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Notizie 16-31 gennaio 2017


Il tweet di Netanyahu sul muro Usa-Messico è stato malinteso

Il tweet sul muro al confine tra Messico e Usa è stato "malinteso". Lo ha detto oggi il premier israeliano Benyamin Netanyahu riferendosi alla crisi diplomatica col Messico degli ultimi giorni. Nel suo tweet, ha spiegato il premier, intendeva solo sottolineare il notevole successo ottenuto dalla barriera di sicurezza israeliana. "Ma non ho espresso alcun commento sulle relazioni Messico-Usa" ha insistito Netanyahu, esprimendo poi fiducia che i rapporti bilaterali siano "molto più forti di ogni dissenso passeggero e di malintesi". La sua personale amicizia con il presidente messicano Enrique Pena Nieto, ha auspicato, è destinata dunque a continuare. In giornata il presidente israeliano Reuven Rivlin avrà un colloquio telefonico con il suo omologo Pena Nieto.

(ANSAmed, 31 gennaio 2017)


Israele, la start up Nation. Com’è nata, come si è sviluppata, come si sta trasformando.

Firenze - Sabato 4 febbraio ore 17.00

Dalla nascita dei primi fondi di venture capital alle startup innovative che hanno cambiato la tecnologia più avanzata, fino ai nuovi distretti tecnologici e agli incubatori nel deserto. Una storia che vede protagonista Israele con i suoi dipartimenti di ricerca che spaziano dalle tecnologie innovative in campo agricolo all’avanguardia informatica. Di questo ne parlerà sabato 4 febbraio l’economista Dario Peirone, ricercatore per il corso di laurea in Economia e gestione delle imprese dell’Università di Torino.

Dario Peirone
Mentor di Unicredit StartLab, Membro dell’Advisory Board di SellaLab, creatore di UK Italy Springboard con il Consolato Britannico di Milano, membro del comitato scientifico di Italian Crowdfunding Network.
Senior Advisor del Segretario Generale della Fondazione CRT dal 2008 al 2011, in questo ruolo ha costruito nel 2010 il primo accordo bilaterale tra un’istituzione privata ed il governo di Israele sull’innovazione tecnologica. Dal 2010 al 2012 è stato membro della Commissione Bilaterale Italia-Israele presso la Farnesina.

Sabato 4 febbraio ore 17.00
Ingresso libero
Le Murate. Progetti Arte contemporanea.
Piazza delle Murate, Firenze
Tel: +39 055 2476873
Mail: info.pac@muse.comune.fi.it
www.lemuratepac.it

Locandina

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 31 gennaio 2017)


In Israele sorgerà la torre solare più alta al mondo

di Cecilia Bergamasco

 
È in costruzione in Israele una centrale solare a concentrazione con la torre solare più alta al mondo. L'impianto entrerà in funzione nel 2018 e darà elettricità a 130mila abitazioni

Nel deserto del Negev, ad Ashalim in Israele, è in costruzione una nuova centrale solare a concentrazione (CSP) alimentata da 50.600 pannelli solari (eliostati), disposti su una superficie di 3 chilometri quadrati intorno a una torre alta 250 metri, la più alta mai costruita nel mondo fino a oggi. L'impianto entrerà in funzione nel 2018. Una tecnologia più costosa rispetto al fotovoltaico ma che garantisce un flusso continuo di elettricità, anche quando non c'è il sole. Al mondo esistono già impianti che usano la tecnologia del solare a concentrazione, ma nessuno ha una torre così elevata e questo è dovuto al fatto che l'area su cui sono installati gli eliostati è relativamente ridotta, per tale motivo è stato necessario alzare l'altezza della torre.

 Energia solare per 130mila abitazioni
  La torre, realizzata dalla Megalim Solar Power Ltd, è solo una delle tre parti dell'impianto di Ashalim. Oltre al solare termico a concentrazione è prevista un'area dell'impianto che fungerà da stoccaggio dell'energia solare prodotta per renderla disponibile nel momento in cui il sole non ci sarà. Una terza zona sarà invece completata con pannelli solari fotovoltaici tradizionali. È prevista anche la realizzazione di un quarto lotto che tuttavia non è ancora stato definito nei dettagli.
  L'Agenzia elettrica di Israele ritiene che, quando la centrale entrerà in funzione, produrrà 310 megawatt pari all'1,6 per cento della domanda energetica di Israele, abbastanza per dare energia al 5 per cento dei cittadini di Israele, circa 130mila abitazioni.

 Come funziona la centrale solare a concentrazione
  I pannelli (eliostati) sono praticamente degli specchi che riflettono e concentrano la luce solare sulla torre. In questo modo scaldano a temperature elevatissime un fluido speciale che a sua volta riscalda l'acqua e la trasforma in vapore. Il vapore alimenta le turbine che fanno girare gli alternatori e producono elettricità.
  Il solare termodinamico funziona in modo differente rispetto al più conosciuto solare fotovoltaico dove i pannelli trasformano direttamente la luce in corrente elettrica. Il vantaggio del termodinamico, rispetto al fotovoltaico, è che il fluido che scorre nel circuito è in grado di mantiene la temperatura a lungo, e può far funzionare l'impianto anche quando non c'è il sole.

 Le fonti fossili, un freno al solare israeliano
  Con questo imponente impianto, Israele inaugura la sua entrata nel solare a concentrazione. Fino a oggi il paese non aveva mai investito molto su questa tecnologia nonostante l'invidiabile esposizione solare, complice la scoperta di importanti giacimenti di gas naturale off-shore da cui Israele ricava oggi il 70 per cento della sua energia. Una scoperta che ha contribuito a risolvere molti dei problemi energetici del paese ma che, per contro, ha ritardato le possibilità di crescita delle rinnovabili.

 Sole e know-how le carte vincenti di Israele
  Israele ha sviluppato alcune delle tecnologie per l'energia solare tra le più avanzate del mondo ma le aziende solari israeliane, frustrate dalla burocrazia governativa, hanno deciso di investire la loro esperienza per la maggior parte all'estero. Ora che l'obiettivo di Israele è quello di portare l'attuale 2,5 per cento di energia prodotta attraverso fonti rinnovabili al 10 per cento entro il 2020, la posizione geografica strategica e le competenze in tecnologia potrebbero ridefinire completamente la situazione. Intanto il governo, attraverso il suo ministero delle Finanze, ha promosso nuove leggi per sostenere l'industria del solare, indicando alcuni incentivi e soprattutto lavorando per ridurre la burocrazia per lo sviluppo di piccoli impianti fotovoltaici.

(Lifegate, 30 gennaio 2017)


Test missilistico dell'Iran, Israele chiede nuove sanzioni

Il 15 febbraio vertice Netanyahu-Trump. La Russia: non è una violazione

di Giordano Stabile

BEIRUT - Il test missilistico iraniano, con il lancio di un vettore a medio raggio nel fine settimana, ha innescato una nuova crisi in Medio Oriente. Israele chiede nuove sanzioni contro l'Iran. E il tema sarà la centro del vertice alla Casa Bianca fra il premier Benjamin Netanyahu e il neopresidente americano Donald Trump.

 "Violazione flagrante"
  "Non c'è dubbio che occorrono altre sanzioni contro l'Iran", ha ribadito alla Radio Militare il ministro dell'intelligence e delle questioni strategiche Israel Katz. Per Israele il test è "una violazione flagrante" delle Risoluzioni de Consiglio di Sicurezza dell'Onu.

 Accordo in bilico
  Ieri Netanyahu aveva annunciato che nell'incontro a Washington avrebbe chiesto al presidente Trump di rinnovare le sanzioni contro Teheran ridotte dopo l'accordo sul nucleare fortemente voluto dal predecessore Barack Obama.

 Il no della Russia
  La Russia però non è d'accordo. Per Mosca il test non viola gli accordi con le Nazioni Unite, in quanto si tratta di un missile a medio raggio, non strategico. Il presidente Vladimir Putin e Trump discuteranno della questione, assieme a quella ucraina e siriana, nel primo summit bilaterale, previsto fra la fine di giugno e i primi di luglio.

(La Stampa, 31 gennaio 2017)


L'Università israeliana apre il primo corso sulla cannabis medica

 
L'Ariel University ha aperto il primo corso accademico sull'uso di cannabis medica, riconosciuto dal Consiglio per l'istruzione superiore.
Il corso è stato avviato dal Dott. Michael Dor, docente e consigliere capo del Ministero della Salute, specialista in medicina di famiglia.
Il corso comprende la storia e lo stato attuale della marijuana medica, il suo contesto giuridico e la sua regolazione, gli ingredienti attivi del farmaco, gli usi clinici anche nel campo della psichiatria, l'agricoltura della cannabis, le diverse tecnologie utilizzate per fornire il raccolto (tra cui startup che presentano sviluppi innovativi nel campo), i cambiamenti negli atteggiamenti, i dilemmi morali e altro ancora.
Il corso è rivolto a studenti nel campo della gestione medica, dopo che hanno completato almeno un anno di studio. È stata data priorità a coloro che hanno esperienza nel settore sanitario.
Oggi, l'uso di cannabis in Israele per usi non medici è illegale, come l'uso di altre droghe. Ma decine di migliaia di pazienti con dolore, mancanza di appetito, nausea e altri problemi legati a malattie, hanno ricevuto l'approvazione di utilizzo di cannabis da parte del Ministero della Sanità. Poiché i pazienti ne hanno beneficiato, hanno iniziato a chiedere che questa venga legalizzata.

(SiliconWadi, 31 gennaio 2017)


"L'ambasciata degli Stati Uniti dovrebbe essere qui a Gerusalemme"

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito recentemente che l'ambasciata degli Stati Uniti dovrebbe essere spostata a Gerusalemme. Parlando nella riunione del Consiglio dei ministri, domenica 29 gennaio, il premier ha forse voluto esortare il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a non ritardare la sua promessa di spostare la sede diplomatica statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. "L'ambasciata degli Stati Uniti dovrebbe essere qui a Gerusalemme", ha detto Netanyahu, chiarendo che "questa è sempre stata la nostra posizione chiara e inequivocabile". Secondo il capo dell'esecutivo israeliano, citato dal quotidiano "Jerusalem Post, "Gerusalemme è la capitale di Israele, e non solo quella statunitense, ma tutte le ambasciate dovrebbero essere trasferite qui, e credo che a tempo debito tutti si sposteranno a Gerusalemme".

(Agenzia Nova, 31 gennaio 2017)


Non è razzismo, ma soltanto buon senso. Il pericolo islamico esiste e non va negato

di Fiamma Nirenstein

Un po' di buon senso prego. Trump ha dato le sue risposte a un problema cui tutto il mondo si sta applicando, e cui si riconosce che non c'è stata per ora, una risposta efficace o solo sensata. Può darsi che anche questa sia sbagliata. Ma non lo sarà più dei silenzi e delle omissioni che hanno lasciato uccidere migliaia di persone dal terrorismo islamico e hanno creato situazioni di vita molto difficili nelle città del mondo occidentale. È un tema roccioso, ogni volta che lo si affronta vorremmo nasconderci piuttosto che vedere la sofferenza altrui ma, insieme, anche il nostro pericolo.
   Ci sono e c'erano delle buone ragioni in alcune delle critiche all'executive order di Donald Trump del 27 gennaio che sospende l'illimitata ammissione di rifugiati siriani e mette un freno all'immigrazione di altri sei Paesi islamici per 90 giorni: infatti già domenica Trump ha dovuto ripristinare il diritto di servirsi della green card. E dovrà tornare sulla questione delle minoranze religiose, perché anche se preferisce l'immigrazione delle minoranze cristiane, ce ne sono di sunnite e di sciite che a seconda dei Paesi, sono state e sono implicate in lotte e persino guerre a fianco degli americani. Il tono, però, l'enfasi da salotto bene che si usa nell'immaginare che Trump seppellisca l'America che amiamo per disseppellire quella con la k (molti non sanno quanto quella k ferisca gli americani) porta a dire un sacco di sciocchezze: per esempio, a paragonare l'immigrazione attuale con quella degli ebrei dall'Europa. A parte che anche quella fu verificata a fondo persino dopo la Shoah (c'erano comitati in Europa che vagliavano ogni caso) non c'è mai stato un pericolo ebraico di attacchi terroristi. E invece il pericolo di cui Trump parla, c'è, anche a volerlo affrontare diversamente: ma negarlo non si può.
   Invece c'è chi ha scritto che gli attacchi dal 9 di settembre non sono musulmani e hanno dedotto che quindi Trump agisce per razzismo ... insomma un sacco di cretinate a partire dal fatto storico che gli ingressi negli Usa sono sempre stati controllati, l'incubo del blocco e del respingimento di Ellis Island appare in mille film di Hollywood, i blocchi operati dalle varie amministrazioni sono costanti e di fatto negli ultimi anni sono caduti su popolazioni musulmane, salvo quando invece Obama ne ha incrementato l'ingresso, mentre gli ingressi cristiani paradossalmente sono pochissimi: nel 2016 il 99,1 per cento degli ingressi sono islamici, e solo lo 0,5 sono cristiani, mentre lo 0,8 sono Yazidi, un po' poco rispetto alle stragi in corso. Comunque, dal luglio 2011 Obama ha bloccato le entrate di questo o quel gruppo politico per sei volte. Jimmy Carter cancellò i visti iraniani; le leggi che permettono ai presidenti di controllare l'immigrazione citano specificamente la preoccupazione delle persecuzioni religiose, e sinceramente è stupefacente che Obama abbia lasciato cristiani e yazidi da parte. Ma dov'era la stampa liberal?
   Il tetto messo da Trump di 50mila rifugiati dopo che saranno trascorsi i 90 giorni, non sono così distanti dalle medie nazionali regolari: scrive David French sulla National Review che i 50mila stanno fra un anno tipico di George W. Bush e uno di Obama. Sono stati meno di 50mila fino al 2007, e poi dal 2013 al 2015 sono 70mila. Quanto ai siriani, Obama ne ha fatti entrare 305 profughi di media negli anni dal 2011 al 2015. E poi nel 2015, abbandonata la promessa di intervenire se Bashar Assad avesse sorpassato la linea rossa dei gas venefico, passa a 13mila nel 2014 con l'avanzare della situazione, forse pentito.

(il Giornale, 31 gennaio 2017)





Islam intoccabile. Ma l'antisemitismo è tollerato

Lettera a “La Verità”

Il giorno della Memoria, appena passato, mi ha portato a riflettere su quanta ipocrisia circoli ancora sul popolo ebraico. Tutti diciamo di non voler dimenticare l'Olocausto, poi per il resto dell'anno guai a spendere una parola in difesa degli israeliani. Vietato non vedere gli ebrei come terroristi e i palestinesi come povere vittime. Oggi si arriva addirittura a chiamare gli ebrei «nazisti». Il paradosso arriva quando ti rendi conto che criticare e condannare gli ebrei è considerato quasi un dovere, mentre se critichi la religione islamica vieni accusato dalle stesse persone di essere intollerante, xenofobo, islamofobo, fascista e via dicendo. lo ho perso addirittura delle amicizie per aver osato criticare l'islam.
Massimo Albini

(La Verità, 31 gennaio 2017)


«Vi racconto lo stratega di Trump». Il reporter: è furbo e amico di Israele

«Bannon non è razzista; crede negli ideali della vecchia America». Diffidente verso l'Islam. Lo stop transitorio dei visti voluto da Trump punta solo a combattere il terrorismo islamico.

di Alessandro Farruggia

 
Donald Trump e Stephen Bannon
Stephen Bannon, detto Steve, classe 1953, studi ad Harvard, analista finanziario un passato da ufficiale di stato maggiore della Marina Usa, ha ideato la campagna elettorale di Donald Trump ed è attualmente consigliere speciale del Presidente degli Stati Uniti. Produttore televisivo e cinematografico imprenditore nel campo dei media, Bannon ha portato al successo la testata online Breitbart News, di cui era executive chairman dopo la prematura scomparsa dell'editore e fondatore Andrew Breitbart.

ROMA - «Steve Bannon è veramente un genio, in tutti i sensi Ogni volta che parlo con lui mi sorprende: ha delle intuizioni uniche. E' saggio e al tempo stesso furbo, ma non furbo in senso negativo. Furbo come una volpe, E poi è molto razionale, è più stabile di Trump, che è spesso molto umorale. E' uno stratega. Razionale. E' perfetto come chief strategist. Darà peso, gravitas, all'ufficio del presidente. Mi manca a Breitbart, perché noi avevamo una comunicazione giornaliera, e adesso lo sento poco. Ma mi fa piacere per l'America». Thomas D. Williams, tre lauree, otto lingue, ex sacerdote ed esponente dei Legionari di Cristo, movimento cattolico tradizionalista, ha lasciato la tonaca per sposarsi con Elizabeth, dalla quale ha avuto un figlio. Commentatore televisivo, collabora con Breitbart dalla fondazione. Ed è un grande amico di Steve Bannon.

- Quanto ha inciso Steve Bannon nella vittoria di Trvmp?
  «Molto. Ricordo quando si candidò Trump mi disse: Steve, questo è un candidato con l'approccio giusto, parla alla gente. Non appena gli offrì di collaborare con lui, accettò subito. Insieme faranno un grande team. Con Bannon, Trump non giocherà mai in difesa».

- Sarà dura per Bannon scrollarsi le accuse di essere uno xenofobo, un razzista.
  «Ma non lo è. Assolutamente».

- L' Anti defamation league e il Council of American lslamic relations lo hanno accusato di esserlo.
  «Certe accuse sono insulti, È insostenibile dire che è antisemita, quando parla degli ebrei è sempre positivo. E grande amico di Israele, ha aperto anche una sede di Breitbart a Gerusalemme, in società con un imprenditore ebreo».

- E l'Islam? Sembra sia il suo nemico
  «Certo, lui ha una diffidenza verso l'Islam, che non arriva però ad essere razzismo. Diciamo che lui dubita della capacità della piena integrazione nel mondo occidentale di tanti islamici. Lui pensa che le radici culturali sono così diverse che non crede in una loro assimilazione vera. Non è per il multiculturalismo, certo, ma mi ricordo che all'inizio, un anno fa, lui era favorevole a un ticket tra Trump e Ben Carson, che è un politico repubblicano nero. Quindi non ha problemi tra bianchi e neri, ma certo crede negli ideali della vecchia America. Vuole che chi viene in America si integri in quei valori. In questo senso è molto nazionalista. E vuole che gli altri paesi facciano lo stesso. Anche l'Europa, anche l'Italia».

- Bannon è credente?
  «E cattolico, ma non troppo praticante. Benedetto XVI era un eroe per lui. Molto di meno Francesco, ovviamente. Quando lo elessero mi disse: Bergoglio viene dalla teologia della liberazione, è un progressista. E infatti».

- Breitbart, è stato definito da Bannon "la piattaforma della alt right", la destra alternativa. Guarda con malcelato favore ai suprematisti bianchi?
  «Breitbart è certamente populista, conservatore, ma attenzione a definirlo alt right. Adesso, negli Stati Uniti, alt right viene inteso come razzista, come supermatista bianco. Bannon non lo è. A Bannon piace la definizione alt right nel senso di destra alternativa, anti estabilishment. E infatti loro hanno scritto tanto contro i repubblicani classici. Bannon è per una destra alternativa, ma non suprematista o razzista, quello no».

- L'ordine esecutivo che blocca per tre mesi l'immigrazione da sette paesi islamici non e xenofobo?
  «Non direi. Io comprendo questa decisione, perché è motivata dalla necessità di garantire la sicurezza nazionale. Lui vuole combattere il terrorismo islamico, chiaro, ma però non ha bloccato quei paesi perché sono islamici ma perché da li vengono terroristi: non è una decisione contro i musulmani in quanto tali. E infatti non ha bloccato Indonesia, Pakistan, Nigeria, Egitto, Algeria: tutti grandi paesi islamici».

- È una decisione compatibile con i valori della Chiesa cattolica?
  «Domanda difficile. E una decisione politica su un tema nel quale non c'è un male assoluto, a differenza di aborto e eutanasia. Ovviamente l'accoglienza è un grande valore cattolico e se questo stop fosse permanente avrei dei dubbi, ma è temporaneo e non posso dire che non sia la cosa giusta da fare adesso, per proteggerci dal terrorismo».

(Nazione-Carlino-Giorno, 31 gennaio 2017)


Benvenuti nella fantastoria riscritta dai palestinesi

Con sprezzo del ridicolo, l'Autorità Palestinese attacca il Segretario dell'Onu che ha osato affermare che i Romani a Gerusalemme distrussero un tempio ebraico.

I palestinesi esigono che il Segretario generale dell'Onu chieda scusa per aver detto che a Gerusalemme c'era un Tempio ebraico. Alti rappresentanti palestinesi hanno energicamente attaccato domenica il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres per aver affermato che effettivamente esisteva un tempio ebraico in cima al Monte del Tempio.
"Guterres ha ignorato la risoluzione dell'Unesco che considera puro patrimonio islamico la moschea di Al-Aqsa [che sorge sulla spianata in cima al Monte del Tempio]", ha dichiarato all'agenzia cinese Xinhua Adnan al-Husseini, ministro dell'Autorità Palestinese per gli affari di Gerusalemme. Adnan al-Husseini ha aggiunto che il Segretario generale dell'Onu "ha violato tutte le consuetudini legali, diplomatiche e umanitarie, oltrepassando i limiti del suo mandato di Segretario generale, e pertanto deve presentare le sue scuse al popolo palestinese"....

(israele.net, 31 gennaio 2017)


Il rabbino: «Italiani brava gente? No, consegnarono gli ebrei alle SS»

La dura riflessione di rav Caro, che non ha risparmiato la Chiesa

di Laura Guerra

Il rabbino capo della comunità ebraica di Ferrara, rav Luciano Meir Caro
FERRARA - Il giorno della memoria ricorda le vittime dell'Olocausto alle quali tutta l'Italia affianca anche il ricordo dei tanti che, nel silenzio, a rischio della vita hanno nascosto ed aiutato perseguitati e deportati, un numero sconosciuto di italiani dei quali solo una piccola parte è stata riconosciuta tra i giusti di Yad Vashem per via del lungo processo documentale che richiede anche la testimonianza di almeno 3 salvati viventi. Ieri, lo scossone del rabbino capo della comunità ebraica di Ferrara, rav Luciano Meir Caro. «Siamo abituati a dire 'italiani brava gente'. Non è vero - ha detto il rabbino a Cento durante la presentazione del libro Il Cimitero ebraico di Cento negli epitaffi e nei registri delle Confraternite -. Oltre il 90% degli ebrei deportati dall'Italia devono la loro soppressione agli italiani che li hanno denunciati e mandati nei campi di concentramento. Bisogna rendersi conto di cosa è successo, soprattutto ora che stanno scomparendo anche i pochissimi testimoni. Chi è sopravvissuto, come me, lo deve a un cittadino italiano che l'ha protetto ma, per chi è stato deportato, il lavoro sporco è stato fatto da italiani e con molto entusiasmo. Chi denunciava riscuoteva una taglia. Mio padre finì ad Auschwitz dopo una spiata a scopo di lucro. Nella grande civiltà italiana gli ebrei non credevano sarebbe potuto succedere, anche per la presenza del Papa». Parole pesanti, soprattutto per i tanti che conoscono le storie più o meno note di chi ha cercato di salvare queste persone e che, per mancanza di testimonianza dei sopravvissuti, non figura tra i giusti. «Ci sono stati eroi che hanno salvato il salvabile - ha continuato rav Caro - ma il lavoro sporco della persecuzione in Italia l'hanno fatta gli italiani, su ordine dei tedeschi e molto volentieri. Di Papa Pio XII si dice che ha fatto ma non ha mai detto ufficialmente una parola nonostante avesse il dovere e l'obbligo morale di protestare - ha continuato puntando il dito su colui che la storia recente svela aver chiesto proprio aiuto a Bartali, inserito in una enorme rete clandestina ecclesiastica di salvataggio -. Gli ebrei aiutati dalla chiesa lo sono stati per bontà del singolo come il prete della località dov'eravamo nascosti». Un'altro dei tanti assenti tra i Giusti. «Per noi il giorno della memoria è tutti i giorni ferita riaperta periodicamente dal negazionismo o sottovalutazione della shoah. L'Europa non ha ancora fatto completamente i conti con le proprie responsabilità - ha concluso -. Tra poco sarà facile il compito di chi vuole sostenere che sia una invenzione ebraica».

(il Resto del Carlino, 29 gennaio 2017)


Usa: Israele attende chiarimenti sul divieto di ingresso da paesi musulmani

GERUSALEMME - Israele è in attesa di chiarimenti dopo l'ordine esecutivo, firmato dal presidente statunitense Donad Tump, che decreta il blocco all'ingresso negli Usa dei viaggiatori provenienti da sette paesi musulmani a rischio terrorismo; il governo, scrive il quotidiano "Haaretz", vuole comprendere se le restrizioni si applicheranno indirettamente anche ai cittadini israeliani nati in questi paesi, come confermato dal portavoce del ministero degli Esteri, Emmanuel Nahshon. "Stiamo aspettando i dettagli e le conseguenze per i cittadini israeliani prima di decidere la nostra prossima mossa", ha detto il portavoce. Molti cittadini israeliani sono ebrei che vi si sono trasferiti nei primi anni dopo la fondazione dello Stato, ma che sono nati in Iran, Iraq, Yemen e Siria: quattro dei paesi interessati dal decreto della Casa Bianca . Israele non ha ancora emesso alcun avviso di viaggio che avverta i cittadini del rischio di allontanamenti una volta giunti sul territorio Usa. L'ordine esecutivo potrebbe essere inteso in riferimento a tutte le persone provenienti dai paesi sulla lista, anche se hanno lasciato quei paesi e sono stati naturalizzati altrove, secondo quanto riferito da legali statunitensi per i diritti civili consultati da "Haaretz".

(Agenzia Nova, 30 gennaio 2017)


Israele, arriva sanatoria per le case negli insediamenti

Oggi la controversa legge alla Knesset. L'opposizione attacca

di Massimo Lomonaco

La legge sulla "normalizzazione" delle case negli avamposti e insediamenti costruite su terra privata palestinese in Cisgiordania
sarà presentata oggi in Parlamento. Lo ha annunciato ieri Benyamin Netanyahu, che ha ribadito che l'ambasciata Usa dovrebbe essere spostata a Gerusalemme. Una mossa, retroattiva, che vuole sanare tra i 2500 e i 4000 alloggi e che riguarderebbe, secondo Peace Now, anche circa 797 strutture in 55 avamposti. Difficile escludere, in caso di approvazione, che l'autorizzazione vada poi ad estendersi agli avamposti stessi, anche se nati in violazione della legge israeliana. Del resto Netanyahu ha spiegato nella seduta di governo a Gerusalemme che la proposta di legge è destinata "a normalizzare una volta per tutte lo status degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria e prevenire i ricorrenti tentativi di danneggiarli". Un accenno diretto alle denunce con cui la comunità internazionale - compresi gli Usa della passata amministrazione di Barack Obama - aveva censurato l'iniziativa del governo subito dopo l'annuncio di Netanyahu nelle passate settimane, e dopo che Naftali Bennett, ministro dell'istruzione e leader nazionalista religioso vicino al movimento dei coloni, se ne era fatto paladino. Con l'avvento di Trump e il passaggio di consegne alla Casa Bianca è stato un crescendo: un susseguirsi di annunci di nuove case da costruire nei 'gushim', gli attuali blocchi ebraici in Cisgiordania, così come a Gerusalemme est e in altri insediamenti al di là della Linea Verde del 1967. Contro la legge di "normalizzazione" si è espressa anche l'opposizione di centro sinistra al governo Netanyahu che ha denunciato i pericoli di un ulteriore scontro con la comunità internazionale. "L'intera struttura legale israeliana - ha detto Isaac Herzog, leader dell'opposizione - è contro la nuova legislazione".
   Il possibile conflitto con la Comunità internazionale è stato peraltro anticipato dalla Risoluzione contro gli insediamenti passata lo scorso dicembre in Consiglio di Sicurezza dell'Onu grazie all'astensione degli Usa, negli ultimi giorni della presidenza Obama. In base alla legge - attaccata dalla dirigenza palestinese - i proprietari dei terreni su cui sono state costruite le case avrebbero diritto ad indennizzi consistenti o all'assegnazione di terreni locati altrove o di un risarcimento pecuniario superiore al valore delle terre. Ma non sembra - come fanno notare alcuni media - tutto così facile dal punto di vista legale. Già il Procuratore generale Avihai Mandelblit si è espresso in passato - ad esempio nel caso dell'avamposto illegale di Amona nei pressi dell'insediamento di Ofra - in maniera negativa citando sia la legge internazionale sia quella israeliana. Giuristi israeliani, riportati dai media, hanno poi messo in guardia sul fatto che la legislazione può rafforzare ogni potenziale azione contro Israele al Tribunale Penale dell'Aja che sta esaminando l'intera questione degli insediamenti.
   Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, l'annuncio di Netanyahu è venuto dopo le critiche che in questi giorni i rappresentanti degli insediamenti hanno rivolto al premier, ma anche al ministro Bennett, insistendo sulla necessità di accelerare ulteriormente i progetti di costruzione in tutta la Cisgiordania - oltre alla proposta di annettere direttamente ad Israele la colonia di Maalè Adumim - grazie al vento favorevole portato dall'arrivo di Trump. Oggi la legge sarà esaminata dal Comitato congiunto difesa-affari esteri della Knesset: se ci sarà l'approvazione, allora sarà la volta della discussione da parte del plenum del Parlamento.

(ANSAmed, 30 gennaio 2017)


*


Slitta il voto sulla legge sanatoria per le case negli insediamenti

Domani potrebbe essere approvata

E' slittato a domani il voto, in Commissione della Knesset sulla legge di "normalizzazione" - come è stata chiamata dal premier Benyamin Netanyahu - delle case negli insediamenti e negli avamposti israeliani in Giudea e Samaria. Lo ha fatto sapere David Bitan (Likud) capo della coalizione di governo che sponsorizza la legge. Una legge contestata dall'opposizione al governo di Netanyahu e anche dalla comunità internazionale che hanno definito il provvedimento una sorta di di sanatoria degli insediamenti e degli avamposti.
Il Procuratore Generale Avichai Mandelblit ha preannunciato che si opporrà alla legge nella versione che il governo ha presentato. Secondo le previsioni dei media, la legge - che ora è in seconda e terza lettura - dovrebbe essere approvata e poi passare all'esame del plenum della Knesset per il varo definitivo.

(ANSAmed, 30 gennaio 2017)


Israele: Intervento salvavita unico nel suo genere a bambina con intestino fuori dal corpo

 
Una bambina, il cui intestino era stato visto fuori dal corpo mediante una ecografia, ha subìto dopo la nascita un intervento chirurgico - il primo del genere nel mondo - presso l'Hadassah University Medical Center di Ein Kerem a Gerusalemme.
La piccola è nata con un rarissimo difetto congenito nello sviluppo dei muscoli della parete addominale chiamato onfalocele. In tali casi, l'intestino e talvolta il fegato e altri organi, restano fuori dell'addome in un sacco.
Il padre della bambina, Ahmed (il cui cognome non è stato comunicato per proteggere la privacy), ha detto al Jerusalem Post che inizialmente in un altro centro si era ipotizzato l'aborto, perché la piccola difficilmente sarebbe potuta sopravvivere. I genitori hanno però scelto di affidarsi nelle mani dei medici israeliani dell'Hadassah.
Nonostante l'amniocentesi avesse dato esito negativo, la bambina alla nascita presentava una grande apertura nell'addome da cui usciva intestino e sacco amniotico.
Per questo intervento chirurgico è stata utilizzata una tecnologia innovativa inventata da un chirurgo plastico di Ra'anana, il Dott. Morris Topaz, per la prima volta applicata per un difetto congenito in un neonato.
L'intestino della neonata è stato inserito in un contenitore speciale subito dopo la nascita. Il Dott. Vadim Kapoler, un chirurgo pediatrico dell'Hadassah, ha riposizionato l'intestino nel posto corretto e ha richiuso l'apertura addominale mediante delle particolare fascette invece di utilizzare le tradizionali tecniche di sutura.
Arbell, uno dei pediatri nel team, ha sottolineato che questo nuovo dispositivo per tale operazione non è riportato nella letteratura medica mondiale ma di fatto ha salvato la vita della bimba.

(SiliconWadi, 30 gennaio 2017)


Sulla vetta del mondo

Nell'economia del mondo di ieri, Israele non aveva molte chance. Invece la nuova economia si adatta come un guanto a Israele e al carattere del popolo ebraico.

L'autorevole rivista The American Interest recentemente incluso Israele nella sua lista annuale delle otto maggiori potenze mondiali. Ora che ci siamo abituati a vedere Israele nella parte alta di varie classifiche di settore (dai leader della tecnologia all'elenco dei premi Nobel), per la prima volta ci ritroviamo introdotti nel club delle potenze complessiva.
La forza complessiva di Israele si basa sui suoi successi economici, militari e diplomatici. In ognuna di queste aree ha conosciuto sviluppi positivi e cambiamenti concreti. Gli autori della classifica di American Interest osservano che Israele non ha solo beneficiato di una certa dose di fortuna (il riferimento è alle risorse di gas naturale scoperte al largo delle sue coste): secondo loro, il principale successo del paese è quello di aver saputo prendere decisioni sagge in situazioni complicate....

(israele.net, 30 gennaio 2017)


C'era una volta la Chiesa cattolica

Lettera al Giornale

L'incontro del giugno 2016 tra papa Francesco e Robert Matthew Festing, Gran Maestro dell'Ordine di Malta
Ultime notizie dalla ormai ex Chiesa cattolica. La direzione argentina dell'Osservatore Romano passa da un cattolico a un pastore presbiteriano. Il Vaticano emette un francobollo per «celebrare» Martin Lutero. La Pontificia Accademia delle Scienze fa salire in cattedra a parlare, durante il simposio di fine febbraio sull'ambiente, Paul Ehrlich, punto di riferimento dei neomalthusiani, simbolo mondiale del controllo delle nascite, della sterilizzazione e dell'aborto. All'Università Cattolica di Milano sale in cattedra un italiano di fede musulmana Gabriele Ibrahim lungo. Il Papa impone le dimissioni al Gran Maestro dell'Ordine di Malta, Robert Festing, che fino a pochi giorni fa aveva rivendicato con fermezza la sovranità dell'Ordine, colpevole di avere destituito il Gran Cancelliere Albrecht von Boeselager per avere questi favorito tra le attività caritative dell'Ordine la distribuzione in Africa e Asia di contraccettivi anche abortivi. Il Papa invece di elogiare il Gran Maestro per aver difeso la corrispondenza tra le attività caritative dell'Ordine e l'insegnamento morale della Chiesa, lo defenestra. A questo punto decido di devolvere l'otto per mille, per esempio, alle comunità ebraiche ...
Luciana Mameli


(il Giornale, 30 gennaio 2017)


Signora non si preoccupi, la CCR (Chiesa Cattolica Romana) non cambia, sta solo applicando in modo più intensivo la frase del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”. Si ponga anche lei la domanda: che cos’è che la CCR non vuole assolutamente cambiare, perché non può cambiare se non vuole decretare la sua fine? Devolva pure il suo otto per mille alle comunità ebraiche, è un’ottima scelta. M.C.


«The Displaced», le sofferenze terribili degli ebrei sopravvissuti

di Aldo Grasso

Tra le varie proposte che Rai Storia ha dedicato al Giorno della Memoria, una s'impone per i fatti che racconta, per la drammaticità degli eventi, per la sofferenza indicibile che molti ebrei sopravvissuti hanno dovuto patire una volta liberati. Il documentario di Flaminia Lubin si chiama «The displaced» ed è anche ricco di immagini inedite.
Se «La tregua» di Primo Levi descriveva il lungo rientro a casa del protagonista dopo la liberazione di Auschwitz, il suo lungo viaggio dalla Polonia alla Bielorussia, dalla Romania all'Austria, ma s'interrogava soprattutto sulla sospensione del proprio destino (di «tregua», appunto), qui è peggio, molto peggio. Molti ebrei non poterono fare ritorno alle loro case in Polonia, e in altri Paesi d'origine, perché nel frattempo erano state occupate. Ovunque si rivolgessero incontravano rifiuti, ostilità, violenza (eccetto che in Italia). Ed erano soli, lasciati ancora più soli. La condizione di questi ex internati venne indicata dagli Alleati con la formula Displaced Persons (DPs ), coniata dal sociologo e demografo di origine russa Eugene M. Kulisher, un termine tecnico per definire coloro che si trovavano al di fuori dei confini dei propri Paesi di origine, persone «spostate» di cui la comunità internazionale doveva occuparsi e che dovevano essere «ri-locate». Da un inferno all'altro, spesso mischiati con i loro ex aguzzini.
Il documentario di Flaminia Lubin denuncia con coraggio l'ostilità degli inglesi a permettere loro di raggiungere la Palestina, il diniego degli americani a concedere loro il visto d'ingresso (presidente era Harry Truman che, per ragioni di politica «reale», faceva intanto entrare centinaia di scienziati complici delle SS), l'antisemitismo del generale George Patton. Paradossalmente il posto più sicuro era restare nei campi di concentramento, nel frattempo sorvegliati da organizzazioni umanitarie. Gli ebrei americani farebbero bene a ricordarsene, anche ora.

(Corriere della Sera, 30 gennaio 2017)



Sociale e Personale - Ieri e Oggi
IeriVangelo sociale
Oggi Vangelo psichico
Ieri Teologia della liberazione degli oppressi
Oggi Teologia della liberazione dei depressi



Islamici e Pd, sì alla Memoria. Non scordare gli ebrei vivi

di Alberto Giannoni

Un gesto importante è arrivato. Una delegazione dei Giovani Musulmani d'Italia ha fatto visita al Giardino dei giusti del Monte Stella, insieme alla consigliera comunale del Pd Sumaya Ab del Qader (e all'imam della moschea di Sesto Abdullah Tchina). «Lo spirito che anima tale iniziativa - ha detto la consigliera, già dirigente del coordinamento dei centri islamici di Milano - è di andare oltre le parole, attraverso i fatti». «In questa giornata - ha aggiunto - vogliamo ricordare il dramma della Shoah e vogliamo denunciare che l'orrore è sempre dietro la porta e che è fondamentale operare ogni giorno per combattere ogni forma di odio e discriminazione». Questo fatto c'è ed è significativo, in vista di un dialogo che a Milano è quanto mai necessario. Significativo anche lo spirito con cui tante persone, per lo più di sinistra, hanno partecipato sabato alla «catena umana» di piazzale Lima contro lo sfregio alla memoria. «La grande partecipazione è la migliore risposta alla parola "indifferenza" che Liliana Segre ha voluto campeggiasse al Memoriale» ha detto l'assessore della comunità ebraica Davide Romano.
Il gesto del Monte Stella sarà importante soprattutto se seguiranno altri gesti, capaci di riconoscere con chiarezza la minaccia dell'antisemitismo di oggi. Nel Giorno della memoria un uomo del Pd, ebreo, Daniele Nahum, ha scritto: «Mai dimenticare gli ebrei morti. Mai dimenticare gli ebrei vivi». E mai dimenticare che la loro casa si chiama Israele.

(il Giornale, 30 gennaio 2017)


L’onore agli ebrei morti va bene, l’onore agli ebrei vivi va meglio, ma la cartina di tornasole resta lo Stato d’Israele. Sul piano politico e sociale oggi la questione ebraica coincide con la questione israeliana: ogni spostamento d’accento è fumo negli occhi. M.C.


Putin di Guerra e Pace

Coltiva i grandi della letteratura russa, da Tolstoj a Solgenitsin, anche a fini politici. E il pessimismo di Dostoevskij, proibito in Urss, oggi è la bandiera del Cremlino.

di Giulio Meotti

 
                  Putin firma il registro dei visitatori nella casa-museo di Tolstoj a Jàsnaja Poljàna.
                  "Per capire Putin, leggete Dostoevskij", hanno detto Kissinger e l'ex capo della Nato in Europa Stavidris

La prima volta che Vladimir Putin omaggiò un grande della letteratura russa fu quando, ancora agente del servizio segreto, intraprese un pellegrinaggio a Jàsnaja Poljàna, la "chiara radura" che fu la tenuta di Lev Tolstoj. Da presidente della Federazione russa, Putin sarebbe tornato più volte nella casa-museo: anche lo scorso settembre, quando Russia Today lo ha ripreso passeggiare fra le stanze dell'autore di "Guerra e pace''. Il capo del Cremlino non solo ama citare i giganti della narrativa russa, li usa anche nella costruzione del potere e del consenso.
  In un'intervista al mensile americano Atlantic, Henry Kissinger ha appena detto: "Per capire Putin, si deve leggere Dostoevskij. Putin sa che la Russia è molto più
"La critica di Dostoevskij non era all'occidente in quanto tale, ma al suo tradimento delle radici cristia- ne" (Marta Dell'Asta)
debole di quanto era una volta, anzi molto più debole rispetto agli Stati Uniti. E' il capo di uno stato che per secoli si è definito per la propria grandezza imperiale, ma poi ha perso trecento anni di storia imperiale con il crollo dell'Unione Sovietica. La Russia è strategicamente minacciata ai suoi confini: da un incubo demografico al confine con la Cina; da un incubo ideologico nella forma dell'islam radicale lungo il confine meridionale; a ovest dall'Europa. Mosca la considera una sfida storica''.
  Un lungo saggio della Harvard Political Review cerca di analizzare la fascinazione del presidente per il grande scrittore. ''Per capire veramente Putin dobbiamo rivolgerci agli scritti di Fédor Dostoevskij'', scrive l'autore, Alejandro Jimenez, sottolineando la convinzione di Dostoevskij (e di Putin) secondo cui la Russia ha una missione: quella di liberare i popoli slavi e unirli sotto la guida russa. "Putin ha fatto appello a questa precisa idea'', si legge sulla rivista di Harvard. "Quando parla dei suoi 'fratelli in armi' e della ricomposizione dell'unità tra l'Ucraina e la Russia fa eco a Dostoevskij. Quando annette la Crimea nella Federazione russa, agisce su quest'anima russa''. Kissinger non è il solo a suggerire di entrare nella libreria di Putin per capirne la politica. "Putin è uscito da Dostoevskij, angosciato dalla mancanza di religiosità, dal permissivismo e dal declino morale", ha scritto anche l'ex direttore del New York Times Bill Keller. Dimenticate le opere di Zbigniew Brzezinski, Stephen Cohen o altri russofili. Se volete capire (e fronteggiare) la Russia, prendete invece una copia di "Delitto e castigo" di Dostoevskij o di "Guerra e pace". E' quanto ha detto James Stavridis, già comandante della Nato in Europa. "Leggete Gogol', Dostoevskij, Turgenev, Puskin, Lermontov, Tolstoj, Solgenitsin, e Bulgakov, ecco dove potrete davvero capire come e che cosa pensano i russi. Ed è tutto 'non classifìcato'". L'ex capo della Nato in Europa, oggi preside della Fletcher School alla Tufts University, ha detto che si potevano prevedere le azioni di Putin sfogliando Dostoevskij, "dal momento che il leader russo a quanto pare ama leggere 'Delitto e castigo".
  L'autore di "Delitto e castigo'' era stato relegato tra i "reazionari" e condannati all'oblio dal regime sovietico. Il commissario del popolo per l'istruzione, Anatolij Lunaciarskij, definì le opere di Dostoevskij "un mondo di valori soprannaturali". Troppo peccato e amore, perdono ed espiazione. Così alcuni romanzi come ''I demoni" ''L'idiota'' e ''I fratelli Karamazov'', non vennero più stampati; lo stesso destino venne riservato al "Diario di uno scrittore" (che contiene gli attacchi più duri al radicalismo rivoluzionario); proibite le "Memorie da una casa di morti", perché il gulag zarista (katorga) avrebbe potuto ricordare quello sovietico. Le accuse che si muovevano a Dostoevskij, e per cui fu bandito dai paesi comunisti, erano quattro: pessimismo, atteggiamento ostile alla rivoluzione, irrazionalismo e religiosità. Gli stessi motivi per cui Dostoevskij piace tanto a Putin, sotto il quale lo scrittore russo ha assistito a una celebrazione impressionante.
  Peter Savodnik in un articolo apparso sull'ultimo numero di Vanity Fair enuclea i motivi per cui Dostoevskij affascina tanto Putin: "La Russia, la vecchia Russia, è buona e pura. L'occidente è male. Non è
Il nipote di Tolstoj consigliere cul- turale, i rapporti con la vedova Solgenitsin, il portavoce che legge ''Anna Karenina'' su You Tube
semplicemente che si tratta di una civiltà rivale, un concorrente economico o geopolitico; è che l'occidente è impuro. Putin cita spesso Dostoevskij nei suoi discorsi". Secondo Savodnik, le quattro opere più importanti di Dostoevskij (''Delitto e castigo", "L'idiota", ''I demoni" e ''I fratelli Karamazov'') non sono semplicemente romanzi, "ma avvertimenti distopici su cosa sarebbe successo se la Russia non avesse fatto ritorno alle origini pre-petrine". Putin è attratto dal "bizantino" Dostoevskij, che nei "Fratelli Karamazov" sviluppa il punto di vista di un mistico ortodosso, che sogna una chiesa trionfante e inglobante lo stato, e quello di un rivoluzionario ateo, che vuole dare allo stato il diritto di costrizione morale spettante alla chiesa. La chiesa-stato e lo stato-chiesa. Demoni dostoevskyani nella Russia di Putin.
  ''E' noto che Putin ha diffuso alcuni scritti di Dostoevskij nei suoi governatori provinciali", ha detto William Mills Todd, professore di Letteratura a Harvard. "Dostoevskij era molto sensibile nel recepire le tendenze nichiliste che serpeggiavano nella cultura russa e in quella occidentale'', dice al Foglio Marta Dell'Asta, direttrice della Nuova Europa e grande conoscitrice della cultura russa. Suo il magnifico "Una via per incominciare'', il libro sul dissenso sovietico. "Questo problema non è stato ancora superato al giorno d'oggi. Per Dostoevskij c'era una diffusa tensione verso la liberazione ma anche una tendenza autodistruttiva e nichilista in Russia e in occidente. Dostoevskij aveva davanti una realtà, soprattutto studentesca, fatta di ragazzi tentati dal terrorismo; li chiamava 'i nostri ragazzi migliori', non li disprezzava come i benpensanti della sua epoca, ma li vedeva come degli idealisti che avevano avuto dei cattivi maestri, che li portavano a distruggere il proprio ideale e se stessi. Dostoevskij nutriva in parte un certo anticattolicesimo, ma era troppo grande per essere banalmente antioccidentale, andava sempre al fondo nelle questioni. La stessa figura del Grande Inquisitore non può essere ridotta all'ipostasi della chiesa cattolica. Leggeva il problema della modernità in maniera profonda, e in questo accomunava la Russia e l'occidente. Per Dostoevskij la Russia era parte dell'Europa, era consapevole di questa unità spirituale profonda. La sua critica non era all'occidente in quanto tale, ma al suo tradimento delle radici cristiane. Su Cavour, ad esempio, Dostoevskij scrisse: 'Cosa ha fatto questo conte di Cavour? Ha trasformato un paese che per mille anni aveva vissuto di un ideale universale in un paese piccolo, pieno di debiti e contento di esserlo'. Dostoevskij amava la Russia cristiana, per lui tradita. Per lui era fondamentale che la Russia fosse cristiana. Berdjaev, Soloviev, Dostoevskij condividevano una visione del cristianesimo come luogo della libertà e della creatività della persona''.
  Putin è singolare nell'uso della letteratura. "L'uso politico della letteratura era tipico del periodo sovietico, Stalin amava citare la letteratura russa", conclude Dell'Asta. ''In tutto il periodo sovietico i grandi classici della letteratura russa venivano usati, tranne Dostoevskij, come vetrina del paese per consolidare una cultura a un tempo socialista e russa. Fu Stalin che commissionò a Eisenstein il film su Ivan il Terribile, che lui apprezzava come una grande figura, un costruttore dello stato; quest'anno, a proposito, è stato inaugurato un monumento a Ivan il Terribile in Russia".
  Putin da anni sta costruendo una nuova egemonia letteraria. Nel 2000, un suo amico, Andrei Skoch, creò il Premio Debut, assegnato ai giovani scrittori di talento. Poi, nel 2006, il presidente russo organizzò il ''Russia's Big Book Prize" per il miglior libro dell'anno. Di Putin anche l'idea di una ''Assemblea letteraria'', dove ha invitato a entrare Vladimir Tolstoj, pronipote dello scrittore, e altri parenti di celebri autori, come Aleksandr Puskin, Dmitri Dostoevskij e Natalia Solgenitsina, vedova dell'autore di "Arcipelago Gulag". Putin ha sempre subito il fascino anche dell'autore di "Anna Karenina''. Così ha scelto Vladimir Tolstoj per scrivere il documento che tre anni fa ha diffuso per il rilancio della cultura. Secondo Tolstoj, ''la Russia non è Europa'', ma ''una distinta civiltà che non appartiene né all'occidente né all'oriente''. E per giustificare la politica espansionista del Cremlino in Crimea e Ucraina, Tolstoj ha evocato l'esempio del bisnonno, "un ufficiale dell'esercito che difese la Russia a Sebastopoli".
  Il presidente russo è anche un frenetico inauguratore di monumenti agli scrittori russi. A Dresda, in Germania, ha partecipato all'inaugurazione della statua a Dostoevskij assieme ad Angela Merkel, mentre è volato a Seul a omaggiare un monumento a Puskin, Ha messo poi il volto della poetessa Anna Akhmatova
Dall'Ucraina alla Crimea, Lemontov e Gogol per giustificare l'espansio- nismo. "Borodino" per la "difesa della patria"
in un manifesto per "l'anno russo della letteratura'' e per il 2018 organizzerà celebrazioni per il centenario di Aleksandr Solgenitsin. Quattro mesi prima della sua morte, Solgenitsin elogiò Putin, sostenendo che, da leader della Russia, stava facendo un lavoro migliore di Boris Eltsin e Mikhail Gorbachev. L'ambasciatore americano William Burns gli fece visita nell'aprile del 2008, nella sua dacia a Mosca. Inviò poi questo messaggio a Washington: "Solgenitsin contrappone positivamente il regno di otto anni di Putin con quelli di Gorbaciov e Eltsin. Sotto Putin, la nazione sta riscoprendo quello che deve essere russo, pensa Solgenitsin'',
  La prima volta che si videro, Putin e Solgenitsin, fu nel 2000 nella dacia dello scrittore e i due rimasero appartati in biblioteca per lungo tempo. Putin oggi ama accompagnarsi alla vedova del grande scrittore in occasione di eventi importanti. Insieme a lei, lo scorso novembre, ha inaugurato un monumento al principe Vladimir il Grande, invitando i russi a unirsi per affrontare le "minacce esterne'', come il suo omonimo fece un millennio fa. Un monumento di diciassette metri al sovrano del Decimo secolo che ha portato il cristianesimo ortodosso al suo popolo.
  Anche Foreign Policy ha dedicato al "Putin letterario'' un lungo saggio dal titolo "La diplomazia Bulgakov'', dal nome del grande scrittore del "Maestro e Margherita'', morto ostracizzato dal regime sovietico. Il Daily Beast si lamenta invece che Putin non citi abbastanza Tolstoj nei suoi discorsi, perché questo avrebbe avuto un'influenza positiva sul Cremlino. "La fede di Dostoevskij nell'eccezionalismo russo" contrapposta a "quella di Tolstoj nell'universalità di tutta l'esperienza umana, indipendentemente dalla propria nazionalità, cultura o religione", scrive Andrew Kaufman, uno dei maggiori esperti di letteratura russa. "Ahimè, Putin ha scelto Dostoevskij, il quale credeva che la missione speciale della Russia nel mondo fosse quella di creare un impero cristiano pan-slavo con la Russia al timone. Questa visione messianica derivava dal fatto che Dostoevskij riteneva che la Russia fosse la più spiritualmente sviluppata di tutte le nazioni. Tolstoj invece era un patriota, che amava il suo popolo, come è chiaramente dimostrato in 'Guerra e pace', ma non era un nazionalista. Credeva nel genio unico e nella dignità di ogni cultura. Putin cita raramente Tolstoj nei suoi discorsi, ma spesso cita i filosofi russi come Solovyev, Berdjaev, e Ilyin, influenzati dal nazionalismo di Dostoevskij".
  Nel 2014, i media russi hanno trasmesso in pompa magna le immagini della visita che il presidente russo fece alla dacia di Mikhail Lermontov. Anche quando deve mandare dei "messaggi" all'opposizione interna, Putin fa uso della letteratura: "Non torneremo mai a quel tempo terribile in passato, quando Pasternak fu esiliato", ha detto il presidente russo (Anna Politkovskaya non sarebbe d'accordo). Nel 2012, Putin disse alla stampa che lui non aveva paura dei terroristi e citò per l'occasione l"'Eugene Onegin'' di Puskin:
Appena salito al potere, Putin chiese a un amico magnate di riportare a Mosca un manoscrit-
to autografato di Puskin
"Alcuni non ci sono più, altri sono lontani". Per Nina Khrushcheva, nipote dell'ex leader sovietico oggi studiosa di cultura russa nelle università americane, Putin è influenzato dalle "Anime morte" di Gogol' e dal suo "Ispettore generale". Quando nel 2009 Russia e Ucraina litigarono per i duecento anni dalla nascita di Nikolai Gogol', Putin colse l'occasione per definirlo "un eminente scrittore russo che con la sua opera unisce in maniera indissolubile due popoli fratelli, quello russo e quello ucraino" (premonizione di quanto sarebbe avvenuto sul terreno sei anni dopo).
  Fin dall'inizio, Putin ha usato sapientemente la letteratura. Nel 2004 il presidente russo consegnò il manoscritto autografato di Puskin di "Sulle colline della Georgia" all'Accademia russa delle scienze. Era stato acquistato per 165 mila dollari da collezionisti privati in Francia attraverso la Vneshtorgbank, una grande banca russa. Andrei Kostin, presidente dell'istituto, disse: "Dopo molti anni di peregrinazioni questo manoscritto torna alla madrepatria". Si disse che l'acquisto era un segno del desiderio del business russo di compiacere Putin.
  Non è inconsueto vedere Putin alle esequie di celebri scrittori e letterati. Come quelle nella cattedrale Cristo Salvatore di Mosca di Valentin Rasputin. Alla cerimonia religiosa, celebrata dal patriarca Kirill, il presidente russo ha deposto un mazzo di rose rosse. Anche l'entourage di Putin si delizia con la letteratura. Quando, due anni fa, ci fu una maratona internazionale su YouTube per la lettura di "Anna Karenina", tra i lettori illustri ci fu Dmitri Peskov, portavoce di Putin. Nel 2012, l'anno della "svolta conservatrice'' di Putin, il presidente russo fece appello a difendere la patria da ogni ingerenza esterna (la Nato) e lo fece ricorrendo alla poesia di Lermontov "Borodino" sulla battaglia fra i russi e le truppe napoleoniche, i versi sui "cavalieri meravigliosi che prima dello scontro giurano fedeltà alla loro patria e sognano di morire per lei": "Moriamo davanti a Mosca, come i nostri fratelli prima di noi. Morire, l'abbiamo promesso, e abbiamo rispettato il nostro giuramento nella battaglia di Borodino. La battaglia per la Russia continua, la vittoria sarà nostra''.
  Come spiega Laura Goering, esperta di cultura russa al Carleton College, "l'occidente in Dostoevskij è seduttivo ma senz'anima, una tentazione cui resistere a ogni costo''. E' l'immagine che ricorre di più nei discorsi di Putin. In Unione Sovietica non c'era posto per tutto quel pessimismo, la possessiva e persecutoria lotta fra il bene e il male. Putin ne ha fatto una bandiera.

(Il Foglio, 29 gennaio 2017)


La nascita di Israele sulla pellicola di Robert Capa

di Tiziana Platzer

 
Il campo di transito degli immigrati in Israele a Capa Tiberias nel 1949-50 in uno degli scatti di Robert Capa
«Capa sapeva che non si può fotografare la guerra, perché si tratta per lo più di un'emozione. Ma lui riuscì a catturare quell'emozione scattando accanto ad essa. Era in grado di mostrare l'orrore patito da un intero popolo sul volto di un bambino». Lo scriveva John Steinbeck nell'intento di riassumere la grandezza dell'amico Robert Capa, uno dei più grandi fotografi del Novecento, americano di origine ebraica-ungherese e figlio di un sarto di Budapest, nato con il nome di Endre Friedmann.
Con la sua arte testimoniò cinque conflitti, la guerra civile spagnola, la seconda guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana e la prima guerra d'Indocina. Scelse di raccontare la nascita dello Stato Ebraico e rimase in Israele fino al 1950: domani sera alle 21 l'associazione Italia Israele organizza alla Fondazione Camis De Fonseca (via Pietro Micca 15) la proiezione del film «L'Israele di Robert Capa: (Endre Freiedmann) 1948-1950)», introdotto da Enrico Fubini.
Robert Capa il 14 maggio 1948 è a Te! Aviv per documentare l'evento storico della nascita dello Stato d'Israele e fotografa la cerimonia di dichiarazione dello Stato, riprende il discorso del primo ministro, la prima sessione di gabinetto d'Israele e la folla lungo le strade.
Sarà presente anche all'inizio della guerra fra Israele e gli stati arabi limitrofi, perché tra il 1948 e il 1950 il fotografo torna molte volte insieme allo scrittore Irwin Shaw per realizzare il libro «Cronaca su Israele». Con il suo obiettivo segue le ondate migratorie e l'arrivo degli esuli dalla città di Haifa, i campi di transito. Eugene Kolb, ex direttore del Museo di Te! Aviv, lo intervistò nel 1948. «Ci sono solo due nazioni al mondo dove, appena arrivi, ti chiedono cosa pensi di loro - disse Robert Capa - L'Urss e Israele, all'inizio ci si sente in imbarazzo ma poi si comprende il perché: sono le uniche ad aver creato qualcosa di nuovo, diverso da qualsiasi altro precedente».
Capa diventa famoso nel 1936 per una foto scattata a Cordova, dove ritrae un soldato dell'esercito repubblicano colpito a morte da un proiettile sparato dai franchisti. La stessa passione per la fotografia lo porterà a morire, nel '54 ad appena 40 anni, ucciso da una mina a Thai Bin, in Vietnam.

(La Stampa, 29 gennaio 2017)


Dall'integrazione al terrore. Storie dei ««miei» ebrei spariti su una Balilla nera

Le leggi razziali decise dal fascismo nel 1938 caddero come una pioggia di sangue sulla comunità israelitica di Casale Monferrato. Due le retate in città. Nessuno ritornò.

di Giampaolo Pansa

Quell'auto diventò presto famosa come il veicolo del demonio che ti trascinava all'inferno I poliziotti becchini non ebbero alcuna pietà neanche per donne anziani e infermi

Nella mia città, Casale Monferrato, i primi ebrei arrivarono dalla Spagna, passando attraverso la Provenza. L'anno era quello della scoperta dell'America, il 1492. Ci vollero altri 100 anni perché un editto di Guglielmo duca di Mantova e del Monferrato concedesse agli ebrei casalesi di erigere una sinagoga. Il tempio, il più bello di tutto il Piemonte, venne inaugurato nel 1595: stava dove sta ancora oggi, in un vicolo del centro cittadino che poi verrà intitolato a Samuele Olper, rabbino veneziano nonché patriota.
   I problemi cominciarono grazie ai Savoia. Non erano certo dei sovrani liberali e imposero agli ebrei piemontesi «il segno» per rivelare di non essere cristiani. Era l'antenato dell'infame stella gialla inventata dai nazisti per marchiare gli ebrei. Una corda gialla da portare attraverso il petto, sopra gli abiti. Oppure la lettera O, sempre gialla, da mostrare sulla schiena. Ma poiché i Savoia erano sempre affamati di quattrini, pagando una robusta tangente alle casse del re si veniva esentati dal mostrare il segno. E se la mazzetta era di quelle regali si poteva anche cancellare l'obbligo di vivere dentro il ghetto.
   Nel 1761, anno del censimento generale ordinato dai Savoia, nel ghetto di Casale vivevano 136 famiglie ebree, per un totale di 673 persone. Nel 1774 gli ebrei risultavano 900 in una città di 12 mila abitanti. Erano una comunità ben integrata, composta in maggioranza da negozianti o addetti al commercio. Le donne erano rinomate come ricamatrici e rammendatrici. E avevano la fama di essere molto belle e ardenti. In città si raccontava di una Giuseppina Ghiron Sacerdote: a 97 anni era ancora bellissima, assomigliava all'attrice Francesca Bertini.
   Le leggi razziali, decise dal fascismo nel settembre 1938, caddero come una pioggia di sangue sulla comunità ebraica della città.
   In quell'anno gli israeliti presenti a Casale si erano ridotti a 123, su una popolazione di 37 mila abitanti. Molti giovani si erano trasferiti a Torino, Milano e Genova. E non poche ragazze avevano seguito gli sposi in altre località. Chi aveva un impiego pubblico lo perse. Insegnanti e studenti vennero cacciati dalla scuola.
   Tra la gente iniziarono ad affiorare sentimenti antisemiti. La paura spinse qualche ebreo a convertirsi. Otto israeliti abiurarono, scegliendo di farsi cattolici. La paura divenne terrore nel 1942, quando le autorità fasciste reclutarono per il lavoro obbligatorio nei campi e nelle fabbriche gli ebrei adulti della città. Gettando nello sgomento la comunità, ormai ridotta a soli 79 membri.
   Il panico si diffuse dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. La comunità si divise fra chi poteva contare sulla giovinezza e sul denaro per riparare in Svizzera. E tra chi era anziano o malato e non poteva andarsene dall'Italia. Molti di coloro che si nascosero in aeree periferiche del Piemonte furono costretti a cambiare di continuo rifugio. Due ragazzine di 13 anni, le gemelle Ornella e Mirella Muggia, vennero obbligate a vivere in tredici posti diversi, nel Biellese, in Valle d'Aosta e nel Monferrato più interno.
   Per chi rimase in città cominciarono presto gli arresti e le deportazioni. Le retate furono due, nel febbraio e nell'aprile 1944. Le condussero agenti di polizia del commissariato locale. Andavano a prendere gli ebrei a casa su una Balilla nera, diventata presto famosa come il veicolo del demonio che ti trascinava all'inferno. A rendere più facile il lavoro fu una menzogna del dirigente, il commendator P.R.. Dichiarò che gli ebrei con più di settant'anni o infermi non sarebbero stati arrestati. Invece accadde il contrario.
   Il 13 febbraio 1944 il primo a salire sulla Balilla nera fu Federico Simone Levi, 67 anni, commerciante in pensione, prelevato in casa. Dovevano essere arrestate anche la moglie, Giulia Momigliano, e una figlia, ma per un caso sfuggirono ai poliziotti. Due giorni dopo fu catturato Armando Levi, uno scapolo benestante di 67 anni, anche lui in pensione dopo aver lavorato come funzionario in aziende private. Non era in buona salute: guai alle ossa, un'atrofia al volto, problemi alla vescica e ai reni. Ma nonostante la promessa del commissario di pubblica sicurezza, venne portato nel carcere cittadino di via Leardi.
   La terza cattura di quel giorno fu Erminia Morello, vedova dell'antiquario Raffaele Luria. Aveva 59 anni e un aspetto che non la faceva passare inosservata: alta, un personale robusto, un bel viso ovale, grandi occhi marroni dallo sguardo profondo, i capelli raccolti a chignon sulla nuca. Era energica e coraggiosa. Lì per lì i poliziotti non la trovarono. Quanto ritornò a casa, la portinaia, ossia la famosa Gigin, conosciuta come una cartomante infallibile, l'avvisò dei poliziotti. Invece di fuggire, volle andare in municipio per sapere come mai la cercassero e non ritornò più.
   Il giorno successivo, mercoledì 16 febbraio, ci fu una nuova retata con cinque catture. Per primi vennero presi l'ebanista Isaia Carmi e sua moglie Matilde Foà, di 59 e 55 anni. Poi toccò a Giulia Rosa Segre, 57 anni, nubile. Anche il quarto arresto riguardò una donna: Augusta Jarach, 67 anni, professoressa di pedagogia che da Milano si era trasferita a Casale.
   Il quinto ebreo catturato si rivelò subito un caso speciale: il professor Raffaele Jaffe, 66 anni, un personaggio molto noto in città perché era stato il fondatore della squadra di calcio del Casale Fbc. Nel campionato del 1913-1914, i nerostellati avevano vinto lo scudetto in quella che oggi chiameremmo la serie A, battendo la Lazio nella finalissima.
   Jaffe era sempre stato uno scapolone, ma nel 1927, quando aveva 50 anni, sposò una ragazza cattolica molto più giovane di lui, Luigia Cerutti, insegnante di musica e di canto. Ebbero due figli e nel gennaio 1937, ben prima delle leggi razziali, alla soglia dei 6o anni Jaffe scelse di diventare cattolico e ricevette il battesimo nel Duomo della città. Si illuse di salvarsi, ma gli sgherri della Balilla nera portarono via anche lui.
   Il sabato 19 febbraio 1944, ultimo giorno della prima retata, fu arrestata l'ebrea più giovane di quella retata: Emma Sacerdote, 20 anni, una brava studentessa che le leggi razziali avevano costretto a lasciare la scuola. Venne catturata nel seminario di Asti con la madre e scomparve.
   Sempre quel sabato, la Balilla nera mise le mani sull'ultima preda: Cesare Davide Segre, 57 anni, già sarto da uomo e sordomuto, ricoverato nel reparto incurabili dell'Ospedale Santo Spirito. I poliziotti andarono a prenderlo, lo tirarono su dal letto e lo condussero nel carcere di via Leardi. Da quel momento su quel povero infelice scese il buio. Qualcuno disse che era morto subito, nella notte della cattura, per lo choc subito.
   A parte il professor Jaffe che ebbe una sorte diversa, gli arrestati casalesi del primo rastrellamento vennero condotti al campo di transito di Fossoli, nel Modenese. E il 22 febbraio 1944 furono rinchiusi in un convoglio ferroviario che sarebbe partito da Carpi. Destinazione? Auschwitz, un impasto di lettere dal suono aspro e privo di significato. Dove stava questo posto: in Germania o in Polonia? La deportata più anziana era una signora di Venezia: Anna Jona, 89 anni. Il più giovane un bambino di appena due mesi, Leo Mariani, caricato sulla tradotta con i genitori e i nonni paterni. Dopo otto giorni di un viaggio allucinante, arrivati al campo di sterminio gli ebrei di Casale furono uccisi subito, quasi tutti.
   Nella mia città, la seconda retata fu compiuta il giovedì 13 aprile 1944, nella settimana successiva alla Pasqua. A condurla furono i soliti poliziotti della Balilla nera. La cattura iniziale fu quella di Eugenia Allegra Treves, 80 anni, una donna ancora bella, alta, robusta, il viso cordiale, dal carattere mite, ma anche deciso. Era la madre dell'antiquaria Erminia Morello, arrestata in febbraio. Una nipote le propose di rifugiarsi nelle Langhe. Ma lei rispose: «Se mi arrestano, andrò dove sta mia figlia Erminia e la rivedrò».
   Poi i poliziotti della Balilla andarono al convento delle Domenicane e si impadronirono di due sorelle ebree: Vittorina e Faustina Artom, 75 e 73 anni, vedove da tempo. In pratica a consegnarle alla polizia fascista fu la madre superiora del convento, per ignoranza o per cattiveria. In seguito, il vescovo di Casale, Giuseppe Angrisani, un presule energico, convocò la madre superiora e la ridusse al rango di semplice suora.
   Sempre quel giovedì, venne preso Moisè Sonnino, 80 anni. Dopo di lui fu la volta di Giuseppe Raccah, 70 anni. Quindi i poliziotti si diressero all'Ospedale Santo Spirito e misero le mani sulla preda più anziana di quella partita di caccia: Sanson Segre, 88 anni, già commerciante. Soffriva di diabete mai curato e i chirurghi avevano dovuto amputargli un piede che andava in cancrena. Ma la Balilla nera se lo portò via lo stesso e lo rinchiuse nel carcere di via Leardi. Subito dopo gli agenti ritornarono al Santo Spirito e arrestarono i fratelli Fiz. Il primo, Riccardo, 75 anni, era un medico molto noto in città perché curava gratis i poveri. Il secondo, Raimondo, 73 anni, stava in pensione. Si erano nascosti nell'ospedale. Ma una suora cattiva li indicò ai becchini della Balilla e li fece arrestare.
   Gli otto ebrei catturati nel secondo rastrellamento vennero trasferiti alle Carceri Nuove di Torino e poi inviati a Fossoli. Qui incontrarono altri israeliti nati a Casale, ma arrestati in località diverse. Il 16 maggio 1944 tutti vennero fatti salire su un altro convoglio ferroviario che li trasferì ad Auschwitz con il solito viaggio allucinante di otto giorni. Qui vennero uccisi tutti nelle camere a gas.
   Restava in vita il professor Jaffe. Sembrava che il battesimo potesse salvarlo. E in effetti il fondatore del Casale Fbc vide partire almeno sei convogli di deportati destinati a morire. Visse da internato a Fossoli per centosessanta giorni. Poi venne fatto salire sull'ultimo convoglio, partito il 1o agosto, quando Roma era già stata liberata da quasi due mesi e gli Alleati combattevano in Normandia dopo lo sbarco. Alla partenza da Fossoli un ufficiale delle SS, Hans Haage, arringò gli ebrei schierati sul piazzale, con parole dove l'irrisione si impastava alla minaccia: «Miei cari amici, la vostra villeggiatura in questo campo è finita! I lager che vi aspettano in Germania sono molto diversi da questo di Fossoli che state per lasciare ... ».
   Il professor Jaffe arrivò ad Auschwitz la sera di domenica 6 agosto 1944. Non superò la selezione iniziale e venne subito ucciso. Ricordiamolo insieme ai tanti altri ebrei, ammazzati senza colpa. Il Giorno della memoria ci aiuti a non dimenticarli.

