individui più ricchi e potenti del pianeta si riuniscono sotto la protezione di una schiacciante sicurezza militare che garantisce loro tanto l'incolumità quanto l'esclusione degli altri viene in mente un monito contenuto nel libro di Adam Smith La ricchezza delle nazioni: "Raramente la gente dello stesso mestiere si ritrova insieme, anche se per motivi di svago e di divertimento, senza che la conversazione risulti in una cospirazione contro il pubblico, o in qualche espediente per far alzare i prezzi". Con il folle impulso a rimpiazzare le energie da idrocarburi con insufficienti alternative "green" che fanno salire i prezzi delle materie prime e dei beni in tutto il mondo, mentre il costo della vita in rapido aumento soffoca tutti tranne i più abbienti, le parole di Smith non sono mai state più accurate. Come spiega John Kerry senza mezzi termini, l'unico modo per combattere anche il minimo cambiamento climatico occorre "denaro, denaro, denaro, denaro, denaro, denaro, denaro". È strano vedere una "élite" plutocratica e autocelebrativa scoprire il gioco. Se ciascuna di queste esortazioni al "denaro" vale centomila miliardi di dollari, Kerry potrebbe anche essere vicino a parlare francamente. Prima che i sostenitori del lavaggio del cervello del Club Klaus urlino che le motivazioni umanitarie del World Economic Forum non hanno nulla a che fare con il fare soldi, pensate a come sia folle una simile affermazione. I ricchi hanno un incentivo economico a nascondere le loro fortune dietro la parvenza della benevolenza, in modo da evitare sospetti e arricchirsi ancor di più. Dietro l'idea di "ricostruire [il mondo] in modo migliore", secondo la teoria del "Grande Reset" dell'economia mondiale proposta dal WEF, c'è un titano aziendale, un colosso bancario, un politico assetato di potere, un capo burocratico o semplicemente un vecchio aristocratico che si arricchisce o acquisisce influenza dalla moltitudine di transazioni segrete che rafforzano l'intera farsa filantropica. Lo slogan "Amore per l'umanità" vale soltanto per gli adesivi per paraurti che il WEF può attaccare sui suoi veicoli elettrici; "l'avidità" è ancora la forza motrice delle strette di mano segrete che si scambiano i più potenti quando si incontrano. Fanno affidamento sul lavoro degli schiavi africani per l'estrazione di materie prime "green" e su quello degli schiavi cinesi per la produzione di tecnologie "verdi", denigrando al contempo chiunque si opponga alle loro politiche dei confini aperti che inondano le nazioni occidentali di continua manodopera a basso costo. Com'era prevedibile, i maggiori responsabili dell'indebolimento dei gruppi di lavoro in patria, sovvenzionando al contempo la schiavitù all'estero, sono gli stessi che danno lezioni al mondo sul razzismo, sui salari equi e sui diritti umani. Come per tutte le truffe in cui i ricchi e i potenti scelgono di rubare ancora di più ai poveri e ai deboli, "l'altruismo" del WEF sembra piuttosto mafioso. I loro agenti bussano alle porte delle imprese in tutto l'Occidente con una semplice proposta: forse non ne hai mai sentito parlare, ma ci sono molti elementi cattivi là fuori che vogliono farti del male. La buona notizia è che possiamo offrirti protezione soltanto per il cinquanta per cento dei tuoi profitti. Gli imprenditori, che in passato non hanno avuto problemi a realizzare profitti, inizialmente rifiutano la proposta.
Non credo che tu capisca, spiegano i loro nuovi "amici", senza di noi, i gruppi per i diritti civili potrebbero boicottare i tuoi prodotti in quanto razzisti e transfobici, gruppi di investitori potrebbero svalutare le tue azioni perché non rispetti gli impegni ESG e le banche potrebbero rifiutare di farti prestiti in futuro, perché sostieni "l'odio" e la "disinformazione". Tutto il nostro staff di notizie societarie potrebbe dover scrivere articoli negativi sulla tua azienda. Sarebbe un peccato vedere soffrire una piccola impresa quando siamo qui per aiutarti.
E come si può ottenere tale aiuto?
È semplice, fai quello che ti dice il WEF di Klaus Schwab, fai affari con le nostre banche ed i fornitori approvati, offri il tuo sostegno alle nostre cause approvate e noi ci occuperemo del resto. Ehi, faremo persino in modo che i politici sul nostro libro paga ti ringrazino pubblicamente per aver salvato il mondo!
Dal bastone alla carota, ossia dalla punizione alla ricompensa. Possono viaggiare su jet privati, ma alla fine, la congrega del World Economic Forum non è altro che la più grande concentrazione di mascalzoni che la criminalità organizzata sia mai riuscita a riunire nello stesso spazio, orchestrando i piani più efficaci mai concepiti per costringere popolazioni in passato libere a fare esattamente quello che dicono. È Cosa Nostra reinterpretata come "la cosa di Klaus". In un'era più giusta, chiunque partecipasse alle riunioni del WEF sarebbe arrestato per associazione a delinquere finalizzata a commettere estorsioni e frodi. Invece, poiché "i padroni del nostro futuro" hanno investito molto denaro nelle elezioni dei leader più importanti dell'Occidente, presidenti, primi ministri, legislatori e persino militari sono fin troppi felici di difendere la loro causa. Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha detto alla sua platea del WEF che l'economia mondiale è in grave pericolo, senza sottolineare che sono state le politiche fatte di restrizioni e lockdown per contrastare il Covid-19 e i tentativi di utilizzare la pandemia come un "grande reset" per sancire il passaggio dell'Occidente dalle energie da idrocarburi a quelle "green" ad essere responsabili di gran parte del danno. Anziché usare la piattaforma globale come un'opportunità per fare un mea culpa tanto necessario al mondo intero, il capo delle Nazioni Unite era più interessato a sollevare altri due punti: 1) dovrebbe esserci una "responsabilità" giuridica per le piattaforme di social media che promuovono "la falsa informazione" e 2) i politici dovrebbero imporre misure impopolari alla loro popolazione per il proprio bene. In sostanza, il capo dell'organo di governo internazionale preferito dai globalisti chiede che i leader nazionali ignorino intenzionalmente la volontà del loro popolo e istituiscano un sistema per criminalizzare la libertà di parola, in modo che il dissenso scompaia magicamente proprio come un manifestante in un campo di "rieducazione". Queste sono le stesse "élites" del WEF che poi hanno l'audacia di voltarsi e predicare la "democrazia" e i "valori occidentali". Ovviamente, il presidente colombiano Gustavo Francisco Petro Urrego non ha avuto remore a dire a voce alta l'aspetto tranquillo. Seduto accanto al paladino "green" Al Gore, Petro Urrego ha affermato che l'umanità deve "superare il capitalismo", se vuole sopravvivere. Dato che Gore, membro del consiglio di fondazione del WEF, sembrava non essere in disaccordo, si può affermare che il Club Davos preferisce una versione del comunismo controllata dalla "élite" (ne esiste un'altra?) piuttosto che un sistema di libero mercato in cui la gente comune può prosperare. Se tutto ciò è in netto contrasto con le libertà occidentali duramente conquistate, che privilegiano la tutela dei diritti e delle libertà individuali rispetto all'interferenza arbitraria dello Stato, il motivo è dovuto al fatto che il World Economic Forum ha ribaltato l'inestimabile retaggio illuministico degli occidentali. In concomitanza con la sua riunione, il WEF ha pubblicato un report che annovera "le fake news e la disinformazione" tra i "rischi" globali più rilevanti. I membri del WEF prevedono pubblicamente che gli Stati Uniti avranno presto leggi su "l'incitamento all'odio", in aperta violazione della libertà di espressione tutelata dal Primo Emendamento della Costituzione americana. Aumentano le esortazioni a monitorare e applicare i singoli "limiti di carbonio" nella battaglia senza fine contro il clima della Terra in continua evoluzione. Questi stessi autoritari insistono per creare passaporti vaccinali digitali, un tracciamento dei contatti, per introdurre l'uso obbligatorio di "vaccini" sperimentali e di test onnipresenti. E dopo che il World Economic Forum ha deciso che gli occidentali dovrebbero mangiare insetti, l'Unione Europea ha ora autorizzato il consumo di grilli domestici. Censura, sorveglianza di massa e insetti: benvenuti nel futuro, se il WEF dovesse ottenere ciò che vuole. Nessuno dei programmi di vasta portata del World Economic Forum per rifare il mondo nell'interesse dei suoi membri suona come qualcosa che gli occidentali liberi potrebbero mai accettare di buon grado. Sicuramente è per questo che così tanti relatori del WEF sollecitano l'attuazione di queste politiche indipendentemente dal sostegno pubblico. Forse è anche per questo che il Partito Comunista cinese ha di recente plaudito allo "spirito di Davos" di quest'anno. I comunisti riconoscono il comunismo quando lo vedono, e nell'oligarchia globalista delle "élites" di Klaus Schwab, alla Cina piace quello che vede.
(Gatestone Institute, 5 febbraio 2023 - trad. di Angelita La Spada)
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Per la prima volta, il Ciad apre un’ambasciata a Tel Aviv
di David Fiorentini Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Presidente del Ciad Mehmet Déby hanno inaugurato una nuova ambasciata in Israele. La mossa è avvenuta cinque anni dopo che i due Paesi hanno ripristinato le relazioni diplomatiche bilaterali. Israele aveva immediatamente riconosciuto il Ciad quando aveva dichiarato la propria indipendenza dalla Francia nel 1960 e già nel 1962 ha aperto un’ambasciata nella capitale N’djamena. Tuttavia, i legami tra Israele e Ciad si sono interrotti nel 1972 a causa delle pressioni delle nazioni musulmane africane, incrementate a seguito della Guerra dei Sei Giorni (1967). Negli ultimi anni, però, Israele ha evidenziato varie aree di potenziale cooperazione, dalla sicurezza (tra cui la minaccia del gruppo terroristico Boko Haram) alla tecnologia e all’agricoltura, tanto che nel gennaio 2019, Netanyahu e l’ex presidente del Ciad Idriss Déby, padre dell’attuale leader, hanno annunciato il rinnovo delle relazioni diplomatiche tra i Paesi durante una cerimonia nella capitale africana. “Questo è un momento storico che si basa su anni di contatti durante i quali ho visitato il Ciad”, ha dichiarato Netanyahu durante la cerimonia a Ramat Gan, come riporta i24News, “stiamo rafforzando la nostra amicizia nei campi della sicurezza, mentre lottiamo per la pace e la prosperità”. Di buon auspicio sono state anche le parole del leader africano: “Questo è un grande giorno, un giorno storico per il Ciad e per Israele”, scrive il North African Post, dedicando il momento al padre, “un uomo molto coraggioso con una visione. Se siamo qui oggi per aprire ufficialmente l’ambasciata, è grazie a Dio, al coraggio e alla visione che mio padre ha avuto, e anche grazie a lei, Primo Ministro”. Inoltre il Times of Israel ha riportato che, durante la sua visita in Israele, Deby è stato ricevuto all’aeroporto dal capo del Mossad David Barnea. Il Mossad, infatti, ha svolto un ruolo centrale nel mantenimento dei legami con il Ciad dopo il 1972 e nel raggiungimento della piena normalizzazione negli ultimi anni. Deby ha incontrato anche il Ministro degli Esteri Eli Cohen, il quale ha ringraziato il leader ciadiano per il sostegno del suo Paese nei forum internazionali. Il Ciad ha votato a favore dell’ingresso di Israele nell’Unione Africana come Stato osservatore nel 2021 ed è stato assente durante il voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per deferire il conflitto israelo-palestinese alla Corte Internazionale di Giustizia.
(Bet Magazine Mosaico, 6 febbraio 2023)
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La solidarietà e gli aiuti di Israele alla Turchia colpita dal terremoto
di Daniele Toscano
Messaggi di solidarietà e aiuti concreti giungono prontamente da Israele alla Turchia dopo il grave sisma di magnitudo 7,8 con epicentro vicino alla città di Gaziantep. Quasi un migliaio i morti, oltre 5mila i feriti, migliaia di edifici crollati. Secondo il presidente turco Tayyip Erdogan è stato il più grande disastro del paese dal 1939.
Il terremoto ha interessato anche altri Paesi, come Siria, Libano, Cipro. In Israele i residenti dell'area di Tel Aviv, Beit She'an e Gerusalemme hanno riferito di aver sentito le scosse di assestamento. Secondo la CNN, la polizia israeliana ha dichiarato di aver ricevuto più di 3.000 segnalazioni, ma senza feriti o danni.
Sin dalla prima mattina il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato la preparazione di assistenza medica e di ricerca e soccorso per aiutare la Turchia, mentre i ministri degli Esteri e della Difesa hanno già avviato i contatti con i loro omologhi turchi e presto sarà inviata una delegazione.
In particolare, il Ministro della Difesa Yoav Gallant ha riferito al collega di Ankara Hulusi Akar che Israele sta con il popolo turco in questo momento difficile. Il Ministro ha dichiarato che Israele è pronto a inviare squadre di soccorso e aiuti, mandando anche le condoglianze alle famiglie colpite e indirizzando preghiere ai feriti. Altro messaggio di vicinanza è arrivato dal Presidente Isaac Herzog. “Lo Stato di Israele è sempre pronto ad assistere chi è in difficoltà in ogni modo possibile. I nostri cuori sono con le famiglie in lutto e con il popolo turco in questo momento doloroso”.
Le varie organizzazioni militari e civili si stanno attrezzando. L'IDF, l’esercito israeliano, ha dichiarato che si sta preparando a inviare una delegazione di aiuti in Turchia, che sarà supervisionata dal Primo Ministro e dal Ministero della Difesa.
L’organizzazione nazionale di volontariato United Hatzalah si sta anch’essa preparando a inviare una missione di soccorso, come ha affermato l'amministratore delegato Eli Pollack: “Non appena abbiamo saputo dell'entità della distruzione e della tragedia, abbiamo immediatamente iniziato a valutare la situazione e a preparare una squadra avanzata per fornire soccorso a seguito del devastante terremoto che ha causato la morte di centinaia di persone”.
Anche il Maghen David Adom ha annunciato l'intenzione di inviare volontari e professionisti in Turchia: “Il Maghen David Adom ha esperienza nella fornitura di aiuti nelle zone disastrate, i nostri dirigenti stanno seguendo da vicino gli sviluppi del terremoto e si stanno preparando a offrire ogni aiuto che possa essere necessario”.
Come riferiscono i principali giornali israeliani, il governo di Gerusalemme è pronto a estendere i suoi aiuti anche alla Siria, anch’essa colpita dal terremoto: un’importante apertura allo stato arabo, con cui persiste un rapporto di ostilità e l’assenza di relazioni diplomatiche. Tuttavia, già durante il sanguinoso conflitto civile che ha caratterizzato la Siria negli ultimi anni, l'IDF ha condotto una massiccia operazione umanitaria per aiutare la popolazione.
(Shalom, 6 febbraio 2023)
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Una moltitudine di farfalle marine invade il Mar Morto
Un branco di farfalle marine ha invaso le acque del Mar Morto in Israele. Una tale moltitudine di molluschi non era presente dal 1994 nell'area, fanno sapere le autorità e non è chiaro a cosa sia dovuta la loro presenza così vicino alla costa. Le farfalle marine non sono pericolose per l'uomo e hanno deliziato i sub che affollano il Mar Morto colorando di rosso le acque cristalline del lago salato.
