Sono irrilevanti, ma non riescono a cambiare politica
Scrive il Jerusalem Post (1/1)
L'Olp e più in generale la causa palestinese stanno affondando nell'irrilevanza, ma anziché riformare le loro politiche per ristabilire la loro posizione, hanno adottato una politica della terra bruciata che non fa altro che intensificare la loro corsa verso il basso". Così Caroline Glick. "Il problema per l'Olp/Autorità palestinese è che il mondo è radicalmente cambiato mentre loro hanno continuato ad abbracciare i terroristi sperando sempre di farla franca. Questa settimana, l'Economist ha pubblicato i suoi dati annuali sul pil pro capite nei vari paesi del mondo. Per la prima volta, il pil pro capite di Israele ha superato quota 40.000 dollari. Più precisamente, secondo i dati dell'Economist, il pil pro capite in Israele è salito dai 38.127 dollari del 2016 ai 44.019 dollari del 2017. L'anno scorso è cresciuto del 4,4 per cento. Oggi il pil pro capite israeliano è superiore a quello di Giappone, Gran Bretagna e Francia e si prevede che negli anni a venire il divario a favore di Israele tenderà ad ampliarsi. Nella regione, i vicini di Israele rimangono un caso disperato economico e politico. Come ha notato Guy Bechor all'inizio di questa settimana, il pil pro capite egiziano di 2.519 dollari è un diciassettesimo di quello israeliano. Il reddito pro capite della Giordania è diminuito lo scorso anno da 4.648 a 4.135 dollari e le prospettive per il 2018 non sono positive. La situazione non è molto migliore nei paesi del Golfo, nonostante le loro riserve di petrolio e gas. L'Iran, per esempio, è povero e le previsioni per il futuro sono drammatiche. L'anno scorso, nonostante i 100 miliardi di dollari che il regime ha ottenuto grazie all'allentamento delle sanzioni, il pil pro capite è passato dai 6.144 dollari del 2016 a 5.889 dollari. Le guerre in Siria, Yemen, Iraq, Libano e Gaza costano parecchio. L'Egitto, l'Arabia Saudita e altri stati arabi sono attratti da Israele non solo per le loro comuni preoccupazioni di sicurezza riguardo all'Iran. Sono anche desiderosi di ampliare i loro rapporti con Israele per avvantaggiarsi delle sue tecnologie in ogni campo, dall'agricoltura alle tecniche idriche alle comunicazioni digitali. E non intendono permettere ai palestinesi di bloccare la loro rincorsa verso Israele. Mentre i palestinesi continuano con i loro vecchi trucchi, Israele sta diventando una potenza regionale e globale sempre più rilevante e le nazioni del mondo non sono interessate a indebolire Israele quando Israele le sta aiutando a sopravvivere e svilupparsi. Verso la fine del mese, Netanyahu incontrerà Modi a Delhi. Come Netanyahu, anch'egli riconosce che la causa dell'Olp è fondamentalmente sbagliata: la pace si ottiene sconfiggendo i terroristi, non portandoli al potere. E poi, la realtà economica e strategica di Israele non può essere ignorata. Modi e i suoi omologhi in tutto il mondo stanno comprendendo che i palestinesi non hanno niente da offrire, nemmeno la gratitudine. Quando una massa critica di palestinesi capirà che i trucchetti dell'Olp non funzionano più, allora faranno la pace con Israele. Fino ad allora, continueranno ad essere una molesta irrilevanza e nulla più".
(Il Foglio, 15 gennaio 2018)
Israele distrugge "il più sofisticato" tunnel di Hamas
Era lungo 900 metri e arrivava anche in Egitto. "Era usato per introdurre armi" . In Libano ferito da un'autobomba un dirigente del gruppo
di Giordano Stabile
Per gli israeliani si tratta del tunnel più sofisticato mai visto
L'aviazione israeliana distrugge il più sofisticato tunnel d'attacco mai realizzato da Hamas nella Striscia di Gaza e il fratello di un alto dirigente del movimento islamista viene colpito da una autobomba in Libano. Il gruppo estremista palestinese è sotto tiro dopo la proclamazione dell'inizio della "Terza Intifada" e dopo la rivendicazione dell'uccisione, vicino a Nablus, del rabbino Raziel Shevach, elementi che rischiano di innescare un nuovo conflitto aperto con Israele.
Diramazione in Egitto
L'attacco al tunnel, vicino a valico di Kerem Shalom, è stato condotto sabato da un cacciabombardiere israeliano, che ha usato una tecnologia elettronica avanzata, sviluppata per questo tipo di operazioni. Questa mattina il portavoce delle forze armate Ronen Manelis ha illustrato l'operazione: la galleria era lunga 900 metri e penetrava per 180 metri all'interno del territorio israeliano. Una diramazione portava anche in territorio egiziano e quindi il tunnel poteva essere utilizzato a un duplice scopo: contrabbandare armi e altro dall'Egitto alla Striscia; permettere attacchi a sorpresa in Israele.
Violazione della sovranità
Hamas ha replicato che la galleria serviva solo per il contrabbando di beni ma Israele ha confermato che le caratteristiche sono quello di un tunnel d'attacco, per colpire alle spalle l'esercito israeliano schierato al confine, una tecnica usato durante la guerra del 2014 e che costò decine di perdite alle forze israeliane. Per il ministro della Difesa Avigdor Lieberman siamo di fronte a una "clamorosa violazione della sovranità israeliana" e ha aggiunto che "la distruzione dei tunnel è una parte essenziale della nostra politica di indebolire costantemente le capacità strategiche di Hamas".
Quarto tunnel distrutto
È il quarto tunnel distrutto da Israele negli ultimi mesi. Dopo il raid di sabato, l'esercito ha riaffermato che Israele possiede "la più avanzate capacità al mondo nel localizzare le gallerie sotterranee" e che intende "distruggere tutti i tunnel che si estendono in territorio israeliano entro il 2018". Israele in questo modo, secondo il portavoce, si tiene pronto «ad ogni possibile scenario» di reazione da parte dei gruppi armati palestinesi.
Valico chiuso
Il valico di Kerem Shalom è stato chiuso e resterà chiuso «fino a quando sarà necessario per considerazioni di sicurezza». E' la principale via di accesso per gli aiuti umanitari nella Striscia. La chiusura è destinata ad avere riflessi gravi per la popolazione di Gaza, ha ammesso il portavoce, «ma la responsabilità ricade tutta su Hamas».
Attacco mirato a Sidone
Mentre l'esercito israeliano spiegava l'operazione anti-tunnel, a Sidone una autobomba colpiva l'auto del fratello di un alto dirigente di Hamas in Libano. L'esplosione ha distrutto la Bmw color argento di Mohammed Hamdan, ferito gravemente alle gambe. E' il fratello di Osama Hamdan, uno dei leader per le "relazioni internazionali" del movimento, secondo media libanesi il vero obiettivo dell'attentato. L'attacco non è stato rivendicato.
(La Stampa, 15 gennaio 2018)
Teheran non fermerà il programma missilistico
TEHERAN - Il presidente della commissione per la Sicurezza nazionale e la Politica estera del parlamento iraniano, Alaeddin Boroujerdi, ha risposto alle minacce del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulla revisione dell'accordo sul nucleare iraniano, sottolineando che Teheran non fermerà i progressi nel suo programma missilistico. Intervistato sabato scorso, 13 dicembre, dall'agenzia di stampa iraniana "Fars", Boroujerdi ha dichiarato che gli Stati Uniti dovrebbero sapere che l'utilizzo di "una tale letteratura, misure e tentativi di trovare alleati nell'Unione europea non spingerà la Repubblica islamica dell'Iran a ritirarsi nemmeno di un centimetro dalle sue politiche di sviluppo delle proprie capacità missilistiche". Il deputato ha descritto la capacità missilistica iraniana come l'unico potere di deterrenza del paese contro i suoi nemici, osservando che Teheran ha accettato la non proliferazione di armi atomiche, chimiche e biologiche. "L'Iran è completamente contrario all'uso delle armi di distruzione di massa", ha detto Boroujerdi.
Venerdì scorso, 12 dicembre, Trump ha nuovamente rinunciato ad imporre sanzioni legate al programma nucleare, come prevede la procedura statunitense che chiede al presidente di confermare la sollevazione delle restrizioni contro Teheran avviata nel 2016. Trump che ha sempre definito l'accordo sul nucleare "come il peggiore mai firmato dagli Stati Uniti", ha chiesto ai partner europei di lavorare con Washington per "risolvere i disastrosi difetti del documento", minacciando in caso contrario il ritiro. Secondo il presidente Usa il nuovo accordo dovrebbe frenare il programma missilistico dell'Iran e includere restrizioni permanenti agli impianti nucleari iraniani, cancellando la data di scadenza che prevede nel 2025 la fine delle restrizioni al programma nucleare e quindi la possibilità per Teheran di arricchire nuovamente l'uranio e potenzialmente di creare un ordigno atomico. Poco dopo le dichiarazioni di Trump, il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha ribadito che "il Jcpoa non è rinegoziabile". In un messaggio su Twitter il responsabile della diplomazia iraniana ha dichiarato: "Piuttosto che ripetere questa stanca retorica, gli Stati Uniti devono dare piena conformità all'accordo, proprio come ha fatto l'Iran"
(Agenzia Nova, 15 gennaio 2018)
India-Israele: incontro tra i premier a Nuova Delhi
Firmati nove accordi per espandere la cooperazione
NUOVA DELHI - Il primo ministro dell'India Narendra Modi, l'omologo israeliano Benjamin Netanyahu e le rispettive delegazioni - quella israeliana composta da 130 rappresentanti di un centinaio di imprese - hanno avuto colloqui ad ampio raggio nell'Hyderabad House, la residenza usata dal governo indiano per gli incontri istituzionali. I due leader hanno reso noto dopo l'incontro a Nuova Delhi di aver discusso di diverse questioni e accordi di cooperazione nelle aree dell'agricoltura, della scienza e della tecnologia, della difesa e della sicurezza, dei contatti interpersonali e negli scambi culturali. Sono stati firmati nove tra accordi, protocolli d'intesa e dichiarazioni di intenti, riguardanti la sicurezza, l'esplorazione nel settore del petrolio e del gas; l'energia solare e le batterie; la produzione cinematografica; la ricerca nella medicina omeopatica e ayurvedica (che coinvolge l'ospedale israeliano Saare Tzedek); le scienze e le tecnologie (con il coinvolgimento dell'Istituto israeliano di tecnologia Technion); le modifiche ai protocolli per il trasporto aereo; gli investimenti israeliani in India e indiani in Israele.
Di particolare rilievo l'area della difesa: Modi ha detto di aver "invitato le compagnie israeliane a trarre vantaggio dalla liberalizzazione del regime sugli investimenti esteri diretti per produrre di più in India" con le compagnie indiane. Israele è uno dei principali fornitori di armamenti di Nuova Delhi, con esportazioni medie annue che ammontano a un miliardo di dollari. Pochi giorni prima dell'arrivo di Netanyahu, però, il governo indiano ha annullato un ordine da 500 milioni di dollari per lo sviluppo di missili anticarro guidati Spike da parte della joint venture tra Rafael Systems, Bharat Dynamics Limited e Kalyani Systems.
Netanyahu ha pubblicamente elogiato Modi definendolo "un leader rivoluzionario nel senso migliore del termine". Modi ha ricambiato il calore, ringraziando l'amico Bibi per il "generoso affetto" e prendendo come esempio per l'India la politica israeliana di riduzione della burocrazia. Netanyahu ha rivendicato che Israele è "una fonte di ispirazione per l'innovazione" e "una forza globale nella tecnologia", mentre l'India abbonda di creatività, scienziati e matematici". Inoltre, ha ricordato che entrambi i paesi conoscono la sofferenza causata dal terrorismo, citando gli attentati di Mumbai del 26 novembre 2008. "Noi contrattacchiamo e non ci arrendiamo mai", ha aggiunto, alludendo al rafforzamento nella cooperazione sulla sicurezza. Inoltre, ha sottolineato il comune orgoglio per le rispettive democrazie, che resistono nonostante le difficoltà, e per il cui futuro la sicurezza è una condizione essenziale.
Modi, che ieri ha già avuto i primi scambi con Netanyahu, accogliendolo all'aeroporto della capitale, accompagnandolo nel tributo ai soldati indiani caduti nella battaglia di Haifa del 23 settembre 1918, durante la Prima Guerra mondiale - il cui memoriale è stato ribattezzato Teen Murti Haifa Chowk - e ospitandolo in una cena privata, ha dichiarato in un comunicato che i partner hanno passato in rassegna i progressi della cooperazione come "fattore di stabilità e pace nelle nostre regioni e nel mondo" e discusso di varie questioni di interesse bilaterale e globale.
Il leader indiano ha così sintetizzato i principali contenuti della discussione: "Per prima cosa rafforzeremo i pilastri esistenti della cooperazione in aree che toccano la vita dei nostri popoli. Questi sono l'agricoltura, la scienza e la tecnologia e la sicurezza. ( ) In secondo luogo, ci stiamo avventurando in aree di cooperazione meno esplorate con il petrolio e il gas, la cyber-sicurezza, il cinema e le start-up ( ). Come terzo punto ci stiamo impegnando a facilitare il flusso delle persone e delle idee tra le nostre terre. Ciò richiede una spinta politica, infrastrutture e connettività".
In particolare è stato esaminato il piano quinquennale di cooperazione nell'agricoltura e nelle risorse idriche. Sono stati valutati i progressi nella collaborazione tra centri di eccellenza (28 in India e sette in Israele). Sono state completate le formalità per il lancio del Fondo congiunto per la ricerca e lo sviluppo nell'innovazione tecnologica, annunciato durante la visita di Modi in Israele. È stato concordato un nuovo confronto tra le parti a febbraio sul tema del commercio, coinvolgendo anche i privati, con l'obiettivo di far crescere gli scambi, ancora al di sotto del potenziale. I due primi ministri hanno ritenuto opportuno anche velocizzare la firma dell'Accordo sul trasporto marittimo, essendo la connettività uno dei fattori fondamentali per lo sviluppo dei rapporti commerciali.
I premier hanno ribadito la condanna al terrorismo e l'allarme per la grave minaccia posta alla sicurezza e alla pace, anche da attori non statali, invocando misure più severe non solo per le organizzazioni terroristiche ma anche per chi le aiuta e le sostiene. Inoltre, sulla base delle loro esperienze nazionali, hanno sottolineato l'importanza dell'assistenza allo sviluppo di paesi terzi. Infine, Netanyahu e Modi hanno riaffermato "il sostegno a una rapida ripresa dei colloqui di pace tra Israele e i palestinesi per arrivare a una soluzione negoziata complessiva su tutte le questioni pendenti, basata sul mutuo riconoscimento e su accordi efficaci di sicurezza, per stabilire una pace equa e durevole nella regione".
Netanyahu è il secondo premier israeliano in visita ufficiale in India dopo Ariel Sharon, quindici anni fa, ricambiando dopo soli sei mesi quella del primo ministro indiano Modi nello Stato ebraico, la prima per un premier indiano. I due leader trascorreranno molto tempo insieme. Modi affiancherà con assiduità Netanyahu, ricambiando la cortesia del leader israeliano che è stato quasi sempre al fianco di quello indiano nella visita di luglio, un onore generalmente riservato ai presidenti degli Stati Uniti, il più stretto alleato. La visita, nel 25mo anno di relazioni bilaterali, dovrebbe segnare l'inizio di un nuovo picco nelle relazioni bilaterali dopo il recente voto indiano all'Assemblea generale delle Nazioni Uniti, in appoggio alla risoluzione di condanna della decisione statunitense di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.
L'argomento è stato affrontato ieri nell'incontro tra il premier israeliano e il ministro indiano degli Esteri, Sushma Swaraj, per definire l'ordine del giorno odierno. Il leader di Israele ha detto che l'obiettivo della sua visita è portare le relazioni bilaterali a un nuovo livello, sottolineando l'importanza del viaggio in Israele di Modi, lo scorso luglio, una tappa fondamentale in questo percorso di approfondimento dei rapporti. Nell'incontro con la responsabile della diplomazia indiana Netanyahu ha parlato di una "relazione del futuro" costruita sulle tecnologie e sui contatti interpersonali. Entrambi gli interlocutori si sono detti d'accordo sul fatto che il recente voto all'Onu non avrà un impatto negativo sulle relazioni bilaterali. Swaraj ha definito "calorosa e coinvolgente" la conversazione avuta su vari aspetti della relazione e sul rafforzamento della partnership. In diverse interviste alla stampa indiana Netanyahu è tornato sulla questione, ribadendo che, nonostante il disappunto per quel voto, la relazione bilaterale "sta andando avanti su molti fronti", che si tratta di una relazione "tra i due paesi, tra i loro popoli e tra i leader" e definendo la partnership "un matrimonio benedetto dal cielo ma consacrato sulla terra".
Per oggi sono in programma anche incontri tra il premier israeliano e il presidente e vicepresidente dell'India, Ram Nath Kovind e Venkaiah Naidu rispettivamente. Domani Netanyahu, con la consorte, partirà per Agra per visitare il Taj Mahal, celebre mausoleo indiano, da dove tornerà nella capitale per prendere parte al Raisina Dialogue, la conferenza multilaterale che si tiene ogni anno a Nuova Delhi. Mercoledì 17 il leader israeliano farà tappa ad Ahmadabad, nel Gujarat, lo Stato di Modi, che lo accompagnerà in un tour all'iCreate Technologies (costruito sulla base di un concept di innovazione israeliano) e all'Agriculture Centre for Excellence. La giornata si concluderà a Mumbai, dove Netanyahu incontrerà una rappresentanza della comunità israeliana residente nel paese.
Il 18 gennaio, nella stessa città, sono in programma una colazione e un seminario con gli imprenditori e un tributo alle vittime degli attentati di Mumbai del 26 novembre 2008; alla Chabad House dovrebbe essere presente il giovane Moshe, i cui genitori furono tra le vittime di quegli attacchi terroristici: Modi lo ha conosciuto durante la sua visita di luglio in Israele e gli ha promesso un visto permanente; Netanyahu gli ha chiesto di accompagnarlo in India. La giornata si concluderà con un evento di gala con attori, registi e produttori di Bollywood. Il viaggio ufficiale terminerà il 19.
(Agenzia Nova, 15 gennaio 2018)
Diretto ma pragmatico. Così «The Donald» cambia il Medio Oriente
La politica estera della Casa Bianca modifica gli equilibri internazionali. A partire dal dossier Iran.
di Fiamma Nirenstein
Se il mondo non fosse così distratto, e certo non a torto, dalla valanga di notizie trash che sommergono i giornali con sesso e sbotti verbali impensabili, ci si accorgerebbe che il Medio Oriente sta prendendo strade nuove e diverse dal passato. L'abbraccio, ieri, forte e prolungato all'aeroporto di Delhi fra il premier indiano Narendra Modi e quello israeliano Benjamin Netanyahu non avrebbe mai potuto aver luogo senza un cambiamento di scenario complessivo.
L'India è un leader del campo «non allineato», Israele dovrebbe esserle invisa per tradizione. E senza un cambio di scenario internazionale mentre si disegnano nuove alleanze, probabilmente l'esplosione spettacolare sabato, della grande galleria di Hamas che portava i terroristi da Gaza non solo in Israele ma anche in Egitto non avrebbe avuto luogo. Sono quattro gallerie saltate per aria in due mesi: una minaccia molto consistente a Hamas, che, in questo caso, sembra contenere anche un implicito silenzioso consenso egiziano.
Lo sfondo, spettacolare ma molto ben ponderato, una vera mossa strategica di politica internazionale, è stata, venerdì la presa di posizione di Trump sulla questione iraniana: si era partiti qualche mese fa dalla non certificazione del trattato, poi dalla minaccia di «non rinunciare alle sanzioni nucleari» implicitamente avviando la cancellazione dell'accordo del 2015. Arrivata la scadenza della decisione, Trump ha annunciato che invece «rinuncia» alle sanzioni, cioè mantiene il trattato a patto che venga rivisto con un accordo Usa-Europa: entro 120 giorni, chiedono gli Stati Uniti, il pessimo accordo voluto da Obama deve essere rivisto insieme ai partner europei; una partnership che al momento l'Europa, che ha subito richiesto che non si pensi a cancellare l'accordo, non sembra vedere favorevolmente, ma che probabilmente dovrà prendere presto in considerazione, pena il crollo del rapporto coll'Iran. «Attenzione» ha detto infatti il presidente americano «è l'ultima volta». E subito la Russia, ha ritenuto la proposta di Trump «estremamente negativa». E di nuovo Federica Mogherini ieri durante una cerimonia a Bruxelles ha lodato il trattato, ha detto che funziona benissimo, e che l'intenzione è di mantenerlo così com'è.
Si vedrà. Le correzioni, e sarebbe difficile per chiunque negarlo, appaiono indispensabili alla luce dell'esperienza e del buon senso: l'Iran, secondo i punti elencati da Trump come irrinunciabili, deve consentire che si visitino anche i siti richiesti dagli ispettori internazionali, cosa che oggi è vietata nelle strutture militari; si deve cancellare la scadenza (adesso è di soli dieci anni) del divieto di arricchimento dell'uranio; il programma e gli esperimenti balistici, le parate e le guerre continue di conquista devono cessare.
È stata questa la risposta di Trump da una parte alle pressioni europee tutte filo-accordo e filo-regime persino nei giorni della rivolta disperata del popolo iraniano, e in cui la gente chiede pane mentre gli ayatollah spendono 15 miliardi per la guerra di Assad, 150 milioni per le milizie irachene, 800 milioni per gli Hezbollah e 100 per Hamas, devono venire a far parte del trattato. La risposta dell'Iran a Trump naturalmente è stata arrogante. Trump secondo il presidente Rouhani «ha fallito nel distruggere l'accordo ... che è una vittoria strategica per l'Iran». E la seconda parte della frase è vera, nonostante i patetici tentatici dell'Unione europea di presentarlo come un'acquisizione storica. È un penoso accrocchio di compromessi che non ha trattenuto l'Iran né dalle molteplici guerre di aggressione, né dall'espansione balistica, né dal ruolo di finanziatore internazionale di violenza e terrore. E nemmeno la speranza che il popolo iraniano potesse goderne ha funzionato, come si è visto nella rivolta. L'insistenza europea è cinica e miope, un po' come quando dice che Gerusalemme non è la capitale d'Israele.
(il Giornale, 15 gennaio 2018)
Denial: la verità negata
ROMA - Mercoledì 24 gennaio il Teatro Eliseo ospiterà, alle ore 20.00, la proiezione del film "Denial: la verità negata" di Mick Jackson, tratto dal libro di Deborah Lipstadt: History on Trial: My Day in Court with a Holocaust Denier.
Basato sul libro di Deborah Lipstadt La storia sotto processo: un giorno in tribunale con un negazionista, il film narra la storia della causa per diffamazione intentata da David Irving, professore inglese, contro l'autrice, una giovane studiosa americana che lo aveva accusato di aver manipolato la realtà per sostenere le sue tesi negazioniste. Il film rientra nella migliore tradizione del docu-drama e ha avuto grande successo in tutto il mondo.
Seguirà il dibattito, moderato da Viviana Kasam, che vedrà la partecipazione di Manuela Consonni, che dirige il Centro Vidal Sassoon per lo Studio dell'antisemitismo presso la Hebrew University di Gerusalemme ed è considerata uno dei massimi esperti al mondo sull'argomento, Anna Foa, storica, Università la Sapienza di Roma, Arturo Di Corinto, giornalista, docente universitario di Comunicazione digitale e Internet Studies.
Il dibattito allargherà il problema del negazionismo tradizionale a quello "politico" di Paesi che non hanno voluto fare i conti con i loro genocidi e dove ancor oggi è vietato menzionarli, per arrivare a parlare della diffusione incontrollata di fake news e del dark web utilizzato per propagandare odio e razzismo. Negare crimini, genocidi, pulizie etniche per motivi razziali, religiosi, politici è una piaga che affligge la nostra società manipolando le coscienze, soprattutto quelle dei più giovani, promuovendo la teoria dei complotti, così attraente per chi rifugge dal ragionamento critico, e evitando l'assunzione di responsabilità.
Nella settimana intorno al Giorno della Memoria una proposta che coniuga intrattenimento e informazione per affrontare un tema difficile e di grande attualità: il negazionismo, sia quello tradizionale che contesta l'esistenza della "soluzione finale", con lo sguardo rivolto anche ad altri genocidi come quello armeno, quello tibetano e quello dei Rohingya, sia il negazionismo odierno che utilizza dark web e fake news per propagandare l'odio razziale e religioso.
L'evento è organizzato da BraincircleItalia, con il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, e in collaborazione con l'Università Ebraica di Gerusalemme, il Centro Internazionale Vidal Sassoon per lo Studio dell'antisemitismo e Eliseo Cultura,
Teatro Eliseo, Via Nazionale 183 - 00184 Roma
L'ingresso è libero fino a esaurimento posti.
Prenotazioni a: cultura@teatroeliseo.com
(Roma Today, 15 gennaio 2018)
L'arrivo di Netanyahu a Nuova Delhi
Netanyahu arriva in India, Modi lo accoglie all'aeroporto
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è arrivato a Nuova Delhi dove si fermerà sei giorni per promuovere i legami di Difesa, commercio ed energia. Ad attendere all'aeroporto il leader israeliano e la sua delegazione si è presentato a sorpresa anche il premier indiano Narendra Modi che ha dato il benvenuto al collega e amico per la sua "storica e speciale visita".
(LaPresse, 14 gennaio 2018)
Il rabbino ritrovato
di Rav Alberto Moshe Somekh
Il 20-21 ottobre scorso (Shabbat P. Noach, Rosh Chodesh Cheshwan) il Bet ha-Kenesset di Torino è stato visitato da una delegazione proveniente da Israele tutta al femminile: una nonna, due figlie e cinque nipoti della stessa famiglia. Lasciati a casa vari mariti a bada della prole, le sei donne più giovani hanno accompagnato la nonna alla riscoperta della sua città natale. Rivka Grossman è nata infatti a Torino insieme alla sorella gemella Sara il 1o maggio 1936: lo stesso giorno della conquista dell'Abissinia, tanto che un vicino aveva proposto ai genitori di chiamare le due nuove nate Addis e Abeba! Come tutti gli Ebrei stranieri giunti in Italia dopo il 1919 anche la famiglia di Rivka dovette abbandonare il nostro paese nel 1939 per effetto delle leggi razziali. I Grossman raggiunsero Eretz Israel a bordo della nave Galilea prima che colasse a picco al viaggio successivo. Rivka, che aveva allora tre anni appena, non conserva alcun ricordo personale né di Torino, dove ora è ritornata per la prima volta, né del trasferimento in Israele.
Chi era suo padre? Rivka è figlia del Rav Eliahu Eliezer Grossman. Nato in Polonia nel 1907, dopo aver conseguito il titolo rabbinico giunse in Italia (1928), a quanto pare a seguito di una proposta matrimoniale. Il 17 maggio 1931 Rav Grossman sposò a Milano Ides (Yehudit) Lichtenstein, figlia dello Shochet locale, titolare di un ristorante kasher nel capoluogo lombardo. Poco dopo le nozze si trasferì a Torino dove svolse, nella Comunità guidata da Rav Giacomo Bolaffio prima e Rav Dario Disegni poi, le funzioni di Chazan e di Shochet. Aprì a sua volta a Torino, nel cortile di Via Principe Tommaso, 20 a due isolati dal Bet ha-Kenesset, un ristorante kasher. Il locale era aperto -testimonia un fratello - a chiunque fosse interessato a un Devar Torah. Negli anni della sua permanenza a Torino il Rav si dedicò con energia a contenere l'assimilazione nell'ambiente ebraico della città.
Se si eccettua qualche breve nota d'archivio, della sua presenza gli Ebrei torinesi non paiono aver conservato memoria, forse proprio per il fatto che il periodo si sarebbe chiuso con la tragedia della Shoah. Una volta stabilitosi in Israele, peraltro, Rav Grossman non dimenticò l'Italia. In famiglia si racconta che spesso dal quartiere di Bet ha-Kerem dove abitava a Yerushalaim, di Shabbat faceva oltre un'ora di strada a piedi per raggiungere il Bet ha-Kenesset italiano: qui amava ripetere le melodie che aveva appreso a Torino. Profondamente influenzato e ispirato dal movimento sionista religioso Mizrachi strinse amicizia, fra gli altri, con Rav Menachem Emanuele Artom.
Ho accompagnato Rivka e le sue discendenti alla ricerca delle radici torinesi di lei, aiutandole a ritrovare i luoghi cari alla loro memoria. In questo siamo stati aiutati dal fratello maggiore di Rivka, che invece serba di Torino ricordi più netti. Pur non potendo unirsi per motivi d'età al viaggio in Italia, ci ha seguito in costante collegamento telefonico, permettendoci di condividere con lui impressioni e sensazioni straordinarie a distanza di ottant'anni. Molto toccante è stato il momento in cui, durante la Tefillah di Shabbat mattina nel Bet ha-Kenesset, Rivka ha chiesto di poter recitare pubblicamente la Berakhah she-'assah li nes ba-makom ha-zeh, con cui avrebbe ringraziato D. "per avermi fatto un miracolo in questo luogo". Le ho domandato di quale miracolo si trattasse. "Mio padre - mi ha spiegato - si trovava molto bene a Torino e avrebbe voluto rimanere. Ha lasciato l'Italia solo perché costretto. Le leggi razziali di Benito Mussolini, paradossalmente, ci hanno salvati! Se fossimo rimasti in Italia non possiamo immaginare a cosa saremmo andati incontro. E tanto peggio sarebbe stato se la mia famiglia avesse continuato a vivere nella nostra terra d'origine, la Polonia. Insomma - ha concluso- è tutto merito di questo luogo!".
Quello degli espulsi è un tema legato alla Shoah che meriterebbe forse un maggiore approfondimento. Il mio particolare coinvolgimento emotivo in questa vicenda è anche dovuto a ragioni autobiografiche cui accenno soltanto. Girato l'angolo da casa Grossman abitava negli stessi anni a Torino un altro ebreo polacco, Norbert Rapoport, fratello di mia nonna. Anche i Rapoport hanno dovuto lasciare l'Italia nel 1939 e si sono diretti in Ecuador.
Nel caso dei Grossman, la 'aliyah' in Israele, per quanto forzata, ha certamente permesso loro di rifarsi una vita e di creare un nucleo famigliare forte e numeroso. Osservando la loro vicenda da una prospettiva completamente diversa, tuttavia, mi domando quale contributo una figura del calibro di Rav Grossman e altri come lui avrebbero potuto dare negli anni all'Ebraismo italiano se fossero rimasti e sopravvissuti. Mi rendo conto che la storia non si confeziona mediante i "se". Mi rendo parimenti conto che la Mitzwah di "salire" in Israele, per scelta o costrizione che sia, ha un valore inestimabile. Nello stesso tempo mi domando quante personalità carismatiche abbiamo perso, dotate della capacità di coniugare un ebraismo autentico con la realtà del nostro vivere quotidiano? E' vero. Talvolta capita che "dal duro emerga il dolce" (Shofetim 14,14). Ma ciò non può costituire un'attenuante. La Shoah va vista come Male nel suo complesso - sarei tentato di rispondere a Rivka Grossman, pur comprendendo appieno la sua condizione personale e i suoi sentimenti -: in questo senso tutti coloro che vi hanno collaborato devono essere condannati senza "se" e senza "ma".
(Pagine Ebraiche, gennaio 2018)
Moshe e la repubblica degli orfani
Sergio Luzzatto ricostruisce attraverso lettere e immagini la vita di un ebreo polacco che, giunto a Milano nel '45, creò un centro di accoglienza per i bambini scampati alla Shoah.
di Giulio Busi
Sergio Luzzatto, I bambini di Moshe: gli orfani della Shoah e la nascita di Israele, Einaudi, Torino, pagg. 393, in libreria dal 16 gennaio
Una foto sbiadita, lontana nel tempo, vicina nell'immaginazione. David Kleiner, il padre, ha cappello e caffettano, come s'usava allora per tradizione tra gli ebrei dell'Europa orientale. La lunga barba, le spalle un po' curve, l'aria stanca e rassegnata. La madre tiene la schiena dritta, i begli occhi chiari guardano fissi verso l'obbiettivo. Si capisce che è lei, Zippora, la vera anima della famiglia. Un po' imbarazzata, in piedi, la figlia maggiore. Rivka è bravissima a scuola, intraprendente, volitiva. Moshe, il minore, ha l'atteggiamento vispo di chi vuol crescere in fretta, e ne sa già molte. L'immagine viene dallo shtetl, la cittadina ebraica di Kopyczyrìce, nella parte dell'Ucraina allora sotto governo polacco. Siamo verso il 1925, Moshe ha undici o dodici anni e non sa quello che lo aspetta. Nessuno può nemmeno immaginare cosa verrà. Il fuoco che incendia, distrugge, uccide, annichila, quel fuoco terribile è ancora sopito. Certo, la Prima guerra mondiale, la Rivoluzione d'ottobre e il confitto russo-polacco hanno portato anche qui travagli, trasformazioni, sofferenze. L'impero asburgico si è dissolto, l'economia langue, e la vita ebraica si deve arrabattare tra vecchie nuove difficoltà. C'è però un fermento recente, che agita le comunità e coinvolge soprattutto i giovani. Il sionismo scompiglia, incita ad agire, a prepararsi per l'emigrazione nella Terra d'Israele. Un mondo nuovo, una vita da riprendere in mano, dopo la lunghissima passività della diaspora. Uno scatto dopo l'altro, l'album di famiglia si arricchisce di nuove scene. Adesso sono i due ragazzi a farla da protagonisti. Crescono, sognano, lavorano, scoprono il mondo. Rivka e Moshe coltivano il progetto d'andarsene lontano. Rivka, che nel frattempo è diventata maestra, recita nel teatro yiddish. Moshe, di sette anni più giovane, la segue, s'intrufola sulla scena, vorrebbe provare anche lui la sua parte.
Le fotografie, a saperle guardare, sono porte che si aprono sulla vita. Ed è per questo che Sergio Luzzatto comincia il suo racconto proprio dalle immagini, da quelle che si sono salvate dal naufragio. I bambini di Moshe, che esce ora per Einaudi, è un libro da guardare, oltre che da leggere. Perché la dimensione visiva, realizzata attraverso un corredo di rare foto d'epoca, dà sostanza e profondità alla prosa sapiente che enumera, discrimina, narra. Bella la prosa, che ha piglio e dignità letterarie, mossa com'è da frequenti cambi di tono e di prospettiva, e da una felice mescolanza d'interventi diretti, affidati a un "io" autoriale vigile, nervoso, disinvolto, e di più pacati inserti storiografici ed esplicativi. E non meno riuscite le figure dei protagonisti, nelle loro pose, nelle vesti, nei volti e negli sfondi, che variano con il mutare delle circostanze e dei contesti geografici.
Del resto, l'intero lavoro di "cucitura" è eseguito in maniera magistrale. Testimonianze fotografiche, lettere, dati archivistici, fonti giornalistiche dell'epoca, ricostruzioni storiche, tutto confluisce nel grande fiume del racconto, che dalla Polonia dello sterminio scorre, attraverso molti meandri, verso l'Italia, e da qui fino alla Terra d'Israele. Moshe, il ragazzino vispo che la sa lunga, è l'eroe principale. Una vicenda individuale, insomma, o meglio un asse biografico, lungo il quale si aggrega il cristallo misterioso e terribile della Shoah, e quello, tormentato e lucente, della nascita dello Stato d'Israele. Un minerale che cresce secondo sue segrete leggi e che, dopo e nonostante l'annientamento, ingloba una nuova redenzione. Perché l'ambizione di Luzzatto è di entrare nel materico buio della persecuzione assieme ai suoi personaggi, per accompagnarli senza abbellimenti e riduzioni. Ma, dopo il buio, giungere alla redenzione di quelli che riusciranno a sopravvivere, fino a vedere realizzato il sogno, il loro sogno.
La trama essenziale ha la semplicità della vita vissuta. Moshe Kleiner, dopo l'apprendistato dell'attivismo sionista in Polonia, raggiunge, verso il 1935, la sorella Rivka, in Palestina già da un paio d'anni. Cambia cognome, da Kleiner a Zeiri, sposa Yehudit, un'ebrea tedesca di buona famiglia, nata Trude Meyer e appena immigrata da Colonia, e comincia una nuova vita in kibbutz. Loro se ne sono andati in tempo, salvati dalla spinta sionista. Ma per gli altri, per quanti sono restati "laggiù", il 1939 porta il fuoco divorante, quello che nessuno poteva prima immaginare. L'autore intreccia qui più fili, li mescola, li sovrappone. C'è Moshe che s'arruola come volontario nella British Army, nell'inverno 1942-43. Alle terribili notizie che giungono dall'Europa occupata, e alla minaccia nazi-fascista in nord Africa, bisogna pur reagire. Combattere, opporsi, resistere, questo è il suo progetto. Altri fili ci portano in Galizia, nei territori dell'annientamento. Sono fili scuri, pesanti. I ghetti, i campi, le fosse comuni, le comunità ebraiche sterminate con metodica efficienza. La voce di Moshe emerge chiara, grazie alle moltissime lettere scritte alla moglie lontana, che Luzzatto riporta alla luce, traduce, interpreta. Il ragazzino di Kopyczynce è ora un soldato. Dopo essere stato di stanza in Libia, sbarca in Puglia con il suo contingente, nel marzo 1944. Poi Napoli e, verso metà di maggio 1945, Milano. La guerra è finita, ma la sua vera missione comincia adesso. Il caos eccitante del dopo, la consapevolezza sempre più chiara di quanto è stato perpetrato, la decisione di salvare chi può ancora essere salvato, e di farlo giungere nella Terra d'Israele - in breve, le ansie e lo zelo di Moshe in un'Italia frenetica e stordita, emergono con grande efficacia dalla penna di Luzzatto. E questo lavorio febbrile, del soldato ritornato a essere attivista sionista, trova finalmente un luogo, allo stesso tempo reale e simbolico. È la grande, moderna colonia estiva di Selvino, sui monti bergamaschi. un complesso costruito dai fascisti, che si favoleggia, peraltro senza fondamento, sia stato abitato da Mussolini in persona. Moshe Zeiri lo trasforma in centro di accoglienza per orfani ebrei provenienti da "laggiù". Con il sostegno delle organizzazioni di assistenza ebraica, arriva a ospitare, nell'immediato dopoguerra, centinaia e centinaia di giovani profughi. Qui i ragazzi ritrovano calore, fiducia, e vengono preparati alla vita del kibbutz. Poco importa che l'immigrazione sia illegale, e che gli inglesi facciano di tutto per impedire nuovi arrivi ebraici in Palestina, ancora sotto il loro controllo. Sergio Luzzatto segue le navi con i giovani pionieri di Selvino, li accompagna nelle traversie della deportazione a Cipro, fino all'effettivo arrivo in Terra d'Israele. Un arrivo difficile, tra i pregiudizi di chi crede che gli ebrei sfuggiti allo sterminio siano inadatti alle sfide di una nuova frontiera e della guerra d'indipendenza. Moshe rientra nel suo kibbutz dall'Italia a fine '48, e proprio a questo punto, quando il racconto sembrerebbe volgere alla fine, i molti fili, di tragedia e di speranza, si uniscono così da mostrare il disegno complessivo. La storia, individuale e irripetibile, è anche epos collettivo, e affresco di una generazione. La prima foto del 1925, le istantanee della guerra del 1948, a cui prendono parte anche alcuni ragazzi di Selvino, e l'ultima immagine, scattata intorno al 1960, con i "bambini" di un tempo, ormai parte integrante della società israeliana, sono i punti estremi di un'unica vicenda. un racconto di vita, di morte, di vita.
(Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2018)
Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre
Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita, e la vita è stata manifestata e noi l'abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza, e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu manifestata, quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia completa.
Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che vi annunziamo: Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che abbiamo comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, noi mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, com'egli è nella luce, abbiamo comunione l'uno con l'altro, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non aver peccato, lo facciamo bugiardo, e la sua parola non è in noi.
Dalla prima lettera dell'Apostolo Giovanni, cap. 1
L'Europa vicina ai regimi e la politica estera comune
È un errore pensare che l'Unione non abbia una linea. Ma è una linea che nasconde, sotto la retorica del rispetto dei diritti umani, una scelta strategica: ricercare a tutti i costi l'accomodamento con i regimi nemici dei diritti umani.
di Angelo Panebianco
È una tesi da tanti condivisa quella secondo cui l'Europa non avrebbe una politica estera comune. Ma è una tesi errata. L'errore dipende dal fatto che tutte le volte in cui gli Stati membri della Ue scoprono di avere interessi vitali in rotta di collisione fra loro (dai contenziosi sulla distribuzione dei migranti alla sorda lotta a coltello fra Italia e Francia sul presente e il futuro della Libia), quella politica estera comune viene meno temporaneamente. Ma essa poi ricompare quando non ci sono vitali interessi nazionali in conflitto. Il fatto che non possa piacere a chiunque abbia a cuore la libertà e le sue sorti, non la rende meno reale. Si tratta di una politica estera che nasconde, sotto la retorica del rispetto dei diritti umani, una scelta strategica: ricercare a tutti i costi l'appeasement, l'accomodamento, con i regimi nemici dei diritti umani.
Precisiamo che non ci sono tracce né intenzioni di moralismo nelle considerazioni che seguono. Sono le conseguenze politiche che qui interessano. Si consideri quanto sia stata differente la reazione dell'Europa sulla questione di Gerusalemme e su quella della rivolta antiregime in Iran. Nel primo caso, immediata, vibrante e solenne condanna della mossa di Trump. Nel secondo caso, solo qualche farfugliamento sulla necessità che l'Iran rispetti i diritti umani (che è un po' come consigliare a un carnefice di fare almeno una carezza alle sue vittime). Spiace dirlo ma, per lo meno in questa fase, le dichiarazioni del «ministro degli Esteri europeo» Federica Mogherini (lo confermano anche le proteste dei dissidenti per ciò che ella ha detto o non detto, a nome della Ue, nella sua visita a Cuba), rappresentano piuttosto fedelmente questa politica.
La condanna europea della scelta di Trump di spostare l'ambasciata a Gerusalemme non poteva essere più netta. L'Europa si è disinteressata del quadro strategico in cui è maturata la scelta americana. Un quadro strategico in cui, tra Libano, Siria, Striscia di Gaza, preme ormai sui confini di Israele una potenza in fortissima ascesa: quell'Iran il cui regime ha fatto dell'aspirazione alla distruzione dello Stato di Israele una componente della propria «ragione sociale», della propria ideologia, nonché la principale carta che esso gioca per accreditarsi agli occhi dell'opinione pubblica araba, per ridurne le ostilità nei propri confronti. Si consideri inoltre che un altro attore cruciale per gli equilibri della regione, la Turchia, pur essendo ancora membro della Nato, ha ormai fatto un'irreversibile scelta antioccidentale (e ciò non può non avere ricadute anche sui suoi rapporti con Israele).
La decisione americana, oltre a dare attuazione a una deliberazione del Congresso risalente al 1995, è servita a ribadire in tali circostanze l'impegno degli Stati Uniti al fianco di Israele. L'Europa, preoccupata di compiacere i nemici dello Stato ebraico, ha finto di ignorare questi dati di fatto. In ogni caso, a tanto malriposto zelo europeo su Gerusalemme non è seguito altrettanto zelo a sostegno della protesta antiregime in Iran (come ha osservato Franco Venturini su questo giornale l'11 gennaio). Non c'è stato neppure un rinvio dell'incontro a Bruxelles (11 gennaio) fra il ministro degli Esteri iraniano e i rappresentanti europei sul dossier nucleare.
Secondo l'avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh («Corriere», 8 gennaio), la flebile reazione europea di fronte ai fatti iraniani avrà conseguenze nefaste: renderà molto più facile per il regime liquidare fisicamente (e, il più possibile, silenziosamente) gli oppositori. Esiste dunque una politica estera comune europea ma non è precisamente quella che sognavano gli europeisti agli albori dell'avventura comunitaria. È la politica estera di una «Europa invertebrata» che mentre si allentano i legami transatlantici (fra Stati Uniti ed Europa) punta a stabilire connessioni sempre più strette con un ampio ventaglio di regimi illiberali, a cominciare dal più ingombrante di tutti, quello russo. L'idea è che più pericolosi sono e più vanno blanditi.
Finita la guerra fredda, per almeno un decennio, Stati Uniti ed Europa, di concerto, hanno favorito ovunque possibile l'affermazione di democrazie e la costruzione di mercati aperti. Era una fase in cui c'era una certa coerenza fra la politica estera praticata dai Paesi occidentali e la loro natura di società libere. Tutto ciò è finito da un pezzo. Le coerenze sono saltate.
Ciò che è imperdonabile in Donald Trump è che egli abbia fornito il migliore alibi che si potesse immaginare per l'intensificazione di quell'antiamericanismo che era già presente, e anche molto forte in Europa da gran tempo, e che, a causa sua, ha ora la scusa (come ha osservato Paolo Mieli su questo giornale il 28 dicembre) per manifestarsi senza più remore. Contrariamente a quanto dicono alcuni, forse sprovveduti (o forse troppo furbi), ciò non significa che l'Europa, liberandosi della tutela americana, diventerà finalmente «padrona del proprio destino». Invece, si predisporrà a entrare nell'area di influenza russa.
Naturalmente, al momento, i giochi sono ancora, almeno in parte, aperti. Se l'allentamento in atto dei legami con gli Stati Uniti, la crescente indifferenza per le sorti di Israele (anche a causa del riemergere di sentimenti antisemiti in Europa), i rapporti che si desiderano sempre più stretti e amichevoli con la Russia e i suoi alleati autoritari - come l'Iran, per l'appunto -, spingono in una direzione, c'è pur sempre ancora la Nato (Trump permettendo), ci sono pur sempre i legami storici, non smantellabili in un giorno, fra le varie componenti di quella che un tempo era conosciuta come «società occidentale». Però c'è anche una forza inerziale che sta dividendo e allontanando le parti di quella società. Se la scelta di riposizionarsi internazionalmente diventerà definitiva, forse l'Europa un giorno scoprirà quali ne siano le ricadute più spiacevoli, gli effetti negativi di quel riposizionamento sulle proprie libertà.
(Corriere della Sera, 14 gennaio 2018)
Teheran non fermerà il programma missilistico
TEHERAN - Il presidente della commissione per la Sicurezza nazionale e la Politica estera del parlamento iraniano, Alaeddin Boroujerdi, ha risposto alle minacce del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulla revisione dell'accordo sul nucleare iraniano, sottolineando che Teheran non fermerà i progressi nel suo programma missilistico. Intervistato oggi dall'agenzia di stampa iraniana "Fars", Boroujerdi ha dichiarato che gli Stati Uniti dovrebbero sapere che l'utilizzo di "una tale letteratura, misure e tentativi di trovare alleati nell'Unione europea non spingerà la Repubblica islamica dell'Iran a ritirarsi nemmeno di un centimetro dalle sue politiche di sviluppo delle proprie capacità missilistiche". Il deputato ha descritto la capacità missilistica iraniana come l'unico potere di deterrenza del paese contro i suoi nemici, osservando che Teheran ha accettato la non proliferazione di armi atomiche, chimiche e biologiche. "L'Iran è completamente contrario all'uso delle armi di distruzione di massa", ha detto Boroujerdi.
(Agenzia Nova, 13 gennaio 2018)
"Pietre d'inciampo" per non dimenticare
Il progetto dell'artista tedesco Günter Demnig arriva Parma
Günter Demnig e' un artista tedesco che da oltre vent'anni diffonde in europa il suo progetto Pietre d'Inciampo per ricordare l'orrore delle deportazioni naziste.
Partito da Colonia nel 1995 il progetto prevede la collocazione di una targa di ottone incorporata nel manto stradale davanti alle abitazioni di ebrei deportati nei campi di sterminio dai nazisti durante la seconda guerra mondiale e ad oggi ha visto la realizzazione di oltre 56.000 opere in diversi paesi europei come Germania, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Norvegia, Italia, Francia, Spagna, Svizzera, Grecia, Ucraina, Slovenia, Croazia, Romania e Russia
Si tratta di un sampietrino (10 x 10 cm), collocato sul selciato davanti alla porta della casa in cui abitò la vittima del nazismo o nel luogo in cui fu fatta prigioniera, sulla quale sono incisi il nome della persona, l'anno di nascita, la data, con luogo di deportazione la data di morte.
In alcuni casi l'iniziativa ha incontrato polemiche e difficoltà come in Germania dove si e' dovuto mediare, con l'opposizione di un condomino del palazzo davanti al quale era stata posta la pietra che non gradiva, l'obbligo di ricordare le nefandezze naziste o a Roma, ad esempio quando alcune pietre d'inciampo posate al numero 67 di via Santa Maria di Monticelli sono state rimosse da un abitante della zona in quanto "infastidito" dalla loro presenza"
Da oggi, 13 Gennaio anche a Parma grazie all'impegno del Comune di Parma e ISREC, in collaborazione con Comunità Ebraica di Parma, le associazioni partigiane e dei deportati hanno scelto 5 Pietre d'inciampo dedicate a Giorgio Nulla Foà, Renzo Mosé Levi, Ulda Camerini, a Giuseppe e Sergio Barbieri saranno collocate 5 pietre d'inciampo in 5 luoghi della citta' che hanno visto deportare cittadini colpevoli solo di essere nati dalla parte sbagliata della storia nel periodo piu' buio della ragione nel percorso dell'umanità.
Saranno ricordati Giorgio Nulla Foà, Renzo Mosé Levi, Ulda Camerini, a Giuseppe e Sergio Barbieri vittime ignare della follia nazista e del concetto di supremazia razziale che ancora oggi, seppur con toni di velata ipocrisia, fa capolino nella evoluta societa' post bellica e inquina il civile concetto di convivenza e di accoglienza delle diversita'.
Un gesto dovuto, quindi, quello del ricordo delle atrocita' commesse che spesso viene relegato nella retorica di un'appartenenza politica ma dovrebbe entrare nel patrimonio civile di ogni essere umano, un gesto che mai come oggi e' bene ripetere per sottolineare almeno un valore imprescindibile dal quale partire per costruire dialoghi comuni su cui fondare il futuro di tutti.
