Notizie 1-15 gennaio 2024
Spade di ferro giorno 101- Perché la guerra continua
di Ugo Volli
• Un sequestro di persona durato 100 giorni
Si è molto e giustamente parlato sui siti e giornali ebraici (purtroppo molto meno su quelli generali) del centesimo giorno della guerra, si è ricordata soprattutto la lunghezza del terribile sequestro subito da centoquaranta persone fra cui molte donne e bambini, cui non è stato contestato alcun reato se non quello di essere ebrei; un rapimento e segnato a quel che si sa da violenze anche sessuali, fame, percosse, marchiature a fuoco, guerra psicologica e altre atrocità. Sono orrori che vanno denunciati ogni giorno, anche perché della sorte dei rapiti, come delle vittime del 7 ottobre ormai si interessano in pochi fuori dal popolo ebraico e dei suoi amici più cari.
• Chi è responsabile del conflitto e delle distruzioni?
Ma vale la pena di aggiungere alcune considerazioni in risposta a domande e contestazioni che riceviamo ormai più spesso della solidarietà. La questione, in sostanza è una: si poteva fare altrimenti? Si poteva evitare questa guerra? È possibile ancora oggi sospenderla e cercare di alleviare le sofferenze che essa ha provocato? La risposta è chiara. Sì, questa guerra poteva essere evitata. Se qualcuno dalla parte dei terroristi e della maggioranza dei palestinesi che secondo i sondaggi li sostiene da anni e ancora continua a sostenerli, si fosse opposto al bombardamento, all’invasione e al massacro del 7 ottobre, la guerra non ci sarebbe stata, i rapporti fra Israele e Gaza sarebbero continuati come negli ultimi mesi, con normali ingressi di merci e finanziamenti nella Striscia, lavoratori arabi ammessi a lavorare da pendolari in Israele e naturalmente nessun reparto militare in azione, nessuna missione dell’aviazione e della marina militare, nessuna famiglia costretta a sfuggire i combattimenti. Nessun morto, da una parte e dall’altra, Ma c’è chi ha scelto, programmato, iniziato questa guerra: sono i terroristi, non Israele.
• Si poteva evitare la guerra?
La seconda risposta è che si, si sarebbe potuto evitare l’orrore del 7 ottobre e quel che ne è seguito, se i servizi di sicurezza non si fossero fidati troppo dell’apparente scelta di convivenza dei palestinesi e avessero continuato a prendere le precauzioni d’uso, se non si fossero affidati alle barriere elettroniche ma alla presenza militare, se avessero ascoltato chi dava l’allarme. Non è la colpa di aver voluto l’orrore, che è solo dei terroristi, ma è stata una grave inefficienza, che dopo la guerra sarà debitamente indagata.
• Perché non si può fermare
La terza risposta è che no, una volta avvenuta la strage non si poteva evitare la guerra, se si voleva che Israele continuasse a esistere e che i suoi cittadini non fossero ancora sterminati. Di fronte a un massacro del genere e alla dichiarata volontà di ripeterlo anche al Nord e in Giudea e Samaria, fino alla distruzione dello stato ebraico e dei suoi abitanti, non c’era alternativa allo smantellamento totale della struttura terrorista. Un’operazione parziale come quelle degli scontri precedenti prodotti dai terroristi (nel 2006, 2008, 2012, 2014,2021) non sarebbe servita se non a rimandare di qualche tempo il rinnovarsi di una strage analoga. Ed è no anche la quarta risposta: Israele non poteva e non può interrompere l’operazione prima della sua fine, non deve permettere a Hamas di riconquistare il dominio sulla Striscia, di ricostruire le sue istallazioni belliche, di rifornire i suoi arsenali, cosa che avverrebbe certamente e in un tempo anche piuttosto limitato grazie all’appoggio dell’Iran, del Qatar, della Turchia. Si tratta per Israele di una questione di vita e di morte. Se dopo questi cento giorni ce ne vorranno altri cento o ancora di più, se nella guerra entrerà il Libano dominato da Hezbollah, movimento terrorista come Hamas ma solo meglio armato e organizzato, ciò non dipenderà dai “coloni” né dalla carriera politica di Netanyahu, come insinuano i nemici di Israele, ma dalla sfida esistenziale che l’Iran e i suoi burattini hanno deciso di imporre allo Stato ebraico.
(Shalom, 15 gennaio 2024)
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Dopo la morte di al-Arouri funzionari di Hamas in fuga dal Libano
Diversi funzionari di Hamas che vivevano in Libano sono fuggiti nei Paesi vicini e in altri alleati dopo che il vice leader di Hamas Saleh al-Arouri è stato ucciso in un presunto attacco israeliano.
Dopo l’uccisione di al-Arouri a Beirut il 2 gennaio, alcuni funzionari di Hamas si sono trasferiti in Turchia e in Siria, mentre il portavoce del gruppo terroristico, Ghazi Hamad, si trova al Cairo, in Egitto, dalla morte di al-Arouri e non avrebbe intenzione di tornare in Libano.
L’esplosione che ha ucciso al-Arouri è stata unanimemente attribuita a Israele, anche se gli israeliani si sono sempre rifiutati di commentare l’azione di precisione.
Oltre ad al-Arouri, altre sei persone sono rimaste uccise nell’esplosione, tra cui i funzionari di Hamas Mahmoud Shaheen, Muhammad Bashasha, Muhammad al-Rayes e Ahmed Hammoud.
(Rights Reporter, 15 gennaio 2024)
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Calcio – Jehezkel lascia la Turchia
Il ministro Gallant: Quando la terra tremò fummo i primi ad aiutare
Da quando gioca nella Süper Lig turca, con la maglia dell’Antalyaspor Kulübü, l’attaccante israeliano Sagiv Jehezkel ha un’ottima media goal: sei goal in tredici partite, la miglior performance in carriera. L’ultima rete l’ha segnata ieri pomeriggio, nel match casalingo che opponeva la sua squadra al Trabzonspor. Jehezkel ha colpito in extremis, all’86esimo minuto, rimontando il vantaggio iniziale degli ospiti. Il calciatore ha poi esultato mostrando un messaggio di solidarietà ai civili israeliani assassinati e ancora ostaggio di Hamas sulla fasciatura che gli copriva il polso: “100 days. 07.10”, con accanto una piccola Stella di Davide.
Il suo sesto goal con l’Antalyaspor è stato anche l’ultimo: il club l’ha licenziato, la polizia l’ha arrestato e contro di lui si è scagliato persino il ministro della Giustizia turco Yilmaz Tunc, che in una sconcertante mistificazione della realtà ha annunciato: “La procura di Antalya ha aperto un’indagine giudiziaria contro il calciatore israeliano Sagiv Jehezkel per incitamento pubblico all’odio a causa della sua odiosa celebrazione in favore del massacro commesso da Israele a Gaza”.
Reazioni allarmate e sdegnate non si sono fatte attendere. “Chiunque arresti un calciatore per un atto di identificazione con 136 ostaggi tenuti per oltre 100 giorni nelle mani di un’organizzazione terroristica è l’emblema di una cultura fondata sull’omicidio e sull’odio”, ha accusato Israel Katz, il ministro degli Esteri di Gerusalemme. Sulla stessa lunghezza d’onda Yoav Gallant, il ministro della Difesa: “Quando la terra tremò in Turchia, meno di un anno fa, Israele fu il primo paese a fornire aiuti che salvarono la vita a molti cittadini turchi”. Per Gallant “lo scandaloso arresto” del calciatore sarebbe “un’espressione di ipocrisia” che farebbe di Ankara “il ramo esecutivo di Hamas”.
Dopo alcune ore di interrogatorio Jehezkel sarebbe stato rilasciato e nel corso della giornata dovrebbe raggiungere Israele. Ieri in campo non era l’unico israeliano: nella sua ormai ex squadra milita anche un connazionale, l’arabo-israeliano Ramzi Safouri, anche lui nel giro della nazionale. Come riporta il Times of Israel, nelle scorse settimane Jehezkel e Safouri avevano deciso di comune accordo di non partecipare a una iniziativa di solidarietà del club verso i palestinesi di Gaza che non faceva menzione della strage compiuta da Hamas.
(moked, 15 gennaio 2024)
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Nonostante la guerra, numeri in crescita per il turismo in Israele nel 2023
di David Fiorentini
Nonostante le cancellazioni dovute alla guerra, complessivamente il turismo in Israele continua la sua ripresa dalla pandemia. La notevole resilienza e crescita del settore hanno portato all’approdo in Israele di circa 3 milioni di viaggiatori, iniettando 4,85 miliardi di dollari nell’economia del paese.
In particolare, le ultime statistiche certificano un aumento del 12,5% rispetto al 2022, anche se ancora lontani dai livelli del 2019, anno record per il turismo israeliano, con quasi 4 milioni di ingressi.
Il periodo compreso da gennaio all’inizio delle ostilità ha registrato un aumento del 10% nel turismo dagli Stati Uniti, confermando gli USA come principale paese di provenienza. D’altro canto, fattori esterni come la guerra tra Russia e Ucraina e le restrizioni in uscita dalla Cina hanno invece generato un declino negli arrivi da questi Stati.
Tra i dati più curiosi, il Ministero del Turismo ha riportato che circa la metà dei turisti erano cristiani e il 25% ebrei, e che per il 57% del totale era la prima volta in Israele.
La permanenza media è stata di 8 giorni, con il 70% dei viaggiatori che si sono organizzati in modo indipendente e il 30% con un gruppo vacanze. Inoltre, le ragioni per visitare Israele sono state piuttosto diverse: il 37% è venuto per visitare i luoghi storici; il 26% per svago e ricreazione; il 25% per trovare familiari e amici, e l’11% è arrivato per motivi di lavoro.
Per questo motivo, il ministro del Turismo Haim Katz ha espresso fiducia nel futuro del settore, evidenziando gli sforzi in corso per ampliare le infrastrutture necessarie per garantire una risposta rapida ed efficiente nell’immediato dopoguerra.
“Mentre alcuni turisti hanno rinviato le loro vacanze a causa della guerra, molti non hanno cancellato le prenotazioni e stanno aspettando il momento giusto per viaggiare. Israele ha molto da offrire come destinazione turistica e non vediamo l’ora di accogliere nuovamente i turisti nel nostro paese”.
(Bet Magazine Mosaico, 15 gennaio 2024)
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Il pericolo maggiore
di Davide Cavaliere
Fin dal giorno successivo all’eccidio del 7 ottobre, analisti militari e agenti dei servizi segreti hanno chiamato in causa la Repubblica Islamica dell’Iran. È ormai certo che funzionari della sicurezza iraniani hanno contribuito a pianificare l’attacco a sorpresa di Hamas e dato il loro via libera all’assalto, come riportato anche dal Wall Street Journal.
La teocrazia iraniana, da decenni, è una delle principali minacce per le democrazie. Gli Ayatollah non sono impegnati solo nella guerra «per procura» contro Israele, condotta attraverso una rete di diciannove organizzazioni terroristiche, ma anche nel sostegno a Vladimir Putin e alla sua brutale aggressione dell’Ucraina. Teheran, infatti, attraverso Armenia e Kazakistan, fornisce alla Russia i droni Shahed e i missili Fateh-110 e Zolfaghar.
Il regime totalitario iraniano ha creato Hezbollah, organizzazione responsabile di terribili attentati terroristici, tra cui l’attacco suicida all’ambasciata degli Stati Uniti di Beirut nel 1983 e la strage al Jewish Community Center di Buenos Aires nel 1994. Il gruppo paramilitare libanese è una vera e propria longa manus del regime, che oggi fornisce supporto anche a Hamas e ai ribelli Houthi dello Yemen.
L’Iran, dal 1979, è stato dietro all’assassinio di ottanta dissidenti in esilio, compreso uno sul suolo americano, il diplomatico Ali Akbar Tabatabaei, leader dell’Iran Freedom Foundation. Il suo carnefice, l’americano convertito all’Islam David Belfield, vive tuttora in Iran sotto la protezione dei suoi organi di sicurezza.
La tirannia khomeinista, fin dalla sua nascita, ha soprattutto fomentato il terrorismo palestinese contro Israele e gli ebrei. Gli ayatollah hanno fatto della distruzione dello Stato ebraico la loro ragion d’essere, collocandola al centro di una visione apocalittico-millenarista legata al ritorno del Mahdī, una figura messianica destinata a instaurare il regno di Dio in terra.
In un sermone pronunciato nel 2001, Akbar Hashemi Rafsanjani definì Israele «il più orribile evento della storia», che il mondo islamico «vomiterà fuori dalle proprie viscere» attraverso un bombardamento nucleare. Per questo motivo, da più di un ventennio, la Repubblica Islamica è impegnata in un dispendioso programma nucleare.
Eppure, tutti questi fatti non hanno impedito, e tuttora non ostacolano, i rapporti diplomatici dell’Occidente con la leadership iraniana, definita persino «moderata».
Coloro che sostengono una politica estera della fermezza vengono spesso accusati di permettere all’ideologia di prevalere sul «buon senso». Ma se mai è esistito un esempio di ideologia che passa sopra ai fatti è l’approccio illusorio che i «realisti» occidentali hanno adottato nei confronti dell’Iran.
I fanatici religiosi non sono «attori razionali» dello scacchiere politico internazionale, non si faranno ammansire da concessioni economiche o diplomatiche. Gli ayatollah sono disponibili solo a tregue tattiche e temporanee, poiché sono convinti di operare secondo un piano divino.
La ricerca di «pace» e «stabilità» attraverso sempre maggiori concessioni a Teheran è una strategia suicida. Sull’Iran bisogna esercitare la massima pressione economica e militare, così da causare l’implosione della tirannia. Solo un cambio di regime può disinnescare la «bomba» iraniana. Inoltre, a differenza di Paesi come l’Iraq e l’Afghanistan, in Iran esiste un’opposizione autenticamente laica e democratica.
I dissidenti iraniani hanno bisogno di ricevere dall’Occidente lo stesso sostegno che ricevettero i dissidenti polacchi e cechi negli anni Ottanta. Ma soprattutto, necessitano del continuo e veemente supporto degli Stati Uniti d’America.
Non sempre le democrazie possono fare qualcosa contro i regimi criminali e totalitari, ma non dovrebbero nemmeno piegarsi alle loro pretese in nome di una malintesa idea di «stabilità dello scenario internazionale». La storia dimostra che solo i sistemi democratici garantiscono sicurezza e prosperità in modo duraturo.
La sopravvivenza d’Israele e l’incolumità delle società occidentali passano, necessariamente, attraverso la democratizzazione dell’Iran. I dissidenti, certo, potrebbero anche fallire e un Iran post-khomeinista precipitare nel caos etnico. È un argomento valido. Il fallimento è sempre una possibilità, salvo quando ci si rifiuta anche solo di provare ad alterare lo status quo: in questo caso diventa una certezza.
(L'informale, 14 gennaio 2024)
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«La sopravvivenza d’Israele e l’incolumità delle società occidentali passano, necessariamente, attraverso la democratizzazione dell’Iran», sostiene l'autore. Ancora una volta, Israele è presentato come il baluardo delle società occidentali e la "democrazia" come un idolo a cui tutto il mondo deve rendere culto e sottoporsi se vuole mantenersi in vita. Che la democrazia nell'amministrazione della cosa pubblica e nei rapporti fra nazioni possa essere, in certe situazioni storiche e in certi momenti, il male minore, può essere vero, ma così dicendo si perde di vista che Israele è un paese singolare, molto singolare, anzi unico. Lo dicono in molti, tra chi lo difende e chi lo vuol distruggere. Ma non lo dicono i liberal israeliani. Loro no, loro vogliono che Israele sia "come tutte le nazioni". Occidentali, si capisce. Come ai tempi del giudice Samuele? Sarà il 7 ottobre a farli riflettere? M.C.
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Perché i leader cristiani ignorano gli attacchi alle loro comunità
Il 26 dicembre, Hezbollah ha lanciato due missili anticarro contro la chiesa greco-cattolica di Santa Maria nel villaggio di Iqrit, in Israele, ferendo dieci persone. Al momento della stesura di questo articolo, nessun leader cristiano ha avuto nulla da dire sull'attacco missilistico di Hezbollah contro una chiesa.
di Bassam Tawil
Il 26 dicembre, Hezbollah, il gruppo terroristico libanese emissario dell'Iran, ha attaccato la chiesa greco-cattolica di Santa Maria, nel villaggio di Iqrit, nel nord di Israele. Un missile anticarro lanciato dal Libano direttamente contro l'edificio ecclesiastico ha ferito gravemente un civile di 85 anni. Nove soldati israeliani accorsi per prestare soccorso all'uomo sono rimasti feriti a causa di un secondo attacco missilistico. Hezbollah si è vantato dell'attacco e ha pubblicato un video che mostra i suoi missili che colpiscono la chiesa.
L'attacco non ha suscitato alcuna reazione da parte di nessuna delle principali organizzazioni cristiane in Occidente. Il Papa, invece, si è affrettato a condannare l'uccisione di due donne cristiane nella Striscia di Gaza, insinuando che Israele ne fosse responsabile.
Nahida Khalil Anton e sua figlia, Samar Kamal Anton, sarebbero state uccise in una sparatoria nel complesso della parrocchia cattolica della Sacra Famiglia, nella Striscia di Gaza. Il Pontefice ha affermato che le due donne "sono state uccise, e altre sono state ferite dai tiratori scelti mentre andavano in bagno". Anche se il Papa non ha menzionato i presunti attentatori, l'articolo di Vatican News ha fatto eco alle false affermazioni di Hamas e di altri gruppi terroristici, puntando il dito contro Israele:
"Durante la preghiera dell'Angelus, il Papa ha detto che continua a ricevere notizie inquietanti da Gaza, dove civili inermi sono presi di mira da bombardamenti e sparatorie".
Al momento della stesura di questo scritto, nessun leader cristiano ha avuto nulla da dire sull'attacco missilistico di Hezbollah contro una chiesa.
Quando i musulmani commettono tali crimini contro i cristiani nella Striscia di Gaza, in Egitto, Libano, Iraq e in altri Paesi, nessuno, compresi i media occidentali, se ne accorge. Per quale motivo? Perché Israele è innocente e nessun ebreo è colpevole.
È altresì plausibile che le donne cristiane siano state uccise dai terroristi di Hamas o della Jihad Islamica. Negli ultimi anni, sono aumentate le prove che Hamas non solo utilizza le moschee per lanciare attacchi contro Israele. L'arcivescovo Alexis, un importante leader cristiano nella Striscia di Gaza ha rivelato che durante uno dei recenti scontri i terroristi di Hamas hanno utilizzato il complesso della chiesa per lanciare razzi contro Israele.
Questi sono gli stessi terroristi che, tra l'altro, hanno lanciato un razzo che ha colpito un ospedale della Striscia di Gaza per poi precipitarsi ad accusare falsamente Israele. Una fonte militare europea, dopo aver esaminato le immagini dei danni provocati sul luogo dell'impatto nell'ospedale Al-Ahli, ha escluso l'ipotesi di un attacco aria-terra da parte di un jet da combattimento israeliano. La fonte, così come il governo americano, ha accertato che l'esplosione è stata causata da un razzo difettoso lanciato da Gaza verso Israele. La stessa fonte, inoltre, ha messo in dubbio il bilancio delle vittime rapidamente annunciato dal Ministero della Salute controllato da Hamas, affermando che è improbabile che 471 persone siano morte nell'esplosione. L'intelligence americana ha stimato che il numero reale dei morti fosse molto più basso.
In precedenza, il Patriarcato Latino di Gerusalemme aveva accusato direttamente Israele, senza alcuna prova, di aver ucciso la madre e la figlia cristiane. "Sono state uccise a sangue freddo", ha affermato il Patriarcato in una nota.
L'esercito israeliano, tuttavia, ha smentito di aver colpito la chiesa greco-ortodossa nella Striscia di Gaza. Rilevando che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) "non prendono di mira i civili, a prescindere dalla loro religione", l'esercito ha asserito di essere stato contattato da rappresentanti della chiesa in merito a un incidente avvenuto nella parrocchia della Sacra Famiglia, ma "non ci sono notizie di un attacco alla chiesa. Nessun civile è rimasto ferito o ucciso. Un'analisi dei risultati operativi dell'IDF lo conferma".
Successivamente, l'esercito ha dichiarato che dalla propria indagine preliminare è emerso che "i terroristi di Hamas hanno lanciato una granata con propulsione a razzo contro i soldati dell'IDF dalle vicinanze della chiesa". Le truppe israeliane hanno identificato tre persone nelle vicinanze che fungevano da "osservatori" di Hamas e "dirigevano i loro attacchi", così hanno sparato loro colpendole.
"Sebbene questo incidente sia avvenuto nell'area in cui le due donne sarebbero state uccise", ha aggiunto l'IDF, "i rapporti ricevuti [in merito all'episodio] non corrispondono ai risultati della nostra indagine preliminare, dalla quale è emerso che le truppe delle Forze di Difesa Israeliane stavano prendendo di mira gli osservatori nei punti di avvistamento del nemico".
L'esercito israeliano ha detto che avrebbe proseguito la propria "indagine sull'incidente", aggiungendo:
"L'IDF prende molto sul serio le accuse di attacchi contro siti sensibili, in particolare le chiese che sono luoghi sacri della fede cristiana. L'IDF dirige le sue operazioni contro l'organizzazione terroristica Hamas e non contro i civili, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa. L'IDF prende molte misure per mitigare i danni ai civili nella Striscia di Gaza. Questi sforzi contrastano con quelli di Hamas che fa tutto ciò che è in suo potere per mettere in pericolo i civili e anche i siti religiosi, utilizzando i primi come scudi umani per le proprie attività terroristiche".
Puntando il dito accusatorio contro Israele, il Papa e il Patriarcato Latino di Gerusalemme, di fatto, danno credito alle false affermazioni da parte di Hamas, emissario palestinese dell'Iran. Il Pontefice e il Patriarcato Latino di Gerusalemme si sono affrettati a esprimere un giudizio contro Israele, in gran parte sulla base di una falsa affermazione di Hamas, i cui terroristi hanno invaso Israele il 7 ottobre, uccidendo più di 1.200 israeliani e ferendone altre migliaia. Il Papa e il Patriarcato non si sono nemmeno presi la briga di aspettare la conclusione dell'indagine dell'esercito israeliano sull'episodio della chiesa di Gaza. E come i principali media occidentali, hanno preferito ripetere meccanicamente le false affermazioni di Hamas e di altri terroristi. Inoltre, come molti media mainstream occidentali, hanno deciso di ignorare l'attacco di Hezbollah contro la chiesa, nel nord di Israele. Probabilmente, lo hanno fatto perché un attacco che non può essere attribuito a Israele perde interesse ai loro occhi.
Dov'erano il Papa e le altre organizzazioni cristiane, ci si chiede, quando i cristiani che vivevano sotto il gruppo terroristico Hamas, un ramo dei Fratelli Musulmani, venivano sistematicamente presi di mira e perseguitati?
Durante il periodo di instabilità che contraddistinse la Striscia di Gaza tra il 2006 e il 2008, i terroristi islamisti uccisero Rami Ayyad, un attivista cristiano palestinese che era direttore dell'unica libreria cristiana nella Striscia. In passato, la libreria era stata bersaglio di diversi attacchi, tra cui attentati e incendi dolosi. Era risaputo che Ayyad avesse ricevuto minacce di morte nel corso degli anni.
Il 6 ottobre 2007, mentre Ayyad stava chiudendo la libreria, un gruppo di uomini mascherati lo costrinse a salire a bordo di un'auto. Il giorno successivo venne trovato morto in un campo vicino a Zeitoun, un quartiere di Gaza City. Era stato picchiato a sangue, e un biglietto rinvenuto accanto al suo corpo lo accusava di essere un "missionario" e avvertiva gli altri di non svolgere attività analoghe.
"Dalla vittoria di Hamas nelle elezioni del 2006, e dal colpo di Stato con cui Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza nel giugno 2007, le tensioni religiosi si sono intensificate sempre più", scriveva il compianto avvocato di fama internazionale specializzato in diritti umani Justus Reid Weiner, il quale ha condotto ricerche approfondite sugli abusi dei diritti umani contro i cristiani in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
"Hamas ha attuato politiche che trasformano [le aree sotto il controllo palestinese] in una teocrazia islamica, e la religione cristiana e i suoi fedeli vengono costantemente discriminati. Gruppi musulmani come Hamas e la Jihad Islamica Palestinese hanno costruito una cultura dell'odio sulle antiche fondamenta della società islamica. Nel 2008, militanti musulmani hanno bombardato l'Associazione Cristiana dei Giovani Uomini di Gaza City (YMCA) e una bomba è esplosa in una scuola cristiana".
Secondo Weiner, i crimini commessi contro gli arabi cristiani derivano da una forma di pensiero che risale agli albori dell'Islam:
"Tradizionalmente, a cristiani ed ebrei viene concesso uno status sociale inferiore, noto nell'Islam come dhimmitudine. La dhimma è un contratto giuridico di sottomissione imposto alle popolazioni autoctone non musulmane nelle regioni conquistate con la spada dall'Islam. Sebbene ebrei e cristiani non fossero costretti a convertirsi all'Islam, non erano trattati alla pari dei musulmani. In quanto dhimmi, ebrei e cristiani erano soggetti a restrizioni sia giuridiche che culturali ai sensi della legge islamica. Ad esempio, i musulmani potevano viaggiare a cavallo, mentre cristiani ed ebrei potevano soltanto andare a dorso d'asino. Oppure, ai musulmani era consentito indossare abiti realizzati con tessuti pregiati, mentre ai cristiani e agli ebrei era consentito indossare soltanto abiti realizzati con stoffe grezze".
Weiner ha proseguito dicendo:
"Nella società palestinese, gli arabi cristiani non hanno né voce né protezione. Non c'è da stupirsi che se ne siano andati. A causa delle emigrazioni, alcune delle quali avvenute tre generazioni fa, il 70 per cento degli arabi cristiani che originariamente risiedevano in Cisgiordania e a Gaza ora vive all'estero".
Quanto è dunque paradossale il fatto che l'ultimo tentativo di etichettare Israele come un Paese che prende di mira i cristiani sia coinciso con il massacro perpetrato in Nigeria contro i cristiani che celebravano il Natale. Tra il 23 e il 25 dicembre scorsi, gruppi militanti islamici hanno ucciso più di 160 cristiani. La Nigeria è da diversi anni un focolaio di persecuzioni contro i cristiani. Nel 2022, il Paese era al primo posto nel mondo per numero di cristiani uccisi per la loro fede. Quando vengono commesse tali atrocità, raramente sentiamo le voci di coloro che affermano di preoccuparsi del benessere e della sicurezza dei cristiani in tutto il mondo.
Secondo Open Doors, un'organizzazione che sostiene i cristiani perseguitati, i primi dieci persecutori statali dei cristiani sono Corea del Nord, Somalia, Yemen, Eritrea, Libia, Nigeria, Pakistan, Iran, Afghanistan e Sudan. Altri Paesi importanti presenti nella lista sono India, Cina, Arabia Saudita, Cuba, Egitto, Messico, Turchia e Nicaragua.
In Israele, invece, nel 2020, la comunità cristiana è cresciuta dell'1,4 per cento e contava circa 182 mila persone. L'84 per cento dei cristiani si è detto soddisfatto della vita in Israele: il 24 per cento ha dichiarato di essere "molto soddisfatto" e il 60 per cento "soddisfatto". Israele è uno dei pochi Paesi del Medio Oriente dove i cristiani si sentono sicuri e dove il loro numero è in crescita. Al contrario, nel 2022, nella Striscia di Gaza, vivevano circa 1.100 cristiani, in calo rispetto agli oltre 1.300 del 2014.
I leader cristiani che voltano le spalle alla difficile situazione dei cristiani nella Striscia di Gaza, o altrove, pur continuando ad essere ossessionati da Israele, stanno facendo un danno immenso alle loro greggi: lontani dall'attenzione pubblica, i cristiani saranno presi di mira più ferocemente che mai. Peggio ancora, coloro che ignorano gli attacchi contro i cristiani autorizzano Hamas, Hezbollah e altri islamisti a distruggere i luoghi santi cristiani e ad uccidere i cristiani.
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Bassam Tawil è un arabo musulmano che vive in Medio Oriente.
(Gatestone Institute, 14 gennaio 2024 - trad. di Angelita La Spada)
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«Keren» una parola profetica per il Messia (5)
«Keren» come simbolo dell'esaltazione degli umili e dell'umiliazione dei superbi da parte di Dio
di Gabriele Monacis
Finora abbiamo esaminato i passi biblici in cui la parola keren appare in contesti di debolezza, ma anche di redenzione e liberazione da parte di Dio. Questo è stato il caso di Anna, che ha avuto in modo miracoloso suo figlio, di Davide, che Dio ha liberato dai suoi nemici, e anche del Messia, che ha sofferto le profondità della morte, da cui Dio lo ha risollevato con la risurrezione.
Abbiamo anche visto che keren appare spesso in un contesto di sacrificio e di morte, ma anche di vita e di perdono dei peccati: Sui quattro corni dell'altare degli olocausti e dell'altare dell'incenso, il sacerdote spargeva il sangue per il perdono dei peccati. Allo stesso modo, il sacrificio di Isacco riguarda il sacrificio sostitutivo e la morte, perché Abramo alla fine non sacrificò suo figlio Isacco, ma l'ariete che era rimasto impigliato nell’arbusto.
La conclusione biblica è che il termine profetico keren appartiene a un contesto con due facce: la debolezza, il sacrificio e la morte da un lato, e la forza, la vita e il perdono dei peccati dall'altro. Il potenziale simbolico di keren trova il suo grande compimento nel Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che si è fatto debole affinché coloro che credono in Lui possano diventare forti grazie a Dio. Egli è andato volontariamente incontro alla morte affinché molti potessero ricevere la vita eterna. Ha versato il suo sangue in sacrificio davanti a Dio per il perdono dei nostri peccati.
Un altro contesto in cui troviamo la parola keren è quello della regalità. Vediamo due passaggi come esempi. Il primo si trova in 1 Samuele 16: Dio disse a Samuele di riempire d'olio il suo corno e di andare da Isai, il betlemita, perché aveva scelto uno dei suoi figli come re d'Israele. Questo re era Davide. Al versetto 13 leggiamo: "Allora Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli". Il secondo esempio è in 1 Re 1:39, dove si legge: "Allora il sacerdote Zadok prese il corno dell’olio dal tabernacolo e unse Salomone".
Davide e Salomone furono unti re con l'olio di un corno. Quando Samuele e Zadok versarono l'olio sulle loro teste, sollevarono il corno contenente l'olio in modo che si librasse sopra di loro. Questo corno sopra la testa ricorda alcuni animali nobili ed è chiaramente un segno della maestà che Dio conferisce all'unto, un segno visibile a tutti i partecipanti alla cerimonia dell'unzione.
Passiamo ora ai libri profetici. Anche qui troviamo keren nel contesto della regalità. È usato in particolare come simbolo di un potere in ascesa o in declino, soprattutto in relazione ai re stranieri e ai loro regni. Geremia profetizza la fine di Moab: "Il corno di Moab è tagliato e il suo braccio è spezzato, dice il Signore" (Geremia 48,25). E Michea usa la parola keren per profetizzare la vittoria di Israele sui suoi nemici. Dio dice alla figlia di Sion: "Perché io renderò di ferro il tuo corno… e tu schiaccerai grandi nazioni" (Michea 4,13).
Nei libri dei profeti Zaccaria e Daniele, troviamo più volte la parola keren per indicare l'ascesa o la fine dei regni. In Zaccaria 1:18-19 leggiamo: "Poi alzai gli occhi e guardai, ed ecco quattro corna. E domandai all'angelo che mi parlava: Cosa sono queste?’ Egli mi rispose: Queste sono le corna che hanno disperso Giuda, Israele e Gerusalemme". In Daniele 7, il profeta usa più volte la parola karna (in aramaico "corno") per descrivere l'ascesa di un re potente che dominerà sugli altri re della terra e la cui bocca dirà grandi cose (vv. 8, 20, 24). E ancora: "Vidi quel corno fare guerra ai santi e vincerli” (v. 21). Questo corno è una prefigurazione dell'Anticristo, che cercherà con tutte le sue forze di distruggere il popolo di Dio e di vanificare il piano di salvezza di Dio per l'umanità.
L'uso della parola keren in contesti di regalità indica che il Messia doveva essere un re umile e venire come un servo per compiere la volontà di Dio, per la benedizione di tutta l'umanità - in netto contrasto con l'Anticristo in Daniele 7, che è anch'esso simboleggiato da un corno, ma che pronuncerà parole altisonanti contro Dio e combatterà contro i suoi santi "finché non giunga il Vegliardo e il giudizio sia dato ai santi dell'Altissimo, e venga il tempo in cui i santi possederanno il regno" (Daniele 7, 22).
(5. continua)
(Nachrichten aus Israel – August 2022)
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All’Aia a voce alta
Nessun vittimismo, davanti alla Corte la difesa di Israele è decisa. I cento giorni di guerra
di Micol Flammini
ROMA - Galit Rajuan fa parte della squadra degli avvocati che rappresenta Israele all’Aia. Ha preso la parola davanti ai giudici della Corte internazionale di giustizia, e ha iniziato a elencare tutti i posti civili che Hamas ha trasformato in luoghi di guerra. Scuole, ospedali, moschee, case. Poco prima di terminare l’esposizione, corredata di prove, Rajuan ha sospirato: “L’elenco è ancora lungo… per l’uso di ospedali come scudi, in violazione di ogni legge umanitaria internazionale, pazienti e personale medico sono in pericolo”. Rajuan ha parlato con calma, scandito i crimini, la sua linea difensiva si basa sulle evidenze. L’Aia è un palcoscenico, sul quale Israele sente non soltanto la responsabilità della difesa, l’isolamento – che ieri si è fatto meno forte con la decisione della Germania di intervenire come parte terza contro l’accusa di genocidio – ma anche la possibilità di esporre al mondo i crimini di Hamas. Non tutti gli israeliani, all’Aia vedono l’ingiustizia: “Capisco il sentimento, ma non sono d’accordo – dice al Foglio Yuval Elbashan, scrittore, avvocato, attivista – Non condivido neppure i paragoni con gli anni Quaranta: noi all’Aia abbiamo una voce”.
“E’ terribile, possiamo definirlo un processo disgustoso, ma adesso noi siamo uno stato, la situazione è molto diversa: non siamo senza difese”. Nessun vittimismo, non c’è tempo, non c’è neppure la voglia di sentirsi vittima nelle parole di Yuval Elbashan.
La voce di Rajuan e degli altri avvocati sono l’espressione di uno stato che sa e vuole difendersi: “Noi abbiamo contribuito a creare la giustizia internazionale, a definire la convenzione sul genocidio, ebbene, se negli anni Quaranta non esisteva la parola giustizia nel nostro vocabolario, ora sì. All’Aia ci siamo noi. E certo le storture sono tante, basti pensare che ci sarà un giudice libanese o russo o cinese seduto nella Corte, ma non possiamo dire che tutto questo ci ributta indietro nel tempo. Non concordo con i paragoni con la Seconda guerra mondiale, perché c’è una differenza grande e quella differenza siamo noi ”. Yuval Elbashan ha un figlio nell’esercito, si occupa dei riservisti nella sua università, si definisce un uomo di sinistra e quando parla si percepiscono l’orgoglio e il suo peso. “Il mondo simpatizza con chi sembra più debole, per questo abbiamo difficoltà a essere capiti, creduti. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’antisemitismo non era scomparso, ma noi sembravamo deboli e si faceva meno fatica a stare dalla nostra parte. Adesso sono così contento che per la prima volta nella storia siamo noi ad apparire forti”. Per Elbashan la forza sta nella capacità di difesa, nella possibilità di avere, come dice lui più volte, “una voce”.
Sono ormai trascorsi cento giorni di guerra, “per noi continua a essere l’8 ottobre”, dice Elbashan. In questo giorno che dall’attacco di Hamas non è mai finito non ha potuto fare a meno di notare tutti i cambiamenti che il suo paese sta affrontando e che a volte coincidono con i cambiamenti in se stesso. Inizia a parlare del primo cambiamento: “Uso spesso la parola ‘ebreo’, cento giorni fa, per dire la stessa cosa, avrei detto ‘israeliano’. Non credo in Dio, non rispetto lo Shabbat, ma ho capito molto di più dell’identità del mio paese. Prima del 7 ottobre discutevamo della laicità di Israele, adesso il nome di Dio, prima negletto nella sfera pubblica, è tornato”. Su Yedioth Ahronoth, a metà ottobre, Elbashan aveva raccontato di una scoperta personale. Per anni aveva creduto che la sua israelianità fosse definita dal numero identificativo ricevuto una volta entrato nell’esercito. Passeggiando per Cracovia aveva scoperto, dal racconto di un amico, che lo scrittore austriaco sopravvissuto all’Olocausto, Jean Améry, aveva definito il numero che i nazisti gli avevano tatuato addosso il metro della sua ebraicità. Di essere ebreo lo aveva scoperto così, con una serie di cifre. Prima, Améry non aveva mai dato troppa importanza alla sua ebraicità. Yuval aveva poi capito quanta poca differenza ci fosse tra una sequenza di numeri e l’altra: “Dobbiamo sempre ricordarci che il numero della morte è impresso sotto la nostra pelle. Hamas non ha iniziato una guerra per il territorio. Io credo nella creazione di uno stato palestinese, se per realizzarlo devo lasciare la mia casa a Gerusalemme, sono pronto a farlo. Ma Hamas non vuole un pezzo di terra, vuole distruggere gli ebrei. Non è qualcosa su cui si può cercare un compromesso, come si fa nelle dispute sui confini”. Il secondo cambiamento sta nell’assopimento delle dispute interne, gli israeliani non si identificano più nella faida fra Tel Aviv e Gerusalemme, tra chi sta con Bibi e chi sta contro, questi estremismi non hanno più voce. Il terzo cambiamento è nella sfiducia: “Le persone non credono più nella leadership politica, dell’intelligence, dell’esercito. Bisognerà cambiare tutto e non soltanto non è semplice, ma può essere spaventoso, perché può generare caos. Non ci sono leader nuovi in attesa, in Israele, chi prende le decisioni deve essere pronto a fasi critiche, a una maturità che non è semplice da avere, abbiamo visto con l’ex premier Naftali Bennett come è andata. Dobbiamo cambiare tutto senza fermarci”. Quando la guerra finirà, è possibile che chiunque sia stato nel governo, nell’esercito, nell’intelligence sarà ritenuto se non colpevole, almeno responsabile dei fallimenti del 7 ottobre. “Non basterà cambiare Netanyahu, è più complesso. Al suo posto si sta facendo avanti l’ex capo del Mossad Yossi Cohen, ma è nella stessa situazione”. E’ un nuovo 1948, l’anno dell’istituzione dello stato di Israele. “Dobbiamo ricostruire, rifare. C’è un fatto, però, una differenza grande. Mi guardo attorno, ma un altro David Ben Gurion, io non lo vedo”.
Il Foglio, 13 gennaio 2024)
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Il tentativo di negare a Israele il diritto di difendersi
Il discorso di apertura del consigliere legale del Ministero degli Esteri di Israele, Tal Becker alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, il 12 gennaio 2024, quando i rappresentanti di Israele hanno presentato la sua difesa contro le accuse di genocidio mosse dal Sudafrica nei confronti dello Stato ebraico relative al conflitto in corso Gaza e corredate dalla richiesta alla Corte di ordinare un’immediata azione intesa a fermare le operazioni dell’IDF.
Signora Presidente, illustri membri della Corte, è un onore comparire di nuovo davanti a voi a nome dello Stato di Israele. Lo Stato di Israele è particolarmente consapevole del motivo per cui è stata adottata la Convenzione sul genocidio, invocata in questo procedimento. È impresso nella nostra memoria collettiva l’omicidio sistematico di 6 milioni di ebrei come parte di un programma premeditato e atroce per il loro totale annientamento. Considerando la storia del popolo ebraico e i suoi testi fondazionali, non sorprende che Israele sia stato tra i primi stati a ratificare senza riserve la Convenzione sul genocidio e a incorporarne le disposizioni nella propria legislazione nazionale. Per alcuni, la promessa “Mai più” per tutti i popoli è uno slogan. Per Israele si tratta del più alto obbligo morale. Raphael Lemkin, un ebreo polacco che fu testimone degli indicibili orrori dell’Olocausto, ha il merito di aver coniato il termine “genocidio”. Aiutò il mondo a riconoscere che il lessico giuridico esistente era semplicemente inadeguato a rappresentare il male devastante scatenato dall’Olocausto nazista. Il ricorrente ha ora cercato di invocare questo termine nel contesto della condotta di Israele in una guerra che non ha iniziato e non ha voluto, una guerra in cui Israele si difende contro Hamas, la Jihad islamica palestinese e altre organizzazioni terroristiche la cui brutalità non conosce limiti. La sofferenza dei civili in questa guerra, come in tutte le guerre, è tragica. È straziante. La dura realtà delle attuali ostilità è resa particolarmente dolorosa per i civili, data la riprovevole strategia di Hamas di cercare di massimizzare il danno dei civili sia per gli israeliani che per i palestinesi, anche se Israele cerca di minimizzarlo. Ma come questa Corte ha già chiarito, la Convenzione sul Genocidio non è stata concepita per affrontare il brutale impatto delle ostilità intense sulla popolazione civile, anche quando l’uso della forza solleva “problemi molto seri di diritto internazionale e comporta enormi sofferenze e continue perdite di vita.” La Convenzione è stata istituita per affrontare un crimine doloso della gravità più eccezionale. Viviamo in un’epoca in cui le parole costano poco. Nell’era dei social media e delle politiche identitarie, la tentazione di ricorrere al termine più oltraggioso, diffamare e demonizzare, è diventata, per molti, irresistibile. Ma se c’è un luogo in cui le parole dovrebbero ancora avere importanza, dove la verità dovrebbe ancora avere importanza, è sicuramente l’aula di un tribunale. Il ricorrente ha purtroppo presentato alla Corte un quadro di fatto e di diritto profondamente distorto. L’intero caso si basa su una descrizione deliberatamente artefatta, decontestualizzata e manipolatoria della realtà del conflitto in corso Il Sudafrica pretende di presentarsi davanti a questa corte nella posizione nobile di guardiano degli interessi dell’umanità. Ma nel delegittimare i 75 anni di esistenza di Israele nella sua presentazione di apertura di ieri, quell’ampio impegno a favore dell’umanità è suonato vuoto. E nella sua ampia descrizione controfattuale del conflitto israelo-palestinese, è sembrato cancellare sia la storia ebraica che qualsiasi forma di responsabilità palestinese. In effetti, secondo il ricorrente, la delegittimazione di Israele fin dalla sua fondazione nel 1948 è apparsa difficilmente distinguibile dalla retorica negazionista di Hamas. Non sorprende, quindi, che, nel racconto del ricorrente, siano nascoste sia la responsabilità di Hamas per la situazione a Gaza, sia la stessa umanità delle sue vittime israeliane. Il tentativo di utilizzare come arma il termine “genocidio” contro Israele nel contesto attuale va oltre il mero raccontare alla Corte una storia grossolanamente distorta, va oltre lo svuotamento della parola della sua forza unica e del suo significato speciale. Sovverte l’oggetto e lo scopo della Convenzione stessa, con conseguenze per tutti gli Stati che cercano di difendersi da coloro che dimostrano totale disprezzo per la vita e per la legge. Signora Presidente, signori giudici, sabato 7 ottobre, festa religiosa ebraica, migliaia di militanti di Hamas e altri militanti hanno fatto breccia nel territorio sovrano israeliano via mare, via terra e via aria, invadendo oltre 20 comunità e basi israeliane e il sito di un festival musicale. Ciò che è avvenuto sotto la copertura di migliaia di razzi lanciati indiscriminatamente su Israele è stato il massacro, la mutilazione, lo stupro e il rapimento su vasta scala di tutti i cittadini che i terroristi sono riusciti a trovare prima che le forze israeliane li respingessero. Mostrando apertamente euforia, hanno torturarono i bambini davanti ai genitori e i genitori davanti ai bambini, hanno arso persone vive, compresi i neonati, e violentato e mutilato sistematicamente decine di donne, uomini e bambini. Nel complesso, quel giorno sono state massacrate circa 1.200 persone, più di 5.500 mutilate e circa 240 ostaggi rapiti, tra cui neonati, intere famiglie, persone con disabilità e sopravvissuti all’Olocausto, alcuni dei quali da allora sono stati giustiziati, molti dei quali torturati, abusati sessualmente e affamati in cattività. I rappresentanti delle famiglie degli ostaggi sono oggi presenti in quest’aula di tribunale e riconosciamo la loro presenza e la loro sconfinata sofferenza. Conosciamo la brutalità del 7 ottobre non solo grazie alle strazianti testimonianze dei sopravvissuti, alle prove inequivocabili della carneficina e del sadismo lasciate alle spalle e alle prove forensi raccolte sulla scena. Lo sappiamo perché gli aggressori hanno filmato e trasmesso con orgoglio la loro barbarie. Gli eventi di quel giorno sono quasi ignorati nelle dichiarazioni del ricorrente, ma siamo costretti a condividere con la Corte una parte del suo orrore, il più grande omicidio di massa calcolato di ebrei in un solo giorno dall’Olocausto a oggi. Lo facciamo non perché questi atti, per quanto sadici e sistematici, sollevano Israele dai suoi obblighi di rispettare la legge mentre difende i suoi cittadini e il suo territorio. Questo è indiscutibile. Lo facciamo perché è impossibile comprendere il conflitto armato a Gaza senza comprendere la natura della minaccia che Israele si trova ad affrontare e la brutalità e la mancanza totale di rispetto della legge da parte delle forze armate che lo affrontano. Nell’insieme dei materiali presentati ai membri della Corte, è stato consentito l’accesso a una parte del filmato non montato per una proiezione separata. Ma sono obbligato a presentare oggi alla Corte qualche piccolo frammento delle scene di indicibile crudeltà avvenute in centinaia di luoghi in quel giorno orribile. Jonny Siman Tov, un coltivatore di grano, e sua moglie Tamar, un’attivista per i diritti delle donne, vivevano nel Kibbutz Nir Oz. Quando è iniziato il lancio dei razzi, si sono nascosti nella stanza di sicurezza con il loro figlio di quattro anni, Omer, e i loro gemelli di sei anni, Arbel e Shahar. Durante la loro furia, i militanti di Hamas hanno dato fuoco alla loro casa. Jonny ha mandato un messaggio a sua sorella Renee: “Sono qui. Ci stanno bruciando. Stiamo soffocando”. L’intera famiglia fu bruciata viva, ridotta in cenere, rendendo particolarmente difficile l’identificazione del DNA. Un sopravvissuto al massacro del festival musicale Nova ha testimoniato alla polizia di aver assistito allo stupro brutale di una giovane donna da parte di un militante di Hamas, mentre un altro militante le tagliava il seno e ci giocava. Un secondo militante l’ha poi violentata di nuovo, sparandole alla testa mentre era ancora dentro di lei. In un video registrato da un sistema di sorveglianza domestica, un militante di Hamas lancia una granata in una stanza di sicurezza dove un padre e i suoi due figli si sono precipitati a nascondersi. Il padre viene ucciso. I due figli sono feriti e sanguinano mentre un militante li trascina nel soggiorno. Si può sentire un bambino gridare a suo fratello: “Perché sono vivo? Non riesco a vedere nulla. Ci uccideranno”. Il militante apre con nonchalance il frigorifero, tira fuori una bottiglia e beve. E poi c’è questa registrazione del Kibbutz Mefalsim. (Becker fa ascoltare alla corte una registrazione in arabo con sottotitoli in inglese.) “Papà, ti sto parlando dal telefono di una donna ebrea. Ho ucciso lei e suo marito. Ho ucciso dieci persone con le mie stesse mani! Papà, dieci con le mie mani! Papà, apri WhatsApp e guarda come ho ucciso. Papà, apri il telefono. Papà, ti chiamo su WhatsApp. Apri il telefono, vai. Dieci. Dieci con le mie mani. Il loro sangue è sulle loro mani. Fai venire la mamma.” Come affermato, nessuna di queste atrocità assolve Israele dai suoi obblighi ai sensi della legge. Ma consentono alla Corte di valutare tre aspetti fondamentali del presente procedimento che il ricorrente ha nascosto alla vista. In primo luogo, se ci sono stati atti che possono essere definiti genocidari, allora sono stati perpetrati contro Israele. Se c’è una preoccupazione riguardo agli obblighi degli stati ai sensi della Convenzione sul genocidio, allora essa riguarda la loro responsabilità nell’agire contro l’agenda di annientamento orgogliosamente dichiarata da Hamas, che non è un segreto e che è inequivocabile. Il linguaggio genocidario dello statuto di Hamas viene ripetuto regolarmente dai suoi leader, con l’obiettivo, secondo le parole di un membro dell’ufficio politico di Hamas, di ripulire la Palestina dalla sporcizia degli ebrei. Ciò è espresso in modo non meno agghiacciante nelle parole del membro senior di Hamas Ghazi Hamad, alla televisione libanese il 24 ottobre 2023, che si è riferito agli attacchi del 7 ottobre, quello che Hamas chiama il diluvio di Al-Aqsa, come segue: “Dobbiamo rimuovere quel paese perché costituisce una catastrofe sul piano della sicurezza, militare e politica per la nazione araba e islamica e deve essere sterminato. Non ci vergogniamo di dirlo con tutta la forza. Dobbiamo dare una lezione a Israele e lo faremo ancora e ancora. L’alluvione di Al-Aqsa è solo la prima volta. Ce ne sarà una seconda, una terza, una quarta”. Nel seguito dell’intervista viene chiesto ad Hamad: “ciò significa l’annientamento di Israele?” “Sì, certo”, dice, “l’esistenza di Israele è illogica”. E poi dice: “Nessuno dovrebbe incolparci per le cose che facciamo. Il 7 ottobre, il 10 ottobre, il milionesimo ottobre, tutto ciò che facciamo è giustificato”. Dato che il 7 ottobre, prima di qualsiasi risposta militare da parte di Israele, il Sudafrica ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui incolpava Israele per “il recente conflitto”, accusando essenzialmente Israele dell’omicidio dei suoi stessi cittadini, ci si chiede se il ricorrente sia d’accordo. In secondo luogo, è in risposta al massacro del 7 ottobre, che Hamas promette apertamente di ripetere, e agli attacchi in corso contro di esso da Gaza, che Israele ha il diritto intrinseco di adottare tutte le misure legittime per difendere i suoi cittadini e garantire il rilascio degli ostaggi. Anche questo diritto non è in dubbio. È stato riconosciuto dagli stati di tutto il mondo. Sorprendentemente, alla Corte è stato chiesto di indicare una misura provvisoria che inviti Israele a sospendere le sue operazioni militari. Ma ciò equivale a un tentativo di negare a Israele la capacità di adempiere ai propri obblighi nei confronti della difesa dei suoi cittadini, degli ostaggi e degli oltre 110.000 sfollati interni israeliani che non possono tornare in sicurezza alle loro case. Il ricorrente, nelle sue dichiarazioni alla Corte, non fa quasi alcuna menzione delle continue sofferenze umanitarie dei cittadini israeliani per mano di Hamas, e considera gli ostaggi ancora tenuti prigionieri come un fatto di scarsa rilevanza. Ma c’è una ragione per cui queste persone sul vostro schermo non meritano protezione? (Becker mostra le fotografie degli ostaggi.) Hamas non è parte in causa in questo procedimento. Il ricorrente, con la sua richiesta, cerca di contrastare il diritto intrinseco di Israele di difendersi, per permettere a Hamas non solo di farla franca con il suoi crimini, letteralmente, ma di rendere Israele indifeso mentre Hamas continua a commetterli. Ieri, l’avvocato del ricorrente ha fatto la sorprendente affermazione che a Israele è stato negato questo diritto e, di fatto, non dovrebbe essere in grado di proteggersi dagli attacchi di Hamas. Ma permettetemi di attirare l’attenzione su queste parole scritte dal professor Vaughan Lowe. “La fonte dell’attacco, sia essa un attore statale o non statale, è irrilevante per l’esistenza del diritto alla difesa. La forza può essere utilizzata per scongiurare una minaccia, perché nessuno e nessuno Stato è obbligato per legge, passivamente, a subire un attacco”. Israele è d’accordo con queste parole, come, sospetto, farebbe qualsiasi stato sovrano. Se la tesi del ricorrente è che nel conflitto armato tra Israele e Hamas, a Israele deve essere negata la capacità di difendere i suoi cittadini, allora l’assurdo risultato dell’argomentazione del Sudafrica è questo: con il pretesto dell’accusa di genocidio contro Israele , a questa Corte viene chiesto di chiedere la fine delle operazioni contro gli attacchi in corso di un’organizzazione che persegue un vero e proprio programma genocida. Un’organizzazione che ha violato ogni cessate il fuoco del passato e lo ha utilizzato per riarmarsi e pianificare nuove atrocità. Un’organizzazione che dichiara la sua inequivocabile determinazione a portare avanti i suoi piani genocidi. Si tratta di una richiesta inconcepibile e viene rispettosamente affermato che non può essere accolta. In terzo luogo, la Corte è informata degli eventi del 7 ottobre, perché se ci sono delle misure provvisorie che dovrebbero essere opportunamente indicate qui, queste sono, proprio, nei confronti del Sudafrica. È risaputo che il Sudafrica intrattiene stretti rapporti con Hamas. Nonostante il riconoscimento formale come organizzazione terroristica da parte di numerosi stati in tutto il mondo, queste relazioni sono continuate senza sosta anche dopo le atrocità del 7 ottobre. Il Sudafrica ha ospitato e celebrato a lungo i suoi legami con esponenti di Hamas, inclusa una delegazione di Hamas che, incredibilmente, ha visitato il paese per un “incontro di solidarietà” poche settimane dopo l’eccidio. Nel giustificare l’avvio di un procedimento, il Sudafrica adempie gran parte dei suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio. Sembra appropriato, quindi, che venga incaricato di rispettare egli stesso tali obblighi, di porre fine al suo linguaggio di delegittimazione dell’esistenza di Israele, di porre fine al suo sostegno a Hamas e di usare la sua influenza su questa organizzazione in modo che Hamas metta definitivamente fine alla sua campagna di genocidio, terrore e liberi gli ostaggi. Signora Presidente, signori giudici, le ostilità tra Israele e Hamas hanno imposto un prezzo terribile sia agli israeliani che ai palestinesi. Ma qualsiasi sforzo genuino per comprendere la causa di questo tributo deve tenere conto dell’orrenda realtà creata da Hamas all’interno della Striscia di Gaza. Quando Israele ritirò tutti i suoi soldati e civili da Gaza nel 2005, lasciò un’area costiera con il potenziale per diventare una storia di successo politico ed economico. La violenta presa di potere di Hamas nel 2007 ha cambiato tutto questo. Negli ultimi 16 anni del suo governo, Hamas ha contrabbandato innumerevoli armi a Gaza e ha dirottato miliardi in aiuti internazionali, non per costruire scuole, ospedali o rifugi per proteggere la sua popolazione dai pericoli degli attacchi lanciati contro Israele nel corso di molti anni, ma piuttosto per trasformare enormi aree di infrastrutture civili in quella che è probabilmente la roccaforte terroristica più sofisticata nella storia della guerra urbana. Sorprendentemente, l’avvocato del ricorrente ha descritto la sofferenza a Gaza come senza paralleli e senza precedenti, come se non fosse consapevole della totale devastazione causata dalle guerre che hanno imperversato proprio negli ultimi anni in tutto il mondo. Purtroppo, le sofferenze civili causate dalla guerra non riguardano solo Gaza. Ciò che in realtà non ha eguali ed è senza precedenti è il grado in cui Hamas si è radicato nella popolazione civile e ha reso la sofferenza dei civili palestinesi parte integrante della propria strategia. Hamas ha sistematicamente e illegalmente radicato le sue operazioni militari, i suoi militanti e le sue risorse in tutta Gaza, all’interno e al di sotto di aree civili densamente popolate. Ha costruito un vasto labirinto di tunnel sotterranei per i suoi leader e combattenti, lunghi diverse centinaia di miglia in tutta la Striscia, con migliaia di punti di accesso e centri terroristici situati in case, moschee, strutture delle Nazioni Unite, scuole e, forse la cosa più scioccante, ospedali. Questa non è una tattica occasionale. Si tratta di un metodo di guerra integrato, pianificato, esteso e ripugnante: uccidere intenzionalmente e metodicamente civili, lanciare razzi indiscriminatamente, utilizzare sistematicamente siti sensibili e oggetti civili come scudi, rubare e accumulare forniture umanitarie, consentendo a coloro che sono sotto il suo controllo di soffrire in modo che ciò possa alimentare la sua lotta e la sua campagna terroristica. La terribile sofferenza dei civili, sia israeliani che palestinesi, è innanzitutto il risultato di questa strategia spregevole, l’orribile costo di Hamas che non solo non riesce a proteggere i suoi civili, ma li sacrifica attivamente per la propria propaganda e il proprio vantaggio militare. E se Hamas abbandonasse questa strategia, liberasse gli ostaggi, deponesse le armi, le ostilità e le sofferenze finirebbero. Signora Presidente, signori giudici, ci sono molte distorsioni nelle dichiarazioni del ricorrente alla Corte, ma, come sarà dimostrato dall’avvocato, ce n’è una che le mette tutte in ombra. Secondo il racconto del ricorrente, è quasi come se non fosse in corso alcun intenso conflitto armato tra due parti, nessuna grave minaccia per Israele e i suoi cittadini, ma solo un attacco israeliano a Gaza. La Corte viene informata di danni diffusi agli edifici, ma non viene detto, ad esempio, quante migliaia di quegli edifici sono stati distrutti perché erano stati trasformati in trappole esplosive da Hamas. Quanti di essi sono diventati obiettivi legittimi a causa della strategia di utilizzare oggetti civili e siti protetti per scopi militari. Quanti edifici sono stati colpiti da oltre 2.000 razzi terroristici indiscriminati che hanno fatto cilecca e sono atterrati nella stessa Gaza. Alla Corte viene riferito di oltre 23.000 vittime – come ripete il ricorrente, come molti hanno fatto, statistiche non verificate fornite dalla stessa Hamas, difficilmente una fonte affidabile. Ogni vittima civile in questo conflitto è una tragedia umana che richiede la nostra compassione. Ma alla Corte non viene detto quante migliaia di vittime siano in realtà militanti, quante siano state uccise dal fuoco di Hamas, quanti fossero civili che hanno preso parte diretta alle ostilità, e quante siano il risultato anche se tragico, dell’uso legittimo e proporzionato della forza contro obiettivi militari. E alla Corte viene anche raccontata la terribile situazione umanitaria a Gaza. Ma non viene raccontata la pratica di Hamas di rubare e accumulare aiuti. Non viene detto dei vasti sforzi israeliani per mitigare i danni civili, dell’iniziativa umanitaria intrapresa per consentire il flusso di rifornimenti e fornire assistenza medica ai feriti. Il ricorrente pretende di descrivere la realtà di Gaza, ma è come se Hamas e il suo totale disprezzo per la vita civile non esistessero come causa diretta di quella realtà. Si stima che Hamas abbia più di 30.000 combattenti ed è noto che annovera tra le sue fila minorenni di età non superiore ai 15 o 16 anni. Stanno venendo per noi. Ma secondo il racconto del Sud Africa, sono quasi scomparsi. Non ci sono esplosivi nelle moschee, nelle scuole e nelle camerette dei bambini, non ci sono ambulanze utilizzate per trasportare i combattenti, non ci sono tunnel e centri terroristici sotto i siti sensibili. Nessun combattente vestito da civile, nessun sequestro di camion umanitari, nessun fuoco da case civili, strutture delle Nazioni Unite e persino zone sicure. C’è solo Israele che agisce a Gaza. Il ricorrente chiede essenzialmente alla Corte di sostituire la lente del conflitto armato tra lo Stato e un’organizzazione terroristica senza legge con la lente del cosiddetto genocidio di uno Stato contro una popolazione civile. Ma non offre alla Corte una lente. Le sta offrendo una benda. Signora Presidente, signori giudici, il ricorrente ha nascosto l’ambiente da incubo creato da Hamas, ma è l’ambiente in cui Israele è costretto ad operare. Israele è impegnato, come deve essere, a rispettare la legge, ma lo fa nonostante il totale disprezzo della legge da parte di Hamas. Si impegna, come deve essere, a dimostrare umanità. Ma lo fa nonostante la totale disumanità di Hamas. Come verrà presentato dall’avvocato, questi impegni sono una questione di politica governativa espressa, direttive e procedure militari. Sono anche un’espressione dei valori fondamentali di Israele e, come verrà dimostrato, sono accompagnati da misure reali sul campo per mitigare i danni civili nelle condizioni di guerra senza precedenti e strazianti create da Hamas. È chiaramente inconcepibile, secondo i termini stabiliti da questa stessa Corte, che uno Stato che si comporta in questo modo, in queste circostanze, possa essere considerato coinvolto in un genocidio. Neppure a prima vista. Manca totalmente la componente chiave del genocidio – l’intenzione di distruggere un popolo, in tutto o in parte. Ciò che Israele cerca di fare operando a Gaza non è distruggere un popolo, ma proteggere un popolo – il suo popolo, che è sotto attacco su più fronti – e farlo in conformità con la legge, anche se si trova di fronte a un nemico spietato determinato usare proprio questo impegno contro di esso. Come verrà spiegato in dettaglio dall’avvocato, gli obiettivi legittimi di Israele a Gaza sono stati chiaramente e ripetutamente articolati dal suo primo ministro, dal ministro della Difesa e da tutti i membri del gabinetto di guerra. Come il Primo ministro ha ribadito ancora una volta questa settimana, Israele sta combattendo i terroristi di Hamas, non la popolazione civile. Israele mira a garantire che Gaza non possa mai più essere utilizzata come trampolino di lancio per il terrorismo. Come ha ribadito il Primo ministro, Israele non cerca né di occupare permanentemente Gaza né di sfollare la sua popolazione civile. Vuole creare un futuro migliore sia per gli israeliani che per i palestinesi, in cui entrambi possano vivere in pace e prosperare, e dove il popolo palestinese abbia tutto il potere di governarsi, ma non la capacità di minacciare Israele. Se c’è una minaccia a questa visione, se c’è una minaccia umanitaria per i civili palestinesi di Gaza, deriva principalmente dal fatto che hanno vissuto sotto il controllo di un’organizzazione terroristica genocida che ha totale disprezzo per la loro vita e il loro benessere. Quell’organizzazione, Hamas, e i suoi sponsor, cercano di negare a Israele, ai palestinesi e agli Stati arabi della regione la capacità di promuovere un futuro comune di pace, coesistenza, sicurezza e prosperità. Israele è in una guerra di difesa contro Hamas, non contro il popolo palestinese, per assicurarsi che non vinca. In queste circostanze, difficilmente può esserci un’accusa più falsa e più malevola di quella di genocidio mossa a Israele. Il ricorrente si è purtroppo impegnato in un palese tentativo di abusare del meccanismo di giurisdizione obbligatoria della Convenzione e, in particolare, della fase delle misure provvisorie del procedimento, per sottoporre alla competenza del giudice questioni sulle quali, in verità, non ha giurisdizione. Signora Presidente, signori giudici, la Convenzione sul genocidio è stata una promessa solenne fatta al popolo ebraico e a tutti i popoli di Mai Più. Il ricorrente, in effetti, invita il tribunale a tradire quella promessa. Se il termine “genocidio” può essere sminuito nel modo in cui sostiene, se si possono adottare misure provvisorie nel modo in cui suggerisce, la Convenzione diventa la carta dell’aggressore. Ricompenserà, anzi incoraggerà, i terroristi che si nascondono dietro i civili, a scapito degli Stati che cercano di difendersi da loro. Per mantenere l’integrità della Convenzione sul genocidio, per mantenere la sua promessa e il ruolo della Corte come suo tutore, si propone rispettosamente che il ricorso e la richiesta debbano essere respinti per quello che sono: una diffamazione, intesa a negare a Israele il diritto di difendere stesso, secondo la legge, dall’assalto terroristico senza precedenti che continua a subire e per liberare i 136 ostaggi che Hamas ancora detiene. Vi ringrazio per la vostra gentile attenzione.