(LaPresse, 5 febbraio 2023)
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Israele ha iniziato a trasferire le sue navi da guerra e sottomarini verso l'Iran
Israele si sta preparando per un'operazione militare contro l'Iran e ha già iniziato a riunire una forza navale. Sullo sfondo della comparsa di informazioni secondo cui, durante i negoziati con Stati Uniti e Francia, Israele è riuscito a ottenere il sostegno di questi paesi per un'operazione militare contro l'Iran, si è saputo che la Marina israeliana ha iniziato a inviare le sue navi da guerra nella direzione del Mar Rosso. A giudicare dall'elevato numero di sottomarini e navi da guerra, non si tratta di esercitazioni o di alcune missioni speciali, il che indica che la situazione in Medio Oriente si sta seriamente surriscaldando. Secondo il canale televisivo israeliano 12, il trasferimento della flotta israeliana nel Mar Rosso è collegato proprio con le intenzioni di Israele di attaccare l'Iran. "La Marina israeliana sta dispiegando ulteriori navi da guerra e sottomarini nel Mar Rosso come parte di un nuovo piano per contrastare la minaccia iraniana", - ha detto nella trama del canale televisivo israeliano. In precedenza, il primo ministro israeliano ha detto al presidente francese che l'IDF ha circa 3000 obiettivi iraniani che rappresentano una minaccia, il che potrebbe indicare un tentativo da parte di Israele di organizzare una guerra su vasta scala contro la Repubblica islamica.
(AVIA.PRO, 5 febbraio 2023)
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Così Netanyahu cerca la sponda di Macron con Riad
Durante la cena di lavoro i due leader hanno parlato delle attività “destabilizzatrici” dell’Iran e di come allargare gli Accordi di Abramo. Israele aspetta l’Arabia Saudita, che ha recentemente firmato un accordo energetico con la Francia.
di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi
Il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu vogliono “lavorare insieme” contro le attività “destabilizzatrici” dell’Iran nella sua regione e contro il sostegno di Teheran alla Russia impegnata nel conflitto in Ucraina. È quanto si legge in una nota diffusa dalla presidenza francese dopo che giovedì sera i due leader si sono incontrati all’Eliseo per una cena di lavoro. Macron “ha espresso la sua preoccupazione in merito alla situazione attuale nei territori palestinesi e in Israele” e “ha ricordato l’importanza di evitare ogni misura suscettibile di alimentare l’ingranaggio che ha già fatto troppe vittime innocenti tra i civili palestinesi e israeliani”, continua la nota che ricalca le dichiarazioni e la preoccupazione espressa da Antony Blinken, segretario di Stato americano, nella sua recente visita in Israele. Inoltre, Macron “ha ricordato l’attaccamento della Francia allo status quo storico sui luoghi santi a Gerusalemme insieme alla sua ferma opposizione al proseguimento della colonizzazione che compromette la prospettiva su un futuro Stato palestinese insieme alle speranze di pace e di sicurezza per Israele”, fa sapere Parigi. Netanyahu con Macron ha parlato anche di Libano (con la francese Total che sarà l’estrattore del gas libanese dopo l’accordo raggiunto nei mesi scorsi con Israele) e ha chiesto che i Pasdaran vengano inseriti nella lista delle organizzazione terroristiche dell’Unione europea. Inoltre, i due hanno parlato, per usare le parole di Netanyahu, delle “opportunità per espandere il circolo dei Paesi in pace con Israele”. Tradotto: Arabia Saudita. “Mi aspetto che vedremo un accordo tra Israele e Arabia Saudita quest’anno”, ha dichiarato a dicembre Danny Danon, ex ambasciatore israeliana presso le Nazioni Unite e membro della Knesset del partito Likud, poco dopo la nascita del nuovo governo Netanyahu. Danon riprendeva le precedenti dichiarazioni del premier, prima e dopo le elezioni di novembre, che sottolineavano l’importanza degli Accordi di Abramo (come dimostrano i recenti sviluppi che riguardano i rapporti con il Sudan) e, in particolare, il suo interesse a normalizzare le relazioni con Riad. Le agenzie d’intelligence sono al lavoro: il Mossad più che lo Shin Bet. Ma la composizione della maggioranza di governo può essere un ostacolo. Basti pensare che anche i ministri degli Esteri di diversi Paesi arabi, compresa l’Arabia Saudita, si erano riuniti virtualmente a inizio gennaio condannando “con la massima fermezza” la visita presso la Spianata delle moschee di Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza pubblica israeliano e figura di spicco dell’ultradestra israeliana: una “violazione inaccettabile” e una “pericolosa escalation”. I rapporti tra Parigi e Riad sono ottimi. Nei giorni scorsi il principe Abdulaziz bin Salman, ministro dell’Energia saudita, e Catherine Colonna, ministro dell’Europa e degli Affari esteri francese, hanno siglato un memorandum d’intesa per stabilire un quadro di cooperazione nel settore dell’energia. Il documento, siglato a Riad, delinea la cooperazione tra i Paesi nei settori dell’elettricità, delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica, dello stoccaggio, delle reti intelligenti, del petrolio e del gas e dei loro derivati, della raffinazione, della petrolchimica e del settore della distribuzione e della commercializzazione. Per Netanyahu, includere l’Arabia Saudita nei Paesi con cui Israele normalizza le relazioni è un obiettivo di profondità strategica unica. Riad è la potenza di riferimento nella regione mediorientale, Paese in crescente sviluppo grazie alle entrate energetiche e alla visione dell’erede al trono Mohammed bin Salman. Per Israele sarebbe un partner eccezionale con cui stringere forme di cooperazione di carattere economico, industriale e commerciale. Nonché un alleato geopolitico e militare importante nella missione di contenimento dell’Iran e di lotta al terrorismo – su cui ci sono interessi comuni. Tuttavia, il regno dei Saud è anche il protettore dei luoghi sacri dell’Islam, e questo rende più complicato prendere decisioni formali di tale portata come l’apertura delle relazioni con lo stato ebraico. C’è infatti una consistente parte delle collettività arabe che non sta seguendo il flusso degli Accordi di Abramo, ma dimostra ancora forme di chiusura nei confronti di Israele (le tante bandiere palestinesi durante i Mondiali in Qatar ne sono stati uno specchietto). Davanti a questo, Riad – che è già impegnata in forme di modernizzazioni complesse – probabilmente intende evitare sbilanciamenti eccessivi. Almeno finché bin Salman non sarà ufficialmente re (e poi forse per un primo periodo di assestamento del potere). Tuttavia i sauditi sono del tutto allineati sulle volontà e necessità che muovono gli Accordi, come dimostra l’avallo dato alla partecipazione del Bahrein (Paese satellite) e in misura minore degli Emirati Arabi stessi. Anche sulla base di queste consapevolezze, gli Stati Uniti – promotori degli Accordi e delle varie forme di distensione regionale – stanno spingendo su altri formati mini-laterali come il Forum del Negev. Sistemi dove i sauditi possono partecipare con maggiore leggerezza, mentre Netanyahu cerca sponde (come a Parigi) per realizzare un obiettivo che sarebbe estremamente rilevante per lui e per il suo governo.
(Formiche.net, 5 febbraio 2023)
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Il valore simbolico dei futuri accordi di pace tra Israele e Sudan
di Luca Spizzichino
Israele normalizzerà i rapporti con il Sudan entro la fine dell’anno. Questo l’annuncio arrivato dal ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen una volta tornato dalla missione a Khartoum, capitale del Sudan.
Secondo quanto riferito dal ministro Cohen alla stampa, durante l’incontro con il leader sudanese Abdel Fattah al-Burhan è stato finalizzato il testo dell'accordo che sarà successivamente firmato a Washington DC. La volontà dei due paesi di normalizzare i rapporti era già nota nel 2020, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu incontrò segretamente in Uganda al-Burhan, tuttavia la formalizzazione degli Accordi di Abramo era rimasta in sospeso a causa dell'instabilità politica in corso nella nazione africana, oggetto anche di un colpo di stato militare del 2021.
"La visita odierna in Sudan pone le basi per uno storico accordo di pace con un Paese arabo e musulmano strategico", ha dichiarato Cohen in conferenza stampa. "L'accordo di pace tra Israele e Sudan promuoverà la stabilità regionale e contribuirà alla sicurezza nazionale dello Stato di Israele", ha aggiunto.
• Il valore simbolico degli accordi tra Israele e Sudan
“Khartoum è ricordata in Israele come la città in cui i Paesi arabi decisero gli storici ‘tre no’: niente pace con Israele, niente negoziati con Israele e niente riconoscimento di Israele”, ha ricordato il ministro degli Esteri israeliano. Infatti nel 1967, tre mesi prima che scoppiasse la Guerra dei Sei Giorni, la capitale sudanese fu sede dell’incontro della Lega Araba nel quale i membri giurarono di non riconoscere Israele.(1)
Inoltre, sebbene il Sudan non abbia né l’influenza né la ricchezza degli altri paesi arabi del Golfo, un accordo di pace con il paese arabo africano riveste un ulteriore significato per Israele. Infatti, nel 1993 gli Stati Uniti dichiararono il Sudan stato sponsor del terrorismo a causa del sostegno a gruppi terroristici ferocemente anti-israeliani come Hamas e Hezbollah. Sotto la dittatura di Omar al-Bashir inoltre il Sudan serviva da via di transito per le forniture di armi iraniane ai terroristi palestinesi nella striscia di Gaza. Dopo il colpo di stato con il quale è stato destituito al-Bashir, che era al potere da trent’anni, il paese ha compiuto un netto cambio di direzione, partendo proprio dall’instaurazione dei rapporti con Israele.
• Quale sarà il prossimo paese a normalizzare i rapporti con Israele?
Il premier israeliano Netanyahu ha affermato a più riprese la volontà di ufficializzare i rapporti con l’Arabia Saudita. Anche durante la visita di Blinken in Israele, il primo ministro aveva posto l’attenzione non solo sulla minaccia iraniana, ma anche sull’apertura degli Accordi di Abramo a nuovi Paesi, con il regno saudita su tutti. Infatti la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi diventerebbe un vero e proprio spartiacque nella travagliata storia del Medio Oriente, dove un accordo tra lo Stato ebraico e i sauditi significherebbe un incredibile passo avanti nella stabilità della regione.
• Nonostante le recenti tensioni con i palestinesi, la diplomazia corre spedita
L’ondata di attentati che nelle scorse settimane ha colpito Israele non sembra infatti fermare la diplomazia israeliana che di giorno in giorno fa sempre più passi da gigante. Dall'intensificazione dei rapporti tra i paesi membri degli Accordi di Abramo fino all’apertura dell’ambasciata del Ciad in Israele e all’annuncio dei futuri accordi di pace con il Sudan, lo Stato ebraico non si sta facendo influenzare dal terrorismo palestinese che vuole spostare l’attenzione sulla propria causa per rallentare i vari accordi che il ministero degli Esteri sta trattando con le cancellerie di altri Paesi che ancora non riconoscono ufficialmente Israele.
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(1) I 3 No di Khartoum vennero pronunciati nel mese di settembre del 1967, quindi 3 mesi dopo, e non prima che scoppiasse la guerra (e.s.a.).
(Shalom, 5 febbraio 2023)
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Sì, il Monte del Tempio è anche una questione politica. Lasciamola però a chi ha il diritto (e il dovere) di gestirla
di Paolo Salom
Un tempo in Italia, e non solo, si diceva che tutto era “politica”. Anche le questioni private. Nel lontano Occidente questo riflesso condizionato non è scomparso ma si è trovato un nuovo oggetto della propria considerazione totalizzante: Israele. Quando si parla dello Stato ebraico, dalla formazione di un governo allo status presente o futuro delle relazioni con i vicini arabi, il dibattito ha respiro internazionale. E viene approvato o respinto come se riguardasse direttamente gli osservatori più distanti. Un esempio è la polemica che circonda il Monte del Tempio, al centro di una disputa a più soggetti (Israele, l’Anp, la Giordania e ora anche l’Arabia Saudita) che porta altri Paesi a dire la loro come se li riguardasse in prima persona. Non c’è dubbio: questioni religiose come quelle che si riferiscono al luogo più sacro della Storia (non soltanto per gli ebrei) si trasformano istantaneamente in politica. Perché le rivendicazioni di sovranità su Har Habait, almeno dal 1967, e cioè all’indomani della riunificazione di Gerusalemme, si legano a filo doppio con la legittimità stratificata nei secoli di chi abbia il diritto (esclusivo) di pregarvi.
Ora, la recente “passeggiata” del neo ministro Itamar Ben-Gvir, poco tempo dopo la nascita del nuovo esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu, è stata accolta dalle capitali arabe con rabbia e sdegno (atteggiamento non sorprendente). Ma ha suscitato anche la reazione ufficiale degli Stati Uniti che hanno “deprecato” la decisione del rappresentante di Otzma Yehudit (Potere ebraico), formazione di estrema destra. Molti altri Paesi occidentali hanno ribadito la loro contrarietà al “cambiamento dello status quo” del luogo sacro, stigmatizzando il gesto di Ben-Gvir, mentre i media internazionali hanno subito ricordato la visita di Sharon, nel 2000, dopo la quale fu scatenata una sanguinosa rivolta dei palestinesi, ben presto definita Seconda Intifada. Il primo ministro Netanyahu ha più volte ribadito che nessuno, a Gerusalemme, ha intenzione di cambiare lo status quo sul Monte del Tempio, definito da Moshè Dayan all’indomani della Guerra dei sei giorni, che consente ai musulmani libero accesso sempre e libertà totale di culto, mentre limita le visite degli ebrei a giorni e orari specifici, vietandone rigorosamente qualsiasi preghiera (basta muovere le labbra per essere espulsi senza esitazioni). È giusto tutto questo? Al di là delle opinioni, vorrei qui sottolineare che nel giugno 1967 Moshè Dayan agì di propria iniziativa, lasciando alla Casa reale giordana il controllo religioso dei luoghi conquistati da Tsahal, mentre a Israele sarebbe da allora spettato garantirne la sicurezza. Cosa che è stata fatta finora: un estremista israeliano fu arrestato quando fu scoperto a progettare la distruzione con la dinamite della moschea di Al Aqsa. Mentre la polizia è intervenuta ogni qualvolta i palestinesi iniziavano assalti e rivolte partendo proprio da lì. Israele è una democrazia, come sappiamo. Un Paese non privo di difetti che tuttavia ha forze e capacità di risolvere le questioni più dirompenti con gli strumenti della legge e della legalità. Dunque che bisogno c’è di unirsi al coro delle condanne? Ricordiamo che i giordani, nel 1948, rasero al suolo il quartiere ebraico della Città Vecchia dopo la conquista, comprese le tante (e antiche) sinagoghe che vi si trovavano. Gli israeliani avrebbero potuto rendere la pariglia nel 1967. Ma non l’hanno fatto. Per motivi ovvi, accanto a una differente predisposizione: non chiudere la porta alla pace, un giorno, non importa quanto lontano. Chi adesso aizza le folle gridando al lupo ha ben altri obiettivi. Arafat, nel 2000, aveva soltanto bisogno di un pretesto per scatenare la sua rivolta. Se Sharon non fosse andato sul Monte del Tempio ne avrebbe trovato un altro. Dunque, per tornare a noi: di cosa ha timore il lontano Occidente? Di una rivolta araba? Ma se fosse nei piani di chi ha il potere di lanciarla, dubitate forse che ne mancherebbe l’occasione? Sì, il Monte del Tempio è anche una questione politica. Lasciamola però a chi ha il diritto (e il dovere) di gestirla. Ricordando che non soltanto i musulmani hanno motivi per pregare in quel luogo: è sacro agli ebrei da sempre e ai cristiani da almeno duemila anni.
(Bet Magazine Mosaico, 5 febbraio 2023)
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Musei in Maremma: Pitigliano e Sorano meglio dei grossetani
GROSSETO - La cultura, in Maremma non è un aspetto marginale. A dirlo sono i numeri. Nel “Rapporto Musei 2022” stilato dalla Regione, dopo l’anno nero della pandemia (2020), sono molti i siti archeologici e museali del territorio che hanno conosciuto una seria ripresa.
