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Notizie 16-30 giugno 2016


Tel Aviv ospita il primo summit sugli investimenti Cina-Israele

 
Tel Aviv ospiterà INNONATION: China-Israel Investment Summit la più grande conferenze congiunta Cina-Israele mai realizzata.
L'appuntamento è per il 24-26settembre 2016 e segue il successo del primo convegno China-Israel Technology, Innovation & Investment Summit, che ha avuto luogo lo scorso mese di gennaio.
La conferenza congiunta binazionale, che è sostenuta dai governi di Cina e Israele, si svolgerà presso il David Intercontinental Hotel di Tel Aviv, in parallelo al DLD Innovation Festival, che si terrà a Tel Aviv intorno alle stesse date.
Il vertice INNONATION ospiterà più di 1.000 giocatori strategici e investitori dalla Cina, insieme a 500 aziende israeliane dell'alta tecnologia. Il vertice è aperto a imprenditori e aziende di vari settori: Smart Cities, dispositivi medici, tecnologia agricola e cleantech, internet e mobile.
Il vertice INNONATION è un'iniziativa congiunta del Ministero israeliano dell'Economia e dell'Industria e Infinity Group, organizzato in risposta al crescente interesse delle aziende cinesi verso l'economia israeliana e alle recenti acquisizioni cinesi di aziende israeliane.
Simile al primo evento, l'obiettivo del vertice è quello di incoraggiare la collaborazione tra le aziende israeliane e cinesi nei campi della tecnologia, innovazione e investimenti.
Gli organizzatori della conferenza fanno notare che più di 40 investitori cinesi hanno già assicurato la loro partecipazione, compresi i rappresentati di Fuson, Tencents, Lenovo, Baidu, Neosoft, Digital China, Cheetah Mobile, Cofco, BOE, LeTV, PPTV, Honey Capital e molte altre aziende.
Gali Dvir, uno degli organizzatori della conferenza, fa notare:

Le aziende israeliane che partecipano al vertice avranno diritto ad incontri pre-organizzati con potenziali investitori. Inoltre, le aziende saranno in grado di presentare i propri prodotti sul palco ed avviare opportunità di business.

(SiliconWadi, 30 giugno 2016)


Quella pace ritrovata con Israele. Vendetta dell'Isis: Turchia traditrice

Dopo anni di affari insieme, lo Stato islamico non ha gradito la svolta.

di Aldo baquis

Per Recep Erdogan e Benyamin Netanyahu — due leader da tempo del tutto incontrastati nei rispettivi Paesi — sono occorsi sei anni per superare il trauma del 30 maggio 2010, quando un commando di Shayetet 13, l'unità d'elite della marina militare israeliana, bloccò in alto mare la nave passeggeri turca Mavi Marmara, mentre si accingeva a forzare il blocco a Gaza. Calatisi da elicotteri, i militari furono assaliti da passeggeri armati di spranghe e scuri: una reazione che a tavolino non era stata prevista. Solo dopo ore di lotta riuscirono ad assumere il controllo della nave. Il bilancio dell'Operazione Venti del Cielo fu di nove civili turchi uccisi (un decimo sarebbe deceduto in seguito) e decine di feriti. L'assetto strategico di quel settore del Mediterraneo mutò immediatamente. Turchia e Israele — che fino ad allora avevano partecipato a esercitazioni militari congiunte — si guardavano in cagnesco. Abbassato il livello delle relazioni diplomatiche, Ankam inoltrò a Gerusalemme richieste perentorie: occorrevano scuse formali; indennizzi alle famiglie delle vittime; la rimozione definitiva del blocco di Gaza.
   Da tempo Erdogan si presentava come il primo paladino della causa palestinese: mentre altri parlavano, lui avrebbe scardinato il blocco di Gaza assecondando le flottiglie umanitarie dal gruppo islamista IHH. Dopo la Marmara, minacciò di scortare con navi da guerra turche nuove flottiglie per Gaza e autorizzò i suoi aerei da combattimento a colpire, se necessario, quelli israeliani. Dopo un assalto di dimostranti, la rappresentanza diplomatica di Israele divenne un fortino. Gli Stati Uniti erano sempre più allarmati. Nel 2013, durante la visita in Israele di Barack Obama, Netanyahu fu costretto a prendere il telefono e ad esprimere di persona «rammarico» a Erdogan. Israele accettò di versare 20 milioni di dollari alle famiglie delle vittime.
   Ma per completare la svolta avrebbero dovuto verificarsi altri sconvolgimenti: in primo luogo lo sgretolamento della Siria.
   Oltre che con Bashar Assad, Erdogan ha collezionato altri insuccessi in Libia, nonché nelle relazioni con la Russia, con l'Egitto di Abdel Fatah al-Sisi e con l'Arabia Saudita.
   Netanyahu nel frattempo ha perso quota nei rapporti con l'amministrazione Obama e con l'Unione europea. D'altra parte la minaccia nucleare dell'Iran inquietava sia Erdogan sia Netanyahu e (negli ultimi tempi) anche lo spauracchio dello Stato islamico. Per converso, gli scambi commerciali fra i due Paesi fiorivano (da 2,6 miliardi di dollari nel 2009 a 5,8 miliardi nel 2015) con un fiume di merci turche in transito dal porto israeliano di Haifa dirette verso mercati mediorientali, fra cui l'Iraq.
   La volontà di sfruttare assieme ingenti giacimenti israeliani di gas naturale nel Mediterraneo e i terribili attentati di cui la Turchia è stata vittima quest'anno (dai quali è risorta la cooperazione fra i rispettivi servizi di intelligence) hanno convinto Netanyahu ed Erdogan a fare l'ultimo passo. Erdogan non può ancora dire di aver forzato il blocco di Gaza: ma conferma ai palestinesi di essere il Capo di Stato più impegnato a loro favore. E la ricostruzione di infrastrutture a Gaza promesse dalla Turchia contribuisce alla stabilizzazione, ed è dunque anche negli interessi di Israele.
   
(Nazione-Carlino-Giorno, 30 giugno 2016)


Ben venga l'accordo con Israele

di Fiamma Nirenstein

Non ci poteva essere niente di più sensato e inevitabile, specie dopo il terribile attentato di martedì, dell'accordo fra Israele e Turchia che è stato sancito ieri dal Gabinetto di sicurezza. Eppure il documento è stato segnato da una discussione furiosa e emotiva, come avviene da queste parti dove democrazia significa spesso dissenso furioso. La collaborazione contro il terrorismo è uno dei punti importanti dell'intesa ed è interessante notare che la Turchia (che ha avuto oltre 280 vittime nell'ultimo anno), da protagonista in odore di rapporti sotterranei con Daesh, adesso è alleata con il peggior nemico del terrorismo internazionale, Israele.
   Certo questo non piace a Isis. Erdogan ha sempre usato l'odio per Israele come manifesto della sua identità islamista. L'accordo che ha dovuto siglare cercando di uscire dall'isolamento internazionale è una rinuncia ideologica importante, che dà un buon segnale, anche se superficiale agli altri acerrimi nemici di Israele, fra questi l'Iran; in secondo luogo cerca il turismo israeliano, immagina un reciproco incremento tecnologico e economico, disegna un possibile gasdotto che la liberi dalla penuria energetica, può essere un ponte fra Israele e la Nato, e non ottiene niente per il suo amico Hamas: Israele ha rifiutato qualsiasi trasferimento diretto di beni o l'apertura di Gaza, tutto deve passare attraverso il porto di Ashod, come ai tempi della Mavi Marmara, la nave che voleva portare aiuti a Hamas su incitamento turco e fu fermata in mare, con nove morti.
   Israele è criticata oggi per i 200 milioni che verserà alle famiglie degli uccisi, si è detto che questo sostituisce una premessa ad altri risarcimenti paradossali a famiglie di terroristi. Ma oggi la Turchia si impegna a impedire a Hamas azioni militari dal suo territorio e a ritirare accuse che possano portare soldati israeliani al tribunale internazionali. Però, la grande obiezione è più seria della politica: le famiglie di due soldati dispersi nell'ultima guerra a Gaza, Hadar Goldin e Oron Shaul, vogliono riavere i loro cari. Un altro israeliano Avra Mengistu, di origine etiope, è sparito dentro Gaza dal settembre 2014. Le famiglie protestano disperatamente perché nell'accordo non c'è l'imposizione a Erdogan di chiedere a Hamas di restituire i ragazzi. Ma era impossibile: l'eventuale difetto dell'accordo è tutto nelle sue machiavelliche ambizioni imperiali, che ora gioca la carta dell'Isis o di Hamas, ora quella del mussulmano moderato. Ma Israele lo sa.

(il Giornale, 30 giugno 2016)


“Le famiglie protestano disperatamente perché nell'accordo non c'è l'imposizione a Erdogan di chiedere a Hamas di restituire i ragazzi”. Se si è disposti a rischiare di veder morire i propri figli per difendere la propria terra, non si capisce perché non si deve essere disposti a perdere anche i loro corpi morti, se così deve essere. Si può capire il dolore delle famiglie, ma non sarebbe meglio pensare più ai vivi che ai morti? M.C.


Scoperto il tunnel della fuga dai nazisti. Così si salvarono 12 ebrei in Lituania

Realizzata con dei semplici cucchiai, la galleria era lunga 34 metri. È stata riportata alla luce da un team di ricerca internazionale nella località di Ponary, teatro dello sterminio sistematico di quasi 100mila persone.

di Marco Tonelli

I resti del tunnel
Un tunnel lungo 34 metri, scavato con dei semplici cucchiai per scappare dai nazisti. Ponary è una località poco distante da Vilnius, la capitale della Lituania. Una zona boscosa, teatro, dal 1941 al 1943, dello sterminio sistematico di quasi 100mila ebrei. Un anno dopo, poco prima dell'arrivo dei sovietici, l'esercito tedesco obbligò 80 internati (ebrei anche loro) del vicino campo di concentramento di Stutthof a bruciare i corpi ammassati nelle fosse disseminate in tutta la zona. Solo 12 di loro riuscirono a sopravvivere.

 La vittoria della disperazione
  I fuggitivi scavarono la galleria di nascosto, con la forza della disperazione. Per sessant'anni è rimasta nascosta, nel bel mezzo della foresta. Oggi un team di ricerca internazionale ha riportato alla luce un segreto rimasto nell'oscurità dalla fine della seconda guerra mondiale. Coordinata dall'Autorità archeologica israeliana, la squadra composta da ricercatori statunitensi, canadesi e lituani ha utilizzato uno scanner per "mappare" il terreno e trovare il cunicolo. Alla scoperta delle prime tracce, l'israeliano Jon Seligman è scoppiato a piangere. «È la testimonianza della vittoria della speranza sulla disperazione», ha spiegato alla BBC.
  Era la notte del 15 aprile 1944, 40 membri del Leichenkommando (com'era chiamato dai nazisti), iniziarono a calarsi nel tunnel. Ma le guardie si accorsero della fuga e iniziarono a sparare. Solo 12 di loro riuscirono a entrare nel tunnel e a raggiungere i partigiani. In 11 sopravvissero alla guerra per raccontare la loro storia. «Ponary è il ground zero dell'olocausto, la prova dello sterminio sistematico da parte dei nazisti prima dell'introduzione della camera a gas», ha raccontato al New York Times l'archeologo Richard Freund.

(La Stampa, 30 giugno 2016)


"Le terroriste che navigano i mari e sono membri della Knesset"

Ha suscitato un pandemonio, mercoledì pomeriggio alla Knesset, la parlamentare arabo-israeliana Hannen Zoabi quando, durante il dibattito sull'accordo di riconciliazione con la Turchia, ha definito "assassini" i soldati israeliani. Infatti, dopo aver chiesto la parola apparentemente per "scusarsi" (d'essere stata lei stessa sulla nave pro-Hamas Mavi Marmara), Hannen Zoabi ha invece esclamato: "Quelli che devono chiedere scusa sono i soldati israeliani che hanno assassinato! Voi tutti dovete chiedere scusa!", suscitando vivacissime proteste e contestazioni da parte dei deputati presenti. Alla fine Zoabi è stata espulsa dall'aula, insieme ai più vivaci dei suoi contestatori. Nel maggio 2010, sulla Mavi Marmara, una delle sei navi di una flottiglia diretta a Gaza per forzare il blocco anti-terrorismo israeliano, alcune decine di estremisti armati si opposero alla perquisizione delle Forze di Difesa israeliane aggredendo con violenza i militari. Nello scontro, nove estremsti turchi rimasero uccisi. In serata il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto d'aver parlato con il procuratore generale Avichai Mandelblit "per esaminare un eventuale processo di impeachment a carico di Zoabi". Il ministro della difesa Avigdor Lieberman ha commentato su Facebook: "I soldati delle Forze di Difesa israeliane continueranno combattere contro i terroristi in mare, a terra e in cielo, comprese le terroriste che navigano i mari e sono membri della Knesset".

(israele.net, 30 giugno 2016)



Parashà della settimana: Corach (Core)

Numeri 16:1-18:32

 - Corach, Dathan e Aviram, fomentano una rivolta di popolo contro Moshè accusato da costoro di abuso di ''Potere''.
  Corach è un appartenente alla tribù di Levi (tribù sacerdotale) che pretende la carica di sommo Sacerdote data invece ad Aronne, mentre Dathan e Aviram rivendicano la primogenitura che era stata data ai figli di Giuseppe. E' dunque una rivolta per la conquista ''personale'' del potere, manipolando la Parola di D-o (Torah).
  Quali erano le argomentazioni di Corach, Dathan e Aviram?
  ''Si adunarono contro Moshè ed Aronne e dissero: ''Vi basti! La Comunità è tutta ''Santa'' e in mezzo a loro è presente il Signore. Perché vi elevate al di sopra della congrega di D-o?'' (Numeri 16.3).
  Il tema dell'uguaglianza viene usato dai ribelli come arma politica per sobillare il popolo, occultando i veri motivi della sommossa.
  Cosa chiedevano i rivoltosi dopo il fallimento della spedizione degli esploratori in Terra d'Israele? Chiedevano di tornare in Egitto, vanificando in questo modo il progetto Divino. La rivolta non era diretta soltanto contro Moshè, ma contro la volontà di D-o Benedetto, che aveva liberato il popolo dalla schiavitù egiziana con prodigi e miracoli.
  Bisogna ora chiedersi: ''Perchè la parashà degli esploratori termina con l'obbligo per gli ebrei di mettere gli ziziot (frange) ai quattro angoli dei vestiti? Esiste un legame con la parashà di Corach?"
  Nella Torah a riguardo è scritto: ''Esse (ziziot) saranno per voi delle frange, che quando le vedrete, ricorderete tutti i precetti del Signore e li eseguirete'' (Numeri 15.39).
  Il peccato degli esploratori è quello degli ''occhi''. Durante l'esplorazione nelle Terra d'Israele, essi videro'' dei giganti, delle città fortificate fino al cielo'' e pensarono che mai sarebbe stato possibile conquistarla.
  Giosuè, un discendente di Giuseppe che aveva ricevuto la benedizione di essere al disotto degli occhi, cioè non farsi impressionare dall'apparente logica della storia (pragmatismo), riuscì con successo a conquistare il Paese.
  Il peccato di Corach è simile. Egli vede nella sua futura discendenza la presenza del profeta Samuele e ritiene di essere se stesso il designato alla carica di sommo Sacerdote. Questa certezza ''oculare'' fu la ragione della sua rivolta per conquistare il potere.
  Corach è il primo ebreo che crea un partito politico usando la Torah per i suoi interessi personali e purtroppo non sarà l'ultimo.
  Dathan e Aviram sono state le colonne di questo partito. Furono loro a denunciare Moshè al Faraone riguardo all'uccisione della guardia egiziana, furono loro a istigare il popolo a fabbricare il vitello d'oro e sono loro a sostenere Corach nella rivolta.
  Dathan e Aviram nella Torah sono il simbolo degli ebrei dell'esilio. E' una malattia questa tipicamente ebraica, difficile da guarire perché rimpiange continuamente l'esilio. L'idea di una Nazione ebraica difatti spaventa questi ebrei come aveva spaventato gli esploratori.
  Moshè mandò a chiamare Dathan e Aviram per trovare un accordo di pace, ma essi così risposero: ''Non verremo! Ti par poco di averci fatto uscire dall'Egitto per farci morire nel deserto…. Noi non verremo'' (Numeri 16.13).
  Il messaggio di questa parashà è di un'attualità bruciante. Non è sufficiente uscire fisicamente dall'esilio bisogna uscirne anche spiritualmente, per raggiungere una vera identità ebraica, come descritta nella Torah.
  Corach, insieme ai rivoltosi, vengono invitati da Moshè a presentarsi davanti al Tabernacolo con i propri incensieri in modo che fosse D-o stesso tra di loro il giudice di verità (Numeri 16.18).
  Erano in tutto 250 ed il Signore disse a Moshè ed Aronne :'' Separatevi da questa assemblea che I-o li annienti in un istante'' Num 16.21
  La terra si aprì sotto le tende delle famiglie dei rivoltosi che vennero da questa ingoiati, mentre un fuoco uscì dal Signore, divorando i duecentocinquanta uomini che avevano offerto l'incenso in modo arbitrario (Numeri 16.35).
  ''L'indomani tutta a Comunità d'Israele protestò contro Moshè ed Aronne e disse: Voi fate morire il popolo del Signore'' (Numeri 17.6).
  Anche in questa circostanza il Signore sarebbe stato intenzionato ad annientare il popolo, considerata la sua cecità. Moshè questa volta usa una strategia diversa. Ordina ad Aronne il sacerdote di prendere l'incensiere e andare tra il popolo a offrire l'incenso a D-o Benedetto, cosa questa che avrebbe fatto perdonare le colpe commesse.
  ''Aronne mise dell'incenso ed espiò per il popolo. Si pose tra i morti e i vivi e il flagello si arrestò'' (Numeri 17.12).
  L'incenso rappresenta la relazione intima tra l'uomo e D-o che veniva offerto dal sacerdote nella parte più interna del Tempio, cosa questa permessa ''solo'' ai sacerdoti. Corach non poteva accettare di esserne escluso.
  C'è da chiedersi infine: "Come mai Moshè cambia strategia difronte alla colpa del popolo che era ancora più grave?''
  La differenza consiste nella natura del peccato: per Corach si trattava di un piccolo gruppo animato da interessi personali, per la Comunità invece era l'intero popolo che peccava ed andava perdonato.
  "Am Israel hai ve kaiam!" (Il popolo d'Israele vive ed esiste!). F.C.

*

 - Il patto originario contratto tra Dio e il popolo d'Israele, siglato in modo solenne con spargimento di sangue ai piedi del Sinai (Esodo 24:2-8), è stato irrimediabilmente violato dal popolo con l'adorazione idolatrica del vitello d'oro. Per l'intercessione di Mosè il rapporto tra Dio e il suo popolo non si è definitivamente interrotto, ma ha assunto il carattere di una problematica e rischiosa convivenza che appare sempre in bilico di essere definitivamente interrotta da parte di Dio, che si riserva, senza sentirsi obbligato da un patto ormai rotto, di dare corso alla sua originaria intenzione di distruggere il popolo, come aveva detto a Mosè dopo il tradimento del vitello d'oro. A questo punto del viaggio per ben quattro le volte il popolo ha rischiato di sparire dalla faccia della terra, e ogni volta se questo non è accaduto è stato per l'intercessione di Mosè. Che succederà quando Mosè non ci sarà più? avrebbe potuto chiedersi allora qualche pio israelita. Anche noi possiamo chiedercelo: come mai Mosè è morto e il popolo d'Israele continua a vivere? Si è ravveduto? Ha cominciato a rigare diritto? La storia successiva non sembra confermarlo.
  Lasciando queste domande senza risposta, esaminiamo l'occasione che ha fatto correre un serio rischio al popolo d'Israele. Anche in questo caso tutto è legato a quello che abbiamo detto essere l'elemento distintivo del popolo eletto: l'Eterno in mezzo a loro. L'argomentazione con cui i tre capipopolo Core, Datan e Abiram si presentano a Mosè, insieme ad altri duecentocinquanta uomini importanti, è questa: l'Eterno ci ha fatto l'onore di essere in mezzo a noi, quindi tutti, ad uno ad uno senza esclusione, siamo stati santificati. Dunque voi, Mosè ed Aaronne, non avete alcun diritto di elevarvi sopra gli altri, perché siamo tutti santi.
  L'argomentazione è interessante e attualissima: è una questione di democrazia. Oggi avrebbero detto: siamo tutti uguali, ma voi volete essere più uguali degli altri. In sostanza hanno detto la stessa cosa in un contesto diverso: siamo tutti santi, ma voi volete essere più santi degli altri, chi vi ha dato l'autorità di ordinarci quello che dobbiamo fare? Forse ha ragione chi dice che il popolo ebraico ha inventato la democrazia. Dopo la missione esplorativa in terra di Canan infatti gli israeliti si erano detti: nominiamoci un capo e torniamo in Egitto. Così si fa in democrazia: governo di popolo, nessuna autorità dall'alto, e se in alto c'è qualcuno gli concediamo di rimanerci, ma non gli permettiamo certo di venirci a dire quello che dobbiamo fare.
  In questo caso però l'argomentazione dei contestatori aveva un punto debole. Si erano appoggiati sul fatto che l'Eterno è in mezzo al popolo, e questo secondo loro avrebbe automaticamente santificato tutti e fatto sparire ogni distinzione. Avevano però tralasciato di considerare che il Dio che li nobilitava con la sua presenza in mezzo a loro è anche un Dio che parla. Lo sapevano, perché l'avevano sentito molto bene quando si erano sciolti dalla paura ascoltando la sua voce terrificante che nominava uno dopo l'altro i dieci comandamenti dall'alto del Sinai, ma forse pensavano, come pensano molti ancora oggi, che il Signore, sì, una volta, nel passato, ha parlato, ma adesso non parla più. Adesso lascia parlare noi. E si compiace di sentirci parlare, vuole proprio che dialoghiamo fra di noi, e che ciascuno pensi quello che gli sembra meglio, e che dica quello che gli sembra giusto, e che faccia quello che gli pare bene. Così si pensa.
  Mosè invece, ben sapendo che l'Eterno non aveva mai comunicato che avrebbe smesso di parlare, si è prostrato davanti a Lui e cercando la sua faccia gli ha chiesto di parlare apertamente e di far conoscere a tutti il suo pensiero.
  E l'Eterno, che effettivamente era in mezzo a loro come avevano detto i capipopolo, è apparso nella sua gloria e ha parlato. Dopo di che i contestatori hanno dovuto prendere atto, a loro spese, che se il popolo come tale è santificato dalla presenza dell'Eterno, ai suoi occhi sono santi soltanto coloro che ascoltano davvero la sua Parola e la mettono in pratica.
  Questo può aiutare a capire le parole dell'apostolo Paolo quando dice "... non tutti quelli che sono di Israele sono Israele" (Romani 9:6), volendo con ciò significare che non basta far parte del popolo etnico da Lui scelto per essere a Lui graditi, cioè "santi" ai suoi occhi. La scelta del popolo d'Israele è stata fatta da Dio una volta per sempre e non sarà revocata, ma la scelta di far parte o no del numero dei "santi" graditi a Lui spetta a ciascuno di noi individualmente, e non dipende in modo essenziale dal popolo di appartenenza. M.C.

  (Notizie su Israele, 30 giugno 2016)


Aeroporti vulnerabili: così abbiamo paura di andare in vacanza

Prima Bruxelles, poi Istanbul. I terroristi agiscono sempre nello stesso modo. E proprio quando si avvicina il periodo delle vacanze, gli aeroporti ci fanno un po' più paura.

di Daniele Eboli

Dopo ogni attentato in un aeroporto la domanda è sempre la stessa: come fanno i terroristi a eludere i controlli? L'aeroporto Ataturk di Istanbul, dove ieri alcuni attenatori hanno aperto il fuoco e si sono poi fatti saltare in aria uccidendo 41 persone e ferendone altre 147, aveva dei controlli rafforzati.
  I viaggiatori sono infatti sottoposti a due screening: uno prima di entrare nel terminal per i voli internazionali, il secondo dopo la verifica del passaporto. Inoltre a 500 metri dall'ingresso del terminal vengono eseguiti dei controlli a campione sui veicoli in transito. Misure di sicurezza che non esistono nella maggior parte degli aeroporti europei. L'aeroporto di Bruxelles, dove il 22 marzo scorso sono morte 17 persone per un attacco dell'Isis, aveva dei controlli standard. Eppure il risultato è stato lo stesso.
  I terroristi sfruttano le vulnerabilità delle strutture, certi di trovare un buco nella sicurezza. Bob Baer, ex ufficiale della CIA, disse che non esiste un modo per proteggere gli aeroporti da attacchi di questo tipo. "Non al 100%, specialmente in stati come la Turchia dove l'Isis ha celle ovunque". Anche se non è confermata la paternità dell'attentato, la sostanza rimane: dopo l'11 settembre la sicurezza è aumentata fino a evitare che gli attentatori riuscissero a salire su un aereo per dirottarlo, ma è quasi impossibile prevenire un attacco all'interno di uno scalo. L'attentato al jet russo nel Sinai e quello all'Airbus somalo hanno poi dimostrato che un infiltrato tra gli addetti ai bagagli può piazzare una bomba nella stiva.
  L'attentato di Bruxelles e quello di Istanbul hanno molti punti in comune. Uno fra questi, come ha ricordato Guido Olimpo sul Corriere della Sera, è l'azione multipla. In Turchia si sono fatte esplodere tre persone, mentre in Belgio i kamikaze erano due. Un terzo ordigno è stato però ritrovato poco dopo le esplosioni. Concentrandosi su più punti gli attentatori distraggono le difese, obbligando la sicurezza dello scalo a dividersi su più fronti, lasciando magari sguarniti altre zone.

 Tel Aviv, uno degli aeroporti più sicuri al mondo
  Nel 1972 l'Armata rossa giapponese attaccò l'aeroporto di Tel Aviv, uccidendo 24 persone e ferendone altre 80. Da quel momento lo scalo adottò misure di sicurezza speciali, tanto da renderlo l'aeroporto più sicuro al mondo. Sono stati creati diversi livelli di controlli, alcuni dei quali neanche visibili agli oltre 16 milioni di passeggeri che sono di transito ogni anno.
  A Tel Aviv è stato predisposto un enorme spargimento di forze. Gli uomini della sicurezza si mimetizzano in mezzo ai passeggeri all'ingresso, sulle navette e nell'area del check in. Come riporta la Cnn, lo scalo è stato accusato di sottoporre a controlli più serrati i palestinesi e gli arabi. Le misure adottate in Israele non sono riproponibili in tutto il mondo. Per motivi economici, ma anche perché difficilmente in occidente saremmo disponibili superare così tanti livelli di sicurezza prima di prendere il nostro volo.

(il Giornale, 29 giugno 2016)


Ecco perché gli israeliani hanno perso fiducia nelle Nazioni Unite

Lettera aperta a Ban Ki-moon da parte di due parlamentari israeliani, della maggioranza e dell'opposizione

Gli autori di questo articolo: Michael Oren, parlamentare del partito Kulanu, e Omer Barlev, parlamentare del partito laburista
Egregio signor Segretario Generale, bentornato in Israele, l'isola di democrazia e stabilità in questa regione che ha imposto così tante sfide alle Nazioni Unite durante il mandato da lei ricoperto alla sua guida.
Ci auguriamo che la sua visita promuova la pace e la sicurezza per noi e i nostri vicini, ma non possiamo non domandarci: cosa è accaduto nei nove anni del suo mandato come Segretario Generale delle Nazioni Unite? L'Onu si è attenuta agli obiettivi del proprio Statuto? Garantisce a Israele pari diritti come nazione eguale fra le nazioni, grandi e piccole? E le agenzie delle Nazioni Unite che operano qui, sono attivamente impegnate nella promozione di questi obiettivi?...
  


(israele.net, 29 giugno 2016)


Cosa conviene comprare a Tel Aviv

Cosa conviene comprare a Tel Aviv? La città israeliana offre colori e sapori incredibili, da conservare indelebilmente in un souvenir.

 
Sapere cosa conviene comprare a Tel Aviv non deve destare preoccupazione in tutti coloro che hanno programmato un viaggio nella bella città israeliana. Tel Aviv è un luogo in cui i negozi occidentali si uniscono a quelli orientali, in un'atmosfera colorata e decisamente cosmopolita. I bazar sono una parte integrante della località israeliana, così come le boutique e gli shop per l'abbigliamento, dove si possono acquistare capi delle grandi griffe mondiali. Da non mancare una visita dei centri commerciali e gli outlet, ideali per fare qualche ottimo affare sugli apparecchi hi-tech.
Chi ha programmato un viaggio in territorio israeliano e intende conoscere cosa conviene comprare a Tel Aviv, può cominciare da un tour dei mercati. Il Levinsky Market, tra i più famosi d'Israele: lo scenario è ricco di colorate bancarelle con specialità tipiche dell'area medio-orientale come hummus, pita, mejadra e l'halva. Per gli appassionati dell'antiquariato c'è il Jaffa Flea Market, un enorme mercatino delle pulci a due passi dal porto. La contrattazione è consigliata e, se riuscite ad essere perseveranti con il venditore, porterete a casa un superbo souvenir, come un testo antico o un candelabro ebraico.
Tel Aviv non è solo mercati, dato che la località israeliana è ricca di punti per lo shopping. La strada di Hayarkon, lungo lo splendido litorale sul Mar Mediterraneo, ospita numerosi shop di abbigliamento con brand internazionali e americani. Interessanti anche i negozi di apparecchi elettronici, presenti in gran numero sempre nella zona portuale. Le aree di Kikar Hamedina e Dizengoff sono invece quelle con la maggiore concentrazione di atelier di alta moda, con capi griffati dagli artisti di maggiore tendenza di tutto Israele.
Tel Aviv è una città vibrante e perfetta per quanti vogliono fare grandi spese nei grandi magazzini. L'Azrieli Mall, vicino al quartiere di Sarona, è uno dei principali centri commerciali cittadini e ospita centinaia di negozi ideali per l'acquisto di fotocamere digitali e prodotti tecnologici. Assai grande è l'Ayalon Mall, nel vicino distretto di Ramat Gan, dotato di locali che vendono prodotti israeliani e delle grandi catene internazionali. Chi è interessato all'abbigliamento apprezzerà l'Holon, un grande outlet specializzato in prodotti Adidas.

(Si Viaggia, 29 giugno 2016)


L'ambasciatore israeliano Naor Gilon incontra il presidente della Regione Sardegna

Visita istituzionale a Villa Devoto, questo pomeriggio, dell'Ambasciatore d'Israele in Italia, Naor Gilon, ricevuto dal presidente della Regione Francesco Pigliaru. Nel corso dell'incontro sono stati esaminati i possibili punti di collaborazione tra la Sardegna e Israele, mettendo al primo posto i temi delle ICT e dell'agroalimentare.
Sul fronte delle nuove tecnologie, l'ambasciatore Gilon ha spiegato come Israele ricopra un ruolo di rilievo nello scenario internazionale: la presenza di oltre 3000 aziende del settore ne fa, infatti, uno dei massimi centri di concentrazione di società Hi-Tech.
Per quanto riguarda l'agroalimentare, il presidente Pigliaru ha espresso apprezzamento per i metodi e le tecnologie di irrigazione elaborati per rendere produttivi terreni difficili e che sono considerati un vero modello di eccellenza, esprimendo la volontà di attuare tutte le iniziative necessarie per favorire e ampliare le relazioni tra i centri di ricerca israeliani e quelli sardi.

(Buongiorno Alghero, 29 giugno 2016)


Turchia-Israele - Firmato l'accordo sulla ripresa dei rapporti

I rappresentanti di Turchia e Israele hanno siglato il testo che sancisce la normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi, drasticamente interrotte nel marzo 2010 in seguito alla morte di dieci attivisti turchi della Mavi Marmara, la nave turca assaltata dall'esercito israeliano mentre tentava di forzare il blocco su Gaza. L'accordo, sul quale hanno messo la firma i rappresentanti dei due paesi Feridun Sinirlioglu e Dore Gold hanno posto la forma nelle rispettive capitali a un accordo che sarà ora ratificato dai parlamenti, un passaggio che sarà il preludio al ritorno degli ambasciatori presso le rispettive sedi. Israele risarcirà le famiglie delle vittime con 20 milioni di euro, mentre gli aiuti destinati a Gaza, circa 10 mila tonnellate di materiale che costituiscono la seconda parte dell'accordo, saranno scaricate nel posto di Ashdod a partire dal prossimo venerdi. Un ospedale da campo da 200 letti, un'impianto per la depurazione dell'acqua e una centrale per sopperire al fabbisogno di elettricità degli abitanti della Striscia sono anche parte dell'accordo. La normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi permetterà al gas del giacimento israeliano Leviatano di raggiungere l'Europa attraverso un gasdotto che passerà dalla Turchia. Alcuni progetti edilizi saranno realizzati dalla Turchia a Gaza, mentre il presidente israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato il mantenimento del blocco navale su Gaza.

(Il dubbio, 29 giugno 2016)


L'ombra dell'Isis si allunga sull'intesa Turchia-Israele

di Fabio Nicolucci

L'attentato che ha sconvolto Istanbul ieri sera è l'ultimo di una vecchia serie o il primo di una nuova? Dopo la conta dei morti e il lavoro dei soccorritori e dei medici, questa è la domanda alla quale occorrerà dare una risposta se si vuole approntare una efficace risposta estrategia difensiva. La Turchia ha infatti visto negli ultimi tempi una numerosa serie di sanguinosi attentati. Sia ad opera dell'Isis sia dei curdi più irriducibili. I primi venivano dal vicino teatro di guerra della terribile guerra siriana, uno scenario regionale con implicazioni globali, dove è infatti presente l'Isis e la sua strategia di morte globale insieme a molti attori reginali, nascosti o evidenti. Ma molti sono stati invece opera della frangia curda più irriducibile, che a fatica aveva per qualche tempo scelto di desistere dalla sua tradizionale scelta terroristica, per poi rinnegarla sia per la spinta di una dialettica interna tra "militari" e politici" sia per una risposta condizionata dalla svolta autoritaria di Erdogan, suggellata dalle seconde elezioni politiche dell'autunno scorso che gli hanno consegnato le chiavi del paese, dopo lo stallo seguito a quelle interlocutorie dell'estate.
   Se fosse questa l'origine e la casa dei mandanti dei quattro kamikaze che si sono fatti esplodere nell'aeroporto d Istanbul, la dinamica di questo attentato è l'ultimo di una lunga e purtroppo annosa serie, che segue dinamiche locali e processi politici più turchi che regionali o globali, malgrado la Turchia abbia fatto di tutto per regionalizzare suo malgrado questo conflitto con la lotta anche ai curdi siriani oltre che turchi, i quali si sono conquistati uno spazio nel conflitto con l'Isis con l'eroica resistenza a Kobane.
   Se invece si tratta dell'Isis, le cose cambiano. Perché non può sfuggire che questo attentato è il primo dopo la Brexit e l'instabilità che ne sta venendo, e dunque può essere il tentativo di leggere in filigrana e interpretare "politicamente" le difficoltà di un continente a cui comunque la Turchia, non solo e non tanto per l'accordo sui migranti quanto per la sua appartenenza alla Nato e i suoi legami storici — colpevolmente negati e rimossi dalla stessa Europa matrigna — appartiene. Se dunque l'aeroporto di Istanbul si rivelerà uno scalo di quello di Bruxelles e non di Baghdad — dove l'Isis sta ricevendo colpi assai duri e potrebbe aver deciso di mandare qualche cellula a colpire lì dove è in grado, cioè nella regione — all'orrore per queste ennesime morti di civili e viaggiatori innocenti si aggiungeranno brividi freddi lungo la schiena dei governanti europei e occidentali. Perché magari ci sarà il tentativo di giustificare in questo caso l'attentato come una rappresaglia per il recente accordo della Turchia con Israele, siglato proprio a Roma due giorni fa, a chiudere la rottura dei rapporti fino ad allora eccellenti dovuta alla crisi della navi Maramara davanti Gaza.
   Ma in ogni caso, in questo caso, non sarà possibile farsi illusioni. Vorrà dire che l'Isis avrà deciso di "esternalizzare" il conflitto, per tentare di leggere la fase e colpire lì dove gli sembra la resistenza possa essere più lenta. E dunque ad essere chiamata in causa sarà l'Europa, con una urgenza in più a sciogliere i nodi aggrovigliati dalla Brexit e dalla questione dei migranti, e l'occidente, con la necessità di varare una risposta anche politica e diplomatica nella lotta all'Isis, da affiancare a quella che militarmente si sa portando avanti ora a Falluja e tra poco a Mosul.
   
(Il Messaggero, 29 giugno 2016)


Israele vuol far rivivere la ferrovia ottomana

Dovrebbe unire il porto di Haifa con il confine giordano

Stazione di Haifa - 1931
Oltre un centinaio d'anni fa, l'Impero ottomano costruì una linea ferroviaria per traghettare le merci su locomotive a vapore dal Mar Mediterraneo al souk di Damasco e a Medina, città santa in Arabia Saudita. Adesso Israele è pronta a riaprire quel vecchio tracciato tra il porto di Haifa e un terminal a 5 miglia di distanza dal confine della Giordania. Lo sforzo è di incrementare il commercio, moribondo, con i paesi arabi confinanti. Ma questi hanno riservato al progetto un'accoglienza gelida. L' ex ferrovia di Hejaz collegava l'area che oggi è Israele con il mondo arabo più a est, oltre i territori lacerati del Medio Oriente. Dopo la creazione di Israele nel 1948, fu smantellata e il commercio regionale è stato penalizzato da una serie di guerre arabo-israeliane.
   «Abbiamo sempre pensato che questa linea potesse diventare il simbolo di pace nei territori della regione», ha specificato Ban Bozenfeld, direttore del progetto per la nuova linea ferroviaria di 40 miglia (circa 64 chilometri) per i treni elettrici attraverso le fertili pianure della Valle di Jezreel, a Sud-Est del mare di Galilea. «E da tanto che aspettiamo».
   La nuova linea, costata all'incirca un miliardo di dollari (900 milioni di euro), che aprirà a ottobre, è promettente, secondo il ministro israeliano dei trasporti. I traffici commerciali su strada e via aerea in Israele hanno subito una rilevante crescita negli ultimi anni, dal momento che le compagnie di navigazione hanno evitato la Siria dall'inizio della guerra, nel 2011. 11 traffico merci al valico di Sheikh Hussein tra Israele e Giordania è aumentato del 65% tra il 2010 e il 2015, con il numero di camion quadruplicato in cinque anni, fra il 2010 e il 2015 secondo l'autorità aeroportuale israeliana.
   Le merci (arance spagnole, tessuti giordani, componenti di auto provenienti dall'Europa) sono state trasportate sulle navi portacontainer fino al porto di Haifa e poi hanno proseguito su gomma verso la Giordania o l'Arabia Saudita, l'Iraq e i paesi del Golfo. Al porto di Haifa, un camionista turco di 43 anni ha scaricato merci venute da Mersin in Turchia. Era solito guidare attraverso la Siria per portare frutta e verdura nella capitale della Giordania, Amman. Ora deve andare via mare attraverso il canale di Suez per consegnare le merci in Arabia Saudita, o via terra attraverso l'Israele per arrivare in Giordania. L'itinerario israeliano «è la via migliore per il business» perché più economica e richiede meno tempo, secondo un camionista veterano che da 20 anni fa questo lavoro, «e questo la rende una via promettente». Tuttavia, lo sviluppo dell'itinerario commerciale è ostacolato da interessi economici e politici che impediscono ancora a Israele di diventare una porta per il commercio regionale.
   
(ItaliaOggi, 29 giugno 2016)


Qualcuno mi dica dov'è la Terrasanta

di Deborah Fait

Sono confusa e turbata, mi sento un po' come se mi mancasse la terra sotto i piedi, come se fossi sull'orlo di un burrone. Non riesco più a capire dove sia questa famosa Terrasanta. Da come ne parlano i media credevo fosse Israele paese di cui non si vuole mai pronunciare il nome e allora lo si cambia, così tanto per non abituare la gente a sentirlo.
   Invece no! Nella trasmissione "Regioni e Ragioni del Giubileo" andata in onda al TGR l'11 giugno, l'inviato della Rai Giorgio Lunelli ha presentato il nuovo custode di Terrasanta, il francescano trentino Francesco Patton successore di quel Pierbattista Pizzaballa che, ringraziando tutti gli dei del cielo, se n'è andato in pensione o da qualche altra parte. L'inviato Lunelli prima di intervistare Padre Patton ha fatto un annuncio incredibile che va al di là di ogni fantascientifica fantasia, ha detto che questa Terrasanta benedetta di cui tutti blaterano, si trova nei "territori palestinesi, Giordania, Libano e persino nella martoriata Siria e... Gerusalemme..." che non si sa dove sia e di quale di questi paesi faccia parte! Israele non è stato mai mai mai nominato se non alla fine della trasmissione ma non come Nazione sovrana bensì in chiave religiosa...
   "Le sante radici di Israele". O perbacco! Ma allora, dal momento che l'inviato era a Gerusalemme e che ha nominato per prima cosa i "territori palestinesi", significa che Gerusalemme ne fa parte. E se invece fosse in Libano? O addirittura in Siria e magari in Giordania? E io che credevo che Gerusalemme fosse in Israele e ne fosse addirittura la capitale. Ma allora tutti i miei amici gerosolimitani dove sono? E perché quando io vado a Gerusalemme non devo presentare nessun passaporto? Forse è il caso di fare un po' di ordine. Nel Medioevo e durante le crociate la Terrasanta era considerata dalla cristianità come il luogo dove era nato e aveva predicato Gesù, l'ebreo Gesù (vissuto, secondo i Vangeli, tra Nazareth, Gerusalemme, Mar di Galilea, Cafarnao, non certo Beirut o Damasco).
   Vi sono antiche cartine geografiche dell'epoca medievale che indicano come Terrasanta l'antico e l'attuale Israele per passare poi in cavalleria (ma non per la Chiesa) e diventare Palestina sotto il mandato britannico. Infine con la nomina a capo dell'OLP del terrorista più feroce e furbacchione del mondo ecco ricomparire il termine Terrasanta subito adottato dai più per rispetto ad Arafat... sì proprio lui, il terrorista più amato dagli italiani e dal Vaticano. Qualcuno si chiederà: "Ma dove sta il problema?" Il problema è che finché in questa regione geografica non esisteva uno stato dopo la caduta di Israele voluta dai Romani, posso capire che i cristiani la chiamassero col nome che più amavano e più si confaceva alla loro fede. Ma oggi la Terrasanta del Medioevo ha un nome, un nome molto chiaro e bello: Israele ed è così che deve essere chiamato questo paese, non Terrasanta.
   Cosa c'entrano Libano, Giordania e Siria? Paese dove Gesù non ha mai messo piede? Perché lo scrive il Corano? Il Corano mette Gesù anche a La Mecca e Medina! E allora mettiamoci anche l'India visto che alcuni testi parlano della presenza di Gesù anche là. Ma quanto deve aver camminato quel povero Cristo.