(L'informale, 13 gennaio 2024)
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Finisce il processo de L’Aia: previsioni e prospettive
di Ugo Volli
■ La difesa di Israele
Con gli interventi in difesa da parte di avvocati, professori di diritto, funzionari del Ministero della Giustizia, si è concluso il dibattimento, molto formale e ingessato, sull’accusa di genocidio portata dal Sudafrica contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. I difensori hanno mostrato che l’azione sul campo delle truppe di Israele non ha mai avuto lo scopo di distruggere la popolazione palestinese, ma di difendere i propri cittadini dagli attacchi dei terroristi; hanno documentato la cura che le forze armate israeliane hanno posto per sottrarre i residenti civili di Gaza ai combattimenti, l’accettazione di Israele all’ingresso di soccorsi e il fatto che i terroristi usano la popolazione e soprattutto istituzioni come scuole, ospedali, moschee come scudi umani provocando loro le perdite dei civili. La difesa ha anche mostrato come l’accusa banalizzasse la nozione di genocidio, servisse in sostanza per aiutare i terroristi a continuare la loro attività criminale e come non vi sia base giuridica per il ricorso alla corte. Hanno concluso chiedendo che la causa fosse cancellata e che nessuna delle misure urgenti chieste dal Sudafrica fosse deliberata
■ Gli schieramenti
In un mondo se non perfetto, almeno ragionevole e attento alle regole del diritto, questa causa sarebbe facilmente vinta da Israele. L’idea stessa che lo Stato ebraico nato subito dopo la Shoah possa commettere il crimine che fu definito proprio in riferimento allo sterminio degli ebrei d’Europa è oscena. Che una accusa del genere venga mossa non ai massacratori, stupratori e rapitori del 7 ottobre, ma a chi si difende da essi è orribile. Ma quel che deciderà la causa non sarà la giustizia, bensì gli schieramenti politici. I 15 giudici della Corte – cui se ne aggiunge uno per gli accusatori e uno per la difesa – sono nominati dall’Assemblea dell’Onu per appartenenza regionale. È probabile che Israele possa contare su Slovacchia, Francia, Stati Uniti, Australia, Giappone, Germania e India – sette su quindici. Per varie ragioni sono presumibilmente schierati contro Israele sei paesi: Somalia, Cina, Brasile, Russia, Libano e Marocco. Restano due paesi incerti: Uganda, che Netanyahu ha visitato due volte negli ultimi sette anni ma che sta cercando legami più forti con il Sud Africa e Giamaica, la quale si è astenuta dal voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in ottobre sul cessate il fuoco a Gaza (ma ha votato per una risoluzione simile a dicembre). Sulla base di questo ragionamento, Israele potrebbe avere una maggioranza di otto a sette che accettano le sue ragioni.
■ Le possibili sorprese
Ma ci potrebbero essere delle sorprese. L’India ha un buon rapporto con Israele, ma quasi mai vota per lui all’Onu, anche per compiacere i propri musulmani. Potrebbe anche questa volta cambiare schieramento. Russia e Cina potrebbero essere riluttanti alla banalizzazione del reato di genocidio proposta dal Sudafrica, perché entrambe devono affrontare accuse ben più solide di quelle contro Israele, per l’invasione dell’Ucraina e la repressione degli Uiguri e potrebbero voler evitare di poter costituire un precedente che potrebbe essere usato contro di loro. Almeno una delle due potrebbe non votare per l’accusa. Dunque, anche in un mondo in cui la politica conta più del diritto, c’è una discreta possibilità che Israele sia prosciolto. Ma questo accadrà fra molti mesi. Nel frattempo la battaglia è sui provvedimenti provvisori che la corte potrebbe decidere subito, ordinando perfino a Israele di uscire da Gaza, il che sarebbe un problema serio, sia che Israele obbedisse all’intimazione, bloccando la guerra ai terroristi, sia che si rifiutasse isolandosi sul piano internazionale. La decisione avverrà nei prossimi giorni.
(Shalom, 12 gennaio 2024)
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La commedia con il genocidio
Per la prima volta, Israele viene accusato di genocidio. Non importa da chi, l'importante è che accada. Il Sudafrica fa un favore al mondo e incrimina Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia dell'Aia.
di Aviel Schneider
Sono certo che molti si stiano sfregando le mani dalla gioia di poter finalmente accusare gli ebrei di genocidio. L'unico popolo sulla terra a essere stato cancellato dalla faccia della terra nel secolo scorso è stato il popolo ebraico nell'Olocausto. Sei milioni di ebrei sono stati uccisi. Un "privilegio" che apparteneva solo al popolo ebraico e che ha fatto arrabbiare molte persone su questa terra. Ora Israele stesso viene accusato di genocidio nella Striscia di Gaza, e questo dovrebbe finalmente stabilire l'uguaglianza tra Israele e gli altri popoli. Israele non sta combattendo solo contro i terroristi, ma anche contro le menzogne. Quella che si sta svolgendo all'Aia è una commedia politica sulla tragedia di Israele nel nostro tempo. Indipendentemente dagli argomenti utilizzati dagli avvocati per accusare Israele di genocidio, dietro ogni argomentazione si nasconde puro odio. Se l'ex leader laburista britannico Jeremy Corbyn si unisce alla delegazione sudafricana nella causa della Corte internazionale di giustizia contro Israele, questa è una dichiarazione. Il ruolo di leadership di Corbyn nel Partito Laburista è stato offuscato da accuse di antisemitismo. Membri e deputati ebrei hanno lasciato il partito in massa perché le critiche dei suoi sostenitori a Israele e al sionismo sono degenerate in un velenoso odio per gli ebrei. Corbyn ha accolto con favore gli sforzi fatti per chiedere conto a Israele, accusandolo di genocidio nella guerra contro Hamas. Pochi giorni dopo il barbaro attacco, Corbyn si è rifiutato di definire Hamas un'organizzazione terroristica. Ieri ha immediatamente interrotto l'intervista con un giornalista israeliano all'Aia quando ha saputo che si trattava di un israeliano. Il britannico Jeremiah è solo un tipico sintomo dell'odio verso Israele o, in altre parole, verso il governo ebraico. Quello che sta accadendo ora all'Aia non è altro che una rappresentazione teatrale politica per portare ancora una volta Israele davanti a un tribunale mondiale. Il miglior spettacolo del mondo. Quello che muove persone come Jeremy non è la sofferenza dei palestinesi nella Striscia di Gaza, ma prima di tutto l'odio verso gli ebrei e Israele. Se non ci fosse stata la guerra a Gaza, avrebbero sicuramente trovato un altro motivo per accusare Israele di qualcosa. Anche il Sudafrica è solo una pedina di questo folle gioco. Il Sudafrica è sempre un proxy iraniano come Hamas, Hezbollah e gli Houthi nella lotta contro Israele. Dopo il ripristino delle relazioni con l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti e l'approfondimento della cooperazione strategica con la Russia, l'Iran ha stabilito nuove relazioni diplomatiche anche con il Sudafrica e altri Paesi africani. Secondo diverse fonti del Paese, dietro le accuse del Sudafrica ci sarebbe l'Iran. La Guida suprema iraniana Ali Khamenei ha twittato di nuovo in ebraico:
"I crimini dell'entità sionista non saranno dimenticati. Anche se questa entità (lo Stato di Israele) scomparirà dalla terra, i crimini e gli omicidi di migliaia di bambini e donne palestinesi rimarranno nei libri di storia".
Anche il presidente iraniano Ibrahim Raisi ha minacciato di distruggere Israele:
"Israele cesserà di esistere. Alla fine del 'diluvio di Al-Aksa', l'esistenza di Israele scomparirà e finirà".
Nessun altro popolo su questa terra è costantemente minacciato di annientamento come il popolo di Israele. Che cosa hanno le nazioni contro Israele? Israele è davvero responsabile di tutto il male in Medio Oriente o su questa terra? Oppure le nazioni non hanno ancora fatto i conti con il fatto che Israele è il popolo eletto? Le nazioni, che altrimenti non vanno d'accordo o sono in guerra, sono d'accordo su una cosa: Israele. Lo vediamo da decenni in tutte le votazioni all'ONU. Le nazioni hanno un problema con Israele e il conflitto con i palestinesi è solo un pretesto politico. Israele è accusato di genocidio mentre ha combattuto contro un genocidio in ottobre. L'organizzazione terroristica Hamas, che ha commesso il peggior crimine dopo lo sterminio degli ebrei nell'Olocausto, ora si difende in nome dell'Olocausto ebraico. I loro colleghi accusano Israele di genocidio. Il mondo è sottosopra. La Forza di Difesa israeliana è l'esercito più morale del mondo e ora i nostri soldati sono accusati di omicidio. L'ipocrisia del Sudafrica e dei suoi compagni grida al cielo. Dov'era il Sudafrica quando milioni di persone venivano uccise e sfollate in Siria e nello Yemen. E da chi? Dai partner di Hamas, sostenuti dall'Iran. Dov'era allora la Corte internazionale di giustizia dell'Aia? Dov'era l'opinione pubblica mondiale in quel momento? Se la Corte internazionale di giustizia dell'Aia dovesse comunque riuscire a giudicare il popolo ebraico colpevole di genocidio, questo rivelerebbe il vero volto delle nazioni. Non si cerca la giustizia, ma il popolo di Israele.
(Israel Heute, 13 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La Germania difende Israele all'Aja
Intanto il governo di Tel Aviv attacca il Sudafrica: «Mantiene legami con Hamas»
di Stefano Piazza
Ieri, presso la Corte dell'Aia, è stata la volta di Israele, chiamato a difendersi dalle accuse di compiere atti di genocidio a Gaza, mossegli dal Sudafrica. Gli avvocati israeliani hanno iniziato richiamando il massacro e gli stupri compiuti da Hamas il 7 ottobre 2023. Secondo Israele, la causa per genocidio intentata dai sudafricani davanti alla Corte delle Nazioni Unite «è totalmente distorta e non riflette la realtà del conflitto nella Striscia di Gaza». Mentre per Tal Becker, uno degli avvocati israeliani presso la Corte internazionale di giustizia (Cig) dell'Aia, «il Sudafrica ha sfortunatamente presentato alla Corte un quadro fattuale e legale totalmente distorto». Becker è un negoziatore di pace ed è membro del gruppo che ha curato la stesura degli «Accordi di Abramo», gli storici accordi di pace e normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan.
All'epoca anche il Sudafrica si era detto interessato a fare lo stesso percorso poi le cose sono cambiate dopo che Pretoria ha sviluppato un fortissimo legame con la Russia di Vladimir Putin e con il Qatar, grande protettore della Fratellanza musulmana e di Hamas. Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa si è recato più volte a Doha e lo scorso 15 novembre ospite dello sceicco Tamim bin Hamad Al Thani, emiro dello Stato del Qatar, ha affermato che «gli eventi in Palestina e la crescente morte di civili, in particolare di bambini, addolorano tutti noi.
Il Sudafrica sostiene tutti gli sforzi volti a garantire un cessate il fuoco immediato e totale, con colloqui su una soluzione politica per affrontare le legittime aspirazioni del popolo palestinese alla statualità». C'è un rapporto stretto tra i due Paesi, tanto che nel 2022 il Qatar è diventato il quinto partner commerciale del Sudafrica in Medio Oriente. Nel 2022 il Sudafrica ha esportato merci verso il Qatar per un valore di 206 milioni di dollari. La maggior parte delle esportazioni riguardava il settore manifatturiero, che rappresentava circa il 56% delle esportazioni totali. Il Sudafrica ha assistito a un aumento delle importazioni dal Qatar tra il 2017 e il 2022, principalmente a causa dell'importazione di prodotti petroliferi. Le importazioni sudafricane dal Qatar sono ammontate a 252 milioni di dollari nel 2022. Per tornare all'Aia, gli avvocati israeliani hanno sostenuto che fermare le operazioni a Gaza come chiede il Sudafrica, metterebbe a rischio la sicurezza di Israele e hanno detto che «è Hamas a volere il genocidio contro Israele».
Prima dell'udienza Zane Dangor, direttore generale del ministero delle Relazioni internazionali del Sudafrica, ha commentato le affermazioni del ministero degli Esteri israeliano secondo cui «il Sudafrica agisce come il braccio legale di Hamas e ha lodato il gruppo dopo l'attacco del 7 ottobre». Dangor ha replicato attraverso al-Jazeera: «E’ qualcosa che rifiutiamo con disprezzo. La squadra legale del Sudafrica rappresenta il popolo sudafricano», aggiungendo che Pretoria sta portando avanti il caso di genocidio al tribunale dell'Aia «perché vogliamo fermare ulteriori danni ai palestinesi ed è nell’interesse della giustizia».
Nella parte conclusiva della sua arringa, Becker ha affermato che «le richieste di misure provvisorie affinché Israele ponga fine ai combattimenti a Gaza non possono reggere», perché Gerusalemme ha il diritto di difendersi. L'avvocato ha aggiunto che la Corte dovrebbe applicare misure provvisorie contro il Sudafrica, accusandolo di mantenere stretti legami con Hamas. A difendere Israele c'è però a sorpresa il governo tedesco che ha annunciato che «esprimerà al processo la propria posizione di parte terza».
(La Verità, 13 gennaio 2024)
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Berlino in campo per sostenere lo Stato ebraico: “Denuncia infondata”
Il governo Scholz interverrà come “terza parte” nel procedimento al tribunale dell’Onu
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO — Ancora una volta la Germania si schiera senza se e senza ma con Israele. Il governo Scholz ha fatto sapere ieri che Berlino interverrà davanti al tribunale dell’Aia a difesa dello stato ebraico, ovvero contro l’accusa di genocidio presentata dal Sudafrica. Il portavoce del governo, Steffen Hebestreit, ha dichiarato che quell’accusa «non ha alcuna base nei fatti» e ha messo in guardia dalla «strumentalizzazione politica» del reato di sterminio, puntualizzando che Israele si è «difeso» dopo gli attacchi «disumani» del 7 ottobre, dopo la strage di Hamas.
Berlino ha annunciato che si presenterà davanti alla Corte internazionale per contestare l’accusa del Sudafrica, per dimostrare che Israele non si è macchiata del crimine codificato nel 1948 dalla Convenzione dell’Onu come «intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale, religioso».
Il governo Scholz ha intenzione dunque di intervenire «come terza parte» nel dibattimento, ha precisato il portavoce del governo. Un dovere che discende, ha aggiunto, «dalla storia della Germania e dai crimini contro l’umanità rappresentati dalla Shoah». In questo senso, Berlino sente di avere una “particolare” responsabilità.
Olaf Scholz, che ieri ha ricevuto una telefonata di ringraziamento da parte di Netanyahu, è stato il primo leader mondiale a recarsi in Israele dopo la strage del 7 ottobre per dimostrare tutta la sua solidarietà. Nei giorni scorsi la ministra degli Esteri Annalena Baerbock è tornata nello stato ebraico per reiterare il sostegno tedesco, ma la ministra verde si è anche recata in Cisgiordania, dove ha condannato le colonie e ha espresso solidarietà ai civili palestinesi. La Germania sta tentando il difficile funambolismo tra supporto incondizionato a Israele e vicinanza alle decine di migliaia di civili che soffrono a Gaza per gli attacchi israeliani. Ma sul diritto di Israele a esistere, Berlino non tollera mai compromessi.
■ Con Merkel, Israele diventa “ragione di Stato”
Fu Angela Merkel, nel 2008, in occasione del 60esimo anniversario della fondazione di Israele, a dichiarare Israele “ragion di Stato”. La cancelliera destò scalpore perché insistette per parlare in tedesco alla Knesset, ma proferì parole che da allora per qualsiasi politico tedesco dell’arco costituzionale sono scolpite nella pietra. Dallo sterminio nazista degli ebrei, disse, deriva «una responsabilità politica della Germania che ne è ragion di Stato. Ciò significa che la sicurezza di Israele, per me come cancelliera della Germania, non è mai negoziabile». Negli anni, Merkel non ha mai nascosto le sue critiche a Netanyahu, ma ha sempre ripetuto che la sicurezza di Israele, la sua esistenza, sono essenziali anche per la Germania.
A Repubblica, il leader dei verdi tedeschi, Omid Nouripour spiega nel dettaglio cosa significhi quell’impegno a considerare Israele ragion di Stato. In particolare per lui, musulmano iraniano cresciuto a Teheran e Francoforte. «Significa - ci dice - che è una necessità che la Germania stia accanto a Israele quando viene minacciato.È l’unico Paese al mondo che, sin dalla fondazione, non può permettersi neanche per un giorno di essere militarmente inferiore ai Paesi vicini. Io sono nato in Iran. E ogni mattina, a scuola, dovevo gridare che Israele deve essere distrutto. Questo è ciò che viene inculcato ai bambini».
Anche sull’accusa rivolta dal Sudafrica contro Israele, Nouripour ha le idee chiare. «Noi come Verdi, come governo, vediamo la sofferenza della popolazione a Gaza. Vediamo che il numero dei civili è drammaticamente alto». Tuttavia, aggiunge, «il genocidio è espressione della volontà di cancellazione di un popolo. E quella, dal nostro punto di vista, non c’è». Dopo «l’orrendo crimine» del 7 ottobre, Israele «ha il dovere di fare in modo che un atto terroristico come quello non si ripeta mai più. E che gli ostaggi possano tornare, finalmente, a casa».
(la Repubblica, 13 gennaio 2024)
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Israele al giudizio della corte internazionale di Giustizia dell’Onu
di Ugo Volli
• La prima udienza del processo alla Corte dell’Aja contro Israele
È incominciata stamattina la discussione presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja in Olanda, dell’accusa di “genocidio” presentata dal Sudafrica contro Israele per la guerra a Gaza. Questa Corte, che non va confusa con la Corte Penale Internazionale anch’essa ospitata all’Aja, è un organo delle Nazioni Unite, con autorità su tutti gli stati che ne fanno parte. È composta da quindici giudici, nominati dall’Assemblea Generale dell’Onu secondo la consueta lottizzazione politica (quelli attuali vengono da Somalia, Cina, Slovacchia, Francia, Marocco, Brasile, Usa, Germania, Uganda, Russia, India, Giamaica, Libano, Giappone, Australia), cui si aggiungono due giudici, uno per ciascuna delle parti in causa. Israele ha nominato l’ex presidente della Corte suprema Aharon Barak. Il processo si svolge in soli due giorni; oggi ha avuto la parola il Sudafrica per esporre l’accusa, domani toccherà a Israele rispondere. In genere le sentenze arrivano dopo parecchi mesi dal dibattimento, ma la Corte ha la possibilità di emettere provvedimenti provvisori, per esempio potrebbe ordinare a Israele di interrompere l’offensiva. Si tratta di disposizioni in teoria vincolanti per tutti gli stati membri dell’Onu, ma senza la possibilità di costringerli con sanzioni o altri mezzi. In gioco è soprattutto un aspetto politico e propagandistico, che però non va sottovalutato, perché potrebbe avere influenza sull’opinione pubblica internazionale e sulle posizioni degli stati.
• Che cos’è il genocidio
Che sia accusato di genocidio Israele, lo Stato che ha raccolto le vittime della Shoà e ha subito il 7 ottobre una terribile strage terrorista, con femminicidi, stupri e rapimenti di dimensioni inaudite, è ovviamente paradossale; anzi è una mossa di quella particolare tattica di guerra che avviene attraverso l’uso del diritto, la cosiddetta lawfare. Soprattutto se si considera che gli avvocati del Sudafrica hanno detto che il presunto genocidio sarebbe in atto da 76 anni, cioè dalla fondazione dello Stato di Israele. Di per sé, secondo il Sudafrica, l’esistenza di Israele sarebbe genocida, Ma il genocidio, nel senso giuridico, definito nella convenzione del 1948, voluta e scritta dall’ebreo polacco Rafael Lempkin è tutt’altra cosa: “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.” (articolo II della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio approvata dall’ONU nel 1948).
• Un rischio serio
Quel che conta qui naturalmente non sono i singoli atti (perché in qualunque scontro militare si producono “uccisioni” e “lesioni gravi”), ma “ l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. A qualunque persona onesta e minimamente informata è chiaro che Israele non si è mai proposto di “distruggere” i palestinesi, mentre basta leggere lo statuto di Hamas (e anche quello di Al Fatah, il partito del presidente dell’Autorità Palestinese Habbas) per constatare che il loro scopo è proprio la distruzione degli israeliani ebrei, se non degli ebrei in generale. In un mondo ragionevole un’accusa di questo tipo sarebbe accolta come una follia o una barzelletta. Ma purtroppo la politica internazionale che regge anche la Corte dell’Aja non segue le leggi del buon senso e vi è un serio pericolo che l’accusa sia accolta.
(Shalom, 12 gennaio 2024)
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L’intento del processo nei confronti di Israele
Oggi all’Aia inizierà la seconda udienza del processo a Israele accusato dal Sud Africa di genocidio. Sarà il turno, dopo la presentazione dei capi di accusa da parte del team legale sudafricano, di quello difensivo israeliano. Ascoltando ieri le accuse rivolte dal Sud Africa è emerso chiaramente come tutta l’impalcatura accusatoria si basi su una gigantesca e rovinosa omissione. L’omissione riguarda ovviamente la ragione stessa della guerra, ovvero il fatto che il 7 ottobre 2023 Hamas abbia aggredito Israele uccidendo 1200 cittadini israeliani nei modi più barbari e ne abbia rapiti 240. Immaginiamoci un analogo processo rivolto agli Alleati per avere bombardato durante la Seconda guerra mondiale le città tedesche provocando la morte di migliaia di civili, ovvero, al fine di poterlo imbastire, ritagliando dall’insieme degli eventi, dalla concatenazione delle cause e degli effetti, un effetto, isolandolo e esaminandone le conseguenze ma privandole completamente del loro rapporto con le cause che lo hanno determinato. È esattamente quello che sta accadendo all’Aia, dove, basandosi esclusivamente sulle brutali e inevitabili conseguenze della guerra, di ogni guerra, la morte dei civili, la distruzione, gli sfollamenti, la lacerazione drammatica del tessuto della quotidianità, il ridursi degli approvvigionamenti più elementari, cibo, acqua, risorse sanitarie, Israele è accusato di “genocidio”. Con questa modalità interpretativa degli eventi nessun paese che si è trovato in guerra come conseguenza di una aggressione e abbia dunque dovuto, a sua volta, aggredire l’aggressore causando un elevato numero di civili morti, può evitare l’accusa di essere genocida. Ma c’è una omissione ulteriore che rende l’accusa da parte del Sud Africa nei confronti di Israele ancora più insostenibile, il fatto che questa guerra avviene non contro un esercito regolare ma contro una organizzazione terrorista la quale usa come copertura la popolazione civile insieme a un enorme mole di strutture civili, dalle abitazioni, agli ospedali, dalle scuole alle moschee, come luoghi operativi. L’unico vero intento di questo processo farsa è quello non di provare che Israele sta commettendo un genocidio a Gaza ma di imporre allo Stato ebraico quel cessate il fuoco che può solo avvantaggiare Hamas. Lo scopo è cioè quello di fare perdere a Israele la guerra, scopo che l’ONU ha iniziato a perseguire fin da subito con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 8 dicembre per un cessate il fuoco, bloccata dal veto americano, e successivamente con un’altra risoluzione nel medesimo Consiglio che in virtù dell’intervento americano è stata depotenziata nel suo intento principale. Il ricorso sudafricano alla Corte internazionale dell’Aia, emanazione onusiana, è un ennesimo tentativo in questa direzione.
(L'informale, 12 gennaio 2024)
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Non ci sono amici dei palestinesi ma solo nemici di Israele
Si fingono amici dei palestinesi ma, come ad Hamas, dei palestinesi poco gliene importa
di Franco Londei
La cialtronata in onda in mondovisione all’Aia è l’ennesima dimostrazione che non ci sono amici dei palestinesi ma solo nemici di Israele. Non si spiega altrimenti l’improvviso interesse verso i palestinesi del Sudafrica e di tutti coloro che si sono accodati alla vergognosa iniziativa di Pretoria. Dov’era il Sudafrica quando Hamas affamava la popolazione di Gaza appropriandosi di quasi tutti gli aiuti umanitari e del denaro destinato allo sviluppo per costruire le infrastrutture che sarebbero servite per il genocidio – quello si vero e scritto nero su bianco – degli ebrei? Dov’erano tutti questi amici dei palestinesi quando i terroristi di Hamas lasciavano buona parte della Striscia di Gaza senz’acqua perché tagliavano Km di tubature dell’acqua per costruire migliaia di razzi Qassam da lanciare contro Israele? E dov’erano gli amici dei palestinesi quando Hamas costruiva i suoi centri di comando sotto gli ospedali o nascondeva i suoi arsenali nelle scuole della UNRWA ben sapendo di mettere in pericolo i bambini? Dov’erano gli amici dei palestinesi quando i giovani di Gaza che provavano a far valere i propri Diritti contestando Hamas sparivano nel nulla o venivano ritrovati fatti a pezzi in qualche discarica? Cosa ci fanno mille ONG (MILLE) nella Striscia di Gaza, lo stesso numero che può vantare l’immensa Repubblica Democratica del Congo, se non per coprire con innumerevoli finti progetti umanitari le attività militari di Hamas? Come mai gli amici dei palestinesi non ne parlano? Dov’erano gli amici dei palestinesi quando il 7 ottobre 2023 Hamas attaccava Israele nel più bieco stile islamico massacrando e facendo a pezzi oltre 1.200 persone, in maggioranza donne e bambini (come usano dire loro) e sequestrandone oltre 200? Non sapevano forse che Israele sarebbe stato letteralmente trascinato in guerra? Non avevano timore per la vita dei loro amati palestinesi tanto da non condannare l’attacco, arrivando anzi a giustificarlo. Perché non avevano paura per i palestinesi? Perché esattamente come il capo di Hamas, Khaled Meshaal, si augurano che donne e bambini vengano uccisi così da poter usare quel sangue per accusare Israele. Eccoli gli amici dei palestinesi, quelli che chiudono gli occhi di fronte alle ruberie dei leader ultra-miliardari di Ramallah e di Gaza che mentre il loro popolo bruca l’erba per la fame e beve acqua contaminata dipendendo unicamente dagli aiuti internazionali (che passano tutti per Israele) accantona cifre da capogiro gentilmente donate dall’Europa e dalle centinaia di migliaia di allocchi che credono così di sostenere la “causa palestinese”. «Abbiamo bisogno del sangue di vecchi, donne e bambini» disse Khaled Meshaal pochi giorni dopo lo scoppio della guerra. Lui che abita in un hotel a 25 stelle in Qatar e che gira il mondo sul suo jet privato. Dov’erano gli amici dei palestinesi quando questo schifoso pronunciava quelle parole? Potrei scriverci un libro di migliaia di pagine con questi esempi e tutti dimostrerebbero che gli amici dei palestinesi non esistono. In compenso esistono gli odiatori nemici di Israele. Qualcuno potrebbe azzardare che sono la stessa cosa e forse avrebbe ragione. È difficile infatti sentir dire a un palestinese – anche il più aperto tra i palestinesi – che accetterebbe di vivere in pace a fianco di Israele. Anche lui preferirebbe gli ebrei morti.
(Rights Reporter, 12 gennaio 2024)
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Nazione nata dalla Shoah. Che infamia
di Fiamma Nirenstein
Ieri la Corte dell'Aja, comunque finisca, si è screditata agli occhi dell'opinione pubblica internazionale: tutte quelle vestaglie e parrucche non copriranno il fatto che per la prima volta ha accettato di discutere le accuse presentate contro un Paese democratico e liberale da un Paese corrotto che ha fornito il suo megafono a un'organizzazione terrorista. Lo scopo è politico: mettere in questione il diritto di Israele a combattere, a difendersi dall'attacco genocida di Hamas del 7 ottobre. Nell'ombra l'Iran ed Hezbollah. Russia, Somalia, Cina, tutto l'asse antioccidentale può, secondo la tradizione dell'Onu, votare perché Israele fermi la guerra e quindi si metta in moto il consiglio di Sicurezza per obbligare Israele a ubbidire, costringendo così Biden a fare uso del veto, evento mortificante. Israele è in sé, come stato ebraico, il contrario del genocidio: è la rinascita dal genocidio della Shoah. Dal 1948 ha cercato la condivisione trovando il rifiuto palestinese. In questa guerra avverte i civili, fornisce i beni fondamentali, rallenta per evitare l'uccisione di innocenti. L'alto numero di morti è fornito dal ministero agli ordini di Hamas.
Sul confine le famiglie gridano con un megafono ai loro cari sperando che la voce voli a Gaza. Sul Daily Mail appaiono 4 ragazze insanguinate, ostaggi come gli altri 132. Alla tv un eroe che ha salvato i sopravvissuti di Re'im, racconta. Una madre torna nella stanza in cui le hanno ucciso il figlio. Alcuni soldati stanchi raccontano l'eroismo dei caduti. Questa è Israele oggi, dal 1948 la patria nata dopo la Shoah, subito assalita dagli arabi, in guerra contro il rischio genocida di Hamas, la patria dell'unico never again che non verrà distrutto dalla Cpi.
(il Giornale, 12 gennaio 2024)
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Cari amici italiani, ecco le risposte a tutte le vostre domande…
di Ron Shaked
Cari amici italiani, vi ringrazio per le vostre telefonate e i vostri messaggi, in questi ultimi tre mesi. Mi chiedete com’è la situazione, se la fase critica è passata e come stiamo in questi giorni di guerra, quindi, ho deciso di concentrare tutte le risposte alle vostre domande in questo breve articolo, un po’ per tranquillizzarvi, un po’ per darvi il polso della situazione.
No, la crisi non sta rientrando, e non si è tornati a nessun tipo di normalità. Non c’è nessun tipo di normalità alla quale tornare, il mondo che conoscevamo prima non c’è più. Si fa quel che si può, a volte molto di più del possibile per dare una parvenza di routine, ma i nostri ragazzi combattono al fronte da tre mesi e 136 ostaggi, tra cui due bambini e giovani donne, sono ancora nelle mani di terroristi che il 7 ottobre si sono macchiati di crimini prima inimmaginabili. Ora sì, immaginiamo e sappiamo. E il solo pensiero ci toglie il sonno. Sì, il tempo è bello, fa caldo e ogni tanto vado in spiaggia, ma ora c’è il rombo degli aerei militari e l’odioso battito di pale degli elicotteri che trasportano i feriti. E poi c’è la pubblicazione dei nomi dei caduti e le dolorose immagini dei video degli ostaggi. La vita continua, mi dite, ma la vita che conoscevamo prima si è fermata alle 6.29 del 7 ottobre. È iniziata una nuova vita, che richiede risorse esistenziali prima sconosciute e una forza che non nessuno pensava di avere.
Sì, anche io che vivo nella zona centrale, ho una spranga che blocca la porta del rifugio antimissile, in caso di infiltrazione di terroristi nella mia città; e sì, anche io so che non serve a niente contro il colpi di Kalashnikov e RPG. Sì, ascolto musica, per lo più musica israeliana, ma adesso ogni verso acquista un significato diverso, ogni canzone che contiene la parola “casa” diventa una preghiera. No, non siamo andati in vacanza a dicembre, da una guerra non si va in vacanza, e no, non abbiamo festeggiato il Capodanno e se facciamo acquisti o andiamo al ristorante è soltanto un atto di resistenza silenziosa. Eppure, non ci cospargiamo il capo di cenere, siamo pervasi da speranza e da ottimismo, lavoriamo, studiamo, facciamo sport e poi siamo costantemente abbracciati da tanti circoli solidali, i colleghi, i genitori della scuola, la squadra di pallacanestro, la chat del condominio, sono diventati tutti gruppi di supporto, spazi di condivisione e di guarigione. E come ho detto a mia moglie, non c’è crema che tenga, abbiamo tutti le borse sotto gli occhi, si dorme poco e male e poi si piange spesso. Dipende dalle giornate, è un po’ come andare sulle montagne russe.
In questi mesi, umore collettivo e umore personale sono quasi sempre perfettamente sovrapponibili come due figure identiche. Sì, anche io ho fatto volontariato: ho preparato polpette per i soldati, riso per gli sfollati, ho raccolto arance e selezionato cipollotti e poi sono giunto alla conclusione che né la cucina né l’agricoltura fanno per me. No, non abbiamo superato le divisioni tra di noi, il 7 ottobre non ha cambiato le nostre opinioni politiche, ma abbiamo deciso di riporre gli striscioni e le bandiere, ci sarà tempo dopo per i confronti ideologici. Ora le bandiere, purtroppo, le tiriamo fuori dall’armadio per i funerali dei soldati, quando tutta la città accompagna il corteo funebre, una catena umana per le strade che portano al cimitero. E quando torniamo a casa e riponiamo le bandiere e speriamo che rimangano nell’armadio fino a Yom Haatzmaut.
No, non gioco più a tennis in questi giorni, il mio compagno di gioco è stato arruolato come riservista e ora combatte nella Striscia di Gaza. No, non ho guardato le orribili immagini del massacro del 7 ottobre, nessun interesse professionale mi spinge a farlo, perché tra quei giovani corpi bruciati e mutilati ci sono parenti degli amici dei miei figli, il nipote della mia vicina di casa e il fratello di un ex collega. Per me non sono corpi, sono ancora persone. No, non ho paura e non ho mai pensato di fare le valigie e andarmene di qui, l’idea non mi ha sfiorato neanche per un attimo. Alcuni di voi mi hanno offerto ospitalità in Italia, ma io sono ancora fermamente convinto che Israele sia il posto migliore del mondo.
Ai miei amici ebrei invece chiedo: Mi ymalel gvurot Israel? Chi racconterà le prodezze di Israele? Voi, amici miei. Venite qui, perché Israele ha bisogno più dei vostri cuori che dei vostri soldi. Condividere una storia su Instagram è importante per spiegare le ragioni di Israele, ma abbracciare il padre di un soldato lo è di più. Adesso la cosa più importante è esserci, vedere con i propri occhi quello che sta realmente succedendo, è il miglior contributo che potete dare al nostro Paese. Potrete tornare in Italia e raccontare come una Nazione sia risorta dalle ceneri per la seconda volta nella storia, e purtroppo non soltanto in senso figurato. E sì, anche io canticchio sotto la doccia, ripeto che tutto andrà bene e che l’ora più buia è quella che precede l’alba. Ma canto anche a squarciagola con Shlomo Artzi
E per concludere, voglio rispondere a coloro che mi chiedono che cosa mi preoccupa di più in questo momento. Una domanda difficile alla quale rispondere, perché sono tante le cose che mi preoccupano. No, non l’infamante accusa di genocidio contro Israele al tribunale dell’Aia, neanche l’eventuale allargamento del conflitto, né tantomeno se il Primo ministro si debba dimettere. Sono faccende complicate e io sono un uomo semplice. Il pensiero che mi assilla in queste notti insonni è quello degli ostaggi e dei nostri soldati al fronte. In queste lunghe notti d’inverno il mio unico pensiero è che stiano a sicuro e perlomeno al caldo.
(Shalom, 12 gennaio 2024)
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Agenzie pubblicitarie in Olanda si rifiutano di pubblicare i manifesti con le immagini degli ostaggi israeliani
Secondo un comunicato stampa dell’ufficio stampa del Governo israeliano, dieci agenzie pubblicitarie olandesi si sono rifiutate di pubblicare cartelloni pubblicitari con le foto degli ostaggi israeliani tenuti da Hamas nella Striscia di Gaza, prima del processo presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia davanti alla quale Israele è accusato dal Sud Africa di genocidio.
La National Public Diplomacy, attraverso l’Agenzia Pubblicitaria Governativa, aveva preparato una campagna di cartelloni pubblicitaria all’aperto – sviluppata con l’agenzia pubblicitaria governativa israeliana Lapam – in tutti i Paesi Bassi per sensibilizzare l’opinione pubblica sul rilascio dei di 136 ostaggi ancora prigionieri di Hamas dopo quasi 100 giorni, prima del processo dell’Aia.
La campagna era parte di iniziative informative e di diplomazia collegate all’udienza della petizione contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, nei Paesi Bassi. L’udienza si è aperta giovedì e la sua fase iniziale avrebbe dovuto durare due giorni, anche se si prevedeva che l’intero procedimento avrebbe richiesto anni.
I manifesti, pensati per la campagna pubblicitaria a pagamento, mostravano immagini di vari ostaggi, indicandone i nomi e specificando che erano detenuti a Gaza, con la didascalia «Lei/Lui non può testimoniare oggi».
Il messaggio chiave dei manifesti sottolineava che 136 ostaggi israeliani sono prigionieri di Hamas e non possono testimoniare al Tribunale dell’Aia; ostaggi che sono vittime e testimoni di atti di genocidio, crimini contro l’umanità e delle violazioni delle leggi di guerra commesse da Hamas.
È importante sottolineare che sono state coinvolte oltre dieci agenzie pubblicitarie nell’area dell’Aia, Rotterdam e all’Aeroporto di Schiphol. Durante la collaborazione con una di queste agenzie, il design e il messaggio previsti per i manifesti erano stati approvati. Tuttavia, in modo del tutto inaspettato, quando i manifesti dovevano essere affissi, le agenzie hanno comunicato la cancellazione dell’annuncio.
Il capo della National Public Diplomacy Directorate, Moshik Aviv, ha dichiarato: «I tentativi di soffocare le voci degli ostaggi troveranno una risposta decisa. Anche di fronte al tribunale dell’Aia, ci sono coloro che scelgono un approccio aggressivo e oltraggioso per bloccare una campagna informativa su centinaia di manifesti in tutto il Paese, inclusa l’Aia. La verità prevarrà, e lo Stato di Israele continuerà a difendere la giustizia del suo cammino, diffondendo la verità al mondo intero. Conduciamo una campagna informativa internazionale senza precedenti, e non riusciranno a farci tacere».
A sua volta, la CEO dell’Agenzia Pubblicitaria Governativa, Moriya Shalom, ha aggiunto: «Il rifiuto da parte degli editori è un grave affronto alla libertà di espressione e al diritto di Israele di condannare ad alta voce il terrorismo che i suoi cittadini stanno subendo. Questo rappresenta un crudo tentativo di zittire le voci degli ostaggi israeliani, rapiti durante l’attacco terroristico omicida di Hamas. Il loro diritto di farsi sentire è innegabile».
(Bet Magazine Mosaico, 12 gennaio 2024)
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Vaerà. Coltivare la speranza anche nel buio
di Ishai Richetti
Se ci venisse chiesto qual è il versetto più triste della Torà potremmo pensare alla Parashà di Vayetze, dove è scritto che “Il Signore vide che Lea non era amata”, oppure dove è scritto che “Rachel era sterile”. Sia la mancanza di amore che l’infertilità sono in effetti condizioni umane molto tristi. Altri potrebbero citare i versetti nelle Parashot di Bechukotai e di Ki Tavo: “Volgerò la Mia faccia contro di te… i tuoi nemici ti domineranno;” “Mangerai la tua discendenza, la carne dei tuoi figli e delle tue figlie”. Per queste frasi, in realtà, sembrano più appropriati gli aggettivi “spaventoso” o “terribile” piuttosto che “triste”. Un versetto che forse riassume meglio il concetto e un insegnamento per affrontare le nostre vicissitudini è nella Parshà di Vaera: “Ma non vollero ascoltare Moshè a causa del loro spirito abbattuto e della dura fatica” (Shemot 6:9), Per contestualizzare questo versetto, dobbiamo ricordare che nella Parashà della scorsa settimana leggiamo della prima volta che Moshè annunciò che la redenzione era vicina. Il popolo era convinto, ci credevano. Si fidavano di Moshè, La Parashà di questa settimana, di contro, inizia dopo che gli ebrei hanno conosciuto un’amara delusione. Moshè era intervenuto presso il Faraone, ma il suo intervento fallì e la reazione del Faraone fu un inasprimento delle condizioni. Dopo questa disillusione, le eloquenti promesse con cui inizia la Parashà di questa settimana suscitano incredulità e disperazione, il risultato è quello che viene definito nella Torà kotzer ruach, uno spirito abbattuto, e avodà kashà, una dura fatica. La disperazione è forse la più triste delle emozioni umane, soprattutto quando segue l’eccitazione della speranza. Il momento in cui le speranze vengono deluse è forse il momento più triste di tutti In qualche modo però questo versetto ci dà l’opportunità di imparare lezioni importanti sulla speranza e sul suo opposto, la disperazione. Per farlo dobbiamo esaminare attentamente queste due espressioni, kotzer ruach e avodà kashà. Rashi intende kotzer ruach come “mancanza di respiro”, il risultato di un intenso lavoro fisico. Ci si può aspettare che un uomo che è senza fiato possa sperare? Ovviamente no, perché è così preso dal panico che la speranza in un futuro migliore è totalmente al di là delle sue capacità. Lo Sforno, preferisce tradurre questo termine come “spirito”. Quello che priva una persona della speranza è la “mancanza di spirito”, l’assenza di uno “spirito di fede”. Gli ebrei persero la fede in Moshè. si sentivano delusi perché ai loro occhi non era riuscito a fornire loro una soluzione immediata alla loro situazione. In tal modo persero la fede nel D-o di cui Moshè era ai loro occhi il rappresentante. Senza fede, sostiene Sforno, la speranza è impossibile. Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, comprende il nostro versetto in modo diverso. Per lui il Faraone era esperto per eccellenza dei processi di disperazione e scoraggiamento. Sapeva come schiacciare la speranza. Per tenere l’uomo lontano dalla speranza bisogna tenerlo così occupato con ogni tipo di compiti da non concedere tempo per altro. Così Rav Luzzatto nel suo Mesillat Yesharim: “Questo è, infatti, uno degli astuti artifici dello yetzer (inclinazione), che impone sempre agli uomini compiti così faticosi che non hanno più tempo per notare come stanno andando alla deriva… Questa ingegnosità è un po’ come quella del Faraone, che comandò: “Sia imposto un lavoro più pesante agli uomini…” Poiché lo scopo del Faraone non era solo quello di impedire agli Ebrei di avere il tempo libero di fare piani contro di lui, ma di sottoporli a un lavoro incessante, di privarli anche della possibilità di riflettere.” Senza questa opportunità – con il kotzer ruach¸ “mancanza di tempo per riflettere” – la speranza è fuori questione. Si è troppo occupati perfino per sperare. Un’altra intuizione sul possibile significato di kotzer ruach si trova in una fonte un po’ insolita. Esiste una raccolta di brevi omelie, scritte da Rabbi Kalonymos Kalman Shapira, Rebbe di Piacezna nella Polonia pre-Olocausto. In queste omelie, pronunciate nei primi anni del Ghetto di Varsavia, scrive che in condizioni di avodà kashà, di fatica molto dura, si perde lo “spirito della vita”. Rav Shapira conosceva fin troppo bene il significato del duro lavoro, schiavo com’era in quell’orribile ghetto, e sapeva come lottavano tutti per fare la volontà di D-o nonostante le tremende difficoltà. Fu testimone dei tentativi di aiutarsi a vicenda, di mantenere la fede in D-o e di eseguire qualunque mitzvà potessero, ma osservava come fosse difficile raccogliere lo “spirito di vita”. Kotzer ruach per lui significava l’assenza di uno “spirito di vitalità”. Come gli ebrei del ghetto di Varsavia, anche gli ebrei dell’antico Egitto soffrivano di kotzer ruach. Non potevano rispondere a Moshè con uno “spirito di vitalità”. Nessuna vitalità, nessuna vita, nessuna speranza. Questi commentatori vissero a secoli di distanza l’uno dall’altro e in circostanze molto diverse, ma tutti concordano che ci sono diversi fattori nella vita che rendono difficile la speranza. Alcuni di questi fattori sono crudeli e insoliti, come esemplificato dalla schiavitù in Egitto e della Germania nazista, ma alcuni sono comuni oggi. Sono il nostro stile di vita frenetico, la nostra routine lavorativa. Siamo consumati dal “tran tran”. Può essere anche un periodo difficile, dato da problemi personali di famiglia, di salute o altro. La cosa importante è evitare di perdere la speranza, di vedere la luce anche nel momento più buio. Questa è una delle caratteristiche del popolo ebraico, una delle caratteristiche che ne hanno permesso la sopravvivenza.
