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Notizie 16-31 gennaio 2018


Il Binario 21 accoglie i profughi di oggi: "Una sorta di rivincita della Storia"

MILANO - "Liliana Segre - che ha iniziato a collaborare con noi ormai oltre 25 anni fa - è stata una maestra di vita. Per questo, il luogo da cui migliaia di persone sono partite verso la morte nei lager è diventato oggi luogo di vita per chi è vittima oggi di una simile indifferenza". In occasione della cerimonia che ricorda la partenza per Auschwitz del treno che il 30 gennaio 1944 deportò Liliana Segre insieme ad altri 604 ebrei, Ulderico Maggi della Comunità di Sant'Egidio di Milano racconta l'iniziativa che ormai da tre anni ha dato un tetto e accoglienza a migliaia di profughi nel memoriale della Shoah, nella stazione centrale di Milano.

(la Repubblica, 31 gennaio 2018)


Bambino aggredito perché indossa la kippah. La Francia riscopre il suo antisemitismo

Il presidente Macron: "Ogni volta che un cittadino è aggredito in ragione della sua età, appartenenza o della sua confessione, è tutta la Repubblica ad essere aggredita".

di Mauro Zanon

PARIGI - La scena si è consumata in una strada di Sarcelles, banlieue multiculturale alle porte di Parigi. Lunedì sera, attorno alle 18:30, un bambino di 8 anni, di confessione ebraica, è stato aggredito da due ragazzi, mentre si recava ad un corso di sostegno scolastico. Il bambino indossava una kippah quando è stato attaccato, e secondo quanto riferito da una fonte del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif) al canale all-news Bfm.tv, avrebbe subito uno sgambetto, prima di essere riempito di botte. l due aggressori, entrambi di quindici anni secondo le prime ricostruzioni, non sarebbero ancora stati identificati.
   "Un bambino di 8 anni è stato aggredito oggi a Sarcelles. Perché portava una kippah. Ogni volta che un cittadino è aggredito in ragione della sua età, della sua appartenenza o della sua confessione, è tutta la Repubblica ad essere aggredita", ha scritto su Twitter il presidente francese, Emmanuel Macron. E ancora: "Tutta la Repubblica oggi vuole mostrare la sua vicinanza ai francesi di confessione ebraica per combattere con loro e per loro ognuno di questi atti ignobili".

(Il Foglio, 31 gennaio 2018)


L'allarme di una sopravvissuta ad Auschwitz: l'antisemitismo è vivo

ROMA - In un discorso al Bundestag, la camera bassa del Parlamento tedesco dove da fine 2017 siedono dei deputati di estrema destra, la sopravvissuta all'Olocausto Anita Lasker-Wallfisch ha messo in guardia da un ritorno dell'antisemitismo in Germania.
"L'antisemitismo è un virus vecchio di 2.000 anni apparentemente incurabile. Oggi ha ancora una buona ragione: la religione, la razza".
La musicista, 92 anni, è stata deportata ad Auschwitz nel 1943 ed è stata invitata a parlare davanti alla cancelliera Angela Merkel e ai deputati tedeschi in occasione dell'annuale commemorazione delle vittime del nazismo al Bundestag. Nel suo intervento Lasker-Wallfisch non ha fatto alcun riferimento al partito di estrema destra Alternative fuer Deutschland (Afd), che conta 90 deputati, ma ha denunciato: "Che scandalo che delle scuole ebraiche, anche delle materne ebraiche, debbano essere protette dalla polizia! Bisogna chiaramente chiedersi: 'perché?".

(Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2018)


Molinari: "Nel nuovo Medioriente Israele può essere alleato sia degli Usa che della Russia"

di Ilaria Myr

 
Roberto Della Rocca e Maurizio Molinari
È una situazione singolare e per certi versi paradossale quella in cui si trova oggi Israele nello scenario mediorientale, da un lato alleato storico degli Usa e, dall'altro, dall'ultimo biennio circa, sempre più vicina alla Russia di Putin. Questo il tema cruciale della serata organizzata da Kesher martedì 30 gennaio, vigilia di Tu Bishvat, intitolata proprio "Il nuovo ruolo di Israele fra Russia e Stati Uniti": protagonista il direttore de La Stampa Maurizio Molinari, che ha richiamato nell'Aula Magna Benatoff della Scuola della Comunità molte persone interessate ad ascoltarlo.
  A introdurre e moderare il suo intervento Rav Roberto Della Rocca, che ha poi proceduto, a fine serata, a fare le benedizioni sui frutti che si consumano a TuBishvat.

 Una situazione paradossale
  «Da due anni l'esercito russo si trova ai confini di Israele - ha esordito il giornalista -: un fatto, questo, mai avvenuto da quando esiste lo Stato ebraico. Questo perché Putin ha portato soldati sul territorio siriano e un importante contingente di aerei russi a controllare i cieli, dando così copertura aerea alle forze di El Assad e aiutandolo così ad avere la meglio sui ribelli».
  Inoltre, da qualche anno Russia e Israele hanno avviato delle relazioni strategiche senza precedenti, con visite diplomatiche e accordi militari importanti. «Hanno ad esempio creato un meccanismo di scambio sui codici degli aerei in modo da identificarsi reciprocamente - continua -. Questo perché Putin considera Israele un paese russofono - in virtù della grande presenza di russi nel Paese - e come tale esso è una pedina strategica nell'idea che egli ha della Russia, di nazione che aggrega tutti i russofoni».
  Ma anche la Russia è strategica per Israele, in quanto, pur essendo il miglior alleato dell'Iran - prima di tutto per l'esportazione di energia: non si dimentichi che nel 2015 è stata grande sostenitrice dell'accordo sul nucleare per l'Iran - può costituire per lo Stato ebraico un argine alla presenza del nemico in territorio siriano e addirittura sul Golan. «La minaccia della presenza di forze iraniane in Siria pone Israele di fronte a un pericolo per la sicurezza che non ha mai conosciuto. La tradizionale dottrina di sicurezza israeliana, infatti, mostra difficoltà di fronte a una situazione completamente nuova: non deve combattere contro gruppi terroristici o stati confinanti, che possono essere attaccati, ma con una nazione pericolosa che è presente con un contingente. Per questo è una minaccia militare senza precedenti».
  Allo stesso tempo, però, Israele è storico alleato degli Usa. Non si dimentichi che l'amministrazione Obama, pure molto critica nei confronti del governo Netanyahu, aveva varato il più grande pacchetto di aiuti militari a Israele di sempre, e aveva stabilito, prima fra tutti, delle basi americane in territorio israeliano.
  E ora Israele chiede aiuto a Trump in Siria. «Quello che più preoccupa Israele è infatti che l'Iran possa controllare un corridoio terrestre che passando dall'Iraq, la Siria e il Libano, arrivi su territorio israeliano. Le due uniche "spine" a questo progetto sono la base americana di al Tanf, al confine tra Siria e Iraq, e, sul lato opposto, le milizie curde siriane armate e addestrate dagli Usa e da altri paesi europei. Per questo Israele sta chiedendo a Trump di aumentare il sostegno ai curdi e la propria presenza nella base di al Tanf».
  La Russia, però, agli Usa chiede esattamente l'opposto: di smantellare la base di al Tanf e di cessare completamente aiuti militari ai curdi. Il conflitto di interesse per Israele fra l'alleanza con gli Usa e il dialogo con i russi è più evidente che mai.
  «Questo è il nuovo Medioriente, la regione che noi siamo stati abituati a conoscere per l'imprevedibilità delle situazioni che oggi sta vivendo un processo di polverizzazione degli Stati che moltiplica le variabili della sicurezza. La cartina geografica che conosciamo deve essere oggi ridisegnata in toto: non contano più i confini fra stati e fra singoli attori che si muovono fra gli Stati. Basti pensare a quanti variabili ci sono sul territorio siriano, su quello egiziano o quello libico, o alle lotte fra tribù in paesi come il Mali o il Niger».
  Se però aumentano i potenziali conflitti, cresce anche la possibilità che in unico scacchiere, ad esempio la Siria, si possa essere alleato e interlocutore di due potenze in conflitto, appunto gli Usa e la Russia. Da qui nasce il nuovo ruolo di Israele fra Russia e Usa, e in generale di Israele in Medioriente, che ha come interlocutori un numero sempre più ampio di attori: il Qatar, ad esempio, che da un lato secondo l'Arabia saudita sostiene i terroristi, ma dall'altra è l'unico paese in cui gli israeliani possono recarsi senza visto. «Alleato strategico dell'Iran, il Qatar ha allo stesso tempo interesse di dialogare con tutti gli attori, proprio per questa decomposizione del Medioriente».

 I Paesi arabi e Israele
  Lo stesso dicasi degli altri Paesi arabi, che non hanno sostenuto i palestinesi nella protesta contro la decisione di Trump di spostare l'ambasciata a Gerusalemme.
  La scelta di Trump è molto significativa perché, pur lasciando la strada aperta alla soluzione dei due Stati, non nomina mai i confini del'67 - continua Molinari -. Anche il luogo dove verrà spostata l'ambasciata, poi, è eloquente: un compound già quasi pronto nel quartiere di Armon Hanaziv, di fronte a un villaggio arabo, in una zona che, sulle cartine del '67, era nella 'no man's land', lungo la linea verde. La scelta di Trump è quindi chiaramente di riconoscere il legame storico fra Israele e Gerusalemme».
  Ma allora perché tutto ciò non ha innescato le prevedibili reazioni dei paesi arabi? «Perché la decomposizione del Medioriente mette in difficoltà tutti gli Stati e obbliga a dialogare con tutti gli attori, Israele incluso».

 Il ruolo dell'Europa e dell'Italia
  Rispondendo a una domanda del pubblico, Molinari ha poi affrontato la questione del ruolo dell'Europa e dell'Italia in particolare in questo complesso scenario.
  «L'Europa si sta adattando a un Medioriente polverizzato. La vera sorpresa però è l'Italia che in Libia è riuscita a creare rapporti e stringere accordi con le tribù locali, che hanno cominciato a collaborare con gli italiani. Questa strategia di dialogo evidenza una capacità delle autorità italiane di operare in una zona che conoscono bene».
  Nello specifico, i rapporti Italia-Israele hanno subito un'accelerazione con il governo Renzi, che ha avviato una politica estera molto concreta, focalizzata alla crescita economica: un approccio meno ideologico rispetto a quello della prima repubblica, molto fredda con Israele, ma anche a quello del governo di centro-destra, che inverte la marcia facendo passi di apertura nei confronti dello Stato ebraico.
  «Sotto Renzi è stata creata una commissione bilaterale che gestisce fondi stanziati congiuntamente per sviluppare progetti economici - spiega Molinari -. Tutto ciò ha cambiato drasticamente le relazioni: l'Italia è diventato un partner privilegiato dell'economia israeliana e si sono moltiplicate le cooperazioni scientifiche fra i due Paesi, anche se con uno squilibrio fra il numero, molto alto, di ricercatori italiani che vanno in Israele centinaia di ricercatori italiani che ogni anno va in Israele e quello, molto più contenuto, di israeliani che vuole venire in Italia».
  Molto proficua è anche la cooperazione fra i due Stati sul piano della sicurezza, dove l'esperienza dell'Italia nella lotta alla mafia si rivela molto preziosa anche per Israele per la difesa della collettività.
  Sul fronte politico, invece, l'Italia ha posizioni allineate con l'Unione europea, come dimostra, ad esempio, la recente condanna del nostro Paese alla decisione di Trump sull'ambasciata a Gerusalemme.

 La Turchia: una minaccia per Israele?
  «Erdogan è l'alleato più importante di Putin, dialoga con il Qatar, l'Iran, sostiene Hamas e i gruppi di fratelli musulmani considerati terroristici dall'Arabia Saudita. Due anni fa, però, ha messo in atto una strategia di collaborazione con Israele. Cosa è cambiato da allora? La sua ambizione strategica è di strappare la leadership sunnita all'Arabia saudita, che è lo Stato nella zona che ha più legami con Israele e si oppone all'Iran. Quello fra sauditi e turchi per la leadership sunnita, però, è un conflitto che vede Israele solo come pedina di scambio, non come oggetto del conflitto stesso. Può rappresentare un pericolo per Israele? Sì, nella misura in cui la Turchia è uno stato della Nato e vanta il secondo esercito più grande dell'Organizzazione mondiale. Ma, ripeto, il conflitto non è su Israele».

 La politica futura di Trump in Medioriente
  Gli argomenti al centro del conflitto mediorientale sono tre: Gerusalemme, la questione dei profughi e la sicurezza. «Il primo è stato affrontato da Trump con la dichiarazione sull'ambasciata a Gerusalemme, riconoscendola di fatto capitale di Israele. Il secondo tema è invece al centro della proposta di discussione, fatta da Trump ai sauditi, di pagare risarcimenti ai profughi palestinesi del '48. Questo discorso si lega anche alla recente posizione critica di Trump sull'Unrwa, l'organizzazione dell'Onu creata dopo il '47-'48 per gestire i profughi palestinesi e che decise, allora, di considerare tali anche i figli e i nipoti. Con il risultato che se si considerano i discendenti, come vuole l'Unrwa, si arriva a 5 milioni di profughi, contro i circa 30.000 sopravvissuti al '48 e oggi ancora in vita. Se i sauditi pagano per i profughi palestinesi, ne diventano i rappresentanti con Israele. Rimarrebbe così fuori dai giochi la Giordania, il cui re Abdallah appare debole e senza risorse nell'ambito del conflitto».
  Sarà invece sul fronte della sicurezza, e cioè dei confini, che Trump farà delle richieste a Israele, a cui con tutta probabilità chiederà una rinuncia sui territori ancora sotto controllo, che sarà senz'altro significativa.

 Israele e gli immigrati africani
  Infine, sollecitato da Rav Della Rocca, Molinari è intervenuto su un tema di grande attualità oggi in Israele, e cioè l'espulsione degli immigrati africani. «Oggi in Israele ci sono circa 30.000 immigrati clandestini provenienti dal Corno d'Africa, rinchiusi in campi di accoglienza nel Negev - ha spiegato -. Il governo ha da poco siglato degli accordi con il Ruanda e l'Uganda, che offrirebbero accoglienza ai clandestini in cambio di finanziamenti. Si tratta di una strategia mutuata in toto dall'Australia, che aveva preso accordi con la Papua Nuova Guinea con le stesse modalità». In Israele, però, in molti parlano di deportazione e alcuni piloti dell'El Al si sono rifiutati di trasportare questi immigrati. «Intanto i paesi stanno ritrattando le condizioni, ed è per questo che attualmente Israele ha difficoltà nel gestire questa situazione», ha concluso Molinari.
  La serata si è poi conclusa con le benedizioni per Tu Bishvat.

(Bet Magazine Mosaico, 31 gennaio 2018)


Gli Stati Uniti mettono Ismail Haniyeh nella blacklist dei terroristi

"Minaccia la stabilità in Medioriente"

Gli Stati Uniti hanno messo nella lista nera dei 'terroristi' il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, sullo sfondo delle forti tensioni fra Usa e palestinesi dopo il riconoscimento da parte di Donald Trump di Gerusalemme come capitale di Israele.
Haniyeh, secondo il segretario di stato Rex Tillerson, "minaccia la stabilità in Medio Oriente" e "mina il processo di pace" con Israele. Le sanzioni gli impediranno "l'accesso alle risorse necessarie per ordire e condurre le sue attività terroristiche", ha spiegato.

(la Repubblica, 31 gennaio 2018)


E' il web la porta segreta per mettere ko i porti e gli aeroporti

A Tel Aviv il meeting globale Cybertech 2018. "Nuove emergenze per la sicurezza informatica".

di Fabiana Magrì

 
Prevenzione o difesa: chi è in vantaggio, oggi, nella sicurezza informatica e chi attacca e chi protegge? «È come un tango». La metafora, che tradisce origini argentine, è di Gadi Ben-Moshe, direttore informatico dell'Ipc, società responsabile dello sviluppo degli scali marittimi commerciali israeliani, in sostanza i padroni di casa dei porti d'Israele. «La cybersecurity è una gara continua: a volte è in testa chi minaccia, a volte chi difende».
  La sicurezza informatica di porti, aeroporti e ferrovie è uno dei temi scottanti, oggetto di focus speciali, della tre giorni di Cybertech 2018, la più grande convention sulla tecnologia informatica al di fuori degli Usa e che si concluderà oggi a Tel Aviv. La quinta edizione - con numeri da record per la partecipazione di aziende e governi di 80 Paesi e decine di fondi di venture capital dall'Asia e dall'Occidente - è stata teatro del primo meeting globale sulla sicurezza informatica marittima, in cui gli attori-chiave dell'industria internazionale si sono seduti con i leader israeliani di sicurezza informatica. Da dove aspettarsi le minacce più preoccupanti? Da terra, dal mare, dal cielo o dal web? «Non è la risposta che un responsabile della sicurezza informatica vorrebbe dare, ma è il web la fonte principale di minacce». La società di Ben-Moshe è responsabile dello sviluppo delle infrastrutture necessarie per promuovere il commercio dei porti di Israele, a Haifa, Ashdod ed Eilat, che gestiscono il 98% dell'import-export del Paese. Con volumi di container in continua crescita, Ipc coordina lo sviluppo di due nuovi scali, Southport ad Ashdod e Bayport a Haifa, progettati per accogliere le navi container più grandi. In collaborazione con gli attori del porto, dalla dogana agli agenti marittimi, Ipc è responsabile anche dell'aggiornamento tecnologico, fondamentale per essere competitivi. «Stiamo digitalizzando le procedure aziendali - spiega Ben-Moshe -: sono sistemi che gestiscono più di 2 milioni di messaggi al mese, scambiati da 4 mila users di oltre mille aziende.» Parte del network «International Port Community Systems Association», «Ipc condivide costantemente informazioni su nuove soluzioni digitali di sicurezza informatica con altre 30 aziende che operano in 100 scali internazionali. Senza scambi d'informazioni un porto non può essere competitivo».
  Non si tratta solo di efficienza. Dal 25 maggio sarà applicato il regolamento sulla protezione dei dati («Gdpr»), provvedimento della Commissione europea. Il testo obbliga i titolari del trattamento dei dati a soddisfare gli obblighi di protezione e a evitare fughe che andranno subito denunciate. Sono previste rigide sanzioni che possono raggiungere il 4% del volume d'affari. «E un punto di svolta» per Hagai Katz, manager dell'azienda israeliana Check Point, leader nella fornitura di sicurezza informatica di rete. «La combinazione di norme sempre più severe con una connettività in crescita genera un circolo virtuoso che parte dalla competizione sull'efficienza per arrivare alla tecnologia. Porti e aeroporti sono come città, con un numero di attori elevatissimo, il cui controllo è difficile. La sicurezza fisica deve integrarsi con quella informatica. I sistemi informativi e di controllo degli enti gestori si interfacciano con quelli privati. Dal punto di vista della sicurezza, è una sfida. Finalmente, dopo tanto parlare,-aggiunge Katz -ci saranno chiare responsabilità e multe per chi non si sarà dotato della tecnologia per evitare la fuga di dati sensibili».
  Di un nuovo dipartimento cyber si sono dotate anche le ferrovie israeliane che, nel pane! «Cyber for Trains», si sono confrontate con la compagnia francese Sncf e la startup di cyber rail Cylus, fondata da veterani delle unità di intelligence dell'esercito e dall'ex ad dell'Israel Railway. «Non è un segreto che le ferrovie israeliane siano un obiettivo per i terroristi - ha spiegato Israel Baron, responsabile del dipartimento informatico dell'Israel Railway - e tuttavia nel mondo cyber non ci sono confini. Ci comportiamo come se gli attacchi potessero arrivare da qualunque parte». Le soluzioni d'avanguardia saranno installate a protezione del nuovo treno ad alta velocità che percorrerà i 70 km tra Tel Aviv a Gerusalemme in 28 minuti, a partire dal 30 marzo.

(La Stampa, 31 gennaio 2018)


Quel manifesto sulle leggi razziali che mio nonno Nicola non ha firmato

Lettera aperta a Virginia Raggi. "Per decine di anni noi ci siamo battuti contro questa falsità. Rischiamo un'offesa alla verità".

di Stella Pende

Gentile Virginia Raggi,
 
oggi, nell'ottavo anniversario delle odiose leggi razziste, molti giornali parlano della possibilità che lei possa rinominare tutte le strade dedicate agli intellettuali che firmarono il manifesto della razza. Fatalmente leggo tra i primi nomi della lista quello di mio nonno, Nicola Pende, candidato 3 volte al Nobel come padre dell'endocrinologia, ma descritto, ancora una volta, come firmatario dell'ignobile manifesto. Inutile dirle la pena. Per decine di anni mi sono battuta con la mia famiglia contro questa falsità. Invano! Davanti ad ogni memoria del martirio dell'Olocausto, ecco questa vergognosa calunnia travolgere la nostra famiglia come un destino di fango indelebile. L'enciclopedia Treccani e scienziati illustri descrivono Nicola Pende come il grande maestro che è stato. Inutile! Oggi gli si vuole negare anche quella targa che il policlinico, dove ha lavorato per trenta anni, ha voluto dedicargli. Se così fosse questa non sarà più solo un'offesa alla scienza, ma alla verità. Nicola Pende non ha mai firmato il manifesto della razza. Perfino il suo miglior nemico, lo storico Giorgio Israel, lo ammette chiaramente nell'inchiesta sul caso Pende di Giovanni Minoli. Per chi non sapesse, infatti, non è mai esistito un documento con le firme autografe degli intellettuali. Ma solo una lista di nomi fatta pubblicare il 3 luglio 1938 dal duce sul Giornale d'Italia. Inoltre davanti all'inaspettata pubblicazione del suo nome mio nonno ha prontamente scritto un telegramma (custodito dall'Archivio di Stato) dove chiede a Mussolini un cambiamento radicale sulla questione della razza. Per non parlare degli attacchi che Pende riceve sulla stampa fascista. Del resto i fatti sono ben noti soprattutto a coloro che usano da sempre Nicola Pende come il jolly d'autore del fascismo per nutrire i loro saggi e i documentari che, senza un attore così forte, sarebbero senz'altro meno salati. A nulla sono valse nel 1948 l'assoluzione di Pende della Corte di Cassazione, a niente l'elenco firmato da decine delle famiglie ebree che mio nonno ha nascosto al policlinico. «Avrebbe dovuto andare al confino» si dice. Sì, Nicola Pende non l'ha fatto. Ha continuato invece il suo lavoro sotto il fascismo. Non è stato né un eroe né un santo. Ma, come ha già detto Francesco Rutelli, vogliamo fare un elenco di tutti i giornalisti, gli scrittori e gli scienziati palesemente vicini ai fascisti celebrati con strade e giardini? Impresa ardua. Il perché non lo sapremo mai. Di certo è che la bambina che ero non può dimenticare quella folla davanti allo studio del nonno: umili contadine e signore inanellate. Tutte con una parentela: un figlio malatissimo che poteva essere guarito solo da Pende. Dunque quando purtroppo leggerò ancora di Nicola Pende firmatario del manifesto, l'unica consolazione sarà la certezza che mio nonno ha lavorato una vita per restituire dignità e salute a quegli infelici che i nazisti hanno assassinato barbaramente. E vorrei che lei sapesse, gentile sindaco, che il suo impegno maggiore Pende lo ha certamente dato in quel policlinico dove oggi si vuole cancellare il suo nome.
Grazie per avermi letta.

(Corriere della Sera, 31 gennaio 2018)



Le colpe più gravi del Fascismo

Le due colpe più gravi del Fascismo sono:

1) aver emanato le leggi razziali;
2) aver stipulato i Patti Lateranensi e il successivo Concordato.
  • Con i secondi, ma primi in ordine di tempo, il Fascismo ha creato lo Stato del Vaticano e ha fatto entrare i cattolici organizzati come Chiesa Cattolica nella vita politica italiana;
  • con i primi, ma secondi in ordine di tempo, il Fascismo ha fatto uscire dalla vita politica italiana gli ebrei.
I due fatti di entrata e uscita sono entrambi proprietà storica inalienabile del Fascismo: o si accettano tutti e due o si rigettano tutti e due.

 


II salvataggio ignorato degli ebrei in Dalmazia

Lettera aperta a Mattarella. I militari italiani si rifiutarono di consegnare circa 5.000 persone a nazisti e ustascia.

di Gianfranco Giorgolo
Ambasciatore a riposo

Signor presidente della Repubblica, nel suo intervento al Quirinale in occasione del Giorno della memoria per le vittime ebraiche del nazismo e di altri criminali regimi antisemiti, ha giustamente condannato le leggi razziali dell'Italia fascista. Ritengo infatti che la coscienza di ogni essere umano, degno di tale nome, debba deprecare senza riserve l'infamia di ogni discriminazione razziale in qualsiasi tempo e luogo. Tuttavia, non sembrerebbe intellettualmente onesto ignorare quanto affermavano tali leggi nonché le reazioni che determinarono nel mondo ebraico. Attiro al riguardo, in particolare, l'attenzione sulla documentata ricerca di Menachem Shela nel suo libro Un debito di gratitudine - Storia dei rapporti fra l'esercito Italiano e gli ebrei in Dalmazia 1941-1943.
   L'autore si definisce «uno degli scampati all'eccidio e di coloro che gli italiani si rifiutarono di consegnare ai carnefici tedeschi» ed aggiunge che ha voluto «raccontare questa storia, farla conoscere al pubblico ed in tal modo cercare di pagare almeno in parte il mio debito di riconoscenza» all'Italia. Egli documenta come alti funzionari del ministero degli Esteri italiano, con l'autorizzazione dello stesso ministro Galeazzo Ciano - che ottenne il relativo nullaosta da Benito Mussolini - insieme ad ufficiali superiori delle nostre truppe di occupazione nella ex Jugoslavia per due anni si opposero alle ripetute ed insistenti richieste ustascia e naziste rifiutandosi di consegnare circa 5.000 ebrei fuggiti dalle altre zone della ex Jugoslavia per rifugiarsi in quella occupata dagli Italiani. Eloquente e significativa è anche l'affermazione che «gli ebrei salvati devono la vita agli sforzi compiuti da funzionari e ufficiali italiani, fascisti certo, ma non disposti a partecipare ad un genocidio».
   Del resto, un altro superstite ebreo croato, Yossef Lapid, scrisse sin dal 1985 che l'autore aveva «reso un servizio molto importante alla verità storica e quindi anche all'immagine nell'Italia e al popolo italiano facendo luce su questo sinora sconosciuto episodio che minacciava di cadere dimenticato nell'abisso delle tenebre».
   Dalla lettura del Debito di gratitudine si apprende inoltre che «nell'estate del 1985 una delegazione ebraica inviata dal Comitato per la riconoscenza al popolo italiano, espresse al presidente Sandro Pertini tutta la gratitudine di Israele nei confronti di coloro che durante la seconda guerra mondiale avevano salvato la vita a circa 30.000 ebrei, di cui quasi 5.000 nella ex Jugoslavia». Da italiano non posso non rammaricarmi per la mancata risonanza - allora come ora - di tale evento nell'opinione pubblica italiana. Certo, come dicono, i francesi «la vérité ça blesse», ma sia papa Wojtyla che Benedetto XVI non si stancavano di ricordarci che «solo la verità ci renderà liberi».

(La Verità, 31 gennaio 2018)


Furto di Identità

Palestinesi - ebrei o arabi?

Quasi tutti i miei interlocutori sono stati profondamente segnati da una costante, se non quotidiana, esperienza di antisemitismo nella loro infanzia: sentirsi gridare "sporco ebreo!"era un'abitudine. I polacchi avevano un vasto repertorio di nomignoli dispregiativi per gli ebrei: zydek, zydy, zydowa, zydziak, zydlak... «Come facevamo a sentirci polacchi, se nessuno ci considerava tali?» mi disse Herman Krol, un ebreo di Konin che aveva combattuto nell'esercito polacco. «"Ebrei, tornatevene in Palestina!" ci urlavano» (Theo Richmond, Konin, p. 258)
"Ebrei, tornatevene in Palestina!" urlavano. Poi qualche anno dopo ci sono finalmente tornati, e da allora quegli stessi soggetti che fino a un momento prima avevano urlato tornatevene in Palestina, hanno preso a urlare "Ebrei, fuori dalla Palestina!". E ancora non hanno smesso....

(Ebrei e Israele - ForumFree, 31 gennaio 2018)


Israele-Libano, portavoce Idf: "Un'altra guerra è possibile"

"Hezbollah possiede armi e il supporto dell'Iran"

di Maria Grazia Labellarte

 
Generale Ronen Manelis, portavoce delle Forze di difesa israeliane
Una guerra tra Libano e Israele potrebbe scoppiare se la presenza dell'Iran e di Hezbollah nel paese assumesse un ruolo importante e permanesse anche nel prossimo futuro. Lo ha dichiarato il generale di brigata, Ronen Manelis, portavoce delle Forze di difesa israeliane (Idf), in un editoriale apparso su un sito di opposizione libanese.
"Il Libano è diventato una grande fabbrica di missili - ha dichiarato il portavoce israeliano - L'Iran ha di fatto aperto una nuova filiale, una vera e propria 'succursale iraniana in Libano'".
Allo stesso tempo, Manelis ha sottolineato che Hezbollah ha continuato a rafforzare il proprio controllo sul governo libanese, creando contemporaneamente le proprie infrastrutture terroristiche e le fabbriche di armi. "L'anno scorso - ha scritto Manelis - c'è stata un'ulteriore prova che Hezbollah funge da braccio operativo dell'Iran. In ogni luogo dove c'era instabilità abbiamo scoperto l'impronta dell'Iran e ovunque abbiamo trovato il coinvolgimento di Hezbollah".
I leader israeliani hanno ripetutamente avvertito sia il Libano che la comunità internazionale della presenza di Hezbollah nel sud del Paese fino dal conflitto del 2006. L'Idf crede che Hezbollah abbia almeno 100.000 missili a corto raggio e diverse migliaia di missili a lungo raggio che possono colpire Tel Aviv. Un timore espresso già dal colonello Shaul Shay, direttore di ricerca dell'Istituto per le politiche e strategie al Centro interdisciplinare di Herzliya in Israele (Idc), durante un'intervista esclusiva per Ofcs Report.
Mentre il gruppo terroristico ha terminato il suo impegno nella guerra civile siriana degli ultimi anni, infatti, molti esperti ritengono che Hezbollah potrebbe focalizzare ancora una volta la sua attenzione verso Israele.
"Il futuro dei cittadini libanesi è nelle mani di un dittatore che siede a Teheran", ha scritto Manelis, aggiungendo: "Penso sia giusto avvertire gli abitanti del Libano del gioco iraniano sulla loro sicurezza e sul loro futuro".

(ofcs.report, 30 gennaio 2018)


Israele-Russia, delegazione di Mosca domani a Gerusalemme per focus su Siria ed Iran

GERUSALEMME - Una delegazione di alti funzionari della sicurezza russa arriverà domani, 31 gennaio, a Gerusalemme per colloqui sull'Iran e sulla Siria. Lo riferisce l'ufficio del premier Benjamin Netanyahu. La visita giunge a pochi giorni dalla visita a Mosca di Netanyahu, che ha incontrato il presidente russo Vladimir Putin. La delegazione russa sarà guidata dal segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolai Patrushev. Faranno parte della delegazione di Mosca rappresentanti dei ministeri degli Esteri, della Giustizia e della Pubblica sicurezza, nonché generali e ufficiali militari e dell'intelligence. Al centro dei colloqui le "questioni regionali e altre questioni relative agli interessi comuni di Russia e Israele", riferisce l'esecutivo di Gerusalemme. La delegazione incontrerà il consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano, Meir Ben-Shabbat.
  Ieri, 29 gennaio, il presidente russo Putin ed il premier israeliano Netanyahu hanno discusso a Mosca di questioni di interesse regionale e di cooperazione bilaterale, concentrandosi infine sui problemi legati alla Siria e sul congresso del dialogo nazionale siriano di Sochi. "Il nostro incontro è stato positivo", ha detto Netanyahu, che lo scorso anno si è recato in Russia due volte e ha avuto diversi colloqui telefonici con Putin. Una delle principali ragioni di collaborazione tra Mosca e Gerusalemme è la questione siriana, in quanto Israele cerca il sostengo di Mosca per evitare l'espansione dell'influenza iraniana nella regione.
  Nel corso di un incontro con la stampa, Netanyahu ha riferito le preoccupazioni di Gerusalemme sulla possibile costruzione di fabbriche di missili da parte di Teheran in Libano. A tal proposito, Netanyahu ha detto che la costruzione di queste fabbriche rappresenta una "linea rossa" per Israele. Il capo dell'esecutivo israeliano ha aggiunto che la costruzione di fabbriche per la costruzione di missili di precisione in Libano è "in corso". Inoltre, Netanyahu, ha dichiarato che la Russia "comprende totalmente la nostra posizione e la serietà con cui consideriamo queste minacce". Il primo ministro israeliano ha spiegato che i legami con il Cremlino sono importanti per il coordinamento della sicurezza fra i due paesi: "L'esercito russo è sul nostro confine e intendiamo preservare i nostri interessi e la libertà di agire coordinando le aspettative".

(Agenzia Nova, 30 gennaio 2018)


«Mia madre era una spia comunista»

Una telefonata dai servizi segreti ungheresi. E lo scrittore Andràs Forgàch scopre che la mamma era stata una 007. Una dolorosa verità, ora raccontata in un libro. «Mi sarebbe piaciuto discutere con lei sul significato della parola "tradire". Sarebbe stato un confronto paritario: anche io l'ho tradita con i miei comportamenti».

di Gigi Riva

 
Andràs Forgàch
"Buongiorno, qui archivio dei servizi segreti, abbiamo trovato un dossier su uno dei suoi familiari che fu nostro collaboratore, può venire a consultarlo..." La telefonata che cambiò la vita, ma non i sentimenti, di Andràs Forgàch, scrittore drammaturgo attore e sceneggiatore, se non arrivò del tutto inaspettata fu comunque devastante. Obbligava a rimestare in un passato inconfessato tra omissioni, reticenze e bugie. Uno squarcio di luce nel lato oscuro di gente con cui si era condiviso il pranzo, la cena, la casa, l'amore. «E io», ricorda in questa intervista esclusiva per L'Espresso l'intellettuale ungherese 65enne, anche traduttore di Shakespeare e di Beaumarchais, «benché non avessi alcun indizio, dentro di me ero sicuro si trattasse di mia madre».
  Il governo ultraconservatore di Viktor Orbàn aveva varato una legge «un po' ipocrita ma comunque positiva», nel giudizio di Forgàch, che permette di consultare le carte, «salvo pochi documenti da tenere coperti per la sicurezza dello Stato e certo dopo che gli apparati avevano distrutto le prove compromettenti sui loro uomini più in vista da proteggere».
  Dal crollo del Muro nel 1989 agli anni Duemila avevano avuto del resto tutto il tempo necessario. C'erano alcune formalità da espletare. Bisognava, anzitutto essere riconosciuti come "ricercatori ufficiali", qualifica che il nostro non ebbe difficoltà ad ottenere grazie all'università. Un anno di tempo per esplorare la sterminata biblioteca degli 007 poi l'obbligo di restituire ogni singolo foglio ad uso e consumo di chiunque lo volesse. E chiunque ha la possibilità di pubblicare ciò che trova senza bisogno di permessi degli interessati. Particolare decisivo che convinse Andràs a giocare d'anticipo: «Dovevo essere io a divulgare fatti intimi e però di rilevanza pubblica dei miei congiunti». In che forma? «Avevo due strade, o trasformare il materiale in un romanzo o scrivere un saggio asettico». Ha scelto una via mediana che si può definire letteratura del vero, stile del romanzo ma senza nessun elemento di finzione, «un obbligo di onestà per rispettare il patto di verità col lettore».
  Il risultato è il formidabile volume "Gli atti di mia madre", che Neri Pozza manda in libreria dal primo febbraio. «Anche quando si inventa non si scrive che di se stessi. In questo caso non avevo bisogno di alcun artifizio della fantasia», commenta l'autore. È stato come fare «una sorta di psicoanalisi di me stesso, benché sia una branca del sapere umano che non avevo mai frequentato. Mi è servito per capire da dove provengono certe particolarità del mio carattere». Un lavoro doloroso fino alle lacrime: «C'erano giorni in cui, in quell'archivio, piangevo e piangevo e piangevo salvo poi ritrovare la forza di continuare».
  E il momento peggiore deve essere stato quando ha scoperto che sua madre, oppressa tra la fedeltà al partito e quella dovuta ai diritti del sangue, scelse comunque di permettere di spiare proprio lui, suo figlio, i suoi amici contestatori del sistema: «Naturalmente mi sarebbe piaciuto discutere con lei sul significato della parola tradire e resta il cruccio di non averlo potuto fare quando era in vita. Sarebbe stato un confronto paritario perché anche io l'ho tradita con i miei comportamenti nel privato, con le scelte che ho fatto. E io ero, di quattro figli, quello più in sintonia con lei, quello con cui si confrontava di più, forse quello a cui si sentiva più vicina, al contrario di mio fratello Péter, il ribelle. Anche io sono stato quantomeno ambiguo talvolta. Ad esempio quando un ufficiale dei servizi segreti, consegnandomi il passaporto per un viaggio in Israele, mi chiese una volta tornato di riferire a lui cosa avevo fatto, chi avevo incontrato, cosa pensavo di quel Paese. Non dissi no, non risposi, ebbi un atteggiamento ambivalente».
Bruria Avi-Shaul
Bruria Avi-Shaul, la madre, era nata in Palestina, a Gerusalemme, nel 1922 in una famiglia di intellettuali ebrei. Era di una bellezza talmente leggendaria da far impazzire gli uomini fino al crepuscolo della sua esistenza terrena. Aveva sposato Marcell Friedmann, un "ebreo rinnegato" comunista, che cambierà il cognome in Forgàch e diventerà infine l'agente segreto Pàpai della Sezione informativa II/3 della direzione politica investigativa del ministero degli Interni ungherese. Benché non avesse nulla a che spartire col capo della religione cattolica, Pàpai gli sembrò un buon appellativo per mimetizzare le origine ebraiche. Quando nacque lo Stato di Israele, da convinti anti-sionisti quali erano, i due decisero di lasciare il Medio Oriente e trasferirsi a Budapest per mettersi a disposizione del regime comunista. Marcell anche, in seguito, come 007 a Londra a inizio anni Sessanta e con l'attività di copertura di giornalista. I quattro figli (due le femmine) non sospettarono mai la loro attività nascosta. Andràs: «Sapevamo che erano membri del partito, era già sufficiente no? Dal punto di vista ideologico i conti con loro, con i genitori e la loro generazione, li facemmo nel 1968 grazie al maggio parigino e ai fatti di Praga. La nostra è sempre stata una famiglia di conflitti forti, di discussioni aspre ma sempre nel rispetto reciproco. Mamma era una donna energica ma non autoritaria».
  Nel 1975 Marcell si ammala e Bruria accetta di sostituirlo come "collaboratrice segreta". Agli occhi dei vertici dei servizi ha diverse qualità importanti, anzitutto la fede ideologica solida («inclinerà solo più tardi verso posizioni vagamente ambientaliste») e la conoscenza della lingua ebraica. Azzarda il figlio: «Forse era l'unica a parlarla e scriverla in tutta Budapest». Le pagano viaggi in Israele perché cerchi di infiltrarsi nei Congressi sionisti, compito arduo. Lei obbedisce, ma non è sottomessa. Coi suoi referenti ama confrontarsi. Li rimprovera perché sospetta che le sue analisi finiscano in polverosi scaffali senza essere prese in considerazione. Grazie al fascino, inconsapevolmente li seduce persino. Finché arriva la proposta indecente: li deve aiutare a penetrare nell'appartamento del figlio da dove controllare un poeta non in linea col regime. Chiaro l'intento di piazzare microspie. Lei nicchia, è tormentata, avanza dubbi sulla fattibilità dell'impresa. Dalle carte è chiaro l'imbarazzo oltre che il dissidio personale. Alfine cede. Morirà nel 1985 senza conoscere i grandi sconvolgimenti dell'Est Europa, la fine dell'ideologia in cui tanto ha creduto.
  In ogni Paese del Patto di Varsavia gli archivi dei servizi segreti diventano la miniera d'oro per riscrivere il passato. Si ha l'esatta dimostrazione di una società controllata con sistemi da Grande Fratello rudimentali se paragonati con l'oggi. Si scovano, dovunque, personaggi insospettabili compromessi nell'attività di spionaggio praticamente in ogni dove. L'Ungheria, buona ultima, lentamente si accoda e mette i panni sporchi in pubblico. Ha senso, dopo quasi 30 anni? Andràs Forgàch non ha dubbi: «Ha senso, non solo perché possiamo capire meglio come era strutturata la società, ma anche perché l'Ungheria di oggi si basa ancora fortemente sui servizi segreti di allora». Comunisti riciclati e buoni per tutte le stagioni, rimasti aggrappati al potere e ora al servizio del supernazionalista Viktor Orbàn. Supernazionalista? Lo scrittore ha un'altra idea: «Io non ho nulla a che spartire col governo attuale naturalmente. Tuttavia credo che l'Ungheria, così come gli altri Paesi dell'Est, non sia isolazionista, non cerchi di chiudersi. Semmai la prospettiva è un globalismo diverso da quello dell'Unione europea o dei Paesi asiatici. E i prossimi cento anni saranno segnati dai diversi tipi di globalismo verniciati di nazionalismo».
  Se la postura di Budapest è diversa da quella dell'Europa occidentale lo si deve al fatto che sta a un'ora diversa sull'orologio della storia: «Qui non abbiamo la società, è stata sfasciata dopo la Seconda guerra mondiale e non c'è stata evoluzione. Non abbiamo avuto gli stessi movimenti civili sorti in Italia, Francia, Germania. Siamo in ritardo».
  Denuncia la crescita verticale dell'antisemitismo: «Il fenomeno è diventato assai più forte negli ultimi vent'anni. Purtroppo è una tradizione ungherese. Nonostante, per paradosso, Orbàn sia molto amico di Netanyahu, politicamente sono molto vicini». Quanto a lui, cresciuto in una famiglia visceralmente antisionista, sta cercando di riannodare i fili del suo albero genealogico: «Mi sento ebreo e fiero di esserlo. Ho studiato il fenomeno del nazismo e mi sono identificato con il bambino dalle mani alzate del Ghetto di Varsavia. Per me è più naturale, credo, che per i miei fratelli. In famiglia abbiamo vissuto in un grande paradosso. Eravamo poveri, molto poveri, respiravamo l'avversione verso lo Stato degli ebrei dei nostri genitori, eppure tutti gli aiuti, soldi, regali, insomma tutte le cose buone, arrivavano da Israele».
  Il suo lavoro di storico del recente passato non è terminato. Gli infiniti meandri degli archivi lo obbligano ad aprire nuovi capitoli: «Di recente ho scoperto un altro dossier che riguarda mio padre. Risale al 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, quando fu spedito al Cairo per la sua attività di informatore. Sarà la base per scrivere un altro volume, così come devo rivedere il capitolo di un libro del 2007 in forma di una lunga lettera di mia nonna a mia madre quando ancora non sapevo tutto ciò che è emerso successivamente».
  "Gli atti di mia madre", pubblicato in Ungheria nel 2015, ha avuto enorme risonanza.
«Diversi amici mi hanno detto che devo ringraziarla per avermi dato la possibilità di esprimere le mie doti, anche in un dramma si può ricavare una chance. Ho ricevuto molte lettere di ringraziamento. E pure qualche critica di persone gelose del successo». Si ferma, riflette: «In fondo questo volume, molto faticoso da affrontare soprattutto psicologicamente, è un regalo a mia madre. Si possono coltivare sentimenti molto forti pur in situazioni in ogni caso non belle. Ora posso dire, con certezza, che niente è cambiato per me nei sui confronti. Resta, intatto, tutto il mio amore filiale».

(L’Espresso, 30 gennaio 2018)


Accordo Italia-israele. Laboratorio congiunto sulle attività spaziali

Obiettivo dell'accordo siglato a Tel Aviv promuovere i risultati scientifici dei due paesi in materia di cooperazione spaziale.

La firma dell'accordo
Un laboratorio congiunto italo-israeliano sulle attività spaziali per scopi pacifici. Questo l'obiettivo dell'accordo siglato a Tel Aviv tra il Ministero Degli Affari Esteri e Comunitari italiano e il suo omologo Israeliano e dalle rispettive agenzie spaziali nell'ambito dell'accordo tra il governo della Repubblica Italiana e il governo dello Stato di Israele sulla cooperazione in materia di ricerca e sviluppo industriale, scientifica e tecnologica, firmato a Bologna il 13 giugno 2000, e l'accordo di cooperazione in materia di cooperazione spaziale per scopi pacifici tra l'Agenzia spaziale italiana (ASI) e l'Agenzia spaziale israeliana (ISA), firmato a Parigi il 17 giugno 2009.
   Scopo principale di questo nuovo laboratorio congiunto italo-israeliano sulle attività spaziali per scopi pacifici è quello di promuovere i risultati scientifici di Israele e Italia consentendo ai ricercatori di entrambi i paesi di condurre esperimenti e ricerche congiunti nelle aree specificate di seguito. L'accordo avrà valore cinque anni e MAECI e MOST hanno concordato di emettere un bando congiunto per la selezione di quattro "Esperimenti scientifici congiunti italo-israeliani in piattaforme di laboratorio telecomandate di microgravità" nelle aree di biologia, chimica e microbiologia.
   Le proposte saranno selezionate da un consiglio congiunto italo-israeliano composto da tre membri per ciascuna parte designata, per la parte italiana, dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e dall'Agenzia spaziale italiana, e per la parte israeliana dall'Israele Ministero della Scienza e della Tecnologia e l'Agenzia spaziale israeliana. Italia e Israele contribuiranno finanziariamente con 600 mila euro ciascuno e per l'attuazione degli esperimenti congiunti nell'ambito del laboratorio comune, le parti interessate firmeranno accordi specifici.

(ASI, 30 gennaio 2018)


Tu-Bishvat…

di Roberto Della Rocca, rabbino

Questa sera gli ebrei di tutto il mondo, festeggiano Tu-Bishvat (15o giorno del mese di Shevat), il Capodanno degli alberi e l'inizio della stagione primaverile in Eretz Israel.
Con un mirabile paradosso anche quegli ebrei che stanno vivendo i giorni più freddi dell'anno, sotto la pioggia e la neve, attraverso il rito del Seder e della piantagione di alberi, si proiettano nella percezione della fine dell'inverno e del risveglio della natura che avviene in questo periodo in un luogo distante ma intimo al contempo. Una sensazione metereologica e corporale, caratterizzata da profumi e sapori, che sembra annullare le distanze spaziali e temporali. Un po' come l'odore di una persona amata che ci resta impresso anche nella sua assenza. L'amore per la Terra d'Israele è d'altronde uno dei fondamenti del pensiero ebraico, il luogo in cui la natura divina si esprime in modo particolare, come è detto nella Torà, Devarìm: 11, 12: "….è il paese che l'Eterno, tuo Signore, ha sempre davanti agli occhi, che sorveglia in continuazione dall'inizio alla fine dell'anno….". Il destino ebraico non potrà mai essere disgiunto da questi luoghi perché per il popolo ebraico è necessario avere un corpo oltre che uno spirito. La kedushà infatti si completa solo quando il mondo spirituale si congiunge alla vita naturale. Buon Tu-Bishvat.

(moked, 30 gennaio 2018)


Polveriera Libano, la guerra in attesa

Tra gli italiani dell'Unifil chiamati a controllare una fragile tregua al confine con Israele e i guerriglieri Hezbollah mimetizzati da pastori e mescolati agli abitanti dei villaggi.

di Guido Olimpio

 
Una pattuglia della Folgore nella zona di Naqoura, Libano sud.
SHAMA (Libano del sud) - Non li vedi, non li senti, ma ci sono. Mimetizzati da pastori, mescolati agli abitanti dei villaggi, infiltrati come contadini tra frutteti e colline dolci che precipitano in piccoli canyon. Gli Hezbollah, i guerriglieri filo-iraniani anima di questa parte di Libano, mantengono un profilo basso rivelando solo il volto dei loro martiri, stampati sui manifesti appesi ovunque, e mostrando il colore giallo delle loro bandiere. Accanto appaiono quelle verdi di Amal, l'altra fazione sciita, e le insegne di qualche gruppo minore. Simboli esteriori per marcare le zone di influenza a pochi chilometri dal confine con il «nemico» che neppure menzionano: Israele. E' qui che veglia uno schieramento di un migliaio di soldati italiani, parà della Folgore e elementi del Savoia Cavalleria. A loro è affidato il settore ovest. Da Naqoura, sulla costa, verso l'interno. Lo guida il generale Rodolfo Sganga, ufficiale con esperienze in Afghanistan e negli Usa, abituato a interagire con gli alleati.

 Diecimila soldati
  Il nostro contingente è parte di Unifil, la missione Onu ampliata dopo il conflitto del 2006 e che ha portato 10 mila soldati in rappresentanza di 40 paesi in questo angolo di mondo. Difficile. Ora c'è una relativa quiete, ma basta un nulla ad accendere il barile di polvere. I caschi blu osservano e sono osservati dai contendenti. Nessuno fa sconti, i rivali si rinfacciano quotidianamente le colpe e cercano di coinvolgere l'arbitro, le Nazioni Unite. Ecco perché servono equilibrio, professionalità, tatto. In questo gli italiani ci sanno fare, districandosi in un teatro angusto. Tutto è vicino, a contatto, per questo pericoloso. Lo si percepisce inerpicandosi sull'alta torretta dell'avamposto 1-31 affidato ad una ventina di militari guidati da un sottoufficiale. Chiusi per due mesi dietro palizzate in cemento controllano il «panorama». Fantastico, ma anche inquietante. Da un lato la boscaglia libanese, dall'altro, divisa dalla Blue Line, la strada usata dagli israeliani. A due metri un bunker.

 A tiro di missile
  Siamo sulla frontiera. Sotto si vede il lindo kibbutz di Shlomi, all'orizzonte c'è la baia di Haifa. E' a tiro di missile: infatti durante la crisi del 2006 gli Hezbollah li hanno sparati ed è facile capire come non serva neppure fare troppi calcoli di tiro. Le ultime stime dicono che ne abbiano 130 mila. I «ragazzi» sulla torre e in postazioni attorno al perimetro devono segnalare la presenza di intrusi, violazioni, movimenti sospetti. Verso nord i parà, a bordo di blindati Lince, percorrono stradine, visitano centri abitati, perlustrano alture. In certe settori i guerriglieri impiegano degli «esploratori» che fingono di essere degli agricoltori. Sfruttano l'ambiente, la Natura, le tradizioni della caccia. Gli israeliani temono le «visite», pensano che possano essere in vista di operazioni a sorpresa, come lo sconfinamento e l'occupazione di una località. Per questo Gerusalemme vuole realizzare un muro che rafforzi una protezione già possente costituita da una doppia recinzione, aree minate e terra pettinata per scorgere eventuali orme.

 La minaccia
  Il piano è contestato da Beirut in quanto in una dozzina di punti la linea di demarcazione non è stata mai definita. Gli Hezbollah hanno minacciato ritorsioni contro gli operai impegnati nel progetto mentre fonti governative hanno ripetuto le accuse di violazioni. Il generale Robert al Alam, responsabile dell'esercito libanese a sud del fiume Litani protesta: «Ogni giorno mandano droni, aerei, fanno spionaggio elettronico. Non basta che l'Onu certifichi». Replica un alto ufficiale israeliano, Ronen Manelis: «L'Iran ha aperto una sezione libanese, sta estendendo la sua influenza ed ha ripreso la costruzione di una fabbrica di missili. Una casa su tre in questo territorio nasconde una postazione dell'Hezbollah». Non poche sono interrate, pronte ad aprire il fuoco in qualsiasi momento. Lunedì il premier Bibi Netanyahu, in visita a Mosca dove ha incontrato Vladimir Putin, ha lanciato un monito chiaro affermando che Gerusalemme non tollererà la presenza dell'impianto missilistico nel "teatro".

 La ricerca di dialogo
  Il clima internazionale è caldo, dunque i nostri ufficiali abbassano la temperatura. Ogni mese organizzano un vertice a tre a Naqoura, con libanesi e israeliani. Le parti non si parlano direttamente, i tavoli non devono toccarsi, ogni delegazione volta le spalle al paese avversario però i protagonisti non rinunciano al dialogo. Fondamentale per prevenire incidenti. Come è importante l'atteggiamento verso i civili. Il generale Sganga ha incontrato decine di sindaci, avviato - come i suoi predecessori - programmi in aiuto alla popolazione: l'Italia ha stanziato oltre un milione di dollari. Scelta che segue un percorso storico. Gli italiani sono presenti con l'Unifil dal 1979 quando arrivò il primo nucleo di elicotteristi, task force ancora attiva con alcuni velivoli e protagonista di interventi delicati. Non solo. Dopo la strage nei campi palestinesi di Sabra e Chatila nell'82, i soldati italiani furono mandati a Beirut con compiti di pace e scelsero una strategia aperta verso l'esterno, non muscolosa o arrogante, che si rivelò vincente.

 Il comandante
  Anche oggi le pattuglie hanno un approccio flessibile, svolgono il loro compito senza offendere. Quando entrano in un villaggio rimuovono la mitragliatrice, procedono a passo d'uomo, periodicamente fanno acquisti in mercatini. «La popolazione ha gradito. Dobbiamo essere meno invasivi e conquistarci il sostegno», spiega il comandante della Folgore dopo aver introdotto le misure. «E' un investimento nel breve e nel medio termine — aggiunge —. Prima di incontrare il responsabile di un municipio lo studiamo, cerchiamo di comprendere quale sia il suo obiettivo e i problemi della sua micro-realtà. In modo da rispondere con precisione. E' una sfida mentale che combina l'approccio più militare a quello sociale».

 L'Onu
  Molto stretta la collaborazione con l'esercito libanese. Italiani e truppe locali agiscono insieme, noi assicuriamo un programma di training e forniamo supporto. La diplomazia internazionale conta molto sulle truppe di Beirut che di recente ha dispiegato un Reggimento di pronto intervento a sud del Litani per ristabilire un principio di sovranità. L'Onu tende la mano in un'area volatile, con tanti attori, ognuno con una propria agenda. Oltre ai guerriglieri sciiti, ci sono i campi profughi palestinesi, l'esercito, le Ong, le molte confessioni, i rifugiati siriani e le tante potenze che, dall'esterno, vogliono dire la loro per condizionare il futuro.

 Il principe ereditario
  Purtroppo è questa la storia del Libano. I parà hanno applicato la loro dottrina, orma sperimentata, per catturare cuore e menti in una terra abituata a soffrire. E che ha paura di patire ancora, magari in occasione delle prossime elezioni. C'è chi si aspetta provocazioni dei sauditi, magari attraverso l'uso di fazioni sunnite. Il principe ereditario Mohammed — dicono — è «una testa vuota», capace di tutto pur di contrastare l'Iran e i suoi alleati. Un alto prelato cristiano, invece, beatifica l'Hezbollah come fattore di stabilità contro l'estremismo islamista. Punti di vista di una pace sospesa dove tutti sono consapevoli di rischiare molto. E dunque provano a evitare che l'incendio riparta.

(Corriere della Sera, 30 gennaio 2018)


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Con i soldati Unifil

di Guido Olimpio

SHAMA- Nel Libano Sud operano i caschi blu Onu con circa 10 mila uomini. Di questi un migliaio sono italiani: attualmente nell'area è schierato un contingente della Brigata Folgore, composto da parà e da elementi del Savoia Cavalleria. Per una settimana abbiamo avuto la possibilità di seguire il loro prezioso lavoro che combina la professionalità alla capacità di interagire con il mondo esterno, molto sensibile e ferito da tante guerre. I nostri reparti, insieme a quelli di altri 40 paesi, devono monitorare un settore dove si concentrano realtà diverse: i guerriglieri Hezbollah, simpatizzanti di Amal, fazioni libanesi, gruppi palestinesi, profughi siriani, forze locali. La missione di pace Onu è iniziata nel 1978 ed è stata ampliata dopo il conflitto del 2006.
Reportage

(Corriere della Sera, 30 gennaio 2018)


Blackout sulla riunione Putin-Netanyahu

 
 
 
Ciò che è stato il più importante incontro diplomatico di oggi, è anche il meno noto. E a giudicare dal blackout delle informazioni, è proprio quello che volevano gli organizzatori. Pochi dettagli sono emersi dai lunghi colloqui a Mosca tra Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu, settimo incontro in cui i due leader rimodellano il Medio Oriente nel vuoto di potere lasciato dagli Stati Uniti. Si pensa si sia discusso di cooperazione militare in Siria ed influenza dell'Iran nella regione. La nebbia delle informazioni sull'incontro era così densa che Bloomberg e Reuters non avevano nemmeno accennato a ciò di cui i due hanno parlato in privato; oppure, e questo sia di lezione a Trump, è il risultato voluto quando non ci sono fughe di notizie. L'incontro si aveva neanche una settimana dopo che Netanyahu aveva incontrato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a Davos, dicendo di parlare col leader russo delle stesse questioni riguardanti Siria e Iran discusse con Trump. Entrambi, aveva detto, "comprendono" le posizioni d'Israele. Netanyahu era accompagnato dal capo dell'intelligence militare Maggior-Generale Herzi Halevi, e Putin dal Ministro della Difesa Sergej Shojgu. Con l'esercito russo al confine siriano, Netanyahu affermava che gli incontri con Putin, e la cooperazione sviluppatasi tra la dirigenza della Difesa di entrambi i Paesi, sono fondamentali e "quindi non ci scontriamo". Inoltre, affermava che questi incontri sono importanti anche perché consentono alle parti di dichiarare apertamente le proprie posizioni. "Alla luce della situazione in evoluzione, anche le nostre politiche cambiano", aveva detto Netanyahu aggiungendo di indicare a Putin le posizioni d'Israele il più "chiaramente e sinceramente" possibile. Netanyahu e Putin discussero per 90 minuti in privato ed hanno anche avuto colloqui su questioni bilaterali coi relativi staff. Netanyahu aveva detto che i colloqui erano stati "concreti" e non "teorici". Netanyahu indicava che lui e Putin avevano parlato di vari "scenari d'escalation" nella regione e di come poterli affrontare. Netanyahu affermava che col Medio Oriente a un bivio c'è l'opportunità per stabilizzare Siria e Libano, ma che c'è un attore, l'Iran, che cerca di fare il contrario. Il primo ministro diceva di aver posto la questione dell'accordo nucleare iraniano, e detto a Putin che se non fossero state apportate modifiche all'accordo, era probabile che gli Stati Uniti se ne sarebbero allontanati.
  Il Presidente della Russia e il Primo ministro israeliano s'incontravano anche al Jewish Museum and Tolerance Center di Mosca, dove i due leader partecipavano all'inaugurazione della mostra per celebrare la giornata internazionale della memoria dell'Olocausto, intitolata "Sobibor: Vittoriosi sulla Morte", dedicata alla rivolta del 1943 nel campo di sterminio nazista. La mostra racconta la storia di Aleksandr Pecherskij, ufficiale dell'Armata Rossa che guidò la fuga dal campo. Putin dichiarava che il ricordo dell'Olocausto è "un avvertimento contro ogni tentativo di esaltare l'idea di dominio globale, annunciando, costruendo od affermando una propria grandezza basata su razzismo, etnia o qualsiasi altra supremazia. La Russia respinge categoricamente qualsiasi tentativo del genere".
  Commentando l'incontro, l'aiutante del Presidente russo Jurij Ushakov riferiva ai giornalisti che Putin e Netanyahu avevano discusso varie questioni bilaterali e regionali, nonché del processo di riconciliazione in Siria. Il Congresso nazionale del dialogo siriano, attualmente in corso a Sochi, era tra gli argomenti discussi, dichiarava il funzionario russo, senza fornire alcun dettaglio. L'anziano funzionario israeliano Ze'ev Elkin, giunto a Mosca al fianco di Netanyahu, aveva detto che l'incontro tra i due leader era stato "molto fruttuoso ed è durato più a lungo del previsto", aggiungendo che gli incontri tra Putin e Netanyahu avevano "contribuito notevolmente alla sicurezza della nostra nazione". La stampa locale israeliana aveva seguito, col Jerusalem Post che citava Netanyahu dire che "se all'Iran non viene impedito di trincerarsi militarmente in Siria o di trasformare il Libano in una fabbrica di missili diretti contro Israele, allora Israele lo fermerà". Parlando ai giornalisti israeliani in videoconferenza dopo l'incontro, Netanyahu affermava che i colloqui si erano svolti in un momento "spartiacque". "L'Iran si trincererà in Siria o sarà fermato?", diceva Netanyahu, "Ho chiarito a Putin che lo fermeremo se non si fermerà da solo, stiamo già agendo per fermarlo". Il primo ministro dichiarava di aver parlato a Putin anche della minaccia che l'Iran fabbrichi armi di precisione in Libano, cosa che Gerusalemme considera "grave minaccia". Netanyahu affermava di aver detto a Putin che "anche qui, se dobbiamo agire, agiremo". Il primo ministro israeliano rivelava alcuni argomenti discussi con Putin in una dichiarazione su twitter. Netanyahu affermava di aver parlato al presidente russo delle preoccupazioni sui "tentativi iraniani di creare basi militari in Siria" e sui presunti tentativi di Teheran di collocare "armi ad alta precisione" in Libano per colpire Israele. Tel Aviv si oppone fermamente a tali azioni e agirà da sola se la comunità internazionale non gestirà la questione, indicava a Putin. La reazione del presidente russo a tali affermazioni, tuttavia, rimaneva un mistero.
  Nel commiato, Putin diede a Netanyahu in dono una lettera dell'industriale tedesco Oskar Schindler, che salvò circa 1200 ebrei durante l'Olocausto, spedita alla moglie.

(Aurora, 30 gennaio 2018)


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Netanyahu: "L'Iran vuole distruggerci"

Il premier israeliano incontra Putin a Mosca: "Non ci sarà un altro Olocausto"

"L'Iran vuole distruggerci". Questa l'accusa lanciata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu durante un incontro col presidente russo Vladimir Putin nel museo dell'ebraismo di Mosca, dove si è svolta una cerimonia in memoria delle vittime della Shoah.