(Inviato dall'autrice, 29 giugno 2016)



«... e vi darò la terra d'Israele»

Perciò di': Così parla il Signore, l'Eterno: Io vi raccoglierò di fra i popoli, vi radunerò dai paesi dove siete stati dispersi, e vi darò la terra d'Israele. E quelli vi verranno, e ne torranno via tutte le cose esecrande e tutte le abominazioni. E io darò loro un medesimo cuore, metterò dentro di loro un nuovo spirito, torrò via dalla loro carne il cuore di pietra, e darò loro un cuore di carne, perché camminino secondo le mie prescrizioni, e osservino le mie leggi e le mettano in pratica; ed essi saranno il mio popolo, e io sarò il loro Dio.
Ezechiele 11:17-20


Sul mio monte santo, e sull'alto monte d'Israele, dice il Signore, l'Eterno, là tutti quelli della casa d'Israele, tutti quanti saranno nel paese, mi serviranno; là io mi compiacerò di loro, là io chiederò le vostre offerte e le primizie dei vostri doni in tutto quello che mi consacrerete. Io mi compiacerò di voi come di un profumo d'odor soave, quando vi avrò tratto fuori di tra i popoli, e vi avrò radunati dai paesi dove sarete stati dispersi; e io sarò santificato in voi nel cospetto delle nazioni; e voi conoscerete che io sono l'Eterno, quando vi avrò condotti nella terra d'Israele, paese che giurai di dare ai vostri padri. E là vi ricorderete della vostra condotta e di tutte le azioni con le quali vi siete contaminati, e sarete disgustati di voi stessi, per tutte le malvagità che avete commesse; e conoscerete che io sono l'Eterno, quando avrò agito con voi per amor del mio nome, e non secondo la vostra condotta malvagia, né secondo le vostre azioni corrotte, o casa d'Israele! dice il Signore, l'Eterno'.
Ezechiele 20:40-44


Così parla il Signore, l'Eterno: Poiché tu hai applaudito, e battuto i piedi, e ti sei rallegrato con tutto lo sprezzo che nutrivi nell'anima per la terra d'Israele, ecco, io stendo la mia mano contro di te, ti do in pascolo alle nazioni, ti stermino di fra i popoli, ti faccio sparire dal novero dei paesi, ti distruggo, e tu conoscerai che io sono l'Eterno.
Ezechiele 25:6-7


E tu, figlio d'uomo, profetizza ai monti d'Israele, e di': O monti d'Israele, ascoltate la parola dell'Eterno! Così parla il Signore, l'Eterno: Poiché il nemico ha detto di voi: - Ah! ah! Queste alture eterne sono diventate nostro possesso! - tu profetizza, e di': Così parla il Signore, l'Eterno: Sì, poiché da tutte le parti hanno voluto distruggervi e inghiottirvi perché diventaste possesso del resto delle nazioni, e perché siete stati oggetto dei discorsi delle male lingue e delle maldicenze della gente, perciò, o monti d'Israele, ascoltate la parola del Signore, dell'Eterno! Così parla il Signore, l'Eterno, ai monti e ai colli, ai burroni ed alle valli, alle rovine desolate e alle città abbandonate, che sono state date in balìa del saccheggio e delle beffe delle altre nazioni d'ogn'intorno; così parla il Signore, l'Eterno: Sì, nel fuoco della mia gelosia, io parlo contro il resto delle altre nazioni e contro Edom tutto quanto, che hanno fatto del mio paese il loro possesso con tutta la gioia del loro cuore e con tutto lo sprezzo dell'anima loro, per ridurlo in bottino. Perciò, profetizza sopra la terra d'Israele, e di' ai monti e ai colli, ai burroni ed alle valli: Così parla il Signore, l'Eterno: Ecco, io parlo nella mia gelosia e nel mio furore, perché voi portate l'obbrobrio delle nazioni. Perciò, così parla il Signore, l'Eterno: Io l'ho giurato! Le nazioni che vi circondano porteranno anch'esse il loro obbrobrio; ma voi, o monti d'Israele, metterete i vostri rami e porterete i vostri frutti al mio popolo d'Israele, perch'egli sta per arrivare. Poiché, ecco, io vengo a voi, mi volgerò verso voi, e voi sarete coltivati e seminati; io moltiplicherò su voi gli uomini, tutta quanta la casa d'Israele; le città saranno abitate e le rovine saranno ricostruite; moltiplicherò su voi uomini e bestie; essi moltiplicheranno e saranno fecondi, e farò sì che sarete abitati com'eravate prima, e vi farò del bene più che nei vostri primi tempi; e voi conoscerete che io sono l'Eterno. Io farò camminare su voi degli uomini, il mio popolo d'Israele. Essi ti possederanno, o paese; tu sarai la loro eredità, e non li priverai più dei loro figli.
Ezechiele 36:1-12

 


Una catastrofe collettiva

Nonostante la diffusione di episodi antisemiti la Polonia è in assoluto il Paese con il più alto numero di Giusti, oltre seimila.

di Anna Foa

Il libro di Jan Tomasz Gross con Irena Grudzinska Gross, Un raccolto d'oro. Il saccheggio dei beni ebraici (Torino, Einaudi, 2016, pagine 126, euro 20), si apre con una foto: contadini e soldati, donne e uomini, seduti in circolo per una foto dopo il raccolto. Solo che a essere raccolti, e disposti ordinatamente in circolo, sono teschi e altre ossa umane. La foto è stata scattata nella seconda metà degli anni Quaranta, cioè nel dopoguerra, dall'abitante di un villaggio vicino a Treblinka, il campo di sterminio dove furono inviati gli ebrei del ghetto di Varsavia e di altri ghetti polacchi, in cui fra il 1942 e il 1943 furono gassati ottocentomila ebrei. Essa ritrae, con ogni probabilità, un gruppo di "scavatori" del villaggio alla fine di una giornata di lavoro. Costoro scavavano per cercare le ossa degli ebrei e per appropriarsi di denti d'oro scampati alla ricerca dei nazisti, di altri beni restati nascosti nei cadaveri. Insomma, cercavano l'oro degli ebrei. I soldati che posano accanto a loro partecipavano, con ogni probabilità, alla ricerca.
   Da questa foto muove la ricerca dello storico polacco, professore a Princeton, Jan Tomasz Gross, già autore di importanti studi su questi temi, fra cui I carnefici della porta accanto, sul massacro della comunità ebraica di Jedwabne da parte non dei nazisti ma dei polacchi, un libro che ha suscitato grande eco da parte del pubblico e degli studiosi. Le pesanti accuse di antisemitismo che Gross ha rivolto alla società polacca nei suoi libri, a partire da quello su Jedwabne, hanno suscitato aspre polemiche sia negli Stati Uniti che, soprattutto, in
   Polonia, dove Gross è stato denunciato per aver "offeso la Polonia" nell' ottobre del 2015, in seguito all'uscita di questo suo ultimo libro, Un raccolto d'oro.
   
Le ricerche, e non solo quelle di Gross, confermano un fatto noto e diffuso, ma scarsamente documentato, quello della partecipazione di una parte della popolazione polacca allo sterminio degli ebrei, accompagnata da un saccheggio dal basso dei loro beni: l'oro appunto, ma anche cose ben meno preziose, come scarpe, vestiti, oggetti di cucina, materassi e coperte. Questo dato nulla toglie al fatto che la Polonia è, in assoluto, il Paese con il maggior numero di Giusti, oltre seimila. Ma è anche il Paese in cui, fondandosi su un antisemitismo diffuso, già emerso ben prima dell'invasione, la collaborazione delle persone "comuni" alla Shoah fu più vasta. Gross ripercorre questa storia, la storia cioè del saccheggio dei beni e quella a esso collegata dei massacri di ebrei dal basso: quella di Jedwabne, del 1941, e altri analoghi in due dozzine di cittadine nella regione di Bialystok, documentati nei referti della Resistenza polacca: «L'arrivo delle truppe tedesche - si leggeva in un rapporto del 1941 - ha scatenato una spaventosa ondata di violenze ai danni degli ebrei, condotta dall' esercito con una significativa partecipazione della popolazione locale». Inoltre, ci fu una significativa adesione di cittadini polacchi - ma non solo, bensì anche di ucraini, lituani, lettoni, estoni, russi e bielorussi - alle formazioni ausiliarie che coadiuvarono i nazisti nella caccia agli ebrei e nel loro sterminio. Il fenomeno ricorre anche nell'Europa occidentale, ma il quadro d'insieme è quello di una partecipazione più o meno vasta della gente comune allo sterminio.
   La domanda giusta da porsi, secondo Gross, non è quella di quanti siano stati gli ebrei assassinati dai loro concittadini polacchi, ma quella di quanti siano stati i polacchi ad aver partecipato alle uccisioni di ebrei. E quanti siano stati intorno agli assassini materiali, quelli che vi assistettero, approvarono il massacro, ne portarono memoria. E lo storico sottolinea che le conseguenze furono devastanti, perché segnarono le comunità locali per anni nella condivisione di atti delittuosi, ne tennero viva la memoria. Insomma, una "catastrofe collettiva" di cui ancora, dopo generazioni, sono vive le conseguenze. Ugualmente massiccio fu il saccheggio dei beni degli ebrei. Secondo Emanuel Ringelblum, lo storico e archivista del ghetto di Varsavia che salvò tanti documenti dalla distruzione e morì assassinato nel marzo 1944 dopo essere sfuggito alla repressione della rivolta del 1943, «gli ebrei vengono considerati "defunti in licenza" che prima o poi periranno. Nella maggior parte dei casi, quasi il 95 per cento, né merci né effetti personali sono stati restituiti». Un dato impressionante, che ci riporta a un dato mentale: gli ebrei sono considerati già morti, ed è quindi in qualche misura lecito impadronirsi di quello che possiedono. Anzi, è una misura patriottica, che evita che i loro beni finiscano in mano tedesca.
   Di qui anche l'indifferenza mostrata rispetto a quelle ossa anche dopo la guerra, quando Hitler era già stato sconfitto. Questa indifferenza, ben rappresentata nella fotografia degli "scavatori", ci dice che quelle ossa non appartenevano ai loro morti: «Dispongono quei teschi in fila come si dispongono i frutti del raccolto, zucche o cocomeri», scrive Gross, ricordando anche le cataste di teschi della Cambogia di Pol Poto.
   Non dobbiamo infatti dimenticare che questa collaborazione coi nazisti si prolungò oltre la fine della guerra. Che sono molte le voci, documentate qui o in altri studi, che parlavano della necessità di compiere ciò che Hitler aveva lasciato incompiuto, lo sterminio degli ebrei. Che a Kielce, nella regione dove alcune centinaia di ebrei furono assassinati nel corso della guerra dalla popolazione polacca (casi poi processati dai tribunali), il 4 luglio 1946 una quarantina di ebrei furono linciati dalla popolazione perché accusati di aver ucciso un bambino cristiano (che era semplicemente rimasto a dormire da un amico). La vecchia accusa di omicidio rituale divampava così sulle ceneri della Shoah, non senza provocare l'esodo della maggior parte degli ebrei rimasti in Polonia. Moltissimi altri, come sappiamo, furono costretti ad andarsene nel 1968, in seguito all'affermarsi dell'antisemitismo di Stato nella Polonia comunista.

(L'Osservatore Romano, 29 giugno 2016)


Casa Ebraica: "No all'accordo con la Turchia"

I ministri israeliani Bennet (Istruzione) e Shaked (Giustizia) voteranno contro l'intesa annunciata ieri da Tel Aviv e da Ankara. Il loro "no" è stato anticipato lunedì da quello del neo ministro della difesa Lieberman. Hamas loda l'atteggiamento turco

di Roberto Prinzi

 
Il ministro della Giustizia Ayelet Shaked e il ministro dell'Istruzione Naftali Bennet
ROMA - L'accordo di pacificazione tra Israele e Turchia proprio non è andato giù a "Casa Ebraica" del ministro israeliano dell'Istruzione Naftali Bennet. In una dichiarazione rilasciata stamane, il partito di estrema destra ha detto che si opporrà all'intesa nel voto che il gabinetto di sicurezza avrà domani. Sono due i motivi che hanno fatto infuriare Bennet e la ministra di Giustizia Shaked: il primo aspetto è rappresentato dai 21 milioni di euro di "ricompensa" che Tel Aviv dovrà pagare alle famiglie delle 10 vittime turche della Mavi Marmara ("terroristi" secondo il linguaggio di Casa Ebraica e della gran parte dello spettro politico israeliano). Il secondo, invece, è dato dal fatto che l'accordo non prevede il ritorno dei cadaveri dei due soldati israeliani uccisi a Gaza nel 2014.
   "Riconciliarsi con Ankara è importante di questi tempi e rientra nell'interesse di Israele" ha detto Bennet. "Tuttavia - ha aggiunto il ministro - pagare delle ricompense a responsabili di atti di terrorismo [gli attivisti della Mavi Marmara, ndr] è un pericoloso precedente di cui lo Stato d'Israele si pentirà nel futuro. Israele non deve ricompensare i terroristi che hanno provato a ferire il nostro esercito di difesa".
   Il ministro ha poi rivolto la sua attenzione ai due soldati uccisi durante l'offensiva israeliana "Margine Protettivo" i cui corpi sono ancora nelle mani di Hamas. "Finché la Turchia controlla il movimento islamico - ha dichiarato - dovrebbe fare tutto il possibile per far sì che Oron Shaul e Hadar Goldin possano ritornare in Israele". A tal proposito, il premier Netanyahu aveva inviato ieri una lettera al presidente turco Recep Tayyip Erdogan chiedendogli di intercedere presso Hamas così da risolvere questa spinosa questione. Troppo poco per i familiari di Goldin che, in una nota, hanno fatto sapere che l'intesa tra Ankara e Tel Aviv "abbandona", nei fatti, i due militari nella mani palestinesi.
   Casa Ebraica non è stata l'unica formazione politica a protestare per l'intesa annunciata ieri da israeliani e turchi. Il "no" pronunciato oggi da Shaked e Bennet era stato infatti anticipato ieri con motivazioni pressocché simili dal neo ministro della Difesa, Avigdor Lieberman. La contrarietà del triunvirato estremista non costituirà comunque un ostacolo al premier Netanyahu. Il gabinetto di sicurezza che domani voterà l'accordo - passo necessario affinché il testo dell'intesa arrivi alla Knesset dove, se approvato, entrerà in vigore entro 15 giorni - è costituito da 10 ministri del governo la cui maggioranza è favorevole all'azione di pacificazione voluta dal primo ministro.
   Tuttavia, le proteste di questi giorni riportano nuovamente al centro del dibattito la battaglia intestina in corso nel governo tra l'area del Likud apparentemente più moderata rappresentata dal premier (necessaria per non destare troppi allarmi nella comunità internazionale) e quella più oltranzista ed estremista megafono delle istanze coloni e del radicalismo ebraico incarnata da partiti come Casa Ebraica, Yisrael Beitenu e dalle correnti più radicali in seno pure allo stesso Likud di Netanyahu.
   Il rifiuto di Lieberman è politicamente interessante: il neo ministro è stato accolto nell'esecutivo poche settimane fa (a discapito del più "moderato" Ya'alon) nel tentativo di dare una maggioranza più forte e stabile all'esecutivo. Una mossa che sembrerebbe rivelarsi ora controproducente: invece di rafforzare l'esecutivo potrebbe alla lunga indebolirlo, lacerarlo e, chissà, segnarne una sua fine prematura (al momento, però, lontana).
   Sull'accordo turco-israeliano è molto ambigua la posizione di Hamas. Il movimento islamico ha ieri lodato il governo turco per "il suo sforzo ufficiale e popolare per rimuovere il blocco di Gaza". In un comunicato gli islamisti si dicono convinti che Ankara continuerà ad esercitare pressioni sullo stato ebraico affinché Tel Aviv ponga fine all'assedio su Gaza e alle sue "aggressioni contro il popolo palestinese, la sua terra e i suoi luoghi sacri". La normalizzazione diplomatica tra i turchi e gli israeliani è stata descritta "in base alla lunga storia di vicinanza e solidarietà [che Ankara ha con] i palestinesi".
   In realtà dietro le dichiarazioni di facciata necessarie per non inimicarsi uno dei suoi più stretti alleati e per non restare completamente isolata, non è difficile riscontrare tra gli islamisti una malcelata rabbia e delusione per l'accordo: delle tre richieste fatte dai turchi agli israeliani per arrivare ad un compromesso, la fine dell'assedio su Gaza è stato l'unico punto a non essere preso minimamente in considerazione da Israele. Nena News

(Nena News, 28 giugno 2016)


L'esercito israeliano si dota di missili superficie-superficie Extra

GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane (Idf) stanno inserendo nel loro arsenale i missili Extra (superficie-superficie a lungo raggio) prodotti dall'industria militare israeliana Aka Taas. I missili Extra hanno una gittata di 150 chilometri e possono colpire il bersaglio con una precisione di dieci metri. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "Yediot Ahronot", ipotizzando che l'ampliamento dell'arsenale militare israeliano potrebbe essere inserito nella strategia di Gerusalemme per essere pronta ad un eventuale nuovo conflitto con il movimento sciita libanese Hezbollah. L'ultima "guerra" con la milizia sciita guidata da Hassan Nasrallah risale al 2006. Il nuovo missile ha un diametro di 30 centimetri per circa quattro metri di lunghezza. Può trasportare diversi tipi di testate (la parte esplodente del missile) del peso massimo di 120 chilogrammi. Secondo l'analisi del quotidiano israeliano, il missile potrebbe colpire una serie di obiettivi di Hezbollah in tutto il Libano, favorendo così il lavoro dei caccia dell'aviazione.

(Agenzia Nova, 28 giugno 2016)


Israele vuole accelerare la produzione delle batterie antimissile Iron Dome

GERUSALEMME - Israele sta cercando di accelerare la produzione delle batterie antimissile a corto raggio Iron Dome: lo ha riferito ieri il direttore dell'Organizzazione della difesa missilistica israeliana, Moshe Patel. A dare un senso di urgenza all'apparato di sicurezza israeliano è la consapevolezza che Hamas continua a produrre migliaia di razzi a Gaza, Hezbollah importa missili da Iran e Siria e lo Stato islamico si aggiunge alla lista delle minacce alla sicurezza nazionale. Durante una conferenza a Rishon Lezion, Patel ha detto che Israele è in trattative con il produttore di Iron Dome, Rafael, e il co-produttore statunitense, Raytheon, per stabilire quale delle due compagnie possa incrementare la produzione delle batterie. Iron Dome ha abbattuto circa 1.500 razzi lanciati da Gaza contro Israele da quando è diventato operativo, e di recente è stato impiegato con successo nel corso di alcuni test per abbattere anche droni.

(Agenzia Nova, 28 giugno 2016)


«Addio al Pd: sta con gli integralisti». L'ira di Maryan Ismail, islamica moderata

La candidata rivela: il partito ha scelto una musulmana radicale

«Sumaya Abdel Qader è legata a gruppi affini alla Fratellanza musulmana. E attira soldi per edificare la moschea» «Il partito democratico ha scelto di parlare con la parte più oscurantista dell'Islam. lo sono laica e progressista»


di Massimiliano Mingoia

 
Maryan Ismail
MILANO - «Sono musulmana, laica e progressista. Ma non posso più stare nel Partito democratico. Ho appena scritto una lettera a Matteo Renzi in cui mi dimetto dalla segreteria milanese e riconsegno la tessera. Il Pd milanese ha scelto di interloquire con la parte minoritaria, ortodossa e oscurantista dell'Islam, chiudendo il dialogo con l'anima progressista che esige la separazione tra politica e religione e sostiene il ruolo della donna musulmana». Maryan Ismail, 56 anni, somala immigrata in Italia quando aveva 21 anni, lascia il Pd. Era candidata alle comunali, ma non è stata eletta. In Consiglio per il Pd è entrata un'altra musulmana, Sumaya Abdel Qader, vicino al Caim, il Coordinamento delle associazioni islamiche milanesi.

- Ismail, lei si considera di sinistra ma lascia il Pd. Perché?
  
«Sono una donna profondamente di sinistra, fin da giovanissima, quando abitavo ancora in Somalia. Mio padre era un diplomatico. Mio fratello, Yusuf Mohamed Ismail, era l'ambasciatore somalo alle Nazioni Unite a Ginevra. E morto l'anno scorso a Mogadiscio a causa del suo impegno contro l'Islam politico e ideologico».

- Da quanto era iscritta al Pd?
  
«Da cinque anni. Con Stefano Boeri e Daniele Nahum ho fondato un circolo o line, Città Mondo, che guarda alla Milano del futuro. Sono entrata nella segreteria metropolitana del Pd e ho sempre dato il mio contributo, anche in dissenso dalla linea del partito. Un anno fa contestai il bando comunale sui luoghi di culto. Dissi che la moschea non doveva essere appannaggio di un solo gruppo, ma aperta a tutte le comunità dell'Islam».

- Nella lettera usa parole critiche nei confronti dell'Ucoii e del Caim milanese.
  
«Sì, perché Ucoii e Caim rappresentano un Islam in cui politica e religione sono profondamente intrecciate, lo stesso wahabismo della Fratellanza Islamica. Da musulmana non mi ritrovo in questa visione. Sulla realizzazione della moschea, poi, c'è un altro problema».

- Quale?
  
«Da dove arrivano i fondi per realizzarla. Sono soldi che provengono da Paesi musulmani con visione wahabita. Non arrivano certo da Emirati Arabi o Tunisia».

- Visioni diverse dell'lslam che si sono identificate nelle due candidature del Pd alle Comunali: la sua e quella di Sumaya sostenuta dal Caim.
  «Sì. Ma il Pd milanese ha deciso di appoggiare Sumaya. Quando fu proposta la sua candidatura alla segreteria cittadina, io dissi che non era una candidatura opportuna: non era neanche iscritta al Pd. Mi è stato risposto che Sumaya è una figura di collegamento tra il mondo islamico e la società civile. E io no?»

- II Pd l'ha ostacolata?
  
«E stato addirittura veicolato il messaggio che Sumaya fosse l'unica candidata musulmana in Comune. Sala ha partecipato solo una volta a una mia iniziativa elettorale, quella con la comunità dello Sri Lanka. E nei ticket elettorali Comune-Municipi ho fatto fatica a trovare candidati Pd che volessero mettere il loro nome con il mio».

- Dimissioni irrevocabili?
  
«Sì, irrevocabili. L'Islam moderato è inascoltato e invisibile. Ma io sono pronta a dare la vita pur di sostenere l'idea di un Islam progressista e rispettabile».

(Nazione-Carlino-Giorno, 28 giugno 2016)


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Maryan Ismail: "Lascio il Pd: ha scelto islam radicale"

Maryan Ismail abbandona il Pd milanese dopo l'elezione al consiglio comunale di Milano di Sumaya Abdel Qader, espressione dell'Islam radicale.

di Francesco Curridori

L'Islam radicale vince sull'islam moderato dentro il Pd. Maryan Ismail, fondatrice del Circolo Città Mondo del Pd milanese, lascia il suo partito con una lettera inviata a Matteo Renzi e pubblicata su Facebook nella quale critica la scelta di candidare al comune di Milano, Sumaya Abdel Qader.

 La candidatura della musulmana radicale Qader
  "Sono mussulmana, laica e progressista. Mi considero parte di un Islam numericamente maggioritario, purtroppo finanziariamente inesistente e dunque totalmente inascoltato. Siamo chiamati a palesarci solo per fatti riconducibili al terrorismo islamico. Non siamo neanche iconograficamente pittoreschi: veli e barbe non sono nostri segni distintivi", scrive Ismail che ricorda di aver partecipato a varie edizioni della Leopolda e lo fa postando, assieme alla lettera, anche una sua foto con Renzi. "Non perdiamo occasione - incalza l'esponente musulmana - per urlare la nostra contrarietà alla visione ortodossa di un Islam dove politica e religione sono profondamente intrecciate, identificabile in quel wahabismo della Fratellanza Islamica promosso da varie sigle nazionali e territoriali come UCOII e la milanese Caim". È da questa lotta che nasce, per Ismail, il rammarico per l'elezione in consiglio comunale tra le file del Pd dell'indipendente Sumaya Abdel Qader, sociologa mussulmana ortodossa, responsabile culturale del Caim.

 L'accusa al Pd milanese: interloquisce con l'Islam oscurantista
  Il problema, evidenziato anche dal deputato Emanuele Fiano, è che il sindaco Sala ha deciso che sarà proprio Abdel Qader l'interlocutrice per la costruzione della controversa Moschea di Milano, avversata da tutte le comunità islamiche cittadine che non si riconoscono nel Caim."Dunque, il Pd milanese ha scelto di interloquire con la parte minoritaria ortodossa ed oscurantista dell'Islam, - è l'accusa lanciata da Ismail - chiudendo il dialogo alla parte positiva e progressista che esige la separazione tra politica e religione e sostiene il ruolo della donna mussulmana in un'ottica di consapevolezza dei propri diritti e doveri di cittadina". "Ancora una volta, le anime dell'Islam moderno, plurale e inclusivo non sono state ascoltate", scrive con rammarico la musulmana moderata che lotta contro un Islam politico. Lo stesso Islam politico che ha ucciso suo fratello Yusuf Mohamed Ismail, ambasciatore somalo presso le Nazioni Unite a Ginevra, morto per mano degli Al Shabab.

 L'addio al Pd
  "Constato con rammarico - conclude rivolgendosi a Renzi - che le tue belle idee di rinnovamento politico e sociale che tanto mi avevano coinvolta, a Milano si sono tristemente schiantate. Per questo e per le scelte inopinate del PD milanese mi dimetto da tutti i ruoli e riconsegno la tessera. Sono sicura che da libera cittadina, svincolata dai lacciuoli di bassissimi equilibri locali di partito, potrò promuovere l'Islam in cui credo e che mi appassiona tramite il dialogo e lo scambio con i miei concittadini per ottenere l'attenzione e il rispetto che la mia religione si merita".

(il Giornale, 28 giugno 2016)


"Persino gli arabi meglio degli europei". Lo sfogo di Bibi sulle critiche a Israele

Il primo ministro a Roma vede Renzi e l'americano Kerry. Si parla di Isis ma soprattutto del gas naturale di Leviathan che Eni porterà fino in Egitto.

«È Israele che, difendendosi, contribuisce a rendere sicuri anche i fianchi dello schieramento anti-lsis» «Noi non siamo certo perfetti, ma l'atteggiamento degli europei è stato terribilmente ingiusto nei nostri confronti» «Israele ormai è pari alla Silicon Valley sull'innova- zione: dalla cybersicurezza ai big data, dalla genetica, alle attrezzature mediche»


di Francesco Bei

ROMA - Il Grande Gioco del gas nel Mediterraneo orientale, che si è riaperto alla grande dopo l'accordo annunciato ieri a Roma fra Israele e la Turchia, potrebbe avere anche l'Italia - attraverso l'Eni - tra i giocatori principali. È una delle novità emerse dall'incontro di un'ora a palazzo Chigi tra Renzi e il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu. Un faccia a faccia che è girato intorno a quattro dossier caldi: il pericolo che l'Isis faccia breccia in Nord-Africa, le nuove tecnologie avanzate da mettere in campo contro il terrorismo, il maggiore impegno dell'Eni nello sfruttamento dei giacimenti di gas israeliano e, infine, la campagna «Bds» di boicottaggio contro Gerusalemme che sta investendo con sempre maggior forza alcuni paesi dell'Europa occidentale.
  Dopo aver illustrato a Renzi, come aveva fatto a villa Taverna con il segretario di Stato John Kerry, i contenuti dell'accordo con i turchi che mette fine ad anni di confronto diplomatico con Ankara (la vicenda della nave turca Mavi Marmara abbordata dai commando israeliani che uccisero dieci attivisti pro-palestinesi), Netanyahu ha messo i piedi nel piatto. Partendo da un dato di fatto. Israele, spiegano fonti del governo di Gerusalemme, è una «risorsa primaria» per le informazioni che fornisce ai Servizi dei vari paesi europei. Informazioni di prima mano passate alla nostra intelligence per prevenire attacchi anche sul suolo italiano. «E questo Renzi lo ha apprezzato». Ma Israele, ha aggiunto il primo ministro, è anche un baluardo per prevenire l'espansione del Califfato sulle coste del Nord-Africa. «Isìs - osserva una fonte presente all'incontro - è riuscita a influenzare negativamente la vita di 40 milioni di persone tra Siria e Iraq, ma se riuscirà ad affermarsi in Nord Africa e potrà coinvolgere altri 100 milioni di persone, ci saranno immense conseguenze per l'Europa. Perché questi profughi arriveranno da voi». Con la proverbiale ruvidezza del linguaggio, Bibi nei suoi colloqui romani non si è lasciato sfuggire l'occasione per una severa critica nei confronti degli europei per come si relazionano con Israele. Dopo aver perso con la Brexit la sponda amica dell'Inghilterra, il pericolo per Israele è infatti che si intensifichino le critiche e le prese di posizione pro-palestinesi. «Noi certamente non siamo perfetti, ma l'atteggiamento degli europei - dice un diplomatico israeliano riassumendo il pensiero del primo ministro - è stato terribilmente ingiusto nei nostri confronti, che restiamo l'unica democrazia in Medio Oriente. Persino gli arabi hanno cambiato atteggiamento nei nostri confronti, ma non gli europei». Eppure, vista con gli occhi del governo di Gerusalemme, la questione è di semplice convenienza: è Israele che, difendendosi, «contribuisce a rendere sicuri anche i fianchi dello schieramento anti-Isis e, facendo questo, di riflesso difende anche la sicurezza europea».
  Quanto alla campagna Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), i due leader ne hanno discusso, ma Netanyahu non si mostrato particolarmente preoccupato per i suoi riflessi economici. Israele, ha detto a Renzi, ormai è alla pari con la Silicon Valley sull'innovazione. Nella cybersicurezza attrae il 20% degli investimenti mondiali, è leader nei big data, nella genetica, nelle attrezzature mediche. Persino nell'industria dell'automobile contende a Google la supremazia sul software che condurrà le future macchine senza guidatore. Ma Bds fa male sul piano politico e culturale. Così Renzi ha promesso che sarà in visita a Gerusalemme il prossimo dicembre e si farà accompagnare da una nutrita delegazione di rettori e professori italiani per spezzare l'isolamento accademico.
  Infine il gas. Il giacimento Leviathan, un mostro da 450 miliardi di metri cubi di riserve, già oggi ha le potenzialità per trasformare lo Stato ebraico in esportatore, attraverso la Turchia, fino alle case degli europei. Le infrastrutture di liquefazione Eni ad Alessandria consentiranno presto al gas israeliano di arrivare in Egitto. Ma per l'azienda italiana, ha detto Netanyahu a Renzi, il campo è aperto per nuovi investimenti. E ci sono possibilità di ricerca e prospezione per altri giacimenti. Proprio questa «diplomazia del gas» sta consentendo a Israele una agibilità politica a tutto campo, capace non a caso di rifornire contemporaneamente avversari irriducibili come l'Egitto e la Turchia.
  A margine della visita di Netanyahu si è infine alzato il sipario sul nuovo ambasciatore a Roma in arrivo a luglio. Dopo il ritiro di Fiamma Nirenstein il prescelto alla successione di Naor Gilon sarà Ofer Sachs. Un ambasciatore non di carriera dunque che, secondo la stampa israeliana, libererà il posto di direttore dell'Istituto per l'esportazione dove Bibi vuole piazzare un alto papavero del Likud.
   
(La Stampa, 28 giugno 2016)


“Israele diario di un assedio”

COMUNICATO STAMPA

Mercoledì 29 giugno alle ore 17.30, presso la Libreria Claudiana, Borgo Ognissanti 14R, Firenze, l'Associazione Italia-Israele di Firenze ha promosso la presentazione dell'ultimo libro di Ugo Volli "Israele diario di un assedio". Dopo l'introduzione di Valentino Baldacci ne parleranno Edoardo Tabasso e Leonardo Tirabassi. Concluderà l'Autore.
Gli ultimi eventi verificatisi in Medio Oriente - e in particolare il singolare atteggiamento del Governo italiano che da un lato, anche con il Presidente del Consiglio, esprime grande apprezzamento per ciò che è e rappresenta lo Stato d'Israele e dall'altro, come è avvenuto di recente all'Unesco e all'Organizzazione Mondiale della Sanità, vota regolarmente in maniera ostile allo Stato ebraico - saranno al centro della discussione.

Locandina

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 28 giugno 2016)


Lieberman e membri dell'opposizione potrebbero votare contro l'accordo con Ankara

GERUSALEMME - L'accordo che ripristina i rapporti diplomatici tra Ankara e Gerusalemme ha suscitato le critiche di alcuni componenti del parlamento israeliano, che voterà mercoledì 29 giugno per la ratifica del trattato. Fonti del partito Yisrael Beiteinu hanno reso noto oggi che il ministro della Difesa Avigdor Lieberman potrebbe votare contro la ratifica del trattato tra Turchia ed Israele. Il leader del partito Yisrael Beiteinu si è a lungo opposto all'idea che Gerusalemme chiedesse scusa alla Turchia per l'incidente del 2010 che ha coinvolto la nave turca Mavi Marmara, provocando la morte di dieci attivisti. Secondo Lieberman l'unico obiettivo della Turchia è attaccare Israele e quindi deve essere trattata di conseguenza. "Non vedo la ragione di fare un passo indietro per quanto riguarda la mia opposizione alla riconciliazione con la Turchia", ha dichiarato il ministro della Difesa nel corso di una dichiarazione all'emittente israeliana "Channel 2". Lieberman ha fatto anche notare le "serie implicazioni" del risarcimento ai familiari degli attivisti turchi.

(Agenzia Nova, 27 giugno 2016)


Accenture: più sicurezza con un laboratorio e un'acquisizione in Israele

 
Accenture ha dato vita a Herzlya a un laboratorio di ricerca per la cybersecurity e ha acquisito l'israeliana Maglan.
È da qualche tempo che Accenture sta sviluppando competenze interne e soluzioni in ambito cybersecurity, ora l'azienda ha annunciato l'apertura di un nuovo laboratorio israeliano di ricerca e sviluppo proprio in questo campo. Situato a Herzlya, il centro si occuperà soprattutto di threat intelligence, difesa attiva e protezone delle implementazioni Internet of Things in ambito industriale.
Un punto di forza del nuovo centro è il collegamento diretto con l'ecosistema tecnologico israeliano. Attraverso una collaborazione con società di venture capital, startup e università locali potrà entrare velocemente in contatto con nuove tecnologie e approcci sviluppati nell'ambito della sicurezza.
Nell'ambito di queste collaborazioni è stata definita una partnership con Team8, che Accenture definisce come "la principale fucina di cibersecurity israeliana". La collaborazione è incentrata nello specifico sulle soluzioni di Internet security industriale. Accenture ha già una partecipazione di minoranza in Team8.
Parallelamente Accenture ha annunciato l'acquisizione di Maglan, un'azienda privata israeliana specializzata nella simulazione di attacchi informatici e che ha effettuato penetretion test per diverse società europee dei servizi finanziari, delle telecomunicazioni e dell'industria automotive. In questo modo entra a far parte di Accenture un team di esperti in sicurezza che possono costituire la base di un futuro Cyber Fusion Center locale.
Il progetto a medio-lungo termine di Accenture è infatti fare di Israele un hub di innovazione in ambito di cybersecurity.

(TechWeekEurope, 27 giugno 2016)


L'effetto valanga delle menzogne anti-israeliane

Ecco come nascono le calunnie che poi arrivano alla stampa, al Parlamento europeo e all'opinione pubblica.

Yehuda Shaul, uno dei capi della ong israeliana "Breaking the Silence", parlando (in perfetto inglese) di un villaggio di Cisgiordania ha affermato: "E' interessante il fatto che i residenti vi siano tornati, perché qualche anno fa i coloni avvelenarono tutto il sistema di approvvigionamento d'acqua del villaggio". Sono andato da "Breaking the Silence" per cercare di capire cosa intendessero dire. Mi hanno parlato di un presunto incidente che si sarebbe verificato nel 2004, quando alcuni palestinesi sostennero che delle carcasse di pollo erano state gettate in un pozzo. Quelli di "Breaking the Silence" ne scrissero sul loro sito, postando anche un breve video sulla loro pagina Facebook in cui si vede Shaul che attribuisce l'episodio all'opera di hooligans (teppisti). Il fatto - tutto da dimostrare - che dei teppisti israeliani abbiano effettivamente gettato carcasse di pollo in quel pozzo non rende comunque veritiere le affermazioni di Shaul. Ha parlato di "avvelenamento di tutto il sistema di approvvigionamento d'acqua", cosa che non è mai avvenuta. Ha parlato di un "intero villaggio evacuato per un periodo di diversi anni", e anche questo non è mai avvenuto....

(israele.net, 27 giugno 2016)


Basket - Pianigiani a Gerusalemme: "L'Hapoel si farà rispettare"

L'ex ct azzurro è stato presentato dal club israeliano, dove potrebbe essere raggiunto da Dalmonte. "Vogliamo far crescere questo brand, ma Roma non è stata costruita in un giorno".

ROMA - Simone Pianigiani punta in alto con l'Hapoel Gerusalemme. L'ex ct azzurro, infatti, sin dalla presentazione nel club israeliano ha spiegato di voler contribuire alla crescita della realtà i cui proprietari sono americani, e tra loro c'è la stella NBA Amar'e Stoudemire. "Vincere è l'obiettivo di qualsiasi allenatore e qualsiasi club, ma è ancora più importante sentire i proprietari che parlano di qualità del lavoro e di visione del futuro" dice Pianigiani che, come al Fenerbahce e in nazionale, potrebbe avere Luca Dalmonte nel ruolo di vice. L'Hapoel ha perso la finale del campionato contro il Maccabi Rishon e disputerà la prossima Eurocup.

OBIETTIVI - Il tecnico sei volte campione d'Italia con Siena aggiunge: "Vogliamo rendere questo club come un posto in cui si è orgogliosi di lavorare. L'Hapoel mi ha chiesto un passo avanti in Europa, questo brand dovrà diventare più forte ogni giorno. Ma ci serve tempo: Roma non è stata costruita in un giorno. Tutti, in Europa, sanno che la squadra di Gerusalemme crescerà, vogliamo farci rispettare".

(Corriere dello Sport, 27 giugno 2016)


Patto di Roma tra Israele e Turchia

L'accordo di Roma archivia la crisi del "Mavi Marmara" fra i due Paesi: almeno tre incontri segreti nella capitale hanno portato alla svolta diplomatica. Israele apre sugli aiuti a Gaza e sigla il disgelo con la Turchia.

di Francesca Sforza

ROMA - Dopo sei anni di aperta e dichiarata crisi bilaterale, Turchia e Israele si preparano a firmare un importante accordo di normalizzazione, il cui annuncio è previsto questo pomeriggio da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu e la cui firma definitiva sarà formalizzata da entrambe le parti entro la fine di luglio. Il lavoro diplomatico si è fatto più serrato negli ultimi due giorni, e il luogo scelto per mettere a punto i dettagli è stata la sede dell'Ambasciata turca a Roma, la stessa da cui, qualche giorno fa, è partito un appello all'Italia da parte del ministro turco degli Affari Europei Omer Celik per iniziative comuni sulla crisi dei migranti. La capitale italiana si conferma così uno snodo decisivo per le emergenze del Mediterraneo: in almeno tre occasioni ha ospitato incontri segreti fra gli inviati dei due Paesi.
   La crisi tra Israele e Turchia - che prima di allora avevano una cooperazione molto stretta - risale al 2010 quando un commando israeliano, nel tentativo di fermare la nave Mavi Marmara che stava violando il blocco su Gaza imposto dallo Stato ebraico, provocò la morte di dieci cittadini turchi. Dal 2013, anno in cui Israele presentò scuse ufficiali per la morte degli attivisti, si sono susseguiti più tentativi di ripristinare le relazioni, ma ogni volta con un nulla di fatto. Ieri per la prima volta, dopo gli incontri romani tra le due squadre negoziali, lo scenario è cambiato, e le prime dichiarazioni rilasciate dai due governi non lasciano dubbi: «Si sta arrivando alla fine di un lungo processo.», ha detto Ibrahim Kalin, portavoce del presidente turco Erdogan, e di un «prossimo riavvicinamento» ha parlato Yaakov Nagel, capo del Consiglio di Sicurezza di Israele.
   Ad essersi sbloccata è la controversa questione di Gaza: i turchi chiedevano la fine dell'embargo da parte di Israele; il compromesso raggiunto prevede - secondo indiscrezioni - l'invio da parte di Ankara di aiuti illimitati a Gaza, a condizione che il passaggio avvenga attraverso il porto israeliano di Ashdod. Alla Turchia sarà inoltre concessa la costruzione di un ospedale, di una centrale elettrica e di un impianto di desalinizzazione nella Striscia. La Turchia si impegna a impedire a Hamas di condurre attività terroristiche, ma ne consentirà le attività diplomatiche dalla sede di Istanbul, così come si impegnerà a facilitare il recupero dei resti di soldati israeliani caduti a Gaza.Se le fonti turche hanno salutato il passaggio come un progresso nei confronti del popolo palestinese, alcuni funzionari di Hamas, in un'intervista al quotidiano arabo con sede a Londra Rai al-Youm hanno osservato che la decisione è stata presa «più che altro nell'interesse della Turchia». Gli altri punti dell'accordo prevedono, oltre la riapertura delle rispettive sedi diplomatiche e il risarcimento già avviato alle famiglie delle vittime, la ripresa di esercitazioni militari congiunte e l'avvio di investimenti comuni nel settore energetico.
   Il raggiungimento dell'accordo è stato facilitato da un miglioramento, negli ultimi tempi, delle relazioni tra Turchia e Russia, paese tradizionalmente vicino a Israele, miglioramento che in questa fase aveva bisogno di un'ulteriore spinta per consolidarsi. La comune diffidenza nei confronti dell'Iran ha fatto il resto, e la cornice di Roma, capitale che ha con Teheran rapporti stretti e cordiali, ha fatto in modo di coronare un'alleanza senza causare attriti di sorta. Il Mediterraneo è un'area caratterizzata da mille e una sensibilità, e il fatto che Roma si sia mostrata luogo ideale per non urtarne alcuna, è un dato politico da considerare e di cui coglierne il potenziale strategico.

(La Stampa, 27 giugno 2016)


Accordo Israele-Turchia, Netanyahu: "Avrà implicazioni immense per l'economia israeliana"

L'accordo tra Israele e Turchia di "importanza strategica", ha detto il premier Benyamin Netanyahu a Roma. Per Renzi "è un segnale molto importante" e il segretario di Stato Usa, John Kerry l'ha definito "positivo" Tweet Benjamin Netanyahu, Primo Ministro Israele (Getty) Roma: trovato l'accordo di riconciliazione israele-Turchia. Domani l'annuncio di Netanyahu Medio Oriente, Netanyahu: "Israele pronto a collaborare con al-Sisi" Gaza: bombardata una postazione di Hamas. Netanyahu convoca Consiglio di sicurezza Israele 27 giugno 2016 L'accordo tra Israele e Turchia "avrà implicazioni immense per l'economia israeliana ed è un passo importante": così il premier Benyamin Netanyahu a Roma, a margine del secondo incontro con il segretario di Stato Usa, John Kerry. Il capo della diplomazia statunitense si è congratulato con il premier per l'intesa con Ankara, definita "positiva", ricordando anche il sostegno e l'impegno di Washington per il riavvicinamento tra i due Paesi.
  Il leader israeliano ha così confermato l'intesa, definendola di "importanza strategica". Le parti firmeranno il protocollo con i punti dell'intesa domani.
  Una nota diffusa da Gerusalemme, al termine del colloquio avuto dal premier Benyamin Netanyahu a Palazzo Chigi con il primo ministro Matteo Renzi, ha annunciato che Italia e Israele avranno un incontro governativo bilaterale alla fine di quest'anno in Israele. I premier - secondo la stessa fonte - hanno anche deciso di rafforzare la cooperazione di sicurezza ed economica tra i due paesi, in particolare quella riguardante la sfera 'cyber'. E' stato anche stabilito di accrescere la cooperazione trilaterale con alcuni paesi africani. Netanyahu si accinge a visitare nei prossimi giorni Uganda, Kenya, Etiopia e Ruanda".
  Il premier Matteo Renzi nel corso delle comunicazioni al Senato, subito dopo l'incontro a Palazzo Chigi con Benyamin Netanyahu, ha detto che "l'Accordo Israele-Turchia è un segnale molto importante specie pensando a ciò che accaduto negli ultimi dieci anni in quell'area", sottolineando come l'Europa debba guardare anche a cosa accade fuori dal continente, dove c'è un mondo che "corre".
  I dettagli dell'accordo tra Turchia e Israele verranno annunciati per esteso più avanti nella giornata dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in visita a Roma, e dal premier turco, Binali Yildirim, ma se ne conoscono già alcuni termini usciti sulle stampe locali. A cominciare dall'entità degli indennizzi (oltre 21 milioni di dollari) che verranno pagati da Gerusalemme alle famiglie dei 10 attivisti turchi morti nel 2010 nel raid delle forze speciali israeliane contro la nave Mavi Marmara, diretta a Gaza per forzare il blocco. In cambio, Israele ha preteso che la Turchia lasciasse cadere tutte le accuse sollevate in sede giudiziaria, nazionale e internazionale, contro i membri del commando e le autorità militari dello Stato ebraico. Tra le richieste avanzate da Gerusalemme, anche gli sforzi turchi per ottenere da Hamas la liberazione di due cittadini israeliani, detenuti a Gaza, e il ritorno in patria dei resti di altri due soldati, morti nel conflitto del 2014.
  Da parte sua, Ankara ha puntato a ottenere un allentamento del blocco a Gaza, con l'invio di aiuti umanitari all'enclave palestinese attraverso il porto israeliano di Ashdod e l'autorizzazione a costruire ospedali, una centrale elettrica e un impianto di desalinizzazione. Il governo turco ha però negato che tra i termini dell'intesa ci sia anche la rottura delle relazioni con Hamas.
  Intanto il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha chiamato il leader dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, per informarlo dei punti principali dell'accordo raggiunto con Israele per la ripresa delle relazioni diplomatiche. In previsione dell'intesa, il presidente turco venerdì aveva anche incontrato Khaled Meshaal, leader politico di Hamas, il movimento islamico che governa nella Striscia di Gaza.