In Toscana si è passati da un -73% del 2020 a un +38,5% del 2021, con ottimi auspici per quelli che saranno i dati definitivi (in arrivo) dell’anno 2022.In provincia di Grosseto attualmente risultano aperti 60 musei su 69 totali ed è Pitigliano a “fare la voce grossa”. Il Museo di cultura ebraica “La piccola Gerusalemme” in particolare. Nel 2021 ha accolto oltre 23mila visitatori. Anche nel 2020 le cifre erano state superiori a tutti gli altri musei della provincia....
(MaremmaOggi, 5 febbraio 2023)
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«Bisogna ricalcolare i rischi e i benefici dei vaccini». Parola degli esperti Iss
di Alessandro Rico
Uno studio di tre ricercatori dell’ente riflette su effetti avversi e cure: «Con Omicron, serve un ripensamento sui booster». «Mettiamo in discussione la reale necessità di somministrare questi prodotti, con effetti di lungo termine non ancora chiari, a persone a rischio con patologie autoimmuni, come pure a individui in salute, nell’epoca delle varianti Omicron». La frase che leggete non è un dispiaccio negazionista e no vax. È un estratto dell’articolo, appena pubblicato sulla rivista Pathogens, di Loredana Frasca, Giuseppe Ocone e Raffaella Palazzo, tre scienziati del Centro nazionale per il controllo e la valutazione dei farmaci, che fa capo all’Istituto superiore di sanità. I ricercatori alle dipendenze di Silvio Brusaferro smontano la stantia propaganda del loro stesso ente, che ancora pretende s’inseguano gli italiani siringa alla mano. Con i ceppi virali oggi in circolazione - meno patogeni - e in presenza di cure Covid efficaci, sostengono invece loro, la politica dei richiami continui, anche quelli con i bivalenti, deve essere riconsiderata: «Il calcolo rischi/benefici» dei vaccini «richiede un aggiornamento». Non stupisce solo che degli esperti dell’Iss si decidano finalmente a smitizzare la religione delle punture, in un fase in cui il tasso di mortalità per il coronavirus risulta «paragonabile o addirittura inferiore a quello dell’influenza». Sono sorprendenti - benché familiari ai lettori della Verità, costantemente informati sul dibattito in seno alla comunità scientifica - altresì le motivazioni addotte dagli autori dell’analisi. Anzitutto, i ricercatori stemperano la retorica sui farmaci a mRna, che le virostar, incoraggiate dai recenti disastri cinesi, insistono nel glorificare in quanto protagonisti di un miracolo medico tutto occidentale. In realtà, osservano gli studiosi, «i vaccini più “tradizionali” e quelli genici sembrano avere un’efficacia simile». Vale per quello cubano, come per quello cinese. Giuseppe Remuzzi, del Mario Negri, una ventina di giorni fa, su Radio 24, aveva promosso il Sinovac: «Dopo tre dosi», funziona «più dei nostri a mRna». Gli autori del saggio su Pathogens riflettono dunque sui vantaggi relativi delle inoculazioni ai sani e sui profili di sicurezza per i soggetti che soffrono di malattie autoimmuni. Questi ultimi, considerati fragili e quindi candidati ideali alla profilassi, sono al contempo esposti ad alcuni degli effetti collaterali delle punture: quelle patologie aumentano i rischi cardiovascolari e giocano un ruolo nelle infiammazioni cardiache. Peraltro, non esistono dati sull’affidabilità delle «somministrazioni reiterate (fino a quattro o cinque e oltre)». E alcune statistiche realizzate nel Regno Unito rivelano che i decessi per cause diverse dal Covid sono più frequenti tra i vaccinati che tra i non vaccinati: una delle spiegazioni chiama in causa miocarditi e pericarditi subcliniche provocate dagli shot, difficili da diagnosticare, ma potenzialmente letali. E c’è un ulteriore elemento di riflessione: «Un’interessante metanalisi», sottolinea il paper, «mostra come l’uso di una monoterapia, tipo gli inibitori del fattore di necrosi tumorale (anti Tnf alfa), in questi pazienti fosse associato a un minor rischio di ricovero e morte per Covid-19». Quindi, l’opportunità di continuare a inocularli va riconsiderata alla luce di una combinazione di fattori: la scarsità di indagini sui booster, i sospetti sulle reazioni cardiache, la disponibilità di cure, la ridotta aggressività del virus Omicron. E la circostanza, valida sia per gli immunocompromessi sia per i sani, che «un gran numero di persone sta acquisendo naturalmente l’immunità» tramite infezioni, che spesso provocano pochi o nessun sintomo. L’articolo dei tecnici Iss passa in rassegna tutti i dubbi sui farmaci a mRna, di cui sembrava un tabù parlare pubblicamente. Ad esempio, la persistenza nell’organismo della Spike, che viene sintetizzata su impulso dell’acido ribonucleico contenuto nel vaccino, e la sua potenziale tossicità. Uno studio uscito su Cell nel marzo 2022 aveva certificato che la proteina poteva restare in circolo due mesi dopo l’iniezione, mentre altri esami ne avevano trovato traccia nel sangue dei vaccinati fino a sei mesi dopo l’ultima dose. In più, gli scienziati italiani ricordano i disturbi neurologici collegati ai medicinali a mRna, più probabili in chi soffriva già di problemi autoimmuni; i casi di recidive di lupus eritomatoso sistemico (un’infiammazione cronica di vari organi e tessuti); di artrite reumatoide, talora insorta per la prima volta in seguito alle inoculazioni; e persino di sclerosi multipla. Spiccano, infine, le sospette correlazioni con infarti e ictus. Senza contare il saggio di Science Immunology, secondo il quale i richiami fanno aumentare gli anticorpi di classe IgG4, associati a una tolleranza immunitaria nei confronti del virus. Pensare che, quando ne abbiamo scritto su questo giornale, s’erano scatenati i soliti, grotteschi cacciatori di bufale. Adesso cosa faranno? Andranno in battuta direttamente all’Iss?
(La Verità, 5 febbraio 2023)
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Vi spiego la sfida spaziale per Israele. Parla Dan Blumberg (Isa)
di Gabriele Carrer
La presenza internazionale alla Conferenza spaziale internazionale Ilan Ramon, svoltasi questa settimana a Tel Aviv, è stata “enorme”, racconta il professor Dan Blumberg, presidente dell’Agenzia spaziale israeliana (Isa). Alcuni dei più importanti attori dei maggiori Paesi “spaziali” hanno partecipato all’evento. “Vedono Israele come una calamita, vogliono entrare in contatto con la comunità, vogliono entrare in contatto con le nostre startup, vogliono guardare le applicazioni che stiamo sviluppando e vogliono lavorare con noi”. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per questa intervista esclusiva.
- Com’è cambiato il settore spaziale in questi anni? Il settore spaziale è stato alimentato per molti, molti anni soprattutto dalla geopolitica. E dalla competizione tra nazioni e culture. La corsa allo spazio durante la Guerra Fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti era un modo per dimostrare ciò che si poteva fare tecnologicamente e raccogliere informazioni da luoghi lontani. Per questo motivo e per il costo dell’accesso allo Spazio, la maggior parte degli investimenti era su base nazionale. Negli ultimi dieci anni c’è stato un cambiamento significativo con l’ingresso di imprese e società private nell’arena spaziale.
- Che cos’è cambiato? Quando gli Stati Uniti hanno installato il Gps, non lo hanno fatto per permetterci di usare Waze o Google Maps. Il motivo era principalmente militare. Poi abbiamo capito che potevamo usare il Gps per molte altre cose, per migliorare le nostre vite. E poi abbiamo iniziato a vedere aziende private che si occupano delle applicazioni a valle dell’utilizzo delle risorse spaziali e investono nella realizzazione e nel lancio di nuovi sistemi spaziali.
- Che fase stiamo attraversando? Ci troviamo in un vero e proprio punto di svolta: da investimenti nazionali a investimenti privati con una crescita significativa e massiccia dell’attività spaziale. Inoltre, si è assistito a una vasta riduzione dei costi da investire per inviare un satellite nello Spazio.
- Come stanno cambiando i rapporti tra pubblico e privato? Gli Stati nazione saranno sempre in competizione tra loro per mostrare la qualità della vita e le conquiste tecnologiche raggiunte, e questa è la natura dell’umanità, almeno per ora. Ma detto questo, probabilmente si assisterà a uno sforzo parallelo tra investimenti nazionali e privati. Ci saranno ancora investimenti governativi, ma attraverso aziende private.
- Quello di un attacco a satelliti è lo scenario peggiore in un conflitto moderno? L’evento più pericoloso in qualsiasi guerra è, innanzitutto, un danno alle infrastrutture civili. Non credo che i satelliti siano lo scenario peggiore in caso di guerra, ma il modo in cui le superpotenze si sono evolute, le loro alleanze sui satelliti sono diventate significative. E qualsiasi blackout o azione contro di essi avrà un impatto sostanziale anche a terra. Quindi potrebbe innescare un effetto domino.
- Che ruolo ha Israele nel settore spaziale? Israele è stato l’ottavo Paese al mondo a ottenere il pieno accesso allo Spazio, il che significa costruire un satellite, lanciarlo dal proprio territorio e gestirlo. Questo è avvenuto già nel 1988. Sono pochi i Paesi al mondo che hanno questo tipo di accesso e allora erano soprattutto le superpotenze o le nazioni molto grandi ad averlo. Oggi Israele ha sempre più aziende che guardano allo Spazio come a una risorsa. Il Paese capisce che può essere un motore di crescita per l’economia. Stiamo cercando di sviluppare un ecosistema per creare un motore di crescita basato sullo Spazio. Al momento ci sono circa 60 aziende direttamente coinvolte in attività spaziali. E speriamo di raddoppiare la cifra entro il decennio. Almeno.
- Parliamo di ecosistema, una parola che spesso si sente in Israele quando si parla di cybersecurity. In che cosa consiste quando parliamo di Spazio? Nel corso della mia carriera ho lavorato intensamente alla costruzione dell’ecosistema cyber. Oggi possiamo costruire anche un ecosistema intorno allo Spazio con ricerca accademica, investimenti governativi, coinvolgimento di piccole, medie e grandi aziende e sensibilizzazione della popolazione su ciò che stiamo facendo. In modo leggermente diverso dalla cybersecurity. L’ecosistema spaziale sarà probabilmente più piccolo di quello della cybersecurity. Ma detto questo, l’ecosistema spaziale è costituito da tecnologie molto più profonde e comprende sia software sia hardware.
- Quanto è importante per un Paese come Israele la cooperazione spaziale? Israele è un Paese piccolo. E lo spazio è costoso. Quindi dobbiamo collaborare con altri Paesi. Basti pensare che sulla Stazione Spaziale Internazionale, i russi, gli americani e altri stanno lavorando insieme a causa degli enormi costi di accesso e di volo nello Spazio. Anche Israele sta lavorando con gli alleati per utilizzare congiuntamente lo Spazio come risorsa per proteggere e rafforzare la loro società. E l’Italia è uno dei Paesi con cui lavoriamo.
- A livello bilaterale o tramite l’Unione europea? Entrambi. Lavoriamo con l’Europa: siamo fortemente coinvolti nella ricerca attraverso programmi come Horizon Europe. E lavoriamo anche con Paesi specifici in Europa, come Italia, Germania e Francia. Non siamo membri dell’Agenzia spaziale europea purtroppo. Israele potrebbe trarre notevoli vantaggi dall’essere un membro dell’Agenzia spaziale europea, e credo che quest’ultima trarrebbe beneficio dall’avere Israele in quella comunità.
(Formiche.net, 4 febbraio 2023)
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I nemici della preghiera
La preghiera è uno dei temi più importanti della Bibbia. E' con una certa cautela che si deve trattare questo tema, giacché non s'impara a pregare parlando della preghiera, ma pregando effettivamente. La preghiera non deve essere considerata come un pio dovere, ma piuttosto una strategia di lotta essenziale e indispensabile per il cristiano. Nella sua parola, Dio promette benedizioni illimitate a chi lo prega. Per questo motivo, Satana e l'inferno attaccano con tutti i mezzi possibili la persona che prega. L'apostolo Paolo dice in 1 Timoteo 2:1: «Io esorto dunque, prima d'ogni altra cosa che si facciano supplicazioni, preghiere, intercessioni, ringraziamenti.» Egli assegna il primo posto alla preghiera e dice che essa è la più grande e la più importante delle funzioni spirituali, perché è nella misura in cui preghiamo che il nostro servizio riceve un valore eterno. Pregando con fervore, diamo a Dio la possibilità di agire per mezzo nostro.
di Wilm Malgo (1922-1992)
Il diavolo impiega sei armi differenti per paralizzare le ali della preghiera dei figli di Dio.
1. La stanchezza Parliamo della stanchezza paralizzante che rende incapace di pregare in continuazione per un determinato soggetto. Tuttavia, affermiamo che questa stanchezza soprannaturale può essere vinta esattamente con la preghiera, giacché la Bibbia attesta che Dio dà la forza a colui che è stanco e aumenta il vigore a colui che è debole. Lanciandoti nel fiume della preghiera, troverai un vero conforto e una forza nuova.
2. Uno spirito distratto Ti senti incapace di concentrarti. Una montagna di pensieri e preoccupazioni si riversa su di te. Noti con costernazione che i tuoi pensieri mentre preghi se ne vanno a zonzo! Puoi vincere quest'arma del nemico pregando ad alta voce. Nel Salmo 55:16-17 Davide dice: «Quanto a me: io griderò a Dio, e l'Eterno mi salverà. La sera, la mattina e sul mezzodì mi lamenterò e gemerò, ed egli udrà la mia voce.» Figlio di Dio, prega ad alta voce molto distintamente e sperimenterai che le potenze della distrazione non avranno più alcuna presa su di te.
3. L'agitazione interiore Un'inesplicabile mancanza di calma s'impadronisce di te, ma tu puoi vincerla pregando, qualunque ne sia la causa, che si tratti di peccato, di nervosismo o di incredulità. La Bibbia dice nel salmo 55:22 «Getta sull'Eterno il tuo peso, ed egli ti sosterrà; egli non permetterà mai che il giusto sia smosso» e nel salmo 42:11 «Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è la mia salvezza e il mio Dio.» Solamente pregando, tu sarai liberato dalla tua mancanza di calma interiore.
4. La fretta L'arma che Satana utilizza con maggior successo contro gli intercessori è la fretta. Che cosa ci dice la Bibbia nell'Ecclesiaste 8:3 «Non t'affrettare ad allontanarti dalla sua presenza» Qual è la causa della tua fretta? Sarebbe il molto lavoro che ti attende? Non sai come fare per finirlo. Tuttavia è proprio nella preghiera che ti sarà rivelato il miglior metodo per portare a termine senza tensioni il tuo lavoro con questo risultato: più preghi e più lavori. Sono cosciente che questa affermazione è contraria al cosiddetto buon senso, ma essa è stata sperimentata numerose volte e la Bibbia conferma questo fatto in Isaia 55:2: «Perché spendete danaro per ciò che non è pane? E il frutto delle vostre fatiche per ciò che non sazia? Ascoltatemi attentamente e mangerete ciò che è buono, e l'anima vostra godrà di cibi succulenti! Inclinate l'orecchio, e venite a me; ascoltate, e l'anima vostra vivrà.» Per mezzo della tua perseveranza in una preghiera continua, il programma della tua giornata sarà alimentato dalle sorgenti divine della potenza di Dio e costaterai con meraviglia che il periodo trascorso in preghiera ardente ha costituito il tuo tempo migliore, perché così è stata vinta l'arma satanica della fretta che voleva impedirti di pregare.
