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Notizie 16-30 giugno 2017


Gorizia - Musica cortese fa tappa in sinagoga

Giovedì 6 luglio "Calli, campi e scole: a spasso nella Venezia di Shylock"

Ritorna a Gorizia, nella Sinagoga di via Ascoli, giovedì 6 luglio alle 21 il viaggio di "Musica cortese - Festival internazionale di Musica antica nei Centri storici del Friuli Venezia Giulia" organizzato dal Dramsam - Centro giuliano di musica antica realizzato con il sostegno di Regione Friuli Venezia Giulia e Fondazione Carigo, del comune e il patrocinio del MIBACT- BSI. Protagonista del concerto sarà il "Lucidarium Ensemble" con un repertorio dal titolo "Calli, campi e scole: a spasso nella Venezia di Shylock".
Un programma che evocherà le immagini e i suoni di un giorno qualunque nella vita di Shylock, usuraio ebreo veneziano, tra i protagonisti della commedia "Il mercante di Venezia" di William Shakespeare. Nel tempio goriziano risuoneranno le melodie del mondo colorato della Serenissima rinascimentale, crogiolo di culture e ricchezze, calamita per
l'immigrazione di genti. Qui gli ebrei giunsero agli inizi del secolo XI e divennero un nucleo considerevole, tanto che il governo della Repubblica avvertì il bisogno di organizzare la loro presenza in città. Che cosa avrebbe ascoltato Shylock camminando per le strade del ghetto? Un vivace mix di canzoni tipiche in italiano, yiddish, ebraico e spagnolo, intrecciate con le melodie sacre e profane della tradizione locale. Questo originale scenario sonoro fra XVI e XVII secolo sarà proposto dal concerto dall'ensemble Lucidarium.
L'appuntamento, in collaborazione con l'associazione "Amici di Israele", sarà a ingresso libero fino all'esaurimento dei posti disponibili.

(Voce Isontina, 30 giugno 2017)


Il Festival della Cultura Ebraica a Cracovia

 
È iniziato sabato scorso a Cracovia il Festival della Cultura Ebraica. "Il Festival serve all'educazione e a superare le barriere dei pregiudizi", ha detto il suo fondatore e direttore Janusz Makuch. Organizzato a partire dal 1998, lo scopo del festival è ricordare la storia degli ebrei in Polonia, l'aiuto della popolazione ebraica allo sviluppo del paese e mostrare la bellezza e la diversità della sua cultura. Ormai questo evento è diventato uno dei più importanti a livello mondiale per promuovere la cultura ebraica. Ogni anno partecipano circa 30 mila persone. Un particolare interesse lo attira il concerto Shalom in via Szeroka, che si svolgerà domani sera a partire dalle 18. Il tema della rassegna di quest'anno è il 50o anniversario della 'riunificazione' di Gerusalemme dopo la guerra dei sei giorni. Il festival ha il suo centro a Kazimierz, storico quartiere ebraico di Cracovia, dove sono stati organizzati 212 eventi, tra concerti, conferenze, workshop e mostre. Il programma è sparso in 28 diversi luoghi del quartiere, che includono sinagoghe, musei e club. Il festival terminerà domenica sera.

(Polonia Oggi, 30 giugno 2017)


La start up nation al servizio dell'istruzione

La start up nation. Una definizione che negli ultimi anni Israele ha portato con fierezza, esportando le tecnologie sviluppate in ogni settore, dall'agricoltura alla medicina, ai trasporti, in tutto il mondo. E con un paese in cui oltre il 27% della popolazione ha meno di 15 anni, non sorprende forse che una delle tematiche in cui le aziende si stanno dimostrano leader, è quello della cosiddetta "ed-tech", tecnologia al servizio dell'istruzione.
Una delle idee di base sta nel fatto che l'apprendimento di materie come scienze, matematica e informatica può davvero essere favorito dall'utilizzo di video-giochi o altri strumenti sviluppati da aziende capaci di pensare fuori dagli schemi per rendere argomenti ostici più facili e interessanti.
Tra le società israeliane che hanno già raggiunto un successo internazionale, c'è per esempio Code Monkey Studio (al motto di "Write code. Catch bananas. Save the world." - Codifica, cattura le banane e salva il mondo) che attraverso un gioco interattivo con protagonista una scimmietta insegna ai bambini dai nove anni in su a programmare sul computer.
Code Monkey Studio è tra le società uscite dal programma MindCET Garage, un acceleratore per start up nel campo dell'ed-tech: tra i suoi alunni anche Simplisico, che offre un tutor di matematica online. In tutta Israele sono numerose le organizzazioni dedicate al settore.
"Il modo in cui funziona l'apprendimento sta cambiando rapidamente" spiega Shachar Wilber, co-manager di EdVantage "La maggior parte delle informazioni a cui abbiamo accesso è sul web, per cui c'è la necessità di strumenti che aiutino a migliorare il modo in cui impariamo, e consentano di farlo da autodidatta in modo efficace. È una delle sfide fondamentali del XXI secolo".

(moked, 30 giugno 2017)


Uno stagista per la Israel Cycling Academy: ecco Itamar Einhorn

Itamar Einhorn
La Israel Cycling Academy, formazione al primo anno tra le Professional, ha annunciato il nome di uno degli stagisti per la seconda parte della stagione. Si tratta di Itamar Einhorn, ventenne corridore della compagine di sviluppo. L'israeliano è un velocista capace di tenere anche sui percorso duri: il suo miglior risultato stagionale è l'ottavo posto nell'ultima tappa della Vuelta a Navarra.
Inoltre, al recente campionato israeliano in linea, Einhorn ha concluso al secondo posto, unico che ha provato a contrastare la superiorità numerica del team Professional. Il giovane, che solo al secondo anno nel ciclismo su strada, ha dichiarato: «Mi sento pronto e so che sarà una dura sfida, ma voglio lavorare sodo per coltivare questo sogno».

(cicloweb, 30 giugno 2017)


Un Giardino dei Giusti a Clusone

Le storie di Bene nella Val Seriana

"Non so dire chi singolarmente abbia aiutato la mia famiglia, per me tutto il paese è stato Giusto, straordinariamente Giusto. Io mi sento di ringraziarli tutti." Così, in una emozionante intervista telefonica, Camilla Gotz esprime il sentimento che la lega a Clusone. La signora Camilla è discendente, per parte materna, da una famiglia di ebrei viennesi che, dopo l'Anschluss, passando da Ferramonti e poi Gandino, arrivarono a Clusone. Con grande emozione ricorda i racconti della madre, nascosta e protetta tra montagne clusonesi con la sua famiglia. Lasciare Vienna, attraversare l'Europa per sfuggire a un grande male, arrivare in luogo totalmente estraneo e trovare qui, il bene, nell'empatia di un intero paese della Val Seriana. Quello che questa testimonianza vuole enfatizzare, ci tiene a evidenziare Camilla, è l'importanza della coscienza collettiva: è stato l'intero paese a salvare la famiglia Hacker, tra i segreti, i silenzi delle autorità e l'ospitalità offerta. "Di fronte a una recrudescenza dell'antisemitismo e al revival delle retoriche nazionaliste -afferma Camilla- testimonianze come quella della mia famiglia sono fondamentali; persone normali hanno fatto scudo insieme per proteggere una minoranza, e questo è straordinario." Come è possibile rendere omaggio ai semplici Giusti della Val Seriana?
   Nel mese di maggio è stata proposta e discussa la creazione di un Giardino dei Giusti sull'altopiano di Clusone. L'idea, avanzata dall'associazione "Il Testimone", nasce dalla volontà di ricordare le storie di bene e giustizia, sconosciute ai più, di questo angolo di Lombardia.
   Quale fu il ruolo di Clusone e della Val Seriana nell'attività salvifica dei Giusti?
   Sull'altopiano furono parecchi i casi di ebrei e fuggiaschi nascosti in cascine e contrade fuori dai centri abitati. Non può mancare quindi anche qui , uno spazio di raccoglimento e riflessione, in cui ricordare le azioni di tutti i giusti di questa valle incantevole.
   Il 1938 fu un anno chiave per le comunità ebraiche di tutta l'Europa continentale: l'Anschluss e le mire espansionistiche di Hitler nei Sudeti -il territorio tedescofono tra Boemia e Moravia- furono il motore propulsivo delle migrazioni verso la salvezza delle varie comunità (la regione verrà concessa alla Germania dopo la Conferenza di Monaco dello stesso anno).
   Gli ebrei in fuga attraversavano tutta l'Europa in cerca di porti franchi nei quali poter organizzare i viaggi verso territori più sicuri. La Conferenza di Evian del luglio dello stesso anno, non era riuscita a risolvere il problema dei profughi in fuga dal regime nazista; i flussi migratori si diffusero letteralmente in tutto il mondo, portando le comunità ashkenazite negli Stati Uniti, in Sud America, Cina, Palestina e in altre regioni lontane.
   In questo crocevia di viaggi per la salvezza, la Val Seriana giocò un ruolo fondamentale.
   Nella bergamasca non esisteva una "questione ebraica": i pochi rappresentanti delle comunità erano tutti ben integrati e svolgevano ruoli di primo ordine all'interno della pubblica amministrazione. Le campagne antisemite furono quindi montate a tavolino dai giornali e dalle agenzie per la propaganda fascista. Dopo il 1940, la presenza ebraica nella provincia aumentò grazie all'arrivo dei cosiddetti "internati liberi", ovvero ex internati dei campi di concentramento relegati al confino. Costoro godevano di una sorta di libertà vigilata. Molti degli internati liberi provenivano dal campo di Ferramonti di Tarsia (come nel caso degli Hacker), in provincia di Cosenza, i quali sceglievano come meta del confino Clusone, sia per la disponibilità di numerosi posti sia per la prossimità al confine svizzero, ultima possibilità di salvezza.
   La popolazione clusonese si dimostrò straordinariamente solidale con gli ebrei in fuga. Gli stessi vertici locali del partito fascista furono "obiettori ufficiosi", rilasciando ai confinanti e a chi si nascondeva, false carte di identità. Gli istituti religiosi crearono una fitta copertura per le fughe organizzate, che operava fianco a fianco con quella laica dei partigiani.
   Tra il 1941 e il 1945, Clusone divenne la realtà con più internati liberi in assoluto.
   Le storie degli ebrei internati di Clusone e Val Seriana sono raccolte nel libro-quaderno di Mino Scandella edito Clubi, Ricordate che questo è stato. Ebrei internati liberi a Clusone 1941-1945.

(Gariwo, 30 giugno 2017)


Scontro all'Unesco sulla Tomba di Abramo

La Palestina vuole che sia riconosciuto come proprio sito tra i Patrimoni dell'umanità. La replica di Israele: «Un nuovo fronte della guerra alla storia del popolo ebraico».
   
di Giorgio Bernardelli

La Tomba del patriarca Abramo, a Hebron
MILANO - Dopo il Muro del Pianto, un nuovo fronte ammantato di simboli religiosi sta per aprirsi all'Unesco nello scontro tra Israele e Palestina. Domenica 2 luglio a Cracovia si apre, infatti, la sessione di quest'anno del Comitato per il riconoscimento dei Patrimoni dell'umanità, la prestigiosa lista che include attualmente oltre mille tra siti naturalistici e tesori culturali di 165 Paesi del mondo. E tra le nuove richieste iscritte all'ordine del giorno per la discussione figura anche quella avanzata dall'Autorità Palestinese per l'inclusione della Città Vecchia di Hebron, che ha il suo centro nel luogo dove ebrei, cristiani e musulmani venerano quella che secondo la tradizione è la Tomba di Abramo.
   Un complesso antichissimo - le mura esterne risalgono ai tempi di Erode - che a seconda del punto di vista di chi lo guarda è chiamato Tomba dei patriarchi (visto che ospita anche quelle di Isacco e Giacobbe e di alcune delle loro mogli) o moschea al Khalil. E al suo interno mostra pure chiari i segni dell'epoca crociata, quando venne trasformato in una chiesa affidata ai canonici agostiniani.
   A suscitare discussioni, ovviamente, non è il riconoscimento in sé come Patrimonio dell'umanità, ma la sovranità rivendicata da chi lo propone. Hebron si trova infatti nel cuore della Cisgiordania ed è uno dei luoghi maggiormente contesi tra israeliani e palestinesi. Pur essendo infatti una città palestinese abitata da circa 200 mila persone, Hebron vede al suo interno la presenza di due insediamenti israeliani - uno nel cuore della città e l'altro nella vicina Kiryat Arba, abitati complessivamente da circa 10mila coloni. Ed è una coabitazione critica, segnata da rancori e da una lunga storia di violenze che bastano due date a riassumere: il 1929 con la prima strage patita dagli ebrei nel Novecento in Medio Oriente, quando ancora la Terra Santa era sotto il mandato britannico, e il 1994, quando fu un colono di Kiryat Arba, Baruc Goldstein, ad aprire il fuoco contro i musulmani che si recavano a pregare alla Tomba di Abramo, uccidendo 29 persone.
   Da allora la separazione fisica è entrata anche dentro lo stesso luogo sacro, attraverso una parete divisoria che separa l'ambiente ebraico da quello musulmano: i fedeli accedono a ciascuna delle due zone da ingressi rigidamente distinti. Ora la mossa della Palestina all'Unesco mira a rivendicare la propria sovranità su Hebron, specificando che si tratterebbe di un patrimonio in pericolo e in questo modo ottenendo una via prioritaria per l'esame della domanda, come già avvenuto negli anni scorsi per la Basilica della Natività a Betlemme e le colline degli uliveti del Battir (gli altri due siti palestinesi già riconosciuti come Patrimonio dell'umanità).
   Da parte sua Israele - visti i precedenti e la composizione dei rappresentanti dei 21 Paesi che formano oggi il Comitato - non nutre grandi speranze di riuscire a bloccare il voto di Cracovia. E sostiene già - per bocca del suo ambasciatore all'Unesco, Carmel Shama HaCohen - che si tratta di «un nuovo fronte nella guerra ai luoghi santi che i palestinesi stanno tentando di appiccare come parte della loro campagna contro Israele e la storia del popolo ebraico». Anche se - va aggiunto - nell'istanza presentata dall'Autorità palestinese si parla espressamente di Hebron come di un «luogo sacro a musulmani, cristiani ed ebrei».
   Il punto vero è che, in assenza di un processo di pace con obiettivi chiari e concreti, i luoghi santi restano in balia degli opposti estremismi, bandiere utili per essere sventolate sui palcoscenici internazionali per battaglie simboliche che non fanno altro che inasprire gli animi. Hebron è un luogo fondamentale per l'identità ebraica: la Genesi parla espressamente di questa «Grotta di Macpela» comprata da Abramo per seppellirvi in primis sua moglie Sara. E nella teologia biblica la Tomba dei patriarchi costituisce la primizia della Terra promessa: logico, dunque, che un ebreo osservante non possa accettare di essere tenuto fuori da un luogo del genere (come fu, invece, dal 1929 al 1967).
   Nello stesso tempo, però, la storia complessa di questa regione del mondo ha reso Hebron un luogo irrinunciabile anche per i musulmani, per i quali Abramo è una figura talmente importante da meritarsi l'appellativo di al Khalil, cioè l'amico di Dio. Al di là di quella che sarà la decisione dell'Unesco, dunque, sembra destinato a rimanere un rompicapo irrisolvibile, finché la logica delle prove di forza in Terra Santa non lascerà il posto a quella del riconoscimento reciproco.

(La Stampa, 30 giugno 2017)


Il Mossad lancia il fondo Libertad per le nuove tecnologie

di Francesco Bussoletti

 Con Libertad il Mossad finanzierà fino a 2 milioni di shekel per ogni singolo progetto
 
  In Israele il Mossad lancia il fondo Libertad per acquisire il meglio delle nuove tecnologie delle start-up. Lo ha annunciato una nota del governo, in cui si spiega che gli 007 sono alla ricerca di nuove tecnologie in vari camp. Incluse la robotica, la cyber security, la miniaturizzazione e la crittografia. A proposito, Libertad concederà crediti fino a 2 milioni di shekel per ogni singolo progetto. Ciò in cambio dei diritti sulla tecnologia, anche se non in esclusiva. L'agenzia d'intelligence, infatti, è famosa per la sua versatilità. I suoi tecnici prendono ciò che offre di meglio il mercato e lo trasformano o lo adattano alle esigenze del momento. Di conseguenza, non ha necessità di possedere qualcosa che lo stesso settore potrebbe modificare e rendere migliore. Anzi. Spesso ha avvantaggiato pratiche di questo tipo, proprio per sfruttarne i vantaggi a costi contenuti.

 L'obiettivo, oltre ad acquisire tecnologia all'avanguardia, è creare un legame forte con le aziende e gli istituti di ricerca
  Il Mossad, oltre ad aprire il fondo, ha anche inviato una richiesta di proposte a una serie di aziende e imprenditori selezionati nei vari campi, cyber compreso. Lo ha annunciato il direttore dell'agenzia israeliana, Yossi Cohen, secondo quanto riporta la stampa locale. A proposito ha sottolineato che il Libertad "si collocherà tra le operazioni sotto copertura e il mondo aperto della tecnologia. Attraverso il fondo vogliamo collegare i leader di mercato, le aziende, le industrie e gli istituti di ricerca". Non solo. "Libertad darà al Mossad un legame forte, diretto e produttivo con i cervelli della tecnologia e con i pionieri del settore. Lo abbiamo istituito per supportare la libertà d'azione di imprenditori visionari, che vogliono realizzare il loro sogno e che ci permetteranno di usare i loro sviluppi nell'implementazione della nostra missione nazionale".

(Difesa & Sicurezza, 30 giugno 2017)


Fondi delle Nazioni Unite per iniziative che istigano all'odio e alla violenza contro Israele

Organizzazioni che collaborano con Hamas e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), riconosciute a livello internazionale come organizzazioni terroristiche, partecipano al "Forum per i cinquant'anni di occupazione" organizzato giovedì e venerdì presso la sede delle Nazioni Unite dalla rappresentanza palestinese all'Onu. Secondo informazioni ottenute dalla rappresentanza israeliana, all'evento intervengono il gruppo Al Haq, che collabora con il Fplp (il quale fra l'altro lo scorso 16 giugno ha rivendicato l'assassinio a sangue freddo della poliziotta israeliana Hadas Malka a Gerusalemme), e il Centro Al Mezan per i Diritti Umani che collabora regolarmente con Hamas. L'ambasciatore d'Israele all'Onu Danny Danon ha accusato l'Onu di "collusione con i sostenitori del terrorismo". "Supera ogni comprensione - ha detto Danon - che fondi delle Nazioni Unite vengano usati per sostenere iniziative di organizzazioni che aiutano i terroristi e istigano all'odio e alla violenza contro Israele: chiediamo al Segretario Generale di intervenire immediatamente". Secondo un rappresentante dell'ufficio di Antonio Guterres, il Segretario Generale non ha alcuna autorità sull'evento perché è organizzato dalla Commissione sui diritti inalienabili del popolo palestinese. Giovedì, intervenendo al Forum, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha affermato che Hamas e Fplp non sono organizzazioni terroristiche.

(israele.net, 30 giugno 2017)


Lampi di vita condivisa

Viaggio a Neot Semadar, nel cuore del Negev, dove parsimonia e duro lavoro costruiscono dialogo a due passi dalla guerra.

Il kibbutz di Neot Semadar si trova nel deserto del Negev a sessanta chilometri dalla città costiera di Eilat. È stato fondato nel 1989 da un gruppo di amici con lo scopo di dare origine a una comunità dedicata alla cooperazione e alla creatività nel vivere quotidiano. Oggi i suoi abitanti sono 230, ai quali si aggiungono 60 giovani volontari e 20 salariati. Il kibbutz è amministrato da una blanda struttura gerarchica che ruota ogni quattro anni. La segreteria è composta da un uomo e una donna. L'organizzatore delle attività economiche coordina insieme ai manager specializzati la produzione nei vari comparti. L'agricoltura e l'allevamento sono accompagnate da stabilimenti per la produzione biologica d'olio, vino, latte, formaggi e conserve. I prodotti entrano nel mercato nazionale e riforniscono la cucina del "Pundak Neot Semadar", ristorante, e punto vendita. L'attività viene discussa quotidianamente in assemblee e nei diversi centri lavorativi.
Grazie ai pannelli solari Neot Sernadar esporta 10 megawatt di energia l'anno. I 25 bambini frequentano le scuole interne fino al 13 anni, poi vanno alle statali. Il centro culturale interno utilizza Il vento del Negev per la refrigerazione. Poche le regole: silenzio, collaborazione, libera e Incessante Indagine spirituale sul rapporto fra uomini e natura.

di Luca Foschi

 
NEOT SEMADAR (ISRAELE) - Nel buio si sente solo un gallo in lontananza, e i passeri nella grande sala da pranzo che frullano intorno al lampadario da cui pende la sagoma di un pipistrello, ritagliato su carta nera e sapientemente incongruo. Alcuni fissano le evoluzioni del fumo che esce dalle tazze di tè, altri spaziano sui quaranta compagni di silenzio, arrivati al centro del kibbutz a piedi o sulle biciclette fra ulivi, meli e palmizi. Intorno, oltre i cancelli accuratamente chiusi la sera, è il deserto del Negev dove Israele si affila come un'amigdala.
   Hanno abbandonato Gerusalemme sul finire degli anni 80 gli abitanti di Neot Semadar, attraversato sulle camionette cariche di utensili il giardino agricolo delle pianure costiere, lo spettacolo cangiante del Mar Morto e la roccia marziana del deserto. Allora le lunghe tensioni esplodevano nella Prima Intifada e il breve Novecento si spegneva assieme all'utopia socialista che tanti kibbutz aveva ispirato cento anni prima, quando gli ebrei fuggiti dall'Europa piantavano nelle terre incolte i principi del sionismo. Dopo il rito del silenzio la comunità si disperde per i luoghi di lavoro, l'allevamento, i piccoli stabilimenti per le produzioni biologiche, le coltivazioni irrigate da un complesso sistema di gestione che riduce al minimo l'uso dell'acqua, altrove sottratta ai bacini palestinesi. Agli abitanti si aggiungono pochi salariati e un numero variabile di volontari, giovani occidentali e israeliani in fuga dalle ansie metropolitane e dal lungo servizio militare, università di nazionalismo spartano dove si apprende la koinè binaria di odio e paura, l'io e l'altro separati dal corpo a corpo dei check-point.
   Alle nove pochi colpi di gong chiamano la comunità per la severa colazione vegetariana. È vietato parlare se non per poche sillabe al passaggio delle cose. Tutti si ritrovano poi nella piccola piazza, seduti all'ombra degli ulivi. «Un giorno è una settimana e una settimana è un giorno. Spezziamo di continuo la linea del tempo col dialogo. Se mi annoio? Le persone sono infinite», dice Galita mentre culla il piccolo Kadim fra le braccia. Trent'anni, ex insegnante, per ora si dedica alla maternità. Potrebbe poi avere un ruolo nelle scuole del kibbutz, dove fanno lezione «tutti coloro che sentono l'educazione». Non si ricevono salari a Neot Semadar. Per qualsiasi spesa, un viaggio d'emergenza, un oggetto necessario, bisogna fare domanda e il denaro viene estratto dal fondo comune. Fin dalla nascita il kibbutzvive nella parsimonia, che si manifesta nell'incompiuto delle strutture, nel cimitero del ferro dove si recupera il possibile. «Accettiamo qualsiasi confessione, anche se manteniamo le festività ebraiche. Ma non ci sono filosofie per spiegare Neot Semadar. È una cosa viva e per questo riesce difficile descriverla. Cerchiamo di restare sensibili al reale, alla natura, evitando di dare troppo peso alle nostre opinioni. Siamo un nucleo di persone che sentono il problema del vivere, e questo può essere sciolto nella religione e in altre pratiche spirituali, purché queste mantengano un dialogo costante» spiega Samuel, fra i fondatori e oggi responsabile della cantina.
   Il mondo è confinato in un televisore e i telefoni rimangono in stanza. Ma la storia preme anche sul deserto, e dal kibbutz si sentono le esplosioni di Shizafon, centro d'esercitazione dell'esercito: «Prima mi addentravo di più nelle cose politiche, destra e sinistra» racconta Samuel. «Ora vedo che alcuni si identificano con conflitto e conquista, altri lottano per eliminarne il desiderio. È stata la guerra del 1967 a creare queste perversioni. Ha cambiato la nazione, l'orrore subito in passato si è trasformato in aggressione verso gli altri».
   Il gong che richiama al pranzo si allarga insieme al rumore sordo dei carrarmati e rende ancor più bizzarra la solitudine del centro culturale, rosa, azzurro e irrispettoso dell'austerità desertica, kitsch e fiabesco, una gigantesca torta di cemento, plastiche e lamiere portata a termine nel 2010, simbolo della quotidiana fatica collettiva trasfigurata in immagine onirica. I laboratori di tessuti, legno e ceramiche hanno dato vita al piccolo museo dove monili, quadri e oggetti d'uso casalingo raccontano lanatura e l'essere inrelazione. «Nonnascono dalla vanità o dal commercio», dice delle sue sculture il carpentiere Maeil Ganour. Le anime di legno si contorcono in genesi bibliche, in zuffe erotiche e violente o abbandoni nello spazio: «Bisogna pensare a lungo per raggiungere ciò che tutti sanno, illuminare nella forma un'esperienza condivisa». Dopo cena la piazza si accende fioca con le lampade colorate, riprende il rito dell'incontro. «Le persone litigano, i problemi esistono. Non mi sento limitato, non credo che in una metropoli il circuito del conoscere sia molto più ampio, e qui il mondo viene a trovarci» dice Eylat, 33 anni da New York, a Neot Semadar da tre anni. «Il venerdì balliamo il magal. Vestite di bianco le persone si dispongono in cerchio. Una prende il centro e si muove, danza libera. Intorno gli altri la imitano. È un teatro collettivo, il contatto degli occhi e dei corpi, la comunità che s'intreccia e si riconosce», spiega Eylat, mentre la piazza si vuota e dal ventre del deserto sale la cupa lingua delle bombe.

(Avvenire, 30 giugno 2017)


"Definizione operativa di antisemitismo"

Estratti dal documento "definizione operativa di antisemitismo" elaborato dall'agenzia dell'Unione Europea "European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia" (EUMC) ora "European Union Agency for Fundamental Rights" (FRA).

Esempi contemporanei di antisemitismo nella vita pubblica, nei media, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nella sfera religiosa potrebbero includere - tenendo conto dell'intero contesto - ma non sono limitati a queste fattispecie:
  • Incitare, aiutare o giustificare l'uccisione di ebrei o il provocare danni agli ebrei nel nome di una ideologia radicale od una concezione estremista della religione
  • Esprimere accuse mendaci, disumanizzanti, demonizzanti o stereotipe sul conto degli ebrei come ad esempio (in maniera particolare ma non esclusiva) il mito di una cospirazione mondiale ebraica o del controllo esercitato dagli ebrei sui media, sull'economia, sui governi od altre istituzioni sociali
  • Accusare gli ebrei in quanto popolo di essere responsabili di torti reali o immaginari commessi da un singolo ebreo o da un singolo gruppo di ebrei o perfino di azioni commesse da non ebrei
  • Negare il fatto, le finalità, il meccanismo (ad esempio le camere a gas) o l'intenzionalità del genocidio del popolo ebraico da parte della Germania nazionalsocialista e dei suoi alleati e complici durante la Seconda Guerra Mondiale (l' Olocausto)
  • Accusare gli ebrei in quanto popolo, oppure Israele in quanto Stato, di avere inventato o esagerato l' Olocausto
  • Accusare cittadini ebrei di essere più leali verso Israele o verso supposte priorità ebraiche mondiali piuttosto che verso le loro stesse nazioni.
Esempi di come l'antisemitismo si manifesta in riferimento allo stato d'Israele tenendo conto del contesto complessivo potrebbero includere:
  • Negare al popolo ebraico il diritto all'autodeterminazione, ad esempio affermando che l'esistenza dello stato d'Israele è una manifestazione di razzismo
  • Utilizzare doppi standard pretendendo da Israele un comportamento che non si pretende o non ci si attende da parte di alcuna altra nazione democratica
  • Utilizzare i simboli e le immagini associate all'antisemitismo classico (ad esempio l'accusa che gli ebrei avrebbero ucciso Gesù o quella degli omicidi rituali) per caratterizzare Israele o gli israeliani
  • Tracciare comparazioni fra la politica attuale d'Israele e quella nazista
  • Ritenere gli ebrei collettivamente responsabili di azioni compiute dallo stato d'Israele.
(Israel Storia e Cultura, 30 giugno 2017)


Russia-Israele - Lavrov al presidente della Knesset: le nostre relazioni basate sulla fiducia

MOSCA - Le relazioni tra Russia ed Israele sono stabili e basate sulla fiducia. E' quanto affermato oggi dal ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, nel corso dell'incontro con il presidente della Knesset israeliana, Yuli Edelstein, oggi a Mosca. La visita del presidente del parlamento israeliano "conferma che le relazioni intense fra Russia e Israele sono regolari, stabili e basate sulla fiducia", ha affermato Lavrov, ricordando il "proficuo incontro" con il ministro della Difesa Avigdor Lieberman dei mesi scorsi. Il capo della diplomazia di Mosca ha ribadito che la Russia è "interessata a un permanente e lungimirante scambio di opinioni con la controparte israeliana sull'attuale situazione regionale". Da parte sua, Edelstein ha ribadito che lo sconfinamento delle operazioni militari dalla Siria in Israele rappresenta una "linea rossa" per Tel Aviv. Nei giorni scorsi si sono verificati quattro distinti episodi di sconfinamento nelle Alture del Golan dello scontro militare in Siria fra esercito governativo e ribelli, a cui Israele ha risposto con bombardamenti.

(Agenzia Nova, 29 giugno 2017)


Fioroni a Pagine Ebraiche: Aldo Moro, le Br e i palestinesi, tanti i nodi ancora da sciogliere

di Daniel Reichel

Sono tanti gli interrogativi che si aprono dopo quanto dichiarato da Bassam Abu Sharif, ex uomo di vertice del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), davanti alla Commissione bicamerale d'inchiesta sulla morte di Aldo Moro. Due, ribadisce a Pagine Ebraiche il presidente della Commissione Giuseppe Fioroni, gli elementi di interesse emersi dall'audizione di Abu Sharif: "il fatto che l'Fplp ritenesse già nel 1975 la seconda generazione delle Brigate Rosse inaffidabili perché ritenute infiltrate dagli americani, dai servizi" e "l'assoluta novità dell'ammissione della presenza di 'compagni europei' nei campi palestinesi: Sharif dice infatti che 'i nostri campi profughi palestinesi erano pieni di giovani europei, che venivano per fare i medici, per aiuti umanitari, per fare istruzione e per combattere ma contro i nostri oppressori'".
   Quest'ultimo punto apre ulteriori interrogativi: chi sono questi combattenti europei? Quanti sono italiani? Dove sono ora? Fioroni sottolinea che l'ex uomo della Fplp non ha precisato e la Commissione non può indagare su quel fronte perché non fa parte del caso Moro. Ma rimane l'interesse di conoscere meglio volti e storie di chi, negli anni in cui i palestinesi si lanciavano in una sanguinosa azione terroristica mondiale (dalla strage di Monaco '72, passando per quella di Fiumicino del '73 al dirottamento di Entebbe del '76, fino all'attentato alla sinagoga di Roma del 1982), decise di sostenerne la causa. Per la Commissione questo capitolo è chiuso, spiega Fioroni: "quanto volevamo sapere da Bassam Abu Sharif, l'abbiamo ottenuto", tra cui la promessa di cercare negli archivi della Fplp il documento che sarebbe un'indiretta conferma del cosiddetto Lodo Moro: l'accordo tra Italia e palestinesi perché, dopo la strage di Fiumicino del 1973, il nostro Paese non venga più coinvolto in attentati terroristici. "Sharif ha dichiarato che dopo la vicenda di Fiumicino iniziarono una serie di contatti tra l'intelligence italiana e la sicurezza palestinese - afferma Fioroni - che sfociarono in un documento di impegno unilaterale firmato dal dottor Habbash (George, leader del Fplp) per mettere al sicuro l'Italia da eventuali attacchi terroristici, ritenendolo solo un paese di transito. Questo documento, ci ha detto Sharif, venne dato al capo del Sismi Giovannone che lo portò in Italia 'e voi ne avete copia'. A questo punto vari membri della commissione hanno interrotto l'audizione, spiegando che nessuno ha mai visto questo documento unilaterale". Sharif, che non fa più parte del Fronte palestinese e che è stato consigliere politico di Arafat e di Abu Mazen, a questo punto ha dichiarato che, una volta rientrato, avrebbe cercato negli archivi del Fplp.

(moked, 29 giugno 2017)


Mohamed Samir Khadar, il «Serpente» inafferrabile del terrorismo anni '80

Uno dei personaggi più misteriosi della storia del terrorismo degli scorsi decenni. Al servizio di Abu Nidal — capo della fazione palestinese più oltranzista in rotta con l'Olp — e del colonnello Gheddafi. Una base a Roma, in via Veneto, mantenuta per anni. Una moglie finlandese, conosciuta al Cafè de Paris. La firma sui più sanguinosi attentati degli anni '80. Potrebbe essere morto, ma anche vivo, in Libia o chissà dove. Lo straordinario racconto del nostro esperto, che ne ha seguito le tracce per anni.

di Guido Olimpio

WASHINGTON — Il «Serpente» può essere crepato da tempo, magari fatto fuori con un'azione segreta. Ma potrebbe anche essere in vita nascosto in Libia, in Europa e in qualsiasi altro luogo, visto che Mohamed Samir Khadar (sopra, sua unica foto disponibile) — questo il suo vero nome — sa muoversi e sopravvivere. Poliglotta, conosce il mondo, ha probabilmente ancora vecchi amici. Un uomo d'affari che in realtà è stato uno tra i più temuti professionisti del terrore, al servizio di Abu Nidal e di Mohammad Gheddafi. Raccontiamo la sua storia per ricordare come le minacce di ieri fossero serie e sofisticate, anche in confronto a quanto avviene adesso. Dettagli provenienti dal mio archivio, da atti del Dipartimento di Stato e ricostruzioni dei media dell'epoca.

 Le prime mosse
  Mohamed Khadar nasce il 1odicembre del 1950, in un quartiere di Nablus, cittadina palestinese della West Bank, luogo che ha segnato in modo drammatico le varie epoche della rivolta palestinese. È questo il punto di partenza di un lungo percorso. Seguendo la migrazione — spesso forzata — di tanti suoi fratelli, va in Libano nel 1965 e studia da elettricista. Un lavoro normale che affianca all'impegno politico sempre più profondo. Frequenta frange estreme, partecipa al conflitto civile, combatte contro i falangisti e altri nemici. Fonti statunitensi sostengono che abbia perso molti parenti e amici nella guerra, caduti che alimentano il suo odio verso l'Occidente come contro Israele. Attorno al 1976 raggiunge la Jugoslavia, si iscrive ad un corso di ingegneria ma soprattutto entra in contatto con la fazione di Abu Nidal (sotto, foto Ap), il rinnegato, il maestro del terrore, pronto a servire dittatori e regimi, in lotta contro lo Stato ebraico e la stessa Olp di Arafat. Il militante «studia», si prepara, allaccia rapporti che torneranno utili quando dovrà partecipare alla prima missione. È il febbraio 1978. Insieme ad altri partecipa all'omicidio di un giornalista egiziano a Cipro. Agguato che gli costa la galera. Nell'82 lo rimettono in libertà, non per la buona condotta ma per le minacce della sua gang. I ciprioti non vogliono avere guai, lo mettono su un jet diretto a Damasco, piazza da sempre accogliente — ricordatelo pensando agli Assad — per i tagliagole. Essendo un militante a tempo pieno non rimane a guardare per aria, è fatto per la lotta, le operazioni clandestine, non teme di tirare il grilletto però si trova più a suo agio nel mettere in piedi un network. Un anno dopo la gerarchia di Abu Nidal lo manda a Roma con un doppio incarico: aprire un'attività commerciale che faccia da cortina fumogena a un avamposto operativo. È così che funziona quella rete, di frequente sostenuta dal Mukhabarat libico.

 La base romana
  Oggi gli affiliati al Califfato abitano spesso in zone disagiate, campano ai margini della società, hanno problemi con la legge. Khadar è lontano da tutto ciò. Con l'aiuto di un servizio segreto arabo stabilisce la base dalle parti di Via Veneto, nel centro di Roma, stretta tra gli hotel e i locali alla moda, vicino agli uffici delle compagnie aeree e all'ambasciata degli Stati Uniti. Luogo perfetto per mimetizzarsi, ma anche per guardarsi intorno in cerca di target. Samir esegue alla perfezione gli ordini, somiglia a un agente in sonno. Compie ricognizioni, spia, osserva, censisce obiettivi. E si fa trovare pronto quando il comando lo chiama. Infatti dopo molto tempo gli americani — e gli italiani — collegheranno il suo nome a una serie di attacchi nella capitale condotti da seguaci di Abu Nidal (ottobre 1983: tentato omicidio dell'ambasciatore giordano. Ottobre 1984: agguato contro il vice console degli Emirati. Settembre 1985: lancio di granate tra i tavolini del Cafè de Paris. Dicembre 1985: strage all'aeroporto di Fiumicino in contemporanea ad un attacco a Vienna).

 La ragazza finlandese
  Frequentando proprio il Cafè de Paris conosce una turista finlandese, Aija Salaranta, ragazza che diventerà sua moglie. E lui non si farà problemi a fiancheggiare l'azione di un ragazzino palestinese, neppure maggiorenne, che prenderà di mira il famoso bar. Dettagli confermati in un report diffuso dal Dipartimento di Stato il 15 maggio dell'89 dove rivelano i suoi molti viaggi. In alcune occasioni lo accompagna la donna, forse per dare meno dell'occhio — metodo usato allora dagli estremisti palestinesi —, spesso va a Damasco, capitale che ospita i meeting con alcuni due suoi capi. Nel medesimo rapporto aggiungono che il palestinese dispone di numerosi conti correnti sparsi tra Svezia, Finlandia e Italia. Sono tanti quanti i suoi alias, almeno 15. Michel Salaranta, Michel Rouphael, Jabalah Muhammad Hijab ed altri. Gli spostamenti sono legati al finanziamento e al coordinamento dei killer incaricati di eseguire gli attentati. Dopo il massacro all'aeroporto romano nel 1985, Khadar è costretto a cambiare aria, l'intelligence è sulle orme, la «piazza» romana bruciata: l'estremista si trasferisce in Svezia e vi rimane per un paio d'anni senza che nessuno riesca a scovarlo.

 La copertura a Stoccolma
  In questo intervallo la Cia ipotizza un suo coinvolgimento nell'assalto di un jumbo Pan Am a Karachi (sotto, foto Ap), il 5 settembre 1986. Ventuno morti e 100 feriti. Un membro della fazione, Salman al Turki, rivelerà agli investigatori che il suo referente era il «Serpente». Nome in codice perfetto per descrivere uno spregiudicato, abile, freddo. Quasi un mese dopo, nascondendosi sempre dietro la maschera di cittadino irreprensibile con molti interessi, sposa Aija con la quale condivide un appartamento di tre stanze a Stoccolma. La copertura, all'epoca, è la al Alamia, società di import-export che tratta (solo sulla carta) dalle scarpe ai mobili. La moglie, dalla quale avrà un figlio, racconterà più avanti di non aver mai sospettato nulla. Possibile? Eppure secondo le successive indagini risulterà evidente come il terrorista non svolgesse alcun commercio, però avesse molto denaro e fosse proprietario di un paio d'auto, una Mercedes 230 e una Volvo 244. Non si faceva mancare nulla. E questo è ciò che sappiamo. Tanto resta da scoprire. Diversi aspetti della permanenza italiana di Khadar vanno ancora decifrati, così come le possibili complicità, i rifugi per le armi.

 Sangue in Grecia
  Alle 14.30 dell'11 luglio 1988 un veicolo Nissan Sunny esplode non lontano dallo scalo greco del Pireo. Tra le lamiere la polizia trova molti indizi: tre paia di scarpe, i resti di almeno due uomini, frammenti di un passaporto con la foto parzialmente visibile, armi. Tra queste c'è una pistola Browning che fa parte di un lotto venduto dal Belgio alla Libia. Gli investigatori sono ancora piegati sui rottami del Suv quando sono chiamati da una nuova emergenza. Un sicario ha aperto il fuoco sui passeggeri del traghetto greco City of Poros. Otto le vittime, in gran parte turisti francesi, più l'assalitore dilaniato da una granata. Gli agenti recuperano una mitraglietta e scoprono che si tratta di una Beretta acquistata dal governo di Tripoli in Italia. I noleggi della Nissan e di una seconda vettura — una Opel — insieme alle testimonianze degli impiegati permettono alla polizia di arrivare ad un'identità — falsa — di un cittadino libanese, Hezab Jaballah. Scattano verifiche in tutti gli hotel della zona e localizzano il passaggio del sospetto all'albergo Galaxy, quindi in un appartamento di Atene. Le perquisizioni «parlano», in quanto l'inquilino è scappato lasciandosi dietro una montagna di carte, valuta di stati stranieri (Libia, Siria, Bulgaria, Cipro, Finlandia, Bolivia, Jugoslavia, Tunisia), materiale elettrico, biglietti aerei intestati ad Adnan Sojod, che — si scoprirà — è il fedain che ha sparato sul traghetto, e a Michel Rouphael. Poi altri passaporti.

 L'assassino del piccolo Stefano
  L'insieme dei tasselli e la collaborazione internazionale — in particolare dei ciprioti che lo hanno avuto in mano per quattro anni — portano di nuovo al «Serpente»: Samir Khadar. Il coordinatore è arrivato il 1o giugno in Grecia con un volo da Copenaghen — precisa un rapporto statunitense in nostro possesso —, ha mostrato un passaporto libico intestato a Jabalah Hijab rilasciato il 29 settembre 1985. I complici, invece, hanno seguito la rotta Beirut-Belgrado-Atene nel mese di maggio. Il gruppo di fuoco, probabilmente, doveva entrare in azione tra i soccorritori del traghetto o in concomitanza con la sparatoria sulla nave. Quanto al movente gli Usa suggeriscono che Abu Nidal abbia voluto esercitare una sanguinosa pressione sulla Grecia che ha arrestato Abdel Osama Zomar, killer ricercato dall'Italia per la morte del piccolo Stefano Tachè, dilaniato da una bomba davanti alla sinagoga di Roma nell'ottobre 1982. E in effetti Atene, nonostante le richieste di estradizione giunte da Roma, consegna l'assassino alla Libia che si guarderà bene dal consegnarcelo a sua volta, nonostante le pressioni andate avanti fino al 2009. L'ennesima copertura garantita da Gheddafi, personaggio che oggi in molti rimpiangono. Non aggiungo altro.

 Senza fine
  All'inizio dell'inchiesta si pensa che la mente del piano possa essere una delle vittime della missione contro la Poros, ma lo scenario sfuma. I giornali svedesi pubblicano la foto recuperata dagli inquirenti greci sulla Nissan e il suocero del palestinese riconosce subito Khadar. Avvisa le autorità, scattano le perquisizioni e dalla casa di Stoccolma dove il mediorientale ha vissuto con la moglie salta fuori un rullino con le immagini di alcune zone boschive. Una di queste è localizzata. Dopo un rapido scavo spuntano quattro Kalashnikov, caricatori, bombe a mano. Situazione che ne ricorda altre. Prima dell'attacco a Fiumicino dell'85 (sotto, foto Ansa) i membri del commando ricevono appena arrivati a Roma gli Ak e le granate, a consegnarle un loro contatto. Dopo la strage l'unico sopravvissuto condurrà gli inquirenti nel parco di Villa Glori: sotto un albero una buca con i resti dell'equipaggiamento. A Parigi, invece, il detonatore per un'azione era stato celato in un tubetto di dentifricio lasciato in un cimitero. Inventiva mescolata con l'assistenza degli 007 arabi. Non meno importante il passaporto bruciacchiato rinvenuto sull'auto esplosa al Pireo: è intestato al solito Michel Rouphael. Il cerchio si chiude, in parte. Kadar ha chiaramente partecipato alla preparazione dell'attentato in Grecia. E dopo? Dove è finito? Un visto boliviano sul documento rappresenta un segnale. Gli americani, in quel momento, sospettano che possa essersi nascosto in Sud America, regione che ha già visitato, area peraltro marcata dal passaggio dei seguaci di Abu Nidal.

 Il mistero
  Come altri protagonisti di quella stagione, il «Serpente» diventa un'ombra, inseguito dalla magistratura di Italia, Svezia, Grecia, Francia e Usa, accompagnato dal dubbio — per alcuni — che sia deceduto nell'esplosione ad Atene. In realtà alcune segnalazioni riportano Khadar nel lontano 1992 in Libia, nido per terroristi e mercenari al soldo del colonnello. In quello stesso anno Parigi ne chiede l'estradizione a Tripoli per il massacro del traghetto City of Poros. Domanda rimasta senza risposta. Nel marzo 2012 un tribunale di Parigi condanna il ricercato, insieme a due complici, all'ergastolo. La Giustizia non sarà «servita», la sorte di Samir resta un mistero.

(Corriere della Sera Digital Edition, 28 giugno 2017)


Cyber warfare, cosa faranno insieme Israele e Stati Uniti

di Emanuele Rossi

Martedì, durante la Cyber Week 2017, organizzata dall'Università di Tel Aviv, è stato annunciato l'inizio di una collaborazione tra Stati Uniti e Israele nell'ambito della cyber security. A parlarne è stato Thomas Bossert, assistente del presidente americano Donald Trump per la Sicurezza nazionale con l'incarico di monitorare l'antiterrorismo.

 La struttura congiunta
  I primi incontri del gruppo di lavoro congiunto inizieranno già questa settimana sotto la guida di Rob Joyce, coordinatore della cyber sicurezza della Casa Bianca, e di Eviatar Matania, direttore generale del National Cyber Directorate. "Le riunioni di questa settimana si concentreranno su una serie di problemi chiave della sicurezza informatica: le infrastrutture critiche, ricerca e sviluppo avanzati, cooperazione internazionale e forza lavoro" ha spiegato Bossert: il lavoro sarà "focalizzato sulla ricerca e l'arresto degli avversari cibernetici prima che questi possano infiltrarsi nelle reti e raggiungere le infrastrutture critiche, individuando anche modi precisi per rendere responsabili di fronte alla legge gli aggressori".

 Il momento
  Mai momento più calzante. Martedì c'è stato il secondo attacco cibernetico di scala globale nel giro di una mesata: Petwrap. Un'azione simile a quella vista il 14 maggio col ramsonware Wannacry. Per capire le dimensioni dell'attacco e del problema con un'immagine: la BBC ha scritto che nell'ex centrale nucleare di Chernobyl è stato necessario monitorare manualmente il livello di radiazioni, dopo che il sistema di controllo informatizzato, basato su Windows, era finito sotto attacco.

 Gli argomenti sensibili
  Il ramsonware che è stato usato per colpire lunedì pare abbia sfruttato lo stesso tool di Wannacry, noto come Ethernal Blue, costruito dall'Nsa americana come arma offensiva, e sottratto da qualcuno che lo ha poi passato a un gruppo di hacker, i quali a loro volta lo hanno messo online ad aprile. Anche questa è una delle sfide del team congiunto israelo-americano: evitare fughe di informazioni o materiale. Aspetto su cui pesa la spifferata uscita direttamente nello Studio Ovale dalla bocca del presidente Trump, quando rivelò a due invitati di alto profilo del governo russo che Tel Aviv aveva passato a Washington informazioni importanti su un nuovo piano dello Stato islamico.

