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Notizie 1-15 giugno 2021


Israele smentisce i pasdaran dei mix. «Si può fare solo in casi disperati»

Il responsabile della campagna israeliana: «Studi insufficienti, si usi lo stesso siero»

di Irene Cosul Cuffaro

Mentre la babele di dichiarazioni, smentite, piroette e capriole sulle vaccinazioni con il preparato di Astrazeneca e il mix di sieri diversi si fa ogni giorno più grottesca, l'unica cosa certa è il disorientamento degli italiani di fronte a questo bombardamento di presunte informazioni e retromarce.
   A tenere banco negli ultimi giorni nel discorso pubblico è stata la questione delle cosiddette vaccinazioni eterologhe, ovvero due sieri diversi per prima e seconda dose, per gli under 60 che avevano ricevuto la prima puntura di Astrazeneca. Dopo la morte della diciottenne Camilla Canepa, infatti, il vaccino anglo svedese, ricevuto dalla giovane durante gli open day, è tornato nell'occhio del ciclone.
   I pasdaran della puntura a tutti i costi, insieme al ministro Speranza, non hanno dubbi: i vaccini vanno iniettati, anche diversi, costi quel costi, sebbene gli studi siano stati fatti su poche centinaia di casi e non siano sufficienti per poter osservare tutta la variabilità genetica della popolazione. Il vaccinismo integralista non sente ragioni, e bolla qualsiasi perplessità, perfino dopo la morte di una diciottenne, come volgare complottismo no vax da bar.
   Peccato che a sconsigliare il mix di vaccini, o quanto meno a invocare prudenza, siano in molti, anche tra gli esperti. Tra questi, anche Arnon Shahar, responsabile della campagna di immunizzazione di Israele, Paese tra i primi a uscire dall'incubo Covid grazie alla sua eccellente campagna d'immunizzazione, iniziata il 20 dicembre 2020 e che a febbraio 2021 aveva già reso immune oltre l’85& degli over 60.
   Intervistato dal Quotidiano nazionale, il medico è stato chiaro: «Mixare i vaccini è una scelta che al momento andrebbe presa solo in condizioni disperate. Sarebbe ragionevole solo se ci fosse un'impennata di casi, non ci fossero abbastanza dosi per proteggere i cittadini e non ci fosse altra scelta. Non ci sono studi sufficienti sulla cosiddetta '' eterovaccinazione''. Per ora è meglio eseguire il richiamo con lo stesso siero».
   Parole che stridono col ritornello, caro ai barricaderi delle punture, sui benefici superiori ai costi e sui pochissimi casi avversi riscontrati.
   Certo, come conferma Shahar, non è escluso che mischiare i vaccini possa portare perfino a maggiori benefici, ma, più che a una tesi scientifica, per ora l'ipotesi è più una partita alla roulette russa: «In Israele abbiamo avuto poche persone che sono arrivate dall'Inghilterra o anche dall'Italia e che avevano già ricevuto una prima dose di Moderna o Astrazeneca. Il richiamo è stato eseguito con Pfizer, l'unico siero che usiamo qui, non abbiamo visto effetti collaterali. Ci sono alcuni studi, secondo cui mixare i vaccini potrebbe causare una risposta immunitaria più efficace. Ma non sono definitivi. Finché la situazione non sarà chiara, è meglio continuare a iniettare sempre lo stesso siero», ha specificato l'israeliano.
   Meno decisa la posizione di Silvio Garattini, farmacologo e presidente dell'Istituto Mario Negri, favorevole alle vaccinazioni eterologhe, ma critico sullo svolgimento della campagna vaccinale: «Io dico di essere pragmatici, lasciamo ai cittadini la scelta della seconda dose. È urgente però tornare al criteri o di età e di fragilità, dedicare a queste categorie gli open day, e intanto raccogliere più informazioni sui giovani»,
   Ed è proprio questo il cortocircuito più grande: mentre mancano ancora all'appello anziani e fragili, dopo aver permesso di saltare la fila ad avvocati, magistrati, giornalisti, presunti caregiver e via dicendo, sono stati previsti degli open day per smaltire dei vaccini consigliati esclusivamente agli over 60, inoculati però a ragazzini, come Camilla Canepa, per i quali la possibilità di morire di Covid è meno probabile che incappare in reazioni avverse. Il tutto con in sottofondo il solito ritornello: i rischi sono minori dei benefici. Purtroppo, palesemente smentito.

(La Verità, 15 giugno 2021)


*


L’impazzimento del Cts e del governo sul mix di vaccini

Governo e Cts trasformano il “non appare essere sconsigliabile” in un obbligo alla vaccinazione eterologa e impongono al buio decisioni volte a inseguire la cronaca. Storia del grande impazzimento su AstraZeneca. (I rilievi in rosso sono aggiunti, NdI)

di Enrico Bucci e Luciano Capone

La decisione del governo di sospendere l’uso del vaccino AstraZeneca anche per le persone al di sotto dei 60 anni di età che hanno già ricevuto la prima dose è l’opposto del principio del “rischio ragionato” evocato dal presidente del Consiglio Mario Draghi per le riaperture. Si basa, al contrario, sull’assunzione irragionevole di un rischio la cui entità non è nota: non ricevere più la seconda dose di AstraZeneca come previsto dai test clinici, bensì un vaccino a mRna, realizzando così un mix vaccinale non previsto da alcun protocollo scientifico né caratterizzato in nessuno studio clinico sinora. E’ bastata una circolare del ministero della Salute, con l’aggiornamento delle note informative dei vaccini da parte di Aifa, per fare carta straccia dell’approvazione da parte degli enti regolatori internazionali e anche del consenso informato firmato dai cittadini che, ben consapevoli dell’eventualità di rarissimi eventi avversi, hanno scelto di farsi somministrare un vaccino che ha seguìto determinate procedure di approvazione.
  Senza alcuna novità scientifica di rilievo a giustificare il cambio di direzione, ma sull’onda emotiva di un drammatico caso di cronaca ancora da accertare, si decide di cambiare. E così centinaia di migliaia di persone che hanno fatto la prima dose si trovano a metà del guado, costretti a scegliere se rimanere con una sola dose oppure se completare il ciclo vaccinale con un metodo che non può che essere definito da apprendisti stregoni.
  Perché quello che il governo sta facendo è costringere i cittadini ad abbandonare la vaccinazione approvata da un regolare iter autorizzativo per seguire, invece, un mix di vaccini – prima dose AstraZeneca e seconda Pfizer o Moderna – di cui nessuno ha evidenze solide circa rischi e benefici. Alle persone non viene data alcuna spiegazione ma, semplicemente, si chiede di fidarsi alla cieca: il metodo che gli è stato indicato finora come l’unico sicuro, quello delle sperimentazioni cliniche e dell’approvazione regolatoria, diventa improvvisamente irrilevante. Questo nonostante negli ultimi giorni l’Ema, l’autorità regolatoria europea, abbia ancora una volta ribadito che per AstraZeneca i benefici superano i rischi a tutte le età.
  E come si può pretendere, a questo punto, di ottenere la fiducia dei cittadini, se nemmeno le autorità regolatorie e le procedure delle prove cliniche sono rispettate? Soprattutto se gli argomenti sono quelli forniti dal governo. Perché da un lato si dice che il vaccino AstraZeneca resta approvato, sia dall’Aifa sia dall’Ema, per tutti sopra i 18 anni e dall’altro si impone a chi ne ha ricevuto una prima dose di cambiare vaccino senza alcuna spiegazione scientifica o giustificazione razionale. Per quanto riguarda i fenomeni tromboembolici, infatti, parliamo di un rischio molto basso alla prima dose, ma soprattutto per quanto riguarda la seconda, stando a quanto scrive il Comitato tecnico scientifico (Cts) nel verbale che ora vieta l’uso di AZ sotto i 60 anni, questi eventi “sono meno frequentemente osservati: secondo stime provenienti dal regno Unito sono pari a 1,3 casi per milione, valore che corrisponde a meno di 1/10 dei già rari fenomeni osservati dopo la prima dose”. Dati in linea con quanto si osserva in Italia dove, al momento, per quanto riguarda tali eventi rari “non sono stati registrati casi dopo la seconda somministrazione” AstraZeneca.
  Avete letto bene: è proprio il verbale del Cts, sul quale si fonda la decisione del mix di vaccini, che sottolinea come la cosa non abbia giustificazione alcuna nell’eventualità di eventi avversi con la seconda dose.
  Visto che questi eventi rarissimi corrispondono a un rischio di oltre 10 volte inferiore a quanto può accadere con la prima dose, il cui rischio è stato giudicato accettabile sulla base degli stessi dati disponibili oggi e presentati nel consenso informato che i cittadini firmano. E invece, a fronte di questo rischio associato alla seconda dose di AZ, noto per essere piccolissimo, cosa sappiamo del rischio associato al somministrare una seconda dose di un prodotto diverso? Sul mix con Pfizer e Moderna ci sono dati più solidi? Niente affatto.
  E’ sempre il Cts che, citando alcuni studi preliminari su qualche centinaio di individui e non ancora pubblicati su riviste scientifiche, sostiene che siamo in terreno ignoto. “Benché – scrive – “i) tutti gli studi registrativi per i vari vaccini siano stati condotti utilizzando due dosi dello stesso vaccino”; benché “ii) non siano stati pubblicati, allo stato, studi che includono un elevato numero di soggetti”; e benché “iii) non siano disponibili studi randomizzati in cui il braccio di controllo è rappresentato da due somministrazioni del vaccino AstraZeneca” – nonostante e dopo tutti questi “benché” – per il Cts “si può affermare, sulla base delle evidenze di cui si dispone, che la vaccinazione ‘eterologa’ trova un suo solido razionale immunologico e biologico e non appare essere sconsigliabile né sul fronte della sicurezza (reattogenicità), né su quello della immunogenicità”. Cioè prima si ammette che non vi è uno straccio di evidenza sperimentale solida per il cambio di vaccino, e poi si dice non che, nonostante tutto, ci si assume la responsabilità di una scelta, scommettendo su quel che in generale si sa sull’immunologia (il che sarebbe già grave, perché sarebbe l’abbandono della verifica sperimentale in favore di una teoria), ma si afferma che non c’è (o meglio, non “appare”) nulla a sconsigliare il cambio. E certo, ci mancherebbe! Se mancano i dati sperimentali, come appena sottolineato, in che modo ci potrebbe essere qualche elemento avverso? Con un assurdo salto logico e lessicale, Cts e ministero della Salute trasformano il “non appare essere sconsigliabile” in un obbligo alla vaccinazione eterologa.
  Non si sa quali siano i fatti scientifici solidi e verificabili (non quelli di cronaca) intervenuti, da quando un paio di mesi fa, più precisamente il 7 aprile, in una conferenza stampa congiunta sul vaccino AstraZeneca il coordinatore del Cts Franco Locatelli diceva: “Non ci sono gli elementi per non considerare la somministrazione dello stesso vaccino in chi ha ricevuto la prima dose”; e il direttore generale dell’Aifa Nicola Magrini ricordava: “Il vaccino resta utilizzabile in tutte le fasce di popolazione e resta con un beneficio ampiamente favorevole rispetto al Covid”; e il direttore generale del ministero della Salute Gianni Rezza rassicurava: “Naturalmente è un vaccino che può essere somministrato a chiunque dai 18 anni in su. Su questo non c’è dubbio”. Cosa è cambiato nelle statistiche, nel livello di rischio, nel grado di incertezza? Perché le istituzioni, come banderuole al vento dell’emotività pubblica, cambiano direzione?
  Infine, vorremmo ricordare un punto ulteriore, che proponiamo soprattutto a chi ha competenze giuridiche. La decisione di sospendere AstraZeneca anche per le seconde dosi impedisce ai cittadini di completare un ciclo vaccinale approvato in Europa e in Italia (il vaccino AstraZeneca resta autorizzato sia dall’Ema sia dall’Aifa per tutti i soggetti con più di 18 anni), senza che vi sia una decisione delle autorità regolatorie competenti, le quali nel caso dell’Ema si sono appena pronunciate contro ogni modifica rispetto a quanto approvato. Non solo: questa sospensione, imposta ai cittadini vaccinati in prima dose con AZ, dovrebbe dar luogo per loro alla diffusione di una profilassi vaccinale non sperimentata né approvata, sulla base non della valutazione approfondita di fatti nel frattempo intervenuti, ma di teorie (solide quanto si vuole, ma teorie). Si discrimina cioè chi ha avuto una prima dose di AZ, e ha prestato il proprio consenso informato alla somministrazione di due dosi di quel vaccino, sottoponendolo per decisione del governo a una procedura non autorizzata e dall’esito non documentato solidamente, senza che vi sia una ragione cogente – quale potrebbe essere, per esempio, l’indisponibilità delle seconde dosi di AZ. La decisione del governo ha tutte le caratteristiche di una violazione del diritto alla salute e, più specificamente, di accedere a terapie sperimentate e approvate.
  Francamente, non si può che ritenere un puro e speriamo passeggero impazzimento questo modo di procedere da parte delle autorità sanitarie. E non si può non ammettere che in questo caso i responsabili della perdita di fiducia nella scienza e nelle istituzioni non sono i complottisti, le fake news o gli svitati antivaccinisti, ma il governo e le autorità regolatorie che impongono alla cieca ai cittadini decisioni irresponsabilmente volte a inseguire la cronaca invece della ragione scientifica. L’esito di un governo che è partito parlando di “rischio ragionato”, ma poi è finito a rincorrere il panico e l’emotività.

Il Foglio, 15 giugno 2021)


«Alle persone non viene data alcuna spiegazione ma, semplicemente, si chiede di fidarsi alla cieca». Il "Vaccinismo" ormai è una religione, con i suoi dogmi di fede, i suoi sacerdoti (i virologi), il suo profeti (i ministri competenti) il suo segno corporale di iniziazione (la vaccinazione), le sue dispute dottrinali (eterologi contro monologi), i suoi anatemi (contro i complottisti no-vax). C'è da sperare che non sia proprio Israele a mettersi a capo di questa nuova religione. M.C.


La prima generale donna, il nazionalista druso e il progressista islamico, ecco chi governa da oggi in Israele

Il "chi è chi" nella squadra di 27 ministri, 7 in meno del governo uscente, del nuovo premier Naftali Bennett, il primo religioso nella storia del paese

di Sharon Nizza

TEL AVIV – Il giorno dopo il giuramento alla Knesset, il 36mo governo israeliano posa per la foto di rito presso la residenza del Capo dello Stato. Per quanto si tratti di un momento istituzionale, in realtà è una foto rivelatrice del cambiamento sul quale il nuovo governo Bennett-Lapid si gioca tutte le carte. È il primo ritratto di governo degli ultimi sei anni: l’anno scorso, quando a maggio aveva giurato la coalizione Netanyahu-Gantz, le restrizioni Covid (o forse l’ostilità che caratterizzava un’alleanza che si è di fatto sciolta sette mesi dopo) avevano fatto saltare l’appuntamento dal presidente.
  Per la prima volta in 12 anni, la foto non include Benjamin Netanyahu ed esponenti del Likud, che siederanno tra i banchi dell’opposizione. Con otto partiti alleati, rappresenta uno spaccato variegato della società israeliana, espressione di quasi l’intero arco costituzionale. La squadra comprende 27 ministri (7 in meno del governo uscente), un terzo sono donne (il numero più alto di rappresentanza femminile in un governo israeliano finora). Alcuni primati: Naftali Bennett è il primo premier religioso della storia del Paese, nonché il primo ad aver guidato il Consiglio Yesha, l’organizzazione che rappresenta il movimento per gli insediamenti ebraici in Cisgiordania.
  È anche la prima volta che a guidare la squadra di governo è un premier che non ha ricevuto direttamente il mandato dal Presidente: dopo il fallimento di Netanyahu nel formare una maggioranza, il mandato era passato a Yair Lapid, che ha rinunciato al primato nella rotazione di governo a favore di Bennett, nonostante questi abbia portato in dote solo 6 seggi. Se non ci saranno soprese, Lapid, attualmente ministro degli Esteri e premier alternato, subentrerà a Bennett nell’agosto 2023 e diventerà il 14mo premier dello Stato d’Israele.
  Karine Elharrar, parlamentare da un decennio per Yesh Atid, sarà la prima donna a guidare il ministero dell’Energia. Affetta da distrofia muscolare, sarà il primo ministro su sedia a rotelle della storia del Paese. Al ministero dell’Economia arriva Orna Barbivai, la prima donna ad avere ottenuto il grado di Generale nell’Idf. Per la prima volta dal governo Olmert, ci sono due ministri arabi: Isawi Frej, musulmano, della sinistra progressista Meretz, che guiderà il ministero della Cooperazione Regionale, mentre Hamed Amar, druso, per il partito nazionalista Israel Beitenu, sarà al ministero delle Finanze.
  Non compare invece nella foto Mansour Abbas, che con i 4 seggi del partito islamico Ra’am ha rappresentato una delle svolte più interessanti che hanno reso possibile la maggioranza: è il primo partito arabo dal 1977 a sostenere attivamente un governo. Abbas chiede di fare un ingresso graduale nella coalizione e non ha presentato rivendicazioni ministeriali – secondo l’accordo di governo Ra’am ha diritto a un viceministro all’interno dell’ufficio del Primo Ministro, ma non hanno ancora deciso se occuperanno la posizione. Guideranno invece la commissione per gli Affari Interni e la commissione speciale per il contrasto alla criminalità nella società araba.
  Alla Salute arriva Nitzan Horowitz di Meretz, che riporta il partito al governo dopo ben 20 anni di assenza, ed è l’unico ministro gay, oltre al viceministro degli Esteri Idan Roll (nel precedente governo erano tre).
  Benny Gantz rimane alla Difesa: insieme agli altri tre ministri di Blu e Bianco sono gli unici a non dover traslocare, perché continuano nelle posizioni assunte con il governo uscente. Dopo aver tradito l’anno scorso la promessa elettorale e aver costituito il governo paritetico con Netanyahu, Gantz si era separato dall’alleanza con Yesh Atid. Quindi ora si può dire che torni a casa, ma in realtà tra i due i rapporti sono rimasti tesi.
  I ministeri chiave della Giustizia, Tesoro, Interni vanno rispettivamente a Gideon Saar (Nuova Speranza), Avigdor Liberman (Israel Beitenu) e Ayelet Shaked (Yamina): tutti e tre ex ministri e alleati stretti di Netanyahu, che con lui hanno iniziato la propria carriera politica. Saar e Liberman sono stati irremovibili nel porre un veto a qualsiasi governo con Netanyahu. Shaked invece è stata corteggiata fino all’ultimo dal Likud, ma alla fine ha prevalso il patto con il suo alleato dagli inizi della carriera, Naftali Bennett. Shaked, è vista dal Likud come un possibile anello debole su cui fare pressioni per cercare di sfidare la fragile maggioranza di governo.
  Altre sfide per la coalizione sono poste da due parlamentari, Said al-Harumi di Ra’am, che all’ultimo domenica si è astenuto sul voto di fiducia, e Eli Avidar (Israel Beitenu), fatto fuori dalla divisione degli incarichi governativi. La maggioranza si appoggia attualmente su 60 voti su 120 seggi della Knesset e ogni defezione rischia di fare saltare tutto. Il nuovo governo punta a coinvolgere in un futuro non troppo lontano uno dei partiti ultraortodossi per garantire maggiore spazio di manovra alla coalizione. Per questo, negli accordi di governo siglati finora, non sono previste riforme significative sullo statu quo tra Stato e religione, così come non sarà all’ordine del giorno in questa prima fase la questione palestinese, data l’eterogeneità delle posizioni degli alleati. Il governo punta innanzitutto a creare un’armonia tra le parti lavorando su economia (il Paese va avanti senza finanziaria da due anni), divari sociali, istruzione, infrastrutture, rafforzamento della periferia.
  Tuttavia, una prima sfida importante si presenta già domani: Omer Bar-Lev, il nuovo ministro della Sicurezza Interna, laburista, ha confermato l’autorizzazione alla Sfilata delle Bandiere a Gerusalemme, dopo che l’evento era stato in parte annullato il 10 maggio scorso quando era scoppiata l’ultima crisi con Hamas. In accordo con la polizia, la parata non passerà all’interno del quartiere musulmano della città vecchia, bensì davanti alla Porta di Damasco per poi sviare verso la Porta di Giaffa, come accaduto in anni passati. Hamas e Fatah hanno convocato una “giornata della rabbia” invitando manifestanti a protestare per quella che definiscono una provocazione.
  La posizione attuale del nuovo governo è che “non c’è intenzione di arrendersi alle minacce di organizzazioni terroristiche e che il diritto di manifestazione va preservato”. Critiche saranno le raccomandazioni dei servizi di sicurezza e i contatti con la delegazione egiziana attualmente presente nella Striscia di Gaza per portare avanti la mediazione per il consolidamento della tregua tra Israele e Hamas.

(la Repubblica online, 15 giugno 2021)


Shaked-Michaeli, il tandem al femminile che ha le chiavi del governo israeliano

Di destra e fedelissima del premier Bennett la prima, femminista e attivista per i diritti civili la seconda, la convivenza nella coalizione non sarà facile. Si sono contese i ministeri decisivi e la commissione che nomina i giudici.

di Fabiana Magrì

TEL AVIV - Chi cerca le crepe che potrebbero intaccare l'intonaco, fino a provocare dissesti più profondi e tali da far crollare il governo israeliano del cambiamento, deve certamente analizzare i comportamenti di Benjamin Netanyahu. Come la sua eccessiva sbrigatività nel liquidare in mezz'ora il passaggio di consegne al neo premier Naftali Bennett, senza nemmeno la consueta stretta di mano a favore di fotografi. Ma dovrebbe anche tenere d'occhio Ayelet Shaked e MeravMichaeli, le due donne «alpha» tra le nove ministre nel 36esimo esecutivo israeliano.
  Non solo - o non tanto - perché sono lontane tra loro come il giorno dalla notte. Shaked, braccio destro e donna ombra del premier Naftali Bennett, è il numero due del partito Yamina. Michaeli è leader di Havoda. Di più: ha acchiappato per i capelli il partito laburista un attimo prima che sprofondasse, l'ha riportato sopra la soglia di sbarramento alle ultime elezioni e oggi lo rappresenta al governo. Shaked è ingegnere informatico, ha fiducia nel sistema, amale uniformi ed è sposata con un ex pilota da combattimento. Michaeli è giornalista, femminista e attivista per i diritti civili. E' contraria all'istituzione del matrimonio ma è legata sentimentalmente al comico Lior Schleien, che conduce una trasmissione satirica in tv. I due non sono sposati e non convivono.Abitano in due appartamenti separati, lui al piano di sopra e lei in quello sotto. Entrambe sono Telavivian, hanno all'incirca lo stesso seguito di follower su Instagram e sono laiche, ma Shaked ha un buon ascendente sul pubblico ortodosso, mentre l'altra lo contrasta.
  Il divario tra le due, una a destra e l'altra a sinistra della coalizione di governo, è oltremodo ideologico. L'analista politica Gayil Talshir, della Hebrew University di Gerusalemme, mette in evidenza proprio questo elemento: «Lo scontro ideologico all'interno di questo governo, che non sarà un esecutivo di centro né di comodo, sarà profondo. E Shaked e Michaeli ne rappresentano al meglio gli opposti su molti posizioni. Anche se queste ministre sono entrambe donne, non credo che vedremo una relazione pacifica tra le due». Shaked parte da una posizione di vantaggio rispetto a Michaeli. Nei negoziati per arrivare a formare la coalizione, la prima ha ottenuto tutto quello che voleva, la seconda nulla. «Non solo Michaeli - spiega Talshir- non ha guadagnato ai Laburisti il ministero della Giustizia o degli Interni». Per ora gli Interni sono andati a Yamina e la Giustizia a Tikva Hadasha. Poi, al momento della rotazione tra Bennett e Lapid, Yamina prenderà entrambi - Bennett raccoglierà il testimone degli Interni e Shaked passerà alla Giustizia - mentre Tikva Hadasha sostituirà Lapid agli Esteri.«Ma anche per quanto riguarda la commissione che nomina i magistrati - continua l'analista - , è Shaked ad aver ottenuto la rappresentanza ufficiale per il governo». Del resto, è un osso che non avrebbe mai mollato. Le sue posizioni sulla necessità di limitare il potere della magistratura sono granitiche. Talshirsi augura che i ministri della sinistra siano in grado di mostrarsi più irremovibili nei confronti del cambiamento promesso dalle destre della coalizione. Che di fatto significa riuscire a mantenere lo status quo. Ma qualche freccia al proprio arco ce l'ha anche Michaeli. A sottolinearne i vantaggi rispetto alla rivale è il professore di scienze politiche alla Ben Gurion University, Guy Ben-Porat. «Michaeli è al governo nella veste di leader in ascesa. Al contrario, Shaked poggia su un partito che ha vissuto alti e bassi. La prima ha un pubblico di sostenitori entusiasti. La seconda si è vista apostrofare "traditrice" nelle manifestazioni davanti casa sua». Insomma, una facciata di durezza, quella sfoggiata da Shaked, che potrebbe essere solo superficiale. Se il neonato governo non dovesse sopravvivere abbastanza a lungo, potrebbe essere la donna che in questo momento appare più avvantaggiata a ritrovarsi con un pugno di mosche in mano.

(La Stampa, 15 giugno 2021)


Il primo test del governo Bennett sulla marcia di Bibi

L'esecutivo che ha detronizzato Netanyahu muove i primi passi. Breve e poco cordiale il passaggio di consegne tra il premier uscente e quello nuovo. «L'impegno sul lavoro ci terrà al riparo dall'ideologia».

di Fiammetta Martegani

Per la prima volta dopo 12 anni gli israeliani si sono svegliati con un nuovo primo ministro e un nuovo governo. Un esecutivo «all'insegna della moderazione e dell'operatività», ha detto il milionario dell'hightech Naftali Bennett, che sarà il tredicesimo premier nella storia del Paese e il primo a indossare la kippah. Guiderà il Paese fino all'agosto del 2023, poi, come previsto dalla formula a rotazione, passerà le consegne a Yair Lapid, leader centrista e vero artefice del "blocco del cambiamento". «È l'impegno sul lavoro che ci terrà uniti e al riparo da ogni ideologia - ha sottolineato Bennett -. A cominciare da domani mattina».
  E già questa mattina, in effetti, il nuovo governo di troverà di fronte alla sua prima difficoltà, perché dovrà decidere in merito a una marcia nazionalistica ebraica che è stata autorizzata dall'ex premier Benjamin Netanyahu ma che potrebbe provocare forti tensioni nel Paese. Hamas ha già indetto una «Giornata di collera». E per proteggere l'ordine pubblico sono stati chiamati 2.000 agenti. Qualcosa che ricorda fin troppo da vicino quanto accaduto un mese fa perla fine del Ramadan, con gli eventi che hanno innescato poi la crisi a Gaza. Qualcosa che Bennett vorrebbe davvero evitare.
  Il governo è nuovo e assai instabile: gli 8 partiti-che vanno da destra a sinistra - hanno trovato un appoggio risicato alla Knesset: 60 voti favorevoli, 59 contrari e 1 astenuto. Tutti sono stati accontentati. Yisrael Beiteinu di Avigdor Lieberman ha ottenuto il ministero del Tesoro; New Hope la Giustizia, affidata al suo leader, Gideon Saar. Blu Bianco ha visto a conferma di Benny Gantz alla Difesa; a Yesh Atid di Lapid è stato affidato il ministero degli Esteri. La laburista Merav Micaheli sarà ministra dei Trasporti, e il leader di Meretz Nissan Horowitz avrà il dicastero della Salute. Ma la più grande novità è l'ingresso, per la prima volta nella storia del Paese, del neo-partito arabo Raam, il cui leader Mansour Abbas sarà vicepresidente alla Knesset.
  Il passaggio delle consegne tra ex-premier e neo-premier si è svolto ieri in un incontro breve - solo mezz'ora- e poco cordiale che ha tenuto al centro soprattutto l'Iran. Un momento sintomatico del totale disappunto di Bibi, che si sta adattando con fatica al cambiamento (significativamente, dopo il voto di fiducia alla Knesset è tornato a sedersi al suo posto di premier e gli hanno dovuto ricordare che il suo posto era ormai fra i banchi dell'opposizione) e che sembra determinato a combattere per rovesciare «questo governo rovinoso, fraudolento e di sinistra». Molti temono che la delicata architettura della maggioranza possa crollare da un momento all'altro. Uno dei nodi più grandi da affrontare sarà la questione palestinese. L'Anp ha già detto di non avere grandi aspettative, ritenendo il nuovo esecutivo «non meno pericoloso di quelli che lo hanno preceduto». Anche da Teheran è stato confermato che le posizioni trai due Paesi non cambieranno. Sul fronte interno si prevedono poi tensioni con la comunità ultraortodossa: i due partiti di riferimento passano all'opposizione. Lasciando peraltro spazio alle altre formazioni che - diversamente da loro, contrari per statuto alla partecipazione delle donne all'attività politica - hanno scelto un'alta rappresentanza femminile: di 27 ministri, 9 (quindi un terzo) sono donne, la percentuale più alta di sempre nella storia del Paese.

(Avvenire, 15 giugno 2021)


Le sfide del Governo Bennett/Lapid, meno fragile di quanto appaia

La compagine governativa in Israele può vantare diversi primati. La priorità sarà data ai problemi interni

di Janiki Cingoli*

Il nuovo Governo israeliano segna sicuramente una svolta profonda nella vita del paese. Dopo 15 anni di premiership, di cui gli ultimi 12 ininterrotti, Netanyahu è stato costretto a cedere la sua poltrona a Naftali Bennett (leader del partito di destra religioso – nazionalista Yamina), che tra due anni sarà sostituito, in base agli accordi di rotazione raggiunti, dall’Alternate Prime Minister Yair Lapid, leader del partito laico centrista Yesh Atid. I due sono alla testa di una variegata compagine di 8 partiti, 7 ebraici, di destra, di centro, di sinistra e 1 arabo – islamico, l’United Arab Lista (UAL), guidato dall’abile e spregiudicato Mansour Abbas.
  Anche se è stata eletta con una risicata maggioranza relativa di 60 voti contro 59, ed 1 astenuto (il deputato di UAL Said al-Harumi, sottoposto a pesanti minacce di demolizione di sue proprietà a Said al-Harumi, il villaggio beduino nel Negev dove è nato), la nuova compagine è meno fragile di quanto appare. Cinque dei sei deputati dell’altra lista araba, la Joint List, che ha votato contro, sarebbero stati pronti a stendere una rete di sicurezza pur di sloggiare Bibi, ma il loro voto non è stato necessario, togliendo dall’imbarazzo Bennett, già sotto attacco per l’inclusione di UAL nella maggioranza. Non a caso, nel suo misurato ma acuminato discorso di insediamento, continuamente interrotto dagli insulti del blocco avverso, questi ha ringraziato Netanyahu per aver aperto i primi contatti con lo stesso Abbas, facilitando così il suo sdoganamento.
  Il nuovo governo, composto da 27 membri, di cui 9 donne, può vantare diversi primati: non solo è il primo a includere a pieno titolo un partito arabo nella maggioranza (Rabin, quando formò il suo nel 1992, poté contare sull’astensione dei 5 deputati arabi), ma è il primo ad avere due ministri arabi, Issawi Frej, del Meretz (storico partito della sinistra pacifista), e Hamed Amar, un druso appartenente alla formazione di centro – destra Yisrael Beitenu; ed uno dichiaratamente gay, il segretario generale del Meretz Nitzan Horowitz.
  Vi è un aspetto rilevante che va sottolineato: pur politicamente distanti, Lapid e Bennett hanno una lunga consuetudine di stima e di lealtà reciproche. Tra il 2013 e il 2015, durante il terzo Governo Netanyahu, servirono entrambi come ministri, il primo come Ministro delle Finanze, il secondo dell’Economia, imponendo a Bibi la loro presenza simultanea come condizione del loro appoggio (il loro fu chiamato il “patto dei fratelli”). Anche quella formazione, non a caso, vide fuori dalla maggioranza i partiti ultraortodossi. Questo dovrebbe essere un buon viatico per il rispetto dell’accordo di rotazione tra i due, previsto per il settembre 2023.
  Dal punto di vista programmatico, il nuovo governo si fonda su alcune linee guida, e su 8 accordi di coalizione separati siglati fra Lapid, che il 6 maggio aveva ricevuto dal Presidente Rivlin l’incarico di formare il governo, e i diversi partiti della maggioranza. Tutti gli altri accordi sono subordinati a quello raggiunto tra Lapid e Bennett, che costituisce in qualche modo un accordo – ombrello, mentre Bennett non è vincolato dagli altri accordi.
  I due leader si riconoscono un reciproco diritto di veto sulle decisioni assunte dal Gabinetto e nei diversi Comitati ministeriali.
  Questo significa che tutti gli aspetti più controversi, dalla questione degli insediamenti, alle proposte di annessione anche parziale della Cisgiordania, dalla questione dei diritti della comunità LGBTQ a quella dei matrimoni civili saranno messi da parte, almeno per i primi due anni, ed anche per quanto riguarda gli aspetti del rapporto religione – stato, viene ribadito il mantenimento dello Status quo, salvo diversi accordi tra le parti. Un aspetto specifico è la decisione annunciata di porre fine al monopolio da parte dei religiosi ultraortodossi dei servizi relativi alla kashrut (le leggi ebraiche che riguardano l’alimentazione), aprendoli alla concorrenza sulla base di specifici standard.
  L’attenzione sarà concentrata sui problemi interni del paese, sulla sanità e il completo superamento della pandemia, sulla ripresa economica e la tutela delle fasce più svantaggiate, sull’inclusione dei settori più emarginati, come la minoranza arabo–israeliana e gli ultraortodossi, sull’attenuazione del divario sociale sempre più accentuato, sul problema abitativo, sui giovani, e prima di tutto sulla approvazione di un bilancio per il 2021, fin qui bloccato da Netanyahu, costringendo il governo all’uso dell’esercizio provvisorio, con tutte le drastiche limitazioni conseguenti.
  Un’attenzione particolare verrà data alla promozione della parte settentrionale del paese, dove è concentrata la popolazione araba, intensificando la lotta contro il crimine e la violenza che dilagano nei diversi centri arabi, la crisi degli alloggi, il divario esistente nel campo educativo e nelle infrastrutture. Bennett nel suo discorso ha preannunciato la creazione di una università e di un ospedale in Galilea.
  Mentre Bennett concentrerà la sua attenzione sulla situazione interna, sarà prevalentemente Lapid, nella sua funzione di Ministro degli Esteri oltre che di Alternate Premier, a curare i rapporti internazionali.
  Aspetto prioritario è il ristabilimento di positivi rapporti con il Presidente Biden e il Partito Democratico, recuperando il tradizionale rapporto bipartisan tenuto da Israele verso gli Stat Uniti, e cancellato dalla scelta unilaterale del leader del Likud a favore del Partito repubblicano, accentuatasi nell’era Trump. A questo riguardo, di grande significato è la telefonata notturna di Biden a Bennett, subito dopo la conclusione delle votazioni sulla fiducia, e il preannunciato invito a Washington per il prossimo luglio.
  Una nuova attenzione verrà altresì prestata all’Europa, da cui sono già arrivate le telefonate augurali al nuovo Premier di Johnson, della Merkel, di Macron (con cui in particolare Lapid ha un antico e consolidato rapporto).
  Ugualmente, andrà ricostituita una positiva relazione con la diaspora Usa (ed europea), ove sono predominanti le correnti conservative e corrente reform, rapporto pregiudicato dalla priorità esclusiva data da Netanyahu ai suoi alleati dei partiti ultraortodossi, anche in tema di conversioni o di riconoscimento del diritto di cittadinanza, concessa ad ogni ebreo in base alla Legge del Ritorno. Un aspetto di particolare rilievo, che sarebbe compreso negli accordi raggiunti, è il ristabilimento del compromesso che era stato raggiunto nel 2016 tra i diversi riti ebraici per l’uso dello spazio antistante il Muro del Pianto, che era stato sospeso nel 2017 da Netanyahu per la pressione dei partiti ultraortodossi.
  Vi è piena unità di intenti nel consolidare le relazioni con i paesi del Golfo, con cui durante la presidenza Trump sono stati raggiunti accordi di pace (Unione degli Emirati Arabi, Bahrein, Sudan, Marocco), e di estenderle a nuovi interlocutori, a partire dall’Arabia Saudita.
  Un’attenzione prioritaria verrà data al ristabilimento di positivi rapporti con la monarchia giordana, divenuti gelidi durante gli anni di Netanyahu, che secondo il Washington Post sarebbe arrivato a cercare di destabilizzarla, in collaborazione con i sauditi e l’Amministrazione Trump. Molto poco per quanto riguarda la questione palestinese, per i motivi già esposti, salvo un negativo riferimento, voluto da Gideon Sa’ar (leader dell’altro partito di destra partner della coalizione, New Hope, nato da una scissione del Likud), alla volontà di accrescere il controllo sull’Area C della Cisgiordania, limitando i nuovi insediamenti abitativi palestinesi, oltre alla riconferma della lotta al terrorismo e ad ogni possibile nuova provocazione da parte di Hamas.
  Tuttavia, malgrado questa volontà di mettere in secondo piano il problema, il nuovo governo si troverà in questi giorni ad affrontare tre nodi scottanti, su cui la sua capacità di gestire le emergenze e far fronte ai sicuri attacchi delle opposizioni verrà messa alla prova:
  • La nuova “Marcia delle bandiere per Gerusalemme”, annunciata per questo pomeriggio, martedì 15 giugno, dagli estremisti di destra e autorizzata dalla polizia, che dovrebbe arrivare alla Porta di Damasco, tradizionale luogo di incontro dei palestinesi di Gerusalemme Est, e poi attraversare parzialmente i quartieri arabi della città vecchia. Il precedente tentativo, lo scorso 10 maggio, fu l’innesco del sanguinoso conflitto con Hamas che poi si protrasse per 11 giorni, in parallelo ai tumulti sulla spianata delle Moschee e agli scontri nelle città miste arabo – ebraiche del paese. Anche questa volta l’allarme è ai massimi livelli.
  • L’annunciata evacuazione dell’avamposto illegale di Evyatar, divenuto un punto di confronto frontale con il movimento dei coloni, e su cui il riconfermato Ministro della Difesa Gantz si è impegnato in prima persona;
  • Il contributo mensile di 30 milioni di dollari, che viene portato in contanti nella Striscia di Gaza dall’Ambasciatore del Qatar Mohammed Al-Emad, attraverso il valico israeliano di Erez, per alleviare le condizioni disperate della popolazione della Striscia, e che comunque viene gestito e in larga parte dirottato da Hamas. Così come la gestione delle centinaia di milioni di dollari preannunciate in primo luogo dagli USA, dall’Egitto e dallo stesso Qatar, per far fronte alle rovine causate dal recente conflitto.
Per quanto riguarda l’Iran, viene ribadita l’ostilità al ristabilimento dell’accordo sul nucleare del 2015, sia pure non con i toni del leader del Likud, che nel suo intervento nel dibattito sulla fiducia al nuovo governo è arrivato a comparare la scelta dell’Amministrazione Biden di tornare a quell’accordo a quella di Roosevelt di non bombardare i treni diretti ad Aushwitz per impedire la deportazione degli ebrei.
  Netanyahu, in questo intervento, ha ribadito la totale chiusura verso il nuovo premier, accusato di rubare e di tradire il voto dei suoi elettori per allearsi alla sinistra e ai partiti arabi, e ha preannunciato una lotta senza quartiere per farlo cadere in breve tempo. Ma ora dovrà affrontare da semplice deputato il processo in corso contro di lui per frode, corruzione e abuso di autorità; lottare per mantenere il controllo del suo stesso partito, in ebollizione per essere stato estromesso dal potere e dove cominciano ad affacciarsi nuovi sfidanti, a cominciare dall’ex sindaco di Gerusalemme Nir Barkat; e soprattutto dovrà fare le valigie e sgomberare l’amata residenza ufficiale di Via Balfour, divenuta negli ultimi anni il fortino in cui si era asserragliato con la sua famiglia, incatenandosi al suo posto di comando con ogni mezzo e sotterfugio.
  Ha promesso di tornare presto, ma non è detto che gli sarà facile, i suoi ex alleati lo conoscono da vicino e sanno di che pasta è fatto.
* Esperto Medio Oriente e Mediterraneo. Già Presidente CIPMO - Centro Italiano Pace in Medio Oriente

(L'HuffPost, 15 giugno 2021)


Israele, sola democrazia in Medio Oriente

Si sta formando a Gerusalemme un governo con la partecipazione dei palestinesi moderati. Nei paesi islamici è vietato agli ebrei il parlamento

di Michele Marsonet

Mai come in questo caso Israele dimostra di essere, unico caso in Medio Oriente, uno Stato veramente democratico. E lo è a tal punto che, tra la meraviglia di tanti osservatori internazionali, si sta formando a Gerusalemme un governo con la partecipazione attiva di un partito dichiaratamente islamico (ovviamente moderato). La vicenda ha luogo dopo l'ennesima pioggia di razzi lanciati da Hamas dalla striscia di Gaza sul territorio israeliano.
   Come sempre una parte significativa dei media occidentali ha fornito un'interpretazione totalmente distorta degli avvenimenti.
   In sostanza abbiamo letto, anche su quotidiani prestigiosi, che la reazione israeliana è stata eccessiva e fuori luogo. Come se Hamas avesse il diritto di colpire quando e come vuole lo Stato ebraico. Quest'ultimo, invece, non avrebbe pari diritto di reagire militarmente colpendo le basi di lancio dei razzi, e cercando di eliminare i capi della sciagurata operazione.
   Al fondo troviamo la solita cattiva coscienza di una parte dell'Occidente, in particolare quella schierata in vari modi a sinistra. Già, perché la cancellazione di Israele e il proposito di «ributtare gli ebrei a mare» non sono obiettivi tipici dei soli movimenti islamisti. Idee simili sono condivise, pur utilizzando espressioni moderate, anche da parte della sinistra occidentale.
   Basti pensare a certe prese di posizione dell'ex leader laburista britannico Jeremy Corbyn, che anche per questo ha condotto il Labour a una disastrosa sconfitta nelle ultime elezioni politiche svoltesi nel Regno Unito. In realtà i leader israeliani vogliono ad ogni costo impedire la distruzione del loro Stato, ma sono al contempo disposti a dialogare con i palestinesi e l'intero mondo arabo in cambio di garanzie concrete.
   Ecco dunque la partecipazione del partito moderato palestinese Ra'am, guidato da Mansour Abbas, al nuovo governo israeliano guidato da Naftali Bennett.
   Conta poco, a questo punto, notare che l'operazione è stata condotta con il proposito esplicito di eliminare dalla scena politica Benjamin Netanyahu.
   È stato proprio quest'ultimo, infatti, ad inaugurare la politica del dialogo con gli islamici moderati di Mansour Abbas. Conta, invece, osservare che alla Knesset i palestinesi sono sempre stati rappresentati. Godono dei diritti politici e possono eleggere al parlamento i rappresentanti di loro gradimento.
   Provate invece a immaginare uno Stato arabo dove sia possibile per gli ebrei - se ancora esistono in loco - godere di pieni diritti ed eleggere deputati in Parlamento. Forse prima o poi ci si arriverà ma, per ora, è pura fantapolitica.
   Occorre dunque smettere di considerare Israele come mero bastione del cosiddetto «imperialismo occidentale» in Medio Oriente, e vederlo piuttosto come l'unico esempio di democrazia compiuta presente nell'area. E ancora presto per capire se l'esempio di Ra'am sarà seguito da altre formazioni politiche palestinesi.
   Anche perché, come dimostra l'esempio degli «Accordi di Abramo», ogni volta che nel mondo arabo qualcuno cerca di impostare i rapporti con lo Stato ebraico su basi razionali, gli estremisti - tanto sunniti quanto sciiti - si scatenano subito per bloccare ogni prospettiva di dialogo.
   Nel frattempo Israele continua a cercare la normalizzazione, pur senza rinunciare all'uso della forza militare quando è necessario. E occorre pur dire che la presenza di uno Stato democratico in quest'area è un vero e proprio miracolo, e in quanto tale non cessa mai di stupire.

(Atlanticoquotidiano. it, 15 giugno 2021)


Netanyahu «deposto» dopo 12 anni

Fiducia al governo Bennett, se ne va il premier che ha battuto tutti i record e cambiato Israele. Lui: non durerete.

di Davide Frattini

GERUSALEMME - La polizia è intervenuta sull'autostrada numero 1 per liberare dall'ingorgo tre deputati che da Tel Aviv stavano risalendo verso Gerusalemme e il potere. Tutti i voti servivano. Per garantire alla coalizione del cambiamento di ottenere la fiducia in Parlamento. il vento bollente ha causato gli incendi che hanno bloccato il traffico, la calura ha infiammato ancora di più Benjamin Netanyahu che ha dimostrato di non volersene andare a fuoco lento. «Come gli undici primi ministri israeliani che lo hanno preceduto - commenta Anshel Pfeffer su Haaretz - lascia contro la sua volontà. Da vincitore».
  Il premier che con dodici anni consecutivi (più tre tra il 1996 e il 1999) ha stracciato il record di permanenza in carica detenuto da David Ben-Gurion segna sul Paese il marchio della sua ideologia e delle sue scelte. «Ha vinto sulla scena internazionale - continua l'editorialista del quotidiano della sinistra - perché ha ribaltato l'idea della centralità del conflitto israelo-palestinese e sul piano interno dimostrando che l'occupazione non è solo sostenibile ma addirittura porta vantaggi». Netanyahu diventa capo dell'opposizione, il ruolo che ricopriva quando Naftali Bennett era il suo capo dello staff, due anni finiti molto male e di cui preferiscono non parlare. Il cerchio si chiude: è l'ex imprenditore hi-tech a prendere il suo posto e a pronunciare il discorso di insediamento. «E' un giorno di cambiamento come avviene nelle democrazie. Prometto che il mio governo lavorerà per tutto il Paese». Le parole sono state sommerse di fischi e insulti da parte dei deputati del Likud, Una gazzarra che ha spinto Yair Lapid - l'altra metà della nuova coalizione - a rinunciare all'intervento dal podio: non cerchiamo la rissa.
  Sarà difficile evitare lo scontro politico. «Oggi gli iraniani festeggiano - ha proclamato Netanyahu - perché questo governo è debole. Gli americani mi hanno chiesto di mantenere segreti i nostri disaccordi sull'accordo con Teheran, ho risposto che mi ricordo di Roosevelt quando si rifiutò di bombardare i treni e le camere a gas, avrebbe potuto salvare la nostra gente». In realtà lo stesso Bennett ha dichiarato di essere contrario all'intesa della comunità internazionale con Teheran e di non poter permettere che il regime arrivi a fabbricare la bomba atomica.
  Netanyahu vuole lasciarsi dietro terra bruciata diplomatica con Washington, a Lapid il compito di riappianare i rapporti, è ministro degli Esteri per due anni, prima di prendere il posto di Bennett, se questo governo durerà abbastanza a lungo. Netanyahu conta di smontare i pezzi della coalizione, che va dal partito dei coloni di Bennett (contrario a uno Stato per i palestinesi) fino alla sinistra storica dei laburisti, passando per il centro di Lapid e i fuoriusciti dal Likud, fino a un partito islamista. Ideologie diverse, ma per molti un elemento in comune: hanno cominciato la carriera lavorando per o con Netanyahu e da quell'esperienza sono usciti con un obiettivo comune. Deporlo.

(Corriere della Sera, 14 giugno 2021)


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Una svolta storica alla prova della politica

di Ugo Volli

Dopo dodici anni, da oggi, Benjamin Netanyahu non è più il primo ministro di Israele, sostituito da Naftali Bennett. È una svolta epocale per lo stato ebraico, la fine di un’epoca. Da ministro dell’economia Netanyahu è stato l’artefice del grande successo economico israeliano, da primo ministro ha ampliato molto il sistema di relazioni diplomatiche di Israele, ha contrastato la volontà dell’amministrazione Obama di giungere a un accordo con il regime terrorista dell’Iran a spese dei suoi alleati tradizionali, ha concluso con l’accordo di Trump gli “accordi di Abramo”, rompendo il tradizionale accerchiamento dei paesi arabi e dando una svolta finalmente realistica al conflitto mediorientale; ha infine guidato personalmente l’emergenza Covid, facendo di Israele lo stato al mondo che ha combattuto con maggior successo l’epidemia. Israele è oggi al suo punto di massimo successo storico. Netanyahu è stato insomma un grandissimo protagonista della politica israeliana, che i sondaggi mostrano essere ancora il preferito del pubblico israeliano per il posto di primo ministro, come il suo partito Likud è ancora di gran lunga il più votato.
  Come mai dunque nel nuovo governo non c’è Netanyahu né il Likud, anzi si tratta di una maggioranza il cui scopo principale è l’eliminazione politica del vecchio premier? La ragione, a parte l’indubbio cattivo carattere e le accuse pretestuose di corruzione che stanno mostrando in tribunale la loro scarsa consistenza, è stata proprio il suo successo, la sua longevità al governo, il sistema di potere che si è creato intorno a lui, a partire dalla famiglia. La crisi che almeno provvisoriamente si risolve oggi si è aperta tre anni fa, quando dalla maggioranza di centrodestra che governava si è sfilato Avigdor Lieberman, che di Netanyahu era stato assistente e guidava un partito di destra prevalentemente costituito da immigranti dall’ex Unione Sovietica, “Israel beitenu”. In seguito si sono staccati da lui altri suoi ex collaboratori come lo stesso Bennett e Gideon Sa’ar, unendosi agli avversari di sempre della sinistra nel tentativo oggi riuscito di spodestarlo. Ci sono state quattro elezioni, indagini giudiziarie, pressioni internazionali di vario tipo, congiure, tradimenti, trattative convulse. E alla fine si è costituita una maggioranza anomala di sinistra-destra, che ieri in una tumultuosa seduta del parlamento israeliano è riuscita a prevalere per un solo voto (60 a 59), nominando primo ministro il leader di un partito che ha poco più del 5% dei voti ed è in caduta libera nei sondaggi.
  Netanyuahu si è battuto fino all’ultimo, proponendo via via vari a Saar e Bennett e Gantz compromessi che prima aveva rifiutato, dall’alternanza nella guida del governo fino al suo provvisorio ritiro dalla vita politica; ma sono tutti arrivati sempre troppo tardi per avere successo. Il risultato è un governo da cui è escluso non solo il Likud, che rappresenta l’israeliano medio fuori dai grandi centri di Tel Aviv ma anche i partiti religiosi. Israele ha di nuovo un governo con pieni poteri, che mancava da tre anni con la breve eccezione del governo Netanyahu/Ganz, fallito dopo qualche mese alla fine dell’anno scorso. Ma questo governo ha una maggioranza molto esile e già messa in dubbio da alcuni deputati che hanno dichiarato di averlo votato per chiudere la crisi politica ma di non sentirsi legati alla sua disciplina. Il paese è diviso, con le parti più militanti della destra furibonde contro Saar e soprattutto contro Bennett che le esprimeva fino a qualche mese fa, tanto da aver provocato un allarme pubblico molto inconsueto da parte del responsabile dei servizi segreti.
  A parte la determinazione di stabilire dei meccanismi giuridici per mettere fuori gioco Netanyahu anche legalmente (il che la dice lunga sulla sicurezza di sé della maggioranza), il programma di governo è molto generico: la costruzione di qualche ospedale e università, alcune riforme per indebolire il peso religioso del grande rabbinato, la riaffermazione dell’opposizione all’armamento nucleare dell’Iran, lo sviluppo della posizione economica della minoranza araba. La scelta che ha fatto il grande regista del nuovo governo, il primo ministro “alternato” (cioè quello che è destinato a diventare primo ministro a metà del percorso previsto del governo, nell’autunno del 2023) è di non mettere in discussione i temi controversi fra le forze politiche del suo governo, che sono tanti: la posizione degli insediamenti oltre la linea verde, i rapporti con i movimenti palestinisti, con gli Usa e con l’Europa, o il problema di un sistema giudiziario che in questi anni si è affermato come un vero contropotere rispetto al parlamento. Per tutti questi temi, la clausola che ha messo insieme la maggioranza è stata il mantenimento dello status quo. Ma la politica non aspetta, che si tratti di sfide esterne che certamente arriveranno - perché i nemici di Israele saranno certamente tentati di mettere alla prova la determinazione del nuovo governo - o di iniziative interne, perché ogni forza politica tenterà di ottenere qualche risultato simbolico per accontentare i propri sostenitori, una volta esaurita l’euforia del parricidio. E quel che piacerà ai sostenitori dell’estrema sinistra di Meretz senza dubbio sembrerà sbagliato alla base di Bennett e viceversa. Insomma bisogna aspettarsi nuove tensioni e nuove difficoltà, che derivano non dalla volontà dei singoli politici, ma dalla frammentazione del sistema e dell’elettorato.

