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Notizie 1-15 gennaio 2016


Il quinto nuovo sottomarino di Israele

Un nuovo alleato della Marina israeliana, pronto ad essere armato

Il sottomarino classe Dolphin II, il 'Rahav', dopo aver completato i test necessari ed aver abbandonato il cantiere di Kiel in Germania, è il quinto che è entrato in servizio al fianco della Marina israeliana. Alla cerimonia di benvenuto tenuta ad Haifa erano presenti il capo dello Stato Reuven Rivlin, il Premier Benyamin Netanyahu e il comandante della Marina Militare, ammiraglio Ran Rothberg.
Questo tipo di sottomarino, oltre ad agevolare missioni top secret ed essere una potenziale piattaforma d'attacco in incognito, è dotato di testate nucleari pronte ad essere armate e lanciamissili.
Un punto di vantaggio per la Marina israeliana, come ha dichiarato Netanyahu, «una superiorità militare sopra tutti i fronti militari».

(L'Indro, 15 gennaio 2016)


Il rabbino di Venezia: «Noi non toglieremo la kippah»

Scialom Bahbout detta la linea dopo le aggressioni in Francia ad ebrei con il tradizionale copricapo religioso. Episodio di intolleranza denunciato nei pressi di Santa Lucia: «Sono stato minacciato in lingua araba».

di Nadia De Lazzari

VENEZIA. «Mi trovavo nei pressi della stazione ferroviaria Santa Lucia quando mi si è avvicinato un uomo, un arabo, che con tono minaccioso mi ha insultato indicando la mia kippah (il copricapo simbolo della cultura e della religione ebraica). A quelle parole non ho risposto e ho tirato dritto. È la prima volta che mi succede. Ne parlerò al rabbino capo della Comunità ebraica Scialom Bahbout». L'episodio è successo giovedì 14 a S.C., veterinario originario di Cagliari e domiciliato in città. A S.C. è subito venuto in mente quello che è successo a Marsiglia, dove il presidente del concistoro ebraico, dopo la terza aggressione a un ebreo, ha chiesto ai correligionari di togliersi la kippah per ragioni di sicurezza. «Anche qui forse sta cambiando qualcosa» commenta il veterinario, «Anni fa non conoscevo Venezia e giravo con una mappa. Il clima era di grande cordialità, tutte le persone erano cordiali, non vorrei cambiasse qualcosa».
   S.C. spiega che finora ha sempre indossato la kippah. «Finché si può ancora fare preferisco metterla, certo se ad ogni passo devo rischiare coltellate la toglierò. La sicurezza della vita è più importante. Nel pensiero ebraico c'è una corrente diversa: dice di distribuirla in giro per farla indossare a tutti».
   Sulla questione interviene senza esitazioni il Rabbino capo della Comunità ebraica Scialom Bahbout. Le sue parole sono ferme, cita il Papa: «Non solo gli ebrei devono andare con la kippah, ma tutti devono indossarla seguendo anche l'esempio di Papa Francesco. Questa è la soluzione: tutti con la kippah come il re della Danimarca e l'intero popolo che a suo tempo con coraggio si misero ben visibile sui cappotti la stella gialla rifiutandosi così di introdurre l'obbligo per i soli ebrei di portarla perché non ci deve essere discriminazione. Se si arriva a questo punto hanno vinto gli altri. So che è una provocazione, ma alle provocazioni si risponde con un tono altrettanto provocatorio».
   Nicola Giunta, calabrese, ingegnere, da pochi mesi abita in laguna, non sottovaluta la questione. «È inutile dire che la kippah non è un problema. Sta diventando un problema di sicurezza perché non si sa mai chi si incrocia per strada. Io la porto, non nei luoghi di lavoro. Personalmente per ragioni di sicurezza la sostituirei con un cappello. Quando c'è il dubbio o non si mette o si copre».
   Di differente opinione è Yehudah Nuson Leib Cristofoli. Il cinquantenne veneziano non solo ha la kippah, anche altri segni ebraici, quali i tzitziot (frange) e i peyot (lunghi riccioli ai lati del viso). «Sono un Chassid, il primo e unico in città e la kippah la tengo» afferma deciso «Nascondendosi non aumenta la sicurezza, ci si indebolisce davanti a se stessi e di fronte agli altri. Una persona deve essere quella che è. Se questi malvagi vogliono colpire è sufficiente sfogliare l'elenco telefonico. Piuttosto la Francia ha un problema che deriva dall'Illuminismo: non accetta Ebraismo e Islam».

(la Nuova, 15 gennaio 2016)


Auctoria punta su Israele, al via la formazione per le agenzie di viaggio

Israele protagonista della programmazione 2016 di Auctoria.

L'operatore ha deciso di realizzare un programma di formazione rivolto non solo alle agenzie di viaggi, ma anche ai religiosi che accompagnano i viaggiatori in Terra Santa. Un piano di training che dal mese di febbraio vedrà l'operatore impegnato prima a Napoli e poi a Roma "per insegnare, in collaborazione con l'Ente del Turismo di Israele, come proporre la destinazione e quali indicazioni dare" spiega il titolare, Gerardo Napolitano.
Nelle intenzioni del tour operator, c'è anche quella di lanciare sul mercato italiano Eilat, una destinazione che viene proposta all'interno di tour culturali da 7 giorni, in abbinamento con Petra, in Giordania.

(TTG, 15 gennaio 2016)


Anche i gesti parlano

Voci di ebrei e di cattolici

di Fabrizio Contessa

 
Papaline a confronto
«Il clima è sicuramente diverso rispetto a qualche decennio fa. Sarebbe sbagliato illudersi che i problemi non esistano più, ma alla Chiesa e ai suoi rappresentanti va comunque riconosciuto un impegno sincero. E questo è senz'altro un ottimo presupposto». Giuseppe Momigliano, presidente dell'Assemblea dei rabbini d'Italia, analizza così lo stato dei rapporti tra ebrei e cattolici a cinquant'anni da Nostra aetate e, soprattutto, alla vigilia della visita che domenica prossima Papa Francesco compirà al Tempio maggiore di Roma. Lo fa rispondendo alle domande di Adam Smulevich su «pagine ebraiche» di gennaio. All'importante appuntamento — la terza visita di un Papa alla storica sinagoga romana — il mensile dell'Unione delle comunità ebraiche italiane dedica uno speciale approfondimento, in cui dando ampio spazio anche a voci cattoliche, tra cui quella del direttore del nostro giornale, si sottolinea la necessità di rilanciare la stagione del dialogo. Non a caso, viene sottolineato, l'incontro del Pontefice con la più antica comunità della diaspora giudaica avverrà nella domenica che tradizionalmente in Italia è dedicata all'approfondimento e allo sviluppo del dialogo tra cattolici e ebrei.
   Tuttavia, tiene subito a precisare il rabbino Momigliano, non è e non può assolutamente trattarsi di un dialogo a buon mercato. «Affinché funzioni davvero è fondamentale essere se stessi fino in fondo», afferma invitando a imparare «la lezione di Chanukkah», la festa ebraica delle luci. Occorre, cioè, «che dentro di noi arda una fiammella. La fiammella di un'identità solida e consapevole». Infatti, aggiunge con convinzione, «senza conoscenza profonda delle proprie radici, il dialogo non va da nessuna parte. Il dialogo non è infatti reciproco annullamento e neanche sfumatura di diversità. L'unicità che è propria di ogni esperienza religiosa è anzi un valore da difendere. Un valore che rende tutti più ricchi». In questo senso, è importante far sì che le differenze — «che esistono e vanno tutelate » — finiscano per non intaccare il lavoro comune sui grandi temi dell'attualità. Anche per questo Momigliano guarda con qualche distacco al documento firmato recentemente da alcuni esponenti del rabbinato internazionale — «il piano teologico è sempre molto pericoloso e divisivo» — mentre invita «a concentrarsi su questioni in cui la collaborazione tra ebrei e cattolici può trasformarsi in qualcosa di concreto». E qui entrano in ballo non solo la comune e giusta condanna delle violenze terroristiche che in modo blasfemo vengono compiute in nome di Dio, ma anche, se non prevalentemente, tutte quelle altre sfide che investono l'intera umanità: «emergenza sociale, difesa dell'ambiente e della famiglia». E, ribadisce, affinché i risultati vengano raggiunti «è necessario che ciascuno chiarisca la propria identità e trasmetta un messaggio comprensibile».
   
Proprio quello della comprensibilità dei gesti che accompagnano la strada del dialogo tra cattolici e ebrei è uno dei tasti su cui più insiste il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che in questi giorni ha rilasciato diverse interviste. Sollecitato dal vaticanista Paolo Rodari, in un colloquio che compare sul numero di gennaio di «Tracce», Di Segni offre in particolare due sottolineature riguardanti l'imminente visita del Pontefice al Tempio maggiore. Si tratta, afferma, di «un segno tangibile, visibile, mediaticamente comprensibile, di una continuità di buoni rapporti». Il secondo motivo, «contingente, ma non meno importante», riguarda «l'atmosfera avvelenata esistente nel mondo, e in Europa in particolare, a motivo di conflitti anche religiosi». Così «l'arrivo del Papa, che non ha paura di sfidare le minacce e i rischi perché abbia luogo un incontro di amicizia tra due mondi religiosi, è un grande segno in controtendenza».
    La visita del Pontefice alla sinagoga, sottolinea inoltre Di Segni rispondendo alle domande di Stefania Falasca su «Avvenire» del 12 gennaio, «ha il suo significato e la sua forza proprio nel contesto storico che stiamo vivendo». Anche perché «nel percorso del dialogo nulla deve essere mai dato per scontato e non era scontato che ci potesse essere una nuova visita. Siamo sempre attenti al percorso comune e riteniamo ogni passo importante. La visita di Papa Francesco non sarà un mero rituale ereditato dai suoi predecessori, è una nuova tappa, si rinnova di sentimento e si coprirà di nuovi significati». Dell'esistenza di un «rapporto cordiale, costruttivo, di ascolto reciproco» con Papa Francesco riferisce Di Segni rispondendo a Roberto Zichittella sull'ultimo numero di «Famiglia Cristiana». Qui il rabbino capo prende a prestito «la grande metafora biblica che comincia con Caino e Abele e finisce con Giuseppe che incontra i fratelli» per rappresentare il cammino con i cattolici. «Non so a che punto siamo, ma c'è buona volontà e ci sono strumenti per affrontare i problemi e risolvere le difficoltà».
    Nulla, insomma, può mai essere dato per scontato. Anche perché, come mette in guardia Lucio Brunelli, direttore dei servizi giornalistici di Tv2000, in un'intervista su «pagine ebraiche», i «pregiudizi sono sempre dietro l'angolo». Infatti, «un certo vento che soffia in Europa, e anche oltre l'Atlantico», sottolinea, «porta a vedere con sospetto tutte le minoranze religiose». Si tratta, di «un vento pagano, non religioso, in realtà, che richiede vigilanza e una testimonianza ferma e libera da parte della Chiesa cattolica e di tutta la società civile». In questo senso, aggiunge Brunelli, impegnato in queste ore a preparare la diretta televisiva della visita del Pontefice, «a me colpisce sempre l'ignoranza che molti cattolici hanno delle tradizioni dell'ebraismo. Come direttore di una televisione cattolica mi piacerebbe poter raccontare di più la vita quotidiana della comunità ebraica, nelle sue feste, nei suoi riti, nelle sue usanze. Credo che anche questo, sia un modo di fare dialogo, conoscendoci meglio in concreto».
   
(L'Osservatore Romano, 15 gennaio 2016)


Il Papa ha già ottenuto quello che vuole e si appresta a dare agli ebrei ciò di cui oggi non hanno bisogno. Quanto a diplomazia, i preti sono imbattibili. M.C.


I veri motivi dello scontro Iran-sunniti

Lettera dell'Ambasciatore di Israele a La Stampa

di Naor Gilon

Caro direttore,
ufficialmente - come noto - alla base della nuova e drammatica crisi diplomatica tra Iran e Arabia Saudita ci sono due avvenimenti: l'esecuzione dello Sceicco sciita Nimr al-Nimr a Riad e l'assalto alle rappresentanze diplomatiche saudite a Teheran e Mashhad.
Sempre ufficialmente, proprio le devastazioni portate dai manifestanti iraniani alle rappresentanze saudite sono all'origine della decisione di molti Paesi sunniti - tra questi Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Sudan, Gibuti, Egitto, Turchia e Kuwait - di condannare, ritirare o mutare (al ribasso) lo status delle loro rappresentanze diplomatiche nella Repubblica Islamica dell'Iran.
A questo punto, però, è necessario porsi una domanda: è davvero questo singolo episodio - per quanto grave - ad aver determinato la dura reazione dei Paesi sunniti? A mio parere no. Alla base di questa reazione, infatti, c'è qualcosa di più profondo. Un senso di malessere che, per troppo tempo, è stato ridimensionato o ignorato dall'Occidente.
Negli ultimi due anni, infatti, abbiamo assistito ad una politica occidentale volta a riportare l'Iran all'interno della Comunità internazionale. Apparentemente, si tratta di un buon proposito, ma i Paesi sunniti hanno percepito che sia stato creato uno sbilanciamento tra loro, alleati storici dell'Occidente, e lo Stato sciita dell'Iran.
Ecco alcuni esempi di quanto affermo. Mentre l'Occidente fa la corte all'Iran e promuove scambi economici, la politica estera di Teheran in Medio Oriente non è cambiata, anzi continua a destabilizzare gli Stati arabi della regione. Basti pensare alla condotta dell'Iran in Paesi quali Libano, Siria, Iraq, Bahrein e Sudan.
Ancora, l'annosa questione del programma missilistico dell'Iran. Nelle sole ultime settimane, testando nuovi missili balistici, il regime iraniano ha violato per ben due volte la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Non contento, l'Iran ha anche mostrato in tv due nuove «città missilistiche», degli impianti sotterranei in cui i Pasdaran nascondono i loro missili balistici. I Paesi sunniti vedono lo stesso Rouhani - guardato dal mondo come un moderato - affermare che, nonostante le Nazioni Unite, il programma missilistico di Teheran andrà avanti senza limiti. Di fronte a queste provocazioni iraniane, il mondo sunnita ha percepito la reazione occidentale come blanda e passiva.
Infine, la pena di morte: il mondo si è scandalizzato - a ragione - di fronte alla notizia delle esecuzioni in Arabia Saudita. Purtroppo, la pena di morte non è estranea alla regione mediorientale. Basti qui ricordare che, dalla sola elezione di Hassan Rouhani a Presidente dell'Iran, quasi 2.000 detenuti sono stati impiccati, diversi dei quali per ragioni politiche. Un record assoluto, avvenuto in piena violazione di ogni normativa internazionale, di fronte al quale la reazione occidentale è stata vista, anche in questo caso, come blanda e passiva.
Concludendo, quanto sta accadendo oggi fra l'Iran e i Paesi sunniti è il frutto di una serie di pericolosi eventi a cascata. Eventi che, molto chiaramente, dimostrano come la visione occidentale di un Iran «fonte di stabilizzazione» e «parte della soluzione» delle attuali crisi locali sia, agli occhi degli attori regionali, non solo non credibile, ma possa addirittura portare ad una escalation.

(La Stampa, 15 gennaio 2016)


Prima tocca alla kippah, poi gli ebrei scappano. Il caso Malmö

Nella terza città svedese più popolosa negli anni Settanta, la comunità ebraica contava oltre duemila membri: oggi ne sono rimasti meno di cinquecento. Gli altri sono partiti per Stoccolma o per Israele. "In questo momento, molti ebrei in Svezia hanno paura" scrive Johanna Schreiber, una nota giornalista che vive a Stoccolma.

di Giulio Meotti

 
Manifestazioni antisemite a Malmö
ROMA - Nella zona industriale di Malmö, la terza città della Svezia da sempre governata dai socialdemocratici, c'è il celebre grattacielo a spirale realizzato dall'architetto spagnolo Santiago Calatrava. E' ispirato a un torso umano, che vuole simbolizzare le decine di etnie che vivono in città, tutte affratellate in un abbraccio multiculturale. Approssimativamente un terzo dei 300 mila abitanti di Malmö ha, infatti, un'origine straniera e questa percentuale è in costante aumento. Ma gli ebrei stanno fuggendo da Malmö. Negli anni Settanta, la comunità ebraica contava oltre duemila membri: oggi ne sono rimasti meno di cinquecento. Gli altri sono partiti per Stoccolma o per Israele. Il Centro Simon Wiesenthal ha diramato un avvertimento a tutti gli ebrei che si recano in visita a Malmö: "Togliete i segni religiosi in pubblico e non parlate ebraico". Malmö infatti è Marsiglia con cinque anni di anticipo (due giorni fa, le autorità ebraiche nella città francese hanno diffuso un avvertimento simile: "via la kippà, per il vostro bene"). Prima dell'attentato a Copenaghen, un anno fa, all'asilo nido ebraico di Malmö c'erano 23 bambini: oggi ne sono rimasti cinque. Le guardie armate di fronte alla scuola, più che calmare la popolazione ebraica, hanno scatenato il panico e i genitori preferiscono iscrivere i bambini alla scuola pubblica. E' la fine dell'identità ebraica, la diluizione. C'è chi sussurra che la sinagoga in città verrà presto trasformata in un museo. Dal 2010 a oggi, la sinagoga ha perso un terzo dei fedeli. Durante questo inverno, gli ebrei per strada sono stati apostrofati "morte agli ebrei" e "più coltellate", in riferimento alla Terza Intifada in Israele. Il rabbino, Shneur Kesselman, è costantemente attaccato per strada: quasi duecento gli episodi di antisemitismo in dieci anni. Il suo tradizionale abbigliamento chassidico - vestiti neri, cappello e barba lunga - lo rende facile da identificare come ebreo. A contribuire a questo clima in città è stato lo storico sindaco di Malmö, Ilmar Reepalu, che di fronte alle aggressioni a una manifestazione di solidarietà a favore degli ebrei disse erano stati gli ebrei stessi "a provocare tali violenze non avendo condannato i crimini israeliani commessi nella Striscia di Gaza".
   "In questo momento, molti ebrei in Svezia hanno paura" scrive Johanna Schreiber, una nota giornalista che vive a Stoccolma. "I genitori hanno paura a lasciare i loro figli alla scuola materna ebraica, hanno paura ad andare in sinagoga e ci sono molte persone che stanno nascondendo le loro stelle di Davide, perché sono troppo spaventate per indossarle". Fra gli ebrei americani e in Israele, il nome di Malmö è associato alla città al mondo più pericolosa per gli ebrei. Eccetto le capitali del mondo arabo-islamico, ovviamente. Petter Ljunggren, un giornalista svedese che voleva testare la vita degli ebrei a Malmö, ha indossato una kippah e una collana con la stella di Davide. Il risultato è un documentario per la televisione di un'ora e intitolato "Odiare gli ebrei a Malmö". Nel quartiere simbolo dell'integrazione, Rosengard, contro Ljunggren sono state lanciate le uova dalle finestre. Alla fine, il giornalista è dovuto scappare e dismettere il copricapo ebraico. Un'altra giornalista ha percorso le strade di Södertälje indossando il velo islamico e non è stata importunata da nessuno. E' questo che insegna Malmö: per gli ebrei il passo successivo dopo essersi tolti la kippah è lasciare una città e poi un paese. Specie quando il tuo primo ministro e ministro degli Esteri dicono che contro Israele non esiste terrorismo e che sono gli israeliani a dover essere messi sotto inchiesta. La placida e civilissima Svezia, il "paradiso dei rifugiati" trasformatosi in un incubo per gli ebrei.

(Il Foglio, 15 gennaio 2016)


«Non dobbiamo nasconderci». Gli ebrei, la paura e il kippah-day

di Daria Gorodisky

Il Foglio
ieri ha lanciato un'iniziativa: trasformare la prossima Giornata della memoria, il 27 Gennaio, in una Giornata della kippah. L'idea è nata dopo l'ultima aggressione di un ebreo a Marsiglia, lunedì scorso, da parte di un estremista islamico; e dal conseguente invito del presidente del Concistoro israelita della città, Zvi Ammar, a non indossare in strada il copricapo ebraico. E anche se il Gran Rabbino di Francia, Haim Korsia, ha replicato «continueremo a portare la kippah», la scelta della comunità di Marsiglia dà da pensare sul livello di allarme. Un allarme che però, spiega Il Foglio in prima pagina, riguarda tutto l'Occidente: «Un ebreo che si nasconde per paura di essere riconosciuto come ebreo è l'emblema perfetto di un mondo che costringe l'Occidente a nascondersi per paura di provocare la reazione di chi vuole accoltellare l'Occidente… Gli ebrei non devono nascondersi. L'Occidente non deve nascondersi».
  Da chi? Il riferimento al crescente radicalismo islamico è esplicito. La Anti-Defamation League ha realizzato per la prima volta un sondaggio sui musulmani che vivono in Belgio, Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito: ne è risultato che il 55% di loro ha convinzioni e sentimenti antisemiti. Sono dati relativi al 2014 e, da allora, gli eventi dimostrano che sono peggiorati. L'appello del Foglio dunque è apprezzato dagli ebrei italiani. Pagine ebraiche 24, il notiziario online dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, ieri lo ha rilanciato. E la presidente della Comunità di Roma, Ruth Dureghello, lo ha definito «una battaglia coraggiosa, in controtendenza con chi nel mondo usa i simboli religiosi per scopi ben diversi». «È giusto — aggiunge Dureghello — mostrare la propria identità mentre si viene attaccati verbalmente, sui muri e fisicamente da chi è spacciatore di odio. Se ci si nasconde, significa che c'è una debolezza delle istituzioni». Anche Emanuele Fiano, deputato del Pd, aderisce all'iniziativa: «Libertà significa non avere paura di mostrare la propria identità, fino a quando non collida con i diritti altrui. La situazione oggi è molto preoccupante, c'è un Islam radicale e terrorista i cui simboli assumono una forza che avevamo dimenticato. Per fortuna in Italia per noi ebrei non c'è il livello di allerta della Francia».

(Corriere della Sera, 15 gennaio 2016)


Frase ebraica alla rovescia sulla targa del ghetto di Lerici

di Sondra Coggio

LERICI - Se n'è accorta un'insegnante, grazie alla segnalazione di un conoscente, che conosce bene la scrittura ebraica. Le parole incise sulla targa all'ingresso dello storico ghetto di Lerici, sono scritte al contrario.
   La dicitura è corretta, le parole sono giuste, e significano proprio "quartiere ebraico antico", ma le lettere sono rovesciate, rispettosa come dovrebbero essere: in quanto l'ebraico si scrive e dunque si legge al contrario, rispetto alle altre lingue. E la conferma al sospetto, l'ha data il centro di cultura ebraica di Roma, alla quale si è rivolto un appassionato di storia lericina, Alessandro Manfredi Monguidi: venuto a conoscenza dell'errore, direttamente dall'insegnante che ha ricevuto la segnalazione. Un primo consulto con una esperta, Danila Paganini, aveva confortato la tesi dell'errore.
   Ora la lettera ufficiale arrivata da Roma, a firma di Micol Temin, conferma che l'incisione è avvenuta alla rovescia. E' sbagliata, scrive, perchè "le lettere sono state riportate da sinistra a destra e non viceversa". La targa è stata inaugurata solo due anni fa, vista e fotografata chissà quante volte, anche dai turisti: ma nessuno se ne era accorto. Certo non era facile, accorgersene, visto che per farlo occorre una conoscenza adeguata della scrittura ebraica. Il caso è venuto alla luce nell'ambito di un approfondimento sul ghetto ebraico lericino, scritto da Manfredi Monguidi per il circolo culturale "La Rotonda".
   La nota ha preso spunto dal libro di Valerio Botto, che ricostruisce in modo storico, attraverso la ricerca documentale, la storia del quartiere, ci sono passaggi di grande interesse, come le parti dedicate all'interazione fra lericini e famiglie in arrivo da fuori, testimoniata dai cognomi lericini riferibili a ebrei o convertiti. Agostino Cananeo, Alvise Zanacho, Michele Angelo, Giò e Francesco e Giulio Lorenzo Levantino, Francesco Sabatino, Albareco Sabbadino, Battista e Francesco Saione: riconducibile a Sion, ovvero Gerusalemme. E, successivamente, i Tedeschi, gli Spagnoli, i Della Costa, gli stessi Giacopello "dei Davidi", i Baracchini, i Barenco, i Berni, i De Benedetti, i Vallero, i Brondi, i Funaro … Manfredi Monguidi, con le sue note, iniziate nel 2012, ha suscitato curiosità, e riflessioni diverse.
   E fra gli spunti arrivati, c'è stata anche la segnalazione dell'errore: del quale ha chiesto appunto conferma al centro di cultura ebraica, che ha ribadito l'errata incisione delle parole. Ora, si pone un problema: come rimediare. L'inaugurazione era avvenuta alla fine del gennaio del 2013. C'erano più di cento persone. Avevano collaborato fra l'altro studiosi di primo piano, impegnati da anni nella valorizzazione della storia del ghetto. L'errore nulla toglie al valore del gesto. Se davvero la scritta è alla rovescia, però, c'è un problema, che in qualche modo va risolto.

(Il Secolo XIX, 15 gennaio 2016)


Sul piano tecnico la cosa effettivamente è un po’ grave, per chi ha fatto l’errore e per chi non se ne è accorto. Dato il tipo di targa, qualcuno con un minimo di conoscenza dell’ebraico l’avrà pur letta, prima e dopo che fosse appesa.


I like dell'odio

Le maschere di Facebook: oscura le pagine contro i palestinesi, ma non ha problemi se sono contro Israele

di Giulio Meotti

ROMA. - Il terrorismo contro Israele corre sui social media. Facebook, in particolare. Il Foglio, lo scorso 5 gennaio, ha rivelato ad esempio come alcuni ufficiali della Guardia presidenziale di Abu Mazen, presidente dell'Autorità palestinese, hanno creato pagine Facebook che incitano a pugnalare israeliani (anche ieri, due accoltellamenti di ufficiali dell'esercito israeliano). Adesso il colosso di Mark Zuckerberg è stato colto in fallo. Molti israeliani e simpatizzanti di Israele credono che Facebook permetta ai nemici dello stato ebraico di pubblicare sulle loro pagine. Per verificare questa teoria, il 28 dicembre la ong israeliana Shurat HaDin, nota anche come Israel Law Center, ha lanciato il suo "Big Facebook Experiment", in cui cerca di verificare se il gigante dei social media abbia un pregiudizio misurabile contro Israele. Il progetto è semplice: creare due pagine di Facebook, una anti palestinese e una anti israeliana. Poi segnalarle a Facebook come violazione delle sue regole etiche, ad esempio, l'incitamento all'odio e l'incitamento alla violenza. Poi aspettare e vedere cosa succede.
   Ai fini dello studio, Shurat HaDin ha postato messaggi gemelli su entrambe le pagine, una pagina chiamata "Fermare Israele" e l'altra "Fermare la Palestina". Frasi come "vendetta contro il nemico arabo" e "morte a tutti gli arabi" vengono postate sulla pagina antipalestinese; "vendetta contro il nemico ebraico" e "morte a tutti gli ebrei" sulla pagina anti israeliana. Shurat HaDin ha anche postato immagini violente su entrambe le pagine. Il 30 dicembre, Shurat HaDin denuncia entrambe le pagine come una violazione delle norme di Facebook, usando lo stesso meccanismo: un semplice pulsante cliccabile con il mouse a disposizione di tutti gli utenti. Trascorse 24 ore, Facebook risponde alla ong dicendo che la pagina anti palestinese è stata chiusa perché "contenente minacce di violenza" e perché aveva "violato le nostre norme comunitarie". La pagina è diventata subito inaccessibile per tutti gli utenti. Diversa la risposta sulla pagina anti israeliana: il suo contenuto "non è in violazione delle regole di Facebook". Facebook ha cambiato idea dopo il 4 gennaio, quando Shurat HaDin ha pubblicato un video che mostra tutto l'esperimento, diventato virale sulla stampa israeliana e sui social media. Facebook il 5 gennaio dichiara che "entrambe queste pagine sono state ora rimosse".
   Nitzana Darshan-Leitner, l'intrepido avvocato che dirige Shurat HaDin, ha detto che "con oltre trenta israeliani uccisi in attacchi terroristici da ottobre, con molti degli assassini che ricevono incoraggiamento e motivazione sui social media, è sconvolgente che Facebook avrebbe continuato a ignorare le istanze di incitamento contro gli israeliani, pur soddisfacendo rapidamente il suo obbligo di rimuovere le altre istanze di incitamento quando ritiene opportuno farlo, come abbiamo mostrato in questo esperimento". Nel mese di ottobre la stessa ong ha intentato una causa a New York contro Facebook per conto di ventimila israeliani sostenendo che il social network dei media permette l'incitamento dell'Intifada dei coltelli. Ieri è arrivato, senza bisogno di aggiungere altro, il commento del Wall Street Joumal: "Facebook non è alla radice del problema. Ma se l'antisemitismo entra a far parte del mainstream, allora forse Facebook deve riconsiderare il suo ruolo di spettatore".
Quello in cui i social media sono "safe" per i terroristi, ma non per gli ebrei.

(Il Foglio, 15 gennaio 2016)


Israele e Giordania riusciranno a salvare il Mar Morto?

Un canale tra i due Paesi dovrebbe trasportare le acque del Mar Rosso nel grande lago salato evitandone la scomparsa. Ma c'è un rischio: chimico

di Simone Ferrovecchio

 
Il Mar Morto sta scomparendo. Cosa fare per salvarlo? Israele e Giordania vogliono provarci con un canale, finanziato dai due Paesi con la collaborazione della Banca Mondiale per un costo previsto di dieci miliardi di dollari (oltre 9,3 miliardi di euro). Secondo il progetto questo canale collegherà il Mar Rosso e, appunto, il Mar Morto: l'acqua verrà incanalata ad Aqaba, in Giordania, e immessa nel Mar Morto, dopo un percorso di 200 chilometri: dovrebbero esserne trasportati 300 milioni di metri cubi l'anno. Il canale, che correrebbe nel deserto lungo la frontiera tra Giordania e Israele, legati da un trattato di pace dal 1994, produrrebbe anche elettricità: l'acqua infatti arriverebbe su un altopiano di 200 metri e sarebbe fatta cadere nel punto più profondo del Mar Morto, oltre 400 metri sotto il livello del mare, dove verrebbe costruita la centrale elettrica più grande della regione.
   Il Mar Morto, lungo 80 chilometri e largo 18, tra Israele, Giordania e Cisgiordania, è in realtà un lago che si trova nella depressione più profonda della Terra, causata da un'evaporazione delle acque che dura da millenni e dai più recenti prelievi per scopi industriali (come quelli Potasb company) non compensati dall'apporto degli immissari. «Da decenni poi il livello delle acque cala per via del prelievo d'acqua dal fiume Giordano, unico immissario di rilievo» spiega Michael Krom, docente di Chimica marina e ambientale all'Università di Leeds e consulente di studi sul Mar Morto commissionati dalla Banca Mondiale. «Nel 1983 le acque erano a 396 metri sotto il livello del mare. Oggi sono a meno 428».
   Krom è un fautore del progetto del canale, ma teme anche, come molte associazioni ambientaliste, che una reazione chimica tra acque di diversa salinità annulli qualità del Mar Morto note fin dai tempi dei Romani. «Se l'alta concentrazione di sali e minerali non consente la sopravvivenza di alcuna forma di vita nelle acque, il basso livello di raggi Uv e l'alto tasso di ossigeno nell'area creano un microclima unico per la salute umana e per oltre 400 specie di piante e 250 di animali» spiega Gidon Bromherg, direttore dell'organizzazione ambientalista israeliana Eco Peace Middle East e consulente dei governi giordano e israeliano.
   Spiega Krom: «Nelle acque del Mar Morto la concentrazione di calcio e magnesio, preziosi contro allergie e infezioni delle vie respiratorie, è superiore di oltre il 70 per cento a quella della normale acqua marina. E altissima è anche la concentrazione di bromo, usato nelle terapie del sistema nervoso, e dello iodio, con cui si curano disfunzioni ghiandolari e dolori reumatici. Nessuno può dire se e quanto l'immissione di acqua estranea altererà questo delicatissimo equilibrio».

(Venerdì di Repubblica, 14 gennaio 2016)


Israele - Della Pergola: nel 2015 la più alta emigrazione di ebrei dall'Italia

GERUSALEMME - "E' il più alto numero di sempre, a parte gli anni 1948-49". Non ha dubbi il demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola nel quantificare l'emigrazione degli ebrei italiani nel 2015 in Israele, in rapporto ai dati complessivi forniti oggi dall'Agenzia Ebraica che parlano per lo stesso anno di circa diecimila persone dall'Europa occidentale. "Alla fine dell'anno appena passato sono stati 353: un dato che può apparire esiguo ma che non lo è - dice all'ANSA - a raffronto del numero altrettanto contenuto degli ebrei italiani, circa 30.000. Si parla di poco di più dell'1 per mille". Così come avvenuto per gli altri ebrei europei, anche per quelli italiani emigrati in Israele - sottolinea Della Pergola - "l'antisemitismo, in continuo aumento, è stato fonte di grande preoccupazione".

(ANSAmed, 14 gennaio 2016)


Quando gli ebrei erano confinati o nascosti anche da noi

di Andrea Filisetti

CLUSONE (BG) - Di quanto hanno vissuto gli ebrei durante la persecuzione nazifascista non si potrà mai scrivere abbastanza: impossibile rappresentare la tragedia dei loro patimenti e delle loro vicissitudini. Con il passare del tempo le vicende si fanno sempre più lontane, eppure si possono ancora aggiungere nuove pagine, come quella degli ebrei prima confinati e poi nascosti nei paesi dell'alta valle Seriana tra il 1941 e il 1945. Dagli archivi comunali, per anni dimenticati o semplicemente sottovalutati, da vecchi faldoni ingialliti dal tempo affiorano nomi, volti e storie.
  Sono documenti che testimoniano la presenza di un numero importante di persone perseguitate e confinate. Le ricerche sono in corso da un paio di anni, ma molto è già stato tolto dall'oblio. L'archivista Bernardino Pasinelli ne parlerà nell'ambito del XVIII ciclo "Fonti e temi di storia locale" organizzato dal Centro Studi Archivio Bergamasco, nel seminario da titolo: «Eravamo come sospesi nel nulla». Ebrei internati liberi nel Bergamasco (1940 - 1943), venerdì 5 febbraio 2016, ore 17,30 allo Spazio Viterbi del Palazzo della Provincia di Bergamo, in via Torquato Tasso 8. Bernardino Pasinelli sarà anche ospite a Decoder mercoledì 20 gennaio alle ore 20,30 (Antenna2 canale 88).
  A Clusone ne arrivarono una cinquantina. A Rovetta cinque o sei. Nel Bergamasco furono internati oltre 130 ebrei in una ventina di Comuni. «Venivano principalmente da Milano - racconta l'archivista Bernardino Pasinelli - da una numerosa comunità cittadina». Il loro destino era segnato dai tracciati della rete ferroviaria. Dai campi di concentramento di Ferramonti di Tarsia in Calabria, di Tortoreto (Teramo) e altri ancora, venivano spostati a bordo di vagoni e destinati a località isolate con un presidio dei Carabinieri, allora oltre 600 in tutta Italia. Alle stazioni dell'Arma dovevano presentarsi ogni giorno per porre una firma su un registro. Era così impossibile per loro allontanarsi da quei borghi. «Anche se lontani - continua Bernardino - erano in comunicazione tra di loro. Si conoscevano e si scambiavano consigli anche su dove andare. Quelli a Clusone dialogavano con quelli alloggiati a Gromo, a Rovetta, a Sovere, a Gandino, dove da tempo sappiamo che si sono salvate una cinquantina di persone».
  Ma oltre a quelli alloggiati ufficialmente, in alta valle giunsero ebrei anche in segreto, nascosti e rimasti invisibili per tutto il tempo. «Chi aveva notato qualcosa di sospetto non aveva parlato - racconta l'archivista - e a guerra finita in molti si sorpresero dell'esistenza di persone rimaste nascoste così a lungo. A Rovetta ad esempio, paese in cui erano state internate ufficialmente cinque o sei persone, trovarono rifugio una ventina di ebrei». E a raccontare queste storie sono i documenti esaminati negli archivi ed anche i racconti orali, il sentito dire di alcuni amici e parenti di chi sapeva e ha nascosto e aiutato gli ebrei.
  «"Nessuno degli appartenenti alla razza ebraica ha preso dimora qui": è quanto scrive - spiega - il Podestà locale il 3 novembre del 1943 a seguito della richiesta di informazioni del 23 ottobre 1943 effettuata dalla Prefettura di Bergamo su indicazione del Comando Militare Germanico. Ed è probabile invece che l'autorità locale ben sapesse che non era così. Alcuni avevano certamente preso la via dei monti per arrivare in Svizzera, ma molti erano nascosti nelle soffitte e nelle cantine, nelle baite e nei conventi, aiutati da persone come don Giuseppe Bravi e dalle suore sacramentine di S. Lorenzo e di Songavazzo. Inoltre a Rovetta con Fino vi erano oltre 300 sfollati a causa della guerra e dei bombardamenti su Milano e dintorni, fra cui dodici profughi delle "Terre invase", fuggiti da Napoli e Reggio Calabria dopo lo sbarco degli Alleati».
  L'archivio di Clusone custodisce una documentazione importante sulla quale sta indagando Mino Scandella, presidente del Circolo Culturale Baradello. «Ogni nucleo familiare presente aveva un fascicolo dedicato - spiega Bernardino -. Ne sono arrivati una cinquantina, forse anche di più. Molti sono stati trasferiti nei paesi vicini, dove poi si sono nascosti, scomparendo, oltre che nelle soffitte, anche tra le montagne. A Clusone si registra in quegli anni anche il passaggio di cittadini apparentemente provenienti da Paesi lontani: è il caso di alcuni ebrei nicaraguensi, quasi certamente ebrei che viaggiavano con documenti falsi». Si trova anche traccia di corrispondenza censurata, la posta degli ebrei non aveva privacy, poiché essi erano sottoposti al rigido controllo dei confinati.
  La ricerca non è ancora conclusa anche se ha già dato frutti importanti. «È stato lo storico Sergio Luzzatto che mi ha invitato a indagare sulla presenza degli ebrei nei nostri comuni e, grazie all'autorizzazione della Sovraintendenza Archivistica, alla collaborazione di tanti impiegati comunali, ho iniziato il mio lavoro. Se l'archivio della Prefettura non fosse rimasto danneggiato in uno "scarto d'archivio" nel 1955 (momento in cui alcuni documenti sono stati destinati al macero) oggi si saprebbero più cose. Anche a Sovere ho trovato documenti importanti. Ho scoperto la storia di Israel Szafran, un giovane ebreo che studiava veterinaria a Pisa, internato a Clusone e a Sovere, quindi nascosto sui monti tra Sovere e Rovetta, dove incontra i partigiani della Camozzi ai quali si aggrega, aiutato dal loro capo Bepi Lanfranchi e da don Giuseppe Bravi, con i quali rimase in corrispondenza anche dopo la guerra e dopo avere raggiunto la Terra Promessa di Israele, come molti degli internati».
  A Clusone viene trasferito anche un artista di origine ungherese Eugenio Kron, che si firmava come Kron Jeno. L'artista vi arriva il 3 settembre 1941. Pittore e incisore, era in Italia per lavoro dal 1928. Dal maggio del 1942 sino al novembre del 1943 si spostò con la moglie Maria Feldman e la suocera Adele Linder a Sovere. I tre ebrei vennero aiutati dal parroco di Sovere don Giorgi. Il sacerdote falsificò i documenti di battesimo per dimostrare che i Kron erano cattolici. Alcune opere di Jeno Kron sono conservate a Genova nelle collezioni del Comune, a Firenze nella Galleria degli Uffizi, a Milano nel Castello Sforzesco e a Roma nel Palazzo Corsini. Luoghi e persone di Sovere si possono ammirare nelle opere di Kron esposte all'Accademia delle Belle Arti di Budapest. «Chi li aveva ospitati a Sovere - spiega l'archivista Bernardino Pasinelli - mantenne con la famiglia Kron un'amicizia e una corrispondenza che è durata sino alla morte di Maria Feldmann, la moglie di Kron, verso la fine degli anni Ottanta. La Feldmann nelle sue lettere scriveva che ogni suo sogno bello era ambientato a Sovere e quei sogni le regalavano un risveglio più sereno».

(MyValley.it, 14 gennaio 2016)


Degli ebrei non ci si dimentica mai

di Valter Vecellio

La notizia è che un folto gruppo di accademici italiani lavora a un appello che invita la comunità scientifica al boicottaggio culturale di Israele, o quantomeno delle sue istituzioni ufficiali; una iniziativa sulla falsariga di quanto già accaduto in Gran Bretagna: «Non accetteremo inviti dalle istituzioni accademiche israeliane, non saremo referenti in alcuno dei loro eventi, non parteciperemo a conferenze da loro finanziate, organizzate o sponsorizzate, né coopereremo con loro», hanno scritto, nell'ottobre scorso, sul "Guardian", trecento docenti e ricercatori britannici. Reazione a quelle che hanno definito «violazioni intollerabili 230dei diritti umani inflitte a tutto il popolo palestinese». Si poteva non imitare l'iniziativa d'oltre Manica? Certo che no.
Sembra siano 150 gli accademici che hanno aderito a un testo ancora in fase di definizione; si vogliono evitare, si fa sapere, toni troppo duri. Non tanto per convinzione, piuttosto per coinvolgere la massima platea possibile. La sostanza, per quanto la si voglia indorare, è comunque un "No" alle istituzioni ufficiali di Israele; bontà dei promotori il no non si chiede sia applicato a singoli intellettuali e docenti israeliani, purché invitati (o invitanti) a titolo personale.
   A Londra nelle settimane scorse è diffuso una sorta di contro-appello, promosso tra gli altri da J. K. Rowling, l'autrice di Harry Potter, dallo storico scozzese Niall Ferguson, e da Simon Schama, docente alla Columbia University: «Stiamo cercando di informare e incoraggiare il dialogo fra Israele e i palestinesi in una comunità culturale e creativa più ampia. I boicottaggi culturali che vogliono isolare Israele sono divisivi e discriminatori, e non favoriscono la pace».
   Non è la prima volta che accademici italiani sottoscrivono appelli e documenti per il boicottaggio di Israele. Circa cinquecento antropologi, per esempio, hanno denunciato "il potere, l'oppressione e la violenza strutturale" di Israele. Si badi: "strutturale". Complimenti. L'appello chiede che "non si collabori a progetti o eventi ospitati o finanziati da istituzioni accademiche israeliane, non si insegni o si partecipi a conferenze di tali istituzioni, e non si pubblichi in riviste accademiche basate in Israele". In trentacinque, docenti nelle maggiori università italiane si sono appellati al Commissario europeo della Ricerca, Màire Geoghegan-Quinn, perché escludano le istituzioni "complici delle violazioni israeliane del diritto internazionale" dai programmi di ricerca finanziati dall'Unione europea. Come nella migliore inquisizione. I fautori del boicottaggio culturale (lo hanno fatto Steven Levitsky, docente ad Harvard, e Glenn Weyl, dell'università di Chicago dalle colonne della "Washington Post"), spiegano che "amano Israele"; invocano il boicottarlo per salvare Israele da se stessa.
   Vedremo se anche in Italia avremo delle Rowling, dei Ferguson e dei Schama, capaci di reagire all'inquietante (e limitiamoci all'inquietante) appello per il boicottaggio culturale di Israele. Per quel che mi riguarda, da oggi, metterò in tasca, come un talismano una stella gialla; da esibire all'occorrenza.

(L'Opinione, 15 gennaio 2016)


Mantova, presenza ebraica nella città dei Gonzaga

Mantova, come la descrive Dante nella Divina Commedia, è adagiata e avvolta dalle acque dei suoi laghi. Scrigno di rara bellezza, la Mantova dei Gonzaga racchiude anche numerose vestigia della presenza ebraica. Cultura, arte, tradizione culinaria.

di Cinzia Dal Brolo

                                   "Non molto ha corso, ch'el trova una lama, ne la qual si distende e la 'mpaluda"
                                                                                 (Dante Alighieri, Inferno, canto XX, (vv. 79-80)

I versi citati nella Divina Commedia ricordano l'ubicazione di Mantova, placidamente adagiata sulle acque dei suoi laghi, ma anche il suo destino di città vittima di alluvioni, e circondata da paludi; il cui profilo inconfondibile appare, mentre da Ponte San Giorgio ci avviciniamo alla città.
  Conoscevo Mantova perché appassionata di libri, e quindi fedele seguace del Festival della Letteratura, organizzato annualmente a settembre; in altre occasioni ho visitato il centro storico, gustando alcune specialità locali, ma non conoscevo la "Mantova Ebraica" e la sua cultura. Ho potuto apprezzare e condividere questa bella esperienza nell'ambito di un Educational Tour organizzato dal Comune di Mantova e dalla Strada dei Vini Mantovani, che si è rivelato molto interessante, perché all'elemento culturale è stato abbinato anche l'aspetto enogastronomico.

 La Sinagoga Norsa Torrazzo monumento nazionale
 
Interno della Sinagoga Norsa Torrazzo
  Mantova conserva numerose vestigia della presenza ebraica, alcune in buone condizioni, altre più trascurate. Certamente la storia della comunità ebraica, ampia e vivace, si lega indissolubilmente con le vicende cittadine; furono, infatti, i Gonzaga, duchi di Mantova, interessati agli affari e al commercio, a favorire l'insediamento e lo sviluppo degli ebrei in città. E con lo sviluppo delle attività economiche, la comunità ebraica si amplia, e raggiunge circa 2.000 unità nel Cinquecento.
  Simbolo della religiosità ebraica, la Sinagoga Norsa Torrazzo (via Govi) è monumento nazionale e conserva numerosi arredi settecenteschi. All'ingresso troviamo gli elementi principali, a sinistra l'aron (armadio sacro) che contiene i rotoli della Torà, a destra la tevah (pulpito), entrambi di legno finemente lavorato e impreziosito da tessuti ricamati. La sala di preghiera è rettangolare, pareti e volta sono ricoperti di stucchi, esaltanti la magnificenza della famiglia Norsa o riproducenti versetti biblici in ebraico. Questa è l'unica sopravvissuta delle sei sinagoghe presenti nel Ghetto, istituito nel 1612, ed è stata fedelmente ricostruita dopo la demolizione del quartiere ebraico avvenuto all'inizio del '900.
  Tra gli edifici meglio conservati spicca la Casa del Rabbino (via Bertani 54) che risale al 1680; costruita dall'architetto fiammingo Frans Geffels, prefetto delle Fabbriche Gonzaghesche, è un edificio di quattro piani, la cui facciata è decorata con fregi e mascheroni e presenta una serie di pannelli in stucco, di pregevole fattura.

 Mantova "citta ideale"
  Non poteva mancare la visita alla concattedrale di Sant'Andrea, la più grande chiesa di Mantova, che custodisce i quadri di Andrea Mantegna, qui sepolto; poco più in là Piazza Broletto e Piazza Sordello, circondate da edifici storici e palazzi eleganti, sono luoghi deliziosi e racchiudono il concetto di "città ideale" cui i Gonzaga si ispiravano. La luce di un bel pomeriggio invernale inonda le piazze, e noi gustiamo il camminare lento, scoprendo angoli curiosi e piccole botteghe artigianali, sapientemente guidati da Chiara Baroni e da Emanuele Colorni, Presidente della Comunità ebraica mantovana.
  All'ora del tramonto raggiungiamo Palazzo Te (1525), straordinaria opera architettonica di Giulio Romano, inno alla bellezza e alla potenza dei Gonzaga, allegoria celebrata nelle Sale dei Giganti, Amore e Psiche, Sala dei Cavalli. Qui, ci attende una piacevole sorpresa, l'esecuzione di alcune composizioni da parte del Coro di Mantova Associazione culturale Pietro Pomponazzo, che ci ha regalato momenti di pura emozione. Tra i canti eseguiti mi colpisce il brano "Mizmor le David" (Salmo di Davide) inneggiante alla potenza di Dio.
  L'ingente patrimonio musicale della comunità ebraica mantovana è stato recuperato e valorizzato proprio dalla Schola Cantorium e dell'Associazione Culturale P. Pomponazzo, da anni impegnate a difendere questa tradizione. I canti, infatti, traggono spunto da spartiti manoscritti ottocenteschi, che si ispirano a momenti di vita quotidiana (nascite, matrimoni, festività) durante i quali si consumava parecchio cibo.

 La cucina ebraica e quella mantovana
  La cucina ebraica, soggetta alle indicazioni e ai divieti della Torà (libro sacro) è molto legata alla tradizione; tra i suoi precetti il divieto di utilizzare a fini alimentari il sangue animale, il divieto di mangiare carne di maiale, le indicazioni che favoriscono il consumo di pollame, anatre, oche, faraone e determinati pesci (esclusi i crostacei). Nei secoli, si sviluppa una profonda contaminazione con la cucina mantovana, più robusta e ricca di salumi.
  Mantova, infatti, è famosa per la carne di maiale e gli insaccati, i formaggi Grana Padano e Parmigiano Reggiano DOP, i dolci, le mostarde e chi vuole gustare la cucina tradizionale, non ha che l'imbarazzo della scelta, perché ovunque si mangia bene.
  Noi vi suggeriamo l'osteria Fernelli (Via Fernelli 28A), in centro storico, un locale accogliente e grazioso, dove gustare il tagliere di salumi, oltre a saporiti formaggi abbinati a strepitose mostarde e marmellate fatte in casa. Poi gli immancabili tortelli di zucca (con amaretto) e per finire uno dei dolci tradizionali mantovani, la sbrisolona, una torta dura, fatta con burro, mandorle tritate e zucchero.
  La cucina mantovana che più si avvicina alla tradizione kosher offre piatti come i bigoli con le sardelle, simili a spaghettoni freschi, fatti con il torchio e considerati di magro; il pesce (carpa, luccio) e il baccalà, che viene fatto cuocere in padella con succo di limone ed un trito di aglio e prezzemolo. Piatti semplici, ma gustosi, mangiati al ristorante "Bice la gallina felice"(via Carbonati) in centro a Mantova.
  Infine, merita una particolare citazione l'osteria contemporanea "Lo Scalco Grasso"(via Trieste, 55), dove abbiamo gustato un ricco menù rispettoso della tradizione kosher, pur inserito nella cucina mantovana: tante verdure crude, tortelli, luccio in umido. Lo chef Vanni Righi, dopo una lunga esperienza all'estero, quattro anni fa ha inaugurato il locale proprio nella città di origine. Professionalità e simpatia, ambiente curato e originale. Chapeau!

(mondo in tasca, 13 gennaio 2016)


Dall'Italia +91 mila visitatori in Israele, il 30% per motivi religiosi

Avital Kotzer Adari
Israele è sicura e nel 2015 ha ricevuto 3,1 milioni di visitatori da tutto il mondo di cui 2,8 milioni turisti. Gli italiani, che rappresentano il sesto mercato, hanno registrato un +91 mila di visitatori, di cui 84 mila turisti. "Per questo, quest'anno abbiamo anche raddoppiato il nostro budget annuale di pubblicità nel vostro Paese", ha reso noto Avital Kotzer Adari, direttore Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo nel corso di una conferenza stampa promossa dal ministero del Turismo per presentare le iniziative rivolte ai pellegrini nell'Anno del Giubileo della Misericordia.
Adari ha spiegato che ancora non ci sono dati sulle affluenze di pellegrini in Terra Santa nel periodo delle festività natalizie. Tuttavia ha ricordato che il 30% degli italiani che vanno in Israele lo fanno per motivi religiosi. Quindi il direttore del'ufficio israeliano del Turismo ha invitato a non avere timori per viaggi nel Paese: "In Israele - ha spiegato - il livello di sicurezza personale è altissimo e ogni pellegrino è benvenuto, in particolare a motivo dell'esperienza spirituale del tutto speciale che compie attraverso il pellegrinaggio".