5. La mancanza di coraggio Lo scoraggiamento paralizza molti intercessori. Essere scoraggiato significa non guardare abbastanza lontano o abbastanza in alto. La Bibbia dice di guardare a Gesù. Questo vuol dire che occorre volgere via lo sguardo dalle cose visibili, per contemplare solo Lui nella preghiera. Forse, tu sei scoraggiato a causa della tua debolezza, vergognoso delle tue disfatte, avvilito per la durezza di cuore degli uomini, abbattuto da circostanze tristi. Ascolta la parola di Paolo in 2 Corinzi 4:8: «Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all'estremo.» Perché Paolo ti dice questo? Perché era un intercessore. Isaia 35:3-4 proclama: «Fortificate le mani infiacchite, raffermate le ginocchia vacillanti! Dite a quelli che hanno il cuore smarrito: 'Siate forti, non temete!' Ecco il vostro Dio! Verrà la vendetta, la retribuzione di Dio, verrà egli stesso a salvarvi.» Hai una sola possibilità di sbarazzarti del tuo scoraggiamento: una preghiera solenne. Scrivendo questo, mi sembra che potenze invisibili vorrebbero impedirmi di dire come stanno in effetti le cose. lo so che Satana proverà con tutti i mezzi ad impedirti di credere che la preghiera dischiude realmente le sorgenti della potenza di Dio. Ma nel nome di Gesù, queste forze contrarie sono ugualmente vinte! Ai cuori scoraggiati rivolgo la seguente esortazione: Pregate! Fate oggi stesso una nuova prova. Dite ad alta voce: "Scelgo la volontà di Dio e respingo in nome di Gesù la volontà di Satana". La volontà di Dio è che tu preghi e quella di Satana che tu non preghi.
6. La pigrizia Satana impiega quest'arma perniciosa contro quelli che hanno il desiderio di divenire intercessori; impiega contro di loro l'arma della pigrizia, della carne e dell'incapacità. Ti metti in ginocchio, deciso a pregare, ma quasi non riesci a pronunciare parola. Tutto ti appare tanto penoso. La carne è nell'impossibilità di pregare. Come puoi essere liberato da questa terribile pigrizia, da questa incapacità di pregare? Ecco la risposta: Prega con la Bibbia in mano. Leggi ad alta voce le promesse di Dio che parlano della preghiera. In Matteo 7:7 Gesù ha detto: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto.» Di' semplicemente al Signore nella tua preghiera: "Signore io non posso pregare, ma tu dici nella tua parola che devo farlo, e con perseveranza". Digli tutta la miseria, non tacergliela, e mentre tu gli parli leggendo la sua parola, noterai all'improvviso che la fiammella della preghiera si accende in te e che la tua pigrizia scompare. Allora puoi avanzare fino al trono della grazia.
«Gesù, aiutami a vincere, perché tutto è sparito e il mio smarrimento ossessiona tutti i pensieri, la mia capacità di preghiera non si trova più, e mi sento ridotto ad essere come un ramo secco! Signore, voglia tu unirti nel più profondo all'anima mia che t'invoca.»
(Chiamata di Mezzanotte, Nr. 1/2 2017)
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Il gruppo Siemens accetta una clausola per boicottare Israele pur di assicurarsi una commessa in Turchia
Un appalto vinto dal gruppo Siemens per fornire treni ad alta velocità alla Turchia contiene una clausola che contempla il boicottaggio di Israele. L'impegno contrattuale è proibito dalla legislazione tedesca ma la società si è mossa per evitare ricadute legali
di Andrea M. Jarach
Un consorzio tra la tedesca Siemens e la consociata turca Sanayi ve Ticaret AŞ (nota anche come Siemens Türkiye) ha vinto nell’aprile 2018 l’appalto delle ferrovie turche Tcdd per la consegna di dieci treni ad alta velocità. Una commessa da oltre 340 milioni di euro, esteso poi nel 2019 a dodici treni. L’accordo include manutenzione, riparazione e pulizia per tre anni. Il gruppo Siemens aveva già siglato nel 2013 un primo contratto per la consegna di un convoglio “Velaro” ad alta velocità, e poi ancora per altri sei treni ad otto carrozze. L’ultimo affare ha tuttavia ora ripercussioni che trascendono l’aspetto finanziario, come rileva l’emittente tedesca Swr. Come condizione per la concessione dell’appalto è stata infatti proposta la sottoscrizione di un accordo di boicottaggio di Israele . Solo così è stato possibile ottenere il finanziamento di otto treni dalla Islamic Development Bank saudita (IsDB), che lo impone in ossequio alle regole di boicottaggio dettate dall’Organizzazione per la cooperazione islamica, la Lega degli Stati Arabi e l’Unione Africana. L’articolo 7 dell’ordinanza per il commercio estero in vigore in Germania vieta però ad aziende o cittadini tedeschi di sottoscrivere documenti di questa natura. La violazione configura un illecito amministrativo che può comportare una sanzione fino a 500mila euro. Secondo quanto riporta Swr il management era perfettamente a conoscenza del problema e si è confrontato su come aggirare il divieto individuando tre strategie alternative: trasformare l’impegno in una propria clausola contrattuale di riserva, includere una lista di paesi di provenienza ammessi, oppure sottoscrivere il contratto finale a nome di un progetto comune secondo il diritto turco. Quest’ultima è stata poi la strada scelta da Siemens come la più sicura per evitare di essere esclusa dall’appalto e non incorrere in sanzioni in Germania. Siemens Türkiye ha quindi ricevuto una procura da Siemens AG per poter presentare l’offerta e firmare il contratto secondo il diritto turco che, viceversa, non sanziona il boicottaggio di Israele. La filiale non è neppure domiciliata in un paese Ue, quindi Siemens AG formalmente non ha fatto nulla di punibile. Quanto alle valutazioni di Swr l’azienda tedesca non ha preso posizione, trincerandosi dietro la pendenza di una causa legale in corso tra ex collaboratori in Turchia e la consociata locale. Ha invece sottolineato di avere in corso una collaborazione duratura con Israele, avendo fornito dei convogli alla Israel Railways di cui cura anche la manutenzione. Per il presidente dell’associazione Germania-Israele Volker Beck, il contratto sottoscritto da Siemens equivale ad un giuramento di ostilità nei confronti di Israele, contrario allo spirito della normativa nazionale, anche se probabilmente esente da sanzioni. Beck ha perciò annunciato la presentazione di una denuncia perché il comportamento della società sia valutato giuridicamente. L’articolo 7 dell’ordinanza tedesca per il commercio estero (Awv) ha lo scopo di escludere impegni di boicottaggio che esulano da quelli dettati dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, dal Consiglio Ue o dalla stessa repubblica Federale Tedesca. Beck vuole spingere il ministro dell’Economia quantomeno a rafforzare la norma affinché non possa essere più aggirabile. Lo stesso avviso ha espresso alla Swr anche Arnold Wallraff, presidente fino al 2017 dell’Ufficio federale per l’economia ed i controlli di esportazione. Su accordi di diritto privato, così come violazioni al diritto sugli scambi con l’estero, non spetta però al ministero pronunciarsi direttamente ma alla magistratura. Nonostante la normalizzazione di relazioni diplomatiche con Israele, negli Stati arabi clausole di boicottaggio rimangano uno standard e finora gli organi giudiziari tedeschi non sono mai intervenuti. Di fronte all’assenza di precedenti è del tutto improbabile che Siemens venga perseguita, nonostante ne appaia evidente come rileva Beck, la condotta eccepibile.
(il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2023)
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A Tel Aviv gli Accordi di Abramo entrano nel cyberspazio
di Fabiana Magrì
Fiducia, collaborazione e coraggio di lavorare in modo diverso. Con il primo incontro pubblico tra i leader informatici di Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Stati Uniti, gli Accordi di Abramo entrano nel cyberspazio.
Sul palco principale del CyberTech Global TLV 2023 c’era Gabi Portnoy, direttore generale dell'Israel National Cyber Directorate (INCD), a fare gli onori di casa. I suoi ospiti - Mohamed al Kuwaiti, responsabile della sicurezza informatica degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Salman bin Mohammed bin Abdullah al Khalifa, CEO del National Cyber Security Center del Bahrain, El Mostafa Rabii, Direttore Generale DGSSI del Marocco e Robert Silvers, sottosegretario alle Politiche del Dipartimento per la sicurezza interna USA - hanno voluto testimoniare di essere una squadra.
"Le minacce informatiche non hanno confini - hanno detto - e dobbiamo lavorare insieme su casi concreti e promuovere la fiducia tra di noi".
Tra le soluzioni innovative annunciate a CyberTech, un "cyber dome" contro gli attacchi informatici è la soluzione presentata da Gaby Portnoy.
“Nell'ultimo anno - ha spiegato il direttore dell’INCD dal palco della rassegna internazionale - abbiamo sventato circa mille attacchi informatici di una portata tale che avrebbero potuto causare danni diffusi e sostanziali all'economia israeliana”.
Proprio come nel mondo dell'antiterrorismo e del controspionaggio, il grande pubblico di solito non ha consapevolezza degli attacchi intercettati e degli aggressori respinti. “Il nostro lavoro viene svolto dietro le quinte del cyberspazio. Anche in questo ambiente - ha continuato il direttore dell’INCD - l'Iran soprattutto conduce una campagna aggressiva e orchestrata contro Israele. Ma la nostra difesa è forte”.
(Shalom, 3 febbraio 2023)
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Sudan, verso la normalizzazione dei rapporti con Israele
di Suliman Ahmed Hamid
Israele e Sudan hanno concordato che avranno normali relazioni diplomatiche. Il risultato – con la benedizione degli Usa – è stato raggiunto con una visita lampo del ministro degli Esteri Eli Cohen a Khartum, dove ha incontrato il capo del Consiglio provvisorio del Paese, generale Abdel-Fattah Al-Burhan.
L’intesa – la cui firma a Washington avverrà “più avanti nell’anno” e soprattutto una volta che il potere passerà dal governo provvisorio del Sudan ad uno civile definitivo – aggiunge il africano alle nazioni degli Accordi di Abramo (Emirati, Bahrein e Marocco) e a quelle che sono in pace con Israele, Giordania ed Egitto. “Sono state gettate le fondamenta per uno storico accordo di pace con un paese strategico arabo e musulmano”, ha sottolineato Cohen, osservando che questo “promuoverà la stabilità regionale e contribuirà alla sicurezza nazionale di Israele”. L’accordo di oggi è arrivato al termine di un’intensificazione dei contatti tra i due Paesi nelle ultime settimane per portare a compimento un’intenzione già espressa da Khartum nell’ottobre del 2020 ma poi rimasta incompiuta.
Alla fine di quell’anno il Sudan firmò infatti una parte degli Accordi di Abramo alla presenza del segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin ma non il documento corrispondente con Israele. Ora invece è stato finalizzato il testo definitivo. Israele, ha spiegato Cohen, assisterà gli sforzi di sviluppo del Sudan “in una serie di diversi campi civili”, inclusi la sicurezza alimentare, il trattamento delle risorse idriche, la medicina e l’agricoltura. Il ministro ha poi osservato che l’intesa con Khartum “è un’opportunità per stabilire relazioni con altri Paesi in AFRICA così come per il rafforzamento degli attuali legami con nazioni africane”. “Un interesse comune”, ha aggiunto Cohen, dopo aver ringraziato gli Usa per la loro assistenza: secondo i media, uno dei prossimi Paesi a seguire le orme del Sudan potrebbe essere la Mauritania.
Va segnalato che in questa politica per “estendere il circolo della pace”, come l’ha definita il premier Benyamin Netanyahu, proprio oggi il Ciad ha inaugurato la sua ambasciata a Tel Aviv. L’annuncio dell’intesa con il Sudan – in passato acerrimo nemico di Israele e finanziatore di Hamas, come ricordato da Cohen – è stato salutato con soddisfazione dagli Stati Uniti: “Supportiamo le azioni di Israele finalizzate ad un maggiore integrazione nella regione”, ha detto la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre.
(Focus on Africa, 3 febbraio 2023)
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Il Presidente di Israele ha letto un discorso scritto in parte da ChatGPT
di Alessio Marino
Qualche giorno fa abbiamo parlato di come ChatGPT sia entrata nel Congresso degli USA, facendo di fatto il suo debutto nel mondo della politica. La notizia che arriva dal Jerusalem Post va ben oltre. Il presidente di Israele Isaac Herzog, infatti, è diventato il primo leader mondiale ad utilizzare pubblicamente l’intelligenza artificiale di OpenAI, dopo che mercoledì scorso ha pronunciato un discorso in parte scritto dal chatbot. Herzog ha inviato un videomessaggio al Cybertech Gloal di Tel Aviv, una conferenza dedicata alla sicurezza informatica, che è stato letto di fronte ad un pubblico di 20mila persone. Il presidente ha rivelato successivamente che la parte iniziale del discorso è stata scritta da ChatGPT, salvo poi concludere che l’intelligenza artificiale non sostituirà gli esseri umani. "Sono davvero orgoglioso di essere il presidente di un paese che ospita un'industria hi-tech così vivace e innovativa” è la parte scritta da ChatGPT, poi seguita da un discorso del presidente che ha parlato del comparto tech della nazione. Herzog si è anche affidato al chatbot per la parte conclusiva: “non dimentichiamo che la nostra umanità è ciò che ci rende veramente speciali. Non sono le macchine che daranno forma al nostro destino, ma piuttosto i nostri cuori, le nostre menti e la nostra determinazione a creare un domani più luminoso per tutta l’umanità”. L’ufficio presidenziale, parlando con Sky News ha affermato che l’ultima parte del discorso è stata generata partendo dal prompt “scrivi una citazione ispiratrice sul ruolo dell’umanità in un mondo di tecnologia sovrumana”.
(EliveBrescia, 3 febbraio 2023)
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Il Capodanno degli alberi: Tu BiShvat
di Sofia Tranchina
Anche gli alberi hanno un capodanno? Con il giungere al termine della stagione delle piogge, quando il suolo è ben umido e i primi frutti iniziano ad apparire sugli alberi, gli ebrei festeggiano il capodanno degli alberi: Tu Bishvat (ט״ו־בִּשְׁבָט). In Israele infatti le precipitazioni atmosferiche iniziano intorno al periodo di Sukkot, e per quattro mesi riportano acqua a un terreno altrimenti tendenzialmente arido. Il 15 del mese di Shevat, invece, quando le piogge cessano, gli alberi si risvegliano dal riposo invernale e ricominciano a fruttificare. Il nome della festività era originariamente Chamishah Asar Bishvat, ovvero Quindicesimo di Sehvat, ma il numero 15 è indicato anche dalla somma di ט ovvero 9, e di ו ovvero 6, ottenendo così la coppia ט״ו (Tu). Quest’anno la festività cade di domenica 5 febbraio (e termina la sera del 6). Biblicamente, il ciclo del raccolto ha un ruolo molto importante nel calendario ebraico e nella legge halachica, sia per quanto riguarda il calcolo della decima del raccolto annuale, sia per quanto riguarda il calcolo del settimo anno in cui lasciare riposare la terra (shemità). Da qui nasce la necessità di stabilire una data da cui calcolare l’inizio dell’anno agricolo. Il seder prevede la consumazione dei sette frutti per i quali Israele è elogiato nella Torah, ovvero grano (sotto forma di biscotti e dolcetti di farina), orzo, uva, fichi, melograno, olive, e datteri, accompagnando tutto con vino bianco e rosso.
