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Notizie 1-15 gennaio 2019


La guerra segreta

Il capo delle Forze di difesa israeliane dice che ha battuto il generale Suleimani in Siria.

di Rolla Scolari

 
                              Gadi Eisenkot                                                      Qassem Suleimani
MILANO - La guerra di Israele contro l'Iran in Siria non è più segreta. L'epoca dell'ambiguità su attacchi aerei notturni e misteriosi è finita nel week-end, con le insolite interviste di un capo di Stato maggiore a giornali stranieri e le ammissioni di un premier (non a caso mentre l'America si prepara a lasciare la Siria). Quando domenica Benjamin Netanyahu ha per la prima volta riconosciuto pubblicamente che l'aviazione israeliana ha colpito obiettivi iraniani venerdì vicino Damasco, il suo capo di Stato maggiore, Gadi Eisenkot, aveva già parlato di "migliaia di attacchi" simili. Dopo aver snobbato per anni i media, il generale che termina questa settimana il suo mandato è uscito di scena assumendosi la responsabilità (e prendendosi il merito) d'aver fatto fallire il piano del nemico pubblico numero uno in Israele: il generale Qassem Suleimani, comandante di quell'unità della Guardie rivoluzionarie iraniane cui è affidato l'espansionismo militare di Teheran.
   Dall'inizio del coinvolgimento iraniano nel conflitto siriano e fino alla fine del 2016, ha detto Eisenkot a New York Times e Sunday Times, Israele, senza mai ammetterlo, ha colpito soltanto carichi di armi destinati alle milizie libanesi di Hezbollah, impegnate in Siria a fianco del rais Bashar el Assad e alleate dell'Iran. Poi, gli israeliani hanno notato un cambiamento nella strategia iraniana, ha spiegato il generale al NYT. "La loro visione era quella d'avere una influenza significativa in Siria con la formazione di una forza di centomila combattenti sciiti in arrivo da Pakistan, Afghanistan e Iraq. Hanno costruito basi di intelligence e aviazione all'interno di ogni singola base siriana". Così, a inizio 2017, gli israeliani hanno cominciato ad attaccare direttamente gli asset militari iraniani, sia con i jet sia con raid delle forze speciali. Ora, i vertici dell'esercito israeliano ritengono che l'Iran e il suo iconico comandante abbiano abbandonato il piano di stabilire una base permanente in Siria, e che abbiano diretto le loro attenzioni altrove, verso l'Iraq ancora instabile dopo le battaglie contro lo Stato islamico.
   Prima d'uscire di scena, ha scritto il quotidiano israeliano Haaretz, Eisenkot ha voluto chiarire a Suleimani e ai suoi capi a Teheran che "hanno buttato via otto anni. Possono aver avuto successo nell'assicurare la sopravvivenza del regime di Assad, uccidendo mezzo milione di siriani nel mentre, ma gli è costato sedici miliardi di dollari, almeno duemila combattenti di Hezbollah e migliaia in più tra i poveri mercenari sciiti di Afghanistan, Pakistan e Iraq. E ora hanno poco da mettere in vetrina. Nessun aeroporto in Siria, nessun porto sul mar Mediterraneo, nessuna piattaforma di lancio missili".

(Il Foglio, 15 gennaio 2019)


Un terrorista è niente più di un terrorista

La lezione dell'Italia all'Onu

di Fiamma Nirenstein

Cesare Battisti se l'è cavata per tanto tempo grazie al fatto che la cosa più orribilmente evidente che ci sia, il terrorismo, non viene capito per quello che è. Un crimine. Talvolta, per strano che possa apparire, il terrorismo mostra un volto così vano e trito rispetto al comune sentire, alla cultura corrente, al disastro in sangue e dolore che comporta, che si riesce per un istante a capire perché non esiste una sua definizione.
   Per l'Onu non esiste altro che una «Convenzione comprensiva» ma una definizione comune non è mai stata raggiunta. È dal 1937, con la Lega delle Nazioni, che quando diversi popoli si siedono insieme a discutere non riescono a trovarsi d'accordo. E così persino adesso, l'estradizione di Battisti ad alcuni appare, oltre che tardiva, anche un po' inutile, di contenuto incerto e fragile, un'acquisizione politica ma non morale. In fondo, chi è questo sedicente scrittore, spesso fotografato mentre sorride e non c'è niente da ridere, coccolato da un mondo nel tempo diventato perdente e inutile? La risposta è semplice: è un terrorista, e quindi deve scontare la sua pena. E questa sarà una pietra fra le tante ( qui in Israele si combatte questa lotta ogni giorno) della lotta al terrorismo che costruiscono una comune coscienza: un terrorista non è un «Freedorn fighter», un combattente per la libertà, ma un delinquente anche se è un cretino o uno squilibrato, anche se è un disgraziato, un emarginato, un mitomane, anche se è, soprattutto, motivato ideologicamente in modo assoluto a fare ciò che ha fatto. E Battisti ha ammazzata quattro innocenti, direttamente o per interposta persona.
   Fra i tentativi di definizione quelli che più convincono parlano di persone che usano indiscriminatamente la violenza come mezzo per creare terrore fra la gente in modo da raggiungere uno scopo politico e religioso. È quello che ha fatto Battisti. Anche per lui, come per gli Hezbollah, c'è stato un pregiudizio politico positivo legato al suo tempo, all'ideologia dei «compagni che sbagliano» ma pur sempre compagni, che ha poi potuto estendersi nel tempo, oltre i Pac, approfittando anche della confusione e della smania di consenso della classe politica e intellettuale francese. Ma, appunto, proprio come per gli Hezbollah o per Hamas, non ci sono buone ragioni per sparare a un macellaio per rapinarlo, così come non ci sono ragioni accettabili per l'esplosione del Centro Ebraico di Buenos Aires che ha fatto 85 morti, o dell'assassinio della neonata Shalhevet Pass con un cecchino a Hebron compiuto da Hamas, o dei tanti attentati dell'Isis in Europa. Non esistono motivi sensati per far saltare per aria autobus e metro carichi di passeggeri alle più diverse latitudini. Questi esempi sono grandi e correnti, il terrorismo comunista, stile Baader Meinhof o Pac, un problema gigantesco, una questione internazionale; la giustizia deve fare il suo corso, come le sanzioni internazionali, economiche e politiche quando il terrorismo viene compiuto da organizzazioni o da entità statuali. E la costruzione del muro antiterrore è complessa: non ha senso, per esempio quando si è scoperto a giugno un tentativo terrorista in Francia da parte iraniana, proseguire nella politica di appeasement europea.
   Sono decenni ormai che di fronte al terrorismo spalanchiamo stupefatti gli occhi e non crediamo a quello che vediamo: ci devono essere delle buone ragioni, diciamo a noi stessi, se questo accade. I terroristi sono persone talora cresciute nella miseria? Fanno parte di un gruppo che ha subito ingiustizie micidiali? O di intellettuali esaltati e superomistici? Di una forma di primitività incapace di trovare una forma espressiva che non sia la violenza? O magari di una buona causa? Questa ultima ipotesi è quella che di fatto venne formulata nella definizione di terrorismo a Durban nel 2001 della Lega Musulmana Mondiale che definì terrorismo la violenza «senza una giusta causa». Ma la causa del terrorismo non è mai giusta. Il famoso senatore Henry «Scoop» Jackson ha scritto: «I freedom fighters non esplodono autobus; non mandano i loro uomini in giro ad ammazzare bambini». Ovvero, il termine libertà non ha a che fare con «terrorismo», mai.
   Nel 2001 scrissi un articolo per Commentary per capire chi erano i terroristi, ed ebbi il triste onore di vederlo in parte pubblicato sul Wall Street Journal il giorno dopo l'attacco dell'11 di settembre: il ritratto del terrorista era quello di un inflessibile quanto candido giovane, manipolato da una ideologia onnicomprensiva e articolata fino alla disponibilità ad essere un'arma di distruzione. Così è anche con l'Isis, così è col comunismo o col nazismo. È un modo patetico di essere, una forma di malattia mentale? Probabilmente in parte, ma questo non ci esime dal difenderci. Prima di tutto capendo, senza vergogna, che non è colpa delle vittime, né della società, né dell'imperialismo, né dell'ambiente se un terrorista è un terrorista. È un terrorista. Prima di tutto.

(il Giornale, 15 gennaio 2019)


Israele cerca nel Danubio le vittime dell'Olocausto

di Giordano Stabile

 
Il gruppo Zaka in uno dei suoi interventi
Sommozzatori israeliani setacceranno il fondo del Danubio a Budapest, alla ricerca dei resti di migliaia di ebrei uccisi alla fine del 1944. L'annuncio è stato dato ieri dal ministro dell'Interno dello Stato ebraico, Aryeh Deri, in visita in Ungheria. Il governo guidato dal nazionalista Viktor Orban ha così voluto dare un segnare di vicinanza a Israele. I resti recuperati verranno portati a Gerusalemme, dove riceveranno funerali ebraici, a quasi settantacinque anni dalla terribile fine. Migliaia di ebrei vennero uccisi negli ultimi mesi del 1944, quando l'Armata Rossa era alle porte della capitale ungherese. L'Ungheria era governata da un fantoccio di Hitler, Dome Sztojay, leader del movimento paramilitare delle Croci Frecciate. Fino al marzo di quell'anno la grande comunità ebraica era stata in qualche modo al riparo dalla Shoah ma i miliziani delle Croci Frecciate cominciano nell'autunno una caccia all'uomo spietata. Alla fine della guerra oltre 565 mila ebrei ungheresi risultarono uccisi.

 Fino a 150 metri di profondità
  A migliaia, per eliminarli più in fretta, prima che i russi liberassero la città, furono uccisi con un colpo di pistola e gettati nel Danubio. Ora però Israele vuole portali in terra ebraica. Il ministro Deri, che è anche un rabbino ultra-ortodosso, ha raggiunto perciò un accordo con il collega ungherese Sandar Pintet. Un gruppo specializzato nell'identificazione della vittime dell'Olocausto, Zaka, è arrivato con lui a Budapest, e comincerà le ricerche la settima prossima. I sommozzatori utilizzeranno una strumentazione sofisticata, con sonar che possono raggiungere una profondità di 150 metri e uno scanner in grado di identificare oggetti in un raggio di 130 metri.
  Nel 2005 l'Ungheria ha inaugurato un monumento, chiamato Le Scarpe, lungo la passeggiata sulla riva del Danubio, accanto all'argine di Pest. È composto di sei paia di scarpe in ghisa, in ricordo degli ebrei uccisi. Le scarpe sono state scelte perché spesso le vittime, prima di essere trucidate, venivano legate con i lacci delle loro calzature. Così legati, gli ebrei di Budapest venivano poi gettati nel fiume, per farli scomparire senza lasciare tracce. La maggior parte degli ebrei ungheresi vennero però uccisi nei campi di sterminio della Germania nazista, a cominciare da Auschwitz. In soli due mesi, dal maggio al luglio del 1944, oltre 400 mila vennero deportati nel più terribile dei lager.

(La Stampa, 15 gennaio 2019)


Quell'elenco insensato delle ruberie ai danni dei cittadini ebrei

di Lia Tagliacozzo

Prende le mosse dal 1998 il libro di Fabio Isman che pure racconta del 1938, l'Italia razzista (Il Mulino, pp.275, euro 22). Lo scorso anno si sono ricordati gli ottant'anni dalla promulgazione di quella legislazione antiebraica il cui processo di rimozione dall'ordinamento repubblicano è stato lungo e tormentato e si è concluso - sorprendentemente - solo alla fine del secolo scorso. E fu, appunto, nel 1998 che una commissione governativa ebbe l'incarico di indagare su «l'acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati», Presieduta da Tina Anselmi la commissione lavorò tre anni e produsse i due corposi volumi da cui Isman snoda il filo centrale del suo racconto. Nel 1938 viene istituito un ente apposito «per la gestione e liquidazione immobiliare», l'Egeli, che chiuderà nel 1997. Ma che il processo abrogativo abbia avuto vie per alcuni aspetti surreali è testimoniato dalla legge 2139 del 1939 che vietava agli ebrei di «allevare piccioni viaggiatori» e che viene cancellata nel 2008.
  È infatti negli angoli più riposti della documentazione pubblica e della memoria condivisa che è finita una delle pagine meno analizzate della persecuzione antiebraica: quella della spoliazione dei beni in cui il fascismo si mosse in assoluta autonomia dall'alleato nazista. Anche per la «seconda fase» - quella successiva all'8 settembre del 1943 - la Repubblica sociale si muove autonoma e parallela ai tedeschi nei sequestri e nelle confische.
  ll volume dl Isman - con prefazione della senatrice Liliana Segre, ex deportata ad Auschwitz e sopravvissuta della Shoah - descrive «una Italia razzista» ed emerge l'assurdo: la cacciata di professori e studenti ebrei dagli atenei e dalle scuole di ogni ordine e grado accanto alla revoca delle licenze ai venditori ambulanti. Desolanti i verbali di sequestro - redatti spesso in forma approssimativa e che lasciavano ampio spazio a ruberie - grandi patrimoni oppure «due paia di calze usate, una bandiera nazionale, un enteroclisma, 3 mutandine usate sporche, 1 bidè»,
  Un calendario insensato in cui le date delle ruberie legalizzate sono successive alla sparizione dei proprietari oramai in fuga, nascosti, o già catturati, deportati, a volte già uccisi nei campi di sterminio. Ma la burocrazia non si ferma: «Per Egeli - scrive Isman - il costo di queste pratiche era nettamente superiore alla loro consistenza (...) perfino i fogli di carta bollata degli atti che, da soli, superavano talora l'entità dei beni confiscati», E riporta le osservazioni della commissione Anselmi: «Denari, gioielli, beni di fortuna in generale non furono più la misura di un tenore di vita, ma il confine stesso tra la vita e la morte», Isman racconta destini, in alcuni casi riesce a ricostruire storie di famiglia fino al dopoguerra: dà conto delle peripezie, dei lutti, della richiesta di essere riammessi al lavoro, dei processi per ottenere la restituzione del maltolto. Dalle carte però emerge un nodo ancora tutto da indagare non solo nelle carte della burocrazia ma nella politica, nella cultura, nel sentire diffuso: quello di una sostanziale indifferenza dell'Italia democratica verso i misfatti dell'Italia fascista. E non solo verso i cittadini ebrei allora estromessi, allontanati, condotti sul baratro delle deportazioni. Una noncuranza motivata, forse, dalla fretta di lasciarsi alle spalle lutti e tragedie. Una freddezza le cui ombre si allungano fino al presente di altri emarginati.
  La presentazione del libro 1938, l'Italia razzista si terrà al Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah - Meishop (via Piangipane 81, Ferrara) il prossimo 22 gennaio, alle ore 16, mentre nella stessa mattinata (ore 10) verrà proposto il volume Piccola autobiografia di mio padre (Giuntina), in cui l'autore Daniel Vogelmann parla del suo genitore, quello Schulim che fu il falsario di Schindler.

(Il manifesto, 15 gennaio 2019)


Netanyahu ammette il bombardamento dell'aeroporto internazionale di Damasco

GERUSALEMME - Israele ha distrutto depositi di armi iraniani presso l'aeroporto internazionale di Damasco nelle ultime 36 ore. Lo ha dichiarato questa mattina il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, parlando in apertura della riunione settimanale del gabinetto di governo. In una rara ammissione di raid contro presunte infrastrutture militari iraniane in Siria, Netanyahu ha dichiarato che le Forze armate israeliane sono riuscite a "fermare il continuo accumulo di armamenti iraniani in Siria". "In questo contesto - ha aggiunto il premier - l'esercito israeliano ha attaccato centinaia di volte obiettivi iraniani e di Hezbollah".
   Le parole di Netanyahu giungono dopo le dichiarazioni del capo di Stato maggiore uscente della Difesa, il generale Gadi Eisenkot, che in un'intervista rilasciata ieri al quotidiano statunitense "The New York Times", ha rivelato che Israele ha lanciato 2.000 bombe su obiettivi in Siria nel solo 2018. "Il numero accumulato di attacchi recenti dimostra che siamo determinati più che mai ad agire contro l'Iran in Siria", ha dichiarato Netanyahu durante la riunione del gabinetto di governo a cui ha preso parte anche il capo di Stato maggiore della Difesa uscente Eisenkot. Netanyahu ha elogiato il lavoro svolto in questi anni da Eisenkot sottolineando: "Abbiamo lavorato insieme contro la fabbricazione di armi di precisione in Libano".
   Il premier ha inoltre sottolineato il lavoro svolto insieme al capo di Stato maggiore per individuare e distruggere i tunnel realizzati da Hezbollah al confine con il Libano e quelli di Hamas a Gaza. Netanyahu ha dichiarato che in questi anni sono stati sventati "centinaia di attacchi terroristici in Giudea e Samaria e in "molte azioni, sia palesi che segrete".
   Ieri l'agenzia di stampa siriana "Sana" ha annunciato che i sistemi di difesa aerea hanno risposto ad un attacco missilistico contro l'aeroporto di Damasco, sottolineando che il raid ha provocato solamente danni marginali. Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, organizzazione con sede a Londra, i depositi di armamenti colpiti dal raid israeliano appartenenti a Hezbollah si trovano nella zona di al Kiwash nei pressi dell'aeroporto di Damasco.

(Agenzia Nova, 14 gennaio 2019)


La strategia anti-Iran d'Israele eredità del generale Eizenkot

di Daniel Reichel

 
Gadi Eizenkot e Reuven Rivlin
Dopo quattro anni alla guida dell'esercito israeliano, Gadi Eizenkot lascia in queste ore il ruolo di capo di Stato Maggiore d'Israele. Il suo più grande lascito su fronte della sicurezza, l'aver dato il via ad un'ampia e decisa azione di contrasto dell'aggressiva espansione dell'Iran in Medio Oriente. "Abbiamo operato sotto una certa soglia fino a due anni e mezzo fa", ha spiegato Eizenkot ai media israeliani e al New York Times in una serie di interviste parlando delle azioni israeliani contro i carichi di armi destinati ai terroristi di Hezbollah in Libano. "E poi abbiamo notato un cambiamento significativo nella strategia dell'Iran. La loro visione era quella di avere un'influenza significativa in Siria, costruendo una forza di 100.000 combattenti sciiti provenienti da Pakistan, Afghanistan e Iraq. Hanno costruito basi di intelligence e una base dell'aviazione all'interno di ogni base aerea siriana. E hanno portato civili per indottrinarli". Da qui la decisione di Eizenkot di cambiare strategia nei confronti dell'Iran.
   Ottenuto il sostegno del gabinetto di sicurezza, l'esercito israeliano ha così intensificato le operazioni: solo nel 2018, ricorda il New York Times, l'aviazione israeliana ha sganciato 2.000 bombe in territorio siriano. "Abbiamo una completa superiorità d'intelligence in quest'area. Godiamo di una totale superiorità aerea. Abbiamo una forte capacità di deterrenza e abbiamo la giustificazione ad agire", ha spiegato il capo di Stato Maggiore spiegando il successo dell'azione coordinata contro l'Iran in Siria e contro i terroristi di Hezbollah. L'Iran potrebbe ora rivolgersi altrove. "Mentre li spingiamo in Siria - ha dichiarato Eizenkot - trasferiscono i loro sforzi in Iraq", dove gli Stati Uniti hanno ancora migliaia di truppe. "Grazie a Gadi Eizenkot, almeno sappiamo che gli iraniani non sono invincibili", scrive Bret Stephens sul New York Times. "L'esercito ha operato sotto il tuo comando, con un'eccezionale capacità di cooperazione con tutte le forze di sicurezza, per impedire il radicamento iraniano in Siria", ha sottolineato il premier israeliano Benjamin Netanyahu alla cerimonia di saluto ad Eizenkot. "Abbiamo agito per impedire la produzione di armi di precisione e abbiamo neutralizzato i tunnel transfrontalieri di Hezbollah, così come i tunnel del terrore di Hamas e gli attacchi terroristici dei lupi solitari in Cisgiordania", ha sottolineato Netanyahu. "Ci congediamo da te oggi come capo di stato maggiore dell'IDF, nostro capo militare e difensore delle nostre mura. Soldato, comandante, statista, umile, coraggioso, responsabile, stratega di prim'ordine e persona popolare. Negli ultimi quattro anni non ci sono state guerre, ma l'esercito sotto il tuo comando non ha mai smesso di combattere", ha detto il Presidente d'Israele Reuven Rivlin. "Hai capito i vantaggi della forza non meno che le sue limitazioni. Hai articolato chiaramente la differenza tra l'uso della forza militare per scopi di difesa senza compromessi e il militarismo che è una maschera di aggressione. Ci hai insegnato un uso forte, stabile, responsabile e ponderato della forza militare"
   Nelle sue osservazioni d'addio al gabinetto di sicurezza, Eizenkot - che sarà sostituito dal generale Aviv Kochavi - ha parlato anche della situazione in Cisgiordania: ha detto che le forze dell'Autorità nazionale palestinese hanno sequestrato armi ed esplosivi provenienti dall'ala militare del movimento terroristico di Hamas nell'area A (sotto pieno controllo dell'Anp) della Cisgiordania alcuni giorni fa.
   Il Capo di Stato maggiore, riporta l'emittente Arutz 10, ha spiegato ai ministri che mentre l'Anp ostacola le attività di Hamas per i propri interessi, l'interesse di Israele è di rafforzare l'apparato di sicurezza dell'Anp stessa. Eizenkot ha anche esortato a non imporre misure punitive collettive contro i palestinesi a seguito di attacchi terroristici, e ha detto che la crescita economica è necessaria per mantenere la stabilità in Cisgiordania.

(moked, 14 gennaio 2019)


Fiamma Nirenstein: il rapporto 'misterioso' tra Ue e Israele

E' 'Mission impossible', ma il voto potrebbe cambiare la situazione

di Massimo Lomonaco

Quello dell'Europa con Israele è un "rapporto misterioso" che deve essere rinnovato sulla base di una migliore comprensione storica e politica dello stato ebraico. Ne è convinta la giornalista Fiamma Nirenstein che ha anticipato all'ANSA i contenuti del libro 'Mission impossible. Repairing the ties between Israel and Europe' (pubblicato dal 'Jerusalem Center for Pubblic Affair'), che sarà presentato domani a Gerusalemme. Indagine a più voci - e tra gli italiani, oltre Nirenstein anche l'ex ambasciatore Giulio Maria Terzi e Marco Carrai - il cui senso "è un'accurata e appassionata ricerca dei motivi per cui la Ue non va d'accordo con Israele mentre, in realtà, l'uno ha bisogno dell'altro". Se i rapporti bilaterali di ogni paese con Israele sono "ottimi", non è altrettanto vero per quelli politici e morali tra l'istituzione Ue e Israele che peraltro hanno un solido scambio economico. "Un paese - ha spiegato Nirenstein - che appare come 'perseguitato' dall'Europa, oggetto di un persistente rifiuto e di una critica che parte dalla fantasia che se non c'è la pace con i palestinesi la colpa sia di Israele. E la ragione è individuata nell'occupazione dei Territori dimenticando - ha proseguito - che quei Territori Israele ha accettato di restituirli e che sono stati i Palestinesi a non volerli". C'e' poi da parte dell'Europa una pratica del "doppio standard" oramai - ha sottolineato Nirenstein - "inaccettabile". "La Ue pratica per esempio l'etichettatura dei prodotti israeliani che vengono da Territori, ma non fa lo stesso in diversi casi eclatanti: per la Turchia con Cipro, per il Marocco con il Sahara e per molti altri". Il libro "è un elenco di problemi" ma con l'ambizione di indicare alcune soluzioni anche perché Israele e la Ue "sono invece utili l'uno all'altro". "In particolare, l'Europa - ha detto Nirenstein - ha bisogno dell'innovazione, della tecnologia, del know how nella lotta al terrorismo di Israele.
   Senza dimenticare l'immigrazione, con il controllo e l'aiuto dati da Israele ai paesi africani. Basti pensare cosa farebbe l'Egitto se Israele non lo aiutasse nella lotta all'Isis nel Sinai". La Ue - ha detto ancora - ha una maggioranza "spezzettata" che spesso ritrova compattezza quasi solo su Israele. "La Mogherini - ha concluso Nirenstein che sta preparando un libro sull'etica dell'immigrazione - di questo ne ha approfittato, ma è sperabile che le prossime elezioni europee rappresentino il punto di svolta in questo rapporto malato".

(ANSAmed, 14 gennaio 2019)


Il premier Giuseppe Conte in visita alla Comunità ebraica di Roma

Si terrà venerdì 18 gennaio, alle ore 10.30, la visita del presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte presso la Comunità ebraica di Roma. Il presidente sarà accolto dal rabbino capo Riccardo Di Segni, dal presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello e dal presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni. Il programma prevede una visita al Tempio maggiore e al Museo ebraico di Roma, dove si terrà un colloquio privato.

(SIR, 14 gennaio 2019)


Piacenza - Ospite ebreo stacca il crocefisso dal muro durante un convegno

L'episodio è avvenuto durante la «giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei», istituita dalla Cei. Il rabbino poi si scusa: «Poteva restare lì»

Un crocefisso di un salone della curia di Piacenza è stato staccato da uno degli ospiti ebrei invitati per un convegno interreligioso e nascosto dietro un televisore. L'episodio, di cui dà notizia il quotidiano Libertà, è avvenuto durante la 13esima edizione della «giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei», istituita dalla Cei.

 La ricostruzione
  Sul muro, prima dell'inizio dell'incontro, erano appesi i ritratti di Papa Francesco, del vescovo di Piacenza Gianni Ambrosio e il crocefisso. Ma qualcuno - durante le prove del coro ebraico Col Hakolot - lo ha staccato dal muro riponendolo dietro a un televisore tra cavi polverosi e un termosifone. Ad accorgersene è stato monsignor Pier Luigi Dallavalle, direttore dell'Ufficio per l'ecumenismo, il dialogo interreligioso e i rapporti con l'ebraismo: si è reso conto dell'incidente diplomatico, ma ha deciso di non intervenire.

 Le scuse del rabbino
  La rimozione è stata comunque giudicata un gesto eccessivo anche dal rabbino Elia Richetti, intervenuto all'incontro: «Il crocefisso poteva essere lasciato dov'era - afferma - perché quello non era un luogo di culto. Mi dispiace per chi ci è rimasto male, gli sono vicino e lo capisco - prosegue scusandosi Richetti - non era necessario fare una cosa del genere. Lo dirò anche ai membri della comunità ebraica».

(Corriere di Bologna, 14 gennaio 2019)


Minerale extraterrestre più duro del diamante scoperto in Israele

 
Carmeltazite, o "Carmel Sapphire", potrebbe essere considerato un minerale più lussuoso dei diamanti

 
L'esclusiva struttura cristallina della carmeltazite

I geologi e il pubblico si meravigliano della recente scoperta di un minerale completamente nuovo dalla società mineraria di pietre preziose Shefa Yamim nel nord di Israele.
   Durante l'estrazione nella roccia vulcanica nella valle di Zevulun, nel nord di Israele, vicino al Monte Carmelo, il minerale è stato trovato incastonato nello zaffiro e giustamente chiamato "carmeltazite" per il sito della sua scoperta. Dopo il test della densità, è stato dimostrato che era più duro del diamante .
   La Carmeltazite è simile nell'aspetto e nella composizione chimica a rubino e zaffiro, ma è ancora diversa da qualsiasi altro zaffiro trovato sulla Terra. In realtà, il minerale è stato altrimenti identificato solo nello spazio.
   Poiché la società lo ha trovato intrappolato all'interno o nelle fessure di pietre preziose all'interno della roccia vulcanica sul Monte Carmelo, ciò ha reso difficile l'identificazione.
   È tipicamente nero, dal blu al verde, o dal colore arancio-marrone ed è stato creato da esplosioni vulcaniche nel Cretaceo, Israele popolato dai dinosauri lungo la cresta del Carmelo dove c'erano 14 bocche vulcaniche che vomitavano continuamente lava che erose e inondò il Mediterraneo.
   La più grande pietra trovata finora è di 33,3 carati.
   La compagnia israeliana ha registrato il minerale come "zaffiro del Carmelo" ed è stata anche approvata come nuovo minerale dalla Commissione dell'Associazione Internazionale Mineralogica sui Nuovi Minerali. Mentre l'approvazione di nuovi minerali non è necessariamente una novità, la scoperta di questo minerale ha lasciato molti scioccati dalla sua straordinaria rarità.
   Sebbene la compagnia abbia citato alcuni potenziali posti lungo il Monte Carmelo per ulteriori potenziali scavi del minerale, rimane più raro dei diamanti. "I prezzi delle pietre preziose sono in genere in funzione della loro rarità", ha riferito Abraham Taub, CEO della società israeliana mineraria di pietre preziose, Shefa Yamim. E se portato sul mercato dei minerali, la carmeltazite sarà probabilmente più costosa.

(Pianetablunews,14 gennaio 2019)



La Sinagoga di Panama ospiterà cinquanta giovani della GMG

di Veronica Giacometti

PANAMA - Il rabbino Gustavo Kraselnik, della Congregazione ebraica Kol Shearith di Panama, ha annunciato che aprirà la Sinagoga per ospitare 50 pellegrini della futura Giornata Mondiale della Gioventù 2019.
Nel comunicato il rabbino ha indicato che questo è un modo per contribuire al successo dell'evento, oltre a testimoniare gli ottimi rapporti che la comunità ebraica ha con la Chiesa cattolica, specialmente con i membri della Parroquia San Lucas, della Costa dell'Este , a Panama.
L'Arcidiocesi di Panama ha ringraziato il rabbino Kraselnik e la comunità KSI con un tweet sull'account ufficiale.
"La Giornata Mondiale della Gioventù inizierà tra poco più di due settimane - ha detto il rabbino in un comunicato stampa - sebbene sia una celebrazione principalmente cattolica, l'entusiasmo che viene percepito in vasti settori della nostra società è comunque enorme e comprensibile. Inoltre, la presenza del Papa, come leader della Chiesa e come uno dei principali attori sul palcoscenico mondiale, conferisce alla GMG un carattere degno di nota che in qualche modo ci attraversa tutti. Per questo abbiamo deciso di aprire la Congregazione per ospitare 50 pellegrini".
"Abbiamo assistito allo sforzo che così tante persone in tutto il paese hanno fatto in questo lungo cammino di preparazione e sono molto orgoglioso che come congregazione riceviamo questi giovani - ha concluso Kraselnik - sembra interessante: i giovani cattolici ospitati in una sinagoga. Sarà senza dubbio una bella storia da raccontare".

(ACI Stampa, 14 gennaio 2019)


Alla sinagoga di Siena la mostra "In viaggio. La deportazione nei lager"

 
È stata inaugurata ieri mattina alle ore 11 alla sinagoga di Siena, la mostra fotografica e documentaria "In viaggio. La deportazione nei lager". Curata dagli storici Sara Valentina Di Palma e Stefano Bartolini, undici pannelli ripercorrono l'esperienza della deportazione attraverso le parole dei sopravvissuti e racconta come già il viaggio con la morte dei più deboli e soprattutto con l'annullamento della personalità di quanti venivano considerati non più esseri umani, ma oggetti, fosse il primo passo dell'annientamento.
L'allestimento è arricchito di un percorso sonoro che propone alcuni brani del testo di Alba Valech Capozzi "A 24029" pubblicato a Siena nel 1946. Alba Valech, senese, unica sopravvissuta della sua famiglia, deportata da Siena nel novembre del 1943 assieme ad altri ebrei, scrisse uno dei primi libri di testimonianza su Auschwitz usciti in Italia.
Sono interventi Sara Valentina di Palma, curatrice della mostra e Lamberto Piperno Corcos, Comunità Ebraica di Firenze - Sezione di Siena, e i saluti di Daniele Coen.
Promossa dalla Comunità Ebraica di Firenze e dall'Istituto Storico e dell'Età Contemporanea di Pistoia con la collaborazione di CoopCulture, la mostra è stata allestita nel 2017 a Pistoia, in occasione del Giorno della Memoria.
La mostra resterà aperta fino al 10 febbraio e sarà visitabile nei giorni di domenica, lunedì e giovedì dalle 10.45 alle 16.45, con la possibilità di prenotare visite guidate anche in orari diversi.

(OK Siena, 14 gennaio 2019)


Stati Uniti in campo contro l'Iran. Basta soldi a Hamas e Hezbollah

L'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sta avviando un'iniziativa globale per combattere l'attività economica iraniana illegale in tutto il mondo, che si concentrerà principalmente sul trasferimento di fondi a organizzazioni terroristiche. Gli Stati Uniti intendono anche intensificare le pressioni sull'Iran negli organismi internazionali, in primis tra i quali il Financial Action Task Force. Il GAFI è un'organizzazione intergovernativa fondata dai paesi del G7 per combattere il riciclaggio di denaro sporco.
L'iniziativa americana si concentrerà sull'Iran a rispettare le regole internazionali per la prevenzione del riciclaggio di denaro e, come detto, arginare il flusso di fondi verso i gruppi terroristici. L'Iran, è stato ben documentato, fornisce ingenti somme di denaro all'organizzazione terrorista sciita libanese Hezbollah e ai gruppi terroristici palestinesi di Hamas e della Jihad islamica palestinese....

(Italia Israele Today, 14 gennaio 2019)


Strada facendo

Furibonda reazione palestinese contro la nuova autostrada destinata a connettere nord e sud della Cisgiordania by-passando a est Gerusalemme.

Israele ha inaugurato giovedì scorso a nord-est di Gerusalemme un nuovo tratto di autostrada di 5 km chiamato Route 4370, che è diviso per tutta la sua lunghezza in due parti. In realtà si tratta di due autostrade parallele: le corsie sul lato est sono riservate al passaggio di auto con targa israeliana (ovviamente a prescindere dal fatto che a bordo vi siano cittadini ebrei, arabi, drusi o altro) e di qualunque altro veicolo legalmente autorizzato a circolare in Israele, mentre le due corsie sul lato ovest sono destinate alle auto con targa dell'Autorità Palestinese. Le due carreggiate sono separate da un muro alto 8 metri per impedire attacchi e aggressioni alle auto in transito sul versante israeliano.
Le immagini del muro che separa la carreggiata israeliana da quella per l'Autorità Palestinese hanno immediatamente innescato una campagna propagandistica che etichetta la Route 4370 come l'"autostrada dell'apartheid"....

(israele.net, 14 gennaio 2019)


Israele e il vino

 
La cultura del vino in Israele ha origini antiche, tanto che ci sono numerosi riferimenti nella Bibbia, anche se la viticultura moderna è nata con la fondazione, nel 1848, della cantina di Rabbi Shore.

 Origini della viticoltura
  Padre della viticoltura israeliana è stato Edmond de Rothschild, proprietario di Château Lafite in Francia nel Médoc, che nel 1882 finanziò la realizzazione della cantina Carmel.
Fino al secolo scorso i vini erano consumati quasi esclusivamente durante le funzioni religiose e le festività nazionali perché seguivano i dettami Kosher. Solo negli anni Ottanta la viticoltura ha acquisito un'importanza commerciale, ottenendo un discreto export in alcuni paesi del mondo come U.S.A. e Canada.

 Il clima
  Israele gode di un clima mite, con estati secche e lunghe, inverni piovosi, entrambi caratterizzati da buone escursioni termiche tra notte e giorno, che in alcune zone dell'entroterra, sugli altipiani e zone montuose, favoriscono la produzione di vini profumati e di qualità.

 Terreni
  I terreni sono molto vari e in alcune zone sono calcarei, argillosi e con marne, in altre zone sono tufacei e vulcani.

 Dove vengono coltivate le viti?
  Le zone vocate a viticoltura sono le alture del Golan e le catene montuose della Galilea. Sulle alture della Galilea il terreno è ricco di calcare e marna, favorendo i vitigni bordolesi, ma che si è rivelato ottimale anche per grenache, mourvèdre e syrah, che in questi luoghi danno vini speziati e con un tannino molto grintoso. In queste zone si trova l'azienda Carmel, azienda storica che fino a pochi anni fa produceva il 60% del vino israeliano. Altra azienda giovane è Golan Heights che è nata nel 1976 sulle alture del Golan e oggi produce un discreto spumante metodo classico da sauvignon blanc.

 Le alture della Giudea
  Le alture della Giudea sono costituite da terreni ricchi di una particolare terra rosa ricca di minerali, che rendono il terreno idoneo allo sviluppo di vitigni bordolesi ed il vino risulta avere sentori di frutti di bosco a bacca nera, pepe e note di olive.

 La pianura costiera
  I terreni della pianura costiera posta ai piedi degli altipiani sono ideali per la coltivazione di merlot e cabernet sauvignon, dai quali si ottengono vini potenti e con eleganti note di prugna e frutti di bosco, come quelli della Recanati Vinery, vini diffusi negli Stati Uniti.

(blog.xtrawine.com, 13 gennaio 2019)



Popolare il deserto: Mitzpè Ramon, la nuova frontiera di Israele

A colloquio con il sindaco Roni Maron che invita a scegliere il Neghev per vivere non una vita normale, ma una vita speciale.

di Silvia Haia Antonucci

 
Mitzpè Ramon
Rony Maron è il sindaco di Mitzpè Ramon, fondata nel deserto del Negev nel 1950 come avamposto militare e utilizzata nel 1951 per i lavoratori impegnati nella costruzione della strada per Eilat. La città si trova a 85 km. a sud di Beer Sheva, su di un promontorio alto 800 m. che si affaccia su di una grande depressione del suolo nota come "Cratere di Ramon", una formazione geologica, di natura carsica, unica in Israele e in tutta la regione del Sinai (è lunga 45 km. e larga 8). Maron è sindaco dal 2013, una scelta - quella di candidarsi - che risale al servizio militare. "Tra il 2005 e il 2008 - spiega ai lettori di Shalom - sono stato nell'esercito, proprio nel Negev, nell'area di Mitzpè Ramon; me ne sono innamorato e ho deciso di restare. Ho fatto l'agricoltore, ho piantato molti ulivi. Durante quel periodo mi sono accorto che il Municipio faceva delle scelte sbagliate e quindi ho deciso di non restare inerte, di fare qualcosa. L'esperienza nell'esercito è stata per me molto importante, mi ha formato per gestire un team che lavora per uno scopo comune".

- Quante persone vivono a Mitzpè Ramon?
  "Vi sono 5.700 persone che sono orgogliose di risiedere lì. Non solo è possibile vivere nel deserto, è un piacere; l'atmosfera è tranquilla, la comunità è unita, la vita è sicura, c'è tanto spazio, aria pulita e si sta a contatto con la natura. Ogni anno mi pongo la domanda su quale sia il posto migliore in cui vivere e la risposta è sempre la stessa: Mitzpè Ramon".

- Cosa è il progetto Ayalim?
  "Quando sono diventato Sindaco era già avviato e mi sono attivato subito per promuoverlo. È molto importante fornire ai giovani l'opportunità di venire a vivere a Mitzpè Ramon. Non proponiamo una vita normale, ma una vita unica, speciale. Certamente non vi sono tante possibilità di andare a teatro, al cinema, ai pub, ma offriamo una vita tranquilla a contatto con la natura e molte persone hanno il desiderio di unirsi a noi. Il progetto sta funzionando, in 5 anni la popolazione è aumentata del 10%. La nostra maggiore sfida è sviluppare il settore dell'High Tech e dei servizi con lo scopo di aumentare i posti di lavoro disponibili".

- La sua famiglia è contenta della scelta di abitare a Mitzpè Ramon?
  "Mia moglie e i miei figli sono felici di stare a Mitzpè
Ramon, altrimenti non avremmo ma potuto viverci, è sicuramente una sfida risiedere nel deserto, ma quando si investe seriamente in uno scopo preciso e poi si vedono i risultati positivi, si è davvero felici e orgogliosi".