(Travelnostop, 14 gennaio 2016)


Così in tutta Europa è diventata pericolosa la kippah

I simboli ebraici stanno scomparendo da tutto il Vecchio continente a causa del timore di attacchi.

di Giulio Meotti

ROMA - L'agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali (Fra) rivela che un terzo degli ebrei del Vecchio continente ha smesso di indossare i simboli religiosi a causa del timore di attacchi. Un dato uscito prima che il presidente del concistoro ebraico di Marsiglia, Zvi Ammar, invitasse i suoi correligionari "a non indossare la kippah in strada per non essere riconosciuti come ebrei". "Lancio questo appello con dolore", ha detto due giorni fa Ammar al quotidiano la Provence, dopo l'ennesima aggressione a colpi di machete contro un insegnante ebreo nella città francese. Il professore è stato ferito a coltellate da un attentatore che ha detto di aver agito a nome dello Stato islamico. Non mettere la kippah, il copricapo religioso indossato dagli ebrei, "può salvare delle vite umane e niente è più importante di questo", ha detto Ammar. "E' triste arrivare a questo nel 2016 in un paese democratico come la Francia ma di fronte a una situazione eccezionale bisogna prendere misure eccezionali. Non voglio che si muoia a Marsiglia perché si porta una kippah in testa... Io stesso questo sabato, per la prima volta nella mia vita, non porterò la kippah per andare in sinagoga". Lo stesso appello è stato rivolto agli ebrei di Danimarca: le persone di religione ebraica che vivono o si trovano di passaggio in Danimarca "non dovrebbero indossare o mostrare i simboli della loro fede". Era pericoloso nella Danimarca del 1943, lo è ancora in quella del 2016.
  "E' meglio che indossiate un altro copricapo", ha detto Josef Schuster, presidente del consiglio degli ebrei di Germania. E anche l'Abraham Geiger College a Potsdam, come la Scuola Or Avner di Berlino, hanno invitato gli studenti a non portare la kippah per strada. Anche la comunità ebraica di Norvegia ha adottato "l'invisibilità" come metodo per vivere più sicuri. Niente zucchetti per strada. Lo stesso succede in Svezia e in Belgio. I simboli ebraici stanno scomparendo da tutto il Vecchio continente. Il Congresso ebraico europeo ha un sondaggio-choc nel cassetto: "Un terzo degli ebrei europei sta pensando di emigrare". Si tratta di settecentomila persone. "Gli ebrei d'Europa sono a un bivio", ci dice Moshe Kantor, presidente del Congresso ebraico europeo con sede a Bruxelles. "Il 2015 è stato un anno terribile per molti ebrei di tutta Europa. Non ci sono solo gli attacchi terroristici, ma la 'nuova normalità' per gli ebrei che subiscono minacce su base giornaliera". Gli ebrei, al ghetto, preferiranno l'esilio in Israele. Come quest'anno appena passato hanno fatto quasi diecimila francesi. "Se le autorità continuano ad aggiungere solo misure difensive, la costruzione di muri e porte più alti, più spessi, una maggiore presenza della polizia al di fuori di istituzioni ebraiche, tra cui gli asili nido, allora gli ebrei non vorranno vivere questa esistenza imprigionata e lasceranno l'Europa in gran numero. Al momento l'islamismo ha il sopravvento nella battaglia contro di noi. Il popolo ebraico è da sempre il 'canarino nella miniera': gli ebrei sono spesso il primo obiettivo, ma non l'ultimo". Michael Bensaadon, capo dell'organizzazione Klita che coordina gli sforzi per portare gli ebrei in Israele, parla dell'"ottanta per cento degli ebrei francesi che considera di fare l'alyah". Nell'ultimo anno, c'è stato un aumento del trenta per cento di partenze anche dall'Inghilterra.
Ieri, mentre dagli Stati Uniti arrivava la notizia che la chiesa metodista boicotterà quattro banche israeliane, il ministro degli Esteri svedese, Margot Wallström, apriva una inchiesta contro Israele per l'"esecuzione extragiudiziaria" dei terroristi palestinesi.
  Tira una brutta aria per gli ebrei.

(Il Foglio, 14 gennaio 2016)

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Una kippah contro la resa dell'occidente

In Francia si consiglia agli ebrei di non usare simboli religiosi, per non provocare. Più che il velo, ora serve la testa. Appello per una giornata della kippah. Chi ci sta?

di Claudio Cerasa

 
La colpa è nostra, naturalmente, e se c'è un islamista che si fa esplodere a Mosul, un terrorista che uccide vignettisti, un fondamentalista che accoltella israeliani, una coppia di integralisti che fa una strage in un centro disabili, un uomo che a nome dell'Isis spara tredici colpi di pistola a un poliziotto di Philadelphia, la responsabilità è sempre dell'occidente mascalzone che, con il linguaggio, con le parole, con le guerre, con le bombe, non fa altro che provocare, in ogni angolo del mondo, la reazione del jihadismo e dell'integralismo di matrice islamista. Siamo noi che provochiamo, ovvio, non sono loro che agiscono, e forse, chissà, il modo migliore per non provocare questa reazione è quella di ritirarsi, di farsi da parte, di nascondersi, di fare di tutto per non innescare una possibile contro azione. E dunque meglio non parlare di islam, dice il progressista collettivo, meglio non fare sciocchezze, meglio non chiamare le cose con il loro nome. Meglio, molto meglio, preoccuparsi di far calare un velo ipocrita sulle radici del male e della violenza. Meglio, molto meglio, formulare appelli accorati contro la dilagante emergenza mondiale dell'islamofobia. Meglio, dunque, non parlare dei problemi veri, del rapporto che esiste tra uso della violenza e interpretazione dell'islam. E meglio, in definitiva, farsi da parte per evitare problemi. La ritirata culturale dell'occidente è un tema purtroppo presente con una certa costanza nella quotidianità delle cronache mondiali ma quando la ritirata si trasforma in una resa occorre smetterla di fischiettare, occorre smetterla di far finta di nulla e occorre semplicemente guardare la realtà con occhi diversi.
  Mettiamoci la kippah, no? E' successo questo. Tre giorni fa a Marsiglia, nell'indifferenza dei grandi giornali, un insegnante che indossava la kippah è stato aggredito mentre si avvicinava alla Sinagoga. Il giorno dopo il concistoro israelitico di Marsiglia - nella stessa Francia che nel 2015 ha registrato l'84 per cento di attacchi antisemiti in più rispetto all'anno precedente e nella stessa Europa dove i veli islamici proliferano, dove le donne sono pronte a coprirsi il volto per protestare contro l'islamofobia, dove i simboli cristiani vengono nascosti in nome del politicamente corretto, dove i presidi di alcune scuole, ad Amsterdam, hanno dato la propria disponibilità a eliminare dal calendario scolastico un giorno di festività cristiana per sostituirlo con uno caro ai fedeli di religione islamica - ha invitato i fedeli della comunità ebraica a rassegnarsi, a non provocare e a non indossare più la kippah "in attesa di giorni migliori". Haìm Korsia, Gran Rabbino di Francia, si è dissociato dal concistoro di Marsiglia, affermando che "Noi continueremo a portare la kippah", ma il dato resta, il trend è drammatico e la potenza dei simboli ha un valore universale. Secondo un sondaggio di qualche tempo fa della European Union's Fundamental Rights Agency, un terzo degli ebrei in Europa ha già rinunciato a indossare simboli religiosi per paura di farsi riconoscere. Lo scorso anno, a febbraio, un appello simile a quello arrivato dal Concistoro di Marsiglia fu formulato dal presidente del consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, che invitò gli ebrei a "evitare la kippah dove ci sono molti musulmani".
  E il tema ci sembra dunque evidente: si può accettare di passare da una ritirata tragica a una resa drammatica senza smuovere un dito, senza fare nulla, senza combattere, senza protestare, senza far suonare un campanello d'allarme che ci porti a capire che non si può continuare a ignorare che il rispetto di alcune identità religiose (avete capito quali) ci sta portando a coprire con un velo, letteralmente a nascondere, altre identità religiose (avete capito quali)? No che non si può. Un ebreo che si nasconde per paura di essere riconosciuto come ebreo è l'emblema perfetto di un mondo che costringe l'occidente a nascondersi per paura di provocare la reazione di chi vuole accoltellare l'occidente. Il primo febbraio verrà celebrato il World Hijab Day, la Giornata mondiale del velo islamico. Bene. Noi, nel nostro piccolo, quest'anno trasformeremo il 27 gennaio, la Giornata della memoria, nella nostra e nella vostra Giornata della kippah. Gli ebrei non devono nascondersi. L'occidente non deve nascondersi. Noi ci mettiamo la faccia. Se volete metterla anche voi inviate al Foglio la vostra foto a kippah@ilfoglio.it: la kippah ve la regaliamo noi.

(Il Foglio, 14 gennaio 2016)


Israele convoca l'ambasciatore della Svezia

Margot Wallström
Israele è ai ferri corti con la Svezia, tanto da aver convocato ieri al ministero degli Esteri a Gerusalemme l'ambasciatore Carl Magnus Nesser, rimproverando Stoccolma di presentare in modo distorto la realtà e di provocare «l'ira del governo e del popolo di Israele». Pietra dello scandalo per lo Stato ebraico le parole attribuite al capo della diplomazia svedese Margot Wallström che martedì aveva parlato della necessità di una indagine per appurare se Israele si sia macchiato di «esecuzioni extragiudiziali» di palestinesi nell'ondata di attentati contro civili e militari israeliani degli ultimi mesi. Dichiarazioni - considerate la classica goccia che fa traboccare il vaso - che hanno portato il direttore generale per l'Europa occidentale del ministero degli Esteri Aviv Shiron a dire all'ambasciatore svedese che «viste le nocive e prive di fondamento posizioni del ministro, la Svezia si è esclusa, nel prossimo futuro, da ogni ruolo nei confronti delle relazioni tra Israele e i palestinesi».
   Una posizione che marca un gelo diplomatico nato - secondo alcuni analisti - da quando la Svezia, nello scorso ottobre, ha riconosciuto, finora unica tra i Paesi occidentali che hanno scelto invece mozioni parlamentari, lo Stato di Palestina. Un atto annunciato il 3 ottobre 2015 dal premier Stefan Lovfen e formalizzato il 30 ottobre, suscitando il plauso del mondo arabo e le furiose reazioni israeliane.
   Già martedì le dichiarazioni di Wallström avevano provocato una dura reazione a Gerusalemme: il ministero degli Esteri aveva definito quelle parole sulle «esecuzioni extragiudiziali» dichiarazioni «irresponsabili e stravaganti» che danno «sostegno al terrorismo e incoraggiano così la violenza». Ieri il passo formale con una convocazione «d'urgenza» per manifestare al rappresentante di Stoccolma tutta l'irritazione di Israele.

(Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2016)


Atleti israeliani boicottati. Mai più chiudere gli occhi

Lettera al Corriere del Trentino

di Marcello Malfer *

Come è facile mostrarsi altruisti, sensibili e coraggiosi di fronte alle ingiustizie del passato e indignarsi per le violenze di ieri magari ormai archiviate nei libri di storia, altrettanto facile è non accorgersi o non vedere i soprusi di oggi.
   Un episodio, alla fine dell'anno appena trascorso, offre il segno di quanto sincera, diffusa e profonda sia la comune determinazione a far si che «mai più» si chiudano gli occhi. Due ragazzi che dovevano rappresentare lo Stato di Israele ai mondiali giovanili di Vela, una disciplina nella quale erano detentori del titolo mondiale e avevano alte possibilità di bissare il successo, sono stati esclusi perché il loro Paese è molto antipatico alla nazione ospitante. Possono venire, hanno detto, ma devono gareggiare sotto rigoroso anonimato, non si deve mai dire a quale Paese appartengono, non si deve mai vedere la loro bandiera bianco-azzurra. In caso di vittoria, non si dovrà ascoltare il loro inno nazionale.
   Nella Federazione sportiva internazionale, presieduta guarda caso da un italiano («italiani brava gente»), qualcuno, ma solo qualcuno, ha mostrato un po' di imbarazzo, sia pure a bassa voce, denunciando che ciò sarebbe stato contrario allo spirito dello sport. C'è stato poi anche chi ha addirittura accennato alla possibilità di una reazione estrema: la scelta di disertare la manifestazione. Tale eventualità è stata adombrata anche per la delegazione italiana che alla fine ovviamente è rimasta «perché — leggiamo — si è deciso di non scaricare su ragazzi quindicenni contraddizioni molto più grandi di loro». Giusto, ben fatto. Doveroso tutelare il diritto dei nostri ragazzi a gareggiare, a rappresentare i colori del Paese, a fraternizzare con i coetanei di altre nazioni, a tenere alti i valori dello sport. Qualche altro ragazzo, però, è stato discriminato, peccato. Ma ci saranno delle ragioni, lo zampino dell'immancabile politica, vai a sapere. Non abbiamo preso noi tale decisione.
   Si avvicina il Giorno della Memoria e certamente sentiremo dire, da tante cattedre con toni accorati e commossi, che la Shoa è stata anche permessa e agevolata da tutti quelli che per paura, conformismo, indifferenza e quieto vivere hanno girato la testa o chiuso gli occhi, scegliendo di non immischiarsi in faccende che non capivano o non approvavano ma che comunque non li riguardavano direttamente.
   «Non deve succedere mai più»: questo ascolteremo fra pochi giorni. Mai più girare la testa di fronte ai segni del male.


* Presidente Associazione trentina Italia -Israele

(Corriere del Trentino, 14 gennaio 2016)


Francia: fa discutere l'appello ad evitare i simboli ebraici

di Eri Garuti

Portare la kippah in Francia equivale ad esporsi a un rischio? Dopo l'ultima aggressione a Marsiglia, il presidente del Concistorio israelitico locale, Zvi Ammar, ha suggerito ai fedeli di sospendere "fino a tempi migliori" l'uso del copricapo che li rende identificabili. La comunità ebraica si interroga.
"È nostro dovere preservare la sicurezza della nostra comunità - spiega Ammar - e forse oggi, in una situazione eccezionale, bisogna prendere decisioni eccezionali."
Un parere non condiviso dal Gran Rabbino di Francia, Haìm Korsia, né dal presidente della regione di Marsiglia, Christian Estrosi.
"Capisco le preoccupazioni" commenta Estrosi "ma credo che la cosa peggiore sarebbe dare l`impressione al nemico di avere paura. Noi non abbiamo paura. Non dobbiamo dare segni di debolezza."
Lunedì un insegnante che indossava la kippah era stato assalito da un 15enne di origine curdo-turca armato di machete e se l'era cavata con lievi ferite solo grazie alla sua prontezza di riflessi.
Tra gli ebrei di Marsiglia c'è chi ha paura.
"Portare la kippah richiede coraggio" ammette un uomo "quindi se si hanno figli, purtroppo è meglio essere più discreti."
"Non sono affatto d`accordo con ciò che dicono" ribatte una donna. "Perché nascondersi? Non dobbiamo. Siamo ebrei e fieri di esserlo. Perché dovremmo nasconderci?"
"Ho sempre avuto l'abitudine di portarla e la porterò sempre" assicura un altro ebreo di Marsiglia. "Non ho una paura maggiore oggi rispetto a 10 o 15 anni fa."
Il giovane aggressore, arrestato, ha detto di aver agito in nome di Allah e dell'Isil. Anche se il suo viene considerato un gesto isolato, negli ultimi anni le aggressioni agli ebrei, in Francia, si sono moltiplicate.

(euronews, 13 gennaio 2016)

*


"Kippah in testa, senza paura". Il popolo della rete si mobilita

di Rachel Silvera

"Noi non dobbiamo cedere a niente. Continueremo a portare la kippà". È il messaggio che appare sul profilo twitter del Gran rabbino di Francia Haim Korsia. Parole inequivocabili, diffuse in rete dopo le dichiarazioni del presidente del Consistoire di Marsiglia (l'organizzazione ebraica locale che gestisce i servizi religiosi) Zvi Ammar, a seguito dell'aggressione antisemita di un insegnante ebreo da parte di un 15enne di origine turca.
Ammar - come riportato da le Figaro - ha infatti invitato i membri della comunità a non indossare il copricapo ebraico per questioni di sicurezza, adducendo l'importanza, per l'ebraismo, della sacralità della vita.
 
       Signor Rabbino, è vietato vestirsi così.                                                                            Questa tenuta sostituirà la kippà
       Porterò questa tenuta finché le cose non si calmeranno.                                                     finché le cose non si calmeranno.
Joann Sfar
Una posizione che ha aperto un vivace dibattito in rete e ha reso virale l'hashtag #kippa, inondando gli ebrei di Marsiglia di messaggi di solidarietà.
Non solo rav Korsia ha sottolineato l'importanza di non cedere al ricatto estremista ma ha anche lanciato il guanto di sfida, invitando i tifosi dell'Olympique de Marseille a presentarsi con il capo coperto, in segno di solidarietà, nel corso del prossimo incontro con il Montpellier. Un'iniziativa che sta già riscuotendo i primi successi con tanto di diffusione di kippot con il motto della squadra "Droit au bout", dritti al punto.
Il caso Marsiglia inoltre ha oramai assunto un carattere esemplificativo, spingendo il popolo del web a dire la propria e coinvolgendo volti noti e meno noti. Il filosofo Bernard-Henri Levy difende a spada tratta la libertà: "La Repubblica - scrive - ha il dovere di proteggere chi indossa la kippah. E chi la indossa ha il diritto di vivere il proprio ebraismo come meglio crede". L'ex ministro dell'Istruzione francese Francois Bayrou sposa la causa: "Non dobbiamo cedere, come dice rav Korsia. Dobbiamo mostrare la nostra solidarietà". La vicenda scavalca i confini francesi e la social media manager israeliana Laura Ben-David si ribella: "Dire agli ebrei di non indossare la kippà per prevenire le aggressioni non è un po' come dire alle donne di non indossare le gonne per evitare gli stupri?".
Tra indignazione e polveroni, non manca lo spazio per un po' di amara ironia e leggerezza. Da quando è avvenuta la terribile aggressione di Marsiglia, il celebre vignettista Joann Sfar, papà del best seller Il gatto del rabbino, pubblica irresistibili disegni sulla questione, disegnando un panorama paradossale nel quale gli ebrei francesi per vivere al sicuro indossano la tenuta di un capo indiano e rinunciano alla kippah ritrovandosi così coinvolti in improbabili avventure, oppure girano per le strade con un burqa: "Avrei giurato che quella signora con il burqa mi abbia detto shabbat shalom" dice un passante, mentre l'assistente del rabbino con il volto coperto gli sussurra: "Rav, deve stare più attento o ci farà beccare". Per chi invece è un patito di shopping online sono già in vendita magliette personalizzate con la scritta ad hoc e c'è chi ha scelto il più inaspettato degli sponsor e ha twittato: "Fate come il papa: indossate la kippà". Infine Guy Birenbaum, giornalista di France Info, giura di aver trovato la kippà appropriata, quella con disegnato sopra Batman. Perché, in fondo, chi l'avrebbe mai detto che gli ebrei di Francia sarebbero diventati dei supereroi?

(moked, 13 gennaio 2016)


Il bagaglio che si trasporta da sé, da Israele il primo trolley robot

Addio valigie pesanti. Il trolley adesso si muove da solo, accanto al suo padrone come un fedele amico a quattro zampe.

È nato in un'azienda israeliana, la Bua Robotics, e promette di realizzare il sogno di ogni viaggiatore il primo prototipo di valigia robot: eliminare le fatiche del trasporto a mano.
A prima vista sembra un normalissimo bagaglio, ma, come mostra un video rilanciato da focus.it, la valigia si connette via bluetooth allo smartphone, dal quale è così possibile pilotarla e portarla accanto a sé. E non c'è rischio di perderla o che qualcuno possa rubarla. La valigia segnala costantemente al proprietario la sua posizione ed emette un segnale di allarme nel caso in cui si avvicini qualche male intenzionato. Insomma, mai più senza. Un gadget da tenere e a mente e da consigliare ai vostri clienti al debutto sul mercato, previsto dall'ideatore entro un anno.

(TTG italia, 13 gennaio 2016)


Dieci idee impossibili che gli israeliani hanno trasformato in realtà

Nessuna missione è impossibile per l'ingegno israeliano. Parliamo di persone che al posto di leggere "impossibile" leggono "possibile" e che non considerano il fallimento come un motivo per non provare.
Dite a un israeliano che la sua idea è assurda, e gli avrete appena fornito un motivo in più per andare avanti.
Sia che si trattasse di piantare nel deserto o che fosse lo sviluppo di una applicazione, la maggior parte delle innovazioni rivoluzionarie israeliane sono state inizialmente liquidate come impossibili - fino a quando un'azione coraggiosa le ha trasformate in realtà.
Hasson, Chief Scientist del Ministero dell'Economia israeliano, commenta con ISRAEL21c:
Gli israeliani amano risolvere i problemi.
Una cultura educativa che incoraggia alla scoperta, al pensiero indipendente e all'innovazione porta gli israeliani a leggere la parola "impossibile" come "possibile".

Ecco dieci invenzioni sorprendenti, ritenute impossibili ma diventate realtà.

1. Far fiorire il deserto
 
   Nel 1959, Shai Ben Eliyahu e Hagai Porat ebbero l'idea di fondare un'impresa agricola a Ein Yahav, una base militare polverosa nel deserto israeliano dell'Arava.
Venivano considerati dei matti, racconta Aylon Gadiel, uno dei 550 agricoltori di Ein Yahav e ex direttore dell'Arava R&S:
Non si poteva vivere nella Arava, per non parlare di coltivare ortaggi. L'Agenzia Ebraica disse loro di no. Così ogni Venerdì andavano nella sede di Tel Aviv di Mapai [Partito Laburista] dove rimasero fino a che David Ben-Gurion scrisse loro una lettera.
I fondatori scavarono un pozzo per l'acqua e un piccolo orto, credendo che il clima fosse perfetto per coltivare, nonostante il terreno arido.
Dimostrarono la fattibilità dell'impresa, che rappresentò l'inizio dello sviluppo del metodo di irrigazione a goccia, all'inizio del 1960.

2. Rewalk Robotics
 
   Rewalk è un esoscheletro robotico per disabili che permette agli individui con disabilità agli arti inferiori di alzarsi e camminare.
Il concetto di tornare a camminare per coloro che soffrono di disabilità agli arti sembra assurdo e quindi impossibile. Ma Rewalk è diventato realtà grazie alla tenacia di Amit Gofer inventore e esperto di ingegneria elettrica presso il Technion.

3. Muv Interactive
 
   4 anni fa, alcuni investitori respinsero l'idea di Rami Parham di costruire un dispositivo indossabile per interagire con l'ambiente grazie alla rilevazione del movimento delle dita.
Oggi, la startup israeliana MUV Interactive ha sviluppato un oggetto straordinario per interagire con il mondo virtuale grazie ad una sorta di anello da indossare. MUV trasforma qualsiasi superficie in un touch screen interattivo. Il gioiello tecnologico, chiamato Bird, ha diversi sensori che catturano ogni movimento del dito, registrano e indicano la sua posizione e si collega via Bluetooth a tutti i dispositivi mobili.

4. Powemat
 
   L'idea di Powemat è una superficie di ricarica senza cavo ed è nata da una conversazione tra i due imprenditori Ran Poliakine e Amir Ben-Shalom. Già altri avevano provato ad inventare un dispositivo con le medesime funzioni, però senza alcun successo. Questi due imprenditori hanno bruciato le tappe riuscendo a creare la loro idea nonostante i potenziali partner la bocciassero.
Tutti dicevano fosse fantastica ma nessuno era disposto a scommetterci. Alla fine, un accordo con Procter & Gamble (che possiede Duracell) ha portato ad una serie di soluzioni di ricarica wireless per iPhone e altri smartphone. Successivamente è arrivata la partnership con Starbucks, Mc Donald, General Motors e altre grandi aziende.

5. Pillola per l'insulina
   Durante il secolo scorso, gli scienziati hanno cercato invano di elaborare una pillola al posto dell'iniezione di controllo della glicemia nei pazienti diabetici. Poi, è arrivata la Oramed Pharmaceuticals che sviluppa terapie orali a base di proteine fino ad oggi disponibili solo tramite iniezione.
Quando avviarono questo progetto quasi 30 anni fa all'Hadassah, sembrava impossibile rilasciare insulina per via orale. Oggi è solo una questione di tempo, a breve sarà sul mercato.

6. PillCam
 
   Nel 2001, quando Gabriel Meron introdusse la prima pillola video per ispezionare il sistema digestivo, tutti, dai consumatori ai medici rimasero esterrefatti. Sembrava che Meron e la sua azienda, la Given Imaging, avessero portato in vita lo sci-fi del film Fantastic Voyage. Oggi la PillCam viene usata in tutto il mondo per registrare le immagini del tratto digestivo.

7. La bicicletta di cartone
   Si tratta di una vera e propria bicicletta di cartone. Realizzata da Izhar Gafni, ha caratteristiche differenti rispetto ad altri esperimenti effettuati in precedenza. Il telaio e tutte le componenti non meccaniche sono in cartone, mentre catena, freni e ruote sono in plastica riciclata.
Se avessimo avuto $10 per ogni volta che abbiamo sentito "impossibile", probabilmente non ci sarebbe bisogno di alcuna raccolta di fondi per la nostra azienda.

8. Memoria del computer cancellabile
   All'inizio degli anni '70, l'ingegnere elettronico israeliano Dov Frohman raggiunse l'impossibile quando inventò la EPROM (ovvero memoria di sola lettura programmabile e cancellabile), un chip che può anche mantenere i dati quando vi è una sospensione dell'alimentazione.
Questo chip fece vincere a Frohman l'Israel Prize. Per la cronaca Frohman è anche stato tra i fondatori di Intel, ed è uno responsabili della grande decisione di Intel di stabilire una succursale della multinazionale in Israele.

9. Waze
   Quando i visionari fondatori decisero di cambiare il paradigma della navigazione, nessuno pensava che ce la potessero fare e che Waze diventasse in pochi anni la più utilizzata App per il traffico.

10. Trattamento della depressione
 
     La ricerca per saperne di più sul cervello umano è una priorità assoluta in Israele, dove scienziati e ricercatori non solo indagando i misteri del cervello, ma anche come elaborare nuovi trattamenti per le malattie del cervello altrimenti incurabili. La Brainsway ha rivoluzionato il trattamento con la terapia chiamata Brainsway Deep TMS (profonda stimolazione magnetica transcranica).
Secondo gli studi, la terapia è efficace, sicura e generalmente ben tollerata per il trattamento di pazienti con gravi disturbi cerebrali. Il sistema è anche impiegato per il trattamento di numerose condizioni, tra cui l'autismo, Alzheimer, il disturbo bipolare, il dolore cronico, il disturbo depressivo, il Parkinson, la schizofrenia, smettere di fumare, disturbo da stress post-traumatico, la sclerosi multipla, disturbo ossessivo compulsivo e nei casi di riabilitazione da ictus.
Vi è una stimolazione del cervello con un approccio non invasivo basato sui campi magnetici brevi, non genera effetti collaterali e non richiede ricovero in ospedale o anestesia.

(SiliconWadi, 12 gennaio 2016)


Assemblea per la ricostituzione dell'Associazione Italia-Israele di Firenze

Riceviamo da Valentino Baldacci e volentieri diffondiamo.

Ieri pomeriggio si è tenuta l'Assemblea per la ricostituzione dell'Associazione Italia-Israele di Firenze. E' stata una bella assemblea, con una rilevante partecipazione, dove tutti hanno parlato delle proprie esperienze e del loro rapporto con lo Stato d'Israele. L'iniziativa sta avendo un notevole successo: tra i partecipanti all'assemblea e quelli che hanno scritto per aderire ma non potevano essere presenti siamo arrivati a circa 60 persone.
L'assemblea è stata diretta da Luigi Diamanti, membro dell'Esecutivo della Federazione nazionale delle Associazioni Italia-Israele. Al termine è stato eletto il nuovo Consiglio Direttivo, composto da cinque membri, che ha deciso di eleggermi presidente dell'Associazione fiorentina, con Zeffiro Ciuffoiletti e Gigliola Mariani Sacerdoti vicepresidenti. Gli altri due componenti sono Celeste Vichi e Cristina Monti Foti. Stiamo preparando il verbale dell'Assemblea che invieremo a tutti, presenti e non presenti, insieme al modulo di iscrizione. Poiché il numero delle persone che chiedono di iscriversi è notevole, penso che al massimo entro un mese faremo un'altra assemblea per definire il programma di attività.
Un cordiale saluto,
Valentino Baldacci

(Notizie su Israele, 13 gennaio 2016)


«D'Alema e Israele, un'ossessione unilaterale»

L'Ambasciatore di Israele in Italia: "L'ex premier vede in Israele un alleato problematico dell'Occidente, anziché vedervi ciò che è: una parte integrante dell'Occidente".

di Naor Gilon

 
D'Alema docet
Conoscendo l'esperienza di Massimo D'Alema in politica estera, dovrei essere sorpreso dalle sue dichiarazioni riguardo a Israele, così come riportate sul vostro quotidiano ieri (nella sua intervista «All'estero non siamo più protagonisti. Arabia e Israele da alleati a problemi»). Tuttavia, conoscendo le sue vedute unilaterali nei confronti di Israele e il fatto che queste distorcano la sua percezione della realtà, non sono rimasto sorpreso.
Da molti anni esiste nel signor D'Alema un'ossessione che vede in Israele l'origine di tutti i problemi del Medio Oriente e del mondo, a tal punto che egli è disposto a vedere in alcune organizzazioni terroristiche degli alleati per l'Occidente preferibili alla democrazia israeliana. Già dopo l'orribile attacco terroristico a Parigi, D'Alema mise in relazione il terrorismo estremista islamico con il conflitto israelopalestinese. Anche nell'intervista di ieri D'Alema correla il conflitto con l'atteggiamento negativo del mondo arabo verso l'Occidente. Nel migliore dei casi si tratta di un approccio naif, nel peggiore dei casi di una posizione ideologica anti-israeliana.
L'odio di settori del mondo musulmano nei confronti dell'Occidente (e dei suoi stessi popoli), e certamente l'orribile terrorismo contro l'Occidente, non è correlato al conflitto israelo-palestinese. Si tratta invece di un'ideologia omicida e sanguinaria, che vede nello stile di vita occidentale (democrazia, liberalismo, capitalismo) un assoluto contrasto al suo mondo di valori, e per queste persone Israele è chiaramente un tutt'uno con le democrazie occidentali contro cui bisogna combattere. Purtroppo non è così per D'Alema. L'ex premier vede in Israele «un alleato problematico» dell'Occidente, anziché vedervi ciò che è: una parte integrante dell'Occidente e una barriera all'espansione dell'estremismo e del fanatismo verso l'Occidente, un faro di libertà, democrazia e diritti nel Medio Oriente.
Per tutto ciò Israele merita forse sostegno? Non secondo D'Alema. Al contrario, il signor D'Alema continua anzi con l'ossessione di vedere proprio in Israele il punto focale dei problemi e ad esso preferisce dei regimi «famosi» per essere illuminati e paladini di democrazia e diritti umani, come quello iraniano. Secondo il suo approccio, «il nemico del mio nemico è mio amico», anche se l'amico è Hezbollah, un'organizzazione terroristica sanguinaria, secondo la definizione della stessa Ue. Sono certo che nell'intervista, alla domanda sulla sua visita di solidarietà di allora in Libano, accompagnato da un uomo di Hezbollah, sia sfuggito alla sua memoria il fatto che l'organizzazione terroristica avesse lanciato migliaia di missili sui centri abitati israeliani, che Hezbollah ha assassinato degli israeliani in suolo europeo nell'attentato di Burgas in Bulgaria nel 2012, che l'organizzazione è responsabile di attentati contro ambasciate israeliane in tutto il mondo e della morte di decine di persone, e che la stessa organizzazione ha compiuto dei sanguinosi attentati contro obiettivi americani in Libano. Hezbollah non si limita a compiere omicidi politici e a imporre il proprio potere in Libano mediante il terrorismo, ma già da tempo è coinvolto anche nella guerra in Siria.
Purtroppo l'ossessione anti-israeliana emerge anche nella deformazione della realtà riguardo alle relazioni con l'Iran. È chiaro a tutti che, senza le pressioni internazionali, l'Iran non sarebbe mai nemmeno giunto a dei colloqui con l'Occidente, e non si sarebbe pertanto raggiunto un accordo. Non si tratta di un interesse soltanto israeliano: è prima di tutto un interesse occidentale quello di non permettere che la bomba atomica finisca nelle mani di un regime sciita estremista. Anche il riferimento a Rouhani come a un «riformista» cozza con i fatti: sotto Rouhani il numero delle esecuzioni capitali in Iran è giunto al culmine, sotto Rouhani l'Iran conduce una politica di destabilizzazione dei Paesi del Medio Oriente, sotto Rouhani sono attivate in Iraq delle milizie sciite che perseguitano le minoranze, sunnite e cristiane. Ma perché guardare in faccia la realtà? Per D'Alema è sufficiente l'ossessione contro Israele per spiegare tutto.

(Corriere della Sera, 13 gennaio 2016)


Gli ebrei di Marsiglia: «Uscite senza kippah»

Dopo l'agguato a un insegnante

Il Concistoro israelitico di Marsiglia ha invitato i fedeli della locale comunità ebraica a non indossare la kippah, il classico copricapo indossato dai religiosi, «in attesa di giorni migliori». L'appello agli ebrei della città del sud della Francia è stato lanciato dopo l'agguato a un insegnante che indossava il copricapo degli ebrei, aggredito con una mannaia mentre si recava alla Sinagoga. L'uomo è riuscito a salvarsi miracolosamente, riportando solo ferite non gravi e l'attentatore, un giovane musulmano, è stato arrestato. Ma, da Parigi, è arrivata un'indicazione opposta. «Continueremo a portare la kippah», ha detto il gran rabbino di Francia, Haim Korsia. L'indicazione diffusa a Marsiglia ha dunque suscitato reazioni contrapposte: su Internet molti hanno reagito affermando che non bisogna «piegarsi alla paura del terrorismo».

(Corriere della Sera, 13 gennaio 2016)


"Boicotta Israele" anche in Italia

Centocinquanta accademici preparano un appello.

di Mario Baudino

Sulla falsariga di quanto è già accaduto in Gran Bretagna, un nutrito gruppo di accademici italiani sta lavorando a un appello che invita la comunità scientifica al boicottaggio culturale di Israele, o quantomeno delle sue istituzioni ufficiali. «Non accetteremo inviti dalle istituzioni accademiche israeliane, non saremo referenti in alcuno dei loro eventi, non parteciperemo a conferenze da loro finanziate, organizzate o sponsorizzate, né coopereremo con loro», avevano scritto trecento docenti e ricercatori britannici (sul Guardian) nell'ottobre scorso, motivando la decisione con le «violazioni intollerabili dei diritti umani inflitte a tutto il popolo palestinese».
   Fra loro, molti italiani che insegnano all'estero. La conseguenza è che ora qualcosa di molto simile è in fase di definizione anche da noi. Sarebbero già 150 gli accademici che hanno aderito a un testo ancora non definitivo, come dice uno dei partecipanti, che vorrebbe evitare toni troppo radicali per coinvolgere la massima platea possibile. La sostanza è comunque un no alle istituzioni ufficiali di Israele, che però non si applicherebbe ai singoli intellettuali e docenti israeliani quando invitati (o invitanti) a titolo personale.
   L'appello britannico - seguito peraltro da altri consimili, anche ad esempio fra gli antropologi delle nostre università - aveva com'è noto sollevato polemiche, e non solo consensi. C'è stato anche un «controappello», firmato tra gli altri da J. K. Rowling, l'autrice di Harry Potter. «Stiamo cercando di informare e incoraggiare il dialogo fra Israele e i palestinesi in una comunità culturale e creativa più ampia - vi si legge -. I boicottaggi culturali che vogliono isolare Israele sono divisivi e discriminatori, e non favoriscono la pace».

(La Stampa, 13 gennaio 2016)


Un’altra conferma: sì a singoli ebrei, che per l’apertura culturale degli intellettuali possono perfino essere israeliani, ma no allo Stato d’Israele come tale. L’ultima forma di antisemitismo è questa, sottoscritta da intellettuali. La forma precedente fu sottoscritta da intellettuali in altro modo: con le leggi razziali. M.C.


Centinaia di persone manifestano a Varsavia per Israele

Cristiani polacchi scendono in strada per protestare contro l'ondata di terrorismo in Israele.
Stupore dell'ambasciatore israeliano.

Varsavia - Centinaia di polacchi manifestano a sostegno di Israele
VARSAVIA - Domenica scorsa diverse centinaia di persone a Varsavia sono scese in strada in sostegno a Israele. La protesta, organizzata da cristiani, si è rivolta contro l'ondata di terrorismo che da tre mesi colpisce Israele.
Alla marcia hanno preso parte anche membri della comunità ebraica in Polonia. I manifestanti hanno ballato o cantato agitando bandiere polacche e israeliane.
L'ambasciatrice israeliana in Polonia, Anna Asari, era stupita. "Non ho mai visto una così grande manifestazione in sostegno a Israele", ha detto il diplomatico di fronte alla folla, secondo il portale di notizie "Arutz Sheva". La marcia è stata organizzata da diverse comunità evangeliche, tra cui il movimento dei "Polacchi per Gesù", insieme ad altre chiese locali in tutta la Polonia.
Al corteo si sono affiancate anche contro-manifestazioni, come l'organizzazione nazionalistica e antisemita "Rinascita Nazionale Polacca". I loro membri hanno cercato di disturbare la marcia, ma i manifestanti sono rimasti tranquilli.
Pawel Czyszek, del "Forum ebrei polacchi", ha motivato la sua partecipazione alla marcia con i resoconti negativi dei media su Israele. "Quando i media polacchi o europei riportano eventi in Israele, molto spesso sono inaffidabili e negativi per Israele", ha detto dopo la marcia al servizio di notizie ebraico JTA. "Ho marciato con loro portando una bandiera israeliana, perché voglio mostrare il mio sostegno a Israele. Agli israeliani vorrei dire che non sono soli."

(Israelnetz, 12 gennaio 2016 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Perché i media italiani, anche quelli ebraici, non riportano questa “strana” notizia?


Il triste presagio degli ebrei d'Europa

Attacchi antisemiti quotidiani. La Francia è il test. E stiamo perdendo.

Un giovane islamista ha aggredito a colpi di machete un insegnante ebreo che portava la kippah a Marsiglia. "Ho agito per Allah e per lo Stato islamico", ha dichiarato l'attentatore, fermato poco dopo dalla Police Nationale. Tranquilli: il procuratore che segue il caso, Brice Robin, ha detto che l'islamista non sembra essere affetto da disturbi psichici. "Le motivazioni non lasciano dubbi", ha scandito il presidente Hollande, deplorando l'ennesima "aggressione antisemita". Non ci voleva un genio per capirlo. Eppure, le notizie quotidiane di attacchi contro gli ebrei in Europa meritano sempre meno spazio sui giornali. Come se fossimo assuefatti alla dose quotidiana di antisemitismo spicciolo, a fari spenti. La settimana scorsa una cosa simile era successa in Inghilterra. "Senza gli ebrei, la Francia non sarebbe la Francia", ha detto il premier Valls alla commemorazione dell'attentato all'Hyper Cacher.
  Verissimo. Soltanto che sta avvenendo: gli ebrei stanno lasciando la vecchia Europa. Solo nello scorso anno diecimila ebrei francesi hanno fatto le valigie alla volta di Israele e altri paesi. Nella comunità ebraica c'è un senso di impotenza e di triste presagio: "E' vero, in Israele ci sono gli attacchi con i coltelli. Ma almeno laggiù il governo israeliano è con noi. Qui il governo dorme", ripetono gli ebrei a Parigi e altrove. Vanno prese seriamente le parole della moglie di uno dei kamikaze del Bataclan, Kahina Amimour: "Fino a quando continuerete a offendere l'islam e i musulmani sarete dei potenziali obiettivi, non solo i poliziotti e gli ebrei, tutti". La Francia è il grande test, perché ospita la più vasta e vitale comunità ebraica d'Europa. E gli islamisti, i loro "compagni di viaggio" europei, sembrano avere la meglio. Almeno per ora. Come va per gli ebrei, va per tutti noi.

(Il Foglio, 12 gennaio 2016)


L'ebraico biblico alle radici della cultura occidentale

 
 
 
 
Si è concluso con la verifica finale, il corso di avviamento all'Ebraico biblico, presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Bari Aldo Moro.
Riscoprire il passato e la memoria religiosa comune ai grandi monoteismi che hanno costruito la nostra storia, attraverso la lingua originaria con la quale l'Antico Testamento si è espresso: con questi obiettivi ha preso inizio lo scorso novembre un corso di avviamento all'Ebraico biblico, presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Bari Aldo Moro, su iniziativa dei docenti del settore cristianistico della scuola di Giorgio Otranto.
Una iniziativa di alto valore culturale, che ha trovato un ampio riscontro tra gli studenti: più di 150 iscritti, infatti, provenienti dalle province di Bari, Barletta-Andria-Trani, Brindisi e Foggia, hanno frequentato le 20 ore di formazione linguistica sotto la guida di don Angelo Garofalo, docente di Antico Testamento ed Ebraico biblico presso lo Studium Biblicum Francescanum di Gerusalemme.
«Sono rimasto estremamente soddisfatto - ha affermato don Angelo Garofalo - della qualità della partecipazione degli studenti, attivi e propositivi, e dell'interesse nei confronti di una lingua che permette un approccio diretto ai testi dell'Antico Testamento, che sono parte integrante della nostra tradizione. Tutto ciò costituisce una conferma al valore della formazione universitaria di carattere filologico: conoscere una lingua antica come l'ebraico biblico apre nuove strade agli studiosi di storia, in particolare di storia del cristianesimo antico, perché offre i mezzi per approcciarsi anche alla letteratura rabbinica dei primi secoli, con cui si confrontarono i Padri della Chiesa».
Tra i motivi di questo straordinario successo in termini di presenza e partecipazione, la possibilità di acquisire, con esperti di storia del cristianesimo e dell'ebraismo, gli strumenti linguistici e culturali per interpretare i segni della forte presenza ebraica nella storia della Puglia, che risale già al I secolo d.C.
«L'Università è il luogo in cui le culture possono e devono incrociarsi - ha dichiarato la prof.ssa Laura Carnevale, responsabile nazionale del FIRB-Futuro in ricerca 2010 e promotrice del corso -: attraverso lo studio e la conoscenza della lingua ebraica e, per esteso, del sistema culturale che ruota intorno al mondo semitico, è possibile rintracciare le comuni origini di cristianesimo ed ebraismo e proiettarsi in una dimensione universalistica ed ecumenica, per rispondere al riaffiorare di focolai antisemiti».
«Nell'ultimo secolo, - ha commentato la prof.ssa Ada Campione, Presidente del Corso di studi in Scienze dei Beni culturali - dopo la seconda guerra mondiale, la Puglia è diventata terra di approdo e di accoglienza per gli ebrei che tornavano a Gerusalemme: questo corso vuole costruire un ponte tra lo studio della storia e della cultura pugliese e della grande civiltà ebraica, sotto il segno della coesistenza e della tolleranza reciproche».
A conclusione del corso, gli studenti frequentanti hanno sostenuto un esame di traduzione e comprensione linguistica. L'auspicio è che sia possibile reiterare questa fortunata esperienza didattica, consolidandola nell'ambito dell'offerta formativa dell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro.

(Traninews, 13 gennaio 2016)


Meis a Ferrara: insediamento del nuovo CdA

Si sono insediati ieri, alla presenza del Sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani, il nuovo Presidente -Dario Disegni - e il Consiglio di Amministrazione della Fondazione MEIS di Ferrara (Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah).
   Rinnovati lo scorso 28 dicembre dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, che, non potendo essere presente, ha fatto comunque pervenire al Consiglio un caloroso messaggio di saluto e l'augurio di buon lavoro, il Presidente e il nuovo CdA - composto da Carla di Francesco (nominata dal MiBACT), Renzo Gattegna (Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), Massimo Maisto (Vicesindaco del Comune di Ferrara) e Massimo Mezzetti (Assessore alla Cultura della Regione Emilia-Romagna) - opereranno con il sostegno del Ministero alle attività già in programma per questo 2016.
   In primo luogo la selezione di un Direttore del Museo, per la cui individuazione è stato pubblicato oggi sul sito del museo, sull'albo pretorio del Comune di Ferrara e sul sito dello stesso Comune, dove rimarrà fino al 29 febbraio prossimo, data ultima per la presentazione delle candidature, l' avviso che indica ruolo e compiti e durata dell'incarico della nuova figura.
   Attività già previste per il 2016 la mostra dal 24 gennaio al 21 febbraio in Castello Estense, dal titolo 'I mondi di Primo Levi. Una strenua chiarezza'e la Festa del Libro Ebraico che è stata spostata dal Chiostro di San Paolo a Palazzo Roverella e che si terrà non ad aprile, ma a settembre e durerà solo due giorni, sabato 3 e domenica 4.
   Continua così l'attività di promozione culturale del nascente Museo, che nei prossimi due anni, potrà contare per il completamento dei lavori in cantiere dei sette milioni di euro stanziati dal MiBACT attraverso il Piano Strategico Grandi Progetti Culturali.
   Dario Disegni, che da oltre vent'anni riveste posizioni di responsabilità nel mondo delle fondazioni e delle istituzioni culturali e museali, è Presidente della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia e della Comunità ebraica di Torino ed è inoltre, membro degli organi direttivi di varie istituzioni culturali e museali, tra le quali la Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino e il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, guiderà insieme al nuovo CdA il museo nel percorso già avviato in questi anni di raccolta delle testimonianze della bi millenaria presenza ebraica in Italia, di divulgazione della storia, pensiero e cultura dell'Ebraismo italiano dalle sue origini, con particolare attenzione alle testimonianze delle persecuzioni razziali ed alla Shoah, e della promozione dei valori della pace e della fratellanza tra popoli e dell'incontro tra culture e religioni diverse.

(Telestense.it, 12 gennaio 2016)


Mossad - L'esordio di Yossi Cohen: "Iran il pericolo più grande"

di Francesca Matalon

Esordisce con questo affondo Yossi Cohen, il nuovo capo del Mossad, investito ufficialmente dell'incarico nel corso di una cerimonia svoltasi ieri nella sede di Tel Aviv. "L'Iran continua a invocare la distruzione di Israele, mentre intensifica le sue capacità militari e rafforza il suo controllo sulla regione, utilizzando cellule terroristiche come mezzi per raggiungere questi obiettivi", ha dichiarato Cohen. "Sono sicuro - ha tuttavia rassicurato - che il Mossad avrà la forza necessaria per rispondere appropriatamente".
Accanto alla minaccia israeliana, sono anche il conflitto intestino al mondo musulmano e il rafforzamento delle organizzazioni terroristiche a preoccuparlo in quanto minaccia per il mondo intero, e per Israele in particolare. Il paese, ha sottolineato, è infatti "all'epicentro dello scontro che ha coinvolto il Medio Oriente negli ultimi anni e l'integralismo islamico si sta insinuando in tutti i paesi, causando il loro crollo".
Per questo il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che "la responsabilità del Mossad è immensa". "La nostra forza è legata alla volontà di alcuni tra i nostri figli e figlie migliori di portare il fardello di assicurare la vita, la libertà e la prosperità del paese", ha aggiunto lodando il lavoro dell'agenzia di intelligence.
Prima della vice direzione del Mossad, Cohen era stato nominato nel 2013 proprio da Netanyahu come suo consigliere per la sicurezza, e in gioventù le loro due famiglie abitavano vicine, nel quartiere di Katamon a Gerusalemme, dove è nato in una famiglia ortodossa. Suo padre Leo è stato un combattente dell'organizzazione paramilitare Irgun.
"Mi fido di te, Yossi, e così tutto Israele", ha detto Netantanyhu. Con trent'anni di servizio alle spalle, Cohen è un veterano del Mossad, conosciuto all'interno dell'organizzazione con il soprannome di 'Y' - o meglio con una 'yod' in ebraico. Alla cerimonia ha salutato così il suo predecessore Tamir Pardo: "Ci siamo conosciuti due decenni fa - il suo omaggio - e da allora abbiamo sempre cooperato, ho avuto il privilegio di essere il tuo vice e in quel periodo ho passato tanti giorni e tante notti a trarre ispirazione da te e a imparare cosa significa essere un analista in grado di andare in profondità".

(moked, 12 gennaio 2016)


I danzatori israreliani guidati da Ohad Naharin in arrivo a Modena

Magie e acrobazie della Batsheva Dance Company. In estate un tour fra Spoleto, Ravenna e Torino.

di Sergio Trombetta

 
La Batsheva Dance Company
Non era impresa facile entrare all'Opéra di Parigi, nei giorni anniversario di «Charlie Hebdo», per assistere allo spettacolo della Batsheva Dance Company, la più famosa e acclamata compagnia di danza israeliana diretta da un coreografo di genio come Ohad Naharin. Metal detector, ispezioni personali, lunghe file e inizio con un quarto d'ora di ritardo. Ma poi si assisteva a uno spettacolo fra i più entusiasmanti che possa capitare di questi tempi. Diretta da 25 anni da Naharin la «Batsheva» è il nome di punta, la nave ammiraglia di tutta la variegata e complessa danza contemporanea israeliana.
   Il titolo in programma, «Three», ovviamente è un trittico di diversi pezzi presentati senza soluzione di continuità su musiche che vanno da Bach a Brian Eno ai Beach Boys. Un lavoro denso e compatto che il 22 gennaio sarà al Teatro Pavarotti di Modena in esclusiva italiana mentre l'estate vedrà gli israeliani con altri lavori a Spoleto, Ravenna e Torinodanza.
   Mentre il pianoforte di Glenn Gould scandisce le prime note delle «Variazioni Goldberg» un danzatore solo in scena si muove con altrettanta lentezza come se volesse aprire gli spazi di silenzio fra le note e introdursi in un mondo di libertà totale di movimento. La musica va per la sua strada e i danzatori, soli, a coppie, con il resto della compagnia sullo sfondo a fare da coro, si scatenano in un fuoco d'artificio di gesti, una invenzione continua, inattesa, sorprendente, mai uguale a sé stessa, semplice, magari folk, oppure acrobatica, frenetica, spasmodica, che prende in continuazione in contropiede lo spettatore.
   Merito di Naharin e del suo Metodo Gaga con cui lavora insieme ai danzatori che sono un vero concentrato di energia e sensualità. E anche ironia. Come quando fra i diversi pezzi (il primo è intitolato «Bellus») un giovanotto viene in scena con uno schermo sottobraccio dove il suo viso in primo piano annuncia il pezzo successivo. Che è «Humus», tutto femminile, spesso giocato sull'unisono, scandito in diverse sequenze brevi e coinvolgenti.
   Si chiude con «Secus», e qui di nuovo la parola d'ordine è variare in continuazione la proposta coreografica, grazie anche al mix musicale che va dall'elettronica al pop, passando per ritmi latinoamericani e un tango danzato da due ragazzi. Alla fine applausi scroscianti e interminabili per i 18 danzatori che non sono soltanto israeliani, ma arrivano dai quattro continenti.

Le date degli spettacoli in tour
Al Teatro Pavarotti di Modena il 22 gennaio con «Three»
Al Festival di Spoleto il 1,2,3 luglio con «Deca Dance Spoleto»
Il 6 luglio al Ravenna Festival
Il 6 settembre a Torinodanza con «Last Work»

(La Stampa, 11 gennaio 2016)


Israele - Attivista di estrema sinistra accusato di collaborare con agenti dell'Anp

GERUSALEMME - Esdra Nawi, attivista di estrema sinistra, è stato convocato a comparire davanti al tribunale di Gerusalemme con l'accusa di essere in contatto con un agente del Servizio di sicurezza preventiva dell'Autorità nazionale palestinese. Lo riferisce il quotidiano locale "Jerusalem post" citando una dichiarazione della polizia di Giudea e Samaria. Ieri l'uomo era stato fermato alle aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv mentre sarebbe stato in procinto di lasciare il paese. Un funzionario delle forze di polizia israeliane riferisce che Nawi è accusato di essere in contatto con un agente straniero, crimine contro la sicurezza interna. La scorsa settimana in un filmato mandato in onda dall'emittente televisiva "Channel 2", realizzato con una telecamera nascosta, Nawi si vantava con alcune persone di come riusciva ad organizzare incontri con i palestinesi che stanno cercando di vendere i loro terreni agli ebrei dando poi i loro nomi e i loro numeri al Servizio di sicurezza palestinese. Nel video Nawi si compiaceva del fatto che gli uomini denunciati venissero poi torturati ed uccisi. Le indagini contro Nawi sono condotte dall'unità per i crimini a sfondo etnico della polizia di Giudea e Samaria che si occupa anche degli attacchi e dei crimini commessi dagli ebrei contro i palestinesi. Il filmato diffuso dall'emittente "Channel 2" è stato realizzato dall'organizzazione "Ad Kan" che ha invitato un gruppo di israeliani attivisti di estrema sinistra ad infiltrarsi nelle Ong israeliane in Cisgiordania.