(La Verità, 29 gennaio 2017)


Netanyahu: "Trump ha ragione, il muro funziona"

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha manifestato oggi il proprio sostegno alla decisione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di costruire un muro lungo il confine col Messico. "Il presidente Trump ha ragione. Ho costruito un muro lungo il confine meridionale di Israele. Ha fermato del tutto l'immigrazione clandestina. Un grande successo. Una grande idea," ha scritto Netanyahu sul suo profilo Twitter. In un'intervista all'emittente "Fox News", Trump ha esplicitamente citato Israele per motivare il suo programma di costruire un muro al confine tra Stati Uniti e Messico. "Il muro è necessario", aveva spiegato il presidente nell'intervista rilasciata giovedì 26 gennaio, "perché la gente vuole una protezione e un muro fa questo, protegge. Basta chiedere a Israele".

(Agenzia Nova, 28 gennaio 2017)


In settemila in corteo a Milano per dire no all'antisemitismo

di Ilaria Liberatore

Settemila milanesi hanno sfilato da via Plinio 20 (piazza Lima) al Memoriale della Shoah della Stazione Centrale, tenendo in mano un filo rosso lungo circa due chilometri, per dimostrare solidarietà a Ornella Coen, vittima di un episodio di antisemitismo nella notte fra venerdì e sabato scorsi. La pietra d'inciampo intitolata a suo padre Dante, deportato ad Auschwitz ed ucciso a Buchenvald nel '45 (una delle sei poste a Milano il 19 gennaio per ricordare i milanesi uccisi nei lager nazisti) è stata imbrattata di vernice nera. Con lei anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, diversi rappresentanti politici, attivisti e cittadini del Municipio 3 (che ha organizzato l'evento) e non solo. Numerose sono state le adesioni all'iniziativa non solo dalla comunità ebraica, ma anche da Anpi, Diocesi Ambrosiana e partiti di ogni colore, da Pd a Forza Italia. «Finalmente la gente non è indifferente», ha commentato Ornella Coen, sorpresa dal caloroso sostegno che le ha dimostrato la città. «Quando ho visto la pietra d'inciampo violata, è stato un po' come se avessero nuovamente ammazzato mio padre. Ma di fronte alla reazione sia sui social network, sia ora, che vedo tanta gente, sono commossa. Da una cosa cattiva ne è nata una buona».

(La Stampa, 28 gennaio 2017)


Salvò molti ebrei dai campi di sterminio.

San Maurizio Canavese ricorda il medico Carlo Angela

SAN MAURIZIO CANAVESE - Durante l'occupazione tedesca, il padre del giornalista Piero Angela, dirigeva una clinica per malattie mentali. Sottrasse alla deportazione moltissimi ebrei ricoverandoli falsificando le cartelle
Nel giorno della memoria, dedicata alle vittime dell'Olocausto, tra i tanti che si adoperarono, rischiando la propria vita e quella delle proprie famiglie, a sottrarre gli ebrei alla feroce persecuzione nazifascista, bisogna ricordare anche Carlo Angela, padre del giornalista televisivo e scrittore Piero Angela. Uomo di gran cuore, negli anni della persecuzione razziale, Carlo Angela, era stato chiamato a dirigere, in qualità di direttore sanitario, la casa di cura per malattie mentali "Villa Turina Amione" di San Maurizio Canavese.
Durante l'occupazione tedesca Carlo Angela, in virtù del suo ruolo, riuscì a dare rifugio a moltissimi ebrei, ricoverandoli nella struttura sanitaria con cartelle cliniche falsificate. Carlo Angela, nacque a Olcenengo nel 1875 e scomparso nel 1949, lavorò per diversi anni come medico condotto nel piccolo paese ossolano di Bognanco. Con l'avvento della dittatura, rinunciò all'attività politica.
In ricordo della sua grande umanità il 3 giugno del 2000, alla presenza del figlio Piero, a Carlo Angela il Comune di San Maurizio Canavese ha intitolato una via.
Non è da molti anni che si è venuti a conoscenza del grande altruismo di Carlo Angela: la sua famiglia è sempre stata molto riservata e per oltre mezzo secolo nessuno ha saputo quanti ebrei perseguitati Carlo Angela sottrasse alla deportazione e all'atroce morte nei forni crematori dei campi di stermino nazisti.
Nel 1995 Anna Segre pubblicò il diario del padre Renzo: un diario scritto proprio nel periodo in cui era riuscito a sfuggire alla deportazione grazie al ricovero fittizio nella casa di cura "Villa Turina Amione".
Il 29 agosto 2001, il governo di Israele gli ha conferito alla memoria la Medaglia dei Giusti tra le Nazioni, per aver aiutato senza alcun interesse, molti ebrei durante la Shoah.

(Canavesenews, 28 gennaio 2017)


Ebrei reggiani uccisi dal nazismo: scoperti cinque nuovi nomi

La scoperta di Istoreco rivelata da Matthias Durchfeld, che lancia anche una serie di proposte

REGGIO EMILIA - Non una semplice cornice per commemorazioni o mostre, ma uno spazio vivo, di incontri, studi e riflessioni. E' così che Istoreco vorrebbe la sinagoga di via dell'Aquila, luogo che una testimonianza del passato e delle storie che continuano a riemergere. Come le cinque persone i cui nomi, secondo l'istituto, dovrebbero essere aggiunti sulla lapide che ricorda i dieci ebrei reggiani morti nei campi di sterminio.
La nostra città, continua ancora Matthias Durchfeld, dovrebbe stringere poi un forte legame con la città israeliana di Haifa, che custodisce gli arredi sacri della sinagoga di via dell'Aquila.

(Telereggio, 28 gennaio 2017)


Storie come favole, come i danesi salvarono i loro ebrei dai nazisti

di Giulia Clarizia

La storia degli ebrei danesi è una di quelle storie che, tra le tante tragedie, spicca per il suo lieto fine. Essa dimostra come le cose non succedono per caso, succedono per scelte compiute più o meno consapevolmente. Nulla nella storia è infatti inevitabile e necessario. Tuttavia è raro che le scelte dell'uomo, animale sociale, siano prese in completa autonomia. Sono influenzate dal contesto sociale sia nel male sia, come nel caso della storia che stiamo per raccontare, nel bene.
   La Danimarca era stata invasa militarmente nel 1940, senza neanche tentare una difesa che sarebbe stata controproducente. Divenne allora il "protettorato modello", uno stato considerato in armonia con l'occupazione nazista, disposto a collaborare e ricevendo in cambio il rispetto per la propria identità nazionale. Il sostegno della Danimarca era fondamentale per la guerra dei nazisti. Da lì infatti arrivavano molti prodotti alimentari come la carne e il latte. Il problema, per i gerarchi, era che la monarchia danese, spalleggiata dal suo governo, si era sempre categoricamente rifiutata di inserire le leggi razziali nella loro legislazione. E nel 1943, la cosa iniziava a non essere più tanto gradita.
   Nel 1942, dopo la cosiddetta "crisi dei telegrammi", quando il re Cristiano X rispose ad un lungo messaggio di Hitler con uno striminzito ringraziamento scatenando la furia del Führer, venne inviato come nuovo plenipotenziario il generale Werner Best, ex membro della Gestapo, prima impegnato in Francia per il governo di Vichy, poi trasferito a Copenaghen per occuparsi dell'amministrazione del paese.
   Best era un nazista convinto. È sua la metafora medica del nazista che deve estirpare dalla società gli agenti patologici come gli ebrei e i comunisti. In Danimarca però, sapeva che le cose erano diverse e che la deportazione degli ebrei non sarebbe potuta essere imposta senza gravi conseguenze. Perdere il "protettorato modello" significava perdere importanti rifornimenti. Best in breve tempo imparò a conoscere la popolazione danese, i suoi politici, la sua cultura.
   Nell'agosto del 1943 tuttavia, una rivolta della resistenza danese diede ai nazisti il pretesto per introdurre la legge marziale nel paese ed imporre un governo più compiacente, mettendo il re nella condizione di non poter fare nulla. Quello, era il momento per avviare la deportazione, e a suggerirlo è Best, come emerge da un telegramma datato 8 settembre 1943 rivolto al ministro degli esteri di Hitler.
   È a questo punto che la storia prende una piega sensazionale. Gli storici non concordano su quale sia stata la scintilla che ha fatto partire il passaparola, se la volontà dello stesso Best o la rabbia di uno dei suoi amici e consiglieri Georg Duckwitz, attendente navale presso l'ambasciata tedesca molto inserito nella società danese e contrario alla deportazione degli ebrei. Fatto sta che iniziò l'operazione di salvataggio che avrebbe messo al sicuro la vita ai più di 7300 ebrei danesi. Il piano era quello di avvisarli che la retata avrebbe avuto luogo il primo ottobre, e quindi dargli la possibilità di nascondersi e fuggire in Svezia passando per lo stretto di Oresund. Determinante fu la posizione della Svezia, che si dimostrò aperta ad accogliere i fuggitivi danesi, contrariamente a quanto era accaduto in precedenza con i francesi. Qualche mese prima infatti, era saltato un accordo che la Svezia, paese neutrale, aveva preso con la Germania e quindi fu possibile per il governo socialdemocratico di Hansson aprire le porte a coloro che erano in pericolo.
   Ma ancora più incredibile fu l'atteggiamento della popolazione danese. Non solo i politici, i membri della resistenza e i leader della comunità ebraica contribuirono a diffondere il passaparola, ma cittadini rimasti alla storia senza un nome e senza un volto camminavano per strada e passavano furtivamente le chiavi delle loro case agli ebrei che sapevano essere in cerca di rifugio.
   Non mancò chi cercò di arricchirsi. Il passaggio sui mercantili che sarebbero approdati in Svezia aveva un prezzo spesso ben alto e, come oggi accade con gli scafisti, molte famiglie spesero tutto quello che avevano nella speranza di avere salva la vita, e, fortunatamente, così fu per molti.
   Quando i nazisti si resero conto della fuga di notizie inviarono pattuglie a controllare i porti e il traffico navale. La cosa sensazionale è che molti chiusero un occhio, probabilmente su richiesta dello stesso Best. Fa scalpore anche che il comandante supremo delle forze tedesche in Danimarca, il generale Von Hannecken, fin da subito rifiutò di inviare i suoi uomini per collaborare alla retata degli ebrei.
   Sebbene molti passaggi della vicenda non siano ancora oggi chiari, anche considerando che molte testimonianze risalgono a processi successivi e dunque non è facile capire dove sia la verità, è indubbio che nel caso della Danimarca le scelte dei singoli hanno fatto la differenza.

(Solonews, 28 gennaio 2017)


La mia Giornata della Memoria è tutto questo

Lettera a Beppe Severgnini

 
Lapide comemorativa in Piazza Malatesta, Ancona
Caro Beppe, la mia Giornata della Memoria non è un film tipo "Schindler's List" in TV. E' un signore anziano che incontrava mio nonno per il Corso Garibaldi di Ancona, e lo ringraziava per quello che era successo in tempo di guerra, quando mio nonno portava il burro e la pasta a lui e alla sua famiglia nascosti in campagna, e lui si stupiva perché non volesse soldi in cambio. Perché la conosco da quarant'anni, rispondeva mio nonno, e perché mi vergogno di essere un cittadino dello Stato che ha fatto le leggi razziali. Erano passati quindici anni dalla fine della guerra, eppure facevano ancora questi discorsi, e io bambinetto ascoltavo e non capivo perchè dovessero portargli da mangiare di nascosto, a quel signore coi capelli bianchi. La mia Giornata della Memoria è in quella piccola lapide già rovinata dagli anni e dai vandali, in Piazza Malatesta di Ancona, che una volta si chiamava Campo della Mostra, e nella quale furono arsi vivi 24 ebrei nel 1556, ai tempi di Papa Paolo IV e dei marrani portoghesi. A testimonianza che il nazismo è solo un dettaglio nella Storia, ma che l'antisemitismo è molto più antico, pericoloso e onnipresente: si nasconde in venti secoli di Cristianesimo come in cinquant'anni di terzomondismo, ma è sempre lì il mostro, pronto a ricomparire ogni volta con una veste diversa. La mia Giornata della Memoria è nelle misteriose tombe cilindriche del Cimitero degli Ebrei, sulla rupe selvaggia flagellata dalla bora, che precipita a picco sull'Adriatico, e in quei caratteri incomprensibili del popolo ebraico che da sempre ha arricchito la storia della mia città. E' nelle parole di mia madre che mi diceva, gli ebrei sono nostri amici, ricordatelo, e che mi ha insegnato l'eterna ammirazione del popolo di Israele. La mia Giornata della Memoria è nelle parole di un collega israeliano che mi aspettava all'aeroporto di Tel Aviv dicendomi: "Sappiamo chi sei. Benvenuto in Israele!".
Piero Romagnoli

(Corriere della Sera - Blog, 28 gennaio 2017)


Menichelli: «La mia infanzia con gli amici ebrei»

Il cardinale arcivescovo di Ancona ricorda il tempo trascorso coi fratelli Di Segni, Frida ed Elio: «Pensavamo solo a giocare, non eravamo consapevoli dell'orrore che si consumava».

di Asmae Dachan

Nella Giornata della Memoria, una storia di amicizia e fratellanza. All'epoca delle leggi razziali, due bambini giocavano insieme inconsapevoli di ciò che accadeva intorno a loro. Una foto immortala quei giorni di tragedia e spensieratezza: ritrae Edoardo Menichelli, oggi cardinale, e Frida Di Segni, donna di grande cultura e sensibilità, figura di spicco della Comunità ebraica.

- Eminenza, vuole ricordare il suo incontro con la famiglia Di Segni?
  Sono felice di avere l'opportunità di ricordare una vicenda personale che ha segnato la mia vita e che mi offre oggi la possibilità di essere vicino, con sincero coinvolgimento, alla famiglia Di Segni e a tutta la comunità ebraica. Siamo alla metà degli anni '40, quando nel paesino di campagna dove sono nato e cresciuto, Serripola, una frazione di San Severino Marche, in provincia di Macerata, era arrivata da Roma una famiglia ebrea, che aveva trovato rifugio e ospitalità in una piccola casa appartenente alla famiglia Strampelli. Ciò che racconto ora è frutto di un confronto e un dialogo che ho avuto, ormai adulto, con una delle figlie di questa famiglia, Frida Di Segni, che dopo tanti anni ho incontrato di nuovo ad Ancona e con la qua- le ho ricostruito la memoria di quei giorni. All'epoca avevo circa sei anni, Frida qualcuno di più, mentre suo fratello era quasi mio coetaneo.

- Ha mai avuto la percezione che i suoi amici fossero in pericolo?
  Come tutti i bambini, pensavamo solo a giocare e non eravamo consapevoli dell'orrore e delle violenze che si stavano consumando. Ricordo però che mia madre mi raccomandava sempre di non chiedere a quei bambini chi fossero e quale fosse la loro storia. La comunità locale sentiva una profonda responsabilità nei loro confronti e stava attenta a proteggerli e custodirli. Mi torna alla memoria anche un altro protagonista di questa vicenda. Ricordo la figura di un sacerdote, un parroco di cui non mi sovviene il nome, che indossava, come facevano tutti i sacerdoti, una veste lunga e un cappello che si chiamava 'tribecco' per via delle sue tre punte. La sua parrocchia non era molto vicina, doveva camminare molto per venire nella nostra zona e farci visita. Ogni volta che il religioso percepiva un pericolo, veniva lì ad avvisare la famiglia, invitandola a nascondersi, per evitare di essere vista da una ronda (fascista, ndr) che poteva minacciarne l'incolumità.

- Uno spaccato di profonda umanità che si consuma in mezzo a tanti orrori.
  Nonostante le violenze che dilagavano, c'era anche tanta fratellanza che come sempre nasce dall'essere figli di Dio Padre misericordioso verso tutti. Di quei giorni custodisco una foto. Siamo ritratti tutti e tre, Frida, il fratello ed io, seduti a cavalcioni su quello che sembra un tronco d'albero, o forse una botte rovesciata. Quella foto è un bellissimo ricordo che immortala bambini che giocano felici, uniti da quell'innato spirito di fratellanza che nei piccoli si manifesta in modo spontaneo. Custodisco questa memoria e al presente la vivo con grande gratitudine, ma anche con un profondo spirito di fraternità e solidarietà verso il popolo ebraico, che tanto ha sofferto e il cui dolore va rispettato.

- Si era detto mai più…
  Per me dipende dall'inconsapevolezza o dal rifiuto della paternità di Dio. Un conto è la convivenza umana, riconoscersi uguali, un conto è dare a tutto ciò un fondamento, che è appunto l'unicità del Padre, l'unicità di Dio che dà la vita ai suoi figli e li invita a vivere nella fraternità. Se non si sana questo principio dentro l'umanità che vive con le regole dell'oppressione, del dominio e dello strapotere, la storia non cambierà. Bisogna cambiare il cuore, e se cambia il cuore delle persone, cambia la vita e il destino degli esseri umani.

(Avvenire, 28 gennaio 2017)


Nedo, la Memoria smarrita. Ma salvata per sempre sul web

Nedo ha perso la voce, ha smarrito i ricordi. Ma il suo impegno non è stato vano ora che un sito internet ha raccolto le sue memorie raccontali dalla voce di studenti e personaggi della cultura. Classe 1925, fiorentino, uno degli ultimi Testimoni italiani della Shoah ancora in vita, Nedo Piano fu catturato dai fascisti.

di Adam smulevich

Nedo Fiano
Nedo ha perso la voce, ha smarrito i ricordi. Ma il suo impegno non è stato vano. Ieri poi ha ricevuto un messaggio un po' diverso dal solito, da un vecchio amico: l'ex premier Matteo Renzi, che nel Giorno della Memoria ha voluto dedicargli parole di sincera gratitudine.
   Classe 1925, fiorentino, uno degli ultimi Testimoni italiani della Shoah ancora in vita, Nedo Piano fu catturato dalla polizia fascista in seguito a una delazione. Da allora iniziò il suo personale inferno: prima il campo di internamento di Fossoli, quindi la deportazione nei lager nazisti. Si salvò per miracolo, dopo prove estreme. Uno dei pochissimi deportati a fare ritorno a casa. Un inferno che è stata presenza costante nei suoi pensieri, nelle sue notti tormentate, ma anche lo stimolo per lasciare un messaggio forte alle nuove generazioni.
   Libri, interviste, incontri nelle scuole: un lavoro incessante, svolto nella consapevolezza che non c'era tempo da perdere e che ogni secondo messo a disposizione degli altri, soprattutto se giovani e giovanissimi, poteva avere un valore inestimabile. Da qualche anno però questo non è più possibile. La sua testimonianza si è interrotta, il mondo della scuola (e non solo) è orfano della sua lucidità e intensità. Un tema quanto mai attuale, in un'epoca in cui gli ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio stanno finendo inesorabilmente per lasciarci.
   «Sono stato fortunato a incrociare i miei passi con quelli di persone come Nedo. E penso che la politica sia bella quando ti consente di affrontare incontri di questo genere», ha scritto Renzi, ricordando un incontro con ebbe con Piano ( che da vari anni vive a Milano) quando era presidente della Provincia. «Qualche anno fa - le parole riportate nel blog dell'ex premier- Nedo mi contattò perché voleva rivedere la casa dove era cresciuto. Fu un momento di emozione intensa. E io gli chiesi di aiutarmi a tenere viva la memoria per le giovani generazioni. Insieme organizzammo allora dei viaggi con i ragazzi delle superiori per visitare i luoghi della tortura e dell'Olocausto. Ogni passo dentro Birkenau per lui era un'ulteriore sofferenza. Ma continuava a camminare per spiegare ai diciannovenni fiorentini di oltre mezzo secolo dopo che cosa era accaduto a lui. Lo raccontava perché restasse tatuato nel cuore della nuova generazione il senso di ciò che era accaduto. E perché quei ragazzi tenessero vivo il desiderio di opporsi al male assoluto».
   Nedo ha perso la voce, ha smarrito i ricordi. Ma il suo impegno non è stato vano. La conferma arriva da un'iniziativa lanciata proprio in queste ore, nel suo nome: «Forgetting Auschwitz, remembering Auschwitz». Iniziativa dal taglio decisamente innovativo, voluta dall'Associazione Figli della Shoah e dalla Fondazione Cdec di Milano e realizzata in concreto dalla società Havas. Questo è il contesto. Siamo in un tattoo shop, ci sono dei clienti, e c'è una telecamera che li riprende. Le persone filmate pensano di partecipare a un documentario sul mondo dei tatuaggi. Ma in realtà lo scopo di quella presenza è assai diversa. Per capirlo però dovranno aspettare che il tatuatore imposti sulla loro pelle una lettera e quattro cifre, che proprio non si aspettano: A5405.
   Ancora non lo sanno, ma quella è la sequenza di Nedo. O meglio, è la sequenza che porta incisa sul braccio da quando, varcata la soglia del lager, cessò di essere un uomo e diventò un numero. Piano arriva ad Auschwitz con tutta la sua famiglia, che viene subito annientata. Un'esperienza così devastante, annota nei suoi scritti, che farà di lui un uomo diverso, un Testimone per tutta la vita. E ogni ragionamento, ogni riflessione quando si ritroverà da solo con i suoi ricordi davanti a una platea, davanti a centinaia di occhi puntati sulla sua persona, non potrà che ruotare attorno a quel numero. Presi alla sprovvista, scossi dalla storia che viene loro raccontata e di cui sono chiamati a diventare ambasciatori, gli inconsapevoli protagonisti di «Forgetting Auschwitz, remembering Auschwitz» escono da quello studio profondamente cambiati. Quel numero assume infatti un significato ben preciso e genera un flusso incontrollato di emozioni. Un flusso che resterà però anche come prova viva di Memoria trasmessa, andando ad arricchire l'archivio del sito web www.A5405.com. Oltre un centinaio le persone, tra cui alcuni volti noti della cultura, che in quel sito interpretano e leggono i ricordi di Piano. L'originalità dell'iniziativa non si esaurisce comunque qui. A ciascun utente del web è infatti offerta la possibilità di contribuire registrando i pensieri del Testimone con la propria voce. Perché Nedo avrà anche smarrito i ricordi, ma nessuno ha smarrito lui.

(Corriere Fiorentino, 28 gennaio 2017)


Caro Toscanini, l'orchestra è tua

di Harvey Sachs

Riccardo Muti dirige la Filarmonica d'Israele a Tel Aviv
Il 15 febbraio 1936, il celebre violinista polacco Bronislaw Huberman scrisse una lettera ad Arturo Toscanini. Entrambi i musicisti si trovavano a New York a quell'epoca, e Huberman chiedeva di incontrare urgentemente Toscanini per parlargli di un'idea che lo "ossessionava"; l'idea era nientemeno che la creazione in Palestina di un'orchestra di musicisti ebrei che erano scappati oppure cercavano di scappare dalle persecuzioni "razziali" in Europa.
   L'incontro avvenne pochi giorni dopo, e Toscanini - che fin dal 1931 non dirigeva più nell'Italia fascista e che nel 1933, con l'avvento dei nazisti al potere in Germania, si era rifiutato di tornare al festival wagneriano di Bayreuth - disse a Huberman che era pronto a dare il suo sostegno a questa nuova iniziativa, sostegno non soltanto morale ma anche concreto: sarebbe andato a proprie spese e senza cachet per dirigere i concerti inaugurali del nuovo complesso, l'Orchestra di Palestina, oggi Filarmonica d'Israele.
   La notizia della partecipazione di Toscanini dette un impulso importantissimo al progetto di Huberman: per i musicisti interessati, fu una garanzia di alta qualità; per i donatori, fu una garanzia che il progetto si sarebbe potuto realizzare. Un ammiratore di Toscanini - un fisico che era anche violinista dilettante e che si chiamava Albert Einstein - scrisse al maestro: «Lei non è soltanto l'interprete impareggiabile della letteratura musicale mondiale... Anche nella lotta contro i criminali fascisti si è dimostrato un uomo di grandissima dignità».
   A dicembre Toscanini e sua moglie viaggiarono in aereo, da Brindisi ad Atene, quindi ad Alessandria d'Egitto e finalmente a Tel Aviv, dove il maestro fu accolto con grande entusiasmo. Trovò l'orchestra già buona, e sia la prova generale che il primo concerto, la sera del 26, ebbero un successo strepitoso ed emozionante. Il programma fu ripetuto ad Haifa e a Gerusalemme, e anche un secondo impaginato fu preparato ed eseguito nelle tre città, dopodiché entrambi i programmi furono presentati al Cairo e ad Alessandria. Toscanini visitò i kibbutzim e i mosciavim (fattorie collettive) del Paese, e scrisse che tutta la visita lo aveva messo in una continua "esaltazione dell'anima". Vi sarebbe tornato nel 1938, sempre a spese proprie, per una seconda serie di concerti.
   Adesso, per festeggiare l'ottantesimo anniversario della nascita dell'orchestra, i dirigenti della Filarmonica d'Israele hanno chiamato Riccardo Muti, il quale è venuto a Tel Aviv per dirigere lo stesso programma che Toscanini vi aveva sostenuto nel dicembre del 1936: la Sinfonia de La scala di seta di Rossini, la Seconda Sinfonia di Brahms, l'Incompiuta di Schubert, il Notturno e lo Scherzo dal Sogno di una notte di mezz'estate di Mendelssohn e l'Ouverture di Oberon di Weber. La scelta di Muti non avrebbe potuto essere più azzeccata, sia perché la sua maestria direttoriale - tecnica e artistica - è ora al massimo della maturità, sia perché è uno dei pochissimi direttori viventi che hanno seguito la "linea lavorativa" di Toscanini, linea che Muti ha imparato al Conservatorio di Milano dal suo professore di direzione d'orchestra Antonino Votto, sostituto di Toscanini alla Scala negli Anni Venti: questa "linea" consiste soprattutto nella convinzione che, per un interprete, lavorare coscienziosamente sia una responsabilità morale oltreché musicale.
   E così com'era successo a Toscanini ottant'anni fa, anche a Muti i musicisti della Filarmonica hanno dimostrato una simpatia che rasentava l'idolatria (questo nel Paese monoteista per antonomasia!), applaudendolo anche durante le prove, chiacchierando amichevolmente con lui durante gli intervalli, e andando in visibilio, assieme al pubblico, alla fine del concerto, che ebbe luogo lo scorso 20 dicembre.
   Chi scrive ha avuto la fortuna di essere presente grazie a una strana catena di combinazioni. Il contenuto della lettera di Huberman a Toscanini, che portò alla creazione dell'orchestra e che perciò è uno dei documenti-base del complesso, era conosciuto già da decenni, ma non si sapeva dove l'originale si trovasse. Sin dal 2010 stavo lavorando a una nuova biografia di Toscanini, che uscirà nei prossimi mesi, e tra le decine di migliaia di documenti che erano emersi dopo il 1978, quando avevo pubblicato la mia prima biografia toscaniniana, c'erano quelli appartenuti all'architetto Walfredo Toscanini, il nipote del maestro. Walfredo morì alla fine del 2011, ma Liana e Cia Toscanini, le sue figlie, mi incoraggiavano a continuare le ricerche. Un giorno, mentre frugavo nell'ultimo dei tanti cartoni di documenti, trovai una decina di cartelle tenute insieme con un fermaglio arrugginito. In cima c'era una lettera dattiloscritta in francese: era lei, quella famosa che portava la firma di Huberman.
   Liana e Cia decisero di donarla alla Filarmonica d'Israele, assieme agli altri documenti ad essa legati (un telegramma al maestro del futuro primo presidente dello Stato d'Israele, Chaim Weizmann e alcune cose di minore importanza). Lo scorso settembre, quando Riccardo Muti mi ha detto che doveva recarsi a Tel Aviv per l'anniversario della Filarmonica, gli ho raccontatola storia della lettera di Huberman, ed egli a sua volta ne ha informato i dirigenti dell'orchestra israeliana, i quali mi hanno invitato ad andare in Israele per presentare i documenti.
   Oltre al concerto di Muti, gli eventi per commemorare l'anniversario della nascita dell'orchestra hanno compreso una conferenza su Toscanini, presenti l'ambasciatore italiano Francesco Talò e il maestro Muti, e la consegna della lettera di Huberman e degli altri documenti ai dirigenti della Filarmonica, davanti a molti discendenti, commossi, dei professori che avevano fatto parte dell'orchestra originale.
   In mezzo a una crisi politico-etnico-religioso-morale che in questo Paese sembra ormai eterna, i pochi giorni di festeggiamenti per l'anniversario della Filarmonica costituivano un piccolo iato, purtroppo di nessun peso "reale" ma che comunque hanno portato un attimo di tranquillità e di ragionevolezza nel trambusto generale. Ce ne fossero tanti altri!

(Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2017)


Sepolture ebraiche a Roma: una storia lunga millenni, con alcune interruzioni

Vi sono sei catacombe e tre cimiteri

di Daniele Toscano

 
Un particolare delle Catacombe di Vigna Rondanini
 
Interno della Catacomba di Villa Torlonia
"Acquisire la storia della nostra collettività anche attraverso i cimiteri significa riappropriarci di una delle nostre dimensioni più importanti: ci permette di capire come viene trattato il proprio passato, senza per questo elaborare il culto dei morti"
. Con queste parole Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Beni e Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma, apre la sua intervista a Shalom. Il suo contributo ci permette di scoprire come si siano evoluti i vari luoghi di sepoltura nel corso della millenaria storia degli ebrei a Roma. "Il primo elemento che colpisce è che la comunità ebraica di Roma preesiste alle tracce archeologiche delle sepolture. In altri termini, se abbiamo testimonianze della presenza ebraica già diversi decenni prima dell'era volgare, le prime catacombe sono datate II secolo e ne esistono fino al VI". Le cause di questo vuoto le ignoriamo: forse devono ancora essere scoperte o non c'erano sistemi separati di sepoltura. Sono state individuate sei catacombe, risalenti soprattutto al IV e V secolo. Sono sparse in diverse zone: due nei pressi di Villa Torlonia, sulla via Nomentana; a Vigna Cimarra (Ardeatina); a via Labicana; a Monteverde; a Vigna Randanini (Appia Antica). Solo quest'ultima è visitabile, nonostante un problema di passaggio ancora irrisolto. Delle altre resta ben poco, al di là dell'indicazione generica dei luoghi. Come noto, poi, ogni campagna di scavo nelle aree del centro di Roma presenta problemi oggettivi.
   Le raffigurazioni presenti in queste catacombe sono un elemento utile a comprendere come cambia lo schema di auto-rappresentazione delle varie collettività ebraiche che si sono succedute sul territorio. L'uso del greco e del latino, ad esempio, dimostra come prevalesse la lingua franca rispetto all'ebraico; tuttavia, non mancano riferimenti espliciti all'ebraismo, come la menorah, l'etrog, il lulav, oltre ad altre raffigurazioni non decodificate.
   Dal Medioevo inizia un buco documentario, tipico dell'epoca. C'è anche un notevole calo demografico in questa fase: gli abitanti di Roma da un milione si riducono a 20mila; parallelamente, gli ebrei da alcune decine di migliaia restano in meno di mille. "Solo nel tardo Medioevo si torna a individuare una testimonianza degli usi funerari: dal 1363 al 1645, infatti, si ha la certezza dell'uso del cimitero di Porta Portese, laddove oggi si trova il deposito degli autobus", afferma Procaccia. Nel 1645 fu inaugurato il cimitero del Roseto, all'Aventino; un cambiamento figlio della nuova urbanistica che prevedeva un'inedita cinta muraria per la città. Il Roseto divenne così un punto di riferimento e ancora oggi ne restano varie testimonianze, come la targa all'ingresso o la menorah che viene formata dai viali di una delle due parti che lo compongono. Nel 1934, Mussolini decise di espropriare la comunità ebraica di questo terreno. Unico cimitero divenne così il Verano: un'antica necropoli, dove nel 1895 era stato creato il riquadro israelitico; qui venne trasferita anche una piccola parte delle salme presenti al Roseto.
   Il Verano si distingue per le numerose tombe monumentali, ma anche per un utilizzo di sculture e di immagini tipico di fine '800: un simbolo di come gli ebrei romani recepissero quella mentalità positivista e illuminista diffusa in Europa, fino ad adottare anche usi non ebraici nelle sepolture. Nel dopoguerra, sono state collocate anche due lapidi dedicate ai deportati, una prima situata all'ingresso e un'altra per ricordare le vittime romane della Shoah.
   Infine, i luoghi più moderni: il Cimitero Flaminio, a Prima Porta, inaugurato a metà anni '80, si presenta profondamente diverso. Collocato all'estrema periferia della città, è privo di ornamenti e decorazioni artistiche. Forse la conseguenza di un cambio di mentalità o di una visione urbanistica dell'intera città. Nella scia di questo percorso, probabilmente presto entrerà in attività anche il Cimitero Laurentino, nel quartiere di Trigoria, già inaugurato nel 2002. "Ma su questi cimiteri più recenti non posso aggiungere dettagli dal punto di vista artistico o halachico", conclude Procaccia, "posso solo limitarmi a considerazioni da semplice osservatore o al massimo da futuro fruitore!".

(Shalom, gennaio 2017)


Le foto di una Palestina insolita

Le immagini del libro "Obiettivo Palestina" (edito dalla Graffiti)

Il ragazzino palestinese che ti osserva di sbieco dietro una rete, il solitario piccolo israeliano che sbircia al di là del muro. Ma anche gli anziani che guardano oltre o, almeno, così sembra. E poi le kefiah, il gioco delle carte, il narghilè: sono alcune delle immagini del libro fotografico "Obiettivo Palestina" (edito dalla Graffiti) di Federico Palmieri, di professione consigliere parlamentare della Camera dei Deputati, e grande appassionato di fotografia, viaggi, storia e cultura dei popoli.
Il suo è un racconto per immagini insolito, fatto con occhi 'vergini' perché - come confessa lui stesso - è la prima volta che visita queste terre. Uno sguado neofita, che coglie drammi e contraddizioni senza drammatizzarli.
Ci sono anche le armi, e i militari. Giovani che imbracciano il mitra, in divisa con il sorriso sulle labbra. Ma "Obiettivo Palestina" ci parla anche di un mondo che va avanti nonostante tutto, di una vita che procede a dispetto dei fatti e delle divisioni, degli odi e della violenza, e allora ecco il sorriso gioioso di due giovani che si baciano, dimenticando la realtà in cui vivono.
L'impressione che si ha è che in quella terra il sole non ci sia mai e, quando lo intuisci dalle ombre, la sua luce non scalda. È lì, ma non illumina.
Toni plumbei figli anche dei muri che con i loro graffiti entrano in tante fotografie. Immagini non iconiche di questa terra, dove gli uomini vivono separati, gli uni segregati, gli altri arroccati, nemici e sconosciuti gli uni agli altri.
"Obiettivo Palestina" verrà presentato, a Roma, sabato 28 gennaio alla libreria La Feltrinelli alla Galleria Alberto Sordi, a Piazza Colonna

(ANSA, 28 gennaio 2017)


Turchia-Israele: il primo febbraio incontro tra sottosegretari agli Esteri

ANKARA - Turchia e Israele hanno siglato un accordo per normalizzare i rapporti bilaterali alla fine di giugno 2016, dopo sei anni di "gelo diplomatico" dovuto all'incidente del maggio 2010 sulla nave Mavi Marmara in cui erano rimasti uccisi dieci attivisti di nazionalità turca. In base all'intesa siglata a giugno scorso, nelle capitali dei due paesi si sono insediati i rispettivi ambasciatori, l'israeliano Eitan Na'eh ad Ankara e il turco Kemal Okem a Tel Aviv. La nomina dei due ambasciatori è stata fatta nella metà del mese di novembre scorso da parte di Ankara e Gerusalemme. Okem è stato consigliere diplomatico del primo ministro Binali Yildirim e dell'ex premier Ahmet Davutoglu, mentre il diplomatico israeliano Na'eh ha già prestato servizio nel 1993 come primo e secondo segretario dell'ambasciata israeliana ad Ankara, per poi divenire ambasciatore dello Stato ebraico in Azerbaigian. Dal 2013 ad oggi è stato il vice capo missione dell'ambasciata israeliana a Londra.

(Agenzia Nova, 27 gennaio 2017)


 Equivalenza metapolitica
 Il mondo sta a Israele
 come Israele sta al Messia
 

Dall'antichità al jihad, l'antisemitismo è un male che non ci abbandona

Non comprende la shoah chi nega l'antisionismo dell'islam politico

di Giuseppe Laras (*)

Che senso ha ricordare? Il ricordo della Shoah non deve essere la riesumazione liturgica o museale di un fossile, né, tantomeno, il momento annuale per un'endovena estetica e melensa di passioni tristi. Infine, cosa purtroppo spesso asserita quasi come se fosse dogma ma mai abbastanza spiegata e portata a comprensione, la Shoah è un unicum rispetto ad altre tragedie umane, pur immani, per la compresenza radicale di una serie di variabili che si verificarono solo in quella tremenda occorrenza storica. Come è noto, l'unico altro genocidio in cui quasi tutte le variabili furono presenti fu quello armeno, perpetrato dai turchi e dai tedeschi loro sodali. Per intenderei con un esempio, per i bambini cristiani armeni - che pure furono in gran numero sterminati - vi furono alcuni spiragli (comunque sciagurati) di salvezza: la schiavitù, la "turchizzazione" e l'islamizzazione. Per i bambini ebrei, la colpa era quella di essere nati, e dunque furono subito soppressi.
   La Shoah non si presta quindi a un'ermeneutica generalizzante, ma richiede di sostare e analizzare i fattori particolari e la sua specifica storia ed essenza. Se tutto è fascismo e nazismo, nulla è fascismo o nazismo. E' per questo che le generalizzazioni in proposito falsano il pensiero e richiedono sorvegliata serietà. Ed è sempre per questo motivo che molto bisogna guardarsi da coloro che scagliano facilmente, nell'agone polemico, il marchio di nazista o fascista come arma per colpire, delegittimare e ferire avversari ostici, ancorché legittimi.
   L'attualità della lezione della Shoah si dipana su due piani ben precisi: quello dell'antisemitismo, specifico e imprescindibile per tutti, e quello, interrelato e generale, del declino e della crisi della vita democratica. L'antisemitismo, dall'antichità al jihad glocale (lemma orrendo), è un male che non ci abbandonerà e che si sta oggi rinvigorendo. Tuttavia, esso può essere, di generazione in generazione, contenuto, decostruito e sconfessato, ed è questo l'impegno richiesto. Non si è compresa la Shoah e l'antisemitismo, se si nega ostinatamente che la sua forma moderna sia l'antisionismo e che l'islam politico ne sia radicalmente intriso, in un coacervo di elementi concettuali nazisti. I paesi europei che negano questo nella vita istituzionale, politica e culturale si stanno riaprendo a tale immondo contagio.
   Buona parte del dibattito filosofico e politico che ha portato in Occidente - e solo in Occidente - al riconoscimento e alla tutela dei diritti individuali, civili e politici - di cui è cardine il godimento della libertà privata personale (bene non negoziabile e da difendersi costi quel che costi!) dei moderni a fronte di quella collettiva e pubblica degli antichi (o della Umma) - fu una discussione attorno alla "questione ebraica", all'antisemitismo e, poi, al post-Shoah. Il decadimento della vita democratica a demagogia portò al totalitarismo linguistico (sia sotto i fascismi sia sotto i comunismi) e a virulento antisemitismo. Viene da chiedersi se le nostre massificate democrazie occidentali, scientemente sottoposte a un inquietante e non disciplinato cambio demografico a lungo termine, nell'era globale dei social network, non possano essere altro che demagogiche. Se sì, quali scenari? Quali pericoli? Quali ripari e vaccini, sia giuridici sia filosofici?
   Il totalitarismo linguistico è purtroppo già in atto, e non da parte dei rigurgiti di certe grette e retrive parti politiche (che sono un effetto destinato a crescere in futuro), bensì - e qui sta il dramma epocale da parte delle forze democratiche, riformiste, integranti e mediane - inclusa, purtroppo, da alcuni anni, certa cultura cattolica, asservitasi al mainstream e divenuta irenista e pop. Questo totalitarismo linguistico, che rende incomprensibile il reale, qualunquista lo spirito, indifesa la nostra società e legittimabili (per tal uni) le già citate forze retrive, si estrinseca appieno nella dilagante dittatura post-moderna del politically-correct, omologante dispoticamente ma debolmente, non meno pericolosa però di altri disagi e confusioni dell'intelletto. Il cosmopolitismo pacifista, negante l'identità e la storia particolare e specifica, rischia cioè di essere lesivo, distruttivo e luttuoso (e antisemita) tanto quanto l'identitarismo radicale.
   E, non è un caso, che l'antisemitismo - travestito da antisionismo -, alberghi oggi proprio in siffatte derive morali e intellettuali, spesso ammiccanti, per amor di terzomondismo e per sistematica ideologica erosione della cultura occidentale, all'lslam politico, antisemita nel suo Dna.

(*) Ex rabbino capo di Milano e attuale presidente del tribunale rabbinico

(Il Foglio, 27 gennaio 2017)


Piccola storia ignobile. E gli avvocati ebrei non potevano difendere gli "ariani"

Furono messi alla porta dall'ordine, in ossequio alle leggi razziali. Toccò ad Adone Zoli, grande avvocato fiorentino, nel 1944, firmare la riammissione e la fine di uno degli abominii del fascismo.

di Giulia Merlo

Il libero esercizio della professione di avvocato finì il 29 giugno 1939, con la legge n. 1054.
   In base all'articolo 3, i cittadini di razza ebraica che esercitavano la professione di avvocato, purché avessero «ottenuto la discriminazione a termini dell'art. 14 del Regio decreto-legge 17 novembre 1938 n. 1728» venivano iscritti «in "elenchi aggiunti" da istituirsi in appendice agli albi professionali». All'articolo 4, invece, si stabiliva che gli avvocati di razza ebraica «non discriminati», dovevano essere iscritti a "elenchi speciali" e potevano «continuare nell'esercizio professionale con le limitazioni stabilite dalla legge».
   Tre albi, tre situazioni giuridiche distinte. La prima, quella degli avvocati e procuratori di razza ariana, che garantiva l'esercizio della professione. La seconda, quella degli avvocati «discriminati» iscritti negli "elenchi aggiunti", cui era consentito il patrocinio ma senza poter ricoprire incarichi che comportassero lo svolgimento di funzioni di pubblico ufficiale, né per conto di fondazioni, associazioni e comitati, né potevano essere nominati amministratori giudiziari, revisori dei conti e periti. La terza, infine, quella degli avvocati «non discriminati» iscritti negli "elenchi speciali", che potevano esercitare esclusivamente in favore di cittadini ebrei, «salvo casi di comprovata necessità e urgenza».
   Esiste memoria negli archivi dei Consigli degli ordini degli avvocati delle delibere di cancellazione di colleghi ebrei e della loro reiscrizione nei nuovi albi. Ogni atto, con l'intestazione del Sindacato fascista degli avvocati e procuratori (che aveva affiancato l'ordine professionale a partire dal 1926, assumendone tutte le prerogative), recava in calce la richiesta, la presa d'atto e l'unanime accoglimento da parte del Direttorio. Proprio il fatto che l'avvocato chiedesse la cancellazione dal proprio albo, infatti, era il prezzo umiliante da pagare per venire iscritto all'elenco speciale e il primo passo per ottenere la «discriminazione». Il professionista doveva anzitutto autodenunciarsi al proprio Ordine come ebreo e chiedere di venire cancellato dall'albo ordinario. Poi era necessario dimostrare la propria fedeltà al regime fascista e il sostanziale appoggio alla discriminazione razziale. Infine, non restava che aspettare. Nell'attesa, l'avvocato non poteva esercitare e il cliente ariano, secondo l'articolo 27 della legge del 1939, poteva in qualsiasi momento revocare il mandato al professionista ebreo, anche prima che questo si cancellasse dall'albo. Il procedimento di cancellazione, secondo la legge, doveva concludersi entro il febbraio del 1940 e nascondeva un proposito odioso quanto subdolo: mettere gli avvocati ebrei uno contro l'altro, con maggiori concessioni professionali a chi si autodenunciava e chiedeva la «discriminazione».
   Impossibile determinare i numeri della diaspora silenziosa: già nel 1938 molti avvocati si cancellarono volontariamente dagli albi, per evitare l'umiliante trafila poi imposta dalla legge dell'anno successivo. Le prime cancellazioni avvennero a Genova, il 18 ottobre del 1939: furono cancellati 11 avvocati e procuratori.
   Poi venne Roma, il 13 dicembre: su un totale di 1844 avvocati, ne furono cancellati 67. Poi, Torino, il 27 dicembre: 25 avvocati espulsi senza discriminazione, 10 discriminati e 15 cancellati dall'albo. A Firenze, il 16 gennaio 1940, furono "discriminati" 4 avvocati ebrei e 22 vennero espulsi.
   Bisognerà aspettare il 1944 per uscire dal buio. Adone Zoli (a cui, nel 1957, il Capo dello Stato Giovanni Gronchi affidò la presidenza del consiglio di un governo monocolore democristiano), avvocato fiorentino ed eroe della resistenza antifascista, venne nominato dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale commissario speciale per la ricostituzione per l'Ordine forense di Firenze. Il suo primissimo atto - il secondo fu l'indizione di libere elezioni del Consiglio - fu la riunione della Commissione Straordinaria per deliberare la riammissione all'albo «degli esclusi per motivi razziali». Si legge nel verbale di seduta: «la commissione, ritenuto doveroso di annullare immediatamente i provvedimenti che si basavano su principi ripugnanti alla coscienza e al Diritto, delibera la immediata reiscrizione negli albi dei colleghi cancellati per motivi razziali e la abolizione degli albi aggiunti». Segurono la ricostituzione dei Consigli degli Ordini con il decreto legislativo luogotenenziale numero 382 del novembre 1944 e il ritorno ad un unico albo professionale. Rimangono, oggi, il ricordo di quei nomi elencati uno sotto l'altro con la parola "cancellato" a margine, la loro riabilitazione spesso postuma e la necessaria memoria di ciò che avvenne e delle sue conseguenze, «ripugnanti alla coscienza» prima ancora che al diritto.

(Il dubbio, 27 gennaio 2017)


«Il sacrificio del fuoco», Un libro di 50 pagine che coglie l'orrore meglio di mille discorsi

Scritto dal cristiano Goes, questo capolavoro descrive il peso del ricordo. Oggi tutti parlano della Shoah ma pochi vanno oltre la retorica.

Responsabilità
La protagonista vuole espiare col proprio dolore Gli ebrei la salvano
Ipocrisia
Al di là delle chiacchiere, le istituzioni non lottano contro l'antisemitismo

di Fiamma Nirenstein

Il sacrificio del fuoco è quello definitivo, oltre il quale non resta che cenere, grigio, nero, niente. È anche una santissima aspirazione che percorre tutta le Scritture: ovvero, è la speranza che con l'espiazione le immani brutture, l'inconfessabile crudeltà, i più inverosimili peccati dell'uomo possano essere mondati col sacrificio. E ancora: è la speranza che possa pur venire un giorno in cui sante lingue del fuoco non brucino il sacro cespuglio che testimonia le parole di Dio a Mosè, e suggella la legge. Ovvero in cui l'espiazione si sia già compiuta e resti solo la legge.
  Scritto da un pastore protestante, Albrecht Goes, che durante la Seconda guerra mondiale fu persino cappellano militare e poi decise di ritirarsi nel puro mestiere della scrittura, il libro edito dalla Giuntina non potrebbe celebrare meglio, nel titolo e nel significato, il Giorno della Memoria. Il sacrificio del fuoco è un piccolo libro fulminante, di quelli che aprono nuove strade di comprensione di un evento cui sono state dedicati milioni di pagine e di discorsi.
  Il Giorno della Memoria è un giorno che purtroppo sforna centinaia di testi e discorsi sulla necessità, ovviamente osservata da chi parla o scrive, di ricordare: spesso questi in realtà altro non sono che auto-celebrazioni di una propria generica avversità al male assoluto della Shoah senz'altro impegno che quello di versare due lacrime di colore opaco. Intanto gli attacchi antisemiti nel mondo seguitano a inerpicarsi su per le statistiche superando ogni aspettativa, e la imbarazzante quanto sorprendente pretestuosità anti-israeliana è sempre più anti-ebraica. Non importa, resta valida la necessità di «ricordare», e non è poi chiaro cosa si debba fare del ricordo. Solo poche ore fa, i capi di un gruppo studentesco dell'università di New York hanno dichiarato che sono d'accordo con il terrorista che ha schiacciato con un camion quattro ragazzi a Gerusalemme, e negli elenchi degli attacchi terroristici nessun leader mondiale, nemmeno il Papa, cita anche gli eccidi che hanno luogo in Israele. Donne, bambini, gente per la strada, parallelo al sangue dei quali corre un diluvio di parole di odio contro gli ebrei nelle discariche islamiste e naziste. Ma nessuno se ne fa carico, nessuno è pronto a combattere, o a espiare.
  Invece questo libretto di 50 pagine fa capire che la morte violenta degli ebrei è un problema non solo del «nazista» di turno, ma di ogni persona creata. Che o sei in condizione di combattere o, se sei un essere umano, desideri espiare. Insomma, che non si può andare avanti dopo la Shoah come se non avessimo imparato da quella che l'essere umano è un lupo. Lo scrittore e la protagonista non sono ebrei, eppure il dolore è tutto quanto su di loro, e le poche pagine, le pochissime parole del libro (fatto rivoluzionario, in genere si chiacchiera molto sull'argomento) non perdono una virgola di tempo per trasferire su ciascun lettore come una bomba l'impossibilità di dire basta, la futilità di dichiararsi triste o persino disperato, e tanto meno di promettere che questo non avverrà «mai più». La memoria, se c'è davvero e non è simulata, e qui è chiaro una volta per tutte, è sovrastante rispetto alla capacità umana di elaborarla, non c'è che «il sacrificio del fuoco» per segnalare che si ricorda la Shoah, e anche quello tuttavia non riesce. Perché la protagonista lo desidera, ma gli ebrei la salveranno. Persino Dio non lo vuole, o non se ne occupa dopo che gli uomini hanno segnato l'universo con un'ignominia definitiva.
  La protagonista del libro è una cristiana protestante tedesca, una signora cui viene imposto l'incarico, nel negozio del marito, di servire il Reich come macellaia degli ebrei, ovvero di distribuire la pochissima carne concessa il venerdì dalle carte annonarie. La signora Walker così viene a contatto, dall'esterno, non come ebrea ma come cristiana, con le persecuzioni degli ebrei. La novità illuminate del libro è forse questa: non sono gli ebrei che raccontano la loro persecuzione, ma guarda la storia, stupefatto, un occhio estraneo. Quindi qui non si vede, ma solo si intuisce, il destino di sterminio nei campi di concentramento: tutto si consuma prima nell'odio e nella crudeltà degli stolti, cuoce, si trasforma in disprezzo, in disumanizzazione, in vicende di carnefici idioti e di gente per bene, signore borghesi, rabbini, e soprattutto nella storia di una giovane donna che aspetta un bambino e che è destinata con la sua creatura non nata al macello. Il nazismo, lo si vede bene, non è nel libro imposizione dall'alto, non è ordini rauchi, disciplina militare, «questi erano gli ordini» alla Eichmann. È trasformazione in boia di centinaia di migliaia, milioni di tedeschi: è la loro vocazione umana a questo, nazisti che un tempo forse erano persone e che adesso, nella macelleria dove al venerdì sera, prima di Shabbat, gli ebrei perseguitati raccolgono il loro misero cibo, educano la loro crudeltà allo sterminio di neonati, vecchi, venerandi signori religiosi o meno, che potrebbero essere i loro maestri e i loro datori di lavoro o anche persino i loro genitori.
  Una volta mio padre Aron Alberto Nirenstein, storico della Shoah, polacco, che faceva il corrispondente per il giornale israeliano Al ha Mishmar, a una conferenza stampa di Giovanni Paolo II, letteralmente lo apostrofò nel generale imbarazzo un po' in polacco e un po' in italiano come faceva lui, senza nessuna cerimonia, con durezza e dolcezza come un uomo che le ha viste tutte, e con l'aria di chi è molto stanco gli chiese: ma come avete fatto, voi, polacchi come me, a essere testimoni e protagonisti senza reagire, di tutto quello che è successo a casa vostra, come avete sacrificato i nostri tre milioni di ebrei tormentandoli e poi incenerendoli? Il Papa non reagì affatto. So che si era pronunciato varie volte sulla questione Olocausto, e che fu lui a riconoscere Israele, finalmente. Ma mio padre aveva ragione a chiedergli in una circostanza non cerimoniale come quella e di fronte a un sopravvissuto come lui, che aveva perduto tutta la famiglia, di rispondere con un singhiozzo, un urlo, una lacrima. Di ricordare veramente, non in modo cerimoniale. È un gesto non rituale quello che può affermare che la memoria è appunto, a sua volta, riferita a un evento che non si vuole sia parte del cerimoniale. È dopo «l'episodio della carrozzina» in cui la signora Walker misura l'abisso totale, il dolore irrecuperabile in cui è caduta l'umanità, che la protagonista decide per il sacrificio del fuoco. Saranno gli ebrei a comunicarle di nuovo la necessità di vivere.
  La signora resta, nella storia, sola. Nonostante la rabbia di chi sostiene che si parla troppo di Shoah e lo si fa per compiacere gli ebrei, è vero il contrario. I sopravvissuti, in solitudine, hanno indicato l'eccesso, oltre la volontà divina, dell'accaduto, hanno visto il cespuglio che arde senza consumarsi; non c'è stato un sacrificio del fuoco, neppure concettuale, adeguato, tanto che ha potuto svilupparsi tranquillo l'antisemitismo omicida, di nuovo. Nessuno si è alzato in piedi, all'Unione europea, o all'Onu, o negli Stati Uniti, sostenendo il diritto degli ebrei e quindi di Israele a vivere senza odio e violenza da parte dell'antisemitismo islamico. Al contrario, la memoria si è talmente falsata da arrivare ad attribuire a Israele talvolta le caratteristiche degli aguzzini degli ebrei. Non basta dire che questo è disgustoso. Se si pretende di ricordare, che lo si dimostri. La prova è ancora quella del fuoco. Che qualcuno dimostri che ricorda davvero, oggi.

(il Giornale, 27 gennaio 2017)


Noi ebrei, perseguitati e senza notizie nei giorni dell'orrore

di Wanda Lattes

 
Wanda Lattes, seconda da sinistra, insieme alla sorella e a due amiche a Forte dei Marmi, in una foto dall'album di famiglia.
Nel settembre del 1938 io frequentavo il ginnasio Jacopo Sannazaro a Napoli. Non sapevo nulla di leggi razziali né di diversità fra ebrei e «ariani».
Un giorno mio papà ci telefonò a casa, dicendo di raggiungere velocemente il centro del Vomero, dove abitavamo, e lì diede a me e a mia sorella la terribile notizia: «Non potete più andare a scuola».
Noi non avevamo idea delle misure che erano state prese in Germania e in altri Paesi e così, piangendo, capimmo che era successo qualcosa di terribile.
Mio padre perdeva il suo posto di funzionario della Banca commerciale; noi dovevamo lasciare Napoli. Andammo a Roma, dove sapevamo che era nato un ginnasio-liceo ebraico. Papà trovò una casa e lì ci trasferimmo con la mamma, disperata, anche perché non poteva più avere con sé la domestica a cui era affezionatissima. Io riuscii a fare nella capitale la seconda e terza liceo in una scuola che era stata miracolosamente allestita. Il liceo ebraico era molto serio, con ottimi insegnanti; io feci tutti i corsi per raggiungere la licenza liceale. Papà era senza lavoro e cominciò a fare il rappresentante di ditte dei suoi amici che gli davano un campionario. Poi, terminato il liceo, ci trasferimmo a Firenze, dove avevamo tutti i nostri parenti.
In breve, a Firenze trovai alcuni coetanei che parlavano di politica e che si stavano organizzando in gruppi politici. Non rimasi sola per molto tempo. Io, però, ero rimasta senza una scuola, e mio padre di nuovo senza un lavoro.
A poco a poco le misure antiebraiche diventavano sempre più gravi. Cominciammo a capire che in Germania gli ebrei venivano perseguitati e io mi legai a un gruppo di ragazzi come me, cacciati dalla scuola e decisi a difendere la vita e lo studio. Non sapevamo ancora dei campi di concentramento e dello sterminio in atto. Ma eravamo all'oscuro di quanto di orribile stava succedendo non solo in Germania, ma anche in Polonia e in altri paesi più vicini al nostro, come la Francia. Noi ragazzi avevamo creato un piccolo gruppo vicino ai movimenti legati al partito comunista, che nella clandestinità erano i più organizzati.
Eravamo divisi in cellule , si partecipava alle riunioni che avvenivano nelle varie abitazioni. Discutevamo sulla persecuzione, sui ghetti che erano stati creati in tanti Paesi europei, sull'ordine di mettere sui nostri abiti una stella gialla all'altezza del petto. Mai avevamo pensato che gli ebrei fossero diversi dagli altri e che sarebbero diventati vittime di una persecuzione che non conosceva confini, dalla Germania all'Austria e alla Francia. La paura, il disgusto ci accompagnavano ormai in ogni momento.
Quando sapemmo della creazione del ghetto di Varsavia, dove morivano uomini, donne e bambini, noi, esclusi dalle scuole e da qualunque lavoro, eravamo già decisi a fare qualcosa per difenderci. Arrivava a poco a poco l'eco delle deportazioni di massa e della fondazione di quei luoghi di lavoro, come Auschwitz, che sarebbero diventati presto luoghi di tortura e di morte.
Ormai io facevo parte di un gruppo di difesa e di rivolta contro la deportazione degli ebrei. Noi Lattes avevamo lasciato la nostra casa per nasconderci in un appartamento di piazza del Carmine, dove l'anima buona del sarto Paoletti ci trovò un rifugio.
Intanto arrivavano anche a Firenze i camion, pronti a scovare gli ebrei e trasferirli nei campi realizzati dai nazisti. Cambiammo il cognome in Lattanzi e fummo accolti nell'appartamento della signora Ghirardato, che trovò posto per i miei genitori, per me e mia sorella. Il nostro rifugio in Oltrarno, senza tessere annonarie, ci appariva come il paradiso in confronto a quanto accadeva altrove, anche nella stessa Firenze e nelle altre città della Toscana. In un solo giorno a Firenze furono prelevati dalle rispettive case 311 ebrei, ma noi ci salvammo miracolosamente il giorno in cui i camion delle SS andarono davanti a ogni casa di ebrei, caricando uomini, donne e bambini. Noi non sapevamo neppure di questa orrenda svolta.
Io lavoravo oramai intensamente con la formazione partigiana, insieme a molti ragazzi della mia età, e nessuno conosceva il nostro vero nome. Le indagini per i tedeschi venivano condotte da un ufficio di fascisti e alcuni di questi direttamente parteciparono alla cattura degli ebrei, anche di quelli che si erano rifugiati nei conventi.
I tormenti di Auschwitz e degli altri campi di concentramento sono oramai ben noti. Fra i catturati c'era un ragazzo che sarebbe poi divenuto mio cognato. Era Nedo Fiano, che nelle camere a gas ha visto sparire mamma, babbo, fratello, cognato e i piccoli nipoti. A essere deportati furono anche due fratelli di mia madre, Angiolino e Gastone, di cui non avemmo mai più notizia. Amici e parenti cari ci furono strappati via in quei giorni tragici, caricati insieme a centinaia di ebrei sui treni della morte.
Ma di tutti gli orrori commessi nei campi di sterminio dai nazisti venimmo a conoscenza solo al termine della guerra. Allora tutto il mondo, insieme a noi, fu sconvolto nel profondo.