 La collaborazione Usa/Israele
  I rapporti di collaborazione tra Stati Uniti e Israele sul settore intelligence non-cyber sono già ottimi, e tali restano nonostante la gaffe di Trump; per esempio, sembra che parte delle informazioni su un possibile nuovo attacco chimico che il regime siriano ha in progetto, possano arrivare da Tel Aviv. I funzionari israeliani raccontano l'amministrazione Obama, che negli ultimi anni ha segnato il punto più basso delle relazioni reciproche per via anche di una distanza caratteriale tra i rispettivi leader, come un periodo dove l'unica cosa che tra i due Paesi funzionava bene era lo scambio di informazioni. Adesso le cose dovrebbero andare meglio, visto che Trump sta cercando un nuovo avvicinamento. E Bossert e Matania in questi giorni hanno aperto ufficialmente un altro fronte in questa cooperazioni: si scrive "ufficialmente" perché il cyber warfare è già territorio di attività congiunte, anche se coperte, alla pari di quelle HumInt, visto la dimensione che certe attività informatiche possono raggiungere. "È una delle più grandi sfide strategiche dal 9/11?, l'ha definito Bossert, e, come ha ricordato il primo ministro Benjamin Netanyahu, in questo momento dire che si lavora per una società israeliana è un vanto quando si parla del settore della cyber security.

(formiche.net, 29 giugno 2017)


Israele-Arabia, una strana alleanza all'orizzonte

Prima Riad ha intimato al Qatar di tagliare i finanziamenti a Hezbollah e Hamas. Poi Netanyahu non s'è opposto alla cessione delle isole di Tiran e Sanafir ai sauditi. Tra i due Paesi si prospetta un asse dai risvolti dirompenti.

di Carlo Panella

 
La decisione di Israele di non opporsi alla cessione da parte dell'Egitto all'Arabia Saudita della sovranità sulle strategiche isole di Tiran e Sanafir rivela quanto era già emerso per altre vie: si è consolidato un asse strategico tra Gerusalemme e Riad dalle dimensioni e dai risvolti epocali. La storia di questi due isolotti è densa: sono posti all'imboccatura del Golfo di Eilat (per Israele) che per gli arabi si chiama appunto golfo di Tiran e la loro collocazione è potenzialmente pericolosissima per Israele perché permette con estrema facilità la chiusura del Golfo alla sua imboccatura meridionale e quindi la "strozzatura" dell'unico porto meridionale e non sul Mediterraneo di Israele. Porto di rilevanza fondamentale per tutti gli approvvigionamenti dall'oceano indiano e dall'Asia.

 L'incidente del 1967
  Questa "strozzatura" non è affatto una ipotesi teorica: nel 1967 Gamal Abdel Nasser chiuse il Golfo proprio facendo perno su queste due isole e questo blocco navale fu considerato da Israele - a termine dei trattati internazionali sulla navigazione - come una dichiarazione formale di guerra. Per questo, Israele ebbe immediata cura, dopo la "guerra dei sei giorni" del giugno 1967, di occupare manu militari le due isole, che restituì alla sovranità dell'Egitto solo col trattato di pace detto "di Camp David" nel 1979 grazie all'accordo Begin-Sadat.
  È quantomeno impressionante - e comunque estremamente rivelatore degli eccellenti rapporti tra Gerusalemme e Riad - che oggi Bibi Netanyhau non protesti minimamente, anzi, per il passaggio della sovranità potenzialmente esplosiva di queste due isole a una nazione araba che non ne riconosce ancora l'esistenza e che non ha mai firmato alcun accordo bilaterale né di pace, né territoriale. L'unico commento di pace israeliana è limitato alla ovvia richiesta che l'Arabia Saudita rispetti, in materia di gestione della sovranità di Tiran e Sanafir, quanto è contemplato (e il capitolo è corposo) dagli accordi di Camp David che però Riad si è ben guardata di firmare (anzi, a suo tempo, ebbe una parte primaria nell'espellere Sadat dalla Lega Araba per averli firmati).

 Effetti sui colloqui israelo-palestinesi
  Dopo i rumor circa la concessione dello spazio aereo saudita ai jet israeliani nel caso Gerusalemme decidesse di bombardare i siti nucleari dell'Iran, dopo gli abboccamenti tra Dore Gold, il facente funzione di ministro degli esteri israeliano, e alti esponenti sauditi, questo silenzio-assenso dimostra che ormai se non si può parlare di una alleanza politico-militare tra sauditi e israeliani, vi si va il più vicino possibile. Alla luce di questa strana "entente cordiale", peraltro, va interpretato anche l'ultimatum che i sauditi hanno intimato al Qatar: la pretesa che Doha ponga fine agli aiuti politico-economici ad Hamas e soprattutto a Hezbollah costituisce un "piacere" esplicito a Israele. Dunque, un quadro mediorientale in rapidissima e sconcertante evoluzione con possibili e positivi risvolti anche sui colloqui di pace tra palestinesi e israeliani.

(Lettera43, 29 giugno 2017)


Israele-Siria - Netanyahu: non tollereremo alcuno sconfinamento militare

GERUSALEMME - Israele non tollererà alcuno sconfinamento militare sul proprio territorio e risponderà ad ogni eventuale attacco. Lo ha dichiarato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, nel corso della cerimonia per i 40 anni della fondazione della città di Katzrin, nel nord di Israele, a circa 17 chilometri da Quneitra, dove nei giorni scorsi sono caduti dei colpi di mortaio dalla confinante Siria. "Non tollereremo alcuno sconfinamento e risponderemo ad ogni azione ostile. Attaccheremo chiunque ci attaccherà. Questa è la nostra politica", ha affermato il capo dell'esecutivo. Proprio nel corso della cerimonia di ieri sera, alcuni colpi di mortaio sono caduti nelle Alture del Golan, di cui Katzrin è il capoluogo. All'inizio della settimana altri tre episodi simili di sconfinamento militare dalla vicina Siria avevano provocato la risposta dell'aviazione israeliana. Nonostante la pronta risposta, le autorità di Gerusalemme hanno ribadito che non intendono avviare alcuna operazione militare.

(Agenzia Nova, 29 giugno 2017)


Amatrice riparte dal calcio. Domenica sfida al Maccabi

di Francesca Pizzolante

 
Il campo realizzato grazie all'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
AMATRICE - Un nuovo manto erboso, degli spalti per saltare ed incitare la squadra del cuore. Il calcio, il tifo, lo sport che unisce ancor di più una comunità abbondantemente afflitta da tragedie delle natura e dall'inerzia della burocrazia. Domenica sarà tutta un'altra partita. Già, perché Amatrice torna in campo. Il fischio di inizio è per domenica 2 luglio, data in cui si sfideranno in un'amichevole Amatrice 2.0- Maccabi. A quasi un anno da quella maledetta notte, la popolazione del centro Italia riscopre la voglia di giocare. A Scai, una delle sessantanove frazioni di Amatrice, domenica pomeriggio verrà inaugurato un campo di calcetto realizzato grazie alla donazione dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
   Si tratta del primo impianto sportivo che torna disponibile per le popolazioni terremotate. «Lo sport è veicolo straordinario per la condivisione di valori profondi, che ci uniscono nel segno della solidarietà e dell'amicizia - dichiara Franca Formiggini Anav, la Consigliera UCEI che si sta occupando di organizzare e coordinare l'iniziativa -. La scelta di realizzare questo campo di calcetto risponde a un'esigenza precisa: regalare un luogo di svago, incontro e convivialità che possa resistere nel tempo. Perché la gente di Amatrice merita non soltanto ammirazione per come sta reagendo al dramma che l'ha colpita negli scorsi mesi, ma anche un aiuto concreto. Noi ci siamo e ci saremo anche in futuro . L'ebraismo italiano, che ha nel cuore questi valori, non poteva sottrarsi».
   A bordo campo poi ci sarà lui, il sindaco eroe, con la passione per il calcio, Sergio Pirozzi premiato dagli allenatori italiani con la prestigiosa Panchina d'Oro. «È la prima struttura sportiva all'aperto che riapre - dice Pirozzi-. Il campo è stato costruito in una frazione grazie alle donazioni delle associazioni. Insomma è un messaggio straordinario. Da domenica si riacquista un luogo dove fare sport. Questo accade, ci tengo a sottolinearlo, grazie allo splendido mondo della solidarietà della comunità ebraica. E' un piccolo tassello che aiuta a livello psicologico la mia comunità. Nei prossimi mesi spero di veder inaugurare altri centri: il palazzetto dello sport ad Amatrice grazie al progetto del Coni, nella costruzione della nuova scuola è prevista una grande palestra. L'Associazione Sportiva della Roma realizzerà un campo polivalente, Save the Children invece porterà a termine un campo da tennis. Ho avuto rassicurazione dal presidente Tavecchio che a breve partiranno i lavori per la riqualificazione del vecchio campo sportivo che per fortuna ci ha dato sostegno a livello logistico nei giorni immediatamente successivi al terremoto dell'anno scorso. La mia intenzione è far diventare domani Amatrice una cittadina a vocazione sportiva, per cui ci stiamo lavorando».

(Il Tempo, 29 giugno 2017)


A Gerusalemme - Israele celebra Tajani con un bosco

Diciotto piante in suo onore: «Costruisce ponti tra Ue e religioni»

ROMA - Un bosco in Israele, forse a Gerusalemme, dedicato al presidente dell'europarlamento Antonio Tajani, come omaggio al suo lavoro per «costruire ponti tra le religioni e tra Ue e le varie confessioni». Saranno diciotto alberi, nel simbolismo numerico ebraico tanti quante le lettere per scrivere la parola «vita».
   Ieri, nella Grande Sinagoga di Bruxelles, che è anche la Sinagoga d'Europa, Tajani ha partecipato alla cerimonia in suo onore, in cui la comunità ebraica europea ha comunicato ufficialmente il riconoscimento e la sua motivazione.
   «Questo momento - ha detto- è il risultato di un lungo cammino fatto insieme, per consolidare uno dei punti forti dell'Europa: il dialogo. D'altronde, ho messo il mio mandato di presidente del Parlamento europeo sotto il segno del dialogo con i cittadini sul futuro che si augurano per l'Europa. Le questioni prioritarie sono la lotta contro il terrorismo, la situazione economica e la disoccupazione, ma anche la gestione dei flussi migratori. E per ognuno sono convinto che l'Unione può ottenere risultati concreti. Sono ottimista, perché siamo forti e questa forza viene dalla nostra identità, che ci unisce più di quelli che vogliono dividerci».
   Discorsi ufficiali alternati a concerti di violini, arpe e flauti, nell'incontro iniziato con l'apertura dell'Arca santa dell'Alleanza e con la benedizione per l'Unione europea, cui hanno partecipato autorità religiose, come il rabbino capo di Bruxelles e del Belgio Albert Guigui, il presidente del Concistoro centrale israelitico del Belgio Philippe Markiewicz, il rappresentante del vescovo del Belgio Iozef De Kesel, monsignor Guy Harpigny, il presidente dell'Executif des Musulmans de Belgique Sallah Echalloui.
   «Bisogna impegnarsi - ha detto ancora Tajani nel suo intervento - per difendere la nostra identità e integrare il cambiamento. In questo contesto, le religioni hanno un ruolo chiave, perché rappresentano i valori che sono alla base della nostra civiltà: la tolleranza, la centralità della persona, la misericordia, la pace. Il dialogo tra la politica e le religioni è dunque fondamentale». Il presidente dell'europarlamento ha illustrato le iniziative già intraprese a Bruxelles per sostenere il dialogo interreligioso. Ha ricordato la risoluzione sulla prevenzione della radicalizzazione, che ha dato un forte sostegno a molte iniziative politiche e progetti di legge in questo campo; l'impegno per il ruolo della scuola nella lotta agli estremismi; la difesa dei diritti delle donne; i rapporti con le associazioni che trasmettono «i veri valori dell'Islam».

(il Giornale, 29 giugno 2017)


Umanità in cammino verso la costituzione dell'ORU (Organizzazione Religioni Unite). Il mondo unito in una religiosità globale, ultimo atto prima dell'intervento pubblico di Dio. “Quando diranno: «Pace e sicurezza», allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno” (1 Tessalonicesi 5:3).


Una settimana di "resistenza Lgbt"

Ma senza uscire dalla bolla di diritti, languore e probità morale. #Love Wins, tranne che nell'islam.

di Giulio Meotti

ROMA - "Combattere i nazionalismi che invocano muri e confini". Questa la piattaforma del Roma Pride, la manifestazione annuale dell'orgoglio Lgbt, che ha chiamato alla "resistenza contro questa involuzione" con slogan edificanti come "Make Italy gay again". Ma come ha chiarito il settimanale inglese Spectator, "la battaglia per i diritti gay si ferma ai confini dell'islam". L'Isis lo sa bene e, riprendendo lo slogan usato dopo la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti che ha dichiarato legale il matrimonio gay in base al quattordicesimo emendamento, ha lanciato, oltre ai gay dai palazzi di Raqqa, anche l'hashtag #LoveWins.
   Sono state due settimane di marce e proteste per l'orgoglio arcobaleno. Ma in nome di una piattaforma che di liberale e libertario aveva ben poco. Alla marcia Lgbt di Chicago, i funzionari dell'orgoglio arcobaleno hanno fatto sparire le bandiere con la stella di Davide delle queer israeliane. Erano "offensive" per un evento che si diceva "inclusivo". Non è la prima volta che a queste sfilate si attaccano i gay rei di "sionismo", come un tempo di "immoralità". Forse perché la "resistenza Lgbt'' è talmente progressista da anteporre la causa antisraeliana alla difesa dei propri membri. La grande marcia di N ew York è stata tutta scandita da slogan per la "resistenza" contro la presidenza Trump, a favore dell'Obamacare, del gun control (ne sanno qualcosa i 49 omosessuali sterminati dall'Isis nel tiro al piccione del Pulse Club di Orlando) e contro la politica sull'immigrazione della Casa Bianca. L'orgoglio gay poteva aspettare, piegato alle esigenze politiche del momento. A Toronto, la marcia si è sottomessa ai militanti afroamericani di Black Lives Matter. Così è stata bandita la polizia. A Minneapolis hanno chiesto al capo della polizia, la lesbica Janee Harteau, di non farsi vedere in giro. Intanto, gli islamisti di Erdogan pestavano i gay a Istanbul, in Cecenia i cleptocrati di Kadirov li scorticavano in carcere e a Gaza la polizia di Hamas giustiziava civili e militanti sospettati di essere gay. Alle sfilate Lgbt occidentali non si sono viste bandiere contro la Cecenia, slogan contro il trattamento dei gay da parte dei socialisti del Venezuela (a lungo gli antifascisti di regime, dai guevaristi di Cuba alle pagine di Rinascita, hanno usato la parola "pederasta" come una ingiuria), proteste contro gli schiavisti dello Stato islamico, cori contro l'Indonesia che ha di recente frustato gli omosessuali in piazza, strali contro l'uccisione di giornalisti e militanti Lgbt del Bangladesh, flash mob contro l'Iran che ha appena arrestato trenta omosessuali in un raid notturno e li ha sottoposti al "test della sodomia", mentre abbondavano slogan da veri resistenti come "No cops! No banks". A New York, invece, si dava di "queer bashers" al segretario di Stato Rex Tillerson e a Jared Kushner. Ad aizzare le masse arcobaleno a New York c'era Chelsea Manning, idolo dell'identità fluida, che tuonava contro l'America, immemore di essere stata graziata da Obama. Il più noto editorialista australiano, Andrew Bolt, si è chiesto perché non ci sono barche contro l'Isis alla sfilata gay friendly di Sydney.
   E' bellissimo l'orgoglio arcobaleno dentro a questa bolla liberal di diritti, languore, benessere e probità morale. E' la "resistenza Lgbt" per cacciare padre Livio Fanzaga e boicottare Dolce & Gabbana, rei di aver detto di credere alla famiglia tradizionale e che i figli non si fabbricano in provetta, ma dimenticando così gli "immorali" che languono oltre confine. Com'era la filastrocca arcobaleno di quest'anno, "no ban, no wall, New York is for all"?

(Il Foglio, 29 giugno 2017)


Qualcuno forse potrebbe cominciare a capire che i movimenti con le sigle Lgbt e Bds stanno dalla stessa parte. Sono decisamente indirizzati contro l’unico vero Dio che si è rivelato nel Messia di Israele. Quindi sono diabolici. M.C.


Raccontare l'esodo in una foto. Il concorso di Haviu et Hayom

Un concorso fotografico volto a sviluppare il tema dell'esodo a partire dalla specifica esperienza, esattamente cinquanta anni fa, della fuga degli ebrei di Libia e del loro arrivo in Italia. A lanciarlo l'associazione giovanile Haviu et Hayom, attraverso un bando diffuso in questi giorni. Al termine del concorso, rivolto alla fascia di età 16-35 anni, le fotografie verranno esposte in una mostra che sarà inaugurata in occasione della prossima Giornata Europea della Cultura Ebraica (i vincitori saranno premiati in questa circostanza).
L'idea degli organizzatori è che la fuga degli ebrei libici possa essere considerata "una parabola di tutti gli esodi moderni e delle attuali migrazioni transnazionali". E questo perché, si legge nel bando, "il loro arrivo in Italia ha contribuito a mettere in discussione l'idea di un'identità ebraica romana compatta ed omogenea". Inoltre, viene sottolineato, queste comunità sono riuscite in un perfetto inserimento nella società italiana, hanno contribuito allo sviluppo delle città di Roma, Milano e Livorno, e hanno arricchito il patrimonio linguistico e culturale delle comunità ebraiche che li hanno accolti. "Per tutti questi motivi - si legge ancora - gli ebrei di Libia rappresentano un modello paradigmatico di integrazione e la loro storia offre molteplici spunti adatti alla rappresentazione fotografica oggetto di questo concorso".

(moked, 29 giugno 2017)


Una contraffazione della realtà storica

COMUNICATO STAMPA

Giovedì 29 giugno il gruppo di "Sì Toscana a sinistra" ha organizzato presso il Consiglio Regionale della Toscana un convegno dal titolo "1967 - 2017 Palestina: 50 anni di occupazione militare. E' tempo di giustizia e libertà."
Fermo restando il diritto degli organizzatori dell'incontro di manifestare il proprio pensiero, le Associazioni Italia Israele di Firenze e di Livorno esprimono la propria indignazione per l'utilizzo dello slogan contenuto all'interno dello stesso titolo dell'incontro: "50 anni di occupazione militare. È tempo di giustizia e di libertà", foriero di una contraffazione della realtà storica e di una faziosa alterazione dei prodromi che portarono alla Guerra dei Sei giorni, ed in ordine ai quali le due associazioni intendono invece restituire chiarezza storica, nel segno di una corretta informazione anche sulla situazione attuale in Medio Oriente.
L'odierna situazione è frutto della Guerra dei Sei Giorni che nasce dalla volontà dei dittatori egiziano e siriano Nasser e Assad di distruggere lo Stato d'Israele, come da loro più volte dichiarato, e dall'acquiescenza di Re Hussein di Giordania di fronte alle loro minacce.
E' frutto dalla violazione egiziana dell'accordo del marzo 1957 che prevedeva il Sinai smilitarizzato e posto sotto il controllo delle truppe dell'ONU; è frutto del blocco egiziano dello stretto di Tiran che impediva il transito delle navi verso il porto israeliano di Eilat, casus belli previsto dal diritto internazionale.
E' frutto della volontà araba di ripetere il genocidio del popolo ebraico, come dichiarato il 1o Giugno 1967 dal Presidente dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina: "O noi o gli israeliani, non ci sono vie di mezzo. Israele sarà annientato. Gli ebrei di Palestina dovranno andarsene. Agevoleremo la loro partenza dalle loro case. Chi sopravviverà dell'antica popolazione ebraica di Palestina potrà restare, gli altri sopravvissuti saranno deportati ma ho l'impressione che nessuno di essi sopravviverà".
E' frutto della conferenza tenuta il 1o Settembre 1967 a Khartoum dagli Stati arabi che, di fronte all'offerta israeliana di ritirarsi dai territori occupati durante la guerra in cambio del riconoscimento dello Stato entro confini sicuri, rispose con tre NO: "No al riconoscimento di Israele, no alle trattative con Israele, no alla pace con Israele".
Gli organizzatori del convegno, se conoscessero la storia del Medio Oriente, saprebbero anche che quando, dopo decenni di inutili atti di terrorismo, l'OLP si decise a riconoscere l'esistenza dello Stato d'Israele, con gli accordi di Oslo del 1993 Israele lasciò all'Autorità palestinese l'amministrazione delle maggiori città della Cisgiordania; ma quando, nel luglio 2000, il presidente americano Bill Clinton presentò alle due parti un definitivo piano di pace che accoglieva sostanzialmente le richieste palestinesi, Israele accettò e fu Arafat che rifiutò, aprendo una nuova fase del conflitto che non si è ancora chiusa.
Se conoscessero la storia del Medio Oriente saprebbero anche tante altre cose, ad esempio che Israele si ritirò da Gaza unilateralmente nel 2005 e che su quel territorio governa, con metodi brutali e all'insegna dell'applicazione del più retrivo islamismo, Hamas, nel cui Statuto c'è scritto che "Israele esisterà e continuerà ad esistere finché l'Islam non lo cancellerà, proprio come ha cancellato altri prima di esso", e che infatti "si diverte" a lanciare razzi in territorio israeliano, come quelli che provocarono il conflitto del 2014.
Se conoscessero la storia del Medio Oriente… Ma gli organizzatori del convegno alla conoscenza della storia preferiscono gli slogan urlati, come è loro consuetudine.
Dispiace purtroppo che a tale strumentale iniziativa si presti anche l'On. Pia Locatelli, esponente del Partito Socialista, un partito di governo erede di una tradizione politico-culturale molto spesso schierata, anche in modo coraggioso, con le ragioni di Israele. Ma ognuno sceglie la compagnia che preferisce.
Chiediamo agli organizzatori del convegno soltanto una cosa, di non avere l'improntitudine di usare l'espressione "giustizia e libertà", che appartiene a Carlo e Nello Rosselli, due persone con le quali gli organizzatori e i partecipanti al convegno non hanno proprio niente a che fare.

Valentino Baldacci - Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze
Celeste Vichi - Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Livorno

27 giugno 2017

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 28 giugno 2017)


Alta tensione in Medio Oriente

Continua la crisi diplomatica tra il Qatar e Arabia Saudita, Egitto, Bahrain ed Emirati Arabi. Si temono venti di guerra.

di Alessio Accardo

Il Qatar ha respinto le 13 richieste avanzate da Egitto, Arabia Saudita, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti per scongiurare una crisi diplomatica che rischia sempre più di sfociare in un conflitto militare. Il piccolo regno qatariota non intende rinunciare alla sua politica estera e ai suoi legami con la Fratellanza Musulmana e, soprattutto, ai rapporti con l'Iran, paese sciita, in aperto contrasto con le potenze sunnite della regione, capeggiate dall'Arabia Saudita.
  La monarchia del Qatar condivide con l'Iran lo sfruttamento di uno dei più grandi bacini di gas esistenti al mondo, che si estende per circa 9.700 chilometri quadrati, di cui 6.000 sono sotto la sovranità qatariota, e 3.700 sotto quella iraniana.
  La collaborazione tra i due Stati diventa, quindi, indispensabile per trarne un enorme profitto economico, che permetterebbe al piccolo regno di competere con la potenza economica dell'Arabia Saudita, i cui proventi derivano da attività petrolifere: in altre parole, una guerra tra petrolio e gas.
  Di sicuro, oltre a considerazioni di carattere economico, ci sono anche aspetti non trascurabili che coinvolgono l'eterna lotta tra sciiti e i sunniti. In questo scenario la posizione del Qatar, paese a maggioranza sunnita, risulta ambigua, tale da rendere sospettosi gli storici alleati sunniti.
  Ulteriore punto di frizione è l'appoggio che il piccolo regno dà alla Fratellanza Musulmana, organizzazione dichiarata terroristica in alcuni paesi sunniti tra i quali c'è l'Egitto, dove la Fratellanza ha guidato il paese per circa un anno, creando una sorta di governo fondamentalista prima di essere defenestrata da un colpo di stato soft, seguito da elezioni non del tutto trasparenti.
  In questo contesto, va inquadrata anche la richiesta da parte delle potenze del Golfo della chiusura dell'emittente satellitare Al-Jazeera, vero megafono dell'organizzazione terroristica, artefice delle primavere arabe, fallite miseramente nonostante l'appoggio degli Stati Uniti di Barack Obama.

 Stati Uniti
  La posizione degli Stati Uniti in questo conflitto diplomatico tra paesi teoricamente alleati è abbastanza complicata. Ricordiamo che nel regno qatariota vi è la più grande base militare delle forze USA in #Medio Oriente, che ospita il Centcom (comando centrale per le operazioni in Afghanistan e Iraq). Per questo motivo, il Paese a stelle e strisce cerca di essere prudente [VIDEO], pur essendo più vicino alle posizioni dell'Arabia Saudita.
  Tutto ciò è complicato dalla presenza di altri attori regionali, che sono in attesa di sfruttare la situazione per i propri vantaggi: parliamo della Turchia, che ha inviato un contingente militare di 3.000 uomini in difesa del Qatar, e che ha reagito sdegnosamente alla richiesta di abbandonare il Paese avanzata dalle potenze del Golfo.
  La strategia dello Stato di Erdogan nel cercare di riproporre il modello neo-ottomano in quella parte del globo, potrebbe nel medio termine creare attriti in tutto il Medio Oriente. Ricordiamo, infatti, che quell'impero, seppur islamico, non fu mai ben accetto dai paesi arabi.
  Inoltre c'è la Russia che, dopo la Siria, intende ritornare in Medio Oriente con un ruolo strategico sempre più attivo e in chiave anti-americana, mentre gli iraniani vedono di buon occhio le divisioni presenti nel mondo sunnita, che favoriscono la sua influenza su tre paesi chiave (oltre la Siria), ovvero Iraq, Libano e Yemen, accerchiando in questo modo l'Arabia Saudita.
  Discorso a parte riguarda Israele, la cui posizione - seppur paradossale - è più vicina al governo fondamentalista wahabita dell'Arabia Saudita che non a quella del Qatar, questo sempre in ottica anti-Iran, sostenitore di Hamas e Hezbollah, nemici giurati di quello che è considerato lo stato sionista di Israele.
  Insomma, ci sono tutti i presupposti per far precipitare la situazione: motivi economici, religiosi, strategie di lungo periodo di leadership e interessi di potenze straniere. Un passo falso di uno degli attori della vicenda, e tutto ciò potrebbe sfociare in un conflitto che appare comunque locale e con scarse possibilità di diventare globale, nonostante la presenza della Russia e degli Stati Uniti.
  Probabile che, in realtà, lo scopo ultimo sia quello di aver in Qatar - un paese di appena 2,6 milioni di abitanti - un cambio di regime, magari sempre nell'ambito della stessa dinastia regnante, cosa che avviene spesso in quelle zone.

(Blasting News, 28 giugno 2017)


Hamas avvia lavori su zona cuscinetto con l'Egitto

 
Membri delle forze di sicurezza di Hamas di guardia davanti alla frontiera di Rafah con l'Egitto nella striscia meridionale di Gaza
GERUSALEMME - Il movimento palestinese islamista di Hamas sta creando una zona cuscinetto tra la Striscia di Gaza e l'Egitto per migliorare le condizioni di sicurezza. E' quanto annunciato oggi dal ministero dell'Interno di Gaza, precisando che la creazione della buffer zone, estesa circa 100 metri, e lunga circa 12 chilometri, rientra negli accordi raggiunti tra i leader di Hamas e i vertici dell'intelligence egiziana nelle scorse settimane al Cairo. Il viceministro dell'Interno di Gaza, il generale Tawfiq Abu Naim, spiega che sono iniziati i lavori per la "rimozione degli ostacoli, tra cui alberi, pozzi d'acqua, e dune di sabbia che rendono difficile mantenere il controllo della linea di confine". Il piano prevede il livellamento della zona cuscinetto nella zona palestinese di Rafah, dove si trova il valico con l'Egitto, e la costruzione di torri di controllo con telecamere di sorveglianza. L'obiettivo di Hamas è combattere l'estremismo e migliorare i legami con il Cairo. Le autorità di Gaza auspicano che, una volta creata la zona di sicurezza, l'Egitto possa aprire il valico di Rafah in modo regolare e non in determinati periodi, come avviene oggi.
  L'Egitto ha accusato in passato la leadership di Hamas di aiutare i gruppi terroristici presenti nella penisola del Sinai, dove è attivo il gruppo Wilayat Sinai, noto fino al 2014 - prima dell'affiliazione allo Stato islamico - come Ansar Beit Maqdis che letteralmente significa "sostenitori della Città santa", ovvero Gerusalemme. I legami tra Wilayat Sinai e il braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedin al Qassam, sono legati a Shadi al Menai, uno dei leader del gruppo attivo in Sinai. L'uomo, un trafficante di armi, ha contribuito a fondare il gruppo terroristico Ansar Beit al Maqdis - gruppo jihadista nato nel Sinai creato dai militanti di Gaza. I legami tra Al Menai e Hamas sarebbe continuati anche dopo il 2014, quando Ansar Beit al Maqdis si è affiliato allo Stato islamico, cambiando il nome in Stato del Sinai (Wilayat Sinai).
  Il movimento palestinese di Hamas, che dal 2006 governa la Striscia di Gaza, è impegnato da un lato a combattere i gruppi salafiti attivi nel territorio palestinese. Dall'altro, tuttavia, il gruppo palestinese ha relazioni con formazioni estremiste legate allo Stato islamico attive in Sinai. Attraverso i tunnel che collegano i Territori palestinesi all'Egitto vengono smistate armi, come riferiscono diversi rapporti di analisi. Parallelamente il governo del presidente Abdel Fatah al Sisi è impegnato in una lotta contro il gruppo Wilyat Sinai, affiliato allo Stato islamico. Nella lotta all'estremismo islamico in Sinai il governo egiziano beneficia anche del sostegno di Israele, accettando tacitamente i raid israeliani che sono avvenuti in passato in risposta ai razzi caduti nello Stato ebraico provenienti dal Sinai.
  A spingere i salafiti di Gaza ad abbandonare il braccio armato di Hamas, le Brigate Qassam, sarebbe secondo alcuni analisti proprio il malcontento della popolazione di Gaza contro la strategia del movimento palestinese che dal 2006 governa la Striscia. I combattenti palestinesi di Gaza sarebbero portati a lasciare la militanza con Hamas per abbracciare quella dello Stato islamico per due ragioni. Da un lato, le condizioni di indigenza della popolazione di Gaza causate dal blocco, ma anche dalle politiche di gestione di Hamas. Dall'altro la strategia nei confronti di Israele. E' in questo quadro di perdita di consenso di Hamas che si può leggere la mossa di creare una zona cuscinetto al confine con l'Egitto. Nelle ultime settimane, infatti, le autorità di Ramallah, guidate dal partito rivale di Hamas, Fatah, hanno tagliato parte degli stipendi ai dipendenti dell'amministrazione di Gaza. Inoltre, Fatah avrebbe giocato un ruolo anche nella recente decisione delle autorità israeliane di tagliare i rifornimenti di energia elettrica a Gaza, con l'obiettivo, sul lungo termine, di far cedere Hamas. Il movimento guidato da Yahya Sinwar è in scontro con Fatah per questioni di leadership e lo scorso maggio ha deciso di boicottare le elezioni che si sono invece svolte in Cisgiordania.
  A livello generale il rapporto che lega Hamas con lo Stato islamico in Sinai è più articolato. Il movimento palestinese che controlla la Striscia di Gaza sarebbe preoccupato per il ruolo che le frange jihadiste possono svolgere nell'area destabilizzandola, secondo alcuni analisti. Parallelamente Hamas garantirebbe protezione ai leader delle organizzazioni terroristiche attive in Sinai, ma allo stesso tempo cercherebbe di mantenere "buone relazioni" con Il Cairo, impegnato nella lotta al terrorismo in Sinai. Il governo egiziano, infatti, con le periodiche aperture del valico di Rafah - che recentemente si sono intensificate - garantisce l'unico collegamento con l'esterno della Striscia di Gaza. Il doppio ruolo che Hamas gioca con l'estremismo dello Stato islamico è evidenziato anche da un rapporto pubblicato lo scorso 8 febbraio sul sito "Investigativeproject". Da un lato, infatti, il movimento palestinese cerca di arginare il ruolo delle frange estremiste nella Striscia di Gaza, dall'altro cerca di coltivare un "rifugio sicuro", dove poter far scappare i propri leader nel caso di un confronto con Israele.

(Agenzia Nova, 28 giugno 2017)


L'Egitto cede ai sauditi le due isole strategiche e rinsalda l'asse anti Iran

di Davide Frattini

Giura di aver obbedito agli insegnamenti della madre, gli ripeteva di restituire quel che non era suo. Eppure per cedere ai sauditi le rocce rosse di Tiran e Sanafir il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha ottenuto in cambio aiuti economici per 25 miliardi di dollari. Non bastano ai parlamentari che hanno protestato per giorni contro l'accordo, non bastano ai manifestanti scesi per strada a urlare slogan contro quella che considerano una svendita, almeno del senso della patria. Perché le due piccole isole stanno all'ingresso del Golfo di Aqaba, chi controlla le acque che le bagnano domina l'accesso al Mar Rosso, un punto di transito strategico. Per tutto il Medio Oriente e per gli israeliani: da lì passa il traffico navale verso il porto di Eilat, per proteggere la libertà di movimento dei mercantili sono andati in guerra almeno un paio di volte, a partire dal 1956 e dalla crisi di Suez quando il leader egiziano Gamal Adbel Nasser ordinò la chiusura dello stretto. Eilat ha anche un valore simbolico: era stato il presidente americano Harry Truman a riconoscere la sovranità dello Stato ebraico su quel tratto di costa che si incunea tra i Paesi arabi.
   Adesso il governo di Benjamin Netanyahu sembra aver dato il benestare silenzioso all'operazione con l'Arabia Saudita. La gestione delle isole è dettagliata dagli accordi di Camp David, è dalla stretta di mano del 1979 che gli egiziani garantiscono il passaggio attraverso lo stretto di Tiran. La responsabilità viene affidata ai sauditi che non hanno relazioni diplomatiche con Israele e in modo ufficioso diventano parte dell'intesa di pace firmata trentotto anni fa. Il passaggio di proprietà dei due isolotti indica un passaggio di alleanze: i Paesi sunniti del Golfo si avvicinano all'altra forza nella regione impegnata quanto loro a contrastare l'otfensiva degli ayatollah sciiti. È l'asse anti Iran che Donald Trump, il presidente americano, ha cominciato a costruire nel suo viaggio tra Riad e Gerusalemme.
   Pur di garantire l'accordo con i sauditi, Al Sisi ha ignorato le decisioni dei giudici che avevano stabilito l'appartenenza all'Egitto dei territori e ha scelto di portare la questione davanti al Parlamento dove ha ottenuto il voto favorevole dei deputati a lui fedeli. L'annuncio della cessione è stato dato alla vigilia di Id al Fitr, quando i musulmani sono impegnati a preparare i festeggiamenti che concludono il mese sacro di Ramadan. «Gli egiziani sentono il pericolo, la vergogna e la sconfitta generati dall'aver dato via le isole - commenta la scrittrice Ahdaf Soueif sul quotidiano americano New York Times -. La vita per noi è sempre stata dura ma la pietra fondante della nostra identità è che l'Egitto ha vissuto in forma riconoscibile per migliaia d'anni. Questa pietra si sta erodendo perché le caratteristiche più importanti della nazione vengono corrotte».

(Corriere della Sera, 28 giugno 2017)


"Ecco perché le Br diedero i verbali di Moro ai palestinesi"

Fioroni, presidente della Commissione d'inchiesta: "I brigatisti volevano riconquistare la loro fiducia".

di Francesca Paci



Mario Moretti
Nel 1976 il Fplp inizia a dubitare delle Brigate Rosse. Moretti due anni dopo prova a riottenere la fiducia dei palestinesi
Stefano Giovannone
Il colonnello del Sismi ricevette un documento di George Habash con l'impegno del Fplp a impedire attacchi
in Italia
Taysir Qubaa
L'ex responsabile degli Esteri del Fplp aveva detto nel 1980 che si poteva contare «sui compagni» italiani addestrati nei campi palestinesi

 
BASSAM Abu Sharif
Il giorno dopo l'audizione di Bassam Abu Sharif davanti alla Commissione bicamerale d'inchiesta sulla morte di Aldo Moro, il presidente Giuseppe Fioroni mette in ordine quelle che definisce «importanti novità» per la ricostruzione dell'Italia di quegli anni. Secondo l'ex del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) che Fioroni ha ascoltato per ore, nel 1978 i palestinesi diffidavano delle Brigate Rosse, riferivano all'ìntelligence di Roma qualsiasi informazione ricevessero circa potenziali attentati in Italia nel quadro dell'impegno unilaterale firmato da George Habash, accoglievano nei loro campi numerosi nostri giovani connazionali disposti a curare i malati ma anche a combattere per la loro causa.

- Abu Sharif cita un accordo scritto in cui Habash s'impegnava a risparmiare l'Italia. È la conferma del cosiddetto Lodo Moro?
  «Abu Sharif ha ammesso che dopo l'attentato di Fiumicino del 1973 le intelligence italiana e palestinese avviarono una serie di contatti sfociati in un documento unilaterale firmato da George Habash a nome del Fplp e consegnato al colonnello Giovannone affinché lo portasse a Roma. In quella lettera, che Abu Sharif inquadra nella politica estera di Moro centrata allora sui Paesi arabi e sul Mediterraneo, c'è l'impegno a impedire attentati in Italia e a considerarci solo un Paese di transito. Se Abu Sharif ne troverà copia negli archivi del Fplp lo avremo presto in mano».

- A chi rispondeva Giovannone?
  «Da un punto di vista tecnico al capo dei servizi italiani, il Sismi. Ma sul piano politico era il referente di Moro per la politica estera in Medioriente».

- l'ltalia sapeva che nel '78 il Fplp non si fidava più delle Br?
  «È la prima volta che viene fatta questa distinzione. Abu Sharif sostiene che nel 1976 il Fplp, allertato dal capo operativo Wadie Haddad, ritiene già da tempo le Br inaffidabili. Haddad intanto ha rotto con il Fplp perché è in dissenso con l'input di Mosca che chiede la fine dei sequestri aerei, ma i contatti sono stretti. E qui c'è un riscontro importante sul caso Moro, perché già nei primi giorni dopo il rapimento il Sismi cerca tra i fuoriusciti palestinesi. In più, a giugno, Giovannone segnala a Roma rapporti tra ex Fplp e BR aggiungendo che i brigatisti hanno fatto avere ad Habash copia delle dichiarazioni di Moro prigioniero per ripristinare collaborazione e assistenza. Significa che Moretti prova a riallacciare con i palestinesi usando le carte che ha».

- Riusciranno le Br nell'impresa?
  «Anche qui abbiamo riscontri alle affermazioni di Abu Sharif. A noi risultano transiti di armi tra palestinesi, Br e autonomi nel 1979, ma Abu Sharif sostiene che il Fplp non c'entri (di altre sigle non risponde ndr.) e dice che se avesse ricevuto dai propri 007 informazioni di possibili attacchi in Italia lo avrebbe riferito a Roma. In effetti il 17 febbraio 1978 Giovannone avverte i suoi di un attentato in preparazione e Moro ne parla il 15 marzo, la sera prima del sequestro. Inoltre, il 30 marzo 1978 l'allora uomo dell'Olp in Italia Nemer Hammad assicura a Cossiga che sta facendo il possibile e cita Abu Anzeh Saleh, legato al fronte del rifiuto e in contatto con Wadie Haddad. Un mese dopo, il 24 e 25 aprile, Giovannone annuncia un contatto valido con le Br e dice che verrà a Roma. Sapremo poi che Moro in una lettera del 23 aprile menziona la liberazione di un palestinese a Ostia avvenuta via Giovannone e chiede di averlo a Roma, come se sapesse che si è attivato un canale palestinese».

- Come si inquadrano in questo scenario gli italiani addestrati nei campi profughi palestinesi?
  «È una conferma. A parlarne la prima volta fu l'ex responsabile esteri del Fplp Taysir Qubaa che in un'intervista del 1980 spiegò come non volesse esportare la rivoluzione in Italia ma potesse contare su "compagni" italiani addestrati nei campi per combattere contro i nemici dei palestinesi. Sapevamo di campi in Yemen, Iraq, Siria, Libano ma ora Abu Sharif torna su questi italiani pronti ad aiutare la resistenza palestinese».

- Vede un collegamento con i due giornalisti di Paese Sera De Palo e Toni, spariti a Beirut nel 1980?
  «La loro storia ruota intorno al traffico di armi che tra il '78 e il '79 esisteva intorno ai campi palestinesi. Abu Sharif smentisce che fosse gestito dal Fplp ma a noi risulta che c'era. E sapevamo da alcuni pentiti che i palestinesi affidavano armi alle Br. Ora sappiamo che degli italiani si addestravano lì».

(La Stampa, 28 giugno 2017)


La Bibbia ascoltando Dylan

In pratica quasi non esiste un suo testo che non faccia riferimento a uno dei due Testamenti. Lo stesso Premio Nobel aveva parlato a suo tempo di rock biblico. Il volume di Giovannoli apre una trilogia interamente dedicata a questo tema. Quello di Carrera, invece, ne chiude un'altra sulle liriche del Menestrello.

di Andrea Monda

 
Il 27 dicembre 1967 Bob Dylan pubblica l'album John Wesley Harding, il «primo disco di rock biblico» secondo la definizione che lo stesso cantautore darà successivamente a questo album di musica country. Era la prima volta che veniva usata una tale definizione. Eppure di "rock biblico" Dylan ne aveva già prodotto parecchio a partire dai primi anni Sessanta, da quando aveva cominciato a incantare il mondo con la sua musica e la sua inconfondibile voce.
   Questo «rock biblico», la sua natura, la sua estensione, i suoi confini, è il tema del saggio di Renato Giovannoli La Bibbia di Bob Dylan.
   Questo primo volume tocca la produzione dal 1961 al 1978 (e porta come sottotitolo Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione), il secondo, che uscirà il prossimo autunno, comprende il decennio 1978-1988 (Il periodo "cristiano" e la crisi spirituale) mentre il terzo volume, previsto per la primavera del 2018, arriva fino al 2012, cioè fino a Tempest, per ora l'ultimo album con testi originali di Dylan, con il titolo Un nuovo inizio e la maturità.
   Fino al 2012 arriva anche il terzo volume delle Lyrics tradotte da Alessandro Carrera (Feltrinelli. Pagine 454. Euro 20,00) come continuazione della precedente monumentale opera in unico volume che però si era fermata al 2002. La concomitanza temporale dell'uscita di questi due volumi è favorevole anche perché incrocia un altro evento, il conseguimento del premio Nobel da parte di Dylan che i primi di giugno ha consegnato anche il discorso ufficiale richiesto dal regolamento del premio e che la segretaria dell'accademia, Sara Danius, ha definito «discorso straordinario» ed «eloquente».
   Insomma giunto a 76 anni Bob Dylan non smette di stupire e di far parlare di sé, magari continuando a spaccare il mondo in fan incalliti e detrattori scatenati. I due studiosi italiani, Renato Giovannoli e Alessandro Carrera, sono dei fan ma non solo, come spiega Carrera nel saggio introduttivo al primo volume dell'opera di Giovannoli, opera «la cui crescita ho seguito nel corso degli anni grazie all'amicizia che mi lega al suo autore e che è nata proprio dal comune interesse per Dylan. Nessuno di noi è solamente un fan, anche se un po' lo siamo. Siamo venuti per studiare Dylan, non per celebrarlo ed è passato così tanto tempo da quando abbiamo iniziato a occuparci di lui che non sappiamo più se possiamo ancora mantenere una certa distanza critica». La passione per Dylan si avverte in queste due trilogie che però restano due grandi opere di studio, serio e approfondito e quanto mai documentato. L'opera di traduzione da parte di Carrera è a dir poco preziosa per il grande pubblico italiano, anche se oggi, dopo la vittoria del Nobel, il rischio di "ridurre" Dylan a poeta è più alto di ieri, per fortuna lo stesso cantautore nel succitato discorso ha precisato l'ovvia verità che i suoi sono testi di canzoni, creati per essere quindi suonati e cantati. D'altra parte La Bibbia di Bob Dylan di Giovannoli, l'intuizione è sempre di Carrera, è un testo che vale in entrambi i sensi: «Non è solo la guida più completa alla Bibbia secondo Bob Dylan, o a Bob Dylan secondo la Bibbia. [ ... ] Tante introduzioni sono possibili a Dylan: musicali, poetiche, sociologiche, politiche. Ma la Bibbia è l'accesso privilegiato».
   L'iperbole per cui non c'è testo di Dylan che non abbia almeno un riferimento biblico, più o meno esplicito, non è poi così iperbolica come è dimostrato da questo primo meticoloso e ponderoso volume di Giovannoli che rappresenta un unicum non solo in Italia ma anche all'estero. L'ennesima prova del nesso vitale tra le canzoni di Dvlan e il testo biblico sta proprio nell'omissione che Dylan ha compiuto nel citare le sue fonti principali all'interno del discorso ufficiale per il Nobel: ha infatti menzionato la musica di Buddy Holly e poi tanta poesia, in particolare John Donne, soffermandosi su tre libri per lui fondamentali, Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e l'Odissea. La Bibbia non l'ha citata, proprio perché non è un "altro" libro a fianco di questi, ma molto di più, parafrasando Shakespeare (usando così un'immagine cara allo stesso Dylan): la Bibbia è «la stoffa con la quale sono fatti i suoi testi».
   E non solo e non tanto la Bibbia ebraica, come si potrebbe pensare data l'origine semita di Robert Allen Zimmerman, nato da Abraham e Betty a Duluth il 24 maggio 1941, ma soprattutto la Bibbia cristiana, più precisamente la King ]James Version, la Bibbia di Re Giacomo che, come ricorda Northrop Frye, è il Grande Codice della letteratura occidentale. Antico e Nuovo Testamento queste sono le due parti del grande codice dylaniano, un codice oggi più accessibile grazie all'opera di due seri e competenti studiosi italiani.

(Avvenire, 28 giugno 2017)


L'ayatollah Khamenei chiama alla jihad contro Israele

Il leader supremo iraniano, l'ayatollah Seyyed Ali Khamenei, ha detto che i musulmani oggi sono obbligati a combattere Israele con qualunque mezzo. «Secondo la giurisprudenza islamica, quando un nemico conquista le terre musulmane, il jihad in ogni forma diventa un dovere per tutti», ha spiegato Khamenei a un pubblico di ambasciatori e funzionari.
Per l'ayatollah, «la Palestina è la questione numero uno per i musulmani, anche se alcuni Paesi islamici agiscono in modo tale da ignorare e dimenticare la causa palestinese». Il leader spirituale iraniano ha inoltre citato il deputato statunitense Dana Rohrabacher, che nei giorni scorsi aveva definito «una buona cosa» il duplice attentato del 7 giugno al Parlamento e al mausoleo di Ruhollah Khomeyni da parte dell'lsis: «Tale questione richiede consapevolezza e preoccupazione, ma purtroppo le autorità degli Stati islamici stanno trascurando queste ostilità», ha aggiunto Khamenei. Recentemente, i legami dell'Iran con il Qatar hanno causato l'isolamento della petromonarchia da parte delle altre potenze sunnite, ma l'ayatollah ha dichiarato che Teheran continuerà a essere vicina al governo qatarino.

(La Verità, 28 giugno 2017)


Amatrice calcio d'inizio

A quasi un anno dal terremoto del 24 agosto 2016 il pallone tornerà a rotolare sull'erba Nella frazione di Scai sarà inaugurato un nuovo impianto di futsal: adesso si ricomincia. Domenica la prima amichevole. Il sindaco Pirozzi: «Grazie a Ucei possiamo tornare in campo».

di Giulia Mazzi

 
Sergio Pitozzi, sindaco di Amatrice
ROMA - Amatrice non esiste più. Sergio Pirozzì era entrato nelle case degli italiani il 24 agosto scorso con queste parole, raccontando il dramma del paese di cui era ed è ancora sindaco. Amatrice vuole rinascere, anche nello sport. E ora, a quasi un anno di distanza, lo sport finalmente torna a farsi largo in quei luoghi devastati dal terremoto grazie ad un'iniziativa promossa dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Domenica sarà inaugurato un nuovo campo di calcetto a Scai, la più popolosa frazione di Amatrice, riqualificato grazie a una donazione dell'Ucei. «Lo sport è veicolo straordinario per la condivisione di valori profondi, che ci uniscono nel segno della solidarietà e dell'amicizia - ha dichiarato Franca Formiggini Anav, assessore dell'Unione che coordina le iniziative di assistenza alle realtà colpite dal sisma - La scelta di realizzare questo campo di calcetto risponde a un'esigenza precisa: regalare un luogo di svago, incontro e convivialità che possa resistere nel tempo. Perché la gente di Amatrice merita non soltanto ammirazione per come sta reagendo al dramma che l'ha colpita negli scorsi mesi, ma anche un aiuto concreto. Noi ci siamo e ci saremo anche in futuro». Per l'occasione, alle 16 si giocherà una partita di calcio, con il coinvolgimento anche del Maccabi Italia (organizzazione sportiva ebraica attiva a livello mondiale).

