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Notizie 1-15 giugno 2015


Museo della Shoah - Il Campidoglio stanzia 268mila euro per l'anno 2015

Il Comune di Roma ha approvato lo stanziamento per l'anno 2015 da destinare alla Fondazione Museo della Shoah onlus', fissandolo per il 2015 a 268mila euro. Il contributo di Roma Capitale, socio fondatore della Fondazione assieme a Regione Lazio, Comunità ebraica di Roma, Associazione Figli della shoah e Unione delle comunità ebraiche italiane, viene erogato ogni anno,ed è stabilito con delibera di Giunta. Il documento è stato approvato lo scorso 29 maggio. Rispetto agli anni precedenti, le risorse messe a disposizione dall'amministrazione comunale viste le "esigenze di bilancio e di razionalizzazione e contenimento delle spese delle pubbliche amministrazioni", per le quali "Roma Capitale ha dovuto operare una riduzione degli stanziamenti", hanno subito un taglio di 32mila euro. Nel dettaglio delle cifre, per gli anni 2008 e 2009 il comune di Roma aveva stanziato 200mila euro annui, 400mila per il 2010 e di 300mila euro per il 2014. La Fondazione Museo della Shoah nasce nel luglio 2008 ad opera del Comitato promotore del progetto Museo della Shoah, costituitosi alla fine del 2006. La mission della Fondazione Museo della Shoah è quella di dare impulso alla costruzione del Museo Nazionale della Shoah a Roma.

(la Repubblica - Roma, 15 giugno 2015)


Il Patron di Google ammira Israele

Durante una visita al Weizmann Institute il 7 giugno 2015, Eric Schmidt, CEO di Google dal 2001 al 2011 e attuale presidente del consiglio di amministrazione di Google ha parlato di fronte una platea di centinaia di ricercatori e studenti.
Eric Shmidt non ha nascosto la sua ammirazione per l'innovazione israeliana:

L'impatto che gli israeliani hanno sulla scienza è immenso, ed è per questo che sono qui e investo qui. Israele è in piena espansione in termini di imprenditorialità perché avete una cultura che vi permette di mettere in discussione l'autorità e sfidare tutto, non si seguono le regole.

Eric Shmidt ha citato gli attuali progetti di ricerca di Google come le automobili autonome o le lenti a contatto in grado di rilevare i livelli di glucosio nel sangue per i diabetici ed ha affermato in pubblico:

Dovete fare delle grandi scommesse. Se si sta costruendo qualcosa, cercate di risolvere i problemi globali.

Occorre sottolineare che Google ha già effettuato numerosi investimenti in Israele tra cui l'acquisto dell'app israeliana Timeful che permette di gestire il tempo in modo intelligente.

(SiliconWadi, 15 giugno 2015)


Diesel festeggia 20 anni di presenza in Israele

Con un nuovo flagship store e con la mostra "The World Of Diesel"

Il viaggio a Tel Aviv di Renzo Rosso e Nicola Formichetti per festeggiare i 20 anni di presenza del brand Diesel in Israele è iniziato con una visita alla Shenkar College of Engineering Design and Art, dove sono stati presentati al presidente di Shenkar e all'ex Ministro della Pubblica Istruzione, Yuli Tamir. Hanno visionato e valutato i lavori, conferendo un diploma speciale agli studenti del secondo anno che hanno sviluppato dei progetti creativi a partire da un modello base di jeans Diesel. Hanno poi incontrato l'intera popolazione studentesca della scuola, gli insegnanti e gli ex studenti, per una conversazione sul design e la creatività.
   Per celebrare l'apertura del nuovo store a Sarona, una ex colonia dei Templari tedeschi, ora la zona commerciale più animata di Tel Aviv, Renzo e Nicola hanno aperto la mostra "The World Of Diesel", il mondo di Diesel, inaugurata con un cocktail party e una performance dell'artista rock israeliano Ninet Tayeb, alla presenza delle più note celebrità del paese e di icone dell'industria della moda. La mostra ha dato vita alla storia del successo e dello spirito alternativo di Diesel, con un' esperienza completa, che ripercorre i 37 anni di storia del marchio e la sua visione del futuro combinando reale e digitale, coinvolgendo il pubblico in un evento a molteplici livelli. L'innovazione, la creatività e il know-how di Diesel prendono vita in una coinvolgente esperienza che comprende proiezioni video, prodotti iconici (denim ovviamente, ma anche pezzi vintage di Diesel dagli anni Novanta e i successivi) e installazioni interattive.
   "37 anni di coraggiosa innovazione, di ciò che abbiamo osato fare e delle motivazioni che ci spingono, questo è ciò che Diesel rappresenta - ha dichiarato Nicola Formichetti -. Abbiamo plasmato un nuovo modello di marchio lifestyle, mostrando la nostra visione per quello che sarà il prossimo capitolo della storia del brand ".
   Dopo una visita toccante a Gerusalemme, Renzo Rosso ha avuto un incontro personale, testa a testa, con l'ex presidente di Israele Shimon Peres presso il Centro Peres per la Pace. "Abbiamo parlato delle nuove generazioni, di scienza e di innovazione, di speranza per il futuro - commenta Renzo Rosso -. Ho incontrato un uomo con una storia e un'esperienza incredibile, ma con l'atteggiamento positivo e l'apertura mentale di un giovane. È stato incredibilmente stimolante ed emozionante. Spero che potremo rivederci presto".

(ModaOnline.it, 15 giugno 2015)


Pacifici lascia Roma: in campo per gli ebrei d'Europa

Oggi i nuovi vertici della Comunità Per l'ex presidente l'incarico di alto consulente per la sicurezza.

di Paolo Conti

Riccardo Pacifici con la moglie
ROMA - Oggi la Comunità ebraica romana conoscerà i risultati delle elezioni per i nuovi vertici, i primi senza Riccardo Pacifici, in Consiglio da 22 anni e presidente dal 2008. Ma l'ex presidente continuerà, con un nuove incarico, nel suo ruolo di interprete dell'ebraismo romano: «È un compito che premia la capacità della comunità di governarsi in piena sicurezza. Per espresso desiderio di Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress, monitorerò le condizioni di protezione delle comunità ebraiche europee e vigilerò su tutti i fenomeni di antisemitismo, in stretto coordinamento sia con il World Jewish Congress che con le autorità di Israele. Incontrerò capi di Stato e di governo, prenderò contatto con le forze dell'ordine e i servizi dei diversi Paesi. C'è il pericolo rappresentato dall'Isis, dal dilagare dell'ideologia del Califfato. E non è un caso che questo incarico venga incardinato a Roma, accanto al Vaticano, alla sede del papato, punto strategico per il dialogo, per l'accoglienza e per la solidarietà».
   Per Pacifici è tempo di bilanci («non avrei potuto fare nulla senza il sostegno di mia moglie e dei miei quattro figli, dai 9 ai 17 anni, hanno sopportato le mie lontananze e i vincoli legati alla sicurezza»). Se gli chiedono quale Comunità ebraica lasci dopo il suo impegno, risponde così: «Più consapevole, unita, osservante, orgogliosa della propria identità. Nel 1997 le sinagoghe romane erano 7-8, oggi sono 18. C'era un solo ristorante kosher, oggi i locali di questo tipo sono 35, il 91% dei bambini ebrei si iscrive alla scuola elementare ebraica. Nei protocolli delle cerimonie ufficiali la comunità era quasi ignorata, oggi è impensabile che un nostro rappresentante manchi in qualsiasi appuntamento significativo, in un posto d'onore».
   Romani e italiani, ebrei e non, «scoprirono» Pacifici col processo al criminale nazista Erich Priebke quando, nella notte del 1 agosto 1997 dopo la contestata assoluzione del Tribunale militare, impedì — con la mobilitazione che aveva organizzato — la partenza del pianificatore dell'eccidio delle Fosse Ardeatine per l'Argentina: «Telefonammo al rabbino Elio Toaff che ci disse semplicemente di non muoverci di lì. Capimmo. Fu la scelta giusta». Da allora i quindicimila ebrei romani hanno avuto in Pacifici un rappresentante presentissimo, combattivo e anche discusso. Molti gli rimproverano il carattere duro, spesso anche aggressivo. Lui sorride: «E lo rivendico. Sono diretto, guardo negai occhi, non ho mai parlato alle spalle. Così ho fatto con D'Alema o con Berlusconi, indifferentemente». E non tutti considerano positivo lo «sdoganamento», ai tempi, di Massimo Fini e dell'ex sindaco Gianni Alemanno: «Invece rifarei tutto. Sia Fini che Alemanno ci hanno chiesto aiuto per capire fino in fondo i fatti storici, le atrocità, le responsabilità del fascismo. Ai tempi era pienamente d'accordo anche Amos Luzzatto, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, ex militante del PCI. Infatti sia Fini che Alemanno hanno condannato apertamente le scelte del fascismo, ne hanno preso le distanze, hanno visitato Auschwitz e compreso la vastità della Shoah. È stata un'operazione essenziale per un'importante settore della politica italiana di quegli anni, abituata a relegare ogni responsabilità nell'ambito del nazismo».
   In quanto alla Roma di oggi? «Ho difeso e continuo a difendere Ignazio Marino. L'anno scorso, prima del caso Mafia Capitale, autorevoli esponenti del Pd mi sondarono per un'eventuale successione. Sorridendo dissi che avrei accettato solo se il mio compenso fosse stato di un euro, tengo troppo alla mia libertà di vivere col lavoro di rappresentante di commercio. Ma escludo che il problema sia all'ordine del giorno...».
   
(Corriere della Sera, 15 giugno 2015)


Netanyahu: "Perdita di tempo il rapporto Onu"

 
Netanyahu gioca d'anticipo sull'indagine dell'Onu dedicata all'intervento israeliano a Gaza e presenta un rapporto concorrente. Secondo il premier israeliano, è stata Hamas a commettere «crimini di guerra», usando la popolazione civile per le sue strategie, sia come obiettivo (quella israeliana) che come scudo (quella palestinese). E dunque leggere il Rapporto che il Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu si appresta a varare sul conflitto della scorsa estate è solo «una perdita di tempo», perché le "conclusioni" dell'Onu sulla guerra «erano già scritte prima ancora che cominciassero le verifiche».
Il premier dello Stato ebraico ha messo sul tavolo le conclusioni di un'indagine svolta dall'esercito israeliano e l'analisi di un "Gruppo militare internazionale" che comprendeva l'ex ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi.
Secondo Netanyahu «il rapporto dell'esercito prova inequivocabilmente che le azioni condotte dalle forze militari e di sicurezza nel corso dell'operazione sono in accordo con la legge internazionale». Hamas ha definito il rapporto «insignificante»: secondo Sami Abu Zuhri, «i crimini di guerra di Israele sono evidenti a tutti, essendo stati compiuti davanti a telecamere».
Secondo l'indagine degli esperti del Gruppo militare internazionale, «Israele si è molto sforzato di limitare i danni collaterali e le perdite di civili» con misure di precauzione superiori a quelle adottate da altri eserciti in circostanze simili.

(la Repubblica, 15 giugno 2015)


Estate 2014: Hamas fu l'aggressore e la causa delle vittime civili

Lo confermano sia il rapporto di un'inchiesta inter-ministeriale israeliana, sia quello di un gruppo di esperti stranieri.

Un rapporto inter-ministeriale israeliano sull'operazione anti terrorismo "Margine protettivo" della scorsa estate nella striscia di Gaza pubblicato domenica qualifica quella contro Hamas come una guerra difensiva lanciata controvoglia "in risposta al crescente numero di razzi e colpi di mortaio sparati su Israele dalla striscia di Gaza nei mesi di giugno e inizio luglio 2014, e nonostante i continui sforzi da parte di Israele di raffreddare l'escalation".
Il rapporto descrive i continui sforzi fatti da Israele per arrivare a un cessate il fuoco che ponesse fine ai combattimenti, e le ragioni della sua decisione finale di inviare forze di terra nella striscia di Gaza. "Il 17 luglio 2014, a seguito del continuo rifiuto di Hamas delle iniziative di cessate il fuoco, del continuo lancio di razzi e colpi di mortaio e dei tentativi di compiere attentati in territorio israeliano infiltrando terroristi dal mare e attraverso i tunnel sotto il confine, il governo israeliano autorizzava l'ingresso delle forze di terra in una limitata zona della striscia di Gaza"....

(israele.net, 15 giugno 2015)


Oltremare - Silenzio

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Quando ero ragazzina, una bambina poco più piccola di me fece sorridere gli adulti un giorno quando sua madre le chiese: "Come mai sei così silenziosa?" e lei rispose serafica: "Sto riflettendo". Avrà avuto otto anni, e da allora mi chiedo su che cosa potesse riflettere una bambina di quell'età. Ma sono tuttora amica di quella bambina, e la sua propensione alla riflessione non si è rovinata con l'età. Il silenzio. Assenza di parole, o di rumore. Non è una condizione facile de raggiungere nel nostro mondo, e in Israele intere legioni di cercatori di silenzio si arroccano in certi seminari nel verde Nord o nel deserto rosato - intere settimane in cui si vieta a sé e agli altri di pronunciare parole. Pare faccia molto bene. Di certo farebbe bene a tutti quelli che sbraitano punti esclamativi a go go e maiuscole e parolacce e insulti sui social network da mattina a sera. Che quelle non sono parole che fanno suono, ma di certo fanno molto rumore, spesso del tutto inutile. A volte, potenzialmente dannoso. E lo dico sentendomi anche io parte della piccola e disorganizzata armata brancaleone che posta e commenta su Facebook, nel mio caso soprattutto quando le tendenze anti-israeliane del giornalismo italiano superano il limite del tollerabile. Ci sono però occasioni in cui il nostro reagire a provocazioni belle e buone è un cadere in trappola. Facebook non può essere una alternativa alle vie legali. Se i provocatori postano dichiarazioni tanto deliranti quanto antisemite (e Israele sempre più spesso è un pretesto, una ennesima manifestazione dell'ebreo, odiato con immutata violenza), non serve riempire le bacheche di insulti al provocatore di turno. Anzi, si regala a quei provocatori spazio che potrebbe essere invece usato per promuovere Israele in senso positivo. Gli antisemiti che sono così stupidi e imbelli da scrivere cose che possono essere portate in tribunale, vengano (e in fretta) portati fuori da Facebook e dentro un tribunale. Sugli altri, può calare un silenzio di gelo e isolamento. E sui wall fa una figura molto migliore un video sulla nuova medicina contro il cancro. Made in Israel.


(moked, 15 giugno 2015)


I cittadini israeliani disposti al monitoraggio email per combattere gli attacchi informatici

GERUSALEMME - Più della metà dei cittadini israeliani sono disposti a sacrificare la propria privacy via internet se questo significa aumentare la sicurezza nazionale: è quanto riferisce un nuovo studio condotto dai ricercatori dell'Università di Haifa, in Israele. La ricerca mostra che il 53 per cento degli intervistati sarebbero d'accordo con il monitoraggio del governo del proprio account di posta elettronica e attività di social media; Il 37 per cento sono, invece, d'accordo con la sorveglianza diretta dell'esecutivo sui siti dei social media e il 28 per cento è disposto ad accettare il blocco di alcuni siti ritenuti pericolosi. L'87 per cento degli intervistati, invece, si aspettano che il governo risponda a un attacco informatico con un contrattacco, mentre il 13 per cento hanno dichiarato che sarebbe d'accordo ad azioni militari, come il lancio di missili contro i nemici.

(Agenzia Nova, 15 giugno 2015)


Concerto per il 67o anniversario dell'Indipendenza di Israele

 
                                                                    Baldi e Barak Olier                                                                                       Delilah Gutman
SAN MARINO - Nell'ambito dei festeggiamenti per il 67o anniversario dell'Indipendenza dello Stato di Israele, venerdì prossimo, 19 giugno, alle ore 19, presso il Teatro Titano, si terrà il concerto "Armonie da Israele".
Baldi e Barak Olier - due chitarristi israeliani di notorietà e fama internazionali - e Delilah Gutman - pianista, cantante e compositrice italoamericana - eseguiranno una serie di opere scelte da repertori musicali dalle atmosfere gitane e sudamericane.
Il concerto di San Marino è stato inserito nelle tappe del tour mondiale. L'evento è promosso in collaborazione con la Segreteria di Stato agli Affari Esteri e l'Associazione Musicale "Camerata del Titano".
L'ingresso è libero fino ad esaurimento posti ma la prenotazione è obbligatoria.

(San Marino Notizie, 15 giugno 2015)


Il sindaco di Conflenti invita il rabbino Scialom Bahbout

CONFLENTI (CZ) - Nota del sindaco di Conflenti, Giovanni Paola:
"Su suggerimento dell'Assessore Ezio Calabria, il quale ha ricordato che molti studi sulla storia del nostro Comune concordano nel ritenere che buona parte della popolazione di Conflenti (se non tutta!) abbia origine ebraica, è stata intrapresa l'iniziativa di invitare il Rabbino del Meridione d'Italia, Rav Scialom Bahbout, di stanza presso la Comunità ebraica di Napoli.
L'idea è quella di essere presente presso la nostra comunità in occasione dell'imminente inaugurazione della sede municipale, oggetto di radicale ristrutturazione per i lavori eseguiti con fondi ministeriali finalizzati all' "efficientamento energetico".
Attualmente siamo in trepida attesa di conoscere la decisione che il Rabbino intende prendere riguardo il nostro invito, pur riconoscendo le oggettive difficoltà perché il Rabbino è sempre molto impegnato nei confronti delle numerose comunità ebraiche distribuite su tutto l'ambito territoriale dell'Italia Meridionale."

(ilLametino.it, 15 giugno 2015)


La dieta kasher

Le regole millenarie dell'alimentazione «adeguata» per il popolo ebraico spiegate nei loro diversi aspetti in un libro appena presentato ad Expo2015.

Che cos'è esattamente la dieta Kasher? Delle regole alla base dell'alimentazione "adeguata" (kashernut) che il popolo ebreo si tramanda da millenni, si sente parlare spesso, e spesso in modo improprio o male informato. Per tentare di porre rimedio a considerazioni superficiali sull'argomento è stato presentato il 10 giugno in Expo il libro "La dieta kasher", a cura di Rossella Tercatin. Un excursus che illustra i diversi aspetti, criteri e le regole della dieta kasher sotto diversi punti di vista. Il tema è analizzato da più autori, uomini di fede, medici, cuochi e tecnologi alimentari, proprio per consentire di trasmettere informazioni e stimoli di riflessione circa il valore della cucina ebraica. Quattro sono i concetti sviluppati nel libro: il valore che viene attribuito al cibo nella cultura ebraica; il rispetto del creato e quindi del regno animale e vegetale; il controllo della preparazione e della conservazione del cibo; le risposte alle tante domande sulle regole alimentari e sul loro significato per la salute. La dieta kasher e le norme della kasherut hanno ricevuto una crescente attenzione negli ultimi decenni via via che si diffondeva un po' ovunque la convinzione che un continuo attento controllo di tutta la filiera alimentare, garantisca la qualità del prodotto, oppure che le regole della dieta abbiano un significato medico, ed altro ancora. Ma tutto l'insieme delle regole della kasherut non trovano una esauriente giustificazione medico-scientifica e soprattutto non è questo il loro significato.
Una lettura molto interessante per tutti, utili ad allargare i proprio orizzonti culturali e inquadrare meglio il significato di una tradizione millenaria.

 Keren Kayemeth Leisrael
  Il libro è stato presentato nel Padiglione Israele ad Expo per iniziativa del Keren Kayemeth Leisrael , Fondo Nazionale Ebraico, il più antico ente ambientalistico al mondo.Nato con lo scopo di raccogliere fondi per comprare terre nella Palestina ottomana, oggi è riconosciuto protagonista nel verde. Attivo nello sviluppo di tecnologie per il riciclo dell'acqua e in azioni di ripopolamento di zone interamente desertiche, fornisce il proprio contributo e know-how a diversi paesi nel mondo.
Per i prossimo eventi organizzati da KKL a Expo 2015 si può consultare il sito.

(Corriere della Sera, 14 giugno 2015)


Parmigiano in versione Kosher per conquistare gli Usa

Negli Stati Uniti, il mercato che segue le regole della 'kasherut', la normativa ebraica sul cibo, vale oltre 12 miliardi di dollari.

 
Entro fine anno arriverà sul mercato il primo Parmigiano Reggiano Kosher
NEW YORK - Entro fine anno, il Parmigiano Reggiano sbarcherà sul mercato nella sua versione Kosher. Artefice della nuova vita del re dei formaggi, l'azienda agricola Bertinelli che, a partire dallo scorso ottobre, ha avviato la produzione di Parmigiano Reggiano DOP Kosher.
Una mossa che mira ad incrementare il giro d'affari in Israele, ma soprattutto negli Stati Uniti, dove la domanda di prodotti kosher sta esplodendo.
Secondo i dati Lubicom Marketing & Consulting, il mercato di prodotti kosher ha raggiunto un valore pari a 12,5 miliardi di dollari. Dei 12,4 milioni di persone che comprano prodotti kosher negli Stati Uniti, solo un quinto segue le regole della kasherut, la normativa ebraica sul cibo basata sull'interpretazione della Torah. La maggior parte dei consumatori acquista questi prodotti solo per ragioni legati al benessere.
Tra le aziende italiane che hanno ottenuto la certificazione Kosher, spicca la Lavazza e il colosso alimentare Ferrero, famosa all'estero per la Nutella.

(Wall Street Italia, 14 giugno 2015)


Israele tentò di contenere le vittime

Un rapporto di un apposito Gruppo internazionale ha respinto gli addebiti ad Israele di aver deliberatamente colpito civili a Gaza.

Nell'operazione militare Margine Protettivo della scorsa estate a Gaza "Israele si è molto sforzato di limitare i danni collaterali e le perdite di civili": questa una delle conclusioni di un rapporto preparato da un apposito 'Gruppo militare internazionale ad alto livello', al termine di una verifica condotta in Israele nei mesi scorsi.
Il gruppo, che comprendeva anche diplomatici di vari Paesi, è stato presieduto dal generale tedesco Klaus Naumann, ex presidente della Commissione militare della Nato.
Nel rapporto, ripreso oggi dalla stampa israeliana, questi esperti respingono gli addebiti ad Israele di aver deliberatamente colpito civili a Gaza. "Noi siamo giunti alla conclusione opposta", scrivono. Non c'è dubbio, aggiungono, che Israele "non voleva quel conflitto", che ha cercato di evitarlo e che ha compiuto "sforzi ripetuti" per mettergli fine.
Le misure di precauzione adottate da Israele per proteggere la popolazione civile, secondo gli esperti, superano di gran lunga quelle adottate da altri eserciti in circostanze simili.
Questi esperti denunciano poi Hamas per non aver compiuto sforzi di evacuare la popolazione civile. "Al contrario - scrivono - ci sono casi che documentano che civili sono stati costretti a restare o a tornare in zone dove si attendavano attacchi israeliani".
Delle oltre 2000 vittime, la metà circa - concludono gli esperti - sono da ritenersi combattenti di Hamas o affiliati ad altri gruppi armati.

(Corriere del Ticino, 14 giugno 2015)


Expo2015, padiglione Israele: eventi su agricoltura e desertificazione

Dal 14 al 18 giugno

di Matteo Carriero

All'Expo2015 di Milano si preparano eventi importanti nel padiglione di Israele: il 14, 15 e 16 giugno 2015 avremo un evento targato KKL con panel di discussione sull'agricoltura nelle zone desertiche, mentre il 18 giugno si terrà un'importante conferenza sulla desertificazione e la conservazione del suolo.
Una serie di eventi importanti nel padiglione Israele all'Expo2015 di Milano avranno luogo nei prossimi giorni: prima avremo un triplice appuntamento per via dell'evento KKL (il Fondo Nazionale Ebraico) che coprirà le giornate del 14, 15 e 16 giugno, ovvero domenica, lunedì e martedì prossimi. In queste giornate si terrà un panel di discussine con Itzhak Moshe, Vicedirettore Regione Sud KKL-JNF, nonché professori universitari ed esperti nel campo dell'archeologia.
Il titolo dell'evento è "L'agricoltura nelle zone desertiche", con sottotitolo esplicativo "Alla scoperta di tecniche agricole adottate fin dall'antichità per rendere coltivabile il deserto in Israele"; sarà presente l'architetto Pietro Laureano il giorno 14, Mariagrazia Falcone dell'Ufficio del Turismo Israeliano il 15 e il professore Stefano Grego dell'Università di Viterbo martedì 16.
Per le tre giornate indicate avranno quindi luogo discussioni sul tema. Il tutto avrà inizio alle ore 11, ogni giorno, nella sala eventi presente al secondo piano del padiglione d'Israele all'Expo di Milano.

(ecologiae, 14 giugno 2015)


Scheda - La parabola di Hamas dal 2007 a oggi

Otto anni fa la presa di Gaza. Poi lo scontro con Fatah. I soldi dai Paesi del Golfo. Il calo di consensi. E ora il dialogo con Netanyahu. L'evoluzione del Movimento.

di Guido Mariani

Nel giugno di otto anni fa un gruppo di uomini armati e mascherati entrò a Gaza nell'ufficio del presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas.
Uno di loro si sedette alla poltrona, alzò la cornetta del telefono e finse di chiamare l'allora Segretario di Stato americano Condoleezza Rice: «Ciao, adesso devi parlare con me. Abu Mazen non c'è più».
Era lo scenografico atto conclusivo della battaglia di Gaza che lasciò sul campo in cinque giorni più di 100 morti e segnò il definitivo dominio del gruppo islamico Hamas sulla Striscia.
    FATAH RELEGATO IN CISGIORDANIA - Il partito laico di Fatah e il governo dell'Anp, riconosciuto dalla comunità internazionale, veniva relegato ai territori della Cisgiordania e svuotato di parte del suo potere.
Da allora i palestinesi sono divisi non solo geograficamente, ma anche politicamente, rappresentati da due fazioni rivali che dominano due territori diversi.
A Gaza sono stati otto anni di guerra e di isolamento internazionale e oggi con la minaccia dell'Isis che incombe sul Medioriente la situazione è anche più complicata.

1. L'obiettivo: creare uno Stato palestinese islamico
    Hamas è nato nel 1987 ai tempi della prima Intifada, si è costituito come un movimento fondamentalista islamico con un nome che significa zelo, entusiasmo, ma in realtà è un acronimo che sta per Harakat Al-Muqawama Al-Islamia cioè Movimento di Resistenza Islamico.
L'obiettivo del gruppo, sin dalle origini, è quello di creare uno Stato palestinese islamico con capitale Gerusalemme e distruggere quello di Israele. Per questo si è sempre opposto a ogni negoziato di pace.
    LA VICINANZA AI FRATELLI MUSULMANI - Fondato dall'Imam Ahmed Yassin, ucciso da Israele nel 2004, Hamas è stato sempre molto vicino al movimento dei Fratelli Musulmani. Negli Anni 90, dopo gli accordi di Oslo, iniziò un'intensa campagna di attentati contro Israele (e contro i trattati di pace): 500 azioni terroristiche che hanno portato alla morte di 350 persone.
Prima di conquistare Gaza militarmente la formazione aveva vinto le elezioni del 2006 per il parlamento palestinese. Da quando controlla la Striscia, Israele ha lanciato contro Gaza tre massicce offensive militari che sono costate la vita a migliaia di civili: Piombo fuso nel 2008, Pilastro di difesa nel 2012 e Margine di difesa nel 2014.

2. La leadership: Meshal capo politico, Deif capo militare
    Hamas è un movimento la cui leadership è divisa tra un'ala politica e una militare.
Quella politica fa capo a Khaled Meshaal, 59 anni. Membro dei Fratelli Musulmani dal 1971, ha studiato e vissuto per lungo tempo in Kuwait, sì è trasferito in Giordania dove ha iniziato la militanza in Hamas per poi diventarne il leader.
Ha vissuto gli ultimi anni in Siria, ma ha abbandonato il Paese dopo lo scoppio della guerra civile. Oggi vive in Qatar, a Doha. Il leader politico a Gaza è Ismail Haniyeh, che dal 2006 al 2007 è stato anche il primo ministro unitario dell'Anp.
    UN ESERCITO DI 10 MILA UOMINI - L'ala militare è rappresentata dalle Brigate ?Izz al-D?n al-Qass?m, un esercito di circa 10 mila uomini che fa capo a Muhammad Deif, 49 anni, da anni in cima alla lista degli obiettivi più importanti dell'esercito israeliano.
È sopravvissuto a diversi attacchi mirati e in alcune occasioni è stato dato per morto. In uno di questi attacchi l'anno scorso sono stati uccisi sua moglie e suo figlio di sette mesi. Stando alle ultime notizie provenienti da Israel Radio, Deif è ancora vivo e operativo nella striscia di Gaza dove sta cercando di ricostruire l'arsenale e le risorse delle sue brigate.

3. Le alleanze: rottura coi Paesi sciiti, i soldi arrivano dal Golfo
    Hamas sopravvive grazie ai soldi che provengono dall'estero.
Il suo budget annuale è stato stimato in 70 milioni di dollari. Molti di questi provengono da organizzazioni private sparse nel mondo musulmano. Fino al 2004 uno dei Paesi più generosi nei confronti di Hamas è stata l'Arabia Saudita, è cresciuto poi il ruolo di Iran e Siria.
    LA SVOLTA SIRIANA - La guerra civile in Siria ha cambiato però lo scenario. Hamas ha deciso di non schierarsi apertamente a favore di Bashar al Assad. E Meshaal ha abbandonato il Paese, alla volta del Qatar. La decisione ha portato a un punto di rottura delle relazioni tra il movimento e l'Iran, alleato della Siria. I finanziamenti da Teheran sono stati tagliati e così la consulenza su questioni strategiche e militari.
I soldi continuano ad arrivare dagli emirati del Golfo e da organizzazioni private, ma la situazione è sempre più difficile. La rottura con i Paesi e le formazioni sciite ha creato il vuoto attorno ad Hamas, che non può neppure contare più sui Fratelli Musulmani, allontanati dal potere in Egitto.
Inoltre le scelte internazionali hanno provocato una frattura tra l'ala politica e quella militare. Le Brigate al-Qass?m vorrebbero infatti riconciliarsi con l'Iran.
    LO SCONTRO CON I SALAFITI - Intanto a Gaza hanno guadagnato influenza formazioni radicali salafite, che hanno annunciato un'alleanza con l'Isis. Una mossa più di propaganda che sostanziale, ma ormai con Hamas è scontro aperto.
Questi gruppi non hanno la forza per minacciare il controllo sulla Striscia (secondo alcune stime sono circa un migliaio di militanti), ma stanno rendendo le cose difficili all'organizzazione già pesantemente indebolita dalla guerra dell'anno scorso e dai dissidi interni.
Hamas ha accusato i salafiti di essere responsabili di alcune esplosioni che hanno colpito i presidi militari nella Striscia e di aver lanciato alcuni razzi su Israele.

4. Il consenso: Hamas perde quota, oggi a Gaza vincerebbe Fatah
    Secondo un sondaggio del think tank Palestinian Center for Policy and Survey Research, a Gaza il malcontento cresce.
Le ferite dell'ultima azione militare di Israele sono ancora aperte: circa 10 mila case distrutte e 17.500 famiglie rimaste senza un tetto.
L'80% dei giovani e la metà dell'intera popolazione vorrebbe emigrare e l'insoddisfazione cresce molto di più che nei territori della West Bank.
In una terra che ha sempre convissuto con povertà e guerra sono le percentuali più alte mai registrate. A Gaza, dove l'età media della popolazione è 18 anni, gran parte dei giovani non ha lavoro.
    IL 38% VORREBBE BARGHOUTI PRESIDENTE - Negli ultimi mesi anche molti lavoratori assunti da Hamas per svolgere funzioni pubbliche non hanno ricevuto lo stipendio, sono scoppiate proteste ed è aumentata la tensione.
La popolarità di Hamas appare complessivamente in calo e, secondo il campione, se le elezioni venissero tenute oggi Fatah potrebbe vincere anche a Gaza.
Il politico che avrebbe più consensi come presidente (il 38%) sarebbe Marwan Barghouti, ex membro di Fatah nelle carceri israeliane dal 2002.

5. Il rapporto con Fatah: torna la tensione dopo la riconciliazione naufragata
    I rapporti tra i due più importanti partiti palestinesi continuano a essere quantomeno tesi.
Nell'aprile del 2014 dopo anni di scontro aperto, Fatah e Hamas hanno deciso di stringere uno storico accordo che stabiliva la volontà di creare un governo comune e di fissare entro pochi mesi la data delle elezioni. Il nuovo governo ha giurato nel giugno del 2014, ma non si è mai trovato un accordo sul voto.
A novembre Hamas ha comunicato di ritenere l'esperienza conclusa, dichiarazione subito smentita da Fatah.
    LE RUGGINI SUI FINANZIAMENTI - Questi mesi sono stati scanditi da confusione e reciproche accuse.
Fatah ha accusato Hamas di aver sprecato 700 milioni di dollari di aiuti internazionali destinati alle vittime del conflitto a Gaza. Hamas l'esatto opposto, incolpando la controparte di essersi accaparrata i finanziamenti per la ricostruzione.
A settembre lo stesso Hamas, in disperato bisogno di fondi per pagare i salari, aveva razziato la filiale della Banca della Palestina a Gaza (vicina a Fatah), sottraendo armi in pugno 750 mila dollari.
    HAMAS CRESCE IN CISGIORDANIA - Lo scorso 11 giugno la Russia s'è detta disponibile a mediare tra le due formazioni come è già accaduto in passato. In questo scenario complesso ha destato scalpore la notizia che le elezioni studentesche tenutesi nell'Università Birzeit, vicino a Ramallah (Cisgiordania), hanno visto il trionfo di Hamas, che ha raccolto il 70% dei voti. L'Università, circa 9 mila iscritti, era in passato una roccaforte di Fatah.
Il voto sembrerebbe dimostrare una certa disaffezione dei giovani nei confronti del potere di Abu Mazen. Se Hamas dunque appare in declino a livello internazionale e anche a Gaza, cresce in popolarità in Cisgiordania.

6. Il processo di pace: Hamas e le chance di un tacito accordo con Netanyahu
    L'idea di riavviare un dialogo tra Israele e i palestinesi oggi sembra solo un'illusione.
L'incaricato del governo Netanyahu per riprendere le trattative è Silvan Shalom, ministro dell'Interno da sempre contrario alla creazione di due Stati e difensore degli insediamenti ebraici in Cisgiordania.
Il capo dell'opposizione Isaac Herzog ha ironizzato sulla scelta, affermando che con queste premesse la diplomazia non potrà avere spazio.
    DIALOGO SOTTOTRACCIA - In questo scenario si profila una strana e paradossale alleanza tra Hamas e il governo di Tel Aviv. Diverse fonti parlano di un dialogo avviato in segreto tra i rappresentanti dell'ala politica del movimento palestinese e inviati del governo Netanyahu.
«È la storia d'amore dell'anno», ha scritto Zvi Bar'el editorialista del quotidiano israeliano di sinistra Haaretz. In cambio di un cessate il fuoco di lungo periodo e di un controllo sui movimenti estremisti più radicali, Israele potrebbe consentire un allentamento del blocco militare su Gaza, l'inizio di una ricostruzione e anche la riapertura di un porto e di un aeroporto.
    SI TRATTA DI MUTUA DETERRENZA - Un tacito accordo con Hamas comporterebbe, secondo l'analisi, uno stallo indefinito del processo di pace e del dialogo con Anp e Fatah, rimandando sine die le due questioni che Netanyahu non vuole affrontare: gli insediamenti nella West Bank e lo status di Gerusalemme Est.
Hamas, che non ha mai amato nessun accordo di pace, manterrebbe una facciata da linea dura e senza compromessi. Si tratta di un processo, scrive Haaretz, di «mutua deterrenza, nella convinzione che una minaccia reciproca è sempre meglio che una disperazione reciproca».

(Lettera43, 14 giugno 2015)


Riccardo Prisciano: l'Islam come il nazismo

di Gian Giacomo William Faillace

 
Riccardo Prisciano
MILANO - Riccardo Prisciano, scrittore politicamente scorretto, vicino a posizioni ideologiche patriottiche e sovraniste, ha esordito con "Insonnia", una raccolta di poesie romantico-decadentiste e successivamente con il poema biblico "L'Arcangelo crociato" in cui narra, con stile dantesco a metrica libera, le vicende dell'Arcangelo Uriel.
  Politicamente impegnato, Riccardo Prisciano, è in procinto di pubblicare il suo terzo libro: con la prefazione del noto giornalista Magdi Allam, con cui Prisciano intrattiene ottimi rapporti amichevoli, sarà un saggio di diritto in cui tratterà l'incostituzionalità dell'Islam. Con parole semplici effettuerà dei parallelismi tra la fede musulmana e l'ideologia nazista, sfociando nella proposta di un disegno di legge che annoveri il reato di apologia dell'Islam.
  Partendo dal tema della "tolleranza" sul quale molti filosofi hanno scritto e disquisito, Prisciano prende in esame la citazione del filosofo austriaco, naturalizzato britannico, Karl Raimund Popper il quale trattò innumerevoli volte, in seno alla sua teoria di "società aperta" le problematiche inerenti alla tolleranza arrivando a sostenere che "La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi" oltre ad asserire che "Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti".
  A queste teorie fecero eco anche lo scrittore tedesco Thomas Mann il quale sostenne che "La tolleranza diventa un crimine quando si applica al male" ed il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler il quale sostenne che "Il messaggio di tolleranza verso l'altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità"; un tema molto attuale soprattutto nella moderna "società" europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose.
  Persino Voltaire, uno dei maggiori Lumi del Settecento, nel suo "Trattato sulla tolleranza" pur cercando di aprire la società ad una sorta di pluralità di religioni, e perché no, ad una pluralità di dottrine politiche, col suo grido "Esacrez l'infame" (Schiacciate l'infame) incita quell'umanità illuminata a lottare con tutte le forze della propria ragione e della propria morale contro il fanatismo intollerante tipico della religione confessionale qualsiasi essa sia, incita ogni uomo di buona volontà a lottare per la tolleranza e la giustizia.
  Pertanto, alla domanda "Cosa intende per apologia dell'Islam" Prisciano, prontamente risponde:" In considerazione di ciò che sostenne l'Ayatollah Khomeini, ossia che l'Islam è politica altrimenti non è Islam, dobbiamo trovare gli strumenti idonei per trattare questa dottrina violenta in quanto l'Islam non può essere considerata una religione, nel senso "occidentale" del termine. Un Islam che punta al potere deve essere arginato secondo quello che Popper definiva come un dovere della democrazia. Quindi ecco il reato di apologia, in Italia, con la legge Scelba, previsto per il Fascismo. Con tale legge si tutela la manifestazione privata ma non pubblica di alcune correnti di pensiero. Nel mio prossimo libro citerò questo paragone facendo dei parallelismi tra l'ideologia nazista e la dottrina islamica; parlando di apologia non voglio mettere al bando l'Islam : ognuno in privato potrà essere fedele alla sua fede vietando però le sue manifestazioni pubbliche".

(Milano Post, 14 giugno 2015)



Il paese contaminato

Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole.
Non t'accoppierai con alcuna bestia per contaminarti con essa; e la donna non si prostituirà ad una bestia: è una mostruosità.
Non vi contaminate con alcuna di queste cose; poiché con tutte queste cose si sono contaminate le nazioni che io sto per cacciare davanti a voi. Il paese ne è stato contaminato; per questo io punirò la sua iniquità; il paese vomiterà i suoi abitanti.
Voi dunque osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni, e non commetterete alcuna di queste cose abominevoli; né colui che è nativo del paese, né il forestiero che soggiorna in mezzo a voi. Poiché tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che era qui prima di voi, e il paese ne è stato contaminato.
Badate che, se lo contaminate, il paese non vi vomiti come ha vomitato la gente che vi stava prima di voi. Poiché tutti quelli che commetteranno qualcuna di queste cose abominevoli saranno eliminati dal loro popolo.
Osserverete dunque i miei ordini, e non seguirete nessuno di quei costumi abominevoli che sono stati seguiti prima di voi, e non vi contaminerete con essi.
Io sono l'Eterno, l'Iddio vostro.

Levitico 18:22-30



La 'Disneyland di Gaza' e il campo di addestramento di Hamas

I due volti di Gush Katif

Bambini che sperimentano scivoli d'acqua e salgono su una ruota panoramica. Ragazzi di 12 anni che imparano a usare le armi e miliziani di Hamas che testano i razzi a lungo raggio per un prossimo conflitto con Israele. Sono i due volti di Gush Katif, dove nell'agosto del 2005 furono demoliti 17 insediamenti di coloni nell'ambito del Piano di disimpegno unilaterale israeliano. Qui doveva nascere quella che è stata promessa come la 'Disneyland di Gaza', con numerose attrazioni a disposizione dei bambini palestinesi, tra cui un parco a tema e uno zoo.
   Accanto, però, il movimento islamico di Hamas ha realizzato un centro di addestramento per centinaia di adolescenti, che già a partire dai 12 anni vengono istruiti a diventare futuri combattenti delle Brigate Ezzedin al-Qassam, l'ala armata del movimento che dal 2007 controlla l'enclave palestinese. Mentre i più piccoli vanno al parco divertimenti, quindi, i ragazzi poco più grandi imparano a sparare, a leggere le mappe, le pratiche di pronto soccorso, ma anche le tecniche mirate al rapimento di soldati israeliani.
   Due anni dopo il ritiro di Israele da Gush Katif, nel sud della Striscia di Gaza, Hamas ha iniziato la costruzione di tre grandi complessi per la formazione armata. Non lontano dalla ruota panoramica gigante, Hamas sta quindi addestrando le sue forze per il prossimo scontro con Israele. E qui sta svolgendo esperimenti con razzi a lungo raggio.
   Nel complesso di 'Tze'elim Hamas', il più importante dei tre e protetto da una massiccia presenza di forze di sicurezza, l'organizzazione palestinese svolge anche la propria attività di ricerca e di sviluppo.

(Adnkronos, 13 giugno 2015)


Georges Loinger

Riportiamo un altro resoconto della conferenza che Loinger ha tenuto a Torino nei giorni scorsi.

di Barbara Mella

 
Georges Loinger è un ebreo alsaziano. Quando Emanuel Segre Amar lo ha casualmente scoperto, è andato a Parigi, dove oggi vive, per incontrarlo, e nel corso del colloquio intrattenuto con lui, ad un certo momento ha chiesto: "Sarebbe disposto a venire a Torino per una conferenza, per raccontare anche ad altri tutte queste cose straordinarie che sta raccontando a me?", e Georges ha risposto: "Ho già la valigia pronta".
   Georges Loinger ha 105 anni. Usa il bastone, ma non vi si appoggia più di tanto, sale e scende le scale con incredibile sicurezza, ha voce ferma e, soprattutto, una cristallina lucidità mentale e una memoria priva di ombre. E un sorriso di quelli che ti scaldano dentro. Gli oltre 1000 chilometri che ho percorso, fra andata e ritorno, per andarlo ad ascoltare, sono sicuramente stati fra i meglio spesi della mia vita (con un sentito grazie al Gruppo Sionistico Piemontese e alla Comunità Ebraica di Torino, che hanno organizzato questo straordinario evento).
   La prima parte della conferenza è stata dedicata agli anni della guerra, con un non superficiale accenno a quelli che l'hanno preceduta, con i comizi di Hitler, i suoi roboanti proclami, la dichiarata intenzione di sterminio totale nei confronti degli ebrei; gli ebrei alsaziani, residenti in una zona di confine (soggetta a vari passaggi da uno stato all'altro nel corso della storia) e perfettamente bilingui, li ascoltavano, li capivano, e si rendevano conto che non si trattava di sparate a scopo propagandistico, ma di un preciso programma politico, e hanno deciso di non subire passivamente lo sterminio, ma di scegliere la resistenza armata: la prima resistenza del periodo hitleriano. Arruolatosi poi con gli alleati, viene fatto prigioniero e portato in Germania, dove svolge lavoro d'ufficio come interprete; lì viene a sapere, tramite la Croce Rossa, che sua moglie ha organizzato un rifugio in cui dà riparo a 123 bambini ebrei. Decide dunque che deve aiutare la moglie e fugge, attraversando a nuoto il Reno e a piedi tutto il resto, mezza Germania e mezza Francia, insieme al cugino Marcel Mangel (meglio noto come Marcel Marceau) e inizia così la sua opera di salvataggio, che lo porterà a mettere in salvo oltre 1000 bambini, cercando anche finanziamenti in Spagna e negli Stati Uniti. Nell'ambito della rievocazione delle vicende belliche, ha trovato il giusto spazio anche il riconoscente ricordo dell'occupazione del sud della Francia da parte dell'Italia, fino all'8 settembre 1943; da parte dei carabinieri italiani, per la precisione, che non solo si sono sempre fermamente rifiutati di consegnare i "loro" ebrei ai tedeschi, ma hanno anche consentito loro il massimo
Il generale Gino Micale
possibile di libertà di movimento e di culto. Poiché era previsto che Georges Loinger avrebbe rievocato questa vicenda, era stato invitato alla conferenza il generale Gino Micale, comandante della Legione Carabinieri Piemonte e Valle d'Aosta, accolto, in memoria di quanto fatto dall'Arma che egli rappresenta, da uno scrosciante applauso di (quasi) tutto il pubblico presente.
   Finita la guerra, si dedica, nell'ambito della sua opera volta a contribuire all'immigrazione clandestina nella Palestina sotto mandato britannico, a un'impresa altrettanto grandiosa del salvataggio dei bambini: la vicenda di Exodus. Pochi, probabilmente, sanno che dietro a quella vicenda, in un ruolo di primo piano, c'è ancora lui, Georges Loinger: è lui, infatti, ad occuparsi delle modifiche necessarie a riadattare una nave costruita per trasportare 5-600 persone in modo che ne possa contenere 4500. Ed è sempre lui a organizzare il trasporto di tutte queste migliaia di sopravvissuti alla Shoah fino al sud della Francia con 200 camion. Ora, proviamo a ricordare cos'era l'Europa poco dopo la fine della guerra, strade bombardate, ponti distrutti, passaggi ostruiti; e proviamo a immaginare che cosa significasse reperire anche solo un paio di mezzi di trasporto, per non parlare di centinaia. E lui niente, lo racconta così, con nonchalance, come uno che dicesse "poi siamo andati a comprare il pane" - ossia con quella totale inconsapevolezza della propria grandezza che hanno i veri grandi. Le vicende legate all'Exodus sono note: si trattava di una provocazione costruita allo scopo preciso di creare un caso mondiale che attirasse l'attenzione sulla drammatica situazione dei sopravvissuti alla Shoah cui la Gran Bretagna impediva l'ingresso in Eretz Israel, e spesso accampati in campi di raccolta che troppo ricordavano i campi nazisti. E quanto avvenuto all'arrivo della nave al porto di Haifa, con le forze armate britanniche che sparano sui sopravvissuti e li costringono a tornare indietro, in quell'Europa che li aveva sterminati, in quell'Europa ancora maleodorante delle decine di migliaia di tonnellate di carne umana bruciata, in quell'Europa in cui a nessun costo volevano mai più rimettere piede, riuscì effettivamente a scuotere le coscienze.
   Terminata la seconda parte, si erano fatte le otto di sera, e Georges Loinger, che era uscito di casa la mattina per atterrare a Torino nel primo pomeriggio e, a parte un'oretta di riposo in albergo, non si era mai fermato e in quel momento stava parlando da un'ora e mezza, ha dichiarato di essere un po' stanco e di non sentirsi di affrontare la terza parte programmata. Di questa ha perciò brevemente parlato Emanuel
 
Il gesuita Michel Riquet
Segre Amar, ma quando ha terminato la sua esposizione, il nostro incredibile Georges ha ripreso la parola per aggiungere ancora qualche dettaglio, per precisare, per chiarire, per completare. Si tratta di un episodio pressoché sconosciuto, avvenuto nel 1959. Il gesuita Michel Riquet, amico di Loinger, decide di dare vita a un atto simbolico di grande impatto di riconciliazione fra tedeschi e francesi, e organizza il primo congresso eucaristico, riunendo appunto cattolici francesi e tedeschi; e affinché questa simbologia sia davvero potente, vuole che questo incontro tra francesi e tedeschi avvenga su una nave israeliana. A questo provvederà appunto Georges Loinger, all'epoca direttore della compagnia di navigazione israeliana ZIM, procurando una nave capace di ospitare 350 cattolici da tutto il mondo (ai francesi e ai tedeschi se ne aggiungeranno altri lungo il percorso). Ultima tappa del percorso - per rendere ancora più luminosa questa simbologia di riconciliazione - sarà la città di Barcellona: la prima presenza ebraica ufficiale in terra di Spagna dopo la cacciata del 1492. Al viaggio prese parte anche Georges Loinger, che consegnò al sindaco di Barcellona una Bibbia donata dal vice sindaco di Gerusalemme.
   Aggiungo ancora qualche nota di colore, diciamo così, a margine. Tra il pubblico, accorso numeroso ed entusiasta ad ascoltare questo straordinario personaggio, attore e testimone allo stesso tempo, brillavano alcune consistenti assenze, che non specificherò, per carità di patria, come si suol dire; dirò solo che qualcuno ha ritenuto l'ideologia più importante della conoscenza (Georges Loinger è fortemente filoisraeliano) e qualcun altro è rimasto schiavo delle proprie personali antipatie nei confronti di chi ha voluto e organizzato l'evento e ha scelto, pertanto, di boicottarlo.
   Ancora un'ultima cosa: questa di Torino è stata la prima conferenza in Italia di Georges Loinger; a quanto pare ci ha preso gusto, e ha annunciato che finita l'estate tornerà per tenere altre due conferenze: a Roma e a Venezia. E magari per allora avrà portato a termine il quinto libro, in cui ci insegnerà come restare giovani e brillanti a cent'anni suonati.