(Corriere fiorentino, 27 gennaio 2017)


'O sindaco si fa bello con la Shoah ma poi pugnala Israele alle spalle

De Magistris cambia il nome del capoluogo in «Napoli città di pace», consegna medaglie agli ex internati e dopo accusa gli ebrei di genocidio.

di Renato Farina

Oggi è la Giornata della Memoria. (Ma è anche la Festa dell'Ipocrisia). Lo sguardo è al genocidio degli ebrei che nel numero di sette milioni furono sterminati nei lager nazifascisti: la Shoah come chiodo nell'anima europea, perché nulla di simile ritorni; Shoah che è intraducibile, e neppure la parola Olocausto rende l'idea della sua unicità. (Ma è anche il giorno dell'anno in cui i politici furbi si lavano la coscienza con rievocazioni commosse di deportazioni antisemite e qualche medaglia, dopo che nei restanti 364 giorni hanno proclamato e teorizzato la dannazione perpetua di Israele, Stato ebraico).
Qui proponiamo un caso. Forse il più grosso, di certo il più grossolano.
   Napoli. Dice il programma delle manifestazioni per la Giornata della Memoria. «Ore 11.30 - Prefettura: consegna di medaglie agli ex internati nei lager nazisti con il Prefetto di Napoli Gerarda Maria Pantalone. Parteciperà il Sindaco Luigi de Magistris». Ah sì? Complimenti.
   Nei prossimi giorni in consiglio comunale si voterà una modifica allo Statuto del Comune, per cui d'ora in poi la gloriosa metropoli si chiamerà «Napoli città di pace». Una bella idea. Contraddice l'immagine di Gomorra, che secondo De Magistris è stata da lui sconfitta, ma non si tratta di questo. Napoli - secondo la mozione approvata dalla giunta e che andrà tra dieci giorni in votazione - questa definizione da auto-Nobel non è da intendersi come sana utopia, ma come una specie di premio a quanto fatto finora da De Magistris per la pace soprattutto in Medio Oriente. Dice la delibera, che è confezionata come una lapide alla futura carriera nazionale di o' Sindaco: «L'Amministrazione comunale ha sempre dimostrato grande sensibilità e vicinanza alla questione medio-orientale mirando soprattutto all'affermazione dei diritti umani ed alla pace con numerosi viaggi in Palestina ed iniziative mirate a sempre più strette relazioni istituzionali con l'Autorità nazionale palestinese, come ad esempio il conferimento della cittadinanza onoraria al presidente Abbas Abu Magenta, e con missioni di medici a Gaza per curare i sopravvissuti».
   I sopravvissuti (sottinteso, ma non troppo) al genocidio israeliano. Non è una gaffe, ma un pensiero profondo e costante di De Magistris. Il quale giunse a evocare nel maggio scorso, denunciato solo da Mara Carfagna, la «Shoah palestinese».
   Come si reagisce a un Olocausto?
   Ci affidiamo alla logica deduttiva e induttiva: per Giggino, anche se non è così scemo da dirlo, la pace è l'annientamento di Israele. I suoi atti però parlano proprio questo linguaggio. Non pensiamo all'investitura di Abu Mazen. Ci sta, anzi ci starebbe perfettamente, se però fosse stata accompagnata da una scelta analoga tra i leader israeliani. Lo proposero i consiglieri del centrodestra. La pace non si fa dialogando con uno solo, a meno che la controparte di costui sia il Male assoluto, il cancro. Questo è il problema. De Magistris ha schernito questa richiesta alla sua maniera. Con una specie di pernacchia politica, degna del sergente Amin Dada, un'indecenza al cubo. Volete uno che sta in Israele? Tiè. Vi accontento. Così il palestinese Bilal Kayed, carcerato in Israele, è diventato cittadino onorario di Napoli. Un terrorista sostenuto da Hamas. Una burla. La pace dei cimiteri. Lo hanno scritto, in una desolata lettera aperta a De Magistris, la presidente nazionale Noemi Di Segni e quella della Comunità ebraica di Napoli Lydia Schapirer. Gli chiedevano vanamente di revocare la decisione. «Il palestinese Bilal Kayed tutto è fuorché un uomo di pace. Si tratta infatti di un pericoloso estremista che ha trascorso 14 anni nelle carceri israeliane per le sue azioni violente e gode del sostegno di un' organizzazione terroristica quale è Hamas, che non esita a uccidere civili innocenti, compresi donne, anziane e bambini, pur di alimentare un conflitto permanente nella regione islamica».
   Ogni uomo di buon senso, sarebbe d'accordo con queste parole. De Magistris e i suoi no. Del resto lo fiancheggiano in consiglio comunale diversi personaggi, espressione di quei movimenti che ospitarono in testa ai loro cortei, nel famoso 6 aprile 2002 pacifista di Roma, numerosi giovani della comunità palestinese romana vestiti da kamikaze, sostenuti dal grido degli antagonisti: «Intifada come il mare, niente al mondo la può fermare».
   Niente di strano, dunque, nessuna novità in questo modo di intendere la pace. C'è anzi una coerenza sontuosa, persino artistica. Luigi De Magistris offrì con gioia la sala municipale Tommaso Campanella in piazza del Gesù nuovo alla proiezione del film Israele - Il Cancro. Il titolo è abbastanza esplicito: che si fa col cancro? La regista Samantha Comizzoli spiegò molto bene la procedura: «Mi auguro che Israele sprofondi nel nucleo della terra».
Oggi alle 11 e 30 il sindaco De Magistris appunterà la medaglia commemorativa agli ebrei scampati ai lager nazisti. Una bella medaglia all'Ipocrisia non c'è nessuno che gliela appenda al collo?

(Libero, 27 gennaio 2017)


Appelfeld: «Oggi il vero antisemitismo è l'odio per Israele»

«Faccio quanto posso per raccontare la storia del popolo ebraico, è una storia universale».

di Francesca Paci

 
Aharon Appelfeld
Aharon Appelfeld è uomo d'altri tempi. E non solo perché dopo essere sfuggito al lager quando aveva 9 anni, questo scrittore rumeno d'origine e israeliano d'adozione ha attraversato in lungo e largo il Secolo breve per vederlo cedere a un'era nuova, veloce, caotica, insofferente alla memoria. Sin da "Il mio nome è Katerina", Appelfeld scrive per ricordare la Shoah ma anche l'umanità che gli è sopravvissuta e che avanza alternando il rifiuto all'omaggio del passato. «Il futuro è un enigma, la mia memoria si declina al presente» ci dice al telefono da Gerusalemme dove ha scritto tutti i suoi romanzi. L'ultimo, "Il partigiano Edmond" (Guanda), esce in Italia in questi giorni: intenso, epico, racconta la resistenza ebraica chiedendo al lettore d'identificarvisi perché, mutatis mutandis, siamo tutti anti-eroi fino alla prova della Storia.

- Che posto ha oggi la resistenza ebraica nella letteratura della seconda guerra mondiale?
  «Ormai il mondo sa che gli ebrei non stati solo pecore mansuete nell'andare al macello e che c'è stata una resistenza nei campi. Ma la resistenza c'è stata in ogni momento. Nel ghetto si doveva far di tutto per trovare un pezzo di pane o un pomodoro, nutrire i figli, aiutarsi a vicenda. Sopravvivere è resistenza. Non ci sono solo le armi. E la lezione del ghetto, dei lager, della foresta. Oltre a battersi fisicamente i protagonisti del mio libro resistono recuperando la cultura oltre la barbarie, leggono Tolstoj, i classici russi, la letteratura ebraica, Buber, si affidano ai libri per ritrovare la vita normale fuori dalla lotteria della morte».

- I libri sono alleati delle vittime anche quando, come nel caso dei nazisti, i carnefici ne leggono?
  «I partigiani di cui scrivo sono uomini, donne, bambini, anziani, una grande famiglia in cui ci si prende cura uno dell'altro pur non avendo rapporti di sangue. Tutti hanno la loro storia. A unirli sono i libri. La loro resistenza è recuperare la parola originaria per salvarsi da quella distorta del nazismo che descriveva concetti come "la soluzione finale". Devono ripartire dal linguaggio per sopravvivere e ritrovano l'identità ebraica. Gli ebrei erano integrati alla cultura tedesca, la mia città natale, Czernowitz, aveva un'importante università e produceva filosofia, musica, letteratura. Poi di colpo quella cultura ha gettato la maschera e c'era la barbarie».

- Nel romanzo il comandante Kamil dice che non si batte un nemico risoluto come il nazismo senza amare la propria tribù. I suoi compagni comunisti pensano l'opposto. Chi ha ragione?
  «Kamil dice il vero. Il gruppo che racconto è composto da intellettuali che erano assimilati alla cultura natia. Pensavano di essere europei e sono stati uccisi. Con la normalità hanno perduto le loro origini, la letteratura e la musica tedesca, la cultura che credevano la migliore del mondo. Non furono solo colti di sorpresa, fu uno shock. L'identità ebraica è quanto resta loro quando non c'è più nulla. E ci resta con molti problemi, anche psicologici, perché a forza di sentirsi dire che la tua identità è sbagliata si finisce per crederci, è un processo di auto-odio».

- L'identità come ultima trincea: è così ancora oggi che c'è Israele?
  «Gli ebrei sono per natura ipercritici. Può essere anche una forza ma in Europa è stato la nostra debolezza. Il Talmud e gli altri testi dell'ebraismo sono libri critici perché cercano la verità e producono liberi pensatori allergici al dogmatismo. Israele è frutto di questa esperienza. Certo, tra i politici ci sono i dogmatici, ma la società è composta da liberi pensatori, tutti si esprimono come vogliono, anche in modo molto volgare. Ci sono dei laici che sono super tradizionalisti e dei religiosi caratterizzati da una grande apertura mentale».

- È vero che c'è una nuova ondata di antisemitismo in Europa?
  «Non ci sono più ebrei in Europa, saranno ormai l'un per cento della popolazione. Prima della seconda guerra mondiale erano 30 milioni. Dove sono oggi? L'antisemitismo è anacronistico, odia qualcosa che non c'è più. Esiste ancora, certo, ma gli ebrei spariranno presto dall'Europa. Oggi l'antisemitismo si chiama "politica israeliana", ha un oggetto diverso da quello classico. Ma quando vedi che Israele ha tutti i paesi contro, beh è una forma di moderno antisemitismo».

- Cosa resterà della memoria quando l'ultimo testimone della Shoah sarà morto?
  «La nostra memoria è forte. Ricevo ogni giorno lettere da parte di lettori israeliani e stranieri. C'è chi mi scrive che i suoi genitori sopravvissuti all'Olocausto non hanno mai raccontato nulla e che ha trovato nei miei libri dei nuovi genitori. È commovente. Assegna ai libri un ruolo eterno. Non so cosa accadrà in futuro, non ci penso. Faccio quanto posso per raccontare la storia del popolo ebraico nella sua complessità e lo farò fino all'ultimo, è una storia universale».

- Nel libro l'Armata Rossa rinvia il suo arrivo all'infinito come il Godot di Beckett? Una metafora?
  «La lezione che gli ebrei hanno tratto dall'Olocausto e dagli anni successivi è non fidarsi della gente, degli eserciti, delle ideologie. Il problema della mia generazione è stato fare a meno dell'espressione "Sono certo di". Abbiamo imparato a essere sospettosi».

- Come vede il futuro politico di Israele?
  «Tutti i pensatori aperti e liberali sono per la pace. Io vorrei fare pace con la regione. Ma il mondo arabo e musulmano sta attraversando un terribile processo di guerra intestina, si ammazzano tra loro, arabi contro arabi. Israele in confronto vive un periodo meno critico, ci sono terroristi ma non c'è la guerra come in Siria, Sudan, Yemen. Se poi vogliamo parlare della pace con i palestinesi allora abbandoniamo i summit farsa come quelli di Parigi, con tutti i paesi arabi che invece di parlare dei loro guai parlano di israeliani e palestinesi, entrambi assenti».

- Qualcuno crede che con Simon Peres sia stato sepolto Oslo. Lei?
  «Oggi è così ma può cambiare in un attimo. Basterebbe che i leader dei due popoli si sedessero insieme pronti a fare entrambi veri compromessi e la gente li seguirebbe. Peres era un grande. Dobbiamo continuare a cercare il dialogo».

(Il Secolo XIX, 27 gennaio 2017)


«Vite contro diamanti». Aurelio che giocava a biliardo con i tedeschi e salvava un ebreo a sera

di Elisabetta Rosaspina

Nessuno saprà mai di chi fu l'idea della posta: dell'alto ufficiale tedesco o di «Don Aurelio», il misantropo possidente abruzzese che era stato costretto a ospitare in casa sua il Comando interzona della Wermacht? Nessuno potrà più raccontare chi fu a proporre di giocarsi a biliardo gli ebrei rastrellati: la salvezza di un prigioniero contro un diamante. Sembra che vinse sempre il migliore, colui che era pronto a rischiare le sue ricchezze per sottrarre un essere umano alla deportazione. Ma i protagonisti di quelle disfide notturne nel circolo cittadino di Atri, in provincia di Teramo, non ci sono più e anche l'unico testimone delle partite, il custode del circolo, se n'è andato da molto tempo. Non prima, però, di aver svelato il suo segreto al figlio di «Don Aurelio», Arnaldo Grue, che lo ha affidato, sotto forma di memoriale, all'Archivio Diaristico Nazionale fondato da Saverio Tutino a Pieve Santo Stefano (Arezzo).
«Non è facile scovare storie inedite sulla persecuzione degli ebrei in Italia - racconta la direttrice dell'Archivio, Natalia Cangi-, ma abbiamo scelto di rendere pubblica questa, in omaggio al Giorno della Memoria». Arnaldo Grue, l'autore, va per i 78 anni, vive a Roma, dove ha concluso la sua carriera di direttore scientifico in una casa farmaceutica; e ancora si commuove raccontando di come, alla fine degli anni 70, una decina dopo la morte del padre, durante una vacanza ad Atri, fu apostrofato per strada dall'ex custode del circolo: «Sei il figlio di Don Aurelio, vero? Vieni, c'è qualcosa che devi sapere. Sedemmo sui gradini della chiesa di San Francesco e lui iniziò: il circolo era stato requisito dai tedeschi, per i loro svaghi, ma ogni notte, dopo la chiusura, tuo padre li sfidava a boccette e io, che parlavo un po' di tedesco, segnavo i punti. Si giocavano un ebreo a partita: se vinceva tuo padre, lo portava via lui, altrimenti rimaneva ai tedeschi. La contropartita? Un diamante a partita. Metteva in palio due orecchini con diamanti azzurri grossi come ceci».
Quei gioielli non furono mai conquistati: Arnaldo Grue ricordava di averli visti in casa, nel dopoguerra. E, d'un tratto, si rammentò anche che da bambino spiava uno strano movimento di gente sconosciuta, lacera e sporca, attraverso la porta di servizio. Erano loro, finalmente liberi, il «piatto» vinto da Don Aurelio?

(Corriere della Sera, 27 gennaio 2017)


«... ma fra breve Israele come nazione sarà salvato»
    «Io non mi glorio perché nacqui Ebreo, ma ne ringrazio Iddio, e che per la sua grazia ho creduto nel suo Figliuolo come mio Salvatore, il Quale nacque Ebreo e che amava gli Ebrei molto più che non poteva Mosè. Gli apostoli di Cristo erano Ebrei, e quello che fecero facciamo anche noi: testimoniare con verità e carità ad Israele intorno a CRISTO, non sistemi religiosi.
    Fra breve la preghiera di Israele sarà esaudita ed adempiuta: "Iddio abbia mercè di noi e ci benedica: Iddio faccia risplendere il suo volto verso di noi (Sela). Acciocché la Tua VIA si conosca in TERRA, e la Tua SALUTE fra tutte le GENTI".
    Allora Israele sarà IL GRANDE POPOLO MISSIONARIO DI DIO AI PAGANI. Nessun popolo della terra è così adatto e capace di evangelizzare il mondo come il popolo d'Israele. Esso può apprendere facilmente le lingue ed i loro dialetti e climatizzarsi ovunque.
    In questo giorno della Grazia i Giudei che individualmente credono in Cristo vengono uniti alla Chiesa, ma fra breve ISRAELE COME NAZIONE sarà salvato.
    "In quei tempi avverrà che dieci uomini di tutte le lingue delle genti prenderanno un uomo giudeo per il lembo della sua vesta, dicendo: noi andremo con voi, perciocché abbiamo udito che Iddio è con voi" (Zaccaria IX, 23).»
    ("Il Cristiano", settembre 1898)
Queste parole sono state scritte da un ebreo che ha un nome ebreo che più ebreo non si può: Israel Isaia Aschkenasi. Sono state pubblicate la prima volta nel settembre 1898, in un articolo di un mensile diffuso nel movimento di chiese evangeliche a cui anche la redazione di questo sito appartiene. Sono state riportate nell'ultima edizione di gennaio 2017, 130o anno dalla fondazione del periodico. Per celebrare in qualche modo la fedeltà di Dio in questi 130 anni di pubblicazione, la redazione del giornale ha pensato di
 
"riesumare" qualche articolo di numeri del passato e ha scelto di cominciare con alcuni scritti di questo Aschkenasi. Dal numero di agosto 1896 sono state tratte notizie su questo autore:
    UNGHERIA - Il nostro fratello, Israel Aschkenasi (convertito dal Giudaismo a Cristo) scrive: «È il mio privilegio essere nell'Europa orientale, fra i miei fratelli secondo la carne, i quali hanno poche opportunità di sentire il Vangelo. Molti di essi non hanno mai veduto il Nuovo Testamento. Gli Ebrei nell'Austria soffrono molto adesso per il movimento antisemitico, il quale è sparso fra tutte le classi; e questo fa loro vedere che, malgrado sieno abitanti di ogni paese della terra, sono ancora forestieri per tutto.
    «Benchè si trovino sparsi in questa condizione vi è fra gli Ebrei una stupenda unità fra loro. Sanno che debbono diventare ancora una grande nazione, e stanno guardando con ansietà a Gerusalemme. Così trovo occasione di far loro conoscere come questa loro speranza verrà adempiuta.»
    ("Il Cristiano", agosto 1896)  
E tutto questo è stato scritto un anno prima che Theodor Herzl presiedesse il Primo Congresso sionistico a Basilea. Gli articoli di Aschkenasi compaiono sulle pagine del periodico da giugno a settembre 1898 e sono un commento al capitolo 37 del profeta Ezechiele, in cui si parla della campagna piena di osse secche. Ne riportiamo uno stralcio tratto dall'articolo di giugno 1898:
    ISRAELE! Questo popolo è rimasto una nazione anche benché disperso, perseguitato, esiliato fra i Gentili. Depredato, saccheggiato, esso ritorna prospero, ricco. Quando esso gode una libertà anche ristretta, i suoi figli si trovano nei primi gradi di qualunque sfera intellettuale. Ne abbiamo un esempio nella storia della Spagna. Nella lista degli autori ebrei spagnuoli troviamo 561 che scrissero sulla filologia, 20 sull'astronomia, 67 commentatori, 84 scrissero sulla filosofia, 52 sulla grammatica, 36 sulla medicina, 18 sulla storia, 52 sulla legge, 18 sulle matematiche, 57 furono poeti, 8 scrissero sulla rettorica, 68 sul Talmud, 19 sulla teologia, e 73 tradussero opere di grande valore.
    Ma è nella Scrittura che troviamo la vera spiegazione della storia meravigliosa d'Israele. La sopraccitata metafora profetica di Ezechiele rappresentante Israele, è uno dei più tristi quadri che troviamo nella Parola di Dio. Di questo popolo Egli aveva detto: "Israele è mio figliuolo, il mio primogenito" (Esodo IV, 22). In mezzo d'Israele la gloria del Signore splendeva quale manifestazione della sua presenza e apparizione. L'apostolo Paolo scrisse ai cristiani di Roma: "I quali sono Israeliti, dei quali è l'addotazìone, e la gloria, e i patti, e la costituzione della legge, e il servigio divino, e le promesse, dei quali sono i padri, e dei quali è uscito secondo la carne il Cristo, il Quale è sopra tutto, Iddio, benedetto in eterno, Amen! (Epistola ai Romani IX, 4).
    ("Il Cristiano", giugno 1898)
E un altro stralcio dal numero di agosto 1898:
    Napoleone l nel 1806 radunò un'assemblea di 100 dei principali Ebrei. Fra le domande che fece loro vi fu questa, se volevano tornare in Palestina. Risposero: "La nostra Gerusalemme è Parigi, e la nostra Palestina è la Francia".
    Così molti Ebrei moderni cominciarono a stabilirsi e godere la loro libertà civile, dimenticando Iddio e i suoi propositi, profezie e promesse. Avvenne così anche nella cattività della Babilonia. I soli fedeli e poveri captivi piangevano, ricordandosi di Sion, con le loro cetere appese ai salci.
    La rivoluzione francese portò un grande cambiamento nell'emancipazione dei Giudei, e il 1848 resterà sempre una data storica nella loro liberazione. Ma mentre i governi li hanno tollerati, i popoli stessi, fra i quali gli Ebrei hanno dimorato, hanno spesso mostrato loro l'intolleranza e l'odio. Ciò si è manifestato recentemente nel movimento antisemitico.
    Venti anni fa, quando fui convertito a Cristo nella Russia, dissi ai miei fratelli secondo la carne che le loro sofferenze provavano la verità delle Scritture. Essi mi risposero che quelle persecuzioni sarebbero presto terminate, e diverrebbero ricordi dei secoli tenebrosi. Ma io feci loro ricordare che la Parola di Dio non può passare e che essi non saranno mai veramente liberi fintanto che non avranno riguardato a Colui che hanno trafitto; e ne faranno cordoglio, simile al cordoglio che si fa per il figliuolo unico, e ne saranno in amaritudine, come per un primogenito (Zaccaria XII, 10).
    ("Il Cristiano", agosto 1898)
Forse verrà il tempo in cui si prenderà atto che, accanto al movimento sionistico laico, si è sviluppato tra gli ebrei, più o meno nello stesso periodo e negli stessi territori dell’Europa orientale, un movimento “messianico” che ha scoperto il Nuovo Testamento come patrimonio del popolo ebraico e Gesù come Messia d’Israele. Si tratta di storia, non di favole. M.C.

(Notizie su Israele, 27 gennaio 2017)


Giorno della Memoria, la lettera ideale di due testimoni

Riportiamo questo articolo, pubblicato oggi sul quotidiano VicenzaPiù. Non l’abbiamo trovato in rete, ci è stato segnalato personalmente dall’autrice, Paola Farina. Pensiamo sia giusto riportarlo così com’è, senza tagli o commenti. NsI

di Paola Farina

Siamo David Levin e Sarah Coen, due ventenni ebrei, polacchi, perseguitati e assassinati durante la Seconda Guerra Mondiale, morti di stenti e sofferenze nei Campi di Sterminio. Dopo la nostra morte, pensavamo che i nostri parenti potessero cercarci, almeno per dedicarci una lapide, purtroppo non ci hanno cercato perché tutte le nostre famiglie sono state sterminate, di noi non è rimasto un superstite, l'unica traccia si trova allo Yad Vashem. Prima della guerra stavamo bene, in pochi attimi abbiamo perso casa, amici, parenti, abitudini, colleghi di lavoro, desideri di evasione, religione.
   Io, Sarah sono stata rinchiusa a Treblinka, io David a Dachau. Almeno ci avessero regalato la gioia di morire mano nella mano. Vi scriviamo dall'aldilà perché siamo stanchi di vederci violentati ancora una volta, le nostre gambe e le nostre braccia sono pesi morti, quel piccolo muscolo grande come il palmo di una mano che si chiama cuore non pulsa più, la nostra pancia non ci fa più male, la nostra schiena è piegata dalle frustate, il nostro viso è tumefatto, le nostre dita non possono più disegnare cerchi nell'aria, non respiriamo più perché siamo morti. La nostra anima è viva e dall'aldilà vogliamo dirvi che una volta ci faceva piacere essere ricordati, ma da alcuni anni ci stiamo incazzando. Dall'inizio delle leggi razziali e fino ad aprile del 1945 siamo rimasti isolati dal mondo intero, Croce rossa e Vaticano sapevano ma ci hanno lasciato morire, ora veniamo a sapere che mille sigle politicizzate ci ricordano, ma non muovono mai una foglia per dare una mano agli ebrei vivi. Nei campi di sterminio, c'erano Zingari senza distinzione di etnia, Ebrei, Testimoni di Geova, Obiettori politici, Asociali, Disabili, Gay, pochissimi musulmani per via di quel figlio di buona donna di nome Muhammad Amīn al-Ḥusaynī, zio di Arafat che nel 1943 reclutò musulmani bosniaci, incorporandoli nella 13a Divisione Handschar prima e poi nella sub divisione Hanjar (in turco significa scimitarra), a partire dal 1944 sterminò il 90% degli Ebrei in Bosnia. Noi, che vi stiamo parlando dal cielo, siamo poco tolleranti alle sigle e alle bandiere che fanno finta di onorarci, in modo particolare a quella palestinese, non per razzismo, ma per coerenza con quanto avvenuto, bandiera spesso presente nelle vostre piazze e fuori posto più di tutte le altre. Cari falsi sostenitori voi non eravate nei campi di sterminio con noi a mangiare cacca e pane, a subire esperimenti, violenze e umiliazioni, a lavorare fino alla morte. Volete insegnare la memoria e non siete nemmeno capaci, chiamate Olocausto la storia perché così una volta qualcuno ha deciso, ma olocausto è un brutto termine, anche tra di noi lo si usa ed abusa, nessuno ha voluto andare a fondo nel suo significato, poi i media hanno trasformato l'olocausto in Shoà, anche questo termine è impreciso, trae la sua derivazione dalla lingua ebraica , HaShoah, che significa catastrofe, distruzione. Traendo origini dall'ebraico riguarderebbe solo gli ebrei, ma il termine più giusto è Memoria. Sara ed io abbiamo deciso, di comune accordo, che vogliamo rimanere fuori da questa Memoria, che ci onora solo il 27 gennaio e ci offende e umilia tutti gli altri giorni dell'anno. Anche la nostra amica Paola sbaglia, perché accosta il termine Shoà alla disperazione degli iazidi e dei cristiani, ma bisognerebbe trovare un nuovo nome, pur condividendo le atrocità verso il popolo iazida e la discriminazione dei cristiani d'oriente, non ci sta bene che venga usato il nostro, non è una questione di nome o di polemica, ma una realtà storica diversa e non assimilabile, per impostazione e ideologia con quella da noi subita: la accomuna una sola cosa, in altre parole sta accadendo, di nuovo, sotto gli occhi ciechi di tutto il mondo, compreso quello politico. L'emigrazione: una nuova shoà, no, non perché nei migranti non ci sia una sofferenza, perché la loro è una libera scelta, a volte giustificata, molte altre no, la nostra è stata una imposizione da un tale Adolfo ed appoggiata dai collaborazionisti, vuoi che fossero francesi o italiani o che altro. Noi vi chiediamo nel nome delle nostre sofferenze, delle sevizie che abbiamo subito di dimenticarci per tutto l'anno, perché non sappiamo che farcene di una memoria strumentalizzata a fini politici e personali, non sappiamo che farcene degli alberi che piantate in nostro onore, in un parco senza sorveglianza… E poi, per favore, siate dignitosi e smettetela di farvi i selfies davanti ai posti dove ci hanno massacrato. Guardate qua i vostri capolavori, ma dove credete di essere, ignoranti, a Gardaland? Noi, i nostri cari, ebrei e non, quelli che ci conoscono e ci amano per tutto l'anno, delle vostre ventiquattro ore di affetto-effetto strumentalizzato ce ne infischiamo. So che alcuni miei amici Simona, Flaminia, Vivienne, Cely, George, Sergey non saranno d'accordo con me, ma so anche che Dov, Denise, Gadi, Celeste, Abramo, Benjamin saranno d'accordo con me, perché noi siamo prima di tutto una grande famiglia, con mille sfaccettature, mille opinioni, caciaroni o riservati. Qualunque sia il percorso che voi decidiate di fare contro di noi, sarà un fallimento, per quanto voi cerchiate di dividerci, non ci riuscirete mai, perché noi, anche nel dissenso cerchiamo sempre un punto di coesione. Sì, è vero, qualcuno di noi sta con voi, ma noi ve li regaliamo perché stiamo bene anche senza Gad e senza Moni… Avete inutilmente cercato di annientarci da sempre, ma non riuscirete mai a rubarci i colori, i sogni, l'amore, i nostri profumi, la forza dei nostri dolori, la nostra ottusità e la nostra trasgressione, la nostra voglia di vivere e di ricostruire: ci disprezzate per colpa della vostra ignoranza, non avete mai voluto conoscerci. Non potete addebitarci la colpa del vostro non voler guardare dentro la nostra anima. Grazie, per averci letto e noi ora ritorniamo in cielo a giocare con gli Angeli.

(VicenzaPiù, 26 gennaio 2017)


Giù le mani da Trump: l'ambasciata Usa dev'essere a Gerusalemme

Quella, e non Tel Aviv, è la capitale di Israele. Non è questione di interpretazioni, la storia lo certifica. Riparare all'ipocrisia delle diplomazie occidentali è un obbligo.

di Carlo Panella

La capitale di Israele è Gerusalemme. Punto. È un dato di fatto non discutibile, non contestabile, da 2.500 anni. E le ambasciate devono stare nelle capitali. Quindi, Donald Trump fa benissimo a chiudere con 60 anni di ipocrisia e a spostare l'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme. Naturalmente, però, a Gerusalemme Ovest, dal 1948 territorio di Israele, là dove hanno già sede il consolato e altre sedi diplomatiche americane. Non a Est, che ha lo status di "Territorio Occupato".

 L'ignavia degli alleati
  Il mancato riconoscimento internazionale dello status di capitale di Israele a Gerusalemme è infatti l'emblema dell'ignavia e della doppiezza anche degli alleati storici di Israele, nel nome di una realpolitik che ha ben poco a che fare con le ragioni del diritto internazionale e tutto a che fare con la politica petrolifera e le (fino a due anni fa) indispensabili forniture di petrolio dai Paesi arabi. La vicenda, in punto di storia e di diritto internazionale, è questa: nella risoluzione 187 del novembre del 1947 che stabilì la bipartizione del mandato britannico sulla Palestina in uno Stato ebraico e uno Stato arabo, lo status di Gerusalemme venne definito "sotto sovranità internazionale", sottratta dunque agli uni come agli altri.

 Il nodo dello status di Gerusalemme
  Ma quella risoluzione non venne accettata da tutti i Paesi Islamici e arabi che si posero l'obiettivo immediato di "distruggere l'entità sionista". Questo elemento di diritto è fondamentale, perché anche lo status di Gerusalemme venne confutato dalla parte arabo-islamica, assieme a tutto il dispositivo della risoluzione 187.
  Come si sa, la guerra che i sovrastanti Paesi della Lega Araba scatenarono contro l'appena fondata nazione di Israele si concluse disastrosamente, a tutto vantaggio dello Stato ebraico che occupò manu militari più del doppio del territorio che la risoluzione 187 gli assegnava. Anche Gerusalemme Ovest. Subito dopo, l'assemblea dei notabili della Cisgiordania stabilì la sua annessione allo Stato della Giordania. Su Gerusalemme Est, dunque, sino al 1967 si esercitò di fatto e di diritto la sovranità giordana. Un esercizio arabo di sovranità in pieno spregio della "internazionalizzazione" di Gerusalemme, che tra l'altro impose scandalosamente il totale divieto agli ebrei di avvicinarsi al Muro del Pianto e la loro espulsione forzata e violenta dal millenario "quartiere ebraico" a ridosso del Muro.

 La debacle araba
  Con la guerra del 67, anch'essa scatenata per "distruggere Israele", la terza (c'era stata anche la guerra del 56, sul Canale di Suez) clamorosa e disastrosa sconfitta degli eserciti arabi permise a Israele di prendere il controllo del Muro del Pianto e della Spianata delle Moschee, di Gerusalemme Est, abitata da arabi, e di tutta la Cisgiordania e Gaza. Subito Israele riconobbe alla Giordania il diritto di gestire in modo esclusivo la "spianata delle Moschee" e, agendo all'opposto di quanto avevano fatto i giordani, vietò agli ebrei di recarvisi a pregare. Si noti bene: nel 1948 il governo israeliano chiese a più riprese ai Paesi arabi vicini (Libano, Siria, Giordania ed Egitto) di riconoscere come confini di Stato la cosiddetta "Linea Verde", la linea armistiziale che certificava con la firma reciproca del cessate il fuoco i territori occupati.

 I confini del 67 non esistono
  Dunque - fatto fondamentale in termini di diritto - non esistono affatto i "confini fino al 67" e questo unicamente per responsabilità araba. Esiste una linea di cessate il fuoco, che da un punto di vista del diritto internazionale non significa assolutamente nulla, non implica il principio di sovranità sul territorio. La richiesta a Israele di tornare ai confini del 67 sul piano legale non ha senso. Lo ha sul piano politico, ovviamente, ma con elasticità, con scambio concordato di territori, esattamente come è avvenuto tra Israele e Giordania dopo la firma degli accordi di Oslo del 1993. Scambi che si possono replicare in punta di diritto, che erano previsti dall'offerta della restituzione ai palestinesi della sovranità piena sul del 95% della Cisgiordania, fatta da Ehud Barak nei colloqui di Camp David e poi di Taba del 2000-01.

(Lettera43, 26 gennaio 2017)


Roma - «La razza nemica»: una mostra sulla propaganda antisemita

Il percorso espositivo, a cura di Marcello Pezzetti e Sara Berger, raccoglie numerosi materiali che testimoniano anni di lavaggio del cervello e coltivazione sistematica dell'odio. L'auspicio: «Sarebbe bello se papa Francesco venisse a visitarla»

di Gian Guido Vecchi

 
La testa di un “ebreo” usata come bersaglio da colpire con la palla in un luna-park.
Collezione Wolfgang Haney, Berlino
L'immagine della barca che beccheggia sovraccarica nel Mediterraneo è in bianco e nero, gli esseri umani che la colmano hanno un aspetto da europei. Per il resto si vedono gli stessi visi sfiniti, vestiti stazzonati, sguardi stravolti verso l'obiettivo, gambe che penzolano dalle murate, un ragazzo di schiena guarda l'acqua seduto sul bompresso. «Fa impressione, eh? È uguale a oggi. Sono ebrei costretti a fuggire dall'Europa che prendono il mare verso Haifa. Questa foto la mettiamo alla fine: quando oggi vediamo i barconi, non dimentichiamo chi ci è già stato, e ciò che gli è successo». Largo 16 ottobre 1943, il luogo della razzia nazista del ghetto di Roma. Nella Casina dei Vallati, affidata alla Fondazione Museo della Shoah, lo storico Marcello Pezzetti sta finendo di allestire la mostra su «La razza nemica», curata assieme a Sara Berger e dedicata alla propaganda antisemita nella Germania nazista e nell'Italia fascista.

 «Guai a far passare messaggi disumani»
  Si inaugura giovedì, alla vigilia della giornata della Memoria: alle pareti e sugli scaffali si susseguono riviste come Stürmer o La difesa della razza, libri, sussidiari e giornali per bambini, vignette, oggetti, film, perfino cartoni animati mai visti prima. Anni di lavaggio del cervello e di coltivazione sistematica dell'odio - e basterebbero la tecnica subliminale dei cartoni animati o la caricatura abietta dei bimbi ebrei cacciati da scuola mentre i coetanei «ariani» esultano - che hanno molto da dirci, oggi. «Abbiamo voluto questa mostra perché l'antisemitismo non è morto, anzi ritorna. E perché, se consideriamo la vicenda dei migranti, siamo in una fase della storia dell'Europa che ha molte affinità con i giorni che prepararono lo sterminio», si guarda intorno Pezzetti, tra i massimi studiosi della Shoah. «Motivi simili applicati ad altri. Piccole cose sempre più feroci. La riduzione a stereotipo di persone e situazioni, ad esempio: ci portano il lavoro, insidiano le donne, la criminalità, la religione. Alcuni dei cliché propagandistici sono gli stessi. Ecco: vogliamo far capire che se tu lasci passare dei messaggi che sono disumani, anche se all'inizio non sembrano così gravi, l'apertura alle conseguenze è quasi inevitabile. L'esclusione attraverso il marchio, come la stella gialla. I ghetti. E infine l'eliminazione».

 La rappresentazione grottesca
  All'inizio c'è la trasformazione del tradizionale odio antigiudaico, religioso, con relative accuse di deicidio e infanticidi rituali, in «una nuova forma di avversione, più profonda e complessa», l'antisemitismo. Si sviluppano le teorie pseudoscientifiche, la costruzione della «razza», con relativi stereotipi mostruosi del «tipico ebreo». Testi e foto che mettono a confronto i profili della «gioventù ariana e quelli della gioventù giudaica». L'ebreo dai tratti grotteschi, col naso ricurvo, viene raffigurato in oggetti di vita quotidiana prodotti già prima dell'avvento del nazismo: una «testa di ebreo» usata come bersaglio al luna park, boccali di birra, uno schiaccianoci con un enorme naso come leva, fiammiferi, cartoline. Tutti motivi che verranno ripresi in Italia dopo le leggi razziali del '38, talvolta in forma perfino più virulenta: la rivista milanese Libro e Moschetto, nel 1940, pubblica la vignetta d'un barattolo con un «Fetus Iudeum» in formaldeide, «come ci ricorderemo degli ebrei nel 2000», come un'anticipazione della Shoah: «Facsimile di una brutta razza vissuta fino al 1940 e sterminata poi da uomini di genio». Intanto un rivista come il famigerato Der Stürmer martella dagli anni Venti sugli altri temi costruiti per fomentare l'odio: il «complotto giudaico» fondato sui falsi Protocolli dei Savi di Sion, gli ebrei dietro la finanza e il bolscevismo.

 «La Chiesa cattolica lavori in comune con il mondo ebraico»
  La mostra attinge alle raccolte della Fondazione Museo della Shoah, del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e del collezionista berlinese Wolfgang Haney. Video proiettano rarissimi cartoni animati antisemiti e due film tragicamente famosi: Süss l'ebreo, Jud Süss, 1940; e Der ewige Jude, «L' eterno giudeo», 1941. Si vedono cose sconcertanti, come il «necrologio» che padre Agostino Gemelli, fondatore dell'Università Cattolica, fece pubblicare su Vita e pensiero nell'agosto 1924 per la morte di un grande studioso come Felice Momigliano: «Ma se insieme con il Positivismo, il Socialismo, il Libero Pensiero, e con il Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l'opera dei Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio? Sarebbe una liberazione, ancora più completa se, prima di morire, pentiti, chiedessero l'acqua del Battesimo». Eppure, tra gli altri, c'è un altro aspetto interessante. Su Der Stürmer, nel 1936, la caricatura di un uomo e una donna ebrei raffigurati in modo grottesco viene affiancata al disegno di un prete e una suora: gli uni e gli altri, ebrei e Chiesa, sono «dem Volke Verloren», persi per la comunità del popolo, estranei. Il settimanale Avanguardia, «della legione SS italiana», denuncia il 12 agosto '44: «Giudei nei conventi di Milano. Come avveniva il passaggio clandestino degli ebrei in Svizzera». Marcello Pezzetti spiega: «In questa propaganda è spesso presente anche un elemento anticristiano. Sarebbe bello che Papa Francesco potesse visitare la mostra. Il senso è anche un invito alla Chiesa cattolica a fare un lavoro comune con il mondo ebraico. Allora non fu sufficiente. Questa volta sappiamo come andò allora e non dobbiamo perdere tempo».

(Corriere della Sera, 26 gennaio 2017)


Adel, il comico di Gaza arrestato per il suo video: «Hamas non sa ridere»

Su Youtube la satira sull'elettricità che manca. E arrivano i poliziotti nuova gestione widget

di Davide Frattini

 
Adel Meshoukhi
Racconta che da ragazzino entrava nei negozi, indossava i vestiti che non poteva permettersi, si guardava allo specchio prima di toglierseli per riportare a casa il ricordo di quei dieci minuti alla moda. Ad Adel Meshoukhi il detto «ridere per non piangere» si adatta come i jeans provati nelle sue sfilate malinconiche, è uno dei comici più popolari perché quanto lui i palestinesi di Gaza sono ormai rassegnati a sogghignare delle loro miserie.
   Raccontano che sono venuti a prenderlo poche ore dopo il video pubblicato su Youtube, che i poliziotti si sono pressati dentro al vicolo come un tappo di divise per non lasciarlo parlare con i fratelli o i vicini di casa. «Se l'aspettava» dice Iyad Odeh, suo compagno di scuola alle elementari. Quel filmato in cui per un minuto e mezzo urla a squarciagola «elettricità, elettricità, elettricità...» per finire «basta con Hamas» è stato visto in poco tempo da 150 mila persone, troppe per i fondamentalisti che spadroneggiano nella Striscia. Troppe e su una questione troppo sensibile: per mesi il gruppo al potere ha garantito solo tre ore di energia al giorno per i 2 milioni di abitanti ammassati tra Israele e il Mediterraneo.
   Adel è rimasto in carcere dall'11 gennaio fino a ieri, ogni giorno la madre si è presentata alla prigione di Ansar per chiedere che venisse rilasciato. «Aveva paura delle botte, di venire picchiato durante l'interrogatorio» spiega il fratello Ismail, undici in famiglia, il padre è morto due anni fa. «Non sopporta la violenza, era entrato nella polizia e dopo qualche mese si è sparato a un piede, forse per sbaglio, più probabile per essere congedato». Il comico è tornato e con lui qualche ora di elettricità in più, adesso sono otto, mai di fila. «Non è abbastanza», si lamenta Iyad che possiede un piccolo negozio. «Quando il frigorifero non funziona, devo buttare la merce». I clienti sono comunque pochi, Shabura - dov'è cresciuto con Adel - è uno dei quartieri più poveri di Rafah, cubi di cemento lanciati come un tiro di dadi sfortunato sulla sabbia del deserto al confine con l'Egitto.
   Di Che Guevara, così gli piace farsi chiamare, ha la barbetta scura e un berretto quasi rivoluzionario. Ne imita anche lo sguardo di sfida mentre tira fuori dalla tasca i quattro mandati d'arresto che i servizi di sicurezza hanno lasciato a casa sua, assieme al messaggio scandito al padre: «Tuo figlio lo ammazziamo». Negli stessi giorni in cui Adel girava con un telefonino il suo video, Mohammed Al Teluli era impegnato a organizzare quella che è diventata la più grande manifestazione anti-Hamas da quando l'organizzazione nel 2007 ha strappato il controllo di Gaza all'Autorità palestinese.
   Oltre cinquantamila persone hanno formato un corteo che dal campo rifugiati di Jabalia, dove trent'anni fa è scoppiata la prima intifada contro gli israeliani, ha marciato verso gli uffici dell'azienda elettrica. «Non ci siamo arrivati, i miliziani hanno cominciato a tirare pietre contro di noi e a caricarci con i bastoni». Gli arrestati sono stati duecento ormai quasi tutti liberati.
   Quello che preoccupa i capi di Hamas e i Paesi che li sostengono come il Qatar o la Turchia è quanto le proteste ricalchino i primi giorni delle rivolte arabe di sei anni fa. Mohammed, 25 anni e laureato in comunicazione, ha diffuso gli appelli via Facebook («per far funzionare il wi-fi basta la batteria di un'auto») ed è sui social media che i palestinesi riversano il sarcasmo della disperazione. Mia moglie: «Quando torna l'elettricità?». Io: «Che cos'è?», scrive Musab Abu Toha. Oppure Gada Al Haddad: «Quali sono gli sforzi che i nostri governanti stanno compiendo per risolvere la crisi? Organizzarsi il prossimo banchetto».
   E' anche la prima volta in cui il «nemico» Israele sembra restare fuori dalla rabbia e dai discorsi. I leader fondamentalisti sostengono che la colpa delle carenze di energia sia dell'embargo imposto dagli israeliani, che comunque forniscono il 26% del fabbisogno. Mahmoud Al-Zaq, politico indipendente, ha fatto invece i conti nelle casse di Hamas e sostiene che la crisi energetica sia pilotata dall'organizzazione. «E' una strategia per premere sui Paesi donatori. Dopo le manifestazioni il Qatar ha subito sborsato 12 milioni di dollari, che però non verranno usati per l'elettricità». Elenca: «Hamas raccoglie ogni mese 28 milioni di shekel (quasi 7 milioni di euro) in bollette dalla povera gente e anche questi soldi non sono investiti nella centrale: basterebbero a far funzionare i due generatori fermi, sono stati riparati dopo essere stati distrutti dai bombardamenti israeliani. Un ministero potente come quello degli Affari religiosi, che gestisce 2.000 moschee, non sborsa nulla. Noi dobbiamo pagare la bolletta, cifra fissa anche quando restiamo al buio e al freddo».

(Corriere della Sera, 25 gennaio 2017)



Parashà della settimana: Va-erà (Apparve)

Esodo 6:2-9:35

 - La parashà Va-erà (apparve) inizia con la rivelazione a Moshè sul Nome di D-o. "I-o sono il Signore che apparve ad Abramo, Isacco e Giacobbe come El Shaddaj". Nel libro di Bereshit D-o era noto ai patriarchi con questo Nome con cui creò la natura e istituì delle regole etiche da osservare. Ora con la nascita del popolo ebraico, D-o si rivela a Moshè nel roveto ardente come "colui che sarà" (tetragramma) iniziando il viaggio attraverso la storia per la creazione della Nazione ebraica. Questo Nome (Adoqai) afferma la misericordia di D-o e la realizzazione della sua promessa fatta ai patriarchi. "Mi ricorderò del Mio patto…. vi farò uscire dalle ristrettezze…. vi salverò dalla schiavitù…. vi libererò con braccio disteso…. vi prenderò quale popolo a Me appartenente" (Es. 6.6).
I nostri Maestri cazal hanno dedotto che queste quattro espressioni rappresentano una allusione all'uscita dai quattro esili nella storia del popolo ebraico (Babilonia, Persia, Grecia e Roma). Il Baal Haturim (rav Yacov ben Ascher) spiega che l'espressione "vi prenderò" si riferisce all'ultimo esilio quello di Edom (Roma) che è il più duro di tutti e da cui verrà la Redenzione (Gheullà) con la nascita della Nazione ebraica.
L'uscita dall'Egitto è il fondamento della fede ebraica, che non è una "confessione" ma un'entità nazionale concentrata intorno al servizio Divino (avodat Hashem). Per questa ragione la liberazione dalla schiavitù non va considerata come un momento isolato nella storia del popolo ebraico, ma come una sorgente di vita per gli ebrei e per l'umanità intera. Il Giudaismo difatti possiede una dimensione particolare ed una universale, che non sono affatto in competizione, bensì in una unione di intenti per realizzare la Redenzione dell'uomo creato ad immagine di D-o (Be'zelem Eloqim)
L'intervento di D-o nella storia, che modifica le leggi della natura, che Egli stesso aveva fissato al momento della creazione non sono comprese dal Faraone. Questi dice a Moshè: "Qual è l'Eterno D-o (yhvh) di cui dovrei ascoltare la parola, liberando Israele?" (Es. 5.2). Il Faraone non conosce o non vuol conoscere questa dimensione dell'intervento di D-o nella storia nonostante gli eventi accaduti durante il tempo di Giuseppe. Saranno necessarie le "piaghe" che colpiranno l'Egitto perché egli dica: "Questa volta ho peccato. Riconosco che il Signore è giusto" (Es. 9.27). Il maestro incontestato di idolatria di tutta la terra, che ritiene egli stesso un Dio, ammette di aver sbagliato!

Le piaghe
Le prime piaghe che colpiscono gli Egiziani rivelano il dominio di D-o sulla natura, considerata da costoro come l'incarnazione del Divino. Il fiume Nilo non era solo un elemento di fecondità della terra, ma anche una forza che dava secondo la sua volontà prosperità o carestia. Per questa ragione le prime piaghe che colpiscono il Nilo, colpiscono anche l'orgoglio egiziano che tanto venerava questo fiume. Le successive piaghe (le bestie feroci, la peste, le ulcere) attaccano direttamente la popolazione egiziana, portando in questa non solo distruzione materiale ma anche sconforto morale, per cui gli stessi "maghi" non osano comparire al cospetto del Faraone. Tutto l'edificio egiziano crolla mentre si ascolta la voce di Moshè ed Aaronne che esige la liberazione di Israele figlio primogenito del Signore.
Con la caduta della "grandine" sull'Egitto che distrugge ogni vegetale, troviamo la dimostrazione della potenza divina. "Quando Moshè alzerà la sua mano verso D-o, la grandine cesserà di cadere affinché tu (faraone) riconosca che la terra appartiene al Signore" (Es.9.29).
"E vedendo il Faraone che erano cessati i tuoni e la grandine, egli riprese a peccare. Il suo cuore rimase duro e non lasciò andar via i figli d'Israele" (Es 9.35).
Si possono fare similitudini ed accostamenti su questa "dimensione" diabolica del Faraone con la situazione politica dei nostri giorni. Bisogna pertanto domandarsi: "Chi è il nuovo Faraone oggi che non ha conosciuto Giuseppe?" F.C.

*

 - Dio si fa conoscere
"Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come Dio onnipotente; ma non mi ero fatto conoscere da loro con il mio nome di Eterno" (Es. 6:3), dice Dio a Mosè. Questo significa che adesso per il Signore è arrivato il momento di farsi conoscere in senso pieno: in parole e in opere.
Anche in questo caso bisogna distinguere tra politica interna e politica estera di Dio. Per gli ebrei ciò che avverrà sarà una conferma e un approfondimento della conoscenza che avevano attraverso i patriarchi; per gli egiziani invece sarà la prima conoscenza che avranno di un Dio a loro sconosciuto.
"Voi conoscerete che io sono l'Eterno" (Es. 6:7), dice il Signore al suo popolo. Ma in che modo questo avverrà? Mostrando loro di essere capace di liberarli dalla schiavitù: "Io sono l'Eterno; vi sottrarrò dai duri lavori impostivi dagli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio steso e con grandi giudizi" (Es. 6:6).
"Gli egiziani conosceranno che io sono l'Eterno..." (Es. 7:5), dice il Signore a Mosè. Ma in che modo questo avverrà? Con gli stessi fatti, ma visti dall'altra parte: "... quando avrò steso la mia mano sull'Egitto e avrò fatto uscire i figli d'Israele di mezzo a loro" (Es. 7:5).

Uno strano modo di farsi conoscere
Se l'unico scopo di Dio fosse stato quello di mettere fine alle sofferenze del suo popolo gemente nella schiavitù, qualcuno potrebbe dire che allo stesso risultato si poteva arrivare in modo molto più veloce e senza "vittime innocenti": qualche bambino primogenito infatti ci sarà pur stato fra gli egiziani... Lo scopo di Dio dunque era un altro: farsi conoscere in modo nuovo, sia dagli ebrei, sia dagli egiziani.
Esaminiamo allora lo strano (per noi) modo di procedere del Signore, perché si ripete in tutta la Bibbia. Per prima cosa Dio parla all'uomo e annuncia quello che intende fare in un futuro più o meno prossimo; poi dà all'uomo un ordine preciso in relazione all'annuncio fatto; poi dà una manifestazione anticipatoria della sua credibilità con qualche azione potente; poi aspetta. Che cosa? Aspetta di vedere quale sarà la reazione dell'uomo, perché da quella dipenderà la sua successiva azione.
A questo punto della storia la nuova rivelazione di Dio all'uomo comincia con Mosè. Dio gli comunica la sua intenzione: liberare il suo popolo e farlo salire in un paese "dove scorre il latte e il miele". Poi gli dice di comunicare questo ai suo fratelli e di andare ad ordinare al Faraone di far uscire il popolo dal paese. Davanti ai comprensibili dubbi di Mosè, il Signore gli fa vedere la sua potenza con atti potenti: il serpente, la mano lebbrosa, l'acqua mutata in sangue (Es. 4:1-9). Mosè tenta ancora di schermirsi, ma a questo punto Dio s'arrabbia, chiude il discorso e seccamente gli ripete l'ordine di andare dal Faraone. Mosè tace e ubbidisce. Non ci vien detto se di buon grado o di malavoglia, ma non importa: è andato.
Prima che dal Faraone però Mosè deve andare dai suoi fratelli. Raduna dunque gli anziani e comunica loro le intenzioni di Dio; e per venire incontro a prevedibili obiezioni compie davanti a loro i prodigi che il Signore gli aveva detto di fare. "E il popolo prestò loro fede" (Es. 4:31).
Mosè e Aaronne vanno dunque dal Faraone, gli dicono quello che gli devono dire, e il risultato è che il popolo sta peggio di prima. I sorveglianti degli ebrei maledicono Mosè ed Aaronne: "L'Eterno volga il suo sguardo su di voi, e giudichi!" (Es. 5:21), il contrario di una benedizione. Mosè gira il lamento a Dio: "Allora Mosè tornò dall'Eterno, e disse: 'Signore, perché hai fatto del male a questo popolo? Perché dunque mi hai mandato?" E non si limita a lamentarsi, ma rinfaccia a Dio di non aver mantenuto la sua parola: "... tu non hai affatto liberato il tuo popolo" (Es. 5:23): un'accusa gravissima. Vengono in mente le parole dei discepoli sulla via di Emmaus, che dopo la crocifissione di Gesù dicono sconfortati: "Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose" (Lu 24:21).
Dio però non s'arrabbia con Mosè per la sua impertinenza, perché anche questo rientra nel suo piano di farsi conoscere meglio dagli ebrei e dagli egiziani.
Anche con il Faraone Dio usa il suo metodo per farsi conoscere. Anzitutto gli fa arrivare la sua parola attraverso Mosè; poi, davanti ai suoi dubbi, che in questo caso sono ribellioni, gli fa vedere dei segni potenti, che molto presto diventano mazzate. Poi aspetta. Vede che non funziona e ripete più volte l'operazione, ma in forma sempre più incisiva, cioè con mazzate sempre più pesanti e rimedi sempre più potenti. Sarà sgradevole, ma il ciclo di mazzate e rimedi sembra essere l'unico modo per istruire adeguatamente il Faraone. Ecco alcune citazioni che mostrano lo scopo pedagogico del Signore:
"... affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese" (Es. 8:22);
"... affinché tu sappia che nessuno è come me su tutta la terra" (Es. 9:14);
"... affinché tu sappia che la terra è dell'Eterno" (Es. 9:29);
"... affinché sappiate che io sono l'Eterno" (Es. 10:2);
"... affinché conosciate la distinzione che l'Eterno fa tra l'Egitto e Israele" (Es. 11:7).
Qualcuno fa obiezioni sul fatto che Dio dica: "Ma io indurirò il cuore del Faraone" (Es. 7:3). Questo è certamente il risultato finale di tutto il processo educativo di Dio, ma nelle prime cinque piaghe sta scritto che "il cuore di Faraone si indurì" (Es. 7:22, 8:15, 8:19, 8:32, 9:7); soltanto alla sesta piaga si dice che "l'Eterno indurì il cuore di Faraone" (Es. 9:12). Questo significa che nei rapporti con Dio l'uomo deve stare attento, perché continuando a dire NO al Signore può raggiungere un punto di non ritorno. Per questo il salmista avverte: "Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori" (Sal. 95:8). M.C.

  (Notizie su Israele, 26 gennaio 2017)


Ventisette gennaio, giornata della memoria confusa

di Maurizio Del Maschio

Il 27 gennaio, data dell'ingresso delle truppe sovietiche nel campo di sterminio di Auschwitz/O?wi?cim-Birkenau nel 1945, è stato scelto per la Giornata della Memoria della Shoàh, la "catastrofe" che annientò 6 milioni ebrei europei ad opera del nazifascismo. Peraltro, nel corso del tempo, la motivazione originaria ha visto vieppiù comprendere anche altre vittime della furia nazista, come gli zingari, gli avversari politici, gli omosessuali, i menomati fisici e psichici ritenuti una minaccia per la purezza della razza ariana germanica. In ogni caso si tratta di crimini contro l'umanità, come altri perpetrati nei confronti di popoli diversi, che meritano di essere ricordati in date particolari per non perdere la memoria della portata di simili atrocità.
   La Giornata della Memoria nacque per mantenere viva nelle generazioni che si susseguono la riflessione sulla mostruosa specificità della Shoàh, mentre l'aver accorpato in essa il ricordo di tutte le persecuzioni a cui sono state (e sono) sottoposte tante creature innocenti ne ha appannato il senso.
   È, infatti, doveroso ricordare tutte le tragedie umane, ma occorrerebbe farlo in circostanze diverse dal Giorno della Memoria della Shoàh, per non confondere i piani su cui si muovono le aberrazioni umane, come si è fatto per lil genocidio armeno in Turchia, per le vittime della persecuzione comunista anti-italiana in Slovenia e in Croazia che ha riempito di cadaveri le foibe delle Alpi Giulie sul finire della seconda guerra mondiale e come si dovrebbe fare per le vittime della repressione italiana delle minoranze slave in Istria e Dalmazia con l'invasione della Slovenia. Tuttavia, la "Endlösung der Judenfrage", la "soluzione finale della questione ebraica", assume connotati del tutto specifici, straordinari e mostruosamente inquietanti.
   Le caratteristiche distintive della Shoàh derivano organicamente dall'antisemitismo etnico che produsse la volontà di sterminio totale degli ebrei ovunque fossero, nonostante l'obiettiva assenza di qualsiasi conflitto preesistente. Si tratta di un antisemitismo basato sull'immagine irreale, deformata e pregiudiziale della cospirazione ebraica mirante ad imporre la propria egemonia sul mondo. Esso esige, diversamente dall'intolleranza che genera gli altri genocidi, l'obiettivo dell'annientamento totale, dell'estinzione di un'etnia, classificata arbitrariamente come inferiore, che ossessiona le menti deliranti che vedono nell'ebreo, in ogni ebreo, una pericolosa minaccia per l'umanità. Fu questa la motivazione che indusse a pianificare e realizzare un immenso progetto di sterminio su scala continentale: un antisemitismo che impregnava i propagatori di odio, di rabbia e di sete di vendetta e originò un crescendo di iniziative sempre più ciniche, lucide ed efficaci, motivate da pretestuose menzogne e realizzate con una crudeltà senza precedenti. La diffusione dell'antisemitismo non riguardava solo la Germania, ma solo in Germania prese il potere un regime che aveva fra gli obiettivi primari del suo programma ideologico la traduzione della soluzione finale della cosiddetta "questione ebraica" in una sistematica pratica politica.
   Oggi, più che in passato, si percepisce che la minaccia di un nuovo genocidio ebraico è sempre più concreta. Non si tratta più di un rischio che ha come teatro il nostro continente, ma non per questo è meno inquietante. La diffusione di libri come "I protocolli dei savi Anziani di Sion" - di cui la storia ha da tempo ampiamente dimostrato la falsità - e il "Mein kampf", "La mia battaglia" di hitleriana memoria, sono ai primi posti nella hit parade del mercato librario nei Paesi islamici, in particolare in quelli arabi e in Iran e oggi in libera vendita anche in Germania. Gli esiti si vedono quotidianamente in Israele e fuori di esso.
   Inserire nel contenitore della Giornata il ricordo di tutti i genocidi, di tutte le persecuzioni, di tutti i soprusi che l'umanità continua a subire anche ai nostri giorni, produce solo confusione e non permette di analizzare e distinguere le specificità delle tragedie a cui l'umanità continua ad essere sottoposta.
   Qualcuno si chiede se è opportuno continuare a ricordare la Shoàh, dal momento che il rischio è da un lato quello di renderla una celebrazione routinaria e senza anima e dall'altro di generare nausea, insofferenza e ostilità. Segnali inquietanti vengono dall'apposizione delle cosiddette "pietre d'inciampo", placche bronzee poste dinnanzi a luoghi da dove sono stati sloggiati gli ebrei nel corso dei rastrellamenti volti a deportarli nei campi di sterminio. Ora le placche vengono poste anche dinnanzi ad abitazioni di antifascisti deportati e uccisi, mentre quelle riguardanti gli ebrei sono non di rado coperte da colate di cemento, spia inquietante della ripresa virulenta dell'odio antiebraico e di opposizione alla memoria collettiva. L'efficacia della Giornata della Memoria non può prescindere da tali riflessioni. L'obiettivo è quello di rafforzare il convincimento, specialmente nelle nuove generazioni, che la corretta valutazione della specificità della Shoàh permette di guardare nella giusta luce anche le altre tragedie dell'umanità, affinché mai più possano mettersi in pratica analoghi disegni che offendono la natura e la dignità dell'Uomo.
   In questo nostro tempo, in cui l'antisemitismo rigurgita virulento nella nostra Europa, nelle terre islamiche e nel resto del mondo occidentale, soprattutto per l'iniziativa di minoranze musulmane fanatiche e fondamentaliste, non si può rimanere indifferenti di fronte questa insensata barbarie che si è riaffacciata con tanta protervia alla ribalta della storia e ci sprona ad adoperarci per soffocarla.