(Agenzia Nova, 12 gennaio 2016)


F-35: Al via a Fort Worth l'assemblaggio del primo F-35 israeliano

di Davide Bartoccini

La Lockheed Martin e i funzionari del Ministero della Difesa dello Stato d'Israele hanno festeggiato la scorsa settimana l'inizio della procedura di assemblaggio per il primo F-35A "Adir" ("possente" in ebraico) che verra prodotto dall'azienda aerospaziale americana per Israele.
Il caccia multiruolo di 5a generazione designato come velivolo AS-1 è stato assemblato nelle sue quattro componenti principali presso l'Electronic Mate and Assembly Station avvicinandosi al prendere la sua forma ultima; si prevede sarà pronto per essere consegnato ed entrare in forza all'IAF, l'Israeli Air Force, nel prossimo mese di giugno.
Israele ha ordinato 33 F-35 nella versione A che prevede il Conventional Take Off and Landing (CTOL). Il contributo di Israele al programma F-35 comprende la produzione delle ali per gli aeromobili, per parte dell'Israel Aerospace Industries, lavori sulle componenti del casco di 3a generazione che indosseranno tutti i piloti di F-35, per parte della Elbit Systems Ltd. di Haifa, e la produzione di 16 elementi in composito che faranno parte della fusoliera dall'Elbit Systems-Cyclone F-35 center.
L'F-35A 'Adir' sarà un'introduzione significativa per il mantenimento qualitativo della capacità militare di Israele in Medio Oriente. Esso permetterà, attraverso la combinazione di tecnologia 'Stealth',velocità, agilità in combattimento e armamenti di ultima generazione, di fronteggiare e sconfiggere le possibili minacce emergenti nello spazio aereo e sul suolo israeliano.
Aharon Marmarosh, rappresentante israeliano della missione a New York ha dichiarato: "Questi aerei di 5a generazione permetteranno di migliorare notevolmente la capacità dell'IAF nella difesa dello lo Stato di Israele rispetto alle gravi minacce che deve fronteggiare", aggiungendo che tale data segna "un nuovo inizio per l'aviazione tattica d'Israele".
Jeff Babione, program manager dell'F-35 di Lockheed Martin, ha proseguito: "Lockheed Martin è orgogliosa della relazione con le forze armate israeliane. L'F-35A Adir rafforzerà il nostro solido rapporto con l'IAF assicurando la forza dell'aviazione militare israeliana che rimarrà tale per i decenni a venire".

(Difesa Online, 11 gennaio 2016)


Accoltellò alle spalle un palestinese, israeliano condannato a 21 mesi

ROMA - Il Tribunale della Corte penale di Tel Aviv ha condannato a 21 mesi di carcere Oz Segal, un israeliano che ad aprile scorso accoltello' un arabo palestinese, ferendolo gravemente. Come riporta il quotidiano israeliano Haaretz, ora Segal dovra' risarcire la vittima anche con 12.000 shekels (circa 2.800 euro) per i danni causati.
   Il giudice che ha seguito il caso, Shamai Becker, ha trovato Segal colpevole di "aggressione aggravata dal possesso di arma da taglio", e ha respinto la richiesta di attenuanti per insanita' mentale avanzata dal legale. Per Segal, che ha colpito un netturbino arabo per la strada al grido di "morte agli arabi!", l'accusa aveva chiesto tra i 18 e i 38 mesi di reclusione, mentre il legale dell'imputato - fino a quel momento senza precedenti penali - aveva chiesto una condanna ai servizi sociali.
   Oz Segal durante il processo ha motivato il suo gesto dichiarando che "delle voci e dei fantasmi lo perseguitavano", pertanto voleva finire in prigione in modo da potersi nascondere.
   Il giudice nella sentenza, secondo Haaretz, ha scritto: "Non solo Segal era consapevole di stare commettendo un crimine, ma al contrario, se prendiamo in considerazione le sue motivazioni (che sono a nostro avviso assurde), secondo cui dei fantasmi lo stavano perseguitando e per questo voleva nascondersi in prigione, allora vediamo che ha scelto una soluzione e uno strumento che gli hanno permesso di raggiungere il suo scopo: finire dietro le sbarre".
   E nel testo il giudice Becker prosegue: "Non solo Oz Segal ha deciso di commettere un crimine, ma e' stato lui stesso - e non delle voci, dei fantasmi o degli angeli - a scegliere di accoltellare un arabo" e quindi il tribunale ha constatato che "l'atto commesso e' estremamente grave. Non ci sono parole per descrivere cio' che un uomo che si guadagna da vivere pulendo le strade senza arrecare danno a nessuno, possa aver provato nel momento in cui qualcuno, improvvisamente, lo ha assalito alle spalle brandendo un coltello, e lo ha pugnalato alla schiena augurandogli la morte".
   Il giudice ha respinto l'attenuante dell'insanita' mentale suggerita dal difensore dell'imputato, attenuante che invece aveva risparmiato a Segal una condanna nel 2011 per un reato che le fonti non specificano, ma che rientra sempre nel penale. Becker ha invece considerato l'aggravante della premeditazione, e pertanto escluso una riduzione di pena ai servizi sociali.

(Agenzia Dire, 12 gennaio 2016)


L'antisemitismo in Italia non è sicuramente nato con il fascismo

Ma ha le sue radici più forti ficcate nell'Italia post-risorgimentale

di Diego Gabutti

Come ovunque, anche nell'Italia postrisorgimentale — l'Italia creata dagli eroi del Quarantotto, dagli anticlericali e dai garibaldini — l'antisemitismo aveva salde radici. Qualunque cosa sia stata fantasticata in seguito, e ancora si fantastichi, per banalizzare le leggi razziali del fascismo, facendone un episodio
 
estraneo all'Italia e ai suoi intellòs, l'antisemitismo italiano era all'opera, disponeva cioè di teorici e organizzatori, fin dai primi anni del secolo. Tra questi, racconta Bruno Pischedda in un superbo e importante libro, L'idioma molesto, Aragno 2015, pp. 316, 20,00 euro, uno degl'inventori del giornalismo culturale italiano, Emilio Cecchi, storico della letteratura inglese, autore del classico Pesci rossi.
   Abbiamo già segnalato, qualche giorno fa, il libro di Pischedda su «Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale», ma è il caso di tornarci sopra, almeno per illustrarne la trama, i personaggi, i colpi di scena, le abiure, le smemoratezze. Quella dell'antisemitismo, racconta Pischedda, è una metastasi che invade l'Italia attraverso l'integralismo papista e le più trucide teorie del progresso. A Vienna gli austro-marxisti definiscono le sinistre teorie razziali dei mangiagiudei «socialismo degl'imbecilli». Anche la Francia, dove l'anarcosindacalismo dell'antisemita Sorel impera nelle file operaie, è piena di devoti al «socialismo degl'imbecilli». In Italia sono più i devoti al darwinismo (al nietzschianesimo, al wagnerisrno, al papismo) degl'imbecilli. Sono questi intellettuali provinciali, come Cecchi, che s'interessano di cose inutili, di romanzi idioti, di D'Annunzio, a vedere ovunque nasi a becco, candelieri a sette braccia, avanzi di sinagoga. Inviato speciale, Cecchi disprezzerà, dopo gli ebrei, anche i neri americani. Ammiccherà alle «faccette nere» africane e se la tirerà da biologo e da antropologo (lui, l'inventore della prosa d'arte, vale a dire del nulla caramellato) mettendo in guardia i civilizzati (gli ariani, gli eredi di Roma imperiale) dagl'inguacchi interrazziali. Critico letterario, gli piace Bacchelli e stronca i romanzi di John Fante e James Cain.
   Di quel che capita nel mondo (è la maledizione dell'intellò italiano anche oggi, come Alberto Arbasino ha sempre predicato invano) non capiranno mai un cecio. Liquideranno con ironie imbarazzanti, da rivistina fiorentina, scritta in vernacolo culturale, il romanzo modernista — da James Joyce a Marcel Proust, autore «dal sangue, dicono, misto» — e daranno del «maiale» all'autore di best seller Guido da Verona (un ebreo) per le scene osé di Sciogli le trecce, Maria Maddalena e di Mimi Bluette fiore del mio giardino. C'e dentro tutto il jet set prefascista italiano, da Riccardo Bacchelli al fior da fiore dei rondisti: Soffici, Cardarelli, tale Marcello Cora, anche Alberto Savinio.
   Ben prima che le furie del Novecento, i totalitarismi di destra e di sinistra, che furono tutti antisemiti, mettessero a punto le loro strategie genocide, la cultura giornalistica italiana e i campioni dell'elzeviro e della prosa d'arte erano già schierati con i mostri — e aveva un che di mostruoso (il provincialismo, l'ottusità, il disumanesimo) anch'essa. Tra i mostri, spicca un ex sacerdote modernista, Monsignor Umberto Benigni. Amico d'Ernesto Buonaiuti e dei sacerdoti che in futuro saranno scomunicati per avere praticato (vade retro) il libero pensiero, e per un po' modernista egli stesso, Benigni creerà una sorta di servizio segreto, col tempo sempre meno tollerato dal Vaticano, incaricato di stanare ««i congiurati massoni, gli ebrei, gli anticattolici e gli anticristiani d'ogni fatta», naturalmente favoriti dalla propaganda nefasta che gli sparsi seguaci del movimento modernista si ostinano a fomentare. Provvedono alla raccolta delle notizie agenti infiltrati presso i circoli intellettuali della capitale e nella stessa curia vaticana, entro le redazioni dei giornali, nelle banche in cui si decidono gli assetti finanziari del paese, nelle segreterie dei maggiori partiti». Di questa Spectre degli antisemiti (o «degl'imbecilli», per dirla con gli austromarxisti) Emilio Cecchi fu un «agente«. Nel 1925 firmò, e subito ne prese le distanze, il manifesto degl'intellettuali antifascisti che Benedetto Croce e Giovanni Amendola avevano scritto in risposta al manifesto degli intellettuali fascisti schierati a fianco del DUX dopo l'affaire Matteotti. Diventò presto un fascistone zelante e opportunista. Anglista, trasformò l'antologia Americana, celebrazione della letteratura degli Stati Uniti curata da Elio Vittorini per Bompiani, in una condanna degli scrittori americani, dei loro personaggi «trasformati in isteriche sgualdrine cariche di whisky e di scompensi sessuali: la poesia dell'ardimento e della conquista, il mito della frontiera, l'epos della miniera e del rancho, si sono trasportati nella cronaca nera; da romantica e idealista, l'avventura è diventata poliziesca. II pioniere è diventato gangster, bootlegger, aggiotatore». Poi la fine della guerra e l'oblio.
   Come Vittorini, anche Pischedda, che non fa sconti all'intellighenzia razzista, di cui Emilio Cecchi fu uno degli esponenti di punta, non nasconde la sua ammirazione per il prosatore e il giornalista, per il «Cerchi scrittore». «Se anche dovremo sporgerci su panorami ingrati», scrive, «sarebbe ingeneroso misconoscere i molti meriti di una simile letteratura. Come attestano taluni paragrafi statunitensi dedicati alle officine fordiste, alla logistica complessa che regola la catena di montaggio, Cecchi seppe infondere acume e perizia tecnica nel lavoro di cronista itinerante. (... )Trascorrendo da un paese all'altro, considera temi economici, artistici, folk-lorici, s'inoltra nel dibattito tra i partiti, tratta di relazioni internazionali, offre un quadro veritiero della vita che si svolge nelle metropoli e nei villaggi più sperduti. Tuttavia ciascuno di questi argomenti ha da commisurarsi con un pregiudizio essenziale»: il razzismo, l'antisemitismo. Sarò ingeneroso, ma la prosa zuccherosa di Cecchi mi dà un po' di nausea a prescindere, anche senza leggerla. A pregiudizio, pregiudizio e mezzo.

(ItaliaOggi, 12 gennaio 2016)


Il vizietto di D'Alema su Israele

Israele e Arabia Saudita pari sono, come problemi del medio oriente

Massimo D'Alema ha nostalgia di se stesso e guarda il mondo con gli occhi velati dal rammarico di non esserci più, proprio ora che vorrebbe gridare forte, nei consessi internazionali, quel che ha sempre pensato: pensavate che Israele e l'Arabia Saudita fossero due alleati, "si sono rivelati due problemi". La fine dell'ostracismo "sbagliato" nei confronti dell'Iran è la dimostrazione che nell'isolamento non si servivano gli interessi dell'occidente, quanto piuttosto quelli dei "due problemi", gli israeliani spaventati dalla Bomba e i sauditi spaventati dalla perdita di potere, che li ha portati a "un atto deliberato, privo di senso", cioè l'esecuzione di Nimr al Nimr, "un chierico che non era un estremista". Il governo Netanyahu di Israele, secondo D'Alema, gioca "un ruolo negativo nella regione", espandendo le colonie e facendo "di fatto" scomparire la prospettiva di uno stato palestinese, e la comunità internazionale lo asseconda (!), perché "Israele non rispetta gli impegni sottoscritti, vìola le risoluzioni dell'Onu". La conseguenza è sempre la stessa, quella contrabbandata dagli antisemiti di tutto il mondo, l'odio verso l'occidente nel mondo arabo cresce perché per Israele si usano standard diversi (!), bisognerebbe ritrovare un equilibrio, "una convivenza basata sul rispetto dei diritti umani e dei princìpi del diritto internazionale".
  E visto che di diritti si parla, come non schierarsi con l'Iran? I guerriglieri sciiti non sono alleati "ma combattono lo stesso nemico", e non comprenderlo è secondo D'Alema da aspiranti apprendisti, se non da "trogloditi": anche la sua famosa passeggiata a braccetto con un deputato di Hezbollah, nel 2006, fu un gesto di solidarietà giusto, ribadisce D'Alema, "spesso in Italia prevale l'ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli". A proposito di Italia: all'estero non siamo più protagonisti - appena Matteo Renzi ha rivendicato un ruolo guida in Libia, "l'Onu ha scelto un ambasciatore tedesco" - e il premier invece che "baccagliare con la Merkel" dovrebbe promuovere un progetto comune dei socialisti europei, intestarsi una nuova politica. In cui si dialoga a sinistra, come insegnano i segnali "interessanti" (!) che vengono da Portogallo e Spagna. Insomma un Ulivo europeo che fa l'occhietto ai turbanti sciiti: vaste programme, anzi déjà-vu. Nulla di nuovo, insomma, sotto i baffi dalemiani, incanutiti e nostalgici.

(Il Foglio, 12 gennaio 2016)


La posizione di questo ex Presidente del Consiglio italiano rappresenta la peggior forma di “antisemitismo ragionato” di sinistra ancora in circolazione. Continua a deprimere il solo ricordo di quello che diceva e faceva quando era Ministro degli Esteri. M.C.


Sfratto dei Goym: sapori ebraici in Maremma

Nello splendido borgo di Pitigliano, in provincia di Grosseto, la cucina kosher e la tradizione toscana hanno dato vita a un dolce dalla storia lunga e affascinante.

di Eleonora Autilio

 
Il dolce "Sfratto dei Goym"
Gustoso incontro di sapori e di culture, lo Sfratto dei Goym è molto più di un dolce. Si tratta di un vero e proprio simbolo del pittoresco borgo maremmano di Pitigliano (GR) che racconta una lunga storia di integrazione e di scambi tra il popolo toscano e quello ebraico.

 La tradizione
  E' una storia di integrazione ed intrecci culturali quella dello Sfratto dei Goym dei borghi maremmani di Pitigliano e Sorano. Questo ottimo dolce toscano, infatti, si presenta come un'interessante fusione di sapori e di tecniche tipici della cultura ebraica e della tradizione regionale. Questo gustoso "sposalizio" è il frutto di una lunga storia che ha inizio nel XVI secolo quando il popolo ebraico dell'Italia centrale, vittima delle persecuzioni di Cosimo II De' Medici che intendeva segregarlo nei ghetti di Roma, Ancona, Firenze e Siena, trovò rifugio in zone isolate ai margini della Toscana, come il pittoresco borgo di Pitigliano dove intraprese con la gente locale una convivenza estremamente pacifica. Nella località sorsero la sinagoga, diverse botteghe artigiane e il "forno delle azzime" (dove si preparava il pane non lievitato) e l'incontro tra i prodotti locali, come il miele e le noci, e le tradizioni legate alla cucina kosher, come quella di non utilizzare lievito, diede vita a diverse specialità, tra cui l'ottimo dolce ispirato alla forma del bastone con cui il messo incaricato bussava alle porte delle abitazioni ebraiche per intimare agli occupanti di lasciare le proprie case.

 La denominazione
  Questo dolce gustoso venne chiamato Sfratto dei Goym, dal nome del bastone utilizzato per allontanare il popolo ebraico dalle proprie abitazioni, chiamato, appunto, sfratto, e dal termine "Goym" utilizzato per definire coloro che non erano Ebrei. Questa specialità kosher/maremmana ha meritato l'attenzione della Fondazione Slow Food che ne ha fatto un suo Presidio.

 Le caratteristiche
  Come suggerisce il nome stesso, il dolce ricorda la forma di un piccolo bastone lungo circa 20-30 centimetri e del diametro di 3, caratterizzato da un involucro esterno a base di pasta non lievitata ottenuta con farina, zucchero, vino, olio d'oliva e talvolta uova, farcita con un ricco ripieno preparato con miele, noci, scorza d'arancia e noce moscata, e spennellata con dell'olio.

 La produzione
  Lo Sfratto dei Goym viene consumato prevalentemente durante il periodo delle Feste ma si trova durante tutto l'anno. Nei borghi di Pitigliano e Sorano sono rimasti ormai pochi produttori a prepararlo e tra di essi meritano certamente un assaggio quelli della bottega Delizie di Ale e Helga, scavata nel tufo, del Forno del Ghetto e della Pasticceria di Massimo e Marco Ulivieri.

 La cultura
  Sebbene lo Sfratto venga generalmente considerato il prodotto più rappresentativo del processo di contaminazione tra la cultura ebraica e quella maremmana, l'incontro tra le due cucine diede vita anche ad altre prelibatezze come la tegamata, uno stufato di manzo, pomodoro e patate, la Minestra di Lenticchie di Easù e il risotto con i carciofi.

 In cucina
  Si può scegliere di preparare lo Sfratto dei Goym utilizzando le uova, ottenendo in tal caso un impasto più soffice, oppure unendo soltanto farina, zucchero e vino che conferiscono una consistenza lievemente più sabbiosa. Non manca chi aromatizza l'impasto con un poco di liquore e chi, per rendere l'involucro esterno ancora più morbido, vi aggiunge del latte o del burro. In ogni caso, il dolce ottenuto, dalla caratteristica forma di bastone, viene generalmente servito in tavola tagliato a fettine sottili.

 La ricetta
  Ingredienti: Per la pasta: 500 grammi di farina, 200 grammi di zucchero, un bicchiere di vino bianco, un bicchiere di olio d'oliva.
  Per la farcitura: 500 grammi di miele, 400 grammi di noci sgusciate, scorza d'arancia, noce moscata. Tritate le noci e mescolatele alla noce moscata e alla scorza d'arancia grattugiata, scaldate, quindi, il miele e cuocetelo a fuoco dolce per circa mezz'ora. Aggiungete le noci aromatizzate al miele caldo e lasciate freddare fin quando il composto non avrà raggiunto una consistenza sufficientemente compatta da poter essere lavorato e modellato dandogli la forma di bastoncini. Procedete, quindi, alla preparazione della pasta unendo la farina, lo zucchero, il vino e l'olio d'oliva. Tirate l'impasto e stendetelo creando dei rettangoli delle dimensioni di circa 10 x 20 centimetri che arrotolerete attorno ai bastoncini di farcitura, spennellerete con dell'olio ed infornerete per circa mezz'ora a 180o.

(Turismo.it, 12 gennaio 2016)


La correttezza di Israele

di Maurizio Del Maschio

Ricordate il rapporto ONU sulle presunte violazioni umanitarie perpetrate da Tzahal, le forze armate israeliane, durante la guerra dell'estate 2014 per far cessare il lancio di missili su Israele e per chiudere i tunnel scavati dal Hamas? Ora l'High Level Military Group, che ha preso in esame le accuse ha constatato e reso pubblico che da parte di Israele non sono state commesse violazioni, mentre sono state accertate numerose violazioni commesse da Hamas. Le forze armate israeliane non si sono limitate a rispettare il diritto dei conflitti armati, ma hanno persino superato i parametri minimi previsti dalle norme internazionali. È quanto emerge dal rapporto di ottanta pagine intitolato "An assessment of the 2014 Gaza conflict" redatto da undici alti ufficiali in pensione del gruppo HLMG. La squadra, di cui fa parte anche il generale italiano Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore dell'Aeronautica prima e della Difesa poi, non ha riscontrato alcuna violazione dei diritti umani da parte dell'esercito israeliano.
  Il documento è stato pubblicato dalla Friends of Israel Initiative, il gruppo fondato nel 2010 per volontà dell'allora premier spagnolo José María Aznar per combattere la sistematica campagna di denigrazione e delegittimazione ai danni Israele. Già all'inizio di quest'anno il gruppo HLMG aveva presentato le proprie conclusioni alla Commissione per i Diritti Umani dell'ONU. Questo rapporto, frutto di indagini sul campo da parte degli esperti, ha constatato ancora una volta l'irreprensibilità dell'operato di Israele nella Striscia di Gaza nel conflitto del 2014, nonostante le stesse Nazioni Unite, insieme a numerose organizzazioni non governative (evidentemente di parte), avessero accusato lo Stato ebraico di crimini contro l'umanità. L'accusa di "Crimini contro l'umanità e genocidi" è uno strumento preferito dalla lawfare, la guerra asimmetrica fatta di false accuse di abusi di norme e procedure internazionali, portata avanti dagli oppositori di Israele. Una guerra combattuta per raggiungere obiettivi strategici che non possono essere raggiunti con mezzi politici e militari, con armi che cercano di limitare e bloccare la capacità di perseguire i legittimi interessi di sicurezza nazionale dello Stato ebraico.
  Il punto di partenza dell'analisi degli eventi è la necessità di scegliere quale sia il diritto applicabile nei casi di specie. L'Occidente quasi due secoli fa ha iniziato a darsi delle regole per rendere un conflitto armato meno disumano possibile. Sono regole in linea con le carte più importanti, in primis quella dell'ONU, che quando applicate proteggono civili e infrastrutture civili. O si applicano queste regole oppure si sfocia nell'opinabile e nell'emozionale. Purtroppo, la sollecitazione emozionale soddisfa solo gli ingenui, ma non serve a regolare la convivenza civile tra popoli in conflitto. Il rispetto delle leggi dei conflitti armati è il vero problema delle guerre asimmetriche dell'epoca in cui viviamo. Sfruttare edifici intoccabili per principio, come luoghi di culto, ospedali e scuole, per crearsi un vantaggio tattico mette l'avversario che vuole rispettare le regole in condizione di svantaggio. Ciò vanifica anche l'asimmetria tecnologica garantita dagli armamenti di precisione che contribuiscono a ridurre i danni non voluti nei confronti dell'avversario. Questo atteggiamento viene sfruttato anche dal punto di vista mediatico: si costringe il nemico ad attaccare e poi lo si accusa di aver commesso un atto lesivo dei diritti umani. Questa è la vera asimmetria dei conflitti di oggi, tra chi rispetta determinate regole e chi queste regole non le rispetta, tra chi si sforza di realizzare un conflitto senza vittime e chi è disposto a morire e far morire persone innocenti pur di raggiungere il proprio obiettivo.
  Occorre smascherare questo inganno dissimulato: Israele è colpevole perché non accetta un governo palestinese che includa un'organizzazione terroristica che ha giurato di distruggere lo Stato ebraico, non vuole aiutare tale organizzazione con le sue risorse economiche e mette in atto un embargo, congiuntamente con l'Egitto, che ostacola l'acquisto e impedisce la produzione di razzi e, infine, vuole impedire di usare calcestruzzo importato per scavare tunnel per scopi terroristici. Questa sfacciataggine nasconde un'intolleranza lievemente velata. Scambia l'effetto per la causa, tratta la richiesta del rispetto di sé come arroganza e l'autodifesa come aggressione. Pretende dallo Stato ebraico ciò che sarebbe rifiutato in qualsiasi altro luogo da qualunque altro Stato al mondo. In questa guerra, difendere la parte palestinese significa favorire la causa della barbarie, cancellare, nel nome di un falso umanitarismo, le distinzioni morali dalle quali emerge il concetto stesso di umanità.
  Nel rapporti viene analizzato anche il numeri delle vittime civili, stimate in oltre 2.000 persone. L'Ufficio dell'ONU per gli affari umanitari ha attinto a piene mani dai dati forniti dal Ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas. I numeri erano pieni di incongruenze, tra nomi duplicati, età scorrette, inclusione fra le vittime dei morti da fuoco amico causate da Hamas o dalle sue organizzazioni affiliate (come nel caso di scoppio di razzi difettosi) e morti non in conseguenza del conflitto ma classificati come tali. Se da parte israeliana nessun crimine di guerra è stato dimostrato, dall'altra l'HLMG ha constatato che la morte della stragrande maggioranza dei civili Hamas è frutto della sua politica volta a causare, direttamente ed indirettamente, il maggior numero di civili palestinesi morti per fomentare l'odio anti-israeliano.
  Il documento denuncia l'utilizzo da parte di Hamas di scudi umani e conferma molte delle accuse rivolte all'organizzazione terroristica circa lo sfruttamento di mezzi, strutture e "siti sensibili" delle Nazioni Unite, come l'UNRWA senza alcuna protesta ufficiale da parte di quest'ultima. All'occhio degli esperti non è nemmeno sfuggita la strategia mediatica messa in atto da Hamas che ha negato ai media la possibilità di documentare vittime e feriti tra i combattenti indirizzando i reporter sui civili feriti. Non di rado, secondo le testimonianze, Hamas avrebbe persino allestito false scene dopo i raids israeliani rimuovendo armi e combattenti e lasciando solo i civili prima di consentire l'accesso ai giornalisti.
  Il rapporto, inoltre, ritiene adeguate le misure operative delle forze armate israeliane finalizzate ad evitare vittime civili. Tra esse è compreso il famoso "bussare sul tetto", le chiamate e i volantini per avvisare degli attacchi e la struttura organizzativa necessaria a garantire il rispetto del diritto di guerra e delle regole d'ingaggio. "Un rispetto degli standard spesso in contrasto con la convenienza militare che, come ha dichiarato il colonello Richard Kemp, comandante delle forze britanniche in Afghanistan, altre nazioni non sarebbero in grado di gestire". Ciò dimostra l'elevato livello etico delle forze armate israeliane, un livello a cui nessun altro esercito al mondo èpervenuto. Onore, quindi, a Israele e vergogna ai suoi nemici che, con la loro menzognera e ingannatrice attività, non prevarranno.

(Online News, 11 gennaio 2016)


Israele e altri, mai più esclusi da eventi velici internazionali

L'Isaf/World Sailing sul caso Malesia: niente sanzioni alla Federazione locale per i due atleti israeliani lasciati fuori, ma un raccomandazione per il futuro.

di Fabio Pozzo

Nessuna sanzione, almeno per ora, in capo alla Federazione vela malese per il caso dei due atleti israeliani del windsurf di fatto esclusi dai Mondiali tenutisi in Malesia sino al 3 gennaio scorso. L'Isaf/World Sailing - la federvela mondiale - presieduta dall'italiano Carlo Croce si è pronunciata soltanto con una raccomandazione per evitare che si ripresentino casi simili in futuro.

 Riepilogando
  Yoav Omer e Noy Drihan, due atleti israeliani del windsurf sono rimasti fuori dai Mondiali perché Israele ha scelto di non partecipare alle gare, a fronte delle condizioni imposte dall'organizzazione ospitante: principalmente, correre senza bandiera, senza inno in caso di vittoria, niente rapporti con i media, nessun comunicato stampa. Insomma, in modo anonimo, sotto l'egida dell'Isaf/World Sailing, la Federvela mondiale anziché con i colori dello Stato ebraico.
  Secondo quanto spiegato da Croce, in una intervista a La Stampa, Israele si sarebbe iscritto in ritardo e la Malesia ha cercato di far partecipare comunque gli atleti israeliani, "ma era molto tardi per garantire loro una adeguata protezione. Hanno così chiesto al loro governo, che ha indicato le misure per far sì che gli atleti non diventassero facili bersagli. Ma il visto lo avrebbero rilasciato. Israele però ha deciso di non prendere parte, a queste condizioni, all'evento".

 La raccomandazione
  L'Isaf, dopo aver intrapreso "una profonda indagine sulla vicenda con la piena cooperazione del Comitato olimpico internazionale, ha deciso che "in futuro agli organizzatori di tutti gli eventi velici internazionali sarà richiesto di rispettare specifiche condizioni per assicurare che tutti i regatanti di tutte le nazioni possano partecipare equamente. Se queste condizioni non saranno rispettate, specifiche sanzioni saranno applicate a qualsiasi futuro evento internazionale che si svolgerà in quel Paese". Quanto alle condizioni, saranno resi noti i dettagli.

(La Stampa, 11 gennaio 2016)


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Dunque la Federazione mondiale della vela se la cava con una raccomandazione generica a “non farlo più”. La spiegazione offerta dal presidente Carlo Croce è già stata smentita. Ripresentiamo un articolo di qualche giorno fa.

Gli israeliani smentiscono Croce: iscrizioni in tempo

di Gian Luca Pasini

Ma Carlo Croce ci è o ci fa? Sul Secolo XIX una intervista lascia inquietanti interrogativi. Croce cita date fantasiose che sembrano immaginare una corresponsabilità israeliana nella vicenda. Vediamo. Croce dice che le iscrizioni alla regata sono state chiuse il 6 agosto. Il documento ufficiale dice il primo giugno, qui: E' accettabile che ci si possa sbagliare a questo punto della vicenda su un particolare del genere?
Il presidente continua: "Israele si è iscritto il 10 ottobre". Affermazione clamorosa, perché se fosse vero abbiamo discusso del nulla. Bastava dire al mondo, gli israeliani non si erano iscritti in tempo e il caso non sarebbe esistito. Ci siamo presi la briga di chiedere una conferma ufficiale telefonando alla federvela israeliana che ci ha detto ufficialmente: "le nostre iscrizioni sono arrivate nei tempi previsti dal bando di regata, cioè entro il primo giugno". Basterebbe questo a confutare tutto il resto. Luca Bontempelli

(La Gazzetta dello Sport, 2 gennaio 2016)



New York: la comunità ebraica approva la cannabis terapeutica

di Stefano Delle Cave

A New York la cannabis è stata indicata dalla comunità ebraica come conforme ai dettami religiosi in quanto portatrice di benefici per la salute ed è stata rilasciata la prima certificazione ad una azienda produttrice.
Un'altra rivoluzione per la cannabis ad uso medico è in arrivo a New York: la comunità ebraica della città, la più nutrita di tutti gli Stati Uniti, ha dato il suo via libera alla certificazione kosher della cannabis per uso medico.
Il benestare è arrivato direttamente dall'associazione degli ebrei ortodossi in un momento particolare dato che, a partire dall'anno in corso 2016, nello stato della Grande Mela è legale vendere marijauna per finalità curative.
Una novità arrivata due anni dopo l'approvazione del noto Compassionate Care Act, documento tramite il quale si consente ai malati affetti da determinate patologie gravi di ricorrere alla marijuana come cura palliativa. Con l'arrivo del nuovo anno è diventata legale la vendita di marijuana e di semi di canapa femminizzati e autofiorenti come questi anche direttamente nelle farmacie o presso negozi specifici nati appositamente.
La cannabis terapeutica, il cui utilizzo ha esclusivamente finalità mediche e non di altro tipo, era stata dichiarata conforme ai dettami religiosi inerenti la nutrizione degli ebrei già nel 2013, in Israele; non a caso sempre in questo Stato la ricerca sulla cannabis è attiva da circa 20 anni.
La novità delle ultime ore riguarda semmai la certificazione rilasciata per la prima volta ad un'azienda di New York, che produrrà ora prodotti kosher derivati dalla cannabis medica.
Una certificazione che è arrivata, da parte della comunità ebraica, dopo attente analisi tese a certificare che la marijuana fosse stata prodotta seguendo tutte le norme kosher.
L'approvazione da parte della comunità ebraica di New York è un ulteriore balzo in avanti nell'utilizzo di questa sostanza in ambito curativo. "Non abbiamo problemi perchè porta benefici alla salute". Con queste parole il rabbino a capo della certificazione kosher ha giustificato la decisione.
Ricordiamo che il termine kosher indica il cibo che gli ebrei osservanti possono consumare, ed ha il significato di 'conforme alla legge'. Si parla quindi di un qualcosa di consentito dalle regole della tradizione religiosa ebraica.
L'azienda che ha ottenuto il via libera a produrre cannabis medica kosher ha evidenziato come questa certificazione tornerà utile per supportare i pazienti della comunità ebraica di New York, alleviando loro sofferenza e dolori dovuti a patologie gravi.
Gli ebrei osservanti, secondo le dichiarazioni del rabbino, non dovranno in alcun modo sentirsi in colpa per l'utilizzo di cannabis, purchè questo sia orientato esclusivamente a finalità mediche e curative.

(Cno Web Tv, 11 gennaio 2016)


La prova del nove della stabilità

Nel caos totale del mondo arabo circostante, il grosso dei palestinesi riconosce il valore della stabilità garantita da Israele, sia in termini economici che di sicurezza

Tra i palestinesi non mancano degli individui disposti ad alzarsi la mattina e, se appena se ne presenta l'opportunità, accoltellare degli ebrei o investirli con l'automobile. Eppure va sottolineato come questa a cui stiamo assistendo non è una rivolta popolare. Non vi è alcun segno di sollevazione di masse pronte ad affrontare i soldati per le strade, né sembra che riesca più a organizzarsi, sebbene non manchino i tentativi, una vera rete di cellule terroristiche in grado di effettuare attentati suicidi in Israele.
I singoli aggressori che cercano di colpire civili e soldati israeliani avranno pure alle spalle il sostegno di larga parte della piazza palestinese, sempre pronta a esaltare le loro imprese, ma è un dato di fatto che solo un limitato numero di palestinesi sembra disposto ad aggiungersi all'attuale ondata di terrorismo. Si discerne al contrario la volontà fra i palestinesi di evitare un'escalation delle violenze che in effetti sarebbe dannosissima per i palestinesi stessi....

(israele.net, 12 gennaio 2016)


Colonia, il ministro ammette: "Aggressioni organizzate"

Assalto anche in discoteca. Oltre 500 denunce per la notte di Capodanno. Spuntano nuovi episodi a Bielefeld.

di Giampaolo Cadalanu

Sono almeno 516 le denunce per reati commessi durante la notte di San Silvestro a Colonia, ma il numero continua a salire. E il 40 per cento dei casi è legato ad aggressioni sessuali, compresi due casi di stupro, comunica la polizia. Ma il dato più impressionante è che il sospetto che l'azione sia stata preordinata e coordinata viene confermato dalle parole di Heiko Maas, ministro della Giustizia, che si è detto «convinto che quando una tale orda si raduna per infrangere la legge, questo appare in un modo o nell'altro pianificato». Sospetto che accomuna anche le denunce di Amburgo (arrivate a 133), quelle di Francoforte e Bielefeld. In quest'ultima città un gruppo di immigrati ha tentato di entrare abusivamente in una discoteca, minacciando le ragazze. La polizia indaga anche i tifosi delle squadre locali, organizzati come vigilantes.
   Ma è la polizia del Nord Reno-Westfalia al centro delle polemiche per le reazioni tardive la notte di Capodanno e ora viene contestata anche dal sindaco di Colonia, oltre che dalla stampa popolare, per i presunti ordini di non divulgare l'origine degli aggressori. La squadra investigativa battezzata "Anno nuovo" ha aumentato gli organici: ora conta 80 agenti dedicati a pieno ritmo all'inchiesta sui fatti della Stazione. Ma finora ha compiuto un solo arresto: il fermato sarebbe un diciannovenne marocchino già coinvolto in altre indagini di piccola criminalità, rintracciato dagli investigatori grazie alla traccia di un telefono cellulare rubato nella notte di Capodanno. Altre 19 persone sono state individuate e denunciate.
   Le violenze di San Silvestro saranno oggi al centro del dibattito interno alla Grande coalizione: l'Unione cristiano-democratica della cancelliera Merkel discuterà con gli alleati di governo socialdemocratici quale deve essere la risposta dell'esecutivo. Domani comincerà la discussione interna ai due partiti, mentre al Bundestag verrà fissata la data per aprire il dibattito parlamentare. Tra i temi all'esame, anche nuove misure di sicurezza: il ministro dell'Interno Thomas De Maizière ha annunciato «più polizia nelle strade, più videosorveglianza, e leggi più dure». Il leader Spd e vicecancelliere Sigmar Gabriel vorrebbe introdurre l'obbligo di residenza per i rifugiati, così da garantirne la distribuzione sul territorio federale. Il senatore berlinese Henkel propone di prolungare la memorizzazione delle immagini registrate dalle telecamere di servizio nelle metropolitane, che adesso vengono distrutte dopo 48 ore. Ma è soprattutto dalla cancelliera che adesso ci si attende una presa di posizione decisa: più ancora che il Paese, è la stessa Cdu a premere su frau Merkel. L'incubo di perdere consensi a favore degli xenofobi di Pegida e degli euroscettici di Alternative für Deutschland è sempre più vivo.

(la Repubblica, 11 gennaio 2016)


Cancro alla prostata: farmaco israeliano approvato in Messico

 
L'autorità sanitaria del Messico ha approvato un farmaco inventato dal Weizmann Institute per il trattamento del cancro alla prostata ad uno stadio precoce.
I risultati registrati nella terza fase del trial clinico, effettuato su 80 pazienti in America Latina (Messico, Perù e Panama), hanno confermato un alto tasso di successo nella cura ed una minima presenza di effetti collaterali rilevati nella seconda fase dello sviluppo del farmaco.
Il farmaco di chiama TOOKAD® Soluble. Il paziente riceve una iniezione in endovena di TOKAD, seguita da una luce laser proiettata attraverso l'utilizzo di fibre ottiche sottili che vengono inserite nel tessuto prostatico, sotto controllo ecografico. Quando il farmaco viene esposto alla luce, esso priva il tumore di ossigeno e nutrienti, necessari per farlo progredire. Il farmaco rimane in circolazione nel sangue del paziente fino a che viene completamente eliminato (circa 3-4 ore dopo), e non ha mostrato alcuna tossicità.
All'interno di questo panorama, TOOKAD® è una procedura della durata di circa 90 minuti. I pazienti vengono dimessi poche ore più tardi e possono tornare alle normali attività entro pochi giorni, con nessuno degli effetti collaterali spesso associati all'utilizzo di chirurgia o radioterapia. Questa soluzione risponde all'esigenza di fornire ai pazienti un trattamento appropriato che combini efficacia e mantenimento di una buona qualità della vita.
La terapia è particolarmente indicata per il trattamento di tessuti cancerosi profondi.
L'approvazione alla commercializzazione in Messico arriva sulla scia del recente completamento di una seconda fase III di sperimentazione clinica effettuata in Europa.
La terapia innovativa è stata sviluppata dal Prof. Yoram Salomon e dal Prof. Avigdor Scherz del Weizmann Institute in collaborazione con lo Steba Biotech di Lussemburgo.
Il farmaco rimane nella circolazione sanguigna del paziente fino a che viene completamente eliminato (circa 3-4 ore dopo), e non ha mostrato alcuna tossicità.
Si tratta di un ulteriore passo in avanti nell'ambito della lotta contro il cancro, una battaglia che la tecnologia medica israeliana vuole assolutamente vincere.

(SiliconWadi, 11 gennaio 2016)


La nostra ipocrisia sulle vignette blasfeme

di Pierluigi Battista

Tutti i media hanno doverosamente ripreso l'ultima copertina di Charlie Hebdo, quella che raffigura un Dio assassino con le fattezze iconografiche del Dio cristiano: bene, l'autocensura si allenta, finalmente non si nasconde la realtà, le immagini più irritanti della satira non vengono cancellate. Ma allora tutti i media che un anno fa, dopo lo sterminio islamista di Parigi, si rifiutarono di pubblicare le vignette su Maometto che avevano scatenato l'ira degli assassini jihadisti non lo fecero, come pure pateticamente dissero, per «rispetto», per non dare manforte ai bestemmiatori, per non urtare la sensibilità dei musulmani di tutto il mondo. Lo fecero, più semplicemente, per paura. Pubblicare le vignette «blasfeme» sul Dio dei cristiani e degli ebrei non comporta nessuna conseguenza, pubblicare quelle su Maometto può esporre a rappresaglie mortali. Paura, non rispetto. Ipocrisia, non moderazione. Gli scrittori, Joyce Carol Oates in testa, che un anno fa protestarono contro un premio da consegnare alla testata Charlie Hebdo in nome della libertà d'espressione, non lo fecero per rispetto delle religioni. No, per paura. I vignettisti italiani molto famosi e che stanno sempre in tv disegnano deliberatamente sconcezze sul Papa e mai su un imam non perché siano rispettosi, ma perché hanno paura: fanno tanto gli spavaldi, ma sono come Don Abbondio. Gli artisti che creano sculture o dipinti in cui la Madonna o Gesù Cristo vengono raffigurati in pose oscene, amano fare elettrizzanti «provocazioni» solo quando non entra in gioco la paura, che loro chiamano «rispetto» quando potrebbero offendersi quelli che decapitano e sgozzano. Gli scrittori di opere teatrali possono pure fare affogare un crocefisso negli escrementi, ma scoprono il rispetto solo quando al centro della scena c'è qualche simbolo della religione musulmana: ma si chiama paura, non rispetto. Il silenzio sugli assassini di Theo Van Gogh e la messa al bando del suo «Submission» non c'entrano con il rispetto, c'entrano con la paura. Quando in un museo inglese tolgono dalle pareti un quadro con Maometto lo fanno per paura, non per rispetto: se c'era un pastore protestante o un rabbino disegnati senza rispetto lo lasciavano Ti, nessuno li avrebbe sfiorati, nessuno si sarebbe presentato armato e minaccioso. L'ipocrisia, non il rispetto. La paura, non il rispetto. La paura è un diritto. Scambiarla con il rispetto è una pura mistificazione.

(Corriere della Sera, 11 gennaio 2016)


Oltremare - Taglit
Taglit - Birthright Israel è un programma in collaborazione fra Stato d'Israele e organizzazioni ebraiche in tutto il mondo che si propone di offrire a giovani ebrei la possibilità di visitare Israele, rinforzando in questo modo la loro identità ebraica e il loro collegamento con lo stato ebraico.


di Daniela Fubini, Tel Aviv

Egrave; ancora piena stagione Taglit, mi pare chiaro. Costeggiando per lungo Kikar Rabin, il centro alquanto decentrato della vita pubblica telavivese, gli autobus in sosta vietata sono parecchio tollerati, perfino quelli appoggiati proprio davanti alle porte del municipio. Segno che la loro presenza è più importante delle regole del traffico, e degli ingorghi così facili su Ivn Gvirol. D'altra parte bisogna anche capire, Tel Aviv è piena di simboli e storia recente, ma pochi sono immediati e forti come il luogo dell'assassinio di Rabin. Quindi è diventato normale vedere gruppi di giovani con cappellini o t-shirt unificate, soprattutto americani, che parlano a voce molto alta e si urlano da un gruppo all'altro "da dove?" "Texas!", "e voi?" "Jersey!" - che sembrano tifosi di calcio particolarmente pacifici in trasferta. Suppongo che la squadra per cui tengono sia Israele, o comunque lo sarà senz'altro, dopo il giro ipersionista che fanno nei loro dieci giorni canonici. Dopo un viaggio Taglit, se non esci di pura fede biancoblu - una stella e due strisce, hai la corazza davvero dura. Mentre vado al lavoro conto i gruppi già arrivati in piazza, ognuno di una trentina o quarantina di giovani, accampati mentre aspettano di arrivare al retro del municipio, per vedere i segni delle pallottole. Mi auguro che questi ragazzi facciano visite anche più edificanti, per esempio una passeggiata sulla tayelet a guardare in faccia il mare, o un pomeriggio al Museo d'Arte Contemporanea o a vedere un film israeliano (possibilmente non di guerra), o che vengano portati ad un concerto di Idan Raichel, per dire cose che poi lungo la vita reale, ove decidessero di viverla qui, vale la pena non perdere di vista. E li lascio lì a fare la faccia seria in Kikar Rabin, a imparare che in questo paese dolore ce n'è da vendere, ma per fortuna quando risalgono sul bus la cosa più importante ritorna ad essere se la ragazzina su cui han messo gli occhi già sul volo intercontinentale si siederà vicina e sorriderà.


(moked, 11 gennaio 2016)


Marsiglia - Ebreo aggredito con machete in strada

Ha aggredito con un machete un ebreo che indossava la kippah in pieno giorno a Marsiglia. Un giovane di 16 anni e con problemi psichici è stato fermato.

MARSIGLIA - Un ragazzo ha aggredito con un machete un ebreo in strada ferendolo ad una mano. L'aggressione è avvenuta nelle strade di Marsiglia la mattina dell'11 gennaio vicino alla sinagoga della città. Il ferito indossava la kippah, tipico copricapo ebraico. A ferirlo un ragazzo minorenne fermato dalla polizia a cui ha rilasciato dichiarazioni confuse e incoerenti, tanto che gli agenti ritengono che potrebbe avere problemi psichici, ma il movente terroristico non è stato ancora del tutto escluso.
Il sito le Parisien scrive che l'aggressione è avvenuta nel 9o arrondissement di Marsiglia e che alcuni testimoni hanno assistito alla scena. Il ragazzo, che ha 16 anni, ha aggredito l'uomo ebreo con un machete ferendolo leggermente alla mano. Dopo pochi minuti il giovane è stato trovato e fermato dalla polizia. Una fonte vicina agli agenti ha dichiarato a Le Parisien che il giovane ha dato segni di squilibrio mentale e non si tratterebbe quindi di terrorismo:
"Il fermato non sembra padrone di tutte le sue facoltà. L'episodio - rassicura la fonte - è stato preso molto seriamente dagli investigatori".

(blitz quotidiano, 11 gennaio 2016)


Da 150 anni gli ebrei in Svizzera hanno parità di diritti

Il 14 gennaio 1866, con uno storico voto, venne loro concessa la libertà di insediarsi ovunque.

 
BERNA - Da un secolo e mezzo gli ebrei in Svizzera godono degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini: il 14 gennaio 1866 infatti, in occasione di uno storico voto, venne loro concessa la libertà di insediarsi ovunque, mentre fino a quel momento avevano il diritto di abitare solo nelle località argoviesi di Endingen e Lengnau.
La costituzione del 1848 riservava la libertà di scelta del domicilio agli Svizzeri di religione cristiana, ma 18 anni più tardi il popolo cambiò le cose, aprendo agli ebrei con il 53,2% dei voti, come ricorda il Manuale delle votazioni federali ("Handbuch der eidgenössischen Volksabstimmungen 1848-2007", Wolf Linder, Christian Bolliger, Yvan Rielle, 2010).
Dietro quella revisione costituzionale si nascondevano tuttavia alcuni interessi economici. Nel 1864 la Confederazione concluse un trattato commerciale con la Francia, che accordava la libertà di insediamento ai cittadini del paese vicino, senza tener conto del credo religioso. Il risultato fu che gli Svizzeri non cristiani - fra loro i 4 mila ebrei elvetici - si trovarono discriminati.
Consiglio federale e parlamento, dopo aver tentato invano di spingere i Cantoni a levare spontaneamente le restrizioni, decisero allora di sopprimere gli articoli della Costituzione che risultavano discriminatori.
Con quella libertà concessa agli ebrei da popolo e cantoni, pian piano scomparvero altri soprusi e persecuzioni esercitati per secoli nei riguardi degli ebrei, non soltanto in Svizzera. Ed esempio, non fu più richiesto che per ottenere il permesso di insediamento gli ebrei dovessero dimostrare di poter provvedere ai bisogni propri e della loro famiglia.
Insieme alla Spagna, la Svizzera era uno degli ultimi paesi a prevedere eccezioni nei confronti degli ebrei. Oggi sono 18 mila quelli che prendono parte alla vita economica, politica, scientifica e culturale. L'ex consigliera federale Ruth Dreifuss era originaria di Endingen.
All'inizio di dicembre Herbert Winter, presidente della Federazione svizzera delle comunità israelitiche, ha tracciato un bilancio positivo dell'integrazione degli ebrei, non senza rilevare qualche stonatura. Come quella di non tener conto nei programmi scolastici delle festività e ricorrenze religiose ebraiche. La secolarizzazione avanza a grandi passi, a discapito della credenza religiosa, per la quale non sono praticamente più previsti congedi agli allievi. Ciò dimostra, secondo Winter, che persiste un potenziale latente di antisemitismo.
Con il crescente rischio di attentati di questi tempi, le comunità ebraiche in Svizzera hanno investito ingenti somme nella sicurezza, assumendosene interamente i costi, contrariamente a quanto viene fatto altrove.
Domenica 17 gennaio a Berna si terrà una manifestazione alla presenza del presidente della Confederazione Johann Schneider-Amman per celebrare i 150 anni dalla fine della discriminazione. In quell'occasione saranno presentate le opere di diversi artisti ebrei e ci sarà un'esposizione di fotografie di Alexander Jaquemet, ad illustrare la pluralità della popolazione ebrea attraverso i ritratti di 15 personalità. Sarà inoltre proiettato il cortometraggio "150 anni in pochi secondi", a rilevare le principali tappe dell'emancipazione degli ebrei. L'esposizione si sposterà poi in varie città elvetiche.

(Corriere del Ticino, 11 gennaio 2016)


Papa Francesco in Sinagoga, pesa il recente riconoscimento dello Stato Palestinese

Di questo articolo del Messaggero riportiamo soltanto il titolo e un breve estratto. Tutto il resto è stato già detto in molte forme. NsI

[...] I rapporti di Bergoglio con l'ebraismo sono più che buoni, tuttavia il recente riconoscimento dello Stato Palestinese ha creato qualche grattacapo. Alcuni mesi fa un tribunale ebraico comprendente 71 rabbini ha scritto una lettera a Papa Francesco invitandolo a rivedere la sua posizione. L'indiscrezione era arrivata dal quotidiano panarabo "al Quds al Arabi" edito a Londra da Dimiti Daliani, membro dell'Assemblea Rivoluzionaria del Movimento palestinese al Fatah. [...]

(il Messaggero, 10 gennaio 2016)


... tribunale ebraico ... 71 rabbini ... lettera al Papa ... sua posizione ... quotidiano panarabo ... Londra ... Assemblea Rivoluzionaria del Movimento palestinese al Fatah. Tutto molto misterioso. Qualcuno sa dire qualcosa di più preciso? Il riconoscomento vaticano di un inesistente stato arabo che attualmente si trova in relazione più che problematica con un esistente Stato ebraico sembrerebbe questione più importante degli abbracci da “volemose bbene” in tipico stile romano. Avranno questo grattacapo anche gli interlocutori romani del simpaticissimo Papa gesuita? M.C.


"Parli arabo? Sì, dalle elementari"

La legge per insegnare la lingua dei vicini ai più piccoli

 
GERUSALEMME - Lo scorso ottobre la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato all'unanimità un disegno di legge che prevede l'insegnamento dell'arabo agli studenti israeliani a partire dalla prima elementare. "Non ho dubbi sul fatto che una volta che la popolazione ebraica capirà l'arabo, allo stesso modo in cui i cittadini arabi capiscono l'ebraico, avremo davanti a noi giorni migliori" ha dichiarato ai media il promotore della legge, il parlamentare del Likud Oren Hazan. La sua proposta ha ricevuto subito l'appoggio del presidente Reuven Rivlin, sin dalla nomina impegnatosi a porre l'attenzione sull'integrazione della minoranza araba (20 per cento della popolazione) nella società israeliana. L'arabo nella sua famiglia era una lingua conosciuta: il padre del presidente, Yosef Rivlin, è stato uno studioso di arabo e soprattutto il primo a tradurre il Corano in ebraico. Anche da qui si può capire la particolare sensibilità di "Rubi" verso la proposta di Hazan, che da quando è in carica non ha esattamente riscosso grandi consensi. Anzi, per la Jta, Hazan è "il parlamentare più scandaloso d'Israele". È entrato alla Knesset con l'ultimo posto disponibile e da allora ha collezionato: una denuncia da parte di Breaking the silence - ong che pubblica le testimonianze dei soldati israeliani in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e a Gaza - per aver fornito sotto finto nome una falsa testimonianza per screditare l'organizzazione; un'inchiesta giornalistica ha portato alla luce il suo passato da manager in un casinò bulgaro, dove - secondo il Canale 2 israeliano - forniva prostitute ai clienti con cui avrebbe fatto uso di droghe rmetantetarnlnei alcune ex dipendenti di un suo bar a Tel Aviv lo hanno accusato di molestie sessuali; ha insultato e irriso pubblicamente la parlamentare di Yesh Atid Karin Elharar, in sedia a rotelle perché affetta da distrofia muscolare. Se in molti lo guardano come una caricatura di se stesso, Hazan è comunque riuscito ad ottenere l'unanimità sulla sua proposta per la lingua araba. "Conoscere la lingua dell'altro - ha dichiarato Hazan - è la base per la comprensione e il rispetto reciproco, necessari nell'attuale situazione d'Israele". Secondo un recente sondaggio dell'università di Tel Aviv il 10 per cento degli israeliani capisce l'arabo mentre solo il 2,5 riesce a leggere un giornale in lingua. Secondo le linee guida del ministero, le scuole ebraiche in Israele dovrebbero insegnare tre ore di arabo alla settimana. Tuttavia, la direttiva non viene applicata e molti istituti non offrono classi.

(Pagine ebraiche, gennaio 2016)



Progetto Dreyfus, "Doppio standard vittime terrorismo"

Manifestazione a Tel Aviv per le vittime dell'attentato del primo gennaio.