 Solidarietà sportiva
  Si tratta del primo impianto in assoluto che prende vita dal 24 agosto: «Al suo posto c'era un vecchio campetto sconnesso, mentre adesso è stato sistemato un campo nuovo, sintetico, con un bel fondo. Grazie a Ucei, sarà la prima struttura utilizzabile, ma non è l'unica iniziativa di solidarietà che il mondo sportivo ha espresso nei nostri confronti: sono stati tutti straordinari» ha commentato il sindaco Pirozzi, che sarà presente domenica in occasione della festa di inaugurazione. Il riferimento è alle tante strutture che stanno vedendo partire i lavori sul territorio di Amatrice, come il progetto di riqualificazione del liceo scientifico locale, che diventerà sportivo internazionale: «Costruiremo una palestra, un campo a 5, uno da tennis, una pista di atletica e un parco per l'educazione motoria per i bambini da O a 6 anni».
Amatrice non esisteva più, ma ora sta davvero ripartendo.

(Corriere dello Sport - Roma, 28 giugno 2017)


Ministro israeliano lancia un progetto di isola artificiale per Gaza

Diventerebbe la maggiore via uscita dalla Striscia

Un progetto per la costruzione di un'isola artificiale di fronte a Gaza che fungerebbe da principale via di uscita per le persone e le merci provenienti o dirette alla Striscia e' stato messo a punto dal ministro israeliano per l'intelligence ed i trasporti Israel Katz (Likud). Secondo la stampa due settimane fa nel Consiglio di difesa del governo il progetto ha raccolto i consensi di diversi ministri, ma non quello del ministro della difesa Avigdor Lieberman. In un documento inoltrato alla stampa Katz ha ora illustrato la propria iniziativa. L'isola - di quattro chilometri per due - sarebbe collegata alla costa di Gaza con un ponte di 4,5 km. La superficie ospiterebbe un porto passeggeri ed uno commerciale; un impianto di desalinizzazione ed una centrale elettrica. Israele manterrebbe il controllo sulle persone e sulle merci in transito, ma l'ordine sarebbe mantenuto da una forza internazionale di polizia. I finanziamenti, secondo Katz, sarebbero internazionali. Fra i pregi del progetto ha menzionato un sensibile alleviamento delle condizioni di vita a Gaza ed una maggiore cooperazione regionale, senza pregiudicare la sicurezza di Israele.

(ANSAmed, 27 giugno 2017)


Medio Oriente. Basta poco alla prossima esplosione

Comincia a fare molto caldo in Medio Oriente. Nessuno, a parole, vuole una nuova guerra ma tutti ammettono che "basta poco" per provocarne una. E l'unica cosa che, al momento, sembra poter frenare le spinte verso l'allargamento delle tensioni nella regione è l'eventuale devastante portata di un conflitto armato. L'ultimatum consegnato al piccolo Qatar dalle grandi e medie potenze arabe (dopo il quasi blocco totale del paese) è una specie di dichiarazione di guerra. Doha ha fino ai primi di luglio per rispondere alle tredici richieste di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain ed Egitto. Una lista inaccettabile per un paese sovrano e anche se non viene specificato quali sarebbero le eventuali conseguenze del suo rifiuto le parole "invasione" e "finto colpo di stato" sono sulla bocca di tutti.
   Se uno sfoglia i punti più significativi (che ho incollato in fondo) dell'ultimatum si ottiene l'impressione che il Qatar sia responsabile dell'instabilità mediorientale e del terrorismo islamico. È, invece, chiaro a tutti, compresi i maggiori alleati dei bellicosi leader arabi, che nel mirino sono principalmente l'Iran sciita e poi la rete tv al-Jazeera colpevole di raccontare la verità sulla repressione e la mancanza di diritti civili nel mondo arabo sunnita. L'aggressività dell'Arabia saudita e degli altri firmatari dell'ultimatum (e del blocco imposto al Qatar) si è palesata dopo la visita del presidente americano a Riad e in Israele (e Palestina) e punta a un nuovo assetto regionale basato sul rafforzamento dei paesi arabi in contrapposizione all'Iran con l'aiuto diretto o indiretto di Tel Aviv da dove, quasi ogni giorno, vengono lanciati ammonimenti e minacce a Teheran (e vice-versa) e al suo alleato Hezbollah in Libano e in Siria, e Hamas a Gaza.
   Israele dice di temere il potente arsenale missilistico del movimento sciita libanese e sta rafforzando le proprie difese lungo la frontiera settentrionale, dove ha messo le forze armate in stato d'allerta per paura di "provocazioni" e "azioni di disturbo". Negli ultimi giorni, per almeno tre volte, caccia israeliani hanno bombardato posizioni delle forze regolari di Damasco sul Golan, segnalando un maggiore coinvolgimento, seppure formalmente "difensivo", di Tel Aviv nella guerra civile siriana, dove già si fronteggiano in modo sempre più aggressivo Stati Uniti e Russia.

(L'Huffington Post, 27 giugno 2017)


"Italiani nei campi profughi palestinesi addestrati a combattere contro Israele"

La deposizione di Abu Sharif alla Commissione sulla morte di Moro. "Negli Anni 70 c'era un patto scritto con Roma per non fare attentati".

di Francesca Paci

 
Il 16 marzo del '78 in via Fani fu rapito Aldo Moro
Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) aveva rapporti particolari con alcuni dei gruppi rivoluzionari emersi in Europa dopo il '68. Queste forze non sapevano come opporsi al capitalismo e noi glielo insegnammo, era parte della lotta contro l'imperialismo che sosteneva Israele. Migliaia di giovani donne e uomini italiani vennero nei campi profughi palestinesi ad aiutare in tanti modi diversi, nelle scuole, negli ambulatori o nel combattimento, ma sempre e solo contro l'occupante israeliano». A raccontare questo ulteriore tassello del controverso puzzle "Italia Anni 70" è Bassam Abu Sharif, storico membro della formazione marxista-leninista Fplp e poi influente consulente di Arafat ascoltato ieri dalla Commissione bicamerale d'inchiesta sulla morte di Aldo Moro, l'ennesimo organo d'indagine sul rapimento del presidente della Dc la cui durata teoricamente biennale è stata prolungata dalla fine del 2016 al termine della legislatura.
   È la prima volta che si parla in modo cosi esplicito della presenza di nostri connazionali nei campi profughi palestinesi di 40 anni fa, giovani, uomini, donne, un po' volontari e un po' foreign fighters ante litteram. Una nuova angolazione che amplierebbe il quadro delle "relazioni pericolose" dell'epoca in cui s'inserisce anche il cosiddetto Lodo Moro, il patto segreto di non belligeranza tra gli 007 italiani e i fedayn palestinesi sempre menzionato ma mai ammesso. E non è escluso che ora la Commissione presieduta da Fioroni possa avviare altre indagini oltre a quelle di sua stretta competenza per le quali ha già inviato alla procura generale di Roma il lavoro di oltre un anno di accertamenti. E non è escluso neppure che possano riaprirsi altri dossier sulle presunte connivenze passate, a partire dalla vicenda degli autonomi Pifano, Nieri e Baumgartner, arrestati nel 1979 a Ortona perché trovati in possesso di missili portatili di proprietà della resistenza palestinese.
   Sebbene interpellato nello specifico sui rapporti tra il Fplp e le Br alla data del 16 marzo 1978, Bassam Abu Sharif, anche autore del volume «The Best of Enemies» scritto con il giornalista israeliano Uzi Mahnaimi, riapre il capitolo Lodo Moro parlandone come di qualcosa di storicamente acquisito, un fatto. Secondo Abu Sharif, definito a un tratto da Time «face of terror», sarebbe stato proprio quel rapporto privilegiato con il Medioriente in generale e con i palestinesi in particolare a mettere l'Italia sotto sorveglianza da parte di chi, come gli Stati Uniti, non apprezzava, e a condannare Moro, la mente del compromesso storico.
   Siamo nei mesi precedenti al sequestro del leader democristiano, il cupo '77, il '78, gli anni in cui, sostiene Abu Sharif, il Fplp ha già interrotto i rapporti con le Br perché sospetta che, con i capi in prigione, le seconde linee siano state infiltrate: «All'epoca le fazioni palestinesi sotto l'ombrello dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) avevano rapporti con tutti i paesi arabi e, in modo non ufficiale, con molti di quelli europei, dove gli uffici locali della Lega Araba ospitavano i nostri rappresentanti. E parlo di rapporti anche a livello di 007. In questo quadro di aiuto e collaborazione, alcuni paesi - segnatamente il vostro - volevano un documento firmato da George Habash in cui il Fplp si impegnasse a non partecipare ad azioni in Italia. E infatti da allora non è mai successo niente qui». Abu Sharif insiste sui buoni rapporti tra i suoi e il governo di Roma per provare l'estraneità del Fplp al rapimento Moro ma finisce per ipotizzare di più: «Il Fplp e l'Italia avevano un dialogo particolare sulla politica e la sicurezza sin dal '72, attraverso noi l'Italia mandava ambulanze e medici ai campi profughi e noi in cambio vi aiutavamo molto. Fu così che l'Italia ci chiese di risparmiarla, di non usarla per fare operazioni o per compiere attentati contro Israele. Me ne parlò il colonnello Giovannone, disse che doveva rassicurare i suoi. Habash firmò questo documento, portai il nostro impegno a mettere l'Italia al sicuro, il colonnello Giovannone lo ricevette per scritto. E quando passai dal Fplp ad Arafat continuammo sulla stessa linea».

(La Stampa, 27 giugno 2017)


L'italiana in cella per jihad «Bisogna fare piazza pulita di templi e sinagoghe»

Lara e il marito morto combattendo: «Ora lui sta meglio di tutti»

di Elisa Sola

Le convinzioni
Non si chiama la polizia quando c'è di mezzo un musulmano: io rispondo solo alla legge di Allah
I ricordi
Sto cercando un modo per andare da Francesco. Mi diceva: i martiri muoiono con il sorriso

Gli uomini della Digos seguivano da tempo Lara-Khadija. La sua conversione all'Islam e le nozze con il «già islamizzato» Francesco Cascio, nel 2012, avevano attirato l'attenzione degli investigatori di Torino e Alessandria. L'elemento che conferma i loro sospetti è l'ingresso della giovane, luglio 2013, nella chat delle «sorelle musulmane» gestita da Bushra Haik, canadese emigrata a Bologna, amministratrice su skype delle future «combattenti del Califfato e di Isis» poi condannata come reclutatrice. In quella chat, la stessa di Maria Giulia Sergio, Lara era l'utente «jalyk».

 «Loro bombardano e noi ricambiamo»
  È la stessa Lara, sbarcata in Italia lo scorso gennaio, a confidare a un familiare il suo credo. Non sa di essere intercettata. «Loro bombardano le loro città ... e loro ricambiano», dice parlando degli attentati. E ancora: «Allah ha creato la terra e la terra è sua». In Siria, ricorda, «i gruppi sono migliaia ... dall'Arabia, dalla Turchia ... ci sono anche quelli supportati dall'America ... poi ci sono i gruppi per i fatti loro».
Secondo Lara «il problema dell'Isis è che si sono intrufolati ragazzini... vanno là solo per le armi, perché fanno sparare ... per fare i gangster e questa cosa è sfuggita di mano». Ma in qualche modo li giustifica: «E gente che ha subito il razzismo, sono frustrati, vogliono una ripicca, una vendetta sull'Occidente e loro non li controllano più».

 «I doveri di chi serve Allah»
  Tra i doveri di chi «serve Allah» ci sarebbe anche quello di non collaborare con le forze dell'ordine. Convinta di questo, Lara contesta la scelta dei sui parenti, che fecero denuncia di scomparsa: «Non si chiama la polizia quando ci sono di mezzo dei musulmani... in quanto tale io non sono soggetta a nessuno, solo alla legge divina». Un altro «nemico» viene individuato in «Israele». Ma, in generale, «chiunque legifera al posto di Allah è una falsa divinità, un Thehut». Per esempio, «Erdogan è un Thehut». E tutti gli edifici religiosi andrebbero distrutti. «Fare piazza pulita di templi e sinagoghe», è uno dei motti della Bombonati, che spiega: «Il problema dei siriani è che loro non vogliono sentir parlare di sharia, mentre Isis ha una parvenza di sharia».
La studentessa di Garbagna ricorda molti dettagli della sua esperienza in Siria. Mesi vissuti da soldatessa, in condizioni estreme. A partire dall'attesa al confine turco - «mi è venuta la cancrena» - notti passate in silenzio, senza elettricità. In Siria la donna viene separata dal marito, che va a combattere, «come spetta agli uomini», che, in media «lì non vivono più di tre anni». Lei invece era una «staffettista». «Le donne stanno in posti sicurissimi - dice - dove siamo noi arrivano solo i bombardamenti».

 La morte del marito. «E stata un'irruzione»
  Lara viene arrestata dalla polizia turca il 26 gennaio durante una «missione» assegnata dal suo capo Abu Mounir. Viene sorpresa con un documento siriano, ma non conosce la lingua. È sospetta. Finisce in galera. Il suo comandante prova a corrompere un poliziotto per avere sue notizie. Poi sparisce.
«L'Interpol diceva che stavano cercando mio marito, pensavano fosse in Turchia e che stesse preparando un attacco terroristico», è quel che comprende la giovane. Che scoppia in lacrime quando ricorda la sua morte. «Hanno fatto irruzione in una casa dove c'era anche lui, li hanno uccisi tutti. Io non sapevo neanche dov'era ... io volevo farmi una famiglia ma lui chiedeva sempre e solo di morire, diventare martire. Adesso vive in tutti noi. Io sono contenta per lui... però mi manca così tanto. Se vado a fare la spesa penso a lui che mi portava le borse; e se le persone mi insultavano per strada ed era insieme a me rispondeva. E quando cucino penso che c'era lui che mi tagliava le cose perché mi diceva che io mi tagliavo». Di fare il martire, Francesco, «l'aveva deciso da Castellammare». Quindi dal 2012, dalle nozze. «Lui ora sta meglio di tutti. Sto cercando un modo per andare da Francesco», si lascia scappare Lara alla fine della conversazione. Per l' Antiterrorismo vuol dire tornare in Siria e morire combattendo. Una frase del suo sposo le era rimasta impressa: «Mi diceva: guarda i martiri, muoiono col sorriso».

(Corriere della Sera, 27 giugno 2017)


Contro le intolleranze, Menorà d'oro a Cerasa

di Roberta Petronio

 
Claudio Cerasa (a sin.) riceve il Premio Internazionale La Menorà D'Oro
Cocktail nei Giardini del Tempio Maggiore al Lungotevere Cenci, dopo la consegna del Premio Internazionale La Menorà D'Oro. Protagonista della decima edizione è Claudio Cerasa, direttore de Il Foglio, entrato con questa onorificenza nel palmares delle personalità del mondo della cultura, della politica, dell'imprenditoria e della società civile che si sono distinte nel contrasto ad ogni fenomeno di razzismo e di intolleranza, nella diffusione della cultura dell'accoglienza, del confronto, della dignità umana, e nella difesa del diritto di Israele a vivere e prosperare in pace con i suoi vicini arabi. Prima della cerimonia ufficiale, gli ospiti sono stati invitati a visitare la mostra 'La Menorà. Culto, storia e mito' organizzata dal Museo Ebraico di Roma e dai Musei Vaticani, che racconta attraverso 130 opere la storia plurimillenaria, incredibile e sofferta, della Menorà, il Candelabro a sette bracci fatto forgiare in oro puro da Mosé per essere collocato nel primo Tempio di Gerusalemme. La Comunità Ebraica è rappresentata dal presidente Ruth Dureghello, insieme agli assessori Giorgia Calò alla Cultura, Giordana Moscati ai Giovani, Daniela DeBach alle scuole. Nel parterre anche il presidente Bene' Berith di Roma Federico Ascarelli, che ha consegnato il riconoscimento, il presidente del Bene' Berith Europa Daniel Citoni, Sandro e Federica Di Castro, gli scrittori Massimo Teodori, già premiato nelle scorse edizioni, e Corrado Augias, Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Margherita Boniver, il delegato del sindaco Carola Penna.

(Il Messaggero, 27 giugno 2017)


Riad: falsa la foto di un velivolo civile saudita in Israele

DOHA - Le autorità saudite hanno denunciato la presenza di una foto falsa che circola sui social network che riprenderebbe un velivolo della Saudi Arabian Airlines presente nell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Un portavoce della compagnia aerea di Riad, Abdulrahman al Tayyeb, ha diramato un comunicato nel quale denuncia che "da siti anonimi sta circolando una foto fabbricata ad arte che diffonde una notizia falsa in modo da mettere in cattiva luce la compagnia aerea". La foto è stata, infatti, ritoccata e riprende un aereo della società israeliana El Al le cui livree sono state modificate per sostenere che si trattava di un velivolo saudita. Arabia Saudita e Israele non hanno relazioni diplomatiche. Negli ultimi mesi, tuttavia, sono circolate voci su un possibile riavvicinamento tra lo Stato ebraico ed alcuni Stati del Golfo in virtù dei mutevoli assetti geopolitici regionali.

(Agenzia Nova, 26 giugno 2017)


"Kotel, affossata l'area egalitaria. Netanyahu ripristini il progetto"

di Daniel Reichel

L'Agenzia Ebraica ha adottato nelle scorse ore una dura risoluzione in cui chiede al governo d'Israele di ripristinare la creazione di una sezione definita egalitaria - dove donne e uomini possono pregare insieme - al Muro Occidentale di Gerusalemme. L'esecutivo guidato dal Premier Benjamin Netanyahu ha infatti bloccato ieri il progetto, frutto di un compromesso portato a temine lo scorso anno, facendo infuriare i rappresentanti dell'Agenzia ebraica, organizzazione che si occupa degli immigrati ebrei in Israele. "Deploriamo la decisione del governo di Israele che contraddice la visione e il sogno di Herzl, Ben-Gurion e Jabotinsky e dello spirito del movimento sionista e di Israele come casa-nazione per l'intero popolo ebraico e il Kotel come simbolo di unione per tutti gli ebrei del mondo", si legge nella risoluzione firmata all'unanimità dal board dell'Agenzia, in cui si chiede al governo di "capire la gravità dei passi fatti e di conseguenza di invertire il corso delle proprie azioni". Si chiede dunque di ripristinare la creazione della citata sezione egalitaria presso il Muro Occidentale (noto anche come Muro del Pianto), in cui uomini e donne dei movimenti dell'ebraismo Conservative e Reform avrebbero dovuto poter pregare insieme. L'area doveva sorgere nel sito archeologico dove si trova l'Arco di Robinson, a sud della sezione gestita dal Rabbinato centrale d'Israele in cui vigono le regole dell'ortodossia, tra cui la divisione tra uomini e donne (mehitza).
   L'Agenzia Ebraica ha da subito sostenuto il progetto, con il suo presidente Natan Sharansky - ex dissidente politico sotto il regime sovietico - a spendersi di persona per trovare un compromesso che potesse mettere d'accordo tutte le correnti dell'ebraismo. Accordo trovato con fatica un anno fa e ora bloccato dal governo Netanyahu, che ha anche portato avanti una legge che vuole negare il riconoscimento delle conversioni all'ebraismo eseguite in Israele al di fuori del sistema ortodosso riconosciuto dallo Stato. "Il governo di Israele ha adottato alcune azioni che minacciano il popolo ebraico e noi vogliamo che le nostre comunità nel mondo capiscano che il sostegno a Israele non significa necessariamente sostenere il suo governo", le dichiarazioni rilasciate al quotidiano Haaretz dal direttore del board dell'Agenzia Ebraica Michael Siegal. Parole che fanno capire quanto sia elevato il livello dello scontro, con il direttivo dell'organizzazione che ha inoltre cancellato una cena oggi con Netanyahu. "Il messaggio che il governo ha mandato all'ebraismo nel mondo è 'non siete parte di noi'", l'accusa di Sharansky. Il riferimento è a tutto quel mondo ebraico conservative e reform che ha un riconoscimento parziale all'interno dello Stato d'Israele, dove matrimoni, divorzi, conversioni e tutto ciò che afferisce alla religione ebraica è invece affidato al Rabbinato centrale, ente che rappresenta l'ortodossia. "Non è solo un problema di correnti religiose. Non è solo un questione legata all'ebraismo americano, e non è solo un problema della diaspora ebraica. C'è un crescente numero di israeliani che sono molto consapevoli dell'importanza del Kotel", ha detto al Times of Israel il numero due dell'Agenzia Ebraica David Breakstone, riferendosi al luogo più sacro per l'ebraismo (da qui il forte impatto simbolico di decidere di dare uno spazio a correnti diverse dall'ortodossia, rompendo lo status quo). "Non ha niente a che fare con il numero di persone che si sarebbero presentate. Ha a che fare con il significato simbolico del Kotel per tutti noi. C'era un consenso completo intorno all'area".

(moked, 26 giugno 2017)


Israele e Usa creano un team congiunto per affrontare minacce cibernetiche

GERUSALEMME - Israele e Stati Uniti avvieranno una collaborazione nel settore della sicurezza cibernetica. Lo ha annunciato oggi Thomas Bossert, assistente del presidente Usa Donald Trump per la Sicurezza nazionale e anti-terrorismo, nel corso della conferenza "Cyber Week 2017", che ha preso il via ieri a Tel Aviv. Il gruppo congiunto cercherà di difendere le infrastrutture critiche ed individuare gli autori degli attacchi, ha chiarito Bossert. Il team sarà guidato da Rob Joyce, il coordinatore della cybersecurity della Casa Bianca, e da Eviatar Matania, direttore generale del National Cyber Directorate israeliano. Faranno parte della squadra di lavoro rappresentanti dei ministeri della Difesa, degli Esteri, della Giustizia e dei servizi segreti di entrambi i paesi, che si incontreranno questa settimana, ha chiarito Bossert.

(Agenzia Nova, 26 giugno 2017)


Disordini a Londra: a Stamford Hill è caccia all'uomo

Ancora disordini a Londra: nella parte nord della città, 30 giovani hanno scorrazzato a Stamford Hill armati di spade e maceti. I media: "Cercavano persone di fede ebraica".

di Francesco Boezi

 
Stamford Hill
Ancora disordini a Londra. Nel quartiere di Stamford Hill, una banda di giovani ha costretto la polizia ad intervenire duramente dopo aver scorrazzato in lungo e in largo armata di spade e maceti.
   Una notizia passata in sordina, ma che evidenzia come nella capitale britannica la questione sicurezza sia lungi dall'essere risolta. Alcuni articoli in merito, in realtà, parlano più specificatamente di "musulmani a caccia di ebrei". Il quartiere situato nella parte nord di Londra, infatti, è uno di quelli con la più alta concentrazione di residenti di fede ebraica. Soprattutto seguaci del chassidismo, una corrente sviluppatasi tra gli ebrei ashkenaziti dei paesi slavi. Questa comunità, caratterizzata da un tasso di natalità altissimo, sarebbe quindi pericolosamente finita nelle mira degli integralisti islamici.
   Da quanto si legge durante queste ore, poi, sarebbero circa trenta le persone che nelle recenti nottate, brandendo queste armi poi sequestrate dalla polizia, hanno messo sottosopra un intero quartiere. Disordini che la maggior parte dei media hanno evidentemente preferito non raccontare. La polizia è riuscita a sedare la violenza tuttavia almeno una persona sarebbe rimasta ferita negli scontri. "Gli ufficiali addizionali sono stati chiamati nel quartiere di Stamford Hill per via di una segnalazione riguardante una rissa tra un grande gruppo. Una persona è stata trovata sulla scena affetta da una ferita di pungiglione ", ha riferito infatti un portavoce della polizia Metropolitana di Londra al Daily Star. Proprio nelle sedi circostanti Stamford Hill, poi, i poliziotti hanno rinvenuto il grande quantitativo di armi citato.
   Alcune fonti continuano a ribadire che la gran parte dei protagonisti della vicenda fossero di fede musulmana e sottolineano come il politically correrct di certa stampa londinese stia evitando scientificamente di affrontare la questione. Qualcuno tra giovani, peraltro, avrebbe gridato "Allahu Akbar", secondo quanto riferito dai testimoni presenti sulla scena. Quelli che apparentemente sembrerebbero gli ormai classici e consueti disordini delle periferie europee, in definitiva, potrebbero nascondere moventi ancor più drammatici di quelli paventati. Il fantasma dell'insediamento del Califfato nei quartieri occidentali continua ad essere d'attualità. L'attenzione resta alta e la denuncia sulle nottate di Stamford Hill sta proliferando sui siti gestiti da esponenti dell'alt-right americana. A Londra, dunque, la tranquillità sperata dopo il susseguirsi di attentanti non è ancora arrivata.

(il Giornale, 25 giugno 2017)


Rigurgiti antisemiti

Riportiamo questo particolare articolo che certamente non si propone di sostenere israele e difendere gli ebrei in quanto tali, ma partendo da una posizione anarchica di sinistra sa cogliere le contraddizioni di molte posizioni antisemite o anti-israeliane. M.C.

Nella fiammata complottista degli ultimi anni, tipica dei periodi di crisi in cui una piccola borghesia in via di proletarizzazione e un proletariato che ancora non si è dato le sue autonome forme di organizzazione di classe sono alla disperata ricerca di una risposta alla domanda "perché sta andando tutto in malora?", abbiamo potuto assistere a un ritorno in auge delle peggiori teorie antisemite. Tutto sommato queste teorie non sono nulla di nuovo: sono una riproposizione della teoria dei Savi Anziani di Sion con, in aggiunta, una spolverata di terzomondismo e di antimperialismo d'accatto come elemento di novità.
  I deliri che circolano in rete sul famigerato e inesistente piano Kalergi, l'ideazione paranoica che convince taluni, compresi certi filosofi da talk show e social network come Fusaro, che vi sia un piano preordinato dietro i flussi migratori per sostituire etnicamente le popolazioni europee, sono l'ammodernamento di quella visione che pretendeva i perfidi ebrei dietro qualsiasi sollevamento proletario.
  Non solo: l'incancrenirsi pluridecennale del conflitto arabo-israeliano e la posizione israeliana nei conflitti nel medioriente ha fatto si che interi settori di movimento perdessero completamente la bussola dell'analisi politica, pretendendo di ricondurre qualsiasi evento geopolitico della regione mediterranea a una qualche trama occulta ordita dal Mossad.
  Da questa posizione discende l'idea che la situazione israelo-palestinese rappresenti un qualche tipo di forte peculiarità rispetto alle normali, e già di per se criminali, condotte statali e capitaliste. Questo fa si che anche certi che si definiscono libertari, se non proprio anarchici, sostengano con fervore la necessità della creazione di uno stato palestinese, dimentichi del fatto che la ragion d'essere di uno stato, di un qualsiasi stato, è l'oppressione dei lavoratori a vantaggio di chi detiene il controllo dei mezzi di produzione.
  Assumendo la posizione che vede come positiva la creazione di uno stato palestinese si finisce per legittimare qualsiasi tipo di dominio statale, dimenticandosi che uno stato arabo-palestinese sarebbe criminale allo stesso modo dello stato israeliano. Le stesse esperienze del nazionalismo arabo e panarabo, comprese quelle socialisteggianti come quelle baathiste, dimostrano che anche gli stati nati su una base esplicitamente anticolonialista attueranno politiche di massacro e guerra permanente nei confronti delle classi subalterne e di quelle popolazioni che per motivi culturali non si integrano nelle identità nazionali costruite a tavolino (pensiamo ai Cabili o ai Sarawi nel Magreb o a Kurdi in Iraq e Siria).
  Ancora peggio, molti di queste persone che hanno fatto della questione palestinese il fulcro del loro agire politico, spesso dimenticando qualsiasi altra lotta, finiscono per legittimare l'oppressione religiosa. Persone che qua sono laiche se non anticlericali finiscono per sostenere un'eccezionalità in positivo di componenti islamiste come Hamas. Ancora più assurdo è vedere alcuni di questi sostenere con veemenza Hamas in Palestina ed attaccare con altrettanta veemenza la Fratellanza Musulmana in Egitto accusando questa di essere il burattino degli Stati Uniti. Peccato che Hamas e Fratellanza Musulmana siano due organizzazioni sorelle ed è un arduo esercizio di bispensiero sostenere che una sia l'adamantina speranza di redenzione per i popoli oppressi mentre l'altro lo strumento di oppressione. La verità è che ambo le organizzazioni fanno schifo allo stesso modo e l'han ben dimostrato sia con le loro politiche sociali bigotte e retrograde sia con l'oppressione sistematica dei proletari egiziani e palestinesi. In questo il breve periodo della presidenza Morsi in Egitto ha avuto poco da invidiare con la precedente e la successiva giunta militare.
  L'attuale disgregazione del precedente assetto geopolitico in Medioriente ha molto a che vedere con le contraddizioni interne ai vari blocchi di potere regionale e nulla a che vedere con complotti del Mossad. Il governo israeliano ha, negli ultimi anni, impostato la propria azione di politica estera regionale nel saldare l'alleanza de facto con i sauditi e nel tenere attentamente monitorata la situazione siriana, tollerando la presenza dello Stato Islamico in aree a ridosso del proprio confine in quanto questo era troppo occupato a combattere con truppe lealiste (e relativi alleati) e contro la coalizione SDF per poter costituire una minaccia per Israele, temendo soprattutto un rafforzamento di quelle componenti apertamente filoiraniane come Hezbollah. Checché se ne dica Israele negli ultimi anni ha visto con relativo favore una leadership come quella di Assad, in quanto con questa poteva trattare. Tanto più che nell'ultimo conflitto libanese l'intervento siriano si è limitato all'appoggio logistico a Hezbollah e non vi è stato nessun intervento diretto come durante la guerra civile negli anni settanta e ottanta.
  L'incandescente situazione nel Golfo Persico, con l'Arabia Saudita impegnata a ribadire, con difficoltà, il proprio predominio nei confronti delle altre petromonarchie, soprattutto quella Qatarina che, negli ultimi anni, ha giocato autonomamente nello scacchiere appoggiando la Fratellanza Musulmana e portando avanti una politica di conciliazione con la Repubblica Islamica Iraniana, non ha nulla a che vedere con presunte trame occulte israeliane. La crisi degli stati arabi come Siria, Egitto e Iraq ha delle complesse cause sistemiche e non può essere nemmeno questa ricondotta a chissà quale complotto.
  Eppure gli amanti dell'antimperialismo degli stati, ovvero di quell'antimperialismo che rimane puramente all'interno del campo capitalista, ripetono come un mantra che la responsabilità ultima dei massacri quotidiani risiede in Israele. Intendiamoci: se si volesse fare l'elenco dei crimini commessi dal governo israeliano, dall'utilizzo del fosforo bianco su Gaza al land grabbing con modalità coloniali all'appropriazione di risorse idriche, questo sarebbe molto lungo. Casualmente quelli che amano sciorinarlo tendono a dimenticarsi che gli israeliani non coincidono in toto con il loro governo. Se in molti storcerebbero il naso a sentire accusare tutti gli italiani delle politiche ecocide dell'ENI in Nigeria in virtù di un presunto eccezionalismo, diventa legittimo accusare tutti gli israeliani, compresi quindi quelli che subiscono la fortissima repressione interna che ha caratterizzato negli ultimi anni il paese (senza parlare di coloro che si ribellano apertamente come i disertori), delle azioni commesse dalla classe dominante israeliana.
  Come dicevamo sopra anche nell'ambito anarchico si è vista una certa, seppure molto minoritaria, penetrazione di queste distorte teorie. Segnaliamo, a tal proposito, la pubblicazione on-line dell'opuscolo "Samantha Comizzoli - Ritratto di un'antisemita", curato da alcuni compagni milanesi. Samantha Comizzoli è un personaggio già noto da anni su internet per le modalità usate per esprimersi in merito alla questione israelo-palestinese, modalità evolutesi sempre più in senso antisemita. Fino a qualche tempo fa la si sarebbe potuta classificare come uno dei tanti personaggi di internet, purtroppo costei ha trovato legittimità all'interno di contesti di movimento venendo anche invitata a parlare in alcuni spazi anarchici in Emilia Romagna. Riportiamo dalla mail di accompagnamento mandataci dai compagni dello Spazio Luna Nera di Milano che ci segnalava la pubblicazione da loro curata: "è un fatto che nei periodi di crisi in segmenti del proletariato e delle classi medie in rovina si diffondano narrazioni razziste e/o complottiste che restituiscono l'immagine rovesciata della propria sconfitta o momentanea impotenza: rapporti sociali incontrollati e impersonali esercitano su costoro un dominio pressoché totale, ma essi possono incolpare con un capro espiatorio più debole e isolato e/o autoinvestirsi dell'onore di avere aperto gli occhi, di aver riconosciuto il volto di chi davvero tiene le fila di tutto: "Io so. Io so i nomi dei responsabili!". Per questo crediamo sia un pericolo che nei movimenti circolino personaggi come Samantha Comizzoli che condivide i pensieri di Paolo Barnard, Gilad Atzmon e Andrea Carancini, creando un pericoloso cortocirtuito tra compagni solidali coi Palestinesi, antisemiti, negazionisti e complottisti."
  Insomma, è sempre necessario ribadire che solamente unità di classe degli sfruttati, al di là dei confini nazionali e culturali, potrà costruire una reale alternativa alla barbarie del capitale e degli stati, siano questi stati, e le rispettive borghesie, Israele o l'Iran, l'Arabia Saudita o il Qatar, gli Stati Uniti o la Russia.

(Umanità Nuova, 25 giugno 2017)


Marocco: nuove rivelazioni sulla cellula terroristica scoperta a Essaouira

RABAT - Gli inquirenti marocchini hanno fatto nuove rivelazioni alla stampa di Rabat sulla natura della cellula terroristica di Essaouira, il cui smantellamento è stato annunciato il 22 giugno scorso. Nel corso delle indagini è emerso che il gruppo armato intendeva violare diversi siti web e della finanza. Il Central Bureau di investigazione giudiziaria (Bcij) ha annunciato il 22 giugno l'arresto di quattro persone appartenenti a una cellula terroristica che era attiva a Essaouira. Stavano progettando attacchi terroristici contro obiettivi sensibili e siti turistici a Essaouira. Avevano anche pianificato di estendere le loro operazioni ad altre città. Una fonte informata ha rivelato al sito locale "Le360" che la cellula era guidata da Abderrahim Ibourek. Quest'ultimo era in costante contatto con i leader dell'organizzazione dello Stato islamico all'estero. Tra i loro obiettivi c'era la comunità ebraica, in particolare durante le festività religiose per colpire i suoi simboli, come il Mausoleo del Cimitero ebraico vicino alla Bab Doukala di Essaouira.

(Agenzia Nova, 26 giugno 2017)


Il Qatar e il rischio di una nuova Guerra del Golfo: cosa c'è dietro

di Claudia Segre

Le ragioni politiche ed economiche che stanno dietro il braccio di ferro tra Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e il Qatar - La contesa del gasdotto ideato da Qatar, Turchia ed Iran - Gli effetti finanziari dell'isolamento del Qatar - Solo 10 giorni per verificare se la diplomazia Usa può evitare la guerra.

 
Arabia Saudita, Bahrein, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, con la mediazione del Kuwait, hanno posto 13 condizioni al piccolo e disallineato Stato del Qatar, rivolte a limitarne un potere ideologico diffuso non solo grazie ai media con l'incriminata rete televisiva Al Jazeera, ma soprattutto per il sostegno finanziario e logistico offerto ai Fratelli Musulmani e ad altri gruppi terroristici come Hezbollah in Libano e Hamas.
  Il Qatar va incontro a un duro embargo e quindi a un isolamento nel quale le alleanze tanto contestate con la teocrazia iraniana e la Turchia del "Sultano" Erdogan potranno far poco, aldilà di appellarsi, (per la serie "da che pulpito"), al diritto internazionale. Le monarchie del Golfo e l'Egitto non tollerano la diffusione dei Fratelli Musulmani, che cercano d'imporre al mondo sunnita un'unione indissolubile tra potere politico e religioso attraverso la Sharia, considerando quindi come eretici tutti i Governi esistenti.
  La messa al bando di questo pericoloso movimento per la sopravvivenza della laicità del mondo politico sunnita è divenuta vitale soprattutto dopo la deriva della Turchia assoggettata ai Fratelli Musulmani. Una battaglia della quale in Occidente molti Paesi ancora fanno fatica a capirne fondamento ed importanza, soprattutto per il rischio evidente di un nuovo conflitto nel Golfo, con un'inevitabile effetto contagio in un'Europa dove le comunità efficienti ed organizzate che si legano a questo movimento estremista spadroneggiano in diversi quartieri da Parigi a Londra.
  Ovviamente dietro questo braccio di ferro ci sono anche e soprattutto forti interessi economici, perché il Qatar con la Turchia e l'Iran è interessato a costruire un importante gasdotto che, attraversando proprio il territorio turco, giunga sino in Europa. Il punto di partenza sarebbe situato proprio nel giacimento offshore di gas naturale che viene condiviso dal Qatar con gli iraniani, chiamato South Pars per la parte iraniana/North Dome in Qatar. In alternativa il gasdotto potrebbe passare da Iraq e Siria. C'era già stato un tentativo tra il 2000 ed il 2010 per un progetto simile ma fu proprio Assad a bloccarlo perché ledeva gli interessi verso l'Europa della Russia. E la stessa Arabia Saudita si era allineata al diniego, per evitare che l'Iran potesse beneficiare dei proventi di un progetto così remunerativo.
  Questi tentavi, culminati proprio nel 2010 prima della guerra siriana, spiegano i motivi di un conflitto che, lungi dall'essere legato soltanto agli strali di una guerra civile, è dovuto principalmente alla guerra dei gasdotti e al rifiuto di Assad di far attraversare il suo territorio da qualsivoglia gasdotto che favorisse un Paese sunnita come il Qatar, per quanto legato a un alleanza di comodo, anche in questo caso, con gli iraniani. Il Qatar a sua volta, producendo sempre meno petrolio, aveva ed ha tuttora estremo bisogno di realizzare il gasdotto, esattamente come la Turchia, che paga un'ingente bolletta petrolifera nonostante il calo dei prezzi indotto dai sauditi per bilanciare la crescita dell'industria dello shale oil americano.
  Nelle ultime due settimane abbiamo assistito alla correzione del rating del Qatar ed ad un'accelerazione dei problemi valutari legati al fatto che la divisa del Paese ha un peg e che il mercato valutario del Paese è limitato ed illiquido. C'è stata una corsa ai depositi in dollari Usa dopo la pubblicazione delle 13 condizioni e la divisa locale ha già perso il 4% in attesa che con la fine del Ramadan la situazione peggiori. Effetti negativi anche sul mercato dei Sukuk, con una perdita di valore nei prezzi e dubbi sul valore effettivo delle garanzie reali sottostanti se dovesse proseguire o, come sembra, peggiorare l'embargo. Il pericolo di un deflusso di capitali e patrimoni ingenti è reale e non facile da affrontare da parte dalla monarchia costituzionale dell'emiro Al Thani.
  La posta in gioco è molto elevata, mentre gli aerei delle forze in campo, soprattutto americani e russi, si sfiorano ed il rischio di un incidente, che accenda la miccia su questa polveriera di interessi incrociati tra geopolitica e business dell'energia, è molto elevato.
  I mercati per ora non prezzano questo rischio ed il petrolio resta nello stretto range tra 42 e 48 dollari Usa del Brent in attesa di capire cosa succederà tra 10 giorni e se la diplomazia condotta da Tillerson produrrà qualche effetto, visto che gli stessi americani in questo momento non son più interessati come un tempo a sponsorizzare un progetto di un gasdotto che, comunque sia, sarebbe certamente contrario agli interessi nazionali della nuova Amministrazione Trump, già di per sé soddisfatta del mega accordo sugli armamenti stipulato "giusto in tempo" con l'Arabia Saudita.

(FIRST online, 26 giugno 2017)


Scoperta in Israele una nuova specie di farfalla

Non accadeva da 109 anni, in Israele l'entomologo russo Vladimir Lukhtanov ha scoperto una nuova specie di farfalla

 
"E' bella e colorata". Così il popolare entomologo russo Vladimir Lukhtanov ha descritto la nuova farfalla, scoperta di recente in Israele, la prima dopo 109 anni. Una specie che in molti avevano appena fotografato, senza sapere che si trattasse di una forma mai apparsa prima. Appartiene alla famiglia delle Ninfalidi ed stata descritta sulla rivista specializzata Comparative Cytogenetics. Si chiama Meliatae acentria.

 Un nuovo esemplare ibrido
  "La specie è probabilmente una delle pochissime farfalle nate attraverso l'ibridazione tra altre due specie in passato", ha spiegato Lukhtanov, che è biologo dell'evoluzione all'Istituto Zooologico di San Pietroburgo. "Si tratta di un processo comune nelle piante, ma gli scienziati hanno realizzato solo di recente che può accadere anche nelle farfalle", ha spiegato ancora l'esperto russo, che delle farfalle ne ha estratto il Dna per studiarlo e sequenziarlo, dimostrando che il "nuovo" esemplare appartiene proprio a una specie unica, endemica del Monte Hermon, nel nord di Israele dove è stata scoperta e delle zone limitrofe di Siria e Libano. Essendo molto simile alla Melitae persea, era stata scambiata per questa farfalla, comune in Asia. Ma a uno studio più approfondito, però, è risultata un esemplare unico.

 Bella e colorata
  La nuova farfalla è bella e colorata, piccola e facile da individuare. Lukhtanov e i suoi studenti hanno iniziato a studiarne le caratteristiche fin nel 2012, usando tecniche tradizionali e più moderne. Un anno dopo, nel 2013, Asya Novikova, studentessa presso la Hebrew University, ha campionato una serie di farfalle che si trovano nei pressi del Monte Hermon, accorgendosi di alcune differenze soprattutto nell'apparato riproduttore. L'analisi del Dna ha confermato che questa farfalla appartiene a un'altra specie, finora mai classificata.

 Una nuova farfalla anche in Italia
  Anche in Italia, lo scorso anno, è stata scoperta una nuova specie di lepidottero, la Nothocasis rosariae: è una farfalla notturna, di dimensioni contenute (appena 3 centimetri) di colore grigio chiaro sia sulle ali sia sul torace e l'addome. È stata individuata nel Parco Nazionale della Sila, in Calabria, entrato a far parte dei luoghi "Riserva della Biodiversità" dell'UNESCO. Vola nelle zone montuose e boschive locali, da fine agosto a metà novembre. Il nome è stato scelto dal primo degli autori della ricerca in onore della madre (Rosaria). Appartiene al genere Nothocasis, diffuso soprattutto in Indocina con 12 specie, ma presente anche in Europa, Africa settentrionale e Asia fino al Tropico del Capricorno. Si riteneva che nel Vecchio Continente ci fosse la sola specie della Nothocasis Sertata, ma la recente scoperta ha aperto nuovi orizzonti.

(Focus Junior, 26 giugno 2017)


A Teheran hanno iniziato il conto alla rovescia per la distruzione di Israele

La chiamano giornata di Gerusalemme e sarebbe in solidarietà coi palestinesi. Ecco di cosa si tratta.

Migliaia di iraniani hanno partecipato, come ogni anno, alle manifestazioni di odio anti-israeliano indette nell'ultimo venerdì di Ramadan, rinominato dal regime degli ayatollah "Giornata di al-Quds", nome arabo di Gerusalemme. Le manifestazioni, definite "a sostegno del popolo palestinese", anche quest'anno sono state caratterizzate da comizi colmi di retorica aggressiva, bandiere israeliane e americane date alle fiamme e la consueta sfilata di missili da guerra, compreso lo Zolfaghar, il missile che l'Iran ha lanciato la scorsa settimana su presunti obiettivi ISIS Siria....

(israele.net, 26 giugno 2017)


Upright: il dispositivo israeliano per migliorare la postura

Upright è una azienda israeliana che ha sviluppato un piccolo dispositivo che, posto sulla schiena, rileva una cattiva postura ed emette una leggera vibrazione per spingere l'utente a raddrizzarsi.
Può essere sincronizzato con un'applicazione per smartphone per tenere traccia dei dati nel tempo, monitorare i progressi dell'utente in un programma di formazione e condividere le informazioni con gli amici.
Gli sviluppatori Oded Cohen e Ori Fruhauf sostengono che grazie a questo dispositivo l'utente può notare un miglioramento della postura e di conseguenza una diminuzione del dolore alla schiena e al collo. Il dispositivo ha due sensori e l'algoritmo alla base della tecnologia rileva eventuali errate posizioni assunte dall'utente.
L'obiettivo è quello di migliorare la postura rendendo quasi un'abitudine stare seduti in posizione eretta.
Un fisioterapista, Ido Dana, ha testato il dispositivo su alcuni pazienti, rilevando un miglioramento entro tre settimane dall'utilizzo. Il dispositivo può affrontare la sfida di continuare un trattamento anche fuori dalle strutture dedicate, aiutando a correggere le cattive abitudini e cambiare il modo in cui il cervello percepisce la postura.
Upright dura fino a otto giorni con una sola carica ed è realizzato in silicio adatto ai dispositivi medici.