(RaiNews, 27 giugno 2016)


Italia-Israele: incontro bilaterale governativo a fine anno

Annuncio dell’ufficio di Netanyahu al termine dell’incontro con Renzi

 
Italia e Israele avranno un incontro governativo bilaterale alla fine di quest'anno in Israele. Lo ha annunciato, con una nota diffusa da Gerusalemme, l'ufficio di Benyamin Netanyahu al termine del colloquio avuto dal premier a Palazzo Chigi con il primo ministro Matteo Renzi.
I premier - secondo la stessa fonte - hanno anche deciso di rafforzare la cooperazione di sicurezza ed economica tra i due paesi, in particolare quella riguardante la sfera 'cyber'. E' stato anche stabilito di accrescere la cooperazione trilaterale con alcuni paesi africani. Netanyahu si accinge a visitare nei prossimi giorni Uganda, Kenya, Etiopia e Ruanda. Nel primo paese Netanyahu celebrerà i 40 anni della impresa di Entebbe, quando le forze speciali israeliane, guidate dal fratello del premier, Yoni Netanyahu, liberarono gli ostaggi di un aereo Air France dirottato da terroristi filo palestinesi.

(ANSAmed, 27 giugno 2016)


Perché la dieta ebraica è salutare?

di Walter Giannò

C'è oggi una tendenza alimentare che sta prendendo molta piega nel mondo occidentale: la dieta ebraica, nota anche con il nome di kosher, termina che indica l'idoneità di un cibo a essere consumato dal popolo ebraico secondo le regole stabilite nel libro sacro della Torah.
Sì, perché, a quanto pare, si tratta di una dieta che ha numerosi benefici per la salute.

 Il cibo non kosher non (sempre) fa male
  Prima di approfondire l'argomento, però, è opportuna una premessa: solo perché alcuni alimenti non sono ritenuti kosher non significa che essi non facciano bene alla salute.
Esistono, infatti, molti cibi sani che non sono preparati secondo le linee guida ebraiche: ad esempio, è vietato mescolare la carne con il latte ma non è che, se si fa, si rischia di ammalarsi; lo stesso vale per i frutti di mare e per il maiale.
E le leggi kosher, sia chiaro, non sono adottate dagli ebrei per questioni salutari ma per motivi religiosi: Dio ha reso l'uomo dominatore sugli animali.

 I benefici: meno colesterolo e meno allergeni
  Precisato ciò, è vero che sono numerosi i benefici per la salute apportati dagli alimenti kosher. Le persone, infatti, che seguono, in maniera rigorosa, una dieta ebraica sono generalmente più sane rispetto a quelle che non lo fanno. Ad esempio, i primi hanno livelli di colesterolo più bassi dei secondi, in quanto la dieta non permette di mangiare insieme la carne con i prodotti caseari. Di conseguenza, niente pizza, cheeseburger o lasagne, eliminando così, in un sol colpo, la quasi totalità dei prodotti che si possono mangiare in un fast food.
Non sono da trascurare, inoltre, le limitazioni che riguardano la carne di maiale, caratterizzata dalla presenza di più allergeni rispetto ad altri tipi di carne.
Altri animali, poi, che non si possono mangiare sono i rettili e gli insetti (ma questo non è un sacrificio, vero?) e alcuni piccoli mammiferi, come i conigli.
Altra regola kosher riguarda la distinzione tra gli animali che possono far parte della dieta e quali no: ok a quelli che hanno gli zoccoli e sono ruminanti. I cavalli, però, sono esclusi.

 Come vengono uccisi gli animali?
  A proposito, poi, degli animali, questi sono uccisi secondo regole ben delineate, partendo dal presupposto che essi non devono né avvertire la prossimità della fine né devono soffrire. La morte deve essere immediata e indolore.
Non si tratta di un aspetto non di poco conto nell'ambito dell'alimentazione sana perché, come accade anche negli esseri umani, se gli animali percepiscono che stanno per morire, rilasciano sostanze chimiche nel corpo, soprattutto ormoni che possono essere dannosi quando ingeriti.
Inoltre, dopo che l'animale viene ucciso, il sangue deve essere rimosso dalla carne prima di essere consumata.

 Come si riconosce un alimento kosher?
  Gli ebrei ortodossi che scelgono di non mangiare alcun alimento che non sia kosher optano esclusivamente per gli alimenti che hanno un simbolo ad hoc sul pacchetto del cibo, così da identificarlo.
Per quanto riguarda l'Italia, come si legge in un articolo del 13 giugno scorso, apparso su La Repubblica, si sta assistendo a un vero boom di kosher, tant'è che il Ministero dello Sviluppo Economico, intuendo le potenzialità di questo mercato, ha deciso di supportare il progetto dell'Unione delle comunità ebraiche italiane che ha creato il marchio K.it, dedicato a tutte le imprese del paese e utile per chi cerca sugli scaffali dei negozi un prodotto kosher.
Per di più, sempre il Ministero dello Sviluppo Economico ha previsto un'App che elencherà tutti i prodotti kosher italiani in commercio, con relativa certificazione.

(Leonarto.it, 27 giugno 2016)


C'è la Nazionale, salta l'inaugurazione del Museo Ebraico di Fondi

Per far visita al Museo del Medioevo Ebraico di Fondi si dovrà ancora attendere: l'inaugurazione è stata rimandata alla seconda metà di luglio.

di Mirko Macaro

 
Museo del Medioevo Ebraico di Fondi
Con i lavori terminati a dicembre, l'apertura dei battenti del nascente polo culturale fondano - concepito all'interno della "Casa degli spiriti", l'ex sinagoga del quartiere ebraico dell'Olmo Perino - era inizialmente attesa tra febbraio e marzo 2016, sebbene mai fissata ufficialmente. Un debutto man mano posticipato, e quindi rifissato per fine giugno. A partire dalle 17 di oggi, lunedì, come calendarizzato dal Parco dei Monti Auruci, l'ente regionale promotore del progetto del Museo. Erano attesi i vertici della comunità ebraica, autorità istituzionali di rango, una moltitudine di presenze di rilievo tanto tra gli invitati che tra il pubblico. Sarà per la prossima volta. Nei giorni scorsi, si è deciso per un annullamento con contestuale rinvio dell'inaugurazione a domenica 17 luglio. Cos'è successo?
   Dal Parco, scusandosi "per il contrattempo", hanno motivato lo stop con annesso differimento della cerimonia limitandosi a rispondere genericamente "di sopravvenute difficoltà organizzative". Cose che capitano. Certi eventi, si sa, richiedono tempo ed un'organizzazione perfetta. Ma non è escluso, ed è anzi praticamente certo, che la spiegazione sia un'altra: abbastanza banale, di natura… nazionalpopolare.
   Alle 18 di oggi scende in campo in Francia nazionale italiana impegnata negli Europei di calcio. Sfida di cartello allo stadio Saint-Denis di Parigi, contro le furie rosse della Spagna. Roba da dentro o fuori. Noto l'esito dei gironi qualificatori, un match fissato giusto nei giorni scorsi, e che verosimilmente calamiterà davanti agli schermi uno stuolo sterminato di spettatori. Col concreto rischio, per non dire la certezza, di vanificare il lungo conto alla rovescia per l'inaugurazione del Museo ebraico con una platea semideserta. E, magari, i pochi convenuti con gli occhi puntati su orologi e smartphone, pronti a sgusciare via per godersi almeno il secondo tempo degli azzurri.
   Quando l'Italia (del pallone) chiama, le strade si svuotano, la cultura può attendere. E non è detto che nel caso sia un male. L'ulteriore procrastinare, sarà sicuramente utile per limare gli ultimi dettagli del ricco allestimento e della cerimonia inaugurale del polo museale, nelle intenzioni un prossimo valore aggiunto per l'intera provincia.

(h24notizie, 27 giugno 2016)


VI convegno Regionale EDIPI-Sicilia

Il tanto atteso VI Convegno Regionale EDIPI-Sicilia con l'originale partecipazione di Magdi Cristiano Allam avrà inizio venerdì 8 luglio a Ficarazzi in provincia di Palermo, per concludersi domenica 10 con appunto l'intervento di Magdi Allam.
Altri relatori saranno il pastore Ivan Basana presidente dell'Associazione Evangelici D'Italia Per Israele, appena ritornato da Gerusalemme per il viaggio di archeologia biblica con il prof. Dan Bahat, che ci aggiornerà sulle reazioni degli accademici israeliani alle assurde posizione assunte dall'Unesco nei confronti di Israele. Per completare gli interventi è stato invitato anche il dr. Mark Surey, ebreo messianico londinese che ci aggiornerà anche sulla recente decisione britannica conseguente alla Brexit.
La tematica del convegno è quanto mai stimolante e di attualità: "Approccio di fede alla geopolitica del Medio-Oriente". Coordinerà gli interventi il pastore ospitante della Chiesa Evangelica Ebenezer, Nicolò Cirrito.
Locandina

(EDIPI, 27 giugno 2016)


Bologna - Scritta per Allah sulla statua di San Petronio

La scritta «Allah Akbar» (Dio è grande, in arabo) alla base della statua di San Petronio, patrono di Bologna. La scritta è comparsa nella notte di sabato ed è stata tracciata con uno spray bianco. Potrebbe essere una bravata o una provocazione. La Procura di Bologna aprirà un fascicolo per danneggiamento aggravato su bene di interesse artistico e la Digos ha acquisito i filmati della video sorveglianza. L'Arcidiocesi ha condannato «fermamente l'atto» su un «simbolo civile e religioso della città». «Mi auguro sia solo una bravata di
qualche sciocco», ha aggiunto il sindaco Virginio Merola.

(Corriere della Sera, 27 giugno 2016)


L'arroganza delle élite che criticano la Brexit

di Pierluigi Battista

Winston Churchill aveva condotto la democrazia inglese alla vittoria contro Hitler, tra sacrifici e
distruzioni immani, ma con una fermezza ammirevole e commovente. Per un anno almeno, prima del 1941, aveva combattuto contro il nazismo da solo, mentre l'Europa intera si sottometteva al totalitarismo e Stalin ancora lucrava sull'alleanza spartitoria con la Germania. Eppure, finita la guerra, in una Gran Bretagna vittoriosa ma stremata, Churchill perse le elezioni del' 45 vinte dai laburisti. La leggenda vuole che la notizia della sconfitta elettorale gli fu portata, mentre faceva il bagno, dal maggiordomo, e che la risposta di Churchill fu: «E proprio perché questi eventi possano continuare ad accadere che abbiamo combattuto la guerra. Ora passami l'asciugamano». Probabile che l'aneddoto sia falso. Certo è che dalla bocca di Churchill sconfitto nelle urne non uscì mai una di quelle sprezzanti volgarità, misto di tronfia saccenteria e patetica presunzione con cui l'autonominatosi partito degli ottimati ha liquidato il popolo bue ed ignorante che ha osato votare per la Brexit.
   E non sanno nemmeno, queste oligarchie del pensiero sempre più inascoltate, asserragliate in una fortezza per difendersi dall'assedio dei nuovi barbari muniti di quelle subdole armi che sono le schede elettorali, che se «i populisti» sono la risposta sbagliata alle manchevolezze dell'Europa, gli «elitisti» sono esattamente il problema di un'élite europea arrogante e senza senso autocritico. Non sanno nemmeno quanto la loro spocchia sia odiosa e scostante. Non sanno nemmeno quanto fastidio susciti la loro pretesa di conoscere ciò che il «popolo» dovrebbe accettare in silenzio per il suo bene più di quanto lo sappia il «popolo» stesso. Se l'esito elettorale che non piace viene visto e deplorato come la manifestazione di un popolo ignorante che sarebbe (purtroppo è stato detto anche questo) «sciagurato» far esprimere, allora gli «elitisti» neanche immaginano quale colpo mortale con un tale disprezzo per la sovranità popolare venga inferto all'idea stessa di democrazia. Se un risultato elettorale discutibile, e quello britannico è davvero più che discutibile, viene equiparato da un Roberto Saviano in vena di sparate alla vittoria elettorale di Hitler, allora è il concetto stesso di volontà della maggioranza che viene ad essere picco nato. Churchill non l'avrebbe fatto. Ma lui, contro il totalitarismo ha combattuto davvero, con lacrime e sangue.

(Corriere della Sera, 27 giugno 2016)


Da un certo momento in poi avrebbe dovuto essere chiaro che il cammino verso l’Unione Europea ha nel suo programma la graduale “liberazione” dal fastidio della democrazia. In questo caso il fatto si è visto in modo chiaro, ma perché sorprendersi? La gente ha già cominciato ad adattarsi, e dopo qualche residuo sussulto si convincerà. Come ha già cominciato a fare, per ragione o per forza, ma forse più per forza che per ragione, M.C.


Un'isola-porto davanti a Gaza per superare il blocco

La proposta del ministro dei trasporti israeliano: i controlli di sicurezza rimarrebbero a Israele

di Giordano Stabile

 
BEIRUT - Un'isola di 8 chilometri quadrati, con un porto per le navi mercantili, un porticciolo per gli yacht, hotel, case vista mare e un aeroporto. È il progetto israeliano, rilanciato nei giorni scorsi dal ministro dell'Intelligence e dei Trasporti Yisrael Katz, per togliere il blocco a Gaza e mantenere i controlli di sicurezza in mano israeliana.

 Il colpo di mano di Hamas
  La Striscia è sottoposta al blocco dal 2007, quando con un colpo di mano prese il potere il partito oltranzista palestinese Hamas. Da allora ci sono state due grandi operazioni militari, "Piombo Fuso" e "Protective Edge", e uno stillicidio di attacchi, lanci di razzi, rappresaglie con l'aviazione.

 Civili allo stremo
  È la popolazione civile che soffre più di ogni altro per il blocco. La disoccupazione è al 60 per cento, il reddito reale è calato del 26 per cento in dieci anni, scarseggia l'acqua potabile, l'elettricità è razionata e gli scambi con l'esterno sono ridotti al minimo, anche quelli clandestini con l'Egitto attraverso i tunnel, distrutti dal nuovo governo del Cairo sotto la presidenza di Abdel Fatah Al-Sisi.

 Pressioni turche
  L'allentamento del blocco a Gaza era una delle richieste della Turchia a Israele in vista della normalizzazione delle relazioni, che sarà annunciata oggi a Roma. I rapporti erano stati rotti dopo il blitz delle teste di cuoio israeliane sulla nave turca Mar Marmara, che cercava di entrare nella acque davanti alla Striscia. Morirono nove cittadini turchi.

 Cinque miliardi
  L'isola-porto potrebbe dare di nuovo uno sbocco sul mare alla Striscia, ma si troverebbe a cinque chilometri al largo e collegata a Gaza da un ponte stradale. In questo modo le forze di sicurezza israeliane potrebbero controllare che non vengano introdotte armi, materiali esplosivi o altre forniture militari ad Hamas, e chiudere il sito facilmente in caso di problemi. Il nodo cruciale sono i costi, cinque miliardi. Ma, secondo Katz, ci sarebbe già l'interessamento di grandi aziende saudite. Riad potrebbe finanziare in parte l'opera.

 "Ragioni di sicurezza"
  "Non penso che sia giusto chiudere fuori dal mondo due milioni di persone - ha detto Katz -. Israele non ha interesse a rendere la vita più difficile alla popolazione di Gaza. Ma non possiamo costruire un porto e un aeroporto all'interno della Striscia per ragioni di sicurezza".

(La Stampa, 26 giugno 2016)


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Accordo fatto fra Israele-Turchia, sarà annunciato a Roma

Si va verso la normalizzazione delle relazioni rotte nel 2010 dopo l'incidente della nave Mar

di Giordano Stabile

BEIRUT - Israele e Turchia stanno per annunciare a Roma, dove è in visita il premier Benjamin Netanyahu, l'accordo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche, rotte dopo il blitz delle forze speciali israeliani sulla nave Mar Marmara che stava per forzare il blocco a Gaza. Morirono nove cittadini turchi.

 L'ok del Mossad
  I negoziatori turchi e israeliani si incontreranno a Roma, riferisce il quotidiano Haaretz, e annunceranno l'accordo. Gli ultimi dettagli sono stati definiti in un incontro a Istanbul fra il capo del Mossad Yossi Cohen e il capo dell'Intelligence interna turca Hakan Fidan.

 Stop ad Hamas
  L'Intelligence turca ha garantito che ad Hamas non sarà consentito organizzare, pianificare o dirigere attività militari contro Israele, anche se potrà continuare a operare in Turchia dal punto di vista politico e diplomatico. Il ridimensionamento della cellula di Istanbul era la maggiore richiesta degli israeliani. Venerdì il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il primo ministro Binali Yildirim avevano incontrato il leader politico di Hamas Khaled Meshaal.

 I negoziatori
  A Roma, da parte turca, sarà presente il sottosegretario agli Esteri Feridun Sinirlioglu, che ha condotto i negoziati con Israele negli anni scordi. Il team israeliano sarà guidato da Joseph Ciechanover, inviato speciale del primo ministro, e Yaakov Nagel, consigliere per la sicurezza.

 Il vertice con Kerry
  A Roma c'è anche il premier Netanyahu che avrà un incontro cruciale con il Segretario di Stato americano John Kerry. Sul tavolo il rilancio del processo di pace con i palestinesi, fermo da due anni, e il prossimo rapporto del Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) sui Territori occupati, critico con Israele.

(La Stampa, 26 giugno 2016)


Kerry a Roma, vede Netanyahu e Gentiloni

ROMA - Il tentativo di rilancio del processo di pace tra israeliani e palestinesi riparte da Roma, dove John Kerry vede Benjamin Netanyahu. Il capo della diplomazia americana vuole incontrare il premier israeliano, ha riferito una fonte diplomatica americana alla Cnn, "per verificare se Netanyahu e' interessato a percorrere una soluzione due-Stati" attraverso una mediazione egiziana. Il Dipartimento di Stato ha gia' anticipato che Kerry non ofrira' nuove iniziative.
   Sia palestinesi che israeliani hanno indicato in in piano proposto dal presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, un punto di convergenza iniziale e sebbene mercoledi' scorso il capo di Stato israeliano, Reuven Rivlin, avesse sottolineato le difficolta' provenienti da divisioni interne ai palestinesi, l'amministrazione Obama non vuol lasciare il mandato senza un nulla di fatto per la ricerca di una soluzione a un nodo ormai divenuto storico nel Medio Oriente. Il Segretario di Stato americano vedra' oggi anche il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Netanyahu e Kerry si vedranno anche domani mattina a Villa Taverna a Roma. Il premier israeliano sara' poi ricevuto a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e nel pomeriggio incontrera' i vertici della comunita' ebraica.

(AGI, 26 giugno 2016)


Dall'Australia a Tel Aviv, la moda dello stivale

di Francesca Matalon

 
Cosa hanno in comune un contadino che lavora nella fattoria di un kibbuz e una diciottenne che frequenta la vita glitterata di Tel Aviv? È una domanda difficile, ma partendo dal presupposto che 'assolutamente niente di niente' non può essere quella giusta, la risposta è il fatto che entrambi indossano un paio di Blundstones, un paio di stivaletti di pelle alti fino alla caviglia, con due elasticoni laterali e due linguette di tessuto per calzarli meglio. Nati, come è facile intuire, più per i contadini che per le teenager, arrivano dalla lontana Australia ma in Israele sono il fenomeno fashion del momento, con un cittadino su 15 ad averne acquistato un paio nel 2015. Come sia avvenuto rimane ancora in parte un mistero, ma di sicuro ha aiutato l'intuizione di Amos Horowitz, un distributore cinematografico che aveva deciso di cambiare carriera e nel 1999, dopo averli visti indossati da un suo vicino di casa di ritorno da un viaggio, ha deciso di importare i Blundstones in Israele. E per capire quanto valide siano le sue intuizioni, basti pensare che è sempre lui ad aver importato per primo anche le Cros, le ciabatte di gomma colorata e bucherellata della cui eleganza di cui si può essergli grati o meno, ma sicuramente nel bene o nel male tutti conoscono.
   "Israele è passato dall'essere un mercato importante a un vero e proprio fenomeno nel giro di circa tre anni", ha detto al Times of Israel l'amministratore delegato di Blundstones Steve Gunn. "Un cambiamento sicuramente legato alla bravura dei nostri partner nella distribuzione - ha osservato - ma in gran parte anche dettato dal fatto che le persone stesse hanno deciso che questo è quello che desiderano indossare". Quando da Israele Horowitz è arrivato nei suoi uffici nel bel mezzo della Tanzania, nessuno aveva mai pensato al piccolo Israele come mercato per gli stivaletti. Quando, dopo aver convinto Gunn grazie alla sua irrefrenabile energia, li ha portati in patria per la prima volta, non è difficile immaginare che siano stati i lavoratori di kibbuz e moshav i primi a diventarne affezionati clienti, ma presto le cose sono cambiate. Quando Gunn ha visitato Israele nel 2002, ha ricordato, "ho trovato che Horowitz avesse un bacino ragionevole di clienti, dal momento che vendeva circa 10 mila stivali all'anno in un paese relativamente piccolo, e pensando che non avrei potuto fare di meglio in quello specifico mercato, ero contento così". Solo che poi, inaspettatamente, è esploso, con decine di migliaia di paia di stivaletti venduti ogni anno. E così, in una visita più recente, Gunn ha raccontato di essere stato "colto alla sprovvista dalla quantità di Blundstones che vedevo ai piedi della gente". A colpirlo in particolare, ha proseguito, "le età e gli usi, dai bambini agli adulti, dalle ragazze giovani che li indossavano con la gonna ai lavoratori che ci camminavano nel fango. Persino turisti li portavano, chiaramente dopo averli comprati in Israele".
   Secondo Renana Peres, ricercatrice della School of Business Administration all'Università Ebraica di Gerusalemme, tutto questo successo non è tutto sommato così sorprendente. "Gli israeliani - ha osservato - sono persone inclini all'innovazione, e a cui piace essere i primi ad avere ogni cosa nuova. Amano anche viaggiare e comprare, e il loro essere un popolo molto coeso fa sì che il fenomeno Blundstones, che in fondo sono scarpe comode e non particolarmente brutte, sia una conseguenza non troppo stupefacente". Era avvenuto lo stesso con le Crocs, e si tratta secondo Peres di "una magica combinazione di fattori". E del resto è quello che dice anche Michael Horowitz, fratello di Amos nonché suo socio in affari, il quale ha sottolineato come "le cose succedono perché bisogna essere pronti a farle succedere". I due non hanno strategie di marketing di alcun tipo né si avvalgono del potere di internet, tutto si basa sull'individuazione di un'esigenza e sul conseguente passaparola. "Trovare il mercato giusto al momento giusto - le sue parole - richiede tanto, tanto lavoro sul campo e la rapidità di importare il prodotto nell'immediato".
   Per quanto riguarda le previsioni sul fenomeno Blundstones in Israele, dopo l'esplosione Gunn si è detto pronto a ogni cosa. "Ho avuto una conversazione con Horowitz circa un anno e mezzo fa in cui eravamo giunti alla conclusione di non poter espandere il mercato più com'era all'epoca - ha ricordato - ma alla fine da allora è raddoppiato". Di sicuro l'amore israeliano per i mitici stivaletti ha anche influenzato alcuni cambiamenti di stile dell'azienda. Poiché vengono preferiti i colori più chiari agli originali neri e marrone testa di moro, ad esempio c'è stato un passaggio a toni di marrone più chiaro, che almeno sono più estivi, adatti alle temperature calde del paese. Non saranno sandali, ma per quello restano sempre le Crocs.

(moked, 26 giugno 2016)


Netanyahu: la Brexit non avrà conseguenze dirette sull'economia in Israele

La Brexit non avrà "conseguenze dirette sull'economia israeliana". Questo il primo commento del premier Benyamin Netanyahu al referendum che ha sancito l'uscita della Gran Bretagna dall'Europa. Il premier .- che ha parlato prima della riunione domenicale del governo a Gerusalemme - ha tuttavia sottolineato che "si vive in un'economia globale".

(ANSAmed, 26 giugno 2016)


Vittorio Veneto - La memoria perduta del Ghetto

di Ira Rubini

MILANO - Il Ghetto ebraico di Venezia, famoso in tutto il mondo, compie 500 anni e viene celebrato con incontri, concerti e appuntamenti culturali per tutto il 2016.
Ma poco distante, a Vittorio Veneto, c'è un altro Ghetto del quale nessuno sembrava ricordarsi. Solo grazie agli sforzi della violinista Lydia Cevedelli, studiosa di musica ebraica e docente al Conservatorio di Milano, le vestigia (sia pure in condizioni assai precarie) di questo luogo tanto importante e antico sono state inserite fra i Luoghi del Cuore del FAI 2016.
A Ceneda, quartiere a sud di Vittorio Veneto, gli ebrei furono chiamati nel 1597 dal vescovo Marcantonio Mocenigo, che chiese a Missier Isdrael Hebreo da Conegliano e alla sua famiglia di aprire un banco dei pegni per soccorrere bisognosi con prestiti e credito.
Dal 1607 era già presente una sinagoga privata, mentre la sinagoga della comunità fu inaugurata da un rabbino di Venezia nel 1790. La sinagoga rimase attiva, sia pure a fasi alterne, fino 1949 per poi essere smontata e portata al Museo d'Israele di Gerusalemme. La comunità disponeva anche di un cimitero, inaugurato nel 1857 e visibile ancora oggi.

Ghetto di Vittorio Veneto Ghetto di Vittorio Veneto Ghetto di Vittorio Veneto Ghetto di Vittorio Veneto Ghetto di Vittorio Veneto Ghetto di Vittorio Veneto mootools lightbox gallery by VisualLightBox.com v6.0m

Gli ebrei si ridussero progressivamente di numero, fino a scomparire dopo la Seconda Guerra Mondiale, come accadde in tante parti d'Europa. Del vecchio Ghetto di Vittorio Veneto sopravvivono oggi un magazzino con un grande porticato e alcune strutture adiacenti.
Nel Ghetto di Ceneda nacque nel 1749 Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart. Era figlio di Geremia Conegliano e fu chiamato Emanuele, ma la famiglia si converti' al cristianesimo nel 1763 e il futuro autore dei celebri recitativi di Don Giovanni fu battezzato dal vescovo Lorenzo Da Ponte e ne assunse il nome.
Maggiori info: http://iluoghidelcuore.it/luoghi/treviso/vittorio-veneto/ex-ghetto-ebraico/17100
Lydia Cevedelli è stata ospite della trasmissione Cult di Radio Popolare e ha raccontato dei progetti di restauro del Ghetto di Vittorio Veneto.
Intervista a Lydia Cevedelli

(RadioPopolare, 26 giugno 2016)


La scritta "sindaco ebreo" condannata dalle forze politiche

TORRE DEL LAGO - La scritta "ebreo" riferita al sindaco Del Ghingaro comparsa a Torre del Lago ha suscitato molteplici reazioni. Anche se a chi l'ha tracciata bisognerebbe ricordare un po' di storia: gli ebrei sono stati vittime dei forni crematori nei quali venivano inseriti vivi. Per la precisione storica.
«Si tratta di un ennesimo segno di una strisciante e oscura barbarie che serpeggia nella società e che ora infanga anche la cultura della nostra città», commenta la senatrice del Pd, Manuela Granaiola.
Luca Poletti, capogruppo del Pd, esprime «la piena condanna per la scritta apparsa al cimitero di Torre del Lago contro il sindaco perché vergognosa e nulla la giustifica. Auspico che certi personaggi vengano isolati e non trovino nessuno spazio perché non lo meritano». Ciò detto - ricorda Poletti - «confermo la richiesta, già avanzata da tempo dal nostro gruppo consiliare, di ritiro del progetto per la realizzazione di un impianto di cremazione a Torre del Lago. Questa ubicazione non ci sembra opportuna e non ci trova d'accordo. Il problema però esiste perché sono aumentate le richieste per questo servizio e molte famiglie si trovano in difficoltà a gestire le volontà dei propri cari. Le istituzioni se ne devono far carico in un'ottica comprensoriale. Per questo è necessario un confronto che veda coinvolti tutti i Comuni almeno a livello provinciale. Viareggio si faccia promotore in tal senso».

(Il Tirreno, 25 giugno 2016)


Depurazione e conservazione dell'acqua: missione della Regione Abruzzo in Israele

PESCARA - Missione in Israele per il presidente della Regione Abruzzo Luciano D'Alfonso, che sarà a Tel Aviv da oggi a lunedì per "un'occasione di confronto con lo Stato leader mondiale per la conservazione dell'acqua, per lo sviluppo e la commercializzazione delle cleantech technologies, per la desalinizzazione dell'acqua, nonchè per il trattamento delle acque reflue con successiva depurazione e riutilizzo delle stesse per l'agricoltura e l'industria".
Nel corso della visita il presidente rende noto che incontrerà il presidente emerito dello Stato d'Israele Shimon Peres, i rappresentanti dell'azienda Noble Energy, l'ambasciatore d'Italia Francesco M. Talò, il vice ministro per la Cooperazione Regionale MK Ayoub Kara, il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai.
Inoltre visiterà l'impianto di trattamento acque reflue "Shafdan", l'impianto di desalinizzazione di Sorek, l'azienda Hagihon, gli incubatori ed acceleratori di Tel Aviv.
Fanno parte della delegazione italiana in visita in Israele anche il sindaco di Pescara Marco Alessandrini, il presidente della Gran Sasso Acqua Spa Americo Di Benedetto e il managing director di Water Tosto Spa Luca Tosto.
Una rappresentanza dell'Università di Teramo, composta da nove docenti, guidata dalla prorettrice alla ricerca Barbara Barboni raggiungerà poi la delegazione italiana.
"Le spese della missione in Israele a carico della Regione Abruzzo sono pari ad euro 395,00", scrive su Facebook il governatore.

(Abruzzo Web, 25 giugno 2016)


Roma - L'ospedale Fatebenefratelli diventa "casa di vita".

Qui nacque il "morbo di K", la malattia inventata che salvò gli ebrei.

di Giovanni Rodriquez

 
L'Ospedale Fatebenfratelli
Ospedale Fatebenefratelli di Roma "Casa di Vita". Questo il titolo attribuito al nosocomio dell'Isola Tiberina dalla Fondazione internazionale Raoul Wallenberg, per ricordare il contributo della struttura che salvò decine di ebrei durante le persecuzioni naziste. A patrocinare l'evento, svoltosi lo scorso 21 giugno alla Sala Assunta dell'ospedale, la Comunità ebraica di Roma e la Fondazione Museo della Shoah.
  "Chi salva una vita, è come se avesse salvato il mondo intero", recita un proverbio talmudico. Perché esso sussiste soltanto per merito delle azioni dei "Giusti" che vivono in mezzo a noi, tra le nazioni del mondo. E tra questi figura Giovanni Borromeo, il medico che, il 16 ottobre 1943, nascose decine di ebrei scampati alla retata nazista, in un reparto del nosocomio. Mettendo a rischio la propria vita, Borromeo riuscì a salvare quella di oltre un centinaio di ebrei romani, inventando una malattia per la quale ricoverarli, che chiamerà Morbo di K (K sta indifferentemente per Kesserling o per Kappler), con i suoi sintomi, il suo decorso e, soprattutto, il suo temuto contagio.
  Aveva i connotati tipici della malattia neurodegenerativa, con una fase iniziale di convulsioni e in alcuni casi di demenza, per poi degenerare, nelle fasi successive, nella paralisi completa degli arti, fino alla morte per asfissia. Il morbo sarebbe stato estremamente contagioso, veicolato da un virus. Le SS, temendo il contagio, non fecero irruzione nel reparto di isolamento. Al morbo di K fu dedicato un intero padiglione clinico dell'ospedale, in cui furono ricoverati sotto falso nome ebrei e polacchi, in gruppi non troppo numerosi. Restavano qualche giorno, in attesa che una tipografia nel vicino quartiere di Trastevere producesse di nascosto documenti falsi con cognomi cattolici. Con i nuovi documenti i fuggitivi, che venivano dichiarati morti dall'ospedale, venivano in realtà nascosti nei conventi. Con la liberazione di Roma e con l'arrivo degli Americani, l'Ospedale Fatebenefratelli, ormai dimessi i pazienti affetti dal Morbo di K (tutti guariti), torna alla sua normale attività. Nel 2004 Yad Vashem ha riconosciuto Giovanni Borromeo Giusto tra le Nazioni.
  Presenti alla cerimonia anche due delle persone sopravvissute grazie al rifugio offerto presso l'ospedale, Gabriele Sonnino e Luciana Tedesco, che hanno svelato la targa in un cortile dell'ospedale insieme al vicepresidente Operativo dell'ospedale Fatebenefratelli all'Isola Tiberina Fra Giampietro Luzzato. "Oggi ricordiamo una storia di quotidiana devozione e straordinario coraggio che rispecchia nostra filosofia ispirata al valore dell'ospitalità, quella di rendere l'ospedale un luogo di accoglienza per tutti", le parole di Luzzatto.

(quotidiano sanità.it, 25 giugno 2016)


Schiaffo al dollaro: l'Iran venderà petrolio solo in euro

TEHERAN - Il ministro del petrolio iraniano Bijan Namdar Zanganeh ha dichiarato che la Repubblica Islamica dell'Iran vendera' d'ora in poi il proprio petrolio ricevendo solo euro. La notizia, diffusa dalla rete all news IRINN, segna un'importante svolta considerando che in questo momento l'Iran esporta circa 2,3 milioni di barili di petrolio al giorno.
Sohbet Karbuz, direttore della sezione idrocarburi della "Mediterranean Association for Energy", con sede in Francia, ha detto all'agenzia Farsnews che l'iniziativa del governo iraniano, soprattutto se seguito da altri paesi della regione, potrebbe costituire un colpo molto duro per il dollaro e per l'economia degli Stati Uniti.

(AGI, 25 giugno 2016)


Biennale d'Arte 2017: sarà Gal Weistein a rappresentare Israele

Gal Weistein - "Huleh Valley"
Gal Weistein
Medio Oriente un po' più svelato, per la Biennale d'Arte 2017. Sarà Gal Weistein, 47enne (in home un autoritratto realizzato con lana di vetro) con studi a Gerusalemme e Tel Aviv, a rappresenterà il padiglione di Israele.
L'artista, che in Italia abbiamo potuto vedere anche alla galleria milanese di Riccardo Crespi, analizza le relazioni tra fenomeni naturali, la biologia, insieme a vari fenomeni "nazionali" e anche se non sono stati rilasciati dettagli sul lavoro, comunque site specific, che Weistein presenterà in laguna, non è improbabile che il progetto si occuperà in modo critico della politica israeliana.
Weistein è diventato piuttosto celebre nel 2002, quando ha rappresentato il suo Paese alla 25esima Biennale di San Paolo, mettendo un tetto di tegole rosse, in tipico stile europeo, in tutto lo spazio della galleria, rendendolo inagibile, in un riferimento a quelli che sono gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, che punteggiano il paesaggio.
E di un altro paesaggio non troppo lontano da Israele si occuperà Zad Moultaka, già alla Biennale 2015, sopra, nominato per rappresentare il Libano con quello che si prevede un ambiente immersivo e nato da Sacrum, l'ultimo brano del musicista e artista, integrando il linguaggio visivo e acustico, l'occidente e i Paesi arabi.

(exibart.com, 25 giugno 2016)


Vertice a Roma per rilanciare il processo di pace in Medio Oriente

Israele punta sulla mediazione di Egitto, Arabia saudita e Turchia. Pressing del premier per frenare un rapporto critico del Quartetto.

Benjamin Netanyahu arriva a Roma domani per un vertice cruciale con il segretario di Stato americano John Kerry e l'Alto rappresentate Ue Federica Mogherini. Sul tavolo c'è il processo di pace con i palestinesi, bloccato da due anni, e il rapporto del Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) sulla situazione nei Territori occupati, che sta per essere reso pubblico.

 Il piano saudita
  Dopo il rimpasto di governo che ha portato alla Difesa il falco Avigdor Lieberman, il premier israeliano ha rassicurato gli alleati con il rilancio del "piano arabo" per la pace del 2002, in accordo con Arabia Saudita ed Egitto, in questo momento i partner più stretti di Israele in Medio Oriente. Ma Netanyahu ha detto no all'iniziativa francese che punta a sbloccare i colloqui in un contesto multilaterale, con le grandi potenze che fanno pressione sullo Stato ebraico per strappare più concessioni.

 Il rapporto del Quartetto
  Netanyahu ha reagito all'iniziativa di Parigi anche con un intenso lavoro diplomatico nei confronti di altri due attori importanti: la Russia e la Turchia. L'intesa con Putin, perfezionata in quattro vertici in sei mesi, ha portato la Russia su posizioni meno intransigenti in Siria e ha un possibile intervento per smorzare i toni del rapporto del Quartetto, secondo indiscrezioni diplomatiche riportate da Ynetnews, "molto duro" con Israele e dal linguaggio "inusuale".

 Normalizzazione con la Turchia
  Con la Turchia invece Israele è a un passo dalla normalizzazione delle relazioni diplomatiche, rotte nel 2010 dopo il blitz sulla nave Mar Marmara diretta verso Gaza in cui morirono 9 cittadini turchi. Ankara ha ottenuto scuse e risarcimenti per le vittime e un piano per allentare il blocco a Gaza senza mettere a rischio la sicurezza dello Stato ebraico. Netanyahu ha però chiesto al presidente Recep Tayyip Erdogan di ridimensionare la presenza a Istanbul di Hamas.

 Pressioni di Erdogan su Hamas
  Erdogan ha incontrato ieri il leader storico di Hamas Khaled Meshaal, ora in esilio in Qatar, per chiedere una cambio di politica. Hamas è sospettato da Israele si architettare un colpo di mano in Cisgiordania, come quello riuscito a Gaza nel 2007. E ha chiesto alla Turchia di intervenire.

 Ban Ki-moon a Gerusalemme
  Con queste carte in mano Netanyahu arriverà domani a Roma, prima di incontrare il Segretario generale del'Onu Ban Ki-moon a Gerusalemme. Il rapporto del Quartetto, previsto per la prossima settimana, potrebbe essere ancora rimandato. Indica come "principale ostacolo" la politica degli insediamenti nella Cisgiordania occupata ma accusa anche settori dei palestinesi di "incitamento alla violenza".

 Roma al centro della diplomazia mediorientale
  A Roma, tornata la centro della diplomazia mediorientale, Netanyahu discuterà con Kerry anche dell'accordo per gli aiuti alle forze armate, della durata di dieci anni, che dovrebbe vedere un incremento ma non nella misura voluta da Israele. Roma è vista in questo momento come "più neutrale", anche perché a Parigi in autunno, dovrebbe tenersi la grande conferenza internazionale di pace voluta dai francesi ma osteggiata dagli israeliani.

 Il discorso di Rivlin a Strasburgo
  Israele teme che la conferenza fissi una scadenza per il raggiungimento dell'accordo "due popoli, due Stati", vincolante per il ritiro dalla West Bank e da Gerusalemme Est. Una risoluzione in questo senso potrebbe essere presentata al Consiglio di Sicurezza dell'Onu dopo la conferenza di Parigi. Nel suo discorso al Parlamento europeo, il presidente israeliano Reuven Rivlin ha detto di capire l'impazienza dell'Europa per il rilancio del processo di pace ma che "le condizioni pratiche, la situazione politica regionale" per arrivare a un accordo permanente fra Israele e i palestinesi "non si stanno ancora materializzando".

 "Colloqui bilaterali"
  Israele insiste che la strada migliore "sono i colloqui bilaterali". Spera di rilanciarli con la mediazione di Egitto, Arabia saudita, e forse anche della Turchia, se le relazioni saranno ristabilite in tempi rapidi. Secondo il quotidiano "Haaretz" un memorandum di intesa dovrebbe essere siglato in tempi brevissimi, "in una capitale europea", forse nella stessa Roma.

(La Stampa, 25 giugno 2016)


Quando il Reich quasi travolse le democrazie troppo pacifiste

Il saggio di William L. Shirer racconta come la Germania riuscì a cogliere impreparate Francia e Inghilterra.

di Matteo Sacchi

Se c'è qualcosa di stupefacente nella storia della Seconda guerra mondiale è il modo in cui Francia e Inghilterra si fecero cogliere impreparate dall'attacco tedesco.
   La velocità con cui si fecero travolgere i polacchi (l'attacco contro Varsavia iniziò il primo settembre 1939 e terminò il 6 ottobre dello stesso anno) può essere spiegata.
   La Germania era riuscita a nascondere abilmente l'entità del suo riarmo. Soprattutto nessuno aveva ancora avuto modo di sperimentare l'efficacia del Blitzkrieg. Tecnica basata su un nuovo utilizzo dei carri armati come mezzi di sfondamento rapido ma anche su un riutilizzo furbo e cinico di vecchie attrezzature. Giusto per fare un esempio la decrepita corazzata tedesca Schleswig-Holstein (una vera carretta) venne fatta penetrare con l'inganno nella Vistola e da lì aprì il fuoco a sorpresa sulla fortezza di Westerplatte dando inizio ai combattimenti. Né i polacchi avrebbero potuto prevedere di essere aggrediti a tradimento dai sovietici.
   Ma è sul fronte occidentale che l'inazione di Francia e Inghilterra resta largamente inspiegabile. Tanto che faticarono a spiegarsela anche i generali tedeschi. Anni dopo il generale Halder dichiarò durante il processo di Norimberga: «Il successo della guerra di Polonia fu possibile soltanto perché si poté tenere quasi interamente scoperto il fronte occidentale. Se avessero compreso la logica della situazione e avessero sfruttato il fatto che le forze tedesche erano impegnate in Polonia, i francesi avrebbero potuto attraversare il Reno e minacciare la Ruhr che era il fattore decisivo per la condotta della guerra».
   Ma non solo, mentre Hitler nei suoi discorsi continuava ancora a martellare su temi pacifisti (una bella pace senza Polonia), si lasciarono organizzare sotto il naso l'attacco alla Danimarca e alla Norvegia. Un attacco che aveva fondamentalmente due scopi. Consentire alla Germania il vitale arrivo del ferro proveniente dalle miniere scandinave e consentire alla flotta tedesca un più facile accesso all'Atlantico per evitare l'imbottigliamento che aveva segnato i destini della Prima guerra mondiale. Così il 9 aprile 1940 ebbe inizio l'operazione Weserübung che solo Churchill, come primo lord dell'ammiragliato, aveva cercato di prevenire. La Danimarca cadde immediatamente senza vera resistenza, la Norvegia invece nonostante non mancassero i traditori si rivelò un osso più duro. Ma a quel punto ogni vantaggio strategico era perduto e tutti sappiamo come andò a finire quando le truppe di Hitler, a maggio, investirono il Belgio e la Francia. Successi così travolgenti da spingere Mussolini a commettere il più fatale dei suoi sbagli. Successi che gli Alleati, nonostante la discesa in campo degli Stati Uniti e il decisivo errore tedesco dell'Operazione Barbarossa, riuscirono a rovesciare solo a partire dal 1942 (Con Stalingrado e El-Alamein).
   Proprio riflettendo su questi errori si apre il terzo volume dell'opera di William L. Shirer pubblicata in allegato con il Giornale: Hitler e il Terzo Reich. Dai trionfi alla grande svolta. Un'indagine tra storia e giornalismo per penetrare i segreti di una delle più grandi ingenuità militari della storia.