Un centinaio di persone, chiamate dall'associazione italiana no profit 'Progetto Dreyfus', ha manifestato ieri sera a Tel Aviv davanti il luogo dell'attentato mortale compiuto il primo gennaio scorso da un arabo israeliano. Con l'hashtag #whereistheworld?, la manifestazione ha voluto protestare contro la mancanza in questa occasione di leader europei e mondiali in Israele a differenza della solidarietà mostrata a Parigi per l'attentato a Charlie Hebdo e all'iperkoscher del gennaio del 2015.
   Per questo i manifestanti innalzavano sagome di Hollande, Putin, Ban Ki-Moon, Cameron, Obama, Renzi, Erdogan, Merkel e Sarkozy che all'epoca in parte scesero in piazza contro l'attentato a Parigi. "Innanzitutto - ha detto Alex Zarfati di 'Progetto Dreyfus' - abbiamo voluto dimostrare la nostra solidarietà alle vittime dell'attentato di Tel Aviv, ma anche denunciare il doppio standard che la stampa e i politici mondiali ed europei adottano nei confronti delle vittime israeliane". "Un evento di impatto che ha voluto mettere in evidenza - ha aggiunto Beny Raccah di 'Progetto Dreyfus' - il silenzio e l'assenza dei leader mondiali a Tel Aviv ma presenti a Parigi".
   All'iniziativa - che è stata trasmessa in diretta su Periscope e che secondo gli organizzatori ha avuto 400 contatti - ha dato l'adesione anche 'Hevra' Olei Italia', l'associazione che rappresenta gli emigrati ebrei italiani in Israele: "La politica dei due pesi e di due misure - ha detto il presidente Vito Anav - è per noi inaccettabile".

(ANSA, 10 gennaio 2016)


Nel rifugio del palestinese killer di Tel Aviv

Il sindaco del villaggio: la 'società araba ripudia la lotta armata'

di Massimo Lomonaco

 
Il rifugio di Nashat Melhem  
L'ultimo rifugio è stata una casa umida e tetra in una stradina di campagna ad un passo da un supermercato e da una moschea: qui, nel piccolo villaggio di Arara, nel nord del Paese, è stato scovato Nashat Melhem (29 anni), l'arabo israeliano che - dopo aver ucciso tre persone (2 ebrei e un tassista arabo) e ferito 8 persone in un attentato a Tel Aviv - ha tenuto in scacco la polizia per un'intera settimana e con il fiato sospeso Israele per una serrata caccia all'uomo. Nella casa Melhem si è nascosto fino a quando è stato tradito dal fiuto di un cane segugio della polizia. Innervosito dalla presenza dell'animale gli ha sparato mettendo sull'avviso le forze di sicurezza. All'interno dell'abitazione - la cui porta appare chiaramente forzata - c'è un disordine terribile: letti sfatti, coperte gettate su divani, vestiti alla rinfusa per terra, piatti ancora con il cibo sparsi un po' ovunque, bottiglie di acqua e scatolame. Una accozzaglia di oggetti da uomo braccato nell'estremo tentativo di sfuggire alle migliaia di agenti che lo hanno cercato ovunque in un Paese scosso dall'attentato.
    Il giorno dopo l'uccisione di Melhem, la casa-nascondiglio sembra ferma nel tempo nonostante oggi sia animata dai giornalisti accorsi in questo villaggio arabo - ad un passo da Umm el Fahem, cittadina di 80 mila abitanti - da dove il killer proveniva. Sotto il pergolato che delimita l'ingresso, le finestre sono sprangate e tutto è in evidente stato di abbandono. Dal vialetto che scende dalla casa e che è fiancheggiato da altre abitazioni si arriva ad una strada più frequentata: le auto passano lente, poco più avanti c'è un piccolo supermercato e oltre ancora la moschea da cui - secondo le prime notizie, poi rivelatesi imprecise - si diceva fosse uscito Melhem.
   La gente del luogo osserva l'andirivieni dei giornalisti e si avvicina alle telecamere: qualcuno ipotizza che l'uomo più ricercato di Israele abbia fatto, camuffato, le provviste proprio al supermercato, ma nessuno sembra averlo riconosciuto e tutti condannano l'attentato. Si e' parlato anche di possibili complici per Melhem: "anche se ci sono stati - dice con forza ai giornalisti l'avvocato Mudar Yunes, presidente del consiglio municipale di Arara - si tratta di erbacce, di casi di eccezione. La società araba è impegnata in una lotta politica ma ripudia la lotta armata. Si tratta di erbacce. Noi non crediamo nella violenza. Se siamo arrivati (nei rapporti fra ebrei e arabi,ndr) dove ci troviamo, la colpa è della discriminazione".
   La casa-rifugio di Melhem non è l'unica 'scena del crimine': un centinaio di metri oltre l'abitazione c'è il luogo dove è stato ucciso da un'unità delle forze speciali israeliane nel tentativo di sfuggire alla cattura. Una mossa questa - al contrario di quanto fatto dopo aver seminato il terrore a Tel Aviv - che a Melhem non è riuscita, nonostante fosse armato dello stesso mitragliatore di fabbricazione italiana con cui aveva ucciso in città. Il terrorista è stato colpito accanto ad una villetta che sorge in leggera salita: sui muri della finestra dell'edificio si vedono ancora i colpi andati a vuoto delle forze di sicurezza. Di fronte, ad un passo, c'è il pergolato di un'altra casa.
   Nei momenti finali polizia e forze di sicurezza hanno intimato a tutti di richiudersi dentro le loro abitazioni. Oggi la vita sembra essere ripresa in forma più lenta: forse perché è il giorno di riposo ebraico e la manodopera araba non lavora. Ma la tensione si avverte lo stesso: la stessa che nei giorni della caccia all'uomo - racconta la gente alla stampa - ha convinto non pochi operai arabi a rinunciare ad andare a lavorare.

(ANSA, 10 gennaio 2016)


Yoel Hasson propone di dotare gli israeliani di giubbotti protettivi

Il deputato l'ha definito un passo importante per fare fronte al clima di paura che si è instaurato negli ultimi mesi tra la popolazione.

Giubbotti protettivi per garantire la sicurezza degli israeliani. È la proposta avanzata dal deputato della Sionist Union, MK Yoel Hasson, definendola un passo importante per fare fronte al clima di paura che si è instaurato negli ultimi mesi tra la popolazione. L'ondata di attacchi ha provocato morti e feriti diffondendo un clima di terrore . «I giubbotti di protezione - ha detto - potrebbero riportare un po' di sicurezza» .
   «Finora, decine di israeliani sono stati uccisi e altre centinaia sono rimaste ferite a seguito dell'ondata di terrore che ha colpito il nostro Paese. È aumentato il senso di panico e di impotenza. Diversi incidenti terribili si sono verificati, e diversi innocenti sono stati accidentalmente sospettati come terroristi».
   Hasson sostiene che dotare i civili con giubbotti protettivi «ridurrà il rischio di danno irreversibile durante gli attacchi terroristici». «Una decisione simile è stata presa durante la guerra del Golfo e in altri momenti di tensione quando le maschere anti-gas sono state distribuite a tutti i residenti dello Stato».
  l nodo da sciogliere è la spesa economica che comporterebbe tale decisione. A tal proposito Hasson afferma: «Spese giustificate dalla necessità di fornire ai cittadini maggiore sicurezza personale».
  ntanto di fronte all'intifada palestinese dei coltelli le forze armate israeliane hanno già messo a punto nuovi «colletti protettivi» per le forze militari. Si tratta di indumenti che avvolgono le spalle e la base del collo: la parte interna è gradevole al contatto della pelle mentre quella esterna è composta da un materiale plastico ed elastico che dovrebbe garantire la necessaria protezione di fronte alle lame degli assalitori.

(La Stampa, 10 gennaio 2016)


Isis e Hamas, i nemici del Cairo. L'Egitto assediato guarda a Israele

«Da Gaza aiuti al Califfo». Giro di vite dopo l'assalto a Hurghada

di Aldo Baquis

L'Egitto vive giornate drammatiche mentre a ritmo quasi quotidiano emissari dell'Isis (o terroristi che si ispirano alla sua ideologia) conducono attentati contro due importanti risorse economiche di quel Paese: l'industria del turismo, e la esportazione di gas naturale dal Sinai. Giovedì al Cairo l'attacco all'Hotel Tre Piramidi dove alloggiavano una cinquantina di cittadini arabi di Israele. Il giorno successivo, nuovo attacco dell'Isis in un resort di Hurghada, sul mar Rosso, dove tre turisti occidentali sono rimasti feriti. Ieri nuovo attentato presso le piramidi di Giza, a sud del Cairo: due militari uccisi in un attentato rivendicato dall'Isis. Intanto nel Nord del Sinai, ad al-Midan, un commando di terroristi islamici ha sabotato per la ennesima volta le tubature che portano gas naturale al territorio nazionale egiziano e alla Giordania. Secondo alcuni osservatori, gli attacchi sono destinati ad intensificarsi fino al 25 gennaio, anniversario della rivoluzione che nel 2011 portò al crollo del regime di Mubarak. Dopo l'interludio del governo dei Fratelli Musulmani, l'attuale presidente Abdel Fatah al-Sisi ha riportato l'Egitto su binari analoghi. Nel Sinai l'esercito egiziano è impegnato in una lotta strenua contro Ansar Beit al-Maqdis, formazione islamica già legata ad Al Qaeda ed entrata nell'orbita dell'Isis.
  L'Impegno militare è ulteriormente cresciuto in seguito all'attentato all'aereo di turisti russi decollati da Sharm el-Sheikh: episodio che ha provocato gravi ripercussioni sul turismo di massa dalla Russia nel Sinai. In questi giorni l'esercito di al-Sisi riferisce peraltro di vistosi successi: fra questi, la cattura di decine di miliziani islamici, la requisizione di ingenti quantità di esplosivi e di armi: anche ad al-Qasima, a due passi dal confine con Israele. Uno sviluppo particolarmente significativo alla luce delle recenti minacce lanciate verso Israele dal Califfo. Lo stesso Israele non minimizza quel pericolo e di recente ha condotto una grande esercitazione militare simulando un attacco dell'Isis lanciato dal Sinai. Intanto lo sforzo dell'esercito egiziano è rivolto anche verso i palestinesi di Hamas che da Gaza - secondo informazioni di intelligence - cooperano con Ansar Beit al-Maqdis, in particolare nel trafugare armi.
  Visto dal Cairo, Hamas è ormai un nemico. Il valico di Rafah fra il Sinai e Gaza è tenuto chiuso da mesi. Al confine con la Striscia viene inoltre pompata acqua del Mediterraneo per far crollare centinaia di tunnel di contrabbando fra il Sinai e Gaza. E questa settimana, per la prima volta in decenni, l'aviazione egiziana ha sorvolato l'area meridionale della striscia di Gaza per colpire obiettivi situati nel versante egiziano della città di frontiera di Rafah. Significativamente questa settimana, dopo due anni di assenza, è tornato a Tel Aviv l'ambasciatore dell'Egitto. Visto da Tel Aviv, l'Egitto resta anche oggi il Paese guida del mondo arabo. Malgrado gli alti e bassi la pace stipulata nel 1978 da Begin e Sadat resiste. Oltre la minaccia dell'Isis e i problemi economici - riconosce Amos Ghilad, dirigente del ministero della difesa israeliano - «la leadership di al-Sisi assicura stabilità al suo Paese».

(Nazione-Carlino-Giorno, 10 gennaio 2016)


Museo della Padova Ebraica, ciclo di conferenze e visite guidate di gennaio

 
Il Museo della Padova Ebraica, aperto quest'anno nel mese di giugno, è dedicato alla tradizione e alla cultura ebraiche, da secoli fortemente connesse con la storia e la vita della città. A volerlo fortemente è stata la Comunità ebraica padovana, con l'obiettivo di valorizzare e rendere fruibile alla cittadinanza e ai turisti un luogo particolarmente significativo e ricco di cultura. Simbolica la scelta della sede: si colloca infatti nel "ghetto" in pieno centro storico, all'interno dell'ex Sinagoga tedesca, bruciata nel 1943 per mano fascista e poi restaurata alla fine degli anni Novanta.
  Nel museo sono raccolti oggetti della tradizione ebraica provenienti dalla collezione della Comunità padovana e di donatori privati, esposti a rotazione; tra questi spiccano alcuni contratti matrimoniali, candelabri, porta spezie, corone, testi di preghiera, spartiti musicali e molto altro.
  Punto di forza e innovazione del Museo è la videoinstallazione Generazione che va, generazione che viene, ad opera del regista Denis Brotto, proiettata su schermi all'altezza dei matronei. Protagoniste del video, dieci grandi figure rappresentative della storia della comunità ebraica padovana, che diventano parte attiva del museo e "prendono vita" di fronte al pubblico, rinascendo assieme alla storia e ai luoghi della vita ebraica della città (i cinque cimiteri e gli interni della Sinagoga italiana di via San Martino e Solferino). Infatti, vari attori recitano la parte dei personaggi più illustri dell'ebraismo mondiale che hanno avuto un legame con la nostra città tra cui Don Itzhak Abrabanel, esegeta, filoso, mistico nato a Lisbona ma sepolto a Padova; Yehuda Mintzfondatore dell'accademia talmudica di Padova nel 1460 e molti altri. Il risultato è un continuum di racconti da varie epoche che si possono ascoltare quasi contemporaneamente catapultando il visitatore in una dimensione quasi onirica in cui il passato si fonde al presente.
  L'importanza culturale di Padova per l'ebraismo è data dal fatto che qui ebbero modo di incontrarsi e convivere diverse culture ebraiche, la tedesca ashkenazita si insediò nel quattrocento con l'arrivo di diversi esponenti da Treviso, quella spagnola sefardita in seguito ai decreti che in Spagna portarono alla confisca dei beni e all'espulsione e che in Italia, in particolare in Toscana e nella Repubblica di Venezia, trovarono una legislazione più tollerante ed accogliente. Nello stesso secolo, le rigidità dello Stato della Chiesa spinsero molti ebrei romani a raggiungere queste zone e a scegliere Padova come primo insediamento.
  Gli ebrei italiani vivevano nella zona vicina a Porta Altinate mentre "spagnoli" e "tedeschi" a sud della chiesetta di S. Canziano raggiunti dagli italiani con l'istituzione del ghetto.
  Oggi la comunità ebraica padovana è numericamente piccola ma decisamente viva e l'impresa dell'apertura di questo museo ne è dimostrazione.
  Il Museo della Padova Ebraica è quindi un prezioso nuovo spazio della città a disposizione dei cittadini e dei turisti che qui, oltre ad una serie di oggetti unici e dal grande valore storico e culturale, troveranno soprattutto un omaggio alle personalità più eminenti, la vera ricchezza della comunità ebraica padovana nel corso dei secoli, per mezzo di una proiezione mappata sulla parete.
  Il Museo della Padova Ebraica propone visite guidate alla Sinagoga e all'antico cimitero ebraico di via Wiel, oltre ad itinerari.

Informazioni
Tel. 049 661267 in orario apertura museo
Tel. 041 5240119 (dal lunedì al venerdì dalle 9,30 alle 16,00)
e-mail padovaebraica@coopculture.it

(Padova Oggi, 10 gennaio 2016)


Dario Disegni: "È questo l'anno per celebrare Bassani e Levi"

Presidente del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah.

di Alain Elkann

Dario Disegni
Dario Disegni è stato nominato di recente dal ministro per i Beni e le Attività Culturali, Dario Franceschini, presidente del Meis di Ferrara, il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, succedendo allo scrittore Riccardo Calimani.

- Potrebbe illustrarmi le caratteristiche di questo museo?
  
«Il museo è stato istituito con una legge dello Stato nel 2003 e, quindi, modificato nel 2006 e ha per scopo fondamentale raccontare la storia e la cultura dell'ebraismo italiano: è il patrimonio di saperi, idee, attività ed esperienze che hanno caratterizzato la più che bimillenaria presenza ebraica in Italia, a cui si aggiunge l'apporto della comunità ebraica italiana allo sviluppo dell'ebraismo e del nostro Paese».

- Quanti sono gli ebrei oggi in Italia?
  
«La comunità ebraica italiana è molto piccola, oggi, e conta poco più di 25 mila persone, ma è caratterizzata da una grande vivacità culturale e intellettuale».

- Perché è stata scelta Ferrara per il museo?
  
«Ferrara è stato un centro importante della vita e della cultura ebraica e la scelta del Parlamento italiano di collocare il museo in quella città, e in particolare nell'ex carcere, in cui vennero imprigionati antifascisti ed ebrei italiani, tra cui lo scrittore Giorgio Bassani, è emblematica: quello che è stato in passato un centro di segregazione si avvia oggi a diventare un centro di cultura, divulgazione, ricerca e di incontro tra civiltà e religioni diverse».

- E' anche il museo della Shoah?
  
«Il museo è stato inizialmente istituito come Museo Nazionale della Shoah, ma successivamente è prevalsa l'idea che fosse essenziale raccontare tutta la lunghissima storia dell'ebraismo italiano, di cui la Shoah rappresenta soltanto un tragico capitolo. La Shoah troverà spazio nell'ultima sezione cronologica del museo. Sezione che verrà curata in stretta collaborazione con il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano».

- Quale sarà il suo compito di presidente?
  
«Il compito essenziale sarà quello di sovraintendere, insieme con il consiglio di amministrazione, che si riunirà domani alla presenza del ministro Franceschini, con il comitato scientifico e con il direttore, al completamento del cantiere e alla definizione del progetto culturale e museale».

- Chi è il direttore del museo?
  
«Il posto è vacante, ragione per la quale il primo adempimento a cui il consiglio sarà chiamato sarà quello di emanare un bando internazionale per la selezione del direttore: è la figura fondamentale per l'assetto del museo».

- Come viene finanziato questo museo?
  
«Il museo, che è costituito nella forma giuridica di fondazione, ha ottenuto importanti contributi da parte del Mibact, il ministero per i beni e le attività culturali e il turismo. Nella scorsa estate il ministro Franceschini ha incluso il Meis all'interno del piano strategico dei grandi progetti culturali, stanziando sette milioni di euro per l'ultimo lotto dei lavori del museo. Per la cessione ordinaria e le varie attività il museo dovrà contare, oltre al contributo istituzionale del ministero, sull'apporto di altri fondi, provenienti da privati, istituzioni e fondazioni in Italia e all'estero».

- Lei ha citato Giorgio Bassani, di cui ricorre quest'anno il centenario dalla nascita, ed è bene ricordare che negli Stati Uniti è appena stata pubblicata l'opera completa in inglese di Primo Levi. Avete in programma iniziative per ricordare questi due grandi testimoni dell'ebraismo italiano?
  
«Certo. Per Bassani sono allo studio diverse iniziative, in Italia e all'estero, mentre, per quanto concerne Primo Levi, la sua opera omnia appena uscita negli Usa verrà presentata a maggio a New York nella sede dell'Onu. Il Meis, a partire dal 24 gennaio, ospiterà nel Castello Estense di Ferrara la mostra "I mondi di Primo Levi": realizzata dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi, era stata allestita con enorme successo di pubblico, lo scorso anno, a Palazzo Madama, a Torino».

- Avete dei collegamenti con i grandi musei ebraici del mondo?
  
«È uno degli obiettivi fondamentali di questo consiglio far entrare il Meis nella rete dei grandi musei ebraici del mondo. Credo sia fondamentale anche in questo campo costruire reti con tutte le altre istituzioni culturali italiane ed internazionali che studiano l'ebraismo italiano».

- Quest'anno ricorre l'anniversario dei 500 anni dell'istituzione del primo ghetto della storia, il ghetto di Venezia.
  
«Sì e da marzo verranno promosse, ad opera della comunità ebraica di Venezia, molte importanti iniziative, tra le quali una mostra sugli ebrei a Palazzo Ducale, "Venezia e il Mediterraneo"».

- Lei, nella sua vita professionale, ha avuto vari incarichi sia in prestigiose istituzioni culturali, quali il Museo Egizio e il Museo del Risorgimento a Torino, sia nel mondo ebraico: presiedere il Meis è una sintesi del suo percorso?
  
«Può certamente esserlo: si tratta in ogni caso di una sfida tra le più importanti di quelle che finora mi sono trovato ad affrontare. L'obiettivo che mi propongo è fare in modo che il museo contribuisca, attraverso una rappresentazione corretta e chiara dell'ebraismo italiano e del suo lungo e profondo legame con il Paese, a diventare un luogo di incontro e di confronto tra le varie realtà culturali e religiose che compongono il mosaico della nostra società».

(La Stampa, 10 gennaio 2016)


Roma - Il tempio ebraico degli emancipati

La sinagoga è stata edificata in venti anni. Un papa la visiterà domenica prossima per la terza volta in trent'anni.

di Fabio lsman

Domenica prossima, papa Francesco sarà il terzo pontefice a recarsi in una sinagoga romana, dopo la storica visita di Giovanni Paolo II nel 1986, e quella di Benedetto XVI sei anni or sono; e dopo il «gesto rivoluzionario» di Giovanni XXIII che, un sabato del 1959, vi fa fermare l'automobile, per benedire chi ne sta uscendo. Allora, vale forse la pena di ricordare come è sorto il Tempio maggiore dell'Urbe; che cosa rappresenta e contiene; le problematiche che ne hanno accompagnato la nascita. Perché fu assai meno semplice di quanto si potrebbe credere: l'iter occupò vent'anni, e non mancarono le polemiche su un edificio tra i più grandi del genere in Europa, che sorge, finalmente, nel 1904, simbolo delle ritrovate libertà ed eguaglianza ..

 I precedenti
  Intanto, il luogo: ai limiti del Ghetto voluto da Paolo V Carafa nel 1555, il secondo nella penisola dopo quello di Venezia (1516), era destinato, fino al 1882, a ospitare il Palazzo di giustizia. Le porte del «serraglio degli ebrei» erano già scomparse: provvisoriamente aperte nel 1798 dalla Repubblica Romana (il giorno dopo, Pio VI lascia l'Urbe; e l'indomani, dal Quirinale, il comandante francese proclama la parità dei diritti degl ebrei: concede la cittadinanza) t da Pio IX la sera di Pesach (la Pasqua ebraica) del 1848, sono a boli te nel 1870, quando la città diven ta la Capitale. A comandare i can noni che aprono la breccia a Por ta Pia, un ebreo: Pio IX aveva preventivamente scomunicato eh avesse osato. Ma l'emancipazione della più antica comunità della diaspora al mondo (sul Tevere da almeno due secoli avanti Cristo), la maggiore in Italia, accade con ritardo rispetto a altri luoghi della penisola: Carlo Alberto di Savoia la concede nel 1948, ma a Roma occorre aspettare. E il «ghetto liberato» ha vita effimera: con il pretesto della salute e del risanamento, è smantellato in fretta dal 1885. Dal 1888 la Comunità si è accordata con il Comune per abbattere le cinque Scole, in cambio di un terreno. Ma un incendio nel 1883 distrugge la maggiore sinagoga, e affretta i tempi.

 Le diatribe
  Non tutti gli ebrei romani erano d'accordo per ricollocarla nel ghetto: chi ne voleva anche una nelle zone «alte» della città; chi, il rabbino Laudadio Fano, temeva di «mantenere intatta la triste eredità del passato, con la sequela di ridicoli pregiudizi e viete abitudini». In un referendum, 718 sì su appena 733 votanti. Ai quartieri «alti» va un lascito di 220 mila lire di Grazia Pontecorvo, vedova di Salvatore Di Castro, e sorge l'oratorio di via Balbo. La nuova sinagoga completa la sequenza di quelle ottocentesche in Italia (Torino, Milano, Firenze, Trieste). Quadrangolare (a croce greca, cupola in stile babilonese) è di Vincenzo Costa e Osvaldo Armarmi, allievo di Guglielmo Calderini, l'autore del «Palazzaccio»: stile greco, ma «influenzato da motivi asiatici e assiri», spiegano i progettisti. Come le altre, guarda a Est, verso Gerusalemme. L'interno è dipinto (senza figure viventi, come prescritto) dai maggiori autori umbri: Domenico Bruschi e Annibale Brugnoli. Di Bruschi opere all'Hotel Majestic e ai Santi Apostoli; del secondo, sono la volta dell'Opera, due Sale savoiarde al Quirinale, altro alla Rinascente; pagati 24.753 lire. Vetri di Cesare Picchiarini le vetrate (come quelli alla Casa delle Civette a Villa Torlonia: cartoni di Duilio Cambellotti). Il Tempio ingloba arredi delle Cinque Scole distrutte: il seggio del rabbino capo era di quella Siciliana (1586). E il resto che si è salvato è nei sotterranei: nel museo allestito da Daniela Di Castro e ora diretto dalla sorella Alessandra.

 Re Vittorio
  Vi si celebra, rivisto, il Rito italiano: né ashkenazita (dell'Ovest), né sefardita (spagnolo); gli shammashim, gli inservienti, sono ancora in cilindro; c'è anche un organo, sempre malvisto dagli ortodossi. Non piacque a tutti: ci fu anche chi scrisse di «un'enorme gabbia d'uccelli». Prima di aprire i battenti, lo visita Vittorio Emanuele III in segno di rispetto e ringraziamento per l'apporto degli ebrei alla nascita della nazione e al Risorgimento; non si immaginava, certo, che 34 anni più tardi avrebbe firmato le più infami leggi razziste di tutto l'Occidente.

(Il Messaggero, 10 gennaio 2016)


Ved. precedente commento


Gerusalemme - Vandali spezzano croci in un cimitero cattolico

E' accaduto al monastero di Beit Jamal, nei pressi di Beit Shemesh. Su alcune lapidi si intravedono anche cognomi italiani.

Un gruppo di vandali ha divelto e spezzato alcune croci nel cimitero del monastero cattolico di Beit Jamal, vicino Beit Shemesh, a ovest di Gerusalemme. Lo rende noto il consigliere dell'Assemblea dei vescovi di Terra Santa, Wadie Abunassar, che ha diffuso anche immagini nelle quali si intravedono sulle croci spezzate cognomi italiani di alcuni sacerdoti deceduti.

(TGCOM24, 9 gennaio 2016)


Un omaggio a Toscanini nella Giornata della Memoria

Il 27 gennaio a Roma sarà ricordato il Maestro che nel 1936 a Tel Aviv tenne a battesimo la prima orchestra ebraica. Concerto della Filarmonica Toscanini su Rai 5.

di Mauro Balestrazzi

Arturo Toscanini sarà al centro della Giornata della Memoria, nella ormai prossima celebrazione del 27 gennaio a Roma. L'omaggio della comunità ebraica al grande direttore è un riconoscimento non soltanto all'artista, ma soprattutto all'uomo che negli anni bui del fascismo e del nazismo non ebbe paura di schierarsi al fianco di un popolo perseguitato.
   Nel 1933 Toscanini fu il primo firmatario di un telegramma indirizzato a Hitler per protestare contro il bando ai musicisti ebrei che erano stati esclusi dalle orchestre tedesche. Pochi giorni dopo aver ricevuto quel telegramma, Hitler invitò personalmente il Maestro affinché tornasse a dirigere al Festival di Bayreuth, ma Toscanini rifiutò. Nel 1936, invece, accolse molto volentieri l'invito a dirigere i primi concerti della neonata Orchestra di Palestina (oggi Filarmonica di Israele), formata interamente da musicisti ebrei che erano stati costretti a lasciare l'Europa. Toscanini pose una sola condizione: sarebbe andato, ma a proprie spese e senza alcun compenso.
   Il successo di quei concerti fu straordinario. La presenza di Toscanini fu un eccezionale lancio per la nuova orchestra. Nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia, il Maestro volle dare un nuovo segno di vicinanza al popolo ebraico. E, nonostante da Tel Aviv avessero fatto di tutto per dissuaderlo, perché le nascenti tensioni fra ebrei e arabi avrebbero potuto mettere a rischio la sua incolumità, Toscanini tornò a dirigere l'orchestra che aveva fatto nascere. In questa occasione, per la prima (e ultima) volta l'orchestra eseguì musiche di Wagner.
   La prossima Giornata della Memoria sarà dunque dedicata a un artista al quale non a caso la stampa fascista aveva attribuito sprezzantemente la qualifica di "giudeo onorario". Nella Sala grande Santa Cecilia del Parco della Musica, Umberto Orsini ricorderà l'uomo Toscanini. Quindi l'orchestra parmigiana che porta il suo nome, la Filarmonica Arturo Toscanini, eseguirà un concerto con la direzione di Yoel Levi, che presenterà lo stesso corposo programma eseguito dalla debuttante Orchestra di Palestina la sera del 26 dicembre 1936, a Tel Aviv, sotto la guida del Maestro. Eccolo: Sinfonia da "La scala di seta" di G. Rossini; Sinfonia n.2, op. 73 di J. Brahms; Sinfonia n. 8 "Incompiuta" di F. Schubert; Notturno e Scherzo dal "Sogno di una notte di mezza estate" di F. Mendelssohn; Ouverture da "Oberon" di C.M. von Weber.
   La manifestazione è sotto l'alto patronato della Presidenza della Repubblica e con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il concerto, a ingresso libero, comincerà alle 20.30 e sarà trasmesso da Rai 5.
   La Giornata della Memoria fu istituita nel 2005 dalle Nazioni Unite in occasione del sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale: fu scelta la data del 27 gennaio perché quel giorno, nel 1945, le truppe dell'Armata Rossa sovietica erano entrate nel campo di concentramento nazista di Auschwitz. Curiosamente, il 27 gennaio è una data ricordata anche dagli annali della musica perché quel giorno nel 1756 nacque Wolfgang Amadeus Mozart e nel 1901 morì Giuseppe Verdi.

(la Repubblica - Parma, 9 gennaio 2016)


Nel vuoto obamiano, Israele si prepara a un Putin egemone in Medio Oriente

La politica di potenza vecchio stile di Mosca. Il presidente uomo dell'anno a Gerusalemme. Le relazioni con l'Iran

di Antonio Donno

Vladimir Putin, definito uomo dell'anno 2015 a Gerusalemme
Con il titolo "Requiem for a Failed Foreign Policy", Noah Rothman, sul numero del 4 gennaio della rivista americana Commentary, ha battezzato il definitivo fallimento della politica estera di Barack Obama, con particolare riferimento al medio oriente. E, nell'ultimo fascicolo della Jewish Review of Books, Ron Tira parla esplicitamente della necessità di una "Israeli Strategy for a New Middle East". Si tratta, per Israele, di una conseguenza politica inderogabile, anche se è difficile per ora dire con certezza quali saranno i caratteri politico-istituzionali del nuovo medio oriente e perciò quali dovranno essere gli adeguamenti strategici di Israele. Fatto sta che nel marasma mediorientale, cioè nel cuore del medio oriente arabo, Israele è l'unico stato robustamente inserito nello scenario della regione. E lo è dal punto di vista politico, economico, sociale, internazionale. Se si guarda a tutti gli avvenimenti che stanno stravolgendo il mondo arabo circostante, Israele può ritenersi soddisfatto per tutto ciò che ha conquistato nel corso della sua breve e tormentata esistenza.
  Ma questa è solo una parte dell'analisi. Nella crisi dell'area, che ha cancellato definitivamente il medio oriente per come l'abbiamo conosciuto dalla fine della Seconda guerra mondiale, un solo dato resta certo e immutabile, così definito in innumerevoli analisi che si sono susseguite nel corso dei decenni:
  "Il fine primario di Israele nella sua azione militare è sempre quello di difendere se stesso. Ma nel proteggere se stesso, spesso finisce per proteggere l'Occidente, e, se fallisce nel proteggere se stesso, spesso mette a rischio il resto dell'Occidente".
  Così Evelyn Gordon su Commentary del 5 dicembre scorso. Tuttavia, se questo concetto è indiscutibile nella sua prima parte, oggi sembra invece traballante nella seconda. Infatti, può avvenire - anzi, sta avvenendo - il contrario. L'incapacità dell'Europa di sviluppare una coerente politica mediorientale è da tempo scontata, ma è soprattutto la politica imbelle degli Stati Uniti, sotto la direzione di Obama, a capovolgere i termini del problema. Ora, non è più Israele, se dovesse fallire, a mettere a repentaglio l'Occidente, è invece il fallimento dell'Occidente, e degli Stati Uniti obamiani in particolare, nell'elaborare e attuare una coerente politica per l'area, a porre a rischio Israele.
  Dopo la dissoluzione dell'impero sovietico, per qualche anno si è parlato di un "Grande Medio Oriente", comprendente le nuove repubbliche islamiche turcofone dell'Asia centrale, cui gli Stati Uniti hanno guardato con molta attenzione al fine di creare avamposti filoamericani in un'immensa area fino ad allora interdetta alla politica di Washington. Allo stesso modo, la Turchia aveva attivato una politica di
Quello che è accaduto nel corso degli anni è stata una nuova edizione del tentativo di Mosca di riprendere in mano i fili di una vasta politica centro-asiatica. Tentativo complessivamente riuscito.
avvicinamento alle nuove realtà indipendenti. Anche Israele si attivò in questo senso. In realtà, quello che è accaduto nel corso degli anni è stata una nuova edizione del tentativo di Mosca di riprendere in mano i fili di una vasta politica centro-asiatica. Tentativo complessivamente riuscito.
Stabilizzata quella regione, per mezzo di una robusta compagine di dittatori opportunamente controllati, o quanto meno non ostili - come nel caso di Nazarbayev del Kazakistan, dove il forte sviluppo economico non collide con gli interessi del presidente Vladimir Putin verso quella nazione di grandissima estensione territoriale nel cuore dell'Asia centrale -, con le "primavere arabe" si pensava che il medio oriente propriamente detto avrebbe ripreso a essere, con vesti nuove, uno dei centri della politica internazionale, anche se Israele non si era mai fatto illusioni su processi democratici nel mondo arabo che consentissero la fine dell'ostilità nei suoi confronti.
  Nel suo libro "World Order", Kissinger lo ha detto chiaramente: "Il riconoscimento diplomatico di Israele porrà fine nei media, nel mondo politico e nel sistema educativo dei paesi arabi alla campagna che presenta Israele come un intruso illegittimo, imperialista, quasi criminale nella regione?". La risposta di Kissinger è scontata: "Israele e i suoi vicini presentano differenze incolmabili dal punto di vista geografico e storico". E così sarà sempre. Perciò, falliti anche i deboli tentativi democratici degli scorsi anni, Israele è ora al centro di una regione in cui il condominio russo-iraniano pone a Gerusalemme questioni di diversa natura. Si tratta di un vero condominio?

 La telefonata Palazzo Chigi-Cremlino
  Il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è premurato subito di ottenere assicurazioni da parte di Putin e di stabilire con la Russia una relazione positiva, quasi a costituirsi un appoggio sicuro di fronte alla minaccia iraniana. Del resto, la politica di Putin verso la regione ha fondamenti ben più solidi rispetto alle ambizioni di Teheran. Giovedì scorso, sul Financial Times, si descriveva l'avanzata delle forze di Assad, con la copertura dei bombardamenti russi, in alcune città del sud del paese in mano ai ribelli; il quotidiano della City registrava perciò le preoccupazioni di alcuni analisti sul possibile nuovo avvicinamento anche delle milizie degli hezbollah iraniani al confine con Giordania e Israele. Altre voci raccolte confermavano tuttavia che Putin - che ieri in un colloquio telefonico con il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, proprio di Siria, tensioni tra Arabia Saudita e Iran, lotta al terrorismo internazionale e scenari energetici ha discusso - non ha alcun interesse a permettere che Israele sia minacciato nella sua esistenza dall'Iran. E
Oggi, Israele non è più, come nel passato, uno strategie asset degli Stati Uniti nella regione, semplicemente perché gli Stati Uniti sono assenti dalla regione. Almeno fino al momento in cui Obama lascerà la Casa Bianca.
questo, per un semplice motivo: perché un attacco iraniano a Israele, in qualunque forma possa essere scatenato, rimetterebbe in gioco gli Stati Uniti nello scenario mediorientale. Oggi, Israele non è più, come nel passato, uno strategie asset degli Stati Uniti nella regione, semplicemente perché gli Stati Uniti sono assenti dalla regione. Almeno fino al momento in cui Obama lascerà la Casa Bianca, momento che Israele attende con ansia per riprendere, eventualmente, un discorso interrotto nei due mandati presidenziali di Obama. Né, tantomeno, è pensabile che la Russia di Putin possa sostituire Washington in questo ruolo. Ma tutto è possibile in una regione che oggi è preda di una grande volatilità politica. Il solo dato certo è che la Russia di Putin ambisce a divenire la potenza egemone nel medio oriente, rovesciando, per una sorta di nemesi storica, la situazione che si creò dopo l'ennesima disfatta araba nella guerra dello Yom Kippur, alla fine della quale gli Stati Uniti erano divenuti, incontrastati, l'ago della bilancia nella situazione politica della regione, grazie anche al cambio di alleanze da parte dell'egiziano Sadat.
  Ma ora il medio oriente non esiste più nella sua tradizionale configurazione statuale. Qui entra in ballo uno dei concetti cardine delle relazioni internazionali: il "vuoto" politico-strategico, che Israele teme sopra ogni cosa. Chi riempirà il vuoto che si sta creando nella regione? Putin, come si è detto, potrebbe essere il principale candidato. Putin è l'erede di una grande potenza globale come l'Unione sovietica e la sua cultura politica è tuttora legata a quella visione. Il suo fine è di rilanciare la Russia nello scenario internazionale e il medio oriente sembra oggi l'area ideale di una politica di espansione politica. Putin opera a tutto campo una politica di potenza nel senso classico della parola. Il vuoto politico mediorientale è oggi lo scenario più confacente a una politica di potenza. Sembra averlo compreso prontamente l'opinione pubblica israeliana, che ha eletto Putin "uomo dell'anno 2015" (Jerusalem Post). Se così dovesse accadere, paradossalmente Israele non dovrebbe temere per la sua esistenza. Se la Russia dovesse divenire la potenza egemone nel medio oriente (cosa che è impossibile per l'Iran, in ragione del conflitto mortale fra sciiti e sunniti, come i fatti recenti tra Iran e Arabia Saudita stanno dimostrando), mai potrebbe mettere a rischio la sua egemonia permettendo ad una qualsiasi forza islamica di minacciare Israele. La politica di Putin verso l'area si configurerebbe in termini di consolidamento dello status quo; in questo, il ragionamento di Putin avrebbe la classica consistenza della visione delle relazioni internazionali tipica della Guerra fredda: conservare e stabilizzare ciò che è stato conquistato. Ma prima di giungere a questi esiti, occorre mettere in rilievo - come giustamente fa Ron Tira - che "il fatto sorprendente è che lo status quo è oggi difeso da una coalizione de facto composta da Israele, Egitto, Arabia Saudita, Giordania". Troppo poco per contrastare, non dico le ambizioni dell'Iran - che non ha possibilità oggettiva di esercitare un ruolo egemonico nella regione - ma per la stessa Russia, che, dal punto di vista politico e religioso, ha le mani libere per giocare una partita estremamente ambiziosa che nel passato non era riuscita né all'impero zarista né all'Unione Sovietica: egemonizzare una sterminata regione che va dal Mediterraneo all'oceano Indiano, attraverso il mar Rosso e il Golfo persico, i "mari caldi", nella definizione dei politici zaristi.
  Israele non può permettersi il lusso di contrastare le ambizioni della Russia. Al contrario, deve sperare che la Russia eserciti una funzione stabilizzante in un contesto sconvolto dal terrorismo islamista. Se questo vorrà dire che Assad resterà in piedi in Siria, sotto tutela russa, ciò non potrà che andar bene a Gerusalemme, purché il dittatore siriano cessi di minacciare Israele. Si potrebbe veramente profilare una situazione finora inverosimile: che la Russia di Putin riesca a stabilizzare una regione attraverso una serie di tutele o rendendo positive le relazioni con gli altri paesi arabi. Fuori gli Stati Uniti, dentro la Russia: Israele potrebbe sentirsi sicuro in una nuova dimensione regionale con un nuovo attore protagonista.

(Il Foglio, 9 gennaio 2016)


Smascherato l'eroe di Parigi. Era un'invenzione di Hollande

Il maliano fu premiato e indicato come esempio di perfetta integrazione per aver salvato gli ostaggi durante l'attacco al supermercato kosher. Tutto falso: l'autore del gesto era un altro. Un nero musulmano salvatore di ebrei innocenti era un boccone troppo ghiotto per la gauche.

di Mauro Zanon

 
Un Hollande radioso insieme al “suo eroe” Lassana
È il mio francese preferito!», aveva dichiarato l'inquilino dell'Eliseo, François Hollande, in occasione della cerimonia di conferimento della cittadinanza francese a Lassana Bathily, l'"eroe" dell'Hyper Cacher, che nel gennaio 2015, secondo la narrazione politico-mediatica, aveva salvato la vita a sei clienti ebrei che si trovavano nel supermercato kosher quando irruppe il terrorista islamico Amedy Coulibaly. La storia del piccolo magazziniere di un supermercato, di confessione musulmana, di origini maliane, senza permesso di soggiorno, prima della decisione di naturalizzarlo francese presa dall'esecutivo socialista, aveva fatto sognare il mondo. Il presidente americano, Barack Obama, aveva addirittura evocato la sua storia durante un summit internazionale, parlato dei «gesti eroici» di Lassana e di lui come esempio per i «popoli del mondo intero». E sui giornali della gauche multiculti era tutto un decantare l'impresa dell'angelo custode musulmano che ha salvato gli ebrei, con paragoni vertiginosi con la Seconda guerra mondiale e con coloro che coraggiosamente nascosero gli ebrei in casa propria.
   Peccato però, come raccontato da un libro appena uscito in Francia, ma di cui nessuna testata mainstream parla, che fosse tutta un'impostura, una panzana colossale, una favoletta buona solo per qualche titolone strappalacrime di Libération in Francia e di Repubblica in Italia. Si chiama "Hyper Caché" (Editions du Moment), il libro che smonta punto per punto la versione ufficiale di quel 9 gennaio 2015, che smaschera la messa in scena dell'ennesima pièce teatrale diretta dalla gauche (l'ultima è l'incontro avvenuto a novembre tra Hollande e la pensionata, Lucette Brochet, minuziosamente preparato dalla comunicazione dell'Eliseo per non farle dire cose scomode per la propaganda goscista).
   Scritto a quattro mani dal giornalista francese Michael Taubmann e Yohann Dorai, uno dei sei clienti nascosti nella cella frigorifera fino all'intervento delle forze dell'ordine, "Hyper Caché" racconta come andò veramente in quei momenti drammatici. Al contrario di quanto emerso dalla versione ufficiale, è Yohann, tra l'altro installatore di impianti di riscaldamento per professione, ad aver spento l'impianto di refrigerazione della cella affinché gli ostaggi potessero sopravvivere in uno spazio ghiacciato, con anche un bebè di 11 mesi, che avrebbe potuto essere la loro tomba. Non Lassana. È Yohann e non Lassana, come testimoniato da tutti, a chiudere la porta della cella frigorifera, dopo che gli ostaggi si erano nascosti. Ed è ancora Yohann a nascondere la chiave del congelatore in un angolo del sottosuolo e a prevenire la polizia, come confermato anche da un documentario, "Les Hommes du Raid", diffuso lo scorso settembre. Infine, sempre Yohann è stato colui che ha offerto il suo piumino per coprire il bebè chiuso con sua madre in uno spazio dove la temperatura era di - 5o. Lassana Bathily non ha nascosto nessuno e non ha protetto nessuno durante la presa di ostaggi.
   Già a giugno, quattro testimoni, tra cui lo stesso Yohann, avevano smentito la versione rilanciata dal governo e dai media su Lassana Bathily. Così si era espressa Sandra: «Lassana Bathily è una persona eccezionale, amato da tutti i suoi colleghi dell'Hyper Cacher, e che effettivamente ci ha proposto di salvarci prendendoci con lui nel montacarichi. Ma non ha potuto salvarci, perché abbiamo tutti rifiutato. I media e le autorità hanno abbellitto il quadro, aggiungendo che ci avrebbe fatto scendere, nascondere, etc. Non è vero, ma non è colpa di Lassana. In quel momento la Francia aveva bisogno di un eroe». Lassana Bathily è un "eroe" fabbricato all'Eliseo, un "eroe" made in gauche.

(Libero, 9 gennaio 2016)


Ucciso dalla polizia il killer di Tel Aviv

Ha compiuto l'assalto a Capodanno. Nashat Melhem è stato rintracciato in una casa abbandonata dalle forze dell'ordine. «Ha cercato di fuggire sparando» La sua fuga si è conclusa dopo una manciata di giorni. Con la morte. Nel giorno di Capodanno, Nashat Melhem era entrato in un bar di Tel Aviv e aveva sparato contro gli avventori, uccidendo tre persone. Ieri il killer è stato ucciso nel corso di uno scontro a fuoco ad Arara, suo villaggio natale, nel nord di Israele, al confine con la Cisgiordania. Melhem era, dopo l'assalto, riuscito a far perdere le sue tracce.
   La città di Tel Aviv - dove ieri era stato elevato lo stato di allerta - e il resto del Paese tirano un sospiro di sollievo, perché secondo i servizi di sicurezza Melhem era una sorta di «bomba ad orologeria»: armato e forse determinato a colpire ancora. Adesso lo Shin Bet (sicurezza interna) sta cercando di capire se fosse un "lupo solitario" o parte di una cellula organizzata. La sua fuga si è conclusa nel villaggio natale di Arara, 60 chilometri a nord di Tel Aviv. Non in una moschea della vicina Um el-Fahem, come riferito in un primo momento, ma in una casa abbandonata. Alcune persone che gli hanno fornito assistenza (almeno cinque) sono adesso agli arresti. A tradirlo, in fin dei conti, è stato un cane segugio della polizia. Quando si è avvicinato al suo nascondiglio, Melhem si è innervosito e gli ha sparato. L'arma utilizzata era lo stesso Falcon, di produzione italiana, con cui aveva gettato nel panico venerdì Tel Aviv quando aveva aperto il fuoco contro il pub Hasimta, dove si festeggiava un compleanno. Presentato in un primo momento come una persona dalla personalità instabile, Melhem (29 anni) ha invece agito in questa settimana con grande freddezza, costringendo Israele a mobilitare migliaia di agenti per localizzarlo. Subito dopo l'attacco al pub era praticamente svanito nel nulla. Si sarebbe appreso in seguito che era salito su un taxi, guidato da un arabo israeliano.
   Durante il tragitto Melhem si era accorto che nel veicolo era in funzione una telecamera. Avrebbe allora ucciso l'autista (in una spiaggia isolata, dove non c'erano altre telecamere di sicurezza) e distrutto le immagini.
   Per una settimana la sua effigie è apparsa ripetutamente su tutti i mezzi di comunicazione israeliani. Per diversi giorni nella zona dell'attacco al pub i genitori hanno avuto paura di mandare i figli a scuola. Nel frattempo, Melhem era già tornato al villaggio natale.

(Avvenire, 9 gennaio 2016)


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Dopo la morte del killer, Hamas minaccia Israele: "Non è finita qui"

Il gruppo islamista di Gaza pronto a nuove violenze nel 2016. Si teme un'ondata di attentati come quella dello scorso anno.

di Lucio Di Marzo

"Questa non è la fine della storia, e i prossimi giorni lo proveranno". È arrivata appena dopo la notizia della morte di Nashat Melhem il commento di Hamas, il gruppo islamista palestinese che controlla la Striscia di Gaza.
Gli uomini del ?arakat al-Muq?wama al-Isl?miyya hanno postato su twitter una foto del corpo senza vita dell'uomo, responsabile dell'attacco a un pub a Tel Aviv in cui sono morte due persone, e hanno giurato vendetta per il 28enne arabo-israeliano, che tuttavia non agiva in nome del gruppo.
La polizia l'ha trovato oggi, nascosto in una moschea nella zona di Um el-Fahem, non lontano dal suo villaggio natale, e l'ha ucciso in una sparatoria. Un'operazione salutata dal ministero della Difesa, che si è congratulato con le forze dell'ordine e con lo Shin Bet, la sicurezza interna.
"Lo Stato di Israele perseguirà fino alla fine i suoi nemici sia dento che fuori del paese. Questo è il nostro impegno per la sicurezza dei cittadini israeliani", ha detto il ministro Moshe Ya'alon. Intanto Hamas e Fatah hanno promesso in due messaggi separati di portare avanti "la resistenza" anche nel nuovo anno. Il timore della stampa israeliana è che si prepari una nuova ondata di attentati contro obiettivi israeliani.

(il Giornale, 8 gennaio 2016)


Roma - Serrande giù al ghetto in memoria della strage al market kosher di Parigi

Il Rabbino Capo Riccardo Di Segni e il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello
A mezzogiorno i negozi del ghetto ebraico hanno abbassato le serrande. Il portico di Ottavia, ha ricordato così le vittime dell'attentato di Parigi di un anno fa, dove un uomo si era barricato all'interno di un supermercato kosher sequestrando numerose persone. Morirono 4 ostaggi. Il rabbino capo Riccardo di Segni ha voluto rendere omaggio alle vittime con la sua presenza. Una breve passeggiata con lo sguardo rivolto ai negozi chiusi. "Siamo a un anno dai tristissimi eventi di gennaio dell'anno scorso a Parigi - ha detto Riccardo Di Segni - la memoria deve essere mantenuta, ricordare l'orrore, ricordare anche la tristissima lezione che ne deriva perché a gennaio - ha spiegato Di Segni - hanno prima colpito una redazione di un giornale satirico, poi hanno colpito un negozio di prodotti kosher, quindi attentati relativamente mirati. Si comincia così ma poi si arriva a investire l'intera popolazione. È il messaggio che arriva dalla Francia, si comincia con noi ma poi si colpisce tutti quanti. Tutti devono dunque - ha sottolineato - vigilare e non pensare che la cosa non li riguardi. Questo abbassare le serrande, tanto più in attesa dello Shabbat, è temporanea e simbolica. Il messaggio è, malgrado tutto - ha concluso il rabbino capo - tenere duro e continuare a vivere".
Con lui anche il presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello. Anche lei ha sottolineato l'importanza di andare avanti e non aver paura. "C'è bisogno anche e soprattutto di continuare a vivere - ha dichiarato - A fianco di questa serrata di solidarietà dei ristoratori kosher - ha aggiunto la Dureghello - abbiamo voluto accompagnare un'attività dei bambini delle nostre scuole che stanno preparando il pane dello Shabbat e quindi lo dedicheremo, donandolo a tutte le famiglie della nostra comunità, alla memoria di questi tragici fatti con un segnale forte di una volontà di continuare a vivere - ha concluso - orgogliosi di quello che siamo".

(la Repubblica, 8 gennaio 2016)


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Terrorismo, il vicepresidente della comunità ebraica di Roma: nessuna paura

di Maria Elena Ribezzo

ROMA - A un anno dall'attentato al supermercato kosher di Parigi in cui persero la vita quattro persone, i commercianti ebrei del ghetto di Roma oggi alle 12 hanno abbassato le serrande per 10 minuti, per commemorare le vittime. "La cosa bella è stata che hanno chiuso non soltanto i commercianti di prodotti kosher, ma anche tutti gli altri", ha detto a LaPresse il vice-presidente della comunità ebraica di Roma, Ruben Della Rocca.
  "Se tutti facessimo uno sforzo - ha commentato - accoglienza e dialogo non resterebbero solo parole. Bisogna sforzarsi e prima di tutto non avere paura. Come diceva Golda Meir: Un ebreo non può permettersi il lusso di essere pessimista".

- Che commemorazione è stata quella di oggi?
  
E' stato un momento di ricordo. Un messaggio di cordoglio che nella chiusura e riapertura delle serrande delle attività ha voluto sottolineare che la vita continua e va avanti. Non ci facciamo assolutamente mettere paura. Le nostre vite non si fermeranno perché dei signori hanno deciso di farci vivere rinchiusi nelle nostre case. Il nostro voleva essere un inno alla vita, contro chi predica morte continuamente, ce la augura continuamente e si esalta attraverso la morte pensando di trovare vergini e quant'altro ad attenderlo. Noi amiamo la vita quanto i terroristi amano la morte.
  Ai ragazzi delle scuole abbiamo chiesto di cucinare del pane, perché noi ebrei santifichiamo il riposo sabbatico benedicendo la challa, che è un pane a forma di treccia. Simboleggia l'intreccio degli affetti e degli amori: diventa un pane d'unione e solidarietà.

- In una città come Roma, sulla quale più volte l'Isis ha giurato di voler issare la bandiera nera, vi sentite più minacciati degli altri?
  
Già dall'attentato del 9 ottobre del 1982 la nostra vita è cambiata qui a Roma. Siamo costretti a entrare in Sinagoga scortati, a mandare i nostri figli a scuola con il presidio di carabinieri ed esercito, che ringraziamo e ringrazieremo sempre - non faremo mai abbastanza per ringraziare le forze dell'ordine che presidiano i nostri posti -. Ma in sè per sè è un'aberrazione che una persona debba andare a pregare scortata o che un bambino debba andare a scuola scortato. Non dovrebbe essercene bisogno.