La cerimonia, alla presenza del sindaco Federico Pizzarotti, dell'Assessora alla Partecipazione e Diritti dei cittadini Nicoletta Paci, del Presidente della Comunità Ebraica Giorgio Yeuda Giavarini, del Direttore dell'Istituto Storico della Resistenza di Parma Marco Minardi, del Presidente dell'ANPI Aldo Montermini, dell'artista, ideatore e realizzatore del progetto, Günter Demnig e' iniziata alle ore 16 dove e' stata posta la prima pietra in onore di Nullo Foa' arrestato a Parma nel settembre del '43 e deportato ad Auschwitz dove mori' l'anno seguente.
Altre pietre della memoria sono state apposte in via Felice Cavallotti davanti al civico 30 in onore di Renzo Mosè Levi, in viale delle Rimembranze 36 per l'abitazione di Giuseppe e Sergio Barbieri, per concludersi con la posa per Ulda Camerini in via Duca Alessandro 60.
Pietre d'Inciampo, per inciampare nella memoria anche nella quotidianita', anche senza volerlo, per non dimenticare mai e per unire la memoria collettiva in un gesto condiviso di condanna perenne all'immane tragedia che ha offeso le coscienze civili dell'umanità intera e non solo del popolo ebraico.
(Parmapress24, 13 gennaio 2018)
Esportazione di carni bovine dall'Italia verso lo Stato di Israele, raggiunto l'accordo.
La Direzione Generale per l'igiene e la sicurezza degli alimenti e al nutrizione informa che, a seguito del favorevole esito delle negoziazioni svolte nei mesi scorsi tra l'Italia e Israele, sono state concordate le condizioni per fornire adeguate garanzie per l'esportazione verso il Paese mediorientale di carni bovine ottenute dalla macellazione di animali italiani o importati in Italia da Paesi Comunitari.
Per poter esportare animali vivi e prodotti da loro ottenuti, alimenti e mangimi, i produttori italiani devono fornire adeguate garanzie igienico-sanitarie alle autorità dei Paesi importatori e la definizione delle garanzie sanitarie da rispettare avviene quasi sempre al termine di una negoziazione tra le parti (Autorità veterinarie/sanitarie del Paese importatore e Autorità veterinarie/sanitarie del Paese esportatore).
Con una nota a firma del Direttore Generale, Gaetana Ferri, la Direzione Generale per l'igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione ha informato che si sono concluse positivamente le negoziazioni volte a definire l'esportazione di carni bovine tra l'Italia ed Israele.
La nota ripercorre succintamente i requisiti sanitari e ricorda che è stato concordato con le autorità israeliane il certificato veterinario che dovrà accompagnare le partite di merce verso tale Paese.
Il certificato veterinario concordato con le Autorità Israeliane, che dovrà accompagnare le partite verso tale Paese, è pubblicato anche sul sito del Ministero della Salute, oltre che in allegato alla nota del Ministero.
(SIVeMP Veneto, 13 gennaio 2018)
Monterchi - Tutto pronto per la cerimonia con l'Ambasciata d'Israele
di Alessio Romanelli
I bambini della famiglia Lukac, sloveni di origine ebraica, salvati da Gonippo e Nova
Lunedi 15 gennaio alle ore 11, presso la Sala Consigliare di Palazzo Massi a Monterchi, avrà luogo la cerimonia di consegna della medaglia di "Giusto tra le Nazioni" alla memoria di Gonippo e Nova Massi. La nomina di "Giusto tra le nazioni" è un riconoscimento per i non-ebrei che hanno rischiato la vita per salvare quella anche di un solo ebreo durante le persecuzioni naziste. Premio che viene conferito dall'Istituto per la Memoria dei Martiri e degli Eroi dell'Olocausto Yad Vashem, istituito dal Parlamento Israeliano nel 1953, con il compito di commemorare e documentare gli eventi dell'Olocausto. Gonippo e Nova infatti, nel lontano 1943, ospitarono nella propria abitazione (in località Vicchio, Monterchi) due famiglie ebree che erano destinate al campo di concentramento di Renicci. Gonippo è scomparso nel 1976 e anche Nova non è più in vita. A ritirare il premio saranno i loro eredi che attualmente abitano la casa che ospitò le due famiglie ebree durante la Guerra.Il programma della mattinata prevede: saluti del Sindaco del Comune di Monterchi Alfredo Romanelli, intervento dei Rappresentanti delle Autorità locali, intervento della prima Assistente dell'Ambasciata di Israele in Italia Dottoressa Sara Ghilad, testimonianze dei salvati e dei salvatori, consegna delle onorificenze alla memorie dei Giusti da parte della delegata dell'ambasciata israeliana.
(Teletruria, 13 gennaio 2018)
Israele, approvata oggi la finanziaria 2019
GERUSALEMME - Il governo israeliano ha approvato questa mattina il bilancio dello Stato per il 2019, pari a 479,4 miliardi di shekel (circa 140 miliardi di dollari). Secondo una sintesi diffusa dal ministero delle Finanza, la finanziaria prevede una spesa di 60 miliardi di shekel (17 miliardi di dollari) per l'Istruzione e circa 38 miliardi di shekel (11 miliardi di dollari) per la Sanità. I fondi a sostegno dei sopravvissuti dell'Olocausto previsti dalla finanziaria 2019 sono di circa 13 miliardi di shekel (3,80 miliardi di dollari), mentre la spesa prevista del ministero della Difesa è di 63 miliardi di shekel (18,4 miliardi di dollari). Nel 2019 il deficit sarà il 2,9 per cento del Prodotto interno lordo, mentre nel 2020 dovrebbe essere del 2,5 per cento. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha accolto con favore l'approvazione del bilancio dello Stato. "Il governo oggi ha approvato un budget eccellente che esprime la nostra politica responsabile e consistente".
Diversi membri del governo hanno criticato pubblicamente il bilancio prima che fosse approvato per i tagli proposti ad alcuni dicasteri, tra cui il ministro della Cultura, Miri Regev, il ministro della Scienza e della tecnologia, Ofir Akunis, e il ministro della Pubblica sicurezza, Gilad Erdan. A criticare la finanziaria anche il ministro dell'Interno, Arye Deri, che ha boicottato la riunione del gabinetto per protestare contro i tagli proposti agli Affari religiosi, che vedranno un taglio di 11 miliardi di shekel (3,2 miliardi di dollari) destinati all'insegnamento della Torah agli adulti. Il ministro delle Finanze israeliano, Moshe Kahlon, ed il primo ministro hanno preso quella che i quotidiani locali definiscono "l'insolita mossa" di approvare il bilancio del 2019 con quasi un anno di anticipo per stabilizzare la coalizione, che non dovrà occuparsi di un altro bilancio prima delle elezioni previste a novembre 2019. La coalizione di governo ha una maggioranza ristretta all'interno della Knesset, formata da 120 seggi. La coalizione di maggioranza, guidata dal Likud, ha 66 seggi, mentre l'opposizione ne conta 54.
(Agenzia Nova, 13 gennaio 2018)
I vitalizi del terrore
I palestinesi hanno speso un miliardo di dollari in stipendi ai terroristi
Il ministero della Difesa israeliano ha reso note le cifre, folli, stanziate dall'Autorità palestinese per sostenere i terroristi che hanno compiuto attacchi in Israele e che si trovano nelle carceri dello stato ebraico. Un miliardo di dollari in tre anni. Trecento milioni all'anno. Come tre anni di bollette dell'elettricità a Gaza. E questo è quello che riceverà in prigione per il resto della sua vita un terrorista condannato all'ergastolo: 2.500 euro al mese, uno stipendio che in quelle zone equivale a mantenerci venti persone. Solo per aver ucciso un ebreo. E' questa la "pace"? Sono questi i "due stati per due popoli"? Se è sposato o ha figli, il terrorista ha diritto a un ulteriore bonus. Se è arabo israeliano, un altro bonus. E' un vero e proprio tariffario funebre. Tutte queste retribuzioni, si noti, ammontano a circa il sette per cento del bilancio dell'Autorità palestinese, e a più del venti per cento degli aiuti che essa riceve da governi stranieri. Sono soldi che diamo noi - governo italiano, Europa, Onu - ai palestinesi. Finanziamo noi il loro jihad quotidiano contro Israele. Quando gli attentatori e le loro famiglie vengono ricompensati, altri palestinesi sapranno che, qualunque cosa succeda loro, ci sarà chi si prenderà cura dei loro famigliari. Questo assicura un approvvigionamento senza fine di assassini a pagamento. Più efferato è stato il delitto, più alto è il premio. Questo non può continuare. Bene dunque fanno gli americani ad annunciare revisioni e tagli agli aiuti ai palestinesi. La pace, quella vera, non può essere costruita sui vitalizi del terrore che fanno dei palestinesi una casta unica al mondo.
(Il Foglio, 13 gennaio 2018)
Il trionfo della vittimologia palestinese
Il trionfo della vittimologia palestinese, della narrativa del popolo espropriato, dell'autoctonia originaria arabo-palestinese e dell'invasione» straniera ebraica, hanno ridefinito completamente la realtà, anzi l'hanno sostituita con una gigantesca fiction di straordinaria presa emotiva. Poiché ogni apparato propagandistico funziona soprattutto attraverso una penetrazione nello strato non razionale della psiche dove i nessi logici si formano per simpatia, per associazioni istintive, attraverso stimoli e risposte elementari, ogni propaganda veramente efficace deve lavorare sulla semplicità essenziale del messaggio da veicolare, sulla sua efficacia.
In un mondo in cui abbondano le vittime, i crimini, le più atroci ingiustizie, l'indignazione avrebbe incessanti presupposti per esercitarsi, dovrebbe esserci una mobilitazione costante delle coscienze, ma questo non succede. Nella maggioranza dei casi prevale l'indifferenza o l'ignoranza. Ma se, attraverso una straordinaria e capillare operazione di persuasione resa possibile da ingenti risorse finanziarie, affinità ideologiche, obbiettivi strategici comuni, si riesce a isolare un conflitto, una specifica situazione irrisolta sotto il profilo politico e morale e imporla all'attenzione del mondo, falsandone grandemente i termini in rapporto all'obbiettivo che si intende conseguire, allora si è ottenuta una vittoria formidabile.
Gli esempi di questa vittoria, in merito alla «causa palestinese» sono evidenti nel modo in cui l'Europa, ai suoi più alti livelli istituzionali e nella rappresentanza collegiale che si è data alla UE, ha recepito e fatto propria la vittimologia palestinese e l'esecrazione di Israele, e nel modo parallelo in cui l'ONU ha perso completamente la sua capacità di «operare distinzioni morali chiare». L'ONU infatti, come la UE, ha adottato la sua stessa agenda relativamente al conflitto arabo-israeliano, ma al contempo, data la sua composizione politica e in virtù del proprio supposto ruolo di arbitro equanime (risum teneatis), ne ha fatto una vera e propria macchina da guerra. Solo l'alleanza con gli Stati Uniti, pur negli alti e bassi della storia (e probabilmente mai così bassi come sotto l'amministrazione Obama, la più pervicacemente ostile alle ragioni dello stato ebraico), ha permesso a Israele di potersi garantire una tutela indispensabile.
I tesori di Soriano in tv, una delle 10 copie al mondo della Bibbia ebraica nella Biblioteca
Il sindaco di Soriano Calabro si rivolge ad Oliverio affinché anche i quadri un tempo appartenuti alla quadreria del convento di San Domenico, dispersi dopo il terremoto del 1783 tornino a "casa".
"La prima Bibbia in ebraico fu stampata a Reggio Calabria nel 1475 presso la stamperia del tipografo ebreo Avrhaham ben Garton che operava nella Giudecca reggina. La stampa fu possibile grazie al finanziamento dei commercianti ebrei della seta che operavano i loro commerci lungo le rive dello Stretto. Una rarità di grande valore inestimabile il cui unico esemplare oggi si conserva alla Palatina di Parma, testimonianza di un'antica arte della stamperia ebraica in Calabria quale suo centro di diffusione". E su questa opera unica, si sofferma il sindaco di Soriano Calabro Francesco Bartone, il quale fa sapere che "tra le dieci copie al mondo che oggi sono conservate in diverse città stampate in anastatica su quella parmense, una si conserva a Soriano Calabro presso la Biblioteca calabrese, una rarità editoriale che l'Istituto sorianese si è 'accaparrato' anni fa sul mercato antiquario internazionale". Dunque, se "non si ha la possibilità o la voglia di recarsi a Parma - spiega il sindaco, nonché direttore Francesco Bartone - la nostra biblioteca è disponibile a mostrare a quanti lo desiderano questo importante cimelio".
L'appello
Il sindaco Bartone, fa sapere inoltre che proprio in questi giorni l'esemplare sorianese è stato oggetto di un servizio giornalistico da parte di Tentv, un'emittente di Cosenza che se ne occuperà nella sua rubrica "Meccanismi" (arte, cultura e scienza) che va in onda ogni sabato. E, infine, lo stesso primo cittadino ricorda che "il presidente della Regione Mario Oliverio è intervenuto affinché la Bibbia della Palatina tornasse in Calabria, considerata giustamente patrimonio unico culturale della Calabria". Da qui, la richiesta al Governatore "che anche i quadri un tempo appartenuti alla quadreria del convento di san Domenico in Soriano, dispersi dopo il terremoto del 1783, oggi rintracciati in diversi negozi di antiquariato italiani aspettano un'operazione finanziaria, neanche tanto cospicua, da parte del presidente per far ritorno a Soriano nella pinacoteca, quale patrimonio storico culturale della Calabria intera".
(zoom24, 13 gennaio 2018)
Milano - Serata ebraico-cristiana con Coccopalmerio
Verrà presentato oggi a Milano alle 18.30 in Corso Matteotti 14 il volume "Il pane delle lacrime. Lettura a due voci del Rotolo delle lamentazioni" scritto da suor Maria Cristina Caracciolo di Forino e Vittorio Robiati Bendaud (San Paolo, pagine 144, euro 15). L'evento è in preparazione alla Giornata del dialogo ebraico-cristiano che si celebra ogni anno il 17 gennaio ed è un omaggio al rabbino recentemente scomparso Giuseppe Laras. Interverranno il cardinale Francesco Coccopalmerio, i rabbini David Sciunnach e Roberto Della Rocca, il biblista monsignor Luigi Nason.
(Avvenire, 13 gennaio 2018)
Queste giornate della memoria o del dialogo o dellincontro stanno diventando feste di ipocrisia, mistificazione e manipolazione dei nomi. In questi casi si dovrebbe parlare di dialogo tra ebrei e cristiani o di dialogo ebraico-cattolico, non di dialogo ebraico-cristiano. Qualche motivo si può trarre anche dallarticolo che segue.
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Il cardinale Bagnasco dice messa. Si scioglie il sangue di San Gennaro
L'arcivescovo di Genova al Duomo: «Segno della provvidenza, la mia una visita fortunata». II miracolo: la liquefazione è avvenuta prima di prelevare la teca dalla cassaforte.
NAPOLI - Un miracolo fuori programma per San Gennaro. Ieri mattina il sangue del Patrono si è sciolto in presenza del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente dei vescovi europei, in visita a Napoli per gli esercizi spirituali con un gruppo di sacerdoti della sua diocesi. II sangue è uscito già liquefatto dalla cassaforte custodita nella Cappella del Tesoro e presentava solo un piccolo addensamento. Grande è stato lo stupore dei presenti ed enorme è stata la gioia di Bagnasco che ha subito voluto pregare per ringraziare il Signore del prodigio. [...]
(Corriere del Mezzogiorno, 13 gennaio 2018)
Lincipit è sufficiente per far capire che si tratta di un rinnovato esempio di "pietà popolare" accolta e variamente strumentalizzata da un'istituzione ecclesiastica che si presenta al mondo come lespressione autentica, centrale e unica del cristianesimo. Questa non è fede cristiana: questo è paganesimo cristianizzato. M.C.
Gerusalemme - Israele dedica il National Memorial Hall a tutti i suoi caduti
Il National Memorial Hall è un monumento in onore di tutti i soldati, uomini e donne, uccisi durante il loro servizio
di Clara Salzano
Il National Memorial Hall
Un nuovo memoriale è stato inaugurato a Gerusalemme per ricordare tutte le vittime militari israeliane di guerra e i combattenti ebrei che hanno perso la vita dalle conseguenze dell'olocausto fino ad oggi. Progettato dallo studio Kimmel Eshkolot Architects, il Mount Herzl Memorial Hall è stato scavato nella montagna di Gerusalemme per formare uno spazio intimo che consenta un'esperienza personale e collettiva di commemorazione in ricordo di tutte i militari, sia donne che uomini, che hanno perso la vita durante il loro servizio militare o di sicurezza a Gerusalemme dal 1860.
Il National Memorial Hall sorge vicino al cimitero di Mount Herzl, a Gerusalemme. Kimmel Eshkolot Architects è stato selezionato dal Ministero della Difesa israeliano per progettare il memoriale nel 2006. La caratteristica principale del monumento è un "Wall of Names" lungo 250 metri che avvolge una struttura centrale in mattoni scultorei e riporta tutti i nomi delle vittime. Seguendo una spirale che sale sul memoriale, il muro è composto da 23.000 mattoni, ognuno inciso individualmente con il nome di un soldato caduto, la data in cui il soldato è stato ucciso e una candela da accendere nell'anniversario della morte del soldato. I mattoni continuano su una parete ondulata, a forma di imbuto, che apre invece la sala principale, scavata nella montagna, verso il cielo, inondando il vuoto di luce naturale.
(Design Fanpage, 12 gennaio 2018)
Tra India, Stati Uniti e Russia. L'agenda 2018 di Netanyahu
Nerendra Modi, Donald Trump e Vladimir Putin. Sono i tre leader mondiali che il Premier israeliano Benjamin Netanyahu ha in agenda di incontrare nei prossimi mesi. A dirlo, lo stesso Netanyahu nel corso di un forum economico tenutosi a Gerusalemme. Il Premier ha detto di stare pianificando colloqui "con i leader di tre dei principali paesi del mondo", aggiungendo che si tratta "ovviamente del primo ministro indiano Narendra Modi, del presidente statunitense Donald Trump, con cui mi incontrerò a Washington a marzo o forse anche prima, e certamente con il capo dello Stato russo Vladimir Putin, con cui ho concordato un incontro nelle prossime settimane". Prima tappa dunque, come già ampiamente annunciato, la visita in India programmata dal 14 al 18 gennaio. Un passaggio importante per Gerusalemme, perché l'economia indiana costituisce un mercato dalle grandi possibilità nonché un alleato a livello internazionale con cui però nelle ultime settimane non sono mancati i problemi: ai primi dell'anno, New Delhi ha annunciato la soppressione di un accordo da 500 milioni di dollari per l'acquisto di missili prodotti in Israele e ancor prima aveva votato a favore della risoluzione Onu di condanna del discorso di Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico.
"Mentre Israele si è buttata a capofitto per cercare di rafforzare i legami con Nuova Delhi, l'India è impegnata in un'azione di bilanciamento, in ossequio al suo sostegno storico ai palestinesi e alle alleanze con i rivali d'Israele, compreso l'Iran", ricorda la rivista economica Bloomberg. Il commercio bilaterale tra i due paesi, escluso il settore della difesa, è cresciuto in maniera esponenziale nel corso degli anni: oggi si attesta ad almeno 4 miliardi di dollari (dati del 2016) mentre nel 1992 - anno in cui le due nazioni hanno stabilito relazioni diplomatiche piene - era appena 200 milioni di dollari. "L' India, ancor più che la maggior parte dei paesi, sta mettendo in chiaro di potersi impegnare con Israele senza dover legare questo suo rapporto con la causa palestinese", spiega Arthur Lenk, con un passato da diplomatico per il governo d'Israele in India alla fine degli anni novanta. Netanyahu arriverà quindi a New Delhi per parlare di rapporti economici mentre le questioni dei rapporti con i palestinesi rimarranno in secondo piano. Rapporti che in questi giorni sono nuovamente ad un alto livello di tensione, dopo l'assassinio in Cisgiordania di un cittadino israeliano, Raziel Shevah: rabbino e mohel, ucciso mentre alla guida della sua auto in quello che le autorità hanno definito un attacco organizzato da parte di una cellula terroristica palestinese.
(moked, 12 gennaio 2018)
"Signor Hitler, mi può spiegare il programma del suo partito?"
«Adolfo Hitler il "fascista"» è il titolo di un servizio speciale di Giulio De Benedetti pubblicato il 28 marzo 1923 sulla "Gazzetta del Popolo", contenente un raro colloquio col Führer. Ne riproponiamo un ampio stralcio.
Il Führer: «Purezza della razza, abolizione del regime democratico, distruzione dei socialisti e degli ebrei»
«Una volta dittatore non mi lascerò comandare dal Parlamento e dai così detti rappresentanti del popolo»
di Giulio De Benedetti
Si dice che intervistare il «fascista» Adolfo Hitler non sia cosa facile. Così almeno mi hanno informato a Monaco alcuni colleghi tedeschi. Non certo perché egli sia per temperamento un taciturno, ma perché i suoi compagni di fede non desiderano troppo che i giornalisti lo avvicinino.
Ma ieri il caso mi ha aiutato. Mentre stavo discutendo nella redazione del Volkische Beobachter con una banda di esaltati (facce di nevropatici e di cocainomani che mi ricordavano un po' i cechisti di Mosca) sulla necessità o meno, e della forma più opportuna di ammazzare tutti gli ebrei e tutti i socialisti, ecco comparire Adolfo Hitler.
Presentazione rapida: una stretta di mano così energica da indolenzire le dita (anche questo è un segno di forza) ed incomincia l'intervista. Hitler è un uomo che può parlare anche tre o quattro ore di seguito senza stancarsi con una voce che pare una mitragliatrice in funzione. Le cose che enuncia possono - dette ad un pubblico di fanatici nelle grandi birrerie di Monaco - fare un certo effetto; ma ascoltate freddamente, a tu per tu e alla luce del giorno, l'impressione è un po' minore.
Guardo la sua faccia comune e senza interesse, la sua figura tozza che una pretesa eleganza non riesce ad affinare e, mentre ascolto, non so vincere un senso di delusione che la conoscenza del piccolo dittatore mi procura. Quando parla - e io continuo a guardarlo con una certa delusa curiosità - gli tremano leggermente gli angoli delle labbra. Non mi pare un dittatore troppo pericoloso.
Incomincia egli coll'espormi il programma del suo partito, che identifica in gran parte con quello del fascismo italiano. Ma lamenta che Mussolini non abbia intuito quanto lui ha capito subito, che bisogna liberarsi innanzi tutto del pericolo semita, che ha carattere internazionale. Per Hitler sono poche le personalità che non abbiano nelle vene un po' di sangue giudeo: Edoardo VII, figlio degli amori adulteri della regina Vittoria col suo medico personale, Guglielmo II e lo stesso Pontefice non ne sono immuni. Bisogna purificare la razza umana da questo terribile veleno ...
Cerco di portare il «leader» del così detto movimento fascista su terreno più prossimo:
- Mi potrebbe spiegare con chiarezza quale sia il programma immediato del suo partito? «Lotta senza quartiere ai socialisti e agli ebrei. Distruzione di ogni idea internazionale. Attirare nel nostro movimento le masse operaie. Il concetto monarchia e repubblica ci è indifferente, come non siamo legati ad alcuna confessione religiosa. Vogliamo che il potere dello Stato sia affidato ad una minoranza onesta e capace. Si immagina lei» [si alza in piedi e si pone una mano sul petto] «che io, dittatore, mi lascerò, quando avrò la direzione dello Stato, comandare dal Parlamento e dai così detti rappresentanti del popolo? Io governerò», continua il veggente, «secondo l'ispirazione che mi verrà dall'intimo della mia coscienza...».
- Non crede che in un momento così grave per i destini del germanesimo, mentre si è riusciti a stento a formare un blocco nazionale contro la Francia, non sia tale azione pericolosa e non possa provocare la guerra civile? «Noi andiamo diritti per la nostra strada. Siamo convinti che non si giungerà alla liberazione del popolo tedesco se prima non si distrugge il socialismo e l'idea semita. Come si fa a costruire un edificio se non si pongono prima le basi? Ora le basi della nostra liberazione sono la compattezza nazionale, la purezza della razza, l'abolizione del regime democratico ... Del resto la lotta contro la Francia è condotta in una forma vergognosamente fiacca ... ».
- Signor Hitler, lei ha paragonato il movimento social-nazionalista con quello fascista italiano. La situazione politica dei due Paesi, come risultato della guerra è diversa. Ma lei immagina che se gli austriaci, per ipotesi, vittoriosi, fossero ancora avanzati, dopo firmata una pace, nel territorio nazionale, i fascisti italiani si sarebbero limitati a urlare a Roma, a Milano, od a Napoli contro il «nemico interno»? Non crede lei che centinaia e migliaia di uomini sarebbero corsi a uccidere ed a farsi uccidere con gesto di disperata follia, pur sapendo di morire invano, ma certi ugualmente di dare il proprio sangue per la «liberazione» più lontana? «Le mie forze armate non dispongono che di limitati mezzi militari. Se andassimo a batterci contro la Francia, saremmo schiacciati in poche ore».
- Per ragioni di umanità è bene che sia così. Non intendevo dire che lei, signor Hitler, dichiari la guerra al Governo di Parigi, ma mi pare compito troppo facile per un partito nazionalista armato limitarsi a inscenare parate per le vie di Monaco, reclamando guerra senza mercé alla Francia, ma accontentandosi di bastonare, con la protezione della polizia, qualche socialista e qualche ebreo ... «La lotta armata contro la Francia non è compito nostro».
- Ed allora, se a Berlino si formasse un qualsiasi Governo, probabilmente di Sinistra, che per lavare il paese da una minacciata catastrofe, concludesse un qualsiasi accordo coi francesi ... ? Il «veggente» scatta in piedi e passeggia concitato per la piccola sala redazionale gridando: «Kampf! Kampf! (Battaglia! Battaglia!)». Non so se contro i francesi, o contro gli ebrei...
Adolfo Hitler mi aveva dato un secondo appuntamento alla Corneliusstrasse, nella centrale della sua organizzazione armata, ma non mi fu più possibile avvicinarlo.
Nella sede centrale della sua organizzazione alcune signorine preparavano le «fiches» che suddividono gli iscritti in «truppe di assalto», «propagandisti» ecc. Lessi tra gli iscritti i nomi di note famiglie aristocratiche e di militari. Nella strada incontrai alcuni gruppi delle forze armate. Mi avvicinai per interrogare. Quando seppero che ero italiano, qualcuno richiese il ritratto dell'on. Mussolini, qualche altro si accontentò di sigarette, parecchi mi confessarono di essere disoccupati in cerca di un impiego qualsiasi.
Chi ha voluto e saputo organizzare questo partito e queste forze rimanendo dietro le spalle di Adolfo Hitler?
Qualcuno fa il nome di Lüdendorf. Con certezza si sa soltanto che il suo attendente fa parte delle cosiddette «truppe d'assalto».
(La Stampa, 12 gennaio 2018)
Cori antisemiti in San Babila. «La Regione si costituisca parte civile»
In piazza: cori antisemiti in San Babila il 9 dicembre
«Solidarietà alla comunità ebraica milanese e italiana vittima di cori antisemiti durante una manifestazione filopalestinese del 9 dicembre a Milano del dicembre scorso e interruzione di ogni rapporto con le associazioni culturali e religiose islamiche che non si siano pronunciate contro queste frasi». E la richiesta alla Giunta regionale contenuta in una mozione del vicepresidente del Consiglio regionale Fabrizio Cecchetti (Lega Nord) e del consigliere regionale della Lega Jari Colla. «Riteniamo inaccettabile - dichiarano in una nota - che frasi antisemite di questo tipo passino inosservate e che centinaia di persone in una manifestazione possano permettersi di intonare cori di questo tipo. La Regione Lombardia deve condannare fermamente questo episodio e valutare la possibilità di costituirsi parte civile nel prossimo eventuale processo penale»
(il Giornale, 12 gennaio 2018)
Il comandante tedesco che salvò la famiglia ebrea
A Pesaro nel 1944 Erich Eder, 21 anni, protesse Alfredo Sarano, il quale raccontò la vicende in un diario scoperto da Roberto Mazzoli, che ha anche rintracciato i figli dei due, incontratisi ieri sera a Milano.
di Lucia Bellaspiga
Vittoria Sarano e sua sorella Miriam mostrano la foto dell'ufficiale tedesco che salvò la loro famiglia dalla Shoah. Con loro Gühnter Eder, figlio del comandante Erich Eder e Peter Küspert, marito di Ildegarda Eder e presidente della Corte Costituzionale della Baviera.
Immaginate un antico convento occupato dalle truppe naziste della Wehrmacht, che ne hanno fatto il loro quartier generale, nei giorni convulsi in cui Churchill in persona guida le operazioni contro i tedeschi: bombardamenti senza sosta sul colle dell'edificio. Ma immaginate ora che nelle grotte dello stesso convento siano rifugiati 300 civili, che da mesi vivono a stretto contatto con la Wehrmacht, e tra questi ci siano anche sei ebrei, la famiglia di Alfredo Sarano, accolti dai frati francescani ... Una trama inverosimile, si direbbe. Ma la realtà supera la fantasia e succede anche che il comandante tedesco Erich Eder, 21 anni, cattolico di Baviera, pur avendo scoperto la presenza della famiglia ebrea, decida di non deportarla e di proteggerla insieme agli altri civili. Accadeva nell'estate del 1944 sulle colline di Pesaro, tra il santuario del beato Sante Brancorsini e il paese di Mombaroccio, anche se a ben guardare lì si apriva solo il cerchio, che si è chiuso ieri sera a Milano, con l'incontro tra le figlie dell'ebreo Alfredo Sarano, scampate al lager grazie al sottufficiale tedesco, e i figli dello stesso Eder, tutti ignari di questa storia fino a poco fa. A chiuderlo, il cerchio, è stato il giornalista Roberto Mazzoli, che per anni ha seguito le tracce del militare tedesco, ha ritrovato (in maniera che ha dell'incredibile) la famiglia di ebrei da lui salvati ( ormai in Israele), ha ricevuto da loro il diario di Sarano rimasto per 70 anni in un cassetto, in Germania ha rintracciato i figli di Eder, ha infine pubblicato Siamo qui, siamo vivi - Diario inedito di Alfredo Sarano (San Paolo, pagine 192, euro 17,00), presentato all'Umanitaria di Milano insieme ai figli di entrambe le famiglie. «Seppi dell'atto eroico di Eder dai francescani - racconta Mazzoli, direttore del settimanale diocesano pesarese "Il Nuovo Amico" e collaboratore di "Avvenire"-, ma degli ebrei da lui salvati si era perso il nome. Quando avevo quasi rinunciato a scoprirlo, casualmente sul mio pc è apparsa la notizia di un concorso per ristoratori a Tel Aviv, e i vincitori accennavano a una loro salvezza dalla deportazione a Pesaro. Conobbi così le sorelle Matilde, Vittoria e Miriam Sarano, che all'epoca dei fatti erano bambine». «Il diario di nostro padre stava aspettando Mazzoli hanno detto ieri affinché il cerchio della nostra salvezza si potesse chiudere per essere finalmente raccontato. L'\incontro, a prima vista casuale, è stato senza dubbio predisposto in più alte sfere».
Attenzione: Alfredo Sarano restò sempre convinto che nessuno li avesse scoperti, non seppe mai che a salvare la sua famiglia era stato Eder, «e nemmeno a noi nostro padre disse mai nulla», aggiungono Günther e Peter, figlio e genero del militare, «semplicemente perché non riteneva eroico il suo gesto, ma assolutamente ovvio». Tante le "coincidenze" in questa rocambolesca storia, compreso il fatto che il 2 aprile 1990, proprio il giorno in cui Alfredo Sarano muore in Israele, Erich Eder, ormai 66enne, torna al santuario del beato Sante un'ultima volta prima di morire. «la prima volta ci era andato in bicicletta dalla Baviera nel 1953 per assolvere a un voto», ha ricordato Mazzoli. Infatti aveva promesso al beato che, se avesse salvato tutti gli occupanti del monastero, sarebbe tornato. E se invece fosse morto sotto le bombe? «Aveva affidato ai frati una lettera per sua mamma in cui le diceva "sappi che mi sono comportato da cristiano"». Lopera autobiografica di Alfredo Sarano, e il libro che Mazzoli ne ha tratto, è fondamentale anche dal punto di vista storico, perché prima di fuggire a Pesaro la famiglia viveva a Milano, dove Alfredo era segretario della comunità ebraica e teneva il censimento, aveva cioè in mano le identità dei 13mila ebrei della città. A rischio della vita si rifiutò di consegnare la "Lista di Sarano" e la nascose, salvando migliaia di persone: su 13mila, solo 800 verranno deportate. «Una storia ebraica così a lieto fine fa bene allo spirito - ha commentato la scrittrice e testimone Liliana Segre -. Incontrare persone così buone è un lenimento a ferite ancora aperte dopo 70 anni. I miei nonni furono traditi per 5.000 lire e mandati al macello. Eder è stato un giusto, un coraggioso soldato tedesco». «Questo testo nutre la memoria in tempi di smemoratezza - ha commentato il direttore di "Avvenire" Marco Tarquinio -. Insegna che si salva chi non salva solo se stesso: Sarano a suo rischio protegge l'intera comunità ebraica milanese, Edera 21 anni ha valori così saldi da mettersi in pericolo per la vita altrui, e così fanno i frati. Nessuno si salva da solo». A raccogliere la bellezza del gesto di Eder c'erano il presidente della Comunità ebraica di Milano, Milo Hasbani, Davide Milani, responsabile della Comunicazione dell'Arcidiocesi di Milano, Simone Bruno, direttore della San Paolo, e Davide Romano, assessore alla cultura della Comunità ebraica, che ha concluso con le parole del filosofo Edmund Burke: «È l'indifferenza che ha permesso quello che è successo». Erich Eder, militare tedesco, rifiutò di restare indifferente.
(Avvenire, 12 gennaio 2018)
L'Unrwa, un'agenzia da chiudere
L'agenzia Onu - caso unico al mondo - anziché risolvere il problema dei profughi palestinesi lo perpetua, e perpetua il conflitto.
Gli Stati Uniti del presidente Donald Trump stanno giustamente riconsiderando la logica alla base del finanziamento dell'Unrwa, l'Agenzia Onu per i profughi palestinesi, almeno per come funziona attualmente. Sono già stati congelati circa 125 milioni di dollari, che rappresentano approssimativamente un terzo del sostegno annuale degli Stati Uniti all'agenzia. A giudicare da un tweet di Trump che ha preceduto la decisione di congelare gli aiuti, sembra che il presidente degli Stati Uniti intenda condizionare il versamento dei fondi al fatto che i palestinesi collaborino a risolvere il conflitto israelo-palestinese. La preoccupazione di Trump è legittima. L'Unrwa, che esiste dal 1949, doveva essere una soluzione temporanea fino a quando non fosse stato risolto il "problema dei profughi palestinesi". Ma se l'Autorità Palestinese si rifiuta di collaborare con gli Stati Uniti per risolvere il problema, gli Stati Uniti non hanno motivo di continuare a saldare all'infinito i conti dell'agenzia....
(israele.net, 12 gennaio 2018)
Dalla Libia allItalia, ferite e progetti
Da sinistra: Vittorio Mosseri, Carolina Delburgo, Victor Magiar e David Meghnagi
Una riflessione a carattere storico sulle persecuzioni subite dagli ebrei nei paesi arabi, con testimonianze in prima persona sulla drammatica esperienza vissuta. E una riflessione sulle iniziative che le istituzioni possono intraprendere sia per meglio far conoscere quelle vicende sia per agire con efficacia e incisività nella gestione dei flussi migratori contemporanei. Queste le due direttrici del confronto svoltosi al Senato, presso la commissione Affari Esteri, su iniziativa dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Ad intervenire durante l'audizione l'assessore alla Cultura UCEI David Meghnagi, i Consiglieri Victor Magiar e Vittorio Mosseri, Carolina Delburgo in rappresentanza del Comitato ebrei espulsi dall'Egitto. Quattro voci, quattro testimonianze di quel secolare incontro tra mondo ebraico e mondo arabo violentemente sradicato nel secolo scorso. Presente anche Daniel Arbib, assistente per gli affari politici dell'Ambasciata di Israele. Mentre tra i senatori presenti hanno tra gli altri portato un contributo il vicepresidente della commissione Paolo Corsini, Lucio Malan, Luigi Compagna e l'ex ministra Stefania Giannini. "Vi è una grande necessità di curare le parole malate con cui si racconta il Medio Oriente" ha sottolineato Meghnagi nel suo intervento. ''A partire dal falso storico per cui si riconducono tutti i problemi della regione al conflitto israelo-palestinese. Una narrativa ideologica - la sua riflessione - che ha comportato una errata esposizione dei fatti". Significativo, ha poi osservato l'assessore, che gli ebrei fuggiti dal mondo arabo non si siano mai declinati come profughi, che non ci sia mai stato alcun vittimismo. "E questo - ha spiegato - essenzialmente per due motivi: per delicatezza nei confronti delle vittime della Shoah, ma anche perché hanno preferito concentrarsi sull'idea della ricostruzione". Tra le criticità esposte, il fatto che numerosi concittadini italiani originari di paesi arabi e residenti in Israele incontrano enormi difficoltà a iscriversi all'Aire in quanto non sono in grado di produrre il proprio certificato di nascita. Anche se registrati all'anagrafe in Italia, ha spiegato Meghnagi, tali persone non possono procedere a farsi rilasciare una carta di identità. "È un problema - la sua osservazione - di cui la politica deve farsi carico".
Da parte di Magiar, testimone come Meghnagi dell'esodo libico, è arrivato l'invito a una lettura sempre più scientifica della vicenda e a un suo inquadramento nel fenomeno generale delle espulsioni "Stiamo parlando della cacciata di una minoranza, ma forse il termine non è del tutto corretto. Perché - ha affermato - parliamo dello sradicamento di un'identità che fu elemento fondante della Libia per secoli". Sradicamento da cui molto si può imparare. Perché, come ha spiegato Magiar, "quell'espulsione ha aperto la strada ad altri fenomeni persecutori, come quello nei confronti dei cristiani". Al riguardo il Consigliere UCEI Ha consegnato ai senatori presenti una tabella dove si fa un raffronto tra la popolazione ebraica e cristiana in determinati paesi arabi dal 1917 ad oggi. Quella ebraica risulta quasi del tutto azzerata, "ma anche quella cristiana va nella stessa direzione". Ragion per cui è stato doveroso affermare un concetto: "Non ci può essere vera pace senza rispetto delle diverse minoranze che abitano un paese". Vittorio Mosseri, che è anche presidente della Comunità di Livorno, ha ricordato la fuga della sua famiglia dall'Egitto ed evidenziato come, dichiarando guerra a Israele nel 1956 e nel 1967, "i paesi arabi hanno dichiarato guerra non solo a un paese ma a intere comunità ebraiche". Confermando quanto già detto da Meghnagi, Mosseri ha spiegato come, malgrado la condizione di profughi, nonostante fughe precipitose decise in alcuni casi nel giro di poche ore, gli ebrei arrivati dai paesi arabi non abbiamo mai ostentato alcun vittimismo. "La nostra è una storia di integrazione, favorita anche dal concreto aiuto delle comunità ebraiche italiane che ci hanno accolto. Integrazione e integralismo: la differenza linguistica è minima, ma il pericolo è grande se non riusciremo, davanti alla sfide di oggi, a integrare davvero chi sbarca sulle nostre coste. E questo - ha affermato - anche attraverso progetti educativi all'altezza".
(Pagine Ebraiche, gennaio 2018)
La terra promessa degli eritrei? Non è in Israele
di Pietro Veronese
Centoquindlci anni fa il movimento sionista. cui aderivano gli ebrei d'Europa desiderosi di creare uno Stato di Israele, valutò a lungo la proposta del governo britannico che andassero a stabilirsi In Uganda. In realtà, precisano gli storici, l'area che era stata offerta si trovava In Kenya, ma per qualche motivo la cosa passò sotto il nome di "proposta ugandese". I sionisti riuniti a congresso ne discussero accanitamente e in un primo tempo approvarono. Il loro stesso fondatore e capo, Theodor Herzl, era favorevole. Ma poi l'opinione dominante cambiò e i sionisti decisero che lo Stato di Israele sarebbe potuto sorgere soltanto in Palestina. Sappiamo com'è andata a finire. Per questo suona come un'amara ironia della storia la decisione del governo di Gerusalemme di deportare alcune decine di migliaia di migranti da Israele in Uganda e Ruanda. Se ne sentiva parlare da tempo ma solo di recente il progetto è stato reso pubblico. I contenuti degli accordi stipulati con i due governi africani non sono stati però rivelati. Cinquemila dollari a migrante, si legge, anche se da fonti non confermate. A ciascuno, ad eccezione dei richiedenti asilo verrà presentata l'alternativa dì andarsene oppure essere detenuto a tempo indeterminato. Una scelta (che sceIta!): per questo, tecnicamente, si tratta di "deportazione volontaria". I rifugiati In questione, circa 40 mila, provengono quasi tutti da Eritrea, Etiopia e Sudan. Sono arrivati attraverso l'Egitto, la cui frontiera con Israele è oggi divenuta invalicabile. Non hanno alcuna intenzione di fondare uno Stato, ma anch'essi come un tempo il popolo di Israele sono in cerca di una terra promessa.
(la Repubblica il venerdì, 12 gennaio 2018)
... ma anch'essi come un tempo il popolo di Israele sono in cerca di una terra promessa. La somiglianza tra ebrei sparsi per il mondo fino alla metà del secolo scorso e i clandestini eritrei che oggi sono in Israele per lautore è evidente. E poi cè la deportazione, unaltra similitudine velatamente accennata. Complimenti allautore: un autentico capolavoro di subdolo antisionismo. Solo antisionismo, naturalmente, nulla di antisemitico, direbbe lautore. M.C.
Memoria, Romano strappa: «Diserterò le celebrazioni. Un segnale contro l'odio»
L'assessore della Comunità ebraica milanese: cortei e slogan inquietanti.
di Paola D'Amico
Il 9 dicembre, in piazza Cavour a Milano, durante una manifestazione filopalestinese è stato scandito il grido «Khaibar, Khaibar, o ebrei, l'armata di Maometto ritornerà!»
MILANO - Disertare le celebrazioni per la giornata della Memoria. È il proposito di Davide Romano, assessore alla Cultura della Comunità ebraica milanese. Alla messa a punto di quel calendario lavora da tempo. Ma mentre si avvicina la data centrale degli appuntamenti, il 27 gennaio, cresce la sua determinazione: «Molti la leggeranno come una provocazione. E vuole esserlo. So anche che il rischio è alimentare le polemiche - dice Romano -. Ma mi dicano che senso ha celebrare una giornata in cui si ricorda il passato se non si guarda al presente» .
L'eco della deriva presa dalla manifestazione pro Palestina, in un sabato di dicembre nel centro di Milano, non s'è spento. Per otto volte in piazza San Babila, il 9 dicembre scorso, venne scandito in arabo il motto dei jihadisti: «Khaybar, Khaybar, o ebrei, l'armata di Maometto ritornerà». Un fatto già condannato dal sindaco Beppe Sala e oggetto di una denuncia. Anche se non scattato nell'immediato - è stato necessario tradurre le urla gridate dalla piazza - l'allarme della Comunità ebraica è stato forte. È stato infatti chiesto che agli organizzatori di quel raduno non siano mai più concessi spazi pubblici. Non bastano condanne verbali degli slogan antisemiti.
«Dopo un attacco del genere, la giornata della Memoria di quest'anno non è più un ricordo come è sempre stato. Ciò che è accaduto getta una luce molto diversa, molto più inquietante. C'è sicuramente anche il pericolo di un neofascismo che ritorna, ma quelle urla jihadiste sono qualcosa di più. Riportano a quanto è accaduto in Francia dove - aggiunge l'esponente della Comunità - già nel 2000 cominciarono le contestazioni violente contro Israele, poi contro gli ebrei. E, poi, sono seguite le stragi di Tolosa, di Parigi, di Nizza. Ormai antisemitismo e antisionismo sono un tutt'uno».
Ci sono state le parole del sindaco. E anche il capogruppo della Lega Nord, Alessandro Morelli, ha raccolto l'appello della Comunità e, il 5 gennaio scorso, ha presentato una mozione urgente di condanna in cui si chiede alla giunta che si impegni «a chiudere ogni tipo di rapporto con associazioni, enti o singoli che abbiano contravvenuto alle leggi nazionali, alle norme e alle delibere locali».
Ma non è abbastanza. Ancora troppo silenzio circonda quella giornata. E una cartina di tornasole utile a comprendere la preoccupazione nella Comunità è la lettera-appello del rabbino capo di Milano, Alfonso Arbib che, al contempo presidente dell'Assemblea dei rabbini d'Italia dal giugno 2016, ha consegnato alle pagine del Corriere della Sera. «Crediamo sia giunto il momento di dare un segnale, soprattutto alle autorità religiose e a chi è impegnato nel dialogo interreligioso, alla vigilia di due giornate importanti, il 17 gennaio Giornata del dialogo ebraico-cristiano e il 27 gennaio, Giorno della Memoria, affinché tali giornate non siano occasione per pronunciare discorsi retorici vuoti di significato», ha scritto rav Arbib. Nel Giorno della Memoria «sentiremo certamente e giustamente parlare dell'indifferenza che ha permesso l'attuazione della Shoà - ha aggiunto -. Oggi dobbiamo dolorosamente constatare che quell'indifferenza continua ancora. Assistiamo sempre più frequentemente a manifestazioni di antisemitismo che non è mai stato del tutto debellato e che, come un virus, si è mutato in quelle subdole forme di antisionismo che non sembrano provocare le reazioni di indignazione e di scandalo che dovrebbero suscitare».
Davide Romano riparte da qui: «La storia insegna che gli ebrei non sono mai gli unici, sono solo i primi. E noi registriamo che è la prima volta che si passa dall'odio antisionista ad evocare in una piazza pubblica senza vergogna l'odio per gli ebrei. Vedo quello che accade in Francia, le similitudini stanno diventando troppe, la Comunità sa cosa sta accadendo e non vogliamo che succeda qui. Il mio è un grido di allarme per risvegliare le coscienze».
(Corriere della Sera - Milano, 11 gennaio 2018)
Molti adesso cominciano lentamente ad accorgersi che lantisemitismo di oggi ha assunto la forma subdola di un antisionismo giustificato da motivi politici. E un po più difficile accorgersi che in molti casi lantisemtismo ha assunto la forma ancora più subdola di un propalestinismo giustificato da motivi umanitari. M.C.
Leonardo guarda a Israele « Un partner d'eccellenza»
L'A.D.
A.D. qui non significa Anno Domini, ma Amministratore Delegato, corrispondente italiano dell'inglese-americano CEO (Chief Executive Office), senza neanche i puntini. Fra poco il linguaggio delle sigle diventerà per i più un linguaggio cifrato.
Profumo: Israele per noi gioca un ruolo chiave
di Massimo Lomonaco
TEL AVIV - «Israele per noi è un partner di eccellenza: il Paese, le sue forze armate e le imprese giocano un ruolo chiave per Leonardo in molte aree differenti». Alessandro Profumo, amministratore delegato dell'azienda italiana di aerospazio, difesa e sicurezza, spiega il suo viaggio in Israele dove sta incontrando i responsabili della difesa israeliana e delle grandi società di settore. «Loro, da quel che ci dicono, sono un client partner molto soddisfatto e quindi per Leonardo tutto questo è molto importante», spiega l'A.D.
«Anche perché - sottolinea ancora Profumo - come azienda stiamo partecipando alla gara per il sistema di formazione dei piloti Usa, il cosiddetto T-X, e chiaramente avere un partner come le forze aree israeliane molto soddisfatte è un bel biglietto da visita». Il sistema T-X è quello con cui il Pentagono vuole sostituire lo storico aereo da training T-38 Talon con un biposto più moderno e tecnologico. Nella stretta collaborazione con l'aviazione militare israeliana, Profumo ricorda «il sistema di training dei piloti, per il quale i nostri aerei M-346 rappresentano un buon metodo di addestramento. Ma anche Leonardo impara moltissimo lavorando insieme a loro». Lo IAI (lsrael Aerospace Industries), il ministero della difesa e le aziende Rafael ed Elbit Systems, rappresentano, a giudizio di Profumo, il vertice della collaborazione con Leonardo: «I sistemi di addestramento M-346 sono una parte ma non solo, visto che lavoriamo sui sistema di difesa Oto Melara, sugli elicotteri e su molte altre aree».
In particolare con Rafael - continua l'A.D - siamo al lavoro con la nostra società Usa, Leonardo Drs», azienda considerata leader nella fornitura di prodotti, servizi e supporto logistico integrati per le Forze Armate, le agenzie d'intelligence e i prime contractor nel settore della Difesa a livello mondiale. «Visto i rapporti che abbiamo - insiste Profumo - mi sembra giusto che l'A.D di Leonardo abbia continui contatti. Quando sono entrato in azienda nel maggio scorso, subito dopo c'è stato Le Bourget ed ho incontrato molte delle persone che ho rivisto qui. A tutti loro ho promesso che sarei venuto in Israele ed è una delle prime visite che faccio». Se Profumo non dà dati sui numeri dello scambio economico con lo stato ebraico, ricorda tuttavia «che in Israele hanno 30 M-346 ed è la singola flotta più grande che abbiamo, maggiore anche di quella italiana».