(Kolot, 12 gennaio 2024)
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Parashà della settimana: Va-erà (Apparve)
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Il ministro israeliano Gantz: “Hamas non ha più il controllo di gran parte della Striscia di Gaza”
Gantz ha escluso uno stop dell’operazione militare
GERUSALEMME - Il movimento islamista palestinese Hamas non ha più il controllo di gran parte della Striscia di Gaza e riportare a casa gli ostaggi israeliani è una priorità, rispetto agli obiettivi militari. Lo ha dichiarato il leader dell’opposizione e membro del gabinetto di guerra israeliano, Benny Gantz, durante una conferenza stampa a Tel Aviv. Gantz ha escluso uno stop dell’operazione militare. “Dobbiamo continuare. Se ci fermiamo ora, Hamas riprenderà il controllo. Siamo in procinto di smantellare le infrastrutture terroristiche”, ha aggiunto. Riguardo a un accordo sul rilascio degli ostaggi mediato da Qatar ed Egitto, Gantz non ha né smentito né confermato. “Ho sentito ogni sorta di voci sugli accordi, c’è sempre attività, e non appena ci saranno aggiornamenti ve li daremo”, ha concluso.
• Le Idf: “Colpiti 150 obiettivi di Hamas nel centro e nel sud della Striscia di Gaza” Le Idf hanno colpito più di 150 obiettivi attribuiti ad Hamas a Khan Younis, nel sud di Gaza, e a Maghazi, nel centro della Striscia, nel corso dell’ultima giornata. A Maghazi, la Brigata Golani ha diretto attacchi aerei contro numerosi presunti membri di Hamas, oltre ad aver scoperto 15 tunnel.
Inoltre, le Idf hanno affermato che, nel corso di un raid “in un sito di Hamas” nella zona, i militari della Brigata Golani hanno trovato lanciarazzi, razzi, droni ed esplosivi. Nel frattempo, a Khan Younis, i militari della 98esima Divisione avrebbero ucciso decine di membri di Hamas, oltre ad aver diretto attacchi aerei contro altri dieci presunti membri del gruppo islamista. Sempre a Khan Younis, i riservisti della Brigata Kiryati hanno diretto un attacco aereo contro un presunto membro di Hamas che “stava piazzando un ordigno esplosivo” in una zona utilizzata dai militari israeliani, hanno aggiunto le Idf.
Quattro membri del personale della Mezzaluna rossa palestinese sono stati uccisi da un attacco delle Forze di difesa di Israele. L’operazione ha preso di mira un veicolo dell’ambulanza lungo la strada Salah al Din, all’ingresso di Deir al Balah, nel centro della Striscia di Gaza.
• Media palestinesi: almeno 15 morti in un attacco aereo israeliano nella città di Rafah Almeno 15 civili palestinesi sono stati uccisi e altri sono rimasti feriti in un attacco aereo israeliano che ha preso di mira un appartamento situato in un condominio a ovest della città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Lo ha riferito l’agenzia di stampa palestinese “Wafa”, precisando che fonti mediche hanno affermato che 15 cadaveri sono arrivati all’ospedale kuwaitiano di Rafah in seguito all’attacco che ha colpito il quartiere di Tel al Sultan.
• Blinken in Israele per fermare il conflitto, ma sale la tensione con Hezbollah Nel 95mo giorno di guerra nella Striscia di Gaza continuano gli sforzi della diplomazia internazionale, con la visita in Israele del segretario di Stato Usa, Antony Blinken, nonostante l’escalation al confine tra lo Stato ebraico e il Libano non sembri placarsi. Tra le priorità espresse dal segretario ai suoi interlocutori israeliani c’è la volontà di minimizzare i danni alla popolazione civile dell’exclave palestinese, tra cui si registrano oltre 23 mila morti dall’inizio della crisi. Durante il suo incontro con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il gabinetto di guerra a Tel Aviv, Blinken ha ribadito il sostegno statunitense al diritto di Israele di impedire attacchi come quello sferrato dal movimento islamista palestinese Hamas il 7 ottobre scorso, sottolineando al contempo l’importanza di evitare ulteriori danni ai palestinesi e di proteggere le infrastrutture civili a Gaza. Blinken e Netanyahu hanno discusso inoltre degli sforzi in atto per garantire il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas e dell’importanza di aumentare il livello di assistenza umanitaria ai civili della Striscia.
• Da parte israeliana, non sembrano però arrivare segnali di distensione.
Il ministro della Sicurezza nazionale dello Stato ebraico e leader del partito di estrema destra Otzama Yehudit, Itamar Ben Gvir, si è rivolto al segretario di Stato dichiarando sul suo profilo X (ex Twitter) che “non è il momento di parlare a bassa voce con Hamas, è il momento di usare quel grosso bastone”. Dal canto suo, il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha annunciato a Blinken che Israele intensificherà le operazioni militari nella regione di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, finché non verranno trovati i leader di Hamas e saranno liberati gli ostaggi israeliani. Gallant ha poi discusso con il segretario delle tensioni regionali e delle operazioni sponsorizzate dall’Iran, riferendosi agli attacchi del movimento sciita libanese Hezbollah nel nord di Israele e a quelli dei ribelli sciiti Houthi contro le navi mercantili in transito nel Mar Rosso. “Un aumento della pressione esercitata sull’Iran è fondamentale e potrebbe impedire un’escalation regionale in altri ambiti”, ha detto Gallant a Blinken. Infine, il ministro israeliano ha sottolineato che la massima priorità dello Stato ebraico attualmente è consentire il ritorno dei residenti nel nord del Paese, dove i combattimenti con Hezbollah si sono intensificati, lasciando presagire uno scontro di più ampia portata.
• La situazione sul campo appare infatti sempre più incandescente.
Dopo l’uccisione di Wissam al Tawil, vice comandante di Radwan, l’unità militare speciale del partito sciita filo-iraniano Hezbollah, a Khirbet Selm, nel distretto di Bint Jbeil, nel sud del Libano, si sono verificati altri due episodi che potrebbero contribuire a far salire la tensione. Dapprima un drone ha colpito un’auto a Ghandouriyeh, vicino al confine con Israele, uccidendo tre membri di Hezbollah, secondo quanto confermato dallo stesso partito sciita. In seguito, un ulteriore attacco a un veicolo in prossimità del luogo del funerale di Wissam al Tawil ha ucciso un altro esponente di spicco di Hezbollah, Ali Hussein Barji. Si tratta del 158mo membro del movimento sciita ucciso dall’8 ottobre, quando gli scontri tra il “partito di Dio” e lo Stato ebraico si sono notevolmente intensificati.
In questo contesto, l’unico segnale di distensione è arrivato dal primo ministro libanese, Najib Miqati, che ha ricevuto a Beirut il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per le operazioni di pace, Jean Pierre Lacroix, alla presenza della coordinatrice speciale dell’Onu per il Libano, Joanna Wronecka, e del comandante della Forza di interposizione dell’Onu nel sud del Paese (Unifil), generale Aroldo Lazaro. “Il Libano cerca una stabilità permanente e chiede una soluzione pacifica duratura, ma in cambio riceviamo dagli inviati internazionali la minaccia di una guerra contro il nostro Paese”, ha affermato Miqati, che ha ribadito “la volontà del Libano di avviare negoziati per raggiungere un processo di stabilità a lungo termine nel sud e ai confini settentrionali della Palestina occupata, e di aderire alle risoluzioni internazionali, all’accordo di armistizio e alla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. Da parte sua, Lacroix ha esortato “tutte le parti a mantenere la calma, a sostenere l’esercito nel sud del Libano e a continuare la stretta cooperazione tra questo e l’Unifil”.
(Nova News, 11 gennaio 2024)
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Germania e Ungheria concedono la cittadinanza agli ostaggi israeliani
Nuove prospettive nelle complesse trattative di liberazione
I governi di Germania e Ungheria hanno ufficialmente concesso la cittadinanza e rilasciato passaporti agli ostaggi israeliani trattenuti a Gaza, secondo quanto riporta un articolo in esclusiva del Jerusalem Post. Si tratta di israeliani che hanno familiari nati nei paesi dell’Europa centrale. Questa concessione è avvenuta come parte di accordi che hanno portato al rilascio di terroristi e criminali palestinesi da parte di Israele. Tuttavia, nonostante ostaggi ebrei israeliani abbiano ottenuto la cittadinanza tedesca e ungherese, alcuni di loro sono ancora detenuti.
Attualmente, ci sono 136 ostaggi israeliani a Gaza, e potrebbero volerci mesi per tirarli fuori, nonostante i notevoli progressi dell’esercito nel raggiungere il controllo operativo sul nord di Gaza. Se Israele riuscirà a restituire tutti gli ostaggi è di per sé una questione aperta, date le richieste avanzate da Hamas fino ad oggi. Non ha fornito per ora alcun segno che accetterebbe un accordo che li manterrebbe in vita.
La doppia cittadinanza potrebbe influenzare le complesse trattative per la loro liberazione, coinvolgendo Stati stranieri che cercano di proteggere i propri cittadini. Non è ancora chiara la tempistica del rilascio dei passaporti tedeschi e ungheresi.
Va detto che l’approccio di concedere la cittadinanza e i passaporti di emergenza agli ostaggi non è nuovo; ad esempio, nel 2018, la Svezia concesse la cittadinanza a un ostaggio iraniano, il medico Ahmadreza Djalali, che aveva lavorato in un ospedale di Stoccolma, ed era stato condannato a morte nel 2017 da un tribunale rivoluzionario di Teheran con l’accusa di spionaggio per conto della Svezia. L’anno successivo, la Svezia gli concesse la cittadinanza e lo salvò dall’esecuzione.
Israele, Germania e Ungheria hanno scelto di non commentare la situazione. Tuttavia, l’idea di concedere cittadinanza e passaporti di emergenza ha ricevuto sostegno da parte di varie organizzazioni e figure di spicco.
Yigal Carmon, presidente e fondatore del Middle East Media Research Institute con sede a Washington DC, aveva già sottolineato l’importanza di seguire l’esempio di Raoul Wallenberg, il diplomatico svedese che durante la Seconda Guerra Mondiale salvò migliaia di ebrei ungheresi dalla Shoah emettendo “passaporti protettivi”.
L’obiettivo è adesso di replicare questa strategia per salvare gli ostaggi israeliani. La proposta di Carmon è supportata dal Simon Wiesenthal Center che, a sua volta, ha dichiarato che Hamas ha annunciato trattative separate per gli israeliani con cittadinanza congiunta.
Figure come Jonathan Greenblatt, CEO dell’Anti-Defamation League (ADL), così come il Rabbino Abraham Cooper del Centro Simon Wiesenthal, parlando con Fox News, avevano già sottolineato l’importanza di ogni sforzo per liberare gli ostaggi e il ruolo chiave di Germania e Ungheria: «Mentre l’Unione Europea si incontra per discutere della cosiddetta pausa umanitaria, Germania e Austria dovrebbero lavorare per rafforzare la loro dimostrazione di sostegno a Israele e concedere la doppia cittadinanza il prima possibile», aveva detto il Rabbino.
Già nei mesi scorsi, i media – tra i quali i24 news e Fox news – avevano riportato la notizia di due influenti organizzazioni statunitensi che avevano esortato Germania, Austria e Stati Uniti a rilasciare passaporti potenzialmente salvavita agli ostaggi israeliani detenuti da terroristi di Hamas. La richiesta, principalmente rivolta a Germania e Austria, allora non aveva dato risposte positive da parte dell’Austria così come erano rimaste ambigue quelle tedesche. Adesso pare si stiano facendo passi avanti nella giusta direzione.
(Bet Magazine Mosaico, 11 gennaio 2024)
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Il libello del sangue dell’Aia
di Niram Ferretti
Bisognerà crederci e crederci con grande forza, che la Corte Internazionale dell’Aia, che si riunirà oggi per valutare l’accusa di genocidio nei confronti di Israele mossogli dal Sudafrica, sia un tribunale imparziale e del tutto adatto a esaminare l’istanza.
Un altrettanto robusto atto di fede dovrà essere esercitato nei confronti delle specchiate credenziali democratiche e di integrità dello Stato proponente. Bisognerà ulteriormente affidarsi ai medesimi criteri scorrendo quali paesi fanno parte del panel giudicante del tribunale onusiano: Russia, Cina, Marocco, Uganda, Libano, Somalia. D’altronde l’ONU non può fare di meglio avendo attribuito all’Iran la presidenza rotante del Consiglio per i Diritti Umani con sede a Ginevra, dove è già istituito in base all’Agenda 7 un tribunale permanente contro Israele.
Dunque Israele dovrà difendere le sue ragioni dalla trita accusa di genocidio in corso ormai da decenni e particolarmente in voga tutte le volte che è intervenuto a Gaza, in modo particolare nel 2009 e nel 2014. Allora, però, Hamas non correva realmente il rischio di essere annientato all’interno della Striscia, rischio corrente, per cui si deve fare di più se si può farlo, per impedire che ciò accada.
L’opzione più valida è imporre a Israele un bel cessate il fuoco per “motivi umanitari”, in modo che Hamas possa salvarsi e riprogrammare per il futuro un nuovo 7 ottobre, come ha esplicitamente dichiarato.
La corte non ha il potere di imporlo, lo scopo dell’istanza sudafricana è quello di stigmatizzare ulteriormente Israele attraverso la confezione di un ammodernato libello del sangue. Non essendo più moneta corrente accusare gli ebrei di impastare il pane con il sangue dei bambini (anche se in Medio Oriente è un’accusa ancora in circolazione), si provvede a massimizzare l’onta imputandogli l’omicidio organizzato in massa.
Ci si è fatto il callo. Partendo dall’accusa di avere assassinato Dio poi non ci si è più fermati. Come farlo? l’apice, in fondo, si era già raggiunto e bisognava comunque mantenere il livello alto.
All’udienza parteciperanno numerose tricoteuses, tra cui, Jeremy Corbyn, il cui antisionismo, pardon, antisemitismo è a prova di bomba. Si tratta, infatti, di una occasione ghiotta per tutti gli antisemiti e gli odiatori di Israele. Imperdonabile sarebbe sottrarsi al brivido di assistere a una udienza in cui l’unico Stato ebraico al mondo viene trattato come se fosse (e anche questo fa parte della pubblicistica anti-israeliana da decenni) l’erede del Terzo Reich.
È un peccato che all’udienza non possa partecipare, tra gli altri, il corrispondente di guerra di La Repubblica, Daniele Raineri, che l’altro ieri sul giornale in copiosa perdita di copie, ha confezionato un delizioso trafiletto in cui accusa i soldati dell’IDF di essere specializzati nell’uccidere civili disarmati, possibilmente muniti di bandiera bianca, pezzo poi tradotto in arabo (arabo? sì) sul suo profilo Instagram.
(L'informale, 11 gennaio 2024)
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Ciclismo – Da Tel Aviv a Melbourne a Los Angeles un nastro giallo per gli ostaggi
Il forum che rappresenta i familiari dei cittadini israeliani ostaggi e dispersi ha aderito a un’iniziativa promossa dalla Israel Premier Tech, la squadra israeliana di ciclismo, insieme alla federazione ciclistica nazionale: una corsa di solidarietà globale cui sono attese decine di migliaia di persone, con un nastro giallo legato alle biciclette. L’appuntamento è per domenica 14 gennaio al velodromo di Tel Aviv, dove a cento giorni dal massacro del 7 ottobre le parole d’ordine saranno ancora una volta “Bring them home know”.
Lo stesso accadrà a Barcellona, Parigi, Londra, Melbourne, Los Angeles e in tante altre città che stanno raccogliendo l’appello degli organizzatori con iniziative sia “dall’alto” che “dal basso”. Ci sarà Chris Froome, il quattro volte vincitore del Tour de France che dal 2020 indossa i colori del team israeliano. “Come essere umano, come padre, non posso restare a guardare”, ha spiegato il 38enne atleta con origine kenyote e passaporto britannico, vincitore in carriera anche del Giro d’Italia (l’edizione del 2018, partita da Gerusalemme e arrivata a Roma). Froome ha citato nel merito la vicenda di Ofer Calderon e di suo figlio Erez, entrambi ciclisti. Erez è stato liberato dopo 51 giorni di prigionia, il padre ancora no. “La loro sofferenza e quella di tutti gli altri prigionieri mi tocca profondamente”, ha dichiarato Froome, auspicando una partecipazione significativa. La speranza di Sylvan Adams, il patron della Israel Premier Tech e promotore dell’evento, è che “il 14 gennaio diventi un giorno di libertà“, per affermare quei valori di “sportività e correttezza” antitetici “alla brutalità di Hamas”. Al velodromo di Tel Aviv ciascun ostaggio sarà rappresentato da un familiare.
Per i Calderon ci sarà Hadas, la madre di Erez e moglie di Ofer. “Erez ha riacquistato la libertà, ma suo padre e gli altri prigionieri stanno ancora languendo lì“, ha affermato la donna. “Erez merita di ricongiungersi a suo padre e di andare di nuovo in bicicletta con lui. Come ogni padre e figlio dovrebbero poter fare”.
(moked, 11 gennaio 2024)
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Israele: tutti i numeri del turismo 2023
3,01 milioni di ingressi turistici nel 2023 4,85 miliardi di dollari immessi nell’economia israeliana. Spesa media per turista (esclusi i voli): 6.005 NIS ( Euro 1458 ad oggi 10 gennaio). Da gennaio allo scoppio della guerra, crescita del 10% del turismo in entrata dagli Stati Uniti, rispetto allo stesso periodo dell’anno record 2019. Il 36% del flusso ha come motivazione il turismo, il 20% il pellegrinaggio, il 30 % dei turisti si inseriscono nell’ambito di un turismo organizzato. Media del soggiorno: 8,3 notti Haim Katz, Ministro del Turismo dello Stato di Israele ha dichiarato:
“Il periodo compreso tra gennaio 2023 e lo scoppio della guerra ha visto un nuovo record di turismo in entrata dagli Stati Uniti – il principale paese di origine del turismo verso Israele – con un aumento del 10% rispetto allo stesso periodo del 2019, l’anno record in Israele per il turismo. Stiamo preparando le infrastrutture necessarie che ci consentiranno di operare in modo rapido ed efficiente il “giorno dopo”, per contribuire a far ripartire l’economia e offrire al Paese risorse aggiuntive, per la riabilitazione e la crescita. Le indicazioni dal campo sono incoraggianti. Mentre alcuni turisti hanno rimandato le loro vacanze a causa della guerra, molti non hanno cancellato la prenotazione e aspettano il momento giusto per tornare a viaggiare. Israele ha molto da offrire come destinazione turistica e non vediamo l’ora di accogliere nuovamente i turisti nel nostro Paese”.
A dicembre 2023 sono stati registrati 52.800 ingressi n Israele con motivazione turistica, con complessivamente circa 3.010.000 arrivi di turisti in Israele nel corso dell’anno 2023. Il dato annuale rappresenta un aumento del 12,5% rispetto al 2022 (2,67 milioni di arrivi) e un calo di circa il 34% rispetto al 2019, anno record per Israele per il turismo incoming (4,5 milioni di turisti). Prima dello scoppio della guerra il 7 ottobre, si stimava che circa 3,9 milioni di turisti avrebbero visitato Israele nel 2023. Questa ripresa prevista dopo la crisi causata dalla pandemia del Covid 19 sarebbe stata molto vicina alle cifre record del 2019, se non ci fosse stato nel 2023 un calo di numero di arrivi di turisti da Cina, Russia e Ucraina per motivi esterni (guerra Russia-Ucraina e restrizioni al turismo in uscita dalla Cina). Da gennaio fino allo scoppio della guerra si è registrato un aumento del 10% degli arrivi di turisti dagli USA, rispetto al periodo corrispondente dell’anno record 2019 – un nuovo record di arrivi turistici dagli USA. Dopo la guerra, il numero di ingressi turistici in Israele è diminuito in modo significativo, con 180.000 arrivi nell’ultimo trimestre del 2023, contro le precedenti previsioni di circa 900.000. I primi dieci paesi da cui ha avuto origine il turismo incoming (in base al numero di arrivi) sono stati: USA, Francia, Inghilterra, Russia, Germania, Italia, Romania, Polonia, Canada, Spagna. Dall’Indagine sul Turismo Incoming, realizzata dal Ministero del Turismo dal gennaio 2023 fino allo scoppio della guerra, emergono i seguenti dati:
- il 30% dei turisti è venuto con un viaggio organizzato;
- Il 70% è venuto in modo indipendente (FIT);
- il 50% di tutti i turisti erano cristiani, il 24% ebrei (rispetto al 54% e al 26% rispettivamente nell’anno record israeliano del 2019);
- Il reddito stimato derivante dal turismo in entrata per il 2023 è di 4,85 miliardi di dollari (17,7 miliardi di NIS) rispetto ai 4,29 miliardi di dollari (15,65 miliardi di NIS) nel 2022;
- la durata media del soggiorno per ogni turista è stata di 8,3 giorni;
- Il 57% dei turisti in entrata visitavano Israele per la prima volta; Il 43% ha visitato Israele più di una volta;
- c’è stato un aumento in percentuale rispetto al 2022 per quei turisti che descrivono lo scopo della loro visita come turismo, visite turistiche, viaggi, tempo libero e svago;
- Si è registrata una diminuzione percentuale rispetto al 2022 per quei turisti che descrivono lo scopo della loro visita come pellegrinaggio.
Limitatamente ai dati relativi allo scopo della visita (è possibile indicare più di un motivo):
- Parenti e amici – 25%
- Tour e visite turistiche – 37%
- Pellegrinaggio – 21%
- Tempo libero e attività ricreative – 26%
- Affari – 11%
- Altro – 5%
Limitatamente alle tipologie di alloggio in Israele scelte dai turisti:
- Il 60% ha soggiornato in alberghi o villaggi turistici
- Il 19% ha soggiornato presso parenti e amici
- Il 13% ha soggiornato in affitti a breve termine
- Il 3% ha soggiornato in ostelli
- Il 3% ha soggiornato in ostelli cristiani
- Il 2% ha soggiornato in altri alloggi
“Siamo sempre in contatto con gli operatori a sempre al loro fianco. Insieme teniamo vivo il desiderio di ritornare in Israele non appena sarà possibile” ha dichiarato Kalanit Goren, direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano.
(Cronache Turistiche, 11 gennaio 2024)
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Gli sviluppi della guerra con Hezbollah
di Ugo Volli
• Il conflitto al nord cresce
Lentamente ma progressivamente, la guerra fra Israele e Hezbollah diventa più impegnativa, cresce il numero degli scambi e l’importanza degli obiettivi. Non si tratta più solo di scambi di missili e cannonate al confine, che continuano, e neppure di danni alle case dei villaggi di confine, che sono stati sfollati per evitare perdite umane. Dopo il colpo sul monte Meron, ieri un drone libanese è riuscito a penetrare in una importante base militare israeliana che ha sede a Safed (Tsfat) a oltre quindici chilometri dal confine. Il drone ha colpito innocuamente il parcheggio della base, ma si è trattato di un caso fortunato. Il colpo era mirato sulla base e c’erano le condizioni perché facesse danni gravi. Ciò sottolinea il fatto che Hezbollah, a differenza di Hamas, è in grado di mirare a installazioni militari importanti, oltre a colpire le case civili e le persone. Questa capacità è un indizio importante del carattere assai più pericoloso della guerra al nord che si profila. Anche Israele colpisce in profondità, sia le installazioni militari che i comandanti politici e militari del terrorismo, secondo una modalità d’azione molto sperimentata.
• L’eliminazione del capo delle truppe d’élite di Hezbollah
Due giorni fa nel sud del Libano, nel villaggio di Khirnet Selm, a una ventina di chilometri dal confine, è stato ucciso Javad al-Tawil, un alto comandante delle forze di élite Radwan di Hezbollah, forse il loro nuovo capo sul terreno, non si capisce bene se da un drone o da una bomba. È un colpo importante paragonabile all’uccisione della settimana scorsa a Beirut del numero due di Hamas Salah al-Aaruri. Il terrorista ucciso, di cui sono state pubblicate foto con i principali capi dell’asse iraniano, è stato responsabile dell'imboscata del 7 ottobre 2000 sul Monte Dov, quando i genieri dell'esercito israeliano Adi Avitan, Benyamin Avraham e Omar Sawaed furono rapiti da Hezbollah e uccisi; i loro corpi furono restituiti a Israele in uno scambio di prigionieri. Al-Tawil era anche dietro l'uccisione e il rapimento dei soldati Ehud Goldwasser e Eldad Regev nel luglio 2006, un'operazione che portò Israele alla seconda guerra del Libano. È stato anche responsabile dell'attacco a Magiddo nel marzo 2023, quando un terrorista libanese si era infiltrato in Israele e aveva piazzato un esplosivo ferendo gravemente un guidatore israeliano.
• La rivendicazione
In contrasto con la politica consueta di non confermare i colpi inferti ai nemici all’estero, ieri Israele ha confermato la propria responsabilità. "Per quanto riguarda l'attacco nel sud del Libano, ci siamo assunti la responsabilità dell'assassinio del comandante della Forza Radwan", ha dichiarato il nuovo ministro degli esteri Israel Katz, aggiungendo "Fa parte della guerra. Israele è pronto ad operare in tutto il Libano e contro l’esercito libanese e Hezbollah". Ieri vicino alla casa del fratello di Wissam Jawad a-Tawil, nello stesso villaggio dove era andato a rendere omaggio al caduto, è stato liquidato Ali Hussein Barji, comandante dell'aeronautica dell'organizzazione nel Libano meridionale e responsabile dei lanci di droni verso Israele, poi anche in Siria è stato liquidato il suo omologo, responsabile degli attacchi degli ultimi giorni. Hezbollah nel frattempo minaccia di estendere il conflitto colpendo le piattaforme di estrazione del gas di Israele in alto mare.
• Tunnel oltre la linea verde?
Cambiando teatro di guerra, vi è allarme anche rispetto alla possibilità che i terroristi abbiano scavato dei tunnel oltre la linea verde che separa Israele dai territori amministrati dall’Autorità Palestinese. Gli abitanti di alcuni villaggi a ridosso della barriera di separazione hanno denunciato di avvertire suoni e vibrazioni che potrebbero venire da uno scavo. Insomma, forse vi sono dei tunnel che potrebbero essere usati dai terroristi per un attacco di sorpresa. L’esercito indagherà. Certamente l’autorità palestinese, responsabile della zona oltre alla linea verde di fronte a questi villaggi non fa nulla per impedire queste eventuali installazioni, non ha mai condannato il massacro del 7 ottobre. Anzi si è appreso di recente che ha deciso di pagare gli stipendi che dedica a tutti i terroristi incarcerati anche agli stragisti catturati da Israele e in generale ai prigionieri dei movimenti terroristi detenuti da Israele.
• Gli stipendi ai terroristi
La stampa dell’Autorità Palestinese ha infatti informato qualche giorno fa che "i martiri, i feriti e i prigionieri" – i terroristi palestinesi o le loro famiglie, in altre parole – riceveranno i loro benefici di novembre a partire da sabato scorso tramite il servizio postale della Banca Palestinese. L'Autorità Palestinese è in crisi di bilancio, quindi questa volta i pagamenti saranno ad un tasso ridotto del 65%, più il 14% del denaro arretrato. Prima che i terroristi del 7 ottobre possano essere ricompensati, avverte il comunicato, le loro famiglie devono presentare i documenti comprovanti il loro “martirio” e una procura per aprire un conto in banca: la burocratizzazione del terrore. Secondo Itamar Marcus di Palestine Media Watch, le "famiglie dei martiri" ricevono in genere 1.400 shekel (quasi 400 dollari) al mese per tutta la vita. Gli stipendi dei prigionieri terroristi aumentano nel tempo, da 1.400 shekel a 12.000 shekel (3.300 dollari) al mese. Questo programma “paga per uccidere” costava fino al 7 ottobre più di 300 milioni di dollari all’anno, ovvero circa l’8% del budget dell’Autorità Palestinese. È probabile che questa voce di spesa sia destinata a crescere di molto, se non si riesce a far cessare questo scandalo, che fra l’altro rende l’Autorità Palestinese oggettivamente complice di tutta l’attività terroristica, anche quella compiuta da sigle che non ne fanno parte.
• La reazione israeliana
Israele, che riscuote le entrate doganali per l’Autorità Palestinese, ci prova. Attualmente, per iniziativa del ministro della finanze Smotrich, trattiene il 30% delle quote doganali dovute in base agli accordi di Oslo: la percentuale che l’Autorità Palestinese invia a Gaza, in sostanza passandola ad Hamas. Mohamed Abbas, presidente a vita dell’Autorità, negazionista della Shoah e tenacemente contrario a condannare la strage del 7 ottobre, ha rifiutato di accettare la somma così rivista e il presidente americano Biden si è dichiarato insoddisfatto dell’impasse. Indiscrezioni di stampa hanno riferito la scorsa settimana che il disaccordo ha portato a "una delle conversazioni più difficili e 'frustranti' che Biden abbia avuto con Netanyahu". Biden insiste affinché Israele consegni Gaza dopo la guerra all’Autorità Palestinese, promettendo che sarà “rivitalizzata”. Per questo promesso “rinnovamento” ritiene che abbia diritto al massimo delle sovvenzioni. Ma il denaro che gli Stati Uniti e anche l’Unione Europea vi versano finisce sempre per sovvenzionare il terrorismo - almeno per la parte che non viene assorbita dalla corruzione dominante a Ramallah.
(Shalom, 10 gennaio 2024)
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Retorica e pochi fatti: perché fino ad oggi Hezbollah non ha voluto entrare nella guerra tra Israele e Hamas?
BEIRUT - Il nemico del mio nemico è mio amico. Ma in Medio Oriente neppure questo è sempre vero. Ieri a Beirut, ai funerali dello sceicco Al Arouri, alto esponente di Hamas ucciso da tre missili di Israele, c’erano decine di bandiere di Hamas, qualcuna in rappresentanza di Fatah, la fazione palestinese rivale, e nessuna, nemmeno una, di Hezbollah. È stata una cerimonia sunnita, in una moschea sunnita, in un quartiere sunnita. Gli sciiti di Hezbollah che pure ospitavano Al Arouri nel loro quadrante della capitale libanese erano presenti solamente con due funzionari. Eppure nel suo discorso di mercoledì, il leader degli sciiti libanesi Hassan Nasrallah, aveva tuonato. Ogni volta che Nasrallah apre bocca, il Libano ha i brividi. La paura è che dichiari guerra per salvare i 2,3 milioni di palestinesi di Gaza, per approfittare della dispersione delle forze israeliane e puntare finalmente su Gerusalemme. Nella retorica della «resistenza all’entità sionista» e del «martirio per liberare Al Quds» (Gerusalemme), sarebbe una decisione coerente. Invece, nei fatti, Nasrallah temporeggia, anche dopo la morte di Al Arouri: «La ritorsione arriverà», ma non subito. Tradotto, Al Arouri non vale una guerra. Esattamente come non basta la sanguinosa vendetta israeliana a Gaza. Hezbollah ha espresso solidarietà ad Hamas, ma si limita a bombardare entro 10 chilometri dal proprio confine. In sostanza fino ad oggi Nasrallah non ha voluto allargare il conflitto. Perché?
C’è un argomento militare e uno politico. Due portaerei americane in navigazione davanti alle sue coste sono state, di sicuro, un ottimo deterrente. L’appoggio Usa ad Israele in caso di conflitto aperto non avrebbe lasciato scampo ai pur potenti Hezbollah. I 150mila missili libanesi farebbero molto male a Tel Aviv, ma l’aviazione israeliana raderebbe al suolo Beirut come sta facendo con Gaza. La guerra si può fare quando qualcuno paga i danni e il Libano non ha i soldi per ricostruire. Israele si potrebbe economicamente permettere una guerra a Nord, ma secondo il Guardian, gli Usa sono intervenuti due volte dal 7 ottobre per fermare un attacco preventivo di Israele contro Hezbollah.
(Corriere della Sera, 10 gennaio 2024)
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Blinken incontra i leader israeliani per discutere lo stato del conflitto a Gaza
Ma in gioco c’è il futuro assetto del Medio Oriente
di Giovanni Panzeri
Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha incontrato il Presidente Herzog e il Primo Ministro israeliano Netanyahu, per poi confrontarsi con tutti i membri del gabinetto di guerra israeliano, nel corso della giornata di martedì 9 gennaio.
• IL CONFLITTO E LA CRISI UMANITARIA Durante gli incontri, il diplomatico ha fatto pressione sui leader israeliani sottolineando la necessità “di evitare ulteriori sofferenze per civili di Gaza e proteggere le infrastrutture”, evidenziando come il costo in termini di vite, soprattutto di bambini, sia troppo alto e invitando Israele a dare pieno supporto alla nuova Coordinatrice Umanitaria per Gaza nominata dall’ONU, Sigrid KaaG.
Blinken avrebbe inoltre discusso, durante un lungo colloquio privato con il presidente Netanyahu, della situazione delle operazioni per la liberazione degli ostaggi e della necessità di aumentare il livello delle operazioni di aiuto umanitario verso i civili a Gaza.
Come riportato da Haaretz, il Segretario di Stato americano avrebbe inoltre espresso la preoccupazione della Casa Bianca verso la possibilità di un’espansione del conflitto nella regione, considerando in particolare il conflitto a nord con Hezbollah, e ha ribadito la ferma opposizione dell’amministrazione americana verso qualunque tentativo di trasferimento della popolazione di Gaza, rispondendo alle posizioni espresse recentemente dai ministri israeliani Smotrich e Ben Gvir.
“Sono stato chiaro- ha affermato Blinken- ai civili palestinesi dovrà essere permesso di rientrare nelle loro case appena le condizioni lo renderanno possibile. Gli Stati Uniti rigettano qualunque piano di trasferimento dei palestinesi fuori da Gaza. Il Primo Ministro mi ha assicurato che questo non è un piano del governo”.
“Apprezziamo il supporto degli Stati Uniti- ha ribattuto tuttavia il Ministro delle Finanze israeliano Smotrich- ma quando si parla della nostra esistenza su questa terra dobbiamo fare prima di tutto i nostri interessi. Quindi combatteremo con tutte le nostre forze Hamas e non permetteremo il pagamento di un singolo centesimo alle famiglie dei Nazisti di Gaza. (…) Dobbiamo approntare l’emigrazione volontaria dei rifugiati da Gaza, esattamente come la comunità internazionale ha fatto con i rifugiati siriani e ucraini”.
In quello che il ToI interpreta come un segno di possibili disaccordi il Primo Ministro Netanyahu si è rifiutato, per ora, di pubblicare il verbale dell’incontro con il diplomatico statunitense.
• L’ACCUSA DI GENOCIDIO Il Segretario di Stato americano ha comunque ribadito la condanna di Hamas, che ritiene unico responsabile del conflitto, e ha rigettato l’accusa di genocidio recentemente avanzata dal Sudafrica verso Israele, che verrà discussa questa settimana presso la Corte di Giustizia Internazionale.
“L’accusa è priva di basi- ha affermato il diplomatico – ed è scandalosa se pensiamo al fatto che le organizzazioni che stanno attaccando Israele, come pure l’Iran che le supporta, continuano a dichiarare apertamente di volere la distruzione dello Stato d’Israele e lo sterminio di massa degli ebrei”.
• GLI OBIETTIVI DEGLI USA Secondo il ToI l’amministrazione statunitense, che comunque ha ribadito di non sostenere un cessate il fuoco immediato, vorrebbe premere per un progressivo raffreddamento del conflitto e per un’apertura diplomatica verso l’Autorità Palestinese.
Ciò tuttavia sembra divergere dai piani a breve termine di Israele, illustrati dal Ministro della Difesa Gallant al diplomatico statunitense, che prevedono un raffreddamento del conflitto nella parte nord di Gaza accompagnato però da una decisa intensificazione delle operazioni militari nell’area di Khan Yunis, che continuerà “al fine di localizzare la leadership di Hamas e recuperare tutti gli ostaggi”.
Gli abboccamenti tra Blinken e i leader israeliani sono avvenuti nel contesto di una serie di incontri diplomatici tra il Segretario di Stato americano e gli alleati strategici degli USA nella regione, (inclusi Turchia, Arabia Saudita, Emirati, Qatar e Giordania) allo scopo di tentare di evitare un possibile allargamento del conflitto e di ridare vita al processo di distensione delle relazioni tra Israele e gli altri stati medio-orientali.
“C’è un chiaro interesse nella regione verso la normalizzazione dei rapporti con Israele.- ha riferito Blinken al Presidente Israeliano Herzog – Ma richiederà la fine del conflitto a Gaza e la delineazione di un piano concreto per la creazione dello Stato Palestinese.”
Come riporta il Times of Israel, secondo alcune fonti Washington vorrebbe riproporre a Israele l’Iniziativa di Pace Araba avanzata dall’Arabia Saudita nel 2002, poi abbandonata in favore di un insieme di approcci bilaterali tra Israele e i vari Stati arabi, da considerare falliti in seguito agli attacchi del 7 ottobre.
L’Iniziativa prevede la normalizzazione in blocco dei rapporti tra Israele e il mondo arabo in seguito alla creazione di uno Stato Palestinese.
(Bet Magazine Mosaico, 10 gennaio 2024)
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Genocidio – Perché il ricorso del Sudafrica alla Corte dell’Aia è “un abuso” e “un’infamia”
di Adam Smulevich
“Se tutto è genocidio, nulla è genocidio”. Lo rileva la International Association of Jewish Lawyers and Jurists (IJL), stigmatizzando la decisione del Sudafrica di trascinare Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, il tribunale delle Nazioni Unite. “Il tentativo di sfruttare la Convenzione sul genocidio per prendere di mira un gruppo di persone il cui assassinio ha portato alla Convenzione stessa riflette un fenomeno crescente di indebolimento del diritto del popolo ebraico ad avere un proprio Stato. Paragonando Israele al regime nazista, si intende negargli il diritto a difendersi da coloro che puntano alla sua distruzione”, accusa l’associazione che rappresenta avvocati e giuristi ebrei da tutto il mondo, ricordando come a coniare il termine genocidio fu un ebreo polacco scampato alla Shoah, Raphael Lemkin (1900-1959). Il padre cioè della Convenzione che il Sudafrica ha scelto di brandire contro lo Stato ebraico, in quello che appare a tutti gli effetti un sovvertimento della realtà. “Le azioni di Hamas soddisfano la definizione di genocidio”, riferisce non a caso la IJL, citando l’invocazione “all’assassinio di ebrei” da parte della leadership del gruppo terroristico. È per questo “triste e preoccupante” la linea adottata dal paese africano, si aggiunge. È preoccupato anche l’avvocato Ariel Dello Strologo, presidente dell’Associazione Giuristi Ebrei (AGE). “Di questi tempi assistiamo a un abuso continuo di parole come ‘genocidio’ nelle piazze, nei giornali, sui social. Impressiona che un tema del genere sia arrivato in un contesto simile e in quel modo. Un abuso, per l’appunto”, afferma Dello Strologo, che come AGE sta organizzando un webinar con studiosi di diritto internazionale. Se ne parlerà a margine delle due udienze previste nelle giornate di domani e dopodomani, per riflettere su quanto sarà emerso. “Non è un momento favorevole per Israele: ciò è evidente anche a livello di opinione pubblica, anche in paesi amici”, sostiene l’avvocato. “E una questione tecnica rischia pertanto di risentire della dimensione politica: non ho dubbi al riguardo”. È così verosimile, ritiene Dello Strologo, che vengano usate contro Israele dichiarazioni come quella del ministro della Difesa Yoav Gallant, che all’inizio del conflitto affermò: “Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza”. Oppure le “ripetute dichiarazioni” incendiarie dei ministri d’estrema destra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, che più volte hanno messo in difficoltà l’esecutivo con le loro intemperanze (pur non avendo potere decisionale su Gaza). “Il Sudafrica è un paese ostile e da sempre schierato in un certo modo. L’obiettivo è provocare un danno a Israele”, afferma Giorgio Sacerdoti, eminente giurista e già presidente dell’AGE. “Usare una Convenzione nata per evitare il ripetersi della Shoah contro Israele sembra irreale, una cosa fuori dal mondo, una vera e propria infamia. Israele dovrà risponderne in quella sede e senz’altro lo farà nel modo migliore. La squadra è di livello e non rinuncerà a combattere”, riflette Sacerdoti. La strategia, prosegue il giurista, sarà quella di dimostrare “l’inevitabilità di una guerra di risposta” come quella che si sta verificando a Gaza. Dall’Aia “non arriveranno decisioni esecutive e qualunque ‘provvedimento cautelare’ possa essere emesso, Israele avrà diritto a difendersi: potrebbe comunque rivelarsi un momento imbarazzante a livello d’immagine”, conclude Sacerdoti. Non tutti in Sudafrica la pensano come il loro governo. Alcuni leader cristiani ad esempio hanno emesso una nota per “condannare con forza” tale scelta. “La decisione è fondamentalmente viziata”, dichiarano, evidenziando che l’attacco non provocato contro civili israeliani comprendeva stupri, mutilazioni, incendi e altri orrori fino ad allora inimmaginabili. Si è trattato, quello sì, “di un tentativo deliberato di genocidio, sostenuto dallo statuto di Hamas”. I leader cristiani puntualizzano anche il concetto che “Israele non cerca di cancellare Gaza o i palestinesi dalle mappe”, ma soltanto di difendersi.
(moked, 10 gennaio 2024)
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Seduttrici iraniane
Come mezzo di guerra tattica l’Iran usa giovani donne per i soldati israeliani. Sorprendente la provenienza delle seduttrici.
TEHERAN - La Guardia rivoluzionaria iraniana ha addestrato un gruppo di giovani donne a contattare soldati israeliani per raccogliere informazioni. Stabiliscono relazioni romantiche o erotiche attraverso i social media. Parlano correntemente l'ebraico.
• Strumenti di guerra
L’uso di "trappole al miele" o "trappole di Venere" è un mezzo di guerra comune. Nessun thriller di spionaggio può farne a meno. Dai contatti sessuali, occasionali o regolari, alle relazioni permanenti e ai matrimoni, nella storia c'è stato di tutto. Anche agli uomini può essere affidato un incarico di questo tipo. In genere sono costretti a fare il padre di famiglia, mentre le donne iniziano brevi relazioni.
Il fatto che i contatti e le relazioni si stabiliscano esclusivamente attraverso i social media è ben noto dai programmi di corteggiamento del gruppo terroristico dello Stato Islamico. Giovani ragazze europee si sono recate in Siria in massa per sposare uomini che prima avevano visto solo in video o non avevano visto affatto.
• Biancheria sexy sotto lo chador
L’emittente di opposizione in lingua persiana "Iran International", con sede a Londra, ha rivelato l'identità di alcune delle donne. Il gruppo proviene da Mashhad. La seconda città più grande della Repubblica islamica è un centro religioso. Nei numerosi luoghi di pellegrinaggio si applicano codici di abbigliamento rigorosi. Per i devoti sciiti, l'idea che le giovani donne di Mashhad si spoglino davanti ai soldati israeliani tramite un video per conto del governo è particolarmente scandaloso.
Usano nomi e profili inventati. Le foto e i video inviati, tuttavia, sono reali. Le donne sono pesantemente truccate, in abbigliamento succinto o nude. "Iran International" ha contato 22 profili diversi. I reporter sono riusciti ad attribuirne due a Samira Baghbani Tarschisi e Hanije Ghaffarian di Mashhad.
• Anche Hamas usa le donne
Israele è già stato attaccato da Hamas con trappole simili in passato. Giovani donne arabe con una conoscenza più o meno buona dell'ebraico contattavano soldati israeliani su piattaforme di calcio o di incontri. Avrebbero dovuto convincere le loro vittime maschili a scaricare applicazioni cariche di spyware che avrebbero permesso ad Hamas il controllo sui telefoni cellulari israeliani.
Dopo l'attacco romantico da Mashhad, l'esercito israeliano ha nuovamente invitato i suoi soldati a essere vigili. Dovrebbero confermare solo le richieste di amicizia di persone che conoscono veramente. Non dovrebbero divulgare informazioni sensibili sui social media e scaricare applicazioni solo tramite gli app store, non tramite link inviati loro. Se il nuovo conoscente su Internet non è in grado di incontrarsi di persona, si consiglia di essere prudenti.
(Israelnetz, 10 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele teme che gli ostaggi in mano di Hamas possano essere trasferiti fuori della Striscia di Gaza
In particolare si teme che possano essere portati in Libano o addirittura in Iran
Secondo fonti vicine a Hezbollah le forze speciali e l’intelligence israeliana stanno operando nel Sinai, in Libia e in Sudan per timore che Hamas tenti di far uscire ostaggi da Gaza.
Le fonti sostengono che Israele è particolarmente preoccupato che Hamas cerchi di portare gli ostaggi in Iran e in Libano.
Nella nota si dice anche che Israele ha chiesto all’Egitto di poter operare sul lato egiziano del confine di Gaza per assicurarsi che non ci siano tunnel che potrebbero essere usati da Hamas per far uscire gli ostaggi o i leader del gruppo terroristico da Gaza.
Sebbene non sia chiaro se l’autorizzazione sia stata concessa, la fonte afferma che l’Egitto ha assicurato a Israele di non aver visto segni di attività di Hamas in Egitto e di essere disposto a ispezionare qualsiasi area individuata da Israele.
(Rights Reporter, 10 gennaio 2024)
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Israele apre in Siria la nuova fase del conflitto in Medio Oriente
Israele annuncia la nuova fase della guerra contro le forze dell'Asse della resistenza. Crescono gli attacchi letali dell'Idf contro obiettivi iraniani in Siria.
di Valerio Chiapparino
Israele annuncia l'inizio di una nuova fase della guerra contro Hamas, che passerà da operazioni di terra e aeree massicce ad una campagna più “leggera” e mirata affidata a piccoli gruppi di élite dell’Idf. Obiettivo: salvare gli ostaggi, trovare ed uccidere i terroristi e distruggere i tunnel costruiti dagli islamisti. Un segno che i nuovi piani delle forze militari dello Stato ebraico non si limiteranno però alla sola Striscia di Gaza arriva dal crescente numero di attacchi eseguiti da Tel Aviv contro camion, infrastrutture e uomini legati al regime iraniano in Siria. Strategia confermata anche dal ministro della Difesa israeliano. “Stiamo combattendo contro un Asse (della resistenza), non contro un nemico solo” dichiara Yoav Gallant ai giornalisti alludendo alla coalizione di organizzazioni filoiraniane che da Gaza, Libano, Iraq, Yemen e, appunto, Siria si oppone ad Israele e a Stati Uniti.
Che il Paese guidato col pugno di ferro dal presidente Bashar al-Assad sia in particolare nel mirino lo affermano diverse fonti consultate in queste ore dalla Reuters. Già in passato lo Stato ebraico aveva colpito obiettivi in Siria, dove da anni si muovono indisturbati i miliziani sciiti di Hezbollah, ma dopo il 7 ottobre le “regole del gioco” sarebbero cambiate. “Gli israeliani prima sparavano dei colpi vicino ai camion, davano il tempo agli autisti di fuggire e poi colpivano l’automezzo” spiega una fonte militare all’agenzia di stampa britannica aggiungendo che “adesso è diverso. Fanno ricorso a raid aerei più letali e frequenti per colpire il trasferimento di armi iraniane e di sistemi di difesa aerei in Siria. Attaccano chiunque direttamente e lo fanno per uccidere”.
In effetti Tel Aviv, a differenza del periodo precedente alla strage di Hamas, non sembra più temere ritorsioni da parte del regime degli ayatollah. In Siria negli ultimi tre mesi Israele ha ucciso 19 membri di Hezbollah, più del doppio dei morti registrati nei restanti mesi del 2023. Un numero per ora più contenuto rispetto agli oltre 130 miliziani uccisi dall'Idf in Libano. La nuova ondata di attacchi compiuti dallo Stato ebraico non si limita comunque ai membri del Partito di Dio ma investe persino le Guardie della rivoluzione, il potente corpo paramilitare iraniano anch'esso presente in territorio siriano.
Il messaggio che Israele intende trasmettere ad Assad è molto chiaro: “Stai permettendo ad Hezbollah e a Teheran di trasferire armi e di rafforzarti militarmente. Noi impediremo tutto ciò e ti ritroverai in una situazione difficile”, spiega un comandante militare. Inoltre, secondo indiscrezioni giornalistiche, il governo di Benjamin Netanyahu avrebbe fatto recapitare attraverso emissari degli Emirati Arabi Uniti una dura minaccia ai siriani mettendoli in guardia dallo scendere al fianco di Hamas. Non fatelo o sarà guerra aperta, il probabile contenuto del monito di Tel Aviv. Che, almeno sino ad ora, sembra aver raggiunto il proprio scopo.
(il Giornale, 9 gennaio 2024)
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Le dichiarazioni di Daniel Hagari: come le forze armate israeliane vedono la guerra
di Ugo Volli
In mezzo ai colpi di scena quotidiani di una guerra che dura da tre mesi (e rischia di durare ancor di più) in un territorio che pochi conoscono, si rischia di perdere il senso complessivo di quel che accade. Per evitare questo smarrimento è utilissima la dichiarazione che ha fatto oggi il portavoce delle forze armate israeliane, l’ammiraglio Daniel Hagari. E’ un discorso un po’ lungo ma chiarisce molto bene obiettivi, difficoltà e strategia dell’esercito israeliano, come lo vede il suo stato maggiore. Ecco quel che ha detto Hagari:
• Comprendere il nemico
“Uno degli obiettivi della guerra è smantellare Hamas. Ciò significa liquidare le capacità militari che Hamas ha costruito negli anni e che ha utilizzato per compiere il barbaro massacro del 7 ottobre. Per comprendere l’operazione militare nella Striscia di Gaza, bisogna capire come opera. Hamas è strutturato in battaglioni. I battaglioni di Hamas utilizzano un complesso sistema sotterraneo con infrastrutture per produrre armi, sale di guerra, centri di comando e controllo e la capacità di lanciare razzi in superficie e dal sottosuolo. I terroristi si spostano tra diverse aree della Striscia di Gaza di nascosto utilizzando questa infrastruttura. Le roccaforti del nemico si trovano sotto e vicino a siti civili sensibili come l’ospedale indonesiano, utilizzati da Hamas come scudi umani. I terroristi di Hamas si muovono disarmati, vestiti con abiti civili, piazzando esplosivi contro le forze israeliane nelle strade e all'ingresso dei pozzi dei tunnel. Nel nord della Striscia di Gaza, Hamas aveva due brigate militari con 12 battaglioni in totale, composte da circa 14.000 terroristi in totale. Da Jabalya, ad esempio, centinaia di terroristi hanno commesso il massacro omicida il 7 ottobre. Hanno massacrato civili e ne hanno rapito altri a Jabalya. Jabalya è un'area densamente popolata con circa 25.000 edifici. Uno su dieci di questi edifici è a più piani”.
• Come l'IDF lavora per mantenere i civili al sicuro
“Prima di entrare in un’area così densa di combattimenti, evacuiamo la popolazione, con l’obiettivo di prevenire danni e proteggere i civili, consentendo al tempo stesso l’azione militare, poiché priva Hamas della protezione sotto le spoglie della popolazione e ci consente di distinguere tra la popolazione e i terroristi di Hamas. e prenderli di mira. Dopo aver evacuato la maggior parte dei residenti, prima che le forze di terra entrino, interviene l'aeronautica. Abbiamo colpito infrastrutture sotterranee, terroristi, posti di vedetta e case attrezzate con esplosivi. Soltanto a Jabaliya abbiamo colpito circa 670 bersagli aerei prima dell’ingresso delle forze di terra. Abbiamo colpito in modo preciso, sulla base dell’intelligence e secondo il diritto internazionale. Lo smantellamento di Hamas prevede cinque obiettivi: il primo e più importante, eliminare i comandanti di Hamas, danneggiando così il comando e il controllo. L'eliminazione dei comandanti ha reso difficile per i terroristi combattere in modo organizzato e ha portato molti di loro ad arrendersi. Il secondo obiettivo è il combattimento terrestre contro i terroristi. Le forze armate hanno circondato e ripulito l'area di Jabalya. Tutto ciò avviene con l’intelligence e il supporto aereo di decine di aerei che colpiscono rapidamente qualsiasi minaccia. Questa collaborazione tra l’aeronautica israeliana e le forze di terra non si è vista fino ad oggi in nessuna guerra. I soldati eliminano le cellule terroristiche che sparano dall'interno delle case, dalle aperture dei tunnel e dai vicoli, combattendo battaglie ravvicinate con i terroristi. Combattere il terrorismo è complesso e costoso. Purtroppo, costa anche la vita ai nostri soldati”.