- In quell'attentato un commando di cinque terroristi causò la morte di un bambino di due anni e ferì 37 persone. Si doveva prevederlo?
  
Quella mattina la Sinagoga non era presidiata. Negli anni abbiamo chiesto il perché, ma non abbiamo mai avuto risposte a sufficienza. Non ci stancheremo mai di chiedere allo Stato italiano che venga fatta luce piena sul perché quella mattina non c'era presidio. I prodromi di quell'attentato furono una feroce campagna di stampa contro Israele dopo l'invasione in Libano che poi è andata a tirare in ballo le comunità ebraiche del mondo chiedendo di dissociarsi, cosa impossibile per un ebreo. Il legame affettivo con Israele è e rimarrà sempre solidissimo. Non si può chiedere di voltare le spalle ai propri ideali.

- In un mondo che esplode sotto le tensioni, quanto può aiutare il dialogo tra religioni?
  
Il dialogo è indispensabile, lo cerchiamo, lo vogliamo, ma dev'essere di pari dignità per le religioni, tra persone che vogliono ascoltarsi reciprocamente.

- A proposito di dialogo, la prima visita di Papa Francesco nella Sinagoga di Roma è alle porte...
  
Sarà uno dei momenti più alti del rapporto tra ebrei e cristiani, che con Papa Francesco si rinnova. Vorremmo però che fosse un dialogo esteso anche a un Islam capace di accettare e di ascoltare l'altro. Siamo convinti che il sistema debba emergere. L'Islam vero non è quello che qualche sbandato cerca di inculcare. Noi delle tre grandi religioni monoteiste siamo tutti figli di Abramo e Abramo aveva il culto dell'accoglienza: andava a cercarsi gli ospiti fuori dalla porta. Non aspettava che qualcuno bussasse, era lui che si metteva fuori dalla tenda ad aspettare gli ospiti.

(LaPresse, 8 gennaio 2016)


Londra, gli lanciano bombolette di gas al grido di «Heil Hiltler»: aggrediti tre ebrei

di Federica Macagnone

Li hanno colpiti con alcune bombolette di gas prima di fuggire su un furgoncino al grido di "Heil Hitler": una donna e due uomini ebrei ortodossi sono stati vittime di un attacco antisemita per mano di un gruppo di neonazisti davanti al centro commerciale Tottenham Hale Retail Park, a nord di Londra. Mercoledì, intorno alle 19.45, i tre erano appena usciti dai negozi e si dirigevano verso la loro macchina quando sono stati presi di mira da alcuni uomini che da un furgoncino bianco hanno iniziato a lanciare bombolette di gas. Al grido di «Heil Hitler» e «Hitler è sulla vostra strada» hanno continuato a terrorizzare i tre fino a quando non hanno notato che uno di loro stava annotando la targa per denunciarli: a quel punto il gruppo si è volatilizzato e le vittime dell'attacco antisemita hanno chiamato la polizia.
   Michael Blayer, volontario Shomrim (le ronde di ebrei ortodossi che collaborano con le forze di polizia - ma non possono eseguire arresti - pattugliando le strade per prevenire furti, violenze, rapine) ha detto che le vittime sono state prese di mira perché indossavano i tradizionali abiti degli ebrei ortodossi. «Questo comportamento è spaventoso - ha tuonato - Le vittime erano degli innocenti acquirenti al Tottenham Hale Retail Park e sono stati attaccati perché erano visibilmente ebrei. L'abuso verbale è stato disgustoso, senza parlare del fatto che sono state lanciate contro di loro delle bombolette mettendone in pericolo l'incolumità. L'incidente è stato segnalato alla Metropolitan Police e ho fiducia assoluta nelle nostre forze dell'ordine che studieranno a fondo il caso per arrivare ai responsabili».
   Jonathan Sacerdoti, direttore della comunicazione della campagna contro l'antisemitismo, ha detto: «Questo inquietante episodio ricorda gli abusi che molti ebrei sperimentano troppo spesso. È fondamentale che le vittime denuncino gli attacchi antisemiti e che la polizia prenda sul serio ogni testimonianza e trovi i responsabili».

(Il Messaggero, 8 gennaio 2016)


H&M trasforma lo scialle degli ebrei in sciarpa da passeggio: è polemica

Il tallit diventa un capo da collezione per tutti. Ironie e proteste invadono i social network. La religione nelle collezioni? Non è la prima volta.

di Francesco Battistini

 
L'abito fa il monaco, l'imam e pure il rabbino. Se sapevamo che la moda è una religione, adesso c'insegnano che la religione fa moda. Dai cristiani, nessuna novità: è un bel po' che i sacerdoti del punto croce abusano delle croci ed è nella storia, ormai, il «chi-mi-ama-mi-segua» che servì a lanciare un famoso jeans. Ora tocca agli altri: D&G ci provano col velo dei musulmani? H&M risponde con lo scialle degli ebrei: il tallit. Disponibile in lana, in cotone o al 56 per cento d'acrilico. Lavabile in acqua fredda e in lavatrice. Stirabile. In vendita anche online, dai 17,99 ai 34,99 dollari. Abbinabile a borse e a foulard proposti a parte. Madamine, il catalogo 2016 è questo e il telo da passeggio è identico a quello da preghiera, pure nei colori: bianco o crema, con le righe nere oppure blu. Proprio come il rettangolo sacro agli ebrei e benedetto nei Libro dei Numeri, versione con o senza le frange prescritte dal Deuteronomio. Gli accademici fashion di Stoccolma si sono liberamente ispirati, ne hanno fatto una citazione e un capo di collezione. Convinti probabilmente, come Coco Chanel, che la moda passi e lo stile invece no. E che nulla sia più elegante, alla fine, d'una ritualità che resiste ai millenni.

 Ironia e sdegno sui social
  «H&M sta per Haim&Moshe?», le iniziali di HM accomunate a quelle dei piu' comuni dei nomi ebraici: le ironie si sprecano in rete, unite a qualche protesta. Non è la prima volta che le maison si gingillano disinvoltamente con l'ebraismo: a luglio, Old Navy ha messo in vendita un cardigan femminile che riprende la stessa idea del tallit. È capitato pure che i creativi siano finiti a toccare temi sensibilissimi, muovendo indignazioni e petizioni. Proprio gli svedesi di H&M cascarono in una clamorosa gaffe quattro anni or sono, accusati d'antisemitismo tout court, quando nelle vetrine di Oxford Street a Londra esposero una canottiera con un teschio insanguinato sovrapposto a una stella di David. Peggio riuscirono a fare gli spagnoli di Zara nel 2014, con un'orrenda t-shirt per bambini (subito ritirata dai negozi) a strisce bianche e nere, identica alle casacche dei lager nazisti, decorata all'altezza del cuore da una stella gialla a sei punte. L'idea di fare un tallit d'uso quotidiano, da indossare come una comoda sciarpa, sembra incontrare al momento reazioni perplesse. Sei volte no, twitta un manager ebreo di Brooklyn. «Lasciate stare la fede, per favore», s'arrabbiano su Facebook. C'è chi irride: «Collezione del Tempio esclusivamente per H&M». Chi sfotte: «Meraviglioso, c'è anche un'opzione tekhelet?», con riferimento al particolare tipo di blu usato per la decorazione delle frange. «Non dimentichiamo che per molta gente il tallit è una cosa sacra - scrive la testata online Racked -. Sarebbe meglio che un argomento religioso non fosse usato per promuovere consumi di massa».

 Com'è trendy il look degli ortodossi
  Cattivo gusto o cattiva coscienza? A insospettire molti ebrei, è anche la Svezia. Paese col quale c'è un conto aperto: un po' per le posizioni spesso apertamente antisraeliane del suo governo, un po' per alcune campagne d'opinione pubblica di sapore fortemente antisemitico. Qualche anno fa s'arrivò all'incidente diplomatico, quando un giornale di Stoccolma riuscì a scrivere che i soldati israeliani vendevano gli organi dei bambini palestinesi uccisi. L'ambasciatore a Tel Aviv fu convocato per chiarimenti e furono decine di migliaia, per mesi, a boicottare tutti i prodotti svedesi, a partire dai magazzini Ikea e dalla stessa H&M. Il caso stavolta sembra un po' diverso, anche perché la citazione religiosa degli stilisti è apparentemente involontaria. «Siamo davvero dispiaciuti se con il nostro capo abbiamo offeso qualcuno — si legge in una nota di H&M —. Da noi chiunque è il benvenuto e non abbiamo mai preso una posizione politica o religiosa. Le righe sono una delle tendenze per questa stagione ed è a questo che ci siamo ispirati. Non era nostra intenzione offendere nessuno». Già più di vent'anni fa, Jean Paul Gautier mandava in passerella lo «Chic Rabbis» ispirato al vestire delle sinagoghe. Anche Vogue ha appena dedicato un servizio alla «più trendy e sexy delle mode», quella degli ebrei ultraortodossi. E alle righe del tallit, in fondo, si rifà pure il pezzo di stoffa più caro agli ebrei di tutto il mondo: la bandiera d'Israele.

(Corriere della Sera, 8 gennaio 2016)


Il rabbino invita a non usare a vanvera la parola "nazismo"

di Donatella Bogo

DANIMARCA - II sostegno più significativo al governo, che nelle scorse settimane era stato accusato di "atteggiamento nazista" per l'idea di sequestrare i beni personali dei migranti che giungono in Danimarca, è arrivato da Bent Melchior, ex rabbino capo danese. «L'ipotesi di confisca dei beni ha già causato un danno d'immagine al Paese che sarà difficile riparare. E personalmente non condivido la politica del governo che tende a disincentivare l'arrivo dei rifugiati», ha innanzitutto precisato Melchior. «Ma trovo che mettere a confronto il suo operato con quello dei nazisti sia semplicemente un non senso. II nazismo fu un obbrobrio che provocò 6 milioni di morti. Paragonarlo a qualsiasi altra cosa è come attribuirgli un lato umano».

(Corriere della Sera, 8 gennaio 2016)


L'arte della memoria

La Triennale premia il Memoriale della Shoah mentre i lavori di allestimento si avviano alla conclusione. Perché questa architettura merita la Medaglia d'Oro.

di Fulvio Irace

 
Il Muro dell'Indifferenza è uno degli spazi che scandiscono il percorso del Memoriale della Shoah
Anche nella stazione Centrale di Milano, come a King' s Cross a Londra, esiste un binario visibile a pochi. Da quello di Londra - il binario 9% - parte, per i seguaci di Harry Potter, l'espresso per la scuola di magia di Hogwarts. Da quello di Milano - il binario 21 - partivano invece i famigerati convogli dell'orrore per Auschwitz-Birkenau e Bergen Belsen. Era il Binario della destinazione ignota, descritto dalle testimonianze dei sopravvissuti tra le centinaia di deportati ebrei caricati sui vagoni merci allestiti al di sotto dei veri e propri binari ferroviari e poi sollevati con un elevatore in modo che l'atrocità del crimine si compisse nel segreto e nella connivenza dei pochi addetti ai lavori.
   Nel grande ventre nascosto della Centrale - lì dove abitualmente si caricavano e scaricavano i vagoni postali - si provvedeva dunque al "razionale" smistamento dei deportati ammassati nelle carrozze. Una storia tragica e oscura che poteva svolgersi solo in un luogo altrettanto gelido e tenebroso, dove il trionfo della tecnica costruttiva - le possenti campate in cemento armato che sorreggono l'intera stazione - si nascondeva sotto le scenografie fastose delle sale e delle gallerie disegnate da Ulisse Stacchini.
   È questo luogo che la Medaglia d'Oro della Triennale di Milano ha voluto premiare quest'anno con la Menzione d'onore per l'allestimento del Memoriale della Shoah, aperto in sordina due anni fa , ma in via di completamento per la parte allestitiva che debutterà il 22 con la mostra "Dalle leggi antiebraiche alla Shoah". Un premio meritato per l' ostinazione, la pazienza e la determinazione con cui i due autori - gli architetti Guido Morpurgo e Annalisa De Curtis - dal 2007 (anno di nascita della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano) hanno saputo tenere la rotta di un programma non facile per l'incombenza di una storia che non lascia molto spazio né alla ragione né alla poesia.
   Ce ne si accorge subito, appena varcata la bussola d'ingresso dalla nuova piazza Safra lungo via Ferrante Aporti: dal mondo della vita reale, del traffico e del commercio, si è risucchiati dal vuoto "industriale" del ventre scuro della stazione, una "macchina" di cemento nuda come un reperto archeologico, con cinque campate lunghe centro metri dentro cui è costruita, con grande efficacia comunicativa, la narrazione dell'orrore e il riscatto della convivenza civile. Un racconto strutturato per capitoli: il Binario della destinazione ignota, l'Osservatorio, le Stanze delle testimonianze, il Muro dell'indifferenza, la Biblioteca per non dimenticare.
   Non solo nomi, però, ma luoghi e dispositivi per entrare nell'orrore ed esorcizzarne il ricordo attraverso l'elaborazione di un pietoso principio di civiltà. Si entra direttamente nell'Osservatorio, un "binocolo" sospeso a tre metri dal suolo, che consente di affacciarsi sulla fossa di traslazione, sul carroponte da cui si avviava la salita al calvario. Sul fondo una lamiera specchiante e uno schermo leggero su cui un filmato Luce del 1931 fa rivivere il sollevamento dei vagoni e l'incanalamento sui binari. Sospesi nel vuoto si può rivivere in parte la sensazione di straniamento e di stupore raccontata dai sopravvissuti, ancora ignari di cosa significassero i vagoni aperti in attesa sul binario.
   Ma, accanto al racconto dell'orrore, ci sono anche il riscatto della memoria, la dedizione del progetto: tutto pensato e disegnato con la sensibilità e la delicatezza dovuta alle testimonianze del martirio. L'elaborazione di ogni singolo dettaglio, la precisione del montaggio, persino la raffinatezza che ricorda la grande tradizione del design e dell'architettura milanesi sono degli omaggi dovuti alla nobiltà del tema: come se l' architettura fosse chiamata a attingere a tutte le risorse della sua ragione per riequilibrare in parte lo smarrimento della ragione degli uomini.

(la Repubblica, 8 gennaio 2016)


Quando Israele aiuta il resto del mondo

Un bilancio del 2015, al di là dei soliti titoli dei giornali.

I principali mass-media sono sempre fissati su tutto ciò che di negativo si può pubblicare circa lo stato di Israele. Talvolta si tratta di accuse semplicemente false, in altri casi raccontano solo mezze verità, in altri ancora danno enfasi a una piccola minoranza di israeliani e non alla maggioranza. A prescindere da tutto ciò, all'inizio del 2016 vale la pena ricordare che questa immagine costantemente negativa di Israele che circola in molti ambienti di tutto il mondo si basa solo sulla propaganda, e non riflette la realtà di ciò che lo stato di Israele è veramente. Così, in onore dell'inizio dell'anno nuovo, intendo mettere in rilievo almeno cinque occasioni in cui, l'anno scorso, Israele ha aiutato il mondo....

(israele.net, 8 gennaio 2016)


Fondi - Museo del Medioevo Ebraico nella "Casa degli spiriti"

A breve l'apertura

di Mirko Macaro

 
La "Casa degli spiriti"
 
Fondi si prepara ad accogliere il "Mme", il Museo del Medioevo Ebraico. Un polo culturale concepito all'interno della porzione di proprietà regionale dello stabile nel centro storico a suo tempo individuato come l'ex sinagoga del quartiere ebraico dell'Olmo Perino, conosciuto come la "Casa degli spiriti" per via dei racconti popolari che lo vogliono infestato da presenze soprannaturali.
   I lavori di ristrutturazione e allestimento del sito, finanziati con fondi europei per oltre 450mila euro totali e portati avanti sotto l'egida del Parco dei Monti Ausoni e Lago di Fondi, sono stati terminati a dicembre. E' stato già predisposto anche il catalogo. All'appello, mancano solamente alcuni passaggi sul piano burocratico, con il museo che verrà aperto entro il primo trimestre dell'anno appena iniziato, probabilmente a febbraio.
   Cinque ambienti ed un giardino, per un percorso didattico - nel museo, a dispetto del nome, rimasto quello del progetto iniziale, non ci saranno pezzi storici - incentrato in particolare, oltre che su approfondimenti religiosi e culturali, su accurate ricostruzioni d'epoca: tra attività finanziarie, botteghe e laboratori tessili, grazie al lungo lavoro di un'equipe di esperti verrà riproposta al giorno d'oggi in tutta la sua suggestione quela che doveva essere la vita della fiorente comunità ebraica attiva nella Fondi del Quattrocento, perfettamente integrata e anzi all'epoca uno dei traini dell'economia locale.
   Un progetto di valorizzazione sulla carta d'ampio respiro, e che si appresta a rappresentare un ulteriore valore aggiunto per il quartiere ebraico della Piana, scoperto tra il '69 e il '70 dopo le ricerche del giornalista e studioso locale Gaetano Carnevale, e quindi "certificato" qualche anno più tardi dagli allora vertici della Comunità ebraica di Roma. Tra i meglio conservati a livello europeo, eppure ancora in "cerca d'autore".

(h24 notizie, 8 gennaio 2016)


Mein Kampf di Hitler

Esce oggi in Germania, per la prima volta dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, la nuova edizione commentata del Mein Kampf di Adolf Hitler: sarà presentata a breve a Monaco di Baviera, all'istituto di storia contemporanea che l'ha curata.
  Per il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi Josef Schuster, questa pubblicazione, che ha già sollevato un ampio dibattito, può essere attualmente molto utile: "Posso ben immaginare che questa edizione commentata criticamente fornisca un chiarimento e consenta di fare luce su quel che di mitico regna attorno a questo libro", ha detto in un'intervista all'emittente NDR.
  La nuova edizione mostrerà con quali teorie e tesi, "completamente false e scurrili", abbia lavorato Hitler, aggiunge Schuster, sottolineando comunque che è anche "possibile" che il nuovo volume contribuisca a diffondere idee del genere nell'estrema destra.
  Ma proprio di fronte a fenomeni come Pegida, il movimento anti-islam cresciuto nelle strade di Dresda che oggi allarma la Germania, osserva, è importante confrontarsi con la propaganda di Hitler, "poiché alcune cose che oggi sentiamo di nuovo, si trovano anche nel libro".
  Pubblicate nel 1925, le tesi del Führer - scritte un anno prima durante i nove mesi di carcere per il fallito colpo di Stato a Monaco -, vengono affiancate da 3700 note critiche, prodotte da storici di prestigio, che intendono proprio "distruggerne il mito". Per 70 anni la Baviera, titolare dei diritti d'autore, ne aveva proibito la ripubblicazione.

(swissinfo.ch, 8 gennaio 2016)


Accolsero e salvarono bambine ebree

FIRENZE - Il convento delle Suore Serve di Maria Santissima Addolorata è stato identificato come House of life' dalla Fondazione internazionale Raoul Wallenberg per aver nascosto 12 bambine ebree durante la II Guerra mondiale. Mercoledì prossimo nella Casa generalizia dell'Istituto, in via Faentina 195, sarà svelata la targa ricordo. Nell'autunno 1943 la superiora generale della congregazione, madre Maddalena Cei, rispondendo all'appello del cardinale Elia Dalla Costa, ospitò e nascose fra le educande, 12 bambine ebree provenienti dalla Polonia, dal Belgio e dalla Francia.
Alla fine della guerra quasi tutte ritrovarono genitori o parenti. Sara e Michal Nissenbaum, che in convento presero il nome di Odette e Michelin Laurent, avevano invece perso tutta la famiglia e il tribunale dei Minori ne affidò la patria potestà al rabbino capo Fernando Belgrado. Proprio loro, anni dopo, vollero ricordare il periodo trascorso nel convento e suor Maddalena venne riconosciuta Giusta tra le nazioni. Ora il riconoscimento al Convento della Fondazione Wallenberg, un'organizzazione non governativa intitolata al diplomatico svedese che salvò la vita di migliaia di ebrei e altri perseguitati.

(La Nazione, 8 gennaio 2016)


Israele vuole i cristiani nel suo esercito

Gli arabi cristiani si dividono tra chi sostiene l'integrazione e chi grida alla frammentazione

di Giusy Regina

Risale a metà dicembre scorso l'ultimo appello del ministro della Difesa israeliano Ya'alon Moshe, affinché sempre più arabi cristiani si uniscano alle file dell'esercito israeliano (IDF). "Israele non può più tollerare le violenze contro i cristiani in Medio Oriente", ha detto il ministro. Ma la questione non nasce dal nulla.
   Per non andare troppo indietro nel tempo, già nell'estate 2014, prima dell'attacco via terra su Gaza - parte dell'operazione Margine protettivo - circa 800 arabi tra cristiani e musulmani vennero arruolati. Fino ad allora gli arabi cristiani - 130mila in Israele - venivano pressoché esclusi dal servizio militare in quanto intimamente associati ai palestinesi e alla loro lotta. In ogni caso si è trattato e si tratta di arruolamento volontario, possibile dal 17esimo anno di età, per sponsorizzare il quale il ministero della Difesa ha spedito accattivanti cartoline casa per casa, che a lungo andare hanno portato i loro frutti. Da giugno a dicembre 2014 ad esempio, si sono arruolati ben 84 arabi cristiani nelle IDF, quando in passato non si sarebbe arrivati nemmeno a 50. Il servizio militare, obbligatorio invece per ebrei, beduini e drusi, offre a chi ne entra a far parte volontariamente una serie di concessioni in materia di occupazione, istruzione, prestiti per la casa.
   A sostenere da sempre l'arruolamento degli arabi cristiani che vivono in Israele nell'esercito del Paese, spunta la figura di padre Gabriel Nadaf, sacerdote cristiano greco-ortodosso, che è stato anche giudice dei tribunali religiosi della comunità e portavoce del Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme. Conosciuto anche come leader spirituale nonché fondatore del Forum per il reclutamento dei cristiani israeliani, padre Nadaf sostiene da sempre l'integrazione degli arabi cristiani che vivono in Israele in tutte le istituzioni statali del Paese, tra cui l'esercito e il servizio civile appunto. "Il destino della comunità cristiana è legata ad Israele, che ne ha mantenuto e garantito la libertà di culto", ha detto Nadaf. "Perché i drusi si arruolano? Perché i beduini si arruolano? E perché i cristiani non si arruolano?" ha detto in un'intervista a Times of Israel. "Perché hanno paura", e questo, ha continuato, deve cambiare.
   Ma com'è facile da immaginare, i deputati arabi della Knesset hanno fatto una forte opposizione al reclutamento dei cristiani nell'esercito. Uno tra tutti il cristiano Basel Ghattas, che, senza giri di parole, ha accusato Israele di "tentativo di dispersione" e mossa per discriminare i palestinesi musulmani, frantumando il nazionalismo arabo, sfruttando la paura sempre crescente per il seducente Daesh.
   Dall'avanzamento di Daesh in poi infatti, la questione si è riproposta con più forza: la paura del califfato che avanza e le stragi contro i cristiani - soprattutto in Siria, Iraq e Libia - hanno portato anche i cristiani di Israele a sviluppare un desiderio di integrazione più vivo nello stato. Essi infatti vogliono far parte attivamente della vita del Paese e dare il loro contributo alla lotta al fondamentalismo islamico. Qualcosa sta cambiando dal basso, nella società dunque. Amir Shalayan ad esempio è un arabo cristiano di 26 anni offertosi volontario per servire Israele nelle IDF; egli ha dichiarato durante un'intervista al The Telegraph: "Preferirei essere un cittadino di seconda classe in uno stato ebraico piuttosto che un cittadino di prima classe in uno stato arabo. I paesi arabi non hanno alcun sistema. Vogliono agire secondo la Sharia". La paura di Daesh diventa incombente dunque e la motivazione di Amir è semplice: i cristiani devono assimilarsi alla società israeliana e servire il Paese che li protegge.

(ArabPress, 7 gennaio 2016)


In memoria dell'espulsione degli ebrei di Sicilia

Il prossimo 12 gennaio, alle ore 17, presso la Sala Almeyda dell'Archivio Storico Comunale di Palermo, si svolgerà un incontro in memoria dell'espulsione degli ebrei di Sicilia. Sono previsti gli interventi della direttrice dell'Archivio Comunale, Eliana Calandra, della professoressa Giovanna Fiume, dell'Università di Palermo e del rabbino Pierpaolo Punturello, rappresentante per l'Italia di Shavei Israel. Nel corso del pomeriggio saranno lette alcune testimonianze dagli attori del Teatro Laboratorio 8, insieme ad una performance di Alejandra Bertolino Garcia con canti della tradizione ebraica.
Sempre il 12 gennaio, alle ore 10 presso la Sala De Seta dei Cantieri Culturali della Zisa, con replica il 13 gennaio, proiezione del film di Pasquale Scimeca "La passione di Giosuè l'ebreo", dedicata agli studenti delle scuole superiori di Palermo che al termine potranno confrontarsi con il regista.

(cefalu.web, 7 gennaio 2016)


Passaggio di consegne al vertice del Mossad

GERUSALEMME - Yossi Cohen è il 12mo direttore del Mossad. Subentra a Tamir Pardo che si ritira dopo 35 anni di servizio presso l'agenzia, di cui cinque al vertice. Per gli ultimi due anni e mezzo Cohen è stato consigliere per la sicurezza interna del primo ministro Benjamin Netanyahu e capo del Consiglio di sicurezza nazionale. Secondo quanto riferisce la "Jerusalem Post", gli incarichi svolti e la vicinanza al premier Benjamin Netanyahu gli hanno dato un vantaggio rispetto agli altri alti funzionari del Mossad in corsa per la carica. "Netanyahu si fida di Cohen e gli ha assegnato missioni segreti e sensibili, tra cui il compito di ricucire i rapporti con la Turchia, migliorare i legami con l'amministrazione Obama e negoziare con leader e funzionari arabi", si legge sul quotidiano.

(Agenzia Nova, 7 gennaio 2016)


Il boicottaggio a Israele colpisce ancora

L'imbarazzo del gruppo francese Orange che abbandona Gerusalemme.

 
Si tratta della più grande vittoria del Bds, il movimento globale di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Orange, la prima compagnia di telecomunicazioni francese, per un quarto pubblica, che ha mire su Telecom Italia e ora è in trattativa per una fusione con l'arcirivale Bouygues, ha deciso di abbandonare Israele e per farlo è disposta a sborsare 50 milioni di euro; costo della rescissione dell'accordo con Partner, l'operatore che gestisce il marchio in Israele. Ovviamente il ceo di Orange, Stéphane Richard, dice che la decisione non c'entra col boicottaggio di Israele, ma la sua ipocrisia serve solo a evitare di dire apertamente una verità imbarazzante che tutti sanno. La questione è esplosa otto mesi fa, quando ong e sindacati anti israeliani si sono scagliati contro Orange, accusata di collaborazionismo con la sionista Partner nei territori occupati. La campagna, che puntava a far terminare le attività di Orange in Israele, ha usato il boicottaggio delle controllate del gruppo francese in Egitto e nei paesi arabi (Marocco, Giordania, Tunisia, Iraq).
  La risposta del manager francese alla pressione del fronte anti israeliano fu da hombre horizontal: "Sono pronto ad andarmene da Israele domani mattina - disse a giugno parlando in Egitto - ma voglio assicurarmi del rischio legale per l'azienda". Se ne sarebbe già andato, spiegava, se non fosse stato per le penali. Dopo la reazione del governo israeliano e le proteste del mondo ebraico, Richard si scusò pubblicamente, dicendo che si "opponeva radicalmente" a qualsiasi boicottaggio commerciale contro Israele e che "non ha mai minimamente pensato che Orange potesse lasciare il paese". Poi si è smentito di nuovo e ha pagato 50 milioni di euro pur di andarsene da Israele prima della scadenza del contratto. Il caso Orange non è una mera questione commerciale, la campagna di boicottaggio è culturale e sta ottenendo significativi successi su questo terreno; vedi la decisione di Amos Oz, il più grande scrittore israeliano vivente, che ha annunciato il boicottaggio silenzioso delle istituzioni israeliane. Il problema non è tanto l'assenza dei ripetitori Orange in Israele, ma il significato d'Israele per il mondo occidentale e la Francia.

(Il Foglio, 7 gennaio 2016)


Un anno dopo Charlie, il politicamente corretto uccide la libertà di espressione

L'autocensura degli intellettuali e dei media e la paura di affrontare il tema della relazione che esiste tra violenza e interpretazione del Corano. Così il politicamente corretto ha ottenuto lo stesso risultato degli sgozzatori.

di Claudio Cerasa

Un anno dopo i disegni proibiti, gli spari improvvisi, la redazione assalita e i dodici redattori e vignettisti di Charlie Hebdo giustiziati al grido di Allahu Akbar da un commando jihadista, l'occidente non riesce ancora a rispondere a una domanda semplice: je suis Charlie Hebdo o je suis Henriette Reker? Ovvero: siamo tutti solidali con la tragedia della libertà d'espressione sgozzata dal fondamentalismo di matrice islamista o siamo tutti dalla parte del sindaco di Colonia e del suo accorato appello a non provocare e a fare i bravi, e fare soprattutto le brave, per prevenire assalti futuri come quelli orrendi e ormai noti registrati a Colonia la notte di Capodanno? Un anno dopo la strage di Charlie Hebdo - e un anno dopo le lacrime veloci e svogliate che hanno solcato per qualche secondo i volti dei più grandi leader politici mondiali - bisogna riconoscere che la fatwa lanciata dall'islam fondamentalista contro la libertà d'espressione ha acceso una forma subdola di totalitarismo culturale che ha imposto all'occidente un codice di comportamento simile a quello proposto dal sindaco di Colonia alle donne della sua città: se non volete finire male, tappatevi la bocca e cercate di adottare un codice di comportamento che vi consenta di prendere le giuste precauzioni per evitare di trovarvi un giorno con un dolce Ak-47 puntato sul vostro cervello libero.
  Un anno dopo la decapitazione di Charlie Hebdo, l'infausto regime imposto dall'islamicamente corretto ha portato a una serie di conseguenze clamorose. La tendenza a marchiare con lo stampo a fuoco del fascista islamofobo chiunque si azzardi a ragionare sulla relazione che esiste tra violenza e interpretazione del Corano (e i vicini di casa dei killer di San Bernardino che non denunciarono i futuri killer per paura di essere considerati islamofobi ricordano da vicino le donne di Colonia che, per timore di essere considerate xenofobe, hanno aspettato giorni prima di denunciare le violenze subite la notte di Capodanno). L'autocensura degli intellettuali che salvo rare eccezioni si occupano di tutto pur di non occuparsi di islam (cercasi un Saviano a Teheran o a Riad). L'autocastrazione dei grandi giornaloni che pur di non offendere i musulmani accettano di pubblicare buchi bianchi nelle proprie pagine (due giorni fa il New York Times è uscito in Pakistan con due pagine bianche pur di non far leggere ai suoi lettori le storie di alcuni blogger laici uccisi perché criticavano l'islam). L'indifferenza di fronte a casi come quello del Jyllands-Posten che lo scorso anno ha scelto di ripubblicare la stessa prima pagina di dieci anni prima (quelle con le vignette di Maometto contro le quali manifestò con violenza una parte del mondo islamico) con dodici spazi vuoti al posto delle vignette, "perché la violenza funziona e noi ora abbiamo paura". Diceva Christopher Hitchens in un gran discorso sulla libertà d'espressione nel 2011 che "The right of others to free expression is part of my own", che il diritto degli altri alla libera espressione è parte della mia stessa libertà d'espressione, che la freedom of speech consiste nell'essere in grado di dire alla gente ciò che potrebbe non voler sentire, e che se la voce di qualcuno viene messa a tacere sono io che mi sono privato di un diritto fondamentale che è il diritto di ascoltare chi non la pensa come me.
  Un anno dopo la strage di Charlie ci saranno molti ricordi, molte fiaccolate, molte lacrime e molti status commossi su Facebook. Ma a un anno dalla decapitazione dei dodici redattori e vignettisti del settimanale satirico francese bisogna fare i conti con la realtà. E la dura realtà è che l'occidente ha scelto di privarsi, per dirla alla Hitchens, di un suo diritto fondamentale. Che non è solo quello di ascoltare chi non la pensa come me. Ma è che anche quello di impedire che il politicamente corretto ottenga un risultato drammaticamente simile a quello pensato dagli sgozzatori di vignettisti: uccidere, semplicemente, la libertà di espressione.

(Il Foglio, 7 gennaio 2016)


L'ebrea Anna Foa collaboratrice dell'Osservatore Romano

di Paolo Conti

Anna Foa
Il numero di gennaio, ora in edicola, del mensile «Donne chiesa mondo» dell'Osservatore Romano, l'organo della Santa Sede diretto da Gian Maria Vian, contiene una novità. Nella gerenza, cioè nella lista delle collaboratrici fisse impegnate nella redazione coordinata da Lucetta Scaraffia, appare per la prima volta anche il nome di Anna Foa, storica moderna, scrittrice, intellettuale ebrea impegnata da sempre sul fronte della Memoria. Una innovazione densa di significati e che arriva pochi giorni prima della visita di papa Francesco alla Sinagoga di Roma, fissata per il 17 gennaio. Così Anna Foa spiega il senso della sua scelta: «Da molto tempo collaboravo con l'Osservatore Romano con recensioni e anche piccoli editoriali. L'ingresso nella redazione nasce dalla mia amicizia e dalla stima sia per Gian Maria Vian che per Lucetta Scaraffia. Ma è anche una mia scelta, come donna e come ebrea, nell'ambito del confronto tra le religioni. Il rapporto tra ebraismo e cattolicesimo è cambiato da tempo e recentemente ha avuto una autentica svolta in senso positivo. Le donne ebree, non dimentichiamocelo, sono sempre state storicamente le protagoniste del dialogo tra le culture e mi auguro che anche oggi tutto questo prosegua proficuamente. Sarà anche interessante vedere cosa accadrà dopo la visita del 17 gennaio, che appare importante da molti punti di vista».
   Anna Foa si aggiunge a una redazione molto eterogenea e cosmopolita, com'è nella filosofia del quotidiano vaticano, composta, oltre che dalla responsabile Lucetta Scaraffia, anche da Giulia Galeotti, dalla suora domenicana francese Catherine Aubin, dalla teologa congolese Rita Mboshu Kongo, dalla gi ornalista argentina Silvina Perez che cura l'edizione del settimanale in lingua spagnola.

(Corriere della Sera, 7 gennaio 2016)


Il rabbino Di Segni: dialogo fra ebrei e cattolici, aspetto il Papa in sinagoga

Riccardo Di Segni, Rabbino capo di Roma, e il rapporto con Francesco in attesa dell'incontro del 17 nel Tempio Maggiore. «Il messaggio? La diversità religiosa come dimostrazione di convivenza, di collaborazione per il bene di tutti».

di Daria Gorodisky

Il 17 gennaio Papa Francesco renderà visita alla sinagoga di Roma. Dopo Wojtyla e Ratzinger, Bergoglio sarà il terzo pontefice a entrare nel Tempio Maggiore di lungotevere de' Cenci. E il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, racconta come si è arrivati a questo nuovo appuntamento, «che rappresenta una continuità nel dialogo ebraico-cristiano», ma che ha anche una peculiarità «per il momento che viviamo sulla scena mondiale e per la figura specifica di Bergoglio». Dunque, presenze ufficiali italiane limitate alla politica locale e ai vertici delle forze di sicurezza, ma molta «gente». «Da quando è stato eletto Papa, abbiamo avuto diversi contatti e incontri, ed è subito entrata in agenda la possibilità di una sua visita: non c'era alcun elemento di urgenza, ma il desiderio era condiviso».

- Diceva «diversi contatti»: che cosa si dicono un Rabbino Capo e un Papa quando si incontrano? La teologia è al centro dei colloqui?
  «Gli incontri nascono sempre da un'occasione o un motivo particolare. La teologia è l'ultimo dei temi. Si parla soprattutto di questioni pratiche, di visioni del mondo, di argomenti storici».

- Per esempio?
  
«Bergoglio è gesuita. Così una volta ho accennato al diretto successore di Ignazio di Loyola, Diego Laynez, che era di famiglia marrana, di ebrei convertiti. Ho ricordato come invece, dopo di lui, fu proibito l'accesso alla Compagnia di Gesù a chiunque avesse anche lontane origini ebraiche. Il Papa conosceva l'argomento. In un'altra occasione gli ho parlato di Francesco d'Assisi...».

- Anche lì origini ebraiche?
  
«Presunte. Credo che sia soltanto un mito. Infatti ne abbiamo parlato con ironia».

- Avete telefonate frequenti?
  
«Abbiamo rapporti cordiali. Ma non mi permetto di disturbare se non per questioni importanti. L'estate del 2014, per esempio, le famiglie dei tre ragazzi israeliani rapiti vicino a Hebron da terroristi palestinesi avevano chiesto di incontrare il Papa. Bergoglio aveva dato la sua disponibilità. Poi, appena ho ricevuto la notizia che i tre giovani erano stati uccisi, ho avvertito il Vaticano. Ne è seguita una conversazione telefonica privata con il Pontefice».

- Lo ha anche chiamato per fargli notare il pericolo di usare con connotazione negativa il termine «farisei».
  
«Volevo rappresentargli la diversa sensibilità del pubblico italiano e quindi il rischio che questo comporta qui rispetto ad altre parti del mondo. Ho trovato disponibilità all'ascolto, il Papa ha recepito».

- In che modo la visita di papa Francesco si differenzia da quelle dei suoi predecessori?
  
«La visita di Wojtyla, 30 anni fa, fu la rivoluzione, lo spartiacque. La seconda, è stata fatta da un Papa, Ratzinger, che aveva un particolare rapporto con l'ebraismo e che ha voluto sottolineare la continuità. Il suo stile era dottrinale, teologico, sapienziale, anche formale. Adesso credo che gli elementi principali siano la continuità, il particolare momento storico, ma anche il rapporto diverso, pastorale, che Francesco ha con il pubblico. Capiamo bene la richiesta di ritagliare l'evento sulla sua personalità. Bergoglio vorrà salutare direttamente il numero più alto possibile di persone. E molti ebrei avranno piacere di stringergli la mano, sarà un'ulteriore tappa nella Storia».

- Citava Ratzinger: siete ancora in contatto?
  
«Sì. Ci scambiamo delle lettere, messaggi augurali e altro. Sempre tutto scritto a mano. Non ci siamo più visti, ma abbiamo mantenuto buone relazioni».

- La visita del 17 ha un legame con il Giubileo? O vuole rappresentare un messaggio di unione contro il terrorismo islamico?
  
«Sono due discorsi separati. Il Giubileo è un evento cristiano, per quanto il suo nome derivi da un istituto biblico. Noi lo rispettiamo. Invece, riguardo la fase che viviamo, oggi il mondo è insanguinato da conflitti che si alimentano con la religione vissuta come generatrice di odio, violenza, distruzione. Il nostro incontro vuole lanciare un messaggio opposto: la diversità religiosa come dimostrazione di convivenza, di gara di collaborazione per il bene di tutti».

- Come accadde con Ratzinger, anche adesso nel mondo ebraico c'è chi è scettico sulla visita proprio per alcune affermazioni del Papa.
  
«Chi crede che il mondo ebraico sia un blocco omogeneo commette un grave errore. Ci sono tante sensibilità. Io bado alla sostanza dei fatti: ogni volta che ho riscontrato un problema, non ho esitato a segnalarlo. Conta il bilancio complessivo. Che, a oggi, è positivo».

(Corriere della Sera, 7 gennaio 2016)


Certo, che oggi sia il Papa ad andare a trovare gli ebrei in Sinagoga è molto meglio di quando dovevano essere gli ebrei ad andare a baciare la pantofola del Papa in Vaticano. Certo, è un bene che i figli degli ebrei oggi non corrano più il rischio di essere battezzati di nascosto e sottratti ai genitori perché diventati immediatamente “cristiani”. E’ anche positivo il fatto che due personaggi di notevole peso mediatico come il Papa e il Rabbino Capo di Roma favoriscano indirettamente una pacifica convivenza cittadina incontrandosi amabilmente in Sinagoga. Una domanda: tutto questo ha qualcosa a che vedere con Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Davide e Gesù? Risposta: no, niente. Altra domanda: questo incontro contribuisce in qualche modo a difendere l’esistenza dello Stato ebraico d’Israele e a rinforzarne la presenza nel mondo? Risposta: no, per niente. M.C.



Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?
dal Vangelo di Giovanni, cap. 5  

 


Insulti antisemiti a un arbitro. Bufera sul presidente di una squadra di calcio tunisino

Protagonista il proprietario del club Sfaxien, Lotfi Abdennadher, avrebbe detto: "Non sei altro che un cane, un ebreo".

Una frase forte che ha scosso il mondo del calcio tunisino, e non solo. A dirla sarebbe stato lo scorso 28 dicembre il presidente del club Sfaxien, Lotfi Abdennadher, che avrebbe insultato un arbitro ebreo, Sadok Selmi, definendolo: «Un cane». Sarebbe accaduto presso la sede dell'Espérance Sportive de Tunis, con sede a Tunisi. Immediate le proteste della comunità ebraica tunisina che sul quotidiano "La Presse" ha riportato i fatti e chiesto una ferma condanna dell'accaduto.
   Secondo l'emittente televisiva, El Hiwar Ettounsi, la frase sarebbe stata pronunciata al termine di una discussione tra i due uomini. Abdennadher avrebbe detto a Selmi: «Non sei altro che un cane, un ebreo. Come hai fatto a diventare un arbitro internazionale? E ' una vergogna».
   A questo episodio ne sarebbe seguito un altro con protagonista un giocatore sempre del club Sfaxien, Naceur Bedoui. Nel corso di un'intervista sul canale televisivo Ettassia 9, avrebbe nuovamente pronunciato frasi antisemita, affermando che «Un ebreo non può essere una scelta adatta come allenatore squadra di calcio» .
   Dura e ferma la presa di posizione della comunità ebraica tunisina che attraverso un comunicato chiede a tutti i funzionari responsabili di strutture sportive del Paese di «intervenire e condannare tali comportamenti le cui conseguenze si ribaltano sull'immagine della Tunisia a livello internazionale». Dunque evitare che accadano episodi simili e prendere le opportune misure disciplinari nei confronti delle persone coinvolte in questa vicenda.

(La Stampa, 7 gennaio 2016)


Bolzano: poliziotto ebreo trova insulti antisemiti nel suo fascicolo

di Riccardo Ghezzi

Un poliziotto in servizio presso la Polstrada di Bolzano ha effettuato il periodico accesso agli atti del proprio fascicolo personale ed ha trovato un'amara sorpresa: un foglio non firmato né protocollato nel quale, in violazione di legge, è ben evidenziato in grassetto e sottolineato che lo stesso è di religione ebraica ed anche altre offensive affermazioni di carattere perlopiù antisemita.
   A denunciare l'episodio è la segreteria nazionale del sindacato di Polizia AdP, Autonomi di Polizia, che ha immediatamente chiesto un'ispezione al dipartimento della Polizia di Stato.
In Polizia "tutti hanno diritto di professare la propria religione senza essere etichettati o discriminati per questo" ha aggiunto il sindacato in una nota.
   L'episodio, su cui dovrà essere fatta luce, rappresenta un allarmante e inquietante caso di discriminazione che potrebbe costituire un pericoloso precedente.

(L'Informale, 6 gennaio 2016)


Salvataggio: arriva il robot israeliano

 
Un team di ricercatori composto dal Prof. Amir Ayali del Dipartimento di Zoologia della Facoltà di Scienze della Vita dell'Università di Tel Aviv, dal Dott. Gabor Kosa della Facoltà di Ingegneria e dal Dott. Uri Ben-Hanan del Dipartimento di ingegneria meccanica dell'ORT Braude College, hanno sviluppato una sorta di robot somigliante ad una cavalletta, per aiutare ricerche e soccorsi in terreni difficili.
  Lo studio, condotto in gran parte dagli studenti del dottorato di ingegneria dell'Università di Tel Aviv, Valentin Zeitsev, Omer Gvirsman ed il Dot. Avi Weiss dell'Ort Braude College, è stato pubblicato all'interno della rivista Bioinspiration & Biomimetics.
  TAUB, il nuovo robot i miniatura, è il frutto della collaborazione tra l'Università di Tel Aviv e il Ort Braude College, misura 12,7 cm, pesa meno di 30 gr ed è capace di fare salti di 3,35 m d'altezza, coprendo una distanza orizzontale di 1,37 m, il doppio delle prestazioni di simili robot già esistenti. Secondo i suoi sviluppatori, donerà un enorme contributo nel campo della robotica avanzata e verrà impiegato in missioni di ricerca e salvataggio in terreni accidentati.
Spiega il Prof. Ayali:

Il nostro mini robot-cavalletta è un ottimo esempio di innovazione tecnologica ispirata al mondo bio. Il processo di fabbricazione è economico ed efficace e le piccole dimensioni permettono il movimento su terreni difficili e sconosciuti permettendo l'utilizzo in qualsiasi situazione.

Il corpo del mini robot è stato creato grazie all'aiuto di una stampante 3D ed è in plastica ABS (ovvero quella utilizzata per la realizzazione dei giocattoli Lego). Le gambe sono in tubi di carbonio rigido. Funziona con una mini batteria integrata ed è controllato a distanza da un microcontrollore.

La nostra ricerca è un vero sforzo di collaborazione interdisciplinare di ingegneria biologica che unisce l'osservazione biologica delle cavallette e la tecnologia avanzata. In questo modo, sarà possibile riprodurre i principi biologici osservati nell'insetto nel meccanismo del salto effettuato dal robot in miniatura.

I ricercatori sottolineano il focus su alcune caratteristiche biomeccaniche specifiche dell'insetto. Solitamente una cavalletta effettua un salto in 3 fasi:
  1. fase preparatoria in cui le gambe si piegano;
  2. fase intermedia in cui vi è un momento di blocco;
  3. fase finale in cui un improvviso rilascio del muscolo flessore della coscia sblocca l'articolazione e provoca un rapido rilascio di energia, consentendo alla cavalletta di saltare.
Copiando la cavalletta, che utilizza l'energia meccanica immagazzinata per rafforzare l'azione dei muscoli delle gambe, anche il salto del robot TAUB è dato dalla capacità di immagazzinare energia.
I ricercatori stanno attualmente lavorando su un meccanismo di perfezionamento che permetterà al robot di ampliare la gamma di salti degli ostacoli, di ridurre l'impatto all'atterraggio, di effettuare salti in più direzioni, espandendo così le sue possibili applicazioni nel settore del salvataggio.

(SiliconWadi, 6 gennaio 2016)


Mai più

di Francesco Lucrezi

Com'è facile mostrarsi altruisti, sensibili e coraggiosi di fronte alle ingiustizie del passato, ed essere contemporaneamente egoisti, cinici e vili di fonte a quelle di oggi; indignarsi per le violenze di ieri, (quando i cattivi sono ormai inoffensivi, sconfitti e archiviati nei libri di storia, e le vittime sono morte, e della nostra solidarietà possono beneficiare solo nell'Aldilà, se esiste), e fare spallucce di fronte ai soprusi di oggi (quando i cattivi sono vivi, vegeti e potenti, e le vittime avrebbero tanto bisogno del nostro attivo aiuto e sostegno).
   Si avvicina il Giorno della Memoria, e certamente sentiremo dire, da tante cattedre, con toni accorati e commossi, che la Shoah non è solo stata perpetrata dai carnefici nazifascisti, ma è anche stata permessa e agevolata da tutti quelli che - per paura, conformismo, viltà, indifferenza, quieto vivere - hanno girato la testa o chiuso gli occhi, scegliendo di non immischiarsi in faccende che magari non capivano o non approvavano, ma che comunque non li riguardavano direttamente. "Ciò non deve succedere mai più!", sentiremo esortare, "mai più girare la testa di fronte ai segni del Male!".
   Mai più?
 
Noy Drihan
 
Yoav Omer
I due atleti israeliani esclusi   
   Il 2015 si è chiuso con un episodio che dà il segno di quanto sincera, diffusa e profonda sia la comune determinazione a far sì che "mai più" si chiudano gli occhi. Due ragazzi sono stati esclusi da una manifestazione sportiva internazionale - relativa a una disciplina nella quale, fra l'altro, erano i detentori del titolo mondiale, che erano chiamati a difendere, con alte possibilità di successo -, perché il loro Paese è molto antipatico alla nazione ospitante. Possono venire, hanno detto, ma devono gareggiare sotto rigoroso anonimato, non si deve mai dire a quale Paese appartengono, non si deve mai vedere la loro bandiera, devono prendere un volo indiretto, non possono comprare niente, in caso di vittoria, non si dovrà ascoltare il loro inno nazionale ecc. ecc. Nella Federazione sportiva internazionale - presieduta, guarda caso, da un italiano: "italiani brava gente" - qualcuno - ma solo qualcuno - ha mostrato un po' di imbarazzo, sia pure a bassa voce, denunciando che ciò sarebbe stato contrario allo spirito dello sport (ma davvero?), e qualcun altro ha addirittura accennato (ovviamente per scherzo) alla possibilità di una reazione estrema, quale la scelta di disertare la manifestazione. Tale eventualità è stata adombrata anche per la delegazione italiana, che però, alla fine, ovviamente, è rimasta, perché, leggiamo, si è deciso di non scaricare sui due quindicenni italiani "contraddizioni molto più grandi di loro".
   Giusto, ben fatto. Giusto difendere il diritto dei nostri quindicenni a gareggiare, a divertirsi, a difendere i loro colori, a fraternizzare con i coetanei di altre nazioni, a tenere alti i valori dello sport. Qualche altro quindicenne forse è stato un po' discriminato, peccato, ma poi, chi sa, ci saranno delle ragioni, la politica, vai a sapere… E poi, che c'entriamo noi? Non l'abbiamo mica presa noi questa decisione…
   77 anni fa, tante mamme e tanti papà avranno appreso, all'improvviso, che dei bambini e dei ragazzi venivano cacciati dalle classi di scuola, e il primo pensiero di molti sarà stato: "ma nostro figlio mica lo cacciano, vero?". Tranquillizzati sul punto, avranno poi rivolto, forse, un fuggevole pensiero alle vittime dell'ingiustizia: qualcuno avrà detto "ben gli sta", qualcun altro "poverini", ma la stragrande maggioranza avrà pensato, semplicemente: "che c'entro io? Non mi riguarda".
   Questo, ci sentiremo fra breve ripetere, non dovrà accadere più, ma proprio "mai più".

(moked, 6 gennaio 2016)


Il possibile Collasso dell'autorità Palestinese

Da quasi quattro mesi in Israele si assiste ad una ondata senza fine di attentati terroristici, nulla di clamoroso come le stragi di Parigi, nulla di sconvolgente come l'attacco alle Torri Gemelle del 2001, ma non certo una situazione meno grave perché a nostro avviso è in grado di compromettere l'esistenza stessa dell'autorità palestinese come oggi la conosciamo.
   È evidente che le forze di sicurezza dell'ANP, e ancor di più i vertici politici dell'Autorità Palestinese di Ramallah non sono in grado di governare questa ondata di attentati. Attentati compiuti da "persone normali" che il più delle volte senza preavviso prendono un coltello e attaccano il primo ebreo che trovano lungo la loro strada, oppure al volante della loro macchina decidono di travolgere un gruppo di persone ad una fermata dell'autobus. Il fenomeno si sta ogni giorno espandendo e potrebbe presto assumere una nuova forma.
   A nostro avviso un numero sempre crescente di palestinesi nutre odio non solo contro lo stato di Israele ma anche contro la stessa autorità Palestinese guidata da Abu Mazen, ritenuta troppo moderata nell'approccio verso l'occupazione dei territori palestinesi.
   Il terrorismo potrebbe presto cambiare obiettivi e iniziare a colpire esponenti dell'autorità palestinese. Se ciò accadesse, e se le forze di sicurezza non dimostrassero la piena volontà di difendere l'attuale Leadership palestinese potremmo assistere al collasso interno dell'attuale ANP è un nuovo soggetto politico,molto più vicino alle posizioni di Hamas emergere come guida dei palestinesi della Cisgiordania.
   Questa possibilità è sottovalutata dalla comunità degli analisti e ancor più lo è dai media generalisti che a malapena si occupano dei quotidiani e multipli atti di terrorismo che si verificano sia in Cisgiordania, sia entro nelle città Israeliane.
   Il collasso dell'ANP potrebbe successivamente scatenare una nuova intifada, non più combattuta solo con i coltelli e con la automobili, ma vedere il ritorno alla strategia degli attentati suicidi se non ad una vera e propria rivolta armata nei territori, che potrebbe ricevere sostegno anche da Gaza con l'apertura di un secondo fronte.
   Questa ipotesi è estremamente pericolosa, non solo per Israele, ma per l'intera regione. In caso di rivolta armata palestinese e dell'apertura del fronte di Gaza, Israele agirebbe in maniera molto più determinata di quanto visto in passato, sia a Gaza, sia in Cisgiordania. Gerusalemme, vista l'attuale estrema instabilità del confine nord, non può permettersi di gestire senza timori un lungo confronto armato interno.
   Come vedete il collasso dell'autorità palestinese, che in effetti è già iniziato con l'impotenza di
   Ramallah nella gestione dell'ondata terroristica in atto nei territori, avrebbe come conseguenza la morte di migliaia di persone, su ambedue i fronti, e una guerra con risvolti politici che potrebbero minare la stessa tenuta del governo di Israele, nell'ultimo anno di una presidenza americana ostile a Gerusalemme e pronta a colpire Netanyahu al primo errore sullo scacchiere internazionale.