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 11 gennaio 2018)
Leggere Freud a Mea Shearim
di Gabriele Cavaglion
Lentamente, il mondo ultra ortodosso, Haredi, si trasforma e si evolve nella società israeliana. Con ultra ortodosso faccio riferimento alla comunità Hassidica o agli oppositori di scuole talmudiche Lituane (Mitnagdim, Litaim), nonché a vari gruppi ortodossi sefarditi. A mio avviso il termine ultra è inappropriato poiché gli ultra ortodossi non sono necessariamente più osservanti degli ortodossi moderni. La differenza tra i due gruppi si accentuò con la nascita dello Stato di Israele, che portò a una frattura tra gruppi ortodossi moderni e sionisti più aperti al mondo circostante e gruppi chiusi in enclavi territoriali, come ad esempio Benè Berak o Me'a Shearim a nord di Gerusalemme, e più ostili alla modernizzazione della società che li circonda. La loro kippà, il cappello nero, e il loro modo di vestire, camicia bianca e veste nera, costituiscono un primo elemento di distinzione, che appare a molti come arcaico. Inoltre, esiste un grande divario nel loro sistema educativo, che mette in primo piano lo studio religioso e la loro attitudine in genere negativa verso le istituzioni dello Stato Laico. Non sono mai mancati scontri fra il mondo laico e il mondo Haredi, ultimo in ordine cronologico quello riguardante il servizio di leva obbligatorio, e i pessimisti vedono oggi due mondi che si allontanano sempre di più. Da qui l'espressione scontro di culture.
Negli ultimi due decenni, per svariati motivi economici, parte del mondo Haredi si è avvicinato con molta cautela ad alcune attività del mondo laico, fino ad allora viste come una minaccia per la pura osservanza e l'integrità di una comunità rigida, guardinga e appartata. Secondo varie ricerche il 30% dei poveri del paese è costituito da questa popolazione. Tra le ragioni di questo dato vi è il fatto che considerino come proprio fulcro lo studio religioso, biblico e talmudico, dall'asilo nido (heder) al seminario per adulti sposati (kolel), respingendo di solito tutto quello che riguarda lo studio laico, come la matematica o l'inglese. Questi ultimi sono studi cardinali (limude' libba') nel curriculum scolastico statale, che li avrebbero preparati a sbocchi professionali diversi da quelli pertinenti al loro mondo (maestri, rabbini, circoncisori, cantori, scrivani ecc.).
Da un profondo disagio di natura economica che vede la luce nei primi novanta, nasce la ricerca di nuovi sbocchi occupazionali sia per le donne (non solo maestre) che per gli uomini, che cercano alternative lavorative da affiancare allo studio religioso. Nel 2015 si contano 12 mila studenti Heredim, con affluenza maggiore nei collegi accademici (80%) rispetto alle università. Il 60% è composto da donne. Nello stesso anno l'80% degli Haredim laureati ha ottenuto una posizione lavorativa adeguata al proprio titolo, rispetto al 90% dei laici. Tuttavia, soltanto il 50% dei non laureati trova un'occupazione, in confronto all'85% dei laici non laureati.
Vorrei parlare della mia esperienza di professore ordinario coinvolto da dieci anni nell'accademizzazione di parte di questa popolazione, che per ovvi motivi ha visto nella laurea in Assistenza Sociale uno sbocco adeguato al proprio credo e stile di vita, grazie anche a una maggiore consapevolezza del fatto che i disagi sociali presenti anche nel loro mondo non possano più essere taciuti o risolti solamente tramite le regole ebraiche e le disposizioni rabbiniche.
Quando mi venne proposto un incarico di docente per questi studenti e studentesse presi la palla al balzo, vedendoci un'occasione per uscire dalla torre d'avorio accademica e contribuire nel mio piccolo a un avvicinamento fra culture e stili di vita distanti. Anche se avevo molti timori, sentivo che potevo essere parte di una missione più ampia, quella di avvicinare realtà diverse, aiutare ceti poveri a inserirsi nel mondo lavorativo incrementando la produttività di tutto il paese e offrendo servizi basilari ai bisogni della loro comunità, che non è esente da episodi di violenza domestica, difficoltà educative di natura psicologica, disagi giovanili e crimini di vario tipo. Allo stesso tempo volevo creare un dialogo pacifico, che mi ha portato a scoprire che universi morali apparentemente contrastanti sono molto più vicini di quanto gli stereotipi politici o mediatici vogliano farci credere parlando di divario culturale incolmabile.
Vorrei presentare alcune considerazioni maturate nel corso della mia esperienza di insegnamento di base (che include ad esempio corsi introduttivi alla psicologia, alla psicopatologia e alla devianza sociale) in classi di uomini e di donne (naturalmente separate).
La cosa che mi imbarazzò fin dall'inizio era il fatto che tutti gli studenti si rivolgevano a me in terza persona, usanza quasi inesistente nell'ebraico colloquiale e moderno, aggiungendo al mio cognome svariati titoli: Dottore, Professore e Suo Onore. Ancora oggi il mio tentativo di abituarli all'uso del mio nome proprio come consuetudine informale e amichevole presente anche nel mondo accademico ha raggiunto risultati parziali. Si tratterà forse di timore reverenziale. Anche durante le lezioni in classe un meccanismo interiore impedisce agli studenti ogni tentativo di discutere o confutare i miei argomenti. Con il tempo mi fu chiaro che per loro il solo porre domande rendesse sia lo studente ignorante agli occhi dei suoi compagni, in quanto non avrebbe capito come dovuto (in ebraico Boshet Panim), sia l'insegnante, in quanto non si sarebbe spiegato bene (in ebraico Halbanat Panim). Il diluvio di domande perviene poi per email, ovvero in privato, o dopo la lezione, quando specialmente gli studenti maschi osano confidarsi anche su problemi personali che non si sarebbero permessi di sollevare nemmeno nel loro ambito famigliare.
Per un certo periodo avemmo come responsabile della coordinazione di un programma accademico a Gerusalemme una dottoressa. Una sua visita come ispettrice nella mia classe lasciò gli studenti a mezz'aria. Da un lato era entrata un'autorità a me superiore, ma dall'altro si trattava di una donna. Intendo mezz'aria nel vero senso della parola in quanto gli studenti automaticamente si alzarono sull'attenti, come d'uso di fronte a un'autorità rabbinica, ma si fermarono a metà del movimento, piegati in avanti e appoggiati al banco. Va detto che per gli uomini gli insegnanti devono essere solo maschi, mentre per le donne i maschi sono accettabili preferibilmente se adulti e sposati. Tale atteggiamento, visto come sessismo, ha generato una forma di boicottaggio da parte dello staff delle università di spicco del paese, che sostiene che le donne vengano viste come inferiori anche nell'ambito dello studio accademico. Sono completamente contrario a tale opinione, che denota totale insensibilità nei confronti di una cultura diversa e incapacità di comprendere che lo status della donna nel mondo ortodosso in generale non è inferiore ma diverso. Il boicottaggio non serve. Se si vuole creare un cambiamento tale da portare le donne a insegnare a studenti uomini bisogna agire gradualmente e dall'interno.
Il loro interesse per il mio titolo accademico e la carriera che ne deriva ritorna frequente durante tutti gli anni di studio. Chi vale di più, come si riceve una promozione, ma anche quale sbocco e quale titolo potrà migliorare il loro status nell'ambito della loro comunità? Molta è la curiosità su chi sia io, di che etnia, dove abiti e cosa pensi del loro mondo. Rispondo che sono italiano d'origine provenzale, cosa che li lascia spiazzati. Nella ricorrenza della dipartita dei miei Genitori z.l. viene fatto in classe un piccolo studio sulle mie origini e con gioia gli studenti aggiungono uno studio Misnaico che mi permette di dire in loro presenza il Kaddish.
Se con lo studente laico, anche nel corso di studi avanzati come il master, si assiste a un continuo mercanteggiare sulla quantità di testi da leggere, e il compromesso viene alla fine raggiunto con un accordo a loro vantaggio, con gli Haredim tale questione si pone in misura inferiore. Il libro in sé è un oggetto che attrae e la lunga concentrazione nella lettura rimane sempre attraente e piacevole. La loro capacità di studiare per ore e ore nelle scuole Talmudiche torna a loro vantaggio. È interessante notare che lo stesso metodo di memorizzazione della Gemara (Talmud) viene applicato allo studio del libro di testo. Durante gli esami gli studenti possono chiedere in che capitolo si tratti di tale argomento, in che paragrafo, in che pagina e alcuni anche se in alto o in basso. La memoria visiva è uno strumento utile per lo studio dei Testi Sacri e viene semplicemente trasferita in questa nuova sfera.
L'interesse per i libri deriva anche da una grande sete di sapere e di ampliare i loro orizzonti, limitati fino a poco tempo fa. Nei primi anni i libri di studio accademico non venivano portati a casa per non imbarazzare la famiglia. Armadietti con lucchetti venivano forniti appositamente dalla segreteria. Oggi sembra che ci sia un movimento più fluido, dato che alcuni studenti acquistano libri scientifici di propria iniziativa.
Alcuni studenti si consultano con alte autorità rabbiniche prima di intraprendere studi accademici. Di solito la loro risposta non sarà mai esplicita o scritta ma rimarrà sul vago con frasi come una persona deve ben mangiare, l'Assistenza Sociale non è diversa dalla confraternita di carità (Gmilut Hassadim), o anche non tutti devono studiare Talmud per tutta la vita. Da qui il giovane capirà il messaggio velato.
Con gli anni vedo meno diffidenza riguardo alcuni argomenti da loro considerati scottanti. Il tabù di Freud, in particolare l'eroticizzazione nello sviluppo del bambino, non viene affatto sorvolato, malgrado numerosi avvertimenti da parte dei miei colleghi. Con molta cautela tocco il tema alla fine del capitolo su Freud,quando gli studenti scoprono Il fatto che Freud fosse ebreo e avesse sposato una donna ebrea. Questa consapevolezza crea un certo sollievo, anche se mi viene domandato spesso che ne è stato dei nipoti?
Inoltre, argomenti come l'inconscio e i meccanismi di difesa non sono del tutto lontani da alcune fonti dei Maestri. Per esempio, parlando di regressione si può notare come le regole del lutto ebraico favoriscano questo sano meccanismo di difesa. Il detto di Hillel riportato nel Talmud Babilonese di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, ci porta alla discussione su che cosa sia l'empatia terapeutica e sul meccanismo di proiezione. Il tema dell'erotismo, per loro scottante, posto alla fine del percorso di studi e visto anche in una prospettiva critica, permette agli studenti un apprendimento meno sulle difensive. Quello che li imbarazza maggiormente è il fatto che la coscienza morale, ovvero il super ego, sia per Freud qualcosa di acquisito negli anni del dramma edipico e non sia innata.
Lo stesso vale per il Darwinismo. Solo menzionandolo vedo negli studenti tensione e apprensione. Una barzelletta li tranquillizza, quella delle scimmie che loro stesse non sono d'accordo con la parentela con l'Homo Sapiens, in quanto quest'ultimo ha commesso i più gravi crimini contro la sua specie e la natura stessa. Detto questo ribadisco che ci sono tanti punti di vista, e conoscere la teoria Darwinista non richiede di essere per forza d'accordo con questa.
Nello studio dell'etica professionale non posso sorvolare su Ippocrate e rammentare che era greco e pagano (Che il Signore ci protegga, sento dalle quinte). Ma quando apprendono che la sua prima regola è non fare del male (primum non nocere) scoprono che esiste un parallelo con le Fonti che ribadiscono il non fare del male come Mitzvah precedente al fare del bene. Apprendono così che mondi morali e spirituali si sono creati anche al di fuori delle loro tradizioni.
Più volte mi chiedono cosa debba fare uno studente davanti a così tanti modelli e teorie psicologiche e rimangono stupiti quando ripeto che non devono applicarli immediatamente alla lettera (secondo il detto Naasè veNishmà). Possono ponderare col tempo quanto più si adegui alla loro attitudine. Questa libertà di scelta, che rende la terapia arte e non tecnica, si contrappone al consulto del rabbino (Sheelat Rav) che da autorità indiscussa presenta una visione più binaria e richiede una obbediente attuazione delle prescrizioni. Se Freud viene abbandonato in massa e messo nel dimenticatoio, notevole interesse viene dimostrato invece per Victor Frenkel e C. Gustav Jung, e correnti umaniste o esistenzialiste, gli studenti scorgono nelle loro teorie una spiritualità e un simbolismo a loro vicini. E se lo studio delle droghe illegali li lascia indifferenti, le orecchie si rizzano quando inizio a parlare di stati di coscienza indotti da allucinogeni, che portano alcune persone a una visione della realtà metafisica.
La loro attitudine verso il mondo digitale, mediatico, è svariata. C'è lo studente che vedendomi impacciato con l'uso del computer e del proiettore mi aiuta superando in pochi secondi e con maestria alcuni filtri imposti dall'istituto per non incappare in siti indecenti. Lo studente in questione diventa per la classe quasi un eroe e ogni suo successo viene seguito da un applauso gioioso. Ho anche avuto uno studente che a sorpresa mi ha chiesto con totale ingenuità cosa sia la pornografia. Mi sono districato dicendo che è una fruizione visiva di temi riguardanti rapporti carnali e abominevoli al di fuori del mondo coniugale a loro noto. Salvataggio in corner di sicuro, e un bicchiere d'acqua a Suo Onore Impallidito.
I risultati degli esami di studenti e studentesse sono simili, anche se la presenza e il coinvolgimento delle seconde lascia molto a desiderare. Sono più giovani dei maschi e prive di esperienza di vita. Sembra che non studino per vero interesse ma per ottenere una professione redditizia che permetta ai mariti maggiore tempo per lo studio religioso. La loro prima domanda riguarda quante assenze sia disposto a permettere loro durante un corso. Dietro la domanda si cela la priorità indiscutibile di esser per prima cosa mogli e mamme. Le loro lezioni sono un continuo andirivieni per telefonare a casa, per allattare il bambino o, se più giovani (intendo 18 anni), per rispondere subito a un messaggio riguardante eventuali canditati al matrimonio. Entrando in classe devo farmi largo fra un mucchio di carrozzine e scoprire che abbiamo sempre nuovi ospiti in classe. Il patteggiamento fra noi riguarda anche il livello di decibel permesso durante la lezione, se basso significa che il neonato è d'accordo con il tema di studio, se alto significa che la madre deve uscire rapidamente dalla classe. Nel caso delle studentesse non vengo mai seguito dopo le lezioni e pochi messaggi mi vengono inviati su posta privata. Penso che per molte donne tale interazione possa essere vista come eccesso di confidenza con un estraneo e mancanza di modestia da parte loro.
Fra i miei studenti, assieme ai Sefarditi e ai Lituani, ci sono Hasidim di varie corti: i Gur, Belz, Visznitz, Breslav, Chabad, e anche corti minori come i Biale, i Karlin e i Kotsk. La macchia d'olio sembra allargarsi col tempo e tutti traggono solo frutti positivi. Due miei ex studenti sono oggi impegnati nel dottorato di ricerca all'Università Ebraica.
(Kolòt, 11 gennaio 2018)
Ghirba, il tempio simbolo delle donne
di Rolla Scolari
L'Interno della sinagoga di Djerba, dedicata a una donna, Ghirba
La leggenda racconta che una donna arrivò a Djerba oltre duemila anni fa. Era solitaria e viveva in una capanna. Curava tutti quelli che toccava. Poi un giorno la sua capanna prese fuoco. La donna morì, ma il suo corpo rimase intatto nonostante l'incendio. Gli ebrei di Djerba decisero allora di costruire proprio lì la loro sinagoga, e la dedicarono alla donna, il cui nome era Ghirba. Nasce al femminile dunque la storia di quella che è considerata la più antica sinagoga d'Africa colpita martedì sera, mentre in molte aree del Paese si protestava contro l'austerity, da una bomba incendiaria.
Mosaici turchesi e alte colonne all'interno di un edificio bianco come tutti quelli della bella isola delle vacanze tunisine, sulla strada del confine libico, decorano l'antica sinagoga, che è stata rinnovata e ricostruita nel XIX secolo, benché la prima pietra sia stata posata secondo la tradizione attorno al 500 a.e. Secondo alcuni, una porta e una pietra del Primo Tempio di Gerusalemme distrutto da Nabucodonosor nel 586 a.e. furono portati da un gruppo di ebrei in fuga fino a qui, e servirono per la costruzione di el-Ghirba. E oggi, la Tunisia, dove pochi mesi fa la censura di Stato ha vietato la proiezione della pellicola «Wonder Woman» perché l'attrice principale Gal Gadot è israeliana, chiede l'inserimento dell'isola di Djerba e della sua eredità ebraica nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'Unesco.
La sinagoga di el-Ghirba è stata per secoli il cuore pulsante di una tra le più fiorenti e attive comunità ebraiche del mondo arabo. Fino al 1967 gli ebrei di Djerba erano circa 110 mila. Oggi sono meno di 1500 in tutta la Tunisia e la maggior parte di loro vive nei villaggi di Djerba, e spesso, lamentano, manca persino il numero di fedeli richiesto per la preghiera. Tutto cambia però durante Lag b'Omer, festività che segue di 34 giorni l'inizio della Pasqua ebraica, quando migliaia di pellegrini, la maggior parte in arrivo da Israele, si ritrovano a pregare alla sinagoga di el-Ghirba. Una volta, prima del 2002, erano molti di più, oltre 8000. Poi un attentato di al-Qaeda all'entrata del tempio fece 20 morti. Da allora, la sinagoga è protetta da blocchi di cemento e da soldati armati di mitra, e l'intero villaggio di Hara Seghira, dove sorge il tempio, è puntellato di posti di blocco.
(La Stampa, 11 gennaio 2018)
Netanyahu: la nostra intelligence previene la creazione di una roccaforte dell'Isis in Sinai
L'intelligence israeliana sta contribuendo ad evitare che lo Stato islamico crei una nuova roccaforte in Egitto. Lo ha dichiarato oggi il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, durante un incontro con alcuni degli ambasciatori della Nato avvenuto oggi a Gerusalemme. "Lo Stato islamico è stato sconfitto in Iraq e Siria, ma sta cercando di creare una base territoriale alternativa in Sinai", ha affermato il capo dell'esecutivo di Gerusalemme, spiegando che Israele "sta contribuendo a prevenire ciò in molteplici modi". Il premier israeliano ha aggiunto che il paese "è la force regionale più forte in Medio oriente che combatte il l'islam radicale". Inoltre, ha spiegato Netanyahu, Israele sta aiutando la Nato combattendo l'Iran impedendogli di acquisire armi nucleari ed è "assolutamente impegnato ad evitare che stabilisca una base militare in Siria". Il premier israeliano ha chiarito che "se Teheran riuscisse nel suo intento ci sarebbe uno scontro tra forze sunnite e sciite in Siria, facendo arrivare milioni di rifugiati sulle coste europee".
(Agenzia Nova, 10 gennaio 2018)
UNRWA: scoppia la polemica sui numeri reali dei rifugiati palestinesi
Ron Prosor, ex ambasciatore israeliano all'ONU, è pronto a denunciare l'agenzia per i rifugiati palestinesi per frode
di Silvia Bublil Dadusc
Ron Prosor, ex ambasciatore d'Israele all'ONU, intende citare a giudizio internazionale l'agenzia UNRWA per frode. Prosor, è oggi a capo del Dipartimento di Scienze Politiche e Rapporti Internazionali "Aba Eban" al Interdiciplinary Center di Hertzelya, un nuovo ruolo che gli consente di fare ricerche approfondite anche in ambito diplomatico, ha scoperto che l'Istituto Centrale di Statistica del Libano ha pubblicato dei dati decisamente interessanti che riguardano la UNRWA (Agenzia per i rifugiati palestinesi) e i numeri riguardanti i propri assistiti che vengono forniti (ricordiamo che nel 1950 si contavano 750,000 rifugiati palestinesi, che oggi sarebbero diventati 5,200,000!!!).
Solo nel Libano, la UNRWA dichiara la presenza di 465,000 rifugiati, ma l'istituto centrale di statistica del paese dei cedri dopo aver effettuato un approfondito censimento, ne ha contati 175,000 presenti in Libano. Oltre 280,000 si sono volatilizzati. Eppure, i sussidi per loro, continuano ad entrare nelle tasche dell'organizzazione. Stessi numeri gonfiati anche in Giordania, nella cosiddetta Cisgiordania e negli altri paesi arabi con presenza di "profughi" palestinesi.
La UNRWA, praticamente rende eterno lo status di rifugiato. Così, ai 750,000 iniziali, si sono aggiunti i figli, i nipoti, i bisnipoti e così via fino ad arrivare al numero improbabile di oltre 5 milioni. Cosa si cela dietro questa assurdità? La politica dei soldi. La UNRWA assume 30,000 persone a suo servizio, mentre l'Alto Commissariato ONU, l'UNHCR che si occupa di circa 68 milioni di rifugiati di tutto il mondo, ha come dipendenti solamente 10,000 persone.
Inoltre, la UNRWA riceve 246$ per ogni profugo, a differenza del UNHRC che ne riceve solo 58$.
In sostanza, l'organizzazione per i rifugiati palestinesi, ha tutto l'interesse non solo a falsare i numeri, ma anche a far vivere i propri "assistiti" in condizioni precarie nei campi profughi. Quindi, oltre a speculare sui numeri, l'agenzia non adempie al suo compito di aiutarli a lasciare i campi e rifarsi una vita da cittadini autonomi con un lavoro e una casa.
L'ex rappresentante israeliano in sede ONU ha poi rivelato di aver intenzione di coinvolgere anche l'attuale ambasciatrice USA presso l'ONU Nikky Haley nel suo progetto di citare a giudizio la UNRWA, e di chiedere di unire i rifugiati palestinesi a quelli di tutto il mondo, sotto la tutela di un'unica agenzia, la UNHCR.
(Progetto Dreyfus, 10 gennaio 2018)
Gabriel Groisman, il sindaco eroe che ha sconfitto il Bds
di Rebecca Mieli
Gabriel Groisman, sindaco di Bal Harbour
Gabriel Groisman è il sindaco di Bal Harbour, città della Florida. E' un fervente attivista contro l'antisemitismo ed è un avvocato esperto di anticorruzione e antiriciclaggio. Il suo impegno ha condotto la sua città ad essere la prima al mondo ad approvare un'ordinanza contro il movimento BDS.
Il 14 dicembre 2017, con l'"Antisemitism Definition Act", Bal Harbour è diventata la prima città degli Usa a codificare una definizione uniforme di antisemitismo. È un passo molto importante nella lotta contro la discriminazione e l'odio contro gli ebrei. La legge è stata approvata all'unanimità. L'Antisemitism Definition Act consente alle forze dell'ordine di considerare l'antisemitismo come un vero e proprio reato penale, punibile per garantire la sicurezza e il benessere della comunità ebraica locale. I dipartimenti di sicurezza e polizia della città possono prendere in considerazione questa definizione quando indagano sui reati, in linea con gli statuti sui reati di odio federali e statali. E' stato il secondo momento "storico" che riguarda l'impegno di Groisman nella lotta contro l'antisemitismo negli Stati Uniti d'America.
- Potrebbe spiegarmi come è nata l'idea di questa nuova legge, come è stata inizialmente pensata e come l'avete sviluppata Lei e il Suo staff?
Un atto di antisemitismo avvenuto a Miami mesi fa mi ha aperto gli occhi sulla difficoltà delle forze dell'ordine americane nell'identificare ed intervenire contro questo tipo di reato d'odio. I poliziotti intervenuti non avevano idea di cosa fosse il BDS, del boicottaggio contro Israele, né dei reati di antisemitismo che coinvolgono le attività lavorative e le connessioni con Israele. Ma come possono le forze dell'ordine intervenire senza delle definizioni precise di questo reato d'odio? Dunque ho compreso che avremmo dovuto definire il reato di antisemitismo e fornire alla polizia uno strumento esecutivo per combatterlo in maniera diretta. Nel 2016 il governo federale ha provato a far passare una legge simile, che definisse il reato di antisemitismo, senza successo, così come è successo in South Carolina. Io ho semplicemente osservato il testo della legge statale che non è stata approvata in Carolina e l'ho convertita in una buona ordinanza cittadina.
- Qual è la situazione dell'antisemitismo e dell'odio razziale contro gli ebrei in Florida e negli Stati Uniti? Possiamo confrontarla con quella europea?
L'antisemitismo è aumentato notevolmente negli Stati Uniti negli ultimi 6, 7 anni. Negli ultimi due anni gli attacchi su base antisemita sono aumentati del 67% negli Stati Uniti.
Più del 50% dei crimini di odio razziale del Paese vengono perpetrati contro gli ebrei e la situazione peggiora di giorno in giorno. Nonostante io creda che gli Stati Uniti siano ancora un luogo sicuro per gli ebrei, la temperatura non è mai stata così alta. Per quanto riguarda l'Europa, noto che le maggiori capitali europee sono afflitte da un tasso di antisemitismo senza precedenti, per adesso considero la situazione degli Stati Uniti meno preoccupante di quella europea.
- Il Suo impegno per contrastare il BDS è famoso in tutti gli Stati Uniti, ma non così tanto in Europa, dato che il boicottaggio sembra non essere condannato dall'Unione Europea. Nel 2015 Bal Harbour è diventata la prima città degli Usa a far passare un'ordinanza contro il BDS. Questa ordinanza proibisce al comune di approvare qualsiasi attività commerciale a meno che il contratto non includa una dichiarazione nella quale si afferma che le aziende coinvolte non sono attualmente, e non lo saranno in futuro, impegnate nel boicottaggio di un'entità con sede o legata a un Paese con il quale gli Stati Uniti hanno accordi di libero scambio. In breve, coloro che vogliono commerciare con il comune di Bal Harbour devono necessariamente dissociarsi dal BDS. Perché è stata necessaria una legge del genere nella Sua città?
Quando la United Church Of Christ, la più importante chiesa protestante statunitense con più di 900.000 membri in 5.032 congreghe, ha iniziato ad appoggiare il BDS disinvestendo nelle aziende israeliane o affiliate a Israele, ed ho appreso che la sede di questa chiesa nella città di Bal Harbour non si era opposta a questa decisione, ho pensato fosse un'opportunità per combattere la diffusione del BDS. Bal Harbour è nata, dopotutto, nel 1947, e la chiesa è stata costruita prima delle stesse abitazioni, come centro della comunità cittadina nella quale è cresciuta anche una importante e numerosa comunità ebraica. Non potevamo stare a guardare.
- Dunque Come è finita con la chiesa?
La chiesa qualche mese dopo l'approvazione aveva intenzione di espandersi e per farlo avrebbe dovuto firmare un accordo con la città. Ovviamente, appoggiando il BDS, il contratto non sarebbe mai stato valido. A quel punto ho deciso di incontrarli e di dialogare, di spiegargli quanto è dannoso il movimento BDS e, alla fine, abbiamo scritto una lettera tutti insieme, firmata anche dal pastore, in cui hanno rifiutato il boicottaggio di Israele e nel quale hanno voluto ritirare gli investimenti in tal senso. Una volta presa questa decisione abbiamo ripreso in mano il contratto, anche se poi hanno deciso di spostarsi in un'altra città della Florida. Anche in quella città, però, abbiamo portato l'ordinanza contro il BDS. Infine abbiamo contribuito a creare un forum di discussione nella United Church Of Christ, ed era quello che volevamo ottenere.
- Come si applica questa legge in Florida?
La legge è passata nella città di Bal Harbour per prima e ovviamente riguardava solamente i contratti che avessero coinvolto il municipio e l'istituzione cittadina. Adesso ci sono 24 stati negli USA che l'hanno applicata, e più di 50 città. E per quanto riguarda la Florida, il problema non si pone perché è stata approvata anche a livello statale. Il problema della legge statale in Florida è che si applica solo ai contratti che superano il milione di dollari, stiamo lavorando affinché si possa espandere anche ad accordi meno imponenti.
- Crede che il BDS si limiti all'attivismo o che stia conducendo a qualcosa di più pericoloso? Ad esempio, crede che i membri del BDS sostengano il terrorismo e la violenza contro Israele e contro gli ebrei americani?
Io non do molto credito agli attivisti BDS. Credo che siano poco organizzati. I maggiori finanziatori e i creatori del movimento, invece, sono pericolosi antisemiti e quello che dobbiamo combattere è la loro infiltrazione nei gruppi sociali americani, come chiese, università e società private, poiché riescono a manipolare le menti spingendo la gente a credere alle loro bugie.
- Sfortunatamente, l'antisemitismo è un fenomeno in crescita nei campus e nei college americani. Cosa pensa di questo fenomeno? Come può essere combattuto?
Credo che questa sia la parte peggiore e più pericolosa del BDS perché tra dieci/quindici anni gli Stati Uniti potrebbero essere pieni di professionisti, medici, avvocati, businessman e politici che hanno subito propaganda anti israeliana negli anni più importanti della loro formazione. Non dobbiamo ignorare questo fenomeno, bensì dare l'opportunità agli studenti americani di capire la verità. Il più grande problema delle comunità ebraiche oggi non è chi le attacca ma la loro stessa apatia, che li frena nella lotta contro questi fenomeni.
- L'Unione Europea non considera illegale il BDS. Quali misure potrebbe adottare l'Europa per combattere l'antisemitismo?
L'Europa dovrebbe guardare alla propria storia. Dovrebbero smetterla di occuparsi di antisemitismo solo quando è troppo tardi e avere un approccio proattivo.
- Crede che la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele fosse la cosa giusta da fare? Quali effetti crede che avrà sulle comunità ebraiche nel mondo?
E' assolutamente la cosa giusta da fare, l'avremmo dovuto fare già dal 1967. Per quanto riguarda gli effetti, credo che tutti gli ebrei statunitensi siano in qualche modo riconoscenti, anche coloro che non appoggiano direttamente il presidente hanno comunque sostenuto questa decisione. E' un onore per la comunità ebraica americana e per tutte le comunità ebraiche nel mondo.
- Ultima domanda. Ci siamo incontrati per la prima volta durante il ciclo di conferenze tenute da ISGAP (Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy) a Roma. Durante le conferenze è emersa l'importanza di un'organizzazione come ISGAP, in quanto permette ad esperti coinvolti nella lotta contro l'antisemitismo moderno provenienti da tutto il mondo di incontrarsi e condividere il loro know how. Crede che l'unione di esperti, attivisti, politici, accademici e giornalisti attraverso l'impegno di ISGAP possa aiutare nella lotta contro il BDS? Credo che la lotta contro il BDS inizi proprio da qua. Dobbiamo unire le nostre forze, parlare di antisemitismo, confrontarci e portare la tematica ai piani istituzionali. La storia ci insegna che le minacce ignorate peggiorano soltanto. Dopotutto la frase "never again" (mai più ) non deve essere una mera speranza, ma una vera e propria strategia.
(L'informale, 5 gennaio 2018)
Decine di droni attaccano una base russa in Siria
Abbattuti tredici velivoli
di Giordano Stabile
Uno dei droni che ha colpito la base russa di Hmeimim
Uno squadrone di droni, «altamente sofisticati» a dire di Mosca, ha attaccato la più munita base russa in Medio Oriente, quella di Hmeimim in Siria, vicino a Latakia. Nella notte fra il 5 e il 6 gennaio decine di piccoli velivoli senza pilota hanno cercato di forzare le difese e colpire gli aerei parcheggiati sulla pista e 13, sempre secondo il ministero della Difesa russo, sono stati abbattuti. Non sono filtrate notizie su danni o feriti ma i dettagli forniti inquadrano meglio anche un altro attacco, del 31 dicembre, quando due militari sono rimasti uccisi e almeno un cacciabombardiere è stato danneggiato in modo serio.
Allora si era parlato di attacco «a colpi di mortaio» ma la tesi non aveva convinto gli analisti militari occidentali, perché le linee del fronte con i ribelli sono troppo distanti. Fonti siriane hanno poi virato su un attacco «con razzi e missili». La verità potrebbe essere un'altra e preoccupa Mosca, che ha alzato i toni con Washington. I gruppi ribelli che operano nella provincia di ldlib hanno sviluppato un nuovo tipo di droni artigianali, in grado di colpire a decine di chilometri di distanza.
L'Isis ha fatto uso di quadrielica elettrici, sia a Mosul che a Raqqa, ma con un raggio di azione limitato. Arrivare sopra una base che dispone delle migliori difese anti-aeree russe, è un'impresa di altra portata. Il ministero della Difesa ha puntato il dito contro un velivolo da ricognizione Poseidon americano, in volo in quelle ore davanti alla costa siriana. Per i russi gli Usa sarebbero coinvolti nell'attacco, in quanto i droni ribelli erano forniti di «sistemi satellitari di navigazione, sensori della pressione atmosferica, controllo remoto di sganciamento di congegni esplosivi», secondo il presidente della Commissione Difesa del Senato, Viktor Bondarev.
Il doppio attacco alla sua base strategica è comunque uno smacco per Mosca. Che si abbina a un nuovo, triplice, raid israeliano su un deposito di armi, forse missili Scud, di Hezbollah in Siria, colpito ieri prima dell'alba vicino a Damasco, nella base militare di Al-Qutayfah. I missili sarebbero stati lanciati da cacciabombardieri dallo spazio aereo libanese, secondo il governo siriano, e forse anche da basi a terra. Alcuni «sono stati intercettati» e anche un jet dello Stato ebraico sarebbe stato «colpito», particolare che però non trova conferma.
(La Stampa, 10 gennaio 2018)
Netanyahu: non permetterò l'arrivo di armi a Hezbollah
Raid israeliano in Siria. Damasco: abbattuto jet. Il premier minaccia l'Iran e rivela: la nostra intelligence è stata «decisiva nell'impedire attacchi terroristici in Europa»
di Luca Geronico
«La nostra politica, da anni, è di impedire il trasferimento agli Hezbollah in Siria di armi che rompono gli equilibri». Il monito di Benjamin Netanyahu, in un incontro con gli ambasciatori della Nato, non poteva essere più esplicito e chiaro. Nessuno lo nomina, ma le dichiarazioni del premier israeliano sembrano una evidente risposta alle accuse di Damasco di aver compiuto nella notte tre raid su una base militare alle porte della capitale siriana.
Da Netanyahu nessuna confermato dell'attacco, ma una ulteriore precisazione: «Questa politica non è cambiata e noi la mettiamo in atto secondo le necessità operative». Il premier israeliano ha poi ammonito che non «permetterà all'Iran di trasformare la Siria in una base militare». Sempre incontrando gli ambasciatori, Netanyahu ha pure affermato che Israele ha impedito attacchi terroristici in Europa, sventando in particolare alcuni che avrebbero potuto coinvolgere aviazione civile. «Attraverso i nostri servizi di intelligence - ha spiegato il premier - abbiamo fornito informazioni che hanno fermato alcune dozzine di grandi attacchi terroristici, molti in Paesi europei. Alcuni del tipo peggiore, mai sperimentati sul suolo Ue. E ancora peggio, perché coinvolgevano l'aviazione civile. Israele li ha impediti ed ha aiutato a salvare molte vite europee». Le importanti dichiarazioni di Netanyahu sono giunte dopo che di primo mattino la Siria aveva denunciato una incursione aerea di Israele durante la notte: il bersaglio, in base a un comunicato diffuso dall'agenzia ufficiale Sana, sarebbero state delle basi militari nella zona di al-Qutayfah alla periferia orientale di Damasco, presumibilmente depositi di armi in una zona della capitale non distante dal teatro degli scontri avvenuti nei giorni scorsi nel Ghouta orientale.
Israele, ha precisato l'esercito siriano, è intervenuto in territorio siriano con jet e missili terra-terra causando danni materiali. L'attacco, sempre secondo la ricostruzione fornita da Damasco, è iniziato alle 2.40 dell'altra notte con il lancio di diversi missili da parte di Israele, seguito da altri due missili lanciati alle 3.04 e da altri quattro alle 4.14. La contraerea siriana ha risposto colpendo un caccia israeliano e intercettato alcuni razzi sparati dal territorio di Israele. L' aviazione siriana è riuscita ad abbattere un missile mentre altri hanno colpito una base militare causando danni materiali.
I raid, di cui Israele è «responsabile», per il comando delle Forze armate siriane sono la dimostrazione del sostegno fornito alle «organizzazioni terroristiche in Siria».
(Avvenire, 10 gennaio 2018)
Il sabba intorno a Israele
Lindau, pp. 225, € 19
Niram Ferretti prende le difese di Israele con un libro militante, nel quale ribatte colpo su colpo alle aggressioni verbali, culturali e anche psicologiche di cui lo stato ebraico è fatto sistematicamente oggetto. Il sabba intorno a Israele è un pamphlet combattivo, che scava a fondo nell'ossessione anti israeliana, nelle sue nevrosi, nelle sue compulsive coazioni a ripetere. La demonizzazione di Israele è un fenomeno politico-ideologico esteso, dalle ampie connessioni storiche, nel mondo arabomusulmano ma anche in occidente.
All'origine di questa ossessione, inutile dirlo, vi sono il pregiudizio e l'odio nei confronti del popolo ebraico, un antisemitismo che si nutre di elementi diversi e che si sposta, di volta in volta nel corso della storia, dai fattori religiosi a quelli nazionali, a quelli (solo apparentemente) territoriali.
Gli ebrei passano così, nella fantasia malata dei loro accusatori, da "deicidi" ad "avvelenatori di pozzi", a dominatori dell'economia mondiale, a imperialisti e colonizzatori. Una delle svolte più significative, per arrivare alla condizione attuale, avviene nel '67, quando l'aggressione congiunta degli stati arabi va incontro a una cocente sconfitta. "Con la disfatta di Nasser, la forma del conflitto assumeva altri contorni. (. .. ) Ora che l'unione araba aveva mostrato la propria impotenza nei confronti della superiorità strategica e militare israeliana, (il conflitto) prendeva le sembianze dell'autodeterminazione palestinese. La medesima alla quale, prima della guerra dei Sei Giorni, nessuno stato arabo aveva concesso legittimità".
E' in questo periodo che le accuse contro Israele assumono "tre basi mitiche di riduzione: razzismo, nazismo, apartheid", perché "la menzogna è nemica della complessità". Sostenuta dal Cremlino e ispirata al più retrivo repertorio della propaganda sovietica, la c.d. questione palestinese assume artificialmente le caratteristiche di lotta per la "liberazione dei popoli", comune ad altri movimenti armati comunisti (e nazionalisti) in varie parti del globo. Nasce così, in nome del terzomondismo, quella "alleanza empia" fra islamismo ed estrema sinistra che dura tuttora, e che costituisce uno degli elementi culturalmente più sconcertanti dello scontro in corso.
"Come possono delle persone che in occidente hanno passato la loro vita a battersi per i diritti delle donne, degli omosessuali, delle minoranze, per non parlare di secolarismo e pacifismo, fare causa comune con alcuni dei fanatici religiosi più violenti del pianeta?". Eppure, una parte consistente del mondo intellettuale, anche dentro Israele, solidarizza con coloro che non esiterebbero, se solo potessero, a cancellare tutte quelle istanze di libertà, e a sopprimere quanti le sostengono, insieme a Israele stesso.
Sempre in riferimento agli intellettuali, l'autore cita Kolakowski: "Ogni movimento religioso o sociale che rappresenti l'anti intellettualismo più aggressivo, troverà l'entusiastico sostegno di un certo numero di intellettuali cresciuti nella civiltà borghese occidentale". Lungo, nel libro, è l'elenco dei personaggi bersaglio di dura polemica: da Barbara Spinelli a Noam Chornsky, fino a uno pseudo-studioso screditato come Ilan Pappé, i cui libri sono infarciti di luoghi ed episodi inventati di sana pianta, dove i "fattoidi" hanno preso il posto dei fatti reali. "Se Israele è il nemico, è perché il nemico è l'occidente - avverte Ferretti -. Parteggiare esplicitamente o implicitamente per un'organizzazione jihadista, significa abdicare ai valori fondanti della democrazia e del liberalismo".
(Il Foglio, 10 gennaio 2018)
Il libro contiene due prefazioni. Ne riportiamo qui alcuni estratti.
di Federico Steinhaus
[..] Israele è lo stato vincente, anche se non invincibile come dimostrò la guerra del 1973, ha resistito a guerre e a decenni di terrorismo: da qui la ricerca araba di un altro strumento per combatterlo; la diffamazione, la menzogna, la falsificazione della storia che anche in molti ambienti dell'Occidente trovano orecchie e cervelli compiacenti e grati per questo antisemitismo «non antisemita».
Non sono più gli ebrei in quanto tali il bersaglio, bensì lo diventa il «loro» stato, uno stato-nazione che pur nel suo pluralismo democratico incarna alla perfezione il ruolo che era degli ebrei, di vittima sacrificale «a priori» e di concentrato di ogni male, Per gli ebrei i motivi d'odio erano vari e contraddittori: per qualcuno erano rivoluzionari, per altri erano reazionari, erano ricchi e potenti, erano pezzenti, a seconda del luogo e dell'epoca. E ora Israele è definito aggressivo, militarista, imperialista, nazista, razzista, con un concentrato di accuse quale mai nessun'altra nazione aveva collezionato.
I sionisti (un escamotage semantico per non dire «gli ebrei») sono i nuovi nazisti, i palestinesi i nuovi ebrei; i campi profughi, anche se sono stati voluti e costruiti dai loro fratelli arabi in territorio arabo, sono le nuove Auschwitz volute dagli ebrei; i sionisti hanno come obbiettivo il genocidio dei palestinesi, o la pulizia etnica come alcuni la definiscono, e bisogna boicottare la loro nazione escludendola dal consesso civile per poi cancellarla del tutto, come predicano Fatah, Hamas e Hezbollah.
Il libro di Niram Ferretti è denso di citazioni e di riferimenti cronologici, che con ferrea consequenzialità portano il lettore, che si tratti di uno studioso o di un giovane che per ragioni anagrafiche non può conoscere gli eventi descritti, a comprendere le ragioni di un accanimento che a molti appare inspiegabile. È un incalzare di argomentazioni ben documentate e spiegate, che rende incomprensibile come una persona possa sostenere tesi opposte a queste. Ma forse, come avviene per l'antisemitismo dal quale l'antisionismo e l'odio per Israele traggono origine e al quale sono contigui, Ferretti e io siamo solamente degli irriducibili ottimisti, convinti che con le prove documentali e con la logica si possa sradicare il male.
di Giulio Meotti
[..] È l'odio più antico e duro a morire, l'antisemitismo. E contro questo piccolo stato grande quanto la Puglia, simbolo di quanto di meglio l'Occidente abbia partorito negli ultimi settant'anni, terra di latte, miele, diritti, democrazia e libertà in un oceano arabo-islamico di intolleranza, dittature e oppressione, divampa il più grande pregiudizio globale, che fermenta in paesi con pochi o nessun ebreo, fra persone che non sanno nulla degli ebrei, fra gente che non ha mai conosciuto ebrei ma anche fra i colti, i democratici, i benpensanti.
Niram Ferretti ha intrapreso un compito impopolare ma straordinariamente necessario: setacciare le origini e le dinamiche di questa patologia globale, Lo ha chiamato «sabba», come la riunione di gruppi femminili ai quali venivano imputate ruberie ed atti di cannibalismo e che hanno dato origine alla «caccia alle streghe». [...]
Antisemiti laici, di sinistra, cultori dei diritti umani, antisemiti terzomondisti e umanitaristi intanto dominano le burocrazie internazionali, dalle ONG al Palazzo di vetro. E fior fior di intellettuali si danno alla pazza gioia della demonologia anti-israeliana, nei libri, sui giornali, in televisione. Come lo scrittore portoghese José Saramago, premio Nobel per la letteratura. Vedeva gli ebrei come differenti, malevoli, potenti, razzisti, mostruosi, È un negazionismo nuovo, persino più osceno di quello lampante dell'Olocausto. Perché affiorante dalle classi acculturate dell'Occidente.
Come dimostra questo libro prezioso e importante di Ferretti, Israele oggi è il bersaglio di una vera e propria internazionale dell'odio. Gli ebrei hanno ucciso il Figlio di Dio, gli ebrei sono nemici di Dio, gli ebrei sono scesi a patti col diavolo, gli ebrei uccidono i bambini musulmani, gli ebrei hanno iniziato tutte le guerre, gli ebrei corrompono le fondamenta morali della società, gli ebrei sono dietro al capitalismo, al comunismo, all'Unione Sovietica, alla guerra in Iraq, alla crisi finanziaria del 2008, alle Primavere Arabe, all'Isis,
« Sentenza prima, verdetto poi», proclama la Regina di Cuori di Alice nel paese delle meraviglie. Il verdetto su Israele deve essere ancora scritto, ma la sentenza è già stata emessa: a morte! Con la complicità dei tanti piccoli boia politicamente corretti.
Iran, per le imprese italiane al via linea di credito da cinque miliardi
Export e investimenti
Domani la firma tra Invitalia Global Investment e due banche iraniane
La copertura del rischio
Il governo iraniano assicura la garanzia per ogni progetto finanziato dal nuovo strumento
di Carlo Marroni
L'Italia continua a credere nella bontà dell'accordo nucleare iraniano del 2015, nonostante gli attacchi all'intesa lanciati dalla nuova amministrazione Usa di Donald Trump. E scommette su un ritorno a pieno regime delle relazioni economiche con Teheran, messe a dura prova dalle sanzioni dello scorso decennio. È in questa prospettiva che si innesta un accordo quadro che prevede l'apertura di linee di credito da parte italiana verse banche iraniane per un ammontare complessivo fino a 5 miliardi di euro, per il finanziamento di singoli progetti di investimento, e da parte del Governo iraniano, il rilascio, per ciascuno di essi della garanzia sovrana.
Un'intesa che guarda a fondo nell'applicazione del Joint Comprehensive Pian of Action, l'accordo sul nucleare iraniano raggiunto tra Usa, Cina, Francia, Germania, Russia, Regno Unito, Unione europea e Iran, e approvato all'unanimità dal Consiglio di Sicurezza Onu. È di gran lunga il passo più importante del presidente Hassan Rohani, il leader considerato moderato che in questa fase sta vivendo un momento molto delicato, tra le proteste di piazza scoppiate a fine anno contro la corruzione e il rincaro dei prezzi, soffocate nel sangue tanto da provocare 23 morti e le spinte ultraconservatrici che fanno capo alla Guida Suprema Khamenei.
Rohani - che affronta anche le crescenti tensioni nell'area con l'Arabia Saudita, spalleggiata da Washington - cerca ora di tenere aperto un canale di dialogo con il suo elettorato, ma gli servono anche dei passi concreti sul piano economico per risollevare un Paese fiaccato da anni di sanzioni. Appena il mercato si è riaperto l'Italia si è mossa rapidamente, specie sul fronte dell'apporto di know how per la realizzazione di grandi progetti, soprattutto di tipo infrastrutturale. Nei due anni appena trascorsi sono stati raggiunti numerosi accordi per un valore complessivo di circa 27 miliardi di euro, riguardanti progetti in diversi settori tra i quali: infrastrutture e costruzioni, oil & gas, generazione energia elettrica, chimico, petrolchimico, metallurgico, un pacchetto di progetti che ora il Governo si è impegnato a sostenere.
Il ministero dell'Economia e delle finanze (Mef è stato incaricato di facilitare il coinvolgimento del nostro sistema bancario e di portare a termine il negoziato avente ad oggetto il Master Credit Agreement che si è concluso con l'approvazione della Legge di Bilancio 2018, dove si autorizza Invitalia ad operare quale istituzione finanziaria, anche mediante la costituzione di una nuova società da essa interamente controllata o attraverso una sua società già esistente, a supporto dell'export e dei processi di internazionalizzazione in Paesi ad alto rischio quale, tra gli altri, l'Iran. L'accordo quadro verrà sottoscritto domani tra Invitalia Global Investment e due banche iraniane, Bank of Industry and Mine; Middle East Bank. L'Accordo fissa i termini e le clausole contrattuali che regoleranno i futuri singoli accordi di finanziamento i quali avranno ad oggetto singoli progetti, previamente selezionati e ritenuti eleggibili per il finanziamento. Il documento ha pertanto natura non vincolante e non impegna Invitalia Global Investment all'erogazione di prestiti in favore delle citate controparti bancarie iraniane. Invitalia Spa, la holding per lo sviluppo da sempre impegnata ad accompagnare gli investimenti delle imprese e a sostenere la domanda di crescita dei territori, è posseduta al 100% dal Mef. Accordi quadro di finanziamento analoghi sono stati siglati, dall'Iran, con Corea del Sud (Eximbank), per un ammontare complessivo di 8 miliardi di dollari, Austria (Oberbank), 1 miliardo di euro, Danimarca (Danske Bank), 500 miliardi di euro, Cina (Citic Group) per 10 miliardi di dollari.
(Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2018)
Pecunia non olet.
Il mio Iran senza pane e libertà
Fra gli iraniani arrestati nelle ultime settimane sono numerosi gli universitari, molti dei quali già colpiti dalla repressione che stroncò i moti del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad. Questo è l'appello di Farhad M., uno dei loro leader, raccolto dalla Federazione Italiana Diritti Umani.
di Farhad M.
A nome del mio gruppo di studenti iraniani, attivisti per la libertà e la democrazia, vorrei trasmettere all'opinione pubblica in Europa, fino a quando ne ho la possibilità, il nostro messaggio, dirvi qual è la situazione in Iran dal nostro punto di vista. La mia storia è simile a quella di molti altri studenti: frequentavo la facoltà di Giurisprudenza ed ero membro di un gruppo anti regime che partecipò alle grandi manifestazioni del 2009, quando fui arrestato e tenuto per due mesi in una cella di isolamento, poi ancora in carcere per un anno.
A questo le autorità universitarie, che sono controllate dai servizi di sicurezza, hanno aggiunto l'annullamento dei miei esami e un decreto di espulsione; così ho dovuto ricominciare più volte i miei studi in altre Università, ogni volta ricostituendo nuclei di attivisti. Ora che è in corso una nuova ondata di proteste in tutto il Paese, qualcosa che in Iran non si era visto da otto anni, la risposta del regime è ancora quella della repressione. Quasi tutti i miei amici sono stati arrestati nell'ultima settimana e di alcuni di loro nessuno ha più notizie.
Ho lasciato Teheran dopo che la mia famiglia ha ricevuto una telefonata da agenti del servizio di intelligence, che hanno chiesto di me e detto che mi sarei dovuto presentare a un loro ufficio «per informazioni». È il loro sistema, che ormai conosciamo bene. I passi successivi sono arresto e carcere. Ora mi trovo in un'altra città, ma so che potranno trovarmi e arrestarmi in qualsiasi momento.