 L'incontro
  "Affronteremo Teheran con tutte le nostre forze per garantire il carattere eterno di Israele", ha detto il premier, aggiungendo che "non ci sarà nessun altro Olocausto". Il presidente russo ha tracciato un parallelo tra antisemitismo e "russofobia". "Sono convinto che i leader politici e religiosi debbano fare tutto il possibile per impedire che i semi dell'ideologia nazionalista crescano in qualsiasi forma: antisemitismo, russofobia e tutte le fobie basate sull'odio", ha detto Putin.

 Monito
  Prima dell'incontro con Putin, Netanyahu ha avvertito che il suo governo non tollererà la trasformazione, operata da Teheran, del Libano in un "sito missilistico gigante" contro Israele. Il premier aveva annunciato di voler discutere con Putin dei "continui sforzi dell'Iran per stabilire una presenza militare in Siria, alla quale ci opponiamo fermamente e contro cui agiamo". "Discuteremo anche degli sforzi dell'Iran volti a trasformare il Libano in un gigantesco sito missilistico, un sito per missili di precisione diretto contro lo stato di Israele, che non tollereremo".

 Accuse
  Il portavoce dell'esercito israeliano, il generale Ronen Manelis, ha accusato l'Iran non solo di trasferire armi, denaro o fornire consigliere militari in Libano, ma di aver aperto una nuova "filiale", un "Lebanon Branch" e di aver trasformato il Paese vicino in un sito di un "vasto progetto missilistico estero". I leader israeliani continuano a denunciare l'espansione iraniana nella regione del Medio Oriente e in particolare in Siria e l'alleanza tra l'Iran e il potente movimento armato sciita libanese Hezbollah. Netanyahu accusa infatti l'Iran di voler costruire siti per la produzione di missili guidati in Siria e Libano.

(In Terris, 29 gennaio 2018)



Grecia-Israele: incontro tra il presidente Pavlopoulos e l'omologo Rivlin

Si conferma il clima "eccellente" nelle relazioni

Il presidente israeliano Reuven Rivlin con il presidente greco Prokopios Pavlopoulos
ATENE - L'eccellente clima nelle relazioni tra Israele e Grecia è stato confermato durante l'incontro tra il presidente greco Prokopios Pavlopoulos e il suo omologo israeliano Reuven Rivlin presso il palazzo presidenziale di Atene. Lo riferisce l'agenzia di stampa "Ana-Mpa". Rivlin si trova in Grecia per una visita di tre giorni, che si svolgerà tra Atene e Salonicco. Nel corso dell'incontro di oggi il presidente greco Pavlopoulos ha rilevato l'importanza strategica delle relazioni tra i due paesi e ha espresso il sostegno della Grecia a convocare il Consiglio di associazione Ue-Israele il più presto possibile. Secondo Pavlopoulos, Israele è più vicino all'Occidente e in particolare all'Ue per quanto riguarda le sue istituzioni democratiche e l'orientamento politico generale. Il presidente ha ribadito le "linee rosse" di Atene sulle questioni di politica estera e ha invitato Rivlin a sostenere la Grecia, sottolineando che il comune denominatore che lega Israele e la Grecia rimane il rispetto per il diritto internazionale.

(Agenzia Nova, 29 gennaio 2018)


La storia asservita alla politica

di Federico Steinhaus

La Giornata della Memoria 2018 è archiviata, ma due avvenimenti di significato opposto, che si riferiscono a quanto in questo giorno vogliamo e dobbiamo ricordare, sono stati trascurati dai nostri media.
   E' noto che storicamente l'antisemitismo ha trovato nell'anima polacca forti radici e che, pertanto, la "soluzione finale del problema ebraico" ideata e realizzata dai nazisti ha avuto in Polonia numerosissimi ed appassionati seguaci. Forse è per questo motivo che i nazisti hanno scelto la Polonia come sede dei più terribili campi di sterminio. Sappiamo anche che dopo la fine della seconda guerra mondiale in diverse località polacche molti sopravvissuti sono stati uccisi da polacchi. Lo stesso papa Giovanni Paolo II è stato testimone dell'odio antiebraico dei suoi connazionali.
   Ebbene, il parlamento polacco - per la precisione, la Camera bassa, mentre manca ancora il voto di conferma del Senato - in un soprassalto di orgoglio nazionalista ha decretato che parlare e scrivere di "campi di sterminio polacchi" in riferimento ad Auschwitz, Majdanek, Treblinka costituisce un reato punibile con tre anni di prigione.
   E' vero, ovviamente, che sono stati i nazisti ad allestire e gestire questi luoghi dell'orrore. Ma è altrettanto vero che essi hanno potuto avvalersi di molte complicità e di una sostanziale indifferenza, che alla fine fa risaltare con una luce particolarmente forte il coraggio e l'onore di quanti, polacchi anche loro, seppero opporvisi e salvare la vita ad ebrei.
   Dunque, nella sua essenza, questa legge non è del tutto immotivata sotto il profilo di un significato letterale che disonora l'intera nazione (lo stesso presidente Obama, nel 2012, usò l'espressione contestata). Ma questa legge può anche soffocare un dibattito storiografico su questo capitolo di storia polacca: si legga, a questo proposito, l'autobiografia dell'eroico polacco Jan Karski "La mia testimonianza davanti al mondo", pubblicata da Adelphi. Dorota Glowacka, consigliere legale della Helsinki Foundation for Human Rights di Varsavia, afferma che questa legge si presta a molti abusi, e Yad Vashem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme, teme che questa legge possa oscurare la verità sull'aiuto che molti polacchi fornirono ai nazisti, portando all'uccisione di 200.000 ebrei proprio per mano polacca, come scrive lo storico polacco Jan Grabowski.
   Ma passiamo ora al secondo evento che ha coinciso con la Giornata della Memoria 2018, e che ci introduce nel misterioso mondo del pensiero islamico sulla Shoah.
   Mohammed Al Issa è stato ministro della Giustizia in Arabia Saudita, un paese che ha sempre sostenuto posizioni negazioniste, del resto condivise largamente nel Medio Oriente islamico. Ora egli riveste l'incarico di segretario generale della Lega Mondiale Musulmana, che ha la sua sede proprio in Arabia Saudita. E, inaspettatamente, Al Issa ha scelto proprio il Giorno della Memoria per condannare esplicitamente, in una lettera indirizzata al museo dell'Olocausto di Washington, i crimini di guerra nazisti e definirli "tra le peggiori atrocità mai commesse dall'uomo"; "Questa tragedia perpetrata dal nazismo non sarà dimenticata dalla storia…il vero Islam si oppone a questi crimini e li classifica con il massimo grado di sanzioni penali…Uno potrebbe chiedersi come una persona sana di mente potrebbe simpatizzare la brutalità di questi crimini o sminuirne la portata…Le vittime hanno sacrificato le loro vite innocenti per consentirci di apprezzare con energia la libertà, fornendo l'esempio di come l'odio nazista abbia sprofondato il mondo in guerre e disastri".
   Questo capovolgimento di uno dei capisaldi dell'approccio arabo ed in genere islamico alla tragedia della Shoah ha sorpreso e costituisce probabilmente un tassello di quello che potrebbe essere il futuro scenario politico della regione, del quale altri segnali provengono proprio dall'Arabia Saudita. Tre dei molti commenti comparsi nel sito in inglese di Al Arabiya sono rappresentativi della gamma di opinioni espresse dai lettori arabi: Mujahid Al-Hijazi ha scritto "Questi sono segnali di un possibile avvio di rapporti ufficiali fra i Sauditi ed Israele"; Irfan Ahmed Bota ha scritto "Auguro un olocausto anche peggiore. L'Olocausto non esiste ed è stato esagerato dall'Occidente"; Deeq Abdinoor infine ha scritto "Hitler non ha ucciso tanti quanti pretendono i sionisti. L'Arabia Saudita è a favore di Israele. Queste sono statistiche false, non credeteci". Ovviamente, sono anche molti i commenti che accusano l'Arabia Saudita di non mostrare altrettanta simpatia per le sofferenze dei palestinesi.
   
(L'informale, 29 gennaio 2018)


Israele promuove il sole di Tel Aviv e Gerusalemme

di Claudio Zeni

"Previsioni per oggi: sempre sole!" annuncia Paolo Corazzon, il meteorologo più celebre d'Italia.
Si apre così il nuovo spot dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, che invita gli italiani a visitare Tel Aviv e Gerusalemme, due città baciate dal sole tutto l'anno. La campagna Two Sunny Cities One Break è attiva dal 28 gennaio e si concluderà il 10 febbraio 2018 sui principali canali televisivi italiani, mentre continuerà fino al 28 febbraio sul web.
Two Sunny Cities One Break è il proseguimento della campagna Two Cities One Break, lanciata in Italia nel 2016-17: accanto alla modella israeliana Shir Elmaliach, arriva quest'anno un testimonial d'eccezione, Paolo Corazzon, celebre volto delle previsioni del tempo in TV e sul web. Sono loro che accompagnano i telespettatori nella visita di due città emozionanti, da scoprire in un unico citiesbreak: la dinamica Tel Aviv, con le sue spiagge, la vita notturna frizzante, l'offerta culinaria sorprendente e il design innovativo, e l'affascinante Gerusalemme, che emoziona i visitatori tra tradizione, storia e archeologia. Due città diverse e allo stesso tempo vicine, situate 45 minuti di distanza l'una dall'altra e raggiungibili dall'Italia in meno di 4 ore con oltre 70 collegamenti diretti.
"E' stato un onore lavorare con Paolo Corazzon alla nuova campagna Two Sunny Cities One Break. Con la sua vivacità, entusiasmo e professionalità, è il testimonial perfetto per raccontare Tel Aviv e Gerusalemme, due città dove splende il sole tutto l'anno. Lo scorso anno 107,700 italiani hanno visitato il nostro Paese e ci auguriamo che, grazie anche alla nuova campagna, ancora più turisti sceglieranno la nostra destinazione nel 2018, a partire dalle città di Tel Aviv e Gerusalemme, dove troveranno, in un unico viaggio, cultura, tradizione, storia e divertimento, così da scoprire un'inaspettata Israele tutto l'anno, soprattutto nell'inverno" ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia.
"Israele è stata per me una eccezionale scoperta di sole, mare, divertimento e … sorrisi. Ho scoperto la magia della storia, il calore dell'accoglienza, l'armonia dei sapori e dei colori. E poi: un luogo fantastico per un amante della meteorologia: ogni 50 km cambia il clima, con però una costante straordinaria: oltre 250 giorni di sole all'anno a Tel Aviv! Davvero posso dire con allegria: "previsioni per oggi: sempre sole" ha dichiarato Paolo Corazzon, testimonial della nuova campagna del Ministero del Turismo di Israele in Italia.
Alla campagna è collegato il lavoro con i Tour Operator italiani che in collaborazione con l'Ente stanno approntando offerte speciali per un citiesbreak da realizzare in tutto il corso dell'anno.

(Goloso e curioso, 29 gennaio 2018)


"Shoah, Bartali mi ha salvato". In teatro il campione e l'eroe

Si chiama "Bartali, il campione e l'eroe" lo spettacolo portato in scena dall'attore Ubaldo Pantani a maggio farà tappa a Gerusalemme per la partenza della corsa rosa

di Adam Smulevich

 
Ubaldo Pantani, 46 anni, presenta lo spettacolo "Bartali, il campione e l'eroe"
FIRENZE - Il viaggio verso Gerusalemme è ufficialmente iniziato. A maggio sarà sul palco di un importante teatro israeliano, a poche ore dalla partenza del Giro d'Italia. Ma è da Firenze, e non poteva essere altrimenti, che questo percorso prende avvio. "Bartali, il campione e l'eroe", messo in scena dalla Modigliani produzioni, si propone di raccontare, in forma teatrale, i tanti volti di Gino. Le imprese sportive, certo. Ma anche la profonda umanità e il coraggio che lo portarono a mettersi in gioco nei mesi più bui del Novecento (il muro dedicato a Bartali a Verona). Nei panni di Ginettaccio c'è Ubaldo Pantani, attore e trasformista noto per varie interpretazioni popolari anche sul piccolo schermo, dalla Gialappa's Band al campione di incassi cinematografico "Poveri ma ricchi". La squadra degli autori, oltre a Pantani, è invece composta da Max Castellani, Alessandro Salutini e chi scrive. Regia di Pablo Solari.

 Emozione
  Non ha nascosto l'emozione Ubaldo, intervenendo presso l'auditorium del Consiglio regionale della Toscana su invito del suo presidente Eugenio Giani. Un primo saggio di quello che sarà lo spettacolo, con il racconto dell'infanzia del ciclista, gli incontri che ne hanno segnato la crescita e formazione, le prime vittorie su strada, le scelte di solidarietà e altruismo nell'Italia sotto controllo nazifascista. Sul palco idealmente sale anche Giorgio Goldenberg, l'ebreo fiumano nascosto assieme ai suoi cari in un appartamento di famiglia. Scomparso da pochi mesi, con la sua testimonianza inedita aveva permesso l'attribuzione del titolo di "Giusto tra le Nazioni" da parte dello Yad Vashem, il Memoriale israeliano della Shoah.

 Testimonianza
  "Mi sono salvato dalla Shoah grazie a Bartali" mi aveva svelato un giorno di dicembre di ormai qualche anno fa. Racconta Giorgio-Ubaldo: "Questa storia di Bartali che mi ha salvato la vita l'ho tenuta segreta per lungo tempo. Ma poi, un giorno, è arrivato il momento. Allo Yad Vashem, nel solenne muro dei Giusti, a pochi chilometri dalla Città Vecchia di Gerusalemme, il suo nome è oggi in testa a una colonna di italiani eroi. Ci sono stato, mi sono commosso. E a Gino ho detto una sola cosa, la più sincera: grazie". Il viaggio verso Gerusalemme, dove lo spettacolo sarà proposto in collaborazione con la Israel Cycling Academy, è iniziato. "Ed è un viaggio - ha detto Ubaldo - costellato di emozioni e aspettative".

(La Gazzetta dello Sport, 29 gennaio 2018)


Germania: allerta per l'antisemitismo

La spinta della destra populista e dell'estremismo islamico preoccupa la comunità ebraica in Germania.

di David Philippot

"Non passa una settimana senza che io o il mio ristorante siamo vittime di un atto malevolo, e non conosco nessuno nella mia comunità che non abbia dovuto subire insulti ..."
Yorai Feinserg, ristoratore 

BERLINO - Il corso sulle religioni monoteiste è andato in crisi in un collegio di Berlino. "Una sinagoga", ha risposto Ferdinando alla domanda del professore sul nome dei luoghi di culto. Una domanda seguita da un'altra, dei suoi compagni? "Ma, tu sei ebreo?" I suoi ex compagni di classe non vogliono soltanto allontanarsi da lui, vogliono fargli vivere un inferno: "Insulti, minacce di morte, quasi-linciaggio, simulacro d'esecuzione - enumera tristemente suo padre. - Siamo rimasti scioccati dal disinteresse, se non dal fastidio, che abbiamo suscitato quando abbiamo denunciato questi fatti. In questa scuola "inclusiva", con bambini di ogni ceto sociale ed etnia, abbiamo per di più dovuto subire i rimproveri dei genitori secondo i quali noi nuociamo alla buona reputazione della scuola, oppure sentire il direttore risponderci che non ha avuto il tempo di prendere dei provvedimenti perché era andato a un seminario sulla discriminazione ... " Questo direttore alla fine ammetterà di aver commesso un errore di valutazione, ma dopo tre mesi di molestie Ferdinand ha cambiato collegio.
   Yorai Feinberg, un ristoratore aggredito e minacciato verbalmente all'inizio di dicembre da un residente ( "Solo il denaro v'interessa, andate tutti nel forno!") si lamenta: "Non c'è una settimana senza che io o il mio ristorante non siamo vittime di un atto malevolo, di una telefonata minacciosa o di un graffito. E non conosco nessuno nella mia comunità che non abbia dovuto sopportare insulti o sputi ... " Il paese dell'Olocausto ufficialmente non registra focolai di atti antisemiti, circa 1500 all'anno, ma la sensazione è diversa.
   Al Centro ebraico a Monaco di Baviera, che lei dirige, Charlotte Knobloch descrive una "comunità la cui esistenza sul suolo tedesco è in pericolo perché minacciata su più fronti: estremisti musulmani, di destra o di sinistra." A 85 anni, questa sopravvissuta ai pogrom della Kristallnacht nota con stizza il "ritorno nei cortili delle scuole della parola 'ebreo' come un insulto, come da bambina". L'arrivo di rifugiati "provenienti da paesi che negano l'esistenza di Israele" e la svolta politica dell'AfD elettrizzano l'atmosfera.
   Secondo Wolfgang Benz, storico del Terzo Reich, "l'AFD è costituito da uno zoccolo duro di estrema destra, razzista e antisemita, che rappresenta il 5% degli elettori, a cui è venuto ad aggiungersi un 10% di popolazione insoddisfatta". "Siamo lontani dalla maggioranza e questo non è un ritorno di Hitler alle porte del potere", dice. Tuttavia, per la prima volta dalla guerra, dei responsabili di partito possono tenere discorsi antisemiti, non essere esclusi, e il loro partito entra nel Bundestag. "Il diritto di criticare le politiche di Israele esiste, ma ci accorgiamo che sta derivando molto rapidamente verso la negazione del diritto all'esistenza di Israele", ha detto Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania. Ne sono testimonianza le manifestazioni pro-palestinesi all'inizio di dicembre a Berlino, durante le quali le bandiere dello Stato ebraico sono state bruciate.
   "I tedeschi hanno fatto un enorme lavoro di memoria, a differenza di molti popoli colpevoli di massacri etnici o genocidio, - dice Wenzel Michalski -, ma costruire un monumento agli ebrei assassinati non deve esentare dalla lotta all'antisemitismo quotidiano". In risposta a ripetuti scandali, il Bundestag ha votato giovedì l'istituzione di un commissario governativo incaricato del coordinamento della lotta contro l'antisemitismo, una funzione che Angela Merkel vuole collocare sotto la diretta supervisione della Cancelleria. La proposta venuta dai banchi della destra di espellere ogni straniero colpevole di atti antisemiti ha riscosso meno unanimità.
   "Che dire dei russi o dei polacchi tedeschi nati in Germania? - si chiede Dervis Hlzarcl, capo di un'associazione che combatte i pregiudizi nelle scuole. - Puntare il dito su una comunità è già un errore di lotta. Tutti gli studi dimostrano che l'antisemitismo è equamente distribuito in tutte le classi sociali e in tutti i paesi d'Europa ". Sawsan Chebli, socialdemocratico di origine palestinese, auspica che tutte le persone che vivono in Germania visitino un campo di concentramento. Il direttore del Memoriale del campo di Sachsenhausen vede anche un interesse educativo "se il processo è volontario e la visita è preparata. Con gli studenti delle scuole superiori a volte perdiamo un terzo della visita per rispondere a domande di base come la differenza tra democrazia e dittatura."
   La lotta contro l'idra antisemita sta riportando alcune vittorie. Il Libro bianco del campo non è più insozzato da svastiche e il memoriale non è più attaccato dai neonazisti, come negli anni '90, a colpi di molotov o raffiche di armi automatiche. Il revisionismo e gli incitamenti all'odio stanno trovando maggiori difficoltà a farsi strada sui social network dopo l'adozione della legge anti-falsificazione all'inizio di gennaio. Il ristoratore Yorai Feinberg ha ricevuto più di 700 messaggi di sostegno da dicembre "da musulmani come da elettori di AfD". Ma settantatré anni dopo Auschwitz, le istituzioni ebraiche restano ancora sotto la protezione della polizia.

(Le Figaro, 29 gennaio 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Quando Israele trasferì 14mila ebrei etiopi in 36 ore

 
Era il 1991, e dopo 14 anni al potere il regime comunista etiope di Menghistu Hailè Mariam si avvicinava alla fine, a causa soprattutto delle vittorie militari dei ribelli eritrei e tigrini nel nord del paese. Questo fatto destava numerose preoccupazioni in tutto il mondo, ma in modo particolare in Israele.
   L'Etiopia infatti ospita un'importante e antica comunità di ebrei, i cosiddetti Falascià, noti anche come Beta Israel. Essi sono ritenuti gli eredi della tribù di Dan, ed erano circa alcune decine di migliaia di persone. Negli anni '80, quando l'Etiopia fu colpita da una dura carestia, molti di loro chiederà l'Aliyah, il diritto che lo stato di Israele garantisce a ogni ebreo del mondo di ottenere la cittadinanza israeliana e trasferirsi nel paese.
   Alcune migliaia di loro vennero portati in Israele non attraverso i canali migratori tradizionali, ma da due operazioni messe in campo dall'esercito israeliano: l'operazione Moses e l'operazione Joshua, che consistettero nel prelevare fisicamente gli ebrei etiopi dal Sudan, dove si erano trasferiti in fuga dall'Etiopia, e portarli nel paese.
   Il timore del tracollo delle istituzioni eritree e dei rischi che avrebbero corso i Beta Israel portò il governo israeliano a decidere di mettere in piedi una nuova operazione simile alle due compiute durante gli anni '80. Dal momento che il regime di Menghistu non aveva reso per nulla semplice agli ebrei etiopi emigrare in Israele, la crisi del suo governo diveniva una situazione favorevole per permettere a Israele di mettere in campo una nuova operazione, l'operazione Salomone.
   Il 24 maggio Israele mise in campo una clamorosa azione per portare nel proprio territorio ben 14.325 ebrei etiopi. In 36 ore, 34 aerei israeliani, tra cui velivoli dell'esercito e aerei commerciali della compagnia di bandiera El Al, compirono una serie di viaggi senza sosta per trasportare gli ebrei etiopi.
   Per rendere possibile il trasferimento, gli aerei civili furono svuotati di sedili e altro permettendo di portare un numero più alto di passeggeri. All'interno di ogni velivolo erano presenti medici per assistere i passeggeri in precarie condizioni di salute e assistere donne incinte. Durante i trasferimenti, infatti, nacquero almeno cinque bambini.
   Questo fatto portò a registrare il record di passeggeri all'interno di un volo civile: ben 1.122 a bordo di un Boeing 747 dell'El Al.
Oggi in Etiopia vivono ancora circa 4mila Beta Israel.

(TPInews, 29 gennaio 2018)


Abu Mazen è stato un fiasco totale

Un bilancio del leader palestinese subentrato ad Arafat e ora alla fine

Scrive il Jerusalem Posi (15/1)

La tirata di più di due ore del presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), domenica scorsa davanti a una assemblea di vecchi dirigenti dell'Olp a Ramallah, costituisce un'ulteriore sconfortante conferma che il capo dei palestinesi si trova più a suo agio nei panni del paranoico intransigente che in quelli di un leader con una visione per il futuro". Così il Jerusalem Post sul leader palestinese. "Il discorso, che potrebbe essere uno degli ultimi dell'ottuagenario presidente, non è che un malinconico attestato di oltre un decennio di leadership fallimentare che non ha portato i palestinesi da nessuna parte. Sebbene sia riuscito a porre un freno al caos e alla violenza che avevano quasi portato all'implosione della società palestinese dopo che ne aveva ereditato la leadership da Yasser Arafat nel 2004, da allora Abu Mazen ha concluso ben poco. L'Autorità Palestinese rimane un'entità corrotta in cui imperversano clientelismo e intolleranza alle critiche. Abu Mazen è un leader impopolare, privo di un mandato democratico sin dal gennaio 2009, anno in cui è teoricamente scaduto il suo mandato quadriennale. In Cisgiordania e Gaza non ci sono più state elezioni dal 2006, quando Hamas conquistò la maggioranza dei voti. Abu Mazen ha fallito praticamente ogni sfida. Non ha unificato il popolo palestinese, che rimane spaccato tra la striscia di Gaza controllata da Hamas e la Cisgiordania controllata da Fatah. Si è sottratto alla sua responsabilità di leader lasciando cadere nel 2008 l'irripetibile offerta di pace dell'allora primo ministro israeliano Ehud Olmert. Non ha approfittato del suo prolungato incarico da presidente per presentare al suo popolo una visione per il futuro che contemplasse un approccio alla pace più pragmatico e moderato mettendo l'accento su qualità della vita e stabilità economica anziché su rivendicazioni estremiste e illusorie. E ha lasciato che continuasse ad avere libero corso la più controproducente propaganda revanscista nelle scuole, nei mass-media, nelle moschee. Non ha nemmeno messo a punto uno straccio di piano per il giorno della sua uscita dalla scena politica, sebbene sia tanto anziano e in cattive condizioni di salute. Abu Mazen continua a fare ciò che gli riesce meglio: incolpare il mondo intero - tranne se stesso - per la condizione dei palestinesi: gli Stati Uniti, Israele, Hamas, persino gli europei colonialisti, incluso il leader inglese del XVII secolo Oliver Cromwell, tutti colpevoli d'aver rovinato la società palestinese spedendo ebrei in Palestina. E la creazione dello stato di Israele, nel vaniloquio di Abu Mazen, diventa un complotto istigato dagli europei per scaricare sui palestinesi il prezzo di una Shoah a cui gli stessi ebrei non si sarebbero voluti sottrarre".

(Il Foglio, 29 gennaio 2018)


Probabilmente d'ora in poi Abu Mazen sarà interessato soprattutto a salvare la sua pelle e i lasciti per i suoi eredi. M.C.


La Croazia acquisterà F-16 per 500 milioni di dollari

La commessa andrà a Israele secondo i media di Tel Aviv. L'unico concorrente potrebbe essere la svedese Saab che offre caccia nuovi ma a 900 milioni.

di Mauro Manzin

Un caccia F-16 Baraka in volo nei cieli israeliani
ZAGABRIA. La Croazia continua la sua "corsa" agli armamenti. Da Davos, dove si sono incontrati i capi di Stato e di governo assieme al gotha imprenditoriale del mondo, rimbalza la notizia, riportata dall'autorevole Jerusalem Post, che Zagabria è pronta ad acquistare i caccia F-16 dagli israeliani per un totale di 500 milioni di dollari. In effetti la Croazia aveva bisogno di rinnovare il suo "parco" aerei dell'aviazione militare che ad oggi annovera ancora gli ormai obsoleti Mig-21 ereditati dall'oramai defunta aviazione di quella che fu la Jugoslavia. Aerei vecchi e bisognosi di costante manutenzione, peraltro molto costosa. Ricordiamo che attualmente la sicurezza dello spazio aereo di Slovenia e Croazia è garantito in ambito Nato dall'aviazione militare italiana.
  La conferma dell'acquisto croato giunge, secondo le fonti israeliani, direttamente dagli uffici del primo ministro Benjamin Netanyahu che, proprio a Davos, si è incontrato con il premier croato Andrej Plenković. Il quale solo parzialmente dà ragione ai media di Israele. Egli infatti ha dichiarato che «ogni decisione verrà presa dopo che l'offerta sarà valutata con attenzione in modo da dare una risposta al Paese che possa essere esaustiva per i prossimi 30 anni».
  Secondo Tel Aviv l'offerta israeliana sarebbe di 400 milioni di dollari per gli f-16 Baraka inclusi i costi per l'addestramento dei piloti e un "pacchetto" di missili aria-aria e aria-terra che garantirebbero a Zagabria di avere un caccia polivalente com'è nelle sue intenzioni. Ricordiamo che alla fine dello scorso anno Il Comitato di difesa della Croazia aveva analizzato le quattro offerte giunte a Zagabria, gli F-16 dalla Grecia, dagli Stati Uniti e da Israele e gli Jas-39 Gripen dalla Svezia, valutando quella israeliana come la migliore. I risultati erano stati quindi secretati e approvati all'unanimità dalle autorità statali preposte e con il lasciapassare anche delle opposizioni. Tuttavia l'operazione ha subito uno stop perché il premier Plenković invece di convocare del Consiglio di difesa assieme al capo dello Stato Kolinda Grabar Kitarović ha dichiarato che «vogliamo ancora esaminare attentamente le offerte con il ministero competente».
  Le parole del premier hanno dato adito a speculazioni sul fatto che il governo croato fosse in bilico tra l'accettare l'offerta degli F-16 usati da Israele e quella dei nuovi caccia svedesi JAS 39C/D Gripen. Nel frattempo il ministero della Difesa croato fu nuovamente visitato da una delegazione di Stoccolma della Saab, industria che costruisce i caccia Gripen, la quale dimostrò l'intenzione di abbassare la propria offerta iniziale a 900 milioni di dollari per dei caccia nuovi. Ricordiamo che l'offerta degli Usa per i più recenti F-16 Viper è stata di 1,7 miliardi di dollari, c'era poi Israele con i suoi 400-500 milioni di dollari e quella della Grecia, che ha offerto sempre F-16 con un prezzo molto conveniente ma con i velivoli che sarebbero stati completamente da modernizzare. Secondo quanto scrive il Jerusalem Post il primo F-16 Barak potrebbe arrivare in Croazia nel 2020, mentre tutta la squadriglia sarebbe consegnata entro il 2022.
  Questo modello di F-16 ha servito per 30 anni nell'aviazione israeliana e affiancato dal più giovane modello Soufa è stato la spina dorsale della difesa aerea di Tel Aviv. Modello che, tra l'altro, è stato modificato e ha oggi un'avionica made in Israele, un nuovo sistema radar ed è armato con i missili Python 4.05 aria-aria ed i missili aria-terra Popeye Spice e può trasportare fino a 7,5 tonnellate di armamento, ossia 2,5 tonnellate in più rispetto all'originale americano. Plenković ha invitato ufficialmente in Croazia Netanyahu a giugno o luglio. Il contratto di acquisto degli F-16 con Tel Aviv dovrebbe essere firmato in quell'occasione.

(Il Piccolo, 29 gennaio 2018)


La Shoà fu tedesca, ma nessuno può cancellare le atrocità dei collaboratori

Il doloroso dibattito attorno alla legge, in corso d'approvazione a Varsavia, che vorrebbe criminalizzare chi ricorda le responsabilità polacche nello sterminio degli ebrei.

Scrive Josef Olmert: In un certo senso il governo polacco e la Camera bassa del parlamento di Varsavia hanno ragione: non vi furono campi di sterminio polacchi, vi furono solo campi di sterminio tedeschi in terra polacca. Se fosse solo una questione semantica, non ci sarebbe alcun problema. Nessuno può negare ciò che è ovvio: la Shoà è stata un progetto tedesco, pianificato e perpetrato dal partito nazista al potere, da tutti gli organismi ad esso subordinati, dalla burocrazia dello stato tedesco, dalla polizia tedesca, dall'esercito tedesco. Non ci sarebbe stata una Shoà se non fosse esistito lo stato tedesco noto come Terzo Reich tra il 1933 e il 1945: uno stato che andò molto al di là e al di sopra dell'antisemitismo tradizionale, noto e praticato da secoli in Europa, con lo scopo di portare l'antisemitismo alla sua estrema, logica conclusione: la distruzione totale dell'ebraismo e degli ebrei. Per tutta una serie di ragioni, la Polonia venne scelta come il territorio principale che sarebbe servito da mattatoio collettivo del popolo ebraico, ma non fu l'unico territorio utilizzato a tale scopo. Nonostante l'indignazione che suscita la nuova proposta di legge polacca che criminalizza qualsiasi menzione in pubblico delle complicità dei polacchi nello sterminio degli ebrei, la semplice verità è che la Shoà, con tutte le sue manifestazioni, fu un progetto tedesco. Non polacco, non ucraino, non lettone, lituano, ungherese, rumeno, croato, francese o di qualsiasi altra nazione che, in un modo o nell'altro, abbia partecipato o contribuito alla Shoà. L'elenco delle nazioni che hanno avuto "qualcosa" a che fare con la Shoà è lungo: va dalla Svezia, la cui presunta neutralità si tradusse in effetti in uno dei principali contributi allo sforzo bellico tedesco, fino alla stessa Gran Bretagna, che anche durante gli anni della guerra tenne chiuse le porte della Terra d'Israele, sotto il suo Mandato, impedendo così che almeno alcuni dei perseguitati potessero trovare rifugio nella storica patria del popolo ebraico, il luogo che avrebbe dovuto essere la via di fuga naturale per gli ebrei...

(israele.net, 29 gennaio 2018)


Mezzaluna fertile: il grande impero del nord che minaccia l'impero del sud

Come 2500 anni fa, alcuni Paesi stanno tentando di allargare la propria influenza. L'espansionismo dell'Iran preoccupa Israele.

di Ugo Volli

 
Per capire la politica bisogna guardare alla storia. Perché nel tempo cambiano gli stati, le religioni appaiono, si estendono o scompaiono e così i popoli, le tecnologie cambiano il valore delle terre e la loro accessibilità. Ma restano costanti i dati fondamentali della geografia, la distribuzione di fiumi e mari, deserti e catene montuose, territori fertili o aridi. E con esse la collocazione di popolazioni più o meno grandi, di città, di strade, porti, e vie di comunicazione. Di qui ancora la geopolitica, la forma di stati e imperi, i luoghi dei loro scontri militari e dei loro incontri commerciali e culturali.
   Per quanto riguarda il Medio Oriente, da seimila anni almeno, la geopolitica ha la forma di un boomerang, di una falce o, come si usa dire, di una mezzaluna. Questa parte dal delta del Tigri e dell'Eufrate (l'attuale Bassora), risale verso Nord-Ovest per tutto il territorio compreso fra i due fiumi e vicino ad essi comprendendo la parte dell'altopiano iranico che si affaccia sulla Mesopotamia, arrivando a includere le zone di confine fra le attuali Siria, Iran e Turchia nell'Anatolia centrale (che in antico è stato l'impero ittita e poi il regno d'Armenia), svolta a sudovest passando per Aleppo per le valli dell'Oronte e della Bekaa, arriva a Damasco e sul Golan, sfiora il Libano, ma entra in Israele attraverso il Lago di Tiberiade, si divide in due per la valle del Giordano e poi dell'Aravah da un lato e per la valle di Jezarael fino alla pianura costiera dall'altro, ed entrambi i lati sono dominati dalle alture di Giudea e Samaria, passa per la costa del Sinai e termina volgendosi di nuovo a Est, su per il delta del Nilo. I centri principali sono alle estremità, i grandi spazi irrigati della Mesopotamia e dell'Egitto. La parte centrale ha risorse importanti, ma spazi minori e meno acqua, dunque meno popolazione. In mezzo fra i due c'è l'immenso vuoto del deserto d'Arabia a Nordovest il Mediterraneo. All'interno dei due grandi poli vi son stati scontri: in Egitto fra Nord e Sud, dinastie e dinastie; in Mesopotamia fra i semitici babilonesi ed Assiri e gli indoeuropei persi= e medi. Ma soprattutto vi sono stati scontri fra essi, e nel tempo storico dei regni ebraici in Terra d'Israele i più aggressivi e pericolosi sono stati gli imperi mesopotamici, che hanno distrutto prima il regno del Nord e poi Gerusalemme.
   Oggi, per certi versi, la situazione è paragonabile a quella di venticinque secoli fa. C'è un impero settentrionale che vuole dominare la mezzaluna fertile e già è arrivato a controllare Libano e Siria; l'impero del Sud è debole e frammentato. Israele sta in mezzo, è un bersaglio evidente e cerca alleanze. I rapporti di forza sono però diversi e anche la conduzione dello stato è assai differente. Non c'è ragione di credere che ci attenda una catastrofe come quelle di allora. Ma il pericolo è serio e va compreso al di là di ogni opportunismo, anche da parte dell'Europa. Perché l'espansionismo degli imperi mediorientali, dopo la mezzaluna fertile, si rivolge anche all'Europa, come dimostrano Salamina e le Termopili, ma anche Lepanto e l'assedio di Vienna.
   Bisogna dire che l'impero del Nord, che oggi si chiama Iran (un nome che sostituì "Persia" per analogia con l'arianesimo nazista, negli anni Trenta del secolo scorso), non ha vinto ancora la sua partita all'interno del proprio polo. C'è chi gli contende il dominio della Mezzaluna fertile in conseguenza di una divisione antica, quella dei popoli arabi che sono semiti, contro gli indoeuropei degli altipiani iranici, e di una più recente ma assai remota anch'essa, risalendo a quattordici secoli (battaglia di Kerbala: anno 680), cioè il conflitto fra sciiti e sunniti. Alla guida di questa lotta che riguarda innanzitutto il controllo della Mesopotamia e poi del deserto arabico, reso prezioso dai pozzi di petrolio ma anche dalle città di Maometto, La Mecca e Medina, vi è l'Arabia Saudita. Per Israele in questo momento l'alleanza con la monarchia saudita è certamente necessaria, visto l'appoggio che l'Iran gode da parte della Russia, di buona parte dell'Europa, ben felice, per usare un'espressione di Lenin, di vendere la corda a chi vuole impiccarla e anche da buona parte dell'amministrazione americana, rimasta in sostanza obamiana nonostante gli scossoni di Trump. Questo accordo, che non comporta certo apprezzamento per il funzionamento e l'ideologia dello stato saudita, rientra perfettamente nella politica stabilita da Ben Gurion fin dalle origini dello stato di Israele: di fronte al tentativo di rinnovare il genocidio nazista contro Israele, è necessario trovare alleanze anche con coloro che ideologicamente sono nemici, ma condividono la stessa urgenza tattica.
   Non possiamo sapere oggi che sviluppi potrà avere questa inedita alleanza, perché non è possibile prevedere fino a che punto la Russia procederà nel suo appoggio all'Iran e ai suoi satelliti, o come si schiereranno gli Stati Uniti, che hanno continuato la politica obamiana del distacco dal Medio Oriente fino ad abbandonare ancora una volta gli alleati curdi, che pure sono stati determinanti nella sconfitta dell'Isis e costituiscono il solo ostacolo serio nell'avanzata persiana verso il Mediterraneo, lungo la Mezzaluna fertile. E non sappiamo nemmeno quanto a lungo questo accordo resterà diplomatico e mediatico o se invece prima o poi passerà sul piano militare. Il rischio di una guerra sul confine Nord di Israele è comunque grave. Israele ha i mezzi per prevalere ma ha anche moltissimo da perdere nello scoppio di una guerra aperta. Le decine di migliaia di razzi di Hezbollah e dell'Iran possono fare molti più danni di quelli usati negli scorsi anni da Hamas, molto meno numerosi e meno avanzati. Sicuramente lo stato ebraico non sceglierà la guerra se non di fronte a un pericolo grave e imminente. Ma il rischio c'è e bisogna purtroppo conoscerlo.

(Shalom, dicembre 2017)


Allarme israeliano: "L'Iran fa del Libano una polveriera"

di Alberto Stabile

BEIRUT - L'Iran sta trasformando il Libano in un barile di esplosivo. Mentre parte della comunità internazionale preferisce girarsi dall'altra parte, il regime di Teheran è intenzionato a impiantare in Libano una fabbrica per rifornire la milizia sciita Hezbollah di missili sempre più precisi. «Ormai non si tratta più di trasferimenti di armamenti, di finanziamenti o di consiglieri. Di fatto si tratta di una nuova filiale dell'Iran». Israele lancia un avvertimento ai cittadini e ai governanti libanesi, sotto forma di un articolo affidato ad alcuni siti in lingua araba, tra cui la "Voce del Libano" a firma del portavoce militare, il generale Ronen Manelis. Il quale riprende il tema della famosa intervista rilasciata dal Capo di Stato Maggiore, Gady Eisenkot al sito Elaph di proprietà saudita, sul ruolo dell'Iran nella regione. «Ovunque c'è instabilità - scrive Manelis - lì troviamo le impronte digitali dell'Iran e scopriamo il ruolo svolto da Hezbollah. Ha mandato migliaia di combattenti in Siria, è intervenuto nello Yemen con centinaia di consiglieri. Ora (il leader del Partito di Dio) Nasrallah si vanta anche di poter spedire i missili anticarro a Gaza», agli uomini di Hamas. E tutto questo continuando a controllare militarmente il Sud del Libano, dove «una casa su quattro» è un deposito d'armi o un covo segreto di miliziani. Ma «noi conosciamo questi accorgimenti e sappiamo come attaccarli». Conclusione, simile a quella tratta dai dirigenti sauditi: «I cittadini libanesi devono sapere che Iran e Hezbollah stanno giocando con la loro sicurezza. La battaglia dipende da due parametri: 1) se la comunità internazionale permetterà a Iran ed Hezbollah di sfruttare la semplicioneria dei politici libanesi permettendo loro di impiantare la fabbrica di armi come stanno cercando di fare; 2) se Hezbollah sconfiggerà i partiti sunniti alle prossime elezioni. Israele è pronto a fronteggiare qualsiasi scenario».

(la Repubblica, 29 gennaio 2018)


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Israele, nuove accuse al Libano: "Sta ospitando missili iraniani"

In Israele si torna a parlare di Libano e si riesuma lo spettro dei missili dell'Iran in territorio libanese. Questa volta con una particolarità non di poco conto: a lanciare il monito sui missili iraniani è stato il portavoce della Difesa israeliana ma su media in lingua araba di proprietà libanese, come riportano Haaretz e il Jerusalem Post. Un segnale di come ci sia la volontà da parte dell'esercito israeliano di estendere la propria cassa di risonanza anche ai cittadini dei Paesi di lingua araba. Una mossa che s'incardina in una nuova strategia di propaganda delle forze israeliane intrapresa in questi ultimi mesi. Un esempio si ebbe già con l'intervista a Elaph rilasciata dal generale Eizenkot. Ma basti pensare anche al generale Yoav Mordechai, coordinatore delle attività governative nei Territori occupati, che, come riportato da Haaretz, si rivolge spesso direttamente ai palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sia attraverso la sua pagina Facebook sia nelle interviste ai media in lingua araba.
   Ora è il turno del portavoce delle forze armate, il generale Ronen Manelis, che questa volta, punta sull'opinione pubblica libanese. L'accusa di Manelis non è nuova. Il governo di Netanyahu da tempo ritiene che il Libano ospiti, tramite Hezbollah, i lavori di costruzione di impianti per il lancio dei missili dell'artiglieria iraniana e le forze di difesa israeliane hanno sempre dichiarato di essere pronte a colpire il territorio libanese per distruggere tutti i siti in cui ritenevano che fossero iniziati i lavori per le basi di lancio.
   Una convinzione che si è poi tramutata in attacchi dell'aviazione israeliana ai convogli di Hezbollah che, a detta dei vertici militari di Tel Aviv, si riteneva che trasportassero materiali e armi iraniane nel Paese dei cedri e in Siria. I raid di Israele nelle basi vicino a Damasco e al confine con il Libano erano, infatti, tesi non tanto a colpire le forze siriane, ma anche ogni tipo di postazione che potesse essere considerata un avamposto iraniano nei pressi del confine israeliano. Attacchi che rappresentano, da un punto di vista giuridico, vere e proprie aggressioni allo Stato siriano, ma che nella logica confusionaria e violenta della guerra di Siria appaiono come misure quasi del tutto naturali. Israele non è formalmente in guerra, ma colpisce ogni cosa possa minacciare il suo territorio. Soprattutto ora che si è entrati nella fase più delicata dopo la fine della guerra allo Stato islamico in Siria, e cioè la spartizione delle aree d'influenza.
   In questa spartizione, Israele considera un unico pericolo: l'Iran. Per Netanyahu non ci sono dubbi, ogni avvicinamento delle forze iraniane al confine con Israele rappresenta un pericolo per la sicurezza del proprio territorio. E Siria e Libano sono ormai un unico fronte nella sfida alle strategia iraniana. La creazione delle de-escalation zones, in questo senso, aveva certificato l'insofferenza israeliana verso la nascita di aree sicure che, per Israele, si traducevano nella garanzia per l'Iran della possibilità di transitare regolarmente in Siria e collegarsi definitivamente al Libano. Netanyahu aveva ampiamente criticato questa decisione sia con Vladimir Putin che con Donald Trump, ma l'accordo ha retto. Tuttavia, la minaccia, secondo Israele, persiste.
   Ed è il Libano a essere l'obiettivo numero uno dell'intelligence militare israeliana. Nell'articolo, il portavoce delle Israel Defense Forces ha scritto: "Attraverso le azioni e l'inazione delle autorità libanesi, il Libano si sta trasformando in una grande fabbrica di missili, mentre gran parte della comunità internazionale guarda dall'altra parte. Non si tratta più di trasferimenti di armi, denaro o consiglieri militari. Di fatto, l'Iran ha aperto una nuova filiale, la filiale del Libano. L'Iran è qui". "Se dovessi scegliere la mia foto dell'anno sul fronte libanese" scrive Manelis, "tornerei al tour congiunto del comandante del fronte meridionale del Libano di Hezbollah e del suo amico, il comandante di una delle milizie sciite fedeli all'Iran, Qais al-Khazali". "L'immagine esprime, meglio di ogni altra cosa, il coinvolgimento iraniano in Libano e solleva il sipario sulla crescente realtà di un più stretto controllo iraniano sul Libano. È chiaro che il 'turismo terroristico' è l'espressione tangibile del pericolo per il futuro del Libano e l'intera regione".
   Parole molto dure che dimostrano come da parte israeliana l'attenzione verso Hezbollah e l'Iran sia sempre più crescente. Le continue e imponenti esercitazioni delle forze armate israeliane al confine con il Libano sono un esempio che, se la situazione non muta radicalmente, l'opzione militare diventerà purtroppo una triste realtà. Con il rischio di scatenare un incendio che potrebbe anche diventare indomabile, visto che il fronte di guerra potrebbe coinvolgere anche tutte le aree in cui l'Iran e il blocco arabo-occidentale si confrontano per le proprie aree d'influenza.

(Gli occhi della guerra, 28 gennaio 2018)


Arabia, Egitto e Giordania. Tutti con Trump su Israele

Il piano cancella la vecchia idea dei due Stati

di Fiamma Nirenstein

Solo 72 ore dopo il discorso di Pence alla Knesset che ha stabilito un primato nella solidarietà americana con Israele («la vostra battaglia è la nostra» e «quest'aprile festeggerete il giorno in cui rispondete alla domanda biblica: può un Paese nascere in un momento, una nazione sorgere in un giorno?») Davos ha segnato un passo ulteriore nella strada della proposta americana di considerare il processo di pace in Medio Oriente ex novo, abbandonando la strada inutile di Gerusalemme divisa fra Israele e palestinesi. È una rivoluzione politica e conoscitiva che sembra prendere velocità: mentre la stampa internazionale si esercitava nelle ore scorse sull'isolazionismo americano, di fatto l'amministrazione Trump muoveva passi innovativi nella politica mondiale.
   Quando il 6 dicembre Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d'Israele, ha stabilito un punto di partenza per ogni colloquio di pace e anche per la mentalità di tutti coloro che sono o si sentono implicati nel conflitto: dai contendenti stessi al mondo arabo nel suo insieme all'Europa. Già gli incontri fra Netanyahu, Merkel, Macron, vanno molto meglio di prima.
   Trump ha detto a Davos: abbiamo tolto Gerusalemme dal tavolo delle trattative. Come ha osato? Riconoscere una così semplice realtà come il fatto che Gerusalemme è la capitale d'Israele? E poi si è avventurato a parlare di finanziamenti americani sprecati, disprezzati col rifiuto di incontrare Pence, che finiscono nel terrorismo o nelle tasche dei corrotti? Anche questa, una realtà da tutti conosciuta. Su Davos, di nuovo la risposta dei palestinesi è stata furiosa, ma questo non ha smorzato i toni americani e il letargo europeo e arabo è scosso dalla nuova idea di Trump che ha messo sul tavolo senza mediazioni anche la questione Iran. Sembrava una bestemmia la revisione del trattato obamian-europeo sul nucleare del 2015, e ora non c'è Paese importante che non vada dicendo che il trattato va conservato ma che bisogna bloccare l'Iran nella corsa balistica, l'espansione nel Medio Oriente, i diritti umani. Sia Macron sia la Merkel pensano ormai che con l'Iran non ci siamo capiti e lo dicono a voce alta: può quindi darsi che i 120 giorni in cui devono scegliere di rivedere il trattato non trascorrano invano.
   Certamente il peggiore nemico del riconoscimento americano di Gerusalemme dopo i palestinesi è il custode della Moschee, re Abdullah. Con Abu Mazen aveva condannato Trump ali' esilio dalle trattative. Ora, dopo attenta riflessione, a Davos il re ha cambiato posizione, insistendo che l'unica potenza che può mediare è l'America. Adesso la sfida per Trump è costringere gli israeliani a dare qualcosa di veramente valido ad Abu Mazen in cambio del riconoscimento. Che cosa significa questo in pratica? Abdullah non lo rivela al pubblico, anche se ha appena incontrato Pence. Sembra ormai chiaro che gli americani possono contare sulla mediazione dei sauditi, degli egiziani, e di Abdullah stesso. Il piano esiste, i particolari cominciano a filtrare, sarebbe uno Stato del tutto autodeterminato e indipendente ma solo gradualmente entrerebbe in possesso di forze di sicurezza, la richiesta di rinuncia oltre il territorio del '67 potrebbe essere del 10 per cento, la capitale potrebbe essere Gerusalemme Est e dintorni; il diritto al ritorno sarebbe abbandonato. Dunque, Gerusalemme, lotta al terrorismo, sicurezza, aiuto economico e sullo sfondo una presa di posizione definitiva sull'Iran. Netanyahu ha parlato uno a uno con i i capi di Stato a Davos, proseguendo nella diplomazia dei nuovi mercati, della sicurezza e tecnologia. I tempi cambiano: per la prima volta nella storia il Consiglio Ue ha inserito in una mozione parlamentare la richiesta ali' Autorità Palestinese, sempre omaggiata, di fermare i pagamenti ai terroristi incarcerati, milioni di euro. È vero la richiesta sta dentro una dichiarazione critica della politica israeliana, ma Roma non fu fatta in un giorno.

(il Giornale, 28 gennaio 2018)


«Mia madre e mia zia, gemelle ebree salvate dalla pietà di un gerarca fascista»

Il racconto del figlio di una delle sorelle romane: «Vive grazie a Fernando Natoni»

di Francesca Nunberg

Chi salva una vita, dice il Talmud, salva il mondo intero. Lui di vite ne salvò due e magari anche lassù gli verrà riconosciuto il merito che ha già ottenuto quaggiù. Perché le salvate erano due gemelle diciottenni ebree e lui un fascista in camicia nera che nel '94 ha ricevuto dal rabbino Toaff la medaglia di Giusto tra le Nazioni. «Marina era mia zia e Mirella mia madre, Limentani di cognome - racconta Mario Pacifici, 67 anni, un'attività di import di abbigliamento dalla Turchia - L'uomo che le salvò era Ferdinando Natoni, un funzionario fascista che non ha mai rinnegato la propria fede ma che considerava una vergogna le leggi razziali. Dopo la guerra ogni anno mia madre andava a trovarlo, gli portava i cioccolatini o un mazzo di fiori, aveva stretto un'affettuosa amicizia con questa famiglia, soprattutto con le figlie di Natoni che erano poco più piccole di lei»,
  La storia, come centinaia di altre che ebbero un esito assai diverso, si svolge il 16 ottobre del '43, giorno della razzia nazista nel ghetto di Roma. «Le gemelle vivevano con i genitori e la sorella Giuliana di due anni più grande in via di Sant'Elena, una traversa di via Arenula - racconta Mario, che sul rastrellamento ha scritto il libro Daniel il matto, mentre sulle leggi razziali nel 2013 aveva pubblicato Una cosa da niente e altri racconti - Era un sabato, pioveva, si svegliarono sentendo rumore per strada, le macchine, i camion, le urla dei tedeschi. Mia nonna Anna ebbe un'idea: ordinò alle figlie di vestirsi di tutto punto e di salire all'ultimo piano, dove abitava un ingegnere che si era sempre dichiarato amico degli ebrei. Lei e il marito avrebbero provato a uscire dal portone. Sembrava una follia, ma ci riuscirono per uno scherzo felice del destino: i nazisti avevano le liste con i nomi e gli indirizzi degli ebrei, ma l'ingresso del loro palazzo da qualche giorno era stato spostato da via Arenula a via di Sant'Elena per l'accorpamento di un magazzino. Dunque uscirono e l'ufficiale tedesco perfino sbatté i tacchi per salutarli: non uscivano dal portone giusto, dunque non potevano essere ebrei. E mia nonna era una donna molto bella ... ».

 L'incubo dei nazisti
  Dunque, mentre centinaia di persone, anziani, donne, bambini, vengono caricate sui camion, le ragazze Limentani piene di angoscia bussano all'ultimo piano, l'ingegnere apre, ma dice di non poterle accogliere: ha già troppe persone nascoste in casa, non ne può prendere altre tre, al massimo una. «Le gemelle non si sarebbero mai separate - continua Mario - così spingono dentro solo Giuliana e restano sul pianerottolo. Terrorizzate si danno la mano per scendere e intanto sentono le voci dei nazisti che salgono. Mia madre ha sempre raccontato questo momento con tale pathos che a me sembra di averlo vissuto, il rumore di quegli stivali è diventato anche un mio ricordo. Quando andai alla presentazione del libro di Dina Wardi sulle vittime della Shoah di seconda generazione lei mi disse "Mario, tu sei una candela della memoria"».
  A quel punto accade l'incredibile: «Si apre una porta e questo Natoni di cui loro avevano il terrore perché si diceva che fosse una spia dell'Ovra, la polizia segreta fascista, le tira dentro casa. Dà loro uno straccio e una scopa e dice: fate finta di pulire e non parlate. I tedeschi entrano, chiedono conto di quelle due ragazze che sembrano "di troppo" rispetto alle tre figlie di Natoni e lui risponde: sono tutte mie. Anche se era strano, perché le sue erano a letto e le gemelle vestite di tutto punto. L'ufficiale delle SS andava su e giù per la stanza e mia madre (che è mancata due anni fa) parlava sempre di quest'uomo che camminava battendosi il frustino sugli stivali. Aveva gli occhi azzurri, glaciali, era bellissimo, diceva. Una scena cinematografica, se non fosse stata così tragica. I nazisti non credono a Natoni, uno di loro strattona Marina e la getta per terra, lui ripete che sono figlie sue, tira fuori gagliardetti, la tessera del partito, i documenti, tutto per dimostrare il fascista che era. Lo prendono e lo portano al comando, a salvarlo sarà poi il suo alto grado nella milizia. E così le gemelle riescono a scappare».

 Nascoste in convento
  Marina e Mirella si ricongiungono ai genitori che nel frattempo hanno trovato ospitalità presso un'amica, la signora De Pedrini. Anche lei rischiò moltissimo, aveva pure dei bambini piccoli. Passano così più di otto mesi, nascosti in un convento a via Marghera, col terrore di essere denunciati, il cibo alla borsa nera, infine l'arrivo degli americani che mia nonna definì il giorno più felice della sua vita».
  E Natoni? Dopo la guerra le gemelle sono andate a cercarlo. «Fu nostra madre a proporre per lui la nomina a Giusto tra le Nazioni - racconta David, 69 anni, fratello di Mario, che ora vive in Israele da dove gestisce il sito Torah.it - Lui era veramente fascista, aveva nel portafoglio la foto di Mussolini e ci ha creduto fino alla fine. Consegnandogli la medaglia Toaff gli disse: servirebbero due premi, uno per aver salvato le gemelle, uno per la sua coerenza».

(Il Messaggero, 28 gennaio 2018)



"Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati"

In quel tempo Gesù prese a dire: "Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai savi e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli fanciulli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto. Ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio; e nessuno conosce il Figlio, se non il Padre, e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo ed imparate da me, perché io sono mansueto ed umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero".
dal Vangelo di Matteo, cap. 11

 


Shoah, i lager polacchi cancellati per legge

Varsavia: carcere a chi associa il Paese ai campi di sterminio L'ira di Israele: la Storia non si cambia, inutile negare la complicità.

di Monica Perosino

Vietato usare l'espressione «campi di sterminio polacchi». Vietato «attribuire alla Polonia e ai suoi cittadini un qualsiasi tipo di responsabilità per i crimini commessi dai nazisti». Soprattutto: vietato «accusare la Polonia di complicità con i nazisti», o menzionare in pubblico «crimini commessi dai polacchi durante l'Olocausto».
   La camera bassa del Parlamento di Varsavia ha approvato un disegno di legge che prescrive fino a tre anni di carcere per chi assocerà l'aggettivo «polacchi» ai campi di sterminio nazisti, come Auschwitz, operanti nella Polonia occupata durante la Seconda guerra mondiale. In teoria, la norma sarebbe dovuta essere un «messaggio di sensibilizzazione» ai media e ai politici internazionali che «troppo spesso parlano di "campi polacchi"» senza specificare che la Polonia era «occupata dai nazisti». Un tentativo di censurare chi suggerisce che, almeno in parte, la Polonia, come diversi altri Paesi europei, sia responsabile della morte di milioni di ebrei. Peccato che la legge tenti maldestramente di cancellare una tragica evidenza, quella dei collaborazionisti, innanzitutto. In un botta e risposta su Twitter il leader del partito israeliano Yesh Atid, risponde all'ambasciata polacca con un messaggio che non lascia ombre: «Questa legge cerca di negare la complicità polacca nell'Olocausto. L'Olocausto è stato concepito in Germania, ma centinaia di migliaia di ebrei sono stati sterminati senza mai aver incontrato un soldato tedesco».
   Perché la legge entri in vigore serve ancora l'approvazione del Senato e del presidente. Tre gli anni di carcere previsti. La norma renderà anche illegale negare l'omicidio di circa 100.000 polacchi da parte delle Unità nell'esercito insurrezionale ucraino (Upa), mossa che potrebbe aumentare le tensioni con la vicina Ucraina.
   Il partito di destra al governo Diritto e Giustizia (PiS) ha spinto la legge invocando la sofferenza dei polacchi sotto l'occupazione nazista - «c'era la pena di morte per chi aiutava gli ebrei» - e per, sostengono i critici, strizzare l'occhio all'estrema destra nazionalista del Paese.
   Immediata la reazione di Israele: «La legge non ha senso. La Storia non può essere cambiata, non si può negare la Shoah». Così il premier Benyamin Netanyahu ha bollato la norma in discussione in Polonia. «Ho dato ordine all'ambasciata israeliana in Polonia di incontrarsi con il primo ministro a cui esprimere - ha aggiunto il premier - la mia ferma opposizione alla legge». Ha aggiunto il portavoce del ministero degli Esteri: «Chiediamo che il governo polacco la corregga prima che si vada avanti. Nessuna legge può cambiare la verità storica». Mentre il leader del partito laburista Avi Gabbay ha commentato: «Questa norma incoraggerà chi nega l'Olocausto. Ignorare la Storia non la cambia».

(La Stampa, 28 gennaio 2018)


Prete contro Papa. "Non paragoniamo i migranti agli ebrei deportati nei lager"

Parroco bolognese rilancia su Facebook un commento critico con la posizione condivisa da Bergoglio. Che non ha fondamento.

di Gianluca Veneziani

Chi si avventura in paragoni simili, come quelli tra la Shoah e la questione migranti, forse cerca visibilità ma è accecato da un abbaglio clamoroso. Non c'è bisogno di essere storici per capire che un conto fu la deportazione - coatta, come tutte le deportazioni - degli ebrei, e un conto è invece la scelta - per quanto indotta dalle situazioni economiche, politiche o ambientali - dei migranti di imbarcarsi. Così come un conto sono i campi di concentramento, centri della morte dove unico scopo era l'eliminazione fisica dei prigionieri, e ben altro sono i campi profughi, dove gli immigrati (ben sfamati e vestiti) sono radunati in attesa di essere identificati, rimpatriati oppure accolti nel nostro Paese e perfino beneficati dello status di rifugiati. Alla pari, una questione è parlare dell'Ebreo come Vittima, martire per eccellenza del Novecento, e molto più scivoloso è parlare del Migrante come Agnello sacrificale del Terzo millennio, visto che accanto al Buon Profugo troppo spesso le cronache ci raccontano l'esistenza di molestatori, delinquenti comuni o aspiranti terroristi.
   Questo preambolo è necessario per difendere la posizione coraggiosa di don Milko Ghelli, parroco bolognese di San Girolamo dell'Arcoveggio, che l'altro giorno ha condiviso sul suo profilo Facebook un post di un altro utente, in cui si contestava l'analogia tra migranti e vittime dell'Olocausto sostenuta, tra gli altri, da Papa Francesco. «A me 'sto fatto che papa Bergoglio e ora anche la Bonino paragonino i presunti profughi agli ebrei nei lager mi fa girare parecchio i maroni», questo il testo pubblicato dal prete, con tanto di foto comparativa tra i corpi scheletrici di uomini in un lager e alcuni immigrati seduti in una mensa.
   In seconda istanza, quel preambolo serve a smontare la tesi portata avanti dall'Anpi, in particolare da Amelia Narciso, già presidente della sezione di Sanremo, che ieri ha ribadito il parallelo tra martiri della Shoah e (presunti) profughi, affermando che in entrambi i casi c'è stata una campagna di odio tale da ritenerli individui «brutti, cattivi e pericolosi», «che ci rubano la casa e il lavoro» e sono pertanto condannati a finire nei lager. Tesi inconsistente perché, da un lato nessuno pensa davvero che i migranti ci rubino il lavoro (al contrario, vengono qui a cercare un lavoro che non c'è), e dall'altro nessuno fa di tutta l' erba un fascio: anzi, proprio per questo, a differenza dell'Anpi, distinguiamo tra veri profughi e furbi che scappano per altre ragioni.
   Ad ogni modo, queste due voci contrapposte ci aiutano a fare un paio di riflessioni. In primo luogo, la voce critica del parroco conferma la debolezza del vangelo immigrazionista di Francesco, messo in discussione proprio dalla base. Sono infatti i preti, coloro che hanno maggiore percezione del territorio e più vivono a contatto con la gente e le loro problematiche, ad avere ben presente l'ipocrisia del Mito dell'integrazione e i drammi che esso comporta. E questo perché, a differenza di chi abita le stanze vaticane, le tonache comuni combinano l'idealismo del messaggio cristiano con il senso pratico e la virtù della prudenza.
   Allo stesso tempo, le parole schiette condivise da don Milko e quelle sgangherate comunicate dall'Anpi ci convincono ancora una volta che, se vogliamo davvero salvaguardare il ricordo della Shoah, dobbiamo ribadire con forza la sua unicità, il suo essere tragedia imparagonabile a qualsiasi altra sciagura umana precedente o successiva, cosicché qualsiasi tentativo di analogia con l'attualità rischia di risultare stonato, se non addirittura privo di senso. Parlare di Olocausto 2.0 per i migranti, insomma, significa offendere la memoria delle vere vittime della Shoah. Perché ricordare vuol dire anche questo: non fare confusione.