(Shalom, 14 giugno 2021)


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Cosa resta di Netanyahu

Israele e l'eredità politica dell'ex premier

di Enrico Franceschini

Benjamin Netanyahu ha molti detrattori, in patria e all'estero. Eppure l'eredità che lascia a Israele, cedendo il comando con la palma di premier più longevo nella storia dello Stato ebraico, è duplice. Da un lato è stato l'artefice della modernizzazione economica e il garante della sicurezza nazionale, culminata negli accordi di Abramo che hanno allargato la pace con gli arabi agli Emirati, al Bahrein, al Marocco. Dall'altro in quindici anni di governo non ha risolto la questione palestinese, fonte di ricorrenti conflitti, come testimonia il recente scambio di razzi e missili con Gaza, e dilemma che divora entrambi i popoli da sette decenni. A farlo cadere, in modo simile a Silvio Berlusconi, ha contribuito una lunga serie di scandali e procedimenti giudiziari che potrebbero vederlo condannato per frode e corruzione.
   Non è escluso che possa prendersi la rivincita, perché l'eterogenea coalizione che lo sostituisce mette insieme destra, centro e sinistra, ebrei religiosi e arabi musulmani, per raggiungere una maggioranza di un solo seggio: e sarà lui a guidare l'opposizione alla testa del partito di maggioranza relativa. Ma se a fargli mantenere il potere non è servito nemmeno vincere la sfida al Covid, facendo uscire Israele dalla pandemia prima di ogni altra nazione, probabilmente per gli israeliani è tempo di avere un nuovo leader: il suo ex -capo di gabinetto Naftali Bennett, il moderato laico Yair Lapid designato a dargli il cambio fra due anni o in futuro qualcun altro. Nei suoi 71 anni Bibi, come lo chiamano i suoi seguaci, ha dimostrato grandi capacità e terribili difetti.
   Fra le capacità, è stato un ex-commando di Sayeret Matkal, le forze speciali israeliane, con cui fu ferito in battaglia (e nelle quali suo fratello Yonatan perse la vita durante il raid per liberare gli ostaggi a Entebbe); un brillante studente al Mit e ad Harvard negli Stati Uniti; vice-ambasciatore a Washington e ambasciatore all'Onu, diventando ospite fisso dei talk show televisivi Usa in virtù di un perfetto accento americano; ministro degli Esteri, della Difesa e delle Finanze, il portafoglio da cui lanciò le privatizzazioni e le riforme che hanno fatto di Israele una potenza high-tech. Tra i difetti va ricordato che diventò primo ministro per la prima volta nel 1996, dopo l'assassinio del suo predecessore Yitzhak Rabin da parte di un estremista ebraico contrario al processo di pace: quel Rabin che gli oppositori interni disegnavano con la kefiah palestinese in testa o come ufficiale nazista, ai comizi in cui Netanyahu lo descriveva come un traditore. Vizio che non ha perso, se il capo dello Shin Beth, l'antiterrorismo israeliano, gli ha fatto visita nei giorni scorsi esortandolo a calmare la retorica contro Bennett, nel timore che anche quest'ultimo finisse nel mirino di un fanatico.
   Ciononostante, Netanyahu non ha mai rifiutato del tutto l'idea della pace con i palestinesi: ritirò le truppe da Hebron, la città della tomba di Abramo; strinse (come Rabin) la mano ad Arafat, negoziando gli accordi di Wye nel 1998; ha accettato l'idea di uno stato palestinese, sia pure demilitarizzato e senza Gerusalemme est. Paradossalmente, un suo errore colossale, l'operazione fallita per uccidere il capo di Hamas in Giordania, gli permetteva finora di non fare concessioni: per rimediare Netanyahu fu costretto a rilasciare lo sceicco Yassin, leader spirituale di Hamas, il cui ritorno a Gaza ha messo la striscia in mano a un gruppo riconosciuto come organizzazione terrorista da Washington e dalla Ue, dividendo il fronte palestinese.

(la Repubblica, 14 giugno 2021)


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Israele: un governo fragile e carico di aspettative. Ma finisce un’era

di Valentino Baldacci

Quello che ha giurato ieri davanti alla Knesset si presenta come uno dei governi israeliani più fragili della storia del Paese e al tempo stesso più carico di aspettative. La fragilità nasce non solo dalla debolissima maggioranza ma anche dalla eterogeneità delle sue componenti. Ma è un governo su cui si appuntano anche molte aspettative che non sono solo legate alla conclusione (ma sarà definitiva?) della lunga era Netanyahu.
  Per chiarire quale è forse la maggiore delle aspettative si possono riportare le parole pronunciate – in un’intervista rilasciata a Sharon Nizza e pubblicata su la Repubblica dell’11 giugno – da Mansour Abbas, il leader di Ra’am, il partito islamico che, per la prima volta nella storia di Israele, sostiene il governo: «Possiamo scegliere se rimanere arroccati nell’ostilità o guardare al futuro. L’obiettivo è quello della convivenza». Sono parole che valgono non solo per la minoranza araba ma anche per la maggioranza ebraica che è chiamata a esprimersi con chiarezza sulla piena legittimità della presenza di cittadini israeliani di etnia araba. Non sono scelte facile e di nuovo lo stesso Abbas le ha messe in evidenza quando ha detto: «Dobbiamo giostrarci tra la nostra identità di arabi palestinesi e di cittadini dello Stato d’Israele». È positivo che proprio il leader di un partito arabo abbia posto con chiarezza il problema che si manifesta tutte le volte che la nazionalità non coincide con la cittadinanza. Non è un problema di facile soluzione, affidata soltanto alla buona volontà o alle dichiarazioni d’intenti. Però è positivo che sia stato posto con la chiarezza necessaria, premessa per soluzioni realistiche.
  Se il ristabilimento della convivenza tra maggioranza ebraica e minoranza araba è il primo compito del nuovo governo, altri potrebbe averne, proprio come segnale della discontinuità con l’era Netanyahu. Uno di questi è la laicità dello Stato. Bisogna essere chiari: il problema della laicità si pone in Israele in modo del tutto diverso da come si è posto nelle società europee e in particolare negli Stati di tradizione cattolica. In questi ultimi la laicità ha significato combattere contro le posizioni della Chiesa che voleva mantenere le proprie pretese temporalistiche e svincolare lo Stato dalla sua tutela. Ciò è avvenuto in misura maggiore o minore a seconda dei vari Stati ma lo stesso regime concordatario parte dal presupposto della laicità dello Stato. In Israele il problema si pone in maniera del tutto diversa: il sionismo, nato come movimento laico, si è trovato di fronte non una Chiesa ostile ma una tradizione biblica nella quale, almeno a livello simbolico, lo stesso sionismo si riconosceva. Questa specificità, che si ritrova anche nel nome stesso di Israele, ha dato luogo a uno Stato che è fondamentalmente laico ma che era stato pensato per cittadini non solo di etnia ma anche di religione ebraica, dove i due aspetti non sono distinguibili sulla base dei criteri della tradizione cristiana. In realtà Israele deve oggi fare i conti con la presenza non solo di una rilevante presenza arabo-islamica e di una cristiana significativa anche se ridotta ma, soprattutto, con la crescente laicizzazione della società.
  Questa crescente laicizzazione – che va di pari passo con il suo fenomeno opposto, la dilagante presenza degli haredim, degli ultraortodossi – pone problemi non insormontabili ma molto sensibili proprio perché riguardano la vita quotidiana dei cittadini e alcuni momenti fondamentali della loro esistenza: il rispetto dello Shabbath, quello della Kasheruth e, in maniera particolare, la disciplina del matrimonio. Per quest’ultimo caso la situazione è ormai paradossale: lo Stato riconosce soltanto il matrimonio celebrato secondo i riti ebraico, islamico e cristiano, mentre non esiste il matrimonio civile; allo stesso tempo secondo un recente sondaggio più del 70% dei cittadini israeliani ne vorrebbe l’introduzione. Sembrerebbe una riforma ormai matura ma c’è da dubitare che questo governo – dove sono presenti partiti non solo di destra e di sinistra ma anche laici e religiosi – voglia rischiare la crisi su argomenti così delicati e divisivi.

(La Voce Repubblicana, 14 giugno 2021)


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Israele: il peggior Governo nel momento peggiore

Un governo nato esclusivamente sull’odio verso Netanyahu e non sull’amore per Israele che passa con un solo voto di margine includendo otto partiti tra cui il partito arabo Ra’am

di Franco Londei

Una premessa: sosterrò (e sosterremo) il nuovo Governo di Israele così come ho sempre sostenuto quelli che lo hanno preceduto da ben prima dell’avvento di Netanyahu.
Tuttavia, come ho già espresso in passato, non ho alcuna fiducia in un Governo che sembra nato esclusivamente con l’obiettivo di far fuori Netanyahu e non quello di difendere il Paese.
Non ho fiducia in un Governo che racchiude estrema destra, estrema sinistra e componente araba e che ha ottenputo la fiducia alla Knesset per un solo misero voto.
Cosa succederà quando immancabilmente sorgeranno attriti con l’Autorità Palestinese o, peggio, quando Hamas attaccherà di nuovo il sud di Israele? Cosa farà Mansour Abbas quando Israele reagirà (se reagirà?).
Cosa succederà quando verranno proposti nuovi insediamenti e Abbas non potrà che opporsi?
Otto partiti che vanno dall’estrema destra all’estrema sinistra passando per un partito arabo che hanno già litigato su tutto, ancor prima della formazione del nuovo Governo.

 FESTEGGIAMENTI PER LA CADUTA DI NETANYAHU
  Hanno ben poco da festeggiare quelli che ieri sera a Tel Aviv manifestavano davanti alla casa dell’ex Premier Benjamin Netanyahu.
Avere un Governo come questo quando l’Iran è alle porte, la minoranza araba durante l’ultimo conflitto con Hamas ha fatto capire chiaramente da che parte sta (con i terroristi), l’Autorità Palestinese soffia sul fuoco e non solo in Israele ma anche in Giordania, alleato chiave dello Stato Ebraico, non mi sembra proprio appropriato.
«Ho sentito quello che ha detto Bennett a proposito di rimanere fermo contro l’Iran, e sono preoccupato, perché Bennett fa l’opposto di quello che promette» ha detto Netanyahu nel suo discorso di commiato. E non ha tutti i torti. Bennet ha fatto tutto e il contrario di tutto, ha detto tutto e il contrario di tutto.
E poi Netanyahu, con riferimento ai recenti riavvicinamenti tra Stati Uniti e Iran ha detto una cosa che deve far riflettere moltissimo: «il primo ministro di Israele deve essere in grado di dire no al presidente degli Stati Uniti su questioni che minacciano la nostra esistenza. Sarà in grado Bennet di farlo?». A giudicare dalla reazione americana per la caduta di Netanyahu si direbbe di no.
Per la cronaca Bennet ha subito replicato a Netanyahu: «Israele non è parte dell’accordo sul nucleare iraniano e manterrà la piena libertà di azione», ha affermato il nuovo Premier israeliano.

 LE REAZIONI CHE PREOCCUPANO
  Biden è stato tra i primi a congratularsi con Bennet per la nomina a Primo Ministro di Israele. Con Netanyahu si comportò malissimo quando aspettò diverse settimane per chiamarlo dopo il suo avvento alla Casa Bianca, un vero insulto diplomatico.
Hamas ha fatto sapere attraverso il suo portavoce di essere pronto a “lavorare” con il nuovo Governo israeliano.
In Iran raccontano con gioia la caduta di “Re Bibi”, sperano che questo Governo sarà diverso e attribuiscono alla “vittoria della resistenza” il declino di Netanyahu.
Come ho detto prima e altre volte, noi sosterremo qualsiasi governo israeliano a prescindere da chi ci sarà a guidarlo, ma la presenza del partito arabo Ra’am che con soli tre deputati diventa essenziale per questo Governo, ci lascia francamente molto perplessi.
Non si poteva avere governo peggiore in un momento come questo. Speriamo che Israele non paghi troppo cara la voglia di potere di Bennet.

(Rights Reporter, 14 giugno 2021)


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Israele, è finita l'era Netanyahu. Il governo Bennett ottiene la fiducia

Il voto in Parlamento ha ufficializzato la nascita della Grande Coalizione che mette insieme otto formazioni di tutti gli schieramenti. Il nuovo esecutivo si occuperà anzitutto di economia, diritti sociali e istruzione, mentre eviterà la questione religiosa e quella palestinese. Miki Levi di 'C'è futuro' è stato eletto nuovo presidente della Knesset

di Sharon Nizza

TEL AVIV – Passa in Israele il voto di fiducia al 36mo governo del Paese: “governo del cambiamento”, “Grosse Koalition”, alleanza del “tutto tranne Bibi”, sono molti gli appellativi dell’eterogenea formazione che ha incassato oggi un risultato storico, mandando tra i banchi dell’opposizione Benjamin Netanyahu, il premier più longevo della storia dello Stato ebraico (15 anni di governo, di cui gli ultimi 12 consecutivi).
   A guidarla sarà un nuovo governo a rotazione cementato dal “patto dei fratelli”, come è noto il connubio tra Naftali Bennett e Yair Lapid realizzatosi nel corso dell’ultimo decennio, tra numerose disfatte e rinunce, con l’obiettivo di arrivare alla svolta epocale di oggi. Miki Levi di 'C'è futurò è invece stato eletto nuovo presidente della Knesset, il parlamento israeliano. Il voto - che ha preceduto quello sul nuovo governo - è il primo a far prevalere un candidato della nuova maggioranza. Levi ha avuto 67 voti su 120 e prende il posto di Yariv Levin del Likud.

 VASTA ALLEANZA
  A partire dalle 16 locali, la Knesset si era riunita per la lunga seduta al cui termine ha preso vita il governo guidato inizialmente da Bennett, che comanderà una squadra di 27 ministri e una coalizione di 8 formazioni politiche che rappresentano quasi tutto l’arco costituzionale israeliano: Yamina, il partito del neo-premier, Israel Beitenu del falco Avigdor Lieberman, Nuova Speranza di Gideon Saar, fuoriuscito pochi mesi fa dal Likud – questi sono tutti espressione di una destra nazionalista, seppur con elementi laici, considerata più intransigente di Netanyahu quanto a concessioni per una possibile svolta nella risoluzione del decennale conflitto con i palestinesi.
   Si passa poi per il centro laico di Yesh Atid di Yair Lapid – il vero mallevadore di questa grande alleanza, che subentrerà alla presidenza del consiglio nell’agosto 2023 – e di Blu e Bianco di Benny Gantz, che cambia governo ma non casacca e rimane ministro della Sicurezza. Per finire con la sinistra progressista del Labour e di Meretz (quest’ultimo torna al governo per la prima volta dopo 20 anni) e con la vera novità di questa svolta, il partito islamista conservatore Ra’am di Mansour Abbas, la prima volta dal 1977 che un partito arabo sostiene attivamente una maggioranza, e la prima volta in assoluto che appoggia un premier di destra espressione del movimento degli insediamenti.

 LE RIFORME IN PROGRAMMA
  Una maggioranza già risicata di 61 voti (su 120) ha già perso un colpo: è scesa a 60 voti, uno dei "sì" ha scelto l'astensione. La maggioranza dovrà cercare di mediare tra istanze profondamente diverse e tentativi di sabotaggio che Netanyahu si appresta a mettere in scena da capo dell’opposizione. Gli altri grandi assenti sono gli storici alleati del Likud, i partiti ultraortodossi, che non amano stare all’opposizione e che il nuovo governo punta a coinvolgere in un futuro non troppo lontano per garantire maggiore spazio di manovra. Per questo, negli accordi di governo siglati finora non sono previste riforme significative sullo status quo tra Stato e religione, così come non sarà all’ordine del giorno in questa prima fase la questione palestinese, data l’eterogeneità delle posizioni degli alleati. Il governo punta innanzitutto a creare un’armonia tra le parti lavorando su economia (il Paese va avanti senza finanziaria da due anni), divari sociali, istruzione.
   Per due anni, quando lo Stato ebraico è entrato nella crisi politica più acuta dei suoi 73 anni di vita che ha portato a ben quattro tornate elettorali, gli analisti hanno parlato della “fine dell’era Netanyahu”. Il mago indiscusso della politica israeliana è invece riuscito ad andare avanti tirando fuori un coniglio dal cappello per ogni occasione, fino al momento in cui sono stati proprio i suoi trucchi ad aprire la strada al nuovo governo, senza di lui: è lui che si è inventato l’anno scorso il “governo paritetico” per convincere Gantz ad abbandonare tutte le promesse elettorali e a sedersi con il premier sotto processo per corruzione. È lui che ha iniziato i contatti con Mansour Abbas, sdoganando l’alleanza di governo con un partito arabo. Ed è stato di certo lui, facendosi terra bruciata tra quasi tutti gli alleati del passato, a cementare l’alleanza tra elementi così diversi uniti nella volontà di mettere fine all’era Netanyahu.

 LA SFIDA DELL'EX PRIMO MINISTRO
  Domani sono previste le cerimonie ufficiali di passaggio delle consegne tra i vari ministeri, ma Netanyahu a ora non ha ancora chiamato Bennett, come vuole la consuetudine. Non si capacita che proprio il suo ex capo dello staff quando era all’opposizione, con soli 6 seggi, sia oggi riuscito nell’impresa in cui tanti altri hanno fallito, e per giunta nell’anno più riuscito della sua lunga carriera politica, con la campagna vaccinale anti-Covid elogiata da tutto il mondo e la vittoria strategica degli Accordi di Abramo.
   Fino all’ultimo Netanyahu ha cercato di trovare un disertore per fare saltare la fiducia, ma ormai i giochi sembrano fatti – anche se tutti i commentatori continuano a essere cauti, rievocando la disfatta di Peres del 1992 in cui sorprendentemente due parlamentari, disertando all’ultimo il voto di fiducia, fecero morire il governo sul nascere. L’elemento più indicativo della presa di coscienza della nuova realtà si è visto forse venerdì, quando il suo account ufficiale ha condiviso un tweet in cui il figlio Yair lo ringrazia “per tutto quello che hai fatto per lo Stato negli ultimi decenni. Sei uno dei più grandi leader che il popolo ebraico abbia mai avuto!”.
   C’era grande attesa per i 15 minuti concessi al premier uscente e nuovo capo dell’opposizione durante la seduta di oggi. Netanyahu sa che c’è un’altra sfida ad attenderlo dietro l’angolo: come non perdere la presa sugli alleati che hanno dimostrato fedeltà fino all’ultimo e che ora si trovano all’opposizione, ma non hanno intenzione di essere i filistei che Sansone si porta nella tomba. Le voci che chiedono di aprire un nuovo capitolo anche all’interno del Likud si fanno sempre più insistenti.

(la Repubblica online, 13 giugno 2021)


Congiurati pronti a giurare alla Knesset Ma Bibi ha reso Israele indispensabile

Il governo di unità archivia 12 anni di storia. «Eliminato» il leader che ha sconfitto il Covid e siglato la Pace di Abramo.

«HA UN BRUTTO CARATTERE»
Anche Churchill lo aveva eppure ha salvato lo stesso l'Europa da Hitler
«CORROTTO»
Nei tre processi aperti in tribunale per molti giuristi accuse false

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - «Ascoltatemi amici, romani, concittadini... Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che l'uomo fa vive oltre di lui. Il bene sovente, rimane sepolto con le sue ossa... Il nobile Bruto dice che Cesare era ambizioso», e che si dica, dice Marco Antonio secondo Shakespeare. E poi si avventura nelle lodi di Cesare il cui corpo giace sul selciato di Roma, e suscita l'amore della folla. La storia ha parlato di Cesare come meritava. E così sia per Netanyahu, che sta benissimo di salute e magari tornerà a essere primo ministro. Ma oggi i nuovi membri del governo non solo dicono che la loro è un' impresa di salvataggio della nazione, ma di compimento di un'opera storica indispensabile. Dicono che per quanto un leader possa essere prezioso, in democrazia 12 anni al potere sono un'anomalia che risulta una diminuzione della democrazia stessa.
   La seconda ripetuta motivazione è che Cesare-Netanyahu ha un carattere difficile, superbo, che non conosce scuse e non fa crescere virgulti: ed è per questo che i personaggi che oggi sono al governo, da Naftali Bennet a Yair Lapid a Yvette Lieberman a Gideon Saar, possono dire di essere stati trattati con poca giustizia e con spocchia. Ma anche Churchill non aveva un buon carattere. Questo non lo ha limitato nel salvare l'Europa da Hitler. Sono divenuti parte dell'insofferenza verso il leader la sua famiglia, il carattere della moglie Sara e gli interventi di suo figlio Yair, ma non risulta che abbiano mai influito sull'elaborata strategia sionista del primo ministro.
   E naturalmente si usa per lui ad abundantiam l'aggettivo «corrotto» rispetto alle tre accuse per cui oggi siede in tribunale: ma si tratta secondo molti giuristi di accuse fasulle e pretestuose. Netanyahu è un uomo di svolte grandiose nella storia di Israele, l'ultima delle quali, la vittoria del Paese sul Covid, è testimone di un modo di lavorare che va dritto allo scopo: insistere dall'inizio sui vaccini. Vaccinare tutti è stato sinonimo di salvare Israele, per questo l'ha fatto meglio di tutto il mondo.
   La sua percezione è che Israele è un Paese da salvare, piccolo, dai confini insicuri, dai nemici decisi, il solo Paese che tiene saldi i valori dell'Occidente figli della storia dell'ebraismo e che per questo ha bisogno di una particolare dedizione. La prima volta che Netanyahu fu primo ministro nel 1996, battendo Shimon Peres, questa determinazione appariva dura e solenne, troppo per resistere: nel tempo l'ha ammorbidita nel comportamento, ma solidificata nei contenuti. Durante un viaggio in Argentina spiegò dove stava andando: Israele deve potersi difendere da solo, la sua tecnologia, la sua scienza non devono conoscere rivali, deve avere le armi più moderne, devi sguinzagliare le migliori intelligenze.
   Netanyahu individua la sua strada per quella che è sempre stata la maggiore ambizione di ogni primo ministro: la pace. Capisce che merita dei tentativi seri, come quello del congelamento delle costruzioni nel West Bank, si merita il suo discorso che impegna il Paese a «due stati per due popoli» ma capisce anche, al contrario di Obama, che i palestinesi rifiutano l'esistenza dello Stato ebraico.
   E allora cerca un allargamento effettivo, anche per i palestinesi nel futuro, nei Patti di Abramo con la sua conquista della simpatia di una parte dei Paesi arabi al suo progetto. Bibi facendo questo ha spinto Israele sulla strada della sua dottrina più larga, della sua prospettiva migliore: una piccola grande potenza benefica, che può aiutare il mondo dall' acqua alla lotta contro il terrorismo ai satelliti al vaccino all'high tech alla medicina ... Israele con Netanyahu è diventata indispensabile al mondo intero.

(il Giornale, 13 giugno 2021)


Il risveglio del Libano. Duro attacco a Hezbollah da dentro Hezbollah

Un video durissimo contro Hezbollah che sta facendo il giro del web, non tanto e non solo per quello che viene detto ma perché a dirlo è il nipote del potentissimo deputato di Hezbollah, Ihab Hamadeh.

Sta facendo il giro del web il video del nipote del deputato di Hezbollah, Ihab Hamadeh (che trovate a lato), il quale contesta molto aspramente il discorso di Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, alla popolazione libanese.
  Nel suo discorso al popolo libanese, Hassan Nasrallah (che qualche “esperto” continua a dare in fin di vita) ha garantito che Hezbollah farà arrivare in Libano dall’Iran molti beni essenziali che oggi mancano, come la benzina, generi alimentari ecc. ecc.
  Infuriato dal modo in cui la leadership di Hezbollah sta prendendo in giro il popolo libanese riducendo la crisi del Libano a cose di superficie, come la carenza di beni vitali, il nipote di Hamadeh ha voluto chiarire che il problema è molto più profondo.
  «Non credo che il Libano abbia bisogno di carburante», ha detto, «questo non è il vero problema che abbiamo nel paese», aggiungendo che se il Libano è senza carburante può importarlo, ma non può importare cose come un intero settore sanitario o un esercito.
  «Il nostro problema non è la farina, il diesel e la benzina», ha schernito. «Smettila di parlare alle persone come se fossero stupide e non capiscano cosa sta realmente succedendo. Il problema è più profondo della benzina o di altro».
  La questione libanese è di sistema, ha spiegato, dicendo che il Paese soffre di una situazione di regime “ibrido”, in cui c’è più di un’entità al potere con visioni opposte.
  «Il vero problema è l’esistenza di uno stato nello stato di cui tutte le parti sono responsabili» ha accusato. «Una parte ha rubato il paese, i suoi soldi e l’economia [e non ha badato al resto per poter rubare in tranquillità…], l’altra ha rubato la nostra patria, la sua identità e la sua sovranità [lasciando che gli altri rubassero i soldi, per non essere disturbati mentre vendevano il paese all’Iran…]».
  Poi ha aggiunto che il Libano è ostaggio delle armi della milizia di Hezbollah. «Permettici di dirlo chiaramente, la resistenza è finita nel 2006. Questa è la realtà, con tutto il rispetto per coloro che vengono pagati per far parte della milizia», ha detto.
  Questo video è una vera coltellata alle spalle di Hezbollah perché dimostra come persino i “privilegiati” da questa crisi, persino i parenti dei “BIG” del Partito di Dio, siano stanchi di essere presi in giro da Hassan Nasrallah e che siano stanchi che il Libano sia una provincia iraniana invece che uno Stato democratico e prospero come lo era fino a poco tempo fa.
  «La fine di Hezbollah arriverà da dentro il Libano e il coraggio dimostrato dal nipote di Ihab Hamadeh con la diffusione di questo video, lo dimostra» ci spiega un membro del team di The961, un gruppo di persone coraggiose che cercano di dare ai libanesi una corretta informazione sulla crisi e su Hezbollah.
  «Il popolo libanese e in particolare i giovani, sono stanchi di farsi prendere in giro da Hezbollah e di vedere il loro paese diventare sempre di più una provincia iraniana. È arrivato il momento di riprenderci il nostro paese» ha concluso.

(Rights Reporter, 13 giugno 2021)


L'Europa paga i manuali per uccidere gli ebrei

Nei libri scolastici adottati dall'Anp si incita alla violenza contro Israele, che però è scomparso dalle cartine geografiche

di Daniel Mosseri

«L'Unione europea è il maggior donatore di assistenza esterna ai palestinesi». Lo scrive l'Ue nel sito (eeas.europa.eu) dedicato all'azione esterna dei 27. È grazie ai contribuenti europei se stipendi e pensioni dell'Autorità palestinese vengono pagati regolarmente, Non tutti i finanziamenti europei sono però spesi con oculatezza: lo spiega la Bild accusando Bruxelles di chiudere entrambi gli occhi su alcuni propri errori. Il tabloid tedesco ricorda che l'ex commissario europeo per la politica estera e di sicurezza, l'italiana Federica Mogherini, ha incaricato il Georg Eckert Institute for Intemational TextbookResearch (Gei) di analizzare i libri di testo dell'Autorità palestinese del presidente Abu Mazen. I media israeliani pullulano di notizie sui contenuti violenti, antisemiti e antistorici dei libri di testo delle scuole di Ramallah, Gaza e dintorni, e qualcuno a Bruxelles ha pensato di controllare. La Commissione si è dunque affidata al Gei, autorità europea per la ricerca sui libri di testo, un'attività che è valsa all'istituto di Braunschweig il Premio Unesco per la Pace e l'Istruzione.
   Sul sito del Gei si legge che la ricerca sui libri di testo palestinesi è iniziata a settembre 2019 per protrarsi fino a novembre 2020. Il rapporto giace però da sette mesi in qualche cassetto di Palazzo Berlaymont. Secondo la Bild - che ha letto le 200 pagine sui 156 libri di testo e 16 istruzioni didattiche pubblicate dal Ministero dell'Istruzione palestinese tra il 2017 e il 2019, più altri 18 manuali per le scuole pubblicati nel 2020 - Bruxelles non ha interesse a farlo circolare. Perché l' intero conflitto israelo- palestinese, spiega il tabloid, è spiegato come lotta di resistenza, che nei libri viene chiamata jihad, un termine con il quale i compassati funzionari brussellesi non dovrebbero andare tanto d'accordo. E poiché siamo in ambito di jihad è naturale che nei libri i caduti palestinesi siamo chiamati "martiri". Una terminologia da islamici radicali che fa a pugni con l'immagine di laicità e moderatezza veicolata da Abu Mazen quando incontra i suoi finanziatori occidentali. I modelli educativi elaborati per i bambini palestinesi parlano una lingua diversa: fra i "martiri" riveriti e glorificati spiccano per esempio i nomi di Abu Jihad e di Dalal Mughrabi, due terroristi di Fatah (il partito di Arafat e di Abu Mazen) corresponsabili del "Massacro della strada costiera" a nord di Tel Aviv, che costò la vita a 38 civili israeliani, fra i cui tredici bambini. Eppure Mughrabi è descritta come un'eroina che partecipò a «un'azione di commando sulla costa palestinese nel 1978, attraverso il quale furono uccisi più di 30 soldati sionisti».

 LA STORIA JIHADISTA
  Se la storia recente è riscritta, quella antica è riletta in chiave antisemita: nel narrare la battaglia del profeta Maometto contro una tribù ebraica nell'oasi di Khaybar «gli ebrei - racconta la Bild - sono descritti come subdoli e codardi». La gara è al ribasso: «Un libro per la quinta elementare in educazione religiosa ricorda la storia di Safiyya bint Abd al-Muttalib, la zia e compagna del profeta Maometto, che picchiò a morte un ebreo con una mazza di legno» e collega l' episodio alla resistenza contro l'occupazione sionista. In un esercizio si chiede agli scolari di discutere quante volte gli ebrei abbiamo tentato di uccidere Maometto e si chiede di enunciare se ci siano altri nemici dell'Islam.
   Gli autori dello studio osservano anche come i numerosi attacchi terroristici palestinesi e attentati suicidi contro gli israeliani non vengano mai menzionati né lo Stato di Israele appare sulle mappe utilizzate nei manuali per le scuole. Insufficienza anche in geografia - «Il deserto del Negev è parte integrante della terra palestinese», sebbene il Negev sia interamente in territorio israeliano - e massimo dei voti in teoria del complotto: «Gli israeliani sostituiscono pietre antiche con altre dai caratteri sionisti». Quanto alla parte israeliana, «questa è rappresentata come un collettivo omogeneo e violento» con il solo volto di coloni e soldati.

 PRESIDENTE NEGAZIONISTA
  A un portavoce della Commissione, Libero ha chiesto quando il rapporto sarà presentato al Parlamento europeo. «Presto». Forse non occorreva darsi tanta pena. Il presidente palestinese Abu Mazen, il cui mandato è scaduto nel 2009 ma non ha mai organizzato nuove elezioni, non è nuovo all'odio antisemita. Nel 1982 discusse una tesi di dottorato all'Università Patrice Lumumba di Mosca sostenendo che lo sterminio nazista degli ebrei «è un'enorme bugia». In tempi più recenti Abu Mazen ha dedicato scuole dell'Anp a terroristi palestinesi e concesso ricche pensioni alle famiglie dei "martiri". Anche uno studio pubblicato da IMPACT-se, versione israeliana del Gei, arriva alle stesse conclusioni. «I libri di testo palestinesi restano apertamente antisemiti e continuano a incitare alla violenza, al Jihad e al martirio mentre la pace non appare né preferibile né possibile». Lo studio, che mostra fra l'altro come alcuni libri di testo riportino articoli degli accordi di Oslo depurati però di ogni riferimento a Israele, è consultabile online a costo zero.

Libero, 13 giugno 2021)


Da Israele una speranza in più sul glioblastoma

di Luciano Bassani

Il glioblastoma, noto anche come glioblastoma multiforme o astrocitoma di grado IV, è una forma molto aggressiva di tumore che colpisce il sistema nervoso centrale e rappresenta circa il 45% di tutti i tumori che hanno origine nel cervello. Il glioblastoma ha origine da un gruppo di cellule, chiamato glia, che assieme ai vasi sanguigni hanno funzione nutritiva e di sostegno per i neuroni e assicurano l'isolamento e la protezione dei tessuti nervosi. Il glioblastoma interessa i neuroni che compongono il sistema nervoso, con un tasso di sopravvivenza dalla sua insorgenza in media del 40% dopo 12 mesi e del 5% dopo cinque anni, questo anche dopo interventi chirurgici, radioterapia e chemioterapia. Ad ulteriore svantaggio dei pazienti si ha la tempistica col quale solitamente si diagnostica questa patologia che può rimanere asintomatica durante le fasi dello sviluppo del tumore, limitando terapie tempestive.
   L'esposizione alle radiazioni ionizzanti causa danni ai tessuti viventi e alcune forme di cancro tra cui il glìoblastoma. Tra le radiazioni ionizzanti ci sono i raggi X utilizzati nelle radiografie e nella Tac, i raggi gamma, usati nella Peto nelle scintigrafie, i raggi ultravioletti, compresi quelli solari.
   La causa principale dell'insorgenza del glioblastoma risiederebbe in un malfunzionamento di una classe di proteine del sistema immunitario. Ricercatori dell'universìtà di Tel Aviv hanno scoperto un nuovo potenziale trattamento testato per ora solo su modelli animali di roditore e attraverso un modello di laboratorio in 3D.
   La professoressa Ronit Satchi-Fainaro responsabile del Cancer Biology Research Center e del Cancer Research and Nanomedicine Laboratory della Tau - University of Tel Aviv, ha diretto questa importante ricerca e ha scoperto che vi è un'anomalia nel sistema immunitario nell'area del cervello correlata allo sviluppo del glioblastoma dovuto alla secrezione di una proteina chiamata P-selectina (Selp) che quando si lega alle cellule della glia stimola la proliferazione di cellule tumorali, anziché inibirne la produzione.
   Bloccando così questo meccanismo si è potuto vedere che le cellule tumorali hanno avuto un tasso di divisione più lento, ostacolando, almeno nei roditori, la progressione del cancro nel cervello. Tutti i topi ai quali è stato indotto il glioblastoma sono deceduti ad eccezione di quelli a cui era stata somministrata una molecola che bloccava la produzione delle proteine P-selectine, coinvolta nel malfunzionamento delle cellule gliali.
   Questo trattamento potrebbe rappresentare l'apertura di una nuova strada nella battaglia contro il cancro più spaventoso di tutti e sta portando alla luce una nuova terapia per una malattia che nell'ultimo decennio non ha avuto evidenti miglioramenti con nessun trattamento.

(La Verità, 13 giugno 2021)


«EBRAICA». Via oggi al festivai col generale Figliuolo e la musica di Tosca

Da oggi a giovedì 17 giugno ritorna Ebraica, Festival Internazionale di Cultura, giunto alla sua quattordicesima edizione. L’appuntamento odierno alle 19.15 con l'inaugurazione della mostra fotografica «Waters to Waters - Ritorno alla vita?» di Merav Maroody. La fotografa, attraverso i suoi scatti che catturano l'acqua, si interroga sul tema della rinascita.
  A seguire a Palazzo della Cultura dalle 19.30 il Generale Francesco Paolo Figliuolo e il Rabbino Capo di Roma Riccardo I2i Segni saranno protagonisti dell'incontro «Vedere il futuro», una conversazione sul tema della ripartenza moderata dal direttore de La Repubblica Maurizio Molinari.
  La stessa sera la cantante e attrice romana Tosca presenterà sempre a Palazzo della Cultura a partire dalle 21.30, in collaborazione con la Fondazione Museo della Shoah, il monologo Soldo de Cacio, di Gianni Clementi in cui racconta la storia di un'ebrea, Giuditta, e di altri ebrei che come lei, durante il rastrellamento del 16 ottobre, si salvarono proprio grazie all'uso della mascherina. Durante la serata sarà inoltre possibile visitare il Museo Ebraico di Roma e la mostra «Dall'Italia ad Auschwitz».

(Il Tempo, 13 giugno 2021)



Le seduzioni della donna adultera

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 5.
  1. Figlio mio, sta' attento alla mia saggezza,
    inclina l'orecchio alla mia intelligenza,
  2. affinché tu conservi l'accorgimento,
    e le tue labbra custodiscano la scienza.
  3. Poiché le labbra dell'adultera stillano miele,
    la sua bocca è più morbida dell'olio;
  4. ma la fine a cui conduce è amara come l'assenzio,
    è affilata come una spada a doppio taglio.
  5. I suoi piedi scendono alla morte,
    i suoi passi portano al soggiorno dei defunti.
  6. Lungi dal prendere il sentiero della vita,
    le sue vie sono erranti, e non sa dove va.
  1. Figlio mio, sta' attento alla mia saggezza,
    inclina l'orecchio alla mia intelligenza,

    Per la prima volta il maestro parla di ”mia" saggezza e di ”mia" intelligenza, forse perché molti possono riferirsi genericamente alla saggezza, indicando come giusta e vera quella da essi presentata. Il discepolo deve saper fare le necessarie distinzioni, perché le proposte di sapienza possono essere molte. Per questo il maestro continua a dire: Figlio mio, sta' attento a quello che ti dico, inclina l'orecchio e ascolta quello che proviene dalla mia comprensione della realtà, perché altrimenti potresti essere attirato da altre voci che ti porterebbero lontano dalla verità e dalla giustizia.

  2. affinché tu conservi l'accorgimento,
    e le tue labbra custodiscano la scienza.

    L'ascolto attento delle parole di saggezza è indispensabile per mantenere l'accorgimento necessario per sfuggire alle seduzioni della donna corrotta di cui si parlerà subito dopo. Si può essere sicuri di avere veramente imparato una lezione soltanto quando si è in grado di ripeterla con parole proprie. Dopo aver ascoltato le esortazioni sagge, il discepolo deve dunque custodire la scienza sulle sue labbra, cioè facendosi a sua volta trasmettitore di saggezza.

  3. Poiché le labbra dell'adultera stillano miele,
    la sua bocca è più morbida dell'olio;

    Soltanto le labbra che custodiscono la scienza sono in grado di resistere, rispondendo con parole adatte, alle labbra dell'adultera. Labbra e bocca (lett. palato) stanno qui a significare l'atto del parlare, non del baciare. Il linguaggio seducente della donna è dolce, morbido, "amorevole" direbbe qualcuno, perché esprime ammirazione per l'altro, comprensione, desiderio di averlo vicino. Perché non chiamare "amore" questo sentimento che si esprime con parole così tenere, delicate, gentili? Forse l'uomo preso di mira sta attraversando un periodo di aspri contrasti, di incomprensioni, di cattiverie ingiustamente subite. E al momento opportuno arriva qualcuno che non parla di guerra, ma di pace, che sa capire, portare parole di conforto e offrire consolazioni morali e corporali. Parole dolci come il miele provenienti da una bocca più morbida dell'olio. Come si fa a resistere? Il maestro ha già risposto: ricorrendo alla saggezza ottenuta attraverso l'istruzione e gelosamente custodita per essere usata in momenti di sbandamento come quelli provocati dalle seduzioni di una donna corrotta.

  4. ma la fine a cui conduce è amara come l'assenzio,
    è affilata come una spada a doppio taglio.

    Alla dolcezza del miele segue l'amarezza dell’assenzio; alla morbidezza della bocca segue il taglio affilato di una spada. L'assenzio è sgradevole e velenoso; la spada ferisce e uccide. La fine a cui conduce il seguire le parole invitanti della donna corrotta è la morte, intesa non come fatto naturale, ma come pena capitale, conseguenza di un giusto giudizio. Chi avrebbe potuto prevedere che un'esperienza piacevole come quella offerta da una donna comprensiva e disponibile avrebbe avuto una conclusione così drammatica? Nessuno, se non colui che accoglie e custodisce le parole della vera sapienza. L'uomo può trasgredire le indicazioni di Dio, ma non può evitare di subirne le conseguenze.

  5. I suoi piedi scendono alla morte,
    i suoi passi portano al soggiorno dei defunti.

    Il sentiero su cui cammina la donna adultera è in discesa: la sua condotta è inevitabilmente attirata verso il basso. La degradazione morale prodotta da ripetuti comportamenti peccaminosi è un cammino verso la morte paragonabile al deterioramento fisico prodotto dall'invecchiamento. Invece di "portano" alcune versioni traducono "fanno capo", sottolineando il fatto che per quanto lungo possa essere il percorso della donna corrotta, il capolinea finale è il soggiorno dei defunti (2.18).

  6. Lungi dal prendere il sentiero della vita,
    le sue vie sono erranti, e non sa dove va.

    L'aspetto che deve essere sottolineato in queste parole è l'ignoranza della donna adultera: non sa dove va. Appartiene anche lei alla categoria degli empi che non scorgono ciò che li farà cadere” (4.19). Quello che è certo è che si allontana dal sentiero della vita, che è un altro modo per ripetere che sta camminando verso la morte (5.5). E' sgradevole questo parlar di morte riferendosi a una situazione in cui molti parlerebbero piuttosto d'amore, magari male indirizzato, ma pur sempre amore. E invece la verità è quella presentata dalla Scrittura: la concupiscenza sessuale esercitata al di fuori del patto d'amore voluto da Dio è in realtà una manifestazione di egoismo che molto spesso si trasforma in autentico odio (2 Samuele 13.1-20). E chi odia non ha la vita in sé (1 Giovanni 3.15).

    M.C.

 

Netanyahu ha lottato per rimanere al potere come primo ministro israeliano

di Michele Monaldo

La scorsa settimana, Netanyahu ha accusato l’uomo che lo avrebbe sostituito, Naftali Bennett, di portare avanti la “più grande frode elettorale nella storia del paese” e creare un governo “pericoloso”, in un linguaggio che ha fatto eco alle affermazioni infondate dell’ex presidente Donald Trump dopo le elezioni statunitensi del 2020. Giovedì il partito Likud di Netanyahu ha attenuato le false accuse di frode elettorale, ma solo leggermente. Invece di dire che c’erano errori di conteggio dei voti o frodi sistematiche, il partito ha pubblicato su Twitter che “Bennett ha dirottato i voti da destra e li ha spostati a sinistra in diretta contraddizione con i suoi impegni. Se questa non è una truffa, allora non sappiamo cosa lo sia.
   In un thread Twitter condiviso da Netanyahu, il Likud ha affermato che ci sarebbe stato un trasferimento pacifico del potere a un nuovo governo. “C’è sempre stato un pacifico trasferimento di potere in Israele e ci sarà sempre”, ha scritto il partito Likud. Il partito ha incolpato altri, senza nome, per quello che ha affermato essere il modo in cui le parole di Netanyahu erano state “distorte”.
   Ma questo non significa che per Netanyahu sia lo stesso soccombere alla sua sconfitta Oppure lasciare tranquillamente la residenza ufficiale del primo ministro in Balfour Street a Gerusalemme. Netanyahu si è più volte dipinto come l’unica persona che può proteggere Israele dai nemici di Iran, Gaza e Libano.
   Nella Knesset israeliana da 120 seggi, Bennett ha una sottile maggioranza di 61 seggi.
   Netanyahu e i suoi alleati stanno facendo pressioni sui politici dei partiti Right e New Hope affinché votino contro il nuovo governo di Bennett nel cruciale voto di fiducia previsto per domenica pomeriggio.
   Se Bennett perde il voto, i suoi sforzi per cacciare l’uomo per cui ha lavorato saranno falliti e probabilmente manderà Israele alle sue quinte elezioni in due anni e mezzo. Ma il fallimento lascerebbe Netanyahu come primo ministro ad interim, un titolo che ha mantenuto durante la maggior parte dei recenti disordini politici di Israele.
   Come parte di una campagna di lobbying in corso contro Bennett, Netanyahu ha twittato, all’inizio di questa settimana: “Chi è di destra non vota per un governo di sinistra, e chi sostiene un governo di sinistra non è di destra”. Bennett ha rafforzato il suo sostegno alla sua coalizione quando un membro del suo partito Yamina, considerato uno di quelli che potrebbero disertare e fallire il governo nascente, ha promesso il suo sostegno martedì.
   E domenica Bennett ha esortato il leader di lunga data di Israele a sostenere una transizione ordinata del potere e a non lasciarsi alle spalle la “terra bruciata”.
   “Questo non è un disastro, non è un disastro. È un cambio di governo. È un evento normale e consueto in qualsiasi paese democratico”, ha detto Bennett in una conferenza stampa domenica sera nel parlamento da 120 seggi, noto come la Knesset. . “Il sistema nello Stato di Israele non è una monarchia. Nessuno ha il monopolio del potere”.
   Netanyahu deve ancora ammettere pubblicamente la sconfitta al suo ex capo di gabinetto, ed è ben consapevole delle opportunità che ancora ha di trovare divisioni e crepe da sfruttare nel governo Bennet, destinato a essere la coalizione più diversificata nella storia di Israele, comprendente partiti di destra, di sinistra e arabi.
   Ma una coalizione di otto partiti diversi, ciascuno con i propri interessi divergenti, potrebbe avere poco terreno comune per unirsi se non il desiderio di rimuovere Netanyahu dall’incarico.
   L’unità del governo di Bennett affronterà la sua prima grande prova domenica pomeriggio, quando la Knesset si riunirà per discutere le priorità e le politiche della coalizione prima di prestare giuramento. La discussione dovrebbe durare alcune ore, durante le quali Netanyahu e i suoi alleati cercheranno di trovare punti di pressione per tenere una parte lontana dall’altra. Solo allora il presidente della Knesset, membro del partito Likud di Netanyahu, chiederà il voto di fiducia.
   Sarà un momento decisivo, che non solo decide il leader dello stato, ma rivela anche se Netanyahu, a lungo considerato il “mago” della politica israeliana, ha un altro trucco da giocare.

(Futura Memoria, 12 giugno 2021)


Il Mossad canta

Il capo dei servizi israeliani (fino a 12 giorni fa) concede una strana intervista rivelatoria.

di Daniele Raineri

ROMA - Giovedì sera la rete tv israeliana Channel 12 ha trasmesso una strana intervista di più di un’ora a Yossi Cohen, che ha lasciato il posto di direttore del Mossad dodici giorni fa. E’ strana perché per la prima volta un ex capo dell’intelligence rivela informazioni a proposito dei sabotaggi e delle operazioni in Iran – di solito Israele mantiene un silenzio ambiguo – e lo fa a distanza così breve dalla fine del suo incarico. Ed è strana anche perché in molti casi è la giornalista che lo intervista, Ilana Dayan, a rivelare dettagli importanti senza essere contraddetta. L’impressione è che Cohen voglia sfruttare i successi di quando era direttore del Mossad per accumulare capitale politico in vista di una futura candidatura a primo ministro di Israele, che infatti a fine intervista “non esclude”, anche se “non ora” (per un po’ non ci dovrebbero essere più elezioni dopo quattro elezioni in soli due anni). Cohen racconta di avere estrema familiarità con i siti nucleari iraniani e che se potesse farebbe vedere alla giornalista i sotterranei di Natanz.
  Dove “giravano” (al passato) le centrifughe. Natanz è stata colpita da due esplosioni a luglio e ad aprile. La Dayan spiega che la prima volta l’esplosivo era contenuto in una scrivania e la seconda, molto più distruttiva, l’esplosivo era contenuto in una piattaforma di marmo molto pesante usata per stabilizzare le centrifughe. Cohen non commenta. In entrambi i casi, sono stati gli iraniani stessi a piazzare senza saperlo le bombe dentro il loro sito nucleare più sorvegliato. “Le centrifughe non girano più ora?”, chiede lei. No. “Ma magari le hanno riparate nel frattempo”. Quel posto non è più come era prima, dice lui, alludendo così al fatto che il Mossad avrebbe immagini delle conseguenze dell’esplosione dentro Natanz. Cohen dice: “Ci rivolgiamo con chiarezza all’Iran: non vi lasceremo avere la bomba atomica. Che cosa non capite?”.
  Su Mohsen Fakhrizadeh, il generale e scienziato iraniano ucciso in un agguato per strada a novembre, Cohen rivela che era sorvegliato da anni dal Mossad e gli agenti erano arrivati molto vicino a lui fisicamente – ma non si prende la responsabilità dell’omicidio. E però dice: “Se un uomo ha una capacità che mette in pericolo i cittadini di Israele, deve smettere di esistere”. Chiede la giornalista: è mai capitato di avvicinare uno scienziato iraniano – sto facendo soltanto un esempio – e dirgli: “Caro amico, forse preferisci diventare un insegnante di piano?”. Sì. “Capiscono l’alternativa?”. Vedono i loro amici. “Capiscono chi li ha avvicinati?”. Anche se non lo capiscono, sanno chi c’è dietro. Cohen conclude questo segmento dicendo che ci sono scienziati iraniani che hanno ascoltato il consiglio.
  L’ex capo del Mossad racconta quello che considera uno dei suoi successi più grandi e il solo che può rivendicare: l’aver messo le mani sui documenti segreti del programma nucleare iraniano nascosti in trentadue casseforti dentro un palazzo sorvegliato di Teheran sud nel 2018. Il programma spiega che ad agire fu una squadra di 20 agenti, nessuno dei quali israeliano (se fosse un’informazione vera, confermerebbe che Israele dispone di un network di agenti iraniani dentro l’Iran), che fu preparata per due anni in una replica di quel luogo “in un altro paese” – com’è ovvio, perché agenti iraniani non potrebbero andare ad addestrarsi in Israele. Forse l’Azerbaigian che confina a nord? Cohen quella notte seguì in diretta dal comando di Tel Aviv le operazioni durate sette ore per scassinare le casseforti e portare via il contenuto. Quando arrivarono le immagini dei documenti in farsi, che descrivevano il programma nucleare dell’Iran, gli israeliani capirono l’importanza del colpo. Sguinzagliarono per Teheran alcuni camion civetta per ingannare l’apparato di sicurezza dell’Iran, che all’alba avrebbe scoperto cosa era successo. Intanto, a bordo del camion con i documenti, gli agenti copiavano e trasmettevano tutto quello che era loro possibile nel caso fossero stati fermati. Riuscirono a portare via tutto anche se il regime aveva bloccato i confini. Alcuni agenti, dopo l’operazione, dovettero essere portati in salvo via dall’Iran.
  Un segmento è dedicato alla vicinanza di Cohen al primo ministro uscente, Benjamin Netanyahu. Lui assicura che l’ottimo rapporto andava tutto a vantaggio delle operazioni del Mossad e che ogni cosa che faceva “era per uno scopo più alto”.