Alcuni seguono la tradizione di aggiungere ai frutti sopracitati anche cedro, carrube, mele, noci, e mandorle, cercando di arrivare a quindici o anche trenta specie diverse di frutta. L’usanza di mangiare carruba è legata al fatto che questa pianta ci mette 70 anni a maturare, insegnando che pazienza e fiducia nel futuro possono portare frutti alle generazioni a venire. I sette frutti di Israele hanno anche una correlazione con le sefirot, gli attributi divini: il grano con chesed (gentilezza), l’orzo con gevurah (severità), l’uva con tiferet (armonia), i fichi con netzach (perseveranza), il melograno con hod (l’umiltà), le olive con yesod (fondamento), e infine i datteri con malchut (regalità). Inoltre, molti usano anche piantare alberi nuovi durante la festività, per dare corpo alle proprie speranze, ma anche per riflettere sul versetto 20:19 del Deuteronomio, per cui «l’uomo è un albero del campo»: coltivando radici forti produce buoni frutti. Le pratiche odierne per la celebrazione di Tu BiShvat sono state stabilite nel 1.600 da Rabbi Yitzach Luria e i suoi discepoli, ma la prima menzione della festività si può trovare già nella Mishnah (circa 200 e.v.), che indica che ci sono quattro diversi capodanni nel calendario ebraico: pesach, il capodanno della libertà per il popolo ebraico; shavuot, la Festa delle primizie e del dono della Torah e dei dieci comandamenti; Tu b’Shvat, il capodanno degli alberi, e Rosh haShanah, il ‘capodanno dei re’. Trattandosi di una festività minore, non è proibito lavorare durante i festeggiamenti.
(Bet Magazine Mosaico, 3 febbraio 2023)
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Gli Usa restituiscono un cucchiaio di 3000 anni fa alla Palestina, insorge Israele: "Controlliamo noi l'archeologia anche in Cisgiordania"
La disputa sul reperto confiscato a un miliardario americano e consegnato all'Anp accende un altro capitolo dello scontro per l'estensione della giurisdizione sui Territori occupati perseguita dal governo Netanyahu.
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME – Un utensile assiro risalente a quasi tremila anni fa è diventato protagonista dell’ennesimo capitolo del conflitto israelo-palestinese, con il ministro israeliano del Patrimonio Culturale Amihai Eliyahu che ha annunciato di aver aperto un’inchiesta sulla decisione del procuratore distrettuale di New York di restituire il reperto – confiscato a un collezionista – all’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Tutto comincia nel 2021, quando le autorità americane sequestrano circa 180 reperti archeologici di provenienza illecita al miliardario Michael Steinhardt. Come previsto dalla legge, diversi oggetti vengono restituiti ai paesi di origine tra cui Italia, Bulgaria, Grecia, Turchia, Giordania, Libia e la stessa Israele. All’inizio di gennaio, il procuratore distrettuale di New York Alvin Bragg annuncia che il reperto assiro verrà consegnato all’Anp. Secondo il comunicato stampa, l’utensile che veniva utilizzato per l’incenso durante cerimonie funebri o religiose proviene da El Kom, noto anche come Al Kum, un villaggio palestinese circa 13 chilometri a sud di Hebron. Vicino al villaggio si trova un sito archeologico noto come Khirbet el-Qom, databile nello stesso periodo, in cui in passato tra l’altro sono state ritrovate due iscrizioni ebraiche che menzionano il Dio di Israele. Secondo i documenti del tribunale, visionati dall’Associated Press, Steinhardt aveva acquistato l’utensile in avorio nel 2003 dal commerciante di antichità israeliano Gil Chaya per seimila dollari. Il reperto non aveva alcuna certificato di provenienza ma lo stesso Chaya ne ha comunicato l’origine alle autorità americane. Il rimpatrio del reperto era stato descritto come la prima restituzione di un oggetto culturale al popolo palestinese da parte degli Stati Uniti. “È nostro diritto riavere qualsiasi manufatto che provenga illegalmente dalla Palestina”, ha detto all’Associated Press Jihad Yassin, direttore generale degli scavi e dei musei del Ministero palestinese del Turismo e delle Antichità. “Ogni reperto racconta una storia della storia di questa terra”. Secondo gli Accordi di Oslo stipulati nel 1993, l’archeologia in Cisgiordania è materia su cui Israele e Anp dovrebbero coordinarsi. In pratica però questo non accade. Il Cogat, unità dell’esercito israeliano responsabile delle questioni civili in Cisgiordania, ha al suo interno un dipartimento dedicato all’archeologia, che si occupa dei siti in Area C (sotto completo controllo israeliano). Gerusalemme accusa spesso l’Anp di non fare abbastanza per proteggere le aree sotto il suo controllo da tombaroli e incuria, se non addirittura di favorirne il danneggiamento quando si tratta di aree legate alla storia ebraica nella regione. Accuse respinte dall’Anp. "Cerchiamo di fare del nostro meglio per proteggere i siti archeologici, ma incontriamo difficoltà", ha detto Yassin, che ha sottolineato come circa il 60% dei siti archeologici della Cisgiordania si trovi sotto il completo controllo militare israeliano e che gli addetti alla prevenzione dei furti del suo ministero riescono a prevenire un’alta percentuale di saccheggi nelle zone sotto controllo palestinese. Negli scorsi giorni Elyahu, un esponente del partito religioso di estrema destra Otzma Yehudit (“Potere ebraico”), ha dichiarato l’intenzione di estendere l’operato dell’Autorità per le Antichità israeliana anche alla Cisgiordania. “Il patrimonio culturale israeliano verrà protetto da entrambi i lati della Linea Verde,” ha scritto su Facebook, annunciando l’approvazione di un piano del governo a questo scopo e facendo riferimento alla linea di confine determinata con l’armistizio al termine della Guerra d’indipendenza nel 1949 che fu poi superata quando nel 1967 Israele conquistò la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla Giordania. Secondo i critici, applicare la giurisdizione della legge israeliana in materia di antichità alla Cisgiordania equivarrebbe a un’annessione di fatto – un obiettivo che almeno in teoria è parte del programma di governo, sebbene già in passato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si fosse impegnato in questo senso e fosse poi tornato sui suoi passi. Intanto, per quanto riguarda l’utensile assiro, non è chiaro se la valutazione del ministero israeliano possa avere alcun impatto pratico sulla proprietà dell’oggetto che ormai si trova a Betlemme per essere studiato dagli archeologhi palestinesi, ma potrebbe creare problemi per simili restituzioni in futuro.
(la Repubblica, 3 febbraio 2023)
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Il ministro degli Esteri israeliano: “Vicini ad un accordo di normalizzazione delle relazioni col Sudan”
Israele è “vicino alla firma di un accordo di piena normalizzazione delle relazioni con il Sudan”. Lo ha annunciato il ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, intervenendo oggi durante una conferenza stampa all’aeroporto Ben Gurion poco dopo il suo rientro in Israele dalla capitale del Sudan, Khartum, dove il responsabile della diplomazia israeliana ha incontrato il generale Abdel Fattah al Burhan, presidente del Consiglio sovrano di transizione del Sudan. Nella conferenza stampa, Cohen ha affermato che le due parti “hanno finalizzato il testo dell’accordo”. Il ministro ha osservato che per la cerimonia della firma si dovrà attendere il completamento della transizione del Sudan verso un governo civile. Secondo quanto riferisce il quotidiano “The Times of Israel”, citando fonti del ministero degli Esteri, la firma potrebbe avvenire a Washington – dove vennero firmati gli Accordi di Abramo nel settembre 2020 – entro pochi mesi, ma le tempistiche non sono ancora chiare proprio perché legate al percorso di transizione in Sudan. Il Paese africano è stato colpito da disordini sempre più profondi da quando il capo dell’esercito Al Burhan ha guidato un colpo di stato nell’ottobre 2021, facendo deragliare una transizione al governo civile dopo la deposizione nel 2019 del presidente Omar al Bashir al potere dal 1989. “La visita odierna in Sudan pone le basi per uno storico accordo di pace con un Paese arabo e musulmano strategico”, ha dichiarato Cohen. “L’accordo di pace tra Israele e Sudan promuoverà la stabilità regionale e contribuirà alla sicurezza nazionale dello Stato di Israele”, ha aggiunto il ministro degli Esteri israeliano.
Il viaggio di Cohen in Sudan giunge dopo la visita in Israele del Segretario di Stato Usa, Antony Blinken. Durante la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno mediato gli Accordi di Abramo firmati nel settembre del 2020 a Washington da Israele, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti a cui si è aggiunto in seguito il Marocco. Il Sudan ha annunciato nell’ottobre 2020 di essere interessato ad aderire agli Accordi di Abramo e, tre mesi dopo, ha firmato la sezione dichiarativa dell’accordo alla presenza dell’allora segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin. Tuttavia, Khartum non ha firmato il documento corrispondente con Israele, a differenza degli Stati Uniti, degli Emirati, del Bahrein e del Marocco. Dopo il colpo di stato militare in Sudan nell’ottobre 2021, i funzionari israeliani hanno chiarito che le possibilità di relazioni diplomatiche aperte tra i Paesi erano diminuite. Tuttavia, grazie ai buoni rapporti tra la leadership politico-militare di Israele e alti membri della giunta militare in Sudan, dopo il colpo di stato ci sono state diverse segnalazioni di visite di delegazioni israeliane in Sudan – su richiesta degli Stati Uniti – in uno sforzo per risolvere la crisi politica. L’inclusione del Sudan negli Accordi di Abramo ha un forte impatto simbolico dato lo storico ruolo di Khartum nel boicottaggio dello Stato di Israele e di sostenitore dei movimenti islamisti durante il lungo regime di Omar Hassan Ahmad al Bashir (1989-2019). La Lega Araba si riunì lì dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967 e stabilì quelli che divennero noti come i tre “no” di Khartoum: “no” ai negoziati con Israele, “no” al riconoscimento di Israele e “no” alla pace con Israele.
(Agenzia Nova, 3 febbraio 2023)
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C’è il Mossad dietro alle rinnovate relazioni Israele-Ciad
Déby, in visita a Gerusalemme, ha annunciato l’apertura di un’ambasciata. È un passo avanti merito del lavoro dell’agenzia, che ha evitato che i rapporti saltassero dopo la morte dell’ex leader. L’obiettivo è che altri Paesi arabi e musulmani della regione si impegnino nella normalizzazione. Ma il servizio ha anche un obiettivo interno.
di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi
In visita a Gerusalemme, Mahamat Idriss Déby, presidente ad interim del Ciad, ha aperto un’ambasciata in Israele. Si tratta di un importante passo verso la normalizzazione delle relazioni. I due Paesi hanno ristabilito rapporti diplomatici nel gennaio 2019, 47 anni dopo che il Ciad, nazione a maggioranza musulmana, aveva tagliato i ponti con Israele. Merito dell’ex presidente Idriss Déby Itno, padre dell’attuale leader che ha governato il Paese per 30 anni. Qualcosa è cambiato con la sua morte, avvenuta nel 2021 a causa delle gravi ferite riportate in uno scontro a fuoco con un gruppo di ribelli. “Quando Déby è diventato il nuovo leader del Ciad, ha visto le relazioni con Israele più come un peso che come un vantaggio e abbiamo lavorato lentamente per convincerlo a riscaldare le relazioni”, ha detto un funzionario israeliano ad Axios.com. Lo stesso giornale ha sottolineato come la visita in Israele dell’attuale presidente sia stata organizzata dal Mossad, che ha gestito le relazioni bilaterali per evitare che collassassero e che da anni ormai sta lavorando sull’Africa. A maggio dell’anno scorso Ben Bourgel, ambasciatore israeliano in Senegal, Gambia, Capo Verde, Guinea e Guinea-Bissau, ha presentato le sue credenziali a Déby: è stato il primo diplomatico israeliano a farlo in mezzo secolo. Dopo il giuramento del nuovo governo israeliano, David Barnea, direttore del Mossad, ha invitato Déby a visitare Israele e a incontrare il primo ministro Benjamin Netanyahu. È stato proprio Barnea ad accogliere all’aeroporto Déby, impegnato in una visita tenuta segreta fino all’atterraggio a causa del timore che Paesi come l’Algeria facessero pressione sul leader del Ciad per evitare la sua partenza. I funzionari israeliani sperano che il rinnovato slancio con il Ciad rappresenti un messaggio ad altre nazioni arabe e musulmane della regione, come Niger e Sudan, affinché rinnovino gli sforzi per stabilire relazioni formali con Israele, ha raccontato Axios.com. Poche ore dopo la visita di Déby i media israeliani hanno riportato le dichiarazioni di un funzionario secondo cui, a più di due anni dalla dichiarazione di normalizzazione dei rapporti con Israele, il Sudan sarebbe finalmente pronto ad aderire ufficialmente agli Accordi di Abramo, promossi dagli Stati Uniti. La visita di Déby ha però anche risvolti interni a Israele. Basti pensare che il Mossad ha diffuso per l’occasione un’insolita dichiarazione sottolineando l’accoglienza all’aeroporto e gli incontri con la delegazione ciadista nel quartier generale dell’agenzia. “Il Mossad ha svolto un ruolo centrale nel raggiungimento dell’accordo di normalizzazione”, si legge. “Insieme ad altri elementi della diplomazia e della sicurezza israeliana, il Mossad ha guidato la nascita di relazioni segrete con alti funzionari del Ciad, che hanno portato a visite reciproche di delegazioni di alto livello”. Potrebbe essere un modo per ricordare alla politica la centralità dell’agenzia in una fase in un ex Shin Bet, Ronen Levy, è stato scelto come direttore generale del ministero degli Esteri, e l’attuale direttore dello Shin Bet, Ronen Bar, ha recentemente accompagnato Netanyahu in Giordania. L’interesse degli apparati di sicurezza per l’Africa è probabilmente frutto di un doppio interesse. Da un lato, le intelligence (su tutte il Mossad) muovono le proprie attività per definire un’agenda che travalica i termini — temporali e operativi — dei governi, dimostrando la centralità degli apparati nel sistema di amministrazione del Paese. Dall’altro (abbinato e conseguente) c’è la necessità anche per Israele di essere più presente in Africa — continente dove si muove parte dell’attuale e futura competizione tra medie e grandi potenze. Gerusalemme guarda al Ciad con un interesse di carattere innanzitutto securitario. Ex primo partner francese nelle campagne anti-terrorismo nel Sahel, N’Djamena è un attore centrale nelle battaglia contro i gruppi armati che caratterizza l’attuale stagione nella regione. Il Sahel è uno dei centri di propagazione del terrorismo jihadista, e Israele sa che spurie di essa potrebbero raggiungere anche il proprio territorio — tanto più in un momento in cui la resistenza palestinese è tornata molto calda. Già nel 2019, quando era alla guida di un governo precedente, Netanyahu aveva detto che i recenti attacchi dell’insurrezione islamica in vari territori dell’Africa dimostrano la necessità di cooperare sulla sicurezza. “La partita è tutt’altro che persa se ci uniamo”, diceva. “Siamo felici di sapere che un Paese a maggioranza musulmana è legato da vincoli diplomatici a Israele”. Il primo ministro in più di un’occasione ha ricordato come le rinnovate relazioni con il Ciad siano un esempio di quanto Israele possa fare breccia diplomatica in Africa e in Medio Oriente nonostante la questione palestinese. Non ultimo, dietro a questo interessamento israeliano (e del Mossad) al Ciad e alla regione centro-settentrionale sta in quanto uscito dall’incontro di Déby con il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, il quale ha sottolineato l’importanza ciadiana nel “ridurre l’influenza dell’Iran e di Hezbollah nella regione del Sahel, come chiave per garantire la stabilità e contrastare l’esportazione del terrorismo”. L’esistenza o il livello di influenza iraniana nel Sahel non è ancora chiaro, ma se Gerusalemme ne parla significa che qualche genere di attività è in corso. Questioni non nuove. Per esempio: il Marocco – attualmente parte degli Accordi di Abramo – ha tagliato i legami con l’Iran nel 2018, accusandolo di lavorare attraverso Hezbollah per addestrare e armare il gruppo del Fronte Polisario, che conduce una lotta armata per l’indipendenza del territorio conteso del Sahara occidentale. Rabat ha anche messo in guardia dalle incursioni iraniane nel Sahel, utilizzando l’Algeria come porta d’accesso. L’Algeria e il Polisario hanno negato questa eventualità.