(il Giornale, 25 giugno 2016)


Un'Ue debole potrebbe cambiare l'approccio per la risoluzione del conflitto in Medio Oriente

GERUSALEMME - Alcuni analisti israeliani guardano positivamente all'esito del referendum sulla Brexit. "Nessun esponente del governo israeliano lo dirà, ma a livello diplomatico un'Unione Europea debole non è necessariamente un male per Israele", è quanto si legge in un editoriale del "Jerusalem Post". Il fatto che l'Ue sia "attualmente scossa" dall'esisto del referendum che ha sancito l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea "non è qualcosa di necessariamente negativo per gli interessi di Gerusalemme". L'uscita del governo di Londra dall'Ue potrebbe portarla ad essere "meno energica quando pronuncerà i suoi discorsi su Israele ed il Medio Oriente". Il referendum sulla Brexit mostra che "in questo momento l'Ue è in confusione", in particolare a causa del fatto che alcuni paesi, tra cui Olanda e Francia, stanno mettendo in discussione il loro ruolo all'interno dell'Unione.

(Agenzia Nova, 24 giugno 2016)


Governo Netanyhau in forte calo di consenso

GERUSALEMME - Gli israeliani sono stufi della leadership politica del paese e avrebbero cambiato radicalmente la composizione della Knesset se si fossero svolte ieri le elezioni, dice un nuovo sondaggio Tns Teleseker.
Il sondaggio, ripreso da Arutz Sheva 7, riporta che solo il 23% vorrebbe avere come primo Ministro Benjamin Netanyahu, un terzo pieno degli intervistati non sapeva chi fosse il più adatto. Solo il 19% si è detto soddisfatti della politica economica del governo, mentre il 78% si dichiara insoddisfatto.
Sulla politica antiterrorismo, il 23% ha detto di essere soddisfatto, mentre il 72% che non lo era. Se le elezioni si fossero svolte il 23 giugno, i due partiti più grandi di Israele avrebbero subito perdite significative. Il Likud, che ha vinto 30 seggi nel 2015, sarebbe arrivato ad averne 22; la Zionist Union di Isaac Herzog avrebbe subito perdite catastrofiche, arrivando a soli 9 posti, mentre oggi ne ha 24. Meglio sarebbe andata a Yesh Atid, che dagli 11 odierni sarebbe andata 20 seggi; the Jewish Home da 8 a 13, mentre Yisrael Beytenu, il partito di Avigdor Lieberman, da 6 seggi a 9. Il nuovo partito centrista guidato dall'ex ministro della Difesa Moshe Yaalon e dall'ex primo ministro Ehud Barak avrebbe avuto 10 seggi; e via via s seguire le altre formazioni oggi presenti nella Knesset con un nmero di seggi simile all'odierno.

(agc, 24 giugno 2016)


Settore automobilistico: La nuova era dell'alta tecnologia israeliana

Quando si parla di legami tra Israele e l'industria automobilistica, possiamo sicuramente menzionare i recenti successi di aziende come Mobileye e Waze, che hanno generato una massiccia ondata di startup del settore delle auto.
Israele si è dedicata allo sviluppo di tecnologie avanzate per automobili, alcune nelle quali sono significativamente in anticipo sui tempi e stanno diventando strategicamente importanti per l'industria.
Il cambiamento più importante, è l'ingresso diretto delle case automobilistiche nello spazio di ricerca e sviluppo in Israele. Per comprenderne il significato, bisogna ricordare la gerarchia tradizionale secondo la quale l'industria automobilistica globale opera. La struttura è costruita su un sistema a due livelli: in alto ci sono le case automobilistiche, che compongono la "classe dirigente", mentre dall'altra ci sono i fornitori esterni, che comprendono aziende tecnologiche, aziende che sviluppano e producono materie prime, i pezzi di ricambio e tutti gli altri componenti.

 Ed è qui che entra in scena Israele.
  General Motors istituì il proprio centro di ricerca e sviluppo in Israele nove anni fa, molto prima del buzz creato da Mobileye e Waze. Per molto tempo il centro israeliano ha lavorato in silenzio.
Dietro le quinte, le tecnologie sviluppate presso il centro hanno dato alla General Motors un vantaggio competitivo soprattutto nel mercato degli Stati Uniti e hanno fornito una nuova fonte di entrate.
Le tecnologie israeliane saranno integrate in milioni di veicoli della General Motors.
In un messaggio semplice, all'inizio dell'anno, la General Motors ha annunciato l'intenzione di espandere notevolmente le proprie operazioni nei centri avanzati di Israele. La società aumenterà il pool di dipendenti in Israele da 100 a 300, un investimento strategico sia in termini locali e globali.

 Auto a guida autonoma
  Una delle divisioni chiave della ricerca che riceverà rinforzo nei prossimi anni, sarà quella dei veicoli autonomi. GM ha comunicato che il centro di sviluppo a Herzliya sarà l'unico centro specializzato General Motors fuori degli Stati Uniti. In futuro Israele potrà anche ospitare i prototipi specializzati di veicoli autonomi.
Per inciso GM è uno dei maggiori clienti di Mobileye (azienda made in Israel che si occupa di visione artificiale e tecnologie di prevenzione degli incidenti). Naturalmente, molti esperti sostengono che in futuro la Mobileye possa diventare il fornitore di tecnologie per i veicoli autonomi della General Motors
L'importanza di Israele all'interno della scena automobilistica non può essere sottovalutata, perché abbiamo grandi recenti investimenti, come il gigante delle auto Volkswagen che ha deciso di investire 300 milioni di dollari nella startup israeliana Gett.

(SiliconWadi, 24 giugno 2016)


Ebrei italiani, populismi e xenofobie veleno per Europa

ROMA - "L'Europa, cosi' come la conoscevamo, quella nata dalle macerie del Secondo conflitto mondiale, l'Europa libera, aperta e inclusiva, sognata e realizzata dai nostri padri, e' ora minacciata. Ci attendono mesi di grande difficolta' in cui tutti i moderati d'Europa saranno chiamati a cooperare per evitare altre brutte sorprese che rischierebbero di mettere a rischio e piu' importanti conquiste democratiche degli ultimi 70 anni". Lo sottolinea il presidente dell'Unione delle Comunita' Ebraiche Italiane Renzo Gattegna commentando la Brexit. "E' ora che tutte le nazioni che fanno parte della grande famiglia europea - prosegue Gattegna - ritrovino un reale senso di unita' e cooperazione e che insieme combattano affinche' i veleni del populismo e gli inquietanti propositi dei tanti gruppi razzisti, xenofobi e reazionari che in queste ore esultano per l'esito del voto sull'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea, siano sconfitti con la forza e il coraggio di idee, progetti e impegni di segno diametralmente opposto. "Ma e' anche il momento, per tutti gli ebrei d'Europa, di riprendere in mano quei valori che sono i nostri e che abbiamo da sempre il compito di attualizzare e disseminare nei luoghi dove viviamo: democrazia, tolleranza, rispetto per le diverse opinioni e per le altrui scelte di vita, amore per la cultura e per la ricerca, strenua difesa della liberta' d'espressione e della giustizia sociale, modestia, trasparenza, onesta'. Senza questi valori non sara' solo una singola realta' del Vecchio continente, ma l'Europa intera ad essere minacciata e ogni realta' che si affaccia sul Mediterraneo, a cominciare da Israele, il solo, prezioso, insostituibile modello di democrazia del Medio Oriente, corre il rischio di restare piu' sola. "Gli inquietanti segnali registrati in questi giorni servono anche a ricordarci che per gli ebrei non esiste pericolo peggiore della chiusura in se stessi, dell'astrazione dal contesto sociale nel quale vivono e nel quale hanno il diritto e il dovere di agire. Siamo una piccola minoranza, in Italia, in Europa e nel mondo, ma abbiamo il dovere di fare fino in fondo la nostra parte. Tutti insieme, mettendo da un canto le paure, i particolarismi e le gelosie, possiamo garantire alle generazioni che verranno un futuro degno delle speranze e degli ideali che il popolo ebraico si tramanda di generazione in generazione".

(AGI, 24 giugno 2016)


La Palestina piange, l'Olp colleziona capolavori

Spunta in un museo di Teheran il patrimonio artistico che Arafat abbandonò nel 1982 per fuggire a Tunisi.

di Enrica Ventura

Nasser Soumi
Abbiamo sempre immaginato il popolo palestinese come un popolo povero, senza una terra, sempre senza pace, un popolo di eterni sfollati (ovviamente sempre per colpa di Israele). E poi abbiamo sempre immaginato i suoi combattenti nelle vesti di uomini armati dediti a compiere stragi con il più alto numero di vittime possibile (infatti li consideriamo terroristi). Invece ora scopriamo che l'Olp, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, aveva un vero e proprio tesoro, non soltanto il fiume di denaro riversato nel corso di decenni dai dittatori dei paesi arabi fratelli, bensì un tesoro più raffinato, fatto di quadri. E a far conoscere questa incredibile storia, anzi a riportarla alla luce, è proprio un artista palestinese.
   Nasser Soumi, secondo quanto riferito da AnsaMed, sta recuperando parte delle circa 200 opere donate negli anni '70 da pittori di una trentina di paesi, che hanno voluto esprimere solidarietà alla causa palestinese. Risulterebbero anche quadri di Guttuso, Mirò, Tapies, Giò Pomodoro, Samonà e Treccani. L'Italia contribuì con il maggior numero di artisti, seguita dalla Francia.
   Soumi è un nome noto nel mondo dell'arte araba: nato nel 1948 a Silat el Dhahr, attualmente nel territorio della Cisgiordania, dal 1980 vive a Parigi e ha già organizzato diverse mostre. È appena rientrato dall' Iran, dove ha ottenuto dal direttore del Museo di arte contemporanea di Teheran, Majid Molla Norouzi, l'impegno a far tornare a Beirut 37 delle opere, che da oltre trent'anni giacciono nei suoi depositi. Si tratta di quegli stessi depositi in cui è custodita una delle più grandi e preziose collezioni di arte contemporanea e moderna del mondo (Warhol, Picasso, Giacometti, Van Gogh), cioè quella appartenuta allo scià di Persia e poi nascosta dopo la Rivoluzione khomeinista, esposta al pubblico dopo decenni soltanto nel dicembre scorso.
   Si scopre così che il museo di Teheran possiede anche questo secondo tesoro, che però sarebbe di proprietà dell'Olp. La storia risale al 1978. In quell'anno, infatti, alla Beirut Arab University venne organizzata l'Interna-tional Art Exhibition in Soli-darity with Palestine, con i contributi dei maggiori artisti dell'epoca provenienti da tutto il mondo. Organizzata dall'OLP, la mostra viene ancora oggi presentata come un evento, anche se di breve durata, poiché rimase visibile soltanto dal 21 marzo al 5 aprile del 1978. L'iniziativa palestinese si ispirò a quella andata in scena nel 1973 a Parigi, in solidarietà con il presidente cileno Salvador Allende. Dopodiché la collezione presentata a Beirut, come spesso accade, fu divisa e andò itinerante in diversi paesi, tra cui Giappone e Norvegia. Nel 1982 approdò in Iran, ospitata presso il Museo di arte contemporanea di Teheran. Si tratta dello stesso anno del conflitto israelo-libanese, con l'OLP che abbandona il paese dei cedri per riparare in Tunisia, mentre i capolavori restano nella capitale iraniana.
   Ora Soumi ha deciso di rimettere insieme la collezione, con l'obiettivo di creare il Museo internazionale di solidarietà con la Palestina, creando persino una fondazione a Parigi. Il Museo sarebbe ospitato a Beirut, almeno «finché la Palestina non sarà liberata», ha dichiarato non potendo rinunciare alla stoccata contro Israele. La sua iniziativa è soprattutto politica, volendo portare questa collezione nel Museo Palestinese, edificio costruito vicino a Ramallah, inaugurato a maggio dal presidente del-l'Anp, Abu Mazen, ma che finora non ha ospitato alcuna esposizione. Con questi quadri se ne potrebbe organizzare una, ma come la prenderebbe il popolo palestinese se sapesse del valore di questa collezione nelle mani di quei combattenti che credevano dediti soltanto alla «causa della terra»?

(Libero, 24 giugno 2016)


Musulmani in Israele

di Andrea Marcenaro

Allora. Il 17 per cento della popolazione israeliana è musulmana. Più di 300 imam e muezzin sono stipendiati dallo Stato. Un milione e 400mila israeliani musulmani parlano l'arabo, che è una delle due lingue ufficiali di Israele. 26mila musulmani studiano negli istituti accademici israeliani. I musulmani in Israele sono cresciuti di 10 volte rispetto al 1948. Sono colà diffuse 6 differenti correnti dell'Islam, le moschee sono cresciute del 500% sempre dal 1948, 13 deputati alla Knesset sono arabi e 1700 musulmani prestano servizio nell'esercito con la stella. Visto? Pure gli ebrei neonazisti-razzisti a loro insaputa, ci dovevano capitare.

(Il Foglio, 24 giugno 2016)


Un attaccante israeliano per il Lugano

Si tratta di Ofir Mizrachi, 22enne, proveniente dal Hapoel Kiriat.

 
I gol di Mizrachi
Il FC Lugano comunica che nella giornata odierna é stato sottoscritto il contratto che legherà per la prossima stagione al club bianconero l'attaccante Ofir Mizrachi, di nazionalità israeliana. La punta, che compirà 23 anni il prossimo 4 dicembre, ha disputato le ultime stagioni nel massimo campionato del suo paese con la maglia dell'Hapoel Kiriat di Shmone, totalizzando 24 reti in una sessantina di presenze. Ha anche vinto la coppa di Israele e ha giocato due partite di qualificazioni all'Europa League.
Mizrachi é stato più volte selezionato con la nazionale israeliana U21: lo scorso anno ha formato la coppia offensiva titolare assieme a Dabbur, l'attaccante che ha giocato nel Grasshopper e che é appena stato ceduto al Salisburgo. Quattro i gol segnati con la maglia israeliana dalla nuova punta bianconera.
Dopo aver firmato il contratto Ofir Mizrachi si tratterrà a Lugano per seguire l'allenamento pomeridiano dei compagni e domattina farà ritorno a Tel Aviv per sistemare le pratiche buracratiche. Tornerà in Ticino lunedì per mettersi a disposizione dell'allenatore Manzo e del suo staff.

(ticinonews, 23 giugno 2016)


L'economia israeliana in controtendenza

L'afflusso di capitali stranieri è quasi triplicato dal 2005, anno in cui venne lanciato il movimento per il boicottaggio anti-israeliano.

Israele è sempre più isolato? Sta subendo una diminuzione degli investimenti stranieri? Sembra proprio di no, stando ai dati sugli investimenti dall'estero in imprese israeliane.
Qualche esempio. Hewlett-Packard, gigante globale di personal computer e stampanti che in Israele gestisce otto centri di Ricerca&Sviluppo, ha recentemente istituito la Silicon Valley-Israel HP Tech Ventures, braccio finanziario alla ricerca di innovative aziende americane e israeliane nei campi 3D, realtà virtuale, iper-mobilità, internet delle cose, intelligenza artificiale e apparecchiature sofisticate. Manifestando fiducia nelle potenzialità delle innovazioni mediche israeliane, Orbimed, il principale fondo di investimento al mondo per assistenza sanitaria e gestione delle risorse, ha recentemente raccolto 300 milioni di dollari per il suo secondo fondo in Israele, superando i 222 milioni che aveva raccolto per il primo. Lo scorso mese di maggio la casa automobilistica tedesca Volkswagen ha concluso un accordo di partnership strategica per un investimento 300 milioni di dollari con la start-up israeliana Gett che si occupa di servizi taxi e applicazioni per logistica e distribuzione. Non basta. La General Motors ha annunciato il triplicamento del personale, da 100 a 300 dipendenti, nel suo centro Ricerca&Sviluppo a Herzliya. Il centro ha già sviluppato una serie di tecnologie contribuendo a migliorare i margini di competitività della GM sul mercato globale. Dal 2011 GM Ventures, braccio finanziario della società, ha continuato a investire in un certo numero di aziende start-up israeliane....

(israele.net, 24 giugno 2016)


Expo, inaugurata in Israele Kkl forest

Al progetto hanno oltre 45 mila persone provenienti da 50 Paesi

 
MILANO - Si è svolta nella foresta di Yatir (Israele) la cerimonia di inaugurazione di 'Kkl Expo Forest'.
L'area dedicata è stata creata grazie alla partecipazione dei visitatori del Padiglione Israele a Expo Milano 2015. Attraverso il totem interattivo del Kkl, presente nel Padiglione, ogni visitatore aveva la possibilità di piantare un albero in Israele.
Sulla targa è inciso: "In onore di Expo Milano 2015. Più di 45.000 mila persone, provenienti da 50 paesi diversi nel mondo, hanno partecipato a questo progetto". Alla cerimonia hanno partecipato il Ministro delle Politiche Agricole, Maurizio Martina, l'ambasciatore Francesco Maria Talò, il direttore generale Kkl Israele, Meir Spiegler, il commissario generale padiglione Israele, Elazar Cohen, il direttore generale Kkl Italia, Shariel Gun, e la vincitrice del viaggio in Israele, Marta Frittella.
"Israele - ha detto Martina - è stato uno dei Paesi più importanti per Expo. Questa simbolica Foresta sarà l'eredità dell'Esposizione Universale, in Israele".

(ANSA, 23 giugno 2016)


La Svizzera non finanzia il boicottaggio commerciale di Israele

BERNA - La Svizzera non finanzia alcuna campagna per il boicottaggio di prodotti israeliani. Secondo il Consiglio federale, la Confederazione non aiuta nemmeno ONG che incitano alla violenza e all'antisemitismo.
Il consigliere nazionale Christian Imark (UDC/SO) mette in dubbio le organizzazioni non governative (ONG) sostenute dalla Svizzera attraverso l'aiuto allo sviluppo. In una mozione firmata da diversi esponenti di UDC, PPD e PLR si chiede di non sovvenzionare più progetti di organizzazioni implicate in azioni razziste, antisemite o di incitazione all'odio, o ancora in campagne di boicottaggio contro Israele.
La Svizzera si impegna nella promozione della pace e del rispetto dei diritti fondamentali di tutte le parti del conflitto israelo-palestinese. Le organizzazioni partner vengono scelte in base all'esperienza e al contributo a un obiettivo, afferma il governo in una risposta odierna.
Berna non sostiene nessuna organizzazione che incita all'odio, alla violenza, al razzismo o all'antisemitismo. È inoltre estranea anche alle campagne di boicottaggio. Riguardo al conflitto, il Consiglio federale si impegna per una pace negoziata, giusta e duratura.

(Corriere del Ticino, 23 giugno 2016)


F-35: gli Usa "consegnano" a Israele il codice primario per le implementazioni hardware

di Franco Iacch

Il Ministro della Difesa Avigdor Lieberman nella cabina di pilotaggio dell'F-35 israeliano Adir
"Israele è orgoglioso di essere il primo paese nell'area a ricevere ed utilizzare l'F-35: il migliore aereo al mondo. È evidente e ovvio per noi e per l'intera regione che l'F-35, l'Adir, sarà in grado di garantire una vera deterrenza e di accrescere le nostre capacità per un lungo lasso di tempo". È quanto ha commentato poche ore fa Avigdor Liberman, Ministro della Difesa di Israele per il rollout del primo F-35A Lightning II dell'Israeli Air Force.
   È stato considerato un momento fondamentale per il futuro della difesa nazionale del paese. È ritenuto da Israele come il game changer del Medio Oriente. Se considerassimo le attuali capacità, comunque in divenire, tale affermazione potrebbe essere azzardata e dovremmo posticiparla al 2020/22. Se, invece, la considerassimo proprio dal punto di vista di Israele potremmo, a diritto, accettarla. Il motivo è storicamente intuibile. L'F-35 di Israele sarà profondamente diverso, ad esempio, da quello che volerà per l'Italia o comunque da tutte le piattaforme JSF fuori dagli Stati Uniti. Modifiche che lo differenzieranno anche per il 40% dagli altri F-35.
   Tel Aviv, dopo lunghe ed estenuanti trattative, è stata autorizzata ad implementare (secondo prassi consolidata) hardware indigeno e svariati sistemi di guerra elettronica. L'esatta natura delle alterazioni (esterne ed interne) non è chiara, ma alcune di queste dovranno essere scritte nel prezioso codice sorgente, gelosamente custodito dagli USA. Proprio Israele sarebbe riuscita ad implementare le nuove funzionalità senza richiedere l'assistenza degli Stati Uniti. Sarà un'eccezione per l'alleato nel Medio Oriente, che non sarà mai consentita ad altri partner.
   Non è comunque una novità per Tel Aviv, basti guardare le cellule degli F-15 e F-16 profondamente stravolte per incontrare le richieste israeliane. Ufficialmente, Lockheed Martin eseguirà una particolare esigenza del Ministero della Difesa israeliano: estendere il raggio d'azione dell'F-35 di almeno il 30%. Tutte le altre modifiche saranno realizzate in patria. L'attuale raggio d'azione di un F-35 è di circa 1150 km. Se l'F-35 israeliano incrementasse del 30% il suo 'flight range' potrebbe colpire obiettivi iraniani. Tuttavia, anche con questa maggiore capacità, il caccia avrebbe sempre necessità di un rifornimento in volo, considerando che gli obiettivi iraniani si trovano ad una distanza minima di almeno 1000 km.
   L'F-35 è tecnologicamente più avanzato rispetto all' F-16I (la 'I' sta per Israele) ed è considerato uno dei più potenti caccia in produzione. Il velivolo della Lockheed Martin, diventerà il primo aereo stealth in forza all'IAF. A differenza di altri contesti, come il Canada ad esempio, Israele punta molto sulla bassa osservabilità e l'avionica.
   Per molti anni, la tecnologia stealth è stata ritenuta troppo costosa per essere implementata sui piccoli aerei, motivo per cui fu utilizzata solo sui bombardieri più grandi e costosi come il B-2, il B-1 e l' F-117. Il recente sviluppo dell'F-35 consente l'incorporazione delle caratteristiche a bassa osservabilità ad un prezzo "contenuto".
   L'F-35, infine, è stato progettato per essere equipaggiato con migliori sistemi elettronici di bordo al mondo: essi saranno parte integrante del velivolo e non come dotazione supplementare così come avviene per altri caccia tattici. Tecnologia stealth ed avionica che hanno già un ipotetico avversario: l'S-300 russo acquistato dagli iraniani. L'Almaz-Antey S-300PMU-1 è un sistema di difesa progettato per la difesa tattica contro bersagli ad ampio spettro come missili balistici, velivoli ed elicotteri. Secondo la Almaz-Antey, società russa che produce il sistema, l'S-300 dovrebbe essere letale contro tutti i caccia di quarta generazione e, comunque, contro tutti i vettori non dotati di tecnologia stealth. L'azienda russa sostiene anche che gli S-300 hanno una certa capacità di identificare i caccia di quinta generazione, ma queste sono soltanto supposizioni.
   La versione S-400, invece, è stata progettata proprio per intercettare le minacce stealth occidentali.

(Difesa Online, 23 giugno 2016)


State of the Heart: In Israele la conferenza sulle ultime novità cardiovascolari

 
Centinaia di ricercatori e operatori sanitari da tutto il mondo si sono riuniti presso l'ospedale Rambam di Haifa per una conferenza chiamata State of the Heart.
La conferenza ha affrontato le sfide globali nel trattamento cardiovascolare e ha evidenziato i cambiamenti innovativi nel campo, a seguito dell'utilizzo di tecnologia all'avanguardia. Il Campus Rambam Health Care è un ospedale accademico di circa 1000 letti che copre gli oltre due milioni di residenti del nord di Israele.
La conferenza è culminata con la cerimonia Rambam Award, che "riconosce i notevoli individui per il loro contributo alla medicina, la scienza e la tecnologia, così come la loro passione e generosità speciale verso lo Stato di Israele".
Quest'anno i riconoscimenti sono stati attribuiti al Prof. Eric Topol della Scripps Translational Science Institute, Sandor Frankel del Leona M. e Harry B. Helmsley Charitable Trust e al Prof. William Brody, già presidente del Salk Institute.
Brody è stato riconosciuto per innovazioni nel trattamento delle malattie cardiovascolari. Si è specializzato come medico e ingegnere in tecnologie di imaging un aspetto del trattamento cardiovascolare che ha percorso una lunga strada con funzionalità di scansione MRI e CT.
Il professor Yuval Noah Harari, l'autore del bestseller Sapiens: A Brief History of Humankind (Sapiens: Breve storia del genere umano), ha parlato alla conferenza di ciò che ha descritto come il futuro della medicina, il cambiamento di paradigma tra il curare il malato e migliorare la salute.
Rafi Beyar, Amministratore Delegato e Direttore Generale del Rambam Health Care Campus, ha commentato:

Il vertice annuale è a completamento di un intero anno di impegno del Rambam sulla ricerca medica e l'innovazione. Alla conferenza vengono presentate le più recenti tecnologie mediche d'avanguardia, nonché i metodi e le pratiche che compongono la medicina della frontiera digitale.

(SiliconWadi, 23 giugno 2016)


Brexit e Israele

di Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi

Il referendum sulla Brexit non è solo una questione esclusivamente British ma impone una attenta analisi fuori dei confini del Vecchio Continente. Il valore e il peso dell'esito di questo appuntamento hanno ricadute internazionali che vanno ben oltre la cornice europea. «L'uscita della Gran Bretagna dalla Ue sarebbe una battuta d'arresto non solo economica ma geopolitica» ha recentemente commentato il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. L'ansia di Londra, in queste ore di voto, contagia le borse, le banche e le altre capitali europee.
    Anche in Medioriente il dibattito è aperto. La Brexit entra persino nella questione più intrigata di sempre: il conflitto israelo-palestinese. Non poteva essere altrimenti, la Terrasanta, come oggi la conosciamo geograficamente, è strettamente legata alle scelte politiche dell'Impero di Sua Maestà: il vulnus storico è, e rimane, il periodo del Governatorato britannico della Palestina post Prima Guerra Mondiale. Con l'inasprimento del confronto tra arabi ed ebrei, "l'uso e la strumentalizzazione" dell'odio degli uni verso gli altri, radicando nelle rispettive società e culture la paura e l'uso della violenza. Un orrore, che nasce da un errore, di cui ancor oggi paghiamo le drammatiche conseguenze.
    Alla vigilia del voto inglese è interessante osservare e capire come a Gerusalemme palestinesi ed israeliani riflettono su questa scadenza elettorale. La maggioranza delle persone, di qua e di là dal muro, dimostrano un approccio di fondo strettamente legato al proprio portafoglio, guardando la concretezza della cosa, gli effetti immediati sulla valutazione della moneta visto che l'Europa è il primo partner commerciale: cosa farà lo shekel, ci sarà la svalutazione del nuovo siclo israeliano in caso di Brexit? Domanda più che logica. Tuttavia, indipendentemente dagli effetti monetari, ci preme mettere in risalto anche taluni aspetti più tecnicamente "diplomatici". Secondo Tusk l'uscita rappresenterebbe un cataclisma: «potrebbe essere l'inizio della distruzione non solo dell'Unione europea, ma di tutta la civiltà politica dell'Occidente». Gli analisti israeliani sono divisi sul significato oggettivo della Brexit.
    Per Israele, c'è chi ritiene che produrrà un cambiamento in negativo "è preferibile che la Gran Bretagna rimanga nella Ue dove rappresenta una voce moderata in favore di Israele. Preferiamo vedere un'Europa solida economicamente, commercialmente e fortemente unita nella sua battaglia contro il terrorismo" ha affermato una fonte autorevole israeliana. E chi invece, in maniera diametralmente opposta, assume che ci sarà un effetto positivo con la riduzione della tendenza ad appoggiare la causa palestinese e il frastagliarsi dell'Ue. Indebolendo notevolmente l'influenza europea nello scenario Mediorientale e smontando definitivamente l'iniziativa di Parigi per la riapertura del processo di dialogo tra israeliani e palestinesi, osteggiata dallo stesso Netanyahu.
    Per parte della destra israeliana nazionalista vale il concetto che "con l'uscita britannica l'Ue diventa più fragile e questo avrà un impatto positivo, perchè nel suo complesso le istituzioni dell'Unione sono su posizioni molto più critiche nei confronti di Israele rispetto ai singoli paesi europei". La lettura della Brexit che fa il lato palestinese appare più distaccata, alcuni accademici ritengono infatti che, a prescindere dal risultato finale, il Regno Unito e l'Europa hanno imboccato un percorso irrefrenabile di "simpatia e vicinanza" per le sorti della Palestina: "La Gran Bretagna dentro o fuori non cambierà l'atteggiamento europeo", ripetono da Ramallah. La controversia degli insediamenti israeliani nella West Bank è materia sentita e fatta sentire da Bruxelles, la voce europea suona stonata per Gerusalemme. E così qualcuno mormora che i mal di pancia di Netanyahu per le richieste della Mogherini si curano con la Brexit.

(QuiNews Pisa, 23 giugno 2016)


L'insostenibile leggerezza del politicamente scorretto

Essere politicamente scorretti, purtroppo, non è una scelta.

di Michael Sfaradi

Lo si diventa quando senza guardare in faccia nessuno si cerca la verità dei fatti al fine di rimettere le cose al giusto posto. Lo si diventa per dare un senso alla propria onestà intellettuale e si agisce con tutta la buona fede possibile anche se poi ci si ritrova dalla 'parte sbagliata della barricata' con tutte le conseguenze che inesorabilmente colpiscono gli affetti, le amicizie e, come accade troppo spesso, la vita professionale.
    Inutile girarci intorno, viviamo in un mondo dove leggi, usanze e buon senso, si piegano ad uso e consumo degli interessi di coloro che pur di avere ragione, o dare ragione agli ideali con i quali sono cresciuti e davanti ai quali perdono sia il senso critico che la ragione, sono oggi capaci di sostenere tutto e il contrario di tutto.
    Poi, se il gioco vale la candela, gli stessi si svegliano una mattina, anche a brevissima distanza di tempo dai fatti e, con una nonchalance che farebbe invidia a un parigino D.O.C., riescono a sostenere l'esatto contrario smentendo se stessi e mentendo sapendo di mentire.
    Insomma cercare di far ragionare chi pur di avere ragione inizia le sue risposte a domande precise con il 'sì ma pure…' o con 'ma anche…' con l'intenzione di dribblare la questione scomoda portandola da qualche altra parte, o quando viene messo davanti alle sue responsabilità chiude le discussioni con un laconico 'mah', è un'inutile perdita di tempo.
    Un capitolo a parte tocca poi a quelli che inserendo un 'ma su…' all'interno di un qualsiasi commento o ragionamento credono di essersi assicurati la ragione a ogni costo.
Vi chiederete il perché di questa mia non breve introduzione, è molto semplice, si tratta di un leggero sfogo dopo aver letto le polemiche del popolo duro e puro della 'sinistra' italica, ma presumo che polemiche simili siano scaturite da tutte le sinistre europee, alle critiche, questa volta interne allo stato di Israele e al suo mondo politico, relative all'incontro che il leader laburista Yitzhak Herzog ha avuto con il presidente dell'A.N.P. Abu Mazen prima delle ultime elezioni politiche israeliane.
La critica principale che è stata posta a Herzog sta nel fatto che in uno stato democratico incontri politici di quel livello sono compito del Primo Ministro che, sempre in uno stato democratico propriamente detto, rappresenta la nazione intera.
    Se invece lo fa il leader dell'opposizione, che rappresenta solo il suo partito o la sua area politica, la sua azione oltre a sconfinare in territori che non gli competono può solo creare danno e confusione soprattutto quando si ha a che fare con il mondo arabo dove le trattative sono un'arte.
    Troppe volte siamo stati testimoni che proposte in fase di trattativa da parte palestinese sono state selezionate e vivisezionate con il fine di lasciare in vita ciò conveniva facendola diventare di fatto un vantaggio acquisito e mettendo nel dimenticatoio ciò che poteva loro ritorcersi contro.
    Ma le anime belle della sinistra israeliana e non, rispondono alle critiche che il leader laburista Yitzhak Herzog, al contrario di Netanyahu, con Abu Mazen ci si è incontrato e che ha portato avanti delle trattative su una base non lontana alle proposte avanzata da Bill Clinton a Camp David nel luglio 2000, proposte accettate dal premier israeliano Ehud Barak ma respinte da Arafat.
    Fermo restando, in questi casi a scanso di equivoci vale sempre la pena di ricordarlo visto che questo particolare fondamentale in molti a sinistra fa comodo dimenticarlo o nasconderlo, che Herzog non aveva nessun mandato per parlare a nome della nazione, che se Netanyahu non ha incontrato il Presidente palestinese, nonostante diversi inviti senza precondizioni è solo perché quest'ultimo non ha accettato gli incontri, che senso avrebbe avuto incontrare Abu Mazen per parlare con lui su di una base di trattativa che da parte palestinese è già stata rifiutata? Bisogna essere dei geni per capire che si trattava d'inutile perdita di tempo oppure si voleva dimostrare che Abu Mazen con le sinistre israeliane si incontra e con gli altri no? E anche ammesso: sono forse i palestinesi che gestiscono l'agenda politica israeliana decidendo a priori chi deve o no rappresentare lo Stato Ebraico? A questo punto la domanda nasce spontanea: Ma la 'sinistra' in genere, non solo quella israeliana, che con lo sfrontato supporto della stragrande maggioranza dei media è bravissima a tenere gli avversari politici sotto stretto controllo, guardando ogni loro mossa con la lente di ingrandimento, e che è sempre pronta ad alzare gli scudi quando gli altri escono dal seminato, lo sa che se esistono delle regole le stesse valgono anche per loro? Se non lo sanno è giunto il momento che vadano a studiare, se invece fanno finta di non saperlo è giunto il momento di cambiare atteggiamento anche perché alla lunga la corda può spezzarsi e le conseguenze sono sempre imprevedibili.
    Per aumentare la benzina sul fuoco è uscita anche la notizia, impossibile averne però conferma, che l'ispiratore di queste trattative illegali sia stato addirittura l'ex presidente Shimon Peres.
    Se questo dovesse essere confermato la faccenda diventerebbe ancora più grave di quello che è perché una vecchia volpe politica come lui non può non sapere che a certa azioni ci sono poi delle reazioni contrarie, e quando si tratta di politica non sono mai della stessa forza e potenza.
    Qualcuno ha chiamato traditori sia Herzog che Peres, e sicuramente questo è esagerato, ma così facendo oltre ad aver detto delle castronerie hanno dato modo ai difensori ad oltranza del 'sinistro' pensiero di usare quest'esagerazione per dare vita a una polemica sulla polemica cercando una cortina di fumo che copra l'incontro fra Herzog e Abu Mazen, vicenda che rischia di scoppiare loro fra le mani.
    Ma c'è un ma, il popolo ebraico, da sempre, è abituato a discutere su tutto anche sulle leggi divine, e se le leggi divine da più di cinquemila anni sono oggetto di discussione figuriamoci se un personaggio politico, anche il più rappresentativo, può sentirsi al sicuro da critiche e commenti.
    Per questo tutte le 'belle anime' sempre loro, quelle di sinistra, possono solo mettersi l'anima in pace anche perché Peres, inutile girarci intorno, è più amato all'estero che in patria.
    Nella sua lunga carriera infatti l'ex Presidente non ha mai vinto un'elezione e la sua carriera si è sviluppata al seguito di altri politici, a cominciare da Ben Gurion per finire con Rabin passando per Levi Eshkol e Golda Meir.
    Non si fa un grande regalo alla storia se si vuole dimenticare o nascondere che Shimon Peres, icona vivente di tutte le sinistre, era odiato da Rabin, altra icona storica delle sinistre, che male sopportava questa presenza obbligata come ministro nei suoi governi.
    Un commento che ho recentemente letto sui 'social network' diceva: "Prima di esprimersi con leggerezza nei confronti di Shimon Peres molte persone dovrebbero mordersi la lingua e ripensare al suo ruolo nella costruzione e nella difesa dello Stato d'Israele". Non credo di essermi espresso con leggerezza e posso assicurare i lettori che non mi morderò mai la lingua perché se sono convinto che il ruolo di Peres nella costruzione e nella difesa di Israele merita uno studio approfondito da parte di storici non di parte perché nella sua opera di chiaroscuro, come in ogni politico che si rispetti, ce n'è molto.
    Non è giusto, e questo vale per tutti da destra a sinistra, metterne in risalto le cose positive nascondendo per partito preso quelle negative o fare l'esatto contrario quando si valuta un avversario politico.
    Tutto questo perché in Israele un Presidente o un ex Presidente non è mai al di sopra di critiche, considerazioni e della legge, e Israele, nella sua alta democraticità che non ha pari, è l'unica nazione al mondo che quando si è trovata davanti al dilemma se aprire o no le porte del carcere a un altro ex Presidente (Moshe Katzav) ha deciso che le regole vanno rispettate e che quando si cade nella rete della giustizia i debiti vanno pagati… da tutti.

(TICINO live, 23 giugno 2016)


Nel deserto del Negev torre solare da record

Via al cantiere. Alta 240 m. sarà circondata da 55 mila specchi

di Maicol Mercuriali

Il progetto è Faraonico, sia nelle cifre in ballo che nella maestosità. al termine di un investimento tra i 500 e i 650 milioni di euro, nell'arido deserto del Negev, in Israele, sorgerà la più alta torre solare del mondo, un innovativo impianto per la produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile.
   La Torre di Ashalim si ergerà per 240 metri e sarà circondata da 55 mila specchi che copriranno una superficie di 300 ettari Immaginate circa 400 campi da caldo, uno a fianco dell'altro, e poi al centro questo grosso cilindro alto quanto una discreta collina. La torre solare israeliana sarà visibile da decine di chilometri di distanza e, quando alla fine dell'anno prossimo sarà completata, abbatterà il record dell'attuale torre solare più alta del mondo, i 137 metri di un impianto simile costruito in California.
   La distesa di specchi serve per concentrare l'energia solare, la quale scalderà l'acqua fino a farla diventare vapore e raggiungere i 600 C. II vapore sarà fatto convogliare sino ai piedi della torre, dove sono poi presenti le turbine che produrranno energia elettrica. Quanta? Si stima possa soddisfare tra l'1 e il 2% del fabbisogno energetico di Israele, diciamo che la Torre di Ashalim è in grado di coprire i consumi energetici di una città con 110 mila famiglie.
   II progetto, finanziato dal gruppo statunitense General Electric e dal fondo di investimento israeliano Noy, fa parte della politica energetica di Israele che, nel 2020, vorrebbe utilizzare il 10% di energia rinnovabile e rendersi così meno dipendente dalle forniture di Paesi terzi. Secondo Eitan Parnass della Green Energy Association, Israele potrebbe soddisfare i suoi consumi elettrici usando solamente il 4% della superficie del deserto del Negev.
   Lo Stato di Israele si impegnato ad acquistare l'energia qui prodotta per una durata di 25 anni e non è un impegno da poco. Perché, come spiega su Le Parisien Eran Gartner, a capo del consorzio Megalim che sta portando avanti i lavori nel deserto del Negev, «l'energia prodotta da una torre solare è da due a tre volte più costosa rispetto all'elettricità prodotta da una centrale convenzionale a carbone o petrolio».
   La particolarità dell'impianto, rispetto ad esempio alle distese di pannelli fotovoltaici, è che sarà in grado di funzionare anche dopo il tramonto, grazie a un sistema di stoccaggio dell'energia solare.

(ItaliaOggi, 23 giugno 2016)


«Il mio piano per la comunità ebraica di Firenze»

Parla il neo presidente Bedarida: sì alla moschea, come luogo di studio e culto

di Jacopo Storni

«Porteremo cibo e vestiti alle persone bisognose che vivono ai margini della nostra città' la nostra comunità vuole contribuire a combattere il disagio sociale in aumento a causa della crisi». E il primo dei progetti annunciati da Dario Bedarida, nuovo presidente della Comunità ebraica di Firenze, eletto mercoledì sera al posto di Sara Cividalli che, al termine dei quattro anni di mandato, rappresenterà Firenze nel consiglio nazionale dell'Ucei. L'idea è quella di mettersi al servizio delle associazioni e del Comune che già operano su questo fronte e, come comunità ebraica, rendersi parte attiva nell'aiuto alle fasce più deboli della popolazioni.
   Ma è solo uno dei fronti su cui intende agire Bedarida, alla sua seconda presidenza (l'ultima dal 2004 al 2008). «Sarà un lavoro in continuità con la ex presidente - ha detto Bedarida - Vorrei lavorare sulla semplificazione e sulla razionalizzazione delle risorse, eliminando le cose inutili e concentrandosi sugli aspetti più importanti della comunità come culto, cultura, supporto sociale e le attività giovanili».
   A proposito di giovani, il neo presidente vuole puntare molto su di loro, che dovranno diventare una delle anime della comunità, tanto da aver nominato nel consiglio Rachel Camerini, 27 anni. Proseguirà anche l'attività del Balagan Cafè, il forum estivo in cui la sinagoga si apre con eventi alla città. «L'ho sempre sostenuto e sono contento che esista». E sono allo studio attività culturali da svolgere non solo in estate, ma anche durante l'autunno e l'inverno.
   Quanto al successore del rabbino Joseph Levi (che lascerà nel luglio 2017, secondo l'accordo trovato dopo anni di contrasti sul suo pensionamento), Bedarida ha detto che «ci attiveremo quando saremo più vicino alla fine del mandato per trovare un nuovo rabbino che possa continuare l'attività a Firenze e possa mantenere i rapporti con l'esterno».
   Infine, la delicata questione moschea, a cui il neo presidente si dice favorevole, a certe condizioni però: «Sono favorevole alla nuova moschea in città, noi come ebrei abbiamo la possibilità di avere i nostri luoghi di culto, così come tante altre religioni, ed è giusto che lo abbiano anche i fedeli islamici, a patto però che la moschea sia un luogo di studio e di culto». Tra l'altro, aggiunge Bedarida, «ho sempre avuto ottimi rapporti con l'imam Izzedin Elzir, lo conosco da 15 anni, è importante il lavoro che è stato fatto, e continueremo a fare in futuro, sul dialogo interreligioso e sul dialogo di conoscenza reciproca perché in questo modo si possono creare le condizioni per vivere in pace».

(Corriere Fiorentino, 23 giugno 2016)



Parashà della settimana: Shlach (Manda)

Numeri 13:1-15:41

 - La parashà di shelah che significa ''manda'' degli esploratori per conoscere la Terra d'Israele, è legata alla precedente parashà Be'alotehà dal comune denominatore della maldicenza.
  Miriam era stata punita con la "lebbra'' per aver calunniato suo fratello Moshè. Gli esploratori che non hanno imparato da questo episodio premonitore, avendo deliberatamente calunniato la terra d'Israele, sono stati puniti con ''l'esilio'' (Numeri13.32).
  Cosa stava accadendo nel deserto del Sinài?
  Il popolo era giunto ai confini della Terra promessa e Moshè designa un responsabile per ogni tribù con l'obiettivo strategico di andare ad esplorare il Paese onde preparne la conquista.
  I dodici capi designati partono e restano quaranta giorni nel Paese. Al loro ritorno portano dei frutti meravigliosi (grappoli d'uva giganteschi) ma dichiarono, ad eccezione di Giosuè e Calev, che giammai sarà possibile conquistare la Terra d'Israele, perché è ''un Paese che divora i suoi abitanti'' (Numeri 13.32).
  Una profonda depressione si impossessò allora del popolo in seguito all'ascolto di queste parole senza fede e senza speranza. Il popolo ''pianse'' tutta la notte, reclamando il suo ritorno in Egitto. Era il 9 del mese di Av!
  Il midrash a riguardo aggiunge: "Voi piangete questa notte per nulla, ma verrà una notte del 9 di Av dove piangerete con ragione''. E' la profezia della distruzione del Tempio di Gerusalemme. La mano aperta di D-o si trasformerà nel pugno chiuso di Roma. "Misura contro misura''.
  Il popolo dopo tutti i miracoli accaduti in suo favore, compreso il passaggio all'asciutto tra le acque del mare, aveva perso la fede in D-o Benedetto. Tutta la generazione uscita dall'Egitto fu per questo motivo condannata a finire la sua esistenza nel deserto del Sinài.
  Il peccato degli esploratori è considerato dalla Tradizione come uno dei più gravi, essendo il rifiuto di entrare in Terra di Israele l'origine dello esilio e delle sofferenze del popolo.
  Ma chi sono gli esploratori dei tempi moderni? Non dimentichiamo che gli esploratori biblici, mandati da Moshè, erano ebrei. Ma di questi soltanto due tribù quella di Giuda, guidata da Calev e quella di Giuseppe, capeggiata da Efraim, avevano dato speranza e coraggio al popolo per entrare nella Terra e conquistarla.
  Questo sta a significare che le due tribù suddette incarnano l'amore per la Terra d'Israele e la forza per conquistarla. Oggi i territori "contesi'' sono proprio la Giudea e la Samaria dove vivono degli ebrei che non si lasciano inpressionare dalle mezze verità di esploratori "rinunciatari'', che prepano, D-o non voglia, una nuova distruzione di Gerusalemme.
  Il messaggio della Torah è di un'attualità bruciante: tutte le rivendicazioni dei nostri nemici si concentrano proprio sulla Giudea-Samaria (BDS), tollerando il Terrorismo islamico nel mondo intero pur di soffocare Israele.
  La presenza ebraica in questi territori dipende dalla nostra fede e dal nostro coraggio. "Andiamo e prendiamo possesso del Paese!'' (Numeri13.30). Credere che l'avvenire del popolo ebraico sia altrove è una grossa illusione, che porta se stessi e gli altri a pericolosi errori, che sono stati pagati spesso con la vita.
  La parashà termina con l'episodio dell'uomo che raccoglie della legna nel giorno del Sabato (Numeri 15.32).
   Il fatto, che si inserisce tra due rivolte, quella degli esploratori e quella successiva del gruppo di Corach, vuole segnalare un caso di ribellione individuale alla Torah, come la profanazione del Sabato.
  La raccolta della legna difatti comprende anche altre azioni vietate come la spaccatura di questa per accendere il fuoco, farne delle fascine oppure il suo trasporto.
  Il gesto veniva aggravato perché fatto in pubblico e alla presenza di testimoni, che avevano avvisato l'uomo a non commettere la trasgressione. Esisteva dunque la sua volontà (mezid) a trasgredire, per cui non può essere accordata alcuna circostanza attenuante. La pena fu la condanna capitale mediante lapidazione. F.C.