(SiliconWadi, 26 giugno 2017)


Israele - Iran: cresce la tensione tra i due Paesi

Nuovo monito all'Iran da parte di Israele in merito al rifornimento di armi ad Hezbollah ed al tentativo di stabilire la sua presenza in Siria.
   Domenica 25 giugno, Israele ha avvertito nuovamente l'Iran sulle conseguenze cui andrà incontro se proseguirà nello stabilire in Libano industrie per la produzione di armi, a vantaggio di Hezbollah. Secondo il capo dell'intelligence militare israeliana, Herzl Halevi, queste industrie producono missili con un raggio di circa 500 chilometri, missili anticarro e missili terra-mare.
   Un alto funzionario israeliano ha affermato che il Paese non potrà transigere sulla questione, che ha conseguenze sulla stabilità dell'intera regione. Israele ha inoltre chiesto l'intervento di Paesi terzi allo scopo di persuadere Teheran a porre fine a questa attività, alla luce del mancato intervento del governo libanese.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha sottolineato che il Paese risponderà con la forza ad ogni attacco contro il proprio territorio e contro i suoi cittadini e, all'inizio della consueta seduta settimanale di governo, ha chiarito che ritiene molto seria la questione riguardante i tentativi dell'Iran di fornire armi avanzate ad Hezbollah e di stabilire la sua presenza in Siria.
   Netanyahu faceva riferimento, in particolare, all'intervento iraniano in Siria del 18 giugno scorso, quando Teheran ha attaccato il campo petrolifero di Tanak e la città di Mayadin. È stato quello il primo intervento iraniano nel Paese, avvenuto in risposta all'attentato rivendicato dal sedicente Stato Islamico, che il 7 giugno aveva colpito il parlamento iraniano ed il mausoleo dell'ayatollah Khomeini.
   L'attacco iraniano, che ha addirittura violato la sovranità irachena, dal momento che i missili ne hanno attraversato lo spazio aereo, costituiva, per stessa ammissione iraniana, un chiaro segnale di ammonimento nei confronti dello Stato Islamico e di tutti i suoi sostenitori, intesi come coloro che sostengono il terrorismo sunnita, tra i quali Arabia Saudita ed Israele.
   Il monito di Netanyahu nei confronti dell'Iran giunge dopo che lo scorso sabato, 24 giugno, gli aerei militari israeliani hanno colpito i siti legati all'esercito regolare siriano a Kenitra, nel sud della Siria. L'attacco israeliano è avvenuto in risposta al lancio di dieci missili nell'area del Golan occupata da Israele ed ha causato la distruzione di due carri armati e delle basi di lancio da cui erano partiti i missili stessi. Nonostante sembri che i missili in questione fossero stati lanciati durante uno scontro interno delle parti siriane in conflitto, Israele ne ha attribuito la responsabilità all'Iran.
   Secondo quanto affermato dal Wall Street Journal, infatti, Israele temerebbe la formazione di una presenza sciita nelle alture del Golan e, proprio per prevenirla, starebbe stringendo rapporti con i ribelli siriani. L'episodio del lancio dei missili nell'area sarebbe stato percepito da Israele come un attacco da parte dell'Iran: da qui il monito nei confronti della Repubblica Islamica.
- Traduzione dall'arabo e redazione a cura di Laura Cianciarelli

(Sicurezza Internet, 26 giugno 2017)


Gli Ebrei in Sardegna

Ogni sardo ha del sangue ebreo che scorre nelle sue vene.

di Giuliana Mallei

 
Con la deriva fondamentalista islamica, si sta nuovamente parlando di antisemitismo.
  Quest'ultimo è un atteggiamento di intolleranza nei confronti del popolo ebraico, anche se le popolazioni semitiche sono tutte quelle che linguisticamente sono collegate al comune ceppo linguistico semitico: Ebrei, Arabi, Cananeo-Fenici, Maltesi, Cartaginesi.
  Anche qui in Sardegna non è raro incontrare persone che mantengono un atteggiamento di disprezzo nei confronti degli Ebrei; eppure tutti i Sardi hanno parecchio sangue ebraico nelle loro vene.
  I popoli semitici, lungo i secoli, hanno spesso raggiunto la Sardegna, pensiamo ai Fenici e ai Cartaginesi, e qui hanno sempre trovato accoglienza. Le notizie documentarie attestanti la presenza degli Ebrei in Sardegna partono dal I secolo d.C con lo storico Giuseppe Flavio, poi ne parla Svetonio (75 - 150 d.C), quindi Tacito (114 d.C) e Dione Cassio (II - III secolo d.C.).
  Anche l'archeologia ha parecchio da dire; a Sant'Antioco sono state rinvenute ben due catacombe ebraiche e in tutta l'isola sono numerosi i reperti tipicamente ebraici (anelli, lucerne, lapidi ecc.) tornati alla luce in diverse zone di scavo (Porto Torres, Macomer, Cagliari ecc.).
  L'arrivo degli Ebrei in Sardegna risale al 19 d.C. quando l'imperatore Tiberio constatò che i giudei a Roma erano troppo numerosi, pensò quindi di liberarsene emettendo un editto che imponeva l'arruolamento forzato dei giovani ebrei atti alle armi.
  Ufficialmente la sua intenzione era quella di creare una legione che andasse a combattere e punire i numerosi latrocinii perpetrati in Sardegna dalle popolazioni dei Sardi pelliti (=vestiti di pelli).
  In realtà egli sperava che Ebrei e Sardi si combattessero e si annientassero a vicenda.
  L'imperatore Tiberio è stato il primo nella Storia a pianificare una pulizia etnica; infatti anche nei confronti dei Sardi, i romani, avevano dei pregiudizi poiché ritenevano che nell'isola abitassero popolazioni selvagge, prive di fede e di autorità (secondo il giudizio di Cicerone).
  Perciò 4.000 giovani giudei vennero inviati in Sardegna, le loro famiglie li seguirono; circa ventimila Ebrei giunsero nell'isola centrale, nelle zone barbaricine e qui si stabilirono.
  Il piano di Tiberio fu un fallimento perché i Sardi, tanto crudeli con i romani, non combatterono contro i Giudei, ma li accolsero. Ebrei e Sardi vissero in prosperità e armonia anche imparentandosi tra loro.
  Nel VI secolo è documentata l'esistenza di una sinagoga a Cagliari e in città gli Ebrei vivevano in un quartiere apposito dal quale entravano e uscivano liberamente, intrattenendo rapporti commerciali e d'affari in modo regolare con tutto il resto dell'isola.
  Durante il dominio aragonese, gli Ebrei venivano definiti "servi della Corona" e godevano di una posizione speciale, nessuno osava prevaricarli in alcun modo, nemmeno il clero e le autorità locali.
  Il sovrano aveva predisposto un apposito registro dei tributi in cui ogni ebreo era iscritto; questi importanti documenti sono giunti fino a noi ed è quindi possibile, attraverso la lettura dei cognomi degli ebrei, scoprire quali sardi vantano origini ebraiche: praticamente tutti.
  Sono di origine ebraica i cognomi: Addari, Alba, Arba, Aroni, Bacchis, Campus, Casula, Deiana, Elias, Farina, Gaias, Lai, Lecca, Macis, Mameli, Manca, Mancosu, Matta, Mossa, Nonnis, Olla, Pala, Piga, Raccis, Salis, Sanna, Sarais, Secci, Serra, Tedde, Tola, Urru, Zara, Zurru, Zizi, ma sono solo alcuni.
  Nel 1348 in Europa scoppiò la peste nera che mieté numerosissime vittime, un po' ovunque si indicarono gli Ebrei come i diffusori della peste e ciò diede inizio ad una serie di persecuzioni e di soprusi nei confronti dei giudei, che pure morivano di peste come gli altri.
  In Sardegna nessuno si scagliò contro di loro e nessuno li perseguitò in alcun modo.
  Nel 1492 i re spagnoli, Ferdinando e Isabella, definiti re Cattolici, firmarono un decreto di espulsione degli Ebrei dal loro Regno, a meno che non decidessero di convertirsi al Cattolicesimo.
  In quasi tutto il territorio della Corona Spagnola, gli Ebrei furono perseguitati e costretti a partire, in Sardegna invece i Giudei, in massima parte, si convertirono al cattolicesimo pur di non lasciare la loro casa e i loro affetti, in pochi partirono.
  Nessun sardo li denunciò o li perseguitò, le affinità tra sardi ed Ebrei si erano rivelate molto profonde, i due popoli erano strettamente legati da un punto di vista etnico e culturale.
  Pensiamoci ogni volta che qualcuno di noi pronuncia esclamazioni intransigenti nei confronti degli Ebrei.

(Israele Storia e Cultura, 26 giugno 2017)


Chi è il più jihadista del reame?

Gli sceicchi di Riyad che accusano il Qatar di finanziare il terrorismo è la più ipocrita delle gogne internazionali. Se oggi mezzo mondo è minacciato da gruppi islamisti lo dobbiamo ai petrodollari sauditi.

di Rodolfo Casadei

 
L'Arabia Saudita che rompe i rapporti diplomatici e impone l'embargo contro il Qatar accusandolo di complicità con gruppi terroristici come Al Qaeda, Isis, Hamas e Fratelli Musulmani è il classico caso del bue che dà del cornuto all'asino. È vero che nel corso degli ultimi vent'anni il regno dei Saud è stato oggetto di una sessantina di attacchi attribuibili a Isis e Al Qaeda, ma questo è un po' il destino di tutti gli apprendisti stregoni che pensano di poter manovrare le forze diaboliche che hanno evocato, e invece restano scottati dai ritorni di fiamma. In Arabia Saudita le organizzazioni citate all'inizio sono classificate come entità terroristiche, è vietato finanziarle con donazioni di denaro e ovviamente combattere per loro, e gli enti caritativi possono inviare risorse all'estero solo sotto la regia del Centro Re Salman per l'aiuto e il soccorso umanitario e della Mezzaluna Rossa. Ma dietro le quinte le cose sembrano andare diversamente.
  «Dobbiamo usare i nostri strumenti diplomatici e di intelligence più tradizionali per esercitare pressioni sui governi del Qatar e dell'Arabia Saudita, che stanno fornendo sostegno finanziario e logistico clandestino all'Isis e ad altri gruppi sunniti radicali nella regione». Questo passaggio è contenuto in una email scritta il 27 settembre 2014 da John Podesta a Hillary Clinton che faceva il punto della situazione nell'Iraq settentrionale dopo le grandi offensive che avevano portato l'Isis a conquistare Mosul e gran parte della Piana di Ninive in quell'estate, e rivelata da Wikileaks nell'ottobre scorso. A quel tempo Podesta era consigliere della Casa Bianca per la politica estera e Hillary Clinton non era più segretario di Stato da un anno e mezzo, ma si preparava a concorrere alle presidenziali del 2016, che avrebbero visto proprio Podesta come presidente della sua campagna elettorale.
  Per politici e funzionari di Stato americani l'esistenza di rapporti inconfessabili fra l'Arabia Saudita e altri emirati del Golfo e i terroristi jihadisti sunniti non è mai stata un segreto, ma l'hanno reso tale verso l'esterno per ragioni politiche facili da intuire. L'unico che finora non ha saputo trattenersi è stato l'ex vicepresidente John Biden, definito da Foreign Policy «l'unico uomo onesto a Washington», che il 2 ottobre 2014 al John F. Kennedy Jr. Forum di fronte ad alcune centinaia di studenti disse: «I sauditi, gli Emirati, cosa stavano facendo? Erano così decisi ad abbattere il regime di Assad in Siria e a scatenare una guerra per procura fra sunniti e sciiti, che hanno versato centinaia di milioni di dollari e fornito migliaia di tonnellate di armi a chiunque volesse combattere contro Assad; solo che il problema è che i soggetti che hanno beneficiato di questo sono stati Al Nusra e Al Qaeda, e altri jihadisti estremisti provenienti da tutto il mondo».
  Molto istruttivo quello che si legge in un telegramma del Dipartimento di Stato americano del 30 dicembre 2009: «I donatori dell'Arabia Saudita rappresentano la più significativa fonte di finanziamento dei gruppi terroristi sunniti in tutto il mondo. Mentre l'Arabia Saudita come tale prende seriamente la minaccia terroristica all'interno del paese, è stato e resta molto difficile persuadere i dirigenti sauditi a trattare il finanziamento al terrorismo che emana dall'Arabia Saudita come una priorità strategica. (…) Occorre fare di più, dal momento che l'Arabia Saudita rimane una base di supporto finanziario critica per Al Qaeda, i talebani, Lashkar-e-Taiba (terroristi pakistani, ndr) e altri gruppi terroristici inclusa Hamas, che probabilmente riceve milioni di dollari all'anno da fonti saudite».

 Il tifo per il califfo
  Un altro file Wikileaks ricostruisce un dialogo privato di Hillary Clinton nell'ottobre 2013 a un evento promosso da Goldman Sachs nel quale l'ex segretario di Stato dice: «I sauditi e altri stanno inviando grandi quantità di armi (in Siria, ndr) in modo del tutto indiscriminato e non mirato verso i gruppi che consideriamo i più moderati, quelli con i quali abbiamo meno probabilità di avere problemi in futuro».
  In Siria l'Arabia Saudita inizialmente ha appoggiato il Free Syrian Army (Fsa), teoricamente moderato e filo-occidentale. Quando si è resa conto dell'inefficienza e del banditismo endemici all'interno dell'Fsa, ha spostato le sue fiches sul Fronte islamico, una coalizione di gruppi jihadisti salafiti che avevano come programma di trasformare la Siria in una repubblica islamica retta dalla sharia. Fra essi Jaysh al Islam, guidato fino alla morte nel dicembre 2015 da Zahran Alloush, noto per i bombardamenti dei quartieri civili cristiani di Damasco e per essere favorevole alla pulizia etnica di sciiti e alawiti dalla capitale. Successivamente l'Arabia Saudita ha pilotato la formazione di Jaish al Fatah, l'Esercito della conquista, che ha avuto fra le sue file per lunghi periodi anche Jabhat al Nusra (oggi rinominata Tahrir al Sham), cioè la filiale siriana di Al Qaeda, e Ahrar al Sham, un gruppo salafita jihadista da sempre alleato di Jabhat al Nusra e fino alla sua uccisione guidato da un siriano di Al Qaeda intimo di Ayman al Zawahiri. Ahrar al Sham è qualificata come organizzazione terroristica in Egitto, Emirati Arabi Uniti, Russia e Iran.
  Secondo il Washington Institute for Near East Policy, lodato e apprezzato sia da Bill Clinton che da George W. Bush, «molti governi della regione a volte finanziano gruppi ostili che possono aiutarli a raggiungere particolari obiettivi. A Riyad hanno fatto molto piacere i recenti successi dei sunniti dell'Isis contro il governo sciita di Baghdad (riferimento ai successi dell'Isis in Iraq nell'estate 2014, ndr) e le vittorie jihadiste in Siria a spese di Bashar el Assad. Tuttavia un finanziamento ufficiale del gruppo da parte di Riyad è precluso dalla percezione che la minaccia terroristica dell'Isis è seria e immediata. Oggi i cittadini sauditi continuano a rappresentare una significativa fonte di finanziamento per i gruppi sunniti che operano in Siria. I donatori arabi del Golfo nel loro insieme (fra i quali quelli sauditi sono considerati i più generosi) hanno indirizzato centinaia di milioni di dollari in Siria negli ultimi anni, anche a vantaggio dell'Isis e di altri gruppi. C'è sostegno per l'Isis in Arabia Saudita, e il gruppo organizza campagne di raccolta fondi mirate all'ambiente saudita, perciò Riyad potrebbe fare di più per limitare i finanziamenti privati».

 La minaccia della Fratellanza
  La vera ragione dell'odierno assedio al Qatar è, come tutti hanno capito, la benevolenza di quest'ultimo nei confronti dei Fratelli Musulmani, percepiti dalla monarchia saudita come una minaccia esistenziale alla sua legittimità, e della loro gemmazione palestinese, cioè Hamas. L'attuale intransigenza di Riyad nei confronti degli eredi dello sceicco Yassin ha del paradossale. L'Arabia Saudita ha generosamente finanziato Hamas dai giorni della sua fondazione (1987) fino a tutta la seconda Intifada (2000-2005) in funzione anti-Arafat, e ha sempre ricevuto con tutti gli onori il suo fondatore Ahmed Yassin fino alla morte nel 2004. A quell'epoca l'Arabia Saudita copriva almeno il 50 per cento del bilancio di Hamas. A causa delle pressioni occidentali, Riyad ha poi assunto una posizione maggiormente equidistante fra i due contendenti palestinesi, cercando a più riprese di riconciliare Al Fatah e Hamas. Con raccapriccio ha assistito all'avvicinamento fra l'organizzazione e l'Iran, che è diventato nel tempo l'alleato più importante di Hamas. I tentativi di riportare gli islamisti palestinesi nel campo dei regimi arabi sunniti conservatori sono continuati fino al 17 luglio 2015, quando una delegazione guidata dall'allora leader Khaled Mesh'al incontrò re Salman da poco salito al trono alla Mecca. Fallito quel tentativo, Riyad ha adottato la linea dura che ha portato all'embargo contro il Qatar.
  Problemi ad accreditarsi come paese intransigente nella lotta al terrorismo l'Arabia Saudita ce li ha anche in Europa. Nel dicembre scorso la Süddeutsche Zeitung e i canali televisivi Ndr e Wdr hanno diffuso estratti di un rapporto confidenziale dei servizi segreti tedeschi (il BfV, Ufficio federale per la protezione della Costituzione, e la Bnd, Agenzia federale di intelligence) che accusa tre fondazioni di finanziare e sostenere il movimento salafita in Germania, che diffonde un islam estremista nel paese e dal quale provengono molti foreign fighter tedeschi partiti a combattere per l'Isis in Siria e Iraq. Le tre fondazioni sarebbero la saudita Lega musulmana mondiale, la qatarina Associazione caritativa Sheikh Eid Bin Mohammad al Thani e la kuwaitiana Società del risveglio dell'eredità islamica. Il deputato socialdemocratico ed esperto di questioni mediorientali Rolf Mützenich ha confermato l'attendibilità delle rivelazioni: «Da tempo abbiamo indizi e prove che i salafiti tedeschi ricevono assistenza con l'approvazione dei governi di Arabia Saudita, Qatar e Kuwait sotto forma di denaro, imam inviati e costruzione di scuole coraniche e moschee». L'ambasciatore saudita in Germania ha reagito dichiarando che la Lega musulmana mondiale non è un ente governativo saudita e che non opera più in Germania dal 2013. Sta di fatto che la Lega ha sede alla Mecca, dove è stata fondata, e come tutti gli enti no profit sauditi deve per legge essere controllata da un principe della famiglia Saud.

 Kosovo, una miniera di miliziani
  Oggetto di critiche anche la presenza saudita in Kosovo, il paese europeo col più alto numero di jihadisti combattenti in rapporto al numero degli abitanti. Scrive Carol Chosky su Limes: «Nel 2016 l'Unità d'intelligence finanziaria del Kosovo ha chiuso tutte le organizzazioni caritatevoli finanziate dai sauditi che affermavano di aiutare la ricostruzione del paese sostenendo gli orfani e riedificando le moschee. Degli oltre 10 milioni di euro donati all'associazione Waqf al Islami, con sede in Olanda e Arabia Saudita, oltre 1,5 milioni sono stati prelevati senza finalità specifiche e potrebbero aver finanziato le attività di radicalizzazione in Kosovo». Riyad protesta e si proclama innocente, ma prende anche misure preventive per non essere più presa in castagna: alla fine dell'anno scorso ha chiuso l'Accademia Re Fahd, aperta in Germania nel 1994 e da anni denunciata dai media tedeschi come un centro di reclutamento e addestramento degli estremisti.

(Tempi, 26 giugno 2017)


Bibi, un messaggio a Teheran: "Basta armi ad Hezbollah"

Israele non tollererà ulteriormente la costante fornitura di armi da parte iraniana ai terroristi di Hezbollah attivi nel sud del Libano, al confine con lo Stato ebraico. È il messaggio che, secondo i media israeliani, il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe fatto pervenire a Teheran attraverso alcune non meglio precisate nazioni amiche che hanno rapporti aperti con Rouhani e il suo entourage.
Tra le minacce più significative portate all'attenzione in questo messaggio il tentativo in corso da parte di Hezbollah di costruire centri sotterranei di produzione di armi avanzate, così da averle subito a disposizione ed evitare il trasferimento dall'Iran al Libano attraverso la Siria.
La tensione è alta, e la conferma arriva da molti segnali. Appena venerdì scorso il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha dichiarato che centinaia di migliaia di combattenti arabi e musulmani sarebbero pronti ad accorrere in Libano in caso di attacco israeliano al Libano stesso oppure alla Siria. "Non sto dicendo che dei paesi potrebbero intervenire direttamente in questo conflitto, ma un attacco israeliano aprirebbe la porta all'arrivo di combattenti da Iraq, Yemen, Iran, Pakistan, Afghanistan" ha affermato Nasrallah nel corso di un intervento in uno studio televisivo.

(moked, 25 giugno 2017)


Muro del Pianto: nuova crisi ortodossi-riformati

Il governo israeliano ha congelato l'apertura a riformati e laici. «Un giorno vergognoso», commenta il Jerusalem Post

GERUSALEMME - Il governo israeliano di Benyamin Netanyahu ha congelato oggi, su pressione dei partiti ortodossi della sua coalizione, un progetto già approvato nel 2016 per una "spartizione egualitaria" nelle preghiere presso il Muro del Pianto di Gerusalemme.
Prevedeva l'allestimento di un nuovo settore, destinato agli ebrei riformati e conservativi nonché ai laici, a ridosso di quello già esistente degli ortodossi. In pratica, implicava uno storico riconoscimento da parte di Israele delle correnti ebraiche riformate e conservative, in cui si riconoscono in prevalenza gli ebrei statunitensi.
Oggi gli ebrei ortodossi sono riusciti a convincere il governo non solo a bloccare la realizzazione di quel piano ma anche a schierarsi con una nuova «legge sulla conversione» che pure riconosce il primato degli ortodossi sulle altre correnti dell'ebraismo.
Immediate le reazioni negative del direttore del Jerusalem Post - secondo cui si tratta di un «giorno vergognoso» per Israele - e del presidente della Agenzia Ebraica Nathan Sharansky secondo cui queste decisioni rischiano di avere ripercussioni molto negative nei rapporti di Israele con la Diaspora.

(tio.ch, 25 giugno 2017)


Militari israeliani spiegano il perché dei raid aerei contro l'esercito siriano

L'aviazione israeliana ha attaccato le posizioni delle forze governative siriane distruggendo due carri armati e una mitragliatrice pesante in risposta ad una dozzina di granate vaganti che sono esplose nella parte delle alture del Golan controllata dallo Stato ebraico, ha comunicato l'ufficio stampa dell'esercito.
Il bombardamento dal territorio dello Stato confinante è stato riconosciuto dai militari israeliani come non intenzionale, tuttavia è stato considerato "una violazione inaccettabile della sovranità di Israele."
"In risposta alle oltre 10 granate sparate dal territorio siriano e cadute in Israele, l'aviazione ha attaccato le posizioni da cui è partito il fuoco. Inoltre sono stati attaccati due carri armati appartenenti al regime siriano", - si afferma nel comunicato.
Dalla parte israeliana non ci sono state vittime. I militari hanno riferito che i proiettili e le granate hanno sorvolato la linea di demarcazione durante i combattimenti nei pressi di Quneitra tra le forze governative e le unità dell'opposizione siriana.
Successivamente l'ufficio stampa delle forze di difesa israeliane ha pubblicato il video degli attacchi aerei mirati in cui si vede la distruzione di 2 tank e di un mezzo armato con una mitragliatrice pesante che secondo i militari d'Israele avevano sparato oltre la linea di demarcazione sulle alture del Golan.
In risposta all'incidente, il primo al confine con la Siria negli ultimi due mesi, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha detto che Israele non avrebbe tollerato attacchi contro la sua sovranità e la sicurezza, anche con fuoco non intenzionale.
"A nostro avviso il regime di Assad è responsabile di ciò che accade nel proprio territorio e continuerà a subire le conseguenze se eventi simili si ripeteranno," — ha avvertito il ministro.
Una fonte informata dal posto ha riferito a RIA Novosti che nei pressi delle alture del Golan le forze governative siriane avevano respinto un potente attacco dei terroristi di Al-Nusra nella città di Al-Baath.

(Sputnik, 25 giugno 2017)


Dal mensile evangelico "Il Cristiano" (1888-2017)

Continua la pubblicazione di brevi notizie e commenti tratti dal mensile evangelico "Il Cristiano".

MAGGIO 1895
PALESTINA - Fra gli Ebrei cresce il numero delle società, le quali hanno tutte un unico scopo: la colonizzazione della Terra Santa. La più numerosa di queste società si chiama Chovevi Sion (Gli amanti di Sion). Il suo periodico porta il titolo di Palestina, e sulla copertina spicca una nuova bandiera nazionale, con 12 emblemi delle 12 tribù.

MARZO 1896
PALESTINA - Il fratello Ben Oliel scrive che la lingua ebraica è ormai diventata di nuovo una lingua vivente. Vi sono due soli giornali pubblicati in tutta la Palestina, e sono scritti tutti e due in lingua ebraica, e stampati in Gerusalemme. La popolazione dei Giudei in Palestina è ora 120.000, di cui 40.000 sono stabiliti in Gerusalemme.

SETTEMBRE 1896
PALESTINA - Comincia a scemare l'indifferenza colla quale i Giudei consideravano l'agricoltura, e molte colonie se ne interessano. La più grande di esse, Richon le Sion, si dedica quasi esclusivamente alla vite, ed ha già piantato degli stabilimenti i quali possono competere con quelli di altri paesi vinicoli. Vicino a Jaffa vi è una scuola agricola in cui la gioventù ebraica viene ammaestrata per l'avvenire della nazione.

OTTOBRE 1896
PALESTINA - Alcuni fatti importanti sono stati pubblicati dal Dott. Snowman sopra Israele come nazione. Egli prova che mentre le nazioni antiche del tutto scomparvero l'una dopo l'altra, o si mescolavano fra esse, Israele rimane ognora una nazione distinta e separata. Il Dott. Snowman prova quindi che le leggi di Mosè « stabiliscono la vita sopra una base igienica.» Fra altre statistiche ch'egli ne cita vi è quella che prova che, mentre in una grande città dell'Europa muoiono di malattie tubercolose il 16 per cento della popolazione, fra gl'Israeliti ne muore soltanto il 7 per cento.

(Notizie su Israele, 25 giugno 2017)


Degna di nota la notizia “Vi sono due soli giornali pubblicati in tutta la Palestina, e sono scritti tutti e due in lingua ebraica, e stampati in Gerusalemme”. Era dunque una ben strana nazione quella Palestina araba che oggi si vorrebbe far rivivere: non c’erano giornali in lingua araba! M.C.


Il Tempio di Gerusalemme, il santo dei santi e il nobile recinto

Diario da Gerusalemme.

di don Mario Colavita

 
Sembra una contraddizione enorme, Tempio di Dio e moschea, santo dei santi e nobile recinto, eppure qui a Gerusalemme questa contraddizione prende forma quando si mette piede in questo grande e vasto spazio, il luogo più santo per gli ebrei e musulmani. Si tratta del monte del tempio, chiamato anche spianata. Gli ebrei chiamano questo luogo Har ha-Bait (monte della Casa di Dio), i musulmani al-Haram ash Sharif (il recinto sacro). Per i cristiani questo luogo è stato frequentato più volte da Gesù sin dall'infanzia.
  L'evangelista Luca parla del tempio di Gerusalemme in riferimento all'infanzia di Gesù: narra dell'arcangelo Gabriele che apparve a Zaccaria per annunciargli la nascita di Giovanni. Nello stesso vangelo è descritta la presentazione al tempio di Gesù; Gesù adolescente che discute con i dottori della legge. Negli altri vangeli, in particolare quello di Giovanni, presenta Gesù che nel tempio insegna (Gv 7,14), ne difende la sacralità (Gv 2,13-22), scaccia i venditori, proclama l'autentica adorazione di Dio che non avviene in un tempio ma in spirito e verità (Gv 4,20-24).
  La storia e l'importanza di questo luogo è legata alla presenza dell'Arca dell'alleanza e del sacrificio di Isacco. Per gli Ebrei l'Arca dell'alleanza è il segno della presenza continua di Dio tra il popolo. L'Arca richiama il patto di fedeltà, la protezione divina, il rispetto della legge e la santità di Dio e del popolo.
La storia inizia con Davide il grande re d'Israele, l'uomo che cercò di unificare le tribù di Israele e dare una identità forte al popolo di Dio.
Conquistata Gerusalemme verso l'anno 1000 a.C., Davide volle edificare un tempio di pietra in onore di Adonaj e custodirvi l'Arca santa. Aveva acquistato a tal proposito un terreno da "Araunà il gebuseo" e lì, sul monte, aveva offerto sacrifici di comunione (cf. 2Sam 24,18-25). Secondo la tradizione l'aia di Araunà viene identificata con il monte Moria dove Abramo avrebbe dovuto sacrificare il figlio Isacco, poi sostituito da un ariete (cf. Gen 22,2). Qui su questo monte Abramo incontra il re di Salem Melkisedek, "sacerdote del Dio altissimo" (Gn 14,18).
  La costruzione del Tempio di Gerusalemme avvenne sotto il regno di Salomone, figlio di Davide. Salomone edificò il tempio usando la pietra e il prezioso legno di cedro che il re faceva arrivare direttamente da Tiro.
Secondo l'ipotesi di alcuni archeologi, il tempio doveva avere una forma allungata di dimensione di 9x27 metri, per un'altezza di 13,5. La pianta di strette proporzioni rivela come all'epoca il tempio era concepito non come luogo di raduno per il popolo ma come la casa del dio o, nel caso di Gerusalemme, dell'Arca dell'alleanza.
  L'Arca si trovava nello spazio più interno, chiuso, privo di finestre, chiamato il santo dei santi, questo voleva evidenziare la misteriosità e l'invisibilità di Dio, simbolizzato, poi, con la nube come ribadì lo stesso Salomone: "Il Signore ha deciso di abitare nella nube oscura" (1Re 8,12).
Il santo dei santi era preceduto da un'area lunga il doppio; entrambi gli ambienti erano rivestiti in legno di cedro, successivamente il tempio fu dorato. Il libro dei Re dice che Salomone: "Ricoprì d'oro il pavimento della sala, all'interno e all'esterno" (1Re 6,30). Il tempio, dopo sette anni di lavori venne ufficialmente consacrato sotto Salomone, questo primo tempio rimase in piedi fino alla conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi nel 586 a.C.
Finito l'esilio in Babilonia, anche per concessione del re Ciro, gli ebrei ritornarono e cominciarono la riedificazione del secondo tempio come leggiamo nel libro di Esdra (Esd 1,1-4). La ricostruzione procedette per gradi anche su sollecitazione dei profeti Aggeo e Zaccaria, così nell'anno 515, sotto la reggenza del governatore Zorobabele e del sommo sacerdote Giosuè, il secondo tempio venne riconsacrato (Cf. Esd 6,14-22). Il tempio ricostruito era più o meno come quello edificato da Salomone, alcuni dicono che la sua altezza era il doppio fino a raggiungere i 27 metri. Una cosa però vi era di diverso il candelabro a sette bracci: la menorà.
  Oggi la menorà il candelabro a sette braccia è il simbolo del popolo ebraico. Il candelabro rappresenta il roveto ardente che Mosè vide sul monte Oreb, inoltre secondo alcune simbologie antiche il candelabro raffigurerebbe il giorno santo del sabato e gli altri sei giorni che fanno corona. Il numero sette ha una particolare importanza per il mondo ebraico, dice la pienezza e la completezza, in sette giorni Dio porta a termine la creazione per questo la menorà ha un significato anche cosmologico. I sette bracci rappresenterebbero i sette cieli inondati di luce da Dio; nella Bibbia sette sono gli occhi di Dio che scrutano il mondo (cf. Zc 4,10). Sappiamo anche all'interno del tempio di Gerusalemme c'era una menorà d'oro di 37 chilogrammi essa fu trafugata da Tito nell'anno 70 d.C e portata a Roma come bottino di guerra. Nel 455 d.C. con l'invasione dei barbari la menorà viene portata via da Roma, così si perdono le sue tracce.
  Il tempio di Gerusalemme nel 27 a.C. fu nuovamente ristrutturato ad opera di Erode detto il grande. Il re, di origini idumee, pianificò la ricostruzione del tempio in forma ancora più splendida. Lo riteneva il modo migliore per farsi amare dal popolo. Secondo lo storico ebreo Giuseppe Flavio Erode impiegò per la costruzione del tempio circa mille sacerdoti (i sacerdoti manovali furono utilizzati per la sacralità del luogo).
Erode fece allargare la spianta del tempio verso nord e sud. Visitando il luogo è possibile rendersi conto della grandezza del "recinto" lungo circa 485 metri (il lato occidentale), 470 metri (il lato orientale), quelle settentrionale 315 metri e quello meridionale si riduce a 280 metri. Nel suo complesso la spianata misura circa 144mila metri quadrati, una delle aree sacre più grandi dell'antichità. L'impresa erodiana richiese la creazione di enormi opere di sostegno e di contenimento, che sul lato sud raggiunsero l'altezza di 50 metri. Un esempio sono le "leggendarie" scuderie di Salomone situate sotto l'angolo sud-est della spianata. Intorno all'area sono state rinvenute circa 37 cisterne per l'acqua, essa era necessaria per i quotidiani sacrifici che si compivano.
  L'intera spianata era delimitata su i quattro lati da colonnati: il "portico regale" si trovava nella parte sud, quello di "Salomone" a est al riparo del vento freddo che soffiava dal deserto (cf. Gv 10,22-23). Secondo il libro degli Atti degli apostoli era il luogo preferito dal popolo: (At 15,12).
  Sappiamo che nel 70 d.C. il tempio fu distrutto dal generale Tito Flavio Vespasiano (futuro imperatore), successivamente Adriano nel 135 d.C. fece costruire una nuova città sulle rovine di Gerusalemme, l'Aelia Capitolina, sulla spianata edificò templi dedicati a Giove, Giunone e Minerva.
I bizantini non si interessarono dell'area, preferirono edificare sui luoghi santificati da Cristo. Saranno i Musulmani a porre interesse all'area del tempio in abbandono, edificando le magnifiche moschee di Omar e di Al-Aqsa.
  La moschea più nota al mondo è quella della cupola d'oro, essa fu fatta costruire dal califfo al-Malik anche per superare l'imponenza della cupola del Santo sepolcro. Un geografo arabo del X secolo, al-Muqqadasi scrive:"Quando abd-al-Malik vide la grande, imponente cupola della chiesa del santo sepolcro, temette che avrebbe attratto a sé i cuori [musulmani], a loro perdizione. Perciò fece costruire la cupola che oggi vediamo al di sopra della roccia".

(primonumero, 25 giugno 2017)


Il Nyx hotel debutta a Milano con vip italiani e la top class di Israele

di Vincenzo Chierchia

Serata particolare a Milano per l'inaugurazione ufficiale del Nyx hotel del gruppo israeliano Fattal. Tanti vip italiani ma, soprattutto, tantissimi ospiti da Israele tra politici di primissimo livello, finanzieri, imprenditori e intellettuali. Probabilmente mai prima d'ora in Italia, non solo a Milano, c'è stata una presenza così nutrita di personaggi dal Paese con la stella di Davide. Il legame tra Milano e Israele è solido e profondo. Una grande occasione di visibilità per il capoluogo lombardo e l'Italia stessa. Grande interesse a Tel Aviv e in tutto lo stato di Israele per il party di inaugurazione dell'hotel Nyx che si pone come punto di riferimento di rilievo internazionale nel cuore di Milano. Di seguito la nota che illustra la serata-evento.

 David Fattal?
  Nyx hotel ha aperto, letteralmente, le sue porte alla città di Milano sabato 24 giugno, con una serata ricca di musica e di performance con la quale ha accolto ospiti e vip da tutto il mondo.
A partire dalle 19, il concept hotel nato all'insegna della street art, che fa capo al gruppo israeliano Fattal, ha scaldato la notte milanese illuminando il cuore della città, in Piazza IV Novembre, con un inedito pink carpet sul quale si sono avvicendati guest nazionali e internazionali.
In primis, le due bellissime madrine, Natasha Stefanenko e Moran Atias, seguite dalle web star Giulia Valentina e Tess Masazza per proseguire con Francesca Senette e il marito Marcello Forti, e poi Elisabetta Caltagirone e il compagno Giuseppe Lago, e ancora Jo Squillo e Tom Findlay dei Groove Armada.
Più di 800 gli ospiti che si sono lasciati incantare da una serata - inaugurata ufficialmente dal presidente del gruppo David Fattal e da Moran Atias - e impreziosita dall'avvicendarsi dj set esclusivi, tra cui i berlinesi Dirty Honkers e lo stesso Tom Findlay dei Groove Armada.

(Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2017)


Qatar respinge le richieste dei 4 Paesi del Golfo: "Sono irrealistiche"

Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrain - che il 5 giugno avevano interrotto le relazioni con Doha - avevano posto 13 condizioni per l'abolizione delle sanzioni tra cui chiudere la tv Al Jazeera, interrompere i rapporti con l'Iran e con la Fratellanza musulmana, rinunciare ad una base militare turca. "Londra aveva chiesto che le richieste fossero 'misurate'- ha detto il capo della diplomazia qatarina al-Thani - questa lista non soddisfa quel criterio"

Il Qatar ha respinto la lista di 13 condizioni imposta da Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrain per l'abolizione delle sanzioni contro Doha definendola "irrealistica". "Il ministro degli Esteri britannico aveva chiesto che le richieste fossero 'misurate e realistiche'- ha detto il capo della diplomazia qatarina Mohammed bin Abdulrahman al-Thani - questa lista non soddisfa quel criterio". Tra le richieste avanzate dal fronte guidato da Ryad figuravano quella di chiudere la tv Al Jazeera, interrompere i rapporti con l'Iran e con la Fratellanza musulmana, rinunciare ad una base militare turca. Una lista che va ben oltre le accuse iniziali di sostenere il terrorismo e che impone di fatto all'emirato una limitazione della sua sovranità.
Una prima reazione alle richieste era venuta dalla Turchia, che attraverso il ministro della Difesa Fikri Isik ha fatto capire di non avere nessuna intenzione di chiudere la sua base, affermando che serve solo all'addestramento di truppe qatarine per rafforzare la sicurezza dell'emirato. "Nessuno dovrebbe essere disturbato" dalla presenza turca in Qatar, aveva aggiunto Isik. Ankara si è allineata con il Qatar nella disputa con i Paesi confinanti e il Parlamento turco ha approvato nei giorni scorsi l'invio di nuove truppe nella propria base nell'emirato, aperta nel 2014. La Turchia, così come l'Iran, ha anche inviato cibo in Qatar, che si ritrova semi-isolato da quando, il 5 giugno, i quattro Paesi arabi hanno interrotto le relazioni diplomatiche, i loro collegamenti marittimi e aerei con Doha e chiuso l'unica frontiera terrestre dell'emirato, con l'Arabia Saudita.

(il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2017)


Nasce ACE, Amici del Cimitero Ebraico, per donare etica ed estetica alle sepolture

di Ilaria Ester Ramazzotti

 
"Alla base c'è una doppia volontà. Abbiamo una motivazione di tipo etico e una di tipo estetico: da un lato pensiamo che non sia possibile finire una vita e iniziare la vita eterna senza una sepoltura più che degna, dall'altro vorremmo mettere armonia nel nostro cimitero, che ne ha bisogno". Per questo, ci spiega Patrizia Sassoon, con Maurina Alzraki e con un gruppo di amici è stata fondata ACE, Amici del Cimitero Ebraico.
"Gli amici hanno in seguito contattato altri amici e il gruppo si è allargato come un'onda", prosegue Sassoon descrivendo l'associazione ACE che, seppur non ancora formalmente registrata, nasce per donare la pietra tombale a chi, nel Cimitero Ebraico di Musocco a Milano, non ha avuto una sepoltura completa. "Abbiano notato la situazione al cimitero e deciso di intervenire dove e come possiamo per occuparci di quelle persone che non hanno più avuto abbastanza risorse o una famiglia che si occupi" della loro sepoltura, lasciandole senza pietra tombale. "Queste tombe sono parecchie, inoltre la situazione generale del nostro cimitero ebraico non è al livello a cui dovrebbe essere; infine ci sono altre tombe con la pietra bianca posteriore con le date di nascita e di morte, ma senza più i nomi".
   "Noi vorremmo intervenire nelle situazioni più difficili e abbiamo chiesto ai nostri amici di dare un contributo che sia per loro possibile, poiché sono tutti oberati da altre richieste - sottolinea -. Abbiamo anche incontrato la Comunità ebraica; sappiamo, senza fare alcuna polemica, che la Comunità ha dei fondi da destinare a questo tipo di attività, fondi istituiti con una quota parte su ogni funerale svolto, da destinare a interventi qualora ce ne fosse la necessità".
   Ma un primo importante risultato è già stato raggiunto. "La prima pietra è stata posata sulla tomba della Signora Maria Weintraub" lo scorso mese di giugno. "Stiamo decidendo per chi fare la seconda, visto che dopo il lancio del primo appello abbiamo potuto pensare a due tombe. Avevamo infatti preso accordi con il marmista Banfi per 880 euro a pietra, dopo una gara per il prezzo minimo. Lanceremo un ulteriore appello per nuove donazioni - evidenzia Patrizia Sassoon invitando chi può a partecipare all'iniziativa - e, prima delle feste, il rabbino capo verrà al cimitero per una preghiera, per il Kaddish".

(Mosaico, 23 giugno 2017)


Gli "haredim", i talebani d'Israele

Riportiamo questo articolo trovato casualmente in rete per le notizie che riporta su aspetti poco trattati di Israele e per le riflessioni che ne possono nascere. Quanto alle previsioni basate su quella moderna forma di superstizione che legge nel futuro consultando le statistiche demografiche, fanno soltanto sorridere. NsI

di Claudio Prandini

Molto presto lo Stato d'Israele, così come la conosciamo, potrebbe non esistere più. Tra appena dodici anni, infatti, se le statistiche sono corrette, la maggioranza della popolazione israeliana sarà anti-sionista. Del fattore demografico, una vera e propria bomba a orologeria per i sostenitori dell'ideale sionista, si è già detto e scritto molto: dopotutto, fu anche la crescita costante della popolazione araba israeliana a spingere Ariel Sharon al ritiro da Gaza. Eppure, a guardare bene i numeri, non sono gli arabi a minacciare l'attuale assetto di Israele, almeno non solo. Il problema sono gli ultra-ortodossi, che non riconoscono Israele come lo Stato degli ebrei. Se n'è accorto, di recente, un giornalista di Haaretz, Nehemia Shtrasler, il quale ha notato che già oggi ultra-ortodossi e arabi raggiungono, insieme, la maggioranza della popolazione israeliana.
   Moltissimi sono ancora bambini, ma Shtrasler ha calcolato che già nel 2019 arabi israeliani e ultra-ortodossi costituiranno la metà della popolazione votante, con un conseguente stravolgimento della politica israeliana: «Sarà la fine del sionismo», sostiene il giornalista. Il corollario sionista si basa sul concezione di uno Stato, laico e democratico, a maggioranza ebraica: Theodor Herzl, dopotutto, parlava di uno Stato degli ebrei (Judenstaat), e non di uno Stato ebraico (il termine, spesso usato impropriamente per indicare Israele, fa ancora accapponare la pelle ai sionisti duri e puri). Non appena viene a cadere uno di questi tre elementi - laicità, democrazia e maggioranza ebraica - il progetto sionista viene meno. Gli ebrei ultra-ortodossi (in ebraico haredim) sono una comunità in continua espansione, come gli arabi israeliani fanno molti più figli degli ebrei laici e come gli arabi israeliani, pur vivendo pacificamente con il resto della popolazione, non riconoscono la natura sionista di Israele. La maggioranza degli ultraortodossi, che non vanno confusi con i sionisti religiosi (in ebraico datiim, o religiosi, a colpo d'occhio li si riconosce per l'abbigliamento più moderno), non riconosce la sovranità di Israele. La loro opposizione da un lato nasce da una fisiologica antipatia per le autorità secolari, dall'altro da credenze specifiche.
   Il Talmud (Ketubot 111) spiega che gli ebrei non devono ritornare alla loro terra prima della venuta del Messia. Per chi segue un'interpretazione letterale del Talmud, quindi, il sionismo è una vera e propria eresia. L'atteggiamento degli ebrei ultra-ortodossi non è però così univoco. Tecnicamente, tutti respingono il sionismo. Ma di fatto alcune correnti ostacolano apertamente Israele, per esempio i Latvish Satmar, o i Neturei Karta (questi ultimi vantano pure una sincera amicizia con Ahmadinejad), mentre altre (per esempio i Lubavitch, considerati molto moderni) hanno accettato di fatto l'esistenza di Israele, chiudendosi in quello che potrebbe definirsi un «silenzio assenso». Alcuni accettano persino di votare, nel tentativo di rendere Israele quanto meno eretica possibile, e hanno fondato persino un partito, chiamato "Bandiera della Torah". Insomma, anche i più rigidi osservanti delle scritture possono dimostrare un certo senso pratico, ed è difficile pensare che quando gli ultra-ortodossi saranno la maggioranza della popolazione propongano di smantellare lo Stato di Israele. Il rischio, piuttosto, è che la crescita della popolazione ultra-ortodossa possa comprometterne la laicità. E anche questo, in fondo, sarebbe una sconfitta per Herzl e per il suo sogno di uno Judenstaat. Insomma, la fine del sionismo.

(Israele Storia e Cultura, 24 giugno 2017)


A Gerusalemme una serata di studio per salutare l'ambasciatore Talò

 
L'ambasciatore d'Italia Francesco Maria Talò
GERUSALEMME - Un importante evento si terrà il 4 luglio prossimo a Gerusalemme in onore dell'ambasciatore d'Italia Francesco Maria Talò, che concluderà prossimamente il suo mandato in Israele.
"Israele e Italia: realtà e percezione" è il tema della giornata di studio e saluto che si terrà a partire dalle ore 17.00 presso la Sala Luigi Einaudi dell'Havat Hanoar Hazioni.
Ad aprire l'evento sarà la tavola rotonda "Realtà e realizzazioni del rapporto bilaterale", cui parteciperanno, moderati da Jack Arbib (Museo S.U Nahon di Arte Ebraica Italiana), l'amb. Rodica Radian Gordon (Misrad Ha hutz), l'on. Lia Quartapelle (PD) e Shlomo Avineri (The Hebrew University).
Seguirà una seconda tavola rotonda sulle "Immagini percepite attraverso i mezzi di comunicazione".
Moderati da Cecilia Nizza (Hevrat Yehudé Italia BeIsrael), prenderanno la parola Massimo Lomonaco (ANSA), Piero Marrazzo (RAI) e Menachem Gantz (Analista internazionale).
Concluderanno la manifestazione le parole di saluto del vice ministro degli Affari Esteri, Tzipi Hotoveli, del Licud, e l'intervento dell'ambasciatore Francesco Maria Talò, moderati da Sergio Della Pergola (Hevrat Yehudé Italia BeIsrael/Hebrew University).

(aise, 23 giugno 2017)


L'Arabia saudita e i suoi alleati chiedono al Qatar di chiudere al Jazeera

Da Riad una lista di 13 richieste e un ultimatum: 10 giorni a partire da oggi

L'Arabia saudita e gli altri Paesi suoi alleati che hanno tagliato i rapporti con il Qatar hanno trasmesso a Doha una lista di richieste, nelle quali c'è anche la chiusura del network panarabo al Jazeera. Lo riferisce sul suo sito internet lo stesso canale qatariota.
La lista è formata da 13 punti in tutto, tra cui spicca la richiesta di chiudere una base militare turca nel Paese. Le altre richieste includono l'interruzione dei legami con l'Iran e di qualsiasi rapporto con i Fratelli musulmani, gli Hezbollah libanesi e altri gruppi ritenuti estremisti dall'Arabia saudita e dagli altri Stati arabi. Il Qatar ha dieci giorni di tempo per ottemperare alle richieste, che includono anche il pagamento delle riparazioni e fornire tutte le informazioni sui gruppi di opposizione che sono stati sostenuti.

(L'Huffington Post, 23 giugno 2017)


Siria: Israele rimarrà operativo a prescindere dall'istituzione di "zone di sicurezza" nel Golan

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha dichiarato che Israele non rinuncerà alla propria libertà operativa in Siria, a prescindere da eventuali accordi tra Russia, Giordania e Stati Uniti di creare una zona di sicurezza nel sud del paese limitrofo, così da evitare crisi di sicurezza nell'area del Golan. Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, la Difesa di Gerusalemme continuerà ad operare in territorio siriano per contrastare ogni eventuale minaccia nelle Alture del Golan e per fermare il trasferimento di armi ai militanti di Hezbollah. Il quotidiano panarabo con base a Londra "Asharq al Awsat" ha pubblicato un rapporto nei giorni scorsi secondo cui Russia, Giordania e Stati Uniti starebbero lavorando a un cessate il fuoco e all'imposizione di una "zona di sicurezza" nell'area del Golan.

(Agenzia Nova, 23 giugno 2017)


Teheran: in migliaia alla manifestazione Al Quds, contro Israele

TEHERAN - Una lunga fila umana composta da migliaia di persone per manifestare contro Israele. A Teheran è andato in scena il corteo annuale di Al Quds, la giornata di Gerusalemme, proclamata dalla leadership iraniana nel 1979. Si tiene ogni anno nell'ultimo venerdì del Ramadan, in sostegno alla causa palestinese.

(RDS, 23 giugno 2017)


Gerusalemme smentisce i media iraniani su aerei israeliani in Arabia Saudita

GERUSALEMME - La notizia diffusa dai media iraniani sulla presenza di 18 aerei da combattimento israeliani in basi dell'Arabia Saudita è "assurda". E' questo il commento da parte di fonti militari israeliane citate dal quotidiano "Times of Israel", commentando la notizia diffusa dall'agenzia stampa iraniana "Fars". Secondo "Fars", Israele avrebbe inviato 18 aerei da combattimento F-15 ed F-16, due velivoli Gulfstream, due C130 e due aerocisterne in Arabia Saudita ieri, 22 giugno, dopo l'annuncio di re Salman del cambiamento della linea dinastica, che ha visto la nomina ad erede al trono del figlio Mohammed Bin Salman, che ha "scavalcato" il nipote, Mohammed bin Nayef bin Abdulaziz.
   Secondo l'agenzia iraniana "Fars", Israele avrebbe trasferito i velivoli in Arabia Saudita su richiesta del nuovo principe della corona per prevenire "possibili mosse ostili o militari" da parte dell'ex principe ereditario. Il governo di Gerusalemme non ha commentato la notizia, mentre un portavoce delle Forze di difesa israeliane, citato da "Times of Israel", riferisce che non vengono commentati i rapporti che vengono pubblicati sui media stranieri. Fonti "Nova" ribadiscono quanto riferito dalla stampa israeliana sulla "infondatezza" dell'informazione diffusa da "Fars", che si inserisce in una campagna mediatica condotta dalla stampa iraniana all'indomani della nomina di Mohammed Bin Salman come principe ereditario.
   Nelle ultime ore, infatti, i media di Teheran hanno pubblicato notizie secondo cui il giovane erede al trono saudita si sarebbe recato più volte in Israele, circostanza che non trova riscontro di alcun tipo. La transizione di potere in Arabia Saudita è stata "pacifica", sostengono le fonti "Nova", e la casa reale controlla il paese con sicurezza. Pertanto sarebbero da escludere eventuali misure cautelative per timore di un eventuale golpe.