Il Foglio, 12 giugno 2021)


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L'ex capo del Mossad racconta l'attacco alle centrale nucleare iraniana di Natanz

"L'esplosivo nascosto nel marmo per le fondamenta". Intervista di Yossi Cohen all'emittente Channel 12. L'ok delle autorità alla conversazione televisiva forse un messaggio a Teheran e alle potenze che negoziano a Vienna.

di Gabriella Colarusso

Israele e l’Iran non sono due paesi formalmente in guerra, ma la guerra è la modalità dei rapporti tra Israele e l’Iran: sabotaggi alle centrali nucleari, uccisioni mirate di scienziati e capi militari da parte di Israele, sequestri di navi, attacchi nel golfo di Hormuz dal fronte iraniano. E’ una guerra ombra, di deterrenza, e il principio che evita che deflagri in un conflitto aperto è l’assenza di prove certe, nessuna rivendicazione. Così ieri ha sorpreso molti l’intervista che Yossi Cohen, fino a nemmeno 10 giorni fa il capo del Mossad, ha rilasciato alla giornalista investigativa Ilana Dayan della televisione pubblica Channel 12 accettando di discutere di una serie di operazioni israeliane contro l’Iran con un livello di dettaglio inedito per un ex capo dell’intelligence.
  Cohen ha parlato innanzitutto dei due attacchi contro Natanz, il sito di arricchimento dell’uranio che è al centro del programma nucleare iraniano e che è stato colpito due volte, a luglio del 2020 e ad aprile del 2021: il primo colpo ha distrutto un gruppo di centrifughe di nuova generazione, il secondo la sala sotterranea che era stata progettata per proteggerle dagli attacchi. Cohen non ha rivendicato direttamente gli attacchi, ma quando l’intervistatrice gli ha chiesto dove l’avrebbe portata se avessero potuto viaggiare lui ha risposto nel “sotterraneo” di Natanz, dove “girano le centrifughe utilizzate” che non ha “più l’aspetto che aveva prima”, confermando di avere esatta conoscenza di cosa è accaduto all'interno. La giornalista Dayan ha retto il gioco, aggiungendo dettagli alla ricostruzione e descrivendo fuori campo la modalità con cui Israele ha introdotto gli esplosivi: "L'uomo che è stato responsabile di queste esplosioni, sembra chiaro, si è assicurato di fornire agli iraniani le fondamenta di marmo su cui sono posizionate le centrifughe”. Gli iraniani non sapevano che il marmo “avesse già all’interno un'enorme quantità di esplosivi”.
  Dayan e Cohen hanno anche parlato dell’uccisione dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh, il padre del programma nucleare militare iraniano, freddato mentre si spostava da Damavand a Teheran insieme alla moglie e alla scorta il 27 novembre del 2020. Anche in questo caso è stata la giornalista a fare da spalla all’ex capo del Mossad, introducendo il segmento dell’intervista ha presentato Cohen come l’uomo che ha “firmato personalmente l’intera campagna” di sabotaggio del programma nucleare iraniano, che Teheran ha sempre negato sia a scopi militari, per lo sviluppo della bomba. Quello su cui Cohen è stato più esplicito è l’operazione con cui nel 2018 Israele riuscì a trafugare una serie di documenti riservati sul programma nucleare iraniano nei quali compariva proprio il nome di Fakhrizadeh e che confermavano l’esistenza di un programma militare nucleare attivo almeno fino al 2003. L'operazione ha coinvolto 20 agenti ma nessun israeliano, che hanno scansionato il materiale e lo hanno trasmesso al Mossad prima che fosse portato fisicamente fuori dall’Iran.
  In Israele tutte le dichiarazioni, le interviste o i documenti che riguardano la sicurezza nazionale devono passare al vaglio della censura militare, questo significa che anche l’intervista di Cohen è stata approvata. Come mai? L’ipotesi degli osservatori più attenti è che Israele abbia voluto mandare un messaggio all’Iran e alle potenze che stanno negoziando a Vienna per riportare in vita l’accordo del 2015: il programma nucleare iraniano è una linea rossa.

(la Repubblica online, 12 giugno 2021)


The Narrative

Quando c’entra Israele i giornalisti diventano attivisti woke, ci dice Matti Friedman

di Paola Peduzzi

MILANO - La nuova coalizione che domenica dovrà ottenere la fiducia alla Knesset, il Parlamento israeliano, “non sarà facile da gestire e potrebbe non durare a lungo”, dice al Foglio Matti Friedman, “ma riflette in modo interessante e positivo la società israeliana, dalla destra alla sinistra, includendo per la prima volta un partito arabo. E non un partito arabo qualunque, ma il Movimento islamico che oggi è guidato da uno tra i politici più intelligenti del paese, Mansour Abbas”. Matti Friedman, poco più che quarantenne felice di vivere a Gerusalemme perché “quando sei qui questo è un posto reale, non un ideale o una questione da risolvere”, scrive su molti giornali internazionali, dal New York Times all’Atlantic, e scrive libri, l’ultimo è stato pubblicato da Giuntina nell’aprile scorso, si intitola “Spie di nessun paese. Le vite segrete alle origini di Israele”. Friedman indaga la storia e il passato per raccontare l’attualità con uno sguardo che si discosta parecchio dal modo con cui si parla solitamente di questa parte di medio oriente. Non siamo “una questione” che riguarda confini, attacchi, territori espropriati, muri e deboli tregue, dice: siamo persone, popoli, intrecci, storie, contaminazioni, e tanta, tantissima convivenza. “La gente tende a pensare che la linea di divisione tra ‘arabo’ ed ‘ebreo’ sia molto definita e immagina gli ebrei in Israele come degli europei bianchi. Ma più vivi qui, più ti accorgi che le cose sono molto più sfumate. Metà degli ebrei che abitano in Israele ha radici nel mondo islamico, in paesi come il Marocco, lo Yemen, la Siria. Le prime spie di Israele – che sono le protagoniste del suo ultimo libro – erano ebrei che potevano tranquillamente passare per arabi, forse perché le loro identità arabe non erano affatto fittizie. Erano nativi del mondo arabo e questa è una grande parte di quel che Israele è oggi, una cosa che moltissimi in occidente trovano difficile da capire. Nel 2021, è molto più importante conoscere e comprendere questo Israele, l’Israele mediorientale, più che l’Israele delle origini, del socialismo e dei kibbutz”.
  In realtà oggi si comprende molto poco di Israele in tutte le sue declinazioni identitarie ed è su questo tema che si sviluppa il lavoro giornalistico di Friedman. “Quando ho iniziato a lavorare per la stampa internazionale quindici anni fa, qui a Gerusalemme, pensavo che avrei lavorato con persone curiose rispetto a questo paese complicato. Ce n’erano, ma i media si stavano già muovendo verso un attivismo di sinistra radicale camuffato da giornalismo. Le storie da raccontare venivano scelte in modo politicamente corretto: aiuteranno le persone giuste? Serviranno a fare giustizia? Tutto quel che rappresentava i palestinesi come agenti del proprio destino, cioè come degli adulti che prendono decisioni, veniva minimizzato, perché i palestinesi esistevano soltanto in quanto vittime di Israele. Così in una guerra a Gaza, per esempio, vedi molti morti civili ma nessun combattente di Hamas. E sentirai parlare moltissimo delle ingiustizie in Cisgiordania, che ovviamente esistono, ma pochissimo dell’obiettivo del movimento nazionale palestinese che è quello di distruggere Israele e sostituirlo con uno stato arabo”. Nel 2014, Friedman pubblicò due lunghi articoli sulla sua esperienza come giornalista dell’Associated Press, che fecero molto scalpore perché erano dettagliati e puntuali nel descrivere la trasformazione della narrazione di Israele. Ma “la copertura dei fatti non è cambiata, anzi forse è peggiorata”, dice, anche se diminuisce il numero di persone che crede davvero a “questa fantasia ideologica tanto palese”.
  Quando dice che la copertura è peggiorata, Friedman si riferisce al fatto, risultato molto chiaro durante l’ultimo conflitto a Gaza, che l’attivismo ha fatto un passo ulteriore: difendere i palestinesi è difendersi contro il razzismo, perché Israele è uno stato “apartheid” e Black Lives Matter diventa Palestinian Lives Matter, lo stesso fronte, la stessa battaglia. “L’accusa di apartheid fa parte di una campagna denigratoria nata dalla propaganda sovietica negli anni Settanta che ora ha ripreso quota nel mondo intellettuale e accademico. Ci sono molti paesi che hanno problemi razziali ed etnici, come gli Stati Uniti per dire, ma apartheid si usa in questo specifico caso, anche se la posizione strategica del partito arabo Ra’am nella coalizione di governo in Israele e il desiderio di integrazione di molti cittadini arabi evidentemente la contraddicono”. Cambia qualcosa? No, perché “la narrazione anti Israele racconta solo in modo tangenziale il paese che è oggi”, questo posto reale in cui Friedman cresce i suoi quattro figli (“è un paese fatto per le famiglie”, dice). “Il ruolo degli ebrei nelle società occidentali è da sempre quello di essere uno schermo vuoto su cui gli altri possono proiettare quel che di maligno vedono nel mondo, epoca dopo epoca. Può essere l’avidità, o l’essere anticristiani, o il comunismo, il capitalismo, il nazionalismo, il cosmopolitismo, va bene tutto. Ora i liberal occidentali sono preoccupati delle diseguaglianze e del razzismo, e allora lo stato ebraico viene presentato come un esempio primario di queste problematiche. Ha tutto poco a che fare con Israele e moltissimo con le più ataviche debolezze della civiltà occidentale. Le religioni antiche sbiadiscono, ma certe idee persistono in ideologie che pensano di non essere delle religioni, che sia il ‘socialismo nazionale’ o il comunismo sovietico o la nuova ideologia ‘woke’ dove la virtù è collegata al colore della pelle. L’ebreo è utile come un’immagine dell’altro. In un prossimo secolo ci saranno ordini diversi di problemi e l’immagine degli ebrei cambierà di conseguenza”.
  Un miglioramento secondo Friedman non è possibile, bisognerebbe aver voglia di guardare le sfumature, le differenze, di capire le cose complicate, ma “la maggior parte delle persone vuole un mondo in bianco e nero, come nei libri per bambini: chi è il mostro? Chi è la principessa? I social media incoraggiano questo processo di semplificazione. La gente vuole credere che il peggio sia negli altri. Quindi Israele non è soltanto un altro paese che cerca di esistere nel mondo, commettendo degli errori, ma un complotto malevolo contro la giustizia. Questo è il mondo in cui viviamo, e dove andrà ce lo chiediamo tutti”.
  Nel presente, Friedman si augura che il nuovo governo di Israele entri in carica e che la transizione sia morbida. Intanto lui si occupa del suo prossimo libro, che ancora una volta parla delle persone e della convivenza: “E’ l’incontro del grande poeta Leonard Cohen con una guerra d’Israele”.

Il Foglio, 12 giugno 2021)


Palestina. Intellettuali e accademici contro Abu Mazen: dimettiti subito

Circa tremila, sino ad oggi, accademici, intellettuali e personalità palestinesi, in parte residenti all’estero, hanno firmato un appello che chiede con forza al presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas, più noto all’estero come Abu Mazen, a dimettersi o che gli sia imposto di farsi da parte. All’ottantacinquenne raìs palestinese rimproverano una linea politica e un atteggiamento fallimentari e non adeguati all’importanza della fase che vivono i palestinesi. “Noi sottoscritti, intellettuali, accademici e personaggi pubblici, ci rivolgiamo con questo appello al popolo palestinese con tutte le sue forze, al fine di spogliare ciò che resta della legittimità del presidente Mahmoud Abbas e domandare le sue dimissioni o la sua immediata rimozione da tutte le sue cariche”, scrivono i firmatari invocando la ricostruzione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e l’elezione di una leadership alternativa.
  Nell’appello si fa riferimento alle proteste in corso da settimane a Gerusalemme est, che hanno mobilitato la popolazione palestinese, anche in Israele, e guadagnato l’attenzione dalla società civile internazionale, contro i piani di confisca e demolizione di abitazioni arabe che mettono a rischio migliaia di persone nei quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan. Proteste che hanno coinvolto anche l’area della Porta di Damasco, lo storico ingresso della città vecchia, e la Spianata della moschea di Al Aqsa, innescando, tra il 10 e il 21 maggio, una escalation militare tra Israele e il movimento islamico Hamas a Gaza. “Dall’inizio dell’Intifada nel quartiere di Sheikh Jarrah – si legge nell’appello – e poi la sua espansione che ha incluso Al-Aqsa e Gerusalemme, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, i palestinesi dell’interno (Israele, ndr) e all’estero, il presidente è stato l’assente più importante. Finita la battaglia, Mahmoud Abbas ha aggiunto al suo curriculum politico un altro fallimento rappresentato dall’assenza di solidarietà morale con la sofferenza del popolo palestinese nel suo insieme. Non si è preoccupato di visitare le famiglie dei martiri a Gaza e in Cisgiordania. In questo importante momento di Gerusalemme, in cui il nostro popolo palestinese si è unito ovunque si trovasse e il suo spirito di resistenza è stato acceso, non c’era presenza del presidente o della sua autorità!”.
  Gaza, palazzi distrutti da un bombardamento israeliano (foto di Michele Giorgio) I firmatari rimproverano al presidente dell’Anp di aver cercato, proprio in queste settimane, di ripristinare i rapporti con gli Stati uniti che, peraltro, si sono schierati con Israele durante l’offensiva militare che ha causato a Gaza circa 260 morti – tra cui un centinaio di bambini e donne – nel tentativo di ridare vita al negoziato con Israele che va avanti dagli anni ’90 sebbene, puntualizzano, si sia dimostrato fallimentare per le aspirazioni palestinesi. “I settori della nostra gente in patria e all’estero sono stati pazienti con il cosiddetto processo di pace iniziato a Madrid nel 1991, poi a Oslo nel 1993, di cui lo stesso Mahmoud Abbas è stato uno dei più importanti architetti. Proprio lui ha detto dell’accordo di Oslo dopo la sua firma: ‘Questo accordo può portarci a uno Stato (palestinese) o può portarci al disastro’. Ebbene durante questo lungo periodo, i diritti dei palestinesi si sono deteriorati, la Carta nazionale e il diritto al ritorno (dei profughi) sono stati abbandonati, si sono verificate aspre divisioni, il progetto nazionale palestinese è stato messo ai margini e la corruzione si è diffusa”. Parallelamente, proseguono, “l’insediamento (coloniale) sionista nella nostra terra è raddoppiato, i programmi di ebraicizzazione di Gerusalemme hanno preso il sopravvento e Israele ha ottenuto successi (diplomatici) nel mondo arabo. In breve, Oslo ci ha davvero portato al disastro… Abbiamo il diritto di fermarci e chiederci: qual è il risultato? E cosa ha ottenuto il presidente per il popolo? Un rapido inventario degli ultimi tre decenni indica che i “negoziati” non hanno fatto altro che inseguire un miraggio.
  L’appello infine afferma che “In assenza di istituzioni nazionali reali ed efficaci in grado di affermare questo fallimento politico…è diventato imperativo per tutti i segmenti della popolazione sollevare la loro voce in modo chiaro per chiedere la fine dei fallimenti provocati dallo stesso Mahmoud Abbas…Dichiariamo che questo presidente non ha più alcuna legittimità politica o nazionale e deve dimettersi immediatamente, o essere rimosso dalle tre posizioni di leadership che controlla. Chiediamo al nostro popolo palestinese di unirsi a questo appello e di iniziare una nuova pagina basata sull’unità della lotta e l’unità della terra e di iniziare a ricostruire l’Olp in modo unitario e rappresentativo per tutti e lanciando la resistenza popolare in tutta la terra occupata”.
  Da segnalare tra i firmatari il politologo Salman Abu Sitta, l’esperto di diritto internazionale Anis Al Qassem, i docenti universitari Asaad Ghanem, Khaled Al Hroub, Ruba Saleh e Dina Matar e l’analista politico Mouin Rabbani. Pagine EsteriPalestina. Intellettuali e accademici contro Abu Mazen: dimettiti subito

(Pagine Esteri, 12 giugno 2021)


Hamas e gli altri: il ruolo di Turchia e Iran nel conflitto a Gaza

di Francesco Paolo La Bionda

Il conflitto combattuto a Gaza lo scorso maggio, nell’ambito della più ampia crisi scoppiata tra Israele, palestinesi e arabi israeliani, ha portato all’evidenza il nuovo assetto del fronte filopalestinese regionale, progressivamente definitosi nel corso degli ultimi anni.
   Al distacco ormai avanzato del mondo arabo dalla causa palestinese si è contrapposto il protagonismo di Turchia e Iran, il cui aggressivo ecumenismo islamico ha sostituito la solidarietà panaraba spenta da tempo.

 La Turchia, fra scambi economici con Israele e finanziamenti a Hamas
  Il governo turco e lo stesso presidente Erdoğan sono stati ferocemente vocali nel condannare in toto Israele per la crisi, raggiungendo vette di violenza verbale inedite rispetto ai contrasti già avvenuti in passato in occasione dei precedenti scontri armati tra lo stato ebraico e Hamas. Israele, nelle dichiarazioni turche succedutesi nei giorni del conflitto, è stato definito “stato terrorista”, “unico responsabile delle violenze”, colpevole di “crimini contro l’umanità” e di “un attacco contro tutti i musulmani”.
   Le relazioni tra Turchia e Israele erano già fortemente deteriorate proprio a causa della questione palestinese: per rappresaglia contro la proclamazione di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico nel 2018, Ankara aveva espulso l’ambasciatore israeliano, scatenando una simmetrica risposta da parte israeliana. Tuttora i rappresentanti diplomatici di entrambi i paesi esercitano il proprio ruolo in absentia.
   Eppure nei mesi precedenti al conflitto si era registrato un tentativo turco di ricucire i rapporti: “Ankara aveva già mostrato il desiderio di migliorare le relazioni con Israele già alcuni mesi fa, ma la risposta israeliana agli ammiccamenti turchi è stata piuttosto silente”, spiegava Gallia Lindenstrauss, del think tank israeliano Institute for National Security Studies, lo scorso marzo.
   La principale, anche se non esclusiva, ragione della diffidenza israeliana riguardava ancora una volta Gaza e in particolare il supporto turco fornito ad Hamas negli ultimi anni. Ankara ha sempre rivendicato la fornitura di aiuti puramente umanitari alla Striscia: la sola Croce Rossa turca, ad esempio, ne ha inviati per un valore di 105 milioni di dollari dal 1995 a oggi.
   Evidenze esterne hanno però provato la connivenza, e talvolta la collaborazione, tra governo turco e il “Movimento Islamico di Resistenza”, il cui leader Ismāʿīl Haniyeh è stato peraltro ricevuto formalmente da Erdoğan nel 2019 e nel 2020. Già nel 2018 lo Shin Bet aveva pubblicamente presentato i risultati di un’indagine sulle attività dell’organizzazione terroristica sul suolo anatolico, rilevando che “le ramificate attività economiche e militari di Hamas in Turchia avvengono indisturbate, in quanto le autorità turche chiudono un occhio e – talvolta – le incoraggiano, e col supporto di cittadini turchi, alcuni dei quali vicini al governo”.

 Le bandiere di Hamas, Qatar e Turchia
  La Turchia è inoltre il principale alleato e protettore del Qatar, i cui finanziamenti sorreggono economicamente il governo di Hamas a Gaza: 1,4 miliardi di dollari dal 2012, a cui ora si aggiungono 500 milioni promessi per la ricostruzione. Denaro vitale per la sopravvivenza della formazione palestinese, al punto che fonti dell’organizzazione, citate a giugno dal giornale libanese Al Akhbar, hanno minacciato di far saltare il cessate il fuoco se Israele non dovesse permettere l’afflusso della liquidità nelle sue casse.
   Gli interscambi commerciali tra Israele e Turchia, nonostante i contrasti, continuano a crescere: dal 2002, anno dell’ascesa alla presidenza di Erdoğan, a oggi sono passati da 1,4 a 6,5 miliardi di dollari, secondo dati dell’Istituto Statistico Turco (TÜIK). Questo non significa tuttavia che un riavvicinamento politico sia inevitabile: come osservava nel 2019 Adiv Baruch, presidente dell’Israel Export Institute: “La Turchia è un paese le cui relazioni diplomatiche con Israele sono completamente separate dalle relazioni economiche”.
   Intanto, la comunità ebraica turca fa le spese della retorica governativa che spesso confligge l’ostilità con gli israeliani con quella verso gli ebrei: già nel 2015, secondo dati dell’Anti-Defamation League, il 71% dei cittadini turchi nutriva sentimenti antisemiti. Spingendo i concittadini di fede ebraica ad emigrare: dei 23.000 presenti al momento dell’insediamento del “Sultano”, ne restano oggi meno di 15.000.

 L’Iran, il principale sostenitore di Hamas
  Se il comportamento della Turchia riguardo a Israele e Hamas può ancora essere definito ambivalente, non è il caso dell’Iran. La Repubblica Islamica continua a non riconoscere la legittimità dello stato ebraico e a invocarne la cancellazione dalle mappe: ancora lo scorso anno, la Guida Suprema Ali Khamenei ha definito Israele “un tumore da distruggere”. Nonostante le differenze dottrinali, essendo gli iraniani musulmani sciiti e i palestinesi invece sunniti, l’Iran ha fornito consistenti aiuti economici e materiali ad Hamas sin dagli anni Ottanta. Nel corso del conflitto di maggio, i media di stato di Teheran hanno lodato i danni inflitti dai missili palestinesi in territorio israeliano e hanno sottolineato il supporto fornito dal regime ad Hamas.
   Dopo un momentaneo periodo di allontanamento durante i primi anni della guerra in Siria, a causa del rifiuto degli islamisti di Gaza di sostenere il regime di Bashar al-Asad, da 2017 l’Iran è tornato ad essere il principale sostenitore di Hamas. Dal punto di vista finanziario, secondo fonti arabe gli aiuti sono passati dai 70 milioni di dollari annui stimati nel 2018 a ben 30 milioni al mese nel 2019, dopo l’incontro avvenuto ad agosto di quell’anno a Teheran tra Khamenei e il secondo in comando dell’organizzazione terroristica, Saleh al-Arouri. In cambio dell’aumento di stipendio, i miliziani sarebbero stati incaricati di reperire informazioni sulle capacità missilistiche israeliane. A maggio, appena una settimana dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco, il responsabile di Hamas per la Striscia, Yahya Sinwar, ha dichiarato che i finanziamenti iraniani erano sufficienti per coprire tutte le necessità del Movimento.

 Razzi di Hamas
  Il ruolo principale degli ayatollah è però soprattutto quello di fornitori di armi e di conoscenze tecniche, in particolare riguardo all’arsenale di razzi, che secondo l’esercito israeliano ammonterebbe ancora a 15.000 missili, peraltro il doppio delle stime precedenti al conflitto. Come riconosciuto pubblicamente da Sinwar nel 2019, senza l’Iran Hamas non avrebbe mai raggiunto le capacità di lancio dimostrate a maggio.
   Questo è vero sia per i razzi di fabbricazione iraniana contrabbandati nella Striscia sia per quelli assemblati localmente grazie alla consulenza dei pasdaran. Nella prima categoria, ad esempio, rientrano i Fajr-5, in dotazione anche alle forze armate iraniane, forniti ad Hamas a partire dal 2012 e dotati di una gittata di 75 km e di una velocità massima di quasi 4.000 km orari. Della seconda fanno invece parte i razzi a corto raggio Badr-3, i più avanzati su questa gittata tra quelli in possesso dell’organizzazione palestinese, basati sul design dell’al-Qasim, fornito dall’Iran alle proprie milizie proxy in Iraq.
   Né l’Iran né Hamas sembrano intenzionati a frenare in alcun modo la proliferazione degli arsenali puntati contro Israele: i canali televisivi iraniani il 31 maggio hanno dato notizia che i miliziani palestinesi hanno ricominciato a produrre nuovi missili per rimpiazzare quelli lanciati nel corso del conflitto. Mentre nove giorni prima, a meno di ventiquattrore dalla fine del conflitto, le Guardie rivoluzionarie di Teheran avevano presentato un nuovo drone, denominato significativamente “Gaza”.

(Bet Magazine Mosaico, 11 giugno 2021)


Israele, le startup tecnologiche hanno raccolto 10,5 mld di dollari

Le startup tecnologiche innovative israeliane hanno raccolto, nei primi sei mesi del 2021, 10,5 miliardi di dollari, eguagliando già l’importo record dell’anno scorso. Lo riportano i dati diffusi oggi dalla Start-Up Nation Central (Snc), citata da Globes.
   Fondata nel 2013, Snc è un’organizzazione senza scopo di lucro che sfrutta le sue conoscenze, risorse e rete di legami industriali e governativi chiave per collegare soluzioni tecnologiche innovative israeliane con multinazionali, governi, investitori e Organizzazioni non governative in tutto il mondo. Il notevole aumento degli investimenti nelle società tecnologiche israeliane, la maggior parte dei quali proviene da investitori stranieri, è ancora più pronunciato se confrontato con le prestazioni degli investimenti in tutto il mondo. Israele ha registrato un aumento del 137 per cento nella raccolta di capitali nei primi cinque mesi del 2021, mentre l’aumento a livello globale è stato solo dell’89 per cento.
   Uri Gabai, l’amministratore delegato entrante del nuovo Research and Policy Institute di Start-Up Nation Central, ha dichiarato che il finanziamento record del 2021 “riflette la crescente fiducia dei principali investitori nell’ecosistema dell’innovazione israeliano”. Snc ha anche scoperto che l’importo medio del round di finanziamento è più che raddoppiato di anno in anno, da 6,8 milioni di dollari nel 2020 ai 14 milioni contati l’8 giugno nel 2021. In termini di round di crescita la dimensione media è passata da 26 milioni di dollari nel 2020 a 46 milioni nel 2021.
   Le società in fase iniziale hanno sperimentato un aumento simile nel finanziamento medio, da 4 milioni di dollari a 8 milioni. Cybersecurity, fintech e soluzioni aziendali sono stati i primi tre settori che hanno attirato investimenti per 6,2 miliardi di dollari, il 60% del totale. Questi settori sono tutti sviluppatori di software, sono fortemente orientati al B2B e hanno visto tutti un forte e incisivo aumento della domanda nell’ultimo anno.

(La Mescolanza, 11 giugno 2021)


Mansour Abbas: "Noi al governo in Israele ponte per la pace tra arabi ed ebrei"

Intervista al leader del partito islamico Ra'am: "Nel Paese vogliamo creare un nuovo modello basato su tolleranza, rispetto e sicurezza reciproca. Sono rimasto deluso da Netanyahu: ero convinto che avrebbe concluso il percorso avviato con noi".

di Sharon Nizza

KAFR KANNA (Israele) - È stato definito l'ago della bilancia, l'islamista enigmatico che non esclude nessuna alleanza; in due anni di carriera parlamentare, ha creato un rapporto diretto con Netanyahu, per essere poi l'uomo chiave, con i 4 seggi del suo partito Ra'am, grazie a cui domenica la nuova coalizione si presenterà alla Knesset per chiedere la fiducia e mandare il mago della politica israeliana all'opposizione, dopo 12 anni. Mansour Abbas sente la responsabilità. "Non è stato facile arrivare a questo momento. Ed è solo l'inizio". Lo incontriamo nel villaggio di Cana in Galilea, dove il Movimento Islamico di cui è vicepresidente ha oggi una forte rappresentanza.

- Cosa vi spinge?
  "Influenzare le decisioni governative sugli argomenti critici per cui i cittadini arabi ci hanno dato mandato di agire: criminalità, penuria abitativa, educazione, disoccupazione".

- Quali sono i timori?
  "Ci saranno decisioni difficili da prendere, anche di sicurezza. Dobbiamo giostrarci tra la nostra identità di arabi palestinesi e cittadini dello Stato d'Israele, tra aspetto civile e nazionalistico".

- Cosa succederà nel caso di una nuova crisi con Gaza?
  "Prima o poi ci troveremo di fronte a questi dilemmi. Ora, il nostro obiettivo primario è costruire un modello di cooperazione civile e politica arabo-ebraica all'interno dello Stato d'Israele. Se riusciremo, si rifletterà anche sulle relazioni con i palestinesi. Il cambiamento di governo qui e negli Usa può aprire una nuova pagina, anche i palestinesi devono fare le elezioni e arrivare a una soluzione della rottura interna tra Gaza e Cisgiordania. Vorremmo essere un ponte: se riusciamo all'interno d'Israele a creare un modello basato su collaborazione, tolleranza, rispetto, una visione di pace e sicurezza reciproca, questo si proietterà anche su altri fronti".

- La Lista Araba Unita da cui siete fuoriusciti e persino Hamas vi attaccano dicendo che avete abbandonato la causa palestinese.
  "È una nostra libera scelta. Abbiamo un programma con cui ci siamo presentati all'elettore. Se lo scopo è valutare la possibilità di creare un nuovo modello di cooperazione, è molto più facile farlo attraverso le questioni civili, amministrative, che non quelle a carattere identitario".

- C'è chi vi attacca da destra sostenendo che è una strategia dell'islam politico: inserirsi nelle istituzioni per cancellare il carattere ebraico e democratico dello Stato.
  "La maggioranza qui ha stabilito che è uno Stato ebraico e democratico. Con il nostro sostegno alla coalizione veniamo a verificare proprio questo: che con il carattere ebraico si intenda l'applicazione dei valori umanistici dell'ebraismo, per cui lo Stato si prende cura di tutti i cittadini, della loro sicurezza, dell'educazione. Il nostro obiettivo è creare un modello di convivenza tra arabi ed ebrei che possa trovare compromessi tra gli interessi civili, nazionalisti e religiosi. Non metto in questione l'identità dello Stato, il banco di prova è promuovere i miei diritti civili in maniera pragmatica".

- Intende che la fondazione dello Stato d'Israele è una ingiustizia con la quale siete disposti a scendere a compromessi?
  "Voglio dire che possiamo scegliere: rimanere arroccati nelle ostilità o guardare al futuro. So che molti ebrei si chiedono se Mansour parla sinceramente. Mi sono detto: l'obiettivo è quello della convivenza, non buttare gli ebrei a mare o gli arabi aldilà del Giordano. Come arrivarci: basandoci sui valori comuni condivisi dalle tre religioni monoteistiche".

- Perché avete votato contro gli Accordi di Abramo?
  "Noi di Ra'am volevamo votare a favore, ma all'epoca eravamo nella Lau e abbiamo dovuto andare con la maggioranza. È stato un altro momento critico che mi ha chiarito la differenza di vedute con i colleghi. Votare contro la pace è un errore".

- Ha visitato una delle sinagoghe bruciate a Lod proponendo di contribuire alla ristrutturazione. Come spiega gli scontri violenti che hanno lacerato le città israeliane?
  "La diffidenza vale anche al contrario: quando la polizia agisce con violenza sproporzionata, la gente si chiede: c'è qui un programma di giudaizzare tutto? Questi sono i motivi per cui la risposta araba ha superato i limiti del lecito. Va bene protestare, ma nell'ambito del rispetto delle regole, senza violenza".

- Bennett ha detto di essersi sbagliato nei suoi confronti e che la reputa un partner coraggioso. Cosa dice lei del prossimo premier?
  "Ho trovato una persona con visione, leadership, audace, disposto ad ammettere gli errori e calcolare un nuovo percorso. Diatribe ci saranno sempre, ma saper dialogare è fondamentale".

- E Netanyahu?
  "Ero convinto che avrebbe portato fino in fondo il percorso avviato con Ra'am, perché so che ci crede. Sono rimasto deluso".

(la Repubblica, 11 giugno 2021)


Manifestazione pro-Netanyahu a Gerusalemme

A Israele si è tenuta una protesta pro-Netanyahu vicino alla Knesset, il parlamento israeliano, a Gerusalemme. I manifestanti si oppongono al futuro governo di coalizione, guidato da Yair Lapid e Naftali Bennett, che porrebbe fine al comando di Bibi Netanyahu, dopo 12 anni. Il voto della Knesset sul nuovo governo è previsto per il 13 giugno.

(Quotidiano Nazionale, 11 giugno 2021)


Il signore di Gaza che comanda Hamas

Malgrado morti e macerie, Yahya Sinwar è uscito vincitore dall'ultimo conflitto con Israele: adesso e il leader più forte del movimento islamista. e non solo nella striscia.

di Vincenzo Nigro

GAZA - Una scritta in vernice nera su un muro, in una traversa accanto alla nuova, ciclopica ambasciata del Qatar: "I palestinesi non accettano la dittatura, il popolo vuole la libertà". Con chi ce l'hanno? Con Israele che assedia la Striscia di Gaza dal giugno 2007, che blocca, controlla, limita le importazioni, le esportazioni, il movimento dei cittadini? Oppure ce l'hanno con Abu Mazen, il presidente palestinese che da 16 anni non cede la sua poltrona e non permette elezioni? E anche stavolta, prima le ha annunciate in gennaio, poi le ha bloccate in maggio. O forse ce l'hanno con Hamas, che è il vero signore della Striscia, che ha voluto la guerra di maggio con Israele, ed è sopravvissuto e si è rafforzato politicamente al prezzo di lutti e distruzioni pagati dai gazawi?
   Quest'ultima battaglia di Gaza, undici giorni dal 10 al 21 maggio, ha confermato il ruolo del movimento come primo nemico di Israele, essendo Hezbollah in Libano il secondo, con l'Iran che dall'alto arma e sostiene entrambi assieme alla più piccola Jihad islamica palestinese (Pij).
   Hamas in arabo vuol dire "Harakat al-Mugawama al-Islamiya", ovvero Movimento di resistenza islamico. Fu fondata all'inizio del 1987 dallo sceicco cieco Ahmed Yassin, come costola palestinese dei Fratelli musulmani egiziani. Un legame che Hamas ha poi reciso nel 2017, quando ha cambiato il suo statuto per sopravvivere nei rapporti con l'Egitto, che combatte la Fratellanza ormai in maniera radicale. Hamas all'inizio della sua vita fu favorita da Israele, che la vide come un possibile ostacolo all'al Fatah di Yasser Arafat, negli anni Ottanta impegnato in atti di terrorismo. Moshe Arens, ministro della Difesa del Likud, utilizzò alcuni generali come Gadi Shamni e Fuad Ben Eliezer per tenere contatti direttamente con lo sceicco Yassin. L'uomo che Israele poi eliminò con un missile quando Hamas a sua volta iniziò una campagna di attentati suicidi in Israele.
   Hamas mise a segno attentati come quello di Gerusalemme del 1997 (16 morti), quello di Rishon Lezion del 2002 (ancora 16 morti), il massacro su un bus ad Haifa il 5 marzo del 2003. Ma poi, anche grazie alla capacità di Israele di bloccare gli attentatori suicidi, progressivamente passò a utilizzare i razzi, missili senza guida, come arma per colpire Israele nei momenti di crisi o di tensione.
   Periodicamente Israele interviene, bombardando le postazioni di lancio, le officine segrete in cui vengono assemblati i famosi razzi "Qassam" oppure provando a devastare le strutture sotterranee come i tunnel e i bunker. Che è stato poi il vero obiettivo di quest'ultima guerra: distruggere "la metro di Hamas".

 ELEZIONI SEGRETE
  Dal suo nascondiglio protetto, tre giorni dopo il cessate-il-fuoco, questa volta il leader del movimento della Striscia è spuntato fuori per nulla intimorito dagli 11 giorni di bombardamenti. L'uomo si chiama Yahya Sinwar, è nato 60 anni fa Khan Younis, nel Sud della Striscia. Ha sfidato i droni e i missili dell'aeronautica israeliana, che ha provato a ucciderlo bombardando la sua abitazione di Khan Younis il 16 maggio. All'interno di Hamas la crescita del ruolo di Sinwar è il risultato, il cambiamento più evidente di questo ultimo round di battaglia. Sinwar all'interno di Gaza e in generale in tutto il movimento si è consolidato come mai prima un leader di Hamas. Poche settimane prima della guerra, il movimento aveva tenuto in segreto le sue elezioni interne, in vista delle elezioni generali palestinesi che Abu Mazen ha convocato e poi cancellato per timore proprio che Hamas prendesse il sopravvento anche in Cisgiordania.
   Hamas è classificato come movimento terrorista dagli Usa, dalla Ue, naturalmente da Israele e da molti altri stati delle Nazioni Unite. Ma il movimento può essere considerato una struttura ibrida, all'interno della quale sono presenti forme di elezioni per scegliere la dirigenza. Nel mese di aprile ha tenuto le elezioni in tre "circoscrizioni": quella di Gaza, dove il movimento è dominante fra i palestinesi; in Cisgiordania, dove invece comanda il Fatah di Abu Mazen ma il movimento islamico è in forte risalita; terza area è il "resto del mondo", nella grande diaspora palestinese una constituency in cui il messaggio di Hamas (resistenza contro Israele, ogni trattativa politica è inutile) ormai è sempre più popolare. Sinwar era già stato rieletto leader a Gaza per il quadriennio 2021-2025: la nuova guerra gli ha dato una legittimazione che lo mette alla pari se non al di sopra di Ismail Haniyeh, il capo politico eletto nel mondo, che da anni vive a Doha come tanti altri capi ospitati da paesi amici come Qatar appunto, Turchia o Iran. Un altro leader di Hamas che in queste settimane continua a nascondersi a Gaza è Mohammed Deif, il capo dell'ala militare (incarico che in precedenza fu dello stesso Sinwar). Deif è il super-ricercato di Israele, che ha provato più volte a colpirlo con missili e bombe. L'uomo avrebbe perso un occhio e una mano, oltre alla moglie e ai figli uccisi in attacchi che erano mirati contro di lui. Ma continua a guidare le formazioni militari di Hamas che in questa guerra hanno lanciato più di 4000 razzi contro Israele.
   Basem Naim, ex ministro di Hamas e oggi direttore del Council on international relations, un centro di politica internazionale vicino al movimento, difende la tattica adottata da Sinwar e messa in pratica dal capo militare Deif: «Se a Gaza non ci difendiamo con la resistenza, anche lanciando i nostri razzi, non ci rimane che scegliere se morire di malnutrizione o di malattie». Naturalmente non è così: la dirigenza di Hamas non soffre di malnutrizione, per chi è in grado di pagare nella Striscia ci sono cibo e medicinali. Ma naturalmente la popolazione soffre, la disoccupazione è al 50%, il più grosso imprenditore sono le Nazioni Unite con l'Unrwa che garantisce uno stipendio a 13 mila persone: 8 mila sono maestri e professori delle scuole gestite quasi tutte proprio dall'Onu.

 PERDONO SEMPRE I SOLITI
  A Gaza adesso tutti sanno chi ha vinto la guerra: Hamas e Israele insieme. Hamas perché materialmente ha lasciato distruggere ancora di più la Striscia, ma è stata legittimata politicamente. Ha vinto all'interno del campo palestinese, perché il Fatah di Abu Mazen è sempre più un pallido ricordo del movimento politico che fu. E poi adesso in un modo o nell'altro gestirà i milioni di dollari della ricostruzione. Come ci dice un piccolo imprenditore «se non avranno direttamente i soldi, saranno le loro ditte a gestire tutto». Dall'altra parte c'è Israele, che non ha sconfitto politicamente Hamas, ma conferma la sua deterrenza assieme al rapporto con gli Stati Uniti.
   Molti hanno letto a Gaza le parole di un politico israeliano che guidò una guerra a Gaza, l'ex primo ministro Ehud Olmert: «Come misuri il successo o il fallimento di un'operazione? Da una parte tu hai il più potente esercito di tutta la regione, e dall'altra parte un'organizzazione terroristica che ha soltanto un'arma, dei razzi abbastanza primitivi». Olmert mandò truppe di terra nella Striscia nel 2009, e oggi conclude: «Il fatto è che Hamas è riuscita a intimidire l'intera Israele, ci ha costretti a nasconderci nei rifugi nel mezzo della notte anche a Tel Aviv... Questo è un risultato».
   Nelle parole di Olmert c'è un senso di mancata vittoria, se non di sconfitta per Israele. Mentre fra i capi di Hamas c'è la sensazione non solo di essere sopravvissuti, ma di essersi rafforzati. Forse hanno vinto loro la guerra. Chi l'ha persa di sicuro, ancora una volta, sono gli uomini, le donne, i vecchi e i bambini di Gaza. Per loro la tregua è solo una pausa fra altre devastazioni.

(la Repubblica, 11 giugno 2021)


Gaza, la ripresa del conflitto si potrà evitare solo attraverso soluzioni condivise

di Amer Al Sabaileh

Da un po’ di tempo il Medio Oriente sembrava essere stato escluso dall’agenda dell’amministrazione degli Stati Uniti: questi ultimi infatti erano massicciamente impegnati nel rafforzamento della Nato, nel ricucire i rapporti con l’Unione Europea, nel contenimento della Cina e nella sfida alla Russia di Putin. La guerra scoppiata a Gaza ha ribaltato la situazione e le priorità americane sono nuovamente cambiate: in qualche modo l’amministrazione guidata da Biden è stata obbligata a interessarsi ancora all’area mediorientale.
  In prima battuta il Segretario di Stato, Antony Blinken, si è recato in visita in Israele, Palestina, Giordania ed Egitto per cercare un dialogo per risolvere la questione e bloccare la grave escalation di violenze che ha investito l’area, con dimensioni e impatto che non erano prevedibili all’inizio delle manifestazioni di Gaza. Proprio il fattore “impatto” ha spinto gli Usa a rivedere le sue priorità internazionali e ad occuparsi attivamente della questione israelo-palestinese che era stata marginalizzata nella precedente amministrazione.
  Una delle poche azioni americane, altamente simbolica, era stata quella di spostare a Gerusalemme la sua ambasciata. L’azione non aveva avuto conseguenze significative perché la situazione Israele-Palestina era abbastanza stabile, non si andò oltre le vane proteste. Ora tutto è cambiato, e l’intervento fattivo degli Stati Uniti si sta rivelando necessario. Come del resto è necessario pensare realisticamente di dover trovare al più presto una soluzione che possa impedire l’insorgere di problemi dalle possibili conseguenze catastrofiche.
  È necessaria una valutazione realistica della situazione, e ciò spiega anche perché questa escalation ha riportato l’amministrazione americana a pensare alla realtà geografica legata a questo conflitto, Giordania e Egitto; rimangono però latenti i dubbi sull’effettiva capacità da parte americana di risolvere la questione, anche in considerazione della necessità di ricostruire Gaza, evitando l’azione di Hamas che è a tutt’oggi il vero protagonista sul territorio.
  Questa considerazione ci riporta a vecchi discorsi e progetti che in realtà rappresentano le radici del conflitto, in particolare quando si pensava di eliminare Hamas investendo milioni di dollari nell’addestramento di truppe palestinesi, che poi sono state spazzate via in una sola notte, con la conseguente fuga all’estero del capo della sicurezza Mohmed Dahlan. Dopo questo fallimento la striscia di Gaza è stata consegnata integralmente ad Hamas, che si è ulteriormente rafforzato. Il progetto di ricostruire Gaza senza Hamas non offrirebbe ad oggi soluzioni, anzi al contrario potrebbe portare come conseguenza diretta a un inasprimento della situazione, da cui la possibile riapertura del conflitto e la prematura fine del fragile armistizio. Inoltre, il conflitto potrebbe facilmente dilagare nella regione, che è sempre instabile dal punto di vista politico e della sicurezza.
  Riflettendo oggi su una possibile soluzione è necessario essere pragmatici e spingere perché Hamas entri a far parte di un governo palestinese con il consenso popolare. Questa operazione di strategia politica richiede, però, un più vasto coinvolgimento degli attori internazionali, capaci di influenzare in egual misura sia Hamas sia i palestinesi. Tra questi attori vi è in primis l’Egitto, che potrebbe sostenere questa soluzione anche in considerazione del suo ruolo nell’area mediorientale e al discreto riavvicinamento con gli Usa – anche se permangono tra le due entità statali distanze su questioni quali diritti umani e libertà personali.
  In conclusione: per ora tutte le azioni poste in essere e gli sforzi diplomatici non sembrano pervenire ad una soluzione della questione palestinese. In pratica si teme che ad oggi nessuno abbia una visione realistica necessaria per offrire una soluzione duratura, o che possa almeno arginare un problema pendente da troppi decenni. L’escalation di violenze scoppiata a Gaza ha fatto suonare l’allarme per alcuni attori internazionali, ma questo non basta: infatti, per come stanno oggi le cose, si potrebbe tornare repentinamente al conflitto, e questo si potrà evitare solo attraverso soluzioni condivise.
  È perfettamente inutile e anche dannoso scappare dalla realtà e rifugiarsi nell’illusione. È strettamente necessario che la questione palestinese diventi una priorità per la pace regionale. Anche un progetto di pace con i paesi arabi sarebbe un fuoco di paglia, perché non avrebbe conseguenze tangibili sul problema principale che è e rimane il conflitto israelo-palestinese. Prima si dovrebbe risolvere quest’ultimo e solo successivamente pensare a una pace estesa per tutta la regione mediorientale.

(il Fatto Quotidiano - Blog, 11 giugno 2021)


Hamas usa i civili come scudi umani ma ad essere sotto accusa è Israele

Il grande mondo della disinformazione e il vorticoso giro di interessi economici che avvelenano il Medio Oriente.

L’antisemitismo di istituzioni, enti e stati per lo più schierati con l’area mussulmana che controlla i rubinetti del petrolio, è divenuto nei ultimi mesi palese e non più strisciante.
Il Procuratore della Corte Penale Internazionale,  Fatou Bensouda , di origine gambiana la cui popolazione è oltre il 90% mussulmana sunnita, ha recentemente aperto un fascicolo contro Israele per crimini contro l’umanità.
Un fascicolo che appare come  propaganda antisionista e antisemita, considerato che il CPI non può indagare su stati ma su singole persone. Israele è uno stato di diritto e, tra l’altro, non riconosce questa Corte.
A maggio l’alto commissario ONU per i diritti umani ha condannato Israele per le violenze e le violazioni al diritto internazionale per gli incidenti nella striscia di Gaza.
Inutile riportare le oltre 90 (sic) condanne dei vari  organismi ONU contro Israele.
Una situazione di disinformazione generale per un popolo che si definisce “palestinese” solo dal 1967, cioè dopo la guerra del 1967.
I dirigenti dell’Autorità Palestinese e Hamas sono campioni della disinformazione . Il centro di produzione delle false notizie “Pallywood” funziona a ritmo serrato e i media internazionali, fanno da gran cassa.
Chi opera a favore dei “palestinesi”, o semplicemente visitano i luoghi da loro rivendicati,  devono sottostare alla rigida legge di Hamas e di Mahmud Abbas, alias Abu Mazen.
Chi ha tentato di rompere questa legge, vedi finalmente (e per la prima e  unica volta) l’UNRWA è stato immediatamente punito.
Il capo dell’UNRWA, Matthias Schmale, che ha avuto l’onestà di dire che gli attacchi della IAF su Gaza, durante gli 11 giorni di lanci di razzi di Hamas contro Israele, erano “chirurgici”,  è stato dichiarato persona non gradita e subito licenziato dall’Agenzia. Hamas ordina l’ONU obbedisce.
Cacciato Schmale, l’Agenzia è tornata al vecchio metodo e subito dopo il cambio di passo diramando un comunicato con cui si accusa  “l’aeronautica israeliana che ha condotto attacchi che hanno causato danni agli edifici dell’UNRWA, in particolare a una scuola preparatoria Zaitoun per ragazzi dell’UNRWA e a una scuola elementare per ragazzi”.
Scudi umani e criminali azioni di Hamas? Assolutamente no. Peccato che l’UNRWA come Hamas, sia stata ancora una volta sbugiardata da fatti concreti.
La scuola in questione, come dimostra la foto scattata da un drone israeliano, era usata come rampa di lancio. Si notano infatti una serie di rampe sotterrane nel cortile di una scuola.
La stessa UNRWA ha scoperto, e dovuto ammettere, l’esistenza di tunnel sotterranei sotto la scuola.
Insomma, i vili criminali di Hamas si fanno scudo di cittadini inermi, e Israele viene condannato dalla stampa internazionale per  “crimini”.
L’inversione dei ruoli con la complicità di certa stampa che non si fa scrupolo di ingigantire le falsità di Hamas e dell’AP.
Chiedersi il perché di tutto ciò appare quasi ridicolo. L’UNRWA impiega oltre 30.000 collaboratori per oltre il 90% “rifugiati” , gestisce 711 scuole, 143 centri sanitari.
Il budget annuale si aggira sui 1,5 miliardi di dollari.
Alla fine viene da chiedersi se tutto non sia un gioco delle parti.
L’UNRWA, e  aggiungiamo UNIFIL e le altre agenzie ONU nell’area, hanno bisogno dei palestinesi e di Hezbollah come i palestinesi ed Hezbollah hanno bisogno di UNRWA, di UNIFIL, UNTSO e UNDOF.

(Osservatorio Sicilia, 11 giugno 2021)


Israele, trovato un uovo di gallina di 1000 anni

Un uovo di gallina millenario, perfettamente intatto e conservato. La fantastica scoperta degli archeologi dell’Israel Antiquity Authority a Yavne – distretto centrale d’Israele – sta facendo il giro del Mondo. Durante gli scavi di un antico pozzo nero risalente al periodo islamico -circa 1.000 anni fa-, ecco spuntare l’uovo millenario. Elie Haddad, Liat Nadav-Ziv e Jon Seligman, che stavano dirigendo i lavori nel sito archeologico facente parte del progetto Israel Land Authority nella città, hanno scoperto un’area industriale estesa risalente al periodo bizantino. Alcuni frammenti di guscio d’uovo recedenti, erano già stati rinvenuti, come ad esempio nella città di Davide e a Cesarea e Apollonia, ma nessun uovo di gallina era mai stato recuperato in perfetto stato di conservazione e integro come questo. Una scoperta sensazionale, dunque, perché difficilmente i gusci fragili delle uova non si rompono. Come sia finito l’uovo in quel pozzo, resta un mistero. Nella stessa fossa del periodo islamico, infatti, si trovavano bambole in osso di 1000 anni fa, usate come giocattoli.