*

 - Il popolo è ormai vicino alla terra che Dio ha promesso di dargli, non resta che entrare. Dio ordina a Mosè di mandare degli uomini a esplorare il paese, ma perché uno per tribù? Se era per motivi militari, non sarebbe stato meglio scegliere un gruppetto di persone particolarmente qualificate per quello scopo, indipendentemente dalla tribù di appartenenza? Dio però non vuole dei tecnici militari, ma dei rappresentanti politici, perché dal seguito del discorso si capisce che la missione era un test. Tutto il popolo doveva prendere conoscenza diretta della realtà che li aspettava e prendere posizione: Dio voleva vedere quello che avevano nel cuore. La relazione fatta dai rappresentanti delle tribù era corretta: il paese era meraviglioso e gli abitanti spaventosi. La domanda a cui adesso il popolo doveva rispondere non era "che fare?" ma "a chi dobbiamo credere?" Dobbiamo credere a chi dice che non ce la potremo mai fare o a chi dice che "se l'Eterno ci è favorevole ci condurrà in questo paese e ce lo darà" perché "l'Eterno è con noi"? L'Eterno aveva già detto che avrebbe dato loro quel paese, quindi il dilemma era se credere a Dio oppure no. E il popolo disprezzò l'Eterno mettendo in mostra la sua incredulità. Mosè, Aaronne, Giosuè e Caleb cercarono di convincerlo a manifestare in modo pratico la sua fede in Dio entrando nel paese, e il risultato fu che "tutta la comunità parlò di lapidarli" (Numeri13:10). In questo modo si vede che così come le nazioni nemiche di Dio si mettono contro il popolo di Dio, così il popolo disubbidiente a Dio si mette contro i servi di Dio mandati in mezzo al popolo.
  Erano nella disubbidienza incredula, ma sapevano con chiarezza che cosa bisognava fare. La prima volta non avevano saputo aspettare e nella di fretta di arrivare a destinazione avevano ordinato ad Aaronne di fargli un dio che li portasse a destinazione; questa seconda volta invece non si rivolgono a un sacerdote per chiedergli un dio, ma parlano fra di loro: «Nominiamoci un capo e torniamo in Egitto!» (Numeri 14:4). E' il trionfo della democrazia: un governo di popolo per andare in direzione contraria a quella indicata da Dio.
  A questo punto emerge la tipica domanda biblica: "Fino a quando?" E' una domanda che forse rivolgiamo anche noi a Dio con le parole del salmista: "Fino a quando avrò l'ansia nell'anima e l'affanno nel cuore tutto il giorno?" (Salmo 13:2). Qui invece è Dio che rivolge a Se stesso la domanda, prima riguardo al popolo: «Fino a quando mi disprezzerà questo popolo? Fino a quando non avranno fede in me dopo tutti i miracoli che ho fatti in mezzo a loro?» (Numeri 14:11); poi riguardo a Se stesso: «Fino a quando sopporterò questa malvagia comunità che mormora contro di me?» (Numeri 14:27). Anche Gesù rivolse a Se stesso questa domanda davanti al popolo che dubitava di Lui: «O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando vi sopporterò?» (Matteo 17:17).
  Il Signore fa a Mosè la stessa offerta della prima volta: distruggerò questa nazione e farò di te una nazione più grande. Ma anche questa volta Mosè non accetta. Il popolo aveva già ricevuto il "dono della legge" dalle mani di Mosè, perché allora adesso rischia di essere distrutto? Era stato poco osservante della legge? poco solerte nel mettere in pratica i precetti di Dio? ne aveva trasgrediti un po' troppi? No, non era una questione di osservanza di comandamenti, ma di fede: non avevano creduto nella Parola di Dio.
  Qui interviene ancora una volta Mosè, il quale non si mette dalla parte del popolo, non cerca di difenderlo, non presenta attenuanti, ma si fa difensore dell'onore di Dio. Entra in gioco ancora una volta il fatto che Dio è presente in mezzo al suo popolo. E gli altri popoli lo sanno: «Essi hanno udito che tu, o Eterno, sei in mezzo a questo popolo, che ti mostri loro faccia a faccia, che la tua nuvola sta sopra di loro e che cammini davanti a loro di giorno in una colonna di nuvola e di notte in una colonna di fuoco» (Numeri 14:14). Tu, Signore - sembra dire Mosè - dal momento che hai scelto di abitare in mezzo al tuo popolo, hai impegnato il tuo Nome davanti agli altri popoli, i quali sanno tutto questo e ne tremano. Se il tuo popolo perisce, sei Tu che ci perdi la faccia. Quindi "perdona, ti prego, l'iniquità di questo popolo, secondo la grandezza della tua bontà, come hai perdonato a questo popolo dall'Egitto fin qui» (Numeri 14:20).
  Invece di fulminare l'impudente interlocutore, il Signore ascolta e perdona. Che c'entra la legge in tutto questo? Niente. Il popolo di Dio non vive per l'osservanza della legge e non muore per la sua inosservanza. Se ancora oggi è vivo, non è perché ha osservato diligentemente i precetti del severo legislatore Mosè, ma perché il Signore ha ascoltato la preghiera accorata del mediatore Mosè. E ha manifestato la sua grazia.
  Dio perdona e salva il popolo, ma lo punisce, facendo perire quella generazione nel deserto, ad esclusione dei pochi che avevano creduto in Lui. Le parole con cui il Signore spiega la sua decisione sono geniali. Avevate paura di essere uccisi? Questo avverrà, ma non saranno i Cananei a farlo, sarò Io stesso. Non volevate entrare nel paese? Non vi entrerete, vi farò girare nel deserto fino a che non morirete di morte "naturale". Quanto ai dieci esploratori che hanno screditato il paese davanti al popolo, loro non moriranno di morte naturale, loro moriranno «colpiti da una piaga, davanti all'Eterno» (Numeri 14:37). Eravate preoccupati per l vostri bambini? Niente paura, i bambini entreranno nella Terra promessa, ma non sarete voi ad accompagnarli, perché i vostri cadaveri saranno consumati nel deserto. Il Signore è misericordioso, ma con Lui non si scherza.
  La generazione di Mosè è stata pesantemente punita, ma per l'intercessione di Mosè il popolo è salvo. "Am Israel khai", il popolo d'Israele vive. M.C.

  (Notizie su Israele, 23 giugno 2016)


C'è il divino nel dna dell'ebraico

Lo scrittore Aharon Appelfeld sarà premiato sabato a Lignano per la vita e l'opera

di Aharon Appelfeld

La letteratura ebraica è una letteratura antica, che affonda le sue radici nella Bibbia e nel lungo groviglio della storia ebraica. È scritta in lingua ebraica, in quelle righe soffia il vento della Creazione e ai miei occhi è quasi un miracolo che sia comprensibile in traduzione.
   La letteratura ebraica moderna è in prevalenza secolare, ma una lingua estratta dalla Bibbia non può essere - neppure se lo volesse - completamente secolare. Le parole, le frasi, i silenzi fra le frasi evocano inevitabilmente i nomadi terrestri che erano in comunicazione con i cieli. Il divino calato nel terrestre è nascosto nella lingua ebraica.
   Il dialogo fra l'uomo e Dio mormora in lingua ebraica. La vita e le ideologie moderne hanno contribuito molto a secolarizzare la lingua ebraica, ma la lingua antica non si arrende facilmente. La religiosità continua a scorrere nelle sue vene. Quel flusso nascosto non è percepibile dall'orecchio esterno, ma ci sono giorni in cui esce allo scoperto e mette a disagio i suoi parlanti.
   La lotta della lingua ebraica è il destino dello scrittore ebraico. Naturalmente è possibile scrivere in ebraico e dimenticare da dove esso provenga e chi lo parlava, ignorare i contenuti che porta nelle sue cellule nascoste, ma il costo di quell'oblio a volte può essere fatale.
Ho parlato di religiosità, ma non intendevo con questo la religione organizzata, che è immobilizzata in strutture permanenti. La religiosità è un sentimento primordiale, che scaturisce dall'anima e provoca meraviglia, stupore, il mistero dell'esistenza e il dolore della nostra transitorietà. La Bibbia è capace di sfiorare questi sentimenti primordiali con ciascuna delle sue lettere.
   Tuttavia, oltre e insieme a questi sentimenti primordiali, la religiosità biblica - e la successiva ebraica - ci dicono che l'uomo non è una bolla chiusa/cieca che appare per un istante e subito scompare, è invece un essere fondamentale in tutta la creazione, che ha il potere non solo di vivere e di sussistere, ma anche di collaborare con Dio per guarire il mondo.
   Perfino nella Bibbia, intendo nel Vecchio testamento c'è una distinzione. Si dice che l'uomo è solo cenere, un'ombra passeggera. Questa è una visione molto pessimistica. L'uomo passa come un'ombra. Ma sempre nella Bibbia si dice anche che l'uomo è creato a immagine di Dio, che l'uomo è parte della divinità, non gli è estraneo. Dio non è solo. In seguito, nel misticismo ebraico, l'uomo diventa una parte di Dio. Perché? Perché il mondo non è perfetto, l'uomo non è perfetto. Forse neppure la divinità è perfetta. Dio ha bisogno dell'uomo per migliorare. Dio non è un estraneo.

(Il Piccolo, 22 giugno 2016)


Israele riceve fino a due milioni di attacchi Cyber al giorno

Israele si misura quotidianamente con un minimo di 200 mila ed un massimo di due milioni di attacchi cibernetici: lo ha detto al Times of Israel il professor Isaac Ben Israel, il direttore del Centro interdisciplinare di ricerca Cyber dell'Università di Tel Aviv.
Parlando ai margini di una conferenza internazionale di 'sicurezza cyber', Ben Israel ha confermato che per lottare con efficienza contro quel genere di attacchi occorre una maggiore cooperazione a livello globale. "La gente dice: scambiamoci informazioni di intelligence. Ma poi - ha osservato - nessuno lo fa; per cui occorre escogitare altri sistemi".
In Israele, ha spiegato Ben Israel, si punta a creare un "ecosistema cyber vivente" che sforni di continuo nuove idee e che sia abbastanza elastico da affrontare le sempre nuove minacce. Molta importanza viene annessa "allo sviluppo del capitale umano. Gli israeliani non fanno che discutere, siamo critici per natura. Il popolo di Israele criticava Mosè: tutto è cominciato là. Il senso critico - ha concluso - è un bene per l'innovazione".

(tio.ch, 22 giugno 2016)


Ero un fondamentalista

Le lapidazioni nel vecchio stadio di Kabul, l'odio per gli infedeli. Poi l'imboscata dei talebani e la redenzione. La storia di Farhad Bitani, figlio di mujaheddin.

di Matteo Matzuzzi

Farhad Bitani è figlio di un generale dei mujaheddin afghani. Oggi ha trent'anni, quando aveva sette otto anni, in piena guerra civile, con gli amici faceva a gara a chi trovava pit cose di valore nelle tasche dei cadaveri ammucchiati ai bordi delle strade. Poco più grande, partecipava alle lapidazioni pubbliche, triste rito della stagione talebana, quella della Kabul senza alcolici e televisore, perché così pretendeva l'ipocrita moralismo che in realtà, appena calava la sera, permetteva ogni nefandezza. Farhad le pietre addosso alle donne mezze sepolte nei campi che un tempo erano di calcio le tirava eccome, e provava pure un certo godimento, lì tra la folla berciante. Dopotutto, lo facevano tutti. E pazienza se a guardare c'erano pure orde di bambini, spesso pure i figli della condannata. Nessun senso di colpa né pentimento: era la giusta sanzione per i peccatori. Il primo cedimento, quando un uomo fece lapidare la moglie davanti alle proprie figlie, in lacrime: "Lì per la prima volta mi sono chiesto perché fossi lì". Oggi Bitani è in Italia, dove ha studiato all'accademia militare di Modena, quindi alla scuola militare di Torino. Non ci voleva venire, lo costrinse il padre, nominato addetto militare all'ambasciata di Roma dopo la cacciata dei talebani dai gangli del potere statale e il ritorno dei signori della guerra. "E quando il padre dice una cosa, da noi la si fa". Negli anni ha fatto la spola con l'Afghanistan, la madrepatria cui oggi guarda con ben poca fiducia per il futuro. Ha scritto un libro per raccontare la sua storia, "L'ultimo lenzuolo bianco" (Guaraldi), presentato nelle scuole e in tante sale ricreative lungo la penisola. Un'autobiografia che è anche una sorta di viaggio verso la redenzione, la scoperta che si può vivere anche senza montare e smontare kalashnikov dalla mattina alla sera. La scorsa settimana, Farhad è intervenuto al Centro Culturale Roma, intervistato da Roberto La poca fiducia nel futuro dell' Afghanistan: "Prima c'erano i mujaheddin, poi i talebani, ora di nuovo i mujaheddin" Fontolan. A margine dell'evento, l'ex capitano dell'esercito afghano racconta al Foglio la sua esperienza, come abbia fatto un giovane ragazzo che lapidava donne e che appena sbarcato in Italia si augurava "la morte di questi infedeli" a cambiare. Una folgorazione à la san Paolo? "Macché", ride. "Sono stati tanti piccolissimi gesti di umanità, tanti piccolissimi incontri. Dio, quello vero, mette nel cuore di ciascuno di noi un punto bianco, che consente a tutti di cambiare". Di avere una seconda occasione. Ci tiene a sottolineare quanto minuscoli fossero questi eventi, rimarcando così "un percorso lento, difficile e faticoso". Nulla di facile e immediato, insomma: "Non vale dire che si è cambiati svegliandosi al mattino, sarebbe troppo facile". Per Farhad Bitani, "il cambiamento è prima di tutto un incontro con il diverso, con colui da sempre considerato l'infedele. Poi però — spiega — arriva un momento in cui ci si chiede ma perché sto facendo questo?'. E' un momento che non arriva subito, sia chiaro. Ce n'è voluto di tempo. Ma non ci sono dubbi che sia stato proprio l'incontro con gli altri che mi ha cambiato. Piano piano, un passo alla volta, uno dopo l'altro".
   La svolta decisiva nell'aprile del 2011: "E' l'ultima volta che sono tornato in Afghanistan. Ero andato da mia zia. Tornando, lungo la strada, sono caduto in un'imboscata preparata dai talebani, nonostante viaggiassi seguito da una serie di macchine di scorta. Hanno iniziato a sparare contro la macchina con i kalashnikov, sono rimasto ferito gravemente a una spalla. Dio mi ha salvato, come sempre. Ma è li che ho iniziato a domandarmi perché mi avesse risparmiato, cosa volesse da me. Perché proprio me, in un paese dove ogni giorno muoiono migliaia di persone nel peggiore dei modi? In me qualcosa era cambiato, niente era pit come prima. Avevo tutto, eppure c'era qualcosa che mi ripugnava, guardandomi allo specchio. Forse, Dio voleva che lasciassi tutto".
  Il tutto di cui parla Fahrad è ciò che un figlio di mujaheddin aveva a disposizione: ville enormi, automobili da centocinquantamila dollari, viaggi a Dubai per divertirsi con le donne, il potere di scegliersi la propria ragazza organizzando una ronda in una scuola femminile. La carriera era avviata, sarebbe diventato maggiore dell'esercito e poi chissà cosa. Lo scopo della vita era di ammazzare qualche infedele così da assicurarsi il Paradiso. Farhad s'è accorto che non bastava, che la vita da gradasso poi non era granché, che s'avvertiva una mancanza. Da qui, la ricerca di una strada alternativa alla violenza, "all'uccidere in nome di Dio come mio padre, il sogno di ogni bambino dell'Afghanistan di allora". Niente di strano, dopotutto nelle scuole coraniche si imparava a vivere così: "Se tu uccidi qualcuno, vai in Paradiso, a ogni pietra che tiri durante una lapidazioni, il tuo peccato diventa meno grave". Farhad tirava pietre, andava con i suoi amici a toccare le mani tagliate e appese agli alberi come macabri amuleti, domandandosi quanti anni avesse il legittimo proprietario di quell'arto esposto come monito alla popolazione. Bitani si definisce fondamentalista, anzi, "esponente della prima famiglia fondamentalista d'Afghanistan" e se la prende con l'ipocrisia morale di quel mondo che impone il burga alle donne, punisce con le frustate chi beve una birra e poi manda i propri figli all'estero, consentendo loro di fare tutto quel che vogliono. Senza dimenticare quel che accadeva la notte, con le feste di gruppo tra vecchi barbuti e bambini truccati con sonagli alle caviglie, costretti a ballare dinanzi alla platea. Giravano soldi e droga, prima che qualche adulto — uno di quelli che al mattino era pronto a citare la sharia per punire chi si comportasse in modo immorale in pubblico, si appartasse con il ragazzino, nonostante questi piangesse e scongiurasse di essere risparmiato.
  "Il fondamentalista è la persona che perde la propria identità, che subisce un lavaggio del cervello. Lo percepiamo ovunque, oramai. L'abbiamo visto a Parigi, Bruxelles, negli Stati Uniti". E' in Italia, fuori dal pantano afghano e dalle relative lotte di potere, che qualcosa iniziò a cambiare, e quegli infedeli che disprezzava e voleva solo mandare all'altro mondo, si presentarono in realtà come persone vicine, disponibili e tendere la mano. "A Roma litigai con mio padre, al quale non è possibile neppure rivolgersi con il tu', altrimenti arrivano gli schiaffi, e a me è toccato. Uscito in strada con le lacrime agli occhi, una donna mi si avvicinò chiedendomi cosa avessi. Mi offrì da bere. Capii che eravamo noi a dissubbidire a Dio, e non quelli che noi chiamavamo infedeli', che invece seguivano la legge dell'amore". In patria parlano di lui come di un traditore, un apostata. Lo accusano d'essersi convertito al cristianesimo. Lui si schermisce e si limita a dire che "incontrando i cristiani ho capito chi è Dio".
  Il cambiamento l'ha portato a indagare le radici più profonde dell'islam, a interrogarsi su quale fosse lo scopo del credere in ciò che gli veniva quotidianamente presentato. "Il problema dell'islam è che è mischiato con la politica, sempre e ovunque", dice al Foglio. "A noi insegnano fin dalla nascita che dobbiamo vivere e morire come musulmani. Ma non abbiamo riferimenti, non si sa qual è la linea da prendere. E' solo una lunga teoria di permessi e divieti, di minacce e precetti". Dicevo sempre "Dio fai qualcosa per me, fammi cambiare. Per cambiare ho combattuto con me stesso, ho lasciato tutto. Avevo una villa enorme e sono andato ad abitare in una casa con una sola stanza, i miei amici d'un tempo erano tutti contro di me, la gente mi sputava in faccia, su un giornale mi hanno accusato d'essere diventato cristiano. Io sono cambiato perché credo di avere fede. Io sono rimasto musulmano, ma credo che tutte le religioni vadano rispettate. Io ho scelto di accettare la Verità, e di combattere con la pace e il dialogo questa Verità. Lo faccio in quanto sono convinto che la Verità unisce perché viene da Dio. E se non la mettiamo a tacere, è destinata a prevalere. Io ho nel mio cuore una fede forte e mi arrabbio con chi non è capace di presentare bene Dio ai nostri fratelli. Un Dio di cui si è appropriato chi taglia le teste, chi brucia altri uomini. Ma Dio non è questo, siamo noi umani a usare la religione per fini nostri". Quanto all'attualità, Bitani non è affatto sorpreso da quel che accade tra la Siria e l'Iraq, dove imperversa l'orda califfale agli ordini di Abu Bakr al Baghdadi. "E' esattamente quanto accadeva a Kabul sotto i mujaheddin prima e i talebani poi. Solo che nessuno ne parlava, l'Afghanistan era così lontano. Ma le armi c'erano anche lì. I talebani — dice — sono stati creati attraverso il Pakistan per eliminare i mujaheddin e per eliminare i talebani l'occidente ha riarmato i mujaheddin. E' chiaro che così i problemi dell'Afghanistan non potranno mai essere risolti". Ed è per questo che lui oggi non ci torna più, "almeno fino a quando non si dirà addio alle armi", dice citando il titolo del celebre romanzo di Ernest Hemingway. Probabilmente sa che si tratta di un'utopia, d'un qualcosa di irrealizzabile almeno nel breve e medio periodo. Anche perché "sono trent'anni che l'Afghanistan va avanti così e non si vede ancora la luce. Armi su armi, aiuti dall'estero che non si sa dove finiscano. Anzi, lo si sa fin troppo bene, e cioè sempre agli stessi", dice quasi rassegnato.

(Il Foglio, 22 giugno 2016)


Palestinese quindicenne ucciso per sbaglio

È imbarazzo tra le file dell'esercito israeliano che, dopo una più approfondita ricostruzione, ha ammesso di aver ucciso per errrore un passante palestinese innocente di soli 15 anni. Il tragico errore è avvenuto stanotte quando i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro un gruppo di giovani sospettati di lanciare «sassi e bombe molotov» contro auto israeliane tra il villaggio di Beit Sira e Beit UJr nelle prime ore di stanotte contro le auto di israeliani sull'autostrada 443 che passa accanto a Ramallah. Lo ha reso noto lo stesso esercito israeliano.

(Il dubbio, 22 giugno 2016)


Turchia-Israele: ripresa delle relazioni diplomatiche bilaterali entro fine luglio

ANKARA - Turchia ed Israele potrebbero firmare un accordo per la ripresa delle relazioni diplomatiche a luglio. Lo riferiscono fonti di alto profilo turche contattate oggi dal quotidiano "Hurriyet", che confermano le indiscrezioni trapelate ieri, 20 giugno, da funzionari del governo di Gerusalemme, secondo le quali i team negoziali per la normalizzazione dei rapporti bilaterali tra i due paesi si incontreranno il prossimo 26 giugno in una capitale europea. Ai colloqui parteciperanno il sottosegretario agli Esteri turco Feridun Sinirlioglu, l'inviato speciale del primo ministro israeliano Joseph Ciechanover e il consigliere per la sicurezza nazionale di Gerusalemme Jacob Nagel. Entrambi i rappresentanti dei due governi hanno seguito le trattative negoziali sin dall'inizio, in seguito alla crisi diplomatica del 2010. Il primo passo nella normalizzazione dei rapporti ufficiali tra Ankara e Gerusalemme sarà la nomina dei due ambasciatori da destinare nelle rispettive capitali entro la fine di luglio. Se non ci saranno intoppi, anche gli accordi internazionali tra i due Stati saranno ripristinati. Secondo fonti turche, saranno eliminati gli ultimi ostacoli per lo svolgimento di esercitazioni militari congiunte, per gli investimenti nel settore energetico ed in quello della Difesa.

(Agenzia Nova, 21 giugno 2016)


Israele sta costruendo un muro sotterraneo intorno alla Striscia di Gaza?

Secondo la stampa israeliana il progetto è stato approvato, altri dicono che i lavori sono già iniziati: se ne parla da tempo, per impedire ad Hamas di costruire nuovi tunnel.

 
Un soldato israeliano cammina lungo un tunnel costruito da Hamas, nel 2014
 
L'uscita in territorio israeliano del secondo tunnel scoperto in questi mesi da Israele
Diversi giornali israeliani sono convinti che l'esercito abbia approvato un piano per costruire un nuovo muro di recinzione intorno alla Striscia di Gaza, un territorio teoricamente controllato dal governo palestinese ma in realtà dal 2007 gestito dal gruppo politico e terroristico Hamas. Una recinzione esiste già dal 1994, ma si è dimostrata poco efficace nel prevenire la costruzione di tunnel sotterranei fra la Striscia e il territorio israeliano e quello egiziano, con cui confina a est, utilizzati da Hamas per il contrabbando di oggetti e persone: nel 2014 ce n'erano almeno 14 che collegavano la Striscia a Israele, e negli ultimi tre mesi ne sono stati scoperti altri due. Secondo diverse fonti il nuovo muro sarà costruito anche sottoterra, proprio per impedire ad Hamas di costruire nuovi tunnel. Il ministero della Difesa non ha commentato la notizia. La settimana scorsa un funzionario della difesa ha detto ad Haaretz che i lavori sarebbero cominciati nel giro di qualche settimana, mentre il Washington Post ha scritto che secondo alcune sue fonti sono già iniziati.
  La Striscia di Gaza è da decenni un posto complicatissimo: basti pensare che è una enclave palestinese circondata quasi solo da Israele, e che per molto tempo è stata il luogo più densamente popolato al mondo - ancora oggi ci vivono circa 1,6 milioni di persone - anche a causa del fatto che molti profughi palestinesi vennero ad abitarci in seguito alle guerre combattute con Israele. La situazione fu piuttosto tesa soprattutto durante la prima Intifada, cioè la prima rivolta palestinese organizzata, che durò dal 1987 al 1993 e causò scontri praticamente quotidiani fra abitanti locali ed esercito israeliano.
  Le cose migliorarono dopo gli accordi di pace di Oslo del 1993, ma peggiorarono di nuovo a metà degli anni Duemila: nel 2005, su iniziativa dell'allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, Israele ritirò il proprio personale militare dalla Striscia ed evacuò i 21 insediamenti israeliani costruiti nei decenni precedenti, per agevolare un nuovo processo di pace. Un anno dopo nei territori palestinesi - quindi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza - si tennero nuove elezioni politiche (ancora oggi le ultime tenute in Palestina): Hamas vinse col 44,45 per cento, cosa che provocò tensioni con Israele e con la presidenza palestinese guidata da Mahmoud Abbas di Fatah, il partito palestinese "moderato". Nel 2007 il governo guidato da Hamas collassò per via dello scontro con Fatah, e Hamas decise di "ritirarsi" nella Striscia di Gaza, cacciando i funzionari di Fatah e assumendo di fatto il governo del territorio.
  Da allora la Striscia di Gaza è sotto embargo di Israele, che regola severamente l'ingresso e l'uscita di beni e persone. Hamas sostiene che i tunnel clandestini siano necessari per soddisfare i bisogni degli abitanti della Striscia, mentre Israele replica che l'embargo è necessario per ragioni di sicurezza: Hamas ha come obiettivo dichiarato l'eliminazione dello stato di Israele, e nel 2014 l'ultima guerra fra Israele e Palestina è stata praticamente una guerra "preventiva" di Israele contro Hamas all'interno della Striscia di Gaza. In tutto questo, l'economia della Striscia di Gaza è in condizioni drammatiche: nell'estate del 2015 la Banca Mondiale ha stimato che la Striscia ha il tasso di disoccupazione più alto al mondo, intorno al 43 per cento.
  Si pensava che gran parte dei tunnel di Hamas fossero stati distrutti proprio durante la guerra del 2014. Ad aprile e maggio di quest'anno invece ne sono stati scoperti altri due, i primi dall'estate 2014: entrambi sono stati scavati a circa 30 metri di profondità, e il primo era dotato di corrente elettrica, una linea di comunicazioni e dei carrelli per trasportare fuori i detriti. Un portavoce dell'esercito israeliano ha fatto intendere che il secondo tunnel potesse invece servire ad Hamas per un eventuale attacco in territorio israeliano. L'opinione di molti esperti è che Hamas stia costruendo o abbia già costruito nuovi tunnel: il New York Times ha scritto che secondo un funzionario di Hamas catturato da Israele in aprile, Hamas gestisce una rete di tunnel molto sviluppata che comprende anche dormitori, docce e sale da pranzo per i suoi membri costretti a rimanere sottoterra. Sia gli israeliani sia i palestinesi che vivono vicino al confine della Striscia da mesi raccontano ai giornalisti di sentire rumori di scavi e lavori provenire da sottoterra.
  Haaretz ha scritto che la costruzione di una nuova barriera era da anni nei programmi dell'esercito israeliano. La notizia dell'approvazione del progetto è stata data per primo da Yedioth Ahronoth, il più diffuso quotidiano israeliano, che ha pubblicato la notizia in prima pagina sull'edizione di giovedì 16 giugno: Yedioth Ahronoth ha scritto che il progetto costerà circa 2,2 miliardi di shekel - circa 500 milioni di euro - e che prevede la costruzione di una nuova barriera lungo tutti i 60 chilometri di confine fra la Striscia e il territorio israeliano. Il muro sarà inoltre profondo "decine di metri", proprio per impedire la costruzione di nuovi tunnel. Il Times of Israel ha scritto che dall'articolo di Yedioth Ahronoth non è chiaro se il nuovo muro sotterraneo fa parte di un progetto di costruzione di un nuovo muro annunciato qualche mese fa dall'esercito israeliano, che secondo un loro portavoce comprendeva anche delle contromisure per la costruzione di nuovi tunnel da parte di Hamas. Diversi giornali israeliani hanno aggiunto altri dettagli: Haaretz ha scritto che il nuovo muro avrà una parte sotterranea solo in certe zone vicino alla città di Gaza, e il Times of Israel sostiene che la parte sotterranea sarà costruita in cemento. Il Washington Post ha lasciato intendere che la costruzione del muro sia già iniziata: Ruth Eglash, la corrispondente in Israele del giornale, ha scritto che «venerdì mattina, due grossi escavatori si stagliavano all'orizzonte [del kibbutz Ein HaShlosha], nel punto in cui i terreni del kibbutz confinano con il paese palestinese di Khan Younis».
  Ismail Radwan, un dirigente di Hamas, ha commentato la notizia della costruzione del nuovo muro spiegando che «la resistenza sarà in grado di adattarsi alle nuove condizioni per proseguire il suo progetto di liberare [la Palestina]», e che il nuovo piano dimostra il "fallimento" di Israele nel contrastare i tunnel.

(il Post, 21 giugno 2016)


Melanoma, individuato dall'Università di Tel Aviv il segnale che lo trasforma in maligno

Gli scienziati nutrono forti speranza sulla possibilità di bloccare le cellule prima che mutino in cancerogene e letali attraverso una crema preventiva.

Uno studio condotto dall'Università di Tel Aviv getta nuova speranza sul melanoma. È stato individuato il momento preciso in cui le cellule da non invasive diventano invasive e letali.
La ricerca, pubblicata sulla rivista Molecular Cell, diretta da Carmit Levy della Sackler School of Medicine, è stata condotta grazie alla collaborazione dei ricercatori dell'Università di Tel Aviv, del Technion Institute of Technology di Haifa, del Centro Medico Sheba, dell'Istituto Gustave Roussy e dell'Università di Gerusalemme. I risultati a cui è giunta sono fondamentali perché è stato individuato lo stadio in cui il cancro diventa maligno, aprendo così alla possibilità di una nuova forma di prevenzione. In altre parole, è stato intercettato il segnale che attiva il tumore.
Come ha spiegato Levy, per comprendere il melanoma gli scienziati hanno studiato le cellule dell'epidermide sana:
Il melanoma è un tumore che ha origine nell'epidermide e, nella sua forma più aggressiva, invade il derma e gli strati sottostanti. Attraverso i vasi sanguigni e i linfonodi si diffonde a tutti gli altri organi, che vengono devastati dalle metastasi.
Questo tipo di tumore, prima di sferrare l'attacco letale, agisce in modo silente e si sviluppa verso l'alto:
Doveva esserci qualcosa nel microambiente della pelle che permette alle cellule del melanoma di cambiare caratteristiche.
Le analisi di cellule sane e malate hanno evidenziato che il melanoma compare col mutamento delle condizioni microambientali della pelle. Le normali cellule epidermiche non si spostano, mentre quelle tumorali si spostano verso gli strati superficiali della pelle.
Solo in un secondo momento, invade gli strati inferiori. Potessimo riuscire a fermarlo quando si trova in superficie, prima della contaminazione dei vasi sanguigni, potremo fermare la progressione del cancro.
Una volta intercettato il segnale in cui avviene il mutamento del melanoma, si tratta di trovare il farmaco che riesce ad arrestare la trasformazione. Gli studiosi sono speranzosi, come sottolinea Levy:
Ci sono molti farmaci, già testati sull'uomo, che potrebbero interferire su quel segnale. In un futuro non troppo lontano potremo essere in grado di sviluppare una sorta di crema che funzionerà come una misura di prevenzione. Il melanoma è un tumore in genere lento. Se si riuscissero a sviluppare dei sistemi di analisi precoce potremo finalmente salvare migliaia di persone in tutto il mondo.
Intanto, una ricerca americana ha individuato una molecola, pembrolizumab, che ha dato ottimi risultati nel trattamento del melanoma. I pazienti colpiti da questo tumore in fase avanzata trattati con questo farmaco sono ancora vivi a distanza di due anni. Un successo impensabile fino a qualche tempo fa. Come ha spiegato Michele Maio, Direttore Immunoterapia Oncologica del Policlinico Santa Maria alle Scotte dell'Università di Siena:
Le persone che sopravvivono al secondo e al terzo anno dall'inizio della terapia hanno buone probabilità di essere vive anche a 5 e a 10 anni. E i dati presentati all'ASCO sul pembrolizumab fanno dunque prevedere che la sopravvivenza a lunghissimo tempo si manterrà più elevata con pembrolizumab, rispetto al trattamento con ipilimumab (finora unico trattamento per questa malattia ndr).
(Di Lei, 21 giugno 2016)


«Sono un soldato islamico»

Così si è presentato al centralino della polizia il killer di Orlando. Ecco i verbali (in parte censurati tra polemiche) di quella notte.

di Guido Olimpio

WASHINGTON - Ornar si è comportato da killer freddo e calmo. Ha affermato di essere un soldato islamico, ha dedicato la strage al Califfo e ha annunciato che altri attacchi seguiranno. Tutti elementi emersi dalle trascrizioni parziali dei contatti tra la polizia e l'assassino diffuse ieri dalle autorità. Quasi mezz'ora di un dialogo drammatico mentre nella discoteca «Pulse» di Orlando c'erano persone in agonia e altre in ostaggio. La decisione di pubblicare i documenti ha innescato polemiche. Nel testo fornito ai media sono stati tolti i riferimenti allo Stato Islamico e al suo leader perché «non si voleva fare il gioco dei terroristi».
   Una scelta, però, contestata da altri - compresi alcuni esponenti repubblicani - che l'hanno considerata una censura inutile e «politica» visto che è evidente a cosa si riferisse l'assassino. Quanto al profilo del giovane gli investigatori hanno ribadito che si è radicalizzato da solo e che non sono emersi legami con organizzazioni esterne. Dunque Mateen avrebbe agito da solo ed ha poi offerto il suo gesto alla fazione di Al Baghdadi, pronta a rivendicare nelle ore successive. In apparenza nessuna parola contro i gay, presi comunque di mira nel locale. Un quadro che resta incompleto, con tanti dubbi sulla personalità di Ornar, figura con seri problemi mentali, che ha cercato una consacrazione - tardiva e confusa - nell'Isis.

 Il primo colloquio
  Quelle che seguono sono le comunicazioni radio e i contatti telefonici di quella notte.
2.02: segnalazione di molti spari allocale Pulse.
2.04: sulla scena arrivano altre pattuglie.
2.08: agenti di diversi reparti entrano nel locale e ingaggiano un conflitto a fuoco con lo sparatore.
2.18: mobilitato il Swat Team, le teste di cuoio.
2.35: lo sparatore chiama il 911 (centralino della polizia, ndr) dall'interno, resta al telefono per circa 50 secondi.
Centralino: 911, questa chiamata sarà registrata.
Mateen: «In nome di Dio misericordioso, (in arabo)».
Centralino: Cosa?
Mateen: «Lode a Dio, che le preghiere e la pace siano con il Profeta di Dio. Voglio informarvi, io sono a Orlando e ho compiuto la sparatoria».
Centralino: Quale è il suo nome?
Mateen: «il mio nome è che dichiaro fedeltà a Abu Bakr al Baghdadi dello Stato Islamico».
Centralino: Ok, quale è il suo nome?
Mateen: «Dichiaro fedeltà a Abu Bakr al Baghdadi, possa Dio proteggerlo (in arabo), in nome dello Stato Islamico».
Centralino: Ok, dove si trova? Mateen: «A Orlando». Centrale: Dove a Orlando?

 Il negoziatore
  Poco dopo Ornar ha tre nuovi contatti con un team di negoziatori arrivato all'esterno dellocale.
2.48: prima conversazione di 9 minuti.
3.03: seconda conversazione di 16 minuti circa.
3.24: terza conversazione di aPvena 3 minuti.
E' in questa fase che Mateen si definisce un mujahed, ribadisce che sta agendo per conto dell'Isis e dice che gli Usa devono fermare i raid in Siria e Iraq: «È per questo che sono qui». Un funzionario gli chiede cosa abbia fatto, lui replica «lo sapete già», quindi avverte che «all'esterno ci sono alcune auto con delle bombe, sappiatelo ... Sono pronto a innescarle se cercate di fare qualcosa di stupido». È un bluff, per tenere sulla corda le forze speciali e rallentare un blitz. Ornar continua sostenendo che indossa una fascia esplosiva come quelle «impiegate in Francia», un riferimento al Bataclan. Prima di chiudere, l'ultima minaccia: «Nei prossimi giorni vedrete molte azioni come questa».

 L'epilogo
  La polizia cerca invano di chiamarlo, Mateen non risponde più.
4.21: le unità scelte rimuovono un condizionatore d'aria e riescono a far uscire alcune persone.
4.29: alcuni degli scampati, appena usciti, dicono che il killer sta per piazzare degli ordigni su quattro ostaggi entro 15 minuti.
5.02: il Swat team e una squadra anti-bomba aprono, con difficoltà, una breccia nel muro del night club, prima provano con cariche esplosive, quindi con un mezzo blindato usato come ariete.
5.14: il responsabile delle comunicazioni segnala che sono stati esplosi dei colpi all'interno del Pulse, è l'epilogo dell'azione.
5.14: il commando affronta il sospetto e lo neutralizza.

Sono passate tre lunghe ore da quando Ornar ha fatto ìrruzione sparando con un fucile Sig Sauer e una pistola Glock. E ora ci si chiede se la polizia non abbia atteso troppo, anche se è evidente il timore che il killer avesse minato il night club. L'altra domanda riguarda le 49 vittime: gli inquirenti nei giorni scorsi non hanno escluso che qualcuno possa essere stato centrato dai tiri degli agenti. Uno dei mille interrogativi di un'indagine che dovrà dire ancora molto. A cominciare dal ruolo della moglie di Ornar, Noor, sospettata di aver aiutato in qualche modo il marito e di non aver dato l'allarme sulle sue intenzioni.

(Corriere della Sera, 21 giugno 2016)


Il ritorno del fotografo errante

di Michele Smargiassi

Lo ammetto, leggere una lista di "fotografi ebrei" mi dà qualche brivido lungo la schiena. Del tutto ingiustificato, perché la lista che ho sotto gli occhi fu compilata, molti anni dopo la fine della guerra, da uno storico della fotografia di origine ebraica, nonché pioniere della cultura fotografica: Helmut Gernsheim.
  Ed è una lista, dovrete riconoscerlo, impressionante. Spigolando appena: Stieglitz Newton Munkaksi Arbus Avedon Hine Capa Davidson Seymour Siskind Man Ray Shahn Weegee Frank Friedlander Freed Levitt Eisenstaedt Strand Freund Meyerowitz Halsmann Heartfield Izis Kasebier Witkin Kertesz Klein Krull Liebling Lyon Model Moholy-Nagy Newman Ronis Kane Rosenblum Salomon Brassai Sieff Stern Vishniac Leibovitz … Vi bastano?
  Naturalmente, se compilassimo liste di fotografi americani, francesi, inglesi, otterremmo forse liste altrettanto lunghe e nobili (che includerebbero peraltro molti dei nomi di cui sopra).
  Perché dunque una lista di fotografi ebrei sorprende? Perché quella qualifica etno-religiosa non ha lo stesso significato di una classificazione per nazionalità. Non dice proprio la stessa cosa.
  Anche quando la classificazione per provenienza geografica può sorprendere per consistenza (per esempio, la lista dei grandi fotografi ungheresi è lunghissima e altisonante), il suo comun denominatore rimanda sempre a una cultura d'origine ben collocata nella geografia e nella storia.
  Brassaì, Capa, Kertész, Moholy-Nagy, Munkàcsi hanno sicuramente qualcosa in comune come profughi ungheresi in cerca di fortuna come fotografi fuori dal loro paese a metà del Novecento: ma hanno che cosa hanno in comune in quanto fotografi ebrei?
  La domanda diventa allora precisamente questa: esiste un "modo ebraico" di fotografare, che scavalchi le biografie, i passaporti, le epoche? Esiste una fotografia ebraica riconoscibile come tale, un sottoinsieme fotografico della diaspora millenaria del popolo di Dio?
  Si direbbe di sì, visto che è stato possibile parlare di una letteratura ebraica, di un umorismo ebraico, transnazionali e transepocali. Ma quanto alla fotografia, in cosa consiste? Quali sono i suoi tratti comuni?
  Ho cercato questa risposta in un libro recente di Michael Berkowitz, docente di storia ebraica all'università texana di Austin, Jews and Photography in Britain, un saggio ponderoso, che deborda dai confini geografici del suo titolo, documentatissimo benché un po' sbilanciato (quasi la metà del libro è dedicata a un solo "eroe", Gernsheim per l'appunto: che peraltro cedette la sua preziosissima collezione fotografica proprio all'università di Austin…).
  Se devo essere sincero, quella risposta non l'ho trovata, almeno non come me l'aspettavo. L'autore stesso sembra rinunciare in partenza a definire cosa sia e come si riconosca la fotografia ebraica, e alla fine dei conti fa benissimo, perché quella definizione sì, potrebbe prestarsi a rischiosi equivoci. Prima di deportarne gli autori, i nazisti già timbravano con una stella di Davide le fotografie prodotte da fotografi ebrei.
  Non aleggia sul lavoro dei fotografi ebrei alcuno spirito biblico ultramillenario. Del resto, Berkowitz lo sottolinea spesso, i fotografi di cui narra la storia furono quasi tutti assai poco jewish, raramente praticanti religiosi, spesso lontani dalle loro comunità, molti anche riluttanti ad ammettere la propria genealogia.
  È la storia, non l'etnia o la fede, che tiene assieme i percorsi dei fotografi di origine ebraica a metà del Novecento. In particolare la necessità, per molti di loro, di emigrare per fuggire l'ombra dello sterminio incombente, di rifarsi una vita difficile in altri paesi che tendevano a considerarli "stranieri ostili" (triste la storia di Stefan Lorant, sfuggito alle carceri di Hitler, geniale inventore del Picture Post, a cui fu negata la naturalizzazione britannica, costretto ad abbandonare la sua creatura e a riparare oltreoceano).
  Emarginati e sospetti, in difficoltà con la lingua, il mestiere del fotografo fu per molti rifugiati ebrei, secondo Berkowitz, l'approdo più agevole: mestiere poco ricercato perché dequalificato, a basso reddito e bassa considerazione sociale, mestiere da praticoni senza istruzione e titoli da esibire.
  Insomma, anziché essere una storia speciale, particolare, anziché essere una "differenza" interna alla storia della fotografia, quella dei fotografi ebrei è forse il contrario: la risorgenza di un carattere fondamentale, nativo, originario della fotografia.
  Che agli albori fu praticata da quei "magnifici randagi", ambulanti da fiera, vagabondi con il treppiede, che come clerici vagantes diffusero il verbo di Talbot e Daguerre in tutta l'Europa e in tutto il mondo, trattati da barboni, raminghi e disprezzati.
  Di loro nelle storie della fotografia si parla poco. Solo uno storico rese loro giustizia dipingendoli come gli eroi mitologici, i padri pellegrini del fotografico: Ando Gilardi. Che era, non per nulla, ebreo.