(Formiche.net, 3 febbraio 2023)
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Israele, nasce un Istituto di Ricerca per lo stoccaggio energetico
di Jacqueline Sermoneta
Raggiungere un’economia a emissioni zero entro il 2050. Questo è l’obiettivo del ministero dell’Energia israeliano, che ha scelto la Bar-Ilan University e il Technion – Israel Institute of Technology per creare un istituto di ricerca nazionale, impegnato nel campo dell’approvvigionamento energetico green. A questo scopo saranno stanziati 130 milioni di shekel (35 milioni di euro) per un periodo di cinque anni.
«Il settore dello stoccaggio dell’energia su larga scala – ha affermato in un comunicato il capo scienziato del ministero dell’Energia, Gideon Friedman – è una delle sfide più importanti per una crescente integrazione delle energie rinnovabili. Il nuovo centro consentirà a Israele di diventare leader nel settore grazie agli sforzi del ministero in questo campo. Per la prima volta verrà creato un istituto diretto da membri del mondo accademico, dell’industria e del governo».
Il comitato direttivo congiunto sarà guidato da Gideon Friedman. Doron Aurbach, direttore scientifico del Centro per l’Energia e la Sostenibilità della Bar-Ilan University, e Yoed Tsur, direttore del Grand Technion Energy Program (GTEP), saranno a capo dell’istituto nazionale.
Lo scopo è incoraggiare il settore energetico a lavorare in risposta al problema globale relativo al cambiamento climatico e lo stoccaggio dell’energia è una parte essenziale nella transizione verso l’energia pulita. Si punterà, quindi, a formare esperti del campo e a fornire tecnologie innovative al settore industriale. Poiché gli impianti eolici e fotovoltaici non hanno una produzione costante d’energia, è necessario sviluppare nuovi sistemi: si mirerà a produrre batterie meno costose e più disponibili, a migliorare le prestazioni delle celle a combustibile e a produrre idrogeno in modo efficiente, immagazzinandolo adeguatamente.
«Affrontare la crisi climatica – ha detto Uri Sivan, il presidente del Technion – è una delle principali sfide del XXI secolo. Richiede collaborazioni che superano i confini disciplinari e istituzionali». «La crisi climatica – ha aggiunto – è, in larga misura, una crisi energetica. Necessita di un’ampia cooperazione accademica e accordi con l’industria e gli enti governativi. All’interno dell’istituto saranno create infrastrutture di ricerca innovative utili a tutti i ricercatori in Israele».
(Shalom, 3 febbraio 2023)
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In Israele l'Intelligenza artificiale fa “rivivere” le vittime della Shoah
Un programma ha tradotto in immagini i ricordi dei superstiti e suscitato polemiche
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME - L'intelligenza artificiale può rappresentare il mezzo con cui tramandare il ricordo della Shoah, mentre i testimoni continuano a scomparire? In Israele l'associazione Chasdei Naomi, che si occupa di assistere i sopravvissuti allo sterminio, scommette di sì. E ha organizzato quella che descrive come la prima iniziativa al mondo che combina memoria e Intelligenza artificiale. Diciannove reduci hanno raccontato la propria storia a un software sviluppato per trasformare il racconto e le parole in immagini. I testimoni hanno così visto le scene più drammatiche della propria esistenza prendere vita sullo schermo. Come per esempio il volto della sorellina di Raisa Gurevich, una sopravvissuta residente nella città di Beit Shemesh, che ha visto la bambina uccisa dai nazisti rivivere sul computer. Le immagini create dal software sono poi state trasformate in quadri esposti al Palazzo della Cultura di Ashkelon. All'inaugurazione, Raisa ha portato il cappottino ancora macchiato di sangue conservato per tanti decenni, in un tragico incontro tra realtà e mondo virtuale. "In questa epoca in cui dobbiamo combattere la negazione dell'Olocausto, progetti come questo, realizzati con il supporto delle moderne tecnologie, aiutano a far sì che la luce trionfi sull'oscurità", ha dichiarato il sindaco di Ashkelon Tomer Glam. Ma la mostra ha suscitato anche delle rimostranze. "I creatori affermano che la mostra rappresenta gli ebrei durante la Shoah, ma le persone nelle foto non sembrano ebrei di quel periodo", ha scritto per esempio la critica delle pagine culturali di Haaretz Naama Riba, notando come i bambini delle immagini appaiano ben nutriti e vestiti elegantemente, in contraddizione con le terribili condizioni dell'epoca. Oltre alla mancanza di realismo però, Riba attacca anche la tecnologia di per sé. "L'intelligenza artificiale non è in grado di esprimere empatia. Manca sentimento. Quindi l'animazione delle scene della Shoah realizzata attraverso l'intelligenza artificiale crea una storia alternativa, ignorando le testimonianze reali". La questione rimane aperta. Anche nello Stato ebraico, infatti, i sopravvissuti stanno scomparendo rapidamente. Nel 2022 ne sono mancati oltre 15mila, riducendone il numero a poco più di 150mila. Mentre si avvicina il momento in cui filmati e nuove tecnologie rimarranno l'unico mezzo per ascoltare la storia di chi è scampato allo sterminio.
(la Repubblica, 3 febbraio 2023)
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Nel 2022 l’antisemitismo cala a livello globale, ma resta allarmante. E aumenta in Italia
di Francesco Paolo La Bionda
Gli episodi di antisemitismo a livello mondiale sono calati nel 2022 per la prima volta da un decennio, secondo il report annuale dedicato redatto della World Zionist Organization. La diffusione del fenomeno resta però preoccupante: ogni giorno vengono segnalati dieci episodi di odio contro gli ebrei a livello globale, e la maggior parte di quelli che accadono non sono denunciati dalle vittime. Il report, pubblicato prima del Giorno della Memoria, è stato redatto dal Dipartimento per la lotta all’antisemitismo della WZO, attingendo come fonti a studi nazionali e internazionali, enti di ricerca, forze dell’ordine, comunità ebraiche e altre organizzazioni.
• Aumenta la propaganda antisemita, in particolare nell’area russofona La maggior parte degli incidenti registrati ha riguardato episodi di propaganda antisemita (39%, in aumento del 15% rispetto al 2021), seguiti da atti di vandalismo (28%), violenza fisica (14%), violenza verbale (11%) e delegittimazione (7%). L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha giocato un ruolo significativo nella proliferazione della propaganda antisemita e delle teorie cospirazioniste contro gli ebrei, che hanno determinato un aumento del numero di episodi di antisemitismo nei paesi russofoni o con stretti rapporti diplomatici con la Russia.
• Cresce la copertura mediatica degli episodi di antisemitismo Il documento ha evidenziato un netto aumento della copertura mediatica degli episodi di odio contro gli ebrei rispetto agli anni passati, con un picco soprattutto sui social media, un dato che preoccupa particolarmente l’organizzazione. “L’antisemitismo sui social media sta aumentando ad un ritmo allarmante e purtroppo, come la storia ci ha insegnato, si tradurrà in minacce fisiche”, ha commentato Ya’akov Hagoel, Chairman della WZO.
• L’Europa resta il continente più colpito, ma nel Regno Unito si registra un calo marcato Nel 2022, gli episodi di antisemitismo registrati in Europa hanno ammontato al 46% del totale complessivo, mentre gli Stati Uniti hanno riguardato il 39% dei casi. Se l’antisemitismo nei paesi europei resta quindi persistente, si è registrata invece una netta diminuzione della percentuale di incidenti nel Regno Unito, il 43% in meno nella prima metà dell’anno rispetto allo stesso periodo del precedente. Un trend attribuibile, in parte, alla recente elezione del nuovo Primo Ministro britannico Rishi Sunak, esplicito sostenitore di Israele.
• In Italia crescono gli episodi. Ma gli studenti sono sensibilizzati Per quanto riguarda l’Italia, il report rileva un aumento degli incidenti di odio verso gli ebrei, compresi episodi violenti, e la presenza di contenuti antisemiti nei curricula scolastici. Tuttavia, la consapevolezza dell’esistenza e della gravità del fenomeno appare diffusa tra gli studenti: il 64% ritiene che sia presente nel nostro Paese, e il 90% considera molto importante continuare a commemorare la Shoah e ad aumentare la consapevolezza riguardo all’antisemitismo.
(Bet Magazine Mosaico, 3 febbraio 2023)
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Neonato abbandonato all'aeroporto dai genitori
Ryanair: «Si sono rifiutati di pagare il biglietto. Chiamata la polizia»
La coppia belga ha lasciato il bambino al check-in nel passeggino e si è precipitata al controllo passaporti. Il desk manager di Ryanair ha dichiarato: "Tutti i lavoratori erano sotto shock. Non abbiamo mai visto niente del genere".
Due genitori si sono rifiutati di acquistare un biglietto aereo separato per il neonato e lo hanno lasciato al check-in dell'aeroporto di Tel Aviv. Il personale del volo Ryanair ha chiesto alla coppia di pagare il biglietto per il bambino, ma i due si sono rifiutati. Ne è nata una rissa all'aeroporto Ben-Gurion di Tel Aviv. Il volo era diretto a Bruxelles, in Belgio.
• Neonato lasciato al check-in dell'aeroporto, il video Secondo quanto riportato dal notiziario israeliano Mako, la coppia belga ha lasciato il bambino al check-in nel passeggino e si è precipitata al controllo passaporti. Il personale dell'aeroporto ha notato il bambino abbandonato e ha chiamato la polizia, che ha trovato i genitori e li ha portati dentro per interrogarli. Il filmato ottenuto da Mako mostra gli addetti al check-in scioccati che spostano una coperta dal seggiolino per vedere il bambino all'interno.
• La risposta di Ryanair Il desk manager di Ryanair ha dichiarato: "Tutti i lavoratori erano sotto shock. Non abbiamo mai visto niente del genere. Non potevamo credere a quello che stavamo vedendo". I funzionari dell'aviazione statale hanno detto a Mako che la coppia sembrava ansiosa di superare i controlli di sicurezza, con o senza il loro bambino. "La coppia è arrivata in ritardo per il volo dopo che i banchi del check-in del volo erano stati chiusi", ha detto l'autorità aeroportuale israeliana. "La coppia ha lasciato il cestino con il bambino e voleva imbarcarsi verso il terminal dei controlli di sicurezza per raggiungere il gate di partenza", ha detto l'autorità. L'autorità ha affermato che un capoturno di QAS, che gestisce i servizi a Ben-Gurion, "ha riportato la coppia ai banchi di volo per prendere il bambino e ha chiamato la polizia e una guardia di sicurezza". "La coppia ha ripreso il bambino", ha aggiunto l'autorità. Ryanair ha dichiarato a Metro.co.uk: "Questi passeggeri in viaggio da Tel Aviv a Bruxelles (31 gennaio) si sono presentati al check-in senza una prenotazione per il loro neonato. Hanno quindi proceduto ai controlli di sicurezza lasciando il bambino al momento del check-in".
• Quanto costa il biglietto per il neonato Quando pianifichi di viaggiare con un neonato, sul sito viene visualizzato un messaggio pop-up che indica che è previsto un addebito di € 25 ($ 27) - o l'equivalente in valuta locale - per ogni volo di sola andata che il bambino effettua mentre è seduto grembo di un adulto. Un posto deve essere pagato invece separatamente se gli adulti vogliono che il bambino viaggi in un seggiolino per auto.
(Il Messaggero, 2 febbraio 2023)
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Il primo ministro israeliano Netanyahu afferma di non volere uno scontro militare con la Russia
Al momento, Israele non vuole entrare in uno scontro militare con la Federazione Russa. Lo ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Secondo il capo del governo israeliano, che ha dichiarato in un'intervista al canale televisivo americano CNN, ora Israele ha una relazione difficile con la Federazione Russa. Al confine con la Siria, gli aerei israeliani e russi volano molto vicini l'uno all'altro.
Netanyahu ha osservato che Israele ha bisogno della libertà di azione nello spazio aereo al confine siriano. Ma questa libertà di azione, ha detto, potrebbe portare i piloti israeliani a scontrarsi con le loro controparti russe.
Va notato che, a differenza di molti altri alleati degli Stati Uniti, Israele non ha ancora fornito assistenza militare aperta all'Ucraina. Nonostante alcuni esempi della comparsa di equipaggiamento militare israeliano in Ucraina, le autorità del paese dimostrano una riluttanza a intervenire nel conflitto. Tale politica è collegata, tra le altre cose, alle peculiarità delle azioni di Israele in Siria e alle specificità delle relazioni russo-iraniane.
Le autorità israeliane non vogliono sconvolgere l'equilibrio di potere esistente nella regione. L'Ucraina potrebbe essere seguita da una risposta simile da parte russa in Medio Oriente. Ad esempio, la Russia può stringere relazioni più strette con l'Iran, incluso il trasferimento ad esso di alcune tecnologie, cosa che la parte israeliana non vorrebbe molto.
(Top War, 2 febbraio 2023)
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Le autorità israeliane si preparano a una possibile risposta iraniana dopo l'attacco dei droni
Israele si sta preparando per un attacco di rappresaglia da parte dell'Iran per un attacco a una struttura militare della Repubblica islamica.
Nell'ambito delle indagini sull'attacco alle strutture militari iraniane all'interno e all'esterno del paese, si è saputo che dietro l'attacco c'era la parte israeliana. In questo contesto, come si è scoperto, l'Iran può preparare misure adeguate contro Israele, e non solo sul territorio dello stato ebraico, ma anche sul territorio di altri paesi.
Il servizio di intelligence israeliano (Mossad) ha avvertito di possibili attacchi contro i civili, compresi quelli al di fuori del paese da parte dell'Iran. Stiamo parlando di possibili attacchi a turisti e ambasciate, anche nei paesi europei.
“Lunedì, secondo quanto riferito, i servizi di sicurezza si stavano preparando per un attacco di rappresaglia iraniano a seguito di una serie di attacchi contro obiettivi della Repubblica islamica negli ultimi giorni, per i quali Israele è stato accusato. Lunedì, l'emittente pubblica Kan ha riferito che i funzionari della sicurezza avevano tenuto discussioni nell'ultimo giorno nel tentativo di prevedere quando e come l'Iran avrebbe risposto a diversi attacchi ai convogli che avrebbero trasportato armi e munizioni alle milizie sostenute da Teheran in Siria nelle ultime 48 ore»,
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riporta l'edizione israeliana di "I tempi di Israele".
Tuttavia, è molto probabile anche un attacco contro lo stesso Israele, anche dal territorio della vicina Siria, tuttavia, in questo caso, l'Iran rischia di essere coinvolto in una guerra diretta con Israele.
Lo stesso Israele non riconosce l'attacco alle strutture militari in Iran e Siria, tuttavia, ad oggi, ci sono parecchi casi in cui Israele ha riconosciuto apertamente le sue azioni.
(AVIA.PRO, 2 febbraio 2023)
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Situazione e prospettive dell’economia dello Stato d’Israele
di Donato Grosser
Nel trattato talmudico di Berakhot (5a) viene citato rabbi Shim’on ben Yochai che disse: “Il Santo Benedetto fece a Israele tre doni preziosi, tutti dati solo attraverso sofferenze. Essi sono: Torà, Eretz Israel e il mondo a venire”. La rinascita della presenza ebraica nella terra d’Israele avvenne grazie ai sacrifici dei chalutzim e dei capitali dei Rothschild. Fino agli anni Sessanta del secolo passato la struttura economica dello Stato d’Israele era di un’economia mista ma ad elevato controllo statale. Le principali esportazioni del paese erano diamanti e arance. Con l’arrivo al governo nel 1977 del primo ministro Menachem Begin il controllo statale sull’economia iniziò gradualmente a diminuire.