(Online News, 26 gennaio 2017)


Ecco perché per l'Italia sarebbe vitale un'alleanza con Israele. Nell'hi-tech

dii Max Bergami

Con un Gdp che cresce intorno al 2%, allo stesso tasso delle economie in via di sviluppo, un indice di disoccupazione inferiore al 4%, un settore delle costruzioni cresciuto di oltre il 100% negli ultimi 10 anni, un debito pubblico in continua diminuzione e un export in crescita, Israele continua il suo percorso di sviluppo. Dietro a questi numeri ci stanno alcuni fattori che includono indubbiamente il capitale umano (quasi il 50% della popolazione tra i 25 e i 64 anni ha avuto una formazione universitaria), un sistema universitario eccellente, una forte collaborazione università-impresa e un sistema di venture capital molto sviluppato.
È un paese che non sembra rallentare la sua corsa, che anzi accelera, consolidando il modello descritto nel best seller Start-Up Nations da Senor e Singer nel 2009. Le 73 quotate al Nasdaq, i centri di ricerca e sviluppo di oltre 300 società internazionali e le 5.000 startup fanno di Israele il luogo con la maggior concentrazione di imprese high tech al di fuori della Silicon Valley. Israele ha anche assunto una posizione di leadership nel settore della cyber security, con 430 cyber security imprese e startup; nel 2015 ha attratto quasi il 20% degli investimenti privati in questo settore, collocandosi dietro solo agli Stati Uniti.
   Il caso della cyber security peraltro è interessante perché rappresenta il frutto di una scelta politica molto precisa; nel 2002 il Governo ha creato l'Autorità Nazionale per la Sicurezza dell'Informazione, alla quale hanno fatto seguito il National Cyber Bureau e l'Autorità Nazionale per la Cyber Difesa. Nel corso degli anni, il Paese è divenuto ancora più dipendente dalla tecnologia e dalle attività nel cyber spazio, con la conseguente necessità di assicurare un più elevato livello di sicurezza. Le linee guida approvate dal governo non riguardano solo le strategie per difendere le infrastrutture e i servizi critici, ma anche le imprese e la società civile. Questo programma ha portato allo sviluppo di competenze e alla nascita di imprese, con lo sviluppo di un settore di crescente rilevanza per l'economia del paese.
   Un altro aspetto che colpisce è la convinzione con cui il concetto di Triple Helix rappresenti un riferimento per tutti gli attori di università, industria e governo, creando un ecosistema fortemente coeso, come dimostrano i risultati nel campo dell'innovazione nella robotica e del biomedicale.
   Esiste un'altra faccia di Israele che va considerata per comprendere il paese: alla popolazione giovane e dinamica che domina le nuove tecnologie si aggiungono altri gruppi, tra cui il più importante è quello degli ebrei ultraortodossi. Questo gruppo rappresenta poco più del 10% della popolazione, ma ha un tasso di crescita molto elevato (6,7 figli per donna contro i 3 della media nazionale) ed è molto rilevante perché consente alla popolazione ebraica di mantenere i rapporti di forza con la componente araba (anch'essa con un tasso di crescita demografica elevato). Entrambi questi gruppi sono la parte più povera di Israele; nel caso degli ultraortodossi, i maschi a partire dai 13 anni concentrano i propri studi sulle sacre scritture, mentre le donne proseguono negli studi non religiosi, ma hanno minori opportunità professionali in relazione al numero di figli. Gli ebrei non ortodossi hanno tassi di occupazione altissimi (oltre l'80%), ma gli uomini ultraortodossi si attestano intorno al 50% e le donne arabe intorno al 30%.
   Con questo trend demografico, gli ultraortodossi tenderanno ad assumere più potere, ponendo ai governanti il problema di come conciliare due visioni del mondo così differenti.
   Comunque, per ora, Israele sembra cavalcare l'onda innovativa che viene dalle nuove tecnologie, concentrandosi sulla produzione di conoscenza, senza avventurarsi nel campo della manifattura dove altri paesi occidentali hanno una posizione di forza. Questo aspetto crea eccezionali condizioni di complementarietà, come sottolinea spesso l'Ambasciatore Talò che negli ultimi 4 anni ha lavorato intensamente con governo, imprese e università per costruire ponti tra i due paesi. Ad esempio, a settembre, grazie all'impegno dell'Ambasciata, gli organizzatori di Cybertech (una delle principali manifestazioni del settore) hanno deciso di svolgere l'edizione 2016 a Roma, portandola per la prima volta in Europa. Anche nel campo delle tecnologie idriche, dove Israele è al primo posto al mondo nella desalinizzazione e nel riutilizzo delle acque reflue (trattate per oltre l'80%), sono stati avviati contatti che potrebbero portare a progetti comuni. L'Italia, con grandi problemi soprattutto al Sud, potrebbe avere grandi vantaggi da una partnership con gli israeliani, estensibile anche ad altri paesi ad esempio in Africa. Anche nel campo della robotica, Israele possiede le tecnologie, mentre l'Italia ha le strutture industriali e l'accesso ai mercati.
   
(Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2017)


Centinaia di pinne solcano il Mediterraneo: invasione di squali in Israele

Centinaia di squali in Israele: il fenomeno

di Luisa Mosello

Non è il sequel de Lo Squalo del terzo millennio ma una marea di squali, oltre 150, avvistati in Israele. A pochi metri dalle spiagge di Hadera, nel distretto di Haifa, a nord di Tel Aviv. Un evento straordinario che ha offerto una visione d'eccezione: una scia di pinne che solo a guardarle anche da lontano provocano adrenalina a mille. Anche perchè i predatori marini per eccellenza di varie specie (dagli squali leuca a quelli grigi) erano di dimensioni di tutto rispetto, lunghi anche 10 metri. Il branco si aggirava indisturbato nelle acque turchine del mar Mediterraneo, cosa rarissima.
Secondo Adi Barash, biologo marino dell'università di Haifa, il motivo di questa visita inattesa non è chiaro. Ma con tutta probabilità potrebbe essere legato alla loro attrazione verso l'acqua calda che esce dallo scarico delle turbine della centrale elettrica di Orot Rabin che si trova nella zona. Quello che si può definire un vero e proprio fenomeno è diventato in brevissimo tempo uno spettacolo naturale che, come riporta Ynet, ha richiamato una folla di curiosi, fotografi e subacquei di profonda passione.

(Il Messaggero, 25 gennaio 2017)


Amorevoli concordanze

di Niram Ferretti

Mentre Hamas brucia in effige Donald Trump e si stanno spegnendo gli echi della festosa marcia rosa pussy a Washington dove ha brillato tra le organizzatrici l'americana palestinista Linda Sarsour, paladina del suprematismo islamico e affiliata di BlackLivesMatter, apprendiamo che Alois Brunner, torturatore di ebrei e fedele di Adolf Eichmann, è morto a Damasco nel 2001. Lì, accolto amorevolmente dalla famiglia dei criminali alawiti Assad, ha dimorato sotto falso nome fino alla sua dipartita offrendo il proprio know how ai servizi segreti siriani, il mukhabarat.
Le amorose concordanze tra nazismo, islamismo, antisionismo e palestinismo, non sono mai sufficientemente sottolineate. Eppure un filo rosso corre resistente e perdurante tra i boia di Hitler e i "resistenti" contro "l'occupazione" israeliana di territori considerati eternamente islamici come recita la Carta di Hamas.
Negli anni '30 Hassan al Banna e Amin Al Husseini, rispettivamente il fondatore della setta islamica integralista conosciuta con il nome di Fratelli Musulmani, e il Mufti filonazista di Gerusalemme, si allearono per contribuire alla distruzione degli ebrei nella Palestina mandataria.
Il nazismo incontrava fervorosi entusiasmi nel mondo arabo. "Eravamo razzisti, ammiratori del nazismo, leggevamo i suoi libri e le fonti del suo pensiero, in modo particolare Nietzsche, Fichte e H.S. Chamberlain", scriveva Sami al-Jundi, un leader del partito siriano Baath nel 1930, "Fummo i primi a pensare di tradurre il Mein Kampf. Chiunque viveva a Damasco in questo periodo avrebbe apprezzato l'inclinazione della gente araba per il nazismo, poichè il nazismo era il potere che poteva fare avanzare la propria causa".
Non sorprende dunque che Alois Brunner, dopo la guerra avesse trovato rifugio a Damasco, così come non sorprende che dagli anni '30 fino ai nostri giorni l'antisemitismo forgiato in Germania durante il nazismo abbia trovato nei paesi arabi un'ampia ricezione.
Come ha scritto Richard Cohen:
"Il mondo arabo è l'ultimo bastione di un antisemitismo sfrenato, spudorato, manifesto, incredibile. I miti hitleriani vengono pubblicati nella stampa popolare come verità incontrovertibili. L'olocausto o viene minimizzato o negato…Come possa il mondo arabo venire mai a patti con Israele quando gli israeliani sono dipinti come iavolo incarnato è difficile da immaginare".
Sì, è davvero difficile da immaginare, e infatti né Hamas né Hezbollah riescono a farlo negando per principio questa possibilità, entrambi devoti alla causa dell'eradicazione di Israele dalla mappa della Palestina, così come Adolf Hitler era devoto all'eliminazione programmatica su scala europea e possibilmente mondiale dell'ebreo.

(L'informale, 24 gennaio 2017)


Gli ebrei lasciano l'Italia: record da mezzo secolo

GERUSALEMME - Non accadeva da oltre mezzo secolo. Le partenze di ebrei dall'Italia hanno raggiunto livelli senza precedenti: nel 2015 hanno superato quota cinquecento, un record nel secondo dopoguerra. Se la tendenza fosse confermata, tra il 2016 e il 2021, l'Italia perderebbe il 7 per cento della popolazione di origine ebraica. Il motore dell'esodo, stavolta, non sono, come negli anni Trenta e Quaranta, le persecuzioni politiche, bensì la crisi economica. Lo studio, realizzato dall'Institute for Jewish policy research di Londra, è stato pubblicato a pochi giorni dalla "Giornata della memoria", in programma il venerdì. In tale occasione, lo Yad Vashem, il memoriale della Shoa, mette in mostra, da domani, anche online, le ultime lettere scritte dagli ebrei d'Europa, oppressa dal nazismo. Una raccolta di 190 milioni di pagine, scritte a mano, che saranno via via rese disponibili. Da subito, il memoriale pubblicherà le prime nove missive. All'inaugurazione, domani, sarà presente il premier Benjamin Netanyahu.

(Avvenire, 25 gennaio 2017)


Microsoft e Qualcomm investono nell'israeliana Team8, leader in cybersecurity

 
Team8 è una azienda fondata da Nadav Zafrir, Israel Grimberg e Liran Grinberg, tutti ex membri delle Forze di difesa israeliane (dell'unità di intelligence 8200). L'azienda aiuta gli imprenditori ad affrontare i problemi di sicurezza informatica.
Team8 non investe in società di sicurezza informatica, ma le crea.
Altri investitori in Team8 comprendono Accenture, AT & T, Cisco e Nokia.
Israele ha circa 450 startup informatiche, che ricevono il 20 per cento dei loro investimenti da fondi esterni a Israele.
Secondo Yoram Yaacovi, direttore generale del centro di sviluppo di Microsoft Israel, che ha rilasciato un'intervista a Reuters, il numero di tentativi di attacchi informatici era di 20.000 a settimana, solo due o tre anni fa, questa cifra è ora salita a 600,000-700,000.
Israele ha una industria dell'high-tech ben consolidata, che utilizza le competenze di lavoratori qualificati nei settori militari e di intelligence. Le agevolazioni fiscali e i finanziamenti governativi hanno incoraggiato la nascita di nuove startup nel settore della cyber-sicurezza.
Lanciata nel 2014, Team8 ha circa 180 impiegati in Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna e Singapore e prevede di assumere altri 100 dipendenti nel 2017.

(SiliconWadi, 25 gennaio 2017)


Dureghello: l'ambasciata Usa a Gerusalemme è una scelta coerente

ROMA - "Le novita' sono sempre cose buone. Siamo qua a vedere cosa succedera' in futuro. Al di la' delle dichiarazioni di Trump non credo che si possa negare la connotazione di Gerusalemme come capitale di Israele. La posizione di Trump mi sembra coerente con la storia del luogo e se puo' essere utile a riportare alla coerenza altri Paesi ben venga". Lo ha detto la presidente della Comunita' ebraica di Roma, Ruth Dureghello, commentando durante il forum 'Viva l'Italia' di AGI, l'annuncio del presidente Usa Donald Trump di trasferire l'ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.
Quanto al negoziato israelo-palestine, Dureghello ha affermato: "La pace si fa anzitutto con un dialogo diretto tra due parti coinvolte, senza mediazioni, senza pressioni, senza terzi che si sostituiscano. Se la soluzione che troveranno sara' quella di due Stati per due popoli andra' bene". Dureghello ha sottolineato che "si puo' e si deve arrivare alla pace. Shimon Peres diceva che la pace si deve volere", ha ricordato.

 Attenzione all'antisemitismo sul web
  "L'antisemitismo e' una costante storica. C'e' stato quello cattolico, quello di matrice politica del nazismo e fascismo. Oggi c'e' l'antisionismo. Il sentimento antiebraico si alimenta sempre di argomenti diversi e l'antisionismo, che oggi si diffonde attraverso il web, e' permeato di contenuti di antisemitismo" ha detto Dureghello secondo cui "il web facilita" l'antisemitismo perché "chi parla dietro uno schermo, spesso nell'anonimato, si sente piu' forte". Ma pesa anche il fatto che "l'utilizzo del linguaggio anche nelle sedi pubbliche non ha piu' limiti". "Il web - ha sottolineato Dureghello - e' un tema su cui siamo molto attenti".

(AGI, 25 gennaio 2017)


Gli incubi e il genocidio. Psicopatia del nazismo

Saggi - Alon Confino esplora le allucinazioni del Terzo Reich

di Pierluigi Battista

E' ancora utile aggiungere un libro alla foresta di titoli che in questi anni si sono moltiplicati per studiare la Shoah? Certamente, perché studiare l'immaginario, le emozioni, le motivazioni profonde che avevano portato molti tedeschi a sognare, sì, proprio a «sognare», un «mondo senza ebrei» ci aiuta a capire quale veleno si fosse insinuato nel cuore e nel cervello della Germania hitleriana fino a portarla a concepire e attuare lo sterminio del popolo ebraico. Un mondo senza ebrei è appunto il titolo di un libro in uscita in Italia dello storico Alon Confino (pubblicato da Mondadori). Si apre con una scena atroce ricavata dalla Notte dei Cristalli del 1938 in una cittadina a pochi chilometri da Norimberga. Le vetrine dei negozi degli ebrei distrutte, gli ebrei picchiati per strada e addirittura frustati sul palco, i malati dell'ospedale ebraico fatti sgomberare per portarli a Dachau, le sinagoghe assaltate e devastate. E poi un particolare, che può sembrare un piccolo particolare in confronto alla gravità di quello che stava accadendo e che accadrà pochi anni dopo quando la macchina dello sterminio verrà messa in moto: «La Bibbia ebraica, uno dei simboli più sacri della civiltà cristiana in Europa, venne pubblicamente data alle fiamme», i rabbini costretti a calpestarla dopo che la Torah era stata srotolata sulla piazza. Perché? Quale istinto primario, quale emozione profonda animò la volontà dei nazisti di dare alle fiamme un simbolo religioso caro anche ai cristiani, il Vecchio Testamento, la Bibbia, la religione del Padre?
   In quel gesto - spiega Confino in un'indagine storica di cui il lettore potrà apprezzare anche la forza letteraria, la capacità di raccontare fatti terribili e di scandagliare nell'interiorità insondata di chi se ne fece autore fino a diventare un carnefice spietato - si «esaltarono le emozioni» e si «eccitava l'immaginazione». Ecco il punto ancora poco investigato nella ricostruzione della persecuzione antiebraica e del tentativo di annientare un intero popolo: l'immaginazione, le emozioni, le fantasie.
Sappiamo tutto delle teorie del razzismo biologico nazista che portavano alla cancellazione del popolo ebraico, sappiamo tutto dell'organizzazione industriale dello sterminio, sappiamo tutto sulla «banalità del Male», il docile piegarsi del popolo tedesco al ruolo di carnefice volonteroso e obbediente. Sappiamo poco dell'eccitazione con cui, bruciando i rotoli della Bibbia ebraica, i nazisti volevano ricostruire tutta un'altra storia delle origini, immagine un'identità che eliminasse la presenza ebraica dal presente ma anche dal passato: un «mondo senza ebrei», appunto.
   Le «motivazioni» della guerra che i tedeschi nazisti scatenarono contro gli ebrei «non erano di ordine pratico» perché «persecuzione e sterminio si basavano sulla fantasia, in quanto le credenze antiebraiche non avevano alcun fondamento nella realtà». Scrive Confino: «Perseguitando e sterminando gli ebrei, i tedeschi fecero guerra a un nemico immaginario privo di intenzioni bellicose contro la Germania, un nemico che non aveva né un esercito né uno Stato né un governo». Pensate quale condizione paradossale della guerra scatenata dai nazisti contro gli ebrei. Non c'era niente che rendesse quella guerra sia pur vagamente fondata su basi razionali: «Tra tedeschi ed ebrei non vi era alcun conflitto relativo a questioni di territorio, di confine, di risorse o di potere politico, spesso alla base dei casi pulizia etnica e di genocidio nel mondo moderno». Niente di niente, solo fantasticheria pura, dove l'antisemitismo diventava «guerra che verteva sull'identità».
   Nella Bibbia ebraica che i nazisti bruciarono insieme ai negozi degli ebrei e ai malati ebrei cacciati da un ospedale per essere spediti a Dachau (campo di concentramento e non di sterminio) c'era la prova che all'origine dell'identità tedesca c'era l'elemento alieno ed estraneo dell'ebraismo. Era questo «vizio» d'origine che i nazisti volevano purificare. Volevano far sparire la prova storica dell'influenza ebraica sull'intera civiltà, volevano costruire nell'immaginazione e nella fantasia e poi nella realtà della persecuzione l'allucinazione di una «Germania degiudeizzata». Il «mondo senza ebrei» è il mito «allucinato e fantasmagorico», come lo definisce Confino, che fa dire ai tedeschi nazisti con una prosa che non ha più nulla di logico come «l'ebreo sia il vero opposto di un essere umano, l'incarnazione del male. Chi lotta con gli ebrei, lotta col diavolo».
   È utile precisare che questo lessico è il frutto della fantasia di due studiosi che al tempo venivano considerati «illustri accademici». L'intera Germania antisemita venne catturata da questo demone che distingue la persecuzione antiebraica nazista tanto diversa dai «normali» pogrom antiebraici che avevano insanguinato città e villaggi dell'Est europeo. Qui una terribile fantasticheria si impose senza freni, come antefatto dello sterminio di qualche anno successivo. E l'immaginazione divenne un incubo assoluto.

(Corriere della Sera, 25 gennaio 2017)


Università dedicata a un razzista

Il poeta Arndt che, molto prima del nazismo, propagandava la purezza della razza tedesca. Nemmeno i comunisti della Ddr lo tolsero. Cancellato adesso.

di Roberto Giardina

 
Ernst Moritz Arndt
Probabilmente pochi sapranno collocare sulla carta geografica Greifswald. E una cittadina universitaria, sul
Baltico, poco più di 50 mila abitanti, nel Mecklemburg Vorpommern, la Pomerania anteriore, Land settentrionale della scomparsa Germania comunista, Ddr. Oltre un quarto della popolazione lavora direttamente o collabora con il locale ateneo. La settimana scorsa l'Università, con due secoli e mezzo di vita, ha cambiato il nome, tra molte proteste: nel 1933, nel primo anno del Reich nazista, era stata dedicata al poeta e saggista Ernst Moritz Arndt, per volere di Hermann Göring.
Arndt, conosciuto in Italia solo dai germanisti, presumo, è un poeta apprezzato in vita per i suoi versi nazionalisti, e per le sue tirate razziste e antisemite. Piaceva a Göring, e si può capire, ma perché anche sotto la dittatura comunista non si è voluto cambiare nome? Ci si è riusciti a fatica solo a 28 anni dalla caduta del Muro. La decisione è stata approvata con i due terzi dei voti delle autorità accademiche. Molti cittadini hanno protestato con lettere ai giornali. L'AID, l'Alternative für Deutschland, il movimento populista contro l'Europa e i profughi, diventato il terzo partito a pochi mesi dal voto di settembre, si è dichiarato contrario.
   Arndt, era nato sulla vicina isola di Rügen, prima della rivoluzione francese, nel 1769, da una famiglia benestante. Studiò teologia all'Università di Greifswald, per poi passare a Jena dove venne affascinato dal pensiero di Fichte. Divenne famoso per le sue liriche contro Napoleone, e per i suoi scritti a favore della nascita di una grande Germania. Un romantico in un'epoca in cui prevaleva lo spirito nazionalistico. Preferiva scrivere teutsche, e non deutsche, all'antica maniera, sosteneva che i suoi tedeschi erano una razza pura che non si sarebbe lasciata imbastardire mischiandosi a genti inferiori. Come i francesi, che odiava, sotto umani, esattamente come gli ebrei. «Il sangue tedesco e il sangue semita non dovranno mai mescolarsi», ammoniva.
   Viaggiò molto per l'Europa, anche in Italia, e finì per insegnare all'Università di Bonn, finché i suoi scritti furono vietati e lui licenziato. Morì nel 1860, e non poté veder realizzato il suo sogno, la nascita della grande Germania, grazie a Bismarck. Un martire della Vaterland teutonica, una gloria nazionale per la sua regione natale. E dal 1973 tutti i tentativi di ribattezzare l'ateneo erano falliti. Adesso si tornerà alle origini, semplicemente a Universität Greifswald.
   «Un brutto segnale per i nostri tempi», commenta l'AID. La rinuncia al nome di Arnd costerà all'ateneo almeno 300 mila euro per mancate sovvenzioni. Contro il poeta del Baltico hanno votato docenti che vengono da altre località dell'Ovest, appoggiati da studenti venuti da fuori, che al termine dei corsi lasceranno Greifswald, denunciano i populisti. Ma si può difendere Arndt, considerato da Hitler uno dei suoi padri spirituali?
   La Germania Est nata dalla guerra cercava le sue radici, chiuse gli occhi su Arndt, e riuscì a far passare per comunista perfino Federico II, der Alte Fritz. Il re di Prussia, ricordavano i libri di scuola oltre il Muro, sosteneva che «ognuno ha diritto di essere felice su questa terra». Un marxista a sua insaputa.

(ItaliaOggi, 25 gennaio 2017)


Nelle ultime ore di Barack Obama 221 milioni ai palestinesi

WASHINGTON - L'ultimo atto di Barack Obama presidente è stato il via libera allo stanziamento di 221 milioni di dollari da destinare ali' Autorità palestinese. Un via libera ufficializzato proprio venerdì 20 gennaio, nel giorno dell'insediamento di Donald Trump. La notizia è circolata per via di fonti del Dipartimento di Stato e di fonti vicine al Congresso ed è stata ripresa dal!'agenzia AP: secondo la ricostruzione, Obama non ha voluto tener conto dell'opposizione repubblicana in seno al Congresso - il parere dell'aula in questi casi non è legalmente vincolante - e ha autorizzato lo sblocco dei fondi. Milioni che sarebbero da utilizzare in Cisgiordania e a Gaza, per fini umanitari come pure per il supporto delle riforme necessarie per un futuro Stato palestinese. Nelle stesse ore, l'ormai ex presidente ha anche stanziato 4 milioni per la lotta al cambiamento climatico e circa 1 milione per l'Onu.

(la Repubblica, 25 gennaio 2017)


Obama ha voluto manifestare fino all’ultimo il suo “amore” per i palestinesi che, come per tanti altri casi, non è che una forma sublimata di odio per Israele. M.C.


"Rivavén biott". Quando gli ebrei si salvavano passando il Tresa

La strada che 73 anni fa cominciò ad essere battuta per sfuggire alle persecuzioni naziste raccontata da un famigliare di chi visse quei momenti.

 
Uno dei punti di accesso alla strada di Biviglione
Storia è testimonianza, memoria è racconto. Ci sono gli studiosi. Ma per alcuni la storia fa parte del ritratto di famiglia sbiadito dal tempo.
Anni che tolgono colore anche alla facciata e piegano le travi di una casa dove più di 70 anni fa cominciarono a trovare riparo, appena al di là del fiume, gli ebrei. Uomini, donne e bambini che per sfuggire alla morte, nei campi, cercavano la strada per la Svizzera.

 I prati di San Valentino
  L'erba scricchiola sotto le scarpe e non si capisce se è brina o neve. Ci sono rovi, legname appena tagliato e nel grande campo qualcosa fuma, forse è letame. Dettagli.
Perché a poca distanza l'occhio segue qualcosa che si muove. È la corrente verde intenso del Tresa che corre veloce; però c'è poca acqua, tanto che affiora qualcosa.
Lungo la cantonale di Monteggio, fra le dogane di Fornasette e Ponte Cremanaga, in territorio svizzero, sorge un casolare abbandonato col tetto semi distrutto e alberi disordinati tutto intorno.
Questa casa fu il rifugio di una notte per decine, forse centinaia di ebrei in fuga dall'Italia dopo l'occupazione nazista seguita all'Otto settembre.
È la casa dove passò i primi 11 anni della sua vita, dal 1945 al 1956 Aris Corbetta, il barbiere di Voldomino incontrato pochi mesi fa, e che in quell'occasione promise di raccontare questa storia.
Ma soprattutto il casolare di campagna fu la casa del nonno, Evaristo Castellari, originario di Castel San Pietro, nel Bolognese, e ultimo postiglione a cavallo della tratta Fornasette-Ponte Tresa: siamo quasi ai tempi della diligenza, l'ultima corsa patì nel 1915.
Nonno Evaristo faceva anche l'agricoltore, e il campo di fianco al Tresa era il suo, come altre proprietà nella zona, tra cui i prati di San Valentino e il casolare.
«Non smetteva mai di raccontarmi degli ebrei, dei tempi della guerra e di quello che a un certo punto cominciò a succedere da queste parti - racconta Aris, con grande commozione, di fronte alla casa dove nacque - . In questo tratto il fiume, in alcuni momenti dell'anno, è molto basso e i confini di stato non si toccano per pochi metri, la distanza del letto del fiume. È da qui che passavano».

 I tedeschi
  Con l'arrivo dei tedeschi in veste di padroni e occupanti del Paese, iniziarono anche i rastrellamenti di ebrei. Eclatante fu lo sgombero del ghetto di Roma, quando il 16 ottobre 1943 vennero deportati in più di mille: se ne salvarono 17.
A Milano i deportati furono 856 (50 i sopravvissuti, fonte: wikipedia ), solo per citare il caso di comunità in grandi città.
Poi c'era tutto il resto del Paese. Poche le speranze di rimanere in Italia (salvo casi particolari e altrettanto rischiosi, come attraversare le linee e congiungersi, ma molto più tardi, con gli alleati che risalivano lo Stivale. Ben lo ricorda Mario Pirani in Poteva andare peggio, Mondadori, 2010).
Da queste parti la salvezza c'era, e aveva un nome, Svizzera. Su questi confini ancora oggi si ricordano storie di giustizia sommaria, tradimenti e deportazioni a un passo dalla luce. Ma anche momenti di gioia e salvezza.
Certo ci volevano soldi per assicurarsi l'arrivo in Svizzera. E a volte non bastavano. A volte qualcuno finiva nelle mani sbagliate.

 "Rivavén biott"
  «Rivavén biott. Nudi. Gli ebrei arrivavano senza più niente. Senza un soldo - racconta Aris - . E la prima cosa che trovavano dopo il bagno nel Tresa era la nostra casa. La mia famiglia ne fece dormire a decine per terra, sui tavoli, in cucina. E quando c'erano le patate li sfamavano con quelle. Le mie cugine mi raccontarono di una notte in cui arrivò qui il rabbino di Milano con la famiglia. Erano stremati, e prima dell'alba si sarebbero dovuti mettere in viaggio per Sessa, attraverso la montagna, prendendo un sentiero dietro la casa. A Sessa c'era un punto di raccolta, dove sarebbero stati in salvo perché internati lontano dall'Italia; rimanere nei paraggi era molto pericoloso: le guardie di confine ti rispedivano in mano ai tedeschi. Bene, in cucina c'era un tavolo che traballava. Al mattino seguente, il tavolo non ballava più: quel capofamiglia per riconoscenza aveva messo sotto la gamba più corta un marengo d'oro, l'ultimo che aveva».

 Il viaggio
  Il punto era attraversare il Tresa. Ma non solo. Il rischio era ovviamente arrivare fin lì, fino a quel fiumiciattolo che vi si immette scendendo dalla montagna da parte italiana, a Cremenaga, dove c'è un piccolo ponte.
Passiamo la frontiera e ci si arriva. Siamo esattamente lungo la strada provinciale 61 poco dopo essere entrati in territorio italiano: fino agli anni '50 qui correva la tramvia. Tra i rami si vede, dall'altra parte del fiume, la casa diroccata di nonno Evaristo.
Chissà in quanti avranno aspettato il momento buono per uscire allo scoperto e saltare nel fiume. Chissà quante persone, in questo punto, hanno trattenuto il fiato accucciati nel piccolo ponticello sotto la strada, una mano sulla bocca dei più piccoli, gli occhi che guardano attorno, il cuore che batte a mille.
Sembra di vederli: famiglie stanche dopo essere passate per i boschi di Biviglione appena sopra Voldomino. Magari nascosti fin lì in un mezzo di fortuna per incontrare i passatori che li portavano fino al punto stabilito.
Tutto intorno le pattuglie di camice nere e i reparti delle SS appositamente schierati.

 Pitigrilli e il vescovo
  «Mi hanno raccontato che di qui passò anche lo scrittore Dino Segre, il Pitigrilli - racconta Corbetta (anche se le stesse fonti citano un passaggio più a nord, fra Dumenza e Astano).
E di qui passò anche il vescovo, in famiglia lo chiamiamo così.
Era un pilota americano che passò il confine gettandosi nel fiume assieme ad un commilitone, il quale annegò e venne ripescato più a valle. Lui invece si salvò. Negli anni 80' arrivò qui un taxi che fece avanti e indietro a lungo, quasi con l'intento di cercare qualcosa. Ne scese un vescovo: era lui, che dopo la guerra prese i voti. Venne per ringraziarci, si ricordò di quel piatto di patate».
È giusto ripeterlo: sono memorie, e come tali debbono venir lette. Ma il fatto di legare un ricordo ancora vivo a luoghi frequentati ogni giorno da migliaia di persone - siamo in terra do confine e frontalieri - rappresenta un valore che ancor più forte dobbiamo assaporare e difendere: la libertà.

(Varese News, 25 gennaio 2017)


La nuova Casa Bianca apre le porte a Israele

Dai confini alle minacce iraniane: ecco cosa cambierà tra Washington e Tel Aviv

di Fiamma Nirenstein

Nessuno sa ancora bene cosa aspettarsi da Donald Trump ma il primo ministro Benjamin Netanyahu, si dice, ha ormai fra i suoi impegni quotidiani quello di calmare gli entusiasmi dei suoi ministri.
   La telefonata che il nuovo presidente degli Stati Uniti ha fatto al premier israeliano domenica sera ha suscitato soddisfazione anche se i due non sono entrati in dettagli: gli accenni sono allegri («molto carina»x; dice Trump; «amichevole» Bibi), in confronto ai toni sempre nuvolosi dei colloqui con Obama. Trump ha promesso di «consultarsi intensamente» sulla minaccia iraniana, finalmente chiamata di nuovo come merita; ha dichiarato che l'aiuto alla sicurezza israeliana sarà «senza precedenti» e così anche la «determinazione a raggiungere la pace». Nessun accenno agli insediamenti, niente «confini del '67», niente «due stati per due popoli», o almeno non si sa. Invece, un invito in tempi brevi alla Casa Bianca, «nella prima parte di febbraio». Netanyahu non si è scoperto più di quello che serviva a mostrare una evidente soddisfazione: l'incubo maggiore di Israele, ovvero le minacce iraniane di distruzione totale che egli ha profetizzato fin dentro il Congressovengono ora prese in considerazione seriamente. Trump parla anche di «combattere l'Isis e gli altri gruppi terroristi islamici», mentre Obama non aveva mai messo insieme l'aggettivo «islamico» col concetto di terrore.
   Trump si è esposto durante la campagna elettorale, nel condannare l'atteggiamento Usa sulla risoluzione dell'Onu 2334, che sradica Israele da Gerusalemme Est; nel ribadire che la pace può solo nascere da trattativa diretta; nel designare come ambasciatore David Friedman, un grande amico di Israele; nel fare consigliere il genero ebreo Gerald Kushner. Ci sono molte cose che Trump può fare per ristabilire un ruolo equilibrato degli Usa in Medio Oriente: prima di tutto cancellare la «maledizione di Obama» che stabilisce che i confini del 67 sono le linee su cui creare uno stato Palestinese, condanna Israele a un'esistenza grama e assediata, sradica centinaia di migliaia di persone: Trump può benissimo ricondurre il gioco nell'ambito della lettera del 1994 in cui George Bush riconosceva che alcuni insediamenti sono parte imprescindibile di Israele. Prima di Obama, questa era comune consapevolezza anche fra i palestinesi: la sua intransigenza ha fatto fare grandi passi indietro al processo di pace. Trump potrebbe anche riconoscere le alture del Golan come parte di Israele: è impensabile che diventino parte di una Siria contesa fra Assad e l'Isis col patrocinio di Iran e Hezbollah. Inoltre può smascherare tutte le sciocchezze che delegittimano Israele criminalizzandolo con gigantesche menzogne,. Gli aiuti ai palestinesi quando si dedichino alla diffamazione antisemita e a chi li aiuta, come l'Onu potrebbero essere decurtati. Se Trump ci si mette molto può cambiare e chissà che questo finalmente non spinga una parte almeno del mondo arabo a considerare che questa è l'occasione non per una nuova Intifada contro gli Usa, ma un invito per mettersi a sedere a discutere con Israele. Questa sarebbe davvero per Trump una bella vittoria.

(il Giornale, 24 gennaio 2017)


Il vile Belgio, debole coi terroristi, vuole arrestare l'israeliana Tzipi Livni

Cancellata la conferenza dell'ex ministro a Bruxelles

di Giulio Meotti

 
Tzipi Livni
ROMA - Lo scorso luglio ci avevano provato in Inghilterra. L'ex ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, si trovava a Londra per una conferenza organizzata dal quotidiano Haaretz e il governo di David Cameron fu costretto a garantirgli l'immunità diplomatica per evitare che la polizia e la magistratura la trascinassero in tribunale per rispondere delle accuse di "crimini di guerra". Lo scorso weekend, Livni ha dovuto annullare un viaggio a Bruxelles a causa di una minaccia di arresto delle autorità del Belgio. La parlamentare della sinistra israeliana avrebbe dovuto incontrare i leader della comunità ebraica della capitale della Ue, ma ha cancellato la partecipazione "per motivi personali". Il quotidiano belga Le Soir riferisce che i pubblici ministeri erano già pronti a convocare Livni in procura per accusarla di crimini commessi durante la guerra israeliana a Gaza dei 2009, quando era ministro degli Esteri. "Volevamo approfittare della sua visita per cercare di far avanzare le indagini", ha detto un portavoce del procuratore federale belga Thierry Werts. Oggi ci sono paesi in Europa che è meglio evitare se sei un ufficiale del governo israeliano non protetto da immunità. Come ha scritto il New York Times, "esperti legali in Israele hanno consigliato i ministri con un background nella sicurezza e alti ufficiali dell'esercito a non visitare Gran Bretagna, Spagna, Belgio e Norvegia". Un anno fa, un giudice in Spagna aveva emesso un mandato di cattura per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e altri sette ex e attuali funzionari israeliani per l'incursione sulla Flotilla. Lo aveva deciso l'alto magistrato della Audiencia nacional, José de la Mata, che aveva ordinato alla guardia civil di "fermare" Netanyahu e altri sei ex ministri se fossero entrati in territorio spagnolo. Il giudice spagnolo Fernando Andreu voleva arrestare anche l'ex ministro della Difesa israeliano, Benjamin Ben-Eliezer, accusato di aver organizzato il bombardamento a Gaza che portò alla morte del capo militare di Hamas, Salah Shehadeh, e altri civili. Il generale Doron Almog stava arrivando a Londra quando l'ambasciata lo avverti che c'era un ordine di arresto per "violazioni della Convenzione di Ginevra". Almog non scese neppure dall'aereo e fece ritorno a Tel Aviv. Per l'ex ministro della Difesa d'Israele, Moshe Yaalon, è rischioso andare in Gran Bretagna, da quando, invitato a un evento di beneficenza, gli venne "consigliato" di astenersi dal viaggiare in quel paese per il rischio di essere arrestato. Anche un altro ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, deve preparare con cura ogni viaggio in Inghilterra, per evitare di trovarsi davanti a un magistrato. L'attuale portavoce della commissione difesa del Parlamento israeliano, Avi Dichter, ha dovuto rinunciare a una conferenza in Gran Bretagna sul processo di pace per non rischiare di essere arrestato, mentre il generale israeliano Aviv Kokhavi ha cancellato una conferenza a un'accademia militare britannica. E' così che si stanno braccando gli ufficiali dello stato ebraico in Europa, fra zelanti magistrati internazionalisti emuli di quel Baltasar Garzón che emise un mandato d'arresto per l'ex dittatore Augusto Pinochet, organizzazioni non governative che offrono assistenza pro bono, associazioni filopalestinesi impegnate a tempo pieno, rapporti della Corte penale dell'Aia e la viltà di tanti governi europei.
   Tzipi Livni lo scorso 17 novembre ha preso parte alla conferenza organizzata dal Foglio a Roma dal titolo "Israele, frontiera dell'Europa". Ma per molti rappresentanti del governo israeliano, troppi stati dell'Unione europea stanno diventando davvero una frontiera. Ormai invalicabile.

(Il Foglio, 24 gennaio 2017)


Giorno della Memoria: 'Le ultime lettere' a Yad Vashem

In mostra parole di addio dei 'sommersi'. Netanyahu alla cerimonia

di Massimo Lomonaco

"Un giorno ci incontreremo di nuovo". Parole di speranza: il più delle volte vane. Eppure sono scritte sulle centinaia di lettere che gli ebrei europei in fuga dai nazisti hanno inviato ai loro parenti prima di essere 'sommersi' per sempre nella Shoah. 'Le ultime lettere' è il titolo della rassegna che Yad Vashem, il Sacrario di Gerusalemme, mette in mostra, anche on line, in occasione del Giorno della Memoria che si celebra il 27 gennaio in tutto il mondo. Una raccolta di testimonianze toccanti - diventati addii inconsapevoli - che vengono dagli angoli più disparati dell'Europa schiacciata dai nazisti: da Drancy in Francia, da Riga in Lettonia, da Mariiampil oggi Ucraina allora Polonia, dal ghetto di Kishinev oggi Moldavia allora Romania, da Belgrado, da Mathausen. Uno spaccato della memoria collettiva di sei milioni di ebrei uccisi dal nazismo. Per le persone che le hanno ricevute "separarsi da queste preziose lettere non è stato facile", hanno detto da Yad Vashem. Ma da ora diventeranno documenti pubblici e saranno conservate negli archivi del museo per le generazioni future. Le missive faranno parte così di 190 milioni di pagine riguardanti la documentazione sulla Shoah. "Scrivere a mano - ha notato Yona Kobo, uno dei ricercatori di Yad Vashem - è uno degli atti più intimi e personali di auto espressione. Queste ultime lettere ci aprono una finestra sulle vite di queste persone e ci offrono una testimonianza di prima mano delle avversità che hanno dovuto fronteggiare, così come del desiderio di riunirsi alle proprie famiglie". E si può capirlo leggendo la lettera che Regina Kandt scrisse al marito Maximilian e al figlio Rudy prima di essere deportata nel 1941 da Belgrado insieme alla nipote. "Dovete essere forti e pazienti. Un giorno tutto questo finirà... Scrivo solo nel caso non dovessi sopravvivere, ma ho il sentimento che un giorno ci potremo vedere di nuovo". Regina Kandt non vide più né suo marito né suo figlio: fu uccisa dai nazisti nel campo di Sajmiste. La lettera fu consegnata ad un conoscente cristiano di Regina che riuscì successivamente a trasmetterla ai parenti sopravvissuti. La rassegna espone per ora, anche on line, nove lettere, inclusa una che arrivò a destinazione anni dopo la spedizione.
   Ma non è che il primo passo di un progetto più ampio che Yad Vashem intende portare a termine. La mostra fa parte delle iniziative che il Mausoleo di Gerusalemme organizza per il Giorno della Memoria e che giovedì 26 gennaio vedrà il premier Benyamin Netanyahu parlare nella Sala delle Rimembranze di Yad Vashem - dove arde la fiamma perenne a ricordo dei 6 milioni di ebrei uccisi - in una cerimonia ufficiale alla presenza di oltre 40 rappresentanze diplomatiche, Italia inclusa.

(ANSAmed, 24 gennaio 2017)


Imbrattata di nero la Pietra d'inciampo. "L'ultimo oltraggio a mio padre innocente"

di Zita Dazzi

 
 
MILANO - «Ero ancora così commossa per la Pietra messa in ricordo di mio padre, che quando sono scesa in strada, sabato mattina, e l'ho vista coperta di vernice nera, mi sono sentita male. Che oltraggio, che vergogna. Non abbiamo nemmeno una tomba per piangerlo, ci negano anche la possibilità di ricordare chi non si può più difendere». Ha le parole strozzate in gola Ornella Coen, figlia di Dante Coen, una delle vittime della Shoah, alla cui memoria giovedì scorso è stata dedicata una delle sei "Stolpersteine", sanpietrini ricoperti di una lamina d'ottone, con sopra scritto il nome di chi non tornò dai campi di sterminio. «Abito vicino a via Plinio 20, dove venne arrestato mio padre. Sono scesa con mia figlia Laura, abbiamo comprato l'acquaragia, ci siamo inginocchiate sull'asfalto e abbiamo sfregato fino a quando la pietra non è stata pulita. L'offesa è cancellata, ma rimane l'amarezza per l'umanità che ci circonda, dove serpeggiano ancora l'antisemitismo e il negazionismo». L'atto vandalico è stato fatto nella notte fra giovedì e venerdì, poche ore dopo la posa delle prime sei Pietre, a cui ne seguiranno altre centinaia nei prossimi anni. La signora Ornella - che aveva un mese quando il padre venne arrestato e deportato per mai più fare ritorno - ha chiamato la vigilanza della comunità ebraica, che ha allertato la Digos.
   Non sembrano esserci testimoni, ma la polizia locale sta vagliando le immagini delle telecamere per identificare gli autori del vandalismo. Immediate le polemiche. «Lo sfregio della Pietra d'inciampo dedicata a Dante Coen è un gesto inaccettabile. La memoria viene prima di tutto e Milano non si piegherà mai di fronte a chi vuole cancellare le nostre radici», ha commentato a caldo il sindaco Giuseppe Sala. «I fascisti non hanno neanche il coraggio della storia - ha commentato il deputato Pd Emanuele Fiano-. Imbrattano le Pietre d'inciampo pensando che magari non vengano ricordati i loro crimini, come la collaborazione con i nazisti nelle deportazioni. Sono certo che se un luogo del ricordo verrà imbrattato, noi lo ripuliremo subito». Di «gesto gravissimo, chiaro sintomo dei tempi pericolosi che stiamo attraversando», parla anche Roberto Cenati, presidente provinciale dell'Anpi Milano. La comunità ebraica, nel ribadire lo sdegno e la preoccupazione, promette: «Metteremo ancora più Pietre, perché la memoria va difesa e tenuta alta».

(la Repubblica, 24 gennaio 2017)


All'ultimo minuto Obama ha dato 221 milioni ai palestinesi

WASHINGTON - Secondo fonti ufficiali americane citate dalla Associated Press, nelle sue ultime ore da presidente Usa Barack Obama ha stanziato 221 milioni di dollari a favore dell'Autorità Palestinese, nonostante l'opposizione dei repubblicani al Congresso che tenevano bloccati i fondi.

(Corriere del Ticino, 24 gennaio 2017)


Team israeliano inaugura un secondo parco solare in Africa orientale

Il ministro dell'energia del Burundi esamina il primo pannello del campo, accompagnato da Michael Fichtenberg (in basso a sin.) e dignitari internazionali e locali
GERUSALEMME - Due anni dopo l'inaugurazione del primo parco solare nell'Africa orientale, in Ruanda, il team statunitense-israeliano di Gigawatt Global ha inaugurato un secondo impianto ad energia solare tra le colline di Mubuga, in Burundi. E' quanto si legge in un approfondimento del "Jerusalem Post" che ricorda come il parco solare da 7,5 megawatt, situato circa 100 chilometri dalla capitale di Bujumbura, aggiungerà il 15 per cento di capacità elettrica prodotta dal paese entro il quarto trimestre del 2017. I dirigenti di Gigawatt Global hanno dato il via alla costruzione del progetto da 14 milioni di dollari durante una cerimonia in Burundi la scorsa settimana, cui hanno partecipato circa 2.500 funzionari governativi locali e internazionali, investitori, leader religiosi e diplomatici. "Rafforzare lo sviluppo economico e sociale è al centro del nostro business dell'energia verde", ha dichiarato Michael Fichtenberg, vicepresidente per la Finanza e lo sviluppo del commercio della compagnia.

(Agenzia Nova, 24 gennaio 2017)


Israele - Quando la propaganda funziona

Dati di fatto, sentenze della Corte, decisione della maggioranza degli interessati, disponibilità della minoranza: nulla può fermare la macchina delle calunnie

"Razzismo" e "discriminazione", non hanno fatto che ripetere gli oratori dell'estrema sinistra circa lo sgombero delle case beduine abusive a Umm al-Hiran.
Io ci sono stato più volte, ho controllato i fatti. Anche i tribunali hanno controllato i fatti più volte. Le accuse di discriminazione, razzismo, spoliazione e violazione di diritti radicati da tempo immemorabile sono state confutate più e più volte. Ma coloro che muovono quelle accuse non si fanno confondere dei fatti. Vanno avanti a tutta forza.
I membri della tribù al-Qiyan hanno ragione quando dicono che vennero insediati all'area della Foresta Yatir negli anni '50. Vi si stabilirono con il permesso. E proprio perché sono titolari di alcuni diritti riconosciuti dalle autorità e dai tribunali, è stato offerto loro di trasferirsi - gratis - nella comunità regolamenta di Hura. Non solo hanno ricevuto terreni gratis, un quarto di acro per ogni famiglia; e non solo le infrastrutture sono state fornite dal governo; ma ogni famiglia ha ricevuto un'indennità supplementare di almeno 100.000 shekel per costruire la propria casa. Non basta. Ogni uomo sposato con più di un donna (condizione notoriamente diffusa in quella comunità, benché la poligamia in Israele sia illegale) ha ricevuto i lotti di terra in base al numero delle mogli. E per non discriminare i più giovani, tutti coloro di avevano un'età superiore ai 24 anno hanno ricevuto una casa indipendente....

(israele.net, 24 gennaio 2017)


Ucraina, il salvataggio degli ebrei. Si prepara un'altra grande Aliyah?

di Anna Lesnevskaya

Un Paese dilaniato, vite distrutte da una guerra di cui pochi parlano. Fame, freddo, violenza e crisi economica. Quale futuro per l'ebraismo di queste terre desolate? La fuga.Per i 200-250 mila ebrei ucraini, nelle regioni del Donetsk e Lugansk, al confine est con la Russia, è iniziato l'esodo verso Eretz Israel. Abbiamo raccolto in diretta le loro voci
e testimonianze, finora rimaste inascoltate dai media occidentali. Un'inchiesta.


 
«Mentre bombardavano la città, tenevo sul comodino una borsa coi documenti e il Siddur, e pregavo», ricorda Anna, la segretaria della Sinagoga di Lugansk. «Durante la guerra, il Tempio rimase sempre aperto, ma io non mi allontanavo da casa, avevo paura dei cannoneggiamenti e poi dovevo prendermi cura di mia mamma attaccata al letto. Quando finalmente andai alla Sinagoga, per Rosh haShanà, vidi delle persone strette in un cerchio, al buio - in città vivevamo senza luce, senza acqua -, e qualcuno che leggeva la Torà ad alta voce, accanto ad una finestra. Sono passati più di due anni da quel momento, ma ho ancora le lacrime agli occhi, quando ci penso».
  A Lugansk, una volta capoluogo dell'omonima regione e ora centro di una Repubblica separatista non riconosciuta, siamo in una terra di confine, dove l'Ucraina dell'Est e la Russia si incontrano. Nell'estate del 2014, la città fu bombardata a tappeto dai razzi Grad, teatro di battaglia tra il governo di Kiev e i cosiddetti separatisti filorussi. I primi lottavano per la sovranità e l'integrità territoriale del Paese che con la rivolta di Maidan, qualche mese prima, aveva capovolto il corrotto regime filorusso di Yanukovitch; i secondi, si facevano difensori del Russkij Mir, "il mondo russo", costrutto ideologico dei nazionalisti russi nostalgici dell'URSS.
  Prima del conflitto, gli ebrei di Lugansk, secondo i dati della Comunità, contavano 7800 persone. La vita ebraica, animata dal rabbino di Chabad-Lubavitch, Shalom Gopin, e dalla rabbanit Hannah, era ricca e intensa, con un club e una rivista femminili, seguitissimi. La scuola Beit Menachem, fondata dal miliardario e filantropo israeliano originario dell'Uzbeksitan, Lev Levaev, era ambita anche da non ebrei, per la qualità dell'insegnamento. Ora la scuola ha chiuso e il rabbino se n'è andato a Kiev. L'unico legame con l'Ucraina è il ponte, fatto saltare in aria dai separatisti. Dopo ore di attesa per i controlli al posto di blocco, lo si attraversa a piedi, camminando su ponteggi di fortuna, in legno, per arrivare a Stanytsia Luganska, sull'altra riva del fiume Severskij Donec, paesino controllato dall'esercito ucraino.
  La linea del fronte si estende per 426 chilometri, tagliando fuori parti di quelle che erano le regioni di Lugansk e Donetsk, all'Est dell'Ucraina, e che ora sono diventate le autoproclamate Repubbliche Popolari omonime. E mentre gli accordi di Minsk che prevedono la tregua e la normalizzazione rimangono solo un pezzo di carta, a Lugansk si vive sempre a suon di artiglieria, ora più lontana: si combatte fuori dalla città. Ma la situazione economica e lavorativa è pesante. Il sistema bancario nazionale non funziona più nelle terre dei separatisti, i prezzi, in rubli e non più in grivne ucraine, sono triplicati.
  Da Kiev, il rav Gopin cerca di finanziare la sua Comunità, grazie agli aiuti del fondo Keren Layedidout del rabbino israelo-americano Yechiel Eckstein, che raccoglie le donazioni di cristiani evangelici americani per aiuti umanitari e per le Alyioth ebraiche.
  «I generi alimentari che ci arrivano da Keren Layedidout non bastano per tutti; e così scoppiano dei litigi, ma noi cerchiamo di distribuirli a turno", racconta Anna della Sinagoga di Lugansk. Con l'inizio del conflitto, tanti degli anziani membri della Comunità hanno lasciato la città, ma ne sono arrivati altri che prima non frequentavano. Coi tempi difficili, ogni contributo conta. «Ora aiutiamo 1500 persone e in più teniamo aperta una mensa gratuita dove sfamiamo 120 persone ogni giorno. Per le persone anziane è un grande aiuto, vengono a mangiare da noi e si tengono compagnia l'un l'altro», ci dice la segretaria del Tempio, che coordina un po' tutto, in assenza del rav.
  Nella città è attiva anche un'altra rete di aiuto alla popolazione ebraica, quella del centro Chesed del Joint Distribution Committee, presente dagli anni Novanta in modo capillare in tutta l'Ucraina. A Severodonetsk, la seconda città più grande della regione, controllata da Kiev, Chesed paga l'affitto e fornisce i generi alimentari a 23 famiglie ebraiche, profughi da Lugansk, ci racconta Dina, che coordina la rete dell'organizzazione nella parte ucraina della regione.
  I processi demografici, scatenati dalla guerra, che hanno coinvolto gli ebrei ucraini, sono attentamente monitorati dall'Agenzia Ebraica. Basandosi sulle stime di due studiosi, Sergio Della Pergola e Mark Tolts dell'Università Ebraica di Gerusalemme, l'Agenzia valuta che in Ucraina ci sarebbero 200 mila ebrei e altri membri delle loro famiglie che potrebbero beneficiare della Legge del Ritorno (mentre il Vaad, l'Associazione delle organizzazioni e Comunità ebraiche dell'Ucraina stimava, nel 2015, che si trattasse di circa 300 mila persone). A causa della guerra, in Ucraina ci sono oggi quasi 2 milioni di sfollati dalle regioni occupate dai separatisti. Tra questi ci sono numerose famiglie ebraiche che non sanno quale futuro li attenda se restano in patria.
  Faina Levina, 51 anni, ragioniera capo ed ex consigliere comunale, insieme a suo marito, hanno dovuto lasciare Lugansk a giugno del 2014 perché non si sentivano più al sicuro. Quando è scoppiata la "primavera russa", sostenevano la rivolta di piazza Maidan e l'Ucraina («Il cinismo di chi cercava di dilaniare il Paese ha risvegliato in me lo spirito patriottico», spiega Faina), e i separatisti li hanno messi così sulla lista nera. Hanno dovuto lasciare tutto e ora vivono nell'Ucraina Occidentale, dove Faina ha trovato un lavoro, pagata molto meno di prima, mentre suo marito, che ha subito due infarti a causa dello stress degli ultimi anni, è diventato un invalido e non lavora. Gli unici aiuti che ha avuto Faina sono quelli delle organizzazioni ebraiche. Grazie ai soldi che le mandava la Comunità di Lugansk, come a tanti altri membri fuggiti dalla guerra, si è pagata l'affitto nel primo periodo più difficile, e anche il centro Chesed locale le ha dato una mano. Dal governo ucraino niente. «Quelli come noi, che lottavano per il Lugansk ucraino, sono diventati fuori legge in casa propria. In quanto sfollati contro la nostra volontà non riceviamo un sostegno dignitoso da un Paese per il quale abbiamo combattuto e pagato di persona», racconta lei, nipote di una vittima della Shoah. La nonna di Faina, uccisa nell'eccidio di Babij Yar a Kiev, è tra il milione e 500 mila ebrei ucraini trucidati dalle Einsatzgruppen durante l'occupazione nazista.
  Igor Axelrod, 56 anni, fino a poco tempo fa era un imprenditore di successo. Ora è disoccupato («È da quattro mesi che sto aspettando il permesso per aprire una copisteria universitaria»): con sua moglie e la famiglia della figlia ha lasciato Donetsk ed è stato accolto dalla Comunità ebraica di Mariupol, città dove ci sarebbero 5 mila ebrei, secondo fonti comunitarie. Questa città portuale, dominata dalle fabbriche siderurgiche, è stata per un certo periodo sotto l'autoproclamata Repubblica di Donetsk, ma l'esercito ucraino ha fatto retrocedere i separatisti.
  Igor fa la spola tra Mariupol e Donetsk («Coi sette posti di blocco ora ci vogliono almeno cinque ore, mentre prima ci mettevo un'ora al massimo»), dove è rimasta sua madre, Polina Naumovna. Nonostante i suoi ottant'anni continua ad insegnare e non ha voluto lasciare la sua scuola e il museo del patrimonio ebraico nel centro comunitario che contribuì a creare. «Non riconosco più la mia Donetsk, era una città europea con un milione di abitanti, ora è diventata una città fantasma», si rammarica Igor. E aggiunge: «Ai militari ucraini che mi fermano ai posti di blocco e mi chiedono di mostrare il certificato di sfollato (a cosa serve, se ho il passaporto ucraino?!), dicendomi che siamo stati noi a volere 'il mondo russo', rispondo che sono frottole, volevamo solo vivere tranquilli la nostra vita. Invece quando chiedo loro perché hanno abbandonato la città, non sanno cosa rispondermi».
  Prima del conflitto, la Comunità ebraica di Donetsk contava 15 mila persone, ora ne sarebbero rimaste 5 mila, secondo quanto dice il rabbino ad interim Arye Shvartz. A partire dall'inizio degli anni Novanta, il Rabbino capo della città, rav Pinhas Vyshedski (Chabad-Lubavitch), è stato artefice della rinascita della Comunità, «diventata una delle più attive e influenti in Ucraina»; ora sta assistendo con dolore al dissolversi del lavoro di due decenni di impegno per ricostruire l'ebraismo ucraino post-sovietico. «Era una comunità enorme, con un asilo, una scuola, degli edifici bellissimi in centro della città, due Mikveh, negozi e ristoranti kosher», ci racconta il rav, da Kiev, dove la comunità di Donetsk ha spostato la sede centrale e ha aperto un centro comunitario per gli sfollati dall'Ucraina dell'Est e anche dalla Crimea, annessa dalla Russia nel 2014. Grazie all'aiuto di Keren Layedidout e della Federazione delle Comunità ebraiche dei Paesi CSI di Lev Levaev, la Comunità riesce a sostenere le famiglie sfollate, oltre a coloro che sono rimasti a Donetsk. «Mi auguro che altre organizzazioni ebraiche diano una mano ai nostri sponsor, i quali fanno fatica a portare avanti questi impegni per il terzo anno consecutivo», dice rav Vyshedski. Si prepara dunque una nuova grande Aliyah dall'Ucraina, un salvataggio in grande stile? Fame, freddo, guerra e crollo delle speranze nel futuro lasciano intuire che la risposta potrebbe essere affermativa. Di fatto, sta già avvenendo un esodo lento e costante, che in questi anni, a seconda dei periodi, ha subito accelerazioni o rallentamenti.
  Di fronte ad un futuro incerto, in un Paese dilaniato dalla guerra e in grave crisi economica, tanti ebrei ucraini scelgono oggi la strada dell'Aliyah. Se nel 2013, l'anno precedente all'inizio del conflitto, gli olim ucraini erano 2000, nel 2014 sono lievitati a 6000 e nel 2015 a 7500, secondo i dati forniti al quotidiano Le Monde da Roman Polonsky, direttore della divisone russofona dell'Agenzia Ebraica. Un inesorabile e progressivo aumento.
  Tuttavia, i dati dell'Agenzia per l'anno ebraico 5776 (2016), ottenuti dal quotidiano Haaretz, danno invece le Aliyot ucraine in stallo, anzi in calo del 13,1% (7104). «Gli ultimi anni si è mantenuto un livello alto delle Aliyot dall'Ucraina. È difficile fare delle previsioni su come evolverà la situazione, ma crediamo che nell'anno prossimo le cose cambieranno di poco», commenta Max Lurye, capo della rappresentanza dell'Agenzia ebraica nelle regioni di Donetsk e Kharkiv. La sede dell'Agenzia Ebraica a Lugansk è finita sotto i bombardamenti e ha dovuto chiudere, mentre rimane ancora attivo l'ufficio di Donetsk, oltre a un Centro di accoglienza per gli sfollati vicino a Dnipro (ex Dnipropetrovsk), capoluogo della regione omonima a Sud Est dell'Ucraina, aperto nel 2014 con il sostegno del Keren Hayesod (che a Milano sta organizzando una serata per aiutare gli ebrei ucraini). Negli ultimi sei mesi, più di 1500 persone hanno passato periodi diversi al Centro di Dnipropetrovsk, preparando la domanda per l'Aliyah e seguendo i seminari per i futuri olim, ci fa sapere Max Lurye.
  Tanti, invece, scelgono il canale parallelo, quello della fondazione Keren Layedidout per fare l'Aliyah. «Quest'anno abbiamo aiutato circa 4mila ucraini ad andare in Israele», dice Marina Pischanker, che si occupa dell'Aliyah alla Fondazione. Con l'aiuto del Keren, a dicembre del 2016, da Kiev si preparavano a partire alla volta di Israele due voli charter e un volo di linea con circa 300 nuovi olim a bordo.
  Mikhail Kozlov ha fatto l'Aliyah con la famiglia a ottobre del 2016, tramite Keren Layedidout. Questo trentunenne con due lauree (ingegnere meccanico e zootecnico), originario di Severodonetsk, nella regione di Lugansk, città che ha accolto tantissimi profughi (siamo lontani solo 20 chilometri dalla linea del fronte con i separatisti filorussi) e dove il lavoro manca, non era entusiasta di partire, ma in Ucraina non vedeva più un futuro per i suoi tre figli (di cinque, quattro e un anno e mezzo). Prima della partenza, ha partecipato a Kiev ad un incontro con il vice sindaco israeliano ed ebreo di Nazaret-Illit - cittadina di 40 mila abitanti -, che gli ha promesso un aiuto con l'asilo per i piccoli. «Ha mantenuto la promessa», sorride ora su Skype Mikhail, che si è stabilito con la famiglia in questa città della Galilea e frequenta l'ulpan con la moglie, sognando un lavoro in un kibbutz. «Lo so che sarà difficile, ma qui mi sono subito sentito a casa. Faremo del nostro meglio per diventare veri israeliani».

(Comunità Ebraica di Milano, 24 gennaio 2017)


Milano - Concerto del coro ebraico Col Hakolot

26 gennaio 2017, ore 21 - Teatro Oscar, Via Lattanzio, 58

Il coro Col Hakalot
Il coro Col Hakolot (che in ebraico significa Tutte le voci) è nato all'interno della Comunità Ebraica di Milano nel 1994 su iniziativa di Gliliah Dankner, musicista israeliana.
Si tratta di un'associazione amatoriale senza scopo di lucro i cui membri, circa 20 elementi misti a quattro voci, amanti della musica, hanno come finalità la diffusione della cultura ebraica attraverso il canto. Composto da persone di varie provenienze e di tutte le età, e non necessariamente di religione ebraica, il coro ha un vasto repertorio di musica popolare ebraica polifonica. Dal settembre 2013 è diretto da Pilar Bravo e dalla sua vice e pianista Erica Nicchio.

(mentelocale.it, 23 gennaio 2017)


Bambini ebrei parmigiani morti ad Auschwitz, giovedì 26 la commemorazione

Nell'ambito delle iniziative legate alla celebrazione del "Giorno della Memoria", è in programma, giovedì 26 gennaio, alle 10.30, la cerimonia di commemorazione dei bambini ebrei parmigiani uccisi nel campo di sterminio di Auschwitz, appartenenti alle famiglie Bachi, Fano, Della Pergola, nel Parco a loro dedicato, in via Bramante.
Si tratta di un momento particolarmente toccante in ricordo dei bambini deportati nei campi di concentramento che non fecero più ritorno alle loro case. Il ricordo della Shoah sarà rimarcato dalla presenza di alcune classi dell'Istituto Comprensivo Salvo d'Acquisto e dalla dirigente scolastica Nadia Malcisi. Alla cerimonia parteciperanno i rappresentanti dell'Amministrazione Comunale, della comunità ebraica di Parma, dell'Istituto storico della resistenza, i rappresentanti delle associazioni partigiane e del Consiglio dei Cittadini Volontari del quartiere Montanara.

(L'eco di Parma, 24 gennaio 2017)



Amore e verità

L’amore ha come fondamento la verità
La verità ha come obiettivo l’amore


 


Ambasciata a Gerusalemme. Ora l'America tratta

Abu Mazen promette "protesta dura"

di Giordano Stabile

I primi passi per lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme «sono stati avviati». Lo ha annunciato Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca. Benjamin Netanyahu ne ha parlato con Donald Trump nella prima telefonata fra i due leader, ieri sera. «Primi passi» sono molto meno dell'annuncio della decisione che i media israeliani prevedevano ieri pomeriggio. Ci vorranno settimane, mesi.
Forse il neopresidente americano ha frenato. O forse sono stati gli israeliani. I leader palestinesi, a cominciare da Abu Mazen, e anche il Gran Mufti di Gerusalemme, hanno promesso una dura risposta a quello che considerano un attacco mortale al progetto di costruire uno Stato indipendente.
   Lo spostamento ha un significato soprattutto simbolico ma l'impatto politico è imprevedibile. La diplomazia israeliana sottolinea che la nuova sede sarà comunque a Gerusalemme Ovest, nella parte della città che tutti riconoscono come territorio israeliano. Nessun Paese occidentale ha mai però spostato la propria rappresentanza da Te! Aviv proprio per sottolineare che la Città Santa non può essere riconosciuta come «capitale unica e unita» dello Stato ebraico. Gerusalemme Est è stata annessa da Israele nel giugno 1967 ma è reclamata anche dai palestinesi come capitale del loro futuro Stato.
   È questo il nodo più difficile da sciogliere nelle trattative fra israeliani e palestinesi. L'ala destra del governo Netanyahu, a cominciare dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman, spinge per seppellire l'idea «due popoli, due Stari». Il Likud, il partito del premier, ha presentato un suo «piano» per concedere un'ampia autonomia, ma non l'indipendenza, ai palestinesi, e soltanto sul 39 per cento della Cisgiordania occupata. Il predecessore di Netanyahu, Ehud Olmert, aveva offerto il 97 per cento. E Abu Mazen aveva rifiutato perché non c'era Gerusalemme Est.
   Oltre che dell'ambasciata Netanyahu e Trump hanno parlato a lungo di questo. Secondo indiscrezioni raccolte dal quotidiano «Haaretz», il leader israeliano, sulla breccia dal 1996, punta a concedere ai palestinesi la condizione di «state-minus», cioè un gradino sotto la piena sovranità. Ma ha bisogno di un forte appoggio della Casa Bianca per far passare un cambio di rotta così radicale dagli accordi di Oslo.
   Nella telefonata si è però parlato anche di Siria e Iran. Fonti diplomatiche israeliane hanno rivelato «disagio» per la presenza di una forza militare russa imponente ai confini settentrionali dello Stato ebraico. In un futuro accordo Trump-Putin vorrebbero vedere un ridimensionamento di questa presenza, e soprattutto di quella iraniana Sull'accordo nucleare fra Washington e Teheran però, ancora secondo indiscrezioni riportate da «Haaretz», sono state le forze armate israeliane a frenare. Sia Netanyahu che Trump vorrebbero «rivedere» l'intesa, uno dei pochi successi di Barack Obama in Medio Oriente.
   I militari però vedono più pericolosa una rottura che il «cattivo accordo» ottenuto dalla precedente Amministrazione Usa. Il patto, sottoscritto anche da europei e russi, dà comunque a Israele il tempo per preparare le difese. Nei giorni scorsi ha superato i testi il nuovo missile anti-balistico Arrow-3, uno dei più avanzati al mondo, in grado di stoppare qualsiasi attacco missilistico.
   Il realismo, almeno nella regione mediorientale, prende il sopravvento sulle promesse elettorali. Niente passi affrettati. Né sull'Iran né sull'ambasciata. Il nuovo ambasciatore in Israele, David Friedman, arriverà alla fine di febbraio e ha comunque già deciso di vivere a Gerusalemme, come ha anticipato il quotidiano online Ynet, anche se l'ambasciata non sarà trasferita da Tel Aviv. L'intesa Netanyahu-Trump, due che si fidano molto del proprio istinto, è già solida. Il presidente americano ha parlato di «colloquio molto buono». Per ora non servono gesti clamorosi.