(la Repubblica, 20 giugno 2016)


Cosa conviene comprare a Gerusalemme

Cosa conviene comprare a Gerusalemme, se non i tantissimi souvenir prodotti nella Terrasanta e le varie spezie spesso vendute anche sui bordi delle strade.

Cosa conviene comprare a Gerusalemme? È una domanda che si pongono migliaia di turisti viaggiando verso la città celeste. La città israeliana è un'ambita meta per i pellegrini di tutto il mondo, che rappresenta anche una città dove poter fare shopping in modo economico. Spesso basta farsi una camminata lungo le strade di Gerusalemme per individuare l'enorme gamma di prodotti israeliani. Borse tipiche, bottiglie particolari, spezie e scatole con le tradizionali scritte mediorientali. Tra i souvenir più belli che si possono acquistare a Gerusalemme , spiccano i prodotti realizzati in ceramica.
   Il loro colore varia dal bianco al blu, in base al concetto che rappresenta. Si ritiene che i colori con cui vengono dipinte le ceramiche posseggono tutti un significato preciso. Le decorazioni spesso richiamano ai luoghi sacri della Galilea. Tutti coloro che vogliono acquistare degli oggetti di uso comune, potrebbero trovare splendidi piatti nei mercati principali della città. Scegliere il piatto che si addice al proprio umore o al desiderio è solo una questione di gusti personali. I piatti vengono prodotti in forme molto varie, dai rotondi a quelli più quadrati o addirittura ellittici.
   Oltre a tutto ciò, cosa conviene comprare a Gerusalemme? Non bisogna dimenticarsi degli oggetti prodotti con il legno d'ulivo. La lavorazione di questo particolare legno nella terra d' Israele gode di una tradizione millenaria. Gli oggetti artigianali prodotti con l'ulivo vengono realizzati seguendo rigorose indicazioni, che spesso si tramandando da padre in figlio per rispettare la tradizione. E per via dell'altissima concorrenza presente nella zona, le lavorazioni in legno sono anche piuttosto fruibili per le tasche degli italiani.
   Rispondendo alla domanda su cosa conviene comprare a Gerusalemme non bisogna dimenticarsi dei libri sacri. Nella Terrasanta i libri sono popolarissimi e vengono realizzati con materiali e metodi diversi. Si può acquistare una Torah scritta in yiddish o in inglese a prezzi economici. Tra i tantissimi libri sacri trovabili nella città celeste, si possono acquistare anche delle Bibbie. Alcuni esemplari in vendita sono scritti in ebraico antico e rappresentano una vera rarità per l' Europa . Le strade di Gerusalemme sono anche piene di mercanti che vendono dei vestiti economici in puro lino o profumatissime spezie, regine della cucina mediorientale.
   
(Si viaggia, 21 giugno 2016)


"Giusti fra le nazioni", consegnata l'alta onorificenza

Presente il Ministro Consigliere dell'Ambasciata d'Israele a Roma

 
Un momento della consegna dell'onorificenza
CAPOLIVERI - Una sentita partecipazione quella di questa mattina nella Sala delle Adunanze del Comune di Capoliveri dove si è tenuta la cerimonia di conferimento della medaglia di "Giusti fra le Nazioni" alla memoria di Giulio Vittorio Della Lucia e di sua moglie Isabella Puccini Bigi che durante la Shoah si adoperarono, senza trarne alcun vantaggio personale, per salvare la vita di ebrei dalla deportazione.
Nel Palazzo comunale di Capoliveri insieme al sindaco Ruggero Barbetti che ha aperto il cerimoniale, erano presenti le autorità civili e militari dell'Isola d'Elba, gli eredi dei salvatori, i nipoti dei coniugi Della Lucia e gli eredi dei salvati, le famiglie Toaff e Luperini.
Il saluto del Sindaco Barbetti ha riportato alla memoria gli antichi legame fra le famiglie di Capoliveri che furono protagoniste di quella dolorosa e pur intensa vicenda fatta di storia e umanità. Fra gli interventi quello del Comandante della capitaneria di Porto Emilio Casale in rappresentanza delle autorità militari e di Don Emanuele Cavallo che ha dato lettura del saluto speciale inviato da S.E. il Vescovo della Diocesi di Massa Marittima e Piombino Carlo Ciattini.
A consegnare la medaglia di "Giusti fra le Nazioni" è stato il Ministro Consigliere dell'Ambasciata d'Israele a Roma Rafael Erdreich che ha espresso parole di encomio per il nobile gesto compiuto dai coniugi Della Lucia nel salvare uomini e donne ebrei dalla morte certa.
I fatti risalgono al momento storico che segue l'8 settembre del 1943 come hanno ricordato Aldo Luperini, erede dei salvati e Claudio Della Lucia, erede dei salvatori.
Un fase tragica della storia italiana ed internazionale. "Era il momento" ha commentato il Ministro Consigliere Erdreich "in cui si dava la caccia ai collaborazionisti degli Ebrei".
Le famiglie Toaff e Luperini erano costrette a lasciare Livorno per cercare rifugio e salvarsi e proprio in quel momento, quando per caso, la famiglia Luperini torna in contatto con l'amica d'infanzia Isabella Puccini Bigi, anche lei di Capoliveri. E proprio quest'ultima si offrì di trovare una soluzione per portarli in salvo dalla furia nazista.
Con il marito Giulio Vittorio Della Lucia individuano le Miniere di Val di Castello, nella bella Versilia, a pochi passi da Pietrasanta, il luogo ideale dove poter nascondere le famiglie Toaff e Luperini.
Fra loro ci sono il Rabbino di Livorno Alfredo Sabato Toaff e il figlio, Elio Toaff, che diventerà Rabbino Italiano e che in seguito sarà considerato la massima autorità spirituale e morale ebraica in Italia del secondo dopoguerra.
"Gli Ebrei salvati dai coniugi Della Lucia", ha raccontato ai presenti il Ministro Consigliere Erdreich, "sono stati nascosti per oltre 1 anno prima di poter tornare a vivere alla luce del sole. Chi salva una vita salva il mondo intero: non dobbiamo mai dimenticarlo".
Si racconta che molti italiani del posto sapessero che alcuni ebrei erano nascosti nella miniera. Ma tacquero e contribuirono a salvare le loro vite. Si può oggi dire che grazie al nobile gesto di Giulio Vittorio Della Lucia e Isabella Puccini Bigi sono quarantotto i discendenti delle famiglie Toaff e Luperini che non sarebbero mai nati se i loro genitori non fossero stati salvati dalla Shoah.

(Tirreno Elba News, 21 giugno 2016)


Isola Tiberina - L'ospedale Fatebenefratelli riconosciuto «Casa di Vita»

L'ospedale Fatebenefratelli all'Isola Tiberina riceverà dalla Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg, il titolo di «Casa di Vita» per ricordare il contributo del nosocomio nel salvare decine di ebrei durante le persecuzioni naziste. Patrocinano l'evento la Comunità ebraica di Roma e la Fondazione Museo della Shoah. La cerimonia di svelamento della targa «Casa di Vita» si svolgerà nella Sala Assunta dell'Ospedale Fatebenefratelli all'Isola Tiberina, oggi alle 11, alla presenza di due sopravvissuti Gabriele Sonnino e Luciana Tedesco e di un testimone, protagonista degli eventi ricordati- lo psichiatra ex-partigiano, già senatore e professore universitario- Adriano Ossicini, unico dei medici del Nosocomio di quegli anni ancora in vita. Nel corso della cerimonia verrà ricordato il professore Giovanni Borromeo, che il 16 ottobre 1943, nascose decine di ebrei, scampati alla retata nazista, in un reparto del Nosocomio. Per loro inventò una malattia infettiva estremamente pericolosa, cui diede il nome di Morbo di K, dove K stava ad indicare l'ufficiale tedesco Herbert Kappler o il generale tedesco Albert Kesselring. Le SS, temendo il contagio, non fecero mai irruzione nel reparto. Antifascista della prima ora, partecipò attivamente alla Resistenza; insieme all'allora priore polacco Fra Maurizio Bialek installò negli scantinati dell'ospedale una radio ricetrasmittente clandestina, in continuo contatto con i partigiani laziali. Agli ebrei dell'ospedale e alle loro famiglie procurò falsi documenti e un rifugio sicuro in vari monasteri. Per i suoi meriti, nel 2004, Borromeo ricevette dallo Yad Vashem il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni. Alla cerimonia parteciperanno, tra gli altri, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, Naor Gilon ambasciatore d'Israele e il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni. Pin. Ser.

(Il Tempo, 21 giugno 2016)


I leader palestinesi e il sacrificio dei bambini

di Khaled Abu Toameh (*)

Miliziani mascherati di Hamas posano per i media al funerale dei tre bambini della famiglia Abu Hindi, celebrato a Gaza, il 7 maggio 2016.
La tragica morte di tre fratellini palestinesi, in un incendio che ha distrutto la loro abitazione nella Striscia di Gaza, il 6 maggio scorso, dimostra ancora una volta di che bassezze siano capaci i leader palestinesi per sfruttare i loro bambini per scopi politici e interessi meschini.
I tre bimbi della famiglia Abu Hindi - Mohammed di 3 anni, suo fratello Nasser di 2 e la loro sorellina Rahaf di appena due mesi - sono morti in un incendio provocato dalle candele utilizzate a causa delle ricorrenti interruzioni di energia elettrica nella Striscia di Gaza.
La cristi energetica che Gaza sta affrontando è il diretto risultato della lotta di potere tra Hamas e l'Autorità palestinese, le due forze rivali palestinesi.
Negli ultimi mesi, la crisi si è aggravata, lasciando gran parte della Striscia di Gaza senza elettricità per la maggior parte della giornata. Hamas punta il dito contro l'Autorità palestinese per l'emergenza energetica, a causa della sua incapacità di coprire i costi del combustibile necessario per far funzionare le centrali elettriche della Striscia. L'Ap ha ribattuto addossando la colpa alla "corruzione" e alla "incompetenza" di Hamas.
La famiglia Abu Hindi risiede nel campo profughi di Shati, dove vivono il leader di Hamas Ismail Haniyeh e altri dirigenti del movimento islamista. Ma a differenza degli alti papaveri di Hamas, questa famiglia non può permettersi di acquistare un gruppo elettrogeno in grado di fornire elettricità durante le interruzioni di corrente, pertanto essa, come del resto la maggior parte delle altre famiglie della Striscia, ricorre alla fonte di illuminazione alternativa più economica: le candele.
Quella fatidica sera, i tre bambini sono andati a dormire con le candele accese. Ore dopo, i corpicini carbonizzati dei fratellini sono stati tirati fuori dalla casa ancora in fiamme e avvolta dal fumo.
In qualsiasi altro paese, la notizia di un incidente del genere sarebbe stata riportata come se si fosse trattata di una ordinaria tragedia, una di quelle che potrebbero accadere in città come New York, Londra o Parigi.
Qui, invece, la morte dei tre bambini non è solo una tragedia personale qualunque. È stato un sacrificio di bambini: i tre fratellini sono stati sacrificati sull'altare della guerra che va avanti da dieci anni tra l'Autorità palestinese e Hamas. E questi piccoli non sono né le prime né le ultime di queste vittime.
In egual misura, l'Ap e Hamas sfruttano la tragedia di questa famiglia per diffamarsi a vicenda. Non si può dire che queste due fazioni abbiano vissuto in armonia fino ad ora. Ma denigrarsi politicamente a spese dei tre bambini morti ha raggiunto livelli ripugnanti.
Le piccole vittime sono state sepolte solo dopo che i leader di Hamas hanno puntato il dito contro il presidente dell'Ap, Mahmoud Abbas, e il suo premier, Rami Hamdallah, ritenuti responsabili della crisi energetica nella Striscia di Gaza.
Il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha affermato che l'emergenza energetica fa parte del tentativo della leadership dell'Autorità palestinese di mantenere il blocco sull'intera Striscia. Egli ha spiegato che l'obiettivo finale dell'Ap è quello di vedere Hamas indebolito e rimosso dal potere a Gaza.
Altri membri di Hamas hanno detto che la crisi è la conseguenza diretta dell'insistenza dell'Autorità palestinese a imporre una tassa sul combustibile destinato alle centrali elettriche di Gaza, un onere finanziario che Hamas non può permettersi di sostenere a causa del già elevato costo del combustibile. Essi hanno anche asserito che la tassa è ingiustificata perché l'Ap, grazie a un accordo con Israele (dal quale acquista il combustibile) ottiene il rimborso dell'imposta. Inoltre, questi funzionari hanno sottolineato che l'Autorità palestinese non ha voluto chiedere a Israele di aumentare la fornitura di energia elettrica nella Striscia. E questo significa che Hamas non si assume alcuna responsabilità del fatto che due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza trascorrono circa 12 ore al giorno senza elettricità. Invece, a loro avviso, l'emergenza energetica è imputabile esclusivamente a Mahmoud Abbas e al suo primo ministro, il cui unico interesse è quello di togliere il potere a Hamas.
Ma dove sono andati a finire i milioni di dollari donati dalla comunità internazionale? A finanziare i terroristi e le loro famiglie? Quanto costano i tunnel, quelli che Hamas usa per lanciare attacchi terroristici contro Israele? Il denaro non potrebbe essere investito meglio evitando che i bambini muoiano nei roghi causati dalle candele?
I leader di Hamas hanno ben inscenato la loro campagna accusatoria. In una mossa senza precedenti, i membri mascherati dell'ala militare delle Brigate Ezaddin al-Qassam sono stati inviati a partecipare al funerale dei tre bambini. Erano presenti i capi di Hamas, come Ismail Haniyeh, che hanno offerto le condoglianze ai familiari. Le telecamere hanno ripreso tutto, per dimostrare l'affiliazione della famiglia al movimento islamista, lasciando intendere che Abbas e la sua Autorità palestinese fossero i responsabili della tragedia.
Anche l'Ap cerca di sfruttare la tragedia conducendo una guerra di diffamazione contro Hamas. Yusuf Al-Mahmoud, portavoce del governo dell'Autorità palestinese, ha respinto le accuse di Hamas. "I responsabili di questa tragedia sono coloro che continuano a tenere in ostaggio la popolazione della Striscia di Gaza", egli ha detto, riferendosi ai governanti di Hamas. "La tragedia di questi bambini a Gaza è la tragedia di tutti i palestinesi. Hamas è responsabile dell'attuale divisione (tra la Cisgiordania e Gaza." Fatah, la fazione di Mahmoud Abbas, è perfino arrivata al punto di presentare il padre addolorato dei piccoli come uno dei suoi membri.
L'Autorità palestinese ora spera che la tragedia della famiglia Abu Hindi induca i palestinesi della Striscia di Gaza a ribellarsi a Hamas.
Hamas si augura che la tragedia mini ulteriormente la credibilità dell'Ap tra i palestinesi, in modo che questi ultimi pensino che l'Autorità sia complice del blocco imposto a Gaza per impedire l'ingresso di armi.
Queste accuse e contro-accuse costituiscono un'ulteriore prova del fatto che l'Autorità palestinese e Hamas sono determinate a proseguire la loro lotta fino all'ultimo bambino palestinese.
Abbas però sta cercando di convincere il mondo intero ad appoggiare il suo piano di stabilire uno Stato palestinese sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. È difficile immaginare come egli sarà in grado di mettere piede a Gaza dopo questo funerale.
Ciò che è accaduto nella casa della famiglia Abu Hindi è un'inenarrabile tragedia familiare. Quello che sta accadendo ai palestinesi, che sono sempre stati guidati da leader a cui non è importato nulla del bene della propria popolazione, è una tragedia di proporzioni nazionali.

(*) Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme.

(Gatestone Insttute, 20 giugno 2016 - trad. Angelita La Spada)


Cyber, Italia protagonista in Israele

di Stefano Pieper

Cyberweek, è l'evento organizzato dalla Tel Aviv University che ogni anno richiama in Israele esperti della sicurezza cibernetica di tutto il mondo. L'edizione 2016è stataaperta domenica dal vice segretario Usa per la sicurezza nazionale Alejandro Mayorkas e dal ministro della Giustizia israeliano Ayelet Shaked. Èdi alto spessore anche la partecipazione dell'Italia, presente con una delegazione di accademici e rappresentanti del mondo delle imprese guidatadall'ambasciatoreTalò. Proprio oggi, come documentato dall'agenzia CyberAffairs, si terrà la tavola rotonda congiunta Italia-Israele, a testimonianza dell'attenzione rivolta al nostro Paese.
  La crescente rilevanza delle nuove tecnologie per la sicurezza nazionale è resa drammaticamente evidente dal fenomeno terroristico contemporaneo. Di questo legame si occupa la ricerca, a cura di Ranieri Razzante e Roberto Mugavero, che verrà presentata oggi a Palazzo Montecitorio. Ne discuteranno, tra gli altri, il sottosegretario alla Presidenza del consiglio e autorità delegata per la sicurezza della Repubblica Marco Minniti, il presidente della commissione esteri del Senato Pierferdinando Casini, il presidente della delegazione parlamentare presso la Nato Andrea Manciulli, il capo servizio centrale antiterrorismo della PS Lamberto Giannini, e il capo del pool antiterrorismo della Procura di Roma Giancarlo Capaldo.
  Enav, società nazionale per l'assistenza al volo, ha lanciato la nuova campagna pubblicitaria. Nasce "enav guardiamo in alto", messaggio scelto per comunicare con immediatezza lamission e gli obiettivi dell'azienda. Restyling anche per il sito, più agevole e interattivo, e per il logo societario, che resta con la storica chiocciola diventando più dinamico nel carattere, non più maiuscolo. L'Ente Nazionale per l'Assistenza al Volo rinnova l'immagine in un periodo di forte vivacità societaria, in attesa del collocamento fino al 49% del capitale sociale sul mercato azionario, previsto entro luglio dall'ad Roberta Neri.

(Il Tempo, 21 giugno 2016)

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Cyber week, a Tel Aviv nutrita delegazione italiana

Martedì tavola rotonda congiunta Italia-Israele

ROMA, 20 giu. - È iniziata a Tel Aviv la sesta Cyber week, l'evento sulla sicurezza informatica che ha il suo apice nella conferenza sulla cyber security in programma oggi. Il convegno è organizzato dall'ateneo della città israeliana e richiama accademici, politici e imprese da ogni parte del mondo.
In apertura ci sono stati, tra gli altri, gli interventi di: Ben Israel, professore e chairman della conferenza; Eviatar Matania, capo del National Cyber Bureau; Alejandro N. Mayorkas, vice segretario dell'Homeland security Usa; e Ayelet Shaked, ministro della Giustizia israeliano.
Negli speech sono stati sottolineati "gli enormi progressi realizzati nel settore in così poco tempo", con una conferenza che "nel primo anno contava poche centinaia di partecipanti ed ora è un evento di richiamo internazionale".
Nutrita la presenza italiana, che conta su partecipanti - dell'accademia e del settore privato - di alto profilo, tanto da essere stata citata in apertura, insieme a quella di pochi altri Paesi.
Questa sera l'ambasciatore italiano in Israele, Francesco Maria Talò, terrà un ricevimento che coinvolgerà la maggior parte dei partecipanti alla Cyber week e che rappresenta una sorta di "kick-off" in attesa della tavola rotonda congiunta Italia-Israele in programma domani.
La tavola rotonda congiunta Italia-Israele, in programma domani all'università di Tel Aviv nellambito della Cyber week 2016, vedrà al centro le relazioni cyber tra i due Paesi.
L'incontro segnerà, per gli addetti ai lavori, "l'avvio di una seria e pluriennale collaborazione scientifica tra Israele e l'Italia in materia cyber di taglio onnicomprensivo (dalle nuove minacce tecnologiche ai modelli di governance)", e potrà aprire nel tempo "a una vasta gamma di relazioni commerciali".
La tavola rotonda sarà introdotta dal professore Isaac Ben Israel, direttore del Blavatnik Interdisciplinary Cyber Research Center (Icrc) dell'università di Tel Aviv. A seguire sono previsti gli interventi di: Francesco Moro, ricercatore dell'università di Milano-Bicocca; dei ricercatori dell'Icrc Lior Tabansky, prof. Joachim Meyer e prof. Nathan Intrator; prof. Bruno Crispo, dell'università di Trento; Mirco Marchetti, dell'università di Modena e Reggio Emilia; Alessandro Menna, head of sales & technical support cyber security & Ict solutions di Leonardo-Finmeccanica; prof. Aishai Wool, vice direttore
dell'Icrc; e Stefano Boccaletti, ricercatore al National research council e scientific attaché dell'ambasciata italiana in Israele.
Le conclusioni saranno a cura: del prof. Ben Israel; del prof. Michele Colajanni, dell'università di Modena e Reggio Emilia e direttore dell'IL-IT CyberLab; e del ministro plenipotenziario Gianfranco Incarnato, coordinatore per le questioni di sicurezza inerenti allo spazio cibernetico e rappresentante del Ministero Affari Esteri al tavolo Cyber.

(askanews, 20 giugno 2016)


Intervista ad Adrian Weiss, presidente Svizzera Israele

Intervista al Dott. Adrian Weiss, presidente dell'Associazione Svizzera Israele. Cultura, società, politica. Una straordinaria indagine su un legame tra due paesi alleati, nella speranza di una cooperazione mondiale, per arginare l'ombra nera dell'Isis.

di Chantal Fantuzzi.

- Dott. Weiss, che cosa rappresenta l'Associazione Svizzera Israele e quali son i suoi scopi? Come vede il rapporto tra la Svizzera e Israele? Prevede la possibilità di sviluppi economici derivati dalla cooperazione tra il Ticino e Israele? Come le è parso l'Israel Day, tenutosi a Lugano per celebrare i 68 anni dalla nascita dello Stato di Israele e i 67 anni di collaborazione con la Svizzera?
Infine, La società israeliana è assai produttiva: l'irrigazione di territori desertici, la creazione di territori fertili, il cooperativismo, le colonie agricole, l'organizzazione militare. Il suo fine pare essere quello del progresso dell'uomo. Israele si sente come un modello, per gli altri popoli?


Dott. Adrian Weiss, presidente dell'Associazione Svizzera Israele
  L'Associazione Svizzera Israele (ASI), è un'associazione nazionale di amicizia tra la Svizzera e Israele, laica,apolitica e apartitica, fondata da persone non di fede ebraica e il 95% dei suoi membri non è di fede ebraica. Il presidente centrale è la consigliera nazionale Corina Eichenberger. ASI è presente in tutti i cantoni.
  Come associazione di amicizia, l'ASI ha per scopo di rafforzare i legami di conoscenza tra il popoli svizzero e israeliano,di promuovere scambi culturali ed economici di combattere i pregiudizi, l'antisemitismo e il negazionismo;
  La sezione ASI del Ticino, tra le sezioni nazionali, è una delle più consistenti ed estese ed è una delle più grandi a livello cantonale per numero di associati e simpatizzanti.
  Tenendo fede al principio di rafforzare la conoscenza, ASI ha promosso e promuove viaggi guidati in Israele, che riscuotono l'entusiasmo dei partecipanti. Ha anche cura di organizzare eventi a livello culturale con ospiti di fama internazionale (ad esempio il filosofo e giornalista Bernard-Henri Lévy, i giornalisti e politici Furio Colombo, Magdi Allam, Fiamma Nirenstein; il deputato ed ex-ministro israeliano Yaakov Perry, l'archeologo Dan Bahat, gli scrittori Etgar Keret e Nava Semel, i professori dell'univ. di Torino e Milano Ugo Volli e Sara Ferrari).
  Le nostre serate hanno toccato sia il tema della Shoah e della pace che la poesia e la fiaba e la musica, ma anche la sicurezza e il futuro Municipale e del Cantone con dibattiti pre-elettorali cui hanno partecipato esponenti delle diverse forze politiche. Il pubblico ha dimostrato apprezzamento con una presenza che ha toccato quasi mille persone.
  Quanto realizzato finora dall'ASI è frutto del lavoro costante del comitato direttivo, che è composto da persone molto motivate che si dedicano a raggiungere gli scopi dell'associazione: per citarne alcuni, Lucette de Picciotto, segretaria; Nasser Pejman, vice presidente; Piero Gasparini, responsabile delle PR; Giuseppe Giannotti, portavoce; il prof. Maurizio Balestra e Claudio Laiso, coordinatori della cultura; Jacqueline Chevili per progetti speciali, così come Maurizio Gritti; Tobiolo Gianella, tesoriere; Susanne Holm e Katy Pejman, logistica; Beppe Farah e tante validissime altre.
  Sotto il profilo dello sviluppo e dell' economia, Israele è un mondo certamente molto attivo che con la Svizzera intrattiene già un'entità di scambi commerciali che tocca i tre miliardi di dollari. Quanto alla realtà del nostro Cantone, il deputato Yakoov Perry, che nella sua qualità di ministro della Scienza, tecnologia e dello Spazio ha promosso le relazioni internazionali d'Israele a livello scientifico e incoraggiato la fondazione di nuovi centri di ricerca con un programma di start-up in tutto il paese, ha avuto un incontro con il dipartimento Cantonale delle Finanze e dell'Economia ed è nostra intenzione organizzare in futuro un incontro tra imprenditori israeliani e ticinesi. Israele è considerata per organizzazione e realizzazioni una start-up nation dell'alta tecnologia e della ricerca e questa caratteristica può rivelarsi interessante considerata dal punto di vista di nuovi traguardi da sviluppare anche qui nel Ticino, oggi che la finanza delle banche è meno forte e occorrono attività e traguardi alternativi.

- Dalla diaspora ad opera dell'Imperatore romano Tito, all'accentuazione dei dissidi religiosi trai tre credi - quello cristiano appena nato, quello pagano morente, quello ebraico, venerando - per opera di Giuliano l'Apostata; alla cacciata degli ebrei di Spagna ad opera dei sovrani Ferdinando e Isabella. Ritiene l'Occidente storicamente colpevole delle sofferenze causate, anche nella storia antica e medioevale?
  
Il sentimento anti-ebraico era spesso generato nei popoli da filosofie e dogmi strettamente legati a interessi politici, finanziari o di convenienza e attraverso editti e religione e anche dalla non-conoscenza, che hanno influenzato il pensiero comune. Forse con una sintesi dei credi sarebbe stato diverso, ma non dimentichiamo che di fronte agli "interessi di una parte del potere" è stato sempre difficile lottare senza essere sopraffatti o subire. La lezione che oggi ne possiamo trarre è che occorre seguire la ricerca costante dell'accettazione dell'altro senza sopraffazione, per convivere pacificamente fianco a fianco.

- Pensa che nel pittore Chagal questa sintesi tra ebraismo e cristianesimo sia un sincretismo riuscito?
  
Faccio mio quanto disse di Chagall Grazia Massone, docente di storia dell'arte all'università cattolica di Brescia e presidente dell'Associazione Opera d'Arte,: "Le sue tele si riempiono di immagini pescate con libertà dalla tradizione iconografica narrativa cristiana e da quella simbolista e da quella simbolista ebraica; Cristo in croce porta il tallet, lo scialle rituale per la preghiera, diventando emblema della persecuzione del popolo ebraico, il gallo ebraico che ha il potere della preveggenza ricorda ai cristiani il tradimento di Pietro, la sposa e lo sposo che sono il segno del patto tra Dio e il popolo d'Israele possono alludere all'interpretazione della chiesa come sposa di Cristo".

- In uno dei più grandi scrittori ebrei, Primo Levi, vi sono innumerevoli richiami alla Commedia di Dante. Eppure l'Alighieri non fu clemente con gli ebrei. Pensa sia questo il, diciamo, miracolo della cultura? Riuscire a valicare le antiche discordie e unire l'atemporalità dell'Uomo, delle sue sofferenze, delle sue gioie, passioni, dei suoi dolori, nella sempiternità della cultura?
  
Levi, uomo culturalmente italiano, era consapevole del fatto che Dante era uomo del suo tempo e di quel tempo incarnava l'anima, i sentimenti e la filosofia. L'opera dantesca è permeata dalle dottrine e dal sapere medievali e improntata all'idea geocentrica dell'universo e sappiamo bene che Copernico venne solo oltre due secoli dopo. Come noi, anche Levi non si aspettava certo di trovare in Dante esposizioni scientifiche attuali, così come alcuni suoi sentimenti, figli del tempo. Ma certamente non avrà trovato assurdo apprezzare l'opera di un uomo di grande respiro, un politico e filosofo oltre che poeta che, pur basando il mondo naturale e quello soprannaturale sul sistema tolemaico, aveva il pensiero e le intenzioni rivolte al futuro, decidendo di scrivere in volgare la sua opera maggiore per consentire ai molti di fruirne e non relegarla alle sole gerarchie dell'intellighenzia che usava il latino. Levi non poteva non essere conquistato dalla fine capacità di trasmettere i sentimenti e di ammirare l'ampia inspirazione dell'opera dantesca, le cui grandi forze poetica, spirituale e culturale sono tuttora valide. Nell'immaginazione di Dante, l'inferno è il luogo dove ad ogni colpa si applica il contrappasso e ogni delitto ha la giusta punizione; Dante sa di essere uno spettatore, non un dannato e che sarebbe uscito a "rivedere le stelle. . Il Levi uomo di cultura certamente non poteva non tener conto dei luoghi e dei momenti danteschi, nella descrizione del suo orrore infernale, anche se in Levi l'inferno è reale, posto sulla terra, un luogo dove non ci sono colpe, ma ci sono innocenti che pagano l'irrazionale furore di altri. Sì, la cultura travalica il tempo ed è immortale.

- 25 maggio, 2016. La scelta del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, di nominare come ministro della difesa Avigdor Lieberman, leader di Israel Beitenu, è stata chiamata dai media una "svolta a destra". Cosa ne pensa? È d'accordo con questa definizione e, soprattutto, con questa scelta?
  
Dopo tanti anni di conflitto tra Israele e i paesi confinanti e nonostante il ritiro da parte di Israele dal 60% dei territori contesi, non si è riusciti ad arrivare ad un compromesso che ne garantisca la sicurezza. Attualmente in Israele è in atto un dibattito molto sentito per quanto concerne il ritiro di Israele dai territori perché c'è il timore che questo favorisca i gruppi terroristi a Gaza e nel Libano. Nel parlamento israeliano sia una parte della coalizione di destra che i centristi e la sinistra sono favorevoli alla soluzione dei due stati per due popoli e sono convinti della necessità di negoziati di pace diretti tra i due interessati, che garantiscano comunque la salvaguardia della sicurezza. Infatti un ritiro dai territori contesi, allo status quo, porterebbe un grosso rischio alla protezione degli israeliani, con i missili nemici a solo 4-5 km da Tel Aviv.
  Avigdor Lieberman è molto pragmatico e anche lui sostiene l'idea dei due stati per due popoli, aggiungendo che secondo lui si potrebbero negoziare scambi di territorio, mantenendo entro Israele posizioni facilmente difendibili e cedendo ai Palestinesi altre porzioni di territorio, a compensazione. Considerando un tema scottante come la sicurezza non credo che le sue scelte come ministro della difesa cambieranno molto la politica israeliana.
  Se vogliamo parlare del passato possiamo dire che è stata la destra a firmare i più importanti accordi di pace e a disporre il ritiro dal Sinai, da Gaza e da parte della Samaria.

- Cosa pensa del servizio militare femminile? Rafforza il carattere o induce a un mutamento psicologico?
  
In Israele c'è la parità in tutti i sensi tra donne e uomini, sia nel campo economico che accademico che nel parlamento, dove il 40% dei componenti sono donne. Anche il servizio militare è obbligatorio per tutti i cittadini indipendentemente dal sesso.
  Credo che questo possa considerarsi un privilegio che rafforza la posizione femminile e favorisce la parità tra uomo e donna.

- Come vede il pericolo dell'Isis? Crede in una cooperazione con le truppe siriane di Assad e con l'antiterrorismo di Vladimir Putin?
  
L'ISIS è un pericolo a livello globale. La guerra contro di esso è asimmetrica, la sua non è solo la posizione di uno stato territoriale, ma la diffusione della sua ideologia facilmente assimilabile da alcune fasce di popolazione ovunque esse si trovino, esce e si propaga in qualsiasi stato al di fuori del territorio governato da DAESH. Per sconfiggere questo pericolo una coalizione a livello mondiale è essenziale . Inoltre occorre agire con la prevenzione, attraverso i controlli e l'intelligence. Purtroppo in questo ultimo periodo la violenza del terrorismo si è molto più accentuata nell'Europa, che si è trovata impreparata davanti a una situazione del genere e probabilmente dovrà sviluppare una strategia non solo di prevenzione del terrorismo nell'immediato, ma anche un disegno difensivo sul lungo periodo.

- Cosa pensa del Sionismo? Crede che possa essere inteso come matrice storica risorgimentale, che nasce da un passato comune e da radici identitarie condivise?
  
La diaspora ebraica è lunga duemila anni e uno dei salmi maggiormente recitati dice "L'anno prossimo a Gerusalemme". Tuttavia, un popolo che si trova a suo agio lì dove è stato trapiantato (seppure a forza), che si sente accettato e non oppresso, i cui esponenti possono far parte dell'intera società civile a tutti i livelli e non è fatto capro espiatorio da potenti e autorità, allora può sognare una patria sua ma non ne sente una vera necessità.
  Se però il suo vivere è costantemente sconvolto da espulsioni, deportazioni e pogrom e da viva avversione, allora ecco che ambire ad una propria patria dove vivere e prosperare in pace trasforma il sogno in estrema necessità. Il sionismo nasce dalla mancata assimilazione e integrazione degli ebrei in Europa, che ha portato prima Crémieux, Montefiore e Hess e infine Herzl ad elaborare l'idea che gli ebrei avevano stretto bisogno di un proprio Stato, dove poter vivere in pace e sicurezza lontano dai pregiudizi e dalle false accuse tipici dell'antisemitismo.

- Cosa pensa dell'universalismo religioso islamico? Comporta un rischio?
  
L' idea religiosa non può essere cambiata dall'esterno ma solo attraverso una presa di coscienza dei musulmani stessi . Senza un dibattito interno del mondo musulmano, con la parte moderata che abbia il sopravvento sulla parte radicale e l'instaurazione di una visione di democrazia, senz'altro il rischio esiste. Abbiamo visto che anche dopo generazioni l'Europa non è riuscita a dare un messaggio di integrazione e tolleranza. Risulta da quanto abbiamo visto a Parigi, Bruxelles Madrid, Londra e Tel Aviv.

- Antisionismo e nazionalismo arabo sono due realtà coesistenti, l'una inserita nell'altra? L'OLP è stata la base ideologica di tutte le organizzazioni palestinesi. Pensa sia una realtà ancora attiva? In ogni caso ritiene che sia un'organizzazione più portata alla lotta, che al dialogo?
Anche in Israele il 90% della popolazione è favorevole alla soluzione di due stati per due popoli, che possono vivere in democrazia, sicurezza e rispetto reciproco. Senz'altro per arrivare a questa situazione occorre negoziazione di pace diretta fra le due parti interessate. La divisione interna palestinese, la mancanza di una democrazia, le lotte interne tra Hamas e OLP impediscono ai leader palestinesi di prendere una decisione comune e di presentarsi uniti al tavolo di negoziati di pace. Tra la parte estremista di Hamas, che vede nella distruzione dello stato d'Israele il suo scopo principale, e la parte OLP di Abu Mazen, che tende a riconoscere lo Stato d'Israele, c'è un divario immenso.

(TICINOlive, 20 giugno 2016)


Usa-Israele: impegno saldo per la sicurezza dello Stato ebraico

WASHINGTON - Al centro dei colloqui anche l'avanzamento delle trattative in corso tra Israele e Stati Uniti per firmare un nuovo memorandum d'intesa della durata di dieci anni per i fondi statunitensi destinati al programma di difesa missilistica israeliano. La scorsa settimana il consigliere per la sicurezza nazionale israeliana, il brigadier generale Yaakov Nagel, ha riferito che le divergenze tra Gerusalemme e Washington sono "ancora vaste" perché "gli Usa offrono meno di quello che vuole Israele". Nagel ha precisato che Israele ha chiesto agli Usa una cifra compresa tra i 40 e i 50 miliardi di dollari in dieci anni, mentre la controparte ne offre 34-37 miliardi di dollari. Infine, Il consigliere per la sicurezza nazionale ha sottolineato la volontà del premier Benjamin Netanyahu di concludere l'accordo entro la fine del mandato del presidente statunitense Barack Obama, ma "non a qualsiasi prezzo".

(Agenzia Nova, 20 giugno 2016)


In Israele si discute il porto artificiale per Gaza

Opera avrebbe un costo di 5 miliardi di dollari

Da tempo se ne parla ma ora, secondo il ministro dell'Intelligence e dei Trasporti Israel Katz, Gaza potrebbe avere in futuro un porto artificiale, un'isola costruita dall'uomo, come sbocco commerciale sul mondo.
Piani in questo senso, hanno detto i media, sono stati discussi di recente proprio dal ministero di Katz che ha stimato in 5 miliardi di dollari il costo necessario per l'opera. Allo stato attuale però il processo di delibera è ancora in corso e soprattutto è in discussione come Israele possa essere coinvolto nel mantenimento della sicurezza per un porto creato con fondi internazionali. Secondo Katz - come hanno riferito i media - la creazione di un porto artificiale non metterebbe fine né ai razzi lanciati da Hamas dalla Striscia verso Israele né al traffico clandestino di armi, ma potrebbe aiutare la popolazione a diventare meno radicale con un migliore standard di vita e di libero movimento all'estero senza un coinvolgimento di Israele.

(ANSA, 20 giugno 2016)


Turchia-Israele: incontro decisivo per normalizzazione rapporti bilaterali domenica 26 giugno

GERUSALEMME - I team negoziali per la normalizzazione dei rapporti bilaterali tra Turchia ed Israele si incontreranno il prossimo 26 giugno in una capitale europea. Lo ha riferito un dirigente del governo di Gerusalemme, precisando che dovrebbe trattarsi dell'ultimo incontro tra le controparti che dovrebbero trovare un accordo definitivo sulle questioni rimaste in sospeso. La notizia è stata divulgata ieri sera, 19 giugno, dall'emittente televisiva israeliana "Channel 1". L'incontro del 26 giugno potrebbe essere cruciale per la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Gerusalemme ed Ankara, interrotte nel 2010. L'esponente del governo israeliano ha precisato che le divergenze che permangono tra Gerusalemme ed Ankara riguardano la richiesta di Israele di chiudere il quartier generale militare del movimento islamista di Hamas ad Istanbul.
  Sembrerebbe che una formula per superare questo disaccordo sia stata trovata nelle scorse settimane. Il dirigente israeliano ha aggiunto che nelle ultime settimane la Turchia ha lanciato segnali positivi al governo del premier Benjamin Netanyahu: primo fra tutti l'aver eliminato il veto alla cooperazione tra Gerusalemme e i paesi della Nato. Inoltre, per la prima volta dal 2010, un rappresentante del ministero degli Esteri turco ha partecipato alla cerimonia del giorno dell'indipendenza presso l'ambasciata israeliana, che si è svolta all'inizio di maggio.
  Nel corso di una conferenza stampa che si è svolta nel fine settimana scorso, il premier turco Binali Yildirim ha detto che la Turchia è interessata a riavvicinarsi ad Israele e agli altri paesi limitrofi con cui le relazioni diplomatiche si sono deteriorate negli ultimi anni. "Non credo manchi molto tempo prima che l'accordo di riconciliazione con Israele venga raggiunto", aveva detto il primo ministro turco. L'incontro avrebbe dovuto svolgersi a metà maggio, ma le dimissioni dell'ex premier turco Ahmet Davutoglu lo hanno fatto posticipare.
  Lo scorso 7 giugno anche Mosca è intervenuta per sbloccare i negoziati tra turchi ed israeliani. Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato in conferenza stampa a Mosca alla presenza di Netanyahu di sostenere i colloqui di riconciliazione tra Israele e Turchia, nonostante le tensioni che intercorrono tra Mosca e Ankara. Le parole del presidente russo, ha precisato il quotidiano israeliano "Haaretz", potrebbero dare una spinta determinante ai negoziati per un accordo di riconciliazione tra Israele e Turchia, che sono già giunti ad uno stadio avanzato. "Pensiamo che qualsiasi riavvicinamento tra nazioni e popoli possa avere un'influenza positiva su tutta la situazione internazionale; meno problemi oppongono i paesi, meglio è", ha dichiarato Putin. Le parole del presidente russo, scrive il quotidiano israeliano, rappresentano una inversione di marcia per Mosca, che nei precedenti colloqui privati con Tel Aviv aveva espresso riserve in merito al processo di riconciliazione.
  Nella stessa giornata è intervenuto anche il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, affermando che mancano uno o due incontri alla normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Israele. Cavusoglu ha aggiunto che ora Israele deve rimuovere gli ostacoli all'accesso degli aiuti umanitari a Gaza e negli altri territori palestinesi. Precedentemente il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in un'intervista rilasciata a Nairobi, in Kenya, aveva precisato quali sono gli ostacoli alle trattative. Le nostre condizioni su questo tema sono le scuse (di Israele per l'incidente della Mavi Marmara), il risarcimento e la rimozione dell'embargo su Gaza", aveva ribadito Erdogan, aggiungendo che, dopo le scuse e il risarcimento, la Turchia aspetta "chiarimenti su come l'embargo sarà eliminato. Come sapete - aveva detto Erdogan - c'è un problema energetico a Gaza. C'è anche un problema idrico. La parte israeliana ha acconsentito al trasporto di cibo, materiale da costruzione e altre cose verso Gaza attraverso la Turchia".
  Erdogan aveva ricordato che Ankara ha proposto di risolvere il problema energetico di Gaza con l'invio di una centrale elettrica galleggiante presso il porto di Ashdod, ma gli israeliani hanno suggerito una soluzione diversa. "Abbiamo detto loro che non c'è problema. Stiamo lavorando a queste cose. Naturalmente - aveva precisato il presidente turco - è anche importante vedere come il nuovo governo (israeliano) si comporterà riguardo a tali questioni. Che impatto potrà avere su questa situazione la nomina di Avigdor Lieberman a ministro della Difesa? Netanyahu ne ha parlato con Lieberman? Nei prossimi colloqui anche questi temi saranno discussi". Il nazionalista Lieberman infatti ha sempre avuto una posizione contraria alla normalizzazione dei rapporti con la Turchia.
  La riconciliazione tra Turchia e Israele è "molto vicina", aveva detto invece lo scorso 31 maggio Netanyahu, parlando ad un incontro con esponenti del Congresso Usa in visita a Gerusalemme. Netanyahu aveva aggiunto che i rapporti tra i due paesi non torneranno "immediatamente" ai livelli di 10 anni fa, ma la riconciliazione sarà comunque "un bene per entrambi". Fonti del governo israeliano hanno riferito al quotidiano "Haaretz" che per ora l'unico ostacolo ad una normalizzazione dei rapporti è la richiesta israeliana per la chiusura della rappresentanza diplomatica del movimento palestinese Hamas ad Istanbul. Negli ultimi mesi sono proseguiti i colloqui tra le squadre dei negoziatori israeliani e turchi per la riconciliazione dopo l'incidente della Mavi Marmara. Anche il console israeliano a Istanbul, Shai Cohen, a inizio maggio, aveva detto che, una volta insediatosi il nuovo governo turco, sarebbe stato possibile arrivare all'intesa finale tra Ankara e Gerusalemme per la normalizzazione dei rapporti.
  "Credo che ci vorrà un altro round di colloqui o due per concludere l'accordo", aveva affermato Cohen pochi giorni prima della designazione del nuovo primo ministro turco, Binali Yildirim. Le due squadre di negoziatori israeliani e turchi si sono incontrate l'ultima volta l'8 aprile scorso a Londra e in quell'occasione hanno deciso di accelerare le trattative per concludere quanto prima l'accordo di riconciliazione. I progressi fatti erano stati confermati poi martedì 17 maggio ad Ankara dall'incaricata d'affari dell'ambasciata israeliana, Amira Oron, nel corso del ricevimento organizzato per le celebrazioni della Festa dell'indipendenza dello Stato d'Israele, cui ha preso parte un rappresentante turco. "Negli ultimi 68 anni - aveva detto la Oron - lo Stato d'Israele ha investito sforzi considerevoli per sviluppare rapporti di pace con i paesi del mondo; uno di questi è la Turchia che consideriamo molto importante. La Turchia è il primo paese musulmano ad aver stabilito relazioni diplomatiche con Israele nel novembre del 1949".
  La Oron aveva sottolineato come da allora i due paesi abbiano stabilito legami molto buoni, aggiungendo che nel 2015 ci sono stati progressi nello sviluppo dei rapporti e "crediamo che questa tendenza continuerà perché è basata sulla volontà politica di entrambe le parti". L'inizio della crisi diplomatica tra i due paesi è avvenuto circa sei anni fa. Il 31 maggio 2010, infatti, le forze di sicurezza israeliane hanno assaltato la nave turca Mavi Marmara, che stava cercando di violare il blocco imposto dallo Stato ebraico su Gaza, e ucciso dieci attivisti turchi.