• Gli altri obiettivi
“Il terzo obiettivo è raccogliere informazioni sul campo. Abbiamo localizzato computer, mappe, dispositivi di comunicazione e trovato dischi rigidi da cui abbiamo scaricato circa 70 milioni di file di intelligence, che sono ora studiati e analizzati. Tutto ciò ci fornisce informazioni vitali per la continuazione della guerra. Il quarto obiettivo è localizzare e distruggere razzi, armi e i siti in cui vengono fabbricati. Abbiamo localizzato e distrutto circa 40.000 armi in tutta la Striscia di Gaza, alcune delle quali sono state trovate nelle scuole, negli ospedali, nelle moschee e sotto i letti dei bambini. Il quinto obiettivo è distruggere le infrastrutture sotterranee. Solo a Jabalya abbiamo trovato otto chilometri di tunnel sotterranei e più di 40 pozzi. All’interno dei tunnel, abbiamo localizzato il quartier generale settentrionale di Hamas, abbiamo recuperato i corpi di cinque ostaggi e li abbiamo riportati per essere sepolti in Israele. La liberazione degli ostaggi è uno degli obiettivi principali della guerra e una missione nazionale suprema”.
• Perché ci vuole così tanto tempo
“Al termine di una battaglia tenace e determinata, abbiamo smantellato la struttura militare di Hamas a Jabalya. Hamas non opera più in modo organizzato in quest’area. Per me è importante però dire che ci sono ancora terroristi a Jabalya. Tuttavia, ora operano senza una struttura e senza comandanti. Abbiamo avuto e continueremo a incontrare sporadici lanci di razzi provenienti da quest'area. Pensando a quello che abbiamo fatto a Jabalya, e moltiplicandolo per otto aree che coprono l’intera parte settentrionale della Striscia di Gaza, ciascuna con terreni e sfide diverse, si capisce perché il nostro compito abbia richiesto tre mesi. Abbiamo completato lo smantellamento della struttura militare di Hamas nel nord della Striscia di Gaza. Ora ci stiamo concentrando sull’eliminazione di Hamas nella Striscia di Gaza centrale e meridionale. Lo faremo in modo diverso, approfondito, sulla base delle lezioni che abbiamo imparato finora. L'area centrale è densa e contiene molti terroristi, e a Khan Younis c'è una città sotterranea piena di tunnel labirintici. Ci vorrà del tempo. I combattimenti continueranno per tutto il 2024. Nel frattempo, stiamo costruendo aree difese per riportare a casa in sicurezza i nostri residenti.”
• Il fronte settentrionale di Israele
“Voglio fare riferimento anche al nord. Hezbollah, nel ruolo che si è assunto di protettore di Hamas, ha sparato oggi contro le nostre basi nel nord, senza vittime per noi. Abbiamo eliminato le cellule terroristiche che hanno tirato, colpendo una serie di obiettivi, inclusi importanti complessi militari. L’8 ottobre, Hezbollah si è unito alla guerra iniziata da Hamas, iniziando ad attaccarci dal nostro confine settentrionale. Israele ha risposto e continuerà a rispondere – con forza – all’aggressione. Hezbollah sta trascinando il Libano in una guerra non necessaria, per il bene di Hamas; sta cercando un’escalation nonostante la distruzione che potrebbe portare al popolo libanese – oltre alle inutili sofferenze che sta già causando alla popolazione del Libano meridionale. Ma ecco qualcosa che Hezbollah e tutti i rappresentanti dell’Iran non dovrebbero mai dimenticare: quando si tratta di minacce esistenziali, Israele considera ogni giorno come se fosse il 6 ottobre, in modo che il massacro di Hamas del 7 ottobre non si ripeta mai più. Abbiamo il dovere di difendere il nostro popolo, con mezzi diplomatici o con la forza delle armi. La finestra diplomatica potrebbe essere breve, ma è ancora aperta. A coloro che trascinano la regione verso un’escalation non necessaria, il nostro messaggio è chiaro: il popolo di Israele, il popolo di Gaza, il popolo del Libano, e in effetti l’intera regione, meritano un futuro di pace, progresso e prosperità, e non la morte e la distruzione che Hamas e Hezbollah cercano”.
(Shalom, 9 gennaio 2024)
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Dopo Gaza tocca al Libano. Ucciso boss di Hezbollah
Israele annuncia che l'operazione durerà per tutto il 2024 con obiettivi diversi. Eliminato Wissam Hassan Tawi, un comandante del Partito armato sciita.
di Maurizio Stefanini
Dopo aver completato la distruzione delle infrastrutture di Hamas nel nord della Striscia Israele sposta l'offensiva nel sud di Gaza, annunciando che la guerra andrà avanti almeno «per tutto il 2024». Soprattutto, però, il conflitto si sta spostando verso il Libano, dove dopo l’uccisione la settimana scorsa a Beirut del vice capo di Hamas, Saleh al-Arouri, Israele ha sferrato un altro duro colpo nel Sud, colpendo a morte Wissam Hassan Tawi: un alto esponente della forza Rawdan, unità speciale del movimento sciita filo-Iran Hezbollah. L’auto sulla quale viaggiava è stata centrata nel villaggio di Majdal Selm, a circa 6 km dal confine.
• GAZA QUASI DOMATA
Secondo il portavoce militare israeliano, Daniel Hagari, Hamas non opera infatti ormai più in maniera organizzata nel nord della Striscia di Gaza, anche se sono possibili ancora combattimenti sporadici e lanci di razzi verso lo Stato Ebraico da quest'area. Al sud, spiega sempre Hagari, le forze israeliane opereranno in maniera diversa dal nord, dove interi quartieri sono stati rasi al suolo da bombardamenti e combattimenti di terra. Il portavoce dell’Idf ha sottolineato che, dall'inizio del conflitto, sono stati uccisi 8000 combattenti di Hamas. I campi profughi presi ora di mira dai militari sono pieni di uomini armati e sotto Khan Yunis è stata scoperta «una città sotterranea di tunnel».
«Combatteremo a Gaza tutto l’anno, questo è sicuro», ha previsto il capo di stato maggiore israeliano Herzl Halevi, durante una riunione al comando centrale delle forze di difesa israeliane. Ma secondo lui il 2024 sarà «un anno impegnativo» soprattutto in riferimento al conflitto con Hezbollah al confine nord. Ricorda infatti che è stata la milizia sciita libanese a decidere di avviare le ostilità e che l'Idf gli sta «facendo pagare un prezzo sempre più alto». Se ci sarà una guerra anche con il Libano, sapremo farla «in modo eccellente», ha assicurato.
Il ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant ha intanto incontrato rappresentanti delle famiglie degli ostaggi, e a sua volta ha assicurato loro che l'attività militare a Gaza non cesserà fino a quando non saranno liberate tutte le persone rapite da Hamas. I combattimenti «aumenteranno la pressione su Hamas e aiuteranno la liberazione degli ostaggi».
Intanto il segretario di Stato Usa Blinken è tornato nella regione, proprio con l’obiettivo dichiarato di cercare di evitare le “metastasi” della guerra per l'intera regione. Incontrando le truppe di stanza sul confine settentrionale, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha assicurato che farà di tutto «per ripristinare la sicurezza nel Nord» e consentire ai residenti al confine con il Libano di tornare a casa. «Naturalmente preferiamo che ciò avvenga non con una vasta campagna, ma questo non ci fermerà. Abbiamo dato loro un esempio di ciò che sta accadendo ai loro amici del Sud. Questo è ciò che accadrà qui al Nord».
• COPIA-INCOLLA
Parole simili sono state usate da Gallant, che in un'intervista al Wall Street Journal ha avvertito che Israele può «replicare a Beirut» quello che «sta avvenendo a Gaza». Sebbene lo Stato ebraico non voglia allargare il conflitto al Libano del sud contro Hezbollah, «80.000 persone devono poter tornare alle loro case in sicurezza», e quindi se gli altri mezzi - in primis diplomatici - falliscono, «siamo disposti a sacrificarci», ha affermato.
La giornata era stata scandita da un botta e risposta sul confine: missili anticarro sono stati lanciati dal Libano verso Har Dov dove un soldato è stato lievemente ferito. Stessa sorte per un civile a Shtula, nella Galilea occidentale, mentre a Kiryat Shmona non ci sono state vittime ma solo danni a un'infrastruttura e a una macchina. Le forze armate israeliane hanno risposto con raid aerei.
Da Beirut il ministro degli Esteri libanese Abdallah Bou Habib ha ribadito che il Libano è pronto ad attuare la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza Onu secondo la quale le forze di Hezbollah non saranno schierate a sud del fiume Litani, l'esercito libanese controllerà tutto il Paese, fino al confine con Israele, ed Hezbollah verrà disarmato. Allo stesso tempo, Israele deve ugualmente attuare la risoluzione, ritirandosi «completamente da tutti i territori libanesi e fermando le violazioni terrestri, marittime e aeree».
Libero, 9 gennaio 2024)
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La guerra da vincere e la guerra persa
di Niram Ferretti
Il 7 ottobre 2023 ha colto impreparato non solo Israele ma l’opinione pubblica mondiale. Iniziò subito, da parte occidentale, il coro dello sgomento e della solidarietà. Quello che era avvenuto era tremendo, atroce, chiunque avesse in corpo un briciolo di civiltà non poteva che riconoscerlo ed essere accanto a Israele.
Iniziò quindi la parata di leader che si recarono in Israele ad abbracciare Netanyahu e attraverso di lui il popolo israeliano vittima del più barbaro eccidio di ebrei avvenuto dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi.
Lo spartito all’insegna della solidarietà sarebbe però durato il necessario, ovvero fino al momento in cui Israele avrebbe reagito. Lo si sapeva già, si trattava solo di aspettare.
Dal momento stesso in cui cominciarono i bombardamenti di Gaza da parte dell’aviazione israeliana, ci furono immediatamente i richiami alla proporzionalità della reazione, all’evitare le vittime civili, a condurre la guerra come un minuetto, in cui a Israele veniva chiesto l’impossibile, e che non era mai stato chiesto a nessuno prima, uccidere unicamente i terroristi, evitare la morte di un solo bambino.
I bambini sono lo strumento ricattatorio di questa guerra, quello preferito dalla propaganda, come se mai prima di questa guerra in corso sia morto in un conflitto un bambino, nessun bambino in Yemen, nel Darfur, in Siria, in Iraq. I bambini, in una guerra, hanno iniziato a morire per la prima volta a Gaza.http://www.linformale.eu/i-bambini-di-gaza/
Tutto ciò non può sorprendere. Non esiste alcun conflitto al mondo più mediatizzato di quello tra Israele e gli arabi palestinesi, nessuno che abbia concentrato su di esso lo stesso livello di attenzione, di propaganda, di passione. Gli altri sono marginali, se non del tutto inesistenti. La prova è che da quando è iniziata la guerra tra Israele e Hamas, dai radar è scomparsa la guerra in Ucraina, certo già di lunga durata e stancante per l’opinione pubblica, ma non di meno cruentemente ancora in corso.
Dunque, dopo la solidarietà iniziale, si è giunti alla rappresentazione abituale, a Israele che si “vendica sanguinosamente” come scrive Francesco Battistini del Corriere della Sera, quotidiano che gradualmente, da una posizione non apertamente ostile a Israele, ha ormai gettato la foglia di fico, a Israele come Lamech, così ci ha ricordato un porporato aulico, a Israele terrorista e spietato, genocida, nazista, insomma, a tutto l’armamentario lessicale demonizzante, confezionato in più di cinquant’anni di indefessa propaganda contro lo Stato ebraico.
Il ruolo di Israele vittima è inconcepibile in questo affatturamento collettivo, è anche per questo motivo che il 7 ottobre si è rimasti spiazzati. Milleduecento trucidati israeliani come non considerarli vittime? Non si poteva permettere che passasse questa versione, che egemonizzasse il discorso pubblico, gli ebrei vittime sono solo e possono solo essere quelli della Shoah, gli ebrei uccisi dai nazisti, gli israeliani sono da situare altrove. E infatti, subito dopo l’eccidio, Antonio Guterres, Segretario generale dell’ONU, che dal 1967 macina senza sosta risoluzioni anti-israeliane, affermò che sì, Hamas aveva commesso un crimine, ma che sostanzialmente si trattava di un crimine determinato dall'”occupazione”.
Bisognava fare presto, fornire agli assassini la giustificazione per non essere troppo assassini e, in questo modo, sottrarre alle vittime il fatto di esserlo fino in fondo, perché le vittime, in questo canovaccio possono essere unicamente i palestinesi, è un ruolo fisso, incontrovertibile, da quando venne creato ad hoc a partire dalla metà degli anni Sessanta.
Tutto si è rimesso presto al proprio posto, Israele ha ripreso il suo ruolo fisso di criminale, di Stato brutale, razzista, genocida, e i palestinesi sono tornati ad essere le vittime, un popolo vessato, torturato, ucciso. Perché cambiare un copione che gode di un successo clamoroso, che strappa applausi a destra e a manca, tra politici, intellettuali, star dello spettacolo, anime nobili, gente comune? Perché modificare un solo aspetto di una rappresentazione così efficace?, che senso avrebbe farlo?
• Una incertezza e una certezza.
L’incertezza riguarda l’esito della guerra sul terreno. Israele si è dato come obiettivo il collasso di Hamas a Gaza, la sua smilitarizzazione e il venire in essere delle condizioni minime di sicurezza per i cittadini israeliani oltre la Striscia. Al momento non è ancora possibile sapere se riuscirà a raggiungerlo. La certezza riguarda invece un’altra guerra, quella dell’informazione. Questa guerra, Israele l’ha persa da decenni anche perché, va detto con sincerità, non ha mai cercato di vincerla realmente.
(L'informale, 9 gennaio 2024)
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La pace che vuole Israele e la guerra che deve combattere
di Yasha Reibman
I sentimenti di orrore per la guerra tra Israele e Hamas e per le vittime civili innocenti che, nonostante le precauzioni da parte israeliana, comunque avvengono, non sono un monopolio di chi chiede un cessate il fuoco. Appartengono anche a chi – in primis in Israele – ritiene questa guerra terribile, ma inevitabile per poter avere in futuro una pace e che la precondizione sia la sconfitta di Hamas e la fine dell’educazione all’odio contro gli israeliani inculcato nei bambini palestinesi a partire dalle scuole elementari. Come ha scritto Emmanuel Navon, nel recente volume “La stella e lo scettro - Storia della politica estera di Israele”, edizione Giubilei Regnani, la psiche ebraica è stata plasmata dalla lettura della Torah e dai commenti che nei millenni si sono sedimentati.
La guerra di Giosuè, che obbedì a un preciso comandamento divino, portò alla conquista della terra di Israele. Eppure, ed è sorprendente, questa non venne mai celebrata con una festa ad hoc, osservava il filosofo Yeshayahu Leibowitz. Nemmeno la conquista di Gerusalemme da parte di re Davide ottenne un giorno festivo nel calendario ebraico, sottolinea Massimo Giuliani in “Gerusalemme e Gaza - Guerra e pace nella terra di Abramo”, edizione Scholé. La festività che più si avvicina a un evento bellico è Hannukka, che ricorda un particolare miracolo successivo alla liberazione del Tempio profanato dagli ellenisti e la sua conseguente (re)inaugurazione. Il miracolo che si festeggia non è la vittoria dei pochi (i maccabei) contro i molti (gli ellenisti), ma il fatto che una boccetta di olio puro – indispensabile per accendere il candelabro del Tempio – durò otto giorni, il tempo necessario a produrre nuovo olio. La guerra, sottolinea ancora Leibowitz, può avere un valore storico, umano e strategico, ma non possiede in sé nessun valore o significato religioso.
Quando finalmente Sinwar, il leader di Hamas, sarà eliminato, sarà lecito stappare le bottiglie di champagne (kosher o meno, ora il punto non è questo) e festeggiare? Sebbene il sentimento sia comprensibile dopo quanto successo il 7 ottobre (e sicuramente qualcuno si lascerà andare in tal senso), anche di questo si sta discutendo in Israele. Nei proverbi, attribuiti alla saggezza di Re Salomone, è scritto “non gioire per la caduta del tuo nemico”. E ogni anno, in occasione della Cena pasquale, vi è la tradizione di togliere delle gocce dal bicchiere di vino in occasione della lettura delle dieci piaghe subite dagli egizi affinché gli ebrei potessero essere liberi. Sempre nella stessa cena si usa ricordare l’interpretazione del Maharal di Praga (il rabbino del XVI-XVII secolo, famoso per il Golem). Quando il mare si divise e gli ebrei passarono sul fondo asciutto, l’esercito del faraone si lanciò all’inseguimento, ma il mare si richiuse e travolse i carri e i cavalieri. I canti di giubilo degli angeli furono fermati da Dio perché stavano morendo delle persone. “Il Signore benedetto non gioisce alla caduta dei malvagi” è l’insegnamento di rabbi Yochanan riportato nel Talmud babilonese. Il festeggiamento nella Pasqua si concentra infatti sulla libertà del popolo ebraico, non si festeggia la sconfitta degli egizi. Al contrario, il giorno prima della Pasqua è stabilito un giorno di digiuno in ricordo e rispetto per la morte dei primogeniti egizi (l’ultima e terribile piaga).
Si potrebbe continuare ancora a lungo nel sottolineare l’avversione per la guerra e il rispetto per la vita umana per chiunque, anche per il nemico. Si potrebbe dedicare tantissimo spazio nel ricordare quanto la pace sia considerata il bene superiore, al punto che la parola ebraica Shalom (pace) è uno dei nomi divini e che quotidianamente, più volte al giorno, in occasione delle preghiere si augura la benedizione della pace. Tutto questo arriva ai giorni nostri, tuttora gli israeliani – costretti con un fucile in spalla a combattere una guerra che non hanno voluto, ma che devono vincere – ascoltano e cantano “Shir la shalom” la “canzone per la pace”, nella quale si dice “non dite ‘verrà un giorno’, ma portatelo qui ora perché non è un sogno”.
Il Foglio, 8 gennaio 2024)
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Israele-Hamas, a che punto è la guerra dopo 3 mesi
L'asse guidato dall'Iran e i timori per un'escalation con il Libano
di Mario Landi
Sono passati tre mesi dal 7 ottobre, giorno dell'attacco di Hamas a Israele che sancisce l'inizio del conflitto fra i terroristi e lo stato ebraico. L'Idf ha rivendicato di aver ormai smantellato tutta la rete militare di Hamas nel nord della Striscia di Gaza, ma si teme l'allargamento del conflitto anche ad altri stati del Medio Oriente, con Iran e soprattutto Libano sempre più coinvolti nelle tensioni con Israele.
• L’ALLARGAMENTO DEL CONFLITTO «Combatteremo a lungo» e «non un solo nemico», bensì «un asse costruito e guidato militarmente dall'Iran» attorno a Israele. Lo ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant nel corso di una intervista al Wall Street Journal, aggiungendo che inizialmente «i leader di Hamas non avevano preso seriamente la guerra a Gaza, nemmeno quando siamo entrati la prima volta».
Ma «stavolta è diverso» e «la comunità internazionale lo deve capire» perché è diversa la portata del massacro compiuto da Hamas lo scorso 7 ottobre, «il giorno più sanguinoso per il popolo ebraico dal 1945», ha sottolineato Gallant. «Dovrebbe essere consentito a Hamas, Hezbollah e all'Iran di decidere come viviamo le nostre vite qui in Israele? Questo non lo accettiamo», ha aggiunto.
• LA MINACCIA DELL'IRAN «Non esiteremo a dare una risposta schiacciante e decisiva a Israele nel caso in cui dovesse attaccare l'Iran», ha dichiarato in un'intervista rilasciata a Mehr uno dei comandanti delle Guardie rivoluzionarie, il generale Gholamali Rashid, aggiungendo: «È imperativo contrastare qualsiasi aggressione da parte degli Stati Uniti e di Israele contro qualsiasi nazione, dato il contesto dell'occupazione statunitense dell'Afghanistan e poi dell'Iraq all'inizio degli anni '80».
«Tuttavia, è stato dimostrato che tutti coloro che hanno danneggiato la Repubblica islamica non sono riusciti a sottrarsi alla punizione, e anche gli autori dell'assassinio dell'ex comandante di Qods Ghassem Soleimani saranno presto puniti», ha sottolineato Rashid. Soleimani è stato ucciso a Baghdad nel gennaio 2020 dagli Stati Uniti.
• I TIMORI PER L'ESCLATION CON IL LIBANO Il presidente americano Biden ha inviato alcuni tra i suoi più fidati consiglieri in Medio Oriente con un incarico della massima importanza: prevenire lo scoppio di una guerra in piena regola tra Israele ed Hezbollah. È quanto si legge in un articolo del Washington Post, dove si ricorda che «Israele ha definito insostenibile il regolare scontro a fuoco tra le sue forze e Hezbollah lungo il confine annunciando che potrebbe presto lanciare un'importante operazione militare in Libano».
I funzionari statunitensi temono - spiega il quotidiano americano - che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu possa considerare l'espansione della crisi al Libano come la chiave per la sua sopravvivenza politica, in un momento in cui è circondato dalle critiche interne per l'incapacità del suo governo di prevenire l'attacco di Hamas del 7 ottobre.
• LA POSIZIONE DEGLI USA Nel corso di conversazioni private, l'amministrazione statunitense ha messo in guardia Israele da una significativa escalation in Libano: una nuova valutazione riservata della Defense Intelligence Agency (Dia) avverte che risulterebbe difficile alle Forze di Difesa Israeliane (Idf) ottenere successo perché le loro risorse e i loro mezzi militari sarebbero troppo sparpagliati a causa del conflitto a Gaza, secondo fonti a conoscenza del documento citate dal giornale che ha parlato con oltre una decina di funzionari e diplomatici.
Il Segretario di Stato Antony Blinken è partito giovedì sera per il Medio Oriente per la quarta volta da quando Israele ha lanciato la sua guerra a Gaza dopo l'attacco di Hamas del 7 ottobre. I funzionari americani temono che un conflitto su vasta scala tra Israele e Libano porterebbe ad uno spargimento di sangue maggiore di quello della guerra Israele-Libano del 2006 a causa dell'arsenale sostanzialmente più ampio di armi a lungo raggio e di precisione di Hezbollah.
«Il numero delle vittime in Libano potrebbe essere compreso tra 300mila e 500mila e ne risulterebbe una massiccia evacuazione di tutto il nord di Israele», ha commentato Bilal Saab, un esperto di Libano presso il Middle East Institute, un think tank di Washington. Hezbollah potrebbe colpire Israele più in profondità rispetto a prima, colpendo obiettivi sensibili come impianti petrolchimici e reattori nucleari, e l'Iran potrebbe attivare milizie in tutta la regione. «Non penso che resterebbe limitato a questi due antagonisti».
(Il Messaggero, 8 gennaio 2024)
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Hezbollah colpisce con un «super missile» il centro di difesa aerea di Israele. La replica: ucciso il capo delle forze d’élite libanesi
Le autorità israeliane hanno ammesso che il «partito di Dio» ha colpito il centro di difesa aerea nel nord del Paese con un missile - il Kornet - modificato per aumentarne la gittata. La replica poche ore fa con l’uccisione di uno dei massimi capi militari
di Francesco Battistini
TEL AVIV – «Abbiamo colpito gli occhi dei sionisti!». All’inizio era sembrata la solita sparata, in tutti i sensi, dell’artiglieria Hezbollah. E invece no, ha ammesso anche l’esercito israeliano: sabato scorso, i 60 razzi libanesi lanciati nella Galilea del nord hanno centrato due delle tre cupole che gestiscono la difesa aerea israeliana nel nord.
Un danno grave: la base sta sul monte Meron e monitora tutto il traffico aereo sul confine, rilevando i tentativi d’infiltrazione. Da qui, l’Israel Air Force controlla tutto ciò che vola in Libano, in Siria, in Turchia e nel Mediterraneo orientale. È anche la centrale di disturbo dei segnali elettronici del nemico sciita: contiene sistemi radar a lungo e corto raggio, la gestione dell’Iron Dome per bloccare i razzi, con una sala comando e un sistema di comunicazione digitale per intercettare qualunque tipo di drone. Da Tel Aviv riconoscono la semi-distruzione della base, non parlano di vittime e alzano le spalle: il sistema di difesa aerea ha un backup, è stato «salvato», e non ne avrebbe quindi risentito.
A risentirne, però, è la sicurezza. E a spaventare è una parola: Kornet. Proprio domenica la Dia, la principale agenzia americana d’intelligence militare all’estero, ha consegnato al governo Netanyahu un rapporto riservato che sconsiglia d’aprire il fronte libanese. Troppo forti gli Hezbollah, mentre la difesa del confine nord è troppo sguarnita: le forze israeliane sono tutte concentrate su Gaza. Il partito di Dio lo sa, non smette di tirare e l’attacco al monte Meron conferma l’uso di sofisticate, nuove armi anti-tank russe: il missile Kornet. Una sorpresa, per gli israeliani: «È un razzo che conosciamo bene – spiega un esperto militare, Yair Amìnsbacher -, ma di solito aveva un raggio d’azione di 5 km e sapevamo fin dove potesse arrivare. Hezbollah, invece, ha dimostrato di disporre di modelli che arrivano anche a 10 km, forse di più. Il monte Meron sta a 7 km al di qua del confine. Non ne hanno molti, ma ne hanno. Il Kornet può sfondare blindature pesanti d’un tank, la sua testata è costruita per questo. Anche se ha limitate possibilità di distruggere interamente una base militare come quella».
Il timore dell’Idf è che Hezbollah abbia fatto una «spesa» supplementare d’armamenti potenti, e questo spiega in parte perché Netanyahu insista a colpire: «Hezbollah – dice il premier - deve capire quel che sta capendo Hamas: nessun terrorista è al sicuro». E per questo, oggi, Israele ha ucciso Wissam al Tawil, comandante dell’Unità Radwan, la più preparata e temuta tra le forze dell’Hezbollah libanese .
Il tour diplomatico del segretario americano Antony Blinken, che lunedì sera atterra a Tel Aviv, ha anche lo scopo di raffreddare il fronte libanese e placare la tentazione di Bibi, in difficoltà politica, d’estendere la guerra per rimanere ancora un po’ in sella. Molti sfollati israeliani dai kibbutz del nord vorrebbero tornare a casa, l’opposizione spinge: «Capiamo le esigenze di chi viveva là – ammette Yair Lapid, l’ex premier -, le possibilità d’un accordo sul confine libanese non sono alte, ma bisogna provarci. Serve un’azione politica, parallela alle minacce militari: se la prima non funziona, si passa dalle minacce ai fatti». Kornet permettendo.
(Corriere della Sera, 8 gennaio 2024)
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Il ruolo delle alleanze e gli odi antichi fra i nemici di Israele
di Ugo Volli
• Il problema del Monte Meron
Il portavoce militare israeliano ha confermato il danneggiamento del centro di osservazione e di controllo ottico del traffico aereo “506”, situato sul monte Meron in Alta Galilea, a causa di un missile degli Hezbollah, di cui avevo parlato ieri, assicurando però che la continuità del lavoro essenziale di monitoraggio dello spazio aereo per prevenire minacce era garantita, dato che tutti gli elementi fondamentali della difesa hanno un ricambio. Resta però il problema di come abbia potuto passare questo tiro diretto su un’istallazione militare importante e chiaramente molto esposta, dato che si trova proprio sulla vetta di una delle montagne più alte di Israele. Soprattutto è necessario capire in fretta quali contromisure si possano prendere. A quanto pare, il problema consiste nel fatto che i terroristi di Hezbollah hanno usato un moderno missile anticarro a guida laser di fabbricazione russa, il Kornet-E, che ha grande capacità di penetrazione, essendo capace di passare oltre anche corazzature di un metro di acciaio, e viene sparato da distanza ravvicinata su una traiettoria diretta, evitando così l’intercettazione di Iron Dome. Hezbollah aveva già usato quest’arma qualche volta durante i mesi scorsi, avendola evidentemente ricevuta dall’Iran, che a sua volta l’ha ottenuta dalla Russia. Sembra che i carri armati israeliani più recenti abbiano una difesa attiva efficace contro i razzi anticarro (RPG), cioè un sistema che li percepisce automaticamente e li distrugge in volo e che questo dispositivo sia efficace anche contro questi Kornet; ma evidentemente non sono stati predisposti per le istallazioni fisse. La disponibilità dei terroristi di quest’arma, oltre a segnalare un possibile problema militare per un’eventuale operazione di terra analoga a quella che i carri israeliani avevano trovato nel 2006, mette in evidenza anche la catena dei rifornimenti bellici che ha molto rafforzato Hezbollah: dalla Russia all’Iran, dall’Iran a Hezbollah attraverso Iraq e Siria.
• La grande scissione fra sciiti e sunniti
In tema di relazioni internazionali, vale la pena anche di fare una riflessione sul grande attentato subito dall’Iran durante le celebrazioni del quarto anniversario dell’eliminazione da parte degli americani del generale Qasem Soleimani, divenuto una sorta di eroe nazionale per il regime iraniano e i terroristi che ne dipendono. Si è trattato di due bombe fatte esplodere a Kerman, dov’è la sua tomba, mentre passava il corteo dei militanti venuti a ricordarlo. All’inizio si era parlato di quasi duecento cadaveri, poi il bilancio ufficiale si è misteriosamente ridotto a una settantina di morti; si tratta di uno di quei dettagli che in una dittatura come quella iraniana resteranno per sempre segreti. Il regime ha subito indicato Israele come responsabile dell’attacco, anche se una bomba in mezza alla folla è un comportamento del tutto alieno al modo di operare di Israele, che semmai ha purtroppo spesso subito queste forme di terrorismo. Infatti è venuta immediatamente alla luce la rivendicazione dello “Stato Islamico” (Isis o Daesh, come lo si indica di solito) e sono state pubblicate in rete le immagini dei due attentatori suicidi responsabili del crimine. Il messaggio, al solito delirante, se la prende soprattutto con Israele per la sua autodifesa a Gaza. Perché allora colpire l’Iran, che è il primo nemico di Israele? La ragione è l’antica divisione fra sciiti e sunniti. Lo “Stato Islamico” rappresenta la tendenza più estrema dei sunniti, ancor più estrema della Fratellanza Musulmana, di cui Hamas è il braccio armato in terra di Israele. Per loro gli ebrei sono il nemico principale, ma gli sciiti (come la maggioranza in Iran e Hezbollah) non sono molto meglio, li definiscono “politeisti”. E neppure nel momento della guerra con Israele sono in grado di superare questa divisione. A un livello meno estremo, c’è comunque una lotta fra stati sunniti moderati o conservatori (come l’Egitto, l’Arabia, gli Emirati, il Marocco) e il grande stato sciita (l’Iran) che cerca di sconvolgere l’equilibrio del potere in Medio Oriente. Per gli ayatollah che governano l’Iran l’odio per Israele è certamente sincero, ma è anche un pretesto per costruire un impero regionale dall’Oceano Indiano al Mediterraneo al Mar Rosso, che dopo oltre un millennio sottometta la grande maggioranza sunnita allo sciismo. L’alleanza più o meno tacita degli stati moderati sunniti con Israele si capisce meglio pensando a questo sfondo strategico.
• Le divisioni politiche in Israele
Va segnalato infine che in Israele vi è qualche segno di ripresa della polemica politica che era stata sospesa per la guerra. Il primo sintomo sono le due sentenze della Corte Suprema: l’una che ha annullato la legge che avrebbe impedito alla Corte stessa di prendere decisioni non sulla base di leggi ma di un generico e soggettivo criterio di ragionevolezza; l’altra che ha rinviato alla prossima legislatura la legge contenente le disposizioni che definiscono e limitano la possibilità di destituire il Primo Ministro. Entrambe le sentenze, che annullano leggi di rango “quasi costituzionale”, sono state viste come attacchi alla maggioranza da parte del principale soggetto istituzionale sottratto alla verifica elettorale. Ma vi è stato anche uno scontro molto duro nell’ultimo consiglio dei ministri di domenica, quando il capo di stato maggiore delle forze armate Herzi Halevi ha annunciato di aver stabilito una sua commissione di inchiesta sul comportamento dell’esercito il 7 ottobre, violando così la decisione di riservare un’inchiesta approfondita sui problemi che hanno portato alla strage per una commissione di stato da nominare appena finita la guerra. I partiti di destra hanno polemizzato con Halevi per questa scelta e sono stati duramente rimbeccati dal ministro della difesa Gallant e da Gantz, l’esponente dell’opposizione che si è unito al governo di unità nazionale ed è lui stesso un ex capo di stato maggiore. Alla fine c’è stato un appello all’unità da parte di Netanyahu, ribadito poi davanti ai giornalisti. Ma è chiaro che emerge la fatica della lunga convivenza di forze politiche e istituzionali che seguono agende assai diverse, se non sulla guerra, sulle politiche che dovranno essere adottate in seguito.
(Shalom, 8 gennaio 2024)
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Ebrei nazional-religiosi: demonizzati prima della guerra, celebrati oggi
Fino a poco tempo fa, gli ebrei nazional-religiosi erano vituperati come coloni militanti, ma dal 7 ottobre non si può essere "militanti" abbastanza.
di Michael Selutin
Per molti israeliani e certamente per i critici di Israele, i "coloni" ebrei sono una spina nel fianco, perché gli "esperti" di tutto il mondo concordano sul fatto che non c'è pace in Medio Oriente a causa di questi ebrei. L'opinione comune è che questi fanatici religiosi militanti, che hanno la faccia tosta di voler vivere nel cuore della Bibbia, impediscono la creazione di uno Stato palestinese.
Almeno tra i critici israeliani dei sionisti religiosi (che spesso appaiono un po' strani con i loro grandi copricapi di maglia e i lunghi riccioli delle tempie) questa opinione è ora del tutto cambiata.
È interessante notare che alcuni dei luoghi attaccati il 7 ottobre appartenevano all'estrema sinistra israeliana. Questi israeliani non volevano vedere difetti nei palestinesi, ma erano pieni di odio per i nazional-religiosi.
Caroline Glick descrive in un articolo come due fratelli della cittadina religiosa di Otniel hanno salvato circa un quarto degli abitanti di Be'eri quando Hamas vi ha compiuto un massacro. Per 14 ore e mezza sono andati di casa in casa, salvando le famiglie dalle finestre dei loro rifugi, riempiendo il loro veicolo, portandoli al sicuro e tornando più volte al kibbutz, che era diventato un campo di battaglia.
Durante l'ultimo viaggio a Be'eri, dopo aver salvato più di un quarto dei residenti, uno dei fratelli fu ucciso mentre stava entrando in una casa.
Be'eri e i kibbutzim circostanti furono fondati da irriducibili sionisti laburisti. Essi credevano che attraverso il duro lavoro, la lotta e l'agricoltura collettiva, il popolo ebraico si sarebbe liberato da duemila anni di esilio e di impotenza, avrebbe costruito il suo Stato e si sarebbe assicurato la libertà per il futuro. Si sforzarono di costruire uno Stato socialista ebraico.
Come gli abitanti dei kibbutzim vicini, anche i membri di Be'eri credevano nella coesistenza con gli arabi palestinesi. Vedevano la più grande minaccia a questa coesistenza in persone come i fratelli Kalmanzon, che erano religiosi e vivevano in Giudea o Samaria.
Il 7 ottobre, tuttavia, il mondo di questi israeliani laici si è improvvisamente capovolto, perché sono stati attaccati dai loro amati palestinesi e salvati dai loro odiati religiosi.
• NAZIONAL-RELIGIOSI NELL'ESERCITO Dall'inizio dell'operazione di terra a Gaza, il 45% dei soldati uccisi proviene dalla comunità religiosa sionista, i cui membri rappresentano solo il 10% della popolazione totale. Oltre il 50% degli ufficiali di livello inferiore dell'esercito (tenente, capitano, maggiore) sono sionisti religiosi.
Questi soldati e cittadini sono particolarmente motivati a combattere per il loro Paese perché il rinato Stato di Israele ha un significato religioso e la sua difesa è sia un privilegio storico che un valore religioso.
Inoltre, i membri di questo campo generalmente educano i loro figli secondo questi valori, come dimostra l'alta percentuale di reclute provenienti da scuole sioniste religiose che scelgono di unirsi alle unità di combattimento.
La percentuale sproporzionata di soldati religiosi uccisi in azione riflette la loro presenza sproporzionata in queste unità.
L'altro motivo per cui è interessante menzionare il numero di sionisti religiosi caduti è che parti di questa comunità sono state demonizzate nel corso degli anni come "messianisti" e "fascisti".
Una delle istituzioni di punta di questa comunità - la Bnei David Yeshiva - è stata particolarmente demonizzata. Il suo leader, il rabbino Yigal Levenstein, è stato letteralmente cacciato da Tel Aviv poche settimane prima del 7 ottobre quando i manifestanti gli hanno gridato: "Vattene, fascista! Torna negli insediamenti, il tuo posto non è qui!".
Quindici laureati di Bnei David sono morti finora in questa guerra.
• SPOSTAMENTO A DESTRA DEI CITTADINI Glick continua: "Il massacro del 7 ottobre ha innescato un cambiamento radicale nel panorama ideologico di Israele. A sinistra, la revisione è stata guidata dai rifugiati di Be'eri e degli altri kibbutzim che sono stati coinvolti nel massacro di Hamas e sono stati salvati da uomini che consideravano i loro più grandi nemici.
Questo è quanto emerge da un sondaggio condotto dall'agenzia Direct Polls e riportato da Channel 14.
Il sondaggio ha rilevato che dopo il 7 ottobre, il 44% degli israeliani, compreso il 30% di quelli di sinistra, ha dichiarato che le proprie opinioni si sono spostate a destra. Mentre il 6 ottobre l'opinione pubblica era più o meno divisa sull'opportunità di uno Stato palestinese, dopo il massacro del 7 ottobre solo il 30% degli israeliani (compresi gli arabi israeliani) crede ancora che un accordo con i palestinesi sia possibile. Il 90% degli israeliani (compresi gli arabi israeliani) non ha "fiducia nei palestinesi".
L'attacco di Hamas ha dimostrato a molti israeliani che i coloni demonizzati potevano avere ragione: non si può fare la pace con i palestinesi e bisogna essere pronti a difendersi in ogni momento. I cosiddetti coloni hanno vissuto con questo atteggiamento per decenni, mentre i progressisti di sinistra si sullavano in un falso senso di sicurezza.
Resta da vedere se questa consapevolezza si esprimerà alle prossime elezioni in un governo ancora più di destra , ma è già certo che i nazional-religiosi non sono più il capro espiatorio ma gli eroi di Israele.
(Israel Heute, 8 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Tu chiamale, se vuoi… emozioni… israeliane
di Yoram Ortona
Sono le 3.40 di notte di venerdì 24 novembre. Stiamo dormendo. Squilla il telefono di mia moglie Dalia che di soprassalto risponde. Era nostro genero Jonathan che ci annunciava che nostra figlia Alessandra a momenti si sarebbe dovuta recare all&rquo;Ospedale Ichilov di Tel Aviv per partorire. Dobbiamo cambiare il volo che era previsto per domenica 26.
Ci alziamo immediatamente, mentre io metto su un caffè, prepariamo le nostre valigie, abbiamo poco tempo, anche perché il volo dell’EL AL il venerdì mattina parte prima del solito. Arriviamo in aeroporto, passiamo tutte le procedure di sicurezza e decolliamo intorno alle 10.00. Dover partire improvvisamente per assistere la propria figlia che sta per partorire in un paese che si trova in guerra, una tragica guerra, faceva palpitare i nostri cuori. L’arrivo a Tel Aviv questa volta è del tutto diverso dai soliti che effettuiamo ormai da diversi anni molto frequentemente. La discesa che porta verso il controllo passaporti dell’aeroporto Ben Gurion è scandita dalle innumerevoli foto degli ostaggi nelle mani dell’organizzazione criminale terroristica palestinese di Hamas. Ogni foto a colori con il nome e l’età è un nodo alla gola. Il 7 ottobre è stato un vero e proprio pogrom dove sono state uccise 1200 persone in modo crudele e bestiale. Le donne incinte alle quali è stato tagliato il ventre, le teste dei neonati decapitati, gli anziani e i giovani a cui è stata mozzata la testa, gli stupri alle giovani donne dei kibbutzim e del rave musicale. Inoltre quel sabato nero, sono state prese in ostaggio 240 persone. Una tragedia umana indescrivibile che purtroppo continua anche con la perdita di tanti soldati,e sempre in attesa del rilascio degli altri 134 ostaggi. Ritiriamo i nostri bagagli e con un taxi ci avviamo a casa di nostra figlia, dove c’è la piccola Lia con lo zio Gideon. La abbracciamo con tutto il nostro affetto e lei ci fa un grande sorriso, correndoci incontro, è felice di vederci. Sabato mattina nasce il suo fratellino, è un’immensa gioia per tutti noi. Ci rechiamo a Ichilov per vedere il piccolo bebè, il nostro quarto nipotino. Domenica stessa vado al ristorante Pankina situato tra Gordon e Dizengoff, per presentarmi e dare la mia disponibilità come volontario per Tzahal. Un’esperienza durata un mese, dove tutte le mattine insieme a una ventina tra donne e uomini abbiamo dato quel piccolo aiuto a preparare gli ingredienti di ortaggi e verdure per i cibi dei soldati. L’unico giorno che sono mancato è stato il giorno del Brit Milà del nostro nipotino al quale è stato dato il nome di Dan Amos, un bambino stupendo. Dopo qualche giorno le attività di volontariato si sono spostate in King’s George alla Beit Chabad dove Tzion, Scelomo ed Eli, i coordinatori delle attività, rispettivamente della cucina e della logistica, tre persone eccezionali, ci davano le direttive per come eseguire il lavoro giornaliero. La stragrande maggioranza era costituita da cittadini israeliani di origine francese, inglese, russa, canadese, americana e qualche italiano, una generazione di ultra sessantenni, qualche giovane e con i quali si è creata una simbiosi di affetto, di solidarietà e di grande empatia. Il lavaggio dei pomodori, dei cetrioli, delle patate, delle cipolle, melanzane, zucchine e zucca gialla, dei peperoni rossi e delle barbabietole era la prima fase, a cui seguiva la fase di come tutti questi ortaggi dovessero essere tagliati, in che dimensioni con diverse tipologie di coltelli e sbuccia patate. Un lavoro laborioso eseguito con i guanti di plastica e con la massima precisione. Una volta finito il lavoro che iniziava alle 8.30 e finiva verso le 13.30, ognuno ripuliva il proprio posto, si rimettevano a posto le sedie e i tavoli e si spazzava il pavimento. L’aspetto che vorrei sottolineare di questa esperienza è il comune piacere e soddisfazione che ogni persona che ama Israele, provava nel rendersi utile in qualche modo a favore dei soldati di Tzahal. Uscendo dal locale, una mattina ho incontrato il sindaco della città di Tel Aviv, Ron Huldai, con il quale abbiamo scambiato qualche parola. Un sindaco che ha fatto tanto per la White City. Il giorno prima proprio su King’s George era caduto un missile vicino ad un albero. Se non li vedi con i tuoi occhi, certi fatti, in Italia e in Europa non si viene a sapere. Per tre volte mi sono recato in tre basi militari differenti, rispettivamente nel nord sul Golan, a sud di Tel Aviv e nel centro per portare i cibi che venivano confezionati da altre persone nei contenitori di plastica e di alluminio con le pellicole ad hoc. Una di queste volte ero insieme ad altre due persone nella base dove in un parcheggio ci è venuto a prendere un soldato e sopra il suo Hummer blindato, ci ha fatto salire con gli scatoloni, portandoci all’interno della base dove siamo stati accolti a braccia aperte. L’incontro con i soldati, gli ufficiali e i responsabili militari della base è stato per me la cosa più bella e più emozionante. L’accoglienza che abbiamo ricevuto non si può descrivere. Erano così felici di vedere delle persone che venivano da fuori a dare loro l’affetto e l’amore di cui avevano bisogno. Soldatesse e soldati giovanissimi, i loro superiori un po’ meno giovani, e anche qualche riservista con i quali si è creata un atmosfera di grande fratellanza e di unicità. Un ufficiale, dopo averci fatto visitare la base sotto una pioggerellina fitta, ci ha donato immediatamente una felpa dell’Unità 699 e un giubbotto verde, motivo d’orgoglio per me, che da quando l’ho indossato non me lo tolgo più. Dopo la cena a base di falafel e pite, spiedini di carne e insalate varie, accompagnata da musica israeliana dentro un hangar,l’ufficiale Yehuda mi ha detto: “Yoram ti adottiamo!” Io gli ho risposto: “sono felice di essere qui, ritornerò presto!” Ho fatto una breve intervista ad una soldatessa sergente, Helen la quale mi ha detto espressamente che venire da fuori fin qui per portare i cibi, ed anche delle sigarette ai soldati, è un atto che dà loro tanta forza e coraggio, perché non si sentono soli. Questi soldati dormono pochissime ore e lavorano costantemente 24 ore su 24. Alla fine della cena, un soldato giovanissimo mi ha fatto vedere una foto del suo bimbo di quattro mesi. Io l’ho abbracciato e gli ho detto sottovoce: “tornerai presto da tua moglie e prenderai in braccio il tuo bebè”. Lui mi ha risposto con un dolce sorriso. Sono stati dei momenti davvero profondi di umanità e di commozione che non scorderò mai. Naturalmente durante i pomeriggi ho fatto il nonno, e con mia moglie, e la nostra nipotina di poco più di due anni, Lia, passavamo momenti felici insieme. Diverse volte purtroppo durante questo lungo viaggio sono suonate le sirene anche a Tel Aviv, una mattina mentre lavoravamo in King’s George siamo dovuti uscire per chiuderci per qualche minuto in un rifugio attiguo, oppure la volta che ci siamo trovati di sera alla Bima e di corsa siamo corsi insieme a mia sorella e mio cognato nel parcheggio sotterraneo. Io ho una predilezione per gli autobus israeliani, mi sento a mio agio quando mi ci trovo sopra, mi fa sentire un cittadino telaviviano, ed anche per questo che posseggo la tessera. Una volta che mi trovavo, ritornando appunto dal lavoro, sull’autobus numero 8, lungo Rehov Dizengoff, tutti i passeggeri sono dovuti scendere, e ci siamo rifugiati nel basement di un ristorante. Quando suona la sirena della Red Alert, il suono ti penetra nelle orecchie, e poi dopo alcuni secondi senti i vari bum bum dell’Iron Dome, dei colpi che sembrano non finire mai. Sono momenti di fibrillazione, ma seguendo gli israeliani, mi sono comportato come loro e con il dovuto senso di responsabilità e di prontezza senza alcun tentennamento. Proprio sul lungo viale di Dizengoff vi sono tante panchine, sulle quali sono stati disposti, a ricordo dei poveri ostaggi, degli orsacchiotti giganti con una benda nera sugli occhi e delle macchie di vernice rossa con una foto di ogni ostaggio legata al collo. Un’altra immagine del dolore di tutta Israele è presente nella grande piazza circolare con la sua bella fontana, Kikar Dizengoff, sul cui muretto vengono accese delle candeline, degli oggetti ricordo delle persone che sono state massacrate. Gli zampilli d’acqua infiniti sono come le lacrime che sgorgano sui volti di ogni israeliano e di ogni ebreo. Un altro dei luoghi pubblici in cui questo senso di unità è sempre presente e visibile è il piazzale dedicato ai hatufim (ostaggi) dove ogni sabato sera, alla fine dello Shabbat, la gente si raccoglie e si raduna per portare la solidarietà alle famiglie degli ostaggi. Ad oggi sono ancora 134 nelle mani di Hamas. La piazza è antistante al Museo d’Arte di Tel Aviv in Sderot Sha’ul HaMelech, è stata arredata con un lungo tavolo apparecchiato con i 240 posti dedicati agli ostaggi con le loro foto, i calici, i piatti e le posate, una candelina accesa. Gli interventi dei parenti, le musiche, le innumerevoli foto delle persone, dei bambini e degli anziani che hanno subito delle cose atroci completano la coreografia di questo grande spazio con gli slogan scanditi con forza, tristezza e grande partecipazione. Quando ti trovi in mezzo a questa gente, al tuo fianco ti rendi conto che hai dei parenti o degli amici con le lacrime sui volti, e piangi anche tu. Sull’altro lato della strada risiede il Ministero della Difesa e il grande edificio quadrato e illuminato dove si svolgono le riunioni del gabinetto di sicurezza del governo, dove si prendono le decisioni politiche e militari. Ecco, bisogna stare qui in Israele e vivere con la gente normale, con il popolo, per capire a fondo la natura speciale di questa nazione, dove nei momenti difficili e drammatici come quello del post 7 ottobre, si percepisce la profonda unità e resilienza, in cui ho provato delle emozioni straordinarie, davvero uniche. Am Israel Chai!
(Bet Magazine Mosaico, 8 gennaio 2024)
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La situazione a Gaza e al confine col Libano
di Ugo Volli
• Il lavoro che resta da fare
Oggi cade il terzo mese dal massacro del 7 ottobre e la guerra è ben lungi dall’essere conclusa. Lo stato maggiore delle forze armate di Israele ha dichiarato che la distruzione delle unità militari terroriste dalla parte settentrionale di Gaza è stata ormai compiuta, e che ora l’esercito lavora per completarla al centro e al sud, dove la situazione è ancora complessa: metà della forza militare di Hamas è stata liquidata, ma restano da eliminare 12 battaglioni ancora funzionanti, cioè fra i 9000 e i 12000 miliziani, collocati prevalentemente a Khan Younis, dove i combattimenti sono avanzati; nei “campi profughi” (che in realtà sono vere e proprie città) di Burji, Nuseirat e Ma'azi, dove le forze di terra stanno cominciando a entrare e infine a Rafah, al confine con l’Egitto, dove ora opera soprattutto l’aviazione. Ma anche dove le formazioni terroriste sono state liquidate, continuano a operare piccoli gruppi, utilizzando le strutture e i depositi predisposti da Hamas per colpire alle spalle le truppe e bombardare Israele. Per esempio ieri unità della Brigata Nahal hanno identificato nell'area di Beit Lahiya nella Striscia di Gaza settentrionale la fonte da cui è stato lanciato un razzo all'inizio di questa settimana nell'area della città israeliana di Ashkelon. Durante l’operazione, è stato individuato un complesso con dozzine di rampe per il tiro di missili.
• La vendetta di Hezbollah per l’azione di Beirut
Nel frattempo si aggrava la situazione al confina col Libano. Come “rappresaglia” per l’uccisione del numero due di Hamas avvenuta la settimana scorsa a Beirut, Hezbollah ha tirato sabato 62 missili sul territorio israeliano e in particolare sostiene di aver colpito le strutture difensive della base militare vicino al Monte Meron, in Galilea, al cui interno si trova l'unità di controllo del traffico aereo 506, una delle tre istallazioni che controllano lo spazio aereo israeliano e avvisano dei tentativi di intrusione. Israele non ha confermato i danni, ma ha reagito distruggendo le istallazioni da cui erano stati tirati i missili e bombardando in profondità le strutture di Hamas. La reazione era prevista, e resta nell’ambito dello scambio di colpi che ormai quotidianamente avviene alla frontiera con il Libano. Gli scontri sono continuati per tutta la giornata.
• La missione di Blinken
Oltre al livello militare, sul Libano si concentra l’azione politica, in particolare questo è il tema dominante del quinto viaggio nella regione dopo il 7 ottobre di Antony Blinken, capo della diplomazia americana. Dopo aver incontrato il primo ministro greco a Creta, Blinken ha detto ai giornalisti che la sua missione è assicurarsi che il conflitto in Medio Oriente "non si espanda", perché se gli sforzi per risolvere la crisi falliscono, il risultato sarà "un ciclo infinito di violenza... e una vita di insicurezza e violenza per le persone della regione". "Una delle vere preoccupazioni è il confine tra Israele e Libano, e vogliamo fare tutto il possibile per assicurarci di non vedere alcuna escalation". Chiediamo a "diversi paesi che usino le loro relazioni con alcuni dei soggetti coinvolti [cioè Hezbollah] per tenere sotto controllo la situazione". Blinken ammette che è molto importante che Israele abbia la piena sicurezza nel nord del paese: “chiaramente non è interessato, non vuole l'escalation ... ma devono anche essere pienamente preparati a difendersi". Dopo la Turchia e la Grecia, Blinken ha visto il re di Giordania. La tappa finale del suo viaggio sarà Israele.
• Le dichiarazioni israeliane e la risposta di Hezbollah
Nel frattempo Israele ha trasmesso un messaggio ad Amos Hochstein, inviato speciale del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Libano. Vi si afferma che Israele è interessato al successo della diplomazia nel dirimere le tensioni in Libano, ma se queste dovessero fallire che sarà obbligato a "intraprendere un'azione militare per rimuovere Hezbollah dal Libano meridionale”. Israele ha chiarito che senza la rimozione di Hezbollah dal confine, gli abitanti del nord non potrebbero tornare alle loro case. Nel messaggio Israele dichiara apertamente che non è ottimista sul successo della iniziativa diplomatica, ma che la accetta anche per “acquisire legittimità” nel caso si arrivi davvero al punto di lanciare un’operazione militare di terra nel sud del Libano. La consapevolezza che sta diventando sempre più chiara tra gli alti funzionari israeliani è che una campagna nel nord – più ampia di quella già in corso – è inevitabile. C’è stata anche una dichiarazione di Netanyahu, che può essere letta in questo senso: "Non dobbiamo fermare la guerra finché non avremo raggiunto tutti i suoi obiettivi. Tre mesi fa Hamas ha commesso nei nostri confronti un terribile massacro. Il governo da me guidato ha ordinato alle forze armate di entrare in guerra per eliminare Hamas, liberare i nostri ostaggi e garantire che Gaza non costituisca più una minaccia per Israele. La guerra non potrà essere fermata finché non avremo raggiunto tutti questi obiettivi. Non concediamo l’immunità ad Hamas da nessuna parte e stiamo lottando per ripristinare la sicurezza sia nel sud che nel nord. Fino ad allora, e per questo scopo, bisogna mettere tutto da parte e continuare uniti fino al raggiungimento della vittoria totale.” La pressione americana per far sì che, secondo la richiesta di Israele, Hezbollah obbedisca alla risoluzione ONU 1701 del 2006 ritirandosi dal confine, è però respinta dai terroristi. Hezbollah ha informato l'alto rappresentante dell'UE, Joseph Borrell, anch’egli arrivato in visita a Beirut per scongiurare la crisi, che non è possibile discutere del caso libanese e degli sviluppi nel Libano meridionale prima della fine della guerra a Gaza.