(blogdibarbara, 13 giugno 2015)


Olocausto, niente visite per gli studenti musulmani

di Soeren Kern (*)

In Germania, è scoppiato un dibattito riguardo alla possibilità che gli studenti musulmani siano esentati dalle visite obbligatorie agli ex campi di concentramento previste dai programmi educativi sull'Olocausto. La disputa è incentrata su una proposta che implicherebbe che gli studenti di tutte le scuole secondarie dello Stato meridionale della Baviera si rechino nei luoghi dell'Olocausto, come contemplato dai programmi scolastici.
   Queste visite sono già obbligatorie per gli alunni che frequentano il Gymnasium - il Ginnasio - (un tipo di scuola secondaria che fornisce una preparazione per gli studi accademici) e la proposta estenderebbe tale obbligo agli studenti dell'ottavo-nono anno di tutte le scuole secondarie, comprese le scuole differenziali di sostegno. La proposta avanzata da un partito politico chiamato "Liberi elettori" (Freie Wähler) chiede la modifica dei programmi scolastici ufficiali per rendere obbligatorie a tutti gli studenti le visite al memoriale dei campi di concentramento bavaresi di Dachau e Flossenbürg e al Deutsch-Deutsches Museum di Mödlareuth.
   L'obiettivo perseguito è che tutti gli studenti bavaresi si rechino personalmente nei luoghi dell'Olocausto almeno una volta durante il percorso scolastico, nella speranza che così facendo sviluppino una conoscenza più approfondita del periodo nazista.
   La proposta è osteggiata dall'Unione cristiano-sociale (Csu), il partner bavarese dell'Unione cristiano-democratica (Cdu) della cancelliera Angela Merkel. In un recente dibattito parlamentare sulla questione, il parlamentare del Csu Klaus Steiner ha spiegato:
   "È soprattutto nelle scuole secondarie che ci sono immigrati e figli dei richiedenti asilo. Tra loro ci sono molti bambini appartenenti a famiglie musulmane che non hanno alcun legame con il nostro passato e avranno bisogno di molto più tempo prima di poter identificarsi con la nostra storia. Dobbiamo prestare attenzione a come affrontare tale questione con questi bambini".
   Steiner ha aggiunto che le visite obbligatorie per gli studenti con bisogni educativi speciali sono inappropriate perché molti di loro non hanno le capacità "cognitive ed emotive" adeguate per comprendere l'Olocausto. Le riflessioni del deputato del Csu sono state accolte con indignazione da più parti. Gisela Sengl, esponente del partito all'opposizione dei Verdi, ha definito ridicola l'affermazione di Steiner che gli studenti sono troppi stupidi per capire l'Olocausto. "Sia chiaro", ha chiosato la Sengl. "Non occorre un certo quoziente di intelligenza per comprendere le cose orribili che sono accadute durante il periodo nazista".
   Günther Felbinger, un parlamentare dei Liberi elettori, ha dichiarato che la posizione del Csu è difficilmente conciliabile con l'impegno del partito di cercare di integrare i nuovi immigrati. "Anche i bambini musulmani devono fare i conti con la storia tedesca", egli ha detto. Il Simon Wiesenthal Center con sede a Los Angeles, un gruppo ebraico per i diritti umani, è stato ancor più diretto. In una lettera indirizzata al ministro dell'Educazione tedesco Johanna Wanka il direttore delle relazioni internazionali del Centro Wiesenthal, Shimon Samuels, ha scritto:
   "Sentire usare un linguaggio del genere da parte di un noto politico tedesco puzza, nella migliore delle ipotesi, di negazione dell'Olocausto e, peggio ancora, dà l'impressione che si tratti di un'approvazione tedesca degli intenti islamisti e iraniani, che si può riassumere come "L'Olocausto è una menzogna, trasformiamolo in realtà".
   Samuels non è d'accordo con l'orientamento del Csu in Baviera, favorevole allo stanziamento di 20 milioni di euro (22,5 milioni di dollari) da parte del governo federale e a un piano quinquennale di investimenti per creare centri di teologia islamica in quattro delle più importanti università tedesche: Münster/Osnabrück, Tubinga, Francoforte/Giessen ed Erlangen/Norimberga.
   Seconda la titolare del dicastero dell'Educazione, l'insegnamento dell'Islam "fa parte di una moderna politica di integrazione". Il sito web del ministero afferma:
   "L'insegnamento della religione nelle scuole offre un'importante guida culturale e teologica. L'educazione religiosa insegna l'etica e la morale e aiuta i bambini e i giovani a sviluppare la loro identità. Li incoraggia a riflettere e a esprimere le loro convinzioni. E li sfida a confrontarsi con i valori - sia i loro sia quelli degli altri. In una società pluralista, questo tipo di riflessione è di cruciale importanza nel favorire il dialogo necessario tra le culture e può aiutare a conoscere meglio le differenze e i punti in comune tra loro".
   In questa lettera, Samuels parla di ipocrisia apparente. Egli ha scritto:
   "In un momento in cui, in Europa, l'antisemitismo è sempre più dilagante e anche il terrorismo antisemita, il piano di Steiner, insieme al vostro generoso programma federale di educazione islamica sembra aprire la strada al jihadismo, al reclutamento dell'Isis, all'istigazione all'odio contro gli ebrei, ed essere inevitabilmente seguito da attacchi contro altre tradizionali vittime del nazismo: i rom, i gay, le donne e i disabili. "Abolendo le visite ai campi di concentramento da parte dei giovani musulmani, la Germania potrebbe evocare alcuni ricordi iconizzati dell'alleanza degli anni Trenta tra il Fuhrer e il Mufti come paradigma per l'islamismo contemporaneo".
   Samuels si riferiva al Gran Mufti palestinese di Gerusalemme, Haj Amin el-Husseini che incontrò Adolf Hitler e altri leader nazisti in Germania, nel 1941. Egli chiese l'appoggio delle potenze dell'Asse per eliminare tutti gli ebrei in Medio Oriente. Georg Rosenthal, un deputato socialdemocratico ed ex sindaco di Würzburg ritiene che le commemorazioni ufficiali della liberazione dei campi di concentramento o della fine della Seconda guerra mondiale siano diventati "rituali senza senso" in cui molti giovani tedeschi non si immedesimano. "Abbiamo bisogno di una cultura del ricordo per la terza generazione", ha detto Rosenthal, riferendosi ai giovani che non hanno memoria vivente dell'Olocausto. "Visitare le scene del crimine è essenziale per tutti gli studenti. È soprattutto importante per i giovani immigrati affinché comprendano perché è necessario assumersi la responsabilità della storia tedesca".
   Rispondendo all'ondata di critiche, il ministro dell'Educazione bavarese Ludwig Spaenle, il 3 giugno, ha trovato una sorta di compromesso. In una dichiarazione, egli si è impegnato a lanciare "un programma pilota" che cercherebbe di fornire agli studenti dell'ottavo anno "una preparazione teorica" per le future visite agli ex campi di concentramento e ad altri luoghi collegati al nazismo. Secondo Spaenle, i memoriali dei campi di concentramento sono "i luoghi più autentici dove gli studenti possono sviluppare al meglio le conoscenze sull'iniquo regime nazista e arrivare a dire e a pensare "non dovrà accadere mai più". Il ministro non ha però detto se gli alunni musulmani saranno esentati dal programma.
   Il dibattito riguardante l'educazione sull'Olocausto arriva in un momento in cui, in Germania, l'antisemitismo islamico è dilagante. Il 20 maggio, il ministro degli Interni tedesco Thomas de Mazière ha tenuto a Berlino una conferenza dal titolo "La vita ebraica in Germania: È un rischio?", in cui egli ha detto che i crimini motivati dall'odio antisemita, nel 2014, sono aumentati del 25 per cento e che gran parte dell'incremento è dovuto ad aggressioni perpetrate dagli immigrati musulmani.
   De Maizière ha asserito che l'antisemitismo islamico è un problema crescente in tutta Europa e ha fatto riferimento agli attacchi contro gli ebrei a Bruxelles, Copenaghen e Tolosa. Egli ha spiegato che alcune delle violenze sono causate dagli operativi di Hezbolallah e Hamas, ma si è detto particolarmente preoccupato per i potenziali attacchi antisemiti perpetrati dagli appartenenti al salafismo, il movimento islamico che in Europa sta crescendo a ritmo molto veloce.
   Secondo il ministro degli Interni, la Germania da sola ospita oltre 7mila salafiti e un migliaio di questi individui sono molto pericolosi e potrebbero attaccare in qualsiasi momento. Egli ha concluso dicendo:
   "Non dobbiamo mai ritenere che sia normale per un bambino ebreo crescere in Germania, la sua scuola materna, quella primaria e la sua sinagoga devono essere sorvegliate dalla polizia. Questa circostanza dovrebbe fornirci un incentivo per combattere l'antisemitismo con tutti i mezzi a nostra disposizione nel rispetto della legge".


(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 13 giugno 2015 - trad. Angelita La Spada)


Pisa - Torna all'antico splendore la sinagoga di via Palestro

La cerimonia è prevista domenica 21 giugno, ci saranno visite guidate gratuite Il restauro, costato 1,3 milioni, è il primo dopo quello realizzato nell'Ottocento.

 
La sinagoga di Pisa
PISA. Torna a splendere, dopo un lungo restauro, la sinagoga di via Palestro 24. La data della riapertura è domenica 21 giugno, una giornata solenne e di festa in cui il tempio sarà restituito alla Comunità ebraica e a tutti i pisani.
«È giunta a conclusione - spiegano i responsabili della Comunità - un'accurata e complessa operazione di restauro, la prima dopo quella degli anni Sessanta dell'Ottocento. Operazione iniziata - con i primi lavori al tetto - nel 2009, periodo in cui il complesso sinagogale è stato in gran parte inaccessibile».
   L'antica sinagoga pisana è ospitata nell'edificio di via Palestro dal 1595, stabile che in un primo tempo era stato preso in affitto dalla famiglia Serravallini e poi acquistato nel 1647 dalla Comunità ebraica.
Il restauro, costato 1,3 milioni di euro, è stato reso possibile grazie al contributo di una squadra di sponsor: Arcus Spa , Ministero dei beni culturali (in base alla legge n. 175 per il recupero del patrimonio ebraico in Italia), Fondazione Pisa e Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato.
   La giornata di inaugurazione del 21 giugno si svolgerà in due tempi: al mattino (ad invito) i saluti delle autorità e la cerimonia religiosa che sarà officiata dal rabbino di riferimento della Comunità ebraica di Pisa, rav Luciano Caro, che è anche il presidente del Comitato che si è costituito per l'inaugurazione della Sinagoga. Al pomeriggio (dalle 16 in poi) l'apertura alla città con una serie di visite guidate gratuite.
   Fin da 1591 l'Universitas ebreorum pisana poté riaprire, sulla base delle nuove disposizioni, un luogo di culto pubblico, che trovò in un primo tempo collocazione nel Palazzo da Scorno, sull'odierno lungarno Galilei, per essere poi solennemente trasferito, nel settembre del 1595, in un ampio stabile preso in affitto dalla famiglia Serravallini, posto nell'attuale via Palestro 24, dove ancora oggi ha sede la sinagoga.
   L'edificio, acquistato nel 1647 e sottoposto a un primo restauro nel 1785, è stato completamente ristrutturato negli anni Sessanta del XIX secolo su progetto dell'architetto piemontese Marco Treves. Benché l'iniziativa dei lavori si sia inserita nel periodo di emancipazione degli ebrei, la sinagoga pisana ha mantenuto all'esterno le convenzionali prerogative ebraiche di modestia e sobrietà, non andando a differenziarsi in modo evidente dal contesto urbano. Anche all'interno è stata del resto rispettata la tradizionale ubicazione della sala del culto al piano superiore, a cui si accede da una grande ed elegante scala, che ha sostituito quella seicentesca a tre rampe.
   Nell'organizzazione della sala si è invece tenuto conto del nuovo modo di partecipazione religiosa, che esalta la figura dell'officiante. Per questo motivo all'Aron ha-Kodesh, l'arca contenente i rotoli della Torà, è stata avvicinata la Tevà (o Bimà), il podio per la lettura e la recita delle preghiere pubbliche, creando un'unica grande composizione, situata nella zona est della sala rettangolare, il cui ingresso, sul lato corto, è accentuato da due file di colonne che reggono il matroneo. Le panche, in legno di noce intagliato, sono sistemate in parallelo e orientate verso l'Aron. Solo una fila di sedili corre lungo le pareti, cui è attaccata. Lo spazio della sala è coperto da una volta a padiglione, in forma di grande vela gonfiata, decorata con motivi geometrici, secondo la legge ebraica che vieta le rappresentazioni figurative.

(Il Tirreno, 12 giugno 2015)


Spie informatiche israeliane controllano l'Iran?

Gli esperti della compagnia russa "Kaspersky Lab" hanno scoperto un virus grazie al quale venivano condotte da alcuni soggetti attività di spionaggio informatico relativamente ai negoziati sul programma nucleare iraniano.
In un suo rapporto la compagnia indica "tra le righe" il legame d'Israele con il nuovo virus. Secondo il "Wall Street Journal", il nuovo virus è stato trovato nei computer di 3 alberghi in cui si svolgevano i negoziati sul programma nucleare di Teheran.
Questo nuovo scandalo mostra i pesanti contrasti tra le agenzie di intelligence degli Stati Uniti e d'Israele. In un'intervista con l'edizione persiana di "Sputnik" ("Sputnik Persian") lo ha dichiarato il consigliere del presidente del Mejlis (Parlamento dell'Iran) per gli Affari Internazionali Hossein Sheikholeslam:
    "Può sembrare sorprendente, ma oggi tra gli Stati Uniti ed Israele manca il massimo livello di fiducia reciproca. Non c'è dubbio che gli USA forniscano ad Israele i dettagli dei negoziati. Ma Tel Aviv
    , dopo aver scatenato lo scandalo con il lancio del virus, fa capire di non potersi fidare completamente delle informazioni ricevute dai partner d'oltreoceano. Pertanto ai servizi di sicurezza israeliani tocca raccogliere informazioni segrete per conto proprio, letteralmente sotto il naso degli americani. Persino questo lavoro scrupoloso non porta i risultati dovuti. Il Mossad non ha scoperto nulla di nuovo a Vienna. Così come non ha scoperto nulla di nuovo l'Iran nei mezzi di spionaggio usati da Israele. In passato il nostro Paese ha già affrontato questo tipo di minacce. Così Teheran aveva risposto all'attacco informatico del virus "Stuxnet" nel 2010, rafforzando le sue tecnologie di difesa informatica. Oggi i nostri sistemi antivirus operano in modo efficiente e senza intoppi.
    Tuttavia la vicenda attorno al virus invita tutte le parti nei negoziati a mantenere la massima vigilanza per non soccombere alle provocazioni e continuare a lavorare in modo produttivo. Fino al raggiungimento di un accordo globale".
Trovare una logica nelle azioni dei servizi segreti israeliani è difficile. Tale parere è stato espresso dal redattore capo del giornale "Iran Press" ed analista fisso di "Sputnik Persian" Emad Abshenass:
    "Inizialmente si era ipotizzato che i servizi di intelligence israeliani avrebbero spiato i negoziati tra l'Iran e il "sestetto". Pertanto l'Iran e gli Stati Uniti avevano adottato una serie di misure per garantire la sicurezza e la riservatezza dei dettagli del processo di negoziazione.
    Il paradosso è che gli americani avrebbero concesso in ogni caso ad Israele tutte le informazioni di loro interesse. Francamente entrare in possesso di informazioni riservate nella fase finale dei negoziati è pressochè impossibile.
    In breve tutta questa storia deve essere vista come un ricatto da parte di Israele con lo scopo di creare pressioni nella fase decisiva dei negoziati. Tel Aviv
    sta cercando di avvisare e dimostrare al mondo: siamo a conoscenza di tutti i dettagli di ciò che viene discusso nei negoziati sul programma nucleare iraniano. Penso che non debba confondere i negoziatori".
(Sputnik Italia, 13 giugno 2015)


Tiepidi i rapporti fra Amman e Ramallah

                            Mahmoud Abbas                                                     Abdullah Ensour
AMMAN - Sembrano essere davvero in crisi le relazioni tra la Giordania e l'Autorità palestinese (AP). A scriverlo è la testata al-Monitor dopo aver intervistato degli analisti giordani.
   Il primo segnale è arrivato durante una intervista radiofonica del 23 maggio in cui il primo ministro giordano Abdullah Ensour parlava di crisi negli accordi. Sembrerebbe secondo il politologo Orieb al-Rintawi che tla Giordania non si fida delle garanzie dei palestinesi sul fatto che non stiano trattando con Israele. Durante l'intervista al primo mostro per radio si evinceva che tra i problemi sul tavolo il futuro di Gerusalemme Est, le frontiere, l'acqua e la spinosa questione dei rifugiati. A quanto pare Amman non sarebbe più disponibile a sostenere i rifugiati palestinesi né la loro causa. Bassam Badarin, un corrispondente di giornale Al-Quds Al-Arabi ad Amman che segue le tematiche giordani e palestinesi, ha detto che le relazioni possono essere descritte come "tiepide" in questa fase. Egli ha detto ad Al-Monitor che i funzionari di Amman parlano di "scarso coordinamento" tra AP e la Giordania nel corso negoziati di pace. D'altra parte, Badarin ha detto, «Il presidente Abbas ha lamentato di non aver avuto un incontro di alto livello con i funzionari giordani negli ultimi sei mesi». La tensione era già salita quando il 22 maggio, al religioso giordano più anziano, Ahmad Huliel, è stato impedito, dai fedeli palestinesi di fare il sermone del Venerdì di Al-Aqsa nella Gerusalemme Est. È stato malmenato da aggressori e scacciato dalla moschea. L'incidente ha creato reazione pubblica in Giordania, che ha una custodia speciale su siti islamici nella Città Santa sotto la sua trattato di pace con Israele. Inizialmente, la AP ha accusato i membri di un gruppo estremista islamico dell'attacco, ma quando Al-Tahrir del partito ha emesso un comunicato 23 maggio negando ogni ruolo, i funzionari palestinesi hanno accusato simpatizzanti di Hamas. L'incidente ha scatenato un'ondata di reazioni di rabbia, a volte razzisti, sui social media e salotti politici in Amman. Mohammad Abu Rumman ha detto: «L'incidente ha sollevato domande sul ruolo storico della Giordania come un custode di siti religiosi di Gerusalemme, il futuro di quel ruolo, e se ci fosse qualche collusione tra funzionari dell'Autorità Palestinese e di coloro che hanno attaccato Huliel». Ha detto Al-Monitor un politico giordano.
   Ad aggiungere benzina al fuoco è stata la controversia che circonda la posizione palestinese sulla candidatura del principe Ali bin al-Hussein di correre per la presidenza FIFA per la coppa del mondo di calcio di governo il 29 maggio. Ali, fratello di Abdullah, si è ritirato dalla gara prima di un secondo turno del voto è stato quello di iniziare, ma la stampa locale e giordana su social media ha accusato il capo della Federcalcio palestinese Jibril Rajoub Gen., di lanciare il suo voto per il presidente uscente Sepp Blatter. Rajoub, che è anche un cittadino giordano, ha insistito che aveva votato per Ali e ha detto su un sito web locale che è stato vittima di un complotto dei suoi nemici. L'incidente ha spinto Abbas a visitare Ali a casa sua 2 giugno come un gesto di buona volontà, dichiarando che "noi siamo una nazione in due stati". Il capo redattore di Al-Ghad quotidiano, Gumana Ghneimat, ha scritto nel suo articolo del 4 giugno che tali chiamate erano pericolose perché minacciano l'unità nazionale e intimidiscono i giordani di origine palestinese. La vicenda FIFA ha messo a dura prova i legami fra Amman e Ramallah, ma più pericolosamente ha riportato l'attenzione sulla delicata questione dei rapporti tra East Bank giordani e giordani di origine palestinese. Insulti razzisti sono state inviate sui social media contro i palestinesi, innescando uno scambio di insulti da entrambi i lati. La situazione è stata così tesa che Abu Rumman ha pubblicato un articolo su Al-Ghad il 1o giugno in cui ha detto che gli elementi di destra e razzisti hanno utilizzato questo clima di tensione per accendere la situazione interna e generalizzare atteggiamenti negativi. «Abbiamo a che fare con due fallimenti qui: La mancata integrazione giordani di origine palestinese nell'equazione politica ... e il fallimento dello stato di integrare i cittadini dalle governatorati nella vita economica». Secondo Abu Rumman, il primo fallimento è strettamente legata alla questione palestinese, il disimpegno politico tra la Giordania e la Cisgiordania nel 1988, una soluzione per lo status definitivo e le relazioni della Giordania con la Palestina e Israele. Il 6 giugno nel tentativo di riprendere i colloqui il primo ministro AP Rami Hamdallah è andato ad Amman il 6 giugno e si è incontrato con Ensour e quest'ultimo ha elogiato le relazioni bilaterali, descrivendoli come profonde e giurando di non permettere a nessuno indebolirle. Secondo il parere del politologo Shaker al-Jawhari, «Sfide politiche continueranno a perturbare i rapporti tra Amman e Ramallah».
   Ha detto Al-Monitor che la Giordania è stanca della posizione di Abbas 'su una soluzione per lo status definitivo con Israele. «La Giordania ha interessi acquisiti in un accordo finale, in particolare per quanto riguarda i rifugiati, di compensazione, di acqua, di Gerusalemme e confini definitivi», ha detto Jawhari. «Sembra che la tempesta sulle elezioni FIFA e l'attacco a Huliel ha calmato, per ora, ma gli incidenti hanno sollevato preoccupazioni circa il futuro delle relazioni e delle minacce giordano-palestinese per l'unità nazionale in Giordania». Ha concluso al-Jawhari.

(agc, 12 giugno 2015)


Da "milionari dei tunnel" a senza lavoro: 44% i disoccupati a Gaza

Conseguenza del giro di vite attuato dall'Egitto dopo la deposizione di Morsi.

 
GAZA CITY - Erano migliaia i palestinesi diventati ricchi, secondo gli standard della Striscia di Gaza, con il contrabbando di merci nelle centinaia di tunnel che collegavano l'enclave all'Egitto. Una prosperità da 18 dollari al giorno, ma che permetteva a molti di loro lussi quali l'acquisto di un telefono cellulare o di un gelato da 1,25 dollari. Poi è arrivata la deposizione del presidente islamico egiziano Mohammed Morsi, nel luglio del 2013, e la salita al potere dell'ex capo delle Forze Armate del Cairo Abdel Fattah al-Sisi, che per rafforzare la sicurezza del Paese ha dato il via a una distruzione massiccia dei tunnel con la Striscia di Gaza, accusati di essere usati dai miliziani di Hamas diretti nella Penisola del Sinai.
   Il risultato è stato un aumento vertiginoso dei tassi di disoccupazione nella Striscia di Gaza, pari al 44 per cento della forza lavoro. E in generale una diminuzione del tenore di vita. Uno di questi 'milionari dei tunnel', Mohammed Sawiri, racconta al New York Times che quando era ricco aveva comprato alla sua donna un telefono cellulare e frequentava locali costosi. Aveva abbandonato gli studi a 17 anni per lavorare nei tunnel, ma ora, che ne ha 23, si è reinventato venditore di té, una tazza a 25 centesimi, per un guadagno giornaliero di cinque dollari.
   Dal suo lavoro nel tunnel dipendeva anche la sorella Samia, 34 anni, madre single con sette figli che ora ha iniziato a fare e vendere sapone nel suo appartamento di Gaza per provare a mantenersi. Ha fatto sposare la figlia adolescente e quattro dei suoi figli lavorano nel parco di Gaza. Sawiri ha poi venduto la sua moto per 1600 dollari, il suo smartphone per 130 e il suo computer per 140. Ed è tornato a vivere dalla madre.
Dai tunnel sotterranei tra la Striscia di Gaza e l'Egitto passava ogni tipo di merce: dalle mucche agli animali dello zoo, dalle automobili al cemento. Il loro boom risale a quando Israele ed Egitto imposero rigide restrizioni sul commercio e il movimento di beni e persone nel 2007, ovvero quanto il movimento islamico di Hamas ha assunto il controllo di Gaza. In seguito alla loro distruzione, alcuni uomini hanno 'sfruttato' le conseguenze della guerra dello scorso luglio con Israele, fornendo servizi alle centinaia di persone rimaste senza casa e accampate in un parco a Gaza, uno dei rari spazi verde della città. Oltre a loro, qui si riuniscono studenti e mamme con bambini, uomini ricchi e poverissimi.
   E poi ci sono alcuni palestinesi in visita, magari da Rafah, dove non ci sono parchi e dove le donne non possono restare fuori casa godendo di una libertà relativa. Nel parco si trovano anche i mendicanti, coloro ai quali l'ultima guerra a strappato tutto, o baby prostitute di 15 anni appena che si concedono ai clienti per cinque dollari.

(Adnkronos, 13 giugno 2015)


L'Egitto riapre il valico di Rafah nei due sensi

L'Egitto ha riaperto il valico di Rafah nelle due direzioni per tre giorni in occasione dell'imminente Ramadan, il mese sacro del digiuno islamico.
La riapertura, segnalata dall'agenzia Ap, era stata annunciata mercoledì in seguito a un appello del presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen ad "alleviare" le sofferenze della Striscia di Gaza in vista del Ramadan.
Il valico di Rafah, unico di quelli della Striscia non controllato da soldati israeliani, è chiuso da ottobre ufficialmente per evitare che vengano riforniti di armi i jihadisti che combattono le forze di sicurezza egiziane nel Sinai settentrionale.
Da allora vi sono state aperture parziali e intermittenti per un totale di 15 giorni, aveva rilevato nei giorni scorsi l'Ocha, l'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari. In maggio vi era stata un'apertura per consentire il passaggio di palestinesi bloccati in Egitto.
L'Ap rileva che i giorni di passaggio nelle due direzioni quest'anno sono stati cinque.

(swissinfo.ch, 13 giugno 2015)


La scena artistica israeliana e palestinese sotto i riflettori a Parigi

di Giusy Regina

 
  "Love During Wartime" trailer     
Il viaggio proposto è virtuale e gratuito, all'insegna della fantasia intellettuale e artistica: un invito a scoprire per due giorni l'arte israeliana e palestinese in tutte le sue forme. Dopo il successo della prima edizione dello scorso anno e più di un migliaio di visitatori, Ines e Kenza, entrambe di 25 anni, hanno deciso di intraprendere l'avventura per il secondo anno consecutivo con l'esperienza del festival "Pèlerinage en décalage".

 Un viaggio verso l'ignoto
  Il festival, che riunisce artisti israeliani e palestinesi, cerca di "combattere i fantasmi intorno a Israele e Palestina e stimolare la curiosità", spiega Ines. Essi cercano di mostrare "l'altro in tutta le sue sfaccettature" attraverso l'arte che secondo loro "blocca molto meno rispetto al dibattito politico che mette le persone sulla difensiva; il mezzo artistico invece è ciò che c'è di più ricco, di più impegnativo e di più sottile per trasmettere questi messaggi", aggiunge Kenza. Per questo il festival si svolge a Parigi. I fondatori sottolineano che l'evento artistico è per coloro che, francesi o stranieri, non si trovano sul posto, per scelta o per impossibilità di partecipare al pellegrinaggio. "Con la scelta di Parigi, puntiamo anche ai pellegrini di tutto il mondo. (…) L'anno scorso libanesi e israeliani insieme hanno ballato sui tavoli e per noi è stata una vittoria". È stato fatto anche uno sforzo particolare per coinvolgere i giovani. Quest'anno, trenta artisti si muoveranno, la metà dei quali palestinesi e l'altra israeliani. Jasmin Avissar (danzatrice contemporanea israeliana) e Osama Zaatar (scultore palestinese) parteciperanno al festival. I due artisti, sposati e residenti a Vienna, presenteranno anche il documentario "Love During Wartime", che racconta la loro storia d'amore.

(ArabPress, 13 giugno 2015)


Comunità ebraica di Roma, domani si vota

Alle urne per il nuovo Consiglio e la Consulta. In campo tre donne e un uomo: è la prima consultazione dopo sette anni con Pacifici. La new entry, ex parlamentare del Pdl, rimescola le carte. Tra i problemi la scuola, il bilancio, i prezzi della carne kasher.

di Francesca Nunberg

 Il confronto
  Qui dove non ci sono quote rosa, tre candidati su quattro sono donne. Ma questo non ha addolcito la battaglia. Riuscirà la new entry Fiamma Nirenstein a conquistare il posto che per sette anni è stato di Riccardo Pacifici? Vincerà la figura carismatica o la continuità? L'unico uomo candidato a guidare la Comunità ebraica di Roma è Maurizio Tagliacozzo della lista "Menorah": «In questi anni - dice - siamo stati sovraesposti mediaticamente, ora ci serve introspezione, come una famiglia che deve stare a casa e riflettere, a rischio di perdere un bello spettacolo o un buon affare». Ma la sua avversaria di fama sostiene il contrario: «Basta con l'avvilimento degli ebrei in tutta Europa - afferma Fiamma Nirenstein della lista "Israele siamo noi" - dobbiamo alzare la testa e farci sentire di fronte all'ondata di antisemitismo legato alla delegittimazione dello Stato di Israele».
  Il presidente uscente Riccardo Pacifici sostiene la lista "Per Israele", candidata Ruth Dureghello, la quale spiega: «La politica di visibilità in questi anni ha funzionato, i buoni progetti possono trovare finanziamenti a livello nazionale e internazionale, valga per tutti l'esempio del ghetto in 3D al Museo ebraico sostenuto dalla Fondazione Rothschild. Ma al di là delle liste e dei programmi, l'appello più deciso arriva da Claudia Fellus, che guida la lista di sole donne "Binah": «Andate a votare, abbiamo bisogno di una persona che sia il presidente di tutti».

 Scarsa affluenza
  La Comunità di cui domani si rinnovano Consiglio e Consulta, non brilla per partecipazione: su circa novemila aventi diritto, l'ultima volta è andato alle urne il 38%, ma vent'anni fa era il 12%. Si vota domani dalle 8 alle 22,30. E sarà la prima consultazione senza Pacifici, giunto al limite dei tre mandati. Lui dal canto suo dice «continuerò a seguire le vicende comunitarie, anche se ho appena accettato un importante incarico del mondo ebraico internazionale e questo è un riconoscimento al lavoro fatto, un premio per Roma». Ieri Pacifici ha incontrato in Sinagoga il capo di stato maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano per uno scambio di doni: «Il nostro è un riconoscimento per la presenza dei militari a difesa di tutte le istituzioni in Italia».
  Nella lista "Per Israele" ci sono molti esponenti della giunta Pacifici, da Ruben Della Rocca a Gianni Ascarelli, oltre alla storica Serena di Nepi e a Gadi Taché, fratello del piccolo Stefano ucciso nell'attentato alla sinagoga. Ruth Dureghello, forte dei suoi 7 anni come assessore alla Scuola, spiega: «Rappresentiamo la continuità, daremo voce a tutte le istanze comunitarie. Non ho un solo competitor, ma tre e sono tutte persone preparate e di buon livello».
  In realtà Fiamma Nirenstein spariglia eccome. Tornata di recente a vivere in Italia da Israele, ha deciso di formare una sua lista perché quella di Pacifici aveva già la sua candidata. E paradossalmente, anche se lei non si definisce di destra, ha fatto diventare lui il moderato: «Ma nessuno ha cercato di catturare l'altro - spiega Nirenstein - alla Comunità di Roma serve un rinnovamento, ci sono problemi sociali pesanti, persone espulse dal mercato del lavoro, giovani a cui dobbiamo fornire un'ispirazione ebraica per non "perderli". Io sono nel board di svariate organizzazioni sia in Israele che negli Usa e questo può aiutare nel fundraising. Tra i miei progetti la creazione di un brand "Roma ebraica" per valorizzare la storia bimillenaria della Comunità attraverso percorsi che spazino dalla cucina all'archeologia». Nella sua lista tre ex assessori e 9 su 27 sono ebrei religiosi.

 Le competenze
  La terza donna è Claudia Fellus, che spiega: «Nella lista Binah abbiamo privilegiato non figure di rilievo comunitarie che portavano voti, ma le competenze, indispensabili per affrontare i problemi che la Comunità si trova davanti: fornire alla scuola strumenti innovativi, programmare la spesa per risanare il bilancio. Siamo una ventata di aria fresca, tutte donne perché l'esperimento due anni fa con l'Unione è andato bene, siamo giovani, imprenditrici, madri e mogli».
  Nella lista di Maurizio Tagliacozzo, "Menorah", figurano persone di spicco da David Meghnagi a Sandro Sermoneta, da Serena Terracina a Guido e Roberto Coen: «Mi candido - dice - perché voglio una comunità gioiosa, solidale e orgogliosa della sua storia come mi insegnò mio padre. Tra le priorità, i piccoli commercianti colpiti dalla crisi». Oggi silenzio per la giornata pre-elettorale e per lo shabbat, domani si vota. Se nessun candidato raggiungerà il 45% cominceranno le trattative.

(Il Messaggero, 13 giugno 2015)


E sul campo di Croazia-Italia spunta la svastica

Non è sfuggita ai giornalisti presenti allo stadio di Spalato e ai telespettatori che hanno seguito la partita a porte chiuse tra Croazia e Italia una enorme svastica ottenuta sul terreno di gioco con quella che sembra una volontaria e agghiacciante rasatura dell'erba. Tanto da richiedere l'intervento di un addetto alla manutenzione, nell'intervallo della gara, che ha gettato terra sul simbolo nel tentativo di "nasconderlo".
"Quello che è successo è una vergogna non solo per il calcio croato, ma per tutto il nostro popolo" ha dichiarato il portavoce della Federcalcio croata, Tomislav Bacek. "Abbiamo segnalato il fatto all'Uefa, ci scusiamo con l'Italia e con tutti". La partita è finita in parità con una rete per parte. Al termine i calciatori hanno detto di non essersi accorti di nulla.

(La Notizia, 13 giugno 2015)


Il nostro Medioevo

L'Isis persegue il genocidio degli yazidi. Un artista ha immortalato la distruzione di un popolo e di una religione antichissima.

di Giulio Meotti

Ragazzine rapite e trasformate in schiave del sesso alla mercé di anziani uomini barbuti. Bambini lasciati morire di sete in cima a una montagna incantata o trasformati in soldati. Schiere di esseri umani assassinati e gettati in fossati improvvisati ai cigli delle strade. Un intero popolo, con un'antichissima religione, ridotto in schiavitù e colpito nelle nuove generazioni, che dovrebbero essere la sua linfa vitale. No, non è il Medioevo, ma il XXI secolo. L'ultima fossa comune con ottanta cadaveri di yazidi è stata
Cinquemila yazidi sono stati assas- sinati dall'Isis. L'ultima fossa comune, con 80 corpi, trovata la settimana scorsa a Ninive.
trovata pochi giorni fa a Jadaa, un villaggio situato nella zona occidentale della provincia di Ninive, nella parte settentrionale dell'Iraq. Pochi giorni prima è arrivata la notizia di un nuovo massacro di yazidi a Mosul, la maggiore città sotto il Califfato. I media curdi affermano che gli uccisi sono seicento, mentre la Bbc parla di trecento morti. I corpi sono stati ammucchiati in un pozzo. Vanno ad aggiungersi ai cinquemila yazidi trucidati in due mesi dallo Stato islamico, secondo i dati più attendibili delle Nazioni Unite. Ma il quadro generale è sicuramente più drammatico e ci vorrà tempo perché venga alla luce.
   Migliaia di yazidi sono stati uccisi in scene che ricordano il massacro di Srebrenica in Bosnia: 250-300 uomini sono stati trucidati nel villaggio di Hardan, altri 400 a Kocho. I corpi di 70-90 uomini sono stati ritrovati in una fossa nel villaggio di Quinyeh. Le esecuzioni sono spesso così, brutalmente semplici, con la gente in fila, uccisa e gettata con i bulldozer nelle fosse comuni. Altre volte le vittime della furia jihadista sono state ammassate in templi che poi sono stati fatti saltare in aria.
   Gli yazidi - comunità curda dell'Iraq considerata "eretica" dall'islam, la minoranza etnico-religiosa più perseguitata del mondo - sono stati dimenticati dalla comunità internazionale. Quasi un anno fa, i media globali e l'opinione pubblica si scaldarono per la crisi umanitaria e il genocidio della popolazione yazida nel nord dell'Iraq per mano dello Stato islamico che avanzava sulla regione montagnosa del Sinjar. Ma da allora gli attacchi aerei contro l'lsis a protezione degli yazidi sono gradualmente diminuiti fino a cessare completamente. E anche l'aiuto umanitario è stato interrotto. Per non parlare dell'attenzione dei media.
   L'occidente ha ignorato questo genocidio a partire dal 14 agosto 2007. All'epoca non c'era il multilateralista Barack Obama, ma il perfido George W. Bush. Quel giorno combattenti islamisti portarono autocisterne piene di dinamite a Qahtaniya, Adnaniya, al Jazira e Tal Uzair, villaggi del Kurdistan iracheno abitati dagli yazidi. Avevano il compito di sterminare questa piccola comunità giudicata "impura", non islamica. Vennero rasi al suolo due villaggi costruiti sul fango. I terroristi scelsero il tramonto per la strage, perché la notte avrebbe rallentato i soccorsi. Fu l'attentato più sanguinoso nella storia dell'Iraq e il secondo più cruento dall'll settembre 2001. Le vittime erano contadini poveri senza difese. Un atto di pulizia etnica. Quasi cinquecento i morti.
   Un secolo fa, gli yazidi di Sinjar salvarono migliaia di cristiani armeni e assiri mentre venivano massacrati dalle forze turche ottomane. Oggi il favore non è stato ricambiato. Quello che lo Stato islamico
Le donne sono vendute al mercato per 34 dollari, i bambini vengono avviati all'addestramento militare nei campi del Califfato.
ha fatto agli yazidi nel corso degli ultimi mesi è stata una vera e propria apocalisse: omicidio, tortura, schiavitù e stupro di massa. Ismail Mirza, un leader yazida a capo della dell'Organizzazione dei diritti umani yazidi, nei giorni scorsi ha dato il seguente quadro della situazione: "Vi è una certa presenza delle Nazioni Unite; ho visto in giro l'Unicef; ho sentito che Medici senza frontiere è in qualche modo attiva. Tuttavia, non una sola organizzazione ha inviato alcun aiuto". In occidente non si raccoglie denaro o aiuti per gli yazidi.
   Intanto, si susseguono i racconti della schiavitù sessuale cui è sottoposta la minoranza yazida. Il quotidiano turco Hurriyet racconta che subito dopo l'occupazione dei villaggi yazidi da parte dell'lsis, donne e ragazze sono state separate dagli uomini, uccisi o portati via e assassinati altrove. Tutte sono state costrette a "convertirsi all'islam o morire". Lo Stato islamico celebra il ritorno alla schiavitù delle yazide, non soltanto come un passo per il ritorno della legge islamica, ma anche come "l'avvicinarsi del Giorno del Giudizio". Secondo la leggenda, Maometto predisse che l'Ora sarebbe arrivata quando "la schiava darà alla luce il suo padrone".
   Sono tutte storie come quella di "Suzan", lo pseudonimo di una ragazza yazida di diciassette anni tenuta prigioniera da un combattente islamista conosciuto come al Russiyah, un ceceno. "Prendeva tre ragazze, le denudava ogni mattina per scegliere chi voleva per quel giorno", ha raccontato la ragazza ai media curdi. Suzan è stata tenuta prigioniera all'hotel Galaxy a Mosul, pieno di donne e ragazze nude o seminude. Una è stata venduta a un combattente con passaporto australiano per 34 dollari. Suzan è stata trasferita alla roccaforte dell'lsis a Raqqa, in Siria, dove lei e decine di altre giovani donne sono state esaminate per determinare se fossero ancora vergini. "Le vergini sono state portate in una stanza con 30-40 uomini. Ci hanno messo in fila e hanno indicato chi volevano. Ho pensato che avrei potuto essere fortunata, non ero bella come le altre". Ma è stata comprata da al Russiyah, che ha comprato anche altre due ragazze. L'hanno costretta a recitare il Corano durante le aggressioni sessuali. Una volta, quando si è rifiutata, le hanno bruciato la coscia con acqua bollente. E' riuscita a fuggire quando il suo aguzzino è rimasto ferito in combattimento.
   La città santa dei yazidi, Lalish, nelle scorse settimane ha assorbito centinaia di queste profughe, donne e ragazze che, scappate o liberate dall'lsis, sono tornate alloro sito spirituale per essere battezzate
Nelle tele di Salim, le bandiere nere di al Baghdadi sono demoni dentro a una "foresta infernale".
Il tramonto è rosso sangue.
nuovamente alla loro fede con un rito le cui radici risalgono all'antica Mesopotamia. Il battesimo in sé è semplice. Un religioso benedice le ragazze una dopo l'altra in una piccola stanza buia costruita attorno a una sorgente d'acqua dolce.
E se le yazide sono convertite come schiave del sesso, i bambini yazidi sono avviati dall'lsis ai campi di addestramento jihadisti. Lo Stato islamico usa da oltre un anno i bambini come combattenti in prima linea (kamikaze) e come carnefici, con giovani ragazzi che hanno recitato nei video degli omicidi al fianco di adulti con il coltello delle decapitazioni in mano. L'agenzia di stampa curda Rudaw e il membro yazida del parlamento iracheno Sheikh Shamo denunciano che "1'lsis ha istituito campi di addestramento militare per i bambini yazidi nella città siriana di Raqqa e in Iraq a Tal Afar, nella provincia di Mosul".
   Il popolo yazida continua a esistere grazie al lavoro di Majed El Shafie, nato musulmano al Cairo, convertitosi poi al cristianesimo. Per questo, fu imprigionato in Egitto e torturato prima di prendere la strada del Canada. Ora aiuta altri rifugiati a fuggire dalla tirannia islamista. I suoi ultimi sforzi sono concentrati nell'acquisto di ragazze yazide nei mercati sessuali dell'lsis, per poi contrabbandarle verso la libertà. E' stato girato anche un documentario sulla campagna di Shafie per liberare queste schiave: "The New Holocaust" il titolo.
 
   Adesso un artista yazida prova a tenere viva la memoria di questo genocidio a fari spenti. Ammar Salim prevede di completare la serie di venti quadri per aiutare il mondo a capire la crisi che attanaglia l'Iraq. In tempi più felici, Ammar Salim aveva dedicato gran parte della sua arte ai bambini e un ciclo ad Halabja, la città martire del Kurdistan iracheno: durante l'operazione Anfal, tra il 1975 e il 1990, circa cinquemila villaggi curdi erano stati distrutti dalle truppe speciali di Saddam Hussein. Centinaia di migliaia di curdi furono deportati. Molti di loro sono scomparsi. Ora, Salim vede se stesso impegnato in una missione storica "per documentare la calamità" della sua comunità yazida per mano dello Stato islamico. I suoi dipinti sono ricchi di dettagli del disastro che ha colpito la comunità irachena sotto la furia islamista. Un quadro mostra un mercato di schiave nella Grande moschea di Mosul, dove vengono vendute donne e ragazze yazide, alcune mezze nude. Le ragazzine yazide hanno gli occhi rossi, perché hanno versato lacrime di sangue sul loro infelice destino. E' la stessa moschea in cui si è autoproclamato califfo Abu Bakr al Baghdadi.
   Salim ha iniziato a pubblicizzare il suo lavoro sui social media come Facebook e Twitter, dove alcune scene, come ad esempio il mercato della schiavitù nella Grande moschea, non sono state accolte con
"Se non bruci quel dipinto ti uccideremo", hanno intimato gli islamisti a Salim, che custodisce
la memoria del genocidio.
favore da tutti. "Sono stato minacciato di morte: 'Hai insultato la moschea', mi hanno detto. Dico loro: 'perché sei così arrabbiato per la pittura di un luogo? Perché non sei furioso per la violazione della dignità di queste donne? Perché non riuscite a criticare le atrocità invece dei dipinti delle atrocità?"'. Una minaccia diceva: "Se non bruci quel dipinto ti uccideremo, sappiamo dove vivi".
   In uno dei dipinti più surreali di Salim, un minareto di Sinjar è raffigurato come il volto di una donna, che piange in preda alla disperazione. Il Monte Sinjar, con il santuario verso il quale decine di migliaia di yazidi sono fuggiti dopo l'attacco islamista, è raffigurato come un leone ruggente. Sullo sfondo, le bandiere del Califfato sono simili a demoni. Salim ritrae un combattente jihadista che taglia la gola a un uomo, un altro che brandisce una testa mozzata, mentre altri militanti scaricano corpi in una trincea traboccante di cadaveri. Dal suo piccolo appartamento nella città di Dohuk nella regione curda dell'Iraq, Salim ha tentato di imprimere le memorie collettive della sua comunità nella serie intitolata "Il genocidio yazida''. In un quadro, che l'artista descrive come "una foresta infernale", raffigura una strada che conduce alluogo sacro yazida di Lalish. Gli alberi che fiancheggiano la strada, collegati tra loro da catene, hanno la forma di donne che gridano al cielo. Lo sfondo è un tramonto rosso sangue mescolato ad arance.
   Il prossimo quadro di Salim raffigurerà una donna che recupera le ossa della figlia yazida da una fossa comune. Urge una tela anche sullo sguardo disattento dell'occidente, mentre si consumava la distruzione di un popolo il cui nome compare persino nelle leggendarie rovine sumeriche.

(Il Foglio, 13 giugno 2015)


Il Parlamento spagnolo approva la cittadinanza per i discendenti degli ebrei espulsi nel 1492

Dopo mesi di speculazioni finalmente il Congresso dei Deputati della Spagna, la camera bassa dell'organo legislativo, ha approvato la nuova legge sulla cittadinanza che permetterà ai discendenti degli ebrei sefarditi cacciati dal paese nel 1492 di ricevere il passaporto spagnolo.
La nuova legge permetterà a circa due milioni di discendenti di richiedere la cittadinanza spagnola che potranno detenere come cittadinanza aggiuntiva. Fino ad oggi solamente persone provenienti dal Sud America, da Andorra, dal Portogallo e dalle colonie spagnole potevano godere di questi diritti. Una legge simile era stata approvata a Marzo in Portogallo....

(Progetto Dreyfus, 12 giugno 2015)


Al padiglione israeliano di Expo i cibi griffati di Peddy Mergui

MILANO - Fino al 26 giugno, al padiglione di Israele a Expo Milano sono esposte le opere dell'artista di origine marocchina e israeliano d'adozione Peddy Mergui. La mostra, dal titolo Wheat is wheat is wheat, già a San Francisco l'anno scorso e in altre città internazionali, più che esporre opere d'arte, mostra oggetti di consumo trasformati dall'artista in oggetti di lusso a tutti gli effetti. Il logo dei brand più famosi della moda e del design sono da lui utilizzati per inventare dei prodotti del quotidiano (uova, latte, farina) riconfezionati con packaging di lusso.

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Quale aspetto avrebbe il latte della Apple? e le uova di Versace o la farina di Prada e lo yogurt di Tiffany? Basta applicare l'etichetta di un certo marchio ed ecco che ogni prodotto può diventare uno status symbol. «Mi sono reso conto che il design è uno strumento estremamente potente, in grado di influenzare profondamente le nostre scelte d'acquisto - spiega Peddy Mergui - ed Expo è una grande occasione per applicare questo punto di vista al tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita: che cosa compriamo effettivamente quando siamo disposti a pagare un sovrapprezzo per un brand di farina o di sale da cucina? Consideriamo il valore aggiunto in base al packaging o alla qualità del prodotto contenuto?».

(Insideart, 12 giugno 2015)


Barkat, il sindaco eroe di Gerusalemme che seda risse e ferma i terroristi

Cinquantuno anni, l'ex maggiore delle truppe speciali è protagonista di ripetute gesta, sempre improvvise, a tutela dei cittadini

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - "Barkat lo ha rifatto". Sono i notiziari radio del mattino ad aggiornare gli israeliani sull'ennesimo gesto di coraggio del sindaco di Gerusalemme. Cinquantuno anni, ex maggiore delle truppe speciali, con alle spalle business di successo nell'hi-tech e un corpo atletico, Nir Barkat ha un profilo da leader energetico ma ciò che più lo distingue è l'essere protagonista di ripetute gesta, sempre improvvise, a tutela dei cittadini. Lunedì stava andando in bicicletta verso il suo ufficio, a piazza Safra, quando nei pressi del parco Sacher ha assistito alla colluttazione fra due automobilisti. Gerusalemme è una città con strade piccole e molto traffico che, soprattutto al mattino, crea ingorghi, ritardi e tensioni. Gli scambi di improperi fra chi guida sono frequenti e può avvenire che si superi il segno. Sono casi estremi, frutto della carenza di strade spaziose, e quando il sindaco si è trovato ad essere testimone dello scontro fisico fra due concittadini, è sceso dalla bici ed intervenuto, separandoli con il proprio corpo fino all'arrivo della polizia, che ha risolto la lite.
   L'immagine di Barkat che, in maniche di camicia, separa i due violenti riporta alla memoria quanto avvenuto il 22 febbraio scorso quando le stesso sindaco scese dalla sua auto, davanti alle mura della città vecchia, per gettarsi contro un terrorista palestinese 19enne armato di coltello che aveva appena ferito un ebreo ortodosso, riuscendo a disarmarlo. In quell'occasione i giornali locali parlarono di un "sindaco eroe" perché, come scrisse "Haaretz" "ha il merito di essere intervenuto lui, senza chiedere alla scorta di farlo" mettendo ko l'aggressore con un abile colpo frutto della conoscenza delle arti marziali. Ma in questo caso il "Jerusalem Post" va oltre e suggerisce un paragone addirittura con il "Superman" dei fumetti, visto che Barkat riesce ad essere sempre dove serve, al momento giusto per aiutare il prossimo.
   In una nazione che si distingue per le critiche, spesso sarcastiche, nei confronti dei leader politici tanto basta ad innescare, su blog e talk show, il dibattito se "Superman esiste davvero oppure no" ovvero se gli episodi di Barkat sono effettivamente frutto del caso oppure se è lui che, in realtà, si guarda continuamente intorno cercando di afferrare ogni occasione utile per exploit destinati a rafforzarne la popolarità nazionale. Quale che sia la genesi di tali salvataggi, neanche i critici più spietati osano dubitare del coraggio che Barkat mostrò nel 2004 - anche allora era il 22 febbraio - quando non ancora sindaco si gettò dentro un autobus di linea appena devastato dall'esplosione di un kamikaze delle Brigate Al Aqsa per trarre in salvo la 16enne Liz Montillo, coperta di sangue, per restarle a fianco fino all'arrivo dei soccorsi.

(La Stampa, 10 giugno 2015)


Una storia di coraggio

di Alice Fubini

Georges Loinger
TORINO - Membro onorario della Resistenza francese, a 105 anni Georges Loinger non ha perso la voglia di raccontarsi e raccontare la guerra, i suoi orrori, ma anche lo straordinario impegno svolto, a rischio della vita, per salvare centinaia di bambini e oltre un migliaio di anime dalle persecuzioni, favorendo il loro passaggio in Svizzera o nella vicina Spagna. Vicende che Loinger ha racchiuso nel libro "Les résistances juives pendant l'Occupation" (pubblicato per la Fondazione francese per la memoria della Shoah) e che sono state raccontate dal diretto protagonista ieri, nel centro sociale della Comunità ebraica, nel corso di una serata organizzata dal Gruppo Sionistico Piemontese.
   Georges Loinger, così Emanuel Segre Amar presenta l'ospite, "è un uomo della memoria perché dentro di sé, come diceva spesso la moglie Flore, custodisce un libro". "Tu portes un livre en toi!". Tra i presenti il figlio e il presidente della Comunità ebraica Dario Disegni, che ha rivolto all'ospite un caloroso ringraziamento.
   Georges Loinger si dice emozionato, poi inizia a raccontare la sua vicenda e il suo passato con tono pacato ed estrema naturalità. Ciò che descrive è la condizione dei moltissimi bambini ebrei francesi che si trovarono costretti a nascondersi o a farsi adottare da famiglie non ebree o, soluzione più drastica, a migrare in paesi più sicuri.
   Loinger è riuscito ad organizzare i trasferimenti e le adozioni durante tutto il periodo della guerra, salvando centinaia di bambini, regalandogli così un futuro. Loinger ricorda come in questo passaggio sia stato fondamentale il legame tra la Resistenza francese e la Resistenza ebraica: la fusione delle due ha permesso di unire le forze nel tentativo di mettere in salvo la parte più innocente e fragile della comunità ebraica, che ne rappresentava il futuro e la speranza. Il problema delle adozioni era legato principalmente a una mancanza di sussidi economici da dare alle famiglie che si facevano carico di un membro della famiglia in più da sfamare: alcune famiglie si limitarono a nascondere un bambino ebreo senza chiedere nulla in cambio, altre pretendevano un compendio. Così Georges stesso e altri organizzarono delle delegazioni che partirono per la Spagna e per l'America alla ricerca di questi sussidi.
   L'adozione poteva essere una soluzione di salvezza, ma non certo la più sicura. Così si iniziarono a organizzare gli espatri o verso il confine spagnolo o verso quello svizzero. I bambini venivano accompagnati da Loinger fin quasi al confine, poi venivano affidati ai cosiddetti passeur, che tramite una
 
La conferenza di Loinger a Torino
ricompensa in denaro, li traghettavano da un confine all'altro. I bambini non si volevano staccare da lui, perché in Georges riconoscevano il loro vero salvatore. Tuttavia, se volevano sopravvivere, non potevano far altro che affidarsi ad uno sconosciuto che li avrebbe portati in un paese altrettanto sconosciuto. Un ruolo chiave nell'organizzare il passaggio di molti bambini dal confine francese a quello svizzero è stato svolto da un soldato italiano, con cui lo stesso Loinger era in contatto. Proprio per questo tra il pubblico era presente il Comandante dei Carabinieri delle regioni Piemonte e Valle d'Aosta, Generale Micale.
   Ma dal 1943, con l'occupazione totale della Francia da parte dell'esercito tedesco, la situazione si complica e i confini vengono controllati più assiduamente. L'attività di Georges non si arresta. Nè allora, né con la fine della Guerra. Assume così un ruolo centrale nell'organizzazione della nave Exodus, che avrebbe dovuto trasportare i 4500 sopravvissuti ai campi di sterminio in terra d'Israele, perché solo lì volevano andare. Georges si occupa personalmente del trasporto di tutti i passeggeri da Amburgo al porto di Sète. La nave salpa diretta a Haifa, ma una volta giunta a destinazione si vede costretta a ripiegare in Francia in seguito all'intervento di navi e aerei inglesi che si opponevano al progetto sionista.
   Georges Loinger ha ricevuto numerose onorificenze per il suo operato, ma tuttavia non le cita mai nel suo libro, caratterizzato invece da una scrittura profondamente semplice, tesa a non dimenticare coloro i quali lo aiutarono in questa impresa.
   "Il libro racchiude la vita straordinaria di un uomo straordinario", conclude Segre Amar.