(Libero, 28 gennaio 2018)


Israele punta sul meteo nello spot della campagna pubblicitaria 2018

MILANO - La campagna pubblicitaria dell'Ufficio del Turismo Israeliano per il 2018, punta sul meteo e lo fa con uno dei volti noti della Tv in fatto di previsioni atmosferiche: Paolo Corazzon con il claim "Previsioni per oggi: sempre sole!". Il mood di Two sunny cities, one break che passerà sui principali canali televisivi italiani e sul web, riprende la campagna iniziata lo scorso anno che utilizzava il drive del tempo mite e stabile tutto l'anno per visitare Gerusalemme e Tel Aviv.
Corazzon affiancherà la modella israeliana Shir Elmaliach, che si muoverà tra le strade della dinamica Tel Aviv, con le sue spiagge, la vivace vita notturna, l'offerta culinaria glocal e il design innovativo, e nei luoghi cult di Gerusalemme dove tradizione, storia ed archeologia si fondono. Due città diverse e allo stesso tempo vicine, situate 45 minuti di distanza l'una dall'altra e raggiungibili dall'Italia in meno di 4 ore con oltre 70 collegamenti diretti

(PrimaPress, 27 gennaio 2018)


"Vietato dire che i lager sono polacchi". Netanyahu si ribella alla nuova legge:

"La storia non può essere cambiata". Il parlamento polacco ha approvato un disegno di legge che prescrive fino a tre anni di carcere per chi diffama la nazione associando l'aggettivo «polacchi» ai campi di sterminio nazisti o attribuisca alla Polonia i crimini commessi dalla Germania nazista.

La camera bassa del parlamento polacco ha approvato un disegno di legge che prescrive fino a tre anni di carcere per chi assocerà l'aggettivo «polacchi» ai campi di sterminio nazisti come Auschwitz, operanti nella Polonia occupata durante la seconda guerra mondiale, e per chi attribuirà pubblicamente alla Polonia i crimini commessi dalla Germania nazista o affermerà la complicità dello Stato polacco nei crimini di guerra o in altri crimini contro l'umanità. Pena che potrà essere inflitta anche su coloro che «deliberatamente ridurranno la responsabilità dei veri colpevoli di questi crimini».

 Diffamazione di Stato
  Ora, perché la legge entri in vigore, serve ancora l'approvazione del Senato e del presidente della Repubblica.
Secondo i fautori del disegno di legge, associare Auschwitz alla Polonia potrebbe indurre alcuni, specialmente le giovani generazioni, a concludere che i polacchi abbiano avuto un ruolo nella gestione dei lager. I critici sostengono invece che far rispettare una tale legge sarebbe impossibile al di fuori della Polonia mentre all'interno del Paese avrebbe l'effetto di congelare di dibattito storico e limitare la libertà di espressione.

 La risposta di Netanyahu
  «La legge non ha senso. Mi oppongo fermamente: la storia non può essere cambiata ed è proibito negare la Shoah», ha invece commentato il premier israeliano Benjamin Netanyahu. «Ho dato ordine all'ambasciata israeliana in Polonia di incontrarsi con il primo ministro a cui esprimere la mia ferma opposizione alla legge. Anche il ministero degli affari esteri israeliano a Gerusalemme ha condannato la legge. «Israele», ha detto il portavoce del ministero Emmanuel Nahshon, si «oppone alla legge» e chiede che il governo polacco «la corregga con altra legislatura prima che si vada avanti».
«Nessuna legge - ha aggiunto - può cambiare la verità storica e non c'è spazio per istruire le famiglie dei sopravvissuti all'Olocausto che ogni giorno vivono la memoria dei loro cari periti in quell'inferno».

(La Stampa, 27 gennaio 2018)


Palestinesi bruciano pupazzi di Trump e Pence

Bruciati pupazzi di Trump e del suo vice Mike Pence in un campo rifugiati in Cisgiordania, a Betlemme. I due fantocci sono impiccati e poi dati alle fiamme in segno di protesta verso la politica estera americana nel vicino Oriente.

(LaPresse, 27 gennaio 2018)


Giornata della Memoria: assente il concetto governativo di lealtà verso la Shoah

Torni il "Giorno della Memoria della Shoah"

di Paola Farina

Tutto quello che mi hanno insegnato sui campi di concentramento, su quel signore che mia nonna incontrava al Caffè la Triestina di Vicenza fino ai primissimi anni sessanta e nonostante il tempo passato, lo ricordo ancora, su quei tre signori jugoslavi nascosti temporaneamente nel fienile del nonno, sull'oro venduto per aiutare la Delasem, sui pochi averi di Samuele nascosti dentro una tomba del Cimitero Ebraico, su parenti, amici, conoscenti morti nei campi di sterminio o su chi pelle e ossa è riuscito a tornare, tutto ciò ha perso il suo smisurato valore.
   Adesso sono arrivati quelli del "27 Gennaio di ogni anno", quelli che ci adorano per un giorno e ci detestano tutto l'anno, spesso persone con il pelo sullo stomaco che devono parlarne a tutti i costi, non per far valere il ricordo della Shoah, ma per far valere la loro presenza. Ci hanno portato via tutto: la bandiera della brigata ebraica, i dolori, le emozioni e la storia, che vogliono cambiare. Nelle scuole per parlare di memoria io non ci vado più da almeno dieci anni, perché ci si trova di fronte a disinformazione, disuguaglianza e al pro palestinese che con rabbia ti affonda un coltello nel cuore e ti dice "Ma perché gli ebrei, che sono state vittime, ora fanno la stessa cosa con i palestinesi?", tra gli applausi degli imbecilli e il silenzio assenso degli insegnanti.
   Sono così ignoranti che probabilmente non sanno che il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin all'Husseini (zio di quel puro uomo chiamato Arafat, capo spirituale dei musulmani palestinesi) e il leader nazista Adolf Hitler erano legati da una pericolosa amicizia e per farla breve, tralasciando un pezzo di triste storia, nel 1943 il caro Amin all'Husseini, organizzò personalmente un esercito nazista composto di centomila soldati musulmani bosniaci per procedere allo sterminio della popolazione serba cristiana, ebraica e zingara.
   La storia va studiata e non improvvisata, e in questo specifico non si possono sovrapporre periodi ed epoche, contaminare fatti e dolori perenni, a misura di un partito o dell'altro.
   Giornata della memoria, diciamo così, ma è il Giorno della Memoria. Penso alla manifestazione a Milano del 9 dicembre 2017, in Piazza Cavour pro Palestina e all'improvviso parte un coro di partecipanti: Ya Yahid, Jaish Muhammad saya, ovvero "udite Ebrei, l'armata di Maometto ritornerà"
Khaybar, khaybar ya yahud
. Ben otto volte viene pronunciando l'istigamento allo sterminio degli ebrei, tra l'ignoranza e l'indifferenza delle Autorità e senza nessuna pubblica scusa.
   Qualche giorno prima della Giorno della Memoria (la coincidenza mi rende triste) Liliana Segrè, grande donna, viene nominata senatrice a vita. Non metto in discussione il merito della sua nomina, ma il periodo di attribuzione, perché non è stato fatto a giugno, ad esempio? Manca il concetto governativo di lealtà verso la Shoah, la Shoah troppo spesso perde il valore storico ed umano della Memoria, salvo a rivalutarlo quando fa comodo, ovvero intorno al 27 gennaio.
   La morte di più di sei milioni di ebrei diventa talvolta imbuto di mere opportunità politiche, spesso dimenticando che se l'Europa ha smesso da tempo di vergognarsi dei Campi di Sterminio, l'Italia non è da meno. Nell'eccelsa Torino mercoledì 24 gennaio si è tenuta una conferenza, presso il Main Hall dell'università, "giornata della memoria 2018 antifascista e antisionista". Riporto esattamente quanto si legge dai manifesti appiccicati in vari muri della capitale Piemontese "documenti e analisi sulle responsabilità dei sionisti allo sterminio degli ebrei durante la II guerra mondiale e sul suo utilizzo postumo a fini politici".
   E' un tentativo autorizzato di banalizzare la Shoà. Politici e cittadini che permettono simili manifestazioni non possono fregiarsi dell'onore di partecipare al Giorno della Memoria e non so con quale coraggio possano inchinarsi di fronte alle vittime o di chi le rappresenta. A Liliana Segrè e Sami Modiano classe 1930, a Piero Terracina classe 1928, sopravvissuti ai campi di sterminio e tuttora viventi, agli altri che non conosco, vi voglio bene e come si dice in Israele campate almeno fino a 120 anni, perché il giorno in cui voi non ci sarete più, non ci sarà più memoria. A Vicenza mai nulla è stato fatto per restituire forma, luce e sentimento alla Memoria, né con Hüllweck, né con Variati!
   Voglio concludere con una frase del libro, edito nel 2014 di Elena Loewenthal: "Contro il Giorno della Memoria" che si chiama GdM, come la sigla di un prodotto di consumo:
    "Io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica: è soltanto la avvilente consapevolezza di una distanza minima, ma insormontabile. Io che sono nata poco dopo che tutto era finito, che sono vissuta circondata da quel passato, da quei ricordi - per lo più pestati sotto il tallone del silenzio, non per rimuovere quel passato, ma perché per tornare a vivere era fondamentale non lasciarlo parlare, almeno per un po' di tempo - so per certo un'unica cosa, di quella memoria: che non potrò mai nemmeno lontanamente sentire quello che ha sentito chi è stato dentro quel tempo, quelle cose. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile" [p. 90].
   L'unica soluzione, a mio avviso, a questo pensiero è che il Giorno della Memoria, torni a essere il "Giorno della Memoria della Shoah", con tutti i segreti e gli atroci crimini ancora da svelare, con la commemorazione di quelli già accaduti e provati, con il ricordo delle vittime e soprattutto con autenticità e anima che nel corso degli anni sono state smarrite nei meandri delle partecipazioni politiche-partitiche e personali. Altrimenti è meglio fare come faccio io: Io non ho bisogno del 27 gennaio per ricordare.

(VicenzaPIù, 27 gennaio 2018)


La memoria a singhiozzo della sinistra

Olocausto e Israele

di Alessandro Sallusti

Oggi è il Giorno della memoria dello sterminio nazista del popolo ebreo. Televisioni e giornali ci inondano di ricostruzioni, testimonianze e commenti affinché non abbia più a ripetersi nessun olocausto e l'antisemitismo sia debellato. Tutto ciò è sicuramente un bene, ma ai grandi giornali della sinistra, così come al Tg3, in prima linea nelle celebrazioni, mi permetto di ricordare che è giusto gettare lo sguardo all'indietro nella storia tragica dell'Europa ma bene sarebbe tenere la barra diritta, non solo nel Giorno della memoria, sul presente. Per carità, gli episodi di antisemitismo che ancora accadono qua e là per l'Italia e per l'Europa vengono puntualmente riportati con il giusto risalto e sdegno. Ma non penso che siano piccoli gruppi di cretini che imbrattano tombe e simboli a mettere di nuovo a rischio l'esistenza del popolo ebraico. No, per contenere e debellare questi micro fenomeni bastano polizia e codice penale.
   Difese del genere - e vengo al punto - sono però inefficaci e inutilizzabili contro un pericolo assai più grave. Che si verifica quando gli stessi giornalisti, intellettuali e politici che tuonano contro una scritta antisemita non si schierano poi senza se e senza ma contro chi oggi mette in dubbio il diritto dello stato di Israele a esistere e a difendere con la forza i propri confini. Non riconoscere che i terroristi di Hamas, che colpiscono quasi quotidianamente gli ebrei israeliani, siano il braccio armato del governo palestinese; essere neutrali ( quando non simpatizzanti) nei confronti delle Intifada; negare - come ha fatto l'Onu - che Gerusalemme sia la capitale di Israele o che - come deliberato dall'Unesco - ci sia un legame tra la Spianata delle moschee e l' ebraismo, ecco a mio avviso tutto ciò costituisce un neo antisemitismo che mal si concilia con la Giornata della memoria, molto pericoloso in quanto non si presenta in piazza con la mano tesa ma in doppiopetto nei più importanti palazzi del potere mondiale.
   Il paradosso è che i nemici, o i non amici, di Israele li trovi non a destra ma a stragrande maggioranza nelle fila della sinistra internazionale, sia politica che culturale. La stessa che oggi si veste a lutto e indica in quattro ultrà della Lazio e di CasaPound un pericolo planetario. Manovra diversiva, ma noi abbiamo memoria.

(il Giornale, 27 gennaio 2018)


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Gli italiani e la Shoah: oggi tutti pro- Israele domani tutti contro-Israele

Bontà intermittente

di Giovanni Sallusti

Vi chiedo scusa, cari amici ebrei, per quello che faranno oggi. Il che ovviamente significa: vi chiedo scusa per come lo faranno. Che la memoria dell'indicibile, della follia genocida pianificata chiamata Shoah, sia dovere di ogni uomo libero è scritto nelle ferite del Novecento. Ricordate che questo è stato, gridava Primo Levi. Ma non credo intendesse così: una volta all'anno, una data segnata sul calendario, un tormentone preimpostato su Twitter, un grande rito sociale da non mancare, l'aperitivo della coscienza collettiva. E poi, da domani, dopo aver fatto atto di contrizione per gli ebrei sterminati dai nazisti settant'anni fa, ciascuno può riprendere a dare libero sfogo ai propri istinti antisemiti, ad infierire sugli ebrei in carne, ossa e loro luogo d'elezione, lo Stato d'Israele.
   Perché è questo il punto: oggi sarà tutto un sacrosanto climax filoebraico, speciali televisivi, maratone, perfino il documentario Tutto davanti a questi occhi di Walter Veltroni, che verrà trasmesso unitariamente da Sky, Rai, Mediaset e La 7, e l'intenzione simbolica è lodevole, il panorama dei cineasti internazionali forse offriva qualcosa di meglio. Certo, vedremo sicuramente in onda anche Schindler's List, e magari l'ondata di emozione solidale con le sofferenze del popolo ebraico può perfino trascinarsi fino a lunedì. La classe politica, dal Quirinale all'ultimo peone locale, sgomiterà per prendersi i titoli delle agenzie, rimpallandosi le stesse citazioni dei film non visti e dei libri non letti, Diario di Anna Frank in testa. I conduttori assentiranno gravemente alle affermazioni coppia&incollate dei loro ospiti, i giornaloni metteranno in prima pagina la fotografia del cancello di Auschwitz. E il giorno dopo? Sarà uguale al giorno prima: tutta questa bruttissima bella gente, i domatori del gran circo politico, editoriale, mediatico del Belpaese, tornerà a concentrarsi sul proprio nemico, l'ebreo concreto, qui e ora. E allora Federica Mogherini tornerà ad omaggiare velata il regime iraniano, che fa dell'antisemitismo e della distruzione d'Israele una delle proprie ragioni d'esistenza. Il governo ribadirà l'accordo nucleare con gli ayatollah. I brav'uomini di sinistra, con ancora la lacrimuccia per il documentario di Veltroni, scenderanno in piazza sbraitando «Palestina liberal» e inneggiando agli eredi contemporanei di Hitler, i nazislamisti di Hamas. L'Unesco ribadirà che il Muro del Pianto non c'entra nulla con la cultura e con la religione ebraiche, e l'Italia si rintanerà ancora nel silenzio codardo. I nostri atenei, come accaduto pochi giorni fa nel campus universitario Einaudi di Torino, continueranno a ospitare convegni dal titolo "Israele e lo sfruttamento dell'Olocausto", dove si pratica l'atto di antisemitismo più viscido, mettere gli ebrei morti contro gli ebrei vivi. Il nuovo esodo dall'Europa continuerà, visto che più della metà del milione e 400mila ebrei del Vecchio Continente ha subito un'aggressione verbale o fisica. Gli stessi opinionisti che oggi si addolorano in prima pagina per i crimini di allora inviteranno a non generalizzare, a capire le ragioni dell'altro, anche quando invoca un nuovo sterminio in nome di Allah, perché il nazismo contemporaneo ha un nome tranquillizzante che si porta bene nei talk show, multiculturalismo. Vi chiedo scusa di queste e delle tante altre ipocrisie assortite che oggi sequestrano la vostra storia e il vostro dolore, cari amici ebrei, perché la memoria dura più di ventiquattr'ore, e l'antisemitismo pure.

(Libero, 27 gennaio 2018)


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Come piangere gli ebrei di ieri e odiare quelli di oggi

di Niram Ferretti

Il Giorno della Memoria, di cui domani si celebrerà la ricorrenza è ormai da tempo un rito in cui, con somma e paludata ipocrisia si ricorda la sgomentevole realtà della Shoah, e si dimentica quella inquietante del presente. La retorica sui fatti che dovrebbero servire da perenne ammonimento stride di fronte alla realtà di oggi, in cui l'antisemitismo non osa più come una volta nascondere il proprio volto. Con il trascorrere del tempo e l'allontanamento progressivo nel passato del genocidio degli ebrei, si allentano i freni che consentono di sdoganare pulsioni e intolleranze di cui ci si vergogna sempre meno. Mentre si commemorano i morti uccisi industrialmente dal nazismo, l'occidente riscopre il proprio antisemitismo.
   Nel suo opus magnum, A lethal Obsession, Anti-Semitism from Antiquity to the Global Jihad, Robert S, Wistrich, uno dei più grandi studiosi del fenomeno scriveva:
   "Dal 2005, c'è stata una rilevante crescita in incidenti antisemiti in giro per il mondo, specialmente in Australia, in Sud Africa, Canada, Argentina e in Gran Bretagna…La specificità etnica dei perpetratori è particolarmente interessante. In Gran Bretagna tra coloro che vennero identificati è stato stimato che nel 2007 il 53 per cento dei partecipanti ad azioni antisemite erano bianchi, il 27 per cento asiatici e arabi e il 13 per cento neri… Il trend è continuato nel 2008 con un totale di 541 incidenti di natura antisemita, una diminuzione del 4 per cento rispetto all'anno precedente. Nel gennaio del 2009, a seguito dell'offensiva militare di Israele a Gaza, tuttavia, ci furono in Gran Bretagna non meno di 250 incidenti a sfondo antisemita in quattro settimane. Fu il maggior numero mai registrato in un unico mese. Similmente, in Francia, Danimarca e Olanda, il numero di attacchi contro gli ebrei e di incendi dolosi ai danni di congregazioni ebraiche stavano aumentando".
   In un intervento a Bruxelles dell'anno scorso, il rabbino Pinchas Goldschmidt, presidente della Conferenza dei rabbini europei, ricordò come il 22 per cento degli ebrei intervistati in nove paesi europei avesse ammesso di evitare avvenimenti ebraici per motivi di sicurezza personale, mentre il 40 per cento degli intervistati, 1,200 ebrei francesi, aveva dichiarato di non indossare più in pubblico la kippah nel timore di attacchi antisemiti.
   Israele è oggi più che mai una delle ragioni e dei pretesti di questo rigurgito. La progressiva demonizzazione dello Stato ebraico serve per giustificare il riaffiorare di una patologia mai scomparsa con la giustificazione che non si tratterebbe di odio nei confronti degli ebrei, ma di azioni motivate dall'avversione nei confronti di Israele. Così, recentemente, l'Alta Corte di Dusseldorf a seguito dell'incendio della Bergisch Synagogue di Wuppertal da parte di due giovani arabi, avvenuto nel luglio del 2014 durante l'ultimo conflitto tra arabi e israeliani a Gaza, ha stabilito che il fatto nulla ha a che vedere con l'antisemitismo.
   Con una logica che non sarebbe dispiaciuta a Lewis Carroll, i giudici tedeschi hanno stabilito che una sinagoga, luogo di culto ebraico per eccellenza, non ha a che fare con gli ebrei in quanto ebrei ma con gli ebrei in quanto israeliani, e dunque una sinagoga che viene bruciata viene bruciata perché rappresenta Israele e non gli ebrei.
   Si possono dunque attaccare ebrei e luoghi associati all'ebraismo ogni volta che Israele interviene in un conflitto. Non si tratterebbe infatti di antisemitismo ma di una motivata reazione alla politica israeliana. Diventa difficile, se non impossibile, un mero esercizio da salotto, quello di separare nettamente l'odio per Israele da quello per gli ebrei, districare l'antisemitismo mai venuto meno anche dopo le lacrime istituzionalizzate per la Shoah, dall'antisionismo virulento che porta nelle piazze migliaia di persone solo quando è Israele a fare una guerra (con l'eccezione degli Stati Uniti, ca va sans dire). Lo abbiamo visto durante l'ultimo conflitto a Gaza nel luglio-agosto del 2014, il quale, nelle piazze europee ha dato vita al "Più grande sfogo di antisemitismo dalla fine del nazismo", come ha scritto Joshua Muravchik in Making David into Goliath, How the World Turned Against Israel. Assai difficile dargli torto, basta ricordare, come fa lo studioso americano nel suo libro, le piazze gremite e incitanti all'odio antiisraeliano o gli osceni slogan di incitamento all'uccisione degli ebrei, paralleli a quelli favorevoli ad Hamas. Qui da noi, a Milano, il 9 dicembre, durante una manifestazione propalestinese sono stati scanditi in arabo slogan incitanti allo sterminio degli ebrei utilizzati da gruppi jihadisti.
   La schizofrenia occidentale è quella che, da una parte monumentalizza la Shoah presentando dovuti omaggi alle vittime del genocidio nazista e manifestando il proprio cordoglio, e dall'altra recepisce in buona parte la narrativa demonizzante su Israele di vecchia fattura arabo-sovietica, contribuendo a puntellarla con iniziative di boicottaggio e di condanna, come quelle dell'ONU, istituzione ormai da tempo diventata una caricatura di se stessa.
   Se non si difende il diritto di esistere di Israele e non ci si impegna per gli ebrei di oggi serve assai poco accendere candele, e commemorare l'immane catastrofe del passato, anzi, serve solo a uno scopo, candeggiarsi un pochino la coscienza e trasferire in uno spazio astratto, incorniciato di retorica, ciò che è accaduto, come se oggi quei germi infetti, quel virus virulento che è l'antisemitismo fosse stato debellato.
   Domani dunque assisteremo alla solita parata di cordogli, ricordi e frasi di circostanza, facendo ben attenzione a dolersi per la morte degli ebrei gassati ma al contempo utilizzando lo schermo dell'antisionismo per giustificare anche chi incendia una sinagoga. Dopotutto, se lo hanno stabilito dei giudici tedeschi che non si tratta di antisemitismo bisognerà credergli sulla parola.

(L'informale, 26 gennaio 2018)


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Minacce alla memoria

Altro che pietre d'inciampo. I missili iraniani, le carte dell'Onu, le grida a Milano e gli attacchi in Francia. A minacciare la memoria in Europa è l'estremismo islamico.

di Giulio Meotti

ROMA - Nel 2035, appena 26 mila sopravvissuti all'Olocausto vivranno in Israele. A minacciare la memoria non è soltanto il tempo, ma l'internazionale dell'odio e della menzogna. E alla sua testa c'è l'Iran. Lo stato più potente del medio oriente, che controlla de facto quattro capitali arabe (Beirut, Damasco, Baghdad e Sanaa), ha fatto del negazionismo della Shoah e della distruzione di Israele, il "piccolo Satana", un pilastro della politica estera. Nell'ultima settimana hanno attaccato Israele le seguenti autorità iraniane: la guida suprema Khamenei, invocandone la "sconfitta"; il capo del Parlamento, Ali Larijani ("il regime sionista è malefico"), e l'ambasciatore all'Onu, Eshaq al Habib, che ha parlato del "regime sionista" come la fonte di tutti i problemi. Sotto l'occhio di Ali Akbar Salehi, capo del programma atomico iraniano, l'Iran continua ad arricchire l'uranio, a sviluppare centrifughe e a testare missili. L'Iran è l'unico stato oggi con la tecnologia in grado di minacciare il popolo ebraico. Ma non c'è soltanto la minaccia diretta. Ci sono anche i satelliti iraniani. Ieri su Haaretz, Uri Bar Joseph, docente di Relazioni internazionali all'Università di Haifa, ha scritto che i missili di Hezbollah (passati da 13 mila nel 2007 a 120 mila oggi) rappresentano "una minaccia senza precedenti per Israele". I funzionari della Difesa israeliani dicono che al prossimo scontro con Hezbollah "saranno lanciati su Israele da tre a quattromila missili. Ci saranno centinaia o migliaia di vittime e danni significativi ad aeroporti, porti, centrali elettriche, nodi di trasporto e simili". E Israele costruisce ora un muro sotto terra lungo il confine con Gaza.
   A minacciare la memoria in Europa è l'estremismo islamico, che divampa mentre rigurgita la nostalgia nazionalista: in Francia, oltre ad aver ucciso dodici ebrei in dieci anni, l'islamismo ha spinto 40 mila ebrei a lasciare il paese e altri 60 mila a cambiare casa. E' un quarto della comunità ebraica francese. E se a Milano, lo scorso 9 dicembre, una piazza ha intonato in arabo il grido di morte agli ebrei, in Germania l'ex leader degli ebrei Charlotte Knobloch ha appena detto che una vita ebraica oggi è possibile "soltanto sotto protezione". C'è la fortissima delegittimazione che fa di Israele l'unico stato di cui si contestano l'esistenza (vedi le assenze alla dichiarazione Balfour), i confini (vedi le risoluzioni dell'Onu), la storia (vedi gli assalti dell 'Unesco che cancella gli ebrei dalla storia), la capitale (vedi il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale). E' stato sdoganato l'antisemitismo praticato dalla leadership palestinese di Mahmoud Abbas, partner dei paesi occidentali, che al Cairo ha appena affermato che Israele è "un progetto coloniale che non ha nulla a che fare con l'ebraismo" e che gli ebrei europei durante la Shoah scelsero di subire "massacri" piuttosto che emigrare in Palestina (nessuna dichiarazione ufficiale europea l'ha condannato). Due giorni fa, a Bruxelles, Yuli Edelstein, presidente della Knesset, ha condannato l'ipocrisia di chi onora la memoria ma accusa Israele di "crimini di guerra", dialoga con Hamas e non vede gli ebrei che nascondono la stella di Davide. Di questo antisemitismo è maestra l'intellighenzia di sinistra, di cui è capofila Jeremy Corbyn, Ieri, nel commemorare la Shoah, il leader laburista, che si dice "amico" di Hamas e Hezbollah, si è "dimenticato" di citare gli ebrei. Parole, risoluzioni, armi e omissioni che pesano molto di più delle pietre d'inciampo vandalizzate. E' la memoria viva minacciata.

(Il Foglio, 27 gennaio 2018)



Antisemitismo e omofilia

Antisemitismo e omofilia
sono due binari paralleli
su cui l'umanità ribelle e peccatrice
corre veloce verso la resa dei conti
con l'unico Dio Creatore e Legislatore.

Capofila dell'antisemitismo
è l'islamico Oriente.
Capofila dell'omofilia
è il marcio Occidente.


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Salvatevi da questa perversa generazione

“E Pietro disse a loro: Ravvedetevi, e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo. Poiché per voi è la promessa, e per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore Dio nostro ne chiamerà. E con molte altre parole li scongiurava e li esortava dicendo: Salvatevi da questa perversa generazione.”
dal libro degli Atti, cap.2

 


Allarme intelligence israeliana: Hamas costruisce droni invece che missili

Hamas cambia strategia e passa dai missili ai droni carichi di esplosivo

Hamas sta cambiando la sua strategia d'offesa visto l'impossibilità di colpire obiettivi civili israeliani con i missili prodotti a Gaza o importati dall'Iran.
L'efficacia dimostrata dal sistema Iron Dome nell'intercettare i missili lanciati da Gaza verso Israele ha convinto la dirigenza militare di Hamas a concentrarsi sulla costruzione di piccoli droni piuttosto che continuare a costruire missili e razzi inefficaci.
E' questo l'ultimo allarme lanciato dalla intelligence israeliana che fa notare anche come il sistema oltre ad essere più economico e facile da costruire o importare, potrebbe facilmente superare il sistema di difesa Iron Dome studiato per intercettare missili e non piccoli droni....

(Right Reporters, 27 gennaio 2018)


La prima scoperta archeologica del 2018 in Israele, a pochi passi dall'autostrada di Tel Aviv

di Valentina Poli

 
Amigdale dal sito archeologico di Jaljulia
 
La zona degli scavi a Jaljulia
È stato definito un rinvenimento sorprendente ed inaspettato dagli archeologi che hanno partecipato alla scoperta e da Ran Barkai, capo del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Tel Aviv. A pochi metri di profondità sono state trovate centinaia di amigdale, pietre scolpite da entrambe le parti a forma di mandorla che venivano impiegate dall'Homo erectus per le azioni giornaliere e sopratutto dai cacciatori.
Ciò che ha colpito tutti i ricercatori è stata la casualità della scoperta. Gli scavi, iniziati per controlli di routine che rientravano nel piano di sviluppo urbanistico della città, hanno poi riportato alla luce un corpus importante di manufatti antichissimi risalenti a circa mezzo milione di anni fa. Il progetto è stato seguito dalle Autorità per le Antichità Israeliane in collaborazione con il Dipartimento archeologico dell'Università di Tel Aviv e finanziato dalla Land Authority Israeliana.

 Le ricchezze del territorio
  Il sito risulta avere probabilmente più di 500 mila anni e, secondo gli esperti, era un luogo conosciuto dai cacciatori dell'epoca per l'abbondanza di animali, così come dai raccoglitori per la varietà di piante e di frutti nelle campagne circostanti. Inoltre era un territorio molto ricco di noduli di selce con i quali l'uomo primitivo costruiva utensili indispensabili nella vita quotidiana. Poco lontano dal sito era infine presente un antico ruscello, il Nahal Qaneh, necessario per tutte le principali attività dell'Homo erectus.
Condizioni favorevoli che hanno incoraggiato il peregrinare di diversi gruppi verso questi luoghi, con l'obiettivo di stabilirsi e di formare nuove comunità.

 Dalla città di Golia al palazzo del re Salomone
  Israele però non risulta essere nuovo a questo genere di scoperte: solamente due anni fa è stata ritrovata l'antica Gat situata nei pressi dell'attuale Tel Zafit, tra i centri di Gerusalemme e Ashqelon, famosa per essere conosciuta come la città di Golia, il gigante che nella Bibbia viene menzionato per la sua battaglia con il futuro Re Davide. Inoltre sempre nello stesso anno un altro ritrovamento: un sontuoso edificio risalente al X secolo a.C che potrebbe essere ricollegato, secondo un'equipe americana, a quello di Re Salomone.

 Anas e Mibact firmano un protocollo d'intesa
  Il rapporto tra archeologia e cantieri sembrerebbe bizzarro, invece è molto più frequente di quanto si possa pensare. Un protocollo d'intesa tra Anas (Azienda Nazionale Autonoma delle Strade) e Mibact (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo) è stato ad esempio firmato la scorsa settimana a Roma. Entrambe le parti si sono impegnate a collaborare per valorizzare le scoperte archeologiche rinvenute nei cantieri stradali.
Inoltre si verranno a creare nuovi sbocchi lavorativi come "l'archeologo di cantiere" che si impegnerà a gestire le situazioni di "emergenza archeologica" durante i lavori sul territorio.
Il protocollo comprende anche la collaborazione con Archeolog, associazione per la salvaguardia del patrimonio archeologico, che dovrà reperire fondi per promuovere il restauro, lo studio e l'esposizione dei reperti sia in Italia che all'estero.

(arteonline.biz, 26 gennaio 2018)


Il turismo ebraico, una nicchia sempre più interessante

Non solo Musei e Sinagoghe ma anche cimiteri, memoriali, palazzi ed altri luoghi che sono in grado di racchiudere e raccontare un pezzo drammatico della storia ebraica: qui è viva la capacità di coinvolgere il visitatore e di farlo immergere nella storia senza retorica, miscelando valori storici, cultura e spiritualità. Ma tutto ciò, oggi, è anche turismo.
  In Italia vi sono 21 Comunità ebraiche di dimensioni molto diverse tra loro, con propri rabbini o ministri di culto, con una o più sinagoghe, scuole e servizi a disposizione della comunità (cimiteriali, attività culturali ed educative, etc.). Ed è nelle città dove esistono tali Comunità che si trovano i principali luoghi di visita e conoscenza della cultura ebraica:
  • nel Piemonte (con il Complesso Museale Ebraico di Casale Monferrato, la Sinagoga e la Mostra Permanente di Carmagnola, la Sinagoga ed il Museo Ebraico di Asti)
  • nel Veneto (con il Museo Ebraico di Venezia ed il Museo della Padova Ebraica di Padova),
  • nel Lazio (con il Museo Ebraico di Roma ed il Sacrario delle Fosse Ardeatine) alla Toscana (con il Museo Ebraico di Firenze, quello di Pitigliano e quello di Livorno, la Sinagoga di Siena),
  • in Emilia Romagna (col MEB di Bologna, il Museo Ebraico di Soragna, il MEIS di Ferrara, il Museo ed il Campo di Fossoli di Carpi)
  • nel Friuli Venezia Giulia (con il Museo Ebraico e la Risiera San Sabba di Trieste, il Museo della Sinagoga di Gorizia),
  • in Lombardia (con il Museo e la Sinagoga di Sabbioneta ed il Memoriale Shoah Binario 21)
  • sino al Museo Sinagoga S. Anna di Trani, il Museo Ebraico di Merano ed il percorso della Lecce Ebraica Medievale e Palazzo Taurino, l'Italia è disseminata di storia ebraica, tutta da scoprire.
  Tutto questo enorme patrimonio si sta sempre più aprendo a turisti ed escursionisti, che non si accontentano di visitare solo il Museo o la Sinagoga ma che, al contrario, sono interessati a "vivere" un'esperienza più completa della cultura ebraica sotto forma di itinerario e di incontro con le Comunità ebraiche, di visita del ghetto, di conoscenza delle tradizioni e della cultura ebraica.
  Ed è anche per questo motivo che, ad esempio le Sinagoghe, si stanno sempre più aprendo a mostre, esposizioni d'arte, workshop, presentazioni, incontri, etc., sebbene venga richiesto il rispetto per la fede ebraica, ad esempio non effettuando visite di sabato e durante le festività ebraiche, l'obbligo di indossare le kippot per i maschi e vestiti non troppo scollati per le signore.
  Un fenomeno, quello del "turismo ebraico", che all'estero funziona molto bene: anche senza considerare i 200mila ingressi che registra ogni anno il Beit Hatfutsot Museum di Tel Aviv, i più vicini mahJ di Parigi ed il Museo de Historia de los Judìos di Girona in Spagna registrano cadauno circa 90mila visitatori annui, con l'ingresso inserito nei "museum pass" e con visitatori provenienti dall'America del Nord, del Sud, dall'Asia, dall'Africa, dal Medio Oriente e dall'Oceania, oltre che dall'Europa, registrando tassi di crescita costanti variabili tra il 7% ed il 15% annui.
  In Italia, l'identità culturale ebraica si esprime in oltre 20 musei ed esposizioni permanenti, 60 sinagoghe e circa 100 cimiteri; tra questi, sono meno di una trentina i luoghi che generano forte interesse turistico per tutto ciò che sanno rappresentare in termini storici, culturali ed emozionali.
  "Complessivamente, nel 2017 - afferma Massimo Feruzzi, Amministratore Unico di JFC e responsabile della Ricerca - i 25 luoghi più rappresentativi della cultura ebraica in Italia hanno attirato 711.210 visitatori, con un incremento del +12,1% rispetto all'anno precedente. Si tratta di ospiti provenienti da diversi Paesi, con una quota di internazionalizzazione pari al 36,7% e con una forte concentrazione di studenti italiani, che rappresentano oltre il 50% dei visitatori nazionali. Un comparto turistico, questo legato alla cultura ebraica, che nel 2017 ha generato un valore complessivo pari a 45 Milioni 750mila Euro e che crescerà nel 2018 del 24,5%.
  Il "cuore pulsante" di questa offerta sono naturalmente i luoghi della cultura ebraica: nei 25 valutati in Italia come quelli capaci di generare interesse per una visita "dedicata", i 711.210 visitatori del 2017 hanno garantito un fatturato pari a 2 Milioni 687mila Euro con il solo biglietto di ingresso (valore medio pari a 4,2 Euro).
  Oltre a questi incassi, tali luoghi - in prevalenza Musei - hanno incassato una cifra quantificabile in ulteriori 1,3 Milioni di Euro per attività extra, che vanno dai laboratori alle vendite di libri ed oggettistica, dalle vendite di prodotti tipici e kosher, etc.
  Vi è poi il valore aggiunto che tali visitatori generano sul territorio, al di fuori della spesa sostenuta per la visita al sito di interesse. Sul totale di coloro che visitano questi luoghi, è interessante notare come il 78,3% siano escursionisti (557.174 visitatori), che quindi non soggiornano in strutture ricettive del territorio.
  Visitatori che hanno comunque speso sul territorio - non solo per l'ingresso al sito culturale - in bar, ristoranti, nell'acquisto di souvenir e servizi, etc.:
  Per quanto riguarda gli escursionisti italiani:
  • la loro spesa media si è assestata a 25,10 Euro;
  • il fatturato complessivo generato per l'economia turistica è stato pari a 9 Milioni 157mila Euro.
  Per quanto riguarda gli escursionisti stranieri:
  • la loro spesa media sale a 43,20 Euro al giorno;
  • il fatturato complessivo generato per l'economia turistica da questi ospiti è stato pari a 8 Milioni 307mila Euro;
per un valore complessivo del solo "escursionismo" legato ai luoghi della cultura ebraica pari a 17 Milioni 465mila Euro.
  Al contrario, i restanti 154.036 visitatori (pari al 21,7%) sono turisti, quindi soggiornano; a questo proposito è interessante considerare che è più alta la quota degli ospiti stranieri rispetto a quella dei nostri connazionali, in quanto rispettivamente il 19% dei visitatori italiani ed il 26,3% dei visitatori stranieri soggiorna nell'ambito della località per almeno una notte, più precisamente il soggiorno medio degli italiani è pari a 1,2 notti, mentre gli stranieri hanno una permanenza maggiore, pari a 1,9 notti.
  In sostanza, nel 2017 in Italia gli arrivi di turisti - quindi coloro che hanno soggiornato almeno una notte sul territorio con la principale motivazione di una visita ad un luogo della cultura ebraica - sono stati rispettivamente 85.582 per quanto riguarda gli italiani (generando 102.699 presenze) e 68.454 quelli stranieri (per 130.063 presenze). Un numero sicuramente limitato rispetto alle reali potenzialità del segmento.
  Questi ospiti, quindi, hanno dormito in strutture ricettive (ed in questo caso i clienti stranieri preferiscono strutture di alto livello qualitativo), pranzano in ristoranti (preferibilmente kosher), visitano ovviamente Musei, Sinagoghe, Monumenti, etc. ma sono fortemente interessati anche a tutti gli ulteriori aspetti culturali del territorio, oltre ad acquistare souvenir e prodotti tipici.
  Per quanto riguarda i turisti italiani:
  • la loro spesa media si è assestata a 104,20 Euro al giorno;
  • il fatturato complessivo generato per l'economia turistica è stato pari a 10 Milioni 701mila Euro;
  • di questo valore, il 46,5% è stato speso nel sistema ospitale ed il resto in ristorazione, caffetteria, trasporti interni, servizi, ingressi, etc.
  Per quanto riguarda i turisti stranieri: la loro spesa media sale a 135,20 Euro al giorno; il fatturato complessivo generato per l'economia turistica da questi ospiti è stato pari a 17 Milioni 584mila Euro; di questo valore, il 54,7% è stato speso nel sistema ospitale ed il resto in ristorazione, caffetteria, trasporti interni, servizi, ingressi, etc.; per un valore complessivo del solo "turismo" legato ai luoghi della cultura ebraica pari a 28 Milioni 285mila Euro.
  Per quanto riguarda il target dei visitatori, la quota maggiore è data dagli "studenti, di ogni ordine e grado" (soprattutto scuole superiori), che rappresentano circa la metà dei visitatori: il 50,6% del totale. Seguono poi le "famiglie con bambini" (8,8%) ed i "gruppi di organizzazioni religiose" (8,4%).
  Altri visitatori sono gli "appassionati di storia, religione e cultura ebraica" (7,9%), i "pensionati" (7,4%), le "persone che sono in vacanza in zona o crocieristi" (7%), come pure "cral ed associazioni culturali" (5,6%) ed altri.
  Queste visite si concentrano soprattutto in alcuni mesi dell'anno: emerge infatti che le maggiori quote di visite si hanno nel periodo aprile/settembre con il 78,1% delle visite complessive, con il mese di settembre - mese in cui si svolge la giornata della cultura ebraica - che risulta essere quello con la maggiore quota (14,5%), seguito da giugno (14,1%) e da maggio (13,9%). Interessante altresì notare come il mese di gennaio raccolga l'8,3% dei visitatori complessivi, e ciò è dovuto alla Giornata della Memoria (27 gennaio).
  Ma da dove provengono questi visitatori?
  Si è già detto che i visitatori stranieri sono complessivamente - tra turisti ed escursionisti - 260.777: di questi, la maggior parte proviene dagli Stati Uniti (18%), seguiti dai residenti in Germania ed Austria (17,6%), dai residenti in Francia (15,9%) ed in Israele (10,4%).
  Oltre a questi, vi è una quota pari al 9% di visitatori provenienti dalla Gran Bretagna, dall'Australia (4,8%), dalla Slovenia (3,9%), dalla Russia (3%), dall'Olanda (2,8%), dal Brasile (2,5%) ed, in misura minore al 2%, da altri Paesi.
  I visitatori italiani sono invece - sempre complessivamente tra turisti ed escursionisti - 450.433: di questi, la maggior parte è residente in Lombardia (16,4%), seguita dal Veneto (12,5%), dal Piemonte (11,4%) e dal Lazio (10%). Quote di visitatori inferiori al 10% si hanno dall'Emilia Romagna (8,1%), dalla Toscana (7,4%), dal Friuli Venezia Giulia (7,4%), dalle Marche (4,7%), dalla Liguria (4%), etc.
  "Ampliare questa offerta culturale - continua Massimo Feruzzi - è un'opportunità più che un'esigenza storico-culturale. Nel 2018 si stima una crescita di visitatori con questo interesse primario del +24,5%, raggiungendo in tal modo nell'anno appena iniziato quota 885mila visitatori, anche grazie alla recente apertura del MEIS di Ferrara. Ma ciò rappresenta solo un incipit per le Amministrazioni e le società di gestione e promozione di tali beni a sviluppare percorsi ed itinerari culturali, come pure al sistema ospitale e ristorativo, che deve sapere esattamente con quali servizi rispondere alle esigenze di questi ospiti. Il potenziale mercato è infatti molto più ampio di quello attuale, pari a 11 Milioni 803mila clienti ebrei solo in Israele e negli USA, mentre si calcola che in tutto il mondo quelli ebrei siano oltre 100 Milioni".
  In Italia sono infatti ancora pochissime le strutture in grado di ospitare clienti di religione ebraica, offrendo non solo ristorazione kosher ma garantendo molti altri servizi: la presenza del mashgiach (un controllore per il rispetto delle regole ebraiche per la preparazione del cibo); la presenza di chiavi tradizionali, dell'ascensore che si muove in automatico e di luci che si spengono/accendono anch'esse in automatico (in quanto durante le festività non è permesso agli ebrei di usare l'elettricità); bollitore d'acqua automatico per la preparazione del thé; candele a disposizione durante lo Shabbat; etc.
  Tra le strutture riconosciute tali in Italia vi sono il My Kosher Hotel Spa di Canazei, l'Olympic Kosher Holidays di Sirmione e l'Hotel Kosher Giardino dei Melograni di Venezia.
  Su questo ambito stanno già lavorando diversi Tour Operator internazionali, mentre sono ancora pochissimi i TO italiani che hanno al proprio attivo una specializzazione in questo ambito e che, allo stato attuale, gestiscono flussi molto limitati. Le loro proposte, sempre costruite "su misura", si sviluppano in prevalenza attraverso itinerari di una giornata.
  I Tour Operator esteri organizzano invece itinerari complessi, che vanno dai 3 ai 15 giorni, unendo sempre al percorso ebraico la scoperta dei principali luoghi della cultura italiana, e raggiungendo quote di partecipazione di 4.500,00 Euro a persona (viaggio aereo escluso).
  Si prevede che il 27 gennaio - Giorno della Memoria - saranno oltre 78mila gli italiani che si recheranno in uno dei circa 180 luoghi dell'identità culturale ebraica presenti in Italia.

(ViaggiNews, 26 gennaio 2018)


Le chizze al Parmigiano Reggiano inventate nel ghetto ebraico

A cucinarle per primo fu il fornaio Federico Sacerdoti, detto "Salamein", che aveva il negozio in via dell'Aquila a Reggio Emilia. Alla fantasia delle comunità ebraiche si deve anche la spongata.

di Adriano Arati

Chizze al parmigiano-reggiano
REGGIO EMILIA - Usanze lontane, figlie di viaggi, credenze, isolamenti e contaminazioni. Anche in Emilia Romagna l'influenza della cucina ebraica ha lasciato segni ben visibili, cementati nel corso dei secoli.
   Due esempi lo ricordano anche in terra reggiana, la spongata e la classica chizza da forno a base di Parmigiano Reggiano. La ricchissima tradizione della cucina ebraica in Italia è segnata da continue contaminazioni, dall'uso dei cibi disponibili e da una forte influenza spagnola: inevitabile, visto che la popolazione giudea in Italia aumenta nel 1500 dopo la cacciata degli ebrei sefarditi dalla Spagna nel 1492.
   Nel nostro territorio le comunità storiche, radicate da secoli, sono quelle della città, di Correggio e Scandiano, anche se oggi la popolazione è ridotta davvero al minimo. Una presenza così radicata ha lasciato con sé usanze ed abitudini anche in campo gastronomico. All'insegna della creatività, spesso e volentieri. Un ebreo osservante deve mangiare cibo kosher (kasher all'italiana), ovvero che risponda ai dettami della kasherut, l'insieme delle regole gastronomiche indicate dalla tradizione e dalla religione. L'assenza più "celebre" è quella della carne di maiale, come nell'Islam. Per ovviare alle restrizioni ci si è affidati alla fantasia. Si pensi al salame d'oca ferrarese, diffuso in mezza regione, nato come "alternativa" al più classico degli insaccati.
   Per restare nella nostra città, si può tornare alle origini delle chizze. Piatto tuttora molto diffuso, che la tradizione vuole essere figlio delle usanze della comunità ebraica racchiusa nel ghetto reggiano di via dell'Aquila e via Monzermone, nel quartiere che oggi si trova fra la via Emilia e la Galleria Parmiggiani. Dietro alla chizza c'è una leggenda, quella di un bravissimo fornaio di via dell'Aquila, Federico Sacerdoti detto "Salamein". Sacerdoti era così abile a preparare le chizze da finire spesso citato nelle cronache dell'epoca per la qualità dei suoi piatti.
   La ricetta è semplice: pasta (simile a quella per il “gnocco fritto”) ripiegata come un tortello, da farcire con scaglie di Parmigiano Reggiano e poi da friggere nell'olio. Una volta fritte le chizze possono essere servite calde, col formaggio filante, oppure fredde. Molte rezdore un tempo usavano lo strutto per friggere e un po' di lardo per condire, abitudine decisamente reggiana e decisamente poco kasher.
   Deriva probabilmente dalla tradizione giudaica anche uno dei più classici dolci natalizi, la spongata. L'origine certa non è mai stata definita, la teoria più diffusa e accreditata vuole che sia l'evoluzione di un dolce ebraico tipico delle regioni calde della Spagna. E gli ingredienti principali, noci e frutta secca, non mancano certo in quelle aree. In Italia la spongata è arrivata seguendo la diaspora degli ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna dal 1492. Tanti gruppi iberici trovarono rifugio in Italia disperdendosi per tutta la penisola e portando con sé le ricette più care. Oggi la spongata è un elemento delle cucine dell'Emilia Romagna, della Liguria orientale e della Toscana settentrionale. Nel reggiano le spongate più conosciute sono quella di Iori Celso di Montecchio e di Brescello.

(Gazzetta di Reggio, 26 gennaio 2018)


Ecco chi tradì gli ebrei: dopo 70 anni escono i nomi e tutti i fascicoli

di Tullio Cardona

VENEZIA - «In archivio sono accessibili da pochi giorni i fondi che conservano le delazioni e le denunce contro gli ebrei, essendo trascorsi oramai i 70 anni richiesti per la consultazione dei dati riservati». L'annuncio è stato dato da Raffaele Santoro, direttore dell'Archivio di Stato di Venezia in un incontro al Museo ebraico, con la studiosa Nelli Vanzan Marchini, sulla figura di Giuseppe Jona, il presidente della Comunità ebraica di Venezia che si suicidò pur di non consegnare gli elenchi dei correligionari a fascisti e nazisti.
  «Adesso - ha continuato Santoro - potrà affiorare una parte importante della storia delle persecuzioni che fino ad ora si è dovuta limitare agli esempi positivi dei Giusti che hanno salvato gli ebrei». A Venezia la persecuzione nazifascista colpì gli ebrei come in tanti altri luoghi di Italia e d'Europa. In città, prima della guerra vivevano circa duemila persone. Tre i rastrellamenti in città, con 246 ebrei privati della libertà e tradotti nel carcere di Santa Maria Maggiore. Da qui al campo di Fossoli, prima di finire soprattutto ad Auschwitz. Di questi ne tornarono solo otto.
  Ora a distanza di tempo, come previsto dalla legge, sono scaduti i termini che proteggono i dati sensibili. Così, ora sono definitivamente consultabili all'archivio della Giudecca, 12 grandi buste con all'interno i fascicoli personali dei singoli ebrei con l'elenco di tutti i sequestri dei loro beni mobili ed immobili vidimati dalla prefettura di Venezia per gli anni 1944-1945.
E, ancor più interessante, finalmente sono emerse all'interno dei fascicoli anche le lettere di delazione, con i nomi dei denuncianti, premiati dal regime con 1.500 lire, fino ad un massimo di 5.000 lire. «Dopo le leggi razziali del 1938 racconta Santoro - gli ebrei erano stati esclusi dalla vita civile. Nel gennaio del 1944 la persecuzione assunse aspetti duri e feroci, nessuno fu più esentato e si arrivò a togliere agli ebrei tutti i beni mobili, immobili e finanziari. Il decreto del prefetto comprendeva i nomi degli intestatari dei beni, detti burocraticamente ditte, gli elenchi di tutti i beni posseduti, e dei luoghi in cui tali beni erano situati. I decreti riguardavano Venezia e la sua provincia».
  I fascicoli contengono anche la cronaca delle confische alle famiglie ebraiche, con gli incaricati del prefetto che entrano nelle case, spesso vuote perché gli abitanti avvertiti in anticipo non si erano fatti trovare. Talora però sono evidenti resistenze, specie da parte delle persone più anziane, che sentivano venir meno tutta la loro vita. I nominativi dei nuclei familiari sono circa 500, con nome, cognome, oggetto del sequestro (denaro, titoli, attività ed immobili con specificato il sestiere di locazione), il numero del decreto di confisca e il numero di busta da utilizzare ai fini della richiesta di consultazione del fascicolo.
  Alcune famiglie sono scomparse dalla città, altre persistono, come i Ravà, i Foà, i Camerino, i Dina, i Fano, i Finzi, gli Jarach, i Levi, i Segre, i Sonino, i Sullam. Ecco alcuni esempi contenuti nell'elenco: Gabriella Guggenheim Luzzatti - beni immobili in San Marco - beni mobili: danaro - numeri decreti di confisca: 84 e 93; oppure Renzo Camerino: beni mobili - denaro e titoli - azienda: Ditta Salviati e C. dei F.lli Camerino. Commerciale e industriale vetrerie artistiche e specialità veneziane - fornace per la lavorazione vetrerie - mosaici - mobili - bronzi - marmi - etc. - Dorsoduro e San Marco.
  I beni venivano acquisiti da uno specifico Ente di gestione e liquidazione immobiliare Egeli; ma qualche delatore, oltre al premio in denaro, si impossessò di fatto degli immobili della famiglia denunciata; altri si arricchirono a scapito delle proprietà confiscate agli ebrei veneziani. Ora tutto questo potrà essere riportato alla luce offrendo un quadro a tutto tondo di una tragica vicenda.

(Il Gazzettino, 26 gennaio 2018)


Anche il Vaticano tace sull'attacco militare di Erdogan contro i curdi

Oltre cento vittime civili

di Franca Giansoldati

CITTÀ DEL VATICANO - Anche in Vaticano prevale la realpolitik. La massiccia operazione militare turca decisa da Ankara contro i curdi, nonostante l'alto numero di vittime civili che sta causando, è passata sostanzialmente sotto silenzio persino a Santa Marta. I violenti bombardamenti d'artiglieria e l'uso di F-16 anche in territorio siriano hanno causato, secondo l'agenzia siriana Sana, un bilancio di 140 civili morti. L'Osservatore Romano oggi pomeriggio ha dedicato alla vicenda un articolo quasi pilatesco, evitando di prendere qualsiasi posizione, nonostante l'alto numero di morti, spiegando che Ankara «punta a sottrarre il territorio di Afrin al controllo delle formazioni curde chiamate Unità di protezione del popolo (Ypg) e ritenute vicine al Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), un'organizzazione considerata dalle autorità turche illegale e di matrice terroristica». Il quotidiano del Vaticano riferisce anche le parole del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, sul fatto che la Turchia «ha il diritto di difendersi» visto che Ankara «è uno dei paesi della Nato che più ha sofferto per il terrorismo».
   Le fotografie e i video che in queste ore stanno invadendo i social e i siti di informazione mostrano parecchi bambini curdi feriti. Erdogan ha affermato che l'operazione militare andrà «avanti il tempo necessario». Nel frattempo i curdi - senza i quali l'Isis non sarebbe mai stato battuto - hanno chiesto il sostegno delle forze siriane.
   Il premier Erdogan è atteso da Papa Francesco lunedì 5 febbraio per una visita di Stato. A preparare questa visita è stata la telefonata di Erdogan a Bergoglio all'indomani della decisione degli Usa di spostare l'ambasciata a Gerusalemme.L'agenzia di stampa Anadolu aveva riferito che Erdogan e il Papa avevano parlato della risoluzione con la quale l'Onu aveva respinto la mossa della Casa bianca sottolineando la necessità di «proteggere lo status quo di Gerusalemme, città sacra per l'islam, il cristianesimo e l'ebraismo».
   La vicedirettrice della sala stampa vaticana, Paloma Garcia Ovejero, aveva confermato il colloquio telefonico senza fornire dettagli sui suoi contenuti e limitandosi a precisare che «la conversazione ha avuto luogo per iniziativa del Presidente turco».

(Il Messaggero, 26 gennaio 2018)


Perché la memoria non può essere limitata a una sola giornata. Parla Dureghello

Non c'è giorno nel quale non ricordiamo le nostre origini e i nostri patimenti. Conversazione con la presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello

di Andrea Picardi

Ruth Dureghello, Presidente della Comunità Ebraica di Roma
"Per noi è sempre il momento della memoria: non c'è giorno nel quale non ricordiamo le nostre origini e i nostri patimenti". Quella di sabato prossimo sarà la terza Giornata della Memoria di Ruth Dureghello alla guida della Comunità Ebraica della città eterna, dov'è arrivata nel giugno del 2015. Imprenditrice romana classe 1967 - ma prima di tutto "mamma ebrea", come lei stessa si definì al momento della sua elezione a presidente - Dureghello ha, però, una speranza in più per la ricorrenza di quest'anno: che "possa rappresentare l'inizio di un percorso continuativo". "Bisogna uscire dall'idea che si tratti di un anniversario occasionale ma dargli il valore di una memoria collettiva nazionale da tenere sotto i riflettori costantemente", ha affermato la presidente della Comunità Ebraica di Roma. Che, in questa conversazione con Formiche.net, ha commentato anche gli episodi di antisemitismo che continuano, purtroppo, a ripetersi in Italia e in Europa e recensito in anteprima il documentario sulla Shoah di Walter Veltroni dal titolo "Tutto davanti a questi occhi" che sarà trasmesso sabato prossimo, 27 gennaio.

- Presidente Dureghello, come si coltiva davvero la memoria?
  È necessario far maturare una coscienza civile e una responsabilità sociale condivise, in cui ognuno si faccia carico dell'educazione dell'altro. Su questo sto cercando di spendermi molto: non si può lasciare soltanto a qualcuno il ruolo di trasmettere ciò che è stato.

- Peraltro, purtroppo, con il tempo che passa i testimoni diretti di quella tragedia stanno scomparendo.
  Ed è per questo che dico che è responsabilità di tutti noi raccogliere il testimone. E far sì che, nonostante il tempo, l'oblio non prevalga. È umano che si tenda a scansare i fatti negativi del proprio vissuto, le tragedie. A maggior ragione dobbiamo renderci protagonisti di un esercizio forte e corale perché solo dalle esperienze del passato si può trarre un insegnamento per garantire un futuro migliore alle nuove generazioni.

- In questo senso quanto avete apprezzato la decisione di Sergio Mattarella di nominare senatrice a vita Liliana Segre?
  Gliel'ho detto personalmente anche qualche sera fa. È stato un momento di una grandissima emozione. Il presidente Mattarella, anche in quest'occasione, ha compiuto un gesto concreto e tangibile, simbolo della sua volontà di rendere la memoria un valore fondante di questo Paese.

- Ha visto in anteprima il documentario di Walter Veltroni sulla Shoah dal titolo "Tutto davanti a questi occhi" che sarà trasmesso il 27 gennaio. Ci racconta qualcosa?
  Non solo l'ho visto ma ho anche avuto il privilegio di tenere un discorso in occasione della presentazione. A Walter vanno riconosciuti tantissimi meriti, innanzitutto perché ha istituito - quando era sindaco di Roma - i viaggi della Memoria. E da allora migliaia di studenti della Capitale - e successivamente anche della Regione e di tutta Italia - hanno avuto la possibilità di toccare quei luoghi per conoscere e approfondire la memoria di ciò che è stato.

- Cosa l'ha colpita di più del documentario?
  L'intervista a Sami Modiano, uno dei pochi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz. Nelle sue parole si coglie e si percepisce il senso di una trasmissione documentata. Il cinema diventa anch'esso testimone per fissare al di là del tempo le emozioni. Con una sensibilità estrema: c'è la tragedia che viene raccontata ma anche l'infinita speranza di vivere e continuare a vivere. Dice Sami a un certo punto: "Vivo e sono felice". Davvero in quel momento mi sono commossa.

- A proposito di memoria, a Roma si parla da anni del Museo della Shoah che però continua a non vedere la luce. A che punto siamo?
  Penso che sarò molto felice quando lo vedrò realizzato. Per adesso ci stiamo impegnando molto con la fondazione - di cui la Comunità Ebraica di Roma è uno dei membri insieme alle altre istituzioni - per produrre materiale e organizzare mostre e iniziative e continuare così a fare memoria.

- Presidente, ma perché l'antisemitismo è una malattia che non si riesce a curare definitivamente?
  Non sono io a dirlo ma i dati e le analisi relative non solo all'Italia e all'Europa. L'antisemitismo, purtroppo, è un tema costante ed attuale perché evolve e si trasforma. L'ebreo è comunque il diverso per eccellenza. Siamo ancora legati ad alcuni schemi che non siamo riusciti a scardinare. Il problema c'è e oggi diventa ancor più grave perché si diffonde sul web dove è difficilissimo poterlo controllare. Si abbina al disagio sociale ed economico e a tanti altri piccoli, grandi fattori che conosciamo, gli stessi che hanno segnato la storia dell'Europa e del nostro Paese 80 anni fa ma che abbiamo difficoltà a riconoscere come segnali. Come sentinelle noi cerchiamo di stimolare costantemente l'attenzione su questo aspetto.

- Ma è solo una questione culturale o anche di leggi?
  L'Italia è dotata di un sistema normativo affinato, che va dalla legge Mancino a quella sul negazionismo. Purtroppo negli ultimi tempi abbiamo assistito all'ostentazione di alcuni simboli. Quello che pensavamo di aver quasi arginato con questi decenni di memoria, oggi riappare con una violenza e una crudezza che non avevamo pensato potesse esistere. Mi riferisco, ad esempio, a quello che abbiamo visto recentemente a Milano. Di fronte a queste manifestazioni ci aspettiamo una risposta pronta e immediata delle istituzioni che forse, nel capoluogo lombardo, è mancata.

- Qualche giorno fa ha incontrato l'ambasciatore Usa in Italia Lew Eisenberg. Com'è andata?
  È stato un incontro sereno e di grande emozione. Non le nego che da parte nostra la posizione assunta dal governo Usa nell'ultimo periodo su Gerusalemme capitale d'Israele è stato un passo importante. Abbiamo voluto manifestare all'ambasciatore Usa in Italia la nostra gratitudine. Non si può cancellare il legame del popolo ebraico con la sua terra d'origine. Ma abbiamo anche parlato di dialogo, rapporto con il mondo islamico e con le altre confessioni religiose ed Europa.

(formiche.net, 26 gennaio 2018)


Mattarella, monito ai politici: no al mito del fascismo buono

"Sorprende che ancora adesso qualcuno parli di meriti"

di Ugo Magri

ROMA - Verso gli ebrei l'Italia è colpevole. Anche contro «gitani, omosessuali, testimoni di Geova, disabili»: 80 anni fa, con le leggi razziali, fu commesso nei loro confronti «un crimine turpe». E sebbene la vergogna ricada sul fascismo, tutti noi «abbiamo il dovere di riconoscere quanto di terribile e disumano» fu fatto allora. Sergio Mattarella non chiede formalmente «perdono» alla comunità ebraica perché la Repubblica, che egli rappresenta, è nata proprio in contrapposizione a quegli orrori (basta leggere l'articolo 3 della Costituzione). Ma il discorso presidenziale marca comunque una responsabilità collettiva. Taglia netto con lo stereotipo auto-assolutorio degli italiani sempre brava gente. Ci fu, riconosce Mattarella, la «complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini asserviti». In troppi tacquero, restarono indifferenti. Non si può dimenticare né nascondere quanto accadde, con la nostra storia dobbiamo «fare i conti». Un'ammissione così esplicita mai si era udita finora sul Colle.