 Mitzpè Ramon nel maggio 2018 è stata gemellata con la cittadina calabrese di Belvedere Marittimo, Comune della Riviera dei Cedri. In tale occasione l 'assessore alla Cultura e al Turismo della cittadina tirrenica, Francesca Impieri, ha dichiarato: "La città di Mitzpè Ramon, situata nella cosiddetta 'Valle dei Romani', è sempre stata fulcro di unione tra Oriente e Occidente. Città delle spezie, di vini forti e aromatici, oggi è una cittadina molto particolare, meta di tanti giovani artisti che traggono dai colori del deserto la loro fonte di ispirazione soprattutto nel campo della ceramica e della terracotta. Nel nostro piccolo, la città di Belvedere Marittimo, già da alcuni anni, ha avuto l'onore e il piacere di ospitare amici ebrei, condividendo momenti pregni di emozioni, nella esternazione reciproca della 'cultura del cedro'". Lo stesso Rony Maron è stato a Belvedere e ha potuto apprezzare la cultura dell'ospitalità di quella terra: "è stata una bellissima esperienza e spero che anche il Sindaco di Belvedere verrà presto a Mitzpè Ramon".

(Shalom, gennaio 2019)



Turismo in Israele, 2018 da record

Oltre quattro milioni di turisti hanno visitato Israele nel 2018. Un record per il paese che continua a migliorarsi, anno dopo anno, rispetto a un settore tanto importante quanto quello turistico. Il ministero del Turismo ha dichiarato che l'aumento è frutto, almeno in parte, di una ampia campagna di promozione di Israele come destinazione di viaggio in diversi paesi del mondo, tra cui Stati Uniti, Germania, Russia, Italia, Inghilterra, Cina.
   L'incremento di visitatori rispetto al 2017 è stato del 14% e le entrate hanno raggiunto circa 5,8 miliardi di dollari. "Questi numeri rappresentano un cambiamento rivoluzionario nella strategia di marketing del Ministero del Turismo, realizzato attraverso lo sviluppo delle infrastrutture, grazie all'apertura di rotte dirette da nuove destinazioni, grazie alla creazione di collaborazioni con alcuni dei più grandi agenti di viaggio del mondo", ha dichiarato il ministro del Turismo Yariv Levin. "Siamo ottimisti sul 2019 che inizia con l'apertura del nuovo aeroporto internazionale di Timna che ci consentirà di continuare a portare nuovi voli a Eilat.
   Ciò che era considerata una fantasia pochi anni fa è oggi una realtà: Israele è una delle destinazioni turistiche preferite al mondo", le parole di Amir Halevi, direttore generale del ministero del Turismo. I principali paesi di provenienza dei turisti nel 2018 sono stati: Stati Uniti (897.100), Francia (346.000), Russia (316.000), Germania (262.500), Regno Unito (217.900) Polonia (151.90) e Italia (150.600). Per l'Italia, dicembre ha rappresentato un mese record con ben 20.500 turisti, con una crescita del 46% rispetto al medesimo periodo del 2017 e del 92% rispetto al 2016. "L'Italia - spiega una nota dell'ufficio del Turismo israeliano in Itala - è così risultata poi a dicembre e complessivamente nel 2018 tra i 5 paesi con la crescita più elevata rispetto allo scorso anno e a due anni fa".
   "Abbiamo ottenuto un risultato davvero insperato e di questo dobbiamo ringraziare tutti i nostri partner che hanno avuto fiducia in noi. - il commento di Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia - Dagli operatori che hanno investito, dalla stampa che ha saputo raccontare in modo inedito le novità e lo splendore della nostra destinazione. Tutto questo è stato realizzato anche grazie all'ingresso di nuove compagnie aeree e all'intensificazione dei voli da parte delle compagnie più tradizionali. Davvero un grazie a tutti per la fiducia che avete voluto riporre nella nostra destinazione".
   L'accordo "Open Skies" raggiunto tra l'Unione Europea e Israele nel marzo 2012, spiegava il Jerusalem Post, è l'emblema della trasformazione del settore turistico israeliano: l'intesa ha consentito a tutte le compagnie aeree europee di operare voli diretti verso Israele da qualsiasi località dell'Unione europea e alle compagnie aeree israeliane di volare verso qualsiasi destinazione Ue. Questo accordo agevolerà ad esempio Eilat: vi è già stato un significativo aumento del traffico aereo verso la città israeliana sul Mar Rosso ma l'inaugurazione quest'anno di un nuovo aeroporto sarà un ulteriore incentivo. "Con l'apertura all'inizio di quest'anno dell'aeroporto di Ramon, situato nella Timna Valley e in grado di gestire quattro milioni di passeggeri in transito internazionale all'anno, il mondo avrà finalmente una rotta diretta con Eilat, con non stop da Monaco e Francoforte su Lufthansa, e vettori economici che volano da Praga, Londra e in tutta Europa. - sottolinea il New York Times mettendo Eilat tra le 52 mete da visitare nel 2019 - Nuovi hotel, tra cui il lussuoso Six Senses Shaharut che aprirà appena in tempo per il turno di Israele di ospitare il concorso canoro Eurovision 2019, sono pronti per la folla". Proprio occasioni come Eurovision o il Giro d'Italia organizzato nel maggio scorso, spiega il ministero del Turismo, sono le migliori vetrine per l'immagine d'Israele.

(moked, 13 gennaio 2019)


Israele conduce attacchi contro obiettivi iraniani in Siria

Israele ha attaccato i depositi di armi iraniani all'aeroporto internazionale di Damasco in Siria, ha detto il primo ministro Benjamin Netanyahu secondo la citazione di Haaretz.
Il 12 gennaio gli aerei israeliani hanno effettuato numerosi attacchi missilistici nei sobborghi della capitale siriana, Damasco. L'attacco è stato respinto dalla Difesa aerea siriana e la maggior parte dei missili sono stati abbattuti, mentre un deposito vicino all'aeroporto internazionale di Damasco è stato danneggiato.
Domenica mattina Benjamin Netanyahu ha dichiarato che l'aviazione militare israeliana aveva preso di mira obiettivi iraniani in Siria.
"I recenti attacchi dimostrano che siamo determinati come non mai ad agire contro l'Iran e la Siria", ha affermato citando Haaretz.
Il ministero degli Esteri siriano ha dichiarato di aver inviato lettere alle Nazioni Unite a seguito di un attacco aereo israeliano nei pressi di Damasco chiedendo all'ONU di adottare misure immediate per prevenire nuovi attacchi israeliani.
Non è la prima volta che le autorità israeliane hanno affermato che Tel Aviv sta conducendo operazioni contro obiettivi iraniani in Siria, il tutto ignorando la dichiarazione di Teheran secondo cui le sue forze mantengono un ruolo esclusivamente consultivo in Siria e negando qualsiasi piano per stabilire una presenza militare permanente nel paese.
All'inizio di dicembre, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promesso di continuare le operazioni israeliane in Siria per contrastare la presenza militare dell'Iran nel paese, in seguito alla decisione di Washington di ritirarsi dalla Repubblica araba.

(Sputnik Italia, 13 gennaio 2019)


Una Schindler di nome Irena

Durante la guerra, 2500 bimbi ebrei riuscirono a fuggire dal ghetto di Varsavia: grazie al coraggio di una giovane infermiera polacca. Un albo, ora, narra la sua storia. Vera.

di Lara Crinò

 
llustrazione di Maciej Szymanowicz tratta dal libro "Tutte le mie mamme"
Il signor Bauman ama sedersi su una panchina, nel parco. Sotto le palpebre dei suoi occhi vecchi e stanchi scorrono i ricordi di un tempo doloroso e lontano. Perché un tempo Bauman è stato un bambino di Varsavia: il piccolo Szymon con i pantaloncini corti, un fuciletto di legno e una sorellina di nome Chana. Finché non è arrivata l'invasione tedesca della Polonia, con la persecuzione degli ebrei e la creazione del ghetto. Nella sua memoria i ricordi di quei tempi sono ancora nitidi.
   E nitida e terribile, eppure piena di speranza, è la storia del suo salvataggio che la polacca Renata Piatkowska narra in Tutte le mie mamme, appena tradotto in Italia. Chiuso in un povero appartamento del ghetto con la mamma e Chana, dopo che il padre è stato catturato dai tedeschi in una retata, Szymon guarda la vita di quell'umanità reclusa con occhi di bambino: nella realtà c'è la "catena dei cucchiai" grazie alla quale dalla casa dei vicini arrivano ogni tanto un po' di riso bollito o una patata. Ma lui e Chana, piegati come tutti dalla fame, gustano con l'immaginazione i cibi più squisiti dell'infanzia che hanno dovuto abbandonare: zuccherosi strudel e soffici bagel, il pane del sabato con il miele, la zuppa fumante e gustosa. Finché i soldati non vengono a prendere Chana e la portano all'Umschlagplatz, da cui si parte, senza ritorno, per Treblinka. Finché la mamma non si ammala e un giorno si presenta alla porta un'infermiera che nel ghetto tutti hanno imparato a conoscere. Si fa chiamare Jolanta, e di sé dice: "Sono come un grande armadio ambulante", perché sotto il cappotto nasconde cibo, vestiti, medicine. Sarà lei, la polacca Jolanta, a farlo uscire dal ghetto nascosto in un camion, in uno scatolone vuoto del sapone, e ad affidarlo a una famiglia, poi a un'altra ancora. Szymon diventerà Stas, imparerà l'Ave Maria e il Padre Nostro per ingannare i vicini, sopravviverà grazie alle nuove mamme che lo accudiranno.
   Ma non dimenticherà chi, e perché, Jolanta ha scritto la sua vera identità e quella fittizia, insieme a quella degli altri piccoli che ha salvato, e ha nascosto i foglietti in un barattolo e poi l'ha seppellito in un giardino.
   Solo dopo la guerra Bauman scoprirà che Jolanta era Irena Sendler. Grazie al suo impiego nei servizi sociali e al suo lasciapassare per il ghetto, la giovane infermiera creò una rete che portò in salvo 2.500 bambini ebrei, e fece sì che non perdessero le tracce della loro identità. Prima di morire, nel 2008, disse allo scrittore Marek Halter: "Avrei potuto fare di più. Questo rimpianto non mi lascia mai". Tutte le mie mamme parla con grazia di un'immane tragedia e illumina la vita, a lungo poco conosciuta, di una donna coraggiosa. Capace di sperare in un tempo migliore. In cui, nuovamente, poter chiamare ciascuno con il suo nome.

(la Repubblica, 13 gennaio 2019)


I tanti fronti di una unica guerra contro Israele

di Ugo Volli

Un attentato condotto con un'automobile o con il coltello contro civili che attendono a una fermata dell'autobus. L'appuntamento di tutti i venerdì con l'assalto di massa al confine di Gaza, nel tentativo di invadere il territorio israeliano per rapire e per uccidere. I cinque tunnel scoperti finora scavati da Hezbollah per occupare qualche villaggio in Galilea. I duelli aerei sul cielo della Siria, quando l'aviazione israeliana interviene per distruggere la concentrazione di armi iraniane. I voti all'Onu, il boicottaggio antisraeliano in Europa. La propaganda contro Israele nelle università, prima di tutto americane, cui spesso purtroppo non sono estranei ebrei che si autodefiniscono "progressisti" o "per la pace".
   Sono episodi diversi, che spesso denunciamo, anche se difficilmente ottengono ascolto dai grandi giornali. C'è una cosa però che spesso non è chiara. Sono battaglie di una stessa guerra. Attacchi almeno parzialmente coordinati contro la vita dello stato di Israele. Sviluppi della stessa strategia, che viene diretta ormai da molti anni da uno stesso centro: l'apparato politico e militare dell'Iran. E' l'Iran che finanzia Hezbollah e Hamas e spesso contribuisce, insieme all'Autorità Palestinese, a fornire incentivi materiali ai terroristi che agiscono in Giudea e Samaria. E' l'Iran che guida la campagna internazionale per isolare Israele, godendo spesso dell'appoggio dell'Unione Europea. E' l'Iran che finanzia e organizza la preparazione della guerra al Nord, vi importa armi e truppe, cerca di avere aiuto da Russia e Turchia. La guerra è dunque una, e una è la strategia difensiva di Israele. Il problema non è la deterrenza nei confronti di Hamas o Hezbollah, da ottenere a qualunque costo. La vera questione è come isolare e sconfiggere l'aggressione iraniana. Per questo è possibile talvolta accettare compromessi, non rispondere alle provocazioni, bloccare le aggressioni senza contrattaccare. Perché quel che conta è tagliare la testa del serpente, togliergli alleati o pretesti, indebolirlo e bloccarlo.

(Shalom, 13 gennaio 2019)


Trovato un altro tunnel di Hezbollah

Dal Libano si infiltrava in territorio israeliano

L'esercito israeliano ha annunciato di avere individuato un altro tunnel di attacco degli Hezbollah che dal villaggio libanese di Ramyeh passava il confine e si infiltrava in territorio israeliano.
La galleria, ha spiegato il portavoce militare, sarà neutralizzata nei prossimi giorni. La stessa fonte ha poi aggiunto che sono state informati l'Unifil e le autorità locali.
"Con quello di oggi, l'esercito - ha detto ancora - ha messo in luce tutti i tunnel degli hezbollah che dal Libano si infiltravano in Israele".

(ANSAmed, 13 gennaio 2019)


Città del Messico: inaugurato un nuovo Centro di Documentazione Ebraica

di Nathan Greppi

 
La Sinagoga di Città del Messico
Il 19 settembre 1985, Città del Messico fu scossa da un violento terremoto, che oltre a uccidere migliaia di persone distrusse due quartieri ebraici, Roma e Condesa, e con essi gli archivi della comunità askenazita locale.
   Tuttavia, questa settimana quegli archivi verranno riaperti grazie agli innumerevoli sforzi di Alicia Gojman de Backal, docente di storia all'Università nazionale autonoma del Messico, che sin dai primi anni '90 si è sforzata per restaurare gli archivi e trasmettere la storia degli ebrei askenaziti in Messico. A tal fine aveva pubblicato già nel 1993 Generazioni di Ebrei in Messico, un'enciclopedia in sette volumi.
   Secondo Tablet Magazine, il nuovo centro di documentazione ebraica, che avrà sede nella Sinagoga Rodfe Sedek, contiene manifesti sia antisemiti che antifascisti degli anni '30, manoscritti originali del poeta di lingua Yiddish Jacobo Glanz, e la prima edizione di Città di palazzi, uno dei primi libri in Yiddish pubblicati in Messico, contenente poesie di Isaac Berliner e illustrazioni di Diego Rivera. Ma gli archivi non includono solo materiale relativo agli ashkenaziti: infatti, essi renderanno omaggio anche a 100 anni di storia degli ebrei emigrati da Siria, Turchia, Marocco, Iraq e dai Balcani.
   Il nuovo centro avrà una biblioteca di 16.000 libri in numerose lingue: spagnolo, arabo, francese, ebraico, ungherese, yiddish, ladino, inglese, lituano, polacco e russo, molti dei quali sono stati recuperati dalle forze alleate durante la Seconda Guerra Mondiale. Ci saranno inoltre 1.500 quotidiani da ogni parte del mondo, una collezione di foto che documentano la vita quotidiana degli ebrei in Messico, e copie originali dei primi giornali in yiddish nella capitale messicana. E infine, cosa più importante, gli archivi saranno situati in stanze a prova di terremoto.
   Secondo i responsabili del progetto, il centro di documentazione serve a mettere al sicuro una volta per tutte i documenti della comunità ebraica; ciò è diventato ancora più urgente dopo che, l'anno scorso, un nuovo terremoto di magnitudo 7,1 colpì la città il 19 settembre, la stessa data di quello del 1985 (che invece era di magnitudo 8,1).
   Uno dei più importanti documenti conservati nel centro fu donato dalla Comunità Monte Sinai, che rappresenta i discendenti degli ebrei emigrati da Damasco. Il documento in questione racconta la storia della prima organizzazione ebraica locale, fondata nel 1912, che riuniva ebrei venuti da Balcani, Europa dell'Est, Libia e Siria, che unirono le forze per acquistare un appezzamento di terreno dove far sorgere un cimitero. Da allora, tuttavia, le varie comunità si sono divise a seconda del luogo d'origine.

 Gli ebrei a Città del Messico
  Oggi a Città del Messico ci sono molte sinagoghe, centri e scuole ebraiche suddivise a seconda della provenienza (Siria, Europa Orientale o Stati Uniti). Per le comunità Monte Sinai e Magen David, rispettivamente di Damasco e Aleppo, la genealogia è talmente importante che hanno sviluppato dei programmi speciali per dimostrare che ogni loro membro ha origini siriane che risalgono a 4-5 generazioni prima.

(Bet Magazine Mosaico, 13 gennaio 2019)


Derive antisemite nella sinistra radicale

Da Proudhon in poi l'odio contro gli ebrei si manifesta anche nel campo progressista, oggi soprattutto nei gruppi terzomondisti. Parla lo storico Michel Dreyfus.

di Alessandra Tarquini

Direttore di ricerca emerito al Cnrs, lo storico francese Michel Dreyfus si è occupato del socialismo e del movimento sindacale. Il suo saggio L'antisemitismo a sinistra è uscito in Italia nel 2018 presso l'editore Free Ebrei.

- Come mai il suo libro si intitola «L'antisemitismo a sinistra» e non «L'antisemitismo di sinistra»?
  «Perché l'antisemitismo specifico della sinistra, nel senso più ampio del termine, è stato un fenomeno decisamente raro. In effetti, nella sua storia, la sinistra ha più spesso ripreso stereotipi sviluppati dalla destra e dall'estrema destra. Ho distinto nel corso degli ultimi due secoli cinque forme di antisemitismo: economico, razzista, complottista, revisionista e negazionista e, infine, antisionista nei confronti dello Stato di Israele».

- Quali sono le origini teoriche e culturali dell'antisemitismo di sinistra?
  «Come sappiamo, fin dal Medioevo gli ebrei sono stati identificati con l'usura dalla maggioranza della popolazione cristiana. All'inizio del XIX secolo, i socialisti utopisti li associano al nascente capitalismo attraverso un nome, quello dei Rothschild. Proudhon e Toussenel costruiscono un'immagine assimilando l'ebreo al mondo delle imprese e lo rendono un profittatore: hanno una grande responsabilità nella costruzione dell'antisemitismo di matrice economica. Invece Saint-Simone i suoi seguaci non fanno commenti antisemiti. Inoltre, il pensiero marxista sin dalle origini ha non poche difficoltà con il concetto di religione, perché non include le categorie della lotta di classe: questo imbarazzo lo fa sottovalutare, o addirittura ignorare, la tradizione antisemita cristiana che permea la società. Allora l'antisemitismo conosce in Francia un secondo periodo, dal 1880 alla vigilia della Prima guerra mondiale. In un contesto di crisi economica e di ascesa del nazionalismo, razzista e xenofobo, le idee antisemite sono propagate dalla destra cattolica e dall'estrema destra. Idee che influenzano gran parte del socialismo di sinistra, anarchico e sindacalista, che si sta organizzando. Solo durante l'affare Dreyfus (1894-1906) e attraverso l'azione dei militanti, il più noto dei quali è Jean Jaurès, la sinistra capisce che deve rompere completamente con gli antisemiti. Dopo la Grande guerra e gli anni Venti, che rappresentano la "bassa marea" dell'antisemitismo, la violenza antiebraica torna nel decennio successivo, soprattutto a causa della crisi economica. Questo antisemitismo si basa su una tematica ancora diversa, quella secondo cui gli ebrei cospirano per dominare il mondo, come "dimostrano" i Protocolli dei Savi di Sion, un libro delirante uscito nel 1903, scritto dalla polizia segreta russa per dimostrare l'esistenza di un complotto ebraico ai danni dell'umanità. In quegli anni fra l'altro la violenza antisemita si esercita a sinistra contro il primo ministro Léon Blum, accusato nel Partito socialista di voler fare la guerra ai tedeschi perché Hitler perseguita gli ebrei come lui: anche a sinistra c'è chi pensa che gli ebrei vogliono dominare il pianeta e causare una nuova guerra mondiale».

- Pensa che l'antisemitismo a sinistra sia una specificità francese o un fenomeno europeo?
  «Rispondere è difficile oggi. L'antisemitismo a sinistra è stato oggetto ed è oggetto di numerosi studi in Italia, ma la ricerca deve ancora essere condotta nella maggior parte dei Paesi europei. In Belgio, alla fine del XIX secolo, il socialista Edmond Picard fece violente osservazioni antisemite; ma non so quale sia stata la sua influenza nel Partito dei lavoratori belga. In Germania, Rosa Luxemburg, Wilhelm Liebknecht e altri socialisti credevano che la sinistra non dovesse difendere Dreyfus, un borghese e un militare, mentre i socialisti francesi finiscono per abbandonare questa posizione. E che dire di Austria e Gran Bretagna? Certamente la questione provoca discussioni all'interno della Seconda Internazionale sin dal suo inizio».

- La creazione dello Stato di Israele nel 1948 introduce un nuovo elemento. Come ha cambiato la diffusione dell'antisemitismo a sinistra?
  «Il sionismo ebbe un inizio difficile in Francia e poi acquistò influenza e diffusione dalla Dichiarazione Balfour (1917), con la quale il ministro britannico manifestò la disponibilità del governo a considerare la Palestina come un focolare nazionale per gli ebrei. Da allora, la sinistra francese si è divisa tra i socialisti, sempre più numerosi, che sostengono il sionismo, e i comunisti e l'estrema sinistra, che lo criticano; la spaccatura tra queste due correnti continua e aumenta dopo il 1948, anche se le critiche a Israele espresse dai comunisti e dall'estrema sinistra non possono essere definite antisemitiche, nonostante le polemiche suscitate».

- Quali sono le caratteristiche della riflessione della sinistra radicale?
  «Sicuramente dagli anni Ottanta a sinistra, e in particolare nella sinistra radicale - l'estrema sinistra trotskista e anarchica-, sono aumentate le tensioni rispetto alla questione ebraica e all'antisemitismo: una manciata di attivisti di estrema destra, attivi sin dagli anni Sessanta, ha dato vita a una nuova forma di antisemitismo che infetta e si estende anche a una piccola parte dell'estrema sinistra. Alcuni negano il genocidio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale e associano tale negazione a una sfida totalmente antisemita all'esistenza dello Stato di Israele. E infine esiste una sesta forma di antisemitismo che sembra apparire oggi fra la sinistra più radicale, sempre meno vigile e all'interno della quale si moltiplicano gli slittamenti antisemiti. Questa corrente esprime un approccio critico e sommario al colonialismo: si tratta di una strana miscela di vittimismo e razzismo che ha una certa influenza in alcuni ambienti intellettuali».

- Qual è la differenza fra l'antisemitismo di destra e quello di sinistra?
  «La differenza principale non è nei contenuti, ma nell'influenza all'interno della società francese. L'antisemitismo esisteva a sinistra, anche se la maggior parte delle volte riprendeva, con mezzi molto più deboli, temi nati a destra. Facciamo un esempio: l'influenza dei socialisti utopistici era molto limitata. Anche durante il caso Dreyfus, il quotidiano cattolico "La Croix", che si proclama "il giornale più antiebraico di Francia", tira 500 mila copie, mentre la stampa repubblicana di sinistra e socialista raggiunge a fatica le 250 mila. La differenza di mezzi è chiara anche negli anni Trenta: molti giornali di destra e di estrema destra sono letti da centinaia di migliaia di persone e sono diffusi dalle numerose pubblicazioni di gruppi specializzati nell'antisemitismo. Certo, può capitare che l'antisemitismo di sinistra conosca un pubblico molto più vasto quando viene ripreso dall'estrema destra, come è accaduto con il revisionismo e il negazionismo, che prima di essere resi popolari da Jean-Marie Le Pen hanno toccato solo cerchie marginali. In ogni caso, venga da sinistra o da destra, l'antisemitismo va combattuto con la stessa fermezza».

(Corriere della Sera, 13 gennaio 2019)



Gesù disse: «Io sono la via, la verità e la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me».
Dal Vangelo di Giovanni, cap. 14   

 


Gli Usa incominciano il ritiro dalla Siria: al via il patto "anti-Iran"

di Paolo Mastrolilli

NEW YORK - Gli Usa organizzano una conferenza in Polonia sull'Iran, «per costruire la coalizione» contro Teheran, e cominciano il ritiro dalla Siria. Sono gli effetti della dottrina del presidente Trump per il Medio Oriente, che il segretario di Stato Pompeo aveva delineato nel discorso di giovedì al Cairo.
   La notizia più imminente è quella della Siria, dove fonti del Pentagono hanno confermato al Wall Street Journal di aver iniziato a smobilitare. I dettagli sono riservati, ma l'operazione è già in atto, al punto che la nave anfibia d'assalto Uss Kearsarge sta navigando verso la regione con centinaia di Marines, elicotteri e altri velivoli a bordo, proprio per proteggere il rientro dei soldati. «Abbiamo avviato - ha detto il colonnello Sean Ryan - il processo per il nostro ritiro deliberato dalla Siria». Nei giorni scorsi il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton aveva subordinato la smobilitazione ad alcune condizioni, tra cui la garanzia che la Turchia non avrebbe attaccato i curdi del Ypg, alleati degli Usa nella lotta all'Isis. Questo aveva confermato l'impressione che l'establishment repubblicano e militare non fosse favorevole al ritiro immediato, come dimostrato dalle dimissioni del capo del Pentagono Mattis, e avrebbe cercato di rallentarlo per non lasciare il campo libero alla Russia e soprattutto all'Iran. Erdogan però si è infuriato, rifiutando di incontrare Bolton, e il ritiro è cominciato secondo l'accordo che aveva raggiunto in dicembre con Trump. Una fonte della Difesa ha spiegato al Wall Street Journal che «nulla è cambiato», rispetto alla direttiva per la smobilitazione partita il mese scorso dalla Casa Bianca: «Noi non prendiamo ordini da Bolton».
   Questa divergenza nell'amministrazione resta, ma intanto Pompeo procede con l'altro punto chiave della strategia mediorientale di Trump. Parlando con la Fox News, il segretario di Stato ha annunciato che il 13 e il 14 febbraio a Varsavia sarà ospitata «una conferenza ministeriale sulla pace, la libertà e la stabilità in Medio Oriente. Riuniremo dozzine di Paesi da tutto il mondo, Asia, Africa, emisfero occidentale, Europa, e ovviamente dalla regione. Ciò include l'importante elemento di garantire che l'Iran non sia una influenza destabilizzante».
   Fonti molto vicine all'amministrazione, favorevoli alla linea dura contro Teheran, dicono che «è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti». Intendono che «il ritiro dall'accordo nucleare era il primo passo essenziale, ma ora bisogna attivamente sostenere la protesta interna che sta destabilizzando il regime». Questo potrebbe essere il vero scopo, anche se non ufficiale, della conferenza in Polonia. Il dubbio resta quello espresso dopo il discorso del Cairo, da critici come il presidente del Council on Foreign Relations Richard Haass: «Pompeo ha articolato obiettivi ambiziosi, come espellere dalla Siria ogni iraniano, ridurre l'arsenale missilistico di Hezbollah, costruire un Iraq libero dall'influenza di Teheran, riducendo allo stesso tempo la presenza Usa in Medio Oriente. Nessuna politica può avere successo, con obiettivi e mezzi così divergenti».

(Il Secolo XIX, 12 gennaio 2019)


Buttava giù i muri e voleva uccidere Assad: il generale--filosofo capo dei militari d'Israele

di Davide Frattlnl

Il generale Aviv Kochavi
GERUSALEMME - La pelata e i muscoli pompati dall'addestramento spingevano i suoi studenti a definirlo «un Michel Foucault imbottito di steroidi». Perché Shimon Naveh è il generale che ha tradotto le idee dei filosofi francesi - anche quelle di Deleuze-Guattari - nella dottrina militare israeliana. Come se i Mille piani da affrontare diventassero i campi di battaglia.
   Fra tre giorni l'allievo che più ha applicato le sue lezioni diventa il nuovo capo di Stato Maggiore. In un Paese dove la maggior parte dei cittadini - uomini e donne - ha indossato la divisa, il comandante delle forze armate è riverito più del primo ministro. Così gli analisti di cose belliche già speculano su quali saranno le prime decisioni strategiche di Aviv Kochavi, che in 36 anni - ne ha 54 - ha ricoperto quasi tutti i ruoli chiave nell'esercito. Fino al caos dall'altra parte del confine, quella guerra civile siriana che continua a non finire: un giornale arabo ha rivelato che da capo dell'intelligence aveva insistito - respinto - perché il governo desse il via libera a una missione per uccidere Bashar Assad.
   Da comandante della Divisione Gaza è stato l'ultimo a chiudere i cancelli dopo il ritiro nel 2005 e sono le battaglie nella Striscia che avrebbero potuto stroncargli la carriera: il rapimento del caporale Gilad Shalit è avvenuto sotto il suo comando. Attorno ai tavoli coperti di mappe delinea le tattiche a cui gli altri non hanno pensato o a cui preferirebbero non pensare. Nel febbraio-marzo del 2002 durante l'ondata di attacchi terroristici della seconda Intifada, è riuscito a convincere i superiori a permettergli di introdurre tra le vie strette di Nablus le visioni allargate del professor Naveh. Tra maggio '68 e rivolte giovanili, propone di portare la guerriglia in mezzo ai palestinesi e di reinventare gli scontri urbani. Quando ne parla, anche Kochavi filosofeggia: «Questa stanza non è nient'altro che il risultato della tua interpretazione. Così mi sono chiesto: come interpreto un vicolo? Un urbanista direbbe che è uno spazio dove camminare. Ai miei soldati ho spiegato che era uno spazio dove è proibito camminare. Una porta? Non oltrepassarla. Una finestra? Vietato guardarci attraverso. Il nemico vede lo spazio in modo tradizionale e io non voglio cadere nelle sue trappole: l'esplosivo sulla porta, il cecchino dietro la finestra. Evito le imboscate e devo sorprenderlo», spiega allo studioso israeliano Eyal Weizman nel saggio Lethal Theory.
   Risultato: alla brigata di paracadutisti ordina di muoversi attraverso le case dei palestinesi, al chiuso, da un soggiorno alla camera da letto, da una cucina al bagno, stanza dopo stanza aprendo varchi a picconate nei muri. Gli arabi lo accusano di distruzione non necessaria, di aver coinvolto i civili. Lui finisce l'operazione con un solo caduto, per fuoco amico.

(Corriere della Sera, 12 gennaio 2019)


I 2.500 capolavori rubati dai nazisti agli ebrei in mano al governo tedesco

Rese 54 opere in due decenni. La ministra: dovere permanente

di Paolo Valentino

Secondo il ministero delle Finanze tedesco sono 2.500 le opere d'arte trafugate dai nazisti non ancora restituite ai legittimi proprietari. I capolavori si trovano in musei statali, nei ministeri o nel deposito federale delle opere d'arte di Weissensee, a Berlino.
BERLINO - Più di 70 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale il governo tedesco è ancora in possesso di migliaia di opere d'arte, quasi sicuramente rubate dai nazisti in Germania e in tutta l'Europa, in grandissima parte a famiglie ebraiche.
   Come ha confermato il ministero delle Finanze tedesco a Bild Zeitung, sono esattamente 2.500 i capolavori non ancora restituiti ai legittimi proprietari che attualmente si trovano in musei statali, nei ministeri o nel deposito federale delle opere d'arte di Weissensee, a Berlino.
   La notizia emerge sull'onda delle rinnovate polemiche suscitate dall'appello del direttore della Galleria degli Uffizi, Eike Schmidt, che ha chiesto la restituzione del «Vaso di Fiori» di Jan van Huysum, un olio del Settecento trafugato al museo fiorentino dalle truppe hitleriane e attualmente in possesso di una famiglia tedesca.
   Ma se nel caso del dipinto olandese siamo di fronte a un privato, con tutte le difficoltà legali di una eventuale restituzione, in quello del governo tedesco c'è anche un problema di azione insufficiente e di lentezza burocratica.
   Non che Berlino non abbia fatto o faccia nulla per attivarsi nella ricerca dei proprietari o dei loro eredi. Nell'agosto del 2018, la Germania ha rinnovato il suo impegno a rispettare e tradurre in pratica i cosiddetti accordi Washington, firmati nel 1998, in cui 40 nazioni si impegnarono a far luce sull'arte rubata dai nazisti in guerra e a rintracciare gli eredi per restituire «in tutti i casi nei quali è possibile» le opere trafugate.
 
La ministra per la Cultura tedesca, Monika Gruetters (a destra), restituisce il «Ritratto di una donna seduta», di Thomas Couture, agli eredi dell'ex ministro francese Georges Mandel, ebreo, a cui l'opera era stata sottratta dai nazisti.
A sinistra, «Cavalli nel paesaggio» (1911), di Franz Mare, acquisita dalla Germania con la collezione Gurlitt.
   «La soluzione dei furti d'arte dei nazionalsocialisti è un dovere permanente, in particolare per la Germania. Noi non abbandoneremo questa responsabilità», aveva dichiarato la ministra federale per la Cultura, Monika Gruetters. Gli accordi di Washington non comportano alcuna regola giuridicamente vincolante, ma si basano sulla volontà politica dei Paesi che vi aderiscono. Anche perché, secondo il codice civile tedesco, la restituzione non è obbligatoria essendo passati più di 35 anni.
   Il problema è che in venti anni, sono stati restituiti appena 54 tra dipinti e sculture. Attualmente, sempre secondo informazioni della Bild, il governo tedesco ha in corso trattative per la restituzione di una dozzina di opere. Poco rispetto alla mole del deposito.
   Lunedì scorso, la ministra Gruetters ha personalmente consegnato agli eredi il «Rìtratto di una giovane donna seduta» del pittore francese Thomas Couture, appartenuto a un ex ministro dell'Interno francese Georges Mandel, condannato all'ergastolo dal regime collaborazionista di Vichy. L'opera faceva parte della collezione di Cornelius Gurlitt, il mercante d'arte che l'aveva ereditata dal padre, il quale grazie ai suoi rapporti con i gerarchi nazisti era riuscito ad impossessarsi, spesso pagandoli pochissimo, di centinaia di capolavori, fra cui opere di Max Liebermann, Chagall, Picasso, Otto Dix, Emil Nolde e Ernst Ludwig Kirchner. Forte di oltre 1.200 lavori, venne scoperta per caso nel 2012 durante una ispezione fiscale in un appartamento di Monaco di Baviera e in seguito sequestrata dalle autorità tedesche. Da sola, la collezione Gurlitt ha praticamente raddoppiato il numero delle opere d'arte rubate ora nella disponibilità del governo tedesco.
   Secondo gli storici, furono almeno 5 milioni le opere d'arte sottratte dai nazisti ai loro proprietari, soprattutto ebrei, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma per anni in Germania il tema è stato tabù. A musei e case d'asta non interessò mai la provenienza delle opere, pur di assicurarsele.

(Corriere della Sera, 12 gennaio 2019)


Il contagio antisemita nelle sinistre

L'ostilità per gli ebrei di Corbyn e Mélenchon attecchirà tra i dem americani?

di Paul Berman

All'inizio della primavera dello scorso anno, nel Regno Unito è scoppiata una disputa rabbiosa tra le principali organizzazioni ebraiche del paese e il leader della sinistra radicale, attualmente a capo del Labour, Jeremy Corbyn; un paio di giorni dopo, è scoppiata una disputa simile in Francia tra l'organizzazione ebraica francese e l'omologo di Corbyn nella sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon. Il doppio focolaio suggerisce una tendenza, e solleva una domanda. Riguarda l'America e il Partito democratico. Vale a dire: quando i delegati della convention democratica si riuniranno tra meno di due anni, lo scontro tra centristi e progressisti che tutti si aspettano si verificherà? Qualche zelante antisionista prenderà posto tra i progressisti? Si farà strada verso il microfono e pronuncerà orazioni folli e raggianti al pubblico americano, chiedendo l'eliminazione di un intero paese? E le orazioni folli porteranno a canti raccapriccianti e a un occasionale ritorno di superstizioni medievali qui e là? In breve, la stessa miserabile battaglia che ha fatto a pezzi vaste porzioni della sinistra europea si diffonderà in America, non solo su scala miniaturizzata (cosa già accaduta), ma in piena esplosione, con conseguenze nazionali? Non è una domanda sciocca....

(Il Foglio, 12 gennaio 2019)


La vita oltrepassa l'orrore

Dopo Auschwitz silenzio e sofferenza, ma anche la capacità di ricominciare. Un testo di Daniel Vogelmann scritto a nome del padre Schulim, l'unico italiano salvato da "Schindler. Liliana Segre: "Fui deportata sullo stesso treno di Schulim; lui con moglie e figlia, io con mio padre".

di Liliana Segre

 
Una foto di Schulim Vogelmann (1903-1974) con la figlia Sissel, nata nel 1935 dal suo primo matrimonio con Annetta Disegni. La piccola Sissel e Annetta vennero uccise ad Auschwitz dai nazisti
Il breve libro di Daniel Vogelmann Piccola autobiografia di mio padre (Giuntina) è scritto con le parole semplici ed essenziali del poeta, capace di dire molto con poche frasi. Sono appena trenta pagine, nelle quali a parlare è Schulim Vogelmann, padre di Daniel, sopravvissuto ad Auschwitz e unico italiano salvato da Oskar Schindler. Le vicende che veniamo a sapere della vita di Schulim non sono molte, qualche cenno all'infanzia in Galizia, ossia in Polonia, la partenza a sedici anni dopo la Prima guerra mondiale per la Palestina sotto mandato britannico (alla stazione ferroviaria di Vienna dice addio al padre, che con le lacrime agli occhi lo saluta così: «Cosa vuoi che ti dica? Di mangiare con la forchetta e il coltello? Ti dico una sola cosa: Sii onesto»); l'arrivo a Firenze dove inizia a lavorare nella Tipografia Giuntina dell'editore Olschki, il matrimonio, la nascita della figlia Sissel e poi la Shoah.
   Schulim, la moglie Annetta Disegni e Sissel cercano di fuggire in Svizzera, ma vengono arrestati al confine dai fascisti. Come? Ecco cosa Daniel sceglie di far dire a suo padre su questo drammatico momento: «Ma il destino volle che venissimo scoperti (non chiedetemi perché se non volete che mi si spezzi il cuore), arrestati, rimandati a Firenze e internati a Villa La Selva». Poi la liberazione, il ritorno a casa, la scelta difficile e coraggiosa di rifarsi una famiglia, un nuovo matrimonio, la nascita di Daniel («Non avrei mai pensato di potere ancora mettere al mondo un bambino, un bambino ebreo, quando pochi anni prima tutti i bambini ebrei avrebbero dovuto morire»).
   Queste sintetiche notizie della vita di Schulim non sono altro che le poche cose che il padre ha raccontato al figlio. Infatti Schulim ha scelto di non raccontare quasi nulla, una scelta compiuta da molti sopravvissuti, forse per non turbare i figli o forse perché la cosa più importante e urgente era di convogliare tutte le energie mentali e fisiche per ricostruirsi e ricostruire, creare nuove famiglie, dare nuova vita. Ma il silenzio può talvolta fare più male delle parole, come accade infatti a Daniel, che soffre di quel dolore profondo che frequentemente ha funestato le vite dei «figli della Shoah». Il libro diventa quindi una doppia testimonianza, quella del sopravvissuto che parla grazie al figlio e quella del figlio che affronta la propria depressione dando voce al padre, fino ad arrivare a questo passaggio che mi ha scioccato, ma che ha in sé la forza della verità: «Io non sapevo come aiutarlo, ma alla fine mi resi conto di quanto dovesse soffrire, e un giorno mi sorpresi a dirgli: "Ora capisco che tu stai soffrendo più di me ad Auschwitz"».
   Infine Schulim muore («Poi però il mio cuore malato cessò alla fine di battere e in parole povere morii. Era il 9 giugno 1974» ), ma dal cielo continua a pensare al proprio destino («Però credo che non saprò mai se c'è qualcuno che scrive il destino degli uomini o è tutto un caso») e soprattutto a seguire la vicenda non scontata di Daniel, il figlio della Shoah che nel 1980 fonda la casa editrice Giuntina pubblicando La notte di Elie Wiesel come primo libro della collana a cui dà il nome del padre. La Giuntina è oggi una casa editrice preziosa che presenta al lettore italiano l'universo ebraico nelle sue infinite sfaccettature. Dal cielo, dunque, Schulim vede come l'aver trovato il coraggio di mettere al mondo un figlio dopo la Shoah ha avuto un senso e rivela - forse in vita non aveva fatto a tempo a farlo - di essere orgoglioso di suo figlio. Ma la cosa che forse lo rende più fiero sono cinque piccole poesie che Daniel ha dedicato alla sorellina Sissel, morta ad Auschwitz e mai conosciuta. («Daniel, ovviamente, non aveva conosciuto Sissel, ma ne ha sempre parlato con un affetto commovente e incredibile: grazie a lui Sissel a vivere in tanti cuori. Ora sono tanto fiero di lui!»). Queste cinque commoventi poesie sono riportate in appendice al libro ed esprimono nostalgia e rimpianto, ma anche un forte senso di consolazione.
   Tra le righe di queste poche pagine, oltre alle notizie biografiche, ci sono passaggi tanto immediati quanto significativi che conservano ieri come oggi il loro valore morale e che lascio al lettore di scoprire. In brevi paragrafi si accenna alla storia d'Italia durante la guerra, e anche qui gli spunti di riflessione non mancano: «Poi la storia accelerò il suo tragico corso: come tutti sanno, nel giugno del 1940 l'Italia entrò in guerra, pensando furbescamente che sarebbe finita da lì a poco. Ricordo ancora l'urlo della folla oceanica in piazza della Signoria: "Vincere e vinceremo"».
   Ma ciò che colpisce soprattutto in questo testo dai molteplici piani di lettura, come già accennato, è il linguaggio posato, preciso e asciutto, percorso da una mesta aura di poesia, forse il miglior modo per avvicinarsi con la scrittura a tutto ciò che riguarda la Shoah. Questo piccolo libro tocca l'animo e vi si sedimenta con tutto il suo carico di sofferenza, amore e riscatto.
   Infine, una piccola nota che l'autore ha voluto inserire nel libro. Su quel treno che dal Binario 21 della Stazione di Milano trasportava Schulim, Annetta e Sissel ad Auschwitz c'eravamo anche io e mio padre. Io e Schulim siamo tornati, mio padre, Annetta e Sissel no.