• Giudea e Samaria
Continua intanto anche l’azione di prevenzione del terrorismo in Giudea e Samaria. Ci sono stati scontri molto duri a Jenin, quando una cellula terrorista ha tirato una bomba contro una pattuglia delle guardie di frontiera, ferendo diversi soldati e uccidendo anche una sergente dell’unità, Shai Garmai, di 19 anni. Il gruppo terrorista è stato liquidato. Vi è stato anche un attentato su una strada della regione di Binjamin, in cui è stato ucciso un arabo israeliano.
(Shalom, 7 gennaio 2024)
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Netanyahu: “La guerra non finirà finché Hamas non sarà eliminato. Nessun terrorista è immune”
"Gli obiettivi da completare sono: la restituzione di tutti i nostri ostaggi e la promessa che Gaza non rappresenterà più una minaccia per Israele”.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha affermato oggi che la guerra non finirà finché il movimento islamista palestinese Hamas non sarà eliminato e la Striscia di Gaza “non rappresenterà più una minaccia per Israele”. Secondo quanto riferito dal quotidiano israeliano “The Times of Israel”, Netanyahu ha rilasciato queste dichiarazioni all’apertura della riunione di gabinetto.
“La guerra non deve essere fermata finché non avremo completato tutti gli obiettivi: l’eliminazione di Hamas, la restituzione di tutti i nostri ostaggi e la promessa che Gaza non rappresenterà più una minaccia per Israele”, ha dichiarato Netanyahu, aggiungendo: “Lo dico sia ai nostri nemici che ai nostri amici. Questa è la nostra responsabilità e questo è l’impegno di tutti noi”.
Questa settimana, il segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, sarà in Israele per discutere della guerra a Gaza e delle tensioni al confine con il Libano. Nel suo discorso di oggi, il premier israeliano si è rivolto alla Casa Bianca, precisando che Israele non è in procinto di interrompere la sua campagna contro Hamas a Gaza.
“Il movimento sciita libanese filo-iraniano Hezbollah impari ciò che il movimento islamista palestinese Hamas “ha già imparato negli ultimi mesi: nessun terrorista è immune”, ha detto Netanyahu. “Siamo determinati a proteggere i nostri cittadini e a riportare i residenti del nord (di Israele) in sicurezza nelle loro case. Questo è un obiettivo nazionale che tutti noi condividiamo e agiamo responsabilmente per raggiungerlo. Se potremo, lo faremo con mezzi diplomatici, altrimenti agiremo in altri modi”, ha affermato Netanyahu.
Queste dichiarazioni arrivano dopo che ieri si è verificata un’ulteriore escalation al confine tra Israele e Libano. Hezbollah ha lanciato oltre 60 razzi verso il nord dello Stato ebraico, a cui le forze israeliane hanno risposto attaccando oltre il confine e colpendo due “importanti” strutture militari attribuite al gruppo libanese, oltre a una serie di altri obiettivi.
Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno annunciato oggi che il movimento islamista palestinese Hamas avrebbe appreso il metodo di sviluppo dei missili da crociera, sotto la guida dell’Iran. In un comunicato stampa delle Idf, si legge che i militari che operano a Gaza City avrebbero scoperto un’attrezzatura tecnologica utilizzata da Hamas per costruire missili di precisione, “una capacità che finora non si riteneva che il gruppo terroristico possedesse”. La Brigata Nahal e le forze speciali avrebbero fatto irruzione in un sito di Hamas nelle aree dei quartieri Daraj e Tuffah, a Gaza City, trovando l’ingresso di un tunnel che “conduceva a un impianto di produzione di armi sotterraneo”. Qui, i militari israeliani hanno trovato delle attrezzature “che dimostrano che i terroristi di Hamas hanno imparato, sotto la guida iraniana, a operare e costruire componenti di precisione e armi strategiche”, si legge nella nota. Sul loro sito web, le Idf hanno anche pubblicato le immagini di quelli che, secondo loro, sono il motore e la testata di un missile da crociera sviluppato da Hamas.
Le Forze di difesa d’Israele hanno effettuato un attacco con drone contro diversi membri dell’unità militare speciale Nukhba del movimento islamista palestinese Hamas ad Al Bureij, nel centro della Striscia di Gaza. Lo hanno riferito le stesse Idf, facendo il riepilogo delle operazioni militari condotte a Gaza durante la notte e nella giornata di ieri. Nella stessa area, un altro membro di Hamas sarebbe stato avvistato da un drone mentre si avvicinava ai militari israeliani. La Brigata Golani delle Idf avrebbe quindi “diretto un attacco aereo contro l’uomo armato”.
Inoltre, si legge nella nota, sempre nel centro di Gaza, le Idf hanno ucciso “diversi membri di Hamas”, e hanno trovato tre tunnel e un impianto di produzione di armi. Nel frattempo, nel nord di Gaza, la Brigata Nahal delle Idf avrebbe individuato il luogo da cui la settimana scorsa erano stati lanciati dei razzi contro la città di Ashkelon, nel sud di Israele, 13 chilometri a nord del confine con la Striscia. Ieri, i militari hanno quindi “fatto irruzione nel sito, a Beit Lahiya, e hanno localizzato decine di lanciarazzi, che sono stati poi distrutti”, si legge nella nota.
(Nova News, 7 gennaio 2024)
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Alan Dershowitz: “Folle accusare Israele di genocidio. Per Hamas una nuova Norimberga”
Il celebre legale Usa pronto a difendere lo Stato ebraico all’Aia: «I palestinesi riconoscano Gerusalemme. Bisognerebbe capire perché le associazioni femministe non hanno condannato gli stupri dei jihadisti».
di Francesco Semprini
NEW YORK - «L’accusa di genocidio è effimera e deviante, Israele sta facendo il possibile per contenere le vittime civili. Concordo sull’istituzione di un tribunale speciale per giudicare i crimini del 7 ottobre come quello creato per Adolf Eichmann, ma mi chiedo perché alcuni movimenti femministi si sono rifiutati di condannare gli stupri di Hamas? Vige la regola “MeToo except if you’re Jew”?». È senza filtri Alan M. Dershowitz, professore di legge di Harvard che, secondo indiscrezioni di stampa, avrebbe ricevuto richiesta da Benjamin Netanyahu di difendere Israele dalle accuse di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia la prossima settimana. Lo Stato ebraico è stato chiamato in giudizio dinanzi alla Icj con l’accusa di genocidio dal Sudafrica in relazione alla guerra nella Striscia di Gaza. «Non posso commentare su possibili miei ruoli», spiega a La Stampa il principe del foro affermando tuttavia: «Difendo Israele da più di mezzo secolo e continuerò a difenderlo quando sarà giusto».
Come in questo caso? «L’accusa è falsa, viene manipolato l’uso della parola genocidio, il reale genocidio è avvenuto in altri Paesi del mondo e le Nazioni Unite hanno sovente prestato davvero poca attenzione a questi casi. Il Sudafrica è una democrazia fallita, una cleptocrazia che si è rifiutata di condannare genocidi che avvengono in Paesi a lei vicini - tuona Dershowitz -. L’accusa nei confronti di Israele è assolutamente debole, perché sono stati fatto grandi sforzi per evitare vittime civili. Se la Icj fosse oggettiva darebbe ragione a Israele, ma ricordiamoci che non parliamo di un tribunale reale, è costituita da togati nominati dai rispettivi Stati membri e in alcuni casi questi prendono ordini dai loro governi. Non è la Corte penale internazionale che è indipendente».
Secondo quanto riferito da fonti legali del Palazzo di Vetro, «Icj è l’organo Onu che dirime questioni di diritto internazionale, cioè vertenze tra Stati, ma non si pronuncia sulla responsabilità penale di un membro». La Corte nasce con la Carta costitutiva e ha sede all’Aia come la Cpi, ma a differenza di questa discute il diritto internazionale e non i crimini internazionali. «Una delle suddette questioni può essere, come in questo caso, la violazione della convenzione sul genocidio», spiega la fonte Onu. Nella fattispecie il Sudafrica afferma che Israele stia violando il suo dovere di prevenire che avvenga un genocidio. La convenzione sul genocidio impone infatti non solo un obbligo di non commettere genocidio ma anche di prevenirlo quando se ne ha il dovere.
«Il Sudafrica - afferma l’esperto Onu - sostiene che Israele non stia facendo abbastanza in questo senso», accusa che troverebbe riscontro nei 22 mila morti di Gaza. «Sono stati molti di più in Iraq e Afghanistan, Israele ha il miglior rapporto di civili/combattenti uccisi pari a 1 a 2, per ogni terrorista ammazzato ci sono due civili morti, in altri scenari il rapporto è di 1 a 3,4,5 o 10 - chiosa il professore -. La gente che viene uccisa a Gaza inoltre è anche vittima di Hamas che utilizza i civili come scudi umani». Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale dello Stato ebraico, ricorda che Israele è «un firmatario di lunga data della Convenzione sul genocidio. Confuteremo pertanto questa accusa assurda che equivale a una diffamazione di sangue».
Esistono precedenti nella storia della Corte. Nel novembre del 2019 la Repubblica del Gambia ha avviato un ricorso contro la Repubblica dell’Unione di Myanmar sul crimine di genocidio perpetrato - secondo l’accusa - nei confronti della popolazione Rohingya. Riavvolgendo il nastro della storia al 1996, nel mezzo della guerra dei Balcani, Bosnia ed Erzegovina citarono in giudizio Serbia e Montenegro per la mancata applicazione della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, ottenendo una condanna. Qualora fosse riconosciuta la responsabilità dello Stato chiamato in causa ne deriverebbe una sanzione in cui si afferma che c’è stata violazione della convenzione. Da lì nasce un diritto di compensazione di carattere monetario.
Al di là degli esiti dell’Aia, Dershowitz si dice favorevole all’istituzione di un tribunale speciale per giudicare i crimini del 7 ottobre come quello creato dopo la Shoa per Adolf Eichmann, ipotesi invocata dai falchi israeliani: «In quel caso gli imputati sarebbero migliaia perché non includerebbe solo terroristi di Hamas ma anche cittadini ordinari che hanno seguito i miliziani negli atti del 7 ottobre». Questa è l’opinione dominante nello Stato ebraico (corroborata dai video del 7 ottobre) e, spiegano fonti Onu, «sarà probabilmente la tesi portante delle indagini giudiziarie, anche per giustificare un’azione militare di tale magnitudo». Dershowitz va oltre: «Sarebbe importante capire la responsabilità di gruppi di attivisti come alcune organizzazioni di femministe che si sono rifiutate di condannare gli stupri di Hamas compiuti quel giorno. Dove è il movimento #Metoo? Vale la regola “#MeToo except if you’re jew” (#MeToo non vale se sei ebreo)».
Sul futuro di Gaza infine, l’avvocato, già legale di Donald Trump nella vicenda di impeachment dell’ex presidente, non ha dubbi: «Occorre spazzare via Hamas e procedere con la formula dei due Stati puntando a una leadership palestinese, ad esempio quella dell’Anp, che però riconosca senza se e senza ma il diritto ad esistere dello Stato di Israele. Ne ho discusso personalmente con Abu Mazen e con altri importanti rappresentati palestinesi. Non c’è altra soluzione».
(La Stampa, 7 gennaio 2024)
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Nel Kibbutz Sasa evacuato, Plasan costruisce veicoli per proteggere le truppe
Nonostante l’ordine di lasciare il confine con il Libano, i dipendenti della Plasan lavorano 24 ore su 24 per creare e distribuire soluzioni innovative in tempo reale, mentre l’IDF combatte su più fronti.
A soli due chilometri dal confine israeliano con il Libano, la fabbrica di armature Plasan nel Kibbutz Sasa, abbandonato, pullula di attività, mentre centinaia di dipendenti lavorano 24 ore su 24 per proteggere i soldati dell’IDF e i loro veicoli. I residenti del kibbutz sono stati evacuati da tempo – insieme ai residenti di altre comunità del nord – dopo che 1.200 persone, la maggior parte delle quali civili, sono state brutalmente uccise nel sud di Israele e altre 240 sono state rapite da terroristi guidati da Hamas il 7 ottobre, minacciando la stabilità dei confini di Israele e portando a scaramucce sempre più accese con il gruppo terroristico Hezbollah, con sede in Libano.
I membri dello staff di Plasan lavorano più duramente che mai nonostante i frequenti attacchi missilistici – un missile guidato anticarro ha colpito direttamente l’auditorium della scuola del kibbutz il 17 dicembre – e la necessità di rifugiarsi in stanze sicure. All’indomani dell’attacco di Hamas, l’azienda ha aumentato la produzione di piastre di protezione per i giubbotti antiproiettile, il prodotto principale della Plasan quando è stata fondata nel 1985. Da allora, l’attenzione dell’azienda si è spostata sui kit di armatura per veicoli militari, un settore in cui è leader mondiale.
“L’IDF e il Ministero della Difesa sono venuti da noi e ci hanno detto che avevamo bisogno di quanto più possibile, il più velocemente possibile”, ha detto Nir Kahn, direttore della progettazione dell’azienda. L’azienda ha rimesso in funzione la linea di produzione e da allora ha fornito “decine di migliaia” di piastre corazzate all’IDF e ad altre forze di sicurezza in Israele, ha detto Kahn.
La Plasan ha anche consegnato con urgenza tutti i veicoli blindati che aveva in magazzino e ha iniziato ad aumentare la produzione 24/7 del SandCat Tigris, una versione militare del camion commerciale Ford F-Series, e inoltre, ora fornisce un servizio di ricambi e manutenzione 24 ore su 24 per garantire che tutti i suoi veicoli siano pronti per le missioni. Ma il vero senso di orgoglio della Plasan è lo sviluppo di nuovi prodotti per soddisfare le esigenze emergenti dell’IDF nei teatri di guerra.
“Vediamo i nostri prodotti utilizzati nei telegiornali ogni sera”, ha detto Kahn. “E sappiamo che si tratta di qualcosa di appena uscito dalla linea che è andato dritto là fuori, salvando vite umane, che è stato coinvolto nel riportare a casa gli ostaggi e che sta facendo un buon lavoro là fuori – e questo è incredibilmente motivante”.
Kahn non può condividere alcun dettaglio. Molto di ciò che fa il Plasan è avvolto nella segretezza. È la natura del settore dell’hardware militare. “Se c’è qualcosa che richiede una soluzione speciale, o un design, o un pensiero fuori dagli schemi, noi siamo il posto dove andare”, ha detto Gilad Ariav, vicepresidente del marketing e dello sviluppo commerciale della Plasan.
“Si è sempre preparati per l’ultima guerra, si cerca di prepararsi per la prossima, ma ci sono sempre delle sorprese e il nemico pensa fuori dagli schemi, quindi una volta iniziata la battaglia, si affrontano nuove sfide che non ci si aspettava prima o che non ci si aspettava in quella misura”.
In alcuni casi, ha detto Ariav, ciò di cui l’IDF ha bisogno è qualcosa che Plasan ha già sviluppato come prodotto e che deve solo essere convalidato per essere utilizzato dai soldati, mentre in altri casi l’esercito si trova ad affrontare una sfida molto particolare e chiede l’aiuto dell’azienda per trovare una soluzione. “Abbiamo costruito cose che avevamo già, abbiamo incrementato la produzione e abbiamo consegnato il più velocemente possibile”, ha detto Kahn. “Ma quello che sicuramente ci ha tenuti occupati negli ultimi due mesi è stato lo sviluppo di nuovi prodotti”.
Kahn ha raccontato che durante le guerre in Iraq e Afghanistan, il ruolo della Plasan è stato quello di progettare veicoli e soluzioni per le forze armate americane e britanniche in tempo reale, man mano che i conflitti si svolgevano, e che ci è sembrata una missione personale proteggere quei soldati. “Ora siamo molto motivati perché è vicino a casa”, ha detto. “È la prima volta, nei miei 22 anni di lavoro in Plasan, che sento davvero, sul mercato domestico, che stiamo arrivando al mattino e che tutto ciò che facciamo è importante”.
“Stiamo creando soluzioni che saranno disponibili sul campo molto, molto rapidamente”, ha aggiunto. “Ovviamente non possiamo entrare nei dettagli di cosa si tratta. Ma stiamo sviluppando nuovi prodotti per l’IDF sulla base di esigenze urgenti e sulla base delle minacce che si presentano”. È stato all’inizio degli anni ’90, in risposta alla Prima Intifada, che la Plasan è passata dalla protezione delle persone a quella dei veicoli.
L’azienda ha sperimentato un modo di blindare i veicoli altrettanto efficace della soluzione tradizionale – essenzialmente una scatola d’acciaio saldata – ma significativamente più leggero, più economico, più adattabile e più veloce da produrre. Plasan prende il telaio dei veicoli di produzione esistenti e progetta pannelli imbullonati utilizzando una varietà di materiali specializzati per resistere a proiettili, bombe e ordigni esplosivi improvvisati.
“L’abbiamo visto come un armadio IKEA, invece che come una scatola d’acciaio saldata”, ha detto Kahn. Il successo dell’approccio che rompe gli schemi è evidente. L’esercito statunitense sta incorporando le armature Plasan nella flotta di 150.000 nuovi veicoli tattici leggeri congiunti (JLTV) che sta attualmente sostituendo gli Hummer e le jeep multiuso.
La Plasan ha un’ampia gamma di clienti in tutto il mondo. La guerra in corso significa che l’azienda deve destreggiarsi tra i suoi doveri interni e gli obblighi verso gli altri all’estero. Ma la guerra in corso a Gaza presenta le sue sfide. “Ero su un volo per gli Stati Uniti per una mostra a Washington”, racconta Ariav. “La notte del 7 ottobre sono atterrato al JFK, ho fatto un’inversione di rotta e sono tornato subito in Israele”.
Non è tornato alla Plasan, ma al servizio dei riservisti nell’IDF, insieme a circa il 20% della forza lavoro dell’azienda, anch’essa richiamata.La maggior parte dei dipendenti della Plasan sono in loco. Quelli che lavorano alla linea di produzione non possono ovviamente portarsi il lavoro a casa, mentre quelli che si occupano di progettazione e di altri ruoli possono lavorare a distanza, ma in genere scelgono di non farlo. Questo nonostante l’evacuazione dei 400 abitanti del kibbutz, che hanno dovuto abbandonare le coltivazioni di kiwi, mele, avocado e pompelmi che stavano coltivando.
L’evacuazione dei locali di Plasan rimane una possibilità sgradita, se Hezbollah intensifica le sue attività in Libano.
“Tutto dipende dalla gravità della situazione a nord”, ha detto Ariav. “E abbiamo un piano per questo: una struttura di riserva per assicurarci di continuare a lavorare”.
(Israele 360°, 6 gennaio 2024)
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«Keren» una parola profetica per il Messia (4)
“Keren” come parte degli altari
di Gabriele Monacis
Nei primi articoli abbiamo incontrato il termine keren in contesti di sacrificio e sofferenza, ma anche di potere e redenzione per coloro che invocano Dio.
Nella storia di Abraamo e Isacco, Dio ordina ad Abraamo di sacrificare suo figlio Isacco. Abraamo obbedisce e all'ultimo momento Isacco viene risparmiato e al suo posto viene sacrificato un ariete.
Abbiamo anche esaminato il libro di Samuele (1 e 2 Samuele presi come unità). All'inizio del libro (1 Samuele 2) troviamo la preghiera di Anna, la madre di Samuele, e alla fine (2 Samuele 22) troviamo il canto di ringraziamento di Davide. Anna e Davide gridano a Dio quando le onde stanno per abbattersi su di loro, e Dio li ascolta e dà loro la vittoria sui loro nemici. Anna prega: "Il mio corno è esaltato dall'Eterno", e Davide si esprime di conseguenza. Le sue parole ci profetizzano che nella vita dell’Unto di Dio - in ebraico: il Messia - Dio esalterà il suo corno. Il Messia sarà risuscitato dal fondo, dal regno dei morti, come è accaduto alla sua risurrezione, e trionferà sui suoi nemici.
La parola keren compare più volte anche in Esodo 2 e 3 per descrivere i quattro angoli dell'altare degli olocausti (Esodo 27:2), che si trovava davanti alla tenda di convegno (tabernacolo). Anche l'altare dell'incenso aveva quattro corna agli angoli (Esodo 30:2-3). L'altare dell'incenso si trovava nel tabernacolo, davanti alla tenda che separava il Santo dei Santi, dove si trovava l'Arca dell'Alleanza, dal resto del santuario, e "una volta all'anno", secondo le istruzioni di Dio,
"Aaronne farà una volta all'anno l'espiazione sui corni di esso; con il sangue del sacrificio di espiazione per il peccato vi farà l'espiazione una volta l'anno, di generazione in generazione" (Esodo 30:10).
Questo "una volta all'anno" era il Grande Giorno dell'Espiazione (in ebraico: Yom Kippur) - il giorno in cui il Sommo Sacerdote entrava nel Santo dei Santi (Levitico 16:18).
Il sangue doveva essere asperso anche sui quattro corni dell'altare quando qualcuno dei discendenti di Aaronne veniva ordinato sacerdote (Esodo 29:10-12). Levitico 8:15 riporta la consacrazione di Aaronne e dei suoi figli:
"Mosè prese il sangue e lo mise con il dito sui corni dell'altare tutt'intorno e purificò l'altare; poi sparse il resto del sangue alla base dell'altare e lo santificò, espiandolo".
Secondo Levitico 4, se qualcuno aveva infranto uno dei comandamenti di Dio, il sangue doveva essere asperso sui quattro corni di uno degli altari. Se il sacerdote stesso era il peccatore e aveva quindi portato la colpa su tutto il popolo, doveva macellare un toro all'ingresso del tabernacolo e poi mettere un po' del sangue sui corni dell'altare dell'incenso che si trovava nel tabernacolo (v. 7). Lo stesso valeva se l'intera comunità israelita avesse peccato (v. 18). Se un sovrano aveva peccato contro uno dei comandamenti, non si doveva sgozzare un toro ma una capra davanti al tabernacolo e il sacerdote doveva mettere un po' del sangue sui corni non dell'altare dell'incenso all'interno del tabernacolo, ma dell'altare degli olocausti che si trovava davanti (v. 25). Lo stesso valeva se qualcuno della gente comune avesse peccato, solo che in questo caso non si doveva sacrificare un capro, ma una capra o una pecora (vv. 27-35).
Troviamo quindi la parola keren nei libri di Esodo e Levitico in tre tipi di situazioni: nel Grande Giorno dell'Espiazione, nella consacrazione dei sacerdoti e nell'offerta per il peccato. Tutte e tre le situazioni gettano una luce profetica sulla persona del Messia, venuto nel mondo per offrire a Dio come sacerdote un sacrificio puro per il perdono dei peccati del suo popolo. L'associazione di keren con il Giorno dell'Espiazione indica che il Messia doveva passare attraverso la cortina che separava la presenza di Dio dagli uomini e portare il sangue di un sacrificio puro nel Santo dei Santi, come fece il Sommo Sacerdote in quel grande giorno. Cristo "non è entrato nel santuario con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue una volta per tutte, avendo ottenuto una redenzione eterna" (Ebrei 9:12).
(4. continua)
(Nachrichten aus Israel – Juli 2022)
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C'è il piano per Gaza. Ma la destra attacca il capo dell'esercito. E Bibi è sotto assedio
Il documento di Gallant sul dopo guerra della Striscia: "Né Hamas né Israele governeranno". Scontro su Halevi, Netanyahu sospende la riunione del governo. L'alleato Gantz: "Ora scelga tra sicurezza e politica”.
di Fiamma Nirenstein
Non è una crisi di nervi né uno scontro solo politico quello che all'una di notte ha scosso la riunione del gabinetto di guerra fino a che Netanyahu ha dovuto sospenderlo. È la crisi esistenziale che Israele deve attraversare dopo il disastro del 7 di ottobre. L'origine dello scontro è stato l'annuncio, durante la riunione di ieri, del capo di stato maggiore Herzi Halevi di una commissione di indagine sull'esercito che partisse dal fallimento di ottobre, non è chiaro se per invocare più durezza o più cautela.
La disputa si è accesa su due punti: il primo sull'opportunità di porre ora in discussione un esercito che sta combattendo, senza aspettare la fine della guerra. E il secondo riguarda l'operato di Shaul Mofaz, ex capo di stato maggiore, e del generale Aharon Zeevi Farkash, ex capo dell'intelligence dell'esercito. Quattro ministri si sono scagliati contro Mofaz: quelli della destra Ben Gvir e Betzalel Smotrich, e due membri del Likud, Miri Regev e David Amsalem. I quattro hanno ricordato che Mofaz tenne per lo sgombero di Gaza nel 2005, che Farkash ha sostenuto l'obiezione militare nello scontro sulla riforma giudiziaria. Punti poco legati al tema.
Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha cercato di bloccare i quattro, Netanyahu è stato costretto a chiudere la riunione dopo tre ore di urla udite anche fuori dalla stanza, con Benny Gantz, leader dell'opposizione entrato nel gabinetto di guerra dopo lo scoppio del conflitto, a chiedere a Bibi di scegliere «tra unità e sicurezza oppure la politica». Adesso, con il segretario di stato Usa Antony Blinken in arrivo, si tratta di affrontare la questione del «day after», oggetto della riunione fallita. Il ministro degli Affari strategici, Ron Dermer, e Gallant hanno il compito difficile di illustrare i punti in comune e le differenze con gli Usa. Si sa del piano di Yoav Gallant che Israele manterrà libertà di azione militare ma che non ci sarà presenza civile israeliana a Gaza dopo che gli obiettivi della guerra siano stati raggiunti. Una forza multinazionale di stati europei e arabi sosterrà la responsabilità della ricostruzione e della gestione assieme ai palestinesi, Stati Uniti, Israele ed Egitto contribuiranno a isolare il confine fra Gaza e L'Egitto. L'entità palestinese riformata e affiancata dalla forza multinazionale governerà coi meccanismi amministrativi esistenti dentro Gaza, basata su comitati locali. La forza multinazionale sorveglierà e aiuterà.
Che il piano sia o meno realizzabile è il terreno di incontro che si può concordare con Biden, un rilancio da Premio Nobel, fantasioso, volenteroso, di «due Stati per due popoli». Ma che i palestinesi di Abu Mazen (all'ospedale in queste ore), che fino a ora tengono per Hamas, diventino un partner, è possibile se abbandoneranno il loro sogno: vedere crescere la mezzaluna iraniana che come dimostra anche il discorso di Nasrallah, pensa di strangolare Israele circondandola di nemici. Per questo quando Ben Gvir dice che vuole rioccupare Gaza, prospettiva davvero poco attraente che non a caso fu rigettata da Sharon con lo sgombero nel 2005, ha un peso nell'opinione pubblica. Prima dell'aggressione del 7 ottobre Israele non conosceva una lezione che purtroppo ha poi dovuto imparare: quella dell'odio che non conosce confini. Su come gestire questa nuova consapevolezza in un Paese democratico è aperta una difficile discussione.
(il Giornale, 6 gennaio 2024)
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La prospettiva di rioccupare Gaza sembra a Fiamma Nirenstein "poco attraente" perché - dice - "non a caso fu rigettata da Sharon con lo sgombero nel 2005". Sembrerebbe dunque che Sharon abbia fatto bene a decidere la "deportazione" di ebrei dagli insediamenti di Gaza in Israele. Nel lontano agosto 2005, pochi giorni dopo la conclusione dell'infame "deportazione" promossa da Sharon, Fiamma Nirenstein esprimeva i suoi dubbi in un articolo su Panorama dal titolo "Gaza, Sharon ha fatto la mossa giusta?" Sembrerebbe che adesso arrivi la risposta: sì. Ma riportiamo di seguito l'articolo citato. M.C.
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Gaza, Sharon ha fatto la mossa giusta?
È una scelta israeliana o una vittoria dei terroristi palestinesi? Lo stato ebraico è ormai lacerato? Ed è davvero più sicuro? Cosa si prepara per i coloni disperati e gli arabi moderati? Risposte alle domande su una svolta storica.
di Fiamma Nirenstein
Nevet Dkalim, la più importante fra le cittadine della Striscia di Gaza: con gli occhiali sul naso pieno di lentiggini e la capigliatura rossa spettinata, i piedi ancorati su un tappeto d’erba, un ragazzino con il corpo come un arco punta la testa in avanti. A braccia tese spinge la pancia di un soldato alto e grosso che si appresta a entrare nella sua casa e gli urla: «Guardami negli occhi, tu vieni a distruggere la mia casa!». Ma il soldato non può starlo a sentire, anche se il viso è contratto, prossimo alle lacrime. Avanza con il suo reparto verso le case da sgomberare e, oltre al dolore di calpestare un’erba così verde, coltivata come per miracolo nella sabbia e adesso destinata a morire, sente lo strazio: deve cacciare famiglie che mai più vivranno nelle case costruite con le loro mani. Probabilmente quel soldato grande e grosso ha nella testa gli stessi drammatici interrogativi di tutto il mondo.
Per cominciare: perché il premier Ariel Sharon ha deciso di sgomberare Gaza senza ottenere in cambio neppure una promessa di pace e neppure un gesto dal leader palestinese Abu Mazen contro il terrorismo di Hamas? «Perché, perché?» ha seguitato a chiedere la gente impegnata a Gaza a resistere allo sgombero. Benny Elon, un membro del parlamento trasferitosi a Morag con i coloni, ricorda amaro: «Almeno quando abbiamo restituito il Sinai all’Egitto in cambio abbiamo ottenuto un trattato di pace che tiene dal 1979. Stavolta otterremo altri missili e attentati suicidi».
Ma l’intenzione di Sharon, spiega Eyaòl Gladi, aiutante del primo ministro per Gaza, davanti al caotico centro di Eshkol, all’entrata della Striscia, è chiara: da una parte evitare che il sionismo, ovvero il progetto degli ebrei di costruire il loro stato, si trasformi da sogno democratico in incubo a causa del quale devono dominare un altro popolo. A Gaza c’erano 8 mila coloni a fronte di quasi 1 milione e mezzo di palestinesi: una situazione ingestibile, a meno di non stabilire leggi che niente hanno a che fare con la democrazia.
Il secondo scopo è tentare, conferendo ad Abu Mazen un nuovo territorio, di responsabilizzare la leadership palestinese, sperando che combatta il terrorismo e democratizzi le proprie strutture. È un modo di partecipare alla grande scommessa per la libertà in Medio Oriente cui punta il presidente americano George W. Bush.
La seconda domanda è sulla reazione palestinese. Basta aprire i loro giornali: sono pieni di slogan vittoriosi. Una copertina del giornale di stato mostra da una parte un palestinese che sventola la bandiera, dall’altra un «settler» ebreo piangente. Ma hanno davvero vinto i palestinesi? La risposta è che la sofferenza di Israele per l’attacco terrorista durato quattro anni e mezzo ha certo avuto il suo effetto. Tuttavia, è Sharon che ha vinto la guerra del terrore, riducendo gli attentati del 90 per cento con l’operazione Scudo di difesa: 7 mila palestinesi in prigione, molti dei leader di Hamas e delle Brigate di al-Aqsa eliminati con assassinii mirati, migliaia di attacchi bloccati per la strada grazie alla struttura rinnovata di intelligence. E innalzando il recinto di sicurezza, quella barriera difensiva che molti chiamano polemicamente muro.
Ma, e qui viene la terza domanda, chi può garantire che i palestinesi si accorgano che il terrorismo è un fallimento strategico quando Hamas seguita a proclamare che continuerà la guerra fino a liberare Gerusalemme perché è con gli attentati che ha ottenuto la liberazione di Gaza? Può garantirlo solo il prevalere del premier Abu Mazen su Hamas: «E questo al momento appare difficile. Anzi, Abu Mazen per ora è al fianco di Hamas quando eccita la folla dicendo che il ritiro da Gaza è il primo passo verso Gerusalemme » sostiene l’analista palestinese Khaled Abu Toameh.
Dal versante arabo di Gaza aspetta di vedere se lo sgombero sarà inseguito dal fuoco palestinese che potrebbe fermare tutto. «Lo scontro fra Hamas e Abu Mazen al momento è sul merito dello sgombero. E per questo si seguita da ogni parte a lodare la lotta armata: questo non aiuta Abu Mazen».
A una quarta domanda, se Israele sarà più sicuro nei suoi confini, Yaacov Amidror, generale e consigliere di Sharon, è molto scettico: «È più facile immaginare che quando i palestinesi controlleranno il porto e l’aeroporto a Gaza entrerà ogni tipo di armi. Allora sarà più facile arrivare con i missili Kassam alle città dentro la linea verde, e ci troveremo accanto un piccolo Iran che giura che Israele sarà distrutta, visto che Hamas a Gaza è maggioritario ».
Quindi, ed ecco la quinta domanda, è immaginabile che Israele dopo questo sgombero prepari quello dalla Cisgiordania? Risposta realistica: Sharon proseguirà sulla linea demografica, ovvero cercherà di garantire che Israele rimanga uno stato a maggioranza ebraica, e della sicurezza. Proverà, anche se continuerà il terrorismo, a non abbandonare parte degli insediamenti più popolati.
Ma sul campo, mentre si trascinano via le persone che hanno abitato lì per trent’anni facendo da scudo umano al sud di Israele, la previsione è durissima. La riassume a «Panorama» il leader dei coloni Arieh Eldad di fronte al mare azzurro di Shirat ha Yam, la Canzone del mare, villaggio con il nome più dolce e la resistenza allo sgombero più dura: «Sharon fa qui la prova generale del ritorno al più disastroso fra i processi di pace, quello di Oslo, in cui volevamo dare tutto e ricevere la pace, invece abbiamo ricevuto la guerra terroristica che ancora ci tormenta».
Ma non è la differenza di opinioni, e qui è la sesta e più spinosa questione per Israele, la difficoltà che la società dovrà affrontare nelle prossime settimane e forse nei prossimi anni. Il nodo è la voragine che si è aperta all’interno di una piccola nazione, 6 milioni di persone in mezzo a 700 milioni di arabi di cui nemmeno un decimo ha accettato con un trattato la sua esistenza, che avrebbe bisogno dell’unità interna come dell’ossigeno. La risposta è nell’abbraccio disperato, nelle lacrime dei soldati e dei coloni durante lo sgombero. Al di là del grande scontro ideologico sulla sacralità della terra, c’è una sorte comune antichissima, un amore profondo che tocca tutto il popolo ebraico. Un senso di appartenenza che, anche se oggi viene messo da parte negli insulti a Sharon e ai soldati, non è morto in circostanze persino più fatali di questa. Un amore che ha conservato in vita nei millenni il popolo ebraico.
(Panorama, 25 agosto 2005)
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L'intenzione di Sharon era dunque "evitare che il sionismo, ovvero il progetto degli ebrei di costruire il loro stato, si trasformi da sogno democratico in incubo a causa del quale devono dominare un altro popolo". E così il "sogno democratico" si è trasformato nell'incubo di poter essere massacrati da un altro popolo che ha sogni molto diversi da quelli democratici. Il sogno democratico sarà forse l'ultimo ideale-idolo di Israele che sarà abbattuto: “Io sono l'Eterno, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di servitù. Non avere altri dèi di fronte a me". M.C.
Come mai Sharon, unanimemente considerato un uomo di destra, all’improvviso ha creato un partito suo, tutto nuovo (Kadima) che di destra aveva ben poco? Non sarà per caso che, per evitare accuse che lo avrebbero portato in tribunale, è pervenuto ad un accordo con i giudici?
Questa, anche se difficile da provare, è una indicazione che ho raccolto parlando con amici qui in Israele. Emanuel Segre Amar
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Il pericoloso delirio del capo di Hezbollah
Toni e attacchi sempre più pericolosi
di Maurizia De Groot Vos
Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, non sa decidere se entrare oppure no in guerra contro Israele, con il rischio più che concreto (in caso affermativo) non solo di essere spazzato via ma di coinvolgere tutto il Libano al quale non interessa niente di fare la guerra a Israele. Ieri Nasrallah è stato come sempre indecifrabile. Non ha inviato rappresentanti di Hezbollah al funerale del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, ucciso dagli israeliani, tuttavia non ha esitato a prendere ad esempio l’eliminazione di questo assassino come motivo per attaccare Israele. Nasrallah ha affermato che tutto il Libano sarebbe esposto a ulteriori attacchi israeliani se il gruppo non reagisse all’assassinio di Arouri a Beirut. «Non possiamo rimanere in silenzio su una violazione di questa portata perché significherebbe che l’intero Libano sarebbe esposto», ha affermato, aggiungendo che consentire a Israele di avere successo nelle sue operazioni a Gaza porterebbe l’IDF a pensare di poterlo fare anche in Libano. Questa mattina Hezbollah ha lanciato un pesante attacco missilistico contro Israele, il più importante dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas. 40 razzi e missili hanno colpito il territorio israeliano. La salva di razzi ha innescato l’allarme di razzi e droni in arrivo in 90 comunità nel nord di Israele, ma l’IDF ha affermato che è stata presa di mira solo l’area del Monte Meron. Poco dopo, le sirene sono state nuovamente attivate in 40 comunità nel nord di Israele. Molti altri proiettili sono stati lanciati da Hezbollah nelle aree di Metula e Margaliot al confine. L’esercito ha detto di aver colpito una cellula terroristica nel sud del Libano, responsabile di alcuni lanci di razzi. In una dichiarazione successiva, l’IDF ha affermato di aver effettuato attacchi aerei su una serie di siti Hezbollah in Libano in risposta agli attacchi nel nord di Israele. Secondo l’IDF, gli obiettivi ad Ayta ash-Shab, Yaroun e Ramyah includevano posizioni di lancio di razzi, siti militari e altre infrastrutture utilizzate dal gruppo terroristico. L’IDF dice che un drone ha colpito la cellula dietro l’attacco a Metula. Nel suo delirante discorso di ieri Nasrallah ha affermato che dall’8 di ottobre Hezbollah ha effettuato 670 operazioni al confine, distruggendo «un gran numero di veicoli e carri armati israeliani», nonché attrezzature tecniche e di raccolta di informazioni, «sfinendo Israele» sul fronte. «Nessun sito lungo il confine è stato risparmiato negli attacchi», ha detto, aggiungendo che sono state prese di mira 48 posizioni di confine israeliane e 11 basi posteriori. Ora, per noi che viviamo in paesi liberi le affermazioni di Narallah suonano come quello che sono in realtà, puro delirio. Tuttavia servono al capo di Hezbollah per calmare il fronte interno dei duri e puri che vorrebbero un maggior coinvolgimento di Hezbollah nella guerra contro Israele. Non si può negare tuttavia che il tono delle minacce del Partito di Dio cresce di giorno in giorno e che la pressione sul capo di Hezbollah affinché trascini il Libano in guerra sono sempre più forti. Resisterà Nasrallah alle pressioni di Teheran e a quelle del suo fronte interno? Lo vedremo solo nei prossimi giorni. Per ora anche Israele non va tanto per il sottile con le minacce. Nelle scorse ore il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha lanciato una sorta di ultimatum affermando che Hezbollah deve ritirarsi oltre il fiume Litani e che il tempo per una soluzione diplomatica sta per scadere.
(Rights Reporter, 6 gennaio 2024)
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La necessità di essere forti: intervista con Amir Avivi
In questi giorni in Israele, Emanuel Segre Amar ha incontrato per “L’Informale”, il Generale Amir Avivi, analista militare e fondatore di IDSF Habithonistim, un think thank che comprende più di ventimila ufficiali israeliani, comandanti, ex soldati dell’IDF ed ex funzionari del Mossad e dello Shin Bet.
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- Quello che è successo il 7 ottobre ha colto di sorpresa tutti e ha mostrato come Israele non fosse preparato per una eventualità di questo tipo. Fino a che punto quello che è accaduto era imprevedibile? Due anni fa abbiamo presentato al comitato per la Sicurezza Nazionale un rapporto molto approfondito di trecento pagine nel quale facevamo presente che Israele sarebbe entrato in guerra e che era necessario preparare l’esercito e mettere in allerta la società civile. L’intero apparato di sicurezza, per come la vedevamo noi, era collassato, non eravamo in grado di esercitare alcuna deterrenza. Facevamo presente che l’Iran e i suoi proxies si stavano preparando per la guerra e che avrebbero impiegato come risorse gli arabi locali, sia in Cisgiordania sia tra gli arabi israeliani. Facevamo presente che avrebbero scelto loro il momento e che quando sarebbe accaduto non lo avremmo saputo.
- Cosa le faceva fare una affermazione di questo tipo? Il fatto che nel tempo si è data molta più importanza alle risorse di intelligence tecnologica rispetto a quella umana. Sapevamo che i nostri nemici avevano raggiunto un livello di preparazione che gli dava la sensazione di potere sfidare Israele. A questo va aggiunto il fatto che negli ultimi anni gli Stati Uniti si sono progressivamente ritirati dal Medio Oriente consentendo alla Russia e alla Cina di diventare più dominanti. In seguito, le dinamiche della guerra in Ucraina hanno ulteriormente saldato l’asse sino-russo-iraniano con l’aggiunta della Corea del Nord. Questo asse è unito da una valutazione: l’Occidente è più forte militarmente ma ha una scarsa propensione a volere usare la forza militare, pensano solo a imporre delle sanzioni, e noi possiamo neutralizzarle. Abbiamo visto con chiarezza emergere in Medio Oriente un fronte russo-iraniano. A marzo siamo andati a Washington e abbiamo detto all’Amministrazione, al Congresso e al Senato, c’è un fronte, è emerso, dovete intervenire. Due settimane dopo la Cina è intervenuta come mediatrice tra l’Arabia Saudita e l’Iran. Questo episodio è stato una doccia fredda per gli Stati Uniti, e infatti, in seguito hanno accelerato perché si saldasse l’alleanza tra Israele e Arabia Saudita, cioè per determinare un’alleanza israelo-sunnita-americana. Questa alleanza non è soltanto un accordo come quelli di Abramo. La pace con l’Arabia Saudita significa estenderla all’Indonesia, alla Malesia, al Pakistan, all’Oman e quindi contrapporsi al fronte sino-russo-iraniano. Quando l’Iran ha visto che le cose si stavano muovendo velocemente in questa direzione ha deciso di intervenire, e il modo di farlo è stato quello di spingere Hamas ad attaccare Israele.
- Quindi il piano dell’Iran era di fare saltare questo accordo non quello di lanciare una guerra su larga scala contro Israele? Sì, lo scopo principale dell’Iran era quello di fare saltare l’accordo. Il loro ragionamento era, guardando alla società israeliana, estremamente divisa e lacerata, al modo in cui i media la rappresentavano, che nonostante l’entità dell’attacco essa non sarebbe stata in grado di rispondere con forza. Non pensavano che Israele avrebbe reagito come ha reagito, che sarebbe entrato a Gaza con questo impatto, che la società si sarebbe ricompattata come ha fatto. Mezzo milione di soldati si sono presentati per servire il paese e il governo ha stabilito obiettivi molto chiari per la guerra, la distruzione di Hamas sia come apparato militare sia come apparato di governo, portare a casa gli ostaggi e assicurarsi che quanto è accaduto il 7 ottobre non possa più ripetersi. Tradurre questi obiettivi in azione militare significa conquistare tutta Gaza, ed è quello che sta avvenendo fase dopo fase. Abbiamo preso il controllo della parte nord di Gaza e ora stiamo espandendo l’attacco al sud, a Khan Yunis, dove è localizzato il cuore del governo di Hamas, al contempo stiamo attaccando anche il centro di Gaza, e, all’occorrenza, ci spingeremo verso Rafah. Ci vorrà del tempo, ma alla fine Hamas verrà distrutto.
- E dopo? Da un punto di vista militare noi non possiamo assicurare gli israeliani che Hamas non si riprodurrà senza avere il controllo del confine egiziano. Tutto entra dal confine egiziano, è imperativo controllarlo. Non si tratta di controllarne solo una parte, va controllata tutta l’area e bisogna che l’IDF abbia una completa capacità operativa in tutta Gaza e in Cisgiordania. La cosa fondamentale è avere pieno controllo di quanto avviene all’interno della Striscia. Da un punto di vista civile, quando Hamas cadrà, l’unica entità che potrà controllare Gaza al principio è Israele, nessuno potrà assumersi la responsabilità per questo caos, e questo sarà un beneficio, soprattutto per coloro i quali, liberamente, vorranno emigrare, e personalmente ritengo che ci siano diverse centinaia di migliaia che desiderano farlo. Quando faremo saltare per aria tutti i tunnel, tutta Gaza collasserà. C’è una intera città sotterranea che dobbiamo distruggere. Successivamente si può ipotizzare un governo locale della città tramite clan e famiglie locali, e cosa accadrà nei tempi lunghi non lo so, ma una cosa so, che senza avere l’esercito all’interno e un controllo del confine con l’Egitto, torneremo alla casella di partenza.
- E il Libano? I cittadini israeliani non torneranno a vivere al nord senza che prima Hezbollah lasci il sud del Libano, e questo è un grosso problema. Come si fa a fare in modo che se ne vadano? Abbiamo tre opzioni. Finire la nostra missione a Gaza e spostare l’esercito a nord e continuare la guerra, e una guerra con Hezbollah non è come una guerra con Hamas, è una grande guerra, che implica una grande devastazione all’interno di Israele, perché Hezbollah lancerebbe missili e razzi ogni giorno. L’altra opzione è portare l’esercito al nord, minacciare la guerra ma, al contempo, chiedere alla comunità internazionale di intervenire e implementare la Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza la quale stabilisce che Hezbollah arretri al nord del fiume Litani. C’è una terza opzione, finire la guerra a Gaza, e prima di occuparci del Libano, ricostruire la coalizione che si stava formando prima del 7 ottobre in modo da affrontare la questione globale dell’Iran, degli Houti, di Hezbollah, delle milizie sciite in Iraq e in Siria, come coalizione, con molto più potere. Perché questo possa avvenire ci vuole la guida americana. Sicuramente, in vista delle elezioni, Biden vorrebbe questo accordo, in modo da esibire un risultato positivo. Dal punto di vista dell’Europa, se dovessimo andare in guerra contro Hezbollah, il che significa un probabile conflitto con l’Iran, ci sarebbe la destabilizzazione di tutto il Medio Oriente, è ciò avrebbe delle ripercussioni economiche a livello globale. Dunque una coalizione forte in funzione anti iraniana è anche nell’interesse dell’Europa. In questo senso dovrebbe incoraggiarla. Una coalizione forte di questo tipo che possa considerare realmente l’opzione militare sarebbe decisiva per la stabilità regionale. Solo un’opzione militare reale costituisce la deterrenza. L’Iran può essere tenuto a bada unicamente attraverso la minaccia della forza, perché è l’unica cosa che comprende. Quando gli Stati Uniti conquistarono l’Iraq, l’Iran fu molto impressionato, ma dal momento in cui gli Stati Uniti hanno iniziato il loro arretramento regionale, l’Iran si è imbaldanzito. Gli Stati Uniti sono obbligati a essere presenti in Medio Oriente come forza di stabilizzazione.
- Tuttavia l’Amministrazione Biden ha assunto con l’Iran una postura morbida. Ha cercato, prima della guerra in Ucraina di riaprire il canale dell’accordo nucleare, ha scongelato miliardi di dollari in suo favore, non sembra certo che si sia posta in posizione minacciosa, salvo, dopo il 7 ottobre dispiegare qui le sue portaerei. Quando abbiamo posto agli americani la questione della deterrenza in Medio Oriente, ci hanno risposto, che cosa volete da noi?, abbiamo il problema della Cina nel Pacifico, stiamo costruendo delle basi nelle Filippine, dobbiamo badare alla Russia in Ucraina, e adesso ci volete anche molto proattivi in Medio Oriente? La mia risposta è stata, sfidare frontalmente la Cina e la Russia non è la cosa migliore, l’anello debole è l’Iran, sfidate gli iraniani, siate forti con l’Iran, questo fungerà da deterrente per la Cina e per la Russia, perché se mostrerete che siete disposti a impiegare la vostra forza ovunque, la Cina e la Russia ne terranno conto. Togliamo dall’equazione l’Iran, stabilizziamo il Medio Oriente. Non si tratta di dichiarare guerra, si tratta di mostrare la volontà di farla, colpendo, dove necessario i loro proxies. Bisogna avere la disponibilità di mostrare il proprio potere. Se questo non avverrà, dovremo aspettare l’esito delle prossime elezioni e sperare per il meglio. Abbiamo bisogno di un presidente che sia disposto a usare la forza, che sia disposto a minacciarne l’uso. Senza che ciò accada il Medio Oriente non potrà che essere destabilizzato, con ripercussioni globali.
- Esiste una possibilità che Hezbollah attacchi dalla Giordania dove c’è la più lunga frontiera israeliana e dove non c’è difesa? Ci sono centomila miliziani iraniani in Iraq, ci sono anche due divisioni in Siria, e l’Iran sta incrementando le proprie forze nel sud del Golan sul confine giordano, quindi questa area che è vicino al confine giordano sta diventando molto problematica e Israele sta osservando la situazione con grande attenzione. L’Iran sta cercando di destabilizzare la Giordania. Va tenuto a mente che la Giordania è circondata dall’Iran, sulla frontiera irachena ci sono milizie iraniane, sulla frontiera siriana anche, all’interno della Giordania ci sono attualmente più di un milione e mezzo di rifugiati siriani che stanno cambiando la situazione nel paese. Quindi, certamente, dobbiamo prestare la massima attenzione su quello che sta accadendo lungo il confine giordano con la consapevolezza che in futuro potrebbe essere destabilizzato.
- Vorrei cambiare un attimo argomento. Attualmente Benny Gantz sembra avere rafforzato molto la sua posizione politica. Cosa ne pensa? Come sa non sono un commentatore politico, sono un generale, ma quello che posso dirle è che tutte le discussioni sulla politica interna israeliana al momento sono irrilevanti, perché penso che dopo la guerra e con le prossime elezioni, l’intero ecosistema politica cambierà. Il popolo israeliano è saturo di tutti questi partiti e di questi politici. Hanno fallito tutti, miseramente. Hanno condotto il paese al caos, e non mi riferisco a un politico in particolare, ma a tutto il sistema. Penso che la società israeliana voglia qualcosa di nuovo. Relativamente ai sondaggi attuali, ritengo che lascino il tempo che trovano e che dopo la guerra cambierà tutto. Se vogliamo realmente analizzare la responsabilità dei politici in merito a quello che è accaduto, non c’è nessuno di loro che non sia compromesso. Non sono stati in grado di preparare l’esercito, di organizzare le cose nel modo corretto, non si sono preparati per questa guerra.
- Di chi è la responsabilità, solo dei politici? No. È anche dell’esercito. L’intera leadership dell’esercito se ne deve andare. Hanno tutti fallito miseramente. Quasi tutti i generali, i colonnelli e i militari che erano consapevoli della situazione, che erano connessi con la realtà, sono stati messi da parte. Al loro posto sono stati promossi militari che condividevano il medesimo frame concettuale che ha portato al disastro del 7 ottobre. Si tratta di un fallimento enorme, molto più grande di quello dell’intelligence, l’intelligence non rappresenta neanche il maggiore fallimento, non si può dare la responsabilità di quanto è successo al Mossad e allo Shin Bet, non è loro il compito di raccogliere le informazioni all’interno di Gaza, ci sono questioni molto più grandi che dovranno essere discusse a guerra finita. L’intera cultura dell’esercito deve cambiare. I cambiamenti non possono essere fatti adesso, a guerra in corso, ci vuole tempo. La prima sostituzione che dovrà essere operata è quella del Capo di Stato Maggiore. I problemi attuali sono problemi vecchi, che risalgono ad almeno quindici, vent’anni fa. Il Capo di Stato Maggiore e il ministro della Difesa hanno preso delle decisioni devastanti negli ultimi vent’anni, le cui conseguenze sono in atto adesso. Dirò una cosa senza entrare troppo nel dettaglio, negli ultimi vent’anni si è imposta una tendenza che io e altri militari abbiamo fortemente contrastato senza successo, basata sul concetto che si possa vincere una guerra con l’aviazione e l’intelligence.
- Un’idea di Ehud Barak. Sì. Questa concezione inaugurata da Barak è stata sempre presente da allora, e ricordo che una volta quando mi trovai di fronte a tutta la leadership dell’esercito, quando Benny Gantz era Capo di Stato Maggiore dissi che la guerra è un evento fisico, e che quando comincia una guerra l’unica cosa che conta veramente è quante truppe hai, di quante munizioni disponi, di quanto gas e rifornimenti alimentari disponi, della tua capacità di muovere le truppe da una parte all’altra del territorio. Logistica. Non fa tendenza parlare del rifornimento di munizioni, fa più tendenza parale di tecnologia cyborg, ma se investi tutto nel cyborg e non hai le munizioni per combattere è un problema. Guardiamo alla guerra in corso, a chi interessa dei cyborg? Abbiamo a che vedere con le munizioni per i carri armati, con gli esplosivi, con i bulldozer. A qualsiasi comandante di unità ti rivolgi e gli chiedi cosa gli occorre, ti risponde, dammi i bulldozer, dammi più munizioni.