 Basta banalità
  Mattarella è un uomo politico moderato che però, se vede in gioco i valori, diventa intrattabile. Nei ricordi di famiglia, mai messi in pubblico, c'è il padre che nel 1938 passò i guai a Palermo proprio per aver condannato le leggi razziste sul giornale diocesano. Contestarle era dovere. Chi ora minimizza o prova a giustificare merita disapprovazione. Difatti il passaggio più intenso del discorso pronunciato al Quirinale nel Giorno della memoria, con tutte le massime cariche pubbliche sedute dinanzi, tra queste la neo senatrice a vita Liliana Segre sopravvissuta ad Auschwitz, picchia duro su chi banalizza. «Sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che il fascismo ebbe alcuni meriti ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l'entrata in guerra. Si tratta di un'affermazione», secondo il Capo dello Stato, «gravemente sbagliata e inaccettabile». Ovvio che il pensiero corra a quanti, tra i leader in circolazione, si sono travestiti da storici. Ne vengono in mente un paio che in piena campagna elettorale Mattarella, ovviamente, non cita. Un mese fa Berlusconi aveva negato al Duce la qualifica di dittatore, lo era fino lì. E Salvini non risulta si sia mai pentito di quanto disse: «Prima delle leggi razziali, per vent'anni Mussolini, aveva fatto tante cose buone, la previdenza sociale l'ha portata lui mica i marziani». Errore, reagisce Mattarella a questi discorsi che ogni tot rispuntano: «Razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi, ma diretta e inevitabile conseguenza» di un certo modo di pensare. La sua condanna è a 360 gradi.

 Anticorpi in azione
  I «focolai di razzismo e di antisemitismo» sono tuttora presenti e non vanno sottovalutati. Però Mattarella, al quale non è sfuggito l'allarme lanciato domenica dal rabbino Riccardo Di Segni, è fiducioso: certi fenomeni «non vanno accreditati di un peso maggiore di quel che hanno. Il nostro Paese e l'Unione europea hanno oggi gli anticorpi necessari».

(La Stampa, 26 gennaio 2018)


Basta banalità! Basta dare meriti al fascismo! Basta che ci sia ancora chi trova qualcosa di buono nel fascismo! No, di meriti, il fascismo non ne ha, neppure uno. Così parla un antifascista duro e puro senza se e senza ma. Domanda: i Patti Lateranensi furono un merito del fascismo, oppure no? Quel particolare frutto del fascismo che è lo Stato del Vaticano è un merito del fascismo, oppure no? E se in occasione del Giorno della Memoria il Rabbino Capo della comunità ebraica di Roma afferma che Eugenio Pacelli, allora Presidente dello Stato del Vaticano sorto dal fascismo, non fece nulla, potendolo fare, per impedire la deportazione degli ebrei che vivevano a Roma, è vero, oppure no? E se è vero, è anche questo un frutto del fascismo, oppure no? Meglio non porsi simili domande, meglio non pensarci: per antifascisti e cattolici il Giorno della Memoria deve restare anche un giorno di dimenticanza. M.C.


Senza Patti lateranensi saremmo un Paese civile

A colloquio con Carla Corsetti, segretario nazionale di Democrazia atea: «Abbiamo aderito a Potere al popolo perché hanno inserito nel programma elettorale la nostra proposta di abolizione del trattato di Mussolini con la Chiesa. Affondano qui le radici dei "mali" socioculturali dell'Italia».

di Federico Tulli

 
Monsignor Pietro Parolin, Segretario dello Stato del Vaticano, frutto importantissimo e gravissimo dei Patti Lateranensi voluti e sottoscritti dall'ideatore del fascismo Benito Mussolini, siede oggi con tutti gli onori tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica italiana.
La xenofobia della Lega e di Forza Italia (con Berlusconi che parla impunemente di «mezzo milione di africani in giro a delinquere»). Formazioni minori più o meno dichiaratamente fasciste come Forza nuova e CasaPound che si guadagnano i riflettori mediatici e propagandano liberamente le loro idee xenofobe e razziste. E poi ancora, il candidato governatore leghista alla Lombardia che parla di razza italiana in pericolo. Insieme alla scarsa indignazione dell'opinione pubblica, sono i segnali più recenti della scarsa memoria - o conoscenza - che la politica italiana ha di quello che fu il Ventennio in termini di lesione dei diritti più elementari. Con questo desolante scenario sullo sfondo la Giornata della memoria assume un significato particolare. Ancor di più se si pensa che cadono nel 2018 gli 80 anni dal Manifesto della razza e delle leggi razziali di Mussolini che contribuirono all'Olocausto.

- Carla Corsetti come siamo arrivati a questo punto?
  Penso che siano tutti sintomi di un deficit culturale che non riguarda solo la politica. Viviamo in un Paese che ha dimenticato la sua storia e che nega il presente. Un presente che è nella società multiculturale che vediamo quotidianamente nelle scuole, negli asili, al supermercato. Ovunque. Per questo dico che il razzismo, manifesto o strisciante che sia, è un problema che va oltre la politica e riguarda la cultura. Una cultura che è conoscenza della storia e che comporta il rispetto della dignità umana. Certo, la politica in questo momento ha delle responsabilità enormi. Non sapendo dare risposte concrete, cavalcando l'onda xenofoba, e favorita dal vuoto di ideali e di ideologie, non solo a destra, ha scatenato una guerra tra poveri. Una misera politica che per mero calcolo elettorale parla al ventre molle del Paese e indica come colpevoli della crisi i migranti.

- La sinistra non sembra più avere la forza necessaria per contrastare queste derive. Nelle periferie urbane ma anche in storiche regioni "rosse" avanza la destra se non all'estrema destra. Come mai?
  C'è un fascismo che serpeggia nelle assi sociali in difficoltà economica. Ma c'è una forma ancora più grave che è il fascismo finanziario. Se ne sono fatti portavoce quei gruppi di potere che negli anni recenti hanno attaccato le storiche conquiste sociali nell'ambito del lavoro e dei diritti. Tra questi c'è il Pd. Il fascismo finanziario è l'altra faccia della stessa medaglia su cui campeggiano CasaPound e Forza nuova. Costoro rappresentano l'aspetto manifestamente violento e non è un caso che nessuno prenda concreti provvedimenti per fermarli. Ad esempio agendo sui flussi di denaro con cui si finanziano.

- Si è arenato in Senato ma un tentativo c'è stato con la "legge Fiano", no?
  Con quella proposta il Pd ha concentrato l'attenzione sulla violenza di questi movimenti. Che è l'espressione percepita immediatamente dall'opinione pubblica. Ma ha anche tolto il fascismo finanziario dai riflettori.

- Però il problema di CasaPound e Forza Nuova è reale.
  A causa delle difficoltà economiche provocate dal fascismo finanziario, queste espressioni politiche diventano per alcuni ragazzi senza prospettive culturali, senza strumenti, senza futuro e senza alcuna capacità di costruirselo, un'occasione di ribellione e una illusione di riscatto.

- Il 27 gennaio si celebra la Giornata della memoria. Mussolini promulgò le leggi razziali dando all'Italia un ruolo chiave nell'Olocausto. E prima ancora c'era stata la campagna d'Africa e lo sterminio della popolazione etiope. Come si può recuperare la memoria di questi fatti storici e tradurla in conoscenza, in impegno civile?
  Bisogna ripartire sicuramente dalla scuola. I programmi sono privi di questi riferimenti. I ragazzi non sanno cosa sia stato il fascismo. C'è una carenza inaccettabile a livello ministeriale, nessuno si preoccupa di come declinare per le generazioni future le competenze rispetto ai diritti, all'antifascismo, alla Costituzione.

- Mussolini è anche il firmatario dei Patti lateranensi con la Chiesa. Al primo punto del vostro programma politico ne chiedete l'abolizione. Ce ne può parlare?
  Abbiamo sempre sostenuto che non dovessero essere inseriti nella Costituzione. La differenza tra
Bergoglio è un populista ultra conservatore e un monarca assoluto. E lo credono di sinistra?
democrazia e teocrazia passa per i Patti. L'Italia è una teocrazia di fatto. Gli italiani non si percepiscono autonomi sotto il profilo democratico a causa di questo accordo internazionale che dovrebbe essere stracciato. La deriva e l'ingerenza teocratica nella vita quotidiana e nella politica non è avvertita e di questo sono responsabili i media e certi politici, con i loro costanti riferimenti alla teocrazia confinante.
Che si tratti di un altro Stato non viene percepito, che si tratti di uno Stato teocratico e di una monarchia assolutista non viene percepito. Basti pensare agli esponenti di sinistra che non si fanno scrupolo di prendere come riferimento Bergoglio: un peronista, ultra conservatore di destra e detentore del potere assoluto che gli è stato attribuito da una setta cattolica di soli uomini. E per costoro nemmeno conta che questo gesuita stia veicolando la teoria del popolo.

- Vale adire?
  Basta ascoltare i suoi discorsi fino in fondo. Bergoglio vuole eliminare le "differenze", cioè la lotta di classe, per sostituirla con l'alleanza tra le classi di matrice corporativista e fascista. È un messaggio che sta veicolando anche attraverso la sinistra italiana e nessuno approfondisce più di tanto.

- Alle Politiche 2018, Democrazia atea ha deciso di aderire alla coalizione di Potere al popolo, come mai?
  Nel loro manifesto c'è una sostanziale assonanza con il nostro programma politico. Con una sola differenza. Mancava l'abolizione dei Patti lateranensi. Per entrare nella coalizione abbiamo posto questa come condizione. E loro l'hanno inserita. Siamo riusciti a far entrare nella campagna elettorale l'abolizione dei Patti di Mussolini con la Chiesa cattolica. Per quanto ci riguarda, la nostra battaglia politica è già vinta.

(left, 26 gennaio 2018)


Per tre giorni in Israele la corsa dell'unità tra i popoli

di Sylvan Adams

Sylvan Adams è presidente onorario di «Big Start» Israel, le tre tappe di apertura del Giro d'Italia 2018
Nel Giorno della Memoria dedicato alla commemorazione dell'Olocausto, il mondo intero è invitato a chinare il capo in raccoglimento per ricordare i momenti più bui dell'umanità e per onorare i milioni di vittime. Ma il tema di quest'anno, «Siamo tutti responsabili», accende i riflettori sulla necessità di agire, se vogliamo dare un senso alla frase «Mai più». Ecco un'eccellente occasione per ricordare un eroe - un eroe dello sport - che rischiò la vita per salvare quella di tanti altri, quando l'umanità sembrava precipitata negli abissi del male. La storia di Gino Bartali, il suo esempio dimostra come lo sport può anche trasformarsi in una forza inarrestabile del bene.
   Nel 1943, dopo la caduta del regime fascista e l'estromissione di Mussolini, gli ebrei italiani venivano rastrellati dalle forze naziste. Proprio allora, al culmine della sua carriera ciclistica, Bartali dedicò il suo impegno al bene dell'umanità. Essendosi sempre sottratto ai tentativi del fascismo di strumentalizzare la sua fama, Bartali sfruttò la sua notorietà per salvare vite umane. Eppure, per tutto il resto della sua vita, il suo eroismo umanitario restò avvolto dal segreto. Bartali si rifiutò sempre di parlare delle sue azioni a favore degli ebrei. Anche quando il figlio venne a conoscenza di quello che aveva fatto per salvare vite umane, Bartali gli fece giurare di non farne parola con nessuno, ripetendo di non essere un eroe. Nel 2013, dieci anni dopo la sua morte, lo Yad Vashem di Israele, l'ente nazionale per la memoria della Shoah, ha conferito a Bartali l'onore postumo di essere annoverato tra i Giusti fra le Nazioni per il suo coraggio.
   A maggio, la storia di Bartali verrà ricordata durante il 101o Giro d'Italia. La corsa rosa diventerà il primo delle tre principali gare di ciclismo (assieme al Tour e alla Vuelta) a correre al di fuori dei confini europei, con le prime tre tappe dell'edizione 2018 già programmate in Israele. Ben consapevoli che lo stato ebraico ha un debito di riconoscenza imperituro nei confronti di Bartali e di tanti come lui, gli organizzatori sfrutteranno questa occasione per ricordare le azioni straordinarie di questo campione, dedicando la gara alla sua memoria.
   La corsa prenderà avvio da Gerusalemme, città santa per le tre grandi religioni monoteistiche, e si concluderà a Roma, piuttosto che a Milano, proprio per inviare un forte messaggio di pace lungo il percorso simbolico che collega Gerusalemme a Roma. E il tema della pace e della fratellanza si tradurrà in gesti pratici. Per tre giorni di gara, centìnaia di milioni di spettatori vedranno i campioni di ciclismo impegnati a pedalare attraverso Paesi in cui ebrei, musulmani, cristiani, beduini, drusi, circassi, bahai e molte altre comunità convivono fianco a fianco, nel rispetto e nella libertà. Se avete mai voluto vedere con i vostri occhi un esempio dello sport che riesce ad abbattere le barriere, facendo emergere l'uguaglianza di tutti gli esseri umani - l'ideale che ha ispirato le azioni di Bartali - questa sarà l'occasione giusta. La storia di Bartali è un modello per tutti gli esseri umani. Il Giro quest'anno metterà in risalto i valori universali dello sport e la sua capacità di unire, piuttosto che dividere. Nel ricordare gli orrori del passato, il Giro 2018 è forse la riprova che lo spirito di Gino Bartali continua a vivere e a diffondere il suo messaggio anche ai nostri giorni.

(Corriere della Sera, 26 gennaio 2018)


Trump avverte Abu Mazen: "Basta aiuti se non negoziate"

Affondo contro il leader palestinese: ha mancato di rispetto agli Usa. E il capo dell'Anp: «Gli americani non sono più degli interlocutori».

di Paolo Mastrolilli

 
Il presidente americano Donald Trump al suo arrivo con l'elicottero di Stato in una Davos coperta di neve
DAVOS - Se i palestinesi vogliono continuare a ricevere gli aiuti economici americani, devono riprendere il negoziato. Ma se vogliono davvero la pace, probabilmente dovranno cambiare leadership. L'attacco contro Abu Mazen è stato lanciato ieri insieme dal presidente Trump a Davos, e dall'ambasciatrice Usa all'Onu Nikki Haley. Forse lo scopo era spingerlo al tavolo delle trattative, in vista della proposta che il genero del capo della Casa Bianca Jared Kushner sta preparando.
   Però i toni usati lasciando intendere che se non lo facesse, Washington punterebbe alla sua sostituzione. Nelle stesse ore, sempre dalla Svizzera, il premier israeliano Netanyahu ha spiegato la sua visione per il futuro della regione: i palestinesi possono avere l'autogoverno, ma devono delegare la questione della sicurezza allo Stato ebraico.
   Incontrando Netanyahu a margine del World Economic Forum di Davos, Trump ha accusato Abu Mazen di aver «mancato di rispetto» agli Stati Uniti, quando la settimana scorsa non ha voluto vedere il vice presidente Pence. Lo ha fatto per protestare contro la decisione di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv, ma il capo della Casa Bianca ha risposto che con questa mossa ha favorito la pace, invece di farla deragliare: «Nei negoziati precedenti non riuscivamo mai ad andare oltre la questione di Gerusalemme. Ora l'abbiamo tolta dal tavolo, così non dobbiamo più parlarne». Quindi Trump ha minacciato: «Diamo centinaia di milioni di dollari ai palestinesi. Quei soldi sono sul tavolo, non li riceveranno più se non si siedono a trattare». Il presidente ha detto che la sua proposta di pace sta arrivando, «ed è una grande proposta per i palestinesi». È molto buona anche per Israele, che però «dovrà pagare» per il riconoscimento di Gerusalemme, facendo concessioni nel negoziato. Trump non ha voluto commentare le dichiarazioni di Abu Mazen su di lui, ma si è augurato che «alla fine le teste più fredde prevarranno».
   Proprio nelle stesse ore, con una coincidenza che è difficile considerare casuale, l'ambasciatrice Haley ha attaccato il leader palestinese durante un discorso all'Onu: «Ha insultato il presidente». Quindi, esaltando il coraggio che Sadat e re Hussein avevano avuto nel guidare Egitto e Giordania verso la pace con Israele, si è chiesta: «Dov'è il Sadat e il re Hussein palestinese?».
   Lo scopo immediato di questa offensiva è spingere Abu Mazen a tornare al tavolo della trattativa, in vista della proposta di pace elaborata da Kushner. Fonti diplomatiche spiegano che si basa su un approccio regionale in cui l'Arabia Saudita, in cambio dell'appoggio ricevuto dagli Usa contro l'Iran, spingerà i palestinesi ad accettare l'offerta fornendo forti compensazioni economiche per i territori perduti. Il leader dell'Anp, però, ha risposto così alle dichiarazioni del capo della Casa Bianca: «Se gli Usa hanno tolto Gerusalemme dal tavolo, noi toglieremo gli Usa dal tavolo». Una chiusura per ora netta, che sembra cancellare il ruolo di Washington come mediatore. Se non cambierà, gli americani cercheranno di convincere i palestinesi che la leadership di Abu Mazen non è più nei loro interessi.
   Poco dopo il bilaterale col capo della Casa Bianca, in un colloquio con Fareed Zakaria, Netanyahu ha indicato la sua visione per la pace: «Qualcosa di simile a quanto gli Usa avevano offerto alla Germania dopo la Seconda guerra mondiale». L'obiezione di Zakaria è stata che senza la creazione di due Stati Israele dovrà cessare di essere un Paese democratico, per negare ai palestinesi il diritto di influenzare col voto la sua linea politica, oppure di essere ebraico, perché la crescita demografica renderà gli arabi maggioranza. Netanyahu allora ha indicato una terza via: «I palestinesi possono autogovernarsi, ma Israele deve continuare a garantire la sicurezza nei loro confini. Per evitare che finiscano nelle mani dell'Isis e di al Qaeda, o in quelle dell'Iran, come era accaduto quando ci ritirammo da Gaza».

(La Stampa, 26 gennaio 2018)


Ebrei di Polonia oggi

La direttrice del Teatro ebraico di Varsavia, Golda Tencer, racconta di sé, dei suoi progetti e anche del suo sogno.

di Matteo Tacconi

Quello di Golda Tencer è uno dei grandi nomi dell'ebraismo polacco contemporaneo. Attrice, recita dalla fine degli anni '60 sul palcoscenico del Teatro ebraico di Varsavia, una delle storiche istituzioni ebraiche della capitale polacca. Da tre anni ne è divenuta anche direttrice. E ha dovuto ben presto affrontare una crisi inaspettata. I proprietari dello stabile che per decenni ha ospitato il teatro, nella centralissima Plac Grzybowski, hanno deciso di demolire la struttura. Ne è stato ricavato un parcheggio per auto. Il Teatro ebraico si appoggia così a una sede provvisoria. La sfida è trovarne una nuova. E degna.
Ma Golda Tencer non è solo una donna di teatro. È una militante, che da sempre lavora per tutelare e promuovere la cultura ebraico-polacca. Nel 1987 creò la Shalom Foundation, incubatrice di idee e iniziative varie. Tra le più note, ci sono il Festival della cultura ebraica di Varsavia e la raccolta fotografica ""E vedo ancora i loro volti…": diecimila foto raccolte da privati che raccontano, e recuperano, la storia degli ebrei di Polonia prima dell'Olocausto.
Per il futuro, l'auspicio di Golda Tencer è che in Polonia non ci sia più antisemitismo. La diffidenza verso gli ebrei non è fuori controllo, ma c'è sempre stata. E c'è ancora. "Sogno che i nostri figli e nipoti non sappiano mai cos'è stato l'antisemitismo, perché dopotutto i nostri due popoli, ebrei e polacchi, hanno sempre vissuto insieme".

(RSI Nws, 26 gennaio 2018)


Hamas: falliti tentativi di normalizzazione dei rapporti con Israele

DOHA - Il portavoce di Hamas, Hazem Qasem, ha affermato che "il processo di normalizzazione dei rapporti con Israele è fallito e non ha portato alcun risultato al popolo palestinese". Citato dall'emittente televisiva "al Jazeera", un altro dirigente del gruppo, Osama Hamdan, ha chiesto al presidente Mahmoud Abbas di "rompere i rapporti con gli Stati Uniti nel quadro del processo di pace", dopo la decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele

(Agenzia Nova, 26 gennaio 2018)


Gli Stati Uniti approvano terapia israeliana contro il cancro

 
Dall'America giunge l'approvazione di un trattamento contro il cancro sulla base di un'alterazione dell'espressione genica per i pazienti affetti da linfoma, ed un'altra che potrebbe rivoluzionare il nostro modo di combattere questa malattia.
Il farmaco, chiamato Yescarta, è stato sviluppato dall'israeliana Kite Pharma e prevede un prezzo inferiore rispetto ad alcuni trattamenti simili.
Ciò che distingue il farmaco israeliano da altri farmaci è che ogni dose offre un trattamento personalizzato, modellato direttamente sul sistema immunitario del paziente per combattere il linfoma. In questa terapia vengono estratte le cellule T del paziente e modificate geneticamente con un nuovo gene per individuare e uccidere le cellule del linfoma. Successivamente le cellule vengono infuse nel paziente, dove rimangono per anni.
Il trattamento è stato inizialmente sviluppato presso il National Cancer Institute, guidato dal Dott. Steven Rosenberg, che ha firmato un accordo con Kite Pharma nel 2012. Kite ha contribuito a finanziare il processo di ricerca, in cambio di ricevere royalties di brevetto.
Arie Belldegrun, fondatore israelo-americano di Kite Pharma, spiega come Yescarta sia solo il secondo trattamento di alterazione del gene approvato dalla FDA americana e il primo per il trattamento di tipi di linfoma non-Hodgkin, o adulti affetti da grande linfoma cellulare B.

(SiliconWadi, 26 gennaio 2018)


Boicottaggio d'Israele: la libidine del rifiuto fine a se stesso

Ai boicottatori non interessa capire le vere motivazioni della maggioranza degli israeliani e dunque, in ultima analisi, sono del tutto inutili anche per i palestinesi

BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele) è un termine che indica in modo generico un insieme diversificato e spesso litigioso di attivisti e organi di stampa che guidano un gruppo di sostenitori più ampio, ma meno organizzato, caratterizzato da svariati gradi di coinvolgimento e militanza. Alcuni di questi movimenti sono apertamente e decisamente prevenuti e faziosi contro ebrei e Israele. Altri sono costituiti da liberal pieni di buone intenzionati che credono che questo sia l'unico modo per aiutare i palestinesi. Altri infine, come accade in tutti i movimenti politici, sono un mix di empatia ben intenzionata e pregiudizio ignorante....

(israele.net, 26 gennaio 2018)


Al campus universitario Einaudi di Torino si offende il Giorno della Memoria

di Riccardo Ghezzi

Ecco quello che oggi si dice di voler ricordare nel Giorno della Memoria
Lo scorso 16 gennaio, nell'aula A3 del campus universitario Luigi Einaudi di Torino, una settantina di studenti universitari ha assistito ad un convegno in cui si è paragonato lo stato di Israele al Sudafrica dell'apartheid. Era in effetti questo il reale obiettivo dell'evento: accostare i due regimi di apartheid, perlomeno secondo gli organizzatori.
   In assenza di qualsiasi contraddittorio, Israele è stato definito un paese razzista, in cui gli arabi non hanno gli stessi diritti degli ebrei e i neri sono discriminati dai bianchi.
   E' accaduto, come detto, a Torino, in un'Italia in cui esponenti politici parlano di "razza bianca da preservare" e giudici fanno allontanare da un'aula del tribunale donne che indossano il velo. In Israele gli arabi siedono in parlamento, svolgono la professione di giudici anche presso la Corte Suprema, qualora lo vogliano possono prestare servizio nell'esercito. A Gerusalemme e Tel Aviv indossano la divisa soldati di origine etiope, in Italia l'idea che un calciatore "colorato" come Balotelli possa vestire la maglia azzurra della nazionale di calcio ha provocato qualche perplessità.
   A Tel Aviv si fa tranquillamente il bagno in burkini, in Europa qualche Paese, come la Francia di Hollande progressista e laica, si è interrogato sull'opportunità di vietarlo.
   Italia ed Europa. In questi contesti le aule universitarie ospitano convegni in cui Israele è accusato di apartheid. E non sono incontri autogestiti in aule occupate da qualche scalmanato dei centri sociali.
   No, lo scorso 16 gennaio i relatori erano docenti universitari: Elana Ochse e Simona Taliani dell'Università di Torino, il più violentemente antisionista Salim Vally dell'Università di Johannesburg.
   Proprio quest'ultimo, ribadiamo senza alcun contraddittorio, si è permesso di inanellare una serie di menzogne contro Israele quali "In Palestina ogni anno tra 500 e 700 bambini sono presi nella notte e arrestati", non mancando di ricordare che questi bambini "soffrono per i bombardamenti in particolare a Gaza. Sono traumatizzati", arrivando poi al merito del boicottaggio del Technion, l'importante Istituto tecnologico situato ad Haifa: "L'occupazione israeliana ha permesso di costruire l'industria militare", "Le armi sono testate sui corpi di donne, uomini e bambini palestinesi", "Molte armi israeliane erano esportate verso il Sudafrica per facilitare l'apartheid", tutto questo perché "Apartheid in Israele nacque nel 1948 con supporto inglese" e sarà per questa ragione che, secondo Vally, "In Israele le università non sono diverse da quelle che c'erano in Sudafrica" (c'è l'apartheid nelle Università israeliane? E' vietato l'accesso agli arabi?) e "hanno forti legami coi militari" (?).
   Deliri conclamati, parole gravissime davanti ad una folla di studenti, in un'aula universitaria.
   Vally non si è scordato di citare Ilan Pappè, lo storico israeliano antisionista più screditato al mondo e smascherato da uno storico vero, Benny Morris.
   Come se non bastasse, allo stesso campus Einaudi oggi si offende il Giorno della Memoria con un convegno in cui si accusa Israele di "aver sfruttato l'olocausto", una delle più infamanti menzogne antisemite. Un modo, secondo gli organizzatori, per celebrare il "Giorno della Memoria antifascista e antisionista".
   Prese di posizione molto gravi, in un campus universitario che già l'anno scorso, sempre in occasione del Giorno della Memoria, si era caratterizzato per aver ospitato un convegno a dir poco discutibile su Israele e in una città come Torino in cui l'attuale giunta non nasconde simpatie per il movimento Bds, permettendo addirittura che siano ospitate conferenze stampa contro Israele nei locali del Comune.
   Molto chiare, a questo proposito, le parole di Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega Nord nel Consiglio comunale di Torino:
    "Oggi pomeriggio al campus universitario Luigi Einaudi di Torino, rischia di andare in scena l'ennesima provocazione anti-Israele.
    Proprio nella settimana in cui si celebra il Giorno della Memoria, nella main hall di Lungo Dora Siena 100, verrà presentato un opuscolo il cui titolo fa accapponare la pelle: "Israele e lo sfruttamento dell'Olocausto", in cui si sostiene che Israele avrebbe strumentalizzato lo sterminio del popolo ebraico per fini politici.
    Che tutto ciò avvenga all'interno delle aule di Unito non ci stupisce affatto viste le numerose azioni e prese di posizione contro Israele partite dall'università negli scorsi anni, e non solo dai quattro gatti dei collettivi di estrema sinistra, ma anche da docenti e ricercatori.
    Oggi questi soggetti hanno raggiunto il traguardo più vergognoso, dimostrando una totale assenza di equità e obiettività, organizzando convegni e presentazioni di libri a senso unico, senza mai chiedere l'intervento del mondo intellettuale israeliano. Senza contare che negli anni scorsi sono state messe in discussioni importanti collaborazioni e progetti di ricerca che avrebbero aumentato il prestigio di Unito solo perchè tra le partnership vi erano atenei israeliani.
    Quello che chiediamo è che la presentazione di oggi venga impedita e che si vigili sulle future iniziative. La settimana dedicata alla Memoria dello sterminio ebraico deve servire non solo a ricordare il passato, ma a essere vigili perché nel futuro non accadano più fatti simili. Ma al Campus Einaudi sembra ci sia il rischio di un ritorno di pericolose spinte antisemite che vanno arginate.
    Per lo stesso motivo mi auguro che il Comune di Torino si impegni per realizzare in breve tempo il gemellaggio con Gerusalemme, come da mozione da me presentata, perché sarebbe il miglio modo di mettere a tacere tutti questi tentativi di demonizzazione nei confronti di Israele".
(L'informale, 25 gennaio 2018)


Gli ebrei, prima commemorati poi insultati

Chiacchiere da bar

di Andrea Marcenaro

Che bella cosa, vero?
  Liliana Segre senatrice a vita? Bella sì.
Si onora il ricordo del massacro degli ebrei e si ammonisce a non dimenticarlo. E dillo, su!
  Che cosa?
Che il presidente Mattarella è stato bravo.
  Certo che è stato bravo.
Sento poco entusiasmo.
  Macché! Tutto l'entusiasmo del mondo per Mattarella. In un momento così, poi, applausi. Solo che…
Solo che?
  Solo che la memoria delle volte è un elastico, lo tiri e s'allunga, poi magari s'accorcia...
Sempre lì col fucile puntato.
  Non mi piace che ogni 27 gennaio si ricordi Auschwitz e che ogni 25 aprile si voglia impedire la partecipazione al corteo della Brigata ebraica a Milano. Non mi piace che l'Anpi, così combattiva in altre occasioni, lo sia di meno quel giorno. Non mi piace ...
Nemmeno ti piace che il presidente della Repubblica parlerà agli italiani dalla televisione nel giorno dedicato al ricordo?
  Quello moltissimo. E a maggior ragione se ricorderà ciò che è capitato a Milano nel silenzio pressoché generale il 9 dicembre scorso. Guarda la carta geografica: Milano è una città abbastanza importante della Lombardia. Poi guarda il calendario: il 9 dicembre era pochi giorni fa.
E che è successo?
  Eccolo qui, il cultore della memoria ...
Se me la vuol menare, menamela. Se no, parla.
  C'è stata una manifestazione musulmana a piazza Cavour. È un posto di Milano che non si trova esattamente nei prati dell'Oltrepò.
E allora?
  Allora è successo che un bel gruppone di mezzelune ha scandito a più riprese uno slogan. Faceva così: «Khaybar, khaybar ya yahud, jaish Muhammad saya' ud». Che vuol dire, ascolta bene: «O ebrei, l'armata di Maometto ritornerà!». Hai una vaga idea di cosa faceva agli ebrei l'armata di Maometto?
Gli estremisti e gli stronzi esistono in tutto il mondo.
  E come no. Tant'è che lo stesso slogan è stato scandito in numerose metropoli europee.
Visto?
  Con una piccola differenza.
Sarebbe?
  Che mentre tutti i giornali del mondo si sono interrogati sull'opportunità di lasciare che un coro fragoroso di antisemiti gridasse il proprio odio contro gli ebrei, in Italia nessuno si è fatto la domanda. Tanto è vero che sto qui come un fesso a raccontarti, io, una cosa che se fosse per la stampa tu manco sapevi. Non mi piace, posso dirlo? O ti secca? O il sacrosanto laticlavio a Liliana Segre basta e avanza?
Torto non posso darti.
  Grazie. Ma mi piacerebbe di più se Mattarella, o chi per lui, desse torto alla nostra stampa. E ho fatto solo un esempio, eh?
Sono comunque fatti isolati.
  Certo: la casa internazionale delle Donne a Roma che organizza un convegno contro l'Israele ebraica dell'Apartheid. L'Università di Torino che, spinta dai grillini, organizza dibattiti antisemiti. Casi isolati, si.
Resta pur sempre viva la memoria.
  Corta.

(Panorama, 25 gennaio 2018)


Gli obiettori d'Israele hanno sempre il clamore dei media. Ma sono fake news

La claque giornalistica e i numeri veri

di Giulio Meotti

ROMA - Tredici parlamentari arabi alla Knesset hanno interrotto il discorso del vicepresidente americano Mike Pence brandendo cartelli con scritto "Gerusalemme, capitale della Palestina" e lanciando slogan in arabo. In nessun altro organo legislativo in medio oriente, sempre che se ne trovi un altro democratico, si assisterebbe a una scena del genere. Israele è una grande democrazia pluralista e liberale che tutela il diritto a qualsiasi opinione, anche quelle considerate sleali e scandalose in un paese in guerra sin dalla sua fondazione (Haaretz ieri ha pubblicato una pagina di invito a boicottare Israele). Ma i media di tutto il mondo, anche italiani, da un mese pubblicano articoli sugli obiettori di coscienza israeliani che potrebbero rientrare nella categoria delle fake news.
   Ieri è stata la volta dei piloti della compagnia aerea El Al contrari al rimpatrio dei migranti africani, su cui il governo di Benjamin Netanyahu ha appena deciso una stretta. Newsweek ieri titolava: "I piloti israeliani si rifiutano di deportare i rifugiati in Africa". "Non farò volare i rifugiati verso la morte. Non parteciperò a questa barbarie", ha scritto su Facebook uno dei piloti, Iddo Elad. Un altro pilota, Shaul Betzer, sempre su Facebook: "Come pilota e come essere umano non intendo partecipare in alcun modo al trasporto dei rifugiati in un luogo dove le possibilità di sopravvivenza, per loro, sono ridotte a zero". Salvo scoprire che si tratta soltanto di tre piloti della El AL Tre piloti sui 600 attualmente impiegati dalla compagnia di bandiera israeliana. Ma tre sono sufficienti per fare notizia in tutto il mondo.
   Poi c'è stato il caso dei "rabbini" che hanno invitato a nascondere i rifugiati africani nelle proprie case, "come Anne Frank". L'idea e il paragone, un tantino azzardati, sono venuti a Susan Silverman, rabbina progressista di Boston sorella della comica Sarah, oltre che a capo dell'organizzazione Rabbini per i diritti umani. Si tratta di un gruppo ultra minoritario legato all'estrema sinistra e con influenza pari a zero nella società israeliana. Ma sufficienti per incassare gli applausi dei media del mondo (anche il Corriere della sera ha dedicato loro una intera pagina).
   Pochi giorni prima è stata la volta della lettera, anche questa rimbalzata sui giornali di tutto il mondo, di 63 liceali israeliani che hanno rifiutato la leva obbligatoria in segno di protesta con !'"occupazione israeliana". Ogni anno, Israele porta nelle file dell'esercito settemila nuove reclute. 63 nuovi soldati su settemila. Anche in questo caso sufficienti a fare spam sui media, a testimonianza del rifiuto della presenza israeliana nei territori conquistati nel 1967. I toni sono familiari:
   "Un governo razzista ... Un'ideologia militarista ... Un sistema capitalista". La sinistra più radicale. La lettera è stata organizzata infatti dalla rete di Mesarvot, una ong così radicale che perfino il New Israel Fund di sinistra si è rifiutato di sostenere. "Abbiamo linee rosse", ha detto il direttore esecutivo Mickey Gitzin. Non tutti gli argomenti sollevati dagli studenti sono necessariamente sbagliati, ma il loro rifiuto di prestare servizio è il risultato di una propaganda antisraeliana piena di bugie. Secondo la lettera, la barriera di separazione ha diviso la Cisgiordania da cinquant'anni. Cinquant'anni? La recinzione è stata costruita per fermare la più grande ondata di attacchi terroristici che Israele ha vissuto negli ultimi dieci anni. Esistono barriere di separazione anche in Europa e in America. E di tutte le barriere, quella tra Israele e i palestinesi è la più legittima di tutte. Ma quando si tratta di coloro che considerano legittimo il rifiuto di prestare servizio nell'esercito israeliano, anche un muro salva-vita diventa un crimine.
   Non hanno fatto notizia le 650 reclute che hanno risposto con una loro contro-lettera a quella dei 63: "Serviremo ovunque Israele abbia bisogno di noi. Vogliamo dichiarare che continueremo a prestare servizio nell'esercito e nel servizio nazionale per difendere la gente e il nostro paese". Il New York Times, non proprio l'ultimo dei media al mondo, ha pubblicato un articolo di uno di questi obiettori dal titolo: "Perché non servirò nell'esercito israeliano". I giornali israeliani sono pieni di storie simili, pegno di un pluralismo che fa di Israele l'unica democrazia dal Marocco all'India. Ma lo stesso New York Times non pubblicherebbe mai l'articolo di uno dei 650 fieri di servire Israele. A proposito di fake news.

(Il Foglio, 25 gennaio 2018)


Il Giro d’Italia in Israele, ricordando Bartali

Tra il Neghev e il mar Rosso le prime tre tappe della corsa rosa 2018.

di Antonio Sanfrancesco

Nel 2013 "Ginettaccio" è stato riconosciuto "Giusto tra le Nazioni" per aver contribuito a salvare centinaia di ebrei italiani dalla deportazione nei campi di sterminio. È lui il padre nobile di questo Giro numero 101.
GERUSALEMME - Venire a patti con il deserto. Farlo fiorire, secondo l'utopia biblica fatta propria da Ben Gurion, il fondatore dello Stato di Israele, che con la moglie Paula si ritirò nel kibbutz di Sde-Boker, nel Neghev, dove morì nel 1973,
  Sarà un colpo d'occhio suggestivo ammirare il serpentone dei corridori del Giro d'Italia che a maggio arriverà nel cuore del deserto israeliano, dove funghi di pietra, archi naturali e colonne a forma di sfinge (come quelle di Timna Park) tratteggiano un paesaggio unico al mondo. Il resto è solo silenzio. Buono per meditare e scoprire come ogni pietra, da queste parti, evoca storie, passioni, lotte che si perdono nella notte dei tempi e in quell'alfabeto colorato della nostra civiltà che è la Bibbia.
  Il Giro d'Italia, quest'anno, parte proprio da qui. Non sembri una scelta stravagante o contraddittoria, perché non lo è. La corsa rosa è (anche) storia di simboli. E il simbolo più evocativo che ha dato l'idea per questa partenza fuori dall'Europa - la prima nella storia della gara - è quello di Gino Bartali.
  li suo nome è scolpito nella pietra, in cima alla seconda colonna dedicata agli italiani, nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme. Non c'è più Andrea, il figlio di Ginettaccio, a mostrarlo con orgoglio. Ma ci sarà la nipote Gioia, figlia di Andrea, che qualche mese fa è venuta in visita allo Yad Vashern, il Memoriale dell'Olocausto. Bartali nel 2013 è stato riconosciuto "Giusto tra le nazioni" per aver contribuito a salvare centinaia di ebrei italiani da11a deportazione nei campi di sterminio. t lui il padre nobile di questo Giro numero 101.

 Da Eilat al Mar Morto
 
  Israele non è solo Gerusalemme, la città contesa dove si riversano da secoli tutte le passioni religiose dell'Occidente. Più della metà del suo territorio è deserto pietroso, intervallato da vecchi kibbutz, molti dei quali, oggi, sono solo mete turistiche utili a evocare una stagione che non c'è più.Si potrebbe cominciare, in questo girovagare sulle orme dei ciclisti del Giro, da Eilat, sul Mar Rosso, conquistata da re Davide e oggi meta trendy e giovanile (non a caso da fine ottobre qui atterrano i voli diretti di Ryanair da Roma e Milano), dove ci si può fare il bagno con i delfini al Dolphin Reef o fare stalbet, parola che in ebraico significa relax, ozio. Per ammirare un panorama mozzafiato, che va dal deserto egiziano del Sinai alle coste della Giordania, basta inoltrarsi con un fuoristrada sulle montagne di Eilat rese instabili da piccole scosse impercettibili (siamo sul confine tra la placca africana e quella araba) che hanno creato spettacolari fenditure verticali. Un'avvertenza: per gustarsi il deserto bisogna risalire piano.A 25 chilometri da Eilat, ci sono i resti della più antica miniera di rame e all'interno di Timna Park (dove si può fare campeggio e dormire in tenda di notte) si possono ammirare le Colonne di Salomone e perdersi in ricami archeologici.
  Al culmine del Monte Neghev, a sud della città di Be'er She\la, la carovana rosa attraverserà il Makhtesh Ramon, uno dei più grandi crateri al mondo (lungo 40 km, largo fino a 10 e profondo 500 metri),che somiglia a un cuore allungato e porta il nome di Ilan Ramon, primo astronauta israeliano: morì nel 2013 dentro la navicella Columbia che si disintegrò nello spazio.
  Nel canyon di Ein Avdat, ora Parco nazionale, l'essenza aspra del deserto quasi si attenua per un attimo. Qualche palma, all'inizio, piccole cascate d'acqua sorgiva, stambecchi nubiani piuttosto smunti. Fino a imbattersi nei più umili cespugli di tamerischi, la pianta che Abramo piantò a Bersabea tra i Filistei per dire che quella terra apparteneva a Dio, il quale l'avrebbe data ai suoi discendenti. È un affastellarsi di suggestioni. Neppure un filo d'erba, in Israele, è esente da storie e affanni di uomini in dialogo con Dio. Il Giro d'Italia non si concederà una deviazione verso il Mar Morto, ma il visitatore del Neghev non può perdersi l'occasione di un tuffo nelle acque salatissime in quella che è la più profonda depressione del mondo, a 400 metri sotto il livello del mare.
  Sulla sponda occidentale del Mar Morto sono ancora riconoscibili i confini degli accampamenti della X legione romana comandata da Flavio Silva, che nel 72 a.e. cinse d'assedio la fortezza di Masada, dove si erano rifugiati gli ultimi irriducibili ribelli della Giudea che non volevano arrendersi allo strapotere dell'Impero. È una cittadella, lassù in alto, che più di ogni altra cosa dice il carattere ebraico, abile ad addomesticare il deserto fino a creare un centro con il palazzo di Erode il Grande, la Sinagoga, i magazzini per il cibo e le terme. Be'er Sheva, da dove partirà la terza tappa del Giro, è l'ultima città israeliana prima che il Neghev inghiotta tutto sino a sbucare sul Mar Rosso, a Eilat,

 Tel Aviv, la capitale giovane

  È tempo di risalire ed entrare nella Città sacra per le tre religioni monoteistiche: cristianesimo, islam ed ebraismo. Gerusalemme si può ammirare dal Monte degli Ulivi, dove Cristo si consegnò alla Passione. Oppure percorrerla nel dedalo delle vie della città vecchia, dove si può toccare con mano come davvero, per dirla con il filosofo danese Kierkegaard, «la fede è la più alta passione d'ogni uomo».
  Il Giro farà la prima, simbolica tappa in questo saliscendi della storia che ha visto sfilare, nel corso dei secoli, distruzioni epocali e dominazioni straniere, fiorire civiltà e nascere religioni.
  Infine, Tel Aviv, dove si concluderà la seconda tappa, che con i suoi grattacieli alla moda, le start up, le botteghe di designer e stilisti e la movida 24 ore su 24 è una città che non dorme mai, effervescente, giovanile, dinamica. È l'altro volto di Israele. Un mix tra moderno e antico con le mura medievali della città vecchia, Jaffa, che guardano verso il mare.

(Famiglia cristiana, 25 gennaio 2018)


Anat Cohen, il clarinetto da Israele

Jazz a Bologna e Ferrara

di Gian Aldo Traversi

 
Anat Cohen e Marcello Gonçalves
"Outra Coisa", manierismo e groove alla moda, musica ebraica e africanismo, vitalità e abbandoni del choro vivificano i timbri del clarinetto dell'israeliana Anat Cohen e della chitarra 7 corde di Marcello Gonçalves: è il respiro inconfondibile di un disco che indaga l'universo sonoro di Moacir Santos, rottamatore di ciò che ridonda nella musica brasiliana, una dozzina di brani che stasera il duo propone in Cantina Benti voglio (ore 22) di Bologna e domani al Ferrara Jazz Club (21.30).

- Anat, le inedite prospettive della musica di Moacir suggeriscono un parallelismo immediato con Stan Getz/ Joao Gilberto?
  «L'effetto per chi ascolta può essere quello. Ed è il motivo per cui suona curiosamente familiare sia per i brasiliani che per gli americani, pur restando fedele alla musica di Santos per la scrittura cristallina e il senso di liberta».

- Che cosa promette il concerto?
  «La scaletta è incentrata sul repertorio brasiliano, con richiami forti a Jobim e a Chico Buarque, samba, bossa nova e canzoni riviste in chiave jazz».

- Perché ha lasciato Israele, secondo paese al mondo per la fertilità del movimento jazzistico, per trasferirsi negli States?
  «Per studiare musica al Berklee College of Music di Boston, anche se la scelta definitiva è caduta sulla New School for Jazz and Contemporary Music di New York. È una storia di jazz che parte dal clarinetto che ho mollato perché nel modern jazz è uno strumento a cui non si dà volentieri il benvenuto. Per questo sono tornata per un po' al sax per poi rimbalzare definitivamente sul mio primo love supreme».

- Per sette anni lei è stata considerata dalla Jazz Journalists Association la più raffinata interprete del clarinetto jazz al mondo: come ha vissuto questo riconoscimento?
  «Con stupore e felicità. È una grande responsabilità che mi spinge a migliorarmi di continuo».

- Destinata a crescere, visto che è candidata a due Grammy Awards per 'Outra Coisa' e 'Rosa Dos Ventos'
  «Sono album su cui puntiamo molto, lo sottolineo anche a nome di Gonçalves e del Trio Brasileiro. Choro e sperimentazione, umori folclorici che ben si sposano col mio strumento».

- Che cos'altro bolle in pentola?
  «Una tournée col pianista Fred Hersch e in marzo un album con Marcello».

(il Resto del Carlino, 25 gennaio 2018)


Inferiore al 60% il rapporto debito/Pil israeliano

Il 2017 sarà ricordato come l'anno in cui Israele ha raggiunto il parametro di Maastricht per il debito pubblico dei Paesi dell'Unione Europea. Una stima iniziale pubblicata ieri dal Ragioniere generale dello Stato, Rony Hizkiyahu, ha posizionato il rapporto tra debito pubblico israeliano e PIL al 59,4%, per la prima volta inferiore al 60%. Se si include il debito delle amministrazioni locali, il rapporto sale al 61,1% ma il senso del dato rimane sostanzialmente invariato. Ne da notizia il quotidiano economico Globes.
   Le cifre pubblicate ieri dal Ministero delle Finanze sono simili a quelle pubblicate tre settimane fa dall'Ufficio centrale di statistica nella sua relazione conclusiva del 2017. Il calo del rapporto debito / PIL è il risultato della crescita economica del 3% di Israele nel 2017, e in larga misura, da un surplus di entrate fiscali su larga scala durante l'anno, che il ministro delle finanze Moshe Kahlon ha deciso di non utilizzare per aumentare le spese governative o i tagli alle tasse (tranne NIS 1 miliardo in dazi doganali più bassi e tasse d'acquisto). Ulteriori fattori che hanno influito sul rapporto debito / PIL sono stati il rafforzamento dello shekel rispetto al dollaro e il continuo calo degli interessi maturati sul debito pubblico.
   Il rapporto tra debito e PIL è un indicatore chiave della solidità finanziaria di Israele ed e' una delle principali voci che contribuiscono a solidificare il rating del Paese. L'agenzia di rating del credito S&P ha recentemente rivisto le stime del rating di Israele come "positive", una misura che significa che un upgrade del rating del credito di Israele nel prossimo anno è molto probabile. Abbassare il rapporto tra debito e PIL, uno dei principali risultati di Israele, è stato un obiettivo perseguito sin dal 2003; d'altro canto, gli economisti a Gerusalemme prevedono che Israele troverà difficile continuare a ridurre ulteriormente questa relazione, considerati i maggiori tagli fiscali pianificato dal governo in carica.

(Tribuna economica, 24 gennaio 2018)


Pence come Trump, prega al Muro del Pianto a Gerusalemme

 
Il vice presidente americano Mike Pence si fermato in preghiera al Muro del Pianto a Gerusalemme, sito sacro dell'ebraismo, come ha già fatto nel maggio 2017 l'inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Pence, con la kippah in testa, si è fermato per qualche istante con la mano appoggiata al muro, poi ha fatto scivolare secondo la tradizione un pezzo di carta tra gli interstizi delle antiche pietre erose dal tempo. Questi fogli contengono solitamente preghiere o desideri. "È una vera fonte di ispirazione", ha commentato Pence. "È un grande onore pregare in questo luogo sacro. Dio benedica il popolo ebraico e Dio benedica sempre lo Stato di Israele", ha scritto nel libro d'onore. Pence, un fervente cristiano, ha seguito le orme del suo presidente Trump: nel maggio 2017, Trump è diventato il primo presidente americano in carica a compiere questo gesto. Nessuno di questi predecessori l'aveva intrapreso, data la disputa su Gerusalemme Est. Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale d'Israele ed ha deciso lo spostamento dell'ambasciata americana in questa città da Tel Aviv. Parlando alla Knesset, Pence ha confermato l'intenzione di Washington di aprire la nuova sede diplomatica entro la fine del 2019.

(Il Fogliettone, 24 gennaio 2018)


Netanyahu incontrerà domani presidente Trump a Davos

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, incontrerà domani, 25 gennaio, a Davos il presidente statunitense Donald Trump. Lo riferisce il sito del governo di Gerusalemme. Secondo quanto riferito dal Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, H.R. Mc Master, Trump "ribadirà il forte impegno verso Israele e gli sforzi per ridurre l'influenza e le capacità dell'Iran, oltre alle modalità per raggiungere un accordo di pace definitivo" tra israeliani e palestinesi. L'ultimo incontro fra Netanyahu e Trump risale a settembre 2017, in occasione della riunione dell'Assemblea generale dell'Onu.
La delegazione israeliana presente a Davos è composta dal Consigliere per la sicurezza nazionale, Meir ben Shabbat, dal leader dell'opposizione Isaac Herzog, dall'amministratore delegato di Bank Leumi, Rakefet Russak-Aminoach, ed il vice presidente del gruppo farmaceutico Teva, Iris Beck-Codner. Prima di partire per Davos, ieri Netanyahu ha preannunciato che dirà ai leader mondiali che è tempo di annullare l'accordo sul nucleare iraniano.
L'incontro fra Trump e Netanyahu è anche il primo dopo l'annuncio di Washington dello scorso 6 dicembre sul riconoscimento Gerusalemme come capitale di Israele. Inoltre, l'incontro avviene a pochi giorni dalla visita del vicepresidente Usa Mike Pence in Egitto, Giordania e Israele. Domani, 25 gennaio, Netanyahu interverrà alle 17 italiane nel panel "A Conversation with Benjamin Netanyahu, Prime Minister of Israel", introdotto dal giornalista indiano naturalizzato statunitense Fareed Zakaria.

(Agenzia Nova, 24 gennaio 2018)


Ghetto ebraico: "Venezia al cubo"

"Il ghetto è sintesi del mondo,
pur essendone separato, il ghetto è una Venezia al cubo"

                                                      Paolo Rumiz, 2016

La storia della comunità ebraica a Venezia si lega indissolubilmente a quella del Ghetto ebraico, collocato in una zona periferica rispetto al centro della città, ma che, nonostante i tragici eventi che l'hanno da sempre caratterizzato, ha saputo trasformarsi da luogo di segregazione a centro nevralgico per lo sviluppo non solo dell'identità ebraica, ma anche per la cultura e l'economia veneziana.
  Il Ghetto spicca innanzitutto per la sua conformazione urbanistica, che non porta altro che all'esasperazione alcune caratteristiche tipicamente veneziane: si tratta di un ortus conclusus un luogo confinato, compresso, quasi claustrofobico in cui però respiriamo un legame profondo con il resto del mondo e con il fenomeno millenario della diaspora; da un lato quindi un senso di chiusura, di limite, dall'altro l'apertura verso altre culture.
  Il Gheto Novo, il primo ad essere stato istituito, sorge su un'isola collegata a due fondamenta attraverso due soli ponti, rendendolo facilmente controllabile e alla necessità completamente isolato. Dato l'aumento demografico che si verificò in questo minuscolo spazio vitale, la crescita non poteva che avvenire verso l'alto: non è un caso che nel Ghetto si possano ammirare i cosiddetti "grattacieli di Venezia", edifici alti anche 8 piani, un numero eccezionale per l'epoca, spesso fatiscenti, con i soffitti bassissimi per massimizzare la quantità di unità abitative. Solo in un secondo momento furono concessi i nuovi spazi del Gheto Vecio e del Gheto Novissimo.
  Percorrendo questi spazi con sguardo attento, possiamo scoprire molto del luogo e della comunità.
Le pietre parlano della sua storia. Camminando tra i palazzi possiamo notare ancora gli incavi obliqui sui piedritti delle entrate in pietra d'Istria: vi alloggiava la Mezuzah, un astuccio con i versi della Torah. Così come all'entrata del Gheto Vecio, il sotoportego su Fondamenta di Cannaregio, porta i segni dei cardini dei pesanti cancelli che si chiudevano quando scattava il coprifuoco.
  Anche i nizioleti, come spesso accade a Venezia, ci raccontano storie, in questo caso di orti, di forni, di prestiti.
Nel Ghetto Nuovo, infatti, sono ancora presenti le "insegne" che identificavano i diversi banchi dei pegni: c'era il Banco Rosso, quello Verde e quello Nero, così chiamati probabilmente per il colore delle ricevute che rilasciavano. L'attività dei prestiti di denaro era stata relegata agli ebrei, poiché i cristiani per motivi religiosi non potevano esercitarla. All'economia della Serenissima, questa attività era molto utile pertanto fu concessa alla comunità, insieme a quella della medicina, del commercio di beni usati e della stampa.
  Calle del Forno poi, toponimo non casuale, suggerisce la presenza dell'ultimo forno attivo dei quattro che preparavano gli azimi. È aperto solo durante la Pasqua ebraica ad opera di volontari, ma il resto dell'anno ai più golosi viene in soccorso il panificio Volpe, in Calle Ghetto Vecchio, dove possiamo trovare pane e prelibatezze giudaiche.
Il Ghetto possedeva, inoltre, dei frutteti di fichi e melograni e Calle Orto testimonia la presenza di un orto antico nelle vicinanze; dovevano essere molti quando nel Seicento il Ghetto era animato da oltre 5000 ebrei; oggi invece pare resti un solo orto attivo, dietro alla Sinagoga levantina.
  La cucina del Ghetto di Venezia - che possiamo apprezzare al Gam Gam Restaurant o al Ghimel Garden, ristorante Kòsher garantito dal Rabbino della Comunità - costituisce un unicum nel panorama gastronomico ebraico: qui si incontrano le più svariate tradizioni culinarie giudaiche, frutto della fusione con la tradizione veneziana e delle diverse nazionalità degli ebrei stessi, ben rappresentate dalle sette sinagoghe o scole presenti nel ghetto, le più antiche di tutta Europa.
  Non sono immediatamente visibili e anche in questo caso è necessario leggere i segni rivelatori che l'architettura comunica. Le sinagoghe, infatti, si celano all'interno di edifici preesistenti, sempre all'ultimo piano, poiché nulla di terreno può sovrastare l'edificio sacro. All'interno sono generalmente tutte caratterizzate da una pianta rettangolare, arredi e luminarie in argento e ottone, tessuti e tendaggi preziosi, citazioni bibliche affisse alle pareti e dalla singolare disposizione dei banchi, allineanti lungo i lati maggiori, mentre i due fulcri sacri (l'Aron ha Kodesh e la Tevah) opposti ai lati minori.
  In genere dall'esterno possono essere riconosciute dalle cinque grandi finestre con arco a tutto sesto, cinque come i libri della Torah, oppure dalle piccole cupole che si fanno spazio tra i tetti, come nel caso della Sinagoga Canton, costruita nel 1532 nel Ghetto Nuovo e rimaneggiata in stile barocco nel Settecento.
La prima ad essere edificata fu la Scola Tedesca (1528), segue la Sinagoga Italiana che appare più austera, priva dei toni sfavillanti della foglia d'oro che orna le due scole precedenti.
Nel Ghetto Vecchio convivono vicinissime la Sinagoga levantina (1541) e la Scola Spagnola (1580) entrambe ristrutturate dal Longhena. Due scolette più piccole sono celate nel paramento di palazzi in Campo Ghetto Novo.
Il minhag del ghetto ebraico di Venezia, ovvero l'insieme delle liturgie sinagogali, è unico al mondo proprio per questa varietà di influenze provenienti dalle varie nazioni del Ghetto.
  Incastonato tra questi alti edifici sorge anche il piccolo ma prezioso Museo Ebraico di Venezia, custode di oggetti sacri, tessuti e di una precisa ricostruzione storica delle migrazioni e della storia della comunità veneziana. Da esso è possibile organizzare le visite alle sinagoghe e al suggestivo Cimitero Ebraico che ha sede presso la riviera San Nicolò al Lido. Questo antico luogo di sepoltura ha una storia secolare: la prima lapide è datata 1386 e ne segnala l'apertura. Rimase in uso fino al 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali; in seguito fu abbandonato, sede di espropri a fini militari, atti di vandalismo e solo negli anni '90 fu possibile recuperare circa 1200 tombe datate dal 1550 al 1700.
  L'onta delle leggi razziali emanate durante il Ventennio fascista ha colpito duramente la comunità ebraica di Venezia e il ghetto ne porta, indelebili, i segni. In Campo del Ghetto Novo campeggiano austere le formelle di bronzo del monumento dedicato alla deportazione da parte dell'artista lituano Arbit Blatas accanto alla lapide che per sempre ricorderà i 246 membri della comunità deportati tra il 1943 e il 1944.
  Il ghetto è e resta "un luogo emblematico di Venezia, un topos che continuamente ci interroga e ci provoca" (Cacciari, 2016).
"Non è un problema ebraico" ma di chi l'ha creato, come archetipo di esclusione e dell'antisemitismo (Calimani, 2016). Ad oggi sarebbe sbagliato considerare il ghetto solo come luogo reclusione, poiché è diventato anche sede di una profonda crescita di identità comunitaria e centro nevralgico di scambi culturali interessantissimi. È un luogo della memoria ed è anche uno spazio pubblico ebraico che oggi vive grazie alla comunità ancora presente e a nuovi impulsi, ben rappresentati dall'apertura dell'Ikona Gallery, una delle prime gallerie dedicate alla fotografia e sede di una scuola internazionale di fotografia, gestita da Ziva Kraus, artista e curatrice definita da Moravia "una realista dell'invisibile, capace di fornirci la realtà dell'energia desiderante".

Per approfondire consiglio:
R. Calimani, Storia del Ghetto di Venezia, Mondadori 1985
D. Calabi, Venezia e il Ghetto, Bollati-Boringhieri 2016

(loppure.it, 24 gennaio 2018)


Sapienza alienata

di Vincenzo Pinto

Il vampiro succhiatore di sangue è un tema ricorrente dell'immaginario antisemita. E' una chiara allusione all'ebreo che sfrutta il popolo in mezzo al quale vive e lo priva progressivamente del suo sangue, cioè della forza vitale. L'allusione all'accusa del sangue non è nemmeno così lontana: l'ebreo usa il sangue cristiano per adempiere i propri riti religiosi. Ma se è vero che il sangue rimanda a uno svuotamento "biologico", a livello "socio-culturale" è lecito parlare di "alienazione".
  Invece di succhiare il sangue si aliena (aspira) la conoscenza e il patrimonio vivo di una cultura, con l'obiettivo di "superarla", "inglobarla" e - nel peggiore dei casi ucciderla. Questo è l'obiettivo del lavoro di Giuseppe Veltri, uno dei principali ebraisti europei, nella raccolta di saggi intitolata Sapienza Alienata. Qui lo studioso calabrese, docente all'Università di Amburgo e direttore del Centro Maimonide, inverte le carte in tavola: non è il vampiro-capitalista ebreo a privare il borghese-operaio cristiano del suo sangue-cultura, ma è l'esatto contrario. E' la cultura maggioritaria (quella ellenistica, poi quella cristiana) ad aver "succhiato" (alienato) il sangue a quella minoritaria (ebraica).
  Il lavoro dell'autore è diviso in tre parti. La prima (Tra mito e alienazione), dedicata all'analisi del rapporto fra cultura ebraica e pensiero greco-romano, cerca di cogliere la formazione di una "sapienza" prettamente ebraica all'interno di un contesto caratterizzato dall'esistenza di una cultura politica preponderante (quella greca) e dall'esigenza da parte della diaspora ebraica di salvare la tradizione avita con l'invenzione della "tradizione". Un discorso analogo può farsi per il dibattito sull'essenza dell'ebraismo avviato nel mondo riformato e tendente (specie a Venezia) a trovare nell'apologetica ebraica una via per criticare la pericolosa riduzione dell'ebraismo a "farisaismo".
  La seconda parte (Storia di concetti e definizioni) si sposta fra l'età moderna e contemporanea per cercare di capire come, nel contesto tedesco si sia avviato il dibattito circa la liceità di una filosofia e poi teologia propriamente ebraiche. Anche in questo caso, un dibattito apparentemente accademico è il riflesso di un problema culturale più generale, riguardante la difesa e la valorizzazione della propria autorità e tradizione di fronte alle sfide delle aperture ottocentesche (l'equiparazione giuridica postnapoleonica). Una difesa attiva e basata sull'applicazione del metodo scientifico al corpus storico-esegetico dell'ebraismo.
  La terza parte (Attitudine scettica) è dedicata al problema dell'esistenza di uno scetticismo squisitamente ebraico e al concetto di alienazione (termine dotato di uno statuto giuridico e filosofico particolare). L'autore cerca di evidenziare il ruolo necessariamente passivo esercitato dalla tradizione ebraica in questo processo di alienazione: riferendosi al caso tedesco, lo studioso calabrese sottolinea il processo di alienazione, spoliazione e "toglimento-privazione" di sé attuato dalla cultura maggioritaria verso quella ebraica. Gli esiti di questo processo apparentemente intellettuale e culturale saranno evidenti quando il "legalitarismo" sarà contrapposto all'amore, il particolarismo all'universalismo, l'astratto intelletto calcolatore al cuore pulsante dell'uomo.
  La parte finale indaga il problema estetico della rappresentabilità del divino nel mondo ebraico e dello stretto nesso fra immagine e parola esistente nella tradizione ebraica. La riproduzione del divino nell'immagine dell'uomo è il mezzo per riportare l'uomo alla parola. Dio non è quindi una figura irrappresentabile o bisognosa di un "figlio" (come insegna il cristianesimo), ma è trasposto dalla continua generazione di uomini, loro sì capaci di perpetuare l'immagine di Dio nel mondo.