(Agenzia Nova, 23 giugno 2017)


I palestinesi puntano ad appropriarsi anche della Tomba dei Patriarchi di Hebron

Abusano della procedura d'urgenza a scapito di altri paesi e non fanno che approfondire il conflitto, dice l'ambasciatore d'Israele all'Unesco.

Il Comitato per il Patrimonio Mondiale dell'Umanità ha in programma di discutere l'iscrizione della Città Vecchia di Hebron, compresa la Tomba dei Patriarchi, alla voce "stato di Palestina" durante la sua prossima riunione dal 2 al 12 luglio a Cracovia, in Polonia. "Non è che un nuovo fronte della guerra per i luoghi santi che i palestinesi tentano di appiccare come parte della loro campagna propagandistica contro Israele e la storia del popolo ebraico" dice l'ambasciatore d'Israele all'Unesco, Carmel Shama HaCohen. E aggiunge: "Israele rispetta la sensibilità musulmana e garantisce libertà di culto, ordine e sicurezza, manutenzione ordinaria e sviluppo delle strutture in cui si trovano i siti sacri. Non solo l'essenza stessa della loro richiesta è offensiva, ma anche il modo in cui calunniano Israele accusandolo di cose mai accadute"....

(israele.net, 23 giugno 2017)


V Convegno Regionale EDIPI-Campania 29-30 giugno e 2 luglio.

Evangelici d'Italia per Israele su iniziativa del vicepresidente EDIPI past. Bruno Ciccarelli organizza in collaborazione di alcune chiese del napoletano e del casertano il V Convegno Regionale EDIPI Campania con lo stimolante argomento:
"Le congregazioni messianiche d'Israele nell'adempimento delle profezie bibliche".
Per l'occasione sono stati invitati David e Michaella Lazarus della congregazione Bet Emmanuel di Jaffa-Tel Aviv decani del movimento messianico in Israele. Presenterà il presidente EDIPI Past. Ivan Basana.
Per informazioni: 3384356797 (past. Ciccarelli)

(EDIPI, 23 giugno 2017)


Porti: Israele, crescita e progetti, con uno sguardo alla Via della Seta

 
Il porto di Haifa
 
Il porto di Ashdod
NAPOLI - Israele registra una crescita media annua del 4% nelle merci che transitano per i suoi porti, investimenti da quattro miliardi di dollari per la costruzione di nuovi terminal container, un forte protagonismo sia per i collegamenti marittimi che terrestri nella strategia cinese "One Belt One Road". Sono queste le principali linee che emergono dall'analisi di Srm (Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, del gruppo Intesa San Paolo) che ha dedicato al Paese un focus nel suo rapporto annuale sull'economia marittima. Israele è totalmente dipendente dai traffici marittimi visto che il 99% del volume del suo import-export passa per il mare e che il commercio estero rappresenta il 63% del Pil. Il trasporto marittimo nel Paese vale 157 miliardi di dollari l'anno.
   Una svolta nell'efficienza dei trasporti marittimi si è avuta, sottolineano gli analisti, dal 2005, quando il Paese ha avviato un programma di riforma portuale per incoraggiare il libero mercato. Il programma ha dato un'ulteriore spinta alla crescita del traffico merci nel Paese che nel 2016 ha raggiunto i 57 milioni di tonnellate (+6% rispetto all'anno precedente). In grande sviluppo i principali porti a partire da Haifa, il principale scalo, che movimenta 28 milioni di tonnellate di merci l'anno, il 51% del totale del Paese, seguito da Ashdod a quota 24 milioni di tonnellate: nel 2016 Ashdod ha registrato una crescita del 10,3%, mentre Haifa del 4,2%. Su container, i due principali scali israeliani movimentano attualmente 2,7 milioni di Teu l'anno e puntano a raggiungere quota 3,5 milioni entro il 2021, quando saranno finiti i lavori di potenziamento che li porteranno a ospitare navi fino a 18-19.000 teus. I due nuovi terminal container in costruzione, l'Haifa Bayport e il South Terminal di Ashdod, i cui lavori dovrebbero finire per il 2021, porteranno la capacità di Israele a 7 milioni di Teus.
   L'analisi di Srm sottolinea anche come Israele stia investendo nelle infrastrutture logistiche interne di supporto ai porti, con la costruzione di due nuove linee ferroviarie che collegheranno Haifa con i centri industriali e agricoli in Israele centrale e meridionale, mentre è in progettazione un collegamento ferroviario tra Tel Aviv ed Eilat sul Mar Rosso.
   Ed in grande sviluppo è anche il porto di Eilat, il gateway israeliano verso il Far East, una parte del mondo a cui Israele guarda con interesse per il progetto cinese delle "Vie della seta". L'analisi sottolinea come i porti israeliani possono essere centrali nei collegamenti tra l'Asia e il Mediterraneo, ma anche i collegamenti terrestri sono coinvolti come dimostra il protocollo che Cina e Israele hanno firmato nel 2014 per una ferrovia ad Alta Velocità di 300 chilometri tra il porto di Eilat sul Mar Rosso e il porto di Ashdod sul Mediterraneo.

(ANSAmed, 23 giugno 2017)


I 50 anni di Gerusalemme unita. Voci a confronto e un ospite d'onore

Un ospite d'eccezione per la serata organizzata ieri da Benè Berith Giovani e Keren Hayesod, al Teatro Quirinetta a Roma, per celebrare i 50 anni di Gerusalemme unita e riflettere, da diverse prospettive, su come è cambiato lo scenario in Medio Oriente e sui possibili scenari futuri. In particolare per quanto concerne il delicato negoziato tra israeliani e palestinesi.
A salire sul palco tra gli altri è stato infatti Yoram Zamush, il primo paracadutista che pose la bandiera israeliana sul Monte del Tempio, nella Gerusalemme appena liberata. Una figura che è diventata iconica, immortalata da immagini e video che hanno fatto la storia del Novecento e non soltanto dello Stato ebraico. Il 7 giugno del '67 miglior compleanno non poteva festeggiarlo, Yoram. Quel giorno infatti, come è stato spiegato al pubblico del Quirinetta, compiva 25 anni.
Oltre alla sua testimonianza su quelle ore, un segno indelebile nella sua memoria ancora oggi, i 50 anni di Gerusalemme riunificata sono stati al centro di diverse riflessioni con i contributi di Menachem Gantz, analista internazionale cui è toccato il compito di introdurre e moderare la serata, e dei giornalisti Maurizio Molinari e Fiamma Nirenstein.
Gremita la sala, con molte centinaia di presenze.

(moked, 23 giugno 2017)


La greca Energean Oil & Gas investirà 1,3 miliardi nel giacimento israeliano di Karish

GERUSALEMME - La compagnia greca Energean Oil & Gas ha annunciato di voler investire circa 1,3 miliardi di dollari per sviluppare il giacimento israeliano Karish con l'obiettivo di rifornire Israele di gas naturale entro il 2020. Lo riferisce il quotidiano "Jerusalem post". L'azienda avrebbe sottoposto, attraverso la filiale israeliana, il proprio piano di sviluppo del giacimento al commissario che si occupa di monitorare i pozzi di Karish e Tanin. Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, i serbatoi di Karish e Tanin, situati a circa 80 km a nord ovest di Haifa, sarebbero in grado di produrre 41 milioni di barili di petrolio e 76,5 miliardi di metri cubi di gas naturale.

(Agenzia Nova, 23 giugno 2017)


Israele: le accuse di Lieberman sulla crisi elettrica a Gaza

 
Il ministro della Difesa israeliano Lieberman accusa il Presidente palestinese Abbas di strumentalizzare la crisi elettrica di Gaza per causare lo scoppio di un conflitto tra Israele e Hamas.
Durante la conferenza annuale di Herzliya sulla sicurezza, il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha accusato il Presidente palestinese, Mahmud Abbas, di voler strumentalizzare la crisi elettrica di Gaza per innescare un conflitto tra Israele e il movimento islamico di resistenza, Hamas.
A tale proposito, il ministro ha ribadito che Israele non ha "nessuna intenzione di avviare un confitto militare, né in estate né in autunno, né nel nord né nel sud". Al contrario, l'obiettivo di Israele sarebbe quello di "impedire la guerra, attraverso la deterrenza". Inoltre ha rassicurato i presenti, sottolineando che Israele sta "perseguendo una strategia chiara per quanto riguarda la Striscia di Gaza" e ha precisato che "si tratta di un conflitto interno palestinese, che non avrà fine".
Secondo Lieberman, dunque, il Presidente Abbas starebbe tentando di infiammare gli animi della popolazione, evitando di risolvere il problema dell'elettricità nella Striscia di Gaza. Abbas avrebbe intenzione "di continuare ad effettuare tagli ed, entro alcuni mesi, di smettere di pagare il carburante, i farmaci, gli stipendi, ecc.", cercando così di "danneggiare Hamas, e di trascinarlo in un conflitto con Israele".
Il ministro ha poi precisato che Abbas starebbe compiendo questa manovra "da solo, senza la nostra collaborazione né con la collaborazione di giordani o egiziani".
La situazione di Gaza è destinata a peggiorare nelle prossime settimane, dal momento che dall'inizio di questa settimana Israele ha annunciato il taglio dei rifornimenti di elettricità del 40%, pari all'importo che Abbas si è detto disposto a pagare per l'elettricità già erogata da Israele nella Striscia di Gaza. Ciò significa che gli abitanti di Gaza potranno usufruire dell'energia elettrica soltanto per due ore al giorno.
Secondo le affermazioni del ministro, Gaza sarebbe sull'orlo di una crisi umanitaria, la cui responsabilità sarebbe unicamente dei politici palestinesi.
Per arginare la situazione, lo scorso mercoledì, 21 giugno, le autorità egiziane hanno consentito il trasferimento di un milione di litri di carburante industriale a Gaza, attraverso la riapertura del valico di Rafah, alla frontiera tra Egitto e Striscia di Gaza. Il carburante sarebbe destinato alla riattivazione dell'unica centrale elettrica della Striscia di Gaza, danneggiata già per i bombardamenti del 2014, e chiusa in parte il 16 aprile scorso a causa di crescenti difficoltà finanziarie.
Anche il movimento islamico di resistenza, Hamas, ha accusato l'organizzazione Al-Fatah di aver creato la crisi elettrica a Gaza e di evitare di trovare una soluzione. Secondo il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, "il comportamento della leadership di Al-Fatah nel creare la crisi dell'energia elettrica e nell'evitare di trovare una soluzione rivela il suo ruolo criminale nello strangolare Gaza".
Dal canto suo, l'autorità palestinese nega le accuse di Hamas e sostiene che la presenza del movimento a capo della società di distribuzione di energia e l'autorità per l'energia a Gaza impediscono al governo di svolgere le sue funzioni e di assumersi la responsabilità di porre fine alla crisi dell'elettricità.
- Traduzione dall'arabo e redazione a cura di Laura Cianciarelli

(Sicurezza Internazionale, 23 giugno 2017)


Polonia: a Cracovia il festival di cultura ebraica

Domani oltre 200 eventi, Gerusalemme al centro dell'attenzione

"Gerusalemme" è il titolo della rassegna di cultura ebraica a Cracovia, in Polonia, che verrà inaugurata domani, sabato 24 giugno. Nell'ambito di oltre 200 eventi fra i quali concerti, esposizioni, conferenze e workshop, gli organizzatori intendono presentare come la città e la storia di Gerusalemme inspirano e influenzano la vita contemporanea. La rassegna di cultura ebraica organizzata per la 27ma volta nell'antica capitale polacca è il più grande festival ebraico al mondo che ogni anno attira migliaia di partecipanti da molti Paesi. Gerusalemme "verrà presentata come archetipo della città divisa e unita, centro spirituale di più religioni, culture e tradizioni dove la storia incessantemente s'intreccia con il mito", sottolineano i promotori dell'iniziativa aggiungendo che la città "sia anche un luogo dove si focalizzano i problemi e le sfide del mondo moderno". Nell'ambito della manifestazione, che terminerà il 2 luglio, verrà consegnato il riconoscimento del "Giusto tra le nazioni", l'onorificenza conferita dal Memoriale ufficiale di Israele, Yad Vashem, fin dal 1962, a tutti i non ebrei che hanno agito in modo eroico a rischio della propria vita e senza interesse personale per salvare la vita anche di un solo ebreo dal genocidio nazista della Shoah.

(Servizio Informazioni Religiosa, 23 giugno 2017)


A Mantova la guerra dei rabbini si combatte al cimitero

Da una parte il Comune che vuole riqualificare un'area abbandonata. Dall'altra gli ebrei ortodossi americani secondo cui quel luogo è sacro. Nel mezzo cabala, soldi e sushi restaurant .

di Brunella Giovara

 
La targa al cimitero
 
Le due stele provenienti dal cimitero ebraico adesso fanno da paracarri
MANTOVA - «No. No, e poi no». Quel giorno il rabbino Sbmaya Levi ha battuto i piedi e scosso la testa (e i cernecchi), e a tutti è stato chiaro che quel progetto non gli andava giù. Diciotto milioni di euro, mica noccioline, per rifare un bel pezzo di Mantova, peccato che lui e altri due rabbini si oppongano con tutte le loro forze: «Lì sotto c'è un cimitero ebraico, quella è casa mia, cioè degli ebrei. Non potete toccare niente», e così Levi se ne è andato. Ma poi è tornato, con Rav Chizkiya Kalmanowitz, americano, e un'altra volta con Rav David Niedermann, piombati come falchi a Mantova in più riprese, talvolta accompagnati da pullman di fedeli ebrei ortodossi, in pellegrinaggio sulle tombe, dicono loro, di due importanti cabalisti del passato: Azariah da Fano e Rabbi Moshè Zacuto, morti alla fine del 1600 e qui sepolti, secondo antichi documenti trovati in un archivio di Budapest.
   In effetti il cimitero c'era. A San Nicolò, sui bordi del Lago Inferiore, in una zona da anni abbandonata che il Comune vuole riqualificare, avendo pure vinto quel finanziamento con il bando periferie del governo Renzi: 25 mila metri quadri di foresta padana vergine, dove in questi giorni ruspe e operai sono tornati per la bonifica. Alberi, arbusti, macerie, più cinque capannoni risalenti agli anni Quaranta, e un'antica polveriera asburgica, sommersa dall'edera.
   Andrea Murari, assessore all'Ambiente e Urbanistica, mostra il masterplan firmato da Stefano Boeri, che prevede il recupero delle strutture e la nascita di Mantova Hub «nel segno della sostenibilità e del sociale», con una Casa della memoria, un centro per disabili (e dieci alloggi), servizi per bambini e ragazzi (con doposcuola), un eco ostello, un mercato comunale a chilometri zero, un centro ricerche diretto da Stefano Mancuso, autorità della neurobiologia vegetale. Più varie start up. Tutto green. tutto bellissimo. Però c'è la querelle cimitero.
   Il primo ad affrontare Rav Shmaya Levi è stato Emanuele Colorni, presidente della piccola Comunità ebraica di Mantova. Uomo di buon senso, e mite, a cui però dopo un po' è scappata la pazienza, davanti a quel signore in palandrana e cappello neri che gli intimava «giù le mani dal mio cimitero». Perciò «gli ho risposto you are a dreamer; tu stai sognando. Lo so anche io che c'era un cimitero». E come l'ha presa? «Si è zittito e ha fatto dietrofront. Poi però è tornato». Colorni intanto apriva l'archivio della Comunità e cominciava a studiare le carte. E ricostruiva la storia. Dunque: «Gli ebrei arrivano in città nel 1385, i Gonzaga concedono loro uno spazio per vivere e uno per seppellire i morti, che probabilmente non era a San Nicolò, ma spostato più verso il centro, vicino alla chiesa di Santa Paola. Secondo me i rabbini sbagliano proprio zona». Ma tant'è. Nel 1852 la Comunità ebraica vende il vecchio cimitero al Genio asburgico, che ci costruisce polveriera e altre strutture militari. Poi l'area passa al Genio italiano, che la mantiene come deposito militare. Durante l'occupazione nazista i capannoni vengono usati come campo di concentramento per i militari italiani che non aderiscono a Salò, e da Mantova finiscono in Germania. Poi si passa al Demanio, e l'anno scorso al Comune.
   L'anno scorso arrivano i tre emissari della potente International Survey of Jewish Monuments, girano l'Europa a caccia di antichi cimiteri, talvolta li cacciano, come è successo in certi Paesi dell'Est, e «tra l'altro parlano solo ebraico» spiega Colorni. «Hanno messo un cartello in ebraico sul muro per spiegare che qui c'era il cimitero. Io ho fatto aggiungere la traduzione». Così ogni tanto un torpedone di fedeli arriva qui a pregare. Una volta hanno scavalcato il muro di cinta, grazie alla scaletta prestata da una famiglia confinante, e si sono buttati a capofitto tra rovi e ortiche. Poi hanno puntato al Comune, e il sindaco Mattia Palazzi, Pd, li ha ricevuti e cercato di capire le loro ragioni (no a qualunque intervento). A quel punto Emanuele Colorni ha chiamato Roma. nel senso dell'Ucei, Unione comunità ebraiche italiane. E la presidente Noemi Di Segni ha dettato la linea: «Quell'appalto è importantissimo. Ma la memoria è un patrimonio comune e i morti vanno ricordati. E il valore religioso dell'area va rispettato». Ha anche ribadito che «non sono loro l'autorità competente a intervenire, e a decidere se la parte ex cimitero sarà calpestabile, se un certo sentiero dovrà girare a destra o a sinistra ... L'Ucei, con i nostri rabbini, è l'interlocutore del Comune». Quindi, tavolo di lavoro con anche la sovrintendenza, il ministero, il Politecnico di Milano, che ha eseguito rispettosi esami geotecnici per capire cosa c'è davvero, lì sotto. «Non si è trovato nulla», dice Giacomo Celona, ingegnere responsabile del progetto. «Vecchie condotte in mattoni, ma nessuna lapide, o altri resti». Nei secoli altri scavi hanno disperso i resti degli ebrei mantovani, finiti chissà dove. «Noi però sappiamo quali erano i confini del cimitero, e li delimiteremo. L'area sarà trattata con ogni riguardo. Non scaveremo alcunché, e cercheremo un segno architettonico, forse un monumento, per ricordare a tutti cosa c'era qui un tempo». Apprezzeranno. i Rav Levi, Kalmanowitz e Niedermann? No. Secondo la Halakbah, le regole religiose, quel terreno è sacro e intangibile in eterno.
   Nei secoli non è stato così. Che fine hanno fatto tutte le lapidi? Due cippi di marmo fanno da paracarro davanti al Sushi Restaurant di Cerese. La sovrintendenza li ha dichiarati ìnamovìbìli, e restano lì, sul ciglio della Provinciale, tra le erbacce. Una lapide fa da base al barbecue di una signora del posto, e, spiega Colorni, «gliel'ho chiesta tante volte ma dice che piaceva tanto a suo suocero, non me la può ridare».

(la Repubblica - il venerdì, 23 giugno 2017)


Antisionismo in università

A Berlino lo sfacciato boicottaggio di Israele non fa più notizia

Un incontro all'Università per parlare di "terrorismo, pregiudizio e possibilità per la pace" in medio oriente trasformato nell'ennesimo show del Bds, il movimento antisionista per il boicottaggio di Israele su tutta la linea. E' successo a Berlino, nella sede della Humboldt Universität. Invitata a parlare dal Mideast Freedom Forum Berlin c'è Aliza Lavie, deputata alla Knesset per Yesh Atid, partito centrista di opposizione. Appena la signora Lavie prende la parola, dal pubblico si alza un giovane che si palesa come esponente del Bds e comincia una tirata contro "il regime israeliano di apartheid" subito dai palestinesi. Nonostante le richieste di esporre la sua opinione e lasciare poi parlare gli altri, il giovane non si ferma e dopo alcuni minuti viene accompagnato fuori dagli organizzatori. "Non potete farlo!", grida, invocando il diritto alla libera espressione che lui invece nega a Lavie. Allontanato il disturbatore, sarà la ragazza accanto a lui, cittadina israeliana, a iniziare a far rumore. Al Bds non interessa illustrare fatti o opinioni, quel che conta è zittire chi in Israele non odia Israele. Allontanata anche la ragazza, l'azione di disturbo si palesa per com'era: un atto premeditato di boicottaggio. Un terzo giovane si alza in piedi e parla senza dire nulla, al solo scopo di impedire al pubblico di ascoltare Lavie. Il trucco è vecchio ma non per questo meno rumoroso. Con Israele il trucco funziona, quasi nessuno ci farà caso. La prova? Sempre pronta a fare le pulci ai sionisti, la stampa tedesca ha ignorato l'incidente.

(Il Foglio, 23 giugno 2017)


Israele - No al cambio di posto delle donne sugli aerei

GERUSALEMME - La compagnia di bandiera israeliana non potrà più far cambiare di posto a una donna per motivi di religiosi. A far condannare in tribunale la El Al è stata l'83enne Renee Rabinowitz, un'anziana sopravvissuta all'Olocausto, alla quale è stato chiesto di cambiare posto nel 2015, durante un volo fra Newark e Tel Aviv, su richiesta di un uomo ultraortodosso che non voleva sedere accanto ad una donna a causa delle sue convinzioni religiose. Rabinowtz, che è un ex avvocato, ha ottemperato alla richiesta. Ma poi ha fatto causa alla compagnia aerea. Il giudice Dana Cohen-Lejah le ha dato ragione, accusando la El Al di violare le leggi anti-discriminazioni nei beni e nei servizi.

(Avvenire, 23 giugno 2017)


Industria, scienza e tecnologia. Nuove intese tra Italia e Israele

Sono 15 gli accordi di collaborazione su cui ha lavorato la Commissione mista di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia ed Israele riunitasi ieri alla Farnesina, a Roma. "Un incontro importante che prosegue l'importante collaborazione tra i due Paesi prevista dall'accordo intergovernativo del 2002", sottolinea a Pagine Ebraiche l'ambasciatore d'Israele in Italia Ofer Sachs, esprimendo la sua soddisfazione per il lavoro della Commissione co-presieduta dal Direttore Centrale per la Ricerca e l'Innovazione Fabrizio Nicoletti da parte italiana e dal Chief Executive Officer (CEO) della Israel Innovation Authority Aharon Aharon da parte israeliana. L'Authority nasce dalla trasformazione dell'Office of the chief scientist, organismo creato già 45 anni fa, e ha il compito di sostenere economicamente aziende - grandi, medie e piccole - che affrontano il mercato, "con stanziamenti che verranno restituiti, se l'azienda ha successo, altrimenti no. La ricerca e lo sviluppo è un settore rischioso, noi riduciamo i rischi per le aziende investendo in ogni ambito economico, secondo la tendenza del mercato", ha spiegato Aharon, nel corso di un incontro all'ambasciata di Israele a Roma. La sua agenzia sostiene tra l'altro 1.400 start-up all'anno, "delle quali 800 chiudono. In ogni caso in Israele ci sono 5.000 start up attive".
Settore fondamentale per portare avanti innovazione ed essere all'avanguardia nel mondo high tech, quello della ricerca e sviluppo in cui lo scorso anno nessun paese sviluppato ha investito quanto Israele. Come ricordava la rivista economica Financial Time, il Paese ha destinato il 4,25 del suo Prodotto interno lordo proprio nel settore della ricerca, davanti anche alla Corea del Sud (4,23 per cento). La media dei paesi europei è del 1,95 per cento mentre per gli Stati Uniti è aumentato rispetto alla rilevazione precedente, attestandosi al 2,79 (L'Italia spende l'1,3 per cento, sotto la media europea del 2 per cento). "Per ogni dollaro che investiamo in ricerca e sviluppo, ne produciamo 5-10 in impatto economico, è molto vantaggioso", ha dichiarato Aharon.
Tanti sono i fronti aperti di collaborazione tra Italia e Israele - dal campo accademico a quello industriale - e tra i progetti chiave per il futuro dei due paesi, il gasdotto Eastmed: "so che tutti i governi coinvolti stanno procedendo in modo spedito per portare avanti il progetto - sottolinea l'ambasciatore Sachs - Starà poi alle parti private dire l'ultima parola".

(moked, 22 giugno 2017)


Neos e Israele festeggiano 15 anni di collaborazione

 
Neos celebra quest'anno i primi 15 anni di attività su Tel Aviv: la rotta è stata istituita nel 2002, appena dopo la nascita della compagnia aerea del gruppo Alpitour. Si tratta di un compleanno importante quello che si celebra tra Neos e Israele perché 15 anni di vita corrispondono all'intera età della compagnia aerea: il debutto di Neos con un volo sul Senegal avviene all'inizio di marzo del 2002 e, pochi giorni dopo, esattamente il 20 marzo dello stesso anno, si registra il primo atterraggio a Tel Aviv. Da allora le operazioni su Israele sono sempre continuate, senza interruzioni, anche nei momenti più delicati, grazie alla partnership con l'agente Classic Air che ha agevolato la relazione di Neos con tutti i principali tour operator israeliani: Aviation Link, Flying Carpet, Eshet, Holiday and Aviation, Carmel Tours, Ophir Tours. La consolidata collaborazione su questo mercato e la conseguente rilevanza del traffico su Israele è testimoniata dal fatto che oggi rappresenta la prima destinazione incoming di Neos e la terza come numero di rotazioni e ore di volo per stagione. Sul fronte incoming Neos è la compagnia aerea degli israeliani che scelgono l'Italia come meta delle vacanze, concentrandosi soprattutto sullo scalo di Verona. Oltre che su Verona, Neos collega Tel Aviv anche con Milano Malpensa e Roma Fiumicino. Dal 2016, grazie all'apertura dei rapporti bilaterali tra I'Europa e Israele, Neos ha esteso la programmazione offerta ai clienti che partono da Tel Aviv, proponendo oltre alle tre città italiane, viaggi verso altre mete europee: Lubiana, Strasburgo, Madrid, Barcellona, Creta, Rodi, Parigi, Trieste, Marocco. Per l'estate 2017 la compagnia aerea prevede 310 rotazioni per un totale di oltre 2300 ore di volo sullo scalo di Tel Aviv. «Neos è fortemente legata alle operazioni su Israele, come dimostra la partnership consolidata con Classic Air - dichiara Carlo Stradiotti, amministratore delegato di Neos -. Abbiamo ambiziosi progetti di crescita, con l'obiettivo di essere ancora più presenti su Tel Aviv, estendendo la programmazione per tutto l'anno e iniziando a sviluppare, con i tour operator del gruppo Alpitour, un'offerta turistica sul Paese dedicata alla clientela italiana».

(Travel Quotidiano, 22 giugno 2017)


Israele è una startup nation: ecco come funziona il suo ecosistema dell'innovazione

A colloquio con Ahron Ahron, direttore dell'Autorità per l'Innovazione dello Stato d'Israele, per scoprire cosa si nasconde dietro il miracolo de "l'altra Silicon Valley".

di Alessio Jacona

Da un lato c'è la cara, vecchia la Silicon Valley statunitense — ovvero l'esempio principe di cosa sia e di quale valore possa generare un vero, efficiente ecosistema dell'innovazione. Dall'altro c'è Israele, quella "startup nation" ormai riconosciuta da tutti come la dimostrazione che un simile "miracolo" possa essere replicato anche altrove, a patto che si disponga di sufficiente determinazione, spirito imprenditoriale e supporto istituzionale, ma anche e soprattutto di una visione a lungo termine basata su una sana collaborazione tra pubblico e privato.

 "Per creare un ecosistema dell'innovazione non bastano un giorno e investimenti una tantum"
  Ce lo conferma Ahron Ahron, direttore dell'Autorità per l'Innovazione dello Stato d'Israele: "Servono invece anni di duro lavoro quotidiano organizzati secondo strategie di ampio respiro". Fresco di nomina, una lunga carriera nella technology industry alle spalle, Ahron raccoglie la pesante eredità dell'Office of the Chief Scientist.
  Nota anche come OCS, questa è stata l'organizzazione afferente al ministero dell'Economia israeliano che per oltre 45 anni ha sostenuto e di fatto reso possibile la trasformazione del Paese in un ecosistema dell'innovazione che oggi in molti studiano e vorrebbero esportare in giro per il mondo, Italia compresa.
  A Roma per partecipare a un nuovo incontro della Commissione Mista di Cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia ed Israele (attiva ormai da 15 anni), Ahron incontra i giornalisti per raccontare lo stato dell'arte della startup nation, così come per descrivere le sfide che attendono lui e i suoi collaboratori: "L'Authority che presiedo è un'organizzazione indipendente sostenuta dal Governo che opera come fosse un'azienda privata guidata da un Ceo e da un Board, gestisce i fondi dal Ministero dell'Economia, e investe in ricerca e sviluppo con l'obiettivo di avere un impatto sulla nostra economia".
  Impatto che, sia chiaro, già c'è ed è puntualmente quantificabile: l'hi-tech in Israele è un settore che, pur impiegando appena l'8% della forza lavoro industriale totale, da solo genera il 13% del prodotto interno lordo nazionale, oltre a essere responsabile per ben il 50% delle esportazioni. Un ecosistema dell'innovazione che cresce sano e forte, che si rivela capace di attrarre investimenti esteri importanti (5 miliardi di dollari nel solo 2016), e che ha saputo attrarre oltre 300 multinazionali hi-tech venute da ogni parte del mondo per aprire centri di ricerca e sviluppo in Israele. Facebook, Amazon, Google, Apple, Huawei sono solo alcuni dei nomi più noti tra le aziende presenti sul territorio e che, insieme, generano circa il 50% della ricerca e sviluppo in ambito civile.

 "In Israele attualmente sono attive circa 5mila startup"
  Per completare il quadro bisogna aggiungere che ogni anno ne nascono 1400 e nello stesso lasso di tempo sono circa 800 a chiudere i battenti. Più della metà. "Al momento sono circa 2mila le realtà imprenditoriali in cui abbiamo investito", rivela Ahron Ahron. L'ammontare degli investimenti varia da caso a caso, e dipende sia dalla "maturità" dell'azienda, sia dalla validità del programma di ricerca e sviluppo: "Se l'azienda è molto grande, il finanziamento può raggiungere anche cifre imponenti, tra i 20 e i 40 milioni di dollari".
  Perché il governo sostiene con tanta determinazione l'R&D? "Perché è un'attività fondamentale per la crescita dell'innovazione che però si rivela contemporaneamente ad alta probabilità di fallimento", spiega il direttore dell'Autorità.

 "Qui il ruolo del Governo è ridurre il rischio per i finanziatori facilitandone le operazioni e proteggendone gli investimenti"
  C'è poi un'altra ragione, meno scontata: la presenza dello Stato a garanzia degli investimenti, fa sì che il fallimento di ogni singola startup abbia una ricaduta positiva sull'intero sistema: "Quando una giovane azienda innovativa chiude, la sua forza lavoro continua la propria attività in altre startup, portando con sé le competenze acquisite e generando nuovo valore per tutti", continua Ahron. Il direttore dell'Authority per l'Innovazione cita qui l'esempio della startup Better Place, un'azienda israeliana che sviluppava tecnologia per le batterie delle auto elettriche, e che è finita in bancarotta nonostante avesse raccolto finanziamenti per un miliardo di dollari. "I suoi dipendenti sono andati a lavorare in General Motors nella divisione dedicata ai veicoli autonomi", racconta Ahron Ahron: "È anche grazie a loro know how che oggi quella divisione di GM è una delle più avanzate al mondo". Per non parlare del fatto che, con la sua attività, ha attratto nel paese l'R&D di altri grandi marchi come Ford e BMW.

 "Come è facilmente immaginabile, nulla di tutto questo è lasciato al caso"
  L'Autorità per l'Innovazione dello Stato d'Israele — che gestisce fondi governativi per 500 milioni di dollari all'anno — agisce secondo una precisa innovation policy articolata in cinque punti: prima di tutto, il suo obiettivo principale è rafforzare e far crescere l'economia israeliana. Secondo, l'Authority interviene solo quando c'è un fallimento del mercato: "Se le cose funzionano bene da sole, noi non interveniamo", conferma Ahron. Il terzo punto prevede un approccio neutro e "bottom-up" al settore, nel senso che l'Authority non decide a priori in quale settore o azienda investire, ma lascia che sia il mercato a scegliere in che campo operare ed è pronta a investire in ogni settore, senza alcun pregiudizio. Il quarto punto prevede la condivisione del rischio con gli imprenditori: "Se l'azienda ha successo allora deve restituire gli investimenti che gli abbiamo concesso. Se però fallisce, non ci deve nulla". Il quinto e ultimo punto, infine, prevede azioni mirate a scoraggiare chi vuole portare all'estero proprietà intellettuale sviluppata in Israele con soldi governativi: "Se vogliono possono farlo, ma devono pagare una penale".
  Qualsiasi startup (purché basata in Israele) può richiedere di entrare nel programma dell'Authority. Dopo l'application, deve però sottoporsi a un'attenta valutazione delle proprie effettive potenzialità in termini di R&D, valutazione che viene eseguita dall'Autorità grazie alla collaborazione con ben 180 contractor esterni. Seguono altre analisi e approfondimenti, finché il Research Committee non approva (o rifiuta) la candidatura.
  Poi però non è solo l'organizzazione guidata da Ahron a farsi carico dei finanziamenti: ci deve essere infatti una 'corrispondenza' con il mercato: "Agli investimenti dell'Authority devono corrispondere quelli dei privati. Noi in alcuni casi forniamo fino all'85% del capitale necessario, ma il resto deve venire dai privati, che sono chiamati a confermare la validità del progetto". Il tutto nell'ottica di abilitare il mercato senza mai guidarlo, senza mai avere la pretesa di scegliere cosa sia giusto e cosa sbagliato per l'economia di Israele.
  In quest'ottica, è interessante anche il modo in cui l'Autorità collabora con gli incubatori sparsi sul territorio: "Sono ovviamente liberi di investire nel settore tecnologico che più ritengono promettente", chiarisce Ahron: "Noi invece ci limitiamo a finanziare ogni startup che decidono di accogliere nel loro programma". Insomma, si fidano del loro giudizio.
  Infine, c'è da sottolineare che l'Autorità per l'Innovazione dello Stato d'Israele ha anche e giustamente una missione sociale: favorire la partecipazione di fette sempre più ampie della popolazione (minoranze incluse) al successo dell'industria hi-tech, che come già accennato al momento impiega solo l'8% della forza lavoro pur generando il 50% delle esportazioni.
  Perché un'industria che funziona non solo deve generare ricchezza per tutti, ma può e deve anche essere il motore di una società più giusta, coesa, inclusiva.

(Wired, 22 giugno 2017)


Kushner da Netanyahu e Abu Mazen per riaprire colloqui di pace

'Questa è una opportunità per arrivare ai nostri obiettivi comuni di sicurezza, prosperità e pace'

Incontro ieri a Gerusalemme tra Jared Kushner, consigliere e genero del presidente americano Donald Trump, e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Si tratta del primo faccia a faccia per cercare di riaprire il processo di pace tra Israele e Palestina.
«Questa è una opportunità per arrivare ai nostri obiettivi comuni di sicurezza, prosperità e pace», ha detto Netanyahu dopo l'incontro con Kushner. Gli Stati Uniti hanno ribadito l'importanza di arrivare a nuovi colloqui tra le parti dopo più di un anno di stallo, da quando l'amministrazione Obama aveva deciso di bloccarli per l'impossibilità di raggiungere un terreno comune.
Trump ha fatto sapere che crede fermamente che la pace sia possibile e che «lavorare per raggiungere questo obiettivo è una priorità».
Prima di ripartire per gli Stati Uniti, Kushner ha poi incontrato anche il leader palestinese, Abu Mazen.

(L’Indro, 22 giugno 2017)


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Conclusa la visita del consigliere Usa Kushner

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha incontrato a Gerusalemme Jared Kushner, consigliere e genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L'incontro avvenuto ieri, durato circa due ore e mezzo, è stato incentrato sugli sforzi statunitensi per rilanciare il processo di pace tra israeliani e palestinesi, e ha visto la partecipazione dell'ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, David Friedman, e dell'ambasciatore israeliano a Washington, Ron Dermer. Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, alla vigilia del viaggio di Kushner, il dipartimento di Stato Usa ha ribadito la propria posizione circa la costruzione degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati, definendoli un fattore "che non aiuta il processo di pace". Fonti informate citate dal quotidiano israeliano "Times of Israel" sostengono che, malgrado Kushner sia stato ben accolto sia dalla leadership israeliana che da quella palestinese, non sembra vi sia la possibilità di un imminente incontro fra il capo dell'esecutivo di Gerusalemme ed il leader dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas

(Agenzia Nova, 22 giugno 2017)


Il re saudita sfida i parenti e sceglie il figlio come successore

Svolta autoritaria con il principe Mohammed

di Carlo Panella

La decisione di re Salman dell'Arabia Saudita di nominare il proprio figlio Mohammed bin Salman quale successore al trono non è forse un colpo di Stato, ma di sicuro è quanto gli è più vicino. Un «golpe soft», è stato il commento della stampa iraniana, ed è una definizione azzeccata. È peraltro questa una decisione omogenea alla dura svolta anti iraniana in atto nel Golfo e alle tensioni crescenti attorno all'embargo col Qatar, voluto e pilotato proprio dal nuovo erede al trono saudita. Finisce così, di colpo, con l'estromissione brusca dell'attuale successore altrono, il principe Mohammed bin Najaf, che perde anche il ministero dell'Interno (ulteriore elemento del golpe) la tradizione della successione orizzontale o diagonale tra i figli del fondatore del regno, Abdulaziz al Saud. Il re Salman rompe quindi con tutti i suoi fratelli e nipoti e fonda una dinastia che vedrà il regno passare di padre il figlio. Una novità esplosiva in un Paese nel quale, dal 1953, dalla morte del fondatore del regno Abdulaziz al Saud, la successione al trono è sempre stata rigidamente pilotata dalla scelta di non definire mai una dinastia ma affidata a una regola mai scritta che rendeva tutti i suoi figli e nipoti potenziali titolari del trono. Questo in un paese privo di istituzioni democratiche, nel quale il potere del re è assoluto e totale. Non solo, il giovane beneficiario della successione al trono ha 31 anni, mentre suo padre ne ha 82 ed è in stato semi confusionale per una serie di patologie ed è pronostico comune che non vivrà ancora molto. Una sua morte imminente non sorprenderebbe nessuno e consegnerà il regno a un sovrano con decenni di regno davanti a sé. Le pessime condizioni mentali di re Salman lasciano addirittura intravedere una ipotesi credibile: non è stato lui a decidere di nominare suo figlio quale successore ma è stato il figlio stesso che ha imposto tale nomina.
  Da oggi quindi l'Arabia Saudita ha in Mohammed bin Salman un nuovo padrone, dalle idee chiare e di rottura. Ha sovvertito gli equilibri dentro la corte (e non sono esclusi contraccolpi, anche pesanti). Ha condotto e condurrà ancor più una guerra «calda» contro il regime iraniano col quale considera «impossibile un accordo perché Teheran ha l'obiettivo di controllare il mondo islamico». Sulla base di questa strategia ha condotto l'intervento saudita contro gli sciiti ( e l'Iran) nello Yemen ed è l'ispiratore dell'embargo in funzione anti iraniana ( e per soffocare i Fratelli Musulmani) contro il Qatar. Infine, ma non per ultimo, progetta di trasformare il Paese col programma «Vision 2030» da nazione dipendente all'80% dal petrolio in un Paese industriale e intende mettere sul mercato una parte dell'Arameo, che controlla tutto il petrolio saudita. Un riformista spinto. Ma il suo riformismo si troverà alle strette in una nazione priva di rappresentanza democratica, ancor più alle soglie della sua industrializzazione che creerà contraddizioni sociali e politiche in un Paese totalmente privo di istituzioni in grado di gestirle e incanalarle.

(Libero, 22 giugno 2017)


"Israele, dove la moda dice di coprirsi"

Questa sera il dibattito al Circolo dei Lettori: "Ma anche qui non è più tempo di mostrare il corpo". Intervista a Fabiana Giacomotti.

di Francesca Rosso

 
TORINO - Rigore, leggerezza e un sistema che la sostiene: la moda israeliana sta diventano famosa in ogni angolo del pianeta. Ne parleranno al Circolo dei Lettori Fabiana Giacomotti, Evelina Pensa Dapueto, Roberto Piana e Cristina Tardito all'incontro «Il nuovo pudore nella moda israeliana e nel mondo occidentale». Coordina Angelo Pezzana.
  Giacomotti scrive di economia, costume e moda. È stata vicedirettore di «Amica», direttore di «Luna» e di «MfFashion». Oggi collabora al «Foglio» e insegna Scienze della Moda e del Costume alla Sapienza di Roma.

- Da Israele al mondo. Che cosa succede?
  «Oggi c'è uno scambio di tendenze molto rapido grazie ai social, soprattutto Instagram. In Israele e in tutto il mondo le ragazze si coprono, sono tornate le gonne lunghe e il turbante. Gli abiti per l'estate sono coprenti e vaporosi».

- A cosa si deve questa tendenza?
  «C'è una maggiore consapevolezza del corpo. È una moda trasversale. In Israele e nel medioriente non c'è il bisogno di scoprirsi per affermarsi. Ma anche qui: il berlusconismo è finito. Via le minigonne, tornano le gonne comode. Il maggior rispetto per il corpo non significa essere pudichi
   Come se il pudore fosse qualcosa di cui vergognarsi
. E non è discorso moralista. Anche se in Israele c'è un moralismo forte: la maggior parte delle donne pensa alla vanità come qualcosa di riprovevole. Ma a Tel Aviv c'è un'apertura diversa».

- Com'è la moda israeliana?
  «Sofisticata ed elegante. Penso ai talenti che escono dal prestigioso Shenkar College e a Alber Elbaz che ha disegnato abiti rigorosi e lineari per Lanvin per oltre 10 anni. Un modello adottato dai russi. Come Vetements, il collettivo di stilisti fra cui Demna Gvasalia, direttore creativo di Balenciaga e Gosha Rubchinskiy. Sono riusciti a portare a termine la rivoluzione del 1917 100 anni dopo».

- Come cambia la geografia della moda?
  «La moda italiana e francese non domina più: molte griffe nascono in Cina e medioriente.
C'è un multiculturalismo che a volte neghiamo: le ebree ortodosse sono più coperte delle islamiche. Le donne in Arabia Saudita rivendicano libertà ma non accettano tutto del nostro modello: guidare sì, il corpo reso oggetto dalla pubblicità no».

- Che cos'è il pudore?
  «È una questione di rispetto per se stessi senza bisogno di esporsi o modificare il corpo con l'abito. Rita Levi Montalcini diceva che le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla, se non la loro intelligenza. Per dirla pop, è finito il momento delle smutandate. Al festival di Cannes le più fotografate non sono state le starlette che non hanno nulla da dire ma Monica Bellucci, Susan Sarandon, madame Macron che testimoniano il prolungamento della vita e dell'attrattività sessuale».

- Da cosa nasce la leggerezza?
  «Del rigore più totale. Penso all'ultima sfilata di Gucci a Palazzo Pitti. Tutto sembrava spontaneo ma dietro c'era una grande disciplina».

- Che cos'è l'eleganza?
  «L'equilibrio. Il frutto di personalità, stile e intelligenza. Armani dice: "I cretini non sono mai eleganti"».

- Un consiglio per l'estate.
  «Il turbante, la cuffia o la fascia in testa. Comode soluzioni per nascondere i capelli pieni di salsedine».

(La Stampa - Torino, 22 giugno 2017)


Al via lavori per il nuovo insediamento in Giudea e Samaria degli ex residenti di Amona

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha annunciato martedì mattina su Twitter l'inizio dei lavori per le abitazioni di 300 ex residenti di Amona, l'insediamento ebraico abusivo sgomberato dalle autorità israeliane lo scorso febbraio. "Dopo vent'anni, ho il privilegio di essere il primo ministro a presiedere la costruzione di un nuovo insediamento in Giudea e Samaria", ha dichiarato Netanyahu, inaugurando i lavori del nuovo insediamento, battezzato "Amichai" e collocato a metà strada tra Ramallah e Nablus.

(Agenzia Nova, 21 giugno 2017)


Il Medio Oriente sbarca in Italia in chiaro con Tivùsat

i24News: il competitor israeliano di Al Jazeera che viene trasmesso in tutto il mondo

i24News è un canale israeliano all news che si occupa principalmente del Medio Oriente e che da oggi sbarca in Italia: sarà disponibile in lingua inglese e in francese sui canali 81 e 82 della piattaforma free Tivùsat. Frank Melloul, amministratore delegato di i24News e proprietario del 15% delle quote, ha dichiarato: "Siamo felici e orgogliosi di salire sulla piattaforma gratuita Tivùsat. L'arrivo di i24News contribuisce alla diffusione internazionale del canale e porta uno sguardo fresco e nuovo sulla realtà del Medio Oriente".
  Sull'altra sponda, il presidente di Tivùsat Alessandro Picardi commenta che "l'adesione di i24News rappresenta un importante ampliamento della finestra di informazione sul mondo con oltre 20 canali internazionali disponibili tra i più importanti al mondo." i24News è stato fondato nel 2013 con una missione ben precisa: quella di offrire un "punto di vista internazionale su Israele e il Medio Oriente", per usare le parole di Melloul. Il numero 1 dell'emittente, svizzero di nascita, ha avuto dei lunghi trascorsi come dirigente del ministero degli esteri francese; è stato successivamente portavoce del primo ministro repubblicano Dominique de Villepin ed è poi passato al mondo della comunicazione diventando direttore dello sviluppo del gruppo editoriale France Medias Monde dal 2008. Una volta persa la gara per diventare presidente del canale francese ha fondato i24News.
  L'emittente israeliana si era proposta di contrastare l'egemonia di Al Jazeera nel racconto degli affari mediorientali, e in parte ci è riuscita. i24News realizza le proprie trasmissioni dagli studi di New York, Parigi, Washington e Tel Aviv. Il canale viene trasmesso in tutto il mondo: Francia, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, Italia, Spagna, Portogallo, Germania, Polonia e anche diverse aree dell'Africa. Tuttavia, non ha il permesso di trasmettere in Israele per via delle normative sulla concorrenza. Non ha mai avuto il via libera per operare in Israele nonostante le pressioni di Patrick Drehi, padrone dell'emittente, ebreo-francese e magnate nel settore della telecomunicazione, sul premier israeliano Benjamin Netanyahu.
  Non appena era stata fondata l'emittente, erano piovute accuse sul fatto che i24News potesse diventare uno strumento di propaganda del governo di Tel Aviv. Tuttavia, lo stato maggiore dell'azienda ha sempre ribadito la propria indipendenza: "Non prendiamo un soldo da Israele e non rispondiamo a nessuno" ha tuonato il direttore Melloul che tuttavia ha precisato l'intenzione di offrire "un punto di vista sul Medio Oriente diverso da quello di Al Jazeera" e di combattere "i pregiudizi e l'ignoranza" che circondano Israele.

(L'Huffington Post, 21 giugno 2017)


Usa-Russia, così il dopo-Isis deciderà i nuovi equilibri

Sale la tensione in Siria dopo che gli americani hanno abbattuto un jet dell'aviazione militare di Assad e un drone iraniano. Quali le conseguenze? Ce ne parla Carlo Jean.