 IL RECUPERO DELL’UOVO MILLENARIO
  Nonostante l’estrema cautela con cui l’uovo è stato rimosso, il guscio è stato rotto, ma nel laboratorio di prodotti organici dell’Autorità per le antichità israeliane, l’ambientalista Ilan Naor ha riportato l’uovo nello stato in cui è stato trovato. Un uovo di gallina difficilmente viene recuperato intatto, come sostengono gli esperti, è molto più semplice trovare integro un uovo di struzzo dal guscio più spesso e resistente. La conservazione dell’uovo scoperto in Israele è evidentemente dovuta al microclima caratteristico del pozzo nero in cui è stato trovato. “Sfortunatamente, l’uovo aveva una piccola crepa sul fondo", ha spiegato Lee Perry Gal, dell’Israel Antiquity Authority e uno dei maggiori esperti di pollame del mondo antico, quindi la maggior parte del contenuto era fuoriuscito. Rimaneva solo una parte del tuorlo, che è stato conservato per future analisi del DNA”
   Le uova, anche in epoca antichissima, erano considerate l’alimento proteico per eccellenza nel mondo ellenistico e romano antico. L’allevamento di pollame è stato introdotto in Israele 2.300 anni fa, ma nel periodo islamico, dal VII secolo d.C in poi, con il divieto di mangiare carne di maiale le famiglie avevano bisogno di un sostituto proteico che non richiedesse particolari tecniche di raffreddamento o conservazione, e queste caratteristiche le ritrovarono proprio nelle uova e nella carne di pollo.

(Ugolini, 11 giugno 2021)


No alla marcia delle bandiere

Gerusalemme non vuole cadere in provocazioni con Hamas

di Dianna Maiijar Barducci

La «marcia delle bandiere» è stata cancellata. Lo ha detto la polizia israeliana, dopo aver asserito la sera precedente che «in principio» non era contraria a dare il permesso ai mitnahalim (settlers) e agli attivisti di estrema destra di manifestare a Gerusalemme. Il comunicato della polizia è arrivato poco dopo il messaggio di Khalil al-Hayya, membro di Hamas, che minacciava di ricominciare il lancio di missili su Israele, se la manifestazione si fosse svolta a Gerusalemme e sul Monte del Tempio/Spianata delle Moschee, davanti alla moschea di Al-Aqsa.
   La decisione della polizia, appoggiata dal ministro israeliano della difesa Benny Gantz, non è piaciuta ai leader politici di estrema destra. Bezalel Smotrich, leader di HaTzionut HaDatit, ha accusato il governo di farsi dettare l'agenda politica da Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza. Itamar Ben-Gvir, membro della Knesset e leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, ha poi detto che non intende arrendersi e che andrà comunque a manifestare giovedì in Città Vecchia, nonostante una parte degli organizzatori della manifestazione abbiano accettato il no della polizia. Alcuni attivisti hanno poi proposto di spostare la manifestazione da Gerusalemme al Sud del Paese, nelle zone limitrofe a Gaza, sotto lo slogan: «Non abbiamo paura di Gaza o dei suoi missili».
   Subito dopo la decisione della polizia, i media vicini a Hamas hanno pubblicato due messaggi del gruppo terroristico: il primo, riguardante lo scambio di prigionieri (Hamas vuole 1.111 prigionieri in cambio dei quattro ostaggi israeliani, due vivi e due morti, o - come suggeriscono alcuni media di Gaza - la richiesta sarebbe addirittura di 4.444 prigionieri), il secondo è invece un commento in cui Hamas sottolinea che Gerusalemme è «una linea rossa».
   Nel primo pomeriggio, poi, forti della decisione della polizia, i media di Gaza hanno annunciato che giovedì i palestinesi sono chiamati a radunarsi alle 5,00 pm (orario in cui si sarebbe dovuta tenere la «marcia delle bandiere») davanti a Bah Al Amoud (la porta di Damasco, che conduce al quartiere musulmano della Città Vecchia) per poi andare alla moschea di Al-Aqsa e celebrare il «fallimento» di Israele assieme alla cancellazione della marcia, «grazie alle minacce della Muqawama» («la resistenza», ovvero i movimenti terroristici a Gaza).
   Verso le 5,30 pm, le varie fazioni della «resistenza» palestinese a Gaza hanno presentato un comunicato stampa unico, in cui riaffermano la propria vittoria politica e militare su Israele. Il breve comunicato descrive Israele come il «nemico codardo», «forzato» a fermare «l'aggressione» e a ritirarsi nella «delusione» e nella «sconfitta». Il comunicato poi chiede a tutta la popolazione palestinese a Gerusalemme e nella West Bank di «continuare ad affrontare il nemico», «bruciare il terreno sotto i piedi del nemico in vari modi possibili», sapendo che la «resistenza» a Gaza è dalla loro parte e pronta a sostenerli «nel momento più opportuno».
   E importante sottolineare che Hamas aveva comunicato la volontà di interrompere la tregua ben prima dell'annuncio da parte dei settlers di voler riorganizzare la «marcia delle bandiere», una commemorazione annuale per celebrare l'unità di Gerusalemme, ottenuta con la guerra dei Sei giorni del 1967. Infatti, all'inizio della scorsa settimana, Hamas aveva dichiarato la propria volontà di ricominciare il lancio di missili se Israele non avesse lasciato entrare a Gaza i finanziamenti del Qatar, suo maggior finanziatore. Quando poi però i settlers lo scorso giovedì hanno reso noto il programma della «marcia delle bandiere», Hamas non ha più menzionato i finanziamenti e ha iniziato a utilizzare la manifestazione di estrema destra come nuovo pretesto per iniziare una nuova escalation (forte del fatto, ahimé, che la comunità internazionale sembra unanime nel pensare che una manifestazione di una minoranza della popolazione israeliana giustifichi il lancio di centinaia di missili sulla popolazione civile).
   Hamas si sente forte e vuole ricominciare il conflitto a ogni costo. Il movimento islamista però sa che la battaglia non è solo armata, ma anche psicologica. Domenica sera, infatti, in un atteso reportage, intitolato «Quello che è nascosto è ancora più grande», Marwan Issa, il vice del braccio armato di Hamas, ha parlato alle telecamere di Al Jazeera, rete televisiva del Qatar (maggior finanziatore del movimento), mostrando immagini inedite del periodo di prigionia (2006-2011) di Gilad Shalit a Gaza. Negli account dei social media vicino a Hamas, le immagini di Shalit sono state commentate con ilarità, prendendo in giro le immagini del ragazzo, all'epoca sottopeso e chiaramente spaventato. Durante il programma, è stata poi fatta sentire la voce spezzata dell'ostaggio israeliano di origine etiope, Avraham Mengistu, che si trova a Gaza dal 2014. In un audio poco chiaro, si sente Avraham dire: «Muoio ogni giorno». Bibi Netanyahu in tarda serata ha poi condannato il programma: «Un gioco meschino sulla pelle delle famiglie dei prigionieri israeliani».
   Nel frattempo, nella serata di lunedì, Netanyahu ha indetto una riunione di sicurezza con il ministro della difesa Gantz, il ministro della sicurezza interna Amir Ohana, il capo dello Shin Bet (l'agenzia di intelligence per gli affari interni) Nadav Argaman e il commissario di polizia Yaakov Shabti per discutere la marcia delle bandiere. Intanto, Hamas ha fatto sapere: «Il detonatore dei missili è pronto».

(ItaliaOggi, 10 giugno 2021)


Ajc Abu Dhabi: la prima sede in un paese arabo

L’American Jewish Commette ha aperto una sede negli Emirati Arabi Uniti, la 13ma all’estero e la prima in uno stato arabo e ha nominato direttore Marc Sievers, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Oman - come riporta il Times of Israel.
   "AJC Abu Dhabi è davvero un evento storico", ha dichiarato il CEO di AJC David Harris. "Questo consentirà all'AJC di creare una rete più ampia di parti interessate nelle nuove relazioni, rese possibili dagli accordi di Abramo".
   L’organizzazione ebraica, da sempre impegnata nella difesa degli ebrei in tutto il mondo e nell’ advocacy per Israele, ha riferito la notizia durante l’AJC virtual Global Forum.
   "Sono profondamente onorato di essere il primo direttore dell'AJC Abu Dhabi. Questo è un momento molto emozionante, un'opportunità unica", ha affermato Sievers. "È meraviglioso avere una sede ad Abu Dhabi non molto tempo dopo gli accordi di Abramo e la normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e tra Israele e il Regno del Bahrain ".
   Il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan, ha accolto con favore l’apertura della sede ad Abu Dhabi ed ha ribadito l’importanza della presenza dell’AJC nel paese arabo: “Fa parte del nostro viaggio e fa parte del cambiamento di mentalità. Quindi continuiamo a lavorare a stretto contatto e a capirci meglio, cercando di guardare avanti piuttosto che guardare indietro".
   L'AJC ha anche annunciato di aver aperto degli account sui social media in lingua persiana, su Twitter, Instagram e YouTube per "raggiungere gli iraniani sia in Iran che nelle comunità della diaspora in tutto il mondo". Già dall'inizio del 2020, l’AJC aveva aperto altri account in lingua araba su Facebook, Twitter e YouTube e da allora i suoi contenuti hanno raggiunto più di 90 milioni di persone.

(Shalom, 10 giugno 2021)


Messaggi antisemiti nei libri di testo dell’Autorità Palestinese

I libri di testo dell’Autorità Palestinese incoraggiano la violenza contro gli israeliani e includono messaggi antisemiti. Lo afferma un rapporto inedito commissionato dall’Unione Europea nel 2019, ottenuto dal Jerusalem Post. La Commissione Europea ha tenuto nascosto il rapporto, dopo averlo ricevuto all’inizio di quest’anno dal Georg Eckert Institute for International Textbook Research. Bruxelles finanzia direttamente gli stipendi degli insegnanti e la pubblicazione di libri di testo che, secondo il rapporto, promuovono e glorificano la violenza contro israeliani ed ebrei.
   Il rapporto, lungo quasi 200 pagine, esamina 156 libri di testo e 16 guide per insegnanti. I testi sono per lo più del 2017-2019, ma 18 sono del 2020. Estratti del rapporto sono stati pubblicati sul quotidiano tedesco Bild all’inizio di questa settimana. Il rapporto afferma che i libri di testo presentano “atteggiamenti ambigui, a volte ostili, nei confronti degli ebrei e delle caratteristiche che attribuiscono al popolo ebraico. L’uso frequente di attribuzioni negative in relazione al popolo ebraico suggerisce una consapevole perpetuazione di pregiudizi anti-ebraici”.
   Inoltre, la maggior parte delle mappe cancellano completamente lo stato di Israele raffigurando la terra tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo come “Palestina” mentre per riferirsi a Israele viene usato il termine “occupazione sionista”. “Questo rapporto conferma i risultati pubblicati da IMPACT-se negli ultimi cinque anni – ha affermato Marcus Sheff, CEO dell’istituto che monitora i libri di testo in Medio Oriente – La domanda è: i decisori politici dell’Unione Europea agiranno finalmente per condizionare i loro finanziamenti all’Autorità Palestinese a riforme positive dei programmi scolastici, come il Parlamento Europeo ha chiesto in diverse occasioni?”.
   In una “Mappa della Palestina” di un libro scolastico palestinese segnalato da IMPACT-se il testo dice che la Palestina si estende “dal Mar Mediterraneo a ovest al fiume Giordano a est e dal Libano e dalla Siria a nord al Golfo di Aqaba e all’Egitto a sud: un’area di circa 27.000 kmq”.

(israele.net, 10 giugno 2021)


Figliuolo e il rabbino Di Segni al festival di cultura "Ebraica"

Il generale e la guida della comunitaà a confronto sul tema della ripartenza "Second Life" anche per libra scienza e tv

«La rinascita è sempre stata radicata nell'ebraismo», dice Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, presentando il tema del Festival internazionale di cultura e i due protagonisti dell'appuntamento clou della 14esima edizione. «A parlare di Second Life e di ripartenza del vivere comune saranno il generale Francesco Paolo Figliuolo, che ha gestito la fase più difficile della pandemia, e il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che da vent'anni guida la più grande comunità ebraica d'Italia». Vedere il futuro il tema dell'incontro che domenica alle 19,30 inaugurerà il festival Ebraica organizzato da Marco Panella, Ariela Piattelli e Raffaella Spizzichino in programma fino al 17 giugno nell'antico quartiere attorno al Portico d'Ottavia e in streaming sui canali Youtube e Facebook.

 IL MUSEO IN NOTTURNA
  «Reinventarsi è una caratteristica del popolo ebraico - aggiunge Anela Piattelli - dopo la distruzione dei due templi di Gerusalemme, le cacciate, le migrazioni, la Shoah, ma anche in senso positivo, con l'emancipazione e la nascita dello Stato di Israele. Rinascita sia come sfida fisica di sopravvivenza che di salvaguardia della propria identità». E di questo si parlerà durante il festival: di "second life" nello spazio, con il ritorno sulla luna e il futuro su Marte, ma anche delle scoperte che hanno migliorato la vita sulla Terra; di serie tv viste come nuova vita dei libri (con il regista Alessandro D'Alatri e lo sceneggiatore Omri Givon), di smart living ridisegnando il modello di relazione tra persone, comunità e spazi urbani. Domenica Tosca, in collaborazione con la Fondazione Museo della Shoah, presenterà il monologo di Gianni Clementi Soldo di Cacio, storia di Giuditta che si salvò dal rastrellamento del ghetto grazie a una mascherina. Durante la serata sarà inoltre possibile visitare il Museo ebraico aperto dalle 21.30 alle 23.30 e la Casina dei Vallati aperta fin dal mattino.
   Spazio anche ai libri con gli scrittori Lia Levi e Edoardo Camuni che parleranno del temi. Raccontare è un altro rinascere Raiz, voce storica degli Almame gretta, che presenterà il suo ultimo romanzo II Bacio di Briannojjh. Al Palazzo della Cultura si visiterà la mostra fotografica di Mera Maroody Waters to Waters - Ritorno alla vita e restando in terra. si intitola L'acqua è vita l'incontro in cui la scrittrice israeliana. Emuna Elon (madre di Ori, il creatore di Shtisel, per gli amanti della serie) si confronterà con Simonetta Dalla Seta, ex direttrice del Meis, sugli strumenti di resilienza offerti dall'ebraismo in situazioni estreme. In chiusura, lectio magistralis dello psichiatra Raffaele Morelli su I giorni della rinascita.

(Il Messaggero, 10 giugno 2021)


L'Ue paga le lezioni di odio palestinesi

Un'indagine di Bruxelles scopre elogi del terrorismo e «parabole» antisemite nei testi scolastici dei bimbi arabi pagati con i fondi che provengano dall'Unione

di Giuliano Guzzo

Incitazioni alla guerriglia, narrazioni tendenziose, contenuti smaccatamente antisemiti. Questo e molto altro è stato scovato nei manuali scolastici palestinesi da uno studio europeo ancora non pubblico ma di cui alcuni media hanno riportato i risultati . Più precisamente, l'indagine, commissionata dall'allora Alto rappresentante dell'Unione europea per gli esteri e la sicurezza, Federica Mogherini, ha preso in esame 156 libri di testo e 16 percorsi didattici mediorientali per un arco temporale biennale, dal 2017 al 2019.
   Confermando le peggiori aspettative, nei testi si è trovata l'esaltazione di azioni terroristiche, l'indicazione di bizzarre attività «educative» con, ad esempio, discussioni di gruppo sui «tentativi degli ebrei di uccidere il profeta Maometto». Ecco che allora, in un libro utilizzato nelle classi di terza media, capita di trovare l'immagine di un rivoltoso palestinese che spara ai soldati israeliani; in altri volumi per ragazzi poco più grandi si trova invece l'esortazione a trovare modi per organizzare una resistenza violenta.
   Ancora, in un sussidiario di quinta elementare c'è la storia di Safiyya bint Abd Al Muttalib, la zia del profeta Maometto che picchiò a morte un ebreo con una mazza di legno, presentata come modello in vista della «disponibilità a far sacrifici di fronte all'occupazione ebraico-sionista». Come fanno notare Tobias Siegal e Lahav Harkov, svelando la vicenda sul Jerusalem Post, gli esiti di questo studio sollevano un dubbio: quando sarà reso noto? Viene da chiederselo alla luce del fatto, sottolineano sempre Siegal e Harkov, che la pubblicazione di questo report potrebbe comportare significative ripercussioni sui finanziamenti europei al sistema educativo palestinese. Si, perché il lato più amaro e paradossale dell'intera vicenda è che, alla fine, l'Europa ha realizzato un'indagine per capire che fine facciano i propri quattrini, scoprendo cose tutt'altro che piacevoli.
   C'è però da aggiungere che questo pur scottante studio europeo, in realtà, non ha scoperto nulla di nuovo; infatti già quando ne venne ufficializzato l'avvio, nel maggio 2019, c'era chi faceva correttamente notare come l'indagine facesse semplicemente seguito ad un altro lavoro, uno studio dell'Impact-se - acronimo che sta per Istituto per il monitoraggio della pace e della tolleranza culturale nell'insegnamento scolastico - che, considerando i testi palestinesi nel settembre 2018, aveva non solo riscontrato della violenza, ma pure un inasprimento dei contenuti in ordine ad istigazione contro gli ebrei, Israele e all'incoraggiamento alla jihad e alla violenza. Tuttavia, il precedente è utile per capire le attuali titubanze europee a diffondere le 200 pagine del report da poco pronto, dato che già lo studio dell'Impact-se aveva suscitato forti polemiche, specie quando il quotidiano tedesco Bild, basandosi proprio su quell'analisi, aveva portato alla luce i finanziamenti tedeschi al dipartimento di educazione dell'Autorità palestinese. La sensazione è insomma che l'Ue tema d'essere nuovamente messa davanti alle sue contraddizioni.

(La Verità, 10 giugno 2021)


L'ambasciatore di Israele a Roma, 'da Hamas crimini di guerra'

'Contro i civili israeliani e contro la popolazione di Gaza'

ROMA - "Hamas ha lanciato 4.000 razzi contro i nostri cittadini, i nostri civili. Ogni razzo aveva lo scopo di uccidere ebrei e cittadini israeliani in generale. Il fatto che, grazie alla nostra tecnologia, siamo riusciti ad intercettare alcuni di quei razzi non cambia le cose". Lo ha sottolineato l'ambasciatore di Israele a Roma, Dror Eydar, durante un'audizione oggi al Senato in cui - come da lui stesso rimarcato - ha voluto spiegare i motivi della recente campagna a Gaza.
   "Hamas intendeva uccidere gli ebrei ovunque si trovassero, indiscriminatamente, e va giudicato per questa sua intenzione - ha continuato il diplomatico israeliano -. Per noi, ogni razzo è un razzo di troppo. Israele, come ogni Stato che cerca la vita, ha l'obbligo di proteggere i suoi cittadini, proprio come ogni genitore ha l'obbligo supremo di proteggere i propri figli da pericoli per la loro vita".
   "Il crimine di guerra di Hamas - ha detto ancora Eydar - è duplice: primo, sparare indiscriminatamente alla popolazione civile israeliana. In secondo luogo, lo fa agendo in mezzo alla sua popolazione civile, e usa la gente di Gaza come scudo umano.
   Le scorte dei razzi sono nascoste sotto asili e ospedali. I quartier generali di Hamas si trovavano all'interno di normali edifici residenziali, incluso un edificio che conteneva le sedi di media da tutto il mondo".

(ANSA, 9 giugno 2021)


Lapid: annunciata troppo presto la nuova coalizione di governo

Il segretario del partito Yesh Atid ha bisogno di 61 firme per creare una coalizione di governo. Ma Naftali Bennett, che dovrebbe portare 6 dei seggi necessari, sta faticando a convincere i membri del suo partito del fatto che un’alleanza con Lapid sia la strada giusta.

La settimana scorsa il segretario del partito Yesh Atid, Yair Lapid, ha comunicato al presidente israeliano Reuven Rivlin di essere in grado di creare una coalizione dopo aver ricevuto il consenso da parte del segretario del partito Yamina a creare un governo di coalizione. Pare, però, che la corsa alla carica di primo ministro sia ben lungi dalla sua conclusione.
   Perché Lapid riesca nel suo intento, ha bisogno del consenso di 61 membri della potenziale coalizione. Prima che Bennett desse il suo consenso, il segretario di Yesh Atid aveva soltanto 55 consensi e il segretario del partito Yamina avrebbe dovuto fungere da anello di snodo sopperendo ai seggi mancanti.
   Tuttavia, Bennett sta faticando nella sua missione. Il suo problema principale è la numero due del partito Yamina, Ayelet Shaked. Nota per le sue opinioni tranchant sulla questione di Gerusalemme, sui prigionieri palestinesi e sull’attività di insediamento, Shaked ritiene difficile aderire a una coalizione che farebbe affidamento su Raam, un partito islamico che si crede abbia legami con i Fratelli musulmani, considerati una organizzazione terrorista da diversi Paesi.
   Inoltre, la crescente pressione esercitata da alcuni membri del parlamento non ha reso facile la vita di Shaked.
   Giovedì scorso dei manifestanti afferenti al blocco conservatore hanno organizzato l’ennesima protesta di fronte alla casa di Shaked a Tel Aviv chiedendole di “tornare a casa”.
   Si prevedono proteste simili anche di fronte alle abitazioni di altri membri di Yamina che, a quanto pare, non sono inclini a cambiare idea e a seguire l’intento di Bennett entrando in un governo con dei terroristi.
   Uno di questi è Nir Orbach. Proprio come Shaked, anche Orbach appare indeciso. Sebbene giovedì scorso il suo incontro con Bennett si sia concluso con una nota positiva e sebbene Orbach ha annunciato che avrebbe fatto il possibile per facilitare la formazione di un governo, i media israeliani sostengono che Orbach è ancora esitante sulla bontà dell’adesione alla coalizione di Lapid.
   Per Orbach, così come per Shaked, si tratta di ovvie preoccupazioni. Molti elettori di destra potrebbero considerare questa mossa come un tradimento, il che si tradurrebbe in una perdita di supporto elettorale e un crollo di popolarità negli imminenti sondaggi. D’altro canto, aderire al governo di Lapid potrebbe aprire ai membri di Yamina ruoli ministeriali chiave e questa è una allettante aspettativa a cui è difficile rinunciare.
   Un altro politico di Yamina che si trova in una posizione analoga è Amichai Shikli il quale, a differenza degli altri colleghi di partito, non mantiene un profilo riservato e parla chiaro.
   Per Shikli la decisione di presentarsi con Yesh Atid è un tradimento dei valori di destra e una violazione importante delle promesse fatte agli elettori che erano sicuri che Bennett avrebbe consentito soltanto la creazione di un governo conservatore.
   A differenza di Shaked e Orbach, Shikli ha già comunicato a Bennett di non avere alcuna intenzione di cedere il suo posto e che voterà contro un governo che fa affidamento su Raam.
   Bennett proverà a convincerlo a trovare un compromesso, ma, se non ci riuscirà, probabilmente la coalizione Lapid-Bennett si schianterà ancor prima di aver decollato.
   In questo caso, la palla tornerà alla Knesset che avrà 21 giorni di tempo per trovare un altro candidato in grado di trovare 61 adesioni per la formazione del nuovo governo.
   Netanyahu potrebbe riprovarci, ma è poco probabile che ci riesca. E comunque si vedono già all’orizzonte nuove elezioni in Israele.

(Sputnik Italia, 9 giugno 2021)


Il governo Netanyahu approva la marcia attraverso Gerusalemme Est

di Nicola Albano

E il governo israeliano, in procinto di dimettersi, ha autorizzato, all’ultimo minuto, l’organizzazione di una controversa marcia ultranazionalista che issa bandiere israeliane in un quartiere islamico di Gerusalemme est. La condizione è che gli organizzatori e la polizia si accordino sulla strada.
La manifestazione era inizialmente prevista per il 10 maggio, ma è stata successivamente annullata a causa delle tensioni, comprese le pianificate evacuazioni dei palestinesi a Gerusalemme est.
Invece, avrebbe dovuto essere preso in custodia domani, ma lunedì la polizia lo ha vietato. La polizia teme che questo porterà a nuove violenze.
E il primo ministro Netanyahu ei suoi ministri hanno deciso ieri che la marcia potrebbe continuare martedì prossimo alle suddette condizioni. Dopodiché è probabile che ci sia un nuovo governo composto da un gran numero di partiti.
La domanda è cosa farà il nuovo governo guidato dal primo ministro ultranazionalista Bennett e dal suo partner di coalizione Lapid. Lapid è il leader del partito laico “C’è un futuro”.

(TGcomnews24, 9 giugno 2021)


L'Egitto mette le mani sulla ricostruzione

Le ruspe di al Sisi già all'opera nella Striscia. Il clima con i "nemici" di Hamas è cambiato

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - E' sincero amore? Se lo chiedono tanti a Gaza osservando l'inedita preoccupazione che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi mostra per le sorti del piccolo territorio palestinese teatro il mese scorso della quarta grande offensiva militare israeliana in 13 anni. E non è passato inosservato il clima cordiale che al Sisi ha instaurato con Hamas che pure, non molto tempo fa, considerava organizzazione ostile e pericolosa perché alleata dei suoi nemici, i Fratelli musulmani.
  Il rais egiziano ha promesso 500 milioni per la ricostruzione di Gaza e venerdì scorso dozzine di bulldozer, gru e autocarri - con a bordo operai e ingegneri egiziani - sono stati accolti con canti, applausi e sventolio di bandiere al loro ingresso a Gaza volto a rimuovere le macerie di case ed edifici distrutti dall'aviazione israeliana. Infine, c'è il ritorno a Gaza dopo 8 anni di una troupe della televisione di stato egiziana. Un cambio di rotta che ha portato alcuni palestinesi a credere che l'Egitto voglia in qualche modo tornare ad «amministrare» l'enclave costiera che ha governato militarmente tra il 1948 e il 1967.
  Non è quella l'intenzione di al Sisi che a Gaza è intervenuto per interesse e non per «amore» dei palestinesi. «L'Egitto è impegnato a ricostruire la sua posizione regionale - ci spiega l'analista Mukrair Abu Saada, docente di scienze politiche all'Università Al Azhar di Gaza city - e ha compreso che la sua mediazione tra Hamas e Israele e tra le varie fazioni palestinesi può aiutarlo e dargli anche più peso a Washington. L'Amministrazione Biden si aspetta dai suoi alleati arabi un impegno maggiore per la stabilità regionale». Abu Saada ricorda che i rapporti tra Hamas e Il Cairo erano già migliorati dopo l'elezione nel 2017 di Yahya Sinwar a capo del movimento islamico a Gaza. «Sinwar - aggiunge l'analista- garantì il massimo impegno per impedire ai jihadisti nel Sinai di trovare rifugio a Gaza. L'Egitto in cambio aprì più spesso il terminal di confine di Rafah ai movimenti dei civili palestinesi. Ora siamo davanti a uno sviluppo non atteso, almeno non in questi termini».
  Abu Sarda, come altri, pensa che il protagonismo di al Sisi sia mirato anche a contenere il ruolo del Qatar a Gaza. Non sono ancora state superate le scorie dello scontro che per più di tre anni, fino alla «riconciliazione» avvenuta all'inizio del 2021, ha contrapposto Doha alla «Nato araba» (Arabia saudita, Bahrain, Emirati, Egitto e in misura minore la Giordania). Il Cairo e i suoi alleati non hanno mai digerito il sostegno dato ad Hamas dal Qatar che in nove anni ha investito a Gaza 1,4 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali e donazioni ai poveri. Un'operazione di contenimento che da qualche settimana ha l'ok israeliano. Tel Aviv negli ultimi anni ha contato sui soldi del Qatar per tenere in vita una Gaza moribonda a causa del blocco che attua dal 2007. Ora governo e comandi militari e di intelligence si dicono «profondamente delusi» da Doha che, affermano, con i suoi fondi ha rafforzato Hamas a Gaza e non ha impedito che lo scorso 10 maggio, l'ala militare del movimento islamista lanciasse razzi verso Gerusalemme.
  La gente di Gaza non ha tempo per la geopolitica. Ha ben altri problemi da affrontare da quando è scattato il cessate il fuoco con Israele il 21 maggio. «Perché l'Egitto ha mandato ruspe e camion a Gaza? Qui non ci mancano, le imprese locali avevano l'occasione di lavorare e di dare pane a tante famiglie. Invece a guadagnare sono gli operai e gli ingegneri egiziani. La ricostruzione dobbiamo farla noi palestinesi», protesta Samir H., un piccolo imprenditore che ci chiede di non rivelare la sua piena identità. «I 500 milioni che promette al Sisi - afferma - sono degli Emirati non dell'Egitto». Hamas, dicono altri, sa come vanno le cose ma tace perché considera centrale per la sua vocazione strategica le buone relazioni con Il Cairo.

(il manifesto, 9 giugno 2021)


Formula 1: Alpine e Shamir Optical insieme per una visione migliore

di Emilio Deleidi

In Formula 1 nulla può essere trascurato, dal minimo dettaglio tecnico alla forma fisica dei piloti. Vista compresa, naturalmente. Ed è proprio a questo aspetto che l’Alpine ha voluto dedicare la propria attenzione, sottoscrivendo un accordo con la Shamir Optical Industry. Il nome dice probabilmente poco ai non addetti ai lavori, ma si tratta di un'azienda israeliana, fondata nel 1972 nel Kibbutz Shamir dell’Alta Galilea, specializzata nella ricerca sulle capacità visive e nello sviluppo di lenti oftalmiche ad alte performance. Quotata oggi al Nasdaq di New York e alla Borsa di Tel Aviv, dal 2011 vede una partecipazione azionaria al 50% dell’italiana Essilor.

 NON SOLO IN PISTA
  Toccherà, dunque, ai tecnici della Shamir fornire accurate valutazioni visive dei piloti, Fernando Alonso ed Esteban Ocon, ma anche dei giovani driver dell’Accademia Alpine, degli uomini del team (soprattutto di quelli presenti in pista) e del personale delle sedi di Enstone e di Viry-Châtillon. “La visione”, sottolinea Davide Brivio, racing director della squadra, “è stata spesso trascurata come fattore di differenziazione delle prestazioni; osservando, invece, sport diversi, dal motociclismo allo sci fino ai rally, abbiamo invece capito come un atleta possa ottenere prestazioni migliori se non è disturbato da riflessi, sfocature e bagliori”. Gli ingegneri dell’Alpine e della Shamir, quindi, lavoreranno insieme per sviluppare nuove tecnologie per occhiali con trattamenti antiriflesso innovativi, visiere colorate e lenti anti-appannamento per i caschi del personale ai box.

 STEP SUCCESSIVI
  Il programma di lavoro definito tra la squadra e l’azienda israeliana prevede una prima fase nella quale saranno definiti protocolli per migliorare le prestazioni visive dei piloti, che già risultano superiori a quelle medie e influiscono sui tempi di reazione e sulle prestazioni. Si pensi, per esempio, all’importanza di una percezione istantanea delle luci del semaforo alla partenza e della visione periferica, ostacolata dal casco, dall’Halo e dalla sagoma della vettura, della presenza di altre monoposto a fianco della propria in una staccata al limite o dell’accensione delle luci blu, gialle e rosse che oggi affiancano le tradizionali bandiere dei commissari.
  A questo si aggiunge la necessità di passare istantaneamente dalla visione lontana della pista e dei cordoli a quella ravvicinata degli innumerevoli comandi sul volante e, soprattutto, delle indicazioni riportate dal display di bordo. Compiti che richiedono non solo straordinarie capacità multitasking, ma anche un adattamento fulmineo del focus visivo.
  Successivamente, il programma di lavoro di Alpine e Shamir prevede un miglioramento delle prestazioni ottiche delle visiere dei caschi, con funzioni antiriflesso e antinebbia, grazie anche all’adozione di tinte speciali, adatte alle differenti condizioni di gara. Non dimentichiamo, infatti, che diversi Gran Premi si svolgono in condizioni d’illuminazione artificiale o al tramonto, con il sole radente che costituisce un fastidio notevole per chi guida (non solo in Formula 1…).
  Infine, le aziende lavoreranno per trovare nuove soluzioni ottiche utili a migliorare le prestazioni di tutto il team, concentrandosi sulle specifiche esigenze visive dei diversi membri della squadra. Del resto, la Formula 1 costituisce uno straordinario laboratorio di ricerca per tecnologie applicabili non solo alle vetture, ma anche agli uomini.

(Quattroruote, 9 giugno 2021)


"Stresa-Mottarone, tragedia che ci ha segnati: sempre al fianco di Eitan"

 
Il messaggio dei bambini della scuola ebraica di Milano
Una sirena fatta suonare alle 12.00 in punto per rendere un doloroso omaggio ad Amit Biran, Tal Peleg, al loro bambino Tom e ai bisnonni Barbara Cohen Konisky e Itshak Cohen, vittime della strage della funivia del Mottarone. A farla suonare, la Scuola ebraica di Milano che ha voluto così ricordare una famiglia diventata parte della Comunità locale. Amit infatti faceva la sicurezza a scuola ed era conosciuto da tutti.
  Tutti ricordano il suo sorriso. La sua scomparsa prematura al fianco della moglie, del figlio più piccolo e dei nonni ha scosso tutto l'ebraismo milanese, che si è subito mobilitato per cercare di sostenere l'unico motivo di speranza in questa storia tragica:
  Eitan, il figlio di cinque anni della coppia, solo sopravvissuto all'incidente. Il bambino, ricoverato a Torino, ha davanti un difficile futuro e per questo due raccolte fondi sono state avviate su impulso della realtà ebraica milanese.
  "Abbiamo ricevuto donazioni da tantissimi Paesi diversi, dagli Stati Uniti al Canada a vari Paesi europei. - ha raccontato Guido Jarach, consigliere della Fondazione per la scuola ebraica di Milano, promotrice di una delle raccolte fondi - Amit lavorava presso la scuola e accoglieva ogni giorno con il suo sorriso i nostri figli. Chi vuole partecipare può farlo attraverso il sito della Fondazione Scuola della comunità ebraica di Milano.
  Nulla potrà alleviare il dolore dei superstiti della famiglia, ma siamo soddisfatti di poter dare un contributo grazie alla generosità di chi sta partecipando alla raccolta. Tutti ci auguriamo che il bambino in ospedale a Torino possa recuperare al più presto piena salute".
  A ringraziare il pubblico anche il presidente della Comunità ebraica di Milano Milo Hasbanì, che ha seguito da vicino i familiari delle vittime. "Erano rientrati da poco da Israele e volevano passare una giornata spensierata. È una tragedia che lascia senza parole", la sua testimonianza a poche ore dall'incidente, con un ringraziamento anche a chi è intervenuto subito sul luogo.
  "La Comunità ebraica di Milano, a nome proprio e della famiglia di Amit Biran, desidera ringraziare i soccorritori della Croce Rossa, Protezione civile, Vigili del Fuoco e volontari di Stresa e Verbania, tutti coloro che hanno collaborato nel difficile e doloroso intervento sul luogo della tragedia del Mottarone: alcuni Vigili del Fuoco hanno addirittura rischiato la loro vita quando uno dei loro mezzi di soccorso si è ribaltato a causa della pendenza del terreno".
  Nel suo messaggio Hasbani ha anche fatto riferimento al procedimento in corso per accertare le responsabilità penali di quanto accaduto. ''Abbiamo pronunciato parole di addio per tutti coloro che sono morti in questo tragico incidente. Vogliamo verità e non vendetta, non solo per quanto accaduto a Stresa ma in generale".
  Una tragedia che ha dei responsabili ma, ha ricordato il rabbino capo di Milano rav Alfonso Arbib, che lascia anche dolorosi interrogativi aperti. "In questo momento non abbiamo risposte, abbiamo solo domande, possiamo solo rimanere in silenzio e condividere il vostro dolore" le sue parole durante la cerimonia di addio alle vittime, prima del rimpatrio in Israele. "Non possiamo immaginare la vostra tragedia,- le parole del rav alla famiglia - ma sappiate che siamo qui, siamo al vostro fianco e faremo tutto il possibile per aiutarvi".

ּּ(Milano Ebraica, giugno 2021)


Le lingue d’Israele, un mosaico costruito attorno all’ebraico

Una sola lingua ufficiale, morta e risorta solo nel tardo Ottocento per opera di Eliezer Ben-Yehuda, convive con i più vari idiomi delle tribù israeliane. Ma la compenetrazione con l’arabo sta crescendo, favorita anche dalle serie televisive di successo.

di Gianluca Pacchiani

1. A causa del legame biunivoco tra il popolo ebraico e la lingua ebraica, non è mai esistito in Israele un progetto di assimilazione linguistica della minoranza araba. Fin dall’inizio è stato riconosciuto agli arabi il diritto di parlare la propria lingua, frequentare scuole separate e informarsi tramite giornali e canali radiotelevisivi in arabo, alcuni dei quali pubblici.
  Il plurilinguismo in vigore in Israele è diverso da quello di paesi come il Canada, la Svizzera o il Belgio, dove le lingue nazionali sono almeno sulla carta di pari importanza. Si prenda ad esempio la Knesset. Benché le leggi promulgate dal parlamento israeliano siano pubblicate in ebraico, in arabo e in inglese e benché una sentenza della Corte suprema del 2000 abbia imposto che il materiale informativo divulgato dai ministeri, la segnaletica stradale e le etichette sui prodotti alimentari debbano essere disponibili anche in arabo, i lavori parlamentari si svolgono unicamente in ebraico.
  La prima volta che l’arabo fu parlato nel parlamento israeliano fu durante la storica visita del presidente egiziano Anwar Sadat nel 1977. Da allora dovettero passare quasi quarant’anni prima di poterlo udire di nuovo in sessione plenaria: accadde nel 2016, quando la Knesset istituì la Giornata della lingua araba, in occasione della quale deputati arabi (e alcuni ebrei) poterono esprimersi nella lingua del Corano.
  Lo stesso vale per il sistema giudiziario. Anche nei casi in cui imputato, avvocato dell’accusa, difesa e giudice siano tutti arabi, il processo deve condursi in ebraico. La legge sullo Stato nazionale del 2018, che ha declassato l’arabo da lingua ufficiale a lingua con status speciale, non ha perciò cambiato nulla nell’asimmetria di tale bilinguismo. Lo stesso promotore della legge, l’ex capo dello Shin Bet (servizio di sicurezza interno) Avi Dichter, dichiarò che essa non modificava la posizione di alcuna minoranza o alcuna lingua, poiché Israele non era mai stato un paese bilingue.
  Anche l’istruzione è asimmetrica. I sistemi scolastici sono distinti: uno in ebraico e uno in arabo. In entrambi è previsto l’insegnamento della lingua «dell’altro», ma a condizioni assai diverse. Gli arabi israeliani studiano ebraico dalla terza elementare fino alla maturità, mentre nelle scuole ebraiche lo studio dell’arabo (classico) è obbligatorio solo tra i tredici e i sedici anni. L’insegnamento si svolge nell’ottica securitaria di «conoscere il nemico», con un’enfasi sul lessico politico e militare, piuttosto che nell’ottica di «conoscere il vicino». Gli studenti che decidono di portare l’arabo come materia alla maturità sono poi incoraggiati a entrare nelle unità di intelligence al momento della leva militare. Alla conclusione della scuola dell’obbligo si crea quindi una situazione asimmetrica tra le due comunità: mentre gli arabi terminano il ciclo di studi con una conoscenza funzionale dell’ebraico, sono pochi gli ebrei israeliani (circa il 10%) a saper condurre una conversazione in arabo vernacolare.
  La situazione sembra tuttavia in mutamento. Da una ventina d’anni esistono in tutto Israele scuole bilingui (come quelle della rete Hand in Hand, o la scuola di Neve Shalom vicino Gerusalemme) in cui gli studi si svolgono nelle due lingue e gli alunni apprendono la cultura e le tradizioni di ebrei e arabi. Nel 2018 il governo ha lanciato un programma di insegnamento dell’arabo vernacolare per le scuole elementari. Grazie alla popolarità di serie televisive come Fauda, l’apprendimento dell’arabo come lingua del «vicino» e non solo del «nemico» negli ultimi anni sta riscuotendo nuovo interesse presso gli israeliani. Si moltiplicano anche i corsi di arabo per adulti: grande popolarità durante i lockdown nel periodo dell’epidemia di Covid-19 ha riscontrato il corso gratuito online del progetto Madrasafree.

2. L’ebraico rappresenta a oggi l’unico caso di lingua morta e «rinata» come lingua vernacolare. Altre, come il latino e il sanscrito, sono sopravvissute per secoli nell’ambito liturgico o della cultura, ma solo l’ivrit è tornato a essere la lingua madre di una comunità di parlanti in cui si scrive letteratura, si discute di fisica nucleare e si cantano canzoni a Eurovision.
  La rinascita dell’ebraico come lingua parlata agli inizi del Novecento e il suo uso oggi in Israele sono strettamente legati al movimento sionista e alla ricostituzione della nazione ebraica come entità politica sovrana in Palestina. Gli ultimi parlanti ebraico in epoca antica erano vissuti in Terra d’Israele intorno al II secolo a.C. Il profeta biblico Neemia, narrando degli ebrei tornati dall’esilio babilonese, così descrive la cerimonia di lettura in pubblico della Torah: «Leggevano nel Libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura» (Neemia, 8:8). Il Testo sacro veniva letto ai fedeli nell’originale ebraico; al lettore era affiancato un traduttore, che ripeteva i versi in aramaico. L’aramaico, lingua veicolare in tutto il Medio Oriente già dal VI secolo a.C. e appresa dagli ebrei durante l’esilio, fu la prima delle varie lingue che sostituirono l’ebraico come lingua parlata dalle comunità ebraiche in Palestina e nella diaspora. In seguito alla distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C., gli ebrei furono costretti a emigrare. Andarono a stabilirsi in terre lontane quali lo Yemen, la Persia, l’India e ovviamente l’Europa. I maggiori centri di popolazione ebraica in Europa furono Ashkenaz, ovvero la regione tra Francia e Germania, e la Penisola Iberica – in ebraico Sefarad.
  Nella diaspora le comunità ebraiche vivevano in un regime di trilinguismo. L’ebraico, insieme all’aramaico, si usava per la lettura delle preghiere e dei testi sacri e fungeva da lingua franca tra ebrei di diverse regioni. La lingua parlata all’interno delle comunità era invece un vernacolare derivato dalla lingua locale e scritto con alfabeto ebraico. Lo yiddish parlato dalla gran parte degli ashkenaziti derivava da dialetti tedeschi medievali, con prestiti lessicali da ebraico, aramaico e lingue slave. I sefarditi parlavano invece ladino, derivato dallo spagnolo medievale – da non confondere con la lingua omonima parlata nelle Alpi. Esistevano poi infiniti vernacolari locali, quali i dialetti giudeo-italiani, quelli giudeo-arabi in Nord Africa eccetera. Nei rapporti con i gentili (i non ebrei), si usava la lingua di questi ultimi. La padronanza della lingua dei gentili dipendeva soprattutto dal livello di integrazione degli ebrei nella società circostante. Mentre gli ebrei della borghesia tedesca prima della seconda guerra mondiale parlavano e scrivevano in tedesco, la gran parte degli ebrei degli shtetl (villaggi) della Polonia parlava poco polacco e si sapeva esprimere solo in yiddish.
  Con lo sviluppo del movimento sionista alla fine del XIX secolo – il congresso fondativo del sionismo politico, guidato da Theodor Herzl e Max Nordau, si tenne a Basilea nel 1897 – e l’arrivo dei primi coloni ebrei nella Palestina ottomana, l’ideale di ricostituire uno Stato nazionale ebraico fu accompagnato dall’aspirazione di riportare in vita l’antica lingua degli antenati.
  I tentativi di risuscitare l’ebraico come lingua «laica», non liturgica ma letteraria, erano iniziati indipendentemente dagli sforzi di riconquista della Terra d’Israele. Già da metà dell’Ottocento vari intellettuali appartenenti al movimento illuminista ebraico, la Haskalah, avevano iniziato a produrre letteratura in ebraico su temi non religiosi. Il primo romanzo di successo fu L’amore di Sion (1853), dello scrittore russo Abraham Mapu, scritto in una lingua rigida e artificiosa costituita da frasi prese in prestito da testi biblici. Due decenni più tardi apparvero le prime riviste di scrittori ebrei laici: HaShahar (L’alba), curata da Peretz Smolenskin a Vienna, e HaShiloah (nome della riserva d’acqua di Gerusalemme) a cura di Ahad Ha’Am a Odessa, in cui si propugnava la rinascita delle comunità ebraiche per difendersi dall’oppressione e dalla corruzione dell’impero russo.
  Il progetto di Stato ebraico elaborato da Theodor Herzl non ipotizzava che l’ebraico ne diventasse lingua ufficiale. Nel suo romanzo Vecchia terra nuova (Altneuland) del 1902, gli ebrei insediati in Palestina parlano tedesco.

3. La rinascita dell’ebraico come lingua nazionale è legata alla figura di Eliezer Ben-Yehuda, nato in Lituania nel 1858 ed emigrato in Palestina nel 1881. Mosso dal desiderio di affrancarsi dal passato diasporico, Ben-Yehuda decise che l’ebraico sarebbe diventato la prima lingua degli ebrei in Terra d’Israele. Nella Gerusalemme dell’epoca l’ebraico era lingua franca tra le diverse comunità ebraiche che vi abitavano ma era considerato lingua sacra, da non usare tra le mura domestiche: era del resto povero di vocaboli e pronunciato con accenti molto diversi a seconda dell’origine dei parlanti. Nel 1882 nacque il primo figlio di Ben-Yehuda, Itamar, che il padre si impegnò a esporre unicamente all’ebraico. Giunse al punto di sgridare la moglie per aver cantato al neonato una ninnananna in russo, non esistendo equivalenti nella nuova lingua. Itamar, cui il padre vietò di parlare con altri bambini per non essere «contaminato» da altre lingue, crebbe come il primo parlante nativo di ebraico dopo quasi duemila anni.
  Il successo della rinascita dell’ebraico fu dovuto alla sua massiccia adozione presso gli immigrati in Palestina. Nel 1903 il sistema di istruzione dello Yishuv era ormai quasi interamente in ebraico. Nel 1922 l’ebraico fu dichiarato lingua ufficiale del Mandato britannico in Palestina, accanto all’inglese e all’arabo. Nel 1923 fu fondata la Legione giovanile per la tutela della lingua, che condusse campagne contro i due nemici dichiarati: l’inglese e lo yiddish. La Legione riuscì anche a bloccare l’istituzione di una cattedra di yiddish alla neonata Università ebraica. L’ebraico fu così adottato nelle scuole, nella vita comunitaria dei kibbutzim, dalla stampa e in letteratura. Nel 1948, anno della fondazione dello Stato di Israele, ben l’80% dei circa 600 mila ebrei di Palestina dichiarava di conoscere l’ebraico e il 50% di usarlo come unica lingua. La transizione da lingua morta a lingua nazionale aveva richiesto solo poco più di settant’anni.
  Con l’arrivo massiccio di sopravvissuti alla Shoah alla fine degli anni Quaranta, seguìto dalle ondate migratorie di ebrei dai paesi arabi negli anni Cinquanta e Sessanta, si pose il problema di come insegnare la lingua in tempi rapidi ai nuovi arrivati dalle provenienze più disparate. Il sistema di corsi di lingua (ulpan) sviluppato da Ben-Yehuda prevede l’insegnamento della lingua solo in ebraico, con un metodo induttivo e associativo. Nei suoi settant’anni di storia il sistema ulpan ha assorbito ondate di immigrati imponenti e spesso improvvise. Secondo un detto, Israele è l’unico paese dove le madri imparano la lingua dai figli.
  L’ideologia che associa l’uso dell’ebraico alla creazione di un «nuovo ebreo» è così pervasiva che le lingue parlate dalle prime generazioni di immigrati sono oggi praticamente estinte, a eccezione del russo. Lo yiddish sopravvive come vernacolare degli ebrei ultraortodossi ashkenaziti, molti dei quali considerano ancora l’ebraico come lingua sacra. Il ladino invece, la lingua parlata dagli ebrei fuggiti dalla Spagna nel Mediterraneo orientale, è ormai prossimo all’estinzione come lingua madre. I leader religiosi delle comunità sefardite nell’impero ottomano non avevano mai promosso l’uso del ladino come lingua di istruzione religiosa, a differenza dei rabbini ashkenaziti che fin dal XVII secolo pubblicavano commenti religiosi in yiddish. Con l’avvento della modernità e dell’illuminismo ebraico le comunità ashkenazite in Europa orientale si rifugiarono nello yiddish come baluardo antimodernista e isolazionista, garantendone la sopravvivenza fino a oggi come lingua esclusiva delle comunità ultraortodosse (ashkenazite). Sicché oggi i haredim askhenaziti parlano soprattutto yiddish, mentre i haredim sefarditi (circa il 20%) parlano ebraico.
  Eliezer Ben-Yehuda fondò il Comitato per la lingua ebraica allo scopo di coniare neologismi basati sull’ebraico antico e su lingue semitiche a esso affini, quali l’aramaico e l’arabo. Gli anni di prigionia nelle carceri britanniche gli consentirono di dedicarsi alla stesura del primo dizionario moderno, opera conclusa dalla moglie dopo la sua morte nel 1922. Il Comitato fondato da Ben-Yehuda si chiama oggi Accademia della lingua ebraica (HaAkademia laLashon ha’Ivrit). È un’istituzione altamente rispettata in Israele e si occupa di creare neologismi e di definire l’uso corretto della lingua, analogamente all’Accademia della Crusca in Italia.
  L’ironia evidente a tutti è che l’Accademia della lingua ebraica non è mai riuscita a coniare un termine in lingua semitica per autodefinirsi, e continua a usare una parola greca.