(moked, 12 giugno 2015)


Senti come parla l'ayatollah

I confini dell'Iran oggi? Il mare Mediterraneo e il sud dello Yemen

Il bello, si fa per dire, delle rivoluzioni islamiste è che si muovono secondo piani annunciati con enfasi e anni di anticipo. Basterebbe, semplicemente, ascoltare quando dichiarano cosa vogliono fare, dove e come vogliono farlo. Ieri l'ayatollah iraniano Saeedi, appartenente al corpo militare delle Guardie della Rivoluzione, l'ha messa giù ancora una volta in modo semplice: sotto Khomeini il nostro confine era quello con l'Iraq, sotto Khamenei (la Guida suprema di oggi) i nostri confini sono il mare Mediterraneo (leggi: la costa della Siria) e Bab al Mandab, che è il tratto di mare tra lo Yemen e l'Africa. Insomma: ci siamo espansi a ovest fino al mare, e a sud fino all'estremo della penisola arabica. L'Ayatollah si riferisce evidentemente all'influenza che l'Iran esercita sul presidente siriano Bashar el Assad in Siria e al potere che esercita sui ribelli Houthi, che in pochi mesi hanno conquistato quasi tutto lo Yemen.
   Folklore, si dirà, una dichiarazione stentorea che arriva da figure abituate a esaltare il potere di Teheran. Ma le parole dell'ayatollah suonano assai reali agli altri stati nella regione, come Israele - che bombarda Assad a intervalli regolari - e l'Arabia Saudita - che sta bombardando lo Yemen. Sono il tipo di parole che creano le tensioni da cui scaturiscono guerre infinite. Sono i canti di vittoria che fanno agitare i sunniti e li spingono nelle braccia dei gruppi estremisti - è sbagliatissimo, ma accade. Parlano, insomma, parlano chiaro e basterebbe ascoltarli. L'hanno detto anche di Israele, che però rimane il punto del programma iraniano più difficile da realizzare. La ragione? Gli israeliani, a differenza nostra, li ascoltano.

(Il Foglio, 12 giugno 2015)


Comunità ebraica di Roma domenica al voto. Comincia l'era del dopo Pacifici

Si rinnovano Consiglio e Consulta. Sono quattro i candidati presidenti in novemila attesi alle urne.

di Gabriele Isman

Dopo una campagna elettorale molto combattuta soprattutto su Internet e sui social network, domenica la comunità ebraica romana va alle urne per scegliere i 26 eletti che comporranno il nuovo consiglio, oltre al
I seggi aperti
Sono 9 le sezioni elettorali dislocate in varie parti della città. Le urne saranno aperte dalle 8 alle 22.30 di domenica. Possono votare circa 9mila maggiorenni tra i 13 mila iscritti.

Il consiglio
Sono 26 più il presidente i componenti del Consiglio della Comunità ebraica di Roma. Viene rinnovata anche la Consulta della comunità.

Candidati Presidenti
Sono 4 i candidati alla presidenza: Ruth Dureghello, Fiamma Nirenstein, Claudia Fellus e Maurizio Tagliacozzo. Il presidente uscente, Riccardo Pacifici, non può essere rieletto.
presidente che siederà sulla poltrona finora occupata da Riccardo Pacifici. Verrà rinnovata anche la Consulta della comunità ebraica. Le nove sezioni dislocate in varie parti della Capitale - dal ghetto a viale Libia, da Viale Marconi a Ostia - domenica saranno aperte dalle 8 alle 22.30. Potranno votare i circa 9 mila maggiorenni tra i 13 mila iscritti alla Comunità, esprimendo 9 preferenze da una stessa lista per il Consiglio e 10 per la Consulta,
Pacifici - dal 1993 protagonista dell'ebraismo romano e non solo - stavolta non potrà correre dopo aver raggiunto il limite di tre mandati consecutivi come consigliere. Sono in quattro a contendersi la sua poltrona da presidente. Ruth Dureghello, assessore alla Scuola nell'attuale giunta, è la candidata di "Per Israele" , la lista fondata da Pacifici. La giornalista, scrittrice ed ex parlamentare Pdl Fiamma Nirenstein è la vera sorpresa di queste elezioni: si è candidata con "Israele siamo noi" all'ultimo minuto dopo aver provato a scalzare Dureghello in cima alla lista fondata e sostenuta da Pacifici.La terza lista, "Binah" è formata da sole donne ed è guidata da Claudia Fellus, nata a Tripoli e moglie per 28 anni di Mario Pirani, il giornalista di "Repubblica" scomparso ad aprile. L'ultima lista, "Menorah", è anche l'unica che presenta come candidato presidente un uomo: è l'imprenditore Maurizio Tagliacozzo, figlio di Sergio che guidò la Comunità negli anni Ottanta. Tagliacozzo è stato anche compagno di scuola di Pacifici e suo testimone di nozze.
Sono stati due i confronti a 4 tra i candidati presidenti: lunedì al teatro Italia e mercoledì al Circolo Pitigliani: si è parlato molto di scuola, di identità, di sanità. Poi, dopo l'ennesima tornata sui social network, ieri sera le cene elettorali delle varie liste. Poi verrà il silenzio dello shabat e domenica il voto. Lo scrutinio inizierà soltanto lunedì. Per essere sicuri di eleggere il presidente, una singola lista deve ottenere il 45% dei voti. Se non ci sarà un vincitore, si aprirà il valzer degli accordi post elettorale in seno al Consiglio neo eletto.

(la Repubblica, 12 giugno 2015)


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Comunità ebraica di Roma. Il voto e i temi

di Paolo conti

Domenica 14 giugno la Comunità ebraica romana eleggerà il suo nuovo presidente. O «la sua nuova» presidente, visto che tre candidate su quattro sono donne. Finisce l'era di Riccardo Pacifici, che ha superato il limite dei tre mandati. Ed è giusto qui riconoscergli molti meriti: la tenuta della Comunità, anche in momenti complessi. Un saldo rapporto con il Vaticano, attraverso diversi pontificati. Una lotta all'antisemitismo combattuta a viso aperto, ma senza fondamentalismi. Un franco confronto con le diverse maggioranze del Campidoglio, sempre con la dignità di chi rappresenta la più antica comunità ebraica della Diaspora, che ha visto nel 1943 l'atrocità del rastrellamento nazista. Una cura assidua della Memoria.
   Ora si gira pagina e domenica si vedrà chi prenderà il suo posto. Se toccherà alla candidata sostenuta da Pacifici, l'attuale assessore della Comunità alla Scuola, Ruth Dureghello, alla guida della lista «Per Israele», in cui corrono Ruben Della Rocca e Serena Di Nepi o Gadiel Gaj Taché, fratello del piccolo Stefano ucciso nell'attentato alla Sinagoga. O se sarà invece il turno di una candidatura che ha sorpreso molti, quella della giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein, ex parlamentare Pdl, con la lista «Israele siamo noi», che rifiuta con decisione l'etichettatura «di destra»: anzi immagina una Comunità sempre più innovativa. Si candida anche Claudia Fellus, ebrea tripolina, leader della lista «Binah» tutta al femminile, esperta di sanità e di scuola, per quasi trent'anni moglie del giornalista Mario Pirani: la Fellus ha rivolto un appello al voto a chi è «lontano» dalla Comunità («vota solo il 30% degli ebrei romani - ha sottolineato - invece dobbiamo partecipare e ritrovarci tutti»).
   Poi ecco l'unico uomo, Maurizio Tagliacozzo, imprenditore, alla testa della lista «Menorah» che si batte per un mondo trasversalmente imprenditoriale, dai professionisti agli ambulanti, spesso tutti toccati dalla crisi. Difficile immaginare quanto potranno contare l'eredità di Pacifici o la voglia di cambiamento. E quanto peserà, nel complesso, l'atmosfera plumbea che grava sulla città con la nuvola di Mafia Capitale. O prevedere se la Comunità davvero sorprenderà, facendo lievitare l'afflusso alle urne. L'essenziale è che l'Ebraismo romano, eletto il nuovo vertice, metta da parte le divisioni e resti compatto, com'è sempre accaduto. Perché Roma ha storicamente un gran bisogno di una Comunità ebraica forte, coesa, unita.

(Corriere della Sera, 12 giugno 2015)



Non temere!

Ma tu, Israele, servo mio,
tu, Giacobbe, che io ho scelto,
progenie d'Abrahamo, l'amico mio
che ho preso dalle estremità della terra,
che ho chiamato dalle parti più remote di essa
e a cui ho detto: "Tu sei il mio servo;
io ti ho scelto e non ti ho reietto",
tu, non temere, perché io sono con te;
non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio;
io ti fortifico, ti soccorro,
io ti sostengo con la destra della mia giustizia.
Ecco, tutti quelli che si sono infiammati contro di te
saranno svergognati e confusi;
i tuoi avversari saranno ridotti a nulla e periranno,
tu li cercherai, e non li troverai più.
Quelli che contendevano con te;
quelli che ti facevano guerra
saranno come nulla, come cosa che più non è;
perché io, l'Eterno, il tuo Dio,
ti prendo per la mano destra e ti dico:
Non temere, io t'aiuto!
Non temere, o Giacobbe che sei come un verme,
o residuo d'Israele!
Son io che t'aiuto, dice l'Eterno;
il tuo redentore è il Santo d'Israele.
Ecco, io faccio di te un erpice nuovo dai denti aguzzi;
tu trebbierai i monti e li ridurrai in polvere,
tu renderai le colline simili alla pula,
tu li ventilerai e il vento li porterà via,
e il turbine li disperderà.
Ma tu giubilerai nell'Eterno,
e ti glorierai nel Santo d'Israele.

dal libro del profeta Isaia, cap. 41

 

Orange: "Nessun boicottaggio, investiremo ancora in Israele"

Il movimento che promuove il boicottaggio (Bds) contro Israele l'aveva sbandierato come una vittoria: il gigante francese delle telecomunicazioni Orange che si ritira da Israele per questioni politiche sembrava un assist perfetto per la loro campagna anti-israeliana. Eppure nel giro di poco tempo quello che era diventato un caso diplomatico tra Gerusalemme e Parigi, si è risolto con una stretta di mano tra il Primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu e il presidente di Orange Stephan Richard. In queste ore il Ceo dell'azienda francese, che in Israele ha un accordo con la Partners Communications, ha infatti incontrato il capo del governo israeliano, scusandosi per le affermazioni pronunciate al Cairo: in una conferenza stampa dello scorso 3 giugno Richard aveva dichiarato ai media locali di essere pronto a ritirarsi dal mercato delle telecomunicazioni israeliano. Da qui la protesta di Gerusalemme, diretta in particolar modo al governo francese, che detiene il 25 per cento delle azioni di Orange. "Sta al presidente del gruppo Orange definire le strategie commerciali della sua azienda ma la Francia si oppone fermamente a qualsiasi boicottaggio di Israele", aveva rassicurato il ministro degli Esteri transalpino Laurent Fabius, seguito poi dal presidente Richard che aveva negato qualsiasi influenza politica nella decisione dell'azienda di concludere il contratto con il partner israeliano. "Questo incontro - ha dichiarato Richard alla presenza di Netanyahu - mi da l'opportunità di dire chiaramente e inequivocabilmente che Orange non prende parte a nessun boicottaggio in Israele o da qualsiasi altra parte". "Noi facciamo business, facciamo comunicazione, connettiamo le persone, certamente non partecipiamo a nessuna forma di boicottaggio", ha ribadito il ceo di Orange.

(moked, 12 giugno 2015)


Tour gastronomico nel deserto del Negev

La Fattoria Salad Trail nel Negev
A chi si reca in Israele l'ente del turismo suggerisce il Salad Trail nel deserto del Negev, un tour gastronomico che mette in mostra gli importanti risultati ottenuti dal Paese con la coltivazione nel deserto di alcuni dei frutti e delle verdure più gustose al mondo. Ogni anno circa 45 mila turisti visitano la fattoria, dove è possibile mangiare prodotti freschi, coltivati dagli agricoltori israeliani con tecniche innovative. Il tour dura circa tre ore ed è offerto ai turisti in inglese, spagnolo, francese, russo, portoghese e olandese. I visitatori più curiosi hanno inoltre la possibilità di partecipare a un concorso culinario a base di prodotti della fattoria. Per un primo assaggio di questa esperienza, si consiglia il padiglione Israele a Expo, che illustra come gli israeliani hanno saputo far fiorire il deserto. Inoltre l'ente del turismo israeliano punta sulle sue spiagge: tra queste spicca Sironit, a Netanya, la cui particolarità è rappresentata da un suggestivo ascensore che scende lungo la scogliera in venti secondi, regalando una vista mozzafiato, ma anche la spiaggia dei delfini ad Eilat.

(Travel Quotidiano, 12 giugno 2015)


I cristiani estinti. Londra come Mosul

Lo Spectator sulla fine della cristianità in Inghilterra, non per colpa del califfo ma del secolarismo.

di Giulio Meotti

ROMA - Pochi giorni fa lo Stato islamico ha convertito in moschea la più importante chiesa di Mosul, dedicata a sant'Efrem, per festeggiare la presa della città di un anno fa. La croce che svettava sulla cupola era già stata divelta, i banchi e le suppellettili cristiani già messi in vendita. Mancava soltanto di omaggiare Allah nel luogo di culto cristiano. La ong Aiuto alla chiesa che soffre rivela che lo Stato islamico ha dissacrato 45 chiese a Mosul. La Bbc due giorni fa ha mostrato come dei sessantamila cristiani che vivevano ancora a Mosul, tutti fuggiti, restano soltanto tracce impresse sulle loro case: la "N" nera, il marchio con cui l'Isis ha bollato i "Nazara", i seguaci del Nazareno. "Proprietà confiscata dallo Stato islamico", recita la scritta sul muro.
   A Londra nessun cristiano è stato cacciato dalle case. Eppure, diecimila chiese sono state già chiuse nel Regno Unito e altre quattromila lo saranno entro il 2020. Sono al centro della strepitosa copertina-inchiesta del settimanale Spectator: "The Last Christian", dove si vede una anziana signora unica fedele in una cattedrale. "Si dice spesso che le congregazioni della Gran Bretagna si stanno riducendo, ma questo non si avvicina a esprimere il livello del disastro cui si trova di fronte il cristianesimo in questo paese. Se il tasso di declino continua, la missione di sant'Agostino presso gli inglesi, insieme a quella dei santi irlandesi presso gli scozzesi, arriverà a termine nel 2067".
   Tra il 2001 e il 2011 il numero di cristiani nati in Gran Bretagna è sceso di 5,3 milioni: diecimila ogni settimana. "Le nostre cattedrali sopravviveranno, ma non saranno vere cattedrali perché non avranno vescovi", spiega lo Spectator. L'anglicanesimo sparirà dalla Gran Bretagna già nel 2033. Queste proiezioni si basano sulle migliori statistiche disponibili. Tra il 2012 e il 2014, la percentuale di cittadini britannici che identificano come anglicani è scesa dal 21 per cento al 17 per cento - una diminuzione di 1,7 milioni di persone. Nello stesso periodo, il numero dei musulmani in Gran Bretagna è cresciuto di quasi un milione, secondo un sondaggio condotto dal rispettato NatCen Social Research Institute. L'ex arcivescovo di Canterbury Lord Carey, il più outspoken di tutti gli altri, ha appena avvertito che la cristianità inglese "è a una generazione dall'estinzione". Lo studio "Religious Trends" spiega che i frequentatori di chiese nel Regno Unito stanno scomparendo a una tale velocità che entro una generazione il loro numero sarà "tre volte inferiore a quello dei musulmani che vanno in moschea di venerdì".
   E' una rivoluzione religiosa che coincide con una delle peggiori crisi mai attraversate dalla chiesa. Quattro milioni di cristiani in meno e di questo passo potrebbero diventare minoranza nel giro di dieci anni, a fronte, invece, di una rapida crescita dei musulmani. "Il cristianesimo sta diminuendo di generazione in generazione" secondo David Coleman, docente dell'Università di Oxford. "E' il contrario per i musulmani, fra i quali le nuove generazioni sono più religiose delle precedenti". Secondo molti studiosi, la crisi della chiesa è un fenomeno inarrestabile.
   Londra come Mosul. Con una differenza importante: i cristiani iracheni hanno abbandonato Ninive pur di non abiurare la loro fede e sottomettersi ad Allah, mentre nel placido Regno Unito è una scelta. "Perché il cristianesimo britannico è di fronte a una simile catastrofe?", si chiede lo Spectator. "C'è una risposta: la secolarizzazione". In Inghilterra erano chiese e cattedrali, per citarne soltanto alcune, la Central Mosque di Brent, la New Peckham Mosque e la moschea Didsbury di Manchester.
    A Cobridge la moschea Madina fino a due anni fa era la chiesa cattolica dedicata a san Pietro di proprietà dell'arcidiocesi di Birmingham. Ma il tempo stava facendo quello che lo Stato islamico ha compiuto con fanatismo solerte a Mosul. La statua del Cristo in Grange Street era ormai invisibile, sommersa dall'erba.

(Il Foglio, 12 giugno 2015)


L'UNRWA compie 65 anni (e sono 65 di troppo)

Secondo i parametri dell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati, più del 97% di quelli che l'UNRWA considera profughi non lo sono per niente.

L'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati ha aiutato 50 milioni di persone a ricostruirsi una nuova vita: oggi non sono più "profughi" - L'UNRWA si è presa cura dal 1948 di 711.000 profughi palestinesi facendoli diventare, oggi, 5 milioni di profughi
Mettendo in scena un altro dei suoi spettacoli surreali, la scorsa settimana l'Onu ha celebrato il 65esimo compleanno di uno dei suoi rampolli più deformi e degeneri: l'agenzia per i profughi palestinesi UNRWA.
L'UNRWA venne fondata nel 1949 con il compito di occuparsi esclusivamente di quelli che venivano considerati profughi palestinesi. Di tutti gli altri profughi nel mondo, indipendentemente dalle loro condizioni e difficoltà oggettive, si occupa l'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (UNHCR): per qualche motivo, solo la categoria dei profughi palestinesi gode del privilegio d'essere assistita da un'agenzia in esclusiva: l'UNRWA appunto....

(israele.net, 12 giugno 2015)


La startup israeliana Nano Dimension attira gli investitori

 
La startup israeliana Nano Dimension ha ricevuto più di 11 milioni di dollari da investitori privati per sviluppare ulteriormente la stampante 3D DragonFly 2020.
Questa stampante è in grado di produrre circuiti stampati (PCB in inglese), le famose piastre verdi ricoperte di sottili strati metallici, utilizzate per interconnettere tra loro i vari componenti di un dispositivo elettronico (computer portatile, tablet, pc). A differenza di molte stampanti 3D già presenti sul mercato, come Voltera o Squink, la stampante sviluppata dalla Nano Dimension permette di ottenere circuiti stampati multistrato, essenziali per le apparecchiature elettroniche complesse.
Al giorno d'oggi, per ottenere un circuito stampato, gli industriali si rivolgono ad alcuni subappaltatori che spesso si trovano in Asia, con conseguente aumento di pirateria degli indirizzi IP. Simon Fried, co-fondatore di Nano Dimension, è consapevole dei problemi di sicurezza:

Se lavorate nel settore della difesa degli Stati Uniti o in Israele, non necessariamente avrete voglia di inviare dossier sensibili all'estero.

Tuttavia, nonostante Nano Dimension possa rappresentare la soluzione ai problemi di proprietà intellettuale, essa crea un ulteriore problema legato alla sicurezza. La pirateria dei dossier è una questione che si ripropone quotidianamente. Come possiamo pensare che un individuo possa produrre a casa dei circuiti stampati? Fried riconosce questa difficoltà, ma ritiene che sia un problema che non si presenterà a breve termine perché la prima versione della DragonFly 2020 costerà decine di migliaia di dollari e non sarà dunque accessibile ai comuni mortali.
Oltre a questi cruciali aspetti di sicurezza, Nano Dimension vuole rivoluzionare il mondo dell'elettronica. Attualmente la tecnologia utilizzata per produrre i circuiti stampati richiede dispositivi elettronici rettangolari. Con DragonFly 2020 si potranno prendere in considerazione anche cubi piramidali o circolari. Lo scopo della startup è quello di sviluppare una stampante che possa produrre circuiti stampati miniaturizzati, utilizzati da Apple ad esempio. Le prime stampanti saranno in commercio nel 2016.

(SiliconWadi, 11 giugno 2015)


L'antisemitismo avanza mascherato

di Fiamma Nirenstein.

C'è una piazza ad Amsterdam dove, per tradizione, si mostrano in un riquadro le idee più smart, più moderne, quelle che diventano la moda del giorno, che si tratti di diritti degli animali o di cambio climatico o di rivoluzione permanente. Chi non la conosce? È piazza Dam. Bene in questi giorni la gran moda è una ripugnante raffigurazione di Israele, in cui si vede il primo ministro Benjamin Netanyahu con i denti da dracula da cui cola il sangue di un bambino palestinese ucciso mentre lui, tutto soddisfatto, inalbera una scritta sulla fronte: «I can't get enough». Non mi basta mai. Il sangue dei palestinesi, naturalmente. Di contorno, altri fotomontaggi e scritte che mostrano Israele come uno Stato assassino, divoratore di bambini innocenti.
   E di conseguenza, voi che direste, brave persone? È uno Stato da distruggere, estinguere, fare a pezzi, proprio come si è sempre desiderato fare con tutti gli ebrei del mondo, in svariate epoche, spesso inventandosi dei blood libel, teorie del sangue, e con ogni altro genere di teorie fantasiose, per esempio quella dell'apartheid che fa solo ridere chiunque sia mai entrato in un ospedale israeliano, dove arabi e ebrei, dottori e malati, sono affettuosamente fianco a fianco, o all'Università o... praticamente ovunque.
   Ormai la delegittimazione è guerra: è solo un'opzione farsi saltare per aria uccidendo i passeggeri degli autobus o gli avventori dei ristoranti. Oggi le armi sono soprattutto quelle della propaganda che si riversa in delegittimazione, in bds, ovvero boicottaggio, o nella cosiddetta battaglia diplomatica. Che è diplomatica un corno. Si tratta di un terrorismo diverso che però ne ha tutte le caratteristiche: colpisce all'impazzata mirando alla distruzione del nemico prescelto, finge di avere una buona causa alle spalle, chiama in causa i diritti umani, cerca la commozione della gente sul suo vittimismo: «Save the palestinian children» dice il cartello che accompagna le foto, dimenticandosi che questo dovrebbe essere chiesto a Hamas e a Fatah che usano i bambini come scudi umani, come porta-armi, come terroristi con le cinture esplosive. Di più: sono loro che da sempre impediscono che le offerte territoriali di pace di Israele (quelle di Barak, di Olmert, di Netanyahu, o il ritiro di Sharon da Gaza) diventino pace.
   Chi criminalizza Israele? Sono tanti: per esempio Obama, che dice contro ogni evidenza che cambierà il rapporto diplomatico perché è Israele a non volere la pace e proibisce di scrivere «Israele» sul passaporto a chi è nato a Gerusalemme, magari domani potrebbe essere la capitale del califfato, chi sa; la London University, che per il 73 per cento, docenti e studenti, ha votato contro qualsiasi contatto didattico e scientifico con Israele, poveri ignoranti; la ditta Orange di telefonia, di cui un dirigente ha dichiarato che voleva portare via «anche domani» la sua compagnia da Israele (poi hanno chiesto scusa); la responsabile dei bambini all'Onu, che ha cercato di inserire Israele insieme con l'Isis e Boko Haram nella lista di quelli che più danneggiano i piccoli... È solo qualche esempio. In genere: era una forma di discriminazione, ora è una persecuzione che si riverbera sulla politica europea che vuole mettere le etichette sui prodotti israeliani dei territori. Etichette speciali... distintivi sugli ebrei... vi ricorda qualcosa?

(il Giornale, 11 giugno 2015)


Il capo dei diritti umani dell'Onu va in Arabia Saudita a lezione di libertà

E intanto il boia brandisce la frusta per il blogger liberale.

di Giulio Meotti

 
Gedda - Joachim Rücker, Presidente del Consiglio dei diritti umani dell'Onu, accanto ai custodi dell'islam wahabita
ROMA - La Corte suprema saudita ha dato via libera: mille frustate e dieci anni di prigione per il blogger liberale Raif Badawi, reo di aver "offeso l'islam". Soltanto la monarchia può salvarlo. A gennaio, mentre l'ambasciatore saudita sfilava a Parigi dopo la strage di Charlie Hebdo, Badawi aveva ricevuto le prime cinquanta frustate, dopo essere stato trascinato in catene davanti a una moschea. Una scena non dissimile da quelle cui si assiste sotto lo Stato islamico in Iraq e Siria e che fanno alzare qualche, non troppe, sopracciglia alla comunità internazionale. Nelle stesse ore in cui la medievale giustizia saudita procedeva verso la punizione dell'empio blogger, una fitta delegazione di burocrati delle Nazioni Unite atterrava a Gedda per promuovere una conferenza internazionale sulla libertà religiosa. No, non è uno scherzo.
  A guidare i felloni del Palazzo di vetro c'era Joachim Rücker in persona, il presidente del Consiglio dei diritti umani dell'Onu, fotografato sorridente al fianco dei custodi dell'islam wahabita con la tonaca bianca. Furiose le organizzazioni che di diritti umani si occupano davvero, come lo Un Watch che per bocca del suo direttore Hillel Neuer dice: "E' già abbastanza che la monarchia oppressiva e fondamentalista saudita sia eletta nel Consiglio dei diritti umani dell'Onu. Ma per gli ufficiali dell'Onu visitare Gedda e sorridere mentre l'attivista dei diritti umani Raif Badawi langue in prigione per il crimine di dissenso religioso, sotto minaccia di frustate, significa gettare sale sulla ferita. E' allucinante". Il numero di condanne a morte nel 2015 in Arabia Saudita ha già superato quelle dell'anno precedente. Soltanto a maggio, 89 sono state le teste che hanno rotolato.
  Neuer accusa il Consiglio dei diritti umani dell'Onu di "dare una falsa legittimità internazionale a un regime che decapita le persone sulla pubblica piazza, opprime le donne, i cristiani e gli omosessuali, che imprigiona blogger innocenti per aver sfidato l'islam wahabita". Un regime, quello saudita, che è sicuramente un modello di "libertà religiosa", visto che ha imposto il divieto di costruire chiese, dove un'insegnante che ha speso parole positive sul Nuovo Testamento è stata condannata a 750 frustate, dove non si può mostrare la croce o pregare in pubblico. E in cui alla Mecca ci sono le due famose uscite autostradali, una per i musulmani e una per i non musulmani. E dove la commissione per la Promozione della virtù ha persino suggerito il bando della lettera "X", perché troppo simile a una croce. "Non salutare per primo un cristiano o un ebreo", recita il libro di testo per gli studenti delle scuole superiori saudite. E ancora: "Non diventare amico dell'infedele a meno che l'obiettivo sia la sua conversione". Perché, come sta scritto in Ibn Abbas, "gli ebrei sono scimmie, il popolo del Sabato; i cristiani sono maiali, gli infedeli della comunione di Gesù". Ai bambini si insegna che "è permesso distruggere, bruciare e demolire i castelli degli infedeli". E' stato l'11 settembre, quando si scoprì che quindici dei diciannove attentatori kamikaze erano passati dalle scuole saudite, che ci ha fatto conoscere questo modello religioso che Nina Shea, a capo del Center for Religious Freedom, bolla come "di tipo nazista".
  Anche l'Amministrazione Obama ha mandato due inviati alla conferenza di Gedda. Si tratta dell'ambasciatore per la libertà religiosa, David Saperstein, e Arsalan Suleman, inviato all'Organizzazione per la cooperazione islamica. C'era anche Heiner Bielefeldt, inviato speciale delle Nazioni Unite per la libertà religiosa, noto studioso di Immanuel Kant, che deve aver visto applicazioni della sua ragion pratica anche nella frusta che farà sanguinare la schiena dell'infedele blogger.
  A questo punto manca soltanto di invitare l'Arabia Saudita al Salone del Libro per intrattenere il colto pubblico torinese sull'illuminismo nel mondo arabo. Azionismo islamico.

(Il Foglio, 11 giugno 2015)


Boicottaggio e diritto internazionale

Ecco una notizia: non esiste nessuna legge che vieti di fare affari in territori occupati

Quelli che sostengono il movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele) e quelli, anche in Israele, che sono in qualche modo a favore del boicottaggio "perlomeno" di Giudea e Samaria (Cisgiordania), sostengono le loro tesi ricorrendo al diritto internazionale.
Per la verità, Giudea e Samaria non sono "territori palestinesi": al massimo sono territori contesi di sovranità ancora da definire, e non è che la parte israeliana non abbia le sue rivendicazioni da avanzare su di essi in base a storia, diritto e retaggio culturale. Argomenti che sono stati più volte esaminati e illustrati da giuristi di fama mondiale sin dalla guerra dei sei giorni del 1967.
Come che sia, i nemici degli insediamenti israeliani nelle due regioni montuose della parte centrale del paese sostengono che il diritto internazionale proibisce di collaborare con le attività economiche di una forza d'occupazione in territori belligeranti. Ebbene, ecco una notizia: non esiste nessuna legge del genere....

(israele.net, 11 giugno 2015)


Le tecnologie israeliane a servizio della disabilità

Recentemente la redazione di siliconwadi.it aveva iniziato a raccontare come il settore tecnologico israeliano legato alla disabilità sia in continua crescita. Tra i molteplici temi trattati si era anche accennato alle 4 tecnologie israeliane che migliorano la vita dei disabili.
Come si evince dal rapporto ISRAELE Rapporto Congiunto Ambasciate/Consolati/ENIT 2015:

Le industrie ad alta tecnologia costituiscono, in particolare, il settore più dinamico dell'economia e sono ormai il vero fattore di traino dell'intero sistema.

Il settore tecnologico israeliano non conosce sosta, ma soprattutto il Paese è da sempre impegnato a trovare soluzioni per migliorare la qualità di vita dei malati e dei disabili, mettendo in campo le migliori risorse che possiede: i suoi ricercatori.

QUATTRO TECNOLOGIE ISRAELIANE
1. Imparare divertendosi - Timocco
 
   Numerosi studi dimostrano che molti bambini con "bisogni speciali" faticano a trovare la motivazione per sottoporsi alle terapie. Timocco è un sistema è un gioco virtuale, che si pensa possa essere la soluzione per accelerare lo sviluppo delle capacità motorie e cognitive attraverso attività ludiche. I giochi di Timocco sono progettati per bambini affetti da Sindrome da Deficit di attenzione e Iperattività (ADHD), autismo, paralisi cerebrali e difficoltà di apprendimento rendendo la terapia un momento di gioia e divertimento. L'azienda lavora con genitori, educatori e terapisti e distribuisce i suoi giochi tramite un abbonamento online.
2. Il primo smartphone per non vedenti - Project Ray Smartphone
    Project Ray è il primo smartphone completamente progettato per i non vedenti. È controllato tramite touch e voce. Si tratta di un dispositivo che ha rivoluzionato la vita dei disabili perché dona la possibilità di effettuare telefonate, leggere e inviare messaggi di testo ed email, inserire dei promemoria sul calendario ed utilizzare la navigazione tramite il GPS.
3. Lenti a contatto per non vedenti - Bionic contact lenses
    Un ricercatore israeliano, Zeev Zalevsky, sta focalizzando i propri studi e approfondimenti per creare una lente a contatto bionica che si pone come obiettivo di imprimere le immagini sulla superficie dell'occhio per aiutare il cervello a decifrare esattamente ciò che chi la indossa sta guardando. La lente è ancora solo un prototipo ma utilizza segnali elettrici inviati da un transponder collegato ad un paio di occhiali. Il dispositivo si comporta come un Braille per l'occhio, anziché per il dito. Si tratta di una forma di sostituzione sensoriale - utilizzando l'alta tecnologia per sostituire uno senso (in questo caso, la visione) con un altro (il tatto).
4. Tastiera intelligente - Inpris
 
    Inpris ha sviluppato una tastiera intelligente che riconosce le singole dita. Questa applicazione simula una macchina dattilobraille dando la possibilità di digitare direttamente sullo schermo del tablet o dello smartphone, grazie al rivoluzionario sistema "Ergonomic motion detection". Le "zone di digitazione" (i tasti) si posizionano sotto le punta delle dita di chi scrive. Questo sistema è un valido aiuto per gli ipovedente che debbano avvicinarsi a questa lingua così semplice, veloce ed intuitiva frutto del genio di Luis Braille.
   Israele nel corso di questi anni ha sviluppato una solida reputazione per la sua capacità di innovare. Il paese ha prodotto tecnologie leader per auto, smartphone e computer. Ma questo stesso spirito innovativo viene anche applicato ai problemi del mondo reale, nel tentativo di aiutare chi soffre di disabilità.

(SiliconWadi, 11 giugno 2015)


Israele spiava i negoziati sul nucleare iraniano

Gli 007 hanno preso il controllo di computer, telefoni, ascensori e sistemi antincendio degli hotel dove si tenevano le riunioni.

di Francesco Semprini

NEW YORK - Tutto sotto controllo nel negoziato sul dossier nucleare iraniano. Sotto controllo degli israeliani che, preoccupati per gli sviluppi «pericolosi» di un accordo sulle attività atomiche di Teheran, hanno affidato a «spy virus» la sorveglianza degli hotel dove si sono svolte le trattative tra i 5+1 e Iran.
È quanto emerge da un dossier messo a punto da Kaspersky Lab, una società russa essa stessa attaccata e spiata dall'«agente Duqu», un virus di «matrice israeliana» che era stato già identificato nel 2011. Ebbene, Kaspersky ha capito di essere stata colpita da una versione più evoluta del virus, «Duku 2.0» un anno fa, attraverso «allegati infettati». E ha così deciso di condurre una vasta indagine per capire quali dei 270 mila clienti, di cui si fa carico della sicurezza informatica era stato attaccato dal medesimo «spyware».

 L'indagine
  Dai test sono state riscontrate infezioni in un limitato numero di clienti in Europa occidentale, Asia e Medio Oriente, nessuno però negli Stati Uniti. Tra questi tre hotel, ognuno dei quali ha ospitato una tranche dei colloqui di Usa, Russia, Gb, Francia, Cina e Germania con l'Iran, secondo quanto emerso da successivi controlli incrociati. Ma anche un sito di commemorazione per i 70 anni della liberazione di Auschwitz dai nazisti. Per Kaspersky la matrice dell'attacco è senza dubbio israeliana sebbene il rapporto non lo menzioni in maniera esplicita.

 Il dossier
  Le conclusioni di «The Duqu Bet», questo il nome del dossier messo a punto da Kaspersky - Bet è la seconda lettera dell'alfabeto ebraico -, sono condivisi anche dall'intelligence Usa secondo cui la complessità del virus riconduce ad Israele. L'Fbi sta analizzando il rapporto Kaspersky e, sebbene non abbia ancora confermato le indicazioni, alcuni funzionari Usa non si dicono affatto sorpresi. «Stiamo prendendo in seria considerazione quanto riportato», dice un membro di Capitol Hill al Wall Street Journal che per primo ha riportato la notizia. Sembra che «gli intrusi» siano riusciti a intercettare conversazioni e documenti elettronici manipolando computer, telefoni, ascensori e sistemi antincendio degli alberghi. Su quali siano gli hotel vittime dello spionaggio la società russa mantiene il riserbo. Tuttavia sono sei gli alberghi che hanno ospitato le trattative: Beau-Rivage Palace di Losanna, Intercontinental di Ginevra, Palais Coburg di Vienna, Hotel President Wilson di Ginevra, Hotel Bayerischer Hof di Monaco e Royal Plaza Montreux di Montreux. Un'ex funzionario americano dell'intelligence ha spiegato al Wall Street Journal che non è un fatto inusuale per Israele spiare Paesi alleati su questioni che ritiene di grande importanza strategica. destini. Basti ricordare il caso di Jay Pollard, l'analista della Us Navy che passava informazioni al governo israeliano negli Anni 80. «Casi del genere sono già accaduti in passato - prosegue l'ex 007 la sola cosa inconsueta è che, questa volta, si è saputo».

(La Stampa, 11 giugno 2015)


Giochi all'ombra della guerra

di Angelica Calò Livne

I progetti per la commemorazione della Shoah sono una parte imprescindibile dei programmi educativi israeliani. Il Liceo Anna Frank dell'Alta Galilea è andato oltre: nello spettacolo "Giochi all'ombra della guerra" 15 ragazzi di 16 anni hanno rappresentato la Shoah europea e la Shoah del Nord Africa. Nel corso dell'anno scolastico hanno incontrato sopravvissuti ai campi di sterminio in Europa e ai pogrom perpetrati verso gli ebrei della Libia e hanno raccolto le loro testimonianze. Guidati da Bar Pesach, Roni Lebel e Limor Barko, insegnanti di danza e teatro al liceo, hanno trasformato le storie di fughe, di separazioni, di paura, in un toccante spettacolo. "Giocavate da bambini? - "Potevate uscire di sera?" "Come affrontavate il pericolo?" "Come vi hanno separato dai vostri genitori?" Ogni risposta ha dato vita a una scena commovente che i ragazzi hanno interpretato davanti al pubblico emozionato. Al termine della serata i ragazzi hanno invitato sul palco gli anziani amici, che oggi abitano tutti nei kibbuzim e nei moshavim della Galilea e, dopo un lungo abbraccio, hanno donato a ognuno una rosa. "Come potete, dopo tutto ciò che avete visto e sofferto nella vostra vita, essere ancora felici, sorridere, essere cosi sereni?" La risposta è giunta attraverso gli occhi lucidi di tutti, mentre, su uno schermo gigante, scorrevano le immagini delle loro famiglie create nonostante la distruzione, la persecuzione e il dolore. Ritratti davanti alle loro case, nel verde insieme a figli, nipoti e bisnipoti. Loro, da Vilna, da Varsavia, da Tripoli, loro: vittoria del bene, su ogni male!

(moked, 10 giugno 2015)


Ordine dei medici di Milano: riconoscere le lauree conseguite in Israele

Rossi: la mancata reciprocità ostacola i progetti di collaborazione

MILANO - Il presidente dell'Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi, ha scritto al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per chiedere il riconoscimento in Italia della laurea in Medicina conseguita in Israele. Il mancato riconoscimento delle lauree conseguite in Israele è infatti un ostacolo sostanziale al progetto lanciato nel corso del recente convegno Ordine dei Medici di Milano, in collaborazione con la Mediterranean Solidarity Association, di realizzare in Lombardia luoghi dove sperimentare le buone pratiche del sistema sanitario israeliano, soprattutto nell'ambito dell'organizzazione della medicina territoriale.
   Nella lettera - inviata per conoscenza anche al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, e al ministro dell'Istruzione e dell'Università, Stefania Giannini - il presidente dell'Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Milano si domanda come sia possibile la mancata reciprocità delle lauree data la riconosciuta alta professionalità, teorica e pratica, dei medici israeliani, "tant'è che per alcune discipline si è andati in Israele per imparare le loro procedure", come nel caso della gestione delle emergenze.
   "Questa lacuna - ha commentato Roberto Carlo Rossi - è davvero inspiegabile, anche tenuto conto delle buone relazioni diplomatiche, commerciali e culturali che l'Italia intrattiene con lo stato di Israele. Ma è ancor più inspiegabile se si considera che il riconoscimento reciproco del valore delle lauree e dei titoli in Medicina è invece attivo con altri Paesi del Vicino e del Medio Oriente". Al riguardo, il Presidente di OMCeO Milano, si sta già attivando per contattare Senatori e Deputati di tutti gli schieramenti affinché la proposta trovi il più ampio sostegno da parte del Parlamento italiano "anche nell'interesse del nostro Servizio Sanitario Nazionale".

(askanews, 10 giugno 2015)


Siglato protocollo d'intesa tra la Regione Emilia Romagna e lo Yad Vashem

BOLOGNA - L'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e lo Yad Vashem, l'Ente nazionale israeliano per la Memoria della Shoah con sede a Gerusalemme, hanno siglato un protocollo d'intesa basato sulla comune convergenza di intenti per promuovere una migliore comprensione sia della storia della Shoah in Italia e in Europa, sia dei diritti umani e delle libertà fondamentali sanciti nei principali documenti europei e internazionali.
   A siglare il documento, la presidente dell'Assemblea legislativa, Simonetta Saliera, e il presidente dello "Yad Vashem The Holocaust Martyrs' and Heroes' Remembrance Authority", Avner Shalev.
   Lo Yad Vashem, istituito nel 1953 con un atto del Parlamento israeliano, ha il compito di documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante la Shoah, preservando la memoria dei sei milioni di vittime, attraverso i suoi archivi, la biblioteca, la scuola e i musei, e di ricordare i Giusti fra le Nazioni, non ebrei di varie nazionalità (a oggi, il numero è in divenire, ne sono certificati circa 25.700, di cui 634 italiani, fra i quali figurano anche emiliano-romagnoli) che rischiarono la vita per aiutare gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale e la persecuzione nazista.
   Assemblea legislativa e Yad Vashem hanno anche assunto l'impegno di diffondere "l'insegnamento di questi temi tra le giovani generazioni" e di "offrire opportunità per l'aggiornamento dei docenti, stimolare la ricerca storica e metodologica, realizzare progetti e attività educative", con l'obiettivo di promuovere una cultura basata sul rispetto reciproco, contro "ogni forma di discriminazione e pregiudizio", in "difesa dei diritti inviolabili della persona", e di stimolare "la crescita di un'identità comune di cittadinanza basata sulla pace, sulla solidarietà, sulla partecipazione attiva e democratica, sulla giustizia sociale e sul dialogo".
   L'impegno comune - si legge nel testo dell'accordo, condiviso in Ufficio di Presidenza e che avrà durata triennale - si articolerà in diversi filoni, tra cui quello di "implementare attività commemorative per diffondere la conoscenza della Shoah e della Seconda guerra mondiale", quello di "svolgere attività di ricerca per raccogliere e sviluppare materiale specialistico di carattere didattico, pedagogico e storico", quello di "potenziare ed innovare gli strumenti e le metodologie per combattere ogni forma di pregiudizio, razzismo, antisemitismo e xenofobia".
   Altri obiettivi saranno la produzione e la diffusione di "prodotti didattici, pubblicazioni, mostre tematiche e altri strumenti per accrescere la conoscenza della storia e della memoria della Shoah", la creazione di "reti internazionali e locali per lo scambio delle esperienze, la valorizzazione dei patrimoni archivistici e bibliotecari, la realizzazione di progetti comuni", l'organizzazione di "eventi nei quali giovani e formatori di diversi Paesi possano incontrarsi, confrontarsi, scambiarsi e condividere esperienze", la "promozione di "progetti formativi in collaborazione con le scuole, e realizzare percorsi didattici rivolti a docenti e studenti, incentrati sulla Shoah e altri temi congiuntamente individuati" e, infine, lo sviluppo di progetti su questi temi che possano candidarsi a finanziamenti comunitari e internazionali.

(Sassuolo2000, 10 giugno 2015)


Ebrei tra umanità e tragedia

Il campo di internamento di Campagna (SA) fu quasi un "unicum" durante l'olocausto

di Alessandro Bonvini

 
Una finestra come simbolo della frontiera che separa l'umanità dalla tragedia. Con questa metafora si apre La Finestra della libertà. Frontiera per un'altra Europa. Storia degli internati ebrei di Campagna (EDUP, Roma, 2015), scritto da Giuseppina Di Stasi e Franco Mazzei. Il volume, organizzato in quattro parti, più una ricca appendice documentaria e storiografica, racconta di una storia che è stata, nel cuore del Novecento, tragedia europea e che, contemporaneamente, ha conosciuto nel Sud dell'Italia un'occasione unica di riscatto umano e morale. Nel giugno 1940, a Campagna, nei locali dell'ex convento Domenicano di San Bartolomeo e di quello degli Osservanti dell'Immacolata Concezione, su proposta del prefetto Bianchi di Salerno al Ministero dell'Interno, venne allestito un campo di internamento per ebrei che arrivò a contare fino a 340 uomini, provenienti da diversi paesi europei. In un'Europa dilaniata dai bombardamenti e segnata dalla tragedia dell'antisemitismo, quello di Campagna costituì un percorso alternativo, quasi un unicum, in cui l'esperienza dell'internamento incontrò quella della integrazione con la popolazione cittadina e le autorità locali.
   Non a caso, l'allora segretario del Partito Nazionale Fascista, Adelchi Serena, in una lettera inviata al capo della polizia, si lamentava della eccessiva libertà in cui vivevano «gli internati ebrei del campo di concentramento di Campagna», chiedendo l'adozione di «provvedimenti conseguenti da parte delle forze di polizia del regime».
   Come si scopre leggendo alcune pagine del diario di Eugenio Lipschitz, che occupano il secondo capitolo del libro, la vita nel campo era differente da quella condotta in altri campi. A parte alcune prescrizioni imposte dal regime di internamento qui gli ebrei entrarono subito in contatto con i campagnesi, stabilendo una sincera convivenza civile fatta di scambi culturali ed economici, rapporti amorosi e relazioni umane. La quotidianità del loro internamento era scandita da giochi collettivi, da spettacoli di intrattenimento e dalle letture del Talmud, oltre alle convenzionali pratiche di gestione ed organizzazione delle strutture interne. Per alleviare la monotonia di tutti i giorni venne allestita anche una biblioteca ed organizzata una squadra di calcio che giocava periodicamente con squadre della zona. Le relazioni fuori e dentro dal campo, dunque, si inserirono in un micro-cosmo umano, quasi impermeabile alla tragedia europea, in cui a mano a mano iniziarono ad emergere figure di eroi normali e dimenticati come quella del vescovo Giuseppe Maria Palatucci, che offrì agli internati «un appoggio incondizionato», o quella del nipote Giovanni Palatucci, Vice Questore con il compito ad ostacolare l'emigrazione clandestina, che ospitò molti ebrei di altre regioni nel campo di Campagna e ne aiutò altri a fuggire fuori dai confini nazionali. Se la storia del campo di Campagna fu esempio di una autentica solidarietà trans-nazionale, lo si deve infatti a quei protagonisti silenziosi che, in quegli anni, abitarono il campo e la città praticando un'idea di Europa alternativa a quella della barbarie dei totalitarismi. Particolarmente memorabile fu l'impegno del comandante Acone che, il giorno dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, informato di un possibile rastrellamento da parte delle truppe naziste, assieme allo stesso vescovo Palatucci, ordinò a Remo Tagliaferri, all'epoca custode del campo, di divellere le inferriate di una finestra del secondo piano, consentendo così a moltissimi ebrei di fuggire e di nascondersi intorno alle montagne circostanti. La narrazione delle vicende del campo di Campagna prosegue poi, nel terzo capitolo, incrociando la vicenda biografica di due medici ebrei: Maks Tanzer e Chaim Pajes, anche loro internati e protagonisti diretti di quei mesi. L'assistenza interna degli internati, infatti, pur essendo stata assegnata ad un medico «ariano», venne spesso diretta dai due medici di origine ebraica che aiutarono i civili fuori e dentro dal campo. In particolare, la loro attività si rivelò risolutiva all'indomani del 17 settembre 1943 quando, dopo un duro bombardamento che colpì la cittadina salernitana, centinaia di persone persero la vita tra le strade di Campagna. I due medici ebrei, Maks Tanzer e Chaim Pajes, allora, colta la potenziale virulenza della strage, intervennero immediatamente, bruciando i cadaveri ed evitando il diffondersi una pericolosa epidemia tra la popolazione civile. Macro-storia e micro-storia, storia nazionale e storia locale si fondono congiuntamente in un volume che fa della memoria storica, grazie ad un attento uso di fonti primarie, veicolo di narrazione di una vicenda troppo a lungo dimenticata. L'intento dei due autori coglie dunque a pieno l'obiettivo prefissato nelle battute iniziali dell'introduzione al volume, offrendo ai lettori il ricordo di uomini che, nonostante l'atrocità dei campi di concentramento, riuscirono comunque a professare l'idea di una società libera e democratica e portando la testimonianza di un'Europa altra che, per parafrasare le parole di Sàndor Màrai, oggi come ieri, continua a conservare «qualcosa che alla fine è più forte dell'odio».

(la Città di Salerno, 9 giugno 2015)


Happening antisemita nel cuore d'Europa

Ad Amsterdam, Israele è un vampiro che mangia bambini palestinesi.

di Giulio Meotti

Piazza Dam, ad Amsterdam, è stata la 'piazza di tutti i movimenti di contestazione che hanno scandito la nostra epoca. I ribelli che sfamavano i gatti randagi, quelli che si facevano fotografare nudi, quelli che chiedevano la decentralizzazione del potere, quelli che volevano la socializzazione degli alloggi e dei servizi, quelli che peroravano il ripristino di un "ambiente biologico sano" e quelli che volevano la "rivoluzione finale". Da ieri, i turisti che arrivano a piazza Dam trovano immagini di bambini palestinesi smembrati e uccisi dai soldati israeliani. C'è anche la foto del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, un Satana con occhi rossi, denti da vampiro sul corpicino di un neonato palestinese. Nella fronte del premier israeliano c'è una Stella di Davide e la frase "Can't get enough". L'ambasciatore israeliano in Olanda, Haim Divon, accusa: "Questo è davvero spaventoso, scandaloso e ripugnante. Fa parte di una campagna denigratoria che provoca nausea e disgusto". Divon ha ragione, ma quella che a piazza Dam è una trovata di ong e attivisti anti israeliani, con l'avallo delle autorità olandesi, è norma in tutta Europa.
   Dall'infanticidio al doppiogiochismo, i vecchi stereotipi antisemiti sono oggi applicati a Israele e trovano spazio sui maggiore giornali, dal liberal Guardian al mainstream del Times di Londra, dal Monde al País. Israele è diventato agli occhi dell'opinione pubblica occidentale un'entità sadicamente colonialista, un persecutore cieco di bambini, un costruttore di muri di apartheid. Durante l'ultima guerra a Gaza, nell'estate di un anno fa, l'Independent, il quotidiano più di sinistra del Regno Unito, scrisse che Israele "è una comunità di assassini di bambini". 0 come quando la baronessa Ashton, da responsabile della politica estera dell'Unione europea, paragonò, parlando dell'assassinio di tre bambini ebrei nel sud della Francia, i bimbi palestinesi vittime delle bombe israeliane a Gaza ai bambini ebrei uccisi a Tolosa. La mostra schifosa di piazza Dam è lo specchio delle nostre classi dirigenti intellettuali. E' l'happening antisemita del nostro tempo.