(Geopolitical Center, 6 gennaio 2016)


L'omaggio di Reggio Emilia ai dieci martiri ebrei

Le pietre d'inciampo di Günter Demnig davanti alle loro case.

di Adriano Arati

REGGIO EMILIA - Sono storie reggiane, vissute fra le strade e le piazze cittadine. E concluse nel peggiore dei modi, al campo di stermino di Birkenau. E venerdì 9 gennaio verranno installate a Reggio le prime dieci "pietre d'inciampo" in memoria di dieci ebrei reggiani, catturati dai fascisti e mandati nel più conosciuto dei campi nazisti, Auschwitz/Birkenau.
Le pietre d'inciampo sono per definizione opere d'arte diffuse che ricordano le persone deportate nei campi di concentramento e sterminio nazisti, dove hanno infine trovato la morte. Frutto di un'idea dell'artista berlinese Günter Demnig, vengono depositate dove la persona uccisa visse liberamente per l'ultima volta.
E il 9 gennaio, alla presenza dell'autore stesso, verranno posate per la prima volta in terra emiliana, in un'operazione voluta e finanziata da Istoreco e in particolare dal Viaggio della Memoria, che quest'anno porterà oltre mille studenti delle superiori in visita proprio a Cracovia e al complesso di Auschwitz/Birkenau.
È l'avvio di un percorso che nei prossimi anni ricorderà tante altre vittime del fascismo e del nazismo: avversari politici, ebrei, appartenenti a "razze inferiori", includendo anche chi morì a Reggio nei propri nascondigli, dopo essersi sottratto alla cattura.
Il cammino - dopo l'anticipazione l'8 dicembre scorso in centro storico con lo scrittore Paolo Nori che ha condotto la visita guidata - prenderà quindi il via il 9 gennaio, grazie a Günter Demnig, che provvederà direttamente alla posa delle pietre, piccoli cubi ricoperti con piastre di ottone incastonati nel terreno, con i dati anagrafici e il luogo della morte della persona ricordata.
Le dieci pietre parleranno in particolare di dieci vittime del fascismo e del nazismo: Ada, Olga e Bice Corinaldi, Benedetto Melli, Lina Jacchia, Oreste Sinigaglia, Beatrice Ravà, Iole e Ilma Rietti e Lucia Finzi.
Le loro storie sono state ricostruite da Istoreco assieme ai ragazzi di diverse scuole superiori reggiane, grazie a un lungo laboratorio di ricerca iniziato mesi e mesi fa.
Lo scenario, il cuore cittadino: a partire da via Monte Grappa 18, dove abitarono Ada, Olga e Bice Corinaldi; e ancora via Emilia San Pietro 22, dimora di Benedetto Melli e Lina Jacchia; e poi via Monzermone, nell'ex ghetto reggiano, a fianco delle case di Oreste Sinigaglia, Beatrice Ravà, Iole e Ilma Rietti.
Un ulteriore tappa porterà in provincia, a Correggio, per l'omaggio a una delle vittime, Lucia Finzi.

(Gazzetta di Reggio, 6 gennaio 2016)


Musica: tour di Eros Ramazzotti, in aprile a Tel Aviv

Dopo molti anni di tentativi da parte di impresari israeliani, finalmente è stato possibile convincere il cantante Eros Ramazzotti ad esibirsi a Tel Aviv, nel contesto del suo tour internazionale "Perfetto".
L'annuncio ufficiale è giunto oggi in una conferenza stampa a Tel Aviv in cui è stato mostrato un breve messaggio registrato dall'artista italiano.
"Shalom Tel Aviv - dice il cantante. - È la prima volta che vengo in Israele. Sono molto felice... È il 30 aprile. Ciao".
Due degli organizzatori, Guy Besser e Shay Mor Yossef, hanno aggiunto con compiacimento di essere "lieti di portare artisti di spicco in Israele, in un questo periodo delicato". Ramazzotti sarà accompagnato da uno staff di 35 persone e si esibirà nel Palasport Menorah di Tel Aviv. Da oggi vengono messi in vendita 7'000 biglietti a prezzi contenuti, e altri 600 nei posti migliori.
Una portavoce degli organizzatori ha aggiunto che già da adesso le fan locali di Ramazzotti sono elettrizzate e hanno espresso la propria emozione sulle proprie pagine Facebook. Da qui la previsione che la star italiana riceverà a Tel Aviv una accoglienza molto calorosa.

(swissinfo.ch, 5 gennaio 2016)


Iran e Arabia, nemici-gemelli: vogliono il dominio dell'islam

I due regimi puntano entrambi alla resa finale dell'Occidente. Applicano la sharia e fomentano il terrorismo internazionale.

di Fiamma Nirenstein

Secondo Amnesty International, l'Iran solo nei primi sei mesi del 2015 ha eseguito le condanne a morte di circa 700 persone, quasi tre esecuzioni al giorno, e circa 700 è il numero delle persone che, invece, in un anno, sono state messi a morte in Arabia Saudita.
  No, nessuno dei due dati rincuora, i numeri sono impressionanti. Ma non è banale metterli in luce in tempi in cui gli iraniani vengono sempre rappresentati con diplomatica grazia, e adesso che lo scontro sciita-sunnita è venuto alla luce drammaticamente quando i sauditi, provocatoriamente, hanno messo a morte il predicatore sciita attivista e forse terrorista Nimr al Nimr, e gli iraniani hanno reagito come tigri ferite. La sequenza degli eventi è nota: le proteste degli sciiti ovunque, l'assalto all'ambasciata saudita a Teheran (e, certo, non per mano di una folla incontrollata), la rottura da parte del Sudan e del Bahrain lunedì, poi la condanna dell'università islamica di Al-Azhar al Cairo della «interferenza» negli affari interni sauditi, e poi l'annuncio della chiusura dei cieli e dei commerci sauditi e dei suoi alleati e poi e poi... la shia e la sunna si scontrano con ondate degne di essere cavalcate da un grande campione di surfing, e invece solo un impotente stupore occidentale contempla quello che Eliezer "Geizi" Tsafrir, ex consigliere israeliano del primo ministro per gli affari arabi e ufficiale del Mossad definisce «l'ebollizione del conflitto sunnita-sciita».
  Per noi, un conflitto senza ragioni o torti, che inizia 1400 anni fa quando due sette musulmane si contrappongono sulla successione a Maometto, uno scontro che ci ricorda come in Medio Oriente alcuni problemi sono semplicemente privi di risposta. Il califfo e l'ayatollah per quanto ci riguarda sono quanto a ideologia, simmetrici: hanno in comune la convinzione che il destino del mondo è il sacrosanto dominio dell'islam, e ciascuno crede nel suo islam. Hanno stili diversi, affabili ambedue finché serve allo scopo, credenti solo in Allah e convinti che l'Occidente alla fine dovrà arrendersi. Anche la Russia che adesso si offre come mediatore viene valutata su questo metro, come gli Usa di Obama, quale che sia la gentilezza mostrata nelle trattative e negli accordi. Sunniti e sciiti sono stati scatenati dal mare in tempesta delle primavere arabe, quando si scuotevano tribù appunto sunnite, sciite, curde, alawite, druse, yazide, beduine, cristiane... In parole semplici, il conflitto sunniti-sciiti innescato allora (come, mi permetto di ricordare, spiego nei dettagli del mio nuovo libro Il califfo e l'ayatollah) si è tradotto in un esercito sunnita con la punta di invasati detta Isis, e nella bomba sciita, oltre che nella disperazione dell'immenso popolo arabo che vaga terrorizzato o prende la strada della fuga verso l'Occidente. Il terrorismo, ad opera delle due parti, è diventato il maggior problema bellico del nostro tempo.
  E l'Arabia Saudita ha grandi responsabilità nella propulsione di quello wahabita, che ha portato fino all'11 di settembre, e oggi ripudia il suo passato combattendo l'Isis, mentre l'Iran, secondo il dettato imperialista di Khomeini, è lo sponsor degli hezbollah, organizzatore di stragi di ebrei e di attentati antiamericani e antieuropei. È da quando gli americani hanno spinto avanti gli sciiti in Iraq che il mondo sunnita capitanato dal reame saudita fibrilla: per mesi ha osservato, fino al picco dell'accordo sul nucleare, la rivincita della minoranza sciita che nei secoli ha tanto sofferto. Mentre una trafila di imprenditori porta milioni con la fine delle sanzioni, ha sperimentato i missili balistici proibiti che possono portare anche testate nucleari. E gli Usa hanno rimandato anche le sanzioni promesse su questo aspetto. Libano, Siria, Iraq, Yemen sono ormai in gran parte nelle mani degli ayatollah. Eppure Obama ha scelto come sua «legacy» proprio un Medio Oriente quieto sulla scia del suo accordo.
  L'Arabia Saudita ha visto come il suo compagno di accordi petroliferi e militari si avvicinava al suo peggiore nemico. I re sauditi non vedono più convenienza nel conformismo occidentalista: lo dice l'alleanza multinazionale di cui si è messa a capo e la campagna bellica in Yemen. Problemi dinastici e petroliferi attizzano il conflitto. Per l'Occidente il punto sembra essere intanto una lucida considerazione della disinvoltura con cui le parti (che applicano la sharia senza remissione ignorando ciò che per noi è «diritti umani») intendono la politica estera, le sue alleanze, i suoi trattati: scontro senza regole per il predominio.

(il Giornale, 6 gennaio 2016)


Sciiti e sunniti, le radici di un conflitto secolare

di Massimo Introvigne

 
Siamo abituati a considerare il mondo islamico diviso tra fondamentalisti intransigenti e correnti più aperte al dialogo. Ma il conflitto fra Arabia Saudita e Iran ci costringe a riportare l'attenzione su una divisione più antica, che quando si parla dell'islam non va mai sottovalutata, quella fra sciiti e sunniti.
   Il termine sciismo deriva da shi'a, "seguace", e si riferisce aiseguaci di I Ali, genero e cugino del fondatore dell'islam, Muhammad. Secondo la dottrina sciita Muhammad aveva voluto per la comunità islamica una guida ereditaria da scegliere all'interno della sua famiglia, e aveva designato a succedergli Ali.
   Muhammad muore nel 632, e i suoi tre primi successori sono il suocero Abù Bakr, il consigliere politico Ornar e il genero Othman. Alla morte di Othman nel 656, tutta la comunità islamica riconosce I Ali come nuovo capo, ma sorgono ben presto opposizioni e contrasti. I principali oppositori di I Ali sono gli esponenti della potente famiglia degli Omayyadi. I contrasti diventano sempre più acuti fmo a giungere a uno scontro armato che trova il suo apice nel 661 durante la battaglia di Siffin, nella quale si affrontano i sostenitori di Alì e quelli della famiglia omayyade guidati da Mu'àwiya (605-680).
   La sorte delle armi sembra favorevole ad Ali, ma Mu'àwiya, appellandosi al Corano, chiede un arbitrato. I Ali accetta, il che suscita l'ira di un gruppo dei suoi sostenitori, i kharijiti, per cui accettare l'arbitrato è un errore insieme politico e religioso. I Ali si trova così a dover combattere su due fronti, contro gli omayyadi (o "sunniti", per cui è la tradizione, la Sunna, a guidare la comunità, e non una specifica famiglia) e contro i kharijiti. Sconfigge i secondi del 658 ma è ucciso per vendetta da un kharijita nel 661.
   Dopo la sua morte, un buon numero di musulmani riconosce come califfo Mu'àwiya, che è alle origini sia della dinastia omayyade sia del moderno islam sunnita. I kharijiti continuano un'esistenza indipendente, e sono oggi maggioritari solo in Oman e a Zanzibar. Gli sciiti riconoscono invece, dopo Ali, undici suoi discendenti come "imam infallibili" e continuano a combattere militarmente i sunniti.
   Molti imam sciiti cadono in battaglia. Il dodicesimo, Muhammad, "scompare" a sei anni nell'874: secondo la maggioranza degli storici, è ucciso dai sunniti, ma secondo gli sciiti si "occulta" per non rimanere ucciso. Inizia così un periodo di settant'anni che gli sciiti chiamano "occultamento minore", durante il quale - sempre secondo gli sciiti - quattro "vicari" mantengono il contatto diretto con lui.Nel 941, con la morte del quarto "vicario", ha inizio il cosiddetto "occultamento maggiore", che per gli sciiti perdura ancora oggi.
   Secondo il credo sciita il dodicesimo imam, l'"imam nascosto", è tuttora vivo per volontà di Dio, ma si nasconde agli occhi dell' umanità. Riapparirà un giorno per instaurare un'epoca di pace universale. Cessati gli imam e i loro vicari, gli sciiti devono seguire in ogni epoca i grandi sapienti, talora chiamati anche "imam" ma da non confondere con gli undici imam successori di Ali. Vi sono oggi "grandi imam" in Iraq e Iran, non senza qualche competizione fra loro.
   La maggioranza degli sciiti prende il nome di duodecimani, perché riconosce dodici imam a partire da Ali. Esistono però altri sciiti denominati settimani o ismailiti che considerano legittimi solo sette imam, e ancora gli zaiditi, che riconoscono solo cinque imam. Inoltre ci sono gruppi "iper-sciiti" che considerano Ali non solo l'erede legittimo di Muhammad ma un'incarnazione divina. Vi rientrano gli alauiti siriani' che pur essendo minoranza nel Paese occupano da anni la presidenza della Siria con la famiglia Assad e numerose posizioni di potere.
   Gli sciiti (duodecimani) sono maggioritari in Iran, Azerbaijan, Iraq e Bahrein (un Paese che però è governato da una dinastia sunnita). In Libano gli sciiti sono circa metà dei musulmani presenti nel Paese. Nella stessa Arabia Saudita la minoranza sciita è consistente, valutata fra il 15% e il 25%, e una simile percentuale di sciiti vive in Pakistan.
   Nello Yemen quasi la metà della popolazione è sciita, ma in maggioranza appartiene alla branca zaidita. Le statistiche dell'islam sono lontane dall'essere una scienza esatta, ma gli sciiti sono intorno al 13% del miliardo e mezzo di musulmani di oggi, un po' meno di duecento milioni di persone. I kharijiti sono tre milioni. I sunniti oltre un miliardo e duecentocinquanta milioni, al netto di gruppi minori.
   Oltre un terzo degli sciiti del mondo vive in Iran (settanta milioni) ma cinquanta milioni sono distribuiti fra il Pakistan e l'India, che ha un'importante minoranza musulmana, e venti milioni si trovano in Iraq.
   Dal punto di vista sociologico le differenze principali fra sunniti e sciiti sono il ruolo del cosiddetto "clero" sciita, con al vertice i "grandi imam", che non ha paralleli nel mondo sunnita ed esercita una grande influenza politica, decisiva nel caso dell'Iran, e una mistica del dolore e del martirio fondata su secoli di persecuzioni da parte dei sunniti, sempre aperta a speculazioni apocalittiche sulla fine imminente di questo mondo e sul ritorno dell'imam nascosto.
   Sciiti e sunniti non si sono mai amati. Oggi la lotta è complicata da questioni di egemonia regionale tra l'Arabia Saudita sunnita e l'Iran sciita che, superando vecchie divergenze, è alleato anche degli alauiti al potere in Siria, un gruppo iper-sciita per secoli considerato eretico - e da vicende che riguardano il petrolio.
   Tra sunniti e sciiti è futile per l'Occidente chiedersi "chi ha ragione". Entrambi hanno componenti estremiste e altre più aperte al dialogo. Occorre favorire le seconde, ovunque si trovino, evitando semplificazioni e schieramenti da tifosi che non giovano alla causa della pace.

(Il Mattino, 6 gennaio 2016)


Sunniti e sciiti, in guerra ma uniti contro Israele

Tra i due litiganti il terzo muore.

Il regno saudita compatta il fronte degli alleati, anche il Kuwait taglia le relazioni diplomatiche con l'Iran, e la crisi innescata dall'esecuzione dell'imam sciita Nimr al Nimr (più famoso da morto che da vivo, scrive carico di cinismo il Washington Post) non accenna a diminuire, nonostante le solerti e inefficaci pressioni americane. Lo scontro tra sunniti e sciiti, guerra religiosa secolare, è l'esito oggi anche di una politica ondivaga degli Stati Uniti, ma pure se molti commentatori dicono che il conflitto infraislamico toglie pressioni su altri fronti, è bene non abbassare la guardia. Mentre la crisi diplomatica tra Riad e Teheran si ingigantiva, e gli alleati sunniti entravano nella guerra diplomatica, un piccolo commando di Hezbollah colpiva una pattuglia israeliana al confine con il Libano: le forze di Tsahal hanno risposto immediatamente, come fanno ormai da tempo, visto che quel confine e le alture del Golan sono diventati un fronte sempre più pericoloso per Israele.
   La minaccia da sud e dall'interno non si è mai sopita: l'Intifada dei coltelli in questi due mesi e mezzo ha causato trenta morti e trecento feriti fra gli israeliani. Finora si era detto del sostegno di Hamas e dell'incitamento da parte di alcuni esponenti dell'Autorità nazionale palestinese, guidata dal "moderato" Abu Mazen. Ieri il Foglio, ricostruendo il modo in cui alcuni ufficiali della sua Guardia presidenziale gestiscono le piattaforme internet dell'odio, ha portato una prova della responsabilità diretta di Abu Mazen negli attacchi terroristici. In definitiva, se gli sciiti considerano i sunniti infedeli, e viceversa, c'è sempre una tipologia di infedele che compatta tutti gli estremismi nella stessa direzione di odio e violenza: è Israele, non abbassiamo la guardia.

(Il Foglio, 6 gennaio 2016)


Quella saudi-iraniana è una guerra misteriosa

Lettera a Furio Colombo
    Caro Furio Colombo, come può accadere che uno scontro durissimo fra due grandi potenze regionali (e forse di più) come Arabia Saudita e Iran, si verifichi all'improvviso, mentre nessuno tra i grandi e gli esperti sembra essersene accorto, e nessun leader politico abbia potuto o voluto prevenirlo o porvi fine?
    Giacomo  
   Ho scritto qualche settimana fa su questo giornale che "tutto è finto tranne i morti'; in questo tragico teatro del Medio Oriente. La rappresentazione più efficace ce la dà íl califfato con le sue accurate, eleganti e orrende messe in scena, con boia adulti e boia bambini, ed esecuzioni riprese con buone inquadrature di fronte alle telecamere. Ma la incredibile storia dell'Arabia Saudita e degli Emirati, che sono allo stesso tempo partner d'affari dell'Occidente (Il Qatar possiede un quarto di Milano e un bel po' di New York) e finanziatori dei suoi più pericolosi nemici, si comportano con mondana civiltà e fanno strage di avversari e presunti avversari (Arabia Saudita) o promettono vendette che ci saranno (Iran), tutto ciò mostra un mondo sconvolto ma anche misterioso perché sfuggono le vere ragioni in un dato momento e i rapporti causa-effetto di ciò che succede.
   Provo a dare una spiegazione che ha fondamento solo nella deduzione dai fatti. Il seme della spiegazione potrebbe essere nelle parole del nuovo boia con accento inglese che ha esordito nell'ultimo film di morte del Califfato. Ha detto, abbandonando le finzioni degli altri potentati: "Questo (la vittima da uccidere, ndr) è il nostro nemico adesso. Gente come lui, come Cameron, verremo a prenderli a casa. Ma il vero nemico è Israele, e quella lotta non si fermerà". La deduzione è che potentati e califfati, specialmente quando per varie ragioni nazionali, internazionali e di profonde venature religiose, hanno cominciato ad avere un rapporto scoperto e diretto con le armi, e non hanno più la necessità di spingere avanti i palestinesi e gruppi del terrorismo locale come Hezbollah e Hamas. Sono essi stessi parte di una competizione durissima intorno al dominio della guerra e della vittoria contro Israele.
   Tutto il resto è una crudele e tremenda messa in scena, che stabilirà sempre più una relazione diretta tra Bataclan e il bistrò di Tel Aviv, Charlie Hebdo e le coltellate e i cecchini di Gerusalemme. Il messaggio, leggibile già adesso, ma che sarà recapitato in chiaro fra poco con iniziative più crudeli e più spettacolari sarà: tutto finisce quando finisce Israele. Ecco la posta in gioco, e capirlo non ha niente a che fare con il simpatizzare o mostrare simpatia e amicizia. E, allo stesso modo, non ha niente a che fare con i dissensi, anche fortissimi, con i governi israeliani. La questione è semplice e tragica: accettare la distruzione di Israele o no. Il resto è teatro della crudeltà, niente di nuovo nel mondo, salvo l'uso della diretta.

(il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2016)


“... tutto finisce quando finisce Israele” è la conclusione che trae Colombo. Dai fatti, dice. No, dai semplici fatti del passato non si deduce nulla di sicuro che riguardi il futuro. Se non si vuole tornare al positivismo ottocentesco, per dire qualcosa sul futuro bisogna considerare i fatti di ieri e scegliere, secondo propri gusti e convinzioni, una teoria in cui inserirli al fine di formulare una previsione di quello che accadrà domani. La “teoria” su cui noi ci basiamo è tratta dalla Bibbia, e in essa si parla abbondantemente di Israele. I fatti finora avvenuti non la smentiscono e per quelli che riguardano il futuro non si dice affatto che Israele finirà. Altri finiranno, non Israele. E se ne dice anche il perché. M.C.


Vicenza - «Vescovo, l'attacco a Israele potevi risparmiarcelo»

Dopo la Marcia della Pace, l'intervento in Duomo a Vicenza di una palestinese divide gli animi.

di Luca Balzi

Il vescovo Beniamino Pizziol
Il pomeriggio dell'1 gennnaio era iniziato sotto i migliori auspici. La diocesi di Vicenza, in collaborazione con l'Ufficio diocesano per la pastorale Sociale e del Lavoro, ha organizzato per la 49a Giornata Mondiale della Pace una Marcia dalla Chiesa del Cuore Immacolato di Maria (Quartiere San Bortolo) al Duomo. L'inizio promette molto bene: quasi 700 persone presenti, molte giovani famiglie con figli, bambini che corrono felici nel piazzale antistante il centro parrocchiale. Si respira felicità nell'aria: inizia un nuovo anno.
   Rompe il silenzio don Matteo Pasinato, responsabile dell'Ufficio pastorale del lavoro, con brevi e sentite parole. Cede subito la parola al vescovo Beniamino Pizziol, che porta dei brevi e intensi saluti. Applauso caldo e partecipato. Il mio occhio cade sulla prima porta che è uno dei temi della marcia. C'è un filo spinato in alto e tutti lo attraversiamo quando il corteo parte scortato dalla Polizia Locale della città. Un brivido mi attraversa la schiena quando passo sotto il filo spinato. Una frase subito attraversa la mia mente: "Arbeit macht frei". Questa frase migliaia di famiglie di ebrei europei lessero, entrando senza mai più uscirvi, ad Auschwitz. Avevano un'unica colpa di essere ebrei.
   Il corteo fa la prima tappa all'Hotel Adele di via Medici. Il vescovo a due ragazzi dell'Africa subsahariana consegna due palloni da calcio. Un gruppo di suore dorotee originarie del Kenya e della Costa d'Avorio sorridono felici. Nella mia mente passano le parole del viceprefetto di Vicenza, Massimo Marchesiello, un servitore dello stato composto e riservato, che 24 ore prima aveva pacatamente dichiarato: «Non sappiamo per quanto ancora potremo resistere. La situazione si annuncia pesante». Nessuna forma di razzismo o di discriminazione, solo un uomo che lavora all'UTG Ufficio Territoriale del Governo e ti spiega che siamo oltre il capolinea con l'emergenza profughi in provincia di Vicenza.
   Si prosegue con andatura da scampagnata fino a Piazza dei Signori passando per Contrà San Marco. Nella seconda tappa ci sono dei ragazzi che davanti alla Loggia del Capitaniato tengono in mano 6 cartelloni con altrettante lettere. Si gioca sulla lettera I di Italia. PIAZZA, spostando la I, diventa PAZZIA. Si contrappone la piazza del dialogo alla pazzia delle armi e della guerra. Entriamo tutti educatamente in Duomo. C'è l'immancabile coro con le chitarre, un bel dialogo padre-figlio sulla pace.
   Poi succede qualcosa che cambia il senso di tutto il pomeriggio. Il silenzio si fa tutto ad un tratto tagliente. Prende la parola Don Matteo Pasinato e con parole nettissime traccia un solco incolmabile tra chi difende la sua patria in armi (il cattivo) e il pacifista (il buono). Cita la Bibbia, il Faraone che fa inseguire gli ebrei dai carri e dai militari egizi. Con il popolo eletto di Dio che scappa guidato da Mosè. Subito mi torna in mente il telegiornale di RaiDue delle ore 13 in cui ho sentito la notizia dell'evacuazione notturna della stazione di Monaco di Baviera, con le forze speciali del ministero dell'interno tedesco schierate per strada a difesa di cittadini inermi, molti peraltro turisti. Donne, bambini dai volti preoccupati che si dileguavano nella notte di Monaco. La minaccia era reale, ha confermato il ministro dell'interno del Gabinetto di fraulein Merkel.
   Don Matteo presenta una nostra cara amica. Con queste parole le cede il microfono del pulpito della cattedrale. La signora Bassima sale la scalinata con passo claudicante. Si è appena operata al ginocchio. Si presenta con poche parole, ricorda che è palestinese e che è venuta in Italia per studiare nel lontano 1970. Poi arriva l'affondo: chi combatte in Palestina è un partigiano, la sua è legittima resistenza, non è un terrorista. Per questa graziosa signora i giovani che assaltano con il coltello nell'ultimo mese inermi cittadini israeliani sono solo dei resistenti, per caso? Proprio mentre questa Signora straparla, esce la notizia su tutti i social network (twitter, facebook ecc.) dell'attentato a un Bar di Tel Aviv. Alon Bakal, il barista, è ancora in una pozza di sangue caldo. Giusto, che questo oppressore di 26 anni dalla faccia pulita sia stato ucciso da un resistente, secondo la Signora Bassima?
   Ma il meglio arriva alla fine del suo intervento. Ringrazia il sindaco di Napoli Luigi De Magistris per aver sposato la causa palestinese e affonda: «I politici italiani dovranno rispondere davanti a Dio e agli uomini per aver sostenuto lo Stato di Israele». Secondo questa graziosa signora palestinese, i vertici delle istituzioni italiane sono mossi solo e soltanto da interessi militari ed economici. E Mattarella e Renzi sono sistemati. Tutti sappiamo l'opinione di Renzi su Israele e ci ricordiamo le parole di commosso ricordo del Capo dello Stato nel suo discorso d'insediamento quando ricordò: «ll nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell'odio e dell'intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell'ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano».
   La graziosa Bassima continua a inveire contro i vertici delle nostre istituzioni, l'aria in Duomo si taglia con il coltello. Timido applauso alla fine di un indecente comizio peraltro fatto nella casa di Dio. Applaudono convinti e a piene mani due membri laici della commissione della pastorale del lavoro: il già portavoce dei comitati No Dal Molin Giancarlo Albera e il sindacalista della Cgil Maurizio Ferron. Non si risparmiano nell'applauso, seduti in prima fila, don Matteo Pasinato e il vicario cittadino don Agostino Zenere, parroco a San Giorgio in città.
   Non applaude il sindaco Achille Variati. Prudentemente se ne è rimasto alla larga. Ha mandato Isabella Sala, ma senza fascia. Che qualcuno, magari, non pensi che il Comune c'entri qualcosa. Variati vescovo subito.
   Tocca quindi al nostro, di vescovo, che esordisce così: «grazie cara amica Bassima», e poi aggiunge: «chi è l'indifferente davanti a quest'ultima testimonianza? Guai - tuona dal pulpito - restare uguali a come siamo entrati». Non una parola contro i coltelli dei Palestinesi. Ah, dimenticavo, quelli sono resistenti, la loro violenza è santa e benedetta. Non una parola contro l'Isis. Non una parola contro la feroce persecuzione dei cristiani in Medio Oriente e nel mondo. Ah, dimenticavo, che c'importa a noi dei cristiani? I palestinesi soltanto, interessano a noi. Non una parola da parte della guida della nostra diocesi, sulla condizione di insicurezza delle donne cristiane copte in Egitto, delle donne cristiane maronite in Libano. Figuriamoci sulle donne yazide nel nord dell'Iraq, ridotte anche bambine a schiave del sesso dei resistenti dell'Isis. Abbiamo chiamato la Bassima, noi, il più lo abbiamo fatto.
   Ora io mi rendo conto che in questa città e provincia abbiamo commesso molti peccati, ma Santa Vergine di Monte Berico, aiutaci. Siamo proprio così peccatori da meritarci tutte queste piaghe d'Egitto. Una su tutte: altri sette anni di un vescovo come questo? Un vescovo che organizza una marcia della pace e lascia che qualche rivoluzionario in gonnella talare la trasformi in una manifestazione politica a favore della violenza di una parte? Il tutto in cattedrale? Un vescovo cui manca quel minimo di discernimento e di umana prudenza che gli farebbero capire che benedire i coltelli dei Palestinesi e i vessilli di Francisco Franco è la stessa medesima cosa, cambia solo il colore? No Vergine Santa, guarda in giù. Aiutalo. Si è dimesso un Papa, può ben dimettersi anche un vescovo.

(Vvox, 6 gennaio 2016)


Le foto di Leonard Freed sugli ebrei di Amsterdam

Sono esposte in questi giorni proprio ad Amsterdam, se potete andarci; se no alcune potete guardarle qui.

Fino al 14 febbraio sarà allestita allo Joods Historisch Museum di Amsterdam, nei Paesi Bassi, la mostra After The War Was Over: Leonard Freed Photographs Jewish Life in Amsterdam in the 1950s, che espone 150 fotografie dell'importante fotografo Leonard Freed, che tra le altre cose lavorò per la celebre agenzia fotografica Magnum. Le foto di Freed raccontano la vita degli ebrei di Amsterdam alla fine degli anni Cinquanta, nel decennio immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale. Nel 1958 Freed ha seguito gli ebrei di Amsterdam durante le loro attività quotidiane e li ha così fotografati in sinagoga, a casa, al lavoro.

(il Post, 6 gennaio 2016)


Parla Waleed, il "blasfemo" che difende i vignettisti

di Giulio Meotti

ROMA - Waleed al Husseini ha trascorso dieci mesi in una prigione palestinese per lo stesso "crimine" per cui i giornalisti di Charlie Hebdo sono stati fatti a pezzi un anno fa: "Blasfemia". Ma quando Waleed fuggì in Giordania e all'ambasciata francese di Amman chiese asilo politico, non avrebbe mai immaginato che l'incubo islamista lo avrebbe seguito anche a Parigi, dove oggi vive nascosto, perché i fondamentalisti lo cercano per fargliela pagare. Waleed ha già causato polemiche in Francia, accusando il Consiglio francese del culto musulmano di essere "oscurantista". Durante un'intervista televisiva, organizzata in un ristorante a Parigi, l'hotel ha chiesto di eliminare il nome di Waleed dal tavolo. Troppo rischioso. Libération lo ha ritratto sotto il titolo "fiero di essere un apostata".
   Questo scrittore e blogger palestinese ha evitato la condanna a morte soltanto grazie a una mobilitazione internazionale. E' stato il primo caso di un palestinese perseguitato per le proprie idee dal potere statale in Cisgiordania. Quello "moderato" di Abu Mazen. Waleed fu arrestato mentre si trovava in un internet café della sua città, Qalqilya.
   In carcere, Waleed subisce la "tortura soft", come la sospensione al soffitto con un braccio e restare in piedi su una gamba. "Bruciatelo vivo!", incitavano intanto i commentatori arabi, mentre un gruppo su Facebook ne chiedeva l'esecuzione. In un articolo, Waleed al Husseini aveva scritto che i musulmani "credono che tutti quelli che lasciano l'islam siano o un agente o una spia di qualche stato occidentale, di solito Israele" e che non capiscono che "le persone sono libere di pensare e di credere in quello che vogliono". Persino la famiglia lo ha disconosciuto: "Ci ha disonorati".
   Un anno fa, mentre i terroristi decimavano la redazione di Charlie Hebdo, Waleed era impegnato a lanciare per la celebre casa editrice francese Grasset il suo nuovo libro, "Blasphémateur!". "Il mio sentimento principale dopo la strage del 7 gennaio è stato di debolezza, una profonda debolezza mista a rabbia, ma non sono stato affatto colto di sorpresa", dice Waleed Husseini in questa intervista al Foglio. "In quei giorni stavo firmando le copie del mio libro, che sarebbe uscito una settimana dopo il massacro, il 14 gennaio. Fu allora che realizzai che ero fuggito dal mio paese per trovarmi di fronte gli stessi terroristi in Francia. Il ciclo si era chiuso". Pascal Bruckner, uno dei più acuti intellettuali osservatori in Francia, ha scritto che "sarebbe ora di formare una grande catena di solidarietà per tutti i ribelli del mondo islamico, i moderati, i non credenti, i liberi pensatori, gli atei, gli scismatici come un tempo furono sostenuti i dissidenti dell'Europa dell'est".
   "Ha ragione", esclama Waleed. "Perché noi sappiamo cosa sia l'islam. Dovete ascoltare gli 'apostati' e non coloro che si definiscono 'islamici moderati'. Questi ultimi sono come una copertura per i jihadisti. Sono loro ad aver impedito ogni discussione sul Corano, loro che accettano l'uccisione degli 'apostati', degli omosessuali, che sono contro la libertà di espressione, che vogliono introdurre più islam nell'educazione. Decisivo è l'uso della parola 'islamofobo'. I fondamentalisti vogliono introdurre un reato di blasfemia per frenare qualsiasi dibattito di idee". Ieri, la moglie del poliziotto Franck Brinsolaro, ucciso mentre proteggeva il direttore di Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier, ha raccontato un allarmante episodio avvenuto due settimane prima dell'attentato del 7 gennaio: un giornalista che lavora nella zona aveva rivelato alla polizia di aver incontrato davanti alla redazione di Charlie Hebdo un uomo che gli aveva chiesto: "E' qui che criticano il Profeta?". Era lì. Conclude, sconsolato, Waleed al Husseini: "Non potrà mai esserci riforma dell'islam se non accetteremo di discutere liberamente del Corano. In occidente state perdendo la libertà di espressione".

(Il Foglio, 6 gennaio 2016)


Non crediamo che esista un Islam moderato, ma esiste davvero un Occidente libero? Che cos'è libertà?



Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».
dal Vangelo di Giovanni, cap. 8

 


Tel Aviv, una birra in compagnia per sconfiggere la paura

di Francesca Matalon

In situazioni di crisi, quando una città viene ferita nel suo cuore più pulsante e mentre ancora si stringe nel ricordo di due vite giovanissime si domanda un po' spaesata come comportarsi sapendo che l'autore di quella strage è ancora in circolazione, c'è un'unica soluzione: birra gratis. O almeno è quello che hanno pensato i gestori di una ventina di bar della via Dizengoff - la stessa del Simta, il locale di fronte al quale ha avuto luogo l'attentato terroristico del primo dell'anno - che hanno preso l'iniziativa di offrire una birra per ogni bevanda acquistata con l'intramontabile ma sempre apprezzata formula 1+1. Una misura straordinaria, perché questa volta la Tel Aviv che di solito dorme meno di New York sembra fare ancora un po' di fatica a risvegliarsi. Nashat Milhem, l'arabo israeliano identificato come l'autore dell'attentato, dopo quattro giorni è ancora latitante e ricercato dalle forze dell'ordine, mentre la tensione è ancora alta anche per un nuovo accoltellamento verificatosi questa mattina al valico di Gush Etzion in Cisgiordania, in cui un terrorista ha colpito un soldato, rimasto lievemente ferito.
   "Penso che se domani mattina le persone si sveglieranno vedendo sui loro giornali preferiti foto di gente che beve un drink in una città che non si ferma e torna alla sua vita normale, sarà molto rassicurante e incoraggiante" ha detto Mira Marcus, portavoce del Comune di Tel Aviv, che ha supportato l'iniziativa considerando la vita notturna della città come un indicatore della serenità dei suoi abitanti e dunque il suo riaccendersi come un importante passo nel fronteggiare eventi traumatici. "Dopo che stai fermo e guardi la televisione che trasmette immagini di terrorismo e di morte, arriva un momento in cui qualcuno ti chiama e ti dice 'Hey, andiamo a berci una birra'. Non male!", ha quindi aggiunto.
   L'ideatore dell'1+1 solidale è Idan Malul, proprietario del Beer Garden, uno dei locali più conosciuti della Dizengoff. "È divertente - ha affermato - ma allo stesso tempo credo che stiamo davvero lottando per il nostro modo di vita e per non lasciar vincere i terroristi".
   "Quando mi hanno chiamato ho subito concordato sul fatto che fosse un'idea carina e ho aderito, ma non penso sia necessario dire alle persone che devono per forza tornare a riempire le strade", ha detto inoltre Omri Rosengart, co-proprietario del bar Concierge.
   Sono d'accordo con lui Stacey e Ariella, due turiste americane intervistate dalla stampa israeliana. "Saremmo uscite a bere qualcosa in ogni caso. Usufruiremo comunque dell'offerta", hanno detto entusiaste, esprimendo però anche il dubbio che lo sconto possa essere un fattore decisivo per le persone ancora in allarme. "Se fossi spaventata, non uscirei solo perché mi offrono una birra", ha constatato Ariella.
   Diverso il parere di Cosima, un'italiana che oggi vive a Tel Aviv. "Ero in dubbio - ha raccontato - ma l'iniziativa mi ha fatto ripensare all'idea di uscire, e alla fine ho invitato tutti i miei amici". Una di loro, Anna, ha quindi osservato: "I terroristi vogliono che le persone siano spaventate e dunque l'arma che i cittadini hanno contro di loro è continuare la loro vita quotidiana".

(moked, 5 gennaio 2016)


L'Intifada del "presidente moderato". Il Foglio svela l'Abu Mazen connection

Esclusiva. Ecco una prova della responsabilità di Abu Mazen negli attacchi terroristici che hanno ucciso trenta persone in Israele. Così gli ufficiali della sua Guardia presidenziale gestiscono le piattaforme dell'odio.

di Giulio Meotti

 
ROMA - Aprile 2002, culmine della Seconda Intifada. L'esercito israeliano compie un'incursione a Ramallah e negli uffici di Fatah scopre documenti che dimostravano il passaggio di ordini da Yasser Arafat a Marwan Barghouti, percorrendo tutta la catena del terrore. Soldi, cinture di tritolo, armi, tutto annotato in lettere. Oltre a invitare al "martirio", Arafat forniva consapevolmente i soldi per la preparazione degli attentati alle Brigate di al Aqsa. Prove che sarebbero servite a far condannare Barghouti a cinque ergastoli (un anno fa un tribunale di New York ha anche condannato l'Autorità nazionale palestinese per il suo diretto coinvolgimento in sei attentati).
  Per spiegare la "Terza Intifada", che in questi due mesi e mezzo ha causato trenta morti e trecento feriti fra gli israeliani, non è possibile ricorrere a documenti simili. Con un dollaro a Ramallah ora puoi acquistare i coltelli da cucina usati per pugnalare gli israeliani, con la stessa cifra nelle strade trovi i cd con la "musica dell'Intifada" e, più che in lettere su carta, gli ordini oggi corrono sulla rete. "Is Palestinian-Israeli violence being driven by social media?'", chiede la Bbc.
  La risposta è "sì" e le prove portano diritto alla "Muqata" di Ramallah, il palazzo di Abu Mazen, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese. Quasi tutti gli attentatori in quest'ultima ondata di terrore hanno lasciato messaggi su Facebook. Il primo fu Muhannad Halabi, il terrorista palestinese che ha accoltellato a morte due persone a Gerusalemme, che aveva postato sul suo Facebook le motivazioni del duplice assassinio: "La Terza Intifada è iniziata. Ciò che sta accadendo alla Moschea di al Aqsa è ciò che sta accadendo ai nostri luoghi santi, è la via del nostro Profeta Maometto, è ciò che sta accadendo alle donne di al Aqsa e alle nostre madri e sorelle. Io non credo che il popolo soccomberà all'umiliazione. Il popolo si solleverà e sarà davvero Intifada".
  Finora, media e analisti hanno portato come "prove" del coinvolgimento di Abu Mazen figure come Ahmed Ruweidi, consigliere del presidente per gli affari di Gerusalemme, che ha detto: "Sono orgoglioso dei combattenti che adoperando il sangue, gli arresti, gli attacchi e le percosse sono riusciti a espellere gli ebrei con i loro corpi. A loro va tutto il mio rispetto e apprezzamento". E' l'incitamento all'odio del "moderato" Abu Mazen su cui il mondo punta, che chiama le piazze con i nomi dei terroristi e lascia che le sue tv e i suoi siti siano pieni di incitamento. Il Foglio in questa esclusiva è in grado di fare di più: dare un nome e un volto a uno dei principali burattinai di questa Terza Intifada.
  Uno dei principali canali di indottrinamento per gli assalti palestinesi con i coltelli e le auto è una pagina Facebook traducibile dall'arabo come "Vietato l'ingresso agli ubriachi". Il logo è un ragazzino palestinese con la kefiah, una lama in mano e la scritta: "Vigilate sulla Palestina con il coltello". La pagina, fino a oggi, ha raccolto un milione e mezzo di like. Si trova sotto la sezione "arte e intrattenimento" ed è stata lanciata nel 2011 durante la cosiddetta "primavera araba".

 Un burattinaio di nome Husam Nabil Adwan
  Da quando è stata promossa la Terza Intifada, alla fine di settembre, la pagina ha registrato un'impennata giornaliera di visitatori. Un'analisi attenta di questa pagina rivela un antisemitismo esasperato e l'invito giornaliero a uccidere ebrei israeliani.
  Il 14 ottobre si chiede ai palestinesi di asfaltare gli israeliani in attesa dell'autobus, accompagnato da tanto di contachilometri: "Figli di Palestina, accoltellate e passate sopra con l'auto". L'11 dicembre: "Vi invito in Palestina a testimoniare la rivoluzione contro l'occupazione sionista". E ancora: "Figli di puttana (rivolto agli ebrei, ndr), che Allah vi maledica". Ovunque immagini degli attentatori: "La sua anima è in paradiso". Un soldato israeliano? "Figlio di cane". Il 12 dicembre ci sono fotografie di assalti palestinesi a civili e soldati: "A coloro che dubitano della Palestina e del suo stato, guardate che eroismo". Il 9 dicembre, con foto di israeliani portati via in ambulanza: "Allah il Grande ha ucciso un sionista". Due giorni fa è arrivato, puntuale, anche un elogio di Nashat Melhem, il terrorista che venerdì ha ucciso due ragazzi israeliani nel caffè di Tel Aviv: "Che Allah lo protegga". Gli ebrei sono chiamati ovunque "figli di scimmie e maiali". Il 31 dicembre hanno avuto un modo originale di fare gli auguri: "Tutti aspettano Capodanno. Noi aspettiamo la testa di Netanyahu nelle mani della resistenza palestinese".
  Chi c'è dietro questa piattaforma terroristica? Husam Nabil Adwan. E' un palestinese nato nel 1988 e cresciuto ad Al Ezaria, un sobborgo di Gerusalemme est. Perché è importante? Perché dal 2006 Adwan ha le mostrine con le spade ricurve della Guardia presidenziale di Abu Mazen, il corpo d'élite responsabile della sicurezza del presidente palestinese e dei suoi ospiti stranieri in visita a Ramallah. Nella sua pagina Facebook, si fa fotografare con alle spalle la moschea di al Aksa, il Corano in una mano e il kalashnikov nell'altra. Ci sono poi le foto con i volti più noti della politica e della sicurezza palestinese, fra cui la storica guardia del corpo di Arafat, Mohammed Daya, e l'ex primo ministro Abu Ala. Questa terza non è affatto una "Intifada spontanea" ma ha un software preciso, l'incitamento all'odio, e alti ufficiali e pretoriani dell'Autorità nazionale palestinese che gestiscono le maggiori piattaforme di questa "guerra silenziosa".
  Nei giorni scorsi il dottor Ofer Merin, capo dell'unità traumi dell'ospedale Shaare Zedek di Gerusalemme, ha tenuto una conferenza stampa sulle vittime della Terza Intifada: "Gli attentatori sanno sempre dove colpire, le ferite che vediamo non sono mai casuali". Colpiscono sempre per uccidere.

(Il Foglio, 5 gennaio 2016)


Tre rabbini al lavoro nella fabbrica di cioccolato

La Alprose Sa si "kosherizza". I visitatori del museo della cioccolata si lamentano: "Impianti off-limits"

CASLANO (Svizzera) - Kippah e camice bianco, la lunga barba coperta da una mascherina. Nella fabbrica Alprose di Caslano, in questi giorni, si aggirano degli ispettori d'eccezione: si tratta di tre rabbini, impegnati a svolgere degli speciali riti ebraici tra gli impianti per la lavorazione del più famoso cioccolato ticinese. Il motivo: l'avvio della produzione kosher, le cui procedure - rigorosissime - richiederanno alcune settimane, spiegano dall'azienda.
I rabbini si alternano in turni di 12 ore ciascuno per "kosherizzare" i macchinari secondo il rituale religioso; i prodotti, poi, verranno venduti all'estero (Israele e Stati Uniti in primis) dove la domanda della cioccolata certificata dai rabbini «è molto forte» spiega Fabio Boscaini di Alprose.
Meno male, perché «nell'anno appena concluso gli affari hanno piuttosto risentito del franco forte» osserva Boscaini. «Molto positivo» invece il periodo natalizio, con un «notevole aumento dei visitatori» nel museo della cioccolata annesso alla fabbrica. Non è mancato, va detto, qualche mugugno legato appunto alla visita dei rabbini: «Ci è stato detto che non è possibile visitare gli impianti come previsto dal tour, peccato» lamenta un visitatore. La precauzione, spiega l'azienda, è appunto dovuta alla procedura kosher.

(tio.ch, 5 gennaio 2016)


Rispetto della legge e politiche di inclusione

E' massimo interesse dello Stato d'Israele contrastare i tentativi di alienare gli arabi israeliani, e perseguire invece la loro piena inclusione e integrazione nella società.

Gli efferati omicidi perpetrati a Tel Aviv venerdì scorso hanno riaperto la questione della posizione degli arabi israeliani rispetto allo Stato. Il tema ha dominato i titoli dei giornali israeliani nonostante le statistiche dimostrino che solo una piccola frazione degli arabi israeliani prende parte ad atti di violenza o terrorismo contro lo Stato.
C'è un clima di diffidenza che pesa sul rapporto fra lo stato d'Israele e i suoi cittadini arabi. La maggior parte degli arabi israeliani è ancora portatrice della traumatica memoria collettiva della sconfitta araba nel 1948, quando non riuscirono a spazzare via Israele nella guerra d'indipendenza. Può darsi che alcuni sognino il giorno in cui le sorti si invertiranno, ma tutti certamente ricordano il pesante prezzo pagato per quel tragico errore storico e nessuno si arrischierebbe a ripetere quell'azzardo, soprattutto in considerazione della instabilissima geopolitica del Medio Oriente attuale....

(israele.net, 5 gennaio 2016)


Stabilità, economia, guerra all'Isis. Ecco perché si deve stare con Riad

di Carlo Panella

L'Italia e l'Occidente, a fianco di chi di devono schierare nel conflitto ira Arabia Saudita e Iran, tra sunniti e sciiti emerso come la vera, principale causa delle crisi del Medioriente? Una risposta è: con nessuno, sono due dittature feroci, dalla ideologia islamica sanguinaria e fanatica, facciamo di tuno per metterle d'accordo. Questa è la strategia dell'Europa. All'opposto, Obama si fida più di Teheran che di Riad. Ha firmato un accordo sul nucleare che ha rilegittimato l'Iran come potenza regionale, provocando la rottura ira Washington e Riad (non a caso parallela a quella ira Washington e Gerusalemme). La prima conseguenza di questa scelta di Obama è stato l'ingresso trionfale della Russia, principale alleato dell'Iran, in Medioriente. Appoggiare l'Iran significa dunque rafforzare il campo di egemonia russo e indebolire la Nato. Scelta praticabile, ma che comporta la rottura con il campo occidentale con conseguenze catastrofiche sul piano economico e politico.
   Ma non è questo il solo criterio che impone di scegliere il fronte sunnita contro quello iraniano, una volte declinate le illusioni che i loro dissidi si possano ricomporre.
   Basta rispondere a alcune domande focali per l'interesse strategico dell'Italia e dell'Occidente per comprenderlo.
   La prima: l'Arabia Saudita ha destabilizzato il Medioriente? No, mai. L'Iran invece ha destabilizzato il Libano, istigato Harnas a lanciare missili iraniani su Israele, ha fatto esplodere l'Iraq opprimendo i sunniti, ha impedito che Assad fosse abbattuto dai ribelli laici favorendo l'Isis e ha provocato la guerra civile yemenita. Nel frattempo, tentava di dotarsi dell'atomica.
   Seconda domanda: chi vuole distruggere Israele? L'Iran. L'Arabia Saudita dal 1982 invece sviluppa il «piano del re Fahd» che riconosce Israele in cambio della restituzione dei Territori occupati.
   Terza domanda: chi vuole aumentare il prezzo del petrolio? Risposta: l'Iran, da sempre. Per contro l'Arabia Saudita impone il suo abbassamento a tutto beneficio della nostra economia.
   Quarta domanda: chi ha interesse a difendere l'economia occidentale?
   Risposta: l'Arabia Saudita, perché i suoi petroldollari sono tutti investiti nella City e a Wall Street e la sua economia è totalmente integrata in quella di Usa e Europa. L'Iran invece punta a indebolire l'Occidente anche dal punto di vista economico.
   Infine: chi è più credibile nel combattere l'Isis? L'Iran lo ha favorito disgregando l'Iraq e difendendo Assad. L'Arabia Saudita invece lo contrasta per la semplice ragione che il Califfato punta essenzialmente a conquistare la Mecca. È vero che la sua ideologia wahabita è la culla dell'Isis. Ma la realpolitik obbliga la corte saudita a sconfiggerlo.
   Dunque, così come l'Occidente si alleò con Stalin per sconfiggere il nazismo, prima o poi si dovrà alleare col «fronte sunnita» per sconfiggere un Iran che si regge sulla ideologia di morte del martirio. Anche perché in questo fronte sono schierati gli unici Paesi democratici dell'area: Israele e Turchia (che è ancora una democrazia, nonostante Erdogan).
   
(Libero, 5 gennaio 2016)


Hezbollah attacca una pattuglia israeliana. Israele risponde

Sale la tensione sulle alture del Golan, al confine fra Israele e Libano.

L'artiglieria della stato ebraico ha bombardato siti del Libano meridionale controllati dagli sciiti, dopo l'attacco dinamitardo contro una pattuglia israeliana nell'area cosiddetta delle fattorie di Sheba, alle pendici del Monte Hermon.
Lo scoppio dell'ordigno, che non ha provocato vittime, era stato rivendicato dagli Hezbollah libanesi della brigata Samir Qantar. Il gruppo prende il nome dal miliziano druso libanese ucciso dal razzo che centrò la sua abitazione a Damasco, in Siria, il 20 dicembre scorso. Una vittima che Hezbollah aveva messo in conto a Israele, preannunciando vendetta.
Da qui la recrudescenza delle ostilità nelle zone di confine fra i due paesi. Un nuovo focolaio di violenza che va a sommarsi a una situazione già estremamente complessa.

(euronews, 4 gennaio 2016)


World Sailing Youth Championship: facciamo il punto

di Giuliano Luzzatto

Terminato il Mondiale giovanile di vela in Malesia, le polemiche circa la discriminazione nei confronti degli atleti israeliani ha portato alla convocazione di una riunione d'urgenza della Federvela Mondiale in programma l'8 gennaio.
   Il vergognoso caso dei Mondiali giovanili di vela dove i due atleti israeliani iscritti non hanno potuto partecipare per l'opposizione del governo malese che ha negato loro il visto, non poteva certo chiudersi il 3 gennaio con la cerimonia di premiazione.
   Questo il punto della situazione il giorno dopo, sia dal punto di vista politico che sportivo (purtroppo la vicenda politica ha offuscato l'aspetto sportivo).
 