Il movimento attuale è basato su lavoratori, persone esasperate dalla povertà e studenti. Le loro sono motivazioni in parte diverse, ma che confluiscono. Molti dicono «Vogliamo le nostre vite, libertà, giustizia», altri chiedono «Pane e libertà». Il governo però non è in grado di fornire né libertà né pane. Non solo non c'è giustizia, ma tutto il sistema di potere è caratterizzato da un'enorme corruzione, senza alcuna trasparenza sui fondi. Abbiamo milioni di persone che vivono in condizioni miserabili mentre i clericali al potere e le organizzazioni del regime usufruiscono della ricchezza del Paese, e questo ormai è chiaro a tutta la popolazione. Inoltre il regime non rispetta affatto nemmeno le proprie leggi. Noi lo definiamo un regime totalitario e di apartheid, dato che a causa della sua interpretazione della religione impone separazione fra uomini e donne, oltre che discriminazioni fra nazionalità ed etnie; e non lascia nessuna via legale per ottenere il rispetto dei diritti.
Noi vogliamo sostenere tutti coloro che si battono per il cambiamento, non solo le organizzazioni di studenti. Le nostre comunicazioni sono spesso controllate o interrotte: usiamo diversi canali, sapendo che possiamo essere intercettati. So che sarò di nuovo arrestato, ma la mia richiesta a voi non è di aiutare me. Siate la nostra voce nel mondo. Noi continueremo a batterci per i diritti, la giustizia, la fine della corruzione e delle discriminazioni. Fate sentire al regime che non siete dalla sua parte, ma dalla parte di chi lotta per la libertà.
(La Stampa, 10 gennaio 2018)
Capo del Mossad: "Israele ha occhi, orecchie e molto di più in Iran"
GERUSALEMME - Israele ha "occhi, orecchie e molto di più" in Iran. Lo ha detto oggi il capo del Mossad, i servizi segreti israeliano, Yossi Cohen, durante un incontro presso il ministero del Tesoro. Parlando delle recenti proteste avvenute in Iran in diverse parti del paese, Cohen ha dichiarato che la popolazione sta protestando per la situazione economica del paese. "Nonostante le alte aspettative della popolazione, il presidente (Hassan) Rohani non è riuscito per gran parte degli iraniani a migliorare la situazione economica", ha spiegato Cohen. Secondo il responsabile del Mossad, "questa realtà sta spingendo la popolazione nelle strade, ma bisogna moderare le aspettative. Mi piacerebbe vedere una rivoluzione, ma i manifestanti devono affrontare forze opposte". Contemporaneamente, ha spiegato Cohen, "vediamo che l'Iran sta spendendo sempre di più in sicurezza per spingere le sue aspirazione in Medio Oriente". Per il numero uno del Mossad, "ci sono stati cambiamenti significativi nella comprensione degli Usa del Medio Oriente dall'inizio del mandato dell'amministrazione del presidente Donald Trump, oltre che ad un processo di rafforzamento dei legami tra Israele e Stati Uniti". Lo scorso 7 gennaio, il gabinetto di sicurezza israeliano si è riunito per discutere della situazione lungo il confine libano-siriano. Secondo quanto riporta la stampa di Gerusalemme, i principali esponenti del governo israeliano hanno espresso preoccupazione per gli sviluppi sul fronte settentrionale dello Stato ebraico a causa della "crescente influenza" dell'Iran nella regione.
(Agenzia Nova, 10 gennaio 2018)
Netanyahu: pronti a intervenire per impedire l'arrivo di armi avanzate a Hezbollah
GERUSALEMME - Israele è pronto ad intervenire per impedire che armi avanzate arrivino nell'arsenale del movimento sciita libanese Hezbollah attraverso il territorio siriano. Lo ha dichiarato oggi il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, durante un incontro con rappresentanti della Nato a Gerusalemme. "Abbiamo una politica di lunga data per impedire il trasferimento di armi strategiche a Hezbollah in Siria. Questa politica non è cambiata e la sosterremo con l'azione, se necessario", ha affermato Netanyahu. Le dichiarazioni del premier giungono in concomitanza con l'annuncio da parte di Damasco di un raid sulla base di al Qutayfah, poco fuori la capitale. L'episodio non è stato confermato da Gerusalemme, sebbene Israele sia da tempo impegnato a contrastare il cosiddetto "corridoio sciita".
(Agenzia Nova, 9 gennaio 2018)
Israele non vuole essere invischiato nel pantano siriano
di Roberto Bongiorni
È un copione che si ripete da tempo. Una pattuglia di caccia israeliani entra nello spazio aereo libanese (qualche volta anche in quello siriano), bombarda un deposito di armi in Siria o un convoglio che trasporta munizioni, e poi si ritira. Damasco da parte sua insorge, minaccia azioni di rappresaglia ma poi non fa seguire i fatti alle parole.
I precedenti negli ultimi anni sono numerosi. L'ultimo, lo scorso 22 dicembre, quando il regime siriano aveva accusato i caccia israeliani di aver sparato cinque missili dallo spazio aereo libanese contro una base militare che l'Iran sta costruendo in Siria, a sud di Damasco.
Questa volta, tuttavia, vi è un elemento nuovo che, se confermato, potrebbe innescare una pericolosa escalation. L'agenzia di stampa Sanaa, vicina al regime, ha reso noto in un comunicato che l'esercito siriano avrebbe abbattuto un jet israeliano che insieme ad altri caccia aveva attaccato postazioni militari vicino a Damasco. Lo stesso comunicato riferisce che l'esercito siriano avrebbe abbattuto anche un missile terra aria sparato dalle alture del Golan, mentre altri razzi sarebbero caduti su siti militari causando danni materiali in un deposito di armi nei pressi di Al-Katifa, sobborgo est di Damasco. Ma la mancata conferma ufficiale da parte del regime siriano induce a essere prudenti.
Nessun allargamento del conflitto
Non è l'inizio di un allargamento del conflitto. Per una semplice ragione. Nonostante i raid aerei, Israele non è intenzionata ad essere invischiata nel pantano siriano. Tuttavia Gerusalemme non ha mai cessato di esprimere le sue preoccupazioni sui trasferimenti di armi - presumibilmente iraniane ma anche russe - che finirebbero dalla Siria al movimento sciita libanese di Hezbollah, alleato di Damasco e dell'Iran. Il premier israeliano Benjamin Netanyah ha sempre ribadito la sua linea rossa: niente pericolose armi in mano agli Hezbollah, altrimenti l'esercito reagirà per impedirlo, come peraltro ha già fatto numerose volte.
Il rafforzamento militare di Hezbollah
Non è un segreto che dalla guerra dell'estate del 2006, che vide Israele e gli Hezbollah impegnati in un duro confronto militare, l'arsenale militare del Partito di Dio si è notevolmente potenziato: più armi - si parla di migliaia di missili - e più letali. Già nel 2012 l'esercito israeliano aveva spiegato come Hezbollah si stesse rafforzando con i potenti razzi M600, Scud B e D, capaci di arrivare ovunque in Israele.
Qualche anno più tardi lo stesso ministro della Difesa Avidor Lieberman lo aveva ammesso apertamente: dall'inizio della guerra civile in Siria, nel 2011, l'aviazione israeliana ha compiuto "centinaia di raid" contro obiettivi dell'esercito siriano e soprattutto di Hezbollah e dei Pasdaran iraniani. Si è trattato spesso di depositi di armi o convogli destinati ad Hezbollah.
Eppure nonostante le minacce, anche il regime siriano non appare desideroso di aprire un secondo fronte con Israele, proprio in un periodo in cui sta ottenendo significativi successi militari contro i ribelli dell'opposizione armata siriana. Damasco ha infatti riconquistato le regioni orientali della Siria, grazie al decisivo contributo dell'aviazione russa e delle milizie iraniane e degli Hezbollah. Non solo. E' riuscito, anche con il contributo della campagna militare internazionale guidata dagli Stati Uniti, ha sbarazzarsi del nemico più pericoloso: lo Stato islamico, ormai relegato al ruolo di gruppo terroristico minore frammentato in tante cellule clandestine nascoste nelle aree più desertiche.
La nuova e fondamentale battaglia dell'esercito siriano è ora diretta contro i ribelli jihadisti (vicini ad Al-Qaeda) nella provincia di Idlib, a Nord-Ovest. E' qui che sta avvenendo in questi giorni una grande offensiva di terra. Un'altra offensiva, seppure minore, sta avvenendo simultaneamente contro l'ultima sacca ribelle a Est di Damasco, un'area dove operano gruppi legati anche all'Arabia Saudita, primi tra tutti la temibile Jaysh al-Islam. Per Damasco aprire un altro fronte non sarebbe per ora opportuno. Lo stesso per Israele.
(Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2018)
Francia: incendiato un negozio kosher
Nei giorni scorsi fu imbrattato con tag antisemiti
PARIGI- Fiamme nella notte tra ieri e oggi in un negozio kosher a Créteil, nella banlieue di Parigi. Gli inquirenti, riferisce la stampa francese, propendono per la pista criminale. Nei giorni scorsi lo stesso negozio era stato imbrattato con svastiche e tag antisemiti. Il negozio Promo Destock si trova all'interno di un centro commerciale di Créteil, accanto ad un altro alimentari kosher, il tristemente noto HyperCacher, di cui la filiale della Porte de Vincennes fu teatro del tragico attentato terroristico del 9 gennaio 2015, perpetrato esattamente tre anni fa dallo jihadista affiliato all'Isis, Amédy Coulibaly. Nei giorni scorsi, entrambi i negozi di Créteil erano stati imbrattati con croci celtiche. Secondo i primi elementi raccolti, l'incendio è divampato intorno alle quattro del mattino e si tratterebbe di un atto di natura dolosa. L'inchiesta è stata affidata alla polizia giudiziaria.
Dopo un malore, il gestore del negozio è stato ricoverato all'ospedale Mondor di Créteil.
(ANSAmed, 9 gennaio 2018)
Da falco in agnello? Se Israele fa prevalere la realpolitik su Hamas. La posizione di Lieberman
Il ministro della Difesa di Israele Avigdor Lieberman, da sempre considerato un "falco" del governo di Bibi Netanyahu, ha assunto una posizione più realista verso Hamas. Ecco perché.
di Marco Orioles
Avigdor Lieberman
Che cosa sta succedendo ad Avigdor Lieberman, ministro della Difesa del governo guidato da Benjamin Netanyahu? L'uber-falco cinquantanovenne fondatore del partito nazionalista Yisrael Beiteinu, alla Knesset dal 1999, più volte ministro, due volte guida della diplomazia israeliana e oggi capo civile dell'esercito (IDF) dello Stato ebraico, sembra aver rinunciato alla sua linea di scontro assoluto con Hamas, il movimento islamista che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza e, da allora, continua a bersagliare Israele con missili e razzi. Una minaccia che Lieberman aveva promesso di stroncare quando, tre anni fa, fece campagna elettorale con il portafoglio della Difesa in tasca e che ora, nonostante i lanci di questi giorni, non lo impensierisce più.
O c'è dell'altro, dietro al venir meno delle posizioni intransigenti del capo della Difesa? A chiederselo, sulle colonne del quotidiano on line al Monitor, è Shlomi Eldar, titolare della rubrica "Israel Pulse", reporter dei canali 1 e 10 della tv israeliana e vincitore del premio Sokolov, il più importante riconoscimento giornalistico di Israele. Il ragionamento di Eldar parte da una constatazione: l'offensiva missilistica da Gaza è ricominciata alla grande da quando, il 6 dicembre scorso, Donald Trump ha annunciato di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.
Gli ultimi lanci risalgono al 29 dicembre, ed erano diretti verso il kibbutz Kfar Aza, dove erano in corso i festeggiamenti per il ventiquattresimo compleanno di Oron Shaul, il soldato morto durante l'operazione Margine Protettivo del 2014 - l'ultima delle tre guerre tra Israele e Hamas combattute negli ultimi dieci anni - e il cui corpo non è mai stato restituito alla famiglia. La cerimonia è stata interrotta dall'allarme anti-missile, che ha costretto i partecipanti a cercare riparo nei rifugi costruiti un po' ovunque nelle località israeliane a ridosso dei confini con la Striscia. Due ordigni sono stati intercettati dal sistema Iron Dome, ma il terzo ha centrato in pieno un edificio, senza fare vittime.
Nonostante tutto, la reazione dell'IDF è stata tenue. Il portavoce ha reso noto che, subito dopo il lancio, carri armati ed aerei hanno aperto il fuoco su due posizioni di Hamas nel nord di Gaza. Ma la voce di Lieberman non si è levata, come nei giorni caldi della campagna elettorale, a chiedere un intervento massiccio contro gli islamisti, né si sono udite richieste di invadere la Striscia o di eliminare fisicamente i leader di Hamas. Al contrario, il ministro ha risposto duramente alle dichiarazioni dell'opposizione, che lo ha accusato di debolezza, sostenendo che esse vogliono trascinare Israele in una campagna militare che non è nell'interesse di Israele. "Almeno per ora", ha detto Lieberman, "non penso che un'operazione generale a Gaza contro Hamas sia" opportuna. "Hamas non ha interesse in una guerra generale. Coloro che vogliono spingerci a combatterla sono gruppi salafiti, e vedo che alcuni leader dell'opposizione sono interessati alla stessa cosa".
In queste dichiarazioni, Eldar intravede il segno di una evoluzione nel pensiero di Lieberman. Che avrebbe finalmente e tardivamente capito che la situazione a Gaza è più complicata di quanto gli potesse sembrare al tempo in cui prometteva di invadere Gaza. Qui, a contendere il primato della resistenza con Israele, ci sono infatti diverse sigle ancor più radicali di Hamas. A partire dalla Jihad islamica, cui in effetti lo stesso ministro attribuisce la responsabilità del lancio dei tre missili del 29 dicembre. Gruppi su cui Hamas esercita un controllo limitato, vuoi per un calcolo tattico, vuoi per un'effettiva impossibilità ad esercitare la propria autorità. Attaccare Gaza in risposta ad un lancio di missili, e creare così una nuova crisi umanitaria in un territorio già disastrato, non è nell'interesse di Israele, già oggetto di una condanna universale per le procurate sofferenze del popolo palestinese. I vantaggi ottenuti da un'operazione preventiva contro le formazioni ostili non sarebbero commisurati agli strali che pioverebbero dalla comunità internazionale.
Non è questo, inoltre, il momento di usare il pugno duro. A breve, la Casa Bianca svelerà il suo piano di pace, quell'"accordo definitivo" promesso ripetutamente da Donald Trump che dovrebbe porre fine alla contesa territoriale tra Israele e palestinesi. Israele ha già ottenuto, in anticipo, un prezioso risultato: Gerusalemme capitale. Non è dunque il caso di compromettere gli sforzi americani con un'avventura militare che, sicuramente, riporterebbe il pallino dei colloqui israelo-palestinesi al punto di partenza.
Ecco perché il falco Lieberman, leader dell'ala destra del governo Netanyahu, si è ammansito e assume la fisionomia del realpolitiker. Far cadere nel dimenticatoio le promesse fatte in campagna elettorale val bene una messa, specie se a celebrarla sarà un uomo come Trump che si è rivelato come il presidente americano più vicino ad Israele di tutti i tempi.
(formiche.net, 9 gennaio 2018)
La giovane popstar Lorde è l'ultima vittima del tritacarne anti Israele
Sceglie di boicottare Tel Aviv dopo due tweet "illuminanti"
di Stefano Basilico
Lorde
LONDRA - Lorde, giovanissima cantante pop neozelandese e autrice del brano "Royal", è finita nel tritacarne dei boicottatori di Israele, da ieri sventolata pure dai soliti Roger Waters, Peter Gabriel e Brian Eno.
Tra i concerti in programma in estate, per promuovere il suo ultimo album, "Melodrama", ci sarebbe dovuta essere una data a Tel Aviv, ma sfortunatamente i suoi fan israeliani hanno già da tempo rinunciato all'idea di vedere la propria cantante preferita. Lorde, il cui tour americano è accompagnato dal duo rap Run The Jewels, vicino a Bernie Sanders e Jeremy Corbyn, ha infatti deciso di cancellare lo spettacolo in Israele con una velocità da record: il 18 dicembre scorso la giovane neozelandese ha annunciato il concerto. Due giorni dopo, le è stata inoltrata via Twitter una lettera aperta di Justin Sachs e Nadia Abu-Shanab, attivisti pro-Palestina nell'arcipelago oceanico, che le chiedevano, secondo uno schema ben consolidato, di non esibirsi. "Suonare a Tel Aviv", scrivono, "sarebbe visto come un supporto alle politiche del governo israeliano, anche se non facessi commenti sulla situazione politica". Proseguono: "Un tale effetto non può essere cancellato nemmeno dalle migliori intenzioni e dalla musica più bella". Un canovaccio assurdo, applicato sempre e solo quando c'è in ballo Israele, che ha aggiunto l'ennesimo nome alla lunga lista di artisti che si sono piegati ai ricatti dei movimenti di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Lorde ha risposto all'invito con un tweet in cui sosteneva di "aver parlato con molte persone sul tema" e di "considerare tutte le opzioni", ringraziando infine gli attivisti "per educarla". Poi ha cancellato la data.
Il fatto è che la strategia di gioco di Roger Waters e co., ormai, è abbastanza nota - solo nel novembre scorso Nick Cave aveva definito questa sorta di boicottaggio musicale una vera "censura". La decisione di Lorde ha scatenato reazioni. Per esempio, l'ambasciatore israeliano a Wellington ha chiesto un incontro con la cantante, per comprendere le ragioni di questa decisione.
Il rabbino conservatore americano Shmuley Boteach ha acquistato un'intera paginata sul Washington Post per attaccare la cantante. Nella pubblicità campeggia il titolo "Lorde e la Nuova Zelanda ignorano la Siria per attaccare Israele" e, sempre a caratteri cubitali, "a 21 anni si è giovani per essere dei fanatici". Il rabbino ortodosso disegna un parallelo tra la decisione della cantante, che suonerà a maggio a San Pietroburgo e Mosca, e quella del governo kiwi, che ha supportato la risoluzione dell'Onu contro la decisione degli Stati Uniti di spostare la propria ambasciata a Gerusalemme. Secondo Boteach, Lorde sarebbe una doppiopesista, dal momento che tace sul coinvolgimento del Cremlino nella crisi siriana. Per quanto criticabile sia la scelta della cantante, il paragone è una contraddizione in termini: se per un cantante suonare in una nazione non significa condividerne le politiche, al tempo stesso ha poco senso sovrapporre la decisione di una cantante a quella del governo della sua nazione d'origine. Del resto Boteach non è nuovo a controversie e incongruenze. Durante un dibattito sulla Cnn ha criticato l'alt-right definendola "deplorabile", salvo poi pubblicare sui suoi socia! network un selfie con Steve Bannon, difendendolo a spada tratta. Il "rabbino d'America" avrebbe potuto toccare ben altra leva, azionandola in casa propria: se infatti Lorde ha cancellato la data a Tel Aviv poiché suonare "sarebbe visto come un supporto alle politiche del governo israeliano", perché oltre alle due date in Russia ha mantenuto i ventinove concerti in quegli Stati Uniti il cui presidente supporta con ardore le stesse politiche del governo israeliano? Quel "We didn't come for money", sulle note di "Royal", suona sempre più debole.
(Il Foglio, 9 gennaio 2018)
Gallimard nella tempesta a causa di Céline l'antisemita
L'edìtore francese vuole pubblicare tre violenti pamphlet dello scrittore, governo e intellettuali chiedono che ci siano almeno le note critiche di uno storico
di Leonardo Martinelli
La lettera inviata a Gallimard il 12 dicembre dal delegato interministeeriale
PARIGI - Perché ritornare per forza sul passato imbarazzante di certi geniali artisti? Perché far parlare inevitabilmente quei silenzi della Storia? Antoine Gallimard, erede della celebre casa editrice, si è incaponito: quest'anno vuole pubblicare tre pamphlet di un antisemitismo isterico che Céline scrisse prima e durante la Seconda guerra mondiale. In Francia è già polemica: sta intervenendo perfino il governo, per convincere l'editore a inserire almeno le note critiche di uno storico nel testo. Gallimard, però, non cede.
Louis-Ferdinand Céline (1894-1961) pubblicò Bagatelle per un massacro nel 1937 (mai più riedito dal '43), La scuola dei cadaveri l'anno successivo e Le belle rogne nel 1941. Bastino alcune parole per dare il tono della narrazione: «Gli ebrei sono i nemici innati dell'emotività ariana». Lo scrittore maledetto, che beneficiò di diversi privilegi durante l'occupazione nazista a Parigi, si ritrovò a Baden-Baden poco prima della Liberazione, dove le autorità tedesche gli concessero un lasciapassare per la Danimarca.
Lì finì in carcere un anno e mezzo per collaborazionismo, mentre nel 1950 a Parigi fu condannato in contumacia a un anno di prigione. Un'amnistia gli permise di ritornare in patria nel 1952, dove ritrovò presto la strada del successo editoriale. I tre saggi incriminati mai sono stati riproposti. E anche dopo la morte di Céline, la vedova Lucette si è sempre opposta.
È ancora viva, ha oggi 105 anni. E pochi mesi fa ha cambiato idea: ha detto di sì a Gallimard, confortata dal suo avvocato (e biografo dell'autore di Viaggio al termine della notte), François Gibault. Non si sa bene se sia per una questione di soldi. Sta di fatto che nel 2012 un'edizione in francese dei tre pamphlet era già apparsa nel Québec. Sono 1044 pagine, di cui 231 consacrate alle note, tutte concentrate alla fine e redatte da Régis Tettamanzi, professore di letteratura francese all'Università di Nantes.
Gallimard vuole recuperare pari pari questa edizione (compreso il titolo, davvero troppo neutro, Scritti polemici), aggiungendo solo una prefazione dello scrittore Pierre Assouline. Se si vanno a spulciare le note di Tettamanzi, viene fuori una del tipo: «Prima della Seconda 'guerra' mondiale, l'antisemitismo è percepito meno come un reato e più come un'opinione», quasi a giustificare Céline e dimenticando il decreto-legge Marchandeau, promulgato in Francia nell'aprile 1939, che condannava gli insulti razzisti, compresi quelli contro gli ebrei. Non solo: Rémi Ferland, l'editore dei tre saggi nel Québec, si è fatto segnalare su Facebook come strenuo sostenitore di Marine Le Pen durante le ultime presidenziali francesi.
Poco prima di Natale Frédéric Potier, alla guida della delegazione interministeriale per la lotta al razzismo e all'antisemitismo, ha convocato Gallimard e Assouline, chiedendo che la pubblicazione dei tre saggi sia accompagnata da un apparato di note «che chiariscano il contesto ideologico della loro produzione». E Potier pretende che siano coinvolti degli storici a redigerle. Ma Gallimard, sul quale non pesa alcun obbligo, ha rifiutato, sottolineando che si tratta di letteratura e che due specialisti di Céline bastano e avanzano.
Qualche giorno dopo un gruppo di intellettuali (tra cui Pierre-André Taguieff e Annick Duraffour, autori di Céline, la race, le juif, un libro molto documentato sull'antisemitismo dello scrittore, pubblicato da Fayard un anno fa) hanno firmato un manifesto uscito sul sito del Nouvel Observateur ancora per chiedere l'inserimento delle note di uno storico e che siano a piè di pagina. Quanto a Serge Klarsfeld, mitico cacciatore di nazisti, vuole che la pubblicazione del volume sia proibita, punto e basta. Mentre Edouard Philippe, il primo ministro (e grande specialista di letteratura), dice di non avere paura della pubblicazione dei pamphlet, «ma va fatta in maniera accurata». Gallimard prevedeva l'uscita a maggio. Ora dice che avverrà «quando l'edizione sarà pronta». Per il resto, avanti tutta.
Chi difende l'approccio dell'editore, si appella al primato della letteratura su tutto. O addirittura al fatto che l'antisemitismo sia una variabile indipendente, avulsa dalla genialità di Céline. Per altri, invece, quella deriva obbliga a scorrere lo stesso Viaggio con altri occhi. A individuare già in quell'apparente inno alla libertà una violenza e un razzismo non così scontati a una prima lettura. Insomma, costringe a distruggere un mito.
(La Stampa, 9 gennaio 2018)
Iran, niente Nazionale per il centrocampista che sfida i conservatori
Masoud Shojaei non è stato convocato dopo che si è opposto più volte al regime di Teheran
di Paolo Tomaselli
Masoud Shojaei
Non si è scusato, perché a 33 anni e con 70 partite in Nazionale, non ha intenzione di «fare uno show». Ma Masoud Shojaei, centrocampista di qualità dell'Iran, è finito in una partita più grande di lui e non sa come uscirne. Il suo obiettivo è quello di essere il primo iraniano a giocare tre Mondiali di calcio, ma dopo aver contribuito alla qualificazione a Russia 2018, Masoud da agosto non viene più convocato dal c.t. Quieroz. E non certo per una scelta tecnica, nonostante la federazione sostenga che sia così: del resto se formalmente non fosse così il Team Melli rischierebbe l'esclusione dal Mondiale, dato che la Fifa vieta qualsiasi tipo di ingerenza governativa.
Però gli indizi che il giocatore sia considerato un traditore a Teheran sono chiari. Masoud, assieme al compagno di Nazionale Hajisafi, ad agosto gioca per i greci del Panionios, impegnati nei preliminari di Europa League. L'ultimo ostacolo da superare è il Maccabi Tel Aviv ma nessun atleta iraniano sfida un israeliano da 38 anni, per non riconoscere l'esistenza dello Stato di Israele. Per l'andata in trasferta Masoud e Hajisafi riescono a non farsi convocare, per il ritorno però non c'è «scampo»: l'allenatore e la squadra minacciano ritorsioni se i due si rifiuteranno di scendere in campo, dato che in palio c'è una qualificazione (che poi non arriverà) che vale 4-5 milioni di euro per il club. Rifiutarsi potrebbe portare a una squalifica di un anno da parte della Uefa: «Non potevo fare altrimenti» si è sfogato Masoud per la prima volta con El Pais, facendo un appello al portoghese Queiroz.
Nel frattempo il giocatore è passato all'Aek Atene e anche Hajisafi ha lasciato il Panionios: lui però ha chiesto scusa con un post su Instagram ed è stato reintegrato in Nazionale. Per Masoud è tutto più difficile, perché gli oltranzisti gliel'hanno giurata. E non da ieri. Nel 2009 indossò un braccialetto verde, in sostegno alle proteste antigovernative; nel 2016 parlò di «corruzione nel calcio iraniano» e nel giugno scorso, nella festa per la qualificazione, rispose al presidente Rouhani, che gli chiedeva cosa si potesse fare per migliorare il calcio in Iran: «Mia madre non è mai venuta a vedermi in tanti anni: siamo l'unico Paese in cui le donne non possono entrare allo stadio...». Adesso non ci può entrare nemmeno lui.
(Corriere della Sera, 9 gennaio 2018)
Patria israeliana
La difesa dei villaggi cristiani dai Fedayyin di Arafat e l'esilio dalla propria terra. Un racconto.
di Emanuel Segre Amar e Michael Sfaradi
Dal 2000 vive nel nord d'Israele, insieme alla sua famiglia, sotto lo stato di asilo politico. Dalle finestre della sua casa, una villetta monofamiliare, vede il suo amato Libano. Il confine dista meno di 600 metri, ma per lui quello spazio è un oceano, perché se tornasse nel paese dei cedri finirebbe in carcere, o peggio, come traditore, davanti a un plotone di esecuzione. Chiameremo il nostro ospite 'H' per salvaguardare la sua sicurezza e quella dei suoi parenti, perché H è un ex soldato dell'esercito del Libano del sud e ha combattuto per difendere i villaggi cristiani dagli assalti dell'esercito libanese, di quello siriano e, in particolare, dei Fedayyin di Arafat. Ci sediamo al tavolo della sala da pranzo mentre la moglie ci prepara un tè e ci offre dei dolci a base di miele: anche questo, tè e dolci al miele, a prescindere dalle religioni o dalle etnie, è il medio oriente. Siamo ansiosi di porre le nostre domande, ma gli occhi lucidi su quel viso sorridente ci impongono pazienza e tatto, perché condividere il passato e la propria storia con degli sconosciuti è molto più faticoso che viverla in una silenziosa solitudine. E' una questione di rispetto. H inizia il suo racconto senza neanche attendere la prima domanda, e si vede che oltre a essere alla ricerca di ricordi vuole essere il più preciso possibile.
"Era il 1975, e tutto ebbe inizio quando i palestinesi di Arafat, armi in pugno, entrarono nella zona cristiana di Beirut". Voi dove eravate? "In quel periodo la mia famiglia abitava a Beirut e la città che aveva sempre vissuto nella coesistenza divenne un posto dove si combatteva casa per casa. In quel periodo io ero ancora un ragazzo, ma ricordo bene la paura: eravamo diventati dei bersagli". Cosa faceste per mettervi in salvo? "Mio padre decise, era il 1976, di riportare tutta la famiglia nel nostro villaggio di origine nel sud del Libano, era convinto che la guerra sarebbe rimasta circoscritta all'interno della Capitale, ma così non fu. Presto gli scontri interessarono il resto della nazione". Quando cominciarono esattamente? "Con l'ammutinamento di Ahmed al Katib. La stampa di allora riportò che era stato un moto spontaneo di un gruppo di ufficiali, ma sapevamo che si trattava di una mossa studiata a tavolino dai siriani e palestinesi per dividere l'esercito libanese, ultimo baluardo a difesa della nazione prima dell'inferno. I soldati cristiani della base di Marjayoun, la più importante nella nostra zona, capirono improvvisamente che i loro compagni musulmani erano diventati dei nemici e fuggirono". Cosa accadde precisamente? "Ci furono scontri a fuoco e quelli che si salvarono trovarono riparo nei villaggi abitati in maggioranza da cristiani maroniti. Da quel momento incominciò l'inferno anche per noi al sud". Cosa esattamente? "L'esercito, ormai solo musulmano, con l'appoggio di palestinesi e siriani incominciò a cannoneggiare con obici da 105 e razzi Katiuscia i centri abitati cristiani alla ricerca dei militari che erano riusciti a mettersi in salvo. A seguire un mare di profughi si riversò verso la nostra regione, soprattutto dopo la strage di civili cristiano-maroniti di Damur del 20 gennaio 1976, da parte dei palestinesi del campo profughi libanese di Teli al Zaatar. E fu il caos". Quale fu la soluzione? "Chiedere aiuto. Il confine con Israele distava solo pochi chilometri e i palestinesi volevano i nostri villaggi come base per lanciare attacchi missilistici. La nostra paura era quella di trovarci fra due fuochi con la conseguente distruzione delle nostre case. Tre ragazzi riuscirono ad avvicinarsi al confine e a raccontare agli ufficiali israeliani quello che stava accadendo". E la risposta fu ... "Israele ci aiutava addestrando i nostri giovani e curando i feriti nell'ospedale di Safed. Inoltre avrebbe aperto il confine per permettere, a chi lo voleva, di lavorare in Israele guadagnare e portare a casa viveri e generi di prima necessità". Fu sufficiente? "No, infatti dopo i primi mesi di lavoro facemmo una seconda richiesta di addestramento militare per i ragazzi dai 17 ai 23 anni. Finito l'addestramento gli israeliani ci dettero l'ordine di riconquistare Marjayoun, prendere possesso del posto per avere una base ordinata. Base che poi, dopo l'invasione del 1982 diventò uno dei quartieri generali israeliani in Libano".
Spesso in Europa si dice si accusano i maroniti di essere fascisti. "Noi, nel Libano del sud ci difendevamo ed eravamo inquadrati dagli israeliani, mentre i combattenti cristiani del nord erano una falange autonoma. Sicuramente avevano contatti con Israele, ma non prendevano ordini da loro. I cristiani del sud, di fatto, non erano in contatto con quelli del nord. Ognuno combatteva autonomamente, anche se contro lo stesso nemico. I falangisti di Gemayel erano sicuramente conservatori ma, ne sono sicuro, avrebbero voluto un Libano democratico. Ciò che mi dispiace è che in Europa guardano più alle idee politiche che alla realtà dei fatti perché i massacri dove le vittime sono stati i cristiani maroniti non sono quasi mai stati menzionati dalla stampa importante e questo non è giusto". Tornerebbe in Libano? "Se ce ne fosse la possibilità e in piena sicurezza lo farei, ma solo come turista. La mia vita e quella della mia famiglia è ora in Israele, nazione che ci ha assicurato la salvezza e ci permette di guardare al futuro, soprattutto per i miei figli e i miei nipoti, con una speranza impossibile da trovare oggi in qualsiasi altra parte del medio oriente".
Finita l'intervista H ci accompagna verso l'uscita e prima di scendere le scale che vanno verso il parcheggio si ferma e volge lo sguardo verso la barriera di confine oltre la quale c'è il suo Libano. Con le nostre domande abbiamo sicuramente riportato a galla ricordi di posti che a meno di un miracolo non rivedrà mai più e di amici che gli sono stati strappati dalla guerra e dall'odio. Dopo aver tanto parlato, H ha perso le parola, ci saluta solo con la mano mentre trattiene a fatica le lacrime e i segni sul suo volto, ora più accentuati, diventano la spia di sentimenti e emozioni che anche a distanza di anni ancora bruciano sotto la cenere dei ricordi.
(Il Foglio, 9 gennaio 2018)
Di quella volta che andai in Israele e Giordania
Tel Aviv
Tel Aviv
La prima volta che ho sentito parlare di Tel Aviv è a qualche TG1 degli anni '80. Roba di razzi da Gaza, missili terrà aria e fatti così. Niente di grave ma nel mio immaginario era più o meno vicino a Baghdad nel 1990 dove stava Lilli Gruber con lo chador in testa.
La prima volta che sono stata a Tel Aviv è stato qualche giorno dopo Natale, in una giornata di cielo grigio e caldo inverno mediterraneo. Mica ci volevo andare a Tel Aviv. Io volevo andare a Gerusalemme e a Betlemme, ma poi Trump, i disordini, gli inviti alla cautela della Farnesina, gli inviati di Sky News che parlano da Betlemme col caschetto in testa e va beh, si cambia programma. Mica posso portare una bimba di 18 mesi dove ci sono i giornalisti col caschetto in testa andiamo a Tel Aviv che è tranquilla e ci sta un bel lungomare. Cioè tale e quale a Limassol. Cioè tale e quale a Castellammare di Stabia.
E io di lungomari ne ho abbastanza. Poi va beh, il lungomare di Tel Aviv è bellissimo: i campi da beach volley dove la sera a dicembre si gioca ancora, le piscine, i parchi gioco chiusi e recintati con le sedie dei bar tutto attorno così tu ti siedi tranquilla a bere il caffè e i pargoli giocano. E poi va beh, c'è Jaffa con i vicoli, i falafel e tutti i localini hipster con le lucine. Ok, tutto bello, ma nessun altrove. Una qualsiasi città europea dove ti vai a fare il city break con la EasyJet e ti fermi a cena nel localizzo post-industriale con il dolce servito nel barattolo. E allora se non si fa a Gerusalemme andiamo a Petra
Petra
Petra
E qui l'altrove si incontra subito al confine: primo controllo alla macchina e poi l'autista ti lascia alla frontiera. Lui non può entrare, ne troveremo un altro al di là della frontiera. Controllo passaporti 1, controllo passaporti 2, controllo passaporti 3. Paga per uscire da Israele. Dopo ti mettono in un pullman: ci sono due autobus distinti: uno per noi turisti della democrazia, un altro per i palestinesi. Noi possiamo caricare i nostri bagagli sull'autobus, i palestinesi no, le loro valige viaggiano su un carrello a parte. Gli israeliani invece per questo confine non possono passare. Attraversiamo la buffer zone sopra il fiume Giordano, paga il pullman, paga i bagagli e arriviamo alla dogana giordana. I nostri passaporti sono in mano ai poliziotti, le persone si accalcano agli sportelli senza alcun ordine. Un'altra oretta persa a far cose non si sa, paga il visto e siamo fuori. Fuori è subito la polvere e il color deserto che ci si aspetta dal Medio Oriente. Prendiamo un caffè a una specie di baracca, dentro ci mettono dei semi di cardamomo, è buonissimo. Prima tappa il Monte Nebo che un monte che ha qualcosa a che fare con Mosè ma non mi ricordo bene perché ero troppo stordita, poi giù a Madaba che è un posto famoso perché c'è una chiesa con un mosaico con una mappa della Terra Santa. E resterà famoso nella mia memoria perché li ho lasciato un borsello con tutto il trucco e le lenti a contatto. Niente di grave, erano tutte versioni mignon da viaggio, ma non è stato piacevole proseguire il viaggio con la stessa faccia di quando sono sola e lavoro da casa stravaccata sul divano. Mi ci mancava solo il pantalone a quadretti e gli stivaletti di pelo. Ma che vuoi farci. Anche questo è uscire fuori dalla propria comfort zone.
Tre ore di guida nel deserto e l'autista che ci racconta la storia di tutti i profeti di Israele da Abramo in giù ed arriviamo a Petra sul far della sera. L'hotel sembra bello, poi ti metti nel letto e senti tutte le molle del materasso, una a una. Il wi-fi non funziona in camera, niente puntata su Netflix. Ma tant'e, è solo una notte.
Di buon mattino siamo davanti all'ingresso di Petra, con Caterina in spalla. La magia la senti subito dai primi passi nel canyon, da quelle arenarie dalle sfumature colorate e le sculture che escono a sorpresa da dentro la roccia. Anche se attorno a te ci sono altre centinaia di turisti, bambini che vogliono venderti di tutto e asinari che ti vogliono portare su, non puoi fare a meno di sentirti Indiana Jones mentre giri l'angolo e ti trovi davanti al Tesoro. Andiamo avanti e lasciamo la strada principale per inerpicarci (Caterina in spalla) lungo un sentiero che si perde su per le montagne. Gradini e gradini fin quando gli asinelli giù sembrano formiche, e poi un sentiero che si snoda tra stanze grotte decorate, tombe di soldati romani, orti strappati alla roccia dai beduini e bambini poco più grandi di Caterina che portano le pecore a pascolo. Ogni tanto qualche gruppetto di turisti di cui uno esclama "Li vedi gli stranieri? Lei con la gonnellina e lui che porta in braccio la bimba, mica come i papà italiani!". Sgambettando sgambettando ritorniamo sul percorso principale dove non restituiamo e ci facciamo caricare da due asinelli per tornare indietro. Impolverati e sudati ci rimettiamo in auto per raggiungere la frontiera sud con Israele prima che faccia buio.
Anche in questo coso l'autista ci lascia alla dogana. Ed eccoci subito di nuovo a far questioni con i poliziotti giordani che vogliano farci pagare di nuovo il visto e per lo più esclusivamente in dollari giordani che non abbiamo più, un'oretta di storie, loro che vogliono che prendiamo un taxi per andare a prelevare in città, duecento canzoncine su YouTube, passaporti spersi tra uffici fumosi e riusciamo finalmente a uscire (senza pagare) per attraversare a piedi il no-where di filo spinato e raggiungere la frontiera israeliana. Una mezz'ora di fila. 12 controlli passaporto e siamo fuori anche da qui. Un taxi al volo e via all'hotel a Eilat.
Eilat
Eilat
Conoscete una sensazione più bella di quella di arrivare stanchi e sporchi in uno di quei mega-hotel tutti profumati e impersonali? Non dover dialogare con nessuno più del necessario, farsi dare la tesserina, infilarsi in ascensore, aprire la porta e subito spogliarsi per un bagno che sarà sicuramente caldo, pulito e profumato con tutte le amenities compresi i cotton-fioc. Ecco il nostro arrivo, Eilat che è come Rimini solo con le scritte in ebraico e il mare più bello. Siamo sul Mar Rosso e qui ci vengono in vacanza tutti gli arabi israeliani che hanno troppi problemi di frontiera per andare altrove. Tutti serviti e riveriti da personale ebreo che la notte di sabato fa andare le ascensori su e giù fermandosi a ogni piano in modo che lo Shabbat venga rispettato e i pulsanti non vengono sfiorati. Ad Eilat non c'è granché da fare se non passeggiare sul (solito) lungomare, stare in spiaggia, andare a vedere i delfini nel reef e gli squali all'acquario. E mangiare hamburger. Cioè tutto quello che una bambina di 18 mesi adora fare. Perfetto per due giorni. Al terzo probabilmente avresti voglia di saltare in groppa a Delfino Curioso e fuggire, e infatti noi al terzo giorno siamo andati via.
Masada e il Mar Morto
Masada
Sulla strada di ritorno per Tel Aviv ci fermiamo a Masada e sul Mar Morto. Masada è l'ultimo avamposto dove i giudei si rifugiano per resistere all'invasione romana. Sta su una collina in mezzo al deserto dove oggi si sale con la funicolare, ma i giovani militari israeliani salgono a piedi in una sorta di pellegrinaggio. Sopra ci sono i resti di questa città che per 25 anni resistette all'assedio, ma la cosa che mi farà ricordare di Masada è la famiglia di 20/25 americani con le felpe tutte uguali "Zack's Bar Mitwa Israeli Tour".
Al Mar Morto ci arriviamo che è ormai pomeriggio, il cielo è grigio, fa freschetto e ed è agitato. Ma che fai, non ti fai il bagno nel Mar Morto per vedere se stai a galla leggendo il giornale? Certo che no! Mi cambio ricordandomi che mi sono tuffato nel ghiaccio a -20 e vado. Il peggio è attraversare la spiaggia e la fanghiglia con solo l'asciugamano mentre tutti i meno coraggiosi hanno ancora su il giubbotto. L'acqua però è quasi tiepida, quasi piacevole. Meno piacevoli peró sono le onde di acqua salata che ti arrivano addosso e ti fanno bruciare le labbra e corrodere gli occhiali. A galla come nelle foto non ci si riesce a stare per via delle onde, si fa solo più fatica a nuotare, ma va beh, ci ho provato. Un'esperienza inebriante? No. Ma se non l'avessi fatto me ne sarei pentita.
Ovunque e in nessun luogo
Avete presente quella sensazione quando arrivata stanchi e sporchi in un mega-hotel di quelli business tutti profumati e impersonali?
Eccoci al Crowne Plaza di Tel Aviv per la nostra ultima notte israeliana.
Che poi sarà solo un'altra notte in un altro non luogo del mondo visto che veniamo al centro commerciale e dormiamo al 15 piano di un grattacielo con vista su altri grattacieli e sul traffico del centro in una stanza arredata come centinaia se non miglia di altre stanze nel mondo. Ma dietro i vetri mi incanto a guardare lo scorrere lento del traffico e il letto è il più comodo in cui abbia mai dormito.
(drinkpop, 8 gennaio 2018)
Dodici milizie armate sostenute militarmente dal governo iraniano
RIAD - Il governo iraniano sostiene attualmente almeno 12 milizie armate, al fine di interferire militarmente in 9 paesi della regione. Molti di questi gruppi hanno anche riconosciuto pubblicamente il sostegno dell'Iran. Gli Hezbollah libanesi hanno apertamente ammesso di essere finanziati dall'Iran, mentre le brigate paramilitari sciite in Iraq sono state spesso visitate da funzionari dell'esercito iraniano. Le milizie supportate dall'Iran in almeno nove paesi includono: Hezbollah in Libano; le Brigate Hezbollah, Hezbollah al-Nujaba, Asa'ib Ahl al-Haq, l'organizzazione Badr e Liwa Abu al-Fadhal al-Abbas in Iraq; Hezbollah al-Hejaz in Arabia Saudita; Houthis (Ansarullah) nello Yemen; Liwa Fatemiyoun in Afghanistan, il Fronte islamico per la liberazione del Bahrain; il Movimento islamico (sotto la guida di Sheikh Ibraheem Zakzaky) in Nigeria e l'esercito di Maometto in Pakistan.
(Agenzia Nova, 8 gennaio 2018)
Gerusalemme lo sdegno arabo è solo pubblico
Perché i leader arabi criticano Trump su Gerusalemme, ma poi spingono la popolazione a riconoscerla come capitale di Israele?
di Giordano Stabile
I leader arabi proclamano il loro sdegno per il riconoscimento da parte di Donald Trump di Gerusalemme come capitale di Israele ma sotto banco cercano di ammorbidire la popolazione e spingerla ad accettare il dato di fatto. È quanto emerge, per esempio, da alcuni audio registrati dietro le quinte di un talk show egiziano, e venuti in possesso del «New York Times». Un ufficiale dei servizi segreti, il capitano Ashraf al-Kholi, «istruisce» gli ospiti prima del dibattito in tv: una guerra con Israele «non è nell'interesse nazionale dell'Egitto», i palestinesi, osserva, dovrebbero accontentarsi di Ramallah, dove ha sede l'Autorità nazionale, come capitale: «Che differenza c'è con Gerusalemme, in fondo?», chiede a ripetizione. Eppure, riflette, «noi, come tutti i fratelli arabi, siamo insorti». La ribellione delle capitali arabe è però soprattutto formale. Due giorni fa, di nuovo, un comitato ristretto della Lega araba, si è riunito ad Amman. Giordania, Egitto, Marocco, Arabia Saudita ed Emirati hanno ribadito che l'unica soluzione è quella «due popoli, due Stati» con una nazione palestinese che abbia Gerusalemme Est come sua capitale. Re Salman d'Arabia, uno dei leader arabi più influenti, ha condannato la mossa di Trump con parole nette. Ma dietro le quinte, come nel talk show, la realtà è diversa. All'inizio di novembre, un mese prima della dichiarazione della Casa Bianca, l'erede al trono Mohammed bin Salman ha convocato il presidente palestinese Abu Mazen a Riad e gli ha chiesto di accettare il suo piano, e un radicale ridimensionamento delle pretese territoriali: uno Stato in Cisgiordania, con capitale un piccolo sobborgo di Gerusalemme, Abu Dis. Lo stesso Abu Mazen ha raccontato l'episodio, secondo fonti palestinesi, a diplomatici arabi ed europei, e ha respinto la proposta. Ma il vecchio raiss è sempre più solo. Il fronte sunnita Egitto-Arabia-Emirati si è compattato in funzione anti-Iran, vede nell'alleanza con gli Stati Uniti il pilastro vitale per vincere la sfida con gli ayatollah per l'egemonia in Medio Oriente, e non è disposto a sacrificarla in una guerra per Gerusalemme contro l'alleato strategico di Washington, lo Stato ebraico. La «linea rossa», tracciata dal presidente Erdogan, vale sempre meno per gli arabi che in teoria dovrebbero essere in prima linea a difenderla.
(La Stampa, 8 gennaio 2018)
Perché Trump non ha perso
Vista dal Medio Oriente, la politica della Casa Bianca non risulta sconfitta. E invece la rivolta è scoppiata in Iran.
di Federico Rampini
Roger Cohen
Donald Trump taglierà gli aiuti umanitari ai palestinesi se non tornano al tavolo dei negoziati di pace; riduce i finanziamenti al Pakistan perché non mantiene gli impegni sulla lotta al terrorismo. Se si aggiunge il duro intervento sulle proteste in Iran, il Medio Oriente ritrova una centralità sorprendente, per una presidenza nata all'insegna dell'isolazionismo con lo slogan America First.
Sono partito dagli Stati Uniti prima di Natale in un clima di condanna verso Trump dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato d'Israele. Dopo dieci giorni passati in Israele e nei territori palestinesi - dove le proteste si sono già attenuate - devo riportare una prospettiva diversa. Nel frattempo non è in Palestina bensì in Iran che è esplosa la rabbia. I manifestanti accusano la classe dirigente di foraggiare gruppi armati in Siria e in Libano, mentre la situazione economica iraniana resta pessima, con inflazione e disoccupazione ai massimi. Trump via tweet descrive una popolazione iraniana «stufa di un regime corrotto che spreca la ricchezza nazionale per finanziare il terrorismo all'estero». Perfino un opinionista del New York Times come Roger Cohen, solitamente severo verso il suo presidente, confessa di aver "ritwittato" in segno di approvazione quel messaggio di Trump.
A cavallo dell'anno nuovo la percezione si è capovolta. Invece dell'isolamento di Trump, è evidente la solitudine dei palestinesi. L'Arabia Saudita, che era uno dei pilastri a loro sostegno, ha espresso una condanna rituale di Trump su Gerusalemme. Si consolida la triangolazione fra Trump, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, e l'uomo forte del nuovo corso saudita Mohammad bin Salman. Un retroscena del New York Times rivela che anche il regime egiziano ha dato ordine di minimizzare il caso-Gerusalemme. Tutti d'accordo nel considerare l'Iran il nemico numero uno. Netanyahu ne approfitta per rafforzare lo status quo. Ha fatto approvare in Parlamento una legge che renderà ancora più difficile restituire ai palestinesi Gerusalemme Est.
Una parte della popolazione palestinese appare rassegnata, anche perché in qualche modo partecipa al boom economico israeliano. Con una disoccupazione irrisoria (ufficialmente sotto 1'1% della forza lavoro) e un reddito pro capite attorno ai 40.000 dollari annui, Israele ama definirsi "la nazione start-up". Se ne sono accorti gli investitori americani, europei, cinesi che scommettono su questo miracolo economico. Il contrasto con il mondo arabo è netto. Nel boom israeliano c'è anche l'industria turistica, con aumenti del 20% annuo nei flussi di visitatori. E qui s'incontra un altro paradosso. Come molti stranieri, dopo il gesto di Trump su Gerusalemme anch'io mi ero chiesto se annullare le mie vacanze in Terra Santa. Ma le cancellazioni sono state poche. Ho trovato Tel Aviv, Gerusalemme, Betlemme, invase da turisti. Per chi arriva da città blindate per prevenire gli attentati come New York, Londra, Parigi, i controlli di sicurezza israeliani non sono appariscenti. C'è più polizia in divisa sotto casa mia a Manhattan che nel centro di Gerusalemme. Le spiegazioni variano. C'è chi sottolinea il salto tecnologico israeliano, le videocamere onnipresenti. C'è chi ricorda la militarizzazione ormai "normale" (in visita-premio ai monumenti sfilano gruppi di militari di leva con mitra a tracolla) e l'addestramento a intervenire nelle emergenze da parte dei civili. C'è chi evoca un paradosso: il governo di destra guidato da Netanyahu mantiene una cooperazione con le forze dell'ordine palestinesi, interessate a evitare gli attentati.