(Corriere della Sera, 12 gennaio 2019)


Un mondo che non dimentica. La Shoah

di Martina Mieli

Sono una "Nipote della Shoah". La vita e la storia di mio nonno "Pucchio" Alberto Mieli z.l. ha segnato per sempre la mia esistenza. Nonno è stato un testimone pieno di umanità, che pur soffrendo terribilmente, è stato una guida e un riferimento per tutti i giovani, dedicando la sua vita a tramandare la memoria e a testimoniare gli orrori della Shoah, senza perdere mai l'ironia e il sorriso. Perché l'educazione alla memoria può avvenire solo tramandando valori sani, di generazione in generazione; insegnando ai nostri figli l'educazione, il rispetto, l'amore e i principi della vita, affinché atrocità del genere non si ripetano mai più. Viviamo in un momento in cui c'è bisogno di una memoria condivisa e ognuno di noi può mettere radici contro l'odio e l'ignoranza, seminando e trasmettendo valori e messaggi di pace. Mio nonno ha saputo trasformare questa grande tragedia e dolore in un'occasione per divulgare la storia, donando grandi insegnamenti. Di questi valori io, come tanti altri, ne ho fatto una missione di vita.
Come lsrael Cesare Moscati, un "Figlio della Shoah". La sua vita ha uno scopo: preservare la Memoria e celebrare un messaggio di Amore universale. È appena uscito il suo libro "Un mondo che non dimentica. La Shoah" un'opera corale, nata da centinaia di lettere a lui indirizzate, provenienti da ogni parte del mondo. Il suo progetto è quello di riuscire a trasformare eticamente la parte interiore dell'uomo, quella parte in cui viene custodito il nucleo intimo della creatività spirituale, in un lavoro legato alla Shoah e al valore della Memoria. Moscati è nato a Roma, nella stessa casa dalla quale furono deportati tutti i membri della sua famiglia materna. La sua grande passione nel campo cinematografico è sfociata nel 2014 nella realizzazione de "l Ghetti. Un lutto mai elaborato", nel 2016 con "I figli della Shoah" e "Suona ancora" (prodotti da Global Vision Group con RAI Cinema). Nel 2017 ha realizzato "Alla ricerca delle radici del male" e nel 2018 "La vita è un dono" (prodotti da Clipper Media con RAI Cinema). "Ho elaborato con gli anni il mio bisogno - ci ha raccontato lsrael in occasione dell'uscita del suo libro - di divenire portavoce della Memoria e della Forza dei Figli della Shoah e sono riuscito a comprenderlo in un momento della vita in cui non avevo più Luce nel mio animo". Nel 2005, strano il caso, durante la festa di Hannukkà - chiamata anche Festa delle Luci - mentre accendeva una candela, arrivò la sua ispirazione. "Vi fu una sorta di dialogo - scrive lsrael nel libro - che aprì la strada del mio inconscio e che mi diceva: Tu sei un Figlio della Shoah, e il tuo compito è far comprendere al mondo che la Forza dei Figli della Shoah è stata quella di vivere. Trasforma un progetto di morte nazista in un vero progetto di Amore per la Vita, attraverso un viaggio nell'animo dei Figli della Shoah". E fu cosi che il suo lavoro prese forma. Lo dimostra il libro "Un mondo che non dimentica. La Shoah" pubblicato dalla casa Editrice Etica, in vendita da Feltrinelli e online su Amazon. Uomini, donne, ragazzi, esseri umani di ogni età, appartenenza, di religione non solo ebraica, hanno offerto la loro preziosa "testimonianza" e non hanno esitato a condividere ricordi personali, incubi e dolori, sogni e speranze. Il cammino di lsrael Cesare Moscati, attraverso i vari vissuti e percorsi esistenziali, singoli e collettivi, che articolano questo prezioso libro, è foriero di un messaggio su cui riflettere: siamo tutti Figli e Nipoti della Shoah.

(Karnenu - Rivista del KKL Italia, dicembre 2018)


Il discorso di Pompeo al Cairo segna il punto di rottura con la politica regionale di Obama

Il discorso ha inevitabilmente toccato anche il dossier legato all'Iran e alla sua influenza nella regione. Anche in questo caso, Pompeo ha evidenziato che gli Stati Uniti "erano assenti quando il popolo iraniano protestava contro il suo regime", facendo riferimento alle manifestazioni avvenute in Iran tra il 2009 e il 2010 contro il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Quanto alla Siria, si chiarisce che gli Usa "non parteciperanno al processo di ricostruzione" fino a quando le forze iraniane resteranno nel paese. "Lavoreremo per portar via le milizie iraniane dalla Siria", ha promesso il segretario di Stato, annunciando inoltre l'intenzione di lavorare per "limitare le capacità missilistiche" del movimento sciita libanese Hezbollah. Nel contesto generale, viene ribadito l'impegno a consolidare i rapporti con i "veri alleati" degli Stati Uniti nella regione, segnatamente Israele, Egitto e Arabia Saudita. A questo proposito, Pompeo ha fatto esplicito riferimento ai nuovi legami tra lo Stato ebraico e i paesi arabi del Golfo. Rapporti che "stanno mettendo radici che erano inimmaginabili fino a poco tempo fa", ha detto il segretario di Stato riferendosi alla storica visita lo scorso ottobre del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in Oman.

(Agenzia Nova, 11 gennaio 2019)


"Israele e il Piemonte saranno alleati su aerospazio, auto e ricerca universitaria"

L'ambasciatore Ofer Sachs per tre giorni in visita a Torino ha incontrato gli industriali e ha visitato il polo di Biotecnologie.

di Federico Callegaro

All'Università degli Studi di Torino arriva in visita l'ambasciatore israeliano
in Italia, Ofer Sachs. Il suo viaggio in città, che complessivamente durerà tre giorni, ha avuto in programma anche una visita al polo di Biotecnologia di via Nizza. «Un incontro per pensare a nuove collaborazioni tra Israele e l'Università ma anche per consolidare quelle che già esistono e che porteranno a nuovi sviluppi commerciali per il territorio Piemontese», racconta l'ambasciatore.

- Ambasciatore, come mai una tappa all'Ateneo?
  «Perché sono qui anche per approfondire le cooperazioni accademiche e legate alla ricerca tecnologica tra i nostri due Paesi. Da questo tipo di rapporti possono nascere anche le basi per future cooperazioni industriali. Torino, quando si parla di industria, è il polo di un vitale ecosistema del settore e il nostro ufficio di Milano è sempre attivo anche in Piemonte».

- Eppure i progetti congiunti tra le università israeliane e quelle torinesi non sono una novità.
  «Già ora ci sono molte cooperazioni con l'Università di Torino e con il Politecnico. Cooperazioni che si concretizzano anche con un notevole scambio di studenti che dall'Italia vanno a studiare in Israele e viceversa. Ora, però, vogliamo fare un ulteriore passaggio e fare in modo che si creino anche master congiunti e occasioni di formazione superiori che mettano in contatto e facciano lavorare insieme i futuri leader delle nostre due economie».

- Lei ha un quadro complessivo dell'economia italiana, ma come giudica quella piemontese?
  «Un territorio leader in importanti settori. Questa mattina (ieri ndr) ho avuto un incontro con i vertici degli industriali per discutere di possibili accordi economici in settori come l'automotive e l'aerospaziale. Israele non costruisce automobili, quindi sono collaborazioni non competitive, ma possiamo dare una mano su tutte le sfide del futuro: dalle auto elettriche a quelle a guida autonoma».

- Ha in previsione altri incontri?
  «Devo incontrare anche la sindaca di Torino».

- Quali sono le aree di competenza che volete approfondire maggiormente con gli atenei e quali progetti del territorio vi interessano di più?
  «Le aree legate alle scienze, alle scienze dei materiali, all'autoveicolo. Se parliamo di progetti, invece, Parco della Salute è affascinante perché è un'operazione che unisce collaborazioni di pubblico e privato. Un approccio d'avanguardia che scommette su temi centrali per il futuro. Tutto quello che ruota intorno alla medicina, all'invecchiamento progressivo della popolazione ma anche alla necessità di fornire cure mediche direttamente a domicilio è una scommessa che tutti i Paesi devono affrontare. Un tema così importante che questa primavera proveremo a declinare anche in un convegno in Israele».

(La Stampa - Torino, 11 gennaio 2019)


La punizione di un traditore

La condanna per spionaggio dell'ex ministro israeliano Segev ci consente di ricordare alcuni fatti legati agli Accordi di Oslo.

di Ugo Volli

Questa è una storia triste, che bisogna raccontare per dovere di cronaca e anche perché c'è una lezione da trarne. Partiamo dal nudo fatto di cronaca, di per sé antipatico. L'altro giorno un cittadino israeliano di nome Gonen Segev ha ammesso davanti al tribunale distrettuale di Gerusalemme di aver compiuto atti di spionaggio a favore dell'Iran e ha patteggiato una condanna a 11 anni di prigione. Segev ha ammesso le accuse di spionaggio, ma ha spiegato che stava cercando di aiutare Israele e tornare come "eroe" facendo finta di spiare per l'Iran. Sono spiegazioni che lasciano il tempo che trovano per un personaggio che è stato condannato al carcere e a cui è stata tolta la licenza medica in Israele per aver contrabbandato droga dall'Olanda e aver cercato di truffare una banca prelevando contanti con una carta dicendo che gli era stata rubata. Negli ultimi dieci anni aveva vissuto in Nigeria facendo il medico e lì era stato reclutato dall'Iran.
   Sembrerebbe una storia di normale delinquenza, da rubricare nel fatto che Israele è un paese normale che non solo ha ormai la propria quota normale di "ladri e prostitute", come prevedeva Ben Gurion, - se non fosse per il fatto che Segev era portatore di un passaporto diplomatico, in quanto ex deputato ed ex ministro dell'energia. E qui viene il punto su cui vale la pena di riflettere. Nato in una cittadina a nord di Haifa, sconosciuto al pubblico, Segev aveva aderito all'inizio degli anni Novanta aderì al partito di destra Tzomet, fondato e presieduto da Rafael Eitan.
   Nelle elezioni del 1992 fu eletto deputato in quella lista, ma due anni dopo ne uscì per appoggiare gli accordi di Oslo 2, per cui Rabin non aveva la maggioranza parlamentare e a cui il suo partito si opponeva; fu ricompensato per questo cambiamento di idee con il posto di Ministro dell'Energia, mentre il suo compagno di "conversione" Alex Goldfarb che era già viceministro, pretese "una Mitsubishi con autista". Con questi due reclutamenti (e con l'apporto determinante dei partiti arabi) Rabin, che aveva delle resistenze, e soprattutto Peres, che era davvero convinto, riuscirono a far approvare alla Knesset il più disastroso accordo della storia israeliana con un risicatissimo margine di 61 a 59.
   Vale la pena di ricordare questo episodio per aiutare la memoria di chi a sinistra si lamenta dello "stretto" margine di approvazione della legge su "Israele stato nazionale del popolo ebraico" votata il luglio scorso alla Knesset (62-55 e che è adesso in discussione alla Corte suprema). E anche per coloro che pensano che la sinistra abbia un monopolio della moralità. Il patto stretto allora dai laburisti con Segev e Goldfarb è molto più grave rispetto alle accuse che vengono mosse oggi contro Netanyahu, ma l'apparato poliziesco e giudiziario orientato a sinistra non ha mai indagato sul tema, come del resto non ha indagato sulla proposta di legge per favorire i giornali contro Netanyahu, proibendo la diffusione della stampa gratuita, approvata allora da tutta la sinistra, contro cui Netanyahu si dimise cinque anni fa, provocando le elezioni del 2014. ma si sa che la memoria raramente conserva traccia degli episodi sgradevoli. Oggi finalmente Segev, contrabbandiere di droga e di voti raggiunge il luogo che è più adatto a lui, un carcere israeliano. Ma il reclutamento più grave e più dannoso per il paese che ha accettato non è accaduto qualche anno fa in Nigeria, ma nel 1994 a Gerusalemme.

(Progetto Dreyfus, 11 gennaio 2019)


Sha'ar HaNegev

Parte il nuovo progetto del KKL: dove la natura difenderà i bambini.

di Martina Mieli

Il Consiglio Regionale di Sha'ar HaNegev copre un'area di 180.000 dunam, circa 45.000 acri, situato nel Negev nord-occidentale, comprende dieci kibbutzim, il Moshav Yakhini e conta una popolazione di circa 7.500 persone. Il complesso educativo di Sha'ar HaNegev, racchiude sia le scuole regionali sia le istituzioni pubbliche e comunitarie che servono tutta la popolazione del Sud, vicino a Sderot, al confine della Striscia di Gaza. Negli ultimi anni, a causa del continuo lancio di missili, la vita è sempre più difficile: le famiglie locali vivono in continuo pericolo.
Nella zona sono presenti due scuole: una secondaria, che è già stata costruita e una scuola primaria, la cui costruzione è in fase di completamento. Il KKL era già stato coinvolto nello sviluppo dell'area verde circostante la scuola secondaria, ora parteciperà a un progetto speciale nella scuola primaria.
"Non è semplice far fronte per anni al problema della sicurezza e, allo stesso tempo, crescere sereni - ci ha spiegato Alon Schuster, Capo del Consiglio Regionale di Sha'ar HaNegev - L'istruzione deve essere garantita fisicamente e qualitativamente, in modo che le persone che vengono qui per vivere e per crescere i propri figli sappiano di aver fatto la scelta giusta. In presenza di edifici scolastici così massicci in cui il cemento armato rappresenta un elemento fondamentale in fase di progettazione - ha rassicurato Alon - dobbiamo garantire uno spazio esterno completamente sicuro, ma anche bello e accogliente".

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La responsabile KKL della Regione Meridionale Nili Stern-Biber è l'architetto che si sta occupando della progettazione: "Il lavoro comprende la predisposizione e la realizzazione degli spazi esterni". Ci ha mostrato come il progetto prenderà forma: "Nuovi cortili, viali pavimentati e aule protette esterne. Una vegetazione più fitta renderà la scuola più bella e accogliente, ma soprattutto garantirà massima protezione".
Attraverso un piano strategico particolare il KKL, da molti anni, ha studiato e messo in pratica un "elemento difensivo supplementare" per la sicurezza dei civili. L'uso di alberi a scopo difensivo, dona un naturale soccorso per la sicurezza di chi vive da anni sotto i missili. Gli alberi diventano barriere difensive naturali che impediscono l'identificazione di obiettivi mobili. Inoltre trattengono la maggior parte dei detriti che piovono dal cielo. Più alberi verranno piantati nei cortili delle scuole, delle case e nei giardini e meno danni avranno costruzioni e soprattutto i residenti. Noi del KKL facciamo il possibile e la natura ci aiuta a difende i civili!
Uri Malul, il Direttore del Dipartimento per l'Istruzione di Sha'ar HaNegev ci ha rassicurati: "Grazie all'aiuto del progetto KKL la nostra scuola godrà di un ambiente verde e protetto che consentirà ai bambini di socializzare e vedere la scuola come una casa. Donerà in sicurezza, nuove opportunità di crescita per la vita delle generazioni future".

(Karnenu, Rivista del KKL Italia, dicembre 2018)



Ostracizzata dalla famiglia la candidata musulmana alle primarie del Likud

Dima Tayeh: "Non esiste nessun altro paese in Medio Oriente che rispetti i cittadini e la democrazia come Israele"

Una cittadina israeliana, araba e musulmana, candidata alle primarie del partito Likud è stata condannata mercoledì dai suoi famigliari che l'accusano d'aver tradito il proprio popolo e affermano che romperanno tutti i rapporti con lei finché non ritratterà le sue posizioni.
   Dima Tayeh, originaria del villaggio di Kafr Manda, in Galilea, ha fatto notizia martedì scorso quando ha rilasciato un'intervista al notiziario di Hadashot TV nella quale ha annunciato la propria candidatura alle primarie del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu, e ha preso le difese della controversa legge sullo stato nazionale del popolo ebraico, varata lo scorso luglio e accusata da varie parti d'essere discriminatoria nei confronti della minoranza araba d'Israele. Il giorno successivo, la sua famiglia ha diffuso una dichiarazione in cui "condanna" Dima Tayeh mettendo bene in chiaro che le sue opinioni non sono condivise dai suoi famigliari. "A causa delle sue dichiarazioni - scrivono i famigliari - noi non avremo più contatti con lei né le forniremo alcuna assistenza finché non ritratterà le sue parole e non proclamerà la sua fedeltà nei confronti del suo popolo e della sua fede"....

(israele.net, 11 gennaio 2019)


Annullata la visita del leader di Hamas a Mosca dopo pressioni di Israele e Anp

GERUSALEMME - È stata annullata la visita a Mosca del leader del movimento islamista palestinese Hamas, Ismail Haniyeh, in programma nei prossimi giorni. Lo riferisce l'agenzia di stampa russa "Interfax" citando fondi diplomatiche palestinesi. Haniyeh avrebbe dovuto incontrare il 15 dicembre scorso il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, ma negli ultimi giorni sia Israele che l'Autorità nazionale palestinese (Anp) avevano esercitato pressioni sulla diplomazia di Mosca perché la visita fosse annullata. Si tratta di uno sviluppo legato alla disputa palestinese sulla gestione del valico di Rafah, al confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto. In settimana, infatti, l'Anp ha annunciato il ritiro del proprio personale dal valico a seguito di una nuova diatriba con Hamas, che controlla la Striscia di Gaza da oltre un decennio. L'Egitto ha successivamente deciso di chiudere il valico in entrata e dovrà stabilire se permettere al movimento islamista di gestire il versante palestinese del punto di frontiera. A questo proposito, una delegazione dell'intelligence egiziana è giunta proprio oggi nella Striscia di Gaza per incontrare esponenti di Hamas. Lo riferiscono i media locali. La delegazione egiziana è formata dal vice capo dei servizi di intelligence, Ayman Badia, e dal responsabile del dossier palestinese, Ahmad Abdelkhaliq, i quali hanno incontrato Haniyeh.

(Agenzia Nova, 10 gennaio 2019)


Un ebreo sta facendo rivivere più di 60 violini di vittime dell'Olocausto

di Francesca Giani

 Weinstein e i suoi violini
Amnon Weinstein
Le persone che sanno suonare molto bene parlano attraverso il loro violino e possono raccontarvi tutta la storia del mondo». I "violini della speranza" di Amnon Weinstein raccontano la storia dei detenuti ebrei che li hanno suonati nei campi di concentramento durante l'Olocausto. Il liutaio israeliano da decenni dedica la propria vita a riparare gli strumenti dei musicisti ebrei vissuti nei lager. Alcuni di loro erano costretti a suonare davanti alle porte dei forni crematori, accompagnando l'entrata delle file di condannati a morte. Oggi quegli stessi violini tornano in scena nei più importanti teatri mondiali.

 Un episodio che cambiò la sua vita
  A Tel Aviv, Amnon Weinstein faceva il lavoro del padre, il liutaio, quando negli anni ottanta un uomo che suonava il violino ad Auschwitz gli portò il suo strumento. Non lo aveva più toccato da quando aveva lasciato il campo di sterminio, ma ora voleva farlo sistemare per regalarlo al nipote. Quando Amnon lo aprì vi trovò della cenere: quella dei forni crematori davanti a cui il musicista era costretto ad esibirsi. L'episodio segnò la nascita del progetto Violins of hope, a cui Weinstein dedica tuttora la vita, aiutato dal figlio Avshalom. Egli non solo ristruttura i violini - ad oggi ne ha reperiti circa 60 - ma ne raccoglie le storie, convinto che la musica sia un modo di farne memoria. L'intento non è tuttavia solo quello di tramandare le nefandezze della Shoah: «L'olocausto è una storia di morte, ma è anche una storia di speranza, perché molte persone sono sopravvissute e la musica è stata parte di tutto ciò. Quando conosci le vicende dei violini, ti accorgi di come portino con sé quella stessa speranza».

 L'accoglienza di Weinstein in Germania
  Nel novembre 2017 la Germania ha conferito ad Amnon Weinstein la Bundesverdienstkreuz. Si tratta del riconoscimento al merito della repubblica federale tedesca, assegnato per alti risultati ottenuti in ambito politico, economico, culturale o spirituale. Uno dei meriti di Amnon Weinstein e di suo figlio Avshalom è sicuramente quello di emozionare migliaia di persone durante i tanti concerti che si svolgono in tutto il mondo. Uno di questi si è tenuto di recente a Dresda. «Penso ancora a coloro che tenevano quel violino nelle loro mani e alle circostanze in cui dovevano suonare» dice uno dei musicisti della Dresdner Philharmonie.

(Berlino Magazine, 10 gennaio 2019)


Belgio, ebrei e musulmani delusi dai divieti ai cibi kosher e halal

Sia le norme musulmane che quelle ebraiche relative richiedono che gli animali siano perfettamente sani al momento della macellazione e devono essere uccisi con un solo taglio al collo. Nelle Fiandre si richiede che gli animali siano resi insensibili al dolore prima della macellazione.

di Matteo Orlando

In Belgio i 30 mila ebrei e 500 mila musulmani residenti potrebbero incontrare difficoltà nel trovare cibo preparato secondo le loro regole religiose.
   Dallo scorso primo gennaio i nuovi regolamenti sull'abbattimento degli animali vietano la preparazione kosher o la macellazione halal e questo sta creando preoccupazione nel paese nord europeo, dove crescono le paure per possibili attacchi alle libertà religiosa.
Sia le norme musulmane che quelle ebraiche richiedono che gli animali siano perfettamente sani al momento della macellazione e devono essere uccisi con un solo taglio al collo. Le regole dell'Unione europea, invece, richiedono che gli animali siano resi insensibili al dolore prima della macellazione (attraverso tecniche che prevedono l'utilizzo di gas, scosse elettriche o dispositivi "captive bolt" che provocano lo stordimento degli animali prima della macellazione). Secondo le autorità religiose islamiche ed ebraiche alcune delle misure adottate, come la stordimento di un animale, violano le loro esigenze di macellazione religiosa e ritengono inoltre che la macellazione kosher e halal, che fa perdere coscienza agli animali in pochi secondi, li faccia soffrire ancora meno.
   Joos Roets, un avvocato che rappresenta un gruppo di istituzioni islamiche, ha detto al New York Times che il governo avrebbe potuto adottare altre misure per proteggere gli animali "senza violare la libertà di religione belga". Una sostenitrice dei diritti degli animali, Ann De Greef, direttrice della Global Action Belgium, ha affermato che lo stordimento non è in conflitto con le regole religiose: "Vogliono continuare a vivere nel Medioevo e continuare a massacrare senza stordire - perché la tecnica non esisteva ancora allora - senza dover rispondere alla legge", ha detto la De Greef. "In Belgio la legge è al di sopra della religione e rimarrà così".
   La legge attualmente si applica alle Fiandre. Una legge simile dovrebbe entrare in vigore in Vallonia dal primo settembre 2019. Il divieto è stato proposto da Ben Weyts, un nazionalista fiammingo di destra che supervisiona il benessere degli animali come ministro nel governo delle Fiandre e che ha espresso la sua soddisfazione su Twitter. Diversi leader di destra di alcuni paesi europei si sono opposti, preoccupati anche della crescente popolazione musulmana, alle pratiche del "massacro religioso". La maggior parte dei paesi della UE, però, hanno deroghe religiose all'obbligo di stordire gli animali. Le regole belghe no. Il Belgio si uniforma così a Svezia, Norvegia, Islanda, Danimarca e Slovenia, nazioni che non prevedono alcuna eccezione. Da qualche giorno, quindi, nel paese di re Filippo chi aderisce alle regole sulla macellazione si vedrà costretto ad ordinare carne proveniente da altri paesi, affrontando i relativi costi superiori per l'import.
   Anversa ha una delle più grandi comunità ebraiche ultra-ortodosse in Europa, con molte comunità chassidiche e un'abbondanza di ristoranti kosher. Yaakov David Schmahl, un rabbino di Anversa, al NYT ha espresso i suoi timori. Secondo il religioso le regole del Belgio nascondono il bigottismo antireligioso sotto la protezione degli animali. Ha espresso preoccupazione anche per una nuova legge belga che disciplina l'homeschooling, una pratica comune per la sua comunità ebraica.
Menachem Margolin, presidente dell'Associazione ebraica europea, ha affermato che la legge "costituisce un cattivo esempio per gli altri paesi". "Ciò mette un'ombra sulla nostra comunità e sulle leggi ebraiche, poiché sta essenzialmente dicendo che non ci si può fidare delle nostre pratiche e che per il benessere degli animali abbiamo bisogno della supervisione del governo", ha detto al notiziario israeliano i24. "Questo è un terribile precedente a livello internazionale".
   Adesso si teme l'acuirsi dello scontro che vede da un lato i difensori dei diritti degli animali e i nazionalisti di destra che spingono per vietare il massacro rituale, dall'altro le minoranze religiose che temono di essere il bersaglio del fanatismo antireligioso attraverso il pretesto della protezione degli animali e confidano che la Corte costituzionale del Belgio possa ancora revocare la norma.

(il Giornale, 10 gennaio 2019)


Torino - Israele e le opportunità per l'imprenditoria locale

 
Il mondo dell'imprenditoria piemontese guarda con molto interesse alle possibilità che offre Israele nei diversi settori, dall'innovazione al turismo. Lo dimostra l'ampia partecipazione all'incontro "Invest in Israel" organizzato al NH Collection di Torino che ha visto confrontarsi i rappresentanti di diverse aziende del territorio con l'ambasciatore d'Israele Ofer Sachs e il ministro consigliere per gli affari economici e investimenti del Ministero dell'Economia e dell'Industria di Israele Jonathan Hadar. Durante l'incontro - promosso da Caremote e Leading Law - sono state presentate le tante opportunità che il sistema israeliano offre a chi vuole investire nel Paese e allo stesso tempo sono state raccontate alcune iniziative imprenditoriali, come il bioparco Zoom Torino, interessate a costruire progetti e collaborazioni in Israele. "Come dice il Rapporto Giorgio Rota su Torino, la nostra realtà deve superare il problema del localismo, guardare oltre confine. E Israele rappresenta una possibilità interessante per superare i nostri limiti", ha sottolineato in apertura il notaio Andrea Ganelli, promotore dell'appuntamento - moderato dal direttore de La Stampa Maurizio Molinari - ideato e curato dalla docente dell'Università di Torino Sarah Kaminski e da Tiziana Allegra di Caremote. Quest'ultima realtà, in collaborazione con Trade Israel, è impegnata a portare delegazioni provenienti da diversi mondi - all'high tech a quello della sanità - in Israele per generare delle occasioni di investimento, nuove collaborazioni e costruire momenti di confronto tecnico commerciale.
   Le tante domande poste all'ambasciatore Sachs e al ministro consigliere Hadar dagli imprenditori presenti all'incontro torinese sono la dimostrazione di un interesse vivo per Israele che tocca settori diversi: dall'automotive all'industria alimentare fino all'energia rinnovabile. La citata Zoom Torino, ad esempio, ha presentato un progetto per realizzare un bioparco marino in Israele con l'obiettivo di creare un'attrazione turistica e al contempo un centro per la tutela della fauna acquatica. Sul fronte turistico era presente un rappresentane della guida Lonley Planet mentre la realtà torinese Showbyte ha raccontato la sua iniziativa per unire i paesi del Mediterraneo attraverso un'iniziativa in barca a vela. Tante proposte insomma che raccolgono l'idea di superare il localismo e guardare all'economia israeliana come un'opportunità per dare futuro al territorio. A concludere l'incontro, un aperitivo e una cena dai sapori delle varie anime d'Israele.

(moked, 10 gennaio 2019)


Gaza: Hamas, domani 'punto di svolta' per la distensione

Alla vigilia di un nuovo venerdì di manifestazioni un portavoce di Hamas, Mushir al-Masri, ha avvertito che la giornata di domani potrebbe rivelarsi "un punto di svolta" per la relativa distensione sul confine della Striscia di Gaza.
Se Israele non manterrà fede alle intese sulla distensione, ha detto oggi al-Masri, "Hamas disporrà di varie opzioni, compreso il ricorso al logoramento di Israele". Il riferimento è al mancato ingresso nei giorni scorsi di 15 milioni di dollari del Qatar destinati alla popolazione di Gaza, dovuto all'opposizione espressa dalle autorità di sicurezza israeliane.
La decisione di rinviare di alcuni giorni l'ingresso a Gaza dei fondi del Qatar è stata presa in Israele in seguito al lancio da Gaza di un razzo verso la vicina città israeliana di Ashqelon.
Nel frattempo Hamas si vede impegnato in un duro confronto anche con l'Anp di Abu Mazen, che ha rimosso il proprio personale dal valico di Rafah in seguito a retate a Gaza di esponenti di al-Fatah. Da due giorni il valico (unico punto di transito per l'estero per gli abitanti della Striscia) funziona a senso unico: solo gli ingressi sono consentiti.

(tvsvizzera, 10 gennaio 2019)


Donna araba musulmana correrà per il Likud di Netanyahu

Si chiama Dima Tayeh e vive villaggio di Kafr Manda, in Galilea, la prima donna araba musulmana a correre per il Likud, il partito del Premier Benjamin Netanyahu.
Nel caso venisse eletta sarebbe la prima donna araba musulmana ad entrare in Parlamento con il Likud.
"Sono orgogliosa di questa scelta"
«Sono orgogliosa di questa scelta» ha detto Dima Tayeh in una intervista al canale israeliano I24News. «E' tempo che le minoranze arabe inizino ad ascoltare le buone voci su Israele» ha poi aggiunto prima di raccontare che a causa della sua scelta è stata isolata dalla famiglia.
Dima Tayeh, tra le altre cose, ha partecipato attivamente a una campagna contro il Movimento BDS.
La giovane donna arabo-israeliana ha ricevuto diverse minacce di morte ma è decisa ad andare avanti convinta com'è che molti arabo-israeliani la seguiranno e la voteranno.

(The World News, 10 gennaio 2019)


I racconti e i canti della Shoah nel segno delle donne deportate

Roma, presentate le iniziative per la Giornata della Memoria. La corsa a Torino.

di Paolo Conti

«Ci preoccupano i ritorni di fenomeni di antisemitismo e razzismo in Italia e in Europa. È responsabilità delle istituzioni comprendere e non sottovalutare». Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche italiane, lancia un preciso allarme presentando a palazzo Chigi (col sottosegretario Giancarlo Giorgetti) le manifestazioni per il Giorno della Memoria 2019 messe a punto dal Comitato di coordinamento per le Celebrazioni in ricordo della Shoah attivo alla presidenza del Consiglio dopo la legge istitutiva del 2000.
   Noemi Di Segni chiede «una risposta chiara e ferma» e soprattutto ricorda come il nodo della Memoria non sia, non possa essere, questione che riguardi solo il mondo ebraico: «Siamo qui per affermare un tema identitario, italiano ed europeo, soprattutto rivolto ai giovani, perché siano consapevoli di essere discendenti di generazioni che hanno vissuto e visto la Shoah». E per lo stesso motivo la presidente ricorda un tema solo in apparenza storiografico ma che riguarda invece la percezione degli italiani del 2019 di quel capitolo di storia contemporanea: «La narrativa della Shoah non può essere confinata alle responsabilità del solo nazismo, ma anche del fascismo. Bisogna saper spiegare, soprattutto alle nuove generazioni, come si arrivò in Italia all'approvazione delle leggi razziali nel 1938, alla deportazione degli ebrei italiani. Un clima che non ha riguardato solo il periodo fascista, ma il dopoguerra: penso alla questione della reintegrazione degli ebrei nella società, nei posti di lavoro e alla restituzione dei loro beni».
   La Giornata della Memoria 2019 (calendario completo su ucei.it) è legata alla figura della donna, ha spiegato Di Segni: «Il tema scelto che lega i vari eventi e che porteremo avanti tutto l'anno è la Shoah narrata dalle donne, sia come vittime ma anche, purtroppo, come carnefici. Il primo evento sarà il concerto all'Auditorium Parco della Musica di Roma, con brani scritti dalle donne nei vari campi di concentramento non solo nazisti, ma anche in altri campi come quelli in Giappone. Non per equiparare due tragedie, ma per mettere al centro le sofferenze della donna». L'appuntamento è per lunedì 16 gennaio, la manifestazione si intitola «Libero è il mio canto, musiche di donne deportate» e farà riscoprire un gruppo di compositrici grazie all'impegno del curatore del concerto, Francesco Lotoro, che da 30 anni raccoglie in tutto il mondo musiche scritte da deportati e prigionieri della Seconda guerra mondiale. Di Segni ha anche lanciato l'hashtag #weremember per farne il riferimento più diffuso nella Giornata della Memoria. L'ormai tradizionale Corsa per la Memoria/Run for Mem quest'anno si terrà a Torino, in piazza san Carlo, dalle 10.30 in poi: tra i testimonial Luciana Littizzetto, Luca Argentero, il podista campione olimpionico Shaul Ladany. Sempre il 27 gennaio, a Milano, al Conservatorio Giuseppe Verdi, serata in ricordo di Primo Levi per il centenario della nascita che cade nel 2019. Altro centenario importante per la cultura ebraica, nel 2019, quello della nascita di Tullia Zevi, a lungo presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche e straordinaria figura dell'ebraismo italiano del dopoguerra.

(Corriere della Sera, 10 gennaio 2019)


Dunque anche per l’UCEI la memoria della Shoah diventa un'occasione per ricordare qualche altra sofferenza: dopo la sofferenza dei palestinesi adesso arriva la sofferenza delle donne. Sempre di più, dal particolare all’universale, dallo storico al metafisico. La giornata della memoria della Shoah si sta ormai inesorabilmente trasformando nella giornata della banalizzazione della Shoah. L'efficacia di questo multiforme memoriale si può riconoscere anche dall'articolo che segue. M.C.


Se l'odio razzista diventa «normale» dentro e fuori gli stadi

Non abbiamo a che fare con delle ragazzate: a questa deriva va posto un argine. Perché anche la barbarie non diventi banalità quotidiana

Ormai sta diventando normale. Tragicamente normale. Ordinaria amministrazione. Odio antisemita quotidiano. Insulti razzisti in razione giornaliera. Dentro gli stadi, fuori degli stadi. Persino durante le feste. Sui muri delle città. Come è capitato ieri a Roma, dove energumeni della curva (presumibilmente, ma che conta? È uguale per tutti) giallorossa hanno voluto oltraggiare le tifoserie nemiche con un volantino con su scritto: «Lazio, Napoli, Israele, stessi colori, stesse bandiere: merde». Dove l'inserimento bianco e azzurro, del tutto fuori contesto calcistico, della bandiera di Israele nell'insulto collettivo sembra rafforzare l'offesa ai napoletani e ai laziali; siete come gli ebrei. La stessa logica, chiamiamola così, che ispirò il gesto dei tifosi laziali quando lasciarono con intenti di derisione immagini di Anna Frank nella curva giallorossa. Come offendiamo i romanisti? Paragonandoli agli ebrei, come se il riferimento a una ragazza inghiottita nell'inferno della Shoah fosse il massimo dell'insulto. Come offendiamo laziali e napoletani? Paragonandolo agli ebrei, il massimo dell'insulto secondo loro, il colmo dell'abiezione, sempre secondo loro. Idiozia quotidiana. Demenza ordinaria. Antisemitismo e odio antiebraico di tutti i giorni. Antisemitismo normalizzato.
   La normalizzazione del razzismo è la cosa peggiore, contro la normalizzazione del razzismo c'è da combattere l'unica battaglia che va combattuta. Non è questione di ordine pubblico. Se in un'allegra festa per l'anniversario della nascita della Lazio un gruppo di teppisti si allontana dalla compagnia festosa per aggredire i poliziotti e ferirne dieci, c'è qualcosa di malato in questa follia quotidiana. Se ad ogni trasferta del Napoli si intonano inni al Vesuvio per «lavare con il fuoco» i napoletani, c'è qualcosa di troppo normalizzato in questa perversione. Se il giocatore di colore della squadra avversaria viene aggredito con i «buuu» e addirittura fatto bersaglio di lancio di banane, allora la questione travalica i confini dell'ordine pubblico, dei Daspo, della sicurezza degli stadi. La stragrande maggioranza delle urla becere antisemite avviene fuori degli stadi. I «nemici» vengono assassinati fuori degli stadi, come a Milano. I poliziotti vengono aggrediti fuori degli stadi, come è avvenuto a Roma, e sempre più spesso con la collaborazione degli ultras delle fazioni opposte, unite dall'odio per le forze dell'ordine, odiate guardiane del «sistema». Nessun provvedimento per il mantenimento dell'ordine pubblico, ovviamente doveroso e necessario in sé, può però contrastare da solo questa orribile banalizzazione dell'antisemitismo, questo odio per l'ebreo ridotto a una «merda» da oltraggiare insieme agli odiati avversari calcistici.
   Come se fosse normale, scontato, accettabile. Come se fosse una ragazzata un po' spinta. No, la mascalzonata antisemita non è banale, l'insulto razzista non è normale. A questa deriva va posto un argine. Perché anche la barbarie non diventi banalità quotidiana.