(Il Foglio, 24 gennaio 2018)


Ravenna - Una violoncellista di 16 anni da Israele per note di pace

"Il governo israeliano ha investito nella promozione di giovani talenti emergenti in campo musicale, promuovendoli in tutto il mondo come testimonial del ruolo che la cultura e la musica possono svolgere nella politica di dialogo fra Israele e le altre nazioni".

di Roberta Bezzi

Danielle Akta
Ravenna coinvolgerà un precocissimo talento israeliano, la violoncellista 16 enne Danielle Akta, insieme a due giovanissime del Conservatorio di Bologna, ma anche sei ragazzi del liceo classico 'Alighieri' di Ravenna per le letture, la terza edizione del Concerto per la Giornata della Memoria promosso da Emilia Romagna Concerti domenica alle 11, al Ridotto del Teatro Alighieri di Ravenna. L'esibizione ravennate avrà un'anteprima sabato alle 21, nella sala Bossi del Conservatorio Martini, in collaborazione con la comunità ebraica della città. L'iniziativa è inserita nella stagione in abbonamento 'Capire la musica' ed è frutto di un consolidato rapporto con il governo israeliano, visto che è dal 2011 che la cooperativa ravennate è presente nella programmazione musicale di Gerusalemme, sia in occasione del concerto di Pasqua che del concerto di Natale, entrambi insieme alla Rai.
  Quest'anno l'evento assume un significato maggiore in virtù della concomitanza del settantesimo anniversario della fondazione dello Stato d'Israele. «Per questo il governo israeliano - spiega il maestro Paolo Olmi - ha investito nella promozione di giovani talenti emergenti in campo musicale, promuovendoli in tutto il mondo come testimonial del ruolo che la cultura e la musica possono svolgere nella politica di dialogo fra Israele e le altre nazioni. Da sempre, la musica è un'arte nella quale gli ebrei si sono sempre ben espressi. Basti pensare che su cento violinisti importanti nel mondo, almeno 80 sono di origine ebraica. Perché proprio virtuosi di tale strumento? C'è chi dice che il violino fosse il più facile da trasportare in caso di fuga ... ».
  La giovanissima Akta, che ha già una avviata carriera internazionale, sarà protagonista - con l'oboista Francesca Mattioli e alla violista Wu Tianyao - del concerto che vedrà l'esibizione dell'Orchestra del Conservatorio 'G.B. Martini' di Bologna diretta dal maestro Alberto Caprioli. Il programma comprenderà Yizkor (In memoriam), una preghiera ebraica composta da Odon Pàrtos, il Concerto in Do minore op. 7 n. 4 di Giovanni Henrico Albicastro (prima esecuzione assoluta a Ravenna) e si concluderà con il Concerto in Do Maggiore HOB Vllb: 1 di Haydn. Durante le varie pause, sei studenti del liceo classico ravennate leggeranno poesie o testi, fra cui Auschwitz di Salvatore Quasimodo, Todesfuge/Fuga di morte di Paul Celan, Diario clandestino di Giovanni Guareschi.

(Il Resto del Carlino, 24 gennaio 2018)


L'auto del diavolo che si portava via gli ebrei

Nel racconto di mia madre, a colpirmi furono due fatti. Due rastrellamenti in Balilla bastarono a cancellare la comunità di Casale Si salvò soltanto una squillo. Gli arresti non vennero fatti da militari tedeschi o della Rsi ma da semplici poliziotti del commissariato.

Fu deportato persino Jaffe, diventato cattolico ed eroe per lo scudetto vinto Ci furono anche suore cattive che consegnarono persone agli sgherri

di Giampaolo Pansa

C'erano degli ebrei anche nella mia città, Casale Monferrato? Certo che c'erano. Esisteva pure una Contrada degli ebrei, poi denominata vicolo Salomone Olper, rabbino a Venezia e patriota dell'Ottocento. Mia madre Giovanna, che dal negozio di mode in via Roma era al corrente di quanto accadeva nel suo territorio, ne aveva parlato in casa subito dopo la Liberazione. Andavo per i 10 anni ed ero un ragazzino curioso. Il racconto che ascoltai, oggi lo rammento come il mio primo Giorno della memoria. A colpirmi furono soprattutto due fatti. Tutti gli ebrei presenti in città, di solito anziani, erano stati catturati nel corso di due razzie compiute nella prima metà del 1944. Si era salvata soltanto una donna sui trent'anni che faceva la squillo, diremmo oggi. Forse avvertita da qualche cliente fascista, si. era rifugiata in un paesino sulle colline.
   L'altro fatto che mi colpì è che le razzie non vennero attuate da militari tedeschi o della Repubblica sociale, bensì da semplici poliziotti del commissariato cittadino. Viaggiavano su una Balilla nera che poteva apparire l'automobile privata di un signore qualunque. Poiché né sul parabrezza né sulle fiancate portava scritte che ne rivelassero la provenienza. Nella mia fantasia di ragazzino, la ritenni la vettura di un demonio o di un boia, che si aggirava silenziosa nel ghetto. Per catturare gli ebrei destinati a essere uccisi.
   Nel febbraio 1944, la guerra in Italia sembrava impantanata sul fronte di Anzio e di Nettuno, mentre altrove si stava preparando uno sterminio di massa. A Casale Monferrato il primo ebreo a essere rapito dalla Balilla nera fu un commerciante a riposo: Federico Simone Levi, di 67 anni, che abitava sul viale della Stazione, in quel tempo chiamato viale Regina Margherita. I poliziotti lo cercarono li, però non lo trovarono. L'equipaggio della Balilla poi lo scovò in un altro alloggio. Lo presero e lo richiusero nel piccolo carcere di via Leardi, a disposizione di chi lo avrebbe deportato in un mattatoio tedesco.
   Tre giorni dopo, il martedì 15 febbraio, vennero presi il secondo e il terzo ebreo. Uno era Armando Levi, uno scapolo anche lui di 67 anni, in pensione dopo aver lavorato in varie aziende private. Non era in buona salute. Soffriva di un male alle ossa, aveva un'atrofia al volto e problemi alla vescica, ma era comunque considerato un pericolo per due signori come Hitler e Mussolini. Dunque lo prelevarono, portando anche lui nella prigione di via Leardi.
   Il terzo ebreo catturato quel martedì era una signora: Erminia Morello, 59 anni, antiquaria e vedova, con due figlie già fuggite in Svizzera. Insieme a lei viveva la vecchia madre che per il momento non venne arrestata. Mentre la figlia Erminia fu rinchiusa con gli altri in via Leardi.
   Il giorno successivo, mercoledì 16 febbraio, ci fu un'altra retata che fruttò cinque catture, sempre compiute dalla Balilla nera. Vennero presi l'ebanista e restauratore Isaia Carmi, 59 anni, e la moglie Matilde Foà, 55 anni. Poi toccò a Giulia Rosa Segre, che in agosto avrebbe compiuto 57 anni. Veniva da una famiglia di commercianti e aveva una sorella che sarebbe stata arrestata in un'altra razzia. La quarta cattura fu quella di Augusta Jarach, 67 anni, una professoressa di pedagogia che da Milano si era trasferita a Casale. Anche lei venne scovata in casa: un colpo di campanello e via sulla Balilla nera!
   Poi venne alla luce il caso del preside sportivo e cattolico: Raffaele Jaffe, 62 anni. Nato ad Asti, aveva sempre abitato a Casale. Laureato in Scienze naturali e in chimica, insegnava nella scuola Normale municipale e in seguito, dopo la riforma Gentile, diventata un istituto tecnico. Jaffe era uno sportivo e soprattutto un grande appassionato di calcio. All'inizio del Novecento, in quella che oggi sarebbe la serie A, trionfava una squadra piemontese: la Pro Vercelli. Un giorno il professore radunò in palestra gli allievi dei due ultimi anni e gli disse: «Dobbiamo opporci al predominio dei biciulan e fondare anche noi una squadra: il Casale football club. I vercellesi hanno la maglia bianca? E noi l'avremo nera, con una stella bianca, lo stellone d'Italia».
   Il Casale Fcb dei nerostellati cominciò a giocare con regolarità qualche anno dopo. Nel campionato del 1913-1914 sconfisse per due volte la Lazio e divenne campione d'Italia. Jaffe fu considerato un eroe della città. Continuò a insegnare, poi si innamorò di una ragazza assai più giovane di lui, insegnante di musica e di canto. Si fece cattolico, la sposò e insieme ebbero un figlio. Jaffe non poteva più essere considerato ebreo, dal momento che era stato battezzato nella cattedrale, in una cerimonia pubblica. Pensava di essere al sicuro e invece la Balilla nera rapi anche lui. Dando inizio a una vicenda complicata che tra poco rievocherò.
   Dopo Jaffe, i poliziotti fascisti arrestarono madre e figlia: Ines Segre, 51 anni, e la ragazza Emma, 21 anni, che si erano nascoste nel seminario di Asti. Lo lasciarono per trasferirsi a Casale. Ma la Balilla nera non le dimenticò e le arrestò entrambe. Era il 19 febbraio 1944, l'ultimo giorno della prima razzia. E si concluse con l'arresto di un altro ebreo che di certo non poteva essere considerato un pericolo per la Germania nazista e l'Italia del fascio.
   La preda si chiamava Cesare Davide Segre, nato a Trino Vercellese, 57 anni compiuti. In gioventù aveva esercitato il mestiere di sarto da uomo, poi le sue condizioni di salute avevano subito un tragico peggioramento. Non ci sentiva né sapeva parlare. Dunque era sordomuto, e in quanto inabile avrebbe dovuto trovarsi al riparo dalla cattura e dall'internamento.
   Lo avevano promesso i boss grandi e piccoli del fascismo di Salò. Per di più, qualche parente l'aveva fatto ricoverare nel reparto incurabili dell'ospedale cittadino, il Santo Spirito. Ma una suora cattiva guidò gli sgherri della Balilla nera a quel reparto e anche il povero sarto entrò nel carcere di via Leardi. Qualcuno sostenne che mori subito, nella notte fra il 19 e il 20 febbraio 1944. Un'altra fonte afferma che arrivò vivo nel campo di transito organizzato a Fossoli. Per spirare in Germania, dentro una camera a gas.
   La seconda razzia degli ebrei di Casale o che vivevano in città fu compiuta il giovedì 13 aprile 1944, nella settimana dopo Pasqua. Anche in quel caso le vite spezzate furono molte. Venne catturata anche la madre dell'antiquaria Erminia Morello. Era una signora di 8o anni: Eugenia Allegra Treves. All'arrivo della Balilla nera non si scompose. Disse soltanto: «Arrestatemi pure, andrò dove c'è mia figlia Erminia e potrò riabbracciarla».
   I poliziotti addetti a quel compito infame bussarono al convento delle suore domenicane di Santa Caterina da Siena e un'altra suora cattiva, che era anche la madre superiora, gli consegnò due sorelle di Asti: Vittorina e Faustina Artom, la prima di 75 anni e la seconda di 73, entrambe vedove da tempo. Le sorelle stavano già viaggiando verso le camere a gas, quando il vescovo di Casale, monsignor Giuseppe Angrisani, venne a sapere quello che era accaduto. Convocò la madre superiora, la maltrattò e la degradò. Ma il peggio era già accaduto.
   Sempre nella seconda razzia, i poliziotti della Balilla nera sequestrarono i due fratelli Fiz. Riccardo aveva 75 anni ed era un medico molto apprezzato in città. L'altro, Raimondo, lavorava nel commercio. Il medico aveva combattuto come ufficiale nella guerra del 19151918 e di quel macello aveva conservato la bicicletta dell'esercito e il mantello da portare in inverno, ma soprattutto un grande rispetto per chi soffriva. Si prendeva molta cura dei malati che si rivolgevano a lui. E spesso non si faceva pagare.
   Dopo la prima razzia degli ebrei casalesi, i fratelli Fiz si nascosero nell'Ospedale civico. Ma un'altra suora cattiva li consegnò alla Balilla nera. E per loro fu la fine. Dobbiamo stupircene? Penso di no. Gli esseri umani possono essere malvagi. E degli ebrei non importava quasi a nessuno. Infatti di quanto accadde a loro in una piccola città dove tutti sapevano tutto di tutti, non si parlò per anni.
   Mi resta da dire qualcosa del professor Jaffe. Il certificato di battesimo che lo dichiarava cattolico gli evitò per qualche mese la deportazione e gli consentì di restare nel campo di transito situato a Fossoli, in provincia di Modena. Poi venne prelevato e rinchiuso in un convoglio carico di ebrei. Prima ancora di passare il confine, venne trasferito su un treno blindato diretto ad Auschwitz. Nel campo polacco arrivò la sera di domenica 6 agosto 1944. Non superò la selezione all'ingresso e venne subito ucciso in una camera a gas.

(La Verità, 24 gennaio 2018)


L'abbraccio della Puglia agli ebrei: salvati dal Sud

I campi profughi a Bari. «Noi, braccati come cani e poi liberi». Due libri e i risultati delle ultime ricerche tracciano una mappa delle case e dei villaggi

di Vito Antonio Leuzzi

La via della salvezza era a Sud: un Mezzogiorno accogliente, che ha sempre aperto le braccia ai profughi. Se guardiamo indietro, ai tempi della liberazione italiana, avvenuta per tappe tra il 1943 ed il 1945, osserviamo che nel Centro e nel Nord del Paese ci furono deportazione e morte ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio, degli ebrei italiani e degli oppositori al nazifascismo. Ben diversa fu invece la situazione nell'Italia meridionale ed in particolare in Puglia, dopo l'8 settembre 1943. I tratturi della transumanza ed il mare Adriatico si trasformarono in via della salvezza per una gran massa di profughi. Tra i primi a dirigersi verso Bari furono ex internati italiani e stranieri, in particolare ebrei liberati dai campi di internamento installati dal fascismo in diversi regioni del Sud subito dopo l'entrata in guerra.
qPer venire incontro alle necessità di accoglienza e per sistemare in tempi brevi, i profughi in fuga dalla guerra e dal terrore degli uomini di Hitler furono allestite dagli alleati, poche settimane dopo l'armistizio, diverse strutture ricettive, riadattando ex campi di prigionia del regime con il concorso del Governo italiano e degli organismi internazionali, in particolare la «Commissione Alleata», l'UNRRA e in seguito l'IRO.
   Ciò che avvenne nel resto d'Europa dopo la fine della Shoah e della guerra, con la istituzione di immensi campi di accoglienza per i sopravvissuti, a Bari si verificò un anno e mezzo prima. Queste complesse vicende sono alla base dei risultati di una recente ricerca di diversi studiosi e ricercatori Ipsaic, confluiti in due volumi di, Pasquale Gallo, Profughi Austriaci nella Bari del 1944 ed. AA. VV. , Bari rifugio dei profughi nell'Italia libera 1943-1951, (Edizioni dal Sud ).
   Una ebrea austriaca, Herta Reich, internata a Bomba in Abruzzo e rifugiatasi a Bari nel novembre del 1943, così ricordò i momenti vissuti dopo l'8 settembre: «Erano giorni elettrizzanti giorno dopo giorno seguivamo sulla carta topografica l'avanzare degli inglesi da Sud a Nord, e quello dei tedeschi da Nord verso Sud. Noi eravamo nel mezzo e non avevamo altra via di scampo che raggiungere gli inglesi».
   Bari svolse la particolare funzione di capitale dei profughi italiani e stranieri, tra cui ebrei di diversa nazionalità, iugoslavi, albanesi, greci, cecoslovacchi, rumeni, ungheresi, in un dopoguerra anticipato rispetto al resto d'Italia e d'Europa. In questa inedita ricostruzione storica, balza all'attenzione il ruolo svolto dal«Transit Camp n.1» di Bari di Torre Tresca nella frazione di Carbonara, come «campo di transito e di quarantena» e come «campo di attesa» per le displaced persons (individui che avevano perso tutto, costretti a rifugiarsi fuori dello Stato dove erano nati).
   La città stessa si caratterizzò per la requisizione di 3000 appartamenti e non solo per le necessità militari, ma per centinaia di profughi stranieri che a «Radio Bari» e nelle diverse strutture logistiche degli alleati sostennero i movimenti di liberazione della Iugoslavia, dell'Albania, dell'Austria.
   Questa particolare funzione del capoluogo e delle altre città del Nord barese e dell'area salentina si consolidò dopo il 1945, con la destinazione a campi profughi dell'ex struttura militare alleata di Palese («Transit Camp 197», 1946-1947) e di analoghi siti a Barletta e Trani. Si requisirono alla periferia di Bari (in via Salerno, attuale via Amendola) e nelle frazioni Palese, Santo Spirito e Torre a Mare numerose ville, trasformate in strutture di accoglienza che ospitarono, tra gli altri, ebrei provenienti dai campi della Germania e dell'Austria. Nel 1944 si formò a Bari una Comunità ebraica e si ricostituirono diversi nuclei familiari di ebrei italiani e stranieri colpiti dalle disposizioni razziali del fascismo.
   Nei due volumi si evidenzia la funzione del tutto inedita della città come immensa struttura di accoglienza. Le diverse testimonianze di Vera Levi Finzi, di Trudy Bandler, di Rachel Amram (nata a Bari nel 1946), di Sergio Dente hanno consentito di individuare e comprendere più a fondo le «odissee», le paure, il dolore per le violenze subite, per la perdita di familiari e per le vite in frantumi. In questi campi si cercò di lenire le ferite e le cicatrici di un passato orrendo, si organizzarono scuole, laboratori e centri di formazione. Sulla costa a Sud di Mola di Bari, nella frazione di Cozze tra il 1945 e il 1947 si costituì una base per l'organizzazione dell'emigrazione clandestina verso la Palestina. L'insieme di queste vicende ispirarono il film di Duilio Coletti Il Grido della Terra, realizzato nel 1948 nei campi e sulla costa barese. La funzione svolta da Bari e dalla Puglia nell'ospitalità ai perseguitati dalle leggi razziali, ai sopravvissuti alle deportazioni, ai campi di concentramento e di sterminio si sintetizza nelle efficaci parole di uno dei più noti scrittori israeliani, Aharon Appelfeld, scomparso alcune settimane fa, approdato nel 1945 sulla costa pugliese, che in una testimonianza di alcuni anni fa affermò: «L'Italia è stato il luogo dove ho iniziato a pensare e a recuperare le mie emozioni, dato che per tutto il periodo precedente ero stato braccato come un cane».

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 24 gennaio 2018)


Ha vinto Israele, la Palestina è morta. Ma è adesso che cominciano i guai veri

Riportiamo la prima parte di un articolo comparso martedì su LINKIESTA.

di Fulvio Scaglione

Non ci sono molti modi per dirlo e l'unico che abbia senso è il più diretto e brutale: la causa palestinese è finita. Non si tornerà alla Linea Verde e agli pseudo-confini in essere tra il 1949 e il 1967, Gerusalemme Est non sarà mai la capitale dello Stato di Palestina anche per la semplice ragione che non ci sarà mai uno Stato di Palestina. Benjamin "Bibi" Netanyahu, primo leader del Governo a essere nato nello Stato di Israele, quattro volte primo ministro e secondo premier più longevo dopo il padre della patria David Ben Gurion, ha vinto. Ha ridotto l'opposizione armata dei palestinesi a un problema di ordine pubblico, ha incrementato la politica degli insediamenti (oggi il 10% della popolazione israeliana vive nelle "colonie"), il suo partito Likud ha proposto l'annessione diretta di tutti gli insediamenti di Giudea e Samaria (chiamate "aree liberate"), lui si è presentato agli elettori con la promessa che lo Stato palestinese non sarà mai creato (e l'hanno rieletto), si è fatto dare soldi e armi da Obama e Gerusalemme da Trump.
   Ieri bastava guardare su Internet per averne la dimostrazione plastica. A Gerusalemme, il vice presidente Usa Mike Pence si diceva felice di essere "nella capitale di Israele". E quando alla Knesset, il Parlamento, i deputati arabi ha provato a contestarlo, la sicurezza li ha ramazzati via dall'aula tra gli applausi dei loro "colleghi". Nelle stesse ore, Abu Mazen, a Bruxelles, chiedeva alla Ue di riconoscere lo Stato di Palestina in maniera definitiva, e non solo "in linea di principio" come già fatto nel 2014. Forse ignaro del fatto che in Europa solo 5 nazioni hanno fatto quel passo e, soprattutto, inconsapevole della triste realtà: più è cresciuto il numero dei Paesi che hanno riconosciuto la Palestina (siamo a 130), più è cresciuto il controllo di Israele sulla Palestina stessa. Controprova: più cala il sostegno diplomatico a Israele (la mozione di condanna della decisione Usa su Gerusalemme è stata respinta da soli 7 Paesi, in maggioranza scartine), più aumenta il potere di Israele sui palestinesi.
   Povero Abu Mazen. Povero vecchio e corrotto leader, che piatisce un riconoscimento presso quella stessa Ue che mise Tony Blair, invasore e distruttore dell'Iraq e responsabile di decine di migliaia di morti, a guidare dal 2007 al 2015 quel Quartetto (Usa, Russia, Ue e Onu) che doveva portare la pace tra gli israeliani e gli arabi palestinesi.
   Quindi, diciamolo senza ipocrisie: la causa palestinese è politicamente morta. È meglio saperlo. Per non farsi illusioni. Per non continuare a credere in quella finzione chiamata diritto internazionale e nella sequela di risoluzioni contro le azioni di Israele con cui l'Onu si è riempito la bocca senza cavare un ragno dal buco. [...]

(LINKIESTA, 23 gennaio 2018)

L’articolo continua ponendo domande sul dopo, in un’ottica genericamente anti-israeliana, senza osare dare risposte o indicazioni. L’aspetto migliore sta proprio nella valutazione realistica della realtà: “La Palestina è morta”. A cui aggiungiamo che in realtà non è mai nata. E’ nata soltanto l’attesa, la speranza, il progetto, costruttivo o distruttivo a seconda dei casi, di una nazione che non aveva alcuna ragione di esistere se non quella di impedire lo stabilirsi e il crescere dello Stato ebraico. Per i concreti abitanti arabi di quell’area geografica oggi chiamata “Palestina” ma il cui nome biblico originario è Giudea e Samaria, la cosa migliore oggi sarebbe prendere atto una volta per tutte che la disastrosa guerra in cui li hanno fatti entrare i loro capi è definitivamente, irrimediabilmente persa. Per gli arabi dei territori palestinesi, ma anche per gli israeliani, l’aspetto peggiore del discorso di Pence non sta nell’aver confermato che Gerusalemme è la capitale di Israele (cosa che già si sapeva), ma nell’aver assicurato che gli USA continueranno a lavorare per arrivare ai classici ”due stati per due popoli che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza”. Questo ricorda le funeste parole del maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, che il 25 luglio 1943 pronunciò la famosa frase: la guerra continua. E così sarà anche in questo caso: la guerra continuerà, in forma probabilmente diversa, ma continuerà.. Gli arabi continueranno a molestare Israele: Israele sarà costretto a colpirli; loro si lamenteranno; il mondo darà loro ragione e loro si sentiranno autorizzati a molestare ancora di più Israele; Israele sarà costretto a colpirli e così via. Il ciclo messo in moto dal “progetto dei due stati” continuerà fino a che qualcosa di nuovo non ne interromperà il ripetersi. Il discorso di Pence non è questo nuovo. M.C.


Mogherini, l'ultima alleata di Abu Mazen

A Bruxelles il leader dell'Anp chiede soldi e all'Ue di riconoscere la Palestina

di Gian Micalessin

 
Un tempo andava pazza per Arafat. Oggi deve accontentarsi dell'ombroso presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen. Ma poco cambia. L'importante per Federica Mogherini, fedele al passato di giovane militante del Partito Comunista, è che sia palestinese. E così tanto è stata algida e scontrosa a dicembre con Bibi Netanyahu, primo premier israeliano a far visita all'Unione europea in 22 anni, tanto è stata premurosa e disponibile ieri con l'anziano presidente dell'Anp arrivato a Bruxelles per chiedere nuovi aiuti finanziari e il riconoscimento dello stato palestinese. Nonostante le speranze riversate da Abu Mazen in quell'ex pasionaria diventata, grazie a Renzi, Alto Rappresentante della Politica Estera Europea neanche Federica Mogherini potrà tirar fuori lui e l'Autorità Palestinese dal vicolo cieco in cui si sono cacciati.
   Tutto è iniziato con la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele ratificando la decisione del Congresso Usa del lontano ottobre 1995. Dopo quella ratifica Abu Mazen e i suoi hanno ufficialmente voltato le spalle agli Stati Uniti rifiutandosi di continuare a riconoscergli come mediatori in un eventuale nuovo processo di pace. Non è stata una grande decisione. Anche perché Trump dopo aver esaminato la lista dei cinque e passa miliardi di dollari regalati ai palestinesi dal 1994 ad oggi ha deciso di rinunciare anche al titolo di principale benefattore dell'Anp. E così in attesa di cancellare i 300 milioni di dollari devoluti annualmente da Usaids ha annullato il bonifico che a inizio gennaio doveva trasferire 65 milioni di dollari all'Unrwa, l'agenzia Onu per i profughi palestinesi.
   Il primo obbiettivo di Abu Mazen è dunque trovare i quattrini rifiutati da Trump. E per riuscirci può soltanto sperare nell'Europa, da sempre suo secondo grande benefattore. Dal punto di vista politico è però alle prese con un problema ancor più serio. Rinunciando alla mediazione di Washington ha, di fatto, rinunciato a qualsiasi possibilità di negoziato e quindi a qualsiasi speranza di ottenere uno Stato indipendente. E a rendere il tutto più surreale s'aggiunge una pretesa tanto vana quanto contraddittoria. Abu Mazen chiede infatti all'Unione europea di riconoscere lo Stato palestinese e al tempo stesso di sostituirsi agli Stati Uniti come mediatore internazionale nei negoziati con Israele. Una pretesa doppiamente assurda davanti alla quale anche l'amica Mogherini può soltanto alzar le braccia. La prima richiesta si annulla da sola perché l'eventuale riconoscimento non spetta alla Ue, ma ai singoli Stati. Otto dei quali hanno già deciso in tal senso. L'illusione di un'Europa capace di sostituirsi agli Stati Uniti come mediatore nei negoziati di pace è invece di fatto irrealizzabile vista la diffidenza israeliana nei confronti di un'Unione sempre troppo disponibile con i palestinesi. Nonostante le richieste politicamente surreali ed economicamente impegnative del presidente palestinese la Mogherini non s'è, comunque, tirata indietro.
   Dopo aver sottolineato che «non è tempo di disimpegno» ha promesso appoggio a una «soluzione a due Stati e Gerusalemme come capitale condivisa» e ha rassicurato Abu Mazen promettendo di subentrare agli Stati Uniti per i finanziamenti dell'Unrwa. Insomma promesse e sorrisi. Come quelli formulati da 70 Paesi al termine della riunione organizzata da Parigi ai primi del 2017 per rilanciare il processo di pace. Promesse e sorrisi di cui nessuno ricorda più neppure l'esistenza.

(il Giornale, 23 gennaio 2018)


*


Federica Mogherini si inventa lo stato palestinese: ora basta, così infanga l'Italia

Lo «Stato di Palestina» esiste già. Almeno per Federica Mogherini. Incurante dei tempi, e delle trattative diplomatiche ben lontane dalla conclusione, l'Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell'Unione europea ha già concesso quanto sta a cuore ad Abu Mazen. Lunedì 22 gennaio il presidente dell'Autorità nazionale palestinese era a Bruxelles per incontrare i ministri degli Esteri dei Paesi Ue. Ai quali ha ricordato la richiesta palestinese: il rapido riconoscimento dello «Stato di Palestina». Un passo finora compiuto solo dalla Svezia. Dopo il pranzo con i responsabili delle diplomazie del Vecchio continente, lo stesso Abu Mazen e Mogherini hanno dato vita a una conferenza stampa congiunta. Ed è qui che Mogherini, che nel corso dei colloqui con il numero uno dell'Anp ha più volte ribadito la volontà europea di venire incontro ai desideri palestinesi, ha di fatto riconosciuto - in solitudine - il nuovo Stato. È successo quando Mogherini ha confermato il «fermo impegno dell'Ue per la soluzione dei due Stati, con Gerusalemme capitale di entrambi: lo Stato di Israele e lo Stato di Palestina». Così quello che oggi è un nodo ancora da sciogliere - il riconoscimento della Palestina - per Mogherini è già archiviato. Un'altra perla, dopo le posizioni filo-iraniane sul nucleare e l'opposizione a Donald Trump su Cuba, per il "ministro degli Esteri" di Bruxelles.

(il Giornale, 23 gennaio 2018)


Spot per i capelli con il velo, la modella Amen Khan ci ripensa

Sotto accusa per i tweet anti-Israele rinuncia alla campagna

di Pietro De Leo

Amen Kahn
Ancora un autogoal per il generone multiculturalista e così finisce l'avventura di testimonial pubblicitario per L'Oreal di Amen Kahn, la blogger che era stata scelta dall'azienda francese per pubblicizzare i prodotti per capelli. Un vero e proprio paradosso, perché la nuova modella compariva con la propria chioma occultata da uno dei veli propri della tradizione islamica, l'hijab. Non è stata la contraddizione visiva a mandare tutto a monte, ma alcuni tweet che la blogger aveva pubblicato nel 2014 ferocemente anti-Israele, definito dalla giovane uno "Stato illegale", "Stato sinistro" e "Stato terrorista".
Insomma, argomenti tipici della propaganda dell'estremismo musulmano. Questi tweet hanno cominciato a rimbalzare per alcuni siti e sono diventati virali. Così, Ameda ha fatto marcia indietro e in un lungo post su Instagram ha spiegato le ragioni che l'hanno spinta ad abbandonare la campagna di L'Oreal: ha espresso rammarico per quanto scritto quattro anni fa chiedendo scusa a chiunque si fosse sentito ferito da quei tweet.
"Ho deciso di cancellarli - scrive - perché non rappresentano il messaggio di armonia che io sostengo". E ancora: "ho deciso di ritirami dalla campagna perché il dibattito nato attorno ad essa distrae dal positivo sentimento di inclusione che aveva cominciato a sviluppare". Un portavoce dell'azienda ha spiegato alla Cnn: "siamo stati informati di una serie di tweet pubblicati nel 2014 da Amen Kahn" e apprezziamo il fatto che Amena si sia scusata per il contenuto di questi tweet e il reato che hanno causato. L'Oreal Paris è impegnata nella tolleranza e nel rispetto verso tutte le persone. Dunque siamo d'accordo con la sua decisione di dimettersi dalla campagna". E meno male.

(Il Tempo, 24 gennaio 2018)


Viaggiare senza dipendere dal petrolio

Israele è all'avanguardia nello sviluppo della mobilità sostenibile che utilizza carburanti alternativi, derivati da gas naturali o da energia elettrica.

di Luca D'Ammando

 
Anat Lea Bonshtien
E' Israele il nuovo punto di riferimento mondiale per il settore della mobilità intelligente. Merito di una politica attenta e innovativa, partita nel 2010 con l'obiettivo di ridurre del 60% i consumi di petrolio entro il 2025. Così questo piccolo Stato è arrivato ad attirare sempre più l'attenzione e gli investimenti, in particolare nel campo dei carburanti alternativi. A dimostrazione di questi risultati straordinari, ci sono gli otto centri di ricerca e sviluppo multinazionali aperti negli ultimi anni. E una conferma ulteriore del trend virtuoso è arrivata dalla quinta edizione del Fuel Choices and Smart Mobility Summit, che per due giorni ha riunito a Tel Aviv i principali attori del cambiamento che sta interessando il mondo dei trasporti, con oltre 500 tra aziende e start-up attive nel settore. «Vogliamo ridurre la dipendenza dal petrolio su scala globale, non solo locale», ha spiegato la direttrice del Summit, Anat Lea Bonshtien. «Per questo abbiamo bisogno di accrescere l'industria, la tecnologia e produrre più innovazione che sarà utilizzata in tutto il mondo. Lo facciamo attraverso delle collaborazioni internazionali, promuovendo tutti i programmi che servono perché se questo è un problema globale merita uno sforzo globale». Un esempio è la collaborazione con Cnh Industrial, con i suoi veicoli alimentati a gas naturale. L'azienda del gruppo Fca ha siglato un memorandum d'intesa proprio con la Fuel Choices & Smart Mobility Initiative, programma nazionale israeliano sull'alternativa energetica. Una collaborazione finalizzata allo sviluppo di carburanti alternativi e tecnologie basate sull'utilizzo del gas naturale.
   Sette anni fa, infatti, Israele ha scoperto tre grandi giacimenti di gas naturale al largo delle sue coste mediterranee. Il ministro dell'Energia Yuval Steinitz sottolinea come da allora lo stato abbia fatto molto: «Nel campo dell'energia elettrica siamo già arrivati a produrre quasi il 70% da questa fonte pulita e puntiamo ad arrivare all'80%, ma soprattutto stiamo ora cercando di fare lo stesso nel mondo dei trasporti. Questo è più difficile, ma vogliamo incoraggiare il sistema israeliano dei trasporti a passare dai derivati del petrolio al gas naturale, che è pulito».
   E in tema di mobilità sostenibile, Israele è all'avanguardia anche sotto l'aspetto tecnologico, con start-up apripista nell'ambito della guida autonoma e della mobilità elettrica. Ma il progresso non si ferma solo alle automobili: a Cesarea, a nord di Tel Aviv, hanno deciso di rivoluzionare anche le infrastrutture, creando una smart road capace di ricaricare i veicoli elettrici che la percorrono. Si chiama Electroroad la società che creerà la prima strada intelligente: ha ideato un particolare sistema di ricarica induttiva da integrare nell'asfalto, così da permettere ai mezzi elettrici di ridare energia alle batterie viaggiando. In realtà prototipi di strade con queste caratteristiche erano già stati già progettati, ma qui, per la prima volta, questa tecnologia trova un impiego concreto. Nei prossimi mesi verrà realizzato un tratto di 800 metri, sulla strada tra la città di Eliat e l'aeroporto internazionale di Ramon, con elettromagneti posizionati nell'asfalto che interagiranno con delle placche di rame montate sotto a bus e altri mezzi di trasporto, alimentandoli induttivamente.
   Il progetto di Electroroad è finanziato dal governo israeliano, che ha stanziato un fondo di 120mila dollari per la realizzazione del primo chilometro di strada sul quale provare l'effettivo funzionamento del sistema. Se i risultati saranno positivi, Electroroad potrà dare vita alla prima smart road al mondo, della lunghezza complessiva di 17 chilometri.

(Shalom, dicembre 2017)


Pence commuove Israele, «Gerusalemme è vostra»

Applausi a scena aperta alla Knesset per il vice di Trump. Protesta dei deputati arabi: allontanati

Finiti gli anni di Obama
Entusiasmo bipartisan in Parlamento, la Casa Bianca è di nuovo una vera alleata
Piano strategico
Importanti incontri coi leader di Egitto e Giordania per saldare una rete regionale di alleanze

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Ieri alla Knesset, il Parlamento israeliano, abbiamo contato una ventina di standing ovation dell'assemblea e una protesta durissima di un gruppo parlamentare. E anche se molti media si sono affannati a descrivere il successo del vicepresidente americano Mike Pence come un abbraccio fra destre, quella del governo di Netanyahu e quella dei repubblicani di Trump, gli applausi a scena aperta sono pervenuti dai banchi del governo e dell' opposizione. Un vero amico per Israele è importante fino a essere commovente dopo gli anni duri di Obama; ed è fondamentale in una continua lotta contro la delegittimazione e la criminalizzazione non solo da parte dei palestinesi ma di molti Paesi musulmani e spesso anche europei che un amico ti stimi apertamente. È una vera spinta alla pace. Invece non è un caso che nelle stesse ore, come in una commedia su un palcoscenico girevole, Abu Mazen abbracciasse la Mogherini un po' imbarazzata, chiedendo che l'Europa proclami lo Stato Palestinese. Ma senza successo.
   Chi ha protestato duramente alla Knesset, con una scena che ricordava il Parlamento italiano, sono stati i tredici parlamentari della Lista Unita araba: hanno tirato fuori dei cartelli con la scritta «Gerusalemme è la capitale della Palestina». I commessi li hanno buttati fuori a spintoni, ma di nuovo la minaccia delle ultime ore di un boicottaggio serio, memorabile, è svanito come quello di una Intifada all'indomani dell'8 dicembre, quando Trump dichiarò Gerusalemme capitale di Israele.
   Pence ha una faccia e una voce da attore cinematografico, è un classico americano impregnato dell'identità di cristiano, un evangelico del diciottesimo secolo, pieno di sentimento e di volontà didattica. Si sa che dietro la decisione di Trump su Gerusalemme c'è stato sempre lui: e che diamine, Gerusalemme è degli ebrei, lo dice senza dubbio la sua Bibbia. Ieri ha detto che l'America ha avuto l'onore di riconoscere per prima lo Stato d'Israele, ma c'era una grave mancanza: Gerusalemme! E ora la falla è stata ripianata. Dunque, l'ambasciata sarà trasferita entro la fine dell'anno prossimo. Ma l'amministrazione Trump non ha abbandonato l'idea, nonostante l'ira di Abu Mazen, della pace, di due Stati per due popoli, di negoziati diretti fra israeliani e palestinesi, e qui ha alluso alla necessità che i palestinesi almeno ascoltino che cosa propongono gli americani; infine ha anche promesso che l'Iran non avrà mai la bomba: «L'accordo è un disastro, e gli Stati Uniti non lo certificheranno ... a meno che non venga modificato». Pence ha descritto col tono e l'espressione oltre che con le parole il sentimento che lo lega e che lega gli Usa a Israele, alla difesa della sua sopravvivenza, l'ammirazione per la sua democrazia e per la rinascita del popolo ebraico dopo la Shoah. È stata una specie di distillato del significato che può avere nella vita del mondo occidentale tenere per questo piccolo Paese. Trump non può esprimerlo come Pence, che nella Bibbia legge, alla lettera, la storia del presente e del futuro, e che ritiene suo dovere difenderne la civiltà. Nel disegno di Pence gli incontri dell'altro ieri con Al Sisi d'Egitto e domani con il re della Giordania Abdullah sono molto importanti per la strategia americana, che affida ai due personaggi anche il ruolo essenziale di rimettere in piedi un processo di pace che si basi sull'interesse a mantenere la stabilità contro l'aggressività dell'Iran e dei suoi alleati. Ad Amman Pence potrà annunciare un accordo per un miliardo e mezzo di dollari l'anno, anche con l'Egitto si è certo parlato della rinata alleanza economica. Un grande successo alla Knesset deve avere come contrappasso una rinata amicizia coi Paesi sunniti moderati.
   Pence ha concluso il suo discorso con una benedizione ebraica che si dice ogni volta che si incontra una persona cara, si mangia di nuovo un frutto al suo ritorno dopo il ciclo naturale: «Ad aprile si celebrano 70 anni dalla nascita di Israele. Mentre vi preparate per lo storico evento io qui con la brava gente d'Israele voglio dire shehecheyanu, sii benedetto Dio, re del mondo, che ci hai dato la vita, ci hai sostenuto, ci hai permesso di arrivare a questo giorno». Gli occhi di Pence erano lucidi di emozione, come quelli di tutta l'assemblea.

(il Giornale, 23 gennaio 2018)


La crociata degli evangelici in favore di Israele

di Cyrille Louis

The International Christian Embassy Jerusalem
GERUSALEMME - L'Ambasciata degli Stati Uniti a Israele, il cui trasferimento a Gerusalemme è stato deciso il 6 dicembre da Donald Trump, non sarà la prima istituzione a rivendicare questo statuto. Dal 1980, una "Ambasciata Cristiana Internazionale" testimonia l'incrollabile sostegno che le comunità evangeliche stabilite negli Stati Uniti, in Sud America, in Asia e altrove hanno scelto di portare allo Stato ebraico. Ospitata in un'elegante villa nell'ex colonia tedesca, questa organizzazione spende ogni anno oltre venti milioni di dollari per finanziare l'immigrazione ebraica, fornire aiuti ai sopravvissuti all'Olocausto e sostenere gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. "A differenza delle chiese stabilite, che si sono spesso mostrate ostili agli ebrei, siamo qui per riparare tutto il male che è stato fatto loro in passato", ha detto David Parsons, il suo vicepresidente.
   Convinti che il ritorno del popolo ebraico nella antica terra di Israele, tra cui la Cisgiordania, è un prerequisito per il compimento delle profezie bibliche, i cristiani evangelici non hanno nascosto la loro soddisfazione quando il presidente degli Stati Uniti ha riconosciuto Gerusalemme come la capitale dello Stato ebraico. Nei giorni scorsi, la Friends of Zion Christian Foundation ha finanziato l'installazione di dozzine di insegne nel centro della città, in cui si augura il benvenuto a Mike Pence. Profondamente religioso, il vicepresidente condivide la loro fede nella dimensione messianica del sionismo e sembra aver personalmente influenzato la decisione di Donald Trump. "Questa visita è una consacrazione che incorona un antico e incrollabile impegno per Israele", ha detto David Parsons, il cui unico rimpianto è che Mr. Pence in questa occasione non ha trovato il tempo di incontrare i rappresentanti del movimento evangelico.
   Organizzazione atipica, l'"Ambasciata cristiana" è stata creata in risposta alla crisi diplomatica che alla Knesset ha provocato il voto di una legge che proclama la sovranità israeliana su tutta Gerusalemme. Su invito dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, le tredici ambasciate allora stabilite nella città sono state trasferite a Tel Aviv per protestare contro questa decisione unilaterale. "Mentre i nostri paesi hanno voltato le spalle a Israele, abbiamo ritenuto importante mostrare la nostra solidarietà con Israele", ha dichiarato David Parsons. In collaborazione con l'Agenzia ebraica e insieme ad altre organizzazioni evangeliche, l'ambasciata ha sborsato 55 milioni di dollari per facilitare l'aliya, la partenza verso Israele, di 140.000 ebrei dall'ex-URSS, dall'India e dall'Etiopia - ma anche dalla Francia, dove 4.000 candidati hanno beneficiato del suo aiuto dopo il 2010. Nel cuore della Cisgiordania, finanzia la costruzione e la manutenzione di infrastrutture a vantaggio dei coloni israeliani. "Non demonizziamo nessuno", afferma Parsons, sottolineando il lavoro svolto in una sinagoga a Kiryat Arba, uno degli insediamenti più radicali della Cisgiordania.
   Questa posizione, minoritaria ma influente, è ovviamente respinta dalla maggior parte delle Chiese della Terra Santa. In una dichiarazione congiunta rilasciata nel mese di agosto 2006, il Patriarca latino (cattolico) e i suoi omologhi siriaci, anglicani e luterani, hanno accusato i sionisti cristiani di diffondere "falsi insegnamenti che corrompono il messaggio biblico di amore, giustizia e riconciliazione" per "abbracciare le posizioni ideologiche più estreme dei sionisti, con il rischio di ostacolare una pace giusta tra la Palestina e Israele". Questo divorzio trova un esempio lampante nel fatto che Mike Pence non aveva intenzione di incontrare alcun dignitario cristiano durante la sua visita di due giorni a Gerusalemme. Alla vigilia del suo arrivo, Hanap Ashrawi, che siede nel comitato esecutivo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha dichiarato: "Appartengo alla più antica tradizione cristiana del mondo e non credo che Dio abbia ordinato che i palestinesi siano trattati con tale ingiustizia."
   
Trascurando queste critiche, David Parsons dice di rispettare i cristiani della Palestina ma fa capire che quelli che criticano Israele sono sotto il peso della coercizione. "I miei fratelli a Betlemme, come la maggior parte delle minoranze cristiane in Medio Oriente, sono sotto il dominio islamico e si sentono in dovere di fare causa comune con altri palestinesi", assicura. In modo piuttosto curioso, afferma anche di sapere da fonte sicura che "il patriarca di una delle grandi Chiese stabilite a Gerusalemme ha stappato lo champagne quando Trump ha fatto il suo annuncio".
   Il messaggio dei cristiani evangelici oggi è ben visto in Israele, ma a volte è stato accolto con diffidenza. Gli ebrei religiosi sono ben consapevoli che i cristiani evangelici vedono essenzialmente il loro ritorno a Sion come preludio alla loro conversione prima del ritorno di Cristo sulla terra, ma sembrano essersi rassegnati a smorzare le loro riserve in nome di un "impegno comune contro lo spettro dell'islamismo radicale". Parlando lo scorso agosto, in videoconferenza, ad un pubblico di cristiani evangelici americani, Benjamin Netanyahu ha cercato di far dimenticare le rivendicazioni nazionali palestinesi dicendo in sintesi: "Siamo impegnati in una lotta di civiltà - una lotta tra società libere e le forze dell'Islam militante."

(Le Figaro, 23 gennaio 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Articolo scritto con qualche approssimazione, ma sostanzialmente corretto. E’ consolante sentir dire che le “Chiese della Terra Santa”, cioè quelle “chiese stabilite, che si sono spesso mostrate ostili agli ebrei, dicano che i sionisti cristiani diffondono “falsi insegnamenti che corrompono il messaggio biblico”, perché proprio questo è ciò che pensano di loro molti cristiani evangelici: istituzioni religiose ecclesiastiche che diffondono falsi insegnamenti che corrompono il messaggio evangelico”. E il loro astio verso Israele lo conferma. M.C.
 The International Christian Embassy Jerusalem


Giro d'Italia 101. Gerusalemme-Roma: l'anima è rosa

di Ciro Scognamiglio

 
Gerusalemme - Bridge of Strings in rosa
Quando la bellezza si illumina di rosa. Succede oggi: al via del Giro d'Italia numero 101 - venerdì 4 maggio da Gerusalemme - mancano 101 giorni e così è il conto alla rovescia a fornire lo spunto per far brillare non solo metaforicamente il filo rosa che dal 1909 unisce il Bel Paese. E non solo, a volte, come in questa occasione, perché la storica Grande Partenza da Israele - tre tappe - è la prima fuori dai confini europei e anche il Paese che nel 2018 festeggia i 70 anni ha illuminato alcuni simboli con il colore Gazzetta: il Bridge of Strings ed il Municipio di Gerusalemme; il Municipio di Tel Aviv; il Municipio, la Fontana all'ingresso della città e l'Anfiteatro di Beer Sheva, la zona degli hotel e l'illuminazione della via principale di Eilat. La prima tappa italiana sarà la Catania-Caltagirone di martedì 8 maggio: oggi si illumina di rosa la Scala di Santa Maria del Monte a Caltagirone; l'ultima quella di Roma domenica 27, ed è la Fontana dei 4 Leoni in Piazza del Popolo a cambiare «tinta». In mezzo, ecco una lista (parziale) dei tanti altri simboli: dalla Fontana del Tritone a Caltanissetta all'Abbazia Benedettina di Loreto a Montevergine di Mercogliano; dalla Rocca Maggiore Albornoziana di Assisi alla Piazza di Imola; dalla Torre della Picotta di Tolmezzo al Castello Visconteo di Abbiategrasso; dalla Torre dell'Orologio della Reggia di Venaria Reale al Campanile della Cattedrale di Susa. Senza dimenticare una speciale fiaccolata rosa sul Monte Zoncolan, la salita friulana considerata come la più dura d'Europa e totem dell'edizione 101. Chiamatele pure, se volete, prove tecniche di Giro d'Italia. Il colore-predominante è sempre quello: il rosa. E oggi brilla.

(La Gazzetta dello Sport, 23 gennaio 2018)


Verso il muro sotterraneo fra Israele e Gaza

Contro gli attacchi dai tunnel segreti

di Giovanni Galli

Nella Striscia di Gaza, Israele sta costruendo un muro sotterraneo di cemento per prevenire gli attacchi di sorpresa dai tunnel segreti perpetrati dai gruppi armati palestinesi.
Il cantiere si estende a perdita d'occhio lungo la frontiera con la Striscia di Gaza. Sono già stati edificati quattro dei 65 chilometri del muro sotterraneo che proteggerà la popolazione civile dagli attacchi di Hamas. Centinaia di operai lavorano 6 giorni su 7, ventiquattr'ore su ventiquattro.
Il costo stimato dell'opera è di 3 miliardi di shekel (all'incirca 750 milioni di euro), secondo quanto ha riportato Le Figaro. La decisione, senza precedenti, di costruire un tale muro è stata presa nel 2014, dopo la guerra che ci fu nell'estate, e che durò 52 giorni: fece 2.100 vittime fra i palestinesi e 73 fra gli israeliani.
Hamas è sotto pressione e da qui a qualche mese questi tunnel offensivi non serviranno più a niente, secondo quanto ha dichiarato un alto responsabile militare israeliano. La domenica scorsa l'esercito ha bombardato un tunnel dove transitano le merci destinate a Gaza.
Questo muro largo un metro sarà in grado di offrire una protezione assoluta contro i tentativi di intrusione sotterranea.

(ItaliaOggi, 23 gennaio 2018)


Università di Perugia: avviata collaborazione con la Hebrew University

L'ateneo perugino e quello israeliano realizzeranno insieme il curriculum internazionale in Chimica sostenibile e dell'ambiente. Riconoscimento del doppio titolo per gli studenti

di Laura Proietti

Rafael Erdreich presenta il Corso di Laurea Magistrale in Scienze Chimiche in collaborazione con la Hebrew University
Rafael Erdreich
L'Università di Perugia e la Hebrew University di Gerusalemme unite per il curriculum internazionale in Environmental and Sustainable Chemistry del Corso di Laurea Magistrale in Scienze Chimiche, che è stato presentato lunedì 22 gennaio. Grazie ad esso i laureati potranno ottenere il doppio titolo.
Rafael Erdreich, consigliere ministeriale dell'Ambasciata d'Israele in Italia, nel corso della presentazione ha evidenziato come il curriculum internazionale con doppio titolo rappresenti un'importante opportunità per le due università coinvolte, con lo Stato d'Israele fortemente impegnato sui fronti della ricerca e dell'innovazione.
"Una collaborazione internazionale di grande significato visto l'ambito di ricerca in cui opera, quello della chimica sostenibile e dell'ambiente" è stata definita dal rettore dell'ateneo perugino, Franco Moriconi.
Il corso sarà realizzato in lingua inglese e prevede che gli studenti effettuino uno scambio in Italia e in Israele per la durata di un semestre.
Tra gli ospiti israeliani erano presenti degli scienziati della Hebrew University (Meital Reches, Igor Schapiro, Lioz Etgar, Daniel Strasser, Gil Shoham), i quali hanno illustrato le loro ricerche e i temi del curriculum magistrale. Per l'Università di Perugia erano invece presenti Elena Stanghellini (delegato del rettore per le Relazioni internazionali), Francesco Tarantelli (direttore del Dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie; è uno dei quattro dipartimenti dell'ateneo perugino che hanno ottenuto il riconoscimento di eccellenza), Nadia Balucani (presidente del corsi di laurea in Scienze Chimiche) e Luigi Vaccaro (responsabile del nuovo curriculum con doppio titolo).
Nuove possibilità di collaborazione sono state inoltre valutate nel pomeriggio in un incontro tra la delegazione israeliana per valutare nuove opportunità di collaborazione.

(CE Corriere dell’Economia, 22 gennaio 2018)


La nuova religione laica: il palestinismo

La gigantesca opera di falsificazione del conflitto arabo-israeliano ha fondato una nuova religione laica, il palestinismo. Religione che alla pari di tutte le altre ha i suoi precetti, i suoi dogmi, il suo credo, i suoi rituali e riti e, ovviamente, i suoi sacerdoti e adepti. Religione costruita in Medio Oriente (culla emblematica, si può dire) e trapiantata in Occidente dove, come i due grandi monoteismi, ha trovato terreno fertile e dove non sarebbe riuscita ad attecchire se, a parte il sostegno politico, non avesse potuto contare anche sul corposo supporto accademico-intellettuale. Richard L. Cravatts lo sottolinea lucidamente:
    «L'ampia accoglienza occidentale del palestinismo è stata in gran parte promossa dalle élite intellettuali, i cui pregiudizi contro Israele e gli Stati Uniti servono per animare e promuovere largamente la campagna per la sua denigrazione, diffamazione e delegittimazione. Mentre le buffonate ideologiche dei gruppi studenteschi contro Israele costituiscono gli aspetti più visibili dell'agenda d'odio nei suoi riguardi, la messa in opera di questa sguaiata retorica da parte studentesca sarebbe irrilevante se non fosse per il pieno sostegno intellettuale e morale di cui questo movimento gode in virtù dei membri delle facoltà, i quali sono provvisti del prestigio e della muscolatura accademica per poter fornire credibilità e influenza alla guerra di idee contro lo stato ebraico.»
Guerra di idee. Indubbiamente. Si tratta esattamente di questo. Mentre in Medio Oriente quella contro Israele è sempre stata guerra vera, combattuta sul terreno, condotta attraverso le aggressioni armate, in Occidente si è provveduto e si provvede ad armare ideologicamente gli aggressori sostenendo le ragioni fittizie che essi stessi hanno confezionato ad usum Delphini. L'abilità dell'OLP e successivamente dell'Autorità Palestinese è stata proprio questa. Non potendo proporre all'Occidente il jihad come causa da sposare e insieme a esso il suprematismo islamico, oppure il fermo rifiuto razzistico di Israele in quanto stato ebraico, si è giocata la carta vincente del popolo palestinese oppresso facendo leva su quella che sarebbe poi diventata sempre di più la voluttà rneaculpista occidentale. Quella prassi così apprezzata dalla Spinelli e da tanti altri intellettuali perché vista come virtù palingenetica, propedeutica al dispiegamento del progresso. Scrollarsi di dosso il white's man burden inchinandosi ai piedi delle vittime».

(da "Il sabba intorno a Israele - Fenomenologia di una demonizzazione")


In Israele aumentano le donne ultraortodosse che intraprendono carriere tecnologiche

Nel settore ultraortodosso sta crescendo l'interesse delle donne per le professioni tecniche. Questo si vede dagli ultimi numeri raccolti: sono in aumento le studentesse che si specializzano in materie tecniche.

 
Ebrei ultraortodossi a Gerusalemme
GERUSALEMME - Sempre più studentesse ultraortodosse scoprono il loro interesse per la tecnologia a scuola. Mentre nel 2013 erano 11.900 le studentesse ultraortodosse che avevano un ruolo importante nella tecnologia, negli ultimi cinque anni il loro numero è cresciuto del 45 percento. Oggi, nel 2018, sono 17.300 le studentesse ultraortodosse che frequentano un corso di tipo tecnologico. Questo risulta dalle cifre pubblicate dal quotidiano "Ha'aretz".
Secondo le statistiche del Ministero della Pubblica Istruzione, le ragazze preferiscono materie come economia aziendale con una specializzazione in contabilità, programmazione, moda e design, architettura, informatica, ed elettronica negli ultimi tre anni.
Cinque anni fa, solo 82 giovani donne ultraortodosse hanno completato i programmi post-ginnasiali e sono diventate tecnici certificati o ingegneri orientati alla pratica. Nel 2017 le diplomate erano già 460.

 I valori restano gli stessi
  Il desiderio di trovare un posto al di fuori della società Haredim è dimostrato da un'altra statistica. Nel 2008 solo il 31% delle ragazze ultraortodosse ha superato l'esame di maturità professionale. Sette anni dopo erano già il 51 percento.
Secondo Ha'aretz, molte donne ultra-ortodosse non vedono alcuna contraddizione tra un lavoro redditizio e il mantenimento di uno stile di vita tradizionale di Haredim. Credono che una cosa potrebbe persino alleggerire l'altra.
Una donna (non indicata per nome) che ha studiato architettura ha dichiarato: "Proprio perché voglio che il mio futuro marito possa trascorrere la maggior parte della sua giornata a studiare la Torah, ho bisogno di trovare un lavoro ben pagato."
Nel settore ultra-ortodosso i valori restano gli stessi, solo "i modi per raggiungerli sono cambiati".

(Israelnetz, 22 gennaio 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Israele attacca: ebrei perseguitati in tutta Europa

Cresce l'antisemitismo in Europa, con un aumento degli episodi di intolleranza e violenza nei confronti degli ebrei.
   La fotografia dell'allarmante situazione, a poca distanza dal Giorno della Memoria, arriva del ministero della Diaspora israeliano. Il record di incidenti antisemiti è della Gran Bretagna, che dal 1984 in poi segna un aumento del 78% in quelli di «violenza fisica» e un 30% in più nel numero complessivo di episodi. Negli Usa, a un anno dall'elezione del presidente Donald Trump, crescono sentimenti antiebraici e anti-israeliani nei movimenti di sinistra radicale, specie nei campus universitari. Preoccupanti i dati riguardanti la Francia: un episodio razzista su tre è diretto contro gli ebrei che nel paese transalpino rappresentano meno dell'1% della popolazione residente. Secondo i dati del ministero della Diaspora, retto da Naftali Bennett, in Ucraina il numero degli incidenti antisemiti è raddoppiato e più del cinquanta per cento dei profughi in Europa ha «opinioni antisemite».
   Un fenomeno che fa discutere anche nel nostro Paese. A Milano, dopo la manifestazione islamica in città del 9 dicembre scorso con minacce e insulti alla comunità ebraica, la giunta ha approvato la proposta del consigliere di centrodestra Matteo Forte (Milano Popolare) di «avviare un tavolo con la prefettura e di istituire un osservatorio contro l'antisemitismo».

(Libero, 22 gennaio 2018)


A Enzo Cavaglion il riconoscimento del Benè Berith

Viene conferito agli ebrei che a rischio della vita hanno salvato correligionari durante la persecuzione nazi-fascista. È stato assegnato - alla memoria - anche al fratello Riccardo.

di Vanna Pescatori

Alberto Cavaglion mostra la targa ritirata a nome del padre Enzo e dello zio Riccardo
CUNEO - Enzo Cavaglion ha ricevuto oggi (domenica 21 gennaio) il riconoscimento che il Benè Berith di Milano conferisce agli ebrei che, a rischio della propria vita, hanno salvato correligionari durante la persecuzione nazi-fascista. L'onorificenza riconosciuta a livello internazionale dal "The Committee to Recognize the Heroism of Jews who Rescued Fellow Jews During the Holocaust" e dal B'nai B'rith World Center di Gerusalemme'', hanno spiegato il direttore Alan Schneider e il presidente dell'associazione milanese Paolo Eliezer Foà, completa quella che lo Yad Vashem assegna ai non ebrei che hanno salvato il popolo ebraico, conferendo il titolo di ''Giusto tra le Nazioni''. Finora è stata assegnata a 200 persone in tutta Europa.
   Enzo Cavaglion è stato insignito con il fratello Riccardo (morto cinque anni fa in Israele) perché dopo essere entrati a far parte della formazione partigiana di Duccio Galimberti, si erano prodigati per aiutare gli ebrei giunti in valle Gesso da Saint Martin Vésubiè, cercando per loro rifugio, informandoli sui rastrellamenti e fornendo loro abiti e documenti falsi. Il Benè Berith ha raccolto la documentazione e le testimonianze, alcune delle quale riportate dai sopravvissuti nello loro autobiografie.
   Enzo Cavaglion, 99 anni, ha ricevuto con grande emozione il riconoscimento nella sua abitazione, a Cuneo. Poi è seguito un incontro nella biblioteca «Davide Cavaglion», attigua alla sinagoga, alla presenza del sindaco Federico Borgna, nel corso della quale il presidente della Comunità ebraica di Torino, Dario Disegni, ha ricordato l'opera dei fratelli Cavaglion e ha sottolineato il valore del loro impegno anche come modello da additare agli studenti, primi destinatari delle iniziative dedicate al Giorno della Memoria, che ricorda la Shoah ogni 27 gennaio. Il figlio di Enzo, Alberto, ha ritirato l'onorificenza a nome del padre e dello zio.

(La Stampa, 22 gennaio 2018)


Roma cancella le vie di chi aderì al "Manifesto della razza''

di Ariela Piattelli

ROMA - Via i nomi di chi aderì al Manifesto della razza dalle strade di Roma. Lo ha promesso la sindaca Virginia Raggi in un'intervista per il documentario "1938. Quando scoprimmo di non essere più italiani" di Pietro Suber. Il Campidoglio ha avviato l'iter che in tempi brevi porterà alla cancellazione dei nomi degli scienziati che, aderendo al documento dove si elencano i principi razzisti del regime fascista e alla base delle leggi razziali, contribuirono alla totale emarginazione degli ebrei dalla vita pubblica, creando anche le condizioni che portarono alle deportazioni nazifasciste. «Abbiamo avviato procedure e verifiche per rinominare strade e piazze intitolate a coloro che sottoscrissero il Manifesto della razza - annuncia Raggi nel documentario -. Dobbiamo cancellare queste cicatrici indelebili che rappresentano una vergogna per l'Italia. Questo può essere anche un esempio per tanti altri Comuni che hanno strade intitolate e questi personaggi». Sono almeno quattro le vie e i larghi nel comune di Roma titolati agli scienziati di cui i nomi compaiono sotto il famigerato manifesto: largo Nicola Pende (a cui a Noicottaro, nel Barese, è dedicata anche una scuola), via e largo Arturo Donaggio e via Edoardo Zavattari. Un cambiamento che a Raggi serve, in un'epoca di recrudescenze, per sottolineare come l'antifascismo sia un valore per la Capitale: «Roma condanna le leggi razziali, la nostra città è orgogliosamente antifascista. Utilizzeremo ogni strumento disponibile per combattere quei rigurgiti di violenza e discriminazione che non vogliamo tollerare».
   Il documentario, che uscirà in occasione dell'anniversario degli ottant'anni dalla promulgazione delle leggi razziali, si concentra sulle testimonianze degli ebrei perseguitati, dei presunti delatori e degli ex fascisti: «Uno degli aspetti più interessanti è quello della memoria, - spiega il regista - ci siamo interrogati anche su cosa è rimasto del fascismo, visti i rigurgiti a cui assistiamo. Siamo andati nei luoghi di pellegrinaggio dei nostalgici. Negli ultimi anni c'è stato un boom di visite alla tomba di Mussolini a Predappio e ci ha colpito il gran numero di ragazzi che scrivono sul libro delle visite messaggi nostalgici. E' un dato di ignoranza storica molto allarmante. Così ci è venuta l'idea di chiedere alla sindaca Raggi se in occasione di un anniversario così importante non fosse il caso di intervenire anche sulla memoria di chi ha aderito al manifesto e a cui sono titolate le strade». La produzione del film ha lavorato settimane prima di ottenere l'intervista. Il documentario, oltre a raccogliere testimonianze e documenti, interviene sulla realtà: «Per un mese abbiamo dialogato con il Campidoglio - spiega Dario Coen, che produce il documentario assieme a Blue Film - Hanno accettato la proposta perché una via intitolata a questi personaggi è un omaggio che loro non meritano».