Il 2018 porterà il famoso "piano di pace" di Trump? E cosa potrà esserci dentro, se la Casa Bianca è allineata su Netanyahu? La destra israeliana non scioglie l'interrogativo fondamentale. Se il suo obiettivo è l'annessione definitiva dei territori occupati, questo porterà Israele ad avere una maggioranza araba. Dunque, o Israele accetta la possibilità di poter avere un giorno un premier palestinese - che oggi appare fanta-politica persino alla sinistra - o dovrà rendere sistematica l'apartheid che nega il diritto di voto a molti residenti arabi. Sta prevalendo la legge del più forte. Ma Trump, visto da qui, non ne esce isolato né perdente.
(la Repubblica, 8 gennaio 2018)
L'imbroglio Unrwa, che ha inventato il profugo eterno rendendo impossibile la pace
Netanyahu: che i fondi Unrwa siano gestiti dall'Alto Commissariato Onu per i rifugiati, ponendo fine a questa assurdità unica al mondo.
Finalmente qualcuno sta scuotendo le fondamenta di una delle più grandi farse internazionali, quella dell'agenzia Onu per i profughi palestinesi Unrwa. Grazie al cervellotico mandato conferitole dalle Nazioni Unite all'inizio degli anni '50, l'Unrwa non ha fatto che perpetuare la condizione dei profughi arabo-palestinesi da una generazione all'altra. Il mandato, infatti, proibisce all'Unrwa di fare qualunque cosa che possa favorire il reinsediamento di quei "profughi" e di procurare loro una residenza permanente, assicurando in questo modo che essi continuino a nutrire in eterno l'illusione che un giorno otterranno il cosiddetto "diritto al ritorno"....
(israele.net, 8 gennaio 2018)
Il pazzo Ahmadinejad da presidente alla galera
La mossa degli ayatollah contro l'uomo che voleva l'atomica islamica. L'iraniano è accusato di aver fomentato la rivolta, ma è solo un pretesto per farlo fuori. E ora Teheran è una polveriera.
di Carlo Panella
L'arresto dell'ex presidente iraniano Mohammed Ahmadinejad, se confermato, segnala l'acuirsi di un nuovo aspetto della crisi che il regime di Teheran vive: l'apertura di una battaglia senza esclusione di colpi dentro la stessa componente conservatrice. Ahamadinejad sarebbe agli arresti domiciliari a Shiraz con l'accusa di avere promosso la rivolta popolare deflagrata il 28 dicembre in molte città della grande periferia iraniana, duramente repressa con 23 vittime e migliaia di arresti. A carico dell'ex presidente sono le parole da lui pronunciate il giorno prima delle manifestazioni: «L'Iran soffre di cattiva gestione perché l'attuale presidente Rohani e il suo governo si credono i padroni in una società ignorante. Alcuni leader attuali vivono distaccati dai problemi e dalle preoccupazioni della gente, e non sanno nulla della realtà della società».
Gli slogan feroci contro Rohani e contro la Guida della Rivoluzione Ali Khamenei, risuonati nelle piazze nei giorni successivi, sono dunque assolutamente coerenti con queste accuse. Ma da qui a stabilire un rapporto di causa ed effetto tra quelle frasi e la decisione di decine di migliaia di manifestanti di scendere nelle piazze ne corre. Le caratteristiche della rivolta di fine d'anno sono infatti quelle tipiche delle sommosse spontanee e improvvise, per nulla organizzate, provocate da un'indignazione di massa più che motivata da condizioni di vita deteriorate e dalla corruzione diffusa di una casta al potere arrogante quanto incapace: «Noi mendichiamo, i religiosi si arricchiscono». Non solo, durante le manifestazioni si sono sentiti slogan durissimi contro i costi, ricaduti sulle classi più misere, della" esportazione della rivoluzione iraniana" in Medio Oriente: «Rohani, lascia la Siria, pensa a noi» e poi «No Gaza, no Libano, la mia vita soltanto per l'Iran». Vera novità nel contesto iraniano, questi slogan per la prima volta contestavano l'imponente impegno politico militare dei Pasdaran in Siria e Iraq, ma anche il pesante sostegno economico e le costose forniture militari offerte a Hezbollah e ad Hamas. Non solo, contestavano il prezzo umano dell'impegno dei Pasdaran in Siria ed Iraq che è costato loro non meno di tremila morti.
Ma è fuori discussione che Ahmadinejad abbia mai voluto criticare l'impegno politico militare iraniano in Medio Oriente, che è invece assolutamente omogeneo con la sua linea politica aggressiva, il cui punto di forza era proprio l'implemento del programma nucleare per rafforzare l' egemonia regionale dell'Iran. Infine, Ahmadinejad si deve guardare bene dal chiamare il popolo in piazza contro la corruzione perché gli scandali e i processi recenti hanno riguardato proprio i suoi più stretti collaboratori, a partire dalla condanna per corruzione di milioni di dollari inflitta al suo vice presidente e più stretto collaboratore Reza Rahimi.
Nel complesso dunque, l'accusa ad Ahmadinejad di essere il mandante della rivolta appare pretestuosa, una classica scusa di comodo per una rivolta con ben maggiori e radicate ragioni. Ma questo non nasconde le implicazioni gravi di questo arresto: oggi la spaccatura nella compagine del regime attraversa il corpo centrale del fronte conservatore, non più il conflitto tra conservatori e riformisti. Ahmadinejad infatti rappresenta ancora, sia pure in modo minoritario, il blocco politico che unisce Pasdaran e "clero combattente", che è quello che controlla il Majlis, il Parlamento, e che di fatto governa il paese con un riformista Rohani a cui è riservato un puro ruolo di uomo immagine, buono per la credulità dei media occidentali.
Oggi il governo dell'Iran sviluppa in pieno la politica estera del blocco conservatore, rivoluzionaria ed aggressiva e sul piano interno non attua nessuna riforma, ma subordina in toto l'utilizzo delle risorse economiche non a una politica a favore degli strati popolari ma a una politica estera "rivoluzionaria".
Ma - questo è il punto - si avvicina un appuntamento critico: Ali Khamenei la Guida della Rivoluzione è anziano e in pessima salute e presto si aprirà una crisi interna al regime per la sua successione. Crisi che vede le varie componenti l'un contro l'altra armate, pronte a sfidarsi a suon di arresti e di violenze. Questo è il vero volto del "riformismo iraniano" decantato da tanti media politically correct dell'Occidente.
(Libero, 8 gennaio 2018)
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Rivolta in Iran, furia ayatollah. Ahmadinejad è in manette
L'ex presidente accusato di sedizione: avrebbe incoraggiato le proteste contro i privilegi delle élite
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Sembra uno scherzo: Mahmoud Ahmadinejad sarebbe stato messo agli arresti domiciliari a Shiraz per incitamento al disordine. E il ministro dell'Intelligence ha dichiarato: «Tutto è nato da una sedizione interna». E nessuno ha fatto fatica a pensare che si tratti proprio dell'ex presidente. È un paradosso immaginare che nell'ambito della repressione contro la folla scesa in piazza per chiedere la libertà, sia stato rinchiuso anche il peggiore ex leader dell'Iran più duro, un vero fanatico, intento durante il suo mandato dal 2005 al 2013 a costruirsi la bomba atomica per distruggere Israele e per fare a pezzi l'odiata America, e dedicatosi nel frattempo alla maggiore repressione religiosa dei propri concittadini. È lui che costruì archi di trionfo e strade di marmo a Hom, per accogliere il Mahdi, ovvero il messia sciita, una volta che gli fu chiesto conto delle impiccagioni degli omosessuali, rispose che nel suo Paese non esistevano omosessuali. E che dopo un suo discorso all'Onu dichiarò che aveva improvvisamente percepito che lo spirito stava discendendo su tutta l'Assemblea, più o meno pronta a essere convertita. La verità è che Ahmadinejad è stato un personaggio feroce, irragionevole, degno della sua genesi come studente-rapitore degli americani nel '79. Ma si è sempre pregiato di essere di povera famiglia: ha posato, con la sua giacchina bianca sbertucciata e la faccia da miserabile, da uomo del popolo, e può darsi benissimo che abbia dichiarato durante una visita alla città di Busher che la leadership attuale è «distante dai problemi e dalle preoccupazioni della gente, non vive nella realtà, non sa nulla della situazione sociale. Credono di essere i padroni di una società ignorante». È una dichiarazione che si attaglia allo spirito populista di Ahmadinejad, uno che vuole tornare potente incarnando il proletariato, che già nel 2013 è stato arrestato, che nel 2017 voleva di nuovo correre per presidente e ne è stato sconsigliato da Khamenei.
L'arresto è legato alla reazione decisa del governo di Rouhani e degli ayatollah: l'oscuramento dei mezzi di comunicazione impedisce un'informazione precisa. Ma il tentativo di dare la rivolta per morta è una falsità. La ruota dello scontento e della fame di cambiamento gira, ed è più diffusa di quella del 2009, concentrata solo nelle grandi città. Anche sabato notte la gente è uscita per le strade; ci sono quasi 2mila persone imprigionate fra cui i tre quarti sono studenti, di un centinaio di loro non si sa più nulla. Il numero dei morti si conta a decine, ma anche qui le notizie sono nascoste. Ieri è stata convocata una seduta parlamentare cui hanno sentito il democratico dovere di partecipare ministri e guardie rivoluzionarie, gli stessi che poi senza complimenti ordinano la repressione.
Cosa succederà? È difficile dirlo. La folla è uscita in piazza soprattutto richiedendo una vita migliore. Abbiamo sentito predicare mille volte, mentre si stilava l'accordo sul nucleare, che esso avrebbe portato a una migliore economia e a una maggiore moderazione. È successo il contrario: l'Iran è diventato più attivo nel finanziamento di operazioni belliche e terroriste che hanno depauperato la popolazione. I regimi cadono quando si spezzano le classi dirigenti e gli apparati di sicurezza, e questo avviene solo quando la spinta internazionale dà coraggio al disaccordo interno. È indispensabile, ma sembra che solo Nikky Haley abbia espresso il suo supporto. Mentre è con un senso di vergogna che tocca a guardare come i francesi, voce europea al Consiglio di Sicurezza, ripetano che mentre guardano con «vigilanza e preoccupazione» chiedano di non accedere a «posizioni strumentali». Cioè che si seguiterà a commerciare. Che pena. Per arricchire l'Iran? No, solo la classe dirigente, risponde il popolo in piazza, corrotta e guerrafondaia.
(il Giornale, 8 gennaio 2018)
Israele, un paradiso per i cristiani
Lo spiega bene un arabo di Gerusalemme
Scrive il Times of lsrael (29 dicembre)
In quanto cristiano mediorientale desidero informarvi che, sebbene i capi musulmani abbiano cercato di convincere l'occidente che qui i cristiani stanno bene, è vero il contrario". Così scrive Elias Zarina. "Inoltre, essendo nato e cresciuto nel quartiere cristiano della Città Vecchia di Gerusalemme, posso dire con certezza che Israele è l'unico paese di questa regione in cui i cristiani possono prosperare. La cosa potrebbe sorprendere per via di una recente lettera firmata da dirigenti della chiesa, in cui si condanna la dichiarazione su Gerusalemme del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Ripeto, la verità è molto più complessa. I cristiani in medio oriente, compresa Cisgiordania e Gerusalemme est, sono sottoposti a un'enorme pressione da parte dei capi musulmani. Negli anni scorsi la comunità cristiana in tutto il medio oriente ha enormemente patito per l'ascesa degli estremisti jihadisti. Si prendano, ad esempio, le centinaia di migliaia di cristiani sfollati da Siria e Iraq. O il massacro dei cristiani copti in Egitto. Lo stesso vale anche in Cisgiordania. Proprio di recente, un terrorista palestinese ha perpetrato un attacco alla guida di un'auto, nella città cristiana di Beit Jala, ferendo 18 persone e demolendo una quarantina di veicoli. Ho sentito di prima mano che l'obiettivo dichiarato dell'aggressore era "ripulire la zona dagli infedeli". L'Autorità palestinese, che ha arrestato il responsabile, ha diramato una dichiarazione falsa che ignora questa rivendicazione e minimizza l'incidente attribuendolo al solito "disturbato di mente". Non è che l'ennesimo esempio di come l'Autorità palestinese cerca di mascherare i veri pericoli che corrono i suoi residenti cristiani a causa della crescita al suo interno dell'ideologia islamista. Non sorprende quindi che da varie parti della Terra Santa, la terra natale di Gesù Cristo, molti dei suoi seguaci stiano fuggendo in occidente. Sono in fuga dal pericolo di morte inflitto dagli islamisti estremisti. Qui vicino a casa mia, sono molti i cristiani che stanno abbandonando l'Autorità palestinese, malgrado ciò che dicono i suoi dirigenti. L'esodo cristiano dalle città palestinesi, Betlemme inclusa, è la dimostrazione del maltrattamento che subiscono e del loro profondo senso di insicurezza. Tuttavia, sono felice di poter riferire che esiste un luogo, in medio oriente, dove i cristiani prosperano davvero, ed è Israele. La comunità cristiana in Israele continua a crescere di numero. I cristiani in Israele godono di benessere economico, sistemi educativi indipendenti con alcune delle migliori scuole del paese, un eccellente sistema sanitario e pieni diritti civili. E' per questo motivo che cresce il numero di cittadini cristiani che sceglie di arruolarsi volontariamente nelle Forze di difesa israeliane e di continuare a studiare e vivere qui. Quindi, a tutti i pellegrini dico: mi auguro che durante la vostra visita sappiate vedere come, mentre i cristiani di tutta la regione cercano un futuro migliore all'esterno, qui in Israele essi lo cercano all'interno del proprio paese".
(Il Foglio, 8 gennaio 2018)
Raccolta fondi e appello per salvare la Beth Shlomo
La sinagoga-gioiello di Milano
di Alberto Giannoni
«Abbiamo bisogno del vostro aiuto per tenere in vita un importante pezzo dell' ebraismo italiano». Un appello per salvare la storica sinagoga Beth Shlomo è stato lanciato con tre firme: quelle di Eyal Mizrahi, presidente degli Amici di Israele, Davide Romano, assessore alla cultura della comunità Ebraica di Milano ed Eugenio Schek, curatore della «Beth Shlomo». La storia della sinagoga, oggi in corso Lodi 8, parte dal campo di internamento di via Ferramonti, di cui conserva l'armadio sacro, poi passa per via Unione 5, ex sede del Partito fascista diventata punto di raccolta dei sopravvissuti alla Shoah nel viaggio verso Israele, organizzato dai soldati della Brigata ebraica. La sinagoga ha ricevuto l'Ambrogino D'oro dalle mani del sindaco. Oggi è anche la sede dell'associazione Amici di Israele Nazionale e del centro studi nazionale sulla Brigata Ebraica con un piccolo museo e uno spazio multimediale che ospita serate gratuite aperte a tutti e dedicate ai temi dell'ebraismo, di Israele, della Brigata ebraica.
All'appello per salvare la sinagoga aderisce il consigliere municipale di Forza Italia Giampaolo Bemi Ferretti: «Mentre l'antisemitismo rialza la testa - dice - Milano deve rispondere concretamente aiutando a sopravvivere la sinagoga, una realtà che ai milanesi chiede un sostegno concreto per essere ancora più protagonista nella vita della città». L'esponente azzurro si rivolge alla città e la sollecita a sostenere la sinagoga Beth Shlomo, definendola «perla di amicizia, fratellanza e storia».
Mail di riferimento: info@bethshlomo.it
Per informazioni: Giampaolo Berni Ferretti 3278346285
(il Giornale, 8 gennaio 2018)
Gli Ebrei a Shanghai
Fotografie, documenti e testimonianze di una parte della storia ancora davvero poco conosciuta: l'arrivo di circa 20.000 Ebrei in Cina in fuga dalla ferocia nazista durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e la loro vita nel ghetto di Shanghai.
L'Istituto Confucio all'Università di Padova in collaborazione con il Museo della Padova Ebraica - Via delle Piazze n. 26, 35122 Padova - organizza una straordinaria mostra fotografica in occasione della Giornata della Memoria. La mostra si inaugura il 14 gennaio alle ore 17.00 al Museo della Padova Ebraica. Presentazione della mostra a cura del Prof. Giorgio Picci, direttore dell'Istituto Confucio.
In occasione della Giornata della Memoria, l'esposizione "Gli Ebrei a Shanghai" vuole portare all'attenzione del pubblico Padovano un pezzo di storia della Comunità Ebraica ancora poco conosciuto: l'arrivo di decine di migliaia di Ebrei in Cina in fuga dalla ferocia nazista durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e il loro insediamento in un quartiere di Shanghai.
A partire dal 1938 una parte della popolazione ebraica in fuga dall'Europa, e in particolare dall'Austria e dalla Polonia, oppresse dalla morsa del nazifascismo e delle leggi razziali, trovò rifugio a Shanghai.
Vitale fu l'aiuto offerto dal console generale cinese a Vienna, Ho Feng Shan, che, nonostante la forte ostilità del Ministero degli Esteri cinese e dell'ambasciatore cinese a Berlino interessati a mantenere l'appoggio della Germania nella lotta cinese contro il Giappone, concesse visti a circa 13.000 ebrei, aprendo loro una via di salvezza.
Attraverso fotografie, documenti e testimonianze, l'esposizione "Gli Ebrei a Shanghai" organizzata dall'Istituto Confucio all'Università di Padova e dal Museo della Padova Ebraica illustra alcuni aspetti della vita collettiva vissuta a Shanghai nel periodo 1938 - 1948 dalla comunità di rifugiati ebrei, sradicati dai propri Paesi di origine e costretti a vivere in una realtà completamente nuova.
Nel 1942, con l'ingresso dei Giapponesi a Shanghai, le autorità nipponiche imposero l'istituzione di un'area designata per i rifugiati ebrei, definiti apolidi, chiudendoli nel quartiere di Hongkou che divenne sostanzialmente un ghetto all'interno della città di Shanghai. I giapponesi però non misero mai in pratica i piani tedeschi di sterminio della popolazione ebraica. Il ghetto esaurì la sua funzione nell'immediato dopoguerra, quando la maggior parte dei residenti si trasferì negli Stati Uniti, in Australia, in Canada o in Israele per iniziare una nuova vita.
Tra i molti personaggi famosi che transitarono nel ghetto di Shanghai l'Istituto Confucio all'Università di Padova vuole in particolare ricordare George Zames, un insigne scienziato che ha dato contributi fondamentali nel campo della scienza dei sistemi e dei controlli automatici.
(Mur Mur Of Art, 7 gennaio 2018)
Israele mette al bando venti ong che sostengono il boicottaggio
Vietato l'ingresso nel Paese ai loro membri: "Ci danneggiano e diffamano"
di Giordano Stabile
Israele ha pubblicato oggi una lista di 20 organizzazioni che sostengono il boicottaggio dello Stato ebraico e che saranno messe al bando: i loro membri non potranno più entrare nel Paese, come ha specificato il ministero degli Affari strategici.
Le ong sono internazionali, soprattutto americane ed europee, con un piccolo gruppo dell'America del Sud e del Sudafrica. Appoggiano il programma Bds, "Boycott, disinvest, sanction", volto a sanzionare Israele per le sue politiche nei Territori occupati. Una delle più note è la Jewish Voice for Peace, guidata da ebrei americani di orientamento di sinistra.
"Siamo passati dalla difesa all'attacco", ha spiegato il ministro per gli Affari strategici Gilad Erdan: "Le organizzazioni pro-boicottaggio devono sapere che Israele agirà contro di loro e non le lascerà entrare nel suo territorio e danneggiare i suoi cittadini".
Il ministro dell'Interno Arye Dery, che ha compilato la lista, ha aggiunto: "Queste persone sfruttano le nostre leggi e la nostra ospitalità per agire contro Israele e diffamare il nostro Paese. Agiremo contro di loro con tutti i mezzi".
(La Stampa, 7 gennaio 2018)
Cortei antisemiti. Maroni si schiera: «Io con Israele».
Gelmini incalza: «Sala ora agisca»
di Alberto Giannoni
Una condanna rituale e un po' omissiva non basta. A tre giorni dall'intervento del sindaco continuano a piovere commenti sui cortei dell'odio contro Israele, segnati anche da cori antisemiti. Il centrodestra contesta la linea di Beppe Sala, che non ha mai citato la matrice islamica degli slogan più minacciosi. Le parole del primo cittadino, d'altra parte, con un'intervista al «Giornale» sono state criticate anche dall'ex presidente della Comunità ebraica Walker Meghnagi, le cui preoccupazioni sono state rilanciate ieri da due dei principali esponenti di Lega e Forza Italia. «Condivido le parole di condanna e i timori sulla sicurezza espressi da Meghnagi dopo la orribile manifestazione antisemita di Milano - ha detto il governatore - Io sto con il popolo di Israele, senza se e senza ma. Io sto con Gerusalemme Capitale». E anche Mariastella Gelmini si è schierata: «È giunto il momento - anche per chi amministra la città - di non accettare più certi atteggiamenti. Non bastano più le parole, ora ci aspettiamo fatti concreti» ha avvertito la coordinatrice di Forza Italia, il cui gruppo comunale presenterà una mozione: «Dopo le denunce - spiega il consigliere Fabrizio De Pasquale - è necessario che arrivi un'esplicita condanna anche da parte delle associazioni islamiche, specie quelle che siedono ai tavoli comunali. Spero che sia chiara a tutti la distinzione fra la critica a un governo e le parole che evocano l'odio contro gli ebrei o la distruzione di Israele».
(il Giornale, 7 gennaio 2018)
Netanyahu: l'Unrwa deve scomparire
L'Agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi 'deve scomparire per sempre'
"L'Unrwa deve scomparire per sempre": lo ha affermato oggi il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, riferendosi all'Agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi attiva in vari Paesi del Medio Oriente. "La mia proposta - ha detto al governo - è che i fondi destinati all' Unrwa siano invece gradualmente versati all'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), con criteri chiari di sostegno per i profughi veri, e non per profughi fittizi come avviene oggi con l'Unrwa". Riferendosi alle intenzioni Usa di congelare gli aiuti all'Unrwa, Netanyahu ha affermato: "Concordo completamente con le dure critiche del presidente Trump verso l'Unrwa". "Tale agenzia - prosegue Netanyahu - perpetua il problema dei profughi palestinesi, perpetua la richiesta di un preteso 'diritto del ritorno', nell'intento di distruggere lo Stato d'Israele. Pertanto l'Unrwa deve scomparire una volta per tutte". "Si tratta - ha aggiunto - di una organizzazione creata 70 anni fa separatamente solo per i profughi palestinesi.
(ANSAmed, 7 gennaio 2018)
Crociata tedesca anti-islam: «Antisemiti a rischio espulsione»
In Germania la Cdu-Csu prepara una legge contro chi non tollera gli ebrei Comprese le popstar che invitano a non comprare i prodotti di Israele.
di Carlo Nicolato
Senza tregua contro l'odio, che sia quello sui social o quello per strada contro chi indossa la kippah, Berlino ha deciso che i seminatori di rancore vanno arginati, puniti, allontanati.
Dopo la discussa legge che regola i post online dovrebbe infatti arrivare a settimane quella che castiga l'antisemitismo, specie quello dei nuovi arrivati, degli immigrati musulmani che rischiano l'espulsione immediata.
Il testo della mozione
«Chi respinge la vita ebraica in Germania o mette in dubbio il diritto all'esistenza di Israele non può avere un posto nel nostro Paese», dice testualmente la bozza della mozione che sarà presentata al Bundestag dai conservatori al governo, cioè Ude e Csu insieme, proprio in occasione del Giorno della Memoria, cioè il prossimo 27 di gennaio.
Si tratterebbe di un'integrazione alla legge tedesca sul permesso di soggiorno varata nel 2016, che prevede già l'espulsione per chi trasgredisce la legge, ma che molte volte va a cozzare con il diritto al ricongiungimento familiare o con quelli acquisiti per via della minore età dell'immigrato al momento del suo arrivo.
La mozione di Cdu e Csu aggiungerà al concetto generico di rispetto per la convivenza pacifica quello di rispetto integrale di parti specifiche della popolazione, nel caso gli ebrei, e renderà più facili le eventuali espulsioni dei trasgressori.
Le proteste a Berlino
Una misura che certamente non arriva per caso, ma è la diretta conseguenza delle vergognose proteste contro lo Stato israeliano a Berlino il mese scorso, scatenate dalla decisione del presidente Donald Trump di trasferire l'ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme. I manifestanti, quasi tutti immigrati, bruciarono indisturbati per le strade della capitale tedesca le bandiere israeliane, scandendo slogan antisemiti in un Paese che ancora porta le cicatrici e gli indelebili sensi di colpa per l'Olocausto.
L'invito al boicottaggio
Il vicepresidente del gruppo al Bundestag, Stephan Harbarth, ha altresì chiarito che va in particolare contrastato l'antisemitismo degli immigrati «con un background arabo e africano», ma che le intenzioni di Cdu e Csu sono anche quelle di estendere una posizione più dura e ufficiale contro tutte le manifestazioni di odio contro Israele e gli ebrei in genere.
Ci si riferisce tra le altre a campagne tipo «Boycott, Divestrnent and Sanctions», alle quali hanno aderito anche personaggi molto popolari come i musicisti Brian Eno, Roger Waters e Sinead O'Connor.
Sanzioni appropriate
«Il Bundestag tedesco condanna fermamente la richiesta di un boicottaggio delle imprese e dei beni israeliani» ha detto Harbarth, e sarebbe compito della magistratura «esaminare la portata di tali reati e, nel caso, imporre sanzioni appropriate agli autori».
Ma c'è di più, perché il governo tedesco sarebbe anche intenzionato a proporre misure legislative contro quelle compagnie aeree arabe che discriminano gli israeliani. E anche in questo caso la misura non arriva dal nulla, ma da un caso che solo un paio di mesi fa ha provocato indignazione e la vergogna di un'intera nazione.
Nel novembre scorso infatti la Corte Regionale di Francoforte ha respinto una causa intentata da un cittadino israeliano che studia in Germania contro la Kuwait Airways che si è rifiutata di imbarcarlo su un volo per Bangkok. La compagnia si è appellata a una legge del 1964 che vieta accordi con cittadini israeliani, mentre secondo la sentenza del tribunale gli israeliani non appartengono ad alcuna razza o religione o minoranza etnica e dunque in quel caso la discriminazione nei confronti del cittadino in questione non esiste. Nonostante l'intervento del ministro degli Esteri Sigmar Gabriele, di quello del suo vice Michael Roth, che definì «incomprensibile» il fatto che «nella Germania di oggi un cittadino non possa salire su un aereo semplicemente in base alla sua nazionalità», alla fine non se ne fece nulla.
Ora però «è arrivato il momento di colmare il divario giuridico», ha sottolineato la vicepresidente della Commissione Cdu-Csu, Gitta Connemann: «Chiunque voglia fare affari in Germania deve rispettare le nostre regole e coloro che non vogliono, qui non atterreranno più».
(Libero, 7 gennaio 2018)
Segre memoria di Shoa: «I nomi ebrei sulle pietre per le strade di Milano»
Ventisei nuovi sampietrini in ottone per ricordare le vittime dei nazisti. Liliana Segre: «Per ora sono pochissime a Milano e sconosciute. Ricordano dove sono nati e dove sono morti ebrei e antifascisti, chi aveva scelto di stare dalla parte più pericolosa.
di Paola D'Amico
Liliana Segre in occasione della prima «Pietra d'Inciampo» posata a Milano nel gennaio 2017 di fronte alla casa dei suoi genitori in corso Magenta
«Le pietre d'inciampo? Sono piccole lapidi che ricordano chi non ha una tomba». Liliana Segre, classe 1930, sopravvissuta ad Auschwitz, dove morirono l'adorato padre e i nonni, da trent'anni testimone della Shoah, è presidente del Comitato che s'è costituito a Milano per replicare l'iniziativa lanciata dall'artista Gunter Demnig in Germania nel 1995 e che raccoglie, per la prima volta dopo la Liberazione, tutte le associazioni legate alla memoria della Resistenza.
- Sampietrini in ottone, oggetti di memoria diffusa che s'innestano nel tessuto urbano, per raggiungere più persone?
«Per ora sono pochissime a Milano e sconosciute. Con la posa in programma il 19 e 20 gennaio a Milano se ne aggiungeranno 26. Ricordano dove sono nati e dove sono morti ebrei e antifascisti, cioè coloro che avevano scelto di stare dalla parte più pericolosa. Ma perché siano pedine della memoria e i ragazzi possano davvero inciamparvi, il ruolo di insegnanti e adulti è davvero fondamentale».
- Qual è il suo timore?
«Che siano travolte dall'indifferenza e dall'ignoranza, perché nella vita si sta sempre sul carro dei vincitori, non dei perdenti, degli ultimi».
- Ha spesso ripetuto che l'indifferenza uccide più della violenza.
«Bisogna avere il coraggio delle proprie idee, se no si naufraga nell'indifferenza. È trent'anni che parlo di indifferenza, ricordando l'immane tragedia della Shoah. Una parola che troneggia a lettere cubitali anche all'ingresso del Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione Centrale. E da trent'anni le mie sono soltanto parole di pace. Da quando ho conosciuto l'odio, ed ero poco più che una bambina. Da quando ho conosciuto la solitudine, lo "stupore per il male altrui" come scrisse Primo Levi. Sono sopravvissuta per miracolo e, dopo anni e anni di silenzio, di un tempo infinito per curare le mie ferite (che non si sono mai chiuse, del resto), ho cominciato da donna quasi vecchia a diventare testimone della Shoah. Ho sempre scelto, incontrando gli studenti e le persone che vengono ad ascoltarmi, di non parlare mai di odio e di vendetta, perché sono uscita viva dal lager senza essermi mai vendicata, scegliendo di essere una donna libera».
- Cosa pensa del rigurgito di antisemitismo?
«È come un'onda che cresce. Sento che la pace è lontana. A distanza di tanti anni dalle leggi razziali, che mi costarono l'espulsione dalla scuola di via Ruffini avevo otto anni mi sembra impossibile di dover rileggere sui giornali o rivedere alla televisione o sentire intorno a me quell'odore bestiale dell'odio verso l'altro. Ed è un odore che a me riporta un odore diverso, quello della carne bruciata nella cenere di Auschwitz».
- È pessimista?
«Sono molto pessimista. Quando leggo di quei barconi che si rovesciano nel Mediterraneo e muoiono centinaia di persone di cui non si saprà mai il nome, penso sempre che il mare della dimenticanza coprirà anche quei 6 milioni di morti per la colpa di essere nati. Man mano che noi testimoni ce ne andiamo, perché siamo vecchi, si fa strada sempre più quel negazionismo che fa comodo a tutti. C'è sempre qualche voce che nel giorno della Memoria dice "e basta con questi ebrei"».
(Corriere della Sera - Milano, 7 gennaio 2018)
«Tu sei maestro dIsraele e non sai queste cose?»
Cera tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, uno dei capi dei Giudei. Egli venne di notte da Gesù, e gli disse: «Rabbì, noi sappiamo che tu sei un dottore venuto da Dio; perché nessuno può fare questi miracoli che tu fai, se Dio non è con lui». Gesù gli rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio». Nicodemo gli disse: «Come può un uomo nascere quando è già vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?» Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato dacqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: "Bisogna che nasciate di nuovo. Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito». Nicodemo replicò e gli disse: «Come possono avvenire queste cose?» Gesù gli rispose: «Tu sei maestro dIsraele e non sai queste cose? In verità, in verità ti dico che noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo di ciò che abbiamo visto; ma voi non ricevete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato delle cose terrene e non credete, come crederete se vi parlerò delle cose celesti? Nessuno è salito in cielo, se non colui che è disceso dal cielo: il Figlio delluomo che è nel cielo. «E, come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio delluomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna. Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna. Infatti Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Dal Vangelo di Giovanni, cap. 3
Elie, l'ebreo rinato e la Memoria dell'orrore nazista
È stato creduto morto a Birkenau invece è riuscito a sopravvivere per testimoniare. "Ogni sopravvissuto ha impiegato decenni prima di iniziare a raccontare. Dopo la guerra in molti non credevano alle nostre parole". Domani pomeriggio sarà alla Casina dei Vallati.
di Laura Mari
C'è chi è morto tra le baracche e il filo spinato, chi nelle camere a gas. Altri sono sopravvissuti, in silenzio hanno ripreso a vivere e poi, d'improvviso, hanno iniziato a raccontare la tragedia. Qualcuno è morto senza parlare. Altri hanno deciso di iniziare a farlo ora. Come Elie Marey, un ebreo francese di 93 anni che domani pomeriggio alle 17.30, per la prima volta, racconterà la sua deportazione ad Auschwitz durante un incontro organizzato alla Casina dei Vallati dalla Fondazione Museo della Shoah. «Sarà una testimonianza inattesa, che arriva decenni dopo la liberazione di Auschwitz e la tragedia dell'Olocausto - sottolinea Mario Venezia, presidente della Fondazione - un incontro reso possibile dalla collaborazione con il Progetto Talmud e con Bruno Piperno e Celeste Pavoncello, che grazie alle loro conoscenze ci hanno messo in contatto con Marey», Elie in realtà si chiamava Elia e ai tempi della guerra il suo cognome era Mizrachi. Nato a Tours, in Francia, il 6 maggio del 1924, visse in Italia negli anni del nazifascismo e nel '44, appena ventenne, fu arrestato a Firenze e detenuto nel carcere delle Murate. Di quei giorni di prigionia Marey parlerà domani, chiarendo finalmente in quale città fu catturato, poiché ogni documento relativo a quell'arresto è andato perso durante l'alluvione che distrusse l'Archivio di Firenze il 4 novembre del 1966, nella grande esondazione dell'Arno. Dopo essere stato trasferito nel campo di transito di Fossoli, in Emilia Romagna, Elie Marey venne deportato il 26 giugno 1944 e arrivò nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, quattro giorni dopo, il 30 giugno del 1944. Lì, nel lager, Marey diventò un numero, nient'altro che un tatuaggio sul braccio: A-15790. Insieme a lui vennero immatricolati nel campo, in totale, 180 uomini e 51 donne. Poi di ciò che accadde a Marey non si è più saputo niente. Alcuni sopravvissuti raccontarono che il francese sarebbe morto in luogo e data ignota e che i sopravvissuti di quel convoglio furono solo 35. Ma in realtà erano di più, 36: tra loro, infatti, c'era anche Elie, che poi diventerà Elia Muray, conservando il ricordo dell'orrore dei campi di sterminio nazisti.
«Ogni sopravvissuto, me compreso, ha impiegato decenni prima di iniziare a raccontare, a testimoniare. Dopo la guerra non eravamo pronti, in molti non credevano alle nostre parole» ammette Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz che domani incontrerà Marey con un altro deportato, Sami Modiano. Con loro ci sarà anche lo storico Marcello Pezzetti. Ad accomunare i tre sono tanti Viaggi della Memoria in cui hanno accompagnato studenti romani (e non solo) nell'orrore dei campi di sterminio.
«Non ho conosciuto Elie nel lager, ma so che abbiamo affrontato la stessa tragedia» prosegue Terracina. «La sua testimonianza è ancora più importante - dice - in un momento in cui i rigurgiti neofascisti attraversano il presente. Ma so che oggi la gente sa. Ora tutti conoscono l'orrore della Shoah e confido che questa consapevolezza possa impedire, con reazioni forti e unanimi, l'avvento di nuovi fascismi».
(la Repubblica, 7 gennaio 2018)
Passeggiata natalizia nel quartiere ebraico
di Danilo Scaringia
Il ghetto ebraico di Roma
Un grigio venerdì di inizio dicembre mi sono trovato a passeggiare per il quartiere ebraico di Roma (antico ghetto) e ho subito notato che non c'era molta gente per le stradine e i vicoli del ghetto colmo di locali tipici, come ristoranti di cucina kasher, bar, negozi di souvenir, gelaterie. Tuttavia i dipendenti di questi posti non sono solo ebrei, ma di diverse etnie e culture.
All'interno del museo, sito al di sotto della sinagoga, si possono ammirare oggetti in argento, rame, carta riguardanti la religione ebraica: la Torah (=istruzione, insegnamento), ad esempio, è una pergamena tramite la quale i più saggi tramandano la dottrina agli inesperti, come i genitori ai figli, nella cultura ebraica essa è, per antonomasia, la Legge; la Menorah invece è il famoso candelabro a più bracci, di solito sette. Proprio quest'estate, sia nel Museo Ebraico sia all'interno dei Musei Vaticani, è stato possibile visitare una mostra dedicata alla Menorah, tale esposizione ha rappresentato il primo progetto comune tra le due istituzioni, la cui realizzazione è un segno di pace e collaborazione fra le due culture, cristiana ed ebraica, nella città dove esse convivono da oltre venti secoli. Una festa ebraica molto importante di questo periodo è la Hanukkah (=inaugurazione), detta anche "Festa delle luci" o "Festa dei Lumi", che dura per otto giorni a partire dal tramonto del 24 del mese di kislev (dicembre), che ricorda la liberazione di Israele dagli occupanti ellenici con la conseguente consacrazione di un nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme.
Mi sarebbe piaciuto entrare all'interno della sinagoga ma notando la sicurezza all'entrata sono rimasto un po' intimorito e ho cambiato idea. In generale proseguendo nella mia passeggiata ho avvertito un clima di tensione fra gli abitanti del ghetto e i turisti. Sembra quasi di stare ad Israele o nei territori occupati.
All'interno del ghetto si è i benvenuti ma ci si sente osservati.
(180gradi, 6 gennaio 2018)
Nell'universo farlocco dell'Autorità Palestinese, non esiste nessuna traccia di storia ebraica
Intanto gli archeologi scoprono l'ennesimo reperto che conferma la storia ebraica sin dall'epoca del primo Tempio
Da un editoriale di Omar Hilmi Al-Ghoul su Al-Hayat Al-Jadida, quotidiano ufficiale dell'Autorità Palestinese (9.12.17): "Donald Trump ha negato la storia quando ha affermato che Gerusalemme è la capitale d'Israele e degli ebrei da tremila anni. Non intendiamo esaminare qui l'ignoranza e la falsificazione della storia di Trump e il suo allinearsi alla falsa narrativa sionista, perché è tutto chiaro come il sole. Se Trump vuole sapere la verità, basta che chieda agli archeologi israeliani che per 70 anni hanno cercato e non hanno mai trovato un singolo reperto archeologico attinente al terzo [sic!] Tempio, né altri resti archeologici che colleghino gli ebrei alla Palestina in generale"....
(israele.net, 6 gennaio 2018)
Summit dei ministri degli Esteri di cinque Paesi arabi su Gerusalemme
I ministri degli Esteri di cinque Paesi arabi (Giordania, Egitto, Emirati, Arabia Saudita e Marocco) si incontreranno oggi ad Amman per discutere degli sviluppi della crisi innescata il mese scorso dalla decisione del presidente Usa, Donald Trump, di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Alla riunione saranno presenti anche il segretario generale della Lega Araba, Ahmed Aboul Gheit e il ministro degli Esteri dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Riyad al-Malki.
(sinapsinews, 6 gennaio 2018)
"Guerra tra Israele e Hezbollah? Solo se ci sarà un errore di calcolo"
di Riccardo Intini
Truppe di Hezbollah schierate in Siria
Bombardamenti governativi a Douma, un sobborgo di Damasco
Da quando Donald Trump ha annunciato la propria intenzione di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele, i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza contro lo Stato ebraico sono stati più di venti: una parte di essi è stata intercettata dai sistemi di difesa israeliani, mentre gli altri sono precipitati in territorio palestinese. Ma i razzi e i colpi di mortaio provenienti da Gaza - ai quali Israele ha già risposto con una serie di bombardamenti aerei - non rappresentano certo l'unico problema con il quale sono costretti a misurarsi gli israeliani: lo Stato ebraico deve guardarsi anche dalle mire espansionistiche dell'Iran, considerato da Israele un vero e proprio nemico esistenziale.
L'Iran sciita è anche uno dei principali alleati del governo siriano, e nell'ultima guerra civile il suo contributo si è rivelato assolutamente decisivo: senza le milizie iraniane, infatti, il governo di Bashar al Assad sarebbe stato quasi sicuramente spodestato dai numerosissimi gruppi armati e dalle forze ribelli che volevano abbatterlo. Grazie all'appoggio di Iran e Russia - quest'ultima decisiva soprattutto per i suoi bombardamenti aerei - Assad è riuscito a mantenere il controllo del governo, un risultato ottenuto dopo un conflitto che ha causato più di 400mila morti.
Gli alleati della Siria - tra i quali anche Hezbollah, il gruppo libanese appoggiato dall'Iran - possono ora vantare un enorme credito nei confronti del governo di Assad. Una situazione che potrebbe rivelarsi estremamente problematica soprattutto per Israele (che confina anche con la Siria). Israele ha già annunciato che non tollererà soldati iraniani a meno di 40 chilometri dal proprio confine, e il divieto è stato esteso anche alle installazioni e alle basi militari di matrice iraniana.
Una delle conseguenze più evidenti del conflitto siriano, in ultima analisi, è stata la progressiva penetrazione dell'Iran e dei suoi alleati in Siria, un territorio che potrebbe essere utilizzato come una sorta di base per le successive operazioni contro Israele. È ovviamente uno degli scenari maggiormente temuti dagli israeliani, e alcuni analisti hanno addirittura parlato della possibilità di un conflitto imminente tra Israele e il gruppo libanese di Hezbollah, finanziato anche dall'Iran.
Di tutto ciò abbiamo parlato con Yossi Melman, noto analista ed esperto di intelligence, al quale abbiamo sottoposto qualche domanda incentrata sullo scacchiere mediorientale e sulla possibilità di un conflitto imminente tra Israele e i suoi peggiori nemici.
- Molti esperti parlano di un conflitto imminente tra Israele ed Hezbollah. È uno scenario plausibile, secondo la sua opinione?
"No. Entrambe le parti non vogliono una guerra. La pace lungo il confine libanese è stata mantenuta per undici anni e mezzo. È il risultato della deterrenza israeliana e del profondo coinvolgimento di Hezbollah in Siria, dove ha perso quasi 2000 combattenti: circa il 10% della sua forza regolare. Il pericolo più grande è che una guerra possa scoppiare a causa di un errore di calcolo, proprio come è successo nell'estate del 2006 contro la volontà delle due parti".
- I missili recentemente utilizzati dallo Yemen sembrerebbero di fabbricazione iraniana. Com'è possibile che siano arrivati in Yemen? L'Iran potrebbe trasportarli anche in Siria?
"No, sono trasportati via mare e in passato anche da navi del Sudan, un ex alleato dell'Iran che ha recentemente cambiato schieramento per unirsi ai sauditi".
- Come è stata accolta dagli israeliani la notizia della liberazione del Ghouta occidentale da parte dell'esercito siriano? Il loro avvicinamento a Israele è considerato una minaccia?
"No. L'esercito israeliano e la comunità di intelligence vedono ora Assad come una forza stabilizzatrice e non più come una minaccia: Israele accoglierà con favore il ritorno dell'esercito di Assad fino al confine secondo l'accordo stipulato nel 1974 tra le due parti, che è tuttora in vigore (il riferimento è alla risoluzione 350 del 31 maggio 1974, con la quale il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite diede vita a una missione per gestire il disimpegno delle forze israeliane e siriane, n.d.r.). In ogni caso, essi continuano a opporsi allo schieramento e alla presenza delle forze iraniane e / o dei loro alleati di Hezbollah e degli altri alleati delle milizie sciite vicino al confine israeliano, nonché al trasferimento di missili guidati a Hezbollah in Libano".
- Le proteste in Iran potrebbero concludersi con una riduzione della loro aggressività espansionistica?
"Sì, nel senso che stanzieranno meno denaro per sostenere i loro delegati in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Alcuni slogan dei dimostranti dicono "No Gaza, no Libano, solo il sacro Iran".
- Qual è la sua opinione in merito all'accordo raggiunto da Israele e Stati Uniti per contrastare l'attività dell'Iran in Medio Oriente?
"Solo parole. Sono necessarie azioni concrete da parte dell'amministrazione Trump, ma la sua politica finora è ruotata attorno all'isolamento e all'allontanamento dalla politica mondiale, ovunque".
- Se si arriverà a una guerra tra Israele e l'Iran, che tipo di guerra sarà?
"Non credo che si arriverà a un conflitto tra le due nazioni nel prossimo futuro, ma se scoppierà, l'Iran lancerà missili e utilizzerà Hezbollah come fanteria, cercando di fare lo stesso con Hamas e il gruppo Jihad islamico a Gaza. Israele lancerebbe missili, attiverebbe la sua aviazione e bombarderebbe Hezbollah in Libano e in Siria, se tenteranno di aprire anche un quarto fronte dalla Siria".
Secondo il giornale kuwaitiano Al-Jarida, Washington avrebbe dato il via libera a Israele per l'uccisione di Qassem Soleimani, un generale iraniano specializzato nelle operazioni all'estero. Quest'ultimo, a inizio dicembre, avrebbe addirittura manifestato la disponibilità dell'Iran a sostenere alcuni gruppi impegnati nella striscia di Gaza nel caso di un conflitto contro Israele.
La connessione tra l'Iran e Hamas non è più un segreto per nessuno: tre giorni fa, mentre in Iran infuriavano ancora le proteste antigovernative, il generale israeliano Gady Eisenkot ha affermato che Teheran, nel corso degli ultimi cinque anni, avrebbe versato 100 milioni di dollari ogni anno ad Hamas e ad altri gruppi della Striscia di Gaza, e che la cifra stanziata per gli Hezbollah libanesi sarebbe ancora maggiore: tra i 700 milioni e il miliardo di dollari. Secondo alcuni media israeliani, negli scorsi giorni, alcuni dei cori più violenti intonati dai dimostranti iraniani erano diretti proprio contro Hamas ed Hezbollah.
(Gli occhi della guerra, 6 gennaio 2018)
Egitto - Ministro Esteri: "La sicurezza del Mar Rosso è parte della sicurezza nazionale araba"
IL CAIRO - La sicurezza del Mar Rosso è "parte indivisibile della sicurezza nazionale araba". Lo ha detto oggi il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, a margine dei colloqui ad Amman con l'omologo saudita Adel al Jubeir. "Il Mar Rosso è un'estensione della sicurezza nazionale araba", ha detto Shoukry, secondo quanto riporta un comunicato della diplomazia egiziana. I capi della diplomazia di sei paesi arabi si trovano oggi in Giordania per un vertice ristretto della Lega Araba per discutere dello status di Gerusalemme. Oltre al Mar Rosso, i colloqui tra i ministri degli Esteri del Cairo e Riad si sono concentrati sulla situazione in alcuni paesi arabi e nel Corno d'Africa. "I colloqui riflettono una percezione comune per la natura delle sfide che affliggono la regione e un consenso sulle visioni sul modo migliore per affrontare tutte le forme di intervento esterno nei paesi arabi", ha dichiarato Ahmed Abu Zeid, portavoce del ministero degli Esteri egiziano.
Shoukry e Al Jubeir hanno sottolineato la necessità di uniformare il coordinamento e la solidarietà tra i due paesi di fronte a tutte queste sfide. I colloqui di oggi ad Amman riguardano anche gli sviluppi della causa palestinese, alla luce del riconoscimento degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale ufficiale di Israele. A tal proposito, prosegue il comunicato del Cairo, Shoukry e l'omologo saudita hanno sottolineato la necessità di preservare lo status giuridico e storico di Gerusalemme secondo le risoluzioni internazionali pertinenti. Per quanto riguarda le situazioni in Siria, Libia e Yemen, Shoukry ha informato Al Jubeir dei risultati dei recenti incontri che si sono svolti al Cairo con i membri dell'Alto comitato negoziale siriano, lodando gli sforzi del Cairo e di Riad per riunire la delegazione negoziale dell'opposizione siriana nel secondo incontro di Riad.
(Agenzia Nova, 6 gennaio 2018)
Gli ebrei sono braccati a Parigi
Molte famiglie abbandonano i loro quartieri per insediarsi in zone più sicure. Fuggono da insulti, minacce e persino dalle violenze.
di Ettore Bianchi
Quelli che dicono
che se ne parla troppo ...
... quando le vittime sono ebree ...
... in realtà vogliono che non se ne parli,
perché le vittime sono ebree
Ebrei spaventati, in Francia, si spostano per fuggire dall'antisemitismo. Aggressioni, atti di vandalismo, minacce, ingiurie: sono dozzine di atti antisemiti che l'ufficio francese di vigilanza contro l'antisemitismo (Bnvca) censisce ogni anno. Il loro numero è diminuito nel 2016, secondo i dati ufficiali, ma in alcune periferie l'antisemitismo è talmente presente che spinge gli ebrei ad andare via e a trasferirsi in altre parti della città dove si sentono al sicuro, secondo quanto ha riferito Le Figaro.
Uno studio della Fondazione per l'innovazione politica, pubblicato a settembre, e riportato da Le Figaro, sulla violenza antisemita in Europa, rivela che la Francia, che conta la più importante comunità ebraica d'Europa, è il paese con il maggior numero di incidenti violenti, all'incirca 4.092, nel decennio 2005-2015, secondo le stime. Il 60% degli ebrei francesi si dichiarano preoccupati per le aggressioni che ricevono in strada per il solo fatto di essere ebrei. E il presidente del consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, Francis Kalifat, ha rivolto un appello alle autorità chiedendo di potenziare la vigilanza e di comminare sanzioni esemplari per ottenere un effetto di dissuasione. L'appello è arrivato dopo che una famiglia ebrea è stata sequestrata, sottoposta a violenze e derubata a settembre, a Livry-Gargan, a Seine-Saint Denis.