Oggi, lo Stato d’Israele ha un'economia di libero mercato tecnologicamente avanzata. In Israele, le esportazioni rappresentano circa il 40% del PIL. Le principali esportazioni israeliane sono diamanti tagliati e grezzi, perle, metalli e pietre preziose (33% delle esportazioni totali); macchine e apparecchiature elettriche, macchine ed elettrodomestici meccanici, registratori e riproduttori audio e televisivi e apparecchiature informatiche (22%) e prodotti chimici (11%). I principali partner di esportazione sono Stati Uniti (28% delle esportazioni totali) e Hong Kong (8%). Altri includono: Belgio, Regno Unito, India e Cina.
Le principali importazioni sono petrolio greggio, cereali, materie prime e attrezzature militari. Il paese fa registrare considerevoli deficit commerciali, che sono compensati dal turismo e da altre esportazioni di servizi, nonché da significativi afflussi di investimenti esteri. Secondo quando indicato da rapporti preparati da agenzie federali degli Stati Uniti, da marzo 2020, la crescita economica è rallentata rispetto alle recenti medie storiche, ma il declino è stato inferiore a quelli di altri paesi del Medio Oriente grazie al rapido lancio del vaccino anti-Covid e della base economica diversificata.
Tra il 2016 e il 2019, la crescita del PIL è stata in media del 3,6% annuo, trainata dalle esportazioni. Nel futuro si stima vi sarà un rallentamento nella crescita, passando dal 6,3% nel 2022 al 2,8% nel 2023 e al 3,4% nel 2024. Negli ultimi due anni il governo israeliano ha operato con una politica fiscale prudente che è anche servita a riprendersi dai problemi causati dalla pandemia di COVID-19. I giacimenti di gas naturale scoperti al largo delle coste israeliane dal 2009 hanno migliorato le prospettive di sicurezza energetica di Israele. I giacimenti Tamar e Leviathan sono stati alcuni dei più grandi ritrovamenti di gas naturale offshore al mondo nell'ultimo decennio. Nel 2020, Israele ha iniziato a esportare gas in Egitto e Giordania.
La disparità di reddito e gli alti prezzi delle case e delle materie prime continuano a essere una preoccupazione per molti israeliani. La disparità di reddito e i tassi di povertà in Israele sono tra i più alti dei paesi OCSE. Va però notato che questa situazione è in gran parte “volontaria”, cioè il risultato del fatto che circa il 50% dei cosiddetti Charedim di età lavorativa (tra 25 e 65 anni di età) non partecipano al mercato del lavoro. Un recente articolo di Yisrael Weingold apparso sul giornale “Tzarich Iyun”, pubblicato da Charedim stessi, indicava che nel lungo periodo questa situazione non è sostenibile. La crescita demografica ben superiore alla media nazionale di questo settore della popolazione fa sì che, stando così le cose, lo stato non sarà in grado di continuare a offrire i benefici attuali ai cittadini.
All’inizio di gennaio di quest’anno, Amir Yaron, Governatore della Bank of Israel ha avvertito che eventuali deficit del bilancio statale potrebbero aumentare l’inflazione e necessitare l’aumento delle tasse, fattore che ridurrebbe la crescita economica.
Un problema assai serio è quello del caro-casa. Mentre le vendite di nuove abitazioni nel mese di ottobre 2020 hanno fatto registrare un declino del 60% rispetto all’anno precedente, il peggiore calo da 25 anni a questa parte, i prezzi delle case non danno ancora segno di scendere in modo sostanziale.
L'offerta insufficiente di abitazioni rende difficile e in molti casi impossibile l’acquisto di case. A New York arrivano ogni anno centinaia di israeliani che girano da un rione ebraico all’altro per raccogliere fondi per figli che si sposano e non hanno sufficienti mezzi per mettere su casa. Un recente annuncio sul blog ebraico “Vosisneias” pubblicizzava abitazioni per Charedim a Cipro! A mezz’ora di volo da Tel Aviv ma dove i prezzi delle abitazioni e il costo della vita sono notevolmente inferiori.
Il settore “high-tech”, competitivo a livello globale e basato sul “knowledge” impiega l'8% circa della forza lavoro, mentre il resto è impiegato principalmente nella produzione e nei servizi, settori che devono affrontare pressioni salariali al ribasso dalla concorrenza globale.
L’economia dello Stato d’Israele, grazie all’high-tech e alla provvidenziale scoperta di giacimenti di gas naturale, è in condizioni migliori di quelle della maggior parte dei paesi del mondo occidentale. Con tutto ciò è importante ricordare che la necessità di difendere il paese è sempre un notevole aggravio sulle spese statali e questo ed altri fattori richiedono una continua crescita dell’economia.
(Shalom, 2 febbraio 2023)
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Gerusalemme Est: il nonno vittima e il nipote carnefice, nel campo dove è nata la strage in sinagoga
A Shuafat la rabbia dei giovani convive con il disincanto dei più anziani. Il racconto dal quartiere dove viveva Khairy Alqam, il 21enne che venerdì scorso ha ucciso 7 israeliani.
di Daniele Raineri
SHUAFAT (Gerusalemme Est) - Nel refettorio del campo di Shuafat c'è una fila lunga di uomini seduti lungo la parete che ricevono le strette di mano dei visitatori, sei file di sedie di plastica e laggiù in un angolo un videogame spento. Oggi ospita un funerale della famiglia di Khairy Alqam. Khairy è il terrorista ventunenne che sei giorni fa ha parcheggiato davanti a una sinagoga, ha ucciso sette persone a caso a pistolettate, inclusa una donna di sessant'anni e un'altra donna di settanta, poi è risalito in macchina e ha guidato per un chilometro. Dove avrebbe dovuto svoltare a destra al grande incrocio di Beit Hanina per fuggire verso Ramallah c'era un posto di blocco della polizia, ha tentato di fuggire a piedi, ha sparato di nuovo, è stato ucciso sul marciapiede. Anche suo nonno si chiamava Khairy Alqam, quando andava in moschea passava sempre davanti al quartiere di Mea Shearim, un giorno nel 1998 un estremista israeliano lo scelse a caso e lo uccise a coltellate. Al funerale di Khairy arrivarono anche il presidente di Israele, Ezer Weizmann, e il sindaco di Gerusalemme Ehud Olmert, "ho ancora le foto" dice uno zio. "Avevo parlato con Weizman, avevamo scoperto che eravamo stati nemici ed eravamo stati feriti nella stessa battaglia nel 1972". Oggi il funerale è della nonna, che ha visto morire entrambi i Khairy, ma nel refettorio si parla del nipote. Khairy il giovane era come Khairy il vecchio, dicono i maschi della famiglia a Repubblica, al novanta per cento fisicamente e al cento per cento come carattere. "Silenzioso e buono", dicono. Voleva vendicare il nonno? Non c'entra niente il nonno, non era nemmeno nato quando fu ucciso venticinque anni fa, rispondono, c'entra la rabbia che hanno i giovani di Gerusalemme Est. Sono sempre arrabbiati. "Non sappiamo cosa ha visto, magari qualcosa che gli ha dato fastidio. Magari ha visto la stessa cosa altre cento volte, ma quel giorno è riuscito a procurarsi una pistola". Le armi non sono difficili da trovare? Alzata di spalle, se paghi trovi quello che vuoi. I giovani di Gerusalemme Est vivono in un limbo, hanno documenti israeliani, vogliono la violenza ma sono isolati, non possono arruolarsi nei gruppi armati palestinesi dei Territori che per loro non sono accessibili. "Ma Khairy e quelli come lui non si uniscono ai gruppi. Perché da soli fanno molto più male. Dentro a un gruppo finisce che devi obbedire agli ordini, devi aspettare anche per anni, finisci per combattere lontano da casa tua. Le azioni suicide dei giovani infliggono più danni, scelgono loro quando farle e le fanno a casa loro", dicono i maschi della sua famiglia. Shuafat è un quartiere costoso al di qua della barriera di separazione in cemento, ma è anche un campo dall'altra parte della barriera - di pochi metri, ci sono condomini altissimi che la sfiorano. A ottobre un giovane con la testa rasata, Uday al Tamimi, aveva attaccato il checkpoint all'ingresso del campo, pistolettate contro i soldati, e poi era riuscito a svanire nel nulla. I soldati avevano circondato i palazzi, molti si erano rasati apposta i capelli come sberleffo e come espediente per proteggere il fuggitivo, c'erano stati scontri, era durata undici giorni fino a quando lui non era riapparso con la pistola a un altro checkpoint ed era stato ucciso. Una settimana fa i soldati erano rientrati nel campo per abbattere, come da regola, la casa di Tamimi: un ragazzo del posto - Mohammed Alì - aveva agitato da lontano un'arma giocattolo, era stato ucciso. Come gli è venuto in mente di sventolare un'arma giocattolo verso i soldati? Un amico dice a Repubblica che quel giorno lo avevano fatto tutti nel gruppo, sembrava una cosa da ridere, quando gli israeliani se ne sono accorti hanno sparato. "Un proiettile è arrivato da un elicottero qui sotto la spalla e un altro da terra qui nel fianco", l'amico mima i due colpi. Ogni fatto diventa l'anello di una catena, senza fine. Per questo certi funerali sono sospesi. "I soldati mi devono ancora restituire il corpo", spiega suo padre, mentre fuma una sigaretta dopo l'altra seduto su un divano, non vogliono che il funerale diventi un'occasione per altri scontri. L'Autorità palestinese a Shuafat non ha giurisdizione, ma se l'avesse riuscirebbe a contenere la rabbia che c'è qui? "L'Autorità palestinese è un'agenzia di sicurezza a contratto, lavora per la sicurezza degli israeliani e di Abu Mazen", risponde il padre.
(la Repubblica, 2 febbraio 2023)
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I “laboratori” della nuova leadership haredì
Dove si formano i nuovi leader? Quali le yeshivot di punta? Una piccola mappa. Da Rav Kook a Rav Druckman: l’evoluzione del movimento sionista religioso.
di David Zebuloni
Nel giorno dell’accensione dell’ultima candela di Channukà, si è spento all’età di novant’anni Rav Haim Druckman, senza dubbio tra i più influenti rabbini che Israele abbia avuto, sia sul piano politico sia sociale. Secondo alcuni, infatti, con la sua morte si è chiuso un capitolo storico che vede protagonista il movimento sionista religioso, di cui lui era mentore indiscusso. Constatazione fondata, ma pur sempre paradossale se prendiamo in considerazione il successo clamoroso che il partito sionista religioso ha avuto nelle ultime elezioni parlamentari. Successo dovuto anche e soprattutto all’appoggio di Rav Druckman. Presto ne capiremo il motivo, ma prima, avendo proclamato la fine di un capitolo storico, risulta importante capire come questo abbia avuto inizio. Domandando a qualunque allievo di media preparazione in Israele chi ha fondato il movimento sionista religioso, otterremmo la risposta ovvia: Rav Kook. Giusto, ma solo in parte. Il sionismo di natura rabbinica ha avuto inizio prima ancora che Kook diventasse rabbino. Forse, ancor prima che egli nascesse. Per citarne alcuni, Rav Kalisher e Rav Moaliver lo avevano preceduto. Tuttavia, non vi è dubbio sul fatto che Rav Kook fosse (e sia ancora) l’icona indiscussa di questo movimento. Perché? Secondo molti, egli è stato il primo a concretizzare un ideale fino ad allora astratto. Kook è stato il primo ad istituire una yeshivà diversa da quelle già esistenti, la Yeshivat Merkaz Harav, e ad aver incoraggiato e ispirato la fondazione di alcuni movimenti che avessero una natura sociale, oltre che spirituale, come il Bnei Akiva. Dopo aver dato a Cesare quel che è di Cesare, e a Rav Kook ciò che è di Rav Kook, non possiamo ignorare il fatto che sia stato suo figlio, Rav Tzvi Yehuda Kook, a plasmare e ad attualizzare il sionismo religioso, rendendolo il movimento che conosciamo noi oggi. D’altronde, se Rav Kook senior non era un filosofo, era certo più vicino alla filosofia di quanto lo fosse su figlio, che si rivelò invece essere un personaggio, oltre che un rabbino, estremamente pratico. Tzvi Yehuda dedicò infatti la sua vita alla messa in pratica di ciò che gli aveva trasmesso il padre, e Rav Druckman è stato il suo più fedele allievo. I due si prodigarono affinché la yeshivà non restasse un luogo passivo rispetto alla realtà circostante, ma, al contrario, che la modellasse secondo i suoi valori. Facendo un salto temporale e tornando ai giorni nostri, scopriamo che oggi la yeshivà-madre fondata da Rav Kook, la Merkaz Harav, ha generato molte altre yeshivot nello spettro sionista religioso, ma dalle sfumature diverse: la Or Etzion e la Har Etzion, la Har Hamor e la Shavei Khevron. Tutte in linea con il pensiero del loro padre fondatore, ma in modo radicalmente differente. Negli anni, infatti, il movimento sionista religioso ha intrapreso strade diverse, sia religiosamente sia politicamente. Da un lato vi è la corrente che si è avvicinata all’ideale ortodosso, dall’altro quella che ha adottato un approccio più tradizionalista. Da un lato vi è la corrente che ha sposato una visione nazionalista estrema, dall’altro quella che rivendica un orientamento più moderato. In sintesi, non si può più parlare del sionismo religioso in Israele come movimento omogeneo. La yeshivà di riferimento non è più una, e nemmeno il partito politico. Yemina, Habait Hayehudi, Hatzionut Hadatit e Hotzma Yehudit sono tutti partiti che rispondono sia all’appellativo sionista sia a quello religioso. L’unica e ultima figura che fungeva da perno e conciliava tutti, era quella di Rav Druckman. Quando un’istituzione religiosa o politica voleva infatti avere il consenso ideale di Rav Tzvi Yehuda, si rivolgeva all’unica voce rimastagli in terra dopo la sua morte: il suo fidato discepolo, Rav Druckman. La sua parola era legge, per tutti. Per i più estremi e per i più moderati, per i più rigorosi e i meno scrupolosi. Persino il successo del partito composto da Hatzionut Hadatit e Hotzma Yehudit nelle ultime elezioni, considerato da molti più estremo rispetto alla norma del movimento, è stato attribuito alla benedizione ricevuta da Druckman. Dopo aver ricevuto la sua approvazione, infatti, tutti gli elettori sullo spettro sionista religioso si sono sentiti legittimati a votare l’accoppiata Smotrich-Ben Gvir. Così, constatiamo la fine di un’era. Non quella del sionismo religioso, ovviamente (movimento, peraltro, che sembra diventare sempre più popolare), ma la fine di quella corrente intesa come un corpo unico e omogeneo. Non vi è più consensus, non vi è più un padre fondatore e nemmeno una figura a cui rendere conto. Una grossa fetta di popolazione israeliana si ritrova oggi orfana. Nessuno prenderà il posto di Rav Druckman, e ancor meno dei suoi predecessori. D’ora in poi, il movimento sionista religioso dovrà imparare a camminare con le proprie gambe, cercando di non inciampare, trovando nuovi punti di incontro.