- Ritiene che il modo in cui la guerra è stata condotta fino ad ora sia adeguato? Sono meno preoccupato del modo in cui è gestita la guerra di quanto lo sia per ciò che avverrà dopo. È qualcosa su cui stiamo lavorando con il governo in modo approfondito. È il governo che deve fornire una prospettiva, l’esercito è molto tecnico. Quando parlo del futuro, desidero essere ottimista. Più decisiva sarà la vittoria, migliore sarà la prospettiva per il paese e per il popolo ebraico. Sarà una guerra dura, sarà una guerra lunga e forse dovrà implicare anche Hezbollah e l’Iran, ma una volta che ne usciremo vittoriosi ci sarà un accordo per la pace e si creeranno numerose opportunità di crescita e prosperità. Davanti a noi c’è un futuro luminoso ma prima dobbiamo vincere. La società dovrà modificare la propria pelle e basarsi su tre pilastri complementari. Uno deve essere quello di una maggiore coesione sociale basata sullo spirito di servizio nelle strutture di difesa. Essere come Sparta non ci impedirà di coltivare lo spirito di Atene, di apprezzare gli aspetti piacevoli e acculturanti della vita. Il secondo pilastro è quello di coltivare lo spirito patriottico e di essere legati alle proprie radici ebraiche. Il terzo è quello di unire la nostra superiorità militare al nostro sviluppo tecnologico in molteplici settori.
- Vivendo in Europa è difficile immaginare che in un vicino futuro essa possa avvicinarsi a questi valori nonostante i problemi che essa ha, in alcuni paesi in modo particolare, con l’estremismo islamico. Noi dobbiamo fornire un esempio, e credo che ci siano già paesi in Europa e altri ci saranno, che vedranno il nostro come un modello da seguire. Noi dobbiamo fare quello che è giusto per noi, l’Europa dovrà sapere gestire i suoi problemi. Le voglio raccontare una storia.
- Prego. Quando ero deputato del comando di divisione della Striscia di Gaza, ogni volta che c’erano dei gruppi in visita che mi chiedevano di dare loro spiegazioni su Gaza, all’epoca ero colonnello, dicevo loro che di base, dall’epoca dei Giudici non è cambiato nulla. C’erano popoli che da Gaza ci combattevano e noi rispondevamo, e questo per molteplici volte. Sono le stesse dinamiche descritte nella Bibbia, ma nel Libro dei Giudici, dopo un giudice, e dopo un altro ancora, alla fine c’è scritto, “e nella terra ci fu la quiete per quarant’anni”. Desidero pensare che per la nostra generazione riusciremo ad ottenere una vittoria che ci consentirà di replicare quello che viene descritto nel Libro dei Giudici. Qui, per potere avere la pace c’è solo un criterio, bisogna essere forti. Siamo costretti a essere una nazione forte.
(L'informale, 5 gennaio 2024 - trad. Niram Ferretti)
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Chi é l’unità fantasma israeliana che sta ridefinendo l’antiterrorismo dopo il 7 ottobre
Tecnologia avanzata, mortai precisi e droni stealth contraddistinguono l’Unità Multidimensionale antiterrorismo che ha perso il suo comandante, il tenente colonnello Roi Levy, nell’attacco di Hamas; nonostante ciò, continua a combattere e a registrare vittorie
Il 4 ottobre, il colonnello specializzato nell’antiterrorismo Roi Levy stava cenando in un ristorante del centro di Israele con i suoi amici dell’Unità Multidimensionale che aveva comandato per 4 mesi. Era solo un gruppo di ufficiali da combattimento, buoni amici, che si riunivano per mangiare un boccone, niente di strano. Una piccola pausa tra un addestramento e l’altro.
Mentre il pasto volgeva al termine, Roi disse ai suoi amici che aveva la sensazione che la guerra stesse per scoppiare. Aveva l’istinto di un ufficiale esperto, l’intuito di una volpe da battaglia. L’istinto di Roi era già stato segnato dai suoi periodi di combattimento a Gaza. Era stato ferito durante l’operazione Piombo Fuso nel 2008 e poi, nel 2014, era stato gravemente ferito mentre combatteva a Shijaiyah nell’operazione Protective Edge.
Nonostante la ferita e le scarse possibilità che i medici gli hanno dato durante i successivi interventi chirurgici fino all’autunno del 2014, Roi è tornato di nuovo in sé e di nuovo nell’esercito, come ufficiale combattente. Gli fu affidato il comando dell’unità d’élite Egoz e il prestigioso onore di accendere una fiaccola durante le celebrazioni ufficiali del Giorno dell’Indipendenza di Israele. Ha poi giurato che sarebbe stato il primo a tornare a combattere a Gaza nella prossima guerra.
Negli ultimi mesi, al comando dell’Unità fantasma – come è anche conosciuta l’Unità multidimensionale – era un po’ inquieto e ha preparato i suoi soldati al momento della verità. “Ci ha detto che, oltre a tutti i gadget, siamo soprattutto un’unità di combattimento d’élite che deve essere pronta per la guerra”, ci racconta un ufficiale che era con lui quella sera al ristorante – tre giorni prima della guerra, tre giorni prima che Roi fosse ucciso in battaglia.
“È stato il primo a precipitarsi in guerra. Mentre correva verso sud quel sabato mattina, chiamò tutta l’unità e ci disse di incontrarlo sul campo dopo che avessimo preso l’equipaggiamento dalla base”, aggiunge l’ufficiale. Mentre si dirigeva verso il Kibbutz Re’im, ha registrato un messaggio in cui ci diceva che era arrivato il momento, che questa è la guerra e che noi siamo lì”. Ha ucciso alcuni terroristi che ha incontrato nel kibbutz. Ma non è mai tornato dal kibbutz. Abbiamo continuato a combattere senza di lui, ma con il suo spirito”.
Nella sua registrazione, poche ore prima di essere ucciso, Roi disse: “È stato dichiarato lo Stato di preparazione alla guerra. Vi ricordate cosa dovete fare? I cambiamenti mentali che dovete fare? Quindi, questo è il momento. Recatevi tutti all’unità, prendete le armi, indossate i giubbotti antiproiettile e aspettate istruzioni. La gente sta combattendo per le proprie case. I terroristi si sono infiltrati nel Paese e si trovano nelle comunità del sud. Dobbiamo andare ad aiutarli il più velocemente possibile. Ci vediamo più tardi”.
• UN LABORATORIO DI BATTAGLIA
L’Unità Multidimensionale è stata fondata nel 2019 dall’ex capo di stato maggiore dell’IDF, il tenente generale Aviv Kochavi, per sviluppare tecniche di combattimento e metodi di lotta innovativi, nonché nuovi strumenti da utilizzare nel campo di battaglia del futuro – e portare questi strumenti in tutte le brigate e in tutte le divisioni. Si tratta di una versione in miniatura della 100esima divisione di addestramento dell’esercito americano: un “laboratorio di battaglia” che si occupa del campo di battaglia di domani, in modo che l’IDF non si ritrovi a combattere guerre come se fosse ieri.
L’unità costituisce una sezione trasversale di soldati provenienti da tutte le unità – fanteria, corpi corazzati e di ingegneria, e varie unità d’élite. Inizialmente, soldati e ufficiali hanno raccontato a Kochavi che, durante le esercitazioni, dispositivi tecnologici come droni e robot uccidevano la maggior parte delle forze nemiche e che le truppe di fanteria regolari, e persino i carri armati, avevano ben poco da fare per eliminare gli obiettivi.
Ancora oggi, alcuni ufficiali dell’esercito ritengono che investire così tanto in un’unità sperimentale sia inutile. Ritengono che le decine di milioni di shekel investiti in questa unità sarebbero stati meglio spesi per l’addestramento e l’equipaggiamento dei battaglioni di riserva.
Ma Kochavi ha insistito, e all’unità è stato dato un controllo quasi aperto per provare tutti i mezzi di guerra immaginabili. Tra questi, droni letali che attraversano tunnel o stanze all’interno di edifici, uccidendo essi stessi il nemico, robot e radar speciali per le forze di fanteria per individuare il nemico nascosto.
La maggior parte di questi sviluppi sono segreti e alcuni non sono mai stati utilizzati perché non hanno superato i test sul campo in cui l’unità li ha impiegati nelle operazioni ai confini del Paese. Le unità di terra hanno rinunciato a capacità non ancora realizzate. Tuttavia, gli strumenti che si sono dimostrati validi hanno portato grandi cambiamenti sul campo di battaglia.
• UNA BATTAGLIA MENTALE CONTRO HAMAS
Nel gennaio 2023, Kochavi ha annunciato che “la dimensione verticale è nelle nostre mani. Il Monte del Tempio è nelle nostre mani”. Per “verticale”, Kochavi intende lo spazio sopra la testa del terrorista. L’IDF ha sempre avuto droni, veicoli aerei senza pilota (UAV) e palloni di osservazione, ma non ha mai avuto capacità 3D continue e ravvicinate, unite a mezzi per individuare il nemico.
Le prime squadre “Sufa” (tempesta) dell’IDF sono state fondate da questa unità fantasma. Sono state poi distribuite ai battaglioni e a varie unità d’élite. Si trattava di piccole forze che lavoravano a fianco dei comandanti e che si occupavano del controllo del territorio verticale, del puntamento del fuoco, dell’osservazione continua, dell’identificazione immediata degli obiettivi dal campo, dell’istruzione degli elicotteri e dei jet da combattimento su dove attaccare e della gestione di stormi di droni che servivano a diversi scopi, tra cui l’esposizione, la localizzazione e l’attacco del nemico. Almeno 100 terroristi sono stati eliminati dall’Unità fantasma nel nord della Striscia di Gaza grazie a questi droni silenziosi che sfruttano appieno l’elemento sorpresa.
“Abbiamo creato un punto di rottura per il nemico, che sa che ce la farà per poco tempo e che in quel lasso di tempo lo localizzeremo, lo smaschereremo e lo elimineremo”, afferma il Maggiore (Res) R., comandante dell’unità. “D’altra parte, il nemico ci sta imparando e sta migliorando, e noi non lo sottovalutiamo nemmeno per un momento. Lo abbiamo visto dopo il cessate il fuoco che ci ha dato la possibilità di imparare. Hamas diffonde ciò che impara. La chiave per noi è operare in piccoli circuiti, bombardando il nemico con i mortai di precisione che abbiamo distribuito a varie unità dell’esercito”.
Ci siamo uniti alle attività dell’unità sul campo. Con colonne di fumo davanti a noi e spari incessanti tutt’intorno, l’Unità Fantasma ha preso posizione sul lato nascosto della collina, quello rivolto verso Israele. “Spostate la jeep. Siete su un percorso esposto ai missili anticarro”, dice un ufficiale all’ufficiale militare che ci ha portato. La loro routine quotidiana qui è completamente sotto copertura, anche se lanciano droni sviluppati da Elbit per andare a caccia dai cieli di Gaza.
L’unità è dislocata in tutta la Striscia di Gaza. Le squadre accompagnano le unità d’élite, mentre altre operano in modo più indipendente direttamente sotto le divisioni. L’attuale comandante dell’unità è il colonnello Dvir Hever, che era un amico personale di Roi.
“Anche all’interno della nostra unità, non avremmo mai potuto immaginare la capacità di armamento che abbiamo ora”, dice. “Siamo molto vicini ai terroristi. Usiamo anche metodi della vecchia scuola come granate e cecchini. Abbiamo raggiunto capacità belliche senza precedenti con attrezzature aeree in prossimità del terreno. In sei settimane di guerra, abbiamo completato la complessa integrazione e l’adattamento degli armamenti che di solito richiedono uno o due anni. Ora è in campo con il resto dell’esercito”.
“Non si tratta solo di strumenti e tecnologie, ma di metodi per localizzare le armi in territorio nemico, individuare i terroristi, scoprire i tunnel nascosti, abbattere i droni nemici e trovare i terroristi a diversi chilometri di distanza e colpirli. Nessun soldato chiede quando finiremo e torneremo a casa. Non c’è burn-out. Il 7 ottobre abbiamo perso degli amici della nostra unità, oltre a Roi, che ho incontrato per la prima volta sull’autobus che portava all’ufficio di reclutamento quando avevamo 18 anni. Siamo stati insieme durante il servizio regolare, l’addestramento degli ufficiali, l’Operazione Scudo Difensivo nel 2002 e a Piombo Fuso nel 2008, quando è stato ferito proprio accanto a me”.
Il colonnello Dvir concorda con i suoi uomini sulle speciali capacità del suo predecessore di prevedere il futuro. “C’era qualcosa di profetico in Roi negli ultimi mesi. Tutti i soldati raccontano di come li facesse impazzire per la preparazione alla guerra, di come scendesse nei dettagli e dicesse loro di non pensare tanto ai gadget, e di come loro siano principalmente soldati da combattimento. Il 7 ottobre hanno messo in pratica tutto ciò per cui li aveva preparati. Ora stiamo sfruttando ogni opportunità, entrando in azione ogni volta che il nemico si trova a Jabaliya. Potrebbe essere sottoterra. Potrebbe trattarsi di mettere insieme i pezzi degli ostaggi”.
(Israele 360°, 5 gennaio 2024)
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Il piano di Israele per il futuro della Striscia di Gaza
Israele non assumerà il controllo amministrativo della Striscia di Gaza al termine dell’operazione militare in corso, lanciata il 7 ottobre 2023 dopo l’attacco del movimento islamista palestinese Hamas nello Stato ebraico, e sarà creata una task force multinazionale composta da Stati Uniti, Europa e Paesi arabi moderati che si assuma la responsabilità della riabilitazione economica e infrastrutturale di Gaza. E’ quanto emerso dalle dichiarazioni del ministro della Difesa di Israele, Yoav Gallant, durante un’ispezione al confine con l’enclave palestinese. “Nella Striscia di Gaza vivono i palestinesi, quindi i responsabili (amministrativi) saranno palestinesi, a condizione che non siano ostili allo Stato di Israele”, ha aggiunto. Secondo un’indiscrezione pubblicata il 2 gennaio sull’emittente israeliana “Kan”, nel corso di una riunione a porte chiuse della commissione Esteri e sicurezza del parlamento, Gallant avrebbe dettagliato un piano in diversi punti per lo scenario post bellico. In particolare, dopo la guerra, “Hamas non deve rappresentare una minaccia alla sicurezza e non deve controllare Gaza, mentre Israele manterrà la capacità di operare nella Striscia senza limitazioni”. Nella prima fase, il controllo di Gaza sarà esercitato dai palestinesi non ostili a Israele e vi saranno “comitati locali”. Infine, per quanto riguarda il valico di Rafah – punto di transito tra l’Egitto e Gaza – “Israele ed Egitto condurranno un’operazione congiunta in collaborazione con gli Stati Uniti per garantire un efficace isolamento del confine tra Gaza e l’Egitto, avvalendosi della tecnologia e del controllo congiunto sull’ingresso delle merci”. In un editoriale del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, pubblicato oggi dal quotidiano, il capo dell’esecutivo scrive: “La pace poggia sui tre pilastri: distruzione, smilitarizzazione e deradicalizzazione”. “La vittoria totale sarà raggiunta quando Hamas sarà distrutto, gli ostaggi saranno rilasciati, Gaza sarà smilitarizzata e la società palestinese inizierà un processo di deradicalizzazione. Questi sono i tre prerequisiti per una possibile pace tra Israele e i suoi vicini palestinesi a Gaza”, aggiunge il premier. Netanyahu precisa che “la discussione sul ‘giorno dopo’ deve iniziare con il ‘giorno dopo Hamas’”. “Hamas, uno dei principali rappresentanti iraniani, deve essere distrutto. Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e molti altri Paesi sostengono l’intenzione di Israele di demolire il gruppo terroristico. Per raggiungere questo obiettivo, le capacità militari di Hamas devono essere smantellate, il suo dominio politico su Gaza deve finire e gli ostaggi devono essere rilasciati”, prosegue Netanyahu. Nell’editoriale, Netanyahu scrive: “In secondo luogo, Gaza deve essere smilitarizzata. Israele deve garantire che il territorio non venga mai più utilizzato come base per attaccarlo. Tra le altre cose, ciò richiederà la creazione di una zona di sicurezza temporanea sul perimetro di Gaza e di un meccanismo di ispezione al confine tra Gaza e l’Egitto che soddisfi le esigenze di sicurezza di Israele e impedisca il contrabbando di armi nel territorio”. Sul piano politico, per Netanyahu “l’aspettativa che l’Autorità palestinese smilitarizzi Gaza è un sogno irrealizzabile. L’Autorità palestinese attualmente finanzia e glorifica il terrorismo in Cisgiordania ed educa i bambini palestinesi a perseguire la distruzione di Israele. Non sorprende che non abbia mostrato né la capacità né la volontà di smilitarizzare Gaza. Non è riuscito a farlo prima che Hamas lo cacciasse dal territorio nel 2007, e non è riuscito a farlo nei territori oggi sotto il suo controllo. Nel prossimo futuro, Israele dovrà mantenere la massima responsabilità in materia di sicurezza su Gaza”. In terzo luogo, prosegue Netanyahu, “Gaza dovrà essere deradicalizzata. Le scuole devono insegnare ai bambini ad amare la vita piuttosto che la morte, e gli imam devono smettere di predicare l’assassinio degli ebrei”. “Una volta che Hamas sarà distrutto, Gaza sarà smilitarizzata e la società palestinese inizierà un processo di deradicalizzazione, Gaza potrà essere ricostruita e le prospettive di una pace più ampia in Medio Oriente diventeranno realtà”, conclude il primo ministro. Oggi le Forze di difesa d’Israele (Idf) hanno colpito più di 100 obiettivi attribuiti al movimento islamista palestinese Hamas nella Striscia di Gaza nell’ultimo giorno. Gli attacchi, effettuati dalle forze aeree, navali e terrestri, hanno colpito centri di comando di Hamas, postazioni di lancio, depositi di armi e altre infrastrutture. Ad Al Bureij, nel centro di Gaza, un aereo da caccia delle Idf ha attaccato un edificio dove si sarebbero recati alcuni membri di Hamas. A Khan Younis, nel sud della Striscia, i riservisti della Brigata Kiryati hanno trovato e distrutto dei lanciarazzi, uccidendo “molti” membri di Hamas durante diversi combattimenti nell’area. Almeno 22.600 persone sono state uccise nei Territori palestinesi dall’inizio dell’operazione militare israeliana in seguito all’attacco del movimento palestinese islamista Hamas nella Striscia di Gaza. Secondo l’ultimo resoconto del ministero della Salute di Gaza, nelle ultime 24 ore sono morte 162 persone, mentre i feriti sono 57.910 dall’inizio del conflitto.
(Nova News, 5 gennaio 2024)
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Le proposte per il futuro di Gaza
di Ugo Volli
• Una guerra asimmetrica
La logica della guerra asimmetrica è questa: le forze irregolari attaccano, colpiscono i regolari e poi si ritirano evitando la battaglia; se sono inseguite si nascondono e restano pronte a una nuova azione; se possono negoziano tregue che rompono appena lo ritengono conveniente; si rafforzano progressivamente con le adesioni che raccolgono con la loro azione; non perdono se non quando sono state completamente liquidate. Questa è la strategia applicata con successo da Mao in Cina e da Castro a Cuba, fallita invece con Che Guevara in Bolivia. È anche la lezione trasmessa ad Hamas e agli altri gruppi palestinisti dalle scuole sovietiche e cinesi. È una visione strategica applicata ancora in questa guerra con due differenze importanti: che gli attacchi dei palestinisti non mirano ad abbattere un governo ma a distruggere uno stato e a sterminarne la popolazione, quindi, vanno a colpire in maniera terroristica (e non guerrigliera) quasi solo la popolazione civile, fino alla mostruosa barbarie mostrata il 7 ottobre. E poi che il territorio in cui fuggire non è quello immenso della Cina o delle foreste del Sudamerica, ma una piccola regione fortemente urbanizzata, come la Giudea e Samaria e soprattutto Gaza, dove i terroristi hanno cercato di sostituire l’estensione con la profondità degli scavi fortificati e con l’appoggio mediatico e politico internazionale.
• Il criterio della vittoria
Ma la logica resta la stessa: è una guerra asimmetrica, in cui i gruppi terroristi dopo aver colpito cercano di fuggire e Israele vince solo se li liquida completamente e riprende il controllo del territorio. Perciò Hamas non ha neppure cercato di resistere frontalmente una volta alle forze armate israeliane, non ha mai attaccato battaglia, non ha mai tentato di riconquistare il territorio, ma ha continuato con la tattica degli agguati, del “mordi e fuggi”, degli spari a tradimento, dei missili sulla popolazione civile. Proprio per questa ragione non è molto importante, sul piano strategico, quel che accadrà di Gaza dopo la guerra; il problema di Israele è ottenere una chiara vittoria, liquidando il terrorismo e riprendendo il controllo del territorio abbandonato da Sharon.
• Le proposte per il dopoguerra
Ma i governi arabi, europei, americani si preoccupano soprattutto della governance di Gaza alla fine della guerra e Israele deve soddisfare queste richieste, anche se la guerra è ben lungi dall’essere finita. Vi sono al momento quattro ipotesi. Una è la continuazione a tempo indeterminato dell’occupazione militare della Striscia. Essa è stata scartata perché politicamente inaccettabile per gli interlocutori di Israele, senza interesse e anzi pericolosa per lo stato ebraico. Vi potranno essere dei luoghi in cui le truppe israeliane resteranno a lungo o per sempre, come il corridoio Filadelfia, e delle zone di terra di nessuno per evitare nuovi attacchi di sorpresa, vi sarà certamente un diritto di intervento securitario dentro la Striscia, che all’inizio sarà esercitato molto spesso; ma anche la soluzione di ricostruire gli insediamenti, proposta da qualche politico israeliano, non è realistica.
• Altri progetti
La seconda ipotesi scartata è quella di affidare l’amministrazione all’Autorità Palestinese, come hanno chiesto gli americani, o addirittura a un governo di unità nazionale fra Autorità Palestinese e Hamas, come ha proposto l’Egitto. Non vi è alcuna garanzia che una situazione del genere non faccia crescere di nuovo il terrorismo. Vi è poi la proposta il cui principale sostenitore è un illustre ex diplomatico e studioso del mondo arabo, Mordechai Kedar, di trovare un accordo con le tribù in cui è articolata la popolazione araba in generale, in particolare quella degli arabi che vivono nello spazio geopolitico israeliano e anche quella di Gaza, affidando loro l’amministrazione, ciascuno nel suo territorio tradizionale. La sua realizzabilità dipende da quanto sono disponibili i capi di questi gruppi a collaborare con Israele, e da quanto dopo gli eventi degli ultimi decenni e in particolare il sanguinoso governo di Hamas regga questa struttura tribale.
• Il piano di Gallant
Infine è uscita ieri una proposta preparata dal ministro della Difesa Gallant, che si articola in quattro punti: in generale i palestinesi gestiranno gli affari civili coadiuvati da una task force globale; si chiede agli Stati Uniti, all'Egitto e ai paesi arabi moderati di guidare la riabilitazione della Striscia. In primo luogo, Israele fornirà informazioni agli operatori civili a Gaza e sarà responsabile dell'ispezione di tutte le merci in arrivo nella Striscia. In secondo luogo, una task force multinazionale, guidata dagli Stati Uniti in collaborazione con le nazioni europee e arabe moderate, si assumerà la responsabilità della gestione degli affari civili e della riabilitazione economica della Striscia. In terzo luogo, l'Egitto, che è definito come un "attore importante" nel piano, si assumerà la responsabilità dei valichi di frontiera con la Striscia di Gaza, in coordinamento con Israele. In quarto luogo, i meccanismi amministrativi esistenti saranno mantenuti, a condizione che i funzionari non siano affiliati a Hamas. Le autorità locali che attualmente si occupano di acque reflue, elettricità, acqua e distribuzione di aiuti umanitari continueranno a operare, in collaborazione con la task force multinazionale. Come si vede, questo è un progetto di transizione, che non prevede la sistemazione definitiva della Striscia ma riguarda la fase del passaggio al dopoguerra, che certamente sarà lunga e complessa e inizierà fra parecchi mesi. Ma se la vittoria di Israele sarà stata chiara, se cioè la situazione internazionale permetterà di proseguire la caccia ai terroristi e la distruzione delle fortificazioni fino alla completa liquidazione del gruppo terrorista, è probabile che la collaborazione richiesta in particolare agli stati arabi possa arrivare e che tutta la situazione del Medio Oriente evolva verso la stabilità.
(Shalom, 5 gennaio 2024)
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Antiterrorismo in Israele dopo il 7 ottobre: l’unità fantasma
Tecnologia avanzata, armi di precisione e droni stealth contraddistinguono l'Unità Multidimensionale che ha perso il suo comandante, il Ten. Col. Roi Levy, nell'attacco di Hamas; nonostante ciò, continua a combattere e a ottenere vittorie
di Paola P. Goldberger
Il 4 ottobre, il colonnello Roi Levy stava mangiando in un ristorante del centro di Israele con i suoi amici dell’Unità Multidimensionale che aveva comandato per 4 mesi. Era solo un gruppo di ufficiali da combattimento, buoni amici, che si riunivano per mangiare un boccone, niente di strano. Una piccola pausa tra un addestramento e l’altro.
Mentre il pasto volgeva al termine, Roi disse ai suoi amici che aveva la sensazione che la guerra stesse per scoppiare. Aveva l’istinto di un ufficiale esperto, l’intuito di una volpe da battaglia. L’istinto di Roi era già stato segnato dai suoi periodi di combattimento a Gaza. È stato ferito durante l’Operazione Piombo Fuso nel 2008 e poi, nel 2014, è stato gravemente ferito mentre combatteva a Shijaiyah nell’Operazione Protective Edge.
Nonostante la ferita e le scarse possibilità che i medici gli hanno dato durante i successivi interventi chirurgici fino all’autunno del 2014, Roi è tornato di nuovo in sé e di nuovo nell’esercito, come ufficiale combattente. Gli fu affidato il comando dell’unità d’élite Egoz e il prestigioso onore di accendere una fiaccola durante le celebrazioni ufficiali del Giorno dell’Indipendenza di Israele. Ha poi giurato che sarebbe stato il primo a tornare a combattere a Gaza nella prossima guerra.
Negli ultimi mesi, al comando dell’Unità fantasma – come è anche conosciuta l’Unità multidimensionale – era un po’ inquieto e ha preparato i suoi soldati al momento della verità. “Ci ha detto che, oltre a tutti i gadget, siamo soprattutto un’unità di combattimento d’élite che deve essere pronta per la guerra”, ci racconta un ufficiale che era con lui quella sera al ristorante, tre giorni prima della guerra, tre giorni prima che Roi fosse ucciso in battaglia.
“È stato il primo a precipitarsi in guerra. Mentre correva verso sud quel sabato mattina, chiamò tutta l’unità e ci disse di incontrarlo sul campo dopo che avessimo preso l’equipaggiamento dalla base”, aggiunge l’ufficiale. Mentre si dirigeva verso il Kibbutz Re’im, ha registrato un messaggio in cui ci diceva che era arrivato il momento, che questa è la guerra e che noi siamo lì”. Ha ucciso alcuni terroristi che ha incontrato nel kibbutz. Ma non è mai tornato dal kibbutz. Abbiamo continuato a combattere senza di lui, ma con il suo spirito”.
Nella sua registrazione, poche ore prima di essere ucciso, Roi disse: “È stato dichiarato lo Stato di preparazione alla guerra. Vi ricordate cosa dovete fare? I cambiamenti mentali che dovete fare? Quindi, questo è il momento. Recatevi tutti all’unità, prendete le armi, indossate i giubbotti antiproiettile e aspettate istruzioni. La gente sta combattendo per le proprie case. I terroristi si sono infiltrati nel Paese e si trovano nelle comunità del sud. Dobbiamo andare ad aiutarli il più velocemente possibile. Ci vediamo più tardi”.
• Un laboratorio di guerra
L’Unità Multidimensionale è stata fondata nel 2019 dall’ex capo di stato maggiore dell’IDF, il tenente generale Aviv Kochavi, per sviluppare tecniche di combattimento e metodi di lotta innovativi, nonché nuovi strumenti da utilizzare nel campo di battaglia del futuro – e portare questi strumenti in tutte le brigate e in tutte le divisioni. Si tratta di una versione in miniatura della 100esima divisione di addestramento dell’esercito americano: un “laboratorio di battaglia” che si occupa del campo di battaglia di domani, in modo che l’IDF non si ritrovi a combattere guerre come se fosse ieri.
L’unità costituisce una sezione trasversale di soldati provenienti da tutte le unità – fanteria, corpi corazzati e di ingegneria, e varie unità d’élite. Inizialmente, soldati e ufficiali hanno raccontato a Kochavi che, durante le esercitazioni, dispositivi tecnologici come droni e robot uccidevano la maggior parte delle forze nemiche e che le truppe di fanteria regolari, e persino i carri armati, avevano ben poco da fare per eliminare gli obiettivi.
Ancora oggi, alcuni ufficiali dell’esercito ritengono che investire così tanto in un’unità sperimentale sia inutile. Ritengono che le decine di milioni di shekel investiti in questa unità sarebbero stati meglio spesi per l’addestramento e l’equipaggiamento dei battaglioni di riserva.
Ma Kochavi ha insistito, e all’unità è stato dato un controllo quasi aperto per provare tutti i mezzi di guerra immaginabili. Tra questi, droni letali che attraversano tunnel o stanze all’interno di edifici, uccidendo essi stessi il nemico, robot e radar speciali per le forze di fanteria per individuare il nemico nascosto.
La maggior parte di questi sviluppi sono segreti e alcuni non sono mai stati utilizzati perché non hanno superato i test sul campo in cui l’unità li ha impiegati nelle operazioni ai confini del Paese. Le unità di terra hanno rinunciato a capacità non ancora realizzate. Tuttavia, gli strumenti che si sono dimostrati validi hanno portato grandi cambiamenti sul campo di battaglia.
• Una battaglia mentale contro Hamas
Nel gennaio 2023, Kochavi ha annunciato che “la dimensione verticale è nelle nostre mani. Il Monte del Tempio è nelle nostre mani”. Per “verticale”, Kochavi intende lo spazio sopra la testa del terrorista. L’IDF ha sempre avuto droni, veicoli aerei senza pilota (UAV) e palloni di osservazione, ma non ha mai avuto capacità tridimensionali continue e ravvicinate, abbinate a mezzi per individuare il nemico.
Le prime squadre “Sufa” (tempesta) dell’IDF sono state fondate da questa unità fantasma. Sono state poi distribuite ai battaglioni e a varie unità d’élite. Si trattava di piccole forze che lavoravano a fianco dei comandanti e che si occupavano del controllo del territorio verticale, del puntamento del fuoco, dell’osservazione continua, dell’identificazione immediata degli obiettivi dal campo, dell’istruzione degli elicotteri e dei jet da combattimento su dove attaccare e della gestione di stormi di droni che servivano a diversi scopi, tra cui l’esposizione, la localizzazione e l’attacco del nemico. Almeno 100 terroristi sono stati eliminati dall’Unità fantasma nel nord della Striscia di Gaza grazie a questi droni silenziosi che sfruttano appieno l’elemento sorpresa.
“Abbiamo creato un punto di rottura per il nemico, che sa che ce la farà per poco tempo e che in quel lasso di tempo lo localizzeremo, lo smaschereremo e lo elimineremo”, afferma il Maggiore (Res) R., comandante dell’unità. “D’altra parte, il nemico ci sta imparando e sta migliorando, e noi non lo sottovalutiamo nemmeno per un momento. Lo abbiamo visto dopo il cessate il fuoco che ci ha dato la possibilità di imparare. Hamas diffonde ciò che impara. La chiave per noi è operare in piccoli circuiti, bombardando il nemico con i mortai di precisione che abbiamo distribuito a varie unità dell’esercito”.
Ci siamo uniti alle attività dell’unità sul campo. Con colonne di fumo davanti a noi e spari incessanti tutt’intorno, l’Unità Fantasma ha preso posizione sul lato nascosto della collina, quello rivolto verso Israele. “Spostate la jeep. Siete su un percorso esposto ai missili anticarro”, dice un ufficiale all’ufficiale militare che ci ha portato. La loro routine quotidiana qui è completamente sotto copertura, anche se lanciano droni sviluppati da Elbit per andare a caccia dai cieli di Gaza.
L’unità è dislocata in tutta la Striscia di Gaza. Le squadre accompagnano le unità d’élite, mentre altre operano in modo più indipendente direttamente sotto le divisioni. L’attuale comandante dell’unità è il colonnello Dvir Hever, che era un amico personale di Roi.
“Anche all’interno della nostra unità, non avremmo mai potuto immaginare la capacità di armamento che abbiamo ora”, dice. “Siamo molto vicini ai terroristi. Usiamo anche metodi della vecchia scuola come granate e cecchini. Abbiamo raggiunto capacità belliche senza precedenti con attrezzature aeree in prossimità del terreno. In sei settimane di guerra, abbiamo completato la complessa integrazione e l’adattamento degli armamenti che di solito richiedono uno o due anni. Ora è in campo con il resto dell’esercito”.
“Non si tratta solo di strumenti e tecnologie, ma di metodi per localizzare le armi in territorio nemico, individuare i terroristi, scoprire i tunnel nascosti, abbattere i droni nemici e trovare i terroristi a diversi chilometri di distanza e colpirli. Nessun soldato chiede quando finiremo e torneremo a casa. Non c’è burn-out. Il 7 ottobre abbiamo perso degli amici della nostra unità, oltre a Roi, che ho incontrato per la prima volta sull’autobus che portava all’ufficio di reclutamento quando avevamo 18 anni. Siamo stati insieme durante il servizio regolare, l’addestramento degli ufficiali, l’Operazione Scudo Difensivo nel 2002 e a Piombo Fuso nel 2008, quando è stato ferito proprio accanto a me”.
Il colonnello Dvir concorda con i suoi uomini sulle speciali capacità del suo predecessore di prevedere il futuro. “C’era qualcosa di profetico in Roi negli ultimi mesi. Tutti i soldati raccontano di come li facesse impazzire per la preparazione alla guerra, di come scendesse nei dettagli e dicesse loro di non pensare tanto ai gadget, e di come loro siano principalmente soldati da combattimento. Il 7 ottobre hanno messo in pratica tutto ciò per cui li aveva preparati. Ora stiamo sfruttando ogni opportunità, entrando in azione ogni volta che il nemico si trova a Jabaliya. Potrebbe essere sottoterra. Potrebbe trattarsi di mettere insieme i pezzi degli ostaggi”.
(Rights Reporter, 5 gennaio 2024)
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Parashà di Shemòt: qual è la differenza tra la lingua della Torà e le altre lingue?
di Donato Grosser
Il secondo libro della Torà si chiama Shemòt che significa “nomi” e che inizia con queste parole: “E questi sono i nomi dei figli d’Israele venuti in Egitto...” (Shemòt, 1:1).
R. Gedalià Schorr (Polonia, 1910-1979, Brooklyn) in una derashà trascritta in Or Gedalyahu (pp. 1-4), disse che tutta la parashà tratta l’argomento dei nomi. Inizia con i nomi delle tribù e continua con il nome di Moshè [che gli diede la figlia del faraone] e con il nome del Santo Benedetto. R. Schorr cita un midràsh (Bemidbàr Rabbà, 19:3) nel quale è detto: «Qual era la saggezza di Adam? Quando il Santo Benedetto volle creare l'uomo, consultò gli angeli che Lo servivano e disse loro: "Facciamo l'uomo a nostra immagine"(Bereshìt, 1: 20), essi dissero: “Chi è mai l’uomo che di lui ti sovvenisti?” (Salmi 8:5). Egli disse: l’uomo che voglio creare è più saggio di voi. Cosa fece [Iddio]? Raccolse tutti gli animali, domestici e selvatici, e i volatili e li fece passare davanti a loro. Dio chiese loro: quali sono i nomi di questi? Essi non lo sapevano. Dopo aver creato l’uomo li fece passare davanti a lui. Gli chiese: quali sono i nomi di questi? [L’uomo] rispose: a questo è appropriato il nome shor (toro), a questo arì (leone) a questo sus (cavallo) a questo chamòr (asino), a questo gamàl (cammello) e a questo nèsher (aquila). Così infatti è detto [nella Torà]: "E l'uomo diede i nomi a tutti gli animali..."(Bereshìt, 2:20). E [Dio| chiese [all’uomo]: E quale è il tuo nome? Egli rispose: Adam, perché sono stato creato dalla adamà (terra). Il Santo Benedetto gli chiese: ed Io, qual è il Mio Nome? Egli rispose: A-donai. E perché? Perché sei il Signore (Adòn) di tutte le creature. Così infatti è scritto: “Io sono il Signore, tale è il mio nome; e io non darò la mia gloria ad un altro, né la lode che m’appartiene, agli idoli” (Isaia, 42:8). Questo è il nome con il quale mi ha chiamato Adam». R. Schorr chiede: quale grande saggezza era necessaria perché Adam sapesse chiamare tutte le creature per nome e per la quale il Signore si vantò con gli angeli? Tutti i saggi delle varie nazioni, nazione per nazione con la loro lingua, hanno dato nomi alle creature. Qual è quindi la grande saggezza? Da qui impariamo che i nomi che diede Adam non erano dei semplici nomi convenzionali. Adam capì il segreto (sod) di ogni creatura, e quindi conosceva la base della vitalità (chayùt) di ogni creatura e la sua essenza (mahùt). Il nome che diede ad ogni creatura corrispondeva alla sua realtà (metziùt). Questa era la saggezza di Adam. Perché ogni nome corrisponde all’essenza (mahùt) e alla forza (koach) della creatura. Dalle parole dei Maestri all’inizio del trattato Pesachìm (2a), impariamo che il nome rappresenta l’essenza e la funzione della creatura. Sul versetto “Dio chiamò la luce, giorno...” (Bereshit, 1:5), i Maestri dissero: Dio chiamò la luce e le comandò di eseguire la mitzvà del giorno, e Dio chiamò l'oscurità e le comandò di eseguire la mitzvà della notte. “Chiamò” in questo contesto, non connota l'assegnazione di un nome, ma che Egli incaricò il giorno e la notte di svolgere le loro caratteristiche funzioni. Alla base di tutto questo è il fatto che la lingua della Torà (leshon ha-kodesh) è diversa da tutte le altre lingue. Tutte le altre lingue sono convenzionali e i nomi non rappresentano la loro essenza. Nella lingua della Torà invece i nomi rappresentano l’essenza di ogni cosa. Infatti quando si vuole dire che una cosa è stata distrutta si dice: Il suo nome è distrutto (avàd shemò). E questo perché il nome ne rappresenta l’essenza.
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Parashà della settimana: Shemot (Nomi)
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Israele, ecco il documento del 2022 che rivelava tutti i dettagli dei piani di Hamas per il 7 ottobre
Dall’utilizzo di moto e jeep all’organizzazione dei rapimenti, nel report di 27 pagine presentato da Channel 12 tutti i dettagli di quello che un anno dopo sarebbe diventato il Sabato Nero e che, come altri segnali d’allarme, è stato ignorato,
di Rossella Tercatin
Un anno prima del 7 ottobre, l’intelligence militare israeliana disponeva di tutte le informazioni circa i piani di Hamas per un attacco senza precedenti. A rivelarlo, giovedì sera, il programma d’inchiesta giornalistica Uvda (“Il fatto”) condotto da Ilana Dayan su Canale 12. In un documento classificato presentato da Dayan erano descritti i dettagli che si sono poi concretizzati nell’assalto. Ventisette dolorosissime pagine basate su informazioni accurate provenienti da intelligence raccolta nella stessa Gaza, redatte nell’ottobre 2022 e distribuite a tutti i vertici del corpo militare noto come “Aman”. Pagine che come molti altri segnali d’allarme lanciati a vari livelli e in vari corpi militari sono state completamente ignorate.
“Quella di un raid è la principale minaccia attribuita ad Hamas e include l'infiltrazione in territorio israeliano, con l'obiettivo di colpire le forze dell'Idf o i civili, con particolare enfasi sui rapimenti,” recita il sommario del documento, in cui poi si spiegano le diverse fasi della temuta operazione, a partire dalle tecniche per trarre in inganno il nemico.
Secondo il rapporto, Hamas si preparava a fare breccia nei vari livelli della barriera difensiva al confine tra Gaza e Israele per poi dare l’assalto agli obiettivi militari sul confine, bloccando la loro capacità di raccogliere e trasmettere informazioni per rispondere all’attacco. Passi successivi descritti includono la neutralizzazione delle squadre di pronto intervento di villaggi e cittadine e la penetrazione nella profondità del territorio israeliano per condurre un’azione volta a uccidere e distruggere il più possibile, utilizzando come mezzi di trasporto jeep e motociclette – ciò che poi è effettivamente avvenuto il 7 ottobre.
Nel documento si profilava come circa 2400 combattenti di unità scelte divisi in 24 compagnie fossero stati selezionati come i più adatti a condurre l’operazione, nominando addirittura i capi di ciascuna compagnia. A pagina 11 poi, si spiega l’intenzione da parte di Hamas di assegnare ad alcuni combattenti la missione di condurre rapimenti, così come di assicurarsi la presenza di addetti a documentare in tempo reale l’azione per ottenerne la massima pubblicizzazione – a provare che l’aspetto della comunicazione, uno dei dettagli del massacro che hanno scioccato Israele e il mondo per la marcata volontà di ostentare violenza e efferatezza, era stato ampiamente pianificato.
Nel documento stesso, gli autori ammettono di non essere certi se lo scenario descritto rappresenti un’esercitazione volta a un’azione reale, propaganda volta ad alimentare il proprio potere oppure un’ipotesi puramente “concettuale”. Ciò che è certo che esattamente un anno dopo, il piano è stato portato a termine parola per parola, con oltre 1200 persone uccise e migliaia ferite – oltre ai 250 cittadini israeliani e stranieri presi in ostaggio. E lasciando un Paese traumatizzato a domandarsi come i propri sistemi di difesa ed esercito – considerati tra i migliori del mondo – abbiano potuto rivelarsi così vulnerabili.
Dal 7 ottobre, sono emersi diversi elementi che hanno suggerito come l’attacco e le tragedie che ne sono conseguite avrebbero potuto essere previste – ma questo documento in particolare non solo mostra quanto il piano di Hamas fosse conosciuto nel dettaglio, ma anche come i vertici militari avrebbero dovuto esserne consapevoli.
Proprio nelle stesse ore in cui andava in onda la trasmissione, il Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi ha annunciato l’apertura di una commissione di inchiesta composta da ex alti ufficiali per esaminare i fallimenti operativi dell’Idf che hanno condotto al 7 ottobre per correre ai ripari per il futuro. Soprattutto in vista di un possibile tentativo di realizzare un attacco simile a Nord da parte di Hezbollah.
(la Repubblica, 5 gennaio 2024)
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«Abbiamo cominciato a correre, i terroristi ci inseguivano»
«Questa strage passerà alla storia. E io sto realizzando solo ora di averla vissuta in prima persona». La testimonianza inedita di Sagi Gabay, sopravvissuto alla strage del Nova Festival
di David Zebuloni
TEL AVIV - Sagi Gabay è un caro amico. Ci siamo conosciuti tra i banchi dell'Università negli anni del Master e da allora non ci siamo mai persi di vista. Io ho cominciato a lavorare come giornalista, lui come portavoce di uno dei parlamentari di spicco della Knesset. Proprio una settimana prima della strage di Hamas in Israele, ci eravamo incontrati a Rishon LeZion, città in cui abita Sagi, per bere un caffè insieme, confrontarci professionalmente e, come sempre, per parlare del più e del meno. Questa volta, tuttavia, l'avevo trovato diverso dal solito. «Sono stufo della politica e della Knesset, sono stufo dell'aria che tira in Israele, ho bisogno di prendermi una boccata d'aria, vorrei farmi un anno fuori, lavorare forse a Londra, Berlino o Milano», mi aveva confessato, chiedendomi se conoscessi qualche opportunità lavorativa nella città in cui sono nato e cresciuto. Ci eravamo salutati con la promessa di rincontrarci presto, e la mia promessa di aiutarlo a evadere per un anno dalla Knesset.
La sera del 7 ottobre, quando l'attacco di Hamas era ancora in corso e l'incertezza regnava sovrana, Sagi aveva pubblicato un post su Instagram. "Sono vivo per miracolo, sono a casa, grazie a chi ha pregato per me", aveva scritto. Era appena finito Shabbat, avevo appena acceso il cellulare e non avevo ancora chiara la situazione. "Cosa ti è successo?", gli ho scritto immediatamente. Lui mi ha raccontato di essere sopravvissuto al Nova Festival a Reim, dove 260 ragazzi e ragazze sono stati assassinati brutalmente. Mi ha anche detto di essere ancora scosso e mi ha invitato a chiamarlo l'indomani. La conversazione che segue è un estratto della dolorosa chiamata realizzata con Sagi.
«Alle 6.30 ero con degli amici nel parcheggio fuori dalla festa, eravamo usciti un attimo a bere. Guardando il cielo, ho pensato che quella fosse una delle albe più belle che io avessi mai visto. Poi ho visto delle strani luci illuminare il cielo - ricorda Sagi. - Per un attimo non ho capito, poi ho capito: erano decine di missili che venivano intercettati sopra le nostre teste. Abbiamo immediatamente realizzato che la festa era finita e intuito che all'uscita ci sarebbe stato del caos. Ancora non immaginavamo che potesse accadere ciò che poi è accaduto, ma l'atmosfera era davvero sinistra. Abbiamo dunque deciso di andare via, di non rientrare più. Io ero in macchina, avevo una brutta sensazione, volevo solo volare via di lì. Osservando le guardie di sicurezza all'uscita, mi sono reso conto che non avessero idea di cosa fare. Erano smarriti come me».
Prende una piccola pausa, poi continua. «Ho guidato per mezzo minuto, finché non ho visto una folla correre nella direzione opposta alla mia, per ripararsi ai lati della strada. Ho fermato la macchina e mi sono unito a loro. Poi, qualche istante dopo, mentre ero sdraiato per terra insieme agli altri, ho realizzato che stavo sbagliando, che non aveva senso ciò che stavo facendo. Sono dunque tornato in macchina, nel tentativo di allontanarmi quanto più possibile. Le mie intuizioni erano giuste. Ho scoperto successivamente che un terrorista aveva lanciato una granata proprio dov'ero nascosto io. Cinquanta ragazzi sono rimasti uccisi. Se fossi rimasto lì, quella sarebbe stata la mia fine. Ma intanto ero tornato in macchina. Ho guidato nella direzione opposta al flusso della folla per 500 metri, fino a quando mi sono imbattuto in una barriera di macchine: erano altri ragazzi che, come me, cercavano di scappare. Non credevo ai miei occhi. Il passaggio era bloccato, intorno a me decine di ragazzi sanguinanti zoppicavano verso ignota destinazione. Sono sceso di nuovo dalla macchina e ho cominciato a correre. Prima per la strada e poi nei campi. Sentivo gli spari, le urla, le esplosioni».
Sagi sembra rivivere quegli attimi. «Eravamo circa in 400 a correre: letteralmente, un esodo. Abbiamo camminato e corso per circa 20 chilometri. Mi ero preso una brutta storta, solo dopo ho scoperto di essermi slogato la caviglia. L'adrenalina era a mille, i terroristi ci inseguivano. Il telefono non smetteva di squillare: famigliari e amici cercavano di contattarmi, volevano sapere come stessi, se fossi vivo, eppure non mi sono mai sentito così solo in vita mia - confessa. - Dopo circa tre ore abbiamo visto per la prima volta dei veicoli israeliani. Venivano a dirci che stavamo marciando nella direzione giusta, che dovevamo continuare a camminare e che loro stavano andando a soccorrere chi era rimasto indietro. Dopo quattro ore siamo arrivati a destinazione: una piccola cittadina, dove ci hanno accolto con dell'acqua e del cibo. Ci sentivamo profughi di guerra. Dopo un’ora, quando ancora eravamo tesi e confusi, ma cominciavamo a capire l'entità della strage scampata, siamo saliti su un autobus per Beer Sheva. Da lì, direttamente a casa».
Un attimo prima di concludere la telefonata, domando a Sagi se tornerà ad essere la persona che era prima della tragedia. Il ragazzo sorridente che ho conosciuto anni prima all'Università. Se riuscirà a guarire dalle cicatrici visibili e invisibili.
«Non lo so -, risponde lui con un filo di voce. - Questa è una strage che passerà alla storia e io sto realizzando solo ora di averla vissuta in prima persona. Tutto il Paese parla di noi, sembra conoscere ogni dettaglio di ciò che è accaduto, e io non ci sto capendo ancora nulla. Devo elaborare il lutto, la perdita dei miei amici rimasti lì, uccisi o dispersi. Per ora sono solo felice del miracolo di essere ancora vivo».
(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, novembre 2023)
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Il pericolo di Hezbollah
di Ugo Volli
• Nessuna reazione all’attacco di Beirut
Dopo l’eliminazione del numero due della direzione politica di Hamas, che non a caso si trova tutta all’estero, fra Qatar, Turchia e Libano, c’era attesa per le reazioni di Hezbollah, dato che l’esecuzione ha avuto luogo nella sua più importante roccaforte, il quartiere meridionale di Beirut, Dahieh, sulla superstrada che dal centro della città porta all’aeroporto, e ha eliminato suoi ospiti e alleati. Ma Israele, pur senza ammettere di essere responsabile dell’attacco, ha comunque negato che Hezbollah fosse l’obiettivo. Come ha detto Netanyahu "Chiunque sia stato, deve essere chiaro che questo non è stato un attacco allo Stato libanese. Non è stato un attacco nemmeno a Hezbollah. È stato un attacco chirurgico contro la leadership di Hamas. Chiunque sia stato, ha un problema con Hamas”. Da allora è passata una giornata e mezza, un tempo molto lungo per la politica mediorientale, e nulla di particolare è accaduto. Il Libano ha fatto un reclamo all’Onu, il leader di Hezbollah, Nasrallah, nel suo atteso discorso ha detto che si è trattato di un attacco alla sovranità del suo stato, ma non ha annunciato la guerra totale né ha ordinato il lancio di missili contro le città israeliane, che sarebbe il segnale dell’escalation. Gli scambi a fuoco lungo la frontiera sono continuati come di consueto, con qualche attacco particolarmente incisivo in cui l’esercito israeliano ha eliminato anche alcuni terroristi che avevano partecipato ai tiri contro il territorio dello stato ebraico. Ormai circa 150 miliziani dell’organizzazione terroristica sciita hanno già perso la vita in questa guerra a bassa intensità. C’è stato un grande attentato in Iran che ha provocato 170 morti fra i partecipanti alla cerimonia per il quarto anniversario della morte del generale Soleimani, ma Israele con l’appoggio degli Usa ha smentito con forza le accuse iraniane di esservi coinvolto. Fare esplodere bombe in mezzo alla folla non è del resto assolutamente un sistema usato da Israele.
• Le ragioni giuridiche di Israele
Ma bisogna essere chiari. Se l’operazione di Beirut era un’esecuzione mirata, parte del programma di eliminare tutti i capi di Hamas collettivamente responsabili del massacro del 7 ottobre, e dunque non riguardava direttamente Hezbollah, ciò non significa che Israele non abbia intenzione di fare i conti con la minaccia che incombe dal Libano, possibilmente dopo aver risolto i problemi più gravi a Gaza. Anzi, è chiaro che la tranquillità non potrà essere ristabilita al confine settentrionale se la potenza militare di Hezbollah non sarà stata ridimensionata e se le sue forze non saranno allontanate dalla frontiera. Vi è per questo innanzitutto una ragione giuridica. La fine della guerra del Libano nel 2006 fu sancita dalla risoluzione 1701 delle Nazioni Unite che compensava il ritiro delle forze israeliane che erano arrivate a occupare in profondità il territorio libanese con il disarmo di Hezbollah e il suo ritiro dietro il fiume Litani, il quale scorre per la parte finale a una quindicina di chilometri dal confine.
• Dopo il 2006
I terroristi dovevano essere sostituiti e disarmati dall’esercito regolare libanese e dalle forze di interposizione dell’Onu (missione Unifil). Ma sia l’Unifil che l’esercito libanese (ormai fortemente infiltrato da Hezbollah) non furono capaci di disarmare i terroristi o non vollero farlo; anzi la missione dell’Onu subì nel corso del tempo alcune pesanti umiliazioni da parte di Hezbollah senza reagire: militari catturati e addirittura uccisi, armi e materiali sequestrati. Questi episodi fra l’altro confermano la fondamentale sfiducia di Israele nei caschi blu dell’Onu, che in questo caso come in diversi altri (per esempio fra Israele e Egitto prima della guerra del Kippur) si sono dimostrati inutili e imbelli. Oggi Israele esige innanzitutto il rispetto dei termini della pace del 2006. Uno degli errori della “concezione” che dominava i vertici politici e militari di Israele prima del 7 ottobre è stato quello deciso alla fine del 2022 dal primo ministro Lapid su pressioni americane senza nemmeno l’approvazione parlamentare, di cedere una notevole estensione del mare territoriale di Israele al Libano con l’illusione di rabbonire Hezbollah che minacciava la guerra. Ora il Libano ha acquistato un fondale prezioso per il gas che contiene e Israele ha avuto comunque la guerra con Hezbollah. Il movimento terrorista ha anzi avuto conferma della sua convinzione di poter minacciare impunemente Israele ed è diventato più aggressivo.
• Un altro 7 ottobre?