Prima l'abbattimento di un jet dell'esercito regolare siriano, poi di un drone iraniano. Gli americani non stanno certo con le mani in mano alla minima violazione degli spazi aerei concordati con Mosca e Damasco, ma certo appare assurdo, anche se lo sapevamo da tempo, che invece di unire le forze contro l'Isis, americani e russi debbano guardarsi uno dall'altro. Da una parte la coalizione a guida americana, dall'altra l'alleanza russo-siriana. Secondo il generale Carlo Jean, sentito dal sussidiario.net, "questi episodi rientrano nella categoria delle schermaglie, né Usa né Russia sono interessate a una escalation che porti a un conflitto, freddo o reale. Ma certamente, una volta eliminato del tutto l'Isis, ci sarà il rischio di combattimenti per definire il nuovo status quo della Siria".

- Un jet siriano e un dreno iraniano abbattuti: è un episodio grave secondo lei? Quali reazioni e rischi comporta?
  E' certamente un fatto grave in quanto ci sono degli accordi tra americani e russi e regime di Assad e questi accordi non sono stati rispettati. Gli americani non hanno esitato a intervenire con la forza.

- Violare gli accordi significa violare gli spazi aerei degli uni e degli altri?
  Esattamente, sono stati violati degli spazi concordati di esclusiva competenza di uno e dell'altro. Lo scopo di questa divisione degli spazi è evitare che aerei russi e americani entrino in contatto fra di loro e di conseguenza si combattano.

- Il che ci dice quanto grande sia l'ipocrisia di questa guerra all'Isis: di fatto ci sono tre fronti aperti, non sarebbe meglio che tutti si concentrassero insieme a combattere gli jihadisti?
  La questione vera è che l'Isis ormai boccheggia e tutti stanno già preoccupandosi di cosa succederà dopo. Ognuno cerca di giocare le carte più favorevoli alla sua presenza e alla sua influenza nel futuro.

- Conquistare più spazi, più terreno per ciascuna parte coinvolta?
  Sì. Soprattutto per gli americani e anche per i curdi è la zona a sud di Raqqa quella che interessa occupare per primi, dove ci sono i campi petroliferi.

- Chi si sta avvicinando adesso a quella zona?
  Sia la coalizione da una parte e dall'altra l'esercito di Assad. Quello sarà il momento dove è possibile avvengano scontri militari fra le due parti, quando si dovrà decidere la definizione dei territori liberati.

- Adesso c'è il rischio di una escalation, dopo i due abbattimenti?
  No, il rischio è limitato dal fatto che la Russia non può permettersi una escalation totale con gli Usa.

- Perché?
  Perché poi verrebbe sottoposta sia a sanzioni sia a ritorsioni militari che la Russia non è in condizioni di sostenere. La Russia di oggi non è una piccola Urss, non è in grado di sostenere una sfida con gli Usa, una nuova guerra fredda. Mosca usa tattiche per salvare la faccia ma deve essere estremamente cauta nel non superare il limite che porterebbe a una reazione americana.

- A precisa domanda il portavoce russo ha infatti risposto con un secco "no comment".
  La Russia non è in condizioni, anche perché il recente accordo con l'Arabia Saudita permette agli Stati Uniti di intervenire pesantemente sul prezzo del petrolio cosa che metterebbe in ginocchio Mosca se crolla ulteriormente.

- Il dopo Isis a cosa porterà? Washington insisterà a voler cacciare Assad'
  Ci saranno schermaglie e la situazione rimarrà incerta fino a qualche fatto nuovo. A mio parere l'obbiettivo principale degli Stati Uniti è evitare un completo controllo di Assad sulle vie di comunicazione che uniscono la Siria con l'Iraq per evitare che gli sciiti iraniani avanzino fino a quella parte di Libano controllata dagli hezbollah quindi arrivino al Mediterraneo. Per gli americani questo è importante non avvenga perché verrebbe messa in discussione la sicurezza di Israele.

- Che è una sorta di invitato di pietra in questo scenario, non agisce, ma il conflitto ruota anche e soprattutto intorno a loro, è così?
  Ogni tanto bombardano quando vedono convogli di armi dirette agli hezbollah, poi si ritirano immediatamente da ogni conflitto possibile.

- E se domani un jet russo violasse gli spazi concordati, gli americani lo abbatterebbero?
  Penso che cercherebbero di evitarlo, anche loro non hanno interesse in una escalation con la Russia tanto è vero che continuano gli accordi per evitare il combattimento. C'è un comitato apposito che comunica le rotte degli aerei e dove bombardano.

- Dunque possiamo parlare di incidenti, in questi due episodi?
  Certamente, sono schermaglie ma non provocheranno un conflitto tra Usa e Russia.

(ilsussidiario.net, 21 giugno 2017)


Un segno da Salerno

di Francesco Lucrezi

 
Il Palazzo della Provincia di Salerno
È davvero motivo di grande gioia l'ufficiale inaugurazione, nei bellissimi locali del Palazzo della Provincia, dell'Associazione Italia-Israele di Salerno, che promette di dare un grande e duraturo contributo alla già ricca vita associativa e intellettuale della splendida città costiera, confermando una millenaria tradizione di accoglienza, apertura, cultura, libertà.
  Se, a seguito dell'espulsione degli ebrei dal Regno di Napoli, del 1510, la presenza ebraica nel Mezzogiorno è sempre rimasta, fino ai giorni d'oggi, fortemente minoritaria (delle 21 Comunità ebraiche italiane ufficialmente riconosciute, com'è noto, quella di Napoli - anch'essa numericamente ristretta - è l'unica a rappresentare l'intero Meridione), ben diversa - anzi, opposta - era la situazione nel Medio Evo, come attestato, in particolare, dal diario di viaggio del pellegrino spagnolo Beniamino da Tudela, che, nel 1166, censì, nella sola Campania, ben 1620 israeliti (o famiglie ebraiche) su 4832 ufficialmente residenti in Italia (stanziati, in grande maggioranza, proprio nelle regioni meridionali). E particolarmente ricco e fiorente apparve, agli occhi di Beniamino, il conglomerato di Salerno, che figurava - in virtù dei floridi commerci e raffinati studi scientifici - come uno dei più cospicui e prestigiosi centri ebraici della penisola. Ancora illuminata e tollerante, com'è risaputo, fu la politica praticata dall'imperatore Federico II di Svevia, da cui Salerno e tutta la costiera trassero grandi e tangibili benefici. E famosi in tutto il mondo furono la grande libertà di pensiero e i princìpi di razionalità scientifica praticati dalla celebre Scuola medica salernitana, come anche da molti esponenti di punta della gloriosa Repubblica marinara di Amalfi (sorella - anche se, spesso, inevitabilmente , rivale - di Salerno).
  Poi, come si sa, i tempi cambiarono, e, col Rinascimento, scese sul Mezzogiorno il vero Medio Evo del fanatismo religioso, dell'oscurantismo ideologico, dell'intolleranza e della violenza. Non solo gli ebrei lasciarono quelle meravigliose contrade - spesso, per non farvi mai più ritorno -, ma molti scienziati, librai, medici, alchimisti, ricercatori e liberi pensatori furono costretti o indotti a cercare fortuna presso altri, più accoglienti lidi. Ma la luce di Salerno, nonostante tutto, non si è spenta: e non appare un caso se proprio su quelle spiagge, nel settembre 1943, le navi degli Alleati sono approdate, nel momento forse più tragico e buio della storia dell'umanità, per ridare al mondo una speranza di riscatto. Non è solo il grande Museo dello Sbarco a dare testimonianza di quel fondamentale momento storico, e a rendere onore a tutti coloro che hanno ad esso contribuito, ma - senza indulgere alla retorica -, a farlo sono anche tutti quei salernitani che, settant'anni dopo, tengono ben alta - con il loro attaccamento ai valori di "virtute e conoscenza" - la bandiera - anzi, il gonfalone - di Salerno.
  Non ci resta, pertanto, che fare gli auguri alla neonata Associazione, che va ad arricchire i già folti ranghi della Federazione delle Associazioni Italia-Israele, complimentandoci con il Presidente, Ernesto Pintore, il Vice-Presidente, Alberto Mirabella, il Segretario, Dario Annunziata, oltre che con Rafael Erdreich (Ministro Consigliere per gli Affari Pubblici e Politici dell'Ambasciata d'Israele in Italia, che ha svolto un'interessantissima relazione su "Le componenti dell'ecosistema dell'innovazione israeliana", dedicata alle prodigiose conquiste tecnologiche del piccolo Paese "start up"), Giuseppe Crimaldi (Vice-Presidente della Federazione delle Associazioni Italia-Israele, che ha portato il saluto della Federazione), i giuristi Francesco Fasolino e Virginia Zambrano e il filosofo Pasquale Giustiniani (autori di interventi di grande spessore, che hanno contribuito, da diverse angolazioni, a dare il senso dell'evento).
  Una bella iniziativa, volta a ricordare, riflettere, costruire, alimentando quegli ideali di civiltà, armonia, umanesimo tanto profondamente incisi nell'anima di Salerno. Non una "città ribelle" (come qualcuno vorrebbe far diventare una vicina metropoli), ma una comunità di uomini liberi, orgogliosi del loro passato, responsabili nel presente, e determinati a costruire un futuro migliore.

(moked, 21 giugno 2017)


L'amministrazione Usa preme su Israele per la ripresa dei negoziati

GERUSALEMME - Il ministro israeliano delle Finanze, Moshe Kahlon, ha dichiarato durante una conferenza stampa martedì che l'amministrazione presidenziale Usa preme su Tel Aviv
per il raggiungimento di un accordo di pace con i palestinesi. "Il governo statunitense ritiene di poter raggiungere un accordo, probabilmente grazie ai buoni rapporti con il governo israeliano che permettono al presidente Trump di esercitare più influenza di quanto non fosse possibile durante il mandato di Obama", ha dichiarato il ministro un giorno prima dell'arrivo a Israele del genero del presidente Usa, Jared Kushner, per un ciclo di colloqui a Gerusalemme e Ramallah. Kahlon ha anche dichiarato che è interesse del governo israeliano del premier Benjamin Netanyahu riavviare il processo di pace, a prescindere dalla retorica di entrambi gli interlocutori. "Chiunque comprende che alla fine di questo processo ci saranno due Stati in Palestina, anche se nessuno vuole ammetterlo", ha detto il ministro facendo riferimento alla politica israeliana. "Alla fine del processo, è questo ciò che accadrà nella nostra regione. Non credo accadrà domani, ma in termini di visione questo è quanto accadrà", ha affermato Kahlon, secondo cui "i palestinesi sono pronti a un accordo politico".

(Agenzia Nova, 21 giugno 2017)


Voci e ricordi dal mondo ebraico

di Alessandro Di Liegro

Cinquant'anni di Shalom, il mensile che ha raccontato il pensiero della comunità ebraica di Roma al Mondo. Il Teatro Eliseo ha quindi accolto i fondatori, i collaboratori e gli amici del periodico, in una serata di festa e di celebrazione. A introdurre la serata il padrone di casa Luca Barbareschi, che si è detto orgoglioso di ospitare l'evento, trasmettendo la propria vicinanza alla comunità ebraica. Poco prima si era fermato a parlare con la presidente della Comunità Ebraica Ruth Dureghello, abbracciandola e stringendole forte le mani «È una sera di festa, per un periodico che guarda al passato rivolgendosi al futuro» commenta Dureghello, prima di continuare a stringere mani, fra cui quelle dei professori Andrea Riccardi e Massimo Teodori. A presentare la serata il giornalista Franco Di Mare, che ha introdotto sul palco alcuni degli ospiti, fra cui Cesara Buonamici.
In prima fila la fondatrice della rivista, Lia Levi: «Durante la guerra dei sei giorni, cinquant'anni fa, ci chiedevamo cosa sarebbe stato di noi. Così avemmo l'idea di fondare la rivista, che parlasse di noi in prima persona». In cinquant'anni il mensile ha raccontato i momenti importanti della vita della Comunità ebraica: l'abbraccio tra Papa Giovanni Paolo II e il Rabbino Capo Elio Toaff, l'arrivo degli ebrei libici a Roma, l'operazione Entebbe e l'attentato alla Sinagoga del 1982, in cui morì Stefano GayTaché, di soli due anni.

(Il Messaggero, 21 giugno 2017)


Svizzera - Con Hitler fu neutralismo strabico

A quindici anni dal "Rapporto Bergier" che, sia pure con toni "accorti", aveva messo in discussione l'apparente neutralità della Confederazione nei confronti del nazismo, arrivano nelle librerie elvetiche nuove, "scottanti" ricostruzioni.

di Roberto Festorazzi

Il governo di Berna scelse di adattarsi all'egemonia tedesca Questo si tradusse nella conversione in franchi di buona parte dell'oro predato nei Paesi occupati e in scelte industriali imbarazzanti. Molte aziende usarono le loro filiali in Germania per espandere gli affari con l'esercito del Reich. Licenziarono gli ebrei anche in patria, presero dirigenti nazionalsocialisti, sfruttarono il lavoro dei prigionieri di guerra.

Alla fine del 1996, un decreto del Parlamento elvetico istituì una Commissione indipendente di esperti che facesse luce sul comportamento della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale, dopo lo scandalo sollevato dalla questione dell'oro degli ebrei, vittime della persecuzione nazista, ancora "congelato" nei caveau delle banche della Confederazione.
   La Commissione, presieduta dallo storico Jean-François Bergier, presentò, nel 2002, un "Rapporto finale" di 600 pagine, nato dalla consultazione di documenti archivistici che, mai prima e dopo di allora, sarebbero stati accessibili. Bergier, durante i lavori della Commissione, minacciò le dimissioni, perché non condivideva la cautela semantica con cui i suoi colleghi volevano ammorbidire il peso della grave responsabilità che i governanti elvetici dell'epoca, senza eccezioni, si assunsero, entrando nell'orbita gravitazionale del Terzo Reich.
   Oggi, quindici anni dopo il "Rapporto Bergier", redatto con cautele diplomatiche che risentivano della pressione esercitata dagli ambienti di potere svizzeri sulla Commissione incaricata di raccontare la verità su quanto accaduto tra il 1939 e il '45, gli storici della nazione biancocrociata hanno finalmente abbandonato i paludamenti della narrazione condizionata dalla politica, impegnandosi nel difficile compito di divulgare informazioni scottanti per qualunque governo.
   Così, ad esempio, nel recente libro La Svizzera e la Seconda guerra mondiale nel Rapporto Bergier (Casagrande), lo storico Pietro Boschetti afferma, senza mezzi termini, che il coinvolgimento della Confederazione, nella guerra di Hitler, «non fu solo inevitabile, ma voluto». Ciò significa che, senza formalmente rinunciare alla propria indipendenza, alla propria neutralità, e quindi a mantenere un governo sovrano, la Svizzera scelse di "adattarsi" all'egemonia nazista sul Continente, come auspicò, in un controverso discorso radiofonico del 25 giugno 1940, il capo del Dipartimento politico federale, cioè il ministro degli Esteri, Marcel Pilet-Golaz. Ciò avveniva nei giorni in cui la Francia firmava l'armistizio con gli invasori germanici. È noto del resto che il comandante supremo delle forze armate elvetiche, il generale Henry Guisan, fosse un fervente ammiratore di Benito Mussolini, ma pure che, fino al 1944, mantenesse rapporti cordiali con il capo del regime di Vichy, il maresciallo Pétain.
   Lo sconcerto non deriva soltanto dal constatare come la Svizzera, negli anni del conflitto, senza battere ciglio, abbia convertito in franchi una parte considerevole dell'oro depredato dai tedeschi nei Paesi occupati. No, le grandi aziende elvetiche e le maggiori compagnie assicurative che, all'avvento del nazismo in Germania, erano già presenti con loro filiali sul suolo del Reich, fecero di tutto per espandere i loro volumi d'affari. Analizza infatti Boschetti: «Gli operatori economici presenti sul mercato tedesco si adattarono progressivamente al nuovo ordine, rescindendo i legami con i loro partner ebraici e trasferendo o licenziando impiegati e quadri ebrei, in alcuni casi anche in Svizzera. Taluni non esitarono a esibire certificati di arianità per i loro amministratori e dirigenti».
   I risultati di questo accomodamento furono imbarazzanti: «Per poter atterrare a Monaco, la Swissair accettò che i suoi equipaggi fossero obbligati a comprovare le proprie origini ariane. Nestlé fece lo stesso, così come le compagnie assicurative». Non meno vergognose le professioni di fedeltà al nazionalsocialismo di aziende che affidarono la direzione delle loro succursali in Germania a membri del partito del Führer: «la Lonza nel 1936 nominò Albert Müller, membro della Nsdap dal primo maggio 1933; la Aiag (industria produttrice di alluminio, ndr) il primo giugno 1938 insediò a capo della sua fabbrica di Rheinfelden, Achim Tobler, affiliato alla Ndsap e alle Ss. Anche i dirigenti della Maggi a Singen erano sostenitori della prima ora di Hitler: il direttore Rudolf Weiss aveva addirittura partecipato al putsch nazista del 1923. Sotto la sua guida, la ditta non eseguì più forniture a non ariani. La Maggi non perse occasioni per manifestare la sua adesione entusiastica al nuovo regime, ottenendo come ricompensa condizioni favorevoli e l'attribuzione del titolo "impresa nazionalsocialista modello", nel 1938, per la propria sede di Berlino e due anni dopo per la fabbrica di Singen».
   La Svizzera, tra tutti i Paesi neutrali, disponeva del maggior numero di sedi produttive distaccate nel Terzo Reich, e il contributo di queste filiali allo sforzo bellico germanico fu imponente. Alcune associate fornirono materiali, come alluminio, colle e prodotti sintetici, nonché componenti meccaniche o elettrotecniche (turbine, motori), indispensabili per la fabbricazione di armamenti per la marina e l'aviazione. Nel 1944, per esempio, la sola Aiag, con i suoi impianti di Rheinfelden e Lend (Austria), fornì 35 mila tonnellate di alluminio, pari al 14% dell'intera produzione tedesca. E la Brown Boveri era la terza azienda in ordine di importanza nel campo dei trasformatori, dei motori elettrici per sottomarini e delle turbine.
   Aggiunge l'autore: «La Maggi sviluppò minestre concentrate in scatola o in bastoncini per l'esercito tedesco, la Nestlé, nonostante la difficoltà a importare caffè, vendette il suo Nescafé alla Wehrmacht durante la campagna di Russia, e la Ciba e la Sandoz fornirono farmaci e oppiacei molto apprezzati per la cura dei feriti». Numerose imprese elvetiche dislocate nei territori del Reich non ebbero remore nell'attingere al lavoro coatto dei prigionieri di guerra: e, si badi, nessuna di queste aziende venne costretta a farlo, furono esse stesse a richiedere "schiavi" per i loro stabilimenti. Quanti? Non meno di 11.000 persone. Particolare ancora più odioso, le associate elvetiche presenti nel Baden, diedero ordine alla loro security interna di sparare contro i lavoratori forzati che tentassero la fuga: nel caso dei russi, senza neppure ricorrere al colpo di avvertimento. È d'uopo qui ricordare che, fino all'agosto del 1944, la Svizzera, rispedì in Germania gli operai coatti, in particolare se russi o polacchi, che avevano attraversato la frontiera in cerca della salvezza. Solo in seguito, coloro che fossero riusciti a varcare clandestinamente il confine, vennero accolti come rifugiati.

(Avvenire, 21 giugno 2017)


Tutti zitti, suona il grande Evgeny Kissin

"L'occidente ha tradito i propri valori. E i nemici di Israele sono i miei"

di Giulio Meotti

 
Evgeny Kissin
ROMA - Evgeny Kissin ha quarantasette anni, ma lo stesso viso di ragazzo cagionevole che aveva quando è diventato famoso come uno dei più grandi pianisti viventi. Moscovita di nascita e di studi, Kissin è stato un fanciullo prodigio. A diciotto mesi, ascoltando la mamma e la sorellina al pianoforte, sapeva ripetere una fuga di Bach. A quattro anni le prime improvvisazioni, a sei diventa compositore, a sette i primi concerti, a dodici incide Chopin, a sedici registra con Karajan e i Berliner Philharmoniker. Viene accolto con tutti gli onori dal pubblico occidentale e da allora il mondo non riesce a saziarsi della sua musica. Nella sua casa di Mosca, Sviatoslav Richter voleva passare un po' di tempo a suonare con lui. Kissin è diverso dagli altri musicisti contemporanei, giganti musicali ma nani morali come Daniel Barenboim e Gustavo Dudamel. Oltre ad aver firmato un nuovo contratto con la Deutsche Grammophon, Kissin questa settimana ha pubblicato un libro, "Memoirs and reflections", curato da Marina Arshinova per Weidenfeld & Nicolson. "Sono un grande sostenitore dei valori occidentali", scrive Kissin, "ma negli ultimi anni ho realizzato che l'establishment occidentale ha spesso tradito quegli stessi valori. E una delle manifestazioni di questo tradimento è la posizione contro Israele". Il ragazzo prodigio non suona mai dallo spartito dell'agitprop. Tutto il contrario di quanto ha fatto un altro virtuoso della musica, il maestro Daniel Barenboim, che su Haaretz ha appena spiegato che Israele è stato "dato" al popolo ebraico da parte di un mondo in preda al senso di colpa dopo la Shoah, facendola pagare ai palestinesi. "Memoirs and Reflections" è un atto d'amore per il terzo paese d'adozione di Kissin, che si definisce cittadino "della Russia, dell'occidente e di Israele". Scrive di sentirsi "come un soldato d'Israele nell'arena internazionale" e di essersi ispirato agli scritti di un non ebreo, Vladimir Bukovskij. Nel 1994 questo dissidente sovietico pubblicò un libro intitolato "Judgement in Moscow". E Kissin cita un passaggio: "Se hai il coraggio di continuare a uccidere le persone abbastanza a lungo non sarete più un terrorista, ma uno statista e un premio Nobel per la pace. Questo non rimarrà inosservato da parte di Hamas ... ".
   Guai a fare il nome di Jeremy Corbyn in sua presenza. "Il mio defunto zio, Lord Kissin, si starà rivoltando nella tomba". Harry Kissin, militante del Labour di primo piano ed esule dal nazismo. Parole non meno dure, Kissin riserva per l'Unione europea. "Non mi piace quello che è diventata. Essendo cresciuto in Unione sovietica, mi piace l'indipendenza degli stati. Un mercato comune è una cosa, una centralizzazione politica è completamente diversa". Quando a Londra, alla Royal Albert Hall, i facinorosi antisionisti interruppero la direzione di Zubin Mehta e dei musicisti israeliani, Kissin disse loro: "Venite ai miei concerti, il caso di Israele è il mio, i nemici di Israele sono i miei. Israele, nonostante io non viva lì, è l'unico stato al mondo con cui posso identificarmi pienamente, e le cui storie, i problemi, le tragedie e il cui destino stesso io possa sentire come mio. Non voglio essere risparmiato delle difficoltà che i musicisti israeliani incontrano quando rappresentano lo stato ebraico oltre i confini". Così ha firmato sul Guardian l'appello promosso dallo storico Simon Schama contro il boicottaggio. Kissin ha detto di averlo fatto contro "l'isteria degli attacchi che in occidente, e perfino da molti intellettuali, sono rivolti a Israele. Ho vissuto in Unione sovietica e so a quali risultati, purtroppo, può arrivare una propaganda bene organizzata". Bis!

(Il Foglio, 21 giugno 2017)


Il Balagan Cafè non si ferma e apre lo spazio per i bambini

Il crowdfunding ha avuto successo domani parte la quinta stagione Fink: "La formula è sempre la stessa: cibo, incontro culturale e concerto".

di Elisabetta Berti

Costruire una società nella quale religioni e culture diverse possono convivere in pace è un lavoro che si fa anche percorrendo rotte laterali. Sono quelle che preferisce la Comunità ebraica di Firenze, che insieme al Comune, e senza farsi scoraggiare dalle difficoltà economiche, annuncia la quinta edizione del Balagan Cafè, uno spazio autenticamente multiculturale ospitato nel giardino della Sinagoga di Firenze, che da cinque anni trasforma i giovedì d'estate in momenti di incontro e scambio tra scrittori, musicisti, filosofi e artisti, ogni sera accompagnati da aperitivi e cene della tradizione ebraica. Uno degli appuntamenti più amati dai fiorentini a giudicare dall'affluenza di pubblico, eppure a rischio chiusura per mancanza di fondi; a questo serve il crowdfunding lanciato su Eppela.com sottoscrivibile fino al primo luglio, un appello raccolto con entusiasmo tanto che il Balagan Cafè, sotto la guida del direttore artistico Enrico Fink, s'è fatto coraggio e da domani riparte con un calendario di cinque serate, più quella del 10 settembre per la Giornata europea della cultura ebraica. A queste verranno aggiunte nuove date a fine agosto se il crowdfunding chiuderà con successo. «La formula è sempre la stessa - racconta Fink, musicista, autore teatrale, tra i principali interpreti della tradizione ebraica in Italia oltre che direttore della rassegna - la scaletta delle serate sarà cibo, incontro culturale e concerto; ma quest'anno c'è una novità che viene fuori da un lungo lavoro svolto durante l'inverno con le biblioteche comunali fiorentine, un percorso dedicato ai bambini, perché è su di loro che è necessario investire per contribuire ad una normalità di convivenza tra differenze. Il Balagan, che è primariamente uno luogo rivolto ai bambini, ospiterà uno spazio a forma di tenda del deserto, il Balaghino, dove si terranno letture animate, percorsi ludico-didattici, giochi e attività sul tema del viaggio».
   Proprio il viaggio è il tema di questa edizione, ma esplorato su terreni meno battuti: «L'inaugurazione del 22 giugno ci porta a Livorno, città sorella per la comunità ebraica fiorentina; Livorno è conosciuta come crocevia di culture, ma forse pochi sanno che per secoli è stata il più importante luogo di incontro e di scambio tra mondo mediterraneo ed europeo, anche grazie al terreno fertile offerto dalla comunità ebraica. Livornesi sono Mauro Grossi e Matteo Scarpettini, l'unico musicista italiano che parla il Bagitto, dialetto giudaico livornese al quale è dedicato un momento teatrale». Il 29 giugno poi si parla di migrazione con Ugo Caffaz e con il chitarrista-compositore Giovanni Seneca; Mark Bernheim racconterà la storia delle comunità ebraiche di Slovenia, oggi scomparse, nella serata del 6 luglio nella quale suonerà il Trio Istanbul night di Belgrado. «Speciali sono le ultime due serate - prosegue Fink- il 3 agosto si tiene Le rotte del cielo, in cui racconteremo il viaggio attraverso l'immagine che abbiamo della creazione del mondo, tra narrazione biblica e scienza. Una serata realizzata con l'osservatorio di Arcetri che ospiterà Giancarlo Schiaffini, trombonista e nume tutelare della musica d'avanguardia italiana, interprete di una lettura musicale del primo esilio, quella dal Giardino. Per finire il 10 agosto avremo Krakauer, maestro del klezmer famoso per i suoi incroci tra musica ebraica e jazz, che affiancato da Zeno De Rossi e Alfonso Santimone, proporrà un'incursione nella musica ebraica fiorentina».

(la Repubblica - Firenze, 21 giugno 2017)


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Balagan Cafe': la quinta edizione tra migrazioni e bambini

di Chiara Brilli

 
FIRENZE - "Viaggi, migrazioni, diaspore" il tema di quest'anno del Balagan Café, la kermesse culturale e gastronomica giunta alla quinta edizione e organizzata Comunità Ebraica di Firenze in collaborazione col Comune all'interno dell'Estate Fiorentina. Dal 22 giugno al 10 settembre sei appuntamenti ad ingresso gratuito nel giardino della Sinagoga di Firenze. info su balangancafe.it
  La grande novità di quest'anno è il "Balaghino dei bambini", letture animate con percorsi ludico-didattici, giochi relazionali, attività espressive realizzate in collaborazione con le biblioteche fiorentine. Un'iniziativa che è frutto di un lungo lavoro svolto durante l'inverno, quando, la Comunità Ebraica ha organizzato un corso di formazione per animatori che ha visto collaborare insieme una trentina di iscritti appartenenti a varie aree professionali della città e della Toscana, dalla Biblioteca delle Oblate, dell'Isolotto, del Galluzzo, a operatori della cooperativa Coopculture di Firenze, Prato e Siena, a insegnanti della Comunità Ebraica stessa. Il corso ha dato vita a cinque animazioni di libri tratti dal Catalogo Giuntina per l'infanzia svolte nella Biblioteca delle Oblate, nelle quali gli animatori hanno avuto la possibilità di sperimentare le conoscenze acquisite con un concreto lavoro sul campo.
  Ad aprire il cartellone del "Balagan Cafè" sarà il 22 giugno "Livorno, crocevia di cultura fra Europa e Mediterraneo" con apericena a base di piatti della tradizione culinaria ebraica livornese e presentazione del libro "Una storia del secolo breve" con l'autrice Ambra Tedeschi, intervistata dall'assessore alla cultura della Comunità ebraica di Firenze Laura Forti. Seguirà il concerto del Coro Ernesto Ventura di Livorno, diretto dal Maestro. Paolo Filidei; poi un intermezzo con un frammento di una commedia di Guido Bedarida in Bagitto, il dialetto giudeo-italiano utilizzato dagli ebrei in Toscana e a Livorno in particolare (a cura dalla compagnia teatrale Pietrarossa).
  "Sono molto felice di presentare questo cartellone di eventi che è ormai un punto fermo dell'estate fiorentina - ha aggiunto Tommaso Sacchi, direttore artistico dell'Estate Fiorentina - Fiorentini e turisti guardano con molta curiosità a quello che succede all'interno dei giardini della Sinagoga. Il Balagan Cafè è un'iniziativa molto rappresentativa perché ogni anno ospita grandi artisti di calibro internazionale e per la sua finalità sociale: l'anno scorso il tema erano i ponti, quest'anno quelli molto attuali quali la migrazione e il viaggio". "Il tema della migrazione ci sta molto a cuore - ha spiegato Enrico Fink, direttore artistico del Balagan Cafè - e lo raccontiamo attraverso la lente della cultura ebraica che ha una storia millenaria. Spesso non vediamo la ricchezza che abbiamo sotto i nostri occhi: la multiculturalità è un bene prezioso presente a Firenze che, però spesso resta sotto traccia. Grazie agli eventi del Balagan Cafè riusciamo a darle visibilità e a farla conoscere, attraverso musica, incontri e serate in allegria. Un ringraziamento particolare va al Comune di Firenze che ha sempre creduto nel Balagan Cafè e ci ha sostenuto con grande convinzione e proprio perché la kermesse è patrimonio di tutta la città, quest'anno abbiamo lanciato anche l'idea del crowdfunding". Tradizione e novità - La formula è quella ormai consolidata: l'appuntamento con il Balagan Cafè è il giovedì alle ore 19 con l'apericena kashèr a cui seguirà (ore 20) un incontro, conferenza, proiezione o dibattito per poi proseguire (ore 21) con lo spettacolo.
  "Hatzel" è un sogno in musica ambientato nell'Italia ebraica, nella sua memoria e tradizione con il desiderio di raccontare l'anima ebraica presente in modo spesso nascosto nella storia del nostro paese come un mondo a parte, caratterizzato da una varietà sorprendente: dai poemi in musica del rabbino di origine bolognese Shmuel Archivolti, alle melodie tradizionali degli ebrei livornesi accompagnate alle parole del poeta ebreo di Spagna Shlomo Ibn Gabirol, o ancora alle influenze centroeuropee nelle melodie di Gorizia, Venezia, Ferrara. Gran finale domenica 10 settembre con "La diaspora ebraica", in occasione della Giornata europea della cultura ebraica giunta alla sua 18esima edizione. Ad ispirare gli eventi della giornata sarà il fenomeno storico dell'esilio dalla Terra d'Israele e la diffusione e radicamento di Comunità ebraiche in molti Paesi in Europa e nel mondo, che ha dato vita a importanti espressioni identitarie all'interno dell'ebraismo, e che ha interessato in modo notevole anche l'Italia, dove le prime tracce di una presenza ebraica risalgono a oltre duemila anni fa.

(fionline, 20 giugno 2017)


A Kerem Shalom, unica 'porta' per Gaza, 'Hamas è come l’Isis'

Direttore del valico: 'Ora il Qatar resta l'unico sponsor della Striscia'

di Flavia Ressmann

Kerem Shalom
KEREM SHALOM (confine tra Israele e Gaza) - "Da quando è arrivato l'Isis tutto è cambiato nella Striscia. Hamas ha cominciato a sentirsi e a comportarsi come l'Isis. Adesso che il Qatar è rimasto l'unico sponsor di Gaza stiamo a vedere cosa succederà: le prossime 2-3 settimane saranno decisive". E' un'analisi maturata sul campo e da un osservatorio privilegiato quella di Ami (il cognome preferisce ometterlo) dal 2008 direttore del valico di Kerem Shalom, frontiera tra Israele e la Striscia, da dove passano tutte le merci destinate alla popolazione palestinese che lì vive tra mille difficoltà.
   La recente clamorosa rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar - accusato di connivenza con il terrorismo - da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto insieme alla politica di disimpegno da Hamas avviata dal presidente palestinese Abu Mazen e sfociata nel razionamento sempre più drastico dell'elettricità a Gaza, preludono a cambiamenti sostanziali negli assetti della tormentata Striscia.
   Ami ne è convinto. "Parlo con gli arabi tutti i giorni. Tra loro c'è solo disperazione. Credono che noi li abbiamo dimenticati quando abbiamo lasciato che Hamas prendesse il potere. Oggi vogliono una soluzione totale ai loro problemi, sono disposti a soffrire ancora uno o due mesi. Ma poi basta", spiega Ami ad un gruppo di giornalisti italiani in visita al valico. "La situazione a Gaza non è mai stata peggiore di quanto lo sia oggi. Immaginate cosa voglia dire vivere con solo 4 ore di luce al giorno. Non è una vita normale". Parla con cognizione di causa Ami, che si definisce "un rifugiato che vive nel suo Paese". I suoi primi vent'anni di vita li ha passati a Gaza, poi insieme ad altri 10mila israeliani è stato costretto a lasciare casa, amici, lavoro, tutta la sua vita dietro le spalle. E ne ha ricominciata un' altra, a Kerem Shalom che - paradosso mediorientale - significa "il vigneto della pace".
 
Ami
   Su uno sfondo di alte mura in cemento armato, sorvegliate senza sosta da uomini, cani e monitor e tra un via vai di camion israeliani e palestinesi che alzano dense folate di polvere Ami (57 anni) - berretto da baseball e coda di cavallo sale e pepe - si muove con passo spedito raccomandando agli ospiti di non fotografare "cani, scanner e fucili". E' lui il responsabile di tutto quello che entra ed esce da Gaza. Dalla frutta e verdura (che si scarica per prima al mattino, fino ai materiali edili e alle sementi). Ogni giorno l'Autorità Nazionale Palestinese invia al valico una "lista" dei beni che servono alla gente di Gaza e si procede con l'andirivieni dei camion il cui contenuto viene minuziosamente controllato. "Quelli sono i miei occhi dentro i camion", dice Ami indicando i due scanner che gli consentono di visionare le merci dai monitor del suo ufficio.
   Quelle in entrata e quelle in uscita.
   Se nel 2016 sono passati per questo valico quasi 180 mila camion, nel 2017 si prevede di arrivare a 200 mila. Un raddoppio rispetto al 2014, da quando il 100% del lavoro è passato in mano israeliana dal momento che il presidente Abdal Fattah al Sisi ha deciso di chiudere il varco egiziano. "Il governo israeliano sta facendo del suo meglio per aiutare la gente a Gaza. I palestinesi però vorrebbero una mano anche dalla comunità internazionale. Noi serviamo la popolazione, ma in un territorio nemico", dice Ami ricordando come nel 2014 durante l'operazione "Protective Edge" mentre da Kerem Shalom partivano le merci per la Striscia, dall'altra i razzi colpivano il valico stesso. "Se vuoi far sì che passino 1000 camion al giorno devi fare in modo ne passino 100 ogni ora", calcola Ami che dirige il lavoro di 200 persone dalle 6 del mattino fino a quando fa buio.
   Tra questi ci sono anche dei camionisti palestinesi addetti alla consegna a Gaza "confinati" in un'area specifica di Kerem Shalom nella quale ha accesso un solo israeliano, Ami. Uno di questi palestinesi è disposto a scambiare qualche parola. "A Gaza è difficile. Il problema peggiore è la mancanza di elettricità".
   Di chi è la colpa, gli chiediamo. "Di tutti i Governi, non di uno solo", risponde con prontezza. A lui comunque è andata bene: lavorare al valico gli consente di guadagnare 1300 shekel al mese. Più del doppio di quanto prenderebbe a Gaza, dove peraltro il 40% della popolazione è disoccupata.

(ANSAmed, 20 giugno 2017)


Quando gli ebrei di Libia lasciarono la loro terra

di Eric Salerno

In queste settimane gli ebrei di Libia che lasciarono la loro terra, spinti dal desiderio di raggiungere Israele o invitati a lasciare da re Idriss nel 1967 dopo la guerra dei 6 giorni, parlano del loro passato. Non molti anni fa, girando il Gebel, la montagna, a sud di Tripoli fotografai alcune delle sinagoghe che abbandonarono, o meglio, affidarono ai berberi loro vicini di casa e di storia. I custodi, pur avendo le chiavi, non vollero aprire le porte di legno e le immagini dell'interno di uno di questi luoghi di culto, sono state scattate da una piccola finestra non del tutto sbarrata.

(Solonews.eu, 20 giugno 2017)


Elezioni suppletive in Cisgiordania il 29 luglio

GERUSALEMME - La Commissione centrale palestinese per le elezioni ha annunciato oggi che il prossimo 29 luglio si terranno le elezioni in 15 dei 70 seggi della Cisgiordania dove a causa di ritardi nella presentazione delle liste non era stato possibile far votare i cittadini lo scorso 13 maggio. Lo svolgimento delle elezioni in queste circoscrizioni il mese scorso era stato ostacolato da una serie di irregolarità e ritardi nei termini di presentazione delle liste. La notizia dello svolgimento di elezioni suppletive in Cisgiordania era stata preannunciata lo scorso 31 maggio dall'agenzia di stampa palestinese "Wafa". Nella stessa occasione è emerso che il prossimo 10 ottobre potrebbero svolgersi le elezioni nella Striscia di Gaza, enclave palestinese governata da circa dieci anni da Hamas. Lo scorso 13 maggio i palestinesi di Gaza non hanno potuto votare, in quanto Hamas ha deciso di boicottarle in segno di protesta contro Fatah, l'altro storico partito palestinese.

(Agenzia Nova, 20 giugno 2017)


"Sporco ebreo": l'antisemitismo alla base della zuffa a Calata Cuneo

Solo il provvidenziale intervento di tre pattuglie dei carabinieri, per un totale di sei militari, ha evitato il peggio

 
IMPERIA - Si vanno delineando i contorni della zuffa avvenuta verso le 16.30 di oggi tra le bancarelle di Calata Cuneo. I coinvolti sono due standisti: uno israeliano 50enne e uno toscano 40enne. Quest'ultimo si sarebbe rivolto al rivale con epiteti razzisti. Uno su tutti: "Sporco ebreo". Questi hanno fatto andare su tutte le furie l'israeliano dando vita così all'alterco. Il toscano, a quel punto, avrebbe estratto un coltello, ma che non è stato trovato, per minacciarlo.
Solo il provvidenziale di tre pattuglie dei carabinieri, per un totale di sei militari, ha riportato la situazione alla calma ed evitato il peggio. La posizione dei due è al vaglio dell'Arma. L'italiano, originario della Toscana, è stato perquisito dai militari per vedere che non portasse con se altre armi.
Già ieri quest'ultimo si sia reso protagonista di un episodio simile, tanto che il suo stand è stato assegnato, dall'organizzazione, ad un altro commerciante. Va anche sottolineato che la lite tra i due si è consumata quando gli stand erano chiusi.

(Riviera24, 20 giugno 2017)


Netanyahu invita Mahmoud Abbas ad educare i giovani alla pace

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha invitato il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, a fermare "l'avvelenamento delle menti dei giovani palestinesi" contro Israele ed "educare alla pace, non al terrore". La dichiarazione anticipa di poche ore l'arrivo in Medio Oriente di Jared Kushner, genero e consigliere del presidente degli Stati Unti Donald Trump, inviato dalla Casa Bianca per portare avanti gli sforzi diplomatici tesi a rilanciare i negoziati di pace israelo-palestinesi. Netanyahu ha pubblicato una serie di messaggi sul suo profilo Twitter personale, commentando la decisione dell'Autorità nazionale palestinese di dedicare una piazza in Cisgiordania a Khaled Nazzal, ex comandante dell'ala militare del Fronte democratico per la liberazione della Palestina. Nazzal, ricorda la stampa israeliana, fu l'organizzatore dell'attentato di Ma'alot del 1974, in cui persero la vita 26 cittadini israeliani, inclusi 22 studenti. Netanyahu ha anche contestato Abbas nella sua veste di leader del movimento Fatah, che ha elogiato l'attentato di venerdì scorso a Gerusalemme in cui ha perso la vita un'agente di polizia israeliana, Hadas Malka.

(Agenzia Nova, 20 giugno 2017)


Il pericolo paradossale delle buone relazioni tra Usa e Israele

di Daniel Pipes

Nonostante il mancato trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, il palese affetto dimostrato dal presidente Trump per Israele durante la sua recente visita ha comprensibilmente rallegrato gli israeliani dopo otto anni di fredde relazioni con il presidente Obama. Purtroppo, nulla è semplice nel conflitto arabo-israeliano: uno sguardo agli avvenimenti passati lascia pensare che paradossalmente Israele dia il massimo quando sussiste un livello di tensione con Washington, come quello creato da Obama.
   Per spiegare questo paradosso, occorre iniziare col dire che dal 1973 tutte le amministrazioni americane, indipendentemente dal partito al potere alla Casa Bianca, sono convinte del fatto che gli arabi siano pronti a fare la pace con Israele. Questo problema si è particolarmente accentuato dall'istituzione dell'Autorità palestinese (Ap) nel 1994. I presidenti americani ignorano costantemente la natura rivoluzionaria dell'Ap. In questo spirito, dopo un incontro con il suo leader Mahmoud Abbas, Trump ha definito quest'ultimo un "partner strategico" per Israele e "pronto ad aprire il dialogo per la pace".
   I leader americani spesso insistono sul fatto che se Gerusalemme desse ancora più denaro, terre e riconoscimenti, allora l'Autorità palestinese sarebbe ispirata a fare la pace. Di fronte a una pressoché illimitata falsità, ostilità, bellicosità e violenza, questa commovente fiducia nei buoni rapporti di vicinato da parte dei palestinesi può spiegarsi solo con la psicologia. L'ex vice consigliere alla sicurezza nazionale Elliott Abrams la paragona opportunamente a Campanellino di Peter Pan: "Se ci credi, batti le mani".
   Quando i governi israeliani condividono questa idea fantasiosa, come è accaduto con i premier del Partito laburista e di Kadima, i rapporti tra Stati Uniti e Israele migliorano: si pensi ai legami notoriamente calorosi tra Bill Clinton e Yitzhak Rabin. Ma quando gli israeliani contrastano queste pie illusioni, come fa il premier Benjamin Netanyahu, nascono le tensioni. Washington spinge per ulteriori concessioni e Gerusalemme si oppone. I presidenti americani allora si trovano di fronte a una scelta: lamentarsi e criticare o accettare e incoraggiare. Obama ha optato per una condotta capricciosa, come dimostrato dalla scelta di andare a cenare con la sua famiglia nel 2010, mentre Netanyahu aspettava nella Sala Roosevelt.
   Come afferma da decenni il diplomatico americano Dennis Ross, la cooperazione di Israele si rafforza quando la Casa Bianca concentra l'attenzione sull'obiettivo di creare un clima di fiducia. Senza dubitare della sincerità dei sentimenti calorosi di Trump per Israele, il negoziatore che c'è in lui sembra intuitivamente comprendere che corteggiare gli israeliani costituisce la base per esercitare future pressioni. Durante il suo recente viaggio in Israele, Trump ha colto ogni occasione per mostrare tutto l'affetto che nutre per Gerusalemme, gli ebrei, il sionismo e Israele.
   "Gerusalemme è una città sacra, con una bellezza, uno splendore ed un patrimonio, come nessun altro posto al mondo", egli ha osservato. "I legami tra il popolo ebraico e questa sacra terra sono antichi ed eterni", un punto che ha illustrato con la sua stessa esperienza: "Ieri, visitando il Muro Occidentale ho esultato nel vedere in questo monumento la presenza di Dio e la perseveranza dell'uomo".
   "Israele è un testamento dello spirito indistruttibile del popolo ebraico", ha continuato. "Resto ammirato dalle conquiste del popolo ebraico e vi prometto che la mia amministrazione sarà sempre al fianco di Israele. (...) Dio benedica lo Stato di Israele".
   Gli israeliani hanno corrisposto appieno questo affetto. David Horovitz, direttore di Times of Israel, parla a nome di molti: "Dicendo semplicemente che lo ama e sta dalla sua parte, Trump ha conquistato il cuore di Israele, un paese che è così incessantemente criticato. (...) Trump e Netanyahu non sono d'accordo sulle credenziali di pacificatori dei palestinesi. Trump non ha spostato l'ambasciata. Ma il presidente ha sommerso di elogi Israele e ha segnato la storia recandosi al Muro Occidentale. Per il momento, è più che sufficiente".
   Questa reazione emotiva offre a Trump l'opportunità di chiedere al governo israeliano di fidarsi di Abbas e di fare nuove concessioni unilaterali, un processo che sembra già iniziato con le pressioni esercitate per cedere territori in Cisgiordania. Vista la loro amicizia, come può Netanyahu rifiutare le richieste di Trump?
   E questo ci ricorda una costante: gli israeliani e i loro sostenitori tendono a prestare maggiore attenzione alla disposizione d'animo e al simbolismo piuttosto che alle politiche. "A differenza di altri legami diplomatici, che ruotano intorno a interessi nazionali come gli interessi commerciali e in materia di sicurezza, i rapporti tra Stati Uniti e Israele hanno una base affettiva", scrivevo nel 1992. "I sentimenti, e non una fredda valutazione degli interessi, guidano ogni loro aspetto. Il tono, lo stile, la disposizione d'animo e la sensibilità spesso sono più importanti dei fatti concreti".
   Purtroppo, le buone relazioni inducono Gerusalemme ad accettare gli errori di valutazione di Washington. È questo il pericolo delle buone relazioni tra gli Stati Uniti e Israele e il sollievo che procurano quelle cattive. È meglio per Israele essere punito da una brutta risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Uniti piuttosto che cedere più territori a dei criminali genocidi. Se le relazioni tra Stati Uniti e Israele sono fredde o calde a seconda dei venti politici, le concessioni israeliane ai palestinesi sono immutabilmente degli errori che incoraggiano l'irredentismo, costano vite umane, prolungano il conflitto e ostacolano gli interessi americani. Ed ecco la mia conclusione contro-intuitiva: le relazioni fredde e distanti sono migliori per la sicurezza israeliana - e di conseguenza - per la sicurezza americana.