(Il Foglio, 10 giugno 2015)


Ormai non c'è più dubbio: chi continua a voler fare distinzione tra antisionismo e antisemitismo è un cieco che ha deciso di continuare ad esser cieco. Perché anche lui è un antisemita. Ebreo o non ebreo, consapevole o inconsapevole. Oggi Israele è il bersaglio individuato dal mondo per colpire gli ebrei nella loro comune identità di popolo. M.C.


Rivoluzione medica: cicatrizzazione grazie a laser e fibra ottica

 
Rivoluzione nel panorama medico: due ricercatori della Facoltà di Fisica dell'Università di Tel Aviv, sotto la direzione del Prof. Abraham Katzir, direttore del gruppo di ricerca di Fisica applicata, hanno trapiantato con successo cornee con un sistema intelligente che combina laser e fibre ottiche. Il nuovo metodo può sostituire le tradizionali suture e cicatrizzerà le ferite con un fascio laser, lasciando cicatrici minime.
Lo studio, recentemente pubblicato all'interno della rivista SPIE, è stato eseguito in collaborazione con il Dott. David Versano e la Dott.ssa Irina Barequet, della Facoltà di Medicina dell'Università di Tel Aviv, che operano l'uno all'Ichilov Medical Center e l'altro allo Sheba Medical Center di Tel Ashomer.
Commenta il prof. Katzir:

L'idea di ricucire le ferite per mezzo di un raggio laser non è nuova. Sviluppato per la prima volta negli anni '60, numerosi furono i tentativi effettuati, senza alcun successo.

Secondo il Prof. Katzir, la ragione di questi errori era la mancanza di controllo della temperatura della zona riscaldata dal laser. Egli paragona il processo alla cottura di un uovo: a 20 gradi non succede nulla, a 70 gradi l'uovo diventa sodo e a 200 gradi si brucia. Tuttavia, anche se l'esatta temperatura risulta essere un fattore critico per l'intero processo, fino ad ora non era mai stata presa in considerazione negli studi sulla sutura per mezzo di laser.

Crediamo che la temperatura che permetta la cicatrizzazione ottimale dei tessuti possa essere di circa 65 gradi, come cucinare un uovo sodo.

I ricercatori dell'Università di Tel Aviv hanno quindi cercato di sviluppare una tecnologia per misurare e controllare la temperatura di tutti i tessuti durante il processo. Per fare ciò, hanno usato le competenze specifiche del loro gruppo di ricerca: la produzione di fibre ottiche in grado di trasmettere la luce con raggi infrarossi.

Il nostro gruppo di ricerca è uno dei pochi al mondo in grado di produrre qualche fibra, fatta di cristalli di alogenuro d'argento (materiale utilizzato in passato per le pellicole fotografiche) che, a differenza della fibra di vetro, è in grado di trasmettere la luce infrarossa invisibile. Queste fibre sono atossiche, solubili in acqua ed è consentito l'uso medico. Queste fibre sono state utilizzate in apparecchiature laser per asportare tessuti durante le procedure chirurgiche, e nei termometri rapidi che misurano la temperatura corporea mediante l'orecchio.

Già da un paio di anni, i ricercatori hanno sviluppato una tecnica di sutura delle ferite in base alla loro area di competenza, che ha unito due fibre ottiche particolari: una che riguarda il passaggio di un raggio laser che riscalda la parte di tessuto da saldare e l'altra che misura la temperatura dello stesso punto ed un circuito di controllo che permette di mantenere la temperatura a 65 gradi. I lati dell'incisione vengono poi uniti e riscaldati l'uno dopo l'altro fino a saldatura completa.
Il sistema è stato testato con successo in laboratorio ed è stato approvato sugli esseri umani dal Ministero della Salute. Fino ad oggi sono stati condotti dieci esperimenti sulla sutura dell'addome durante la laparoscopia per la rimozione della cistifellea. Le suture ottenute hanno dimostrato nessun danneggiamento termico nella zona di incisione e una minima presenza di cicatrici.
Considerato il suo potenziale enorme, il nuovo metodo è stato oggetto di un articolo dell'agenzia Reuters, trasmesso successivamente in centoquaranta paesi.
Per migliorare questo metodo, i ricercatori hanno unito le due fibre in una sola al fine di diminuire l'influenza dei movimenti della mano del chirurgo sulla misura della temperatura. Questo miglioramento tecnologico è stato testato con successo in laboratorio da due esperti chirurghi oftalmici, il Dott. David Versano e Irina Barequet, per realizzare il trapianto di cornea su occhi di animali morti. I ricercatori attendono l'approvazione per condurre le sperimentazioni cliniche.

Secondo il metodo attualmente in vigore, il chirurgo esegue il trapianto corneale e cuce tutt'intorno, ovviamente questa è una operazione che richiede la massima precisione. Quando la cucitura non è completamente simmetrica, la visione del paziente può essere compromessa. Crediamo che la nostra nuova tecnica consenta anche ai meno esperti di eseguire trapianti corneali con estrema precisione e successo.

I ricercatori credono che questa nuova tecnologia possa essere applicata anche nei casi di riparazione di tessuto cerebrale e organi interni, microchirurgia dei piccoli vasi sanguigni, operazioni grazie all'aiuto di robot, medicina d'emergenza, chirurgia plastica e pediatrica.
Conclude il Prof. Katzir:

In effetti questo metodo permette la sutura di qualsiasi parte del corpo che abbia subìto un intervento chirurgico, senza punti di sutura e con cicatrici minime.

(SiliconWadi, 10 giugno 2015)


Speed Sisters, il documentario sulle cinque palestinesi dell'alta velocità

La pellicola della regista libanese-canadese Amber Fares dopo il debutto a Doha, segnato da un successo di critica nel mondo arabo, ora arriva nei cinema di Ramallah.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Presentato a Ramallah il documentario "Speed Sisters", che racconta la storia delle "cinque sorelle dell'alta velocità". Si tratta di cinque ragazze palestinesi, amiche per la pelle, che amano guidare auto ad alta velocità nelle strade della West Bank per sfidare i posti di controllo israeliano e testimoniare al tempo stesso l'emancipazione dalle regole più strette dell'Islam, che impediscono alle donne saudite di stare al volante.
La regista libanese-canadese Amber Fares ha trasformato la loro storia in un documentario, che dopo il debutto a Doha segnato da un successo di critica nel mondo arabo, ora debutta nei cinema di Ramallah.
"Tutto è iniziato nel 2009 - ha raccontato la regista alla presentazione - quando ricevetti l'invito ad una corsa di auto, ci andai, mi resi conto delle forti emozioni che provocava e scelsi di dedicare i seguenti cinque anni a seguire la loro storia".

(La Stampa, 10 giugno 2015)


Sondaggio: palestinesi scontenti di Hamas e dei conflitti a Gaza

di Roberta Papaleo

Un sondaggio recentemente condotto dal Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca Statistica ha rivelato che la maggior parte dei residenti della Striscia di Gaza non sono contenti della leadership di Hamas e della guerra con Israele della scorsa estate.
Su un campione di 1.200 persone, il sondaggio ha mostrato che il 50% dei gazawi vogliono emigrare, a differenza del 25% registrato tra i residenti della Cisgiordania. Una maggioranza del 63% ha espresso insoddisfazione per in conflitto dell'agosto 2014, in quanto meno "risultati rispetto alle perdite umane e materiali". Infine, solo il 30% dei gazawi si dice pronto a criticare apertamente senza paure, mentre il Cisgiordania il 32% dice di poter criticare liberamente il presidente Mahmoud Abbas.

(ArabPress, 9 giugno 2015)


La ricetta per miscelare un cocktail kosher

Un cocktail kosher creato partendo da ingredienti che rispettano le regole della kasherut ebraica. Si chiama Joy's ed è a base di Amaro Ramazzotti, certificato kosher.

di Mirta Oregna

Se pensi di non aver mai provato un cocktail kosher (che non è una parolaccia, ma nella religione ebraica è un cibo o bevanda che risponde alle regole alimentari della kasherut) probabilmente ti stai sbagliando, perché è molto facile che essendo certificati kosher i suoi ingredienti, lo sia anche il drink ottenuto. Poi come vengono certificati kosher gli alimenti, è tutta un'altra storia, spesso complicata in quanto la kasherut dipende dall'interpretazione della Torah e dell'interpretazione che se ne fa di essa. Ed è anche vero che tutto ciò che nuoce alla salute o ti metta in pericolo di vita non può essere kosher…
L'amaro Ramazzotti, storico digestivo alle erbe creato in un piccolo laboratorio dietro il Teatro La Scala di Milano esattamente 200 anni fa (occasione per cui è stata creata una bella bottiglia in edizione limitata), ad esempio, è certificato kosher a garanzia di qualità, genuinità e purezza del suo contenuto. Joynul Islam, resident bartender al LoolaPaloosa di Milano, storico locale delle notti di Corso Como, che dallo scorso 1 maggio ha inaugurato anche una sede ad Ibiza, e che spesso con il Ramazzotti serve un classico sour con limone e zucchero, si è cimentato nella creazione di un cocktail kosher partendo dall'utilizzo di una serie di ingredienti di per sé kosher. Un cocktail che ovviamente non è certificato, ma che rende l'idea e di cui vi diamo la ricetta. Per chi volesse poi in rete si trovano diverse risorse per districarsi tra birre, vini e liquori considerati kosher.
    JOY'S
    40 ml Vodka Van Gogh
    20 ml Amaro Ramazzotti
    50 mal di spremuta di pompelmo fresco
    20 ml di sciroppo di rosmarino
    2 dash di Angostura bitter
Raffreddare la coppa con ghiaccio. Nello shaker versare il pompelmo spremuto, lo sciroppo di rosmarino, l'amaro Ramazzotti, la vodka Vam Gogh e aggiungere due spruzzate di Angostura che da profumo, e il ghiaccio. Una volta shakerato, filtrare due volte con lo strainer (double strain), e versare nella coppa. Infine spruzzare la scorza del pompelmo.

(GQ.com, 8 giugno 2015)


Firenze - Il ritorno del Balagan
"Balagan" in ebraico significa "confusione"


 
A porte aperte per la consapevolezza, l'incontro, la circolazione delle idee. La sfida del Balagan Cafè torna a caricarsi di contenuti, a pochi giorni dal varo di una nuova edizione del festival che, sotto la direzione artistica di Enrico Fink, ha fatto della Comunità ebraica un vero e proprio punto di riferimento dell'estate fiorentina. "Sono ore di grande impegno, per offrire anche quest'anno un programmo ricco di stimoli a tutti coloro che vorranno farci visita" conferma la presidente della Comunità ebraica Sara Cividalli dando appuntamento per giovedì 18 giugno quando, nel giardino della sinagoga, il terzo Balagan prenderà avvio nel segno della musica, dell'alimentazione e del legame con l'identità.
   Sul palco la Balagan Cafè Orkestar e il coro comunitario dei giovani, impegnati con Fink a interpretare la performance artistica "La mamma, l'angelo e la ciambella". Mentre la direttrice del museo ebraico Dora Liscia Bemporad introdurrà la mostra "Ricette e libri di cucina della Firenze ebraica" con apericena (a seguire) ispirata alle ricette di Jenny Bassani Liscia.
   Tanti gli eventi, molteplici e diversificate le iniziative che accompagneranno il pubblico del Balagan fino alla prima domenica di settembre, quando Firenze sarà città capofila della Giornata Europea della Cultura Ebraica. "Il tema di questa edizione della Giornata è 'Ponti': una sfida carica di significati, che cercheremo di sviluppare già dal Balagan mettendo in relazione mondi e tradizioni diverse. Un modo di raccontare e raccontarci che - spiega Cividalli - ha già caratterizzato le passate edizioni del festival".
   L'idea è anche quella di stabilire una relazione sempre più proficua con alcune realtà limitrofe dell'Italia ebraica. Contatti sono in corso con la Comunità di Bologna e anche la partecipazione al Balagan di Andrea Gottfried, direttore artistico del festival Nessiah di Pisa, esperienza artistica tra le più consolidate dell'Italia ebraica, è una chiara dimostrazione in tal senso.
   "Rispetto alle prime due edizioni, anche in virtù del ruolo che ci è stato assegnato per settembre, abbiamo deciso di snellire un po' il calendario. La nostra sarà comunque un'offerta continua, con l'obiettivo di richiamare non solo la Giornata ma anche gli eventi che saranno proposti nei mesi successivi tra cui - sottolinea Cividalli - la seconda edizione del Florence Israeli Film Festival in preparazione per novembre".

(moked, 9 giugno 2015)


Israele libera il presidente del parlamento palestinese

Il presidente del parlamento palestinese è stato liberato oggi da Israele dopo un anno di prigionia. Aziz Dweik era stato arrestato in Cisgiordania il 16 giugno 2014, quattro giorni dopo il rapimento di tre giovani israeliani. Israele aveva ritenuto Hamas responsabile di quella sparizione e, in quei giorni, aveva arrestato almeno duemila palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. I corpi dei tre adolescenti erano stati poi ritrovati il 30 giugno 2014. Secondo il club dei prigionieri palestinesi di Ramallah, ancora undici dei 130 membri del parlamento palestinese sono nelle carceri israeliane.

(Internazionale, 9 giugno 2015)


Alitalia introduce tre nuovi voli settimanali Roma-Tel Aviv

GERUSALEMME - La compagnia aerea Alitalia ha introdotto sulla tratta Roma-Tel Aviv tre nuovi voli settimanali, raggiungendo così un totale di 29: quattro voli quotidiani dal lunedì al sabato, cinque la domenica. In coincidenza con il lancio della nuova livrea e del design del brand, Alitalia ha annunciato l'introduzione di una serie di nuovi voli, oltre al miglioramento nell'offerta di nuovi servizi e prodotti nei voli Business, Premium economy ed Economy. Questi nuovi lanci sono mirati principalmente al riposizionamento dell'Alitalia come leader nei servizi aerei di classe superiore, oltre che a rappresentare il meglio del nostro paese sulla scena internazionale. Lo ha reso noto l'ufficio a Tel Aviv dell'Agenzia per l'internazionalizzazione e la promozione all'estero delle imprese italiane (Ice).

(Agenzia Nova, 10 giugno 2015)


Ebrei di Libia: in un libro la loro storia, dalla coesistenza alla fuga

L'autore Roumani: 'Lavoro a quest'opera da tutta la vita'

ROMA - Tutto quello che avreste mai voluto sapere sugli ebrei di Libia lo potrete ora scoprire leggendo 'Gli ebrei di Libia' (Castelvecchi Editore) di Maurice Roumani, storico e docente universitario presso l'università del Negev (in Israele), tra i maggiori studiosi del Medio Oriente moderno.
Roumani, che ha studiato in Gran Bretagna e Stati Uniti, è nato a Bengasi, da cui - come tutti gli altri ebrei - è dovuto scappare. Gli esperti che ieri hanno partecipato alla presentazione del libro a Roma, presso Palazzo Baleani, non hanno esitato a definire la sua opera "una pietra miliare", che si pone nel solco tracciato - anni fa - da Renzo De Felice con il suo 'Ebrei in un Paese arabo'. Sfogliando le pagine scritte da Roumani - ricchissime anche di foto e utili didascalie - salta immediatamente all'occhio come questo volume cerchi di affrontare tutti gli aspetti legati alla presenza e successiva partenza degli ebrei dalla Libia: dalla coesistenza con gli arabi, all'introduzione delle leggi razziali durante il periodo coloniale: leggi razziali che furono applicate solo fuori dalla Hara, il ghetto ebraico, dove la vita continuò invece a scorrere uguale a se stessa; dall'esodo di massa che tra il 1949 e il 1952 ridusse la comunità all'osso, a seguito di due pesanti pogrom nel 1945 e 1948, dettati dall'affermazione crescente del panarabismo e dalla nascita d'Israele (1948), fino alle ultime e ultimissime partenze nel 1967 e 1969. E, infine, le complessità dell'integrazione nel neonato Stato ebraico, dove gli ebrei libici e nordafricani in generale devono fare i conti con i pregiudizi dell'élite askenazita. "Si può dire che in un certo senso io lavori a questo libro dal 1960", ha raccontato l'autore, ricordando quando, giovane studente in un'università inglese, scrisse una tesina sugli ebrei libici. E da allora il suo lavoro di ricerca e raccolta di documenti non si è mai fermato. 'Gli ebrei di Libia' è il risultato di un'accurata e annosa opera di setaccio, compiuta scandagliando archivi, biblioteche, lettere, fotografie e fondi storici in Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Israele. Fonti spesso inedite e l'approccio distaccato, da scienziato, dell'autore costituiscono il valore aggiunto dell'opera.

(ANSAmed, 8 giugno 2015)


Fraunhofer SIT: piattaforma tedesco-israeliana per la ricerca sulla sicurezza informatica

DARMSTADT, Germania - L'ambasciatore israeliano Yakov Hadas-Handelsman visita il Fraunhofer SIT di Darmstadt. Le attività di ricerca tedesco-israeliane puntano a migliorare la sicurezza di Internet, delle infrastrutture critiche, dei sistemi informatici fisici, del cloud computing, del software Big Data e Business. I partecipanti chiave si incontreranno alla fine di giugno al Cybersecurity Innovation Workshop di Tel Aviv.

La nazione all'avanguardia in materia di sicurezza informatica, Israele, si allea con la più grande organizzazione europea della ricerca scientifica applicata. Questa la notizia annunciata ai dirigenti aziendali e politici al ricevimento dell'ambasciatore israeliano Yakov Hadas-Handelsman a Darmstadt. L'ambasciatore ha visitato il Fraunhofer Institute for Secure Information Security (SIT) per discutere la nuova partnership per la ricerca sulla sicurezza informatica tra l'Istituto e Israele.
Il testo originale del presente annuncio, redatto nella lingua di partenza, è la versione ufficiale che fa fede. Le traduzioni sono offerte unicamente per comodità del lettore e devono rinviare al testo in lingua originale, che è l'unico giuridicamente valido.

Contacts
Fraunhofer Institute for Secure Information Technology SIT
Oliver Küch
Responsabile RP e marketing
telefono: +49 6151 869-213
fax: +49 6151 869-224
e-mail: presse@sit.fraunhofer.de

(Business Wire, 9 giugno 2015)


E' l'alba a Gerusalemme e si aprono le danze di Terraolivo

Il The Olive Tree Jerusal Hotel sembra una stazione di posta del vecchio West americano. In lontananza le alte ed antiche mura di cinta della città di Gerusalemme, costruite all'inizio del sedicesimo secolo dal Sultano Suleiman il magnifico, sembrano proteggere la città da nuovi e vecchi crociati, lasciando quale varco, ad abitanti e visitatori, le otto antiche porte d'accesso.

di Antonio G. Lauro

E' quasi l'alba, a Gerusalemme.
Dagli ultimi piani dei grandi hotel cittadini si ammira una città Santa e silente, avvolta da una mistica foschia, che rende irreale e sottolinea la bellezza della città vecchia.
Qui tutto tace.
Chiuso ancora l'affollato mercato di Mahane Yehuda, che si intravede a distanza. Qui, tra poco, frutta e verdura, fresca e secca, semi e spezie, aromatico cibo da strada, inonderanno gli astanti con un tripudio di odori e colori.
In lontananza le alte ed antiche mura di cinta della città di Gerusalemme, costruite all'inizio del sedicesimo secolo dal Sultano Suleiman il magnifico, sembrano proteggere la città da nuovi e vecchi crociati, lasciando quale varco, ad abitanti e visitatori, le otto antiche porte d'accesso. Tra queste la Porta d'Oro - oggi chiusa - detta anche Porta della Misericordia o Porta della Vita eterna, la stessa che Gesù varcò nel suo trionfale ingresso in città nella Domenica delle Palme.
Ed è la stessa città Santa che ospiterà, nei prossimi giorni, il concorso oleario più importante dell'anno.
Nel quartier generale del premio il lavoro ferve da giorni ormai. Tutti hanno un compito e l'allestimento continua, alacremente. Tace addormentato l'albergo, ma la macchina organizzativa della sesta edizione di TerraOlivo accelera le operazioni e spera di essere in tempo per ultimare i lavori previsti.
Alcuni, tra i giudici assaggiatori giunti da molto lontano, non dormono. Girovagano nervosamente per l'hotel, in attesa delle sedute di assaggio e danno vita ad un Melting pot di lingue, dialetti e culture, con l'unico comune denominatore l'olio da olive. Da oggi, e per tre giorni, li attende un delicato e gravoso lavoro: decretare il miglior extravergine al mondo!
Nel silenzio più assoluto, confezioni ricolme di prezioso "oro liquido" presentato al concorso da ogni dove, ricolmano la hall dell'albergo. Il The Olive Tree Jerusal Hotel sembra una stazione di posta del vecchio West americano, ma le tante persone coinvolte nei preparativi sanno che fare. Ordinatamente distribuiscono gli oli, catalogano gli ultimi arrivi, tutto deve essere pronto per le 8,30 in punto. Migliaia di bicchierini ufficiali color cobalto tintinnano nel corso del trasporto, tradendo la loro natura vetrosa; saranno questi gli strumenti di analisi dei giudici del concorso. Ma al freddo conteggio dei numeri, si contrappone l'umanizzazione del concorso, che si concretizza attraverso il prezioso apporto al TerraOlivo MIOOC (Mediterranean International Olive Oil Competition) Jerusalem dell'international team formato da Leonardo e Raul Castellani, Antonio G. Lauro, Eyal Hasson e Moshe Spak. Tutti, assieme ai loro più stretti collaboratori, si spenderanno per far si che anche quest'anno il "miracolo" si ripeta e che tutto sia pronto per la fatidica ora "X".
Anche se mancano alcuni ritocchi alla sala d'assaggio, le ultime bottiglie da censire, le copie del foglio di profilo da stampare, tutto è sotto controllo. E, come al solito, sarà pronto per l'orario indicato alla stampa.
La Santità di questi luoghi protegge e conforta.
Tanti auguri a tutti i partecipanti al concorso, senza distinzione alcuna di provenienza, siano essi del Nord o del Sud del mondo.
Vinca il migliore, vinca l'olio extravergine di oliva!

(Teatro Naturale, 8 giugno 2015)


Egitto: tanta tv per il mese di Ramadan. E spunta Paris Hilton

Programmi e soap opera anche sugli ebrei che vivevano al Cairo

di Rodolfo Calò

IL CAIRO - Il Ramadan in Egitto, come del resto in tutto il Medio oriente, oltre al digiuno islamico e alla preghiera ha un altro protagonista: la tv e soprattutto i telefilm che anche quest'anno riflettono i temi politici e sociali dominanti di questa fase della stabilizzazione egiziana post rivoluzionaria. Si va dalla globalizzazione "totale" trainata del biondo-chic di Paris Hilton o panaraba incarnata da una cantante libanese, al rapporto con gli ebrei, al velo steso sui Fratelli musulmani, alla violenza fino a provocazioni della morale musulmana con scene - molto relativamente - "spinte".
   Il non poter mangiare (ma il vero problema è soprattutto la sete) per molte ore (con le giornate più lunghe dell'anno come nei ramadan di questi ultimi anni) spinge molti egiziani a rimanere in casa nelle ore diurne, limitando gli impegni.
Tradizionali sono le riunioni di famiglia per l'iftar, quando si interrompe il digiuno al tramonto, ma gli ingenti investimenti delle tv nelle telefilm attestano l'esistenza di un vasto mercato pubblicitario televisivo. Già il mese scorso erano state preannunciate quasi 30 nuove produzioni.
 
Haifa Wehbe
   Per la prima volta, una star definibile genericamente "hollywoodiana" come l'ereditiera americana Hilton, spicca nel panorama tv, partecipando ad un popolare programma di candid camera che prende di mira vip egiziani. Da giorni si susseguono i preannunci della partecipazione della modella-cantante e attrice al "Ramez wakel el gau", (Ramez è il signore dell'aria, o Comanda Ramez) diretto dall'attore egiziano Ramez Galal con inizio proprio il 18 giugno, giorno di avvio del mese del digiuno come stabilito per l'Egitto dall'Istituto astronomico nazionale. La bruna Haifa Wehbe è invece protagonista della telenovela "Maria": la modella e cantante libanese di origini anche egiziane è un sicuro richiamo in Egitto e di recente ha vinto il premio di migliore attrice mediorientale della "Big Apple Music Awards Foundation", come hanno sottolineato media egiziani.
Anche i media israeliani hanno sottolineato che in palinsesto c'è anche una produzione che tratta della vita degli ebrei in Egitto negli Anni Cinquanta: si intitola "Haret el yahud", la "Via degli ebrei", realmente esistente nel centro del Cairo dove era insediata una comunità ebraica, e "parla dei giorni in cui musulmani, cristiani ed ebrei vivevano in pace", come ha sintetizzato una fonte che conosce la trama ad ANSAmed.
   Contrariamente all'anno scorso, quello subito dopo la sua cacciata dal potere dell'estate 2013, le telenovele non parlano affatto della Fratellanza musulmana: pare sceso un silenzio totale, che contrasta con le critiche all'organizzazione che si notavano in quasi in tutti i telefilm dell'anno scorso. Appare evidente inoltre che le seguitissime soap opera turche, numerose durante tutto l'anno nonostante la rivalità geopolitica fra il Cairo e Ankara, nel prossimo mese sacro verranno superate per numero da quelle egiziane.
   Sui media ci sono state critiche per il clima cupo e denso di problemi che creano molti telefilm, come tutto sommato lo stesso Haret el yahoud sugli ebrei nonostante i riferimenti alla convivenza pacifica. Scene violente si preannunciano in varie produzioni tra cui una dal titolo evocativo: "El Kabous" (Incubo). In queste e in altre si lamentano, senza ovviamente descriverle nei dettagli, "scene immorali". Come dimostrato dalle critiche di social media a un video di un'esibizione di ballo circolato ieri, in Egitto fuseau e maglietta attillata passano già il segno.
   A conferma dell'appetibilità del mercato dei telefilm egiziani, la catena saudita Mbc ha pagato l'equivalente di 4,1 milioni di euro per assicurarsi il 75enne comico Adel Imam per il ruolo di protagonista in "Ostaz wa rais qesm" (Professore e capo dipartimento universitario) in un paese in cui, almeno sulla carta, il salario minimo è inferiore ai 150 euro.

(ANSAmed, 9 giugno 2015)


Israele e Hamas hanno un nemico in comune dentro Gaza

Lo stato islamico dentro la striscia provoca e lancia razzi, Israele non abbocca e per ora lascia fare a Hamas.

di Daniele Raineri

Domenica i siti di notizie israeliani avevano titoli che suonavano strani, come "Israele fa una scommessa curiosa su Hamas per tenere la calma a Gaza" (The Times of Israel) oppure "La partnership bizzarra di Israele con Hamas di fronte alla escalation salafita" (Haaretz) o anche "Il capo del Comando sud dell'esercito israeliano: Hamas sta provando a impedire il lancio di razzi" (Jerusalem Post). Il rapporto tra Israele e Hamas non è cambiato, restano nemici assoluti, ma ragioni pragmatiche consigliano di tenere sotto osservazione alcuni gruppi salafiti che dicono di essere legati allo Stato islamico e stanno sfidando apertamente la leadership di Hamas (che controlla militarmente la Striscia dal 2007). La presenza a Gaza
di gruppi più estremi di Hamas non è nuova. Nel 2009 i salafiti dichiararono persino la fondazione di un Emirato islamico a Rafah, nel sud della Striscia. Quest'anno la faccenda sta diventando più preoccupante, perché i gruppi si dichiarano legati allo Stato islamico, vale a dire a quella giunta islamista che controlla parte di Siria e Iraq e sogna di colonizzare il resto del mondo musulmano. Gli esperti dicono che per ora il legame è soltanto simbolico e non anche materiale come nella vicina penisola egiziana del Sinai, dove il gruppo locale riceve aiuti in soldi dallo Stato islamico. Non esiste quindi, per ora, un "Wilaya" di Gaza - dove Wilaya è il nome arabo di ogni provincia riconosciuta ufficialmente dallo Stato islamico. Questo legame anche soltanto simbolico sta dando però impeto ai gruppi anti Hamas. Non soltanto dichiarano (come faceva già al Qaida) che gli amministratori della Striscia sono su una strada totalmente sbagliata perché accettano le elezioni e quindi un potere diverso da quello di Allah sulle vicende degli uomini, ma sono anche contrari alla tregua con Israele vigente in questi mesi.
   I gruppi per ora non hanno alcuna speranza di contendere a Hamas il controllo della Striscia dal punto di vista militare: contano tra i mille e gli ottomila uomini, a seconda che si ascoltino le fonti più prudenti o quelle più partigiane, e Gaza conta un milione e settecentomila abitanti. Si sono presentati sotto diverse sigle, forse per confondere gli osservatori o forse perché c'è una frammentazione. Uno dei primi gruppi a farsi avanti è stato Ansar al Dawla al Islamiya, i sostenitori dello Stato islamico; in questi giorni i comunicati più duri sono invece firmati dalla Brigata Omar Hadid. La scelta di quest'ultimo nome chiarisce qual'è l'orizzonte a cui guardano i baghdadisti di Gaza: Omar Hadid era un comandante iracheno ucciso nella battaglia di Fallujah nel 2004, compagno di Abu Musab al Zarqawi, fondatore ideologico dello Stato islamico. Ci sono alcuni casi di combattenti palestinesi legati a Gaza morti in guerra in Siria e Iraq per lo Stato islamico e celebrati nella Striscia con piccole cerimonie a base di propaganda e dolciumi.
   Adesso è cominciato un confronto a tre: quando Hamas fa una retata per stroncare con brutalità i gruppuscoli, questi rispondono sparando razzi contro il sud di Israele, in modo da provocare la risposta dell'aviazione israeliana - con la speranza di scatenare un'operazione militare completa. Se scoppiasse una nuova guerra come l'estate scorsa, Hamas ne uscirebbe di nuovo indebolita e senz'altro i suoi rivali interni - i simpatizzanti dello Stato islamico - approfitterebbero della situazione che si verrebbe a creare, se non altro dal punto di vista mediatico e della propaganda.
   Questa sfida interna sta crescendo da settimane. C'è stata l'irruzione di Hamas in una moschea, una retata con una trentina di arresti, l'uccisione di un comandante di Hamas con una bomba forse per rappresaglia, un ultimatum dello Stato islamico di tre giorni per la liberazione degli arrestati (scaduto senza conseguenze). Negli ultimi giorni lo schema a tre è stato applicato quasi alla perfezione. Hamas ha trovato e ucciso un uomo, Younis al Hunnor, che cercava da tempo perché collegato allo Stato islamico. Sabato sera prima delle dieci la brigata Omar Hadid ha sparato un razzo contro Ashkelon, nel sud di Israele, in chiara violazione della tregua fra Israele e Gaza. Domenica l'aviazione israeliana ha risposto con un raid su alcuni edifici vuoti (fonte: Times of Israel). Il generale che presiede il Comando sud delle forze armate israeliane, Sami Turgeman, ha incontrato i rappresentanti di alcuni consigli di cittadini locali, e ha detto loro che "Israele non comincerà una campagna militare come risposta per alcuni sporadici lanci di razzi". Il generale ha anche detto che Israele considera Hamas responsabile di ogni lancio di razzo - come ha anche detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dopo il consiglio dei ministri della domenica - ma che l'intelligence vede gli sforzi di Hamas per intercettare e bloccare i gruppi di fuoco dei salafiti. Il messaggio è: "Per ora non abbocchiamo".
   All'inizio di maggio il generale Turgeman aveva fatto (non smentito) al quotidiano Yedioth Ahronot una dichiarazione che anticipava questo scenario: "In questo momento Israele e Hamas condividono un interesse comune, che è prevenire la discesa nel caos della Striscia di Gaza: anche Hamas per il momento cerca stabilità ed è contro lo Stato islamico".
   
(Il Foglio, 9 giugno 2015)


Se la rappresentante Onu mette Israele a fianco di Isis

di Davide Frattini

Se le indicazioni di Leila Zerrougui, avvocatessa algerina, fossero state accettate, l'esercito israeliano sarebbe finito in una lista degli orrori composta dalla Siria, il Sudan, Boko Haram, lo Stato Islamico, i talebani. la rappresentante speciale delle Nazioni Unite ha esaminato, per il suo dossier sui bambini coinvolti nelle guerre, i cinquanta giorni di conflitto tra Israele e Hamas nel 2014.
   Il rapporto è stato consegnato al segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, con la proposta di inserire Tsahal (l'estate scorsa nella Striscia di Gaza sono morti oltre 500 minori) e i miliziani palestinesi del movimento fondamentalista, criticati per il lancio indiscriminato di razzi verso le città israeliane, un bambino di quattro anni ucciso. Nelle 43 pagine sono anche ricordati i tre giovani israeliani rapiti e uccisi da estremisti palestinesi.
   Gli americani sarebbero intervenuti per premere sul segretario generale. Barack Obama ha avvertito Benjamin Netanyahu che gli Stati Uniti potrebbero in qualche occasione togliere lo scudo diplomatico protettivo a Israele: le dichiarazioni pre-elettorali del premier a metà marzo (aveva respinto l'idea di un accordo di pace con i palestinesi) hanno indispettito la Casa Bianca. Non fino al punto, però, di permettere che gli israeliani finissero in compagnia vergognosa del dittatore siriano Bashar Assad o di Abubakar Shekau, leader di Boko Haram. Fonti diplomatiche alle Nazioni Unite considerano inusuale la decisione presa da Ban Ki-moon di opporsi, il dossier — che verrà pubblicato il 18 giugno — è stato letto dal Consiglio di Sicurezza, l'ultima parola spettava al segretario generale. Che comunque attacca Israele: «L'impatto sui bambini a Gaza è stato senza precedenti, le violazioni molto gravi lasciano preoccupati sul rispetto delle leggi umanitarie internazionali».
   
(Corriere della Sera, 9 giugno 2015)


Egitto - Saranno rase al suolo diecimila abitazioni palestinesi a Rafah

Per ampliare la buffer zone

di Federica Macagnone

 
Case demolite a Rafah dagli egiziani nel 2014
Diecimila case saranno evacuate e rase al suolo dalle forze militari egiziane al confine con la Striscia di Gaza per espandere la zona cuscinetto tra il Paese e la porzione di territorio palestinese. Dopo i sanguinosi attacchi contro i militari nel nord del Sinai, dove sono morte decine di soldati, le autorità egiziane stanno creando una "buffer zone" attorno al valico di Rafah per proteggere il confine e facilitare le operazioni dell'esercito: le evacuazioni saranno avviate subito dopo il mese sacro del Ramadan, intorno al 20 luglio.
  I lavori sul lato egiziano sono iniziati nel febbraio 2014: in un primo momento il programma prevedeva di estendere l'area di circa 300 metri nelle aree urbane e di 500 metri nelle zone rurali. Ma, dopo l'attentato che ha ucciso più di 30 soldati egiziani nel Sinai nell'ottobre 2014, le autorità militari hanno deciso di allargare la zona cuscinetto: già 1.110 case sul lato egiziano sono state demolite ad aprile, per un totale di mille persone evacuate.
  Adesso a diverse famiglie è stato già notificato il piano di evacuazione che, dicono le autorità, dovrebbe interessare circa 10.000 case nelle aree di Safa, Imam Ali e al-Ahrash nella città di Rafah, nel Nord Sinai, espandendo la "buffer zone" di 500 metri.
Fonti militari egiziane ritengono che per sradicare il potenziale pericolo «una volta per tutte», l'attuale zona cuscinetto dovrebbe raggiungere i 5.000 metri e dovrebbe essere protetta da un canale d'acqua.
  Dopo il golpe militare in Egitto che ha rovesciato il presidente eletto Mohammed Mursi, Il Cairo ha dichiarato guerra ai tunnel di Gaza, distruggendone a centinaia, e ha evacuato migliaia di abitazioni palestinesi con la motivazione della lotta a militanti islamisti nel Sinai. I tunnel sono utilizzati da Hamas come fonte di entrate fiscali e per l'afflusso di armi e forniscono beni di prima necessità agli abitanti dell'area, tra cui cibo e medicine ma anche cemento e benzina.

(Il Messaggero, 9 giugno 2015)


Se l’Egitto decide di radere al suolo migliaia di abitazioni palestinesi, il mondo non fa una piega. Se Israele decide di costruire abitazioni a Gerusalemme, il mondo grida allo scandalo.


Usa - La Corte Suprema stronca la Jerusalem passport law

NEW YORK - La Corte Suprema statunitense ha definito incostituzionale con un voto di 6 a 3 la cosiddetta Jerusalem Passport Law, una legge approvata dal Congresso statunitense nel 2002 per consentire ai cittadini statunitensi nati a Gerusalemme di citare Israele come paese di nascita nel loro passaporto. La Corte si è mossa con cautela, data la delicatezza della questione riguardante lo status di Gerusalemme, città rivendicata sia dagli arabi che dagli israeliani. La posizione degli Stati Uniti in materia è sempre stata improntata alla neutralità: tutti i presidenti da Harry S. Truman in poi hanno chiarito che il riconoscimento dello Stato di Israele e la sua privilegiata alleanza con gli Usa non comportano alcun riconoscimento da parte di Washington delle rivendicazioni israeliane sulla città culla di tre religioni. Già nel 2002, dopo l'approvazione della controversa legge sui passaporti, l'allora presidente George W. Bush aveva avvertito che non avrebbe consentito al dipartimento di Stato di dare applicazione alla norma. L'amministrazione del presidente Barack Obama ha proseguito sulla stessa linea; nel frattempo, un cittadino statunitense a Gerusalemme, Naomi Zivotofski, di fronte al rifiuto del dipartimento di Stato di citare Israele come paese di nascita sul passaporto di suo figlio, ha deciso di rivolgersi alla giustizia Usa. Al termine dell'iter giudiziario, però, la Corte Suprema ha ribadito l'esclusiva competenza dell'Esecutivo nelle materie concernenti il riconoscimento degli Stati stranieri e della loro articolazione territoriale. In un editoriale non firmato attribuibile alla direzione, il "New York Times" esprime soddisfazione per la sentenza e critica la posizione espressa dai tre giudici che invece hanno votato in senso opposto: a loro dire, la citazione di Israele nei passaporti dei cittadini nati a Gerusalemme non costituirebbe una violazione sostanziale della posizione di neutralità statunitense, e le possibilità che la legge possa essere fraintesa sono pressoché nulle. Si tratta di una posizione che ignora i dati di fatto, sottolinea l'editoriale: basti pensare che proprio a causa dell'approvazione della legge oggetto del dibattimento, diversi funzionari dell'Autorità nazionale palestinese avevano lamentato danni alla credibilità di Washington quale mediatore nel processo di pace in Medio Oriente.

(Agenzia Nova, 9 giugno 2015)


Ancora una volta si confermano le parole della Bibbia. E’ Gerusalemme l’oggetto del contendere, ma da una delle parti della contesa si trova Dio stesso, Colui che ha formato i cieli e la terra. E Dio ha scelto Israele.
    In quel giorno avverrà che io farò di Gerusalemme una pietra pesante per tutti i popoli; tutti quelli che se la caricheranno addosso ne saranno malamente feriti (Zaccaria 12:2).
    Questa sarà la piaga con cui l'Eterno colpirà tutti i popoli che avranno mosso guerra a Gerusalemme: le loro carni marciranno mentre stanno ancora in piedi; i loro occhi marciranno nelle orbite; la lingua marcirà loro in bocca. (Zaccaria 14:12)

Rolf e Marianne tornano a Creppo. I piccoli ebrei salvati da un maggiordomo

Così Marianne e Rolf giunsero in valle Argentina e furono adottati da tutti i montanari cambiando i loro nomi in Marianna e Rodolfo.

Rolf e Marianne con i bambini della scuola di Triora
TRIORA (IM) - Creppo, frazione di Triora nell'alta valle Argentina, ha riabbracciato Marianne e Rolf, ebrei tedeschi di Erfurt in Turingia che oggi vivono a Parigi.
   I genitori di Rolf e Marianne, ebrei tedeschi, erano scappati dal loro paese fin dal 1936, malgrado fossero totalmente integrati nella borghesia di Erfurt: altri uomini avevano deciso i loro destini.
La famiglia, trovato rifugio a Bruxelles, fu costretta a rifugiarsi nel sud della Francia, quando i Tedeschi, nel 1940, invasero il Belgio. La tranquillità fu di breve durata; nel corso dell'estate 1942 infatti il destino si accanì ancora sui due bambini. I loro genitori furono arrestati e deportati ad Auschwitz, mentre il destino, nella persona di un Questore di Nizza, lasciò la vita salva ai due orfani, successivamente accolti in quella città da un uomo di cuore che diede loro asilo, sicurezza e conforto. Quest'italiano, di origine modenese, aveva un nome predestinato: Angelo Donati. Decise di fare di tutto affinché i due ragazzini potessero ritrovare una vita normale quanto più possibile, malgrado i tormenti della guerra che imperversava dappertutto. La sua intenzione fu di breve durata. Angelo Donati, anch'egli ebreo, dovette scappare a sua volta dalla Costa Azzurra per sfuggire ad un arresto programmato da tempo.
   Fu allora che affidò il ragazzino e sua sorella alle cure del suo maggiordomo, che seppe essere tanto generoso quanto affettuoso; si chiamava Francesco (detto François) Moraldo. Così Marianne e Rolf giunsero in valle Argentina e furono adottati da tutti i montanari cambiando i loro nomi in Marianna e Rodolfo.
   Ebbene quei due bambini sono cresciuti e ieri hanno fatto ritorno a Creppo accolti dai paesani per assistere al cortometraggio diretto dai fratelli Di Gerlando che racconta la loro storia, ma soprattutto per raccontare la tragedia dell'Olocausto. Tantissimi tra grandi e piccini, oltre ad una delegazione dell'Anpi di Sanremo, hanno affollato la "sala delle streghe" per ascoltare e vedere questa piccola grande storia, dove un umile montanaro ha sfidato la crudeltà e la barbarie nazista.

(Riviera24.it, 8 giugno 2015)


Italia - Israele: buon accordo fiscale, con alcuni limiti

'Importante conquista per i lavoratori italiani ed israeliani che lavorano e versano (o hanno già versato) i contributi nei due Paesi contraenti'.

 
"Lo scorso mercoledì 3 giugno il Senato ha definitivamente approvato, dopo il sì della Camera, l'accordo tra la Repubblica italiana e lo Stato di Israele sulla previdenza sociale firmato a Gerusalemme il 2 febbraio 2010. Si prevede comunque che prima della sua entrata in vigore passeranno alcuni mesi considerato che il testo dell'accordo dovrà essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, l'Inps dovrà predisporre l'accordo amministrativo che ne esplica le modalità di attuazione ed infine le due autorità competenti - i rispettivi Ministeri degli Esteri - si dovranno scambiare gli strumenti di ratifica (atto puramente formale ma che potrà richiedere del tempo". E' quanto spiega Marco Fedi, deputato Pd eletto all'estero e residente in Australia, che commenta: "L'accordo è una importante conquista per i lavoratori italiani ed israeliani che lavorano e versano (o hanno già versato) i contributi nei due Paesi contraenti: è per loro prevista infatti la parità di trattamento con i lavoratori nazionali, l'esportabilità delle prestazioni, ma soprattutto la totalizzazione dei contributi versati nei due Paesi al fine di maturare un diritto a prestazione".
  "L'accordo - prosegue il deputato - si applica inoltre, con regole particolari, ai lavoratori al seguito delle imprese che si spostano da un Paese all'altro e che rimangono assoggettati all'assicurazione del Paese di invio per almeno 24 mesi. Per quanto riguarda Israele l'accordo si applicherà alla assicurazione nazionale per vecchiaia, superstiti ed invalidità. Per l'Italia esso si applicherà all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia, i superstiti dei lavoratori dipendenti, le relative gestioni speciali per i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, mezzadri e coloni) e alla gestione separata. Si applicherà inoltre, fatto importante ed eccezionale rispetto a tutte le altre convenzioni bilaterali stipulate dall'Italia, ai fondi esclusivi e cioè a quelli dei dipendenti statali e dei dipendenti degli enti locali e a quelli sostitutivi che riguardano particolari categorie (Inpdai, Enpals, etc.)".
  "Nell'accordo non c'è alcun riferimento alle prestazioni per infortunio sul lavoro e malattie professionali, disoccupazione e agli assegni familiari. Inoltre l'accordo, nel solco di un orientamento che si sta consolidando con le nuove stipule delle convenzioni bilaterali di sicurezza sociale, esclude esplicitamente dal suo campo di applicazione oggettivo la legislazione dei due Stati contraenti per quanto riguarda la pensione sociale e altri benefici non contributivi erogati con fondi pubblici, e la legislazione relativa all'integrazione al trattamento minimo italiana che non sarà quindi percepibile od esportabile in Israele. Giova ricordare tuttavia che tale integrazione sarà invece erogata, se del caso, a coloro i quali attiveranno l'accordo e risiedano in Italia. Aspettiamo ora con interesse - conclude Marco Fedi - la predisposizione da parte dell'Inps dell'accordo amministrativo che dovrà chiarire numerosi aspetti dell'accordo principale che suscitano perplessità applicative".

(Italia chiama Italia, 8 giugno 2015)


Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i savi; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose sprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al nulla le cose che sono, affinché nessuna carne si glorii di fronte a Dio. Ed è grazie a lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale ci è stato fatto da Dio sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, affinché, com'è scritto: «Chi si gloria, si glorii nel Signore».
dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Corinzi, cap.1
 

"Strana" collaborazione d'Israele con Hamas di fronte all'escalation salafita

GERUSALEMME - Il lancio di razzi contro l'area del Negev, provenienti dalla Striscia di Gaza, due volte in tre giorni solo la scorsa settimana, rimane ancora un problema localizzato. E' quanto sostiene un'analisi del quotidiano israeliano "Haaretz". I razzi sono stati lanciati da un gruppo estremista salafita nel contesto di un conflitto locale con il governo di Hamas nella Striscia, dopo che l'organizzazione palestinese ha arrestato alcuni dei suoi attivisti e ucciso uno di loro. Hamas sta lavorando per fermare ogni tipo di attacco contro Israele e Tel Aviv ha deciso di non attaccare. Nel frattempo, Israele crede ancora che il regime a Gaza sia in grado di superare la minaccia interna in modo da impedire l'avvio di un conflitto con le forze di difesa di Tel Aviv. Secondo molti media israeliani, l'organizzazione che ha lanciato razzi è collegata allo Stato islamico, anche se questa posizione è ancora da verificare.

(Agenzia Nova, 8 giugno 2015)


Cyber Challenge 2015: a Tel Aviv sfida a colpi di tecnologia

 
Dal 22 al 25 giugno 2015, presso l'Università di Tel Aviv, si terrà la Cyber Week 2015. Una serie di conferenze, forum e incontri che consentiranno a esperti informatici internazionali e leader del settore di confrontarsi e scambiarsi metodi e idee. La conferenza Cyber Security Event è una collaborazione unica che riunisce i principali esperti di sicurezza informatica, startup, imprenditori, investitori, governi e responsabili politici, imprese, società, funzionari della difesa e accademici che donano a questo evento informatico una connotazione internazionale. Tra i numerosi relatori si annoverano: Benjamin Netanyahu, Primo Ministro israeliano, l'On. Shimon Peres , nono presidente di Israele, Moshe (Bogie) Ya'alon, Ministro della Difesa, Dott. Eviatar Matania, Capo del Cyber Ufficio Nazionale israeliano, Gen. Keith Alexander, CEO e Presidente di IronNet e molti altri.
La conferenza ha ricevuto un'ampia copertura mediatica, sia a livello locale che internazionale e vedrà la presenza di oltre 5.000 partecipanti provenienti da oltre 48 paesi.
All'interno di questa grande manifestazione tecnologica vi sarà spazio per la Cyber Challenge una prova tecnologica in campo informatico che avrà luogo il secondo giorno della conferenza (24 Giugno 2015). Le migliori menti tecniche di Israele si riuniranno per dimostrare la loro forza e abilità superando vere e proprie sfide. La Cyber Challenge si svolgerà in collaborazione con i più grandi leader del settore.
La Cyber Challenge sarà probabilmente uno degli eventi più grandi e più eccitanti che avranno luogo durante la Cyber Week.
Si tratta di una sorta di "Ruba bandiera", in cui i concorrenti, in gruppi di tre, dovranno in poco tempo raccogliere il maggior numero di bandiere. Le squadre si sfideranno una contro l'altra a decifrare difficili codici e proveranno ad entrare in sistemi di computer super sicuri. I vincitori del 1o, 2o e 3o posto vinceranno fantastici premi.

(SiliconWadi, 8 giugno 2015)


Ciò che non possiamo fare da soli

di Rinaldo Diprose

Un figlio di Rinaldo Diprose ha diffuso in rete un articolo del padre scritto quando il suo stato di malattia era già in fase avanzata. NsI

Sono un malato di SLA (diagnosi definitiva, gennaio 2012). Ormai scrivo per la maggior parte del tempo con il mouse, cliccando su una tastiera che appare sullo schermo del computer. Se non fosse per quest'aiuto fornito da Windows, non potrei più scrivere se non poche righe alla volta. Quando ero giovane mia madre insistette che memorizzassi la tastiera per poter battere a macchina senza guardare. Ciò mi ha permesso di scrivere migliaia e migliaia di pagine, senza problemi, durante la mia vita. Ora è diverso, il che mi rende riconoscente a Dio per ciò che ho potuto fare nel passato ma anche per l'inventore della tastiera virtuale, anche se non posso più scrivere centinaia di pagine! L'altra notte ho sperimentato una crisi....

(Notizie su Israele, 8 giugno 2015)


Battaglia per la «nazionale»

La sfida tra i palestinesi si gioca sui campi di calcio.

di Davide Frattini.