(Bet Magazine Mosaico, 2 febbraio 2023)
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Le strade naziste a Salisburgo
Nella città di Mozart e del celebre Festival non sono disposti a cambiare i nomi hitleriani. Nei casi estremi una targa per spiegare la compromissione.
di Roberto Giardina
Le croci uncinate sventolarono al Festival di Salisburgo il 23 luglio del '38, dopo l'Anschluss avvenuta in marzo, l'annessione dell'Austria da parte del III Reich. Dopo la guerra, gli austriaci furono abili nel presentarsi come vittime dei nazisti, del vicino tedesco troppo forte. Ma accolsero Hitler in trionfo. Già prima del '33, della presa di potere, disse Simon Wiesenthal, il cacciatore di criminali nazisti, gli iscritti al partito erano più numerosi in Austria che in Germania, in rapporto alla popolazione. Al Festival di Salisburgo non diresse più Arturo Toscanini, fu lui in marzo a inviare subito un telegramma per annunciare il suo ritiro, e non furono invitati il regista Max Reinhardt e Bruno Walter. Vennero vietate le opere di Hugo von Hofmannstahl, uno dei fondatori del festival, ma non le opere di Strauss con i suoi libretti, che Hitler amava. E furono cacciati tutti cantanti e musicisti ebrei. Il festival si chiuse il 31 agosto. Vennero a mancare gli spettatori stranieri, che non tornarono neanche nel '39, alla vigilia della guerra, ma il Führer fu presente all'apertura del Festival. Da Berlino furono spediti come premio gli iscritti al partito meritevoli, anche se odiavano l'opera. Ancora oggi Salisburgo non riesce a liberarsi dal passato. Ovunque in Germania, e altrove in Austria, sia pure con colpevole ritardo, si cancellano i nomi di strade e piazze dedicate a personaggi nazisti, ma non nella città di Mozart, si indigna Frau Hanna Feingold, 75 anni. Da un trentennio si batte per «cancellare nomi vergognosi». Ma trova una sorda resistenza nelle autorità locali. Il marito Marko, un superstite dei lager, è scomparso nel 2019. Una battaglia che trova debole sostegno da parte dei cittadini. «Che cosa ho ottenuto?», ha denunciato, «Nulla. Questa è Salisburgo». Nel febbraio del 2013, Frau Hanna e i suoi amici ottennero una vittoria apparente e parziale. Il municipio di Salisburgo decise che ogni strada e piazza dedicata a un uomo o una donna dovesse avere una targa esplicativa, a cura di storici e di esperti. Chi erano le persone ricordate e perché. Sono trascorsi gli anni, e solo nel giugno del '21, la commissione incaricata della verifica presentò i risultati: su 1156 strade e piazze, 66 portavano i nomi di persone compromesse con il nazismo, divise in tre categorie. In tredici casi si raccomandava di cambiare nome, perché i personaggi erano gravemente compromessi. Tra di loro, lo scultore Josef Thorak, l'industriale Ferdinand Porsche, e anche Herbert von Karajan, molto amato dagli austriaci, e venerato a Salisburgo.Su von Karajan si è scatenata una lotta accesa, tra accusatori e fan: come cambiare nome alla sua piazza, vicina alla Festspielhaus? Herbert von Karajan, nato a Salisburgo nel 1908 aveva appena 25 anni quando Hitler conquistò il potere, fa parte della storia del Festival, e ha sempre continuato a dirigere ovunque dopo la guerra, ha diretto i Berliner Philarmoniker fino alla morte, il 16 luglio del 1989, e la direzione dell'orchestra berlinese fu affidata a Claudio Abbado. Per salvare la memoria di Karajan, nel dicembre del '21, con una risicata maggioranza, il consiglio comunale ha deciso di non cambiare nessun nome. Sarebbe bastato un pannello esplicativo. Su quello di Karajan, dopo data di nascita e di morte, si legge: direttore del Festival dal 1956 al 1960, entrò nel 1933 nel Nsdap (il partito nazista) e usò il regime nazista per la sua carriera. Per Frau Hanna non basta e ha chiesto che il nome venga cancellato. Lo storico Gert Kerschbaumer, che fa parte della commissione, ha commentato: «La decisione è politica, e la maggioranza ha deciso che non serve cambiare nomi. Bastano le targhe». Il sindaco Harald Preuner, dell'Övp, il partito cristianodemocratico, ha aggiunto: «Con me nessun nome verrà cambiato». Lui era contrario anche ai pannelli: il passato non si cancella, nel bene e nel male. Salisburgo rimane isolata. A Graz, l'anno scorso, hanno cambiato nome a 20 strade e piazze. A Linz, a dicembre, hanno dato un altro nome a quattro strade. Frau Hanna si deve accontentare: nel '21 è stato dedicato un ponte pedonale a suo marito Marko Feingold, che vuole ancora?
(ItaliaOggi, 2 febbraio 2023)
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Obiezione di coscienza in risposta all'obbligo di vaccinazione
Dichiarazione preparata per spiegare il motivo della mia decisione ove fosse necessario
Da oggi, 1 febbraio 2022, scattano le sanzioni per gli ultracinquantenni che come me non avranno ottemperato all'obbligo di sottoporsi alla cosiddetta vaccinazione imposta per decreto dall'attuale governo. Fino ad ora non mi sono sottoposto a tale operazione e dichiaro apertamente che non lo farò neppure in seguito. Considero questo come un atto di disubbidienza civile per motivo di coscienza. In quanto motivo di coscienza, è di natura personale, dunque non coinvolge altri né nella sua spiegazione né nelle sue conseguenze; non incolpa chi ha motivi di coscienza diversi, né vorrebbe essere da loro incolpato.
Per quanto riguarda l'Autorità civile, la dichiarazione potrebbe finire qui, sia perché a lei interessa soltanto di sapere se io mi attengo alla norma oppure no, sia perché io non mi sento obbligato a giustificare davanti a lei le ragioni della mia coscienza. Aggiungo soltanto poche parole di spiegazione per chi fosse interessato.
Presentare “per motivo di coscienza" il rifiuto della vaccinazione dice comunque qualcosa, perché esclude altri motivi. Esclude che il motivo sia di tipo esclusivamente sanitario, cioè pura e semplice paura di piombare in altre più tremende malattie. Esclude che il motivo sia di tipo esclusivamente politico, cioè dettato dalla speranza di far cambiare la decisione del governo su questo punto. Motivi come questi possono aver concorso a formare la decisione della coscienza, ma non sono determinanti. Il motivo fondamentale dipende dalla mia fede in Gesù Cristo, come attestato nella Bibbia, Parola di Dio. Pertanto la mia dichiarazione, ovunque dovesse essere presentata, vuole avere il significato di testimonianza a Cristo, a cui la mia coscienza è indissolubilmente legata.
In un corpo che grazie a Dio funziona ancora abbastanza bene, considero una forma di ingratitudine al Signore lasciarmi inoculare una sostanza che ha caratteri dubbi e inquietanti non per essere curato di una malattia presente, ma come forma di assicurazione per una possibile malattia futura. I vaccini infatti non curano il male, ma vorrebbero prevenirlo. La mia coscienza biblicamente formata mi pone il problema della giustizia, e mi fa ritenere che non sia cosa giusta davanti a Dio partecipare a un gioco d'azzardo sanitario che ha come posta in gioco il bene del corpo ricevuto alla nascita e di cui porto la responsabilità davanti a Dio.
L’azione del governo è cominciata con un invito pressante a farsi vaccinare, per passare poi alla minaccia, poi al ricatto e ora all’obbligo vaccinale imposto per decreto. Questo ha spostato la mia attenzione dalla giustizia davanti a Dio in relazione al corpo alla giustizia davanti a Dio in relazione all’Autorità civile, che con la sua imposizione adesso interpella direttamente la mia coscienza. La questione di giustizia si presenta adesso alla mia coscienza in questa forma: è giusto assecondare l'Autorità civile nella sua richiesta di sottomissione all'obbligo di vaccinazione?
L'Autorità civile, ergendosi a tutrice della salute complessiva del corpo della nazione, ritiene di avere il diritto di togliere ai cittadini la possibilità di scelta, e calpestando la loro coscienza li priva della dignità di persone in grado di prendere decisioni autonome sull'uso che possono fare o non fare del proprio corpo. Non riconosco all'Autorità civile questo diritto e considero una prevaricazione il volerlo imporre per legge. E in coscienza considero anche omissione di dovere morale il subirla senza obiezioni.
L'Autorità civile giustifica la sua azione invocando il bene comune a cui si dovrebbe sacrificare il bene individuale della libertà. Le ragioni portate a sostegno di questa imposizione hanno messo in luce un modo di governare che fa della MENZOGNA la sua forza. Non ripeto qui la quantità di argomenti e prove che sostengono questa mia dichiarazione, ma la presento qui con chiarezza per sottolineare la perdita di credibilità e autorità morale che ha ormai questo governo sulla mia coscienza.
Il cumulo di falsità e contraddizioni governative ha poi trovato l'appoggio fondamentale in un'unica grande menzogna presentata col nome di SCIENZA. Screditare i dissenzienti presentandoli come ignoranti nemici del sapere è stata una delle più ignobili armi di inganno e manipolazione della propaganda filogovernativa. Usare in modo astratto e generico il nome "scienza", conferendogli un'autorità indiscussa sul vero e sul falso, sul bene e sul male, sul giusto e sull'ingiusto significa fabbricare un IDOLO che poi si agita davanti agli uomini per esigere da loro piena sottomissione. La Bibbia mette in guardia contro quella che "falsamente si chiama scienza" (1 Timoteo 6:20) e avverte solennemente: "Figlioli, guardatevi dagl’idoli" (1 Giovanni 5:21).
La vaccinazione si presenta come un atto destinato a ripetersi obbligatoriamente un numero illimitato di volte. Al primo rifiuto, la legge impone che il cittadino sia automaticamente escluso dalla partecipazione alla vita civile. Se accetto l'obbligo di sottopormi al ciclo illimitato delle vaccinazioni, manifesto di voler consegnare il mio vivere nelle mani di chi si attribuisce il diritto di potermi far morire. Ma "per me il vivere è Cristo e il morire guadagno" (Filippesi 1:21). Il credente in Cristo può essere maltrattato, ma non è ricattabile.
Si ripete allora la domanda: è giusto assecondare l'Autorità civile nella sua richiesta di sottomissione all'obbligo di vaccinazione?
La mia risposta è un deciso NO.
Bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini (Atti 5:29).
Marcello Cicchese
(Notizie su Israele, 1 febbraio 2022)
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Ripresentiamo oggi, 1 febbraio 2023, la pagina iniziale del 1 febbraio 2022, rimasta inalterata per alcuni mesi. I motivi di allora sono spiegati nella pagina stessa e a distanza di un anno sono ancora validi. Per maggiore chiarezza, dopo alcuni giorni il responsabile inviò ai soli iscritti una lettera che adesso è leggibile anche sul sito. La situazione oggi non è più la stessa, ma l'infamia governativa commessa a suo tempo non è stata pubblicamente riconosciuta e sanata in tutte le sue conseguenze. L'esercizio del potere sulla società è una cosa voluta da Dio, ma proprio per questo chi lo esercita dovrà un giorno risponderne direttamente a Lui. M.C.
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(Notizie su Israele, 1 febbraio 2023)
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Da «Newsweek» mea culpa sul virus. «Noi scienziati ci siamo sbagliati»
Dopo il «Wall Street Journal» un'altra grande testata americana affida a un ricercatore una critica spietata sulla gestione della pandemia: «Le bugie su immunità e diffusione dell'infezione ci sono costate vite umane».
di Maddalena Loy
Dopo il Wall Street Journal, ora tocca a Newsweek. Una a una, le maggiori testate americane stanno picconando a colpi di editoriali e commenti la gestione mondiale della pandemia, della quale sono stati proprio gli Stati Uniti a tirare le fila. L'ultimo mea culpa è arrivato dallo storico settimanale statunitense, diffuso e tradotto in tutto il mondo, il cui sito vanta 48 milioni di visitatori unici e 100 milioni di lettori unici al mese. Newsweek ha affidato al dottor Kevin Bass, MD-PhD della Scuola di Medicina in Texas, la stroncatura del management scientifico e politico americano, senza risparmiare nessuno: «Il Cdc, l'Oms e la Fda hanno ripetutamente enfatizzato le evidenze e ingannato la popolazione, è ora che la comunità scientifica ammetta tutti gli errori sul Covid, perché sono costati vite umane», ha bacchettato Bass, stilando il cahier des doléances della gestione pandemica. «L'immunità da vaccino rispetto a quella naturale, la chiusura delle scuole, le modalità di trasmissione della malattia, la diffusione via aerosol, l'obbligo di mascherina» e, non ultime, «l'efficacia e la sicurezza dei vaccini». Bass ha citato tutti gli studi che hanno smentito le decisioni delle autorità. L'infezione naturale, ad esempio, protegge di più di quella indotta da vaccino (perché stupirsene? E sempre stato così, ndr), così come è chiaro che tenere le scuole aperte non aumenti la diffusione del contagio, il Covid non si diffonde via aerosol, non c'è evidenza che le mascherine blocchino la trasmissione (come dimostrano gli unici due studi randomizzati Danmask e Bangladesh, ndr) e sui vaccini ci sono evidenti problemi di sicurezza, a cominciare dal rischio di miocarditi, che non è «lieve e raro» come molti scienziati hanno dichiarato, a cominciare dal consulente scientifico della Casa Bianca Anthony Fauci. «Sorprendentemente, alcuni di questi simulacri scientifici sono perpetuati anche oggi», osserva Bass. Suona familiare: l'Italia sembra aggrappata al virus e, tra tamponi, green pass distanziamento, molte restrizioni sopravvivono alla pandemia. Oltre a puntare il dito sugli errori commessi, il commentatore di Newsweek ha sottolineato il costo, «in migliaia se non milioni di decessi evitabili», che questi errori hanno causato: «La nostra (della scienza, ndr) risposta emotiva e la partigianeria radicata ci hanno impedito di accorgerci dell'impatto delle nostre azioni sui cittadini, che avremmo dovuto servire. Abbiamo sistematicamente minimizzato - scrive Bass - gli effetti negativi delle misure imposte senza consenso, andando a colpire i più vulnerabili: poveri, classe operaia, piccoli imprenditori, neri e sudamericani, bambini, silenziati dalla macchina mediatica». Un drammatico film noto anche in Italia. Newsweek, come una settimana fa anche il Wall Street Journal, ha denunciato il clima di censura sui temi pandemici: «Autorità in campo scientifico come i professori di Stanford John Ioannidis, Jay Bhattacharya e Scott Atlas, o i professori dell'Università della California Vinay Prasad e Monica Gandhi, sono stati censurati da folle scatenate di detrattori all'interno della comunità scientifica». E accaduto anche da noi, ma nessuno sembra essersene accorto. Nel migliore dei casi, c'è stato un eccesso di paternalismo, ha spiegato Bass, evocando dinamiche vissute dolorosamente anche nel nostro Paese. In effetti, la confusione tra valutazioni scientifiche e politiche sanitarie ha preso il sopravvento: queste ultime avrebbero dovuto coinvolgere attivamente i cittadini in quanto contribuenti, ma qualcosa è andato storto. «Se i funzionari della sanità pubblica avessero agito con meno arroganza, avremmo perso meno vite», è il drammatico bilancio del settimanale americano, che ha ribaltato l'accusa di «complottismo» solitamente rivolta a «l'altra scienza»: «E’ il governo ad aver cospirato con le società dominanti nel settore della tecnologia dell'informazione per sopprimere in modo aggressivo le valide preoccupazioni di chi non era d'accordo, e bollare le opinioni contrarie come "disinformazione", "analfabetismo scientifico" e "ignoranza"». Affermazioni molto stridenti rispetto alle politiche contro la cosiddetta «disinformazione» avviate già dal 2021 da Usa e Ue, che puntano proprio a silenziare il dibattito politico e scientifico per sempre. Il risultato di queste politiche lo constatiamo ogni giorno (e non soltanto negli Stati Uniti, ndr): «Troppi decessi, sfiducia nei vaccini, élite che si sono ulteriormente arricchite con il Covid, aumento dei suicidi e della violenza, tasso di depressione e ansia quasi raddoppiato, calo catastrofico delle performances scolastiche tra i bambini già svantaggiati e, per finire, una crescente sfiducia nelle autorità sanitarie, nella scienza e nella politica in generale». La macchina pandemica, però, sembra ormai lanciata a velocità folle contro il muro di tutte le evidenze: «Il "pensiero di gruppo" è ormai troppo radicato», è l'amara constatazione di Bass, «e nessuno vuole assumersi pubblicamente le proprie responsabilità». Neanche se è in gioco la democrazia.
(La Verità, 1 febbraio 2023)
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