4. Ebraico e arabo sono della stessa sottofamiglia linguistica semitica, parte della famiglia afroasiatica. Benché le due lingue non siano reciprocamente comprensibili, le affinità morfologiche, sintattiche e lessicali sono numerose ed evidenti. Alcune parole sono quasi uguali: ad esempio i numeri, o la parola per «casa», bayit (da cui deriva il toponimo Betlehem, Betlemme). Entrambe le lingue si scrivono da destra a sinistra.
  Il mondo arabofono conta ufficialmente oltre 400 milioni di parlanti. È caratterizzato dalla diglossia, ovvero l’uso di due varietà linguistiche distinte, una formale e una colloquiale. La lingua ufficiale in tutti i paesi arabi, dal Marocco all’Oman, dall’Iraq al Sudan, è l’arabo standard, derivato da quello classico e noto anche come fuṣḥā.
  L’arabo standard è utilizzato nella lingua scritta e in discorsi formali, ma non è parlato nella vita di tutti i giorni. In ogni paese sono presenti una o più varianti di arabo colloquiale, utilizzato nelle interazioni quotidiane. È una situazione analoga a quella esistita in Europa per molti secoli, quando il latino aveva cessato di essere una lingua parlata ma sopravviveva come lingua di cultura e liturgia in parallelo ai dialetti regionali che diedero poi vita alle lingue nazionali. Gli arabi che vivono in Israele e nell’Autorità palestinese parlano il dialetto palestinese, che forma il gruppo dei dialetti levantini insieme alle varianti di Siria, Libano e Giordania. Il dialetto palestinese e quello giordano sono praticamente indistinguibili, data la prossimità geografica e il fatto che metà della popolazione giordana è costituita da profughi palestinesi.
  I palestinesi cittadini di Israele costituiscono circa il 20% della popolazione. Il loro arabo presenta una grande varietà. La principale distinzione è tra dialetti urbani, dialetti rurali e dialetti dei beduini del Negev, il deserto che occupa la metà meridionale di Israele. Ulteriori differenze fonetiche esistono in certe zone tra diversi gruppi religiosi, musulmani, cristiani e drusi. I drusi in particolare, distribuiti nel Nord di Israele e nelle Alture del Golan, parlano un dialetto simile a quello libanese, con una caratteristica pronuncia gutturale. I dialetti parlati dai palestinesi di Israele e di Cisgiordania sono geograficamente contigui, con l’unica differenza che l’arabo usato all’interno della Linea verde è fortemente influenzato dall’ebraico nel suo vocabolario. Gaza è un caso a parte, dato che su circa 1,8 milioni di abitanti della Striscia, 1,3 milioni sono profughi del 1948 e loro discendenti, provenienti da varie parti della Palestina. L’accento originario di Gaza è affine agli accenti palestinesi urbani con influenze beduine, ma è impossibile oggi definire un accento comune per tutta la Striscia dato il mosaico di popolazioni che vi abitano.
  I rapporti tra ebrei e arabi nel quotidiano, molto più intensi e pragmatici di quanto lascino pensare i notiziari, si riflettono negli scambi fra le due lingue. Lo slang ebraico moderno è ricco di prestiti dall’arabo, dai saluti (ahlan è un comune sostituto del saluto ebraico shalom) alle esclamazioni di approvazione akhla e sababa, a quelle di sorpresa come walla e di spregio come ma’afan (dalla parola araba per «marcio»). In parallelo, i palestinesi di Israele parlano un arabo intervallato da parole, o intere frasi, in ebraico. A tal punto gli arabi israeliani sono abituati a usare parole ebraiche che spesso dimenticano l’equivalente arabo. Questa commistione linguistica ha portato a una netta distinzione lessicale tra i palestinesi che vivono in Israele e quelli di Cisgiordania e Gaza. Nei Territori dell’Autorità palestinese ci si riferisce ai palestinesi in Israele come «arabi del ’48» o «arabi dell’interno», ma anche «arabi del besèder» (la parola ebraica per «ok»), o «arabi della shamenet» (il nome ebraico della panna da cucina, con critica implicita al più alto tenore di vita di cui godono i palestinesi cittadini di Israele rispetto a quelli di Cisgiordania e Gaza).

5. Con la caduta della cortina di ferro nel 1991 ebbe inizio un’ondata migratoria dall’ex Unione Sovietica verso Israele che portò un milione di cittadini al piccolo Stato mediorientale, all’epoca popolato da soli cinque milioni di abitanti. Alcune città, come Ashdod sulla costa mediterranea, videro la propria popolazione raddoppiare nell’arco di un decennio, nel caso in questione passando da 100 mila a 200 mila abitanti. Israele è oggi il terzo paese al mondo per numero di russofoni al di fuori dell’ex Unione Sovietica, dopo Germania e Stati Uniti.
  L’ondata migratoria dei «russi» (così vennero chiamati tutti gli immigrati dall’Unione Sovietica) fu una manna dal cielo per lo Stato ebraico, sia perché rafforzava la maggioranza ebraica nel paese a discapito della minoranza araba, sia perché i nuovi immigrati portavano competenze tecniche e scientifiche preziose. L’immigrazione «russa» è ritenuta uno dei fattori alla base del boom tecnologico israeliano degli anni Duemila. L’establishment religioso ebraico tuttavia si oppose al nuovo apporto demografico, avanzando dubbi sull’autenticità dell’ebraismo dei nuovi arrivati.
  Oggi gli immigrati russofoni rappresentano circa il 13% della popolazione e hanno un importante peso politico. Sono considerati uno dei motivi dello spostamento a destra della politica israeliana negli ultimi due decenni, grazie al loro sostegno al partito nazionalista Yisrael Beitenu, contrario a qualsiasi concessione territoriale ai palestinesi. Yisrael Beitenu è l’unico partito della destra israeliana di matrice nettamente laica, se non addirittura antireligiosa.
  Nelle ondate migratorie precedenti a quella russofona, l’ideologia sionista aveva imposto ai nuovi arrivati di abbandonare l’identità diasporica a favore dell’identità sionista israeliana. L’immigrazione dall’Unione Sovietica avvenne invece negli anni Novanta, in un’epoca di progresso nelle tecnologie di telecomunicazione. Tv satellitari e Internet hanno consentito ai «russi» di diventare israeliani mantenendo al contempo un legame con la cultura e la lingua di origine. Pur essendo integrati politicamente ed economicamente nella società israeliana, molti immigrati dall’ex Urss mantengono ancora un forte attaccamento alla cultura di origine, lingua inclusa.
  La lingua russa non gode però di alcuna tutela giuridica in Israele, a differenza dell’arabo. Nonostante ciò, è largamente presente nella vita quotidiana del paese. Traduzioni in russo sono fornite per il sito della Knesset, per le campagne elettorali di diversi partiti, per le comunicazioni ufficiali dello Stato e di enti privati. Per quanto riguarda i mass media, Canale 9 trasmette unicamente in russo. Fino al 1996 esistevano sei quotidiani in lingua russa; oggi sopravvivono solo alcune testate locali.

6. La tradizione vuole che gli ebrei etiopi (noti come «Beta Israel») siano discendenti dell’unione tra re Salomone e la regina di Saba. Vissero isolati dal resto del mondo ebraico per almeno un millennio, distribuiti tra 500 villaggi nel Nord dell’Etiopia. Sono l’unica comunità ebraica i cui testi sacri non erano letti e studiati in ebraico antico ma nella traduzione in ge‘ez, lingua semitica che funge da lingua liturgica anche per la Chiesa ortodossa etiope.
  La maggior parte degli ebrei etiopi migrò in Israele con due operazioni aeree segrete orchestrate dal Mossad nel 1984 e nel 1991: Operazione Mosè e Operazione Salomone. Sono oggi circa 130 mila, concentrati soprattutto nelle città di Beersheva, Dimona, Mitzpe Ramon (nel deserto del Negev), Ashdod, Ashkelon, Lod, Ramla, Or Yehuda, Gerusalemme, Netanya, Kiryat Malakhi. Al loro arrivo conoscevano solo l’amarico, lingua semitica parlata ancora dalla prima generazione di immigrati e spesso utilizzata in comunicazioni ufficiali e pubblicazioni del governo. La seconda e la terza generazione, nate in Israele, parlano ormai ebraico.

(LA QUESTIONE ISRAELIANA - n°5 - 2021)


E’ il Medio Oriente, bellezza

Non sempre quel che si dice è quel che si vuole e quel che si vuole è quel che si dice. La partecipazione degli arabi israeliani al governo Lapid dovrà tenerne conto

di Flavio Pasotti

Cautela e molti punti di domanda, come sempre quando si guarda al Medio Oriente: l'una e gli altri non bastano mai. Partendo dalla constatazione che mancano molti giorni al voto di fiducia per il possibile nuovo governo israeliano e anche da una considerazione: proprio come Trump, anche Netanyahu si avvia a essere il perdente predestinato ma nonostante tutto mantiene un consenso elettorale che nessun politico o analista può ignorare.
  Non può essere però sfuggito che mentre da Gaza partivano salve di razzi e qualche missile, gli Hezbollah - proxy iraniani al confine settentrionale (proxy war è la guerra per procura, ndr.) - sparavano sì ben tre razzi ma verso il mare a fronte della costa israeliana. Della serie: noi con questa cosa di Gaza non c'entriamo e anzi ci serve tenere un low pro.file per favorire i colloqui a Vienna tra Teheran e l'amministrazione Biden sulla ripartenza del dialogo nucleare. Così come non passa inosservato che nonostante le 'misteriose' esplosioni di navi e raffinerie a Hormutz e Teheran sia proprio Rohani - curiosamente finito sotto accusa perché veste costumi tradizionali ma made in Jtaly - ad assicurare che le cose procedono positivamente.
  Gli accordi di Abramo furono un grande successo di Trump e un buon risultato per il Medio Oriente ma, tra le altre cose, reggevano sulla dichiarata ostilità dei sottoscrittori (e dei loro padrini) verso l'Iran: reggeranno al cambio di Washington e al possibile nuovo governo di Gerusalemme? Si potrebbe dire che per un punto Bibi perse la cappa, perché questo è il possibile vantaggio del Governo di Bennet Lapid alla Knesset. Ma i partiti ultraconservatori potranno sopravvivere fuori dalle ricchissime prebende governative che Bibi garantiva loro o si affievolirà la durissima opposizione ali' ingresso nelle stanze del potere di Ra'am - uno dei partiti degli arabi israeliani, più probabile nei ruoli della Knesset che nell'esecutivo - come spera Lapid offrendo una maggioranza più ampia al possibile nuovo governo?
  E ancora, che autonomia ha il musulmano Mansour Abbas - il capo di Ra'arn che in questi giorni ha dato prova di intelligenza andando a visitare la sinagoga di Lod distrutta dai missili di Gaza e offrendosi di partecipare alla sua ricostruzione - da quei Fratelli Musulmani che dopo la caduta di Modi in Egitto vedono in Erdogan, sponsor di Hamas, il loro punto di riferimento?
  La partecipazione degli arabi israeliani al gioco politico, non accadeva dal 1977, è una vera speranza soltanto se verrà confermato che il Governo nasce su un programma che escluda di discutere di uno Stato palestinese. È questa la scommessa di Lapid, vero demiurgo dell 'operazione. Può sembrare paradossale che l'unica cosa importante di cui si discuterà sia quella di cui non si deve parlare. Ma è il Medio Oriente, bellezza.

(la Ragione, 8 giugno 2021)


Torna la tensione a Gerusalemme tra arresti, marce negate e clima d'odio

Lo scontro con i palestinesi si riaccende con l'interrogatorio dei gemelli Mona e Mohammed al-Kurd, attivisti-simbolo, e con la replica della Sfilata delle Bandiere, alla fine non autorizzata dalle autorità. Intanto, sul fronte interno, il clima è sempre più avvelenato per le accuse del Likud contro i "traditori" della coalizione anti-Netanyahu.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME – A un mese dall’ultima escalation di sicurezza culminata in 11 giorni di conflitto tra Israele e Hamas, la situazione a Gerusalemme rischia di farsi nuovamente esplosiva. Questa settimana infatti tornano all’ordine del giorno due questioni che potrebbero minare la tenuta della fragile tregua raggiunta poco più di due settimane fa e non ancora consolidatasi, mentre si giunge alle battute finali per la formazione di un nuovo governo senza Netanyahu. Il primo è la Sfilata delle Bandiere, una marcia organizzata in occasione del giorno di Gerusalemme in cui Israele celebra l’unificazione della città dopo la guerra dei Sei giorni, il cui tragitto era stato in extremis modificato il 10 maggio per evitare che passasse, come di consueto, dalla Porta di Damasco e dal quartiere musulmano, in un giorno di tensione altissima che culminò con il lancio di sei missili verso Gerusalemme da parte di Hamas e all’inizio dell’ultimo conflitto.

 LA DISPUTA LEGALE DI SHEIKH JARRAH
   In questi giorni, diverse sigle legate alla destra estrema e al partito Sionismo Religioso di Betzalel Smotrich hanno chiesto di replicare questo giovedì la marcia nel suo percorso originale, ma si sono imbattuti nel rifiuto della polizia, che ha negato l’autorizzazione. “Una resa vergognosa al terrorismo di Hamas”, ha condannato Smotrich, che intende chiedere il coinvolgimento del ministro degli Interni per ribaltare la scelta. Alcuni parlamentari della destra hanno annunciato che si avvarranno dell’immunità parlamentare e sfileranno ugualmente.
   Contestualmente, si apre l’ultima fase della disputa legale sugli sfratti nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est: sempre il 10 maggio scorso, l’udienza prevista in seno alla Corte Suprema era stata posticipata per richiesta del procuratore di Stato Avichai Mandelblit, che però oggi, dopo aver preso in esame le carte, ha comunicato che “lo Stato non intende presentarsi come parte in causa nella disputa civile”. Con questa decisione, in sostanza, si fa sempre meno probabile l’ipotesi di un intervento politico, auspicato dagli attivisti che da anni contestano la legittimità del procedimento giudiziario in corso, “dal momento che si basa su una combinazione di leggi che favorisce in maniera discriminatoria le rivendicazioni ebraiche sui terreni”, come ci dice Eyal Raz, uno dei manifestanti di lunga data a Sheikh Jarrah.

 L'ARRESTO DI MONA E MOHAMMED, GEMELLI ATTIVISTI
  Rimanendo sul piano puramente legale, la Corte Suprema dovrà ora stabilire se esaminare il ricorso presentato dalle quattro famiglie palestinesi che contestano la proprietà ebraica dei terreni. Nonostante la disputa sia in corso dal 1972 e nel 2010 già alcune famiglie fossero state sfrattate nelle medesime circostanze, solamente nell’ultimo mese la vicenda di Sheikh Jarrah ha raccolto solidarietà a livello internazionale, diventando un simbolo della causa palestinese. Un altro elemento di tensione si è verificato domenica con l’arresto da parte della polizia israeliana di diversi attivisti palestinesi nei quartieri di Gerusalemme Est, tra cui i gemelli 23enni Mona e Mohammed al-Kurd, i portavoce delle famiglie di Sheikh Jarrah, con milioni di follower sui social media. I due giovani sono stati rilasciati al termine di alcune ore di interrogatorio, che il padre Nabil al-Kurd ha definito come un “tentativo di terrorizzare i giovani che danno voce alle istanze del nostro quartiere”.

 NETANYAHU NON SI ARRENDE
  Dopo un mese che ha visto Israele impegnato sul fronte della Striscia di Gaza e su quello interno, con scontri senza precedenti nelle città a popolazione mista musulmana ed ebraica, un’altra sfida è posta ora dal turbolento periodo che sta accompagnando la transizione verso un nuovo governo che sta per relegare ai banchi dell’opposizione Benjamin Netanyahu, dopo 12 anni ininterrotti da premier. La fragilissima coalizione che si è posta come obiettivo di mandare a casa il premier più longevo del Paese è formata da 8 partiti che spaziano dalla destra nazionalista alla sinistra progressista, passando per il partito islamista, e si regge su un solo voto di maggioranza.
   Netanyahu e il Likud definiscono il governo in divenire “la frode del secolo”, puntando il dito contro il partito nazionalista Yamina, il cui leader, Naftali Bennett, sarà il primo premier in una rotazione con l’attuale capo dell’opposizione Yair Lapid. Bennett ha ottenuto solo 6 seggi e si allea con un “governo di sinistra” frodando gli elettori della destra, è l’accusa che Netanyahu e il suo entourage continuano a ripetere. Nel tentativo di trovare un disertore che possa fare crollare la precaria coalizione ancora prima del voto di fiducia – previsto per i prossimi giorni – il Likud ha messo in atto pressioni di ogni genere, comprese continue manifestazioni, in cui lo slogan “traditori” è all’ordine del giorno, sotto le case dei parlamentari di Yamina. A quattro tra loro la polizia ha assegnato una scorta.

 COME AI TEMPI DI RABIN
  Un clima avvelenato che in molti paragonano alle settimane che hanno preceduto nel 1995 l’omicidio di Yitzhak Rabin – ucciso da un estremista ebreo dopo settimane di attacchi personali contro il premier che siglò gli Accordi di Oslo – e che ha spinto Nadav Argaman, il capo dello Shabak, i servizi di intelligence interna, a rilasciare un rarissimo appello pubblico in cui ha avvertito della necessità di abbassare i toni, “perché il livello dell'incitamento cui si è giunti, in particolare attraverso i social media, potrebbe essere interpretato da alcuni gruppi o individui come legittimante di comportamenti violenti e illegali che potrebbero arrecare anche danni mortali”. Netanyahu ha condannato “l’incitamento da qualsiasi parte provenga”, attaccando i media perché non danno lo stesso peso al “continuo discorso d’odio contro me e la mia famiglia: non è possibile che le parole della destra siano trattate sempre come incitamento e quelle della sinistra come libertà di espressione”. Il premier in pectore Naftali Bennett gli ha risposto a distanza: “Netanyahu, molla. Permetti al Paese di andare avanti, non lasciarti alle spalle terra bruciata”.

(la Repubblica online, 8 giugno 2021)


Il passo indietro

Netanyahu dice che il governo contro di lui è “un imbroglio e una resa”. I tempi dell’uscita di scena.

di Micol Flammini

ROMA - L’annuncio del giorno in cui il nuovo governo israeliano presterà giuramento è stato rinviato ancora una volta. Yariv Levin, lo speaker della Knesset, il Parlamento di Israele, ha detto che non ha ancora deciso, ma che lo comunicherà con un anticipo “sufficiente”. Tanto è bastato ai partiti che faranno parte della prossima maggioranza per sospettare che il premier in carica, Benjamin Netanyahu, sia alla ricerca di tempo per far crollare l’esecutivo prima che nasca. Basterebbe un solo voto contrario tra i deputati: è molto fragile l’alleanza creata da Yair Lapid per sostituire il primo ministro che ha governato la nazione per dodici anni. Per Netanyahu non essere più premier non è semplice – c’entrano il potere, i processi e anche i suoi progetti per il paese – ma il leader del Likud probabilmente continuerà a influenzare la politica di Israele dall’opposizione.
  Rimarrà alla guida del suo partito, il Likud, e per l’era Netanyahu potrebbe essere soltanto una pausa più che una fine, soprattutto se si guarda alla fragilità del nuovo esecutivo che avrà come primo ministro Naftali Bennett.
  La situazione politica in Israele è molto tesa, e la tensione va avanti da oltre due anni. Si spera che non sia proprio Netanyahu a farla aumentare dopo aver definito il nuovo governo “un imbroglio e una resa”. Rapidamente è stato accostato a Donald Trump, ma il premier non ha messo in discussione la legalità del processo elettorale e del suo risultato. Il suo partito rimane il più votato, ma non è riuscito a mettere insieme una coalizione. Netanyahu dovrà accettare che Israele si basa su un sistema democratico che autorizza la formazione di un nuovo governo pieno di forze contrastanti, criticabile sotto molti punti di vista. Ora la tensione va dominata, tenuta a bada, non deve sommarsi alle tensioni che già esistono nel paese e che ieri hanno portato la polizia ad annullare a Gerusalemme la “marcia della bandiera” per paura di nuovi scontri tra arabi ed ebrei nella capitale, come quelli che il mese scorso si sono verificati a Lod, Acri, Haifa, Bat Yam. Se le parole di Netanyahu diventeranno una miccia, il rischio è di violenze tra fazioni politiche, ebrei contro ebrei. Una situazione che non è nelle intenzioni del premier.
  Adesso va favorita una transizione tranquilla tra il vecchio e il nuovo governo e questo spetta soprattutto a lui. “Israele non può permettersi un governo incoerente – dice al Foglio Boaz Bismuth, direttore del quotidiano conservatore Israel Hayom – ma questo non autorizza chi non appoggia la scelta di Bennett a chiamarlo ‘traditore’. Non è un traditore. Nel governo non potrà fare ciò che ha promesso, può essere criticato, ma c’è un limite. Una democrazia deve rispettare le sue istituzioni. Quello che è difficile da accettare per gli israeliani è che in maggioranza hanno votato per un governo conservatore. I deputati conservatori della nuova Knesset sono circa 76 su 120 e avranno un governo che non agirà da conservatore”. Questo può essere frustrante per l’elettorato e per Netanyahu sarà un ottimo argomento d’opposizione, ma non è un motivo per scalfire la democrazia del paese.

Il Foglio, 8 giugno 2021)


Il Medio Oriente dopo Netanyahu e il ridimensionamento di Hamas

di Guido Salerno Aletta

In Israele, stavolta, non è andata come in passato: la nuova prova di forza da parte di Hamas e l'immediata risposta militare del premier Benjamin Netanyahu non sono servite allo scopo cui erano entrambe preordinate, a una duplice operazione di rilegittimazione. Da parte di Hamas, era rivolta al popolo palestinese che si era sentito per la prima volta isolato sul piano delle relazioni internazionali per via degli Accordi di Abramo, stipulati senza essere stati minimamente coinvolti anche se avrebbero posto a Israele la fine della proliferazione degli insediamenti nei Territori palestinesi, che invece è sembrata proseguire, anche se in via indiretta, con la controversa acquisizione da parte ebraica di talune proprietà immobiliari nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. che hanno scatenato la nuova crisi. Da parte di Netanyahu, l'immediata reazione militare alla pioggia di razzi che venivano sparati dalla Striscia di Gaza mirava a creare le condizioni di emergenza istituzionale indispensabili per forzare la mano a una Knesset più che mai riluttante a concedergli un nuovo mandato di governo. Era un modo per sbloccare lo stallo politico che si trascinava da troppi mesi. Ma né Hamas né Netanyahu hanno raggiunto i loro obiettivi di rilegittimazione: la Storia sembra essere passata oltre.
  In Israele, infatti, si è andata formando una coalizione politica assolutamente inedita, che esclude il Likud e dunque il nuovo mandato di governo a cui aspirava il suo leader Netanyahu, mettendo insieme formazioni di ogni tendenza, ivi compresa quella espressa dalla popolazione araba, che attendono di ottenere la maggioranza alla Knesset, anche se di appena un voto. Anche sul versante internazionale, si è andato intessendo un nuovo schema di relazioni che si è messo in moto dopo il duplice veto posto dagli Usa a una dichiarazione del Consiglio di sicurezza dell' Onu, considerata «controproducente», in cui si chiedeva «una riduzione dell'escalation, un cessate il fuoco e la ripresa dei negoziati». La Cina aveva infatti promosso, assieme a Tunisia e Norvegia, questa proposta, candidandosi poi al ruolo di mediatrice tra le parti, per togliere agli Usa quel ruolo di arbitro unico delle vicende mediorientali che si sono ritagliati anche nel corso della presidenza Trump, arrivando alla firma dei Trattati di Abramo che avrebbero dovuto portare finalmente la pace nell'area. L'isolamento degli Usa si è manifestato in modo clamoroso, sempre all'Onu, una decina di giorni più tardi, il 27 maggio, quando il Consiglio per i diritti umani ha approvato ad amplissima maggioranza (24 voti a favore, 9 contrari e 14 astensioni) l'istituzione di una Commissione indipendente d'inchiesta al fine di investigare la fondatezza di tutte le lamentate violazioni della normativa umanitaria internazionale e delle violazioni ed abusi della legislazione sui diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, e in Israele, e sulle ragioni sottostanti che sono causa di ricorrenti tensioni, instabilità, protrazione del conflitto, inclusa la sistematica discriminazione e la repressione basata sull'identità nazionale, etnica, razziale e religiosa. Cina e Russia hanno votato a favore della proposta, Germania e Gran Bretagna hanno votato contro, mentre Italia e Francia si sono astenute. Già questa dispersione delle posizioni del cosiddetto fronte euro-atlantico la dice lunga sulla complessità della situazione. È tutto un crogiuolo: la diplomazia americana vede eroso il suo ruolo di unico arbitro degli equilibri tra Israele e il mondo arabo, mentre Russia e Cina riescono a creare una vasta coalizione di Paesi, guidati dal Pakistan islamico; l'Iran, e per il suo tramite Hamas, non è più l'unico tutore dei palestinesi; la politica di Israele nei confronti dei palestinesi viene posta sotto lo scrutinio internazionale; l'Italia, forte esportatrice di armi in Israele, è oggetto di considerazioni critiche, per via dell'uso che di queste si fa; la Turchia scalpita, proclamandosi protettrice dei palestinesi, utilizzando ancora una volta l'adesione all'Islam come strumento per agglutinare un mondo arabo a cui è pur etnicamente e geograficamente estranea, riprendendo il modello Ottomano.
  Trascurando ogni rappresentanza dei palestinesi al tavolo delle trattative degli Accordi di Abramo, non soltanto costoro sono stati trattati per la prima volta come una componente politicamente inessenziale per la stabilizzazione dell'area, ma per l'altro la loro assenza negoziale ha reso meno cogenti i divieti di procedere con nuove colonizzazioni nei Territori Palestinesi, soprattutto nelle aree di Gerusalemme Est in cui si procede su proprietà da lungo tempo disputate tra palestinesi ed ebrei. A questo punto, la questione palestinese non sembra più risolubile attraverso la tutela militare apprestata da Hamas, e all'indietro da Teheran. Per la Russia e la Cina, che intervengono ormai in presa diretta, l'Iran non deve continuare a essere il troppo facile obiettivo di una stabilizzazione dello scacchiere mediorientale, per coalizzare Israele e il mondo arabo-sunnita. Se la partita è tornata a essere globale, non servono intermediari.

(Milano Finanza, 8 giugno 2021)


Gli arabi per primi non credono all’ apartheid in Israele

Hanno gli stessi diritti e possono governare il Paese

di Anna Mahjar-Barducci

GERUSALEMME - È diventato comune leggere nei media che in Israele vige un "regime di apartheid. I primi a non credere a questa affermazione sono però gli arabi stessi. L'attivista palestinese Bassem Eid, che vive a Gerusalemme, ha scritto recentemente sul suo account Twitter: «Il leader del partito arabo-israeliano Mansour Abbas ha firmato un accordo per partecipare alla prossima coalizione di governo. I gruppi antiIsraele chiamano Israele uno Stato di apartheid ma la verità è che arabi, ebrei, musulmani, persone con background diversi hanno [qui in Israele, ndr.] gli stessi diritti e possono anche governare il Paese».
  In effetti, basta andare in una farmacia nel centro di Gerusalemme per veder che la maggior parte dei farmacisti sono solitamente donne arabe oppure fare un giro negli ospedali, dove si possono incontrare stimati primari di origine araba. L'attivista arabo-israeliano Yoseph Haddad, nato in Galilea, ha anche scritto un commento su "Israel Hayom" dal titolo: «Ma quale apartheid?». Nell'articolo chiede: «Come si può dire che la nostra società vive sotto un regime di apartheid quando tra di noi [arabi, ndr.] ci sono medici, giudici e persino legislatori? Come si può dire che Samer Haj- Yehia [avvocato e chairman del board di Bank: Leurni, ndr.] vive in un regime di <apartheid quando è a capo della più importante banca in Israele?».
  L'ambasciatore di Israele in Azerbaijan George Deek, araboisraeliano nato a Jaffa, la pensa allo stesso modo. In un'intervista alla rivista americana "Tablet" racconta di un incontro con un giornalista norvegese, meravigliato che Israele avesse un ambasciatore arabo. «Ma come, sei israeliano? Ma non sei arabo?» gli aveva chiesto. Deek si dice meravigliato dalla sua meraviglia e spiega: «Molte volte i personaggi di spicco della politica, dei media o del mondo accademico basano le loro idee non sui fatti o sulla sostanza ma su ciò che va di moda dire». Secondo i media, infatti, gli arabi in Israele non solo vivrebbero in uno stato di apartheid ma sarebbero tutti uniti contro Israele, identificandosi pertanto nella lotta armata di Hamas. Durante l'ultima "guerra degli undici giorni" contro Hamas, Deek ha però pubblicato un video, subito diventato virale, nel quale afferma: «Questo è un messaggio per i leader di Hamas ... In questo periodo ho pensato molto alla differenza tra me e voi. Siamo entrambi arabi ma non potremmo essere più diversi ... Nel Medio Oriente che voi volete non c'è spazio per uno Stato ebraico e non c'è spazio per nessuna minoranza - cristiani, drusi o anche musulmani - che non condivide la vostra ideologia di odio. In altre parole, un Medio Oriente che non ha posto per nessuno che è diverso [da voi, ndr.]». Deek ha poi concluso il video rivolgendosi a Hamas: «Non vincerete, la vostra filosofia di odio e repressione sarà sconfitta. Non vincerete». Se infatti c'è qualcuno che nega i diritti ai propri cittadini quello è Hamas. Waseem Youssef, chierico palestinese adesso negli Emirati Arabi, ha scritto recentemente su Twitter: «Hamas vuole trasformare Gaza in una Teheran ... Chiedete agli iracheni che cosa è l'Iran [finanziatore di Hamas, ndr.], ve lo spiegheranno con il sangue negli occhi».

(la Ragione, 8 giugno 2021)


«Mazal tov!», una mostra racconta il matrimonio ebraico

Fino al 5 settembre al Meis di Ferrara. Oggetti, anche molto antichi, o legati all’arte contemporanea e foto di famiglia.

di Lia Tagliacozzo

Uno degli oggetti esposti al Meis di Ferrara grazie alla call to action «Un amore da condividere» «Mazal tov»in ebraico significa buona fortuna ed è l’augurio che si dedica tanto alle occasioni minute quanto a quelle importanti. In questo caso Mazal tov! è il titolo della mostra dedicata al matrimonio ebraico che si è appena inaugurata al Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, una sorta di invito a nozze per riprendere le attività del museo in modo gioioso. Dopo gli eventi online con cui l’istituzione ha colmato lo stop dei mesi scorsi, ora il museo riapre le porte con una mostra al quale si addice, appunto, l’augurio «Mazal tov!», che nelle intenzioni degli organizzatori è destinato a tutti in vista della ripartenza post-pandemica.
  In attesa dell’apertura della grande mostra di ottobre – il terzo capitolo di «Oltre il ghetto, dentro e fuori» che ripercorre la storia della vicenda ebraica italiana – non si è voluto lasciare il museo fermo ed è da questa volontà di presenza che nasce una mostra gioiosa e allegra dedicata ad uno dei momenti fondamentali della vita ebraica. «Il matrimonio è una pietra miliare per l’ebraismo – spiega il presidente del Meis Dario Disegni – simboleggia la continuità dei riti e delle tradizioni ed è contrassegnato da una cerimonia vitale ricca di significati». «Una mostra – aggiunge il direttore del Meis Amedeo Spagnoletto che è anche curatore dell’evento insieme a Sharon Reichel – che fa bene al cuore. Il matrimonio rappresenta uno dei più profondi atti di amore e di fiducia verso il futuro e porta con sé un messaggio di speranza universale, un balsamo per i tempi complessi che ci troviamo a vivere. Mazal tov! – prosegue – è un’esposizione che racchiude insieme il passato e il presente, riti millenari e pratiche moderne che pur nella sua specificità riuscirà a coinvolgere i visitatori».
  La linea che Spagnoletto sembra voler dare al nuovo corso del museo – iniziato in realtà un anno fa ma bloccato dalla pandemia – è sotto il segno di un doppio binario, da un lato raccontare la specificità ebraica e dall’altro mostrare la trasversalità culturale con la collettività in cui è immersa. «L’unione di una coppia e la nascita di una nuova famiglia – spiega Spagnoletto – è un evento gioioso e aggregante di ogni cultura e noi raccontiamo quello ebraico tra tradizioni antiche e contemporaneità». Organizzata di concerto con gli Enti locali e la Comunità ebraica, alla realizzazione hanno partecipato anche l’Isco, l’Istituto per la storia contemporanea e il Liceo Roiti.
  La mostra racconta così uno dei momenti cardine del ciclo della vita ebraica con oltre trentacinque oggetti, alcuni con settecento anni di storia altri che appartengono all’arte contemporanea. Decine di storie e frammenti di discorsi amorosi fissati nei secoli: preziose Ketubboth decorate – i contratti nuziali – del Seicento e del Settecento, di solito custodite nelle Gallerie Estensi di Modena, insieme all’immagine della rottura del bicchiere celebrata in tanti film ma anche al teatrino dell’artista genovese Emanuele Luzzati e ai regali e alla dote dello sposo e della sposa.
  Due oggetti in particolare raccontano il significativo intreccio tra la vicenda specificatamente ebraica e la storia italiana: l’album di dediche dei protagonisti della cultura italiana (da Pascoli a Puccini, da Verga a Carducci, da Eleonora Duse e Federico De Roberto) realizzato dal drammaturgo Sabatino Lopez in onore delle nozze del fratello Corrado con la moglie Ada Sadun. E un anello che invece sostituisce la fede nuziale che anche gli ebrei donarono alla patria nel 1935, rispondendo alla chiamata dell’Italia fascista, ricevendone in cambio una di ferro. Ma, ad arricchire la mostra, anche l’opera «Salt Crystal Bridal Gown», firmata da Sigalit Landau con il fotografo Yotam From, che segue il processo di cristallizzazione di un abito nero immerso nel Mar Morto e l’opera di Flora Deborah che rielabora il mikveh, il bagno rituale pieno di acqua piovana o sorgiva che compiono le donne alla vigilia del matrimonio.
  Per concludere questo itinerario nei mesi passati è stata proposta anche la call to action Un amore da condividere che ha arricchito il percorso espositivo di fotografie di matrimoni a partire dagli anni Trenta del Novecento fino ad oggi. La mostra resterà aperta fino al 5 settembre e il biglietto – 7 euro – prevede la possibilità di visitare anche le opere permanenti del museo.

(il manifesto, 8 giugno 2021)


I Sabatello e gli altri. Storie della deportazione, prive di pietre di inciampo

I racconti dei discendenti degli ebrei romani

di Giampiero Mughini

E’ come se da quasi dieci anni avessi un debito con la famiglia romana ebrea di nome Sabatello, sette dei quali tra i due genitori, tre figli e due cuginetti vennero prelevati dai nazi alla mattina del sabato 16 ottobre 1943 e condotti a morte nel campo di annientamento di Auschwitz. Avevano trascorso la loro ultima notte nella casa di cinque stanze al secondo piano del numero 240 di viale del Re (oggi viale Trastevere), un palazzetto a cento metri dalla casa in cui abito e che è restato tale e quale alla mattina del 16 ottobre. Nello scrivere un mio libro dal titolo Una casa romana racconta, la tragedia dei Sabatello l’avevo raccontata fin dalle primissime pagine. Stando alla documentazione di cui disponevo avevo intercettato purtroppo solo quattro delle vittime, tre le avevo completamente omesse finché non ho incontrato due Sabatello di terza generazione (figli di due dei cinque figli sopravvissuti) che mi hanno raccontato com’erano andate le cose quel 16 ottobre.
  L’avere omesso quelle tre vittime la vivevo come una colpa, e tanto più che ai piedi di una casa dove i nazi hanno assassinato ben sette persone non esiste una sola Stolperstein, una pietra di inciampo di quelle che ce n’è tante nel ghetto romano e nei quartieri adiacenti. Quei sampietrini quadrati da 10 centimetri con sopra una lastra sottile di ottone lucido su cui sta scritto un nome e cognome, la data dell’arresto e quello della morte. Quel toccante stenogramma su cui “inciampa” la memoria che s’era inventato nel 1993 un artista tedesco, Gunter Demnig, e che a partire dal gennaio 2010 Adachiara Zevi (figlia dell’architetto Bruno Zevi) ne ha fatti apporre molti sull’acciottolato di una città dove erano stati mille gli ebrei rastrellati e mandati a morte.
  Ci passo quasi ogni giorno davanti al numero 240 di viale Trastevere e quasi ogni giorno cerco di rappresentarmi quelle ore talmente atroci. Il camion dei nazi con la croce celtica iscritta in bianco su una fiancata dové arrestarsi innanzi al 240 di viale del Re poco dopo le cinque del mattino. Avevano l’ubicazione esatta di dove abitavano le famiglie ebree romane, che erano numerose nei quartieri del Testaccio e di Monteverde. Bussarono al portone, montarono al secondo piano, entrarono, da una sorta di volantino rettangolare bilingue lessero quel che gli ebrei dovevano fare, portare con sé, di che mangiare qualche giorno, le carte di identità, i gioielli di famiglia. I sette ebrei erano papà Angelo (nato nel 1893), sua moglie Costanza Citoni (nata nel 1897), il loro secondo figlio Carlo (nato nel 1920), il loro sesto figlio Umberto (nato nel 1927), il loro settimo figlio Franco (nato nel 1929). Dei loro otto figli ben cinque non avevano dormito a viale del Re quella notte e dunque si salvarono. In più, atrocità del destino, quella notte erano rimasti a dormire i due cuginetti Sergio e Umberto Mieli di dieci e undici anni, figli di una sorella della signora Costanza e che pure abitavano con i genitori a pochi metri di distanza, una casa dove i nazi quella mattina non irruppero. La morte e la vita distavano l’una dall’altra poche decine di metri il 16 ottobre 1943. Alle spalle dell’abitazione dei Sabatello, sulla cui terrazza il loro primogenito Settimio aveva festeggiato sedici giorni prima il suo matrimonio, abitava un’altra famiglia ebrea, i Del Monte, marito, moglie e tre figli. Il caso fu loro favorevole. Un amico bussò poco prima delle cinque, avvisandoli che i nazi erano in arrivo. Loro si precipitarono a viale del Re, dove videro due romani che indossavano entrambi un impermeabile e un cappello Borsalino. Quando i due chiesero a Del Monte padre se fossero ebrei, lui si sentì gelare. E invece erano due bravi italiani e li avvisarono che un camion nazi era già a poche centinaia di metri di distanza. Montarono su per i viottoli di Monteverde e trovarono alloggio in un convento cattolico che li nascose per tutto il tempo dell’occupazione nazi. Migliaia e migliaia di ebrei romani quel giorno si salvarono più o meno così, magari perché un soldato tedesco faceva finta di non vedere che un bambino veniva tratto via dal gruppo dei rastrellati. Tutto dipendeva da una parola sussurrata da un amico, dal caso. Federico Coen, il direttore del Mondoperaio degli anni ruggenti, mi raccontò che la sua famiglia abitava in quel momento a via dei Giubbonari e che mentre lui e suo padre stavano tornando a casa il portiere uscì dal portone e fece loro un segno che diceva tutto. Al che i due se la diedero a gambe. C’è un libro meraviglioso che racconta quei momenti della Roma mutilata e offesa, il 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti pubblicato su carta così e così ad appena un anno di distanza dalla tragedia. Herbert Kappler, che s’era detto contrario alla razzia, avvisò Berlino che la popolazione romana era stata contro di loro, fascisti ivi compresi, e che dei diecimila e passa ebrei romani che costituivano il loro bersaglio avevano potuto acciuffarne solo poco più di mille.
  L’Angelo Sabatello di terza generazione (nato nel 1947 dal terzo dei figli Sabatello, Armando) mi ha raccontato a sua volta di come suo padre e i suoi zii riuscirono a sopravvivere, alcuni di loro protetti e nascosti nella casa della signora di origine veneta Lia Brandolini. Metà dei Sabatello ebbero una sorte avversa, metà una sorte favorevole. Metà partì dalla stazione Tiburtina il lunedì mattina e ci mise sei giorni ad arrivare ad Auschwitz-Birkenau, dove una parte dei Sabatello furono “selezionati” sulla rampa e gli altri morranno durante la detenzione. Angelo mi ha regalato la copia di una foto straziante che suo zio Carlo aveva lanciato dal treno con un saluto alla fidanzata. Mi ha anche raccontato della sua delusione quando seppe che in occasione della celebrazione del 25 aprile di alcuni anni fa la Brigata ebraica era stata insultata dai manifestanti.

Il Foglio, 8 giugno 2021)


L’antisemitismo, da delirante, è diventato virale grazie alle celebrities

Nell’ultima guerra a Gaza abbiamo visto tanta gente in occidente gridare “Palestina libera, dal mare al fiume”

Scrive UnHerd (25/5)

Nel luglio 2005, Mohammed Bouyeri è stato processato per l’omicidio di Theo van Gogh. Un anno prima aveva sparato otto volte a Theo in una strada di Amsterdam, alla luce del sole, e poi aveva tentato di decapitarlo. Il crimine di Theo, per il quale Bouyeri ha ricevuto l’ergastolo, era molto semplice: aveva scelto di dirigere un film, “Sottomissione”, che parlava del maltrattamento delle donne nel mondo islamico. Avevo scritto la sceneggiatura del film quindi Bouyeri ha lasciato un appunto sul petto di Theo quando lo ha ucciso, annunciando che io sarei stata la prossima”. Così inizia l’articolo di Ayaan Hirsi Ali sul sito UnHerd. Durante il processo, Bouyeri non si è mai pentito del suo gesto e anzi ha detto che lo avrebbe fatto di nuovo. Sedici anni dopo, spiega Hirsi Ali, la sua visione islamista ha trovato un grande seguito nel mondo occidentale. Secondo l’attivista somala la narrazione che circonda il conflitto tra israeliani e palestinesi – che viene solitamente rappresentato come un conflitto tra oppressore e oppresso, tra colonizzatore e colonizzato – è pericolosa quanto la narrazione che ha portato Mohammed Bouyeri a uccidere Theo.
   Come spiegare il fatto che, dopo il recente conflitto tra Israele e Gaza, gli atti di antisemitismo siano aumentati a dismisura nel mondo occidentale? Dal secondo dopoguerra in poi, l’antisemitismo c’è sempre stato in occidente ma la differenza oggi è che questo pensiero non è più confinato ai margini della società, ma è diventato parte del mainstream. I social lo hanno trasformato in un virus, e hanno normalizzato gli insulti e gli attacchi antisemiti. “Prendete l’esempio di Bella Hadid che ha partecipato a una protesta filo palestinese a Brooklyn, cantando: ‘Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera’ – uno slogan antisemita coniato dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina per sostenere l’eliminazione di Israele. Fino a poco fa questo coro veniva associato a Hamas (…) ma nell’attuale clima isterico viene usato da una delle celebrità occidentali più famose al mondo che si aspetta pure di ricevere un applauso”. Secondo Hirsi Ali ciò che è più allarmante è che Hadid non conosce il contesto e la storia di quel coro; non capisce che sia un invito ad eliminare Israele o a espellere il popolo ebraico.
   Secondo Hirsi Ali, il ritorno dell’antisemitismo in Europa non è affatto sorprendente dato che negli ultimi decenni molti ebrei si sono trasferiti dall’Europa all’America perché si sentivano più protetti. Tuttavia, questo mese per la prima volta gli ebrei americani non si sono sentiti al sicuro a indossare la kippah sulla strada per la sinagoga. Per Hirsi Ali questo timore è fondato, dato che gli atti di ostilità contro gli ebrei sono aumentati a dismisura negli Stati Uniti. Secondo l’attivista somala il problema di fondo è che, a differenza del passato, questi gesti di intolleranza non vengono più condannati dall’élite ma vengono trattati invece come atti di eroismo.

Il Foglio, 7 giugno 2021)


De Marchi, Israele e la maglia rosa della speranza

"Adesso che l'hai conquistata, difendila più a lungo che puoi", gli hanno chiesto i compagni al rientro in albergo.
   Alessandro De Marchi ha fatto il possibile. Quella maglia rosa rincorsa per tutta una vita da gregario non gli sembrava vera: l'ha scrutata con occhi di ragazzino innamorato. E l'ha poi vestita con tutta la solennità che la circostanza richiedeva.
   "Sono senza parole. Questa maglia è il sogno d'infanzia di ogni corridore", il suo commento. La sua seconda pelle per due tappe: 48 ore di adrenalina, gioia, orgoglio. E poi, come previsto, appena la corsa è entrata nel vivo ha dovuto cederla a chi, quando la strada sale, e i big iniziano a fare sul serio, va più forte di lui. Impossibile ( e il primo a saperlo era lui) pensare di andare molto oltre. Lo stesso è stata una favola bella. Anzi, bellissima. E che in un momento critico ha regalato conforto al Paese, Israele, della cui squadra veste da quest'anno i colori.
   Israele al Giro d'Italia non è una novità: l'edizione 2021 è stata caratterizzata dalla quarta partecipazione consecutiva della Israel Start-Up Nation, inserita di recente nel World Tour e protagonista ormai a pieno titolo del circuito ciclistico internazionale. Dopo tanti buoni risultati, e nel 2020 la prima storica vittoria di una frazione con l'inglese Alex Dowsett, campione non solo sui pedali anche per l'appassionata lotta che conduce contro i disagi causati dall'emofilia, la corsa di quest'anno ha regalato una soddisfazione ancor più grande ( oltre alla prima vittoria di una tappa alpina con Daniel Martin): il simbolo del comando, ottenuto all'arrivo della quarta tappa conclusasi a Sestola dove il friulano De Marchi, 35 anni, è giunto secondo. Il secondo posto più dolce della sua carriera. Ma soprattutto un'impresa che ha travalicato i confini della dimensione sportiva. Erano infatti le ore in cui centinaia e poi migliaia di razzi, lanciati dai terroristi di Hamas, iniziavano a irrompere nella quotidianità dei cittadini d'Israele. Uno shock profondo, che ha colpito anche dirigenza e atleti del team. La prima maglia rosa ha strappato un sorriso in mezzo a molta tensione e preoccupazione. Lo evidenziava, nelle stesse ore, il patron del team Sylvan Adams: "Ho la concreta speranza che la nostra impresa abbia portato un po' di conforto. In tutto il mondo si parla di questo storico risultato". Per i milioni di appassionati italiani del Giro anche un'occasione per (ri)scoprire il personaggio non banale che è De Marchi. La sua grande determinazione e il suo grande spirito di sacrificio. Ma anche il suo battersi per cause importanti, che vanno oltre il contesto agonistico: al polso porta infatti un braccialetto in ricordo di Giulio Regeni, friulano come lui. È il suo modo di chiedere "verità e giustizia". Di esprimere solidarietà e vicinanza ai genitori di Giulio. Che non conosce ma che, ha annunciato, avrebbe molto piacere a incontrare. L'attenzione mediatica sul braccialetto è stata grande, forse persino superiore alla celebrazione del risultato in sé. De Marchi si è detto stupito del clamore suscitato: "Si tratta di due genitori che vogliono la verità. Io prima che un ciclista sono genitore, sono un marito. E non vorrei mai trovarmi in una situazione del genere.
   Il suo Giro è finito in modo sfortunato, con una violenta caduta nei pressi di Firenze che l'ha costretto non solo al ritiro ma anche a degli accertamenti e a un breve ricovero. Le conseguenze della caduta potevano essere molto gravi. Immobilizzato in barella e trasferito d'urgenza all'ospedale Careggi, se l'è "cavata" con la frattura della clavicola e di alcune costole. Una brutta botta, anche tenuto conto della non giovanissima età del corridore. Ma De Marchi non sembra pronto ad alzare bandiera bianca. Poche ore dopo infatti già scriveva: "Non posso fare altro che rimboccarmi le maniche e ricominciare un'altra volta". C'è da scommetterci: non è finita qui.

(Pagine Ebraiche, giugno 2021)


Leader di Hamas: «Dio ci ha detto che dobbiamo distruggere Tel Aviv»

Comizio sotto effetto di allucinogeni del capo di Hamas a Gaza

di Sarah G. Frankl

«Dobbiamo attaccare e distruggere Tel Aviv. Ce lo ha detto Dio». Così il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, rivolto agli studenti accademici di Gaza.
  E poi in un crescendo di delirio religioso ha detto che «Hamas ha dimostrato che c’è chi è disposto a difendere la moschea di Al-Aqsa ed è pronto a pagare un prezzo pesante».
  «Abbiamo sventato un progetto sionista, talmudico e biblico per dividere la moschea di Al-Aqsa nel tempo e nello spazio», ha detto Sinwar.
  Poi, sempre rivolto agli studenti il capo di Hamas ha detto che il gruppo terrorista che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza ha altre capacità che non ha rivelato.
  «Insieme ai nostri partner (la Jihad Islamica n.d.r.) possiamo lanciare contro Israele fino a 130 missili al minuto» ha detto Sinwar.
  Continuando nel suo delirio sempre più grottesco il capo di Hamas ha detto che Israele ha distrutto solo il 3% dei tunnel di Gaza e che Hamas ha usato solo il 50% della sua capacità offensiva.
  «Israele non è riuscito a distruggere le nostre capacità di resistere. Il loro piano per uccidere 10.000 combattenti è fallito» ha detto il capo terrorista.
  «Israele non ha distrutto più del 3% dei tunnel di Gaza. La [metropolitana di Hamas] non è stata distrutta perché amiamo la nostra terra e lei ricambia il nostro amore» ha infine concluso.
  Secondo le forze di difesa israeliane, durante i combattimenti sono state distrutte oltre 60 miglia della rete di tunnel di Hamas, quindi o il capo terrorista mente oppure Gaza è sopra a 2.000 (duemila) miglia di tunnel. Davvero una sciocchezza.
  Poi il leader di Hamas ha invitato i paesi del mondo ad investire a Gaza promettendo che i fondi non sarebbero stati utilizzati per fare la guerra contro Israele (e purtroppo c’è chi ci crede a partire dalla UE).
  Poi ha concluso questa specie di allucinato comizio affermando che Hamas non era interessato a riprendere i colloqui al Cairo con il movimento Fatah.
  «Qualsiasi discorso su governi e conferenze il cui scopo è perdere tempo è inutile e inaccettabile», ha affermato categorico il capo terrorista chiudendo definitivamente la porta ai “cugini” della Giudea e Samaria.