(La Stampa, 23 gennaio 2017)


Trump a Netanyahu: pace israelo-palestinese solo attraverso negoziati diretti

GERUSALEMME - La pace tra israeliani e palestinesi potrebbe essere raggiunta solo attraverso negoziati diretti. Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nel corso del colloquio telefonico avuto con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Nella loro prima conversazione telefonica dopo l'insediamento di Trump alla Casa bianca, il presidente degli Stati Uniti ha invitato Netanyahu a Washington nel mese di febbraio. "La pace tra Israele e i palestinesi può essere negoziata solo direttamente tra le due parti", ha detto Trump a Netanyahu, aggiungendo che "gli Stati Uniti lavoreranno a stretto contatto con Israele per fare progressi verso questo obiettivo". I due leader hanno discusso inoltre dell'accordo sul nucleare iraniano e della cooperazione bilaterale nel campo dell'intelligence e della sicurezza. Netanyahu, riferisce un comunicato del governo israeliano, "ha espresso il desiderio di lavorare a stretto contatto con il presidente Trump per forgiare una visione comune per far progredire la pace e la sicurezza nella regione".

(Agenzia Nova, 23 gennaio 2017)


I grandi ebrei illegali
   
Intervista al generale Hacohen, che portò via i coloni da Gaza: "E' la nostra patria millenaria. Se tornassimo ai confini del 1967 ci sarebbe una guerra distruttiva". Una settimana con i coloni d'Israele, i fantastici "illegali" che oggi il mondo vuole cancellare. "I terroristi controllerebbero l'aeroporto di Tel Aviv, da qui''. Sono l'ostacolo alla guerra, non alla pace. Un superrepartage.

Per chi vive oltre "il muro" la frontiera è ovunque, entra nelle case e negli incubi. Sono in centomila, i più arditi E' una regione piccola come la Liguria, ma è anche la più contesa al mondo. Tutti vogliono gli ebrei fuori di lì.

di Giulio Meotti

Di notte, la colonia di Elkana ha il respiro di una città invisibile di Italo Calvino. Al mattino, i bambini sono ovunque, dietro i reticolati che chiudono le scuole, sui marciapiedi, alla fermata dell'autobus dove un orizzonte inquieto riaffiora e si offre ai loro giochi. Gli alberi sono stati piantati a migliaia, come se la terra, da scabra e severa, fosse stata costretta a diventare verde. Tamy, che ci ospita nella sua casa, viene da Tel Aviv: "Quando venni qui, nel 1977, ero incinta con due bimbi piccoli. Non c'era niente, solo rocce e un vecchio edificio inglese". Facciamo base a Elkana alla scoperta della "terra incognita" d'Israele che tutto il mondo gli contesta.
   E' una regione insediata dalle "New Town" sioniste costruite da architetti incerti fra Le Corbusier e le militari logiche della sicurezza. Eccoli, i "coloni", i falchi che non vogliono abbassare le ali, gli abitanti più "illegali" della terra, che le risoluzioni dell'Onu, le marchiature dell'Europa e gli ammonimenti di Obama hanno provato a scacciare dalle loro case. A giugno festeggeranno i cinquant'anni della loro presenza in quella che chiamano Giudea e Samaria e che il mondo definisce invece Cisgiordania, West Bank, Territori occupati, Palestina, a seconda di cosa si pensi del conflitto. Di Israele parlano tutti, con Israele pochi, con i coloni ancora meno. Secondo la bella gente di mezzo mondo, sono loro, i "settlers", a condannare Israele a fare la fine della Rhodesia. Elkana sembra un sobborgo americano fortificato, le tendine policrome ai vetri, i vasi di gerani sui davanzali, come se un pezzo di occidente fosse caduto per qualche tempesta assurda in mezzo al niente. Una sorta di Svizzera silenziosa e ordinata. Elkana domina la vista su Petach Tikva dentro la Linea verde, il primo villaggio consapevole di ebrei venuti in Palestina nel 1878 non per morire nella "terra dei padri", ma per combattere e viverci. A Elkana stupendi viali di cipressi, buganvillee e oleandri, ibischi, melograni e palme e pini, si estendono là dove solo pochi anni prima si offriva al visitatore un paesaggio spoglio. C'è sempre qualcuno che cura una fila di piantine dentro un'aiuola. Tutti che salutano tutti, come una volta si usava anche da noi. Poi, giri l'angolo ed eccolo lì, il "gedarim", il filo spinato che avvolge letteralmente la comunità. Fuori dal cancello è davvero un altro mondo. La "separazione" è un muro di cemento di cinque metri, anticipato da un fossato sovrastato da una barriera di
Di giorno le colonie si svuotano. Nessun israeliano ci mette mai piede: "Per paura e imbarazzo".
Ci dice Yossi Dagan, il capo delle colonie della Samaria: "Senza queste montagne la larghezza di Israele sarebbe quella di una strada di Parigi. E' indifendibile"
sensori elettronici che capta anche il rumore di scavi di tunnel, a sua volta protetta da un'altra siepe di filo spinato dalla parte palestinese. Una strada per i veicoli militari corre lungo il "muro", controllato da telecamere. Da qui in poi ci vivono i coloni più idealisti, i più intrattabili, i più coraggiosi, i più decisi a restare. Nei Territori più si va a vivere a est più si dimostra la propria fermezza. Sono i centomila israeliani che vivono fuori i mille chilometri di barriere, mura e fence che sigillano i confini dello stato ebraico. La geografia della paura è stata generosa con Israele: dalla frontiera con il Libano all'ultimo sud, la vita degli israeliani ogni giorno è legata al fantasma dell'insicurezza. Nei Territori ancora di più. Qui gli attentati sono frequenti, non si è mai lontani dalla frontiera che si insinua nelle case, nelle auto, nei sogni, negli incubi di chi ci vive. Sono gente strana, i coloni: la barba protesa come un'arma, l'indirizzo di casa citato nella Bibbia in una overdose di mito e disperazione, spingono passeggini con il mitra a tracolla e si sono messi di traverso sui binari della storia, non scalfiti da ciò che eccita noi moderni, sembrano dei fricchettoni con le camicie a quadri e le kippà a uncinetto ma votano più a destra che non si può, si deliziano della bellezza di tramonti carichi di fatti terribili, di lutti, di volti di bimbi ebrei uccisi, di patriarchi che un tempo camminavano qui. Il cerebrale intellettuale ashkenazita si accompagna all'ebreo yemenita, marocchino, iracheno e algerino di poche parole, che fino a ieri ha vissuto nella casbah e nel ghetto. Gridano parole sul Messia che sta per tornare, domani, fra poco. Spesso, sotto giacca e cravatta, hanno il manto di preghiera di chi fa della propria vita una testimonianza di fede. La Cisgiordania, la terra più contesa del mondo, si estende su 5.600 chilometri quadrati, come la Liguria. Di questa, gli israeliani controllano oggi il quaranta per cento, secondo gli accordi di Oslo. Sono mezzo milione i coloni, senza contare i duecentomila a Gerusalemme est. Per muoversi usano le "by pass road", previste dal secondo accordo di Oslo. Brillano, nuove, dell'asfalto nero depositato di fresco. I palestinesi le usano, gli ebrei non possono entrare nei villaggi palestinesi. Verrebbero linciati, come accadde a due riservisti a Ramallah. Di questa "apartheid" il mondo non parla. I coloni vivono in case disposte come in un castro romano a protezione di due terzi della popolazione sulla costa, Tel Aviv, l'aeroporto Ben Gurion, Haifa, le centrali di Hadera, quella di Ashdod, tutte a un tiro di schioppo.
   Sono israeliani che hanno entusiasmo da vendere e il senso dell'eroico di chi crea dal niente. Ma anche la follia di far fronte a un nemico senza divise, non il concittadino antisemita come in Europa, l'eternamente minaccioso "goi", ma una anomalia interiore, un disturbo del ritmo che fa fluire la vita dal passato al futuro e viceversa. La loro esistenza è un grande "credo quia absurdum".
   Nei coloni c'è una tragica legittimità nell'aver sempre combattuto, nello stato fondato da ebrei laici e socialisti come David Ben Gurion, una battaglia di minoranza per restare ebrei, e c'è anche, se si vuole, un omaggio ai sei milioni di morti della Shoah. Affonda qui lo psicodramma degli israeliani arrampicati su decine di brulle colline della Cisgiordania.
   Non c'è terra su cui archeologia, religione e politica, compassione e prepotenza, si intreccino con tanta violenza in un groviglio di assilli che alimenta incubi ed esaltazioni. Fra i coloni fortissima è la lettura della storia e della letteratura in cui si raccontano le distruzioni perpetrate contro il popolo ebraico dai re assiri, dai Romani, dall'Inquisizione, dalle crociate, dalla Shoah, dal mondo islamico. I governi israeliani negli anni hanno oscillato fra il considerare quelle terre moneta di scambio per un accordo con i palestinesi o "terra liberata" che ha conferito al piccolo Israele sicurezza e radici storiche.
   I coloni, intanto, si insediavano sulle colline. Spavaldi e determinati a difendersi contro i "sonnei Yisrael", i nemici di Israele. Compreso parte dell'Israele mainstream che vive nella "bolla" di Tel Aviv e che guarda ai coloni con tristezza e apprensione. Tristezza, perché convinti che quegli ebrei dovranno essere portati via o abbandonati per non avere uno stato binazionale. Apprensione, perché nessuno si aspetta che vadano incontro al loro destino in modo mansueto. Poi c'è la cultura israeliana di sinistra che li odia. Basta pensare a un dramma teatrale di Yehoshua Sobol, "La palestinese", in cui una giovane palestinese incinta è calpestata da un gruppo di coloni. O a quell'articolo sul quotidiano Haaretz a firma di Zeev Sternhell, in cui il famoso politologo invitava i palestinesi a fare fuoco sulle colonie e non sui bravi israeliani che vivono sulla costa.
   La quasi totalità dei coloni che si sono insediati qui, la mattina va a lavorare a Gerusalemme o a Tel Aviv e rientra la sera. Così di giorno i loro villaggi sono vuoti, perché nessun israeliano, tranne i soldati o i parenti stretti, vi entra mai. Se domandi perché ti rispondono: "Paura e imbarazzo". Per loro, Israele rischia di perdervi l'anima nei Territori e i palestinesi di rinchiudersi nel loro "rifiuto".
   "Questa è la nostra patria millenaria, non siamo venuti qui per Tel Aviv, lo shtetl o l'Olocausto, ma perché è la nostra terra", dice al Foglio il generale Gershon Hacohen, che ebbe da Ariel Sharon l'ingrato
Il generale Kuperwasser: "Le colonie sono tutte strategiche, controllano zone importanti in cui
è nato il terrorismo. E anche gli insediamenti più isolati sono mol- to importanti per come è oggi la situazione sul terreno"
compito di evacuare gli ottomila coloni di Gaza. Senza Gerusalemme, dice Hacohen, Tel Aviv sarebbe soltanto "un'altra Brooklyn". Durante la guerra del Libano del 1982, Hacohen scrisse le famose "Lettere dal fronte" alla moglie, che venivano pubblicate da Haaretz. "Non possiamo proteggere Israele se i missili sono piazzati sulle montagne di Giudea e Samaria", continua al Foglio Hacohen, che ha diretto anche i collegi militari. "E i soldati da soli non sono sufficienti: ogni giorno non ci sono più di diecimila militari nei Territori a fronte di cinquecentomila ebrei. Cosa è meglio, entrare a Nablus con un raid o lanciare una massiccia operazione militare come a Gaza? Ogni notte, grazie agli insediamenti, l'esercito può fare una incursione a Nablus e Ramallah e distruggere una fabbrica di armi. Se Israele tornasse ai confini del 1967 ci sarebbe una guerra distruttiva e migliaia di profughi ebrei. L'Europa vuole che torniamo in un ghetto a Tel Aviv. Ci metteranno le sanzioni? Ok, sopravviveremo".
   Il generale Yossi Kuperwasser, già direttore del ministero degli Affari strategici e della sezione ricerca dell'esercito, al Foglio spiega che "ogni insediamento ha oggi un valore di sicurezza e fa parte del sistema di controllo dei Territori. Le colonie sono tutte strategiche, controllano zone importanti in cui è nato il terrorismo. Poi ci sono colonie che hanno un super valore di sicurezza, come quelle attorno a Gerusalemme. Le linee del 1967 non sono difendibili e Israele ha bisogno che le colonie siano incluse in un futuro accordo con i palestinesi, come quelle nella Valle del Giordano".
   E gli insediamenti ideologici che dominano le città arabe? "Anche quelli più isolati, fuori dalla barriera, sono importanti per come è la situazione oggi sul terreno. Se troviamo un accordo con i palestinesi questo valore potrebbe cambiare, ma oggi no.
   Alcune delle colonie che guardano Nablus sono fondamentali per controllare il territorio. Amona, ad esempio, sorge in un luogo strategico. I coloni sono gli occhi e le orecchie dell'esercito, vedono, mantengono Israele al sicuro. La colonia è una componente decisiva per fermare il terrorismo". Più moderata la posizione di Eran Lerman, colonnello della riserva, per vent'anni nell'intelligence dell'esercito:
   "Molti insediamenti, come quelli a guardia di Gerusalemme, sono vitali per tenere unita e sicura la capitale di Israele", dice Lerman al Foglio. "Alcuni insediamenti sono meno giustificabili in termini di sicurezza. Ma il confine va stabilito in un accordo e lo scambio di terra non può essere di uno a uno". Secondo Lerman non c'è bisogno di portare via i coloni. "La dislocazione di decine di migliaia di persone non è possibile né necessaria, i palestinesi possono comunque avere il novanta per cento dei Territori". La sinistra è sempre stata pronta a mollare queste terre. La destra le ha sempre considerate un tesoro per la sicurezza. Nessuno sa cosa abbia in mente il premier Benjamin Netanyahu. Secondo alcuni leak di stampa, "Bibi" era pronto a cedere 1'86 per cento di questi territori. Per lui il confine va disegnato in modo tale "da includere il massimo numero di israeliani e il numero minimo dei palestinesi". Netanyahu ha in mente un "piano Allon plus", che ricalchi i principi di quello formulato dopo la Guerra dei sei giorni dal leader laburista Yigal Allon. Sono le "zone di difesa irrinunciabili", come la strada tra la costa e il Giordano; Gerusalemme, che per assicurarsi il destino di capitale deve inglobare le città satelliti che pareggino la forza degli arabi, e i "green line settlements", pianificati dai governi di sinistra e considerati la cintura di sicurezza dell'aeroporto Ben Gurion, l'unico scalo internazionale d'Israele.
   Yossi Dagan è il sindaco del consiglio della Samaria ed è stato appena invitato da Trump alla cerimonia di inaugurazione: "Un ebreo non può occupare la Giudea", dice Dagan al Foglio. "Fra il Mediterraneo e la Giordania ci sono 70 chilometri. Le montagne della Giudea e della Samaria ne occupano 55. Possiamo ridurre Israele a quindici chilometri, come una strada di Parigi? Senza queste montagne non avremmo confini difendibili". Durante una sessione del Parlamento israeliano, gli ufficiali della sicurezza hanno appena fatto i nomi degli insediamenti più a rischio attentati: Elon Moreh, Otniel, Carmei Tzur e Negohot, E' in questa linea del fronte che siamo andati per capire chi ci vive.

* * *

Passando dal campo profughi di Arroub, fra Gerusalemme e Hebron, le reti sono a protezione dei veicoli israeliani contro il lancio di sassi e molotov. Una torretta dell'esercito vigila su questo snodo strategico. C'è Halhoul, dove l'esercito ha ritrovato i cadaveri dei tre studenti israeliani uccisi mentre facevano l'autostop. I villaggi palestinesi sono annunciati da grandi minacciosi cartelli: "Accesso vietato agli israeliani". Dopo Oslo, nessun ebreo ci mette piede. Da qui in poi la proporzione fra ebrei e arabi è di uno a ventisei. E' fisica la sensazione di essere un corpo estraneo.
   Il quartiere ebraico di Hebron, dove riposano tutti i patriarchi della Bibbia, è un ghetto. E' l'unica città palestinese con una presenza ebraica, un magnete per tutti i coloni e l'epicentro della Terza Intifada, un anno fa. Si sale fino a Tel Rumeida, dove vivono diciotto famiglie, le più ardite, protette da tre garitte dell'esercito e giovani soldati cui le madri israeliane portano dolci e caffè. Tel Rumeida è adiacente al vecchio cimitero ebraico e al sovrastante rione palestinese di Abu Sneina. Le case prefabbricate sono spesso barricate dietro sacchi di sabbia, con accesso vietato agli estranei. Tehila vive in una roulotte con dieci figli. Le pareti di casa sono piene di libri religiosi. Il suo vicino di casa era il rabbino Shlomo Raanan, ucciso nel suo letto nel 1998. Quando Ariel Sharon evacuò Gaza, Tehila andò a viverci tre mesi per protestare contro il ritiro. Il suo vicino di casa è Baruch Marzel, riottoso leader dei coloni di Hebron. Ci accoglie nella sua casa: "E' un giornalista tedesco? Perché io con i tedeschi non parlo", precisa subito. "Senta, avevamo due battaglioni di soldati prima di Oslo, oggi sono quattordici. Abbiamo dato noi israeliani i fucili ai palestinesi e li hanno usati contro gli ebrei. Poi gli abbiamo dato il 97 per cento della città. Io da trent'anni vivo in un prefabbricato. Perché non posso comprare una casa? Vogliamo vivere a
A Otniel il direttore della scuola rabbinica ci mostra una pagina del diario del capo del Sonderkom- mando che lavorava nelle camere a gas di Auschwitz. E ci dice: "L'Euro- pa, se vuole preservare gli ideali umanistici, deve essere forte"
Hebron, essere maggioranza. Oggi non lo siamo soltanto perché gli arabi ci hanno massacrato nel 1929 (l'anno del pogrom, ndr). Se un ebreo ha diritto a vivere a Tel Aviv è perché noi siamo qui. Se non abbiamo diritto a vivere qui, dove possiamo tornare? In Polonia? In Germania? Ci abbiamo provato e non è stato piacevole. Netanyahu dica al mondo: 'Questa è la nostra terra'. Vengono da tutto il mondo a dirci che dobbiamo essere gentili, tolleranti, ma a loro, agli inglesi, dico: 'I musulmani faranno a voi quello che hanno fatto a noi ebrei nel 1929'. Se non fossimo qui nessun ebreo al mondo potrebbe oggi pregare nella Grotta dei Patriarchi". Prima di lasciarci, Marzel ci fa vedere i fori di proiettili nella sua cucina e nella terrazza: "Io rispetto gli arabi, li prendo sul serio quando dicono di voler massacrare gli ebrei".
   Noam Arnon è il portavoce della comunità ebraica di Hebron: "Oslo ha distrutto quest'area e la pace. Pace è quando le persone si parlano. Oslo ha separato le persone, ha portato armi, barriere, muri, odio, terrore. Adesso vogliamo creare dalle rovine una vita normale. Non credo che la pace possa essere ottenuta con un crimine, come la distruzione delle sinagoghe a Gaza". Arnon dice che gli ebrei sono le vere vittime dell'apartheid: "Hebron è oggi divisa nella zona H1, chiusa agli ebrei; la zona H2, chiusa agli ebrei e su cui Israele ha il controllo della sicurezza; e il tre per cento aperto a noi ebrei. Ma se giri la mappa, vedi lo stato di Israele nella regione. Siamo quel tre per cento". Arnon è fiero di dialogare con i palestinesi: "Alcuni mesi fa sono stato invitato a casa del presidente israeliano Rivlin, perché un gruppo di leader arabo-islamici della West Bank, fra cui lo sceicco Tamimi, voleva chiedere a Israele di estendere la propria sovranità alla Giudea e Samaria. Hanno paura dell'Isis, di Hamas, dell'Olp, sanno che solo Israele può dare loro diritti, vita, educazione, cibo. Guarda in Siria, Libia, Iraq. A Bruxelles è troppo difficile da capire questo concetto?".
   Eppure, per gli israeliani della costa i giovani militari a guardia degli ebrei di Hebron sono un peso eccessivo. "Sai quanto spende Israele per proteggere Tel Aviv?", ci chiede Arnon. "Dal cielo, dal mare, da terra, Tel Aviv è protetta. Una volta che hai deciso che l'esistenza di qualcosa è importante, non importa quanto costa la difesa. Hebron è il nucleo della vita ebraica. E' il luogo dove la prima persona, Giacobbe, venne chiamata 'Israele'. Oggi l'esercito ci protegge con la sua presenza su quelle colline. Lo dicemmo dall'inizio: 'Ci spareranno'. Molte illusioni sono morte, purtroppo al prezzo di troppe vite umane. Senza Hebron, non c'è Tel Aviv; ma senza Tel Aviv non ci sarebbe neppure Hebron, perché come piccola comunità non potremmo sopravvivere senza uno stato. L'Europa oggi investe milioni di dollari nella costruzione di uno stato, quello palestinese, in cui non possono vivere ebrei. Uno stato judenrein. Potrebbero mai finanziare uno stato senza neri? Senza gay? Per l'Europa noi ebrei non abbiamo diritti. Io sono venuto a vivere qui nel 1972 e allora non c'era un solo ebreo dentro a Hebron".

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Quelli fra Hebron e la colonia di Otniel sono i "sedici chilometri maledetti": venticinque israeliani vi hanno perso la vita in attentati. L'ultima vittima, sette mesi fa, il rabbino Michael Mark, ucciso mentre guidava con la moglie e i figli. In questa regione ci vivono soltanto diecimila ebrei, perché è fuori dal tracciato del fence antiterrorismo ed è una delle regioni più isolate di tutta la Cisgiordania. La strada diventa una roulette russa quando inizia la statale 356, dopo Kiryat Arba, e per farla devi costeggiare numerosi villaggi palestinesi. E' facile per un terrorista appostarsi al ciglio della strada, sparare e scomparire in un villaggio. Per arrivare a Otniel, spesso si evita la strada da Hebron, e si passa da sud, dal checkpoint Meitar. Ma anche da lì, la strada non è una festa. Durante la Seconda Intifada, Otniel venne scossa da un fatto terribile. Il 27 dicembre 2002, era un venerdì notte, un gruppo di terroristi penetrò nella scuola della comunità per fare una strage di ebrei che celebravano lo shabath. In cucina alcuni ragazzi preparavano da mangiare, in sala a decine danzavano estasiati. Quando sentì i primi spari, il sergente Noam Apter si chiuse con i terroristi in cucina, bloccando l'accesso alla sala e salvando gli altri. Pagò il gesto con la vita. Morirono in quattro. Nella strada per Otniel carichiamo tre ragazzi che studiano in quella colonia, non hanno paura di fare l'autostop. "Il segreto degli insediamenti sono i caravan e l'autostop", scherzano. Alta su una collina c'è una grande base militare israeliana. I minareti di Hebron dominano il resto del paesaggio. La colonia di Beit Haggai è appoggiata su un fianco dove ci sono stati molti attentati. Si devono fare dieci chilometri prima di trovare altri segni di vita israeliana.
   Un cancello giallo separa il mondo esterno e Otniel. Ci accoglie Benny Kalmanson, direttore della scuola rabbinica, che porta una pistola nella fondina. Kalmanson insegna storia ebraica: "A queste pareti può vedere i giornali dell'epoca fascista, c'è anche il ghetto di Roma e il Manifesto della razza", dice al Foglio Kalmanson. "'Dove andare?', chiedevano gli ebrei all'epoca in Europa. Oggi sono io a non sapere cosa ne sarà dell'Europa, con la sua demografia". Poi Kalmanson ci mostra il suo tesoro: "Ecco qui, due pagine recuperate ad Auschwitz, dove il capo del Sonderkommando che lavorava nelle camere a gas, Salmen Gradewski, scrisse un diario. Ne sono sopravvissute alcune pagine: si trovano in parte a San Pietroburgo e in parte qui a Otniel. 'Ho una richiesta: punite gli assassini', scriveva Gradewski. Qui a Otniel ci consideriamo degli umanisti, vogliamo dialogare con i palestinesi, ma sappiamo anche che dobbiamo essere forti. Nel 2002 ero qui durante l'attentato e un anno fa ho perso in un attentato mio cognato, Micky
A Psagot, affacciata sulla capitale palestinese Ramallah. A Ofra, dove vivono i "vecchi" delle colonie. A Beit El, dove Abramo costruì l'al- tare al Signore. Fino ad Amona, l'avamposto da evacuare. "Fu Ehud Barak a dirci di venire a vivere qui"
Mark". Kalmanson ci porta sul luogo di quella strage terribile: "Era shabbath, gli studenti danzavano, quando sentirono gli spari in cucina. Si erano chiusi dentro con i terroristi, salvando così la vita degli altri". Oggi, a Otniel, gli studenti pranzano con le foto degli amici uccisi sempre in vista. "Ho un messaggio per l'Europa", ci dice Kalmanson prima di andarsene: "Se vuole preservare i propri ideali liberali e umanistici, Verdi e Wagner, deve essere forte". E ci mostra un filatterio di preghiera tratto da una fossa comune durante la Shoah. "Come ha detto Charles Dickens, ci sono momenti belli e momenti brutti", dice al Foglio Yaakov Nagen, l'allievo di Mark, ucciso nell'ultimo attentato a Otniel. Nagen, padre medico e madre avvocato, è nato a Manhattan. "Qui abbiamo sofferto molto a causa del terrorismo", ci racconta Nagen, sette figli. "La mia vicina di casa, Dafna Meir, è stata uccisa qui dietro. E' il prezzo di vivere qui. Abbiamo vissuto duemila anni in Europa, dove ci dicevano dove potevamo vivere. Oggi c'è una mutazione dello stesso odio. Dicono che i palestinesi sono Gesù e che noi ebrei siamo i nuovi Romani. Ci sono arabi in Israele, perché non possono esserci ebrei qui? Abbiamo bisogno di legami, non di separazione". La biblioteca di Otniel è diversa dagli altri insediamenti: i libri di Tolstoj, Amos Oz e Thomas Mann si mescolano ai copiosi commenti sulla Torah. Riprendiamo la strada, che si fa sempre più disabitata, verso la colonia di Beit Yatir, che si affaccia sul deserto di Arad, quello immortalato nei romanzi di Amos Oz. Per arrivarci si passa la piccola colonia di Shmoa, presidiata da un soldato. Poi l'avamposto di Asael, distrutto e più volte ricostruito. Per entrare a Yatir si passa un grande checkpoint. Ci accolgono il rabbino e colonnello Moshe Hager-Lau, che sta facendo lezione a un centinaio di studenti. Molti hanno il fucile a tracolla, come Hager, parente stretto dell'ex rabbino capo Yisrael Meir Lau. "Vivo qui da trent'anni, ho fondato io Yatir, volevamo una colonia agricola", ci racconta Hager, vice comandante di una divisione di carristi. "Nel deserto del Negev oggi abbiamo pomodori, patate, vigneti. Da qui vediamo il Sinai, la Giordania, Dimona, la centrale atomica. Questa valle è citata nella Bibbia. C'erano ebrei a Yatir già tremila anni fa. Siamo tornati qui per studiare, lavorare e per essere lo scudo di difesa della società israeliana. I terroristi vogliono arrivare a Tel Aviv, ma ci siamo noi nel mezzo. Durante l'operazione Defensive Shield sono stato a Ramallah, un onore per me. Tutti sanno che la nostra presenza è importante qui per tutto Israele. Vent'anni fa l'idea che eravamo un ostacolo alla pace poteva reggere, oggi no. Il problema è l'islam radicale, non gli ebrei di Giudea e Samaria. Gli arabi vogliono tutto, non le colonie. Mio nonno e mio zio sono stati uccisi a Treblinka. L'unico posto dove gli ebrei possono difendere se stessi è Israele. Ma dobbiamo migliorare, questa non è la Svizzera. Ho perso mia figlia nell'esercito, ma i miei figli servono tutti nelle unità combattenti". Hager ci mostra il suo fucile. "Nel 1976 ero al cinema a Tel Aviv e sentii degli spari. Terroristi avevano attaccato l'Hotel Savoy. Non avevo il fucile. Da allora lui viene sempre con me".

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Tornando indietro verso Gerusalemme si compie il viaggio più allucinante che possa intraprendere un israeliano che vive qui. Sono dieci chilometri dentro il territorio dell'Autorità palestinese. L'insegna per Negohot indica di salire. Poi quel cartello:
   "Vietato l'accesso agli israeliani". Si procede fra due, tre villaggi palestinesi, trattenendo il respiro. Alla fine della strada c'è l'insediamento di Negohot. Shaked Avraham, sette mesi, qui venne ucciso da un terrorista palestinese penetrato nella comunità, mentre gli altri celebravano il capodanno ebraico. Shaked aveva appena iniziato a camminare. Un centro per bambini di Negohot porta oggi il suo nome. Ci accoglie a casa sua Asaf Fried, fa il programmatore alla Banca Leumi a Lod, la più grande d'Israele. Dalla sua terrazza si vede tutto, da Gaza a Tel Aviv compresa la centrale di Ashkelon. Il fucile mitragliatore lo segue ovunque, anche nel salotto, fra i bambini che giocano. "Questa colonia venne costruita da Menachem Begin in cambio della distruzione delle colonie nel Sinai nel 1982", ci dice Fried. "Io vivo qui dal 1997, quando arrivai con mia moglie. Da allora qui sono nati i miei dieci figli. Non c'era niente. Solo militari. Ogni giorno un camion ci portava l'acqua potabile. Il governo si aspettava che Negohot collassasse su se stesso. Non lo abbiamo reso possibile. Oggi ci vivono cinquanta famiglie. Ehud Barak nel 1999 ha dato la nostra strada all'Autorità palestinese, era un esperimento. Un anno dopo è scoppiata la Seconda Intifada e un bambino di sette mesi è stato ucciso. Per sette anni quella strada è stata chiusa a causa degli attacchi. Prima impiegavamo mezz'ora di auto, da quel giorno ne servivano due e mezza. Facemmo uno sciopero, con i nostri figli al bordo della strada, mentre i militari stavano nei blindati. Durante l'Intifada qui c'erano cinquanta soldati. Abbiamo un asilo e una scuola fino ai sette anni. Ogni giorno parte un autobus protetto dall'esercito. C'è chi esce dalla comunità e chi chiede all'esercito di seguirlo. Nessuno si avventura senza armi. Non vivo qui come riservista, sono stato a Gaza a combattere durante l'ultima guerra. Vivo qui come ebreo: è il nostro paese, la nostra terra. Mio nonno venne qui nel 1935, tornò in Europa a recuperare i sopravvissuti all'Olocausto. Per me la creazione di Israele è parte della redenzione. Mio nonno purtroppo non ha potuto vedere la liberazione di Gerusalemme di cui quest'anno si celebrano i cinquant'anni". Asaf non ci saluta alla porta di casa. Ci accompagna indietro per quei dieci chilometri di strada maledetta. Che sollievo uscirne.

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La colonia di Psagot, costruita sulla collina che i palestinesi chiamano Jabel Tawil, è affacciata su Ramallah, la capitale dell'Autorità palestinese. Le case più vicine sono a cento metri dal confine. Psagot domina il deserto della Giudea, fatto di cave e rocce. Non c'è vegetazione fuori dalle colonie. Gli israeliani hanno costruito un muro a protezione delle case più esposte al tiro dei cecchini. Il canto del muezzin è continuo. Yossi vive a Psagot da dieci anni, viene dal Messico. Ha una copia del Codice di Aleppo, la Bibbia più preziosa. Ci mostra i segni dei fori di proiettile nella sua porta di casa e in terrazza. Dalla sua veranda si gode una bella vista sulla capitale palestinese. "Durante l'Intifada ci sparavano addosso", ci racconta Yossi. "Da quassù puoi vedere la Giordania e il Mediterraneo. Per questo costruirono qui Psagot, è un posto strategico, qui re Hussein di Giordania voleva farci una villa per le vacanze. Fino all'Intifada gli israeliani dovevano guidare attraverso Ramallah. Poi, con Oslo, hanno costruito una strada nuova". Non è un bene? "No, perché i palestinesi ci rispettavano quando gli passavamo in mezzo. Quando hanno visto che scappavamo hanno iniziato ad attaccarci. In Spagna, qualche anno fa, mi accusarono di 'opprimere i palestinesi'. Chiesi loro: 'In che lingua parliamo?' 'Spagnolo', mi dissero, 'lei viene dal Messico'. 'E sa perché in Messico parliamo spagnolo?', chiesi. 'Perché lo avete colonizzato'. Io non accetto lezioni dagli spagnoli, o dagli inglesi, che all'Onu hanno votato contro di noi. Gli spagnoli dicono a me che occupo la mia casa?"
   Per arrivare ad Amona, la capitale di tutti gli avamposti, si deve raggiungere Ofra, dove vivono tutti i "vecchi" del movimento delle colonie, il Gush Emunim, come Uri Elitzur, morto due anni fa, l'ex braccio destro di Netanyahu. Si passa dal vicino villaggio palestinese di Ein Yabrud, che controlla la strada per Ramallah e Gerusalemme e dove i coloni sono spesso attaccati. Tanti hanno sacrificato la propria vita qui, come Ariel Hershowitz, ucciso a fucilate mentre tornava dal lavoro. Ofra venne eretta nel 1976 quando Yitzhak Rabin era primo ministro e Shimon Peres ministro della Difesa. Negli uffici comunali di Ofra c'è una foto che mostra Peres piantare un albero. Ma prima di Ofra c'è Beit El. Non si contano gli agguati mortali su questo pezzo di strada guardato da un checkpoint. Le auto palestinesi formano una coda di oltre un
''Avevo un amico che si fermava sulla Linea verde, voleva che fossi io a portarlo alla mia colonia. Ave- va paura. Le nostre auto furono rafforzate con pezzi di metallo. Abbiamo perso amici per strada.
E' dai tempi di James Baker che l'America vuole mandarci via"
chilometro. Beit El nella Bibbia è la Casa di Dio, dove Abramo piantò la sua tenda e costruì l'altare al Signore; dove Giacobbe, figlio di Isacco, in fuga da Esaù, sognò la scala con gli angeli. L'autobus continua a portare bambini da scuola ad Amona. Ma questo insediamento è destinato, secondo una decisione della Corte suprema, a essere evacuato. Già nel 2006, qui, ci furono scontri violenti fra coloni ed esercito per evacuare alcune case. Il bilancio fu pesante: duecento feriti, 4.200 poliziotti, un milione di dollari spesi. Incontriamo Elad Ziv, leader di Amona. Ci accoglie nella sua casa di legno. "Vivo qui da diciotto anni. Amona fu fondata durante Oslo per preservare Ofra. Fu Ehud Barak in persona a stabilire che dovevamo venire a vivere qui. Ci hanno dato la strada, l'elettricità. Adesso la Corte suprema dice che dobbiamo andarcene. L'Unione europea finanzia le ong israeliane che appoggiano i palestinesi nelle loro richieste". Elad fa una pausa per andare a prendere uno dei suoi otto figli. Fa l'architetto. "Qui oggi vivono 42 famiglie. Da quassù si vede il Mar Morto, la Giordania, tutto. Eccola lì, vedi?". E indica Gerusalemme. "Quando eravamo in Europa ci hanno tradito, ucciso, preso tutto. Soltanto il popolo ebraico nella storia è stato espulso dalle proprie case e dalla propria terra e ci è tornato. Qui i maccabei hanno sconfitto i greci. Qui siamo tornati dopo duemila anni di esilio". Il nord della Samaria è un sopravvissuto. Quassù, nel 2005, Ariel Sharon smantellò quattro colonie: Sanur, Homesh, Kadim, Ganim. Le tre che restano, conficcate nel cuore di una valle stretta e ostile, sono scampate al "disimpegno". Ma per quanto ancora?
   La colonia di Shavei Shomron è un puntino sulla strada per Tulkarem. E' protetta da una guarnigione dell'esercito.
   Quando c'è tensione, quassù sulle colline, nessuno si avventura sulle strade se non ha un fucile e se ci vai diventi spesso un bersaglio mobile per i terroristi. Incontriamo Elhanan, che è a capo della sicurezza di Shavei Shomron. "Qui vivono duecento famiglie e venti di noi sono volontari per la sicurezza dell'insediamento. Non è facile vivere qui, non puoi prendere un'automobile e partire. Devi pensare sempre a cosa fare. Ci sono donne che non vogliono guidare da sole fuori dall'insediamento. C'è gente che non vuole guidare di notte". Elhanan, oltre che il capo della sicurezza della comunità di assediati e insediati, è anche un abitante di Shavei Shomron. "I miei figli vivono qui, questa è la mia terra. Non sono qui per proteggere gli israeliani sulla costa, ma perché ho il diritto di vivere qui. Ci sarei anche senza quei soldati. Non accetterei mai soldi dal governo per andarmene, non vivo qui per il mio bene ma per il bene del mio popolo. Ma se il governo decide che devo andare via, allora andremo via".
   Si prende la strada per Einav, un insediamento che sorge al fianco del territorio sotto l'Autorità palestinese. E' isolata, Einav, come se qualcuno l'avesse dimenticata su questa collina. Ci sono villaggi palestinesi a ogni lato: Ramin a est, Anabta a nord, Beit Lid a sud, Kuft Albad a ovest. Spesso, durante l'Intifada, le donne di Einav indossavano un giubbetto antiproiettile quando lasciavano la comunità: si poteva noleggiare per venticinque dollari al mese. Durante l'Intifada era facile leggere simili annunci nell'ufficio comunale di Einav: "Un saluto a tutti i residenti. Visto il deterioramento della sicurezza lungo il percorso per l'insediamento, la segreteria e il comitato di sicurezza hanno deciso che, al fine di costringere i funzionari a salvaguardare le strade, si terrà una preghiera in un punto diverso di volta in volta. Si prega di venire armati". Quando arriviamo a Einav non c'è quasi nessuno in giro. Solo due ragazzi che lavorano nel negozio di alimentari. Incontriamo Shmuel Elad, il capo della colonia, viene dalla Romania. "Quando arrivai qui non c'era niente, eravamo otto famiglie con un generatore della corrente elettrica. Oggi siamo in duecento famiglie. Durante la prima Intifada era impossibile vivere qui e molti se ne andarono. Si passava da Tulkarem per andare a Netanya, sulla costa, e ogni giorno era un lancio di sassi e attacchi. Le nostre auto furono rafforzate con pezzi di metallo. Dopo l'Intifada hanno costruito una nuova strada. Avevo un amico che all'epoca si fermava sulla Linea verde, mi chiamava e chiedeva di essere portato qui. Non veniva da solo. Aveva paura. Durante la Seconda Intifada abbiamo perso amici per strada". A Elad chiediamo perché Israele li voleva a vivere qui. "Volevano che costituissimo una linea ebraica di isolamento fra Tulkarem, Taibeh e Tira, spezzare la continuità palestinese. Dovevamo controllare quest'area, come un fence civile. Oggi la mia colonia non si espande perché, forse, al governo pensano che dovremmo andarcene. Io non mi vergogno di dire che sono un 'colono', anzi ne vado fiero. Sessanta famiglie spero che vengano a vivere qui entro l'anno. Ariel Sharon voleva includerci nel piano di
"Li senti i colpi di pistola a Nablus? Sono pieni di armi dopo Oslo. Si preparano a una nuova Intifada. Questa è terra di nessuno. Anche i palestinesi hanno paura a entrare in quel campo profughi. Ma oggi abbiamo un'ottima intelligence"
evacuazione, per consegnare ai palestinesi una grande regione che va da Jenin a Ramallah, che infatti oggi è judenrein, senza ebrei. Oggi è difficile qui, siamo solo tre colonie, seicento famiglie di ebrei israeliani fra migliaia di palestinesi". Elad non si scoraggia: "E' dai tempi di James Baker che l'America chiede di mandarci via. Siamo ancora qui". E indica il cielo con un dito. "Sono fiero di quello che ho creato. I miei figli, essere utile al mio paese: il senso di una vita".
   Nelle colonie di Ganim e Kadim c'era un detto: "Appoggi l'anima sul sedile e la riprendi dopo il checkpoint". Qui lo sgombero iniziò anche prima che arrivasse l'esercito a portare via gli ebrei: avevano fatto tutti le valigie nottetempo. Prima dell'evacuazione di Sharon, per raggiungere da Einav le due colonie di Hermesh e Mevo Dotan ci volevano venti minuti. Adesso ci vuole un'ora. Rientriamo nella Linea verde verso Netanya, saliamo su fino a Umm el Fahm e riprendiamo la strada verso i Territori. L'esercito israeliano durante l'Intifada ha creato una "Ssz", una zona speciale di sicurezza di quattrocento metri attorno agli insediamenti più a rischio. I primi a ottenerla furono Mevo Dotan e Hermesh, che visitiamo. Sono in un triangolo mortale che comprende Jenin, Tulkarem e Nablus. Mevo Dotan è l'ultimo avamposto israeliano della Cisgiordania. Oltre, non c'è niente. Quando arriviamo alla colonia, c'è solo un ragazzone che imbraccia un fucile mitragliatore all'ingresso. Gli israeliani qui capirono che per loro il futuro non prometteva niente di buono quando furono lasciati fuori dalla barriera antiterrorismo. Nel 2006, l'allora vice premier Shimon Peres fece una proposta a Tony Blair: "Diamo Dotan e Hermesh ai palestinesi in cambio della pace". Ovviamente la proposta non fu accettata. E Mevo Dotan e Hermesh sono ancora lì. Al culmine della Seconda Intifada, Mevo Dotan rimase con appena 29 famiglie. Tre abitanti dell'insediamento erano stati uccisi e gran parte dei residenti fecero le valigie. Qui neppure le ambulanze volevano avvicinarsi. Hermesh è una colonia fra i villaggi palestinesi di Baka al Garbiyeh e Baka al Sharkiyeh. Durante l'Intifada, quando avventurarsi quassù era un'impresa, anche da qui quaranta famiglie scapparono e presero una camera all'hotel Dan Panorama a Tel Aviv. Nessuno lasciava l'insediamento senza una scorta dell'esercito, che partiva ogni ora. Nel 1991, Ariel Sharon fece visita alla colonia e disse: "Gli insediamenti sono un ostacolo alla guerra, non alla pace". Quindici anni dopo, Sharon tornò su quelle colline per smantellare quattro insediamenti vicini. Mevo Dotan fu lasciato in piedi, ma nel visitarlo si ha la sensazione che la prossima volta toccherà a lui. Oggi tutto, a Mevo Dotan, sembra pronto per una nuova evacuazione. Ma a Hermesh, la colonia limitrofa, assicurano che la comunità è viva. Incontriamo Boaz Meleth, agricoltore, otto figli, sta costruendo una casa di legno per gli ospiti. "Siamo venuti a vivere qui dopo che Ariel Sharon portò via le colonie, perché il nord della Samaria era in grave pericolo. C'erano soltanto venti famiglie rimaste qui. Su cento edifici, ottanta erano vuoti. La gente era scappata. Due ragazzine furono uccise qui. La gente aveva il terrore, come a Mevo Dotan. Era una colonia di laici e i laici hanno più paura dei 'believers'. Le famiglie da 86 scesero a venti. Ogni notte l'esercito israeliano doveva fare raid a Jenin. C'era il terrore ad arrivare qui. Oggi siamo tornati a novanta. Stiamo avendo successo nel tenere in vita questa comunità. Quando ci siamo ritirati da qui, nel 2005, l'esercito ha abbandonato una grande base militare. Oggi, per compiere un arresto, deve fare un giro lunghissimo. Il ritiro ha un prezzo anche per l'esercito. Non mi fido dell'Autorità palestinese, è una organizzazione terroristica che paga lo stipendio ai terroristi in carcere, nelle cui scuole si insegna a uccidere ebrei. Israele uccide un terrorista e il mondo ci condanna. Lo stesso mondo che resta in silenzio di fronte a quanto accade in Siria. Io non capisco davvero".

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"I checkpoint non ci sono più in Giudea e Samaria, i palestinesi sono liberissimi di muoversi senza controlli dentro le loro aree, devono essere controllati soltanto alla Linea verde", ci spiega Boaz Haetzni, cinquant'anni, laico, lavora per lo Shomron Regional Council, una sorta di municipio che raccoglie tutti gli insediamenti dell'area. "Dopo Oslo, quando Rabin diede ai palestinesi il controllo di tutte le città, Peres disse: 'L'occupazione è finita"'. Arriviamo a Peduel, l'insediamento da cui si gode la vista più incredibile su tutta la costa. "Questa era la 'veranda di Ariel Sharon'. Vedi, c'è tutto qui: Tel Aviv, Hadera, Petah Tikva, Ramat Gan, Gerusalemme, Ramallah, i monti di Hebron. Quando lancia un missile da Gaza, Hamas non sa dove finisce. Se fosse su questa collina, gli basterebbe lanciare sassi contro gli aerei che partono da Tel Aviv. Più avanti, dal villaggio palestinese di Rawabi puoi vedere l'aeroporto internazionale Ben Gurion". Ci fermiamo a Barqan, la grande area industriale nelle colonie, settemila operai, di cui metà palestinesi. Sono le fabbriche colpite dal boicottaggio dell'Europa. "Se un palestinese porta a casa sua un bene prodotto qui, lo sbattono in prigione", ci dice Boaz. "L'economia palestinese si basa su tre fattori: un terzo di produzione interna, un terzo di donazioni estere e un terzo di lavoro in Israele. Allora, visto che le donazioni estere le prendono a causa del conflitto con noi, possiamo dire che contribuiamo per due terzi all'economia palestinese". Arriviamo alla fabbrica di plastica di Yehuda Cohen:
   "Ho cento dipendenti, di cui sessanta palestinesi", ci spiega. "Io vengo ogni giorno da un kibbutz, i palestinesi dai villaggi attorno, ognuno porta la propria storia, siamo un ponte per la pace. Il boicottaggio vuole distruggere non soltanto i miei prodotti, ma anche la pace, che si basa sul lavoro, la speranza".
   Vicino c'è Ariel, non una colonia, ma una città con la sua università, la sua biblioteca famosa, il suo centro culturale boicottato dagli artisti anche israeliani, come David Grossman. Ariel è stata edificata su un colle a quaranta chilometri esatti dal Giordano e a quaranta dal mare, insomma è "il centro esatto d'Israele". "Ora usciamo dal cancello est costruito da Ariel Sharon", ci dice Boaz. "Si rammaricò soltanto di non averlo costruito ancora più in profondità nei Territori. Dalla valle del Giordano all'India, da qui in poi è tutto un grande oceano islamico. Soltanto queste montagne proteggono Israele". Settantanove israeliani sono stati uccisi nella Samaria, assieme a diciotto soldati. In nessun'altra zona di Israele ci sono state tante vittime. Ci fermiamo a Rechelim, colonia piccola e isolata, porta il nome di due donne israeliane uccise qui sotto dai terroristi in agguati mortali. A Rechelim, due anni fa, venne il premier Netanyahu a fare un tour elettorale. Fu uno scandalo, nessun primo ministro si era spinto così addentro nelle colonie.
   La visita non fu annunciata, per motivi di sicurezza. Ci accolgono nella vineria Tura, elegante e di successo, esporta in tutto il mondo, soprattutto a Brooklyn. E' di proprietà della famiglia di Vered Ben Saadan, che incontriamo, una signora olandese figlia di una convertita all'ebraismo. "Siamo tornati a casa", ci spiega Vered. "Nella terra dei padri. Io posso vivere in pace con i palestinesi, ma loro devono scegliere, fra la pace e il terrore. Questa sarà la mia casa per sempre".
   Riprendiamo la strada 60: "Va da Beersheba a sud fino a Nazareth a nord", ci spiega Boaz. "Il novanta per cento della Bibbia si è svolto qui". Entriamo a Hawara, villaggio palestinese: "Gli israeliani hanno paura di passare da qui e hanno ragione". Sulla destra c'è Itamar, una delle colonie di maggior successo in quest'area, ma evoca fatti terribili. Nel giugno del 2002, un terrorista entrò nella casa della famiglia Shabo e uccise una madre e tre figli. Poi c'è stata, nel 2011, la strage nella villetta dei Fogel: padre, madre e quattro bambini sgozzati in piena notte. Andiamo alla fattoria di Avri Ran, il fondatore di Itamar. Sono dieci chilometri fra il nulla e le torrette dell'esercito. "Voglio connettere Itamar con la Valle del Giordano", ci dice Avri Ran. E questo è il massimo che gli si può togliere di bocca. Ran detesta i giornalisti forse più degli arabi. Saliamo nella zona più isolata di Itamar, "la collina di Arnon". Incontriamo il fondatore
Nel triangolo dell'Intifada: "Questo luogo stava morendo, per questo venimmo qui". Si sale in un avam- posto: "Ariel Sharon ci chiese di difendere la strada dalla Giordania alla costa. Senza di noi qui arriva Hamas dopo una settimana"
dell'avamposto, Shmuel Barak: "Vivo qui dal 1998. Eravamo un gruppo di agricoltori che voleva cambiare vita, io lavoravo per la Rafael, l'azienda di sicurezza. Sono venuto qui per dare un'altra sicurezza a Israele e per legarmi alla terra, producendo vino. Non è stata una scelta di testa, ma di cuore. Spero di servire il mio popolo". Cinque soldati sono fissi qui a difesa delle famiglie della "collina di Arnon". "Siamo qui per mantenere in mani nostre la valle del Giordano e la strada che porta a Netanya", continua Shmuel. "Ariel Sharon ci chiese di venire quassù per proteggere la strada che va dalla Giordania alla costa. La pace con Amman è splendida, ma che succederebbe se re Hussein cadesse e l'Isis o altri prendessero il potere? In quel caso ci siamo noi qui, assieme all'esercito. Se qui ci fossero i palestinesi metterebbero a rischio non solo Israele ma anche la Giordania. Se non ci siamo noi qui, arriva Hamas dopo una settimana. Per questo i palestinesi non firmano accordi con Israele, il giorno dopo sanno che il loro stato è in pericolo. Quando ci siamo trasferiti qui non c'era niente, le coppie giovani che vengono mi domandano: 'Cosa possiamo fare?'. E io rispondo loro: 'Quello che volete nella vita, se tentate riuscirete, se aspettate nulla accadrà"'. Shmuel nell'esercito ha cambiato il suo cognome, dal rumeno Berkovicz all'ebraico Barak. "Guarda, in un giorno di cammino da qui arrivi a Gerusalemme". Le jeep dell'esercito fanno la spola nelle colline di Itamar. Passiamo dalla casa dei Fogel, la villetta del grande massacro: "I terroristi riuscirono a entrare protetti da quel boschetto, così lo abbiamo tagliato", ci spiega Boaz.
   Nella strada per Elon Moreh si passa dal luogo in cui c'è stata l'uccisione dei coniugi Henkin. E' stato l'attentato che ha dato il via alla Terza Intifada. Due bandiere israeliane sono poste a memoria. Spesso, ogni notte, durante l'Intifada gli abitanti degli insediamenti venivano svegliati dagli allarmi terrorismo. Le villette di Elon Moreh sono quelle più a est dei Territori, le più isolate di tutti gli insediamenti. Si sale sul monte Kabir. "Moshe Dayan e Peres furono quelli che decisero di insediarci qui", dice Boaz. "Ariel Sharon fece molti tour nella regione per scegliere il luogo da cui partire". Dal monte Kabir la cosa più incredibile da visitare è la collina sulla valle di Tirza. "Ecco, tutta questa valle che vedi è senza la presenza di un solo ebreo", ci spiega Boaz. "L'esercito e i servizi d'intelligence la chiamano 'Fatah Land' e 'Jihad Land', perché tutti i terroristi liberati con Gilad Shalit e che vogliono tornare a fare terrorismo sono venuti qui. Non c'è presenza israeliana, ci si muove liberamente, e l'esercito quando deve fare un arresto entra facilmente, ma ne esce con grande difficoltà. Questa valle è un problema immenso per la sicurezza. Eppure, gli aerei israeliani vengono qui sotto a fare esercitazione, perché ricorda molto le valli nel sud del Libano".
   Si arriva all'altra montagna che si affaccia su Nablus, il monte Gerizim. Nella strada c'è il villaggio dei samaritani, sono amici di Israele osteggiati dai palestinesi. "L'unica cosa che protegge Fatah da Hamas è la nostra presenza", dice Boaz indicando il centro di Nablus, dove sorge la tomba di Giuseppe, terzo luogo più santo dell'ebraismo. "In quel campo profughi l'Autorità palestinese ha paura di entrare. Qui sono pieni di armi dopo Oslo, quando si perse ogni registro delle liste di armi in ogni villaggio palestinese. Hamas oggi è pieno di armi, ma non le usa perché i servizi segreti israeliani sono forti". Mentre parliamo, colpi di fucile vengono da Nablus. "Questa è 'no man's land', ci sono le gang. Oggi Abu Mazen lavora per noi, lo proteggiamo, altrimenti sarebbe un uomo morto. Purtroppo la nostra intelligence collassò con Oslo, e soltanto l'operazione militare nel 2002 l'ha ricostruita. Fu così, in quel collasso, che riuscirono a uccidere migliaia di ebrei". Saliamo fino ad Har Bracha. Per arrivarci si passa da una serie di villaggi palestinesi che hanno la moschea che ricorda quella d'oro di al Aqsa. Un soldato israeliano è a guardia della colonia, le gambe protette da un cubo di cemento contro gli attacchi con le auto. Ariel Sharon venne quassù, nel 2002, quando lanciò la battaglia per la casbah di Nablus. Incontriamo il rabbino Eliezer Melamed, leader di questa colonia, tredici figli. Le centinaia di bambini che scorrazzano nel parco giochi è come se non si ritrovassero al centro del conflitto d'Israele con il mondo arabo-islamico. "Tutti i luoghi della Samaria sono sacri", ci dice Melamed. "Da quassù potete vedere fino alla Siria. Senza i diritti biblici, Israele non ha significato. Gran parte degli israeliani oggi capisce molto bene tutto questo e ci vede positivamente. Non vogliono un altro stato arabo terroristico. Vada all'asilo e vedrà i bambini, sono la nostra cosa più importante". Uscendo, si passa da un terrapieno militare: "Dopo Oslo l'esercito li costruì a difesa degli insediamenti".

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Tornando a casa, ripassiamo dal villaggio palestinese di Hawara. C'è traffico e come l'auto si ferma Boaz chiude le porte. Farla ogni giorno è un incubo. Andiamo all'insediamento di Yitzhar e da lì all'avamposto di Mitzpe Yitzhar, piccola colonia di ebrei lubavitch. Qui vivono veterani americani, ex dissidenti sovietici, yemeniti, anche peruviani convertiti all'ebraismo. L'esercito ha una postazione. Incontriamo il fondatore, Itzik Sandroi, soldato e rabbino, imbraccia il fucile mitragliatore. "Sono qui da sedici anni, con l'esercito proteggo questo posto. Siamo a duecento metri da Hawara e rischiamo la vita. Puoi vedere tutte quelle città palestinesi? Le ha finanziate l'Europa. Qui noi abbiamo costruito tutto da soli". Otto famiglie vivono quassù, protette da altrettanti militari. Ogni venerdì Sandroi porta caffè e preghiere ai soldati su queste montagne. "In più posti saremo, più saremo al sicuro", conclude Sandroi. "Non tocchiamo la terra privata palestinese, il resto è nostro".
   Nella strada verso casa, incrociamo la colonia di Qedumim, la più antica. "Non ha filo spinato, vedi?", dice Boaz. "Gli insediamenti senza protezioni sono i meno colpiti dai terroristi". Perché? "Dietro a un fence dormi troppo profondamente". Le luci di Tel Aviv, dove si dormono sonni ben più tranquilli, appaiono come una triste promessa da queste montagne. E' il buio oltre la siepe d'Israele.

(Il Foglio, 23 gennaio 2017)


Un respiro di sollievo

di Fulvio Canetti

Nel leggere e nell'ascoltare quanto accaduto in questi ultimi giorni possiamo con felicità tirare un respiro di sollievo. Mister Husseini Obama e i suoi compari sono stati finalmente ''cacciati'' dalla Casa Bianca. Otto anni di una politica vergognosa, di un vero complotto contro la democrazia dell'Occidente per favorire il terrorismo islamico (fratellanza musulmana) e simulare piani di pace al solo scopo di danneggiare Israele (Iran). E tutto questo non tanto per motivazioni economiche quanto per convinzioni ''ideologiche'' foriere di disordini sociali (primavere arabe) e di instabilità politiche nelle Alleanze con serio pericolo per le libertà democratiche. Alla fine di questo sudicio percorso, senza alcun ritegno, mister Obama e Kerry hanno gettato la maschera, favorendo con la loro astensione alle Nazioni Unite, la vile proposta dell'Unesco di sradicare Israele dalla sua Terra. Una vera internazionale del male fiancheggiata da una Europa laico-cristiana (Francia) che ha scelto la strada dell'Islam radicale per ''liquidare'' Israele. Di certo dà molto fastidio in Europa vedere il popolo ebraico, considerato da questa una vittima della storia, ritornare da vincitore nella sua Terra e ricostruire la propria Nazione con successo. E allora come impedirglielo? Ecco pronta la carta ''palestinista'' inventata a tavolino, visto e considerato che la carta del ''decidio'' non era stata sufficiente a sterminare il popolo ebraico (Shoà). Ma grazie a D-o come, si dice in gergo, il mondo libero si sta liberando da questo letamaio, con la vittoria inaspettata di Donald Trump. Difatti le costruzioni di circa 600 abitazioni possono essere realizzate a Gerusalemme per ospitare i tanto ''demonizzati'' coloni ebrei, che per secoli hanno conservato nei loro cuori la fede e la speranza di tornare a Sion per ricostruire la propria Nazione. I veri coloni, miei cari amici lettori, sono stati proprio gli italiani, andati a conquistare l'Etiopia cristiana al rombo del cannone con tanto di benedizione ''apostolica'' della Chiesa di Roma. Non vorrei esser un profeta di sciagure per la vecchia Europa, ma farebbe bene ad occuparsi del suo traballante destino per non finire stritolata dagli ingranaggi della Storia.

(Inviato dall'autore, 23 gennaio 2017)


Franz Josef e il contributo ebraico nella Vienna di fin de siecle

di Daniel Chaim

 
L'anno appena trascorso è stato segnato dalle importanti celebrazioni, per i cent'anni dalla scomparsa del Kaiser Franz Josef. Salito al trono nel 1848, il suo regno è durato per ben sessantotto anni. L'intero arco temporale che lo ha visto sul trono, è stato contrassegnato da grandi cambiamenti, non solo politici ma anche sociali. Non dobbiamo dimenticare che il ciclone napoleonico aveva stravolto gli equilibri europei. Il Congresso di Vienna aveva prodotto una vittoria. Questa vittoria era rappresentata dall'Impero Austriaco.
   Purtroppo ancora oggi, complice una storiografia che non è mai andata a passo coi tempi, assistiamo ad una banalizzazione e demonizzazione, di quello che invece è stato l'unico impero sovranazionale ma soprattutto multiculturale che sia esistito.
   Il Kaiser, definiva se stesso "il primo impiegato dello Stato". Nonostante il rigido cerimoniale di corte e lo sfarzo che lo circondava, il vecchio Kaiser conduceva uno stile di vita molto sobrio (prova ne sia che dormiva su un semplice letto di ferro).
   Tutti i suoi tredici popoli, avevano le loro rappresentanze politiche in Parlamento. Il vecchio Imperatore può essere considerato come un "maestro concertatore e direttore", il quale dirige un'orchestra che in questo caso è rappresentata dai suoi popoli.
   Una componente molto importante dei suoi popoli, è quella ebraica. Fino all'avvento del Nazismo, nella sola città di Vienna si contavano innumerevoli sinagoghe e gli ebrei godevano degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. Questo anche grazie alla promulgazione della Costituzione liberale nel 1867.
   La seconda metà del XIX secolo, vede una Vienna nella quale inizia a germogliare l'antisemitismo di Lueger e di von Schoener. Non dimentichiamo che per ben due volte, Franceso Giuseppe non volle ratificare la sua nomina a borgomastro della città. L'antisemitismo di Lueger e di von Schoener (esponenti del partito cristiano sociale l'uno e di un movimento pangermanista l'altro) era caratterizzato dagli stereotipi che tutti conosciamo. Un esempio di questo antisemitismo dilagante, è rappresentato dalle numerose statuette e bastoni da passeggio, riproducesti l'ebreo con il naso ben pronunciato, con la gobba e le mani grandi, intento a confabulare con un suo correligionario onde ordire trame economiche e politiche. Una vasta collezione di questi oggetti la si può visitare allo Jüdische Museum di Vienna.
   Nel 1870 gli ebrei iscritti al liceo erano il 27% del totale degli iscritti, che diventa il 35% nel 1910. Nel 1880 gli ebrei iscritti all'Università rappresentavano un terzo del totale dell'intera popolazione accademica. Nel 1900 un quarto degli studenti di Diritto e circa la metà di quelli iscritti a Medicina appartenevano a famiglie ebraiche. A Vienna, tra il 1880 e il 1938, metà dei medici e degli avvocati erano ebrei . Nel 1910 la popolazione ebraica della città, raggiunse la quota di 175.300 anime.
   La risposta ai movimenti antisemiti, fu la pubblicazione nel 1896 dell'opera: "Lo Stato ebraico. Tentativo di una soluzione moderna della questione ebraica". L'autore era Theodor Herzl, ebreo assimilato e padre del Sionismo. Questo libro di Herzl ci induce ad affermare che lo Stato d'Israele è nato a Vienna. Vienna e Yerushalaim pertanto sono legate da uno stretto rapporto storico e culturale. Durante il suo viaggio in Terra d'Israele, il Kaiser donò i fondi necessari per la costruzione di una sinagoga ashkenazita, la Tiferes Isroel. Essa venne distrutta dai giordani nel 1948, ma dopo la riunificazione di Gerusalemme nel 1967 venne ricostruita. Nella capitale imperiale e in altre grandi città dell'Impero, dalla metà dell'Ottocento fino ai primi decenni del Novecento, al primato ebraico che già si era distinto in diversi settori di attività come la finanza, il commercio e l'industria, si affianca una grossa presenza ebraica in settori prettamente intellettuali, come ad esempio la psicologia, la filosofia, il pensiero politico e sociale, il Diritto, le scienze economiche , la letteratura, il teatro e anche in campi fino ad ora estranei alla sensibilità ebraica, come le arti figurative e la musica.
   Alcuni nomi posso renderci il quadro più chiaro: Arthur Schnitzler, Felix Salten, Peter Altenberg, Stefan Zweig, Hugo von Hofmannstahl, Sigmund Freud, Moritz Szeps, Ludwig Wittgenstein, Gustav Mahler, Arnold Schoenberg, Victor Adler ecc.
   Stefan Zveig disse: "Senza l'incessante stimolo dell'interessamento ebraico, Vienna sarebbe rimasta anche artisticamente al di sotto di Berlino, così come l'Austria era politicamente preceduta dalla Germania…I nove decimi di quanto il mondo celebrava come cultura viennese dell'Ottocento era una cultura sostenuta, nutrita e in parte creata dagli ebrei di Vienna".
   Una volta il Kaiser disse: " Per quanto mi riguarda gli ebrei, sono i migliori cittadini e soldati. Gli antisemiti? Mi disgustano". E ancora: "Sono l'ultimo monarca della vecchia scuola. Il mio compito è proteggere i miei popoli dai loro politici!" E aveva ragione.