(L'Opinione, 20 giugno 2017 - trad. Angelita La Spada


Aiuti umanitari e zona cuscinetto. La strategia di Israele in Siria

Secondo il Wsj, Gerusalemme sostiene gruppi contro il regime di Assad. L'escalation degli altri paesi coinvolti, dopo l'abbattimento del jet siriano da parte dell'America

di Redazione

 
Rifugiati tornano in Siria per il Ramadan.
MILANO - Cibo, medicine, carburante, ma anche soldi per pagare i salari delle truppe e le munizioni direttamente ai ribelli siriani oltre il confine. Per anni, Israele avrebbe rifornito in segreto gruppi armati che combattono contro il regime siriano di Bashar el Assad e che agiscono lungo quella linea di frontiera delle colline del Golan tra Israele e la Siria. Lo rivela il Wall Street Journal, che riporta le interviste ad alcuni combattenti e comandanti di forze ribelli siriane.
  "E' noto che Israele ha interesse in quello che avviene dall'altra parte del confine - spiega al Foglio il generale in pensione Gershon HaCohen, che ha servito per quarantadue anni nell'Idf, l'esercito israeliano, al comando di truppe sui fronti egiziano e siriano - E' come con la dottrina Monroe per gli Stati Uniti: gli americani avevano l'obbligo di prendersi cura di ciò che accadeva in America latina. Così, Israele deve fare attenzione a quello che accade lungo il suo confine: si tratta di una strategia classica negli affari internazionali". HaCohen ricorda come l'assistenza da parte di Israele oltre confine sia però quella umanitaria: cibo, medicine ai civili. Israele - che dall'inizio del conflitto nel 2011 dichiara di non voler prendere posizione in questa guerra - non ha mai nascosto di aver curato oltre tremila siriani, tra uomini armati e civili, nei propri ospedali nel nord del paese, e di far passar oltre la frontiera regolarmente aiuti umanitari.
  L'Idf non ha risposto alle domande del Wall Street Journal, che chiedeva conferma di quanto appreso da alcuni comandanti del gruppo Fursan al-Joulan. "Israele ci sostiene in modo eroico", ha detto al giornale americano Moatasem al Golani, portavoce del gruppo armato che agisce oltre il confine. "Non saremmo sopravvissuti senza". Un altro combattente parla di almeno cinquemila dollari al mese che arrivano alle sue truppe, non legate all'Esercito siriano libero sostenuto dall'occidente.
  L'obiettivo strategico di Israele sarebbe quello di creare una zona cuscinetto "amichevole" tra sé e la Siria e l'Iraq in guerra, di allontanare il più possibile dal proprio confine quelle milizie armate iraniane e pro iraniane che combattono in sostegno del regime di Bashar el-Assad. Israele è più volte intervenuto nel conflitto con bombardamenti mirati - mai in realtà rivendicati - contro convogli di armi in movimento in Iraq e Siria e presumibilmente diretti contro i depositi di Hezbollah, il rivale sciita libanese con cui ha combattuto una feroce guerra lungo il confine nord nel 2006. L'esercito israeliano vuole evitare che le milizie libanesi, con il rafforzarsi della loro presenza tra Iraq e Siria, ottengano attraverso la continuità territoriale un flusso costante di armamenti, e allo stesso tempo vigilia affinché lungo la frontiera siriana non abbiano la meglio movimenti legati a Teheran. "Israele non vuole una vera e propria zona cuscinetto come accaduto in Libano nella guerra civile, prima del ritiro israeliano del 2000 - spiega l'ex generale HaCohen - l'esercito infatti non è interessato come allora a intervenire in un paese straniero: sarebbe troppo complicato".
  Benché non confermata da fonti militari israeliane, ma non smentita - l'Idf ha risposto al Wall Street Journal che Israele "è impegnato a mettere in sicurezza le proprie frontiere e prevenire il radicarsi di cellule terroristiche e forze ostili… oltre al fornire aiuti umanitari ai siriani che vivono nell'area" - la rivelazione del quotidiano americano racconta un conflitto in cui il coinvolgimento di attori regionali e forze straniere è sempre maggiore. Il generale Ramazan Sharif, delle Guardie Rivoluzionarie iraniane che gestiscono il programma missilistico di Teheran, ha detto che il lancio di missili balistici domenica contro postazioni dello Stato Islamico in Siria è anche un messaggio ai sauditi e agli Stati Uniti. Con 700 chilometri di gittata, i sei missili Zolfaghar lanciati possono colpire basi americane in Qatar, Emirati arabi, Bahrein, e anche la capitale saudita Riad. L'attacco missilistico, il primo dell'Iran al di fuori dei suoi confini in 15 anni, arriva in risposta all'attentato rivendicato dallo Stato islamico che all' inizio del mese a Teheran ha ucciso 18 persone. Fin da subito, però, la Repubblica islamica d'Iran ha dichiarato come gli assalitori fossero "affiliati ai wahabiti", la corrente ultra conservatrice di islam praticata in Arabia Saudita. Teheran si è praticamente fermato a poca distanza dall'accusare il regno dei Saud d'essere complice dell'attacco, mentre la monarchia da parte sua, assieme agli Emirati arabi, ha scatenato una crisi contro il piccolo emirato del Qatar, e con buone relazione con l'Iran - accusato a sua volta di sostenere forze estremiste e gruppi terroristici.
  Nelle stesse ore del lancio di missili iraniano, e per la prima volta dal coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto in Iraq e Siria, l'America ha abbattuto un caccia delle forze del regime di Damasco. Questo, come ricorda Time Magazine, solleva la possibilità di scontri diretti tra truppe americane ed esercito siriano, dando una svolta cruciale al conflitto. Finora infatti, l'America aveva appoggiato con la coalizione internazionale gruppi armati che combattono contro gli Assad, ma non aveva mai ingaggiato uno scontro diretto. Le tensioni e questa nuova direzione hanno la loro origine nel bombardamento ordinato il 6 aprile dal presidente Donald Trump contro una base aerea siriana, avvenuto in seguito alla notizia di una attacco chimico da parte del regime contro civili. L'abbattimento di un jet siriano non resta affare confinato agli equilibri tra Washington e Damasco. Mosca, sul fronte opposto rispetto agli Stati Uniti in questo conflitto, ha fatto sapere che considererà "un obiettivo" ogni velivolo della coalizione internazionale a guida americana nello spazio aereo a ovest del fiume Eufrate, in Siria.

(Il Foglio, 20 giugno 2017)


Paradigma Mortara

Kertzer racconta il rapimento di Edgardo. Spielberg lo traspone sul grande schermo

di Marika Damaggio

 
Il rapimento di Edgardo Mortara nel quadro dipinto da Moritz Oppenheimer nel 1862
«Non possumus», rispose puntualmente il Pontefice alla richiesta di restituire il piccolo alla sua famiglia. Non posso, non possiamo. Nemmeno se il prezzo dell'ostinazione segna l'erosione dello Stato pontificio, spingendo i moti di protesta sino a San Francisco e prestando argomentazioni utili alla causa di Cavour, ultima spallata a un potere spirituale, presto allontanato dalla sfera temporale. «Mi sei costato un impero», disse ancora Pio IX a Edgardo Mortara.
  Il bambino ebreo di sei anni appena - battezzato in segreto dalla domestica - venne rapito a Bologna il 23 giugno 1858, su istanza della Sacra Inquisizione. «Il battesimo di Edgardo lo rendeva cristiano e secondo le leggi dello Stato pontificio, una famiglia ebraica non poteva allevare un cristiano», racconta David Kertzer che nel 1996 ha dato alle stampe per Rizzoli il volume dedicato al caso-Mortara, Prigioniero del Papa re. Una storia dimenticata per un secolo e mezzo. «Eppure le 700 pagine dei verbali erano lì, nell'Archivio di Stato di Bologna», ricorda Kertzer.
  Figlio del rabbino Morris N. Kertzer, sbarcato ad Anzio prima e Roma poi come cappellano militare con le truppe alleate, il premio Pulitzer nonché professore delle cattedre di scienze sociali, antropologia e studi italiani alla Brown, giovedì sarà ospite dell'università di Trento (alle 17, Aula Kessker). Con Diego Quaglioni e Christian Zendri, Kertzer discuterà del rapporto tra ebrei e Vaticano, di battesimo, Inquisizione e Risorgimento, ma anche di cinema. Steven Spielberg porterà infatti sul grande schermo la storia di Edgardo.

- Professore, a 23 anni, nel 1971, si è trasferito a Bologna per scrivere la tesi di dottorato sul rapporto tra Pci e cristiani. Il suo legame con la città è proseguito nel tempo, fino a farle riscoprire la storia di Edgardo Mortara. Come si è sviluppato il percorso storiografico sulle fonti?
  «È stato negli anni Novanta che ho sentito per la prima volta del caso Mortara. Una scoperta che mi ha stupito, ma ancora di più mi ha sorpreso vedere che gli storici italiani non ne sapevano nulla. È stato a quel punto che mi sono rivolto all'Archivio di Stato di Bologna dove ancora oggi si trovano i verbali del processo condotto dall'inquisitore in seguito al ratto del piccolo Edgardo. I verbali, drammatici, erano lì, a disposizione: oltre 700 pagine. Quando l'ho letto ho deciso non solo di scriverne, ma di scriverne per un pubblico più ampio».

- Qual è il valore simbolico di questa storia e per quale ragione ha ritenuto opportuno divulgarla attraverso un libro?
  «In America in pochi conoscono la storia italiana, soprattutto moderno-contemporanea; volevo quindi contribuire a divulgarla. Il caso, poi, si presta a una riflessione più ampia. E stato infatti trascurato poiché si rivelava imbarazzante non solo per la Chiesa, perché chiaramente rapire un bambino e chiuderlo in un seminario a Roma ha sollevato proteste da più parti, ma è stato imbarazzante anche per la comunità ebraica italiana. All'inizio Edgardo era un martire ebreo, poi però è diventato prete e la storia del suo rapimento lui stesso l'ha utilizzata come ispirazione per il mondo cattolico. Nel tempo gli storici italiani hanno trascurato l'evento: non faceva parte della narrativa dominante. Sia chiaro: questi casi erano frequentissimi; battesimi forzati e bambini rapiti dallo Stato pontificio, dove l'Inquisizione ha avuto potere di polizia. Tuttavia è stato solo in questo periodo - nel mezzo del Risorgimento e della campagna per separare potere temporale dal potere spirituale - che tali episodi hanno colpito la collettività, tanto da essere utilizzati anche da Cavour per dimostrare l'urgenza del cambiamento e la fine dello Stato pontificio».

- Steven Spielberg colpito dal suo libro farà un film sul caso Mortara. Cosa si aspetta?
  «Innanzitutto la divulgazione della storia italiana sarà di per sé una grande occasione. Nel volume e anche nel film non si trova una contrapposizione tra buoni e cattivi, la vicenda è ben più complessa e spero che il pubblico la comprenda».

- Il suo volume «Il patto col diavolo», uscito nel 2014 con Rizzoli, ha vinto il Pulitzer e racconta la storia dei rapporti tra Pio XI e Mussolini. Tra Vaticano e fascismo esisteva un interesse comune o, piuttosto, la collaborazione era opportunistica?
  «C'erano cattolici veramente fascisti, ma se parliamo del Vaticano e della curia non si può dire che ne condividessero l'ideologia. Papa Pio XI non si illudeva: sapeva che Mussolini non era un uomo religioso. Tra l'altro vedo che oggi accade qualcosa di simile: pastori protestanti di destra che appoggiano convintamente Trump che non va certamente in Chiesa. Tornando al Vaticano, ricordiamoci che Mussolini ha offerto alla Chiesa un posto privilegiato, in cambio del mutuo sostegno. Un patto senza illusioni: c'erano le basi potenziali per un conflitto, ma c'era anche la consapevolezza dell'esistenza di un grande beneficio reciproco».

- Nella sua ultima visita a Trento, nel 2014, ha condotto un seminario dedicato al rapporto tra Vaticano e fascismo, focalizzandosi sul processo di italianizzazione. Qui come si è declinato il rapporto tra Chiesa e fascismo?
  «Il fronte sudtirolese è ancora tutto da scrivere. I parroci erano perlopiù di madrelingua tedesca, aspetto non gradito dal regime che intendeva italianizzare il Tirolo meridionale. Ciò ha creato non poche tensioni con il Vaticano, poco incline a sostituire i propri preti. Purtroppo, però, l'accesso alle fonti non è ancora semplice. Speravamo che Papa Francesco fosse l'uomo dell'apertura degli archivi vaticani, ma a distanza di quattro anni così non è stato».

(Corriere del Trentino, 20 giugno 2017)


Caccia ai virus: l'intelligenza artificiale salva la privacy

di Fabiana Magrì

Una sala operativa dell'Nsa, l'agenzia Usa che si occupa della sorveglianza elettronica
TEL AVIV - «Non posso rivelare i dettagli, ma ho firmato la sceneggiatura di una nuova serie televisiva, in produzione in Israele proprio in questi giorni, che sarà venduta anche all'estero». Isaac Ben-Israel, classe 1949, professore, capo del programma di studi sulla sicurezza all'Università di Tel Aviv e presidente della Ciber Week (dal 25 al 29 giugno) ha accennato al tema del nuovo impegno con la televisione israeliana in occasione di un'intervista per anticipare l'argomento della tavola rotonda che coordinerà il 29 giugno nell'ambito della conferenza internazionale sulla cyber-security: il futuro dell'intelligenza artificiale applicata alla sicurezza informatica.
  «Il motivo per cui proviamo ad applicare tecniche di AI alla cyber security» spiega il professore nel suo ufficio all'università di Tel Aviv «è per individuare le anomalie tipiche dei malaware attraverso i metadati, senza scendere nel merito dei contenuti dei bit». L'incontro del 29 giugno all'Auditorium del Porter Building all'università di Tel Aviv offrirà uno sguardo sui rischi e le opportunità, per aziende e clienti, nell'applicazione dell'intelligenza artificiale alla sicurezza informatica, portando all'attenzione le ricerche più all'avanguardia e gli ultimi sviluppi degli esperti internazionali nel settore.
  «L'attuale sistema per proteggere un network - continua Ben-Israel - pone due problemi: lo 0-day, cioè il primo attacco di un malaware, e la privacy dei dati e degli utenti. In passato l'unico modo per difendersi da un virus era attendere che il malaware sferrasse il primo attacco. La vittima avrebbe denunciato il problema. La compagnia di cyber-security avrebbe individuato il malaware, decrittato il bit, capito il funzionamento del virus identificandone la "firma" e infine creato una sorta di antidoto, un software da installare nei network di tutti i clienti così che in caso di nuovo attacco da parte dello stesso virus, il software l'avrebbe riconosciuto e neutralizzato».
  Il problema della privacy preoccupa ancor più del primo attacco. Per beccare il virus, la compagnia di sicurezza informatica deve piazzare sensori nella rete dei clienti. Questo significa che non solo i malaware ma tutte le informazioni, ad esempio le email, passano attraverso il controllo. Chi garantisce il cliente che la società di cyber security non abuserà dell'accesso a tutte le informazioni private e aziendali? «La soluzione è intercettare i malaware studiandone il comportamento anomalo. Se bastasse guardare al traffico dei bit per individuarne le anomalie, potremmo catturare i malaware senza violare la privacy delle persone e delle aziende».
  Il problema è che il numero di bit nella rete è enorme e nessun essere umano potrebbe fare una cosa del genere. «Per questo l'intelligenza artificiale può essere la soluzione» si augura Isaac Ben-Israel, che, con la motivazione di aver «costantemente promosso collaborazioni scientifiche con l'Italia in materia di cyber sicurezza e ricerche spaziali», sta per ricevere, durante la Cyber Week, l'onorificenza di Ufficiale dell'Ordine della Stella d'Italia di cui sarà insignito dall'ambasciatore d'Italia in Israele Francesco Maria Talò. Nell'ambito della cooperazione con l'Italia, Ben-Israel è anche responsabile per Israele del CyberLab, laboratorio congiunto tra Università di Modena e Reggio Emilia e Tel Aviv University.

(La Stampa, 20 giugno 2017)


La prudenza politica di Marrazzo nel reportage sul Medio Oriente

Sembrava un servizio allestito più da un politico che da un giornalista, del resto, Marrazzo è stato governatore della Regione Lazio e, finito il mandato, è tornato in Rai

di Aldo Grasso

«Sei giorni, mille guerre» è il titolo del reportage che Piero Marrazzo, corrispondente della Rai per il Medio Oriente, ha realizzato per Speciale Tg1 (sabato, 23,30). In tutta sincerità, mi aspettavo qualcosa di più approfondito e non il solito compitino fatto di interviste — un colpo al cerchio e uno alla botte —, della classica prudenza di chi o non si vuol sbilanciare o non conosce bene i fatti e la posta in gioco. Sembrava un servizio allestito più da un politico che da un giornalista (del resto, come molti ricorderanno, Marrazzo è stato governatore della Regione Lazio e, finito il mandato, è tornato in Rai). Nel 1967 Israele vinse la guerra semplicemente per continuare ad esistere, per non essere cancellato dalla faccia della Terra.
Come ha ricordato Giulio Meotti: «L'Egitto, già alleato militare della Siria, strinse un patto militare d'emergenza con la Giordania, l'Iraq, l'Algeria, l'Arabia Saudita, il Sudan, la Tunisia, la Libia e il Marocco, i quali cominciarono a inviare contingenti militari per partecipare al combattimento imminente. Mentre truppe e blindati andavano ammassandosi su tutte le frontiere d'Israele, le trasmissioni radio e televisive da ogni capitale araba annunciavano giubilanti l'imminente guerra finale per lo sterminio d'Israele. "Distruggeremo Israele e i suoi abitanti", proclamava l'allora capo dell'Olp Ahmed Shuqayri». L'operazione Moked («Focus») segnò l'inizio della Guerra dei Sei Giorni, cinquant'anni fa: forse il più spettacolare Blitzkrieg della storia, nel corso del quale un Paese minacciato d'estinzione da un fronte più o meno compatto dei paesi arabi si ritrovò per le mani una vittoria schiacciante e un territorio quattro volte più grande, benché fatto in larga maggioranza di sabbia e sassi del deserto del Sinai. Il dopo dipende tutto da quei sei giorni, l'alternativa sarebbe stato un altro genocidio.

(Corriere della Sera, 19 giugno 2017)


Medico israeliano che cura siriani, ormai è guerra tra banditi

Non c'è più nessuna rivoluzione. Ziv Hospital accoglie tutti

di Flavia Ressmann

 
Ziv Hospital, nel nord di Israele
SAFED - Donne incinta, bambini gravemente malati e poi tante persone - di tutte le età, razze e religione - che la guerra in Siria ha straziato nel corpo oltre che nello spirito. Le porte del moderno e tecnologicamente avanzato Ziv Hospital, nel nord di Israele, ad 11 km dal confine con il Libano e a 30 con quello della Siria, sono sempre aperte.
E gratuite, per chiunque non abbia un'alternativa che gli consenta di sopravvivere.
Profuma di pulito e si respira un'aria di efficienza nei padiglioni del Ziv Hospital. Medici ed infermieri sono indaffarati ma incrociandoli nei corridoi sorridono cordiali.
Shokrey Kassis, chirurgo plastico, concede con gentilezza - a un gruppo di giornalisti italiani - un po' del suo tempo prezioso.
Camice azzurro e mascherina in testa, il dottore sfodera un italiano di tutto rispetto imparato a Roma dove negli anni '80 si è laureato in medicina." L'Italia, ci spiega, è la mia seconda casa dopo la Galilea, dove sono nato". Sulla parete della stanza dove ci riceve scorrono tante diapositive con cifre, tabelle e immagini che fotografano con precisione il lavoro che si fa nell'ospedale, ma Kassis ci racconta un'altra storia. "I feriti che arrivano dalla Siria - quest'anno sono già 720 - ci descrivono una situazione molto difficile. Sanno che altri paesi interferiscono con Damasco e loro pagano il prezzo più alto. E' diventata una guerra di banditi. Non c'è più nessuna rivoluzione, nessuna ideologia. Hanno paura di chi li circonda. Hanno perso la pace e non sanno più cosa sia meglio o peggio per loro. Sanno solo di essere le vittime di questa guerra". "Tutti, però, una volta guariti, vogliono tornare a casa. Piangono per tornarci il prima possibile anche se non sanno cosa e chi troveranno ad aspettarli".
Costruire un rapporto di fiducia tra medici israeliani e malati siriani non è stato né facile né immediato da quando 4 anni fa arrivò il paziente numero zero. "In ospedale -racconta il chirurgo - molti non avevano mai visto un siriano e per i siriani è stata dura accettare di farsi salvare la vita da chi prima consideravano alla stregua di diavoli. Ma poi, superata la sorpresa reciproca, a forza di stare insieme, la convivenza è diventata un'abitudine. E sono nati anche dei legami forti".
Che siano civili, militanti fedeli al presidente Bashar Assad o ribelli islamici, ai medici del Ziv Hospital non interessa. "Noi - spiega Kassis - li curiamo al meglio, non gli facciamo mancare niente per tutto il tempo che debbono restare qui che sia una settimana o anche dei mesi. E non facciamo loro domande, non gli chiediamo da che parte stanno". Sono i medici dell'esercito israeliano che al posto di confine con la Siria, dopo aver fornito le prime cure ai feriti- una sorta di triage - selezionano i più gravi e in ambulanza li fanno arrivare al Ziv Hospital. I bambini giungono sempre accompagnati da un famigliare che viene sistemato in una camera con il piccolo paziente. Ci sono operatori sociali che parlano l'arabo che hanno il compito di farli sentire a loro agio. Come Faris Issa, un ragazzo cristiano con un sorriso disarmante. "All'arrivo - racconta mentre un bimbo siriano di neanche un anno gli si appende ad una gamba per essere preso in braccio - gli consegno un sacca con tutto il necessario, dai vestiti, allo spazzolino da denti, fino a una copia del Corano e al tappetino per le preghiere. Spesso arrivano qui nudi ed anche chi li accompagna ha bisogno di un medico".
"La medicina non ha confini. Può essere un ponte tra le persone.
Continueremo a fornire cure mediche che salvano la vita ai feriti siriani finché ce ne sarà bisogno". E' questa la filosofia dello Ziv Hospital.

(ANSAmed, 20 giugno 2017)


In Israele la prima vettura autonoma al mondo contro attacchi cyber

Messa a punto da un’azienda francese e una start up israeliana

In Israele la prima vettura autonoma al mondo contro attacchi cyber
TEL AVIV - E' la prima auto al mondo senza guidatore a prova di attacchi di cyberhack: l'hanno annunciata la start up israeliana Karamba e l'azienda francese di macchine autonome Vedecom Tech che è in procinto di sperimentare il suo veicolo a fini commerciali entro il 2017 in alcune città di Italia, Francia, Germania, Portogallo e Olanda. La Vedecom ha spiegato - citata dai media - che grazie alla tecnologia messa a punto da Karamba, le unità di controllo delle auto saranno protette contro i potenziali rischi di minacce cyber. Le comunicazioni tra i veicoli senza guidatore e le vicine infrastrutture di controllo sono in grado di migliorare la sicurezza della guida e la gestione del traffico. Per questo - ha sottolineato Vedecom nella cui Fondazione sono presenti Peugeot, Renault e Valeo - è essenziale proteggere sia le componenti critiche sia il sistema elettronico dei veicoli da minacce dei ciberhack che potrebbero manomettere i dati stessi compromettendo la sicurezza del veicoli stesso.

(ANSA, 19 giugno 2017)


Trump invia Jared Kushner in Israele per cercare la pace coi palestinesi

Il presidente americano invia il genero da Netanyahu e Abbas per cercare di trovare una soluzione pacifica al conflitto che da 70 anni insanguina il Medio Oriente.

di Luca Romano

Il genero del presidente americano incontrerà in veste di inviato della Casa Bianca il premier israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme e il presidente palestinese Mahmoud Abbas a Ramallah.
  Negli incontri lo accompagnerà Jason Greenblatt, l'assistente di Trump e rappresentante speciale della Casa Bianca per i negoziati internazionali, che già oggi è in arrivo nella regione mentre Kushner arriverà mercoledì.
  La missione arriva ad un mese da quella di Trump nella regione, durante la quale il presidente americano si è impegnato con gli israeliani ed i palestinesi a lavorare insieme per un accordo duraturo per la pace (Leggi anche: La coppia di ebrei che ha dettato la linea del viaggio). Le fonti della Casa Bianca hanno spiegato che Kushner e Greenblatt sperano di "continuare i colloqui" con entrambe le parti, ma hanno ridimensionato le aspettative che un accordo possa essere raggiunto in breve tempo. "È importante ricordare che forgiare uno storico accordo di pace richiede tempo e probabilmente ci vorranno molte missioni di Kushner e Greenblatt, a volte insieme a volte separati, e probabilmente anche dei negoziatori israeliani e palestinesi a Washington, o altre località, per avere negoziati sostanziali", hanno poi aggiunto.

 La missione (quasi impossibile) di Kushner
  La missione di Kushner ha anche un'importanza per le questioni interne americane, perché segnala come il fatto che il suo coinvolgimento nell'inchiesta del Russiagate sembra non aver ridotto la vasta influenza del genero in capo all'interno della Casa Bianca. La scorsa settimana il Washington Post ha rivelato che il procuratore speciale, Robert Mueller, sta indagando le compagnie che fanno capo alla sua famiglia nell'ambito dell'indagine sulle interferenze russe nelle elezioni. Kushner ha avuto un ruolo centrale anche nell'organizzare le tappe in Arabia Saudita ed Israele e Territori della prima missione all'estero di Trump il mese scorso. Il fatto che sia stata affidata a lui, ed a Greenblatt, questa nuova missione dimostra come Trump abbia delegato a loro - e non al segretario di Stato, Rex Tillerson - la guida degli sforzi Usa per la ripresa dei colloqui di pace. "Il presidente Trump ha reso chiaro che lavorare per una pace duratura tra israeliani e palestinesi è una principale priorità per lui - hanno concluso alla Casa Bianca - e crede con forza che questa sia possibile".

(il Giornale, 19 giugno 2017)


Calma apparente

Il mortale attentato di venerdì scorso va visto nel contesto dei continui tentativi terroristici e della continua azione preventiva delle forze di sicurezza israeliane.

L'attacco terrorista di venerdì sera a Gerusalemme suggerisce alcune riflessioni. Da un lato, questo non è il grande attentato che Hamas vorrebbe lanciare da Gaza, e non è un attacco dell'ISIS nonostante l'iniziale rivendicazione da parte dell'organizzazione terrorista jihadista che in realtà, allo stato attuale, non dispone di alcuna infrastruttura attiva in Cisgiordania.
D'altra parte l'attentato non è stato effettuato da un "lupo solitario", bensì da una cellula locale di tre terroristi che non erano conosciuti dalle autorità come tali, ma solo come partecipanti ad attività popolari violente nella zona di Ramallah. Il loro duplice attacco di venerdì sera è stato realizzato con armi relativamente semplici: coltelli e un mitra tipo "Carlo" di produzione artigianale...

(israele.net, 19 giugno 2017)


Israele: un laboratorio a cielo aperto

Ricerca, innovazione, infrastrutture stanno cambiando la vita degli israeliani. L'Italia guarda a queste novità con interesse.

 
La torre solare
Numerosi sono i settori in cui l'interscambio tra Italia e Israele si è recentemente intensificato e che possono avere potenzialmente ulteriori sviluppi: le aziende che si occupano di tecnologia, infrastrutture, biomedicale, green economy, cyber security sono sicuramente quelle a cui l'Italia guarda con maggiore interesse. Un interesse più che giustificato ad analizzare i dati. Che Israele sia uno dei Paesi leader a livello mondiale per lo sviluppo di nuove tecnologie è noto a molti. Ma in pochi forse sanno che l'ultimo Innovation Index di Bloomberg lo ha collocato in decima posizione, mentre l'Italia è al 24esimo posto. Israele detiene anche il primato assoluto per numero di ricercatori e un secondo posto per intensità della Ricerca e Sviluppo. Lo Stato ebraico infatti ha investito in questo campo circa il 4 % del PIL, ossia poco meno di 300 miliardi di dollari; a questi fondi si aggiungono una serie di programmi e politiche che promuovono sinergie con i privati per garantire uno sviluppo costante del comparto. Non solo tecnologia però: l'Italia guarda con interesse anche alle infrastrutture israeliane. A 80 metri di profondità, nel sottosuolo di Gerusalemme, sta nascendo il nuovo terminal ferroviario che consentirà di rendere più agevole il trasporto di residenti, turisti e pellegrini. La Jerusalem Binyanei HaUma (apertura prevista nel 2018) sarà una delle più profonde stazioni mai realizzate; sarà anche il punto d'arrivo per il collegamento tra la città e Tel Aviv. In Galilea, a nord, si sta lavorando alla seconda linea ferroviaria elettrificata del Paese. Questo progetto apre anche il capitolo della sostenibilità ambientale, da sempre cara a Israele, pioniere dell'energia solare, eolica, idrica, geotermica e da biomasse. Qui sono operative oltre 400 compagnie specializzate; Israele realizzerà entro il 2018 anche la più alta torre solare del mondo (250 metri), che sarà circondata da 50.000 specchi disposti su una superficie di oltre 3 chilometri quadrati che rifletteranno la luce del sole verso la torre, alla cui estremità sarà collegata una caldaia che, trasformando l'acqua in vapore, movimenterà alcune turbine, che a loro volta produrranno energia.
   L'Italia risulta molto interessata e potrebbe fornire a Israele conoscenze ed applicazioni industriali nell'ambito del monitoraggio, in particolare delle sostanze inquinanti. Il comparto energetico israeliano può poi far vanto delle tecnologie idriche, grazie ad esempio ai sistemi di irrigazione a goccia e quelli che consentono di controllare le eventuali perdite lungo le tubature. Per concludere le energie alternative, c'è il gas naturale, in virtù delle recenti scoperte di giacimenti off-shore: anche qui l'interesse dell'Italia (e più in generale dell'Unione Europea) non è un mistero. Nel biomedicale, poi, i risultati sono altrettanto sorprendenti.
   In Israele ci sono alcuni dei più avanzati istituti mondiali di ricerca biotecnologica, soprattutto nel campo delle malattie autoimmuni, della neurologia e nella cura del cancro. Il settore risulta particolarmente frammentato in una miriade di aziende di piccole e medie dimensioni sostenute da fondi speculativi che puntano a rivenderle negli stadi iniziali del loro ciclo di vita. Infine, la cyber security: nel 2016 gli investimenti su questo fronte sono aumentati del 9%. Secondo la piattaforma no profit Pitchbook, le 365 realtà locali nel campo della sicurezza informatica hanno fatturato 581 milioni di dollari nell'ultimo anno. Sedici delle 65 cyber start-up fondate lo scorso anno sono già riuscite a trovare investitori disposti a sostenerle. Numerose sono le multinazionali estere che hanno consolidato la loro presenza nel Paese. Due esempi: Huawei ha acquisito HexaTier e Volkswagen ha lanciato Cymotive, un sistema di antifurto per le auto connesse studiato con l'ex capo dei servizi di sicurezza generale di Israele. D.T.

(Shalom, maggio 2017)


Energia elettrica ridotta a Gaza

In seguito alla decisione dell'AP di Abu Mazen di non pagare più l'elettricità per la Striscia di Gaza a causa di forti divergenze con Hamas, Israele ha iniziato oggi a ridurre gradualmente l'erogazione di corrente elettrica alla Striscia. Secondo la radio militare questo provvedimento riguarda per ora solo due delle dieci linee che riforniscono Gaza. Fonti di Gaza precisano che si tratta di quelle che alimentano Khan Yunes (nel Sud della Striscia) e Sajaya (nel settore centrale) dove l'erogazione è calata oggi da 12 a 8 Megawatt.
L'Egitto da parte sua continua ad alimentare la città di Rafah (nel sud della Striscia) con 13 Megawatt. Fonti della compagnia elettrica di Gaza stimano che adesso la popolazione potrà disporre di energia elettrica solo per tre ore continuative seguite da un'interruzione di 12 ore. Questa situazione, viene fatto notare, risulta particolarmente gravosa per circa due milioni di palestinesi in quanto coincide con il digiuno del Ramadan.

(ANSAmed, 19 giugno 2017)


Le pareti rosa antico del nuovo ristorante israeliano a Parigi

Il nuovo ristorante Yafo, punto di riferimento per gli appassionati di cucina etnica che punta sull'hummus e sui colori pastello.

di Julien Benaiteau, Irvin Heller

Il ristorante Yafo a Parigi
Un ristorante con pareti rosa antico dedicato al piatto-icona del Medio Oriente: l'hummus. È Yafo, nato a Parigi da un'idea dello chef israeliano Lotan Lahmi. Progettato da Sonia Assouly e Laure Chouraqui di Studio Sur Rue, il piccolo deli non poteva che trovarsi nel cuore multietnico di Parigi: il 10o arrondissement. Un quartiere dai mille volti, meta di appassionati d'arte e cucina healthy.
  Yafo in ebraico significa Giaffa, che è il nome della parte più antica di Tel Aviv. Quindi il ristorante israeliano dichiara subito la propria missione: far riscoprire ai parigini il piatto-icona della cucina mediorientale. Preparato con ceci, crema di sesamo, aglio, limone e olio d'oliva, l'hummus è la portata principale di ogni "meze", il ricco antipasto tipico del Mediterraneo orientale. Lotan Lahmi, un passato come chef e pasticcere al Ladurée e al Prince de Galles, lo serve con la classica pita e un topping di carne o verdure. I prezzi del suo ristorante total pink sono accessibili e la location curata in ogni dettaglio.
  Per progettare il concept del piccolo ristorante, gli architetti dello Studio Sur Rue si sono immersi nel mondo di Lahmi. Hanno assaggiato i suoi piatti tradizionali e l'hanno osservato mentre li cucinava. Con un approccio olistico, ne hanno curato l'intera immagine, incluso il logo che compare sulla facciata scura. Le sue linee che paiono disegnate a mano e le geometrie essenziali riprendono un font ideato negli anni '20 dal graphic designer francese Cassandre e ispirato all'estetica Bauhaus, che identifica internazionalmente la Città Bianca.
  All'interno, il loro primo obiettivo è stato ricreare il "caos gioioso" tipico dei ristoranti di Tel Aviv. Trattandosi di un locale aperto a pranzo, il suo interior riprende anche alcune caratteristiche delle mense. La cucina è a vista, i tavoli condivisi, il cibo servito su vassoi in colori pastello. Il rosa antico è protagonista assoluto: domina sulle pareti, sul soffitto e perfino nell'intonaco che inframmezza le piccole piastrelle bianche. Si riflette sugli sgabelli bianchi, fa contrasto con gli elementi in acciaio inox della cucina "in stile indiano".
  L'atmosfera generale è semplice, minimal e funzionale, per lasciare protagonista il cibo. Gli ingredienti sono di prim'ordine: i ceci vengono dal sud della Francia, la tahina da Nazareth. Nel menu non può mancare il tabbouleh di cavolfiore aromatizzato al limone, preparato con cipolle rosse, melograno e prezzemolo. La bevanda tipica di Yafo è la limonata alla rosa, e per chiudere il pasto c'è l'espresso al cardamomo. Da accompagnare al dessert, come il malabi, la panna cotta in stile israeliano, fatta con acqua di rose e spolverata con arachidi e scaglie di cocco.
  Una vera tentazione per chi passa di lì, un nuovo indirizzo da aggiungere al carnet per provare una cucina da chef a prezzi superdemocratici.

(Elle Decor, 19 giugno 2017)


Hezbollah al centro dei traffici internazionali di metanfetamine

Il gruppo sciita libanese utilizza i proventi derivati dalla vendita di droghe per finanziare la guerra in Siria. Tra le "novità" proposte ai ricchi clienti delle monarchie del Golfo il Captagon

di Luciano Tirinnanzi

Nel dicembre del 2010 l'agenzia federale americana DEA (Drug Enforcement Administration) rese noto che, attraverso un controllo congiunto dell'ufficio del Dipartimento Del Tesoro OFAC (Office Of Foreign Assets Control), si era giunti a illuminare una rete di ricavi illeciti in Libano derivanti dal traffico di stupefacenti, i cui proventi collegavano Hezbollah ai narcos sudamericani.
   L'uomo al centro dell'indagine era Ayman Saied Joumaa, un colombiano-libanese considerato boss della droga e in rapporti privilegiati con Addallah Safieddine, rappresentante di Hezbollah a Teheran, che fungeva da agente di collegamento per finanziare il "Partito di Dio".
   Joumaa avrebbe ripulito i proventi del traffico di droga dei cartelli colombiani, come La Oficina de Envigado (erede del cartello di Medellin), che trasportava cocaina in Europa via Africa, in particolare attraverso un canale aperto in Guinea Bissau.
   La ricostruzione del riciclaggio del denaro fu resa possibile grazie alla scoperta d'illeciti compiuti dalla Lebanese Canadian Bank (LCB) e dalla consociata Prime Bank, una banca con sede in Gambia ma di proprietà di un facoltoso libanese, noto finanziatore di Hezbollah.
   Quella che sembrava solo una pista, in verità rivelò molto di più del network internazionale di Hezbollah. Nel febbraio 2016 il Progetto Cassandra della DEA ha annunciato di aver smantellato un giro di traffici di droga e di lavaggio del denaro sporco attraverso sette paesi - il personaggio di riferimento era Adham Tabaja, ritenuto un collaboratore di Abdallah Safieddine, nome che ritorna ogni volta che compaiono le parole "Hezbollah" e "droga" - dimostrando come la rete internazionale degli sciiti libanesi sia ben più estesa di quanto non si creda.
   I proventi di questi traffici illeciti vengono attualmente impiegati da Hezbollah per finanziare la guerra in Siria, dal momento che il "Partito di Dio" è pesantemente coinvolto nel conflitto a fianco del regime siriano di Bashar Al Assad, supportato dall'Iran e dalla Federazione Russa.
   Ma Hezbollah non si limita a comprare armi con i proventi del traffico di droga. Da tempo, il gruppo è divenuto anche produttore di metamfetamine, in spregio della legge islamica che considera le droghe proibite perché impure e contrarie alla religione. Per questa ragione, con l'occasione della guerra civile oltreconfine, la produzione di droghe sintetiche è stata appositamente trasferita dal Libano alla Siria.
   Da anni, infatti, nel mercato mediorientale, ad andare per la maggiore sono le droghe sintetiche, la cui domanda è cresciuta esponenzialmente soprattutto in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar, dove il consumo di metamfetamine sostituisce le restrizioni in materia di alcol e droghe naturali.
   Il motivo è semplice: pur essendo le droghe severamente ed esplicitamente vietate dalla legge islamica, lo stesso non vale per i farmaci presi per bocca, tra l'altro più facili da occultare. È così che hanno iniziato a diffondersi gli stimolanti illegali, conosciuti in arabo con il nome "Abu Hilalain" (padre delle due lune crescenti). Su tutti, ad andare per la maggiore è il Captagon, droga sintetica che ha preso piede quasi esclusivamente in Medio Oriente e che ormai domina il mercato e anima le serate della gioventù araba sunnita.
   Mentre in passato gli hub di produzione del Captagon erano situati in Europa orientale, e più precisamente in Bulgaria, a partire dal 2006 con le restrizioni e i controlli sempre più stringenti delle polizie europee, la produzione si è spostata in Turchia e Libano. Quest'ultimo, in seguito alla dura politica di repressione del fenomeno voluta dal governo turco, è infine divenuto la centrale esclusiva del Captagon, con laboratori diffusi principalmente nella Valle della Bekaa, non a caso roccaforte di Hezbollah.
   Questo sino al 2013, quando l'intera produzione si è spostata in territorio siriano, per dissimulare le attività degli sciiti libanesi e per controllare meglio le attività dei laboratori, riservando alla Valle della Bekaa un ruolo di quartier generale per lo smistamento della droga attraverso il confine.
   La Siria, così, è divenuta il territorio ideale dove produrre droghe sintetiche, essendo una nazione relativamente industrializzata e con numerosi impianti di produzione farmaceutica attivi prima del conflitto, subito riconvertiti in laboratori per metamfetamine.
   Nonostante la guerra, ancora oggi esistono infrastrutture sufficienti per facilitare questo tipo di attività illecite: a fronte del fatto che il governo è riuscito a tenere in piedi l'elettricità, l'acqua corrente e il funzionamento di alcune strade in molte zone del paese, il vantaggio è che qui i controlli della polizia sono inesistenti, essendo le forze di sicurezza impegnate sui molteplici fronti di guerra.
   A partire dal 2013, si ritiene che il Captagon sia prodotto ormai esclusivamente in Siria, dove non solo i sequestri sono praticamente inesistenti a causa della guerra civile, ma anche perché qui la manovalanza abbonda. Del resto, non è difficile comprendere come in Siria vi siano migliaia di persone disoccupate e disposte a tutto pur di guadagnare denaro facile in tempi di crisi.
   Il fenomeno ha prodotto così un'economia di guerra che coinvolge anche formazioni jihadiste sunnite, che foraggiano le proprie imprese guerrigliere riscuotendo tasse ai check point e garantendo un passaggio sicuro delle merci illegali attraverso i territori da loro controllati, previo pagamento di denaro.
   Se prima queste erano solo voci, un documentario realizzato nel 2015 da Radwan Mortada per BBC Arabic (intitolato Syria's War Drug) ha fornito le prime prove concrete che collegano direttamente gruppi di combattimento come il Free Syrian Army al commercio di Captagon.
   Da quest'economia di guerra è emersa anche l'espansione della coltivazione di campi di marijuana. Anche in questo caso, si tratta di piccoli imprenditori che coltivano per conto terzi e rivendono alle organizzazioni la merce, pronta per essere spedita in tutto il Medio Oriente e oltre. Ancora oggi nella Valle della Bekaa, in particolar modo nella zona di Baalbek, si producono alcune tra le migliori qualità di hashish del mondo (il libanese giallo e il libanese rosso). Inoltre, facilitata da un terreno agricolo particolarmente fertile e dalla guerra civile, la Valle della Bekaa è sempre stata destinata alla coltivazione della cannabis: in assenza di alternative economiche, i contadini hanno progressivamente abbandonato le coltivazioni tradizionali per quella molto più remunerativa della cannabis, considerato che un ettaro produce tra i 50 e i 100 kg di hashish e sul mercato il prodotto varia dai 400 ai 700 dollari per chilogrammo.
   Anche qui, come in Afghanistan e Colombia, nel 1993 fu attuata una campagna di riconversione dei terreni promossa dall'ONU, insieme a Stati Uniti ed Europa, che distrusse quasi l'80% delle coltivazioni. Ma poiché i finanziamenti promessi rimasero lettera morta, gli agricoltori ripresero quasi subito a coltivare e produrre cannabis. Secondo stime americane, l'hashish prodotto nella Valle della Bekaa rappresenta un giro d'affari stimato in 24 milioni di dollari l'anno, con la produzione libanese pari a circa 30mila kg l'anno, che corrisponde circa al 4% del totale mondiale. Una bella fetta di denaro su cui le mafie locali, di cui Hezbollah rappresenta una parte significativa, possono contare per arricchirsi o per finanziare altre attività più "nobili".
   Per ciò che riguarda le amfetamine, invece, Hezbollah controlla direttamente questo mercato, destinato non solo ai giovani libanesi e siriani, ma anche e soprattutto ai jihadisti che combattono nel teatro di guerra siro-iracheno e ai "rich kids" della penisola del Golfo, dove questa droga ha sostituito tutte le altre, per le proprietà stimolanti ed eccitanti che le sono proprie.
   In definitiva, dunque, anche se la produzione si è spostata in Siria, il Libano resta il centro dei traffici internazionali di metamfetamine e, in misura minore, di hashish e marijuana.

 Da sapere
  Captagon è il nome popolare per un tipo di amfetamine stimolanti (ATS) il cui composto chimico è chiamato fenethylline, un mix di amfetamina e teofillina. Il Captagon fu commercializzato per la prima volta nel 1961 da una ditta farmaceutica tedesca, la Degussa AG. Nel 1981, la Food and Drug Administration (FDA), insieme a molti altri Paesi, ha vietato il farmaco a causa di studi medici che suggeriscono come un elevato potenziale di fenethylline porti alla dipendenza, abuso e ad altri effetti nocivi per la salute.
   Le pasticche di Captagon che vengono prodotte oggi nei laboratori libanesi e siriani mantengono solo il nome, ma i composti chimici differiscono a seconda della formula utilizzata e degli ingredienti con cui vengono cucinati questi stimolanti (che vanno dalla pseudo-efedrina fino, in alcuni casi, alla polvere di caffè). Gli effetti del Captagon vanno dall'euforia alla diminuzione del bisogno di dormire, fino all'abbassamento delle inibizioni e all'assenza di percezione del pericolo e della paura. Un suo uso prolungato provoca psicosi, paranoia, aggressività, e in alcuni casi la morte. In Siria, il costo al dettaglio di una pasticca di Captagon (chiamata in gergo farawla, "fragola") varia dai 7 ai 15 dollari.

(LookOut, 19 giugno 2017)


Israele: nuovo studio per combattere le malattie cardiache

 
I ricercatori dell'Università Ben Gurion e dello Sheba Medical Center hanno recentemente comunicato lo sviluppo di un modo per trattare l'aterosclerosi e prevenire l'insufficienza cardiaca con un nuovo polimero biomedico che riduce la placche arteriose e l'infiammazione nel sistema cardiovascolare.
L'aterosclerosi è una malattia cardiovascolare che provoca 56 milioni di morti ogni anno in tutto il mondo, secondo il 015 Lancet Global Burden of Disease Report. Le arterie sono rivestite da un sottile strato di cellule chiamato tessuto endoteliale che le mantengono toniche e lisce. L'aterosclerosi inizia con danni all'endotelio ed è causata da alta pressione sanguigna, fumo o colesterolo alto. Il danno derivante porta alla formazione della placca.
Il polimero sviluppato dai ricercatori israeliani riduce la placca e ne impedisce la progressione, prevenendo trombosi, ischemia, infarto e ictus.
Questa nuova nano-tecnologia ha diversi vantaggi: in primo luogo, evita danni alle arterie e migliora il muscolo cardiaco. Allo stato attuale, ci sono diverse opzioni di trattamento disponibili per l'aterosclerosi, ma nessun'altra terapia ha un tale effetto. Non provoca alcun effetto collaterale a differenza dei farmaci attualmente utilizzati.
Brevettato e in fase preclinica, il nuovo polimero è stato testato sui topi con risultati positivi. In uno studio che è stato inviato per la pubblicazione, i ricercatori hanno trattato i topi con aterosclerosi con quattro iniezioni del nuovo polimero biomedico ed è stato valutato il cambiamento nelle loro arterie dopo quattro settimane.
Questo il commento del Prof. Jonathan Leor:
Siamo rimasti sbalorditi dai risultati. La funzione miocardica dei topi trattati è notevolmente migliorata; abbiamo notato una diminuzione dell'infiammazione e una significativa diminuzione dello spessore delle arterie.
Questa terapia potrebbe in futuro essere utile per le persone con diabete, ipertensione e altre condizioni legate all'età, con un impatto sulla vita di milioni di persone.

(SiliconWadi, 19 giugno 2017)


Attacco a Gerusalemme, lite Isis-Hamas. E Israele revoca i permessi ai palestinesi

Scontro tra terroristi per la rivendicazione. Netanyahu blocca l'accesso nel paese per il Ramadan

 La tensione
  Ridda di rivendicazioni tra l'Isis e Hamas per l'attentato terroristico di venerdì sera a Gerusalemme costato la vita ad una giovane poliziotta israeliana, mentre Benyamin Netanyahu ha subito annunciato misure straordinarie annullando i permessi di ingresso in Israele concessi in precedenza a 25 mila palestinesi in occasione del Ramadan. Il premier ha poi chiesto all'Autorità palestinese (Ap) e alla Comunità internazionale di condannare l'attentato.
  Il doppio attacco è stato compiuto in due distinti luoghi nei pressi della Città Vecchia, alla rottura giornaliera del digiuno del mese sacro ai musulmani e all'inizio dello shabbat, da tre palestinesi delle zone intorno a Ramallah (Cisgiordania). Quasi subito l'Isis - ha fatto sapere su Twitter Rita Katz direttrice di "Site" che monitora le attività dei jihadisti sul web - ha rivendicato l'attacco definendolo «il primo in Israele» e promesso che «non sarà l'ultimo». A distanza di poche ore, Hamas da Gaza ha però negato quelle dichiarazioni ascrivendosi invece la paternità dell'assalto mortale.
  «Le affermazioni dell'Isis - ha controbattuto l'esponente dell'organizzazione Izzat El-Reshiq, citato dai media - sono un tentativo di confondere le acque. L'attacco è stato condotto da due palestinesi del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina e un membro della nostra organizzazione». E anche il Fronte ha confermato.