La minaccia terrorista del confine libanese, tuttavia, non è solo un problema legale e non è affatto solo una guerra d’attrito, un fastidio minore. Hezbollah rappresenta ancora una minaccia considerevole per Israele. Il movimento terrorista sciita ha recentemente spostato notevoli forze dalla Siria nel Libano meridionale, tra cui 1.500 membri della sua unità d’élite Radwan. La missione principale di questa unità è quella di infiltrarsi rapidamente nel nord di Israele, prendere il controllo delle comunità e rapire ostaggi, in modo simile agli attacchi di Hamas del 7 ottobre. L’unità Radwan ha acquisito una notevole esperienza combattendo nella guerra civile siriana ed è considerata più preparata e la più disciplinata di Hamas. È per predisporre la sua azione che Hezbollah ha fatto scavare diversi tunnel sotto il confine (alcuni dei quali sono stati scoperti un paio d’anni fa, chiusi e perfino fatti visitare a giornalisti e diplomatici internazionali). Hezbollah ha spesso minacciato l’invasione della Galilea, sostenendo di poter arrivare facilmente fino a Haifa. Tuttavia, ora è evidente che il 7 ottobre ha tolto l’elemento sorpresa a questo progetto. Vi sono ora forze schierate fra il Golan e la Galilea ben capaci di affrontare la minaccia di Radwan. Di conseguenza, Hezbollah ha rivisto i suoi piani e i discorsi di Nasrallah vantano solo di aver costretto decine di migliaia di israeliani a evacuare le loro comunità nell’Alta Galilea. Ma la minaccia Radwan non è affatto sparita, potrebbe attuarsi in qualunque momento futuro in cui l’esercito israeliano non fosse più pronto schierato in quella zona. Ed essa si collega con la presenza di una enorme forza missilistica (si parla di 100 o addirittura 200 mila missili, quando Hamas ne ha sparato in questa guerra non più di 15 mila) che in parte è anche caratterizzata da una gittata capace di arrivare in tutto il territorio israeliano e fornita di guide di precisione che le permetterebbero di colpire gli obiettivi più delicati. Insomma, Israele non potrà essere tranquillo e non avrà vinto davvero questa guerra se non riuscirà a disarmare Hezbollah.
(Shalom, 4 gennaio 2024)
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Il blitz misterioso: spariti tutti i documenti di Hamas. Cosa è successo in Libano
Secondo quanto riferiscono i media libanesi Hezbollah avrebbe avvertito Saleh al-Arouri, numero due di Hamas ucciso il 2 gennaio, del fatto che Israele fosse sulle sue tracce
di Federico Giuliani
Saleh al-Arouri, ucciso il 2 gennaio a Beirut, in Libano, in seguito ad un raid non rivendicato effettuato presumibilmente da un drone, sapeva di essere nel mirino di Israele. Il numero due di Hamas era sulla lista nera del Mossad, insieme a tutti gli altri leader del gruppo filo palestinese nascosti all’estero o nei tunnel della Striscia di Gaza. Pare, tuttavia, che l’uomo sapesse di essere particolarmente ricercato grazie ad una soffiata di Hezbollah, che lo avrebbe avvertito del fatto che gli israeliani fossero sulle sue tracce. In attesa di ulteriori dettagli in merito al raid chirurgico avvenuto sul territorio libanese, l’uccisione di Arouri, considerato l’anello di congiunzione tra Hamas, l'Iran ed Hezbollah, rappresenta un duro colpo sferrato contro l’organizzazione che Tel Aviv intende neutralizzare.
• L’AVVERTIMENTO DI HEZBOLLAH L’indiscrezione più interessante relativa all’assassinio di Arouri è arrivata dal quotidiano libanese Al-Akhbar, secondo cui la vittima, prima di essere uccisa, sarebbe stata allertata da Hezbollah. Secondo il giornale, prima dell'attacco, i sistemi radar avevano rilevato la presenza di aerei da combattimento al largo del Libano e di droni nelle vicinanze di Beirut.
Stando sempre alla stessa fonte, i dirigenti della formazione sciita libanese starebbero adesso cercando di scoprire come sia stato possibile per Israele individuare dove si trovasse l'esponente di Hamas, ritenuto tra i responsabili dell'attacco del 7 ottobre. Sebbene non vi sia fin qui stata alcuna risposta ufficiale da parte del governo israeliano sulla morte del funzionario di Hamas, Mark Regev, consigliere di Benjamin Netanyahu, ha detto che Israele non si assume la responsabilità di questo attacco. Ma, ha aggiunto, “chiunque sia stato, deve essere chiaro: questo non è stato un attacco allo Stato libanese”.
Le indagini in Libano finora non sono riuscite a determinare se Arouri sia stato ucciso da un dispositivo aereo senza pilota o da un aereo da caccia. I funzionari presenti sulla scena hanno detto ai media locali che i missili lanciati erano potenti ma relativamente piccoli e non del tipo che avrebbe potuto causare il crollo di un edificio.
• L’UFFICIO COLPITO IN LIBANO Per quanto riguarda l'ufficio attaccato, quell’edificio era una vecchia struttura appartenente ad Hezbollah che era sotto sorveglianza. In seguito al massacro del 7 ottobre, quegli uffici erano stati evacuati e rioccupati per la prima volta poche ore prima del recente attacco. Dopo l'esplosione, ha aggiunto ancora Al-Akhbar, elementi non meglio affiliati ad alcuna organizzazione "hanno ripulito l'area" prima che arrivassero i servizi segreti dell'esercito libanese.
"I documenti di Hamas conservati negli uffici sono stati rimossi", ha riferito Al-Akhbar, mentre fonti citate dal giornale hanno affermato che Israele non mirava a provocare uno scontro con Hezbollah, ma piuttosto a mettere in imbarazzo l'organizzazione dal momento che "qualsiasi risposta all'assassinio provocherà il coinvolgimento del Libano nella guerra, mentre la mancanza di risposta da parte di Hezbollah porterà ad accuse contro l'organizzazione terroristica per mancanza di sostegno all'asse della resistenza".
La tensione in Libano resta altissima. Il ministro degli Esteri libanese Abdallah Bou Habib ha spiegato alla Cnn che sta cercando di convincere Hezbollah a evitare di spingere il Paese in guerra con Israele, anche se ha ammesso che Beirut ha poco controllo sulla potente milizia sciita. "Non è che possiamo ordinar loro (di fare qualcosa): non lo stiamo dicendo ma possiamo convincerli e penso che stia funzionando", ha detto il ministro parlando da Washington. Hezbollah ha intanto annunciato la morte di quattro suoi miliziani nel sud del Libano. Complessivamente sono 129 i membri del gruppo rimasti uccisi nel corso degli scontri con Israele negli ultimi tre mesi. Fonti vicine al movimento filo-iraniano libanese hanno riferito ad Afp che i quattro combattenti sono stati uccisi nella notte tra ieri e oggi nella località frontaliera di Naqoura. Tra loro figura il responsabile locale del movimento.
(il Giornale, 4 gennaio 2024)
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“#NOVA”: il documentario con video originali sul massacro del 7 ottobre al Festival di musica
di Pietro Baragiola
Il regista israeliano Dan Pe’er ha utilizzato i filmati ripresi da alcuni dei 3000 partecipanti del festival Supernova e dai terroristi di Hamas per creare #NOVA, il documentario sul massacro del 7 ottobre. Un montaggio composto unicamente da testimonianze prese in tempo reale per raccontare minuto per minuto i tragici eventi dello “Shabbat nero” in cui 367 partecipanti del festival musicale sono stati assassinati brutalmente e 40 sono stati rapiti e portati a Gaza. “Il mio obiettivo è che questo documentario venga visto da ogni persona di età superiore ai 18 anni” ha dichiarato Pe’er. “Perché chiunque lo vedrà non avrà più alcun dubbio sulle atrocità commesse da Hamas”.
#NOVA è andato in onda in anteprima mondiale sul canale israeliano Yes il 6 dicembre (in occasione dei due mesi dall’attacco al festival).
Pe’er ha concepito l’idea del documentario durante le prime due settimane del conflitto in cui, come volontario, aveva il compito di scaricare le foto e i video dai diversi social media per ricreare i profili di ogni singola persona scomparsa e identificarla.
“Erano migliaia le persone disperse, il governo non funzionava e c’era caos ovunque” ha affermato Pe’er, raccontando come passava intere giornate sull’app Telegram dove si susseguivano i dettagli dell’attacco. “Per due settimane questi video sono diventati l’unica cosa che vedevo costantemente. Erano entrati nella mia mente e nella mia anima”.
La brutalità e il terrore di queste immagini lo hanno tenuto sveglio per diverse notti finché una sera il regista ha sognato minuto per minuto quello che sarebbe diventato il suo film. Dopo essersi svegliato si è messo subito al lavoro per realizzare il progetto, coinvolgendo persino cinque suoi amici (volontari nel conflitto, come lui) e trasformando il salotto di casa in una vera sala di produzione cinematografica.
Ci sono voluti cinque giorni prima che Pe’er e il suo team si rendessero conto che l’impresa era troppo grande per essere portata a termine in tempi brevi da un gruppo così piccolo: bisognava raccogliere centinaia di liberatorie, non solo quelle dei sopravvissuti ma anche delle numerose famiglie che ogni giorno scoprivano chi era stato rapito e chi ucciso. “Era imperativo che il mondo vedesse il nostro film il prima possibile e per questo motivo ci siamo rivolti al canale Yes. Non appena i responsabili di produzione hanno visto il materiale che avevamo raccolto non hanno esitato un solo istante a darci il loro supporto”.
“Tutti avevamo già guardato alcuni clip di questa tragica giornata, ma vederli montati in un’unica sequenza temporale lineare ha dato vita ad una narrazione davvero potente che permette agli spettatori di vivere da vicino il terrore di quelle ore” ha affermato Sharon Levi, amministratore delegato di Yes.
Anche con il sostegno del canale israeliano, portare a termine il documentario ha richiesto un grande sforzo emotivo da parte dei suoi creatori. Persino la psicologa di Pe’er ha pensato che il regista fosse pazzo a rivivere di sua spontanea volontà gli orrori osservati durante il suo volontariato. “Le ho detto che non avevo scelta. Sono una specie di soldato ed era mio compito raccontare questa storia. La mia anima è rimasta inevitabilmente ferita ma ne è valsa la pena” ha spiegato Pe’er, orgoglioso del risultato ottenuto.
In soli 52 minuti #NOVA copre un arco temporale di 19 ore a partire dalla sera di venerdì 6 ottobre, quando i partecipanti si preparavano per andare al festival musical, fino al pomeriggio del giorno dopo, quando il primo soldato israeliano è arrivato nella location devastata del rave.
“Ogni singolo minuto di questa linea temporale è stato verificato e ogni fonte è stata scelta perché rientrava, rigorosamente, nello scorrere del tempo che cercavo di ricomporre: i primi razzi (6:22), l’attacco dei terroristi (6:59) e l’arrivo del soldato israeliano (14:00)” ha spiegato Pe’er.
Il documentario inizia mostrando i partecipanti del festival mentre si scambiano messaggi su cosa indossare e portare con sé per l’evento. Subito dopo si entra nel vivo del party Supernova dove i 3000 giovani ballano felici al ritmo della musica suonata da DJ scatenati.
Questo tono goliardico però cambia completamente quando, alle 6:22, i primi razzi sorvolano il cielo di Israele. “Sono terrorizzato, sono totalmente fatto” dice un giovane mentre riprende il volo dei missili che sfrecciano da Gaza.
“La festa è finita!” annuncia uno degli organizzatori al megafono, avvertendo la folla che ha solamente 15 secondi per trovare un riparo o sdraiarsi a terra al suono della sirena.
Da questo momento in avanti le riprese oscillano tra partecipanti che fuggono verso i campi con i cellulari in mano, altri che chiudono gli occhi e pregano mentre i proiettili dei terroristi fischiano vicino alle loro teste e altri ancora che si nascondono per filmare sé stessi e dire addio ai propri cari.
Ovunque echeggiano le urla di terrore di chi, scappando, ha riconosciuto i propri amici tra i corpi stesi a terra o i cadaveri seduti nelle auto crivellate di colpi.
Alcuni partecipanti non si sono neanche accorti di avere la telecamera del telefono accesa, ma queste riprese terrificanti e quasi accidentali hanno reso possibile il film. “Molti di loro sentivano che questi erano i loro ultimi momenti e volevano documentarli” ha spiegato Pe’er. “Sono la generazione dei TikTok e sono abituati a filmarsi ovunque, sia nei momenti di festa che di tragedia”.
Il regista ha ammesso che anche i video ripresi dai terroristi di Hamas con le loro GoPro sono stati indispensabili per creare il contrasto tra chi celebrava la vita e chi l’omicidio. “Volevo che nel film si vedesse a pieno questa dicotomia: il popolo della luce e il popolo dell’oscurità” ha affermato Pe’er. “La danza e gli RPG”.
Nonostante questi filmati siano ricchi di terrore, il regista ha volutamente evitato di includere immagini di morti e feriti per non rischiare di allontanare gli spettatori dalla visione del film e per onorare il ricordo delle vittime.
Gli unici corpi che si intravedono, seppure oscurati, sono quelli che, verso la fine del documentario, vengono trovati dal primo soldato israeliano mentre si fa strada tra le macerie del festival, urlando: “C’è qualcuno? Qualcuno rimasto vivo? Qualsiasi segno di vita?” finché la voce non gli si spezza dal dolore.
Prima dei titoli di coda e dell’omaggio finale alle vittime, Pe’er ha concluso il documentario con una sorta di flashback in cui vengono mostrati i partecipanti che hanno perso la vita mentre ballano insieme un’ultima volta. “Volevo che il mondo sapesse che questi erano ragazzi che amavano la vita e che credevano nella pace e volevo che gli spettatori li ricordassero ancora con i volti sorridenti” ha concluso il regista. “La loro luce che trionfa sulle tenebre di Hamas”.
(Bet Magazine Mosaico, 3 gennaio 2024)
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Gli archeologi identificano le vittime di Hamas
Quindici specialisti dell’Israel Antiquities Authority sono impegnati nei kibbutz massacrati il 7 ottobre per il riconoscimento dei corpi e l’individuazione delle tracce delle persone rapite.
di Karen Chernick
Non mancherebbe il lavoro nelle aree di scavo per l’Israel Antiquities Authority (Iaa), un’autorità governativa indipendente responsabile dello scavo, della conservazione e dello studio delle reliquie millenarie della regione. Tuttavia, nelle ultime settimane, un team di 15 archeologi dell’Iaa è stato impegnato in un compito molto diverso: aiutare a identificare le vittime dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, durante il quale circa 1.200 israeliani sono stati uccisi e circa 240 presi in ostaggio. È la prima volta che l’Iaa scava in un sito «contemporaneo»: «I metodi archeologici impiegati nei siti antichi sono simili a quelli applicati in questo caso, ha dichiarato un portavoce dell’Iaa. Ma una cosa sono i resti di 2mila anni fa, un’altra, straziante, è ricercare tracce delle nostre sorelle e dei nostri fratelli». Il lavoro iniziale è stato svolto dai volontari di Zaka, un’organizzazione non governativa di ricerca e salvataggio che assiste i servizi di emergenza dopo attacchi terroristici e altri casi di morte violenta. L’identificazione è stata particolarmente difficile per le vittime del 7 ottobre, i cui corpi sono stati mutilati e inceneriti. Circa due settimane dopo l’attacco, il colonnello delle Forze di Difesa Israeliane (Idf) Yossi Cohen ha chiesto assistenza all’Iaa. «Quello che facciamo, in realtà, è intervenire nella fase finale, quando lo Zaka non è più in grado di trovare elementi significativi, spiega Shai Halevi, fotografo dell’Iaa abitualmente impegnato nella produzione di immagini tridimensionali e che dal 2010 fotografa i Rotoli del Mar Morto. Utilizziamo metodi archeologici per esaminare gli strati di distruzione, setacciare le case e rimuovere tutti gli strati rilevanti, filtrare e identificare componenti umani come frammenti di ossa e oggetti come orecchini. Attraverso questi risultati siamo in grado di rispondere agli interrogativi sulle persone scomparse». Gli archeologi hanno utilizzato tecniche differenti rispetto al normale lavoro sul campo, come la suddivisione degli spazi in griglie, il posizionamento della cenere, delle macerie e delle ossa di ogni quadrante in sacchi separati e il vaglio del contenuto attraverso un setaccio. In alcuni casi, gli archeologi hanno raccolto dai familiari dettagli che potessero aiutare l’identificazione, come ad esempio se gli scomparsi avessero protesi o dispositivi medici impiantati. «Abbiamo visto cose che nessuno dovrebbe mai vedere», ha dichiarato a «The Economist» Moshe Ajami, archeologo biblico e vicedirettore dell’Iaa. Gli archeologi sperano di contribuire anche a far capire chi è stato assassinato e chi preso in ostaggio. «È un sentimento duplice: vuoi davvero trovare qualcosa o non vuoi? In un caso significa certificare la morte di una persona, nell’altro tutti restiamo nel limbo del non sapere...», ha detto l’archeologo Joe Uziel alla Reuters. E a volte i resti delle vittime sono mescolati a quelli dei terroristi. Inizialmente, gli archeologi si sono concentrati sull’ultima posizione nota di ogni persona. Con l’avanzare dei lavori, il team ha iniziato a esaminare tutte le case e le auto bruciate nell’attacco del 7 ottobre. A oggi, l’Iaa ha esaminato i kibbutz Be’eri, Nir Oz, Kissufim, Alumim e Kfar Aza e circa 20 comunità devastate, oltre al parcheggio vicino al kibbutz Re’im contenente le auto bruciate del Supernova Music Festival, dove sono state uccise più di 360 persone. Durante le ricerche, a volte in presenza delle famiglie delle vittime, gli archeologi abituati a maneggiare le prove di un’anonima vita antica si trovano di fronte a un presente molto tangibile. Per molti è difficile conoscere i dettagli delle persone che cercano. «Ogni volta che c’è stato un briefing e ci è stato detto che saremmo entrati nella casa di una tale persona, non ho ascoltato, dice Halevi. Non voglio associare nomi reali alle prove che trovo. Potrebbe essere un uomo o una donna, io non voglio saperlo». Oltre alle difficoltà emotive del loro lavoro, questi archeologi hanno svolto la loro attività anche sotto la minaccia dei missili. All’inizio c’erano svariati attacchi al giorno, riferisce Halevi, e il numero è lentamente diminuito. «Abbiamo rifugi mobili sul campo e ambienti protetti, che non servono durante gli attacchi terroristici ma aiutano durante quelli missilistici, dice Halevi. Se invece stiamo lavorando all’aperto, ci sdraiamo a terra. Ci sono stati giorni in cui abbiamo lavorato con giubbotti antiproiettile ed elmetti». Ma restano da identificare centinaia di vittime. «La nostra speranza è di poter contribuire all’identificazione certa per il maggior numero di famiglie possibile, ha dichiarato Eli Escusido, direttore dell’Iaa. È un onore e una grande responsabilità, che i nostri archeologi stanno portando avanti con grande rispetto».
(Il Giornale dell'Arte, 4 gennaio 2024)
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Il Mossad ai leader di Hamas: Vi elimineremo tutti
Cita David Ben Gurion il capo del Mossad, David Barnea, per avvertire che tutti i terroristi coinvolti nelle stragi del 7 ottobre hanno il destino segnato. Lo fa a 24 ore dall’eliminazione a Beirut del vicecapo di Hamas, Saleh al-Arouri. “Ogni madre araba sappia che se suo figlio ha preso parte al massacro, ha firmato la sua stessa condanna a morte”, ha affermato Barnea. Una parafrasi di un discorso di Ben Gurion del 1963 in cui l’allora premier disse: “Che ogni madre ebrea sappia di aver affidato il destino dei suoi figli a comandanti degni di questo nome”. Barnea ha pronunciato il suo avvertimento nel corso dei funerali di Zvi Zamir, leggendario direttore del Mossad tra il 1968 e il 1974. Fu Zamir a coordinare l’operazione “Collera di Dio” diretta a eliminare tutti i terroristi palestinesi coinvolti nell’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972. E fu sotto la sua guida che nel 1974 a Beirut e Sidone le forze di sicurezza israeliane colpirono alcuni membri di spicco dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, implicati nell’attacco in Germania. “Anche oggi, mentre siamo nel pieno di una guerra, il Mossad, come 50 anni fa, è obbligato a regolare i conti con gli assassini del 7 ottobre”, ha proseguito Barnea, richiamando le missioni condotte da Zamir. “Ci vorrà tempo, come ce n’è voluto dopo il massacro di Monaco, – ha concluso – ma il nostro lungo braccio li raggiungerà in qualsiasi luogo si trovino”.
Le parole di Barnea suonano come un’assunzione di responsabilità rispetto all’eliminazione di al-Arouri, seppur Israele, come da prassi, non ha confermato la paternità dell’operazione. Ora l’attesa è per la reazione di Hezbollah. Il gruppo terroristico libanese è tra i protettori e sostenitori di Hamas. L’area in cui al-Arouri viveva era sotto il suo controllo e la sua uccisione è un evidente smacco. Ed Hezbollah, dal 7 ottobre coinvolta in attacchi contro Israele, ha promesso di vendicarsi. Secondo diversi media israeliani, la rappresaglia non sarà però immediata, al di là del lancio di alcuni missili dal sud del Libano. Bisognerà sentire le parole di Hassan Narsallah, capo di Hezbollah, per avere un quadro più chiaro delle prossime settimane.
Della situazione a Beirut ha parlato anche il presidente francese Emmanuel Macron in un colloquio avuto oggi con il ministro israeliano Benny Gantz, parte del gabinetto di guerra di Gerusalemme. “È essenziale evitare qualsiasi escalation, in particolare in Libano”, ha dichiarato Macron, Nella conversazione il presidente francese ha inoltre condannato “le dichiarazioni relative al trasferimento forzato dei residenti di Gaza”, da parte di alcuni esponenti di estrema destra del governo. Per Macron sono proposte “inaccettabili che contraddicono la soluzione dei due Stati, l’unica praticabile per il ritorno alla pace e alla sicurezza per tutti”.
Intanto l’attenzione internazionale si è spostata in queste ore sull’Iran. Nel giorno in cui il regime intendeva commemorare uno dei suoi uomini, Qasem Soleimani, il generale delle Guardie rivoluzionarie eliminato dagli Usa nel 2020, una doppia esplosione ha interrotto la manifestazione. Secondo i media locali, oltre 100 persone sono rimaste uccise in quello che è stato definito un attacco terroristico, compiuto vicino alla tomba del generale.
(moked, 3 gennaio 2024)
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A chi conviene realmente che non nasca uno Stato palestinese
di David Elber3 Gennaio 2024
Per prima cosa è bene ribadire che se ancora non esiste uno Stato palestinese, questo è dovuto al fatto che il mondo musulmano non accetta la presenza di uno Stato nazionale del popolo ebraico in nessuna parte di territorio – anche la più piccola – di Eretz Israel. Ne consegue che perché esso possa nascere, Israele deve scomparire. In attesa che tale proposito si possa concretizzare, le dirigenze palestinesi si sono arricchite enormemente con gli aiuti internazionali forniti da USA, UE, ONU, Iran, paesi arabi e tanti altri paesi sparsi per il mondo. Questi soldi che arrivano copiosi (miliardi di dollari all’anno) finiscono, principalmente, nelle tasche, dei dirigenti considerati “buoni” dell’Autorità Palestinese oltre che in quelle dei “cattivi” di Hamas e della Jihad Islamica, senza che nessuno di loro, debba rendere conto di come sono utilizzati. L’ipotetica realizzazione di uno Stato palestinese metterebbe fine a questo immenso flusso di denaro che serve esclusivamente ad arricchire i vertici di queste organizzazioni, oltre che, a pagare gli stipendi di terroristi e “insegnanti” di ogni ordine e grado intenti unicamente a insegnare odio antiebraico nelle scuole. Già questo, di per sé, rappresenta un grande ostacolo alla realizzazione “dei due Stati per due popoli”, ma volgendo lo sguardo in direzione dell’ONU, ci si accorge subito che la situazione è anche peggiore. All’ONU, nel corso dei decenni, il flusso di denaro verso agenzie, commissioni e numerosi rappresentanti che lavorano unicamente per la “causa palestinese” è diventato talmente ingente e strutturato che nel momento in cui dovesse vedere la luce uno Stato palestinese, miliardi di dollari e migliaia di posti di lavoro, lautamente pagati, verrebbero meno. Quindi perché porre fine questo stato di cose in favore “dei due Stati per due popoli”?
L’attuale operazione israeliana a Gaza ha suscitato nelle capitali occidentali un’ondata di furia senza precedenti contro lo Stato ebraico. Manifestazioni di massa hanno portato centinaia di migliaia di persone nelle strade di Washington, Londra, Parigi e altrove. I residenti musulmani di queste città sono chiaramente in sovrannumero tra i manifestanti, ma non sono stati gli unici partecipanti.
Gli slogan ufficiali di queste proteste hanno teso a concentrarsi sull’appello per un cessate il fuoco immediato a Gaza. Molti degli striscioni e degli slogan esposti, tuttavia, hanno sostenuto inequivocabilmente Hamas, il movimento islamico che governa Gaza e che ha compiuto i massacri del 7 ottobre che hanno condotto alla guerra in corso.
L’ampiezza di queste proteste non ha precedenti. La stessa guerra di Gaza, tuttavia, e l’eccidio che l’ha preceduta, non sono né unici né privi di paralleli molto recenti. Ciò solleva una questione interessante sulle ragioni della particolare virulenza e furia attualmente rivolte contro lo sforzo bellico israeliano.
Il parallelo recente più vicino all’attuale guerra a Gaza, sia nei termini delle azioni che l’hanno scatenata sia per quanto riguarda il modo in cui viene condotta da un punto di vista militare, è la guerra della coalizione guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico nel periodo 2014-2019. Questa guerra, infatti, esibiva una serie di episodi di combattimenti urbani che ricordano direttamente l’attuale azione intrapresa dalle forze di difesa israeliane nella Striscia di Gaza.
• MOSUL E GAZA
Appartengo al gruppo piuttosto ristretto di giornalisti che hanno seguito da vicino la guerra contro l’Isis e che sono attualmente impegnati a riferire sulla guerra a Gaza. Sia le somiglianze tra le guerre che l’enorme differenza nella loro percezione da parte occidentale sono sorprendenti.
Per quanto riguarda le azioni che hanno scatenato i conflitti, le somiglianze sono inequivocabili. In entrambi i casi, un movimento arabo dell’Islam politico sunnita ha dato vita nel Levante a una campagna di massacri contro una popolazione non araba e non musulmana: yazidi di lingua curda nel caso dell’Isis, ebrei israeliani in quello di Hamas.
Ma è possibile paragonare in modo proficuo la Start-Up Nation del 21° secolo, gli israeliani occidentalizzati, con le minoranze non arabe assediate e impoverite della Siria settentrionale? La risposta è si. La somiglianza non sta nel campo del loro sviluppo tecnologico, ma piuttosto nelle intenzioni dei loro nemici nei loro confronti.
Ciò è diventato evidente il 7 ottobre 2023. Quel giorno, per circa 12 ore, le ultramoderne strutture tecnologiche di difesa dello Stato di Israele hanno funzionato male e hanno cessato di funzionare. In quel periodo fortunatamente breve, c’era poca differenza tra il trattamento riservato alle comunità ebraiche israeliane del “bacino di Gaza” e quello riservato alle minoranze non arabe e non musulmane che hanno affrontato l’assalto dell’ISIS nella pianura di Ninive nell’estate del 2014.
Ero nella zona di Gaza l’8 ottobre 2023 e in Siria nell’agosto 2014. Il massacro omicida e indiscriminato che ha innescato le guerre dell’ISIS e di Hamas è di un’unica natura.
Quando si guarda alla risposta, ci sono anche chiari paralleli. La guerra per distruggere lo Stato Islamico ha richiesto la conquista di un’area molto più vasta di quella della Striscia di Gaza. Ma relativamente agli episodi di combattimento urbano intrinseci a questo obiettivo, le somiglianze sono sorprendenti.
L’attuale campagna israeliana a Gaza somiglia in particolar modo alla battaglia della coalizione contro l’ISIS nella città irachena di Mosul. Quest’ultimo era il più grande centro urbano controllato dai jihadisti dell’Isis. Per espiantarli ci sono voluti nove mesi di combattimenti. Il peso maggiore sul terreno è stato sostenuto dalle unità delle forze armate irachene con il supporto aereo statunitense cruciale per il loro successo finale.
I combattimenti a Mosul – che hanno comportato il lento accerchiamento da parte della fanteria convenzionale e delle forze corazzate di un nemico jihadista ben radicato – somigliavano molto a ciò che è accaduto a Gaza da quando è iniziata l’incursione di terra israeliana il 27 ottobre.
• LA PROPORZIONE DEI MORTI
L’esame del tasso delle vittime civili e militari a Mosul e attualmente a Gaza indica ulteriori somiglianze. In entrambi i casi, le cifre devono essere trattate con un certo scetticismo.
Per quanto riguarda Mosul, le stime variano ampiamente. Le cifre relative al numero di combattenti dell’Isis uccisi vanno da 7.000 a 25.000. Per quanto riguarda il numero di civili uccisi, ancora una volta, la forbice è ampia. Al ribasso, l’Associated Press ha citato cifre che suggeriscono che a Mosul, nel corso dei combattimenti siano morti tra i 9.000 e gli 11.000 civili. Il servizio di intelligence curdo iracheno Asayish, nel frattempo, ha stimato che i morti tra i civili siano stati circa 40.000.
In termini di rapporto, ciò significa che le stime suggeriscono che ci sono stati da uno a quattro civili uccisi a Mosul per ogni combattente dell’Isis ucciso.
Per quanto riguarda Gaza, il Ministero della Sanità nella Striscia, controllato da Hamas, afferma che finora 20.000 abitanti di Gaza sono stati uccisi dall’incursione israeliana. Il “ministero” rubrica tutte le persone uccise come civili, chiede cioè agli osservatori di credere che nessun combattente di Hamas abbia perso la vita nei combattimenti.
Ron Ben-Yishai, corrispondente veterano di guerra israeliano (e ben lungi dall’essere un apologeta dell’attuale governo israeliano), ha citato questa settimana fonti militari israeliane che stimano che tra i 7.000 e i 9.000 combattenti di Hamas siano stati uccisi nei combattimenti.
Per quanto è attualmente possibile accertare, il rapporto tra morti civili e militari a Gaza sembra quindi sostanzialmente somigliare a quello di Mosul.
Quindi eventi dirompenti simili e campagne militari comparabili. Eppure la risposta in Occidente è stata nettamente diversa. Nessuno ha manifestato per i civili uccisi dai bombardamenti della coalizione durante la guerra dell’Isis (ho personalmente assistito a enormi fosse comuni nella città di Raqqa, scavate rapidamente dallo Stato islamico per seppellire le vittime di quel bombardamento). Non ci sono state folle infuriate nelle città occidentali che denunciavano il “genocidio”. La maggioranza in Occidente ha capito, piuttosto, che le azioni dello Stato Islamico e la sua ideologia rendevano necessario la sua rimozione dal potere, nonostante la morte di innocenti che ciò avrebbe comportato e l’indubbia bruttezza dell’azione.
Allora qual è la risposta? Perché questo netto contrasto? È difficile non concludere che il posto unico assegnato all’ebreo in parti della cultura e della coscienza politica sia islamica che occidentale sia in qualche modo alla radice della causa. Forse si può trovare qualche spiegazione più piacevole. La discrepanza, in ogni caso, è evidente ed enorme.
(L'informale, 3 gennaio 2024)
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"Preso il quartier generale dei terroristi palestinesi"
di Mirko Molteni.
Nella Striscia di Gaza le truppe israeliane hanno espugnato ieri un’area nevralgica per Hamas a Gaza City, nel quartiere Sheikh Rawdan. Lì i soldati hanno occupato un complesso di 37 edifici, fra i quali una scuola, un ospedale e una moschea. Nel luogo di culto, la 460° Brigata del colonnello Dvir Edri ha trovato «materiale di intelligence sugli attacchi terroristici del 7 ottobre» e ha «ucciso dozzine di nemici». Anche la 401° Brigata ha conquistato un quartier generale dell'intelligence palestinese.
Una base con sale operative e centri di comando estesa nel sottosuolo. Erano 5 tunnel scavati a una profondità di 20 metri. Le unità speciali ebraiche hanno minato e distrutto le gallerie. Secondo un comunicato, le forze dello Stato ebraico «sono state impegnate da terroristi che sparavano dai piani superiori degli edifici». Presso Al Bureij i carristi della 188° Brigata Corazzata e i fanti della Brigata Golani hanno scoperto, nascosti in due case, proiettili di mortaio e razzi di gittata valutata in 20 km.
Nel frattempo, Hamas e la Jihad Islamica hanno ripreso a lanciare razzi su Israele dopo una pausa di 42 ore, bersagliando l'area di Sderot. Nei combattimenti, la morte del giovane sergente Sufian Dagash, 21 anni, del 601° Battaglione, ha portato a 174 i caduti dell'esercito ebraico dall'inizio dell'offensiva di terra. In Cisgiordania hanno sfilato a Jenin miliziani armati di fucile delle Brigate Quds, parte della Jihad Islamica, poi l'esercito ebraico ha attuato rastrellamento nei campi profughi. I militari israeliani hanno dichiarato che «dal 7 ottobre abbiamo arrestato in Cisgiordania oltre 2.550 ricercati palestinesi, dei quali 1.300 membri di Hamas». In Turchia sarebbe stato inferto un duro colpo al maggior servizio segreto israeliano, il Mossad. I media di Ankara riportano l'arresto di ben 33 sospette spie. Si tratterebbe di agenti che avrebbero lavorato per il Mossad «per sorvegliare, identificare e rapire cittadini stranieri presenti in Turchia». Le sospette spie di Israele sono state bloccate dalla polizia turca in 8 quartieri di Istanbul, ma ci sarebbero ancora 13 latitanti perseguiti da un mandato di cattura.
Libero, 3 gennaio 2024)
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L’eliminazione di due capi di Hamas a Beirut
di Ugo Volli
• Il numero due di Hamas
Saleh al-Arouri, il vicepresidente dell'ufficio politico di Hamas, è stato ucciso ieri sera in un'esplosione. Egli era considerato il "numero due" dell'organizzazione terroristica guidata da Ismail Haniyeh ed era responsabile di attività terroristiche in Giudea e Samaria. A suo tempo è stato lui, per esempio, a rivendicare la responsabilità di Hamas per il rapimento e l'omicidio di tre adolescenti israeliani nel 2014. Era vicino al leader di Hezbollah Hassan Nasrallah. Al-Arouri è stato ucciso in un attacco da parte di un drone israeliano contro un appartamento di un condominio del quartiere sciita di Dahieh, posto a sud del centro di Beirut, una delle roccaforti di Hezbollah. Altri due importanti capi terroristi sono stati uccisi nell'esplosione, avvenuta mentre al-Arouri era in riunione con altri terroristi di Hamas e Hezbollah. Secondo i rapporti, uno degli agenti uccisi nello sciopero insieme ad al-Arouri era Khalil al-Hayya, un membro anziano dell'ufficio politico di Hamas.
• Il terzo colpo in pochi giorni
La notizia è importante per molte ragioni. In primo luogo si tratta del terzo colpo importante contro i dirigenti terroristi nel giro di pochi giorni. Qualche giorno prima, all'aeroporto di Damasco erano stati eliminati undici ufficiali di alto livello delle Guardie Rivoluzionarie, e ancora poco prima, sempre in Siria, ancora era stato liquidato Razi Mussavi, il comandante dello stesso corpo in Siria, responsabile del coordinamento del terrorismo contro Israele, per certi versi il successore di Qassem Soleimani, eliminato quattro anni fa dagli americani e ancor oggi considerato l’uomo chiave del progetto imperialistico dell’Iran. Si tratta dunque di una politica precisa, di un progetto continuo che mette in atto la disposizione data da Netanyahu dopo il massacro del 7 ottobre ai servizi: andare alla caccia dei suoi responsabili dappertutto nel mondo e di eliminarli, come era stato fatto a suo tempo coi responsabili della strage di Monaco. È difficile pensare che in una cultura che glorifica la morte e considera il “martirio” come il massimo premio nella vita di un fedele queste eliminazioni abbiano un effetto deterrente; ma certamente disorganizzano l’azione del nemico e segnano una sua evidente sconfitta. Lo storico israeliano molto noto Benny Morris ha appena pubblicato un’intervista in cui afferma che la guerra si concluderà solo con l’uccisione di tutti i responsabili del 7 ottobre.
• Un colpo di precisione
Una seconda considerazione conseguente è che i servizi di informazione israeliani, che erano stati beffati dall’invasione di Hamas, si stanno lentamente prendendo la rivincita e stanno mostrando al pubblico israeliano ma soprattutto ai governanti della regione che sono ancora in grado di conoscere esattamente i movimenti dei capi nemici e di indicarli alle forze armate per l’azione necessaria. Perché il drone colpisse esattamente l’appartamento dove Saleh al-Arouri si riuniva con gli altri terroristi, senza confonderlo con tutti gli altri vicini, permettendo quindi un colpo “pulito”, che non ha coinvolto altri se non l’obiettivo stabilito, bisogna supporre che egli fosse marcato elettronicamente o le sue abitudini monitorate in altro modo altrettanto preciso. Lo stesso va detto per i colpi precedenti e per le molte eliminazioni mirate che si sono susseguite nel corso dei combattimenti a Gaza.
• Le reazioni di Hezbollah
La terza considerazione riguarda Hezbollah. Colpendo in una roccaforte dell’organizzazione terroristica alcuni suoi stretti alleati di alto rango, che evidentemente si sentivano sicuri sotto la sua protezione, ma senza danneggiare i dirigenti di Hezbollah, le forze armate israeliane hanno lanciato un messaggio molto chiaro ai terroristi libanesi: non vi sono santuari per loro, come è stato colpito Hamas così potrebbero esserlo anche loro; ma Israele per il momento non vuole una guerra totale con loro. È conveniente dunque per Hezbollah inghiottire l’affronto e non reagire. E infatti, fino a mercoledì mattina, nonostante le previsioni di un possibile bombardamento da parte del sistema missilistico di Hezbollah (che è forse dieci volte più ricco di testate e preciso di quello di Gaza) non vi è stata la reazione per cui le forze armate israeliane erano in stato di massima allerta. Può essere un segnale di ponderazione o di panico, è difficile dirlo. È probabile che la reazione arrivi, per esempio dopo il discorso previsto per questo pomeriggio di Nasrallah, il leader di Hezbollah, che subito dopo il colpo di Dahieh era stato annullato e poi annunciato di nuovo. Ma certamente Hezbollah e l’Iran che lo controlla, stanno pensando con molta cura se sia conveniente imbarcarsi in uno scontro che farebbe molti danni a Israele ma si concluderebbe con una rovina di Hezbollah analoga a quella di Hamas e dunque con la distruzione del progetto iraniano di una mezzaluna sciita che dovrebbe portare dalla Persia al Mediterraneo, incuneandosi nel mondo sunnita e dominandolo. Forse è meglio per loro inghiottire lo smacco e mantenere in piedi la minaccia su Israele, in attesa di tempi migliori, per esempio di una rinnovata turbolenza interna allo stato ebraico.
• Il punto di svolta per la guerra al nord?
Infine la notizia dell’attacco a Beirut va legata alle scelte israeliane rispetto a Gaza. Lo stato maggiore dell’esercito ha annunciato alcuni giorni fa il ritiro di 5 brigate (cioè circa 25 mila uomini) dalla Striscia: due di riservisti saranno congedate almeno provvisoriamente e tre mandate a una fase di addestramento. Ciò serve da un lato a soddisfare in parte le pressioni americane per una de-escalation da Gaza; in parte serve a dare respiro alle truppe, impegnate ormai in battaglia da più di due mesi: la rotazione dei combattenti è sempre necessaria in qualunque esercito per mantenere l’efficienza operativa. Ma va anche legata alle dichiarazioni di numerosi dirigenti per cui la guerra durerà per molti mesi ancora (così Benny Gantz) o addirittura per tutto il 2024 (così Netanyahu). È probabile che questa lunga durata non serva solo a domare il terrorismo a Gaza e a conquistare tutte le sue fortificazioni sotterranee, ma sia prevista pensando a un’estensione del conflitto al nord, come del resto sta iniziando ad avvenire ormai da una decina di giorni. Per ora sono scambi di artiglieria e bombardamenti missilistici e aerei rafforzati, ma una guerra con Hezbollah in Libano e Siria coinvolgerebbe certamente anche le forze di terra, che debbono prepararvisi. Da questo punto di vista l’eliminazione di Saleh al-Arouri avvenuta nella capitale del Libano potrebbe essere un avvertimento o una tappa di questa strategia.
(Shalom, 3 gennaio 2024)
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Cosa succede in Medio Oriente dopo l’uccisione di Saleh Arouri?
di Maurizia De Groot Vos
Ieri sera Israele ha ucciso Saleh Arouri, numero due di Hamas e una delle principali menti del massacro-pogrom del 7 ottobre 2023.
Lo è andato a uccidere a Beirut, a poche centinaia di metri dal quartier generale di Hezbollah, probabilmente con un missile di precisione lanciato da un drone israeliano che ha bucato senza problemi le scarse difese libanesi.
Hezbollah aveva detto che se Israele avesse ucciso funzionari di Hamas in Libano avrebbe reagito. Oggi Assan Nasrallah, segretario generale del gruppo terrorista libanese, terrà un attesissimo discorso durante il quale dirà quale “punizione” spetta a Israele per aver ucciso un criminale di guerra in territorio libanese. Attendiamo con trepidazione.
Intanto il contrammiraglio Daniel Hagari, portavoce delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), ha dichiarato che le forze israeliane sono “in uno stato di preparazione molto elevato in tutti i campi, in difesa e in attacco”, lasciando poi intendere che ogni reazione di Hezbollah verrà “trattata adeguatamente”.
Uno degli scenari previsti dai cosiddetti “grandi analisti occidentali” a seguito dell’uccisione di Saleh Arouri è quello di un allargamento del conflitto all’Iran. Beh, vorremmo umilmente far notare che l’Iran è parte attiva della guerra tra Israele e Hamas sin da prima che iniziasse visto che Iran e Hamas pianificavano la strage da un anno. Anzi, possiamo dire che la guerra è stata pianificata proprio in Iran.
E non è forse vero che Teheran ha coinvolto nel conflitto i ribelli Houthi dello Yemen? Non è forse vero che sempre l’Iran sta trascinando nel conflitto anche la Siria non potendo [per ora] coinvolgere il Libano?
Quindi, di quale allargamento del conflitto all’Iran stiamo parlando. Teheran c’è dentro con tutte e due le gambe sin da prima che cominciasse.
• Apertura di un fronte nord
Altro spauracchio dei “grandi analisti occidentali”. Il fronte nord è già aperto, lo è da quando UNIFIL, contravvenendo al suo mandato, ha permesso ad Hezbollah di fare e disfare tutto quello che voleva a sud del fiume Litani. Una guerra tra Israele ed Hezbollah è inevitabile e se fino ad ora non è scoppiata è solo perché gli Hezbollah hanno dovuto salvare il didietro ad Assad (sempre per conto di Teheran).
Però in questo momento Nasrallah non ha la forza politica di tirare dentro al conflitto tutto il Libano. Per Beirut vorrebbe dire la fine. Non so nemmeno se ha la forza militare per farlo. È vero, ha 150.000 missili gentilmente offerti da Teheran, ma le perdite in termini di uomini subite in Siria sono state devastanti. Con Israele sarebbe un macello.
Allora per il momento facciamo così: gli orrendi scenari previsti da quelli bravi lasciamoli a loro. Nasrallah ha più cervello di quanto si pensi. L’Iran è già pienamente coinvolta nella guerra, ma è ora che anche gli iraniani se ne accorgano.
In merito a Saleh Arouri, beh, se è vera la storiella delle 72 vergini e dei fiumi di miele che spettano ad ogni martire, a quest’ora se la sta godendo come un pazzo. Perché piangerlo e magari minacciare guerre a destra e a manca per la sua morte?
(Rights Reporter, 3 gennaio 2024)
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Libano: l'Aeronautica di Israele colpisce postazioni Hezbollah
GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno colpito una cellula del movimento sciita Hezbollah nel sud del Libano e un caccia ha colpito un sito appartenente al gruppo. Lo riferiscono le Idf e l'Aeronautica che ha pubblicato il video dell'attacco di precisione. L'attacco aereo arriva nel contesto di ripetuti attacchi transfrontalieri effettuati da Hezbollah, dopo la morte del numero due del movimento palestinese Hamas, Saleh al Arouri, in un attacco avvenuto ieri, 2 gennaio, nella periferia meridionale di Beirut. Hamas ed Hezbollah hanno accusato Israele di aver colpito l'edificio dove si trovava Al Arouri. Nelle ultime ore diversi razzi sono stati lanciati dal Libano verso il nord di Israele e le truppe stanno bombardando i siti di lancio con l'artiglieria, hanno aggiunto le Idf. Dall'8 ottobre 2023 sono stati uccisi almeno 140 membri di Hezbollah, soprattutto nel sud del Libano, ma alcuni anche in Siria.
(Agenzia Nova, 3 gennaio 2024)
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Perché la guerra a Gaza è differente?
di Jonathan Spyer
L’attuale operazione israeliana a Gaza ha suscitato nelle capitali occidentali un’ondata di furia senza precedenti contro lo Stato ebraico. Manifestazioni di massa hanno portato centinaia di migliaia di persone nelle strade di Washington, Londra, Parigi e altrove. I residenti musulmani di queste città sono chiaramente in sovrannumero tra i manifestanti, ma non sono stati gli unici partecipanti.
Gli slogan ufficiali di queste proteste hanno teso a concentrarsi sull’appello per un cessate il fuoco immediato a Gaza. Molti degli striscioni e degli slogan esposti, tuttavia, hanno sostenuto inequivocabilmente Hamas, il movimento islamico che governa Gaza e che ha compiuto i massacri del 7 ottobre che hanno condotto alla guerra in corso.
L’ampiezza di queste proteste non ha precedenti. La stessa guerra di Gaza, tuttavia, e l’eccidio che l’ha preceduta, non sono né unici né privi di paralleli molto recenti. Ciò solleva una questione interessante sulle ragioni della particolare virulenza e furia attualmente rivolte contro lo sforzo bellico israeliano.
Il parallelo recente più vicino all’attuale guerra a Gaza, sia nei termini delle azioni che l’hanno scatenata sia per quanto riguarda il modo in cui viene condotta da un punto di vista militare, è la guerra della coalizione guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico nel periodo 2014-2019. Questa guerra, infatti, esibiva una serie di episodi di combattimenti urbani che ricordano direttamente l’attuale azione intrapresa dalle forze di difesa israeliane nella Striscia di Gaza.
• Mosul e Gaza
Appartengo al gruppo piuttosto ristretto di giornalisti che hanno seguito da vicino la guerra contro l’Isis e che sono attualmente impegnati a riferire sulla guerra a Gaza. Sia le somiglianze tra le guerre che l’enorme differenza nella loro percezione da parte occidentale sono sorprendenti.
Per quanto riguarda le azioni che hanno scatenato i conflitti, le somiglianze sono inequivocabili. In entrambi i casi, un movimento arabo dell’Islam politico sunnita ha dato vita nel Levante a una campagna di massacri contro una popolazione non araba e non musulmana: yazidi di lingua curda nel caso dell’Isis, ebrei israeliani in quello di Hamas.
Ma è possibile paragonare in modo proficuo la Start-Up Nation del 21° secolo, gli israeliani occidentalizzati, con le minoranze non arabe assediate e impoverite della Siria settentrionale? La risposta è sì. La somiglianza non sta nel campo del loro sviluppo tecnologico, ma piuttosto nelle intenzioni dei loro nemici nei loro confronti.
Ciò è diventato evidente il 7 ottobre 2023. Quel giorno, per circa 12 ore, le ultramoderne strutture tecnologiche di difesa dello Stato di Israele hanno funzionato male e hanno cessato di funzionare. In quel periodo fortunatamente breve, c’era poca differenza tra il trattamento riservato alle comunità ebraiche israeliane del “bacino di Gaza” e quello riservato alle minoranze non arabe e non musulmane che hanno affrontato l’assalto dell’ISIS nella pianura di Ninive nell’estate del 2014.
Ero nella zona di Gaza l’8 ottobre 2023 e in Siria nell’agosto 2014. Il massacro omicida e indiscriminato che ha innescato le guerre dell’ISIS e di Hamas è di un’unica natura.
Quando si guarda alla risposta, ci sono anche chiari paralleli. La guerra per distruggere lo Stato Islamico ha richiesto la conquista di un’area molto più vasta di quella della Striscia di Gaza. Ma relativamente agli episodi di combattimento urbano intrinseci a questo obiettivo, le somiglianze sono sorprendenti.
L’attuale campagna israeliana a Gaza somiglia in particolar modo alla battaglia della coalizione contro l’ISIS nella città irachena di Mosul. Quest’ultimo era il più grande centro urbano controllato dai jihadisti dell’Isis. Per espiantarli ci sono voluti nove mesi di combattimenti. Il peso maggiore sul terreno è stato sostenuto dalle unità delle forze armate irachene con il supporto aereo statunitense cruciale per il loro successo finale.
I combattimenti a Mosul – che hanno comportato il lento accerchiamento da parte della fanteria convenzionale e delle forze corazzate di un nemico jihadista ben radicato – somigliavano molto a ciò che è accaduto a Gaza da quando è iniziata l’incursione di terra israeliana il 27 ottobre.
• La proporzione dei morti
L’esame del tasso delle vittime civili e militari a Mosul e attualmente a Gaza indica ulteriori somiglianze. In entrambi i casi, le cifre devono essere trattate con un certo scetticismo.
Per quanto riguarda Mosul, le stime variano ampiamente. Le cifre relative al numero di combattenti dell’Isis uccisi vanno da 7.000 a 25.000. Per quanto riguarda il numero di civili uccisi, ancora una volta, la forbice è ampia. Al ribasso, l’Associated Press ha citato cifre che suggeriscono che a Mosul, nel corso dei combattimenti siano morti tra i 9.000 e gli 11.000 civili. Il servizio di intelligence curdo iracheno Asayish, nel frattempo, ha stimato che i morti tra i civili siano stati circa 40.000.
In termini di rapporto, ciò significa che le stime suggeriscono che ci sono stati da uno a quattro civili uccisi a Mosul per ogni combattente dell’Isis ucciso.
Per quanto riguarda Gaza, il Ministero della Sanità nella Striscia, controllato da Hamas, afferma che finora 20.000 abitanti di Gaza sono stati uccisi dall’incursione israeliana. Il “ministero” rubrica tutte le persone uccise come civili, chiede cioè agli osservatori di credere che nessun combattente di Hamas abbia perso la vita nei combattimenti.
Ron Ben-Yishai, corrispondente veterano di guerra israeliano (e ben lungi dall’essere un apologeta dell’attuale governo israeliano), ha citato questa settimana fonti militari israeliane che stimano che tra i 7.000 e i 9.000 combattenti di Hamas siano stati uccisi nei combattimenti.
Per quanto è attualmente possibile accertare, il rapporto tra morti civili e militari a Gaza sembra quindi sostanzialmente somigliare a quello di Mosul.
Quindi eventi dirompenti simili e campagne militari comparabili. Eppure la risposta in Occidente è stata nettamente diversa. Nessuno ha manifestato per i civili uccisi dai bombardamenti della coalizione durante la guerra dell’Isis (ho personalmente assistito a enormi fosse comuni nella città di Raqqa, scavate rapidamente dallo Stato islamico per seppellire le vittime di quel bombardamento). Non ci sono state folle infuriate nelle città occidentali che denunciavano il “genocidio”. La maggioranza in Occidente ha capito, piuttosto, che le azioni dello Stato Islamico e la sua ideologia rendevano necessario la sua rimozione dal potere, nonostante la morte di innocenti che ciò avrebbe comportato e l’indubbia bruttezza dell’azione.
Allora qual è la risposta? Perché questo netto contrasto? È difficile non concludere che il posto unico assegnato all’ebreo in parti della cultura e della coscienza politica sia islamica che occidentale sia in qualche modo alla radice della causa. Forse si può trovare qualche spiegazione più piacevole. La discrepanza, in ogni caso, è evidente ed enorme.
(L'informale, 3 gennaio 2024)
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7 ottobre – Siamo stanchi fuori ma abbiamo la luce dentro
di Angelica Calo Livnè
Cerco di abituarmi alla mia nuova immagine nello specchio. I capelli non rispondono più, né lunghi né corti. Saltano dritti come gambi di fiori al vento e si rifiutano di tornare ricci e armoniosi. Vanno in ogni direzione…molti in terra o nel lavandino. Sono loro che mi ricordano due mesi di notti insonni con tre figli a Gaza, che mi ricordano che i ragazzi dell’Arcobaleno sono sparsi per tutta Israele con le loro famiglie sfollate, che mi ricordano la giacca che ho dimenticato quando ho dormito a Maagan con tutti i membri del mio kibbuz evacuato, la pazienza che è rimasta a casa di mio figlio Gal che supplicava di non restare a Sasa, troppo vicina al confine e agli Hezbollah e l’energia che ho lasciato a casa di Dora, la dolce cugina che mi ha offerto la sua casa a Tel Aviv per riprendere le forze. Nello specchio di Nurit, dove siamo passati ora, sempre a Sasa ma più riparati dai missili del Libano, sembro ancora più pallida e appaiono tante piccole rughe che non conoscevo…specialmente vicino alle labbra che mi mordo continuamente. E il mondo giudica, il mondo punta il dito su Israele. Il mondo demonizza, delegittima Israele, noi. Me. E io, con tutte le mie nuove rughe e i miei capelli ribelli, i miei dolori per tutto il corpo per le ragazze stuprate, per i bambini abusati, per i soldati caduti, per le giovani vedove e i ragazzini orfani, per le terre bruciate e per tutti coloro che non hanno una casa dove tornare, mi accingo a preparare la mia lezione di “Sviluppo del pensiero umanistico” per giovedì, per i miei studenti all’università. Per trasmettere loro, che anche se il cuore è lacerato per i loro amici massacrati al Festival Rave o per la preoccupazione per il fratello ancora tra gli ostaggi o perché’ nessuno di noi sa quando tutta questa follia finirà, che noi rimaniamo chi siamo: un popolo illuminato, illuminato dalla fede, dall’ incontenibile forza di vita che ci mantiene nei secoli, dai nostri valori profondi che nessuno potrà mai intaccare. Mai! Per consolidare i valori che ci ridaranno l’energia per ricominciare da capo, come sempre, dal baratro. Per risalire la china, insieme, spalla a spalla, sostenendoci l’un l’altro fino allo spasimo, contro tutte le aspettative, contro ogni nemico, con qualche ruga in più ma con quella luce, unica e radiosa negli occhi che nessuno potrà rubarci mai.