(Corriere della Sera, 10 gennaio 2019)


Nelle Fiandre una nuova legge regionale vieta la macellazione halal e kosher della carne

È passata col sostegno del principale partito nazionalista di destra e degli animalisti, ma le minoranze religiose non sono contente

 
L'1 gennaio, nella regione delle Fiandre, in Belgio, è entrata in vigore una legge che di fatto impedisce la macellazione rituale prevista dalla religione islamica e da quella ebraica. Il divieto era stato approvato nel 2017: era stato proposto dal partito nazionalista di destra Nuova Alleanza Fiamminga (NVA) e sostenuto anche dagli attivisti dei diritti degli animali. La nuova legge obbliga tutti i processi di macellazione ad essere preceduti da uno "stordimento" dell'animale: cosa che invece non è prevista nella macellazione rituale islamica ed ebraica, secondo cui l'animale dev'essere ucciso quando è ancora cosciente. Anche le leggi europee prevedono che gli animali da macello vadano prima storditi, ma a differenza della nuova misura belga accettano deroghe per motivi religiosi.
   Negli ultimi anni i politici di destra hanno usato la questione della macellazione rituale come scusa per attaccare le comunità musulmane in tutta Europa. Il Belgio ha una popolazione di 11 milioni di persone, di cui circa 50 mila sono musulmani e 30 mila ebrei: secondo i rappresentanti delle due minoranze religiose, la nuova legge è una forma di discriminazione nei loro confronti mascherata con intenti animalisti.
   Le leggi europee prevedono lo "stordimento" per evitare agli animali sofferenze inutili e per rendere l'intero processo più accettabile per il consumatore. I metodi per lo stordimento sono tre e dipendono dalla dimensione dell'animale: bovini ed equini vengono storditi con una pistola a proiettile captivo, che li colpisce sul cranio con un chiodo metallico lungo alcuni centimetri; per i suini e il pollame di solito viene usato l'elettroshock, mentre altri animali vengono storditi con il gas. La macellazione può avvenire soltanto in mattatoi autorizzati.
   Secondo la religione ebraica e quella musulmana, invece, l'animale deve essere in perfetta salute e senza nessun difetto. L'uccisione avviene con un unico taglio netto del collo: solo in questo modo la carne può essere considerata kosher (per gli ebrei) o halal(per i musulmani). I due termini significano "cibo lecito", adatto alla consumazione, ed indicano il cibo preparato secondo i dettami religiosi di Ebraismo e Islam. Le autorità religiose sostengono che lo stordimento contravvenga ai precetti della religione, perché l'animale non è in perfetta salute al momento dell'uccisione, ma di fatto è permesso in alcuni paesi a maggioranza musulmana come la Malesia.
   Gli ebrei e i musulmani delle Fiandre potranno comunque importare carne kosher e halal dagli altri paesi europei in cui la macellazione rituale è ancora permessa grazie ad una deroga alle leggi europee, già applicata in Francia, Germania, Regno Unito e Italia. Al momento solo Svezia, Danimarca, Finlandia, Lituania e Slovenia hanno posto un divieto totale sulla macellazione rituale (anche in Norvegia, Svizzera e Islanda la macellazione rituale è vietata), mentre in Austria la regolamentazione è così severa che rende difficile macellare la carne seguendo i precetti ebraici o islamici.
   Per i membri delle comunità ebraiche belghe il divieto della macellazione rituale è un chiaro segnale: «Tecnicamente la differenza è minima» ha detto ad Haaretz Nechemiah Schuldiner, leader della comunità di ebrei ortodossi Shomre Hadas di Anversa, la capitale delle Fiandre, «il problema è il messaggio che [questo divieto] manda. È come se dicesse agli ebrei: "non vi vogliamo qui"». Schuldiner sostiene che la nuova legge sia il «preludio ad altri divieti contro i rituali religiosi ebraici», come la circoncisione dei bambini maschi. Attualmente in nessun paese europeo esiste un divieto che riguardi la circoncisione rituale.
   Anche la comunità musulmana non è contenta del divieto. Al New York Times uno dei leader della comunità islamica Saatci Bayram ha detto che il governo aveva chiesto un parere sulla nuova legge, che però non è stato preso in considerazione: «Il divieto è stato presentato dagli animalisti come una rivelazione, ma nell'Islam sono 1500 anni che va avanti il dibattito sul benessere degli animali. La nostra macellazione rituale è indolore». Joos Roets, un avvocato che rappresenta diverse organizzazioni islamiche, sempre intervistato dal New York Times, ha detto che il divieto è stato fatto per discriminare le comunità musulmane, piuttosto che proteggere il benessere degli animali.
   La questione della macellazione rituale è al centro di molte discussioni in tutta Europa: ad agosto il ministro dell'Interno Matteo Salvini aveva pubblicato un tweet contro la macellazione rituale per l'Eid al-Fitr, la festività musulmana che segna la fine del mese di digiuno del Ramadan. Nel 2011 una legge simile era stata proposta nei Paesi Bassi, ma, dopo essere passata alla Camera grazie al sostegno del Partito per la Libertà di Geert Wilders, di destra radicale, non era stata approvata dal Senato. In Polonia il divieto era stato pensato come modo per arginare l'arrivo di migranti da paesi musulmani, ma la legge era stata annullata da una sentenza della Corte Suprema nel 2014.
   Per il momento il divieto è entrato in vigore soltanto nelle Fiandre, una delle tre regioni che compongono lo stato federale del Belgio. Il 31 agosto anche in Vallonia dovrebbe entrare in vigore un provvedimento simile, approvato già nel giugno del 2017. A Bruxelles, la terza regione del Belgio che comprende tutto il territorio della capitale, non è stato emesso alcun divieto.

(Sindacato Italiano Veterinari Medicina Pubblica, 10 gennaio 2019)



Israele, membri delle istituzioni accusati di essere "spie iraniane

Il primo rappresentante delle istituzioni israeliane indagato con l'accusa di "spionaggio per conto di Teheran" è un membro della Knesset di lungo corso: Gonen Segev

di Gerry Freda

Gonen Segev
In Israele è in questi giorni esploso uno scandalo relativo al presunto "spionaggio" condotto "per conto dell'Iran" da diversi "rappresentanti delle istituzioni nazionali".
I servizi segreti dello Stato ebraico hanno infatti annunciato che, all'interno della Knesset e tra gli esponenti dei governi del passato, vi sarebbero "agenti sotto copertura stipendiati da Teheran".
   Lo Shin Bet, agenzia israeliana di intelligence per la sicurezza interna, ha di recente fornito alla magistratura dello Stato ebraico diversi "indizi" del coinvolgimento di "importanti personalità pubbliche" in operazioni di spionaggio ordinate dalla repubblica islamica. Il primo rappresentante delle istituzioni di Gerusalemme indagato sulla base delle ricerche effettuate dal servizio di sicurezza è un membro della Knesset di lungo corso: Gonen Segev.
   Costui, politico navigato e più volte ministro dell'Energia e delle Infrastrutture, è stato infatti ultimamente arrestato dalle autorità dello Stato ebraico con l'accusa di "alto tradimento" e "collusione con il nemico". In base alle indagini svolte dallo Shin Bet, i primi contatti tra Segev e l'intelligence della repubblica islamica avrebbero avuto luogo "nell'estate del 2018". I servizi segreti del Paese sciita avrebbero allora incaricato l'ex ministro di trasmettere all'esecutivo di Teheran informazioni sulla "rete energetica israeliana". Il fatto che il più volte membro della Knesset sia in realtà un "agente segreto della repubblica islamica" sarebbe dimostrato principalmente, a detta del dossier redatto dallo Shin Bet, dalle parole pronunciate pubblicamente lo scorso agosto da Mahmoud Alavi, ministro iraniano dell'Intelligence. Questi, in tale mese, aveva infatti trionfalmente annunciato che l'esecutivo Rouhani aveva "arruolato" un "ex alto funzionario di una nazione nemica".
   Segev, già in passato incriminato dalla giustizia dello Stato ebraico per "traffico di stupefacenti", ha reagito al suo recente arresto, disposto sulla base delle ricostruzioni dello Shin Bet, invocando il "patteggiamento". Secondo quanto riferito alla stampa dal ministro della Giustizia di Gerusalemme, l'imputato avrebbe ammesso di avere avuto negli ultimi mesi "contatti con funzionari di Teheran" e di avere passato a questi ultimi "informazioni riservate" attinenti alla "sicurezza energetica" di Israele. Ayelet Shaked, titolare del dicastero in questione, ha quindi precisato che a Segev, in virtù della sua scelta di patteggiare, verrà inflitta una pena "ridotta": appena "11 anni di carcere". L'esponente dell'esecutivo Netanyahu ha quindi assicurato che "nuove indagini" verranno condotte sulla base del dossier realizzato dallo Shin Bet, al fine di "ripulire al più presto" le istituzioni dello Stato ebraico da politici e funzionari "collusi con la repubblica islamica".

(il Giornale, 10 gennaio 2019)


Perché la destra ama Israele e la sinistra lo odia?

Gli schieramenti ideologici pro e contro lo Stato ebraico non hanno mai aiutato a comprendere la complessità del Medio Oriente. Ma forse qualcosa sta cambiando.

di Ugo Volli

Spesso, nella polemica della sinistra contro Israele emerge un tema insidioso, che va discusso. E' vero, ammettono questi critici, negli ultimi anni Israele ha molto migliorato i propri rapporti internazionali bilaterali. Lo stato ebraico ha ottimi rapporti economici con i giganti asiatici India e Cina, e ha migliorato molto anche le relazioni politiche; è appoggiato fortemente dall'America di Trump e dal governo australiano. In Brasile è stato eletto un presidente che proclama il proprio appoggio e che ha promesso di trasferire l'ambasciata a Gerusalemme come gli Usa. Altri stanno seguendo. In generale le relazioni con i paesi sudamericani e africani sono diventate positive. Vi è soprattutto accordo con i più importanti stati sunniti (Egitto, Arabia, Stati del Golfo) tanto che vi sono state pubbliche conferme come il viaggio di Netanyahu in Oman. Con la Russia sono emerse di recente alcune difficoltà, ma comunque la relazione è molto meno ostile che in passato. Anche con la Turchia i rapporti sono controversi, ma ci sono interessi economici e c'è un canale di comunicazione attivo. Restano nemici l'Iran e i suoi satelliti in Iraq, Siria, Libano, le varie organizzazioni palestiniste ... e in modo diverso l'Unione Europea e i suoi stati governati dalla sinistra. Non vi è mai stata nella storia una situazione diplomatica più favorevole allo Stato ebraico. Questo i critici lo devono ammettere, perché è un fatto. Ma dicono: chi appoggia Israele sono stati e governi dittatoriali. Che in Europa lo facciano l'Austria e l'Ungheria e la Polonia, non la Francia o la Germania; che si proclamino amici di Israele leader di destra come Trump e Bolsonaro, o Modi in India, sembra loro uno scandalo. Che i politici più vicini a Israele siano anche in Italia nel centrodestra (Berlusconi e Salvini), non andrebbe visto come un merito di questi leader ma come una vergogna per Israele, che rivelerebbe la natura "fascista" del suo governo. Il ragionamento non regge. E' vero, purtroppo, che sempre più l'appoggio a Israele è una caratteristica dei governi e dei politici di destra. Ma questo pone una domanda che andrebbe posta piuttosto ai politici e ai governi di sinistra: perché appoggiano i terroristi di Hamas e Fatah e non Israele? Perché si sentono più dalla parte degli Hezbollah, proclamati terroristi anche dall'Unione Europea? Perché soprattutto stanno dalla parte dei barbari governanti dell'Iran, che detengono il record mondiale delle esecuzioni capitali, uccidono i gay, opprimono le donne e le minoranze religiose come i ba'hai, conducono guerre imperialiste, organizzano attentati in tutto il mondo e anche in Europa, cercando con ostinazione di dotarsi di armamenti atomici e missilistici? Perché con loro invece che con Israele, che è una democrazia pluralista vera? E' colpa della sinistra, anche di quella democratica, aver abbandonato Israele in nome di un terzomondismo ideologico e anche un po' razzista.
   Ma comunque c'è una risposta anche per Israele. E' vero, Israele ha rapporti diplomatici ed economici costruttivi con molti Stati che non sono democratici. Come li hanno tutti: basta pensare ai rapporti diplomatici con la Cina e col suo grande mercato, che nessuno si sogna di abbandonare solo perché nel grande paese asiatico non c'è traccia di democrazia. Israele non ha certamente la forza per proporsi un programma "esportazione della democrazia", come fece con scarso successo l'America di Clinton e di Bush e come ogni tanto, ma in maniera assolutamente capricciosa (o piuttosto seguendo riflessi imperialisti ed ideologici) prova a fare l'Unione Europea con i paesi che ritiene di voler e poter influenzare.
   Al contrario Israele è un piccolissimo stato, che è da sempre oggetto di aggressione politica economica e militare da parte di paesi immensamente più vasti e popolosi. E da sempre cerca l'appoggio di chi ci sta, anche se il suo regime non gli piace Durante la guerra di indipendenza, boicottato dalla Gran Bretagna e godendo di un appoggio americano molto parziale (perché il Dipartimento di Stato era contrario allo Stato ebraico), Israele comprò le armi che gli permisero di non farsi schiacciare, dalla Cecoslovacchia proprio nel momento in cui entrava nell'orbita sovietica. Negli anni successivi Ben Gurion accettò l'alleanza dell'Iran oppresso dallo Scià, della Turchia sotto il tallone dei generali, affrontò una dura battaglia interna per avere rapporti diplomatici (ed economici, inclusi i rifornimenti militari) della Repubblica Federale Tedesca, che pure allora non aveva rotto la sua continuità statale col nazismo. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.
   C'è un'altra considerazione da fare. Se delle forze politiche di destra cercano l'amicizia di Israele per mostrare un cambiamento e una lontananza dai fascismi, questo è un fenomeno positivo. Intanto perché la politica è fatta di atti pubblici, che determinano conseguenze, di schieramenti, di scelte che poi segnano i soggetti che li fanno. Basta pensare, nel nostro paese, alle conseguenze della visita di Fini in Israele, quindici anni fa, che non cancellò certo le colpe del fascismo ma ridusse moltissimo gli spazi della possibile complicità dell'antisemitismo. Infine c'è un altro discorso da fare. Vi è una strategia di delegittimazione degli avversari politici che la sinistra persegue sistematicamente con tutti, che qualcuno ha chiamato ironicamente "reductio ad hitlerum": era fascista per loro Berlusconi, lo è Salvini, non parliamo di Trump, che continuano a definire antisemita nonostante la figlia convertita all'ebraismo e osservante e tutti gli atti che ha fatto per Israele e gli ebrei. E poi Orban, Bolsonaro, Kurz, i governanti polacchi, Wilders, tutti coloro che non seguono la loro linea politica. E' una tattica che in realtà funziona poco e che ha anche il difetto di banalizzare la Shoà: perché se davvero, poniamo, si accetta l'idea che l'Ungheria attuale è come la Germania nazista. in fondo bisognerebbe credere che sotto il dominio di Hitler non sia successo niente di tanto drammatico, qualche legge contro gli emigranti o le fondazioni straniere. Che poi questi politici appoggino fattivamente Israele e che Israele li tratti di conseguenza, rende vuote queste polemiche. Salvo stabilire che la colpa è tutta di Netanyahu, anche lui ridotto da certi estremisti di sinistra "ad Hìtlerum". Ma ormai così si arriva al grottesco.

(Shalom, gennaio 2019)


Shin Bet: "Uno Stato straniero cercherà di influenzare il voto in Israele"

"Abbiamo i mezzi per sventare influenze straniere"

Il capo dello Shin Bet (sicurezza interna israeliana), Nadav Argaman, ha avvertito in una conversazione privata che uno Stato straniero cercherà di interferire nelle elezioni politiche israeliane del 9 aprile. Lo ha riferito la scorsa notte il notiziario televisivo 'Hadashot' secondo cui la censura vieta di precisare a quale Stato si riferisse. Le interferenze, ha aggiunto la emittente, potrebbero aver luogo mediante manipolazioni cyber e per ora non è noto a beneficio di chi sarebbero condotte. In seguito lo Shin Bet ha però assicurato che "lo Stato di Israele ed i suoi servizi di intelligence hanno i mezzi per monitorare e sventare ogni tentativo di influenza straniera, se si verificasse. Gli apparati di sicurezza israeliani - ha aggiunto - sono in grado di garantire lo svolgimento di elezioni libere e democratiche in Israele".
In Israele le operazioni di voto avvengono in forma manuale, con l'introduzione in una busta di un foglietto che indica il partito prescelto. Di conseguenza, secondo gli esperti, manipolazioni cibernetiche potrebbero manifestarsi semmai prima delle elezioni con infiltrazioni nelle liste degli candidati e degli elettori, con il sabotaggio di siti web e anche con la disseminazione nelle reti sociali di informazioni infondate o tendenziose.
Alcuni giorni fa, riferisce il quotidiano economico Globes, anche l'ex capo del Mossad (spionaggio) Tamir Pardo ha espresso il timore che "una potenza che abbia interessi di vario genere o anche organizzazioni che non sono propriamente Stati possano intervenire nel nostro sistema elettorale". Pardo ha espresso il timore che questo genere di attacchi potrebbe non essere scoperto in tempo reale.

(ANSAmed, 9 gennaio 2019)


"Proteggere i curdi? Mai". Erdogan strappa con gli Usa

Annullato l'incontro con il consigliere statunitense per la sicurezza nazionale Bolton, che lascia la Turchia.

di Fiamma Nirenstein

 
GERUSALEMME - Potrebbe non essere stata un'ottima idea quella di Erdogan, che, nella sua stessa capitale, ha lasciato il consigliere per la sicurezza John Bolton nella sala d'aspetto rifiutando di incontrarlo e costringendolo a ripartire senza avergli nemmeno detto buongiorno.
  Non è bello per due Paesi che hanno da poco rinnovato alcune cordialità telefoniche fra i premier Trump e Erdogan, che siedono ambedue nella grande alleanza della Nato mentre in Medioriente si attraversa una fase che più che di porte sbattute in faccia ha bisogno di chiarezza. Invece Erdogan non ha potuto sopportare sostanzialmente tre cose: la prima, pura e semplice, che poche ore prima Bolton in rappresentanza di Trump avesse svolto una visita estremamente amichevole e produttiva in Israele che lui odia, dicendo a Netanyahu che il suo Paese sarà sempre fiero di garantire la sicurezza dello stato ebraico. In secondo luogo, che durante quel viaggio, dopo che Trump il 19 dicembre aveva annunciato che se ne sarebbe andato dalla Siria, Bolton avesse ribadito, come del resto Pompeo nei giorni scorsi, che gli americani non hanno fretta di andarsene, che il ritiro si svolgerà secondo i tempi ritenuti più opportuni e, dulcis in fundo, e qui Erdogan ha avuto la sua crisi, che gli Usa vogliono veder garantiti i diritti dei Curdi, e anzi, che Erdogan aveva promesso a Trump di proteggerli.
  Erdogan quando sente dire Curdi perde la bussola: così si è lasciato andare ad affermazioni che lui ritiene capaci di bloccare la svolta positiva di Trump verso i curdi, ma che potrebbero invece guastare un rapporto faticosamente ricostruito con gli Usa, cui seguita a chiedere l'estradizione del suo peggiore nemico Fethullah Gülen. Erdogan fida sulla solita idea che gli Usa abbiano fiducia che la Turchia possa costituire il ponte verso il mondo musulmano. Ma in questo caso la sua alleanza con l'Iran e gli Hezbollah sciiti e la sua appartenenza, in quanto sunnita alla parte della Fratellanza Musulmana che è invisa all'Arabia saudita e all'Egitto, sembra escluderlo dalla strategia americana che tende, anche col previsto ritiro, ad affidare al mondo sunnita classico la difesa dell'Occidente. A questo serve il viaggio di Pompeo in otto Paesi Mediorientali. Erdogan ha detto che per lui gruppi curdi e Isis sono la stessa cosa, e che i suoi combattenti devono essere premiati perché si battono contro gli uni e gli altri. Ma la storia lo contraddice, perché mentre i Curdi hanno combattuto l'Isis, la posizione di Erdogan è stata molto dubbia: dal marzo 2011 circa 12mila «foreign fighters» dell'Isis sono stati lasciati entrare in Siria dalla Turchia, e secondo uno studio della Columbia University del settembre 2016 la Turchia ha aiutato lo Stato Islamico a livello militare, logistico, di trasferimento di armi, di servizi medici. Gli episodi sono molti. L'accordo con la Russia del settembre 2018 ha indotto la Turchia a un atteggiamento più cauto, ma in cambio della mano libera contro i curdi. E così dal Nord, ad Afrin nel Nordovest a Manbji, la Turchia ha puntato a sloggiare i curdi con forza spietata e favorire gruppi misti, alcuni di opposizione a Assad che non ne è affatto contento e ultimamente si è anche opposto militarmente. Insomma, la Turchia di Erdogan ha grandi ambizioni che ormai l'onnipotente leader mette in mostra con eccessiva sicurezza, forte di un sostegno popolare che tuttavia va modificandosi, se è vero che ha dovuto servirsi di un'alleanza col leader del Movimento Nazionalista Devlet Bahcevi, che nel passato lo aveva duramente criticato. Pompeo ieri ha già ripetuto che l'obiettivo degli Stati Uniti è piegare l'Iran tramite le sanzioni. Ieri anche l'Europa ha fatto una buona mossa in questa direzione stabilendo sanzioni per i servizi segreti iraniani che avevano pianificato assassini sul suo suolo. Gli amici di Erdogan sono nel mirino. E che si dice ora alla Casa Bianca su di lui?

(il Giornale, 9 gennaio 2019)


Israele-Brasile: Israel Aerospace Industrie fornirà droni per l’agricoltura di precisione

GERUSALEMME - La maggiore società per la difesa israeliana, Israel Aerospace Industries (Iai), ha firmato un contratto con l'azienda brasiliana Santos Lab Comercio E Industria Aerospacial per fornire droni dotati di strumenti avanzati per l'agricoltura di precisione. Lo riferisce oggi un comunicato stampa della Iai. L'accordo che genererà centinaia di migliaia di dollari nei prossimi dieci anni espande la portata di Iai per scopi civili e non soltanto militari. L'azienda israeliana fornirà il drone BirdEye 650, dotato di strumenti che analizzano i dati raccolti. Santos Lab, produttore di droni per il mercato agricolo e della difesa, gestirà il drone BirdEye per il mercato dell'agricoltura di precisione, sfruttando i software per una produttività ottimale.

(Agenzia Nova, 9 gennaio 2019)


Un bosco in Israele ricorderà l'ebreo partigiano Enzo Cavaglion

L'annuncio durante la conferenza in Comune a Cuneo dello storico Claudio Vercelli.

di Vanna Pescatori

 
La conferenza di Claudio Vercelli a Cuneo
CUNEO - Il ricordo dell'ebreo partigiano Enzo Cavaglion, che aveva patito le leggi razziali con la famiglia, morto il 4 gennaio, ha segnato ieri (8 gennaio) la conferenza che si è tenuta nel Salone d'onore del Municipio di Cuneo, con Claudio Vercelli. Il docente universitario e ricercatore di storia contemporanea ha ricostruito davanti ad un numeroso pubblico la genesi del ''manifesto della razza'' e della proclamazione della disuguaglianza tra gli italiani, voluta dal regime di Mussolini, e poi diventata persecuzione ''di una parte della popolazione - ha sottolineato l'autore - che poco prima era il vicino di casa, il compagno di banco, l'amico''.
   L'incontro si è aperto con un minuto di silenzio e l'omaggio alla figura di Enzo Cavaglion, di Carlo Benigni, presidente dell'associazione ''Italia-Israele'' che ha organizzato la conferenza, e dell'assessore Mauro Mantelli, che ha portato i saluti del sindaco Federico Borgna e del Comune. Mantelli ricordando Enzo Cavaglion e i valori che avevano ispirato la sua adesione all'antifascismo, ha rilevato l'importanza di una riflessione sulla nascita delle leggi razziali, come antidoto alla ''caduta'' di ideali democratici che affligge l'Italia e l'Europa di oggi. Un concetto ribadito anche dalla presidente dell'Anpi di Cuneo, Ughetta Biancotto. Carlo Benigni ha annunciato che, in accordo con la famiglia, seguendo la tradizione delle comunità ebraiche, la memoria di Cavaglion sarà mantenuta viva dedicandogli un bosco in Israele, attraverso il KKL (Keren Kayemet Leisrael).

(La Stampa - Cuneo, 9 gennaio 2019)



Pompeo, missione in Medio Oriente: non ci ritiriamo. E sfidiamo l'Iran

Il segretario di Stato rassicura gli alleati sunniti. Domani al Cairo cancellerà la dottrina Obama

di Paolo Mastrolilli

NEW YORK - Confermare l'impegno degli Stati Uniti in Medio Oriente dopo l'annuncio del ritiro dalla Siria, rilanciare la campagna di massima pressione contro l'Iran, e cancellare l'eredità di Barack Obama nella regione. Questi sono i tre obiettivi, i primi due dichiarati e il terzo sottinteso, del lungo viaggio che il segretario di Stato Pompeo ha cominciato ieri in Giordania.
   Il capo della diplomazia è partito quasi in contemporanea con il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton, allo scopo di condurre un'azione congiunta per rassicurare gli alleati e riunirli dietro gli obiettivi di Washington. La missione di Bolton non è andata secondo le aspettative, ma Pompeo ha un orizzonte più ampio, perché visiterà anche Egitto, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Arabia Saudita, Oman e Kuwait, con la possibilità di aggiungere una tappa in Iraq e in Israele. Durante un briefing preparatorio con i giornalisti, fonti autorevoli del Dipartimento di Stato hanno detto che gli obiettivi sono due: «Primo, chiarire che gli Usa non stanno abbandonando il Medio Oriente, contrastando la falsa narrativa sul ritiro dalla Siria; secondo, ricordare che l'Iran è l'attore pericoloso nella regione». Alcuni osservatori hanno riassunto il concetto dicendo che è il viaggio contro Teheran, e in effetti appena arrivato ad Amman Pompeo ha detto che il suo obiettivo è «raddoppiare non solo i nostri sforzi diplomatici, ma anche quelli commerciali, per esercitare una pressione reale sull'Iran». Non si tratta solo di questo, però, e l'ampio raggio della missione diventerà più chiaro quando il segretario terrà il discorso previsto al Cairo, con cui delineerà la dottrina Trump per il Medio Oriente, in netta opposizione con quella illustrata da Obama nella capitale egiziana nel 2009.
   Il punto di partenza è che l'annuncio del ritiro dalla Siria ha sorpreso gli alleati sunniti degli Stati Uniti, a partire dall'Arabia, perché ha dato l'impressione lasciare il Paese nelle mani di Russia e Iran, aprendo la porta al progetto egemonico degli ayatollah nella regione. A questo poi è seguita la confusione, quando Bolton ha contraddetto Trump, ponendo condizioni per il ritiro che Erdogan ha rifiutato. Pompeo dirà che il richiamo dei 2000 soldati non significa il disimpegno, ma una nuova fase tattica della stessa operazione strategica, che punta ancora a distruggere l'Isis e fermare l'Iran. Magari ai Paesi sunniti verrà chiesto di mandare più uomini sul terreno, ma gli americani continueranno a dare il supporto tecnologico che solo loro possono garantire. La pressione sull'Iran poi resta invariata, e questo è un punto chiave, perché anche influenti sostenitori americani di Trump cominciano a lamentare che il presidente dovrebbe passare dalle parole ai fatti, sostenendo in maniera concreta la protesta che potrebbe far vacillare il regime degli ayatollah.
   Al Cairo poi Pompeo contraddirà la dottrina di Obama, che dopo l'invasione dell'Iraq aveva proposto una nuova pagina nelle relazioni col Medio Oriente, incluso il dialogo con Teheran che aveva portato all'accordo nucleare. Il segretario di Stato dirà che la vera causa del terrorismo è l'Iran, nonostante Al Qaeda e Isis fossero gruppi sunniti, e si spingerà a sostenere che la Repubblica islamica dovrebbe imparare il rispetto dei diritti umani da come l'Arabia ha perseguito gli assassini del giornalista Khashoggi. Una inversione a U, che secondo l'amministrazione dovrebbe anche facilitare la ripresa del negoziato con i palestinesi.

(La Stampa, 9 gennaio 2019)


L'offesa ai bambini di Sciesopoli per indebolire la memoria collettiva

di Elena Loewenthal

La targa commemorativa sparita
Due giorni fa a Selvino, piccolo Comune del Bergamasco, è sparita una targa commemorativa. L'avevano deposta appena tre anni fa accanto all'«albero della memoria» al Parco Vulcano alcuni bambini di Sciesopoli. Che bambini non sono più ma vecchietti curvi ormai, dalle mani fragili e gli occhi stanchi che pure ancora conservano qualcosa della voglia di vita di allora, alla fine della guerra. Erano orfani della Shoah, giunti dai lembi orientali dell'Europa, dai campi di concentramento e dai ghetti, che furono ospitati e accuditi per molti mesi nell'ex colonia estiva fascista di questa località di mezza montagna, prima di raggiungere la Terra Promessa. Lo storico Sergio Luzzatto ha dedicato il suo ultimo libro, «I bambini di Moshe» (Einaudi editore) a questa vicenda straordinaria e al suo eroe, Moshe Kleiner, che fece da padre e madre, maestro e tanto altro per quei più di ottocento bambini passati per Selvino fra il 1945 e il 1948.
  Riscoperta di recente anche grazie a una mostra curata dal Museo Eretz Israel di Tel Aviv, «Le navi della speranza - Aliyah Bet dall'Italia 1945-1948», la storia dei bambini di Sciesopoli che in Italia trovarono la salvezza e soprattutto la voglia di vivere e ricominciare dopo l'inferno dello sterminio è caduta anch'essa vittima di una forma di vandalismo tanto inconcepibile quanto puntuale, in questa stagione dell'anno. Coerente con questo vergognoso teatro dell'assurdo che si replica intorno alla scadenza del Giorno della Memoria è anche il recentissimo furto di alcune pietre di inciampo a Roma. Sta di fatto che, a dispetto dei suoi intenti e della sempre più abbondante messe di manifestazioni, il 27 gennaio sembra essere diventato un infallibile catalizzatore di impulsi distruttivi e vandalici di chiaro segno.
  Si tratta di antisemitismo? Certamente. Ma non in una definizione tout court ed esclusiva. C'è infatti qualcosa di più profondo e primitivo al tempo stesso, in questi rigurgiti di odio e desiderio di distruzione che hanno il loro picco nel mese di gennaio, proprio in concomitanza con una commemorazione che dovrebbe essere educativa, che dovrebbe chiamare una riflessione collettiva su un passato europeo comune, che appartiene a tutti e da cui nessuno dovrebbe sentirsi escluso perché la storia della Shoah è innanzitutto italiana, europea, occidentale, prima ancora che degli ebrei.
  E invece proprio il rifiuto di questa storia, il riflesso condizionato di attribuirla agli ebrei come se fosse cosa esclusivamente loro e come se la memoria fosse «soltanto» un atto d'omaggio, la passiva osservazione di quel passato invece che un'assunzione di responsabilità - che, si badi bene, non significa sterile senso di colpa ma coscienza civile di appartenenza - generano i mostri di questi atti vandalici «fisici» e di tanti altri «virtuali», fatti di parole sputate nella rete, sulle piattaforme dei social. Difficile dire quale potrebbe essere la soluzione per questa piaga, il «vaccino» in grado di invertire la rotta, ma purtroppo tutto lascia pensare che il progetto educativo del Giorno della Memoria sia ben lungi dall'aver assolto il suo compito.

(La Stampa, 9 gennaio 2019)


Israele: il binomio vincente di turismo e informazione

Ad ottobre primato storico con quasi mezzo milione di turisti. Premiati i migliori reportage giornalistici.

di Luca D'Ammando

 
Religione, cultura, archeologia, innovazione, divertimento: difficile individuare una sola ragione che spieghi a pieno il boom turistico che ormai da oltre due anni sta travolgendo Israele. Dalla dinamica Tel Aviv all'eterna Gerusalemme fino alle assolate spiagge di Eilat, sul Mar Rosso, il numero crescente di ingressi turistici nel Paese non intende fermarsi, anzi. A ottobre è stato riscontrato il primato storico di presenze: i dati del ministero del Turismo dicono infatti che sì sono registrati circa 486.000 ingressi nel paese, ovvero il 14 per cento in più rispetto a 12 mesi prima e il 19 per cento in più se paragonato ad aprile 2018, il precedente mese-record. Numeri sorprendenti, soprattutto se si considera che parliamo di un paese perennemente minacciato dai vicini e costretto a convivere con una realtà di perenne allerta. Ma il fascino di questo paese è forse proprio il delicato equilibrio tra contrasti, una realtà sfaccettata che sa offrire un'esperienza di viaggio unica. E, a contribuire a raccontare e mostrare i mille volti di questo paese, concorre di certo il lavoro dei molti giornalisti premiati dall'Ufficio nazionale israeliano del Turismo per i migliori reportage. La IV edizione del Premio Stampa Israele, che si è tenuto lo scorso 25 ottobre presso Identità Golose a Milano, ha radunato i professionisti del mondo della comunicazione per quello che ormai è diventato un momento di incontro e condivisione irrinunciabile per capire come muta la narrazione intorno a Israele e come viene rappresentata questa realtà sui media italiani. Lo staff dell'Ufficio nazionale israeliano del Turismo ha premiato i lavori che si sono distinti per originalità, approfondimento, capacità comunicativa e originalità negli approfondimenti. Sette le categorie esaminate: online; blog & social; quotidiani; periodici; TV; trade: special mention. Per ciascuna categoria sono stati scelti tre vincitori. Tra i premiati Ivan Burroni dei viaggi.corriere.it, Alessandro Giberti con le foto di Antonino Savojardo per Il Sole 24 Ore, Letizia Cini per QN e Maria Luisa Cocozza per Canale 5. A fare gli onori di casa Mariagrazia Falcone, direttore ufficio stampa & Pr dell'Ufficio nazionale israeliano del Turismo e Avital Kotzer Adari, consigliere per gli affari turistici Ambasciata d'Israele. E proprio quest'ultimo ha spiegato che «il lavoro di promozione della destinazione in Italia è rafforzato e avallato dal coverage che i media e gli influencer hanno sviluppato assieme a noi: a loro il nostro più sentito grazie e l'invito a tornare a scoprire Israele per innamorarsi ancora del nostro paese, con occhi sempre nuovi». E, se complessivamente dall'inizio del 2018 sono giunti in Israele 3,4 milioni di visitatori, la consegna dei premi è stata anche l'occasione per ricordare come l'Italia si annoveri tra i cinque mercati mondiali con miglior trend per Gerusalemme, e come la sua attrattiva cresca sempre più. Al momento infatti sono 86 i voli diretti dai maggiori aeroporti della penisola ogni settimana, e ogni anno nuove compagnie aeree, tour operator si aggiungono. I numeri di ottobre sono eloquenti: sono stati registrati 15.600 arrivi dal Bel Paese, +63% rispetto al 2017 e addirittura +178% rispetto al 2016. Un dato importante non solo per l'aspetto puramente materiale perché, come ha spiegato il ministro del Turismo israeliano, Yariv Levin, «i turisti in entrata contribuiscono significativamente sia all'economia di Israele oltre che - cosa non meno importante - alla sua immagine».

(Shalom, gennaio 2019)


I cinesi nel porto di Haifa. Usa infastiditi da Israele

La Casa Bianca teme lo spionaggio sulle reti 5G installate da Pechino Netanyahu chiede a Bolton il riconoscimento della sovranità sul Golan

di Giordano Stabile

John Bolton e Benjamin Netanyahu
C'è anche un risvolto cinese nella visita del consigliere alla Sicurezza americano John Bolton in Israele. Bolton, che ieri ha toccato la seconda tappa del suo viaggio, in Turchia, è arrivato domenica soprattutto per parlare del ritiro dalla Siria, e rassicurare lo Stato ebraico che teme di ritrovarsi i Pasdaran iraniani alla porte. Ma il falco della politica estera statunitense aveva la sua lista di preoccupazioni e richieste. E riguardavano la penetrazione cinese. Il punto centrale è il mega contratto che lo Shanghai international Port Group ha strappato l'anno scorso per costruire un nuovo terminal nel porto di Haifa, a Nord di quello attuale. Un investimento miliardario frutto di incontri bilaterali ai massimi livelli fra il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Xi Jinping, che connetterà la costa israeliana alla nuova Via della Seta cinese.
  Il porto di Haifa è però anche un asset militare, decisivo per il controllo del Mediterraneo orientale. Ad Haifa sostano spesso navi della Marina statunitense e i cinesi potrebbero ottenere un vantaggio strategico, la possibilità di spiare le loro mosse, con la gestione dello scalo commerciale. Una prospettiva che non piace all'Amministrazione Trump. Come non piace la prospettiva di introduzione di tecnologie cinesi nelle telecomunicazioni, in particolare del sistema SG sviluppato dal gigante della telefonia Huawei e dalla Zte. Anche start-up israeliane ci stanno lavorando, in collaborazione con Intel, ma i cinesi sono più avanti e potrebbero offrirsi di realizzare la rete di antenne sofisticate necessaria all'Internet mobile superveloce, come hanno fatto in altri Paesi, anche europei.
  Il confine fra telecomunicazioni, spionaggio, operazioni di Intelligence e militari è però molto sottile. Per questo la presenza cinese inquieta gli americani. Le pressioni sono cominciate lo scorso autunno. A novembre c'è stato un incontro fra funzionari della casa Bianca e del governo israeliano sul coinvolgimento dei cinesi nelle infrastrutture. Con un messaggio che il giornalista Barak Ravid, in contatto con fonti riservate, ha riassunto così: «O con noi o con loro». Tanto che ora molte aziende israeliane raccomandano ai loro dipendenti di non comprare smartphone cinesi, specie della Huawei. Le forze armate hanno addirittura imposto l'uso esclusivo di iPhone ai loro ufficiali e avviato un programma per verificare tutti i contratti e forniture di materiale elettronico, per escludere la presenza di componenti cinesi.
  È il prezzo da pagare per l'alleanza con gli Stati Uniti, che forniscono aiuti militari per 3,8 miliardi di dollari all'anno. Un appoggio mai messo in discussione ed enfatizzato da Donald Trump. I rapporti, idilliaci, sono stati un po' scossi dall'annuncio del prossimo ritiro delle forze statunitensi dalla Siria. Era il tema più spinoso sul tavolo con Bolton, anche se gli apparati di sicurezza lo avevano già messo in conto nei mesi scorsi. L'Intelligence considerava «intenibile» la posizione americana sul fronte siriano. Netanyahu ne ha approfittato per chiedere uno «scambio» e cioè il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan, conquistato nel 196 7 e annesso il 15 dicembre del 1981. La condizione «minima» per la sicurezza di Israele, perché le Alture, ha puntualizzato il premier nell'incontro, «sono tremendamente importanti». Sarebbe però una svolta clamorosa nella politica americana degli ultimi 40 anni. L'altra richiesta è di mantenere una presenza militare al valico di Al-Tanf, fra Iraq e Siria, per ostacolare «l'autostrada sciita» usata dai Pasdaran.