 Cellula locale
  La polizia israeliana tuttavia ha precisato che l'assalto terroristico è stato portato a termine da «una cellula locale» palestinese spiegando che «al momento non è stata trovata alcuna indicazione» che «sia stato diretto da un'organizzazione terrorista né che ci sia connessione con nessun'altra organizzazione».
  Nel contrasto delle rivendicazioni, si è fatto avanti Fatah, il partito del presidente Abu Mazen che ha attaccato Israele. «Condanniamo - ha sostenuto, come riferisce l'agenzia palestinese Wafa, vicina al governo - l'uccisione da parte delle forze di occupazione di tre palestinesi a Gerusalemme Est».
  Si tratta di «un'escalation condotta da Israele sia a Gaza sia in Cisgiordania» ha aggiunto chiedendo «la protezione della comunità internazionale» per i civili palestinesi. L'uccisione del sergente Hadas Malka (23 anni) - i cui funerali si svolgeranno all'uscita di shabbat ad Ashdod nel sud di Israele - ha rialzato la tensione nella regione e costretto Israele, come annunciato ieri sera stessa dal capo della polizia di Gerusalemme, a riesaminare «la politica relativa alle preghiere del Ramadan» seguita fino ad ora.
  Ed infatti il premier Netanyahu, dopo consultazioni di sicurezza, ha predisposto la revoca dei permessi di ingresso in Israele oltre ad abolire quelli di lavoro per i congiunti dei tre palestinesi responsabili dell'attentato. Il villaggio cisgiordano degli attentatori è stato intanto circondato dall'esercito ed è probabile che saranno demolite le loro case. Il Coordinatore delle attività israeliane nei Territori, Yoav Mordechai - che di fatto mette in pratica la revoca dei permessi - ha polemizzato alla Radio militare con Fatah: «Avete distrutto l'atmosfera del Ramadan fra gli abitanti della Giudea-Samaria (Cisgiordania). A seguito dell'attacco criminale abbiamo annullato 25 mila permessi. Chi semina vento raccoglie tempesta». E ieri notte un altro israeliano è stato accoltellato in modo non grave nell'insediamento di Allon Shvut da un palestinese, poi catturato. L'inviato dell'Onu in Medio Oriente Nickolay Mladenov ha condannato l'attentato di Gerusalemme dicendosi «sgomento» da chi l'ha definito «eroico».

(Il Messaggero, 18 giugno 2017)


Netanyahu: al Fatah presenta assassini come 'eroi'

Nuova polemica con l'Autorità palestinese dopo l'attacco a Gerusalemme

Nuova polemica fra Israele e Autorità palestinese per l'attacco di venerdì a Gerusalemme, dove una poliziotta israeliana è stata colpita a morte e dove in reazione agenti della guardia di frontiera hanno ucciso i tre assalitori palestinesi. "Invece di condannare l'attentato - ha osservato oggi il premier, Benyamin Netanyahu, nella seduta del consiglio dei ministri -, al-Fatah, che è diretto da Abu Mazen, ha pubblicato un documento in cui condanna gli agenti che hanno ucciso i terroristi mentre loda questi ultimi, qualificandoli come 'eroi'". "A quanto pare non c'è limite - ha esclamato - alla menzogna e alla spudoratezza. L'Anp si rifiuta di condannare l'attentato e pagherà adesso indennizzi alle famiglie degli assassini".
Netanyahu ha concluso con un appello alla comunità internazionale affinché condanni l'attacco e faccia pressione sull'Anp perché cessi di pagare assegni alle famiglie degli assalitori palestinesi.

(ANSAmed, 18 giugno 2017)


Attentato a Gerusalemme: lite Hamas-Isis sulla paternità

Quattro feriti e un'agente uccisa. E le due organizzazioni in difficoltà si scontrano per attribuirsi la rivendicazione

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Era una ragazza di 23 anni che subito prima di essere uccisa mentre cercava di fermare tre terroristi ha scritto un messaggio di amore e pace a famiglia e amici.
   È morta pugnalata. E sulla sua uccisione, assistiamo a un bello scontro di giganti: Isis che rivendica l'attentato per rincuorarsi dalle sconfitte; Hamas che come un bambino cui abbiano sottratto il giocattolo preferito urla: «Macché Isis, sono stato io». E la palma va al grande punto di riferimento di tutti i pacifisti, Abu Mazen, che condanna Israele e si intenerisce per i suoi che sparavano col mitra all'impazzata e pugnalavano a morte, tre terroristi che sono stati fermati perché smettessero di uccidere, e annuncia che denuncerà lo Stato ebraico per crimini di guerra. Nessun comunicato del genere è stato mai scritto contro le forze di polizia inglesi o tedesche o francesi per aver ucciso terroristi.
   L'attentato, venerdì nella Città Vecchia, dove i terroristi hanno sparato col mitra ferendo 4 persone e poi hanno ucciso a pugnalate l'agente della polizia di frontiera, Hadas Malka, che alla porta di Damasco si è eroicamente gettata nella lotta fra la gente. I tre terroristi sono Adel Ankush, 18 anni, Bra'a Salah e Asama Ahmed Atta, 19. Nati nel villaggio di Deir Abu Mashal, vicino a Ramallah, erano stati già arrestati perché «coinvolti in attività terroriste» ha fatto sapere lo Shin beth. Le loro case sono state circondate, frugate, i familiari interrogati. Dal settembre 2015 il terrore ha fatto 43 morti israeliani, due americani, un inglese.
   Che dire della rivendicazione dell'Isis? Hamas insiste nel dire che è una balla, che l'onore è tutto suo; secondo il partito islamista per eccellenza invece «grazie a dio abbiamo completato un attacco nel cuore di Gerusalemme». I «leoni», dice l'Isis, sono riusciti a «vendicarsi» degli ebrei, e «con l'aiuto di dio non sarà l'ultimo attacco». È una rivendicazione non priva di sfondo strategico: l'Isis oltre a sparare dentro i confini di Israele dalla Siria, nel 2016 è riuscita a organizzare due attacchi. Uno a Tel Aviv che ha ucciso tre persone e uno a Gerusalemme con un camion che ha travolto un gruppo di soldati in gita, schiacciandone a morte quattro.
   Ma Hamas è più credibile e più forte, gode nell'Autorità Palestinese di un vasto consenso che Abu Mazen teme. Ha specificato che due degli attaccanti erano del Flp e uno di Hamas. Qualsiasi cosa fossero, sono riusciti a entrare nel cuore di Gerusalemme approfittando dei permessi speciali che, per la libertà religiosa, sono stati concessi ai palestinesi dal governo israeliano per il Ramadan. Ora i permessi sono stati revocati.
   Le rivendicazioni parallele indicano difficoltà politiche, legate alla guerra per l'Isis, alla crisi del Qatar per Hamas che si ritrova a corto di sostegno. Ma la barca è la stessa: quella dell'integralismo islamico. L'occupazione c'entra poco: è una guerra contro l'infedele, ebreo o cristiano, che in tutto il mondo utilizza gli stessi mezzi. Abu Mazen non è mai rimasto indietro, sulle tracce di Arafat che pretendendo di essere partner di pace di fatto ha promosso le più grandi ondate del terrorismo. Abu Mazen da parte sua ha versato negli ultimi 4 anni 12 miliardi di dollari in stipendi per i prigionieri e le famiglie dei «martiri», ed è stata smentita la voce che stia considerando la richiesta di Trump di cessare da questo uso di fondi internazionali che dovrebbero servire a promuovere l'economia. Sarà meglio fare i conti con questa realtà: il terrorismo si può solo combattere, non esiste trattativa accettabile per chi uccide in nome di Dio.

(il Giornale, 18 giugno 2017)


Gaza contesa fra Hamas e il Califfato

di Fabio Scuto

Non era mai accaduto che due gruppi armati - peraltro ferocemente rivali fra loro - rivendicassero lo stesso attentato. L'Isis annuncia il suo primo attacco a Gerusalemme ma Hamas smentisce dichiarando che a uccidere la giovane agente israeliana di 23 anni alla Porta di Damasco venerdì sera, sono stati dei militanti per la causa palestinese, come risposta «ai crimini dell'occupante».
   Hamas non vuole perdere la sua posizione di «front runner» contro Israele, specie adesso, perché è alle porte un'altra crisi nella Striscia di Gaza che potrebbe avere effetti devastanti. Tre guerre terribili hanno segnato i 10 anni di dominio islamista sui due milioni di gazawi, sancendo la loro rovina: economica, sociale, culturale. La Striscia vive nell'incubo della catastrofe umanitaria. Ad ogni guerra, l'unica centrale elettrica della Striscia è stata sempre semidistrutta dagli israeliani. Oggi gli abitanti di Gaza hanno energia per 3 ore al giorno a rotazione fra i vari centri abitati, ma stavolta i caccia con la Stella di David non c'entrano nulla: la centrale è spenta per mancanza di gasolio. Hamas vuole che sia Ramallah a pagare il carburante e invece l'Anp ha deciso di smettere di saldare quei conti. Oggi l'unica elettricità che arriva è quella fornita dal «nemico», da Israele (per un terzo del fabbisogno) ma ancora per poco. Il presidente Abu Mazen ha annunciato al governo israeliano che non pagherà più la bolletta per queste forniture: se la Striscia è nelle mani di Hamas, il conto lo deve pagare Hamas. Israele non ha molte opzioni: non può pagare il conto di Gaza con risorse proprie, ma se taglia le forniture si espone alla rappresaglia islamista.
   Sperare che Hamas riconsideri le sue politiche - investire nelle infrastrutture civili, invece che nella sua struttura militare - è impensabile. Hamas è un'organizzazione cinica che sfrutta il disagio dei residenti di Gaza per un guadagno politico, sia a livello locale che internazionale. A volte contro Israele, a volte contro l'Anp.
   Hamas potrebbe, se lo volesse, pagare abbastanza elettricità per migliorare in modo significativo la vita della popolazione civile. Ma preferisce spendere decine di milioni di shekel al mese per scavare gallerie d'attacco in Israele e nella fabbricazione di razzi. Secondo stime dell'Anp e di Israele, incassa circa 100 milioni di shekel (30 milioni di dollari) ogni mese in tasse dai residenti di Gaza. Una parte copre il salario dei suoi uomini, una gran parte viene deviata per scopi militari. Hamas dal 2014 sta spendendo circa 130 milioni di dollari l'anno per la sua ala militare. La guerra sta bussando di nuovo alle porte di Gaza.

(La Stampa, 18 giugno 2017)


Napoli e Tel Aviv: le brain cities del Mediterraneo

Napoli e Tel Aviv: due brain cities a confronto nelle parole dell'ambasciatore italiano Francesco Maria Talò. Con un occhio ai progetti della Federico II.

di Michele Mezza

 
Tel Aviv
 
Napoli
Il 21o piano di una delle ultime torri del lungo mare di Tel Aviv, nella direzione del vecchio porto ottomano di Jaffa, è uno straordinario punto di osservazione per Francesco Maria Talò, nato a Napoli e da 5 anni ambasciatore italiano in Israele. Lo ritrovo dopo qualche anno. Ci eravamo lasciati a New York, nel 2010, dove Talò era console generale italiano e io, come vice direttore di Rai International, realizzavo, proprio nel suo consolato, alcuni programmi per la comunità italiana.
Oggi, divenuto ambasciatore, mi racconta la sua esperienza in un paese di trincea, come è Israele, ma anche di straordinaria e contagioso voglia di vivere, di cui Tel Aviv è il monumento.
"Guardando questo lungo mare - mi dice affacciato a quella portaerei che è il balcone del suo ufficio - si ha proprio la percezione del miracolo di questa città: a qualche decina di chilometri dalla prima linea eppure con una frenesia ormai inesauribile di vivere e soprattutto di intraprendere". In effetti in città non si incontra mai la tensione e, ancora meno, la paura. Impressionante è il muro di gioventù su cui si infrange ogni sguardo: ovunque ci si dirige si vedono giovani che febbrilmente, di giorno e di notte, si spostano. Giovani di tutti i tipi, di ogni origine e lingua. Giovani e cosmopoliti: è la formula che rende Tel Aviv una start up city.

 La comunità italiana
  L'ambasciatore mi conferma che qui la comunità italiana è uno dei cardini di questa ebrezza. Sia per la vitalità dei residenti che per una continua presenza di aziende e istituzioni del nostro paese. " La fila delle aziende è ormai permanente davanti al mio ufficio: tutti vogliono fare accordi con i centri di ricerca e le imprese israeliane". Una constatazione ammantata da una nota più mesta, che rabbuia il viso cordiale e sorridente del diplomatico di origine napoletana. "Se devo trovare una criticità, dico pure un elemento di fallimento della mia missione penso al fatto che ancora debole il flusso inverso, ossia la spinta, la curiosità, l'interesse, israeliano per il nostro paese".
Questo è il buco nero: non siamo attraenti dal punto di vista economico e culturale per gli israeliani, che pure turisticamente ci apprezzano molto, come è noto. "Certo - aggiunge l'ambasciatore Talò- la moda, il design, l'enogastronomia sono ancora grandi bandiere per noi, ma manca una ragione per avviare intese vere". Diciamola fuori dai denti, in un linguaggio meno diplomatico, che l'ambasciatore non può concedersi: siamo ancora inchiodati in un vecchio cliché del paese della bellezza che poco aiuta chi invece è impegnato in una furibonda competizione globale. Insieme alla professoressa Lowenthal, addetta culturale dell'ambasciata, Talò mi mostra la lista delle intese scientifiche e culturali con le nostre università: informatica, chimica, fisica, matematica. Temi certo portanti che però, inevitabilmente ci vedono subalterni ad un sistema accademico modellato sull'esempio americano e fortemente finanziato dalle comunità ebraiche internazionali. Niente sul versante umanistico, e soprattutto niente neanche sulle nuove tendenze psico antropologiche su cui oggi la rete si sta orientando.
Eppure il nostro paese potrebbe offrire sponda e partner per le nuove riflessioni sulle forme semantiche dell'intelligenza artificiale e sull'approccio critico alle ingegnerizzazione degli algoritmi predittivi.

 I progetti della Federico II
  Ma, passando in rassegna i progetti dell'Università Federico II, cito il master interdisciplinare Codice (comunicazione di convergenza) in cui il dipartimento di scienze sociali, diretto dalla professoressa Enrica Amaturo, sta lavorando per intrecciare, per la prima volta nella tradizione accademica non solo italiana, filosofia, matematica,informatica e sociologia. L'obbiettivo è quello di formare una figura professionale del committente dei sistemi informatici, ossia di colui che in un'azienda privata o in una pubblica amministrazione, prefigura e organizza l'acquisizione di intelligenze digitali, individuandone le caratteristiche semantiche e fissando le condizioni di autonomia e sovranità che l'azienda o la amministrazione deve conservare rispetto al fornitore.
"Ecco cosa ci serve" esclama l'ambasciatore Talò, che aggiunge "Dobbiamo mettere sul tavolo un know how più complesso, che possa arricchire l'evoluzione tecnologica".

 Napoli e Tel Aviv: il Mediterraneo che autoproduce il proprio immaginario
  Il tema è il design del sapere e dei sistemi digitali. Su cui si potrebbe lavorare. Ma c'è un altro spunto che incuriosisce molto i vertici dell'ambasciata italiana: Napoli come brain city. Infatti si tratta di lavorare su un progetto di incontro fra le uniche due città del Mediterraneo, Napoli e Tel Aviv, che autoproducono il proprio immaginario. Tel Aviv in termini di brocheraggio globale, raccogliendo e impaginando i temi culturali e immateriali del mondo; Napoli invece come città incubatrice che crea autonomamente il know how del proprio immaginario. Sono queste le suggestioni che potrebbero dare impulso ad una filiera di relazioni e di integrazioni, in cui proprio lo specialismo napoletano, il suo essere fucina esclusiva dei temi che distribuisce a turisti e al mondo artistico, diventerebbe il valore aggiunto della nuova economia immateriale. Su questo l'impegno che abbiamo preso con l'ambasciatore è quello di verificare interessi e disponibilità per sperimentare questa formula.

(News and Coffee, 18 giugno 2017)


Israele: non c'è alternativa alla occupazione dei territori contesi

Occupazione dei territori contesi o liberazione? Nei giorni scorsi si è celebrato in Israele il 50esimo anniversario della guerra dei sei giorni, il conflitto cioè che ha cambiato il volto del Medio Oriente e che ha allontanato probabilmente per sempre il rischio della distruzione dello Stato Ebraico pianificato dagli arabi. Per alcuni è stato l'inizio della occupazione israeliana dei territori contesi, per molti altri (compresi moltissimi arabi) è stato l'inizio della liberazione.
Al di la del fatto che la si chiami occupazione o liberazione, la presenza israeliana nei territori contesi non è mai stata così necessaria come lo è ora. Questo per alcuni semplici ma fondamentali motivi, primo tra tutti la sicurezza dei cittadini (non solo israeliani) in un momento in cui in un Medio Oriente in fiamme l'unico angolo di pace e democrazia è rappresentato da Israele. Solo Israele è in grado di garantire la sicurezza di quei territori ed evitare che cadano in mano a formazioni jihadiste. Non ci sono alternative valide alla presenza dell'esercito israeliano, a meno di non pensare che Hamas, Hezbollah o ISIS siano alternative valide alla presenza militare israeliana nei territori contesi....

(Right Reporters, 18 giugno 2017)


Assad ora va alla ricerca di una sponda a Gerusalemme

Il presidente siriano, sfruttando la mediazione russa, si rivolge agli israeliani cercando un'intesa per la regione del Golan. La richiesta a Netanyahu è quella di astenersi dall'intervenire nei combattimenti che si svolgono al confine sud.

di Piero Orteca

Le novità e i colpi di scena diplomatici in Medio Oriente si susseguono quasi ogni giorno che passa. L'ultima "chicca" riguarda solo un insolito ramoscello d'ulivo che il padrepadrone siriano, Bashar al Assad, ha fatto recapitare inaspettatamente al governo israeliano.
   Sfruttando i canali di rappresentanza del Cremlino, il presidente alawita si è rivolto direttamente al primo ministro di Gerusalemme, Netanyahu, chiedendogli che l'esercito israeliano rimanga neutrale e non intervenga con azioni mirate nelle regioni del sud e del sud-est della Siria. Si tratta di aree ad alto interesse strategico per Gerusalemme, dato che i combattimenti che infuriano in quelle contrade riguardano da vicino le alture del Golan. Assad nel suo messaggio ha aggiunto di essere consapevole della giustificata apprensione manifestata dal governo israeliano per gli scontri che si stanno verificando a sud di Damasco. Contemporaneamente però, garantisce che nessun secondo fine bellico o strategico alimenta le azioni delle forze governative siriane.
   Gli analisti israeliani, però, fanno notare che Assad ha omesso accuratamente di fare riferimento al ruolo delle milizie sciite in tutta l'area considerata, particolarmente dalle agguerrite formazioni di Hezbollah. In cambio dell'impegno israeliano a tenersi fuori dal conflitto, il Presidente siriano si è impegnato personalmente a garantire la tranquillità dei confini del Golan, così come verificatosi negli ultimi quarant'anni a partire dal 1974. Naturalmente, le garanzie di Assad si fermano qui e non coinvolgono le formazioni pro iraniane che si muovono come cani sciolti in tutta la regione. E non è un caso che il messaggio del Presidente siriano sia giunto in Israele mentre le milizie di Hezbollah andavano all'assalto della città di Daraa a qualche chilometro dal confine giordano. Una battaglia coordinata da alti ufficiali iraniani che hanno offerto il loro contributo strategico a un'offensiva che dovrebbe svilupparsi in due tempi. La vera preoccupazione, di Assad, però, si chiama Quneitra, località a soli 9 chilometri dal Golan israeliano. Più in particolare, gli esperti ritengono che la mossa di Damasco, concordata con i russi, riguardi un più vasto piano strategico teso a ottenere una sorta di neutralità armata da parte delle altre piccole e medie potenze che operano nella regione.
   Anche l'inviato speciale del Cremlino in Giordania, Aleksander Lavrentiev, ha presentato una nota simile al re di Giordania Abdullah, chiedendogli di evitare qualsiasi interferenza. La prima impressione degli analisti e che gli israeliani non siano rimasti particolarmente impressionati dall'impegno di Assad e che anzi sentono puzza di bruciato. In effetti, in quest'ultima settimana, gli attacchi portati dalle milizie sciite di Hezbollah e da quelle pro iraniane si sono intensificati, sollevando più di una perplessità a Tel Aviv. In particolare, appare sempre più chiaro il disegno delle unità sciite di arrivare al controllo di una parte consistente del confine siro iracheno.
   L'agenzia di stampa delle guardie rivoluzionarie iraniane ha pubblicato una serie di foto che ritraggono il capo delle brigate mentre celebra la vittoria nel sud della Siria grazie al sostegno di formazioni sciite afghane. Alcuni hanno anche scritto che la situazione sta precipitando pericolosamente e che non si può escludere, per il futuro, una vera e propria contrapposizione frontale con le forze alleate e quelle americane in particolare.
   Queste osservazioni fanno il paio con quelle dei reporter che arrivano dalla regione e che descrivono l'umore non proprio soddisfatto dei combattenti di Teheran. Gli ayatollah vorrebbero controllare molti più passaggi strategici. In realtà, dopo i successi conseguiti dalla brigata di Hezbollah e dalla quarta divisione corazzata siriana, la presenza iraniana nell'area si è fatta sempre più invadente e quasi ogni giorno avvengono incidenti e piccole scaramucce con i posti di guardia giordani. Si tratta, a questo punto, di stabilire quale margini di credibilità abbia ancora il presidente siriano Assad. Secondo il governo israeliano molto pochi.

(Gazzetta del Sud, 18 giugno 2017)


Hadas Malka, poliziotta di 23 anni, uccisa a Gerusalemme dall'odio palestinese

di Riccardo Ghezzi

 
Hadas Malka, poliziotta di 23 anni, è morta in seguito alle gravi ferite riportate. Era stata aggredita presso la porta di Damasco di Gerusalemme da un terrorista armato di coltello. La giovane era entrata a far parte della polizia di frontiera circa un anno fa ed era sergente. Lascia i genitori e cinque fratelli.
Pugnalata dall'aggressore sulla strada di Sultan Suleiman, vicino alla Porta di Damasco, la poliziotta è stata immediatamente trasportata all'Hadassah Hospital di Gerusalemme, dove ha subito un'operazione chirurgica d'emergenza, purtroppo inutile.
Il terrorista che l'ha aggredita è stato immediatamente abbattuto.
In una vicina località, presso la Caverna di Zedekiah, quasi contemporaneamente altri due terroristi, uno armato di coltello e l'altro di pistola, hanno preso d'assalto un check point della polizia di frontiera israeliana. I poliziotti hanno immediatamente aperto il fuoco, uccidendo gli aggressori ed evitando conseguenze peggiori.
Il duplice attentato ha caratterizzato la fine del terzo venerdì di Ramadan, durante il quale decine di migliaia di arabi palestinesi provenienti da Gerusalemme est e dai territori amministrati dall'Autorità Nazionale Palestinese hanno partecipato alle preghiere presso la vicina moschea di Al-Aqsa.
I media palestinesi hanno identificato i tre terroristi come Adel Ankush, 18 anni, dal villaggio di Deir Abu-Mash'al vicino a Ramallah, Bra'a Salah, 18 anni, dello stesso villaggio, e Amar Bedui, 31 anni, di Hebron.
Almeno altri quattro poliziotti sono rimasti feriti nel duplice attacco, per fortuna tutti lievemente.
Secondo il capo della polizia di Gerusalemme, Yoram Halevy, i terroristi potrebbero essere giunti dalla Giudea e Samaria proprio in occasione delle preghiere Ramadan.
"Durante il Ramadan c'è un gran numero di giovani (palestinesi) che entrano senza permesso, usufruiscono del Ramadan per entrare a Gerusalemme", aggiungendo che "queste sono le conseguenze".
Hamas ha dichiarato che "gli attacchi a Gerusalemme sono una nuova prova che il popolo palestinese continua la sua rivoluzione contro gli occupanti e che l'intifada continuerà fino alla completa libertà".

(L'informale, 17 giugno 2017)


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Poliziotta di 22 anni accoltellata a morte: uccisi i tre aggressori

L'Isis rivendica l'attacco, ma Hamas: «Siamo stati noi»

Nuovo attacco terroristico a Gerusalemme: una poliziotta israeliana di 22 anni è stata uccisa in un attentato «coordinato» compiuto in due distinti luoghi di Gerusalemme da parte di tre palestinesi della Cisgiordania, a loro volta uccisi dalle forze di sicurezza. Il duplice attacco è avvenuto in via Suleiman e nei pressi della Porta di Damasco della Città Vecchia. La giovane agente, Hadas Malka, è stata subito ricoverata nell'Ospedale Hadassah sul Monte Scopus in condizioni gravi e poche ore dopo è morta a causa delle coltellate ricevute. Un altro agente è stato ricoverato con ferite più lievi.
E per la prima volta «l'Isis ha rivendicato il suo primo attacco coordinato a Gerusalemme, identificando gli assalitori. La rivendicazione è stata postata subito dopo l'attacco». Lo scrive Rita Katz su Twitter, direttrice del Site, il sito che monitora le attività dei jihadisti sul web. «Nella sua prima operazione in Israele lo Stato islamico ha rivendicato l'uccisione di una soldatessa e il ferimento di altri a Gerusalemme», scrive il Site. I jihadisti aggiungono che l'attacco «non sarà l'ultimo».
Una rivendicazione subito smentita: è Hamas che rivendica l'attentato: «Le affermazioni dell'Isis - ha detto Izzat El-Reshiq, citato dai media - sono un tentativo di confondere le acque. L'attacco è stato condotto da due palestinesi del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina e un membro della nostra organizzazione». Anche il Fronte ha confermato.
La polizia israeliana ha parlato anche, ma senza specificarne il numero, di passanti rimasti feriti «a causa dell'attacco» stesso: secondo alcune fonti sarebbero due palestinesi, altri parlano di cinque. Ma su questo non c'è ancora conferma. I fatti sono avvenuti - hanno fatto notare in molti - nella sera del terzo venerdì di Ramadan e all'inizio dello shabbat, il riposo ebraico.
Secondo una prima ricostruzione fornita dalla polizia israeliana, nel primo assalto, quello alla Porta di Damasco, un palestinese ha accoltellato la poliziotta e poi è stato ucciso da altri agenti israeliani. Nel secondo attacco, quello di Via Suleiman, i due aggressori hanno usato oltre ai coltelli un fucile rudimentale di tipo Carl Gustav che però si sarebbe inceppato impendendo un bilancio più grave. Entrambi i palestinesi sono stati uccisi dal gruppo di agenti israeliani che avevano subito l'assalto. Il comandante della polizia di Gerusalemme Yoram Ha-Levy, citato dai media, dopo aver osservato che l'attentato «è avvenuto nel terzo venerdì del Ramadan», ha aggiunto che adesso dovrà essere «riesaminata la politica relativa alle preghiere del Ramadan (nella Spianata delle Moschee, ndr) e se sia opportuno o meno che arrivino tante persone (dalla Cisgiordania, ndr).
È possibile che ci siano serie conseguenze sul Ramadan che - ha aggiunto - finisce solo tra 10 giorni. Fra gli attentatori c'era chi aveva permessi in regola e chi no». I tre palestinesi, secondo le informazioni date dalla polizia, avevano 18, 19 e 30 anni: i primi due sono originari della zona di Ramallah e il terzo di Hebron, tutti in Cisgiordania. Negli ultimi 18 mesi la Città Vecchia, e in particolare la Porta di Damasco, è stata teatro di numerosi attacchi da parte palestinese e in un caso da parte di un cittadino di nazionalità giordana.

(Il Gazzettino, 17 giugno 2017)


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Come si fanno concorrenza Isis e Hamas in Israele

di Marco Orioles

Ieri sera, intorno al tramonto, tre palestinesi provenienti dalla West Bank hanno condotto un attacco terroristico a Gerusalemme armati di coltelli e di un fucile Carl Gustav, uccidendo una poliziotta e ferendo altre quattro persone. L'attentato è avvenuto sulla Sultan Suleiman Street, vicino alla Porta di Damasco, una delle vie di accesso alla città vecchia. Quanto alla dinamica dell'agguato, sembra che due dei tre assalitori abbiano aperto il fuoco su un gruppo di agenti cercando nel contempo di usare contro di loro i coltelli; gli aggrediti sono stati immediatamente raggiunti dal sergente maggiore Hadas Malka, 23 anni, su cui si è accanito con il coltello il terzo terrorista ferendola a morte. Due dei tre aggressori sono stati uccisi sul posto, mentre il terzo risulta ferito.Il bilancio dell'agguato sarebbe stato assai più grave se il fucile non si fosse inceppato.
   La notizia rasenterebbe l'ordinario se non fosse per un particolare: immediatamente dopo l'attacco, è arrivata la rivendicazione dello Stato islamico che, attraverso il famigerato canale Amaq ha dichiarato: "Coloro che hanno eseguito l'accoltellamento a Gerusalemme erano soldati dello Stato islamico". In un secondo comunicato, in cui i terroristi vengono definiti "leoni", sono identificati come Abul-Bara al-Maqdisi, Abul-Hassan al-Maqdisi e Abu Riyah al-Maqdisi, Il comunicato aggiunge minacciosamente: "Col permesso di Allah, questo attacco non sarà l'ultimo, gli ebrei si attendano la demolizione della loro entità attraverso le mani dei soldati del califfato".
   Ma poco dopo la diffusione del comunicato dello Stato islamico è giunta la secca smentita di Hamas, che su Twitter definisce una bugia quella del gruppo jihadista precisando che i tre "martiri non hanno nulla a che fare" con l'IS e che si trattava semmai di due membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e di un militante di Hamas. Successivamente, in una dichiarazione diffusa sul suo sito in arabo, il portavoce di Hamas Sami Abou Zouhri ha accusato l'IS di voler confondere i media, mentre su Twitter un altro membro del gruppo aggiungeva che l'attacco è "una nuova prova che il popolo palestinese continua la sua rivoluzione contro l'occupante", e che i palestinesi stanno solo "esercitando il loro diritto a resistere".
   Sebbene dal 2015 si siano contati a decine attacchi di questo genere, condotti per lo più con armi da taglio o veicoli - da allora sono stati uccisi circa 42 ebrei, due turisti americani e uno studente britannico, contro 250 palestinesi classificati da Israele come aggressori - era da un po' di tempo che la situazione sembrava essersi calmata. Evidentemente, i terroristi di ieri hanno approfittato della calca del terzo venerdì di Ramadan, con migliaia di palestinesi che erano accorsi per celebrare la ricorrenza andando a pregare nella moschea di al-Aqsa, per riaprire le ostilità o quanto meno per rompere la relativa calma.
   Senza ricorrere necessariamente alla fantapolitica, si può anche ritenere che l'attacco di ieri, sempre che sia stato condotto effettivamente da Hamas e dal FPLP, rappresenti una risposta alle manovre diplomatiche in corso in queste settimane, con gli americani che stanno premendo affinché il processo di pace riparta e sono pronti a mediare insieme agli altri paesi arabi per trovare una soluzione all'enigma più ostico del Medio Oriente.

(formiche.net, 17 giugno 2017)


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Finora nessun legame tra attentatori palestinesi e organizzazioni terroristiche

GERUSALEMME, 17 giu 11:35 - Non risulta al momento alcuna connessione fra i palestinesi responsabili degli attacchi a Gerusalemme avvenuti ieri e qualsiasi organizzazione terroristica. Lo ha reso noto oggi la polizia israeliana dopo che lo Stato islamico (Is) ha rivendicato attraverso la sua agenzia di stampa "Amaq" la responsabilità del primo attacco contro Israele, un duplice attentato simultaneo avvenuto ieri sera, 16 giugno, a Gerusalemme, vicino alla porta di Damasco, che ha causato la morte di un'agente di frontiera, Hadas Malka, 23 anni, deceduta in ospedale per le ferite riportate. "E' stata una cellula locale. In questa fase non vi è alcuna indicazione che (la cellula) sia stata diretta da un'organizzazione terroristica e non è stato trovato alcun legame con nessuna organizzazione", ha dichiarato la portavoce della polizia Luba Simri, citata dal quotidiano "Jerusalem Post". E' la prima volta che il sedicente "califfato" si assume la presunta responsabilità di un attentato sul suolo di Israele. "L'attacco è stato condotto da tre leoni (...) e non sarà l'ultimo", si legge nel dispaccio di pubblicato dal sito web specializzato nel monitoraggio del terrorismo.

(Agenzia Nova, 17 giugno 2017)


È morto Helmut Kohl, l'ex Cancelliere di Germania. Netanyahu: "Tra i migliori amici di Israele"

La scomparsa a 87 anni dell'ex leader Cdu.

A rimpiangere Helmut Kohl, cancelliere tedesco scomparso ieri all'età di 87 anni, è anche Benyamin Netanyahu. Un cordoglio dal doppio valore visti i trascorsi dolorosi tra la popolazione tedesca e quella israeliana che Netanyahu rappresenta in qualità di primo ministro. Netanyahu ha parlato di Helmut Kohl come uno "tra i più grandi amici dello stato di Israele, é stato sempre votato alla sua sicurezza". Esprimendo "profonda tristezza" per la sua scomparsa, Netanyahu ha ricordato come "Kohl è stato il leader che ha unificato la Germania con mano determinata. La sua ammirazione per Israele e il Sionismo si è manifestata nei molti incontri che ho avuto con lui e nel suo risoluto essere a fianco dello stato ebraico sia in Europa sia nelle organizzazioni internazionali". Netanyahu ha concluso inviando "le mie condoglianze alla famiglia Kohl e al popolo tedesco".

(ilsussidiario.net, 17 giugno 2017)


Yasser Arafat: una vita per il terrore

di Niram Ferretti

 
Nel 1994 il Comitato norvegese per il Nobel, assegnò il prestigioso premio per la Pace a Shimon Peres, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat per "i loro sforzi intesi a creare la pace nel Medio Oriente". Il gusto aristofanesco di questa assegnazione (in linea con numerose altre) è particolarmente evidente, ma non ai più.
Rahman Abdul Rauf Arafat iniziò precocemente la sua attività gandhiana lanciando pietre all'età di sette anni durante la rivolta del 1936 in Palestina provocata dal Mufti filo nazista di Gerusalemme, Amin al Husseini. Dal 1942 in poi avrebbe passato la sua gioventù cairota frequentando nella capitale egiziana circoli filo nazisti. Lì avrebbe conosciuto Abdel Kaderel-Husseini, parente del Mufti e capo di bande armate antisioniste, in quel momento in Egitto alla ricerca di volontari.
   Tempi pionieristici, quando i giovani palestinesi imparavano a confezionare le bombe nella cucina di Abdel. "Era il mio capo", dirà di lui Arafat, ricordando con nostalgia gli esordi che lo avrebbero portato al Nobel. "Avevo diciassette anni ed ero uno degli ufficiali più giovani", dimenticando di sottolineare che alla sua istruzione militare provvedeva anche un ufficiale nazista il quale accompagnava all'epoca il Mufti in Egitto.
   Per due anni Arafat organizzerà i rifornimenti armati a vantaggio delle organizzazioni segrete di Amin al-Husseini contro Israele. Dopo essere entrato nella fraternità dei Fratelli Musulmani, incoraggiato dall'onnipresente Mufti, diventerà presidente dell'Associazione degli Studenti Palestinesi. Con il suo "nom de guerre", Abu Jihad, fonderà poi Fatah. Fu lo stesso HajjAminel-Husseini, a conferire ad Arafat lo statuto di leader della nazione Palestinese dopo di lui. Deve essere stato un momento commovente quando l'ex Mufti di Gerusalemme - il quale entrò in attrito con Heinrich Himmler nel 1943 a causa di un disaccordo relativo alla sorte di 5,000 bambini ebrei, che Himmler, per motivi di scambio con 20,000 prigionieri tedeschi, voleva fare emigrare consentendo la loro sopravvivenza, mentre il Mufti desiderava non sopravvivessero, ottenendo infatti la soddisfazione di vederli spediti nelle camere a gas-passò la consegna ad Arafat.
   Nel 1967,alla fine della Guerra dei Sei giorni, Arafat diventerà presidente dell'OLP, l'organizzazione per la liberazione della Palestina fondata nel 1964. Fatah, all'epoca la forza dominante all'interno dell'organizzazione, ne avrebbe estremizzato l'impianto. Il bambino che lanciava pietre durante la rivolta del '36 sarebbe presto diventato, in virtù di una straordinaria opera di marketing arabo-sovietico, uno dei simboli della lotta "antimperialista" di cui, Israele avrebbe cominciato a rappresentare insieme agli Stati Uniti, l'esempio più dirompente.
   Nel 1974, davanti all'Assemblea delle Nazioni Unite, il "leader maximo" in uniforme di ordinanza verde oliva (una mascheratura cheguevarista estremamente seducente per la platea della sinistra terzomondista) si sarebbe presentato come alfiere della pace e resistente vessato dall'"entità sionista". Dopo avere criminalizzato Israele in un memorabile discorso tenendo in bella vista la fondina vuota della pistola (si era presentato armato all'ONU, ma Kurt Waldheim gli prese amorevolmente in custodia l'arma) avrebbe porto ai presenti un ramo di ulivo che non era mai esistito. Già ne 1980 avrebbe dichiarato al giornale venezuelano El Mundo, "Per noi la pace significa la distruzione di Israele". Nel 1993, a un anno dall'assegnazione del Nobel e dopo gli Accordi di Oslo, avrebbe aggiunto, "Noi rispettiamo gli accordi allo stesso modo in cui il Profeta Maometto e Saladino rispettavano gli accordi che firmavano".
   La Seconda Intifada (2000-2005) organizzata da Arafat e che costò a Israele 1022 morti fu il suggello della carriera del lord of terror egiziano, premiato a Oslo nel 1994 per la sua operosa sollecitudine nell'affrettare lo Shalom.

(La Voce, 17 giugno 2017)


Dal mensile evangelico "Il Cristiano" (1888-2017)

Riprendiamo la pubblicazione di brevi notizie e commenti tratti dal mensile evangelico "Il Cristiano".

FEBBRAIO 1891
PALESTINA - Gerusalemme. Ci giungono circolari dalle quali apprendiamo adempiersi in questi ultimi tempi le profezie a riguardo d'Israele:
  1. La fertilità del suolo nei dintorni di Gerusalemme (Ger. XXXI, 5; Ezech. XXXVI, 8).
  2. Il rapido ritorno dei Giudei in Palestina, circa 200 la settimana, specialmente dal Nord (Russia); vedi Ger. XXXI, 8. Vi sono attualmente in Gerusalemme 40.000 Giudei.
  3. Sotto gli auspici della Russia è stata costruita in Gerusalemme, sulla cima del monte degli Ulivi, una grande torre dall'Archimandrita della chiesa greca. Questa grande torre è 45 metri alta, ed ha una campana del peso di 20 tonnellate, fusa in Russia. Sopra questa enorme campana ve ne sono altre sette più piccole, aventi insieme una camera elettrica con fili in comunicazione con tutti i monasteri e conventi in terra santa. Molti fedeli studenti delle profezie credono che questa grande torre sia stata costruita appunto per l'Anticristo.
  4. Le pietre per la costruzione del Tempio sono in via per Gerusalemme.
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LUGLIO 1891
NOTE E COMMENTI
Vi è un problema nazionale il quale neanche i primi diplomatici del giorno possono risolvere, e cioè, perchè un popolo come ISRAELE, sparso fra tutte le nazioni, il quale non conta che sette milioni, possa tenere i popoli più potenti in continuo pensiero a suo riguardo. Ed in questi ultimi giorni le anime più elevate del mondo domandano: Qual'è il segreto dell'influenza che esercita così potentemente questo popolo misterioso? Quale la ragione della sua meravigliosa preservazione nazionale? Qual'è il fine dei suoi attuali e stupendi movimenti? Quale sarà il suo avvenire?»
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Le Sante Scritture ci rispondono: «Il rimanente di Giacobbe sarà eziandio fra le genti, in mezzo di MOLTI POPOLI come un LEONE fra il bestiame delle selve; come un leoncello fra le mandre delle pecore (Michea, V, 8).
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Ogni studente delle Sante Profezie tiene i suoi occhi rivolti in questi giorni verso la TERRA SANTA. Là delle intiere città vengono comperate da Giudei ; e vi sono dei ben noti capitalisti ebrei i quali non risparmiano nè mezzi nè fatiche onde affrettare la colonizzazione della terra promessa ai loro padri. Egli è chiaro nelle Scritture Profetiche, come è purtroppo evidente nell'opera evangelica fra gli Ebrei, che la conversione d'Israele come popolo, seguirà il suo ritorno al suo paese. Difatti, l'incredulità e l'indifferenza religiosa così generalmente trovate fra i Giudei nell'Europa, sono sconosciute fra di loro nella Palestina.
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La speranza d'Israele non si trova nell'appoggio dei governi, nè nei milioni dei suoi figliuoli ricchi, ma nella vera accettazione del suo Cristo e nostro Signore. Il vero benessere d'Israele dipende dalla sua conversione, e questa è promessa dall'Iddio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe.
«Pur nondimeno il numero dei figliuoli d'Israele sarà come la rena del mare, che non si può nè misurare nè annoverare; e avverrà che in luogo che sarà loro stato detto: Voi non siete mio popolo; si dirà loro: Figliuoli dell' Iddio vivente» (Osea, I, 10).
«E susciterò sopra loro un Pastore, che le pasturerà, cioè David, mio servitore; egli le pasturerà, e sarà loro pastore» (Ezech., XXXIV, 23).



(Notizie su Israele, 17 giugno 2017)



Goldvicht fra i cimiteri ebraici, la speranza oltre la morte

"The house of life" dell'artista israeliana è il frutto di un incontro e di un viaggio con Aldo lzzo, il custode della "Casa della vita", nel suo lavoro e nei suoi diari.

di Alessandro Beltrami

 
Aldo. "The house of life" di Hadassa Goldvicht
VENEZIA - Nel 2013 Beit Venezia, ossia il Centro veneziano di studi ebraici internazionali, ha invitato come artista in residenza l'israeliana Hadassa Goldvicht a lavorare in laguna in vista dei 500 anni del Ghetto. Goldvicht, che opera con video e foto, si è inserita nella vita della comunità intervistandone i membri, raccogliendone le storie e le trasformazioni, entrando in profondità in una presenza antica che va inesorabilmente riducendosi. Fino a quando non ha incontrato Aldo Izzo, 86 anni, un tempo comandante di navi mercantili e da 35 anni custode dei due cimiteri ebraici di Venezia. Un incontro folgorante, e la storia di Aldo e del cimitero nuovo si è allargata a diventare l'asse portante di "The house of life" (Beit Hayym, "casa della vita", è il termine ebraico per cimitero) che costituisce la proposta più interessante - insieme alla mostra delicata e mimetica di Elisabetta Di Maggio, disseminata nelle sale della pinacoteca - tra quelle allestite dalla Fondazione Querini Stampalia in occasione della Biennale di Venezia.
   Izzo si è assunto il compito di prendersi cura dei cimiteri (quello antico risale al 1386, il nuovo, ancora in uso, al 1774) al Lido. Li ha restaurati, segue le cerimonie funebri. Il racconto di Aldo avviene in una laguna nebbiosa, in un silenzio che il chiasso turistico sembrava aver rimosso definitivamente. Il dissolvimento di una comunità storica diventa specchio di quello di una città intera: i giovani ebrei se ne vanno da Venezia non diversamente dai "gentili", scacciati dalla scomparsa del lavoro sostituito con lo sfruttamento del turismo. Questo disfarsi è però intriso di una strana malinconica e irriducibile speranza. Il cimitero (ma lo stesso Lido è una condizione liminare, una lingua di terra tra laguna e mare) diviene lo spazio in cui convergono passato presente e futuro per proiettarsi nell'eternità. Una convergenza resa possibile dal racconto di lzzo, dalla capacità della storia e della memoria di tradursi in parola. Ma lo stesso cimitero è una traduzione di se stesso. lzzo infatti lo ha come "riscritto": lapidi e sepolture nel cimitero antico da tempo non coincidono più. Il custode le ridispone e le riordina. La perduta corrispondenza non fa venire meno la realtà: la parola - il nome - basta come prova e fondamento della realtà. Izzo allinea le lapidi, suggerisce Goldvicht, come volumi di una biblioteca. Aldo mostra alcune lastre che presentano un buco nella parte inferiore. La ragione sta probabilmente nelle necessità antiche di trasporto (si tratta di pietre di riuso) ma la tradizione vuole che quello sia il posto dove si anniderà l'anima il giorno della resurrezione dei morti. In questo oscillare tra vita e morte, lento dissolvimento e una attesa radicale, si costruisce il fascino e l'intensità del complesso lavoro di Goldvicht. L'arte si configura come elemento costitutivo di questa "veglia", il racconto come prolungamento nel tempo, resistenza nella durata anche oltre l'assenza: «Attraverso il suo viaggio artistico - scrive nel catalogo Amitai Mendelsohn - la comunità morente riacquista la vita e l'isola di morti diventa un'isola di vita».

(Avvenire, 16 giugno 2017)


La prossima riunione trilaterale Grecia, Cipro e Israele nell'autunno 2017 a Nicosia

ATENE, 16 giugno - La prossima riunione governativa trilaterale tra Grecia, Cipro e Israele si svolgerà a Nicosia nell'ultimo trimestre del 2017. Lo hanno deciso i capi di governo dei tre paesi - il premier greco Alexis Tsipras, l'omologo israeliano Benjamin Netanyahu, e il presidente cipriota Nicos Anastasiades - siglando la dichiarazione di Salonicco al termine della riunione avuta ieri nella stessa città del nord della Grecia. "Abbiamo concordato di continuare a rafforzare la cooperazione tra i nostri tre paesi, al fine di promuovere una partnership trilaterale in vari campi di comune interesse e per lavorare insieme verso la pace, la stabilità, la sicurezza e la prosperità nel Mediterraneo orientale", si legge nella dichiarazione congiunta. "Esprimiamo il nostro forte sostegno per la creazione del gasdotto East-Med, come un altro corridoio del gas che unirà le scoperte energetiche nelle Zone economiche esclusive (Zee) di Cipro e Israele con i mercati europei", hanno aggiunto i tre leader esprimendo soddisfazione per i progressi nella promozione del progetto. "Salutiamo positivamente anche l'istituzione di un gruppo di lavoro quadrilaterale Grecia, Cipro, Israele e Italia allo scopo di monitorare da vicino e sostenere lo sviluppo del progetto East-Med, quale una rotta sicura e percorribile per trasportare il gas naturale dal Mediterraneo orientale all'Europa", aggiunge la dichiarazione congiunta.
  I tre leader riaffermano inoltre l'interesse per il progetto dell'interconnettore elettrico EuroAsia di cui "stiamo attendendo il completamento degli studi di fattibilità". L'interconnettore EuroAsia e il gasdotto East-Med vengono individuati come progetti di "importanza strategica" al fine di apportare "benefici economici, rafforzare la sicurezza energetica in Europa e favorire la politica Ue di diversificazione delle fonti e delle rotte energetiche". Anche il tema della rafforzamento delle fonti di energia rinnovabili viene individuato come un tema strategico di questa cooperazione trilaterale Grecia, Cipro e Israele; mentre altri temi di comune interesse su cui rafforzare la partnership sono quelli della protezione del patrimonio culturale, ricerca e innovazione, sanità, telecomunicazioni, cybersicurezza, lotta al terrorismo, migrazioni, industria e sviluppo delle piccole e medie imprese

(Agenzia Nova, 16 giugno 2017)


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Grecia, Cipro e Israele puntano ad accelerare sulla realizzazione del gasdotto East-Med

ATENE, 15 giugno - Il premier greco ha evidenziato che la scelta di Salonicco, come luogo per ospitare la terza conferenza trilaterale tra Grecia, Cipro e Israele, non è stata casuale ma dovuta a fatti storici: la comunità ebraica della città del nord della Grecia è stata decimata durante la Seconda guerra mondiale.

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Al termine di un incontro bilaterale avuto questa mattina, Tsipras e Netanyahu hanno inaugurato, alla presenza del capo dello Stato cipriota, una placca per il Museo dell'Olocausto di Salonicco. "Il Museo dell'Olocausto salvaguarderà il dolore storico degli ebrei di Salonicco", ha dichiarato Tsipras, come riferisce la stampa locale, che sottolinea come la scelta di oggi sia fortemente simbolica dato che la città del nord della Grecia è nota anche come la "Gerusalemme dei Balcani" per la nutrita presenza di una comunità ebraica. "Commemoriamo le perdite di vite umane, i nostri fratelli ebrei, ma ci dedichiamo anche ad assicurare che questo orrore non accada mai più", ha dichiarato da parte sua Netanyahu.

(Agenzia Nova, 15 giugno 2017)


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