(Kolot, 23 gennaio 2017)


Assassini prezzolati

Perché la pace sia possibile, devono cessare gli incentivi economici al terrorismo

Israele è stanco morto del ciclo apparentemente senza fine di uccisioni terroristiche che è costretto a subire e di cui giustamente incolpa l'incessante indottrinamento all'odio e alla violenza operato dall'Autorità Palestinese, a cominciare da quell'Abu Mazen che ne è il presidente da più di un decennio.
Il mondo è annoiato dal conflitto arabo-israeliano, mentre la sua attenzione è calamitata da una nuova ondata di terrorismo internazionale. Gli attentati dello "Stato Islamico" (ISIS) in tutta Europa non sono causati dall'istigazione palestinese, ma da una correlata propaggine della cultura islamista: l'obiettivo dichiarato dell'ISIS è stabilire un califfato attraverso la jihad (guerra santa), e non solo contro Israele ma il mondo intero.
Tuttavia, se il mondo vuole la pace c'è una cosa relativamente semplice che può iniziare a fare: far sì che l'Autorità Palestinese la smetta di pagare salari e stipendi ai terroristi e alle loro famiglie....

(israele.net, 23 gennaio 2017)


Leggi razziali, sequestri e fughe. La decimazione delle aziende

Riemergono gli elenchi delle imprese ebraiche. La persecuzione del regime

 
La denuncia di un'azienda
 
L'elenco di dipendenti ebrei forniti dalla Rinascente
Classificatori numero 2276-2277: «Aziende di sudditi nemici sequestrate durante la seconda guerra mondiale. Oggetto: Aziende ebraiche». Qui, in due scatole grigie, l'archivio della Camera di commercio di Milano conserva centinaia di schede ed elenchi battuti a macchina o scritti a mano. Che testimoniano la solerte raccolta burocratica di quanto disposto dal regime fascista nel 1938-39. In sintesi si può rintracciare il minuzioso lavoro svolto che porta in pochi mesi alla compilazione dell'elenco cittadino delle 251 imprese «appartenenti a cittadini italiani di razza ebraica». Completano poi il quadro della «caccia all'uomo» le dichiarazioni «di avere alle proprie dipendenze personale di razza ebraica» richieste alle ditte dall'Unione fascista dei commercianti della provincia di Milano. In due scatole grigie c'è dunque il lavoro che prepara spoliazioni, liquidazioni, cessioni forzate e cessazioni d'attività, licenziamenti di dirigenti, impiegati e operai: cioè la persecuzione «economica» degli ebrei a Milano.
   È il Regio decreto legge 9 febbraio 1939 numero 126 a mettere in moto la macchina burocratica dei Consigli provinciali delle corporazioni, come si chiamavano allora le Camere di commercio dopo la soppressione del 1926 e la costituzione di nuovi (analoghi) organismi legati al governo fascista, con la presidenza affidata ai prefetti e la vicepresidenza ai segretari federali del partito. Il decreto, che fa riferimento (ovviamente) al Regio decreto legge 17 novembre 1938 «Provvedimenti per la difesa della razza italiana», dispone che i cittadini «di razza ebraica» denuncino «entro 90 giorni» le aziende delle quali sono «proprietari o gestori a qualunque titolo». Ai Consigli provinciali delle corporazioni spetta, con accertamenti, rilievi ed eventuali ammende, compilare tre elenchi: a) le aziende interessanti la difesa della Nazione; b) quelle con almeno 100 dipendenti; e) tutte le altre. Il 24 febbraio 1939 il Comitato di presidenza del consiglio provinciale delle corporazioni di Milano comunica che «la Direzione dell'Ufficio ha già organizzato il relativo servizio».
   Nel frattempo altre «macchine» si sono già messe in moto. Il 12 dicembre 1938 Armando Liverani, direttore della Confederazione fascista degli industriali di Milano, scrive al prefetto: «In evasione della richiesta telefonica ci affrettiamo a trasmettere un elenco di aziende individuali di proprietà ebraica od aventi tra i propri dirigenti persone di razza ebraica». Elenco che comprende 115 imprese meccaniche, confezioni, editoria fra cui figurano le Ferrovie Nord Milano, la Farmaceutica De Angeli, la Sperling & Kupfer. E sempre nel dicembre 1938 L'Unione fascista dei commercianti trasmette «copie conformi» di comunicazioni sui dipendenti di origine ebraica di aziende come La Rinascente, Singer, Zambeletti, Casa di cura del Policlinico, Clinica Villa Aegla, Società italiana cuscinetti a sfera, Azienda cartaria italiana, Agenzia generale del libro, Messaggerie Italiane, Upim, Th Mohwinckel, Assicurazioni Generali, Vittoria assicurazioni.
   Schede che nella maggior parte dei casi contengono i nomi spesso con annessa comunicazione di licenziamento. Frequenti sono poi annotazioni che concorrono a descrivere il "clima" dell'epoca. Riguardo a un autista si elencano le date di conversione e di battesimo dell'intera famiglia. In un'altra scheda si dichiara che l'impiegato era «mutilato della Grande Guerra» (uno dei casi in cui le leggi razziali possono non essere applicate). Una ditta precisa che «la Sig.ra ci dichiara: figlia di padre ebreo e di madre ariana cattolica, maritata con ariano cattolico, non è battezzata, non professa religioni e non è iscritta alla Comunità israelitica. Pertanto si lascia a chi di ragione ogni giudizio sulla sua appartenenza alla razza ebraica». Rispetto a un dipendente orchestrale viene sottolineato da un'azienda: ha presentato un documento del Consolato di Germania con il quale certifica di essere figlio di padre ebreo ma di essere stato battezzato, pertanto «non è da considerarsi ebreo». Una ditta rispetto a una propria dipendente aggiunge che è «battezzata con figli cattolici» e un'altra segnala che il nome è riferito a «un capitano di artiglieria con croce di guerra». Il 10 gennaio 1939, infine, il Sindacato fascista ragionieri di Milano scrive al presidente del Consiglio provinciale delle corporazioni: «Mi pregio trasmettervi l'allegato elenco dei ragionieri iscritti all'albo professionale ed a questo Sindacato che risultano di razza ebraica». Sedici nominativi.
   Il 30 maggio 1939 il Comitato di presidenza del Consiglio provinciale delle corporazioni di Milano delibera sull'approvazione degli elenchi delle ditte. I termini sono scaduti il 12 maggio e le 224 denunce presentate sono state controllate, completate e rettificate. L'elenco a) comprende una sola azienda, quello b) 3, l'elenco e) le altre.
   Con l'iter dei controlli successivi inizia l' «ultimo miglio» della compilazione degli elenchi. Così il 22 giugno il Comitato di presidenza del Consiglio delle corporazioni delibera che «128 cittadini italiani di razza ebraica non hanno presentato la denuncia». In 45 casi gli inviti a presentarsi tornano indietro per irreperibilità dei destinatari. Vengono allegate 17 ditte da aggiungere all'elenco c). Il 23 giugno il Consiglio provinciale trasmette al ministero copie di atti notarili da cui risulta l'accettazione di donazioni di aziende da parte di titolari di «razza ebraica» alle rispettive mogli di «razza ariana» (caso previsto dal decreto legge rispetto a beni altrimenti inalienabili durante il periodo di accertamento). Il primo ottobre si cominciano a nominare i commissari di vigilanza per la gestione delle aziende comprese negli elenchi e la loro eventuale cessione. Il 12 ottobre, dopo ulteriori accertamenti, le ditte del gruppo e) salgono a 247. Il 20 marzo 1940 il Ministero delle corporazioni invia un telegramma ai prefetti: «Pregasi comunicare consistenza odierna». Le risposte sono immediate.
   A Milano le aziende con la «stella gialla» sono dunque in tutto 251,198 di natura commerciale. Dopo i successivi decreti del 1944-45 che hanno disposto il sequestro di tutte le proprietà ebraiche (senza i limiti precedenti) è difficile ricostruire cosa sia effettivamente successo fra confische, cessazioni di attività, espatri e deportazioni. Un dato è significativo e impressionante: come ha messo in evidenza nel 2001 la Commissione governativa presieduta da Tina Anselmi, nell'Annuario industriale e commerciale di Milano del 1949 figuravano 12 imprenditori di origine ebraica. Nel 1942 erano 180.

(Corriere della Sera, 23 gennaio 2017)


La Casa Bianca valuta lo spostamento dell'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme

Israele spinge su insediamenti ma attende il via libera di Trump

A due giorni dall'insediamento di Donald Trump a 45o presidente Usa, Israele ha accelerato la sua prossima politica nei confronti degli insediamenti ebraici ma ha lasciato ogni passo finale in materia ad un imminente incontro - previsto secondo indiscrezioni ad inizio febbraio - tra il premier Benyamin Netanyahu e il nuovo capo della Casa Bianca. Nel quadro di una strategia che lo stesso Netanyahu ha definito «uno stato ridotto» ("state minus") per i palestinesi, il premier ha promesso nuove «estese costruzioni» nei "gushim", i maggiori insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma ha subordinato il tutto ad un corretto coordinamento con gli Usa. Questo mentre la Casa Bianca ha confermato che sta valutando lo spostamento dell'Ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
   Con una prima mossa è stata scongelata la scelta di procedere con i piani di costruzione di 566 case nei sobborghi ebraici di Ramot, Ramat Shlomo e Pisgat Ze'ev a Gerusalemme est oltre la Linea Verde. Lo scorso dicembre il voto favorevole della relativa commissione edilizia del Comune di Gerusalemme fu bloccato su richiesta di Netanyahu per evitare altre frizioni con l'amministrazione Obama. L'odierno via definitivo ha scatenato l'ira palestinese: «È una decisione che sfida il Consiglio di sicurezza dell'Onu, soprattutto dopo la recente risoluzione 2334, che ha confermato l'illegalità degli insediamenti», ha detto il portavoce di Abu Mazen, Nabil Abu Rudeina, che ha chiesto un immediato intervento dell'Onu.
   Con una seconda mossa, il governo israeliano ha invece deciso all'unanimità di rinviare - in attesa del confronto con Trump - l'esame di una proposta di legge per l'annessione di Male' Adumim, un grande insediamento a sud est di Gerusalemme di oltre 37 mila persone che si trova a ridosso della controversa Area E1, ritenuta da molte parti una zona vitale per la continuità territoriale tra sud e nord del futuro stato palestinese. La proposta di legge era stata presentato dal ministero dell'educazione Naftali Bennett, vicino al movimento dei coloni e non aveva ricevuto l'appoggio di Netanyahu. L'ipotesi del vertice a Washington con Trump - pur ancora da confermare - ha rafforzato Netanyahu nel chiedere ai suoi ministri uno stop e gli ha dato agio di bloccare per il momento anche un'altra legge - anche questa presentata su input di Bennett - che vuole la legalizzazione degli avamposti ebraici costruiti in Cisgiordania contro la stessa legge israeliana. Per ottenere il risultato di oggi, Netanyahu ha avuto però gioco facile nel ricordare ai ministri del governo che finora il suo esecutivo è quello che «ha fatto di più per gli insediamenti ebraici» e che continuerà ad agire su questo fronte in modo «intelligente e appropriato» nell'ottica appunto di uno «stato ridotto» per i palestinesi.
   In attesa del faccia a faccia, Netanyahu e Trump discutono al telefono i temi più sensibili della regione: il conflitto israelo-palestinese e la situazione in Siria ma soprattutto «la minaccia iraniana e la necessità di fermare il cattivo accordo firmato con l'Iran che continuano ad essere - spiega Netanyahu - un obiettivo primario». Un bouquet di temi, a cui si aggiunge la ventilata decisione di Trump di trasferire l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme denunciata con forza dai palestinesi. La Casa Bianca oggi ha detto di essere alle «fasi iniziali» della discussione, ma la stampa israeliana riferisce che l'annuncio dello spostamento potrebbe essere fatto già domani.

(La Stampa, 22 gennaio 2017)


L'Egitto estende la partecipazione militare in Yemen al fianco di Riad

IL CAIRO - Il Consiglio per la difesa nazionale egiziano, presieduto dal presidente Abdel Fatah al Sisi, ha annunciato oggi l'estensione della sua partecipazione militare all'interno della coalizione araba guidata dall'Arabia Saudita in Yemen. Lo riferisce un comunicato della presidenza egiziana nel quale non è specificata la durata dell'estensione. "Il Consiglio di difesa nazionale ha concordato durante l'incontro odierno di estendere la partecipazione di elementi delle Forze armate egiziane in operazioni di combattimento al di fuori dei confini nazionali, per difendere la sicurezza egiziana e araba nel Golfo, nel Mar Rosso e nell'area di Bab al Mandab", si legge nel comunicato stampa. La decisione odierna pone fine alle voci di un possibile ritiro unilaterale del Cairo dalla coalizione araba guidata da Riad in Yemen circolate tra ottobre e novembre del 2016.
  L'estensione dell'impegno nella guerra in Yemen al fianco dell'alleato saudita giunge inoltre nel pieno di una crisi tra i due paesi dovuta alla sentenza dell'Alta corte amministrativa del Cairo che lo scorso 16 gennaio ha confermato l'annullamento dell'accordo per la cessione delle isole del mar Rosso di Tiran e Sanafir all'Arabia Saudita, stabilendo "irrevocabilmente" che entrambe sono sotto la sovranità "egiziana". L'accordo era stato firmato durante la visita del re saudita Salman al Cairo nell'aprile del 2016, sancendo l'alleanza strategica tra i due paesi e rafforzando il sostegno già fornito da Riad all'ex generale egiziano per arginare l'ascesa dei Fratelli Musulmani tra il 2013 e il 2014. Nella stessa visita è stato inoltre firmato un contratto di fornitura del valore di 20 miliardi di dollari consistente in 700 mila tonnellate di prodotti petroliferi al mese per una durata di cinque anni, interrotto bruscamente da Riad lo scorso ottobre 2016, ufficialmente per motivi tecnici ma probabilmente a causa del sostegno del Cairo al Consiglio di sicurezza Onu della proposta di risoluzione sulla crisi siriana presentata dalla Russia.
  In questi mesi l'Egitto di Abdel Fatah al Sisi ha mutato il suo orientamento aumentando i rapporti con la Russia e tentando un riavvicinamento verso l'Iran, processo iniziato già nel 2012 e in seguito portato avanti dall'attuale presidente. Pur non operando ufficialmente nel conflitto yemenita, l'Iran appoggia i ribelli sciiti Houthi contro le forze del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi sostenute anzitutto dall'Arabia Saudita. Nello Yemen, l'esercito egiziano partecipa ufficialmente dal 2015 anno nella formazione della coalizione guidata dall'Arabia Saudita per combattere contro gli Houthi, e si è impegnato ad inviare truppe per un intervento di terra, se necessario, tuttavia nonostante tale necessità sia stata richiesta più volte dagli alleati, il governo del Cairo è sempre stato riluttante ad impegnarsi attivamente sul campo. Secondo gli analisti, l'Egitto ricorda ancora il disastroso risultato della guerra in Yemen condotta dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser tra il 1962 e il 1970 e costata decine di migliaia di morti, un conflitto che ancora oggi viene descritto come "il Vietnam egiziano".

(Agenzia Nova, 22 gennaio 2017)


Bergamo - Sold out per la performance "ebrea"

Registra il tutto esaurito la riedizione della performance "Ebrea", che affronta il tema della discriminazione razziale e della memoria dei campi di concentramento, in programma venerdì 27 gennaio alle 18.30 alla sala delle Capriate di Palazzo della Ragione a Bergamo. L'iniziativa è promossa in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bergamo per il Giorno della Memoria, e coordinata con la mostra Fabio Mauri "Arte per legittima difesa" - a cura di Giacinto Di Pietrantonio - che la GAMeC - Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo ha ospitato fino al 15 gennaio.
Presentata per la prima volta nel 1971, in occasione di una mostra personale di Fabio Mauri alla Galleria Barozzi di Venezia, a cura di Furio Colombo e Renato Barilli, Ebrea mostrava già allora la tragicità, la forza, e quella carica esistenziale e politica tipiche della ricerca dell'artista degli anni successivi.
Protagonista della performance è una giovane ragazza. nuda. Immersa in una scena sacrale, la ragazza si taglia i capelli, con cui, su uno specchio, forma il simbolo della Stella di Davide.
Attorno a lei, una serie di oggetti svela allo spettatore la propria atroce natura attraverso piccole targhe di metallo: sono utensili d'uso quotidiano, complementi d'arredo, saponette, sci, finiture per cavalli realizzati con denti, pelle, capelli e ossa di ebrei.
L'espressività artistica della performance entra così in netto contrasto con l'agghiacciante contesto in cui è ambientata, portando lo spettatore a relazionarsi con la cruda e feroce realtà della Storia.
L'arte di Fabio Mauri torna ad essere protagonista in questa data significativa: già nel 2005, infatti, per il Giorno della Memoria l'artista aveva presentato al Teatro Sociale di Bergamo l'installazione Il Muro Occidentale o del Pianto e Gioiello-Laiback, una delle opere presenti nell'edizione originale di Ebrea; lavori che hanno raccontato il dolore, l'esilio e la discriminazione con l'intensità che da sempre contraddistingue le sue opere.

(Bergamo News, 22 gennaio 2017)


Basta esperimenti, serve recuperare il realismo dei forti

di Fiamma Nirenstein

Caro Presidente Trump,
davvero la speranza del mio cuore è che la sua sia una bella presidenza rivoluzionaria. Tanti auguri a lei e al suo Paese. Ogni suo battere di ciglia risuonerà ovunque, ogni sua presa di posizione diventerà una pietra di paragone su cui si misura un mondo in grande sommovimento, in cui si è realizzata la previsione infausta della guerra di religione con l'Islam, in cui le armi di distruzione di massa sono state usate contro donne e bambini in Siria senza che il suo Paese abbia reagito come promesso (è da qui che lei deve ricominciare, col ritessere la tela lacerata dal suo predecessore quando nel 2013 ha consegnato a Putin le chiavi del Medio Oriente in fiamme), in cui la crudeltà nazista dell'Isis è diventata un normale fatto di cronaca. Il Medio Oriente è stato ritenuto dal suo predecessore solo una zona di esperimenti per i suoi buoni rapporti con il mondo musulmano, ma non gli è riuscito: i suoi consiglieri non sapevano bene chi fosse la Fratellanza Musulmana, madre di tutto l'odio anti occidentale che porta diritto al terrorismo di ogni genere; non sapevano che puntare tante carte sull'Iran, scegliendo l'accordo nucleare come grande acquisizione della presidenza, sarebbe stato molto imprudente. Lei ha l'opportunità di improntare il suo rapporto col Medio Oriente a una visione più realistica, in cui non ci si gioca Israele, l'unico alleato moralmente affidabile, per una medaglietta di politically correct avallando una risoluzione dell'Onu che sancisce che Israele non ha nessun diritto su Gerusalemme, e quindi espellendone di fatto gli ebrei con un gesto così ignorante, così antistorico, che non lo farebbe neppure un bambino. La sua visione non dovrà essere necessariamente quella di un partigiano, ma, certamente sì, quella di uno statista che sa con che cosa ha a che fare: Israele è la sentinella del mondo contro il terrorismo, l'unica democrazia che rispetta i diritti umani. La pace coi palestinesi si può ricominciare a discutere solo se il terrorismo viene chiamato col suo nome anche quando lo praticano i palestinesi. In generale, quando il terrorismo sarà visto per quello che è: guerra di religione. In questo lei, signor presidente, è un esperto. Sarà una grande spinta alla trattativa se i palestinesi cesseranno di avere in regalo un lasciapassare internazionale che li riempie di denaro, di credito mai guadagnato. Ma davvero, poi, vogliono uno stato? Che Stato? Democratico? E non la distruzione di Israele? E che se ne faranno di Hamas? Presidente, glielo chieda. Tornare amico di Israele per gli USA significherà cambiare la sua posizione in Medio Oriente, gli restituirà la sua altezza morale e il suo buon senso, il suo diritto alla parola, ormai cancellato da politiche sbagliate. Signor Presidente, lei è un uomo molto pratico, sa benissimo che fra poco la rabbia populista anti elite può mordere anche lei. Quindi, attento a non fomentarla. Bene, l'anno prossimo a Gerusalemme (ci siamo capiti), e così sia.

(il Giornale, 22 gennaio 2017)


La Start-up Nation un partner per l'Italia

Italia e Israele sono due Paesi complementari nei settori della cyber security, della robotica e delle bio-tecnologie

di Max Bergami

Con un GDP che cresce intorno al 2%, allo stesso tasso delle economie in via di sviluppo, un indice di disoccupazione inferiore al 4%, un settore delle costruzioni cresciuto di oltre il 100% negli ultimi 10 anni, un debito pubblico in continua diminuzione e un export in crescita, Israele continua il suo percorso di sviluppo. Dietro a questi numeri ci stanno alcuni fattori che includono indubbiamente il capitale umano (quasi il 50% della popolazione tra i 25 e i 64 anni ha avuto una formazione universitaria), un sistema universitario eccellente, una forte collaborazione università-impresa e un sistema di venture capital molto sviluppato. È un paese che non sembra rallentare la sua corsa, che anzi accelera, consolidando il modello descritto nel best seller Start-Up Nations da Senor e Singer nel 2009. Le 73 quotate al Nasdaq, i centri di ricerca e sviluppo di oltre 300 società internazionali e le 5.000 startup fanno di Israele il luogo con la maggior concentrazione di imprese high tech al di fuori della Silicon Valley. Israele ha anche assunto una posizione di leadership nel settore della cyber security, con 430 cyber security imprese e startup; nel 2015 ha attratto quasi il 20% degli investimenti privati in questo settore, collocandosi dietro solo agli Stati Uniti.
   Il caso della cyber security peraltro è interessante perché rappresenta il frutto di una scelta politica molto precisa; nel 2002 il Governo ha creato l'Autorità Nazionale per la Sicurezza dell'Informazione, alla quale hanno fatto seguito il N ational Cyber Bureau e l' Autorità Nazionale per la Cyber Difesa.Nel corso degli anni, il Paese è divenuto ancora più dipendente dalla tecnologia e dalle attività nel cyberspazio, con la conseguente necessità di assicurare un più elevato livello di sicurezza. Le linee guida approvate dal governo non riguardano solo le strategie per difendere le infrastrutture e i servizi critici, ma anche le imprese e la società civile. Questo programma ha portato allo sviluppo di competenze e alla nascita di imprese, con lo sviluppo di un settore di crescente rilevanza per l'economia del paese.
   Un altro aspetto che colpisce è la convinzione con cui il concetto di Triple Helix rappresenti un riferimento per tutti gli attori di università, industria e governo, creando un ecosistema fortemente coeso, come dimostrano i risultati nel campo dell'innovazione nella robotica e del biomedicale.
   Esiste un'altra faccia di Israele che va considerata per comprendere il paese: alla popolazione giovane e dinamica che domina le nuove tecnologie si aggiungono altri gruppi, tra cui il più importante è quello degli ebrei ultraortodossi. Questo gruppo rappresenta poco più del 10% della popolazione,maha un tasso di crescita molto elevato (6,7 figli per donna contro i 3 della media nazionale) ed è molto rilevante perché consente alla popolazione ebraica di mantenere i rapporti di forza con la componente araba (anch'essa con un tasso di crescita demografica elevato). Entrambi questi gruppi sono la parte più povera di Israele; nel caso degli ultraortodossi, i maschi a partire dai 13 anni concentrano i propri studi sulle sacre scritture, mentre le donne proseguono negli studi non religiosi, ma hanno minori opportunità professionali in relazione al numero di figli. Gli ebrei non ortodossi hanno tassi di occupazione altissimi (oltre 1'80%), ma gli uomini ultraortodossi si attestano intorno al 50% e le donne arabe intorno al 30%.
   Con questo trend demografico, gli ultraortodossi tenderanno ad assumere più potere, ponendo ai governanti il problema di come conciliare due visioni del mondo così differenti.
   Comunque, per ora, Israele sembra cavalcare l'onda innovativa che viene dalle nuove tecnologie, concentrandosi sulla produzione di conoscenza, senza avventurarsi nel campo della manifattura dove altri paesi occidentali hanno una posizione diforza. Questo aspetto crea eccezionali condizioni di complementarietà, come sottolinea spesso l'Ambasciatore Talò che negli ultimi 4 anni ha lavorato intensamente con governo, imprese e università per costruire ponti tra i due paesi. Ad esempio, a settembre, grazie all'impegno dell'Ambasciata, gli organizzatori di Cybertech (una delle principali manifestazioni del settore) hanno deciso di svolgere l'edizione 2016 a Roma, portandola per la prima volta in Europa. Anche nel campo delle tecnologie idriche, dove Israele è al primo posto al mondo nella desalinizzazione e nel riutilizzo delle acque reflue (trattate per oltre 1'80%), sono stati avviati contatti che potrebbero portare a progetti comuni. L'Italia, con grandi problemi soprattutto al Sud, potrebbe avere grandi vantaggi da una partnership con gli israeliani, estensibile anche ad altri paesi ad esempio in Africa. Anche nel campo della robotica, Israele possiede le tecnologie, mentre l'Italia ha le strutture industriali e l'accesso ai mercati.

(Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2017)


Il sopravvissuto che marcia per la Memoria

Scampato al lager e ai terroristi sarà a Roma per "Run for Mem".

di Ariela Piattelli

 
Shaul Ladany
Run for Mem, una corsa attraverso i luoghi della tragedia e della salvezza, per ricordare la Shoah in occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria. Domenica 22 gennaio alla corsa di Roma, organizzata dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con Maratona di Roma e Maccabi Italia, assieme alla maratoneta Franca Fiacconi, partecipa un atleta veterano, che è «rinato due volt»: Shaul Ladany, marciatore israeliano, sopravvissuto al campo di sterminio Bergen - Belsen e scampato alla strage degli atleti israeliani per mano di un commando palestinese di Settembre Nero durante le Olimpiadi di Monaco '72.
   «Ho deciso di partecipare a Run for Mem perché mi sembra una bellissima idea mantenere vivo il ricordo attraverso una manifestazione sportiva. spiega Ladany - Per me è stato un obbligo morale aderire, sono tra i pochi sopravvissuti alla Shoah ancora in vita, e ho il dovere di portare la mia testimonianza. Viviamo in un'epoca in cui c'è ancora chi odia gli ebrei ed Israele, e la memoria è l'unico strumento preventivo». Ladany, che vive a Be'er Sheva dove insegna ingegneria alla Ben Gurion University, aveva otto anni quando è stato deportato a Bergen-Belsen e fu uno tra pochi bambini a salvarsi dalla furia nazista.
   Nel '72 si salva ancora per miracolo: nel villaggio olimpico, la sua stanza è vicina a quella dei suoi undici compagni che verranno prima presi in ostaggio e poi massacrati dai terroristi: «Loro sapevano che alloggiavo insieme a due atleti con un passato da tiratori scelti, per questo non entrarono nella nostra palazzina. - racconta Ladany - Le misure di sicurezza erano praticamente inesistenti, così era possibile ottenere tutte le informazioni sugli atleti. Ricordo che la sera prima del massacro andammo con tutta la delegazione israeliana al teatro a vedere il Violinista sul tetto. Eravamo così felici della libera uscita, nessuno di noi poteva immaginare cosa sarebbe successo il giorno dopo. Tornammo al villaggio e prestai la mia sveglia a Moshe Weinberg, e non lo vidi mai più».
   Il giorno dopo Shaul si svegliò mentre i terroristi erano in azione: «Seguimmo la vicenda minuto per minuto, ma l'operazione per liberare gli ostaggi fu un vero fallimento, e all'aeroporto, dove i tedeschi spostarono la scena per non turbare l'atmosfera olimpica, morirono tutti. Io sono stato solo fortunato, ancora una volta».
   Ladany ha continuato a marciare tutta la vita, segnando record e ritirando trofei. Ancora oggi, all'età di ottant'anni, si allena ogni giorno. «Ne ha viste tante nella sua vita il professor Ladany, ma non ha mai smesso di marciare. sottolinea il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Noemi Di Segni - Con questa iniziativa, aperta a tutta la città, desideriamo affermare la vita, che continua nonostante tutto e nonostante tutti i popoli che hanno cercato nei secoli di sterminare ebrei così come altre popolazioni, con genocidi e massacri. La vita continua e con questa va trasmessa la forza di sopravvivere, di vivere e di avere il coraggio di raccontare quanto accaduto affinché non si ripeta mai più».
   Due i percorsi previsti per domenica: uno da dieci e un altro da tre chilometri e mezzo. Si parte da Largo 16 ottobre 1943, in ricordo della razzia degli ebrei romani, si passa per via degli Zingari, dove una targa ricorda i rom e sinti vittime della Shoah, e a via Tasso, che fu prigione e luogo di tortura per ebrei e antifascisti e dove oggi sorge il Museo della Liberazione».

(La Stampa, 22 gennaio 2017)


Disegni, il rabbino che attraversò il fascismo e la guerra

di Fabrizio Assandri

Un rabbino centrale nel panorama ebraico italiano e in prima linea nel suo tempo. Dario Disegni, che morì il 7 gennaio 1967, 25 tevet 5727, esattamente 50 anni fa secondo la data ebraica, guida spirituale della comunità torinese dal 1935 al 1960: a lui è dedicato stamattina un convegno che vedrà partecipare, al Centro Sociale della Comunità ebraica in piazzetta Primo Levi, la maggior parte dei rabbini italiani. Visse la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, ad Auschwitz perse la figlia Annetta e la nipotina Sissel. L'incontro per ricordare Disegni, che fu artefice, insieme ad altri rabbini italiani, della monumentale opera di traduzione in italiano della Torah e dei libri di preghiera per le feste, si intitola "Dalla Torah al Talmud, dal Talmud alla Torah". «Partiremo dal confronto sulla traduzione attuata allora e quella in corso del Talmud», spiega il nipote di Disegni, che ha il suo stesso nome ed è presidente della Comunità di Torino.
   Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, sara in videoconferenza, ci saranno il rabbino capo di Torino Ariel Di Porto, Giuseppe Momigliano di Genova, Alfonso Arbib di Milano. È stata itinerante la carriera di Disegni, passata da Genova a Verona, ai confini dell'allora impero austroungarico, infine a Torino, con brevi parentesi a Bucarest e Tripoli. Nel '43 si rifugiò da una famiglia contadina di Asti, con cui rimase sempre in contatto.
   A Torino ebbe la ventura di ricomporre la comunità dopo la Shoa. E stato anche il fondatore della scuola rabbinica che oggi porta il nome suo e di Margulies, suo maestro, altro grande protagonista dell'ebraismo. La scuola, diretta ora da Alberto Somekh, fu un vivaio: Disegni ha personalmente laureato molti rabbini italiani, alcuni ancora in cattedra. Fu anche fautore del dialogo: volle l'apertura della scuola ebraica di Torino ai non ebrei.
Il successore di Disegni alla cattedra di Torino, il rabbino Sergio Sierra, ricordava che non si limitava alla speculazione e alla ricerca: «Adeguò la sua vita alla massima: "È importante lo studio che conduce all'azione pratica». I documenti che raccontano la sua lunga attività, un ricco patrimonio archivistico fatto di carte, lettere, manoscritti e foto sono affidati all'archivio Terracini di Torino, consultabile online.

(La Stampa - Torino, 22 gennaio 2017)


Acquisti on-line: se compriamo in tranquillità il merito è dei 'guardiani' israeliani

A Herzliya ha sede il più grande gruppo antifrode al mondo, che controlla e gestisce la sicurezza informatica di centinaia
di milioni di utenti.


di Luca D'Ammando

 
Operatori al lavoro nel centro Afcc di Herzliya
Le sentinelle della nostra sicurezza informatica lavorano 24 ore su 24, 365 giorni l'anno, in un fortino nascosto in un palazzo a vetri con vista mare identico a molti altri a Herzliya, poco a nord di Te! Aviv. Sono ingegneri, ventenni o poco più, che agiscono con mouse e tastiera.
   Siamo nell'Afcc, il centro di comando antifrode di Rsa, colosso della sicurezza informatica che fa parte del gruppo Eme, che ha oltre 10 mila clienti, tra i quali la quasi totalità delle aziende di Fortune 500 e i principali istituti finanziari del mondo, da Barclays a Hsbc, da Ing a MasterCard fino a Visa. Protegge oltre 500 milioni di carte di credito e si vanta di raggiungere un tasso di rilevamento delle frodi di oltre il 90 % . Finora, oltre a intercettare i traffici di denaro liquido rubato, questa task farce ha sventato oltre un milione di attacchi di phishing, malware e simili evitando, solo nel 2015, perdite complessive per 6 miliardi di dollari in tutto il mondo, Italia inclusa.
   Più di 400 persone al lavoro - per un fatturato annuo di circa 200 milioni di dollari - hanno il compito di intrufolarsi nei mercati neri delle carte di credito e in forum blindati, zone oscure del web alle quali si accede solo su invito di almeno cinque persone. Si tratta per lo più di predoni di credenziali dei nostri conti bancari, ladri digitali esperti di cui occorre carpire la fiducia, con pazienza e perizia, per poterli poi incastrare.
Il pezzo forte di questo centro è la stanza di controllo, con 25 persone che monitorano incessantemente quattro schermi giganti sulla parete: mostrano in tempo reale tutti gli attacchi informatici in corso ai danni dei clienti dell'Afcc. Con un unico colpo d'occhio si vede il paese di origine, la vittima e il fornitore di servizi Internet su cui sta avvenendo l'attacco.
   La parte principale del lavoro la fa un super-computer centrale, che scandaglia il web e passa al setaccio milioni di e-mail, domini sospetti e chat room. Poi, però, per richiedere il blocco di un sito sospetto occorre sempre il via libera umano, di un operatore dell'Afcc. Solo allora parte una segnalazione a Google, Microsoft & Co. e già nel giro di mezz'ora le pagine compromesse diventano potenzialmente inaccessibili dal 9 5 per cento dei browser: gli utenti possono scegliere se visualizzarle a loro rischio e pericolo oppure abbandonarle. L' 83 per cento lascia perdere, il 17 per cento va avanti, esponendosi all'eventualità che qualcuno entri nel loro computer trafugando tutto ciò che trova.
   Per esempio, ogni volta che di uno dei clienti opera una transazione utilizzando un sistema di online banking, 20 fattori di rischio vengono registrati e alimentati automaticamente nel database dell'Afcc. Questi dati poi vengono poi analizzati e combinati mettendoli a confronto con le 150 tipologie di frodi più comuni. In una determinata operazione, a ogni funzione viene assegnato un punteggio di rischio da 1 a 100, con i punteggi più alti che indicano una maggiore probabilità di frode. Tutte le 150 colonne vengono quindi combinate utilizzando una serie di algoritmi, che rintracciano o escludono eventuali attività fraudolente. L'Anti-Fraud Command Center della divisione dell'Afcc ha anche un centro d'eccellenza, una sorta di accademia, dove vengono formati giovani ingegneri che finiranno poi a lavorare sul campo. Eme, la società di cui fa parte l'Afcc, opera in Israele dal 1999. Nel 2006, a seguito di numerose acquisizioni nel paese, ha stabilito il suo centro di sviluppo a Petach Tikva, che nel 2011, si è trasformato nell'Eme Israele Center of Excellence, con sede a Herzliya. Una filiale di ricerca e sviluppo è stata poi aperta a Be'er Sheva. Eme è diventata la prima multinazionale in Israele con la presenza nel Negev e nel 2015 ha aperto un altro centro nella città settentrionale di Haifa. Così nel corso degli ultimi tre anni, il Consiglio d'Europa ha registrato oltre 200 brevetti in Israele.

(Shalom, gennaio 2017)


Trump vedrà Netanyahu a inizio febbraio

Lo ipotizzano i media israeliani

Benyamin Netanyahu potrebbe incontrare il neo presidente Usa Donald Trump nella prima settimana di febbraio a Washington. Lo indicano alcune indiscrezioni giornalistiche che citano fonti non specificate a Gerusalemme. Secondo queste Netanyahu - che ha definito Trump "un vero amico di Israele" - non aspetterebbe il congresso dell'Aipac, la principale lobby filo israeliana negli Usa, prevista per fine marzo e dove è tradizionale che partecipi il premier, ma tenderebbe ad anticipare i tempi. Netanyahu a fine gennaio ha in calendario due trasferte all'estero: Australia e Singapore. Ma subito dopo andrebbe in America. In questo primo, cruciale, incontro, sono molti i temi: dalla situazione della regione alla costruzione delle colonie ebraiche, dall'accordo sul nucleare dell'Iran alla ripresa delle sanzioni contro Teheran, al trasferimento del'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

(ANSAmed, 22 gennaio 2017)


A Bologna la Shoah nei disegni di Kichka

 
La Shoah raccontata attraverso gli occhi dei figli dei sopravvissuti e trasformata in tavole grafiche in bianco e nero. Un lavoro che ha occupato per dieci anni Michel Kichka, celebre illustratore e caricaturista israeliano, professore di Belle arti a Gerusalemme e membro di Cartooning for peace (la fondazione svizzera creata nel 2006 dall'allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per sostenere i vignettisti della carta stampata nel loro lavoro in difesa dei diritti umani, della libertà d'espressione e della tolleranza).
   Ora, al Museo ebraico di Bologna, in prima assoluta, è possibile ripercorrere la storia del maggiore di due figli maschi di un padre sopravvissuto alla Shoah: un'esperienza che permea tutta la famiglia, un trauma 'indiretto' che invade però totalmente silenzi, racconti e vissuti. La mostra "La seconda generazione" di Kichka, è stata inaugurata oggi alla presenza dei rappresentanti delle istituzioni e della Comunità ebraica bolognese. L'appuntamento apre la serie di eventi previsti nel capoluogo regionale e in tutta l'Emilia-Romagna per il Giorno della Memoria in ricordo delle vittime dello sterminio nazista, fissato il 27 gennaio di ogni anno, la data che nel 1945 vide la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz.
%%"La memoria della Shoah ci riporta al cuore della grande frattura europea del '900- ha affermato il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, intervenuto al varo della rassegna-, un evento che ha sfigurato e modificato il volto dell'Europa. Una frattura che occorre sanare attraverso la memoria e il riconoscimento, per non sottrarsi alla responsabilità del male".
   Bonaccini ha poi ricordato la commozione del cancelliere tedesco Willy Brandt quando, in visita ufficiale in Polonia nel 1970 al monumento dedicato alle vittime del ghetto di Varsavia, si inginocchiò sui gradini senza dire una parola, e il lavoro di Eli Wiesel, reduce di Auschwitz, sulla diretta responsabilità del male. "Temi che affiorano nella mostra di Kichka- ha sottolineato il presidente- e che sono il risultato di un lungo e tormentato lavoro di ricerca personale. Il tentativo di comprendere e di raccontare la Shoah attraverso le immagini e anche di ricostruire un albero genealogico i cui rami sono stati quasi tutti strappati e bruciati. La famiglia dei nonni è 'volata via in cenere' e l'adolescenza del padre si è perduta nella notte dei campi di sterminio".
"Da qui la necessità della Memoria e il dovere di trasmetterla tra le generazioni- ha proseguito Bonaccini-. Ed è proprio questo il senso della recente legge sulla Memoria del Novecento che abbiamo approvato come Regione e finanziato con attività e progetti di ricerca, formazione e divulgazione di istituti, enti storici e Comuni dell'Emilia-Romagna. Ed è sempre con questa intenzione che abbiamo finanziato con un milione di euro i lavori per la valorizzazione e la conservazione dell'ex campo di concentramento di Fossoli a Carpi". "Ringrazio quindi Michel Kichka- ha concluso il presidente della Giunta regionale- per il suo lavoro profondo e appassionato di ricostruzione e restituzione della Memoria e il Museo ebraico di Bologna per la sua preziosa attività".

Sassuolo Online, 22 gennaio 2017)


Israele riscopre un alleato sugli insediamenti e l'Iran

L'ottimismo di Gerusalemme

di Giordano Stabile

Efraim Inbar, direttore del Begin Sadat Center
GERUSALEMME - Un presidente imprevedibile, che ama Israele, d'istinto. L'inaugurazione della presidenza Trump è vista a Gerusalemme come il ritorno della vecchia America dalla parte dello Stato ebraico. «Basta vedere il suo entourage, a cominciare dal genero Jared Kushner», conferma Efraim Inbar, direttore del Begin Sadat Center. Ma al di là della simpatia, Trump offre a Israele «un'opportunità storica per realizzare i suoi obiettivi strategici». Inbar, a differenza dei diplomatici, non ci gira intorno: «Tenersi Gerusalemme Est, gli insediamenti e la riva del Giordano come confine». È l'addio all'ipotesi «due popoli, due Stati», in piedi dagli accordi di Oslo del 1993. Anche se Trump non ha definito una politica mediorientale chiara, dalle dichiarazioni e dal personaggio, Inbar ha dedotto la linea principale, molto favorevole allo Stato ebraico: «Cercherà un grande accordo con Putin. E' disposto ad abbandonare l'Ucraina, in cambio chiederà a Putin di ridurre il suo sostegno all'Iran», vera potenza imperiale della regione, il maggior rivale di Israele. Trump «è uomo d'affari, negoziatore, deciso, prepotente». Se l'accordo riesce, vedremo una diminuzione della presenza iraniana in Yemen, Siria, forse in Libano «a nostro vantaggio», sottolinea Inbar. Quanto all'accordo di pace con i palestinesi, «non ci sarà», sotto Trump almeno. Assisteremo a un «processo» infinito «che sta bene a tutti, anche alla leadership palestinese, che così continuerà a ricevere aiuti internazionali». Lo spostamento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme è probabile in tempi brevi, ma è un «non-problema», perché la nuova sede è nella parte Ovest della città, che tutti riconoscono come legittimo territorio di Israele. Il portavoce di Trump, Sean Spicer, ha avvertito: «La decisione può essere imminente, restate sintonizzati». Lo restano anche i palestinesi, che ieri a Gaza e in Cisgiordania, hanno partecipato a manifestazione massicce preventive, mentre i servizi israeliani temono «gravi disordini» in vista.

(Il Secolo XIX, 21 gennaio 2017)


Hamas e Fatah contro Israele

di Michele Crudelini

Le due principali fazioni palestinesi, Fatah e Hamas, hanno raggiunto uno storico accordo. Diversi episodi hanno spinto i due movimenti a mettere da parte antichi rancori per formare un unico fronte anti Israele. Si è riscontrato infatti una continua escalation di tensione nei territori contesi tra Israele e Palestina. La recente Intifada del fuoco insieme alla Risoluzione Unesco che condannava Israele hanno messo sull'allerta il Governo Netanyahu. Lo stesso si è infatti reso protagonista dell'intensificazione della costruzione di nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania. Tanto da arrivare ad una Risoluzione Onu dello scorso 23 dicembre 2016. In questa si chiedeva al Governo di Tel Aviv di interrompere la costruzione delle cosiddette "colonie" in West Bank.

 L'appoggio di Trump a Israele
  Il fronte palestinese ha però evidentemente avvertito le intenzioni della nuova presidenza americana. Proprio a seguito della Risoluzione Onu, infatti, il Presidente eletto Donald Trump aveva così twittato: "Anche all'Onu le cose saranno diverse dopo il 20 gennaio". Il tycoon faceva riferimento all'astensione storica degli Stati Uniti per la Risoluzione contro Israele. Trump ha inoltre espresso il proprio parere favorevole per l'ipotesi di un "trasloco" dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Un gesto che, vista la natura contesa della città santa, è stato percepito come minaccioso dal fronte palestinese. A tutto ciò vi è da aggiungere l'inefficacia della Conferenza di Parigi. La stessa è stata infatti definita "inutile" dal premier israeliano Netanyahu.

 La nuova coalizione palestinese
  La somma di questi eventi ha così mobilitato il fronte palestinese. C'è infatti la percezione che la nuova presidenza americana possa essere una minaccia per la volontà di indipendenza della Palestina. D'altra parte l'Europa, più impegnata nel gestire la crisi economica interna nonché l'ingente immigrazione, non è più un interlocutore affidabile. Per i palestinesi non rimane altro che unirsi e cercare nuovi canali di dialogo. È in quest'ottica che si è raggiunto uno storico accordo tra Al-Fath, movimento politico all'interno dell'Organizzazione di Liberazione della Palestina, e Hamas, l'altro movimento politico e paramilitare palestinese.
  L'intesa è storica perché i due movimenti hanno combattuto una sanguinosa guerra l'uno contro l'altro solo dieci anni fa. Hamas, infatti, vinse in maniera inaspettata le elezioni palestinesi nel 2006. Un successo che creò una spaccatura tra Gaza, dove Hamas ha la maggioranza, e la Cisgiordania, dove invece il consenso palestinese va verso Al-Fath. I territori rivendicati dai palestinesi sono tuttora così divisi, la Striscia di Gaza ad Hamas e la West Bank ad Al-Fath.
  Il portale Al Jazeera riporta che dopo tre giorni di negoziati i due rappresentanti dei movimenti, Mahmoud Abbas e Khaled Mesh'al, hanno trovato un accordo per un governo di unità nazionale. Sorprende che al tavolo dei negoziati abbia partecipato anche l'Islamic Jihad group, un movimento armato vicino ad Hamas, ma ancor più estremo. Al Fath, mettendosi ad un tavolo con un gruppo apertamente jihadista, rinuncia così a qualsiasi possibilità di dialogo con i Paesi occidentali. Stati Uniti, Unione europea, Giappone e Canada classificano infatti sia Hamas che l'Islamic Jihad group come organizzazioni terroristiche.

 Il ruolo della Russia
  Un'altra sorpresa è il luogo scelto per le trattative: Mosca. La Russia si è dunque prestata come mediatrice per le due fazioni palestinesi. Il Cremlino ha così da una parte lanciato un segnale al Presidente americano entrante e al suo totale appoggio verso Israele. Dall'altra Putin vuole continuare a rimanere figura di spicco sulla scena diplomatica internazionale.
  Dopo aver gestito i preliminari accordi sulla Siria del futuro, il Presidente russo vuole rendersi protagonista della storica risoluzione del conflitto israelo palestinese. Un progetto ambizioso che oscurerebbe così gli accordi di Oslo del 1993, raggiunti grazie all'intermediazione del Presidente americano Bill Clinton. A conferma di ciò vi sono le dichiarazioni della giornalista Natasha Ghoneim che ha così scritto: "Storicamente le discussioni di pace sono state dominate dagli Stati Uniti. Loro (i palestinesi) stanno cercando un approccio differente, e la Russia può certamente offrirlo". La diplomazia è una delle vie scelte da Putin per scalzare l'unipolarismo degli Stati Uniti.

(Gli occhi della guerra, 21 gennaio 2017)


Olocausto, un progetto per dire stop ai selfie irrispettosi

Gli scatti ritoccati su Yolocaust

di Marco Pasqua

 
Sono i selfie dell'orrore: gli scatti di visitatori, spesso giovanissimi, che ostentano sorrisi (incoscienti) e comportamenti poco consoni, là dove si ricorda l'orrore della Shoah. Da qui, il progetto provocatorio dell'artista israeliano Shahak Shapira, che ha deciso di combinare quegli scatti, pubblicati su vari social (Facebook, Instagram e persino Tinder e Grindr), e di "integrarli", grazie a dei fotomontaggi, con delle immagini provenienti dai campi di sterminio nazisti. "Yolocaust", questo il nome del progetto (che comprende l'acronimo YOLO: You Only Live Once), parte dai selfie scattati al Memoriale dell'Olocausto di Berlino, meta, ogni giorno, di oltre diecimila visitatori e oggetto di scatti che non sembrano tenere conto della natura del luogo.
«Persone che saltano, vanno sulla tavola da skate o addirittura in bici nella struttura - si legge sul sito di Yolocaust - all'interno della quale si trovano le 2711 stele che ricordano i sei milioni di ebrei sterminati». «Nessun evento nella storia dell'uomo - viene spiegato ancora - può essere paragonato all'Olocausto». Da qui, l'invito a comportarsi in maniera consona, in un luogo che ricordano lo sterminio messo in atto dai nazisti. Le immagini fotoshoppate - combinate con quelle dei cadaveri - sono state pubblicate senza il consenso dei relativi protagonisti ma, ad oggi, solo una persona ne ha chiesto la rimozione, dichiarandosi pentita del suo comportamento. «Ho ricevuto molti commenti positivi - ha detto l'autore parlando con il giornale Haaretz - anche da parte di chi lavora allo Yad Vashem e persino da alcuni insegnanti, che mi hanno chiesto di poter usare il mio progetto per le loro lezioni».
Il 28enne Shapira, che vive in Germania dall'età di 14 anni, ha vissuto sulla sua pelle la follia dei movimenti neonazisti. Nel gennaio del 2015 è stato oggetto di un'aggressione, la notte di Capodanno, da parte di un gruppo di giovani che stavano cantando inni antisemiti e antisraeliani e ai quali aveva intimato di smettere.

(Il Messaggero, 21 gennaio 2017)


Ciao, ciao Obama: non ti rimpiangeremo

La sua politica estera, filo araba e filo palestinese, non ha favorito la pace ma anzi ha rafforzato gli estremisti islamici.

di Fiamma Nirenstein

E' difficile ormai pensare, come molti avrebbero voluto, che a Obama è stata a cuore, durante i suoi due mandati, la pace in Medio Oriente. Innanzitutto si è tirato vergognosamente indietro lasciando il campo libero a russi, iraniani e Hezbollah quando avrebbe dovuto fare il passo decisivo, ovvero quello di fermare Assad, al tempo della "linea rossa" delle armi di distruzione di massa, che hanno prodotto l'uccisione di centinaia di migliaia di persone e milioni di feriti e fuggitivi.
   Al tempo della Primavera Araba Obama scelse l'interlocutore al momento più comodo, la Fratellanza Musulmana, senza interrogarsi sui disastrosi risultati per il futuro; sulla questione iraniana si è impuntato a non scorgere i pericoli evidenti e le trappole palesemente tese dalla Repubblica Islamica che oggi si traducono in un efferato imperialismo che occupa quattro capitali; ha insistito con un atteggiamento esclusivamente ispirato al politically correct nella negazione dell'islam radicale come ispirazione del terrorismo, di fatto spuntando le armi di tutto l'Occidente ... e più di ogni altra cosa si è avventato alla fine del suo mandato, portando a espressione completa una autentica nevrosi aggressiva, contro Israele, l'unica democrazia del Medio Oriente e incurante dei suoi stessi cittadini, contro l'unico vero sincero alleato, anzi, parente stretto nella scelta democratica.
   Per farlo ha scelto come palcoscenico il peggiore nemico non soltanto di Israele, l'ONU (che con le sue maggioranze automatiche fatte di Stati Islamici e di Paesi cosiddetti del Terzo Mondo dedica ogni anno due terzi delle sue risoluzioni di condanna allo Stato Ebraico) ma del suo stesso Paese, se è vero, come è vero, che l'ONU è stato il teatro dell'intera Guerra Fredda, che ha visto tutto lo schieramento prosovietico e cinese farsi alternativa mondiale al cosiddetto "imperialismo" di cui America e Israele erano considerati i due pilastri, e quindi i nemici fondamentali.
   E' del tutto evidente che le cose stavano, e stanno a tutt'oggi, alla rovescia di come li descriveva la narrativa di sinistra, ovvero che i Paesi autocratici, imperialisti, aggressivi, schiavisti, bigotti e dominati da impossibili dittatori erano appunto quelli del blocco sovietico, gli stessi che nel 1975 hanno votato la infame risoluzione "sionismo uguale razzismo".
   Ma Obama ha scelto l'ONU, e non poteva essere più coerente per un'operazione di distruzione della legittimità di Israele e della sua politica, e di conseguenza anche della ripetuta proposta israeliana per un autentico processo di pace: sono ormai più di tre anni che Netanyahu invita Abu Mazen a sedersi e a trattare su una pace che disegni confini plausibili sia per gli israeliani che per i palestinesi, per i primi dal punto di vista della sicurezza, per i secondi dal punto di vista della praticabilità.
   Ci possono essere molte ipotesi che superino la vecchia visione dei confini ( che poi non sono confini, Israele non ne ha se non con l'Egitto e la Giordania che hanno accettato un trattato di pace, altrimenti si tratta sempre di linee armistiziali), per esempio i cosiddetti "swap" territoriali che tirino in gioco l'Egitto e la Giordania stessi con scambi e incentivazioni ... ma no, di nuovo l'ONU ha stabilito una condizione impraticabile e insensata, quella dei confini del '67 che Israele non potrebbe mai accettare perché ne va della sua esistenza stessa; ha di nuovo indicato come ostacolo fondamentale non quello del tutto evidente a ogni persona ragionevole del rifiuto palestinese ( che si è espresso anche in trattative generosissime, come quella del 2000 fra Ehud Barak e Arafat e poi quella del 2008 di Ehud Olmert, che era letteralmente pronto a tutto pur di firmare una pace) ma quello degli insediamenti. Essi sono di nuovo stati definiti "illegali", e non "disputati" come nella risoluzione del '67, la 242. Oggi i nemici di Israele, disegna no come propria una parte della capitale bimillenaria dello StatoEbraico, compreso il Muro del pianto, e rivendicano zone come quella da cui si può agevolmente sparare agli aerei in arrivo all'aeroporto Ben Gurion. Le cose adesso funzionerebbero come quando si sono consegnati ai palestinesi 21 insediamenti a Gaza nel 2005 ricevendone in cambio lo Stato Islamico di Hamas che chiede la distruzione di Israele e lo bombarda strenuamente con una gragnuola di missili sui civili.
   La stessa espressione della risoluzione che chiede la restituzione di "palestinian territories" è fasulla, non esistono territori palestinesi, non c'è mai stato uno "stato palestinese": come è noto la Giudea e la Samaria erano terre occupate illegalmente nel 1949 dalla Giordania che attaccò Israele anche nel '67. Allora Israele difendendosi ha appunto occupato quei territori. Senza tuttavia violare mai la dichiarazione di Ginevra, per cui è illegale spostare popolazioni aborigene: Israele non l'ha mai fatto. Inoltre quella zona è parte del disegno di una futura "casa ebraica" disegnata con la dichiarazione Balfour.
   Ma lasciamo da parte la storia, che probabilmente Obama non conosce o preferisce ignorare.
   Importante è ricordare invece che, persino dopo il "remake" delle posizioni obamiane nel discorso di 72 minuti che Kerry ha dedicato a poche ore dalla risoluzione alla terribile evenienza che esistano insediamenti che impediscono la pace ( che vergogna sentirlo mentre a pochi chilometri si compiva la tragedia di Aleppo), i palestinesi hanno subito ripetuto un loro prevedibilissimo "no". Come potrebbero pensare a colloqui di pace mentre il mondo sembra dalla loro parte nel disegnare una soluzione totalmente sbilanciata verso di loro? Come trattare i confini, se sono già stati disegnati? E più di ogni altra cosa, come non proseguire in questo magnifico gioco delle vittime cui sono stati rubati i loro territori e che li vogliono indietro, se esso contribuisce al picconamento quotidiano del nemico sul terreno diplomatico, del BDS, dell'aggressività internazionale, dell'emarginazione morale di Israele, l'unico Paese morale della zona? Abu Mazen ha assunto toni di sfida molto più aggressivi del solito: uno dei suoi uomini ha subito sottolineato che la risoluzione deve essere vista non solo come una luce verde al boicottaggio di Israele, ma anche all'uso della violenza, al rafforzamento della "resistenza popolare", lancio di pietre, attacchi con le auto e i camion, incendi, assassinio di donne e bambini negli insediamenti. Abu Mazen naturalmente è particolarmente soddisfatto della conferma da parte della risoluzione della sua supremazia su Gerusalemme, da cui viene espulsa la storia confermando l'invenzione di Arafat che gli ebrei non hanno niente a che fare con questa terra e con la sua capitale. Naturalmente, felicissimi della risoluzione sono anche Hamas e la Jihad Islamica, che la vedono come un gesto di complicità nel disegno di rimpiazzare Israele con una regione del futuro impero islamista. Il terrorismo classico di Hamas ne verrà sicuramente incoraggiato. Naturalmente gli Hezbollah e l'Iran, che hanno iscritto nel loro principale programma la distruzione di Israele, vedono con grande soddisfazione il sentimento di vittoria dell'odio antisemita nel mondo. Era questo che Obama cercava? E' difficile dirlo: certamente resterà nella storia questa dedizione alla causa antisraeliana proprio negli ultimi giorni della sua presidenza insieme alla mobilitazione di Kerry, mentre così tanto, e così degno di nota, avviene in medio Oriente e nel mondo islamico. Se era questo che voleva, l'ha avuto: un immenso fallimento in Medio Oriente, una scia di sangue in Siria, una risalita economica e militare dell'Iran, una crescita del terrorismo nel mondo.
   Ma Israele non ha certo alzato le mani: il prossimo capitolo probabilmente ci riserva una svolta internazionale molto rilevante, e speriamo di poterne presto dar conto.

(Shalom, gennaio 2017)


Shoah: ecco i fumetti che rappresentano l'indescrivibile

di Giulia Cataneo

 
Affrontare il tema dell'Olocausto non è certo semplice, dato il rischio di banalizzazione in cui nessuno vuol incorrere nel trattare tale delicatissimo snodo storico e vergognoso sterminio. Tuttavia, è necessario ricordare perpetuamente e sviluppare nuove riflessioni e ricerche sul tema. Non dobbiamo mai smettere di onorare e sensibilizzare, come d'altronde ci è stato domandato da Primo Levi.
Abbiamo a disposizione tanti mezzi per lanciare messaggi costruttivi e di monito: uno di questi è il fumetto. Quest'ultimo ha sofferto e, probabilmente, soffre ancora una scarsa considerazione e un declassamento rispetto agli altri linguaggi espressivi. Molti mettono in dubbio la sua dignità e lo relegano ad un gruppo ristretto di argomenti e temi. Dobbiamo abbandonare questa mentalità, come ormai suggerisce anche la critica, e credere nelle potenzialità e nella rispettabilità di tale strumento di comunicazione. Esattamente, il fumetto può affrontare, con estrema sensibilità e decoro, anche il dramma della Shoah.
A Parigi, ad esempio, è stata inaugurata proprio in questi giorni l'esposizione "Le Mémorial de la Shoah", un inventario di vignette che raccontano in modo diverso l'orrore del XX secolo. Una mostra aperta fino al 30 ottobre per interrogarsi su quest'arte popolare che tenta di affrontare il tema fin dal 1942. Ben 200 documenti originali accanto alle opere di Calvo, Jack Davis, Jean Graton e Paul Gillon.
Alcune testimonianze e disegni vengono direttamente dai campi di concentramento: David Olère, ad esempio, era un pittore, arrestato e deportato ad Auschwitz nel 1943. Il suo compito nel campo era alquanto traumatizzante: nelle camere a gas doveva recuperare i denti d'oro e tutto ciò che potesse essere ancora "utile", per poi trasportare i corpi senza vita nei forni crematori. Nei suoi disegni, descrive tutte le tappe di tale orrore, lasciando una testimonianza importante che nessuno avrebbe potuto fotografare o filmare.
Conosciuto anche in Italia, il fumetto « La Bête est morte! » di Edmond-François Calvo, è ugualmente in mostra a Parigi. Pubblicato alla fine del 1944, è un faro in questo settore: infatti, quando ancora la guerra non è finita, gli autori parlano indirettamente di genocidio, in un momento storico in cui il termine era appena stato coniato e non era ancora conosciuto. I personaggi prendono le sembianze degli animali, probabilmente perché il realismo sarebbe stato insopportabile per l'epoca.
Indubbiamente, è esposto anche Maus di Art Spiegelman che, con la vittoria del Premio Pulitzer nel 1992, eleva chiaramente il fumetto a strumento di comunicazione serio e dignitoso. Il fumetto è consacrato in tal modo a mezzo di diffusione eccezionale del memoriale. Maus non è solo un documentario, ma è la storia toccante di un figlio che cerca di capire ciò che suo padre ha vissuto. Il tutto in chiave moderna.

(il Messaggero Italiano, 21 gennaio 2017)


Workshop per studenti in otto comuni, il 26 a Foggia

FOGGIA - La prima assoluta del film-documentario israeliano "Rinascere in Puglia": è la proposta inedita del Consiglio regionale per diffondere tra gli studenti la conoscenza del ruolo importante del territorio pugliese nell'accoglienza dei reduci dai campi di sterminio e delle famiglie ebraiche europee, prima del loro trasferimento in Palestina dopo la seconda guerra mondiale.
Da oggi fino a fine mese, nei cinema e teatri di otto comuni pugliesi sono in programma workshop per gli studenti delle scuole medie e superiori, che al termine delle proiezioni avranno l'opportunità di intervenire sui temi. L'iniziativa è a cura del Servizio Biblioteca e comunicazione istituzionale del Consiglio regionale della Puglia, in collaborazione con l'Ufficio Scolastico regionale della Puglia, l'IPSAIC, FARM Comunicazione e le otto Amministrazioni comunali. Il film, realizzato in Israele nel 2015 per la regia di Yael Katzir e la sceneggiatura di Gady Castel, è una testimonianza di come anche un evento drammatico come la Shoah possa avere aspetti positivi, legati alla solidarietà, alla fratellanza e alla Puglia. Racconta infatti la storia di tre donne israeliane, nate nel campo profughi di Leuca nell'immediato dopoguerra, tra il 1946 e il 1947. È anche la storia di chi si è salvato dai lager nazisti e ha cercato di continuare a vivere, credere nel futuro, costruire una nuova nazione. Il film valorizza il ruolo della Puglia, il calore e i valori umani dei pugliesi, che hanno permesso a tante persone vissute nel terrore di ritrovare una vita normale. A tutti i workshop interverranno storici, studiosi e testimoni, che si alterneranno nel confronto con gli studenti e risponderanno alle loro domande: il direttore dell'IPSAIC Vito Antonio Leuzzi, con i ricercatori Raffaele Pellegrino e Aldo Muciaccia, i docenti Fabrizio Lelli e Giuseppe Cuscito dell'Università del Salento e della Sapienza di Roma, il regista Gady Castel, l'ex profuga Shuni Lifshitz, il giornalista Costantino Foschini e rappresentanti di Amnesty International. ll calendario dei workshop prevede appuntamenti (tutti alle 9,30) sabato 21 gennaio a Bari (Multisala Galleria), lunedì 23 a Nardò (Teatro comunale), martedì 24 a Ginosa (Cinema Metropolitan), mercoledì 25 a Trani (Cinema Impero), giovedì 26 a Foggia (Teatro Giordano), sabato 28 a Francavilla Fontana (Teatro Italia), lunedì 30 a Bitonto (Teatro Traetta) e martedì 31 gennaio a Galatina (Teatro Cavallino Bianco).

(Teleradioerre, 20 gennaio 2017)



Quelli che

Quelli che vedono certe cose da fare
e s'accorgono che sono importanti
e loro le fanno

*

Quelli che amano fare certe cose
e dicono che sono importanti
perché le fanno loro

 


Germania - Incendiare una sinagoga non è antisemitismo ma critica a Israele

Tolta l'aggravate a tre terroristi palestinesi

di Micol Anticoli

Muhammad E., 31 anni, Ismail A., 26 anni e Muhammad A., 20 anni "volevano soltanto riportare l'attenzione sul conflitto a Gaza", pertanto il loro assalto alla sinagoga del 2014 "non può essere considerato un atto antisemita".
È questa la sentenza shock di un tribunale regionale in Germania, il quale, venerdì scorso, ha stabilito che i tre tedeschi di origine palestinese che tre anni fa cercarono di dare alle fiamme la sinagoga di Wuppertal, non possono essere condannati per antisemitismo, in quanto il loro attacco sarebbe stato soltanto una "critica verso lo Stato d'Israele".
Secondo i giudici, inoltre, i tre erano ubriachi e non hanno causato nessuna vittima, ed ecco quIndi altre due attenuanti oltre a quella della giustificazione politica.
La sentenza risulta aberrante per il suo esito, ma ancor più per le motivazioni dalle quali è sostenuta.
Non si capisce, infatti, in che modo la motivazione politica possa minimamente far cadere l'aggravante dell'antisemitismo, visto che una sinagoga è stata colpita dal lancio di bombe molotov.
Non di capisce cosa c'entrino degli ebrei europei in preghiera con la politica dello Stato di Israele e soprattutto con la guerra che era scoppiata con Hamas.
Non si capisce perché degli ebrei europei siano stati fatti bersaglio a causa della guerra di Israele contro il terrorismo palestinese.
Ma sopratutto, non si capisce come un atto di terrorismo palestinese contro gli ebrei si possa ancora oggi, nel 2017, giustificare in Europa, o anche solo attenuare.
Quella stessa sinagoga di Wuppertal, con 800 euro di danni (poco male), già nel 1938 fu distrutta dai nazisti durante il pogrom del Kristallnacht, la Notte dei Cristalli.