(La Stampa, 8 gennaio 2019)


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Gli Usa vogliono anche Israele nel blocco anti-Cina

di Emanuele Rossi

John Bolton
Bolton avrebbe chiesto al governo di Tel Aviv


di evitare il più possibile accordi con le compagnie cinesi delle telecomunicazioni, in particolare Huawei e Zte
  Nei giorni scorsi, il consigliere per la Sicurezza nazionale americano, John Bolton, era in Israele. Non solo Siria ed equilibrio di forze con l'Iran, tra i temi trattati, almeno stando a quello che ha raccontato un funzionario del team che lo accompagnava - informazioni riservate, passate in anteprima alla Associated Press, in forma anonima. Tra queste, una che sembra girare un po' in sordina, mentre potrebbe essere più utile di altre per comprendere ciò che l'amministrazione Trump sta facendo nello scacchiere globale. Bolton avrebbe chiesto al governo di Tel Aviv
COME SOPRA
di evitare il più possibile accordi con le compagnie cinesi delle telecomunicazioni, in particolare Huawei e Zte.
  Gli Stati Uniti dicono che le reti sono penetrabili dallo spionaggio di Pechino, usano la carta della sicurezza nazionale (e internazionale, che Israele e Usa condividono) e intanto alzano il livello dello scontro con la Cina. Washington sta cercando di creare un fronte coeso, fatto di partner, alleati, amici, che si fidano dell'America e per questo decide di accettare le richieste e le posizioni anti-cinesi di Trump. In cambio dà garanzie di lealtà - le stesse che richiede.
  Questo genere di operazioni, per esempio, è già riuscita con il Canada, con l'Australia, con la Nuova Zelanda e sta andando bene con il Regno Unito (il blocco del Five Eyes è chiaramente più pronto a recepire certe necessità). Ed è già in corso qualcosa di simile pure in Europa, e ci rientra anche l'Italia.
  Gli americani hanno interesse a spostare gli amici da certi avvicinamenti alla Cina, che nel caso di Israele sono per esempio osservabili lungo i porti dello stato ebraico, allineati in un'area del Mediterraneo che sta aumentando il suo valore geopolitico, e dunque è sempre più attrattiva per la Cina, che ne è interessata anche per le rotte della Nuova Via della Seta.
  Le preoccupazioni per le penetrazioni cinesi in Israele non sono una novità, più volte esposte trovano sfogo in vicende come quella del porto di Haifa, di cui una ditta cinese che ha finanziato opere infrastrutturali se n'è aggiudicata la gestione per i prossimi venticinque anni (si chiama Sipg, ed è la stessa che controlla il porto di Shanghai). La questione è stata affrontata anche da Bolton nel suo ultimo viaggio; ma lo stesso succede a Ashdod con la Pmec, che è addirittura in vantaggio sulla tabella di marcia prevista.
  Più in generale, Pechino vuole da Israele innovazione, carpirne i segreti, e contraccambia con investimenti - non una strategia nuova per il Dragone. In particolare, come spiegava The Diplomat, i cinesi vorrebbero carpire il fluido che alimenta la sinergia che lega i centri di ricerca e studio e il mondo del business israeliano, alla base del successo tecnologico del paese. Di più, perché la Cina sembra essere affascinata da come il settore delle tecnologia sia interconnesso con quelli delle sicurezza e delle difesa, diventando un punto di slancio geopolitico. E per questo lo finanzia: più o meno un terzo degli investimenti nell'hi-tech israeliano arrivano dalla Cina e da Hong Kong.
  Le parole di Bolton, insomma, raccontano ancora una volta come tra Washington e Pechino la guerra commerciale, che entra ufficialmente da ieri in una nuova fase di negoziati, sia solo un terreno di sfogo del confronto globale tra le due superpotenze, con gli americani che stanno muovendo l'intero complesso della propria grandezza internazionale per provare a vincere.

(formiche, 8 gennaio 2019)


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Come Trump e Bolton incalzano e seducono Israele su Cina, Iran e Siria

Il punto sugli incontri tenuti in Israele dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, John Bolton

di Marco Orioles

John Bolton
Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa John Bolton è volato in Israele per rassicurare un alleato chiave dopo la decisione improvvisa, e da molti ritenuti improvvida, di Donald Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria. Ma non c'era solo la Siria al centro dei colloqui tenuti da Bolton a Gerusalemme. Si è parlato, tra le altre cose, del contenimento dell'influenza iraniana nel Levante, principale preoccupazione del governo guidato da Benjamin Netanyahu. Del piano di pace tra israeliani e palestinesi, che sarà rivelato "nei prossimi mesi". E anche dell'ossessione dell'amministrazione Trump: la Cina, le sue controverse tecnologie per le telecomunicazioni, e l'imperativo, per l'America, di convincere partner come Israele a ridurre i legami con una superpotenza che mira a strappare agli Stati Uniti la palma di leader politico, economico, tecnologico e militare.
  Ma non potevano che essere gli ultimi sviluppi sul fronte della guerra civile siriana a tenere banco nelle conversazioni che Bolton ha intrattenuto con il premier israeliano e con alti esponenti del governo di Gerusalemme. Un argomento prioritario per lo Stato ebraico, e non solo per ragioni squisitamente geografiche. Israele è pienamente coinvolto in Siria, dove ha clandestinamente sostenuto le opposizioni al regime di Bashar al-Assad, anche per via dell'intromissione iraniana nel conflitto e del tentativo di Teheran di egemonizzare la Siria al fine di trasformarla in un'avanguardia nel sempiterno conflitto con un paese, Israele, ritenuto dagli ayatollah il nemico numero uno per ragioni ideologiche e religiose.
  Il viaggio di Bolton è valso anzitutto come un segnale forte da parte degli Stati Uniti, che pur avendo deciso il disimpegno dalla Siria non vogliono mettere a repentaglio gli equilibri in una regione strategica in cui Israele rappresenta un avamposto degli interessi occidentali. La visita, inoltre, acquista ulteriore rilevanza alla luce della tempistica, avvenendo a poche settimane dal clamoroso annuncio di Trump di voler ritirare "ora" i soldati americani.
  Da questo punto di vista, le dichiarazioni fatte da Bolton a Gerusalemme sono servite a dissipare i vari dubbi seminati dalla decisione trumpiana. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale ha sostanzialmente confermato l'orientamento del governo Usa. "Il punto principale", ha affermato, "è che noi ci stiamo per ritirare dal nordest della Siria" Ma l'uscita delle truppe americane non è incondizionata. È, semmai, subordinata ad alcune "decisioni politiche che abbiamo bisogno di implementare". "Ci sono", ha spiegato Bolton, "obiettivi che vogliamo raggiungere che condizionano il ritiro. (…) Il piano o la tempistica del ritiro emergeranno dal compimento delle condizioni e dalla realizzazione delle circostanze che vogliamo vedere. E una volta che ciò è fatto, allora si potrà parlare di un piano".
  Quali sono, dunque, le condizioni poste dagli Usa? Anzitutto, il reale, definitivo e documentabile annientamento dello Stato Islamico. Bolton ha chiarito che gli Usa si ritireranno dalla Siria "in un modo che assicuri che Isis sia sconfitto e non sia in grado di risorgere e diventare di nuovo una minaccia". Ciò significa che i soldati americani non abbandoneranno il campo prima di aver centrato quel risultato. Un ragionamento che era implicito nelle ultime dichiarazioni con cui lo stesso Trump ha mostrato di aver cambiato idea rispetto alle iniziali intenzioni di riportare i soldati a casa hic et nunc. Nelle parole affidate alla stampa dal presidente negli ultimi giorni, l'uscita della Siria da immediata è trasmutata in "lenta" e "progressiva", fino ad essere quantificata in un tempo minimo di quattro mesi, secondo le valutazioni del Pentagono che ha considerato irrealizzabile anche da un punto di vista logistico un ritiro frettoloso. A corroborare questo nuovo orientamento ci ha pensato lo stesso capo della Casa Bianca, dichiarando domenica di non aver "mai detto che lo avremmo fatto velocemente" il ritiro dalla Siria, e che "non ci ritireremo finché Isis non sarà scomparso".
  La seconda condizione posta dagli Usa riguarda i curdi siriani, ossia gli alleati scelti da Barack Obama prima e da Trump poi per condurre sul terreno le operazioni militari volte a sradicare lo Stato Islamico. La decisione del presidente Usa di riportare a casa i soldati aveva messo in allarme i curdi, lasciati improvvisamente soli a gestire le manovre aggressive della Turchia di Recep Tayyip Erdogan che ha ventilato una imminente invasione del nordest della Siria per infliggere una severa punizione a un movimento, quello dei curdi dello YPG, che Ankara considera un'organizzazione terroristica legata a doppio filo con il PKK turco.
  La sollevazione, in America, è stata immediata: parlamentari dell'opposizione, ma anche repubblicani, hanno gridato allo scandalo per il modo con cui l'amministrazione Trump ha deciso di abbandonare al loro destino quelle forze che hanno condotto, per conto degli Usa e del mondo, la campagna militare contro lo Stato Islamico. Una scelta che ha anche spinto il rispettato Segretario alla Difesa Jim Mattis, gran tessitore di alleanze, a rassegnare seduta stante le dimissioni in polemica con una scelta considerata avventata e controproducente per gli interessi di lungo termine dell'America.
  Conscio di tutto ciò, Bolton ha scelto il viaggio in Israele per segnalare il cambiamento di rotta della superpotenza a stelle e strisce. "Pensiamo", ha dichiarato il Consigliere, "che i turchi non debbano intraprendere azioni militari che non siano pienamente coordinate e concordate con gli Stati Uniti, come minimo per non mettere in pericolo le nostre truppe, ma anche affinché si realizzino le richieste del presidente affinché le forze dell'opposizione siriana che hanno combattuto con noi non siano in pericolo".
  Erdogan, dunque, è avvisato: gli Stati Uniti non consentiranno alcun colpo di mano da parte della Turchia, dove Bolton è atteso oggi per trasmettere al governo di Ankara le nuove direttive di Washington. Il messaggio, naturalmente, è rivolto anche ai curdi e vale come solenne rassicurazione, ma anche come monito. Qualche giorno fa infatti i curdi avevano fatto sapere di aver chiesto la protezione della Russia e di Damasco al fine di scudarsi dall'ira del presidente turco. Non è necessario, fa sapere ora Bolton, che ha minimizzato il significato degli incontri tenutisi a Mosca tra emissari curdi e governo russo. "La mia impressione", ha chiosato il consigliere, "è che quegli incontri a Mosca non siano andati bene. Penso che (i curdi) sappiano chi sono i loro amici".
  La terza condizione posta dagli Stati Uniti è di tipo essenzialmente strategico e riguarda l'Iran e le sue mire sul Levante. Bolton ha precisato che, da parte degli Stati Uniti, "non c'è desiderio di vedere l'influenza iraniana espandersi, questo è certo". Tutta la pianificazione strategica dell'amministrazione Trump in Medio Oriente è stata volta, sin dalle prime battute, a contrastare l'offensiva di Teheran nella regione. Una linea che Bolton ha voluto confermare con la massima chiarezza, spiegando che il ritiro delle truppe dalla Siria non sarà completo, ma solo parziale. Gli Usa, cioè, non smobiliteranno l'intero dispositivo militare, ma lasceranno sul campo i soldati schierati nella guarnigione di Al Tanf, al confine con l'Iraq. Una base che sorge, non a caso, sulla direttrice che collega Teheran con Damasco passando per l'Iraq, e che l'Iran vorrebbe veder smantellata per poter rifornire senza disturbo di uomini e armamenti gli alleati sciiti di Hezbollah, acerrimi nemici di Israele. Sono musica, perciò, nelle orecchie del governo di Gerusalemme le dichiarazioni di Bolton secondo cui "la guarnigione di Al Tanf, (…) è ancora strategicamente molto importante in relazione alla nostra determinazione che l'Iran non ottenga un arco di controllo che si estenda dall'Iran al Libano e alla Siria attraverso l'Iraq".
  C'è spazio, nella visita israeliana dell'influente consigliere di Trump, anche per affrontare altri dossier. Come il piano di pace tra israeliani e palestinesi più volte annunciato dalla Casa Bianca ma mai venuto a galla. Ci ha pensato l'ambasciatore Usa in Israele David Friedman, al fianco di Bolton, a spiegare che il piano è "quasi completato" e che sarà rivelato "entro i prossimi mesi", ossia non prima delle elezioni parlamentari che si terranno in Israele ad aprile. L'intenzione dell'amministrazione Trump è quello di smuovere le acque di una contesa rimasta al palo delle divisioni tra i contendenti. "L'ultima volta che c'è stato un significativo accordo tra israeliani e palestinesi", ha ricordato Friedman, "è stata nel 1993. Un sacco di cose sono successe dal 1993". L'obiettivo americano è di rimettere in moto il processo di pace e riaccendere la fiammella della speranza laddove, per oltre venticinque anni, nulla si è mosso.
  Molto spazio, infine, hanno ottenuto le questioni inerenti la Cina. Con il Dragone, l'amministrazione Trump fa sul serio, come ha dimostrato la guerra commerciale lanciata a testa bassa nel 2018. L'America trumpiana intende contrastare con tutti gli strumenti a sua disposizione l'avanzata cinese nel mondo e il tentativo di Pechino di scippare a Washington il titolo di potenza egemone. Per centrare questo obiettivo, gli Stati Uniti hanno bisogno però della cooperazione fattiva degli alleati, chiamati ad allentare i legami con la Cina e a non favorirne lo sviluppo in campi strategici come le alte tecnologie.
  Ecco perché, come segnala sul suo profilo Facebook l'analista Emanuele Rossi, Bolton ha avanzato a Israele la stessa richiesta posta a tutti i partner dell'America: non acquistare la tecnologia prodotta dai due colossi delle telecomunicazioni cinesi Huawei e Zte, che secondo Washington pongono rilevanti problemi di sicurezza. Ma da Gerusalemme, Washington si attende molto di più: come spiega un articolo del quotidiano israeliano Hareetz, gli americani vogliono che Israele "scelga da che parte stare", se dalla parte di un alleato storico con gli Stati Uniti, che ogni anno destina loro 3,8 miliardi di dollari di aiuti militari e le cui aziende hanno sviluppato con quelle israeliane un fitto intreccio di rapporti nei campi nevralgici della ricerca e sviluppo, o con una dittatura a partito unico e una potenza revisionista che non cela più la propria intenzione di ribaltare in proprio favore gli equilibri mondiali.
  Il richiamo a Israele è doveroso, da parte degli Stati Uniti, vista la forte crescita dei legami commerciali tra Gerusalemme e Pechino. Era stato lo stesso Netanyahu, poche ore prima dell'arrivo di Bolton, a salutare entusiasta l'aumento del 56% delle esportazioni israeliane in Cina. Un segnale che, agli occhi dell'America, merita la più severa reprimenda.
  E non c'è solo l'interscambio commerciale nel mirino dell'amministrazione Trump. Una fonte di preoccupazione è anche l'accordo con cui è stato affidato alla Shangai International Port Group il compito di costruire il porto settentrionale di Haifa. Un'intesa che già in passato a fatto inarcare i sopraccigli americani: vari membri del governo Usa e degli Stati Maggiori Riuniti delle forze armate hanno ammonito che simili investimenti cinesi in infrastrutture israeliane potrebbero danneggiare la cooperazione con la marina americana, che utilizza spesso e volentieri i porti dello Stato ebraico. Come chiosa Haaretz, il messaggio che gli americani vogliono trasmettere ai partner israeliani è che "o fate ordine per quanto riguarda" i rapporti con la Cina, "o lo faremo noi".
  Ma è certamente nel campo delle tecnologie che comportano implicazioni militari che gli Usa vorrebbero che i rapporti sino-israeliani si allentassero. Sia per quanto concerne l'acquisizione di tecnologia cinese da parte israeliana, sia soprattutto per la cessione di tecnologia israeliana alla Cina. E qui, nota Hareetz, c'è un precedente: è il veto che nel 2000 l'America pose sull'accordo con cui Israele decise di vendere a Pechino i jet Phalcon. Israele fu costretto a cancellare l'intesa sotto la minaccia americana di vedersi ridotti gli aiuti miliardari americani per la difesa, e dovette persino pagare alla Cina una multa di 350 milioni di dollari. Questo episodio compromise gravemente le relazioni sino-israeliane, ma anche quelle tra America e Israele ne risentirono, al punto che molti esponenti del governo Usa si rifiutarono per anni di parlare con i funzionari della Difesa israeliana coinvolti in quell'accordo. La crisi con l'alleato americano fu così grave che, spiega un funzionario governativo citato da Hareetz,"fino ad oggi Israele non ha osato vendere alla Cina nemmeno un coltello da cucina con inciso sopra un simbolo dell'esercito".

(Start Magazine, 8 gennaio 2019)


Cisgiordania


: catturato sospetto di Hamas

Accusato di partecipazione a due attacchi anti-israeliani

Al termine di una caccia all'uomo durata un mese, unità speciali dell'esercito israeliano hanno catturato la scorsa notte nella zona di Ramallah (Cisgiordania) Azem Barghuti, un palestinese ricercato perché ritenuto autore di due attentati in cui rimasero uccisi tre israeliani. Lo riferiscono i media locali, secondo cui in precedenza suo fratello Sallah - pure sospettato di aver partecipato a quegli attentati - era rimasto ucciso mentre cercava di sottrarsi alla cattura. La famiglia dei fratelli Berghuti, secondo i media israeliani, è ritenuta legata a Hamas.

(ANSA, 8 gennaio 2019)


Nel 2019 finirà la guerra in Siria? Le possibili conseguenze del ritiro americano

Donald Trump ha fatto marcia indietro, annunciando un «prudente» ritorno a casa dei 2.000 soldati Usa. I curdi potrebbero chiedere la protezione di Assad e Russia contro la Turchia

Donald Trump ha tirato il freno a mano sul ritiro delle truppe americane dalla Siria, spiegando in un tweet che avverrà in modo «prudente». Domenica il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, John Bolton, aveva anche affermato in Israele che il ritiro ci sarebbe stato solo dopo la sconfitta definitiva dell'Isis e la messa in sicurezza delle forze curde siriane alleate di Washington. La partita del ritiro americano coinvolge tutti i principali attori della guerra siriana: il governo di Bashar al-Assad, sostenuto da Iran e Russia, la Turchia, che appoggia i ribelli e vuole eliminare i curdi, e infine Israele, che si sente garantita dalla presenza degli Stati Uniti contro l'espansione delle milizie iraniane.

 Le mosse di Assad
  Il territorio ora occupato dalle milizie curde, armate e appoggiate dagli Stati Uniti per sconfiggere l'Isis, è racchiuso a nord dalla Turchia, a ovest dal fiume Eufrate e a est dal confine con l'Iraq. Si tratta di un'area ricca di petrolio e perfetta per la coltivazione di grano e orzo. La presenza nell'area di 2.000 soldati americani, e il sostegno offerto da questi ai curdi, ha impedito finora sia alla Turchia che all'esercito siriano di occupare la zona.
  Se gli americani si ritirassero, spiega Ayham Kamel dell'Eurasia Group all'Associated Press, «più niente impedirebbe ad Assad di riconquistare l'area». Le milizie curde Ypg avrebbero tutto l'interesse a trovare un accordo con Damasco e Mosca per difendersi dalla Turchia, che le considera alleate dei terroristi del Pkk. Assad estenderebbe così il controllo su tutto il paese, tranne la provincia di Idlib, accelerando il ritorno alla normalità. Non è un caso se gli Emirati Arabi Uniti, che hanno sostenuto la ribellione e i terroristi nella guerra contro Assad, abbiano deciso di riaprire l'ambasciata a Damasco, ritenendo ormai improbabile la caduta del presidente.

 Turchia e Russia
  Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan vorrebbe scacciare i curdi e ha già offerto agli Stati Uniti di sostituirsi alle milizie Ypg per sconfiggere in via definitiva le sacche di jihadisti ancora rimaste in Siria. Gli Usa però non vedono di buon occhio questa soluzione, che non sarebbe facile da realizzare neanche per Ankara. «Un'operazione turca non è negli interessi della Russia», spiega l'analista russo Yury Barmin. «Destabilizzerebbe la situazione e metterebbe a rischio gli accordi su Idlib. Se la Turchia decidesse di occupare le aree curde, dovrebbe inevitabilmente scontrarsi con Mosca e Teheran». La prospettiva non piace a nessuno degli attori in gioco.
  Se molte tribù arabe del nord e dell'est della Siria spingono perché Assad torni a controllare l'area, non vedendo di buon occhio l'espansione curda, Israele è preoccupata che il ritorno di Damasco faciliti la libertà di movimento delle truppe iraniane e i loro legami con gli sciiti in Iraq e Libano. Il 2019 sarà un anno chiave per risolvere il puzzle siriano, nella speranza che tutte le fazioni in gioco siano disposte a trovare un accordo politico.

(Temèo, 8 gennaio 2019)


Con l'immigrazione crescono (di poco) i cristiani di Israele. Istruiti e attivi

Pubblicati i dati emersi dall'ultimo rapporto del Dipartimento centrale di statistica. I cristiani oggi in Israele sono circa 175mila, pari al 2% della popolazione. L'aumento demografico pari al 2,2%. Il 78,5% dei 12enni cristiani ha conseguito il diploma secondario, poco meno del 70% la popolazione attiva.

GERUSALEMME - Una popolazione cristiana che cresce, pur con un dato relativo ai figli più basso rispetto a ebrei e musulmani, grazie anche all'arrivo di lavoratori migranti. Un buon grado di istruzione fra i giovani, con un dato che quasi eguaglia la maggioranza ebraica e una percentuale di partecipazione attiva alla vita del Paese sempre più significativa. Sono questi i dati relativi alla comunità cristiana di Israele, emersi dal recente rapporto elaborato dal Dipartimento centrale di statistica e diffusi in concomitanza con le festività di Natale.
   Secondo il documento, i cristiani oggi in Israele sono circa 175mila pari al 2% del totale della popolazione. Nel 2017 la crescita demografica della minoranza ha raggiunto il 2,2%, in deciso aumento rispetto all'1,4% dell'anno precedente. Una crescita, secondo gli esperti, legata all'arrivo di 597 migranti dall'Etiopia più che da un boom nelle nuove nascite (dove restano i problemi).
   In base alla distribuzione territoriale, il 70,6% dei cristiani vive nel nord di Israele; la città con la maggiore presenza cristiana è Nazareth, con oltre 22mila abitanti, seguita da Haifa con poco meno di 16mila.
   Per quanto concerne i matrimoni cristiani, le coppie sposate nel 2016 sono 782; l'età media degli sposi è di 29,2, delle donne è di 25,6.Per il 2017 il numero di nuovi nati ha toccato quota 2504: il numero di bambini fino a sette anni per famiglia è di 1,89, il dato più basso fra le comunità israeliane. La media dei bambini nelle famiglie ebraiche è di 2,39, superato da quelle musulmane - le più prolifiche - con 2,83.
   Note migliori giungono dall'istruzione: il 78,5% dei 12enni cristiani ha conseguito il diploma secondario, che consente di accedere all'istruzione superiore (per i musulmani il dato è del 59,5%; gli studenti ebrei toccano quota 78,7%). Per l'anno accademico 2017/18 il numero di studenti cristiani nelle scuole di grado superiore ha raggiunto quota 5900, pari al 2,3% del totale. Il 73% completa gli studi superiori, il 22,8% arriva alla laurea e il 3,3% consegue anche il dottorato.
   Infine, la popolazione cristiana attiva in Israele nel 2017, che comprende persone dai 15 anni in poi, ha raggiunto il 68,6%, così distribuito: il 63,3% dei maschi e il 74,7% delle femmine.
   Istruzione, sanità ma soprattutto turismo - in particolare i pellegrinaggi - i settori in cui trova con maggiore frequenza impiego la comunità cristiana.

(Asia News, 8 gennaio 2019)


Accuse di corruzione, discorso drammatico di Netanyahu a Israele

"Caccia alle streghe contro di me"

di Marco Paganelli

7 gennaio - Il premier israeliano ha tenuto il discorso alla nazione, questa sera a Tel Aviv alle ore 20 (le 19 in Italia), preannunciato dai suoi collaboratori come "drammatico".
Benjamin Netanyahu ha dichiarato che non è stata corretta la scelta di incriminarlo, in prossimità delle elezioni anticipate che si terranno il 9 aprile, senza che le autorità competenti gli abbiano offerto la possibilità di difendersi. Il premier ha specificato di non aver ottenuto un confronto con i testimoni di stato e si è offerto di attuare tale iniziativa, al momento senza raggiungere il risultato sperato, in diretta televisiva. Il numero uno dello stato ebraico ha respinto così tutte le accuse, inerenti ai tre casi di corruzione in cui è coinvolto, definendo tutto ciò una "caccia alle streghe" orchestrata dai suoi avversari politici.

(Agenzia Stampa Italia, 7 gennaio 2019)


Delegazioni irachene in visita in Israele

di Giacomo Kahn

In un evento senza precedenti, tre delegazioni di leader locali iracheni, per un totale di 15 persone, sono venute in diverse occasioni in visita in Israele, dove hanno incontrato accademici, funzionari del governo e visitato il memoriale dell'Olocausto Yad Vashem. La notizia, rivelata dall'emittente israeliana Hadashot tv, è stata poi confermata all'agenzia stampa Dpa dal portavoce del ministero degli Esteri, Emmanuel Nachshon. "Lo consideriamo un passo positivo e una dimostrazione del fatto che possiamo e dobbiamo stabilire un buon dialogo con i nostri vicini nella regione e in particolare l'Iraq", ha affermato Nachshon. Non si è trattato, ha sottolineato la tv, di esponenti provenienti dal Kurdistan iracheno, ma di sciiti e sunniti arrivati da Baghdad. La visita, descritta di natura "socio-culturale", con l'obiettivo di "costruire l'infrastruttura per futuri legami", è particolarmente notevole. L'Iraq è in stato di guerra con Israele fin dalla nascita dello stato ebraico e le sue forze hanno partecipato alle guerre contro Israele del 1967 e il 1973. Israele ha distrutto il reattore nucleare iracheno di Osiraq nel 1981 e nella prima guerra del Golfo il leader iracheno Saddam Hussein lanciò una quarantina di missili Scud contro le città israeliane. Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha ripetutamente parlato di rapporti con i paesi arabi che si sviluppano dietro le quinte, anche in funzione anti iraniana.
   La notizia della visita delle delegazioni irachene ha però scatenato la rabbia del vice presidente del Parlamento iracheno, Hassan Karim al-Kaabi, che ha chiesto al ministero degli Esteri di Baghdad di svolgere indagini. In una nota, al-Kaabi ha annunciato che è stato ordinato alla commissione Esteri del Parlamento iracheno di "scoprire i nomi delle autorità che hanno visitato la terra occupata (Israele, ndr), in particolare quelle del Parlamento". "Recarsi nella terra occupata - ha aggiunto - è una linea rossa ed è una questione sensibile per i musulmani di tutto il mondo".

(Shalom, 7 gennaio 2019)


Israele in pressing sugli Usa. In dubbio il ritiro dalla Siria

Bolton da Netanyahu, domani Pompeo inizia il tour tra i Paesi sunniti. Pesa la difesa dei curdi da Erdogan.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Fino a venerdì si parlava di una sola condizione sufficiente per Trump ad abbandonare il campo siriano ribollente: la sconfitta dell'Isis.
   Un obiettivo ormai grosso modo raggiunto secondo una valutazione dell'amministrazione americana giudicata da molti affrettata, e tuttavia data per acquisita. Via gli Usa, i topi ballano? Non ancora: da ieri possono interrompere le celebrazioni: le condizioni sono di nuovo diventate plurime e complesse, secondo il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, ieri a Gerusalemme. Il ritiro non è più ovvio, non ha più una scadenza, è di nuovo condizionato sia alla sconfitta dell'Isis (non data più per scontata) sia alla salvaguardia dei combattenti curdi, alleati degli Stati Uniti. Bolton ha anche ribadito la primaria fedeltà americana alla sicurezza dello Stato d'Israele. Un ufficiale anonimo ha anche aggiunto che non tutti gli americani se ne andranno, e resterà un presidio. Si dice anche che gli Usa stiano preparando una base in Irak che sorveglierà l'intera area e che potrebbe contenere un aeroporto militare. «Il programma scaturirà dalle decisioni politiche che abbiamo bisogno di realizzare» ha aggiunto l'ex ambasciatore degli Stati Uniti all'Onu, che ha voltato pagina rispetto all'incubo che la Siria rimanga preda di un Assad sostenuto dalle forze più ostili che Israele possa figurarsi: gli iraniani, gli Hezbollah, i turchi di Erdogan. E sullo sfondo il sostegno russo.
   Venerdì Netanyahu ha telefonato a Putin e i due hanno discusso la nuova situazione. Putin probabilmente ha sempre considerato la questione israeliana come un tema collaterale rispetto all'affermazione della sua presenza in Siria, sostenuta da forze assemblate strumentalmente e non ideologicamente. Quindi, i due hanno parlato di politica perché la situazione sta cambiando di nuovo. E Putin non ce l'ha con Israele, specialmente quando è in ottimi rapporti con Trump.
   Il premier israeliano a Bolton ha chiesto il riconoscimento della sovranità sul Golan in una situazione fra le più complesse che il Medio Oriente abbia mai conosciuto. Domani, il segretario di Stato intraprenderà un giro regionale: Giordania, Egitto, Barain, Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita, Oman, Kuwait. Un tour completo in cui si ribadirà che gli americani vogliono spingere avanti la componente sunnita (e i suoi legami con Israele), a fronte di una pesante presenza sciita in Siria, mal controbilanciata da una Turchia sunnita ma legata alla Fratellanza Musulmana e quindi malvista da Egitto e Arabia, e desiderosa soltanto di distruggere i curdi e di occupare porzioni territoriali che le garantiscano la cacciata dell'odiata etnia.
   Ultimamente Bashar Assad ha festeggiato parecchi segnali di vittoria dopo 500mila morti: una nuova ambasciata degli Emirati a Damasco, la visita di Omar al Bashir dal Sudan, la riammissione nella Lega Araba. Mentre festeggiava però cercava di contenere le mosse del suo nuovo amico-nemico, Erdogan, che aveva già compiuto un'invasione di campo con l'attacco di Afrin buttando fuori i curdi e che adesso stava muovendo militarmente su Manbij nel Nord per lo stesso scopo. Ma la tv ha mostrato i siriani in uniforme muovere sulla stessa città contro ogni previsione, specie dei turchi stessi e dei gruppi ribelli che contano sulla Turchia. Adesso che la Turchia, la Russia e l'Iran stanno per rincontrarsi ad Astana per una nuova spartizione, sarà più evidente a tutti che sul terreno ci sono non degli alleati, ma dei nemici che si contendono i brandelli. Mentre il solito Gendarme del Mondo resta in giro.

(il Giornale, 7 gennaio 2019)


Le prossime elezioni in Israele. Netanyahu ancora in testa?

di Giovanni Quer

Israele e la marcia verso il voto tra Netanyahu ancora primo nei sondaggi e una sinistra divisa.

Benjamin Netanyahu sembrerebbe in testa ai sondaggi. Il nuovo partito "la nuova destra" vuole fare concorrenza al Likud. La sinistra si divide, il centro aspetta di vedere se ci saranno nuovi candidati e la lista araba rischia di spaccarsi. Ecco gli sviluppi del panorama politico in vista delle nuove elezioni in Israele.
  Nelle ultime due settimane ogni giornale pubblica un sondaggio: secondo una ricerca di Makor Rishon, Netanyahu insiste sulle elezioni che in realtà gli israeliani non vogliono, secondo Walla News Netanyahu rimane stabile con 30 mandati, seguito da Yesh Atid (C'è Futuro) con 17; Ma'ariv conferma la posizione del Likud anche se dovesse iniziare il processo contro Netanyahu, mentre Yesh Atid si rafforzerebbe di mandati a scapito dell'altro partito di centro capeggiato da Kahalon.
  Ma le novità sono tante: la nascita di un partito di destra, la divisione della sinistra, e la partecipazione alle elezioni dell'ex Capo di Stato Maggiore Benny Gantz. Il 28 dicembre 2018, Naftali Bennett e Ayelet Shaked (rispettivamente ministro dell'Istruzione e ministra della Giustizia) del partito Casa Ebraica annunciano la nascita del partito "La Nuova Destra". L'elettorato principale di Casa Ebraica era il pubblico religioso sionista, ma le ambizioni di Bennett vanno oltre. Le polemiche in cui si è invischiato il partito Casa Ebraica per le uscite di alcuni suoi parlamentari e l'ambiguità su diverse questioni sociali, in particolare per quanto riguarda le minoranze, le donne e la comunità Lgbt, non hanno giovato a Casa Ebraica. Il nuovo partito punta a un elettorato più ampio, laico e religioso, con una retorica anti-Likud: si presenta come la vera destra, contro il "blando" Netanyahu e il "fake" Gantz (come lo ha chiamato di recente Ayelet Shaked). La "Nuova Destra" vuole presentarsi come il vecchio Likud, eredi del sionismo revisionista, benché entrambi siano ben lontani dallo spirito liberale e dalla visione politica di Jabotinsky.
  Netanyahu ha prevenuto la mossa di Bennett e Shaked con una serie di visite ai leader degli insediamenti, dove il Likud era calato nelle elezioni del 2015. L'elettorato religioso del Likud compone l'ala più di destra e si oppone alle visioni liberali cui l'ala laica è favorevole, ma più d'ogni altra cosa ritiene che altri partiti siano una mossa divisiva che indebolisce la politica di destra. Per quanto possano forse essere più d'accordo con l'agenda politica e con i valori di Casa Ebraica o di Nuova Destra, si fidano di più di chi ha ampia esperienza politica e vedono nella divisione un male. L'elettorato religioso più giovane vede in Bennett un leader che condivide appieno i loro valori e un'alternativa a un Likud che sta perdendo secondo alcuni l'animo nazionale. Infine, i più oltranzisti, che si sono affidati a piccoli partiti che non hanno passato la soglia di sbarramento, potrebbero questa volta confluire nelle liste del partito ortodosso Shas (che vuole rappresentare gli ebrei sefarditi e orientali) considerando alienante l'aspetto laicizzante del nuovo partito di Bennett. Questi gruppi non sono poi interessati al governo e non hanno una chiara agenda politica o economica, quanto invece hanno una chiara visione sociale che sono interessati ad avanzare.
  Intanto l'ex Capo di Stato Maggiore Benny Gantz, che l'intera Israele continua ad amare per aver riformato l'esercito dopo la crisi della Seconda Guerra in Libano nel 2006, potrebbe fare la differenza. Gantz ha fondato il partito Hosen Le-Yisrael (forza, energia per Israele), che tende a destra su questioni di sicurezza, a sinistra su questioni sociali, e liberista in economia. Ma con chi potrebbe allearsi? La sua figura potrebbe essere apprezzata dal vecchio Likud, laico e liberale, sicuramente dal Centro e anche dalla sinistra (secondo il sondaggio di Walla, la sinistra avrebbe 26 mandati dovesse Gantz candidarsi con loro). Spesso però l'ego domina e acceca: Gantz metterebbe ombra a molti politici che ancora cercano di consolidare il proprio nome e la sua figura è talmente apprezzata dal pubblico che è visto come potenziale alleato e grande pericolo. Alcune figure pubbliche, della magistratura e dell'Avvocatura di Stato, si sono dimesse per unirsi a Gantz in un'impresa che in molti vedono come un futuro pericolo. Lo sbaglio di molti potrebbe essere proprio il linguaggio che attacca Gantz, la cui carriera militare e i modi pacati lo rendono vicino agli storici leader israeliani, che associavano sicurezza, visione sociale e pragmatismo - un'Israele che in molti rimpiangono e che Gantz richiama.
  La sinistra si è divisa. Il 1 gennaio 2019, in una conferenza stampa, il leader dell'opposizione Avi Gabbay, a capo dei laburisti, ha annunciato la scissione dal fronte di sinistra "il Campo Sionista". La leader di Tnu'a (Movimento) Tzipi Livni guardava esterrefatta le telecamere quando Gabbay alludeva alla mancanza di lealtà alla leadership e di amicizia, gli ingredienti per una partnership di successo. "Il pubblico non è stupido, capisce che c'è un problema nella partnership e si è allontanato da noi". Dopo queste affermazioni, se n'è andato dalla sala, lasciando Tzipi Livni di stucco. Un'alleanza con Gantz potrebbe riportare il Labour agli splendori del passato, ma una simile partnership non avrebbe larghe intese sulle questioni di sicurezza e politica estera.
  La Lista Araba Comune è anche in crisi. La parlamentare Hanin Zo'abi, conosciuta per le sue prodezze retoriche anti-israeliane e le sue continue provocazioni, ha annunciato che lascerà la vita politica, dopo una carriera da prima donna araba alla Knesset costruita sul più polemico e feroce anti-sionismo. Costituta nel 2015 come unione di tre partiti dalle anime diverse, uno pan-arabista e socialista (Balad), uno nazionalista secolarista (Ta'al) e un altro islamista (La Lista Araba Unita - Ra'am), la Lista Araba Comune si posizionata come terza forza politica in Israele, con enormi difficoltà di lavoro perché l'unico comune punto tra le sue anime è l'antisionismo. Il principale problema è quello che è considerato il boicottaggio delle elezioni, cioè il basso sostegno alla Lista Araba che registrano i sondaggi interni. Alcuni sostengono che sia dovuto alla mera presenza araba alla Knesset che "legittimerebbe il razzismo israeliano" (su questa linea discute Diana Buto sul sito a-Shabaka).
  In realtà si può leggere il basso sostegno anche in altra maniera: il pubblico arabo non è diverso da qualsiasi altro bacino elettorale. Per anni hanno detto agli arabi israeliani che tutti i loro problemi hanno un'unica ragione, cioè l'esistenza di Israele. Ma con gli anni si sono accorti in molti che i partiti arabi combattevano alla Knesset una battaglia ideologica che sempre più si allontanava dai bisogni della popolazione e delle minoranze arabe (come mezzi di trasporto, rappresentanza, accesso alle risorse ecc.). La partecipazione alla vita politica locale ha portato a molti risultati, così come il processo di integrazione (voluto peraltro dai governi di destra e dalle forza di sicurezza), e il basso sostegno è forse segno di una diversa volontà pubblica, che porterà a un cambiamento. I cittadini arabi pretendono di più dai loro rappresentanti, e la loro leadership è anche in crisi.
  Ayman Odeh sostiene che la Lista sarà unita anche per le prossime elezioni e la sua visione politica forse aiuterà a rinnovare l'agenda del partito. Odeh adotta la stessa retorica anti-israeliana e anti-sionista, con una pratica politica di cooperazione e compromesso: ha negoziato il finanziamento delle autorità locali arabe per il miglioramento delle infrastrutture, ha contribuito all'aumento dell'istruzione laica nel settore arabo. Partecipa alle cerimonie in ricordo della Shoah e non la strumentalizza per farne paragoni moderni, ma non ha partecipato ai funerali di Peres, andando però al funerale del giornalista giordano cristiano Nahed Hattar ucciso nel settembre 2017 per aver condiviso una caricatura considerata offensiva dell'Islam.
  Ciò che si sente spesso dire per le strade è che "Bibi non mi esalta, ma non ci sono alternative". Per ora è considerato il più esperto politico e ogni cambiamento politico in Israele è complicato perché non è solo una questione di politica economica e sociale, ma anche di sicurezza e per molti elettori è questo che detta la scelta finale, non apprezzando di conseguenza il cambiamento se non per qualcuno che ha fatto carriera militare (e per ora sarebbe solo Gantz).
  Meir Dagan, ex capo del Mossad, in un discorso nel 2015 in occasione della manifestazione "Vogliamo Cambiare", ha espresso il timore per la leadership, per le divisioni, per la mancanza di visione del futuro. Il suo discorso in parte rivolto contro Netanyahu, che come aveva detto allora "porterebbe Israele verso uno Stato bi-nazionale" in nome della sua guerra per rimanere al potere, aveva anche messaggi generali, validi forse per qualsiasi altro Stato, anche per l'Italia: "non cedete al populismo, non fatevi incantare da un carisma vuoto". Ancora tre mesi alle elezioni, e i sondaggi indicheranno se le parole di Dagan sono state ascoltate.