(La Stampa, 22 gennaio 2018)


Da Israele all'Emilia la sicurezza 4.0 passa dai droni

 
Sono i droni lo strumento di sicurezza e di innovazione tecnologica del futuro». La pensa così Ugo Vittori, amministratore unico e responsabile di Eagle Sky Light, divisione di Eagle Keeper, la società emiliana di investigazioni specializzata nell'antifrode assicurativa, con un fatturato da oltre 5 milioni di euro, che ha debuttato nel mercato dei droni professionali nel 2017.
   Lo ha fatto portando in Italia un sistema aeromobile a pilotaggio remoto unico nel suo genere, chiamato Aquila 100 e prodotto dagli israeliani di Skysapience, che vanta una serie infinita di applicazioni civili, militari e industriali nell'ambito della sicurezza e non solo. «Abbiamo aperto tavoli di lavoro tecnici di sperimentazione con l'Enac, che ci ha permesso di essere qualificati per le operazioni specializzate critiche, ma anche con Ifsc (Italian Flight Safety Committee) e con il Rina (Registro italiano navale)», spiega Vittori. A partire dalla tecnologia sofisticata ad ancoraggio, che permette al drone Aquila 100 di volare più a lungo rispetto ai canonici 30 minuti e con una capacità di visibilità che sfiora i 15 chilometri. Ma anche, per esempio, di ritrovare i dispersi in casi di disastri ambientali con le termo-camere oppure di ricercare i fuggitivi grazie alla prospettiva aerea. «Al momento - prosegue Vittori - siamo gli unici autorizzati a volare di notte e in alcuni settori dello spazio aereo riservato. Abbiamo dimostrato che i costi si abbassano di circa 20 mila euro utilizzando i droni invece che elicotteri». Eagle Sky Light ha siglato un accordo strategico con DJI Enterprise, produttore cinese di droni, per attività in vari settori, tra cui la sicurezza. «Un passo importante potrebbe essere la costruzione di un drone-porto a Grottaglie - spiega l'imprenditore -. Oggi ne esiste solo uno in Ruanda, mentre un secondo è in costruzione in Texas». Ca.Cl.

(Corriere della Sera, 22 gennaio 2018)


Trump: 'USA non prenderanno posizione sulla sovranità e sui confini di Gerusalemme'

Secondo quanto riportato il 20 gennaio dell'agenzia d'informazione ufficiale del Marocco, in una lettera di risposta scritta da Donald Trump al re di Marocco Mohammed VI, il presidente Usa ha affermato che la sovranità di Gerusalemme dipenderà dai risultati delle trattative e che gli Stati Uniti non prenderanno posizione sulla sovranità e sui confini di Gerusalemme.
Donald Trump ha aggiunto che farà di tutto per promuovere il raggiungimento di un accordo di pace durevole tra Israele e Palestina, e che se le due parti raggiungeranno un accordo, lui appoggerà il "piano di due Stati". Il presidente Usa ha infine riconosciuto l'importanza di Gerusalemme per i fedeli ebrei, cristiani e musulmani.

(CRI, 21 gennaio 2018)


Questo conferma che la solenne di dichiarazione di Trump su Gerusalemme capitale all’atto pratico non significa niente. M.C.


Il vicepresidente Usa Pence è giunto in Israele

GERUSALEMME - Il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, è giunto in Israele, dove sarà in visita fino al 23 gennaio prossimo. Lo riporta il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Durante la sua permanenza, il vicepresidente degli Usa incontrerà il presidente israeliano Reuven Rivlin ed il premier dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu. Inoltre, a Gerusalemme, Pence terrà un discorso alla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, e visiterà sia Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto, sia il Muro del Pianto.
   La visita di Pence in Israele è la prima di un alto esponente dell'amministrazione Usa dopo il riconoscimento ufficiale di Gerusalemme da parte degli Stati Uniti. L'iniziativa, annunciata dal presidente Trump il 6 dicembre 2017, è, con la lotta al terrorismo, al centro del viaggio di Pence in Medio Oriente. Le due questioni sono state discusse dal vicepresidente degli Usa nelle precedenti tappe del suo tour: al Cairo con il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi ieri, 20 gennaio, e ad Amman durante l'incontro odierno con il re di Giordania, Abdullah II.
   Durante la sua permanenza in Israele, Pence non dovrebbe incontrare esponenti palestinesi. Questi hanno, infatti, deciso di boicottare la visita del vicepresidente degli Usa per protestare contro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Washington. Nel pomeriggio di oggi, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha definito Pence un "grande e sincero amico di Israele".
   Inoltre, il premier dello Stato ebraico ha dichiarato che non vi sono alternative alla mediazione degli Stati Uniti nel processo di pace tra Israele e i palestinesi. Netanyahu è sembrato fare riferimento alla decisione unilaterale dell'Autorità nazionale palestinese di non considerare più gli Usa come mediatori per la soluzione del conflitto israelo-palestinese dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Washington.

(Agenzia Nova, 21 gennaio 2018)


La grande menzogna palestinese

di Daniel Greenfield per Frontpage

Il boss palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato recentemente che Israele è "una impresa colonialista che non ha nulla a che fare con l'ebraismo". Mosè, il re Davide e millenni di storia ebraica sarebbero in disaccordo. Israele e gli ebrei sono parte della storia della civiltà umana. Oltre il 50% della razza umana ha un libro sacro che racconta la storia del viaggio ebraico verso Israele. Ciò include anche Maometto e la sua copia personale del Corano. Israele non è una "impresa colonialista". La Palestina lo è.
   Chiunque desideri scoprire da dove venga il nome Israele può aprire il Libro della Genesi, 32:29. La storia appare anche negli hadit islamici. Ma da dove viene realmente "Palestina"?. Palestina non è una parola ebraica o araba. Lo usavano i greci per descrivere la regione e quando i romani e i loro mercenari arabi repressero la popolazione indigena ebraica, la rinominarono Palestina.
   Palestina, a seguito dei filistei: ma perché i greci e i romani chiamarono la regione a seguito dei filistei?
   I filistei erano un popolo marittimo di origine greca i quali avevano originariamente invaso e colonizzato la regione. La resistenza ebraica al colonialismo filisteo è riportata nelle storie di Sansone, del re Saul e del re Davide. Era naturale per le colonie greche e romane con le quali si scontrarono gli ebrei del Secondo Tempio, utilizzare il nome "Palestina", il nome associato con colonie precedenti, per riferirsi alle loro nuove colonie. La seconda fase del colonialismo greco portò a un esteso conflitto tra l'impero persiano e la civiltà greco-romana. I romani fecero un uso esteso dei mercenari e dei governanti arabi per assicurarsi il proprio dominio e reprimere gli ebrei. Uno di loro era Erode, figlio di un padre idumeo e di una madre araba nabatea (secondo lo storico greco Strabone erano entrambi gente araba).
   Il declino e la caduta degli imperi romano e persiano preparò la strada per le conquiste arabe della regione, ma le orde banditesche islamiche non avevano idee originali. La loro religione era un potpourri di giudaismo, cristianesimo, credenze pagane assortite e di fantasie violente di Maometto. Il resto della loro cultura lo presero all'ingrosso dai greci. Questo gioco di idiocrazia storica è giunto con un insieme di colonialisti arabi che si autodefiniscono "palestinesi" e affermano di discendere da…qualcuno.
   In Germania, Abbas ha dichiarato che "la nazione della Palestina, nel corso della sua lunga storia è stata un faro di generosità e il nostro popolo è una estensione della civiltà cananea che dura da 3,500 anni". L'Autorità Palestinese guidata dal non eletto dittatore venne creata nel 1993. Non ci fu mai un paese indipendente prima di allora, e le menti portate alla ricerca amerebbero sapere cosa abbia in comune un gruppo terrorista islamico e i clan arabi che sovraintende con la civiltà cananea. Il fuoco, la ruota? Ma poi Abbas ha anche sottolineato che "Maometto il profeta era palestinese". Secondo la tradizione islamica, Maometto era un arabo del settentrione che veniva dall'Arabia. Gli arabi affermano di discendere da Ismaele e Abramo. Ciò significa che non sono cananei. Un certo numero dei clan arabi che compongono i "palestinesi" hanno la loro origine in Arabia. Per un breve, luminoso momento, Abbas stava dicendo la verità.
   Precedentemente Abbas aveva affermato che anche Gesù era un palestinese. Se state seguendo il filo, ciò significa che i palestinesi sono cananei, arabi e ebrei. Si tratta sicuramente di una affermazione che compendia molte basi storiche. Ma siamo solo all'inizio.
   "La Bibbia afferma, con queste parole, che i palestinesi esistevano prima di Abramo" ha inoltre insistito Abbas. La Bibbia non afferma nulla "con queste parole", ma la gente ha ritenuto che volesse intendere che i palestinesi sono di fatto i filistei. E quindi si è assunto il credito dell'invenzione dell'"alfabeto cananeo-palestinese più di 6,000 anni fa".
   Non esiste un simile alfabeto. L'Autorità Palestinese e i musulmani di Israele usano l'alfabeto arabo il quale ha le proprie origini assai remote nell'alfabeto fenicio proto cananeo. Ma lo stesso vale per il greco, il latino e le lettere che state leggendo in questo momento. Come la maggior parte delle affermazioni del leader "palestinese", si tratta di una affermazione senza senso.
   Nell'arco di pochi anni, Abbas ha affermato che i "palestinesi" discendono dai cananei, i filistei, gli ebrei e gli arabi. Solo l'ultima è vera. I "palestinesi" erano parte dell'ondata degli invasori arabi e islamici le cui incursioni sono continuate anche nell'era moderna.
   Ci sono circa 10,000 "afro-palestinesi" a Gaza. Alcuni sono coloni africani che vennero nel diciannovesimo secolo. La sinistra anti-israeliana vorrebbe fare credere che un musulmano sudanese che si è installato in Israele nel 1800 sia un "palestinese" indigeno, ma un rifugiato ebreo dall'Egitto sia invece un "colono" straniero. Gli arabi musulmani che vivono nell'Israele del '48 e del '67 sono un insieme composto dai vari clan regionali.
   Abbas si è riferito alla Giordania e alla Palestina come a "un popolo che vive in due stati". Il Ministro degli Interni, FathiHammad, una volta ha asserito, "La metà della mia famiglia è egiziana. Siamo tutti così. Più di trenta famiglie nella Striscia di Gaza si chiamano Al Masri (nome egiziano). Metà dei palestinesi sono egiziani e l'altra metà sono sauditi"
   Il più famoso degli Al Masri è un miliardario che vive in una riproduzione di una villa italiana chiamata "La casa della Palestina", il quale recentemente è stato arrestato dai sauditi. Munib Masri è stato un ministro dell'Autorità Palestinese, occupa una posizione nella legislatura e con la sua attività rappresenta da solo un quarto dell'economia "palestinese". La serra che si trova nella sua villa è un regalo di Napoleone III alla sua amante.
   Masri, il cui nome di famiglia ha origine in Egitto, e afferma di essere un palestinese è di fatto un Cittadino saudita il quale vive in una villa italiana importata. Ha fatto la sua fortuna con l'apparato militare americano durante l'operazione Desert Storm. E' quello che si dice un "palestinese". I "palestinesi" sono egiziani, sauditi, giordani, senegalesi, sudanesi e un altro numero di coloni musulmani. Non sono filistei, cananei o ebrei. Sono indigeni quanto lo è "La Casa della Palestina" di Al Masri fatta di marmo italiano importato e riempita di arte europea. I "palestinesi" sono quello che sono sempre stati: una colonia straniera araba dentro Israele. La Grande Bugia della Palestina è che i colonialisti islamici siano la popolazione indigena di Israele e che gli ebrei stiano colonizzando la Palestina. Ma una popolazione indigena non può mai colonizzare il proprio paese.
    "La Palestina" è una fiction colonialista distorta. Il nome riflette la colonizzazione greca della regione e il suo uso da parte dei moderni arabi colonialisti mostra la loro mancanza di un legame storico con Israele.
   Dopo tutto l'agonizzante lamento in merito a un legame "palestinese" profondamente significativo con la "Palestina", non sono ancora riusciti a produrre un loro nome per la regione. Un nome che possano pronunciare correttamente (nell'alfabeto arabo non c'è la "p" in senso proprio). Ma Abbas continua a fabbricare nuove menzogne a proposito dei popoli antichi dai quali i "palestinesi" discenderebbero. Non vedo l'ora in cui affermerà di essere un Cherokee.
   La rivendicazione dei colonialisti "palestinesi" su Israele è una bugia dell'imperialismo islamico. I potentati musulmani della regione hanno sponsorizzato gli attacchi razzisti dell'OLP, Hamas e altri gruppi terroristici islamici contro gli ebrei. I palestinesi non sono le vittime del colonialismo. Sono i suoi perpetratori. La lotta tra Israele e i terroristi islamici è una lotta contro l'imperialismo e il colonialismo. Gli imperialisti non sono l'oppressa minoranza ebraica che è stata cacciata praticamente da ogni altro posto nella regione. E' la maggioranza islamica che reprime le minoranze nella regione.
   "La Palestina" è un patetico tentativo di ripulire un'identità imperiale con un'altra seguito dallo sforzo privo di vergogna di appropriarsi dell'identità di quasi ogni antico popolo nella regione. Ebrei compresi. L'unico modo di porre fine al conflitto è di finirla con le menzogne.

(L'informale, 21 gennaio 2018 - trad. Niram Ferretti)


Le autorità di Singapore vietano un documentario su due giovani attiviste palestinesi

Per la sua 'trama sbilanciata'

Foto pubblicata sulla pagina Facebook del documentario.
Il documentario ''Radiance of Resistance' (La radiosità della resistenza) è stato prodotto nel 2016. Un documentario [en, come i link seguenti], incentrato sulla vita di due attiviste palestinesi adolescenti, è stato vietato dal governo di Singapore perché esplorerebbe il conflitto israelo-palestinese "in modo sbilanciato".
Pubblicato nel 2016, "Radiance of Resistance" (La radiosità della resistenza) è stato diretto dal regista americano Jesse Roberts e avrebbe dovuto essere proiettato in occasione del Festival del Cinema Palestinese di Singapore, durante la prima settimana del gennaio 2018, ma è stato rimosso dal programma dopo che l'IMDA (L'autorità per lo sviluppo di informazione, comunicazione e media) lo ha giudicato "inadatto a tutte le categorie di pubblico".
In base alla sintesi dell'opera, nel documentario si racconta la storia di Ahed al-Tamimi, allora quattordicenne, e della sua amica di nove anni Janna Ayyad:
L'intenzione di questo film era quella di gettare un sguardo intimo sulla vita quotidiana di queste due adolescenti e sulla loro importanza, in quanto nuova generazione di giovani palestinesi che si oppongono alla violenza.
Tamimi fece notizia nel dicembre 2017, quando fu accusata di aver schiaffeggiato un soldato israeliano. Il gesto fu filmato e il video trasmesso in rete diventò subito virale.
Non è chiaro se la decisione dell'IMDA sia stata in parte condizionata dal fatto che si trattasse di un caso di alto profilo, ma nella dichiarazione in cui spiegava la sua decisione di vietare la visione del documentario, l'ente sottolinea che ritiene "provocatoria la trama" del film:
La trama distorta del documentario è provocatoria e potrebbe causare disaccordi tra i rappresentanti delle diverse razze e religioni che vivono a Singapore […]
Presentando le due ragazze come modelli da emulare in un conflitto in corso, il film incita gli attivisti a continuare ad opporsi ai presunti oppressori.
Singapore e Israele hanno buone relazioni bilaterali, anche se Singapore mantiene rapporti amichevoli anche con l'Autorità Nazionale Palestinese. Nel 2017, il Primo Ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, ha affermato che il conflitto israelo-palestinese è un "problema emotivo" soprattutto per i musulmani, facendo presente che i vicini di Singapore nel sud-est asiatico hanno popolazioni a maggioranza musulmana e che anche a Singapore vivono molti musulmani. Uno dei principi su cui si fonda Singapore è quello di mirare a creare una società multi-razziale armoniosa.

(Global Voices in italiano, 21 gennaio 2018)


La dura accusa di Revlin: "Hamas usa ospedali e scuole come basi terroristiche"

Il presidente Reuven Rivlin ha visitato oggi il quartier generale della Divisione regionale di Gaza dell'IDF, il nuovo quartiere in costruzione al Kibbutz Nirim e poi ha incontrato circa 250 studenti della Nofei Habesor School.

Il presidente ha detto che Israele rimane in guerra con l'organizzazione terrorista di Hamas che governa la Striscia di Gaza. "La "guerra" non è finita. La missione dello Stato di Israele non è stata completata, stiamo combattendo un'organizzazione terroristica crudele, estremista e omicida, che non riconosce la nostra esistenza e il cui obiettivo è distruggere lo stato di Israele. Un'organizzazione che non tiene conto minimamente del futuro e del benessere del popolo di Gaza. Per Hamas la "riconciliazione" di un tipo o dell'altro è solo un passo verso l'avanzamento della guerra"...

(Italia Israele Today, 21 gennaio 2018)


Di Segni: «Migrazione fuori controllo. Vittorio Emanuele III? Era meglio dove stava prima»

Il rabbino capo di Roma: «Temo nuove ondate d'intolleranza. Mi chiedo: tutti i musulmani che arrivano qui intendono rispettare i nostri diritti e valori? E lo Stato italiano ha la forza di farli rispettare? Devo rispondere due no».

di Aldo Cazzullo

 
- Rabbino Di Segni, lei da 17 anni è il capo religioso della più antica comunità ebraica della diaspora, quella di Roma. Com'era il ghetto quando lei era piccolo, subito dopo la guerra?
  «Pieno di bambini. Papà era pediatra. Volevamo ricominciare, ma la ferita della Shoah era terribile. La razzia del 16 ottobre 1943 fu opera dei tedeschi. Ma poi furono gli italiani a far deportare altri mille ebrei».

- I suoi come si salvarono?
  «Molti si sentivano al sicuro dopo aver versato l'oro ai nazisti. Mio padre Mosè ebbe una perquisizione in casa. Chiamò da un telefono pubblico un amico giornalista che lo mise in allerta. Non tornò nel ghetto, scappò con mia madre Pina a Serripola, una frazione di Sanseverino Marche».

- Anche sua madre era figlia di un rabbino.
  «Nonno era il rabbino di Ruse, la città di Elias Canetti, sul Danubio. Fu salvato da re Boris, che disse a Hitler: gli ebrei bulgari non si toccano. Morì avvelenato, forse per mano nazista. Resistere, però, era possibile».

- Cosa pensa del ritorno delle spoglie di Vittorio Emanuele III?
  «Era meglio se rimaneva dove stava».

- E della beatificazione di Pio XII?
  «Ho studiato la sua storia, e devo ribadire un giudizio severo. Non fece nulla per impedire la deportazione. È vero che poi offrì rifugio a molti perseguitati».

- Suo padre fu partigiano.
  «Medaglia d'argento. Combatté la battaglia più dura il 24 marzo 1944, mentre suo cugino Armando veniva ucciso alle Fosse Ardeatine. Gli altri cugini sono morti ad Auschwitz. Mamma era nascosta in un granaio con mio fratello Elio e mia sorella Frida. Venne il rastrellamento fascista, il prete andò ad avvisare la banda di mio padre, che arrivò appena in tempo. I fascisti scapparono».

- Perché gli ebrei sono il popolo più antico al mondo? Perché sono stati perseguitati ovunque e da tutti?
  «È una scelta del Padreterno: ci ha esposti a ogni rischio, e continua a farlo; e nello stesso tempo ha un impegno con noi per la nostra sopravvivenza. Non lo dico io, lo dicono i profeti».

- Siete il popolo eletto?
  «Non nel senso di una presunta superiorità. L'elezione è una sfida. È una continua messa alla prova. Non ti è consentito quel che è permesso a una persona normale. Sei chiamato a rispettare una disciplina particolare, con tutti i rischi che questo comporta».

- Marx, Freud, Einstein: qual è il segreto dell'intelligenza degli ebrei?
  «Se ti considerano diverso, finirai per comportarti in modo diverso, anche se non sei religioso; e l'evoluzione nasce dalla differenza. Siamo un popolo ricco di eccessi, in positivo e in negativo: ci sono ebrei molto intelligenti, e altri che non lo sono».

- È vero che san Francesco aveva origini ebraiche?
  «Un libro lo afferma, ma non ne sono affatto sicuro. Senza fare paragoni, era ebreo don Lorenzo Milani».

- Lei ha detto: «Abbiamo sempre inventato cose che ci hanno portato via». Cosa intende?
  «Le rivoluzioni del primo '900 sono state fatte da ebrei, poi eliminati scientificamente uno per uno, da Trotzky in giù. In Italia abbiamo avuto Modigliani e Treves, che fece il duello col Duce. Lo diceva già Malaparte: un ebreo può fare la rivoluzione, non comandare».

- Lei ha biasimato l'Italia per aver votato contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele. Perché?
  «Perché è il riflesso della tipica posizione cristiana e più ancora musulmana per cui gli ebrei possono essere sottomessi o tollerati, mai sovrani, neppure a casa propria».

- Gerusalemme è anche la casa dei palestinesi.
  «Me ne rendo conto. Ma Gerusalemme capitale non è un'invenzione di Trump. È una questione politica che risale al 1948. È una questione religiosa millenaria. Non dimentichi che i cristiani hanno fatto le crociate, e non per riportare gli ebrei a Gerusalemme: dove arrivavano i crociati, distruggevano le comunità ebraiche».

- Cosa pensa della politica di Netanyahu?
  «Non parlo di politica. Né israeliana, né italiana».

- Esiste ancora l'antisemitismo in Italia?
  «C'è sempre stato, c'è, e ogni tanto riemerge in forme diverse. C'è l'idea religiosa che il popolo ebraico abbia esaurito la sua funzione, e debba vagare ramingo e disperso tra i popoli come punizione per non aver accolto la verità. E ci sono le curve degli stadi che deformano simboli per trasformarli in offese, senza rendersene conto; oppure rendendosene conto benissimo. Colpisce che non ci sia più inibizione a dichiarare simpatie fasciste».

- C'è anche un antisemitismo di sinistra?
  «Certo che c'è».

- Cosa pensa di Lotito?
  «Scusi, ma lei e io ci siamo incontrati qui nella sinagoga di Roma, in una splendida mattina di sole, per parlare di Lotito?».

- E di Papa Francesco?
  «È un Papa che sa ascoltare. Gli ho chiesto di non citare più i farisei come paradigma negativo, visto che l'ebraismo rabbinico deriva da loro; e l'ha fatto. Gli ho chiesto di non cadere nel marcionismo, e mi pare ci stia attento».

- Cos'è il marcionismo?
  «L'idea — cara all'eretico Marcione e tuttora diffusa tra i laici che di religione sanno poco, come Eugenio Scalfari — che esista un Dio dell'Antico Testamento, severo e vendicativo, e un Dio del Nuovo, buono e amorevole. Ma Dio è uno solo. Ed è insieme il Dio dell'amore e il Dio della giustizia. Il Dio che perdona, e il Dio degli eserciti».

- Primo Levi criticò Israele dopo Sabra e Shatila.
  «È vero, anche se la colpa fu di mancata vigilanza, non furono israeliani a massacrare i palestinesi. E comunque Se non ora quando è un libro molto sionista. Persino troppo, là dove si compiace per gli ebrei in armi».

- Lei non ha punti di disaccordo con Papa Francesco?
  «Ne ho molti. Ad esempio il Papa fa passare la domenica come un'invenzione cristiana; ma se voi avete la domenica, è perché noi abbiamo il sabato. Quando Francesco è venuto qui in sinagoga voleva discutere di teologia. Gli ho risposto di no: di teologia ognuno ha la sua, e non la cambia; discutiamo di altro».

- Di migranti?
  «Sui migranti noi ebrei siamo lacerati. La fuga, l'esilio, l'accoglienza fanno parte della nostra storia e della nostra natura. Ma mi chiedo: tutti i musulmani che arrivano qui intendono rispettare i nostri diritti e valori? E lo Stato italiano ha la forza di farli rispettare?».

- Si risponda.
  «Purtroppo devo rispondere due no. Per questo sono preoccupato. L'Europa è nata dopo Auschwitz; non vorrei che finisse con un'altra Auschwitz. Non so chi sarebbero stavolta le vittime. So che la migrazione incontrollata può provocare una reazione di intolleranza; ci andremmo di mezzo anche noi, e forse per primi».

- L'arrivo di migliaia di migranti musulmani è un problema per gli ebrei?
  «Non solo per gli ebrei; per tutti».

- Lei è andato alla moschea di Roma, ma l'imam non è venuto in sinagoga. Come mai?
  «Il rapporto con l'Islam è molto complesso. Ci stiamo lavorando. Al corteo del mese scorso a Milano si sono sentiti slogan in arabo che inneggiavano a Khaybar, la strage di ebrei fatta da Maometto. Ho ricevuto lettere private di scuse da parte di organizzazioni islamiche; non ho sentito parole pubbliche».

- Cos'è per lei il Giorno della Memoria?
  «Una data necessaria. Con rischi da evitare: l'assuefazione, la noia, e alla lunga il rigetto di chi dice: "Non ne posso più di questi che stanno sempre a piangere"».

- Chi è per lei Gesù?
  «Innanzitutto, un ebreo. Conosceva la tradizione ebraica, ha predicato insegnamenti morali in gran parte condivisi dalla tradizione, in parte "eterodossi". Ma per voi è il Messia, il figlio di Dio; per noi non lo è».

- Un falso Messia?
  «Non voglio usare questa espressione. Per noi non è il Messia».

- Cosa pensa delle leggi sulle unioni civili e sul fine vita?
  «Lo Stato fa le leggi che ritiene; i credenti fanno quel che ritengono, spesso dopo averci chiesto consiglio. La sedazione profonda non è un problema; ma l'idratazione e la nutrizione non vanno interrotte. Mai».

- Voi rabbini potete sposarvi.
  «Non possiamo; dobbiamo. Nella nostra visione, un uomo che non si sposa non è pienamente realizzato».

- Come immagina l'aldilà?
  «Non è al centro delle mie preoccupazioni. Noi crediamo che la vita non si fermi qui, in questo mondo, in questa dimensione. Per il resto abbiamo poche informazioni, ma confuse».

- Noi cristiani crediamo alla resurrezione della carne.
  «È un concetto ebraico, l'avete preso da noi. Ma non abbiamo un sistema ultraterreno definito come il vostro, con il Paradiso, il Purgatorio, l'Inferno. C'è l'idea della punizione e del premio; del resto discutiamo da millenni. Voi pensate gli ebrei come un monolito; ma da sempre non facciamo altro che litigare».

- Dunque la lobby ebraica non esiste?
  «In Italia "lobby" ha una connotazione negativa, in America no: è un gruppo di espressione che difende valori e interessi. E noi abbiamo valori e interessi da difendere».

(Corriere della Sera, 21 gennaio 2018)


Italia-Israele, rientra la delegazione. Sotto la lente i modelli di convivenza

Individuate potenziali collaborazioni economiche e accademiche

 
La delegazione ha incontrato i rappresentanti dell'economia e della società
BOLZANO - Bolzano-Nazareth e ritorno. È rientrata nei giorni scorsi la delegazione altoatesina partita alla volta di Israele per incontrare i rappresentanti del mondo politico, economico e della società civile appartenenti sia alla maggioranza ebraica, che alla minoranza araba, oltre il 20% della popolazione totale.
   A prendere parte alla spedizione il senatore e costituzionalista Francesco Palermo, il presidente di Assoimprendìtori Federico Giudiceandrea, il presidente Associazione Palisco Heiner Nìcolussì-Leck, il presidente dell'associazione Antenna Cipmo Alberto Stenico, il ricercatore Eurac Sergiu Constantin e il presidente del Centro italiano per la pace in Medio oriente Janiki Cingoli.
   Dato il forte gap esistente tra le due componenti della popolazione è stato richiesto di conoscere meglio l'esperienza dell'autonomia altoatesina, in particolare per quel che riguarda gli aspetti giuridici, economici e culturali. Di recente le tensioni fra i due gruppi si sono acuite, ripercuotendosi inevitabilmente sulla convivenza.
   Durante la visita la delegazione ha preso parte a una fitta serie di incontri con parlamentari nella Knesset, ebrei ed arabi, sia di maggioranza sia di opposizione, sindaci delle maggiori città arabe come Nazareth, Tayibe e Sakhnìn, rappresentanti realtà economiche quali il Parco tecnologico di Nazareth ed esponenti della società civile impegnati a promuovere la convivenza tra i diversi gruppi. Di particolare rilevanza l'incontro tra l'Ambasciatore Italiano a Tel Aviv, Gianluigi Benedetti e quello dell'Unione europea in Israele Emanuele Giaufret. Tutte esperienze che hanno offerto l'occasione di individuare varie possibilità di cooperazione fra Israele e Bolzano, sia in campo economico che accademico. Ha suscitato interesse la forte spinta della popolazione araba verso il miglioramento delle proprie condizioni di vita, affermandosi in particolare nel campo della medicina e dell'high tech, anche grazie ai finanziamenti stanziati dal Governo per colmare il divario tra i due gruppi.

(Corriere del Trentino, 21 gennaio 2018)


Il bambino ebreo inghiottito dalla ferocia nazista

di Giovanni Telò

Era nato a Genova il 4 febbraio 1937. Si chiamava Claudio De Benedetti, figlio di ebrei, Michele e Sandra Pugliese. La mamma era stata deportata in un campo di sterminio nazista, in Germania. Nel novembre 1943, il piccolo Claudio - 6 anni, in quel periodo - si trovava a Settignano (Firenze) con la zia, quando viene catturato dai tedeschi e trasportato nel carcere del Coroneo, a Trieste. Di Claudio non si è più saputo nulla. E' una vicenda inedita quella che vi sto raccontando, molto particolare, perché riguarda la mia famiglia. A distanza di anni ho pensato di renderla pubblica: la Storia non si può nascondere, né la verità si può tacere.
   In seconde nozze, Michele, che svolgeva l'attività di agente di commercio, sposa una signora di Castel Goffredo, Evelina Ferrari. Nei tragici momenti della Seconda guerra mondiale, entrambi si trasferiscono nel paese mantovano, ritenendolo un luogo più sicuro, rispetto a Genova. Michele si nasconde in diverse abitazioni: ha paura di venire catturato dai tedeschi, come il figlio.
   Questi particolari li ho sempre sentiti raccontare in casa mia, sia perché io sono originario di Castel Goffredo, ma soprattutto perché mia mamma Guglielmina, in quelle drammatiche circostanze, portava da mangiare di nascosto a Michele. Rischiava grosso e, se fosse stata scoperta, sarebbe andata incontro a delle gravi conseguenze. Com'è facile immaginare, la mia famiglia è sempre stata molto amica di Michele ed Evelina, i quali hanno concluso la loro vita con il tormento di non aver più avuto notizie riguardanti il piccolo Claudio. Durante e dopo la guerra, il parroco di Castel Goffredo, monsignor Carlo Calciolari, aveva avviato delle ricerche, ma inutilmente.
   Di recente, per motivi di studio, ho letto i diari di monsignor Calciolari, conservati all'Archivio storico diocesano di Mantova. Tra quelle pagine ho trovato la foto di Claudio. Quando l'ho presa in mano, mi sono sentito avvolto dai brividi, pensando alla sua tragica fine, con tutta probabilità in un Lager, e in pochi istanti ho riannodato i fili della storia che vi ho presentato. Povero Claudio, bambino ebreo, inghiottito nelle tenebre della ferocia nazista.

(Cittadella di Mantova, 21 gennaio 2018)



«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»

E giunti a un luogo detto Golgota, che vuol dire «luogo del teschio», gli diedero da bere del vino mescolato con fiele; ma Gesù, assaggiatolo, non volle berne. Poi, dopo averlo crocifisso, spartirono i suoi vestiti, tirando a sorte; e, postisi a sedere, gli facevano la guardia. Al di sopra del capo gli posero scritto il motivo della condanna: Questo è Gesù, il re dei Giudei. Allora furono crocifissi con lui due ladroni, uno a destra e l'altro a sinistra. E quelli che passavano di là, lo ingiuriavano, scotendo il capo e dicendo: «Tu che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi giù dalla croce!» Così pure, i capi dei sacerdoti con gli scribi e gli anziani, beffandosi, dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare sé stesso! Se lui è il re d'Israele, scenda ora giù dalla croce, e noi crederemo in lui. Si è confidato in Dio: lo liberi ora, se lo gradisce, poiché ha detto: "Sono Figlio di Dio"». E nello stesso modo lo insultavano anche i ladroni crocifissi con lui. Dall'ora sesta si fecero tenebre su tutto il paese, fino all'ora nona. E, verso l'ora nona, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lamà sabactàni?» cioè: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, inzuppatala di aceto, la pose in cima a una canna e gli diede da bere. Ma gli altri dicevano: «Lascia, vediamo se Elia viene a salvarlo». E Gesù, avendo di nuovo gridato con gran voce, rese lo spirito.
Dal Vangelo di Matteo, cap. 27

 


Laura Fontana racconta il suo incontro con la neo senatrice a vita Liliana Segrè

Laura Fontana, responsabile dei progetti alla memoria per il comune di Rimini racconta il suo incontro con #Liliana #Segre: una donna straordinaria che testimoniando l'orrore patito ad Auschwitz è riuscita a cambiare la vita di tante persone.

"Il caso ha voluto che giovedì scorso (18 gennaio), nel momento in cui Liliana Segre, sopravvissuta italiana di Auschwitz, riceveva la telefonata del Presidente Mattarella con la quale le annunciava la nomina a senatrice a vita, io stessi proprio parlando pubblicamente di lei in occasione della mia conferenza per la città di Rimini sul tema delle donne nella Shoah. Nell'ambito del lavoro che molto tempo ho scelto di svolgere per trasmettere la memoria della Shoah sono tante le occasioni in cui cito Liliana. Mi piace ricordarla e ispirarmi, in un certo senso, a lei, non solamente perché la sua, tra altre testimonianze dell'inferno di Auschwitz, racchiude per me tutto il senso dell'attaccamento alla vita anche in condizioni estreme, ma anche per quello che ho imparato nelle diverse conversazioni private che ho avuto il privilegio di condividere con lei nella sua casa di Milano e di Pesaro.
  Conosco Liliana da più di vent'anni e l'incontro con lei è stato uno di quelli che più mi hanno segnato, insieme all'incontro con Shlomo Venezia, perché attraverso il dono della sua testimonianza mi ha insegnato il senso del coraggio, della vita, della determinazione, del dialogo per la costruzione di una cultura fondata sulla pace e sulla solidarietà. Non si sa perché nella vita qualcuno ci scelga tra tante altre persone che incontra. Mi sono chiesta spesso perché Liliana e Shlomo mi abbiano accolto tra le loro persone più care, manifestandomi grande stima e affetto e permettendomi di avvicinarli al di fuori delle occasioni ufficiali, nel privato e nella quotidianità, in modo da ampliare la reciproca conoscenza e il dialogo non solo sul tema della Shoah ma più in generale sul senso della vita.
  La nomina del Presidente della Repubblica di senatrice a vita per Liliana Segre è il giusto riconoscimento per l'impegno che una donna ha svolto, e tuttora svolge, per tenere viva la memoria della Shoah ma anche per parlare, in particolare alle giovani generazioni, del valore della solidarietà e della pace, con parole sempre ferme, misurate, sobrie nel cercare di contenere i confini di un orrore impossibile da raccontare, se non al prezzo di una selezione dei ricordi e per frammenti, ma parole sempre chiare e potenti che non consentono alcun fraintendimento, né lasciano lo spazio per scorciatoie consolanti su quanto è avvenuto.
  Liliana ha sempre tenuto a ricordare che gli ebrei italiani, come gli ebrei europei che hanno subito la Shoah, sono stati condannati a morte per la colpa di essere nati ebrei, sottolineando che il crimine più grande di tutti è stato l'indifferenza. Quell'indifferenza che relegò i cittadini italiani ebrei in un angolo buio, in una trappola da cui molti non uscirono vivi, che vide la famiglia Segre respinta dalla società, cacciata dal proprio posto, denunciata alla frontiera mentre tentava di mettersi in salvo. Indifferenza è il termine che Liliana ha voluto far scolpire a caratteri cubitali sul muro di ingresso del Memoriale della Shoah di Milano , creato nel 2013 sul posto esatto dell'area sottostante il piano dei binari della stazione ferroviaria centrale da dove partirono - esattamente dal binario 21 - da dicembre 1943 a gennaio 1945, una ventina di convogli stipati di ebrei e oppositori politici verso Auschwitz e verso i campi di concentramento in Germania.
  Per Liliana le parole non sono mai stata retorica, d'altronde è una delle poche testimoni che si è sempre tenuta attaccata al suo racconto personale, evitando di sovrapporlo a conoscenze e letture posteriori sui lager e sulla Shoah. Il suo racconto di Auschwitz è una narrazione lucida che assume il valore di impegno politico per una donna che, pur non dimenticando mai la bambina che è stata negli anni dell'umiliazione, dell'esclusione e della prigionia ad Auschwitz e negli altri lager, ha saputo guardare con pietà e umana commozione anche al dramma di altri bambini e adulti perseguitati o cacciati di casa in epoca contemporanea.
  Nel 2015 proprio Liliana ha preso la decisione, accogliendo la sollecitazione della Comunità di Sant'Egidio, di aprire le porte del Memoriale ai rifugiati siriani ed eritrei, offrendo ospitalità e conforto per le ore più fredde della notte, un'attività che prosegue anche oggi, parallelamente alle tante attività di formazione storica e pedagogica che il Memoriale svolge per le scuole e per la collettività. Un gesto concreto che per Liliana ha significato mostrare l'esigenza di rompere l'indifferenza rispetto alla sofferenza degli altri.
  Nata a Milano il 10 settembre 1930 da una famiglia ebrea laica, Liliana Segre cresce con l'amatissimo padre, Alberto e coi nonni paterni, poiché la mamma muore prima del compimento del suo primo anno di età. Con la promulgazione delle leggi razziali dal settembre 1938, l'Italia discrimina i cittadini italiani di origine ebraica, privandoli dei loro diritti e decretando come prima misura l'espulsione da tutte le scuole e università pubbliche degli alunni, studenti e insegnanti ebrei.
  La notizia dell'esclusione dalla scuola segna un trauma indelebile per Liliana e uno spartiacque tra la vita serena di prima e quella densa di preoccupazioni del padre e dei nonni che si avvia da quell'anno; ma soprattutto, nella sua coscienza di bambina rappresenta anche il primo momento in cui capisce di essere ebrea e quali conseguenze questo avrebbe avuto su di sé e sulla sua famiglia: "Non avevo mai sentito parlare di ebraismo quando, una sera di fine estate, mi sentii dire dai miei familiari che non avrei più potuto andare a scuola. - Perché? Cos'ho fatto di male?, chiesi, e intanto mi sentivo colpevole, colpevole di una colpa che mi restava sconosciuta. Solo negli anni capii che la colpa era la colpa di essere nata ebrea: colpa inesistente, paradosso artificiale ma allora spaventosamente reale."
  Liliana ricorda la profonda solitudine e il senso di ingiustizia che la fecero molto soffrire per sentirsi rifiutata dalla scuola pubblica, ma anche segnata a dito dalle altre compagne come "l'ebrea", dimenticata a tutte le feste o esclusa dalle occasioni di svago tipiche dei bambini della sua età.
  L'applicazione delle leggi contro gli ebrei alimenta in Italia un clima generale di indifferenza per le sorti di quella piccola minoranza che da secoli era profondamente integrata nel tessuto sociale, culturale e politico della nazione. Un numero sempre crescente di divieti e di misure persecutorie rende gradualmente molto difficile la vita delle famiglie ebree, principalmente per la perdita del lavoro e l'esclusione sociale, oltre che per sentirsi oggetto di disprezzo e di scherno nella propaganda di Stato che bolla gli ebrei italiani come nemici estranei alla nazione.
  L'8 dicembre 1943, Liliana e suo padre, mentre tentano di sconfinare in Svizzera, vengono respinti dalle guardie di frontiera e consegnati alla polizia italiana che li arresta. Dopo l'esperienza del carcere di San Vittore, dove Liliana viene rinchiusa per 40 giorni in una cella insieme ad una ventina di altre donne ebree di ogni età, il 30 gennaio 1944 è trasferita col padre e seicento altre persone alla stazione centrale di Milano. Da qui viene deportata su un treno merci con destinazione Auschwitz-Birkenau. Pochi mesi dopo, nel giugno 1944, anche i nonni paterni vengono arrestati a Inverigo (Como) dove erano sfollati e deportati ad Auschwitz dove sono uccisi nelle camere a gas.
  All'arrivo al campo, Liliana viene brutalmente separata dal papà che da quel momento non rivedrà mai più e si ritrova sola a superare la selezione per diventare una lavoratrice schiava per il Reich. Non ha nemmeno 14 anni. La sua altezza che la fa sembrare più adulta le consente probabilmente di far credere al medico delle SS che quel giorno ispeziona i deportati appena arrivati per dividerli tra abili al lavoro e inabili da inviare alle camere a gas, che quella ragazzina sia abbastanza grande e forte per poter essere utilizzata come lavoratrice.
  Da quel momento Liliana, tatuata col numero di matricola 75190 viene assegnata al lavoro di operaia nella fabbrica di munizioni della Union (che apparteneva alla Siemens e si trovava nel complesso di oltre 40 campi che componevano la galassia concentrazionaria di Auschwitz); sopporterà da sola mesi di umiliazione, fame, freddo, botte e fatica, vedendo intorno a sé scene di un orrore indicibile. Probabilmente fu proprio la possibilità di lavorare al coperto, evitando di esporsi direttamente al gelo dell'inverno polacco, che le permetterà di resistere un anno intero in quell'inferno. Durante quei lunghissimi dodici mesi nel lager, Liliana supera altre selezioni, ma vede continuamente morire intorno a sé migliaia di persone di ogni età, tra cui bambini e ragazzi giovanissimi.
  Nella giovinezza della sua età e priva di adulti di riferimento che possano aiutarla a capire le regole di quell'inferno che è il campo, Liliana si inventa una sua personale strategia di sopravvivenza: "Io avevo paura di ciò che i miei occhi potevano vedere. Allora avevo scelto un dualismo dentro di me, una sovrapposizione di realtà diverse: ero lì con il mio corpo, che pativa il freddo, la fame e le botte, ma non lo spirito abitavo altrove."
  Mentre il suo quotidiano è scandito dagli ordini, dalla brutalità e dalla disumanizzazione imposta dalle SS, Liliana immagina di essere fuori dal recinto di filo spinato, in un altrove fatto di prati per correre e mari per nuotare, ma soprattutto, in una notte tersa sceglie una stellina nel cielo in cui si identifica: "Io sono quella stellina. Finché la stellina brillerà nel cielo io non morirò, e finché resterò viva io, lei continuerà a brillare."
  Proprio l'episodio della stellina e della sua strategia di resistenza che le permise di attaccarsi alla vita sono stati per me un esempio concreto quando, in un momento di sofferenza della mia vita, ho capito come potevo tentare di superare la prova del dolore e della malattia, cercando di fare astrazione dal corpo e dalla sofferenza fisica e psichica come aveva fatto la giovanissima Liliana. L'ho sentita molto vicina a me, pur consapevole dell'enormità del paragone, ma gliel'ho detto più volte a Liliana che il ricordo della stellina mi aveva molto aiutato e ho voluto ringraziarla anche pubblicamente per avermi donato questo ricordo, in occasione di una delle sue quattro testimonianze tenute a Rimini per gli studenti e gli insegnanti.
  Evacuata con altre migliaia di prigionieri, uomini e donne, dal complesso di Auschwitz verso la metà di gennaio 1945, Liliana Segre viene liberata dall'Armata Rossa, dopo un periplo faticosissimo di spostamenti da un lager all'altro, nel campo di Malchow, sottocampo di Ravensbrück (Germania settentrionale) il 1 maggio. Non ha ancora 15 anni, è una ragazzina scheletrica e sfinita che sembra aver vissuto mille anni tanto si sente vecchia, ma scopre di sentirsi libera dall'odio nel momento in cui rinuncia a prendere una pistola che trova a terra e all'istinto di sparare ad una delle sue guardie.
  Il suo rientro a casa e il lento ritorno alla normalità sono stati segnati, come per tanti altri sopravvissuti, da un clima di generale indifferenza per i racconti della deportazione, dalla vergogna dell'umiliazione patita, dal peso del silenzio per tenersi dentro un dolore troppo grande per poter essere espresso a parole sia coi famigliari che a scuola. Impossibile condividere questi ricordi con le altre adolescenti che Liliana incontra in quel difficile periodo di ritorno alla normalità.
  Pochi anni dopo, Liliana ha la fortuna di incontrare a Pesaro l'amore della sua vita, Alfredo, con cui si sposa ed avrà tre amatissimi figli.
  La città di Pesaro, insieme a quella di Milano, sarà sempre la sua città del cuore, il luogo dove Liliana tuttora trascorre l'estate e parte delle festività dell'anno, anche perché è a Pesaro che è sepolto l'amato Alfredo scomparso qualche anno fa.
  Per quarant'anni, Liliana Segre non ha mai voluto parlare di Auschwitz, ma una volta diventata nonna, dopo un lungo percorso interiore, con la maturità di un'età più avanzata e nella consapevolezza dell'importanza della testimonianza della Shoah, dal 1990 ha rotto il silenzio che si era imposta per proteggersi e ha incominciato a raccontare.
  Da allora Liliana Segre ha incontrato migliaia di studenti in Italia e all'estero, è venuta quattro volte a Rimini a parlare agli studenti e agli insegnanti della nostra città, e a loro ha raccontato la sue sensazioni di bambina in un mondo di adulti in guerra, esortandoli a impegnarsi a fondo per costruirsi una vita fondata sul bene e sulla verità.
  Liliana ama moltissimo la musica classica, è abbonata da più di dieci anni alla Sagra Musicale Malatestiana promossa dal Comune di Rimini e ogni anno a settembre ho la gioia di rivederla ai concerti sinfonici della mia città, sempre bellissima e fiera in un'eleganza innata, eppur sempre sobria, che la fa incedere con l'autorevolezza e il carisma di una regina in mezzo al pubblico.
  Ma io ricordo anche la mia Liliana più privata, la mia Lilli, di inviti a pranzo a casa sua, di messaggini, di libri che mi regala, di lei che mi telefona o mi scrive per chiedermi senza giri di parole cosa ne penso di quel libro o di quell'autore, facendomi sentire sempre importante e intelligente per i consigli che mi chiede. Una volta, in particolare, mi chiamò col suo tono diretto, sempre privo di fronzoli, eppure mai freddo, per dirmi che mi voleva parlare e mi invitava a raggiungerla a Pesaro. Era estate e dopo una mattinata di lavoro, presi un treno e la raggiunsi. Dopo pranzo, tutte e due stese sul divano a riposare e a chiacchierare, mi chiese consiglio per un invito importante che aveva ricevuto all'estero, in cui aveva solo venti minuti a disposizione per poter raccontare qualcosa della sua esperienza, nell'ambito di una tavola rotonda con altre persone in qualche modo salvatesi da tragedie.
  Liliana ha sempre detestato avere vincoli di tempo per parlare, perché sa lei che cosa dire e il tempo necessario per dirlo, non le servono presentatori o commentatori, il suo racconto procede sempre fluido, con inizio e una fine che consentono a tutti di entrare diritti nella sua testimonianza. Quella volta espresse la sua difficoltà e perplessità ad accettare. "Cosa posso dire io in mezzo ad altre persone che hanno vissuto storie completamente diverse e in soli 20 minuti?". Le suggerii, d'istinto, di rovesciare il suo racconto partendo dalla fine, cioè da come si era salvata, lei che si è sempre definita una persona normale, qualsiasi, senza particolari doti o talenti, e di risalire a ritroso per provare a spiegare che cosa le aveva permesso di tenersi attaccata alla vita in un inferno dalle regole incomprensibili. Le consigliai anche di dichiararsi, in quel contesto così particolare, cioè non centrato sull'esperienza della deportazione né della Shoah, una sopravvissuta di Auschwitz ma poi di costruire una testimonianza in cui far emergere che lei, Liliana, era stata capace nella sua vita di essere molto altro, una madre, una moglie, una nonna affettuosa e presente, una donna impegnata, una testimone di pace.
  Ci scambiammo qualche idea per impostare la sua testimonianza, ma sapevo perfettamente che poi Liliana avrebbe fatto di testa sua, come era giusto che fosse. Ma mi fece un immenso piacere quando, settimane dopo, mi fece sapere che quella modalità "aveva funzionato" ed era riuscita anche in un tempo così compresso a dire l'essenziale del suo racconto. Perché come mi ha insegnato un'altra straordinaria donna sopravvissuta ad Auschwitz che ho incontrato, Goti Bauer, una delle sofferenze più intense che vive colui o colei che decide di testimoniare sull'esperienza della Shoah vissuta, è il timore di ridurre il proprio discorso ad uno schema narrativo ripetitivo, ma anche di dimenticare o non poter dire pezzi di verità che per varie ragioni non possono rientrare nella testimonianza pubblica.
  Liliana mi chiama spesso tesorino, si schermisce quando le dico che le voglio bene ma so che me ne vuole tanto anche lei. Quando le invio il programma di Attività di Educazione alla Memoria che curo per Rimini, è lei la prima persona che, dopo pochissimi minuti, risponde via mail con un messaggio di apprezzamento, di lode per il lavoro svolto e soprattutto di incoraggiamento. Liliana mi fa sentire migliore anche quando sento la fatica di lavorare su un tema così importante e complesso, mi sprona a non commiserarmi nelle difficoltà quando nei suoi discorsi pubblici ricorda il valore della vita e termina la sua testimonianza dicendo sempre ai ragazzi "Non dite mai non ce la faccio più, perché il corpo umano e la mente sono talmente forti e straordinari da riuscire a compiere autentici miracoli".
  Mi piace di lei anche la sua ostinata volontà a non lasciarsi usare come testimone, ma a decidere lei come e quando essere anche una testimone. Liliana non si fa fotografare col tatuaggio sul braccio, non mostra nessuna immagine d'epoca, non vuole compiacere un certo voyeurismo che scruta il sopravvissuto cercando prove tangibili di ciò che racconta, è tra i pochi reduci ebrei italiani che non ha mai voluto tornare ad Auschwitz, perché dice che non ha bisogno e non vuole rivedere quel luogo, Auschwitz ce l'ha scolpito nei suoi ricordi più dolorosi.
  Alla stampa che in queste ore le ha chiesto quale fosse la sua reazione nell'apprendere la notizia della nomina di senatrice a vita, Liliana ha risposto: "Non posso darmi altra importanza che quella di essere un araldo, una persona che racconta ciò di cui è stata testimone. Sono una donna di pace, una donna libera: la prima libertà è quella dall'odio." Pur rivendicando sempre la sua normalità di essere e sentirsi "una qualunque", respingendo quindi ogni tentativo di fare di lei un'eroina su un piedistallo, Liliana costituisce un esempio di altissimo livello morale e di coerenza, una donna straordinariamente combattiva che a 87 anni avrà ancora tanto da insegnare a me e a tutti coloro che avranno l'immenso privilegio di ascoltare le sue parole.

(ChiamamiCittà, 21 gennaio 2018)


Il Giro d'Italia allarga i confini: al via una squadra israeliana

Assegnate le wild card, ci sarà anche la Israe] Cycling Academy guidata dallo scalatore Gebremedhin.

di Marco Bonarrigo

Tre team azzurri sorridono, uno piange. Ma la vera novità (e la grande festa) legata alla distribuzione delle wild card del Giro d'Italia 2018 è il debutto nel ciclismo mondiale dello stato di Israele. Rcs Sport, organizzatrice della corsa rosa, ieri sera ha assegnato i quattro pass ai team di seconda fascia (Professional Continental) che vanno ad aggiungersi a quelli dei 18 sodalizi World Tour iscritti di diritto, in base al regolamento Uci per le corse di tre settimane. Al Giro numero 101 che partirà il prossimo 4 maggio da Gerusalemme ci saranno anche otto atleti di Israel Cycling Academy, squadra fondata nel 2014 per concretizzare la grande passione ciclistica nello stato medio-orientale e diventata oggi una piccola multinazionale delle due ruote con i suoi 24 atleti di 16 diverse nazioni e 4 differenti religioni.
   Nata fondamentalmente come squadra locale, Israel Cycling Academy ha via via acquisito alcuni corridori di spessore come il norvegese Boasson Hagen, il belga Pauwels e l'italiano Sbaragli, che dovrebbero essere nella selezione per la corsa rosa. Tra gli obbiettivi e la filosofia del team (che tre anni fa selezionò i corridori con una bando di reclutamento su Facebook e tre giorni di test sulle colline del Lago di Garda) c'è quello di dare la possibilità di intraprendere la carriera di professionista anche a chi vive e si allena in territori lontanissimi dal cuore politico e culturale del ciclismo e a poche occasioni di mettersi in mostra. La settimana scorsa la squadra ha ingaggiato, tra gli altri, il 26enne eritreo, rifugiato politico, Awet Gebremedhin, uno scalatore di ottimo livello che molto probabilmente farà parte della team per il Giro. Awet aveva ormai perso ogni speranza di trovare lavoro nel mondo delle due ruote. Quello degli israeliani non è un invito isolato: la squadra potrà partecipare anche alla Tirreno-Adriatico e alla Milano-Sanremo assieme ai russi della Gazprom. Sul sito del team ieri sera campeggiava la scritta: «Siamo nella storia dello sport».
   Nel distribuire gli altri tre pass, gli organizzatori del Giro hanno privilegiato, come del resto fa da sempre anche il Tour de France, il ciclismo nostrano confermando due delle tre scelte del 2017 (Bardiani Csf e Wilier Triestina) e riammettendo dopo due anni di sosta l'Androni Giocattoli diretta da Gianni Savio. L'emiliana Bardiani, come sempre, schiererà in gara solo atleti azzurri. Unico team azzurro fuori dai giochi l'abruzzese Nippo Fantini, già esclusa nel 2017, che però potrà consolarsi disputando tutte le corse World Tour italiane: Strade Bianche, Tirreno-Adriatico e Milano-Sanremo. Gli inviti al Giro di Lombardia, l'altro «monumento» del ciclismo sulle strade italiane, verranno assegnati dopo aver valutato il rendimento delle squadre nella prima parte della stagione.

(Corriere della Sera, 21 gennaio 2018)


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Giro d’Italia. «Un momento storico per Israele»

Grande gioia in casa della Israel Cycling Academy

«Un momento storico per lo sport israeliano e un grande onore»: così, la prima squadra israeliana di formazione professionale, Israel Cycling Academy, ha accolto l'invito a partecipare al Giro d'Italia che partirà da Gerusalemme il 4 maggio.
«Israel Cycling Academy ha meritato questa selezione allestendo eccellente team, rafforzato dall'arrivo di corridori che hanno già vinto tappe in due dei tre Grand Tour - ha dichiarato il co-proprietario della squadra Sylvan Adams, che è anche il Presidente onorario della "Grande partenza" del Giro -. Ora puntiamo ad una vittoria di tappa al Giro e a conquistare almeno per un giorno la maglia rosa. E desideriamo ringraziare RCS per questa opportunità».
Il fondatore della squadra e co-proprietario Ron Baron ha sottolineato l'importanza della wildcard per il Giro, sia per Israele che per il ciclismo israeliano. «Il nostro sogno, quasi impensabile solo tre anni fa quando abbiamo fondato la squadra, si sta avverando. Una squadra di professionisti con corridori israeliani al fianco di grandi campioni internazionali. Invito tutti i nostri fan in Israele e in tutto il mondo a sostenere la squadra in questo momento storico».
Il campione israeliano su strada Roy Goldstein ha dichiarato: «Nessun corridore israeliano ha mai gareggiato in un Grand Tour, quindi per noi è davvero un sogno incredibile. È la nostra occasione per salire sul più grande palcoscenico del mondo del ciclismo e urlare: "Ci siamo!"

(tuttobiciweb.it, 20 gennaio 2018)


Alta velocità, al via la tratta Gerusalemme -Tel Aviv

di Andrew Sharp

Il ministro dei trasporti Yisrael Katz in uno dei cinque tunnel scavati per ospitare il primo treno elettrico ad alta velocità da Gerusalemme a Tel Aviv
La linea ferroviaria ad alta velocità Gerusalemme-Tel Aviv aprirà il 30 marzo 2018. Il collegamento dovrebbe ridurre di oltre la metà il tempo di percorrenza tra le città, diminuendo il viaggio di 56 km dagli attuali 70 minuti di autobus a 28 minuti con un treno che viaggia fino a 160 km / h.
Inizialmente, il treno passerà ogni trenta minuti tra la stazione di Binyenei Ha'uma di fronte alla stazione centrale degli autobus di Gerusalemme e la stazione ferroviaria Hagana di Tel Aviv, con una fermata all'aeroporto di Ben-Gurion.
Dopo alcuni mesi, la frequenza verrà aumentata a tre treni ogni ora, con la possibilità di aggiungere capacità durante l'ora di punta a sei treni ogni ora.
La nuova stazione di Binyenei Ha'uma - che prenderà il nome dell'ex presidente Yitzhak Navon - è stata costruita ad una profondità di oltre 80 metri sottoterra, quindi potrebbe richiedere fino a 15 minuti per entrare nell'edificio, passare attraverso la sicurezza e scendere più ascensori o scale mobili prima di salire sul treno.
Il treno deve utilizzare una stazione molto al di sotto del livello del suolo a Gerusalemme per compensare la differenza di altitudine tra questa e Tel Aviv, sulla costa.
La nuova stazione da 70.000 m2 fungerà anche da rifugio antiaereo. Può ospitare comodamente circa 4.000 passeggeri alla volta.
Il ministero dei trasporti prevede che la ferrovia ad alta velocità vedrà circa quattro milioni di viaggi passeggeri nel primo anno. I costi di costruzione hanno totalizzato un NIS 7b stimato, ovvero circa $ 2b.
Come la maggior parte dei trasporti pubblici in Israele, il treno non opererà durante lo Shabbat e le festività ebraiche.

(Travel for business, 19 gennaio 2018)


Trump: "Trasferiremo l'ambasciata a Gerusalemme entro il 2019"

La decisione statunitense sembra ormai già avviata: il Tycoon si propone ora di rispettare il termine del 2019 per il trasferimento dell'ambasciata statunitense alla riconosciuta capitale d'Israele, anche per la motivazione (di facciata) di utilizzare le strutture consolari già esistenti a Arnona.
Al contrario dei tempi stimati dal segretario Tillerson, che aveva ponderato tre o quattro anni, anche per diluire nel tempo una decisione così spinosa, Trump, forse convinto da Jared Kushner e dall'ambasciatore Friedman, e - soprattutto- dallo stesso premier israeliano Netanyahu, annuncia invece che entro il prossimo anno la famosa ambasciata sarà spostata da Tel Aviv a Gerusalemme.
Sarebbe stato infatti il premier israeliano Netanyahu a indurre Trump a un'accelerazione per la decisione, mentre il premier palestinese Abu Mazen incontrerà lunedì prossimo a Bruxelles, il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, e i ministri degli Esteri dell'UE. Il premier premerà affinché lo stato palestinese venga riconosciuto.
Washington starebbe per presentare il piano di pace, elaborato dal genero del presidente Jared Kushner, da pubblicarsi tra qualche settimana. Probabilmente si coinvolgerà l'Arabia Saudita, che dovrebbe indurre i palestinesi ad accettare il trasferimento. Impresa senz'altro ardua e rischiosa.
Il leader palestinese Abu Mazen ha però reagito che non negozierà più con gli USA, ostinato, a quanto pare, a non accettare la decisione di Trump; il Tycoon ha allora annunciato che dimezzerà i finanziamenti dell'ONU ai profughi palestinesi.
Tagliente la risposta di Netanyahu: "se Abu Mazen non vuole che gli USA facciano da intermediari, allora non vuole la pace."

(Ticinolive, 20 gennaio 2018)


Ebrei tedeschi spiati dagli iraniani. Berlino sottomessa agli ayatollah

Torna l'antisemitismo islamico in Germania. Sinagoghe sotto la sorveglianza degli 007 sciiti. Ma la Merkel non osa rompere con Teheran per timore di subire ripercussioni commerciali

di Daniel Mosseri

 
A Berlino i musulmani sfilano con i ritratti di Khomein! per chiedere la distruzione di Israele
Antisemitismo e odio per Israele, sicurezza delle comunità ebraiche e relazioni con l'Iran. Nel giro di poche ore Berlino è diventata una fonte senza fine di notizie legate a questi temi.
   La prima, la più clamorosa: agenti iraniani hanno attivamente spiato le organizzazioni ebraiche a Berlino. Lo ha rivelato Focus, dopo che sotto indicazioni dell'intelligence tedesca, la procura federale ha disposto la perquisizione di una serie di appartamenti legati a dieci agenti della Repubblica islamica attivi in Germania.
   Fra gli obiettivi delle spie iraniane ci sarebbero anche la filiale di Alexanderplatz (a Berlino est) di una comunità ebraica ortodossa, il giovane rabbino che la anima, ma anche alcuni circoli sportivi ebraici fra i quali il Makkabi Berlin. Secondo quanto riferito da Spiegel, una settimana fa il ministero degli Esteri tedesco ha protestato con il governo di Teheran, accusandolo di spionaggio. Sorvegliato speciale anche Reinhold Robbe, ex deputato socialdemocratico, incaricato dal partito di seguire le questioni militari, finito nel mirino degli iraniani per i suoi stretti rapporti con Israele.
   Non è un mistero che lo scorso ottobre Berlino abbia firmato un accordo milionario con Gerusalemme per la fornitura di tre sommergibili Dolphin prodotti dalla ThyssenKrupp. L'Iran, che da anni inneggia alla distruzione dello Stato ebraico, sostiene attivamente con finanziamenti e armi tutti i peggiori nemici di Israele: dalle milizie sciite libanesi di Hezbollah, ai terroristi sunniti di Hamas. Perciò, nel gioco delle relazioni internazionali, gli agenti iraniani in Germania cercano di saperne di più sugli scambi di materiale militare fra Berlino e Gerusalemme. È invece del tutto contrario a ogni logica di buon senso, e pericoloso, che le spie degli ayatollah si insinuino all'interno della comunità ebraica tedesca.
   Le pessime frequentazioni degli ayatollah hanno messo in allarme il Consiglio centrale degli ebrei, il cui presidente Josef Schuster, ha dichiarato che «ancora una volta» la Repubblica islamica ha dimostrato di voler mettere in pratica i suoi atteggiamenti antiisraeliani e antisemiti anche al di fuori dei suoi confini nazionali. Denunciando «la chiara motivazione antiebraica» delle spiate iraniane, Schuster ha chiesto che le azioni di Teheran «non restino impunite». Al governo tedesco, il presidente delle comunità ebraiche ha chiesto di «riconsiderare le sue relazioni con l'Iran, il maggiore finanziatore del terrorismo al mondo e uno Stato che nega l'Olocausto».
   Difficile che Merkel e suoi alleati socialdemocratici diano ascolto a Schuster: negli scorsi anni, la Germania è stata fra le più solerti sostenitrici dell'accordo sul nucleare iraniano. Accordo che, voluto da Barack Obama e criticato ma non denunciato da Donald Trump, ha permesso lo sdoganamento del regime degli ayatollah e il ritorno degli investitori occidentali, tedeschi e italiani in primis, in Persia.
   È una Germania un po' strabica, che stringe la mano agli ayatollah da un lato e si batte il petto per lo sterminio degli ebrei dall'altro. Risale appena a giovedì un lungo dibattito al Bundestag su antisemitismo e odio per Israele.
   A Berlino come a Milano le dichiarazioni di Trump secondo cui è giusto riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele sono state accolte da manifestazioni di giovani islamici. In un tripudio di bandiere turche e di Hezbollah, anziché inneggiare alla pace in Medio Oriente, decine di giovani barbuti hanno cantato inni di guerra, ricordato l'invasione da parte di Maometto dell'oasi ebraica di Khaybar nel 628 d.C. e minacciato gli ebrei. Gesti che, uniti a una generale recrudescenza dei fenomeni di antisemitismo e antisionismo in tutta la Germania, con pestaggi di ebrei nella metropolitana e minacce davanti ai ristoranti israeliani, hanno spinto i partiti politici a una riflessione.
   È stato il capogruppo Cdu Volker Kauder a ricordare che «noi tedeschi abbiamo una responsabilità speciale e dobbiamo assicurarci che l'antisemitismo non aumenti». Kauder ha anche ricordato che l'odio per gli ebrei (antisemitismo) e per il loro Stato (antisionismo) non è più monopolio dell'estrema destra «ma cresce fra gli immigrati del Medio Oriente, una regione in cui l'odio per Israele è all'ordine del giorno». E, con riferimento alle recenti scene di violenza sotto la Porta di Brandeburgo, ha concluso: «Da noi in Germania la bandiera israeliana ha un significato importante, e non possiamo permettere che venga bruciata».
   La mozione trasversale che chiede l'istituzione di un Commissario speciale contro l'odio antiebraico è stata approvata a grande maggioranza dai deputati, compresi quelli dell'AID. L'unico partito astenuto è stata la Linke (social-comunisti), i cui dirigenti hanno protestato per non essere stati invitati a firmare la mozione dagli altri proponenti.