(Rights Reporter, 7 giugno 2021)


L’antisemitismo è bipartisan: viene da destra e da sinistra

L'articolo appare come lettera inviata alla Redazione di "Bet Magazine Mosaico", Sito ufficiale della Comunità Ebraica di Milano. Tra le firme in fondo compaiono diversi nomi della stessa comunità. NsI

Gent.le Redazione,
scrivo in merito alla conferenza sull’antisemitismo tenutasi domenica 30/5 su zoom con un pannello ricco di esperti e personalità illustri, tra cui il Console tedesco a Milano, il Commissario tedesco responsabile per la lotta all’antisemitismo, la Coordinatrice Nazionale per la lotta all’antisemitismo in Italia e il direttore del CDEC.
E’ stato riconosciuto da tutti che il problema è in preoccupante ascesa ed espressa la ferma volontà, pur evidenziando oggettive difficoltà giuridiche, di fare tutto il possibile per affrontarlo utilizzando modalità operative ben chiare e precise.
Sono state inoltre presentate analisi molto articolate per spiegare i diversi bacini da cui questo si alimenta e i nuovi canali attraverso cui si diffonde.
Queste analisi però si sono tutte concentrate esclusivamente sulle aree religiose e politiche tradizionalmente antigiudaiche e antisemite: ambienti del cattolicesimo preconciliare presenti sia all’interno che all’esterno del Vaticano, gruppi di nostalgici del ventennio e gruppi neo nazisti e organizzazioni appartenenti all’estrema destra.
Nessuna menzione è stata fatta riguardo a quelle che ormai da tempo sono diventate le aree che alimentano un antisemitismo double face basato sia su cliché classici che mascherato da antisionismo: l’area islamica e l’area della sinistra, binomio per il quale è stato persino coniato l’appellativo di “Islam-leftism” – ”Islamo-gauchiste”.
E questo all’indomani di quanto successo in moltissime città occidentali dove si sono verificati attacchi a istituzioni ebraiche, aggressioni ad ebrei e carovane d’auto dalle quali venivano urlati slogan agghiaccianti da parte di folti gruppi di mussulmani a cui si erano aggregate anche nutrite rappresentanze della sinistra antagonista quali Antifa e BLM.
Mi pongo quindi la seguente domanda: se coloro preposti allo studio e alla lotta all’antisemitismo ignorano tutto questo come potranno risultare efficaci le loro direttive e le azioni che da queste dovrebbero conseguire? Cosa impedisce loro di vedere una realtà non solo non nuova, ma più che mai ovvia oggigiorno? Conformismo, stanchezza intellettuale Oppure il bombardamento mediatico che diffonde un cupo e uniformante canone ideologico ha avuto la meglio anche su coloro che dovrebbero essere consapevoli che la loro non è un’azione politica, bensì etica? O la paura di ammettere che tutto quello in cui hanno creduto finora è un enorme torre di Babele costruita su false premesse e ancora più distorte conseguenze e quindi preferiscono girarsi dall’altra parte sperando che tutto passi e che l’ennesima impalcatura menzognera forse reggerà ancora e la torre arriverà a toccare il Cielo, almeno per un po’, prima di crollare rovinosamente?

Andrea Alcalay
Raffaele Besso
Luciano Bassani
Dalia Gubbay
Davide Levi
Sara Modena
Davide Romano
Monique Sasson
Serena Vaturi

(Bet Magazine Mosaico, 7 giugno 2021)


Ministro Garavaglia incontra il ministro del turismo di Israele

Italia ed Israele proseguono nell’attività di programmazione e organizzazione per una riapertura efficace del turismo tra i due Stati. Dopo l’incontro che ha avuto luogo a Roma alcune settimane fa tra Kalanit Goren Perry, Consigliere Affari Turistici, Ambasciata di Israele e il Ministro del Turismo dello Stato Italiano grazie alla mediazione organizzativa di Dror Eydar, Ambasciatore di Israele in Italia, il 2 giugno scorso il Ministro del Turismo Massimo Garavaglia ha incontrato ad Atene Orit Farkash-Hacohen, Ministro del Turismo dello Stato di Israele. Con grande gioia da entrambi i protagonisti dell’incontro è stata accolta la notizia del ritorno a volare in Israele da parte di ALITALIA, segnale positivo di una ripresa del turismo già iniziata lo scorso 23 maggio con l’arrivo in Israele del primo gruppo di turisti organizzati.
   Rinnovando la collaborazione tra i due Paesi, il Ministro Orit Farkash ha voluto anche aggiungere un personale ringraziamento nell’azione di vicinanza delle istituzioni italiane in occasione della tragedia della funivia del Mottarone che ha visto il coinvolgimento di un’intera famiglia israeliana deceduta nella tragedia, ricordando anche la straordinaria catena di solidarietà che ha avuto inizio per Eitan unico superstite della tragedia, il bimbo israeliano di 5 anni attualmente in cura a Torino.
   All’interno delle future prospettive per il turismo da e verso entrambi i Paesi, si sono voluti ricordare gli storici accordi di Abramo che potranno dare veramente un nuovo impulso al movimento turistico dell’area offrendo pacchetti congiunti per tutti i Paesi del Vicino Oriente che hanno voluto aderire al progetto, sottolineando come Israele stessa sia un ponte culturale insostituibile.
   “Gli Italiani sono pronti a ripartire per Israele e l’Italia non vede l’ora di accogliere il flusso dei turisti israeliani in Italia camminando insieme in nome della cooperazione”, ha dichiarato Kalanit Goren Perry che fortemente ha creduto nella possibilità di questo incontro.

(Travelnostop, 7 giugno 2021)


Il cattolico antifascista che il Vaticano scomunicò due volte

È stato sacerdote per qualche anno e per molti professore alla Sapienza.

di Massimo Colaiacomo

Lì, a Gerusalemme, è stato indicato come "giusto fra le nazioni" per aver salvato la vita a un ragazzo ebreo, Giorgio Castelnuovo. È stata una parabola umana e intellettuale di straordinaria intensità quella disegnata da "don" Ernesto Buonaiuti, per qualche anno sacerdote, per molti professore di storia del Cristianesimo alla Sapienza, per tutta la vita cattolico e figlio fedele della Chiesa, come amava definirsi. A Roma nacque nel 1881 e da Roma si mosse raramente, se non per qualche conferenza nei dintorni e qualche mese di lezioni a Losanna. Oratore brillante, Buonaiuti affascinava il pubblico con un eloquio elegante e semplice. La sua tempra di studioso e il rigore morale che lo animava nella ricerca lo spinsero su territori inesplorati e ritenuti pericolosi per la Chiesa di Pio XI: si era dissolta l'ansia modernizzatrice di Leone XIII, e la dottrina era tornata prevalente sulla pastorale. Il metodo positivo trasferito sul terreno della storia religiosa aveva provocato qualche increspatura sulle acque del Tevere, tornate calme dopo i fervori anticlericali del Risorgimento. Ma la nascita del movimento modernista, di cui Buonaiuti fu animatore e architrave, portò presto lo scompiglio fra le gerarchie vaticane: la sua rilettura del protestantesimo, con la sottolineatura di una superiore etica civile, riduceva pericolosamente le distanze con le teorie di Max Weber. A una prima scomunica, nel 1921, seguì una faticosa riconciliazione, prima della seconda, dura e definitiva scomunica "vitando": il suo allontanamento dalla Chiesa, dai voti ecclesiastici, dall'insegnamento. Una condanna, anche civile, mai rimossa. «Possa Dio essere più misericordioso di quello che a Noi non è consentito di essere», furono le parole pronunciate da Pio XII e riferite da padre Agostino Gemelli ad Arturo Carlo Jemolo, nell'apprendere la notizia della morte di Buonaiuti, nel 1946. Una preghiera, accompagnata da un autoindulgente "non possumus".
   La scomunica del 1926 aprì una ferita dolorosa, mai rimarginata, sul piano spirituale. Ma non intaccò la sua coscienza civile, subito indirizzata nelle azioni di contrasto al regime fascista. Continuava, in un clima di incertezza, a ricoprire il ruolo di professore alla Sapienza. Nel marzo del 1928, quando aveva perso la cattedra da qualche mese per volontà di Pio XI, rimase vittima di uno scambio di colpi fra Mussolini e il Pontefice. Avendo Pio XI indirizzato qualche giorno prima una dura reprimenda contro il regime, Mussolini fece chiamare Buonaiuti dal ministro dell'Istruzione Pietro Fedele per annunciargli che poteva tornare al suo insegnamento. Passato qualche giorno, lo stesso Fedele richiama il professore. «Caro Buonaiuti, si sono messi d'accordo e lei non tornerà all'insegnamento». Si erano messi d'accordo sull'articolo 5 del Concordato, che sarebbe stato siglato l'anno seguente: l'articolo che sanciva le nozze fra lo Stato e la Chiesa cattolica e faceva del cristianesimo la religione ufficiale, e quindi sacerdoti e laici che fossero incappati in una scomunica non potevano insegnare in nessuna scuola statale.
   Un'altra battuta d'arresto nella travagliata vita accademica ma, per compensazione, si liberano nuove energie civili. Fu così che la sera di lunedì 4 settembre 1944, Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, riceve l'avvocato Anselmo Crisafulli. Il suo movimento fa capo a Ernesto Buonaiuti e, un po' a sorpresa, chiede un ministero senza portafoglio per Buonaiuti, come indipendente ... qualche giorno dopo Crisafulli torna da Lucifero accompagnato da un gesuita, padre Valentini, il quale assicura che in caso di nomina di Buonaiuti il Vaticano farebbe una protesta blanda ma non potrebbe garantire per le altre associazioni cattoliche. Il 12 marzo 1945 esce il primo numero del quotidiano da lui fondato e per il quale ricevette, così assicura Lucifero nei suoi diari, un cospicuo aiuto dal Luogotenente Umberto II. "Il Risveglio" riuscì a vendere 10.000 copie del primo numero.
   L'interdizione dall'insegnamento rimase. Come osservava Jemolo, ben tre ministri dell'Istruzione (Omodeo, De Ruggìero, Arangìo-Ruìz) si trovarono il fascicolo di Buonaiuti. Uno di loro, a una precisa domanda, rispose: «sa, è venuto un monsignore a segnalarmi l'importanza di perseverare nell'interdizione». Si avvicinavano le seconde nozze fra Stato e Chiesa, con l'inserimento del Concordato in Costituzione.

(la Repubblica - Roma, 7 giugno 2021)


In Israele vanno al governo anche i Fratelli Musulmani

Pur di escludere Netanyahu, otto partiti si coalizzano con il partito arabo Raam e cedono il Negev ai beduini. Così gli amici di Hamas s'infiltrano nelle istituzioni.

di Andrea Morigi
   L'Egitto, dove i Fratelli Musulmani sono nati, li ha messi fuorilegge. Si sono espansi in tutto il Medio Oriente, prosperano in Turchia grazie al presidente Recep Tayyp Erdogan.
   Dalla Striscia di Gaza, dove governano attraverso la loro branca di Hamas, sparano missili di fabbricazione iraniana nel territorio di Israele, ma si sono infiltrati anche nello Stato ebraico, fra la popolazione araba, e hanno fondato un partito, Ràam, guidato da Mansour Abbas. E ora il rischio è di trovarseli nel prossimo governo.
   Ora, a Gerusalemme li conoscono bene, anzi meglio di chiunque al mondo. Negli scorsi decenni li hanno perfino spinti un po', per favorire il dissenso nei confronti di Fatah, che malgoverna l' Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. Solo che, a missione compiuta, dopo aver provocato la spaccatura politica fra i laici e i religiosi, gli estremisti islamici sono risultati incontrollabili. Anzi, dopo aver conquistato Gaza manu militari, i terroristi di Hamas hanno dichiarato la guerra santa e si sono trasformati nella peggiore minaccia all'esistenza dello Stato ebraico. Com'è noto, il loro Statuto prevede la cancellazione dell'entità sionista, come la definiscono loro, per non dover nemmeno nominare i nemici ebrei.

 MALUMORI A GAZA
  Nel frattempo, fanno proseguire la guerra civile fra musulmani, iniziata al tempo di Maometto e da allora mai terminata. Stavolta, da Gaza se la prendono con la strategia entrista di Mansour Abbas, disposto a tutto pur di mettere un piede nelle istituzioni entrando a far parte del governo di unità nazionale in Israele guidato dal centrista Yair Lapid e dall'esponente di destra Naftali Bennett.
   La popolazione della Striscia di Gaza accusa il leader arabo di essere «un opportunista». «Mansour Abbas è una figura controversa», ha dichiarato l'analista politico ed esperto di affari israeliani che vive a Gaza, Hassan Lafi. «Vuole entrare nel nuovo governo per ottenere il maggior numero possibile di vantaggi personali e creare una leadership alternativa a quella dei palestinesi, diversa da quella attualmente esistente», ha aggiunto. L'analista fa notare che «Ayelet Shaked, vice di Bennett, ha totalmente respinto qualsiasi tipo di influenza di Abbas nel ministero degli Interni perché la considera un'ingerenza nelle caratteristiche israeliane dello stato costruito solo per ebrei, dove nessun palestinese o arabo può avere alcuna influenza.
   «Come esponente dei Fratelli Musulmani, quando si presenta l'opportunità cerca solo i propri interessi», ha commentato al quotidiano Ynet Ounallah Abusafia, 67 anni, residente a Gaza. «Durante l'escalation sulla Striscia di Gaza, è rimasto lontano da Netanyahu per paura delle dure critiche e ora è con Naftali Bennett. Afferma di lavorare per il bene dei palestinesi arabi israeliani, ma la verità è che gli importa solo di se stesso», afferma Abusafia.

 I TENTATIVI DI BIBI
  In realtà, dopo le ultime elezioni politiche vi furono colloqui fra Abbas e Netanyahu per una possibile coalizione, ma Betzalel Smotrich, leader del partito di estrema destra Sionismo Religioso e alleato di Bibi si era opposto. Tanto che poi il Llkud, il partito di Netanyahu, ha negato che quei colloqui con Abbas fossero mai avvenuti.
   Fra gli arabi intervistati da Ynet, anche Suhair Amer ritiene «vergognoso che un palestinese preferisca unirsi al governo israeliano che uccide il suo stesso popolo. Sa che qualsiasi decisione proveniente da loro sarà contro la nostra esistenza. Comunque sul campo non farà differenza perché non gli daranno quello che vuole».
   La promessa strappata da Abbas agli alleati di governo, ufficialmente è un investimento di 16,3 miliardi di dollari per piani di sviluppo economico del Negev, popolato dalle comunità beduine che sono il bacino elettorale di Ràam. Sulla carta, ha ottenuto anche programmi per combattere violenza e criminalità organizzata in quei territori e altri 6 milioni di dollari spalmati nei prossimi 10 anni per riparare le infrastrutture fatiscenti nelle città e delle comunità arabe. Secondo Ràam, tre villaggi beduini non riconosciuti - Abda, Khashm al-Zena e Rakhma - dovrebbero essere legalizzati con una decisione del governo.
   Il prezzo, sebbene appaia sufficiente a comprarsi i Fratelli Musulmani e il loro consenso, sta generando perplessità anche nei Paesi arabi che avevano accolto per primi gli Accordi di Abramo. L' emittente tv AlArabiya, controllata dai sauditi, ha rispolverato alcune dichiarazioni di Abbas in appoggio allo scomparso presidente egiziano esponente del fondamentalismo islamico, titolando: «Guarda, il rappresentante dei Fratelli Musulmani nel governo israeliano difende Mohamed Morsi».

Libero, 6 giugno 2021)


La svolta in Israele fa comodo a Biden

di Mauro Canali

Sanders, nella fase più acuta della crisi di Gaza, con i razzi di Hamas sulle città israeliane di confine e i devastanti raid aerei di Tel Aviv sui quartieri a ridosso della striscia, si era schierato con i palestinesi e aveva condannato senza mezzi termini, come mai era accaduto prima da parte di politici americani, il governo Netanyahu e la destra israeliana. Di fronte alla tradizionale argomentazione dei sostenitori americani di Israele, che hanno sempre affermato i diritti dello stato ebraico di esistere, il senatore del Vermont si è chiesto polemicamente: "Ma quali sono i diritti del popolo palestinese?". E aveva aggiunto: "Perché si parla di violenza ai danni del popolo israeliano solo quando cadono missili su Israele?".
   Gli aveva fatto immediata eco la democratica radicale Alexandria Ocasio-Cortez, deputato di New York, che, di fronte a un accenno di Biden in difesa delle ragioni di Israele, lo aveva seccamente zittito replicando: "E i palestinesi non hanno forse il diritto di difendersi?".
   Le novità vere sono tuttavia venute dal ventre profondo del Paese, dal giovane elettorato democratico, che in molte città ha dato vita a manifestazioni spontanee di sostegno alla causa palestinese e di condanna delle rappresaglie israeliane. E questa volta a manifestare per i palestinesi sono scesi anche molti giovani ebrei americani, rompendo una tradizione che aveva visto il mondo ebraico americano schierarsi sempre compatto a sostegno di Israele.
   Con quest'ultima novità ha dovuto fare i conti la politica mediorientale di Biden, e in un certo senso li ha dovuti fare anche la classe politica israeliana. Anzi, ci sembra, dalle ultimissime notizie, che li stia facendo con una certa fretta, consapevole che molta della solidità dello Stato israeliano dipende dal sostegno finanziario che giunge dagli ebrei d'oltreoceano. Questa nuova direzione che va prendendo più in generale la base democratica, soprattutto giovanile, va collegata ai movimenti antirazziali che hanno scosso gli Stati Uniti nell'ultimo anno. Se è giusto dire "Black Lives matter", è naturale per loro sostenere anche "Palestìnìan lives matter", protestare contro la "colonizzazione" della Palestina, hanno osservato parecchi commentatori politici.
   Con la crisi di Gaza, la divisione tra l'establishment democratico e l'ala radicale del partito che sembrava sanata, o almeno in parte rientrata con l'adesione alla presidenza Biden di Bernie Sanders, è di nuovo tornata a farsi evidente, e a preoccupare perciò la Casa Bianca. Perché, a differenza di altri precedenti periodi, questa volta sembra che non si tratti più di alcune sacche circoscritte del radicalismo militante. Al contrario la protesta contro Tel Aviv si è fatta sentire, assumendo talvolta caratteristiche preoccupanti, fino alla violenza. Vi sono stati assalti alle sinagoghe, sono stati devastati negozi di commercianti ebrei, e si è assistito anche ad aggressioni fisiche di ebrei ortodossi.
   Ha fatto il giro del mondo l'ìmmagine dell'aggressione a Times Square di un giovane ebreo che indossava la tradizionale kippah, selvaggiamente percosso da un gruppo di manifestanti. E così è accaduto in altre parti del paese. Si parla esplicitamente di antisemitismo dilagante. Come se la guerra Hamas-lsraele sia stato solo il pretesto del riaccendersi nel paese di un fuoco antisemita di antica data, mai spento del tutto. Inoltre, la comunità di origine mediorientale è ormai abbastanza consistente nel paese. Negli ultimi lustri è più che raddoppiata, e per tre quarti proviene proprio dagli stati arabi del Vicino Oriente, cioè Siria, Giordania, Palestina, Iraq, ed è riuscita talvolta in queste settimane a orientare le proteste della sinistra radicale. Lo si è visto a Brooklyn, dove vive una forte comunità araba, che ha dato vita ad affollate manifestazioni di strada. Tutto ciò ha infiammato il dibattito politico. Biden è stato più volte oggetto di un fuoco incrociato, cui non è stato per lui facile sottrarsi, da una parte i repubblicani fedeli alleati da sempre dello Stato di Israele, e dall'altra una sinistra interna al partito democratico schierata con la causa palestinese e contro ogni sua titubanza.
   Biden teme scossoni interni e paventa fratture, perché sa bene che l'establishment del suo partito non ha abbandonato Israele. Lo stesso New York Times, per la penna dell'autorevolissimo Nicholas Kristof, non nasconde che la crisi mediorientale si sta riflettendo in maniera seria all'interno del paese e del partito democratico fino al punto che i tradizionali legami Usa-Israele sono ora messi in discussione. La via di uscita per Biden può anche venire dalla caduta avvenuta in queste ore del governo di Netanyahu e dalla costituzione di un governo di coalizione più aperta al dialogo con il mondo arabo. Ci si chiede che ruolo abbia avuto Biden in questa svolta politica. Certo è che al presidente americano fa comodo un governo, come quello che si preannuncia Bennett-Lapid, che apra al dialogo sulla questione palestinese. La difficoltà è rappresentata dall'interlocutore: si riuscirà a discutere con l'inafferrabile Hamas, e che senso avrebbe altrimenti dialogare con il declinante Abu Mazen?

(Il Mattino, 6 giugno 2021)


''The Squad" e lo strappo dei dem Usa con lsraele

di Giordano Stabile

Prima è arrivato il rapporto della ong Human Rights Watch,con le accuse di "apartheid" a Israele. Poi le manifestazioni a New York, a Washington, con decine di migliaia di persone che sventolavano le bandiere palestinesi e i cartelli contro il "razzismo" e i "crimini di guerra" dello Stato ebraico. Infine il New York Times che ha messo le foto dei bambini palestinesi uccisi in prima pagina. Per gran parte dell'opinione pubblica israeliana è stato un risveglio traumatico. L'appoggio dell'America è sempre stato scontato, ma qualcosa si è sfilacciato nella relazione con il Partito democratico. Certo il presidente Joe Biden ha ribadito l'appoggio incondizionato al "diritto di Israele a difendersi". Ma deve confrontarsi con una parte del partito decisa a riequilibrare i rapporti con israeliani e palestinesi. E l'emergente zoccolo progressista, rappresentato da ''The Squad", le quattro deputate Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Ayanna Pressley, Rashida Tlaib, quest'ultima di origini palestinesi, con il senatore Bernie Sanders, figlio di immigrati ebrei, a fare da mentore.
   The Squad è sceso in campo all'inizio della crisi. Gli sfratti alle famiglie palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. Un gruppo di 25 parlamentari ha chiesto un'inchiesta internazionale e scritto una lettera dove si definivano gli sfratti «aberranti» e una «violazione delle leggi internazionali e dei diritti umani». Quando gli scontri sono diventati guerra aperta, i progressisti hanno scoperto che il Congresso stava per dare il via libera alla vendita di armi per 765 milioni di dollari. Ocasio-Cortez ha presentato una risoluzione per bloccarla. Sanders ha fatto altrettanto al Senato, mentre 140 deputati hanno chiesto un «cessate il fuoco immediato». Biden ha richiamato Netanyahu e di fatto gli ha ingiunto di fermarsi. Ma la battaglia all'interno dell'opinione pubblica americana continua. I progressisti pro-palestinesi godono di appoggi anche fra la comunità ebraica, specie fra i più giovani. Associazioni come Ipf Atid spingono per la soluzione "due popoli, due Stati", che sembrava morta e sepolta assieme alla "causa palestinese". Ma The Squad ha cambiato le carte anche in Cisgiordania e a Gerusalemme. E' cresciuta una nuova generazione di attivisti palestinesi, come Mona e Mohammed el-Kurd, fra le famiglie a rischio sfratti, o Miriam Barghouti, che parlano inglese fluentemente, usano i social con grande efficacia e sono apparsi sugli schermi americani della Cnn o dell'Nbc. Un altro choc.

(Specchio, 6 giugno 2021)


Israele – Iran: continua la guerra segreta

di Ugo Volli

La quarta guerra di Gaza è finita, almeno per il momento. La dirigenza di Hamas minaccia di riprenderla subito, perché Israele non vuol più permettere che gli aiuti del Qatar alla striscia siano gestiti dai terroristi che li usano non per migliorare la situazione umanitaria della popolazione ma per costruire impianti militari. Il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ha dichiarato in una conferenza stampa che il suo dio gli ha detto che deve “distruggere Tel Aviv” e che può farlo perché Israele ha messo fuori uso solo il 3% dei tunnel militari (“la metropolitana di Gaza”) con i rifornimenti di razzi e di terroristi che contenevano. Ma gli osservatori concordano che sono affermazioni propagandistiche. Certamente è probabile che Hamas tenti in qualche modo di mettere alla prova la risolutezza del nuovo governo, che ha al suo interno alcune componenti arabe e di sinistra che appaiono disposte ad accettare i suoi ricatti nell’illusione di tenerlo calmo. Ma è difficile che si arrivi presto di nuovo a un conflitto generale, dato che Hamas ha molte ferite da curare e ha certamente capito la propria impotenza a fare danni seri a Israele.
   Quella che continua invece è un’altra guerra, a bassa intensità e molto segreta, quella fra Israele e la testa del serpente terrorista, cioè l’Iran. Di alcuni episodi siamo certi. Nell’ultima settimana sono continuati gli attacchi aerei in Siria contro i depositi e le fabbriche d’armi iraniane destinate ad alimentare una guerra missilistica, che sarebbe estremamente pericolosa per lo stato ebraico. C’è stata anche un’azione di terra, quando le forze speciali di Israele hanno distrutto un osservatorio e un posto di tiro, che era stato costruito da Hezbollah nella striscia di confine fra le linee rivendicate da Israele e quelle siriane. È uno spazio fra i due schieramenti lasciato demilitarizzato secondo gli accordi di armistizio seguiti alla guerra del Kippur, che i siriani e i terroristi cercano di utilizzare per portarsi in vantaggio. Dovrebbe essere sorvegliato dalle truppe dell’Onu, che però in quel luogo come altrove servono a poco. Israele elimina dunque direttamente le minacce, quando si presentano. Sembra che in seguito a questo episodio Assad, che non è pronto a una guerra con Israele, abbia sostituito tutti i comandanti militari della regione. Forse è un’altra puntata della lotta sorda fra Assad, gli iraniani e i russi per il controllo della Siria meridionale
   Un’altra parte della guerra con l’Iran è segreta, tanto che nella maggior parte dei casi non si sa se certi incidenti siano davvero casuali o atti bellici. È accaduto contro Israele quando alcuni mesi fa una nave libica, noleggiata da armatori persiani, ha “perso” nel Mediterraneo alcune centinaia di tonnellate del petrolio che portava, inquinando pesantemente la costa di Israele e anche un bel pezzo di costa libanese, con gravi danni ecologici ed economici. Sempre nel Mediterraneo, una decina di giorni fa, è stata danneggiata un’altra nave che svolge il contrabbando di armi e petrolio fra Iran e Siria, violando le deliberazioni dell’Onu. Sul territorio persiano vi sono stati diversi incendi in impianti industriali chiave: una ha colpito cinque giorni fa una raffineria di petrolio nella periferia meridionale di Teheran e i pompieri ci hanno messo due giorni per spegnerlo, con gravi danni; un altro, un giorno prima del rogo alla raffineria, ha semidistrutto una fabbrica a Isfahan, dove si producono droni militari, quelli che usano gli Houti, satelliti yemeniti dell’Iran per colpire l’Arabia e che sono stati anche contrabbandati a Hamas. Un modello di questi droni si chiama “Gaza”. Sempre la settimana scorsa, nel golfo di Aden, che è la parte più esterna del Golfo Persico, da cui passano centinaia di petroliere alla settimana, talvolta attaccate da barchini e mine dei “Guardiani della rivoluzione”, ha preso fuoco ed è affondata la Kharg, la nave più grande della marina militare iraniana, spesso usata per trasportare i missili che poi vengono forniti ai movimenti terroristi. Una perdita significativa.
   Sono tre episodi recenti, non rivendicati, di cui difficilmente sapremo l’origine, perché Israele ha la politica di non attribuirsi mai le azioni militari irregolari e anche perché l’Iran vuol proiettare un’immagine di potenza e nasconde le sue debolezze e i suoi fallimenti, che si tratti di cattiva manutenzione e incuria, o che la causa siano azioni militari sul suo territorio. Nel frattempo però la guerra vera è quella per l’armamento atomico. L’agenzia nucleare della Nazioni Unite ha comunicato dei dati estremamente preoccupanti: l’Iran è arrivato ad arricchire l’uranio 16 volte oltre i limiti previsti dal trattato JPCOA, al 63% (l’uranio per usi civili si arricchisce a non più del 3 o 4 %, quello per la bomba dev’essere ricco al 90%, non ci sono altre spiegazioni per questo risultato se non è una tappa verso il combustibile nucleare). I servizi segreti hanno valutato che in sei mesi gli ayatollah potrebbero avere attiva la loro prima bomba atomica. In questa storia è importante il ruolo degli Usa di Biden e dell’Europa, che si ostinano a cercare di venire a patti con l’Iran, considerandolo un partner affidabile con cui mettersi d’accordo e non un nemico pericoloso e astuto com’è, da contenere con la forza. In questo quadro Israele, che è il primo bersaglio dichiarato dell’aggressività iraniana, potrebbe dover agire da solo per difendersi, appoggiato solo dagli altri nemici regionali dell’Iran come l’Arabia e gli Emirati. Ce la può fare? A sentire le dichiarazioni del capo dello stato maggiore delle forze armate, Aviv Kochavi, sembrerebbe di sì. Ma avrà Israele la determinazione per farlo e fronteggiare poi le conseguenze? Con questo torniamo al problema della capacità del nuovo governo così eterogeneo di continuare una politica difensiva necessaria e difficile. Ma questo non lo sa nessuno, probabilmente neanche i suoi leader.

(Shalom, 6 giugno 2021)


Sei pro-Israele o pro-Palestina?

di Andrea Barattolo

Per i filo palestinesi in teoria Israele non dovrebbe esistere. La realtà di fondo, anche a livello psicologico, è che gli ebrei si sarebbero appropriati di una terra non loro perché appartiene agli arabi. Gli ebrei arrivati in Palestina, se ne sarebbero appropriati illegalmente. La verità è un’altra. Prima di tutto gli ebrei in alcune parti della cosiddetta Palestina, come ad esempio a Gerusalemme, ove sono sempre stati la maggioranza della popolazione, non se ne sono mai andati. Per di più il famoso popolo palestinese è un popolo che è stato inventato, perché non è mai esistito.
    Esisteva invece il Sangiaccato di Damasco, provincia dell’impero ottomano, la cui capitale era appunto Damasco , mentre Gerusalemme era una piccolissima, secondaria città. I cui sudditi erano sia gli arabi che oggi chiamiamo palestinesi ( che se li avessi chiamato così allora, ti avrebbero preso per matto: i palestinesi semplicemente non esistevano), sia gli ebrei che ancora ci abitavano, sia i pochi cristiani. La regione era un mezzo deserto con qualche oliveto dove era presente un po’ d’acqua , con pochi centri abitati piccolissimi e sparsi. La regione era praticamente disabitata. Il popolamento è iniziato proprio con la immigrazione ebraica, iniziata addirittura alla metà del XIX secolo e incrementata tra la fine di esso è la prima metà del XX. Questo ha cambiato la situazione in modo assolutamente totale.
    Ovunque sono arrivati gli ebrei hanno popolato il territorio, trasformandolo da una semi pietraia in un giardino fiorito. Ancora oggi se volate da Aqaba verso Amman lungo la valle del Giordano, a sinistra, Israele è un oceano di verde; a destra, la Giordania, è il deserto. Persino Tel Aviv nel 1909 era solo una marea di dune di sabbia: oggi sembra una piccola New York. Una notevole parte della terra dove si insediarono gli ebrei, i kibbutz, le uniche vere comuni socialiste che nella Storia hanno funzionato, fu acquistata dai coloni ebrei agli arabi, che la vendettero a prezzi carissimi, addirittura superiori agli equivalenti nel Rode Island, o nel Maryland, prezzi che gli ebrei, pressati dalla necessità, dovettero accettare.
    Quando poi ci fu la Shoa, che infatti i palestinesi negano, la immigrazione ebraica nonostante fortemente contrastata dagli inglesi, aumentò in quanto i superstiti ed anche gli ebrei del resto del mondo , capirono che l’unica soluzione e sicurezza per un ebreo, poteva solo essere uno stato ebraico nella terra, che , almeno per 2500 anni, era stata la terra degli ebrei, la cui capitale era Gerusalemme.
    Quando le Nazioni Unite votarono per la spartizione della regione, spartizione che penalizzava grandemente il futuro Stato ebraico sia come confini, sia come vastità di territorio, Israele accettò; gli arabi, che nel frattempo erano stati, come il grande Mufti di Gerusalemme (ricercato come criminale di guerra) alleati e complici dei nazisti durante la guerra, mentre gli ebrei avevano combattuto con gli alleati nella brigata ebraica, rifiutarono. Il giorno dopo la dichiarazione dello Stato ebraico attaccarono in blocco, Egiziani, Giordani e Siriani, certi della vittoria in quanto gli ebrei erano semi disarmati. Non avevano infatti un vero e proprio esercito al contrario degli arabi, che avevano una aviazione ( Tel Aviv infatti fu bombardata), carri armati e truppe regolari. L’arma più potente che aveva il neo Stato ebraico era la mitragliatrice MG.
    Nonostante tutto Israele in tre mesi vinse la guerra. E così è andata avanti fino ad oggi. Se durante la guerra dei sei giorni nel giugno del 1967, Israele non avesse lanciato con la sua aviazione il famoso attacco preventivo, molto probabilmente oggi lo Stato ebraico non esisterebbe più. Israele è grande meno della Sardegna ed è circondata da centinaia di milioni di arabi islamici. Nonostante questo è una delle maggiori potenze militari, scientifiche e tecnologiche del pianeta, ovviamente in rapporto alle due dimensioni.
    Ed anche i famosi aiuti americani sono una leggenda, perché ogni volta, compresi quelli ricevuti durante la guerra del kippur ( anch’essa vinta da Israele,checché ne dicano gli arabi; Ariel Sharon stava arrivando al Cairo, chiudendo l’armata egiziana nel Sinai in una morsa : gli egiziani furono salvati solo dal voto dell’ONU), hanno sempre dovuto restituire tutto con gli interessi. Chi ha avuto i veri petrodollari sono stati i palestinesi, sia dai vari Stati petroliferi arabi che dall’Europa e dagli Stati Uniti. Solo che li hanno sprecati a causa della corruzione dei loro leader ( Arafat da solo si è inguattato due miliardi di dollari in Svizzera che erano proprietà di Al Fatah: anche suo figlio è nato lì), sia per lo stupido mito della guerra eterna ad Israele. Vedi il cemento e il ferro inviato a Gaza dall’Europa, che doveva servire a costruire case, utilizzati da Hamas per attrezzare i tunnel con cui penetrare in Israele a fare stragi e ammazzamenti .
    Per cui chi è causa del suo mal pianga se stesso. Se gli arabi non avessero fatto la guerra oggi esisterebbe lo Stato palestinese; se gli ebrei non avessero fatto la guerra, oggi Israele non esisterebbe e nel 1948 ci sarebbe stato un secondo Olocausto in Terrasanta.

(Comportamento emergente - Quora, 6 giugno 2021)


Il segreto del modello israeliano

di Gianmaria Tammaro

Nel giro di pochi anni, la televisione israeliana è diventata un vero e proprio punto di riferimento: tutti la guardano, tutti la imitano; tutti vogliono avere una fetta delle serie tv che produce e che manda in onda. Sulla carta sembra uno di quei mercati piccoli, da dimenticare, che non hanno né le risorse, né la capacità per avere successo sul palcoscenico internazionale; e invece, nei fatti, è un modello. Ha ottimi scrittori, bravissimi attori, registi abili e produttori intelligenti che sanno benissimo quando e quanto rischiare, su cosa e su chi puntare.
   Il segreto è trovare un equilibrio tra le storie locali e gli interessi globali. La lingua non è un limite. Anzi, paradossalmente, può essere un punto di forza. Perché restituisce autenticità e profondità ai ruoli, ai dialoghi e alle battute. Gli israeliani hanno sempre raccontato la specificità del loro mondo: le tradizioni, la cultura, la religione. Non hanno evitato nessun argomento. Hanno affrontato la guerra e lo spionaggio. Hanno usato ogni elemento per costruire trame credibili e appassionanti.
   "Fauda", disponibile su Netflix, è stata una delle prime serie a raggiungere immediatamente il pubblico di tutto il mondo: ed è piaciuta, è stata consigliata, vista e rilanciata. Non-ha avuto bisogno di remake o di riscritture. Poi è arrivata ''Tehran", distribuita da Appie tv+, che ha cambiato scenario e che ha scelto una protagonista, una spia, per parlare di Iran e di tensioni politiche, di differenze e di somiglianze. Anche in una serie come questa, così attuale e ricca di colpi di scena, i personaggi restano umani e fragili. Ed è proprio la loro imperfezione ad attirare il pubblico. Come nella vita vera, quella che esiste oltre la finzione, non ci sono certezze.
   Ma il piccolo schermo israeliano non è solo spy story e thriller. C'è spazio anche per titoli più intimi come "Shtisel" (Netflix). La comunità ultra-ortodossa, qui, non viene raccontata solo per le sue credenze o per le sue tradizioni. I protagonisti sono prima di tutto persone. E come tutte le persone, sbagliano, hanno i loro desideri, i loro dubbi e le loro paure. E così, dal microcosmo di una comunità, si passa velocemente a un quadro più ampio e universale. Insomma, la tv israeliana ha trovato la sua strada. Esporta non solo produzioni ma anche, scrive Giancarlo Lombardi su "Link - Idee per la tv", «gli stessi showrunner». E partita dalla sua esperienza, si è affidata ai suoi creativi, e ha lanciato una rivoluzione silenziosa che in poco tempo si è diffusa in tutto il mondo.

(Specchio, 6 giugno 2021)



Il segno del profeta Giona (9)

di Marcello Cicchese

Il libro di Giona visto da un intellettuale laico:
    «La storia biblica di Giona è una fiaba mirabile, un gioiello della letteratura universale. Giona, che, in un primo tempo, vuol sottrarsi all'incarico di annunciare la distruzione a Ninive, scappa, incappa in un naufragio, sopravvive in modo miracoloso nel ventre di un pesce e annuncia, alla fine, a una Ninive impazzita una punizione divina che sembra fin troppo giusta. Ma quando, di fronte alla potente penitenza di Ninive, Dio si fa commuovere e non porta a compimento la punizione annunciata, Giona si adira con Dio perché questi non si è ritenuto obbligato al piano che Giona gli aveva attribuito nella sua immagine del mondo. L'umorismo è un atteggiamento che, in virtù di una fiducia più profonda, riconosce, in mezzo alle assurdità e alle debolezze spesso curiose della vita umana, una sorta di velata amabilità. È di questo 'umorismo' di Dio su e con gli esseri umani che il libro di Giona, questa meravigliosa fiaba biblica, dà testimonianza.»
    (Presentazione del libro "E il pesce vomitò Giona all'asciutto. Il libro di Giona interpretato alla luce della psicologia del profondo" di Eugen Drewermann).
"Una fiaba mirabile, un gioiello della letteratura universale". Qualcosa del genere si è detto anche della favola di "Pinocchio". Ma il libro di Giona non è una bella fiaba, così come il Sermone sul Monte di Gesù non è una splendida lezione di elevata moralità; chi crede nel Dio della Bibbia rifiuta questo tipo di apprezzamenti, che in una veste di ammirazione svuotano il messaggio biblico del suo autentico, tremendamente serio significato e lo sostituiscono con altro materiale di proprio gradimento. Nei resoconti biblici si parla di fatti. E sono fatti che mettono in gioco questioni di vita e di morte, per il mondo e per i singoli. E con queste cose non si gioca, né i loro resoconti nella Bibbia sono lì per strappare applausi.
  Vediamo allora come è stata presa in considerazione la storia di Giona da qualcuno che la conosceva bene:
    Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno». Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti. I Niniviti compariranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco, qui c’è più che Giona! La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui c’è più che Salomone! (Matteo 12:38-41)
    Mentre la gente si affollava intorno a lui, egli cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; chiede un segno ma nessun segno le sarà dato, tranne il segno di Giona. Infatti come Giona fu un segno per i Niniviti, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione. Nel giorno del giudizio la regina del mezzogiorno si alzerà con gli uomini di questa generazione e li condannerà; perché ella venne dagli estremi confini della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco qui c’è più di Salomone. Nel giorno del giudizio i Niniviti si alzeranno con questa generazione e la condanneranno; perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui c’è più di Giona. (Luca 11:29-31)
Gesù ha parlato di Giona come un fatto di storia, non come un'edificante narrativa didattica o una fantastica rappresentazione simbolica. Prendere o lasciare dunque: o Giona e Gesù sono tutto simbolo, o sono tutto storia.
  Per Gesù la storia di Giona è un segno. Il termine "segno" ha un significato forte nella Bibbia; è usato in diversi modi ma non serve mai a trasportare il lettore in un mondo di fantastica immaginazione. Al contrario, il segno è un indicatore che mette in collegamento due fatti, entrambi presenti nella concretezza della storia. Di solito c'è un fatto del presente, visibile a chi parla, che si può chiamare "indicatore", e un fatto del passato o del futuro, non più o non ancora visibile a chi parla, che si deve ricordare o aspettare secondo i casi.
  Gli esempi nella Bibbia sono moltissimi. Eccone alcuni:
    “Dio disse: «Ecco il segno del patto che io faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte le generazioni future. Io pongo il mio arco nella nuvola e servirà di segno del patto fra me e la terra” (Genesi 9:12,13).
L'indicatore del segno è l'arcobaleno, concretamente visibile dagli uomini sulla terra, l'indicato è l'impegno di Dio a non distruggere gli uomini col diluvio finché esisterà una terra su cui abitano.
    “Poi Dio disse ad Abraamo: «Quanto a te, tu osserverai il mio patto: tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione. Questo è il mio patto che voi osserverete, patto fra me e voi e la tua discendenza dopo di te: ogni maschio tra di voi sia circonciso. Sarete circoncisi; questo sarà un segno del patto fra me e voi.” (Genesi 17:9-11).
L'indicatore del segno è l'atto della circoncisione, l'indicato è l'impegno di Dio a conservare il suo popolo per il compito che gli ha riservato.
    “Ed ecco che un uomo di Dio giunse da Giuda a Betel per ordine dell’Eterno, mentre Geroboamo stava presso l’altare per ardere il profumo; e per ordine dell’Eterno si mise a gridare contro l’altare e a dire: ‘Altare, altare! così dice l’Eterno: Ecco, nascerà alla casa di Davide un figlio, per nome Giosia, il quale immolerà su di te i sacerdoti degli alti luoghi che su di te ardono profumi e s’arderanno su di te ossa umane’. E quello stesso giorno diede un segno miracoloso dicendo: ‘Questo è il segno che l’Eterno ha parlato: ecco, l’altare si spaccherà, e la cenere che v’è sopra si spanderà’. Quando il re Geroboamo ebbe udita la parola che l’uomo di Dio aveva gridata contro l’altare di Betel, stese la mano dall’alto dell’altare, e disse: ‘Pigliatelo!’ Ma la mano che Geroboamo aveva stesa contro di lui si seccò, e non poté più ritirarla a sé. E l’altare si spaccò; e la cenere che v’era sopra si disperse, secondo il segno che l’uomo di Dio aveva dato per ordine dell’Eterno (1 Re 13:1-5).
L'indicatore del segno è l'altare che nel presente si spacca; l'indicato è l'immolazione dei sacerdoti idolatri che nel futuro sarà fatta su di esso, secondo la parola che Dio aveva pronunciato attraverso il profeta.
  Come si vede da quest'ultimo esempio, l'indicatore può essere un avvenimento, e quando anche l'indicato è un avvenimento storico preparato da Dio per il futuro, si potrebbe dire che il segno è una "parabola profetica". Ma è una parabola raccontata da Dio in prima persona, i cui elementi simbolici sono costituiti da fatti concreti che rimandano ad altri fatti concreti che avverranno un giorno nella storia.
  La Bibbia è piena di queste "parabole profetiche" di Dio; e certamente non hanno nulla in comune con immaginose favole o figurative rappresentazioni artistiche.
  All'infedele sacerdote Eli il Signore annuncia la rovina della sua casa raccontandogli a modo suo una "parabola", cioè facendo avvenire nel presente di Eli un avvenimento che sarà per lui un segno di ciò che Dio avrebbe fatto nel futuro. L'indicato futuro del segno è questo:
    ”Ecco, i giorni vengono, in cui troncherò il tuo braccio e il braccio della casa di tuo padre, in modo che non vi sia in casa tua nessun vecchio. Vedrai lo squallore nella mia dimora, mentre Israele sarà ricolmo di beni, e non vi sarà mai più nessun vecchio nella tua casa. Quello dei tuoi che non toglierò via dal mio altare, rimarrà per consumarti gli occhi e rattristarti il cuore; e tutti i nati e cresciuti in casa tua moriranno nel fiore degli anni” (1 Samuele 2:31-33).
L'indicatore presente del segno è questo:
    ”E ti servirà di segno quello che accadrà ai tuoi figli, a Ofni e a Fineas: tutti e due moriranno in uno stesso giorno" (1 Samuele 2:34).
L'indicatore del segno può essere anche un gesto concreto che Dio chiede a un uomo di compiere, come avviene con il profeta Ezechiele:
    «Metti dunque fuori, di giorno, in loro presenza, il tuo bagaglio, simile a quello di chi va in esilio; poi la sera, esci tu stesso, in loro presenza, come fanno quelli che se ne vanno esuli. Fa’, in loro presenza, un foro nel muro, e attraverso di esso porta fuori il tuo bagaglio. Portalo sulle spalle, in loro presenza; portalo fuori quando farà buio; copriti la faccia per non vedere la terra; perché io faccio di te un segno per la casa d’Israele» (Ezechiele 12:4-6).
Al che segue la presentazione di quello che è l'indicato del segno:
    «Così parla il Signore, l'Eterno: Quest'oracolo concerne il principe che è in Gerusalemme, e tutta la casa d'Israele di cui essi fanno parte. Di': Io sono per voi un segno: come ho fatto io, così sarà fatto a loro: essi andranno in esilio, in cattività» (Ezechiele 12:10-11).
"Come ho fatto... così sarà fatto": ecco il modo in cui Dio racconta le sue parabole.
  Qualche volta l'uomo richiede il segno come certificato di autenticazione, come a volersi assicurare che i fatti del presente sono realmente collegati a una parola detta da Dio nel passato. Questo però non è un modo che Dio in linea di principio approva. In certi casi può anche assecondare una simile richiesta, per venire incontro alla debolezza di chi la fa, come nel caso di Gedeone e Tommaso, ma si riserva di non rispondere quando l'uomo la pretende come se fosse un suo diritto. E' Dio che sceglie i segni con cui vuole sostenere la sua Parola, ed è dall'atteggiamento con cui l'uomo riceve questa Parola che dipende la possibilità per lui di riconoscere la validità del segno ricevuto.
  Quando scribi e farisei dicono a Gesù: «Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno», quello che gli chiedono non è una generica dimostrazione di spettacolare potenza miracolosa. Molto semplicemente gli chiedono di accreditarsi presso di loro come l'autentico Messia di Israele. Il segno avrebbe dovuto servire come la firma di Dio apposta in calce all'attestato di autenticità. La richiesta poteva apparire legittima, perché di fronte a tutte le populistiche speranze messianiche che circolavano in quel tempo poteva sembrare serio e ragionevole sostenere che soltanto alle autorità competenti spettava il compito verificare la validità di un attestato di autenticità messianica. Il Messia era per loro quello che oggi per noi è il Vaccino: il salvifico rimedio. E come oggi circolano molti vaccini, così allora giravano molti sedicenti messia; e allora come oggi sembrava indispensabile doversi rimettere all'attestato delle autorità riconosciute.
  Gesù però aveva già dato, di sua iniziativa, diversi segni messianici che avrebbero dovuto essere presi in seria considerazione dalle autorità religiose. Nei Vangeli se ne contano almeno tre:
  la guarigione del lebbroso (Matteo 8:2-4, Marco 1:40-45, Luca 5:12-16);
  la guarigione dell'indemoniato muto (Matteo 12:22-37, Marco 3:19-30);
  la guarigione del cieco nato (Giovanni 9:1-38).
  Certamente non possono essere trattati qui per esteso, ma va sottolineato che secondo l'insegnamento rabbinico soltanto il Messia avrebbe potuto compiere guarigioni di quel tipo.
  E' particolarmente significativo il primo di questi tre segni,
    “Mentre egli si trovava in una di quelle città, ecco un uomo tutto coperto di lebbra, il quale, veduto Gesù, si gettò con la faccia a terra e lo pregò dicendo: «Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi». Ed egli stese la mano e lo toccò, dicendo: «Lo voglio, sii purificato». In quell’istante la lebbra sparì da lui. Poi Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno. «Ma va’», gli disse, «mostrati al sacerdote e offri per la tua purificazione ciò che Mosè ha prescritto; e ciò serva loro di testimonianza»” (Luca 5:12-14).
Nella Bibbia solo due lebbrosi totali hanno ottenuto una totale guarigione: Maria, sorella di Mosè (Levitico 12:1-16) e Naaman il Siro (2 Re 5:1-19), e in entrambi i casi ciò è avvenuto per un intervento diretto di Dio. Secondo l'insegnamento rabbinico quindi soltanto il Messia avrebbe potuto fare una cosa simile. Per questo Gesù dice all'uomo guarito di rivolgersi all'autorità sacerdotale, affinché riconosca l'autenticità della guarigione e di conseguenza l'autorità di chi l'ha prodotta: ”e ciò serva loro di testimonianza”.
  Gesù dunque non rifiuta la posizione di autorità dei sacerdoti in Israele, ma rifiuta di sottoporsi a un ulteriore segno richiesto da "una generazione malvagia e adultera”. E per generazione qui s'intende non tutto il popolo d'Israele in tutti i tempi della sua storia passata presente e futura, ma precisamente la generazione dei responsabili di Israele a Lui contemporanea. I fatti di Giona e Gesù sono storia. E la storia prosegue.
(9) continua

(Notizie su Israele, 6 giugno 2021)


 

Hamas: “Possibile escalation con Israele”, il primo banco di prova del nuovo governo

di Marco Paganelli

Potrebbe essere il primo banco di prova per il governo successore a quello guidato, per anni, da Benjamin Netanyahu. Torna alta, nonostante la fine della sua epoca, la tensione in Medioriente il cui territorio non ha mai trovato una pace duratura, ma solo una lunga scia di sangue.
   Gli equilibri geopolitici faticano a trovare un loro punto di equilibrio per consentire alle popolazioni locali di vivere in serenità e alle grandi potenze, che sostengono (pure militarmente) gli attori regionali, di cessare uno scontro per procura che dura da secoli e che sta mettendo, sempre più a rischio, la comunità internazionale. Pare essere infatti un vero e proprio ultimatum: se Israele non autorizzerà il trasferimento dei fondi stanziati dal Qatar, per la Striscia di Gaza, Hamas è pronta a una nuova escalation alla frontiera con lo Stato ebraico. Lo ha comunicato, nelle ultime ore, il quotidiano israeliano Times of Israel, citando fonti della stampa libanese.
   Queste ultime hanno precisato, secondo il giornale, che l’ organizzazione palestinese ha intenzione di aspettare fino alla fine della prossima settimana per la consegna del denaro (che ammonta complessivamente a 2 milioni di dollari stanziati dal 2018). Quest’ ultimo è necessario per acquistare il combustibile dell'unica centrale elettrica della Striscia, per pagare gli stipendi dei funzionari e per aiutare decine di migliaia di famiglie povere che risiedono nella enclave.
   Se tutto ciò non sarà realizzato, "adotterà un'importante decisione sul cessate il fuoco" entrato in vigore due settimane fa. Potrebbe quindi usare “strumenti di pressione alla frontiera”e se necessario avrebbe la possibilità di attuare altre opzioni che potrebbero "rinnovare uno scontro su grande scala" col nemico sionista.