(formiche, 7 gennaio 2019)


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Netanyahu in video: evitare di incriminarmi prima del voto

Il premier si rivolge al procuratore generale

GERUSALEMME - Più impegnato a combattere le indagini per corruzione che lo riguardano piuttosto che gli avversari, a tre mesi dal voto legislativo anticipato, il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha diffuso un video sui social in cui si scaglia contro l'eventualità che il procuratore generale annunci prima del voto del 9 aprile l'intenzione di incriminarlo.
I sondaggi danno Netanyahu come favorito delle legislative, aiutato anche dalla spettacolare rottura nella coalizione d'opposizione Alleanza sionista, con il leader laburista Avi Gabbay che a Capodanno ha scaricato Tzipi Livni, numero uno di Hatnuah, seduta impietrita accanto a lui, in diretta tv. Ma l'annuncio di una possibile incriminazione del premier prima del voto rischierebbe di rovesciare il pronostico. Nel video Netanyahu chiede pubblicamente al procuratore generale Avishai Mandelblit di pronunciarsi dopo il 9 aprile, attirandosi, fra gli altri, gli strali di un ex membro della Corte suprema.
Eliyahu Matza ha dichiarato ai microfoni della radio pubblica di non ricordarsi "di aver mai sentito durante tutta la sua carriera tali dichiarazioni da parte di qualcuno che non facesse parte della criminalità organizzata".

(askanews, 7 gennaio 2019)


"Risarcite gli ebrei espulsi dai Paesi arabi dopo il 1948"

di Giordano Stabile

Israele è pronta a chiedere 250 miliardi di dollari di risarcimenti ai Paesi arabi che dopo il 1948 espulsero dai loro territori un milione di ebrei, e nella maggior parte dei casi confiscarono i loro beni. La rivelazione bomba arriva dal ministro per l'Uguaglianza sociale Gila Gamliel, del Likud, il partito del premier Benjamin Netanyahu. In una intervista alla tv Hadashot, Gamliel ha detto che «è arrivato il momento di correggere una ingiustizia storica» nei confronti dei profughi e che il governo «sta già pianificando» le richieste.Israele ha proceduto a una stima ufficiale del valore delle proprietà perse dalle comunità ebraiche in Libia, Tunisia, Marocco, Siria, Iraq, Egitto, Yemen, e Iran: 250 miliardi di dollari al cambio attuale. Di questi, 35 miliardi riguardano la Tunisia, altri 15 la Libia, mentre non sono stati forniti dettagli su altri Paesi. Le cifre verranno pubblicate nei prossimi giorni ma è chiaro che l'annuncio va a inasprire relazioni già tese, soprattutto con Baghdad e Damasco, ma anche con l'Egitto e il Marocco.

 La mossa politica
  La richiesta di risarcimento va anche contro la politica di «normalizzazione» con i Paesi del Golfo e va letta soprattutto in chiave elettorale. Il 9 aprile si vota in una elezione che deciderà il destino di Netanyahu, con la possibilità di un quinto mandato da premier che lo proietterebbe fra i grandi leader israeliani, ma anche il rischio di una incriminazione che potrebbe stoppare la sua carriera. Il voto degli ebrei sefarditi, discendenti dei profughi dai Paesi arabi, è decisivo. Fra il 1948 e il 1970 circa un milione furono cacciati dalle loro case come rappresaglia per la nascita dello Stato ebraico e l'esodo dei palestinesi. Mezzo milione dal Maghreb, 150 mila dall'Iraq, 100 mila dall'Egitto e quasi altrettanti dallo Yemen. Circa 200 mila vivevano in Iran, dove oggi la comunità è ridotta a 3 mila persone. In Siria gli ebrei restarono fino al 1967, ma oggi non ci sono più presenze. Alcune comunità, come quella yemenita, furono trasferite in spettacolari ponti aerei, con velivoli militari. I sefarditi - cioè gli «ebrei spagnoli» perché discendenti da quelli cacciati dalla Spagna dai re «cristianissimi» nel 1500, quando l'Impero ottomano era più tollerante dell'Europa cattolica - sono oggi quasi la metà della popolazione di Israele. L'esodo è ricordato anche come la «nakba ebraica», così come i palestinesi chiamano «nakba», catastrofe, la loro fuga del 1948, e ha ancora un grosso impatto emotivo. Anche la promessa di risarcimenti avrà il suo impatto elettorale, mentre il previsto piano di pace americano è stato rimandato a dopo il voto, come ha annunciato ieri l'ambasciatore Usa a Gerusalemme, David Friedman.

(La Stampa, 7 gennaio 2019)


Lenti che leggono ai ciechi: Israele vive già nel futuro

Lo Stato ebraico è una fucina di tecnologie: dal sistema che produce acqua dall'aria a quello che fornisce energia dalle feci. E poi degli occhiali straordinari.

di Daniel Mosseri

 
Occhiali Orcam
Per la macchina che si guida da sola ci vorrà ancora un po' di tempo, non solo per una questione tecnologica. La vettura senza pilota esiste già (chi scrive l'ha provata sotto le mura di Gerusalemme): quelle che mancano sono le infrastrutture stradali, legislative ed assicurative per farla circolare. Nell'attesa ci possiamo consolare con le ossa che crescono fuori dal corpo umano, il distributore che genera l'acqua dal nulla, il gabinetto che trasforma le nostre deiezioni in carbone e fertilizzante, e ancora con gli occhiali che leggono i libri a chi non può vedere.
  Il futuro è iniziato alcuni anni fa e forse noi non ce ne siamo accorti: i nostri vicini di casa israeliani - Tel Aviv è a tre ore di volo da Roma - invece sì. Perché le invenzioni appena menzionate sono tutte made in lsrael, come tante altre in arrivo dal piccolo ma innovativo stato ebraico.
  Le ragioni per cui una nazione di sette milioni di abitanti si è trasformata in una Silicon Valley sul Mediterraneo sono molteplici: scarsità di risorse del territorio, alta scolarizzazione media, università e centri di ricerca di prestigio, un impegno bellico non comune (innovazione tecnologica e investimenti per la difesa vanno da sempre a braccetto) ed emergenze a non finire. Di grande aiuto si è anche rivelato il lungo servizio militare, durante il quale le menti più acute vengono messe a lavorare una accanto all'altra - e poi finiscono per fare rete da civili. Insomma: di motivi per fare bene in campo dell'innovazione gli israeliani ne hanno tanti, quelli brutti inclusi.

 Coltivatori di ossa
  «La gente non lo sa ma la perdita di tessuto osseo è un male comune e diffuso», ricorda a Libero Shai Meretzki, presidente e fondatore di Bonus-Bio. Incidenti stradali, operazioni militari, attacchi terroristici ma anche cancro e malattie degenerative sono tutte cause di perdita di tessuto osseo. Al posto dei difficili e dolorosi autotrapianti - per cui una persona è privata chirurgicamente di un osso "inutile" che sostituirà quello che non c'è più - «con una piccola liposuzione isoliamo dal tessuto adiposo le cellule in grado di generare ossa e le coltiviamo in vitro». Meretzki, biotecnologo di professione, ha già "cresciuto" e fatto innestare con successo fino a 17 cm3 di ossa. «In media ci mettiamo due settimane a crescere il tessuto che ci serve», aggiunge. E conclude: «Fra qualche mese la nostra sperimentazione partirà anche in Usa e in Europa».
  Più terrena ma non meno rivoluzionaria è l'invenzione di Amit Gross. Il microbiologo dell'Università Ben Gurion del Neghev ha messo a punto una toilette che estrae carbone e fertilizzante liquido dalle deiezioni umane. «In Israele desalinizziamo l'acqua dal mare e poi la usiamo per tirare lo sciacquone: non è un peccato?», ci spiega nel raccontarci l'origine della sua idea. Trattare cioè a 200 gradi centigradi ciò che normalmente scivola giù verso il sistema fognario. «Ne abbiamo ricavato dei pellet di carbone utili per il riscaldamento e del fertilizzante per l'agricoltura». I tempi in cui solo la cacca degli erbivori era considerata concime sono superati. «Con il nostro trattamento, i grassi, le tracce di antibiotico e tutto quanto non fa bene alla terra cambia proprietà e ridiventa utile». E l'energia necessaria per il trattamento termico? «Ne serve un quinto rispetto a quella che si ricava dalla materia prima», risponde.

 Toilette pubbliche
  La sua idea non è per il bagno di casa «ma a Pechino, per esempio, i bagni in comune sono la norma», spiega Gross, immaginando l'installazione delle toilette ecologiche anche nelle scuole, caserme o bagni pubblici. L'applicazione pratica della sua invenzione potrebbe rivelarsi vincente nei paesi in via di sviluppo con sistemi sanitari al minimo per scarsità di acqua.
  Dall'irrigazione goccia a goccia alla desalinizzazione dell'acqua di mare, disponibilità e gestione delle risorse idriche sono tradizionali priorità della classe dirigente e degli scienziati israeliani. In tempi recenti, si è imposta Watergen. «Ricaviamo acqua potabile direttamente dall'aria», dice a Libero la portavoce dell'azienda composta da un team di giovani ingegneri. Il processo non è dissimile da quello dei condizionatori d'aria, che estraggono l'acqua dall'ambiente. Con una differenza: «Il motore delle nostre macchine è di plastica e i consumi di elettricità sono bassissimi». Plastica poi fa rima con leggerezza e trasportabilità: ecco perché i distributori d' acqua hanno fatto la loro apparizione ai mondiali di calcio in Russia lo scorso luglio ma sono presenti in pianta stabile anche ad Hanoi in Vietnam, un paese con molta umidità nell'aria ma poca di acqua potabile. Grandi eventi, inquinamento e - sempre con un occhio alle emergenze - anche le calamità più o meno naturali sono situazioni in cui l'acqua si rivela più preziosa del solito. Così a Watergen hanno approntato anche un veicolo di risposta rapida (ERV): un camioncino colore oro blu in grado di produrre 600 litri d'acqua dal nulla.

 Auto senza pilota
  La lista delle innovazioni è in continuo aggiornamento, ma non si può dimenticare Orcam, il dispositivo intelligente che legge l'ora, le insegne, i cartelli stradali, la carta moneta, i libri, i giornali e i codici a barre degli acquisti, aiutando non vedenti, ipovedenti e dislessici nella vita di tutti i giorni. Il marchingegno pesa 22 grammi e si applica a un comune paio di occhiali. E l'automobile driverless? A marzo 2017, lntel ha investito 15,3 miliardi di dollari per rilevare Mobileye, il produttore israeliano dei sensori per l'auto senza pilota. Ci vuole pazienza, ma c'è da scommettere che arriverà.


SCHEDA

 Investimenti
Israele si è dotato di una Autorità per l'Innovazione che gestisce fondi governativi per 500 milioni di dollari all'anno.

 Volano dell'export
L'hi-tech in Israele è un settore che, pur impiegando solo 1'8% della forza lavoro industriale totale, genera il 13% del prodotto interno lordo nazionale, oltre a essere responsabile del 50% delle esportazioni.

 Attira capitali
Lo stato ebraico è anche in grado di attrarre investimenti esteri per miliardi di dollari (5 nel solo 2016), e che ha saputo attrarre oltre 300 multinazionali hi-tech venute ad aprire centri di ricerca e sviluppo in Israele. Facebook, Amazon, Google, Apple, Huawei.

(Libero, 7 gennaio 2019)


Manovre congiunte Iran-Russia nel Caspio

Fra i due alleati strategici

TEHERAN - Iran e Russia terranno a breve manovre navali congiunte nel Mar Caspio, nelle quali le unità si eserciteranno in tattiche militari, protezione civile e soccorso in mare e operazione anti-pirateria. Lo ha annunciato il comandante della Marina di Teheran, contrammiraglio Hossein Khanzadi.
"Negli ultimi anni - ha detto Khanzadi, citato dall'agenzia Mehrnews - le forze navali di Iran, Russia e degli altri Stati che affacciano sul Caspio hanno intessuto buoni rapporti reciproci e di cooperazione e fra loro c'è intesa sulla sicurezza nella regione".
Le manovre congiunte, ha aggiunto l'alto ufficiale iraniano, sono una delle forme attraverso le quali Mosca e Teheran incrementano la cooperazione bilaterale.
I due Paesi son alleati strategici, soprattutto nella crisi siriana. Manovre congiunte sono già state compiute nel 2015 e 2017 nel Mar Caspio, sul quale si affacciano anche Turkmenistan, Kazakistan e Azerbaigian, tutte ex repubbliche sovietiche.

(ANSA, 6 gennaio 2019)


Arab Weekly: in Medio Oriente non si aspettavano tanto da Mosca, ecco il successo del Cremlino

I paesi del Medio Oriente avevano grandi aspettative da parte degli Stati Uniti, ma sono stati delusi, scrive Arab Weekly.

Allo stesso tempo, nessuno si aspettava molto da Mosca, e alla fine le aspettative sono state superate, questo le ha assicurato successo. Ma ora, avverte l'autore dell'articolo, le richieste a Mosca sono diventate più grandi, e se lei non risponde, i paesi della regione possono tornare al loro ex alleato: gli Stati uniti. La politica estera della Russia in Medio Oriente nel 2018 è stata un successo, e nel 2019 Mosca, a quanto pare, cercherà di ottenere lo stesso risultato, scrive Arab Weekly. Tuttavia, può affrontare alcuni problemi, che derivano dai suoi successi.
Uno dei principali successi della Russia in Medio Oriente è in Siria, scrive l'autore dell'articolo. E anche se la pace non è ancora stabilita, nessuno può competere con Mosca nel ruolo diplomatico che svolge.
La Russia è anche riuscita a mantenere buoni rapporti con tutti i principali attori della regione, ad eccezione dei jihadisti, nonostante le loro divisioni tra di loro. Ad esempio, Mosca ha una buona relazione con l'Iran e con i suoi acerrimi nemici: Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e con il loro avversario, il Qatar. E con la Turchia, la Russia ha un rapporto migliore rispetto ai suoi alleati occidentali.
  Tra i paesi del Medio Oriente e l'Occidente ci sono polemiche in merito al rispetto dei diritti umani, ma per Mosca questa domanda non è importante, si rafforza da queste differenze. Anche se a parole sostiene la Palestina, in realtà non critica Israele come in Occidente. Allo stesso modo, quando hanno cominciato ad accusare il principe ereditario dell'Arabia Saudita per la morte di un giornalista e per la campagna militare in Yemen, Putin non lo ha fatto. Le foto mostrano solo buoni rapporti, mentre entrambi sono diventati oggetto di critiche in Occidente.
  Infine, riguardo i risultati della politica mediorientale della Russia, l'autore dell'articolo dice che nessun alleato degli Stati Uniti nella regione si è unito alle sanzioni occidentali anti-russe. Di conseguenza, scrive che questo ha aiutato la Russia non solo a ridurre il danno da sanzioni, ma anche a ridurre la dipendenza dalla Cina in termini di esclusione delle sanzioni.
  Nel 2019, secondo l'autore dell'articolo, tale tendenza potrebbe continuare, e questo non è tanto merito di Putin, quanto della sua capacità di usare la discordia tra gli altri.
  Tuttavia, non tutto va come vuole Putin, dice l'autore dell'articolo. Ad esempio, il rapporto tra Russia e Israele si è aggravato dopo che le forze siriane hanno erroneamente abbattuto l'aereo russo dopo l'attacco aereo di Israele. E mentre il primo ministro israeliano ha cercato di rassicurare e calmare Putin, i media israeliani hanno riferito che gli attacchi agli obiettivi siriani continuano.
Ciò potrebbe voler dire che la Russia non è in grado di prevenire il conflitto tra Israele e Iran, Hezbollah o il regime di Assad. E ancora di più Mosca non sarà felice dell'intervento degli Stati Uniti, che inevitabilmente accadrà in caso di conflitto.
Se parliamo più in generale, Mosca ha beneficiato del fatto che il Medio Oriente aveva alte aspettative dagli Stati Uniti, che sono state deluse, mentre le aspettative riposte nella Russia erano piccole, e sono state superate. Pertanto, il grande successo che la Russia raggiungerà in Medio Oriente sarà più grande del previsto. E se queste aspettative non saranno accolte, allora molti nella regione torneranno agli Stati uniti, avverte il giornalista di Arab Weekly.

(Sputnik Italia, 6 gennaio 2019)


Ofer Sachs: l'Iran minaccia mortale in Medio Oriente

L'Ambasciatore israeliano in Italia: "Non lo è solo per noi. ma per molti".

Non c'è solo la volontà nucleare iraniana, ma anche il programma missilistico e il coinvolgimento nella regione. Si apre l'opportunità di un dialogo vero tra Israele e gli Stati arabi del Golfo, in questo senso ci sono segnali importanti

di Ofer Sachs*

Come afferma nel libro "Globalizzazione, Governance, Asimmetria" il professor Giancarlo Elia Valori, l'area mediterranea è un campo aperto. Nel libro ci sono anche tutte le questioni, compreso il coinvolgimento russo, del Medio Oriente: la tragica guerra civile in Siria, la fragile situazione del Libano, lo scontro tra sunniti e sciiti all'interno dell'Islam. Penso che ci sia una linea che collega queste sfide.
  Molti anni prima dell'Isis avevamo già uno stato islamico in Medio Oriente e questa era ovviamente la Repubblica islamica dell'Iran, che si basa sulla legge della Shari'a e dove è ancora molto difficile per le donne prendere parte significativa nella vita quotidiana, come pure c'è la questione degli oppositori politici e naturalmente molte altre questioni legate ai diritti civili.
  Tre anni fa, quando lo Stato di Israele si oppose fermamente al cosiddetto Jcpoa, sottolineammo che la questione cruciale non è solo l'aspirazione nucleare dell'Iran, ma l'intesa avrebbe dovuto riguardare aspetti ulteriori.
  Innanzitutto il programma missilistico iraniano e il coinvolgimento iraniano nella regione. Per quanto riguarda il programma missilistico il programma iraniano è il risultato diretto della buona cooperazione tra l'Iran e la Corea del Nord. Pyongyang dette all'Iran la tecnologia per costruire i suoi primi missili balistici, mentre il nuovo missile balistico iraniano è basato su quello, simile, coreano. Questo missile fu presentato per la prima volta in una parata militare iraniana nel 2010 e può raggiungere obiettivi distanti 2mila chilometri. Potrebbe colpire non solo lo Stato di Israele, ma anche la parte centrale dell'Europa occidentale.
  La risoluzione che implementa l'accordo nucleare, la risoluzione di Vienna, non ha impedito all'Iran di continuare con i test missilistici e da allora, come noto, ci sono state decine di questi test nel territorio iraniano.
  Per quanto riguarda il coinvolgimento iraniano nella regione è un'altra vecchia storia. Il libro parla di Hezbollah, che rappresenta uno Stato nello Stato e ha praticamente preso in ostaggio il Libano, almeno come Stato indipendente in grado di scegliere il proprio interesse nazionale. Oggi circa il 40% del Parlamento libanese è controllato direttamente o indirettamente da Hezbollah e questo è per noi, ovviamente, una grande tragedia.
  Durante gli 8 anni di brutale guerra civile in Siria l'Iran ha inviato migliaia di combattenti stranieri sciiti. Questo comunque non solo in Siria, ma anche in altre nazioni intorno, come l'Iraq. E questi combattenti li usano non solo l'Isis, ma anche altri. Combattere per Assad, morire per Assad, fa parte del meccanismo sfortunatamente utilizzato per alcuni degli immigrati radicali che arrivano dall'Iran.
La Siria rappresenta la principale crisi che abbiamo nell'area, ma dobbiamo anche sottolineare il sostegno iraniano ad altri groppi terroristici della regione e sto parlando non solo di sciiti, ma anche sunniti, ]ihad islamica, talebani in Afghanistan, Houthi in Yemen. Miliardi di dollari che vengono spesi dai pasdaran iraniani prendendoli alla loro popolazione, denaro che potrebbe esse utilizzato per molti altri buoni scopi. Geograficamente parlando, il grosso obiettivo iraniano è quello di costruire un corridoio di terra tra Teheran e la costa del Mediterraneo. Israele naturalmente rigetterà questa iniziativa, che rappresenta per noi una minaccia.
  Aggiungo che la minaccia iraniana non è solo una minaccia per lo Stato di Israele, ma per molti degli attori della regione. È una minaccia per i russi nella questione Siria, perché non consente la possibilità di riportare la stabilità nel paese. È una minaccia per l'Egitto, perché il sostegno al terrorismo a Gaza crea instabilità nella Penisola del Sinai. È una minaccia per la Turchia a causa del cambiamento dell'equilibrio demografico in Siria tra sciiti e sunniti e soprattutto ciò rappresenta una minaccia per gli Stati sunniti del Golfo.
  Riguardo a questi Stati, avere un nemico comune sta dando anche l'opportunità di superare parte dei limiti del passato, per trovare una via di dialogo tra Israele e il mondo arabo. Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti hanno capito che Israele non è più una minaccia per loro, ma un'opportunità non solo in termini antiiraniani, ma anche in termini di cooperazione economica e diplomatica. Recentemente il primo ministro Netanyahu ha visitato l'Oman e subito dopo c'è stata la visita del ministro israeliano dell'Intelligence, Israel Kutz. Negli stessi giorni il ministro della Cultura di Israele, Miri Regev, ha visitato la grande moschea di Abu Dhabi e l'inno nazionale israeliano è stato suonato per la prima volta negli Emirati quando una campionessa israeliana di judo ha vinto la medaglia d'oro in un grande evento sportivo. In più, la cooperazione tra Egitto e Israele non è mai stata così forte e i rapporti vanno bene con la Giordania, nonostante ciò che è stato detto dai media nelle ultime due settimane.
  Perciò il comportamento iraniano non sta portando solo minacce, ma rischia di compromettere anche le opportunità. Spero davvero che nel prossimo futuro Israele e il mondo arabo normalizzino le relazioni e questo ovviamente spingerà anche l'economia. E forse si potrà realizzare il progetto del ministro Kutz per la ferrovia di collegamento tra Israele e gli Stati del Golfo.
  Sono sicuro che tutto ciò sarà un buon passo verso la cessazione del conflitto israelo-palestinese, per mettere fine al sogno insensato di eliminare Israele dalla mappa geografica, per dare ai cittadini israeliani la sensazione di essere finalmente realmente accettati nella regione.

* Si tratta dei passi salienti dell'intervento dell'Ambasciatore Sachs alla presentazione del libro di Giancarlo Elia Valori "Globalizzazione, Governance, Asimmetria - L'instabilità e le sfide della postmodernità".

(Nuovo Corriere Nazionale, 6 gennaio 2019)


Siria - Netanyahu: parlerò con Bolton di come fermare l'Iran

"I metodi per confrontarsi con l'aggressività dell'Iran in Medio Oriente ed in particolare in Siria" saranno al centro di un colloquio, stasera a Gerusalemme, di Benyamin Netanyahu con il Consigliere Usa per la sicurezza nazionale Usa John Bolton.
Lo ha detto oggi il premier israeliano nella seduta del consiglio dei ministri rilevando che questo incontro segue da vicino la decisione del presidente Donald Trump di ordinare il ritiro delle forze americane in Siria e ricordando di aver anche esaminato venerdì la situazione nel Paese vicino in una telefonata con il presidente russo Vladimir Putin.
Netanyahu ha poi osservato che nel 2018 le esportazioni israeliane hanno raggiunto al cifra record di 110 miliardi di dollari, con un aumento dell'8 per cento rispetto al 2017. Le esportazioni di merci verso la Cina, ha precisato, sono cresciute del 56 per cento. Ma secondo i media locali le relazioni Israele-Cina irritano gli Stati Uniti e Bolton - anticipano - chiederà a Netanyahu di sottoporle ad una stretta revisione.

(tvsvizzera.it, 6 gennaio 2019)


Cinque arresti a Gaza per un assalto alla sede Tv palestinese

GAZA - Le autorità della Striscia di Gaza, governata dal gruppo islamico di Hamas, hanno fermato cinque persone nell'ambito delle indagini sull'assalto alla sede dell'emittente radio televisiva dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), avvenuta venerdì scorso nella parte meridionale della Striscia. Nel corso dell'assalto oltre a provocare danni all'interno della sede dell'emittente sono anche state rubate attrezzature. Se la direzione dell'emittente ha incolpato Hamas per questo episodio di violenza, le autorità locali sostengono che il gruppo islamico non è responsabile dell'accaduto e che i cinque fermati sono legati al partito di al Fatah. Si tratterebbe infatti di cinque impiegati governativi ai quali di recente sono stati tagliati gli stipendi.

(Agenzia Nova, 6 gennaio 2019)


Paolo Treves: il socialista di Radio Londra

Andrea Ricciardi ricostruisce la biografia di un perseguitato dal regime. Approfondì le opere di Niccolò Machiavelli e dei reazionari francesi del XIX secolo

di Silvia Bianciardi

Nel libro Paolo Treves (Franco Angeli), Andrea Ricciardi racconta una vicenda individuale che è anche la storia di una grande famiglia politica, quella del socialismo riformista, che ebbe in Claudio Treves, padre di Paolo (1908-1958) e del fratello Piero, una delle sue figure simbolo. Paolo, cresciuto nel calore di rapporti di frequentazione personale tra gli altri con Turati e la Kuliscioff, fu proiettato nella politica attiva dall'omicidio di Matteotti.
   Respirando in famiglia e tra i compagni del padre l'atmosfera sospesa e precaria che accompagnò lo sgretolamento dell'Italia liberale e con esso la fine dell'esistenza legale delle opposizioni, Paolo maturò l'adesione convinta al socialismo e all'antifascismo, ma anche la cifra pessimistica, «diffidente», del suo carattere tormentato. Il volume di Ricciardi, sulla base di una ricca documentazione, ricostruisce le tappe che ne segnano il percorso e fa affiorare la trama complessa dei richiami e dei moventi che saldano la dimensione privata a quella pubblica della sua vita.
   Nello sforzo di dimostrarsi «degno» dell'esempio paterno, Ricciardi individua l'elemento chiave della battaglia antifascista di Paolo Treves, declinata soprattutto sul piano intellettuale, nei suoi anni «di esilio in patria», sottoposto dal fascismo alla «sorveglianza speciale».
   In contatto con lo zio Alessandro Levi e con personalità rilevanti anche dell'antifascismo liberale, Paolo si cimentò in quegli anni nello studio di autori diversi, da Machiavelli a Campanella, fino ai pensatori reazionari francesi del XIX secolo, che affrontò con l'intento implicito di dimostrare l'essenzialità dei valori della Rivoluzione francese.
   Di origine ebraica, dopo l'esperienza del carcere fascista, nel 1938 fu costretto a riparare in Inghilterra. Dai microfoni di Radio Londra, offrì il suo contributo al ritorno della democrazia in Italia, conducendo un'intensa attività di propaganda. Eletto alla Costituente nelle file del Partito socialista, prese parte da socialdemocratico alle prime due legislature repubblicane, ispirando il suo agire, nelle dinamiche politico-partitiche innescate dalla guerra fredda, ai valori di un sentire anticomunista e democratico.

(Corriere della Sera, 6 gennaio 2019)


Record di arrivi per Israele nel 2018, italiani al quarto posto

Gerusalemme è la città turistica con la più alta crescita annuale secondo Euromonitor International e il 2018 è stato un anno eccezionale per il turismo israeliano nel suo complesso. Secondo i dati diffusi dal Central Bureau of Statistics, nel 2018 Israele ha accolto circa S milioni di turisti, in crescita del 38% rispetto al 2017, anno in cui l'aumento era stata comunque già molto alto (+32%).
Ottima la performance dell'Italia, quarto Paese europeo per numero di arrivi in Israele, dopo Francia, Germania e Regno Unito.
Per informazioni: www.goisrael.com

(Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2019)




Il frutto dello Spirito

Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non adempirete i desideri della carne. Perché la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte tra di loro; in modo che non potete fare quello che vorreste. Ma se siete guidati dallo Spirito, non siete sotto la legge.
Ora le opere della carne sono manifeste: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni, sètte, invidie, ubriachezze, orge e altre simili cose; circa le quali, come vi ho già detto, vi preavviso: chi fa tali cose non erediterà il regno di Dio.
Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo; contro queste cose non c'è legge.
Ora quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri.

Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Galati, cap. 5

 


Le provocazioni dei nemici di Israele e la nostalgia del Bund

L'ennesima insulsa ed offensiva provocazione dei propal all'Università di Torino permette di occuparci del Bund, un movimento socialista ebraico russo poco conosciuto.

di Ugo Volli

Anche quest'anno un fantomatico gruppo che si firma "Freedom for Palestine - Boycott Israel" ha diffuso un volantino all'università di Torino in cui annuncia una serie di "seminari autogestiti" in occasione del Giorno della Memoria. Sono quattro occasioni intitolate «1933: patto col diavolo. Il boicottaggio ebraico della Germania e l'accordo commerciale tra nazisti e sionisti», «Frontiere chiuse agli ebrei. La Shoah e le responsabilità degli Alleati: da Evian al fallimento delle operazioni di soccorso», «Le stelle saranno il nostro testimone». Letture e discussione da «Cinque anni nel ghetto di Varsavia di Bernard Goldstein» e «Autonomia nazional culturale senza Stato. La soluzione del Bund alla questione ebraica».
  E' naturalmente un'iniziativa scandalosa, veramente schifosa, che ha lo scopo evidente di togliere agli ebrei anche il diritto di ricordare da sé il genocidio di cui sono stati oggetto. Ci vuole una gran faccia tosta per promuovere un'iniziativa del genere. Come ha scritto il solo politico torinese che abbia preso posizione sulla vicenda, il leghista Fabrizio Ricca (non una parola, a quel che ne so, dagli antifascisti facili allo scandalo del Pd e dintorni) «Usare il sionismo come nuovo antisemitismo è da nazisti. Vergogna».
  Vale la pena di notare però un paio di cose. La prima è che gli autori di queste iniziative non c'entrano nulla con l'università. Non sono stati in grado di indicare un'aula per i loro "seminari" ma hanno indicato un appuntamento nell'"atrio centrale" del Campus Luigi Einaudi, evidentemente con l'intenzione di entrare senza permesso in un'aula. Evidentemente non contano di mobilitare le folle, ma solo di fare notizia con le loro provocazioni. Il fatto è che le forze dell'ordine hanno praticamente abbandonato il Campus agli autonomi no tav e antisemiti. Anche il loro riferimento nel corpo docente, tale Daria Carminati, che ha anche denunciato Fabrizio Ricca per le sue prese di posizione contro queste iniziative, in realtà non è una docente, anche se spesso viene indicata come professoressa, ma è una pensionata che passa il tempo a fare la palestinista.
  L'altra cosa che può essere significativo considerare sono i loro argomenti. Naturalmente se la prendono con il tentativo sionista di estrarre quanti più ebrei possibili dalla macchina del genocidio, anche trattando con i nazisti per comprare la salvezza di coloro che i nazisti erano disposti a rilasciare a pagamento. E' un argomento noto, ci sono parecchi libri e perfino film che ne parlano, si sa anche che Il Gran Muftì di Gerusalemme Muhammad Amin al-Husayn, padre dell'Olp, riuscì ad opporsi a questi commerci e a far sì che non ci fossero eccezioni alla Shoah. Farne scandalo è un tipico artificio retorico antisemita, per esempio usato nel libro negazionista di Mahmoud Abbas, attuale dittatore dell'Autorità Palestinese e successore, in un certo senso del Gran Muftì.
  L'argomento più interessante però è quello dei due seminari finali, in cui si indica come alternativa "buona" al sionismo il movimento bundista, che avrebbe propugnato come "soluzione alla questione ebraica" (sinistro lapsus da parte di chi ha scritto il volantino, manca solo "finale") l'"Autonomia nazional culturale senza Stato". Il tema è interessante perché lo stesso rimpianto dei provocatori di Torino è stato espresso da alcuni "diversamente sionisti" collaboratori di Moked/Pagine ebraiche, che ripetutamente hanno rilanciato il bundismo come ideale ancora attuale, giustamente criticati da Emanuele Calò.
  Il Bund è stato un tentativo di organizzazione socialista autonoma degli ebrei dell'impero russo, certamente una nobile iniziativa, che però da un lato si è opposto duramente al sionismo e ne è stato sconfitto nel primo decennio del secolo scorso, dall'altro si è opposto al socialismo generale russo e in particolare ai bolscevichi che ne hanno spazzato via i resti appena preso il potere. Non ha partecipato dunque né alla fondazione dello Stato di Israele né alla rivoluzione russa, è uno di quegli esperimenti che la storia ha eliminato senza tracce e a parte le qualità morali dei suoi membri ha il solo merito, agli occhi di chi lo rievoca oggi di contestare la legittimità dello stato di Israele, indicando la soluzione di una "autonomia culturale senza stato" che non ha mai funzionato da nessuna parte al mondo ed è stato completamente distrutto oltre un secolo fa. Che dei nemici espliciti dello stato di Israele, sostenitori del palestinismo che aspira a distruggere non solo Israele ma il popolo ebraico, si capisce. Che sulla stessa linea vi siano collaboratori dei media ebraici, sconcerta non poco.

(Progetto Dreyfus, 5 gennaio 2019)


Il co-working? Un kibbutz 2.0

di Rossella Tercatin

 
L'inaugurazione a Gerusalemme del nuovo spazio di co-working WeWork
 
Il co-fondatore di Wework Adam Neumann ha definito la sua impresa legata al co-working una sorta di kibbutz 2.0
Ha 517 sedi per uffici in quasi cento città e i suoi numeri continuano a crescere: Wework, è oggi una delle (ex) startup dalla valutazione più alta al mondo - attorno ai 42 miliardi di dollari. Fondata nel 2010 a New York con l'obiettivo di offrire a start up o professionisti uffici in diverse modalità, dal gruppo di stanze a una scrivania, oggi Wework è un vero e proprio colosso del coworking ma anche dell'immobiliare. In Italia aprirà nei prossimi mesi: è già stata annunciata una sede a Milano. Mentre nel 2018 è stata lanciata con grande entusiasmo la sede di Gerusalemme - in ottobre, all'apertura hanno tra l'altro costruito una co-working Sukkah con tavoli, due meeting room e molti dei servizi offerti da Wework, da birra e caffè gratis a stampanti e articoli da cancelleria a disposizione. Così sono diventate cinque le città israeliane in cui l'azienda è presente, facendone il terzo paese al mondo per numero di sedi dopo Stati Uniti e Cina.
   Wework è diventato ben presto molto più che una semplice possibilità di una postazione di lavoro a prezzi convenienti. Ci sono servizi e benefici materiali: società e professionisti non devono preoccuparsi dell'arredamento, delle utenze, delle pulizie, della manutenzione dello spazio cucina, e possono aumentare o ridurre agevolmente gli spazi affittati a seconda della necessità. Ma soprattutto l'idea di fondo è di trasformare la condivisione del luogo fisico in una vera e propria comunità. Tanto che il co-fondatore di Wework Adam Neumann ha definito la sua impresa una sorta di kibbutz 2.0. Israeliano, 39 anni, Neumann è nato e cresciuto in Israele, anche se bambino ha vissuto a lungo negli Stati Uniti. Al ritorno da lndianapolis, dove la madre aveva svolto la sua specializzazione medica, la famiglia si trasferì nel kibbutz Nir Am, nei pressi di Sderot.
   A New York approdò dopo l'esercito, un'esperienza da lui considerata fondamentale (e sono diversi i suoi amici di allora che oggi fanno parte del gruppo dirigente della società). Dopo una serie di tentativi di business, Neumann con il socio Miguel McKelvey - forse non a caso cresciuto in una comune - affittò per dieci anni uno spazio da 300 metri quadri nel quartiere di Soho: a riempirlo arrivarono 30 clienti (o membri della comunità, secondo la definizione usata da Wework) e un impiegato. Così tutto ebbe inizio.
   Oggi Wework oltre ai numeri da capogiro in termine di giro d'affari e crescita, è anche impegnata sul fronte della solidarietà e della responsabilità sociale: ha lanciato "Wework per i rifugiati" che aiuta questi ultimi a trovare un'occupazione, ha l'obiettivo di rendere tutte le sue sedi a zero emissioni di anidride carbonica entro il 2023, sta lavorando sul fronte dell'educazione per costruire una rete di scuole ispirate al metodo Montessori e che offriranno tra l'altro ai bambini la possibilità di imparare l'ebraico o il cinese mandarino.
   D'altronde, come Neumann ha spiegato in un'intervista al quotidiano Haaretz lo scorso anno, "Siamo qui per cambiare il mondo. Non c'è nient'altro che mi interessi". Una visione profondamente influenzata per stessa ammissione dell'imprenditore, dalla tradizione ebraica, a cui dopo un'infanzia e giovinezza completamente secolarizzata si è progressivamente avvicinato insieme alla moglie Rebekah Paltrow - anche lei partner fondatrice e manager della società. "Mediamente oggi ogni persona guarda il proprio telefono 160 volte al giorno. E so che è ottimo per il business, ma siamo diventati dipendenti dal telefono. E poi arriva Shabbat, e ci disconnettiamo dalla tecnologia, e ci riconnettiamo ai figli, alle persone care e agli amici, e ritroviamo un legarne con qualcosa che è più grande di noi stessi" ha spiegato partecipando a un evento della United Jewish Appeal - Federation of Jewish Philanthropies of New York in dicembre, sottolineando come iniziare a osservare Shabbat su suggerimento del suo rabbino abbia rappresentato anche un rimedio contro l'eccesso di ego di cui sentiva di soffrire. Dopo il primo Shabbat trascorso secondo i tradizionali dettami ha detto: "Sono andato al lavoro e all'improvviso quel tipo di pensieri non c'erano più. Guardavo tutti coloro che mi circondavano e sentivo come fossimo tutti persone, tutti insieme in azione, che ha dato ad alcuni di noi più benedizioni rispetto agli altri, ma non si può mai giudicare o misurare in quale punto della vita le altre persone si trovino. Per tutta la settimana, mi sentivo davvero bene. Fino a giovedì, quando ho percepito come quei pensieri stessero tornando, e io stessi ricominciando a giudicare. Così mi sono detto, 'wow, questa storia di Shabbat è fantastica, ma dura solo cinque giorni. Devo rifarlo'."