(Libero, 20 gennaio 2018)


Incompatibilità con gli antisemiti

La Germania pensa a una legge per espellere "chi non accetta gli ebrei"

In Germania l'alleanza conservatrice guidata da Angela Merkel annuncia di voler rafforzare le leggi contro l'antisemitismo che alligna tra gli immigrati. Tra le misure a cui si pensa, c'è anche la deportazione fuori dal paese. La bozza di legge vista dal giornale Die Welt dice che "l'accettazione assoluta della vita degli ebrei" è un requisito minimo per l'integrazione e che coloro che "rifiutano la vita degli ebrei in Germania e che mettono in dubbio il diritto a esistere di Israele non hanno posto nel nostro paese".
   La proposta di legge è stata pensata dopo le manifestazioni di piazza contro la decisione dell'Amministrazione Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme - un annuncio che non fa che ratificare una linea politica accettata dagli ultimi quattro presidenti americani, tutti d'accordo nel sostenere che la capitale di Israele è Gerusalemme. Durante le proteste in Germania si sono sentiti cori antisemiti e sono state bruciate bandiere dello stato di Israele, come del resto è accaduto anche a Milano, in Italia. Forse perché i tedeschi hanno un ricordo più vivo dell'antisemitismo, avanzano ora una proposta che è esplicitamente diretta, come dice il vice presidente del gruppo Csu- Cdu Stephan Harbarth, "agli immigrati dai paesi africani con un background arabo" - che sono cresciuti in un clima di antisemitismo storico. La Germania, che pure ha accettato di accogliere un milione di rifugiati siriani, riconosce per prima che c'è un problema di incompatibilità: se pensi che gli ebrei non possano vivere nella tua società, allora non puoi vivere in questa società.

(Il Foglio, 20 gennaio 2018)


Liliana Segre nominata senatrice a vita

La decisione di Mattarella. Sopravvissuta alla Shoah, ha 87 anni. La comunità ebraica: commossi.

di Marzio Breda e Paola D'Amico

Liliana Segre
«Aspetti un attimo, dottor Zampetti. Mi dia il tempo di chiedere una sedia alle commesse del negozio dove sono appena entrata e di tirare il fiato. Ripeta tutto, per favore, perché queste sono notizie che a una certa età creano un'emozione così forte da far quasi male».
   Così si è sentito dire il segretario generale del Quirinale, l'altro ieri, quando ha raggiunto al cellulare Liliana Segre, a Milano. Doveva sondare la sua disponibilità alla nomina a senatrice a vita decisa dal presidente della Repubblica, e all'altro capo del filo percepiva una persona confusa e stupita. Gli stessi sentimenti, non ancora metabolizzati, che ha avvertito Sergio Mattarella ventiquattr'ore più tardi, al telefono con lei. Poche parole, e stavolta a ringraziare è stato soprattutto lui: «Sono felice che abbia accettato, signora. L'ingresso in Senato di una persona con la sua storia e la sua forza morale avrà un significato importante per l'Italia».
   Si riparleranno giovedì prossimo sul Colle, dove si svolgeranno le celebrazioni solenni del «Giorno della Memoria» e dove Liliana Segre sarà interrogata da un gruppo di ragazzi. Racconterà la propria esperienza di ebrea italiana perseguitata in patria, internata in un lager nazista e sopravvissuta. Una parabola drammatica, con un esito miracoloso che toccò a pochi. A ottant'anni dalle leggi razziali imposte dal fascismo, il capo dello Stato voleva che a qualcuno tra gli ultimi testimoni di una così grande tragedia andasse il massimo tributo delle istituzioni. Dimostrando che la Repubblica è anche «fonte di onori». In questo caso, il più grande degli onori.
   Il principale criterio di selezione è stato dunque questo. E, dopo il referendum costituzionale di un anno fa - che ha evitato una mezza eclissi su Palazzo Madama che avrebbe stravolto anche l'articolo 59 della Costituzione, quello appunto sui senatori a vita-, al Quirinale hanno cominciato a pensarci. Mattarella, del resto, è sensibilissimo sulla questione ebraica e sull'Olocausto. Da sempre. Basta ricordare che nelle ore immediatamente successive alla sua elezione, il 31 gennaio 2015, prima ancora di giurare in Parlamento, volle visitare in solitudine le Fosse Ardeatine.
   Per lui, poi, il laticlavio senatoriale doveva andare a una figura in grado di rappresentare un unicum, rispetto ai campi delle virtù civili più spesso scremati dallo staff del Quirinale. Una personalità la cui testimonianza riverberasse magari il significato di due idee guida del suo ultimo discorso di Capodanno agli italiani: memoria e futuro.
   In Liliana Segre tutto si tiene, di questo profilo. Ecco perché il presidente l'ha scelta, pur senza averla mai incontrata. Gli è stato sufficiente soppesare il suo continuo, enorme impegno a raccontare e spiegare «dal vivo», e specialmente ai giovani, ciò che è stata la Shoah. Insomma: in una fase storica come la nostra, di disinvolte smemoratezze e amnesie sovrapposte a un'ignoranza diffusa, ha voluto rendere onore alla pedagogia civile di questa ultima testimone. Ieri la presidente delle comunità ebraiche Noemi Di Segni lo ha ringraziato: «Siamo commossi».

(Corriere della Sera, 20 gennaio 2018)


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Una senatrice e i sommersi dal negazionismo

La magnifica nomina di Liliana Segre, volto dell'Olocausto italiano

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ieri ha nominato senatrice a vita Liliana Segre, per "aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale". Dei 776 bambini italiani che vennero deportati ad Auschwitz, Liliana Segre fu tra i soli venticinque che tornarono indietro. Il padre e i nonni vennero uccisi all'arrivo nel campo di sterminio. Per quarant'anni si è rifiutata, come tanti altri che si sono salvati, di parlare di quello che le era successo. Poi l'urgenza di non smettere più. Da molti anni, assieme a Shlomo Venezia, la signora Segre è diventata il volto dei sopravvissuti italiani all'Olocausto. Mattarella sa bene che stiamo attraversando un periodo, ormai piuttosto e purtroppo lungo, di acceso e aperto negazionismo dell'Olocausto, di banalizzazione della sua memoria e di feroce antisemitismo di ritorno. Aveva tredici anni Liliana Segre quando fu deportata e non sapeva ancora che essere ebrea, anche se italiana, fosse una colpa. Oggi è di nuovo una colpa essere ebrei in Europa. Per questo la nomina di Liliana Segre ha un grande valore, oltre che politico, anche morale. Fra una settimana si celebrerà la Giornata internazionale di ricordo della strage dei sei milioni di ebrei europei. Una ricorrenza che rischia da tempo di incartarsi in un rito della memoria, stanco e senza più richiami nella società né significato politico. Il Senato italiano che accoglie Liliana Segre gliene restituisce un po'. Il viaggio di Liliana Segre non è ancora finito.

(Il Foglio, 20 gennaio 2018)


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Liliana Segre senatrice a vita, la sua nomina è una buona notizia. Ma non illudiamoci

di Barbara Pontecorvo

Si può discutere sulla previsione costituzionale delle nomine di senatori a vita per capire se essa sia o meno un esempio di democrazia e se la proposta di riforma avanzata da Matteo Renzi di restringerla abbia senso. Tuttavia, questa disciplina oggi riceve una luce insperata, comunque meritata, da questa nomina, anche se con qualche condizione.
   I lapsus istituzionali sono frequenti quasi quanto quelli domestici e, probabilmente, i danni che provocano sono suppergiù i medesimi. Sia a livello istituzionale che a livello domestico si apprende puntualmente di 'celebrazioni' collegate alla Shoà, ma qualsiasi persona intelligente capisce, o dovrebbe capire, che non c'è proprio nulla da celebrare, e sarebbe bene che le istituzioni espungessero questo inquietante lapsus.
   Liliana Segre doveva riparare in Svizzera col padre (era orfana di madre) ma fu respinta. Gli ebrei italiani erano pochissimi, e la patria, come diceva Orson Welles, dell'orologio a cucù non ne avrebbe ricavato danno alcuno da questa immigrazione. Ciò che c'è stato prima del respingimento e ciò che vi fu dopo fanno parte del caveat che dovrebbe circondare come un alone protettivo questa nomina presidenziale.
   Prima dell'arresto, Liliana Segre, che aveva otto anni al momento delle leggi razziali, fu cacciata dalla scuola perché ebrea, ma non avrebbe potuto comunque entrare in una biblioteca, andare in spiaggia, avere un apparecchio radiofonico. Nei negozi si leggeva: "Vietato l'ingresso agli ebrei", "Negozio ariano" e "Vietato l'ingresso ai giudei e ai cani". Un tipografo ebreo annotava: "Niente carte annonarie per prelevare latte e cibi d'ogni sorta, niente sigarette, niente buoni per prelevare (a pagamento) indumenti o vestiario di qualsiasi tipo. Insomma si doveva crepare di inedia!".
   Il dopo arresto comporta il viaggio per Auschwitz, e qui bisogna dire che Liliana Segre è una miracolata, perché la sopravvivenza era una rara eccezione. Chi stava là dentro sapeva che ogni giorno c'era un maledetto congegno che lo avrebbe potuto mandare al gas e al crematorio, e che era solo questione di tempo. Il caveat dovrebbe essere quello di non continuare la persecuzione contro gli ebrei nel 2018 giocando con i concetti di apartheid e di nazismo, perché fare lo sciocco e troppo facile, ma la qualifica di sciocco, per quanto antipatica, non esenta da responsabilità in alcun ambito. Se non si sarà capaci di farlo, vorrà dire che questa nomina sarà stata vana e che la nostra società avrà smarrito, assieme alla consuetudine al ragionamento, ogni reattività, e questo sarebbe un danno non soltanto per gli ebrei. Non ci illudiamo, non illudetevi.

(il Fatto Quotidiano - blog, 20 gennaio 2018)


Ristabilite le relazioni tra Israele e Giordania

Israele e Giordania hanno raggiunto ieri un accordo che mette fine alle tensioni diplomatiche nate l'estate scorsa in seguito a un incidente avvenuto all'interno dell'ambasciata israeliana ad Amman, nel quale furono uccisi due cittadini giordani. Lo ha fatto sapere il ministero degli esteri israeliano secondo cui l'ambasciata ad Amman «tornerà immediatamente alla sua piena attività». Israele - si legge in un comunicato - «conferisce grande importanza alle sue relazioni strategiche con la Giordania e i due paesi agiranno per far avanzare la loro cooperazione, in modo da rafforzare il trattato di pace». Israele ha presentato ufficialmente le sue scuse ad Amman per l'uccisione dei due giordani, offrendo indennizzi alle famiglie.
   Sull'incidente, che ha provocato una crisi nelle relazioni diplomatiche tra i due paesi alleati, ancora non è stata fatta piena chiarezza. Secondo le ultime ricostruzioni dei media, il 23 luglio 2017 una guardia di sicurezza uccise un cittadino giordano che si era recato all'interno dell'ambasciata israeliana ad Amman per montare un mobile. Stando alla versione della guardia, l'uomo l'aveva colpito con un cacciavite. Anche un secondo giordano era stato ucciso, in apparenza per un errore .. Le indagini, tuttavia, sono ancora in corso.
   Secondo quanto riferito dal portavoce del governo giordano, Mohammed Momani, è arrivata una nota ufficiale dal ministero degli esteri israeliano «in cui si esprime il forte dispiacere del governo e il rammarico per l'incidente all'ambasciata israeliana». Inoltre, si promette di fare la massima chiarezza su quanto accaduto.

(Avvenire, 19 gennaio 2018)


Amazon in Israele

 
Amazon continua a fare progressi nei suoi piani di inserimento nel mercato israeliano. Oltre alla creazione di un centro logistico in Israele, fonti interne al quotidiano economico "Globes" riportano che i rappresentanti di Amazon hanno visitato il Paese negli ultimi mesi, e contattato anche i principali fornitori di prodotti, comprese le maggiori compagnie alimentari anche se questo settore inizialmente non rientrera' fra le priorita' strategiche. Per quanto noto, in questa fase, Amazon sta prendendo in considerazione i settori della moda e del tessile, libri, articoli multimediali e prodotti elettronici fabbricati in Israele poiche' si tratta di prodotti con una lunga durata e senza date di scadenza.
   D'altra parte, sebbene Amazon abbia una forte presenza mondiale nel settore alimentare, soprattutto dopo aver acquisito la catena di supermercati Whole Foods, Israele non e' ancora nei piani, almeno del prossimo futuro, in ragione delle caratteristiche speciali dell'economia israeliana nel settore agroalimentare. Uno degli ostacoli in questo specifico mercato locale, infatti, è rappresentato dalla necessità di creare una catena di approvvigionamento con sistemi di refrigerazione complessa, di lunga durata e costosa. A cio' si aggiungono tutti i requisiti richiesti dalla kashrut. Il nome di Amazon, comunque, e' già stato associato al centro logistico gigante di Teva Pharmaceutical Industries Ltd. di Shoham, nel momento in cui la piu' importante azienda farmaceutica attraversa una fase congiunturale negativa e potrebbe essere interessata alla vendita.
   Commentando i piani di Amazon, un fornitore israeliano ha detto a "Globes", "Non ci hanno ancora contattato, ma se Amazon ci chiama, risponderemo sì", aggiungendo, "oltre alle fusioni e acquisizioni nel retail locale, la forza che i dettaglianti israeliani esercitano sui fornitori sta generando una forte pressione". Recentemente è stato riferito che Amazon stava valutando e studiando le abitudini di acquisto dei consumatori israeliani e le pratiche prevalenti di logistica e distribuzione in Israele.
   Parallelamente le azioni delle società proprietarie di centri commerciali segnalano perdite. Il mercato dell'e-commerce in Israele è cresciuto del 25% l'anno negli ultimi tre anni, e ora è stimato in 7 miliardi di NIS (poco meno di 2 miliardi di Euro), pari al 6% del totale del mercato al dettaglio israeliano, secondo le stime della Israelian Insurance Company. Le vendite online di Shufersal Ltd. , la più grande catena di supermercati al dettaglio, sono già aumentate oltre l'11% delle vendite totali dell'azienda. Una caratteristica importante del mercato online israeliano è il volume considerevole di acquisti dall'estero, che è cresciuto a causa dell'offerta inadeguata nel mercato locale. Al momento, gli acquisti dall'estero costituiscono il 40% del mercato al dettaglio online e vi è una grande variazione nella proporzione tra le varie categorie.
   L'interesse di Amazon per l'apertura di un centro logistico in Israele, che è stato segnalato due mesi fa, ha avuto un impatto negativo sui prezzi delle azioni delle principali società di centri commerciali. Ad esempio, il prezzo delle azioni di Melisron Ltd. è sceso del 13%, quello di Azrieli Group Ltd. del 6,5% e quello di Big Shopping Centers Ltd. del 10,5 %, in un momento in cui l'indice Tel Aviv 35 era in piena espansione, con un aumento del 6,5% negli ultimi due mesi e l'indice immobiliare in crescita dell'1% durante questo periodo. Un simile passo compiuto da uno dei giganti online internazionali costituisce un potenziale terremoto nel mercato al dettaglio locale in Israele. Il potere di Amazon, che ha un giro di affari da $ 624 miliardi a Wall Street, è ben oltre qualsiasi cosa conosciuta nel mercato locale e sta minacciando l'ordine stabilito, portando tutti i giocatori nel mercato al dettaglio non alimentare a guardare al futuro con preoccupazione.
   Oltre ai piani di sviluppo di vendita on line in Israele, Amazon impiega attualmente centinaia di lavoratori in Israele in diversi settori: sviluppo di chip per i suoi server cloud, assistenza virtuale, sviluppo della tecnologia per il negozio Amazon Go, che opera senza contatori di cassa e computer vision. Come se non bastasse, si mormora che Amazon offra stipendi agli sviluppatori di software superiori a quelli prevalenti nel settore, anche rispetto a Microsoft, Google e Apple.

(Agenzia ICE, 19 gennaio 2018)


Israele: barriera sotterranea al confine con Gaza

L'esercito israeliano ha rivelato alcuni dettagli in merito a una barriera sotterranea, situata al confine con la Striscia di Gaza, che il Paese starebbe costruendo per impedire ai gruppi palestinesi di costruire tunnel utilizzati per colpire il territorio israeliano.
   Secondo quanto rivelato giovedì 18 gennaio dall'esercito israeliano, si tratterebbe di un muro vero e proprio, che si estenderebbe per 65 km, ovvero per tutta la lunghezza del confine con la Striscia di Gaza, e sarebbe dotato di sensori di movimento, progettati per rilevare lo scavo di gallerie. In superficie, in corrispondenza del muro sotterraneo, verrà costruita una recinzione, per impedire le infiltrazioni degli abitanti di Gaza nel territorio israeliano. La barriera dovrebbe essere completata entro i primi sei mesi del 2019.
   Il muro è costruito nel territorio israeliano, nell'area a nord del villaggio di Sderot e in quella di di Nahal Oz, nei pressi della Città di Gaza. In merito alla questione, si è espresso anche il portavoce dell'esercito israeliano, il tenente colonnello Jonathan Conricus, il quale ha dichiarato si tratterà della prima "barriera sotterranea completa".
   Tale progetto, del valore di 530 milioni di dollari, era stato approvato nel luglio 2016 dal Ministero della Difesa israeliano. Nonostante i lavori per la costruzione della barriera siano iniziati nel settembre 2016, i dettagli sono stati rivelati soltanto giovedì 18 gennaio, in seguito alla distruzione di un tunnel tra i due territori. Il 14 gennaio, l'esercito israeliano aveva reso noto di aver distrutto un tunnel che collegava la Striscia di Gaza a Israele e al confine con l'Egitto. Secondo quanto riferito dall'esercito israeliano, il tunnel sarebbe stato scavato dai gruppi palestinesi per colpire Israele.
   Precedentemente, il 30 ottobre 2017, l'esercito israeliano aveva fatto esplodere un tunnel che collegava la Striscia di Gaza a Israele, causando la morte di 7 palestinesi e il ferimento di altri 12. Israele temeva che il tunnel costituisse un passaggio per i militanti di Hamas intenzionati a colpire il Paese. In tale occasione, un portavoce dell'unità delle Forze di difesa israeliane, che si è occupata della distruzione del tunnel, aveva giustificato l'azione di Israele, affermando che il passaggio sotterraneo avrebbe costituito "una violazione grave della sovranità di Israele". In merito alla distruzione del tunnel, il portavoce aveva dichiarato che "l'organizzazione terroristica Hamas è responsabile per tutto ciò che succede nella Striscia di Gaza" e aveva aggiunto: "Le Forze di difesa israeliane continueranno ad adottare tutte le misure necessarie sopra e sotto il terreno per sventare i tentativi di colpire i cittadini di Israele e per mantenere l'area tranquilla".
   La localizzazione dei "tunnel terroristici" farebbe parte di una più ampia strategia di difesa, portata avanti dai militari israeliani dopo la fine dell'Operazione Colonna di Nuvola, la campagna militare israeliana iniziata il 14 novembre 2012 contro i militari di Hamas, in risposta al lancio di razzi dalla Striscia di Gaza verso il territorio israeliano. Si trattava della seconda imponente operazione militare lanciata da Israele contro Gaza dalla fine dell'operazione Piombo Fuso, iniziata 27 dicembre 2008 e conclusasi il 18 gennaio 2009, con l'intento dichiarato di colpire l'amministrazione di Hamas.

(Sicurezza Internazionale, 19 gennaio 2018)


«Una novità in Medio Oriente che si collega con la nuova relazione India-Israele»

NUOVA DELHI - Intervistato dal quotidiano indiano "Times Now", il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha ribadito alcuni concetti già espressi nel corso del suo viaggio in India sul rafforzamento della relazione bilaterale e ha parlato anche di temi mediorientali. Ha ripetuto che il recente voto di Nuova Delhi all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, in appoggio alla risoluzione di condanna del riconoscimento statunitense di Gerusalemme come capitale di Israele, non sminuisce la forza della partnership indo-israeliana: "C'è stato un cambiamento nei forum internazionali, ma ci vuole tempo. Sono sicuro che vedremo votazioni diverse su singole questioni, ma penso che sia più importante ciò che davvero è stato ottenuto nella storica visita in Israele del primo ministro Modi e nella mia qui".

(Agenzia Nova, 19 gennaio 2018)


«Gerusalemme di tutti». Il Pontefice scrive al Grande Imam

Lettera ad Al Azhar

Francesco interviene sul problema di Gerusalemme riconosciuta dagli Usa come capitale d'Israele in una lettera al Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al Tayyib. «Solo uno speciale statuto internazionalmente garantito - scrive il Papa - potrà preservare l'identità, la vocazione unica di luogo di pace alla quale richiamano i Luoghi sacri, e il suo valore universale, permettendo un futuro di riconciliazione e di speranza per l'intera regione. È questa la sola aspirazione di chi si professa autenticamente credente e non si stanca di implorare con la preghiera un avvenire di fraternità per tutti». Da parte sua, la Santa Sede «non cesserà di richiamare con urgenza la necessità di una ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi per una soluzione negoziata, finalizzata alla pacifica coesistenza di due Stati all'interno dei confini tra loro concordati e internazionalmente riconosciuti, nel pieno rispetto della natura peculiare di Gerusalemme, il cui significato va oltre ogni considerazione circa le questioni territoriali».

(Corriere della Sera, 19 gennaio 2018)


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A proposito di pontefici

Dall’Enciclopedia Treccani
    «Presso gli antichi Romani il termine individuava ciascuno dei membri del collegio a carattere giuridico-sacerdotale presieduto da un p. massimo. Il termine pontifex (da pons «ponte» e tema di facere «fare») inizialmente forse designava colui che curava la costruzione del ponte sul Tevere. Il numero dei p. variò nel corso del tempo, ma il mutamento più significativo si verificò nel 300 a.C., allorché la lex Ogulnia lo portò da 5 a 9, aprendolo alla partecipazione dei plebei. In precedenza, la condizione patrizia era requisito indispensabile per accedere al pontificato, in base a un procedimento di cooptazione. I p., sommi garanti dell'ortodossia del rito nazionale, custodi e interpreti delle tradizioni giuridiche romane, consuetudinarie e legali, non assolvevano, al contrario di altri sacerdoti, a precise funzioni di culto: stabilivano in base a quali regole un qualsiasi rito - sacrale, processuale o negoziale che fosse - doveva essere compiuto, perché potesse considerarsi valido, e tali regole erano di volta in volta comunicate, a chi lo richiedesse, tramite responsa, che assumevano la veste di decreto collegiale, se l'interlocutore era un magistrato cittadino, di semplice consulto individuale, se invece si trattava di un privato. Per lungo tempo i pontifices, primi giuristi della storia romana (e perciò occidentale), esercitarono la loro attività giurisprudenziale in segreto, conservando così il monopolio della scienza giuridica, la cui metodologia rimaneva oscura ai più. A partire dalla fine del 4o sec. (e dopo la citata lex Ogulnia) esercitarono le loro funzioni in maniera più trasparente e aperta, tanto che intorno al 250 T. Coruncanio, primo pontefice massimo plebeo, dette responsi in pubblico. Ciò favorì la formazione di una giurisprudenza laica, in quanto lo studio del diritto divenne, logicamente, possibile anche a chi p. non era, sebbene solo nel campo del diritto civile, giacché in quello sacrale il collegio continuò ad agire in condizioni di monopolio. Augusto fece propria, nel 12 a.C., la carica di pontefice massimo, che sarebbe rimasta prerogativa di tutti i successivi imperatori, fino all'era cristiana inoltrata.»
Tutto questo è storicamente ben noto, ma è bene ricordarlo per sottolineare la natura pagana di questa figura che rappresenta nel modo più chiaro la storica corruzione del messaggio di Gesù, già prevista nel Nuovo Testamento. L’invito alla costituzione di una religione universale unitaria e politestica, con l’esortazione ad opporsi allo Stato ebraico nella sua volontà di dichiarare Gerusalemme sua capitale unica e indivisibile, affinché possa diventare sede della religiosa pace universale, conferma le profezie bibliche e il carattere diabolico dello statuto e dell’opera di questa figura. M.C.

(Notizie su Israele, 19 gennaio 2018)


Weisz. L'allenatore nella Shoah

Ripubblicato "II giuoco del calcio" il manuale del mister ungherese: fece le fortune di Inter e Bologna e poi morì ad Auschwitz.

di Massimiliano Castellani

La Storia spesso, anche involontariamente, fa passaggi imprecisi, finte di corpo, mettendo in fuorigioco le storie dei grandi uomini: ma la memoria di cuoio no, e così, con il tempo, è andata a strappare dall'oblio la vicenda umana e sportiva di Arpàd Weisz.
   Un antesignano di tutti i presunti "special one" della panchina, l'ungherese di Solt, classe 1896, ex calciatore (ala sinistra) con il bernoccolo del condottiero da bordo campo, la cui cifra peculiare era la «modestia». Materia di studio nel suo manuale ll giuoco del calcio. Un testo epocale, scritto da un autentico stratega e fine ricercatore della tattica calcistica. Un prezioso vademecum adottato, ai tempi, da tutti i tecnici in carriera e dagli aspiranti allenatori. Fu pubblicato nel 1930 (dall'editore Corticelli), stagione in cui allenava l'Inter e con la fascistizzazione, anche del calcio, il suo nome divenne Veisz e quello del club Ambrosiana. Il manuale lo scrisse a quattro mani con Aldo Molinari, il "papà" dei direttori sportivi, figura professionale creata ad hoc dal presidente dell'Ambrosiana-Inter Oreste Simonotti.
   Weisz invece vanta un record ancora insuperato: è stato il tecnico più giovane a vincere lo scudetto in Serie A. Il primo titolo lo conquistò nella stagione nerazzurra 1929-'30, quando aveva appena 34 anni. Aveva invece vent'anni il suo "Peppino", Giuseppe Meazza quando lo fece debuttare 17enne pronosticandogli un futuro da «fuoriclasse». Meazza era «il "folbèr" allo stato puro» secondo lo scriba massimo di calcio Gianni Brera che aveva conosciuto e apprezzato Weisz dai racconti del suo allievo prediletto. «Ricordo ancora la sua pazienza durante i lunghi allenamenti - raccontava Meazza - . Orologio alla mano, Weisz alla fine di ogni corsa mi sorrideva: "Bravo il mio Peppino, però puoi andare più veloce. Puoi fare meglio. Puoi riprovare un'altra volta?"». In Il giuoco del calcio - ora ripubblicato (Minerva Editore. Pagine 222. Euro 18,00), si trovano i capitoli fondamentali in cui sembra di riascoltare la voce del mago ungherese che didattico invita alla «Velocità» e agli «Esercizi che servono a migliorare il fiato». Applicazione, unita a una tecnica fuori dal comune fecero del giovane Meazza un bomber da 31 gol in 33 partite in quella prima cavalcata tricolore di Weisz che poi sarebbe andato a fare le fortune del Bologna Con lui i rossoblù divennero la squadra irresistibile che «tremare il mondo fa». Due titoli di fila, dal 1935 al '37, prima della "tragica sconfitta" che però avvenne fuori dal campo di gioco. Le oltraggiose leggi razziali del 1938 costrinsero Arpàd e la sua famiglia, di religione ebraica, alla fuga. L'ebreo errante e non più il grande stratega del football riparò a Parigi e da lì nell'Olanda di Anna Frank con sua moglie Elena e i figli Roberto e Clara. Nei Paesi Bassi sembrava aver trovato il giusto riparo dalla follia nazista. Weisz con l'assist di una serenità apparente, trovò il tempo di dedicarsi ancora al calcio allenando la squadra di Dordrecht, il paese che ospitava la sua famiglia. Salvò il piccolo club dalla retrocessione, dando spettacolo e lezioni di calcio persino al blasonato Ajax. Ma lui e i suoi cari non riuscirono a salvarsi dalla deportazione. L'uomo che predicava in anticipo sui tempi la necessità del lavoro del «centromediano metodista» e della fuga sulle fasce da parte dei terzini, un giorno dell'ottobre del '42 si sentì braccato. «Pazienza e rispetto», i dogmi di una vita faticarono a restare in piedi dopo che venne diviso dalla sua famiglia. Elena e i piccoli Roberto (12 anni) e Clara (8) vennero subito annientali nella camera a gas del campo di concentramento di Auschwitz. Weisz venne spedito in un campo di lavoro nell'Alta Slesia. In quell'ottobre del '42, un altro suo discepolo, il terzino del Bologna Mario "Rino" Pagotto, venne arruolato come alpino e l'8 settembre del '43 fatto prigioniero dalle SS. Il buon Rino cuore rossoblù venne rinchiuso nel campo di Hohenstein (Prussia dell'Est). «Lì passarono 650mila prigionieri (soldati francesi, belgi, serbi, sovietici e italiani), e 55 mila di questi vennero bruciati in delle pire all'interno del cimitero di Sudwa, non lontano dal campo», ricordava il prigioniero "DA8659" («nemmeno cento numeri più dello scrittore Rigoni Stern, prigioniero anche lui»), che da Hohenstein fu trasferito al campo di lavoro di Bialystok, in Polonia. Pagotto, la cui storia si può leggere nel libro di Giuliano Musi Un calcio anche alla morte (Minerva) amava ricordare il primo monito del suo mister Weisz quando dal Pordenone arrivò nel grande Bologna: «Osare in campo è sempre meglio che trattenersi». Rino il terzino metodista dello scudetto del '36 (poi ne avrebbe vinti altri due nella stagione 1938-'39 e 1940-'41) osò anche sul campo di Cemauti. L'ultima prigione in cui come "un Weisz" si improvvisò calciatore-allenatore di "Quelli di Cemauti", la squadra con la quale a Sluzk (nei pressi di Minsk) «osò» sfidare gli undici messi in campo dell'Armata Rossa, ridicolizzandoli con un quasi cappotto, 6-2. Scene da fuga per la vittoria. «Noi nel lager ad ogni partita ci giocavamo davvero la vita», disse Pagotto che poté festeggiare la sua liberazione «il 18 ottobre del 1945». Tornò ad abbracciare la Giuseppina e i compagni del suo Bologna con i quali giocò ancora appendendo gli scarpini al chiodo nel 1948. Ma fino all'ultimo (è morto nell'agosto del '92) di tutte le sfide, Rino ricordava quelle di cui fu testimone anche Primo Levi (ne I sommersi e i salvati) disputate nei campi dei lager nei «giorni in cui l'uomo era divenuto cosa agli occhi degli uomini». A Weisz, il vero manuale vivente del calcio, l'esistenza venne invece spezzata ad Auschwitz, il 31 gennaio 1944, nelle stesse camere a gas dove erano spirati i suoi tre amori. C'è voluto del tempo, e tutta la passione di Matteo Marani (autore di Dallo scudetto ad Auschwitz: vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo, per riportare alla luce la straordinaria figura del tecnico ungherese vittima della Shoah. L'uomo verticale Arpàd , il Maestro che il suo pupillo Peppino Meazza non aveva mai dimenticato: «Gli volevo davvero bene e il giorno che mi comunicarono la sua morte, provai lo stesso dolore di chi perde un padre».

(Avvenire, 19 gennaio 2018)


La grande menzogna di un popolo palestinese

Dal Presidente di “Evangelici d’Italia per Israele” riceviamo una lettera che volentieri pubblichiamo.

Nell'articolo di Giordano Stabile sulla "Stampa" di Torino: «L'ira di Abu Mazen "Noi a Gerusalemme prima degli Ebrei", compare il sottotitolo,"il leader dell'ANP: i palestinesi discendono dai cananei".
Tutto questo dipende oltre che dalle recenti decisioni dell'UNESCO, tendenti a cancellare qualsiasi riferimento alle radici ebraiche dell'area medio-orientale, anche per l'incoraggiamento dal successo del loro revisionismo storico e dal lavaggio di cervello del mondo con la GRANDE MENZOGNA di un popolo palestinese.
Basandosi su quel mito, ora, e proprio in concomitanza con il Giorno della Memoria, possono affermare di essere stati duplici vittime degli Ebrei: nella conquista di Canaan da parte degli Israeliti e di nuovo dagli Israeliani in tempi moderni. La conseguenza è la creazione del criminale ossimoro omologando gli ebrei di oggi ai nazisti di qualche decennio fa.
C'è però un fatto che vorrei denunciare.
Da troppo tempo circolano ancora Bibbie, anche di recentissima pubblicazione che riportano all'interno le cartine geografiche con la dicitura "La Palestina al tempo di Gesù", per non parlare... "ai tempi di Abramo".
Tralascio di dilungarmi sul fatto che il termine Palestina è un nome coniato dai Romani nel 135 d.C. per cancellare il nome di Israele, ma è grave che questo termine venga usato anche oggi con dei riferimenti decisamente sbagliati.
Già qualche anno fa protestai con il Culto Evangelico delle domenica mattina alle 7:30 sul 1o programma della RAI nazionale che faceva riferimento al seminatore della famosa parabola evangelica, come fosse un contadino palestinese e in un'altra trasmissione definiva Maria, la madre di Gesù, una giovane palestinese.
Se queste affermazioni circolano in ambienti cristiani, non dobbiamo stupirci se anche Arafat, in una vigilia di Natale, dichiarò che Gesù era un Palestinese.
Mi piace concludere con quanto scrive Eli Hertz su "Questa terra è la mia terra".
"Le contraddizioni abbondano; i leader palestinesi affermano di discendere dai Cananei, dai Filistei, dai Gebusei e dai primi Cristiani. Si sono appropriati di Gesù, ignorando la sua ebraicità, proclamando al tempo stesso che gli Ebrei non sono mai stati un popolo e non hanno mai costruito templi santi a Gerusalemme".
Ivan Basana

(Notizie su Israele, 19 gennaio 2018)


Che i palestinesi discendano dai cananei è una di quelle sparate filopalestiniste talmente grosse che si ha quasi vergogna a prenderle in considerazione, sia pure per contrastarle. Sgradevole invece è la leggerezza con cui anche gli evangelici trattano la terminologia che fa riferimento a fatti biblici. M.C.


''Purgheremo i classici per renderli inoffensivi"

E' satira nel romanzo di Patrice Jean. Ma sta accadendo

di Giulio Meotti

Nelle scorse settimane la Francia si è divisa sull'opportunità di ripubblicare i pamphlet antisemiti di Louis Ferdinand Céline, dalle "Bagatelle per un massacro" alla "Scuola dei cadaveri" (Guanda li pubblicò e ritirò negli anni Ottanta). La casa editrice Gallimard aveva deciso di porre fine al divieto, in vigore in Francia da ottant'anni, sui libri maledetti dello scrittore francese. Ma se le cose continuano così, anche il romanzo più celebre di Céline, il "Viaggio al termine della notte", potrebbe essere sforbiciato in nome del giusto sentire.
   E' quello che immagina lo scrittore Patrice Jean nel suo nuovo romanzo, "L'homme surnuméraire". Una satira sociale dove il protagonista, Clément Artois, è un editor disoccupato che trova lavoro presso la casa editrice Gilbert. Stanno mettendo su una nuova collana che sarà chiamata "Letteratura umanistica". Clément ha il compito di "espungere da un'opera le parti che feriscono la dignità dell'uomo, il senso del progresso e la causa delle donne". Un comitato di "alte figure morali" compone il comitato di lettura, dove Clément è responsabile dei passaggi mancanti. "Il grosso corpo della facoltà parlava più dei diritti umani che della letteratura".
   Così, il "Viaggio" di Céline viene ridotto a una quarantina di paginette innocue (da qui il termine "céliner" adottato da Artois per definire il ruolo del nuovo correttore di bozze). Si fanno due collane dai titoli edificanti: "Le Belle Lettere Egualitarie" e i "Romanzi senza Razzismo". Clément viene assunto per rivedere i classici della letteratura allo scopo di liberarli da qualsiasi scoria. Fumo, sessismo, razzismo, questo è il nemico.
   Lo ha detto l'autore stesso al Figaro:
   "Che uno scrittore possa essere in pace con il suo tempo mi sembra davvero curioso. Avrebbe fatto meglio a diventare un parrucchiere". E poi, non sta forse già succedendo? "Quando leggo Nietzsche, Schopenhauer, Baudelaire, Pessoa o anche Molière, dico spesso che una simile frase, un tale paragrafo, oggi, subirebbe il fulmine della censura. Ci piace vedere tutto bello nello specchio dei libri". Soltanto nell'ultimo mese, una petizione ha cercato di eliminare un quadro di Balthasar "Balthus" Klossowski dal Met di New York, un regista si è preso la libertà di cambiare il finale della Carmen di Bizet, i nudi striminziti e avvinghiati di Schiele sono stati oscurati nella metropolitana di Londra, mentre "Via col vento" e i romanzi di Mark Twain sono stati sloggiati da alcune scuole americane. Un giorno, è una madre inglese che sostiene che la favola della bella addormentata va eliminata perché il giovane principe bacerebbe la principessa senza il suo "consenso", alimentando così nell'immaginario collettivo la "cultura dello stupro". Un altro è l'accademica Laure Murat che su Libération esprime la propria costernazione sul film "Blow-up" di Antoniani, il cui protagonista è un giovane fotografo che non esita a molestare i suoi modelli femminili. Murat gli imputa "una misoginia e un sessismo insopportabili".
   "Oggi il razzismo sociale di Molière è arcaico, non possiamo più mettere in scena i contadini per prenderli in giro, è davvero abietto", dice l'editore responsabile del progetto nel romanzo di Jean. "Non possiamo più permetterci di pubblicare pagine che sfidano l'umanità". Se questi sono gli esiti del massacro della "sensibilità", meglio tutto il pacchetto. Bagatelle comprese.

(Il Foglio, 19 gennaio 2018)


Michele Sarfatti: "Mussolini era razzista fin dall'inizio"

Lo storico ha presentato al Meis il suo libro sul Duce e gli ebrei

di Mattia Vallieri

 
 
Nelle leggi razziali di 80 anni fa Benito Mussolini ci credeva davvero o le promulgò per convenienza politica e vicinanza a Hitler? Era razzista o un opportunista? "Mussolini è un uomo estremamente pragmatico, fa quello che conviene a lui e all'idea di Italia che ha. In questo senso non ha quella folle ideologia e pregiudizio di Adolf Hitler ma utilizza tutto quello che gli serve in quel dato momento. E' razzista sin dall'inizio ma non lo dice, non lo fa trapelare, non fa come Attilio Fontana".
   È questa la convinzione, coadiuvata da diversi episodi e documenti, dello storico Michele Sarfatti arrivato al Meis (di cui è membro del comitato scientifico) per presentare il suo libro 'Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell'elaborazione delle legge razziali', uscito nel 1994 ma oggi arricchito da nuove testimonianze raccolte dall'autore.
   Dopo i saluti della direttrice del Meis Simonetta Della Seta (che ha moderato l'incontro) e del presidente Dario Disegna ("libro importante in questo ottantesimo anniversario delle leggi razziali perché il paese faccia i conti con il proprio passato"), la parola passa all'autore che sottolinea come, storicamente, "Hitler fa una politica di conquista e ripopolamento dell'Europa ad oriente della Germania", mentre "Mussolini vuole un mare nostrum da controllare ben cosciente che ci sono gli albanesi, i libici, i tunisini e gli egiziani e deve riuscire a farli stare insieme tutti. Quando esce il manifesto della razza nel luglio del 1938, che è di Mussolini non degli scienziati, il ministro degli Esteri Ciano 10 giorni dopo, ed è evidente che si sono sentiti, manda un telex ad ambasciatori e consoli italiani chiarendo che le politiche razziste italiane riguardano solo gli ebrei". Secondo Sarfatti "il razzismo Mussolini l'ha preso con il latte dalla madre cattolica e maestra elementare e dal padre anarchico. Nel Psi è stato un altissimo dirigente e si scontra costantemente con Claudio Treves, c'è un qualcosa nel feeling tra quei due che non funziona. Parte ad esplicitare il suo razzismo con gli etiopi nel 1936".
   Non mancano i racconti storici all'interno della presentazione, partendo proprio dalla questione Etiopia: "A Longobucco, vicino a Cosenza, venne deportata ed internata l'elite intellettuale etiope. Il 24 giugno del 1938 arriva sul tavolo di Mussolini una lettera del prefetto di Cosenza che diceva che nei locali dove sono non hanno modo di cucinare e se possono andare a mangiare fuori. Sulla questione c'è una annotazione di un ministro dell'Africa italiana con scritto 'il duce ha detto sì purché non siano serviti da bianchi'. Questo è razzismo che hai dentro, è il prototipo del razzismo".
   "Io non credo alla svolta del '38, lui vuole rivoluzionare un paese che già esiste" prosegue lo storico, affrontando la questione della nascita dell'Accademia d'Italia (in cui "non vengono mai insigniti ebrei"), ribadendo che leggi razziali furono "una azione di governo" e ricordando come "nel '33 ci sono dei strampalati ma seri e reali incontri tra Mussolini e Renzetti (il rappresentante del duce a Berlino). Mussolini tramite Renzetti chiede ad Hitler di non esporsi così contro gli ebrei perché le cose si possono fare anche senza clamore e senza richiamare l'attenzione della comunità internazionale. A queste parole Hitler, che era appena arrivato al potere, rispose picche".
   "Le sanzioni della Società delle Nazioni ed il fatto di non riuscire a fascistizzare il mondo ebraico italiano sono due cose che Mussolini non riesce a tollerare" chiosa ancora Sarfatti, dichiarando che "tra i suoi c'era chi premeva per andare più avanti, tra cui Renacci e Interlandi, e chi lo prendeva per l'ultimo lembo della giacca, per stare a Ferrara Balbo, ma il gruppo dirigente era una consorteria dove tutti si mettevano assieme. Non abbiamo nessuna traccia di dirigente del partito fascista che si sia allontanato, non c'è qualcuno che in modo tenue si è fatto progressivamente da parte a seguito delle leggi razziali. C'è un consenso generale verso Mussolini".
   Sempre per rimanere su Ferrara, rispondendo ad una osservazione su Balbo, Sarfatti si domanda a gran voce "cosa diavolo è successo in questa città al momento del assassinio di don Minzoni? Lì si crea qualcosa che è talmente forte da durare alcuni lustri. Perché una persona non iscritta al Pnf diventa immediatamente segretario federale per qualche mese? Quale è il fatto e cosa è accaduto in questa città? Manca la storia di Ferrara del primo periodo fascista ma studiare queste cose in un paese che le nega è difficile". E ancora: "Come è stato coperto l'affaire don Minzoni? - chiede lo scrittore -. Nella frase di Balbo 'Tripoli non è Tel Aviv' lui ha in mente un concetto e delle cose molto forti. Avrà avuto metodi gentili ma la storia è altro".
   "Nella misura in cui ci definiamo italiani ci prendiamo sulle spalle tutto quello che è accaduto in nome di altri italiani e dobbiamo conoscerlo perché fa parte di noi" spiega l'autore, concludendo che "siamo quello che è successo e saremo quello che riusciremo a fare. Se dici di essere italiano sappi che l'Italia è Galileo, Leonardo, sant'Ambrogio a Milano (che era per la distruzione delle sinagoghe) e ivi compreso le leggi anti ebraiche".

(estense.com, 19 gennaio 2018)


Michel Dreyfus, L'antisemitismo a sinistra in Francia. Storia di un paradosso (1830-2016)

Da Fourier a George Sand ecco gli antisemiti di sinistra. Un saggio di Michel Dreyfus racconta con coraggio le tendenze anti ebraiche del socialismo francese.

di Matteo Sacchi

Quando si pensa all'antisemitismo è quasi automatico pensare al nazismo o a un certo tipo di destra. Ma è davvero così? No, esiste un antisemitismo di sinistra che però è stato spesso ficcato sotto il tappeto della Storia. E non si tratta solo delle persecuzioni contro le religioni, compresa quella ebraica, nella Russia dei soviet o sotto Stalin. Esiste un antisemitismo di sinistra ben più antico e pernicioso che la maggior parte degli studiosi si è guardata bene dall'evidenziare. Ha fatto una scelta diversa lo storico francese Michel Dreyfus, grande esperto di movimenti operai, che ha pubblicato un saggio coraggioso: L'antisemitismo a sinistra in Francia. Storia di un paradosso (1830-2016). II volume (e-book 6,99 euro, print on demand 13,51 euro), pubblicato in Italia dall'associazione Free Ebrei e tradotto da Vincenzo Pinto, prende in esame il caso francese, che è emblematico. Soprattutto tenendo conto che Oltralpe hanno vissuto molti dei più noti socialisti utopisti. Ecco, è proprio tra le loro fila che si scoprono un gran numero di antisemiti a sorpresa.
Dopo la caduta di Napoleone, la Francia iniziò ad avere un nuovo periodo di vivacità economica e nel sistema bancario e imprenditoriale non mancavano nomi ebraici. Questo poco aveva a che fare con le condizioni economiche della maggior parte degli ebrei francesi. Ma tanto bastò a molti socialisti per tirar fuori, rinfrescandoli, i peggiori stereotipi medievali sull'usuraio ebreo. Attaccare il capitalismo e attaccare gli ebrei divenne un tutt'uno. Pierre Leroux (1797-1871), forse addirittura il coniatore del termine «socialismo», in De la Ploutocratie del 1843 si esprimeva così: «I più grandi capitalisti di Francia… Ebrei che non sono cittadini francesi, semmai aggiotatori cosmopoliti». Il suo bersaglio principale era il banchiere James de Rothschild (1792-1868), ma rapidamente il focus dell'odio si allargò a tutti i suoi correligionari. E la sua excusatio di non attaccare gli ebrei in quanto individui, bensì lo «spirito ebraico, cioè lo spirito di guadagno, di lucro, di utile» lascia, ovviamente, il tempo che trova. La famosa scrittrice George Sand, a lui vicina, sposò e propalò le stesse tesi persino in una pièce teatrale del 1840, Les Mississipiens. L'autrice mette in scena un finanziere ebreo, Samuel Bourset, che ritrae come un essere repellente. Non erano casi isolati. Sono fortissimi gli stereotipi anti ebraici anche negli scritti di Charles Fourier (1772-1837). Nel Nouveau Monde industriel se la prende con la Rivoluzione francese per aver emancipato gli ebrei. Situazione che lui avrebbe voluto risolvere a colpi di esproprio proletario e lavoro coatto: «Ogni governo attento ai buoni costumi dovrà obbligare gli ebrei al lavoro produttivo, non ammetterli che nella proporzione di un centesimo nel vizio: una famiglia mercantile ogni cento famiglie agricole e manifatturiere».
   Anche Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), uno dei padri dell'anarchismo, dimostra di essere accecato dal preconcetto anti ebraico: «Ebrei, fare un articolo (di legge, ndr) contro questa razza che infetta qualsiasi cosa, che si infila dovunque senza mai fondersi con un altro popolo. Richiedere la loro espulsione dalla Francia, eccetto gli individui sposati con francesi; abolire le sinagoghe, non assumerli in alcun posto lavorativo, perseguire infine l'abolizione di questo culto». Come si vede un programma che non avrebbe sfigurato in un discorso hitleriano.
   Certo, nella sinistra francese il clamoroso caso delle accuse false contro il capitano di Stato maggiore, di religione ebraica, Alfred Dreyfus (1859-1935) finì per portare a posizioni decisamente diverse verso l'ebraismo. Ma il saggio dimostra come i preconcetti anti ebraici rimasero ampiamente sotto traccia. Se tutti ricordano il famoso J'accuse di Emile Zola, va detto che molti socialisti restarono tiepidi verso la vicenda. Il Partito Operaio Francese, a esempio, e i suoi organi di stampa oscillarono a lungo tra l'indifferenza e l'ostilità verso Dreyfus. Tanto che nel 1898 intervenne il socialista libertario Adolphe Tabarant (1863-1950) ad esortare i suoi compagni a non cadere nell'«antisemitismo imbecille».
   Né la situazione era completamente risolta alle soglie della Seconda guerra mondiale. Le componenti della Sezione Francese dell'Internazionale Operaia più fortemente pacifista accusava i governi francesi di contrapporsi a Hitler in quanto al soldo dell'«internazionale ebraica». Così Ludovic Zoretti (1880-1948): «II popolo francese non ha alcuna voglia di vedere una civiltà annientata e milioni di esseri umani sacrificati per rendere la vita più confortevole a centomila ebrei della regione dei Sudeti».
   E anche dopo la guerra non mancarono confusioni tra posizioni politiche ostili a Israele e posizioni anti ebraiche. Insomma, leggendo il saggio di Michel Dreyfus viene da chiedersi se le attuali polemiche sulla ripubblicazione di Céline abbiano senso. Semmai avrebbe senso ristudiare tutto l'antisemitismo, anche quello su cui la sinistra preferisce far finta di nulla.

(Osservatorio Antisemitismo, 19 gennaio 2018)


L'ira di Abu Mazen: “Noi a Gerusalemme prima degli ebrei'”

Il leader dell'Anp: i palestinesi discendono dai cananei

di Giordano Stabile

La doppia mossa di Donald Trump ha messo nell'angolo il vecchio raiss. Abu Mazen ha reagito con rabbia. A ogni discorso i toni, da increduli, sono diventati sempre più duri. Un salto indietro di trent'anni, fino alla ricusazione degli accordi di Oslo, del riconoscimento dello Stato ebraico.
  Ieri al Cairo, il presidente palestinese è tornato su una vecchia tesi, quella della discendenza dei palestinesi dai cananei, che vivevano a Gerusalemme «anche prima degli ebrei». Un muro posto davanti a qualsiasi compromesso sulla Città Santa, riconosciuta dalla Casa Bianca come capitale di Israele.
  Abu Mazen, 83 anni il prossimo 26 marzo, è in un angolo. I maggiori alleati arabi, e Egitto e Arabia Saudita, agiscono in accordo con gli Stati Uniti, anche se non lo dicono.

 Fra Hamas e Israele
  Il nuovo piano di pace prevede la rinuncia a Gerusalemme, e come capitale palestinese il sobborgo di Abu Dis. I regimi filo-occidentali lavorano per convincere l'opinione pubblica, e per il raiss sarebbe un suicidio buttarsi nelle braccia di Iran o Turchia, sponsor dei suoi mortali rivali, prima di tutto Hamas. I finanziamenti americani, come si è visto con il dimezzamento dei fondi all'Unrwa, restano decisivi per la sopravvivenza dei palestinesi: un terzo arrivano dagli Usa, un sesto da Riad.
  Domenica a Ramallah Abu Mazen ha denunciato il piano saudita e le decisioni di Trump come «uno schiaffo in faccia». Ma l'alternativa è ormai cedere a Israele o cedere ad Hamas, avallare la «Terza Intifada». Ieri al Cairo il raiss ha cercato di uscire dall'angolo, ha denunciato «l'ipocrisia» dei presidenti americani che fingono di «maledire i loro predecessori, promettono, ma non danno nulla» e non sono più «mediatori credibili». L'alternativa non si vede, una «conferenza di pace internazionale» che sostituisca i negoziati bilaterali resta un miraggio.
  Abu Mazen ha bollato come un «peccato» il trasferimento dell'ambasciata americana. Il richiamo alla sacralità di Gerusalemme non riesce però a mobilitare le masse palestinesi, figuriamoci arabe. Un altro «schiaffo» Abu Mazen lo ha ricevuto alla riunione della Lega araba ad Amman, quando il ministro degli Esteri degli Emirati Abdullah bin Zayed al-Nahyan lo ha accusato di non essere in grado di «difendere» la Città Santa. Pesa il consenso, ormai bassissimo, per l'Autorità nazionale, accusata dai giovani sempre più disillusi di corruzione e nepotismo, e di collaborare con lo Shin Bet israeliano.

 L'intesa sulla sicurezza
  Il punto è: finché regge l'intesa israelo-palestinese sulla sicurezza, la Casa Bianca può osare. La rinuncia all'accordo sul controllo del territorio metterebbe a rischio la stessa Autorità nazionale palestinese, minacciata dagli islamisti. Nonostante i toni da guerra Abu Mazen alla fine ha ribadito che la violenza non è un'opzione per far valere i diritti dei palestinesi e che la «nostra posizione resta la richiesta di uno Stato nei confini del 1967».
  La narrativa può tornare pure agli Anni Ottanta, ma secondo la Casa Bianca, rivela l'analista del Washington Institute David Makovsky, «è soltanto un raid preventivo», volto ad arginare le mosse di Washington e sperare di un cambio della guardia in Israele nelle elezioni del 2019.

(La Stampa, 18 gennaio 2018)


Eyal Lerner, la storia degli ebrei in musica

Al Teatro sociale di Camogli il concerto spettacolo sulla shoah

di Claudio Cabona

 
Eyal Lerner

GENOVA - La memoria ebraica fra musica e narrazione. Sabato alle 20.30 sul palco del Teatro Sociale di Camogli è in programma "Che non abbiano fine mai", spettacolo di e con Eyal Lerner, flautista che, con canzoni e racconti, porterà sotto i riflettori un pezzo della storia del suo popolo. La serata è curata dal Gruppo Promozione Musicale Golfo Paradiso. «Lo spettacolo si compone di due parti: la prima narra la storia del popolo ebraico attraverso la musica e i racconti legati alle tradizioni precedenti la seconda guerra mondiale» anticipa il protagonista «nella seconda si assiste a un drastico cambio di atmosfera: le vicende italiane, dall'avvento del fascismo alla Resistenza, si intrecciano con la questione ebraica. È uno spettacolo a due facce, intenso e ricco di riferimenti storici». Nato e formatosi in Israele, Lerner porta in scena, in vista della Giornata della Memoria il 27 gennaio, un racconto con musica nato da una serie di laboratori che hanno coinvolto più di20mila studenti in Italia, Germania e Polonia. «Quando ho iniziato a lavorare sullo spettacolo mi sono chiesto: è possibile oggi rendere i giovani testimoni di un passato oscuro, dando vita a sentimenti di un'umanità dinamica e coraggiosa?» spiega l'artista «e ancora: si può, con le arti sceniche, aprirsi a sentimenti di solidarietà e compassione e creare relazioni profonde, capaci di rafforzare la propria individualità? Crediamo che, dopo essersi immersi da protagonisti in una delle pagine più buie della storia, si possa riemergerne più consapevoli».L'artista,in Italia dal 1995, negli ultimi anni ha realizzato spettacoli per i bambini come "Scintille di gloria" e "Flautino". Ha sempre cercato anche un dialogo con il mondo arabo, ed è direttore del coro Shlomot di Genova.

(Il Secolo XIX, 18 gennaio 2018)


L'oasi nel deserto

''La Turchia nel club delle dittature". Israele unica democrazia fino all'India. Il rapporto di Freedom House.

di Giulio Meotti

ROMA - I diritti civili e politici in Turchia si sono talmente degradati sotto il presidente Recep Tayyip Erdogan che il suo paese è entrato ufficialmente nel club delle dittature, secondo un nuovo rapporto sulle libertà della ong Freedom House, considerata un punto di riferimento per gli standard di libertà democratica nel mondo. Per la prima volta dal 1999, cioè da quando la ong stila la propria classifica, la Turchia diventa "non libera" perdendo il suo status di "parzialmente libera". "Attacchi alla stampa, agli utenti dei social media, ai manifestanti, ai partiti politici, al sistema giudiziario e al sistema elettorale", elenca la ong americana, accusando il presidente Erdogan di "imporre un controllo personalizzato sullo stato e la società". "La sua risposta al colpo di stato del luglio 2016 è diventata una tentacolare caccia alle streghe, con l'arresto di 60 mila persone, la chiusura di oltre 160 media e l'imprigionamento di 150 giornalisti. I leader del terzo partito in Parlamento sono in carcere e quasi 100 sindaci in tutto il paese sono stati sostituiti".
   Proprio ieri è arrivata la notizia che Ankara ha deciso di estendere lo stato di emergenza per altri tre mesi, spingendo l'opposizione a parlare di "colpo di stato civile" in corso da parte di Erdogan. Il rapporto di Freedom House ha dipinto un quadro cupo dello stato della libertà in tutto il mondo, constatando che per il dodicesimo anno consecutivo si è verificato un "declino della libertà globale". Insieme alla Turchia, altri 70 paesi hanno subìto riduzioni importanti dei loro diritti politici e civili, mentre solo 35 li hanno migliorati. Il rapporto stima che circa il 39 per cento dei 7,6 miliardi di persone nel mondo vive in paesi liberi, rispetto al 24 per cento in paesi parzialmente liberi e al 37 per cento in paesi non liberi.
   Freedom House accusa l'Amministrazione Trump di ritirarsi dal suo ruolo di garante della libertà democratica nel mondo. Israele si conferma il solo paese libero della regione, anche se ha visto un leggero calo nel suo rating del 2017 "a causa della nuova legislazione volta a imprimere restrizioni alle organizzazioni non governative e negando loro l'accesso al supporto internazionale". Nel 2016, Israele ha trasformato in legge la norma sulle ong, che aumenta i requisiti di trasparenza delle organizzazioni che ottengono la maggior parte dei loro finanziamenti da governi stranieri (in gran parte europei). E la scorsa settimana, il governo israeliano ha pubblicato un elenco di organizzazioni (c'è anche Bds Italia) che promuovono il boicottaggio e ai cui membri Gerusalemme impedirà l'ingresso nel paese. Israele si difende dicendo che anche altre democrazie hanno norme che impediscono l'ingresso a determinati individui e organizzazioni (l'Inghilterra l'ha applicata a blogger come Pamela Geller, a politici come Geert Wilders e a islamisti di diverso tipo). Nel complesso, tuttavia, Israele ha mantenuto il suo rating di "paese libero", registrando un punteggio complessivo di 79 su 100, in calo di un solo punto rispetto agli 80 dell'anno scorso. Al contrario, la Cisgiordania - controllata da Israele e amministrata dall'Autorità palestinese - ha ottenuto sette punti (la peggiore cifra possibile) per i diritti politici e cinque per le libertà civili. Questo ne fa un paese "non libero", dittatoriale. Stessa valutazione per la Striscia di Gaza controllata da Hamas, anch'essa "non libera".
   Freedom House registra anche il "forte calo democratico" in Tunisia nel 2017, che minaccia di declassare l'unico paese nel mondo arabo vagamente libero. Malissimo va anche l'Arabia Saudita, nonostante la promessa di riforme del principe Bin Salman. Lo scorso 9 gennaio era il terzo anniversario dell'incarcerazione del blogger RaifBadawi. I sauditi marciavano a Parigi dopo la strage alla redazione di Charlie Hebdo, ma in patria preparavano la frusta per i propri dissidenti. Dal rapporto di Freedom House, Israele si conferma l'unico paese libero e democratico in un oceano che arriva fino all'India, dove in questi giorni è in corso la storica visita del premier Benjamin Netanyahu, la prima di un premier dello stato ebraico. Israele e India, due democrazie che fronteggiano il radicalismo islamico.

(Il Foglio, 18 gennaio 2018)


Resta in carcere Ahed Tamimi, la 'pasionaria palestinese'

E' accusata di aver aggredito alcuni soldati israeliani

Rimane in carcere sino alla celebrazione del processo a suo carico, Ahed Tamimi, accusata dalle autorità israeliane di aver provocato e attaccato due soldati dello Stato ebraico il 15 dicembre scorso.
La ragazza, definita da alcuni media 'la pasionaria palestinese', era stata arrestata a seguito della diffusione di un video dove viene immortalata mentre colpisce i soldati israeliani che non reagiscono alle provocazioni.
I precedenti
Sulla sorte giudiziaria della Tamimi verranno a pesare i precedenti, quello del 2012 nel quale la ragazza si scagliava contro i militari israeliani in Cisgiordania e soprattutto nel 2015, quando fu vista mordere ripetutamente la mano di un soldato che stava tentando di fermare un ragazzino palestinese con il braccio ingessato accusato di tirare sassi, video la cui originalità è sempre stata al centro delle discussioni sul caso.
La missione dell'Unione Europea a Gerusalemme e Ramallah ha espresso preoccupazione per la sorte della minorenne palestinese per la quale la liberazione è stata chiesta anche da Amnesty International.
La Corte militare israeliana, oltre a sentenziare la permanenza in carcere della Ahed Tamimi, si è espressa nei medesimi termini anche per la madre della ragazza, Nariman Tamimi, anch'essa arrestata nello stesso contesto con le accuse di "aver attaccato un ufficiale e un soldato israeliano il 15 dicembre passato" nel villaggio di Nabi Saleh, aver attaccato "in cinque altre occasioni" i militari Israeliani e aver "tirato sassi, partecipato a incidenti violenti, minacciato e incitato altri".
Bassem Tamimi, padre della ragazza, ha denunciato sul profilo Facebook l'operato dei soldati israeliani accusandoli di violenza e ha difeso a spada tratta il comportamento della figlia.
Di parere opposto il ministro della difesa dello Stato di Israele, Avigdor Lieberman, che ha rivendicato "la moralità" dell'esercito israeliano e lodato pubblicamente il comportamento dei militari provocati dalla ragazza.