(Progetto Dreyfus, 20 gennaio 2017)


L'era di The Donald. La prima consolazione per l'Italia: peggio di Obama non potrà fare

Gli attacchi a Trump ascoltati in questi mesi hanno superato la soglia del ridicolo. Ma è rischioso pure farne un eroe conservatore. Difenderà gli interessi degli Usa e forse ne verrà qualcosa di buono per noi.

di Francesco Borgonovo

Qui lo trattano come Berlusconi e lo accusano di ogni nefandezza Impossibile trovare un intellettuale che ne parli bene. Tutti rimpiangono Barack

 
Stando alle letture apocalittiche che vanno per la maggiore, oggi dovrebbe essere il giorno del giudizio: il mostro Donald Trump, giunto direttamente dall'Inferno, si insedierà alla Casa Bianca. E a quel punto non ce ne sarà più per nessuno: l'America sprofonderà nella crisi economica peggiore di tutti i tempi. Per le strade delle megalopoli statunitensi si scateneranno guerre di classe e di razza. Il Ku Klux Klan, i fondamentalisti cristiani e l'estrema destra prenderanno il potere, la schiavitù verrà ripristinata, i gay decimati. In aggiunta, l'Armata Rossa sbarcherà a Washington per difendere armi in pugno l'operato del presidente, consentendogli di smantellare tutte le conquiste sociali di Barack Obama. Come soggetto per un film hollywoodiano, il quadro di cui sopra potrebbe anche funzionare (per una pellicola di serie B, s'intende). Ma basta avere un po' di buonsenso per capire che in America non sta per scatenarsi il disastro atteso da molti.
  Il problema, mi pare, è che tutti continuano a giudicare The Donald in base alle proprie categorie. Qui, per esempio, lo filtriamo attraverso schemi di pensiero tutti italiani, e un po' fuorvianti. Il risultato è che Trump ci viene presentato esattamente come ci fu descritto Silvio Berlusconi: un riccastro senza scrupoli sceso in politica per difendere i propri interessi. E' impressionante osservare la marea di articoli di giornali e saggi pubblicati sul nuovo presidente americano: riecheggiano le medesime accuse che sentivamo rivolgere al Cavaliere. Donald è stato tacciato di essere un sessista e un puttaniere, uno che fa affari sporchi con l'amico Putin, un bancarottiere, un evasore fiscale e un mafioso. Leggere per credere Donald Trump dell'insopportabile David Cay Johnston, appena pubblicato da Einaudi. Nel libretto Il mondo secondo Trump, edito da Mondadori con l'appoggio dell'Ispi (l'Istituto per gli studi di politica internazionale, ultimamente molto in voga), il nostro viene descritto come una sorta di incompetente che manderà in rovina il suo Paese e l'intero Occidente, uno xenofobo, un ottuso guitto nemmeno buono per condurre un reality show. Insomma, impossibile trovare qualche esponente di lustro dell'intellighenzia che ne parli bene. Persino nuotando in acque destrorse lo vediamo sbertucciato e vilipeso, tra l'altro dalle stesse firme che un tempo - e per i medesimi motivi -incensavano Silvio. Il fatto è che Trump non è Berlusconi. Ha una visione politica radicalmente diversa, e diversi sono gli umori che raccoglie e che amplifica.
  Dunque è un errore farne uno spauracchio o un condottiero basandosi sulla nostra italica interpretazione. E un po' triste chi lo demonizza, accodandosi alla parata squallida dei vip della moda e dello spettacolo. Quelli come Meryl Streep, per intendersi: una che diede meravigliosamente corpo e voce, sullo schermo, a Margaret Thatcher, ma non ha capito nulla del nuovo leader, e continua a rimpiangere lo stiloso Obama. Cioè il presidente che va considerato tra i maggiori responsabili del dilagare del terrorismo islamico a livello mondiale. Cioè il presidente che ha esasperato le tensioni razziali nel suo Paese, soffiando sul fuoco delle minoranze per farsi eleggere, salvo lasciare un'America in cui ci si spara a vista (più di prima, ed era quasi impossibile riuscirci). Chi insulta Trump, dunque, rimedia una grama figura. Ma conviene andarci piano pure a metterlo su un piedistallo e a farne l'eroe della destra globale. La tentazione è forte, vero. E i populisti europei hanno già tentato in ogni modo di saltare sul carro del vincitore. Qui da noi ce ne sono parecchi, anche mossi da sincere intenzioni.
  Il fatto è che lo slogan di Donald è - Make America Great Again». La parola «Europa» in questa frase non compare. Se l'America viene prima, è ovvio, tutti gli altri vengono dopo. E se Trump, per far tornare grande il suo Paese, dovrà schiacciare chicchessia, lo farà senza tentennamenti. Vuole vincere, con ogni mezzo. Per questo ha imbarcato anche uomini che vengono dalla finanza e dalle multinazionali nel suo team. Perché sa che deve tenere conto di ogni interesse, compresi quelli di Wall Street: per costruire l'America che ha in mente lui (e che i suoi elettori desiderano), è pronto ad allearsi anche col Diavolo in persona. Per l'Italia che cosa cambia, dunque? Sostanzialmente, nulla. Per un semplice motivo: tra noi e lui c'è di mezzo l'Unione Europea, a cui Trump ha già rifilato un bello schiaffone. Donald potrà magari fare del bene agli inglesi, siglando con Theresa May accordi commerciali appositi. A noi potrebbe sicuramente giovare l'atteggiamento di apertura verso la Russia, ma finché l'Ue continua a confermare le folli sanzioni contro Mosca, poco ce ne viene in tasca.
  La verità, forse, è che Trump ci ha già dato quanto di buono poteva darci. Ha mostrato che un approccio diverso è possibile: che criticare il multiculturalismo si può, così come far restare in patria le grandi aziende. Gli danno del pazzo perché vuole trincerarsi dietro il protezionismo e punta sulla manifattura in un Paese che vive di terziario e innovazione. Lo deridono perché critica la globalizzazione mentre perfino il Partito comunista cinese ne tesse le lodi.
  Beh, signori, questo significa forzare la mano e cambiare le regole del gioco, sfidare la sorte e investire su se stessi. Può darsi che a Donald vada male: per noi italiani comunque non cambierà quasi niente. Può darsi invece che abbia successo. E allora, forse, sarebbe il caso di provare a stargli dietro, trattandolo per quello che è: il presidente degli Usa, non il nostro. Un possibile alleato, un gigante che potrebbe schiacciarci e che conviene avere amico, specie se non ci impicca ad accordi suicidi come il Ttip e se non ci costringe a spedire soldati in giro per il Medio Oriente. Resta una sola certezza: peggio di Obama non può fare. Accontentiamoci.

(La Verità, 20 gennaio 2017)


Come cambieranno i rapporti Usa-Israele con Trump

Conversazione con Johanna Arbib, presidente della Jerusalem Foundation, già presidente mondiale del Keren Hayesod

di Rossana Miranda

Non ci sono dubbi: lo Stato islamico è presente in Israele e l'attentato dello scorso 8 gennaio, dove un camion si è lanciato contro la folla uccidendo quattro soldati e ferendone altri 17, è stato compiuto secondo le stesse modalità delle stragi compiute a Nizza e Berlino.
Quella condotta da Isis in Israele non è solo una guerra contro lo Stato israeliano, come lo è, invece, quella combattuta da Hamas. In un'intervista con Formiche.net, Johanna Arbib, presidente della Jerusalem Foundation e già presidente mondiale del Keren Hayesod, ha spiegato che la guerra di Isis è contro il mondo occidentale in generale. I legami tra l'organizzazione terroristica e Hamas, tuttavia, non mancano: "Basta vedere come è stata festeggiata la morte dei soldati israeliani a Gaza, con la distribuzione di caramelle e dolci".

 Il terrorismo è uno solo
  Ma secondo Arbib, la questione è che non esiste un terrorismo di classe A e un terrorismo di classe B: "Il terrorismo è uno solo e va combattuto. Lo Stato di Israele ne paga le conseguenze da quando è nato. Oggi anche l'Occidente soffre gli effetti di avere lasciato spazio, in maniera aperta, ai terroristi".
Ora però, i venti della geopolitica internazionale potrebbero soffiare a favore di Israele. Con la nuova presidenza americana, ci saranno forse cambiamenti verso una concezione più equilibrata del conflitto. Arbib crede che da Donald Trump gli israeliani si aspettano semplicemente quello: l'equilibrio. "La Palestina non riconosce Israele - ha spiegato il presidente della Jerusalem Foundation -. La pace tra palestinesi e israeliani deve superar il concetto che gli insediamenti siano un ostacolo. Bisogna tornare alle priorità sul conflitto".

 il ruolo di Jared Kushner
  Da Trump ci aspettiamo anche passi concreti, come spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme, capitale dello Stato ebraico. Sul marito di Ivanka Trump, Jared Kushner, nominato consigliere della Casa Bianca (qui l'articolo di Formiche.net), Arbib pensa che si è dimostrato "un giovane uomo in gamba. Che ha una strategia e idee chiare. È un personaggio aperto, che sa come fare tornare a parlare dei temi che sono davvero prioritari in Medio Oriente. Penso che Kushner saprà affrontare il cambiamento necessario".

 La volontà palestinese
  Nonostante l'intervento di un Paese amico come gli Usa sia importante, secondo Arbib la pace tra Israele e Palestina non può essere raggiunta se manca la buona volontà della leadership palestinese: "Per arrivare a un accordo, la Palestina deve riconoscere Israele. È necessario che la Palestina smetta di parlare due lingue: al popolo trasmette un messaggio che incita alla violenza, al terrorismo, a festeggiare la morte invece di onorare la vita, mentre alle Nazioni Unite accusa Israele per le colonie".

 La leadership delle nazioni unite
  Secondo Arbib, le Nazioni Unite non hanno mai ascoltato le ragioni dello Stato israeliano. Piuttosto, hanno sempre favorito i Paesi arabi. "Hanno scelto per la leadership dell'organizzazione molti di quei Paesi che finanziano le armi - ha aggiunto Arbib -. Basta guardare la decisione sul Muro del Pianto: dire che non appartiene al popolo ebraico, e ignorare la presenza storica degli ebrei in quello che è il luogo più sacro per il popolo ebraico, è voler negare l'evideza. Oltre a essere un errore storico!".

 I rapporti con l'Italia
  All'epoca, il governo italiano - con Paolo Gentiloni ministro degli Affari esteri - si era astenuto dalla votazione sulla risoluzione dell'Unesco sul Muro del Pianto, generando critiche, polemiche e non poca indignazione. Ma Arbib è ottimista: "L'Italia è vicina a Israele, da più di 15 anni i rapporti tra i due governi sono buoni. Gentiloni, alla guida della Farnesina, si era recato in Israele e penso che lo farà di nuovo come presidente del Consiglio. L'astensione del voto sul Muro all'Onu penso sia stato un errore, come ha spiegato il premier Matteo Renzi, per volersi allineare agli altri Paesi europei". Ma agli errori, in futuro, si può rimediare. "E' arrivato il momento per la leadership europea di riconoscere le ragioni d'Israele, avamposto di democrazia in un'area dove la parola democrazia non fa parte del vocabolario, e promuovere una pace giusta - ha concluso Arbib -. Nel vocabolario ebraico la parola Shalom, pace, è il saluto che ci si rivolge abitualmente ed esprime il volere di tutto il popolo. Ma finché la leadership palestinese continuerà a distribuire caramelle quando vengono uccisi cittadini israeliani ciò non sarà possibile! Citando Golda Meir, "la pace con i nostri vicini sarà possibile quando loro impareranno ad amare i propri figli più di quanto odiano i nostri".

(formiche.net, 20 gennaio 2017)


A Tel Aviv il mega evento sul futuro della tecnologia

Tel Aviv sarà il palcoscenico di uno dei più grandi eventi TED in Medio Oriente, TEDxWhiteCity, che si terrà il 25 gennaio presso The Israeli Opera e che punterà sul futuro dell'innovazione con Destination: Unknown.
L'evento prevede la partecipazione di 1.500 esperti che si destreggeranno in questioni relative al futuro della tecnologia, l'educazione e le arti, attraverso lezioni e approfondimenti, unendo imprenditori, organizzazioni, studenti e soldati delle unità tecnologiche.

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Questo è il secondo evento TEDxWhiteCity. Tra i relatori si annoverano grandi nomi tra cui il judoka Ori Sasson, vincitore di una medaglia alle scorse Olimpiadi di Rio; Yaron Schwartz, CEO e fondatore di Tridom, che sviluppa robot per la costruzione di case ed edifici che utilizzano la stampa 3D; Eran Katz, scrittore israeliano, moderatore e direttore del workshop sullo sviluppo della memoria e dell'intelligenza; Galia Ben-Artzi, uno dei fondatori di Mytopia, una società di social gaming; Roy Deutsch, considerato un esperto in new media; Zaki Djemal, co-fondatore e managing partner di fresh.fund, il primo fondo di venture capital in Israele gestito da studenti; Reem Younis, fondatrice della prima società ad alta tecnologia nel settore arabo, Alpha Omega, che sviluppa attrezzature per la chirurgia del cervello.
Il team organizzativo TEDxWhiteCity comprende i membri israeliani e internazionali della comunità TEDx ed è organizzato in collaborazione con Yossi Vardi, imprenditore informatico e personaggio emblematico del panorama high-tech israeliano.

(SiliconWadi, 20 gennaio 2017)


Trump conferma: «L'ambasciata a Gerusalemme»

di Michele Giorgio

Le dichiarazioni di Donald Trump a Israel Hayom, giornale megafono di Benyamin Netanyahu, sono apparse mentre i media di mezzo mondo riferivano dell'ultima conferenza stampa da presidente di Barack Obama. «Lo status quo è insostenibile e negativo per Israele e i palestinesi», ha spiegato. Aggiungendo di aver fatto il possibile per risolvere il conflitto israelo-palestinese ma Obama sa bene di aver tradito le aspettative che aveva generato nel mondo arabo con il suo celebre discorso del 2009 all'università del Cairo. Ora Trump si prepara a prendere a picconate proprio lo status quo che Obama ritiene «insostenibile». Ad esclusivo vantaggio degli alleati israeliani. «Non ho dimenticato le mie promesse su Gerusalemme», ha detto a Israel Hayom il nuovo presidente che alla cerimonia del suo insediamento alla Casa Bianca ha invitato anche i leader del movimento dei coloni israeliani. Trump si è riferito all'intenzione espressa in campagna elettorale di trasferire l'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, così da riconoscere la città santa capitale di Israele. «Certo che mi ricordo quello che ho detto su Gerusalemme, naturalmente non l'ho dimenticato. Non sono una persona che non mantiene le promesse», ha assicurato.
   Parole che indicano come non abbiamo avuto alcun effetto, almeno in apparenza, gli ammonimenti a non compiere a Gerusalemme passi gravidi di conseguenze che Trump ha ricevuto da più parti, dai leader palestinesi alla Giordania, dall'Unione europea ai pacifisti americani ebrei. Trump con ogni probabilità eviterà di annunciare subito il trasferimento dell'ambasciata. Dovrebbe farlo a maggio, nell'imminenza delle celebrazioni per il 50esimo anniversario della "riunificazione di Gerusalemme", ossia dell'imposizione della sovranità israeliana sull'intera città in seguito all'occupazione del settore est (palestinese) avvenuta durante la Guerra dei Sei Giorni. Già nelle prossime settimane, il nuovo ambasciatore americano, David Friedman, noto sostenitore della colonizzazione israeliana
dei territori palestinesi occupati, dovrebbe cominciare a lavorare a Gerusalemme, in attesa del trasferimento ufficiale della sede dell'ambasciata.
   Intanto una fedelissima di Donald Trump, la governatrice della South Carolina, Nicky Haley, nominata nuova ambasciatrice americana al Palazzo di Vetro, comincia a bacchettare l'Onu su Israele. Nella sua audizione per la conferma in Senato, ha affermato che «mai il fallimento delle Nazioni Unite è stato più scandaloso che nei suoi pregiudizi verso il nostro stretto alleato, Israele». Haley ha definito la recente approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza della risoluzione 2334 — che condanna la colonizzazione e altre politiche israeliane nei territori palestinesi - «un calcio nello stomaco a tutti».

(il manifesto, 20 gennaio 2017)


Soddisfatti per l'eventuale trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme

MOSCA - Lo Stato di Israele sarebbe soddisfatto se l'ambasciata statunitense nel paese fosse trasferita a Gerusalemme. Lo ha dichiarato oggi l'ambasciatore israeliano a Mosca, Gary Koren, all'agenzia stampa "Sputnik". "Se la nuova amministrazione Usa prenderà la decisione di spostare l'ambasciata ne saremo soddisfatti e felici. Il fatto che una parte di Gerusalemme sia la capitale della Palestina non è il problema, la questione è che alcuni negano completamente il diritto di Israele sul (considerare capitale) Gerusalemme", ha affermato il diplomatico israeliano. A settembre 2016, il presidente eletto degli Usa, Donald Trump, aveva detto al premier israeliano Benjamin Netanyahu che avrebbe voluto riconoscere Gerusalemme come capitale non divisa di Israele e spostarvi la sede diplomatica, che attualmente si trova a Tel Aviv. Koren ha sottolineato il legame "innegabile" dello Stato ebraico con Gerusalemme, rafforzato da quando tutti i ministeri più importanti, il parlamento, la presidenza della Repubblica, e l'ufficio del primo ministro si trovano a Gerusalemme. "Tutti comprendono che (Gerusalemme) è la capitale fattuale e politica" di Israele, ha concluso Koren.

(Agenzia Nova, 19 gennaio 2017)


Ladany, di corsa sulle strade della Memoria romana

L'ottantenne marciatore israeliano scampato al lager e all'attentato palestinese ai Giochi di Monaco 1972 domenica nella capitale per "Run for Mem". Non è una gara ma un percorso storico e interreligioso per non dimenticare.

di Adam Smulevich

Non ha mai smesso di marciare. Un passo dopo l'altro, oltre ogni ostacolo e avversità, Così gli hanno insegnato, così gli dice ogni mattina la sua testa. Un'infanzia distrutta dalle persecuzioni antiebraiche, dalla deportazione nei campi di sterminio, da mesi trascorsi in lotta quotidiana per la sopravvivenza. Un finale di carriera che invece di una meritata emozione a cinque cerchi lo rende testimone dell'assassinio dei suoi compagni di squadra. Dall'abisso della Shoah al massacro degli atleti israeliani a Monaco '72, Shaul Ladany ne ha viste tante. Ma, appunto, non ha mai smesso di marciare. Sarà lui il grande protagonista di "Run for Mem', la corsa tra Storia e Memoria organizzata per questa domenica a Roma dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con il supporto di Maratona di Roma e Maccabi Italia e con partenza prevista alle 10 del mattino da Largo 16 ottobre. Due percorsi, uno da 10 e l'altro da 3,5 chilometri (per il primo è necessario iscriversi, è gratuito). Toccati alcuni luoghi chiave della memoria romana nei quartieri di Trastevere, Testaccio e Monti. Tua le varie soste, ci si fermerà anche in via Urbana in ricordo di don Pietro Pappagallo, prete antifascista che fu in prima fila nell'assistenza ai perseguitati e che, dopo l'arresto per via di una delazione e dopo alcune settimane di prigionia, fu trucidato alle Fosse Ardeatine. Ladany, che è stato un signor marciatore ed oggi è invece docente di ingegneria gestionale, sarà in testa al gruppo. E insieme a lui correrà, in questa inedita iniziativa, tutta Roma. Enti, associazioni, privati cittadini, comunità religiose. Particolarmente significativa, tra le altre, l'adesione di una rappresentanza degli islamici del Coreis. Un valore aggiunto per condividere e lanciare questo messaggio ancora più in profondità. Molti altri, raccogliendo l'invito della Presidente dell'Unione Noemi si sono aggregati con l'obiettivo di affermare il valore e la sacralità della vita, il coraggio delle scelte, la lotta all'indifferenza. Per il mondo cattolico sarà presente, tra le altre, anche la Comunità di Sant'Egidio. «Sono un po' emozionato», confessa Shaul, da Omer, in Israele, dove si sta preparando a partire per l'Italia. Ogni giorno, da anni, percorre chilometri su chilometri per coltivare una forma invidiabile per la sua età, tenendo allenati il cervello e i muscoli. Ma questi pochi chilometri, sottolinea, «sono una delle sfide più belle della mia vita». Aveva otto anni quando sopravvisse a Bergen-Belsen, dove arrivò dopo un lungo viaggio dai Balcani.Trentasei invece a Monaco, quando sfuggì per un soffio all'azione dei terroristi palestinesi. «Sono consapevole di incarnare un valore, darò tutto me stesso per lasciare un messaggio che arrivi a tutti» sottolinea il professore, che per il suo ultimo compleanno si è regalato un'impresa mica da poco: 80 anni all'anagrafe, e quindi 80 chilometri a passo di marcia nel deserto. Fa così da tempo, ogni anno aggiunge mille metri di sudore. Anche Andrea Schiavon, il suo biografo e amico, si è stropicciato gli occhi davanti a tanto ardire. Invece del deserto, davanti agli occhi di Ladany questa domenica si schiuderà la bellezza di Roma. Bellezza abbagliante, certo, ma che nasconde ancora molte pagine buie. Anche un mito dell'atletica italiana sarà alla partenza: Franca Fiacconi, romana, trionfatrice nel 1998 alla Maratona di New York.

(Avvenire, 20 gennaio 2017)


Quell'indefinibile stato di felicità

Come si spiega che in ogni sondaggio gli israeliani risultano un gruppo umano soddisfatto e ottimista?

Benvenuti in Israele, il paese degli investimenti stradali terroristici, degli accoltellamenti, dei razzi e dei lanci di pietre sulle auto di passaggio; dell'alta disparità di reddito e degli alti tassi di povertà; dei politici corrotti, della siccità, degli incendi; delle tensioni fra arabi ed ebrei, fra laici e religiosi, fra religiosi di diverse fedi, fra ashkenaziti e sefarditi. Eppure, contro ogni aspettativa, le inchieste sugli israeliani rilevano costantemente che siamo, nel complesso, un gruppo umano felice.
A cosa si può attribuire questo senso di appagamento, a quanto pare autoctono? Evidentemente non è correlato con le dimensioni dei nostri appartamenti o dei nostri conti bancari. Né riflette, stando a queste stesse ricerche, un grado comparabile di soddisfazione per le performance dello stato....

(israele.net, 20 gennaio 2017)


Il Messia triste

di Oreste Paliotti

Ci trasporta a Praga la versione più originale e inquietante della leggenda ebraica del Golem, il fantoccio d'argilla creato da un rabbino per salvare il suo popolo

 
 
Il golem
La Praga del IX secolo d.C era ancora pagana quando gruppi di ebrei trovarono asilo sulla riva sinistra della Moldava e più tardi, cresciuta la comunità, anche su quella destra. In età medievale, grazie alla sua posizione strategica, la città boema divenne il centro della cultura ebraica per la presenza di illustri rabbini, filosofi e studiosi dediti all'astronomia, alla matematica, alla storia e alla letteratura, come pure alla cabbala e all'alchimia. Dato per scontato che anche a Praga, in alternanza a periodi di relativa calma, gli ebrei conobbero discriminazioni razziali ed efferati pogrom, la città conserva tracce cospicue di questa presenza secolare: prima fra tutte la sinagoga più antica d'Europa dopo quella pugliese di Trani. Eretta verso il 1270 in stile gotico, si caratterizza per l'alto tetto a campana e il timpano decorato da tralci e grappoli di vite. Ma è soprattutto nota per essere legata ad una delle più affascinanti leggende ebraiche: quella relativa al Golem, che si dice abitasse nella soffitta del sacro edificio.
Di che si tratta? La storia di questo popolo sempre in attesa di un Messia liberatore ha registrato vari pseudo-messia e perfino uno artificiale: il Golem, appunto. La leggenda del fantoccio d'argilla creato da un rabbino per liberare gli ebrei oppressi ha conosciuto nel tempo varie versioni, la più nota delle quali - definitasi a metà del secolo XIX - lo vuole fabbricato nel XVI a Praga da Yehuda Loew ben Betsalel, detto il Maharal. Un'ulteriore trasformazione della leggenda descrive le intemperanze del Golem, che incapace di controllare il suo enorme potere manda a vuoto la propria missione salvifica.
Quest'ultima versione del mito ha fecondato varie forme artistiche lungo tutto il XX secolo, ed è proprio ad essa che s'è ispirato lo scrittore russo in lingua yiddish H. Leivick per il suo poema drammatico in otto quadri Il Golem, ora pubblicato da Marsilio.
Il fantoccio-messia, destinato ad essere strumento di salvezza per gli ebrei accusati dai cristiani di omicidio rituale di bambini, «cerca di ritrarsi dal suo compito - scrive la curatrice Laura Quercioli Mincer -, si rifiuta di vivere; con disperazione di bambino implora il suo creatore di lasciarlo fra le tenebre del non-essere». Invano: questo «informe embrione» (tale è il significato della parola "golem") dovrà obbedirgli affrontando le paurose visioni della Quinta Torre, dove è stato da lui confinato: un richiamo esplicito all'esperienza fatta dall'autore in una cella d'isolamento a Minsk, in Siberia. Appaiono accanto al Golem, nei suoi tenebrosi recessi, altri due messia: il Giovane Mendicante e l'Uomo con la Croce, come lui esposti alla derisione altrui ed esonerati dal compito di redimere l'umanità.
In un crescendo di solitudine (l'abbandono da parte del rabbino e il rifiuto della comunità ebraica, terrorizzata dall'aspetto mostruoso e dalla forza selvaggia del Golem), il fantoccio scivola nella follia e, incapace di governare la propria pulsione alla violenza, fa strage nella sinagoga tra coloro che avrebbe dovuto difendere. A questo punto il Maharal è costretto a distruggere la sua creatura, restituendola al non-essere. I tempi non sono ancora maturi per un mondo in pace finalmente redento.
Leivick ha rielaborato in maniera del tutto originale la leggenda del Golem: il suo è un messia "triste", ignaro dello scopo reale del suo esser messo alla prova, con la nostalgia di un Dio incomprensibilmente lontano. Questo dramma poetico del 1921, destinato alle scene, è un'opera potente, che affascina: anche perché densa di inquietanti premonizioni sulla futura Shoà.

(Città Nuova, 20 gennaio 2017)


Da Abramo a Noè ecco il volto segreto degli eroi biblici''

Isacco era disabile, con Babele nacque il fascismo ... Così Haim Baharier, studioso delle Scritture, interpreta in modo originale le storie più celebri.

di Antonio Gnoli

Alcuni episodi della Bibbia ci sono oltremodo familiari. Averne più volte sentito i racconti, invece di stancarci ci colloca su quel crinale in cui l' attesa si mescola alla curiosità intellettuale nei riguardi di un Dio che apparentemente regola tutte le mosse di una storia. Qual è allora la nostra libertà di lettura? Come interpretare, ad esempio, il sacrificio di Isacco? O in che modo accogliere l'insensata e infinita costruzione di una Torre che prenderà il nome di Babele? Haim Baharier, le cui origini polacche e francesi sono cresciute nelle radici del mondo ebraico, da anni pratica una esegesi biblica di particolare efficacia, dove cabala e commento talmudico si intrecciano vertiginosamente. Egli terrà una serie di lezioni al Teatro Eliseo di Roma, a partire da dopodomani: «Nella Torah», mi dice, «ci sono due volti che si fronteggiano, ogni tanto si sfiorano, ogni tanto si allontanano, qualche volta si fondono: quello narrativo e quello normativo». Si tratta, come vedremo, di una distinzione carica di conseguenze.

- Vuole spiegare cosa rappresentano questi due volti?
  «Vi è spesso tra le narrazioni bibliche e le regole comportamentali molto concrete, che la Bibbia indica, un cortocircuito logico. Pensiamo alla narrazione della nascita di Isacco, la madre Sara ha 90 anni, il padre Abramo 100. Una nascita miracolosa, che ha come conseguenza il nome stesso del nascituro, che significa "colui che riderà"».

- Come interpretarlo?
  «Io parto da una considerazione che non ha nessuna evidenza apparente, ma che si nutre di numerosi indizi: Isacco è un disabile. Per questo la gente ride di lui. Perfino Ismaele, il fratello più grande, ride di lui».

- È un riso di scherno?
  «Certo, ma il riso domina tutto il racconto. Anche Sara ride quando le annunciano che a 90 anni avrà un figlio. Ma lei accetterà rapidamente la condizione del figlio. Abramo no. È tormentato e alla fine deciderà di sopprimerlo. A quell'epoca in Mesopotamia non erano affatto eccezionali i sacrifici umani di bambini, molto spesso disabili».

- Però Abramo prende quella decisione estrema perché una voce glielo ordina. È Dio o una sua allucinazione?
  «Gli anni di Isacco, ormai trentenne, raccontano soprattutto il lungo processo di degenerazione psicologica del padre la cui conclusione è che il modo migliore per compiere il figlicidio è imputarlo all'Onnipotente».

- Quale possibile conclusione trarne?
  «Un commentatore hassidico ha letto nel racconto l'assoluta fiducia, nonostante tutto, di Isacco nel riguardi del padre, del figlio dell'uomo nel genere umano, del popolo ebraico nei confronti dell'umanità. Ai miei occhi prefigura la speranza nel genere umano dalla quale il popolo ebraico non deroga mai».

- Due storie diciamo pure di degenerazione umana sono per un verso la storia del Diluvio universale e dall'altro la Torre di Babele. Che ruolo occupano nella Bibbia?
  «Da un lato c'è l'umanità che verrà annegata nel Diluvio universale e dall'altro c'è Noè che si salverà in un'Arca. Cosa rappresenta quest'Arca? Arca, in ebraico Teva, significa anche parola. Nel testo si rapportano le misure dell'Arca: altezza, lunghezza, larghezza i cui valori numerici (in ebraico le lettere fungono anche da numeri) corrispondono alla parola "linguaggio". Noè che si salva è l'antenato di Abramo che, attraverso il linguaggio e la parola, inaugura l'identità ebraica. In questo senso, la storia del Diluvio e della salvezza, rappresentano le origini arcaiche di questa identità».

- È dunque un atto fondativo?
  «Sì. E come ogni atto fondativo richiede la nascita di un nuovo linguaggio. Il vecchio linguaggio è servito ad aggirare la punibilità delle leggi. A coprire la verità e non a svelarla. Oggi conosciamo perfettamente cosa sia la manipolazione del linguaggio, l'uso delle parole che ci allontanano dal vero».

- Quindi il naufragio di cui parla la Bibbia ha qualcosa in comune con il nostro naufragio?
  «Il grande naufragio del nostro mondo ha molto a che vedere con il Diluvio. La storia del Diluvio è comune a moltissime civiltà e religioni. Tuttavia la narrazione biblica si differenzia dalle altre in quanto insiste sul come ci si salva dalla catastrofe».

- Dopo il Diluvio abbiamo la storia della Torre di Babele. Che significa questa successione?
  «Rafforza la storia precedente. Il testo biblico parla di una città in costruzione i cui costruttori sembrano prigionieri di un linguaggio composto da parole uniche comuni. Questa città che non riconosce le virtù della diversità, non vi sono lingue differenti. C'è una lingua verticale, monolitica e minacciosa che impedisce lo sviluppo orizzontale delle lingue plurali. La Torre di Babele in ultima analisi mostra la nascita del linguaggio assolutistico. In quel linguaggio sono già presenti in fieri tutti i totalitarismi e fascismi della Storia. La Torre di Babele è la fine dell'illusione del "come sarebbe bello se parlassimo tutti la stessa lingua". No, non è bello affatto, annulla il tempo della riflessione, dell'apprendimento, del dubbio, della contraddizione. La diffusa incomprensione nel nostro mondo connesso nella Rete è la versione attuale della Torre di Babele. Siamo nuovamente piombati nell'ignoranza della differenza tra linguaggio e lingua, tra coscienza magica e coscienza critica».

- Cosa intende per coscienza magica?
  «La coscienza magica non dà spazio alle interpretazioni, non conosce dubbi. La percezione del mondo è nell'ordine dell'abracadabra, è scritto così quindi è così. La coscienza magica è la madre di tutti i totalitarismi e ha contaminato, in gradi diversi, tutti i monoteismi. I saggi cabalisti leggono il mondo come un immenso intreccio di lettere, un linguaggio che spetta all'uomo decifrare e trarne una lingua per comunicare. La coscienza evoluta estrapola parole, frasi, paragrafi, storie che a loro volta comporranno la storia dell'umanità».

- La coscienza magica è l'altra faccia del fondamentalismo ...
  «È il prolungamento acritico di una presunta volontà divina del braccio del terrorista che uccide. L'Isis è un chiaro esempio di coscienza magica, di manipolazione delle coscienze attraverso il conformismo dogmatico. Non conosciamo le reali motivazioni dell'Isis, al di là di fatti economici ed espansionistici, sappiamo che si esplicitano attraverso un dogmatismo che affascina la coscienza magica, imperante non solo nelle società mediorientali ma in forme attutite e meno evidenti anche nelle nostre società».

- A cosa pensa?
  «A questi anni trascorsi sotto il segno di una finanza magica che fideisticamente prometteva di arricchire tutti e non ha fatto altro che spogliare l'uomo dei suoi beni».

(la Repubblica, 20 gennaio 2017)


«
I saggi cabalisti leggono il mondo come un immenso intreccio di lettere, un linguaggio che spetta all'uomo decifrare e trarne una lingua per comunicare. La coscienza evoluta estrapola parole, frasi, paragrafi, storie che a loro volta comporranno la storia dell'umanità». Si viene a sapere così che l’antica cabala è un’anticipazione dell’odierno postmodernismo: un universo di chiacchiere che costituirebbero l’autentica realtà da difendere contro il dogmatismo della verità. Come è rinfrescante, dopo simili intellettualistiche chiacchiere, rileggere la Bibbia così come è scritta e sapere che il suo culmine si trova nelle parole di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6). M.C.


Roma - Al ghetto non si parla d'altro: il prossimo ambasciatore Usa sarà ebreo

Eisenberg o Kalikow?

            Lew Eisenberg                               Peter Kalikow
Dalle parti del Portico di Ottavia, nel cuore ebraico di Roma, non si parla d'altro: la poltrona dell'ambasciatore degli Stati Uniti in Italia è contesa da due ebrei americani. I nomi sono quelli di Lew Eisenberg e Peter Kalikow, entrambi munifici sostenitori della campagna elettorale di Donald Trump. Kalikow è un vecchio frequentatore del nostro paese, filantropo, appassionato di auto d'epoca e persino insignito tempo fa del titolo di commendatore. Il suo "sfidante", il finanziere Eisenberg, è un repubblicano di lungo corso, membro della Republican Jewish Coalition e tesoriere del partito. "Non sarebbe male festeggiare la Pesach a Via Veneto", commenta un anziano negoziante del ghetto quando gli chiediamo di commentare l'ipotesi. Battute a parte, l'occasione è di quelle ghiotte per l'ebraismo italiano e romano. Se dovesse puntare su Eisenberg o su Kalikow (il primo appare leggermente favorito), The Donald riconoscerebbe di fatto all'Italia il ruolo di interlocutore europeo più gradito sul dossier mediorientale. Nel 2017 il nostro Paese presiede il G7 e siede nel Consiglio di Sicurezza ONU, due partite su cui la nuova Amministrazione intende imprimere un deciso cambio di rotta rispetto a Obama, anche in relazione ai rapporti con Israele. Non a caso, il rappresentante di Trump presso lo Stato d'Israele sarà il falco David Friedman, che ha già annunciato la sua intenzione di trasferire l'ambasciata a stelle e strisce da Tel Aviv a Gerusalemme. Tornando alle chiacchiere da ghetto, tra un carciofo alla giudìa e una porzione di stracotto, pare che a convincere gli ebrei repubblicani vicini a Trump (tra cui il suo potente genero) dell'efficacia della "pista italiana" abbia contribuito anche la stima che ha saputo raccogliere nei primi mesi di lavoro l'ambasciatore a Washington Armando Varricchio, già consigliere diplomatico di Renzi a Palazzo Chigi. Altrettanto apprezzato il console generale a New York, Francesco Genuardi. D'altra parte, anche da questa parte dell'Atlantico c'è una nuova generazione di italiani che sta lavorando bene per tenere saldi i legami tra Italia e Israele, come il venture capitalist Jonathan Pacifici, il portavoce italiano del World Jewish Congress Fabio Perugia e la stessa presidente della comunità romana Ruth Dureghello. E c'è soprattutto la sensazione che, chiunque siederà al governo nel 2018, l'Italia sarà comunque meno condizionata da quelle tare ideologiche anti-israeliane che influenzano altri governi europei. Potere del tanto bistrattato volemose bene, dicono.

(Il Foglio, 19 gennaio 2017)


Da Israele bachi da seta per riparare le cellule del cervello danneggiate

 
La Dott.ssa Ulyana Shimanovich del Weizmann Institute, sta usando bachi da seta e ragni per riparare le cellule del cervello devastate da malattie come Parkinson e Morbo di Alzheimer.
La Dott.ssa si è concentrata sull'amiloidosi, una malattia caratterizzata dalla deposizione in sede extracellulare di materiale proteico a ridotto peso molecolare ed insolubile, detto amiloide.
Tradizionalmente, l'amiloide è considerata puramente "cattiva" perché forma placche tossiche nel cervello. Tuttavia, la sua ricerca sulle proprietà biofisiche e biochimiche ha dimostrato che potrebbero avere proprietà positive.
L'obiettivo è trarre le fibre naturalmente prodotte dai bachi da seta per controllare i processi di auto-assemblaggio delle proteine amiloidi convertendole in biomateriali funzionali. In questo modo, la seta è utilizzata per trattare le cellule invece di utilizzare composti chimici che possono causare effetti deleteri sulle cellule stesse. In tal modo si vuole affrontare una delle sfide principali della terapia farmacologica dei nostri giorni.

 Utilizzare la natura per guarire la natura
  L'obiettivo della Dott.ssa è quello di utilizzare la seta, una risorsa naturale, che, in sostanza, dà nuova vita a una cellula danneggiata. La sua ricerca ha implicazioni per la diagnostica, la progettazione di nuovi farmaci per approcci terapeutici mirati e per la scienza dei materiali più in generale.

(SiliconWadi, 19 gennaio 2017)



Parashà della settimana: Shemot (Nomi)

Esodo 1.1-6.1

 - Il secondo libro di Torah conosciuto come Esodo, in lingua ebraica viene detto Shemot (Nomi). "Questi sono i nomi dei figli d'Israele che scesero in Egitto insieme a Giacobbe" (Es. 1.1).
Da un piccolo nucleo di anime (70 in tutto) ha inizio la formazione del popolo ebraico, che resterà in esilio in terra d'Egitto fino al giorno della sua liberazione (Pesach) per mano di Moshè e per volontà di D-o. L'ebreo dell'esilio è un ebreo imprigionato all'interno dei propri limiti. Il significato stesso della parola Mitsraim (Egitto) significa tra le ristrettezze della propria comprensione e della pesante oppressione subita. Ed ecco allora che il "grido" del popolo ebraico arrivò fino a D-o (Es. 2.23).
La nostra parashà si apre sul duro esilio che conobbero gli ebrei sotto il regno di un nuovo "Faraone che non aveva conosciuto Giuseppe". Il sanguinario tiranno decretò che tutti i bambini maschi ebrei dovevano morire appena nati. In questa tragica circostanza "Un uomo (Amram) della famiglia di Levi prese in moglie una donna della casa di Levi. Questa rimase incinta e partorì un figlio (Moshè)" (Es. 2.2).
Amram detto il grande si era separato da sua moglie Yokeved per impedire la nascita di bambini che sarebbero stati uccisi. Ma sua figlia Miriam rimproverando il padre gli disse:" Tu sei più duro del Faraone perché con la tua decisione impedisci la nascita anche delle femmine". Amram ascoltò la voce di Miriam e tornò dalla moglie che restò incinta e dette alla luce un bambino. Non potendo nasconderlo oltre Yokeved "fabbricò una cesta di papiro, la spalmò di pece e bitume, vi mise dentro il bambino e la depose nel canneto sulla riva del fiume" (Es. 2.3). Da notare il legame tra l'arca di Noè e la culla di Moshè che sono ambedue salvifiche: la prima sul piano materiale (diluvio) la seconda sul piano spirituale (Torah). Ora la figlia del Faraone Batya scendeva nel fiume Nilo per bagnarsi, cosa questa che Rashì interpreta come un lavaggio dagli idoli di suo padre. Pertanto l' immersione nelle acque (miqvè) è da considerarsi come una conversione. Batya difatti secondo una spiegazione talmudica era convinta a tal punto dell'esistenza di Israele da compiere un gesto così audace prendendo il bambino dalle acque e dandogli un nome (Moshè).
Moshè venne adottato e visse alla corte del Faraone dove fu educato nelle tradizioni egiziane. Un giorno vide una guardia del re percuotere un figlio d'Israele. Reagì istintivamente percuotendo a morte l'egiziano e nascondendo il suo corpo sotto la sabbia. Denunciato per questo crimine da due ebrei (Datan e Aviram) (Es. 2.13), Moshè dovette fuggire dall'Egitto e rifugiarsi nel deserto di Midian, dove gli apparve il Signore con il Nome di El Shaddaj. "L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo ad un roveto. Moshè guardò ed ecco il roveto ardeva ma non si consumava" (Es. 3.2).
Il roveto (sinè) è il simbolo dell'eternità di Israele che vive e non si consuma. Rashì spiega che le lettere ebraiche che compongono la parola "sinè" sono simili a quelle che formano la parola "Sinài" inteso come un anticipo premonitore al dono della Torah, che scatenerà le gelosie nonché l' odio delle Nazioni verso Israele.
L'apparizione di D-o nel roveto ardente, fu il primo avvertimento dato a Moshè per la sua missione di liberare il popolo ebraico dalla schiavitù d'Egitto. Moshè è titubante quasi si rifiuta adducendo che egli è balbuziente, non sa parlare e pertanto gli ebrei non lo ascolteranno. Il Signore gli dice: "Aronne tuo fratello, sarà la tua parola". Perché Moshè è restio ad accettare una tale missione? Perché gli ebrei d'Egitto erano in piena assimilazione ai costumi del paese, dimenticando la loro identità.
E' quello che accade oggi con gli ebrei della golà (esilio) che hanno dimenticato la Torah della terra d'Israele osservando delle regole di carattere "religioso" e non identitario. Moshè, che conosce la tradizione ricevuta da Giuseppe che è quella della Torah d'Israele, nonostante le incertezze e le difficoltà, si mette in cammino verso l'Egitto per realizzare la sua missione. Chiedere al Faraone la libertà per il popolo ebraico e far conoscere ai suoi fratelli l'identità ebraica che costoro avevano persa a causa dell'assimilazione. Per i popoli della terra l'assimilazione e la loro scomparsa è una conseguenza naturale dell'evoluzione storica. Non è così per il popolo d'Israele, che non può perdere la sua identità. E' il Signore stesso che glielo impedisce!
Il Faraone di fronte alle richieste di Moshè, indurisce il suo cuore e aumenta la pressione sul popolo chiedendo lo stesso numero di mattoni senza più fornire la paglia per l'impasto (Es.5.7).
Il popolo allora dice a Moshè: "Perché hai messo una spada nelle mani del Faraone contro di noi?" (Es. 5:21). F.C.

*

 - Il primo libro della Bibbia termina con un pieno successo della politica di Dio. In politica estera Dio è riuscito a piazzare un suo uomo, Giuseppe, nelle più alte sfere di governo dell'Egitto, con pieno beneficio della nazione ospitante e della tribù abramitica ospitata, in seno alla quale sono stati anche definitivamente appianati i gravi dissidi del passato.
Muore Giacobbe e muore Giuseppe. I discendenti di Abramo si moltiplicano in seno alla nazione egiziana senza però diventarne parte pienamente integrata. Dopo circa tre secoli e mezzo in cui il Signore non dà né notizie né istruzioni, la situazione di quello che ormai è diventato un popolo si fa drammatica. Un Faraone "che non aveva conosciuto Giuseppe" decide, primo nella storia, di affrontare alla radice "il problema ebraico", cioè sterminarlo. Fallito un primo tentativo di affogamento di tutti i nuovi maschi, il monarca tenta un altro sistema, poi applicato anche in tempi recenti: ammazzarli con una mole insopportabile di lavoro. Risultato: "I figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano grida" (Es. 2:23).
E Dio dov'è? si saranno chiesti allora gli ebrei, essendo i primi anche in questo. Risposta: "... e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti e si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe" (Es. 2:24).
Sul piano della politica interna, qualcuno troverà insoddisfacente questa risposta. Ma allora, Dio si era forse dimenticato del suo popolo? Sul piano umano, per un capo di governo questa è una colpa gravissima. Il Signore però ha avvertito: "Le vostre vie non sono le mie vie" (Is. 55:8); dunque si studia la Bibbia per cercare di capire le vie di Dio, non per trovare conferma alle nostre.
Nelle vie di Dio è fondamentale il riferimento al ricordo di ciò che Egli ha detto e promesso: "Dio... si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe", il che significa che tutta la storia successiva non sarà che lo sviluppo e il compimento di questo iniziale patto di Dio con i patriarchi ebrei.

Dalla parte del popolo
Si potrebbe dire che con la vicenda di Mosè Dio sia riuscito ancora una volta a piazzare un suo uomo nelle alte sfere del governo egiziano: essere figlio della figlia del Faraone, infatti, non è cosa di poco conto. Mosè però non approfitta della sua posizione: sa di appartenere al disprezzato e maltrattato popolo ebraico e intimamente si schiera dalla sua parte. Un giorno vede un prepotente egiziano che malmena alcuni suoi fratelli e l'uccide. Generalmente, questo fatto non è giudicato molto bene, soprattutto perché con la sua successiva fuga il risultato dell'azione è nullo. Ma è proprio questo atto impulsivo che permette a Mosè di essere confermato da Dio come strumento della sua opera di redenzione. E' vero, con il suo atto violento Mosè non dà prova di sottomissione a Dio, perché non l'aveva ancora incontrato, ma si è messo dalla parte del suo popolo, e questo certamente è stato preso in seria considerazione dal Signore, che in un secondo momento gli ha richiesto in modo imperativo la sua sottomissione fiduciosa.
Nella "Lettera agli Ebrei" si fa riferimento esplicito alla persona di Mosè: "Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del Faraone, preferendo di essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato; - e il passo continua con parole che fanno riflettere - stimando l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto" (Eb. 11:24-26). L'autore dunque pone un collegamento tra il maltrattamento subito dal popolo ebraico e l'obbrobrio di Cristo. Non tentiamo qui un'interpretazione completa del passaggio, ma invitiamo a farlo personalmente.

Il roveto ardente
Il lungo colloquio tra Dio e Mosè davanti al roveto ardente costituisce indubbiamente un momento topico nella storia di Israele. Nulla di simile era avvenuto prima con i patriarchi. L'Angelo dell'Eterno, cioè Dio stesso in una forma relazionabile con l'uomo, appare a Mosè, ma in modo nuovo rispetto al passato: in una fiamma di fuoco che arde un roveto senza consumarlo. Perché Dio ordina severamente a Mosè di non avvicinarsi? La risposta è significativa: "Perché il luogo su cui stai è terra santa" (Es. 3:5). Nella Bibbia l'espressione "terra santa" (adamat kodesh, אדמת קדש) compare soltanto qui e in un passo del profeta Zaccaria: "L'Eterno possederà Giuda come sua parte nella terra santa e sceglierà ancora Gerusalemme" (Zac. 2:12), versetto citato anche nel Nuovo Testamento dall'apostolo Paolo (Atti 7:33).
Dopo il peccato di Adamo ed Eva la terra era stata maledetta (Gen. 3:17), il che significa che Dio non poteva entrare in contatto diretto e immediato con essa senza consumarla. Di conseguenza, la sua relazione con gli uomini avveniva a distanza: attraverso messaggi, visioni, sogni, apparizioni angeliche. Ma il progetto redentivo di Dio prevede che il Signore arrivi a dimorare personalmente e concretamente in mezzo agli uomini, su una terra non più maledetta perché resa santa dalla sua opera di redenzione. Dio non si propone di far salire in cielo, a casa sua, alla spicciolata, il maggior numero di "buoni", ma di essere Lui a scendere su una terra santificata dalla sua presenza, per abitare in mezzo a una società di uomini santificati dalla sua grazia.
L'episodio del roveto ardente si presenta dunque come la prima, particolarissima discesa di Dio sulla terra, il suo primo "atterraggio", fatto con le dovute precauzioni. Dio si presenta in una fiamma di fuoco, simbolo di distruzione purificante, ma il roveto non si consuma. La divina presenza è lì: un piccolo lembo di terra diventa "terra santa" e per questo ad essa Mosè non si può avvicinare senza togliersi i calzari.
Dio appare e parla di mezzo (mitoch, מתוך) al roveto, un termine che in altri collocamenti della frase diventa in mezzo (betoch, בתוך) ed è di fondamentale importanza perché in seguito si vedrà che lo scopo essenziale per cui il Signore chiederà a Israele di costruirgli un santuario sarà di poter venire ad abitare in mezzo al popolo: "E mi facciano un santuario perch'io abiti in mezzo a loro (betokham, בתוכם) (Es. 25:8).
Il roveto ardente dunque si può considerare come il primo santuario temporaneo in cui Dio è sceso: prima tappa del suo progetto di venire un giorno ad abitare definitivamente in mezzo agli uomini.
"E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, ed essi saranno suoi popoli, e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio" (Apocalisse 21:2-3). M.C.

  (Notizie su Israele, 19 gennaio 2017)


Il cerchiobottismo di Francesco piace agli atei ma allontana i fedeli

di Alessandro Rico

 
Francesco è il papa della discontinuità, della «Chiesa in uscita», delle aperture. Ma è anche il Papa che promette di riuscire dove persino Benedetto XVI aveva fallito: ricucire con i lefebvriani, anti-conciliaristi irriducibili, a destra persino del cardinale Raymond Leo Burke.

 Primi passi
  Diversi commentatori lo hanno messo in evidenza: per papa Francesco, che più volte ha impiegato quest'espressione, il tempo è superiore allo spazio. Lo spazio rapprende, solidifica, cristallizza; il tempo scorre, evolve, modifica. Lo spazio è una metafora del «legalismo» che Bergoglio non perde occasione di stigmatizzare: è la dimensione della regola e della tradizione che si consolidano. Il tempo è invece un processo: una catena di eventi che comporta un cambiamento radicale ma progressivo. La rivoluzione per Francesco si fa passo dopo passo, tassello dopo tassello, facendo due balzi in avanti e uno di nuovo indietro, perché si metta in moto quel «processo» al termine del quale la tradizione sara stata soppressa.

 Ecumenismo
  Ecco da dove deriva l'apparente cerchiobottismo del Papa. Bisogna sempre dare l'impressione di essere perfettamente ecumenici, glissando sulle preoccupazioni dei conservatori e temperando l'entusiasmo dei progressisti. Scopo del suo pontificato non è completare il processo, ma avviarlo. Perché poi, si sa, la rivoluzione cammina sulle proprie gambe. Per questo diventa sempre più difficile «normalizzare» le sortite di Francesco, dal dico-non dico a proposito dei divorziati risposati, alle clamorose affermazioni della scorsa domenica sulla Bibbia che prescriverebbe l'accoglienza degli immigrati.

 Strumentalizzazioni
  Per un verso è vero che i giornali sono bravi a condire ogni dichiarazione di Bergoglio. Ma è mai giunta una smentita? Il Papa ha mai sconfessato il suo interlocutore prediletto, Eugenio Scalf ari, che è arrivato persino ad affermare che papa Francesco aveva «abolito il peccato»? E quando i quotidiani hanno diffuso lo slogan «Chi sono io per giudicare», è forse arrivato dal Pontefice l'invito a contestualizzare quelle parole sui gay, che parevano provenire dal salottino di Barbara D'Urso più che dal custode di una tradizione teologica? Anzi, spesso e volentieri le frasi di Francesco hanno prestato il fianco a facili strumentalizzazioni da parte dei nemici della Chiesa. Quando il Papa decise di concedere, come grazia speciale per l'anno giubilare, a tutti i sacerdoti di poter assolvere dal peccato dell'aborto, Roberto Saviano e Monica Cirinnà colsero subito la palla al balzo per scagliarsi contro l'obiezione di coscienza.

 Verità scomode
  Con l'apparente banalizzazione di un atto così grave, promossa come atto di misericordia, la Chiesa si è offerta di nuovo a un deplorevole flirt con quell'intellighenzia progressista con cui Bergoglio da sempre va a braccetto: dall'incredibile offensiva contro Donald Trump, uno strappo diplomatico che non è stato tacciato come ignobile ingerenza solo perché diretto all'allora candidato più sgradito ai media, alla conquista del premio Carlo Magno, circostanza che Francesco impiegò per rilanciare, dinanzi a una platea di ong e capi di governo, la sua agenda pro immigrazione. La filosofia open border e la retorica anticapitalista sono ingredienti sempre graditi alla sinistra radical chic.
A furia di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, il mondo finirà con il porgere l'orecchio solo al colpo al cerchio della tradizione, che in fondo è quello che tutti vogliono sentire. Invece il Vangelo mette in guardia dal cerchiobottismo. Il Papa ha ripetuto più volte di disprezzare chi crede sia tutto bianco e nero, mentre le Scritture invitano a non essere ambigui, a non cercare compromessi («Sia il vostro parlare sì sì, no no»), cosa ben diversa dall'ignorare le verità teologiche nel nome di presunte esigenze pastorali.

(La Verità, 19 gennaio 2017)


La CCR (Chiesa Cattolica Romana) scricchiola. L’ambiguo linguaggio papale, così utile alla CCR per i rapporti con l’esterno, si sta adesso ritorcendo all’interno. Purtroppo molte “verità teologiche” della CCR sono “falsità bibliche”, e la falsità, così utile per mantenere la centralità e il potere dell’istituzione, alla lunga si rivela essere un falso sostegno. Le persone sincere non cerchino di difendere le “verità teologiche” della CCR, ma ricerchino le autentiche verità: quelle che si trovano nella Bibbia, e solo nella Bibbia. M.C.


Oppositore siriano ai palestinesi: "In confronto, voi vivete in paradiso"

Invitato all'Università di Gerusalemme, esponente anti-Assad zittisce i contestatori palestinesi che volevano impedirgli di parlare.

Un insolito incontro pubblico tra israeliani e siriani, martedì scorso a Gerusalemme, è stato interrotto da dimostranti palestinesi che esprimevano la loro indignazione per il fatto stesso che dei siriani cooperassero con degli israeliani. Ma i manifestanti hanno dovuto fare i conti con la furibonda reazione degli ospiti siriani, che li hanno accusati di non avere la minima idea di cosa significhi una vera oppressione. "Voi vivete in un paradiso in confronto al regime in Siria - ha tuonato Issam Zeitoun, ufficiale di collegamento con la comunità internazionale per l'Esercito Libero Siriano (anti-Assad), rivolto ai dimostranti che non smettevano di gridare per impedire il proseguimento del dibattito - Voi dovreste vergognarvi".
L'alterco si è verificato in una sala gremita delll'Università di Gerusalemme, dove l'ufficiale di collegamento dell'Esercito Libero Siriano e un rappresentante dei curdi siriani erano stati invitati a parlare agli studenti nel quadro di un'iniziativa organizzata dall'Istituto di Ricerca Harry S. Truman per la promozione della pace....

(israele.net, 19 gennaio 2017)


Barack Obama discriminato dal golf club filo israeliano

Il Presidente uscente ha inviato domanda d'iscrizione al prestigioso Woodmont club, ma Obama non sarebbe presenza gradita.

di Barbara Massaro

Mai nessun Presidente americano prima di lui aveva seguito una "politica così anti israeliana" come quella attuata da Barack Obama per gli otto anni del suo doppio mandato.
Parola di Faith Goldstein uno dei soci del prestigioso Woodmont golf club del Maryland dove il Presidente uscente Barack Obama ha inviato formale richiesta (per 80.000 dollari più 10.000 di quota annuale) d'iscrizione.
Il Woodmont è stato fondato a metà del secolo scorso ed era rifugio per i golfisti ebrei discriminati. Da allora è luogo d'eccellenza per chi pratica questo sport tanto amato anche da Obama.
Peccato che la politica estera attuata dall'amministrazione Obama non sia piaciuta ai vertici che club che avrebbero negato l'iscrizione a Barack.
Per argomentare le ragioni di un così secco no Goldstein ha scritto al Washington Post che oggi ha pubblicato la lettera: "Obama ha creato una situazione mondiale dove l'esistenza stessa dello Stato d'Israele è messa in discussione. Non è il benvenuto al Woodmont. La sua presenza potrebbe causare una tempesta che minaccerebbe lo stesso club".
Al contrario Jeffrey Slavin, sindaco di Montgomery e membro del club, sostiene l'ingresso di Obama e ritiene inammissibile proprio da persone ebree un così lampante segnale di discriminazione. "Non posso appartenere a una comunità dove si accetta l'intolleranza; dove si dimentica la storia e si nega la libertà d'espressione; dove il primo Presidente di colore della storia non è il benvenuto".

(Panorama, 18 gennaio 2017)


Israele si dota dell'Arrow 3 "nuova era" nel settore antimissile

GERUSALEMME - Il sistema missilistico di difesa "Arrow 3" è stato consegnato oggi all'Aeronautica militare israeliana. La cerimonia è avvenuta nella base aerea di Palmachim, come riferisce il sito d'informazione economica israeliano "Globes", precisando che la difesa missilistica israeliana è entrata oggi in una nuova era. Arrow 3 aumenta la capacità di difesa missilistica dello Stato ebraico, affiancandosi ai sistemi Iron Dome, Arrow 2 e Magic Wand. Il sistema Arrow 3 consentirà di proteggerà il territorio nazionale dai missili balistici provenienti da una distanza di migliaia di miglia. Le batterie di sistemi antimissile saranno posizionate nelle basi di Palmachim (sulla costa centrale di Israele) ed Ein Shemer (nel nord del paese), e saranno collegato al sistema radar Oden Adir, sviluppato dall'industria israeliana per la difesa (Israel Aerospace Industries Ltd. - Iai). Iai è il contraente principale del programma Arrow, mentre la società statunitense Boeing è il partner senior.

(Agenzia Nova, 19 gennaio 2017)


Cara Voce dei Berici, anche le opinioni hanno un limite

Il suo orientamento filo-palestinese e anti-israeliano è legittimo. Ma nella cronaca dell'attentato terroristico di alcuni giorni fa si è andati oltre.

L'orientamento filopalestinese e anti-israeliano del settimanale diocesano vicentino La Voce dei Berici è noto. E del tutto legittimo, come lo sono le tante e diverse opinioni che si confrontano in un contesto politico liberal-democratico come il nostro. Ma anche le opinioni dovrebbero trovare un limite nei fatti. Cosa che all'organo diocesano berico, quando c'è di mezzo la Palestina, riesce sempre un po' difficoltoso fare. Si veda, come ultimo esempio in ordine di tempo (Domenica 15 gennaio 2107, p. 5), la "cronaca" dell'attentato terroristico condotto da un palestinese che alcuni giorni fa ha lanciato il suo camion contro un gruppo di giovani soldati israeliani in gita di istruzione a Gerusalemme uccidendone quattro, di cui tre ragazze appena ventenni.
   Da parte dela Voce dei Berici nessuna presa di distanze dal fatto criminoso, nessun cenno di umano cordoglio per le giovani vittime, nessun richiamo a costruire ponti di pace evitando di scavare fosse di morte. Solo un algido commento, per di più abbastanza fuorviante: «Un evento, questo, che, purtroppo, riporta alla memoria l'origine della prima intifada palestinese quando, 30 anni fa, quattro palestinesi morirono investiti da un camion israeliano». In questo modo il lettore è indotto a pensare che in fondo se la sono voluta, perché sono stati proprio loro, gli israeliani, non i terroristi islamisti, a "inventare" gli attentati utilizzando i camion.
   Solo che quel giorno di trent'anni fa in Palestina non ci fu nessun attentato da parte di nessuno: "Il mattino dell'8 dicembre, subito a nord della striscia di Gaza, un automezzo [israeliano] per il trasporto di carri armati urtò contro alcuni pulmini che trasportavano operai palestinesi dal campo profughi di Jibalya ad alcuni cantieri in Israele. Quattro operai morirono e sei rimasero feriti". Nel clima di forti tensioni di quei giorni si diffuse e attecchì subito la voce che il guidatore dell'automezzo l'avesse fatto di proposito (Benny Morris,"Vittime", pp. 712-713). Nella versione della Voce il fatto è scomparso ed è rimasta la "voce" che, travalicati i decenni, è tornata a vendicare i quattro palestinesi dopo aver fatto esperienza a Nizza e a Berlino.

(Vvox, 18 gennaio 2017)


Papa Francesco avverte Trump e Netanyahu: la Palestina è già uno Stato

Questo articolo esprime nel modo più chiaro non solo la natura vera dell’antisemitismo odierno, ma anche quali sono gli argomenti con cui esso viene sostenuto nelle sedi più “nobili”, tra cui, in prima fila, il più alto rappresentante della falsa cristianità. NsI

di Marco Politi

 
Papa Francesco ha posto un paletto. Pochi giorni prima dell'insediamento del nuovo presidente statunitense Donald Trump, il pontefice ha ricevuto il leader palestinese Abu Mazen in occasione dell'apertura dell'ambasciata di Palestina presso la Santa Sede il 14 gennaio. Un segnale chiaro di politica internazionale in vista dell'improvvida decisione annunciata da Trump di volere trasferire l'ambasciata degli Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.
   E' una decisione che non rappresenta un semplice trasloco, ma costituisce il placet della prima potenza dell'Occidente alla politica del governo Netanyahu di annessione di Gerusalemme Est e un'acquiescenza all'inglobamento di territori palestinesi attraverso le cosiddette "colonie". Il tutto in contrasto con la posizione di gran maggioranza della comunità internazionale, riassunta efficacemente nella recente risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
   Francesco parla per segni. Già in occasione del tradizionale incontro con il corpo diplomatico il 9 gennaio scorso, rilanciando l'appello pressante a un dialogo fra israeliani e palestinesi per arrivare ad una "pacifica coesistenza di due Stati all'interno di confini internazionalmente riconosciuti", il Papa aveva notato quasi di striscio che nel corso del 2016 il Vaticano ha curato la piena attuazione dell'Accordo bilaterale (Comprehensive Agreement) "con lo Stato di Palestina".
   Il rapporto fraterno di Bergoglio con l'ebraismo è di antica data. Francesco è l'unico pontefice che abbia mai predicato (da vescovo) una meditazione in una sinagoga ebraica: la sinagoga a Buenos Aires del suo amico rabbino Abraham Skorka. Ma il pontefice è anche - come Giovanni Paolo II - un leader molto consapevole della realtà geopolitica e del fatto che risolvere la questione palestinese con annessioni successive basate sulla pura forza delle armi - come voluto dagli estremisti nazionalisti e dai fanatici fondamentalisti del partito dei coloni, che "dettano l'agenda" al governo Netanyahu (copyright dell'ultimo discorso del segretario di Stato americano Kerry) - non porterà bene né a Israele, né ai palestinesi, né al Medio Oriente.
   Il paletto simbolico, che Francesco ha voluto porre prima della decisione di Trump, consiste nel sottolineare che la Palestina è già uno Stato, per di più ammesso alle Nazioni unite come "stato osservatore" nel novembre 2012 con 138 voti favorevoli, 9 contrari e 41 astenuti. Non tocca a Israele decidere se la Palestina abbia diritto a essere uno Stato né come debba essere né quali siano i suoi territori. Questo naturalmente se si vuole seguire la via del diritto. Se conta la legge del più forte, sarà un altro discorso. Ma la storia insegna che violenza produce violenza.
   Non c'è dubbio che Israele sia l'unica democrazia in Medio Oriente, anzi una grande democrazia funzionante in grado di sottoporre a stringenti indagini di polizia persino i propri presidenti e primi ministri, se accusati di reati. Ma anche una democrazia - lo ricordano le vicende dell'occupazione francese dell'Algeria - può essere oppressiva nei confronti di un altro popolo.
   C'è un punto storico fondamentale che i nazionalisti e i fondamentalisti religiosi in Israele fingono di ignorare, accecati dalla presunzione di poter disporre della terra di Palestina a proprio piacimento quasi in nome di un mandato divino: Gerusalemme Est e la Cisgiordania non sono israeliane perché gli arabi, i musulmani non sono gente di passaggio, ospiti illegali in quella che popolarmente chiamiamo "Terrasanta".
   Gerusalemme e la Palestina hanno fatto parte di uno stato musulmano dal 637 dopo Cristo fino alla fine della I Guerra mondiale, Milletrecento anni, più del triplo dell'esistenza politica degli antichi stati di Giudea e Samaria, Lo spazio geopolitico della Terrasanta è dunque necessariamente uno spazio condiviso, in cui l'unica regola non può consistere in una presunta "eredità" divina ma solo nel buon senso del diritto internazionale. E il diritto internazionale ha già definito i confini tra Israele e Palestina.
   Francesco ha lasciato il suo segno prima che Trump attui la sua decisione potenzialmente eversiva dell'equilibrio su cui si basa la "soluzione pacifica dei due Stati".
   Molto dipenderà ora dall'atteggiamento dell'Europa. Non c'è dubbio che su pressione americana potranno esserci nazioni europee disposte ad accodarsi e a non disturbare più il manovratore Netanyahu, riuscito con successo a superare gli otto anni di presidenza Obama sabotando ogni autentica ripresa dei negoziati di pace.
   Il Vecchio Continente ha un debito verso Israele dopo la tragedia della Shoah: garantire l'esistenza del popolo ebraico nella sua patria ritrovata. E' un debito d'onore che riguarda i suoi confini internazionalmente riconosciuti. Non terre strappate ad altri.