(moked, 2 gennaio 2024)
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Israele cambia strategia e ritira alcune truppe da Gaza
Si apre ora una nuova fase della guerra che durerà almeno sei mesi
di Riccardo Piccolo
Israele sta attualmente
ritirando alcune delle sue forze militari da Gaza con l'intento di concentrarsi su
operazioni più mirate contro
Hamas. Secondo un funzionario israeliano citato da Reuters, l'obiettivo primario rimane il rovesciamento di Hamas a Gaza, ma si sta anche considerando attentamente
l'impatto economico di queste operazioni sulla nazione. Per questo
due brigate riserviste saranno ritirate entro la fine di questa settimana.
Dall'inizio del conflitto, Israele ha mobilitato in servizio 300.000 riservisti, pari al
10-15% della sua forza lavoro. Attualmente, fonti governative stimano che tra
200.000 e 250.000 riservisti sono ancora in servizio, con conseguente assenza dalle normali attività lavorative o di studio.
• LA PIANIFICAZIONE MILITARE Da quando è iniziata la guerra, i capi dell'esercito di Israele hanno pianificato l'operazione in
tre fasi.
La prima fase ha consistito in un
bombardamento intensivo mirato a liberare le vie di accesso per le forze terrestri e a promuovere l'evacuazione civile. La
seconda fase ha visto l'inizio dell'
invasione il 27 ottobre, con carri armati e truppe che hanno conquistato gran parte della Striscia di Gaza, affermando il controllo del territorio da parte di Israele. Un’offensiva che finora ha ucciso quasi 22.000 palestinesi a Gaza, la maggior parte dei quali donne e bambini.
Il funzionario interpellato da Reuters ha dichiarato che, ora, l'esercito si sta ora dirigendo verso
la terza fase, che
richiederà almeno sei mesi e comporterà intense
missioni di rastrellamento contro i terroristi. Alcuni analisti ritengono che questo cambio di approccio sembra essere una risposta alle pressioni degli
Stati Uniti, principale alleato di Israele, che
hanno sollecitato una revisione delle tattiche militari e maggiori precauzioni per la protezione dei non combattenti.
Sul fronte militare, l'esercito israeliano ha annunciato
l'eliminazione di Adil Mismah, comandante regionale delle
forze d'élite Nukhba di Hamas, dimostrando gli sforzi per colpire i vertici dell'organizzazione. Inoltre, Israele ha dichiarato la sua determinazione nel recupero dei
129 ostaggi ancora detenuti a Gaza, anche grazie agli sforzi di mediazione per una tregua promossi da Qatar ed Egitto che hanno aumentato le possibilità di liberare alcune persone. Il gruppo di volontari israeliani Yesh Din ha riferito che il 2023 è stato l'anno più violento per gli
attacchi dei coloni in Cisgiordania, specialmente dopo il 7 ottobre.
• LA SITUAZIONE POLITICA In parallelo si alza la tensione all'interno del governo guidato dal primo ministro
Benjamin Netanyahu. Infatti, con l'appoggio di una maggioranza composta da 8 giudici su 15, la
Corte suprema israeliana ha respinto una parte rilevante della riforma giudiziaria, approvata dal governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu nel mese di luglio. La decisione della Corte ha interessato specificamente la modifica proposta alla "
clausola di ragionevolezza", la quale avrebbe ridotto la capacità della Corte di annullare le decisioni governative giudicate irragionevoli. Questa proposta di riforma aveva suscitato notevoli proteste, poiché vista come una potenziale
minaccia per il sistema democratico del paese. Il partito Likud di Netanyahu ha manifestato il suo dissenso rispetto alla decisione della Corte, sostenendo che contrasta con "il desiderio di unità della nazione, specialmente in un periodo di guerra".
(WiReD, 2 gennaio 2024)
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Benny Morris: “Questo conflitto durerà ancora per anni, fino all’uccisione di tutti i capi di Hamas”
Lo storico israeliano: «Lo spirito è quello di Monaco ’72: eliminare ogni responsabile del massacro del 7 ottobre. Gaza sarà distrutta, e se necessario il Mossad arriverà fino in Qatar, su questo l’opinione pubblica è compatta»
di Orlando Trinchi
«Questa è la mia sensazione, che la ricerca e l’uccisione dei leader di Hamas continuerà per anni». Lo storico e israeliano Benny Morris non vede vicina la fine dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, definita da alcuni obiettivi fra cui, in primo piano, la completa eliminazione dei leader del gruppo palestinese. Docente di storia al dipartimento di Studi Medio-orientali dell’Università Ben Gurion del Negev a Beer Sheva, Morris è uno dei principali rappresentanti dei nuovi storici post-sionisti, gruppo di ricercatori universitari che hanno messo in discussione alcuni aspetti dei conflitti arabo-israeliani.
- Morris, continua l'offensiva israeliana nella Striscia, mentre il conto dei morti a Gaza, secondo il ministero della Salute palestinese, sale a oltre 21 mila. Sradicare Hamas è possibile? «Non credo che troverete alcun israeliano in disaccordo con l’obiettivo dell’offensiva israeliana a Gaza. È vero, non sappiamo quante persone siano effettivamente morte a Gaza negli ultimi due mesi. Il ministero della Salute di Hamas non fa distinzione tra le diverse tipologie di morti: si parla di oltre 20.000 ma non si sa se corrisponda a verità. Non sappiamo quanti di loro siano effettivamente combattenti di Hamas e quanti invece siano i civili. Dai frammenti di notizie che provengono dagli ospedali o da altri luoghi di Gaza tutto ciò che vediamo sono bambini, donne e anziani, mentre non figurano mai i combattenti di Hamas tra i morti e i feriti».
- Biden ha criticato più volte Netanyahu per i «bombardamenti indiscriminati». Israele potrebbe perdere l'appoggio americano? «Al momento Biden sta sostenendo con fermezza Israele: ha difeso il diritto di attaccare Hamas in seguito al massacro del 7 ottobre e sembra essere completamente in linea con gli obiettivi israeliani, ma ha un problema con il numero di vittime civili, che posso capire. In parte si tratta di un problema politico con la sua base nel Partito democratico: l’opinione pubblica è colpita dalle immagini televisive dei morti e della distruzione di edifici. Nell’ultimo mese sono circolate voci secondo cui gli americani starebbero cercando di porre fine all’attacco israeliano, ma in realtà tutte le dichiarazioni rilasciate da Biden e dalla Casa Bianca non hanno dato alcun riscontro circa una volontà statunitense di mettere un punto all’offensiva di Israele».
- Crede che un coinvolgimento dell'Autorità palestinese di Abu Mazen, come auspicano gli Usa, potrebbe risultare positivo? «Non credo che vi sia una grande discussione intorno al possibile coinvolgimento dell’Anp. Netanyahu si è sempre opposto, perché è contrario alla soluzione dei due Stati. Consegnare ad Abu Mazen il controllo del settore civile della Striscia di Gaza significa in qualche modo legittimare una soluzione dei due Stati. D’altro canto, Netanyahu sostiene che Israele non vuole occupare o rioccupare per un tempo indeterminato la Striscia di Gaza, quindi qualcuno deve prendersi cura almeno dei civili nella zona della Striscia di Gaza e non vi è nessuno, tranne l'Autorità Palestinese, che può farlo. Forse potrebbero essere coinvolti gli americani, forse gli Emirati Arabi Uniti, ma, in sostanza, c’è bisogno che i palestinesi giochino un ruolo fondamentale sotto il profilo della sicurezza».
- Analisti israeliani e non sostengono che Netanyahu stia combattendo per la propria sopravvivenza politica. «Sì, credo sia vero. È sotto processo per corruzione, il popolo ora è contro di lui e molti fra coloro che lo hanno sostenuto ora riconoscono le sue responsabilità nella tragedia del 7 ottobre. È evidente che stia combattendo per la sua vita politica e che ciò gli rubi molto più tempo ed energia rispetto alla reale gestione del conflitto. Coloro che si stanno realmente occupando della conduzione della guerra sono tutti professionisti, militari a cui non piace Netanyahu».
- Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha garantito agli uomini di Hamas che se si fossero arresi avrebbero avuto salva la vita. Gli crede? «No, la mia supposizione è che Israele ucciderà ogni leader di Hamas che troverà. Non credo che i capi dell’esercito siano interessati ai prigionieri, ai processi o alle condanne al carcere, ma che vogliano semplicemente queste persone morte. Giustamente, in quanto ritengo che i criminali di guerra dovrebbero essere uccisi. Ho la sensazione che la ricerca e l’uccisione dei leader di Hamas continuerà per anni, fino al Qatar. Ovunque si trovino, il Mossad li troverà e li ucciderà. Lo stesso capitò in seguito all’attacco terroristico alle Olimpiadi di Monaco di Baviera nel 1972. Un commando di terroristi palestinesi uccise undici tra atleti e allenatori israeliani e Golda Meir ordinò al Mossad di trovare e uccidere chiunque fosse stato coinvolto nell’attentato, cosa che avvenne negli anni seguenti. Nel 1979, sette anni dopo il massacro, venne trovato e ucciso l'ultimo terrorista coinvolto. Penso che accadrà lo stesso con i leader che hanno organizzato il massacro del 7 ottobre».
- Considera decisiva la posizione dell’Iran nel conflitto? «Il ruolo dell’Iran sullo sfondo del conflitto in corso è chiaro. Gli iraniani, ne sono sicuro, hanno incaricato gli Houthi di compromettere i traffici navali nel Mar Rosso, mentre hanno ordinato o consigliato a Hezbollah, nell’intento di logorare Israele, di aprire il fuoco lungo il confine libanese. L’Iran ha giocato la propria partita nella guerra a Gaza su un piano parallelo. Non sappiamo esattamente cosa accadde durante l’attacco del 7 ottobre, ma sono anni che Hamas ha difficoltà finanziarie, quindi anche sotto questo aspetto si riconosce la mano iraniana. La mia posizione personale è che sia Israele che l’America avrebbero dovuto da tempo colpire l’Iran e spero ancora che ciò accada, perché Teheran è la vera mente dietro gli attacchi contro Israele e Usa avvenuti nel mondo negli ultimi decenni».
- Che cosa ne pensa invece del ruolo del Qatar? «Un ruolo molto strano. Si tratta del principale finanziatore di Hamas. I leader di Hamas vivono in Qatar. D’altra parte, i rapporti stretti fra Qatar e Hamas possono tornare utili per cercare di ottenere un accordo relativo agli ostaggi, quindi Israele al momento non critica apertamente il governo qatariota».
- È ancora favorevole alla soluzione dei due Stati? «In teoria, sarei ancora favorevole, penso che potrebbe garantire giustizia a entrambe le parti. Il problema è che i palestinesi hanno sempre rifiutato questa formula – per rimanere in tempi più recenti, ricordiamo il rifiuto di Arafat a Barak e Clinton nel 2000 e quello di Abu Mazen nel 2007 – mentre non sono state messe sul tavolo proposte per una concreta soluzione. Ovviamente Hamas non prende nemmeno in considerazione un progetto di questo tipo, essendo il suo unico intento quello di distruggere Israele. Ora, purtroppo, al rifiuto palestinese si aggiunge quello israeliano: Netanyahu e il suo governo non accettano la soluzione dei due Stati e continuano a espandere i loro insediamenti nei Territori occupati».
(La Stampa, 2 gennaio 2024)
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«Memoria? Israele e Diaspora sono, oggi più che mai, una cosa sola»
Un algoritmo ha calcolato che compare un contenuto antisemita ogni 80 secondi sul web. Siamo di nuovo davanti alla negazione del diritto a esistere? Sì. “Il parallelismo con la Shoah è comprensibile, ma sbagliato. Non ci sarà più un’altra Shoah. Per fortuna ora abbiamo uno Stato e un esercito”. Parla Dina Porat, la grande storica dello Yad Vashem
di David Zebuloni
La storia di Israele si divide in due: prima del 7 ottobre e dopo. L’attacco terroristico di Hamas nei Kibbutzim e al Nova Festival, nonché l’uccisione di 1200 israeliani in un giorno solo e la tenuta in ostaggio di oltre duecento civili innocenti a Gaza, hanno segnato la storia dello Stato Ebraico più di quanto abbia fatto qualunque altra guerra dal 1948 ad oggi. Ma non finisce qui. In parallelo a ciò che avviene in Medio Oriente, anche l’antisemitismo in Italia, in Europa e nel mondo pare alzare la testa. Un odio antico e sopito, mai realmente scomparso. «Antisemitismo e antisionismo sono strettamente legati – spiega Dina Porat, la più importante storica del museo Yad Vashem e professore emerito dell’Università di Tel Aviv –. Chi nega al popolo ebraico l’indipendenza o, peggio, chi non crede nel suo diritto ad avere uno Stato Ebraico, nega di fatto la sua esistenza. Non ogni forma di antisionismo ha radici antisemite, ma il risultato è lo stesso: la negazione di un diritto ad esistere. Pensiamo al solo termine, antisionismo. Esistono altri movimenti definiti “anti” gli altri Stati del mondo? No. Il nostro popolo esiste da tremila anni, com’è possibile che dobbiamo ancora batterci per il nostro diritto ad esistere? È assurdo».
Assurdo, eppure l’antisemitismo cambia nel tempo, muta, si evolve. Talvolta, si traveste. «L’odio a cui stiamo assistendo in questi giorni non è diverso da quello che conoscevamo ottant’anni fa. Oggi lo chiamiamo forse antisionismo, ma l’odio è odio. L’antisionismo è antisemitismo. D’altronde, il confine tra Israele e le comunità ebraiche del mondo oggi quasi non esiste più. Insultare un israeliano è come insultare un ebreo e viceversa. Attaccare una comunità ebraica europea è come attaccare Israele e viceversa. Israele e diaspora sono una cosa sola», sostiene Porat. Per combattere l’odio, dunque, quali strumenti hanno oggi gli ebrei d’Italia e d’Europa che in passato non avevano? La risposta dell’esperta è semplice. «Oggi sappiamo cosa può succederci quando tacciamo – afferma -. In passato ignoravamo il pericolo al quale ci esponeva l’odio. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, abbiamo imparato a non tacere più. E non dobbiamo tacere più. Dobbiamo denunciare ogni singolo atto di antisemitismo, anche se ci sembra minore o apparentemente innocuo». Prende un lungo sospiro. «Sai, esiste un algoritmo capace di intercettare in rete i contenuti antisemiti. Indovina ogni quanto tempo viene condiviso un contenuto antisemita. Ogni 80 secondi. Ti rendi conto? 80 secondi. Il pericolo non è solo nelle strade. Bisogna agire attraverso la legislazione e rendere anche i social un luogo più sicuro per i nostri giovani. L’odio inizia lì».
Alcune domande sorgono tuttavia spontanee: quale è stato il ruolo della Memoria negli ultimi ottant’anni? Cosa è andato storto nel modo in cui abbiamo parlato della Shoah se, ad oggi, gli ebrei soffrono dello stesso odio? Il lavoro dei testimoni è forse stato inutile? Ha senso celebrare ogni anno il Giorno della Memoria il 27 gennaio? «Il parallelismo con la Shoah è comprensibile, ma sbagliato – risponde la storica -. La brutalità dell’attacco del 7 ottobre ricorda sicuramente il nefasto nazista, ma è durato un giorno solo. La Shoah è durata cinque anni. Questa è una differenza sostanziale e importantissima da capire. Non possiamo permetterci alcun tipo di parallelismo diretto tra la Shoah e il 7 ottobre. Possiamo sicuramente dar sfogo alle nostre paure, che sono le stesse. Possiamo associare le due forme di odio, quello di ieri così simile a quello di oggi, ma non possiamo creare una simmetria perfetta. Dunque sì, il prossimo 27 gennaio sarà diverso dai precedenti, non c’è dubbio, ma anche noi siamo diversi da quelli che eravamo in passato. Siamo meno spaventati, meno deboli, più indipendenti. Abbiamo uno Stato, un esercito, degli alleati. Non siamo più negli anni ‘30».
Dina Porat ha il tono fermo. «I testimoni della Shoah hanno fatto un lavoro straordinario e preziosissimo nel sensibilizzare le nuove generazioni all’odio. Un lavoro che noi dobbiamo continuare. Questo è il nostro compito. Poi, il fatto che l’odio non si sia estinto, che esista ancora, non ha nulla a che vedere con l’impegno dei testimoni. Non esiste un vero vaccino all’odio, purtroppo, ma non dobbiamo arrenderci. Dobbiamo continuare a impegnarci affinché i giovani e meno giovani capiscano che la causa ebraica non va sostenuta solo nei confronti degli ebrei morti, ma anche nei confronti di quelli vivi. È troppo facile rivendicare i diritti di chi non c’è più. Dobbiamo rivendicare i diritti di chi c’è e si batte quotidianamente per farli valere».
In chiusura, quando ho ipotizzato uno scenario apocalittico circa il futuro delle comunità ebraiche europee, la risposta della professoressa mi ha stupito. «Possibile che il mai più che tanto abbiamo ripetuto, sia stato del tutto vano? Possibile che un’altra strage si possa ripetere?» le ho domandato. «Ma sei impazzito ragazzo mio? Ma che cosa stai dicendo? Bevi una tisana e calmati», ha esclamato lei. Poi ha concluso: «Ciò che è stato è stato, e non sarà mai più. È vero, abbiamo subito un trauma il 7 ottobre, ma da allora ci siamo rialzati. Oggi abbiamo uno Stato e un esercito. Siamo forti, siamo consapevoli, siamo attaccati alla vita e no, non ci sarà mai più un’altra Shoah».
(Bet Magazine Mosaico, 2 gennaio 2024)
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La sentenza della Corte Suprema e la questione dei confini
di Ugo Volli
• Una decisione che rischia di far cadere il governo di guerra
La politica israeliana continua a riservare sorprese, spesso sgradevoli. In piena guerra, in palese conflitto di interessi, con una maggioranza risicata (8 a 7), senza nessun caso giudiziario urgente in gioco, anzi senza alcuna urgenza, salvo il fatto che a giorni scadeva la possibilità di votare della ex presidente già in pensione, il che avrebbe rovesciato la maggioranza, la Corte Suprema israeliana ha deciso per la prima volta nella storia del Paese di annullare una “legge fondamentale” (che ha valore costituzionale) della Knesset. Questa “legge fondamentale”, approvata sei mesi fa dalla Knesset e annullata ieri, si proponeva di regolare per la prima volta la possibilità da parte della Corte stessa di cassare le leggi, finora rimasta senza definizione legislativa. Vi si stabiliva che, come accade in tutto il mondo e anche in Italia, l’annullamento di una legge o di un provvedimento amministrativo potesse avvenire solo quando tale legge o provvedimento era in contrasto con una legge fondamentale. Alla Corte era così sottratta la possibilità di decidere solo sulla base del criterio evidentemente soggettivo della “ragionevolezza”, cioè di annullare una legge o un provvedimento non per il suo contrasto con il sistema giuridico ma solo perché lo dichiarava “irragionevole” – il che può vuol dire semplicemente contrario all’ideologia dominate nella Corte. Ora questo limite è a sua volta annullato: la Corte ha stabilito in sostanza di non accettare che il Parlamento stabilisca quali regole essa deve seguire e quali sono i limiti della sua azione. Questa decisione molto probabilmente farà ripartire la disputa sulla riforma giudiziaria, che era stata messa da parte dopo il 7 ottobre, rischiando anche di far saltare il governo di unità nazionale. Certamente indebolirà il paese nel periodo più difficile della sua vita. C’è solo da sperare che il sistema politico abbia la saggezza e il patriottismo che sono mancati ai giudici della Corte Suprema e lo sforzo della guerra non sia danneggiato a causa loro. Certamente questa sentenza ripropone la necessità di una profonda riforma del sistema giudiziario israeliano, che oggi, nel momento del pericolo più grave ha mostrato una drammatica inadeguatezza e un totale autoriferimento.
• I rifornimenti al nemico
Torniamo alla cronaca della guerra. Uno dei problemi che rendono così difficile il conflitto in corso è la capacità dei terroristi di continuare a ricevere rifornimenti. Nelle prime settimane del conflitto Israele aveva decretato un blocco totale dell’ingresso di ogni tipo di merci a Gaza, presumendo giustamente che essi sarebbero andati non alla popolazione civile ma a Hamas. Poi la pressione degli Usa ha progressivamente alleggerito e quasi eliminato questo blocco. Prima i rifornimenti erano solo alimentari e di medicinali, poi si sono aggiunti i combustibili e altri materiali, i camion sono diventati da alcune unità molte decine, centinaia al giorno; essi non si fermano più al sud della Striscia dove sono gli sfollati ma risalgono fino al nord. All’inizio passavano solo per il valico con l’Egitto di Rafah, ora anche da quello israeliano di Kerem Shalom. Comunque vi è abbondante documentazione che i rifornimenti appena arrivano sono sequestrati dai terroristi, che usano la forza per respingere coloro che ne sono veramente bisognosi. Si è mai vista una guerra in cui un belligerante rifornisce i propri nemici? E non si tratta solo di cibo ma anche di materiali come il gasolio che possono servire a fabbricare i propellenti dei missili che continuano a essere sparati contro Israele.
• Il corridoio Filadelfia
Questi comunque sono i rifornimenti ufficiali. Poi ve ne sono altri, quelli di contrabbando, ancora più pericolosi: armi e altri materiali militari, terroristi che passano in un senso e nell’altro. C’è un forte sospetto che questo contrabbando arrivi a Gaza attraverso i tunnel che da vent’anni perforano la frontiera con l’Egitto, soprattutto a Rafah. La striscia sottile da cui si possono controllare questi transiti è chiamata “corridoio Filadelfia” (in ebraico tzir filadelfi): una fascia di territorio lunga 14 km e larga 100 metri fra Gaza e l'Egitto. Nell’ambito del terribile errore commesso da Ariel Sharon nel 2006, sgomberando la striscia di Gaza che poi fu conquistata da Hamas e divenne quella piazzaforte del terrorismo che oggi è così difficile smontare, vi fu un errore ancora più grave: su pressione degli Stati Uniti, soprattutto da parte del segretario di Stato americano Condoleezza Rice e contro l’opinione dei responsabili della sicurezza Sharon siglò un accordo nel settembre 2005 denominato "Agreed Arrangements", che sanciva il ritiro delle forze israeliane dal Corridoio Filadelfia. Le autorità egiziane avevano promesso nel loro trattato di pace con Israele del 1979 di impedire «atti o minacce di belligeranza, ostilità o violenza» dal loro territorio, ma in realtà hanno a lungo consentito un massiccio traffico di armamenti a Gaza tramite i tunnel. Sotto la presidenza di Al Sisi la maggior parte dei tunnel fu chiusa e la complicità delle autorità egiziane con Hamas diminuì fortemente. Ma non basta. E’ chiaro che il contrabbando almeno in parte continua. Ora Israele ha chiesto all’Egitto di restituirgli il controllo del corridoio, per chiudere del tutto i rifornimenti e la possibilità di fuga dei terroristi. L’Egitto però è molto riluttante, preferendo per ragioni di politica interna e internazionale, atteggiarsi a potenza neutrale fra Israele e Hamas. Il problema si pone adesso, perché Israele ha bisogno di saldare il prima possibile l’assedio alle fortificazioni sotterranee dei terroristi. Ma sarà ancora più grave dopo la fine della guerra, quando bisognerà certamente ricostituire una zona di interposizione fra Gaza e l’Egitto.
• Il problema della Giordania
Un problema in un certo senso analogo si pone per la Giordania, con cui Israele condivide il confine più lungo (circa 400 chilometri dal Golan a Eilat) e più tranquillo. Anche qui sono segnalati nuovi pericoli. Innanzitutto per il contrabbando di armi verso le zone sotto il teorico controllo dell’Autorità Palestinese: nelle ultime settimane sono state sequestrate parecchie di queste spedizioni e vi è stato anche un conflitto a fuoco fra forze di sicurezza giordane e contrabbandieri provenienti dall’Iraq, dove le milizie sciite filoiraniane operano liberamente. Sono emersi però anche degli indizi di una possibile linea di invasione di Hezbollah che passi per la Giordania settentrionale, aggirando lo schieramento dell’esercito israeliano in Alta galilea e nel Golan. Lo stato maggiore delle forze armate ha comunicato di aver deciso una nuova disposizione delle forze per contrastare questo pericolo.
• Scontri fra Houti e Usa
Vi sono novità anche per quel che riguarda gli Houti. Dopo numerosi nuovi bombardamenti di navi commerciali, l’altro ieri un gruppo di quattro motoscafi veloci uscito dai porti dello Yemen ha cercato di catturare una portacontainer di passaggio per lo stretto di Bab el Mendeb. Una nave da guerra americana nelle vicinanze ha ricevuto la richiesta d’aiuto e ha fatto decollare gli elicotteri per contrastare i pirati, che però hanno iniziato a sparare contro gli elicotteri. Questi hanno risposto al fuoco, affondandone tre. Ora è possibile che gli Usa, di fronte a questo attacco diretto, escano dalla tattica di non reagire alla violenza che avevano scelto finora. Anche la Gran Bretagna ha annunciato di essere pronta a bloccare con la forza gli Houti.
(Shalom, 2 gennaio 2024)
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Avvelenare il pozzo mentre il paese è in guerra
C’è una sola democrazia in cui i giudici hanno un potere pressoché assoluto, è questa è Israele. Oggi, con la decisione di bocciare la legge sul principio di ragionevolezza, il criterio altamente soggettivo in base al quale i giudici hanno il diritto di cassare le leggi dell’esecutivo, e che la Knesset aveva emendato a luglio per limitarne l’estensione, i giudici si pongono al di sopra del Parlamento e delle Leggi Base.
Le Leggi Base che compongono in assenza di una Costituzione scritta l’architettura costituzionale del paese, con questa decisione, di fatto diventano subordinate alla magistratura mentre il governo si trasforma in uno sterile luogo di discussione, sul quale i magistrati vigilano e legiferano.
A commento della sentenza, il giudice della Corte Suprema David Mintz, facente parte della minoranza, ha affermato quanto di più evidente, che essa “mina i principi democratici fondamentali inclusa la separazione dei poteri”.
Si consuma così la lunga battaglia che per nove mesi consecutivi ha portato migliaia di persone in piazza contro il governo in carica accusato di volere imbavagliare la magistratura con la sua riforma della giustizia e di condurre il paese verso una dittatura.
Otto giudici sui quindici componenti della Corte Suprema hanno bocciato la legge evidenziando una netta spaccatura. La gravità della decisione non sta solo nel fatto che il Parlamento ne esce umiliato, ma che essa avvenga mentre Israele si trova a combattere una guerra esistenziale.
Si tratta di una decisione squisitamente politica il cui obiettivo è quello di colpire Netanyahu e l’esecutivo da lui guidato con il rischio cinico e calcolato di spaccare il paese di nuovo in due, incendiando le piazze. Ma l’ex presidente della Corte, Esther Hayut, tra le più veementi avversatrici della riforma della Giustizia non poteva aspettare oltre, in quanto, da metà gennaio, entrata in pensione, non avrà più la facoltà di potere esprimere il suo voto su istanze poste alla sua attenzione quando era ancora in carica e insieme a lei la sua collega Anat Baron.
Se avesse atteso, inevitabilmente l’equilibrio della Corte non avrebbe più pesato a favore della bocciatura della legge, bisognava quindi fare in fretta, avvelenare il pozzo, e così è stato.
Non si poteva scegliere momento più nefasto, ma laddove prevalgono unicamente logiche di potere e accecamento ideologico, nessuna altra considerazione tiene.
“La curva vitale del regime sionista ha iniziato la sua discesa, e si trova ora in una parabola discendente verso la sua caduta…Il regime sionista verrà cancellato e l’umanità sarà liberata”, così dichiarava l’ex presidente iraniano Ahmadinejad il 12 dicembre del 2006 durante il convegno negazionista che si teneva a Teheran dove si era adunata una impressionante congrega di psicotici e lunatici. Parole, che echeggiano quelle di Adolf Hitler riguardo alla necessità di liberare il mondo dalla presenza ebraica, e quelle di Hamas iscritte nella Carta del 1989 dove l’ebreo è il nemico dell’Umma, diventato poi, nel 2017, in un documento più morbido, non più l’ebreo in quanto tale ma il “sionista”. Parole che non sono diverse da quelle scritte nel 2018 dalla Guida Suprema Ali Khamenei sul suo account Twitter in lingua inglese, “Il regime sionista non durerà. Tutte le esperienze storiche lo evidenziano con assoluta certezza. Senza dubbio il regime sionista perirà in un futuro non lontano”. Futuro segnato dalla scansione delle lancette dell’orologio fatto collocare in piazza della Palestina a Teheran.
Nulla di sorprendente dunque, se Hamas, dopo un periodo di distacco ritornò nelle grazie iraniane, così come non c’è nulla di sorprendente nell’avere visto sempre nel 2018 una bandiera con la svastica piantata a Gaza durante i tumulti cominciati il 30 marzo di quell’anno ai confini di Israele, oppure aquiloni incendiari ornati di svastiche. Si tratta infatti, nel caso di Hamas e del regime sciita, della stessa linea ideologica, del medesimo collante virulentemente antisemita che appena si è creata l’occasione ha ripudiato la foglia di fico antisionista, quella che così tanto piace alla sinistra woke e non woke e furoreggia nelle piazze “pacifiste” occidentali.
L’ebreo è in fondo, per il radicalismo islamico sunnita o sciita che esso sia, il nemico metafisico essenziale, la condensazione purulenta di ogni male e ai gonzi che evidenziano come in Iran vi sia comunque ancora una comunità ebraica, seppure cospicuamente dimidiata, bisognerebbe far notare che i suoi appartenenti sono considerati dhimmi, che le sinagoghe sono gestite dal regime, che non possono chiudere di Shabbat e che i libri in ebraico sono proibiti. Si tratta, in altre parole, dello zoo ebraico di Teheran. D’altronde, il Padre della Patria Sciita, l’ayatollah Khomeini, non aveva alcun dubbio in proposito fin dai tempi in cui ascoltava le trasmissioni radio che i nazisti mandavano in onda da Zeesen, in farsi.
La propaganda antisemita del futuro riformatore era già ampiamente rodata negli anni ’60, quando dichiarava furente, “So che non volete che l’Iran giaccia sotto gli stivali degli ebrei!“. Per Khomeini, come per Hitler prima di lui, il complotto ebraico per dominare il mondo e soprattutto, nel suo caso, per distruggere l’Islam, era una certezza.
Una cosa deve essere specialmente chiara, che ai vertici del regime attuale che domina l’Iran c’è una casta di allucinati i quali condividono la persuasione che Israele sia la testa di ponte di un diabolico potere di cui gli Stati Uniti sarebbero la maggiore incarnazione, essi stessi imbrigliati nei suoi tentacoli. Ci riferiamo ovviamente alla famigerata lobby ebraica, il proseguimento in veste aggiornata dei Savi Anziani dei Protocolli e protagonista di un feuilleton del 2007 The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, demolito da Benny Morris e poi da Jeffrey Goldberg https://newrepublic.com/article/63500/the-usual-suspect.
Satana si biforca in due, nel grande e nel piccolo, ma alla fine ha solo una fisionomia, quella ebraica. Gli iraniani in quanto tali non sono antisemiti più di quanto lo fossero i cento e passa milioni di tedeschi affatturati da Adolf Hitler, ma se è malata la testa di una nazione, anche il corpo, inevitabilmente, ne risente.
L’Iran è oggi la principale minaccia per Israele, di cui desidererebbe l’annichilimento, esattamente come Hitler voleva sbarazzarsi, ad uno ad uno, di ogni ebreo sulla faccia della terra. Fino a quando, come durante il periodo del nazismo in Germania, il paese sarà sotto sequestro da parte di fanatici millenaristi ammaliati dal culto della morte, e convinti che l’Islam sciita debba essere esportato in tutto il Medioriente e oltre, nessuna pace potrà mai essere possibile in una regione già di suo sempre soggetta a scosse sussultorie.
Chi pensa di potere addivenire a patti con questa genia, di poterla addomesticare e convertire al pragmatismo, come l’ex presidente americano Obama e Joe Biden, attuale continuatore della sua politica con l’Iran, è preda della medesima illusione di quanti, negli anni ’30, pensavano che Hitler si sarebbe ammorbidito concedendogli giusto quel lebensraum di cui aveva bisogno per respirare meglio.
Israele è oggi concentrato su Hamas, che dall’Iran ha ricevuto impulso e incoraggiamento, e la guerra finalizzata a smantellarne la capacità operativa a Gaza sarà ancora lunga e cruenta, ma il nemico maggiore è più lontano e più insidioso e in procinto di procurarsi gli ordigni atomici che dovrebbero distruggere “l’entità sionista”.
È l’appuntamento del futuro.
(L'informale, 1 gennaio 2024)
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Un bilancio e una riflessione
di Ugo Volli
• Un bilancio necessario
Il 1° gennaio non è il capodanno per gli ebrei, che lo festeggiano in autunno (anzi a rigore ne hanno quattro per funzioni diverse). Quello di oggi è una ricorrenza di origine cristiana istituita paradossalmente per festeggiare la circoncisione di Gesù (ma dal 1964 la motivazione della festa è stata mutata dalla Chiesa cattolica, dedicandola a Maria). In questa occasione c’è spesso un disagio, costituito nel trovarsi immersi in un’atmosfera festiva che non ci appartiene. Quest’anno il disagio è anche maggiore, perché la festa dell’Occidente cade nel mezzo di una guerra durissima, con molti israeliani caduti, feriti, rapiti, impegnati nel terribile sforzo della guerra. Si vorrebbe ignorarlo, ma è difficile, anche perché la ricorrenza da religiosa è diventata civile, comporta il cambio della data e insomma ci coinvolge che lo vogliamo o no. Meglio dunque usarlo come un discrimine arbitrario, che invita a un bilancio e a una riflessione, che sono comunque necessari oggi, a guerra avanzata.
• La grande divisione
Gli scorsi dodici mesi sono stati probabilmente i più difficili nella storia di Israele, a partire dalla guerra di Indipendenza. Il 29 dicembre del 2022 giurava il sesto governo Netanyahu, espressione della maggioranza abbastanza netta emersa finalmente, dopo anni di stallo, dalle elezioni del novembre precedente. Il 4 gennaio il ministro della giustizia Yariv Levin dichiarava l’intenzione di promuovere una riforma della giustizia, che ridimensionasse i poteri accumulati dalla Corte Suprema a partire dagli anni Novanta, restituendo il predominio alle decisioni parlamentari. Tre giorni dopo, il 7 gennaio, iniziavano le proteste di piazza su questo tema, che si sarebbero ripetute ininterrottamente per nove mesi, suscitando poi manifestazioni opposte a sostegno del governo. È stato il momento di maggior divisione interna nella storia del paese, non solo con accuse verbali degli oppositori al governo di progettare o di aver addirittura eseguito un colpo di stato, e con minacce di guerra civile, ma con azioni pratiche molto pesanti, dall’assedio delle abitazioni private dei ministri al tentativo di invadere il parlamento per impedire il voto, fino al rifiuto di prestare servizio da parte dei riservisti dell’aviazione. I tentativi di mediazione del presidente Herzog sono stati respinti da tutt’e due le parti, alcune parti della riforma sono state approvate dalla Knesset e subito portate alla valutazione della Corte Suprema, che potrebbe decidere in merito nei prossimi giorni, riaccendendo lo scontro.
• Il futuro politico di Israele
La divisione è stata sospesa, ma non superata con la terribile sorpresa del pogrom del 7 ottobre. In seguito alla strage perpetrata da Hamas si è costituito un governo di unità nazionale, in cui assieme alla vecchia maggioranza è entrato in posizione rilevante il partito centrista di Benny Gantz, fortemente premiato per questa scelta dai sondaggi, ma non quello più di sinistra di Yair Lapid, che è stato invece punito; ma non vi sono stati invitati il partito nazionalista laico ma fortemente contrario a Netanyahu e dei charedim di Lieberman, né la formazioni di estrema sinistra e arabe che facevano parte del governo Bennett-Lapid, caduto nel 2022. Il paese si è unito molto fortemente intorno alle forze armate che combattono una difficilissima guerra su diversi fronti; ma tutti hanno chiaro che si tratta di una situazione politicamente provvisoria e che i problemi sono ancora presenti sullo sfondo. Del patto fra Netanyahu e Gantz fa parte la clausola che il governo di unità nazionale non si occuperà se non della guerra, senza affrontare le questioni che possono dividere né fare nuove nomine nelle alte cariche dello stato. Si tratterà di vedere, quando l’emergenza sarà passata, come si riconfigurerà il sistema politico israeliano. Ci dovrà essere un’inchiesta per accertare la responsabilità del grande fallimento informativo e militare che ha permesso, dopo una preparazione durata parecchi anni, a 3000 terroristi di invadere il territorio nazionale senza quasi contrasto immediato, e di perpetrare i loro orribili crimini. C’erano stati in precedenza degli allarmi, dei segnali, dei militari del servizio di informazioni che avevano avvertito del pericolo; ma questi segni non erano stati raccolti, e la possibilità stessa di un’invasione di massa non era stata pianificata. Bisognerà accertare le responsabilità professionali degli alti gradi delle forze armate e dei servizi e quelle politiche dei governanti che hanno permesso a Hamas di essere finanziato e di organizzare la strage. Ci saranno dimissioni ed elezioni, probabilmente un grande rinnovamento della leadership.
• Il destino di Gaza
Prima di questo momento di autoanalisi e di rinnovamento, Israele però deve affrontare la conduzione di una guerra che sarà ancora molto lunga (Gantz ha detto “molti mesi”; Netanyahu ha parlato di tutto il 2024) e continuerà ad essere molto difficile sia sul piano militare che su quello politico. Bisognerà smantellare quel che resta di Hamas a Gaza, ma forse prima decidere se accettare nuove tregue in cambio della liberazione di qualcuno dei rapiti, se non di tutti. Verrà poi il momento di decidere che cosa fare della Striscia, se e per quando gestirla in regime di occupazione militare per eliminare la minaccia terrorista che certo non sparirà con la conquista completa, se poi affidarla a un’Autorità Palestinese “rinnovata”, come vorrebbero gli americani (ma Israele è fortemente contrario), o a un protettorato internazionale, di cui bisognerà stabilire la fisionomia e la composizione.
• Hezbollah
Sarà anche molto difficile stabilire che cosa fare al nord, minacciato dalle armi di Hezbollah, solo parzialmente utilizzate nella guerra limitata condotta fino a oggi, ma sottoposto anche al fuoco proveniente dalla Siria – entrambi guidati della regia economica e militare dell’Iran, che tira le fila di tutto il terrorismo mediorientale, compreso quello degli Houti yemeniti, di cui si dovrebbe occupare una alleanza internazionale. Saranno scelte molto difficili, in particolare quella riguardo a Hezbollah. Israele vuole che rispetti la risoluzione dell’Onu del 2006 e che si ritiri di una decina di chilometri dal confine. Ma Hezbollah sembra indisponibile. Bisognerà obbligarlo con le armi, entrando così in una seconda fase del conflitto, ancora più difficile e pericolosa? E basterà questo, di fronte a una forza militare di molte volte superiore a quella di Hamas, altrettanto fortificata nel suo territorio e soprattutto altrettanto minacciosa per Israele?
• Il quadro internazionale
Durerà l’appoggio americano, che è stato determinante nello scongiurare un’aggressione diretta dal Nord e nei rifornimenti di munizioni che Israele non produce da solo, ma molto limitante nell’impiego della forza a Gaza, imponendo molti vincoli e difficili problemi operativi, forse anche perdite alle forze armate di Israele? Che accadrà con un’eventuale vittoria di Trump? E che bisognerà fare con l’armamento atomico dell’Iran che accumula uranio arricchito, missili, armi di tutti i tipi, ed è sempre più aggressivo in tutto il Medio Oriente? Potrà l’opposizione all’Iran far tenere quell’alleanza che silenziosamente ha tenuto fra Israele e paesi arabi moderati, la cui distruzione è l’obiettivo politico primario dell’Iran e dei suoi alleati? Che faranno Europa e Russia, entrambe coinvolte nella crisi mediorientale? L’opinione pubblica internazionale continuerà a comprendere che Israele si batte per la sua stessa sopravvivenza, contro il progetto di una nuova Shoah? Insomma i problemi per i prossimi mesi sono tanti e difficilissimi. Mai una leadership israeliana, dai tempi della Dichiarazione di Indipendenza e delle guerre successive, aveva avuto una simile responsabilità. La speranza e la necessità e che vi si dimostri all’altezza.
(Shalom, 1 gennaio 2024)
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Avanti nel 2024 ma riorganizziamo le forze
Israele rivela i piani per Gaza
di Filippo Jacopo Carpani
L’esercito israeliano sarà impegnato nella Striscia di Gaza per tutto il 2024, ma la sua presenza sul campo deve essere riorganizzata. “Gli obiettivi della guerra comportano combattimenti prolungati e noi ci organizzeremo adeguatamente”, ha spiegato il portavoce militare Daniel Hagari. “Dobbiamo gestire la distribuzione delle forze sul terreno in maniera complessa, con particolare riferimento alle unità dei riservisti e alle necessità della economia”. L’obiettivo di Tel Aviv rimane la completa distruzione di Hamas, ma con la maggior parte dei combattimenti concentrati a Khan Younis e ampi settori dell’exclave sotto il controllo israeliano, nonostante le continue imboscate da parte di cellule isolate, non sarà più necessario mantenere in armi tutti i 300mila uomini richiamati dopo il 7 ottobre.
“Unità di riservisti torneranno a casa questa settimana, sapendo che la guerra continua e che avremo ancora bisogno di loro nel 2024”, ha affermato Daniel Hagari. Cinque brigate saranno ritirate da Gaza: alcune saranno smobilitate, mentre altre verranno schierate al fronte nord con il Libano, dove la situazione con gli Hezbollah rimane tesa. Due di queste unità sono composte da personale richiamato in servizio e la decisione di permettere il loro ritorno alla vita civile è stata presa per “rienergizzare l’economia”, come parte di una “riconfigurazione” delle forze in campo per l’avvio della terza fase del conflitto.
(il Giornale, 1 gennaio 2024)
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130 ostaggi ancora a Gaza: la protesta delle famiglie
di Sofia Tranchina
Il 2023 entra nel 2024, e per alcuni questo significa lenticchie e fuochi d’artificio. Ma in Israele, da dove vi scrivo, i botti sono quelli dell’artiglieria. Si piange, si protesta, si riflette: non si festeggia il Capodanno.
Non solo il lutto per i cari persi, ma la straziante attesa del ritorno degli ostaggi: più di un centinaio sono ancora a Gaza.
85 giorni di prigionia, tra la superficie e il sottosuolo, in denutrizione, privazione di medicine e di igiene, e senza sapere cosa accadrà. Non si sa chi sia vivo, chi sia malato, chi sia in mano ad Hamas e chi sia disperso, ma le informazioni ricevute dagli ostaggi rilasciati non sono rincuoranti.
«Mentre ci avviciniamo all’inizio del nuovo anno, ho un solo desiderio: festeggiarlo insieme a mio padre», racconta Rotem Calderon, figlio di Ofer, che è ancora a Gaza. «Padre di quattro bambini che non riescono a dormire la notte senza di lui, Ofer è stato crudelmente rapito il 7 ottobre, insieme ai miei due fratelli minori [che sono stati rilasciati, ndr.]. Ogni momento è critico e possiamo perderli in qualsiasi momento. Devono essere liberati adesso».
Mentre il mondo gioca a scacchi schierandosi da una parte o dall’altra, tra una polemica sui social e una fetta di cotechino, i genitori degli ostaggi, i fratelli, gli amanti, gli amici, i figli, i nipoti e chiunque percepisca l’urgenza della causa, si radunano sabato 30 gennaio davanti alla base militare di Tel Aviv con una sola richiesta per il governo Netanyahu e il Gabinetto di Guerra: che la liberazione degli ostaggi sia una priorità assoluta. Prima di sconfiggere Hamas. Prima di creare accordi con un partito o un altro. Prima di tutto: stilare un piano per il ritorno a casa di tutti gli ostaggi, e non più accordi parziali.
«Achshav (עכשיו)! Adesso!», rituona il loro grido; «habaita (הביתה), a casa».
Per ottenere l’agognata liberazione, l’ex coordinatore americano per il Medio Oriente Dennis Ross ha proposto tre vie: spingere gli imam a dichiarare pubblicamente che rapire degli ostaggi non è islamico; convincere i sostenitori della causa palestinese a dire apertamente che Hamas sta danneggiando i palestinesi stessi; e fare pressione affinché il Qatar non si limiti a negoziare bensì imponga a Hamas di liberare gli ostaggi.
Organizzata dal Forum delle famiglie, la manifestazione fa parte di una lunga serie di dimostrazioni che dal 7 ottobre premono sui centri di potere del Paese.
Decine di migliaia di persone hanno partecipato, per ricordare a tutti che, a quasi tre mesi dal sabato nero, sono ancora in tantissimi a non essere tornati a casa, e non vanno dimenticati.
Ed è per questo che Moran Stela Yanai, ostaggio liberato dopo 54, chiede di non tornare alla routine. «Quando mi hanno rapito, mi hanno tolto tutto: il controllo sulla mia vita, sulla mia libertà, sul mio nome, sulla mia identità. Ora siamo la voce degli ostaggi ancora a Gaza. Loro devono ancora parlare sottovoce, ma noi dobbiamo gridare. Donne, uomini, bambini, giovani e anziani, religiosi e laici, di destra e di sinistra, arabi ed ebrei, sono ancora lì. Non hanno più tempo.
Il pensiero più spaventoso a Gaza era che fossi stato dimenticato e che vi sareste abituati alla nostra presenza lì».
Tra le canzoni di Gali Atari e Yuval Dayan, le lacrime, i cartelli, i fiori, e le medagliette con la scritta “הלב שלנו שבוי בעזה, Bring them home” (i nostri cuori sono prigionieri a Gaza, riportateli a casa), Ilan Dalal ha letto una lettera a suo figlio Guy Gilboa, ancora ostaggio a Gaza, per tener viva la speranza del suo ritorno.
«Mio amato figlio Guy, qualche mese fa sei stato rapito da persone malvagie. Il desiderio di riaverti è insopportabile. Sei dentro ai tunnel senza vedere la luce del giorno. Stanco e impaurito di sorridere. Abbiamo bisogno che tu sia forte».
E infine: «non ci arrenderemo mai e faremo di tutto per riportarti a casa. Ti amo infinitamente, ragazzo nostro. Tutti gli ostaggi devono tornare a casa il più presto possibile».
(Bet Magazine Mosaico, 1 gennaio 2024)
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Israele, dov'era l'esercito durante l'attacco di Hamas, il 7 ottobre?
L'indagine del New York Times svela la disorganizzazione e il fallimento dell'esercito israeliano e la mancanza di un piano per contrastare Hamas
di Daniela Nardo
Un'inchiesta esclusiva del New York Times, durata due mesi, è in grado di evidenziare le profonde falle nella struttura e nella preparazione dell'esercito israeliano e il totale fallimento nel far fronte all'attacco di Hamas. Nel corso dell'azione a sorpresa e senza precedenti del 7 ottobre, le forze armate dello stato ebraico hanno mostrato non solo una disorganizzazione inaspettata ma anche una marcata incapacità di comprendere e reagire tempestivamente agli eventi in corso.
• La mattina dell'attacco: confusione e mancanza di preparazione Nelle prime ore dell'attacco, nel bunker "The Pit" a Tel Aviv, i comandanti hanno faticato a interpretare i segnali di allarme provenienti dal confine con Gaza. Si preparavano ad affrontare le conseguenze del massiccio lancio di razzi proveniente dalla Striscia. La comunicazione confusa e frammentata ha ostacolato una risposta rapida, lasciando le truppe disorientate e fuori posizione. Alle 7.43, quasi un'ora dopo l'inizio dell'invasione, dal quartier generale "The Pit" è stato ordinato a tutte le forze di emergenza di dirigersi verso il sud del paese ma non c'era consapevolezza dell'entità dell'attacco e ci vorranno mesi, secondo i giornalisti del NYT, per comprendere il perché di tanta disorganizzazione e il corto circuito nella catena di comando.
• La risposta militare: ritardi e mancanza di piani Oltre a una preparazione inadeguata, l'esercito israeliano ha mostrato una grave incapacità di comprendere l'entità e la serietà dell'attacco di Hamas, avvenuto praticamente in contemporanea in diverse comunità. In almeno una trentina di punti, lungo tutto il confine, sono state divelte le reti ed è stato fatto saltare il muro di protezione che separa tutta la Striscia di Gaza dal territorio israeliano. Sono state assaltate le basi di Re'im, ci sono stati scontri a fuoco al Varco di Erez, con i soldati, ma i massacri nelle decine di comunità del sud di Israele, sono avvenuti senza la presenza né il soccorso dei militari. In alcuni Kibbutz come Nir Oz, ma anche a Be'eri i soldati dell' IDF sono arrivati con ore e ore di ritardo, anche 12, così come al Re'im Nova Party festival. Le direttive di schieramento sono state emesse con eccessivo ritardo, evidenziando un sistema di comando e controllo non adeguato alle esigenze di una crisi così ampia, inattesa e in evoluzione. Né l'intelligence, né tantomeno l'esercito hanno saputo immaginare che Hamas fosse in grado di mettere in atto un'azione così eclatante, organizzata e coordinata. Eppure i segnali, come si evince, sempre da un'inchiesta del NYT ma anche della BBC, c'erano stati ma sono stati sottovalutati così come lo è stata la forza di Hamas, che per l'occasione si è saldata con altre organizzazioni della Jihad islamica. Un'azione che le organizzazioni militari islamiche stavano preparando da almeno un anno. Anche lo scorso maggio, quando gli analisti dell’intelligence lanciarono allarmi sulle esercitazioni di addestramento di Hamas, i funzionari israeliani non aumentarono il numero delle truppe nel sud.
• Le conseguenze dell'Assalto: perdite e critiche L'attacco ha avuto conseguenze devastanti: circa 1.200 persone hanno perso la vita, tra queste c'erano almeno 300 militari, 240 sono state prese in ostaggio (ne rimangono oltre 130 nelle mani di Hamas). La tragedia ha sollevato domande scomode sulla capacità di un esercito tradizionalmente considerato tra i più avanzati del mondo, di proteggere i cittadini israeliani. Un esercito che è apparso fuori posizione, mal organizzato e sottodimensionato, nel giorno della tragica coincidenza con lo shabbat e con la festività ebraica di Simchat Torah, con oltre la metà dei 1500 uomini assegnati alla zona, assenti. Due compagnie 100 di soldati erano inoltre state spostate appena due giorni prima in Cisgiordania. Dalle testimonianze raccolte dal New York Times, i militari comunicavano in gruppi WhatsApp improvvisati e facevano affidamento sui post sui social media per avere informazioni.
• Lo scarso equipaggiamento Nessuno aveva insomma compreso che si trattava di fronteggiare migliaia di miliziani, che, intorno alle 8.00 del mattino del 7 ottobre controllavano già le principali arterie del sud come la 232, che corre parallela ai confini della Striscia fino a oltre Sderot, e attraverso la quale, uno dietro l'altro, si arriva a quasi tutti i luoghi assaltati, dal Nova Nature Party, alla base di Re'im, Nir Oz, Be'eri, Kfar Azza, Alumim, Mefalsim, Nahal Oz e più a sud Nir Ytzak, Sufa e Kerem Shalom. Così come la strada 234 che si interseca alla prima nei pressi di Re'im. I soldati che sono intervenuti lo hanno fatto solo con fucili d'assalto, armati per brevi combattimenti, contro miliziani dotati di mitragliatrici, lanciarazzi e lanciagranate RPG. Ai piloti di elicotteri, secondo il quotidiano americano, sarebbe stato ordinato di consultare notizie e canali Telegram per decidere gli obiettivi. Ma l'aspetto più grave è che le forze israeliane non avevano neanche un piano per rispondere ad un attacco su vasta scala di Hamas sul suolo israeliano, semplicemente perché nessuno lo riteneva possibile.
• Conclusione L'inchiesta del New York Times ha messo in luce una serie di gravi carenze all'interno dell'esercito israeliano, che vanno dalla disorganizzazione strutturale alla mancanza di un piano d'azione efficace, è emblematica la dichiarazione rilasciata al quotidiano dal maggiore Ben Zion, riservista: la sua unità di paracadutisti ha lasciato la base nel centro di Israele, non lontano da Tel Aviv, in un convoglio intorno alle 13:30. Si sono mobilitati da soli, senza un ordine formale e senza equipaggiamento per la visione notturna e armi adeguate. Si aspettavano di vedere le strade piene di soldati e veicoli blindati diretti a sud. “Le strade erano vuote" ha raccontato il maggiore. Dopo circa sette ore dall'inizio dei combattimenti, si è rivolto al riservista accanto a lui e gli ha chiesto: "Dov'è l'esercito?"
(TG LA7, 1 gennaio 2024)
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