   World Sailing ha convocato una riunione d'urgenza per l'8 gennaio, indicando come il principio di uguaglianza e non discriminazione sia alla base dello sport e chiamando in causa anche il Comitato Olimpico Internazionale in difesa di questi principi che evidentemente World Sailing non è stata in grado di far valere rispetto ai diktat del governo malese. Dopo le baldanzose dichiarazioni dei politici riportate all'apertura dei Mondiali, da parte dei media malesi c'è stato un silenzio inusuale. Le Federvela di Nuova Zelanda e, soprattutto, Danimarca hanno preso posizione contro l'esclusione dei due velisti israeliani chiedendo a ISAF/World Sailing di prendere posizione e provvedimenti. Sul sito della Gazzetta dello Sport, il giornalista Luca Bontempelli ha pubblicato un documento ISAF del novembre 2011 (la minuta dell'Annual meeting) dal quale si evince come l'italiano Walter Cavallucci chiedesse garanzie circa la partecipazione senza discriminazioni, prima di assegnare alla Malesia il Mondiale giovanile. La Gazzetta fa inoltre notare che a proporre la Malesia sia stato l'inglese Chris Atkins, attualmente uno dei vicepresidenti di World Sailing, presente all'evento anche nel ruolo di "ispettore" per l'indagine federale su quanto accaduto in palese conflitto d'interessi.
   Vedremo se World Sailing preferirà destreggiarsi con bizantinismi diplomatici o sceglierà la strada di una netta presa di posizione che dovrà prevedere sanzioni nei confronti della Federvela Malese (o addirittura del comitato olimpico di quel paese) per avere efficacia per il futuro. Sono infatti molte le regate titolate che si svolgeranno in nazioni islamiche che non hanno relazioni con Israele, tra queste l'Oman che ospiterà la prossima edizione dei Mondiali giovanili
   Un caso con molte analogie si ebbe nel 2009: la tennista israeliana Shahar Peer non poté partecipare a un torneo del circuito WTA in Dubai perché gli Emirati Arabi Uniti le negarono il visto d'ingresso. Venus Williams promise che non sarebbe tornata a Dubai se la discriminazione fosse proseguita. La WTA multò gli organizzatori del torneo e l'episodio non si ripeté. Va tuttavia rilevato che la WTA è una società privata, non una federazione internazionale.
   Circa l'aspetto sportivo: le nazioni più in vista sono state Australia, Nuova Zelanda e Francia. La squadra giovanile italiana non ha brillato, soffrendo in particolar modo il vento forte, talvolta anche al limite, con raffiche a 25 nodi, ma i nostri atleti più giovani hanno vissuto un' esperienza che tornerà loro utile in futuro. L'Italia occupa il 12o posto su 48 nella classifica per nazioni, ovviamente si tratta di una media di tutti i risultati dell'intera compagine. Gli ultimi due giorni, con vento in calo e più simile alle condizioni mediterranee, si è visto un netto recupero. Il miglior risultato è stato il 4o posto (su 14 concorrenti) di Gianluigi Ugolini e Maria Giubilei, l'equipaggio del catamarano SL16, classe vinta con una incredibile sequenza di primi posti (in tutte le prove, scartato un 5o) dei francesi Flament- Dorange. Buon 5o nel Laser, su 68, per Gianmarco Planchestainer che ha chiuso in crescendo. Seste nel 420 femminile Demi Rio e Maria Pasquali Coluzzi, nono posto nel 420 maschile per Edoardo Ferraro e Francesco Orlando. Gli altri atleti si sono posizionati tra il 10o e il 18o posto.
   Questo il consuntivo del DT della giovanile Alessandra Sensini: "Sicuramente le condizioni delle ultime due giornate hanno evidenziato le capacità tecniche dei nostri ragazzi riportando le loro prestazioni medie ai livelli che ci aspettavamo. Purtroppo il prezzo pagato nelle giornate iniziali ha condizionato il campionato dei ragazzi, ma oltre ad aver recuperato fiducia dei propri mezzi nelle giornate finali, per la loro crescita è stato importante confrontarsi a livelli alti in condizioni più estreme. Trasferta importante anche per tutto lo staff tecnico per capire dove lavorare di più. Il campionato ha evidenziato che bisogna iniziare a lavorare fin da giovanissimi sulla preparazione atletica e sulla cultura sportiva agonistica in generale".

(pressmare.it, 4 gennaio 2016)

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Vela: chiusi i Mondiali giovanili, con l'ombra della discriminazione di Israele

Spunta un documento della federazione Mondiale del 2011 in cui l'italiano Cavallucci chiedeva garanzie sulla partecipazione aperta a tutti. Non venne ascoltato. Ma l'allora Isaf aveva ancora armi per fare pressione sui malesi e non sono state usate. Perché? L'8 gennaio la Commissione.

di Luca Bontempelli

Il campionato mondiale giovanile si è concluso ieri in Malesia (per gli azzurri miglior risultato il quinto posto di Planchestainer, 12o a squadre nella classifica vinta dall'Australia), ma le polemiche che lo hanno accompagnato a causa della forzata assenza degli atleti israeliani sono ben lontane dall'essersi concluse. Il presidente di World Sailing (già ISAF), Carlo Croce, ha indetto una riunione straordinaria del comitato esecutivo per discutere delle eventuali sanzioni da infliggere alla Malesia, per il prossimo 8 gennaio. E nessuna parola di condanna è stata spesa per la grave decisione malese di porre condizioni inaccettabili per la concessione del visto ai velisti israeliani. Decidere provvedimenti a bocce ferme è certamente meno efficace e significativo di un'azione durante le regate.

 Preventivamente
  Il punto è: l'ISAF non poteva intervenire preventivamente? La risposta è non solo si, ma questa azione preventiva era stata addirittura messa per scritto da un dirigente italiano, Walter Cavallucci. Il 12 novembre 2011 a San Juan di Porto Rico nel corso della riunione annuale dell'ISAF il lungimirante Cavallucci fa mettere per scritto (come riportano le minute della riunione, disponibili a tutti sul sito ISAF) che vuole garanzie da parte delle autorità malesi che possano partecipare senza discriminazioni i velisti di tutte le nazioni. Chiede per questo un rinvio della decisione di assegnare il campionato in Malesia. Cavallucci, per sensibilità personale vicino alle problematiche dello sport israeliano, teme, anzi prefigura, esattamente quello che poi è avvenuto. Ma non finisce qui. Il presidente ISAF di allora l'avvocato svedese Goran Petersson, fa mettere ai voti la richiesta di Cavallucci che viene respinta. Ma l'istanza entra comunque nella decisione successiva: i campionati vengono si assegnati alla Malesia senza rinvio a condizione che la Malesia si impegni a far partecipare gli atleti di tutte le federazioni affiliate all'ISAF. Nero su bianco. L'ISAF aveva dunque un'arma potentissima per costringere la Malesia a concedere il visto agli atleti israeliani. Un'arma che l'acume di Cavallucci le aveva fornito. Ma ha deciso di non usarla. Perché? Non può sfuggire, leggendo il documento che vi forniamo che la persona che propone l'assegnazione delle regate in Malesia è Chris Atkins. Lo stesso dirigente inviato in Malesia dal presidente Croce a condurre l'inchiesta che doveva verificare il rispetto delle regole. Poteva colui che aveva proposto le regate in Malesia essere lo stesso a condurre un'inchiesta sul rispetto delle regole da parte dei malesi?

(La Gazzetta dello Sport, 4 gennaio 2016)


Tensioni Riad-Teheran, l'Arabia Saudita sospende tutti i voli da e per l'Iran

E' solo l'ultimo atto dello scontro diplomatico tra i due Paesi. Chiuse le rispettive ambasciate, la crisi Riad e Teheran, dopo l'uccisione dell'imam Al-Nimir, sta scatenando tensioni e proteste settarie nella Regione. In fiamme due moschee sunnite in Iraq.

RIAD - L'Arabia Saudita ha sospeso tutti i voli da e verso l'Iran. Questo è l'ultimo atto della guerra diplomatica scoppiata negli ultimi giorni nel mondo arabo tra sunniti e sciiti, dopo l'esecuzione dell'imam sciita Nimr Al-Nimr.
   L'Arabia Saudita, attraverso il ministro degli Esteri Adel al-Jubeir non sembra voler abbassare i toni e attacca affermando che Nimr Al-Nimr, era un terrorista coinvolto in attacchi e che Riad dovrebbe essere elogiata per l'esecuzione, non criticata.
   Il susseguirsi della rottura delle relazioni diplomatiche ha delineato gli schieramenti che si stanno formando nel mondo arabo. Quindi ambasciatori a casa tra Arabia e Iran, ma anche Bahrein e Sudan richiamano i diplomatici e appoggiano Riad. Più prudenti gli Emirati Arabi Uniti, petro-monarchia sunnita del Golfo come le altre due, che ha ridotto lo status della propria rappresentanza diplomatica in Iran.
   Intanto le conseguenze delle tensioni settarie si ripercuotono in tutta la Regione, così due moschee sunnite sono state attaccate nella notte tra ieri e oggi nella regione irachena di Hilla, a sud di Baghdad, in una zona a maggioranza sciita.
   A Baghdad, e in altre città sciite dell'Iraq, invece migliaia di persone hanno protestato contro l'esecuzione dell'imam sciita Nimr al-Nimr. Nella capitale irachena, i manifestanti hanno protestato fuori dalla Zona verde dove si trova anche l'ambasciata di Riad, mostrando ritratti del religioso. La polizia ha respinto un gruppo di che ha tentato di oltrepassare una linea demarcata da filo spinato allo slogan "Dannati, dannati al-Saud", in riferimento alla famiglia reale saudita.
   Proteste simili si sono svolte anche a Basra e nelle città sacre sciite di Najaf e Karbala. va riocordato che l'Arabia Saudita aveva riaperto la propria ambasciata in Iraq la scorsa settimana, dopo che era stata chiusa nel 1990 dopo l'invasione del Kuwait.
   L'Iran, che ieri aveva preannunciato la "vendetta di Dio" contro Riad, oggi ha accusato quest'ultima di alimentare tensione nella regione. Riad, ha affermato un portavoce del ministero degli Esteri, "è alla ricerca di crisi e confronti e tenta di risolvere i propri problemi interni esportandoli e alimentando tensione e scontri nella regione".
   Gli spazi di mediazione tra Riad e Teheran per adesso quasi non esistono. Ma Mosca si è fatta avanti, pronta a ospitare un incontro tra i capi della due diplomazie, il saudita Adel al-Jubeir e l'iraniano Mohammad Javad Zarif.
   E gli Stati Uniti sembrano non sapere cosa fare, già in difficoltà nel cercare di combattere le crisi in Medio Oriente. Il timore manifestato da funzionari dell'amministrazione Obama in queste ore, riportato dal Wall Street Journal, è che il conflitto tra Arabia Saudita e Iran possa far fallire i loro sforzi nella regione, in particolar modo per fermare la guerra in Siria.
   Il nuovo conflitto tra Arabia Saudita e Iran è anche il frutto di un rapporto più difficile, sotto la presidenza Obama, tra Stati Uniti e Arabia Saudita, che da tempo chiede alla Casa Bianca di intraprendere passi più concreti per fermare gli sforzi dell'Iran, secondo Riad, per destabilizzare la regione. I sauditi hanno criticato l'accordo nucleare tra le grandi potenze e l'Iran, perché rafforzerebbe significativamente l'economia iraniana, in cambio di un indebolimento delle capacità nucleari solo per pochi anni; i nuovi introiti permetteranno a Teheran, secondo i critici dell'accordo, di finanziare guerre per procura in Iraq, Libano, Siria e Yemen.

(Quotidiano.net, 4 gennaio 2016)


«Occidente inerte contro i terroristi». L'esperto: folle condannare l'Arabia

Per Della Pergola il metro di giudizio è l'atteggiamento verso Israele.

di Lorenzo Bianchi

«Le 47 esecuzioni capitali in Arabia Saudita segnano la differenza fra chi conosce perfettamente le cose e chi non ha ancora preso atto della situazione. I sauditi, che sanno chi debbono affrontare, hanno reagito brutalmente. L'Occidente non ne ha la volontà. Dopo i 130 morti di Parigi continuo a chiedermi qual è la soglia dell'indignazione furibonda, irreversibile, armata, insomma il livello dell'intolleranza occidentale. Milletrecento vittime, tredici-mila?». Sergio Della Pergola demografo, professore all'Università ebraica di Gerusalemme, evita con cura di allinearsi con la maggioranza dei commenti del giorno dopo.

- Sui giornali il minimo comune denominatore è l'esecrazione per Riad.
  
«Dire basta con l'Arabia Saudita è una delle più grosse sciocchezze che si possano immaginare».

- Perché?
  
«Si cambia ottica in continuazione nel deliberare chi sono i buoni e chi invece deve essere etichettato come cattivo. Ora partiamo dal punto che il male assoluto è Daesh (l'acronimo arabo del Califfato Islamico, ndr). Con l'ottica secondo la quale il nemico del mio nemico è mio amico, ora ci si associa l'Iran. Mi pare infantile. Le divisioni del mondo islamico comunque non ci riguardano. Quella fra sunniti e sciiti si è consumata fin dall'inizio, secoli fa».

- Secondo lei qual è invece la bussola che deve indicare la rotta?
  
«L'atteggiamento nei confronti di Israele, dello stato moderno e dell'Occidente. Se dal Libano arriva un missile sciita o da Gaza uno sunnita, non fa una grande differenza. La discussione sullo scontro fra sunniti e sciiti crea solo confusione».

- Torniamo alle 47 esecuzioni capitali.
  
«Sono una reazione di fronte a un movimento manifestamente sovversivo, una reazione con i mezzi e i metodi dei quali dispone la monarchia saudita e che si inseriscono nella tradizione islamica. Certo, se Israele avesse fatto la stessa cosa, si sarebbe scatenata una rivoluzione mondiale. L'Onu, che ci condanna ogni giorno, ha affidato a Riad la presidenza del comitato consultivo sui diritti umani. Ripeto: è inutile confondersi le idee con meccanismi di setta del mondo islamico».

- La questione suscita interesse in Israele?
  
«No, si parla molto di più di quello che è accaduto venerdì a Tel Aviv, nel locale della via Dizengoff nel quale si festeggiava un compleanno, due morti e sette feriti».

- Sembra che Riad si senta isolata. Di sicuro non ha gradito che gli ayatollah siano riusciti a portare a casa l'accordo sul loro programma nucleare.
  
«Già. Un patto grottesco. I controlli vengono affidati all'Iran. È come mettere il gatto a vigilare la gabbia del canarino lasciando la porticina aperta. Teheran controlla le sue capacità tecnologiche e la velocità dei progressi nucleari. In un'intesa di macropolitica a sorpresa vengono tolte le sanzioni a 4 0 5 individui. Uno è il generale Qasem Soleimani, capo delle unità di élite al Quds dei Pasdaran. Non capisco: si ricrea una verginità per persone come queste? L'Occidente ha capitolato».

- Per quale motivo?
  
«C'era un grande appetito per un paniere di buoni affari e di commerci con l'Iran, un grosso mercato. L'ex presidente del consiglio italiano Massimo D'Alema anni fa ebbe occasione di dichiarare quanto incidevano sul Pil».

- Una scelta impervia fra i valori dell'Occidente e il fascino ciel business?
  
«Ma l'Iran è e resta un pericolo reale per Israele e per i suoi alleati».

(Nazione-Carlino-Giorno, 4 gennaio 2016)


Attentato al pub a Tel Aviv, una bimba ritrova il cellulare del terrorista

Lo Shin Bet (servizio di sicurezza interno) ha recuperato il cellulare di Nashad Milhem, l'arabo israeliano sospettato di aver attaccato venerdì un pub di Tel Aviv. L'apparecchio è stato trovato scarico su un marciapiedi da una bambina, che lo ha portato a casa. Solo quando il telefono si è ricaricato i genitori hanno compreso l'importanza e hanno avvertito la polizia. La caccia a Milhem prosegue e Benyamin Netanyahu ha convocato il Consiglio di sicurezza del suo governo.

(Il Messaggero, 4 gennaio 2016)


Oltremare - A casa mia

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Questa è casa mia. Mercoledì scorso ho festeggiato gli otto anni dalla mia aliyah, con alcuni amici, in un locale non lontano e non molto diverso da quello attaccato venerdì pomeriggio.
Era sera, e ho chiesto un tavolo all'interno. Fosse stato giorno, fosse stato un po' meno freddo, come capita a volte anche a fine dicembre, ci saremmo seduti fuori, come i ragazzi al "Simtà".
Venerdì nel primo pomeriggio, nell'ora di punta del fine settimana, quando tutti, religiosi e laici, sono in giro a far compere o seduti in un bar, sono passata senza farci caso a pochi metri dal "Simtà", un pub che non conoscevo. Qui i locali come quello spuntano come funghi. Ma mentre poco dopo a casa guardavo le prime immagini dei corrispondenti arrivati sul luogo in tempo record, a ogni fotogramma mi rendevo sempre più conto del luogo esatto di cui si parlava. Anise, il negozio di cibi naturali dal quale l'attentatore ha sparato. Japanika, il sushi con la vetrina frantumata.
Quell'isolato di Dizengoff fra Frishman e Gordon è un pezzo di Tel Aviv che conosco metro per metro.
Da Anise ogni tanto vado a comperare biscotti o cioccolata, da Japanika capita di mangiare un sushi veloce prima o dopo il cinema, e in mezzo fra i due, da Nati Shalom, vado a tagliarmi i capelli regolarmente da quando sono arrivata a Tel Aviv. Di fronte, il SuperPharm aperto anche di notte è un faro nel buio dei malanni improvvisi. Le sorelle francesi di FrenchTouch, l'estetista accanto: chissà quale delle due era di turno venerdì. E se Nati o uno dei suoi aiuti fossero stati fuori sul marciapiede a fare una breve pausa, quando il terrorista ha cominciato a sparare, da lì lo avrebbero di sicuro visto di spalle. Ma poi quello si è girato e ha continuato a sparare, abbattendo le vetrine di Japanika. Per fortuna loro e i clienti erano già tutti nel seminterrato a salvarsi la pelle.
Il terrorismo colpisce persone reali, uomini e donne che fanno parte, anche se in modo marginale, delle nostre vite. Io ero a casa mia a quell'ora, per puro caso. Non conoscevo i due ragazzi assassinati, altrettanto per caso. Che il loro ricordo ci sia di benedizione.


(moked, 4 gennaio 2016)


Tel Aviv è Israele e Israele è Tel Aviv

Per i nostri nemici, Tel Aviv deve subire la stessa sorte della Cisgiordania: un unico grande "insediamento" che deve essere demolito e cancellato.

Non esiste la "bolla" Tel Aviv separata dal resto del paese. La prima città ebraica è parte inseparabile di Israele. E' triste che si tenda a ricordarlo, e a sottolinearlo, solo dopo che Tel Aviv è stata colpita da un nuovo attacco terroristico: solo dopo che un odioso assassino ha aperto il fuoco ammazzando due splendidi giovani che, come molti loro concittadini, erano arrivati a Tel Aviv da altre parti del paese, Shimon Ruimi da Ofakim e Alon Bakal da Carmiel. E' facile dipingere Tel Aviv come "separata" dal resto del paese. Il fatto che le due persone uccise vi fossero arrivate una dal sud di Israele, l'altra dal nord, dice tutto: Tel Aviv è Israele, è parte integrante della nostra storia....

(israele.net, 4 gennaio 2016)


Una scintilla nello scontro fra tribù

di Maurizio Molinari

La decisione dell'Arabia Saudita di rompere le relazioni diplomatiche con l'Iran porta il conflitto fra sunniti e sciiti sull'orlo del precipizio. L'esecuzione dell'imam sciita Nimr al-Nimr da parte di Riad e l'assalto con le molotov all'ambasciata saudita a Teheran avvicinano i due giganti del Golfo a un confronto diretto per l'egemonia su un Medio Oriente segnato dal domino dell'implosione degli Stati arabi. Ayatollah iraniani e sceicchi sauditi già duellano, più o meno direttamente, in Siria, Yemen, Iraq, Libano e Bahrein sullo sfondo di uno scontro nutrito da una rivalità religiosa che risale alla disputa sulla successione a Maometto.
   Entrambi i fronti parlano di «Jihad» contro l'avversario perché in gioco c'è la guida dell'Islam. Il linguaggio che adoperano evoca gli scontri tribali. Ali Khamenei, Leader Supremo dell'Iran, promette «vendetta divina» mentre Riad giustifica l'esecuzione di al-Nimr citando il verso del Corano su «crocefissioni e taglio delle gambe» per gli apostati. Con le navi da guerra dei due Paesi schierate a breve distanza nelle acque del Golfo e i rispettivi contingenti in stato d'allerta da molti mesi, il rischio di una scintilla è divenuto reale, trasmettendo nelle capitali del Medio Oriente la percezione che siamo entrati in una nuova fase. E' l'Arabia Saudita di re Salman a guidare l'escalation in corso perché percepisce che è l'Iran di Hassan Rouhani ad avere il vento a favore grazie all'alleanza militare con la Russia di Vladimir Putin in Siria, all'accordo con la comunità internazionale che legittima il proprio programma nucleare ed alla crescente intesa con l'America di Barack Obama, testimoniata dalla decisione americana di rinviare le sanzioni a Teheran per i recenti test missilistici che hanno violato proprio le intese di Vienna. Per avere un'idea dell'atmosfera che regna a Riad bisogna guardare a cosa sta avvenendo nelle capitali degli alleati sunniti più stretti. Dal Cairo Said Allawndi, voce di spicco del Centro di studi strategici di «Al Ahram», afferma che «l'Iran è diventato uno strumento degli Stati Uniti intenzionati a destabilizzare l'intero mondo arabo» paventando dunque un complotto internazionale contro i sunniti. Da Ankara il presidente turco Recep Tayyip Erdogan afferma che «in questo momento abbiamo bisogno anche di Israele», ovvero anche di un Paese finora definito «diabolico», visto che incombe lo scontro con gli sciiti. La creazione di una coalizione militare sunnita, composta di 34 Stati, per contrastare l'alleanza pan-sciita guidata dall'Iran trasforma il momento della rottura delle relazioni iraniano-saudita nella genesi di un nuovo spartiacque fra opposti schieramenti che si estendono su un potenziale campo di battaglia di oltre 9000 km, dai confini del Marocco a quelli del Pakistan.
   
(La Stampa, 4 gennaio 2016)


Vendetta Iran: l'Arabia pagherà

L'ayatollah Ali Khamenei minaccia i sauditi. Lo scontro si allarga a tutto il mondo islamico.

di Carlo Panella

 
                                   Ali Hoseyni Khamenei                                                            Salman bin Abdulaziz Al Saud
«L'Arabia Saudita dovrà affrontare la vendetta divina per l'uccisione dell'imam al Nimr!», con queste parole di fuoco l'ayatollah Ali Khamenei, guida della rivoluzione iraniana, ha evocato l'abisso che ormai separa irreparabilmente gli sciiti iraniani dai sunniti-wahabiti al potere a Ryad. Ma ha anche reso esplicito il paradosso di una dirigenza iraniana che subisce l'affronto di una esecuzione volutamente ordinata dai sauditi per lanciare un messaggio di morte e di guerra nei suoi confronti, senza poter far altro che invocare l'ira di Allah. Altro, l'Iran, non può fare, non può «farla pagare» in nessun modo ai sauditi per una ragione semplice: da dieci anni ha già fatto tutto quel che poteva e può per menare guerra ai sauditi ovunque nel Medio Oriente. Prima in Libano, poi in Iraq, poi in Siria e nello Yemen. In questi paesi i Pasdaran iraniani combattono gia da anni contro il «partito saudita» con le armi. In Libano gli iraniani combattono attraverso Hezbollah, che il 14 febbraio 2005 ha ucciso in un attentato a Beirut l'ex premier Rafiq Hariri, che era anche cittadino saudita e fiduciario pieno di Ryad. Poi, Hezbollah ha detronizzato dal governo il figlio Saad Hariri che era diventato premier, costringendolo a fuggire a Parigi e conquistato la golden share del governo libanese. In Iraq, il premier Nuri al Maliki, letteralmente agli ordini di Teheran, ha fatto condannare a morte nel 2012 il vice presidente Tariq al Hashemi, anch'egli fiduciario pieno di Ryad, costringendolo alla fuga in Turchia e ha perseguitato la minoranza sunnita filo-saudita, tanto da gettarla tra le braccia dell'Isis.
   In Siria, 10.000 tra hezbollah e pasdaran hanno combattuto a difesa del regime di Beshar al Assad contro i ribelli e le opposizioni finanziate e armate da Ryad in una guerra civile costata già 250.000 morti. Nello Yemen, gli sciiti Houti, direttamente finanziati e armati da Teheran, nel marzo del 2015 hanno fatto un colpo di Stato contro il filo saudita presidente Mansour Hadi, innescando una feroce guerra civile che dura tutt'ora.
   Di più, gli iraniani non possono fare per ritorsione contro i sauditi, tranne un impossibile guerra diretta con l'Arabia. Una guerra tra Stati, non più per interposte milizie, che vedrebbe sicuramente l'Iran perdente. Perdente sul piano militare, perché l'Arabia Saudita ha al suo fianco una sorta di «Nato sunnita» di cui fanno parte tutti gli Stati del Golfo, più Egitto, Giordania, Marocco e decine di paesi islamici, in grado di stritolare sul terreno militare un Iran che non ha alleati. Perdente sul piano politico, perché l'Iran tutto si può permettere oggi, tranne che di rischiare nuove sanzioni Onu per questa eventuale aggressione, proprio nel momento in cui, grazie alla dabbenaggine di Obama, sta liberandosi delle sanzioni per il suo programma nucleare.
   Così, l'Iran deve limitarsi a fare la voce grossa, a pubblicare fotomontaggi in cui il boia saudita dell'imam al Nisr si sdoppia in Jihadi John, lo sgozzatore dell'Isis, che i Pasdaran iraniani paragonano esplicitamente alla corte di Ryad: «Le brutalità del regime saudita sponsor del terrorismo sono una chiara violazione dei diritti umani e della libertà di parola. E un segno del collasso del regime saudita, parte di un complotto sionista per seminare discordia nella Umma islamica e tra sciiti e sunniti. Misure come questa esecuzione, sono il risultato del pensiero wahabita salafita ed estremista sunnita, in cui l'Isis ha oggi un ruolo pioniere e per il quale i sauditi pagheranno un prezzo molto caro».
   Un chiaro segno di questa impasse iraniana - e del cinico e sanguinario successo della terribile scelta saudita - è l'arresto di 40 responsabili della distruzione della ambasciata saudita di Teheran e la condanna formale del fatto da parte del presidente Rohani. L'Iran non può permettersi oggi - come invece può l'Arabia Saudita - di violare le regole della legalità internazionale.
   Resta il fatto di fondo: con l'esecuzione di al Nimr, nessuno può più negare che la causa principale delle guerre e della crisi del Medio Oriente è il riemergere del conflitto millenario tra sciiti e sunniti. Non il conflitto israelo-palestinese, non le guerre di Bush padre e figlio, ma la guerra di religione tra queste due parti dell'Islam, riemersa carsicamente dopo la vittoria della rivoluzione sciita in Iran nel 1979, è la causa insanabile di tutti i più gravi conflitti mediorientali, a partire dalla guerra Iraq-Iran del 1981.
   Questo non hanno compreso Obama e l'Europa. Con conseguenze tragiche anche per l'Occidente.
   
(Libero, 4 gennaio 2016)


Le origini del wahhabismo. Così l'Islam si fa radicale

Rottura tra Arabia Saudita e Iran.

di Roberto Tottoll

Il wahhabismo è nato nella Penisola Araba a metà del diciottesimo secolo. Deve il suo nome al fondatore, Muhammad ibn Abd al-Wahhab. La sua predicazione iniziò nell'altopiano desertico del Najd, sostenendo il ritorno alla presunta purezza della fede predicata da Maometto. Corano e Sunna del Profeta dovevano essere le uniche fonti di ispirazione per i fedeli. Tutte le differenze tra le scuole giuridiche e ancor di più le sette sciite erano rigettate. Le forme di culto popolare come le celebrazioni di santi mistici oppure le visite a tombe di figure eminenti cancellate. E chi non eseguiva tutti i doveri e i precetti religiosi era considerato alla stregua di un miscredente contro cui si poteva persino proclamare il jihad.
   Il movimento dei seguaci di Muhammad ibn Abd al-Wahhab non era diverso da molti altri movimenti di riforma che hanno segnato la storia dell'Islam. Le sue fortune sono legate all'alleanza con il clan degli Al Sa'ud che, nel 1744, ne abbracciò visione e concezioni. E che, fin dall'inizio, ne sostenne le prime azioni: distruzione di tombe e luoghi di culto in odore di paganesimo e attacchi contro gli sciiti della penisola perché considerati eretici.
   Proprio in uno di questi attacchi, nel 1801, i seguaci wahhabiti fecero un'incursione a Kerbela, uccidendo un buon numero di abitanti, e distrussero Il santuario sciita dell'imam Hussein. Negli anni immediatamente successivi la stessa sorte fu riservata ai monumenti storici della famiglia del profeta Maometto, quando i wahhabiti conquistarono la città di Medina.
   Il rigido dettato che vuole ogni forma di culto riservata solo a Dio e a nessun uomo, fosse anche Maometto, li ispirava in queste azioni. E provocarono la reazione ottomana, che nel 1818 li cacciò sia da Mecca che Medina.
   Nel 1924, il clan degli Al Sa'ud ritornò a controllare tutta la Penisola Araba, imponendo la visione wahhabita al potere e riprendendo la politica interrotta oltre un secolo prima. Ulema di stretta ispirazione wahhabita hanno creato una sorta di stato moderno, ispirandosi alle poche opere del fondatore e seguendo soprattutto la rigida scuola hanbalita.
   La scoperta e l'uso delle risorse petrolifere hanno cambiato prospettive e fortune di tutto Il movimento. La creazione, grazie ai finanziamenti sauditi, di oltre duemila centri culturali e moschee in tutto il mondo islamico ha permesso al wahhabismo, a partire dal 1970, di diffondersi ovunque. Allo stesso tempo, le università saudite hanno istruito migliaia di musulmani da ogni dove nel mondo islamico e ne hanno forgiato visioni e rigido tradizionalismo. E in tutto ciò, la vetrina del pellegrinaggio annuale che porta oggi più di due milioni di musulmani nella Penisola Araba costituisce una grande opportunità di propaganda per la visione wahhabita. Le fortune odierne del salafismo, che ne costituisce una varietà assai simile, sono diretta conseguenza di queste attività.
   Proprio in ambito religioso i sauditi hanno dovuto spesso fronteggiare critiche e contestazioni, oltre che vari problemi interni. L'alleanza dei sauditi con gli Stati Uniti è stata spesso attaccata dagli ulema più tradizionalisti. I privilegi della casa regnante, la gestione degli immigrati che sostengono l'economia interna e l'esclusione dalla vita politica della minoranza sciita sono solo alcuni dei problemi tuttora irrisolti. E la crisi regionale, l'avversione verso altre forme di Islam politico come la Fratellanza musulmana e la frattura insanabile con gli sciiti e l'Iran ne insidiano ulteriormente ruolo e influenza.
   Le sorti del wahhabismo sono ormai strettamente legate a quelle della sterminata famiglia saudita.
   Ma il suo frutto più recente, Il salafismo, ha ormai messo profonde radici un po' ovunque, creando analoghi problemi in altre regioni.

(Corriere della Sera, 4 gennaio 2016)


Bat Yam: prima città israeliana con lampioni Wi Fi

 
Nuovi lampioni intelligenti dotati di Wi Fi. Si tratta di un progetto ambizioso della Global Light Challenge che vuole installare non meno di 10 miliardi di lampioni a LED in tutto il mondo entro la fine del prossimo decennio.
  In tal senso, la città israeliana di Bat Yam si appresta a diventare futuristica. Infatti la società israeliana di illuminazione Ga'ash, specializzata in tecnologie per lampioni a LED, sta sviluppando lampioni intelligenti che comprendono ripetitori Wi Fi, telecamere, sensori meteorologici, sensori per valutare la qualità dell'aria e sistemi per misurare la congestione del traffico.
  Il sistema si chiama Apollo e non solo aiuterà le città a risparmiare denaro utilizzando l'energia in modo più efficiente, consentirà anche una raccolta dati più accurata al fine di una gestione più oculata della città (ad esempio: dove poter raccogliere la spazzatura, come prevenire gli ingorghi ecc.).
  Secondo la società in molte città i sistemi di illuminazione utilizzano ancora gas, influendo negativamente sulla qualità dell'aria e di conseguenza sulla salute di centinaia di milioni di cittadini.
  Il lampione intelligente Apollo darà alla città maggior controllo sul sistema di illuminazione. Ogni lampione avrà un proprio indirizzo IP, che permetterà al tecnico di impostare l'illuminazione alla giusta intensità, a seconda delle necessità.
Grazie ad internet, i lampioni possono essere utilizzati per molto altro oltre l'illuminazione.
  • Hotspot Wi Fi;
  • Gestione della circolazione;
  • Gestione dei rifiuti.
Mentre le aziende di tutto il mondo, in particolare negli Usa e Cina, stanno lavorando allo sviluppo di lampioni intelligenti, la società Ga'ash è già un passo avanti a tutti, iniziando un progetto pilota nella città di Bat Yam. Il progetto prevede la sostituzione di 7.000 lampioni, compresi quelli situati nelle strade principali e laterali, nei parchi, nelle aree pubbliche e nei parcheggi.
  Il sistema Apollo vuole tagliare le attuali bollette di illuminazione elettrica del 60%.

(SiliconWadi, 4 gennaio 2016)


Qui Tel Aviv - "La nostra Resistenza è vivere"

di Daniela Fubini

Venerdì alle 14.40 ero a casa da un'ora, dopo una mattinata di commissioni e un caffè con un'amica. Mi apprestavo a rispondere a email e messaggi di buon anno arrivati in nottata, con radio Galgalaatz in sottofondo, a volume basso. Per puro caso ho prestato ascolto all'annunciatrice che con voce calma invitava tutti ad allontanarsi dalla zona Dizengoff / Ben Gurion (a pochi isolati da dove vivo) per via di una sparatoria. Nel giro di pochi secondi sono iniziate a passare ambulanze. Qualche minuto dopo già si sentivano gli elicotteri. Poco dopo le tre, i tre canali di notizie della televisione erano già in diretta. Il luogo effettivo dell'attentato non era all'angolo con Ben Gurion, ma fra Gordon e Frishman. Subito ho iniziato a fare il conto mentale di tutti gli amici che vivono in zona: per prima ho chiamato l'amica che vive nella prima parallela a Dizengoff, esattamente alle spalle del pub "Simta" - era a casa con la bambina piccola e lei e il marito avevano sentito gli spari. Sembrava tranquilla, tutto sommato. Vedeva dalla finestra poliziotti che setacciavano le case intorno, entravano e uscivano dai retri degli edifci. Intanto, uno ad uno, quasi tutti gli amici scrivevano su Facebook che stavano bene. Il suono delle sirene si calmava, ma in aria gli elicotteri non smettevano di girare, e chi vive qui sa che non è buon segno. Se loro sono in cielo, è per segnalare alla polizia a terra dover dirigersi per trovare i fuggitivi. All'inizio di shabbat ancora non si sapeva, terrorismo o atto criminale, ma i corrispondenti dal luogo della sparatoria cominciavano a parlare di attentato.
   Nonostante le rassicurazioni della polizia venerdi pomeriggio, ho deciso di non uscire sabato per andare al tempio. Il freddo, la pioggia a sprazzi e la stanchezza in un periodo di superlavoro hanno aiutato la decisione. Sabato sera avevo previsto un aperitivo con amiche. Abbiamo deciso di vederci a casa di una di loro e non in un locale, ma non abbiamo cancellato. E così mi sono trovata ad attraversare proprio quelle strade che venerdì erano state il centro dell'attentato e delle prime ricerche del terrorista. Anche per via della pioggia, Tel Aviv era molto meno affollata che in un qualsiasi altro sabato sera. Ma c'era gente nei locali, e c'era gente per strada, anche vicinissimo al luogo ancora protetto dalla polizia dove venerdì sono morti due giovani presi a caso, per caso in linea con la traiettoria degli spari.
   In serata il sindaco Ron Huldai ha rilasciato una dichiarazione dura, dalla quale traspariva la sua rabbia, per dire che domenica le scuole sono aperte e i telavivesi possono sentirsi al sicuro. Netanyahu ha tenuto una breve conferenza stampa dal pub colpito, in cui non ha per nulla tranquillizzato i cittadini, preferendo richiamare alla fedeltà ad Israele i cittadini arabo-palestinesi. Nessuno ha avuto una parola anche solo comprensiva per il padre del terrorista, arabo israeliano di Wadi Hara, volontario in polizia, che ha denunciato con incredula mestizia il proprio figlio, avendolo riconosciuto nelle riprese della telecamera di sicurezza del negozio dal quale ha sparato contro il pub. Senza la sua telefonata, probabilmente non solo lo starebbero ancora cercando (senza fortuna, almeno fino a sabato sera), ma neanche si saprebbe chi è l'attentatore.
   Intanto Tel Aviv riprende la sua vita, e la cosa non dovrebbe stupire nessuno. È stato così perfino durante la seconda intifada, con gli autobus che esplodevano, è perfettamente logico che sia così anche adesso. Per chi - come me - allora non c'era, è un po' surreale, vedere i locali aperti e non vuoti a 30 ore dall'attentato. Ma anche questa è resistenza. Se smettiamo di vivere le nostre vite liberamente, hanno vinto i terroristi. Domenica si riparte, chi al lavoro chi a scuola, nella speranza che il terrorista venga catturato presto e non faccia ulteriori danni.

(moked, 3 gennaio 2016)


In vigore da oggi l'intesa tra Vaticano e Palestina

Mentre continuano gli attacchi ai civili israeliani. Firmato sei mesi fa, irrita Israele per il riconoscimento di uno Stato che non c'è.

di Serena Sartini

Un accordo storico, raggiunto dopo 15 anni di negoziati. Ma che suscita non poche critiche da parte di Israele. Entra in vigore l'accordo bilaterale tra Santa Sede e «Stato di Palestina», dopo la firma del pre-accordo del giugno scorso e la ratifica delle due parti. È il primo atto vaticano del 2016, comunicato attraverso una nota della sala stampa. «In riferimento al Comprehensive Agreement between the Holy See and the State of Palestine, firmato il 26 giugno 2015 - si legge nella nota del Vaticano - la Santa Sede e lo Stato di Palestina hanno notificato reciprocamente il compimento delle procedure richieste per la sua entrata in vigore». L'intesa, costituita da un Preambolo e 32 articoli, «riguarda aspetti essenziali della vita e dell' attività della Chiesa in Palestina - si legge nel bollettino vaticano - riaffermando nello stesso tempo il sostegno per una soluzione negoziata e pacifica del conflitto nella regione».
   Ma Israele, oggetto ormai da mesi di attacchi terroristici contro i civili condotti da palestinesi, non ci sta. Già a giugno, in occasione della firma del pre-accordo, era arrivata netta la condanna dello Stato ebraico che aveva espresso «rincrescimento» per una intesa che «danneggia le prospettive per un progresso nei negoziati di pace» tra israeliani e palestinesi. L'accordo, aveva sottolineato il governo israeliano, «mina gli sforzi internazionali per convincere l'Autorità nazionale palestinese a tornare ai negoziati diretti con Israele», che «non può accettare le decisioni unilaterali contenute nell'accordo, che non prendono in considerazione gli interessi fondamentali di Israele e lo speciale status storico del popolo ebraico a Gerusalemme». Il governo israeliano già a giugno aveva messo in guardia la Santa Sede: «Studieremo in dettaglio l'accordo e le sue conseguenze sulla futura cooperazione con il Vaticano».
   Per il Vaticano si tratta di un accordo importante, che ha lo scopo di favorire la vita e l'attività della Chiesa cattolica e il suo riconoscimento a livello giuridico. L'intesa contiene inoltre un capitolo sulla libertà religiosa e di coscienza, ma anche l'attività della Chiesa nei territori palestinesi: la sua libertà di azione, il suo personale e la sua giurisdizione, i luoghi di culto, l'attività sociale e caritativa, i mezzi di comunicazione sociale. Infine un capitolo è dedicato alle questioni fiscali e di proprietà.
   L'intesa è frutto dell'accordo base tra Santa Sede e Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) firmata il 15 febbraio 2000. I rapporti ufficiali tra Santa Sede e l'Olp furono stabiliti nel 1994; in seguito fu costituita una commissione bilaterale permanente di lavoro che portò ai negoziati per l'accordo del 2000. Ma mentre l'intesa di 15 anni fa fu firmata tra Santa Sede e Olp, quella entrata in vigore ieri è stata siglata tra Santa Sede e Stato di Palestina.

(il Giornale, 3 gennaio 2016)


Lo Stato del Vaticano, prima di riconoscere un inesistente stato arabo di Palestina, avrebbe dovuto esigere dall’Autorità Palestinese di riconoscere Israele come Stato ebraico. Non l’ha fatto e non lo farà, perché il Vaticano pensa soltanto ai suoi interessi ecclesiastici, e lo Stato d’Israele a questo proposito è un intralcio. Non è uno sbaglio del Vaticano, non è una “imprudenza”, come ingenuamente l’ha definita il Rabbino Giuseppe Laras: è un calcolo deliberato per motivi d’interesse. Il paravento che dovrebbe tranquillizzare Israele sarebbe la riaffermazione dell’impegno del Vaticano al “sostegno per una soluzione negoziata e pacifica del conflitto nella regione” nell’ambito della formula dei “due stati per due popoli che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza”. Sempre di più si conferma che questa aurea formula, manifestamente irrealizzabile, è il lasciapassare che consente di rafforzare quell’«entità palestinese» che ha come progetto la distruzione dello Stato ebraico. Con il tacito consenso di chi sta intorno e non aspetta che questo. M.C.


Gigantesca caccia al killer di Tel A viv

Ancora in fuga l'uomo che venerdì ha ucciso due persone in un pub. Arrestato il fratello sospettato di essere a conoscenza del piano. Il padre: prendetelo subito, prima che faccia altre vittime. Netanyahu: troppe armi illegali tra la comunità arabo-israeliana.

di Roberto Romagnoli

ROMA «Non l'ho cresciuto ed educato affinché facesse questo». Sono le parole del padre dell'uomo che venerdì pomeriggio ha ucciso due persone a Tel Aviv e ne ha ferite altre sette. Un uomo distrutto che è stato il primo a telefonare alla polizia, subito dopo aver visto in tv le immagini dell'attacco, per dire che quello sparatore era suo figlio, Nashat Milhem, 29 anni. «Tutti noi condanniamo quanto avvenuto. Mio figlio era in terapia - ha concluso - Non immaginavamo che volesse commettere un atto del genere. È importante che lo prendano e lo arrestino, perché è ancora armato e come ha ucciso due persone potrebbe ucciderne altre». E una terza vittima potrebbe averla già fatta: infatti ieri si è appreso che venerdì, poco dopo l'attacco al pub, in una zona isolata a pochi chilometri di distanza è stato trovato il corpo di un tassista arabo, ucciso da spari. Ma si tratta solo di ipotesi.

 Un passato violento
  E infatti è gigantesca la caccia all'uomo che fino a notte fonda, a oltre 30 ore dall'attacco contro gli avventori del bar nel centro di tel Aviv - i morti sono il 26enne Alon Bakal, manager del locale e il 30enne Shimon Ruimi, entrambi israeliani - ancora era latitante, in fuga con l'arma che aveva sottratto a suo padre, volontario della polizia. Un latitante descritto come un tipo violento che ha già conosciuto l'esperienza del carcere nel 2007 quando venne arrestato, e condannato a 5 anni di reclusione, per aver assalito un soldato tentando di rubargli una pistola.
  Dopo essersi concentrati nell'area intorno alla via del bar, via Dizengoff, le ricerche, a cui hanno preso parte anche agenti dei servizi segreti dello Shin Bet, si sono via via estese a tutta la città e secondo fonti della polizia adesso il killer potrebbe anche esser riuscito a uscire da Tel Aviv per rifugiarsi chissà dove. Nella casa dei suoi genitori, nella città settentrionale di Arara in Galilea, venerdì sera gli investigatori hanno portato via un computer e hanno parlato a lungo con il papà e il fratello, soprattutto per cercare di capire dove e da chi il fuggitivo potrebbe ricevere aiuto. E ieri anche agenti dello Shin Bet sono tornati nella casa della famiglia per interrogare di nuovo familiari e conoscenti di Nashat. Alla fine se ne sono andati portando con loro il fratello, arrestato perché sospettato di essere a conoscenza del piano di attacco di TelAviv.
  Nulla finora è trapelato su quanto trovato nel computer dell'uomo: si cerca di scoprire se contenga elementi utili per arrivare alla motivazione dell'attacco, in particolare per capire se l'uomo fosse in qualche modo collegato allo Stato islamico. In un quadro ancora tutto da definire sarebbe comunque emerso che Nashat avrebbe una personalità contorta, un disadattato con alle spalle non solo gli anni in carcere ma anche problemi di droga. Oltre alle parole di condanna del papà, anche il consiglio comunale di Arara, sconvolta ieri dall'invasione di poliziotti e agenti segreti, ha voluto mostrare a tutta Israele che la comunità arabo-israeliana prende le distanze dalla violenza: «Condanniamo l'attacco al pub. Questa non è la nostra cultura. Inviamo parole di cordoglio alle famiglie delle vittime e auguri di guarigione ai feriti» si legge nel messaggio dell'amministrazione.

 Netanyahu
  Da parte sua il premier Netanyahu ha detto di apprezzare questo e altri messaggi analoghi di dissociazione giunti da più parti dalla popolazione araba israeliana. Anche se poi ha fatto notare che fra i parlamentari arabi alla Knesset invece nessuno, (fino a ieri sera n.d.r.) ha condannato l'attacco al pub. E che si aspetta un atteggiamento diverso. Il primo ministro - che solo pochi giorni fa aveva approvato ingenti investimenti statali a favore della popolazione araba - ha avvertito che non è possibile tollerare oltre la presenza cospicua di armi illegali nelle località arabe del Paese. «Non sono disposto ad accettare due Stati all'interno di Israele. Questo periodo - ha insistito - è finito. Se si vuole essere cittadini di Israele e goderne dei diritti, bisogna rispettarne le regole». Poi il premier ha annunciato che la presenza della polizia israeliana sarà rafforzata fra gli arabi di Israele.

(Il Messaggero, 3 gennaio 2016)


Due pesi e due misure dell'Occidente su Hamas e Isis

di Umberto Minopoli

Ancora morti: giovani, in un pub, mentre festeggiavano. C'è un Paese del mondo dove la barbarie sperimentata a Parigi si distribuisce su 365 giorni dell'anno. Nei bar, nei pub, nei mercati, sui bus. In questo Paese del mondo ogni giorno dell'anno un terrorista vigliacco esce di casa e accoltella o spara o investe per strada degli innocenti.
In questo Paese i mandanti di quei terroristi, in un Paese a quello confinante, esultano per strada, cantano, ballano, si danno a riti barbarici di gioia per gli omicidi. La Francia, gli Usa, la Russia hanno bombardato i mandanti dei terroristi di Parigi. E io e molti di voi abbiamo approvato la giusta, sacrosanta e appropriata risposta del mondo civile alla barbarie del terrorismo a Parigi.
C'è un Paese del mondo, però, dove rispondere al terrorismo con la stessa forza che usano la Francia, la Russia, gli Usa contro l'Isis non è consentito, C'è un Paese del mondo dove si pretende che i governanti non solo assistano inermi agli omicidi dei propri cittadini innocenti ma, anche, che assistano impotenti all'esultanza, nelle loro roccaforti, e ai riti barbarici e animaleschi dei capibranco. Che hanno nome e cognome: Hamas e terroristi palestinesi.
Solo in quel Paese, se il governo colpito dal terrorismo va a colpire gli assassini, come fanno la Francia e gli altri Paesi civili con l'Isis, viene insultato, chiamato aggressore, occupante, razzista. Solo per quel Paese si usa un metro ignobile: le vittime sono descritte come colpevoli. E la cosa singolare è che, per i cittadini di quel Paese, è stato sempre così nella storia: si è trovato sempre un modo, un alibi, una scusa per farne dei colpevoli laddove erano vittime.
Perdonateci ebrei. Perdonaci Israele. E auguri!

(formiche.net, 3 gennaio 2016)


Parigi, Tel Aviv, Kabul. Il Califfo scatena il jihad dei ristoranti

Attacco ai civili

di Maurizio Stefanini

Il 1o gennaio, due morti e 7 feriti in un pub di Tel Aviv dove si festeggiava un compleanno. Un arabo israeliano a volto scoperto ha sparato dalla via sugli avventori con un mitra. Pure il primo gennaio, due morti e quindici feriti nell'attentato al ristorante francese «Le Jardin» di Kabul, dove si stava festeggiando l'anno nuovo. Un kamikaze ha fatto esplodere la propria auto davanti a questo locale nel quartiere residenziale di Taimani, dove si trovano molte ambasciate straniere. Il 2 gennaio, due morti e quattro feriti al ristorante «The Village» di Mogadiscio. Anche qui è stata opera di un kamikaze, in una zona vicino al palazzo presidenziale frequentata da giornalisti e politici.
  Questa sera un attacco è stato lanciato contro un ristorante di proprietà di invasori», ha scritto su Twitter il portavoce talebano Zabihullah Mujahid. Non ci sono invece ancora rivendicazioni a Mogadiscio, ma non si fa certo un grosso azzardo a ipotizzare che vi siano di mezzo gli Shebab. Quanto a Tel Aviv, un parente dello sparatore che è pure il suo avvocato spergiura che si tratta di un «malato di mente, non un terrorista Isis». Come se la media degli aderenti allo Stato Islamico fosse particolarmente famosa per la propria lucidità mentale. A ogni modo, se l'attacco al pub fosse da inserire nell'ambito dell'ultima Intifada dei coltelli, allora vorrebbe dire che rientrerebbe nella paternità intellettuale di Hamas. Insomma, nessuno dei tre ultimi episodi di questa singolare «Jihad dei ristoranti» sarebbe responsabilità diretta di quell'Isis che in qualche modo questa offensiva lo scorso 13 novembre ha iniziato da Parigi, con gli attacchi a «Le Petit Cambodge», a «Le Carillon», al «Café Bonne Bière», al «Casa Nostra», a «La Belle Equipe» e a un fast food. Come dire: ad attaccare sono jihadisti di tante etichette diverse. Ma vedere la gente che cerca di mangiare in pace è un qualcosa che ormai dà ai nervi a tutti. Ma un risotto vi seppellirà!

(Libero, 3 gennaio 2016)


L'ultimatum di Netanyahu agli arabi: «Decidete se siete palestinesi o israeliani»

di Michael Sfaradi

Israele si è svegliato ieri dopo un incubo collettivo. Il muro di Sharon ha sì fermato il terrorismo che arrivava dalla Cisgiordania, ma dopo un periodo di calma relativa lo stesso terrorismo è tomato alla ribalta cambiando gli attori ma mantenendo le stesse scenografie di morte e sangue. Se fino alla seconda intifada (2000 - 2005), che contò migliaia di vittime sia tra i palestinesi che tra gli israeliani, il terrorismo aveva le basi fuori dalla «linea verde», confine immaginario di Israele riconosciuto dalla comunità internazionale, la rivolta in corso, quella dei coltelli, delle forbici o armi da taglio in genere e degli investimenti premeditati alle fermate degli autobus, nella quasi totalità dei casi è stata opera di persone di etnia araba con residenza e cittadinanza israeliana. L'attentato di venerdì, portato a termine a colpi di arma da fuoco automatica, ha segnato un nuovo «modus operandi» e questa novità mette il governo israeliano nella difficile posizione di dover mantenere vivo quel minimo di coesistenza tra la comunità araba israeliana e la maggioranza ebraica.
   Il premier Benjamin Natanyahu ha parlato chiaro; rivolto agli arabi del suo Paese ha detto: «Non potete godere dei diritti della cittadinanza israeliana e continuare a dirvi palestinesi». D'altra parte il governo deve spiegare l'impreparazione dei servizi di sicurezza e di intelligence che non sono riusciti a prevenire l'attacco terroristico che è costato due giovani vite. La festività del Sabato ha dato al premier qualche ora per prepararsi sia agli attacchi della stampa, sia dell'opposizione, dovendo nel frattempo riavviare la macchina della sicurezza che, questo è fuori di dubbio, venerdì pomeriggio si è tragicamente inceppata. Una falla che le forze dell'ordine hanno provato a riparare appellandosi alla popolazione perché segnali il fuggitivo. Anche se Ido Zelkovitz, esperto di terrorismo con un notevole bagaglio di conoscenze del fenomeno jihadista e professore dell'Università di Haifa ha dichiarato alla stampa che in Israele non ci sono cellule dell'ISIS e che l'ultimo attentato è opera di un «cane sciolto», alcune fonti raccontano invece a Libero il contrario. La famiglia dell'attentatore, originaria di Wadi Hara al nord di Israele, collabora con gli inquirenti nella speranza che il figlio venga catturato vivo prima che porti a termine altri attentati, e se ancora non è stato arrestato lo si deve, sempre secondo le fonti interne ai Servizi, alla complicità della popolazione arabo palestinese della Cisgiordania dove ha probabilmente trovato rifugio.
   Anche le dichiarazioni dell'avvocato della famiglia che danno il soggetto come squilibrato mentale sono ritenute poco credibili, la troppa freddezza e lucidità nell'esecuzione fanno invece pensare a un addestramento militare di alto livello. Non è un caso che il direttore dello Shin Bet (Servizi di sicurezza interni), il comandante di Aman, i servizi di intelligence dell'esercito e Yosef Cohen, neo capo del Mossad, si incontreranno con il Primo ministro, il ministro della Difesa e quello degli Interni al più tardi stamattina prima del Consiglio dei ministri che inaugura la settimana. Un incontro che sarà tempestoso anche perché se verrà confermato che quello di venerdì è stato il primo attentato terroristico del Califfo sul suolo israeliano e che l'attentatore riesce a sfuggire alla cattura perché aiutato da palestinesi della Cisgiordania lo scenario assumerebbe contorni decisamente inquietanti.