(Pagine Ebraiche, gennaio 2019)


In Israele Netanyahu è indistruttibile, ma qualcuno affila le armi

Alle elezioni anticipate di aprile l'opposizione di sinistra e i movimenti di destra sono frammentati, e tutti pensano ai "provini".

di Rolla Scolari

 
A sinistra di Netanyahu: Tzipi Livni e Avi Gabbay
 
A destra di Netanyahu: Naftali Bennet e Ayelet Shaked
MILANO - Sono giorni di colpi di scena, di scismi e di debutti, di drammi politici in diretta televisiva quelli che vive Israele dopo l'annuncio, a dicembre, di elezioni anticipate: si andrà alle urne il 9 aprile, anziché a novembre. Da oltre un mese, la coalizione di destra guidata dal premier Benjamin Netanyahu governa con una maggioranza risicata, 61 seggi su 120 alla Knesset. A indebolire l'alleanza è stata a novembre l'uscita di scena del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, in rotta con il primo ministro a causa di disaccordi sulla risposta militare nei confronti di Hamas, che controlla Gaza. A innescare la decisione di Netanyahu di dissolvere il Parlamento per aprire la corsa alle elezioni sarebbe stato secondo i media israeliani non soltanto la nuova debolezza numerica, ma anche la raccomandazione (trapelata di recente sui giornali) di una squadra di legali nominata dal procuratore di stato di incriminare il premier per corruzione in due dei diversi casi giudiziari in cui è coinvolto. Netanyahu, tra i leader più duraturi della storia israeliana e senza dubbio una delle figure più abili nell'arte della sopravvivenza politica, ha fatto la sua scommessa: arrivare al momento in cui riesploderanno le notizie sui suoi casi giudiziari nella forte posizione di premier appena rieletto, di vincitore per l'ennesima volta e nonostante tutto.
  Attorno a lui, intanto, la scena politica israeliana si frammenta, implode in un caos di fratture e alleanze che traballano. A riassumere i tumulti di queste settimane, cui persino i più navigati cronisti politici della stampa israeliana faticano a star dietro, c'è l'immagine di un dramma consumatosi in diretta televisiva, il primo gennaio. Sul podio più alto, parla il Avi Gabbay, leader dell'indebolita sinistra israeliana. Ha gli occhi bassi. Accanto, il viso teso in una maschera quasi di sdegno, c'è Tzipi Livni, l'eterno premier mancato di Israele, a capo di HaTnuah (il movimento, in ebraico), fino a quella conferenza stampa alleato dei laburisti. La fotografia immortala il momento in cui Gabbay, senza nessun avvertimento precedente, scarica in diretta Livni e il suo partito che, se corresse da solo in aprile, non raggiungerebbe quasi sicuramente lo sbarramento del 3,25 per cento. La rottura drammatica della coalizione di sinistra è soltanto l'ultimo capitolo di una serie di frammentazioni.
  A destra, gli ex allievi e alleati di Netanyahu, il ministri Naftali Bennett e Ayelet Shaked, hanno abbandonato il loro partito di ultra destra, Ha Bayit Ha Yehudi, Focolare ebraico, per fondarne un altro, Ha Yamin Hehadash- la Nuova Destra - che vorrebbe essere più laico del movimento d'origine. Nel giro di poche settimane sono nati anche il partito Gesher (Ponte) della deputata Orly Levy-Abekasis, ex alleata di Lieberman; Telem (dal nome del partito che fu di Moshe Dayan) dell'ex ministro della Difesa di Netanyahu Moshe Ya'alon; e più al centro Hosen L'Yisrael, Resilienza per Israele, dell'ex capo di Stato maggiore Benny Gantz. Per ora, con i sondaggi che lo danno a 12 seggi, un'agenda non chiara perché non ancora pubblica, e solide credenziali militari e di sicurezza, Gantz potrebbe essere il solo a offuscare un poco i pensieri di Netanyahu. Il Likud, il partito del premier, secondo le proiezioni del quotidiano Maariv otterrebbe infatti 30 seggi. Il primo ministro ha poi un'indubbia abilità nel lavorare ad alleanze per formare coalizioni: arte necessaria in Israele per governare. "Non esiste al momento alcuna minaccia per il primo ministro", spiega Tal Schneider, corrispondente politica e diplomatica per il Globes, il quotidiano finanziario israeliano. Certo, è troppo presto per tirare le somme, dice, e in queste settimane in Israele sta nascendo un nuovo scenario politico. "E' iniziata la successione", ha scritto Haaretz, benché il quotidiano spieghi senza cerimonie come si preannunci un'ennesima vittoria di Netanyahu, in assenza di rivali credibili. Tuttavia, "in molti pensano che il premier uscirà di scena dopo le elezioni. Per questo - dice Schneider - molti politici si presentano adesso agli elettori come in una sorta di provino. Vogliono che il pubblico israeliano li veda in una nuova e migliore posizione, che li giudichi per la prossima fase".

(Il Foglio, 5 gennaio 2019)


Palestina, liberali creano nuovo partito per sfidare Hamas e Fatah

La prima battaglia politica della nuova formazione consisterà nel sollecitare gli esecutivi di Ramallah e Gaza a indire al più presto libere elezioni presidenziali e parlamentari in tutta la Palestina

di Gerry Freda

Nei territori palestinesi si è in questi giorni costituita una nuova formazione politica intenzionata a "spezzare il duopolio Fatah-Hamas".
   Cinque piccoli partiti di ispirazione liberale presenti nel parlamento di Ramallah hanno infatti recentemente deciso di unirsi e dare vita a The Democratic Caucus. I rappresentanti del neonato movimento hanno annunciato di volere costituire sezioni e circoli di quest'ultimo in tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, al fine di divenire "in breve tempo" un "partito di massa", in grado di competere con Hamas e Fatah sul piano elettorale. I primi comitati locali della nuova fazione verranno costituiti nella regione di Shomron, Nord della Cisgiordania, e nella città di Khan Yunis, situata nella parte meridionale della Striscia.
   Gli esponenti di quella che si appresta a divenire la terza forza politica dei territori palestinesi hanno anche evidenziato i loro punti programmatici fondamentali. In primo luogo, essi intendono promuovere lo sviluppo, nei territori in questione, di una "vera cultura dei diritti umani". The Democratic Caucus rigetta infatti sia l'"estremismo di Hamas" sia l'"autoritarismo del partito di Abu Mazen" e mira a instaurare in Palestina un "effettivo pluralismo partitico".
   Un altro elemento-chiave del programma della nuova fazione è l'approccio "dialogante" verso le autorità israeliane. Per gli esponenti del neonato movimento, il rilancio delle trattative con il governo dello Stato ebraico rappresenta l'"unico strumento possibile" per "appagare le rivendicazioni del popolo palestinese".
   La prima battaglia politica della nuova formazione consisterà nel sollecitare gli esecutivi di Ramallah e Gaza a indire "al più presto" libere elezioni presidenziali e parlamentari in tutta la Palestina. L'ultima volta che tali consultazioni si sono celebrate nei territori in questione risale infatti al 2006. Da allora, gli abitanti della Cisgiordania e della Striscia non hanno più avuto la possibilità di assistere a competizioni elettorali a causa della guerra civile esplosa tra Hamas e Fatah, i due partiti che The Democratic Caucus intende scalzare dal potere.

(il Giornale, 5 gennaio 2019)


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Palestina. La scossa tanto attesa, riecco la sinistra palestinese

Cinque partiti hanno annunciato la formazione a Gaza e in Cisgiordania dell'Unione democratica (Ud), un terzo polo alternativo ai due partiti maggiori, Fatah e il movimento islamico Hamas. Lotta all'occupazione israeliana, fine degli Accordi di Oslo e giustizia sociale sono le parole d'ordine.

di Michele Giorgio

E pur si muove! La celebre frase attribuita a Galileo commenta alla perfezione la scossa avvenuta nella sinistra palestinese che, come nel resto del mondo, non se la passa bene. Cinque partiti, alcuni con una radice marxista come il Fronte popolare (Fplp) e il Fronte democratico (Fdlp), altri riformisti come Iniziativa Nazionale del parlamentare e attivista Mustafa Barghouti, il Partito del popolo (Ppp, ex comunisti) e Feda (socialdemocratici), hanno annunciato due giorni fa la formazione a Gaza e in Cisgiordania dell'Unione democratica (Ud), una sorta di terzo polo alternativo ai due partiti maggiori, Fatah del presidente Abu Mazen e il movimento islamico Hamas. Un passo atteso da tempo che vuole ridare un punto di riferimento concreto, e un po' di entusiasmo, ai tanti palestinesi che non condividono le posizioni dei laici di Fatah che controllano le città autonome in Cisgiordania e quelle degli islamisti al potere nella Striscia di Gaza.
  «Fatah e Hamas non sono nostri nemici e con loro percorreremo sempre la via del dialogo, il nostro nemico è Israele che opprime il popolo palestinese e nega i suoi diritti. Allo stesso tempo Fatah e Hamas sono due organizzazioni di destra e portano avanti politiche che noi non condividiamo in gran parte dei casi» dice al manifesto Mariam Abu Daqqa, storica dirigente del Fronte popolare e una delle leader delle donne nella Striscia di Gaza. «Posizioni diverse dalle nostre e in conflitto tra di loro. - aggiunge Abu Daqqa - La voglia di potere (da parte di Hamas e Fatah) ha contribuito ad aggravare la condizione dei palestinesi e a fallire l'obiettivo principale: la liberazione dall'oppressione israeliana» aggiunge Abu Daqqa. L'Ud, prosegue la dirigente del Fplp, vuole rappresentare agli occhi della popolazione una alternativa progressista e democratica nella lotta di liberazione, così come in politica, economia e società. «E per realizzare questi obiettivi abbiamo bisogno di maggior progresso e della partecipazione delle donne», conclude Abu Daqqa.
  Da alcuni giorni è al lavoro un comitato che racchiude i rappresentanti delle cinque formazioni, con l'incarico di definire le strategie per combattere quelle che l'Unione democratica ritiene le malattie che stanno uccidendo la causa palestinese. «A cominciare dagli Accordi di Oslo (con Israele 1993)» ci spiega Iyad Abu Rahme, ex portavoce del Fplp, «che si sono rivelati una trappola per il nostro popolo. La loro fine è essenziale per ridare slancio all'idea di un progetto politico di tutti i palestinesi e per mettere fine allo scontro tra Fatah e Hamas». Khaled al Khatib, del Feda, teorizza una «strategia per costruire la giustizia sociale e creare uno Stato palestinese indipendente con piena sovranità sui Territori palestinesi occupati da Israele». Strategia che, prevede al Khatib, deve realizzarsi «sotto l'egida dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), l'unico e legittimo rappresentante di tutti i palestinesi».
  Se la fine, graduale, degli Accordi di Oslo e la rinascita dell'Olp rappresentano un principio condiviso, le cinque formazioni dell'Ud non si esprimono, o almeno non ancora, sul futuro dell'Autorità nazionale palestinese nata dalle intese del 1993 tra l'Olp e Israele. Così come non hanno ancora deciso una posizione comune su una soluzione a Due Stati (Israele e Palestina) o a Stato unico non sionista sull'intero territorio storico della Palestina, per ebrei e palestinesi insieme. Dall'Ud giungono voci di discussioni accese tra i rappresentanti del Fplp e del Fdlp, più orientati verso lo Stato unico, o almeno binazionale, e i partiti più moderati, Ppp e Feda, favorevoli ai Due Stati. Non meno importante sarà capire nelle prossime settimane con quali politiche ed iniziative pubbliche l'Unione democratica pensa di strappare a Fatah e soprattutto ad Hamas a Gaza il favore di milioni di palestinesi. Tenendo conto anche che l'unico dei cinque partiti della coalizione che gode di un consenso di un certo rilievo è il Fplp mentre le altre formazioni appaiono più marginali se non residuali all'interno della società e della politica palestinese.

(Il manifesto, 5 gennaio 2019)


La rivelazione di Al Sisi: assieme a Israele combattiamo i terroristi dell'Isis nel Sinai

Il presidente egiziano: "Abbiamo un livello di cooperazione mai visto, ad ampio raggio con gli israeliani ". Poi l'Egitto chiede alla Cbs di non trasmettere l'intervista.


di Giordano Stabile

Egitto e Israele combattono assieme l'Isis nel Sinai, con un «livello di cooperazione mai visto, ad ampio raggio», tanto da includere anche raid dei cacciabombardieri dello Stato ebraico sul territorio egiziano. Il presidente egiziano Abdel Fateh al-Sisi rivela per la prima volta la stretta collaborazione militare con l'ex nemico, l'avversario di tre guerre sanguinose, ora divenuto partner nella lotta contro il terrorismo jihadista. Lo ha fatto in un'intervista al programma 60 Minutes della tv americana Cbs. Con un «incidente» che però ha spinto l'ambasciata egiziana a Washington a chiedere la sospensione della messa in onda. Niente da fare, l'intervista sarà trasmessa domani negli Stati Uniti.
   L'imbarazzo non riguarda le rivelazioni su Israele ma un altro soggetto, che Al Sisi forse non voleva affrontare. Cioè la presenza di «60 mila detenuti politici», una stima della Ong Human Rights Watch che il leader egiziano ha smentito di fronte alla domanda del conduttore Scott Pelley. Il tema è stato affrontato dopo quello che Al Sisi voleva mettere in evidenza, cioè il livello delle relazioni raggiunto con lo Stato ebraico e le conseguenze geopolitiche, in quanto Israele, Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita hanno di fatto formato un'alleanza regionale, con la benedizione del presidente americano Donald Trump.
   L'Egitto è stato il primo Paese arabo a firmare la pace con Israele nel 1979, ma sono stati 40 anni di «pace fredda». L'irruzione dell'Isis nel Sinai e la lotta parallela contro i gruppi jihadisti ha cambiato le cose. Alla domanda se la cooperazione fra i due Paesi sia «più stretta che mai» Al Sisi ha risposto che «sì, è corretto, abbiamo un ampio spettro di cooperazione» e ammesso implicitamente che cacciabombardieri con la Stella di David compiono raid sul Sinai egiziano, come ha rivelato lo scorso febbraio il New York Times.
   Secondo il quotidiano statunitense Israele ha effettuato oltre 100 bombardamenti fra il 2016 e il 2018, in media uno alla settimana. La cooperazione va però anche nell'altro senso, perché in precedenza il sito israeliano Ynet aveva rivelato che aerei da guerra egiziani sono entrati nello spazio aereo israeliano per colpire postazioni dell'Isis lungo la frontiera. La cooperazione include anche scambi di intelligence e ha avvicinato «come mai prima» gli apparati militari.
   La lotta implacabile all'estremismo islamico, che Al Sisi conduce da quando nel luglio del 2013 ha deposto l'ex presidente Mohammed Morsi, vicino ai Fratelli musulmani, ha però un contraltare sinistro. La repressione ha coinvolto in massa gli attivisti della Fratellanza, e pure di movimenti laici ostili alla svolta autoritaria. Il conduttore Pelley ha affrontato anche questo argomento e il massacro di quasi mille dimostranti in piazza Rabaa al Cairo, il 14 agosto 2014. Al Sisi ha ribattuto che al sit-in «c'erano migliaia di militanti armati» e che ora in Egitto «non ci sono detenuti politici, ovunque ci sia una minoranza che cerca di imporre la sua ideologia estremista noi dobbiamo intervenire, non importa quanti siano».
   Una smentita che suona come una conferma.

(La Stampa, 5 gennaio 2019)


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L'Egitto alleato di Israele, ma non si può dire

L'intervista di Al Sisi alla Cbs

L'Egitto ha chiesto all'emittente statunitense Cbs di non trasmettere un'intervista al presidente Abdel Fatah Al Sisi, in cui si rivela della collaborazione fra Il Cairo e Gerusalemme contro i terroristi islamici nella Penisola del Sinai. Lo ha fatto sapere la rete americana, sul proprio sito web. L'intervista dovrebbe essere comunque trasmessa domani, durante il programma «60 Minutes». «Al-Sisi ha incontrato Scott Pelley per dare notizie a 60 Minutes e lo ha fatto, confermando che il suo esercito sta lavorando con Israele contro i terroristi nel Sinai del Nord», si legge. Quando gli è stato domandato se la collaborazione sia la più stretta mai avvenuta, al-Sisi ha detto, secondo Cbs: «Questo è corretto. Abbiamo un ampio raggio di collaborazione con gli israeliani».

(Libero, 5 gennaio 2019)


Tifo violento, i due volti di Israele

Lettera al Resto del Carlino

A Tel Aviv ho assistito alla partita di basket Eurolega Maccab iAx Milano. Arriviamo alla Nokia Arena (unici italiani) nella curva ultras degli israeliani tutti in maglia gialla. Stentano ad accettarci per il nostro abbigliamento scuro. Un tifo pro per 40 minuti sempre in piedi, un fair-play mai riscontrato, una cordialità unica hanno reso una serata di sport indimenticabile.
M. Alex, Milano



Il tifo organizzato con derive violente è un fenomeno globale difficile da gestire. Pochi Paesi ne sono immuni. Fa piacere avere una testimonianza che una volta tanto racconta un esempio positivo. Attenzione però, anche Israele ha il problema delle tifoserie violente soprattutto nel calcio. Gli ultras del basket in genere non arrivano agli estremi del calcio.Ma Israele deve fare i conti con la tifoseria calcistica del Beitar Gerusalemme, considerata per un certo periodo una delle più pericolose. Ma se in Israele gli aficionados del calcio sono irruenti come in Italia, da quelle parti le istituzioni e le forze dell'ordine vantano il primato della severità, come in Inghilterra. Due anni fa la polizia avviò una indagine che portò rapidamente a 50 arresti. L'Italia dovrebbe farsi prestare gli appunti dalla polizia di Tel Aviv e dintorni per i compiti a casa.
Beppe Boni, condirettore del Resto del Carlino

(Il Resto del Carlino, 5 gennaio 2019)


Dieta Kosher contro il colesterolo

Ecco cosa si mangia

 
La dieta kosher si basa su un'alimentazione ebraica ovvero sul consumo di alimenti salutisti e sempre tracciati. E' noto infatti che nell'alimentazione ebraica vi sono più controlli su batteri e impurità. Chi segue una dieta Kosher mantiene basso il livello del colesterolo.
   Il termine Kosher in ebraico significa "adatto", "idoneo" e, se riferito ai prodotti alimentari, indica che quel cibo può essere consumato da un ebreo osservante. Ma perché un alimento viene definito Kosher? Un alimento Kosher viene definito tale quando è conforme alle leggi della Torah, che il popolo ebreo segue fedelmente da oltre 3,000 anni e delle quali i Rabbini, ancor oggi, verificano il rigoroso rispetto. Alcune regole sono molto dettagliate e specificano anche le modalità di macellazione degli animali, oltre che definire delle vere e proprie linee guida per dieta quotidiana dei fedeli: infatti consumare cibo kosher seguendo i dettami della Torah significa, per tutti gli ebrei osservanti, non solo alimentarsi per il proprio sostentamento, ma anche alimentare la propria spiritualità.
   E' noto che le persone che seguono, in maniera rigorosa, una dieta ebraica sono generalmente più sane rispetto a quelle che non lo fanno. Ad esempio, i primi hanno livelli di colesterolo più bassi dei secondi, in quanto la dieta non permette di mangiare insieme la carne con i prodotti caseari. Di conseguenza, niente pizza, cheeseburger o lasagne, eliminando così quasi tutti gli alimenti che si possono mangiare in un fast food. Inoltre non si possono mangiare la carne di maiale caratterizzata dalla presenza di più allergeni rispetto ad altri tipi di carne e alcuni mammiferi piccoli come i conigli. Ecco le altre diete pubblicate sul nostro sito.
   ll cibo kosher si classifica in tre diverse categorie in base alla loro origine: cibi a base di carne, cibi a base di latte e cibi parve. I cibi Parve sono quelli che non contengono ingredienti né di carne né di latte sono definiti parve, termine che indica il loro stato "neutrale". Frutta e verdura allo stato naturale sono kosher e parve. Il pesce che ha pinne e squame è kosher e parve. Il cibo parve può diventare di latte se cucinato con latte o derivati, e di carne se invece cucinato con derivati di carne.

(Quotidiano di Ragusa, 5 gennaio 2019)


Sgomberato in Cisgiordania l'insediamento non autorizzato

di Giordano Stabile

Le forze di sicurezza israeliane hanno di nuovo sgomberato l'insediamento non autorizzato di Amona, ma la battaglia legale che va avanti da decenni rischia di intralciare la marcia di Benjamin Netanyahu verso la vittoria nel voto anticipato del 9 aprile. Sotto i governi di centrodestra gli insediamenti in Cisgiordania hanno continuato a espandersi, ma su un punto il premier non ha mai ceduto alla destra religiosa, e cioè difendere quelli giudicati illegittimi dai tribunali. E' il caso di Amona, un villaggio fondato nel 1995 vicino alla cittadina palestinese di Silwad, che nel 2017 contava 200 abitanti. Già nel 2006 la Corte suprema lo aveva giudicato illegale perché costruito su terre in precedenza coltivate da contadini locali. Una sentenza del 2014 aveva poi ordinato la sua "completa demolizione". L'ordine è stato eseguito nel febbraio del 2017, in giornate di scontri con decine feriti fra poliziotti e gli abitanti che si rifiutavano di lasciare le loro case.

 L'appoggio dei partiti religiosi
  La questione sembrava chiusa ma la scena si è ripetuta ieri all'alba, quando un centinaio di poliziotti di frontiera si sono presentati di nuovo davanti all'insediamento. Nell'anno e mezzo passato dalla sgombero alcuni degli abitanti, una decina, hanno infatti montato due abitazioni prefabbricate e sono tornati a vivere lì. Una sfida anche alle forze armate, che hanno il controllo della sicurezza nell'area. E' stata di nuovo battaglia. Gli agenti sono stati accolti da un fitto lancio di pietre e rotoli di filo spinato e hanno dovuto spostare a forza gli abitanti, asserragliati nelle case e dietro barricate di pneumatici in fiamme, e trascinarli via di peso. Ventitré guardie sono rimaste ferite, sette persone sono state arrestate. L'esercito ha parlato di «intensa violenza» ma gli irriducibili sembrano intenzionati a resistere, anche perché hanno l'appoggio dei partiti religiosi, che puntano a fare il pieno di consensi fra gli insediamenti in Cisgiordania. La battaglia politica è condotta soprattutto da Habayait Hayehudi, cioè la Casa Ebraica guidata da Naftali Bennett, in rotta con Netanyahu. Il deputato Bezalel Smotrich ha accusato il premier di «presentarsi come un leader di destra» ma di comportarsi in maniera opposta. L'Unione nazionale ha sottolineato come il primo ministro «sia lesto a premere il grilletto quando si tratta di demolire case in Giudea e Samaria» ma non altrettanto quando si tratta di "Khan al-Ahmar", il villaggio beduino giudicato illegale ma mai demolito, anche per le pressioni internazionali.

(La Stampa, 4 gennaio 2019)


Indovinate chi non c'è nella lista nera dei paesi che perseguitano i cristiani

Tenete a mente queste tre parole: islam, Israele, cristiani

di Giulio Meotti

 
Cari amici, quante cose si scoprono a sfogliare la più precisa, dettagliata e importante "lista nera" dei 50 stati al mondo in cui si perseguitano i cristiani e diffusa da Open Doors. Si scopre ad esempio che fra i primi dieci paesi, con l'eccezione di quella topaia comunista che è la Corea del nord e che dovrebbe entrare nei libri di storia, sono tutti paesi islamici. Strano no? Visto che il Vaticano, che rappresenta un miliardo di cristiani, non solo si rifiuta di nominarli, questi persecutori dei cristiani, ma li incensa pure.
Si scopre anche che, fra questi cinquanta paesi, non c'è quello dove è nato il cristianesimo e che da 70 anni è nelle mani salde e sagge del popolo ebraico: Israele. Già, nella lista nera ci sono i Territori palestinesi che perseguitano i cristiani, ma Israele non c'è proprio. Strano anche questo, no? Visto che è uno stato che la Santa Sede ha riconosciuto soltanto venticinque anni fa, che si rifiuta di nominare chiamandolo "terra santa" e di cui molte chiese nel mondo, soprattutto progressiste, tifano per i suoi nemici. Ecco la lista. Tenete a mente queste tre parole: islam, Israele, cristiani. Tirate le somme e le conclusioni. Non c'è peggior cieco di chi non vuole vedere.

(Il Foglio, 4 gennaio 2019)


Studio israeliano: 168 attacchi dell'Isis nel 2018

L'Isis è rimasto ancora il principale protagonista di questo genere di attentati avendone realizzati direttamente o indirettamente 168

Anche se ha perduto il controllo fisico su vaste zone del Medio Oriente nel 2018 l'Isis è stato ancora molto attivo. Secondo una ricerca condotta da esperti del Centro di studi strategici Inss di Tel Aviv - di cui riferisce Haaretz - l'anno scorso si sono avuti in vari Paesi al mondo 292 attacchi suicidi che hanno provocato la morte complessivamente di 2.840 persone: l'Isis, malgrado le sue sconfitte militari, è rimasto ancora il principale protagonista di questo genere di attentati avendone realizzati direttamente o indirettamente 168, ossia il 57,5 per cento.
Al-Qaeda ed i suoi alleati ne hanno compiuti altri 65, secondo l'Inss. Gli autori della ricerca rilevano che, mentre in anni passati gran parte degli attacchi suicidi avvenivano in Iraq, adesso il fulcro si è spostato nell'Afghanistan dove nel 2018 se ne sono avuti 83. Altri 81 attacchi di uomini-bomba si sono verificati in Africa.
In Israele, nel 2018, non si ci sono stati attacchi ma almeno sei sarebbero stati sventati dai servizi di sicurezza.

(Il Populista, 4 gennaio 2019)


Aerei russi intercettano aerei-spia israeliani

Apparentemente, l'ossessione per gli S-300 siriani non abbandona il regime israeliano. Questa volta erano caccia russi che intercettavano un aereo-spia israeliano sul Libano. Dopo essere decollati dalla base aerea di Humaymim nella Siria occidentale, gli aerei russi intercettavano un aereo spia israeliano scortato da diversi aerei da combattimento al largo delle coste del Libano. la mattina del 30 dicembre, riporta il sito South Front. Gli osservatori confermavano che un velivolo-spia Gulfstream G550 Nahshon-Shavit (SIGINT) dell'aviazione israeliana era in missione di ricognizione sulle acque internazionali al largo delle coste di Siria e Libano. Nel frattempo, una fonte locale di Tartous dichiarava a SouthFront che gli aerei da guerra russi furono visti dirigersi verso le coste libanesi.
   La notizia non veniva confermata da Israele o Russia. Tuttavia, non era la prima volta che circolavano informazioni sull'intercettazione di aerei israeliani da parte russa in questa regione. A maggio, diversi rapporti riferirono che un aereo da guerra russo Su-34 aveva intercettato F-16 israeliani nel nord del Libano. Al momento, le fonti locali trasmisero un video che mostrava il Su-34 su Tripoli, nel nord del Libano. In seguito alla distruzione dell'Il-20 a settembre, quando caccia israeliani l'avevano usato come scudo per sfuggire alla contraerea siriana, il Ministero della Difesa russo minacciava di colpire qualsiasi oggetto volante ostile che si avvicinasse alle coste siriane.

(Autora - Altervista, 4 gennaio 2019)


Ospedale statunitense licenzia dottoressa antisemita: "Darei agli ebrei medicinali sbagliati"

di Davide Falcioni

Lara Kollab
Lara Kollab, una dottoressa statunitense dell'Ohio, è stata licenziata in tronco dall'ospedale in cui lavorava a causa di alcuni commenti antisemiti scritti sui social network. Tra le dichiarazioni più inquietanti ce n'era una, pubblicata su Twitter, in cui la donna affermava di non aver problemi a prescrivere ai cittadini ebrei le medicine errate. La dottoressa Kollab, inoltre, avrebbe ripetutamente definito gli ebrei "cani", spiegando poi che la storia legata all'Olocausto era "esagerata". La notizia è stata data dal The Time of Israel e poi ripresa da altri media, secondo cui la donna sarebbe una sostenitrice di Hamas favorevole alla causa palestinese. La dottoressa avrebbe paragonato l'occupazione della Cisgiordania da parte dei coloni israeliani alle violenze del nazifascismo in Europa.
Un dirigente della Cleveland Clinic - l'ospedale presso cui lavorava la donna - ha commentato il provvedimento disciplinare, spiegando a Nbc News che la decisione di licenziarla era stata presa proprio per il tenore dei suoi post sui social media. "Non ci sono state segnalazioni di danni provocati ai pazienti da lei curati durante il periodo di lavoro qui", iniziato nel 2018. "In nessun modo - ha poi continuato il portavoce - le sue idee riflettono quelle della nostra organizzazione".

(Fanpage, 3 gennaio 2019)



Israele e i nuovi immigrati. I non ebrei la maggioranza

Per la prima volta, nel 2018, in Israele sono immigrati più non ebrei che ebrei. Secondo i numeri diffusi dall'Ufficio Centrale di Statistica, 17700 dei 32600 immigrati arrivati nello Stato ebraico lo scorso anno hanno potuto beneficiare della Legge del ritorno, che permette di ottenere la cittadinanza anche con un solo nonno ebreo, ma sono stati classificati come "senza religione".
Prevalentemente originari di ex Unione Sovietica e Paesi baltici, hanno infatti un'origine ebraica verificabile con certezza ma non sono ebrei secondo la Legge ebraica. E quindi non possono ad esempio sposarsi nel quadro dell'ortodossia ebraica.
Un tema che, proprio in queste settimane, sta riaccendendo un confronto che investe istituzioni, rabbinato, opinione pubblica.
Come riporta tra gli altri il Times of Israel, in Israele ci sono all'incirca 400mila residenti non considerati ebrei dal rabbinato ortodosso. Secondo Itim, un gruppo di pressione che ha come mission quella di aiutare gli israeliani a districarsi nei gangli della burocrazia, queste persone sarebbero "come sospese in un limbo, impossibilitate a impegnarsi in matrimoni riconosciuti dallo Stato, a godere di altri fondamentali diritti propri di chi invece è ebreo".
Itim ha definito la situazione "inaccettabile, anche per il sistema inefficace di conversioni all'ebraismo in vigore".
Secondo una indagine del 2014, sempre segnalata dal Times of Israel, la proporzione di non ebrei secondo l'ortodossia che dall'ex Unione Sovietica emigravano subito dopo la Guerra Fredda era decisamente inferiore: tra il 12 e il 20 per cento dei richiedenti. Percentuale decisamente impennatasi sul finire degli Anni Novanta (tra il 40 e il 50 per cento). Dall'inizio degli anni Duemila il dato segnalato è del 56-60 per cento.

(moked, 4 gennaio 2019)


Trump: «l'Iran in Siria può fare quello che vuole». Sorpresa in Israele

Arrivati a questo punto sinceramente ci arrendiamo. L'ultima dichiarazione del Presidente Trump è francamente incomprensibile, basata su un presunto ritiro dell'Iran dalla Siria e dallo Yemen che nei fatti vede solo lui.

Due importanti testate israeliane, Ynet e il Times of Israel questa mattina riportano una frase del Presidente Trump che non si capisce bene se appartenga alla famiglia del menefreghismo o del tradimento.
«Francamente gli iraniani in Siria possono fare quello che vogliono» ha detto il Presidente americano ai giornalisti secondo quanto riportano le due testate israeliane.
Secondo Trump gli iraniani se ne starebbero andando dalla Siria (e dallo Yemen) perché adesso avrebbero altre gatte da pelare.
«L'Iran non è più lo stesso paese», ha detto Trump. «L'Iran sta ritirando il personale dalla Siria. Possono fare quello che vogliono lì, francamente, ma stanno tirando fuori il personale. Stanno tirando fuori la gente anche dallo Yemen. L'Iran vuole sopravvivere ora» ha poi continuato riferendosi probabilmente alle sanzioni americane contro la Repubblica Islamica che avrebbero costretto gli iraniani a più miti consigli....

(Rights Reporters, 4 gennaio 2019)


"Bolsonaro-Bibi, svolta radicale"

 
Benjamin Netanyahu e il nuovo presidente brasiliano Jair Bolsonaro
Un'amicizia destinata a lasciare il segno, quella tra il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il nuovo presidente brasiliano Jair Bolsonaro. È l'opinione dei principali media del paese sudamericano, che hanno dato molta enfasi alla visita di Netanyahu, ai suoi incontri, alle parole e ai gesti che hanno caratterizzato questa missione nei giorni dell'insediamento del controverso ex militare alla guida del Paese.
   "Questa visita è stata unica e storica. Un cambio radicale nelle relazioni tra i due paesi. Un grande inizio di 2019" ha affermato nelle scorse ore Yossi Shelley, ambasciatore israeliano in Brasile, interpellato dalla Jewish Telegraphic Agency.
   Entusiasmo condiviso da Freddy Glatt, 90 anni, presidente dell'associazione brasiliana di sopravvissuti alla Shoah che ha accolto per lo Shabbat il Premier di Israele e sua moglie Sara. "La sua visita - ha commentato - ha mostrato ai brasiliani le cose belle di Israele. Nonostante le consuete critiche da sinistra, Netanyahu si è comportato con gentilezza e semplicità". E questo, a suo dire, avrebbe avuto un impatto positivo sull'opinione pubblica locale.
   Nelle sue giornate in Brasile Netanyahu ha incontrato leader ebraici di diversi Stati brasiliani, compresi quelli preoccupati per l'impatto di una figura estrema come Bolsonaro.
   "La comunità ebraica è piuttosto diversificata e lavoreremo in modo che le differenze politiche non influenzino la nostra unità" ha detto Fernando Lottenberg, presidente degli ebrei brasiliani.
   A muovere molte reazioni anche l'annuncio che presto l'ambasciata brasiliana sarà trasferita da Tel Aviv a Gerusalemme, seguendo l'esempio degli Stati Uniti. Incontrando Netanyahu, Bolsonaro ha detto: "Quest'uomo che è per me un esempio di patriottismo, austerità e duro lavoro per il suo popolo. Ho sempre citato Israele come esempio. Guardate cosa non hanno e vedete cosa sono. Guardate il Brasile, guardate cosa abbiamo e vedete cosa non abbiamo. Saremo più che buoni partner, saremo fratelli". Così invece Netanyahu: "Non abbiamo amici migliori al mondo della comunità evangelica, e la comunità evangelica non ha amici migliori al mondo di Israele", ha detto Netanyahu. "Voi siete i nostri fratelli e sorelle. E noi proteggiamo i diritti dei cristiani".

(moked, 3 gennaio 2019)


Stupore a Tel Aviv dopo le esternazioni di Trump

Dopo che il presidente USA ha affermato che «l'Iran sta rimuovendo personale fuori dalla Siria ma francamente può fare quello che vuole»

Il presidente statunitense Donald Trump ha destato stupore in Israele quando ieri ha dichiarato che, per quanto lo concerne, l'Iran può operare a piacimento in Siria. Durante un incontro con la stampa nella Casa Bianca Trump ha affermato che «l'Iran sta rimuovendo personale fuori dalla Siria ma francamente può fare quello che vuole». Le sue parole sono riportate oggi sulle prime pagine di alcuni giornali israeliani. Un funzionario governativo israeliano ha detto a Yediot Ahronot: «Sono sbalordito. Trump semplicemente non è esperto di quanto accade in Siria e degli sforzi dell'Iran di approfondire la propria presenza». Ancora due giorni fa, in Brasile, il premier israeliano Benyamin Netanyahu aveva discusso della situazione in Siria con il segretario di Stato americano Mike Pompeo. Sulla agenda del colloquio, aveva precisato, c'erano «la cooperazione di intelligence e militare in Siria ed altrove ed i modi adeguati per arginare la aggressività iraniana in Medio Oriente. Questo è un nostro obiettivo comune».

(Corriere del Ticino, 3 gennaio 2019)


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Il doppio errore di Trump preoccupa Israele e fa un regalo all'Iran

Sembra che Trump stia riconsiderando i tempi del ritiro dalla Siria, ma si verifica già una serie di conseguenze non positive per Washington.

di Caleb J. Wulff

Barack Obama è stato spesso criticato per la ambiguità della sua politica in Medio oriente e per gli esiti disastrosi, soprattutto per le popolazioni coinvolte, dell'ideologica strategia del regime change. Malgrado la diversa impostazione di Donald Trump, è difficile rilevare cambiamenti in positivo e l'impressione è che l'ambiguità sia stata sostituita dall'estemporaneità, altrettanto pericolosa. Lo scorso 19 dicembre, Trump aveva comunicato il ritiro in tempi brevi dei circa 2mila soldati americani operanti in Siria. La decisione era stata criticata anche nel suo partito e aveva portato alle dimissioni di Jim Mattis, Segretario alla Difesa, che sosteneva invece un ritiro graduale e la necessità di non abbandonare le milizie curde alleate degli Stati Uniti.
   Sembra però che Trump abbia cambiato opinione e sia ora in favore di un ritiro meno affrettato, come richiesto a suo tempo dal dimissionato Mattis. Il ripensamento pare essere avvenuto dopo la visita di Trump alla base militare in Iraq, dove avrebbe constatato che la minaccia dell'Isis non è scomparsa, come invece aveva affermato in precedenza. Secondo il senatore repubblicano Lindsey Graham, Trump vorrebbe anche evitare che il ritiro delle truppe avvantaggi troppo l'Iran e lasci i curdi esposti agli attacchi dei loro avversari, leggi la Turchia. Graham è un alleato di Trump, ma aveva criticato la decisione sulla Siria e aveva anche preso le distanze dal sostegno del presidente a Mohammed bin Salman nel caso Khashoggi.
   Anche Francia e Regno Unito, impegnati militarmente in Siria e con cui il ritiro non è stato apparentemente concordato, hanno criticato la decisione di Trump, non ben accolta neppure dall'alleato per eccellenza: Israele. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha subito dichiarato che Israele continuerà a contrastare, perfino con maggiore intensità, la presenza iraniana in Siria. Netanyahu, coinvolto in diversi casi di corruzione, ha indetto elezioni anticipate per il prossimo aprile e Israele si trova ad affrontare questa nuova difficile situazione in piena crisi di governo. Non proprio un'ottima tempistica quella di Trump.
   Il risultato finale è comunque molto negativo per l'immagine degli Stati Uniti: dopo sette anni di guerra, con distruzioni materiali e di vite umane enormi, il regime di Assad è ancora saldamente in sella, l'Iran ha rafforzato la sua presenza nell'area, la Russia è rimasta la potenza che dà le carte. Trump si è giocato la fiducia degli alleati, come dimostrano gli accordi tra curdi e governo siriano, sponsorizzati dai russi e non ostacolati dai turchi, che sembrano ormai più vicini a Putin che a Trump. Inoltre, sta cambiando l'atteggiamento di alcuni Stati arabi nei confronti di Assad: gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso la riapertura, dopo sette anni, dell'ambasciata a Damasco, cui seguirà quella del Bahrain. E' pensabile che queste mosse abbiano avuto il beneplacito dell'Arabia Saudita, l'altro alleato Usa attualmente in gravi difficoltà. Anche Sudan, Tunisia e Egitto stanno riaprendo rapporti, sia pure ancora limitati, con Damasco e si sta perfino discutendo di riammettere la Siria nella Lega Araba.
   E l'Iran? Si presenta come vincitore, insieme a Damasco e Mosca, della lunga guerra in Siria, ma per il momento mantiene un atteggiamento cauto e diretto a rendere più "morbidi" i rapporti con la Turchia e a rafforzare quelli con il Qatar, in funzione antisaudita. Non è da dimenticare che Israele è l'unica potenza nucleare della regione: forse in questa ottica vanno letti gli avvertimenti di Putin sui pericoli di una guerra nucleare e l'esaltazione per i nuovi missili russi Avangard. Un messaggio non solo a Washington, ma anche a Israele.
   La visita di Trump in Iraq, però, non ha avuto molto successo con le autorità locali, soprattutto tra parlamentari della maggioranza sciita, sia delle fazioni allineate con Teheran, sia tra quelle che se ne distanziano. Costoro hanno considerato la visita alla base militare statunitense uno sgarbo formale nei confronti dell'Iraq e il primo ministro iracheno ha cancellato il previsto incontro con Trump. Quest'ultimo avrebbe preteso che l'incontro avvenisse all'interno della base americana, cosa rifiutata dagli iracheni. Per diversi commentatori negli Stati Uniti la visita è stata un atto elettoralistico a fine interni. Si è in particolare sottolineata la frase in cui Trump affermava che gli americani erano stanchi di essere considerati dei "suckers", dei fessi sempre disposti a togliere le castagne dal fuoco per gli altri. L'ennesima versione di "America First", che ha messo in allarme più di un alleato.
   Infine, nel gioco non poteva mancare la Cina, che non ha mandato truppe, ma ha firmato nel 2015 un accordo per prendere in gestione per 25 anni il porto israeliano di Haifa. Secondo quanto riporta The Jerusalem Post, la cosa non è stata accolta bene dagli Stati Uniti, che usano il porto come base per esercitazioni militari navali. I lavori cinesi nel porto, valutati in 2 miliardi di dollari, dovrebbero partire nel 2021, ma sembra che le autorità israeliane stiano riesaminando la questione, divisi tra le opportunità economiche offerte dai cinesi e la necessità di non peggiorare i rapporti con Washington. Un altro problema da risolvere per il governo israeliano che nascerà dalle elezioni di aprile.