Il fenomeno è cominciato dopo la seconda intifada, nel 2000, ed è avvertito fortemente nella regione parigina dove vive la metà di qualcosa come 500 mila ebrei di Francia. Alle cifre, già impressionanti dell'alya, l'emigrazione degli ebrei verso Israele (5mila partenze nel 2016, 7.900 nel 2015), all'esilio verso paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti o il Canada, si aggiunge una forte mobilità dall'Est verso l'Ovest di Parigi, secondo quanto ha raccontato a Le Figaro, Jérome Fourquet politologo dell'Ifop e autore del libro L'anno prossimo a Gerusalemme? «L'esposizione alla violenza antisemita», ha detto, «è molto correlata al portare la kippa».
La regione Seine-Saint-Denis è particolarmente toccata. Sophie e Laurent hanno trovato un alloggio sociale, e a 50 anni, devono ripartire da zero e nessuno li sta aiutando. Paul, avrà difficoltà a vendere la propria a casa a Noisy-le-Grand: in aprile due pacchi sono stati depositati davanti alla sua cassetta delle lettere accompagnati da minacce: «Allah akbar boum boum. A morte gli ebrei. Siete nel mirino. Il prossimo pacco è per tutta la famiglia». E sui muri sono comparse le scritte inneggianti all'Isis: «Viva Daeeh». Paul ha raccontato a Le Figaro che sua moglie è terrorizzata, che non può più lasciare in giardino i figli e lui ha smesso di dormire e si sveglia di soprassalto. L'ufficio del sindaco era intervenuto, ma loro sono tornati dieci giorni fa. Monica 87 anni, è stata minacciata di morte a fine agosto e adesso se ne vuole andare, come Alain che ha lasciato Bondy per discriminazione razziale dopo che gli hanno scritto «sporco ebreo, Viva la Palestina» sul muro di casa.
Risultato: 60 mila ebrei dell'Ile-de-France se ne sono andati nell'ultimo decennio, a vantaggio del XVI e XVII arrondissement. Altro rifugio Sarcelles, nella Val-d'Oise, 60 mila abitanti che merita il soprannome di piccola Gerusalemme dove gli ebrei si sentono di poter vivere la loro religione in sicurezza. Invito ad ospitare gli ebrei sono arrivati da Limoges e da Bordeaux.
(ItaliaOggi, 5 gennaio 2018)
Israele mette in guardia gli Usa: 'Senza fondi, a Gaza sarà il caos'
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, avrebbe chiesto all'amministrazione del Presidente americano Donald Trump, di non tagliare i fondi all'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi. A riferirlo, un funzionario del ministero degli Esteri israeliano, citato dalla stampa locale. Israele sarebbe dunque contraria ai tagli proposti dall'amministrazione Trump - annunciati dallo stesso presidente su Twitter - nei confronti dell'agenzia di aiuti dell'Onu per i palestinesi perché le conseguenze potrebbero portare ad un disastro umanitario nella Striscia di Gaza. "Dietro le quinte, il Primo ministro (Netanyahu) è in contatto con gli americani per fare in modo di prevenire un massiccio taglio" all'Unrwa, affermava un servizio andato in onda sul canale due israeliano.
Secondo il Jerusalem Post, un documento interno preparato dal ministero degli Esteri israeliano riporta che la mossa americana "potrebbe peggiorare la situazione umanitaria e portare alla catastrofe, specialmente a Gaza", aggiungendo che "non aiuterà, ma al contrario, [pone l'onere su] Israele". Inoltre, le fonti hanno osservato che "anche i funzionari dell'esercito credono che tagliare il bilancio non sia d'aiuto, anzi". Gli Stati Uniti nel 2016 sono stati il principale donatore dell'Unrwa, con 368.429.712 dollari.
Israele, per parte sua, ha più volte contestato l'agenzia internazionale, soprattutto a causa del suo atteggiamento nei confronti del movimento terroristico di Hamas a Gaza. Il generale Yoav Mordechai, capo del Coordinamento delle attività governative nei Territori, ha denunciato che il personale dell'Unrwa a Gaza gira la testa mentre Hamas scava gallerie sotto le scuole gestite dall'agenzia stessa. Nel giugno 2017, Mordechai ha rivelato che Hamas aveva scavato un tunnel sotto una scuola nel nord di Gaza. Ha anche accusato Hamas di usare gli alunni come scudi umani e ha puntando il dito contro i leader e il personale dell'Unrwa per non aver impedito lo scavo delle gallerie nonostante il pericolo che ciò rappresenta per gli studenti.
(moked, 5 gennaio 2018)
Merrill Lynch e Israele, stretta sul Bitcoin
Merrill Lynch mette al bando il Bitcoin. La banca Usa ha istruito i propri dipendenti di non proporre o accettare le richieste dei clienti di investire nel fondo Grayscale Investment Trust, direttamente legato ad investimenti nella criptovaluta È quanto emerge da una nota dell'istituto, controllato da Bank of America, diretta a dipendenti e suoi consulenti finanziari. La "crociata" del mainstream contro il Bitcoin vede inoltre ora protagonista anche lo Stato di Israele che è pronto a varare un giro di vite per il mercato dei Bitcoin. L'autorità di regolamentazione del mercato del Paese è decisa a vietare il commercio con le società di Borsa di Tel Aviv, la cui attività principale ruota intorno ai Bitcoin e altre criptovalute. L'autorità ha proposto un emendamento alla normativa sul trading che vieterebbe la quotazione in Borsa di società che investono principalmente in criptovalute mentre per quelle già quotate ci sarebbe il delisting. La proposta di emendamento è arrivata dopo un forte aumento delle azioni di Blockchain Mining, una società che ha dichiarato di voler spostar la propria attenzione dal settore minerario per l'oro e il ferro alle monete virtuali.
(Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2018)
Fonti palestinesi: Hamas pronto a consegnare le armi all'Olp
Media: il movimento ha scelto irrevocabilmente la riconciliazione
ROMA - Il movimento islamista Hamas che controlla la Striscia di Gaza avrebbe comunicato all'Autorità Nazionale palestinese di mettere le sue armi "a disposizione" dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Lo ha scritto oggi il quotidiano panarabo al Hayat che cita "uno dei leader dell'Olp" ed un "esponente" di Hamas. La decisione di Hamas - secondo queste fonti - sarebbe stata comunicata in forma scritta al presidente palestinese Abu Mazen.
"La visione di Hamas è quella di mettere le armi della Resistenza sotto i comandi e le decisioni della leadership (dell'Olp) o del Comitato Centrale quando il Movimento ne farà parte", ha detto ad Al Hayat la fonte palestinese indicata come "esponente di Hamas a Gaza", la quale ha precisato che "molto recentemente, Hamas, ha inviato un messaggio in tal senso in forma scritta" al presidente Abu Mazen.
Sabotare i piani di Trump ad ogni costo
La nuova presa di posizione del movimento islamista, sempre più orientato a proseguire nel processo di riconciliazione inter-palestinese - secondo il giornale - sarebbe dettata dalla necessità di fare fronte alla decisione del presidente americano Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. La nuova linea di Hamas "è stata consolidata dopo il riconoscimento di Trump" di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. La leadership di Hamas è ora determinata a "fare fronte alla decisione di Trump ad ogni costo anche quello della vita", sempre secondo le fonti di Al Hayat.
Entrare nel sistema politico
Stando a una seconda fonte di Hamas che si trova a Ramallah interpellata, "il movimento (Islamico) è intenzionato a partecipare alla riunione del Comitato Centrale del prossimo 14 gennaio. Primo, perché Hamas vuole entrare nel sistema politico e fare parte delle istituzioni dell'Olp e dell'Anp; secondo, perché vede che l'attuale fase politica richiede resistenza alle pressioni americane che mirano ad imporre soluzioni dall'alto sui palestinesi".
Riconciliazione, opzione strategica
"Hamas ha abbandonato per sempre l'idea di rimanere divisi", ha detto la fonte, spiegando che il nuovo leader a Gaza Yehia al Sanwar, avrebbe già ribadito all'Olp che "l'opzione strategica del movimento è la riconciliazione nel quadro di una visione che mira a risollevare il progetto nazionale palestinese e difenderlo. perché è convinto che la questione palestinese è chiamata a fare fronte a grandi pericoli sia a livello regionale che internazionale".
(askanews, 5 gennaio 2018)
«Slogan contro gli ebrei, il silenzio delle religioni»
L'eco della deriva presa dalla manifestazione pro Palestina, in un sabato di dicembre nel centro di Milano, non si spegne. Per otto volte allora è stato scandito in arabo il motto dei jihadisti «Khaybar, Khaybar, o ebrei, l'armata di Maometto ritornerà». Un fatto già condannato dal sindaco Sala e oggetto di una denuncia. Cresce il coro di condanna per gli slogan antisemiti. In allarme è la Comunità ebraica che ha chiesto che agli organizzatori di quel raduno non siano mai più concessi spazi pubblici.
Caro direttore,
9 dicembre 2017 - La manifestazione islamica a Milano. Pensiamo utile riproporre più volte questo video affinché con l'approssimarsi del Giorno della Memoria, in cui si ricordano in modo solenne avvenimenti di settant'anni fa, si faccia memoria anche di un avvenimento di poche settimane fa, molto meno grave certamente, ma premonitore di gravissimi avvenimenti del futuro; se davvero si desidera che non avvengano "mai più".
Siamo rimasti sconcertati dagli slogan risuonati nella manifestazione del 9 dicembre a Milano (di cui solo dopo alcuni giorni si sono diffuse le registrazioni e le traduzioni delle frasi urlate in coro in arabo tradotte e divulgate da Giulio Meotti), slogan che non solo ricordavano un antico massacro di ebrei, ma costituivano un vero e proprio invito a ripeterlo. Si tratta, come ha dichiarato in un comunicato l'Anpi provinciale, del «più grave episodio di antisemitismo degli ultimi anni». Siamo rimasti sconcertati dal fatto che in Italia possano risuonare slogan che invitino a massacrare gli ebrei. Negli ultimi giorni abbiamo assistito a prese di posizione sull'argomento da parte di politici milanesi e non, in particolare la denuncia dei deputati Fiano e Bussolati e la dichiarazione del sindaco Sala. Crediamo però che ciò non sia sufficiente.
Il prossimo 27 gennaio ricorrerà il Giorno della Memoria e in quell'occasione sentiremo certamente e giustamente parlare dell'indifferenza che ha permesso l'attuazione della Shoà. Oggi dobbiamo dolorosamente constatare che quell'indifferenza continua ancora. Assistiamo sempre più frequentemente a manifestazioni di antisemitismo che non è mai stato del tutto debellato e che, come un virus, si è mutato in quelle subdole forme di antisionismo che non sembrano provocare le reazioni di indignazione e di scandalo che dovrebbero suscitare. Purtroppo queste manifestazioni di odio antiebraico non sono una novità né in Medio Oriente né in diverse città europee.
Assistiamo a continui episodi di antisemitismo in Francia e in Svezia senza che ciò susciti rilevanti reazioni di indignazione. Riteniamo che tali reazioni debbano arrivare secondo noi soprattutto dalle autorità religiose, anche quelle islamiche. Reazioni che sono state finora assenti. Le autorità potrebbero e dovrebbero esprimere senza calcoli politici l'indignazione morale per quanto sta avvenendo e dovrebbero dare un serio e concreto contributo per un cambiamento che vada al di là degli slogan e del politicamente corretto e ribadire con forza riguardo alla pericolosità di ciò che sta avvenendo.
Un grande Maestro dell'ebraismo contemporaneo Joseph Soloveitchik afferma che durante la Shoà ci fu un'assenza di reazioni da parte dei Paesi democratici e di importanti istituzioni religiose. Assenza di reazioni dovute in buona parte a calcoli di opportunità politiche. Ma dice che noi dovremmo essere capaci di sentire il dolore del prossimo; se ciò avviene, non c'è più spazio per i calcoli di opportunità.
Crediamo che soprattutto le istituzioni religiose debbano andare al di là di questi calcoli e debbano essere in grado di mettere in guardia.
Contrariamente alle nostre abitudini abbiamo voluto intervenire sul grave episodio avvenuto a Milano perché crediamo sia giunto il momento di dare un segnale, soprattutto alle autorità religiose e a chi è impegnato nel dialogo interreligioso, alla vigilia di due giornate importanti, il 17 gennaio Giornata del dialogo ebraico-cristiano e il 27 gennaio, Giorno della Memoria, affinché tali giornate non siano occasione per pronunciare discorsi retorici vuoti di significato.
Rav Alfonso Arbib
Presidente Assemblea dei rabbini d'Italia
(Corriere della Sera, 5 gennaio 2018)
Santa Sede. Gerusalemme resti «città della pace»
Civiltà Cattolica: il Vaticano incoraggia trattative dirette. E al-Azhar prepara una conferenza internazionale.
ROMA - «La Santa Sede continua a lavorare instancabilmente per promuovere la sua visione di Gerusalemme come città di pace e luogo dove ebrei, musulmani e cristiani possano vivere insieme ed essere testimoni di un Dio che ama tutti». Lo ribadisce il fascicolo della Civiltà Cattolica anticipato ieri, il primo del 2018, con un articolo su "Gerusalemme e la Chiesa cattolica". Nel secolo scorso, ricorda la rivista, «per la Chiesa, sono rimasti costanti due problemi fondamentali: la protezione dei Luoghi Santi cristiani e il libero accesso a essi; il benessere delle comunità cristiane di Gerusalemme». Ad essi, «in tempi recenti, si sono aggiunte due preoccupazioni: la promozione della giustizia e della pace e la crescita del dialogo interreligioso».
Dopo il Vaticano Il, osserva poi La Civiltà Cattolica, «emergono altri piccoli cambiamenti nel discorso cattolico riguardo a Gerusalemme». E in particolare, «un elemento emerso più di recente nella posizione della Santa Sede» è quello di «incoraggiare trattative dirette tra israeliani e palestinesi per decidere il destino territoriale di Gerusalemme, senza cessare in alcun modo di insistere sulla necessità di garanzie internazionali per la sicurezza e il benessere sia dei Luoghi Santi sia delle comunità che rendevano culto in essi». Intanto l'Università di al-Azhar in Egitto si prepara a ospitare una conferenza internazionale su Gerusalemme, per confrontarsi «con istituzioni e organismi di rilievo» anche cristiane intorno al presente e al futuro della Città Santa.
Il Grande imam di al-Azhar, già a dicembre si era confrontato con esperti e consulenti con l'intento di fornire alla conferenza un'impronta fortemente critica nei confronti delle scelte politiche operate dall'Amministrazione Trump su Gerusalemme. (R.R.)
(Avvenire, 5 gennaio 2018)
Questo conferma, ancora una volta, che lo Stato del Vaticano, espressione teologica territoriale dellistituzione ecclesiastica Chiesa Cattolica Romana, è teologicamente, dunque strutturalmente e irrimediabilmente, ostile allo Stato ebraico di Israele e suo nemico irriducibile, indipendentemente dai papi che si avvicendano alla sua conduzione e dai frasari irenici che si usano per coprire questa realtà. M.C.
Caccia ai fanatici antisemiti. La Procura di Milano al lavoro sui video
Estremisti da fuori Milano al sit-in di piazza Cavour. La Digos si è attivata prima delle denunce dei politici. Istigazione all'odio, per la prima volta la norma viene applicata a militanti musulmani.
di Luca Fazzo
Già prima delle denunce del Giornale e del Foglio, già da prima degli esposti di due dirigenti del Pd: la Digos milanese si era mossa ancor prima della pausa festiva per denunciare alla magistratura i responsabili dell'incredibile episodio avvenuto il 9 dicembre in piazza Cavour, davanti al «Palazzo dei Giornali». Gli slogan a favore dello sterminio indiscriminato degli ebrei non erano sfuggiti alle telecamere della polizia, e ora sono al centro del fascicolo che la Procura ha aperto per iniziativa del pm Alberto Nobili, capo dell'ufficio antiterrorismo.
Nell'inchiesta a carico di ignoti si ipotizza l'accusa di istigazione all'odio razziale. É la norma che di solito viene applicata o invocata per punire le manifestazioni dell'ultradestra qua e là per il Paese, e che ora per la prima volta, finisce al centro di una indagine giudiziaria in cui sono coinvolti dei militanti islamici. A rendere inevitabile l'accusa, secondo il pm Nobili, il grido Khaybar, Khaybar, l'armata di Maometto ritornerà, evocante lo sterminio di seicento ebrei da parte del Profeta nel corso delle operazioni di «pulizia etnica» dell'anno 628.
Allaccusa di istigazione all'odio razziale, nel fascicolo la Procura sembra orientata ad affiancare il reato di istigazione a delinquere: inevitabile, visto l'esplicito invito all'ammazzamento degli ebrei. Il primo passaggio dell'inchiesta della Digos è stata la traduzione giurata degli slogan, che non ha potuto che confermare: sì, in piazza Cavour a venire invocato era proprio l'episodio dell'oasi di Khaybar, lo stesso che lo sceicco Al Baghdadi citava decapitando l'ostaggio americano Nick Berg.
Che la magistratura non potesse stare ferma davanti alla più esplicita manifestazione di odio anti-ebraico avvenuta in Italia nel dopoguerra lo aveva segnalato martedì scorso in un articolo il magistrato Guido Salvini, giudice preliminare a Milano e autore di numerose sentenze sulla penetrazione jihadista in Italia. Salvini aveva ricordato come il riferimento epico ai fatti di Khaybar sia «un richiamo mitico ed eccitante che simboleggia per i musulmani la prospettiva finale della completa eliminazione degli ebrei».
Ora la Procura si muove. Secondo i primi accertamenti, a scandire lo slogan incriminato era solo una parte, minoritaria ma assai agguerrita, dei circa 1.500 militanti islamici arrivati in piazza Cavour per protestare contro il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Tra questi, si apprende in ambienti Digos, anche numerosi estremisti provenienti da fuori Milano, dalle comunità islamiche sparse per la Lombardia dove spesso si annidano i predicatori estremisti, quelli più vicini alla ideologia della jihad.
(il Giornale, 5 gennaio 2018)
Silenzio dai promotori dei cortei. Gli ebrei: «Sala parli in Consiglio»
I cortei dell'odio a Milano. Il caso non è chiuso. Estrema sinistra e imam erano presenti e non condannano. La Comunità ebraica chiede una seduta ad hoc in Comune.
di Alberto Giannoni
Il Pd parla di antisemitismo di "matrice neofascista" ma in piazza Cavour, al sit-in degli slogan antisemiti, era presente un drappello di militanti dell'estrema sinistra con bandiere di Rifondazione Comunista e dei «Carc»
Scena muta sui cortei dell'odio. Sono ancora in silenzio gli imam milanesi, così come i militanti dell'estrema sinistra e del Bds, i fautori del boicottaggio di Israele presenti con bandiere e striscioni. Soprattutto è ancora in silenzio l'Associazione dei palestinesi in Italia, che con il coordinamento lombardo Palestina ha organizzato il sit-in di piazza Cavour e il corteo di corso Venezia, eventi «per Gerusalemme» che si sono tradotti in fragorose manifestazioni d'odio per Israele e per gli Usa, con l'incredibile episodio degli slogan antisemiti.
Dopo che la Comunità ebraica gli ha chiesto di farlo, il sindaco di Milano, Beppe Sala ha preso posizione contro l'episodio di antisemitismo e senza mai citare la matrice islamica della vicenda. Lo ha fatto insomma in modo timido e tardivo, come ha dichiarato al «Giornale» un esponente importante del mondo ebraico milanese, l'ex presidente Walker Meghnagi. E qualcosa di più di un semplice comunicato di «sgomento» lo chiedono espressamente anche gli attuali vertici della Comunità, con i co-presidenti Raffaele Besso e Milo Hasbani. «La Comunità ebraica di Milano - dichiarano in una nota ufficiale - ringrazia il sindaco Sala per le parole di condanna contro ogni forma di antisemitismo, riguardo la manifestazione del 9 dicembre, nata per contestare la decisione degli Stati Uniti di trasferire l'ambasciata a Gerusalemme, trasformatasi in una manifestazione antisemita dove sono state pronunciate parole di odio e minacce di morte contro gli ebrei». «Sappiamo - aggiungono Besso e Hasbani - che da giorni la magistratura ha aperto un'indagine per individuare i colpevoli di questo odioso atto, siamo in stretto contatto con il questore di Milano Marcello Cardona che sta seguendo il caso in prima persona. Ringraziamo le forze dell'ordine per il loro costante impegno. Vista la gravità dell'evento, chiediamo che il Consiglio comunale discuta di quanto avvenuto». «Crediamo infatti - concludono - che il tema non debba riguardare solo la Comunità ebraica, ma la città intera».
La richiesta di discutere questi «gravissimi episodi» in Consiglio è sostenuta anche dall'Associazione milanese pro Israele, col presidente Alessandro Litta Modignani, secondo il quale il caso «dimostra che l'odio contro Israele e l'odio antiebraico tendono sempre a coincidere, e che antisionismo e antisemitismo sono due facce della stessa medaglia, o meglio una cosa sola». «Di fronte a queste incitazioni alla violenza - aggiunge Litta - le frasi di circostanza e i luoghi comuni non bastano più. Occorre che tutti si assumano le proprie responsabilità, compresi gli esponenti della comunità arabo-musulmana di Milano, che devono uscire dall'ambiguità».
(il Giornale, 5 gennaio 2018)
Israele caccia i migranti africani. «Proteggere i confini è un diritto»
I 38.000 entrati illegalmente nel Paese hanno tre mesi di tempo per andarsene. Previsti incentivi economici. Per chi resta, carcere ed espulsione. Intese con Ruanda e Uganda.
di Alfondo Piscitelli
I 38.000 migranti entrati illegalmente nel territorio di Israele dovranno lasciare il Paese entro il mese di aprile. Spiegando il senso del provvedimento, Bibi Netanyahu ha commentato: «Ogni paese deve mantenere i propri confini: proteggerli dall'infiltrazione illegale è un dovere basilare e nello stesso tempo un diritto per uno Stato sovrano». L'operazione di rimpatrio prevede tre fasi. Nella prima fase un incentivo di 2.900 euro più il biglietto aereo pagato per chi deciderà immediatamente di lasciare Israele. Coloro che indugeranno nella loro permanenza riceveranno incentivi minori. Infine, esauriti i metodi soft, a fine marzo gli stranieri che ancora si troveranno in Israele saranno incarcerati e poi espulsi. Facendo le dovute proporzioni tra Israele - paese di otto milioni di abitanti - e l'Italia, è come se da noi un governo meno incline all'accoglienza decidesse di espellere entro la fine della stagione invernale 250-300.000 stranieri.
I problemi con l'immigrazione Israele li ha principalmente con i flussi di clandestini che provengono da Eritrea e Sudan. Non necessariamente, per il governo israeliano, le espulsioni dovranno concludersi con un ritorno nei due Paesi. E prevista come piano B anche la possibilità di un trasferimento in Ruanda e Uganda.
Da molto tempo la classe dirigente israeliana prende molto sul serio la questione immigrati: la costruzione del muro con l'Egitto ha assunto col passare del tempo anche la valenza di un argine nei confronti degli ingressi clandestini dall'Africa. Il governo ha calcolato che quel muro oltre alla sua funzione primaria antiterrorismo ha anche prevenuto l'accesso al paese di 60.000 «senza documento».
In Israele il dibattito sull'immigrazione avviene secondo criteri abbastanza lontani dal politicamente corretto. Gli eritrei e i sudanesi che entrano dichiarando di essere in fuga da guerre e persecuzioni politiche vengono generalmente considerati come migranti economici e in quanto tali sottoposti alla normativa che regola generalmente gli ingressi clandestini. Sul trattamento che il governo riserva a questi africani in cerca di fortuna pesa non poco il giudizio dell'opinione pubblica che accusa gli stranieri di porre problemi per la sicurezza, aumentare il disagio nei quartieri periferici e anche di snaturare la tradizionale identità culturale dello Stato di Israele. Queste rimostranze si fanno più acute nei quartieri popolari a rischio povertà.
In passato gli immigrati avevano cercato di forzare le posizioni del governo con manifestazioni di massa, contando sull'appoggio della sinistra israeliana. Nel gennaio del 2014 alla manifestazione di protesta a Tel Aviv in piazza Rabin era seguito un mese di scioperi della fame (probabilmente più sostanziali di quelli indetti dai parlamentari italiani per forzare il parlamento ad approvare lo ius soli). Gli immigrati accusavano la burocrazia israeliana di inesorabili lentezze nella concessione dello status di rifugiato. In effetti, a partire dall'anno di fondazione 1948, Israele ha concesso 200 status di rifugiato a fronte di 50.00o richieste.
Per portare a termine l'operazione, il governo israeliano ha stretto accordi pragmatici con Ruanda e Uganda: cooperazione militare, investimenti economici in cambio della disponibilità ad accogliere gli espulsi. In tal modo Israele ritiene di poter respingere l'accusa di far ripiombare gli aspiranti rifugiati nei loro inferni d'origine.
(La Verità, 5 gennaio 2018)
L'antico sigillo dà ragione alla Bibbia «Gerusalemme israelita da sempre»
Trovato un reperto di 2.700 anni fa che esalta l'identità ebraica.
Una luce dal passato
La "moneta" era nell'area degli scavi del tempio erodiano, vicino al Muro del Pianto
Fondamento storico
Sinora non c'erano prove della veridicità di alcuni passi delle Sacre Scritture
di Aristide Mainati
GERUSALEMME - Un antico sigillo rischia di innescare reazioni incontrollate in un'area, il Medio Oriente, di per sé già a rischio. Il reperto archeologico risale a 2700 anni fa e confermerebbe il testo dell'Antico Testamento, dandogli evidenza storica. Il sigillo è stato ritrovato durante gli scavi - nell'area vicino al Muro del Pianto - del tempio erodiano di Gerusalemme, un luogo sacro per gli ebrei in quanto unica testimonianza rimasta di quell'antico luogo di culto. Il monile, secondo gli archeologi del Servizio Israeliano delle Antichità, appartenne a un Governatore della città e le prime analisi mostrano come questo personaggio rivestisse all'epoca la più alta carica amministrativa di Gerusalemme antica.
Il rinvenimento vicino al tempio (luogo centrale di tutta la comunità) e le fattezze del prezioso oggetto, che ne mostrano la realizzazione da parte di una fabbrica di stato, fanno capire la centralità del Governatore nell'organico dell'Amministrazione pubblica; e ci consentono di ipotizzare come la città sia stata fin dalla sua origine (attorno al X-IX secolo a. C.) un centro urbano già organizzato e non una comunità indistinta di tribù.
Sul sigillo, dalle dimensioni di una piccola moneta, si trovano le figure stilizzate di due uomini uno di fronte all'altro; e un'iscrizione in ebraico antico, per quanto di difficile lettura, mostra chiaramente le parole in lingua ebraica: "Leshar-Ir'', ossia "(Qualcosa che appartiene) al Governatore della città".
È allora evidente che questo piccolo oggetto sia appartenuto al Governatore, colto nell'esercizio di una sua funzione di governo (forse stava incontrando un alto funzionario della stessa Amministrazione pubblica o un suo pari grado di un'altra città).
E prende concretezza anche il testo biblico, in cui il Governatore di Gerusalemme viene menzionato diverse volte, in periodi diversi (anche più antichi del VII secolo a. C., data in cui, dall'analisi della forma delle lettere, è stato emesso il reperto appena trovato). Addirittura in due punti dell'Antico testamento sono indicati i nomi di due uomini che hanno ricoperto questa carica in epoche diverse: Yehoshua e Maaseiah. Sino ad oggi tuttavia non erano state rinvenute prove dirette che ciò che affermavano le Sacre Scritture avesse sostanza storica al di fuori del testo biblico, che è innanzitutto uno scritto teologico.
Molteplici le reazioni a una scoperta, che ha indiscutibili implicazioni politiche, soprattutto alla luce della recente decisione da parte del Presidente americano Donald Trump di spostare l'Ambasciata USA a Gerusalemme, riconoscendo così la centralità della città nella storia del popolo ebraico. Per il milieu scientifico la prudenza è d'obbligo: bisogna vedere quale fosse il ruolo del "Governatore" di Gerusalemme nei secoli appena successivi alla sua nascita (forse quella di un capo-tribù più che del responsabile di un'amministrazione articolata). C'è però chi già si lancia in considerazioni forti: «Gerusalemme - ha detto il sindaco della città, Nir Barkat - è una delle capitali più antiche al mondo, abitata in continuazione del popolo ebraico (gli antichi israeliti) per 3000 anni. E un privilegio imbattersi, grazie all'archeologia, in uno dei leader che l'hanno costruita e sviluppata».
(Nazione-Carlino-Giorno, 5 gennaio 2018)
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Scoperta fragorosa e bocche cucite
E' passata un po' troppo sotto silenzio la notizia, resa nota dal Dipartimento israeliano per le antichità, del ritrovamento di un sigillo risalente a 2.700 anni fa con sopra iscritto il titolo di "governatore di Gerusalemme". Era la più alta carica amministrativa dell'epoca, citata a più riprese dalla Bibbia, ma priva finora di riscontri nelle testimonianze archeologiche. Di scoperta fragorosa e di conferma straordinaria hanno parlato dunque le autorità ebraiche, che hanno visto nel sigillo la conferma materiale di Gerusalemme israelita. Bocche cucite invece dall'altra parte. Quantunque, per una volta, i silenzi di parte araba del tutto ingiustificati non sembrino. Ma quale botto, si confidano gli esperti dell'Unesco, ma quale notizia fragorosa: "Roba così esplosiva, vengono a raccontarci, e manco sarebbe palestinese?". Andrea's Version
(Il Foglio, 5 gennaio 2018)
Appelfed il poeta gentile della Memoria
''L'esperienza della Shoah non è stata storica: ci siamo ritrovati di fronte a forze mitiche e arcaiche, a una sorta di subconscio di cui non comprendiamo ancora il significato''.
di Susanna Nirenstein
Aharon Appelfeld
Grande scrittore, testimone della Shoah, custode della memoria. Aharon Appelfeld con la sua la voce che sembrava un sussurro, il viso mite e acuto, la sua delicatezza infinita - è morto nella notte tra mercoledì e giovedì, a Gerusalemme. Aveva 85 anni.
Chissà da dove gli nascevano quei sorrisi dolcissimi, la pacatezza di ogni affermazione. Forse dalla sorpresa di essere vivo, nonostante avesse sfiorato la morte più volte e a otto anni l'avesse vista abbattersi per mano delle milizie filonaziste ucraine sulla madre e i nonni a pochi passi da lui. Forse dal silenzio che per 36 mesi, una volta fuggito dal lager in Transnistria in cui era stato rinchiuso, aveva mantenuto mentre era solo, nascosto nei boschi ucraini, o in mezzo alla banda di briganti che l'aveva trovato e adottato come servo (con quegli istanti abbacinanti a tratti riportati in Storia di una vita). Oppure dietro la porta della prostituta che poco dopo l'aveva nascosto, o ancora mentre faceva lo sguattero per l'esercito sovietico. A nessuno aveva rivelato di essere ebreo. Tacque finché non raggiunse altri ebrei come lui nei campi profughi, e poi Israele.
Da qui nacque il forte compito che si dette: «Reagire con una serie di storie perturbanti alla scomparsa dall'Europa di quasi tutti gli ebrei del continente», come scrisse Philip Roth. Una spinta che ha portato Appelfeld a scrivere oltre quaranta libri, tra romanzi, storie e saggi, uno più bello dell'altro. Un miracoloso frutto letterario, quasi tutto pubblicato in Italia da Guanda (i primissimi titoli si devono alla Giuntina), nato dal disastro, dalla perdita, dallo spaesamento conseguente. Cresciuto col bisogno di ritrovarsi e costruito attraverso l'approdo alla lingua ebraica una volta arrivato, alla fine del '46ad Haifa. Una vicenda raccontata in modo bruciante ne Il ragazzo che voleva dormire, mai con piglio autobiografico - non era questa la sua cifra - ma per macchie di memoria e fiction, e sogni, amnesie, risvegli, Perché sarà solo con la conquista di questa lingua non più diasporica, idioma moderno del nuovo paese, ma anche e soprattutto lettere bibliche dalle innumerevoli valenze, antiche come il popolo, recitate per secoli, che Appelfeld troverà l'unguento alle sue ferite. Tutto in lui era vagamente trattenuto, anche il modo di scrivere dell'orrore: narrava il prima, narrava il dopo, lo sparo udito mentre uccidevano sua madre, ma non il corpo, non il sangue.
Era nato nel 1932 a Czernowitz, nella Bucovina del Nord (allora in Romania, oggi in Ucraina) in una famiglia profondamente assimilata: come i villeggianti del suo Badenheim 1939, che si sentono talmente diversi dai "veri" ebrei dell'Est Europa a cui, secondo loro, sarebbero indirizzate le misure razziali restrittive. Una cecità che li porta a non riconoscere il pericolo che arriva. Fino a quando vengono rinchiusi nella residenza estiva e fatti salire sui treni blindati. Non pensate a una ricostruzione storica comunque. Quel romanzo porta con sé il grottesco della verità, senza bisogno d'altro, perché «l'esperienza ebraica nella Seconda guerra mondiale non è stata "storica". Noi ci siamo ritrovati di fronte a forze mitiche e arcaiche, a una sorta di subconscio di cui non comprendevano, e ancora non comprendiamo il significato». Per questo e per altri libri di Appelfeld - ricordiamo fra i tanti Fiori nelle tenebre, Una bambina da un altro mondo, Oltre la disperazione - molti hanno pensato a Kafka perché parlava la lingua dell'assurdo e per uno che veniva dai lager e dalle foreste, da un mondo che incorporava l'irrazionale, leggere Kafka non aveva bisogno di alcuna spiegazione. Forse c'è un po' di Kafka anche in quello splendore di romanzo che è Notte dopo notte: un teatro quasi impressionista che si svolge in Israele tra un gruppo di sopravvissuti sopraffatti dagli incubi della Shoah, decisi a mantenere l'yiddish come lingua, e la società tutt'intorno che congiura inesorabilmente contro di loro. Ma tutto sempre trasposto nel paradosso, per eccesso, eppure così vero, così doloroso come fu per gli immigrati abbandonare il loro passato, e così carico di speranza come non poteva non essere la resurrezione di quegli anni.
Che periodo fu quello in cui Appelfeld sbarcò nel futuro Israele. Fu prima un agricoltore, poi un soldato. Desiderava maledettamente essere uguale agli altri, improvvisamente alto, forte, abbronzato, dimentico della Shoah.
È sempre stato fiero d'Israele. Ma non voleva scordare e l'ebraico gli illuminò la strada: «Quella lingua mi prese alle spalle e mi condusse, contro la mia volontà, alle più segrete risorse del giudaismo da cui non mi sono più allontanato». No, religioso Appelfeld non è mai diventato, ma i ricordi non tacevano, e il bisogno di essere fedele a se stesso aveva fatto di lui una persona contemplativa che la sua scrittura tesseva e ritesseva. In modo sempre cangiante, come è avvenuto ultimamente: col bel libro dell'anno scorso su un giovane nella resistenza ebraica, Il partigiano Edmond, e ora, il prossimo 27 gennaio, con Giorni luminosi (sempre per Guanda di cui pubblichiamo l'incipit in queste pagine). Ancora una volta, dopo la guerra, un ragazzo ebreo - lui, bambino, per sempre - compie un difficile viaggio di ritorno nella sua cittadina ucraina. Ci mancherà, è stato un gigante.
(la Repubblica, 5 gennaio 2018)
Gerusalemme e l'urbanista ideologo: in risposta a un articolo dell'Huffington Post
Analisi di un recente articolo pubblicato sull'Huffington Post contenente tesi decisamente discutibili circa l'urbanizzazione di Gerusalemme.
di Niram Ferretti ed Emanuel Segre Amar
Appare il 16 dicembre scorso sull'Huffpost un articolo a firma Giulia Berardelli dal titolo, "Cemento armato a Gerusalemme. Decenni di politica urbanistica aggressiva arma più efficace per Israele" in cui viene intervistato Francesco Chiodelli, professore associato di urbanistica presso il Gran Sasso Science Institute e autore di un libro in uscita presso Rutledge dal titolo "Shaping Jerusalem: Spatial Planning, Politics and Conflict". Nell'articolo, il cui titolo è già programmaticamente propagandistico con la ripetizione e associazione di "armare", "arma", "aggressività" inteso alla criminalizzazione di Israele, il docente, diligentemente assistito dall'articolista, provvede a fornirci il solito immarcescibile canovaccio del martirologio palestinese inserito artatamente nella cornice di una disamina urbanistica.
Tutto fa brodo per potere raccontare l'epos della "colonizzazione" della Palestina da parte degli ebrei e dei soprusi, angherie, violenze, per non dire naturalmente, stermini, ai danni di quello che si presume un popolo innocente espropriato delle proprie terre, condannato alla marginalità e dunque costretto ad atti di violenza resistenziale nei confronti dell'"occupante"....
(Progetto Dreyfus, 4 gennaio 2018)
Gli Stati Uniti e la diplomazia dei dollari: «Taglieremo i fondi anche ai palestinesi»
Dopo Onu e Pakistan, Washington insiste sulla linea del pragmatismo
di Fiamma Nirenstein
Show me your money, mostrami i soldi, è un modo di dire per verificare le intenzioni dell'interlocutore. Non si scherza coi soldi. Trump è un businessman e lo fa sapere ai suoi elettori, come quando rivede il bilancio del suo Paese, tagliando di qua (clima, sanità), aumentando di là (difesa). Le notizie delle ultime settimane sono tagli di contributi internazionali che segnalano altrettante scelte strategiche dell'amministrazione Trump. Tutte chiedono rispetto per le scelte americane e per una attiva visione del mondo. Il contrario di Obama che pensava che il suo compito fosse tirarsi indietro, cancellare un'influenza storica che riteneva oppressiva.
Il presidente ha usato il suo temibile tweet chiedendo perché mai dovrebbe seguitare a contribuire miliardi ai palestinesi quando essi «non hanno intenzione di parlare di pace». Trump ha anche detto che la questione di Gerusalemme avrebbe richiesto un prezzo elevato anche da Israele. Come a segnalare che Netanyahu avrebbe dovuto, se i palestinesi avessero accettato la trattativa, cedere qualcosa di importante. Insomma, Trump dice: ci tenevo alle trattative, e i palestinesi boicottano. Gli Usa dal 1990 hanno portato nelle loro casse 5 miliardi di dollari. Dopo tanta spesa e così poca simpatia, Trump si è stufato, e se l'America non piace perché dovrebbe seguitare a versare più di 300 milioni dollari l'anno? Poche ore avanti la sua ambasciatrice Nicky Haley aveva minacciato un altro importante taglio, che va insieme alla minaccia del taglio dei fondi Usa all'Onu. Si tratta dei fondi trasferiti all'Unrwa, 386 milioni nel 2016: un'organizzazione nata nel 1948 per i profughi palestinesi. Invece di ricollocarli li ha tenuti in campi negli anni fino a fame milioni di pretendenti al «ritorno» in Israele. È un'organizzazione permanente per profughi, figli, i nipoti, i pronipoti, ed è in odore di complicità con Hamas.
Nel 2016 l'Unesco ha ricevuto l'annuncio del ritiro della delegazione; l'Onu è dal 2011 già dai tempi di Obama che è stata licenziata. È di pochi giorni fa l'annuncio che si smette di passare al Pakistan il consistente assegno da 225milioni l'anno, 33 miliardi dal 2002: Trump si è dichiarato deluso della politica di Islamabad che si è rifiutata di collaborare nella lotta al terrorismo. I palestinesi hanno ruggito una risposta filosofica: ricattatore, se non arrivano più i finanziamenti, i giovani soffriranno, i servizi di sicurezza in comune collasseranno e molti resteranno in preda alla confusione e alla violenza. E si ergono contro «il ricatto americano». Ma è solo un esame spietato della situazione, nuovo quando il mondo è pronto a chinare il capo davanti alla prepotenza immaginando che ne otterrà la pace. Come Chamberlain. Questa vecchia storia somiglia molto a un ricatto. Per esempio negli anni ottanta l'acquiescenza verso i palestinesi doveva salvaguardare il nostro Paese dal terrore. Non fu così. La strage di Fiumicino del 1985 come l'attacco alla sinagoga di Roma del 1982 in cui morì Gaj Tache, dimostrano che quando ti pieghi il nemico ne approfitta. Trump cerca di creare una strada per battere il terrorismo. Ci prova. Ne fa parte anche il suo sostegno ai rivoltosi in Iran.
(il Giornale, 4 gennaio 2018)
... Netanyahu avrebbe dovuto, se i palestinesi avessero accettato la trattativa, cedere qualcosa di importante. Che cosa avrebbe dovuto cedere Netanyahu, per la precisione? Qualcuno lo sa? Forse non lo sa nemmeno lui, perché nel suo pragmatismo, da buon businessman avrà voluto aspettare che il gioco si chiarisse prima di far sapere che cosa era disposto a dare e che cosa avrebbe voluto chiedere in cambio. Fino a questo momento, Trump ha soltanto enunciato una cosa ovvia: che Gerusalemme è la capitale di Israele. E questa ovvietà linguistica ha scatenato un finimondo altrettanto linguistico. Ma non ha detto, il Presidente degli Stati Uniti, quanto è grande questa capitale e fino a dove arriva. Comprende tutta Gerusalemme Est? Non lha detto. Comprende tutto il Monte del Tempio, chiamato da alcuni per convinzione da altri per prudenza Spianata delle Moschee? Non lha detto. Finora ha detto soltanto che il Muro del Pianto appartiene a Israele. Contenti gli israeliani? Non so. Ma supponiamo che il businessman chieda a Netanyahu: Show me your money, quanti soldi hai per chiedermi che ti io dia il resto di Gerusalemme? Ti ho dato il Muro del Pianto, e sai bene quanto mi è costato imporlo ad Abu Mazen; che cosa vuoi di più? In fondo, se gli ebrei hanno pianto per duemila anni lontani da Gerusalemme e in terra straniera, adesso potranno continuare a farlo per qualche altro migliaio di anni davanti al muro, nel mezzo di Gerusalemme, in un pezzo di terra tutto loro. Ma che vogliono questi ebrei? (Questa domanda lho già sentita). M.C.
Slogan antisemiti al presidio pro Palestina, il Pd denuncia
Fiano e Bussolati presentano querela e parlano di clima fascista e xenofobo. La Lega Lombarda polemizza: nel corteo esponenti di sinistra.
di Davide Re
Ieri mattina il deputato Emanuele Piano e il segretario del Pd metropolitano Pietro Bussolati hanno presentato una denuncia contro chi ha pronunciato slogan antisemiti alla manifestazione pro Palestina, alla quale aveva partecipato la comunità palestinese, quella musulmana oltre ad appartenenti alla sinistra istituzionale e alla galassia dei centri sociali.
«In democrazia - ha spiegato Fiano - c'eè spazio per le critiche politiche a chiunque. Non c'eè spazio per l'antisemitismo di qualsiasi matrice e per l'incitamento al massacro e alla morte degli ebrei o di chiunque. Non può essere consentito di manifestare per l'uccisione di qualcuno. Ma c'e di più, l'inquinamento antisemita di matrice islamica, delle rivendicazioni politiche dei palestinesi, in Italia, è di una gravità e pericolosità assolute. Ringrazio la polizia di Stato che dal primo momento è al lavoro su questo grave episodio».
«Il diritto di critica a Israele, così come quello di contestare la decisione di Trump su Gerusalemme - ha spiegato Bussolati -, è legittimo e come tale va garantito. Gli slogan pronunciati nel corso di quella manifestazione, però, non possono essere confusi e ricondotti a tale diritto», Secondo il segretario Pd, si tratta di «segnali di una deriva xenofoba e antisemita, dalla matrice neofascista, che non possono essere ignorati e nei confronti dei quali sono necessarie una presa di posizione netta e una denuncia forte e chiara»,
«E incredibile l'ipocrisia del Pd - ha replicato ironizzando il segretario della Lega Lombarda Paolo Grimoldi -, fingono di accorgersi dei cori antisemiti intonati dai loro immigrati islamici, loro elettori, loro protetti sempre e comunque, contro Israele, la sua bandiera ed il suo popolo, persino loro militanti e in alcuni casi loro candidati nelle liste del Pd. E le bandiere rosse delle sigle di sinistra presenti al corteo antisemita non le hanno viste? La condanna agli insulti in arabo a Israele doveva avvenire subito, non dopo tutti questi giorni», Sulle stessa lunghezza d'onda anche Silvia Sardone di Forza Italia che aggiunge: «Cosa dicono imam e associazioni islamiche?».
«La nostra città condanna gli estremismi di ogni forma e colore: quelli di ieri come quelli di oggi, con la stessa forza e determinazione», ha detto il sindaco Beppe Sala sottolineando la notizia della denuncia fatta da esponenti del Pd contro gli slogan antiebrei pronunciati a una manifestazione pro Palestina in piazza Cavour lo scorso 9 dicembre. «Lascia sgomenti- ha concluso il primi cittadino - sentire pronunciare slogan antisemiti, violenti e intollerabili nella nostra città, Milano, medaglia d'oro alla Resistenza, non può permettere un così avvilente spettacolo. Non permettiamo che la voce di pochi faccia più clamore dei comportamenti corretti di molti».
E significativo il fatto che la denuncia sia riportata su un organo cattolico come Avvenire, perché il testo divulgato dagli esponenti del Pd è in puro stile papale. M.C.
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Cori antisemiti al corteo. Per denunciarne gli autori il Pd ci ha messo un mese
di Fabio Rubini
Sugli slogan antisemiti pronunciati qualche settimana fa dagli adepti di alcune sigle pro-Palestina, i furbetti del Pd han fatto finta di nulla fino a quando Libero, nel silenzio assordante di quasi tutti i media, ha rilanciato la lettera di fuoco che la comunità ebraica ha spedito a Sala per condannare i cori contro Israele intonati durante la manifestazione organizzata lo scorso 9 dicembre contro la decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele.
«Ebrei, l'armata di Maometto sta per tornare» e altre minacce più o meno velate hanno fatto da colonna sonora. Il tutto nell'indifferenza dei politici di sinistra che, come sempre, sono tanto lesti a condannare un timido saluto romano fatto in un cimitero, quanto orbi (e sordi) nel farlo quando i protagonisti sono gli amici filo palestinesi. Certo davanti all'indignazione della comunità ebraica non hanno più potuto far finta di nulla e così, con un mese di ritardo, prima Sala e poi di rimando tutti i leader cittadini si sono accodati alle manifestazioni di condanna. C'è stato anche chi, come Emanuele Fiano e Pietro Bussolati (sempre con un mese di ritardo), ha denunciato gli autori dei cori, che per non sbagliare sono stati apostrofati dai due come «neofascisti». In pratica, proviamola a prendere sul ridere per il Pd i filo palestinesi sono neofascisti che protestavano contro Trump da loro stessi definito «neofascista», insomma una guerra interna ...
Ora, non sappiamo se e come questa denuncia potrà andare a buon fine. Quello che sappiamo è che ancora una volta nel duro esercizio della condanna morale la sinistra fa figli e figliastri. Già, perché per sentire gli insulti alla Brigata ebraica da parte dei filo palestinesi basta aver partecipato almeno una volta al corteo del 25 aprile. Eppure nei commenti non si registra quasi mai una condanna netta da parte della sinistra.
Ad ogni modo per capire se quelle del centrosinistra milanese sono lacrime vere o di coccodrillo basterà aspettare (se mai sarà approvata) l'applicazione della celebre delibera antirazzista, quella che stabilisce il divieto di manifestare a chi non rispetta le regole. Vedremo se oltre ai cortei e agli incontri neofascisti ci sarà un divieto anche per quei filo palestinesi "leggermente" antisemiti.
(Libero, 4 gennaio 2018)
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Sala condanna gli antisemiti, ma non dice che sono islamici
Parole tardive e reticenti del sindaco solo dopo le proteste degli ebrei. E la procura apre un'inchiesta per «odio razziale».
di Alberto Giannoni
Antisemitismo nei cortei per Gerusalemme: il caso non è chiuso. Sul fronte politico, oggi c'è finalmente la condanna da parte del sindaco Beppe Sala: la presa di posizione che era stata invocata e richiesta espressamente dalla Comunità ebraica alla fine è arrivata, ieri, ma tardiva e maldestra. Il Pd ha depositato una denuncia, firmata dal deputato Emanuele Fiano e dal segretario Pietro Bussolati, contro gli autori degli slogan anti ebraici, ma poi li ha rubricati come «segnali di una deriva xenofoba e antisemita, dalla matrice neofascista». Il sindaco, invece, si è detto sgomento per i cori «antisemiti, violenti e intollerabili» ma ha evitato ogni riferimento alla matrice islamica, condannando genericamente gli «estremismi di ogni forma e colore».
Intanto la procura ha aperto un fascicolo per «istigazione all'odio razziale». Certo, non potevano passare inosservate a lungo le manifestazioni convocate dalle associazioni filopalestinesi il 9 e il 16 dicembre scorso per protestare contro la decisione del presidente Usa Donald Trump di spostare a Gerusalemme l'ambasciata americana in Israele. A Milano sono risuonati inni all'Intifada, parole di odio contro Israele, e in particolare ha colpito uno degli slogan uditi nel corso del sit-in di piazza Cavour: il coro, documentato dal «Foglio» con un articolo e un video del 29 dicembre, è una sorta di grido di guerra che ricorda un'antica pulizia etnica subita dagli ebrei nell'oasi di Khaibar per mano delle «armate di Maometto», e oggi viene ripetuto minacciosamente per evocare nuovi stermini.
«Intollerabile gesto» lo ha definito anche la consigliera comunale musulmana Sumaya Abdel Qader, che prudentemente si era tenuta alla larga dai cortei. «Oltre al tono antisemita non ammissibile - ha detto - le allusioni a Khaibar sono sinonimo di ignoranza storica e volgare strumentalizzazione della religione di cui mi vergogno». Parole più chiare forse di quelle dal sindaco. «Milano, medaglia d'oro alla Resistenza - ha detto Sala fra l'altro - non può permettere un così avvilente spettacolo, che fa scempio della sua memoria e di quella dei suoi cittadini - ebrei e non - che hanno dato la loro vita per difendere la libertà, principio alla base di ogni democrazia». Il centrodestra ha attaccato pesantemente con Silvia Sardone e Stefano Maullu (Fi), Riccardo De Corato (Fdi) e Paolo Grimoldi (Lega), che ha parlato di «incredibile ipocrisia» e «lacrime di coccodrillo con quasi un mese di ritardo». Resta inevaso il nodo dei rapporti coi promotori dei cortei. «Mi permetto una domanda - ha scritto Davide Romano, assessore della Comunità ebraica - l'associazione che ha organizzato quella manifestazione (Associazione dei palestinesi in Italia) ha condannato quelle parole degne dell'Isis?». Palazzo Marino, insomma, ha fatto il minimo sindacale, e se al momento viene archiviata l'ipotesi di una clamorosa protesta prospettata da qualcuno (disertare la Giornata della memoria) il caso resta aperto, o meglio chiuso solo a metà.