(ofcsreport, 17 gennaio 2018)


Lo status speciale dei profughi palestinesi, uno scandalo che dura dal 1949

Sono quelli che ricevono più soldi e che possono tramandare lo stato giuridico agli eredi. E ben il 65% del budget del Unrwa finisce nelle tasche dei suoi 24-25.000 dipendenti.

di Carlo Panella

Oggi i "profughi" palestinesi sono 5 milioni, tra i quali quelli veri, reali, fuggiti dalla Palestina nel 1948 sono ormai meno del 5%, gli altri sono "eredi"
La decisione di Donald Trump di defalcare 65 milioni di dollari sui 300 che gli Usa versano annualmente alla Unrw, l'organizzazione dell'Onu che assiste i profughi palestinesi, chiude formalmente ogni ipotesi di un ruolo di mediazione degli Stati Uniti nelle crisi israelo-palestinese. Paradossalmente, conforta in pieno la decisione di Abu Mazen che in un infuocato discorso alla Muqata, il quartier generale palestinese di Ramallah, ha proclamato giorni fa la fine del capitale ruolo di mediazione di Washington che data da ben 70 anni. È ben difficile comprendere dove Trump intenda andare a parare con questa seconda mossa, dopo la decisione di spostare l'ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme. Probabilmente non ne ha la minima idea. Per di più questa decisione, esattamente come quella sull'ambasciata Usa di Gerusalemme, indebolisce il potere contrattuale di un'Arabia Saudita che da sempre ha fatto da madrina proprio ai profughi palestinesi e che recentemente sembrava intenzionata a proporre ad Abu Mazen una mediazione forte.
   Questa ennesima, imperscrutabile, sbandata di Trump, al di là dell'inequivocabile e sconcertante significato politico, è comunque occasione per andare a fondo sulla natura della organizzazione di assistenza ai profughi palestinesi, sulla sua scandalosa "unicità", i suoi scandalosi criteri di spesa e l'incredibile ereditarietà dello status di profugo di cui beneficano solo e unicamente i palestinesi. Fondata dall'Onu nel dicembre del 1949, la Unrwa aveva il fine di provvedere a 500 mila profughi palestinesi, fuggiti a seguito della prima guerra arabo-israeliana del 1948. Pochi mesi dopo, nell'inverno del 1950, le Nazioni Unite fondarono la Unhcr, allo scopo di provvedere a tutti gli altri profughi del pianeta che ammontavano a ben 17 milioni. Scandalosa, ma indicativa, la decisione dell'Onu di riservare ai profughi palestinesi, e solo ai profughi palestinesi, uno status speciale e una organizzazione di assistenza specifica, come a sottolineare una loro "unicità" dovuta allo "scandalo" della nascita dello Stato di Israele.
   Scandalo raddoppiato da uno statuto dell'Unrwa che rendeva e rende incredibilmente ereditario lo status di "profugo palestinese", là dove - come è ovvio, la Unhcr considerava e considera profughi solo coloro che fuggono dalla propria patria, non i loro eredi. Risultato di questa perversione giuridica: oggi i "profughi" palestinesi sono 5 milioni, tra i quali quelli veri, reali, fuggiti dalla Palestina nel 1948 sono ormai meno del 5%, gli altri sono "eredi". Una follia giuridica che ha un risvolto drammatico. Uno dei punti caldi sui quali naufraga ogni accordo di pace tra Israele e palestinesi è infatti proprio il "rientro dei profughi". Ora, se ci si attenesse alla definizione giuridica che vale per tutti i profughi del mondo, il problema non sarebbe affatto grave: Israele potrebbe senza problemi assorbire dentro i suoi confini le poche centinaia di migliaia di profughi effettivi del 1948. Ma è impensabile, e assurdo che possa, come pretendono invece a gran voce i palestinesi, forti della distorta "fiolsofia Unrwa", assorbire quei 5 milioni di falsi profughi palestinesi, di eredi della patente di profugo, che metterebbero per di più gli ebrei in minoranza demografica nello Stato ebraico.
   Ma non basta, oggi la Unhcr che assiste l'enorme cifra di 65,3 milioni di profughi nel pianeta, si vede riconoscere dall'Onu un budget di 3 miliardi e 355 milioni di dollari, 51,37 dollari pro capite a profugo. La Unrwa, invece, che ne assiste come detto 5 milioni, si vede riconoscere dall'Onu ben un miliardo e 300 milioni di dollari, 260 dollari pro capite a profugo. Dunque, per l'Onu, un profugo palestinese "merita" 5 volte tanto assistenza economica di un altro qualsiasi profugo del pianeta. Di nuovo, una discriminazione a favore dei profughi palestinesi che non ha ragione di essere se non la si riconduce all'inaccettabile "scandalo" dell'esistenza dello Stato di Israele. Infine, ma non per ultimo, il vero e proprio scandalo della gestione della Unrwa: ben il 65% del suo budget finisce nelle tasche dei suoi 24-25.000 dipendenti (quasi tutti palestinesi) e solo il 35% è destinato ai profughi palestinesi veri e propri. Il che dimostra che l'Unrwa serve solo a garantire reddito a 24-25.000 famiglie palestinesi mentre tutti gli altri, anche i profughi veri del 1948, si devono accontentare di inutili briciole.

(Lettera43, 18 gennaio 2018)


Da vecchio garage a ristorante, a Tel Aviv

 
In principio era un garage per la riparazione di automobili, poi trasformato in un negozio di fiori e piante. Oggi ospita Mansura Restaurant, locale dedicato alla buona cucina situato a Giaffa, cittadina di mare a sud di Tel Aviv, nella zona in rapida evoluzione di Salame Street.
Il progetto del ristorante è stato curato dallo studio creativo israeliano al femminile This is IT ed è contraddistinto da pareti perimetrali interne grezze, soffitti alti, pilastri in cemento e tendaggi presi in prestito dall'ex garage. Lo stile industriale è sottolineato anche dai pavimenti in calcestruzzo e dagli elementi metallici, che il duo ha mescolato con armonia insieme a nuovi elementi d'arredo.
Gli interni svelano un ambiente che è una sintesi tra antico e contemporaneo. Il risultato è un ambiente open space dove l'ampio bancone a semicerchio del bar è protagonista e funge da elemento di collegamento tra la cucina e l'area destinata ai commensali.
Una griglia metallica blu avvolge le pareti che dall'ingresso giungono fino alla finestra della cucina, alternando piante e tubi di luci al neon progettati dalla designer Naama Hofman, che si ripetono in diverse forme e dimensioni accompagnati da elementi in ottone per tutto il locale.
Nella sala principale sedie, panche in legno restaurato e vecchi tavoli in faggio e formica si uniscono a tavoli in marmo, tavoli laccati neri e sedie nere, ricreando un dialogo tra antico e moderno.

(Icon Design, 17 gennaio 2018)


Scampò agli attacchi del 2008, bambino israeliano torna a Mumbai

MUMBAI - A quasi dieci anni dagli attacchi terroristici a Mumbai, in India, il bambino israeliano di 11 anni sopravvissuto a quella tragedia è ritornato per la prima volta in quei luoghi e nella casa in cui i suoi genitori furono uccisi. Ad accompagnarlo sono stati i nonni con cui oggi vive in Israele.
Moshe Holtzberg aveva 2 anni quando militanti pachistani fecero irruzione a Chabad House il 26 novembre 2008 uccidendo 6 persone, fra cui Gavriel e Rivka Holtzberg, che dirigevano il centro ebraico. L'assalto fu solo uno degli attacchi coordinati nella città indiana che andarono avanti per tre giorni facendo oltre 160 morti. A salvare il piccolo fu la babysitter indiana, Sandra Samuel che riuscì a scappare dopo averlo ritrovato in lacrime accanto ai corpi dei genitori.
"Sono molto contento", ha detto il bambino sorridendo ai giornalisti appena giunto in India. Moshe, si è recato anche a Chabad House dove scoprirà una targa in ricordo delle vittime degli attacchi con il premier israeliano Netanyahu.

(RDS, 17 gennaio 2018)


Ambasciata Usa a Gerusalemme: perché San Marino ha votato contro?

Luciano Francioni del San Marino Journal USA New York, sostiene che l'allineamento [con l’Europa, ndr] non serve a nulla, allontana le soluzioni, allontana la pace perché così si dà più forza e convinzione a nuovi scontri.

San Marino
NEW YORK - La nostra San Marino, quella Terra che nei millenni è riuscita a salvaguardare la sua sovranità ed indipendenza con una neutralità attiva fatta di messaggi di pace, si è guadagnata la riconoscenza del mondo intero per questa sempre più rara virtù
   Ora ci domandiamo cosa si è voluto dimostrare col nostro voto contro il trasferimento dell'Ambasciata USA a Gerusalemme già deliberata unanimemente da anni dal Senato USA. Sudditanza ad una Europa che non sa darsi una sua politica estera? Rinuncia alla tradizionale politica di prudenza e di non allineamento?
   Le conseguenze sono state immediate: gli USA riducono il finanziamento alle strutture dell'ONU e richiedono maggiore responsabilità e partecipazione di tutti gli altri Paesi. Gli Stati Uniti si sono fortemente impegnati per la pace fra la Palestina ed Israele ed un progetto lo avevano ipotizzato con accordi importanti poi fatti saltare per ragioni di potere da parte di molti. Tutti gli altri sono stati a guardare e magari a fomentare nuovi scontri. Difficilmente potrà essere San Marino a riportare la pace in quell'area e l'Europa senza idee latita di brutto.
   L'allineamento di San Marino non serve a nulla, allontana le soluzioni, allontana la pace perchè così si dà più forza e convinzione a nuovi scontri. Questo allineamento nuoce alla politica di San Marino ed allontana la possibilità di poter utilizzare il grande valore della emigrazione di tanti concittadini che qui negli State hanno fatto fortuna, si sono liberati dalla schiavitù e dalla miseria contribuendo anche allo sviluppo economico della nostra amata Repubblica.
   Un voto di astensione, utilizzato più volte anche in casi dove forse ci sarebbe voluto più coraggio, sarebbe stata la soluzione più logica riconoscendo il ruolo delle grandi potenze che solo possono stabilizzare il Medioriente e dare a quelle terre una prospettiva.
   Ci viene il dubbio che questa volta non si sia riflettuto abbastanza, che si sia voluto fare un piacere a qualcuno e ingraziarsi le simpatie di chi a parole tifa per noi ma che nei fatti nulla conclude. Ci viene il dubbio che non ci sia più la volontà di proteggere la sovranità di San Marino e che si voglia mendicare un qualche piccolo favore da parte dei vicini. Ci viene il dubbio che certe decisioni vengano prese da poche persone tenendo all'oscuro i cittadini che lo vengono a sapere a seguito delle proteste degli USA.
   Ci viene il dubbio che si sia persa la memoria della nostra storia e che i ricordi non vadano oltre l'ultimo decennio e che sull'altare di un'umiliante entrata in Europa nel ruolo di "aggregati" si possano offuscare tanti secoli di libertà e di dignitosa presenza nel mondo degli Stati; che con questo voto si sia voluto rimettere in discussione la tradizionale amicizia con questo grande Paese che ci ospita, che ci ha dato sicurezza e prosperità, dignità e valori che in Patria non potevamo avere. Con ciò non si vuole proporre una politica di subordine all'incontrario, si vuole solo indicare la strada della dignità e della coerenza.
   Abbiamo sempre respinto il termine di cittadini di serie B che si è tentato di imporci con leggi contrarie alla carta dei diritti e continueremo a respingere ogni tentativo di snaturare la politica del nostro Paese al quale siamo legati da un profondo sentimento di appartenenza che ci sollecita a difenderci da ogni tentativo di tagliare questo importante e vitale cordone ombelicale capace di nutrire due popoli con dignità e saggezza. Ci stanno molto a cuore I nostri "quattro sassi" così come ci sta molto a cuore una politica di fratellanza e di collaborazione con gli USA ai quali dobbiamo riconoscere il grande merito di averci aiutato a sconfiggere le dittature europee e mettere fine alle guerre in molte parti del mondo.
   Ritroviamo I nostri valori e non vergognamoci di sostenere le nostre idee che sono e restano sempre quelle della Pace, della Fratellanza, della Libertà , valori messi così pericolosamente in pericolo in tante parti del mondo.
   Non crediate che noi non siamo all'altezza di capire certe politiche di allineamento e di sottomissione e, nonostante ciò siamo ancora speranzosi che ci si possa ravvedere e riprendere il nostro stimato ruolo nella politica internazionale dove anche un voto di astensione ha un forte valore che sta a sottolineare la sovranità e la ferma volontà di ricercare una soluzione adeguata attraverso la diplomazia ed il " buon senso"

(TribunaPoliticaWeb.sm, 17 gennaio 2018)


Patto strategico Netanyahu-Modi su alta tecnologia e lotta al terrorismo

New Delhi comprerà missili per oltre 72 milioni di dollari

di Carlo Pizzati

Benjamin Netanyahu con la moglie Sara a Taj Mahal, nella città di Agra
CHENNAI (TAMIL NADU) - Avviene in un momento delicato il viaggio di sei giorni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in India per abbracciare il premier Narendra Modi, firmare nove accordi strategici, incontrare leader dell'imprenditoria, visitare Bollywood e riaccompagnare a Mumbai un giovanissimo sopravvissuto ebreo alla strage terroristica del 2008.
   Assieme a 120 membri dell'Onu, l'India ha da poco respinto la richiesta di accettare Gerusalemme come capitale di Israele e ha mandato a monte un affare da 500 milioni di dollari per l'acquisto di 8 mila missili anticarro israeliani.
   Quindi la «Missione India» di Netanyahu è una bella sfida, che però il premier israeliano, nonostante una raccolta di firme proPalestina di circoli intellettuali indiani, sembra determinato a vincere. È la prima volta dal 2003 che un premier israeliano visita l'India, e questo viaggio viene percepito come la risposta al quello che fece Modi in Israele l'anno scorso per fare appello alla diaspora indiana nell'aiutare gli interessi di New Delhi nel mondo. Il legame strategico tra Israele e India si stringe sempre più grazie al rapporto di collaborazione tra Netanyahu e Modi, ma anche grazie alle comunità indiane ebraiche in Israele e a quelle degli ebrei in India, il cosiddetto «ponte umano» tra i due Paesi.
   Nonostante l'affare dei missili anti-carro della Rafael andato in fumo (New Delhi ha detto che li produrrà in proprio, Israele spera con questo viaggio di convincerli a far retromarcia), l'India resta il mercato più importante per i produttori di armi d'Israele: gli indiani acquistano armamenti israeliani per un miliardo di dollari l'anno. E infatti il ministro della Difesa indiano ha appena annunciato un programma di acquisto di 131 missili Barak terra-aria della Rafael, per 72 milioni di dollari.
   I due hanno firmato accordi sull'alta tecnologia e discusso nuove strategie di cyber-sicurezza oltre alla lotta al terrorismo del fondamentalismo islamico. «Misure forti», hanno chiesto nella dichiarazione congiunta. Oltre a sovrintendere gli accordi di 130 imprenditori israeliani che investiranno qui 68,6 milioni di dollari in turismo, tecnologia, agricoltura e innovazione nei prossimi quattro anni, Netanyahu visiterà il Gujarat di Modi per concludere con due appuntamenti a Mumbai.
   Primo, il premier israeliano darà un grande Bollywood party per i produttori indiani della più grande industria cinematografiche al mondo e per promuovere Israele come location. Secondo, incontrerà la comunità ebraica di Mumbai, la più numerosa in tutta l'India. In confronto agli 80 mila ebrei indiani in Israele, i 4mila ebrei in India sono un numero esiguo, ma nell'ultimo anno è accresciuto il loro ruolo nell'avvicinare i due Paesi. Da quando è stato eletto tre anni fa, Modi ha cercato l'aiuto della diaspora indiana di 28 milioni ex cittadini sparsi nel mondo. Il piano, riuscito, del premier è di chiedere agli emigrati di successo di investire in India e sostenere la sua politica estera.
   E così anche per Netanyahu la diaspora ebraica in India è diventata un «ponte umano» per mantenere forte il legame con un cliente così importante per molti settori dell'industria, primo fra tutti quello bellico. Una delle visite più importanti e toccanti di Netanyahu a Mumbai è quella a Casa Chabad, centro ebraico preso d'assalto dal commando terroristico che nel novembre del 2008 uccise 176 persone, tra le quali i genitori del piccolo Moshe Holtzberg che all'epoca aveva appena due anni. Ora, a 11 anni, tornerà a visitare la casa dove perse entrambi i genitori e dalla quale si salvò grazie alla baby-sitter che lo portò a crescere in Israele.

(La Stampa, 17 gennaio 2018)


I dubbi del Giro su Froome al via, l'lsrael Academy aspetta l'invito

 
Chris Froome
Se è vero che il ciclista è anche un animale politico, questo vale soprattutto per i componenti della Israel Cycling Academy. Il team fondato nel 2014 dal milionario e filantropo canadese Sylvan Adams è in attesa di sapere se sarà al prossimo Giro d'Italia con una wild card. La partenza da Gerusalemme e la campagna di rafforzamento invernale spinge gli israeliani verso il clamoroso esordio in rosa. Tuttavia molte cose sono accadute, nella lunghissima attesa. A settembre l'ingaggio di un corridore turco, Ahmet Orken, musulmano. La pace su due ruote non è arrivata fino a Natale. Orken ha rinunciato: «Mia mamma e mio fratello si sono trovati in una situazione sconveniente. Prima di essere un ciclista sono un figlio e un fratello fedele». Voci di un intervento di Erdogan. Ma l'internazionale ICA non si è fermata. Ran Margaliot, il team manager, ha messo sotto contratto Awet Gebremedhin, scalatore eritreo di 25 anni dalla storia incredibile: «Sono un rifugiato» racconta il ragazzo dal ritiro del team, a Girona, «nel 2013 sono riuscito ad arrivare in Svezia e lì, per non essere rimpatriato, ho dovuto trovarmi un lavoro. Rivendevo bottiglie di vetro, così provavo ad aiutare i miei nove fratelli, sei maschi e tre femmine, e i miei genitori». Ora sogna il Giro: «Ho vissuto in Toscana per due mesi, tornare in Italia da professionista è una cosa impossibile anche solo da sognare. Ma adesso sono dentro e non mi tiro indietro». Awet, a scanso di equivoci, è «cristiano». Il budget è di 6 milioni di euro. Margaliot dice: «Abbiamo partecipato con Rcs al disegno delle tre tappe del Giro e non c'è un posto più sicuro di Gerusalemme. Non abbiamo paura e non devono averne nemmeno gli investitori e i corridori».
   Intorno al prossimo Giro danzano ancora troppe ombre. La partecipazione di Chris Froome, per cominciare: nessuna decisione è stata ancora presa dall'Ud sulla concentrazione anomala di salbutamolo rilevata nelle sue urine alla Vuelta. All'Équipe, il direttore della corsa Vegni ha dichiarato di aspettarsi una decisione al più presto. Non vuole al via un Froome in attesa di giudizio. «Attendo con impazienza. Non accetterò alcun compromesso come con Contador, che vinse nel 2011 e poi fu cancellato dall'albo d'oro per una positività in una corsa precedente». Gli hanno chiesto: dichiararlo nel caso persona non gradita? Risposta: «Spero francamente di non dover arrivare a tanto». Mentre Romain Bardet protesta: «Manca trasparenza. Siamo ridicoli. Spero che ci sia un'indagine indipendente in modo che Froome possa chiarire. Non capisco però perché non sia stato sospeso temporaneamente».

(la Repubblica, 17 gennaio 2018)


Viaggio in Israele per partecipare alla festa dei settant'anni

Il Gruppo Sionistico Piemontese insieme all'Associazione Italia Israele di Firenze organizza un viaggio in Israele in concomitanza coi festeggiamenti per i 70 anni dello Stato di Israele.
Angela Polacco sarà la guida del gruppo.
Sono ancora disponibili gli ultimi posti.
Per informazioni: segreamar@gmail.com
Programma

(Gruppo Sionistico Piemontese, 17 gennaio 2018)


"Due della Brigata"

Comunicato stampa

Intorno al Giorno della Memoria - fissato al 27 gennaio, giorno della liberazione dei superstiti del lager di Auschwitz, ma nel quale sono comprese anche iniziative che si svolgono in un più lungo arco di tempo - si è di nuovo acceso il dibattito, soprattutto all'interno del mondo ebraico, sulla opportunità di continuare a celebrare questa ricorrenza. Da più parti si sostiene che queste iniziative hanno ormai un carattere rituale, hanno perduto lo spirito che le sorreggeva quando il Giorno della Memoria fu istituito, e che, in particolare, i giovani, o almeno una buona parte di loro, non riescono più a comprendere il significato di questa ricorrenza, che appare riferita a fatti lontani dalla loro esperienza.
Comprendiamo il senso di queste osservazioni ma non crediamo che la soluzione migliore sia quella di non celebrare il Giorno della Memoria. La memoria della Shoah non va perduta, perché è il miglior antidoto per evitare che quella tragedia si ripeta, in una forma o nell'altra. Quello che è necessario è mostrare ai giovani il filo della memoria, il collegamento tra il passato e il presente, la continuità della storia ebraica dalle persecuzioni - di cui la Shoah è stata l'ultimo e più tragico anello - alla nascita dello Stato d'Israele - lo Stato-rifugio, come lo definì Giovanni Spadolini; e successivamente alle vicende dello Stato ebraico fino ai nostri giorni, con i suoi problemi ma anche con i suoi successi, soprattutto in campo scientifico, culturale, tecnologico.
Il libro di Miriam Rebhun, rispettivamente figlia e nipote dei due protagonisti del libro Due della Brigata. Heinz e Gughy dalla Germania nazista alla nascita di Israele, è un esempio particolarmente efficace di come la narrazione possa legare il passato al presente, soprattutto quando questa narrazione viene fatta in prima persona dalla stessa autrice.
Non è facile sintetizzare il contenuto di questo libro; si può solo riportare una breve scheda scritta dalla stessa Miriam Rebhun: "Due gemelli, due giovani berlinesi trapiantati in Medio Oriente, due sradicati, ognuno unico riferimento dell'altro, due combattenti contro il nazismo e il fascismo, due "salvati" dalla Shoah, due vite attraversate dal razzismo, dai totalitarismi e dalle guerre, due tessere diverse e indivisibili nel grande mosaico del secolo scorso. Sullo sfondo della Germania nazista, della Palestina sotto mandato britannico, dell'Italia del dopoguerra e del nascente Stato d'Israele, tra il 1936 e il 1948, si snoda la storia uguale e diversa, drammatica e tragica, di Heinz e Gughy Rebhun, testimoni del legame tra passato e presente".
Miriam Rebhun, Due della Brigata. Heinz e Gughy dalla Germania nazista alla nascita di Israele, Salomone Belforte & C., Livorno.
Martedì 23 gennaio 2018, ore 17.30, Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Via Pian de' Giullari 36/A, Firenze
Invito

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 17 gennaio 2018)


Purtroppo non è più vero che la memoria della Shoah sia “il miglior antidoto per evitare che quella tragedia si ripeta” da quando quello che i nazisti hanno fatto agli ebrei ha cominciato ad essere presentato come un esempio di quello che oggi gli israeliani fanno ai palestinesi. Bisognerà farsi venire nuove idee. M.C.


Gli Usa tagliano metà fondi all'agenzia Onu per i palestinesi

L'amministrazione Trump ha annunciato oggi di aver tagliato 65 dei 125 milioni di dollari destinati alla Unrwa, l'agenzia dell'Onu che assiste i profughi palestinesi.
Lo rende noto il dipartimento di stato Usa in una lettera nella quale chiede all'agenzia un "riesame fondamentale" della sua attività. I restanti 60 milioni saranno erogati per impedire che l'Unrwa finisca i fondi donati entro fine mese e chiuda.
Era stato il presidente Donald Trump a minacciare il taglio dei fondi ai palestinesi se non fossero tornati al tavolo dei negoziati di pace con Israele.
Oggi la portavoce del dipartimento di stato, Heather Nauert, ha assicurato che la decisione "non mira a punire nessuno" e ha spiegato che le ulteriori donazioni americane saranno subordinate a importanti cambiamenti da parte dell'Unrwa, che è stata pesantemente criticata da Israele.

(swissinfo.ch, 16 gennaio 2018)


La lectio di Abu Mazen, capobastone messo all'angolo

di Niram Ferretti

Nel 1982, Abu Mazen presenta presso il Collegio Orientale di Mosca una tesi negazionista dal titolo emblematico, La connessione tra nazismo e sionismo 1933-1945, nella quale, il futuro presidente dell'Autorità Palestinese sottostimava le vittime della Shoah a poche centinaia di migliaia, ribadendo uno dei paradigmi della propaganda araba e antisionista tout court, che lo sterminio (per altro, a suo dire, ampiamente manipolato) degli ebrei sarebbe stata la causa, o meglio il pretesto per il sorgere dello Stato ebraico. Domenica scorsa, nel suo feudo di Ramallah, i presenti convocati per una riunione straordinaria del Consiglio Centrale dell'Autorità Palestinese a seguito della decisione di Donald Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele, hanno assistito a una lectio di storia dell'improvvisato docente, il quale, faccia feroce, pugni serrati, ha messo in piedi un insieme inverosimile di falsità per ribadire una tesi brunita dal tempo: l'impresa sionista è una impresa criminale perpetrata ai danni del popolo palestinese.
   Il paradigma è quello confezionato nei laboratori sovietici nella metà degli anni Sessanta, quando videro la luce l'OLP e, a seguito della inaspettata vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, "il popolo palestinese" di cui, nei decenni precedenti, nessuno aveva avuto alcun sentore. Ma la propaganda, si sa, è opera demiurgica, plasma la realtà attraverso un fiat verbale che non è il logos originario, ma una sua bassa e decaduta imitazione, la quale, tuttavia, funziona a meraviglia.
   Il professor Mazen ha ripetuto il vecchio mantra sul sionismo come "progetto colonialista che nulla ha a che fare con l'ebraismo" che piace tanto agli ebrei ultraortodossi avversi allo Stato ebraico come la setta dei Naturei Karta e agli antisionisti e antisemiti di vario colore, a destra come a sinistra. Non contento ha voluto aggiungere che la cacciata degli ebrei dai paesi arabi in cui vivevano, Egitto, Iraq, Siria, Marocco, Yemen, Tunisia, conseguente la nascita di Israele fu causata dagli ebrei stessi. Il motivo? Avevano bisogno di popolare la regione.
   Non furono gli stati arabi che lo fecero di loro sponte a causa della nascita di Israele e della vittoria di quest'ultimo contro le armate arabe che volevano annichilirlo. No. Furono gli ebrei che organizzarono le cose in modo che gli stati arabi cacciassero i loro confratelli. Tesi che va di pari passo con l'altra, ancora più ignobile e ripugnate, secondo cui sarebbero gli ebrei stessi i responsabili della Shoah al fine di affrettare la nascita dello Stato ebraico.
   Siamo qui al cospetto sempre dello stesso stampo, quello del complotto ebraico, la cui matrice si trova incuneata nei "Protocolli dei Savi di Sion", testo prediletto dagli antisemiti al cubo, assai compulsato da Adolf Hitler e immarcescibile evergreen, soprattutto nel mondo arabo e musulmano dove venne diffuso con amorevole cura alla fine degli anni '20 dai Fratelli Musulmani.
   Naturalmente, non poteva mancare la rappresentazione di Theodor Herzl come di un Cecil Rhodes molto più perfido e spietato, il quale aveva progettato lo sterminio degli arabi. Invenzione delirante come le altre, perfetta per analfabeti, indigenti di storia e di realtà.
   Herzel mai scrisse o professò lo sterminio degli arabi, sicuramente scrisse a proposito di un loro trasferimento da realizzarsi attraverso compensazione. Come scrive Benny Morris in "Vittime, Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001":
   "Nel 1901, in una bozza di statuto per una 'società ebraico-ottomana di gestione del territorio', Herzl propose che lo Stato avesse l'autorità di spostare la popolazione locale da un luogo a un altro. Ma non parlò mai apertamente della necessità di trasferire gli arabi palestinesi per far posto ai sionisti. Da buon liberale, immaginava che gli arabi benestanti avrebbero appoggiato lo Stato ebraico, e avrebbero continuato a vivere in Palestina sotto una legislazione di esemplare tolleranza".
   Ma tutto muta nella nera fabula raccontata da Abu Mazen, ogni cosa, come in uno specchio deformante, assume contorni grotteschi, sgomentevoli, si alona di malefico, diventa il solito racconto nero e turpe in cui Israele appare come una entità satanica, per la gioia dei suoi demonizzatori.
   Il capobastone di Ramallah, ormai ridotto a quello che è da anni, un mafioso di provincia, non ha mai perso un'occasione per ribadirlo e continua a farlo anche ora, in cui, ridotto all'irrilevanza politica, messo all'angolo dagli eventi, può solo sfogarsi col suo surreale j'accuse rivolto a una entità immaginaria, mai esistita. Allucinazione perpetua generata da una impietosa impotenza manifesta.

(L'informale, 16 gennaio 2018)


Fedez e la "sua" Intifada: "Licenza poetica, mi scuso"

"Comunque vada cara, tu sei la mia Intifada. Comunista con il Rolex di Rifondazione Prada".
Un testo di rara profondità quello con cui Fedez, nel recente successo musicale Sconosciuti da una vita firmato insieme a J-Ax, si rivolgeva alla compagna Chiara Ferragni. Uscito in settembre, il brano ha fatto storcere più di una bocca e suscitato più di una perplessità.
Cosa avrà inteso con quel "Tu sei la mia Intifada" il noto rapper milanese? Una dichiarazione d'amore? Oppure, considerata la natura non propriamente pacifica del movimento terroristico palestinese, una dichiarazione di guerra?
Oggi, nel corso di una conferenza stampa e rispondendo a una precisa domanda di Pagine Ebraiche, dopo tanti mesi Fedez ha potuto finalmente chiarire. La sua, ha sostenuto in modo piuttosto sbrigativo, è stata "una licenza poetica".
Ha comunque aggiunto l'artista: "Se qualcuno si è offeso, chiedo scusa".

(moked, 16 gennaio 2018)


Certo, il riferimento all’intifada è soltanto una licenza poetica, comprensibile in certi artisti che si prendono ben altre licenze. E poi "Intifada" (con la maiuscola) suona bene, mettercela dentro fa fino: misteriosi riferimenti che nessuno capisce, nemmeno chi li fa. E se qualcuno si offende, lui si scusa. Si scusa di non aver capito niente; gli altri capiscono e fanno come se fosse niente. Il testo però - dicono - è “ di rara profondità”. Bisogna andarselo a cercare. L’abbiamo fatto. Ecco il testo di rara profondità
"Ti conosco da sempre, ma non ti ho mai capita", dice lui a lei. La cosa non sorprende.
... ed ecco l'autore di tanta profondità



A settant'anni dalla creazione, Israele prepara la grande festa

"70 ore di festa che riuniranno i cittadini di tutto il paese in eventi diversi e gioiosi". Così il ministro della Cultura israeliano Miri Regev ha definito le iniziative organizzate dal ministero in occasione delle celebrazioni quest'anno dei 70 anni di Indipendenza dello Stato d'Israele. Durante una conferenza stampa tenutasi ieri a Yad LaShirion, nel centro urbano di Latrun, Regev ha anche presentato il logo dedicato ai festeggiamenti. Il ministro ha spiegato che la cerimonia annuale al Mount Herzl del 18 aprile sarà accompagnata da una canzone ufficiale per celebrare il 70o anniversario d'Israele, seguita "dal più grande spettacolo pirotecnico della storia del paese".
   Poi prenderà il via una festa in spiaggia, che durerà tutta la notte "lunga 70 chilometri, da Tiberiade a Eilat". Il 19 aprile sarà caratterizzato da una "sfilata leggera" in onore dell'innovazione israeliana, vi sarà l'annuale quiz dedicato alla Torah e la cerimonia del Premio Israele. Venerdì 20 aprile, in tutto il paese, si terranno delle feste di strada in omaggio e ricordo delle esplosioni di gioia e delle danze spontanee che furono organizzate nelle strade dopo che David Ben-Gurion dichiarò la nascita dello Stato (14 maggio 1948). Secondo i media israeliani, il costo della celebrazione ammonterebbe a 100 milioni di Shekel (24 milioni di euro), meno dei 160 milioni spesi per il 60esimo anniversario.

(moked, 16 gennaio 2018)


Il Presidente Rivlin: da Abu Mazen frasi antisemite e negazioniste

GERUSALEMME - Ha scatenato dure reazioni il discorso con cui, domenica, il presidente palestinese Abu Mazen, si è scagliato contro Israele e gli Stati Uniti dopo le recenti decisioni su Gerusalemme. «Questo è il giorno in cui gli accordi di Oslo terminano. Israele li ha uccisi», ha detto. Ma si sarebbe anche poi espresso in modo controverso sull'origine di Israele, sostenendo che lo Stato «è un progetto coloniale che non ha nulla a che fare con l'ebraismo». Il presidente israeliano Reuven Rivlin, su Facebook, ha ribattuto dicendo che Abu Mazen «ha dimenticato molte cose e ha detto esattamente quello che anni fa lo portò ad essere accusato di antisemitismo e di negazionismo». Il premier Benjamin Netanyahu ha scritto, sempre su Facebook, che il leader dell'Anp «ha gettato la maschera».

(Avvenire, 16 gennaio 2018)


Abu Mazen predica la distruzione di America e Israele

Discorso di guerra del leader palestinese. E ai suoi rivela: "Potrebbe essere l'ultimo"

di Fiamma Nirenstein

Pare che subito dopo il discorso della distruzione tenuto domenica sera al Comitato Centrale Palestinese Abu Mazen abbia detto ai suoi, alla Mukata, «Potrebbe essere l'ultima volta che mi vedete qui».
   Tristezza, sconfitta, abbandono. È il 13o anno, compiuto ieri, di una presidenza senza successi, di cui mai si sono rinnovate le votazioni dal 2005, quando fu eletto all'indomani dell'Intifada. Domenica ha festeggiato il compleanno maledicendo Trump al culmine di un lungo e stravagante discorso: «Yihareb beitak» («Venga distrutta la tua casa»). Un linguaggio da suk. Abu Mazen ha 82 anni e in molti si sono chiesti se non sarebbe il tempo di pensare alla pensione. Il discorso dettato dalla frustrazione ripete i leit motiv della sua politica: il rifiuto della legittimità della presenza ebraica.
   Quindi, quando ha detto che potrebbe cancellare l'accordo di Oslo non ha detto niente di nuovo: è morto da anni sul rifiuto palestinese di riconoscere il diritto del popolo ebraico alle sue radici storiche e quindi sulla speranza di buttarlo in mare, come diceva Gamal Nasser. Più di ogni esclamazione su Gerusalemme, sul rifiuto del contatto con gli americani, sul rifiuto di tornare a parlare di pace ciò che fa più impressione è la lezione di storia che ha voluto propinare: «Si è voluto portare qui gli ebrei dall'Europa (con la Shoah, vista come una specie di fiction colonialista ndr) per proteggere gli interessi europei nella regione. Chiesero all'Olanda (!!) che aveva la flotta più grande di trasportare gli ebrei... è un progetto colonialista che non ha connessione con l'ebraismo». Dopo questo ha di nuovo chiesto all'Inghilterra di scusarsi per la dichiarazione Balfour, che riconosceva il diritto degli ebrei a «un focolare nazionale in Palestina».
   Abu Mazen recupera una posizione tipica della sua generazione: gli ebrei sono intrusi, il sionismo un movimento coloniale in cui l'ebraismo non c'entra, pompato dall'avvento Shoah, sempre, secondo lui, esagerato nel significato per fini politici. La sua tesi di laurea fu su questo. Anche la sua memoria delle trattative con Olmert, il cui scoglio fu il «diritto al ritorno», ha spostato il contenzioso sul Giordano. Abu Mazen ha riproposto la cancellazione dello Stato Ebraico, ha imputato a Trump di volergli sottrarre Gerusalemme, e ha annunciato che respinge ogni contatto con la Casa Bianca ribadendo con furia anche il rifiuto a incontrare l'ambasciatore David Friedman. Tutti all'inferno: un grido di disperazione nel vedersi all'improvviso abbandonato sulla questione di Gerusalemme mentre il vecchio mallevadore, Obama, preferiva i palestinesi agli israeliani; nell'assistere alla inutilità della predilezione Europea; nel rendersi conto che i grandi Paesi Sunniti, soprattutto l'Arabia Saudita e l'Egitto, sono molto più interessati a avere un buon rapporto con gli Stati Uniti che con i Palestinesi.
   Invece di 125 milioni di dollari Trump sta decidendo di mandare all'Agenzia per i profughi palestinesi soltanto 60 milioni e diventa reale la minaccia di tagliare per intero i 300 milioni all'Autorità. La vittoria anti Trump ottenuta dai Palestinesi all'Onu ha ottenuto meno voti del previsto.
   La linea di rifiuto li porta nelle braccia di Hamas, che a loro volta puntano su Hezbollah e gli iraniani, con la simpatia di Erdogan. Abu Mazen non ha tuttavia chiuso tutte le porte: con la sua solita tecnica, ha solo minacciato rotture, ha lasciato in piedi la collaborazione dei servizi di sicurezza e gli accordi del passato, ha ripetuto la parola «pace». Non si sa mai. L'America è sempre l'America.

(il Giornale, 16 gennaio 2018)


Consegnata la medaglia di "Giusto tra le Nazioni" alla memoria di Gonippo e Nova Massi

 
Consegnata la medaglia di "Giusto tra le Nazioni" alla memoria di Gonippo e Nova Massi
Gonippo e Nova
MONTERCHI - Ieri mattina, presso la Sala Consigliare di Palazzo Massi a Monterchi, si è svolta la cerimonia di consegna della medaglia di "Giusto tra le Nazioni" alla memoria di Gonippo e Nova Massi. La nomina di "Giusto tra le Nazioni" è un riconoscimento per i non-ebrei (conferito dall'Istituto per la Memoria dei Martiri e degli Eroi dell'Olocausto Yad Vashem, istituito dal Parlamento Israeliano nel 1953) che hanno rischiato la vita per salvare quella anche di un solo ebreo durante le persecuzioni naziste.
   Gonippo e Nova erano due cittadini benestanti monterchiesi che tra il 1942 e il 1943 ospitarono nella propria abitazione, in località Vicchio, due famiglie ebree, i Lukac. Queste due famiglie, originarie della Slovenia, arrivarono in terra tiberina nell'inverno del 1942 ed erano destinate a far parte dei circa 10mila prigionieri del campo di concentramento di Renicci. Ma i Lukac non arrivarono mai a Renicci grazie all'intervento proprio di Gonippo che, con il suo carro, andò a prenderli alla stazione di Anghiari e li portò a Vicchio, dove rimasero per circa due anni. Probabilmente erano 8 persone: i due fratelli Lukac, le rispettive mogli e i figli. L'aspetto che rimane tutt'oggi misterioso è quello del come entrarono in contatto Gonippo e le famiglie Lukac. I Massi ospitarono le due famiglie fino alla fine della guerra compiendo un atto eroico che da questa mattina è anche riconosciuto ufficialmente.
   Una testimonianza scritta importante è quella di Iolanda Fonnesu Alberti che conobbe al tempo la "signorina Oli", una delle figlie dei Lukac: "nell'estate dell'anno di guerra 1943, per motivi di studio, e per qualche mese, frequentai una giovane straniera, la cosiddetta signorina Oli. La sua improvvisa presenza nella nostra vallata non suscitò tra la popolazione locale alcuna curiosità perché, in quel particolare momento storico, molte erano le famiglie forestiere e stranieri che improvvisamente, segretamente e talvolta misteriosamente vi arrivavano per rifugiarsi nei paesi più appartati dell'area appenninica [...] Dal rifugio della frazione amministrativa di Vicchio di Monterchi, dove la sua famiglia era stata generosamente accolta e protetta dalla residente famiglia Massi, la signorina Oli usciva soltanto per inevitabili necessità e per venire ad impartire a mio fratello e a me lezioni di lingua inglese. Le sue amichevoli lezioni venivano impartite nella mia casa di famiglia, nella campagna di Pocaia."
   Il riconoscimento è stato consegnato dalla Dottoressa Sara Ghilad (prima assistente dell'Ambasciata di Israele in Italia) e ritirato da Fabio e Gino Principi, nipoti di Gonippo e Nova Massi (entrambi scomparsi anni fa). Alla cerimonia hanno preso parte: il Sindaco di Monterchi Alfredo Romanelli, l'Onorevole Marco Donati, Valentina Vadi consigliere regionale, Rossella Cestini assessore di Città di Castello, Sara Ghilad dell'Ambasciata di Israele in Italia, le Autorità locali, tanti cittadini e anche alcuni alunni delle scuole medie di Monterchi. Una mattinata importante che, a distanza di 70 anni, ha reso pubblico un gesto eroico compiuto da due cittadini monterchiesi.

(teveretv, 16 gennaio 2018)


L'antisionismo non muore mai

"Siamo passati dall'ebreo fautore di guerra allo stato di Israele fautore di guerra. La logica intellettuale è sempre la stessa". Parla lo storico Georges Bensoussan.

di Francesco Berti
La propaganda antisionista nei paesi arabi e musulmani si presenta molto spesso come un esplicito appello al genocidio Dopo Auschwitz, l'antisemitismo proseguì nella forma dell'antisionismo, nella lotta per delegittimare lo Stato di Israele L'Europa odierna esalta il multi- culturalismo e considera ogni identità nazionale alla stregua di una identità di morte Il discorso antisionista di oggi è analogo al discorso antisemita prima della Seconda guerra mondiale: prepara alla distruzione

La diffusione dell'ideologia antisionista impone un continuo sforzo di riflessione volto a comprendere la natura di questo fenomeno e il suo rapporto con l'antisemitismo. Ne parliamo con uno studioso noto ai lettori del Foglio, Georges Bensoussan, storico di fama internazionale del sionismo e della Shoah, direttore editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi e della Revue d'histoire de la Shoah, autore di decine di studi su questi temi. Il 13 e 14 novembre scorso, Bensoussan ha tenuto due conferenze a Padova. Il 13, a Palazzo Moroni, è intervenuto su "L'antisemitismo e l'antisionismo oggi", evento curato dalla Fondazione Italia Israele, Cristiani per Israele e Comunità ebraica di Padova. Il giorno successivo, al Bo - sede dell'università - su "Le sionisme: de la mythologie à l'histoire", conferenza organizzata dal Centro di Ateneo per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea.
   L'antisionismo sembra sempre più diffuso nella cultura politica contemporanea, in occidente come nei paesi musulmani. Dove affonda le sue radici questo atteggiamento così pregiudizialmente ostile verso il sionismo e verso Israele? "Per l'opinione corrente - risponde lo storico -, l'antisionismo è una ideologia originata nell'estrema sinistra e nel mondo arabo, che ha avuto una crescita notevole dopo la Guerra dei sei giorni del 1967. Pochi sanno, però, che l'antisionismo ha radici molto più antiche, precedenti alla Seconda guerra mondiale, che risalgono alla fine del XIX secolo, e che hanno trovato la prima espressione nell'antisemitismo di una parte della chiesa cattolica e in quello di matrice razziale. E' questo il periodo in cui si fa largo, come propaggine delle reazioni alla Rivoluzione francese, l'idea del complotto sionista, che viene a sovrapporsi a quella del complotto giudaico. Nel 1897, l'anno del primo congresso sionista tenutosi a Basilea, la Civiltà cattolica pubblicò un primo articolo antisionista. L'idea della restaurazione, per così dire, di uno stato ebraico, veniva percepita come una sorta di affronto verso il cattolicesimo: se la religione ebraica è una religione caduca, è inconcepibile che gli ebrei ritrovino la loro indipendenza politica nella terra di Israele. Per quanto riguarda l'estrema destra, che faceva dell'antisemitismo una questione razziale, essa lanciò, a partire dalla pubblicazione in Russia nel 1903 dei Protocolli dei Savi di Sion, una violenta campagna antisionista. Va notato che nel periodo precedente alla Prima guerra mondiale, gli antisionisti presentarono il sionismo non tanto come il progetto di creare uno stato ebraico, quanto come quello di dar vita a una dominazione mondiale: lo stato ebraico sarebbe stato dunque unicamente un pretesto per conseguire questo fine. Pare significativo il fatto che nel 1924 i Protocolli siano stati tradotti in Germania col titolo di Protocolli sionisti. Tra le due guerre, gli antisionisti sostennero che il movimento sionista, grazie alla Dichiarazione di Balfour, stava creando un organo centralizzato di governo allo scopo di dominare il mondo. Questo tema si arricchì negli anni Venti e Trenta di nuovi elementi e in particolare si legò all'antibolscevismo, presentato come un'invenzione ebraica". Ma quale fu il rapporto del nazismo, capace di elaborare la forma più radicale di antisemitismo, con il sionismo? "Il movimento nazista fu ossessionato dal sionismo fin dal suo sorgere, a partire naturalmente dal suo ideologo Alfred Rosenberg, il quale nel 1919 nel suo primo volume analizzò il sionismo. Rosenberg era un tedesco estone che aveva abbandonato la terra natia a causa della Rivoluzione russa. Quindi in Rosenberg l'antisionismo alimentato dai Protolli e l'antibolscevismo si saldarono in un'unica visione. Anche Hitler parlò del sionismo nel Mein Kampf, scrivendo che il sionismo chiarisce la vera natura del giudaismo, che è quella di una entità biologica, piuttosto che di una confessione religiosa. Inoltre affermò che l'obiettivo dei sionisti è solo in apparenza quello di creare uno stato ebraico, poiché il suo scopo è la sovversione mondiale e in particolare la distruzione della civiltà occidentale".
   Quanto all'atteggiamento antisionista nel secondo Dopoguerra, Bensoussan chiarisce subito che "manifestarsi pubblicamente antisemiti dopo Auschwitz era quasi impossibile. In un certo modo, Auschwitz ha screditato l'antisemitismo. L'antisemitismo proseguì perciò principalmente nella forma dell'antisionismo, nella lotta virulenta per delegittimare lo stato di Israele. Questo è il compito che si pose l'estrema destra dopo il 1945. Si sviluppò una pubblicistica in cui si sostenne che il complotto sionista è guidato dallo stato di Israele, che si prefigge di prendere il controllo del mondo manipolando le grandi potenze. Si posero così le premesse per un incontro tra l'antisionismo e le dottrine negazioniste della Shoah. I negazionisti asseriscono che non vi sono mai stati sei milioni di morti: si tratta di un pretesto per permettere la creazione dello stato di Israele. Se lo stato di Israele ha come unico motivo di legittimità il genocidio degli ebrei in Europa, bisogna provare che il genocidio degli ebrei non ha mai avuto luogo. Ma con la Guerra dei sei giorni cambiò tutto. Da allora, il sionismo venne legato al colonialismo, in un contesto mondiale di decolonizzazione. L'antisionismo virò decisamente a sinistra, legandosi a lotte come l'antirazzismo, l'antimperialismo, l'anticolonialismo appunto. Si arrivò così alla famosa risoluzione del 10 novembre 1975, nella quale l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite decretò, a larga maggioranza, che il sionismo è una forma di razzismo. Questa nuova giudeofobia prese necessariamente i tratti dell'antisionismo, tanto più che ora si sviluppava prevalentemente a sinistra, dove non ha cittadinanza un antisemitismo che si presenti col suo vero nome. Tuttavia - prosegue - appare evidente il legame tra l'antisionismo attuale e quello sviluppato dall'estrema destra negli anni Trenta del Novecento. Quest'ultimo sosteneva che gli ebrei avrebbero portato il mondo a una guerra mondiale. A partire dagli anni Settanta, gli antisionisti di sinistra vanno predicando che lo stato di Israele precipiterà il mondo nella terza guerra mondiale. Siamo passati dall'ebreo fautore di guerra allo stato di Israele fautore di guerra. Siamo evidentemente all'interno della medesima logica intellettuale".
   Quindi l'odio antisionista si abbevera alla stessa fonte dell'odio antisemita? "L'ossessione per gli ebrei prima della Seconda guerra mondiale e l'ossessione per lo stato di Israele dopo la guerra si spiegano col medesimo senso di angoscia collettiva generato dal cattivo andamento delle cose nel mondo e col conforto che la risposta antisemita e antisionista, molto semplice e facile da comprendere, offre a tale angoscia. All'ebreo demonizzato succede lo stato di Israele demonizzato: è la figura del diavolo che viene spostata dal popolo allo stato. L'antisemita - dice Bensoussan - ha bisogno dell'ebreo per esistere, perché l'ebreo è la risposta alle sue paure. Tutti i suoi fantasmi ripulsivi si cristallizzano nell'immagine dell'ebreo. Non è solo il meccanismo del capro espiatorio: è legato a tutto quello che è l'insegnamento del disprezzo, che fa sì che nella civiltà occidentale l'ebreo sia diventato da tempo immemorabile una figura maledetta. Questa immagine si è trasferita dal popolo ebraico allo stato ebraico: il secondo, come il primo, è il figlio del diavolo o diavolo lui stesso, un paria che non si vuole conoscere e frequentare". Ma allora è possibile dire che, nella misura in cui fa appello alla distruzione dello stato di Israele, l'antisionismo diventa un messaggio genocidario? "Anche in questo caso bisogna rispondere affermativamente, ma occorre fare una distinzione tra l'antisionismo europeo e quello presente nei paesi musulmani. La propaganda antisionista europea si fonda per lo più sulla riprovazione. Quella che viene proposta nei paesi arabi e musulmani invece si presenta molto spesso come un esplicito appello al genocidio, che ricorda la propaganda antisemita radicale sviluppatasi in Europa tra Otto e Novecento. Molto prima di Hitler, a partire dalla metà del XIX secolo, negli ambienti antisemiti tedeschi più estremi circolava già un chiaro messaggio genocidario. Paul de Lagarde, nel 1887, affermò proprio questo: con gli ebrei non si deve discutere, bisogna sterminarli. Oggi troviamo lo stesso concetto in riferimento allo stato di Israele. Si dice che questo stato è di troppo, è un cancro, una peste, una malattia. Alcuni paesi islamici utilizzano l'espressione 'entità sionista', non lo chiamano neppure stato di Israele. Questi appelli alla distruzione dello stato sono identici agli appelli di distruzione del popolo ebraico che circolavano in Europa nei decenni precedenti alla Seconda guerra mondiale", osserva lo storico. Perché, domandiamo, l'Europa sta sottovalutando questa minaccia? "In Europa non si ascoltano le radio arabe e iraniane, non si guarda la televisione né si leggono i giornali di quei paesi. Esiste una agenzia internazionale, Memri, specializzata nello scandagliare minuziosamente quanto si dice e scrive nei media persiani e arabi. Chiunque può vedere nel sito di questa agenzia i filmati a cui mi riferisco sottotitolati in inglese. Il quadro che ne emerge è catastrofico. Continui sono i messaggi che prospettano la distruzione totale dello stato di Israele. Gli europei sono spinti a sottovalutare questi appelli al genocidio per varie ragioni. La prima è intellettuale. Generalmente, in qualunque epoca, non siamo mai contemporanei della nostra storia: non capiamo la storia che stiamo vivendo e guardiamo sempre il presente con gli occhi del passato. In secondo luogo, c'è arroganza e disprezzo verso chi non si pone in linea con il pensiero dominante. Si accusa di essere islamofobo e razzista anche solo chi mette in discussione alcuni stereotipi culturali. Inoltre, l'Europa deve ancora finire di fare i conti con il senso di colpa per la Shoah. Di qui le accuse a Israele di essere uno stato nazista: se si arriva a credere che gli israeliani si stanno comportando come i nazisti, il senso di colpa si affievolisce, o viene addirittura cancellato". Inoltre, aggiunge Bensoussan, "a ben considerare, poi, nell'antisionismo europeo rivive l'antica accusa rivolta agli ebrei di essere il popolo deicida. Ecco allora che il palestinese diventa la nuova figura del Cristo sulla croce, come se Cristo fosse stato crocifisso una seconda volta, sempre per colpa degli ebrei e sempre in terra di Israele. Infine, lo stato di Israele disturba perché, pur essendo multietnico, si è costruito sull'identità nazionale ebraica. L'Europa odierna esalta il multiculturalismo e considera ogni identità nazionale alla stregua di una identità di morte, in quanto l'identità nazionale viene vista come una esclusione dell'altro. E' come se gli ebrei avessero seguito una evoluzione contraria a quella dell'Europa. In ogni caso, il discorso antisionista, che assuma o meno esplicitamente l'appello allo sterminio, è analogo al discorso antisemita prima della Seconda guerra mondiale: prepara alla distruzione, perché la distruzione comincia sempre con delle parole. Ci si abitua all'idea che Israele impedisce di vivere bene nel mondo. Licenza è concessa al genocidio".

(Il Foglio, 16 gennaio 2018)


Così i boicottatori anti Israele si scatenano anche nel mondo della moda

Un artista libanese di fama mondiale, Elie Saab, veste una modella israeliana, Gal Gadot, che viene attaccata: "Perché indossi i suoi abiti?"

di Stefano Basilico

 
Gal Gadot indossa il vestito di Elie Saab al National Board of Review 2018 a New York
Gal Gadot
Elie Saab è uno stilista libanese, il primo straniero a essere accettato dalla Camera nazionale della Moda nel 1997. Il suo stile romantico, mix di forme occidentali e dettagli mediorientali, ha conquistato reali e celebrità. Quando Rania di Giordania venne incoronata nel 1999 scelse di indossare un suo abito. Nei primi anni 2000, Saab ha iniziato a spopolare a Hollywood.
   Non sorprende dunque la scelta di uno degli astri nascenti del cinema a stelle e strisce, Gal Gadot, di indossare un capo di uno degli stilisti più rinomati nel jet set internazionale, un personaggio che offre lustro a tutto il Libano. C'è però un problema. Gadot è israeliana. Non solo, è stata vincitrice di Miss Israele nel 2004 e tolta la coroncina, due anni dopo è andata a prestare servizio militare come istruttrice di combattimento nell'IDF, le Forze di Difesa israeliane. Degli anni di naja, l'attrice si è sempre detta entusiasta, raccontando come l'abbiano aiutata a sviluppare "disciplina e rispetto" e altre qualità utili per la sua carriera cinematografica. Una carriera in cui è all'apice, dopo i successi in "Fast and Furious" e "Wonder Woman".
   Gadot ha deciso di indossare un abito azzurro di Saab al gala del National Board of Review. Il brand ha postato sul proprio profilo Instagram la foto dell'attrice israeliana, come da consuetudine quando un vip sfila sul red carpet. Tutto normale, se non fosse che Saab viene da un paese arabo che è teoricamente in guerra con Israele da decenni. Ecco dunque scatenarsi gli intellettualoidi indignati, come la presentatrice televisiva di Beirut Heba Bitar che ha twittato: "Amo e rispetto Elie Saab, ma è davvero felice che un'attrice israeliana vesta un vestito disegnato da lui?" La foto ha suscitato polemiche e dopo pochi minuti è stata rimossa dal profilo. Farah Shami, altra produttrice di una televisione all news, scrive: "Non è un problema che lei vesta Elie Saab, ma ho un problema con il fatto che il suo profilo pubblichi la foto e se la tiri perché un'ex soldatessa israeliana indossa i suoi abiti! Non rovinate una delle poche cose che ci rende fieri di essere libanesi!".
   Non è la prima volta che il boicottaggio anti-israeliano colpisce il mondo della moda e del cinema. Il brand di lingerie Victoria's Secret è nel mirino del movimento BDS perché si rifornisce dall'azienda di abbigliamento israeliana Delta Galil. Stessa sorte per i grandi magazzini britannici "Marks & Spencer's", legati "a doppio filo al sionismo" e a Estée Lauder, il cui presidente emerito Ronald Lauder è leader del Congresso ebraico mondiale.
   La stessa Gadot ha visto il proprio film "Wonder Woman" bandito dalle sale libanesi nel 2017, dopo che il ministro del Commercio l'anno precedente non riuscì a bloccare "Batman vs Superman" che vedeva la stessa attrice nel cast. Sempre "Fast and Furious", della stessa Gadot, e altre pellicole con la connazionale Natalie Portman arrivarono senza problemi nei cinema. Paradossale che anche l'ultimo film di Steven Spielberg, "The Post", proprio sul tema della libertà di stampa, sia stato bandito per i "legami con Israele" del regista, così come "Jungle", il film con Daniel Radcliffe ambientato nella giungla boliviana, perché basato sulla biografia dell'israeliano Yossi Ghinsberg.
   Un governo e un'opinione pubblica ficcanaso che vietano, bandiscono e mettono alla gogna prodotti culturali non solo creati, ma anche solo influenzati o fruiti da altre persone perché di diversa religione o nazionalità, gettano le fondamenta dei totalitarismi più imbruttiti. Ci rifletta Beirut, se vuole continuare a fregiarsi del titolo di "Parigi del Medio Oriente".

(Il Foglio, 16 gennaio 2018)


Giorno della memoria? Diventi a favore degli ebrei vivi

di Rocco Schiavone

"La giornata della memoria andrebbe dedicata anche agli ebrei oggi vivi, magari residenti nello stato di Israele, che lottano ogni giorno contro il terrorismo islamico e i suoi fiancheggiatori europei per non diventare morti come quelli della tragedia dell'Olocausto".
   Quante volte abbiamo sentito questo concetto negli ultimi anni? Tante, forse persino troppe. Tanto da convincerci che si tratti di una litania che viene ripetuta da taluni di buona volontà quasi per fare opera di auto convincimento più che di proselitismo ideologico. Invece quest'anno ci sta un assessore alla cultura ebraica nella giunta di Milano di Sala, Davide Romano, che minaccia di passare ai fatti e di compiere un'azione clamorosa: disertare le celebrazioni del 27 gennaio se non verrà messo nero su bianco questo punto. Romano è già uscito nelle cronache locali dei giornali come il "Corriere" ma a livello nazionale nessuno ha osato prendere di petto la cosa. Lui dice: "Molti la leggeranno come una provocazione. E vuole esserlo. So anche che il rischio è alimentare le polemiche ma mi dicano che senso ha celebrare una giornata in cui si ricorda il passato se non si guarda al presente".
   La memoria va alle tante iniziative di boicottaggio dei prodotti israeliani cui anche l'Europa della Mogherini non ha mancato di associarsi. O a quello che è accaduto a Milano lo scorso 9 dicembre quando un gruppo di studenti arabi insieme alle solite pasionarie di sinistra di complemento ha scandito in piazza San Babila slogan che riportano alla tradizione coranica della cacciata degli ebrei da Medina e del loro sterminio ai tempi di Maometto. Era l'anno 624 dopo Cristo e per molti nei paesi islamici il tempo sembra essersi fermato allora.
   Mentre per gli europei che vanno a fare affari in Iran e dubitano delle stragi di regime - come ha mostrato di fare una assistente della stessa Mogherini di recente in un tweet - il tempo sembra essersi fermato a Monaco 1938. Al famoso appeasement con i nazisti che oggi, riveduto e corretto, è con i nazi-islamici.
Per questo l'assessore alla cultura ebraica Davide Romano, ebreo e amico di Israele, chiede un passo avanti ulteriore alla giornata della memoria: diventi anche quella in salvaguardia degli ebrei oggi vivi, non solo il ricordo di coloro che da tempo sono morti ad Auschwitz, Birkenau e Treblinka. E non sia magari più una passerella di ipocrisia dove c'è posto per chi 364 giorni all'anno fa l'anti israeliano - e magari anche l'anti semita - e poi viene a ripulirsi l'immagine (non la coscienza) nel piagnisteo pubblico in ricordo di chi venne ucciso oltre 70 anni orsono.

(l'Opinione, 16 gennaio 2018)


Inutile ricordare lo sterminio di un popolo se non si difendono gli ebrei di oggi

di Fabrizio De Pasquale

MILANO - Davanti agli occhi esterrefatti dei rappresentanti della Comunità Ebraica ieri è andata in scena l'ennesima contraddizione della sinistra.
L'argomento in discussione era la condanna dell'antisemitismo, dopo che in Piazza Cavour un gruppo di militanti aveva letteralmente invocato un nuovo massacro di ebrei.
Tutti d'accordo sul principio che l'antisemitismo manifestatosi orrendamente in passato vada condannato e ricordato a futura memoria.
Ma quando si tratta di difendere gli ebrei di oggi dalle minacce del jihadismo radicale o da quella strisciante forma di accettazione di intolleranza religiosa che caratterizza il multiculturalismo, allora la sinistra non ce la fa a mettersi contro l'islam politico, quello che teorizza la distruzione di Israele.
In pratica la sinistra non vuole vedere quanto sta accadendo in Francia e a Parigi dove il clima per la comunità ebraica si è fatto più pesante a causa della assurda pretesa di pezzi della comunità islamica di riproporre nelle nostre società le leggi coraniche e le intolleranze religiose ad essa connesse.
Il Sindaco Sala e la sua maggioranza di sinistra hanno quindi bocciato nell'ordine:
  • la richiesta di chiudere le moschee abusive,
  • la richiesta di escludere dai futuri bandi chi fa parte di black list perché indiziato di legami col terrorismo;
  • la proposta di mettere uno striscione con scritto "Viva Israele, Israele viva" e infine anche la mia elementare richiesta:
  • chiedevo che le associazioni islamiche che trattano col Comune per avere spazi per i luoghi di culto condannassero espressamente i cori antisemiti e ripudiassero la distruzione di Israele.
Niente da fare. Troppo forte il legame tra la sinistra e la difesa dell'islamismo politico e della retorica filopalestinese.
Così va in scena l'ennesima ipocrisia di una sinistra che per sudditanza culturale all'islam politico rinnega i suoi valori di laicità, di tolleranza, di diritti civili.
È inutile ricordare lo sterminio di un popolo se non si difendono gli ebrei di oggi.

(Milano Post, 16 gennaio 2018)


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