(Agenzia Nova, 20 giugno 2016)


II Consiglio dell'Unione delle comunità ebraiche: domani i risultati

Gli ebrei italiani ieri sono stati chiamati anche al voto per eleggere i membri del nuovo Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei). Al «parlamento» dell'ebraismo italiano spetterà poi eleggere il nuovo presidente deiFUcei in sostituzione di Renzo Gattegna, che ha ricoperto quella carica per dieci anni. II Consiglio, organo di indirizzo strategico e politico dell'Unione, si compone di 52 membri. II mandato dura 4 anni ed è gratuito. Le diverse comunità eleggono ognuna un numero di consiglieri relativo al proprio peso numerico: 20 consiglieri per Roma, io per Milano (nelle due comunità maggiori si presentano varie liste), ig consiglieri singoli in rappresentanza delle altre Comunità. A questi se ne uniscono 3 in rappresentanza dell'Assemblea Rabbinica Italiana, che comporranno la Consulta Rabbinica. I risultati dovrebbero essere noti entro domani.

(Corriere della Sera, 20 giugno 2016)


Aliyah, chi sceglie Israele

di Alice Fubini

TORINO - Una tavola rotonda informale sulla aliyah. Questo il senso della serata organizzata dalla commissione cultura della Comunità ebraica di Torino proprio per riflettere in libertà sul fenomeno dell'aliyah, l'emigrazione verso Israele, nelle sue numerose sfaccettature, partendo da una visione volutamente dicotomica. "Aliya problema o soluzione?", il titolo di questo incontro-dialogo tra i presenti, 'reali' e 'virtuali'. A intervenire infatti, direttamente da Israele, anche Daniela Fubini, consulente di Gvahim (organizzazione no profit che orienta gli olim hadashim, i nuovi immigrati in Israele) nonché editorialista di Pagine Ebraiche, che tramite lo schermo di un computer ha partecipato attivamente al dibattito e Yanir Levi, giovane ebreo della Comunità di Torino che ha brevemente raccontato dal campo base la sua esperienza nel vivo del servizio militare. Tra il pubblico presente in sala, giovani ebrei che magari decideranno di intraprendere questo percorso non sempre in discesa, come hanno testimoniato alcuni adulti che l'hanno fatto e poi sono tornati a vivere in Italia. Ma vi è anche chi ha raccontato dei parenti che per Israele è partito e lì è rimasto. Infine la testimonianza e i pensieri degli israeliani arrivati a Torino che hanno compiuto un percorso a specchio: chi c'è stato per un breve periodo, chi ormai ci vive da anni ed ha costruito una famiglia, chi è arrivato per motivi di studio. Alcuni di loro, nonostante siano lontani dal proprio paese dicono di rivestire certe volte un ruolo di 'ambasciatore d'Israele', nel senso che possono apportare un punto di vista critico e consapevole sulla realtà israeliana facendo conoscere anche altri aspetti al di là del conflitto. Ognuno ha una storia da raccontare, tutte vicende biografiche che hanno attraversato un ponte immaginario che lega la città e la Comunità Ebraica di Torino con lo Stato d'Israele. Tra le diverse voci intervenute anche quella di Claudia De Benedetti, Consigliere UCEI e presidente onorario dell'Agenzia ebraica in Italia, che ha spiegato come vengano gestite le procedure e le richieste di aliyah provenienti dai giovani e da intere famiglie delle Comunità ebraiche italiane. De Benedetti ha sottolineato l'importanza di distinguere aliyot per scelta da aliyot per necessità e ricorda come sia un fenomeno in crescita: infatti negli ultimi tre anni si è registrato un aumento delle persone che hanno intrapreso tale percorso: dai 150 del primo anno ai 320 del secondo fino ai 360 attuali.
Aliyah come punto di partenza, per poi riflettere davvero sul rapporto tra sionismo e diaspora e quanto il peso dell'ideologia per molti versi stia cambiando e non sia più il solo motore che spinge le persone a trasferirsi in un paese giovane, all'avanguardia, profondamente diverso dalla realtà italiana ed europea, anche per via della sua complessità interna e delle tensioni esterne mai sopite. Un groviglio di emozioni in costante movimento ed evoluzione, ed è forse proprio questo dinamismo ad attrarre le persone.

(moked, 20 giugno 2016)


A Venezia il fuoco spalancò il Ghetto

A Palazzo Ducale una storia lunga 500 anni

di Giovanna Pastega

 
L'11 luglio 1797 le truppe napoleoniche entrano nel Ghetto di Venezia, bruciano le porte simbolo della segregazione e aprono il quartiere alla città. Gli ebrei non sono più obbligati a mostrare negli abiti il segno della loro religione, come era avvenuto fino ad allora. Nonostante il simbolico rogo le cose non cambieranno subito radicalmente né rapidamente. Il Ghetto veneziano resterà attivo a lungo, mantenendo il suo ruolo di centro della vita ebraica, anche se gli ebrei progressivamente si insedieranno ovunque in tutta Venezia.
   L'apertura delle porte del Ghetto è solo uno dei tanti momenti importanti della lunga storia di questo antichissimo luogo. A 500 anni dalla sua nascita la Fondazione Musei Civici di Venezia con il Comitato "I 500 anni del Ghetto di Venezia" ha voluto realizzare a Palazzo Ducale la mostra "Venezia, gli ebrei e l'Europa 1516 - 2016" che da oggi fino al prossimo 13 novembre resterà aperta al pubblico. Curata da Donatella Calabi, l'esposizione conduce il visitatore alla scoperta dei processi storici, culturali, sociali alla base della nascita, della realizzazione e delle trasformazioni nel corso del tempo del primo "recinto" al mondo destinato agli ebrei.
   La parola "ghetto" nasce proprio a Venezia, poiché il luogo prescelto per concentrare e circoscrivere in un'area delimitata - chiusa e protetta al contempo - gli ebrei all'interno della Città di Venezia era l'insula in cui venivano riversati ("gettati", appunto) gli scarti della lavorazione delle fonderie di rame presenti nella zona. Da qui l'origine del toponimo, getto/ ghetto, vocabolo che si diffonderà in tutto il mondo. Questo termine al suo nascere non aveva il significato negativo di luogo di segregazione. Nei primi decenni del '500 Venezia aveva infatti cominciato ad attuare una strategia di accoglienza e al contempo di controllo dei "flussi migratori" delle popolazioni provenienti dalle varie parti del mondo. Così sorsero edifici e luoghi a loro destinati dove vivere e poter esercitare i vari commerci.
   Era un modo pacifico ma severo di offrire garanzie con risvolti di utilità commerciale e finanziaria e contemporaneamente di sorvegliare, più o meno rigidamente, le varie comunità nazionali e religiose che erano confluite nel corso del tempo in città. Così i popoli del Nord nel Fontego dei Tedeschi poterono occuparsi della vendita dei tessuti di lana e del feltro, i Greci ortodossi, vicini alla marineria dell'Arsenale, poterono costruire a loro spese una chiesa e un collegio, i Turchi, che controllavano il mercato dell'oro e delle spezie, riuscirono ad avere una base stabile in un Fontego, serrato e sorvegliato nelle ore notturne. Anche agli ebrei, che a Venezia svolsero sempre l'attività del prestito su pegno, fu destinata un'area per vivere ed esercitare: il Ghetto, dove sorsero i primi banchi di pegno, dai quali passerà buona parte del prestito di denaro della Serenissima.
   «Nato come misura di confinamento per controllare la comunità ebraica ed evitare disordini - spiega Donatella Calabi - il Ghetto divenne in breve tempo un luogo effe. rvescente e cosmopolita, che accolse ebrei provenienti da tutto il mondo, ed uno dei centri di commercio fondamentali della Repubblica veneziana. Da qui gli ebrei riuscirono, pur nei limiti a loro imposti, ad instaurare una serie fittissima di relazioni e rapporti non solo con tutta la Città di Venezia ma anche a livello internazionale».
   Una mostra complessa quella realizzata a Palazzo Ducale, ricca di rimandi e spunti iconografici da percorrere attraverso sentieri multimediali per conoscere a fondo una storia lunga 500 anni, quella degli uomini e delle donne che abitarono nel Ghetto di Venezia. Importanti dipinti - da Bellini a Carpaccio, da Forabosco a Hayez, da Balla a Wildt fino a Chagall, ma anche volumi in rarissime edizioni originali, documenti d'archivio, oggetti liturgici e arredi, che permettono un racconto serrato ed avvincente. In 10 sezioni tematiche e cronologiche la mostra offre stanza dopo stanza i capitoli di una storia intensa e affascinante: dalla vita degli ebrei prima della costruzione del Ghetto alla realizzazione di un "recinto" cosmopolita e finanziariamente potente, dalla rete di commerci alla vita quotidiana scandita dalle ore di "clausura", fino ai giorni nostri.
   

(Il Piccolo, 20 giugno 2016)


La strage di Orlando. L'assassino terrorista o gay r(d)epresso?

Lettera al Giornale

La vicenda di Orlando sta subendo una nuova lettura mass-mediatica con cui l'autore della strage viene presentato non più come un terrorista guidato dallo zelo per il califfato, ma come un depresso/represso omosessuale in salsa freudiana che, incapace di riconoscersi tale, punisce se stesso attraverso la morte degli altri omosessuali, il tutto motivato da un'apparente avversione di radice religiosa. Tale rilettura a me pare un diversivo per spostare l'attenzione pubblica dalla realtà di un presente pericolo interno a un fenomeno tragico da risolversi e curare sul lettino dello psicoanalista.
Luciano Pranzetti


(il Giornale, 20 giugno 2016)


Caso Moro, in documento riservato la trattativa "palestinese" per la sua liberazione

Si tratta dell'informativa inviata a metà aprile (la data esatta che ci è stata riferita è il 24) dal Centro Sismi di Beirut acquisita della Commissione parlamentare d'inchiesta.

di Stefania Limiti

Carte, carte e ancora carte. Sul caso Moro esiste una montagna di carte da dove, ogni tanto, esce qualche perla. Come quella che apre un nuovo squarcio sull'effettiva, reale possibilità di una via negoziale per risolvere lo stallo del sequestro più drammatico della storia politica italiana. E che conferma quanto disse al il fattoquotidiano lo scorso ottobre Bassam Abu Sharif, l'ex portavoce del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina, un pezzo radicale dell'Olp di Yasser Arafat: "A Beirut era pronto un aereo per i brigatisti dopo la liberazione del presidente Dc. Ma intervenne una terza parte e il telefono non squillò più".
   Il documento, riservato, è stato acquisito della Commissione parlamentare d'inchiesta e un'autorevole fonte conferma la sua importanza. Si tratta dell'informativa inviata a metà aprile (la data esatta che ci è stata riferita è il 24) dal Centro Sismi di Beirut alla direzione centrale di Roma nella quale si riferisce dello stato delle trattative avviate dai Palestinesi per ottenere la salvezza del loro amico Aldo Moro. La situazione era davvero a buon punto, tanto che il capo centro, l'ormai molto noto colonnello Stefano Giovannone, rientra a Roma con un aereo messo a disposizione niente di meno che dall'Eni. La conclusione di un accordo per liberare Moro era molto vicina, tutto era giunto ad una fase molto avanzata di dialogo, come in effetti ci disse Mister Sharif: "L'aereo a Beirut era pronto. … ma tutto fu improvvisamente interrotto … Una terza parte, fortemente contraria, anzi intenzionata a liberarsi di Aldo Moro e della sua politica d'indipendenza, riuscì ad impedire le trattative. Per questo quel telefono non squillò più". Dunque, non ha più senso chiedersi: ci furono le trattative per la liberazione di Moro oppure no? La domanda giusta, e che pesa come un macigno, è: chi intervenne per impedire una positiva conclusione dell'affaire?
   Il documento, ritenuto di "estremo interesse", conferma la solidità dell'alleanza stretta da Aldo Moro con la leadership palestinese, sfociata nel cosiddetto Lodo Moro, un accordo che legittimava la resistenza palestinese imponendo ai suoi gruppi armati di salvaguardare la sicurezza del nostro Paese. Uno dei rari casi in cui una scelta di politica estera è stata intrapresa in nome della nostra sovranità nazionale. Un'intesa vitale per i palestinesi che non potevano certo stare a guardare che Moro venisse cancellato dalla scena politica: di qui il loro frenetico, ancorché inutile, sforzo diplomatico, testimoniato più volte da Bassam Sharif, che era molto addentro alle cose italiane, e non solo da lui. Il Lodo Moro ha resistito abbastanza dopo l'uccisione del suo inventore.
   Dal relativo fascicolo messo a disposizione della Commissione, classificato "segretissimo" - è stato fatto cadere il segreto di Stato ma resta un alto livello di riservatezza perché quelle carte si riferiscono ai rapporti con altri Stati - sono emerse carte che provano il buon andamento dei rapporti tra leadership palestinese e Italia e la "buona tenuta" del Lodo fino almeno all'ottobre del 1980, periodo al quale i documenti si riferiscono. Cioè sicuramente dopo le stragi di Ustica e Bologna: per questo chi parla di quei tragici eventi in chiave di una ritorsione palestinese contro l'Italia, come hanno fatto recentemente i senatori Carlo Giovanardi e Maurizio Gasparri, mesta nel torbido. Lo conferma il loro collega e storico Paolo Corsini: "Non vi è alcun elemento che colleghi a nessun titolo e in alcun modo quelle carte a Ustica e Bologna", lo ha ribadito più volte un altro commissario dell'organismo parlamento, Paolo Bolognesi: "Nulla, neppure una virgola può essere collegato in quelle carte alle stragi". Non ci resta che aspettare nuovi e auspicabili elementi investigativi, oltre che la possibilità di poter liberamente consultare questi materiali.

(il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2016)


Basket - Pianigiani in Israele. "Ha firmato con l'Hapoel Gerusalemme"

I media locali: "L'ex c.t. della Nazionale italiana ha raggiunto un accordo valido per due anni"

Secondo media israeliani molto credibili, l'ex allenatore della Nazionale italiana Simone Pianigiani avrebbe siglato un accordo biennale con l'Hapoel Gerusalemme, finalista dell'ultimo campionato nazionale. Lo scorso gennaio l'allenatore senese classe 1969 e la Fip avevano risolto di comune accordo il contratto che li legava fino alle Olimpiadi di Rio.

IL RITORNO — Pianigiani torna ad allenare una squadra di club a distanza di oltre tre anni dall'ultima esperienza. Nell'estate 2012 fu ingaggiato dal Fenerbahçe Istanbul, che si apprestava a mettere le basi per il progetto che avrebbe poi portato i turchi per due volte consecutive alle Final Four di Eurolega. L'esperienza durò sei mesi, perché il 24 febbraio 2013 arrivarono le dimissioni per motivi personali.

(Gazzetta dello Sport, 19 giugno 2016)


Tel Aviv - Auto piomba in un ristorante: morto un guru dell'hi-tech Usa

Alan Weinkrantz
Alan Weinkrantz, un esperto di high-tech statunitense attivo in parallelo a San Antonio (Texas) e a Tel Aviv, è rimasto ucciso ieri quando un'automobile si è schiantata in un ristorante nel centro di Tel Aviv, provocando la sua morte e quella di altri due avventori nonché il ferimento di dieci persone. La quarta vittima dell'incidente è il conducente della automobile che, secondo la polizia, ne ha perso il controllo dopo essere stato colpito da un infarto.
Secondo la stampa locale, negli ultimi anni Weinkrantz ha trascorso lunghi periodi in Israele, diventanto un "ambasciatore" della app Rackspace Cloud. Scriveva in riviste specializzate e in siti di carattere tecnologico, fra cui Geektime. La sua drammatica morte ha provocato costernazione e dolore in diverse reti sociali, negli Stati Uniti e in Israele.

(Il Messaggero, 19 giugno 2016)


L'Egitto condanna Morsi all'ergastolo per spionaggio a favore del Qatar

di Giordano Stabile

Ergastolo all'ex presidente Mohammed Morsi e pena di morte per altri sei imputati, compresi due giornalisti della tivù qatarina Al-Jazeera. Si è concluso ieri il processo al Cairo contro politici, attivisti e reporter legati ai Fratelli musulmani, tutti accusati di spionaggio a favore del Qatar e alto tradimento. Anche Morsi, deposto dai militari il 3 luglio del 2013 dopo un anno e tre giorni di presidenza, rischiava la pena capitale.
   Ma contro di lui è caduta l'accusa più grave, quella di aver passato al Qatar documenti segreti di Stato. È il quarto processo a carico dell'ex presidente, eletto nel 2012 nel primo voto democratico dell'Egitto del dopo Mubarak.
Morsi è stato già condannato, in primo grado, a morte per il suo ruolo nell'evasione di massa dal carcere di Wadi el-Natroun, all'ergastolo per aver complottato con un'organizzazione terroristica straniera (il movimento palestinese Hamas), a 20 anni di carcere per aver ordinato l'uccisione di manifestanti durante la repressione del dicembre 2012.
   Morsi è stato il primo esponente dei Fratelli musulmani ad arrivare alla massima carica di un Paese importante come l'Egitto. Come tutto il movimento della Fratellanza è stato appoggiato durante la sua presidenza dal Qatar. E la tv satellitare Al-Jazeera, che trasmette da Doha, è stata fra i media quella che più ha sostenuto la prima fase della Primavera araba in Tunisia, Egitto, Libia, Siria.
   Reporter a morte. La sede di Al-Jazeera al Cairo è stata chiusa dopo l'ascesa al potere del generale Abdel Fatah al-Sisi, che ha messo fuori legge i Fratelli musulmani. Oltre a migliaia di militanti sono stati arrestate decine di reporter, compresi tre di Al-Jazeera (l'australiano Peter Greste, il canadese Mohamed Fahmy e l'egiziano Baher Mohamed), rilasciati dopo due anni di detenzione e una campagna internazionale a loro favore. Per l'ex direttore delle news del canale in Egitto, Ibrahim Mohammed Hilal, e per il giornalista Alaa Omar Alaa Sablane, è arrivata invece ieri la pena capitale per spionaggio. A morte è stata condannata anche un'altra reporter, di Asmaa al-Khateib, del network Rasd, vicino ai Fratelli musulmani.

(La Stampa, 19 giugno 2016)


In bici per la città. Pedalando per la Milano ebraica

Arrivano pedalando sotto il sole estivo, invadendo la stretta via Eupili, che costeggia i binari della ferrovia, dove ha sede il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Sono i ciclisti del giro turistico-artistico per la Milano ebraica organizzata dall'Associazione Amici del CDEC, giunti alla loro ultima tappa. "Sono molto contento che sia stata proposta un'iniziativa gioiosa, per variare un po' dalle proposte sempre di carattere serioso", le parole del presidente del CDEC Giorgio Sacerdoti, arrivato ad accogliere i partecipanti naturalmente a bordo della sua bicicletta.
Il giro è partito questa mattina dai giardini di via della Guastalla, di fronte alla Sinagoga centrale, e ha condotto i ciclisti in luoghi noti e meno noti della Milano ebraica, accompagnati da Rony Hamaui, autore del libro Ebrei a Milano (Il Mulino, 2016), sorprendendoli qua e là da performance teatrali e musicali. Muniti di maglietta e mappa del percorso, il gruppo ha dunque pedalato passando dai chiostri della Società Umanitaria, l'istituto filantropico fondato a Milano nel 1893 da Prospero Moisè Loria, salutato il busto di Luigi Luzzatto alla Banca Popolare di Milano di piazza Meda, ammirato i ritratti di Federico Weil, Otto Joel e Giuseppe Toepliz a Palazzo Marino e raggiunto largo Claudio Treves, dedicato al politico, giornalista e antifascista, che sfidò a duello Benito Mussolini. Tappa successiva alle lapidi sulla casa di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, per poi passare da Palazzo Erba Odescalchi, in Via Unione 5, sede temporanea della Comunità ebraica milanese in attesa che fossero riparati gli edifici danneggiati dalla guerra, e ancora dalla Biblioteca Ambrosiana con i suoi manoscritti ebraici. Prima di arrivare in via Eupili, che è stata anche sede storica della Scuola ebraica della Comunità, i ciclisti sono infine passato davanti alla casa di Claudio Treves, in via San Giovanni sul Muro.

(moked, 19 giugno 2016)


La soluzione definitiva ai tunnel del terrore: un muro (sotterraneo)

Gerusalemme costruirà un muro in cemento al confine con la Striscia di Gaza, onde prevenire le sanguinose incursioni dei terroristi di Hamas in territorio israeliano. Onde prevenire le reprimende dei benpensanti, pacifisti con il corpo degli altri, i vertici militari dello stato ebraico precisano: il muro sarà invisibile, perché sotterraneo. Lo rivela il quotidiano Yediot Ahronot, secondo il quale la barriera difensiva sarà profonda diverse diecine di metri, e costerà poco più di due miliardi di dollari shekel....

(Il Borghesino, 16 giugno 2016)


Villa Emma, un convegno per progettare il Memoriale

 
NONANTOLA - Verrà progettato alle porte di Nonantola un luogo dedicato alla memoria dei 73 ragazzi ebrei accolti e salvati qui, a Villa Emma, a tra il '42 e il '43. Sarà uno dei pochi esempi - e per ora unico in Italia - di "memoriale del bene": una costruzione destinata a custodire e raccontare una delle rarissime pagine positive riguardanti la condizione degli ebrei durante il secondo conflitto mondiale. Ma quale forma e caratteristiche avrà questo luogo? Un convegno, "Davanti a Villa Emma. La costruzione di un luogo per la memoria dei ragazzi ebrei salvati a Nonantola", con esperti italiani e stranieri chiama a raccolta architetti e artisti per fornire spunti e ispirazione in vista del bando che uscirà in autunno. Il sito dove sorgerà è già stato individuato, è Prato Galli lungo via Mavora, proprio davanti a Villa Emma. Oggi alle 15.30, al cinema teatro Troisi, dopo una ricerca durata tre anni la Fondazione Villa Emma vuole presentare i risultati e discutere le tante linee di lettura e di interpretazione di questa vicenda.

(Gazzetta di Mantova, 18 giugno 2016)


Gli israeliani studiano pasta e caffé

Una delegazione israeliana della "Ristretto Company" di Tel Aviv, composta da Guy Arbel, David Ben-David e Itay Omesi si è recata in visita a Suzzara per incontrare l'imprenditore Alessandro..

Una delegazione israeliana della "Ristretto Company" di Tel Aviv, composta da Guy Arbel, David Ben-David e Itay Omesi si è recata in visita a Suzzara per incontrare l'imprenditore Alessandro Aldrovandi della "Casareccia", con il figlio Alessio, oltre a Cesare Tosi della "Caffetteria i Portici". Il motivo? Agli israeliani piace la nostra cucina ed in particolare la pasta fresca, oltre al modo di servire il caffé espresso al bar. Uno scambio cultural-gastronomico per promuovere il nostro stile "Made in Italy".

(Gazzetta di Mantova, 17 giugno 2016)


Impariamo da Tel Aviv, modello produttivo

di Aldo Grasso

In Israele hanno creato «In Treatment» (che in ivrit si chiama «BeTipul» ), hanno creato quel capolavoro assoluto di «Homeland» («Hatufim» ), hanno creato molti altri format di interesse internazionale. Basta andare una volta a Tel Aviv per capire quanta gioventù e quanto fermento creativo rendano unica quelIa terra. Il Paese conta poco piu di 8 milioni di abitanti, eppure è riuscito a imporsi come modello produttivo internazionale. Israele si è consolidato come uno dei Paesi piu avanzati nelI'esportazione di format televisivi, sia in termini di titoli realizzati che di nazioni straniere raggiunte. Ciò e dovuto in particolare a un sistema di colIaborazione tra pubblico e privato che stimola la nascita di case di produzione (anche di piccole dimensioni) e la creatività soprattutto in generi ampiamente «formattizzabili» e commercializzabili come i game-show, i talent, i reality, oltre che naturalmente il mondo del drama e delIa serialita in genere.
   SuI nuovo sito delIa rivista Link. Idee per la tv e uscito uno speciale molto interessante dedicato ai distretti produttivi emergenti e il primo Paese preso in considerazione è stato proprio Israele: «Le case di produzione, i distributori e le format house hanno fatto tesoro delie luci delia ribalta, imponendosi come realtà solide destinate a rimanere; grazie all'intraprendenza di creativi e producer. Tel Aviv e ormai un polo stabile nelIa bussola televisiva internazionale. Gli israeliani hanno saputo far tesoro delia globalizzazione, cercando nei mercati esteri lo spazio che mancava a casa propria». E poi ancora: «Questa abilità di vendere il format come merce, slegata dal luogo di ideazione e dalle regole di mercato locali, ha permesso a Israele di sfondare nel mercato tv globale. Le ripercussioni positive si notano anche tra le pareti di casa: i broadcaster propongono accordi piu equi e hanno aperto nuovi rami di azienda che si occupano di distribuzione».
   E' possibile riprodurre un «fenomeno Israele» anche in Italia? Forse sì, se, come si dice abitualmente, le case di produzione riuscissero a fare sistema. Sì, se il servizio pubblico alimentasse e diventasse volano di start up ideative e produttive. Sì, se i broadcaster imparassero a non considerare solo i confini nazionali come bacino d'utenza ma si affacciassero anche come venditori sul mercato globale, con coraggio e investimenti.

(Corriere della Sera, 18 giugno 2016)


Se l’autore imparasse a non dire Tel Aviv quando si dovrebbe dire Israele o Gerusalemme, anche lui avrebbe imparato qualcosa da “Tel Aviv”. M.C.


Gli ebrei, Venezia e il Ghetto. Uno sguardo lungo 500 anni

LA MOSTRA. Documenti, libri, disegni, oggetti, dipinti e multimedialità A Palazzo Ducale l'esposizione che ricostruisce un microcosmo dolente ed effervescente con regole, cultura, scambi, conflitti, abusi e ritualità.

di Fabio Bozzato

 
Ghetto di Venezia
Uno storico raffinato come Simon Levis Sulla m prende a prestito l'immagine di Vienna del 1900 per definire Venezia «un'esperienza ebraica». Racconta quanto l'ebraicità si fosse sedimentata e avesse plasmato l'intera città (almeno) per tutta la prima metà del XX secolo, esprimendo figure importanti delle classe dirigenti, degli intellettuali, delle professioni e irrorando il disegno urbano e il suo corpo sociale. Venezia è (stata) davvero un'esperienza ebraica. D'altra parte non poteva che essere così. Una manciata di secoli prima, in quel diabolico 1516, l' «Hazzer», il «recinto» come lo chiamavano gli stessi ebrei, vale a dire «il Ghetto», avrebbe marchiato a fuoco per secoli il lessico delle politiche urbane quando devono gestire maggioranze e minoranze culturali, etniche, religiose, nazionali. Nella commovente e testarda resilienza ebraica, quel Ghetto avrebbe dimostrato la possibilità di capovolgere un'infamia sociale e istituzionale in un giacimento cosmopolita e una fonte di bio-politica.
   E' attorno a questo filo rosso, ovvero un organismo urbano come «esperienza ebraica», che si snoda la mostra a Palazzo Ducale, «Venezia, gli Ebrei e l'Europa. 1516 -2016», da domani fino al 13 novembre. Curata da Donatella Calabi, affiancata da un board di studiosi di diverse discipline, la mostra occupa gli appartamenti del Doge con «una ricostruzione attenta e dettagliata della vita degli ebrei dentro e fuori il Ghetto», spiega Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici che l'ha prodotta assieme al Comune, al Comitato per i 500 anni e alla Comunità ebraica (oltre al supporto di Regione, Venice Heritage, Save Venice, Fondazione Venezia e Fondazione Levi, tra le altre).
Dentro le dieci stanze del Doge si snoda un percorso cronologico e didattico (che a volte toglie il respiro immersivo che avrebbe potuto avere) fatto di documenti, libri, disegni architettonici, oggetti preziosi e ricostruzioni multimediali (firmate da Studio Azzurro), oltre ad una serie di dipinti provenienti dai musei cittadini (tra cui tele di Hayez, le sculture di Wildt, il "Rabbino" di Chagall) e stranieri, come i Carpaccio arrivati dal Louvre e da Brera o il Bellini da Besançon.
   Uno sguardo lungo 500 anni. Forse troppo da contenere in dieci stanze. Ma capace di farci inciampare su alcuni nodi inevitabili. La natura della città, ad esempio, che accoglieva tra '400 e '500 come «profughi» gli ebrei in fuga dalla furia cattolica antigiudaica. E li poteva accogliere perché faceva proprio della prossimità tra "foresti" la sua forza.
«L'apertura del Ghetto e la reclusione degli ebrei furono vissuti come male minore - spiega Calabi - E le porte che si chiudevano la sera finirono per trasformarsi in un'incredibile difesa» per la comunità che ci viveva. Non solo perché era un luogo poroso e immerso nel tessuto urbano, ma anche perché «pur nella precarietà dilagante disponeva di poteri e privilegi che gli permettevano di farsi ascoltare e di negoziare con l'esterno», come scrive lo storico Riccardo Calimani.
   Il Ghetto diventava un micro-cosmo allo stesso tempo dolente ed effervescente. E la mostra ne racconta regole, scambi, abitudini, conflitti, abusi e ritualità, ma anche tutto il vigore economico e culturale.
Dopo che le porte del Ghetto furono abbattute e bruciate, Venezia si riconobbe in un'altra esperienza ebraica fin dentro il Novecento. Il plastico di Egle Trincanato, ritrovato allo Iuav (e di recente là esposto), con tutte le costruzioni "moderne" sorte nella città lagunare, rivela la vasta impronta ebraica di famiglie, di committenti e di architetti. Fino a quando arrivò il tempo di una nuova infamia. E qui la mostra non poteva che fermarsi.

(Corriere del Veneto, 18 giugno 2016)


Brexit: la comunità ebraica britannica sceglie la UE

Diversi decenni dopo la tendenza europeista della popolazione ebraica sembra trovare una conferma nelle posizioni assunte nell'ambito della comunità britannica di fronte all'ipotesi di Brexit. Un sondaggio sul tema realizzato dal giornale "The Jewish Chronicle" a metà maggio, ha infatti evidenziato un netto vantaggio a favore della permanenza del Regno Unito nell'Unione Europea, materia che sarà oggetto di referendum il prossimo 23 giugno: 49 a 34 per cento, con una percentuale di indecisi intorno al 17%. Consultazioni sulla popolazione generale del paese nello stesso periodo evidenziavano un margine molto più ristretto (45 a 38). Se i più recenti studi mostrano che il numero di elettori propensi ad esprimere il proprio supporto per la Brexit è in crescita, fino a scendere sotto il punto percentuale di margine tra il sì e il no, ci sono buone ragioni per ritenere che tra gli ebrei d'oltremanica l'europeismo rimanga una tendenza preponderante, specie fra i più giovani (nel sondaggio del "Jewish Chronicle", il 61% della fascia 18-34 ha dichiarato il suo sostegno alla UE).
  "La maggior parte della gente che conosco nell'ambito della comunità voterà per l'Europa - spiega il venticinquenne londinese Daniel Susser - Penso che ci sia un grande supporto per il diritto di muoversi liberamente nel continente e di sentirsene parte, considerando che che gli ebrei stessi sono arrivati qui dall'Europa nel corso dei secoli". Un'altra possibile prospettiva di analisi, continua Daniel, è quella del gruppo sociale di appartenenza: "la maggior parte dei sostenitori di Brexit sono parte dell'élite conservatrice più ricca e aristocratica, oppure all'opposto dei lavoratori meno abbienti e istruiti che hanno una sorta di strana nozione della Gran Bretagna come qualcosa di glorioso senza incontrare mai nessuno che arrivi da un altro paese: gli ebrei tendono a non essere parte di nessuno dei due poli". A riscontrare una netta tendenza a favore del "remain" è anche Sara Hirschhorn, americana trapiantata all'Università di Oxford dove è docente di Studi israeliani. "Ovviamente per me che non sono cittadina europea e non voto, la questione è più lontana. Detto questo, mi pare che il Regno Unito sia già in una situazione ideale: si sono salvaguardati non entrando nella moneta unica e in altre delle istituzioni legate a economia e sicurezza, però ricevono molti benefici che derivano dal fare parte della UE. Per quello che posso osservare comunque, gli ebrei di Oxford sostengono la permanenza nell'Unione".
   Diversi gli articoli del "Jewish Chronicle" che sottolineano come, pur nel clima di incertezza, l'Europa rappresenti una garanzia di sicurezza per la popolazione ebraica britannica e del continente, e come la presenza del Regno Unito possa essere importante per esprimersi su questioni su cui il mondo ebraico è particolarmente sensibile, ad esempio eventuali tentativi di proibire la shechitah (la macellazione rituale). Senza contare i tanti ebrei europei, soprattutto francesi, che si sono stabiliti e continuano a stabilirsi nel paese, in fuga dall'antisemitismo o alla ricerca di migliori opportunità. A riassumere i valori in gioco di fronte allo spettro della Brexit, è poi la European Union of Jewish Students, che ha lanciato una campagna web per promuovere il voto a favore della UE tra i giovani britannici, ma anche volta ad aumentare il livello di consapevolezza di quanto potrebbe accadere in tutto il continente.
  "Come spazio di 28 democrazie, il più grande mercato al mondo, siamo forti se lavoriamo insieme. La Gran Bretagna è rappresentata in molte organizzazioni internazionali nell'ambito di delegazioni europee, che le garantiscono più influenza di quanto non ne avrebbe da sola" si legge per esempio nel sito #cometogether, nella sezione che spiega la necessità di rimanere, dove si illustrano anche motivi legati alla sicurezza, ai diritti umani, alla democrazia, alla libertà di movimento e al supporto all'università e alla ricerca. "La UE è uno dei più vibranti e diversificati gruppi di nazioni, con dozzine di lingue, etnie e religioni. Unisce queste nazioni sotto uno stemma di diversità e rispetto reciproco" - spiega ancora l'EUJS. "Rimanendo al suo interno, la Gran Bretagna può continuare a contribuire a questo serbatoio di diversità e proteggere le minoranze, come quella ebraica, contro la minaccia sempre presente dell'antisemitismo".

(Com. Unica, 17 giugno 2016)


Renault Innovation Lab: il polo tecnologico dell'auto elettrica ad Israele

Dopo la Silicon Valley Renault sbarca a Tel Aviv per fondare un centro ricerche destinato allo sviluppo creativo della mobilità elettrica.

Renault sceglie Tel Aviv per fondare l'Open Innovation Lab, un centro di ricerca creativa e tecnologica il cui lavoro sarà fondamentalmente basato sullo sviluppo di soluzioni e servizi per la mobilità elettrica. La Casa parigina ne ha dato notizia nelle ultime ore e la scelta di aprire un polo tecnologico in Israele non per nulla casuale, Tel Aviv è considerata tra i migliori posti al mondo per lanciare un nuovo progetto.

 Tel Aviv tra i migliori incubatori al mondo
  A cinque anni di distanza dall'apertura del Opel Innovation Lab nella Silicon Valley, l'alleanza Nissan Renault lancia un progetto analogo in Israele. Il nuovo laboratorio di ricerca sorgerà nella Scuola Porter di Studi Ambientali, all'interno di un prestigioso ateneo tecnologico a Tel Aviv. La città affacciata sul Mar Mediterraneo è stata inserita tra i migliori dieci "ecosistemi" nei quali far germinare e far crescere rigogliosamente una start-up (Leggi il connubio tra auto elettrica e start up); nella classifica stilata lo scorso anno dalla società di investimenti Sparklabs Global Ventures l'ex capitale israeliana occupava la terza posizione, preceduta soltanto dalla Silicon Valley e Stoccolma, ponendosi addirittura sopra New York City.

 Ricerca e innovazione per l'elettrico
  I temi e gli obiettivi del centro ricerche israeliano ruoteranno attorno ai veicoli elettrici e al loro sviluppo, passando per la sicurezza informatica delle automobili iper-connesse fino ai servizi post-vendita. Al progetto parteciperanno attivamente l'importatore Renault per Israele Carasso Motors e l'Istituto per l'Innovazione dei Trasporti di Tel Aviv (Leggi Israele è tra i primi Paesi ad aver investito sulle infrastrutture di ricarica). Alla cerimonia di presentazione e inaugurazione del progetto ha partecipato Nadine Leclaire, Senior Vice President ed Expert Fellow Renault, la quale ha dichiarato: "Questa scelta evidenzia l'audacia di Nissan Renault per quanto riguarda l'offensiva di prodotti e servizi, che ora ha la possibilità di attingere allo spirito di iniziativa e le persone di talento nell'ecosistema israeliano. Il successo si baserà su progetti di ricerca e innovazione che sono direttamente applicabili ai nostri prodotti."

 Mobilità fa rima con creatività
  A ritenere adatti l'ambiente e l'atmosfera di Tel Aviv per la buona riuscita del progetto è anche Serge Passolunghi, direttore di Renault Innovation Silicon Valley, il quale ha tenuto a sottolineare: "Questa apertura fa parte della politica dell'Alleanza sulla presenza globale a monte, nella ricerca e l'innovazione. L'ambiente dinamico in Israele è l'occasione che servirà sia a promuovere il veicolo elettrico che a promuovere la creatività sulla mobilità". Durante l'inaugurazione dell'Open Innovation Lab sono state consegnate due vetture elettriche Zoe e Twizy ai nuovi partner israeliani, il professore Dan Rabinowitz, direttore della Scuola Porter, e Eyal Rosner, direttore di Alternative Fuels Administration.

(sicurauto.it, 17 giugno 2016)


Le tecnologie israeliane per la sicurezza negli stadi

Il ruolo preminente di Israele e il dilemma etico dell'Europa

NETANYA - Israele è uno degli Stati leader nella vendita di sistemi di sicurezza, un mercato sempre più in espansione a causa dell'incertezza internazionale dopo gli attacchi arrivati nell'ultimo anno fin nel cuore dell'Europa.
Fre le tecnologie più richieste quelle per il controllo dei grandi eventi, come quelli sportivi, in luoghi affollati, come gli stadi. Aziende israeliane hanno fornito i droni per prtoeggere gli stadi dei Mondiali nel 2014 in Brasile e sono coinvolte nella sicurezza degli europei in corso in Francia.
   "Mctech è specializzata nello sviluppo di sistemi anti droni - dice Ido Bar-Oz, presidente di Mctech - Una delle questioni più urgenti è proteggere gli stadi e i grandi eventi, noi abbiamo la capacità di affrontare tutti questi aspetti: identificazione, accoglienza, neutralizzazione e distruzione".
Il risultato è che nel 2016 Israele si appresta a superare l'Italia nella classifica dei maggiori esportatori di armi e sistemi di sicurezza, con un aumento di richieste dall'Europa; una circostanza che infila l'Unione in un complesso dilemma etico: la stessa Europa critica nei confronti della politica israeliana contro i palestinesi, ora compra le armi usate in alcuni casi per la prima volta proprio nel conflitto contro Hamas del 2014.

(askanews, 17 giugno 2016)


App antisemita, simula la vita degli Ebrei a Auschwitz. Fiano, pd: "Orrore"

Indignata la Comunità Ebraica che proprio domenica, giornata dei ballottaggi per le comunali, eleggerà il nuovo Consiglio dell'Ucei.

di Alberto Custodero

Una app antisemita suscita l'indignazione del web, della politica e della comunità ebraica. Si chiama "Campo di Auschwitz Online". L'applicazione - per il sistema Android - è stata creata dalla Trinit.es, scuola professionale spagnola con sede a Saragozza, capoluogo della regione Aragona. Sulla home compare una grafica sinistra con la stella di Davide, la rotaia ferroviaria che si ferma davanti al lager sul quale campeggia la scritta Auschwitz concentration camp. Come sentinelle, ai lati della porta principale, compaiono due soldati in divisa Wehrmacht. Quindi, l'inquietante messaggio dal significato inequivocabilmente antisemita: "Vivere come un vero Ebreo nel campo di concentramento Auscwhitz".
  L'app ha migliaia di download, e si definisce un gioco di ruolo, anche se non è specificato quale ruolo vien proposto al giocatore virtuale. L'applicazione è scaricabile, si accede fino a un certo punto, accompagnati da una colonna sonora ad hoc. Poi, ad un certo punto, si interrompe e in tanti, tra i commenti, lamentano la mancanza di connessione al server. Forse è persino intasata dai troppi accessi, visto il rimbalzo che l'app ha avuto su tutti i social, compreso Facebook.
  La Comunità Ebraica - che proprio domenica, giornata dei ballottaggi per le comunali, eleggerà il nuovo Consiglio dell'Ucei di cui è presidente da 10 anni Renzo Gattegna - è indignata, a pochi giorni dalle polemiche suscitate dalla pubblicazione, da parte de Il Giornale, del Mein Kampf.
  Proteste anche dalla politica: Fiano (Pd): "Mi fa orrore". Il deputato dem Emanuele Fiano, responsabile Sicurezza Pd, è "rimasto senza parole - ha commentato - a pensare che qualcuno possa inventare, poi scrivere e disegnare e poi vendere, una app ambientata dentro il più grande cimitero della storia del popolo ebraico". "Il lager di Auschwitz - ha aggiunto Fiano - è stato il più grande cimitero della storia del popolo ebraico, oltre che di gay, Rom, disabili, testimoni di Geova e oppositori vari". "Tutto ciò mi fa orrore - ha concluso il parlamentare dem - non smetterò mai di battermi, perché la banalizzazione della storia, che sia mossa da un disegno politico o da ignoranza, venga battuta con ogni mezzo lecito, magari per esempio vietando in Italia questa app".
  I commenti antisemiti. Eppure su Googe Play, criticato per non avere un filtro attivo contro app ritenute offensive, sono rintracciabili commenti antisemiti feroci firmati con nickname da alcuni utenti che dicono di avere provato e persino apprezzato l'app. Messaggi agghiaccianti, come questo: "Le 5 stelle ve le dò quando lo fate funzionare, ero più emozionato di Adolf all'inaugurazione dei campi e invece (bestemmia, ndr), non parte". E, ancora: "Gioco che quando inizi non finisci più, una droga. Il problema é che ogni 20 minuti trovo il forno pieno e devo entrare a togliere la cenere. Invece il personaggio di Hitler é molto realistico.''. E c'è chi dell'ironia si fa scudo per fare passare messaggi inequivocabili: ''Esperienza davvero realistica, da provare sulla propria pelle. Ottima la parte in cui accendi i forni e parte "A ella le gusta la gasolina", chiaro riferimento ad Anna Frank. 5 stelle se è Sammontana".
  "Dico questo perché non abbiamo a che fare con un pay-to-win capitalista, ma di un vero e proprio fiore all'occhiello del panorama videoludico odierno. Il comparto tecnico è semplicemente sublime, forte di un utilizzo impeccabile della Unreal Engine 4 Mobile e di un team di sviluppo rinomato a livello mondiale. La lore è molto ben curata, caratterizzata da una sofisticata ironia presente per tutta la durata del titolo (quando Anna Frank ha iniziato a scalciare ho tipo sputato un polmone dal ridere!). SS/10", si legge infine per mano di un giocatore (e sviluppatore?) più esperto.
  Si possono leggere persino consigli per implementare l'app, come questo: "Si dovrebbe cambiare la stella con una svastica... poi la grafica non è delle migliori e spesso va in crash, la durata del gioco è complessivamente un po' corta ed amplierei un po' le camere a gas e si dovrebbe aggiungere un Mussolini al posto della guardia con cui chiacchiera Hitler ma per il resto è un gioco fantastico".
  Cdec: "In crescita antisemitismo online". Per il Centro di documentazione ebraica contemporanea (con sede a Milano), preoccupa l'antisemitismo in rete, "dove è più facile origliare quel che si muove nella pancia del Paese, dove sempre più evidenti sono i rigurgiti antisemiti e antisionisti, con il ritorno di pregiudizi e stereotipi pesanti, caricature di profili ebraici simili a quelli che circolavano nella Germania nazista. E anche quando si denunciano i contenuti pericolosi ai gestori dei social network o dei siti Internet solo nel 20 per cento dei casi si riesce ad ottenerne l'oscuramento o la rimozione".