(Libero, 3 gennaio 2016)


Gli imam e le persecuzioni: storia dell'odio islamico tra sciiti e sunniti

Una divisione che dura da 14 secoli quella fra sciiti e sunniti. Una storia di rivalità e conflitti: al centro il ruolo degli imam. Per gli sciiti sono sempre stati una guida sia politica che religiosa, per i sunniti invece non hanno alcun ruolo religioso.

di Roberto Tottoli

La divisione tra sunniti e sciiti risale alla morte del profeta Maometto nel 632 d.C. Per il «partito di Alì», in arabo shi'at 'Ali , da cui deriva il nome «sciiti», il legittimo successore di Maometto doveva essere 'Ali, suo genero. E dopo di lui dovevano regnare i suoi discendenti con il titolo di imam. Ma la questione della successione non fu solo politica: per gli sciiti gli imam erano e sono una guida anche religiosa. Per i sunniti, invece, i primi sovrani, chiamati «califfi», furono scelti tra i compagni di Maometto, senza alcun ruolo religioso ma solo con il dovere di garantire l'ideale unità della comunità. Nel corso dei secoli il sunnismo è stato la via seguita dalla stragrande maggioranza dei musulmani, mentre lo sciismo si è a sua volta frantumato in svariate sette circoscritte ad alcune regioni.
   I motivi di tali divisioni hanno sempre avuto origine intorno all'autorità religiosa, più o meno accentuata, attribuita agli imam. Gli alauiti di Siria o i Drusi, oppure gli ismailiti guidati dall'Agha Khan ne sono gli esempi più estremi e noti. Oppure, all'opposto, vi sono correnti come quella degli zayditi dello Yemen, moderati, assai vicini ai sunniti. Quasi il novanta per cento degli sciiti segue lo sciismo imamita. Tale corrente unisce la maggioranza della popolazione irachena, ha una sua roccaforte storica nel Libano di Hezbollah ed è soprattutto religione ufficiale in Iran dal XVI secolo. La Rivoluzione iraniana del 1979 ha rappresentato il momento più alto di una comunità religiosa che ha invece spesso conosciuto marginalità, persecuzioni o dissimulazioni per sopravvivere. La storia degli sciiti è infatti costellata da sofferenze ben rappresentate dalla morte dell'imam Hussein, il figlio di 'Alì, fatto trucidare dal califfo omayyade sunnita nel 680 d.C. a Kerbela, nell'odierno Iraq.
   I sunniti hanno sempre guardato con sospetto ai sostenitori di concezioni sciite. Oggi le posizioni più marcatamente anti-sciite sono sostenute dall'Arabia Saudita. Il wahhabismo è segnato da un odio feroce contro gli sciiti, trattati alla stregua di miscredenti e avversati nel loro credo e nelle forme di culto verso i venerati imam. La Rivoluzione iraniana che ha consegnato il Paese al di là del Golfo Persico al clero sciita ha acuito tensioni e rivalità. 
   La minoranza sciita che vive ancor oggi in Arabia Saudita soffre tali difficoltà e una rivalità crescente. Si tratta di una presenza antica, come la presenza sciita in Bahrein, ma marginalizzata dalla realtà politica saudita, in altalenanti fasi di riavvicinamento e confronti sanguinosi. I moti di protesta nel clima delle cosiddette primavere arabe dopo il 2011 hanno ulteriormente acuito incomprensioni irrigidendo le autorità saudite. Allo stesso tempo, la crescita dell'influenza di correnti salafite sempre più avverse allo sciismo presso la corte saudita spinge per colpire la minoranza sciita con divieti e azioni coercitive.
   In tali condizioni e con le crisi regionali in atto, le possibilità di dialogo sembrano sempre più difficili. E le esecuzioni di sabato accrescono gli storici e insanabili contrasti rischiando di infiammare ancor di più tutta la regione.

(Corriere della Sera, 3 gennaio 2016)


Torna l’ambasciatore d’Egitto in Israele

Dopo anni di assenza. Il benvenuto di Netanyahu.

Dopo alcuni anni di assenza, l'Egitto ha inviato in Israele un nuovo ambasciatore. A renderlo noto è stato Benyamin Netanyahu, nella seduta odierna del consiglio dei ministri. "E' il benvenuto. - ha detto il premier - Ci consentirà di sviluppare ulteriormente le relazioni". Da parte sua il ministero degli esteri israeliano ha precisato che l'ambasciatore, Hazem Hairat, è giunto venerdì a Tel Aviv.

(ANSA, 3 gennaio 2016)


ISAF Youth World Sailing Championship: In Malesia pensando alle Olimpiadi di Berlino 1936

I retroscena dell'ennesimo caso di esclusione di atleti israeliani da parte di un comitato organizzatore che agisce sotto l'egida della World Sailing presieduta dall'italiano Carlo Croce. L'evidenza della decisione adottata per motivi politici mette in crisi il movimento. Sarà difficile accertare le responsabilità personali, ma l'unica certezza è che ad essere sconfitto è lo sport con i suoi nobili valori.

di Valerio Tripi

 
Yoav Omer, uno dei due atleti israeliani esclusi dalla "World Sailing" in Malesia
Federazione internazionale di vela "World Sailing" nella bufera. Resta alto il livello delle polemiche dopo la mancata concessione del visto d'ingresso ai due atleti israeliani Yoav Omer e Noy Drihan e al loro allenatore Meir Yaniv in Malesia in occasione del quarantacinquesimo Youth Sailng World Championship che è in corso a Langkawi fino al 3 gennaio.
  Nell'occhio del ciclone è finito il presidente della World Sailing Carlo Croce, che è passato rapidamente dall'accusa di scarso interesse per il caso, a corresponsabile di una situazione per certi versi anche peggiore di tragedie del passato: a Berlino alle Olimpiadi del 1936 il Terzo Reich dovette dimostrare al Comitato olimpico internazionale che gli ebrei non venivano esclusi a priori dalle squadre nazionali tedesche e alcuni vennero reintegrati, anche per scongiurare il boicottaggio delle altre delegazioni.
  In questo caso, invece, l'esclusione di Israele è ormai un dato di fatto nella competizione che si avvia alla conclusione in Malesia e di recente ad Abu Dhabi ed in Oman per i mondiali di due delle dieci classi Olimpiche RS:X maschile e femminile. Una decisione già grave, quella adottata dal comitato organizzatore malese, aggravata ancora di più dalla condizione posta per concedere l'ingresso nel paese: rinunciare a simboli, colori e stemmi israeliani.
  "Come è possibile - si chiede Vincenzo Baglione, presidente della classe Italiana Mistral con cui Alessandra Sensini ha vinto tre medaglie olimpiche - pensare che i due campioni del mondo israeliani, che rappresentano la loro nazione ed il loro popolo, rinuncino alla loro bandiera e al loro inno e accettino di gareggiare come atleti senza patria? Come è possibile che il presidente della federazione mondiale della vela Carlo Croce abbia consentito agli organizzatori di chiedere che si infrangessero le regole dell'ISAF che obbligano tutti i concorrenti a esporre sulle vele il simbolo e la bandiera della propria nazione? L'ISAF ha permesso agli organizzatori di imporre ai due concorrenti israeliani una violazione delle regole previste dal Comitato olimpico internazionale. Una scelta inaccettabile sotto tutti i punti di vista e a qualsiasi livello. Mi sarei aspettato, come tesserato per una Federazione sportiva che opera sotto l'egida del CIO, che il presidente dell'ISAF, che ne avrebbe il potere, avesse imposto il rispetto delle regole contro scelte scellerate degli organizzatori in violazione a quanto previsto secondo la Carta Olimpica".
  Ma quella che sembra solo una indifferenza da condannare, diventa una gravissima complicità se si riflette su alcuni punti della vicenda: il dato di fatto è che ai due campioni del mondo in carica Yoav Omer e Noy Drihan è stata negata la possibilità di difendere il proprio titolo da un paese, la Malesia, da lungo tempo schierata politicamente contro le scelte di Israele. Ma la federazione internazionale prevede che tutti i paesi membri in regola abbiano il diritto di iscrivere i propri atleti; il bando di regata che ha assegnato l'organizzazione alla Malesia, inoltre, è del dicembre 2014. Una precisazione temporale che da qui in avanti sarà fondamentale tenere a mente: la federazione internazionale era a conoscenza del caso del visto, dato che per tre mesi ha cercato di mediare fra le parti per dare il via libera all'organizzazione dei mondiali aperti a tutti, stato di Israele compreso. Da metà ottobre 2015 le richieste per il rilascio del visto sono state respinte più volte fino a quando il governo malese ha dettato delle condizioni oggettivamente penalizzanti per permettere ai due atleti di gareggiare: rinunciare ad esporre la bandiera; gareggiare in forma anonima; prendere solo voli indiretti via Singapore; divieto di esporre loghi o qualsiasi nome riconducibile a Israele; divieto di esecuzione dell'inno nazionale; divieto di fare acquisti se non attraverso persone non israeliane; divieto di comunicare con persone fuori dalla Malesia senza un mediatore; nessuna notizia sulla stampa circa la presenza della squadra israeliana in Malesia. La violazione di una sola di queste regole avrebbe determinato la cancellazione immediata dei visti d'ingresso.
  Si parla di norme dettate da misure di sicurezza per un sentimento comune da parte della popolazione malese invece che di una scelta politica ben precisa volta a boicottare atleti israeliani: una giustificazione smentita dalle parole pronunciate dal ministro dello sport malese Khairy Jamaluddin in occasione della cerimonia di apertura del mondiale. "La federazione internazionale non ha detto nulla sulla nostra organizzazione - sono state le sue parole - perché conoscono benissimo la nostra politica. Tutti sono felici e contenti della nostra organizzazione. Non dipende da me la decisone di non concedere i visti, ma dal Consiglio dei Ministri del Governo malese in conformità con la politica estera della Malesia in base al quale il paese non ha relazioni diplomatiche con Israele".
  E la federazione internazionale? Ufficialmente dice di avere aperto un'inchiesta inviando il vicepresidente Chris Atkins. In realtà il viaggio era già previsto dal momento che il delegato avrebbe comunque assistito alla competizione. Inchieste di questo tipo finiscono con un nulla di fatto o l'esito di solito viene dichiarato "riservato".
  Il presidente della federazione israeliana Amir Gill, intanto, minaccia azioni legali. La Malesia si dice al riparo da qualsiasi attacco e la federazione internazionale, l'unica che avrebbe potuto fare qualcosa, non ha mosso un dito. E invece avrebbe potuto togliere l'organizzazione dell'evento alla Malesia e assegnarla a un altro paese ospitante. Tutti sapevano, insomma, delle difficoltà nei rapporti fra Malesia e Israele, ma l'assegnazione dei Mondiali è stata fatta ugualmente. Se davvero l'inchiesta federale ottenesse risultati, la Malesia rischierebbe sanzioni gravi come il divieto di partecipare alle Olimpiadi del 2016. Sarà curioso vedere come la federazione mondiale gestirà un caso così evidente di discriminazione per motivi politici contro una squadra di vela giovanile. Sarà curioso vedere come il Presidente della World Sailing interverrà per i prossimi Mondiali Giovanili in programma in Oman dove, non dimentichiamo, agli israeliani è stato impedito di partecipare al mondiale di due classi Olimpiche RS:X Maschile e RS:X femminile.

(Albaria.org, 2 gennaio 2016)


Tel Aviv, il killer del pub ha un nome: Nashad Milhem, 28 anni, del nord del Paese

La polizia ha diffuso l'identità del sospetto, chiedendo aiuto alla popolazione per localizzarlo e avvertendo: "E' un uomo molto pericoloso".

Si chiama Nashad Milhem, ha 28 anni e risiede nella località di Arara, nel nord di Israele. E' lui l'uomo sospettato di aver fatto fuoco venerdì in un pub di Tel Aviv, uccidendo due persone. A diffondere l'identità dell'arabo israeliano ricercato dalle forze dell'ordine è stata la polizia israeliana, avvertendo che l'uomo è pericoloso e chiedendo alla popolazione un aiuto per localizzarlo.
Ingenti forze di polizia sono nella casa di famiglia di Milhem, nella regione di Wadi Ara, mentre il premier Benyamin Netanyahu si è recato nel pub Hasimtà, a Tel Aviv, dove è avvenuta la sparatoria. "Qua è stato compiuto un crimine disgustoso - ha detto -. C'è stata una crudeltà incredibile. Apprezzo le condanne giunte dal mondo arabo. Devo però aggiungere che mi attendo adesso che i deputati arabi, tutti,nessuno escluso, condannino questo omicidio senza tentennamenti. Un omicidio è un omicidio!"

(TGCOM24, 2 gennaio 2016)


Tutto ciò che sai su Jesse Owens e Hitler è falso

di Davide Di Stefano

ROMA - La storia si sa, la scrivono i vincitori. Anche quella delle Olimpiadi. E così fino ad oggi tutti quanti (o quasi) abbiamo dato credito alla storiella di Hitler, cattivissimo cancelliere nazista razzista, che si rifiuta di stringere la mano al povero "negro" Jesse Owens, reo di aver rappresentato il "mondo libero" e di aver fatto incetta di medaglie alle Olimpiadi di Berlino del '36, quelle di Olympia della Riefensthal e della celebrazione della grandezza del Terzo Reich.
   Oggi questa storiella strappalacrime probabilmente affollerebbe i social network, per poi essere derubricata a "bufala". Purtroppo invece ce la siamo dovuta sorbire per ottanta anni, nonostante lo stesso Jesse Owens abbia smentito il fatto nella sua autobiografia del 1970: "Dopo essere sceso dal podio, passai davanti alla tribuna d'onore per tornare negli spogliatoi. Il Cancelliere mi fissò. Si alzò e mi salutò con un cenno della mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Giornalisti e scrittori dimostrarono cattivo gusto tramandando un'ostilità che, di fatto, non c'era mai stata".
   Dichiarazioni del diretto interessato che non vennero però prese sul serio nemmeno negli Usa, dove le leggi razziali erano state abolite solo da pochissimi anni e alle parole di quel "negro" forse non si dava peso. Fatto sta che c'è voluto Race, un film in uscita il 19 febbraio negli Usa e prodotto con la collaborazione della figlia dell'atleta afroamericano, Marlene Owens Rankin, per fare luce su quella che è la verità storica. "Mio padre non si è mai sentito snobbato da Hitler", spiega Marlene Owens, "ma fu profondamente ferito dal fatto che Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano dell'epoca, non l'avesse ricevuto alla Casa Bianca". Una realtà con la quale gli americani hanno difficoltà a fare i conti.
   Ad Owens venne infatti programmato e sempre rinviato l'incontro con il democratico Roosvelt, il quale, impegnato nella campagna elettorale del '36, non aveva nessuna intenzione di incontrare un "negro" e rischiare così di perdere voti. Tanto che Owens arrivò ad iscriversi al partito repubblicano e a fare campagna per l'avversario del presidente, Alf Landon.
   Forse Race, con la potenza visiva propria del cinema, sarà in grado di mettere definitivamente la parola fine a questo falso storico, per il quale non sono bastate le parole del diretto interessato né le ricostruzioni di alcuni giornalisti come il tedesco Siegfried Mischner, che pochi anni fa raccontò come lui stesso vide Hitler stringere la mano ad Owens: "Jesse aveva portato un fotografo e, dopo l'Olimpiade, chiese alla stampa di correggere un errore che si sarebbe trascinato fino ai giorni nostri. Nessuno gli diede retta". Nell'America razzista degli anni successivi alla guerra le parole di quell'afroamericano valevano comunque meno di quelle di un bianco. E così gli Usa umiliarono il proprio campione, non credendogli e relegandolo a fenomeno da baraccone, in quelle corse in cui Owens correva contro animali e cavalli da corsa.
   Cose di cui si parla poco, come delle Olimpiadi di Sant Louis del 1904, dove gli americani si divertirono ad organizzare i "Giochi delle razze inferiori" meglio conosciuti come "giornate antropologiche", in cui ci si divertiva a veder gareggiare pigmei, eschimesi, indiani d'america. Un'altra bellissima pagina scritta dai nostri "vincitori". Ma le bugie hanno le gambe corte, anche se la verità per venir fuori deve aspettare ottant'anni.

(Il Primato Nazionale, 2 gennaio 2016)


Il ristabilimento della verità dei fatti non rivaluta Hitler, ma svaluta i suoi oppositori americani. Hitler era molto peggio di una macchietta. Era diabolico, ma il diavolo non è scemo. M.C.


Buon anno Israele

Attentato in un bar di Tel Aviv. Due morti e diversi feriti, falciati da un arabo israeliano. Le minacce jihadiste dei giorni scorsi e l'esultanza di Hamas. In occidente continua la delegittimazione dello stato ebraico.

di Giulio Meotti

ROMA - L'attentato è avvenuto sulla Dizengoff, la più occidentale delle strade di Tel Aviv, teatro delle grandi stragi kamikaze negli anni Novanta. Prima dello Shabbath ieri un terrorista sulla trentina, "calmo e sorridente", ha falciato i civili israeliani seduti al bar Simta, uccidendone due (fra cui il proprietario, Alon Bakal) e ferendone gravemente altrettanti. L'attentatore è un arabo israeliano, già noto alle autorità israeliane e riconosciuto dal padre dopo aver visto le immagini in televisione. Interpellato dal New York Times, l'esperto di antiterrorismo Daniel Byman ha detto che "sembra un attacco stile Isis", come l'assalto ai ristoranti di Parigi del 13 novembre. Un tweet forse legato allo Stato islamico annunciava di voler colpire Tel Aviv. Anche Hamas e il Jihad islamico nei giorni scorsi avevano minacciato Israele di voler compiere un salto di qualità nella Terza Intifada, finora combattuta a colpi di coltelli e assalti con le auto. Tel Aviv, a differenza di Gerusalemme e dei Territori, era rimasta fuori dall'ondata terroristica: l'ultimo attentato risaliva al 2 novembre, quando vennero uccisi due israeliani.
  Quale modo migliore per accogliere Israele nel nuovo anno che colpire gli ebrei al cuore della loro scintillante capitale economica? Tanti aspiravano a realizzare un simile attentato. Lo Stato Islamico, che alcuni giorni fa aveva declamato col califfo: "La Palestina sarà la vostra tomba". Ma anche la galassia palestinese. E il fatto che il terrorista sia un cittadino israeliano che uccide altri israeliani avvicina prepotentemente Israele a Parigi, anch'essa messa in ginocchio da altri cittadini francesi. Ma questa strage, la più sofisticata dall'inizio della Terza Intifada, si consuma in un clima di impressionante e colpevole delegittimazione dello stato ebraico da parte dell'opinione pubblica internazionale. I capi politici dell'Europa da anni mistificano dicendo che il terrore che colpisce le loro città è diverso da quello che fa sanguinare Israele. Il presidente francese, François Hollande, nel suo discorso dopo il 13 novembre ha volutamente separato Gerusalemme dalle altre capitali colpite dal jihad. E basta sfogliare la top ten di antisemiti preparata dal Centro Simon Wiesenthal: ci trovi un giornalista di sinistra dello Spiegel, un festival di musica in Spagna, un leader politico inglese. Alla notizia dei morti di Tel Aviv, tanti europei, nei giornali, nelle cancellerie, nei parlamenti, nelle strade, segretamente si compiacciono.

(Il Foglio, 2 gennaio 2016)


Israele subisce il primo attacco in stile Isis

Il killer è un arabo che ha aperto il fuoco sugli avventori di un caffè. La famiglia: «Ha problemi mentali»

di Michael Sfaradi

TEL AVIV - In Israele il 2016 non comincia nel migliore dei modi. L'attentato portato a termine alle ore 14.30 del primo gennaio in Dizengoff Street, nel centro della movida di Tel Aviv, è un tragico salto di qualità dal terrorismo dei coltelli si è passati alle armi da fuoco. Secondo il canale 2 della televisione israeliana c'era stato un annuncio su un messaggio Twitter anonimo messo in rete ventiquattro ore prima che anticipava quello che poi è accaduto, ma le minacce sui social sono ormai «pane quotidiano» ed è oggettivamente impossibile per le forze di sicurezza controllarne l'eventuale veridicità. Rimane però, e nei prossimi giorni i servizi di intelligence avranno molte domande a cui rispondere, che un uomo armato di un vecchio modello di mitragliatore Gustav M/45, ha raggiunto il cuore della più popolosa citta israeliana e, praticamente indisturbato, dopo aver estratto l'arma dal suo zaino ha sparato per oltre quindici secondi verso un gruppo di giovani che all'interno di un bar stava festeggiando un compleanno. Alla fine della mattanza si sono contate due vittime: Alon Bakal di 26 anni, direttore della sala, Shimon Rawimi di 30 anni, uno degli invitati alla festa, e altre sette persone sono rimaste ferite, quattro delle quali combattono fra la vita e la morte nell'ospedale Ihilov di Tel Aviv. Che i primi colpi siano stati sparati singolarmente e non a raffica è stato confermato a Libero dalla signora Patrizia Moscati e da suo marito il signor Cesare Di Veroli, turisti italiani che per un vero miracolo non si sono ritrovati in mezzo alla sparatoria. I due coniugi erano passati da non più di un paio di minuti proprio davanti al bar poi colpito e hanno sentito distintamente gli spari, prima colpi singoli e poi le raffiche.
   Anche se nelle prime ore dopo l'attentato le fonti governative non si sbilanciavano sulla natura della sparatoria e le ipotesi erano il terrorismo arabo o un'azione legata alla malavita locale, con il passare delle ore il quadro si è chiarito: a compiere l'attacco è stato un solo individuo, un arabo israeliano di Wadi Ara, riconosciuto dal padre nei filmati trasmessi dalle televisioni. II giovane, secondo un avvocato suo parente, Sami Melhem, intervistato dalla tv israeliana, ha spiegato di averlo già rappresentato quando aveva aggredito un soldato: «Quest'uomo non è sano, per quanto ne sappia da quando lo rappresento - ha detto - è stato in cura e lo è ancora in cura». Poi ha negato che sia in qualche modo legato al terrorismo islamico.
   Ma la paura dello Stato Islamico resta. Il 26 dicembre scorso Al Baghdadi, il Califfo, in un messaggio audio aveva direttamente minacciato Israele e dopo pochi giorni ecco che un attentatore con un modus operandi diametralmente opposto a quello usato dai terroristi di Fatah o di Hamas che cercano il martirio in ogni loro azione. Nella sua condotta, tanto fulminea quanto micidiale, il terrorista, che è stato ripreso da diverse telecamere di sicurezza che si trovano nelle vicinanze della scena del crimine, ha dimostrato grande freddezza.
   Dopo i primi spari singoli, quelli che hanno causato i danni maggiori, con l'intento di salvare la sua vita ha usato le raffiche per coprirsi la fuga in una condotta molto simile a quella usata il 24 maggio 2014 dall'attentatore al museo ebraico di Bruxelles. Nella fuga l'attentatore ha lasciato dietro di sé uno zaino all'interno del quale è stata trovata una copia del Corano.
   Non è la prima volta che arabo - israeliani si rendono protagonisti di attentati e questo potrebbe definitivamente incrinare i rapporti già molto tesi con il resto della popolazione ebraica. Gli arabo - israeliani sono circa un milione e mezzo di persone su un totale di ono milioni di cittadini israeliani. Sia Hamas da Gaza che Fatah da Ramallah, anche se lo hanno benedetto, non hanno rivendicato l'attentato di Capodanno.

(Libero, 2 gennaio 2016)


Cosa fare a Tel Aviv quando sparano

A pochi metri da Dizengoff, tutta la vita che c'è qui e noi.

di Annalena Benini

 
TEL AVIV - In un secondo è cambiato tutto, anche il colore del cielo. Camminavamo da turisti per Dizengoff street, a Tel Aviv, in mezzo al sole, al vento freddo e a tantissime persone, e come gli altri eravamo tranquilli, allegri perché aveva smesso di piovere: in questo anno appena iniziato, e salutato ridendo la notte prima, entravamo e uscivamo dalle librerie, dai negozi di vestiti per bambini, la mia amica beveva una spremuta di melograno, desideravamo una collana con un ciondolo a forma di colibrì, la proprietaria del negozio diceva che essendo il primo giorno del 2016 ci avrebbe fatto un grosso sconto, per augurarci tutto il meglio "e se comprate due colibrì, uno sconto più forte". Di lì a poco avrebbe chiuso, perché il venerdì pomeriggio, al tramonto, inizia lo Shabbat, e qualche bar cominciava a impilare sedie. Ma io ero lì soprattutto per denunciare il furto del mio portafoglio: Dizengoff è una strada molto famosa ma noi stavamo andando alla stazione di polizia, al numero 221 (a Capodanno, festeggiando di fronte alla Grande Sinagoga, ho perso di vista la mia borsa troppo a lungo, in mezzo a troppa gente, e adesso zero soldi per comprare quel ciondolo a Dizengoff e molti doveri burocratici per rifare i documenti). Ai miei amici dicevo: mi dispiace farvi perdere tempo, potevamo andare a Jaffa a vedere il porto e assaggiare le arance, ma loro erano contenti di camminare in quella strada piena di giovinezza, bellezza e bar con i tavolini all'aperto: al numero 130, il locale dell'attentato, non siamo entrati soltanto per caso, per fretta, perché a ogni metro c'era un'altra bella vetrina, un negozio dentro cui gironzolare prima che chiudesse, un palazzo da guardare, un quadro che non potevamo permetterci, una ragazza bellissima vestita troppo leggera per il vento che arriva dal mare, noi imbacuccati nelle sciarpe e loro con i cappotti aperti, le gonne senza calze. Alla polizia mi hanno detto di aspettare, i portafogli rubati a Capodanno non sono una priorità, ci siamo seduti lì, io che pensavo a quanto ero stata scema e distratta, i miei amici che dicevano quanta vita qui, quanto è bella questa città, poi in un secondo è cambiato tutto.
  Abbiamo sentito e visto due poliziotti urlare "Dizengoff", lo stesso che aveva parlato con me in inglese ora dava ordini in israeliano, li abbiamo visti armarsi, infilarsi i giubbotti antiproiettile, correre fuori, e altri poliziotti arrivavano di corsa insieme da altre stanze, uomini e donne uno dietro l'altro salivano sulle macchine, sulle moto, con le facce tese, non sconvolte (una ragazza in divisa ha detto "fuck", fra i denti, ed è corsa a piedi verso il posto degli spari). Noi li guardavamo, attoniti, dal vetro, loro non guardavano noi. Abbiamo visto contemporaneamente le auto e le ambulanze arrivare con le sirene spiegate e le persone sui marciapiedi continuare a camminare con i caffè in mano, tenere i cani al guinzaglio, passare in bicicletta, parlare al telefono. Un poliziotto è venuto da me a scusarsi: "C'è da aspettare per la denuncia". Ma che cosa succede? "Spari, urla, panico, forse ci sono dei feriti, voi tre rimanete qui, non uscite". Noi tre non ci siamo mossi, abbiamo cercato sui telefoni, trovato in pochi secondi notizia dell'attentato. Un morto. Un morto?, ho chiesto a una poliziotta bionda. Temo due, ha risposto lei, ed è corsa di nuovo fuori. Abbiamo riconosciuto il locale dalle foto su internet, a due isolati da lì, dove eravamo passati a piedi al massimo dieci minuti prima che un uomo con un kalashnikov sparasse per uccidere, dove molte persone stavano chiacchierando, bevendo caffè, mangiando falafel il primo giorno del nuovo anno, con le facce e le parole al vento, i buoni propositi, il futuro. Adesso, al posto della musica, il rumore degli elicotteri. Anche al posto del sole, un cielo gonfio. Noi tre non abbiamo visto sangue, abbiamo visto solo la vita entusiasmante che c'era, e che era di tutti, colpita a tradimento, e la risposta immediata di uomini e donne, la tensione muta e rabbiosa, dopo, degli altri passanti, che obbedivano all'ordine di non rimanere per strada e cercavano taxi con la luce accesa. Dizengoff era vuota e come morta, quando siamo usciti dalla stazione di polizia, e adesso è di nuovo piena di gente. I poliziotti di Dizengoff, che hanno comunque registrato la mia misera denuncia di furto, hanno detto: tornate subito a casa, qui è pericoloso, non andate a piedi. Ma hanno anche sorriso per un attimo, seri: buona giornata, e buon anno.

(Il Foglio, 2 gennaio 2016)


In Israele un gravissimo salto di qualità

di Fiamma Nirenstein

Se l'aggressione che ha lasciato ieri sul terreno due morti e sette feriti è davvero un attacco terroristico, se sarà confermato che fra le cose dell'uomo che ha sparato con un'arma automatica sulla folla di un pub si è trovato un Corano, l'attacco terroristico cui è sottoposto Israele da cento giorni ha subito un enorme balzo in avanti. L'attacco dentro un locale si è avuto alle 15.30 di venerdì pomeriggio, quando i giovani si riuniscono prima della festa, durante un compleanno, nel cuore del cuore della città, al Dizengoff Center dove i ragazzi d'Israele vivono la propria voglia di essere normali. Esso dimostra un livello di organizzazione e di pianificazione che va oltre le decine di attacchi col coltello o con auto lanciate contro cittadini per la strada. La ripresa di una telecamera mostra l'attentatore dentro un negozio, finge di comprare una merce, torna indietro dal banco, mette lo zaino sul carrello, ne trae un'arma automatica e si lancia a sparare nella strada. La borsa abbandonata conteneva, almeno così riferiscono le cronache, un Corano. Tel Aviv, città che ama i bar, i pub, i ritrovi e specialmente quelli dei giovani, ha memoria di decine di terribili attacchi terroristici in luoghi di ritrovo: fra tutti, quello del Dolphinarium che segnò con la sua strage di 21 giovani la seconda Intifada nel 2001.
  Quasi tutti gli altri attentati, sempre però causati da esplosioni, hanno funestato Tel Aviv. Quello di ieri è un attentato che si colloca nel mezzo della guerra religiosa che da quando è stata lanciata, nel bel mezzo dell'attacco terroristico all'Occidente che funesta le capitali d'Europa e si espande negli Stati Uniti, ha avuto ha fatto in Israele decine di morti e feriti. Dopo avere avuto l'imprimatur di guerra di religione con la falsa denuncia da parte sia di Hamas che di Abu Mazen di un supposto piano di conquista da parte di Israele, è di tre giorni fa la promessa dell'Isis, durante un discorso del califfo Al Baghdadi, di attaccare Israele, accompagnato con la promessa che essa sarà «il cimitero» degli ebrei. L'attacco di Tel Aviv, chiunque l'abbia compiuto, ha il medesimo carattere delle ignobili aggressioni a innocenti di questi giorni, ma l'opinione pubblica internazionale si è dimostrata piuttosto indifferente preferendo collocare la serie infinita di attacchi al conflitto israelo-palestinese. Tel Aviv ha come caratteristica quella semplicemente di essere parte di Israele, una città laica ed ebraica, eppure l'attacco ne fa un terreno da strappare a una cultura e a una religione diversa. Vedremo se anche questa volta, per mancanza di materiale adatto, avremo il rovesciamento dell'informazione tipico di questi giorni

(il Giornale, 2 gennaio 2016)


"L'islam radicale è come la mafia, non bastano le bombe la battaglia è culturale"

Intervista a Ayaan Hirsi AH. La scrittrice somalo-olandese: "I terroristi sono protetti dall' omertà. Viviamo uno scontro di civiltà, che iniziò nel 1989 con la fatwadi Khomeini contro Rushdie".

di Antonello Guerrera

 
Ayaan Hirsi AH
«L'islam radicale in Occidente mi ricorda la mafia in Italia. Oltre agli attentati, c'è un'inscalfibile omertà di fondo, anche nelle comunità non estremiste ma contigue al jihadismo. Il terrorismo islamico deve essere combattuto come la mafia. Non bastano le bombe. Serve una battaglia culturale, ma autentica. Bisogna imporre i valori di libertà e diritti umani, che sono superiori a qualsiasi altro. Perché oggi viviamo uno scontro di civiltà. Prima però pensavo che l'Islam fosse irriformabile. Oggi non la penso più cosi. Una speranza ce l'ho». Ayaan Hirsi Ali non rinuncia mai alla sua nettezza retorica e intellettuale, che le ha creato tanti sostenitori, critici e nemici. La 46enne attivista e scrittrice somalo-olandese, che ha rinnegato la fede musulmana in gioventù perché secondo lei inconciliabiIe con la società contemporanea, con i diritti fondamentali che dovremmo difendere senza timori, anche nel mondo arabo. Oggi vive in America ancora sotto protezione, 24 ore su 24. Questo dopo le minacce ricevute dagli estremisti per la sceneggiatura di Submission, il film che denunciò la "sottomissione" delle donne nell'Islam e che nel 2004 innescò l'assassinio del regista olandese Theo Van Gogh, giustiziato da un jihadista nel centro di Amsterdam. Oggi, non lontano da li, c'è un nuovo spauracchio: Molenbeek, il sobborgo di Bruxelles da dove sono partiti i terroristi che hanno macellato Parigi e il cuore dell'Europa. Negli ultimi giorni, sempre nella 'capitale" dell'Ue e a Monaco, sono stati sventati attentati previsti per Capodanno. Massacri e allarmi che per Hirsi Ali «non sono stati di certo una sorpresa«.

- Perché?
  
«Perché il numero di estremisti islamici nel mondo sta crescendo, sempre di più. Il loro obiettivo è l'Europa. da sempre. E nelle nostre periferie trovano porose comunità dove si possono infiltrare. E nascondere».

- Allude a una silenziosa complicità dei musulmani europei?
  
«No. Buona parte delle comunità islamiche non simpatizza affatto con gli estremisti. Ma in esse ci sono componenti sociali e culturali che possono facilitare la penetrazione dei jihadisti e della loro perversa ideologia».

- Per esempio?
  
«Prenda Salah Abdeslam, il terrorista del Bataclan tuttora latitante. Dopo la strage, lo ha raggiunto in Francia un amico dal Belgio, che si è giustificato dicendo che non sapeva niente. Lo stesso un fratello di Salah. Entrambi sono stati rilasciati. Mi sembra impossibile che queste persone non avessero mai avuto in vita il minimo sospetto su Salah per denunciarlo alla polizia».

- Magari davvero non c'entravano nulla...
  
«lo non la penso cosi. Purtroppo, in una parte della comunità islamica in Europa, c'è ancora tanta omertà, che come colla limita denunce e segnalazioni alle autorità. È un comportamento di tipo tribale, simile a quello della mafia in Italia, che si lega ai concetti di tradizione, famiglia, identità religiosa. Ibn Khaldum, il grande filosofo arabo del XIV secolo, chiamava asabiyya questa fedeltà cieca, di sangue, impermeabile alla società esterna. Anche per questo credo poco nelle "radicalizzazioni sul web". Ogni estremismo ha un contesto reale favorevole al jihadismo che certe moschee o famiglie aizzano».

- Però sempre più musulmani, nelle piazze e in Internet, esprimono la loro contrarietà ai fondamentalisti.
  
«E vero, dobbiamo ripartire da loro, "i riformatori". Ho cambiato idea nel tempo. L'Islam può adattarsi alla nostra società. Ma ci vuole pazienza».

- E invece come si combattono l'omertà vischiosa e i fondamentalismi? Bastano le bombe in Siria ed Iraq?
  
«Assolutamente no. L'estremismo si combatte con le idee, pianificando una battaglia culturale, vera e potentissima. Quando i Paesi Bassi mi hanno accolto come rifugiata, mi hanno dato tutto: cibo, soldi, una casa. Ma non la cosa più importante».

- Quale?
  
«L'educazione ai diritti fondamentali dell'uomo, ai valori della società olandese e occidentale: la libertà, la tolleranza, la democrazia, il rispetto delle diversità. Purtroppo europei e americani li danno per scontati, non li trasmettono più, pensano che la superiorità militare e di intelligence sia sufficiente per resistere. Si sbagliano. L'Islam fondamentalista ha una propaganda ricca e poderosa. Pensiamo solo alla dawah dell'Arabia Saudita e cioè ai miliardi che investe nella "missione" di diffondere in tutto il mondo la sua ideologia wahabita (ramo ultra-radicale dell'Islam sunnita, ndr). E noi cosa facciamo? Quando i nostri leader vanno a Riad neanche si azzardano a pronunciare le parole "libertà" o "diritti". Invece dovremmo scandirle a voce ferma e alta, in nome dei valori universali dell'uomo, che sono superiori a qualsiasi altro. Non dobbiamo avere paura di invocarli, questi valori».

- Intanto i movimenti di estrema destra, che inneggiano alla lotta all'Islam, spopolano in tutta Europa. Secondo lei è in atto uno scontro di civiltà?
  
«Certo. Dal 1989, dalla fatwa assassina dell'Iran di Khomeini contro lo scrittore Salman Rush-die. Ma noi non ce ne siamo accorti. Questo purtroppo ha un'influenza anche sul multiculturalismo, che per me muore se diventa un multietnicismo che al suo interno tollera la shararn, e cioè l'umiliazione delle donne musulmane, oltre alla discriminazione dei gay e l'abiura di libertà, anche di espressione, che certe culture e religioni negano. Se cediamo su questi diritti fondamentali, lo scontro di civiltà in Occidente sarà sempre più devastante».

(la Repubblica, 2 gennaio 2016)


L'Isaf nella bufera. Il presidente Croce: aperta un' inchiesta, venerdì il verdetto

Mondiali in Malesia la vela ammaina la bandiera di Israele. «Atleti in gara senza inno e senza i propri colori». Israele: a queste condizioni non partecipiamo.

di Fabio Pozzo

 
Noy Drihan, giovane campionessa israeliana di windsurf
Venti di guerra sulla vela. E un'ombra sui Mondiali giovanili in corso a Langkawi in Malesia. Succede che Yoav Omer e Noy Drihan, due atleti israeliani del windsurf siano rimasti fuori perché Israele ha scelto di non partecipare alle gare, a fronte delle condizioni imposte dall'organizzazione ospitante: principalmente, correre senza bandiera, senza inno in caso di vittoria, niente rapporti con i media, nessun comunicato stampa. Insomma, in modo anonimo, sotto l'egida dell'Isaf/World Sailing, la Federvela mondiale anziché con i colori dello Stato ebraico.
  Immancabili le polemiche, anche in Italia. Appelli, prese di posizione, proteste, ma anche attacchi alla Federvela mondiale, accusata di aver avallato le imposizioni malesi, di essere rimasta zitta e di aver scelto la via della realpolitik. Nel mirino, in primis il presidente dell'Isaf, l'italiano Carlo Croce, numero uno anche della Federvela tricolore e dello Yacht Club Italiano di Genova.

- Presidente, cominciamo dal principio?

  «Le iscrizioni ai Mondiali si chiudevano il 6 agosto, Israele si è iscritto il 10 ottobre. Tra i due Paesi, va ricordato, non ci sono relazioni diplomatiche. Secondo quanto riferitoci dalla Federazione vela malese, questa ha cercato di far partecipare comunque gli atleti israeliani, ma era molto tardi per garantire loro una adeguata protezione. Hanno così chiesto al loro governo, che ha indicato le misure per far sì che gli atleti non diventassero facili bersagli. Ma il visto lo avrebbero rilasciato. Israele però ha deciso di non prendere parte, a queste condizioni, all'evento».

- E l'Isaf che ha fatto?

  «Abbiamo ricevuto notizia della mancata partecipazione il 24 dicembre. Il 26 ci siamo attivati. Ho inviato cinque ispettori, per investigare sui fatti, oggetto di una nostra inchiesta. Abbiamo chiesto un report scritto a entrambe le Federazioni, quella malese e quella israeliana, che devono pervenirci entro domani. L'8 gennaio è stato fissato un consiglio straordinario per il verdetto. Ci siamo mossi secondo il protocollo».

- Ma non si potevano fermare i Mondiali?

  «Sarebbe stato assurdo. Impedire a 73 Paesi, 73 squadre di ragazzi di gareggiare? Allora sì che la politica avrebbe vinto sullo sport».

- L'8 gennaio che accadrà?

  «Ci sarà una decisione e una eventuale sanzione. Non so dire quali. Finora ho ascoltato solo le versioni delle due parti, attendo i report, l'esito delle nostre indagini e anche un confronto col Comitato olimpico internazionale».

- Qualcuno dice che l'Isaf vuole tenersi buoni i Paesi arabi perché finanziano eventi sportivi.

  «Ma quali finanziamenti! Pagano un fee come tutti gli altri Paesi».

- Ci sono casi precedenti?

  «Abbiamo già affrontato questioni legate al visto di atleti israeliani e nella maggioranza dei casi la verità stava in mezzo».

- Che sanzioni può comminare l'Isaf?

  «Fino alla disaffiliazione di una Federazione. Significa niente più Mondiali e Olimpiadi».

(Il Secolo XIX, 2 gennaio 2016)

*

Gli israeliani smentiscono Croce: iscrizioni in tempo

di Gian Luca Pasini

Carlo Croce
Ma Carlo Croce ci è o ci fa? Sul Secolo XIX una intervista lascia inquietanti interrogativi. Croce cita date fantasiose che sembrano immaginare una corresponsabilità israeliana nella vicenda. Vediamo. Croce dice che le iscrizioni alla regata sono state chiuse il 6 agosto. Il documento ufficiale dice il primo giugno, qui: E' accettabile che ci si possa sbagliare a questo punto della vicenda su un particolare del genere?
Il presidente continua: "Israele si è iscritto il 10 ottobre". Affermazione clamorosa, perché se fosse vero abbiamo discusso del nulla. Bastava dire al mondo, gli israeliani non si erano iscritti in tempo e il caso non sarebbe esistito. Ci siamo presi la briga di chiedere una conferma ufficiale telefonando alla federvela israeliana che ci ha detto ufficialmente: "le nostre iscrizioni sono arrivate nei tempi previsti dal bando di regata, cioè entro il primo giugno". Basterebbe questo a confutare tutto il resto. Luca Bontempelli

(La Gazzetta dello Sport, 2 gennaio 2016)



Se Erdogan loda il presidenzialismo di Adolf Hitler

di Marta Ottaviani

II presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha iniziato il 2016 con una gaffe che pone nuovi interrogativi sulla sua reale natura e sul futuro del Paese, oltre a lasciare ben pochi dubbi sulla sua ormai comprovata megalomania. Di ritorno da un viaggio ufficiale in Arabia Saudita, rispondendo alle domande dei giornalisti turchi su una probabile riforma costituzionale per introdurre il presidenzialismo forte nel Paese, Erdogan ha detto: «Si tratta di una formula già sperimentata, pensate alla Germania di Hitler». Nonostante le spiegazioni dell'ufficio della presidenza del Consiglio, per il quale Erdogan voleva citare la Germania come esempio negativo, la dichiarazione è diventata virale nel giro di pochi minuti, rendendo il leader islamico-moderato oggetto di non poche polemiche, ma anche battute sui social. I maggiori intellettuali del Paese hanno bollato come «incosciente» le sue parole. Altri utenti si sono divertiti a postare foto nelle quali emergeva addirittura una somiglianza fra i due, altri hanno commentato sarcasticamente: «Finalmente ha fatto capire a chi somiglia». Ma per alcuni analisti poteva essere interpretato anche come un monito per le aspirazioni di autonomia del popolo curdo e, se si pensa anche ai contenuti molto duri del suo discorso di fine anno, in questo caso, c'è veramente poco da ridere.

(La Stampa, 2 gennaio 2016)


Forse l’incidente accaduto a Erdogan potrebbe facilitare l’avvicinamento tra Turchia e Israele. Anche a Netanyahu è capitato di essere furiosamente attaccato dai media per aver fatto un incauto riferimento a Hitler. L’uso dei giornalisti di sfruttare ogni sfumatura dei discorsi dei leader per fare il titolo sensazionale è stucchevole. Come stucchevoli sono i continui superficiali confronti con un avvenimento unico nella storia come il nazismo. Hitler sarebbe meglio lasciarlo nella sua orrida solitudine. M.C.


Erdogan: la Turchia ha bisogno di Israele

ISTANBUL - La Turchia deve riconoscere che ha bisogno di Israele. Lo ha affermato il presidente Recep Tayyip Erdogan, dopo le notizie circolate nelle ultime settimane secondo le quali i due Paesi stanno cercando di riavvicinarsi, dopo l'incidente avvenuto nel 2010, quando le forze di sicurezza israeliane uccisero nove attivisti a bordo di una flotilla organizzata da ong turche per portare aiuti umanitari a Gaza. "Israele ha bisogno di un Paese come la Turchia nella regione, e anche noi dobbiamo riconoscere che abbiamo bisogno di Israele. Questa e' la realta' nella regione", ha commentato Erdogan, aggiungendo che "se saranno fatti passi reciproci basati sulla lealta', saranno seguiti dalla normalizzazione" delle relazioni. Dopo l'incidente del 2010 i due Paesi richiamarono i rispettivi ambasciatori e Ankara chiese la revoca del blocco a Gaza, risarcimento per le vittime dell'assalto alla flotilla e le scuse di Israele. Le scuse sono arrivate e i negoziati sui risarcimenti hanno fatto passi avanti: resta quindi il blocco a Gaza il principale nodo da sciogliere. Su questo punto, Erdogan ha detto che Israele aveva suggerito di consentire l'ingresso di materiali edili a Gaza se provenienti dalla Turchia. "Serve un testo scritto a garanzia dell'accordo", ha spiegato il presidente. L'accelerazione e' stata sicuramente favorita dalla crisi tra Ankara e Mosca per il jet russo abbattuto alla frontiera con la Siria. Israele chiede ad Ankara di impedire l'ingresso nel suo territorio di un leader di Hamas, Salah Aruri, la cui presenza in Turchia pero' non e' mai stata confermata dal governo turco.

(AGI, 2 gennaio 2016)


Washington rinvia le sanzioni per il programma missilistico di Teheran

Le nuove misure vengono congelate. Ma sale la tensione tra Stati Uniti e il presidente Rouhani.

WASHINGTON - L'escalation è congelata. Almeno per ora. La Casa Bianca ha rimandato il suo piano per imporre nuove sanzioni finanziarie contro l'Iran per il suo programma di missili balistici. Lo scrive il Wall Street Journal, citando fonti ufficiali Usa secondo le quali l'amministrazione Obama resta impegnata nella lotta al programma missilistico iraniano ma che non c'è ancora una timeline stabilita per l'applicazione delle nuove sanzioni. Secondo queste fonti, l'attuazione di tali sanzioni sarebbe compatibile con lo storico accordo firmato a luglio a Vienna tra l'Iran e le grandi potenze sul suo programma nucleare.
Lo stesso quotidiano aveva spiegato - nelle ultime ore - aveva scritto che le nuove misure punitive riguardano aziende e individui che hanno lavorato in Iran, in particolare, per lo sviluppo di missili balistici. Le sanzioni sarebbero una risposta ai test missilistici condotti da Teheran il 10 ottobre e 21 novembre. Ma la svolta sarebbe legata anche "all'incidente" di tre giorni fa, con Washington che accusa la marina iraniana di aver sparato razzi nelle vicinanze della portaerei americana Truman. "Riteniamo che sparare anche vicino alle navi sia altamente provocatorio", hanno detto le autorità Usa.
D'altronde, dopo la minaccia di sanzioni, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha ufficialmente ordinato al ministero della Difesa di accelerare il programma missilistico di Teheran.
Rouhani ha precisato che l'Iran "non ha mai negoziato sulle proprie capacità di difesa, incluso il programma missilistico", e che "non accetterà alcuna restrizione in questo ambito". "Se gli Usa continuano la loro illegittima interferenza nel diritto dell'Iran di difendersi, un nuovo programma sarà messo a punto per migliorare le capacità missilistiche" della repubblica islamica, ha avvertito inoltre il presidente iraniano.

(la Repubblica, 1 gennaio 2016)


Israele restituisce 23 corpi di attentatori

A Hebron oggi 17 funerali

Le autorità israeliane hanno deciso di riconsegnare alle famiglie i corpi di 23 palestinesi uccisi nelle ultime settimane dopo che, secondo la versione ufficiale, avevano lanciato attacchi contro israeliani. A Hebron (Cisgiordania) sono previsti oggi 17 funerali. Inizialmente in Israele si volevano trattenere i corpi come deterrente contro nuovi attentati. Poi, afferma la radio militare, si è pensato che la mancata restituzione avrebbe esasperato gli animi generando nuove violenze.

(ANSA, 1 gennaio 2016)


Mondiali di vela, Israele escluso. Una vergogna anche italiana

Un silenzio inaccettabile

 
C'è un'Italia che combatte una battaglia di giustizia, per far sì che lo sport non sia nuovamente inquinato da disvalori. Ma c'è anche un'Italia, quella che per prima dovrebbe svolgere questa funzione, che sembra piuttosto interessata ad altro.
  Ferma in questo senso la denuncia del circolo velico Ventotene, che sta promuovendo un appello per protestare contro la decisione di imporre delle condizioni inaccettabili a due surfisti israeliani, Yoav Omer e Noy Drihan (nell'immagine), che avrebbero dovuto gareggiare ai mondiali giovanili apertisi due giorni fa in Malesia, tra cui il mancato riconoscimento del diritto a competere con i colori dello Stato ebraico e la stella di Davide e il rifiuto a eseguire l'inno nazionale in caso di vittoria. Una imposizione rigettata con forza da Israele (che ha scelto di non partecipare) ma che scarse reazioni ha suscitato nei vertici della federazione internazionale, l'ente cui compete l'organizzazione del torneo.
  Cosa c'entra l'Italia? C'entra, eccome. Perché presidente della International Sailing Federation è il genovese Carlo Croce, 70 anni, da 7 alla guida del movimento velistico nazionale.
  "Ancora ieri il presidente della Federazione Mondiale e italiana, Carlo Croce, ripeteva: 'Aspettiamo una presa di posizione del Cio in materia dei fatti accaduti in Malesia'. Peccato che anche in questo caso dall'Asia arrivi una pronta risposta che smentisce il numero 1 di World Sailing e della Fiv" ha scritto ieri Gian Luca Pasini sulla Gazzetta dello Sport. Secondo i malesi infatti Croce era stato informato da tempo delle loro richieste.
  "Per la World Sailing la realpolitik è più importante della carte dei diritti sportivi" denuncia Fare Vela, tra le più importanti riviste di settore.
  "Il silenzio e l'ipocrisia che avvolgono questa ingiustizia è intollerabile" dice invece Rosa Magiar del circolo Ventotene, tra le prime a tentare un raccordo con altri circoli e personalità.
  "È una situazione inqualificabile - prosegue - che esula da tutto quello che dovrebbe essere un incontro tra giovani di tutto il mondo nel segno dello sport, della passione e del divertimento. Per alcune ore abbiamo pensato a una soluzione estrema. E cioè il ritiro di due nostri atleti, convocati in nazionale e in Malesia già da alcuni giorni assieme alle loro famiglie". Alla fine si è deciso di non scaricare su due 15enni "contraddizioni molto più grandi di loro". Ma l'indignazione resta forte.
  "Chi pensava che tutto passasse sotto traccia ha fatto male i suoi conti. E lo sdegno che si sta levando nei nostri ambienti, e a tutti i livelli - afferma Magiar - rappresenta un chiaro segnale in questo senso".
  Tra le molte voci a levarsi anche quella di Max Sirena, ex skipper di Luna Rossa, che sul proprio profilo Facebook ha scritto: "È il momento di mettere da parte gli interessi che vanno al di là dello sport, chiedo a chi di dovere di darsi da fare".

(moked, 1 gennaio 2016)


Statistiche 2015

Anche quest'anno presentiamo, come incoraggiamento per chi ci ha seguito e in qualche forma ha collaborato, un quadro delle visite fatte al sito "Notizie su Israele" nell'anno appena terminato. Come risulta dalla tabella a lato, dal 1 gennaio al 31 dicembre 2015 le visite al sito sono state 750.533, con una media giornaliera di 2.056 e un aumento del 61% rispetto all'anno precedente. Ringraziamo di cuore chiunque abbia pregato anche una sola volta per questo servizio, per chi lo svolge e, soprattutto, per Israele nella sua relazione con il Vangelo, come indica l'indirizzo web di questo sito.

Auguriamo a tutti un nuovo anno benedetto dal Signore.

(Notizie su Israele, 1 gennaio 2016)


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