(Agenzia Stampa Italia, 5 giugno 2021)


Hamas: “se non ci date i soldi ricomincerà la pioggia di missili”

Anche i terroristi tengono famiglia

di Franco Londei

Per i pochi che ancora non l’avessero capita, con i cosiddetti “palestinesi” è sempre una questione di soldi.
    Hamas, poi, con il suo sistema mafioso è quello che più di tutti tra i gruppi palestinesi dipende dall’ossigeno dei dollari.
    Non ha importanza di chi siano i dollari, se quelli che in tanti mandano per beneficenza, se sono quelli che estorcono agli agricoltori o agli artigiani o sono quelli del Qatar o dell’Iran. L’importante è che siano dollari preferibilmente in contanti.
    Ora cosa succede? Succede che il Qatar, che dona ad Hamas circa 30 milioni di dollari in contanti tutti i mesi, da un po’ non riesce a far avere ai terroristi palestinesi il borsone con i soldi.
    È una questione di sicurezza. Dopo l’ultima aggressione subita da Israele da parte di Hamas lo Stato Ebraico ha chiuso i confini con Gaza e li ha lasciati aperti solo per gli aiuti umanitari.
    Purtroppo però l’omino del Qatar che tutti i mesi porta il borsone pieno di dollari ai terroristi arabi non è compreso tra gli aiuti umanitari e nemmeno l’Egitto lo fa passare.
    È un disastro perché Hamas – che chiaramente spende i soldi per altre cose come i missili ecc. ecc. – non solo deve pagare gli stipendi dei terroristi ma deve anche pagare i lussi dei suoi “coraggiosi leader” fuggiti all’estero per paura di finire sotto qualche missile israeliano.
    E se l’omino del Qatar non può passare nemmeno gli stipendi dei terroristi si possono pagare, terroristi che tengono famiglia e che, chiaramente, sono indiavolati con i loro boss perché mentre loro fanno i lussi negli alberghi a 5 stelle, a Gaza si fa la fame.
    Cosa si fa quindi? Semplice, si minaccia Israele di riprendere il lancio massiccio di missili se non fa passare subito l’omino del Qatar con il borsone pieno di dollari.
    Si noti bene il fatto curioso. Non minacciano l’Egitto che pure confina con Gaza e da dove l’omino del Qatar potrebbe passare tranquillamente, come del resto potrebbero passare gli aiuti umanitari (che invece dall’Egitto non passano). No, minacciano Israele.
    Tanto per capirci bene. Questo non è uno scoop di RR. Se un cosiddetto “palestinese” che vive a Gaza scivola su una buccia di banana e si rompe una gamba, si minaccia Israele perché chiaramente colpevole di tutto.
    Questo lo sanno tutti, è un fatto scontato come il sorgere del sole. Come è un fatto scontato che poi dall’occidente tutti diano ragione ai terroristi e non a chi deve subire una situazione così tristemente paradossale.
    Aspettiamo di vedere cosa farà il nuovo Governo israeliano, ma sarebbe un buon inizio se si cominciasse a non far passare più l’omino del Qatar dal suo territorio. Che passi per l’Egitto o per uno dei tanti tunnel che Hamas ha costruito.
    Lo so, c’è il rischio che il tunnel caschi improvvisamente sulla testa del povero omino del Qatar, ma come si diceva una volta, gli incidenti sul lavoro capitano.

(Rights Reporter, 5 giugno 2021)


Israele: la coalizione del “cambiamento” raggiunge un accordo

Dopo settimane di negoziati interrotti da una breve guerra, i partiti dell’opposizione israeliana hanno accettato di formare un governo, negando a Benjamin Netanyahu un sesto mandato come primo ministro.
    L’accordo finale è arrivato pochi minuti prima della scadenza della mezzanotte di mercoledì, quando una gamma diversificata di gruppi politici – tra cui, per la prima volta, un partito arabo-israeliano – ha firmato un accordo di coalizione. Comunicando al presidente Reuven Rivlin il suo successo nel formare un governo, il leader di Yesh Atid Yair Lapid ha detto che il nuovo governo “farà tutto il possibile per unire e unificare tutte le sezioni della società israeliana”.
    Naftali Bennett, ex protetto di Netanyahu e figlio di immigrati americani, assumerà il ruolo di primo ministro in un accordo a rotazione con Yair Lapid.
    Lapid manterrà il posto di ministro degli esteri fino a un proposto passaggio di consegne nell’agosto 2023. La decisione di Lapid di consegnare inizialmente il potere a un partner junior ha mostrato la sua sincerità, ha detto un assistente di Lapid a Foreign Policy. “Abbiamo detto che avremmo fatto tutto il necessario [per porre fine al dominio di Netanyahu], e l’abbiamo fatto”, ha detto l’assistente, parlando a condizione di anonimato.
    Anche se un governo è stato concordato in linea di principio, gli ostacoli rimangono. Yariv Levin, lo speaker del parlamento israeliano e membro del Likud di Netanyahu, vuole ritardare il voto parlamentare, dando a Netanyahu e ai suoi alleati il tempo di convincere i membri vacillanti ad abbandonare la nuova coalizione. Anche se la data esatta è oggetto di un dibattito legale, il voto avrebbe luogo al più tardi il 14 giugno. I 61 membri della coalizione in attesa hanno già presentato una richiesta per rimuovere Levin, permettendo potenzialmente una votazione lunedì 7 giugno.
    Più le cose cambiano… Mentre il governo metterebbe fine al regno di Netanyahu, non metterà necessariamente fine alle sue politiche. Alcune delle opinioni di Bennett sono considerate più a destra di quelle di Netanyahu, specialmente quando si tratta dell’espansione degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. Il ministro della difesa Benny Gantz, che ha appena supervisionato la guerra a Gaza, mantiene la sua posizione. Mentre Gideon Saar, il nuovo ministro della giustizia, ha lasciato il Likud solo dopo un tentativo fallito di disarcionare Netanyahu come leader.
    Il rapporto speciale. L’ascesa di Bennett arriva in un momento critico per il rapporto USA-Israele, quando le voci pro-palestinesi vengono ascoltate nelle sale del potere USA come non lo sono mai state prima. Per alcuni democratici, la cacciata di Netanyahu può essere sufficiente per riprendere il sostegno incondizionato a Israele, ma altri vorranno vedere cambiamenti sostanziali nella politica, soprattutto per quanto riguarda il processo di pace israelo-palestinese. Stephen M. Walt, scrivendo su Foreign Policy, sostiene che per il bene di entrambi i paesi, ora è il momento di porre fine alla relazione speciale tra Stati Uniti e Israele.
    La questione del miliardo di dollari. Mentre un nuovo governo non è ancora fissato nella pietra, gli affari normali continuano: Benny Gantz arriva oggi a Washington per chiedere 1 miliardo di dollari in aiuti militari d’emergenza per rifornire le difese Iron Dome di Israele e aiutare a rifornire le sue scorte di bombe dopo il bombardamento di Gaza. “Immagino che l’amministrazione dirà di sì a questa richiesta e passerà attraverso il Congresso”, ha detto martedì il senatore Lindsey Graham.
    Ma anche Iron Dome non durerà per sempre, come ha dimostrato Hamas sparando raffiche di razzi che hanno fatto breccia. Oggi, sostiene Seth Frantzman su Foreign Policy, “Israele non lo ammette, ma c’è un picco strategico per questa tecnologia”.

(La Zanzara, 5 giugno 2021)


Israele, il soccorso passa dalla telemedicina

Nuovo servizio paramedico a domicilio
Il contatto iniziale, sfruttando la telemedicina, consente un intervento mirato e l’intervento a domicilio di un paramedico, che trasformerà la casa dell’assistito in una clinica medica improvvisata
Un EMT ha accesso alla sua storia medica e ai farmaci che stava assumendo visionando tutto direttamente sul proprio tablet.
   Un altro ha controllato i segni vitali della donna e l’ha esaminata per evidenti segni di dolore o infezione.
   In remoto, in centrale operativa, un medico controlla le operazioni e coordina le procedure.
   L’intenzione del “112 / 118 Israeliano” (per capirci: in realtà il numero delle emergenze israeliane è il 101) è di abbattere gli accessi ospedalieri e al Pronto Soccorso, attraverso una gestione del paziente che inizia dal primo contatto. Una sorta di “pre pre triage”, se vogliamo “italianizzare” lo schema.
La Community Medicine Initiative grazie alla telemedicina sta riducendo significativamente il numero di pazienti inviati ai pronto soccorso degli ospedali sovraffollati del paese.
In una revisione di circa 1.000 pazienti che hanno chiamato un’ambulanza, il 70% è stato ritenuto sufficientemente in salute da essere curato da operatori sanitari al di fuori di un ambiente ospedaliero. Come servizio di ambulanza nazionale israeliano, Magen David Adom gestisce tutte le chiamate per le ambulanze ricevute alla hotline nazionale di emergenza, 101. Il progetto pilota, finanziato in parte dal Ministero della Salute israeliano, serve le regioni di Yarkon e Sharon nell’Israele centrale. Tutti i pazienti sono membri del Maccabi, il secondo più grande dei quattro HMO nazionali di Israele.
A partire da metà giugno, Magen David Adom aumenterà notevolmente il programma di “telemedicina e ambulanza”, estendendolo all’intera regione centrale di Israele e a Gerusalemme.
Il programma, che potrebbe ridurre il numero di pazienti che richiedono il ricovero fino a un terzo, consente ai paramedici e agli EMT di eseguire ECG e testare la saturazione di ossigeno nel sangue, la capacità polmonare e la pressione sanguigna di un paziente.
   Una volta trasmesse le informazioni a un medico, l’équipe sul campo e il medico valutano congiuntamente se il paziente debba essere trasportato in ospedale in ambulanza.
   Sebbene MDA abbia avuto l’idea diversi anni fa, è stata la pandemia di COVID-19 che ha finalmente convinto il Ministero della Sanità che tenere a casa i pazienti non di emergenza era meglio sia per il paziente che per il sistema medico sovraccaricato di Israele, ha affermato il dott. Refael Strugo, Direttore medico della MDA. “
   È una medicina migliore”, ha detto Strugo. “Se al mondo è stato insegnato qualcosa durante il COVID, è che è meglio curare i pazienti, e specialmente gli anziani, nel loro ambiente domestico”.
   Molti pazienti geriatrici sperimentano un declino fisico, emotivo e cognitivo quando sono ricoverati in ospedale, ha osservato Strugo.
   Le infezioni acquisite in ospedale, il disorientamento, le cadute, la denutrizione e l’assunzione di farmaci in modo improprio possono avere un impatto.
   “I paramedici sono già formati per sapere chi in generale ha bisogno di essere evacuato rapidamente in ospedale e chi no, quindi il triage è già una parte intrinseca del loro lavoro”, ha affermato.

(emergency-live.com, 5 giugno 2021)


L'ispirazione israeliana e la sua vocazione collettiva

di Maria Sole Sanasi D'arpe

Il nuovo governo d'Israele è nato. Il leader centrista Lapid, ceppo di una neonata coalizione: la prima senza Netanyahu dopo dodici anni; una nuova alleanza è stata saldata: quella con Naftali Bennett (partito Yamina) che sarà premier per i primi due anni, al termine dei quali ne prenderà il posto lo stesso Yair Lapid, per governare nella seconda parte della legislatura. E si tratta del primo esecutivo con un partito arabo al governo: l'islamista moderato di Raam, guidato da Mansour Abbas. In seguito a numerose riunioni dei vari schieramenti e soprattutto all’elezìone di Isaac Herzog quale nuovo presidente di Israele, è stato varato il governo - designato alla prima votazione con 87 preferenze dalla Knesset (il parlamento unicamerale israeliano, organo legislativo del Paese).

 La rivelazione dei paesi dell'antichità preromana
  Simone Weil nel suo saggio L'ispirazione occitana, illustra quella specifica òrexis (tendenza, desiderio) aristotelica propria di ogni popolo appunto con questo termine affine alla vocazione - infatti, scrive: "Ogni paese dell'antichità preromana ha avuto la sua vocazione, la sua rivelazione orientata" descrivendo quella persiana come "opposizione e lotta tra il bene e il male"; quella dell'India "l'identificazione, grazie all'unione mistica, di Dio e dell'anima, pervenuta allo stato di perfezione"; per la Cina: l'agire proprio di Dio; per l'Egitto: la carità per il prossimo "espressa con una purezza che non è mai stata superata"
  La rivelazione greca, coerente con quella egizia, "della miseria umana, della trascendenza divina, della distanza infinita - ed incolmabile - tra Dio e l'uomo" e la conseguente ricerca spasmodica di colmarla tramite la costruzione incessante di ponti: nella filosofia, nell'arte, nella scienza - sono state tutte manifestazioni di questa volontà: "tutti ponti tra Dio e l'uomo':

 La vocazione israeliana ieri come oggi
  In ultimo "per Israele fu l'unità di Dio, così ossessiva da diventare un'idea fissa" descritta da Weil come una "rivelazione grossolana" ma anche per questo "più solida" quasi indistruttibile.
   L'unico Paese infatti a non essere sottomesso e ridotto alla condizione di provincia da Roma fu proprio Israele: per la sua vocazione collettiva e "capace di resistere alla pressione del terrore romano': La resistenza caratterizzante l'anima d'Israele, dimostra oggi il suo vigore proprio in questa moderna unione di forze, rassomigliante alla forza collettiva, sua ancestrale vocazione. E conformemente a quell'atavica vocazione, dopo gli attacchi ricevuti dalla destra nazionalista, Lapid si impegna "a rispettare quanti ci oppongono”.

(La Discussione, 5 giugno 2021)


L'ebreo errante e il suo doppio

Il dilemma tra fede e umanesimo, tradizione e modernità, le domande su Dio e Shoah Chaim Grade, il più autentico scrittore yiddish

di Susanna Nirenstein

Elie Wiesel diceva che Chaim Grade era tra i più importanti scrittori yiddish, senz'altro "il più autentico", e nell'affermarlo faceva sicuramente riferimento ai funambolici diavoletti di Isaac Bashevis Singer. Nato nel 1910 a Vilnius (chiamata la Gerusalemme del Nord per la vivacità degli studi rabbinici dalle molteplici tendenze), scomparso nel 1982 a New York dove era arrivato nel 1948, Grade, con talento, impeto ed estremo realismo, fece quel che andava fatto: descrisse con poesie e prose un mondo che era stato cancellato, il suo mondo, le yeshivah dove si approfondivano la Torah e il Talmud e i contrasti che le incendiavano (come nel bestseller La moglie del rabbino, Giuntina), le cittadine polacche e lituane dove gli ebrei affollavano interi quartieri divisi tra ortodossi, comunisti, sionisti..., il modo in cui vestivano, mangiavano, si sposavano, crescevano i figli mentre la modernità faceva il suo ingresso. E certamente lo smarrimento e gli interrogativi dei sopravvissuti alla Shoah.
   Educato nei primi anni da un padre maskil, illuminista, che morì presto, mandato poi dalla madre nella severa yeshivah di Novaredok intossicata dall'ossessione della purezza fino a forme di ascesi quasi autopunitive che lasciò stremato per cercare la strada della laicità e di un moderato insurrezionalismo (con i nazisti alle porte si rifugiò in Unione Sovietica sperando, a torto, che i tedeschi non avrebbero toccato la moglie e la madre, per venirne via nel '46 e approdare prima brevemente a Parigi e poi in America), in lui soprattutto non cessarono mai il dialogo interiore, le domande sulla contrapposizione tra religione e non osservanza, tra fede e contemporaneità, su come l'ebraismo dovesse accogliere i laici dentro di sé, sulla sostanza dell'identità ebraica.
   Ed ecco allora due fulminanti esempi di questo eterno rovello di Chaim Grade, due lunghi racconti tradotti con amore da Anna Linda Callow e raccolti sotto il calzante titolo scelto dalla Giuntina, Fedeltà e tradimento. Nel primo, Il giuramento, lo scrittore poeta ci porta accanto a un mercante benestante sul letto di morte che strappa ai figli due promesse: al maschio che lascerà l'università di agraria, dove l'aveva lui stesso indirizzato, per dedicare la vita allo studio della Torah e del Talmud con un rebbe che vive appartato dal mondo, alla femmina invece che sposerà uno studente di yeshivah: quell'uomo pio in fin di vita si è pentito della sua esistenza mondana, per quanto religiosa, e vuole che la prole ritorni sulla retta via. Ma siamo nei primi decenni del Novecento, scienza e rivoluzione ballano valzer trascinanti, e i due ragazzi, per quanto provino a essere fedeli alla promessa, sono comunque attratti dal mondo secolare.
   Ma è il secondo titolo, uno dei più famosi del bifronte Grade, portato anche in teatro e sullo schermo, La mia contesa con Hersh Rasseyner, del 1952, a scuoterci nel profondo. Uno dei due protagonisti, Chaim Vilner, è modellato totalmente sull'autore, che 23enne se ne era andato dalla dura yeshivah per diventare un poeta. Ma che tipo di prosa è, una storia, una memoria, un saggio? Qualsiasi cosa sia, è chiaro, come ha scritto la grande critica yiddishista Ruth Wisse, che Grade ha creato una sua speciale forma letteraria per contenere le guerre che lo abitavano, uno spaccato autobiografico che traspone le lotte ai tempi dello studentato rabbinico in un aspro scontro postbellico tra due sopravvissuti, Chaim appunto, e Hersh, ex compagno della casa di studio. Ci sono tre momenti in cui si incontrano, nel 1937 a Byalistok, nel 1939 a Vilnius e nel 1948 a Parigi. Nel primo si incolpano a vicenda di non possedere la verità, per Grade il religioso non si è isolato dal mondo, è solo pieno di orgoglio e non di santità, per Hersch invece Chaim e il suo umanesimo non vogliono dire che perdizione. Al secondo, Vilnius è occupata dai sovietici e Hersch accusa Chaim delle sue simpatie comuniste. Ma è il terzo confronto ad essere il più forte e destabilizzante: siamo all'Indomani della Shoah, ambedue hanno perso tutta la famiglia, Hersch è stato in un lager, eppure riprendono subito a puntarsi l'indice contro come se si fossero lasciati il giorno prima. Ora c'è una domanda in più per ciascuno dei due: come fa Hersh a credere ancora in un Dio che ha permesso la Shoah? E come fa Chaim a credere ancora nella cultura europea in cui sono cresciuti il nazismo e i suoi crimini? Ambedue sono Chaim Grade: queste domande deve essersele poste fino all'ultimo giorno della sua vita.

(la Repubblica, 5 giugno 2021)


L’Iran può avere la bomba nucleare in cinque mesi

di Paolo Della Sala

Chi ha detto che il presidente Usa Joe Biden avrebbe trascurato la politica estera, pensando di più al contesto interno? È vero che Biden ha accelerato il ritiro dall’Afghanistan, ma i dossier aperti con la Cina sono sul tavolo operativo così come lo erano con Donald Trump. Resta da chiarire la posizione statunitense rispetto al perenne conflitto mediorientale, dopo il recente conflitto tra l’esercito israeliano e i gruppi armati di Hamas, dietro ai quali aleggiava la presenza del consueto convitato di pietra iraniano.
    In questa settimana sono arrivati da Gerusalemme a Washington il direttore del Mossad Yossi Cohen, il responsabile in capo dell’esercito israeliano generale Aviv Kochavi, e il consigliere per la Sicurezza Mair Ben-Shabbat. Non si tratta di un’unica delegazione, ma di distinti incontri coi responsabili della intelligence e della sicurezza degli Stati Uniti. Già un mese fa il direttore del Mossad Cohen aveva incontrato lo staff della Casa Bianca. A questa serie di incontri si deve aggiungere la visita di mercoledì 2 giugno del ministro israeliano della Difesa Benny Gantz, il quale ha incontrato il suo omologo, generale Lloyd Austin, il Segretario di Stato Antony Blinken, e il consigliere per la Sicurezza Usa Jake Sullivan. Uno degli obiettivi degli incontri di Gantz è stato la fornitura (e il miglioramento) degli intercettori Tamir, che hanno avuto problemi contro i missili Fajr-5.
    L’argomento di questi incontri ha un filo unico: secondo i dati in possesso della sicurezza israeliana il governo di Teheran entro la fine del 2021 avrà l’arma atomica.
    Si capisce quanto il dossier aperto tra Gerusalemme e Washington sia scottante. Nelle scorse settimane 4mila razzi sono stati lanciati da Gaza su Israele. Si trattava dei vecchi Qassam-3 ma anche dei Fajr-5 che hanno una gittata di circa 80 chilometri. Lo scorso settembre un documentario trasmesso da Al-Jazeera ha mostrato immagini satellitari di militanti di Hamas che assemblavano missili Fajr di provenienza iraniana. Teheran ogni anno finanzierebbe i gruppi armati di Hamas con 100 milioni di dollari.
    Ciò che la stampa più asfittica non rileva sono due aspetti:
  1. il recente conflitto non è scoppiato a causa degli irrisolti problemi tra i palestinesi e gli israeliani: il vero detonatore va cercato nel gas che si trova nei giacimenti offshore di Gaza, Israele, fino al Libano e a Cipro come ha rilevato di recente Michele Marsiglia, presidente di FederPetroli Italia;
  2. L’ultimo treno per risolvere l’incubo di una bomba atomica in mani iraniane è dato dai colloqui previsti a Vienna tra una settimana. Non dimentichiamo che i missili iraniani - gli S-400 russi o gli Shahab con tecnologia nordcoreana - hanno un raggio di 2000 km, e quindi possono colpire i territori compresi tra l’Arabia, l’India e l’Europa.
   Ad aprile il presidente iraniano Rouhani ha dichiarato di essere ottimista sul negoziato nucleare di Vienna. Anche il direttore dell’agenzia Esteri della Ue Enrique Mora si è detto “alquanto sicuro” di trovare un accordo con Teheran nel corso dei colloqui Jcpoa (il Dialogo sul nucleare iraniano), che ricominceranno in Austria il prossimo 10 giugno.
    Un altro dato importante è che il 18 giugno ci saranno in Iran le elezioni presidenziali, e Rouhani spera di poter presentare agli elettori un accordo sul nucleare, il che implicherebbe la riduzione delle sanzioni.
    I timori israeliani non sono strumentali: quando nel 2015 furono siglati gli accordi Jcpoa gli analisti della presidenza Obama davano un anno di tempo prima che il regime degli ayatollah raggiungesse l’autonomia militare atomica. È quindi ragionevole il termine di 4 o 5 mesi indicato in queste ore da Israele alla presidenza americana.
    Detto ciò, se si arriverà a un accordo, sarà decisiva la possibilità di certificare l’effettivo stop al programma nucleare di Teheran, evitando quanto è successo di recente riguardo alle origini del Covid in Cina, con la Oms che non ha potuto (e forse in parte non ha voluto) accedere ai laboratori di Wuhan e ai relativi dati.
    Se si scorrono le pagine del profeta Isaia, che riguardano gli errori di Israele e quelli dei suoi nemici, ci si rende conto di quanto profondi e antichi siano i conflitti mediorientali. Un israeliano non necessariamente ortodosso cosa pensa, nei giorni del conflitto missilistico con Gaza, leggendo questo verso?
    Non ti rallegrare, Filistina, se la verga che ti colpiva si è spezzata, perché dalla radice del serpente uscirà un basilisco, e il suo frutto sarà un serpente ardente e volante. (Isaia, 14:29). Molti “serpenti ardenti e volanti” sono volati in quei cieli nelle scorse settimane. Non si tratta quindi soltanto di religione: una concreta strategia geopolitica deve imporre una pacificazione realistica nel Medio Oriente. Come potremmo passare dal Covid a un conflitto generalizzato, con blocchi a Suez e stop a petrolio e gas?
    Quindi un accordo va cercato, ma tenendo la barra in direzione opposta a quella degli accordi di Monaco nel 1938.

(l'Opinione, 4 giugno 2021)


Bennett, milionario con la kippah, sarà il nuovo premier?

Era il capo dello staff di Netanyahu che lo ha sempre temuto. E ora lo chiama traditore. La settimana prossima il voto di fiducia

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Raccontano che Naftali Bennett sia in grado di citare a memoria le battute di Seinfeld quanto la Torah. E che abbia applicato questa capacità agli slogan della prima campagna elettorale, quando è entrato in politica otto anni fa. «Ci sono eventi che la maggior parte di noi sa non succederanno mai: i Sopranos non torneranno per una nuova stagione e non ci sarà un piano di pace con i palestinesi». Così: senza compromessi e per lui senza contraddizioni.
  Eppure qualcuna se la porta dietro:Naftali Bennett è stato il direttore del consiglio di Yesha, l’organo politico che rappresenta i coloni in Cisgiordania, ma vive a Raanana sobborgo a nord di Tel Aviv dove ritrova gli anglos come lui — con accenti americani, britannici, sudafricani — ed è abitato in maggioranza da programmatori, ingegneri, inventori di start-up. Quello che faceva e che lo ha reso multimilionario prima di questa corsa — ancora a ostacoli — fino alla poltrona di primo ministro. Porta sulla testa una piccola kippah all’uncinetto che simboleggia il sionismo religioso, ma non ampia come quella dei coloni più oltranzisti e razzisti: potrebbe essere il primo capo del governo a indossarne una nella Storia del Paese, di sicuro il primo rappresentante del movimento che vuole mettere insieme la fede e la fedeltà allo Stato. È osservante, la moglie no: quando sono andati a vivere per un periodo nell’Upper East Side di Manhattan — ha detto orgoglioso al settimanale New Yorker — Gilat ha lavorato come cuoca pasticcera e «ha fatto ricredere alcuni critici sulle virtù della crème brûlée». Resta un prodotto delle yeshiva che ha imparato le lezioni del rabbino Abraham Isaac Kook e potrebbe essere in grado — scrive il quotidiano Yedioth Ahronoth — di incoraggiare gli israeliani a ritrovare l’unità perduta: «Il sionismo religioso ha sempre aspirato a costruire ponti tra devoti e laici, umanesimo e fede, nazionalismo e universalismo». Certo non la versione razzista e xenofoba — continua il giornale più venduto nel Paese — di Bezalel Smotrich o Itamar Ben Gvir.
   Dei due anni in cui Bennet è stato capo dello staff per Benjamin Netanyahu, allora all’opposizione, preferisce non parlare. Una volta si sarebbe lasciato scappare che i dissapori sono sorti con Sarah e che aver lavorato con lei è «come essere sopravvissuto a un corso di terrorismo». Tra il 2006 e il 2008 la moglie del premier in carica ha reso la vita difficile anche ad Ayelet Shaked, che dopo ha fondato i nuovi partiti della destra assieme a Bennett e adesso potrebbe diventare ministra degli Interni, una delle otto donne a far parte del governo nascente, sarebbe un record. Netanyahu lo ha coltivato e allo stesso tempo temuto: quando è apparso sulla scena lo ha definito «un estremista pericoloso e messianico». Ha preferito tenerselo vicino per controllarlo e gli ha affidato vari ministeri fino alla seconda rottura: Bennett ha individuato il vuoto politico durante i primi mesi di lotta al Covid-19, è andato all’opposizione e si è trasformato in ministro ombra.
   Un attivismo sanitario che in una fase ha portato il suo piccolo partito a raggiungere oltre 20 deputati nei sondaggi, la realtà delle elezioni alla fine di marzo lo ha lasciato con 7. Deve tenerseli stretti: in due minacciano di votare no alla fiducia la settimana prossima, su di loro e sugli altri politici di destra nella coalizione si stanno abbattendo le manovre di Netanyahu: bolla Naftali come «un traditore» e il possibile governo «come pericoloso per il Paese», perché — ripetono i suoi megafoni sui social media — è formato da partiti della sinistra storica, fuoriusciti del Likud, il centro di Yair Lapid e una formazione araba islamista. Gli appelli ai picchetti davanti alle case di Bennett e Shaked hanno spinto i servizi segreti interni a mettere sotto protezione l’uomo che potrebbe prendere il posto di Netanyahu dopo 12 anni al potere senza interruzione.

(Corriere della Sera, 4 giugno 2021)


Netanyahu non molla la presa. A caccia di «disertori» in Parlamento

Corsa contro il tempo del premier uscente per trovare deputati che abbandonino il ticket Bennett-Lapid. «Governo pericoloso di sinistra». E sulle richieste degli arabi: «Svenduto il Negev». Forse già lunedì il voto in Aula.

di Fiammetta Martegani

TEL AVIV - Gli restano pochi giorni, pochissimi, per provare a disinnescare il "governo del cambiamento" che vorrebbe cambiare innanzitutto lui. Non è difficile immaginare il lavoro febbrile di Benjamin Netanyahu in queste ore che potrebbero mettere la parola fine ai suoi 12 anni di primo ministro. Non è difficile immaginare i contatti attivati, i messaggi mandati, i tentativi operati per sottrarre almeno un deputato a quella maggioranza che si sta consolidando e che lo vuole cacciare. Non è difficile immaginarlo perché Bibi è proprio questo: l'uomo delle mille resurrezioni, capace di combattere con ogni mezzo, e a qualunque costo, per difendere la sua poltrona. Lo sta facendo anche ora, in una lotta contro il tempo nello stretto spazio di azione che si ritrova.
  Mercoledì sera il leader centrista e premier incaricato Yair Lapid ha annunciato di aver raggiunto un accordo per il nuovo esecutivo di unità nazionale con il leader della destra Naftali Bennett. Dovrebbe essere Bennett a guidare, per i primi due anni, il nuovo governo a rotazione, per poi passare la staffetta a Lapid. Ma i giochi non sono ancora fatti. L'eterogenea coalizione, costituita da otto partiti - di sinistra, di destra, di centro, più gli arabi - potrebbe in effetti crollare sul nascere. Deve guadagnarsi la fiducia alla Knesset, e le cose non sono così semplici. Le manovre sono piuttosto chiare: il presidente dell'Aula, Yariv Levin, uno degli uomini del Likud più vicini a Netanyahu, sta cercando di posticipare il voto il più possibile per permettere al premier uscente di guadagnare tempo, e scovare defezioni tra i parlamentari dell'ala destra del nuovo blocco per far saltare la risicata maggioranza di 61 membri (su 120 del Parlamento) necessari per governare. Lapid e Bennett stanno invece cercando di accelerare, per chiudere il prima possibile.
  Bibi ieri è partito all'attacco. «Questa alleanza con la sinistra è pericolosa per la sicurezza di Israele», ha detto, rivolgendo direttamente un appello a tutti i deputati «eletti con i voti della destra» affinché abbandonino il progetto governativo. E poi non si è risparmiato su Mansour Abbas, il leader del partito arabo Raam che, con i suoi 4 seggi, è diventato determinante per la costituzione del governo (sarebbe la prima volta che una formazione araba siede al tavolo della maggioranza). «Avete venduto il Negev a Raam», ha tuonato Netanyahu, riferendosi al fatto che una delle prime richieste di Mansour è stata quella di risollevare economicamente la zona desertica nel Sud di Israele dove vivono numerose comunità di beduini, parte fondamentale del suo elettorato. Nel frattempo, la Lista congiunta, l'altro partito arabo all'opposizione, si è mobilitato per accelerare sul nuovo governo, firmando l'appello del "blocco del cambiamento" che chiede la sostituzione di Levin come speaker della Knesset con Meir Cohen, deputato di Yesh Atid, il partito di Lapid. Se il cambio andasse a buon fine, sarebbe un viatico per il nuovo esecutivo, che potrebbe vedere la luce già il prossimo lunedì. Ottenuta la fiducia, la vera sfida di questa compagine sarà restare unita e trovare una visione comune. Impresa titanica, viste le posizioni spesso antitetiche sui temi più importanti dell'agenda israeliana, a cominciare dalla questione palestinese e dalla gestione dei Territori e dei coloni israeliani che ci vivono (il cui referente è proprio Bennett).
  Annusata l'aria, Bennett ha convocato per oggi una riunione di emergenza anche con l'obiettivo di contrastare l'offensiva popolare del blocco pro-Bibi, che ha minacciato di organizzare proteste fuori dalle abitazioni dei deputati del partito nazionalista. Il tecno-colono ha già ricevuto protezione da parte dello Shin Bet, l'agenzia di intelligence.

(Avvenire, 4 giugno 2021)


Riprendere 4 deputati, la strategia di Netanyahu per far fallire il governo

Il premier uscente ha dieci giorni per evitare la nascita del nuovo esecutivo. E per boicottare l’accordo contro di lui conta sul presidente della Knesset

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — È un’immagine storica quella che ritrae Naftali Bennett, Yair Lapid e Mansour Abbas mentre firmano l’accordo di coalizione che potrebbe unire le diverse anime della società israeliana. Un nuovo "maapach" – il ribaltone – un termine che nella storia politica israeliana finora ha indicato solo la vittoria del Likud nel 1977 dopo trent’anni di governi laburisti. Ma la strada del "governo del cambiamento" che potrebbe portare alla fine dell’era Netanyahu, è ancora in salita. A poche ore dall’annuncio con cui Lapid informava il capo dello Stato di avere i numeri necessari, l’eterogenea compagine che si basa su una maggioranza stretta di 61 parlamentari, si è trovata ad affrontare la prima insidia: l’iniziativa con cui intendeva sostituire l’attuale presidente della Knesset – il fedelissimo di Netanyahu Yariv Levin – è stata affossata dalla mancata adesione di uno dei parlamentari di Yamina. È Nir Orbach, il deputato ballerino che sta facendo passare le pene dell’inferno al suo leader rischiando di fare saltare l’intera coalizione, non avendo ancora deciso se voterà la fiducia. Dopo una prima defezione che ha ridotto a sei i voti a disposizione di Bennett, ora è Orbach nel mirino, insieme ad altri tre potenziali disertori che il Likud sta cercando di "riportare a casa".
  Questa è solo una delle strategie messe in atto da Netanyahu per bloccare il governo Lapid-Bennett che ne minaccia la tenuta, dopo 12 anni ininterrotti da premier. Mantenere alla Knesset il suo uomo gli permette di controllare il calendario dei lavori e cercare di posticipare quanto più in là il voto di fiducia, che al momento potrebbe svolgersi il 14 giugno. Molti giorni per attivare tutte le pressioni possibili sugli obiettivi selezionati. Tra cui c’è anche lo stesso Mansour Abbas, il leader del partito islamico Ra’am: i due hanno parlato fino a un momento prima della firma dell’accordo con Lapid e Bennett. «Sono l’unico che può aprire una nuova pagina con gli arabi, solo con un governo forte di destra potrai ottenere i risultati che cerchi», gli avrebbe detto Netanyahu.
  E lì si cerca di mettere zizzania sollevando la contraddizione sull’impegno per i diritti Lgbt, cavallo di battaglia di Lapid e delle anime liberali dell’alleanza, respinto dagli ultraconservatori di Ra’am. Bibi poi chiede agli alleati rimasti di fare pressione sugli elementi religiosi di Yamina attraverso rabbini influenti. Tra le opzioni al vaglio, una grande manifestazione da organizzare al Muro del Pianto con la partecipazione dei leader spirituali del sionismo religioso. C’è anche il tentativo di rendere sempre meno digeribile la coalizione del cambiamento alle anime di destra che la compongono (oltre a Yamina anche Nuova Speranza dell’ex ministro del Likud Gideon Saar), spingendo Lapid a cercare il paracadute della Lista Araba Unita (Lau) come appoggio esterno nel caso di defezioni. La Lau, 6 seggi, è la lista da cui è fuoriuscito Abbas nei mesi scorsi. È considerata più radicale per l’identificazione con la causa palestinese – che invece Abbas ha accantonato con la sua strategia pragmatica - e una linea rossa per Bennett e Saar, già accusati di "tradimento" da buona parte dei propri elettori. Netanyahu si presenta poi come l’unico leader in grado di affrontare le sfide d’Israele: un altro banco di prova potrebbe presentarsi la settimana prossima, quando è previsto un nuovo capitolo della saga legale sulle evacuazioni da Sheikh Jarrah che potrebbe risvegliare le tensioni con Hamas.

(la Repubblica, 4 giugno 2021)


In Israele il governo è un pateracchio benedetto da Biden contro Netanyahu

La nuova coalizione è un'accozzaglia di partiti i cui leader hanno idee opposte. Però agli Usa fa comodo per il dialogo con l'Iran.

Il collante che tiene assieme otto sigle è l'avversione per la politica di Bibi Il nuovo orientamento di Washington vuole riaprire i canali con Teheran

di Stefano Graziosi

È quasi fatta per il nuovo governo israeliano. Mercoledì notte, il leader del partito di centrosinistra Yesh Atid, Yair Lapid, ha informato il presidente Reuven Rivlin di avere i numeri per formare un esecutivo di coalizione. L'accordo prevede in particolare una staffetta: il leader dello schieramento di destra Yamina, Naftali Bennett, sarà primo ministro fino al settembre del 2023. A quel punto, lo stesso Lapid gli subentrerà fino al novembre del 2025. Dirimente, secondo il Times of Israel, si sarebbe rivelato l'appoggio garantito dal partito arabo e di orientamento islamista Ra'am. Nel dettaglio, il nascituro esecutivo ha ottenuto il sostegno di 8 dei 13 schieramenti che sono riusciti a entrare nella Knesset alle elezioni di marzo, ma gode al momento di una maggioranza risicatissima: appena 61 seggi su 120. In tutto questo, Benjamin Netanyahu, è andato all'attacco, accusando Lapid e Bennett di eccessive concessioni a Ra'am. Non solo: il premier uscente - al potere da 12 anni - ha anche sostenuto che la nuova coalizione sia «di sinistra e pericolosa», esortando quindi i deputati eletti a destra a non appoggiarla.
  Le acque restano quindi agitate in attesa del voto di fiducia. Ed è proprio qui che si incontra il primo scoglio per il nascituro governo. Secondo il Times of Israel, la Knesset sarà in sessione non prima del 7 giugno: a quel punto, il suo presidente, Yariv Levin, potrà fissare la data del voto nell'arco di sette giorni. Ne consegue che Levin - esponente del Likud e quindi non ostile a Netanyahu - potrebbe scegliere il 14 giugno, per allungare i tempi e consentire al premier uscente la possibilità di tornare in sella. Ecco perché alcuni schieramenti della nascitura coalizione starebbero cercando di arrivare a una (difficile) sostituzione del presidente della Knesset.
  Del resto, le incognite all'orizzonte non sono poche. In primis, gli schieramenti che compongono questa nuova coalizione risultano profondamente eterogenei. Ricordiamo, per esempio, che Yamina si opponga alla creazione di uno Stato palestinese e che Reuters descriva Bennett come un «sostenitore dell'annessione della maggior parte della Cisgiordania occupata». Una differenza notevole rispetto a Yesh Atid e Baam, che difendono invece la soluzione a due Stati. Tutto questo lascia intendere come l'unico fattore coesivo di questa nuova coalizione sia la volontà di creare una conventio ad excludendum nei confronti di Netanyabu (una situazione che, volendo fare un parallelismo con la politica italiana, richiama alla memoria l'Unione di Romano Prodi). In secondo luogo, bisogna stare molto attenti all'avvicendamento della premiership, visto che Bennett ha già mostrato una discreta dose di spregiudicatezza: sempre rifacendoci alla politica italiana, è bene ricordare il sostanziale naufragio del « patto della staffetta» ai tempi del pentapartito.
  Un terzo fattore di incognita riguarda poi la partecipazione di Ra' am alla coalizione: alcuni sostengono che una tale circostanza sia positiva perché in grado di facilitare il dialogo tra arabi ed ebrei. Tuttavia il suo leader, Mansour Abbas, proviene dal Movimento islamico, una realtà fondata nel 1971 e presentante collegamenti con i Fratelli musulmani. È pur vero che il Movimento si sia poi spaccato in due ali, una più radicale e una più moderata, e che Abbas faccia parte di quest'ultima. Tuttavia la situazione resta poco chiara. Da una parte, costui ha dato prova di pragmatismo politico (ha dialogato in passato anche con Netanyahu e si è attirato le critiche degli attivisti di Ra'am).
  Dall'altra, risulta comunque un conservatore religioso. Sarà quindi interessante vedere come si svilupperanno i suoi rapporti con Yamina e quale influenza avrà sulla politica estera israeliana (ricordiamo che, l'anno scorso, si espresse contro gli accordi di Abramo).
  Al di là delle dinamiche interne, è plausibile ritenere che questo nuovo governo - posto che alla fine nasca - non dispiaccia affatto alla Casa Bianca. I rapporti tra Netanyahu e Joe Biden sono sempre stati piuttosto freddi, soprattutto a causa della volontà, espressa dal presidente americano, di rilanciare il controverso accordo sul nucleare con l'Iran. Ed è probabile che il rapporto tra i due leader sia addirittura peggiorato durante la crisi di Gaza del mese scorso. Proprio in quel periodo, del resto, Lapid - che aveva ricevuto l'incarico di formare un nuovo esecutivo il 5 maggio - ha mostrato un netto allineamento a Biden, esortando Netanyahu ad ascoltare la richiesta di un cessate il fuoco avanzata dalla Casa Bianca. «Israele non può ignorare questa richiesta», dichiarò. Era inoltre il maggio del 2018, quando Lapid criticò il ritiro degli Stati Uniti dall'intesa sul nucleare con l'Iran. Proprio ieri, infine, Benny Gantz - destinato a restare ministro della Difesa - è stato ricevuto a Washington dal segretario di Stato americano, Tony Blinken. Non è quindi escludibile che, da questo nuovo governo, Biden si aspetti una scarsa opposizione alla sua distensione con Teheran.

(La Verità, 4 giugno 2021)


Chi sono gli islamisti arabi che decidono il governo in Israele

Le radici in comune con Hamas, la scelta di fare politica, il successo senza violenza. E' la democrazia.

di Daniele Raineri

ROMA - Israele è una democrazia rappresentativa e questo vuol dire che il partito arabo e islamista Ra’am può andare al governo e può dare la spallata decisiva che fa cadere il primo ministro Benjamin Netanyahu, al potere senza interruzioni da dodici anni. Per tre notti consecutive dunque il capo del Ra’am, Mansour Abbas, ha negoziato in una sala dell’hotel Kfar Maccabiah vicino a Tel Aviv con i capi di altri partiti di Israele, incluso quel Naftali Bennett considerato più a destra di Netanyahu, per far passare le sue richieste, far nascere un governo e risparmiare al paese le quinte elezioni in due anni. E’ una coalizione di otto fazioni che lascia perplessi sulla possibilità di una lunga vita politica perché c’è dentro di tutto, dagli arabi ai centristi alla destra, e quindi i programmi sono diversi, ma c’è chi invece scommette che potrebbe essere longevo: i partiti dei duri hanno fatto un grosso compromesso per allearsi con Abbas e quindi non hanno fretta di ripresentarsi davanti al loro elettorato per un nuovo voto.
   E Abbas deve dimostrare di essere capace di raggiungere traguardi concreti e quindi neanche lui ha fretta di far fallire la coalizione.
   Ra’am è un partito religioso nato da un’antica scissione del Movimento islamico in Israele, che ha origini comuni con Hamas e che nel 1996 si divise in uno spezzone del sud e uno spezzone del nord. Lo spezzone del nord sosteneva che non è lecito presentarsi alle elezioni per entrare alla Knesset, il Parlamento di Israele. Alcuni suoi rappresentanti sono stati arrestati di recente perché coinvolti nelle violenze in strada fra torme di arabi e di israeliani durante l’ultima guerra a Gaza, finita due settimane fa. Lo spezzone del sud invece considerava possibile presentarsi alle elezioni e formò il partito religioso Ra’am. Un quinto dei nove milioni di cittadini di Israele è formato da arabi palestinesi che da anni premono per una rappresentanza in politica e ora hanno un riferimento. Se si ripercorre l’albero genealogico delle fazioni, si vede che a un certo punto molti anni fa le stesse persone si sono divise e hanno fatto scelte differenti. Oggi a un’estremità c’è Hamas e ha deciso che l’unica soluzione possibile è distruggere Israele con le armi e lancia aggressioni militari disastrose; all’altra estremità c’è Ra’am, che di fatto sta scalzando Netanyahu dal potere senza tirare nemmeno un mandarino.
   Abbas in cambio dell’accordo di governo – il primo nei 73 anni di storia di Israele – ha chiesto investimenti molto sostanziosi nelle aree a maggioranza araba per sviluppo e lotta alla criminalità, il riconoscimento dei villaggi beduini nel Negev, la presidenza della commissione Interni al Parlamento e il congelamento della legge Kaminitz del 2018, che punisce con durezza le costruzioni abusive – in maggioranza sono nelle zone arabe. E’ un passo che arriva otto mesi dopo gli accordi di Abramo, con i quali alcuni stati arabi hanno avviato un impensabile processo di normalizzazione con Israele. Questi fatti, per qualche ragione, non trovano spazio sui social, dove senza l’obbligo di aderire un minimo alla realtà durante l’ultima guerra di Gaza alcuni parlavano di “pulizia etnica” israeliana contro gli arabi.

Il Foglio, 4 giugno 2021)


L’antisemitismo degli intellettuali

di Valentino Baldacci

A chi è abituato a frequentare certi ambienti è capitato molto spesso di trovarsi, a proposito del giudizio su Israele – in minoranza, soverchiato, almeno numericamente, da chi abitualmente assume una posizione di ostilità nei confronti dello Stato ebraico. Finora ho attribuito questa diversità di giudizio alla diversa appartenenza politico-culturale: mentre la mia cultura fa riferimento alla democrazia laica che, sia detto tra parentesi, non ha più in Italia una adeguata rappresentanza politica, quella di molti miei interlocutori è ancora legata alle reminiscenze dell’egemonia del PCI sulla cultura italiana e da lì non riescono a muoversi. Semplici controversie politiche quindi, per giunta più legate al passato, anche se hanno conseguenze sul presente.
   Ma da un po’ di tempo ho cominciato a riflettere in termini diversi e in questo mi hanno aiutato proprio certi miei amici che hanno preso l’abitudine di definire Israele come uno Stato d’apartheid: Che cos’è l’antisemitismo se non la costruzione di stereotipi non verificati e non verificabili che, senza alcun riscontro nella realtà, vengono ossessivamente ripetuti fino ad assumere l’aspetto del senso comune? Questi stereotipi non sono invariabili nel tempo: in certe epoche storiche hanno assunto l’aspetto di tesi religiose oppure scientifiche, come nel caso del razzismo. Certo, oggi è piuttosto raro imbattersi in qualcuno che ripete l’accusa del sangue o che è convinto dell’inferiorità della “razza” ebraica. La scomparsa o comunque l’emarginazione di queste forme antiquate di antisemitismo fa sentire molte persone al sicuro da tale rischio che, anzi, reagiscono con sdegno se tale accusa viene formulata nei loro confronti. Ma queste persone non si rendono conto del meccanismo della creazione degli stereotipi antisemiti e diventano così non solo portatori ma anche diffusori di tali pregiudizi.
   L’esempio dell’accusa di apartheid rivolta ad Israele è a questo proposito illuminante. Si può essere d’accordo oppure dissentire anche radicalmente dalla politica dei vari governi israeliani; ma chi abbia una conoscenza anche superficiale della realtà israeliana sa che in Israele non esiste alcuna forma di apartheid. Apartheid è una parola pesante con un preciso significato che non può essere dilatato al di là del contesto per il quale è stata coniata e utilizzata se non nel caso in cui si verifichino situazioni analoghe. Il termine apartheid è stato usato per definire la realtà del Sudafrica prima del 1994 o. in passato, quella di alcuni Stati del Sud degli Stati Uniti: si tratta di una discriminazione legale sulla base della quale a una parte degli abitanti vengono negati i diritti che vengono riconosciuti agli altri cittadini e se ne teorizza un’esistenza “a parte”, separata dagli altri. Chi conosce, ripeto, anche superficialmente, Israele, sa che non esiste niente che possa essere definito apartheid. Che esista un conflitto non risolto con i palestinesi è sotto gli occhi di tutti ed è anche vero che questo conflitto si sia esteso negli ultimi tempi anche a una parte dei cittadini israeliani di etnia araba. Ma mai questo conflitto ha assunto le forme che siamo soliti definire con il termine apartheid. Se poi si vuol alludere alla diversità di condizione sociale, allora questa linea di frattura attraversa anche la popolazione ebraica e anche in questo caso non ha senso usare il termine apartheid.
   Si tratta quindi di uno stereotipo introdotto inizialmente per scopi di polemica politica, ma che poi ha camminato per forza propria, come accade, appunto, con gli stereotipi.
   D’altra parte gli intellettuali hanno poche armi per difendersi da tali rischi. Nel migliore dei casi, un atteggiamento diffuso è quello della falsa neutralità che abbiamo visto all’opera proprio nei giorni scorsi in occasione dell’ultimo conflitto con Gaza: un atteggiamento che ha portato un buon numero di intellettuali a pensare e scrivere che, se Hamas non era certo dalla parte della ragione, Israele era sicuramente da quella del torto con i suoi bombardamenti di reazione che hanno fatto vittime tra la popolazione civile. Questo atteggiamento – che in un altro contesto si potrebbe definire pilatesco se questo termine non ingenerasse più equivoci di quanti ne chiarisca – non è nuovo: per esempio ebbe una sua diffusione tra gli intellettuali al tempo del terrorismo degli anni ’70 e ‘80 del Novecento, dove ebbe una certa fortuna l’espressione “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. E’ un atteggiamento mentale che fa sentire gli intellettuali al di sopra delle parti, quindi in una posizione di equanimità, di serenità. In realtà è una forma di rinuncia al proprio compito, che è quello di cercare di avvicinarsi alla verità, la verità storica naturalmente, non altri tipi di verità. E’ un ennesimo caso di “trahison des clercs”. E’ questo diffuso atteggiamento che rende molti intellettuali privi di difese di fronte all‘emergere di nuovi stereotipi antisemiti.
   Se mi sono soffermato tanto sul problema della diffusione di forme inconsapevoli di antisemitismo tra gli intellettuali è perché è evidente che oggi l’antisemitismo non è più qualcosa di residuale ma è riemerso in forme nuove e particolarmente virulente. Bene ha fatto perciò il Presidente Biden a denunciare con forza il riemergere di questo fenomeno, che è particolarmente evidente negli Stati Uniti, non solo nelle frange più radicali del Partito Democratico, ma anche, appunto, in ambienti accademici e intellettuali, spesso attraverso il linguaggio insidioso del “politicamente corretto”.

(moked, 3 giugno 2021)


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Quasi sempre gli antisemiti non ammetterebbero mai di esserlo

Quasi sempre gli antisemiti non ammetterebbero mai di esserlo perché quel termine brucia e li fa vergognare. Dopo la Shoah, l'antisemitismo è stato confinato in una zona desertica. Abbandonato, almeno nominalmente, da tutti. Per poi trovare nuovi e più protetti canali dentro cui scorrere veloce. No, nulla contro gli ebrei ma semmai contro gli israeliani, quelli sì che sono infami. No, nulla contro gli ebrei, ma attenzione alla strapotenza ebraica che governa i processi storici della terra. No, nulla contro gli ebrei, ma come negare che siano avidi, che appartengano a «una razza» dura a morire? Come non riconoscere che formino una setta cosmopolita che non lascia entrare gli estranei, che si autoprotegge, pronta ad avere la meglio su chi non appartiene a quel gigantesco club privé?
   Sopravvive perfino un antisemitismo che si suole definire «innocente», risultato irriflessivo di narrazioni leggendarie lontane e magari assorbite per via indiretta. Un modo di ripetere senza capire, senza valutare il peso delle parole. Un'ovvietà, insomma, indiscussa e che non viene nemmeno percepita come maligna, pericolosa, infame. È un sentire vissuto come naturale, non dimostrabile, pieno nella sua semplice e indimostrata rotondità. Ma proprio tale presunta naturalità dovrebbe preoccuparci molto e farci capire che questa società e questa civiltà, e persino questa nostra vita, devono fare ancora i conti con un problema essenziale o irrisolto o non del tutto chiarito.