(il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2017)


Delegazione di opposizione siriana a Gerusalemme chiede aiuto a Israele

Proposta la creazione di una "zona di sicurezza" lungo le alture del Golan

ROMA - Due esponenti dell'opposizione siriana sono apparsi ieri pubblicamente in Israele chiedendo apertamente allo Stato ebraico di "intensificare" gli aiuti agli oppositori del regime di Damasco, compresa una concreta assistenza per la creazione di una "zona di sicurezza" per i ribelli lungo le alture del Golan nella Siria merdionale. E' quanto scrive oggi il sito online del quotidiano israeliano The Jerusalem Post.
Parlando in una sala a Gerusalemme in un evento sponsorizzato da Truman Institute della Hebrew University, Issam Zeitoun, attivista dell'opposizione che risiede in Germania, ha fatto un appello per chiedere aiuto: "Tutti i siriani hanno sofferto sotto questo regime. Qualcosa deve essere fatto. Il popolo siriano è troppo debole. Abbiamo bisogno dell'aiuto della comunità internazionale".
"Mezzo milione di persone, per lo più civili hanno perso la vita", ha detto invece Sirwan Kajjo, un giornalista curdo-siriano ricercato dal regime di Assad, cercando di dare al pubblico un senso della devastazione in Siria come riporta il giornale israeliano.
Spiegando il tipo d'aiuto richiesto dallo Stato ebraico, Zeitun, ha detto: "Noi suggeriamo una zona di sicurezza lungo il confine con Israele". Alla domanda di spiegare meglio la sua richiesta, l'attivista Zeitoun ha risposto che voleva l'aiuto di Israele nella creazione di "un piccolo stato", nel sud della Siria, che sarebbe in grado di sviluppare le infrastrutture libera dagli attacchi da parte del regime di Assad. "Un piccolo Stato potrebbe essere ampliato con il tempo. Non si può ora sconfiggere il regime e sostituirlo. Non siamo pronti quindi è bene iniziare da questa zona sicura ed espanderla", come riporta The Jerusalem Post.
I due esponenti dell'opposizione sono stati più volte interrotti da studenti arabi che hanno accusato Zeitun e Kajjo di dare una sorte di riconoscimento a Israele: "Tu sei una vergogna per la Siria" ha gridato uno studente.

(askanews, 18 gennaio 2017)


Israman, la passione per il triathlon unisce le religioni: nasce la Staffetta della Pace

Si svolgerà venerdì 27 gennaio Israman, consueto appuntamento di triathlon in Israele: per la prima volta, sarà disputata la Staffetta della Pace,con atleti di religioni diverse.

di Alberto Fumi

 
                       Claudio Chiappucci                                         Haneen Radi
Venerdì 27 gennaio, a Eilat, Israman diventerà maggiorenne. ma sarà un compleanno speciale per il triathlon israeliano: per la prima volta, sarà disputata la Staffetta della Pace, una gara a squadre che unisce tre atleti di religioni diverse che vedrà protagonista Claudio Chiappucci.
Nel 1999, quando il triathlon doveva ancora debuttare ai Giochi Olimpici, 26 atleti si radunarono per la prima edizione di Israman, un triathlon full distance dunque che prevede 3.8 km di nuoto, 180 chilometri di ciclismo e 42 km di corsa. L'anno scorso, al via si sono presentati 1.900 appassionati della multidisciplina in rappresentanza di 25 nazioni, numeri che proiettano l'evento, che ha ampliato il programma con la prova half distance e con la staffetta, sulla ribalta del panorama internazionale.
Quest'anno, la gara del Mar Rosso avrà tinte tricolori: oltre alla partecipazione di Martina Dogana e Massimo Cigana, in gara ci sarà anche Claudio Chiappucci che sarà protagonista della staffetta della pace, una gara a squadre che porterà un atleta di religione ebraica, un cristiano e una di fede islamica a spendere le proprie forze sull'impegnativo percorso del triathlon medio. Una formula affine, sarà replicata in occasione del Challenge Venice dell'11 giugno, evento gemellato che da vita al circuito TriInvictus assieme a Israman.
Toccherà a Guy Barnea portare a termine i 1.900 metri in acque libere: il dorsista israeliano di fede ebraica (classe '87) ha conquistato il bronzo nei 50 dorso agli Europei di Budapest e Debrecen e l'argento nella stessa distanza agli Europei in corta di Chartres. I 90 km sulle due ruote toccheranno proprio a El Diablo (di fede cristiana), campione indiscusso degli anni '80 e '90 e simbolo del ciclismo italiano che vanta nel suo palmares l'argento ai Mondiali di Agrigento '94, la vittoria alla Milano-Sanremo del '91, tre tappe al Tour de France e una al Giro d'Italia. Chiappucci passerà il testimone a Haneen Radi, runner israeliana di religione islamica, coach di una società che vanta circa 80 atleti. Sportiva e mamma, due anni fa era intenzionata ad organizzare una maratona nella sua città natale, Tira, centro di 25.000 abitanti a maggioranza islamica, situato nel nord di Israele, ma il suo progetto fu fortemente ostacolato (Haneen ricevette minacce di morte e spararono sulla sua auto parcheggiata sotto casa). Il motivo? In una gara del genere, le donne avrebbero indossato abiti sportivi e non gli indumenti tradizionali che coprono quasi totalmente il corpo femminile. Ad oggi, la maratona non è ancora stata organizzata, ma la podista israeliana non ha ancora rinunciato a realizzare il suo sogno e tra una settimana correrà per se stessa, per le donne islamiche e per la pace.

(La Gazzetta dello Sport, 18 gennaio 2017)


Ilse Weber, tre nuove canzoni la scoperta del pianista Lotoro

La poetessa ceca uccisa ad Auschwitz scriveva ninne nanne per i bambini. E lunedì esce "maestro", il film sullo studioso

di Francesca Nunberg

Ilse Weber
Ilse scriveva poesie, cantava e suonava la chitarra. Lo faceva nella vita di prima, ha continuato a farlo quando la sua strada è scivolata verso il baratro, è morta cantando insieme al figlio Tomas di 6 anni e agli altri bambini di cui si prendeva cura. «C'è chi dice che abbia esortato i bambini a cantare a squarciagola per inalare più in fretta il gas e avvicinare la fine: intonarono "Wiegala" una sua ninna nanna, che da allora è diventata un simbolo del massacro degli innocenti», racconta Francesco Lotoro, pianista, direttore d'orchestra, massimo esperto di musica concentrazionaria, che come da uno scrigno estrae il suo tesoro: tre nuove canzoni di Ilse Weber, poetessa e compositrice ebrea, nata a Witkowitz in Cecoslovacchia, morta ad Auschwitz il 6 ottobre del '44. Della Weber sono note una sessantina di poesie scritte per i bambini e otto canzoni, pubblicate nel 2008. Ma queste nuove sono come un dono inaspettato, come una voce che continua a farsi sentire da laggiù.

 Il testo
  «Ilse aveva due figli - spiega Lotoro - il più grande, Hanus, oggi ottantenne, si è salvato perché dopo l' occupazione nazista della Cecoslovacchia a 8 anni venne mandato in Svezia con un "Kindertransport" e poi si trasferì in Inghilterra da un'amica della famiglia. Durante le mie ricerche avevo sentito parlare di un brano ancora inedito di Ilse e Hanus mi chiese di cercarlo. Grande fu il mio stupore quando, ascoltando una registrazione conservata dalla Fondazione Beit Theresienstadt, creata dai sopravvissuti del campo di Terezin in un kibbutz nel nord di Israele, ho fatto la scoperta. Non era un solo brano, ma ben tre. A cantare è Aviv Bar-On, un'infermiera amica di Ilse che oggi vive vicino a Tel Aviv e ricordava a memoria le canzoni. La musica è chiara e può già essere riprodotta, i testi li sto traducendo».
  Dunque eccole, o meglio ecco la prima, una canzone in ceco per i bambini, che dice all'incirca così:
  "È venuto il dottore, ti ha visitato e ti ha toccato qua e là. Hai l'ittero, una iniezione al culetto e guarirai. È venuto il dottore, ti ha visitato, hai la malattia di Terezin ... ma guarirai". La seconda è una canzone in tedesco dedicata all'atmosfera nonostante tutto gioiosa del padiglione, grazie ai bambini e alle donne che cercavano di attutire la tragedia, e la terza deve ancora essere studiata. «Il problema degli archivi e delle fondazioni è proprio questo - spiega il musicista - che il loro obiettivo è la catalogazione del materiale, raccolgono e mettono da parte. Ma la musica deve circolare ed essere ascoltata».

 Il road-movie
  Lo scopo di Francesco Lotoro, che sta realizzando a Barletta il suo progetto più ambizioso, la "Cittadella della musica concentrazionaria" per ospitare le ottomila opere musicali e i circa 12mila documenti recuperati nel corso della sua trentennale ricerca, con tanto di orchestra e auditorium, è proprio quello di poter suonare la musica nata nei lager. E lunedì prossimo arriva in sala Maestro, il film documentario di Alexandre Valenti, co-produzione tra Italia e Francia, dedicato proprio alla sua impresa, un "road-movie" che racconta la sua appassionata ricerca, i suoi incontri con i superstiti e i loro discendenti, la commozione del ritrovamento di una nuova musica.
  «Ilse Weber - racconta - era una donna colta, componeva musica, era autrice di programmi radiofonici e libri per l'infanzia. È grazie alla lungimiranza del marito se le sue opere si sono salvate. Dopo essere riusciti a mandare il figlio maggiore in Inghilterra e poi in Svezia dall'amica Lilian von Lowenadler, i Weber nel '42 vengono deportati a Terezin con il piccolo Tomas». Passano lì circa due anni, lei fa l'infermiera, scrive poesie, canzoni, lettere, alcune sembrano preghiere. «Quando si capisce che si avvicina un "trasferimento forzato" il marito Willi che lavora con i cavalli nel campo, riesce a nascondere tutte le composizioni di Ilse nel maneggio. E così salva la sua musica per quelli che verranno.
   Non c'era Ilse nella lista per Auschwitz, ma lei chiede di andare per restare accanto ai suoi cari. Viene uccisa col piccolo Tomas poco l'arrivo. Il marito riesce a salvarsi, torna a Praga, si ricongiunge con il figlio col quale avrà sempre un rapporto difficile, finché Hanus non si allontana trasferendosi a Stoccolma per lavorare alla radio (dove Lotoro lo ha conosciuto). In una delle ninne nanne composta a Terezin, Ilse scrive così: "Dormite voi piccoli, biondi o bruni, della Boemia, Moravia, delle terre della Germania. Nonostante tutto, se Dio vuole, diventerete grandi. Ora vacilliamo, oppressi e bisognosi, ma ad ogni notte segue l'alba". Dei 15mila bambini e neonati deportati a Terezin, dopo la guerra ne tornarono meno di cento.

(Il Messaggero, 18 gennaio 2017)


Convegno su Israele, Medio Oriente e Trump

Ne parla stasera (martedì 17 gennaio) a Cuneo un esperto di politica internazionale

di Vanna Pescatori

Stasera (martedì 17 gennaio), alle 21, il Centro Incontri della Sinagoga, in contrada Mondovì, a Cuneo, accoglie Antonio Donno, già Ordinario dell'Università del Salento, ed esperto di politica internazionale. Donno, su invito dell'associazione Italia Israele di Cuneo, terrà una conferenza su un tema di grande attualità: «Israele, il Medio Oriente e la nuova amministrazione di Donald Trump», a pochi giorni dall'insediamento del nuovo presidente americano.
Il relatore analizzerà la posizione espressa da Trump nel quadro più vasto e complesso delle relazioni internazionali, focalizzando in particolare anche il «clima d'opinione» che si sta registrando in Israele e nella tormentata regione mediorientale. Tra i molti incarichi e attività di Donno, si annoverano le presenze nei comitati scientifici di «Nuova Storia Contemporanea», «Clio», «Ri.Me.» e «Grotius» e del comitato di redazione di «Africana». L'ingresso è libero.

(La Stampa, 18 gennaio 2017)


Città de-israelizzate

Dalla Spagna alla Norvegia, ecco gli "spazi liberi da Israele". Intanto altri 5 mila ebrei via dalla Francia

di Giulio Meotti

ROMA - Il Consiglio comunale di Trondheim, la seconda città norvegese famosa per l'aurora boreale, ha approvato una mozione che chiede ai residenti di boicottare personalmente i beni israeliani. Una città che aspira a essere "deisraelizzata", così come c'erano i comuni denuclearizzati in Italia. Poi è stata la volta di un'altra città norvegese, Tromso, 72 mila abitanti, "deisraelizzata" dal Consiglio comunale. Anche la capitale dell'Islanda, Reykjavik, ha adottato una mozione per boicottare i prodotti israeliani. Adesso non è una città, ma una delle più grandi regioni della Spagna. Si tratta della Valencia, dove il partito di sinistra València en Cormi è riuscito a far votare la seguente mozione: "Oggi il Consiglio provinciale della Valencia si dichiara spazio libero dall'apartheid israeliana". Il Consiglio provinciale di questa regione semi-autonoma, che governa 250 comuni e 2,5 milioni di abitanti, ha approvato la proposta del partito del deputato Roberto Jaramillo Martinez. Un tribunale spagnolo nel frattempo ha dichiarato illegale una simile mozione del comune di Santiago de Compostela. In questi ultimi anni in Spagna più di cinquanta comuni hanno approvato il boicottaggio di Israele. Come Ibiza, popolare meta turistica, dove il Consiglio comunale di Santa Eulalia, la seconda città più grande dell'isola, ha votato il boicottaggio dei beni provenienti dallo stato ebraico. Anche qui la stessa formula: "Da oggi siamo liberi dall'apartheid israeliana". A volere molte di queste mozioni il partito Podemos, finanziato da regimi come l'Iran e il Venezuela. Simili mozioni non restano senza conseguenze. La città spagnola di Villanueva de Duero, ad esempio, non distribuisce più l'acqua israeliana Eden Springs nei suoi edifici pubblici.

 Una ondata di "Zionistfrei"
  E' un fenomeno importante anche in Inghilterra, dove alcuni consigli comunali sono stati assolti da un tribunale dall'accusa di antisemitismo dopo aver imposto boicottaggi su merci israeliane. Si tratta del Leicester City Council, dello Swansea City Council e di Gwynedd. Il sindaco di Leicester, Peter Soulsby, aveva detto che non c'è nulla di antisemita nell'erigere una zona "Israel free" nella città, dicendo al giornale locale Leicester Mercury che è semplicemente un modo per esprimere costernazione per "il comportamento dello stato di Israele". In Francia, il comune di Bondy nei pressi di Parigi ha approvato una mozione che dichiara il boicottaggio delle merci israeliane. Il sindaco, Sylvine Thomassin, che appartiene al Partito socialista del presidente François Hollande, ha approvato la risoluzione con solo cinque obiezioni. In Irlanda, numerose città governate dal Sinn Féin hanno approvato il bando dei prodotti israeliani. La città irlandese di Kinvara è diventata "Israel free", nessuno in città usa più merci dello stato ebraico. Attivisti pro palestinesi hanno fatto pressioni sui ristoranti e i caffè per cancellare dai loro locali qualsiasi cosa prodotta in Israele. Oggi, agli occhi degli agitatori anti-israeliani, Kinvara è moralmente pura. Il sindaco di Newry, in Irlanda del Nord, ha scritto a tutti i rivenditori chiedendo loro di fornire un elenco dei prodotti israeliani in magazzino. Ha poi chiesto di rimuoverli dalla vendita, sostenuto da 21 voti favorevoli e tre contro al Consiglio comunale. Il Wall Street Journal ha scritto che si è passati "dallo Judenfrei allo Zionistfrei". Le merci israeliane scompaiono da città importanti, come Leicester, la decima più grande del Regno Unito, e regioni intere come Valencia. Scompaiono le merci israeliane. E gli ebrei. Giorni fa sono usciti i dati sulla fuga degli ebrei francesi: in cinquemila sono emigrati in Israele nel 2016, portando a 40 mila il numero di ebrei di Francia usciti dal paese in dieci anni. Merci ebraiche che scompaiono, ebrei che fanno le valigie.
Ricorda qualcosa?

(Il Foglio, 18 gennaio 2017)


Al via un percorso per conoscere l'ebraismo

BERGAMO - Mercoledì 18 gennaio alle 20.30 alla sala multimediale dei padri Monfortani di Redona (Bergamo) prende il via il percorso "L'ebraismo: i bagliori delle luci antiche".
Negli ultimi anni è aumentato l'interesse per l'ebraismo, interesse che abbraccia aspetti vari e diversificati come quelli letterario, filosofico, storico, artistico, esegetico, religioso.
Ma a cosa ci riferiamo quando parliamo di ebraismo? Sicuramente a una religione, una delle più antiche religioni monoteistiche che prende le mosse dal cammino umano e spirituale di Abramo e fonda il proprio terreno di vita sulla Bibbia; ma non solo.
Esso è anche il complesso delle credenze e della cultura di una civiltà millenaria, che si configura come una lunga successione di generazioni e una ricca tradizione di testi.
Per approfondire questa fede, questa cultura e questa civiltà nelle sue molteplici sfaccettature, le Acli di Bergamo propongono un itinerario introduttivo di quattro incontri (18 e 25 gennaio, 1 e 8 febbraio) pensato per consentire una corretta comprensione dell'argomento, in modo accessibile ma non semplicistico.
L'iniziativa rientra tra gli Itinerari di Molte fedi sotto lo stesso cielo.
Ecco il calendario:
  • mercoledì 18 gennaio: L'Abc dell'ebraismo, con Claudia Milani, studiosa di ebraismo;
  • mercoledì 25 gennaio: Libertà e fedeltà. La lettura ebraica della Scrittura, con Elena Lea Bartolini De Angeli, docente di giudaismo ed ermeneutica ebraica;
  • mercoledì 1 febbraio: Pensieri e parole attraverso il mare della vita ebraica, con Miriam Camerini, studiosa di ebraismo, regista e cantante;
  • mercoledì 8 febbraio: Le feste ebraiche, con Ariel Finzi, rabbino.
La prenotazione è obbligatoria sul sito www.moltefedi.it oppure alla sede delle Acli Bergamo in via San Bernardino 59.
La quota di iscrizione al percorso è di 30 euro, compresa serata musicale; 15 euro per la serata musicale per i non iscritti.
Per avere ulteriori informazioni telefonare al numero 035210284 oppure inviare un'e-mail all'indirizzo info@aclibergamo.it
La sala multimediale dei Padri Monfortani di Redona è a Bergamo in via Goisis, 96/B (possibilità di parcheggio interno).

(Bergamo News, 18 gennaio 2017)


Israele e quell'odio antico che può diventare religione

È preoccupante che la comunità internazionale divisa su tutto si unisca per attaccare tramite l'Onu lo Stato ebraico come se fosse l'unico nemico della pace.

di Bernard-Henri Lévy

 
Bernard-Henri Lévy
Sono un indefettibile sostenitore della soluzione, in Medio Oriente, dei due Stati. E continuo a pensare che tale soluzione, per quanto debole, trascurata dagli uni e rifiutata dagli altri, sia l'unica che, a termine, consentirà a Israele di continuare ad essere lo Stato degli ebrei voluto dai suoi pionieri e al tempo stesso la democrazia esemplare di cui settant'anni di guerra aperta o larvata non hanno scalfito né lo spirito né le istituzioni.

   Sono stato tuttavia profondamente colpito dalla confusione che si è creata, a Natale, sul voto dell'ormai famosa Risoluzione 2334 che esige la «cessazione immediata» della «colonizzazione» nei territori palestinesi occupati.
   Innanzitutto c'è il luogo: l'assemblea dell'Onu che da decenni continua a condannare, demonizzare, ostracizzare Israele e che rappresenta uno degli ultimi luoghi al mondo dove si possa sperare, su questo problema come su altri, sia presa una posizione equilibrata o coraggiosa. C'era lo spettacolo di quelle quindici mani incapaci di alzarsi, appena qualche giorno prima, per fermare il massacro ad Aleppo: che ora si manifestino di nuovo, per fare del piccolo Israele il Paese che più ostacola la pace in questo momento, che credano di poter ritrovare, fra gli applausi dei presenti, parte del loro onore perduto e di riconsolidare così, a discapito dello Stato ebraico, una comunità internazionale frantumata e spettrale è lamentevole e al tempo stesso agghiacciante.
   C'era il penoso testo della Risoluzione che - malgrado la frase che condanna «tutti gli atti di violenza contro i civili, fra cui gli atti terroristici» ( questo «fra cui gli atti terroristici» lascia perplessi: ci si chiede quali possano essere gli altri «atti di violenza» messi quindi sullo stesso piano degli «atti terroristici») - faceva degli israeliani i responsabili principali, per non dire unici, del blocco del processo per la pace: e la testardaggine palestinese? L'ambiguo linguaggio del governo di Ramallah? Gli alberi di Natale su cui, in certi quartieri della Gerusalemme araba, sono state appese, come fossero ghirlande, foto di «martiri» morti «in combattimento», cioè nel tentativo di pugnalare civili israeliani? Nulla di tutto questo, per i redattori della Risoluzione come per coloro che l'hanno votata, poi celebrata, rappresentava un «ostacolo alla pace»; nulla è paragonabile alla perfidia della politica di Netanyahu che moltiplica le colonie.
   C'era la questione delle colonie e il modo in cui, ancora una volta, è stata presentata. Che sia un errore continuare ininterrottamente con gli insediamenti in Cisgiordania, è evidente.
E che all'interno della destra israeliana vi sia un numero sempre più grande di falchi che, con Benjamin Netanyahu in testa, sognano l'amplificarsi del processo e la creazione di una situazione definitiva, è probabile. Ma non è vero che siamo già arrivati a questo punto. Non è esatto presentare tali costruzioni come una proliferazione metodica e maligna, che produce metastasi nella futura Palestina e già in anticipo la smembra. La realtà, chiara agli occhi di chiunque faccia lo sforzo di analizzare le cose senza paraocchi e senza troppa passione, è che la concentrazione territoriale degli insendiamenti più popolosi genera una situazione che, malgrado il numero, non è radicalmente diversa da quella che prevaleva nel Sinai prima dell'accordo con l'Egitto del 1982 o nella Striscia di Gaza prima dello smantellamento deciso da Ariel Sharon nel 2004; la realtà è che tali costruzioni sono ancora abbastanza vicine alla Linea verde perché sia possibile, giunto il momento, procedere a scambi di territori e iniziare, altrove, per gli insediamenti più lontani e più isolati, evacuazioni dolorose (senza parlare dell'opzione secondo cui un certo numero di ebrei potrebbero vivere in terra palestinese così come un milione e mezzo di palestinesi vivono in Israele condividendone appieno la cittadinanza ... ).
   Infine, per la prima volta da 40 anni, c'è stata l'astensione a sorpresa dell'ambasciatrice Samantha Power; poi, qualche giorno più tardi, il lungo discorso di accompagnamento del segretario di Stato John Kerry. Si può dire quel che si vuole. Ma vedere questa amministrazione che tante concessioni ha fatto all'Iran, tanto ha ceduto alla Russia, e ha inventato in Siria la dottrina della Linea rossa, che in fin dei conti di rosso ha solo il sangue dei siriani sacrificati sull'altare della rinuncia alla potenza e al diritto; vederla dunque riprendersi e quasi trasformarsi alzando la voce, in extremis, contro quella pecora nera su scala planetaria, spelacchiata e rognosa, che è il Primo ministro di Israele, è miserevole!
   Non riconosco più, nella posizione troppo facile in cui troppo comodamente si ritrova il fantasma di una autorità perduta, il giovane e sconosciuto senatore che incontrai a Boston, un giorno di luglio del 2004, quando mi decantava la duplice gloria, a suo avviso parallela, del movimento di liberazione del popolo nero e della nuova fuga d'Egitto che per gli ebrei è il sionismo.
   Sento fin troppo i segni premonitori di una umanità smembrata, dove si ripercuote come non mai lo sfasciamento di imperi e visioni del mondo; una umanità destinata all'infinito ripetersi di ingiustizie e carneficine, ma dove l'odio più antico diventerà, per tutti o quasi, religione.

(Corriere della Sera, 17 gennaio 2017)


Una delle cose più strane e incomprensiobili della questione israeliana è che ci siano ancora persone ragionevoli e sensate, non pregiudizionalmente disposte contro Israele e contro gli ebrei, debitamente informate sui fatti, e tuttavia sinceramente convinte che si possa arrivare alla “pace” attraverso la soluzione dei due Stati, uno arabo e uno ebreo, “viventi l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza”, con Gerusalemme capitale divisa in due, un po’ per uno, da bravi vicini. E’ un mistero, un vero mistero. M.C.


I luoghi della memoria ebraica di Milano, un libro per capire la nostra storia

di Valeria Gandus

C'è una Milano che pochi conoscono, teatro di atroci violenze ma anche di indomita resistenza alle persecuzioni razziali. È la città raccontata in un libro denso di testimonianze, mappe e fotografie: I luoghi della memoria ebraica di Milano, di Francesca Costantini (Mimesis Edizioni), primo volume di una collana, Topografia della memoria, che si propone, grazie a nuove fonti archivistiche, testimoniali e documentarie, di ricostruire e di raccontare la storia dei luoghi milanesi di resistenza al fascismo e all'occupazione nazista.
Delle famigerate leggi "per la difesa della razza" emanate da Mussolini nel settembre 1938, una riguardava in particolare la scuola, dalla quale vennero espulsi tutti gli allievi, gli insegnanti e il personale non docente di religione ebraica. E proprio dalla scuola "inventata" e attrezzata in breve tempo in due villette di via Eupili, zona Sempione, inizia la ricognizione di Francesca Costantini, che grazie alla sua collaborazione con il Cedec (Centro di documentazione ebraica contemporanea) ha avuto accesso a importanti documenti e testimonianze.
"Inventare è la parola giusta, perché mancavano le strutture per ospitare tutti gli studenti: si faceva lezione anche in cantina" ricorda Annamarcella Falco Tedeschi. E che lezioni! Sotto la direzione di Joseph Colombo (che nel dopoguerra sarà preside, amatissimo, anche dello storico liceo classico Berchet) alle ore di studio venivano affiancate importanti iniziative culturali: dal coro diretto dal maestro della Scala Vittore Veneziani, alle conferenze tenute dallo scrittore di teatro Sabatino Lopez, alle lezioni di disegno con il pittore Carlo Vitali. Tutti ebrei, tutti espulsi dai rispettivi ambiti di lavoro.
La mappa della Milano ebraica sotto le leggi razziali prosegue con la Mensa dei bambini di via Guicciardini, in città Studi. Voluta e finanziata da Israel Kalk, un ebreo emigrato in Italia dalla Lettonia dopo la prima guerra mondiale, serviva a garantire un pasto ai bambini ebrei stranieri presenti a Milano. Che erano tanti, tutti figli degli oltre duemila profughi giunti in Italia prevalentemente da Germania, Austria e altri Paesi dell'Est Europa per sfuggire alle persecuzioni hitleriane. Dopo il 1938, la loro situazione, già critica, divenne pesantissima: non avevano il diritto di stabilirsi in Italia né di lavorare e vivevano in clandestinità, ammassati in locali sovraffollati in scarse condizioni igieniche.
Per i profughi, ma anche per i molti ebrei milanesi ridotti in povertà dalle leggi razziali che avevano loro tolto il lavoro, funzionava anche un presidio sanitario: Gino Neppi, "medico di reparto" alle dipendenze del Comune fino al 1938, lo aveva organizzato, a partire dal 1940, nella condotta medica di via Panfilo Castadi (zona Stazione Centrale) che gli era stata affidata dal Comune. Per tre anni, tutti i giorni dalle 15 alle 18, furono visitati e curati oltre duemila ebrei milanesi e centinaia di profughi ebrei. Grazie alla discriminazione razziale che li aveva allontanati dagli ospedali, all'ambulatorio lavoravano i migliori specialisti della città. Gino Neppi fu arrestato e deportato ad Auschwitz, da dove non tornò.
Nella mappa della Milano ebraica sotto il nazi-fascismo si trova anche un luogo tornato oggi di attualità per il progetto di recupero degli scali ferroviari in disuso. Si tratta dello scalo Farini, uno dei luoghi nei quali gli ebrei svolgevano il lavoro coatto. Alcune foto li ritraggono vicino a una carriola, vestiti con giacca e cravatta: "Quell'abbigliamento poco adatto ai mestieri di fatica serviva a rimarcare che quel lavoro, che dovevano svolgere come schiavi, era stato loro imposto da norme profondamente inique" scrive Costantini.
In questo percorso della memoria non poteva mancare il carcere di San Vittore, dove furono rinchiusi gli ebrei rastrellati a Milano e provincia dopo l'8 settembre oltre a quelli fatti lì convergere dai campi di concentramento in altre parti d'Italia. Una parte del carcere venne requisita dai nazisti per rinchiudervi partigiani ed ebrei. Sono le pagine più angoscianti, per le violenze che venivano perpetrate a opera di aguzzini come Franz Staltmayer, il vicedirettore che girava per il carcere con un cane lupo al guinzaglio e un frustino che faceva schioccare continuamente sugli stivali tirati a lucido.
L'unica destinazione esterna per gli ebrei rinchiusi a San Vittore era la Stazione Centrale: dal binario 31, oggi memoriale milanese della Shoah, partivano i treni diretti ad Auschwitz. Liliana Segre, allora tredicenne, oggi una delle ultime testimoni di quelle deportazioni, ha così raccontato il trasferimento: "Caricati violentemente sui camion, traversammo la città deserta e, all'incrocio di via Carducci, vidi la mia casa di Corso Magenta 55 sfuggire alla mia vista all'angolo del telone: mai più. Mai più". Liliana riuscì a salvarsi, suo padre Alberto, deportato con lei, morì ad Auschwitz.

(il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2017)


Hamas: pronti a consegnare le istituzioni di Gaza al governo di riconciliazione

DOHA - Il gruppo islamico palestinese di Hamas si è detto pronto a consegnare tutti i ministeri e le sedi istituzionali palestinesi di Gaza al futuro governo di riconciliazione nazionale. Lo ha annunciato il dirigente di Hamas a Gaza, Ismayl Radwan, secondo quanto riferisce l'emittente del Qatar "al Jazeera". Il leader ha sottolineato che il movimento è pronto a consegnare le istituzioni del governo locale a quello di riconciliazione a condizioni che si prenda carico di tutti i suoi doveri e che si assuma le sue responsabilità". Ieri Hamas e il governo di riconciliazione si sono scambiati accuse per la crisi di energia elettrica a Gaza. Il premier del governo di riconciliazione palestinese, Rami Hamdallah, ha infatti affermato ieri che "la soluzione del problema dell'elettricità a Gaza è alla radice e richiede la presenza di un governo nel pieno delle sue funzioni".

(Agenzia Nova, 17 gennaio 2017)


Per non dimenticare: "Pietre d'inciampo" arriva a Parma

di Francesca Devincenzi

 
 
In occasione della Giornata della Memoria il Comune di Parma e ISREC, in collaborazione con Comunità Ebraica di Parma, ANPI, ANED, presenta il progetto "Pietre d'inciampo" dell'artista tedesco Gunter Demning, che ha come scopo di depositare nel tessuto urbanistico e sociale delle città europee una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti tra il 1943 e il 1944.
L'iniziativa, attuata in diversi paesi europei, consiste nell'incorporare, nel selciato stradale della città, davanti alle ultime abitazioni delle vittime di deportazioni, dei blocchi in pietra ricoperti con una piastra di ottone sulla quale vengono incisi il nome della persona, l'anno di nascita, la data, e l'eventuale luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta.
Queste informazioni intendono ridare individualità a chi si voleva ridurre soltanto a numero.
L'espressione "inciampo" deve quindi intendersi non in senso fisico, ma visivo e mentale, per far fermare a riflettere chi vi passa vicino e si imbatte, anche casualmente, nell'opera.
In particolare, a Parma l'intento è quello di ricordare tre famiglie ebraiche Della Pergola-Camerini, Fano, Levi e una antifascista Polizzi, posando appunto davanti alle loro abitazione una pietra per ogni componente della famiglia.
Per la famiglia Camerini-Della Pergola sono state poste tre pietre in via Torelli 10, per la sorelle Levi saranno, invece, due le pietre, in via Bixio 116, per la famiglia Polizzi 4 pietre in vicolo Santa Maria 6 e infine per la famiglia Fano vengono sistemate sei pietre in strada del Quartiere 9, durante una cerimonia pubblica alla presenza delle Istituzioni e degli Enti promotori: la vicesindaco Nicoletta Paci, il presidente del Consiglio Comunale Marco Vagnozzi, il presidente della Comunità Ebraica Giorgio Yeuda Giavarini, il presidente del Comitato provinciale Anpi Aldo Montermini, il direttore di ISREC Marco Minardi, l'ideatore del progetto Gunter Demnig, i rappresentanti della famiglia Camerini-Della Pergola, il consigliere comunale Ettore Manno e altre autorità, tra cui anche il senatore Giorgio Pagliari .
Il progetto prevede che ogni "installazione" di pietre, collocate nel marciapiede antistante l'ingresso dell'abitazione di cittadini deportati dai nazifascisti tra il 1943-44, venga "adottata" da una classe: al momento di posa delle pietre erano infatti presenti le classi terze delle scuole Parmigianino e Newton.
"Le pose di oggi - ha esordito la Vicesindaco Nicoletta Paci - sono un importante momento all'interno di un progetto condiviso, che vuol essere un modo per non far dimenticare il passato, attraverso i nomi e le vicende accadute a queste persone".
"Sono contento che questo progetto coinvolga le scuole - ha detto il presidente della Comunità Ebraica Giorgio Yeuda Giavarini - E' infatti attraverso le giovani generazioni che si reitera la memoria degli accadimenti: queste pietre hanno la caratteristica di durare nel tempo, come deve essere per il ricordo delle persone i cui nomi sono incisi sulle loro superfici".
"Queste pietre ci ricordano - ha sottolineato il presidente del Comitato provinciale Anpi Aldo Montermini - che queste persone sono state deportate in quanto "diverse", in un periodo in cui a questa parola si attribuiva il significato di "nemico": il monito per noi tutti deve essere quello invece di accettare le diversità".
A spiegare nel dettaglio il carattere dell'iniziativa è intervenuto il direttore dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età contemporanea di Parma Marco Minardi che ha inoltre sottolineato come il progetto sia "un modo per educare alla memoria, una memoria che da privata diventa pubblica, affidata soprattutto alle giovani generazioni, attraverso degli elementi tangibili collocati sui luoghi storici degli avvenimenti".
"Le vittime che si voglion ricordare attraverso queste pietre - ha commentato il senatore Giorgio Pagliari - sono vittime dell'odio come lo sono ancora tante nel nostro presente. E' necessario ricordarle per appellarci alla capacità di rispetto dell'altro e fare in modo che non si verifichino mai più".
Infine il promotore dell'iniziativa Gunter Demnig, dopo aver effettuato la posa delle pietre, ha ricordato che "l'importanza di questo progetto sta nel ridare un nome e quindi dignità e memoria, soprattutto attraverso i giovani, a queste persone vittime di deportazione, ricordandole proprio davanti alle loro abitazioni".
Tra febbraio e marzo verranno organizzati due incontri didattici per scuola: uno in classe, di tipo laboratoriale, e un secondo, all'esterno, nei luoghi della deportazione in città.
Questa iniziativa rientra nel programma della Giornata della Memoria 2017 e s'intreccia con il progetto storico-didattico "Nei luoghi della Guerra e della Resistenza a Parma", promosso da Comune di Parma - Assessorato ai Servizi educativi e dall'Istituto Storico della Resistenza.

(Parmapress24, 16 gennaio 2017)


Israele: Giornata della Memoria, il sindaco Nardella apre gli eventi

La Memoria va coltivata quotidianamente, altrimenti muore

''Siamo orgogliosi ed onorati che Firenze sia stata scelta come prima città per avviare le celebrazioni del Giorno della Memoria in Israele'': lo ha detto ieri il sindaco Dario Nardella nel partecipare al Museo Eretz Israel di Tel Aviv ad un 'Incontro sulla Memoria' alla presenza di un folto pubblico fra cui due ebrei fiorentini - Giulia Donati e David Cassuto - sopravvissuti alla Shoah. Nel corso dell'evento e' stato anche reso omaggio alla figura di Gino Bartali, il campione sportivo riconosciuto da Israele come Giusto fra le Nazioni per aver salvato le vite di centinaia di ebrei.
Nardella ha rilevato che a Firenze, accanto alla Piazza Bartali, si fara' un Polo della Memoria ''che metta al centro la dignita' dell'uomo'' e che sara' visitato da tutte le scolaresche cittadine. ''La memoria ha bisogno di essere quotidianamente coltivata; non basta tenerla chiusa in una teca, altrimenti muore''. Anche l'ambasciatore di Italia Francesco Maria Talo' - che ha organizzato quell'incontro con l'Istituto italiano di cultura - ha osservato che ''in un mondo in cui la verita' viene negata, la dura verita' va coltivata al fine di costruire il futuro''. Oggi intanto, a Gerusalemme, Nardella ha visitato anche il Museo della Shoah Yad va-Shem, e ha anticipato che valutera' una possibile cooperazione con il memoriale di Firenze. Con questo impegno Nardella ha concluso una missione istituzionale di quattro giorni durante la quale ha incontrato i sindaci di due citta' gemellate con Firenze (Betlemme e Nazareth) ed il sindaco di Tel Aviv, con cui ha discusso delle innovazioni tecnologiche e anche di una possibile collaborazione turistica.

(ANSAmed, 16 gennaio 2017)


La telefonata segreta

Il telefono ha squillato nel tardo pomeriggio di domenica. La telefonata per Netanyahu veniva da Parigi. Al telefono John Kerry, segretario di Stato americano. Secondo quanto trapelato Kerry ha chiamato il premier israeliano per informarlo degli sforzi che Stati Uniti stavano facendo per moderare il testo del documento finale. Pronta, sarebbe stata la risposta di Netanyahu, che più o meno avrebbe risposto. "la verità è che il danno è già stato fatto con la risoluzione che gli Usa hanno lasciato passare il mese scorso e che condanna gli insediamenti come principale ostacolo alla pace, rafforzando l'intransigenza dei palestinesi." Kerry, comunque, ha ribadito che gli Stati Uniti si opporranno a ogni tentativo di formalizzare il documento emerso dalla conferenza di Parigi in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

(Italia Israele today, 16 gennaio 2017)


Gaza, la crisi dell'elettricità scuote il potere di Hamas

di Giordano Stabile

 
Gaza è attraversata dalle peggiori proteste da dieci anni a questa parte. Migliaia di persone sono scese in strada per chiedere una soluzione al problema dell'elettricità e per la prima volta il potere di Hamas è seriamente messo in discussione. Con il freddo dell'inverno la richiesta è in aumento, ma le autorità della Striscia riescono a fornire corrente solo per tre o quattro ore al giorno.
La polizia di Hamas è stata costretta a sparare in aria per cercare di disperdere i manifestanti. Un giovane di un campo profughi si è dato fuoco ed è grave in ospedale. I tagli si sono aggravati per la mancanza di combustibile per l'unica centrale elettrica locale e i problemi con la linea proveniente dall'Egitto. Ma sono legati anche alle dispute fra Hamas e Al-Fatah, che governa la Cisgiordania.
Al-Fatah invia sussidi per l'acquisto del carburante ma vuole una parte delle tasse imposte sulle bollette da Hamas e le liti rendono le forniture ancora più saltuarie.
Sia Hamas che Al-Fatah rischiano però di essere travolti dalla rabbia popolare. Sono dovuti intervenire la Turchia e il Qatar, i Paesi tradizionalmente alleati dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas è la costola palestinese. Il Qatar ha annunciato un finanziamento di 12 milioni di dollari per permettere alla centrale elettrica di continuare a funzionare, la Turchia fornirà invece 200 mila tonnellate di carburante per il riscaldamento.
Hamas ha preso il potere a Gaza con un colpo di mano nel 2007. Dal 2014 sono in corso tentativi di riconciliazione per formare un governo di unità nazionale e presentarsi uniti ai negoziati di pace con Israele. L'ultimo round di colloqui si è svolto nell'ambasciata palestinese a Beirut ma finora senza una soluzione, nonostante alla Conferenza di pace Abu Mazen abbia incassato un massiccio appoggio internazionale.

(La Stampa, 16 gennaio 2017)


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Il buio oltre le menzogne. La guerra corre sul filo

E' la guerra che corre sui filo della energia elettrica. Le accuse e le minacce si sprecano. Una situazione ingarbugliata. Un portavoce di Hamas ha accusato della crisi i dirigenti dell'Autorità Palestinese sostenendo che si tratta di "una crisi artificiale a sfondo politico". Ma poi, mentre continuano le proteste degli abitanti della striscia di Gaza per le gravi carenze nella fornitura di energia elettrica, Hamas ha minacciato di riprendere i lanci di razzi contro Israele. "Se vedremo messo in pericolo il nostro governo, ricominceremo a sparare contro Israele".
Ma qual è la verità? "I capi di Hamas hanno 24 ore di elettricità al giorno mentre i residenti solo tre", ha spiegato il Coordinatore delle attività governative israeliane nei Territori, Yoav Mordechai, in un'intervista all'agenzia di stampa palestinese Maan. "I fatti sono così, tutto il resto è speculazione". Mordechai ha spiegato che Israele fornisce regolarmente 122 megawatt di elettricità alla striscia di Gaza, e anche pochi giorni fa ha risolto un problema con una delle linee elettriche. Inoltre Mordechai ha aggiunto che l'Egitto e la centrale elettrica di Gaza forniscono ulteriori 80-90 megawatt.
"La verità inconfutabile è che Israele fornisce 350 milioni di litri di gasolio a Gaza attraverso i gasdotti Kerem Shalom, ed è disposto a raddoppiarli se l'Autorità Palestinese sarà in grado di gestirli finanziariamente. La causa primaria della crisi di energia elettrica a Gaza, ha concluso Mordechai, sono i leader di Hamas che "usano per esigenze personali i soldi che fanno pagare ai palestinesi per l'energia elettrica".
Nel frattempo il Qatar ha accettato di pagare 12 milioni di dollari per il carburante della centrale elettrica della striscia di Gaza allo scopo di porre fine alla crisi delle forniture. Lo hanno riferito i mass-media locali.

(Italia Israele today, 16 gennaio 2017)


Medio Oriente, Parigi spinge per i due Stati

Summit senza i protagonisti. Abu Mazen nella capitale ma tenuto lontano dal vertice. Netanyahu: appuntamento futile.

di Paolo Levi

PARIGI - Oggi più che mai bisogna «impegnarsi per una soluzione a due Stati» e «astenersi da passi unilaterali»: l'appello è arrivato dalle oltre 70 delegazioni presenti alla conferenza internazionale sul Medio Oriente di Parigi, l'iniziativa voluta dalla Francia nel tentativo, per molti difficile, di rilanciare il processo di pace tra israeliani e palestinesi, a cinque giorni dall'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua minaccia di trasferire l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.
   All'iniziativa parigina che ha fatto infuriare il premier Netanyaahu erano presenti François Hollande, il segretario di Stato Usa (uscente) John Kerry, l'alto rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini, e gli esponenti di tutti i Paesi del G20 - incluso il ministro Alfano - e della Lega Araba. Un appuntamento in apparenza ambizioso, se non fosse per un unico non trascurabile dettaglio: l'assenza dei diretti interessati, vale a dire israeliani e palestinesi, convitati di pietra insieme alla nuova amministrazione Usa.
   Implacabile è arrivata la stroncatura di Netanyahu. L'appuntamento di Parigi è «futile» e «allontana la pace», ha tuonato il premier israeliano denunciando da lontano un'iniziativa concordata «dai francesi con i palestinesi allo scopo di cercare di imporre a Israele condizioni inconciliabili con i nostri interessi nazionali». Ma che a suo avviso riflette anche «gli ultimi battiti del mondo di ieri. Il domani avrà un altro aspetto, e il domani è molto vicino»: implicita allusione all'imminente avvento di Trump.
   Clamorosa l'assenza di Abu Mazen, che pur presente a Parigi, è stato invitato dall'Eliseo a tenersi lontano dal centro conferenze, per non avvelenare ulteriormente i rapporti con Israele. Delicato esercizio di equilibrismo diplomatico in perfetto stile Hollande che ha preferito incontrare il leader palestinese in separata sede.
   Aprendo i lavori, il capo dell'Eliseo ha tuttavia invitato «il mondo a non rassegnarsi allo status quo», anche se oggi il «più antico» dei conflitti in Medio Oriente sembra passato in secondo piano rispetto a quelli in Siria o Iraq. Molti Paesi arabi presenti hanno insistito affinché nella dichiarazione finale fosse inserito anche solo un accenno di censura alla possibilità che Trump possa rendere operativa la sua idea di considerare di fatto Gerusalemme capitale di Israele. Alla fine, davanti all'opposizione di Kerry, si sono convinti a cedere, ma il ministro degli Esteri francese, Jean Mare Ayrault ha dovuto fare qualche sforzo in più esponendo diplomaticamente la Francia: il trasferimento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme - ha avvertito - «sarebbe una decisione molto gravida di conseguenze» e una «provocazione». «Il nostro primo obiettivo - ha martellato Hollande - è ripetere con forza che la soluzione a due Stati è la sola possibile».
   Alfano ha insistito sul ruolo dell'Italia, determinante nel far emergere una «posizione equilibrata». Per il titolare della Farnesina, il problema del Medio Oriente non può ridursi agli insediamenti israeliani: «C'è il tema di chi incita alla violenza e chi considera eroi i martiri i terroristi. Finché sarà cosi, non ci sarà pace e sicurezza in Israele». Alfano ha ribadito infine la necessità di «negoziati diretti».

(La Stampa, 16 gennaio 2017)


Gerusalemme adesso teme un altro sgambetto di Obama

Il rischio è una nuova risoluzione Onu in settimana

di Giordano Stabile

 
GERUSALEMME - Un colpo di coda dell'Amministrazione Obama che «pianterà l'ultimo chiodo nella bara del processo di pace». Vista da Gerusalemme Parigi è lontana, e la Conferenza è il dispetto finale di un presidente che cerca soltanto di ostacolare i cambiamenti promessi da Donald Trump, primo fra tutti lo spostamento dell'ambasciata americana nella Città Santa. Israele ha cercato prima di ignorare, far passare sotto traccia il summit voluto dal presidente francese François Hollande. Ma nel giorno del vertice il fuoco di sbarramento si è fatto più intenso. Gli ambienti diplomatici temono una nuova risoluzione Onu prima della scadenza del mandato di Obama.
   Per l'ex ambasciatore negli Stati Uniti Michael Oren la stessa conferenza «non sta in piedi, è assurda». È come, ha sintetizzato, «se Israele tenesse un summit sullo status di un dipartimento d'oltremare francese, ma senza la Francia, e dichiarasse che l'unica soluzione è l'indipendenza» di quel territorio.
   Ma è soprattutto la possibile iniziativa all'Onu a destare preoccupazioni. Danny Danon, ambasciatore al Palazzo di Vetro ha avvertito che «i sostenitori dei palestinesi stanno cercando nuove misure anti-Israele».
Ma ci sono anche preoccupazioni per i contenuti della Conferenza. Soprattutto sulla rigidità per quanto riguarda i confini del 1967: «Non c'è niente di più assurdo che considerare il Muro del Pianto e il Quartiere ebraico nella città vecchia di Gerusalemme come "territori palestinesi occupati"», spiega una fonte diplomatica a Gerusalemme. E ci sono forti dubbi anche sulla reale volontà di Abu Mazen di arrivare a un accordo. Nel 2008 l'ex premier Ehud OLmert «aveva offerto il 97 per cento» della Cisgiordania, ricorda la fonte, e il presidente palestinese aveva rifiutato. Benjamin Netanyahu, che ha bollato come «futile» la Conferenza, non è certo disposto a offrire di più ma è anche vero che tutti i suoi inviti a far ripartire i colloqui bilaterali «sono caduti nel vuoto».
   Il governo israeliano insiste sulla necessità di «scambi di territori». Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha proposto che avvenga anche con zone «degli arabo-israeliani» in modo da conservare però Gerusalemme Est, dove gli abitanti ebrei sono ormai 150 mila contro 250 mila palestinesi. Lieberman - che a differenza di Netanyahu è contrario alla soluzione «due popoli, due Stati» prevista dagli accordi di Oslo - ha anche offerto un «grande piano di sviluppo per la zona C», la parte dei Territori sotto controllo diretto israeliano, per «migliorare le condizioni di vita dei palestinesi».
   Il vero nodo resta però Gerusalemme. La promessa di Trump di spostare qui l'ambasciata Usa è vista come primo passo del riconoscimento della Città Santa come capitale «unica e indivisibile» dello Stato Ebraico. La dichiarazione finale di Parigi, che non insiste sullo stop agli insediamenti ebraici nei Territori, è stata accolta con sollievo dal governo Netanyahu. Ma restano paure per il colpo di mano finale di Obama. L'ipotesi che circola, spiega l'editoralista Seth J.Frantzman del Jerusalem Post, è che «il testo finale di Parigi venga trasformato in una risoluzione e portata all'Onu». Kerry ieri sera ha tranquillizzato il premier israeliano su questo punto ma i cinque giorni che separano dall'avvento dell'era Trump sembrano ancora lunghissimi.

(La Stampa, 16 gennaio 2017)


L'ideologia di Obama contro Israele

Tutto si riduce a una guerra tra oppressori e oppressi

da The American Spectator (12/1)

Quando i giochi saranno fatti, ci sarò io a coprire le spalle di Israele, aveva promesso Obama all'Aipac", scrive Ziva Dhal, "Quattro anni dopo non ha più bisogno dei voti ebraici o dei dollari, e ha deciso di sostenere pubblicamente i palestinesi. Obama ha colpito al cuore Israele, consentendo il passaggio della risoluzione delle Nazioni unite 2334, dichiarando che i territori biblici di Giudea e Samaria (ovvero la Cisgiordania), la patria ancestrale in cui gli ebrei hanno vissuto e pregato per 3000 anni, sono tutti territorio palestinese. Qualsiasi insediamento ebraico è illegale e deve finire.
   L'azione di Obama ha invertito 44 anni di politica americana che aveva usato il suo diritto di veto per proteggere Israele dagli sciacalli del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Settant'anni di rifiuto palestinese al diritto dello stato ebraico di esistere non importano a Obama. Certamente sa che gli arabi palestinesi hanno respinto le risoluzioni nel 1947, 2000, 2001, e nel 2008. Sa che l'Olp è stata fondata nel 1964 con lo scopo di liberare la Palestina attraverso la lotta armata, cioè eliminare Israele. Sa che Israele ha evacuato tutti i suoi insediamenti a Gaza, nella creazione di uno stato palestinese de facto, e che è stato premiato per questo con la creazione di uno stato di terrore da parte di Hamas. E sa che Israele ha rispettato la sua richiesta di fermare la costruzione degli insediamenti nel 2010, ma i palestinesi ancora si rifiutano di partecipare al tavolo dei negoziati.
   Allora perché Obama agisce a dispetto dei fatti storici e della logica?". Scrive Dhal che nella sua autobiografia, "Dreams from My Father", il presidente americano "sceglie suo padre, Barack Hussein, un anticolonialista dichiarato e socialista, come modello. Abbraccia un'idea progressista che divide il mondo in colonizzatori e colonizzati, carnefici e vittime, potenti e impotenti. I deboli hanno l'illimitato diritto di 'resistere', con qualsiasi mezzo. Obama e gli altri postcolonialisti danno la colpa delle diseguaglianze del mondo al fallimento morale della civiltà occidentale- il suo nazionalismo, il colonialismo, il razzismo - e sostengono l'impegno politico a favore degli oppressi e degli sfruttati".
   L'occidente quindi sarebbe "intrinsecamente malvagio, mentre la purezza e la bontà risiedono in altre culture. Vedono il mondo non come poveri contro ricchi o lavoratore contro capitalista, ma come 'persone di colore' contro 'l'uomo bianco'. I postcolonialisti considerano gli ebrei di Israele parte della classe di bianchi oppressori, 'coloni ebrei' e 'occupanti', e quindi quella parte di medio oriente arabo appartiene di diritto ai palestinesi oppressi. L'odio ossessivo contro Israele, di conseguenza, è 'giustificabile'. Visto attraverso questa lente, Obama, come altri di sinistra, considera sia Israele sia l'America colpevoli di quello che ritiene l'oppressione dei palestinesi e l'occupazione della loro terra. Ironia della sorte, anche se il suo obiettivo è quello di creare uno stato palestinese, le sue azioni presso le Nazioni unite fanno sì che sia più improbabile che mai".

(Il Foglio, 16 gennaio 2017)


Lettera aperta a Papa Bergoglio

di Deborah Fait

 
Le scrivo perché sento un gran peso sul cuore a causa delle enormi ingiustizie e delle menzogne di cui è oggetto Israele, il mio Paese, il Paese degli ebrei. C'è chi ha cercato di scoraggiarmi dicendo che Lei, occupato com'è, non leggerà mai questa lettera, può essere, ma io ho fiducia perché, come diceva l'ebreo Gesù (Ieshua in ebraico), le vie del Signore sono infinite.
  Papa Francesco, Lei ieri ha ricevuto in Vaticano, con grande cordialità, abbracci e sorrisi di simpatia (e con i corpi dei nostri ragazzi ancora caldi dall'ultima strage a Gerusalemme) il mandante dell'attentato, Abu Mazen. Un uomo che ha iniziato la sua carriera con una tesi di laurea che negava la Shoà, che l'ha continuata come braccio destro di un terrorista seriale quale era Arafat, complice di ogni attentato organizzato dal suo capo contro gli ebrei in Europa, addirittura finanziatore della strage alle Olimpiadi di Monaco nel 1970. Quest'uomo, Mahmud Abbas (Abu Mazen è il nome di battaglia), è presidente dell'ANP dal 2005, doveva indire elezioni nel 2009 ma nel 2017 è sempre lui a capo dell'Autorità palestinese, impedendo con la forza di concedere il voto ai palestinesi. Quest'uomo, Papa Francesco, è un dittatore che sottomette la sua gente usando il pugno di ferro, le condanne e la galera per i giornalisti e la pena di morte per chiunque osi ribellarsi al regime, è un uomo corrotto che affama il popolo costruendo per sé ville principesche. Abu Mazen è l'uomo che dedica piazze e scuole ai terroristi, è l'uomo che mantiene a vita le loro famiglie, è l'uomo che ordina il lavaggio del cervello dei giovani palestinesi insegnando loro ad odiare Israele e gli ebrei, incominciando dalla scuola materna. I bambini palestinesi imparano che Israele non esiste, che gli ebrei sono scimmie e maiali da sgozzare.
  Ogni bambino palestinese, se intervistato, ha tra i suoi sogni il voler diventare martire uccidendo gli ebrei. E' quasi sempre questa la risposta alla domanda "cosa farai da grande?" Eppure Lei, Papa Francesco, lo ha definito angelo della pace, uomo di pace, Lei ha celebrato messa a Betlemme sotto una gigantesca immagine di Gesù bambino avvolto in una kefiah ben sapendo che Gesù non poteva indossare nulla del genere perché all'epoca i cosiddetti palestinesi non esistevano, né esisteva l'islam e gli arabi erano solamente tribù idolatre disperse nell'immenso deserto arabico. Ieri , durante il vostro amichevole e allegro incontro, Abu Mazen Le ha regalato un quadro rappresentante Gesù e una pietra del Calvario, ancora una volta il dittatore palestinese ha voluto appropriarsi della figura dell'ebreo Gesù. Ha anche detto che mai permetterà che Trump trasferisca l'ambasciata USA a Gerusalemme e che, se lo facesse, arriveremmo sull'orlo del burrone. Minacce di un uomo che illegittimamente si arroga del titolo di presidente. Minacce e intimidazioni di un uomo dalle mani grondanti sangue. Ma Lei, il Papa, ha taciuto.
  Mesi fa l'UNESCO ha decretato che tutti i luoghi santi del Popolo ebraico dovranno essere chiamati con nomi arabi, depredando così gli ebrei della loro cultura e della loro tradizione millenaria. Il Monte del Tempio, il Muro del Pianto (Kotel), le Tombe dei patriarchi e Matriarche, la Tomba di Rachele, la Tomba di Giuseppe, tutti i nostri luoghi sacri, luoghi non solo di fede ma di storia, 4000 anni di storia ebraica, sono stati cancellati. Preludio alla cancellazione di Israele. Lei, Papa Francesco, non ha detto una sola parola in difesa delle tradizioni ebraiche e dei diritti degli ebrei di andare a pregare nei luoghi che parlano della loro spiritualità e della loro storia. Se un ebreo riesce a salire sul Monte del Tempio, il sito più sacro in assoluto, non può avere nessun testo sacro né deve muovere le labbra, pena l'arresto immediato, se non peggio, tiri di pietre e violenza fisica. Sarebbe come impedire la preghiera ai fedeli cristiani in San Pietro.
  Le sembra giusto Papa Francesco? Eppure Lei non ha mai proferito verbo, Lei non ha mai sprecato una sola parola in difesa del diritto degli ebrei. Lei, capo della Cristianità, una delle personalità più importanti, se non la più importante del mondo, ha permesso che la prepotenza, la dittatura, l'intolleranza e la prevaricazione palestinese avessero la meglio su giustizia, democrazia e libertà di culto. Lei ha permesso che la storia del popolo più perseguitato della terra venisse letteralmente stuprata togliendo volutamente ad ogni ebreo le proprie radici. Senza radici non esiste popolo, questo è l'obiettivo di chi vuole eliminarci.
  E' mai possibile, Papa Francesco, che il male della Chiesa che poi è il male del mondo, l'antisemitismo, sia ancora così vivo al punto da voler distruggere Israele a 75 anni dal tentativo quasi riuscito con la Shoah di eliminare il popolo ebraico dalla faccia della terra. Come Lei saprà, il Vaticano si è sempre rifiutato di riconoscere l'esistenza di Israele, per 45 anni, a partire dal 1948. Il riconoscimento è arrivato, grazie a Giovanni Paolo II, solamente dopo gli accordi di Oslo.
  Israele è, dal giorno della sua sua fondazione, uno stato sovrano, una democrazia, una nazione eletta con i voti delle Nazioni Unite, quando erano ancora un'istituzione democratica, più legittimo di così, eppure niente da fare, il Vaticano aveva Nunzi apostolici nelle teocrazie più terribili, nelle dittature più feroci mentre Israele non ne aveva il diritto. Una vergogna, ne conviene Papa Francesco? Eppure a fronte di tanta difficoltà ad accettare l'esistenza di un Paese democraticamente eletto, a fronte di tanta vergognosa ostilità, ecco la sollecitudine di aprire in Vaticano l'ambasciata di un paese che non esiste, di una nazione che mai è esistita nella storia del mondo, di un paese che, se esisterà in futuro, sarà una dittatura feroce e belligerante. Queste sono le ingiustizie che non è possibile accettare anche perché vanno sommate a una lunga storia di persecuzioni e massacri di un popolo innocente che non chiedeva altro che di vivere tranquillo professando la propria fede, in silenzio, stando ben attenti a non disturbare. Un popolo che non si è mai ribellato ai soprusi. E' mai possibile continuare a perseguitarci senza il pur minimo senso di colpa, senza vergogna?
  Ieri, domenica, si è aperta a Parigi la conferenza per "la pace tra Israele e palestinesi". Sappiamo come finirà, i 70 paesi presenti, memori anche degli abbracci del Papa al sedicente presidente palestinese e dell'inaugurazione in Vaticano di un' ambasciata che rappresenta il paese che non c'è e un popolo inventato, metteranno Israele contro il muro, pronto per la fucilazione. E' tragico, la Shoà ha ammazzato 6 milioni di ebrei e, in Israele, dopo 75 anni, ve ne sono altri 6 da eliminare, complice il mondo intero, Vaticano compreso, esattamente come la volta scorsa quando Pio XII di fronte alla deportazione degli ebrei di Roma, si è voltato dall'altra parte. La storia si ripete, Papa Francesco, con tutti i suoi orrori, le sue terribili ingiustizie, la forza diabolica dei cattivi. Il 27 gennaio questo mondo ipocrita piangerà per il Popolo ebraico assassinato dal nazismo, io spero che Lei, Papa Bergoglio, dopo aver abbracciato con tanto affetto colui che auspica un secondo Olocausto, si astenga, come dovrebbero fare molti altri capi di stato, dal commemorare gli ebrei morti dal momento che non fate altro che offendere, minacciare, umiliare, desiderare la morte degli ebrei vivi in Israele. Le ricordo le due parole che noi ripetiamo spesso con molta decisione "MAI PIU'". E mai più sarà, Papa Bergoglio. I miei ossequi.

(Inviato dall'autrice, 16 gennaio 2017)


Un test sulla faziosità anti-israeliana

Ispirato al test di Sharansky per separare critica legittima da ostilità pregiudiziale, il test-MO indica se un'analisi del processo di pace è pregiudizialmente contro Israele.

Natan Sharansky, l'attivista per i diritti umani ex detenuto in Unione Sovietica, oggi presidente dell'Agenzia Ebraica, ha indicato un "test 3-D" per separare la legittima critica alle politiche d'Israele dall'antisemitismo pregiudiziale diretto contro lo stato ebraico. Israele viene demonizzato (ecco la prima D) quando le critiche "superano ogni proporzione ragionevole". Israele subisce una doppia morale (seconda D) quando viene criticato e condannato mentre non lo sono altri paesi colpevoli di azioni di gran lunga peggiori. Israele viene delegittimato (terza D) quando viene messo in discussione il suo stesso diritto di esistere. Questo test proposto da Sharansky è istruttivo, si concentra sulle giuste questioni ed è mnemonicamente pratico.
Nello spirito del test 3-D, propongo un "test-MO" per valutare analisi e prese di posizione che si propongono di affrontare i problemi legati al processo di pace israelo-palestinese. Applicare questo test-MO è semplice e può rivelare il modus operandi del medio-orientalista di turno, in particolare per quanto riguarda la possibilità che il suo approccio analitico sia macchiato da un iniquo pregiudizio contro Israele....

(israele.net, 16 gennaio 2017)


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