(ilsussidiario.net, 3 gennaio 2019)


L'Honduras potrebbe trasferire la propria ambasciata a Gerusalemme

Dopo Stati Uniti e Brasile, anche l'Honduras potrebbe trasferire la propria ambasciata in Israele da Tel-Aviv a Gerusalemme.
A dare la notizia ai giornalisti è stato lo stesso premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in visita a Brasilia, dove ha presenziato all'insediamento del neo-presidente brasiliano, il conservatore Jair Bolsonaro, che solo pochi giorni fa si era anche lui impegnato a spostare la propria rappresentanza diplomatica nella città santa.
A margine della cerimonia Netanyahu, oltre al Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha infatti incontrato anche il presidente dell'Honduras, Juan Orlando Hernandez, anche lui alla guida di un governo di estrema destra.
La decisione di Hernandez significa quindi che l'Honduras, contrariamente alle Nazioni Unite e alla gran parte dei paesi, riconosce ora Gerusalemme, città sacra all'ebraismo ma anche al cristianesimo e all'islam, quale capitale di Israele, schierandosi di fatto apertamente su posizioni ostili alla causa palestinese.

(Notizie Geopolitiche, 3 gennaio 2019)


Il premier croato attende "dichiarazioni definitive e chiare" sull'acquisto di F-16 israeliani

ZAGABRIA - Il premier della Croazia, Andrej Plenkovic, ha detto di attendere "dichiarazioni definitive e chiare" da parte di Israele e Stati Uniti sulla possibilità per Zagabria di acquisire una partita di aerei da combattimento F-16 di fabbricazione israeliana. Secondo quanto riferisce la stampa croata, Plenkovic ha aggiunto che solo dopo tali chiarimenti il governo di Zagabria prenderà una decisione "sul destino" della gara d'appalto. Nella giornata di ieri il sito statunitense "Axios" ha riferito che non è stato raggiunto sul tema nessun accordo durante l'ultimo colloquio fra il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il premier israeliano Benjamin Netanyahu avvenuto a margine della cerimonia di insediamento del presidente brasiliano Jair Bolsonaro.

(Agenzia Nova, 3 gennaio 2019)


Usa e Israele si ritirano ufficialmente dall'Unesco

Già nel 1984 gli Usa avevano deciso di abbandonare l'istituzione parigina, ma vi sarebbero rientrati nel 2003

di Gerry Freda

Gli Stati Uniti e Israele si sono ufficialmente ritirati dall'Unesco, agenzia specializzata delle Nazioni Unite fondata a Parigi nel 1945 e impegnata nella salvaguardia del patrimonio culturale globale e nella promozione delle arti e delle scienze.
   Con l'arrivo del 2019 si è infatti formalmente concluso l'iter per il recesso dei due Paesi, avviato nell'ottobre del 2017. Tuttavia, i rapporti tra tali nazioni e l'Unesco si erano già deteriorati nel 2011, in seguito alla decisione dei vertici di quest'ultima di ammettere la Palestina tra i propri membri. A partire da quell'anno, Washington e Gerusalemme, quale ritorsione per l'ingresso di Ramallah, hanno sospeso ogni finanziamento all'istituzione parigina.
   Le delegazioni di Stati Uniti e Israele, nel commentare la recente conclusione della procedura di recesso, hanno precisato che la ragione principale della loro uscita dall'organizzazione sarebbe proprio l'atteggiamento "sfacciatamente filopalestinese" osservato dall'Unesco negli ultimi otto anni. I due Paesi sostengono infatti che, in seguito all'ammissione dei rappresentanti del governo Abu Mazen, l'ente collegato all'Onu avrebbe assunto un orientamento sempre più critico nei confronti delle autorità dello Stato ebraico. Quale simbolo di tale "faziosità" le delegazioni in questione hanno additato la risoluzione, varata dall'Unesco nell'ottobre del 2016, che condanna l'occupazione israeliana di Gerusalemme Est e "minimizza" il legame storico tra il popolo ebraico e le testimonianze archeologico-religiose della "Città santa".
   Washington, nell'annunciare in questi giorni il formale recesso americano dall'istituzione parigina, ha però manifestato, allo stesso tempo, la volontà di "continuare a collaborare" con quest'ultima, anche se non più in qualità di membro di pieno diritto. Il Dipartimento di Stato, tramite una nota, ha infatti dichiarato che, in occasione della riunione del Comitato esecutivo Unesco in programma ad aprile, richiederà l'attribuzione agli Usa dello status di semplice "Paese osservatore".
   Già nel 1984 Washington aveva deciso di abbandonare l'istituzione parigina e anche in quell'occasione i motivi della decisione erano la "faziosità" e i "pregiudizi anti-israeliani" attribuiti a quest'ultima. Gli Usa sarebbero quindi rientrati nell'Unesco solamente nel 2003.

(il Giornale, 3 gennaio 2019)


La sorprendente società israeliana alle soglie del 2019

Qualche dato inaspettato dall'ultima indagine a campione fra i cittadini d'Israele

Mentre il 2018 volgeva al termine, mi sono letta attentamente l'Israeli Democracy Index 2018 pubblicato dall'autorevole Israel Democracy Institute. Alla fine di questo anno così burrascoso, l'Indice riserva alcune interessanti sorprese sulla società israeliana e alcune notizie notevoli su noi israeliani.
La percentuale di israeliani che definiscono la situazione generale del Paese come "buona" o "molto buona" continua a crescere di anno in anno ed è ora la più alta che sia mai stata registrata dalla nascita di questo progetto, 15 anni fa. Tra i cittadini israeliani, la maggioranza degli ebrei (55%) ritiene che la situazione di Israele sia positiva. Tra gli israeliani arabi, la maggior parte (31%) ritiene che sia "così così", ma si registra un netto aumento di coloro che reputano la situazione "buona" o "molto buona".
Una percentuale ancora maggiore di israeliani definisce la propria situazione personale come "buona" o "molto buona": l'83% tra i cittadini ebrei e il 64% tra i cittadini arabi. Anche in questo caso, il dato è il più alto di sempre. Il team di ricercatori ha verificato se le generazioni più giovani esprimessero sentimenti meno positivi, ma non ha trovato elementi che suffragassero questa ipotesi....

(israele.net, 3 gennaio 2019)


Bolsonaro presidente, Netanyahu in Brasile

di Ugo Volli

 
Nonostante il lancio di una campagna elettorale particolarmente tumultuosa, con la formazione di nuovi partiti e personaggi popolari che annunciano o smentiscono la loro partecipazione alle elezioni in questo o quello schieramento, Bibi Netanyahu ha lasciato Israele per parecchi giorni allo scopo di partecipare alla cerimonia di assunzione della presidenza del Brasile di Jair Bolsonaro.
   Bisogna dire che questa campagna elettorale è particolarmente critica per Netanyahu, che corre non solo contro avversari politici che secondo tutti i sondaggi può sconfiggere facilmente, ma anche contro lo "stato profondo" burocratico e giudiziario e in parte anche dei servizi di sicurezza, che gli hanno dichiarato una guerra durissima, con imputazioni di corruzione che non stanno in piedi sul piano della logica e dei fatti accertati.
   Chi ama Israele non può che leggere con profondo sconcerto l'articolo di Caroline Glick, la più acuta analista strategica della politica israeliana pur spesso non tenera con Netanyahu, in cui questa guerra è descritta in termini tali da dare l'idea che essa possa rendere "inutili" le elezioni israeliane, come lo sono quelle europee.
   Netanyahu comunque si è staccato dalla campagna elettorale per recarsi a un'occasione prevalentemente cerimoniale, non a una trattativa politica; di fatto per cementare il rapporto di Israele con un leader politico pesantemente criticato (per essere eufemistici) in Europa. E' vero che il Brasile è una superpotenza virtuale, che se riuscisse a uscire - magari con l'aiuto delle competenze israeliane - dai suoi problemi di gestione dello stato e dell'economia potrebbe avere un peso sul mondo importantissimo, paragonabile a quello dell'India, di cui Bibi ha molto corteggiato il leader Modi, costruendo un ottimo rapporto.
   Ma anche Modi è stato molto criticato dai giornali europei che si sono degnati di prendere in considerazione uno stato di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti in pieno boom economico. E sono stati criticati i rapporti che Netanyahu ha intessuto negli Usa con Trump e in Europa con leader "populisti" come Orban in Ungheria, Kurz in Austria, Babis in Repubblica Ceca. Per non parlare del recente viaggio di Salvini, accolto benissimo in Israele, suscitando lo sdegno non solo di giornali "autorevoli", ma anche di un certo numero di altrettanto "autorevoli" membri della comunità ebraica italiana.
   Perché Israele si mescola con questi "populisti", chiedono costoro? Semplice, rispondono, perché anche Netanyahu è un "populista" che deve essere respinto e emarginato come loro. Se facciamo a meno del tifo partitico che acceca la maggior parte dei media e tradizionalmente anche gli esponenti "autorevoli" di cui sopra, questa risposta è del tutto insensata. Israele, sotto il tiro del terrorismo e dell'asse Iran-Siria-Hezbollah, con la sintonia della Turchia e l'appoggio sempre più esplicito della Russia, non può permettersi di farsi guidare dal tifo politico o ideologico. Né su queste relazioni sono registrati dissensi in Israele anche da parte dell'opposizione (il "rifiuto di ricevere Salvini" da parte del presidente Rivlin è una provocazione del giornale arabo in lingua ebraica Haaretz, ripreso ghiottamente dai suoi omologi italiani: un presidente della repubblica non riceve i ministri dell'interno in visita, per ovvie ragioni di protocollo).
   La questione è un'altra. Gli stati e le organizzazioni che al mondo restano "progressisti" (dall'Unione Europea all'Onu, dalla Francia alla Germania alla Svezia al Vaticano ecc.) conducono contro Israele una guerra diplomatica senza quartiere, finanziano un'organizzazione di supporto ad Hamas come l'UNRWA, intervengono pesantemente negli affari interni di Israele, fino ad avere dei diplomatici che fanno contrabbando d'armi per i terroristi (è successo di recente alla Francia e in passato al Vaticano) o affrontano fisicamente i soldati israeliani (ancora la Francia), che finanziano costruzioni illegali in Giudea e Samaria (l'Unione Europea), o dei militari che riferiscono ai terroristi di Hezbollah - che dovrebbero mettere in condizione di non nuocere - quel che sanno delle loro attività l'esercito israeliano (l'Unifil, l'inutile forza dell'Onu purtroppo comandata da un generale italiano). Non sono degli amici, dunque, esattamente il contrario. Chi ha appoggiato Israele negli ultimi anni sono stati Trump e i "populisti". E la politica israeliana, fin dai tempi di Ben Gurion segue la linea di cercare amici e alleati nel mondo per garantirsi una difesa diplomatica, scambi economici, eventualmente rifornimenti militari. Col solo limite del rifiuto del nazismo (ma nessuno dei leader che ho citato lo è), Israele al tempo di Ben Gurion e Golda Meir ha stretto alleanze con lo Scià di Persia, la Cecoslovacchia stalinista, il Sudafrica.
   Non dovrebbe farlo ora con Bolsonaro e Salvini, coi paesi arabi sunniti (Egitto, Arabia) che condividono con lo stato ebraico la percezione dell'Iran come pericolo mortale ma certo non sono esempi di democrazia garantista, con i numerosi paesi asiatici e africani che sono attratti dalla tecnologia israeliana e dalla capacità di autodifesa di un piccolo paese fiero della propria identità? Perché? Per soddisfare gli scrupoli ideologici di giornali, politici e intellettuali che sono attratti dal sogno di un governo mondiale e della mescolanza totale delle popolazioni che dovrebbe eliminare qualunque identità culturale - cioè il contrario dell'ebraismo, la replica dei poteri imperiali, da Babilonia a Roma dal cattolicesimo all'islam al comunismo, che hanno sempre cercato di distruggere la specificità ebraica? O semplicemente per paura del nuovo, per il riflesso condizionato di un'alleanza fra ebrei e sinistra che non è mai davvero esistita?
   Per fortuna Israele è guidata oggi da Bibi Netanyahu e sperabilmente continuerà ad esserlo. Perché la dote principale dell'attuale primo ministro di Israele che ne fa il miglior governante dopo Ben Gurion è il realismo. E senza realismo non può certo sopravvivere lo stato di un piccolo popolo che deve fare i conti con un "odio antico" che vuole eliminarlo da duemilacinquecento anni (da prima del cristianesimo, dai tempi dell'ellenismo in cui si formò l'ideologia antisemita sfruttata poi dai padri della Chiesa per definire la propria identità in opposizione alla cultura da cui si erano staccati).

(Progetto Dreyfus, 31 dicembre 2018)



L'opposizione in frantumi, Netanyahu ora può sorridere

di Giordano Stabile

L' opposizione va in pezzi e Benjamin Netanyahu vede sempre più vicina la possibilità di una vittoria alle elezioni de 19 aprile, e di un quinto mandato da primo ministro che ne farebbe uno dei politici più longevi della storia di Israele. Dopo la rottura con il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, e la nuova richiesta di incriminazione da parte della polizia, il premier conservatore sembrava all' angolo. Ma l'operazione contro i tunnel di Hezbollah nel Nord, e poi la decisione alla vigilia di Natale di andare al voto anticipato, lo hanno rilanciato. Ieri, a dargli una mano, è arrivata anche l'improvvisa rottura fra l'alleanza di centrosinistra, che in teoria doveva costituire il suo principale avversario.
  In una conferenza stampa senza preavviso, il leader laburista Avi Gabbay ha deciso di rompere l'Unione sionista, il movimento che vedeva in lui e nell'ex ministro degli Esteri TzipiLivni i principali esponenti.

 Verso il voto
  Il motivo della rottura sta nelle ambizioni dei due, che volevano entrambi correre come candidati alla guida del governo. I'Unione sionista aveva ottenuto 24 seggi sui 120 della Knesset alle ultime elezioni ma le rivalità interne l'hanno fatto precipitare nei sondaggi, e oggi otterrebbe soltanto nove deputati. Gabbay, già definito il "Blair israeliano" ma in rapido declino, ha spiegato che «ancora crede nella alleanza» ma «per un' alleanza di successo servono amicizia, tenere fede alla parola data e lealtà». Requisiti che evidentemente non vede in Tzipi Livni.
  Con l'Unione sionista in frantumi, Netanyahu non ha in questo momento avversari credibili. Gli ultimi sondaggi assegnano al Likud dai 27 ai 31 seggi, contro i 30 nella Knesset attuale. Per il 37% degli elettori Netanyahu resta il miglior primo ministro possibile, anche se oltre la metà preferirebbe non vederlo ancora al governo. L'unico rivale serio non è un politico ma l'ex capo delle Forze armate, Benny Gantz, che non ha ancora deciso se scendere in campo. Un suo partito prenderebbe 16-17 seggi. Se si alleasse con il partito centrista di Yair Lapid, YeshAtid, arriverebbe a 26-27 deputati e sarebbe forse in grado di formare una maggioranza alternativa a quella di centrodestra. Per ora Netanyahu si gode il periodo favorevole. Il viaggio in Brasile per l'insediamento del presidente Jair Bolsonaro si è trasformato in una sorta di luna di miele. L'asse con il leader brasiliano, che ha promesso di spostare l'ambasciata a Gerusalemme come già Donald Trump, ha rafforzato il premier.

(La Stampa, 2 gennaio 2019)


Israele - Multe salatissime ai clienti delle prostitute

AI termine di un iter parlamentare avviato dieci anni fa in Israele e portato avanti assieme da partiti di governo e di opposizione, la Knesset ha stabilito pesanti multe per chi sia colto a fruire dei servizi di prostitute. Le multe iniziali saranno di 2.000 shekel (450 euro), ma raddoppieranno in caso di recidività fino a raggiungere un tetto massimo fissato in 75mila shekel. Queste nuove norme entreranno in vigore solo fra un anno e mezzo per consentire il graduale reinserimento delle prostitute nel tessuto sociale. A questo fine sono stati stanziati dalla Knesset decine di milioni di shekel.

(Avvenire, 2 gennaio 2019)


Fatah accusa Hamas, arrestati oltre cinquecento palestinesi a Gaza

Il partito di al-Fatah ha accusato il movimento rivale di Hamas di aver arrestato più di 500 esponenti del gruppo nella Striscia di Gaza. ''Da domenica più di 500 leader e membri di al-Fatah sono stati arrestati dalle agenzie di sicurezza di Hamas'', ha dichiarato il portavoce di Fatah Atef Abu Seif. Gli arresti sono in risposta alla ''insistenza di Fatah di festeggiare a Gaza il 54esimo anniversario della sua fondazione'', ha spiegato. Fondata nel 1965, Fatah è ora guidata dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas. Abu Seif ha quindi detto che i poster e i volantini per le celebrazioni di al-Fatah sono stati sequestrati dalle agenzie di sicurezza di Hamas. ''I membri di al-Fatah sono stati rapiti, maltrattati e hanno subito blitz nelle loro abitazioni'', ha aggiunto.

(Shalom, 1 gennaio 2019)


Israele: il capo dell'Unione sionista ha annunciato l'uscita del suo partito dal blocco

Il leader israeliano del partito laburista e presidente dell'Unione sionista Avi Gabay ha annunciato la fine della collaborazione con il leader del partito HaTnuah Tzipi Livni, con cui aveva formato l'Unione, scrive il quotidiano Jerusalem Post.
  Avoda, il più antico partito di Israele, che ha guidato incontrastato nei primi decenni di esistenza il paese, ha agito in tandem con l'ideologicamente vicino movimento HaTnuah, formando un blocco dell'Unione sionista, seconda fazione per numero alla Knesset.
"Credo ancora nella partnership e nella fusione in un campo comune, per portare cambiamenti, ma una partnership di successo richiede amicizia, rispetto degli accordi e fedeltà al nostro cammino. Questo non accade in questa partnership" ha detto il leader.
"Bene, il dubbio è dissipato ed è possibile concentrarsi su un importante problema nazionale, che è davanti a noi tutti, chi crede veramente nel cammino, nella rivoluzione per le prossime elezioni", ha detto Livni dopo le dichiarazioni del leader.
  Come scrive il quotidiano, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che "non sarà coinvolto nella scissione dei mandati della sinistra". Secondo lui, è importante che i giusti formino il prossimo governo e continuino a governare il paese.
  L'ex ministro degli Esteri Tzipi Livni nel luglio 2018 ha guidato l'opposizione parlamentare in Israele, che si opponeva alla coalizione di governo con i partiti di destra e religiosi. Il leader di Gabay, vincitore l'anno scorso delle primarie laburiste, non riusciva a guidare l'opposizione, perché non è deputato della Knesset. Livni ha chiarito che Gabay sarà il candidato dell'unione sionista per la carica di Primo Ministro alle prossime elezioni parlamentari. Il parlamento israeliano ha approvato una legge per sciogliersi e svolgere il 9 aprile elezioni anticipate, sulla base delle quali sarà formato il nuovo governo e nominato il primo ministro.

(Sputnik Italia, 1 gennaio 2019)


La convivenza, al di là delle barriere

La barriera di separazione tra il confine est d'Israele e la Cisgiordania

 
Il colonnello Danny Tirza, davanti alla barriera di separazione con la Cisgiordania
 
Ziad Sabateen (a destra), palestinese impegnato nel dialogo per la pace
Dall'insediamento di Gilo, nell'area sud-ovest di Gerusalemme Est, il colonnello Danny Tirza da qualche anno in congedo, punta il dito verso la barriera di separazione che corre lungo il confine est d'Israele e la Cisgiordania. Tirza era al commando dell'unità che si è occupata di costruire la barriera di divisione. Ad ascoltarlo un gruppo di giornalisti della stampa ebraica internazionale. Racconta di aver partecipato ai colloqui di pace organizzati dal presidente Usa Bill Clinton con l'ex Primo ministro Ehud Barak e il leader palestinese Yasser Arafat nel 2000 ad Oslo. "Lì ho incontrato Arafat. Venne ad abbracciarmi, come faceva di solito: 'Niente baci, ma lavoriamo insieme', gli dissi. lo mi occupai delle mappe. Barak concesse ad Arafat il 94% delle terre sulla riva occidentale, sul fiume Giordano, l'intera striscia di Gaza e la sovranità sulle Moschee di Gerusalemme. Ovvero la totalità delle terre occupate da Israele durante la guerra del 1967 e precedentemente governate da Giordania ed Egitto. Clinton chiese ad Arafat di firmare. Arafat partì per consultazioni e tornò tre ore dopo dichiarando che non poteva firmare senza l'approvazione degli altri stati arabi. Clinton si infuriò per quel passo indietro e la grande opportunità di pace andò perduta.
   Nel settembre 2000, tutto cambiò quando iniziò la seconda intifada" I kamikaze palestinesi segnarono quel periodo di violenza. "La decisione di costruire la prima parte della recinzione di sicurezza venne presa nel giugno 2002, dopo un marzo terribilmente sanguinoso, quando 139 cittadini israeliani furono uccisi in attacchi terroristici", ricorda Tirza. "I palestinesi sono riusciti a presentare al mondo la recinzione di sicurezza come un muro, anche se meno del 5% del progetto è realmente un muro di cemento. Lungo il resto del percorso, si tratta di una recinzione di filo metallico. Inoltre, i palestinesi sostengono che Israele cerca di annettere il 40% dell'area della Cisgiordania attraverso la recinzione. Ovviamente, questa affermazione è falsa. La recinzione non cambia lo status del terreno e non viene utilizzata per annettere alcun territorio a Israele. Meno dell'8% della Cisgiordania è rimasto da parte israeliana" afferma l'ex militare, che ha raccontato più volte questa storia, sembra quasi recitarla a memoria. Spiega di aver fatto presente questi dati anche ad Obama, venuto in visita prima di diventare presidente. Di avergli raccontato l'impatto positivo sulla sicurezza dei civili israeliani. "Dal 2002 al 2007, 1562 cittadini israeliani sono stati vittime di attacchi terroristici. Dal 2007, quando si è conclusa la costruzione della recinzione, fino ad oggi abbiamo avuto 39 vittime di attacchi terroristici" sottolinea Tirza, che dice di voler essere lui stesso a smontare la barriera appena sarà raggiunta la pace. Ma per il momento, aggiunge, è uno strumento necessario.
   Ziad Sabateen, palestinese che vive a Husan, nella West Bank, non la pensa così. "Per me quel muro è razzismo". Ziad è un anticonformista: è stato cinque anni in un carcere israeliano per aver preso parte alla prima Intifada. Ne è uscito convinto di dover parlare con gli israeliani. È diventato amico di famiglia con il rabbino Menachem Fruman, tra i leader del movimento politico messianico sionista israeliano Gush Emunim. "Io non li chiamo coloni, sono persone, sono in molti casi amici" racconta Ziad puntando il dito verso un insediamento israeliano. Lui vorrebbe che Husan facesse parte d'Israele. "Io sono stato arrestato più volte dall'autorità palestinese. Sono dei corrotti, preferirei vivere tutti sotto l'autorità israeliana con pari diritti e pari doveri".

(Pagine Ebraiche, gennaio 2019)


Pompeo a Netanyahu: gli USA continueranno a contrastare ISIS e Iran

Il segretario di stato americano Mike Pompeo, durante un incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu in Brasile, ha dichiarato che gli Stati Uniti continueranno a contrastare l'ISIS e l'aggressione iraniana. Lo riporta oggi il quotidiano israeliano Jerusalem Post.
"Continueremo la lotta contro l'ISIS e l'aggressione iraniana", ha detto Pompeo.
Egli ha anche osservato che il ritiro delle truppe americane dalla Siria non danneggerà gli impegni degli Stati Uniti nei confronti di Israele.
In precedenza, il dipartimento di stato americano aveva annunciato che Pompeo avrebbe incontrato Netanyahu, durante la sua visita in Brasile per l'insediamento del nuovo presidente, Jair Bolsonaro.
A metà dicembre il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato la sconfitta dell'ISIS e il ritiro del contingente americano dalla Siria. Più tardi, la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders ha fatto sapere dell'avvio delle procedure di ritiro dei militari, sottolineando che la sconfitta dell'ISIS non significa la fine della coalizione.

(Sputnik Italia, 1 gennaio 2019)



Vanità delle vanità, tutto è vanità

  La tristezza vale più del riso; poiché quando il viso è afflitto, il cuore diventa migliore. Il cuore del saggio è nella casa del pianto; ma il cuore degli stolti è nella casa della gioia. Vale più udire la riprensione del saggio, che udire la canzone degli stolti. Infatti qual è lo scoppiettio dei pruni sotto una pentola, tal è il riso dello stolto. Anche questo è vanità. (Ecclesiaste 7:3-6)







di Marcello Cicchese

"Temi Dio e osserva i suoi comandamenti", questa è la conclusione a cui arriva l'Ecclesiaste al termine del suo libro. E' una conclusione un po' banale, penserà qualcuno. Molti, anche tra gli increduli, trovano avvincente il libro dell'Ecclesiaste per il suo carattere enigmatico, paradossale, inquietante: si può quindi capire che possano restare delusi dalla sua conclusione, considerata forse un po' troppo piatta e moralistica.
   "Temi Dio e osserva i suoi comandamenti": sono cose fin troppo note, penserà ancora qualcuno. Tanto note da non dover essere continuamente ripetute, se non si vuole correre il rischio di deprimere chi ascolta. Instillare nel prossimo sentimenti di paura e caricarlo di obblighi morali è un tragico errore per chi annuncia l'Evangelo - penserà sempre qualcuno -. Oggi le persone si mostrano aperte ai discorsi religiosi: bisogna dunque saper sfruttare questa favorevole disponibilità e presentare loro un messaggio che non li intimidisca e non li respinga. E dobbiamo fare questo anche con i nostri figli, se non vogliamo che rifiutino annoiati i nostri discorsi moralistici e vadano a cercarsi i piaceri là dove vengono abbondantemente offerti, cioè nel mondo. La chiesa deve essere competitiva in fatto di offerte di felicità, se vuole trovare ancora chi la stia a sentire. Continuerà a pensare quell'ipotetico qualcuno.
   Ma la conclusione a cui arriva l'Ecclesiaste è proprio questa: "Temi Dio e osserva i suoi comandamenti".
   Chi non ha letto il libro potrebbe pensare che l'autore sia un tipo un po' all'antica, uno di quei dogmatici intransigenti che in nome di astratti imperativi etici proibiscono a sé e agli altri di godere senza troppi scrupoli le tante cose buone che ci sono nella vita. Ma non è così.
    "Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!»" (Ecclesiaste 2.1).
Anche l'Ecclesiaste avrà sperimentato, come tutti noi, quegli acuti sentimenti di insoddisfazione che segnalano un vuoto, qualcosa che dovrebbe esserci ma non c'è, qualcosa che la vita offre ma non viene sperimentato, e che dunque deve essere ricercato. L'Ecclesiaste non ha voluto restare nel dubbio che il senso di vuoto da lui provato potesse essere causato dalla mancanza di qualche esperienza di felicità. Essendo un potente re d'Israele, non ha avuto difficoltà a procurarsi tutto quello che desiderava: piaceri della tavola, realizzazioni architettoniche, gratificazioni artistiche, soldi, comodità, donne. Tutte le cose piacevoli che la vita poteva offrire, l'Ecclesiaste le ha ottenute. E tutto quello che ha raggiunto è espresso in queste parole:
    "Perciò io ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento" (Ecclesiaste 2.17).
E' tremendo pensare che il godimento di tutti i possibili piaceri offerti dalla vita possa condurre a odiare la vita! Ci saremmo aspettati il contrario. Ci saremmo aspettati un atteggiamento di gratitudine verso la vita e un rinnovato desiderio di continuare ad assaporare i gusti piacevoli che essa sa offrire. Invece l'Ecclesiaste continua a ripetere il ritornello che fa da sottofondo a tutto il suo discorso: "Tutto è vanità".
   E' importante sottolineare la parola "tutto". Sappiamo bene che nella vita ci sono piaceri frivoli e vacui che non vale la pena di inseguire; ma sappiamo anche che la vita sa offrire molte cose valide e belle; e siamo capaci di fare le dovute distinzioni: questi piaceri sono buoni, questi altri sono cattivi; questi sono leciti, questi altri sono illeciti: i primi sono da ricercare, i secondi da fuggire.
   Ma l'Ecclesiaste dice, dopo averne fatto personale esperienza, che tutto è vanità. Questo vuol dire che da nessuna parte sotto il sole esiste qualcosa che possa colmare il senso di vuoto che afferra chi vive in una realtà distaccata da Dio. E' vano sperare di trovare sotto il sole un rimedio alla vanità: tutto è vanità. Chi non crede questo ed è convinto che da qualche parte sotto il sole ci sia qualcosa che possa riempire la vita, è destinato a fare l'esperienza dell'Ecclesiaste: dopo averle provate tutte, le illusioni cadranno ad una ad una e alla fine si farà avanti lo spaventoso pensiero che il vuoto è incolmabile. Non è strano, in queste condizioni, che si arrivi a odiare la vita.
   Ma allora è proprio vero, penserà qualcuno, che l'Ecclesiaste è un libro tetro, pessimista. Se anch'io penso così, e per questo motivo non mi sento attratto da questo libro, probabilmente vuol dire che ho un particolare bisogno di rileggerlo e di meditare sulla sua conclusione:
    "Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto per l'uomo" (Ecclesiaste 12.13).
Forse avrei preferito che l'Ecclesiaste avesse usato un po' più di moderazione: avrebbe potuto dire che quasi tutto è vanità, e avrebbe potuto invitarci a scegliere, tra le molte cose inutili e nocive, le poche cose utili e buone. Ma se tutto, proprio tutto, è vanità, come si fa ad evitare che il senso di vuoto ci attanagli?
   L'Ecclesiaste non ammorbidisce il suo discorso, non fa come certi padri cristiani che nel timore vedere i figli "sganciarsi" da loro e andarsi a cercare i piaceri nel mondo fanno capire che la frase di Gesù: "Così dunque ognuno di voi, che non rinunzia a tutto quello che ha, non può essere mio discepolo" (Luca 14:33), non deve essere presa troppo alla lettera. In fondo - si pensa - è comprensibile che i giovani si prendano le loro legittime soddisfazioni.
   Il rimedio dell'Ecclesiaste al tedio della vita non consiste nell'attenuare il suo discorso, ma nel portarlo fino alle sue estreme conseguenze. E le conclusioni a cui arriva sono due: una intermedia e una conclusiva. Quella intermedia è: "Tutto è vanità"; quella conclusiva è: "Temere Dio e osservare i suoi comandamenti è il tutto per l'uomo".
   Sembra che oggi i cristiani sopportino male le forti contrapposizioni bibliche come vita-morte, luce-tenebre, verità-menzogna, salvezza-perdizione. Si preferisce parlare in forma sfumata, attenuata. Naturalmente, parole taglienti di Gesù come "Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per amor mio, la salverà" (Luca 9:24) non vengono negate; si cerca però di inserirle in un discorso complessivo più ampio e ben calibrato, in modo da non turbare troppo né chi ascolta né chi parla.
   La Bibbia invece è un libro di forti contrasti: il paesaggio che descrive ha picchi altissimi e baratri spaventosi. Anche il libro dell'Ecclesiaste non fa eccezione. C'è un "tutto" negativo che conduce alla morte e un "tutto" positivo che conduce alla vita. Non ci sono altre possibilità. Non si prendono in considerazione casi intermedi, perché le questioni di vita e di morte non si esprimono in termini di percentuale.
   Sotto la guida di Dio, l'Ecclesiaste è portato dalla sua esperienza a soffermarsi principalmente sul "tutto" negativo. Descrivendo estesamente i suoi tentativi di raggiungere la felicità e riportando con sincerità le analisi e le riflessioni che l'hanno condotto a riconoscere amaramente che tutto è vanità, l'autore del libro fa un grande uso della prima persona singolare: "Io ho visto, io ho detto, io ho riconosciuto, io ho esaminato, io mi sono applicato, io ho trovato, io presi la decisione, io intrapresi grandi lavori, ecc.". Io, io, io, molto attuale dunque. Manca del tutto nel libro l'espressione tipica della Scrittura: "Così parla l'Eterno". Sembra che l'Ecclesiaste abbia voluto, per un certo tempo della sua vita, verificare fin dove si può arrivare senza ascoltare altre voci e ubbidire ad altri stimoli che non siano i propri pensieri e i propri desideri. Quello che alla fine arriva a dire è noto: "Tutto è vanità".
   Ma perché tutto? Perché considerare vanità anche cose che in sé sembrano buone e lecite, come edificare case, piantare vigne, costruire parchi e giardini. Vane non sono le cose, vano è l'uomo che si illude di raggiungere, attraverso il conseguimento di obiettivi scelti in completa autonomia, quella pienezza di vita di cui ha estremo bisogno e che inutilmente ricerca nella felicità che spera di trovare nelle cose. L'uomo che si è allontanato da Dio ha un vuoto di dimensione infinita dentro di sé, e la speranza di riuscire a colmare questo vuoto infinito gettando in esso un numero sempre maggiore di oggetti finiti non può che far crescere la disperazione. E infatti l'Ecclesiaste lo ammette:
    "Così sono arrivato a far perdere al mio cuore ogni speranza su tutta la fatica che ho sostenuta sotto il sole" (Ecclesiaste 2:20).
Ma riconoscere che tutto è vanità, se forse è stata la conclusione di un cammino di esperienza dell'Ecclesiaste, è soltanto l'inizio del discorso contenuto nel suo libro. Un inizio che forse si prolunga per molte pagine, ma che in ogni caso non costituisce la conclusione del suo discorso. La conclusione, come sappiamo, è un altra:
   "Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto per l'uomo" (Ecclesiaste 12.13).
   L'autore del libro non si sofferma molto a descrivere il "tutto" positivo a cui mirava fin dall'inizio. Ma quello che dice è sufficiente a farci capire in quale direzione ci invita a guardare: il tutto per l'uomo è temere Dio e osservare i suoi comandamenti.
    "Chi ho io in cielo fuori di te? E sulla terra non desidero che te" (Salmo 73:25).
Anche il salmista sottolinea, con altre parole, che per l'uomo, Dio è il tutto: non esiste, non deve esistere né in cielo né sulla terra altro oggetto di desiderio fuori di Lui. Tutte le altre realtà, persone e cose, pensieri e propositi, trovano il loro giusto posto solo in Dio, e non accanto a Dio. Fuori di Lui non c'è salvezza, né eterna né temporale, né in cielo né in terra.
   Poiché l'Ecclesiaste non possiede ancora la rivelazione piena della volontà salvifica di Dio, come poi si è espressa nel Signore Gesù Cristo, non è strano che nel suo libro manchino indicazioni complete e precise su quello che significa oggi temere Dio e osservare i suoi comandamenti. Altre parti della Scrittura, soprattutto del Nuovo Testamento, servono a questo scopo. Ma se l'Ecclesiaste non si addentra nella descrizione esauriente di quella che è la giusta Via, certamente si può dire che la indica in modo molto chiaro. E in modo ancora più chiaro indica e descrive con abbondanza di illustrazioni, riflessioni e ammonizioni la fallacità illusoria di ogni altra via che non sia quella del timore del Signore. E dei suoi severi ammonimenti abbiamo oggi un urgente bisogno. Ne abbiamo bisogno anche e proprio noi che ci confessiamo discepoli di Gesù Cristo, perché il tempo in cui viviamo è un tempo di seduzione. Una seduzione che assume spesso la forma dell'invito a "godere il piacere" (Ecclesiaste 2.1); invito che naturalmente arriva corredato da un'abbondanza di argomenti psicologici e teologici.
   Tuttavia, in questo libro che a qualcuno può sembrare tetro e deprimente si trovano inaspettati riferimenti alla gioia:
    "Va', mangia il tuo pane con gioia, e bevi il tuo vino con cuore allegro, perché Dio ha già gradito le tue opere" (Ecclesiaste 9:7 ).
L'uomo che ha voluto mettere il suo cuore alla prova con la gioia e che dalla sua ostinata ricerca di piacere è uscito mortalmente disilluso, sa inserire nelle sue cupe riflessioni un vero e proprio inno alla gioia:
    "Così io ho lodato la gioia, perché non c'è per l'uomo altro bene sotto il sole, fuori del mangiare, del bere e del gioire; questo è quello che lo accompagnerà in mezzo al suo lavoro, durante i giorni di vita che Dio gli dà sotto il sole" (Ecclesiaste 8:15 ).
Forse può sembrare un discorso un po' materialista; forse ci saremmo aspettati un linguaggio più "spirituale". Ma anche qui, l'attenzione non deve essere posta sulle cose: quello che conta non è il rapporto dell'uomo con le cose, ma il rapporto dell'uomo con Dio. Chi cerca la felicità nelle cose senza interessarsi di Colui che ha creato ogni cosa, è destinato a inseguire per tutta la vita un sogno ingannevole che lo porterà ad odiare la vita. L'uomo che resta lontano da Dio e cerca la felicità nelle cose, non riesce mai a trovarla. Quindi è costretto a spingersi sempre più avanti, verso cose sempre più sofisticate, per arrivare infine a riconoscere che sta cercando qualcosa che non c'è. Trova il vuoto, la vanità. Non vuole ammetterlo, ma la fame che lo rende insoddisfatto è la necessità profonda di avere un rapporto vitale con il suo Creatore. E' alla ricerca di qualcosa che sostituisca Dio, seguendo una spinta interna che gli è stata data proprio al fine di condurlo a Dio. Ma poiché Dio non ha sostituti, quello che trova è il vuoto. Il rapporto tra Dio e l'uomo non si stabilisce, e l'uomo resta con una fame che nessuna cosa creata può appagare.
   Al contrario, l'uomo che invece di cercare affannosamente quello che presume essere il suo bene, si mette nella posizione di disponibilità a ricevere i beni che Dio vuole donargli, cominciando dal bene preziosissimo della Sua parola, risulta gradito a Dio e riceve da Lui il dono della gioia. Il fondamento della gioia non sta dunque nelle cose, ma nel vivente rapporto d'amore tra il Creatore e la creatura. L'uomo che dà gloria a Dio accettando e vivendo questo rapporto d'amore non ha bisogno di piaceri sofisticati per sentirsi appagato: può mangiare il suo pane con gioia, e bere il suo vino con cuore allegro, perché sa che Dio, nella Sua grazia, lo gradisce.
    "Gloria a Dio nei luoghi altissimi, e pace in terra agli uomini ch'egli gradisce!" (Luca 2:14).
L'Ecclesiaste non ci accompagna per un lungo tratto sulla via giusta, perché la sua preoccupazione principale è quella di far capire quanto sbagliate siano tutte le altre vie tentate dall'uomo; ma l'indicazione che da lui riceviamo è chiarissima:
    "Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto per l'uomo" (Ecclesiaste 12.13).
Con la Parola Dio ha creato il mondo: quindi per ogni essere creato non ci sono spazi possibili al di fuori della Sua parola. Non ci sono per l'uomo zone neutre esterne alla vita: tutto quello che l'uomo pensa, decide e fa avviene nella vita. Dunque la vita è il tutto per l'uomo; e affinché non sia perso per l'eternità, questo tutto deve coincidere con l'ascolto della Parola di Dio, che è la fonte eterna della vita.
    "Sta scritto: Non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio" (Matteo 4.4)
L'Ecclesiaste descrive molte vie sbagliate e indica una sola via giusta. Alla luce di tutto il messaggio biblico, sappiamo che la via indicata dall'Ecclesiaste può essere soltanto Colui che ha detto di sé: "Io sono la via, la verità e la vita" (Giovanni 14.6).
   Temere Dio significa riconoscere pienamente la dignità divina della Sua persona; osservare i comandamenti significa sottometterci incondizionatamente all'autorità normativa della Sua parola.
    "Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui" (Giovanni 14:21).
(Notizie su Israele, 1 gennaio 2019)


 


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