(la Repubblica, 17 giugno 2016)


"Benzina sigarette appalti e corruzione". Le mani su Ramallah del clan Abu Mazen

di Fabio Scuto


Secondo l'ultimo sondaggio "per due pale- stinesi su tre dovrebbe dimettersi". Per gli oppositori: "in quattro anni qui sono spariti 1,3 miliardi di dollari". "II presidente e come un albero nel vento con le foglie che volano ovunque: pensa che la gente lo ascolti ma nessuno gli presta piu attenzione".


«La vedi questa sigaretta?», domanda il mio interlocutore mentre soffia via anelli di fumo seduto a un caffè di Piazza Al Manar, «è importata in esclusiva da Falcon, una società che appartiene al figlio del raìs. Anche il cellulare che ho in tasca è di una compagnia di un figlio del raìs, e pure la stazione di servizio dove oggi ho messo la benzina. Ci sono persone che stanno facendo un sacco di soldi con la crisi israelo-palestinese».
   Soffocata dalla corruzione, abbandonata a se stessa nelle sue speranze di negoziati, dilaniata dalle divisioni interne, l'Anp affonda rapidamente. Il domani appare assai incerto, al punto da preoccupare seriamente anche i Paesi arabi da sempre vicini ai palestinesi come l'Egitto, l'Arabia saudita, la Giordania. L'ultimo sondaggio in Cisgiordania dice che per 2 palestinesi su 3 Abu Mazen dovrebbe dimettersi, il 95,5% considera l'Amministrazione profondamente corrotta e deve essere mandata a casa. Ma non si vota — per le divisioni fra Gaza amministrata da Hamas e la Cisgiordania gestita da Fatah — non c'è un delfino e il "dopo" sarà una lotta a coltello.
   Amici, nemici, veleni, complotti, cordate e dollari. Molte trame si intrecciano a Ramallah, la città è piena di voci, indiscrezioni, sussurri. Che portano tutti nella stessa direzione: è iniziata la fine dell'Era Abu Mazen, le sue 82 primavere e una pericolosa deriva nepotista marcano tristemente "l'autunno del Patriarca". Con metodo, negli ultimi due anni, Abu Mazen ha allontanato tutti i suoi critici e tutti i suoi possibili successori, governando per decreti (tanto il Parlamento palestinese ha cessato di esistere da anni). In 10 anni al potere Abu Mazen non è riuscito a dare ai palestinesi uno Stato e l'occupazione della Cisgiordania da parte di Israele entra nel suo 50o anno.
   Un'area residenziale fatta di villette con giardini fioriti e ben curati a nord della "capitale de facto" della Palestina, può aiutare a spiegare i motivi per i quali i palestinesi credono che il governo sia profondamente corrotto. Il "Compound diplomatico" sorge su terreni acquistati dall'Anp e concessi a basso costo, progettato per i membri del corpo diplomatico ha poi incluso alti boss della Muqata, ufficiali dei servizi di sicurezza, funzionari di Fatah e qualche privato — ma ricco — cittadino. Milioni di dollari sono usciti dal Fondo nazionale Palestinese — la cassaforte delle donazioni dei Paesi arabi amministrato da Abu Mazen — destinati a questo e altri progetti che premiano con privilegi speciali solo i fedelissimi del raìs. Hanan Ashrawi, ex ministro e unica donna nel Comitato esecutivo dell'Olp, dice che «la percezione della gente è esagerata e la corruzione non è così elevata». «Certo», conviene però, «il silenzio dei funzionari e l'insoddisfazione diffusa aggravano i problemi di immagine» e la gente guarda la leadership con un occhio molto negativo. «E' raro trovare qualcuno che ha ottenuto il posto di lavoro sulla base delle qualifiche», dice il giovane Diaa, che una laurea in Economia aziendale ma lavora come cameriere in questo esclusivo ristorante di Ramallah, inaccessibile per la maggior parte degli abitanti della città perché ben pochi possono pagare il conto. Ma se volete pescare, due-tre ministri, qualche capo dipartimento, boss delle agenzie di sicurezza, maggiorenti, amici degli amici, basta venire qui dopo le 22.
   Una ricerca di qualche anno fa ha rivelato come dalla firma degli accordi di Oslo (1995) l'Anp abbia ricevuto 25 volte gli aiuti pro-capite che gli europei ricevettero con il Piano Marshall dopo la Seconda Guerra mondiale. Sui fondi destinati all'Anp la Banca mondiale esercita un controllo perché deve certificare i bilanci ma sul Palestinian National Found il potere discrezionale del Presidente è totale. Quando Salam Fayyad era premier — prima che Abu Mazen lo cacciasse perché gli faceva ombra — faceva certificare da Trasparency International anche il Fondo palestinese d'investimento, ma da quando il raìs ne ha assunto il controllo non si è visto più un bilancio. Però nel frattempo si è impennata vertiginosamente la quantità di berline nere Mercedes — è l'auto che fa il boss — in giro a Ramallah. Gli oppositori del presidente sostengono con Repubblica che dal 2012 mancano all'appello 1,3 miliardi di dollari e nessuno sa dove siano finiti. I nemici giurati del presidente come l'ex delfino di Arafat Mohammed Dahlan, che vive negli Emirati dopo che Abu Mazen ha cercato di eliminarlo, punta il dito sulle proprietà private del raìs e della sua famiglia.
   Se dovessimo definire l'attuale forma-Stato dell'Anp forse la definizione più calzante sarebbe Cleptocrazia. Per molti, troppi anni, politici e diplomatici non hanno prestato sufficiente attenzione alla corruzione nelle aree palestinesi, alla violazione dei diritti umani. L'occupazione israeliana non può essere sempre una giustificazione per corruzione e malgoverno. E' stata colpevolmente ignorata la crescente frustrazione nelle strade palestinesi per la cattiva gestione dell'Olp. La rabbia esplosa nei mesi passati in Cisgiordania e a Gerusalemme non era solo contro l'occupazione militare ma anche contro questa Anp senza futuro.
   In queste strade dove per mesi sono scesi in piazza gli insegnanti per vedersi elevare lo stipendio da 2.500 shekel (500 euro) a 3.000 (600 euro) mentre gli "amici" si portano a casa 10.000 dollari al mese, è difficile trovare un sostenitore del presidente. Il suo isolamento aumenta: «E' come un albero nel vento con le foglie che volano dappertutto, lui pensa che la gente lo ascolti, ma nessuno lo ascolta più», spiega a Repubblica un ex aiutante alla Muqata.
   Gli israeliani sono estremamente preoccupati per quanto accade a Ramallah. «Un'Anp sempre più debole è una seria minaccia alla stabilità», ragiona a voce alta Gilad Erdan, ministro israeliano della Sicurezza Pubblica e degli Affari Strategici. Ma lo sono ancora di più i vicini arabi, temono che un vuoto politico in caso di uscita di scena di Abu Mazen metta il potere nelle mani Hamas. Ecco perché in maniera sempre più palese stanno dando sostegno finanziario agli oppositori del raìs, specie a Mohammed Dahlan. Si discute anche di una possibile leadership collettiva per gestire il dopo-Abbas con Nasser al Kidwa — nipote del venerato raìs Arafat, ex ministro degli Esteri e ex ambasciatore all'Onu — al fianco di Majid Faraj (capo dei servizi segreti) e l'ex premier Salam Fayyad, molto rispettato in Europa e Usa. Ma circolano anche altri nomi. Marwan Barghouti, il leader in cella da 17 anni con cinque ergastoli, è un candidato di bandiera senza chances. C'è anche Jibril Rajoub — ora capo del comitato olimpico ma ex capo della sicurezza palestinese — che sostiene di avere il sostegno del Qatar. Non sarà un passaggio di potere privo scossoni, sarà un regolamento di conti.
   
(la Repubblica, 17 giugno 2016)


Condannnato ex nazista di 94 anni

Era una delle guardie naziste che controllavano il campo di concentramento di Auschwitz.

Oggi ha 94 anni di età ed è finito sotto processo con l'accusa di crimini contro l'umanità. Si chiama Reinhold Hanning, reo di complicità nella morte di 170mila ebrei ungheresi durante il conflitto mondiale. Il processo è durato quattro mesi nei confronti di quello che probabilmente è l'ultimo nazista ancora in vita; per l'accusa l'uomo aveva la responsabilità di scegliere chi era in grado di lavorare e chi dovesse invece morire. Lui ha sempre detto di non aver mai ucciso nessuno personalmente e si è dichiarato "dispiaciuto" di non aver fatto nulla per impedire tutte quelle morti: "Deploro profondamente il fatto di essere stato membro di un'organizzazione criminale, responsabile della morte di tanti innocenti e della distruzione di innumerevoli famiglie". Al processo erano presenti alcuni sopravvissuti tra i prigionieri che lo hanno riconosciuto. Oggi è arrivata la sentenza: cinque anni di carcere.

(ilsussidiario.net, 17 giugno 2016)


Il premio Giusto fra le Nazioni a due eroi elbani

Rafael Erdreich dell'Ambasciata d'Israele sar? all'Elba per consegnare la medaglia alla memoria di Giulio Vittorio Della Lucia e Isabella Puccini Bigi.

 
CAPOLIVERI — Una giornata evento quella che attende il comune di Capoliveri il prossimo lunedì 20 giugno. Nella sala delle adunanze del municipio, alla presenza del sindaco Ruggero Barbetti e delle autorità locali, il Ministro Consigliere dell'Ambasciata di Israele in Italia Rafael Erdreich consegnerà la medaglia di Giusto fra le Nazioni alla memoria dei cittadini Giulio Vittorio Della Lucia e Isabella Puccini Bigi che rischiarono la propria vita per salvare gli ebrei durante la Shoah.
   Un'alta onorificenza quella che verrà conferita il 20 giugno a Capoliveri, che ha origine con la nascita dell'Istituto per la Memoria dei Martiri e degli Eroi dell'Olocausto Yad Vashem, istituito dal Parlamento Israeliano nel 1953 per commemorare i sei milioni di ebrei assassinati dai nazisti e dai loro collaboratori, con lo scopo di tramandare la memoria dell'Olocausto alle future generazioni.
   I Giusti fra le Nazioni sono gli eroi per lungo tempo anonimi che negli anni delle leggi razziali e delle deportazioni nei campi di sterminio non esitarono a mettere rischio la propria vita per salvare uno o più ebrei dalla deportazione e dalla morte certa, senza alcun beneficio personale.
   Nel 1962 presso lo Yad Vaschem a Gerusalemme, fu inaugurato il Viale dei Giusti dove vengono piantati alberi in loro onore e memoria. Dal 1963 ad oggi sono stati proclamati quasi oltre 23.000 Giusti. In Italia oltre 500. Un albero in memoria di Giulio Vittorio Della Lucia e Isabella Puccini Bigi sarà presto piantato nel Viale dei Giusti per onorare il loro gesto durante la Shoah.
Lunedì 20 giugno alle 10,30 la consegna della medaglia ai familiari, eredi dei salvatori e le testimonianze dei salvati.

(Qui News Elba, 17 giugno 2016)


Fonte israeliana, la prossima guerra con Hamas sarà l'ultima

GERUSALEMME - La prossima guerra tra Israele e Hamas a Gaza sarà l'ultima per il gruppo islamista: lo ha detto una fonte di alto livello del ministero della Difesa israeliano citata dal quotidiano "Jerusalem Post", sottolineando però che non sarà Tel Aviv a dare inizio alle ostilità. Israele non ha alcun desiderio di controllare la Striscia di Gaza, ma non tollererà una "guerra di logoramento" senza fine da parte di Hamas, ha aggiunto la fonte. Queste dichiarazioni arrivano dopo che alti funzionari militari hanno apportato modifiche all'obiettivo delle Forze di difesa israeliane in un eventuale conflitto a Gaza. In caso di nuove ostilità, infatti, le forze armate israeliane punteranno alla distruzione dell'ala militare di Hamas. Tuttavia, i piani delle Forze di difesa israeliane contemplano la sopravvivenza dell'ala politica di Hamas affiancata una forza di polizia.

(Agenzia Nova, 17 giugno 2016)


Yaalon: sfiderò Netanyahu alle prossime elezioni

A poche settimane dal suo allontanamento dal vertice del ministero della difesa da parte di Benyamin Netanyahu per far posto ad Avigdor Lieberman, l'ex ministro Moshe Yaalon ha annunciato di voler contendere al premier la leadership di governo nelle prossime elezioni politiche. Ed oggi alla Conferenza di Herzliya ha attaccato il premier sostenendo che questi sta cercando "cinicamente" di mettere paura ai cittadini israeliani riguardo le minacce alla sicurezza in modo da distrarli dagli altri problemi in Israele."Il programma nucleare dell'Iran, messo in ghiaccio dai recenti accordi, non costituisce - ha detto, citato dai media - una minaccia imminente all'esistenza di Israele". "Per questo, sarebbe meglio che la leadership in Israele - ha aggiunto - la smettesse di mettere paura ai cittadini e la finisse di dire loro che siamo alle soglie di un secondo Olocausto".

(ANSAmed, 16 giugno 2016)


Israele - Attacchi informatici arrivati a due milioni al giorno negli ultimi quattro anni

GERUSALEMME - Il numero di attacchi informatici ai computer che gestiscono le infrastrutture critiche israeliane è passato da alcune centinaia o migliaia al giorno a due milioni al giorno negli ultimi quattro anni. Lo ha dichiarato il professor Isaac Ben Israel, direttore del centro di ricerca cibernetica Blavatnik dell'Università di Tel Aviv, nel corso di un'intervista rilasciata al sito d'informazione finanziaria israeliano "The Maker".
   "Ogni giorno scopriamo tra i 200 mila e i due milioni di tentativi di attacchi informatici in Israele ai danni di infrastrutture critiche, come quelle idriche, elettriche e ferroviarie", ha detto Israel, precisando che "sono ben protette". L'esperto ha evidenziato che in "pochi casi" i pirati informatici hanno acquisito informazioni sensibili, sebbene non siano riusciti a causare danni oppure interruzioni del servizio.
   "Soprattutto negli ultimi due anni, abbiamo imparato ad identificare i paesi da dove provengono gli attacchi, le organizzazioni criminali e le agenzia di intelligence che li sostengono, oltre al livello di minaccia rappresentato e i loro obiettivi".
   Il prossimo 19 giugno a Tel Aviv si apriranno i lavori della sesta conferenza internazionale annuale sul sicurezza informatica. La conferenza, che si concluderà il 23 giugno, è organizzata dal centro Blavatnik, dallo Yuval Ne'eman Workshop for Science, Technology and Security, dall'università di Tel Aviv, dall'Israeli National Cyber Bureau e dall'ufficio del primo ministro.
   In un articolo apparso su "Globes" ad aprile, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che "il potere di Israele nel campo della scienza e della tecnologia è la creazione di una grande opportunità per posizionarci in prima linea nell'innovazione cibernetica". Il premier ha precisato che Israele è stato uno dei primi paesi a prepararsi sistematicamente e con determinazione per questa sfida. "Cinque anni fa, ho impostato l'obiettivo di rendere Israele una delle cinque principali potenze informatiche globali - ha aggiunto Netanyahu -. Siamo già ad altissimi livelli e il mondo ci considera come una potenza in ascesa, migliorare le nostre capacità nel campo informatico richiede uno sforzo continuo". Il governo israeliano è impegnato in diversi progetti per affrontare la sfida cibernetica.

(Agenzia Nova, 16 giugno 2016)


Sicurezza informatica, nomi e programmi della Cyber Week 2016

L'appuntamento in Israele dal 19 al 23 giugno

ROMA - In un mondo ormai basato sull'informatica in rapida crescita, l'informazione e i sistemi informatici si sono evoluti, portando nuove opportunità, ma allo stesso tempo esponendo istituzioni, imprese e cittadini ad un rischio costante. Sarà questo uno dei temi centrali della Cyber Week 2016, uno dei più importanti eventi cyber dell'anno che si terrà in Israele dal 19 al 23 giugno.
   Nell'arco dei giorni sono previsti 25 eventi distinti e, dicono gli organizzatori, si attende la presenza di circa 5mila partecipanti. La Cyber Week è realizzata anche in associazione con l'Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane (Ice).
   L'evento principale del'appuntamento è la Sesta conferenza annuale sulla Sicurezza informatica internazionale che si terrà nel Smolarz Auditorium all'università di Tel Aviv. La conferenza è a cura del Centro di Ricerca Cibernetica interdisciplinare Blavatnik (Blavatnik Interdisciplinary Cyber Research Center, Icrc), del Workshop Yuval Ne'eman per la scienza, tecnologia e sicurezza (Yuval Ne'eman Workshop for Science), del Dipartimento informatico nazionale israeliano (Israeli National Cyber Bureau), dell'Ufficio del Primo ministro e delll'Università di Tel Aviv, in collaborazione con il ministero degli Esteri.
   La conferenza unirà esperti informatici di livello internazionale, legislatori, accademici e ricercatori, ufficiali di sicurezza e diplomatici stranieri, per discutere degli effetti, degli sviluppi e dei problemi dell'era informatica e le prospettive future in ambito commerciale, accademico, tecnologico, economico e della sicurezza.
   Tra gli speaker della Cyber Week 2016 ci saranno: Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele; il generale Herzi Halevi, Chief of Defense Intelligence dell'Idf; Eviatar Matania, capo dell'Israel National Cyber Directorate; Buky Carmeli, capo della National Cyber Security Authority; il professor Isaac Ben-Israel, director del Blavatnik Interdisciplinary Cyber Research Center (Icrc) dell'università di Tel Aviv; il professor Joseph Klafter, presidente dell'università di Tel Aviv; Alejandro N. Mayorkas, vice segretario dell'Homeland Security Usa; James Andrew Lewis, senior fellow del Center for Strategic and International Studies (Csis); ed altri esponenti istituzionali e del settore privato di diversi Paesi nel mondo.

(askanews, 16 giugno 2016)


I segreti di Moro: Libia e palestinesi dietro stragi Ustica e Bologna

Senatori della Commissione Moro hanno potuto leggere documenti ancora top secret: Fplp dietro gli attentati all'aereo e alla stazione.

Tolto il velo, viene fuori di tutto. La direttiva di Matteo Renzi, che ha permesso di decriptare migliaia e migliaia di documenti segreti sulle stragi italiane, potrebbe fare chiarezza su tanti episodi della storia italiana. Uno su tutti: Aldo Moro, le sue carte, il Sismi e Beirut.
   Il documento è del febbraio 1978, un mese prima della strage di via Fani, in cui si scrivono le modalità del Lodo Moro (l'accordo informale tra Italia e Palestina del 1973, con il nostro Paese che sostiene la lotta palestinese e Olp e Fplp che si impegnano a non compiere atti terroristici contro l'Italia e gli obiettivi italiani). La commissione Moro ha potuto leggere il carteggio del 1979 e del 1980, che ha ancora il timbro di 'segretissimo'. E ha trovato novità esplosive, non ancora divulgabili. Ecco perché gli stessi parlamentari sperano che Renzi decida di rendere pubblica anche questa parte di documenti.
   In un'interpellanza, Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio, scrivono: "E' davvero incomprensibile e scandaloso che, mentre continuano in Italia le polemiche e i dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell'abbattimento del DC9 Itavia, a Ustica, nel giugno del 1980, l'opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e, più in generale, degli attentati che insanguinarono l'Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980".
   I tre senatori, sotto scorta e in luogo super segreto - senza possibilità di fotocopiare o fotografare con il cellulare - hanno potuto leggere queste carte che scottano, tra Roma e Beirut, con il colonnello Stefano Giovannone - miglior 007, mai schierato in Medio Oriente - in primo piano. I documenti trovati paiono confermare la pista libico-araba per Ustica e Bologna. "Il terribile e drammatico conflitto tra l'Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980". Che poi è la giornata della strage di Ustica.
Due anni prima, c'è un messaggio destinato a ministro degli Interni, servizi segreti italiani e alleati: si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi Fplp, starebbe pensando proprio all'Italia come possibile obiettivo di un'operazione terroristica. La tregua del 1973 è terminata.

(Italy Journal, 16 giugno 2016)


Casinò a Eilat, no del ministro delle Finanze israeliano

Il ministro delle Finanze israeliano si oppone al progetto del premier Netanyahu di casinò a Eilat.

 
Se il premier israeliano Benyamin Netanyau spinge per aprire da uno a quattro casinò a Eilat, deve però vedersela con i membri della coalizione di governo, visto che non tutti la pensano allo stesso modo.
   Nel febbraio scorso, il primo ministro aveva autorizzato il ministro del turismo Yariv Levin a studiare un progetto e la scorsa settimana quest'ultimo ha tenuto i primi colloqui per valutare le modalità operative dei casinò, incluse le limitazioni all'accesso da parte dei residenti.
   Tali piani sono stati pubblicamente criticati lunedi da Moshe Kahlon, ministro delle Finanze di Netanyahu. Kahlon apparteneva al partito Likud di Netanyahu, ma ora guida il partito politico Kulanu di centro, che detiene 10 posti nei 61 posti di governo della coalizione di Netanyahu nel Knesset da 120 posti di Israele, quindi è complicato.
   Un arrabbiato Kahlon ha detto in una conferenza stampa che Israele "non ha bisogno di casinò. Ha bisogno di fornire istruzione, valori e posti di lavoro - non un casinò". Mentre Kahlon è noto da tempo per opporsi all'autorizzazione di casinò, questa è la prima volta che ha pubblicamente espresso questi punti di vista.
   Kahlon ha sottolineato che il suo ministero aveva da poco iniziato il giro di vite sulla presenza di slot machine nei negozi del monopolio della lotteria locale Mifal Hapayis. Ci sono 150 negozi che offrono slot e, come i terminali di scommesse a quota fissa nei negozi di scommesse del Regno Unito, le macchine israeliane sono sotto tiro per la loro presunta tendenza a riunirsi in negozi situati nei quartieri più poveri.
   Mifal Hapayis richiede agli utenti di slot di acquistare carte prepagate che possono essere caricate con un massimo di 50 shekel (13 dollari), ma non ci sono limiti al numero di carte che un cliente può acquistare. Il mese scorso un rapporto su Haaretz aveva sostenuto che Mifal Hapayis ottiene il 9% del suo fatturato annuale dalle slot ma tra un quarto e un terzo dei suoi profitti.
   Kahlon ha detto che il suo ministero la scorsa settimana "ha deciso di porre fine alle slot machine e alle corse di cavalli - attività di gioco che rovinano le famiglie". Kahlon ha detto che, della questione delle slot, "si era parlato per anni e abbiamo deciso di agire; presto le rimuoveremo e Mifal Hapayis può rottamarle per quanto mi riguarda".

(gioco news, 16 giugno 2016)


Israele progetta la costruzione di un muro attorno a Gaza

Israele progetta di costruire un muro di protezione di decine di metri lungo tutto il confine con la Striscia di Gaza, sia sopra che sotto terra. Lo rivela il quotidiano Yediot Ahronot secondo cui il costo dell'opera si aggira attorno ai 2,2 miliardi di shekel (oltre 600 milioni di euro).
Il muro - ha scritto sul giornale Nahum Barnea - si estenderà lungo le 60 miglia (circa 96 chilometri) della frontiera con Gaza nel sud di Israele e intende proteggere il paese dalle infiltrazioni e dai tunnel costruiti da Hamas per penetrare nel territorio dello stato ebraico.

(swissinfo.ch, 16 giugno 2016)


Le evoluzioni delle relazioni internazionali russo-israeliane

di Maria Grazia Labellarte

 
Analizzando le dinamiche della storia delle relazioni russo-israeliane, scopriamo quanto siano complesse e forse più di altre ricche di spunti e affascinanti. Nel 1948 l'U.R.S.S sostenne la creazione dello Stato di Israele, relazioni che si interruppero più tardi quando la Guerra dei sei giorni e quella del Ramadan, rispettivamente nel 1967 e nel 1973 cambiarono il corso della Storia in Medio Oriente.
   Nel ventunesimo secolo lo scenario politico internazionale ha visto un confronto serrato tra le due nazioni non immune da tensioni e diffidenza reciproca ma comunque segnato dalla volontà di mutuo supporto. Nell'aprile del 2005 Vladimir Putin fu il primo presidente russo a visitare Israele, con conseguente visita al Muro del pianto, luogo sacro e al tempo stesso simbolo del giudaismo.
   L'evento si è ripetuto il 27 giugno del 2012, suggellato dalla visita ufficiale di Netanyahu a Mosca il 7 giugno di quest'anno, 25o anniversario della ripresa delle relazioni. Se le prime visite erano legate ad aspetti formali e in qualche modo ideologici, nell'ultimo incontro particolare attenzione è stata rivolta alle questioni concernenti la cooperazione bilaterale.
   Analizzando gli aspetti geopolitici degli ultimi anni è inevitabile esaminare la posizione di entrambi i Paesi nel quadro del conflitto siriano.
   L'intervento russo a favore del presidente Bashar al-Assad, e il conseguente potenziamento di basi militari russe in Siria ha inevitabilmente obbligato la politica estera israeliana a confrontarsi con le mosse sul campo di Vladimir Putin.
   Sin dai primi tempi della guerra in Siria è stato chiaro l'intento israeliano di non intervenire direttamente ma al tempo stesso di cautelarsi dal possibile rafforzamento dei suoi nemici storici: prima esigenza di Tel Aviv era evitare il passaggio e il trasferimento di armi dall'Iran allo spauracchio israeliano di sempre, Hezbollah. Dall'inizio della guerra in Siria infatti, numerosi sono stati i convogli di armi destinati al Partito di Dio colpiti dall'aviazione israeliana sia in territorio libanese che in territorio siriano. Se a questi eventi concreti aggiungiamo la grande preoccupazione di Israele riguardo la vendita da parte di Mosca dei sistemi terra-aria S-400, si comprende bene il motivo dell' interesse di Tel Aviv a mantenere stabili i rapporti con il Cremlino.
   Gli S-400 hanno dimostrato di essere estremamente efficaci, al punto da intaccare il dominio assoluto dei cieli dell'aviazione israeliana nell'intera regione, limitandone di fatto la capacità operativa sullo spazio aereo siriano.
   Tuttavia, nel settembre 2015 a seguito della visita di Netanyahu a Mosca, lo stesso primo ministro israeliano ha dichiarato di aver concordato un meccanismo in grado di prevenire possibili frizioni future tra i due Paesi, ribadendo che Israele e Russia hanno molti interessi comuni in Medio Oriente, garanzia per uno scenario di pace e stabilità.
   Spostandoci sul fronte ucraino, una posizione defilata ma al tempo stesso chiara è stata presa da Israele a favore della Russia in sede ONU. L'astensione dal voto sulla Risoluzione delle Nazioni Unite che condannava l'annessione della Crimea e la politica russa in Ucraina, ha sorpreso gli stessi Stati Uniti, aumentando ulteriormente il già evidente divario tra le scelte di Tel Aviv e le politiche mediorientali di Washington.
   Risulta evidente che Israele, nel tentativo di colmare il vuoto politico creato dall'amministrazione Obama nell'ultimo decennio in tutta la regione, non disdegna un miglioramento sensibile delle relazioni con la Russia di Vladimir Putin, partner strategico ormai in molti settori. Il comune nemico islamista potrebbe essere la base per lo sviluppo dei nuovi assetti futuri.

(Difesa Online, 16 giugno 2016)


Il disertore svela i tunnel di Hamas

di Giordano Stabile

Israele mette a segno un altro colpo nella battaglia contro i tunnel di Hamas. Un alto ufficiale delle Brigate Izz ad-Din al-Qassam, l'unità di élite di Hamas, ha disertato e si è consegnato all'esercito israeliano. E ha portato con sé un computer con le mappe delle gallerie che attraversano tutta la Striscia e sbucano in territorio nemico.
   La notizia è stata fatta filtrare da siti Web vicini ad Al-Fatah, il partito rivale palestinese cacciato da Gaza dal colpo di mano di Hamas nel 2007. Israele non ha commentato né smentito. Secondo la tv israeliana Channel 2, Baraka era incaricato dell'addestramento dei commandos che in caso di guerra dovrebbero colpire attraverso i tunnel.
   Baraka è figlio di un importante giudice religioso di Khan Younis, nel Sud della Striscia. Ha detto ai famigliari che andava a fare una camminata. Invece si è diretto verso il confine e si è consegnato a due soldati che lo stavano aspettando. Due settimane fa l'esercito aveva rivelato che i combattenti di Hamas potevano «attraversare tutta la Striscia» muovendosi sotto terra.
   Una delle priorità strategiche delle forze armate israeliane (Idf) è distruggere questa rete sotterranea. Israele ha sviluppato una tecnica segreta, probabilmente basata su microsismi indotti per individuare i tunnel. Lo scorso 18 aprile ha permesso di scoprire una galleria a 30 metri di profondità che sbucava a Nord della Striscia.
   Ma l'Idf lavora anche per ottenere informazioni dagli uomini di Hamas. Negli ultimi mesi ha catturato due miliziani. L'ultimo, un diciassettenne, ha fornito «informazioni utili» sulle attività del gruppo nei tunnel, le tecniche usate per scavarli, i percorsi di emergenza, i pozzi di accesso e uscita. Dalle informazioni ricavate risulta che Hamas sta usando misure precauzionali rigidissime. Gli operai devono per esempio fare la doccia e cambiarsi quando escono dalla gallerie, per non essere individuati da spie o droni.
Hamas avrebbe ottocento lavoratori, impiegati 24 ore al giorno su turni di sei ore. Gli investimenti sono stimati in decine di milioni di dollari all'anno. Israele ha speso invece in due anni 250 milioni di dollari per le contromisure.

(La Stampa, 16 giugno 2016)


Le regole del gioco in Medio Oriente secondo l'intelligence IDF

di Graziella Giangiulio

Il generale Herzi Halevi
HERZLIYA - Il generale Herzi Halevi, capo dei servizi segreti militari interno a Idf, ha parlato il 15 giugno alla Conferenza di Herzliya 2016.
   Tema del suo intervento, riporta Arutz Sheva7, era "Israele in un turbolento Medio Oriente: Riesame strategico e valutazione di intelligence". «Se i nostri nemici fossero stati a conoscenza delle nostre capacità militari si sarebbero risparmiati un altro conflitto», ha detto il genenrale.
   Halevi (nella foto) ha discusso delle sfide e opportunità di Israele nel Medio Oriente odierno: «Vorrei descrivere le regole del gioco in Medio Oriente. Ci sono un sacco di persone che vivono in Medio Oriente senza elettricità; guardando il Pil pro capite o il tasso di disoccupazione è evidente che si sono formate molte grandi lacune tra noi e i nostri vicini. Questo fatto non dovrebbe renderci felici (...) Un Medio Oriente povero è un focolaio per le organizzazioni terroristiche. Le regole del gioco in Medio Oriente sono cambiate. Invece di pochi stati, ora ci sono molti giocatori. Il passaggio da Stati nazionali a organizzazioni è molto significativo. Non ci sono buoni e cattivi, i giocatori in campo cambiano la loro identità». Halevi ha continuato a discutere dei nuovi modi in cui i conflitti e le guerre prendono forma nel Medio Oriente, in una dinamica di escalation: «Viviamo in un'epoca in cui è più probabile che inizino le guerre, anche se nessuna delle due parti è interessata a farle». Per quanto riguarda l'Iran, il generale ha detto: «L'accordo nucleare è stato un grande risultato per l'Iran, gli ha permesso di essere accettati tra le nazioni del mondo e crediamo che lo onoreranno per i primi anni Nel contempo, l'Iran sta facendo grandi sforzi (...) contro Israele l'Iran sostiene le tre minacce principali di Hamas, Hezbollah e Jihad islamica; infatti, sostengono il loro 60 per cento ed è una nazione sciita a dare soldi ad una organizzazione sunnita, che vuole "ferire" Israele». Halevi ha poi discusso del confine settentrionale di Israele, in particolare dei problemi del Libano e di Hezbollah: «Non abbiamo alcuna intenzione offensiva in Libano. Noi non vogliamo una guerra, ma siamo pronti se ne scoppiasse una (...) Nessun esercito ha mai avuto più intelligence su i loro nemici come facciamo su Hezbollah oggi (...) Il prossimo conflitto non sarà facile. Hezbollah sta subendo gravi perdite in Siria, ma fa anche esperienze e ottiene risultati significativi, e in questo processo si impara molto e ottenere l'accesso a nuovi mezzi di combattimento (... ) L'Iran sta inviando armi a Hezbollah, di cui una parte va in Siria, e un parte restano in Libano; le industrie siriane hanno ripreso la produzione di armi per Hezbollah, e né il mondo, o Israele dovrebbero accettarlo. Potrebbe da qui crearsi il conflitto successivo (...) Sono sicuro che, se Nasrallah o uno dei nostri nemici, conoscesse le nostre capacità militari, non rischierebbe un nuovo conflitto».

(AGC, 16 giugno 2016)



Parashà della settimana: Beha'alotecha (Far salire)

Numeri 8:1-12:16

 - Beha'aloteca significa ''far salire'' la fiamma nei lumi del candelabro, che è stato tradotto con il termine di ''accendere''. Era Aronne il gran sacerdote ad accendere i sette lumi nel Tabernacolo in modo che questi illuminassero la parte anteriore del candelabro, dalla sera al mattino, come il Signore aveva ordinato a Moshè.
  ''Far salire'' vuol dire che il sacerdote deve dare la scintilla per accendere i lumi, ma la fiamma deve salire con la sua propria forza, in riferimento all'uomo che una volta ''iniziato'' deve lavorare su stesso per raggiungere la perfezione.
  La nostra parashà riguarda ''la seconda Pasqua, il passaggio delle quaglie , la donna etiope''.
  ''Vi furono degli uomini resisi impuri per causa del contatto con un cadavere e non poterono partecipare al sacrificio pasquale'' (Numeri 9:6)
  La celebrazione della Pasqua è il cardine della tradizione ebraica perché ricorda l'uscita del popolo ebraico dalla terra d'Egitto dalla casa di schiavitù verso la libertà.
  E' chiamato Seder Pesah dove si mangia il pane azzimo perché non aveva avuto tempo di lievitare ed è lo stesso Seder che Gesù con i suoi apostoli celebrò nel Getzemàni conosciuto dalla tradizione cristiana come l'ultima cena.
  Considerata la sua importanza, la Torah concede di ripetere una seconda Pasqua, distanziata di un mese esatto, a coloro che per forza maggiore, causa impurità acquisita, non hanno potuto celebrare la prima. E' l'unico caso dove si trova la possibilità di ''riprendere'' un dovere (mitzvà) legato ad una data fissa.
  Viene portato il sacrificio pasquale (agnello) accompagnato da pane azzimo ed erbe amare per ricordare l'oppressione della schiavitù egiziana. L'osservanza di questa festività consiste nel fatto che ciascun membro non deve allontanarsi dalla propria comunità, ma simbolicamente partecipi , come se egli stesso fosse uscito dall'Egitto.
  Il passaggio delle quaglie avviene durante le marce nel deserto del Sinài. In questa circostanza si legge nella Torah: "Un miscuglio (asesuf) di individui che si trovava in mezzo al popolo ebraico ebbe dei desideri. Tornarono a piangere allora anche i figli di Israele e dissero: Quando mangeremo della carne!'' (Numeri 11.4)
  Rashì spiega che questo'' miscuglio'' altro non era che la turba di gente che si era unita ad Israele al momento dell'uscita dall'Egitto, responsabile nel provocare le rivolte del popolo nel deserto, contro Moshè.
  Difatti qual era il ''desiderio'' di questa gente? Era quello di ''corrompere'' l'identità del popolo ebraico e preparare il terreno ai suoi nemici per la distruzione. Anche ai nostri giorni in Israele si vive lo stesso problema. La Torah però mette in guardia dall'ideologia di questi individui (ONG-umanitarie) che consiste nel minare con la rinuncia, la fuga e l'abbandono il progetto Divino che il popolo ebraico è chiamato a realizzare su questa Terra.
  La donna etiope. L'episodio presenta delle difficoltà di spiegazioni. La donna che Moshè aveva presa non era ''etiope'' ma madianita. Il termine etiope significa ''agli occhi degli altri'' espressione per dire che la donna era molto bella. Moshè invece considerava questa donna come una straniera, evitando di avere rapporti con lei. La Torah vuole mettere in luce che Moshè trascurava la propria moglie madianita (Zipporà) ma per un fine superiore, che era quello di realizzare il progetto Divino.
  L'errore che Miriam commise era quello di giudicare in modo negativo suo fratello, nell'intromettersi nei rapporti coniugali e facendo ''maldicenza'' nei suoi confronti. Per questo venne colpita dalla lebbra.
  ''La nube del Signore sparì ad disopra della tenda, ed ecco Miriam colpita da tsarà'ath (lebbra), bianca come la neve'' (Numeri 12.10)
  Affetta dalla malattia per la calunnia fatta verso il fratello, Miriam dovette osservare sette giorni di isolamento, ma fu Moshè stesso a pregare il Signore per la sua completa guarigione ''Deh! Signore, risanala!'' (Numeri 12.13). F.C.

*

 - Prima di lasciare il Sinai e mettersi in marcia verso la Terra promessa, il popolo riceve l'ordine di celebrare la Pasqua. Oggi diremmo che era una festa di liberazione, e in queste occorrenze si è abituati a rendere onore alla memoria di qualche personaggio particolarmente significativo per l'evento che si ricorda. L'ordine in questo caso è di celebrare la Pasqua "in onore dell'Eterno" (Numeri 9:10). Chi altri infatti avrebbe dovuto essere celebrato? Forse noi, nel nostro umanesimo autocelebrante avremmo nominato per primo Mosè, un condottiero liberatore a cui il popolo liberato oggi renderebbe volentieri onore, perché nel far questo onora anche se stesso. L'ottica del Signore invece è un'altra: la festa deve essere in onore dell'Eterno, soltanto dell'Eterno, perché quanto agli altri, siano essi egiziani o ebrei, il ricordo dell'avvenimento è anche un'occasione di umiliazione.
  Se fosse stato lì presente il Faraone si sarebbe potuto sentir dire: te l'avevo detto di lasciare andare il mio popolo per celebrarmi una festa, ma tu non hai voluto. Pensa allora a quello che ti è capitato e osserva quello che avviene adesso: il mio popolo mi celebra una festa nel deserto, come ti avevo chiesto.
  Quanto agli ebrei, hanno dovuto quasi essere trascinati fuori a forza dall'Egitto, e di lì a poco si sarebbero anche pentiti di averlo fatto. E' un'altra delle caratteristiche di questo popolo unico: gli scritti ufficiali che ne presentano la storia invece di essere pomposamente autocelebrativi sono pieni di descrizioni di fallimenti, naufragi, tradimenti, lotte intestine, castighi divini. Secondo un'ottica secolare, qualcuno potrebbe arrivare a dire che il Tanach è un libro antisemita. Se non è così è perché, come abbiamo già detto, il personaggio più importante della Bibbia non è il popolo, ma Dio stesso, l'Eterno. E l'Eterno, per una ragione che continua a far riflettere da secoli, ha scelto di formarsi un popolo suo particolare e di usarlo per un suo progetto che, anch'esso, continua a far riflettere da secoli. Per questo vale la pena di leggere la Bibbia: è interessante, molto interessante, anzi, più che interessante è essenziale per rispondere alle domande fondamentali della vita, sia personale che sociale.
  Nel testo di oggi possiamo fissare l'attenzione su due trombe. Dovevano essere d'argento, perché così il Signore aveva ordinato a Mosè. Dovevano servire a diverse cose, come convocare l'assemblea davanti alla tenda di convegno e ordinare al popolo di mettersi in marcia dopo una tappa. C'erano poi altri due momenti, molto diversi fra loro, in cui dovevano essere suonate le trombe: prima della guerra, per segnalare l'attacco del nemico e ricevere aiuto da Dio; e nei "giorni di gioia", per onorare il Signore nelle feste solenni. In entrambi i casi le trombe servivano a stimolare un ricordo: nel primo caso il Signore si ricordava del popolo e accorreva in suo aiuto; nel secondo caso il popolo si ricordava di Dio e faceva festa in Suo onore.
  Le trombe dunque parlano anche di guerra, e qui qualche apostolo della pace potrebbe aggrottare le sopracciglia. Potrebbe anche avere ragione, secondo il suo modo di ragionare, ma non secondo quello di Dio. Osserviamo quello che dice il testo: "Quando nel vostro paese andrete alla guerra contro il nemico che vi attaccherà..." (Numeri 10:15). Dunque il paese in cui il popolo sta andando non dovranno conquistarlo, perché è già loro. Ma come, diranno i filopalestinesi, la terra non apparteneva forse agli abitanti che si trovavano lì, cioè i cananei? No, perché Dio ha detto: "La terra è mia e voi state da me come forestieri e residenti" (Levitico 25:23). I cananei avevano soltanto il permesso di soggiorno, non la cittadinanza. Qualcuno dirà che i cananei non lo sapevano, questo è vero, ma anche il faraone non sapeva che Israele è il primogenito di Dio. Ha dovuto impararlo, a sue spese. La stessa cosa succederà ai cananei. Per questo il Signore avverte: "il nemico vi attaccherà". Dunque ci sarà guerra, cioè violenza, ma sarà una violenza simile a quella della polizia municipale che su mandato del tribunale attua con la forza lo sfratto esecutivo da un appartamento illegalmente abitato da un inquilino che si rifiuta di uscire.
  Vi attaccheranno, dice il Signore, perché gli abitanti del paese vi considerano vostri nemici. Nemici di Israele? nemici degli ebrei? No, nemici di Dio. Nella sua preghiera prima della partenza dell'arca Mosè non chiede a Dio di proteggere il popolo dai suoi nemici, ma dai nemici di Dio: "Quando l'arca partiva, Mosè diceva: «Lèvati, o Eterno, e siano dispersi i tuoi nemici, e fuggano dinanzi alla tua presenza quelli che t'odiano!»" (Numeri 10:35). Il punto fondamentale dunque è, ancora una volta, la presenza di Dio in mezzo al popolo, da cui scaturisce un odio per quel popolo che in realtà è odio contro Dio.
  Israele è il popolo di Dio, di conseguenza subisce il fatto che i nemici di Dio diventano suoi nemici. Si capisce allora perché molti ebrei farebbero volentieri a meno di essere contati fra i membri di questo popolo. Ma la fuga non è una soluzione. Stando a quello che dice Mosè, chi fugge davanti alla "presenza" (in ebr. faccia) di Dio dimostra di essere tra quelli che "odiano Dio"; la Scrittura invece invita a "cercare" la faccia dell'Eterno, non a fuggirla. "Cercate l'Eterno e la sua forza, cercate continuamente la sua faccia!" (Salmo 105:4). M.C.

  (Notizie su Israele, 16 giugno 2016)


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