Tarek Abbas, figlio di Abu Mazen
I nomi incisi sul muro di pietra del centro sportivo sono quelli dei ragazzi uccisi negli scontri con gli israeliani durante la seconda Intifada. Queste stradine intasate di auto e sporcizia sono state tra le più difficili da controllare per l'esercito agli inizi del Duemila. Da qui è venuta la prima kamikaze donna: l'infermiera Wafa Idris si è fatta esplodere nel centro di Gerusalemme e ha ucciso un passante.
   A lei qualche anno fa è stato dedicato un torneo di calcio. Perché nel campo rifugiati Al Amari, dentro Ramallah, tutto è legato alla squadra fondata nel 1953: anche i palestinesi che non abitano tra questi cubi grigi di cemento la considerano come la loro nazionale.
   Il valore simbolico del club è così importante che Tarek Abbas, il figlio del raìs, avrebbe voluto diventarne presidente. Ci è riuscito per dodici mesi, chiamato in soccorso dai dirigenti locali: i trionfi nel campionato palestinese per due anni di fila, la partecipazione alla coppa d'Asia, non avevano riempito il buco economico. Tarek è un uomo d'affari che ha portato i soldi e i contatti di famiglia.
   Non sono bastati. Sotto la sua guida la squadra è arrivata ottava, ad aprile la stagione si è chiusa male. Così la gente di Al Amari si è organizzata e ha presentato una sua lista per riprendere il controllo dell'unico orgoglio e forse dell'unica speranza. Hanno votato 1.000 persone: 750 hanno scelto «I figli del campo» contro «Riforma e cambiamento» di Abbas, le sue promesse non hanno ottenuto alcun rappresentante. Quel giorno gli uomini sono scesi in strada cantando lo slogan «Tarek dì a tuo padre che il popolo di Al Amari non ti vuole». E se le urla non fossero arrivate al palazzo della Muqata, a qualche chilometro di distanza, hanno tirato giù il poster del presidente Mahmoud Abbas e l'hanno sostituito con quello di Yasser Arafat.
   «La politica non c'entra, la decisione è stata solo sportiva, il meglio per la nostra squadra», prova ad assicurare il neopresidente Jihad Tumaliya. Eppure questo «figlio del campo» a 49 anni rappresenta la nuova generazione dentro al Fatah, il partito dell'ottantenne Abu Mazen di cui è parlamentare. I trofei nel suo ufficio raccontano le vittorie degli ultimi anni e le sconfitte militari di sempre: le famiglie portano qui le targhe per ricordare i morti della seconda intifada. Questo centro sportivo è l'unico sfogo per i ragazzi del campo, dove la disoccupazione tra gli 8 mila abitanti raggiunge l'80 per cento.
   La gente si sente abbandonata dall'Autorità Palestinese che dà lavoro solo a 70 persone: qui hanno interpretato la mossa di Tarek Abbas — nessuno l'aveva mai visto allo stadio — come un tentativo del padre di ingraziarsi Al Amari. «C'è malcontento verso l'Autorità, ma nessuno dimentica la vera questione: viviamo sotto l'occupazione degli israeliani. Il Fatah resta il partito più popolare nel campo», commenta Jihad. Gli striscioni attorno a rettangolo d'erba sintetica per gli allenamenti sono quelli del movimento fondato da Arafat: esaltano i giocatori e invocano il «diritto al ritorno» per i rifugiati palestinesi.
   Tarek è il più giovane dei tre figli di Abu Mazen (uno è morto d'infarto nel 2002). Come il fratello Yasser è un imprenditore che ha accumulato milioni di euro in affari tra la Cisgiordania e i Paesi arabi del Golfo. Sul campo di Al Amari si è giocata anche la sfida per la successione al raìs. «Abu Mazen è ormai al potere da un decennio — scrivono Ghait al-Omari e Neri Zilber sulla rivista Foreign Affairs — e in questo periodo si è assicurato che nessun successore potesse emergere. Forse ha funzionato come tattica politica personale, ma come strategia nazionale rischia di essere distruttiva per i palestinesi».
   Quando cinque mesi fa è circolata la voce che fosse stato ricoverato d'urgenza in ospedale, Abu Mazen ha lasciato il palazzo per farsi vedere tra la gente di Ramallah. Non gli succede spesso, di solito evita la folla: la vera emergenza era dimostrare subito che c'è ancora un uomo al comando.
   
(Corriere della Sera, 8 giugno 2015)


Gaza - I tifosi usano le foto di soldati israeliani morti per la partita

 
Due militari uccisi dai palestinesi esposti come gloriosi trofei di guerra
Ha fatto molto scalpore in Israele la locandina utilizzata da due squadre della striscia di Gaza, l'Ittihad Sajaya e il Hadamat Rafah, per pubblicizzare la partita. I tifosi locali hanno incoraggiato le rispettive squadre su Facebook utilizzando le foto di due militari israeliani morti nelle due località la scorsa estate: "Oron contro Goldin" la scritta che preannunciava la gara.
Shaul Oron fu ucciso a Sajaya, Hadar Goldin a Rafah e, a quanto risulta, i loro resti sono ancora nelle mani di Hamas che ne condiziona la restituzione ad una trattativa con Israele per lo scambio di prigionieri. L'iniziativa dei tifosi, riferisce la stampa israeliana ha destato l'indignazione delle famiglie dei due militari. Da Gaza è stato in seguito precisato che sul campo non è stato fatto il minimo riferimento ai due soldati israeliani. L'Ittihad Sajaya ha vinto la gara per 3-0.

(TodaySport, 8 giugno 2015)


Da notare la “discrezione” del titolo: “soldati israeliani morti”. Come sono morti? Perché non dire che sono stati uccisi? Due uccisi da sbandierare orgogliosamente come trofei di guerra. E in Italia nessuno si meraviglia, nessuno si indigna.


La guerra asimmetrica del movimento BDS

Il 2 Giugno 1964, in uno dei luoghi più belli di Gerusalemme, precisamente l'Hotel dei Sette Archi sul Monte degli Ulivi, veniva fondata l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Tre anni prima della Guerra dei Sei Giorni, tre anni prima che Israele diventasse, nell'immaginario collettivo, la principale fonte di instabilità del Medio Oriente, tre anni prima della nascita della narrazione che vede i palestinesi come una nazione oppressa dallo Stato ebraico. Si tratta di una data fondamentale per cominciare qualsiasi discorso sul movimento globale contro Israele BDS.
Lo scopo dell'OLP è sempre stato quello di condurre la lotta armata contro Israele. Il suo obiettivo non è mai stato quello di creare uno Stato palestinese indipendente ma di sradicare la presenza ebraica dopo il fallimento della guerra del 1948. Chi pensa che il movimento BDS sia solo un'organizzazione che vuole contrastare lo Stato d'Israele non ha capito un punto fondamentale: la loro battaglia è simile a quella dell'OLP, contro Israele come idea, come fenomeno sociale....

(Progetto Dreyfus, 8 giugno 2015)


La subdola campagna BDS

Il movimento per il boicottaggio di Israele convince molte persone benintenzionate con argomenti che sembrano plausibili e morali.

La campagna "Combattere il boicottaggio" lanciata da Yedioth Ahronoth ha suscitato numerose reazioni e domande, alcune stimolanti e rilevanti. Esse attestano l'importanza della sfida posta dal movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) contro Israele. In parte coloro che pongono queste domande non sono pregiudizialmente anti-israeliani o antisemiti: una parte dei sostenitori del movimento BDS è composta da persone che semplicemente si fanno convincere dagli argomenti del movimento che possono apparire a prima vista plausibili e morali. Proviamo dunque a rispondere ad alcune di queste domande, giacché sono le domande che si pongono molte brave persone, persuase dalla retorica della campagna BDS non per odio verso Israele o gli ebrei, ma perché credono sinceramente ai diritti umani, alla non violenza e alla necessità di correggere il mondo. Meritano delle risposte....

(israele.net, 8 giugno 2015)


Quei nomi nazisti rimasti attaccati alle nostre malattie

Campagna mondiale per sostituirli: hanno il marchio dei crimini di guerra

di Giacomo Galeazzi

Carl Clauberg
ROMA - Chi si sottopone alla fecondazione usa spesso il «test di Clauberg» per misurare l'azione del progesterone. Peccato che Carl Clauberg, ginecologo a Konisberg, mise a punto sulle internate nei lager il trattamento contro la sterilità femminile. Sono decine le patologie che portano denominazioni assegnate da medici nazisti. Per i tribunali sono criminali di guerra, per la comunità scientifica no. La campagna mondiale per cambiare nome a queste malattie parte oggi da Roma con un convegno organizzato all'università La Sapienza dalla comunità ebraica. Una svolta epocale.
  Tra i relatori il rettore Eugenio Gaudio, il rabbino capo e medico Riccardo Di Segni, Cesare Efrati (Ospedale Israelitico). «Serve un accordo internazionale per cancellare i nomi: un gesto di alto valore etico - precisa Di Segni - Io stesso ho studiato per decenni malattie senza sapere che si riferivano a criminali nazisti». Gilberto Corbellini, ordinario di storia della medicina, illustrerà la proposta di effettuare una bonifica etica della nomenclatura medica, cancellando gli eponimi usati per denotare alcune malattie che ricordano medici che aderirono al nazismo, macchiandosi di gravi crimini. «Come nei casi di Julius Hallervorden e Hugo Spatz, neuropatologo il primo e psichiatra il secondo, che insieme danno il nome a una sindrome neurodegenerativa, ma che avevano espiantato e studiato i cervelli di centinaia di bambini, adolescenti e malati di mente uccisi nell'ambito del progetto nazista che dal 1939 prescriveva l'eutanasia per i soggetti ritenuti non degni di vivere», evidenzia Corbellini. Criminali e luminari come Hans Reiter.

 Esperimenti crudeli
  I pazienti affetti da spondilite soffrono di "sindrome di Reiter", cioè di una infiammazione dei tessuti connettivi scatenata da infezioni batteriche. Durante la Seconda guerra mondiale, il regime nazista e l'esercito tedesco effettuarono centinaia pratiche di «sperimentazione umana», usando e costringendo come cavie i deportati in diversi campi di concentramento. Tali esperimenti sono stati ritenuti crudeli, e per questo medici ed ufficiali coinvolti furono condannati per crimini contro l'umanità in processi storici come quello di Norimberga. I fini dichiarati erano in molti casi verificare la resistenza umana in condizioni estreme o sperimentare vaccini, ma spesso gli scopi non furono riconducibili se non alla perversione del personale medico. Un inferno.
  Esperimenti a fini militari (decompressione per il salvataggio da grande altezza o congelamento-raffreddamento prolungato); a carattere scientifico (sterilizzazione, esposizione a raggi X, castrazione chirurgica) e ricerche per la preservazione genetica della razza (sperimentazioni sui gemelli monozigotici o cura ormonale dell'omosessualità). Molte di queste procedure venivano eseguite non solo senza il consenso della «cavia» ma anzi contro il suo volere e molte portavano a morte sicura o atroci dolori.
  O lasciavano, se il prigioniero sopravviveva, menomazioni e danni permanenti. «E' incredibile la crudeltà e la spietatezza degli esecutori, ma ancor di più il fatto che molti degli autori erano medici e scienziati di chiara fama e elevata professionalità», osserva Efrati. Malgrado i crimini e le barbarie di cui si macchiarono ed il fatto che molti di loro furono processati e ritenuti colpevoli, ancora oggi alcune delle loro ricerche e dei loro dati vengono usati come materiale per ricerche attuali (come le tecniche di congelamento impiegate da università americane), o come metodi diffusi ancora nella pratica clinica. Malgrado l'orrore.

 I camici bianchi dei lager
  «La nomenclatura medica celebra medici nazisti come Hans Eppinger, Murad Jussuf Bei Ibrahim, Eduard Pernkof, Hans Joachim Scherer, Walter Stoeckel e Friedrich Wegener - sottolinea Corbellini - Oltre a propagandisti dell'eugenica razziale e dell'eutanasia per i ritardati mentali: Eugene Charles Apert, Wilhelm His jr., Robert Foster Kennedy e Madge Thurlow Macklin». Da Roma parte l'iniziativa per la pulizia morale, anche a favore delle giovani generazioni di medici che si stanno formando senza neppure ricordare i crimini compiuti da alcuni loro colleghi legati al nazismo e al fascismo. Nomi che evocano tragedie e rimasti nell'uso per l'inerzia dell'abitudine o per resistenze nazionalistiche.

(La Stampa, 8 giugno 2015)


Oltremare - Veli

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Quando uno sceglie di vivere in Israele per propria volontà, senza esserci nato né cresciuto, una cosa da fare è armarsi di pazienza e di una bella mappa dettagliata della zona. Perché si ha un bel dire che viviamo in una zona difficile e abbiamo vicini poco amichevoli. Finché uno non vede le proporzioni reali, chilometri alla mano, di questo angolo di mondo, non può rendersi conto del peso delle notizie che si rincorrono sui telegiornali.
Per esempio, come dovrebbe sapere ogni bambino di scuola media anche non israeliano, Israele confina per un tratto a nord-est con la Siria. Un tratto non breve e particolarmente complesso per via della annosa questione delle alture del Golan, conquistate da Israele nel '67 e da allora luogo di gite e assaggi di vini locali per noi, e di revanscismo dal lato siriano. Come si sa, da anni ormai 'rotolano' in Israele (in alcuni casi più che letteralmente) feriti che non potrebbero essere curati in Siria, e la guerra civile da quel lato del confine è visibile dai vecchi avamposti della guerra dei Sei Giorni. Da noi in Israele si dice sempre che, finché i nostri vicini si ammazzano fra loro, non fa niente.
Ma poi in tivù vediamo le loro facce, e sono così simili alle nostre. Come l'immagine di qualche giorno fa, delle donne siriane strappate all'Isis che si tolgono i veli neri obbligatori sotto il califfato, e si producono nel grido festivo che sentiamo anche noi qui a ogni matrimonio o bar mitzva. La stessa tonalità acuta, lo stesso coprirsi la bocca perché non si veda la bocca aperta. Mi sono tolta una curiosità, e ho controllato: il luogo impervio del Kurdistan in cui quelle donne di liberavano dei veli è a 580 chilometri dal nostro confine. E tra noi e loro ci sono Assad e l'Isis.


(moked, 8 giugno 2015)


La grande bufala dell'islamofobia

di Pierluigi Battista

Intanto, è formidabile già il titolo: «Lettera ai truffatori dell'islamofobia che fanno il gioco dei razzisti». È vero: questo neologismo ricattatorio, «islamofobia», è una truffa, un'impostura, un'arma intimidatoria per rovesciare le parti, e far passare per aggressione ogni pur blanda critica al fondamentalismo islamista. È formidabile anche l'autore «postumo» di questo libro pubblicato in Italia da Piemme: Charb, al secolo Stéphane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo che il 5 gennaio consegnò all'editore queste pagine, e due giorni dopo venne ammazzato insieme agli altri vignettisti nella strage di Parigi, quella che indignò il mondo intero per poche ore per poi passare alla storia come la carneficina che mise fine alla libertà d'espressione così come l'abbiamo conosciuta nell'Occidente laico e scettico. «Se la sono meritata», «hanno esagerato», «hanno offeso una religione». E, da ultimo, erano «islamofobi», l'accusa più idiota e turpe che si possa fare a chi disegnava vignette, scorticava chiunque, offendeva tutti e per questo si è guadagnato la morte violenta degli sgozzatori di professione, poverini.
   Charb ha avanzato un argomento anch'esso formidabile, che se si fosse più attenti alla logica e non agli spettri dell'«islamofobia», potrebbe essere preso utilmente in considerazione da chi si ostina a ragionare. Scriveva: «in virtù di quale contorta teoria l'umorismo dovrebbe essere meno compatibile con l'islam, rispetto a qualunque altra religione?». E ancora: «Se lasciamo intendere che si possa ridere di tutto tranne che di certi aspetti dell'islam perché i musulmani sono molto più suscettibili del resto della popolazione, non li stiamo forse discriminando»? E in effetti, l'idea che «l'islam è incompatibile con l'umorismo», oltre a essere un'ottima battuta umoristica e dunque nel mirino di chi ammazza la gente con la scusa della «blasfemia», ha qualcosa di discriminatorio.
   Puoi dire tutto e a tutti, ma non a quei poverini che si offendono per un niente. Devi usare misure diverse come se avessi a che fare con un portatore di handicap. Pensi che una vignetta, che può fare infuriare anche i seguaci di altre religioni, possa essere inopportuna per chi, poveretto, non ha strutturalmente la capacità di afferrare il contenuto umoristico di una vignetta. Come condannare una religione intera a una classe differenziale, perché totalmente impermeabile al senso dell'umorismo. Più discriminazione di questa.

(Corriere della Sera, 8 giugno 2015)


L’«islamofobia», effettivamente, è una grande bufala. Quella che invece non è una bufala è l’«imbecillofobia». Perché dall’islam in qualche modo ci si può difendere, ma l’imbecillità, islamica e non, è una forza devastante della natura da cui non si sa come proteggersi. Si sta ancora cercando di stabilire se, tra le varie forme di imbecillità, quella radical-islamica sia davvero la più perniciosa. Alcuni lo sostengono. Altri invece dicono che quella dei pacifisti senza se e senza ma è ancora più rovinosa. Il problema è aperto. M.C.


Migliaia di soldati siriani intrappolati ad Aleppo

Le milizie islamiche hanno bloccato la strada che porta a Latakia isolando i militari.

di Maurizio Molinari

 
GERUSALEMME - Intrappolati ad Aleppo 25 mila soldati siriani. Le milizie islamiche di "Jaish al-Fatah", "l'Esercito della Conquista", si sono impossessate della strada che collega Aleppo con Latakia, sulla costa. Il risultato è quello che il giornale arabo "Al Sharq Al Awsat", stampato a Londra, definisce «il maggiore smacco militare per il regime siriano dall'inizio della guerra nel 2011». Il motivo è che la cattura dei posti di controllo interrompe l'accesso alla costa da parte di 25 mila soldati siriani, che si trovano di conseguenza del tutto isolati da altri territori in mano al regime. Ciò significa che la metà di Aleppo in mano ai governativi è assediata dalle forze ribelli.
Aleppo, la maggiore città siriana, dista 178 km da Latakia: la strada è disseminata di posti di blocco rafforzati e "Jaish al-Fatah", una coalizione di forze islamiche a cui appartiene anche Al Nusra, ha condotto una campagna di attacchi, riuscendo a strapparli alle forze siriane. Al Nusra è espressione di Al Qaeda in Siria e "nell'Esercito della conquista" opera assieme a gruppi sostenuti da Turchia ed Arabia Saudita. L'Osservatorio per i diritti umani in Siria, di base a Londra, afferma che la strada è caduta perché i miliziani si sono impossessati del tratto che attraversa la provincia di Idlib.

(La Stampa, 8 giugno 2015)



L'immunologo ad Auschwitz

di Sergio Luzzatto

Primo Levi ha riconosciuto come decisivo per la sua sopravvivenza ad Auschwitz il fatto di avere potuto lavorare, da un certo momento in poi, nel Kommando Chimico di Monowitz-Buna. Di essere stato reclutato, grazie alla sua laurea scientifica, in quella caricatura della ricerca sperimentale che nella fabbrica Buna corrispondeva al laboratorio del Reparto Polimerizzazione. L'ebreo italiano tatuato con il numero 174517 è sopravvissuto perché aveva superato, al cospetto del «Doktor Pannwitz», un «esame di chimica» (è il titolo di un capitolo di Se questo è un uomo) talmente improbabile e grottesco da contenere - forse - l'«essenza della grande follia della terza Germania».
  Un anno prima di lui, a un altro uomo di scienza toccò di avvicinare l'essenza di quella grande follia. Era un uomo di oltre vent'anni più vecchio del venticinquenne Primo Levi, e ben più noto di lui prima di essere deportato. Era un medico polacco, un ebreo di Galizia che si chiamava Ludwik Fleck e che aveva pubblicato in tedesco, nel 1935, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico: una pietra miliare della moderna epistemologia. Nella Leopoli tragica del 1943, toccò a Fleck di superare, al cospetto di un tale dottor Weber delle SS, un esame di batteriologia. E gli toccò quindi di aderire al più incongruo possibile dei profili professionali: immunologo ad Auschwitz.
  La storia di Fleck, e delle straordinarie circostanze che lo portarono a dirigere il laboratorio sierologico del cosiddetto Istituto di Igiene di Auschwitz, è raccontata ora in un libro tradotto per i tipi di Bollati Boringhieri: Il fantastico laboratorio del dottor Weigl, di Arthur Allen. Un gran bel libro, sul più ingrato degli argomenti: la lotta contro il tifo nell'Europa del Terzo Reich e della Soluzione finale; nell'Europa di Heinrich Himmler e del dottor Mengele, delle finte docce di Auschwitz e delle vere camere a gas.
  Il collante della storia è rappresentato - evidentemente - dai pidocchi. Dagli insetti parassiti, che fin dall'inizio del Novecento erano stati scientificamente riconosciuti quali agenti infettivi del tifo. E dagli ebrei,
Rudolf Stefan Wigl, biologo polacco inventore di un vaccino contro il tifo
che fin dagli esordi del nazismo erano stati additati quali parassiti disgustosi e ubiqui, che andavano estirpati dal corpo sano della Germania e dall'intero suo «spazio vitale». La «geomedicina» tedesca degli anni Trenta aveva fatto il resto, promuovendo l'idea che il tifo fosse una patologia caratteristicamente ebraica, e prestando così legittimazione scientifica alla costruzione dei ghetti. Dopodiché, il nesso cogente tra disinfestazione dai pidocchi e disinfestazione dagli ebrei aveva trovato la più plastica delle evidenze - ad Auschwitz-Birkenau - nella procedura di svestizione che immediatamente precedeva l'andata in gas.
Nella Leopoli cosmopolita degli anni Venti, il giovane Ludwik Fleck era stato assistente di Rudolf Weigl: lo zoologo austro-polacco che aveva poi, negli anni Trenta, messo a punto un sistema pioneristico (ancorché disgustoso) per produrre un vaccino anti-tifo. Vaccino ottenuto alimentando larve di pidocchi con sangue umano, che gli insetti succhiavano dalle cosce e dai polpacci di donatori volontari; iniettando nei pidocchi sani il batterio del tifo tratto da pidocchi infetti; omogeneizzando e centrifugando gli intestini dei pidocchi contaminati, ripieni del sangue succhiato agli «alimentatori». Alle soglie della Seconda guerra mondiale, il vaccino di Weigl rappresentava quanto di più efficace fosse conosciuto in Europa quale metodo di profilassi antitifica. Il che contribuisce a spiegare il destino occorso al laboratorio del dottor Weigl dopo l'Operazione Barbarossa del giugno 1941, cioè dopo l'invasione tedesca dell'Europa orientale.
  Subito dopo avere occupato Leopoli, averne trucidato l'intellighenzia universitaria, e avere avviato anche in Galizia lo sterminio di massa degli ebrei, plenipotenziari di Himmler bussarono alla porta del laboratorio di Weigl. Gli offrirono una cattedra a Berlino e il patrocinio tedesco per il premio Nobel, chiedendogli - in cambio - di moltiplicare la produzione del suo vaccino a beneficio delle truppe del Reich mobilitate sul fronte dell'Est. Weigl, che aveva ancora negli occhi l'immagine dei colleghi d'università trucidati, declinò l'offerta della cattedra a Berlino, ma accettò la proposta di cooperare con l'occupante. Nei tre anni seguenti, decine di migliaia di dosi del vaccino di Weigl uscirono dal laboratorio della via San Nicola per immunizzare contro il tifo ufficiali e soldati della Wehrmacht, delle Einsatzgruppen, delle SS.
  In quegli stessi anni - tuttavia - il laboratorio del dottor Weigl divenne anche qualcosa di molto simile a un rifugio umanitario, e a un covo della Resistenza polacca. Perché impiegandoli quali «alimentatori» dei pidocchi, Weigl ottenne dall'occupante un salvacondotto per un numero imprecisato di abitanti di Leopoli: da mille a tremila insegnanti, musicisti, romanzieri, biologi, matematici, molti dei quali impegnati in attività politiche clandestine. Il vaccino che protesse dal tifo, sul fronte orientale, reparti interi di aguzzini delle SS e delle Einsatzgruppen, era stato ricavato dagli intestini di pidocchi nutriti con il sangue dell'intellighenzia antinazista di Leopoli salvata da Weigl.
  L'accoglienza nel laboratorio della via San Nicola non poté estendersi a Ludwik Fleck, l'ex assistente di Rudolf Weigl. Il permesso di alimentare i pidocchi era tassativamente precluso a quei pidocchi degli ebrei. E tanto più era precluso dopo il loro confinamento, a Leopoli, nel ghetto oltre la linea ferroviaria. Ma in un ospedale di quel ghetto decimato dal tifo, l'immunologo Fleck trovò l'energia necessaria per sperimentare un suo vaccino, più o meno efficace, tratto dall'urina dei pazienti infetti. Abbastanza per impressionare il dottor Bruno Weber, ufficiale sanitario delle SS in visita nel ghetto, e per garantire a Fleck - dopo la sua deportazione ad Auschwitz nel 1943 - un trattamento di favore. Prima l'alloggio in una stanza del Kanada (il magazzino del lager), poi la direzione del laboratorio sierologico presso l'Istituto d'Igiene. Dove il dottor Fleck analizzava campioni di sangue sotto lo sguardo fisso di due gemelli, due teste in formalina di bambini zingari vivisezionati dal dottor Mengele.

(Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2015)


Netanyahu: "Ci attaccano, ma l'Onu rimane in silenzio"

"Non ho sentito la condanna di un solo membro della comunità internazionale riguardo gli attacchi subiti da Israele negli ultimi giorni. L'Onu non ha detto una parola. Voglio proprio vedere se questo silenzio continuerà quando Israele risponderà per difendersi". Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato dopo l'ultimo attacco proveniente dalla Striscia di Gaza contro il Sud di Israele: un missile è caduto sabato sera in un'area disabitata presso la città di Ashkelon?. Un'aggressione a cui l'esercito israeliano ha reagito all'alba con una missione aerea, colpendo degli obiettivi militari sulla Striscia, identificati come basi terroristiche.
  Il missile lanciato nelle ultime ore contro il Sud di Israele è solo l'ultimo episodio di una minaccia terrostica che ricomincia a farsi sentire: dalla fine dell'Operazione Margine Protettivo sono stati sei gli attacchi missilistici sferrati da Gaza contro il territorio israeliano, si sono concentrati nelle ultime settimane e sono continuati nonostante Hamas abbia negato ogni coinvolgimento, sostenendo di aver arrestato i responsabili.
  Responsabili che si individuerebbero nelle Brigate Omar, un gruppo salafita vicino allo Stato Islamico che da mesi si batte contro Hamas e vorrebbe prendere il controllo della Striscia, mettendo a repentaglio il fragile equilibrio con Israele (secondo indiscrezioni della stampa israeliana Gerusalemme e i vertici di Gaza stanno lavorando per siglare un accordo che porti a una tregua di 5-10 anni): "Non siamo assolutamente interessati a lanciare missili contro Israele - ha dichiarato una fonte vicina a Hamas al quotidiano Yedioth Ahronot - anzi la giudichiamo un'azione pericolosa".
  Intanto venerdì Israele ha posizionato nuovi Iron Dome, la cupola di ferro per la difesa anti-missilistica, a sud del paese per scongiurare nuovi possibili attacchi e, in risposta all'attacco di sabato, il ministro della difesa Moshe Yaalon ha disposto di chiudere le frontiere con Gaza di Erez e Kerem Shalom, salvo emergenze umanitarie, "per garantire la sicurezza del paese".

(moked, 7 giugno 2015)


Tra gli ex insediamenti nella Striscia di Gaza "liberata" dagli israeliani

A dieci anni dal ritiro alcune colonie sono ormai macerie. Hamas ne ha valorizzato altre: qui costruiamo il nostro Stato.

di Maurizio Molinari

 
    Viaggio a Gaza negli ex
    insediamenti israeliani
GAZA - Atenei, campi militari, parchi per bambini e bar sulla spiaggia ma anche macerie, posti di blocco e serre abbandonate: a dieci anni dal ritiro degli israeliani da Gaza ciò che resta degli insediamenti che abbandonarono riassume l'identità di una Striscia che Hamas vuole trasformare in Stato.
  «Benvenuti nella Bella Terra Liberata». Il cartello verde con il logo dell'Autorità palestinese segna l'entrata di quello che era l'insediamento di Netzarim. Di cui non è restata traccia. Su quelli che erano i campi agricoli campeggiano le bandiere nere della Jihad Islamica.
  E sulla vetta del colle centrale case e palazzi sono stati rasi al suolo per lasciare spazio all'ospedale dell'Università Islamica, pagato dalla Turchia. Poco distante una grande ruota colorata svela l'esistenza di un parco giochi dove le scolaresche arrivano in appositi bus. Ad accoglierli c'è un gestore, Ahmed, che parla di «gioia doppia nel vedere questi bambini giocare lì dove c'erano gli occupanti». Per trovare tracce fisiche della presenza israeliana - durata dal 1967 al 2005 - bisogna arrivare fino all'incrocio con la Salahaddin Road dove durante le Intifade gli attentati erano frequenti.

 L'avamposto militare
  La base israeliana è divenuta un deposito di rottami d'auto mentre sul lato opposto c'è un posto di sorveglianza di Hamas che svolge mansioni simili a quelle degli israeliani di allora: controllare il traffico attraverso Gaza. Dall'ex Netzarim parte verso Sud la litoranea che attraversa Deir El Balah arrivando all'ex Gush Katif che fino al ritiro del 2005, voluto dal premier Ariel Sharon, era il «blocco» dove risiedevano la maggioranza dei 5 mila abitanti degli insediamenti che si estendevano sul 40 per cento della Striscia. Il posto di blocco di allora si riconosce per i lastroni di cemento che nessuno ha rimosso da un'ex base trasformata in deposito di spazzatura.
L'interno dell'ateneo costruito dove
sorgeva Nevè Dekalim
  Subito dopo l'ex spiaggia degli insediamenti - c'era chi la chiamava «Palm Beach» - si presenta come una sorta di riviera di Hamas: piccoli bar e ristoranti dai nomi esotici, arredati con tende colorate, che consentono di mangiare a qualsiasi ora, con vista sul mare. Il cameriere del «Paradise», Mohammed di 24 anni, si ricorda «come se fosse ieri» il momento in cui «sparirono i posti di blocchi e potemmo entrare qui». «Non avevamo mai visto nulla di simile, una spiaggia così grande - dice, tradendo ancora emozione - perché fino a quel momento solo gli israeliani potevano accedervi, fu come entrare in paradiso». La «Deir El Balach Beach» è fiancheggiata sull'interno da campi di addestramento delle diverse milizie: non solo Hamas ma anche il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, i Comitati di resistenza, la Jihad islamica.

 I campi d'addestramento
  Sono i diversi colori delle bandiere a delimitare i terreni di addestramento, vere e proprie isole militari da cui si levano alte colonne di fumo. I militanti di Hamas circolano su grandi moto, la polizia sorveglia gli incroci e l'ex blocco degli insediamenti potrebbe sembrare una zona militare se non fosse per i parchi giochi. «Asda City», la Città dell'Eco, sorge sull'insediamento di Ganei Tal. È una Disneyland in miniatura che il manager Saed Abalder, 32 anni, descrive così: «Dopo il ritiro, tentammo di farne un grande set ma l'unico film girato fu "Ahmad Akel", un eroe della resistenza contro gli ebrei, ed allora cambiammo programma, puntando sui bambini». Il risultato è un parco acquatico, circondato da giostre, trenini e
La spiaggia di Deir Al Balah Beach
perfino uno zoo dove la maggiore attrazione è un leone. «Lo abbiamo fatto arrivare due anni fa attraverso i tunnel, dall'Egitto - racconta Abalder - allora era talmente piccolo che entrava in una scatola». Fra cervi, struzzi e babbuini lo zoo di «Asda City» ha rimpiazzato nella Striscia quello dell'insediamento di Nezer Hazany, di cui non è rimasta una pietra. Sulla genesi delle distruzioni gli abitanti di Deir Al Balach riportano versioni diverse, c'è chi imputa agli israeliani «aver distrutto quasi tutto prima di andarsene» e chi invece ricorda quel ritiro come una «vittoria della resistenza» che portò a «voler cancellare le tracce dell'occupazione».

 Simboli religiosi
  Nessuna disputa c'è invece sulla sorte della grande sinagoga di Nevè Dekalim, il maggiore degli insediamenti. Fu un luogo simbolo perché chi si opponeva al ritiro tentò di resistervi, sfidando i soldati. I palestinesi l'hanno distrutta con una determinazione testimoniata dalle macerie lasciate in bella vista lungo la strada principale. Anche delle altre sinagoghe che sorgevano negli insediamenti nella Striscia non resta traccia. Intatta invece la «Sport Hall», il palazzo costruito per ospitare il basket, usato ancora nello stesso modo. Anche gli ex edifici del Consiglio di Nevè Dekalim sono in piedi: l'Autorità palestinese prima e Hamas poi - da quando nel 2007 controlla la Striscia - li hanno trasformati nella sede dell'ateneo di Al Aqsa dove studiano 28 mila alunni. È la più grande università del Sud della Striscia. «Ad ogni studente spieghiamo che qui vivevano gli occupanti e qui vogliamo costruire la vita dei palestinesi» dice Neamat
Il parco divertimenti di Asda City
Shaban Alwan, vicepresidente dell'ateneo, sottolineando che «siamo moderati, non estremisti e vogliamo la pace con tutti anche gli ex nemici».
  Nel suo ufficio campeggia una piantina della Palestina, dal Mediterraneo al Giordano, che non indica la presenza di Israele, e nell'atrio interno al palazzo c'è una grande veduta della Città Vecchia di Gerusalemme. Davanti alla sede dell'amministrazione dell'ateneo c'è l'ex ospedale di Nevè Dekalim, che oggi ospita i corsi per studentesse - separate dai coetanei maschi - in gran parte coperte da niqab e chador, sebbene di colori e stili differenti. C'è anche una moschea, nuova di zecca, attorno alla quale è sorto un piccolo suk. «La ricostruzione di Gaza resta difficili e perché ogni tanto arriva una guerra a rimettere indietro l'orologio» lamenta Shaban, mostrando l'elenco dei 45 studenti morti durante il conflitto della scorsa estate.
  Ma nella Striscia in questi giorni ciò che prevale è il tam tam sui negoziati segreti fra Hamas e Israele. Vero o falso che sia, al mercato di Gaza è il tema del giorno anche perché Hamas ha accelerato la distribuzione di targhe fatte in proprio, con tanto di tricolore palestinese sovraimpresso. È il simbolo della volontà di diventare Stato. Il resto lo si trova al porto, dove Hamas ha apposto i cartelli «Arrivi» e «Partenze» facendo supporre che siano a buon punto le trattative con Israele per l'apertura della linea marittima fino a Cipro Nord che implicherebbe la fine del blocco economico ed un cessate il fuoco di lungo termine con «il nemico».

(La Stampa, 7 giugno 2015)



Netanyahu: una trappola di ipocrisia organizzata

GERUSALEMME - "Mentre stiamo cercando di portare avanti il processo diplomatico - ha proseguito - i palestinesi continuano a portare avanti le proprie iniziative alle Nazioni Unite e alla Corte penale internazionale. Stanno fuggendo dai negoziati, cercano piuttosto di promuovere sanzioni e risoluzioni contro di noi al Consiglio di sicurezza sulla base del fatto che non sono in corso trattative. Mi rattrista che ci sia anche chi cade in questa trappola di ipocrisia organizzata".

(Agenzia Nova, 7 giugno 2015)


E' il nuovo antiebraismo il virus che destabilizza la Francia moderna

La Francia che dopo gli attentati di gennaio si è divisa tra chi "è Charlie" e chi non lo è, vive una lacerazione molto più profonda e tanto più pericolosa perché non abbastanza riconosciuta. L'ultimo saggio del sociologo Pierre-André Taguieff.

di Nicoletta Tiliacos

ROMA - La Francia che dopo gli attentati di gennaio si è divisa tra chi "è Charlie" e chi non lo è, vive una lacerazione molto più profonda e tanto più pericolosa perché non abbastanza riconosciuta. La analizza in un libro appena uscito ("Une France antijuive? Regards sur la nouvelle configuration judéophobe", Ed. Cnrs) il sociologo Pierre-André Taguieff, che da almeno due decenni studia le nuove forme di razzismo che allignano nella società francese. Il saggio segue di tredici anni "La nouvelle judéophobie" (Fayard) che tanto ostracismo provocò, da parte della gauche, contro il suo autore, colpevole di aver indicato nell'antisionismo la forma moderna (e socialmente accettata) dell'antico odio verso gli ebrei.
   Nel suo ultimo libro, Taguieff analizza le forme assunte in Francia dall'odio antigiudaico, "sostenuto da un antisionismo radicale impastato di complottismo e di una islamizzazione crescente della causa palestinese". Nel recensire il saggio di Taguieff su Causeur.fr, Jacques Tarnero - a sua volta studioso delle nuove forme di razzismo - scrive che per i giovani di origine arabo-musulmana delle banlieue francesi "la Palestina è diventata una patria immaginaria", in nome della quale si coltiva l'odio verso Israele e verso gli ebrei, vero "cemento identitario del loro risentimento". Taguieff mette in fila i sintomi - gli episodi, le polemiche, i segnali a lungo ignorati o minimizzati - di quella malattia antigiudaica che in Francia ha armato da ultimo la mano dei fratelli Coulibaly, così come aveva fatto con quella degli assassini e torturatori del giovane ebreo francese Ilan Halimi nel 2006. "Taguieff ha fatto del razzismo, e in particolare dell'antisemitismo - scrive ancora Tarnero - il barometro delle fluttuazioni ideologiche della Francia. Così facendo, egli ha totalmente rinnovato le categorie intellettuali che permettono di comprendere l'intima meccanica di questa incurabile malattia sociale… in prospettiva, questa storia della nuova configurazione antigiudaica contemporanea rivela, in profondità, tutto ciò che la République ha rifiutato di vedere, tutto ciò che i media hanno rifiutato di nominare, tutto ciò di cui gli intellettuali (ma non tutti) hanno rifiutato di prendere coscienza, perché è a partire da questa negazione della realtà che si è formata questa Francia antigiudaica, parte maledetta della nostra modernità".
   La "nuova giudeofobia" che si è insediata stabilmente nel paesaggio francese è il prodotto di molti anni perduti. E gli accadimenti del 7 e del 9 gennaio scorso a Parigi (l'attacco a Charlie Hebdo, dove l'unica donna uccisa è stata una ebrea, e la strage dell'Hypercaher) sono anche il prodotto del non aver voluto vedere, per un malinteso senso di solidarietà con i "deboli" e gli "svantaggiati", quanto la progressione dell'islamismo sviluppava simultaneamente una cultura del risentimento e dell'odio antiebraico. Per molti anni "le scienze sociali hanno preferito coltivare e alimentare ciò che era comodo coltivare e alimentare: la visione di un mondo diviso tra ricchi e poveri, senza preoccuparsi del fatto che i poveri potessero anche sviluppare odii ideologici simmetrici". Per averlo detto, Taguieff è stato a lungo considerato dai benpensanti della sociologia un reazionario. Oggi il suo libro spiega che è sulla questione ebraica che si gioca la sopravvivenza della Francia "in quanto nazione". Il premier Valls dice che "senza ebrei, la Francia non sarebbe più la Francia". E' arrivato il momento di crederci davvero.

(Il Foglio, 7 giugno 2015)


Hamas esce dalla black-list egiziana del terrore

Un tribunale ha annullato il recente inserimento di Hamas nella lista nera egiziana delle formazioni terroristiche con un mossa che, pur nell'attrito di fondo fra il Cairo e Gaza, salvaguarda il ruolo di mediatore storico dell'Egitto fra Israele e palestinesi. L'annullamento è stato sentenziato dalla Sezione d'appello della Corte per le questioni urgenti che ha sconfessato il pronunciamento emesso dallo stesso tribunale il 28 febbraio scorso, ora giudicato «non competente» a pronunciarsi in materia. L'inserimento del movimento palestinese al potere a Gaza nella black-list egiziana, in linea con quanto fatto da vari Paesi fra cui Ue (nel 2005) e Usa, era stato deciso sulla base di accuse di coinvolgimento di Hamas in operazioni terroristiche contro polizia, esercito e anche civili nel Sinai, in combutta e a sostegno della Fratellanza musulmana appena scacciata dal potere al Cairo nel 2013.
   Il ricorso contro l'inserimento era stato presentato a marzo dall'avvocatura dello Stato, segno che il governo non voleva rompere totalmente con Hamas, le cui attività peraltro sono state messe al bando in Egitto dal marzo dell'anno scorso. Il «Movimento Islamico di Resistenza» (Hamas) del resto è filiazione diretta anni Ottanta dei Fratelli musulmani egiziani che l'attuale presidente Abdel Fattah al Sisi ha scacciato dal potere assieme al suo predecessore Mohamed Morsi nel 2013. All'epoca capo di Stato maggiore delle Forze armate, Sisi ha fatto leva su oceaniche manifestazioni di protesta contro i Fratelli musulmani per evitare una deriva islamista dell'Egitto analoga a quella concretizzatasi dal 2006 nella Striscia. Hamas, in reazioni rilanciate con risalto dai media egiziani, ha commentato con soddisfazione l'annullamento odierno parlando di «correzione di un precedente errore». Il portavoce Sami Abu Zuhri ha sostenuto che l'uscita dalla lista nera rafforzerà le relazioni fra Hamas e il Cairo.
   Come dimostrato nei conflitti del 2009, del 2012 e dell'anno scorso, i presidenti egiziani Hosni Mubarak, Morsi e Sisi sono stati mediatori fra Israele e Hamas, al potere in quella Striscia che era stata il «giardino di casa» egiziano dal 1948 al '67. Formalmente però resta valido l'inserimento delle Brigate Ezzedine al Qassam, il braccio armato di Hamas, nella lista egiziana delle organizzazioni terroristiche, come stabilito da un tribunale il 31 gennaio scorso, due giorni dopo quattro attacchi coordinati rivendicati da una formazione alleata dell'Isis contro postazioni militari in tre centri del Sinai settentrionale causando 32 morti, tra cui alcuni civili. Per numero di vittime e complessità dell'azione, l'attacco era stato il più grave degli ultimi anni. E proprio per evitare che armi arrivino ai jihadisti filo-Isis del gruppo «Ansar Beit el-Maqdes» attraverso tunnel sotterranei, l'Egitto sta creando una zona cuscinetto al confine con la Striscia di Gaza: in tal modo però blocca anche il contrabbando di altre merci contribuendo anche all'embargo con cui Israele rende dura la vita a Gaza.

(Online News, 6 giugno 2015)


La scelta di due poeti coraggiosi con le radici nel Medio Oriente

Sul palco di "Passepartout" ad Asti si siederanno un israeliano e un iracheno, nati entrambi a Baghdad ma divisi da tutto il resto.

di Maurizio Molinari

 
(da sin.) Ronny Someck e Salah Al Hamdani
GERUSALEMME - Baghdad e Gerusalemme si incontrano oggi ad Asti grazie alla scelta di due poeti coraggiosi, accomunati dalle radici nelle tragedie del Medio Oriente e dalla volontà di superarle trovando un linguaggio comune.
Sul palco di Passepartout siederanno assieme l'israeliano Ronny Someck e l'iracheno Salah Al Hamdani, nati entrambi a Baghdad nel 1951, ma divisi da tutto il resto: il primo è dovuto fuggire quando aveva appena due anni, braccato dai pogrom antisemiti che fecero centinaia di vittime e ridussero in macerie la più antica comunità ebraica della Diaspora; il secondo fu braccato dalla dittatura di Saddam Hussein, obbligato all'esilio per trent'anni ed è tornato in patria solo nel 2004, per trovare una nazione lacerata, insanguinata.
L'odio contro le minoranze, che ha provocato la persecuzione di Someck spingendolo ad emigrare in Israele, e la carenza di libertà, che ha causato l'esilio di Al Hamdani trasformandolo in un parigino d'adozione, sono due delle ferite più profonde che ancora oggi paralizzano il Medio Oriente.

 Legame nato a Parigi
  Da qui l'importanza del legame fra i due poeti, nato casualmente a Parigi nel 2011 e ricostruito così da Al Hamdani durante un recente incontro a Gerusalemme: «Quando mi resi conto che Ronny era nato a Baghdad come me, nel mio stesso anno, mi sono accorto di aver sempre avuto un fratello ebreo in Israele. Per questo gli sono corso incontro».
Ne è nato un legame che nel 2012 li ha portati a scrivere assieme «Baghdad-Jerusalem» un libro di poesie pubblicato in arabo, ebraico e francese, che i co-autori hanno presentato, assieme sul palco, a Tel Aviv e Gerusalemme.
Per Al Hamdani ha significato, come lui stesso ammette, «perdere alcuni amici», ma basta leggere le sue poesie - come quelle di Someck - per rendersi conto come, strofa dopo strofa, sfidino ogni sorta di pregiudizi e intolleranze.

 Creatività indomabile
  Ciò che colpisce di questi due poeti, fratelli per scelta, è come i loro scritti siano una finestra su creatività indomabili: Someck è fra i promotori della compagnia di danza a Beersheva, nel cuore del deserto del Negev, come del teatro arabo-ebraico nell'antica città di Jaffa, e Al Hamdani è anche sceneggiatore ed attore, da diversi anni, tanto sui palchi teatrali che nei set del cinema.

 «Divisi» dal look
  A ben vedere l'unica vera cosa che li distingue è il look: più romantico quello di Al Hamdani, più determinato quello di Someck. Entrambi ne sono consapevoli, ridendoci sù, come avviene fra fratelli veri e propri, quando discutono fra loro di un Medio Oriente incapace di liberarsi di odii millenari, ma anche accomunato da radici simili. Le stesse che entrambi hanno in una Baghdad che esiste oramai solamente nei loro ricordi.
Anche per questo assistere oggi a «Passepartout», in quel di Asti, significa essere davvero parte di un'esperienza unica.

(La Stampa, 6 giugno 2015)


Gerusalemme - Musulmani impediscono agli ebrei di bere dalle fontanelle al Monte del Tempio

Gli ebrei non possono bere al Monte del Tempio di Gerusalemme. Un video condiviso su Youtube mostra un uomo con la kippah che tenta di abbeverarsi ad una fontanella e viene letteralmente bloccato da due donne al grido di "Allah Akbar".
La polizia interviene, ma rifiuta di fermare le donne o di aiutare l'uomo a dissetarsi. Il Monte del Tempio è sacro per gli ebrei, che lo usano per pregare al Muro del Pianto all'esterno della spianata, ma anche per i musulmani: è lì che secondo la tradizione il profeta Maometto venne assunto in cielo dalla roccia situata in cima al monte, oggi all'interno della Cupola della Roccia.
E da qualche tempo viene impedito agli ebrei di portare acqua con loro fino al Monte del Tempio e di bere dalle fontanelle pubbliche. Gli ebrei gridano al razzimo. Ma nessuno interviene.

(Il Messaggero, 6 giugno 2015)


Israele raddoppia le forniture di acqua alla Striscia di Gaza

Da 5 a 10 milioni di metri cubi

L'azienda israeliana dell'acqua, 'Mekorot', ha deciso di raddoppiare la fornitura di acqua alla Striscia passando da 5 a 10 milioni di metri cubi. Il nuovo rifornimento proviene da due fonti: a sud, la conduttura di Nahal Oz, un kibbutz vicino Gaza; a nord, la vecchia tubazione dell'area di Kissufim che rifornisce di acqua il centro della Striscia. '' Con la nascita di Hamas - ha spiegato Avraham Ben-Yosef di 'Mekorot', citato dai media - i contatti si sono interrotti, ma recentemente si sono verificate le condizioni per la ripresa delle forniture''.

(ANSAmed, 5 giugno 2015)


Il Gruppo Monrif cede l'Hermitage di Milano agli israeliani di Fattal

di Dorina Macchi

Fattal Hotel's, la più grande catena alberghiera israeliana, ha sottoscritto un contratto preliminare con le controllate di Monrif Emiliana Grandi Algerghi EGA e Immobiliare Fiomes per la cessione (immobile e attività alberghiera) dell'Hotel Hermitage, 4 stelle superior di Milano. Il controvalore dell'operazione sarà pari a 20,55 milioni di euro e determinerà per il Gruppo Monrif una plusvalenza lorda consolidata di oltre 11 milioni di euro. L'operazione si dovrebbe concludere a settembre 2015.

(weBitmag, 5 giugno 2015)


Non c'è campo in Israele

L'ipocrisia della Orange che pensa di abbandonare lo stato ebraico

L'amministratore delegato del gigante della telefonia francese Orange, Stéphane Richard, al Cairo ha detto che, potendo, interromperebbe "domani mattina" il rapporto fra la sua azienda e Israele. L'intenzione comunque, ha detto Richard, è di ritirare il marchio da Israele il prima possibile. Ne è nata una crisi politica fra Gerusalemme e Parigi, e un'ennesima dimostrazione del livello di penetrazione del movimento del boicottaggio anti israeliano nel business che conta. E' in corso l'isolamento economico di Gerusalemme. Numerose banche d'affari e istituti finanziari hanno voltato le spalle agli israeliani, lanciando una moratoria dei loro istituti di credito. La più grande banca danese, Danske Bank, ha posto l'israeliana Hapoalim nella black list etica. La banca svedese Nordea ha messo sotto scrutinio le israeliane Leumi e Mizrahi-Tefahot e il più grande fondo pensione olandese, Pggm, ha ritirato gli investimenti da cinque istituti finanziari dello stato ebraico. Il più grande fondo sovrano del mondo, quello norvegese che gestisce oltre 800 miliardi di dollari, ha ritirato gli investimenti da due compagnie israeliane: Africa Israel Investments e Danya Ce-bus. E la Vitens, azienda leader dell'erogazione dell'acqua nei Paesi Bassi, ha tagliato con l'israeliana Mekorot. Ieri i commentatori israeliani, compreso l'uomo della strada, hanno mandato direttamente a quel paese la Orange, gridando all'ipocrisia, perché nella mossa di Richard pesa la capacità di ricatto che il mondo arabo-islamico è riuscito a generare nella grande azienda di telefonia mobile. Ma forse, più sapidamente, si potrebbe far presente ai francesi che la telefonia cellulare con cui Orange fa profitto nel mondo è stata sviluppata dalla Motorola proprio in Israele e che scienziati israeliani hanno creato tutte le più importanti tecnologie presenti nei nostri telefonini, compresi, tanto per fare qualche esempio, gli sms e l'applicazione stradale gratuita Waze, usata oggi in tutto il mondo. Provasse il signor Richard a sostituire il "made in Israel" dentro ai telefoni che usano Orange con dispositivi "made in Cairo" o "made in Teheran". Boicottassero pure tutto quello che è israeliano per sostituirlo con le invenzioni dei palestinesi, tipo giubbotti esplosivi, bombe umane, candelotti, missili a breve e lunga gittata. Vedremo allora se hanno campo.