(il Giornale, 4 gennaio 2018)
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«Sala, dite la verità prima che sia tardi»
Walker Meghnagi, ex presidente della Comunità ebraica, in carica dal 2012 al 2015: «Parole tardive e insufficienti. Perché non si parla degli imam al sit-in?»
- Walker Meghnagi, la soddisfa la posizione di Sala sul corteo antì-Israele?
«No, intanto arriva 25 giorni dopo la manifestazione e questa è una cosa assurda. Secondo, il sindaco non dice una cosa molto importante, per esempio: al corteo c'era anche l'imam di Firenze, un'autorità dell'islam».
- ... e c'erano altri imam ...
«Un conto è manifestare democraticamente contro una decisione, di Trump in questo caso, altro inneggiare alla morte, alla violenza, all'odio. E non ho sentito condanne del governo o della presidente della Camera».
- Il segretario del Pd parla di «deriva xenofoba e antisemita di matrice neofascista».
«Ma cosa c'entra? Non c'entra niente il neofascismo. È ora di smetterla con queste etichette, è stata una manifestazione antisemita e basta, chiamiamo le cose col loro nome, prima che diventi troppo tardi, prima che finisca male come in altre Paesi, cosa che finora non è accaduta grazie alle nostre forze dell'ordine. Se ci vuole una presa di posizione che la si faccia, Sala non lo ha fatto, lo terremo a mente».
- Sembra che nessuno a sinistra voglia pronunciare la parola islam, Sala non lo ha fatto neanche durante la Giornata della cultura ebraica , quando invece il ministro Minniti citò «il terrorismo internazionale e il radicalismo jihadista». Perché Sala non lo fa?
«Bisogna chiederlo a lui. Questa giunta si regge su persone che non possono dire la realtà delle cose. E non c'è stato un imam che abbia avuto il coraggio di dire che Trump ha sbagliato, se è questo che ritiene, ma che gli italiani di religione ebraica, perché di questo si tratta, non c'entrano nulla. Mi rincuora che presto ci saranno le elezioni».
- Presto ci sarà anche la Giornata della memoria. Doveroso commemorare ma non è ipocrisia ricordare gli ebrei perseguitati in passato senza difendere gli ebrei e Israele dalle minacce di oggi?
«Sì, io parlo da cittadino, non a nome della Comunità, ma a me suona strano che chi non ha il coraggio di chiamare le cose col loro nome poi abbia il coraggio di presentarsi a queste occasioni, a queste commemorazioni». AIGia
(il Giornale, 4 gennaio 2018)
Antisionista non significa antisemita
«Ben altro è il piano dell'ebraismo in quanto religione dei Padri e invece il piano di una concrezione politica intrisa di errori e violenze».
di Giuseppe Dossetti
Alcuni dei dogmi più indiscussi su cui sinora si è fondata l' opinione occidentale relativa al conflitto mediorientale, debbono proprio essere rifiutati. Si deve rifiutare, per esempio, che lo Stato sionista, così come è nato e sinora si è configurato, possa tollerare nel proprio interno l'esistenza di una popolazione araba [sic! ndr]. È ora che proclamiamo chiaramente che questo non è possibile. Sinora noi stessi, per venti e più anni, su questo punto siamo stati reticenti. Ci siamo anche noi lasciati intimidire nella memoria dell'Olocausto e dal ricatto che qualunque manifestazione di antisionismo equivale all'antisemitismo, del quale i cristiani si sono resi più volte colpevoli. Anche noi, alla fine, non siamo arrivati a separare il puro dall'impuro. Cioè ben altro è il piano dell'ebraismo in quanto religione dei Padri; e invece il piano di una concrezione politica, il «sionismo realizzato», intrisa di grossolani errori, di smisurate violenze e ingiustizie, e adesso di sacrilegi sanguinosi. E anche noi siamo stati timidi nell'affermare che gli arabi palestinesi, pur con i loro molti errori e le loro violenze deprecabili, hanno però conservato il diritto di vivere nella terra che è stata pur loro, in piena sovrana autonomia, e che perciò hanno il diritto di essere reintegrati per lo meno in tutti i territori occupati nel 1967, in uno Stato libero e sovrano, con tutte le garanzie che la comunità internazionale deve ad essi offrire non solo per il loro bene, ma per il bene e la pace di tutti i popoli della terra.
(Avvenire, 4 gennaio 2018)
E questa la forma giuridica che ha assunto oggi lantigiudaismo cristiano tuttora presente nella Chiesa Cattolica Romana. Come persone che hanno posto la loro fede nel Gesù Cristo presentato dai Vangeli, rifiutiamo nettamente questa posizione, che prima o poi conduce inevitabilmente a forme concrete di antisemitismo. M.C.
Dove "sionisti" è un'altra parola per dire ebrei
A Berlino non c'è nessun posto così arabo come la Sonnenallee a Neukölln. Che cosa pensano le persone delle manifestazioni antisemite e di Israele? Die WELT è andato in strada con un rappresentante della comunità ebraica.
Mike Samuel Delberg tira su la cerniera della sua giacca invernale, fuori c'è un misto di neve e pioggia. Lo studente berlinese indossa una giacca scura, pantaloni scuri e scarpe nere. L'abbigliamento è volutamente poco appariscente: non vuole provocare nessuno. Ci incontriamo con un traduttore siriano sulla Hermannplatz di Berlino, da lì ci proponiamo di camminare lungo la Sonnenallee nel quartiere Neukölln e parlare con le persone che vivono qui. "Non ho intenzione di mettere la kippa," dice Mike. Non vuole provocare nessuno, ma entrare in conversazione con la gente.
L'occasione è data dalle manifestazioni antisemite avvenute di recente a Berlino e in altre città tedesche, in cui, tra le altre cose, sono state bruciate bandiere israeliane e si sono scanditi slogan. Il 28enne è originario di Berlino ed è ebreo. Sa che cosa si prova nella discriminazione ed è stato impegnato per anni come il più giovane rappresentante della comunità ebraica di Berlino contro l'antisemitismo e la discriminazione degli ebrei nella vita di tutti i giorni.
Ora vuole sapere che cosa pensano le persone nel cuore di Neukölln riguardo alle proteste. Probabilmente a Berlino non c'è una strada più araba della Sonnenallee. Trent'anni fa arrivarono dal Libano i primi rifugiati della guerra civile e due anni fa arrivarono migliaia di siriani. Ci sono innumerevoli panetterie arabe, negozi di barbieri e caffè. Nel corso dei decenni è emersa una cultura parallela araba.
Una specie di esperimento, quindi. Gli incidenti sono rappresentativi dell'umore generale nella comunità araba? Dopo tutto, si potrebbe sostenere che in ogni caso solo poche centinaia di persone hanno manifestato contro Israele. In una ricerca meticolosa, la pagina web "Übermedien" ha rilevato che durante una manifestazione alla Porta di Brandeburgo "solo" una manciata di manifestanti gridava "morte agli ebrei. E' proprio così barbarico?
Davanti al ristorante "Almadiya", nell'angolo tra Reuterstrasse e Sonnenallee, incontriamo Mohammad Abdullah, Mohammad Slevy e Jamal Hussein. I tre sono palestinesi e vivono in Germania da diversi anni. "Non si può impedire alle persone di esprimere certe opinioni" dice Abdullah, che gestisce un'attività di pittore a Neukölln. "Chi si sente colpito deve far uscire la sua rabbia." C'era anche lui in una delle due manifestazioni che hanno avuto luogo a Neukölln. L'imam della sua moschea aveva esortato i fedeli a farlo, nella preghiera del venerdì.
Abdullah è cresciuto a Emden (Bassa Sassonia), parla con il dialetto della Germania settentrionale. È difficile immaginarlo mentre scandisce slogan anti-israeliani. Cosa pensa dell'odio di alcuni manifestanti? "Non va bene, non lo direi. Il conflitto israelo-palestinese potrebbe essere risolto rapidamente, dice, ma c'è un potere più alto che vuole impedirlo: persone più potenti di Merkel o Trump." Drizziamo le orecchie: chi sono? "I sionisti", dice Abdullah, usando la parola araba.
Delberg scuote la mano: l'ha sentito spesso. Che i "sionisti" controllino il mondo è un classico degli stereotipi antisemiti. Nella comunità araba è molto diffuso. Lo sentiamo dire più volte in quel giorno. "Sionisti è un'altra parola per dire ebrei", dice Delberg - odiare i sionisti suona meglio".
In uno dei caffè incontriamo i profughi siriani Ahmad e Jamal. Sono seduti a un tavolo da bistrò nel retro del bar. Fumano e fissano i loro smartphone. L'atmosfera è grigia, l'odore penetrante di fumo freddo è sospeso nell'aria. Cosa ne pensi delle dimostrazioni anti-Israele? "I palestinesi hanno tutto il diritto di bruciare le bandiere" dice Jamal, che con Ahmad è fuggito da Rakka davanti all'avanzata dello Stato terroristico islamico (IS). Prima di questo, i due avevano studiato lì: Jamal giurisprudenza, mentre Ahmad voleva fare l'insegnante. "Per noi Israele non è uno stato. Perché Trump non manda tutti gli ebrei in America?" chiede Jamal. Non è una provocazione; lui pensa davvero che sia un'idea ragionevole.
Crede che il rapporto tra ebrei e arabi a Berlino continuerà a deteriorarsi dopo la decisione di Trump a Gerusalemme? "Si può fare conoscenza con un ebreo, ma non si può essere suo amico", dice Jamal. "A proposito, io sono ebreo", dice Delberg, "pensi che vada bene fare dimostrazioni davanti alle sinagoghe?" Jamal ha un sussulto, non degna Delberg nemmeno di uno sguardo. "I palestinesi hanno bisogno di attenzione, non importa come. Israele e IS sono ugualmente cattivi - dice Jamal - tutti e due occupano terra straniera."
Delberg dirà più tardi che l'incontro con i due siriani è stato il momento più sgradevole della giornata. Per la prima volta è venuto fuori il rifiuto di lui soltanto perché si è presentato come ebreo. Ma questo non è certamente una sorpresa. Secondo uno studio non ufficiale del Comitato ebraico americano a Berlino, le immagini antisemite di ebrei come nemici sono molto diffuse tra i rifugiati arabi.
Secondo lo studio pubblicato a dicembre, a 68 profughi provenienti dalla Siria e dall'Iraq sono state fatte interviste di gruppo. Le interviste hanno mostrato che quasi tutti gli intervistati hanno una visione del mondo basata su teorie del complotto. La convinzione che il mondo sia controllato da ebrei o da Israele è quindi percepita come normale.
Un'immagine fondamentalmente negativa di Israele e una messa in discussione del diritto all'esistenza dello stato ebraico sono evidenti per la grande maggioranza degli intervistati. Le interviste hanno rivelato aperta ostilità nei confronti di Israele e degli ebrei. A questo proposito, invece, i rifugiati curdi e non musulmani si sono espressi in modo molto più positivo.
Pochi metri più avanti, di fronte a un ristorante fast food, Mohammad e il suo amico con lo stesso nome condividono una porzione di patatine fritte. Entrambi sono palestinesi e provengono dal Libano. Il maggiore dei due, Maometto, era presente ad una dimostrazione anti-Israele ad Hannover, ma dice lui non ha gridato slogan antisemiti. "Dimostriamo solo contro Trump. Al Kuds (Gerusalemme in arabo, d. Red.) è un simbolo per noi", dice il 32enne. Non si tratta di odio verso gli ebrei, ma di antipatia verso Israele. Da dove viene allora la rabbia?
Mohammad tira fuori il suo smartphone e mostra un video che gira sui social network. Si vede un uomo barbuto con le gambe amputate su una sedia a rotelle impegnato in violente proteste contro l'esercito israeliano. A metà dicembre, l'uomo è morto vicino alla Striscia di Gaza. Come, non è chiaro. Secondo i palestinesi, l'hanno ucciso i soldati israeliani, ma la leadership militare nega di aver sparato un proiettile contro quell'uomo.
Comunque sia, Ibrahim Abu Thuraya è stato ucciso, e milioni di video alimentano l'odio per Israele. "Vi dico, io sono ebreo", Mike Delberg si presenta agli uomini. "Non è dunque un problema?" I due uomini esitano un secondo, poi danno la mano a Delberg e lo prendono in mezzo a loro. "Per favore, scatta una foto di noi, non abbiamo nulla contro gli ebrei".
Nel negozio di barbiere "Bon Bon", pochi metri più avanti, tutti i dipendenti sono palestinesi. I clienti vengono da lontano a farsi tagliare qui i capelli a 13 euro. E' il caso di Hozaifa Khalaili, un 19enne palestinese del quartiere berlinese Lichtenberg.
Per la prima volta arriva qualcosa come una discussione politica. "Ti assicuro, tutti qui vogliono la pace" dice Mike Khalaili rivolgendosi a Delberg. "Io non credo più alla soluzione dei due stati, ma la vorrei."
Le manifestazioni però erano legittime: "Dobbiamo scendere in piazza e mostrare i nostri sentimenti", dice Khalaili. Non vedo nessun male nel bruciare le bandiere. In fondo, anche contro il profeta Maometto ci sono stati incitamenti." Che cosa dici se in queste dimostrazioni si fanno incitamenti contro gli ebrei ? replica Delberg. "Se è così chiamami, ti assicuro che mi metto personalmente contro queste persone" risponde Khalaili. "Noi ebrei e musulmani dobbiamo parlare con una sola voce". L'incontro ridà a Delberg qualche speranza. "Ho sentito che era serio." Così il dialogo può funzionare.
Alla fine però trae una conclusione seria. La maggior parte di loro probabilmente non avrebbe preso le distanze dall'odio nei confronti degli ebrei. "Più che una condanna di atti antisemiti per la loro cattiveria, per loro era importante non mettersi in cattiva luce", dice Delberg.
Il fatto che l'antisemitismo non sia solo un problema arabo si vede il giorno seguente la camminata sulla Sonnenallee. In un video si vede un sessantenne di Turingia che insulta l'operatore di un ristorante israeliano nel quartiere berlinese di Charlottenburg - perché l'uomo è ebreo. La tirata dell'uomo si conclude con l'affermazione che gli ebrei dovrebbero tornare nella "camera a gas".
In precedenza Delberg aveva pubblicato il video dell'incidente su Facebook. Dopo di che è stato bandito dalla piattaforma per un giorno. Così come molti altri che avevano condiviso il video.
(Die Welt, 4 gennaio 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Iraniani costretti a patire la fame per esportare Allah nel mondo
La rivoluzione sciita nel Medio Oriente ha sottratto miliardi al welfare. Ecco perché il popolo si sta rivoltando contro il regime degli ayatollah.
Le violenze
La regione del Khouzestan, di importanza strategica per l'Iran perché produce il 90% del petrolio della nazione, è stata teatro di manifestazioni di protesta organizzate da associazioni studentesche, dai leader della minoranza araba locale e dai loro leader religiosi.
Gli arresti
Sono finora 138 le persone arrestate a Mashad, la città dell'Iran nordorientale dove giovedì scorso hanno preso il via le proteste contro la corruzione e il carovita, poi dilagate in molte città del Paese. A Teheran negli ultimi tre giorni sono stati arrestati 450 manifestanti.
I morti
Ieri è salito a 23 il bilancio delle vittime negli scontri con le forze di sicurezza del regime iraniano. Sei persone sono morte in un attacco ad un commissariato nella città di Qahdarljan; un bambino di 11 anni e un ventenne sono rimasti uccisi a Khomeinishahr.
di Carlo Panella
Sono 23, per ora, le vittime di quel «riformismo iraniano» che tanto ammalia da anni i media progressisti dell'Occidente, affascinato dal pacioso presidente Rohani. E tutto indica che altre vittime cadranno, perché la protesta scuote alle radici tutto l'Iran, in particolare l'immensa provincia, con una strana assenza di grandi proteste a Teheran. Questa peculiarità è interessante, perché indica che questa rivolta è ben diversa dalle precedenti, in particolare dall'Onda Verde del 2009. In questi giorni non manifestano infatti gli studenti, gli intellettuali, i politici legati all'opposizione, ma scende in piazza il popolo che ha fame, che si ribella a condizioni di vita dure, durissime, inclusa la difficoltà di procurarsi il pane. È un movimento molto grande ma anche molto, totalmente spontaneo, non organizzato, senza una leadership. È la conseguenza diretta delle scelte quelle vere, non quelle immaginarie degli illusi occidentali di un regime iraniano che assegna ai «riformisti» alla Rohani un ruolo limitato alla normale amministrazione della cosa pubblica. Invece, le strategie, le scelte politiche di fondo, le decisioni su come impiegare le risorse, non sono nelle mani del governo civile né di Rohani. In Iran comanda solo il «blocco rivoluzionario» che si è formato nel 1979 e poi nella guerra con l'Iraq terminata nel 1988. Comandano i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, le vere forze armate del Paese che ne controllano, perché ne sono anche formalmente proprietari, le principali holding economiche, l'industria militare, le telecomunicazioni, le imprese di costruzione, gli aeroporti, addirittura i grandi complessi immobiliari. Assieme a loro comanda il «clero combattente», la casta degli ayatollah che, con a capo l'ayatollah Khamenei, è sovraordinata formalmente alle istituzioni governative. Il braccio armato sono poi i Bassiji, milizia rivoluzionaria incaricata di tenere l'ordine pubblico con la ferocia che vediamo dispiegata in queste ore.
La rivolta è dunque scoppiata perché il «blocco rivoluzionario» ha deciso semplicemente negli ultimi sei anni di fare quello che ogni rivoluzionario coerente deve fare: esportare la rivoluzione sciita in Medio Oriente, destinando a questa missione decine e decine di miliardi di dollari sottratti al welfare interno. L'Iran, favorito dall'insipienza di Obama che l'ha riammesso nella legalità internazionale, mantiene da anni un enorme esercito rivoluzionario, le Brigate Internazionali Sciite, al comando del generale dei Pasdaran Ghassem Suleimaini, che combattono in Siria - garantendo la sopravvivenza di Assad finanziato con decine di miliardi di dollari - in Iraq, in Libano, nello Yemen e a Gaza. Un impegno militar-rivoluzionario enorme, che ha avuto successo, tanto che oggi l'Iran è egemone su un immensa area che va dal Mediterraneo ai confini dell'Afghanistan. La stessa area nella quale, non a caso, gli Usa da Obama in poi non hanno più alcuna influenza.
Gli enormi costi economici (e umani: migliaia sono i Pasdaran morti in Siria e Iraq) dell'esportazione della rivoluzione hanno però salassato l' economia iraniana, riducendo letteralmente il popolo alla fame. Da qui la rivolta e la sua probabile estensione. L'Iran rivoluzionario non può infatti ridurre il suo impegno rivoluzionario estero, costi quel che costi. Anche un mare di sangue.
(Libero, 3 gennaio 2018)
Cori antisemiti in piazza, il sindaco Sala chiamato in causa
I cortei contro Israele per Gerusalemme capitale
di Alberto Giannoni
La manifestazione islamica a Milano
MILANO - La Comunità ebraica chiama in causa il sindaco, Beppe Sala, e gli chiede di prendere le distanze dalle associazioni che hanno organizzato i sit-in «per la Palestina» nel centro di Milano. I cortei erano stati convocati nei sabato di dicembre dalle sigle filo-palestinesi per protestare contro lo spostamento a Gerusalemme dell'ambasciata statunitense, ma si erano trasformati in manifestazioni di odio verso gli Usa e Israele, in un misto di slogan deliranti, evocazioni dei «martiri» e cori inneggianti alla cosiddetta «Intifada». Il «Foglio» ha inoltre documentato come in piazza Cavour, il 9 dicembre, sia partito un coro dai manifestanti: «Ya Yahud, jaish Muhammad saya'ud», cioè «Ebrei, l'armata di Maometto ritornerà». La Comunità ebraica lo denuncia rivolgendosi direttamente al sindaco: «Abbiamo ricevuto tanti attestati di solidarietà, tra i primi l'Anpi provinciale - dicono gli ebrei milanesi - Ringraziamo, ma non ci basta». «Chiediamo all'amministrazione comunale e al nostro sindaco - prosegue la Comunità - di condannare e conseguentemente di escludere da ora in avanti le sigle organizzatrici di quella squallida manifestazione, da qualunque incontro democratico, e dalla concessione di spazi o suolo pubblico. Il fascismo e l'antisemitismo, comunque mascherati, vanno fermati sul nascere, prima che diventi un'abitudine, quasi un luogo comune col quale convivere».
(il Giornale, 3 gennaio 2018)
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Niente spazi ai palestinesi. La comunità ebraica milanese attacca il sindaco Sala
Gli amici di Israele chiedono che Palazzo Marino estenda il divieto di scendere in piazza alle associazioni che inneggiano all'intifada.
di Claudia Osmetti
«Khaybar ya yahud, jaisn Muhammad saya'ud», «Khaybar, o ebrei, l'armata di Maometto ritornerà». Il grido, fin troppo minaccioso, è andato in scena a Milano, il 9 dicembre scorso, durante un corteo palestinese a Piazza Cavour. E adesso la Comunità Ebraica della Madonnina alza il tiro e chiede alla giunta di Beppe Sala di prendere una netta posizione di condanna. Anzi, proprio di «escludere, da ora in avanti, le sigle organizzatrici di quella squallida manifestazione da qualunque incontro democratico e dalla concessione di spazi o suolo pubblico».
«Ci riteniamo parte della cittadinanza», attacca il presidente degli ebrei milanesi Milo Hasbani: «Questi comportamenti ci fanno paura, perché descrivono un odio senza controllo. Non vogliamo mettere il bavaglio a nessuno, ma di fronte a segnali così pericolosi chiediamo e chiederemo provvedimenti fermi».
«È inaccettabile», gli fa eco Filippo Jarach, consigliere al Municipio 1 e unico eletto nelle istituzioni di Palazzo Marino a portare la kippah, «che all'alba del 2018 riecheggino per la nostra città slogan di questo tenore. Capisco che il sindaco sia in una posizione "spiacevole", ma prendere le distanze da simili comportamenti sembra il minimo».
Già, il punto ostico del discorso è proprio questo: con la mozione antifascista in stallo dalle parti di piazza Scala, quello che si poteva incartare s'è già incartato. Intendiamoci: di attestati di solidarietà ai vertici di via Arzaga ne sono arrivati. Primo fra tutti il sostegno dell'Anpi provinciale. Almeno quello. Ma il nodo resta. «Questa vicenda non fa che confermare l'inutilità del provvedimento che il centrosinistra prova a sbandierare a ogni piè sospinto», sbotta il rappresentante della Lega Nord in Comune Alessandro Morelli: «Se il protocollo anti-fascista parte dall'assunto di una cultura condivisa, allora non ci sono problemi di sorta. Ma se per alcune persone firmare un foglio del genere non ha valore, l'intero sistema crolla come un castello di carte».
E, cosa forse addirittura peggiore, apre le porte a una serie di dita puntate e di richieste, più o meno raffazzonate, di «estromissioni alla bisogna». La premessa è che le urla di Piazza Cavour sono da disapprovare punto e basta. L'antisemitismo, quale ne sia la sua natura, non appartiene alla storia di Milano. Il ragionamento successivo, però, è che le opinioni non dovrebbero finire al bando. Neanche quando, come in questo caso, non ci appartengono nemmeno di striscio. «La mozione antifascista sulla quale i dem di casa nostra sono bloccati da settimane», rincara la dose il consigliere azzurro di Palazzo Marino Pietro Tatarella, «va al di là di qualsiasi valenza politica e si risolve in una sorta di "patentino della democraticità" che il Pd non è certo titolato a rilasciare. L'attuale maggioranza deve fare i conti tra una componente pro-palestinese e il buon senso che imporrebbe una condanna sull'accaduto. Sala è nel mezzo, evidentemente non sa che pesci prendere, e l'intera situazione che si è creata non è che l'ennesima conferma dei limiti che quella mozione antifascista aveva con sé».
(Libero, 3 gennaio 2018)
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Grida jihadiste a Milano nel silenzio generale
di Niram Ferretti
Il 9 dicembre, a Milano a Piazza Cavour, durante una manifestazione filopalestinese, si è udito scandito ripetutamente in arabo il, grido "Khaibar, Khaibar, o ebrei, l'armata di Maometto ritornerà!" da tempo in dotazione ai jihadisti di Hamas, Hezbollah, Al Qaida. L'accaduto, passato nel silenzio generale dei media e delle istituzioni è stato riportato recentemente alla ribalta da Giulio Meotti de Il Foglio, in un post pubblicato su Facebook e corredato da un video.
A seguito del post e della risonanza che ha avuto, l'Informale ha voluto intervistare in merito, Andrea Jarach, presidente nazionale del Keren Hayesod Italia, Roberta Vital, membro di Osservatorio Solomon sulle Discriminazioni e consigliera ADEI Wizo, Davide Riccardo Romano, assessore alla Cultura della Comunità Ebraica di Milano, Emanuel Segre Amar, presidente del Gruppo Sionistico Piemontese e già vicepresidente della Comunità Ebraica di Torino, ed Angelo Pezzana, direttore e fondatore di Informazione Corretta.
A Milano, nel corso di una manifestazione contro la decisione dell'Amministrazione Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele, si sono uditi cori in arabo di matrice jihadista. A tutt'oggi, non c'è stato alcun comunicato a livello istituzionale da parte del sindaco e del prefetto di Milano per condannare l'avvenimento. Un comunicato ufficiale da parte della Comunità Ebraica di Milano è giunto con un sensibile ritardo. Quale è la sua valutazione in merito a quanto accaduto?
Andrea Jarach: Verrebbe proprio da dire "per fortuna che c'è Meotti". Infatti anche io, che mi tengo piuttosto informato, non avevo saputo nulla di quanto avvenuto in piazza Cavour fino a pochi giorni fa leggendo il post di Giulio Meotti su Facebook. Ho subito avuto la certezza che non si trattasse di una imprecisione in quanto date e luoghi sul web spesso vengono modificate nel passaparola, e ho sentito chiaramente scandita la parola Yahud, che mi ha fatto gelare il sangue. Yahud, ebreo, dovrebbe essere una parola chiave che segna il passaggio del limite che anche i più filopalestinesi non devono tollerare. Ho tolto i condizionali. "Non dovrebbero" lascia spazio alla discussione. Qui invece non ci deve essere compromesso possibile. Non nella mia città, Milano, medaglia d'oro della resistenza contro il fascismo e il nazismo. Solo 80 anni fa in Italia vennero votate all'unanimità dal parlamento e firmate dal Re Vittorio Emanuele terzo le leggi razziste antisemite. Esse portarono alla fine alla Shoah anche gli ebrei italiani. Nelle piazze anche allora risuonava la parola ebreo. Finì per gli ebrei al Binario 21 della Stazione Centrale a solo 500 metri circa dalla Piazza dove il 9 dicembre la folla urlava Yahud. Dalla Stazione Centrale si arrivava a Auschwitz Birkenau ed è storia abbastanza nota. Ma evidentemente non metabolizzata abbastanza. Ogni tipo di politico esclama il 27 gennaio con enfasi "Mai più!".
Roberta Vital: Un atto gravissimo, dinnanzi al quale la società civile non dovrebbe rimanere indifferente. Questi slogan pieni di odio antiebraico, con esplicita istigazione ad azioni sanguinarie e violente sono un grave campanello d'allarme, che suona forte nell'indifferenza di una città, dei media e delle istituzioni. Molti dei nostri genitori sono dovuti scappare dai paesi arabi a causa delle persecuzioni, ma non hanno inculcato ai propri figli l'odio verso i musulmani, anzi hanno continuato a soffrire del rifiuto arabo verso gli ebrei ed Israele. Si dice che lo stato di benessere delle comunità ebraiche sia la cartina da tornasole del livello di democrazia di un Paese; quando viene percepito il pericolo, come accade oggi in molti paesi d'Europa, significa che le minacce antidemocratiche, i fanatismi e gli estremismi ideologici hanno raggiunto livelli preoccupanti. Oggi, il silenzio rispetto a questi accadimenti di una città che ha visto ebrei italiani partire per Auschwitz è allarmante, poiché tali minacce non sono rivolte solo agli ebrei italiani, ma costituiscono un pericolo per l'intera società democratica. Questo silenzio assordante da parte delle istituzioni italiane rende per costoro la ricorrenza del 27 Gennaio, il Giorno della Memoria, priva di consapevolezza e memoria storica. Il 27 Gennaio non è un modo per pulire le coscienze, che poi rimangono indifferenti ai nuovi pericoli per i restanti 364 giorni dell'anno.
Davide Riccardo Romano: Innanzitutto vorrei cancellare un mito: le comunità ebraiche sono composte da persone che hanno un loro lavoro e nel tempo libero si dedicano come volontari ai propri iscritti e alla comunicazione. Dunque anche noi, prima della scoperta di Meotti, che ringraziamo per l'ennesima volta per avere scoperto e segnalato queste frasi infami, oltre che per i tanti altri articoli di denuncia dell'antisemitismo di matrice islamica, non sapevamo nulla dell'accaduto. Appena letto il pezzo di Meotti ci siamo subito attivati con le forze di sicurezza per avere chiarimenti. Qualche ora dopo il nostro presidente Besso ha condiviso l'articolo di Meotti su Facebook. La cosa non è stata raccolta dai media. Così come non è stato raccolto dai media il mio post del mattino successivo alle 6.55 del 30/12 e l'articolo che abbiamo fatto uscire lo stesso giorno sul nostro organo ufficiale di stampa, "Mosaico": lì già c'era una prima presa di posizione della Comunità ebraica di Milano. Non dimentichiamo che, nonostante il ricorrente mito degli ebrei che controllano i media, non siamo noi a decidere cosa viene pubblicato e cosa no. In questo caso purtroppo, per vari motivi, nulla è stato ripreso dai media. Anche perché la notizia stessa lanciata da Meotti non è stata ripresa da nessuno. Ripeto, nessuno. Potevamo fare di meglio? Probabile. Ma non è facile uscire sui media commentando una notizia che ufficialmente "non esiste". In ogni caso per noi non è finita, andremo avanti cercando di fare il possibile perché la notizia di questo delirio jihadista sia conosciuta. E perché almeno le istituzioni milanesi, il sindaco Sala in testa, condannino quanto è avvenuto e lavorino per risolvere queste minacce per l'intera società.
Emanuel Segre Amar: Questa frase viene ripetuta in infinite occasioni nei paesi musulmani, ad esempio di fronte alla sinagoga di Tunisi, come nella nostra Europa, a Parigi in occasione del recente incontro di Netanyahu con Macron. Non a caso queste sono proprio le terre nelle quali l'antisemitismo, cancro difficile da estirpare, è endemico. Ma come reagiscono i nostri opinionisti di fronte a ciò? Facendo finta di non vedere e di non sentire, trascinandosi dietro, di conseguenza, coloro che dovrebbero prendere le decisioni politiche e tutta l'opinione pubblica. Che differenza possiamo trovare tra pronunciare quelle parole ed esaltare Hitler? Ecco che queste urla che risuonano oggi anche nelle nostre città sono la logica conseguenza del moltiplicarsi in queste di gente cresciuta con quegli insegnamenti, spesso addirittura finanziati dalle nostre istituzioni. Secondo aspetto, che mi sembra doveroso considerare, è la differenza tra la quasi assoluta assenza di musulmani quando nelle città si è manifestato contro i peggiori atti terroristici e la folla di musulmani, oltre che di loro simpatizzanti, facilmente raccolta in queste manifestazioni che si sono svolte nelle principali città italiane. Oltre a Milano, hanno sfilato a Roma, Firenze, Torino, Napoli. Qualcuno mi deve spiegare per quale ragione costoro che non manifestano contro gli atti di terrorismo, ma scendono in strada per manifestare contro Trump, devono essere considerati dei moderati. Il sindaco, il prefetto, e l'autorità giudiziaria, che non poteva non essere informata dagli organi di polizia coi quali sempre collabora, avevano l'obbligo di intervenire, e quindi sono responsabili per la loro inazione. Gli organi delle comunità ebraiche, al contrario, a quanto mi risulta, sono venuti a conoscenza di questi reati solo dopo la pubblicazione delle parole di Giulio Meotti, il quale ha pubblicato su Facebook il video della manifestazione avvenuta a Milano. Seppure in maniera ancora poco chiara e poco coordinata, sembrano, almeno in parte, essere pronti a prendere le decisioni che devono cambiare il modo di difendere una comunità presente in Italia, non dimentichiamolo, da oltre 2000 anni. Una comunità che tanto ha dato allo sviluppo dell'Italia eccellendo, nonostante i suoi piccoli numeri, su tutte le altre.
Angelo Pezzana: La notizia era già stata diffusa da un Ansa del 9 dicembre. Ma gli slogan erano in arabo, per cui né Ansa ne altri cronisti hanno compreso il contenuto. Risultato: le reazioni sono tutte in ritardo, non serve a nulla cercare adesso eventuali colpevoli. Una responsabilità però c'è, quella del sindaco Sala, che non si è ancora accorto di avere tra i consiglieri della maggioranza che lo sostiene una simpatizzante dei Fratelli Musulmani, il movimento che sta dietro a tutto il terrorismo mediorientale, finanziato dall'Iran. È a lui che occorre chiedere spiegazioni. E non solo sul 9 dicembre.
Oggi l'antisemitismo viene soprattutto veicolato attraverso l'antisionismo, l'odio per Israele. Mentre il primo è sostanzialmente ritenuto ancora intollerabile il secondo è praticato e sdoganato con la giustificazione che essere contro Israele non significa essere antisemiti. Cosa ha da dire in proposito?
Andrea Jarach: Io penso che occorra un gesto forte e che barcamenarsi nel politically correct sia ormai un delitto. I nostri rappresentanti politici devono prendere il coraggio di affermare con ogni mezzo a loro disposizione che il limite è stato oltrepassato. I responsabili della chiassata antisemita vanno identificati e perseguiti a norma di legge. Si devono varare norme chiare sull'esercizio della libertà di manifestazione, ad esempio che i discorsi, se fatti in pubblico in Italia, devono essere in italiano. E infine le leggi devono essere fatte rispettare e di leggi contro l'antisemitismo ce ne sono. Temo che un atteggiamento diffuso per il quale i terroristi vengono definiti sempre "squilibrati isolati" nasca dalla paura europea di una rivolta popolare anti-islamica che coinvolgerebbe anche brave persone. E che la grande paura sia che la risposta popolare anti-islamica genererebbe una rivolta armata dei giovani islamici chiamati al Jihad. Personalmente invece sono convinto che la tolleranza dei violenti debba essere zero.
Roberta Vital: Oggi l'antisemitismo grazie alla legge Mancino e la legge Scelba è in teoria punibile per legge. L'antisemitismo ha sempre toccato la sua massima pericolosità nella fase di antisemitismo politico. È un fenomeno subdolo non paragonabile ad altre forme di razzismo ed intolleranza altrettanto deprecabili, poiché il suo volto è in continua evoluzione. Nella sua declinazione più recente ha origini ben radicate nei Protocolli dei Savi di Sion, nella propaganda nazifascista e in quella radicale islamica. E' indubbio che oggi l'antisemitismo si manifesta anche attraverso critiche violente dello stato di Israele e si manifesta in tutta la sua virulenza con appelli al boicottaggio dell'intero Stato ebraico, esattamente come negli anni '30 si boicottavano merci e attività ebraiche. Il boicottaggio nei confronti di Israele, caratteristico del movimento BDS, è in linea di continuità con le leggi di Norimberga del 1935 le quali prevedevano in Germania il boicottaggio delle attività commerciali ebraiche. Cosa propongono oggi gli antisionisti? Non una alternativa ad un governo, non una sua critica legittima, ma la cancellazione di uno stato, il boicottaggio totale e che coinvolge anche i palestinesi, dei suoi stessi diritti esistenziali, della libertà e democrazia, che ad oggi è difesa in Israele come non lo è in nessuno stato arabo.
Davide Riccardo Romano: È una storia vecchia, ormai sbugiardata dai fatti. Erano antisionisti i terroristi palestinesi che uccisero il piccolo ebreo italiano Stefano Gay Taché fuori dalla sinagoga di Roma? Erano antisionisti coloro che buttarono a mare dalla nave Achille Lauro l'ebreo americano Leo Klinghoffer? Erano antisionisti i filoiraniani che nel 1994 uccisero 85 ebrei argentini? Erano antisionisti quei Paesi arabi che cacciarono quasi un milione di ebrei dal mondo arabo-islamico? Mi permetta una provocazione: se tutto questo non è antisemitismo, ma "solo" antisionismo .beh, questo "antisionismo" deve fare paura, visto che negli ultimi 72 anni ha ucciso molti più ebrei dell'antisemitismo.
Emanuel Segre Amar: Antisionismo, odio per Israele; certamente, ma non credo che antisionismo sia solo questo. Purtroppo le indagini demoscopiche che ogni tanto vengono fatte dimostrano che l'antisemitismo continua ad essere presente in profondità nella nostra popolazione; ed allora è possibile essere antisemita e non essere proprio per questo contro Israele? Cominciamo poi col chiederci quante sono le persone che criticano Israele senza averlo mai visitato. Tutti coloro che criticano senza averne una conoscenza personale lo fanno sulla base delle informazioni ricevute, il più delle volte false, parziali, tendenziose. Il 27 gennaio si commemorerà, sì, la Giornata della Memoria, ma memoria di che cosa? Non già della Shoah. Che cosa sanno gli italiani di oggi di questo passato che, per lo più, venne vissuto dai loro genitori, e non direttamente da loro, e che nemmeno viene studiato nelle nostre scuole con il dovuto approfondimento? La Shoah è un processo estremamente complesso come è stato illustrato da pochissimi storici come Georges Bensoussan e dal Mémorial de la Shoah di Parigi. E non è un caso se proprio Bensoussan, che così a fondo ha studiato le dinamiche che hanno portato ad Auschwitz, è estremamente attento anche a quanto succede oggi in Europa. La storia di ieri non si ripete oggi, l'antisemitismo ha un viso diverso, ma coloro che hanno il coraggio di denunciare quanto avviene ai nostri giorni conoscono la censura e sono etichettati come razzisti e islamofobi.
Angelo Pezzana: La manifestazione del 9 dicembre era apertamente contro gli ebrei, per cui cade l'ipotesi che non siano più gli ebrei a essere l'obiettivo, sostituito da Israele. Lo sono entrambi. Ma questo gli ebrei italiani l'hanno capito benissimo, il problema sta nel fatto che non c'è nessuna forza politica per contrastarlo cui fare riferimento.
Il 27 gennaio si commemorerà la Giornata della Memoria e si ricorderanno gli ebrei morti durante la Shoah. Non le sembra che sarebbe anche il caso di parlare non solo del passato e di ciò che ha condotto a questa immane tragedia, ma anche di agganciare questo ricordo al presente, alle forme di antisemitismo attuale, agli ebrei sui quali viene esercitata la violenza oggi, per evitare di chiudere tutto in una sterile retorica?
Andrea Jarach: Per quanto riguarda il prossimo 27 gennaio sto ancora aspettando cosa risponderanno il prefetto Lamorgese e il sindaco Sala. In base al loro silenzio, per ora non ho sentito nessuna presa di posizione ma prego affinché arrivi, o alla loro chiara e inequivocabile risposta coerente con le nostre leggi, con la Costituzione e con il buon senso, mi muoverò con gli amici. Certo è che, per il momento, tutto è stato immerso nel silenzio. Lo trovo inaccettabile. Perché su questo episodio il silenzio? E invece, giustamente, una bagarre mediatica sulle spedizioni fasciste di Roma e di Como? È grave la ripresa del fascismo, ma mi sembra altrettanto grave che si urlino minacce agli ebrei in piazza durante una manifestazione filopalestinese. Il 27 gennaio la Comunità Ebraica di Milano e i tantissimi amici non ebrei dovrebbero ritrovarsi tutti davanti al Memoriale della Shoah, davanti e non dentro in quanto il Memoriale è anche della Regione del Comune e di altre istituzioni non ebraiche, e dissociarsi ufficialmente dalla eventuale presenza di figure istituzionali che non abbiano espresso posizione chiara e pubblica contro gli antisemiti di Piazza Cavour. Attuando le misure conseguenti, se c'è da arrestare qualcuno, lo si faccia. Ricordate nel 1982 a Roma, quando l'unico politico accolto in sinagoga dopo l'attentato fu Spadolini, che mai si era piegato alla convenienza filoaraba. Deve essere così anche oggi. Credo sia giunto il momento delle prese di posizione chiare. E concordo che ormai sia inaccettabile la solidarietà per un giorno solo della Memoria per poi vivere nell'ipocrisia per 364 giorni.
Roberta Vital: Le testimonianze dei nostri superstiti sono preziose e chi le ascolta si arricchisce di un patrimonio per l'umanità. La memoria va però protetta da strumentalizzazioni politiche e manipolazioni. Il nostro compito sarebbe di leggere nell'attualità ciò che si è imparato dalla storia affinché non si ripeta. Ed oggi l'Europa si sta svuotando della presenza ebraica. Oggi si trovano giustificazioni se gli attentati colpiscono Israele, oggi si boicottano marchi con la stella di Davide, oggi si tollerano inviti sanguinari in centro a Milano, oggi, per gli ebrei francesi è diventato pericoloso frequentare scuole pubbliche, a causa dell'antisemitismo islamico, oggi si uccide ancora per il semplice fatto di essere ciò che si è. Ilan Halimi un ragazzo francese ucciso perché ebreo è stato sepolto in Israele perché non avrebbe potuto neanche riposare in pace a Parigi. L'opinione pubblica sembra non curarsi dell'odio, cullandosi nella speranza che l'abominio tocchi solo gli ebrei, e per quello non pensano agli infiniti Bataclan che scoppiano in Europa. Il 27 Gennaio andrebbero ricordate anche queste cose e non rievocare solo ciò che è stato, onorando i morti, solo i morti del passato, senza consapevolezza del presente.
Davide Riccardo Romano: Sono completamente d'accordo. Ricordare l'antisemitismo di ieri senza citare chi uccide e minaccia gli ebrei oggi è assurdo. Nel mio piccolo cerco sempre di ricordare anche le minacce di oggi. Quelle, per intenderci, che sono iniziate in Francia nel 2000 con ragazzi di origine magrebina che non volevano celebrare la Shoah. Poi seguite dalle manifestazioni in piazza degli stessi, in cui si urlava contro gli ebrei. Poi sono arrivati gli attentati: prima agli ebrei francesi, e poi a tutti i francesi. Purtroppo devo constatare che il "modello francese" di non integrazione sta arrivando anche in Italia. Per questo faccio un appello alle autorità politiche: attivatevi prima che sia troppo tardi. La manifestazione e gli slogan violentemente antiebraici di Milano sono stati un altro grave segnale mai accaduto prima. Non è ignorando questi misfatti che ci si può illudere che tutto si sistemerà. L'esperienza francese in tal senso è stata illuminante: il loro non fare nulla contro i fanatici li ha incoraggiati con i risultati che abbiamo visto. Non commettiamo gli stessi errori.
Emanuel Segre Amar: Attorno al 27 gennaio, tutti si sentono in dovere di dichiararsi amici degli ebrei ma già il 28 gennaio non perderanno l'occasione di mostrare atteggiamenti del tutto differenti verso gli ebrei vivi, quegli ebrei che sono "tutti ricchi", che "controllano il mondo", che "uccidono i poveri arabi palestinesi", che, in fondo, si meritano ciò che da oltre 2000 anni devono subire. Chiediamoci come mai coloro che il 27 gennaio sono in prima fila a commemorare anche i morti della Shoah, fanno finta di niente quando si ricorda loro che Abu Mazen è un negazionista. Perché fanno finta di niente se uno stato come l'Iran dichiara formalmente di voler distruggere Israele con cui nemmeno confina? Perché le nostre autorità, quando incontrano i governanti dell'Iran non rinfacciano loro queste dichiarazioni criminali? Possono poi, proprio loro, venirci a parlare il 27 gennaio dei nostri sei milioni morti nei campi? Bisogna, a mio parere, che il mondo ebraico prenda pienamente coscienza di ciò e cambi atteggiamento verso tutti coloro che permettono cortei come quello che si è svolto a Milano, verso tutti coloro che impediscono alla Brigata Ebraica di sfilare il 25 aprile nelle nostre città, verso tutti coloro che impediscono agli israeliani di venire a parlare nelle nostre università o, finanche, a giocare nel nostro tanto amato campionato di calcio.
Angelo Pezzana: Mai dimenticare il ricordo della Shoah, ogni iniziativa va mantenuta. Il dramma sta nel non ricordare quanto gli ebrei morti siano celebrati anche da coloro che non hanno fatto nulla per impedirne lo sterminio. Anche l'uso del verbo 'morire' è scandaloso, gli ebrei non sono 'morti' nella Shoah, sono stati uccisi, ma il verbo 'uccidere' raramente viene usato. Altro fatto scandaloso è nascondere la realtà dell'Islam oggi, cui si deve l'aumento dell'antisemitismo/anti-Israele, due forme di odio che hanno origine nel comune passato nazi-islamico. Dirlo, significa assumersi l'accusa di islamofobia. Che è accusa soltanto per chi non ha ancora capito il progetto della Fratellanza Musulmana, l'invasione silenziosa delle società democratiche del mondo occidentale. Islamofobia? Ebbene sì, gridiamolo forte.
(L'informale, 2 gennaio 2018)
Le femministe fake e le ragazze iraniane
Silenti su chi getta il velo e va dentro. Meglio occuparsi di "divario salariale"
di Giulio Meotti
ROMA - Il silenzio più evidente è quello dell'Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid al Hussein, il principe giordano sempre pronto a condannare Israele e Stati Uniti, ma del quale per ora spicca il rifiuto di dire una sola parola sulle vittime dell'Iran. C'è il silenzio delle quaranta commissioni del Consiglio dei diritti umani. Non una sola dichiarazione urgente da parte degli esperti in materia di detenzione arbitraria, libertà di parola, libertà di riunione e tortura? Ma è sulle donne che è più assordante il silenzio.
La ragazza arrestata è diventata la foto-simbolo delle proteste in Iran sventolava il suo hijab bianco per dire no al velo obbligatorio che la Repubblica degli ayatollah ha imposto a tutte le donne iraniane. Molte giovani in Iran stanno imitando il suo gesto per dire "no" a quella forma di oppressione. Le femministe occidentali sono silenti. Margot Wallstrom, ministro degli Esteri della Svezia, ha tuittato: "Seguo le dimostrazioni in Iran. E' importante che la violenza sia evitata. La libertà di manifestare è un diritto umano basilare". Un po' pochino per il ministro che si vanta di guidare "il primo governo femminista della storia".
Un anno fa il ministro del Commercio svedese, Ann Linde, e altri dieci membri di sesso femminile del governo Lofven, hanno sfilato di fronte al presidente iraniano Hassan Rohani indossando hijab e cappotti lunghi, in ossequio alle leggi di "modestia" oppressive che in Iran rendono obbligatorio il velo islamico. Nessuna meraviglia quindi che i tweet di Ann Linde in questi giorni non siano stati a favore delle ragazze iraniane che si sono tolte il velo, ma contro il discorso dell'odio online e il cambiamento climatico.
Bruxelles e Teheran
Di fronte agli attacchi del leader dei liberali Jan Bjorklund al tabloid svedese Aftonbladet, Ann Linde si era difesa affermando che non era disposta a violare la legge iraniana, che rende obbligatorio per le donne indossare il copricapo in pubblico da quando c'è stata la rivoluzione islamica del 1979. I tweet di Federica Mogherini, responsabile della politica estera di Bruxelles, parlano invece di "monitoraggio" della situazione in Iran (anche lei ha sfoderato lunghi veli pudichi nelle sue visite a Teheran, compresi molti selfie con gli ayatollah).
I gruppi delle femministe americane si preparano a ripetere la "Marcia delle donne" dello scorso anno, ma mentre le loro sorelle iraniane scendono in piazza per protestare contro un governo fondamentalista, alla ricerca di veri e propri diritti per tutti, le organizzazioni femministe americane tacciono. Non dovrebbero mobilitarsi per la causa di queste donne, considerando che la lotta per l'uguaglianza non riguarda i tamponi interni più economici o i pronomi neutri corretti, ma diritti e democrazia in un regime fondamentalista islamico che ha, per decenni, tenuto le donne come cittadine di seconda classe, dettando cosa possono indossare, con chi possono comunicare e che cosa possono fare con le loro vite?
L'Organizzazione nazionale delle donne (Now) tace. L'American Association of University Women pure, in teoria impegnata per il "progresso" delle donne in tutto il mondo, non ha nemmeno twittato una foto delle donne nelle strade dell'Iran, troppo impegnata a parlare del "divario salariale". E le Women's Marchers? Stanno organizzando una conferenza a Las Vegas. Titolo: "Together We Rise". Questo mentre le donne implorano per le strade dell'Iran di essere trattate come esseri umani.
D'altronde Linda Sarsour, la leader della Marcia delle donne, ha trascorso l'ultimo anno cercando di vendere al pubblico americano l'hijab come un simbolo di "empowerment". Sarsour ha trascorso gli ultimi giorni a twittare contro il "travel ban" di Donald Trump, il "colonialismo americano a Porto Rico" e a favore del boicottaggio di Israele. Sono i soliloqui della vagina occidentale.