(Il Foglio, 6 giugno 2015)


Chi sta bloccando le elezioni palestinesi?

di Khaled Abu Toameh (*)

Un anno dopo l'annuncio fatto dal presidente dell'Autorità palestinese (Ap), Mahmoud Abbas, riguardo alla creazione di un governo di "consenso nazionale" da parte di Fatah e Hamas, i due partiti rivali rimangono più distanti che mai. Questo governo, guidato dal premier Rami Hamdallah, è stato formato dopo una serie di "intese" raggiunte tra le due fazioni sulla base di precedenti accordi di "riconciliazione". Ma un anno dopo, è diventato evidente che il governo di "consenso nazionale" non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi principali: la ricostruzione della Striscia di Gaza; porre fine al conflitto tra Fatah e Hamas e indire nuove elezioni legislative e presidenziali.
  I due gruppi non possono che accusarsi reciprocamente per il fallimento dell'ultimo tentativo di porre fine alle loro dispute e fare qualcosa di buono per il loro popolo. E in questo momento non è possibile dare la colpa a Israele. Entrambi hanno avuto l'opportunità di collaborare alla ricostruzione della Striscia di Gaza a seguito del confronto militare dello scorso anno tra Hamas e Israele. La comunità internazionale si è anche offerta di contribuire a farlo, ma Fatah e Hamas hanno preferito continuare a combattersi a vicenda a spese dei palestinesi della Striscia di Gaza. Fino ad oggi, i due partiti rivali non sono riusciti a raggiungere un accordo su un meccanismo per il trasferimento di fondi dai donatori internazionali alla Striscia.
  Fatah sostiene che Hamas vuole rubare i soldi, mentre quest'ultimo accusa Fatah e il governo dell'Ap di cercare di mettere le mani sui finanziamenti. I due gruppi islamisti all'epoca stabilirono che il governo guidato da Hamdallah sarebbe rimasto in carica solo sei mesi - il periodo necessario per preparare le elezioni legislative e presidenziali da tempo attese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Ma il governo "ad interim" ha appena spento la sua prima candelina, mentre le opportunità di tenere nuove elezioni nelle circostanze attuali sono inesistenti. D'altronde, le due parti non sembrano affatto interessate a mandare i palestinesi alle urne. Tanto Fatah quanto Hamas hanno molti buoni motivi per evitare di indire nuove elezioni in Cisgiordania e a Gaza.
  In primo luogo, perché le fazioni non si fidano l'una dell'altra, e ogni parte è convinta che l'altra cercherebbe di portar via voti. Come possono esserci elezioni libere e democratiche se Fatah e Hamas continuano ad arrestare e torturare a vicenda i loro sostenitori? In secondo luogo, Fatah teme che le possibilità di Hamas di vincere le elezioni, specialmente in Cisgiordania, siano molto elevate. Questo perché molti palestinesi non si fidano ancora di Abbas e Fatah, accusandoli di mantenere stretti legami di sicurezza con Israele. Inoltre, molti palestinesi continuano a essere delusi da Fatah per la sua incapacità di combattere la corruzione finanziaria e amministrativa e di preparare la strada alla comparsa di nuovi leader. È impossibile che Fatah e Hamas possano dare la colpa a Israele per quanto riguarda la questione delle elezioni.
  Se essi fossero realmente interessati a nuove consultazioni elettorali, potrebbero indirle con l'aiuto della comunità internazionale, come già avvenuto in precedenza nel 2005 e nel 2006. E anche Israele aiutò i palestinesi a tenere quelle elezioni. Quando diversi candidati di Hamas di Gerusalemme Est si presentarono alle elezioni legislative del 2006, Israele non fece nulla per fermarli. Lo Stato ebraico aprì anche i suoi uffici postali in città per consentire agli elettori arabi (in possesso di carte di identità israeliane) di recarsi alle urne. Sono infondate le accuse mosse da alcuni palestinesi e dai gruppi anti-israeliani di tutto il mondo, secondo cui Israele è responsabile di "vanificare" i tentativi di raggiungere l'unità palestinese. Anche se il governo israeliano era inizialmente contrario all'accordo di "riconciliazione" siglato tra Fatah e Hamas nel 2014, esso non impedì al premier palestinese e ad alcuni membri del suo gabinetto di recarsi nella Striscia di Gaza per perseguire l'attuazione dell'accordo. In realtà, il primo ministro Hamdallah ha visitato la Striscia due volte, dopo aver ricevuto da Israele il permesso di attraversare il valico di Erez. Di recente, dieci ministri palestinesi sono stati costretti a lasciare la Striscia di Gaza, dopo che Hamas li ha posti agli arresti --—> domiciliari nel loro hotel e gli ha vietato di incontrare la gente del posto. I ministri sono entrati nella Striscia attraverso il valico di Erez con l'intento di contribuire a risolvere il problema di migliaia di dipendenti del governo di Hamas che non ricevono lo stipendio da oltre un anno e per discutere delle questioni relative alla ricostruzione di Gaza.
  Così mentre Israele ha facilitato le visite di Hamdallah e dei suoi ministri nella Striscia, Hamas li ha espulsi e ha impedito loro di svolgere le proprie funzioni. Se fosse stato Israele a espellere i ministri o a impedirgli di entrare nella zona, il paese sarebbe stato biasimato dalla comunità internazionale per aver "bloccato" i tentativi di raggiungere l'unità palestinese e ricostruire la Striscia di Gaza. Oggi, è diventato inevitabilmente chiaro che Fatah e Hamas, e non Israele, sono i responsabili della difficile situazione in corso dei palestinesi della Striscia di Gaza. È improbabile che i due partiti troveranno un accordo in un futuro prossimo, aggravando ulteriormente la miseria del loro popolo. Ogni fazione persegue solo i propri interessi, e al contempo dice al mondo che è tutta colpa di Israele. Hamas non è disposto a cedere il controllo della Striscia di Gaza, di certo non a Abbas e all'Autorità palestinese, che nel 2007 furono espulsi da lì. Quanto a Abbas, egli non sembra interessato a riprendere il controllo su un'area problematica come la Striscia di Gaza, dove la maggior parte della popolazione vive sotto la soglia di povertà e nei campi profughi. Tuttavia, invece di essere onesti con la propria popolazione e ammettere il loro fallimento per migliorare le condizioni di vita della gente, Fatah e Hamas continuano a condurre a vicenda campagne diffamatorie, e anche contro Israele.
  Queste campagne condotte contro lo Stato ebraico, in particolar modo nella comunità internazionale, hanno lo scopo di sviare l'attenzione dalla loro incapacità di offrire alla propria gente servizi di base o qualsiasi tipo di speranza. Ignorando la difficile situazione dei palestinesi nella Striscia di Gaza, i leader dell'Autorità palestinese erano disposti a impiegare ingenti sforzi e risorse nel tentativo di far sospendere Israele dalla Federazione internazionale del calcio (Fifa). È come se i palestinesi avessero risolto tutti i loro problemi principali e tutto quello che ora occorreva loro fare era impedire ai calciatori israeliani di giocare nelle partite internazionali. Hamas, da parte sua, continua a investire ingenti risorse nella costruzione di nuovi tunnel, in vista di un'altra guerra con Israele. Il denaro che viene investito nei tunnel e nel contrabbando di armi potrebbe essere usato a favore di molte famiglie che hanno perso la casa durante l'ultima guerra.
  Ma Hamas, come l'Autorità palestinese non si preoccupa della miseria in cui versano i palestinesi della Striscia di Gaza. Vuole combattere Israele fino all'ultimo palestinese. E tutto questo viene fatto con l'aiuto dei governi anti-israeliani e dei gruppi come il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), il cui unico obiettivo è quello di delegittimare Israele e demonizzare gli ebrei anziché aiutare i palestinesi.

(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 6 giugno 2015 - trad. Angelita La Spada)


Villaluenga: «Il mio documentario svela come Franco si costruì la fama di amico degli ebrei»

di Monica Zornetta

 
Yolanda Villaluenga
Un amico, ebreo francese, mi raccontò che a salvare la vita di suo zio era stato il governo di Franco. Non riuscivo a credere alle mie orecchie: in Spagna le sinagoghe erano rimaste chiuse per tutti i venticinque anni della dittatura e il Caudillo considerava gli ebrei nemici del Paese. Incuriosita, cominciai a indagare: quel che emergeva era per me pieno di fascino ma anche di strazio, e decisi di proporre l'argomento alla Tve, la televisione di Stato spagnola con cui già lavoravo. Fu così che cominciai a dare vita a questo documentario».
   Yolanda Villaluenga è la regista di Documentos robados? Franco y el Holocausto, un documentario che, racconta, «mi ha permesso di capire come, in circostanze anche estreme, ogni essere umano abbia la possibilità di scegliere il male, il bene o l'indifferenza. Resto impressionata dalla politica utilitaristica, né filosemita e né antisemita, di Franco, che cambiava in funzione dei vincitori». Un'esempio di questi opportunismi è il filmato d'archivio collocato all'inizio del documentario. «Si vede Carmencita, la figlia di Franco, quando era giovanissima. Di questo filmato esistono due versioni sonore. Nella prima si sente il dittatore domandare alla ragazzina: "Vuoi dire qualcosa ai bambini tedesche"; nella seconda, modificata quando gli Alleati si erano prefigurati come i vincitori della guerra, la voce di lui chiede invece: "Vuoi dire qualcosa ai bambini del mondo?"».
   Al documentario hanno collaborato alcuni fra i più importanti storici spagnoli, i quali «generosamente mi hanno facilitato l'accesso a moltissime informazioni su cui stavano lavorando. Un contributo fondamentale è arrivato anche dalla Germania, con quell'inesauribile fonte di informazioni che è il libro di Bernd Rother, Francoyel Holocausto».
   Documentos robados? è stato presentato lo scorso anno a New York, dove ha ricevuto un'accoglienza molto calorosa. «E imprevista - confida la regista -. La comunità ebraica, lì, è molto numerosa e ha bisogno di sapere e di capire. Anche dopo la visione del documentario, molti continuavano a chiedersi come era possibile che Franco non fosse stato il grande amico degli ebrei che loro reputavano. Chi riuscì a salvarsi provò una gratitudine infinita: e non è importante per loro sapere se l'aiuto era arrivato dal governo oppure da un diplomatico, da una guardia o da una persona del popolo. La loro riconoscenza si è estesa anzi alla Spagna intera, e a chi, a quel tempo, la comandava».
   
(Avvenire, 6 giugno 2015)


Rinaldo "ha finito la corsa"

di Marcello Cicchese

Si è spento ieri, venerdì 5 giugno, Rinaldo Diprose, direttore agli studi dell'Istituto biblico evangelico italiano di Roma. Era affetto da una grave forma di sla, ma fino all'ultimo ha avuto la possibilità e la volontà di continuare a scrivere. La sua ultima opera, che si presume uscirà tra qualche settimana, è dedicata ancora una volta a un tema che l'ha molto interessato e impegnato negli ultimi anni: Israele. Uscirà fra qualche settimana il suo ultimissimo libro, edito da CLC, dal titolo: Israele sotto la chiesa - Una breve storia della teologia della sostituzione e i suoi effetti. Ne sono a conoscenza perché me l'ha sottoposto prima che venisse pubblicato, pregandomi di scriverne una prefazione. Cosa che ho fatto.
   Non abbiamo lavorato molto insieme, ma negli ultimi anni, senza ricercarlo, ci siamo ritrovati in profonda sintonia sul tema Israele. L'ultimo scambio di email fra noi e avvenuto soltanto venti giorni fa, il 14 maggio scorso. Aveva detto di aver apprezzato la mia prefazione, al che ho risposto:
"Colgo l'occasione per dirti che il tuo apprezzamento della mia prefazione mi ha molto incoraggiato. Sapersi in comunione spirituale con un fratello che si stima biblicamente su un tema come Israele è una cosa preziosa oggi. Credo che spiri anche fra di noi 'fratelli' un venticello vagamente antisemita."
Riporto senza correzioni la sua breve, stentata risposta per mostrare la fatica che ha dovuto fare per esprimere fino in fondo il suo pensiero nelle condizioni fisiche in cui si trovava:
"Riguardo ai 'fratelli' e Israele, il percepisco che io problema è con Israele del presente, come se si potesse sganciare quello del passato e del futuro fra quello attuale e il processo storico che conduce futuro!".
   La forma è traballante, ma il pensiero è lucido e coincide perfettamente con quello che anch'io noto da anni, cioè che una gran parte degli evangelici è interessata all'Israele biblico del passato e (forse) all'Israele biblico del futuro, ma è disinteressata e ignorante sull'Israele storico del presente, il quale fa parte anch'esso dell'Israele biblico, ma per molti è come se non esistesse.
   Lasciando che siano altri, e in altre sedi, a presentare l'opera di questo fedele servitore del Signore, per rendere onore alla sua memoria presentiamo in anteprima l'introduzione con cui inizia il suo ultimo libro.
Non c'è stato il tempo di chiedere i dovuti permessi alla casa editrice, ma pensiamo che la cosa possa trovare il loro consenso, anche al fine di favorire la diffusione del libro stesso.


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Israele sotto la Chiesa

Una breve storia della teologia della sostituzione e i suoi effetti

di Rinaldo Diprose

Introduzione
Secondo i sostenitori della "Teologia della sostituzione", la Chiesa cristiana avrebbe preso il posto di Israele etnico in modo completo e permanente nel piano di Dio per l'umanità. Si possono però distinguere tre diversi tipi di teologia della sostituzione: la teologia dell'adempimento, la teologia della sostituzione di tipo retributivo e la teologia della sostituzione di tipo strutturale.
  Esponenti della "teologia dell'adempimento" credono che il ruolo di Israele nel piano di Dio sia terminato con il primo avvento del Messia. Credono che tutte le profezie concernenti il futuro d'Israele siano state adempiute o nella Persona e nell'opera di Cristo e/o nella chiesa cristiana. Coloro che hanno questa convinzione potrebbero non ritenersi sostenitori della teologia della sostituzione in quanto credono che Israele abbia portato a termine il proprio ruolo speciale con la venuta di Cristo. Sennonché alcune affermazioni bibliche sembrano in contrasto con questa convinzione. Esse includono queste parole di Pietro mentre sfidava i Giudei a credere in Gesù per il perdono dei loro peccati: "Gesù, che il cielo deve tenere accolto fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose, di cui Dio ha parlato fin dall'antichità per bocca dei suoi santi profeti" (At 3:20-21). Secondo Pietro, non tutte le profezie furono adempiute nella Persona e opera di Cristo durante il suo primo avvento o saranno adempiute nel contesto della chiesa. Quelle che hanno a che fare con "la restaurazione di tutte le cose", comprese quelle riguardanti Israele (cfr. At 1:6-7), troveranno il loro adempimento nel contesto del secondo avvento di Cristo. Il non considerare affermazioni come questa di Pietro è frutto di un tipo di interpretazione che considereremo più avanti in questo studio.
  Secondo la teologia della sostituzione di tipo retributivo, invece, Israele è stato rigettato e giudicato da Dio a motivo della sua disubbidienza. Però questa conclusione trascura dichiarazioni divine del tipo: "Così parla il SIGNORE: «Se i cieli di sopra possono essere misurati e le fondamenta della terra di sotto, scandagliate, allora anch'io rigetterò tutta la discendenza d'Israele per tutto quello che essi hanno fatto», dice il SIGNORE" (Gr 31:37). Quando il profeta Geremia pronunciò queste parole, da parte di Dio, il SIGNORE stava per mandare Giuda in esilio a motivo della sua idolatria e perché non aveva osservato gli anni sabbatici stabiliti dalla Legge. Ma tale punizione sarebbe stata seguita dal ritorno di Giuda alla terra promessa (Gr 25:1-14; 30:1-3). Inoltre Dio affermò per bocca di Amos che, in realtà, è proprio lo status di popolo eletto che rende inevitabili simili punizioni quando Israele pecca contro Dio: "Voi soli ho conosciuto fra tutte le famiglie della terra; perciò vi castigherò per tutte le vostre trasgressioni" (Am 3:2). Amos ci informa che la retribuzione divina, lungi dall'essere un segno che Dio ha rigettato Israele, costituisce una conferma della posizione unica che questo occupa come popolo eletto.
  La terza varietà di teologia della sostituzione è la più radicale, essendo di tipo strutturale ed ermeneutico. Questa comprensione della presunta reiezione d'Israele da parte di Dio può essere fatta risalire a Origene (184/185-253/254) e va oltre l'idea che la chiesa abbia preso il posto di Israele. Secondo Origene, ogni riferimento nazionale e fisico era soltanto un simbolo di realtà spirituali mentre ogni credente, a partire da quelli nominati in Genesi, faceva parte della Chiesa di cui Israele era soltanto un tipo. Il problema con questo modo di interpretare le Scritture ebraiche è che molti brani non si prestano a essere interpretati in modo allegorico. Ne è esempio questo brano di Geremia: "«Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò sorgere a Davide un germoglio giusto, il quale regnerà da re e prospererà; eserciterà il diritto e la giustizia nel paese. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora; questo sarà il nome con il quale sarà chiamato: SIGNORE-nostra-giustizia. Perciò, ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui non si dirà più: 'Per la vita del SIGNORE che condusse i figli d'Israele fuori dal paese d'Egitto', ma 'Per la vita del SIGNORE che ha portato fuori e ha ricondotto la discendenza della casa d'Israele dal paese del settentrione, e da tutti i paesi nei quali io li avevo cacciati', ed essi abiteranno nel loro paese»" (Gr 23:5-8). Ireneo applicò questa profezia ai pagani che si convertono a Dio nel tempo del nuovo patto, ma di queste persone non si può dire che prima avessero sperimentato qualcosa di simile all'Esodo dall'Egitto per poi, dopo essere stati cacciati dal proprio paese, essere riportati nuovamente da Dio nel proprio paese. Il contenuto della rivelazione biblica non permette di spiritualizzare tutte le predizioni del ritorno d'Israele alla Terra Promessa.

(Notizie su Israele, 6 giugno 2015)


Alleati molto segreti

Israele e l'Arabia Saudita non si fidano del sostegno di Obama contro l'Iran, e ora si organizzano.

di Rolla Scolari

MILANO - Israele e l'Arabia Saudita non hanno relazioni diplomatiche. Non ci sono voli diretti da Riad a Tel Aviv, un visto israeliano sul passaporto impedisce al turista l'entrata nel regno dei Saud, che non riconosce l'esistenza d'Israele. I due paesi non sembrano avere nulla in comune, se non fosse che condividono il loro più robusto alleato, gli Stati Uniti, e anche il più grande nemico, l'Iran. E negli ultimi mesi, anche una relazione sempre più accidentata con l'amico americano, impegnato a costruire un controverso accordo con Teheran per arginare il suo programma nucleare. Così la stretta di mano giovedì a Washington durante un dibattito sulla minaccia atomica iraniana tra il prossimo direttore del ministero degli Esteri israeliano, Dore Gold, e il generale in pensione ed ex consigliere del potente principe saudita Bandar bin Sultan, Anwar Majed Eshki, è affare inedito, soprattutto perché intenzionalmente votato alle telecamere, apparentemente intenzionato a inviare un messaggio. I due hanno condiviso un palco del think tank Council on Foreign Relations e si sono trovati d'accordo su tutta la linea in materia di Iran, considerato il principale nemico da controbilanciare. I lunghi mesi di sforzi dell'Amministrazione Obama per ratificare a fine mese un'intesa con Teheran sul nucleare non soltanto non convincono sauditi e israeliani, ma hanno fatto perdere fiducia ai due maggiori alleati mediorientali di Washington nel sostegno americano, come ha provato poche settimane fa l'indifferenza di Riad e dei paesi del Golfo davanti all'invito del presidente Barack Obama per partecipare a un summit sulla questione iraniana a Camp David, che il sovrano saudita Salman ha platealmente disertato.
   Dagli anni 90, ormai, non è più un segreto che sotto la superficie esistano interazioni di diverso grado tra Israele e i potentati del Golfo. Israele ha aperto una missione commerciale in Qatar, avviato scambi di intelligence con gli Emirati, il regno saudita ha lavorato a un'iniziativa di pace che aveva avvicinato i vertici dei due paesi e di cui ancora oggi si discute (ne ha parlato a Washington lo stesso Eshki). Oggi, le condivise rimostranze sugli obiettivi americani in Iran hanno avvicinato di più i due paesi tanto da arrivare all'incontro di giovedì - privo di valore diplomatico ufficiale ma tuttavia significativo. Scrive Eli Lake di Bloomberg che funzionari sauditi e israeliani si sarebbero incontrati cinque volte dall'inizio del 2014, una volta anche in Italia, proprio per parlare di quella che i due governi considerano la peggiore minaccia: Teheran. Per i cittadini sauditi sarebbe l'Iran (54 per cento) e non Israele (18 per cento) il nemico da cui guardarsi, dice una ricerca condotta telefonicamente tra i cittadini sauditi. Per la maggior parte di questi, inoltre, per contrastare l'espansionismo nucleare di Teheran Riad dovrebbe munirsi di un ordigno atomico, e già il regno minaccia da anni di voler costruire un programma nucleare militare. Su un fronte, benché indiretto, l'Arabia Saudita è già in guerra vera con l'Iran: i suoi aerei bombardano da mesi le postazioni dei ribelli sciiti Houthi - sostenuti da Teheran - nel conflitto in Yemen. Proprio ieri il sito arabo Rai al Youm ha rivelato che Israele avrebbe offerto a Riad il suo scudo anti missilistico Iron Dome per dispiegarlo lungo il confine con lo Yemen.
   
(Il Foglio, 6 giugno 2015)


Galliano si scusa con gli ebrei. E il rabbino di Londra lo perdona

Il rabbino Barry Marcus ha portato più volte lo stilista (condannato nel 2011 per frasi antisemite) in sinagoga e gli ha fatto ascoltare le testimonianze di ebrei sopravvissuti allo sterminio.: «La sua conoscenza della storia era davvero limitata: ma ho il dovere di aprire la porta a chiunque intenda pentirsi».

di Fabio Cavalera

 
                                   John Galliano                                                                       Barry Marcus
LONDRA - Chi le dimentica quelle frasi vergognose? "Amo Hitler… Le vostre madri, i vostri antenati avrebbero dovuto fare tutti la stessa fine, essere gassati". Pronunciate davanti a un bar di Parigi e rilanciate da un video. Quattro anni fa. Lo stilista inglese John Galliano si è pentito. Era ubriaco, il 25 febbraio 2011, ma la violenza verbale antisemita gli costò giustamente una condanna. Poi il licenziamento da Dior. Adesso, grazie al lavoro e alla pazienza di Barry Marcus rabbino della sinagoga centrale di Londra, John Galliano sta seguendo un programma di "riabilitazione". E di perdono.
   I due sono diventati amici e qualche giorno fa hanno partecipato a un incontro con la comunità ebraica a Londra durante il quale John Galliano è scoppiato a piangere. Era già accaduto durante un suo colloquio con un sopravvissuto dell'Olocausto. Questa volta la conversione è stata pubblica. "Ero un alcolista ma ciò non rappresenta una giustificazione. Vi chiedo scusa, se è possibile scusarmi". Il rabbino Barry Marcus aveva cominciato a parlare con il cinquantaquattrenne John Galliano nel 2013, a New York nella sede della Conde Nast, presentati dal direttore della "Antidefamation League", l'avvocato Abe Foxman. Poco alla volta è nato un rapporto di amicizia forte.
   Il rabbino Barry Marcus ha portato più volte John Galliano in sinagoga e gli ha fatto ascoltare le testimonianze di ebrei sopravvissuti allo sterminio. "La sua conoscenza della storia era davvero limitata". Non pochi, nella comunità ebraica, erano contrari al perdono. "Ma come esser umano, come ebreo, come rabbino e come umanista ho il dovere di aprire la porta a chiunque intenda pentirsi". Barry Marcus ha partecipato alle ultime sfilate firmate da John Galliano. E settimana scorsa lo ha accompagnato all'incontro del ravvedimento. Gli ebrei di Londra, convinti dal rabbino, lo hanno perdonato.

(Corriere della Sera, 5 giugno 2015)


In Palestina al via i lavori del primo mega complesso turistico

Entro il 2024 verrà inaugurato il primo mega complesso turistico dei Territori palestinesi. Si tratta di 'Jericho Gate' (La Porta di Gerico) che prevede un investimento di oltre 3 miliardi di dollari e la costruzione di 7 hotel e 1500 ville su di una superficie superiore ai 700 ettari di terreno. L'obiettivo è dare una scossa al settore turistico palestinese e sfruttare le bellezze naturali della Valle del Giordano.
Il progetto, finanziato da Padico - il più grande fondo di investimento palestinese - alla cui guida rimane ben saldo l'ottuagenario Munib Al-Masri, prevede anche la costruzione di laghi artificiali, centri commerciali, parchi e la realizzazione di un arco di trionfo simile a quello di Parigi.
Il termine lavori è previsto per il 2024 ma è già stato realizzato un video promozionale in stile hollywoodiano con slogan tipo: "La tua casa lontano da casa", "Tempo di qualità speso con la tua famiglia" e ancora "Il luogo per giorni indimenticabili".

(Travelnostop, 6 giugno 2015)


A Cagliari arriva il Nobel israeliano, Castello blindato dalla Polizia

di Manuela Arca

 
Un furgone della polizia vicino alla Cattedrale
 
Il gruppetto di contestatori
Un quartiere blindato ha accolto l'arrivo del premio Nobel per la chimica 2004, l'israeliano Aaron Ciechanover, ospite del festival "Leggendo metropolitano". Posti di blocco della polizia hanno presidiato tutti gli accessi a piazza Palazzo, cuore di Castello.
Era evidentemente nell'aria la contestazione di cui il professore - per via della sua provenienza e del lavoro di ricerca - sarebbe stato al centro. Non c'è stata alcuna violenta manifestazione di dissenso, in realtà.
Un gruppo di studenti universitari e delle superiori, rinforzato da alcuni rappresentanti dell'associazione Sardegna-Palestina, ha distribuito volantini e sventolato una bandiera palestinese poco prima di uno dei varchi d'accesso da piazza Indipendenza.
"Aaron Ciechanover - hanno detto - è professore emerito del Technion-Insrael Institute of Technology, un'istituzione israeliana fortemente coinvolta nell'attività di ricerca in tecnologie militari e nell'occupazione dei territori palestinesi".
Gli studenti - appartenenti ai Collettivi Universitario autonomo, Furia Rossa, Collettivo Studentesco Antonio Gramsci, Collettivo autonomo studenti Casteddu, Sa Domu, Scida Giovunus Indipendentistas, Unica 2.0 - hanno anche voluto sostenere le ragioni della petizione per la cessazione di ogni accordo di cooperazione tra l'Ateneo cagliaritano e lo Stato d'Israele. Nel 2014, hanno anche ricordato, "il festival Leggendo metropolitano accettò il finanziamento dell'ambasciata israeliana, rendendosi così complice dei crimini sionisti".
Più vivace e rumorosa la protesta di una residente che lamentava la massiccia presenza di forze dell'ordine rispetto a una manifestazione di carattere culturale e il fatto che per superare i varchi e assistere all'incontro con Ciechanover venisse richiesto l'acquisto di un biglietto.

(L'Unione Sarda, 6 giugno 2015)


E’ confortante prendere atto che all'articolo sono stati aggiunti commenti come questi:

Un bombardamento israeliano mobilita le folle di antisraeliani/antiebrei di tutto il mondo, contro i crimini delle guerre nel mondo arabo/mussulmano, i bombardamenti sauditi in Yemen, la macelleria siriana con annessi assedi a campi palestinesi o lo stesso Isis non muovono le coscienze di questi professionisti della contestazione a senso unico.... non se ne vedono. Israele non "occupa" più Gaza e la Cisgiordania è divisa in 3 zone... Moda, per me è solo un rito di passaggio.....
Israele negli anni di Nobel ne ha sfornati ben più di uno.... e se guardiamo il rapporto tra popolazione e intellettuali dovremmo solo imparare da loro. Se parliamo di ebrei poi il loro numero è smisurato. Purtroppo a Cagliari ci si annoia, il mare non basta più, e per essere dei contestatori in linea con la moda globale bisogna allinearsi, con il solito armamentario di vocaboli: crimini "sionisti", "occupazione" della "Palestina" e via discorrendo.... Il tutto nell'assenza totale di manifestazioni. conferma
I soliti quattro barbudos di estrema sinistra amici dei palestinesi e dei terroristi che protestano appena un israeliano prende parte ad una manifestazione pubblica. Basta leggere le sigle dei gruppi a cui appartengono per capire con chi si ha a che fare! Poveracci, protestano contro Israele, una delle nazioni più civili e all'avanguardia in qualsiasi settore al mondo e stanno dalla parte dei terroristi senza materia grigia di Hamas!


Iran, la satira politica punita col carcere duro

Atena Farghadani
Si è concluso "male" il processo a Atena Farghadani, la vignettista iraniana di 28 anni arrestata e sottoposta a giudizio per le sue caricature ai deputati di Teheran. In particolare, nei suoi disegni i politici del Paese erano stati raffigurati come animali al voto in aula: il riferimento era al dibattito su una legge che restringe l'accesso delle donne al controllo delle nascite, mette al bando la vasectomia maschile e la sterilizzazione volontaria femminile. La sentenza, che ha seguito il processo coi capi d'accusa di "propaganda ostile", "insulti al Parlamento" e "offese al Leader Supremo", ha disposto una condanna a 12 anni di carcere, solo per avere espresso un'opinione politica con la propria espressione artistica.
Atena Farghadani era stata arrestata nell'agosto scorso e detenuta nella prigione di Gharchak: secondo Amnesty International, le forze dell'ordine avrebbero fatto irruzione nella sua casa bendandola, sequestrandole gli effetti personali e trascinandola in prigione. Lo scorso dicembre, l'artista era stata scarcerata; libera, poi, ha fatto "l'errore" di postare online un video in cui raccontava di essere stata picchiata e interrogata per nove ore al giorno. Nuovamente arrestata a gennaio, ha dato il via a uno sciopero della fame, ha subito un infarto e ha vissuto nei mesi seguenti in isolamento nel penitenziario di Evin a Teheran.
"Siamo tutti sconvolti - ha dichiarato un parente che ha preferito rimanere anonimo dopo che alcuni membri della famiglia sono stati minacciati di morte - Ma vedendo come è ottimista Atena, non possiamo non fare altrettanto". Secondo i familiari, Atena lancerà un appello contro la sentenza, mentre Amnesty International l'ha già dichiarata una "prigioniera di coscienza".

(Diretta News, 5 giugno 2015)


La Romania e la "Shoah"

Negli ultimi anni Sofia ha compiuto progressi significativi nell'apertura degli archivi del tempo di guerra ammettendo anche tutte le sue colpe, ed un suo ministro visita Gerusalemme.

Un alto funzionario del governo romeno è stato di recente in Israele, dove ha trascorso parecchi giorni per studiare l'approccio del Paese alle trattative con le comunità ebraiche della diaspora, Angelo Tilvar, ministro delegato per i rumeni all'estero, ha avuto una serie di incontri e consultazioni con i gruppi della società civile e le sue controparti israeliane, tra cui il presidente dell' Agenzia Ebraica, Natan Sharansky ed il ministro preposto all'assorbimento degli immigrati, Divan Landver così come col Consiglio per le relazioni internazionali di Israele, un forum di politica estera che opera sotto l'egida del "World Jewish Congress".
    Bucarest stima che ci sono circa otto milioni di persone di origine romena che vivono all'estero, una significativa parte delle quali si concentra in Israele. In un'intervista concessa a Gerusalemme Tilvar ha ammesso che uno degli obiettivi del viaggio è raggiungere i suoi concittadini, per invitarli a "contribuire alla conservazione della loro identità in termini di cultura, lingua e tradizioni."
    Almeno un alto rappresentante ebreo che ha partecipato agli incontri con Tilvar ha espresso però scetticismo su questo obiettivo, affermando che la storia mai interamente svelata della Romania per quanto riguarda l'Olocausto e le questioni connesse potrebbe rivelarsi un ostacolo significativo. Negli ultimi anni il Paese ha compiuto progressi significativi nell'affrontare le proprie responsabilità in tempo di guerra e nell'ammettere le colpe per i peccati del passato, dando vita anche a corsi di educazione sull'Olocausto e iniziando il processo di restituzioni dei beni sottratti allora agli ebrei.
    I progressi sono stati lenti, però, ed una raffica di dichiarazioni antisemite di personaggi pubblici ha fatto sì che la Romania diventasse oggetto di frequenti critiche. All'inizio di quest'anno un gruppo di controllo sull'antisemitismo locale ha duramente condannato il presidente Klaus Iohannis in quanto "persona che ha elogiato fascisti che hanno ucciso gli ebrei durante l'Olocausto". Nel 2012, un altro esponente politico ha negato che gli ebre rumeni avessero sofferto durante l'Olocausto e nonostante questo è stato nominato per un posto ministeriale, ed un altro rappresentante del paese al Parlamento europeo ha negato l'Olocausto in televisione.
    "Gli errori si allora si perpetuano nelle dichiarazioni di oggi, e questo deve essere criticato in modo molto più forte degli elogi circa gli sviluppi positivi: i passi in avanti sono normali e devono essere fatti ma gli errori, soprattutto da parte di politici, devono essere stigmatizzati", ha ammesso l'anno scorso perfino il presidente, Traian Basescu.
    Nonostante tutte le tensioni del passato, Tilvar crede però di poter aiutare gli israeliani che hanno radici nel suo Paese "ad essere più connessi con la Romania", e che il suo lavoro si concentra su "ciò che unisce le persone . per scoprire cose comuni che contribuiscono alla salvaguardia dell'identità. "
    Ha anche detto che crede che il suo Paese può imparare molto da Israele e gli ebrei, quando si tratta di come mantenere la coesione, anche quando un popolo viene disperso. "La solidarietà ebraica nonostante secoli di esilio potrebbe servire da modello per i romeni all'estero - aggiunge - il mio governo sta avviando numerose iniziative, riviste e gruppi culturali nei Paesi in cui abbiamo grandi comunità di espatriati". Il ministro, anzi, nota una somiglianza tra gli sforzi nascenti del suo Paese e le attività dell'Agenzia Ebraica per Israele, dicendo che "per noi può rappresentare un buon esempio".
    Un portavoce per l'Agenzia Ebraica ha fatto sapere che Sharansky ha accettato in linea di principi l'invito di Tilvar a visitare Bucarest, aggiungendo di sostenere gli sforzi del governo rumeno per rafforzare la sua cultura fra quanti vivono in Israele: "Ho detto al ministro che accolgo con favore l'opportunità di collaborare con il suo ufficio, e credo che gli immigrati debbano preservare la loro lingua e cultura originali anche dopo il loro arrivo in Israele", ha scritto Sharansky sulla sua pagina Facebook.
    "L'era del 'melting pot', che ha richiesto gli immigrati prima di cancellare la loro identità al fine di creare una 'nuova' identità nazionale, è passato - scrive ancora Sharansky - il mantenimento del patrimonio culturale degli immigrati serve solo ad arricchire la cultura del nostro Paese. Israele ha beneficiato immensamente la grande varietà di lingue e culture portate dai suoi immigrati, tra cui gli ebrei romeni."

(italintermedia, 5 giugno 2015)


Orange pensa di lasciare Israele. Netanyahu: Hollande si dissoci

Il gruppo telefonico francese potrebbe aderire al boicottaggio


di Stefano Monteflorl

 
PARIGI - Per qualche strano motivo il capo del colosso telefonico Orange, Stéphane Richard, deve avere pensato che le parole pronunciate in inglese durante una conferenza stampa al Cairo, in Egitto, sarebbero rimaste confidenziali, una questione intima tra lui e gli amici arabi. «La nostra intenzione è di ritirarci da Israele. Ci vorrà del tempo ma lo faremo di sicuro», ha detto Richard mercoledì. E ancora: «Fosse per me abbandonerei domani mattina i legami con Partner (la società israeliana che ha un accordo con Orange, ndr), ma non posso esporre Orange a dei rischi enormi sul piano legale o finanziario». Ne è nato un caso diplomatico, le reazioni in Israele sono furibonde, dal presidente della Repubblica ai dipendenti della azienda locale, che per protesta hanno coperto con una bandiera israeliana l'insegna arancione di Orange che svetta sul tetto del loro luogo di lavoro.
   La questione non è di puro calcolo di costi e ricavi, non si tratta di asettica politica industriale come i vertici di Orange tentano disperatamente di far credere da quando è partito lo scandalo. Il primo operatore telefonico francese, ex France Télécom, che ha come primo azionista lo Stato al 25 per cento, è sottoposto da settimane alle pressioni di alcuni gruppi che chiedono il boicottaggio dell'economia israeliana.
   A maggio la «Fédération internationale des ligues des droits de l'homme» (FIDH), il sindacato CGT e il «Comité catholique conte la faim et pour le développement» (CCFD-Terre solidaire) hanno pubblicato il dossier «Le relazioni pericolose di Orange nel territorio palestinese occupato», nel quale protestano perché Orange, tramite la società Partner, fa profitti in Cisgiordania, in particolare nelle zone in cui si sono insediati i coloni israeliani. Il dossier si conclude con l'appello allo Stato francese affinché intervenga presso i vertici di Orange per convincerli a interrompere il servizio in Cisgiordania. La campagna internazionale per il boicottaggio ha preso nuovo vigore di recente con la richiesta palestinese di espellere la nazionale di calcio di Israele dalla Fifa. È in questo contesto che sono arrivate le dichiarazioni al Cairo del capo di Orange.
   Per Stéphane Richard la presenza in Israele è una gran seccatura, ereditata dal gruppo cinese Hutchison che fino al 2000 era titolare del marchio Orange. Nel 1998 Hutchison aveva stretto un accordo di licenza con l'operatore israeliano Partner, che ha cominciato a usare il marchio Orange dietro il pagamento di un canone. Nel 2000, quando France Télécom ha comprato il marchio da Hutchison ed è diventata Orange, l'accordo con gli israeliani — valido fino al 2025 — è rimasto in piedi. L'operatore israeliano, di Orange, ha solo Il logo: il servizio, la manutenzione, i ripetitori, la strategia commerciale, sono interamente a carico della società Partner. Richard, al Cairo, ha sottolineato quanto gli costi quell'alleanza, e ha compiaciuto gli interlocutori arabi. Ma così ha tradito l'azienda israeliana che porta il marchio arancione, è apparso favorevole alla campagna di boicottaggio, e ha provocato l'ira di Israele.
   «Chiedo al governo francese di denunciare pubblicamente le frasi e le azioni infelici di una azienda in parte di proprietà dello Stato francese — ha detto il premier Benjamin Netanyahu —. E chiedo ai nostri amici di dire forte e chiaro che si oppongono a ogni tipo di boicottaggio contro lo Stato ebraico». II presidente della Repubblica israeliana Reuven Rivlin ieri sera si è detto stupito: «Con fastidio registro che non ho ancora sentito alcuna parola di condanna da parte delle autorità francesi contro il capo di Orange».
   La direzione di Orange ripete che la politica non c'entra, che semplicemente non è nella cultura aziendale abbandonare completamente il marchio nelle mani di altri. Ma le difficili relazioni tra Francia e Israele, tra Hollande e Netanyahu, toccano di nuovo un punto basso. L'ambasciatore a Parigi Yossi Gal ieri ha protestato ufficialmente con l'Eliseo per l'assenza di reazioni alle frasi di Richard.

(Corriere della Sera, 5 giugno 2015)


Il viaggio di Bruckner

"Il singhiozzo dell'uomo bianco sui cristiani uccisi". L'ex goscista e i suoi giorni in Iraq raccontati al Foglio.

di Giulio Meotti

ROMA - "Abbiamo incontrato una famiglia cristiana la cui bambina è stata rapita da un emiro per sposarla". Quando Pascal Bruckner è partito alla volta di Erbil, nel Kurdistan iracheno, non avrebbe mai immaginato che si sarebbe trovato di fronte uno spettacolo simile e che molti amici avrebbero deriso la sua impresa. Il celebre saggista e romanziere francese, diventato negli anni Settanta nouveau philosophe, ha voluto visitare le minoranze massacrate e disperse dallo Stato islamico come "gesto di solidarietà". "Sono stato parte di una piccola delegazione, tra cui Sylvain Tesson, venuto in Kurdistan per inaugurare Radio Salam", dice al Foglio Bruckner, autore del recente "Il fanatismo dell'apocalisse" (Guanda).
   "A Erbil ci sono decine di migliaia di profughi in diversi campi: cristiani, curdi, sunniti, yazidi, sciiti". Oltre al terrore, il sarcasmo. "Prima che partissi per Erbil, alcuni dei miei amici hanno ridacchiato". E' il singhiozzo dell'uomo bianco che continua? "La radicalizzazione dell'islam incontra la radicalizzazione della cecità che non vuole vedere niente, non sa nulla, non sente niente. Il cristianesimo è erroneamente identificato con la prepotenza occidentale, l'imperialismo, e l'islam con la rivolta degli oppressi. Il primo è un complice del male assoluto, il secondo è un eterno innocente. I cristiani non sono buone vittime. Gli ebrei furono espulsi dal mondo arabo e musulmano dopo la creazione di Israele. Oggi è il turno dei cristiani. Ciò che è iniziato con gli ebrei continua con cattolici, protestanti, intellettuali, atei, infedeli, musulmani liberali. E' un orologio implacabile. E' come se l'islam radicale volesse cancellare le due religioni monoteiste che lo hanno preceduto". Quando scoppiò la guerra a Gaza nell'estate del 2014, ci furono manifestazioni a sostegno dei palestinesi. Ma nessuna marcia per i cristiani. "E' una emiplegia stupefacente. Nessuno in occidente vuole combattere per i cristiani, soffriamo un complesso di imbarazzo. Così metà dei cristiani se ne è già andata dall'Iraq. L'Eliseo fatica a usare la parola 'cristiano' nei comunicati. L'Amministrazione Obama ha fatto la stessa cosa per le uccisioni al supermercato kosher. E' un pudore linguistico che uccide le vittime una seconda volta. La questione semantica è decisiva". Secondo Bruckner, ci sono molte ragioni per questo silenzio: "La mancanza di vitalità dell'occidente, la nostra civiltà che è finita, come al termine dell'Impero romano. E poi la sinistra che ha perso tutto: il comunismo, il Terzo mondo, la classe operaia in Europa, e le resta soltanto l'islam, messianico come il comunismo, e che costituisce un miraggio, la promessa degli oppressi. Per la gauche, l'islam è il futuro". Bruckner è scettico sull'avvenire di questa guerra: "Una guerra di cui l'attacco a Charlie Hebdo è un capitolo, come Copenaghen e Bruxelles. E' una guerra a bassa intensità che possiamo perdere se non abbiamo le forze. Tutti i mezzi sono buoni: intimidazioni, omicidi, censura e gli utili idioti dell'estrema sinistra". Una battaglia fra la civiltà della vita e quella della morte. "I jihadisti dicono 'noi amiamo la morte così come voi amate la vita', lo stesso grido dei franchisti 'viva la muerte'. Però allora rispondevano 'no pasaran', mentre oggi si resta in silenzio. E' un fascismo islamico cui dobbiamo opporre una nuova resistenza. Ci vorranno decenni per vedere la fine di questa guerra. Ma prima dobbiamo ammettere che siamo in guerra".

(Il Foglio, 5 giugno 2015)


Tanta fisica, poco cuore. I cervelloni non capirono il pericolo nazista

di Luca Negri

 
Max Planck, Werner Heisenberg, menti "distratte"
La fin troppo citata affermazione di Benito Mussolini sul cinema come «arma più forte dello Stato» aveva un certo fondo di verità. Basti pensare a come il mondo di Hollywood colonizzò l'immaginario occidentale e in tal modo vinse la guerra del consenso prima ancora di quella degli eserciti. È però indubbio, nei due conflitti mondiali del Novecento, il ruolo svolto dai materiali, dall'industria, dalla tecnica e da ciò che ne è all'origine: la scienza. La chimica servi infatti per produrre i gas asfissianti che mieterono vittime nelle trincee del '14-18 e poi nei campi di sterminio, mentre la fisica diede il colpo di grazia al Giappone con le bombe atomiche statunitensi. Il traguardo a stelle e strisce verso i micidiali ordigni con plutonio ed uranio fu agevolato dall'atteggiamento poco lungimirante della Germania hitleriana, la quale cercò di asservire la scienza patria e volle l'epurazione delle intelligenze ebraiche.
   L'affascinante storia del rapporto fra i pionieri della fisica quantistica e il regime della svastica è raccontata nel saggio Al servizio del Reich. Come la fisica vendette l'anima a Hitler di Philip Ball (Einaudi, pagg. 290, euro 32, traduzione di Daniele A. Gewurz). Nell'ottica della mobilitazione totale, il Terzo Reich cercò di mettere la scienza al servizio della gloria nazionale e dell'efficienza bellica. In un primo momento quasi tutti gli scienziati acconsentirono, in virtù di un'incondizionata fedeltà di tradizione prussiana alla Stato. I problemi sorsero però quando il Nazismo decise di fare a meno degli studiosi di origine ebraica, i quali non erano pochi. Inoltre avallò la pretesa di far nascere una fisica di pura origine razziale, una «scienza germanica» ben lontana dalle astrazioni matematiche e dai rovelli relativistici di Albert Einstein (il nemico pubblico numero uno del Reich, perché israelita e per giunta internazionalista e pacifista) e dei suoi seguaci. La vergogna denunciata nel saggio di Philip Ball è che più di uno scienziato, qualche premio Nobel compreso, non protestò con fermezza contro la politica razzista e contro il controllo statale della libera ricerca. Molti studiosi preferirono far finta di niente in attesa di tempi migliori, nell'illusione di riuscire a preservare qualche spazio di autonomia. Quando il Terzo Reich si accorse dell'importanza degli studi sull'atomo, era ormai troppo tardi: scienziati di origine ebraica espatriati come Einstein e Leo Szilàrd e un emigrato perché sposato con una ebrea, come l'italiano Enrico Fermi, avevano messo l'atomica nelle mani degli Usa. E l'atomica aveva messo nelle stesse mani la supremazia mondiale.

(il Giornale, 5 giugno 2015)


Lieder in Sinagoga - Musica di tradizione klezmer

CASALE MONFERRATO |- Domenica 31 maggio alle ore 21, introdotta dal vicepresidente della Comunità Ebraica casalese Elio Carmi e dal direttore artistico dell'iniziativa Giulio Castagnoli, ha avuto inizio la quarta rassegna "Suono e Segno - Musica in Sinagoga", curata dalla Comunità in collaborazione con i Compositori Associati.
Il primo appuntamento ha visto la partecipazione del tenore Michele Ravera, della violista Flavia Giordanengo, e del pianista Andrea Stefenell in un programma cameristico dal carattere altamente spirituale.
Dopo i Tre Lieder di Adolf Busch che radunavano il trio in una tenue musicalità ispirata alla scuola di Hugo Wolf, sono stati affrontati i grandi della tradizione tedesca, con le due Arie in una trascrizione per viola e pianoforte (cosa non rara nell'Ottocento) dall'Elias, oratorio ebraico di Felix Mendelssohn, in cui il pubblico ha potuto apprezzare la profonda voce della viola di Flavia Giordanengo. Il Preludio religioso, uno dei brani pianistici più intimi di Gioachino Rossini, è stato magicamente interpretato da Andrea Stefenell, ispirato dall'aura mistica della nostra Sinagoga. Il caldo timbro vocale del tenore Michele Ravera è emerso nell'attenta interpretazione di alcune tra le più elevate pagine di Johannes Brahms, cioè due dei quattro Lieder su testo sacro op. 121, con testi da San Paolo e dall'Ecclesiaste. Infine, il trio si è raccolto per commuovere il folto pubblico accorso in sala con i due Lieder di Brahms op. 91 grondanti sapere, dolcezza e umanità. Gestillte Sensucht (Nostalgia placata) è tratto da una poesia di Friedrich Rückert che narra di una dorata sera dai dolci mormorii, in cui si fa strada una nostalgia che giunge a destare desideri mai sopiti. Geistliches Wiegenlied (Ninna-nanna spirituale) è una lirica di Emanuel Geibel (da Lope de Vega), che dà luogo a un Andante con moto in cui il pianoforte e la viola cullano dolcemente il cantante che intona una tenera ninna-nanna basata sovra un antica nenia sacra cinquecentesca.
Il pubblico ha mostrato di apprezzare un programma tanto colto e raffinato, ripetutamente richiamando gli interpreti, che hanno regalato come bis l'esecuzione dell'ultimo brano.

(Il Monferrato, 5 giugno 2015)


Ocse: l'economia israeliana in crescita del 3,5 per cento nel 2015-2016

ROMA - L'economia israeliana crescerà del 3,5 per cento nel 2015-2016 dopo il leggero rallentamento del 2014. E' quanto emerge dalle ultime previsioni dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Gli economisti sottolineano che il basso prezzo della benzina combinato con i tagli al tasso di interesse e l'incremento del salario minimo dei lavoratori dipendenti saranno i principali elementi capaci di incoraggiare la domanda interna; a questo si aggiunge il graduale miglioramento dell'economia globale che si presuppone sarà in grado di sostenere l'export israeliano. Nel report viene evidenziato come Israele debba proseguire nella sua politica di riduzione del debito così da poter avere un maggior margine per la manovra fiscale, senza operare tagli alla spesa.

(Agenzia Nova, 4 giugno 2015)


Aida Touma-Suliman, della Lista araba Unita, ora a capo di una Commissione permanente del Parlamento israeliano.
Per la prima volta un'araba israeliana a capo di un comitato della Knesset

I membri della commissione della Knesset sullo Stato delle Donne hanno eletto all'unanimità una deputata araba israeliana alla presidenza. Si tratta di Aida Touma-Suliman della 'Lista araba unita', secondo partito di opposizione dopo i laburisti di Isaac Herzog. Secondo il portavoce della Knesset, citato dai media, si tratta della prima volta di una deputata proveniente dai partiti arabi a capo di una commissione permanente della Knesset.

(ANSA, 4 giugno 2015)


L'Isis prepara la quarta guerra di Gaza. Hamas sempre più in difficoltà.

Fonti: "Dalla Siria armi turche nella Striscia"

Umberto De Giovannangeli

L'assordante silenzio mediatico che da mesi avvolge Gaza è squarciato dal fragore dei razzi sparati contro Israele e dal suono lancinante delle sirene d'allarme tornate in azione nelle città frontaliere dello Stato ebraico. Razzi palestinesi e raid aerei di rappresaglia attuati dai caccia con la Stella di David preannunciano la quarta guerra di Gaza. Stavolta, però, la "partita" è a tre: a Israele e Hamas si aggiunge, infatti, il terzo, più inquietante protagonista: lo Stato islamico.
   L'Isis aveva minacciato di colpire Israele dopo che Hamas ha arrestato nelle scorse settimane più di 100 sostenitori dello Stato islamico nella Striscia di Gaza e ucciso un leader salafita locale. Nei giorni scorsi, il sito israeliano "Debka" ha denunciato la presenza dei jihadisti dell'Isis nell'enclave palestinese, riferendo di posti di controllo e severe misure di sicurezza adottate da Hamas soprattutto a seguito della rivendicazione da parte dell'Isis dell'omicidio di un proprio esponente di spicco, Sabah Siam.
   Se Hamas non smette di dare la caccia ai sostenitori dell'Isis - promette un esponente a Gaza dell'organizzazione jihadista Ansar Bait al-Maqdis, che rappresenta l'Isis nella penisola del Sinai - i miliziani non solo continueranno a prendere di mira Hamas, ma violeranno la tregua in vigore con Israele, con il lancio di nuovi razzi contro lo Stato ebraico. La minaccia è stata accompagnata dalla consegna al sito americano WND (vicino alla destra Usa) del video di rivendicazione del lancio di un razzo contro Israele, il 26 maggio scorso, dalla Striscia di Gaza. Un attacco subito condannato da Hamas dalle colonne della stampa israeliana, perché "contrario agli interessi delle fazioni palestinesi della Striscia di Gaza e contro i nostri interessi nazionali". Attacchi che non si sono fermatati.
   Il gruppo salafita delle "Brigate Omar" ha lanciato nella notte due razzi contro il Sud di Israele, in un'area abitata da 140 mila persone, e la risposta è arrivata con raid aerei nella notte contro tre "campi di addestramento di terroristi" come afferma il portavoce militare Peter Lerner. Le "Brigate Omar" avevano rivendicato la scorsa settimana il lancio di un razzo Grad - a lunga gittata - contro la città di Ashdod, innescando anche allora la risposta israeliana.
   Intitolate a un ex collaboratore di Abu Musab Al-Zarqawi, il fondatore di Al Qaeda in Iraq a cui l'Isis di ispira, le "Brigate Omar" affermano di aderire allo "Stato Islamico" di Abu Bakr al-Baghdadi e di voler "continuare la Jihad contro gli ebrei perché nessuno può fermarci".
   Se Ansar Bait al-Maqdis rappresenta l'Isis in Egitto, a Gaza è attiva una sua cellula, nota come i "Sostenitori dello Stato islamico di Gerusalemme". Questo gruppo è nato nel 2014 da contatti tra i salafiti che risiedono a Gaza e i jihadisti della penisola del Sinai.
   L'organizzazione ha presentato una lista di richieste ad Hamas: il rilascio di tutti i "mujahedeen, predicatori, studenti, detenuti e ostaggi" alleati all'Isis; la fine di quella che è stata definita "l'istigazione attraverso i media" e "la guerra di menzogne e distorsioni" contro i sostenitori dell'Isis; il riconoscimento ai salafiti dei loro "diritti legittimi", incluso quello di portare armi e di impegnarsi in campagne di sostegno umanitario e di supporto alla causa del popolo palestinese.
   Già il 28 maggio scorso, secondo il sito "Debka", il braccio dell'Isis nella penisola del Sinai ha minacciato di colpire "nei prossimi giorni" il porto di Eilat, nel Sud di Israele, in concomitanza con un attacco da parte della branca dell'Isis presente a Gaza contro il braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedin Al-Qassam, per così prendere il controllo di tutta la Striscia.
   Miliziani dello Stato islamico sono stati visti per la prima volta nella Striscia di Gaza nella scorsa settimana. A riferirlo, sempre a "Debka", sono fonti di "Tsahal" (l'esercito israeliano, secondo cui il gruppo islamista Ansar al Dawa al-Islamia, ribattezzato i "Sostenitori dello Stato islamico di Gerusalemme", che avrebbe una propria base al confine tra Gaza e Israele). Tanto che le autorità israeliane hanno lanciato un'esercitazione militare per respingere eventuali incursioni. Fonti militari israeliane, egiziane e dell'organizzazione palestinese Hamas hanno riferito a "Debka" diversi episodi che confermerebbero la presenza dell'Isis a Gaza; innanzitutto la creazione di posti di controllo in tutta l'enclave palestinese, compresa Gaza, da parte delle forze di sicurezza di Hamas, dopo l'omicidio di un alto esponente di Hamas, Sabah Siam, ucciso da un cinque uomini armati. L'omicidio è stato rivendicato dall'Isis, che ha ammonito Hamas a "mettere fine alla sua guerra contro la religione a Gaza, altrimenti ne pagherai le conseguenze".
   E queste "conseguenze", secondo fonti indipendenti di HuffPost a Gaza, sarebbero fatte pagare con armi turche. Perché questa è l'altra inquietante novità delle ultime settimane. Can Dundar, il direttore del quotidiano turco "Cumhuriyet", aveva scoperto che il governo di Recep Tayyip Erdogan forniva armi ed aiuti allo Stato islamico, ed aveva deciso di rivelare la notizia: per questo è stato arrestato, e il pubblico ministero ha chiesto per lui una condanna all'ergastolo.
   Tutto era iniziato lo scorso venerdì, quando il giornalista del noto quotidiano di opposizione al regime aveva deciso di pubblicare delle fotografie riservate, che testimoniavano in maniera incontrovertibile il coinvolgimento della Turchia tra quei Paesi che forniscono aiuti di tipo militare agli jihadisti dello Stato islamico. Le armi - bombe e munizioni, il tutto nascosto dentro carichi di aiuti umanitari - venivano inviate direttamente in Siria mediante dei camion scortati dai servizi segreti del Mit, ed erano indirizzate proprio ai miliziani dell'Isis. Armi di fabbricazione russa, le stesse presenti a Gaza, secondo quanto riferiscono le fonti di Huffington Post. Una parte di quelle armi, insomma, sarebbe finita nella Striscia. Pronta per scatenare la quarta guerra di Gaza.

(L'Huffington Post, 4 giugno 2015)


Tel Aviv, la città più smart

di Rossella Tercatin

 
Il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai con il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e il Presidente della Commissione Expo Ruggero Gabbai
Tecnologia, innovazione e rapporto sempre più stretto con i propri cittadini. Tel Aviv è una delle realtà capofila nella rivoluzione del concetto di città e lo dimostra il premio recentemente ottenuto a Barcellona come Smart city dell'anno. Negli ultimi due anni è stata avviata la piattaforma Digi-Tel, un progetto che favorisce la collaborazioni tra residenti, aziende e organizzazioni del terziario attraverso tecnologie all'avanguardia che consentono l'apprendimento, la creatività e la condivisione. Per dare un assaggio al pubblico italiano di cosa significhi essere una delle realtà più all'avanguardia del mondo, il Padiglione Israele ad Expo ha organizzato oggi un incontro dedicato a Tel Aviv e in particolare al suo volto da capitale del high tech, un appuntamento che vedrà tra i suoi ospiti il sindaco della città israeliana Ron Huldai (protagonista questo mese di un'intervista su Italia Ebraica a firma di Rossella Tercatin). "Siamo orgogliosi di essere qui a Padiglione Israele a Expo 2015 - ha spiegato Hila Oren, CEO of Tel Aviv Global, in apertura dell'incontro, aperto dai saluti dell'ambasciatore Naor Gilon e dell'assessore allo Sviluppo economico del Comune di Milano Cristina Tajani e in cui sono presenti alcuni delle più innovative start up israeliane e italiane - Negli anni passati Tel Aviv è riuscita a diventare una delle smart city di riferimento del pianeta grazie a innovazione, coinvolgimento della cittadinanza e un modo di pensare 'out of the box'. Oggi apriamo la nostra Smart City al mondo per condividere la nostra storia e supportare altre città nel loro percorso". Un percorso che coinvolge anche Milano, città gemellata con Tel Aviv e i cui sindaci - Huldai e Giuliano Pisapia - si sono incontrati nelle scorse ore per proseguire una cooperazione che ha già dato molti frutti.
  Arte, modernità, vita a ritmo di futuro. Manca forse solo il mare a rendere perfetta la simbiosi tra Milano e Tel Aviv. In Italia ai primi di giugno per l'annuale gala dell'Associazione Amici del Museo di Tel Aviv, ma anche per visitare l'EXPO, il sindaco Ron Huldai (in alto nella foto con il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e il Presidente della Commissione Expo Ruggero Gabbai) racconta cosa significa guidare la metropoli dell'high?tech e dei grattacieli nonché il legame speciale della sua città con l'Italia, e soprattutto con Milano.

 Ron Huldai, cosa vuol dire per lei essere sindaco di Tel Aviv?
  Tel Aviv-Yaffo è una città dalla superficie limitata, solo 52 chilometri quadrati, eppure la sua importanza supera decisamente le sue dimensioni.
  È localizzata nella parte centrale di Israele, ed è il cuore della finanza e della cultura. Il 50 per cento di coloro che lavorano nel sistema bancario del paese lo fanno qui, così come il 70 per cento di coloro che assistono a spettacoli teatrali. Analogamente, il 70 per cento dei viaggiatori nel sistema ferroviario del paese, partono o arrivano a Tel Aviv-Yaffo. Il mio ruolo è quindi quello di trovare il giusto equilibrio tra le necessità e i desideri dei pendolari, e quelli dei residenti. Quando cammino per la strada e incontro la gente, solo uno su cinque è un cittadino. E penso che stiamo facendo un buon lavoro nel trovare questo equilibrio. Un altro dei miei principali compiti come sindaco, forse il più importante, ha a che fare con i valori della città. Tel Aviv-Yaffo è il centro del pluralismo e della tolleranza, dell'arte e della cultura, del pensiero razionale e della ricerca. Lo stato di Israele non ha ancora preso una decisione su quale tipo di paese vuole diventare, una società conservatrice o una più moderna. In questo dibattito, noi giochiamo un ruolo cruciale, da bastione della democrazia. Qui dedichiamo fondi e promuoviamo attivamente programmi per fare sì che tutte le minoranze si sentano a casa: abbiamo la più alta percentuale di famiglie con un solo genitore, la più numerosa comunità LGBT, i più ricchi e i più poveri, gli ultra-ortodossi nella città più laica, arabi ed ebrei, immigrati regolari e irregolari. Tutti sono i benvenuti a Tel Aviv-Yaffo.

 Com'è cambiata la città da quando è diventato sindaco nel 1998?
  Quando sono stato eletto, Tel Aviv-Yaffo era sull'orlo della bancarotta e siamo riusciti a creare una vera e propria inversione di marcia. Negli ultimi 12 anni abbiamo raggiunto il pareggio di bilancio e l'agenzia di rating Standard and Poor's valuta la nostra situazione finanziaria con una Tripla A. Ogni anno investiamo di più in infrastrutture e ci impegniamo a migliorare gli spazi pubblici. Un focus speciale è riservato a una ventina di complessi storici o culturali, che sono stati costruiti o rinnovati per il centenario della città nel 2009 e hanno contribuito ad affermarne la fama di imperdibile destinazione turistica e culturale nel panorama globale. Tra queste vale la pena di menzionare il Teatro Habima, la Cinemateca, il Museo dell'Arte di Tel Aviv, l'antico porto di Yaffo, la vecchia Stazione. Uno dei più evidenti segni di questo cambiamento è il ritorno in città della gente, e specialmente dei giovani. Dopo molti decenni di immigrazione con segno negativo, oggi il numero dei nostri residenti supera ogni record. Gli asili nido municipali sono raddoppiati e costruiamo continuamente nuove scuole. E probabilmente la cosa più incredibile è il mutamento demografico: in 15 anni gli abitanti dai 18 ai 35 anni sono aumentati del 100 per cento, con un terzo della popolazione che si colloca in questa fascia, forse la più alta percentuale di qualsiasi città occidentale.

 Tel Aviv però è stata al centro delle proteste per il caro-alloggi e più in generale per l'elevato costo della
  vita.
  Caro-alloggi e costo della vita sono tra i più pressanti problemi che oggi ci troviamo ad affrontare. Il prezzo delle abitazioni in tutta Israele è estremamente elevato e poiché Tel Aviv-Yaffo è al centro del paese, qua la situazione è più grave che altrove. Il Comune si sta muovendo con molte misure per affrontare la questione, tra cui progetti per appartamenti pubblici sussidiati, costruzione di dormitori per gli studenti, assistenza legale per i giovani affittuari, sussidi per chi è disponibile a vivere nelle aree più disagiate. Ma questa è solo la punta dell'iceberg. Solo il governo di Israele può davvero avere un impatto sul mercato delle case, assumendosi la responsabilità di fornire abitazioni di qualità a prezzi accettabili per tutti. La soluzione va trovata a livello nazionale.

 Lei ha affermato più volte che la cultura e gli eventi italiani hanno giocato un ruolo importante nello
  sviluppo del panorama culturale di Tel Aviv.
  L'Ambasciata e l'Istituto di Cultura italiani sono stati partner eccezionali della nostra offerta culturale e hanno dato un gigantesco contributo all'abbondanza delle nostre proposte di teatro, opera, arte e danza. Da questo punto di vista, penso che il più memorabile momento del mio mandato sia stato la performance della Scala di Milano al Parco Yarkon per il centenario del 2009: il Requiem di Giuseppe Verdi di fronte a decine di migliaia di persone all'aria aperta, una eccezionale manifestazione dell'amicizia del popolo italiano, e in particolare della nostra città sorella, Milano. Sono stato a Milano molte volte e considero il sindaco Giuliano Pisapia un grande amico di Israele e dei valori social-democratici che mi sono cari. Sono felice di avere l'occasione di tornare in città nelle prossime settimane per l'evento degli Amici del Museo dell'Arte di Tel Aviv, che ci aiutano a mantenere la nostra meravigliosa istituzione.

(moked, 4 giugno 2015)


«1492-2014. La Porta del Mediterraneo, dalla Sicilia a Gerusalemme»

7 e 8 giugno mostre e convegni a Palermo

Un viaggio attraverso i meandri della storia millenaria degli ebrei, per ripercorrere duemila anni, dalle origini dell'antigiudaismo fino alla contemporaneità, passando per l'inquisizione romana del XVI secolo e l'emancipazione del XIX secolo: è questo il senso della due giorni dal titolo "1492 - 2014. La Porta del Mediterraneo, dalla Sicilia a Gerusalemme" che si terrà a Palermo tra domenica e lunedì , 7 e 8 giugno prossimi.
   L'evento, che prevede una mostra e due convegni, è stato organizzato da "Suggestioni Mediterranee", tra le realtà associative siciliane più attive sul versante della rievocazione del passato e nello studio delle tradizioni dei popoli accomunati dall'appartenenza al Mar Mediterraneo, in partnership con l'associazione storico-culturale "Elisabeth de Rothschild".
   La manifestazione, che ha ricevuto anche il patrocinio dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dell'Ufficio Culturale dell'Ambasciata di Israele, è articolata in due momenti: l'inaugurazione della mostra dal titolo "Orgoglio e pregiudizio: duemila anni di storia ebraica da Gerusalemme alla Sicilia", che si terrà domenica 7 giugno alle 11:00 a Palazzo Alliata di Villafranca in piazza Bologni e due convegni dedicati alla presenza degli ebrei in Sicilia e all'identità dei popoli, che si svolgeranno entrambi l'indomani nella stessa sede, per tutto il corso della giornata.
   L'esposizione rimarrà aperta al pubblico fino al 28 giugno, tutti i giorni eccetto il mercoledì dalle 9:30 alle 18:30; l'ingresso ha un costo di 3 euro.

(La Gazzetta palermitana, 4 giugno 2015)


Un ufficiale israeliano: l'esercito di Damasco è nello stato peggiore dall'inizio del conflitto

GERUSALEMME - L'esercito siriano si trova nella sua situazione peggiore dall'inizio della guerra civile in Siria: questa è l'analisi di alto funzionario dello Stato maggiore delle forze di difesa israeliane. Secondo il militare, l'efficacia delle forze del regime è stata seriamente compromessa e il livello di preparazione dell'esercito siriano sulla alture del Golan non è all'altezza. "La situazione è molto complessa e la Siria è nella peggiore situazione sin dall'inizio dei combattimenti", ha detto il militare al quotidiano "Haaretz". Almeno 6-8 mila combattenti di Hezbollah sono stati dispiegati in Siria. Tutto questo ha creato tensione nei confronti dell'organizzazione sciita, definita "difensore del Libano", ha spiegato l'ufficiale. Circa 700 combattenti di Hezbollah sono stati uccisi in Siria, almeno 100 solo negli ultimi due settimane. Gli ufficiali militari ritengono che il numero potrebbe essere molto più alto, mille persone uccise, il che significa che circa il 3 per cento delle forze di Hezbollah sono morte nel conflitto siriano.

(Agenzia Nova, 4 giugno 2015)


La coltivazione della vite risale a 5000 anni fa

Oggi enoteche e wine bar vivacizzano le serate

di Roberto Fiori

 
Un raccoglitore di grappoli in una delle vigne del Kibbutz Tzuba
Era il 1882 quando il barone Edmond de Rothschild, proprietario in Francia del celebre Château Lafite, decise di raggiungere l'allora Palestina e di fondare la prima cantina moderna del territorio. Scelse una zona a sud di Haifa, Zichron Ya'akov, e le diede il nome di Carmel, che ancora oggi è l'azienda vitivinicola più grande di tutta Israele, con una produzione di 14 milioni di bottiglie. Sostenitore tra i più attivi del sionismo, il barone acquistò terre e finanziò iniziative per far diventare la Terra Santa il cuore produttivo dei vini Kosher per gli ebrei di tutto il mondo. Nel 1891, per completare il suo sogno, fece nascere anche una fabbrica di bottiglie a Nahsholim, sulla costa del Mediterraneo, che però ebbe vita breve.

 La storia
  Ma è proprio partendo da questo villaggio quasi ai piedi del Monte Carmelo, dove il museo Mizgaga conserva gelosamente l'unica bottiglia rimasta intatta di quell'epoca pioneristica, che potrebbe iniziare un viaggio alla scoperta dei territori del vino israeliano. Un itinerario che riserva molte sorprese, intrecciando le antiche testimonianze sul vino presenti nei testi biblici e la volontà di creare un moderno circuito turistico che dalle alture del Golan e dall'Alta Galilea scende fino alle aride terre del deserto del Negev. Pochi altri posti al mondo possono vantare radici così profonde: in Israele la coltivazione della vite risale a 5000 anni fa. La Torah narra che Noè, dopo la salvezza dal diluvio universale, piantò vigneti e preparò del vino che bevve fino a ubriacarsi. Un bassorilievo del 2700 a.C., custodito a Londra nel British Museum, raffigura un esercito con sfondo di viti colme di grappoli.
Ma al di là dei riferimenti storici e religiosi, negli ultimi anni la cultura del vino è letteralmente fiorita in Israele, portandosi dietro una miriade di nuove cantine (oggi sono quasi 400) e sperimentazioni in ogni regione, ma anche di enoteche e wine bar che vivacizzano le serate nei quartieri trendy di Tel Aviv e Gerusalemme. A dare il via a questa rinascita, nel 1983, è stata la cantina Golan Heights, seguita poi da aziende piccole e grandi che hanno innalzato la qualità, spesso influenzate dallo stile di enologi del Nuovo Mondo.

 I vigneti
  I vigneti piantati sulle alture vulcaniche del Golan, al confine con la Siria, offrono alcuni tra i vini migliori, come il Cabernet Sauvignon di Château Golan o il «Caesarea» di Assaf Winery, un Shiraz dedicato al nonno agente segreto del Mossad. E c'è anche chi, come Kidmat Zvu Babi della Ein Nashut Winery, lascia riposare le sue bottiglie in un vecchio bunker siriano. Qualità al top e panorama che abbraccia il lago di Tiberiade anche nell'Alta Galilea, dove una cantina come Lueria organizza tour tra i suoi spettacolari vigneti biologici e Ramot Naftali ha impiantato coraggiosamente Barbera e Nebbiolo. Ma dove potrete imbattervi anche in Rimon Winery, l'unica cantina al mondo che produce vino dai melograni.
Altre regioni vinicole importanti sono quelle della Bassa Galilea e le montagne Shomron - dove sorgono aziende importanti come Tishbi e Recanati ma anche la boutique winery Tulip che contribuisce al progetto della comunità per disabili Kfar Tikva -, le colline della Giudea - dove il parmigiano Sandro Pellegrini, cuoco e vignaiolo, ha fondato il ristorante e cantina La Terra Promessa - e infine il deserto del Negev. Questo territorio semi arido del sud è stato conquistato a forza di volontà e tecnologia e sta riservando le migliori sorprese anche in campo vitivinicolo. «Il futuro arriverà dal deserto» dice Ruth Ben Israel, sommelier che oggi organizza viaggi per gli israeliani nelle terre del vino italiane, ma sogna di fare il contrario. Il primo passo, già in atto, è concentrarsi sui vitigni mediterranei. Poi c'è il sogno di tutti: risalire alle varietà antiche, scoprire da quali uve era prodotto il vino della Bibbia. Un mistero che forse le terre della Cisgiordania, dove l'uva è coltivata da secoli solo come frutto e non ha subìto grandi evoluzioni, un giorno sveleranno.

(La Stampa, 4 giugno 2015)


Storie di sommersi, salvati e delatori. Le spie naziste? Portieri, guide turistiche e perfino mogli

Uno studio della Comunità ebraica di Roma ha ricostruito una lista nera di chi ha venduto gli ebrei a nazisti e fascisti: la moglie che segnalò il marito, le guide del Colosseo, ma anche vicini di casa, portieri, commercianti. "Sul totale delle deportazioni avvenute nella Capitale dopo il rastrellamento del 16 ottobre 1943, la metà è di responsabilità italiana".

di Claudia Guarino

I Sommersi e i salvati. Come nell'opera di Primo Levi. Sommersi come gli ebrei deportati, e per la maggior parte morti, nei campi di concentramento di tutta Europa. O come i delatori, anch'essi in parte sommersi dalla giustizia post-bellica, quando sono stati processati per collaborazionismo. Ci sono italiani che hanno consegnato, molto spesso venduto, intere famiglie di ebrei agli ufficiali nazisti. Di queste persone adesso c'è una lista. La lista nera dei delatori italiani. Ma poi ci sono anche i salvati. C'è chi ce l'ha fatta. Ci sono gli ebrei che sono riusciti a scampare alle persecuzioni dei tedeschi. E hanno potuto farlo anche grazie a altri italiani. Qualcuno li ha protetti e nascosti, anche a costo della sua vita. Sommersi e salvati quindi. Perché la verità ha sempre più di una sfaccettatura. Tutto questo verrà presto raccontato in un libro, uscirà in autunno e raccoglierà i risultati di più di due anni di ricerche.

 La ricerca e il libro
  L'indagine "Dopo il 16 ottobre 1943? è uno studio che si basa su documenti, testimonianze e libri. Mira, appunto, a raccontare "i sommersi e i salvati", con storie e numeri, a partire dal rastrellamento del ghetto di Roma avvenuto proprio il 16 ottobre 1943. Quanti erano, chi erano e cosa hanno fatto coloro che aiutarono fascisti e nazisti nelle operazioni di rastrellamento, ma anche chi coprì gli ebrei che volevano sfuggire alle deportazioni. L'inchiesta è stata condotta da Silvia Haia Antonucci, responsabile dell'Archivio della Comunità ebraica romana, da Claudio Procaccia, direttore del Dipartimento Cultura della Comunità, dallo storico Amedeo Osti Guerrazzi e del demografo Daniele Spizzichino. L'iniziativa è nata grazie alla proposta del presidente della Fondazione Museo della Shoah, Leone Paserman, che l'ha anche finanziata. E si è avvalsa dei documenti dell'Archivio Storico della Comunità romana e del Libro della memoria di Liliana Picciotti.

 Storie di sommersi e di delatori
  Amedeo Osti Guerrazzi è colui che ha studiato le carte e ha compilato la lista dei delatori, che per evitare una possibile caccia all'uomo postdatata, rimane al momento top secret. Lo storico ha studiato gli atti processuali del Dopoguerra, soprattutto quelli relativi ai processi dei collaborazionisti. Si è poi basato su articoli della stampa dell'epoca: "A Roma c'erano 73 uomini della Gestapo - spiega - E, visto il numero, si affidavano ai collaborazionisti italiani. Questi per la maggior parte erano persone che abitavano nel Ghetto di Roma e che conoscevano personalmente gli ebrei che andavano a denunciare".
  Tra queste storie c'è quella di una signora che fa l'interprete in Via Tasso, dove si trovano le sedi della prigione e del comando della polizia tedesca. Sono passate poche settimane dal rastrellamento nel ghetto del 16 ottobre 1943 e suo marito è ebreo: nell'epoca dei grandi sospetti e della grande paura decide lei di denunciarlo. L'uomo viene deportato ad Auschwitz. Non tornerà più. Ma la delazione, per paradosso, si rivolta contro la stessa interprete: viene denunciata a sua volta, perché, tramite la segnalazione, aveva rivelato di essere sposata con un ebreo. "Gli ebrei - sottolinea Guerrazzi - venivano spesso denunciati da vicini di casa, da portieri, ma anche da familiari e negozianti. Anche da altri ebrei".
  Ma non ci sono solo le spie, ma anche i cosiddetti "mediatori". Ci sono italiani cioè, che si fingono intermediari, raccontano agli ebrei di conoscere soldati della Gestapo e dicono di poterli aiutare: "Tu mi dai 500 lire e io chiedo ai tedeschi informazioni sui tuoi parenti deportati dopo la razzìa del 16 ottobre". E a quel punto, scatta la denuncia. Lo stesso inganno - abietto - veniva fatto con gli ebrei che vendevano oro agli italiani. Sono delatori perfino le guide turistiche. Alcuni ebrei lavorano come venditori di cartoline e gadget a quei pochi turisti che ci sono a Roma (e sono più che altro tedeschi): quattro di loro, il 6 gennaio 1944, vengono denunciati al Colosseo da un italiano che lavora come guida. Arrestati e deportati, non sopravvive nessuno. Secondo Guerrazzi sul totale delle deportazioni che sono avvenute a Roma dopo il 16 ottobre "la metà sono di responsabilità italiana. Derivano cioè, dall'operato dei delatori".

 Storie di salvati
  Silvia Haia Antonucci racconta invece le storie dei salvati: "Ci sono stati anche tanti italiani che hanno messo a repentaglio la loro vita salvando gli ebrei. Sono normali cittadini, ma anche istituzioni religiose". In questo secondo caso la faccenda si fa complicata, perché monasteri e Chiese chiedevano una retta per accogliere famiglie in pericolo. C'è chi pretendeva la conversione e chi chiedeva cifre troppo alte. Alcuni volevano che i bambini baciassero il crocifisso. "La scelta dei conventi era molto personale, dipendeva da struttura a struttura" afferma Antonucci.
  Quello che emerge è che non c'era mai un unico rifugio, le famiglie si spostavano continuamente. Ci sono casi di persone che passavano da monasteri a scuole, fino a essere protetti nelle abitazioni di cittadini che non volevano niente in cambio. Alcuni si nascondevano nelle strutture sanitarie. Una storia interessante è quella di un caso inverso: ci sono ebrei che hanno nascosto dei soldati che avevano disertato, come nel caso di due ufficiali italiani che si erano nascosti nelle grotte.

 Ricostruire la memoria
  "Abbiamo voluto raccontare il dopo 16 ottobre" dice Claudio Procaccia. "Abbiamo - continua - studiato documenti, testimonianze, libri e archivi. Abbiamo analizzato carte e sentito persone, i figli di quegli ebrei che hanno vissuto il ghetto di Roma all'epoca della guerra". I deportati, prima del 16 ottobre, "erano soprattutto donne e bambini. Gli uomini scappavano perché avevano capito che i rastrellamenti riguardavano soprattutto persone in grado di lavorare a lungo e duramente. Dopo il 16 ottobre invece, venivano catturati soprattutto gli uomini, perché uscivano dai nascondigli a cercare provviste. Mentre donne e bambini rimanevano al sicuro". Procaccia aggiunge un dato: "L'85 per cento di coloro che facevano parte della comunità ebraica di Roma si è salvato. Vuol dire che, nonostante le delazioni, il territorio rispose positivamente". Più salvati che sommersi alla fine quindi. "Abbiamo voluto ricostruire la memoria" conclude Procaccia, perché, come diceva Primo Levi, "la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace".

(il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2015)


Gli architetti (europei) del progetto Eurabia

Uno stralcio di "Comprendere Eurabia" (Lindau, pagg. 230, euro 24; in libreria da domani) di Bat Ye'or. La studiosa, che ha dedicato molti saggi dedicati al rapporto tra islam e cristianità, tra cui il celebre Eurabia (Lindau), in questa conferenza sviscera in forma sintetica i suoi temi abituali. Eurabia, l'islamizzazione dell'Europa, non è solo un effetto dell'immigrazione senza regole ma un progetto politico portato avanti da Ue e Lega Araba attraverso una rete di istituzioni e comitati di cui l'opinione pubblica è poco informata.

di Bat Ye'or

La gente ritiene erroneamente che «Eurabia» si riferisca semplicemente a un vasto movimento migratorio di matrice islamica che punta all'Europa. In realtà Eurabia si riferisce a una totale trasformazione e al rimodellamento di un intero continente. Questa trasformazione coinvolge la sua demografia, la sua percezione della propria storia e della propria cultura, della propria civiltà, delle proprie leggi e istituzioni, della propria politica e dell'insieme di quegli elementi che modellano il suo presente e determineranno il suo futuro. Per capire questo fenomeno dobbiamo abbandonare la nostra visione a breve termine, limitata alla nostra esistenza, e prevedere le dinamiche che trasformano le civiltà nel corso del tempo. La storia è piena di tali esempi. In un certo senso posso dire di essere una privilegiata perché il materiale della mia ricerca - l'islamizzazione degli imperi cristiani nei secoli passati - è ora all'opera davanti ai miei occhi, come se questo processo si stesse ripetendo di nuovo, in un tempo i cui movimenti sono un'illusione. In uno dei miei precedenti libri, Il declino della cristianità sotto l'islam, ho studiato, attraverso i documenti, la trasformazione dei paesi cristiani in una civiltà islamica tramite il loro assorbimento nel dar al-islam. Ora possiamo dire che sono gli europei che collettivamente condividono la responsabilità di portare l'Europa nell'Eurabia, un nuovo continente che sta nascendo davanti ai nostri occhi anche se molti contemporanei non riescono a vederlo.
   La presenza di Eurabia entro i confini dell'Europa fu rivelata dai milioni di persone che sfilarono per le strade invocando la morte dell'America e di Israele e gridando la propria solidarietà a Saddam Hussein e Arafat, superando persino manifestazioni analoghe in paesi islamici. A livello demografico, si notano interi quartieri arabi o islamici, con il loro cibo tipico, i loro negozi con insegne in arabo, una popolazione, sia maschile che femminile, spesso vestita all'orientale. Meno esotiche sono l'insicurezza e la violenza endemica che infesta queste enclave straniere, dove la polizia nazionale, adottando un basso profilo, non osa entrare e delega il proprio compito a persone della stessa origine etnica e religiosa, chiamate «grands frères» (grandi fratelli).
   Possiamo anche notare come qualsiasi importante manifestazione della vita e delle attività ebraiche o israeliane debba essere pesantemente protetta - una situazione che rispecchia quella dei cristiani nei paesi arabi. Questa dimostrazione di insicurezza per gli ebrei rivela quanto sia basso il livello di difesa dei diritti umani in Europa, dal momento che il diritto alla sicurezza, alla libertà di religione, di parola e di opinione, è negato dal terrorismo, dalle accuse di blasfemia e da aggressioni ai danni di ebrei e altri. Attualmente gli ebrei non possono manifestare il loro appoggio a Israele senza sentirsi insicuri; andare a pregare in una sinagoga significa rischiare la morte. In altre parole, le usanze della dhimmitudine, la condizione degli infedeli nei paesi islamici, vengono importate e diffuse in Europa. Israele è demonizzato e diffamato quotidianamente in Europa esattamente come nei paesi arabi. In Eurabia si fonde una comune cultura di odio, arabo e europeo. Per giunta, le pressioni islamiche, interne ed esterne, e il terrorismo determinano le elezioni, e dunque la politica dei paesi europei, com'è già accaduto in Spagna e come sta accadendo in Danimarca dove la minaccia terroristica è in aumento con l'avvicinarsi delle elezioni, o in Inghilterra, dove il partito laburista corteggia il voto islamico. Lo stesso può dirsi della Francia.
   A livello scolastico, in alcuni quartieri la maggioranza di bambini islamici impone nei libri di testo revisioni legate alla cultura e alla storia islamica, separazione tra i sessi, regole alimentari. In un recente libro, Les territoires perdus de la République, basandosi su molte testimonianze di insegnanti, l'autore, Emmanuel Brenner, esamina l'islamizzazione della cultura e l'impossibilità di insegnare a scolari e adolescenti i programmi francesi, per non parlare del loro rifiuto di sapere della Shoah. Il cambio culturale è dimostrato da alti funzionari che, con veemenza, dichiarano che le radici della civiltà europea sono islamiche ed elogiano la superiorità della cultura islamica. Il presidente Chirac affermò che le radici dell'Europa sono sia islamiche che cristiane.
   Cambiano anche le istituzioni: poligamia, delitti d'onore, matrimoni forzati vengono praticati e, fino a poco tempo fa, silenziosamente consentiti. Pratiche che aumenteranno, perché la demografia non aiuta gli europei, e neppure la politica dei loro governi. Com'è possibile che un intero continente si sia trasformato con tanta uniformità in una nuova entità, con metamorfosi che chiunque può vedere immediatamente? In effetti, questi sono soltanto i risultati visibili di qualcosa di molto più concreto e profondo. L'Eurabia non è soltanto l'insieme di fatti accidentali destinati a sparire. L'Eurabia è un'ideologia, che riunisce molte tendenze provenienti da diverse fonti e motivazioni. Tendenze che sono tradotte in politica e convergono in vasti, influenti movimenti che emergono ai più alti livelli europei, dove sono concretizzate in discorsi e azioni. L'Eurabia ha dunque molti padrini che le hanno dato la sua ideologia, la sua struttura istituzionale e operativa.

(il Giornale, 4 giugno 2015)


Conservazione del latte: l'alternativa israeliana alla pastorizzazione

 
Un giovane ricercatore dell'Università di Tel Aviv, il Dott. Alexander Golberg, propone di sostituire la pastorizzazione con il metodo del campo elettrico pulsato, per uccidere i batteri che contaminano il latte. Lo studio, pubblicato sulla rivista Technology, può ridurre notevolmente lo spreco di questo elemento nutritivo nei paesi via di sviluppo.
Elemento presente quotidianamente nella dieta dei paesi occidentali, il latte è suscettibile agli agenti patogeni che rendono la sua conservazione problematica nei paesi in via di sviluppo, in cui si eseguono processi di pastorizzazione che coinvolgono il riscaldamento ad alte temperature ed un rapido raffreddamento. Questa tecnica è costosa e, nei paesi emergenti, anche impossibile data la sporadica fornitura di energia elettrica.
Il Dott. Golberg si propone di utilizzare una tecnologia emergente nel campo dell'industria alimentare, ovvero il processo attivato tramite campi elettrici pulsati, la cui efficacia contro i microrganismi è stata dimostrata come alternativa non termica al processo di pastorizzazione.
Secondo il ricercatore, l'applicazione di impulsi elettrici a intermittenza (nell'ordine di micro-secondi), danneggiano la membrana delle cellule con un processo noto come elettroporazione, che impedisce la crescita di batteri nel latte conservato, aumentandone potenzialmente la durata.

Siamo costantemente alla ricerca di nuove tecnologie a basso costo per la conservazione del latte, in particolare per i piccoli agricoltori nei paesi a basso reddito. Per circa 1,5 miliardi di persone la refrigerazione è necessaria dopo la pastorizzazione per prevenire la moltiplicazione dei batteri.

Inoltre, alcuni agenti patogeni, come la Listeria monocytogenes, sono meno sensibili alle basse temperature e possono dunque proliferare durante il trasporto o stoccaggio del latte, anche quando esso è raffreddato.
La refrigerazione rallenta il metabolismo dei batteri ma il campo elettrico pulsato li uccide. Si tratta di un approccio completamente diverso per il controllo dei microrganismi durante la conservazione del latte.
L'energia necessaria per poter utilizzare questo sistema può essere attinta da fonti convenzionali o dalla luce solare:

Il nostro modello non richiede una costante fornitura di energia elettrica; può essere alimentato anche per solo 5 ore e mezzo al giorno con l'aiuto di piccoli pannelli solari. Credo che questa tecnologia possa fornire un sistema di conservazione del latte semplice e basso consumo energetico e che riduca la quantità di latte sprecato a favore dei paesi in via di sviluppo.

Israele non è nuovo nel campo caseario qualche anno fa l'Ufficio Centrale di Statistica israeliano ha annunciato che le mucche israeliane sono le più redditizie di tutto il mondo. Di conseguenza, molti paesi cercano in Israele per migliorare la propria produttività casearia.

(SiliconWadi, 4 giugno 2015)


Federazione Italia-Israele: Bertoldi nominato Membro Direttivo nazionale

Ci è pervenuto il seguente comunicato con cortese preghiera di diffusione.

La presente per dare comunicazione che il 14 aprile scorso il Direttivo nazionale della Federazione delle Associazioni Italia-Israele mi ha designato e nominato quale nuovo Membro del Direttivo nazionale stesso della Federazione.
"Sono onorato di questo importante riconoscimento istituzionale da parte della Federazione, che non farà che rafforzare ed intensificare il mio impegno per Israele in Italia, per un'informazione corretta su Israele, per accrescere la conoscenza degli Italiani dell'unica democrazia del Medio oriente: sul piano economico, politico e sociale; nonchè per contribuire a sviluppare sempre più rapporti tra le istituzioni e i privati dei nostri due Paesi. Ringrazio di cuore i colleghi della fiducia e della nomina."
In allegato la nomina originale del presidente nazionale della Federazione Carlo Benigni.
Cordiali saluti,
Alessandro Bertoldi

(Federazione Associazioni Italia-Israele, 4 giugno 2015)


Poi mi disse: «Non sigillare le parole della profezia di questo libro, perché il tempo è vicino. Chi è ingiusto continui ad essere ingiusto; chi è impuro continui ad essere impuro; e chi è giusto continui a praticare la giustizia, e chi è santo si santifichi ancora». «Ecco, io sto per venire e con me avrò la ricompensa da dare a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l'alfa e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine. Beati quelli che lavano le loro vesti per avere diritto all'albero della vita e per entrare per le porte della città! Fuori i cani, i maghi, i fornicatori, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna».

dal libro dell'Apocalisse, cap.22
 

Gerusalemme, i sapori che uniscono arabi e israeliani

I palati di tre culture si trovano d'accordo su piadina drusa, carpa arrostita, fichi e miele.

di Federico Francesco Ferrero

C'è un profumo nella Terra di Israele. L'ho annusato tra la gente, nelle case, nei mercati, nei caffè, nelle discoteche, nei ristoranti, sulle spiagge. E' il profumo del futuro, della prospettiva, della realizzazione di un alleanza tra il sé, l'altro, gli altri. E forse anche con Dio o con la propria coscienza o come vogliamo chiamare qualsiasi monoteismo. La vecchia Europa non ha più odore. Sapeva di concime, pane fresco e naftalina e oggi non sa nemmeno più di detersivo. Capisco ora cosa «sentano» molti giovani ebrei che tornano nella Terra Promessa e che trovano in Israele una spinta prospettica che nell'Antico Mondo sembra negata o congelata. Quella che li entusiasma non è una vita presa in prestito dalle generazioni precedenti, ma un mondo nuovo, declinato al futuro, per cui ancora può valer la pena di rischiare le proprie certezze. Questa è infatti una terra in guerra, che miscela l'odore del sangue ai profumi del cibo.

 Il mercato
  Se si è curiosi basta percorrere a naso all'aria la via centrale del mercato Suk ha Karmel, a Tel Aviv. Presto ci si ritroverà nel Kerem ha Teimanim, il quartiere degli ebrei yemeniti. Nelle case trasformate in piccoli ristorantini, si può assaggiare ciò che mangiano ogni mattina gli operai, i mercatali, gli anziani, i poveri. Il leggerissimo pane lahuh accompagna le uova fritte, unite a una salsa piccante e precedute da un piatto fumante di zuppa di legumi. E' dove stanno i poveri che sta il cibo. E il cibo povero ha bisogno di spezie. Il sentore unico dello za'atar fresco, ottenuto macinando insieme origano selvatico, sommacco e semi di sesamo, arriva fortissimo dalle bancarelle dei mercanti, che l'hanno portato fin qui dal Libano, geograficamente vicinissimo ma politicamente irraggiungibile.

 I gusti
  Nella città vecchia di Gerusalemme, nel dedalo delle vie buie del mercato, ci sono gli stessi profumi. Le matrone arabe siedono a terra e offrono i cespugli aromatici, le foglie di vite e i datteri freschi delle oasi. A metà mattina si radunano tra donne nei ristorantini bui del mercato e gustano una lunga serie di piccoli antipasti a base di ceci e melanzane, verdure fermentate, hummus e pita. Sono i piatti della koinè gastronomica ottomana che, nei quattrocento anni di floridità dell'impero, ha omologato i palati di tutta l'Europa dell'Est, di mezzo Mediterraneo, e della maggior parte dei Paesi mediorientali, Gerusalemme compresa.

 Il passato
  Nei mercati di tutto il Paese si riconosce inoltre il profumo di farina tostata che sale dalle bancarelle delle donne druse, discendenti di un'antica religione iniziatica medievale, che miscela principi del Talmud, del Nuovo Testamento e del Corano. Le loro focacce non lievitate sono soavi, sottili, farcite con prezzemolo fresco, sesamo, yogurt e limone candito, e mettono d'accordo i palati di tre culture. Questi sono profumi che uniscono e che permettono di capirsi. E sono quelli che, prima che spariscano del tutto, ci parlano e ci parleranno sempre della terra da cui veniamo, e verso la quale vogliano sempre tornare. Il vino dolce del Golan, la piadina drusa, la carpa arrostita, i fichi, il miele e l'origano selvatico, insieme al sale e al profumo dell'olio bruciato nelle lampade, sono profumi comuni a tutte le tre grandi religioni monoteiste. E sono ancora lì, da scoprire. tremila anni dopo. Per ritrovarci più simili di ciò che crediamo di essere e per scoprirci in pace nel condividere lo stesso boccone.

(La Stampa, 4 giugno 2015)


Rilasciato il soldato finito in cella per un panino non-kosher

 
GERUSALEMME - E' stato rilasciato il soldato israeliano finito in cella per aver mangiato un panino con salsicce di maiale, un alimento non kosher, all'interno di una base militare. La punizione di 11 giorni di carcere e' stata revocata e il giovane, arrivato da poco in Israele dagli Stati Uniti per prestare servizio militare da volontario, potra' continuare il suo corso. La notizia della sua incarcerazione per aver violato le regole alimentari ebraiche aveva suscitato scandalo e reazioni adirate nell'opinione pubblica, tanto da spingere Yoel Razbozov, deputato del partito laico centrista Yesh Atid, a scrivere una lettera infuocata al ministero della Difesa. Di fronte alle polemiche, i vertici militari hanno deciso di fare marcia indietro: "Di fondo, ci siamo sbagliati", ha scritto il portavoce militare, Motti Almoz, sul suo profilo Facebook, precisando che l'esercito continuera' a mantenere le regole kosher ma "non ficchera' piu' il naso nei panini dei soldati".
I media israeliani non hanno reso noto il nome del giovane ma il Los Angeles Times ha riportato la storia raccontata su Facebook da Osnat Levy, madre di Ohad, che riferiva delle vacanze del figlio al kibbutz della nonna e del ritorno alla base con un pacchetto di cose buone da mangiare, tra cui salsicce non-kosher, e della sua successiva incarcerazione per aver mangiato carne non regolamentare. "Ci ho messo qualche minuto per capire che era vero e che in Israele nel 2015 mio figlio, che ha scelto di tornare in Israele come volontario per la leva, sta andando in prigione per aver mangiato carne non-kosher", ha scritto, definendo la storia "surreale".
Razbozov, in Parlamento, ha accolto con soddisfazione la marcia indietro dell'esercito ma lo ha esortato a dimostrare maggiore sensibilita' verso soldati con un "bagaglio culturale diverso".

(AGI, 3 giugno 2015)


Quando si finge si non vedere l'invasione di Israele gabellata per "diritto al ritorno"

L'Onu ha conferito lo status di ong ufficiale a un gruppo legato a Hamas, votato alla distruzione di Israele.

Da anni le Nazioni Unite vengono utilizzate come una piattaforma per mettere in discussione il diritto degli ebrei ad avere il loro stato. Il Centro Palestinese per il Ritorno fa parte di una serie di enti e gruppi, complici del terrorismo, il cui obiettivo è cancellare Israele, che è appunto ciò che si intende per "ritorno": inondare Israele con milioni di presunti profughi arabi.
Non è vero che le centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti da Israele durante la guerra scatenata dagli arabi nel '48 vivevano in questo paese "da tempo immemorabile". La maggior parte di loro era arrivata nel XIX secolo sotto il governo dell'egiziano Ibrahim Pasha, e successivamente con le ondate di aliyà (immigrazione) ebraica e l'avvio del Mandato Britannico. Per sincerarsene, basta vedere la definizione che dà l'Onu di "profugo palestinese (diversa, detto per inciso, da quella dei profughi di qualsiasi altra parte del mondo): è profugo palestinese chiunque fosse residente in Palestina nei due (due!) anni prima della nascita dello stato di Israele....

(israele.net, 4 giugno 2015)


Hamas scavalcata dagli islamisti. Anche a Gaza le bandiere nere

Attentati e manifestazioni fanno proselitì tra estremisti e dissidenti Il regime si difende con arresti e la demolizione di moschee "ribelli".

di Maurizio Molinari

GAZA - Attentati contro i leader di Hamas, manifestazioni di piazza per restaurare il Califfato, bandiere nere nel campo profughi di Khan Younis e una raffica di dichiarazioni sull'imminente creazione del primo lembo dello «Stato Islamico in Palestina»: nella Striscia si affacciano con prepotenza i gruppi jihadisti seguaci di Isis, ponendo a Hamas la sfida interna più seria da quando nel 2007 prevalse con la forza contro Al Fatah.

 L'attentato
  Saber Siam è il primo comandante di Hamas ucciso dai seguaci del Califfo Abu Bakr al Baghdadi: domenica lo hanno eliminato con una bomba sotto la sua auto, rivendicando l'esecuzione con un comunicato in cui lo definiscono «alleato dei nemici dei musulmani» imputandogli di «lavorare per il governo eretico di Gaza». A firmare l'esecuzione sono stati i «Jamaat Ansar al-Dawla al-Islamiya fi Bayt al-Maqdis» ovvero i «Sostenitori dello Stato Islamico a Gerusalemme» nati nel 2014 dai contatti fra gruppi salafiti nella Striscia e ijihadisi di «Bayt AI Mqqdis» che operano nel confinante Sinai tenendo in scacco da oltre un anno almeno trentamila militari egiziani.
  Alcuni dei miliziani della nuova formazione jihadista di Gaza sono fuoriusciti da Hamas, altri sono islamici che contestano a Hamas troppa tolleranza nei confronti delle donne senza velo e degli uomini che fumano. Ismail Haniyeh, leader politico nella Striscia, dopo la fine dell'ultimo conflitto con Israele gli ha concesso di scendere nelle strade sventolano le bandiere nere del Califfato: l'intento era di gestirli, in qualche maniera governarli, ma l'esito è stato opposto trasformando la moschea al-Mutahabin in una loro roccaforte.
  Quando, a inizio maggio, ijihadisti filo-Isis si sono spinti fino a lanciare colpi di mortaio contro un campo di addestramento di Hamas nei pressi di Khan Younis, Hanyeh ha cambiato approccio: i bulldozer hanno demolito la moschea ribelle e almeno una ventina di militanti filo-Isis sono stati arrestati, incluso lo sceicco Yasser Abu Houli.

 La vendetta
  La repressione di Hamas ha anche un risvolto siriano: la decisione di Isis di assaltare il campo profughi palestinese di Yarmuk, alle porte di Damasco, uccidendo e decapitando alcuni combattenti delle cellule locali di Hamas è stata vissuta a Gaza come un'umiliazione che necessitava un'aspra risposta. Ma i jihadisti pro-Isis si sono moltiplicati e un secondo gruppo è nato nella Striscia - Hizb ut-Tahrir, il Partito della Liberazione - debuttando a metà maggio a Gaza città con una manifestazione di protesta contro l'abolizione del Califfato, decretata 94 anni fa dalla Turchia di Ataturk. In questo caso è stata l'ideologia di Abu Bakr al-Baghdadi a riempire la piazza e Hassan al-Madhoun, portavoce di Hizb ut- Tahrir, la riassume così: «Fu la caduta del Califfato a determinare la perdita della Palestina e delle altre terre arabe, solo il ritorno del Califfato potrà riempire tale vuoto, liberando questa terra e unificando l'Islam».

 Nuovi obiettivi
  Il linguaggio di al-Madhoun cancella il nazionalismo palestinese di Yasser Arafat e Abu Mazen: l'obiettivo non è realizzare un ennesimo, debole e corrotto Stato arabo bensì dare vita al Califfato islamico, per unire tutti i musulmani. Anche perché se in Siria, Iraq, Libano o Yemen ciò che muove l'ideologia di Isis è l'odio per gli sciiti, a Gaza dove i sunniti compongono la quasi totalità della popolazione, ciò che più conta è «l'inizio della realizzazione in Palestina del Califfato Islamico con Gerusalemme» come dice alMadhoun, sottolineando che «non in tutti i luoghi del mondo arabo Isis si esprime in modo identico».
  Si tratta della versione palestinese di Isis, destinata a minacciare Israele in tempi rapidi: il lancio a fine maggio di un razzo Grad contro la città di Ashdod da parte del gruppo «Sheik Ornar Hadid», ex braccio destro di Abu Musaq Al-Zarqawi in Iraq, lascia intendere che ijihadisti vogliono strappare a Hamas la guida degli attacchi al «nemico sìonìsta», Per Hamas si tratta di una temibile minaccia interna, a cui risponde con l'aumento visibile della sicurezza: posti di blocco notturni, più agenti nelle strade e più pattuglie di Hamas nelle zone a rischio, a cominciare da Khan Younis.

(La Stampa, 3 giugno 2015)


General Electric cerca la cybersicurezza israeliana

 
Una delle più grandi aziende del mondo, la General Electric (GE) ha deciso di organizzare un concorso di Hackathon a Tel Aviv per riunire tutti gli sviluppatori più promettenti nel campo della programmazione di computer. Con il termine Hackathon si intende un evento al quale partecipano, a vario titolo, esperti di diversi settori dell'informatica: sviluppatori di software, programmatori e grafici web. General Electric ne ha indetto uno per Mercoledi 3 giugno.
   La General Electric ha una sede in Israele dal 1950 e possiede un Centro di Ricerca e Sviluppo a Haifa dal 2011 che impiega circa 400 persone. Impegnata per anni sulla ricerca medica attraverso lo sviluppo di prodotti innovativi come il sistema cardiovascolare ad ultrasuoni, ora è interessata alla cyber-sicurezza ed in particolare a quella israeliana.
   Con la rivoluzione di Internet il Gruppo ha rapidamente realizzato l'importanza delle questioni di sicurezza informatica e non ha trovato di meglio se non in Israele.
Ed è proprio in questo senso che la General Electric organizza questo concorso che coinvolgerà i più grandi hacker israeliani. Da non confondere con gli hacker "negativi", questi israeliani sviluppano sistemi solo per migliorare la protezione dei dati delle grandi aziende. Essi analizzano gli errori di sistema e sviluppano soluzioni per affrontare i comuni problemi che quotidianamente le aziende devono affrontare.
   Lo scopo della General Electric è quello di identificare gli hacker di talento che, col la loro bravura, riescano a sviluppare sistemi in grado di contrastare gli attacchi informatici.
Tra i vari partecipanti ci sarà il Colonnello Pinchas Buchris, ex capo dell'unità 8200, unità d'élite dell'Israel Defense Force, specializzato in cyber-sicurezza e Meni Barzilai, capo della sicurezza online di Bank Hapoalim.
   Lior Ateret, manager nel campo della sicurezza online di GE in Israele, ha così commentato:

La sicurezza cibernetica è una vera e propria forza lavoro. Le persone creative e qualificate si rivolgono a noi con una vasta esperienza sulla sicurezza informatica. Grazie a loro, siamo in grado di creare soluzioni nuove e uniche per far fronte alle nuove minacce nel settore di Internet.


(SiliconWadi, 3 giugno 2015)


La Silicon Valley di Israele regina mondiale dell'hi-tech

di Riccardo Luna e Fabio Scuto

Il 10% delle vendite di computer e tecnologie per la sicurezza riguarda aziende israeliane. Qui sono stati venduti programmi per 6 miliardi di dollari, cioè l'8% del fatturato mondiale.