(Il Foglio, 3 gennaio 2018)
Israele valuta gli effetti del piano Trump
Israele, paradiso della tecnologia e dell'innovazione, sta studiando gli effetti della riforma fiscale di Trump sul paese al fine di evitare un esodo di startup. Il primo ministro, Benjamin Netanyahu, infatti, ha richiesto agli alti funzionari del ministero delle finanze di preparare uno studio sulle implicazioni della riforma fiscale Usa sulle imprese tecnologiche israeliane e statunitensi che operano in Israele. La riforma potrebbe avere implicazioni significative per l'economia israeliana, e in particolare per la fiorente industria dell'innovazione. Secondo Aviram Zolti, capo della divisione governativa per l'innovazione, si prevede che «la riforma americana aumenterà notevolmente i costi operativi di ricerca e sviluppo delle multinazionali, molte delle quali con sede negli Stati Uniti». Inoltre, l'aliquota inferiore delle imposte sulle società introdotta potrebbe stimolare un deflusso di start-up israeliane verso le coste americane, incidendo sulle entrate fiscali del paese.
(ItaliaOggi, 3 gennaio 2018)
L'antisemitismo che non si vuole vedere
Gli slogan di Milano sono un segnale di guerra ignorato dalle autorità. Poche reazioni alla manifestazione anti Israele di Milano. Un silenzio inquietante.
di Guido Salvini, magistrato
Leggo sul Foglio, nessuno lo sapeva o ha pensato di scriverne, cosa è successo il 9 dicembre scorso a Milano alla manifestazione palestinese e islamica - appoggiata da alcuni Centri sociali - dopo le dichiarazioni di Trump su Gerusalemme capitale d'Israele. In Piazza Cavour, in pieno centro città, nel triangolo tra il palazzo del Comune, la Questura e il Palazzo di Giustizia, i manifestanti hanno ritmato otto volte - credo che il numero abbia significato "rituale" - il grido "Khaybar Khaybar, l'armata di Maometto ritornerà!"
"Khaybar, khaybar ya yahud"
, scandendo infine fragorosamente "Allahu Akbar". Il richiamo è alla campagna finale dell'esercito di Maometto che fece pulizia etnica in Arabia di ogni insediamento ebraico, prima contro la tribù dei Banu Quaryza, definiti "fratelli di scimmie" - più di 600 prigionieri, alcuni per mano dello stesso Maometto, furono decapitati - e poi all'oasi di Khaybar, ove l'ultimo insediamento fu annientato e i suoi abitanti soggiogati e ridotti in schiavitù portando alla scomparsa dell'ebraismo nell'intera regione. Alla fine dell'assedio, ricordiamolo, Maometto fece torturare e decapitare davanti a sé uno dei capi degli ebrei e, tanto per non smentirsi, ne prese la vedova come preda bellica e schiava sessuale. Quello a Khaybar è un richiamo mitico e eccitante che simboleggia per i musulmani la prospettiva finale della completa eliminazione degli ebrei.
Non è solo un ricordo storico ma uno slogan attuale perché è usato come grido di guerra da tutti i radicali islamici in medio oriente.
Questi massacri sono del resto esaltati in una sura del Corano, proprio quella recitata nel video da al Zarqawi prima di sgozzare l'ebreo americano Nick Berg.
Inneggiare a Khaybar è più o meno come se qualcuno in Italia esaltasse in pubblico il rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma o le camere a gas o negli Stati Uniti la distruzione del villaggio indiano a Wounded Knee da parte delle giubbe blu, massacro che tutti abbiamo visto nei film degli anni Settanta.
Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha promesso che non saranno più tollerate le manifestazioni fasciste e "razziste" - quelle per intenderci con il saluto romano pur in assenza di inneggiamenti a stermini - e che qualsiasi gruppo che volesse usufruire di uno spazio pubblico a Milano dovrà sottoscrivere un "patentino" di antifascismo. Per i fatti di Piazza Cavour nessuno invece per ora ha protestato e non sembrano esserci indagini in corso, benché quella del Foglio sia una vera e propria denuncia di reato per violazione della legge Mancino e tramite i video pubblicati sul sito dello stesso quotidiano non dovrebbe essere poi tanto difficile identificare chi ha organizzato quell'incitamento al peggior razzismo.
Cosa ne pensa il sindaco? Chiederà un "patentino" anche alle associazioni musulmane potenzialmente razziste? E la Questura denuncerà qualcuno per incitamento all'odio razziale?
Forse no. Forse le autorità cittadine si limiteranno a concludere che occuparsene, soprattutto in tempo di elezioni, non è politicamente conveniente. Meglio non aver sentito, meglio non sapere.
(Il Foglio, 2 gennaio 2018)
La politica di apartheid araba colpisce i palestinesi
di Khaled Abu Toameh*
I palestinesi dicono che ciò a cui devono far fronte in Iraq è una "pulizia etnica". La nuova legge irachena priva i palestinesi che vivono in Iraq del loro diritto all'istruzione gratuita, all'assistenza sanitaria e ai documenti di viaggio, e nega loro la possibilità di lavorare in seno alle istituzioni statali.
Nessuno presterà attenzione alle sofferenze dei palestinesi in nessun paese arabo. I principali organi di informazione di tutto il mondo si occupano a malapena della controversa legge irachena o del trasferimento di migliaia di famiglie palestinesi in Iraq. I giornalisti sono troppo occupati a correre dietro a un manipolo di "lancia-sassi" palestinesi nei pressi di Ramallah. Una ragazza palestinese che ha alzato il pugno contro un soldato israeliano suscita più interesse mediatico della politica di apartheid praticata dai governi arabi nei confronti dei palestinesi.
Intanto, ai leader palestinesi non importa nulla della difficile situazione in cui versa la loro popolazione nei paesi arabi. Sono troppo impegnati a incitare i palestinesi contro Israele e Trump per dare peso a una questione così irrisoria.
Una nuova legge irachena, recentemente ratificata dal presidente iracheno Fuad Masum, abolisce di fatto i diritti dei palestinesi residenti nel paese (all'istruzione gratuita, all'assistenza sanitaria, ad avere documenti di viaggio e a lavorare in seno alle istituzioni statali), cambiando lo status dei palestinesi da cittadini a stranieri. Nella foto: il presidente iracheno Fuad Masum con il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, il 30 novembre 2015.
L'Iraq si è appena unito alla lunga lista dei paesi arabi che praticano vergognosamente l'apartheid nei confronti dei palestinesi. È disarmante il numero dei paesi arabi che applicano misure discriminatorie contro i palestinesi pur fingendo di appoggiare la causa palestinese. L'ipocrisia araba è di nuovo in bella mostra, ma chi ci fa caso?
I media internazionali - e anche i palestinesi - sono talmente preoccupati dell'annuncio del presidente americano Donald Trump su Gerusalemme che il dramma dei palestinesi che vivono nei paesi arabi è una notizia che li lascia del tutto indifferenti. Questa apatia consente ai governi arabi di continuare con le loro politiche anti-palestinesi, perché sanno che non gliene importa niente a nessuno della comunità internazionale - le Nazioni Unite sono troppo impegnate a condannare Israele per pensare ad altro.
Allora, cosa è accaduto ai palestinesi in Iraq? La settimana scorsa si è appreso che il governo iracheno ha approvato una nuova legge che abolisce i diritti riconosciuti ai palestinesi residenti nel paese. Il nuovo atto normativo cambia lo status dei palestinesi da cittadini a stranieri.
Sotto Saddam Hussein, l'ex dittatore iracheno, i palestinesi godevano di molti privilegi. Fino al 2003, c'erano circa 40 mila palestinesi in Iraq. Dopo la caduta del regime di Saddam, la popolazione palestinese si è ridotta a 7 mila persone.
Migliaia di palestinesi hanno lasciato l'Iraq dopo essere stati presi di mira da parte delle varie milizie in lotta, a causa dell'appoggio da loro offerto a Saddam Hussein. I palestinesi dicono che ciò a cui devono far fronte in Iraq è una "pulizia etnica".
Le condizioni dei palestinesi in Iraq sono peggiorate. La nuova legge, che è stata ratificata dal presidente iracheno Fuad Masum, priva i palestinesi che vivono nel paese del loro diritto all'istruzione gratuita, all'assistenza sanitaria e ai documenti di viaggio, e nega loro la possibilità di lavorare in seno alle istituzioni statali. Il nuovo atto normativo - n. 76 del 2017 - revoca i diritti e i privilegi garantiti ai palestinesi sotto Saddam Hussein. La legge è entrata in vigore di recente dopo essere stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale irachena n. 4466.
"Anziché proteggere i profughi palestinesi dalle violazioni quotidiane e migliorare le loro condizioni di vita e umanitarie, il governo iracheno prende decisioni che avranno un impatto catastrofico sulle vite di questi rifugiati", si legge in un comunicato stampa dell'Euro-Mediterranean Human Rights Monitor.
Le ricorrenti vessazioni e restrizioni inflitte ai profughi palestinesi negli ultimi anni hanno costretto la maggior parte di loro a rivolgersi di nuovo ad altri paesi come il Canada, il Cile, il Brasile e altre nazioni europee. A causa di queste violazioni, soltanto circa 7 mila palestinesi su 40 mila ora risiedono in Iraq. È una vergona alla quale si dovrebbe porre fine".
La legge afferma che i palestinesi preferiscono vivere in Canada o in Brasile oppure in qualsiasi altro paese europeo piuttosto che in un paese arabo. Lì, vengono loro riconosciuti più diritti rispetto a quelli di cui godono nei paese arabi. Almeno, nei paesi che non sono arabi possono acquistare beni immobili e godere delle prestazioni sanitarie e sociali. I palestinesi possono perfino richiedere la cittadinanza nei paesi non arabi e la ottengono. Ma ciò non è possibile in nazioni come l'Iraq, l'Egitto, il Libano, la Tunisia, l'Arabia Saudita e il Kuwait. È più facile per un palestinese ottenere la cittadinanza canadese o americana piuttosto che ottenerne una di un paese arabo.
In una nota della massima ironia, la Lega Araba consiglia ai suoi membri di non concedere la cittadinanza ai palestinesi. La scusa? Concedendo ai palestinesi la cittadinanza dei paesi arabi, gli si negherebbe il "diritto al ritorno" alle loro vecchie case in Israele. Quindi i paesi arabi vogliono che i palestinesi rimangano per sempre dei profughi mentendo a loro e dicendogli che un giorno faranno ritorno ai loro vecchi villaggi e città (molti dei quali non esistono più) dentro Israele.
Si prenda, ad esempio, il caso di Amal Saker, una donna palestinese che nel 1976 si è trasferita con la sua famiglia in Iraq. Sebbene sia sposata con un cittadino iracheno e i suoi figli abbiano la cittadinanza irachena, Amal non ha ottenuto la cittadinanza irachena. La donna dice che la nuova legge ora le impedirà di avere i documenti di viaggio necessari per recarsi a trovare i suoi parenti all'estero. Amal e molti palestinesi sono convinti che la tempistica del nuovo atto normativo - che coincide con l'annuncio di Trump su Gerusalemme - non sia casuale. Essi credono che la nuova legge irachena faccia parte della presunta "soluzione definitiva" di Trump per il conflitto arabo-israeliano, che a loro avviso è volta a "liquidare" la causa palestinese e privare i palestinesi del "diritto al ritorno".
In altre parole, i palestinesi stanno promuovendo una teoria del complotto secondo cui alcuni paesi arabi come l'Iraq, l'Arabia Saudita e l'Egitto, cospirano con l'amministrazione Trump per imporre una soluzione che è assolutamente inaccettabile e perfino dannosa per i palestinesi.
I palestinesi sono "inorriditi" dalla nuova legge irachena e qualcuno ha iniziato a condurre una campagna che eserciti pressioni sul governo iracheno affinché faccia marcia indietro. Ma i palestinesi sono anche consapevoli che non vinceranno questa campagna, perché non otterranno la solidarietà della comunità internazionale. Per quale motivo? Perché il paese che ha approvato questa legge dell'apartheid è l'Iraq e non Israele.
Jawad Obeidat, presidente dell'Ordine degli Avvocati palestinese, ha spiegato che la nuova legge irachena avrà "gravi ripercussioni" sulle condizioni e sul futuro dei palestinesi che vivono in Iraq. "I palestinesi saranno ora privati della maggior parte dei loro diritti fondamentali", ha dichiarato Obeidat.
E ha aggiunto che gli avvocati palestinesi lavoreranno con i loro colleghi iracheni per fare pressioni sul governo iracheno affinché esso provveda ad abrogare la nuova legge. Obeidat ha esortato la Lega Araba a intervenire con le autorità irachene per abrogare l'atto normativo e porre fine alla "ingiustizia" nei confronti dei palestinesi in Iraq.
"La legge irachena è inaccettabile e disumana", ha dichiarato Tayseer Khaled, un alto funzionario dell'Olp, il quale ha precisato che le autorità irachene non sono riuscite a offrire protezione ai palestinesi residenti in Iraq e che questo è il motivo per cui essi sono diventati facili prede per le milizie che hanno indotto molti di loro a lasciare il paese negli ultimi quindici anni. Khaled ha rilevato che numerose famiglie palestinesi sono state costrette a vivere in campi profughi provvisori e di fortuna situati lungo i confini della Siria e della Giordania, dopo essere state cacciate dalle loro case. "Chiediamo alle autorità irachene di trattare i palestinesi con umanità", egli ha detto.
Tuttavia, i leader iracheni possono permettersi di sedersi comodamente e rilassarsi dinanzi agli appelli e alle condanne palestinesi. Nessuno presterà attenzione alle sofferenze dei palestinesi in nessun paese arabo. I principali organi di informazione di tutto il mondo si occupano a malapena della controversa legge irachena o del trasferimento di migliaia di famiglie palestinesi in Iraq. I giornalisti sono troppo occupati a correre dietro a un manipolo di "lancia-sassi" palestinesi nei pressi di Ramallah. Una ragazza palestinese che ha alzato il pugno contro un soldato israeliano suscita più interesse mediatico della politica di apartheid praticata dai governi arabi nei confronti dei palestinesi. Una protesta di 35 palestinesi nella Città Vecchia di Gerusalemme contro Trump e Israele attira più fotografi e reporter rispetto a una notizia sull'endemica politica di apartheid araba e sulle discriminazioni nei confronti dei palestinesi.
L'ipocrisia dei paesi arabi è giunta al culmine. Mentre fingono di essere solidali con i loro fratelli palestinesi, i governi arabi lavorano senza sosta per sottoporli alla pulizia etnica. Intanto, ai leader palestinesi non importa nulla della difficile situazione in cui versa la loro popolazione nei paesi arabi. Sono troppo impegnati a incitare i palestinesi contro Israele e Trump per dare peso a una questione così irrisoria.
* Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme.
(Gatestone Institute, 2 gennaio 2018 - trad. Angelita La Spada)
A Gaza e Tel Aviv verdura e ortaggi crescono sui tetti
Israeliani e palestinesi tra i migliori nel boom orti urbani
NAPOLI - Tel Aviv e la Striscia di Gaza sono accomunate dalla passione per l'agricoltura urbana. La città israeliana e la regione palestinese sono infatti tra gli esempi di maggior successo dei cosiddetti "roooftop gardens", gli orti sui tetti che grazie alle colture idroponiche e acquaponiche si stanno diffondendo sempre di più, soprattutto nelle regioni calde e aride. A citare le colture di Gaza e Tel Aviv è stato di recente il sito Inhabitat, specializzato nelle innovazioni architettoniche più ecosostenibili, che le ha inserite tra le sei città da prendere a esempio nel settore, insieme alle statunitensi Detroit, Indianapolis, Chicago e a Shangai, in Cina.
Nella Striscia, l'idea di lanciare gli orti urbani è nata a seguito del blocco imposto da Israele che ha provocato una grave mancanza di cibo, con il 40-50% della popolazione che nel 2011 aveva scarsità di generi alimentari.
Il progetto è stato messo in atto con finanziamenti internazionali che hanno permesso a centinaia di famiglie di ricevere dei kit per costruire il proprio orto urbano sul tetto dell'edificio in cui vivono, da irrigare con la tecnica acquaponica: che prevede l'allevamento di pesci in una vasca collegata all'orto sul tetto in modo che l'acqua di irrigazione si arricchisca delle sostanze di scarto dei pesci. Altri palestinesi hanno costruito la base dei loro orti urbani con plastiche riciclate e legno, usati per contenere la terra piantata con semi provenienti dagli agricoltori tradizionali. Un sistema che sta crescendo ancora a Gaza e che non solo fornisce cibo ma anche una maggiore consapevolezza ambientale e sulla salubrità del cibo, in un territorio in cui la popolazione continua ad aumentare.
L'agricoltura urbana è in piena esplosione anche a Tel Aviv a partire dal più vecchio centro commerciale di Israele, il Dizengoff Center. Sul tetto dell'edificio, infatti, è stata costruita una grande serra dove crescono verdura e ortaggi in abbondanza che vengono venduti ai ristoranti della città, ma anche online con un servizio di consegne in bicicletta per un incredibile "chilometro zero" cittadino.
(ANSAmed, 2 gennaio 2018)
Netanyahu rinvia il viaggio a Cipro per votare la legge sulla chiusura dei negozi al sabato
GERUSALEMME - Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha rinviato la visita ufficiale a Cipro, paese con cui sono stati recentemente firmati accordi sul gas naturale, al fine di sostenere con il proprio voto una proposta di legge nazionale sulla chiusura dei negozi al sabato (shabbat, festa del riposo secondo la religione ebraica). Nel caso della prevista assenza del premier durante la votazione della prossima settimana, la prassi avrebbe contemplato, secondo quanto riportato dal quotidiano "Haaretz", che l'opposizione ritirasse uno dei propri voti quale compensazione. L'Unione sionista ha tuttavia dichiarato di non voler rinunciare ad un voto, spiegando di non essere stata, ad ogni modo, interrogata a riguardo. Yoel Hasson, deputato dell'Unione sionista, ha scritto sul profilo Twitter personale che "non vi è nulla di urgente circa la proposta di legge, e che dunque non vi è giustificazione per la richiesta di Netanyahu di ritirare un nostro voto".
(Agenzia Nova, 2 gennaio 2018)
Iran, l'Europa non può fare finta di non vedere
Il mondo difenda gli eroi in piazza
di Fiamma Nirenstein
Javad Zarif, il sorridente Ministro degli Esteri iraniano
Sono gli eroi di tutti noi quei giovani che in cento città dell'immensità iraniana, 80 milioni di abitanti, vediamo da cinque giorni nelle strade pronti ad affrontare a mani nude il regime più aggressivo del mondo, i Basiji, le Guardie della rivoluzione, gli uomini dell'esercito e della polizia tutti quanti in difesa feroce di un regime che imprigiona, scudiscia e uccide i dissidenti, opprime le donne fino alla lapidazione, impicca gli omosessuali alle gru, ha fatto dello slogan «morte all'America e Israele» il suo più utilizzato grido di battaglia. Javad Zarif, il sorridente ministro degli Esteri campione di strette di mano con l'Unione europea ha scritto in ottobre: «Gli iraniani, ragazzi, ragazze, uomini, donne, sono tutti Guardie della rivoluzione, al fianco di coloro che difendono gli iraniani e la regione contro l'aggressione e il terrorismo». Ma non è vero. I giovani iraniani non sono col regime. Sono figli di una cultura molto più lunga e ricca di quella della rivoluzione fanatica del 1979, non desiderano prendere le armi in Yemen o a Gaza a fianco della superstar della guerra, generale Qasem Suleimani, inviato armato di Khamenei e di Rouhani in Siria, a Gaza, in Irak, in Libano, per affermare una presenza imperiale. I giovani vogliono avere un posto di lavoro, uno stipendio decente, una vita interessante, la libertà di collegarsi sui media negata sempre di più ora che Instagram e Telegram sono stati serrati, la libertà sessuale e quella religiosa, mentre i curdi, gli azeri, gli zoroastriani, i sunniti vengono perseguitati.
Pane e libertà: qui molto più che nel 2009, quando le elezioni e lo scontro politico fornirono la miccia, le motivazioni e la diffusione geografica sono vaste. Un'altra differenza basilare è che a quel tempo Obama si rifiutò di parlare in sostegno dei moti popolari perché temeva di mettere a rischio il pessimo accordo sul nucleare che si preparava; adesso invece subito l'amministrazione Usa ha parlato. Ma dov'è l'Europa, che si picca di essere la migliore custode delle libertà umane e civili? È tempo che cerchi di superare l'atteggiamento opportunista per cui resta attaccata all'accordo nucleare: non è più tempo di interessi e di puntiglioso antiamericanismo. Il broncio della Mogherini - quando Trump ha decertificato l'accordo - è fuori moda. Qui è in gioco la vita di milioni di persone e un nuovo, migliore equilibrio internazionale in cui la guerra sciita-sunnita cessi di spingere verso le sponde europee miriadi di persone in fuga dal nuovo oppressore.
Il regime ha messo in giro un'ennesima teoria della cospirazione: Khamenei avrebbe sobillato la folla contro il «riformatore» Rouhani. Ma la verità è che conservatori e riformatori non esistono, anche se ci sono gruppi di interesse: per la gente, esiste una tirannia che spende i suoi soldi in guerre all'estero, finanziamenti di terroristi come gli hezbollah e Hamas, e in milizie che reprimono tutti. Anni fa ho intervistato Reza Pahlavi, il figlio dello shah defunto, a Washington: mi colpì la sua fede che un popolo dal passato glorioso e complesso non sarebbe rimasto a lungo sotto il giogo integralista, che un giorno i rapporti con l'Occidente avrebbero aiutato le sue innate capacità a rifiorire.
Adesso la folla vuole tornare a essere parte del mondo. E il mondo, dunque, si muova.
(il Giornale, 2 gennaio 2018)
Gli occidentali amano compiacersi e illudersi che tutti i cittadini del mondo non anelano ad altro che ad eguagliarli. E ritengono sia loro dovere aiutarli in questo. Si stia attenti a non illudersi con il sogno di unaltra primavera iraniana dopo quelle arabe. I risvegli dai sogni ad occhi aperti possono essere mentalmente destabilizzanti, oltre che dolorosi. M.C.
Iran, la rivolta che può cambiare il Medio Oriente
Occidente alla prova
di Maurizio Molinari
Il nuovo anno inizia nel segno della rivolta contro il carovita in Iran, che ha tre risvolti: testimonia la forza indomabile di un popolo antico, evidenzia l'entità dei cambiamenti in atto in Medio Oriente e mette a dura prova i leader dell'Occidente.
Le proteste iniziate giovedì a Mashad nascono dallo scontento per l'aumento del costo della vita dovuto alla necessità della Repubblica islamica di finanziare gli interventi militari in Siria, Iraq, Libano e Yemen a sostegno di milizie sciite strumento del disegno di estendere l'egemonia iraniana sull'intero Medio Oriente. Si tratta del cuore stesso del regime, perché tale imponente apparato militare e di intelligence è incarnato dai Guardiani della Rivoluzione, che rispondono direttamente alla Guida Suprema della Rivoluzione, Ali Khamenei, e gestiscono anche gran parte delle risorse economiche nazionali senza troppo curarsi delle altre istituzioni della Repubblica islamica, a cominciare dal governo del presidente Hassan Rohani. Il fatto che gli iraniani, oggi in gran parte nati dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, abbiano la forza, l'energia e il coraggio di contestare il nucleo duro del regime degli ayatollah, al suo apogeo militare ed oramai privo di una reale opposizione politica interna, lascia intendere quanto siano radicati, estesi, condivisi i principi di libertà personale e rispetto per i diritti individuali. A quasi 40 anni dall'avvento della teocrazia degli ayatollah negli iraniani resta intatta la voglia di libertà che li portò a rivoltarsi contro la dittatura dello Shah, e ciò suggerisce alle democrazie la necessità di mostrare a questo popolo antico tutto il rispetto che merita.
Per quanto concerne il Medio Oriente le proteste iraniane evidenziano la veridicità di uno dei principi-cardine della vita nel deserto: chi sembra forte non sempre lo è, e chi sembra debole non sempre lo è. L'Iran infatti è il più importante vincitore della guerra civile siriana, controlla una Mezzaluna di territori contigui da Teheran a Beirut - passando da Baghdad e Damasco - e tiene in scacco militare l'Arabia Saudita grazie ai ribelli houthi dello Yemen, che riescono perfino a minacciare Riad con i loro missili. L'arrivo delle avanguardie militari iraniane, affiancate dagli Hezbollah, alle pendici del Monte Hermon a meno di 10 km da Israele descrive l'indubbio successo tattico regionale dovuto al formidabile e spietato generale Qassem Suleimani, regista e guida di ogni operazione bellica all'estero, inclusa Hamas nella Striscia di Gaza. L'intento di Suleimani, che risponde solo a Khamenei, è di travolgere gli Stati sunniti e distruggere Israele per piegare agli sciiti l'intera regione da Hormuz a Suez come non è mai avvenuto dall'avvento nell'Islam. Ma tale e tanto sfoggio di potenza militare non ha alle spalle un'economia solida né tantomeno il sostegno popolare e così Teheran si trova obbligata a fare i conti con le proprie debolezze: un sistema produttivo non diversificato, la corruzione dilagante, l'accentramento della ricchezza nelle mani di pasdaran e ayatollah, la rabbia dei giovani che preferiscono Instagram alla sharia. La sovraesposizione bellica si è così trasformata in un boomerang, finendo per evidenziare le debolezze della Repubblica islamica.
Se tutto questo mette alla prova l'Occidente è perché quando nel giugno del 2009 l'Onda verde della protesta iraniana sfidò il regime, contestando i risultati della riconferma alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad, gli Stati Uniti e l'Europa si voltarono dall'altra parte. Moltitudini di iraniani credettero che l'Occidente li avrebbe ascoltati e sostenuti. Ricevettero invece solo un tradimento, morale e politico, il cui primo - ma non solo - responsabile fu il presidente americano Barack H. Obama che, anziché sostenere le loro grida di libertà, scrisse in segreto a Khamenei, offrendogli un dialogo che sei anni dopo avrebbe portato all'accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano corredato dalla fine delle sanzioni con imbarazzanti dettagli segreti che solo ora iniziano ad affiorare: dalla spedizione con un aereo militare di un miliardo di dollari in contanti ai pasdaran al blocco delle indagini dell'Fbi sui traffici illeciti degli Hezbollah fino all'avvertimento a Teheran che il generale Suleimani rischiava di essere eliminato da Israele. Scegliendo il silenzio davanti alla repressione dell'Onda verde Obama indirizzò l'America, e trascinò l'Europa, verso l'appeasement con lo stesso regime che oggi gli iraniani tornano a contestare a viso aperto, rischiando le proprie vite. Da qui l'importanza della scelta dell'amministrazione Trump di schierarsi subito dalla parte dei manifestanti e l'interrogativo se la Casa Bianca riuscirà a far seguire alle parole i fatti. È un bivio che riguarda anche l'Europa: dopo le prime timide dichiarazioni da Berlino e Bruxelles ha l'occasione per invertire drasticamente la rotta rispetto agli errori compiuti con gli ayatollah negli ultimi otto anni.
(La Stampa, 2 gennaio 2018)
Sinagoga di Firenze, lavori al via. "Raccolta fondi un successo"
Cupola della Sinagoga di Firenze
Significativo successo per la campagna straordinaria di raccolta dei fondi per il restauro e la messa in sicurezza della cupola interna alla sinagoga di Firenze lanciata nelle scorse settimane da Opera del Tempio Ebraico e Comunità ebraica. Più di ottanta i donatori che hanno risposto all'appello, sottolineano in un messaggio congiunto il presidente dell'Opera del Tempio Renzo Funaro e la presidente della Comunità ebraica Daniela Misul. Tra questi iscritti alla Comunità ebraica, all'Opera del Tempio, tanti comuni cittadini, importanti organizzazioni locali e internazionali. Determinante, viene spiegato, il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, così come da New York la collaborazione e l'aiuto del World Monuments Fund, della David Berg Foundation. Fondamentale anche il sostegno della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia Onlus, della Jewish Heritage Europe, dell'Adei di Firenze e del Centro Giovanile Ebraico Fiorentino.
I lavori, spiegano Funaro e Misul, partiranno appena possibile nel mese di gennaio così da limitare la chiusura dell'aula centrale del Tempio, disposta prontamente dalla Comunità per motivi di sicurezza, su segnalazione dell'Opera.
(moked, 2 gennaio 2018)
Preoccupante rapporto dello Shin Bet: la svolta di Hamas
Lo Shin Bet produce un rapporto dal quale emerge un "pericolo imminente" per attentati di grandi dimensioni organizzati da Hamas in Israele e in Giudea e Samaria. Sembrerebbe una cosa normale ma non lo è. E' la svolta che tanti temevano.
L'agenzia di sicurezza generale interna israeliana, meglio nota come Shin Bet, ha rilasciato un rapporto sulle attività del 2017 e sui pericoli imminenti per il 2018.
A presentare i punti principali del rapporto è stato il Direttore dello Shin Bet, Nadav Argaman, in una riunione del Comitato Affari Esteri e Difesa della Knesset tenutasi a porte chiuse la scorsa settimana.
Di particolare interesse sono le cosiddette "minacce incombenti" quelle cioè che potrebbero colpire Israele in tempi relativamente brevi. Parliamo naturalmente dell'area di competenza della Shin Bet non del Mossad, quindi nel rapporto si parla di minacce interne dove per "minacce interne" si intendono anche quelle provenienti dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania....
(Right Reporters, 2 gennaio 2018)
Israele ha la licenza di uccidere
Le operazioni speciali del Mossad. Via libera della Casa Bianca all'eliminazione dei terroristi sciiti delle Forze Quds.
Titolo e sottotitolo sono fuorvianti. Dall'articolo emerge che si tratta di una sola e ben precisata persona.
di Daniel Mosseri
Da quando Donald Trump ha pubblicamente riconosciuto che Gerusalemme è la capitale di Israele, annunciando che l'ambasciata degli Stati Uniti sarà spostata da Tel Aviv alla Città Santa, da Gaza è ripreso lo stillicidio di missili verso il sud dello Stato ebraico.
Nello spazio di tre settimane e mezzo, oltre 40 fra colpi di mortaio e razzi qassam sono stati esplosi dalla Striscia controllata da Hamas. Eppure le Israeli Defense Forces si guardano bene dall'avviare una controffensiva massiccia.
Le ragioni sono molteplici: la soggettiva difficoltà di azione a Gaza dove i jihadisti di mille sigle diverse lanciano i razzi a partire da abitazioni private; il danno di immagine sul piano internazionale che Israele ricava ogni volta che si difende da Hamas; e, non ultima, anche la rinnovata alleanza fra il principale movimento islamico e l'Iran.
Nella Repubblica islamica le proteste di piazza sono in ripresa: fra donne che si tolgono il velo, dimostrazioni contro il carovita, arresti e uccisioni di manifestanti, il regime khomenista vive una fase di difficoltà. E da parte sua, scrive il quotidiano Haaretz, Israele non ha interesse a che l'opinione pubblica internazionale distolga lo sguardo dai guai degli ayatollah. Al di là delle accuse del ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman secondo cui l'Iran avrebbe fornito a gruppi salatiti di Gaza il materiale per la fabbricazione di missili, il governo di Benjamin Netanyahu non contrattacca, lasciando spazio alla Casa Bianca. Su twitter Donald Trump ha scritto che «in Iran è tempo di cambiare. Nonostante il disastroso accordo [sul nucleare] strappato all'amministrazione Obama, l'Iran sta fallendo a ogni livello. Il grande popolo iraniano è stato oppresso per troppi anni, gli iraniani hanno fame di cibo e libertà. Oltre che dei diritti umani, sono stati spogliati della loro ricchezza».
Messa in sordina un'azione militare contro Gaza, la ritrovata intesa sull'asse fra Washington e Gerusalemme passa invece dalla luce verde che in queste ore la Casa Bianca avrebbe concesso agli israeliani per uccidere il generale iraniano Qassem Soleirnani. Citando il quotidiano del Kuwait Al-Jarida, il giornale israeliano scrive che oggi «esiste un'intesa israelo-americana secondo cui Soleimani rappresenta una minaccia agli interessi dei due paesi nella regione». Il militare è alla testa delle Forze Quds, il braccio operativo all'estero dei Guardiani della Rivoluzione, elemento portante del regime khomeinista. L'ok di Trump all'omicidio mirato di Soleimani rappresenta un'inversione a 180 gradi in politica estera. Tre anni fa l'intelligence israeliana sarebbe stata sul punto di eliminare Soleimani con l'ausilio di un veicolo carico di esplosivo nei pressi di Damasco ma l'amministrazione Obama avrebbe avvisato l'Iran, facendo fallire l'operazione. Anche Mohammad Reda Falah Zadeh, secondo in comando fra i militari iraniani attivi in Siria, sarebbe finito nel mirino degli 007 israeliani con il benestare di Donald Trump.
(Libero, 2 gennaio 2018)
Ritrovato un sigillo che conferma l'esistenza del governatore di Gerusalemme già 2700 anni fa
Sigillo di argilla risalente a 2700 anni fa
Un sigillo di argilla risalente a 2700 anni fa, trovato durante scavi nell'area del muro del pianto, ha confermato l'antica esistenza di un governatore di Gerusalemme, come appare scritto nella Bibbia.
Il reperto ha le dimensioni di una piccola moneta, riporta le figure stilizzate di due uomini situati uno di fronte all?altro e presenta la scritta in lettere ebraiche antiche delle parole "Leshar-Ir", ossia "del governatore della città", questo è quanto riferito dall'Autorità israeliana parlando di "scoperta unica e significativa.
L'archeologa Shlomit Weksler-Bdolah ha commentato: "La Bibbia menziona due governatori di Gerusalemme e questo reperto ci rivela che tale posizione è stata ricoperta da qualcuno in città circa 2700 anni fa". Gli studiosi israeliani, infatti, rilevano che nella Bibbia sono menzionati due "Governatori" di Gerusalemme vissuti in epoche diverse: Yehoshua e Maaseiah.
Il sindaco ha commentato con entusiasmo l'importante scoperta che di fatto ha certificato Gerusalemme come una delle capitali più antiche al mondo abitata dal popolo ebraico già da 3000 anni.
(PRP Channel, 2 gennaio 2018)
Gerusalemme capitale di Israele, il rabbino Di Segni critica l'Italia che all'Onu vota contro
Il rabbino capo della comunità ebraica di Roma critica la decisione dell'Italia che, all'Onu, ha bocciato la scelta del presidente Usa Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. E lo fa via Twitter, con un post che sta diventando virale. «Dal Risorgimento ai concerti di Capodanno - scrive il rabbino capo Di Segni - l'inno "nazionale" più amato dagli italiani è il Va' pensiero, basato sul Salmo 137, in cui gli ebrei esuli rimpiangono Sion. Quando poi gli ebrei tornano a Gerusalemme e ne fanno di nuovo la loro capitale, l'Italia vota contro all'Onu».
(Il Messaggero, 2 gennaio 2018)
"Slogan antisemiti nelle piazze, i controlli vanno rafforzati"
Proseguono i contatti tra la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni e le massime istituzioni dello Stato riguardo ai gravi fatti avvenuti a Milano negli scorsi giorni, in occasione di una manifestazione di sostegno alla causa palestinese. Proprio per ribadire la necessità che le istituzioni esercitino i più severi controlli e per sollecitare le organizzazioni dell'Islam in Italia a prendere chiara posizione la Presidente UCEI, con l'occasione del Capodanno, ha rinnovato i suoi auguri al ministro dell'Interno Marco Minniti, al sindaco di Milano Giuseppe Sala, al prefetto Luciana Lamorgese e al questore Marcello Cardona e ha esteso il messaggio a tutte e dieci le organizzazioni firmatarie del Patto nazionale per un Islam italiano. Di seguito il testo del messaggio.
La manifestazione islamica a Milano
«Vi scrivo per rappresentarvi la grave preoccupazione delle Comunità ebraiche tutte per i gravissimi slogan di odio anti-ebraico, espressi con convinte urla, con esplicito invito ed istigazione ad azioni violente e commissione di reati di odio, che hanno segnato la recente manifestazione di sostegno alla causa palestinese svoltasi a Milano lo scorso giovedì e il cui eco è proseguito negli ultimi giorni. In particolare il coro "Khaybar, Khaybar, o ebrei, l'armata di Maometto ritornerà", cantato più volte dalla folla in un clima di surriscaldamento ed euforia, ben udibile e ben descritto negli scorsi giorni anche in alcuni organi di stampa.
Non è tollerabile che nelle piazze italiane risuonino impunemente queste parole e questi sanguinari inviti. Serve pertanto, da parte delle istituzioni, la massima fermezza possibile nella repressione di tali impulsi così come nella prevenzione consapevole, senza sottovalutare alcun intento e potenziale sviluppo. E inoltre, per il futuro, un controllo ancor più rigoroso affinché manifestazioni di questo genere, se portatrici anche solo potenzialmente di tali messaggi, non siano più autorizzate e prevedano in ogni modo, anche laddove sembrano promosse in nome della libertà di espressione e di manifestazione, la scrupolosa verifica di organizzatori e partecipanti. Nel ribadire la nostra profonda gratitudine alle forze dell'ordine per quanto viene fatto ogni giorno per garantire la sicurezza di tutta la cittadinanza, ribadiamo anche l'appello ad una più rigorosa consapevolezza. Se le leggi esistono e hanno senso che siano applicate con fermezza.
Ci attendiamo, o meglio ci attendavamo, che i primi ad esprimere il loro forte disdegno e disaccordo, con forte richiamo ai valori del pluralismo e della convivenza, fossero tutte le associazioni musulmane sedute oggi intorno al tavolo formalmente costituito presso il Ministero degli interni, e firmando un preciso patto per un Islam italiano. I valori della nostra Costituzione, affermati con la firma che avveniva esattamente settant'anni fa, devono avere un significato ben preciso anche oggi, sulle bocche, nelle menti e nei cuori di ogni cittadino o residente che desidera vivere e soggiornare in questo Paese.
Vi segnalo che proprio questo tema, l'antisemitismo, i reati di odio e le corresponsabilità delle istituzioni, sarà oggetto di una conferenza internazionale promossa dal Ministero degli Affari Esteri, con la collaborazione di UCEI e CDEC, per il giorno 29 gennaio, alla Farnesina, dal Primo gennaio alla guida dell'OSCE. Sarà questo un momento di approfondimento e confronto importante, spero anche con la presenza dei leader islamici, nel quale ribadire ancora una volta con convinzione che il passato non dovrà mai più ripetersi e che nessuna forma ed escalation di odio e antisemitismo, che sia di matrice islamica, di tramandata chiesa, neo fascista, anti israeliana o di altre nostalgiche o subdole forme, può essere tollerata.
Le nostre vite quotidiane, nello studio e nel lavoro, e il nostro contributo alla vita sociale e istituzionale del paese proseguirà con ancor più convinzione, affermando la vita e la nostra cultura di vita.»
Noemi Di Segni, Presidente UCEI
(moked, 1 gennaio 2018)
Briciole
Lanno 2018 porta al sito una nuova rubrica. In ambito evangelico ci sono diverse edizioni di calendari a blocchetto che riportano ogni giorno un versetto della Bibbia seguito da un breve commento preparato da diversi collaboratori. Una mia nipotina (10 anni), nella cui casa si trova uno di questi calendari, un giorno ha scoperto con sorpresa che il commento in uno dei foglietti era stato scritto dal nonno. E ha cominciato a raccoglierli. Questo mi ha fatto nascere lidea di inserire nel sito un calendario elettronico con una scelta di miei commenti del passato, eventualmente riveduti e aggiustati. Si tratta di briciole, rispetto al pane sostanzioso di una lettura continua e approfondita della Bibbia, ma possono servire a destare lappetito e a ricordare che la Parola di Dio è un cibo di cui è necessario nutrirsi giornalmente, senza aspettare occasioni speciali in cui fare grandiose scorpacciate nella speranza di colmare i vuoti prodotti da un prolungato digiuno. M.C.
(Notizie su Israele, 1 gennaio 2018)
Il discorso di Rouhani alla nazione
di Loredana Biffo
Mariam Rajavy, presidente della Resistenza iraniana
Mariam Rajavy
L'Ayatollah Hassan Rouhani in seguito alle manifestazioni di protesta del popolo iraniano, ha tenuto un discorso alla nazione, con la faccia del demone ha raggirato la questione tentando di controbilanciare a suo favore gli eventi, cercando di far apparire le manifestazioni di protesta come un mero problema relativo agli aumenti dei beni di prima necessità, dando peraltro ragione ai manifestanti - probabilmente nella speranza di calmare i tumulti - dicendo: "le vostre richieste iniziali erano giuste. Siete stanchi dei prezzi alti e siete venuti a richiedere di risolvere il problema, ma fratelli e sorelle che siete venuti nella Piazza dei Martiri, voglio dirvi una cosa, siamo in una rivoluzione islamica un sistema fondamentale per la nostra società, come mai vi lasciate tentare e deviare da un gruppo di teppisti che si riunisce e urla "lasciate la Siria e risolvete il nostro problema?".
"E' corretto secondo voi che il Monafequin (questa è la descrizione che il regime dà ai membri della Resistenza, detti anche Mojahedin del Popolo, PMOI-Mek), i quali sono mercenari al soldo dell'America e dell'Europa, (forse Rouhani si è dimenticato di quanto l'Europa sia la sua fedele ancella in primis l'Italia che attraverso la Mogherini regge il manto degli Ayatollah) e il cui leader è una donna (il riferimento è a Mariam Rajavy presidente eletta della Resistenza), venga a dire che ci ringrazia per i nostri errori? l'Imam Zaman il dodicesimo Imam sciita, attraverso il suo rappresentante Khamenei e tutti gli Hezbollah sono adirati che una donna che è a capo dei Mojahedin del Popolo possa prendersi gioco di noi e irriderci. Voi con le vostre rimostranze state facendo il gioco dei media dei nemici (America, Israele ed Europa). State cercando di sopprimere questo sistema vigente in Iran, costituito dalla Rivoluzione Islamica che appartiene all'Imam Zamam che è il diretto rappresentante, vi rendete conto che con le vostre richieste rischiate di far pagare un costo alto al paese? Vi sembra giusto tutto questo?".
In sostanza Rouhani ha dichiarato che il movimento della dissidenza è illegittimo, innanzitutto perché capeggiato da una donna, e poi perché contrario ai principi fondamentali della Repubblica Islamica che si basa sul principio del velayat e-faqui, ovvero la completa identificazione tra religione e politica secondo la ferrea legge della sharia, pertanto le donne sono relegate alla tutela dell'uomo; l'Ayatollah fa quindi riferimento esplicito al fatto che un movimento capeggiato da una donna non possa essere considerato attendibile, per tale motivo ha organizzato una contro manifestazione con i fedelissimi del regime, dove si inneggia al mullah e si dice che la presidente Rajay non ha nessun credito nella Repubblica Islamica.
Ha inoltre aggiunto che il diritto a manifestare non può sfociare nel danneggiamento di cose e nella violenza. Certo a quello ci pensano i suoi sgherri che nel frattempo hanno già ucciso alcuni dimostranti e feriti molti altri, con la consueta faccia tosta ha dichiarato che non esiteranno ad usare le maniere forti contro i dissidenti per stabilire la legalità.
(Caratteri Liberi, 1 gennaio 2018)
Il Likud chiede l'annessione degli insediamenti in Giudea-Samaria
Il Comitato centrale del Likud ha approvato la scorsa notte per acclamazione un documento che chiede ai suoi deputati di operare per l'annessione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Al dibattito hanno partecipato diversi ministri ed il presidente della Knesset Yoel Edelstein, ma non il premier Benyamin Netanyahu che comunque - viene fatto notare - non è necessariamente vincolato da questa votazione.
(ANSAmed, 1 gennaio 2018)
The Metropolitan Museum of Art, di New York acquisisce una magnifica Bibbia ebraica
L'opera, miniata da Sotheby's, è una preziosa testimonianza della storia e dell'arte medievale
Poco prima dell'asta newyorkese Important Judaica, il Metropolitan Museum of Art di New York, ha acquisito, per una cifra non resa nota, una magnifica Bibbia ebraica miniata proveniente dalla Spagna. Già nella celebre collezione di Jaqui E. Safra, la Bibbia miniata fu realizzata in Castiglia nella prima metà del XIV secolo e rappresenta uno straordinario esempio della ricchezza di influenze interculturali che hanno segnato la Golden Age del medioevo spagnolo.
Jaqui E. Safra commenta: "La Bibbia non poteva trovare dimora migliore del Metropolitan Museum of Art di New York. Sono davvero entusiasta."
Daniel H. Weiss, Presidente e CEO del Metropolitan Museum of Art sottolinea: "Siamo molto lieti di poter includere questo importante tesoro del patrimonio artistico ebraico nella nostra sempre più ricca collezione di Important Judaica."
Melanie Holcomb, Curator in the Department of Medieval Art and The Cloisters at The Metropolitan Museum of Art, aggiunge: "Le comunità ebree spagnole innalzarono molto il livello della produzione artistica medievale. Questa rara e preziosa Bibbia celebra il testo sacro ebraico, abbracciando sia la cultura che la sensibilità estetica cristiana e islamica. La sua acquisizione trasformerà completamente l'esposizione dedicata all'arte medievale spagnola, evidenziando l'importanza di una società particolarmente vivace ed eterogenea."
(Italianitalianimondo, 1 gennaio 2018)
Medio Oriente. Non c'è soltanto Gerusalemme
È sempre più pericoloso e indecifrabile lo scenario: oltre a Gerusalemme, gli scenari su Iran, Arabia Saudita, Turchia, Siria e Palestina.
di Nicola Salvagnin
Per carità: tutti i paesi islamici sono unanimemente schierati contro "Gerusalemme capitale d'Israele", come dichiarato da Donald Trump nel preannunciare lo spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv. Ma i distinguo sui toni fanno perfettamente capire come si stia delineando la geopolitica in questo caldissimo angolo di mondo, attraversato da guerre, fratture, inquietudini. L'Iran degli ayatollah sciiti, infatti, è stato veemente: il corollario è il classico «distruggeremo Israele e cacceremo gli ebrei dalla Palestina». Molto più morbida l'Arabia Saudita che guida buona parte del mondo islamico sunnita e che con Israele sta "dialogando", seppur nei modi e nei limiti con cui si può dialogare con una nazione non riconosciuta. Qui sta la grande faglia che divide il mondo sunnita e arabo da quello sciita a trazione persiana.
Iran
È diventata potenza di livello mondiale. Le sue truppe hanno nelle mani buona parte dell'Iraq; hanno sostenuto e fatto vincere la satrapia alawita (una setta sciita) degli Assad in Siria contro l'Isis e le ribellioni sunnite; hanno stretto un accordo di collaborazione con la Russia proprio sul terreno siriano; telecomandano il partito e le milizie sciite di Hezbollah, che in Libano fanno il bello e cattivo tempo. Hanno dalla loro pure il piccolo Qatar, arabo ma prevalentemente sciita, e le milizie Houti che stanno conquistando con le armi lo Yemen, combattendo contro altre milizie armate dai sauditi.
Arabia Saudita
È in fortissimo allarme per la crescita di un Iran che ora manovra dai confini con il Pakistan e l'Afghanistan fino al Mediterraneo. Con Riad e la monarchia saudita, che ora ha un principe ereditario (Bin Salman) che sta facendo una mezza rivoluzione interna, stanno l'Egitto e la Cirenaica libica; tutti gli sceiccati arabi fino alla Giordania; in generale il mondo sunnita mediorientale, meno un fondamentale attore: la Turchia.
Turchia
La scheggia impazzita. È sunnita per la totalità dei suoi abitanti, di stirpe mongola e non araba. È il paese guida di altre realtà turcofone come l'Azerbaijan e il Turkmenistan, oltre che della parte orientale di Cipro. Ha sempre sostenuto i Fratelli musulmani, che ora però sono in disgrazia in Egitto, e questo l'ha allontanata dall'Arabia. E dagli Usa, con un riavvicinamento alla Russia che invece sostiene l'odiatissimo Bashar el Assad in Siria. Ma qui stanno i termini dei nuovi "accordi" con Russia e Iran. Con la prima, relazioni più serene in funzione anti-Nato e una spartizione del nord della Siria, dove truppe turche controllano un'area abitata da popolazioni turcofone. Con l'Iran, il progetto di strangolare sul nascere l'ipotesi di uno stato curdo nel nord dell'Iraq. I curdi controllano anche una fetta di Siria orientale, abitano nel nord dell'Iran, sono maggioranza nell'est della stessa Turchia. Sono sunniti come i turchi, ma dai turchi ferocemente avversati. E pure dagli sciiti iraniani. Il nemico del mio nemico è mio amico.
Israele
Forse non aveva nessuna voglia di finire al centro dell'attenzione in un momento così delicato, ma tant'è. È ossessionato dall'Iran, ha perso l'antico alleato turco, sta però rilassandosi con gli antichi nemici arabi. Il nemico del mio nemico Obiettivo numero uno: tenere a debita distanza dalle alture del Golan i missili di fabbricazione iraniana, che ora Hezbollah ha in dotazione. E non lasciare un centimetro di più all'autonomia palestinese.
Siria
C'è un piano per dividerla in cantoni: la parte alawita da Damasco al Mediterraneo, in mano agli Assad e sotto la protezione russa-iraniana; la zona turca; la zona curda; quella arabo-sunnita gestita da Giordania (e Usa); quella sunnita dove imperava l'Isis. Già: e chi controllerà che qui l'Isis non risorga? Un'area desertica tagliata dall'Eufrate, schiacciata dagli sciiti siriani ad ovest e da quelli filo-iraniani ad est
Palestinesi
Sempre più a un bivio. Concordi nella lotta contro Israele, ma radicalmente spaccati tra di loro: Fatah che controlla la Cisgiordania e "ascolta" il mondo sunnita; Hamas che impera nella Striscia di Gaza ed è rifornita da turchi e iraniani. Come al solito, pedine di manovre più grandi di loro.
Usa
Hanno vinto loro la guerra contro l'Isis con migliaia di raid aerei, ma nessuno glielo riconosce. Hanno perso l'Iraq, l'amico curdo, l'alleato turco; hanno rinnegato gli accordi con l'Iran; fatto arrabbiare tutto il mondo islamico. Hanno sottovalutato lo scenario siriano con Obama, sbagliato il resto con Trump. Peggio di così