David Ben Gurion, il padre di Israele, sognava che un giorno le dune di sabbia del deserto nel sud potessero diventare con il lavoro dei coloni il granaio della Patria, piantagioni ad alto rendimento, coltivazioni che avrebbero potuto sfamare milioni di persone. In p arte il sog no si è avverato, campi di ortaggi e frutta esotica hanno reso celebri le Fattorie di Arava. Ma nella skyline della "capitale" del deserto israeliano svettano adesso anche scintillanti grattacieli di vetro e cemento, grandi complessi di architettura avveniristica spuntano come funghi, nella Negev Mall Tower ogni piano è grande come 4 campi di calcio, le
Due anni fa il premier Netanyahu disse che Beersheva, la "capitale" del deserto del sud, sarebbe diven- tata presto una nuova San Fran- cisco. Una promessa che sembra mantenuta. Oggi la città è conside- rata un punto di riferimento mon- diale dell'high-tech.
grandi gru che sollevano i pannelli di vetro non si fermano un attimo. Cinque grattacieli alti oltre 100 metri sono il nuovo profilo di Beersheva e la città cambierà ancora molto, e in brevissimo tempo.
   Molte sopracciglia si sono sollevate nel 2013 quando il premier Benjamin Netanyahu promise che la città sarebbe diventata il più importante cybercenter dell'emisfero occidentale. Sembrava soltanto la promessa di un politico navigato, invece la "capitale del Negev" è in corsa per diventare davvero il più importante centro di ricerca e sviluppo per l'informatica e l'hi-tech. Lo scorso gennaio la prestigiosa Brandeis University del Mascachussetts ha pubblicato uno studio che classifica Beersheva come la prima delle sette città al mondo che emergeranno nel futuro come importanti centri di hi-tech. Perché Israele, con una popolazione di meno di 7 milioni di abitanti, in stato di guerra permanente con quasi tutti i suoi vicini e privo di risorse naturali, è da anni il centro propulsore del software mondiale, dove le major del settore da Google a Microsoft, da Samsung a Paypal, hanno messo radici profonde assumendo migliaia di informatici.
   Israele è il Paese in grado di attrarre investimenti in capital ventures più di ogni altro al mondo. Perché un esercito di ingegneri, matematici, informatici e fisici ha messo negli ultimi dieci anni la sua competenza nella sicurezza informatica, archivio dati, comunicazioni mobili che hanno portato l'economia israeliana dai pompelmi alle app. La 'chiavetta' che usate nel vostro pc per connettervi a Internet è prodotta in Cina ma l'ha inventata un ingegnere israeliano, così come più della metà delle app per gli smartphone. La differenza fra la Silicon Valley californiana e la 'Silicon Wadi' israeliana è davvero ormai molto sottile. Al punto che la "EI Al" ha ricevuto una valanga di lettere di viaggiatori che chiedono di mettere in prima possibile un volo diretto Tel Aviv-San Francisco ed evitare così alle centinaia di pendolari informatici israeliani che lavorano in California il cambio di aereo a New York.
   I dati diffusi dal National Cyber Bureau, ente nato solo nel 2011 impegnato a sostenere start-up con diverse forme di finanziamento, dimostrano che il 10% delle vendite globali di computer e tecnologie per la sicurezza, riguarda aziende israeliane che hanno venduto programmi per 6 miliardi di dollari, cioè l'8% del fatturato mondiale del settore. «I dati dimostrano che Israele è diventato un partner chiave nel cyber-mondo, ci dice il professor Isaac Ben-Israel capo del Cyber Research Center dell'Università di Tel Aviv, «una delle ragioni risiede nella politica su questo settore, strategico nella Difesa nazionale ma anche nello sviluppo economico; il sistema economico ha incoraggiato la ricerca e l'innovazione e ha messo Israele in prima fila nel mondo».
   Certo molto di ciò che viene realizzato nell'hi-tech è legato alle aziende della Difesa — come la Rafael Advanced Defence Systems che ha "inventato" i droni e l'Iron Dome e sta mettendo sul mercato "Protector" uno scafo senza marinai per pattugliare le coste a basso costo che si guida con un joystick dalla terraferma. Ma anche oltre l'aspetto militare Israele è da anni dentro una cyberwar senza fine. Le sue reti informatiche sono le più hackerate da ogni parte del mondo, con migliaia di attacchi al giorno. Nella guerra di Gaza della scorsa estate i siti governativi hanno subito milioni di attacchi. Poi ci sono le reti civili, la El Al, l'aeroporto di Tel Aviv, la Banca centrale, quelle private, la Borsa, le reti cellulari. Una guerra invisibile che si avverte e si avvertirà sempre di più , è l'opinione più condivisa con il premier Netanyahu.
   Una Start Up Nation non si costruisce in un giorno né con un tratto di penna. In Israele l'informatica accompagna gli alunni dalle scuole medie in poi, i selezionatori dell'Idf girano negli istituti superiori in cerca di talenti e i migliori — superate una lunga serie di prove — presteranno servizio presso la mitica Unità 8200, quella che si occupa della cyberwar. Finiti i tre anni di servizio militare, gli appartenenti all'Unità possono sviluppare e commercializzare le loro invenzioni sul mercato civile se la Difesa non le giudica strategiche. Ha prodotto più milionari l'Unità 8200 che qualsiasi altra Business School in Israele.
   La maggior parte degli utilizzatori dell'app Stylit — usato per scegliere modelli in base alla vostra taglia e molto apprezzata negli Usa dai grandi marchi della moda pronta — non sa che l'inventore Yaniv Nissim, un veterano dell'8200, ha usato una tecnologia sviluppata in origine per prevenire gli attacchi kamikaze. Accusati di voler soltanto far denaro, i veterani dell'8200 molto spesso partecipano alle Hackatlon, le maratone informatiche a scopi benefici piuttosto frequenti in Israele. Nell'ultima hanno creato una app geniale (e gratuita ) per le persone sorde che converte gli annunci audio delle stazioni ferroviarie, degli aeroporti o sui bus, in sms sul cellulare.
   Oggi con l'Università Ben Gurion e suo Technology Park Beersheva si candida a sfilare a Herziliya la corona di regina dell'Informatica. Le centinaia edifici in costruzione per oltre un milione di metri quadrati danno la dimensione che la Capitale del deserto, cambierà volto e assai rapidamente. I suoi abitanti raddoppieranno nell'arco del prossimo anno e le major dell'hi-tech stanno già scegliendo sedi prestigiose. Perché qui verranno trasferiti i militari attualmente impiegati nelle basi aeree di Glilot e quelli dell' 8200che stanno a Ramat Gan. Una spinta importante per la città. Perché oltre ad essere una fucina di cybertalent le unità militari sono anche grandi clienti delle multinazionali informatiche che hanno tutto l'interesse a investire in questa zona. Le aziende già operanti nel Techology Park di Beersheva sono già una miriade, locali e straniere, come Ness Tchnologies, Deutsche Telecom, Rad, Lockeed Martin, El-bit Systems. Ma anche decine di piccole altre start-up dai nomi esotici come "Sorento", "Ravello", "Patagonia" dietro le quali ci sono tre-quattro ingegneri informatici israeliani che sperano di bissare il successo di "Waze", il navigatore-social comprato da Google per un miliardo di dollari. La più costosa acquisizione della (breve) storia dell'informatica.

(la Repubblica, 3 giugno 2015)


Abu Mazen crea una tv per gli arabo-israeliani

Il canale inizierà a trasmettere il 18 giugno, si chiamerà " F48" - da "Palestina 1948" - e sarà finanziato dall'Olp.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Il presidente palestinese Abu Mazen ha deciso di creare un canale televisivo destinato a raggiungere 1,6 milioni di arabo-israeliani. Il canale inizierà a trasmettere il 18 giugno, si chiamerà " F48" - da "Palestina 1948" - e sarà finanziato dall'Olp, pur essendo espressione del governo dell'Autorità palestinese.
L'intenzione è di rafforzare il legame culturale fra i palestinesi che vivono in Cisgiordania e coloro che risiedono dentro i confini di Israele ed hanno cittadinanza israeliana. In particolare, i programmi tv - trasmessi da Ramallah - punteranno a raggiungere, con temi politici ma anche cronaca locale, gli arabo-israeliani che risiedono nel "triangolo" della Gailea fra Nazareth e Umm al-Fahm.
Un recente sondaggio, pubblicato dal "Jerusalem Post" attesta che circa il 40 per cento dei giovani arabo-israeliani si sentono parte della società israeliana e il nuovo canale tv si propone di arginare tale tendenza all'integrazione rafforzando il legame con le radici palestinesi.

(La Stampa, 3 giugno 2015)


Vittime e delatori: la Comunità ebraica di Roma riscrive la storia della Shoah

Diffusi nuovi risultati dell'indagine: definito iI numero delle persone deportate nei lager dalla capitale (1.769) e chiarito il ruolo determinante delle denunce anche spontanee.

di Anna Foa

La ricerca condotta dalla Comunità ebraica di Roma sugli ebrei romani arrestati dopo il 16 ottobre 1943, condotta da Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Amedeo Osti Guerrazzi e Daniele Spizzichino, che già era stata presentata parzialmente in un convegno tenutosi nel luglio 2014 alla Camera dei deputati, è sulla dirittura d'arrivo e produce interessanti risultati. Innanzitutto, permette di quantificare con esattezza il numero degli ebrei romani arrestati nei mesi successivi al 16 ottobre, il giorno del rastrellamento del ghetto romano: 747 invece di oltre mille, come si riteneva finora, che si sommano ai 1.022 deportati in seguito alla razzia nazista del 16 ottobre: in tutto quindi 1.769 ebrei romani deportati, su un totale in Italia di quasi 8.000.
   Inoltre, avvalendosi dell'uso incrociato di fonti documentarie e di testimonianze orali, la ricerca ha chiarito in che modo avvennero gli anesti e se furono operati dai nazisti o dai fascisti italiani, operando anche una distinzione per genere e fasce d'età fra gli arresti compiuti il 16 ottobre e quelli successivi: donne , vecchi e bambini i116 ottobre, quando gli uomini si misero in salvo pensando che donne e bambini non sarebbero stati presi, soprattutto uomini successivamente. E poi, il ruolo negli arresti dei delatori, un ruolo fondamentale tanto è vero che la stampa ha parlato, un po' sensazionalisticamente, di "blacklist' dei delatori. La ricerca è, naturalmente, molto di più di questo, anche se il tema dei delatori è un tema fondamentale e delicato: fondamentale, perché molti degli ebrei romani catturati in quei mesi lo furono grazie a delazioni di spie italiane; delicato, perché molti di coloro che furono all'epoca denunciati o additati come delatori non furono mai sottoposti a processo. Delatori che erano sia non ebrei sia anche ebrei, come la famosa Celeste Di Porto, la giovane spia del quartiere del ghetto chiamata la "Pantera nera', e altre spie che i testimoni ebrei nominarono senza troppe remore nei processi del dopoguerra. Per motivi di privacy i nomi dei delatori accertati in questa ricerca non saranno pubblicati ma resteranno negli archivi comunitari a disposizione degli studiosi e dei discendenti dei diretti interessati. E credo che sia giusto che, oltre ai giusti, si nominino anche gli ingiusti. In attesa di leggere i risultati della ricerca (che saranno pubblicati da Viella), emergono fatti importanti, altri già noti vengono quantificati e confermati. In metà dei casi (quelli finora accertati, e non è escluso ve ne siano molti altri) gli ebrei furono arrestati da italiani, poliziotti regolari che dipendevano da Salò o bande fasciste di irregolari. Il ruolo degli italiani nella deportazione degli ebrei ne viene così fortemente confermato. Al di là dell'ordine generale di arresto degli ebrei emanate nel novembre dal governo di Salò, anche nella pratica molti degli ebrei furono arrestati da italiani.
   La ricerca conferma inoltre l'esiguo numero di conversioni verificatosi. Non è una sorpresa, dal momento che il maggior numero di conversioni è del 1938, e che nel 1943, come infiniti casi anche importanti ci dimostrano, il battesimo non garantiva in nessun modo di sfuggire alla deportazione. Restano molti problemi su cui questa ricerca potrà gettare luce: sull'accoglienza, tanto privata che ecclesiastica; sui rapporti quotidiani fra ebrei in fuga e la città; e sui profili dei delatori stessi, su cui Amedeo Osti Guerrazzi ha già scritto pagine importanti e che certamente riceveranno nuova luce da questa ulteriore indagine.

(Avvenire, 3 giugno 2015)


Raid inutili, coalizione anti-Isis in panne

Al vertice di Parigi l'allarme dell'Iraq: serve più aiuto. Il Pentagono ammette: 3 missioni su 4 a vuoto

di Maurizio Molinari

Il Califfato continua ad avanzare. Nei primi 4 mesi dell'anno i jet Usa hanno condotto 7319 missioni ma solo in 1859 (25,4%) sono state usate bombe per la difficoltà di individuare obbiettivi.
GAZA - La coalizione anti-Isis fa mea culpa al summit di Parigi sui carenti risultati ottenuti sul campo e si impegna a raddoppiare gli sforzi militari per tentare di battere il Califfo, ma evita di affrontare il proprio tallone d'Achille.
  «La cattura di Ramadi e Palmira da parte dello Stato Islamico è stato un fallimento globale» ammette il premier iracheno Haider al Abadi intervenendo alla riunione dei 25 Paesi più impegnati nelle attività belliche contro i jihadisti di Isis. Il termine «globale» per Al Abadi si spiega con «la carenza di armi e intelligence» a disposizione delle forze di Baghdad davanti ad un nemico «composto da migliaia di volontari americani, francesi e tedeschi ben addestrati e armati» e dunque «non creato in Iraq».
  Al Abadi chiede di poter acquistare più armi da Russia e Iran nonostante le sanzioni, preme su Washington per avere i missili anti-tank da usare contro i blindati-kamikaze del Califfo e promette che «Ramadi sarà liberata» grazie a un «piano in via di definizione» che prevede anche «l'impiego di unità sunnite» e non solo di milizie sciite. Ma in realtà Al Abadi prepara l'assalto a Ramadi soprattutto grazie al sostegno dell'Iran, assente a Parigi: a dimostrarlo sono le sei batterie lanciamissili che Teheran ha affiancato ai tremila miliziani sciiti a cui spetta il tentativo di riconquista.
  Il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, e il vicesegretario di Stato Usa, Anthony Blinken, assicurano: «Raddoppieremo gli sforzi per sostenere le truppe irachene» ovvero gli unici contingenti di terra a disposizione della coalizione per contrastare il Califfo. Anche se il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ammette: «Non ci illudiamo, la vittoria militare non sarà facile da ottenere ed anche vincere la pace sarà difficile». Blinken parla di «tempi lunghi» dopo «lo smacco di Ramadi».

 Il punto debole
  Fonti diplomatiche Usa indicano che il summit ha raggiunto l'intesa per rafforzare l'impegno anti-Isis su sei fronti: la campagna militare, il flusso di volontari attraverso la Turchia, le fonti finanziarie, il contrasto della propaganda online, il sostegno economico ai territori iracheni riconquistati e gli aiuti umanitari.
Ma a evidenziare la debolezza di tale strategia c'è il silenzio del summit sul tallone d'Achille delle operazioni: il 75% delle missioni aeree si concludono senza lancio di ordigni per carenza di obiettivi. È il Comando Centrale Usa a Tampa a diffondere i dati: nei primi 4 mesi dell'anno i jet hanno condotto 7319 missioni e solo in 1859 - pari al 25,4% - sono state usate bombe. Il motivo è la carenza di obiettivi dovuta al fatto che Isis disperde le forze in unità molto ridotte, celandole fra i civili, comportandosi da «nemico ibrido» - come lo definiscono il portavoce del Pentagono - difficile da identificare ed eliminare per mancanza di informazioni di intelligence che potrebbero essere garantite solo da contingenti di truppe scelte sul terreno.

(La Stampa, 3 giugno 2015)


A Gerusalemme torna il Festival delle Luci

Da oggi, 3 giugno, all'11 giugno si tiene nella Ir Atiqa, la Città Vecchia di Gerusalemme, "Light in Jerusalem", il Festival delle Luci, giunto alla settima edizione.
Un'intera settimana dedicata alla scoperta della "luce" e delle "luci" di questa città che già nell'etimo del suo nome, Jerushalaim, contiene proprio il significato di "Città della Luce". L'evento è realizzato attraverso eccezionali impianti di illuminazione che porteranno il turista a scoprire una città resa per l'occasione ancor più vivace per mezzo di mostre e visite guidate.
Questa "festa della luce" che prende vita in un un contesto urbano - iniziativa promossa dall'Autorità per lo sviluppo di Gerusalemme, dal ministero del Turismo e dalla Municipalità di Gerusalemme - sarà realizzata dalla società elettrica Ariel; si prevede che l'evento attirerà oltre 250mila visitatori.
La manifestazione si inserisce anche in una rassegna di "Festival della luce" che prende vita im molte città in tutto il mondo tra cui Lione, Glasgow e Lisbona.
Quest'anno saranno presenti 10 artisti "della luce" provenienti dall'estero che, insieme a quelli locali, presenteranno spettacolari esibizioni luminose in 3D, sculture e strutture artistiche, stelle dotate di una grande massa luminosa e impressionanti proiezioni video sugli edifici e le pareti della Città Vecchia. Queste esibizioni, abbinate ad attività all'aria aperta e a spettacoli sul palco, avranno luogo nei vicoli pittoreschi, nei luoghi unici e nelle vie centrali intorno al centro storico di Gerusalemme.
Il festival - rigorosamente gratuito - è adatto a persone di tutte le età e ideale per i turisti individuali, i gruppi, le famiglie e gli artisti.

(Agenzia di Viaggi, 3 giugno 2015)


Netanyahu e la versione dei boicottati

Domenica il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha inquadrato un po' meglio e dal suo punto di vista di capo di Israele il vasto movimento che chiama il mondo al boicottaggio dei prodotti Made in Israel - movimento che ha ripreso vigore dopo il fallimento dei colloqui di pace con l'Autorità palestinese che ormai risale all'anno scorso. La questione è spesso spiegata con le voci dei boicottatori, che trovano spazio e ascolto in molti luoghi, e molto più di rado è spiegata con la voce del primo ministro (ri)eletto dai boicottati.
   Eccola: "La campagna di boicottaggio - dice Netanyahu - non è connessa alle nostre azioni: è collegata alla nostra stessa esistenza. Non importa quello che facciamo: importa quello che rappresentiamo e cosa siamo". E ancora: "Penso che sia importante capire che queste cose non nascono dal fatto che se soltanto fossimo più gentili o più generosi - siamo molto generosi, abbiamo fatto molte proposte, abbiamo fatto molte concessioni - allora le cose cambierebbero, perché questa campagna per delegittimare Israele sottende qualcosa di più profondo, che è mirato contro di noi e tenta di negare il nostro stesso diritto di vivere qui". "Non siamo un paese perfetto; non pretendiamo di esserlo, ma i boicottatori stanno fissando per noi standard che sono allo stesso tempo deformi e più alti di quelli di qualsiasi altro paese, di qualsiasi altra democrazia".
   Il movimento per il boicottaggio di Israele delle parole di Netanyahu non se ne farà nulla, anzi, ha già irriso il primo minsitro definendolo come uno dei grandi benefattori del movimento.
   Il movimento ora sta tentando di fare il grande salto e di coinvolgere nel boicottaggio contro Israele non più soltanto gli individui e le istituzioni, come dire, più sensibili alle lusinghe per ragioni storiche, ma anche le grandi corporation.
Ma, dice Netanyahu, "è un fenomeno che abbiamo già visto nella storia del nostro popolo. Che cosa non è già stato detto degli ebrei? Hanno detto che eravamo la centrale di tutto il male del mondo. Tutte queste cose sono dette di nuovo anche adesso. Non erano vere allora, non sono vere neanche oggi. Non c'è un briciolo di verità".

(Il Foglio, 2 giugno 2015)


Israele: "L'esercito siriano si è dissolto"

I ribelli islamici di Al-Nusra avanzano nella provincia di Idlib e ora minacciano le roccaforti alawite sulla costa.
   È il vice capo di Stato Maggiore della Difesa, Yair Golan, a rendere pubblica la valutazione di Israele sull'andamento della guerra civile in Siria. Durante un intervento pubblico a Tel Aviv, Golan ha spiegato che le recenti sconfitte nella provincia di Idlib ed a Palmira evidenziano come «l'esercito siriano si è dissolto» al punto da poter affermare che come forza combattente organizzata «non esiste più».
   Ciò espone il regime di Bashar Assad ad un pericolo indebolimento serio anche perché «nella provincia di Idlib i ribelli islamici di Al-Nusra si sono impossessanti di ingenti quantitativi di armi, inclusi missili anti-aerei, e possono minacciare le roccaforti alawite sulla costa». L'indebolimento militare di Assad impone ad Hezbollah «un maggiore impegno» evidenziato dal fatto che «lo sceicco Hassan Nasrallah ha pronunciato ben tre discorsi sulla guerra in Siria» negli ultimi giorni.
   Golan afferma che «stiamo esaminando dati secondo cui le perdite di Hezbollah dall'inizio della guerra civile sarebbero di almeno mille uomini» di cui «circa 80 persi solo nell'ultimo mese». La situazione è tale che il partito libanese filo-iraniano di Nasrallah «sta valutando la possibilità di ridurre l'impegno sulle montagne di Qalamun, al confine libano-siriano, contro Isis» per «spostare i suoi miliziani altrove» al fine di puntellare un regime in difficoltà. Si spiega così, secondo Golan, la scelta di Hezbollah di «accelerare il reclutamento di giovani sciiti, anche minorenni, perché gli servono più soldati in Siria».

(La Stampa, 2 giugno 2015)


Shoah, la lista nera dei delatori italiani: "Così consegnarono gli ebrei ai nazisti"

La comunità ebraica romana pubblica i nomi di chi favorì le deportazioni. "Tra loro c'erano anche portieri, ex fidanzati e vicini di casa".

di Gabriele Isman

 
Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Cultura della Comunità ebraica di Roma
ROMA - Due anni di lavoro per scoprire cosa davvero avvenne agli ebrei romani tra il 16 ottobre 1943, il giorno del rastrellamento del Ghetto, e il maggio dell'anno successivo, e alla fine una cascata di numeri, storie che ridefiniscono le vicende della Shoah della Capitale, tra vittime e carnefici. E anche una blacklist di italiani che in quei mesi denunciarono altri italiani: l'elenco è a disposizione degli studiosi, consultabile negli uffici della Comunità ebraica romana. L'elenco non fa sconti, comprende anche Celeste Di Porto, ebrea, che fece arrestare persino i suoi familiari: nei mesi prossimi tutto finirà in un libro per l'editore Viella. "Sulle lapidi viene indicato il numero di 2.091 deportati, ma in realtà furono 1.769: 1.022 in quel sabato nero e 747 nei mesi successivi tra ebrei romani e non arrestati nella Capitale. Nell'elenco precedente c'erano nomi duplicati, persone che furono prese altrove, confusione nei cognomi" dice Claudio Procaccia, direttore del Dipartimento Cultura della Comunità ebraica romana che ha realizzato la ricerca finanziata dalla Fondazione Museo della Shoah. "Il 16 ottobre - prosegue - furono presi soprattutto giovani, donne e anziani. Gli uomini scapparono, credendosi l'obiettivo del rastrellamento nel ghetto, ma saranno loro, soprattutto tra i 20 e i 35 anni, a essere catturati e deportati nei campi di sterminio nei mesi successivi al 16 ottobre. Dovevano cercare cibo per sé e per i familiari, e spesso non avevano nulla da scambiare".
  Amedeo Osti Guerrazzi è lo storico che, con il demografo dell'Istat Daniele Spizzichino, ha collaborato alla ricerca: "Nella stragrande maggioranza dei casi quei 747 ebrei furono presi su delazione di altri italiani: abbiamo ricostruito la storia di 383 casi, ma sicuramente furono di più. Sappiamo dove e quando furono presi, chi ne permise la cattura e cosa accadde dopo". "Abbiamo anche cercato di scoprire - aggiunge lo storico - i metodi dei delatori. Erano singoli o soprattutto vere e proprie bande al soldo dei tedeschi, ne abbiamo censite 8, a partire dai Cialli-Mezzaroma che consegnarono 80 persone. Arrivavano a fingersi avvocati nelle carceri per convincere i prigionieri a fornire gli indirizzi dove si nascondevano i parenti. E poi c'erano le torture, concentrate in via Tasso, e qui abbiamo ritrovato anche la figura di Erich Priebke, vero braccio destro di Kappler". "È anche significativo - dice Procaccia - il numero basso delle conversioni per evitare le deportazioni. furono un migliaio sui 13 mila ebrei presenti a Roma. Difesero la loro identità anche se rischiavano la morte".
  "La ricerca - spiega Silvia Haia Antonucci, responsabile dell'Archivio della Comunità - si è basata su fonti documentali e su 250 questionari a cui hanno risposto ebrei scampati alla persecuzione: tra questi molti hanno avuto deportati tra i familiari. L'80% di chi evitò i rastrellamenti si salvò a Roma o nelle sue vicinanze. E l'83 per cento di chi trovò riparo in case private non dovette pagare. Andò diversamente a chi si rifugiò in strutture religiose: il 56% fu costretto a versare soldi, il 4 offrì forme di lavoro, nonostante un articolo dell'Osservatore romano del 25 ottobre, 9 giorni dopo il rastrellamento, che si intitolava "La carità del Santo Padre" e che indicava implicitamente di aprire le porte di conventi e chiese a tutti, senza distinzione di età, di sesso o di religione". I tedeschi guidati da Kappler avevano anche fissato il prezzo degli ebrei: consegnare un uomo valeva 5 mila lire, una donna 3 mila, un bimbo 1.500. Ma i soldi, in una Roma ridotta alla fame, non erano l'unico motivo per vendere un ebreo: "Vi furono casi di portieri, ma anche ex fidanzati o semplici vicini di casa che diventarono delatori" spiega Osti Guerrazzi. "Quanto emerge dalla ricerca - conclude Fabio Perugia, portavoce della Comunità - dimostra che le responsabilità italiane nella Shoah del nostro Paese furono maggiori di quanto fino ad ora credessimo. Se è vero che tanti hanno salvato, moltissimi hanno collaborato. Cresce anche il numero dei partigiani ebrei: si pensava che fossero una decina e invece furono 60. Un numero non trascurabile. E tutto diventa ancora più tragico se pensiamo che dei 1.769 rastrellati tornarono vivi soltanto una novantina". Ma questo sarà il passo successivo della ricerca.

(la Repubblica, 2 giugno 2015)


Obama: contro il nucleare dell'Iran niente uso di armi

Contro il programma nucleare iraniano non ci può essere una soluzione militare. Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, alla tv israeliana Channel 2. "Io posso, credo, dimostrare - ha detto Obama - basandomi non su speranze ma su fatti, prove e analisi, che il modo migliore per impedire all'Iran di avere un'arma nucleare sia un accordo verificabile, seppure difficile".

(TGCOM24, 2 giugno 2015)

*

Più dell'84% dell'export Usa va verso l'Iran

TEHERAN - Gli Stati Uniti hanno esportato 3.821 tonnellate di merci per un valore di 11,7 milioni dollari in Iran nel secondo mese del calendario iraniano (21 aprile-22 Maggio).
A darne notizia l'Ufficio per l'Amministrazione delle dogane della Repubblica Islamica che lo ha scritto nel suo ultimo rapporto del 30 maggio. Le esportazioni degli Stati Uniti verso l'Iran indicano un aumento del 86,7 per cento in termini di valore e di 259 per cento in termini di volume rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Le importazioni di Teheran da Washington sono pari a 17,7 milioni dollari nel corso dei primi due mesi del corrente anno fiscale iraniano (21 marzo, 22 maggio), 74 per cento in più anno su anno.
L'Iran ha importato 5.664 tonnellate di merce dagli Stati Uniti nel periodo, che indica un aumento da 393 per cento rispetto agli stessi mesi del precedente anno. Le importazioni dagli Stati Uniti hanno condiviso 0,28 per cento del totale delle importazioni iraniane in 2 mesi.
Le importazioni iraniane dagli Stati Uniti hanno rappresentato 154.120.000 di dollari nel corso dell'ultimo anno fiscale iraniano (terminato il 20 marzo), il 16,4 per cento in più rispetto all'anno precedente. Le esportazioni non petrolifere della Repubblica islamica (esclusi i condensati) sono pari a 5.393 milioni dollari durante i primi due mesi correnti anno fiscale iraniano (21 marzo - 22 maggio), mentre le importazioni hanno rappresentato 6.344 milioni dollari.

(agc, 2 giugno 2015)


Eichmann, la visita segreta della moglie in carcere

Secondo gli archivi israeliani, l'uomo che pianificò lo sterminio di 6 milioni di ebrei riabbracciò Vera un mese prima di essere giustiziato.

 
Vera Eichmann
Vera Eichmann, la moglie dell'ex ufficiale delle SS Adolf Eichmann, che pianificò lo sterminio di 6 milioni di ebrei, visitò il marito in prigione a Ramle, in Israele, prima che questi venisse impiccato. A distanza di 53 anni dall'esecuzione, avvenuta il 31 maggio del 1962, gli archivi di stato israeliani, citati dai media, rivelano una storia ignota ai più, che coinvolse la leadership ebraica di allora, Ben Gurion e Golda Meir compresi.
   Vera Eichmann inoltrò la richiesta tramite l'avvocato di suo marito, Robert Servatius, all'allora ministro della giustizia, Dov Joseph, che il 18 marzo del 1962 investì della faccenda il governo. Non prima di aver illustrato per le vie brevi al primo ministro Ben Gurion i rischi di critiche da parte della comunità internazionale su un possibile rifiuto della richiesta. L'unica condizione che si poteva porre era che la visita al criminale nazista condannato a morte avvenisse in segreto e rapidamente. Lo stesso giorno il governo, attraverso la Commissione Affari esteri e Difesa, affrontò dunque la questione. Gli archivi - citati dai media - rivelano anche che non fu una discussione lunga: il ministro degli esteri, Golda Meir, non sollevò obiezioni, sottolineando di non avere particolari sentimenti nei confronti della moglie di Eichmann né di vedere motivi di impedire la visita. Inoltre, a suo giudizio non poteva costituire un pericolo per lo stato ebraico. "Immagino che tutti noi accettiamo completamente questa esecuzione, ma so - si limitò a dire lucidamente - che c'è qualche "giusto" nel mondo la cui coscienza sarà ora molto più grande di quanto era durante la Shoah".

 Il viaggio segreto
  Furono però presi accorgimenti - come richiese un deputato membro della Commissione - per evitare che Vera Eichmann aiutasse in qualche modo il marito "a passare all'altro mondo" in modo diverso da quello stabilito dal tribunale, dopo la cattura dell'SS in Argentina e il trasporto in Israele ad opera di agenti del Mossad. Ottenuto il permesso Vera Eichmann a fine aprile - raccontano gli archivi di stato, citati anche da Jta - si imbarcò a Zurigo su un volo della Swissair con il suo cognome da nubile, Loeb. Nel viaggio fu accompagnata da Else Gruder, segretaria dell'avvocato Servatius: le due donne arrivarono all'aeroporto di Lydda (come era allora chiamato il Ben Gurion) e rimasero a bordo fino alla discesa di tutti gli altri passeggeri. Poi furono prese dai servizi di sicurezza israeliani e condotte da un'uscita secondaria - dopo il controllo dei documenti - fuori dallo scalo. Da lì in macchina vennero trasportate direttamente alla prigione di Ramle, nel centro di Israele, non lontano dall'aeroporto.

 I registri del carcere
  Il registro del carcere indica che Vera 'Loeb' entro' nella prigione alle 00:20 del 30 aprile e ne uscì all'1:43. In quel lasso di tempo - secondo le stesse fonti - incontrò il marito in due riprese: la prima, la più lunga, attraverso il vetro divisorio e con le cuffie per parlarsi. La seconda volta - molto più breve - quasi soltanto per dirsi addio. Finiti i colloqui, la moglie di Eichmann e Else Gruder furono portate via ma non si sa dove passarono il resto della notte. La mattina dopo le forze di sicurezza le imbarcarono sul primo volo in partenza per Zurigo. Alle 10.00 dello stesso giorno, Adolf Eichmann - l'uomo che aveva materialmente organizzato, dopo la Conferenza di Wannsee, la morte di sei milioni di ebrei - chiese carta e penna: a mano - riporta il registro della prigione - scrisse i ringraziamenti per il direttore del carcere per avergli consentito di vedere per l'ultima volta la moglie. Un mese dopo Eichmann, il cui processo a Gerusalemme fu raccontato dalla giornalista Anna Arendt nel libro-resoconto La banalità del male, fu impiccato per crimini contro l'umanità: l'unica condanna a morte comminata dallo Stato ebraico.

(Panorama, 2 giugno 2015)


E' il nuovo antiebraismo il virus che destabilizza la Francia moderna

L'ultimo saggio del sociologo Pierre-André Taguieff

di Nicoletta Tiliacos

ROMA - La Francia che dopo gli attentati di gennaio si è divisa tra chi "è Charlie" e chi non lo è, vive una lacerazione molto più profonda e tanto più pericolosa perché non abbastanza riconosciuta. La analizza in un libro appena uscito ("Une France antijuive? Regards sur la nouvelle configuration judéophobe", Ed. Cnrs) il sociologo PierreAndré Taguieff, che da almeno due decenni studia le nuove forme di razzismo che allignano nella società francese. Il saggio segue di tredici anni "La nouvelle judéophobie" (Fayard) che tanto ostracismo provocò, da parte della gauche, contro il suo autore, colpevole di aver indicato nell'antisionismo la forma moderna (e socialmente accettata) dell'antico odio verso gli ebrei.
   Nel suo ultimo libro, Taguieff analizza le forme assunte in Francia dall'odio antigiudaico, "sostenuto da un antisionismo radicale impastato di complottismo e di una islamizzazione crescente della causa palestinese". Nel recensire il saggio di Taguieff su Causeur.fr, Jacques Tarnero - a sua volta studioso delle nuove forme di razzismo - scrive che per i giovani di origine arabo-musulmana delle banlieue francesi "la Palestina è diventata una patria immaginaria", in nome della quale si coltiva l'odio verso Israele e verso gli ebrei, vero "cemento identitario del loro risentimento". Taguieff mette in fila i sintomi - gli episodi, le polemiche, i segnali a lungo ignorati o minimizzati - di quella malattia antigiudaica che in Francia ha armato da ultimo la mano dei fratelli Coulibaly, così come aveva fatto con quella degli assassini e torturatori del giovane ebreo francese Ilan Halimi nel 2006. "Taguieff ha fatto del razzismo, e in particolare dell'antisemitismo - scrive ancora Tarnero - il barometro delle fluttuazioni ideologiche della Francia. Così facendo, egli ha totalmente rinnovato le categorie intellettuali che permettono di comprendere l'intima meccanica di questa incurabile malattia sociale… in prospettiva, questa storia della nuova configurazione antigiudaica contemporanea rivela, in profondità, tutto ciò che la République ha rifiutato di vedere, tutto ciò che i media hanno rifiutato di nominare, tutto ciò di cui gli intellettuali (ma non tutti) hanno rifiutato di prendere coscienza, perché è a partire da questa negazione della realtà che si è formata questa Francia antigiudaica, parte maledetta della nostra modernità".
   La "nuova giudeofobia" che si è insediata stabilmente nel paesaggio francese è il prodotto di molti anni perduti. E gli accadimenti del 7 e del 9 gennaio scorso a Parigi (l'attacco a Charlie Hebdo, dove l'unica donna uccisa è stata una ebrea, e la strage dell'Hypercaher) sono anche il prodotto del non aver voluto vedere, per un malinteso senso di solidarietà con i "deboli" e gli "svantaggiati", quanto la progressione dell'islamismo sviluppava simultaneamente una cultura del risentimento e dell'odio antiebraico. Per molti anni "le scienze sociali hanno preferito coltivare e alimentare ciò che era comodo coltivare e alimentare: la visione di un mondo diviso tra ricchi e poveri, senza preoccuparsi del fatto che i poveri potessero anche sviluppare odii ideologici simmetrici". Per averlo detto, Taguieff è stato a lungo considerato dai benpensanti della sociologia un reazionario. Oggi il suo libro spiega che è sulla questione ebraica che si gioca la sopravvivenza della Francia "in quanto nazione". Il premier Valls dice che "senza ebrei, la Francia non sarebbe più la Francia". E' arrivato il momento di crederci davvero.

(Il Foglio, 2 giugno 2015)


Prove di dialogo tra israeliani e palestinesi

Appelli alla distensione da Netanyahu e Rivlin.

TEL AVIV
Reuven Rivlin e Benjamin Netanyahu
- «L'unica via sono trattative dirette e credo che la soluzione sia due Stati per due popoli». Con queste parole, ieri, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha cercato di rilanciare le possibilità del dialogo in Vicino oriente. Nonostante il processo negoziale sia fermo ormai da più di due anni. «Mentre noi allentiamo le restrizioni i palestinesi hanno provato a delegittimarci con la Fifa» ha detto Netanyahu, facendo riferimento alla richiesta avanzata dalla delegazione palestinese al recente congresso di Zurigo di sospendere Israele dall'organizzazione mondiale di calcio. Per Netanyahu, occorre «mandare un messaggio chiaro ai palestinesi: fermate queste campagne e tornate ai negoziati senza precondizioni».
   Nonostante i molti tentativi dell'Amministrazione Obama di rilanciare il processo di pace, le trattative tra israeliani e palestinesi stentano a ripartire, soprattutto a livello diretto. Tali difficoltà sono emerse anche durante le ultime elezioni israeliane, lo scorso 17 marzo, dalle quali è uscito un Governo retto dall'alleanza tra il Likud di Netanyahu e i partiti di estrema destra legati al movimento dei coloni
. I palestinesi hanno fortemente criticato l'Esecutivo e sottolineato che precondizione fondamentale della ripresa del dialogo è il completo stop a tutti i progetti edilizi israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme est. E di certo contribuiscono a far crescere la tensione i recenti scambi di fuoco al confine con la Striscia di Gaza.
   Un nuovo appello al dialogo, intanto, era giunto due giorni fa dal presidente israeliano, Reuven Rivlin. «Non c'è bisogno di farci pressione: è chiaro per noi il bisogno di ricostruire Gaza e di rinnovare negoziati diretti» aveva detto il capo dello Stato. «La paura rischia di schiacciarci, semplicemente perché oggi è purtroppo più palpabile della speranza. La vera tragedia è che ebrei e arabi sono in conflitto per la stessa porzione di territorio.
   Dovremmo dire onestamente — secondo il presidente Rivlin — che «il conflitto è tra di noi, oltre che tra lo Stato di Israele e i nostri vicini palestinesi. Tale conflitto è presente anche fra i cittadini arabi ed ebrei di Israele.

(Avvenire, 2 giugno 2015)


Il Maometto di Art Spiegelman scompare dalle riviste inglesi.

Adesso si censura pure la copertina sull'autocensura. Il New Statesman, la "coscienza della sinistra inglese", ha deciso di non pubblicare nella copertina del numero "Saying the Unsayable" un vignetta di Art Spiegelman su Maometto

di Giulio Meotti

Art Spiegelman ha disegnato quaranta copertine del New Yorker. Il suo stile inconfondibile lo ha reso famoso in tutto il mondo con la striscia sulla Shoah, "Maus". Spiegelman non ha mai rinunciato alla provocazione, come quando un ebreo ortodosso baciò languidamente una donna di colore, o l'intervista a Bill Clinton, in cui i microfoni non puntarono alla bocca del presidente, ma al pube. Per questo Spiegelman aveva accettato volentieri di disegnare la copertina che New Statesman voleva dedicare alla censura e alla libertà di espressione dopo la strage a Charlie Hebdo.Fondato da Beatrice e Sidney Webb e da George Bernard Shaw, definito "la coscienza della sinistra inglese", New Statesman ha combattuto tutte le battaglie socialiste (John Maynard Keynes era nel consiglio d'amministrazione). E' successo che Spiegelman aveva mandato al magazine britannico il disegno per il numero speciale "Saying the Unsayable" curato da Neil Gaiman and Amanda Palmer. Il sito Internet del magazine aveva lanciato in anteprima la cover di Spiegelman, salvo poi rimuoverla rapidamente. "Non potevo accettare l'inaccettabile quando il magazine ha cassato l'accordo di includere la mia striscia sul 'Fondamentalista del Primo Emendamento'", ha commentato Spiegelman. Quest'ultima è la serie dedicata dall'artista newyorchese a Charlie Hebdo, in cui il celebre topolino di Maus dice: "Oggi un vignettista deve essere disposto a morire". E ancora: "E' meglio quando le vignette impartiscono lezioni al potere piuttosto che quando affliggono gli afflitti". "Il 'desiderio di non essere offesi' è un eufemismo per la paura". Spiegelman aveva poi messo il Profeta Maometto che esclama dentro a un recinto di mucche: "Se non difendiamo il perimetro non ci sarà un centro". Attorno, parole come "blasfemia" e "hate speech". Al posto della cover di Spiegelman è uscita una fotografia di Gaiman e Palmer. Alla fine è stata così censurata anche l'edizione sull'autocensura.
Non è la prima volta che i media inglesi si censurano sull'islam. L'emittente Sky News ha oscurato le vignette di Charlie Hebdo durante un collegamento in cui la giornalista francese Caroline Fourest ha provato a mostrarle a favore della camera. Sky News ha staccato, è tornato in studio e si è scusato "con coloro che si sentono offesi da queste immagini".
   Una scrittrice, Jennifer Epstein, si era sentita talmente offesa che aveva apposto la firma al boicottaggio del premio del Pen consegnato a Charlie Hebdo. Adesso Epstein ha diffuso una lettera di pentimento: "Come scrittori, dovremmo censurarci su temi che oggi sembrano automaticamente provocare una violenta punizione invece di protestare contro la violenza? Questo modo di pensare mi sembra più in linea con una società nazionalsocialista che con una democratica". Per i media anglosassoni, ma non solo, c'è davvero qualcosa di "unsayable".

(Il Foglio, 1 giugno 2015)


Lettera al Papa

Il Presidente della federazione italiana Italia- Israele, Carlo Benigni, ci ha gentilmente inviato, per conoscenza e diffusione, la lettera che la European Alliance for Israel ha inviato al Papa il mese scorso. Ecco il testo della lettera:

Zurigo, 21 maggio 2015

Per Sua Santità Papa Francesco
All'attenzione della nunziatura a Berna Monsignor Diego Causero

Santità, abbiamo l'onore, circondati da innumerevoli amici cattolici, ebrei e di tutte le convinzioni, animati dalla passione per la pace e la fratellanza, di esprimere alla vostra Santità il nostro grido angosciato per l'annuncio di eventi che ci lasciano sconcertati...
   Da decenni abbiamo preso atto con compiacimento della nascita di una nuova era nelle relazioni tra il Vaticano e lo Stato di Israele, tra la Chiesa e il popolo ebraico, un'era di dialogo e di comprensione, dopo secoli di sofferenza.
   Pensiamo in particolare all'accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele del 1993, che ha aperto un percorso innovativo nei rapporti bilaterali.
   Allo stesso modo pensiamo al linguaggio del Vaticano II sulle relazioni con l'ebraismo, ribadito poi dalle parole dei vostri predecessori e dalla vostra specifica presa di posizione.
   Apprendiamo ora che il Vaticano sta per firmare con lo "Stato di Palestina" un accordo che implica il suo riconoscimento: il riconoscimento di uno stato giuridicamente inesistente e inconsistente, senza confini, senza lingua, nessuna storia, nessun governo democratico, ispirato da dottrine estremiste che esaltano il terrorismo irredentista e negano al popolo ebraico il diritto di vivere nella sua terra, coltivando la vana e bellicosa speranza di annientamento di Israele.
   Più concretamente, constatiamo che la Giudea e la Samaria sotto l'Autorità Palestinese si svuotano della popolazione cristiana: essa rappresentava il 14% della popolazione totale nel 1993 e ora rappresenta solo il 3% di questa popolazione: i cristiani si rifugiano in Israele o altrove.
   Ci rendiamo conto, inoltre, che l'intero mondo arabo e musulmano dopo la pulizia etnica e religiosa, è "Judenrein" ed è anche "Christenrein", una realtà quantificabile. Per non parlare dei massacri e delle persecuzioni.
   Ricordiamo che in Israele oggi, in un contesto democratico, si praticano liberamente 17 religioni, tra le quali la religione cattolica, i cui luoghi santi sono protetti.
   Politicamente, dobbiamo ricordare che tutti i governi israeliani dal 1948, sia a destra che a sinistra, hanno accettato il principio della condivisione, vale a dire il principio dell'esistenza di due Stati in coesistenza pacifica e cooperazione, in un quadro di reciproco consenso.
   Inoltre, il riconoscimento unilaterale, da parte del Vaticano, comporterebbe una riduzione delle possibilità dell'instaurazione di un processo di pace e incoraggerebbe le autorità palestinesi ad allontanarsi dal tavolo delle trattative. Questo riconoscimento migliorerà la condizione dei cristiani e la tutela dei luoghi santi sotto l'amministrazione dell'Autorità palestinese e Hamas? Posso assicurare a vostra Santità che il mondo cristiano è preoccupato.
   Per tutte queste ragioni, esprimiamo l'auspicio, con rispetto e fermezza, che la Vostra azione per la pace si manifesti attraverso una forte disapprovazione per qualsiasi provvedimento unilaterale, e con un intervento affinchè Mahmoud Abbas, che Vi augurate che divenga "un angelo della pace", smetta di sostenere il terrorismo, la diffusione di odio nei cuori dei bambini palestinesi, inquinati allo scopo perpetuare la guerra, la pulizia etnica e religiosa dei cristiani e degli ebrei, la diffusione dell'antisemitismo, il rifiuto dei valori della civiltà e, in sintesi, la falsificazione della storia. Che egli riconosca il diritto del popolo ebraico sulla propria terra, evitando di porre precondizioni inaccettabili e distruttrici di ogni speranza di una trattativa costruttiva.
   Infine, affermiamo che noi, Ebrei e Cristiani, siamo impegnati nella stessa lotta contro il risorgere della barbarie nel mondo.
   Vi preghiamo di credere, Santo Padre, nella nostra più alta considerazione.

   Corina Eichenberger-Walter Presidente "European Alliance for Israel"
   Charles Meyer Vie-presidente "European Alliance for Israel"

(Notizie su Israele, 2 giugno 2015)


La polizia di Israele sgombra ebrei dal Cenacolo

Cercavano di impedire la messa, per la vicinanza alla tomba di re Davide

La polizia israeliana è intervenuta in forze nell'edificio del Cenacolo a Gerusalemme dove decine di dimostranti ebrei si erano barricati per il secondo giorno consecutivo al suo interno per impedire lo svolgimento di una messa. I religiosi ebrei protestano perché una sinagoga è attiva in prossimità di quella che, secondo la tradizione, è la tomba del biblico re Davide, e trovano offensivi l'uso dell'incenso e l'esposizione di croci. Messe vi sono ammesse solo tre volte l'anno.

(ANSA, 1 giugno 2015)


Acqua dal mare e niente sprechi. Così Israele ha battuto la siccità

Cinque impianti di desalinizzazione soddisfano quasi la metà dei consumi. E l'agricoltura è diventata la più ecologica al mondo: i segreti di un modello.

di Maurizio Molinari
inviato a Soreq

 
Esteso quanto sei campi da calcio, collegato al Mar Mediterraneo da una rete di tubi di 2,5 metri di diametro e in grado di produrre 624 mila metri cubi di acqua al giorno: è l'impianto di desalinizzazione di Soreq, ovvero il gioiello di tecnologia idrica che ha consentito a Israele di sconfiggere la siccità.
  Inaugurato nel 2013 a circa 10 km a Sud di Tel Aviv è «il più grande e avanzato impianto di desalinizzazione del Pianeta» spiega Avshalom Felber, ad di Ide Technologies che lo ha realizzato, e consente di produrre l'acqua potabile necessaria a un sesto degli otto milioni di abitanti del Paese con un sistema realizzato sulla base degli studi di Sidney Loeb, scienziato americano nato nel 1917 a Kansas City, immigrato a Beersheba nel 1967 e inventore dell'«osmosi al contrario». Il risultato sono forniture per un costo massimo di 500 dollari annui a famiglia.
  Per capire come funziona basta affacciarsi sui grandi silos che compongono l'impianto: l'acqua del Mediterraneo viene aspirata da tubi giganti, filtrata attraverso «membrane» hi-tech che la trasformano in acqua potabile, ottenendo dei residui salini - la «brina» - che vengono restituiti al mare. È così che Israele ottiene il 20% dell'acqua necessaria alle città che, sommata agli altri impianti simili realizzati a Ashkelon, Palmachim, Hadera e Ashdod - l'unico ancora in costruzione - somma il 40% del fabbisogno nazionale, destinato a diventare il 70% nel 2050.

 Le contromisure
  L'accelerazione sulla desalinizzazione risale al 2007 con la creazione di un'«Autorità delle Acque» che si rese necessaria per trovare una risposta alla siccità record dei 6 anni precedenti e consente oggi allo Stato ebraico di emanciparsi da questo pericolo è perché, sottolinea Gidon Bromberg direttore dell'asso- ciazione ambientalista «Americi della Terra in Medio Oriente», «si somma ai risultati nel riciclaggio delle acque e di una riduzione delle perdite». La capacità di riadoperare le acque già usate tocca l'86% del totale - un record assoluto, basti pensare che al secondo posto c'è la Spagna con il 17% mentre gli Stati Uniti sono fermi all'1 - andando a coprire il 55% del fabbisogno totale dell'agricoltura grazie a de- clinazioni innovative dell'alimentazione a goccia simili a quelle che il padiglione israeliano all'Expo 2015 mette in mostra con i campi verticali.
  La riduzione delle perdite è stata invece, dal 2007, del 18% per l'effetto combinato di nuove tecnologie capaci di identificarle in tempo reale e di un maggior autocontrollo da parte dei consumatori. La conseguenza è che una nazione composta al 60% di deserto per la prima volta dalla sua creazione, 67 anni fa, non teme la sete nè le guerre per l'acqua, potendo invece trasformare le tecnologie idriche in un ponte di cooperazione verso altri Paesi.
  L'esempio viene dal progetto per 900 milioni di dollari, varato in febbraio dalla Banca Mondiale, che vedrà realizzare entro il 2018 un centro di desalinizzazione nel porto di Aqaba consentendo la condivisione dell'acqua potabile ottenuta fra Giordania, Israele e Autorità palestinese. Depositando la «brina» ottenuta nel Mar Morto, che sarà collegato al Mar Rosso da un canale idri- co per sostenerne il livello. Nulla da sorprendersi se gli impianti di desalinizzazione attirano reazioni opposte: nell'agosto scorso Hamas tentò di colpirli con i razzi mentre il presidente ugandese Yoweri Museveni, appena sbarcato a Tel Aviv, ha chiesto di conoscere da vicino Soreq così come a visitarlo - con assai più discrezione - sono stati gli inviati di alcuni Paesi africani senza relazioni diplomatiche con Israele.

 Le critiche ambientaliste
  Le obiezioni nei confronti di Soreq arrivano dai gruppi ambientalisti israeliani che contestano la tecnica di aspirare acque dalle profondità del Mediterraneo considerandola dannosa per l'ecosistema, ma Micha Taub, ingegnere chimico dell'impianto, risponde: «Di ogni 100% di acqua marina, la metà diventa consumabile e metà torna al mare, limitando al massimo conseguenze per l'ecosistema» come dimostra il fatto «che finora non vi sono state proteste dei pescatori».

(La Stampa, 1 giugno 2015)


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