(Da "I soliti ebrei" di Daniele Scalise)


L’antisemitismo nella Germania e nell’Italia di oggi, un’analisi con i massimi rappresentanti

di Michael Soncin

“Nell’Italia e nella Germania negli anni 20 del 1900, l’antisemitismo ‘retorico’ si è poi trasformato nel tentativo concreto di cancellazione di un popolo, il popolo ebraico”. È quanto ha affermato Gadi Schoenheit, Assessore alla Cultura della Comunità Ebraica di Milano, durante l’evento dal titolo Un’analisi comparativa dell’antisemitismo nella Germania e nell’Italia di oggi, organizzato dalla CEM con l’UCEI ed il CDEC. Se ne è parlato con i massimi esponenti delle Comunità Ebraiche e con i massimi responsabili di antisemitismo dei rispettivi Governi. Un confronto dell’antisemitismo tra Italia e Germania – che per molti aspetti possiede numerosi punti di contatto – è necessario per circoscrivere al meglio, quello che sappiamo essere un fenomeno in continuo crescendo.
   Ma qual è oggi la situazione? “Sulla definizione di antisemitismo – dice Schoenheit – esiste ora una definizione ufficiale dell’IHRA – INTERNATIONAL HOLOCAUST REMEMBRANCE ALLIANCE, che è stata adottata anche dall’Italia nel gennaio del 2020”. Secondo l’IHRA “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”, si legge dal sito dell’Holocaust Remembrance.

 Felix Klein: “I gruppi di chi si oppone all’antisemitismo devono crescere”
   “Abbiamo capito che l’antisemitismo è un compito da affrontare di estrema importanza sia a livello nazionale sia internazionale. I recenti avvenimenti nel pubblico europeo dopo gli attacchi missilistici su Israele mi hanno purtroppo dato una nuova conferma”, ha dichiarato Claus Robert Krumrei, Console della Repubblica Federale Tedesca di Milano.
   Infatti, la Germania per contrastare il fenomeno ha nominato nel 2018 Felix Klein, Commissario speciale responsabile per la lotta all’antisemitismo e la vita ebraica della Germania. “L’antisemitismo – afferma Felix Klein – è presente in tutti i gruppi sociali è ciò rende più difficile combatterlo. Degli studi mostrano che tra il 15% e 20% della popolazione tedesca ha manifestato ripetutamente degli atteggiamenti antisemiti. Un fenomeno presente in tutte le dimensioni sociali, che non si limita a gruppi marginali, nell’estrema destra o che riguarda i mussulmani. L’attentato nella sinagoga Halle nel 2019 può essere un esempio tangibile”. E se lo Stato può fare molto in termini legislativi “il numero di coloro che si contrappongono all’antisemitismo deve crescere”.
   Klein ha inoltre menzionato il preoccupante fenomeno di antisemitismo legato allo Stato di Israele. Sappiamo che è legittimo criticare le politiche di Israele come quelle di qualsiasi altra nazione, ciò che non possiamo fare è negare il suo diritto ad esistere. “Perché Israele come nessun altro paese del mondo è così presente nei dibattici pubblici? In Germania e nel resto d’Europa una parte della popolazione segue in modo quasi ossessivo ciò che succede in Israele, definendolo spesso come fautore di una spaventosa ingiustizia verso i palestinesi al punto da fare sembrare tutti gli altri conflitti del mondo come secondari”.
   In Germania la vendita di cimeli inneggianti al fascismo e al nazismo è vietata. Klein ha sottolineato che tale legge dovrebbe essere applicata anche negli altri paesi dell’Europa, che per lui rappresenta anche una comunità di valori. “Considerando le sofferenze che la Germania ha causato tra il 1933 e il 1945 per me non c’è alcuna ragione di tutelare il commercio di queste merci”.
   Per avere un quadro più completo e specifico dell’antisemitismo, in Germania i crimini antisemiti sono registrati dai dipartimenti di polizia mentre gli atti che non costituiscono reato sono registrati da un’associazione sostenuta con fondi statali. “Un sistema che ci vorrebbe nell’intera Europa, poiché aiuterebbe ad intraprendere azioni più mirate”, conclude Klein.

 L’antisemitismo si sconfigge con l’empatia
   A prendere parte all’intervento è stata anche Karen Jungblut, Direttrice delle Iniziative Globali della USC Shoah Foundation. “Per noi è importante documentare e riportare quello che le persone perseguitate vivono e sperimentano anche oggi”, spiega Jungblut.
   Uno dei diversi compiti intrapresi dall’USC è di raccogliere e archiviare costantemente il più gran numero possibile di testimonianze con l’intento di “sollecitare empatia e condivisione”. Solo nel 2019 negli Stati Uniti e in Europa sono state raccolte più di 60.000 testimonianze.
   “Non vorrei crescere i miei figli dicendo: «State attenti, aprite gli occhi, ci sono persone che vi vogliono fare del male». È una cosa che non avrei mai immaginato di dire 20 anni fa”. Sono le parole di una delle tante testimonianze (clicca qui per vedere i filmati), che Karen Jungblut ha mostrato durante la conferenza.

 Adottare la definizione dell’IHRA con viva intelligenza
   La presidente dell’UCEI Noemi Di Segni lanciando un appello al mondo della politica, ha evidenziato quanto sia di fondamentale importanza che l’adozione della definizione dell’IHRA non sia recepita dai governi come un mero e sterile tecnicismo, “un copia e incolla”, ma un lavoro fatto rivedendo le singole parti del testo, capendo ad esempio “che cosa può diventare un tema di legislazione penale, come può essere la vendita di prodotti nazifascisti o il fenomeno del BDS (la campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, ndr).
   “Contrastare l’antisemitismo – afferma Di Segni – è un lavoro che nessuno può svolgere da solo, nemmeno gli ebrei, è un tema che riguarda tutti i gli individui e deve essere affrontato in maniera istituzionale e trasversale”.
   Anche in Italia come in Germania vi sono differenti tipi di antisemitismo. Tra questi, Noemi Di Segni, ha menzionato l’antisemitismo di radicalizzazione islamica, quello dei BDS, quello proveniente dall’estrema destra, i neofascismi ed anche l’odio antiebraico di matrice populista con annesso il richiamo ai classici pregiudizi contro l’ebreo che già tutti conosciamo.
   “Forse in Italia si aggiunge anche un antisemitismo che fa parte di un segmento di caratterizzazione religiosa, proveniente dal mondo della Chiesa. Dico ciò con molta attenzione e molto rispetto, però esiste. È stato fatto molto dai rappresentanti delle alte sfere del cattolicesimo, ma a livello di diocesi di periferia c’è ancora molto da fare”. Quest’ultimo descritto da Di Segni si può classificare, parafrasando Zygmunt Bauman, come un “antisemitismo liquido” e quindi non sempre circoscrivibile con facilità.
   Un conto è manifestare per i diritti ed i principi, un altro è quando il diritto viene strumentalizzato diventando un abuso. “Il diritto non può diventare abuso, non può essere un permesso per esplicitare l’odio, perché odiare non può essere sinonimo di libertà. Dove passa questo confine istituzionale? Serve anche qui coraggio da parte del legislatore e da chi coordina”, ribadisce la Presidente UCEI.
   Sappiamo tutti come l’Organizzazione delle Nazioni Unite – ONU si esprime in genere nei confronti di Israele, particolarmente dopo gli ultimi scontri avvenuti nelle ultime settimane. “C’è veramente da mettere un punto interrogativo sul ruolo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e sul modo di essere un organo che promuove la pace”, continua Di Segni. “È evidente – aggiunge Schoenheit – che l’atteggiamento dell’ONU e degli altri organi internazionali, in qualche modo incide e alimenta una parte crescente di antisemitismo nel nostro, come in altri paesi.

 Santerini: “La gente oggi non vuole ammettere (pur essendolo) di essere antisemita”
   “La gente oggi non vuole dire di essere antisemita, non si vanta, la ritiene un’offesa, il che non significa che per tanti aspetti e in altre forme non lo sia”, ha dichiarato Milena Santerini, coordinatrice nazionale per la lotta all’antisemitismo. “Io antisemita? Mai e poi mai!”. È quel genere di frase che sentiamo spesso dire. “Con l’eccezione di alcuni gruppi neofascisti, gli altri non vogliono definirsi antisemiti, sono riluttanti. Ma tutte le differenti forme che vediamo crescere col tempo possono andare incontro ad esiti molto gravi”.
   Vi è poi in Italia un antigiudaismo di matrice cristiana. “È un sentire comune presente in alcuni cattolici, quel tipo di antisemitismo sottile, che vediamo anche nei non credenti”. Facendo l’esempio dell’antigiudaismo di matrice religiosa che si unisce ad una tendenza di carattere cospiratorio, Milena Santerini ha citato l’esempio di un recentissimo quadro di un giovane pittore italiano che ha dipinto San Simonino da Trento, un bambino che fu ucciso nel quindicesimo secolo. “Si tratta di un episodio – racconta Santerini – dove venne falsamente accusata la comunità ebraica, conclusosi con l’uccisione dei loro membri, ritenuti i presunti colpevoli, mentre in verità erano del tutto innocenti. Ci fu poi un culto di San Simonino che la Chiesa nel 1965 abolì fermamente”. Una forma di espressione, quella del giovane artista, che “la conferenza episcopale che fortemente condannato”.
   La professoressa Santerini ha poi ribadito quanto sia di fondamentale importanza che gli oggetti che rimandano al fascismo – per esempio il calendario di Mussolini – siano proibiti come lo sono in Germania.
   Che dire poi della derisione della Shoah e degli ebrei? Lo abbiamo visto proprio in Italia da parte di un duo di comici contro il politicamente corretto. “Ma voi non avete senso dell’umorismo, non capite che stiamo scherzando?”. “Questa è la contro risposta. I limiti della satira sono molto chiari. Non è satira accettabile quando si colpiscono delle vittime. Contro i potenti è accettabile e la si può fare anche pesante. Questo come altre situazioni è un momento di dissociazione, di separazione, di una distanza emotiva dalle sofferenze delle altre persone. Non è altro che un’altra forma di antisemitismo sottile”, ha aggiunto Santerini.

 Gli ebrei non devono mai sottovalutare l’antisemitismo
   “L’antisemitismo è un linguaggio politico moderno, che si trasforma, e si appropria dei temi politici del momento per rinnovare i propri linguaggi. Questo ci mette nelle condizioni di allargare e mettere in atto una strategia globale di lotta all’antisemitismo fatta di un lavoro continuo”. È questa l’analisi tracciata sull’antisemitismo da Gadi Luzzatto Voghera, Direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea – CDEC.
   In seguito, Luzzatto Voghera ha affermato che gli atti di antisemitismo, di discriminazione, di violenza verbale, effettuati verso gli ebrei non sono da sottovalutare. “Gli stessi ebrei nella grande maggioranza non li considerano dei segnali di allarme, ma ragazzate, qualcosa che non vale la pena segnalare”.
   “Questo – continua – è culturalmente sbagliato. È il frutto di una mancanza anche all’interno delle comunità ebraiche di che cos’è l’antisemitismo e quanto pericoloso può essere. Non vorrei che ci trovassimo nel 1938 dove i nostri nonni non si resero conto della pericolosità della dinamica istituzionale che si era attivata con l’adozione della legislazione antiebraica sottostimandola”.

(Bet Magazine Mosaico, 3 giugno 2021)


Herzog presidente. E arriva il governo degli anti-Netanyahu

Figlio dell’élite politica del Paese, sarà l’undicesimo capo dello Stato Yair Lapid: "Ho i numeri". Ma tra dieci giorni c’è il cruciale voto di fiducia.

GERUSALEMME — Nell’ultimo giorno per la formazione del governo anti- Netanyahu, la Knesset ha espresso un raro momento di consenso: 87 parlamentari su 120 hanno scelto Isaac Herzog come undicesimo presidente dello Stato d’Israele, che subentrerà a Reuven Rivlin il 9 luglio. «Sarò il presidente di tutti»: curare le ferite, costruire ponti, unire gli estremi, sono alcune delle espressioni usate dal presidente in pectore in vista di un mandato difficile, in un Paese lacerato dagli scontri, non solo quelli violenti che hanno afflitto le città a popolazione mista, ma anche quelli tra le varie anime della politica mentre si configura il governo del "tutto tranne Bibi", quello che il premier uscente Benjamin Netanyahu chiama «la frode del secolo».
   Herzog è prevalso sull’altra candidata, Miriam Peretz, attivista civile di origini marocchine, espressione della periferia, due figli persi in guerra, favorita nei sondaggi popolari, ma estranea alle logiche della politica. Che invece Herzog conosce profondamente, come figlio dell’élite dei fondatori della patria: il padre è stato il sesto presidente d’Israele, il nonno fu il primo rabbino capo ashkenazita d’Israele. Più volte parlamentare e ministro per il partito laburista, che ha guidato tra il 2013 e il 2017, nel 2018 lascia la politica e diventa il presidente dell’Agenzia Ebraica, una delle istituzioni più rispettate dello Stato. Alcuni lamentano che la mancata elezione di Peretz sia indice del divario tra istituzioni e popolo. «A volte i parlamentari fanno ciò di cui il popolo ha bisogno, non quello che desidera», Yossi Verter di Haaretz cita Ben Gurion, che giustificava il meccanismo di elezione della prima carica dello Stato. Tradotto a oggi: Israele ha bisogno di una figura che possa comunicare con tutte le parti. "Bougie" — il soprannome con cui è noto — un politico del campo liberal eletto da una Knesset a maggioranza conservatrice, ha questi requisiti, oltre a una vasta rete di rapporti internazionali, anche nell’amministrazione Biden.
   Scelto il presidente, i capi di partito sono tornati a negoziare per mettere d’accordo le otto fazioni — dalla destra nazionalista alla sinistra progressista, passando per il partito islamico Ra’am — che dovrebbero convivere in una risicata maggioranza di 61 parlamentari. A guidare il governo per i primi due anni sarà Naftali Bennett, leader della destra di Yamina, con soli 6 seggi portati in dote e tante rivendicazioni. È una lotta contro il tempo complicata dalle richieste di Yamina e Ra’am che fanno valere la propria posizione di ago della bilancia, alzando la posta in gioco su incarichi e garanzie, rischiando di far saltare tutto.In zona Cesarini, il centrista Yair Lapid comunica al presidente «ho un governo», ma gli accordi di coalizione non sono ancora definiti in tutti i dettagli. L’uscita di scena di Netanyahu è dietro l’angolo, ma non è detta l’ultima parola: la palla ora passa alla Knesset per il voto di fiducia, previsto nei prossimi 10 giorni, critici perché il premier in carica fino all’ultimo cercherà di fare saltare l’accordo (gli basta una defezione).
   Molti ricordano in questi giorni il "Targil Masriah", "la porcheria", come descrisse Rabin il tentativo di Peres nel 1990 di chiudere un governo laburisti-haredim, dopo aver fatto cadere quello di unità nazionale. Peres comunicò al presidente Herzog (il padre di quello che sta per insediarsi) di avere un governo, ma l’operazione sfumò per due disertori all’ora X della fiducia. Le strade della politica israeliana possono essere infinite.

(la Repubblica, 3 giugno 2021)


Herzog, il presidente mediatore che avvicina Israele all'Europa

Sconfitta Miriam Peretz, che ambiva a diventare la prima donna leader

È essenziale curare le ferite sanguinose che si sono aperte nella nostra società negli ultimi tempi Dobbiamo difendere la posizione internazionale di Israele e il suo buon nome tra le nazioni

di Elena Loewenthal

L' ha spuntata di larga misura su colei che sarebbe potuta diventare la prima Presidente donna d'Israele, Miriam Peretz. C'era da aspettarselo, che un Paese in cui Golda Meir fece la storia in anni in cui nel resto del mondo civile l'immagine femminile era saldamente ancorata al modello moglie-madre-massaia non si sarebbe sentito in dovere di farne una questione di genere. Ma Miriam Peretz, docente, figura pubblica, madre orbata di due figli in guerra, nata in Marocco, ha perso la corsa alla "Beit ha-Nasi" - la casa del Presidente- per tante altre ragioni, molte delle quali stanno racchiuse nel profilo di lsaac Buji Herzog, classe 1960, nuovo Presidente dello stato ebraico.
  Nella sua elezione ha, e giustamente, pesato il fatto di essere figlio di. Che non significa affatto, almeno in questo caso, vantare immeritati titoli per pura discendenza. Herzog è figlio di Chaiim Herzog, Presidente d'Israele per ben dieci anni fra il 1983 e il 1993, a sua volta figlio del grande rabbino Yitzhaq Herzog, nato in Polonia e salito in terra d'Israele nel 1937, dove divenne rabbino capo della comunità ashkenazita. Era un maestro illuminato, così come illuminata fu la presidenza di suo figlio. Questo è il retaggio politico e morale che Buji Herzog porta con sé, che sta non tanto nel fatto di essere il contrario del nuovo arrivato quanto nel riportare alla guida del Paese un esponente dell'establishment tradizionale, figlio diretto dei padri fondatori dello stato, progressista, con un piede in Medio Oriente e uno in Europa. Certo, il nuovo Presidente è un sabra, è nato a Tel Aviv, ma è quell'Israele costruito su solide radici laburiste di origine mitteleuropea che rappresenta, tanto con la sua storia familiare quanto con la sua attività politica.
  Il nuovo Presidente entrerà in carica fra un mese, mandando in congedo il suo predecessore, della cui profonda, spontanea empatia unita a un'intelligenza politica si sentirà certamente la mancanza. Rivlin è stato un grande nasì, sempre impeccabilmente equilibrato e vicino alla gente: ha saputo soprattutto accantonare sempre la propria militanza di partito, il Likud, ed essere davvero il "presidente di tutti" - per usare la formula espressa dal neoeletto ieri, appena terminata la votazione alla Knesset.
  Herzog è stato ministro laburista in vari dicasteri, capo dell'opposizione per cinque anni, fino al luglio del 2018, quando è diventato Presidente dell'Agenzia Ebraica, cioè l'anello di congiunzione fra lo stato d'Israele e le comunità della Diaspora. È avvocato, ha studiato in Israele e negli Stati Uniti. In parole povere, è un uomo e sarà certamente un Presidente di mondo.
  Oltre a queste doti di esperienza politica e di retaggio familiare, Herzog ha dalla sua un'indole schiettamente moderata - che non di rado gli è costata cara, in un panorama politico "caldo" come quello israeliano su tutti i fronti, in ogni ambito. Può persino sembrare timido, debolezza quasi inammissibile da quelle parti, tanto quando si ha da contrattare al mercato quanto in contesti ben più rilevanti - Israele è Medio Oriente profondo.
  Ma questa sua pacatezza è stata probabilmente la sua carta vincente, Miriam Peretz è una donna eccezionale, piena di virtù e di esperienze, ma la sua cifra è la militanza. Mentre c'è da scommettere che la cifra della presidenza Herzog sarà quella dell'equilibrio, della mediazione, di quel compromesso che per il grande Amos Oz è sinonimo non di debolezza bensì di vita, di capacità di immedesimazione nell'altro da sé, pazienza, comprensione, rispetto.

(La Stampa, 3 giugno 2021)


Yair e Naftali, la «strana coppia» nata per litigare

Il primo, laico, è pronto a separare i Territori da Israele. Il secondo, religioso, vuole annettere parti della Cisgiordania. Li ha uniti la volontà di cacciare Netanyahu Ma poi?

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Non vivono molto lontano. Anche se uno dei due può dichiarare di essere ancora parte di Tel Aviv, verso il nord dove la città ribelle diventa elegante, ripulita e noiosa. L'altro abita più su lungo la costa e nella graduatoria dei sobborghi sonnacchiosi. Se fosse un film hollywoodiano, avrebbe tutti gli elementi degli intrighi e della tensione politici, costruito attorno a quello che gli sceneggiatori chiamano un bromance tra i protagonisti. Hanno ideologie diverse ma mentalità simili. Naftali Bennett, vive a Raanana, porta la k.ippah all'uncinetto sulla testa pelata, tenuta da un adesivo speciale creato per lui; Yair Lapid il ciuffo argento impomatato dal gel. Tutti e due hanno avuto successo prima di entrare politica: Bennett, 49 anni, è diventato multimilionario dopo la vendita della sua società per la cybersicurezza; Lapid è stato attore, giornalista tv, cantante ed è considerato uno degli uomini più! sexy di Tel Aviv.
  E’ nel rapporto con Benjamin Netanyahu che i profili non proseguono in parallelo. Lapid, 57 anni, è stato suo ministro delle Finanze, il patto è durato un paio di anni, si sono lasciati male e da allora (2015) il leader di «C'è un futuro» ha lavorato perché in quel futuro non ci fosse più Bibi, com'è soprannominato. Fino alla mezzanotte di ieri e all'atto finale sembrava che Bennett non riuscisse a tagliare il legame con il leader della destra che ha ammirato per una ventina d'anni: è stato suo assistente quando Netanyahu era all'opposizione e della rottura non vogliono parlare, come lui ha prestato il servizio militare nelle forze speciali, ha chiamato il figlio Yoni in memoria del fratello maggiore di Netanyahu ucciso nel raid a Entebbe in Uganda per liberare un gruppo di ostaggi.
  Nato ad Haifa da immigrati americani, diventa primo ministro (a turno) dopo non aver superato la soglia per entrare in parlamento alle elezioni dell'aprile 2019, le prime di quattro nella sequenza caotica di questi due anni. Il suo Yamina (Verso destra) rappresenta i coloni, anche se lui resta a Raanana, e allo stesso tempo cerca di intercettare i libertari (almeno in economia) più qualche deluso dal centro. Come il padre Tommy - sopravvissuto all'Olocausto, è stato ministro della Giustizia - Lapid ha fondato un partito laico per combattere quelle che entrambi hanno sempre giudicato «coercizioni religiose» imposte ai laici dal non dover urtare la sensibilità degli ultraortodossi.
  Bennett vuole che Israele annetta gran parte della Cisgiordania, Lapid è favorevole (con cautela) alle trattative con i palestinesi che portino alla separazione -e alla nascita di uno Stato nelle terre catturate agli arabi durante la guerra del 1967. «Mio padre Tommy non è arrivato dal ghetto su una nave per vivere in una nazione con due popoli». Lapid dovrà anche arginare le spinte più oltranziste tra i sionisti religiosi per evitare arretramenti in questioni come quella dei diritti Lgbtq+. Sono punti di disaccordo che si promettono di non lasciar emergere per evitare rotture nella coalizione. Adesso ci credono, è l'inizio del bromance.

(Corriere della Sera, 3 giugno 2021)


Lapid, Bennett e Abbas: nuovo governo d'Israele Senza Bibi, con gli arabi

Netanyahu escluso dal potere dopo 12 anni. Intesa di 8 partiti, rotazione delle poltrone

di Fiamma Nirenstein

Gerusalemme - Ce l'ha fatta in zona Cesarini: Yair Lapid, «C'è un futuro», 13 seggi, dopo frenetiche trattative e mille giravolte ha potuto dichiarare che la possibilità di formare un governo è nelle sue mani. Alla fine la formula «chiunque fuorché Netanyahu» ha partorito il governo più composito, otto partiti che hanno combattuto fino all'ultimo sgabello; partiti tutti caratterizzati da piccole dimensioni e distanze politiche lunari. La sudata per arrivare a un accordo è stata ammirevole, l'angoscia palpabile, il nuovo primo ministro Bennett è un bravo soldato della Sayeret Matkal, l'unità di élite, religioso, capo del partito chiamato la Destra. Capeggia un governo in cui più della metà dei partiti sono molto lontani dalle sue idee, anche gli arabi che durante l'ultima guerra si sono sbilanciati verso Hamas.
  La febbre altissima si è un po' placata con l'aspirina dell' elezione nel pomeriggio alla Knesset del nuovo presidente della Repubblica. È Isaac Herzog, 61 anni, detto Boogy, capo dell'Agenzia Ebraica, colto, di aspetto mite ma dai pensieri netti, socialista in origine ma certo oggi molto meno propenso alle ideologie. Ha preso 87 voti contro i 26 che la Knesset ha dato come un mazzo di fiori alla candidata donna, Miriam Peretz, una straordinaria eroina d'Israele immigrata dal Marocco, simbolo della storia che nasce nelle maabarot, le misere capanne in cui i pionieri sionisti si ammassavano nel deserto per lavorare la terra o imbracciare i fucili contro gli assalti arabi, Madre Coraggio di due figli uccisi in guerra. Un personaggio del cui sorriso e della cui forza Israele è sempre andata orgogliosa: ma non è bastato di fronte all'esperienza, al savoir faire politico, alla dinastia di Herzog, figlio di Chaim sesto presidente di Israele. È stato tre volte ministro, a volte amico a volte meno anche di Netanyahu. Ieri mentre posavano per la foto tradizionale ha detto «Sarò presidente con qualsiasi primo ministro», e Bibi ridendo: «Magari rimandiamo questo argomento a un'altra volta».
  È complicato il patto di Lapid con altri 7 partiti dalla sinistra estrema (Meretz) a Naftali Bennett, capo della Destra dura. Bennett poiché si gioca il tutto per tutto e il suo pubblico per il 61 % lo biasima, ha ottenuto il primo turno di due anni da primo ministro, seguito da Lapid. I piccoli partiti hanno avuto un ministero a membro del parlamento. Le ultime questioni hanno riguardato la richiesta di Mansour Abbas col suo partito arabo Raam di soddisfare i suoi elettori residenti soprattutto nel Negev di cancellare la legge Kaminitz che prevede che le costruzioni illegali vengano rimosse. È una richiesta quasi impossibile, ma Abbas gioca per sé e l'ha promesso ai suoi: non si sa se l'abbia ottenuto, ma certo ha sfondato molte barriere se ha firmato. La seconda questione riguarda due prime donne: la bellissima giurista della Destra Ayelet Shaked, silenziosa sulla scelta del suo partner politico Bennett, ma decisa a ottenere, oltre a un ministero, anche la presidenza della commissione per l'elezione dei giudici costituzionali; e la segretaria laburista Meerav Michaeli, che lo vuole per sé. Le due si sono messe d'accordo per una rotazione, prima la Shaked ma un ministero in più alla Michaeli.
  Molti ministri anche a Gideon Saar, anche lui destra che abbandona la nave. Fortissimo pure Avigdor Lieberman, Israele Casa nostra, che oltre che per Netanyahu nutre una particolare avversione per il mondo religioso. Intanto un altro membro di Yemina, Nir Orbach, minaccia la defezione. Si apre una terribile settimana di procedure in cui ancora sono possibili capriole e ripensamenti. Per ora, è assente la politica, il futuro di Israele, l'Iran, l'economia... Si sa solo che tutto è diverso nella mente di ciascuna componente. Israele sa benissimo invece che alla fine per vivere deve restare unito.

(il Giornale, 3 giugno 2021)


Il nuovo governo in Israele non promette nulla di buono

di Franco Londei

Ho sempre detto che avrei sostenuto qualsiasi governo israeliano, a prescindere dal colore politico. Ma faccio veramente fatica a sostenere un governo ostaggio di un partito islamico
«Per decenni, gli arabi israeliani sono rimasti senza alcuna influenza. Ora, tutti sanno che siamo i voti decisivi per quanto riguarda la politica israeliana».
Con queste parole dette da Mansour Abbas, capo del partito arabo Ra’am, ad un giornalista del canale in lingua araba Hala TV, ha reso benissimo l’idea di cosa aspetta da ora in poi a Israele.
Ho l’impressione che le rivolte degli arabo-israeliani delle scorse settimane, quando Israele rispondeva agli attacchi di Hamas, abbiano impaurito più di quanto si credeva gli israeliani.
La coalizione di Governo che si è appena formata in Israele non ha nulla che faccia pensare ad un Governo che possa affrontare le durissime sfide interne ed internazionali che lo aspettano.
Dentro c’è tutto e il contrario di tutto. L’unico collante sembra essere l’odio per Benjamin Netanyahu.
Voglio vedere cosa succederà al prossimo attacco di Hamas contro il sud di Israele, o cosa succederà quando una famiglia araba che ha costruito illegalmente dovrà lasciare la propria abitazione.
E cosa farà il primo Governo arabo-israeliano della storia di Israele quando immancabilmente il cinico Abu Mazen lo metterà alla prova alzando il prezzo su qualsiasi cosa e su qualsiasi argomento?
Che poi Mansour Abbas ed il suo partito vengono definiti “islamisti conservatori”. Cosa diavolo vuol dire? E, soprattutto, può essere un partito arabo conservatore affine all’altrettanto conservatore partito di Naftali Bennett?
Mansour Abbas, capo del partito Ra’am, arriva ai colloqui per la formazione del nuovo governo israeliano.
A occhio è una definizione tipo quella con cui si potrebbe definire una destra islamica tipo Hamas. Non proprio il massimo direi.
Sinceramente ho sempre pensato che prima o poi sarebbe arrivato il momento in cui in Israele gli arabi sarebbero saliti al potere. Ma ho sempre sperato che in qualche modo gli israeliani sarebbero riusciti ad evitarlo.
Evidentemente sbagliavo. Ripeto, penso che la guerra civile sfiorata nei giorni dell’aggressione di Hamas a Israele abbia inciso non poco in questa decisione.
Ma se vogliamo guardare il lato positivo della faccenda, ora finalmente vedremo cosa fa un partito islamico conservatore quando governa un Paese, se cioè pensa prima a Maometto o al bene della patria.

(Rights Reporter, 3 giugno 2021)


Il governo di cambiamento è pronto. Ma la crisi della politica israeliana non finisce

di Ugo Volli

La crisi post-elettorale di governo in Israele, che in realtà dura da due anni e mezzo e da quattro consultazioni elettorali, tutte risultate inutili per la formazione di un governo stabile, è arrivata a un passaggio importante. Usando per semplicità la terminologia politica italiana: eri sera, pochi minuti prima della scadenza del suo mandato, il presidente incaricato Lapid è andato dal Presidente della Repubblica e ha sciolto la riserva, annunciandogli di essere in grado di formare un governo di coalizione. Ora c’è una settimana di tempo perché il nuovo governo ottenga la fiducia parlamentare. Solo dopo questo passaggio sarà legalmente costituito.
   Sarà un governo stabile che supererà la grave crisi politica di questi ultimi anni? E’ lecito dubitarne. Ci sono tante anomalie in questo nuovo ministero che mostrano come le tensioni che non hanno permesso ai partiti di mettersi d’accordo negli scorsi anni sono ancora lì, incarnate nella struttura stessa del governo: il dubbio è se il lavoro comune della maggioranza riuscirà progressivamente a scioglierle o se, come è accaduto nel governo Netanyahu-Ganz uscito un anno fa a sorpresa dalle terze elezioni a fila e sciolto dopo pochi mesi, le tensioni paralizzeranno il lavoro comune e porteranno prima o poi allo scioglimento del governo e ancora a nuove elezioni.
   La prima anomalia, cui gli israeliani si sono abituati, ma che per un europeo continua a sembrare assai strana, è che questo è un governo a rotazione. Nei patti, scritti da legali e regolarmente firmati come il rogito di una vendita immobiliare, c’è scritto che fino a settembre 2023 il primo ministro, il ministro della giustizia, degli esteri, degli interni sono certe persone e dopo quella data saranno altre, scambiandosi i ruoli come nelle vecchie feste da ballo cambiavano le coppie. E’ chiaro che con i ministri cambieranno le politiche, anche perché il contratto di governo riguarda molto più la distribuzione dei posti che il programma. E’ come se non si fosse stabilito un governo ma due, uno dopo l’altro. Questo è già un fattore di tensione, perché chi comanda ora - poniamo - sulla giustizia o sugli esteri ha certe idee che cerca di imporre e chi verrà dopo ne ha altre e cercherà dunque di frenare i primi per poi far prevalere la sua impostazione. Con il rischio poi che il primo governo cerchi di impedire la formazione del secondo provocando nuove elezioni.
   La seconda anomalia è che questa distribuzione premia al primo turno molto più un piccolo partito necessario alla formazione del governo (Yamina, cioè la destra) e molto meno i suoi alleati più grandi. In particolare il primo ministro non è Yair Lapid, che aveva ricevuto l’incarico come leader del partito di gran lunga maggiore di questa maggioranza, Yesh Atid, ma Bennett, leader di Yamina che ha circa un terzo dei seggi rispetto al primo. Il governo avrà al suo interno una maggioranza di sinistra, ma i posti più importanti all’inizio andranno alla destra. Ciò provocherà certamente dei conflitti. Bisogna anche tener conto che, a parte la difesa a Gantz e la giustizia a Shaked, i posti chiave andranno a politici nuovi e probabilmente in dissenso fra loro: chi gestirà il delicatissimo rapporto con gli Stati Uniti, il Primo ministro Bennett o il Ministro degli esteri Lapid, entrambi per la prima volta a quel posto? Chi gestirà i rapporti col terrorismo e l’Iran, il muscolare Bennett o il riflessivo Gantz? Non è chiaro.
   In generale, la composizione del governo e estremamente differenziata, e questa è la terza anomalia: dovranno convivere forze basate sull’ideologia della destra (Bennett e Saar) con forze di estrema sinistra (Meretz e i laboristi), con altre forze di centrosinistra (Lapid e Gantz); nella maggioranza ci saranno nazionalisti ebrei (la destra e anche Lieberman) e per la prima volta da decenni anche nazionalisti arabi legati alla Fratellanza Musulmana; forze legate all’impostazione religiosa (gli arabi e in parte Bennett) e altre decisamente antireligiose (Meretz, Lapid, Lieberman), forze che difendono l’attivismo giudiziario della Corte Suprema e forze che lo avversano con energia, amici degli insediamenti oltre la linea verde e nemici giurati, fautori della legge e dell’ordine e sostenitori della tolleranza per l’illegalismo sistematico dei beduini. Difficile che un’alleanza del genere sia in grado di decidere qualcosa di significativo senza dividersi.
   Vi è un altro aspetto che rende dubbia la sopravvivenza del nuovo governo. Sommando gli eletti dei partiti che hanno deciso di sostenerlo, si arriva esattamente alla maggioranza richiesta, 61 voti su 120 deputati. Ma già uno e forse due dei rappresentanti di Yamina hanno segnalato la loro indisponibilità. Dunque il rischio di perdere qualunque votazione o di veder prevalere maggioranze diverse da quella di governo: per esempio su temi militari, di sicurezza e degli insediamenti vi è una maggioranza di destra che include alcune forze di governo e l’opposizione del Likud e dei sionisti religiosi, ma esclude arabi e sinistra che sta al governo. Il risultato sarebbe una crisi politica grave.
   Infine bisogna tener conto che settori politici e culturali importanti della società israeliana sono non solo esclusi, ma sostanzialmente ostracizzati dalla maggioranza entrante: innanzitutto i charedim, che sono il 15 per cento degli elettori; poi il Likud, che ne rappresenta il 25 per cento. Entrambi parlano di tradimento di Bennett e Saar e meditano la rivincita: faranno un’opposizione dura alla Knesset e nel paese. Insomma il governo è cambiato, ma la crisi del sistema politico israeliano purtroppo probabilmente no.

(Shalom, 3 giugno 2021)


Germania - Consiglio centrale degli ebrei: il successo di AfD in Sassonia-Anhalt sarebbe fatale

BERLINO - Un successo di Alternativa per la Germania (AfD) alle elezioni statali in Sassonia-Anhalt, che si terranno il 6 giugno prossimo, sarebbe “veramente fatale”. È quanto affermato dal presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania (Zdj), Josef Schuster, come riferisce il quotidiano “Die Welt”. Inoltre, Schuster ha espresso il timore che “molti cittadini siano apparentemente così insoddisfatti da lasciarsi catturare da AfD”, partito nazionalconservatore che raccoglie consensi anche nell'estrema destra. Per il presidente dello Zdj, un possibile problema di estremismo di destra radicato nei Laender orientali “dovrebbe essere preso molto sul serio”. Al riguardo, Schuster ha avvertito: “Questo sviluppo potrebbe sicuramente minacciare la nostra democrazia”. Durante la pandemia di Covid-19, si sarebbero infatti formate nuove reti della destra radicale, con cui gli estremisti possono “influire sul centro della società”. Tali contatti si sarebbero sviluppati all'interno di Pensiero laterale (Querdenken), movimento in cui militano negazionisti del coronavirus e oppositori delle restrizioni anticontagio.

(Agenzia Nova, 3 giugno 2021)


Israele - Intesa vicinissima, sì degli arabi al governo anti-Bibi

Questione di ore. Il leader del partito di opposizione Yesh Atid, Yair Lapid, in giornata dovrebbe sciogliere ufficialmente la riserva e annunciare al presidente Reuven Rivlin di essere riuscito a mettere insieme una coalizione di governo grazie ai progressi tra Yesh Atid, il partito di estrema destra Yamina, guidato da Naftali Bennett, e Nuova Speranza di Gideon Sá ar. Lapid potrebbe presentarsi alla Knesset per la fiducia il 9 giugno. Nella coalizione del governo del «cambiamento» anti-Netanyahu che Lapid punta a mettere insieme, entro oggi, ci sono i conservatori islamisti di Ràam. Lo ha riferito il leader del partito arabo, Mansour Abbas, precisando che l'accordo ancora non c'è. «Non si può dire che sia finita finché non è finita», ha affermato, entrando nell'hotel Kfar Maccabiah a Ramat Gan, dove i leader della potenziale coalizione sono riuniti per cercare di trovare l'intesa.

(il Giornale, 2 giugno 2021)


Progressi nel dialogo per una tregua stabile tra Israele e Gaza

Hamas si dice disponibile a un negoziato per lo scambio di prigionieri

TEL AVIV - Passi in avanti nel negoziato per raggiungere una tregua stabile tra Israele e Gaza. Hamas, il gruppo palestinese che controlla la Striscia da molti Paesi considerata un'organizzazione terroristica, ha dichiarato ieri di essere disposto a «entrare immediatamente in negoziati con Israele per lo scambio di prigionieri». Ad annunciare la svolta è stato il leader di Hamas a Gaza, Yihia Sinwar, durante la visita nella Striscia del capo dell'intelligence egiziana Abbas Kamel. Il Cairo sta infatti svolgendo un'importante mediazione tra le due parti.
    Sinwar ha detto alla stampa locale che l'Egitto ha proposto di ospitare prossimamente al Cairo colloqui fra le varie forze politiche palestinesi, «per riorganizzare la casa palestinese». «Ci apprestiamo ad affrontare conversazioni serie ed approfondite» ha assicurato Sinwar.
    Tuttavia Halil al-Haya, un altro dirigente del gruppo, ha fatto presente che sarebbe sbagliato collegare la questione dello scambio dei prigionieri alla ricostruzione della Striscia, distrutta dopo undici giorni di pesanti bombardamenti. «Si tratta di argomenti che vanno tenuti separati» ha insistito al-Haya, respingendo così una delle richieste avanzate ieri dai dirigenti israeliani nei colloqui con Abbas Kamel. Israele intende recuperare i corpi di due militari morti in combattimento a Gaza nel 2014 e ottenere la liberazione di due civili entrati anni fa nella Striscia di propria iniziativa. Come accennato, Kamel Abbas è impegnato nel rafforzamento del cessate il fuoco fra Israele e Hamas. Due giorni fa, a Gerusalemme il capo dell'intelligence egiziana aveva incontrato il premier Benyamin Netanyahu e a Ramallah il presidente palestinese Mahmoud Abbas. Ieri, oltre ad Hamas, Kamel ha incontrato anche i dirigenti degli altri gruppi palestinesi che controllano la Striscia, tra i quali la Jihad islamica. Al centro dei colloqui con Sinwar e gli altri c'è stata anche la questione della ricostruzione, che secondo Il Cairo deve essere coordinata dall'Autorità palestinese. A questa scelta Hamas e altri gruppi si oppongono.
    Intanto, sembra sbloccarsi la crisi politica israeliana. Yair Lapid, il leader centrista capo del partito Yesh Atid, ha detto ieri sera che «il nuovo governo sorgerà nel giro di una settimana». È questo il risultato degli intensi negoziati con il leader di Yamina, Naftali Bennett, che due giorni fa aveva annunciato la propria disponibilità a entrare in un governo di unità nazionale nel quale non rientrerà il Likud dell'attuale premier Benjamin Netanyahu.

(L'Osservatore Romano, 2 giugno 2021)


Mossad e Iran

Un rapporto Aiea rivela bugie e numeri del programma atomico di Teheran. Israele minaccia

di Daniele Raineri

ROMA - Lunedì l’Aiea, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dell’energia atomica e delle ispezioni sul campo, ha firmato il rapporto trimestrale sul nucleare in Iran. E’ confidenziale ma alcuni media, come l’agenzia Afp e il Wall Street Journal, lo hanno potuto vedere. Il rapporto rivela molte cose a proposito dell’arricchimento dell’uranio, che è la procedura tecnica che porta l’Iran sempre più vicino ad avere la bomba atomica e quindi funziona come un conto alla rovescia.
   Il sabotaggio di domenica 13 aprile, quando un’esplosione sotterranea attribuita a Israele (che non conferma) distrusse una parte del sito iraniano di Natanz, ha avuto un impatto molto pesante sulla velocità dell’arricchimento. In tre mesi l’Iran ha arricchito 273 chilogrammi di uranio, che sono meno della metà dei 525 arricchiti nei tre mesi precedenti. Questo vuol dire che le fonti di intelligence che ad aprile dicevano al New York Times che l’esplosione aveva devastato l’impianto iraniano avevano ragione. Il governo di Teheran in quei giorni aveva minimizzato l’accaduto perché non voleva ammettere l’incredibile violazione di un sito protetto per la seconda volta in otto mesi ma a questo punto è chiaro che la sua era una versione di comodo.
   Il rapporto dell’Aiea chiarisce che la progressione dell’Iran verso le armi atomiche è soltanto un po’ più lenta e ha perso qualche mese, ma non si è fermata.
  Stima che adesso la scorta totale di uranio arricchito sia arrivata a 3.241 chilogrammi, equivalente a sedici volte la quantità massima permessa dall’accordo firmato nel 2015 – che Teheran non considera più valido perché l’Amministrazione Trump si è ritirata.
  Dopo il sabotaggio, l’Iran ha deciso di cominciare ad arricchire una parte dell’uranio al sessanta per cento. Una settimana fa il direttore dell’Aiea, l’argentino Rafael Grossi, ha detto al Financial Times che è un punto di non ritorno perché “soltanto i paesi che producono armi atomiche arricchiscono a quel livello l’uranio, quello che si usa per scopi commerciali è arricchito al due, tre per cento”. Il rapporto Aiea dice che per ora la quantità di uranio arricchito al sessanta per cento è 2,4 chilogrammi. Secondo gli esperti, se fosse ancora purificato basterebbe per almeno tre bombe. Per fare un’arma atomica ci vuole uranio arricchito al novanta per cento.
  L’Aiea scrive anche di avere trovato tracce di uranio in siti dove non ci dovrebbe essere nulla e questo fa sospettare che il governo iraniano nasconda qualcosa. L’ipotesi più probabile è che l’Iran non abbia dismesso del tutto le strutture del programma militare, come garantisce di avere fatto.
  Ieri il nuovo capo del Mossad israeliano, David Barnea, ha parlato per la prima volta: “Dobbiamo dirlo forte e chiaro. Mentre parliamo, l’Iran lavora al suo progetto nucleare protetto da uno scudo internazionale. Dentro a un accordo o fuori dall’accordo, con inganni e bugie, l’Iran procede verso la bomba atomica”. Poi ha fatto una minaccia esplicita, secondo il testo raccolto dal giornale Yedioth Ahronoth: “Il braccio lungo del Mossad continuerà a rispondere al programma iraniano. Conosciamo bene i diversi settori del programma nucleare e molto bene le persone che ci lavorano e che lo dirigono”. E infine ha citato l’indifferenza della comunità internazionale per dire che Israele deciderà cosa fare in autonomia: “Non ci regoleremo secondo l’idea che la maggioranza decide, perché quella maggioranza non pagherà le conseguenze degli errori di valutazione”.

Il Foglio, 2 giugno 2021)


Israele, lite per il governo senza Bibi. Il centrista Lapid: Netanyahu pericoloso

Braccio di ferro per le poltrone tra Lieberman e Gantz. Ma il capo moderato di Yesh Atid: "Al Paese serve nuova leadership"

di Chiara Clausi

È più difficile del previsto trovare la quadratura per far nascere il governo «di unità nazionale» destinato a scalzare dal potere Benjamin Netanyahu dopo dodici anni. L'operazione guidata dal centrista Yair Lapid ha subito ieri una battuta d'arresto quando due degli otto partiti che dovrebbero riunire la coalizione, Yisrael Beytenu e Blu e Bianco, hanno cominciato a litigare sui posti, e su chi deve ricevere i ministeri dell'agricoltura e dell'Aliyah e Integrazione. Il leader di Blu e Bianco, Benny Gantz, ha chiesto anche che uno dei membri del suo partito sia inserito nel comitato per le nomine giudiziarie. «Mi chiedo se la sua guerra santa per il portafoglio agricolo sia una scusa per smantellare il blocco del cambiamento», ha tuonato Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beytenu.
   È dovuto intervenire Lapid in prima persona per placare gli animi. «Ci sono ancora molti ostacoli» sulla formazione del nuovo governo, ha ammesso, ma si è detto fiducioso che possano essere presto risolti. «Questo è il nostro primo test - ha spiegato -: dobbiamo vedere se insieme possiamo trovare compromessi intelligenti per raggiungere l'obiettivo più grande». «Se questo governo sarà formato - ha aggiunto - la parola chiave sarà responsabilità. Riportare quiete». E ha proseguito: «Se volete capire perché dobbiamo cambiare la leadership in Israele, ascoltate il discorso di Netanyahu. Pericoloso e pazzo, di qualcuno che non ha più limiti».
   Netanyahu non si è arreso e intende combattere fino alla fine. Il presidente dello Shas, il partito religioso sefardita suo fedele alleato, e ministro degli interni Arye Deri, ha descritto Bennett come «un ragazzino» con pretese di grandezza. E poi ancora il portavoce di Deri ha precisato dopo un tweet del Likud che Shas «è convinto con assoluta fiducia che sia possibile formare immediatamente un governo di destra di 65 parlamentari». L'idea è di rilanciare l'alleanza tra Likud, Shas, Utj, Religious Zionist Party, Yamina e Nuova Speranza di Saar. «Facciamo appello a Bennett, Ayelet Shaked, Saar e Zeev Elkin un'ultima volta ha scritto poi lo Shas -: non date la mano alla creazione di un governo di sinistra che metterà in pericolo la Terra di Israele e la Torah. È una vergogna che non sarà mai dimenticata». Saar ha però insistito sul fatto che il suo partito è intenzionato a rimuovere Netanyahu dal potere e ha rifiutato già domenica l'offerta di Bibi della rotazione a tre nella premiership.
   Saar, uscito dal Likud per creare il suo partito Nuova speranza, ha fatto anche notare come «la macchina stia lavorando a pieno regime» per screditare il potenziale governo e ha citato l'ex primo ministro del Likud Menachem Begin, avvertendo che un partito unico che governa troppo a lungo «porta alla corruzione». Il Likud invece ha poi concluso con un tweet: «La sinistra non è riuscita a tornare al potere per due decenni, e poi sono arrivati Bennett e Saar». Nel frattempo il leader politico di Hamas Yahya Al Sinwar ha dichiarato che l'organizzazione è pronta per «negoziati immediati» per raggiungere uno scambio di prigionieri con Israele. Sinwar ha rilasciato il suo commento in seguito a un incontro con il capo dell'intelligence egiziana Abbas Kamel che aveva già incontrato Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen.

(il Giornale, 1 giugno 2021)


Le speranze perdute nella notte di Lod

Violenze in Israele in contemporanea con gli attacchi da Gaza. Sinagoghe, yeshivot, automobili e negozi di ebrei dati alle fiamme da concittadini arabo-israeliani in quello che il presidente Reuven Rivlin ha definito “un vero Pogrom”. Ma ci sono anche squadracce di ebrei fanatici che hanno reagito con violenze e pestaggi.

di Avi Shalom

Il maggio 2021 resterà impresso a lungo nella memoria collettiva degli israeliani. Non tanto per le migliaia di razzi lanciati da Gaza verso le loro città. Semmai per l’onda d’urto che essi hanno provocato nella società israeliana e per lo sconquasso provocato ai vertici politici, già travagliati da una crisi di governo infinita.
  All’inizio del mese gli ingranaggi della escalation si sono messi in moto con rapida accelerazione. Qualcuno poi dirà che potrebbe essere una dinamica da Intifada, da rivolta popolare, ma la cosa ancora non risulta chiara per niente. I primi fermenti si sono avvertiti a Sheikh Jarrah, un rione di Gerusalemme est dove alcune famiglie palestinesi si opponevano allo sfratto da edifici di cui una società ebraica rivendicava la proprietà. Il 7 maggio le tensioni esplodono, in pieno Ramadan, con estesi scontri fra fedeli islamici e la polizia, sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Tre giorni dopo le fiammate diventano ancora più elevate perché nuovamente la Spianata delle Moschee è teatro di gravi incidenti, mentre nelle vicinanze un corteo di nazionalisti israeliani punta verso la Città Vecchia nel giorno della riunificazione di Gerusalemme. Dalla moschea al-Aqsa, migliaia di fedeli inneggiano a Mohammed Deif, il comandante militare di Hamas. È appunto il messaggio che Hamas attendeva. Da Gaza, Deif ordina immediatamente il bombardamento di Gerusalemme con una salva di razzi.
   La notte successiva, il fuoco attizzato da Hamas a Gerusalemme e a Gaza, si estende a Lod, città a popolazione mista, a 20 chilometri da Tel Aviv. Una folla di arabi attacca indiscriminatamente passanti e proprietà di ebrei, incendia di tutto, anche sinagoghe. È una notte di violenze particolarmente gravi, che trova impreparata la polizia. Un ebreo viene linciato in strada da decine di arabi israeliani infuriati: morirà alcuni giorni dopo, in ospedale. Nei loro appartamenti, famiglie di ebrei si trovano completamente alla mercè dei facinorosi. In molti quartieri, ebrei ed arabi vivono negli stessi edifici: il vicino di casa di oggi si può trasformare, domani, nel tuo aggressore. A due giorni dall’inizio dell’offensiva di Hamas, gli attacchi gravi a persone e a proprietà di ebrei si allargano a macchia d’olio. Tentativi di linciaggio ed incendi dolosi si verificano ad Akko (San Giovanni d’Acri), a Haifa, a Tiberiade, a Jaffa, ossia alle porte di Tel Aviv. Nemmeno il coprifuoco imposto a Lod (evento peraltro senza precedenti in Israele) riesce a riportare la calma.
   Passa un giorno ancora, ed è allora che entrano in azione anche facinorosi israeliani. Si tratta dell’ala “muscolare” dell’estrema destra ebraica. Ormai si viaggia in piena anarchia. La reazione è violenta. Passanti arabi sono percossi senza pietà. A Bat Yam, cittadina turistica vicino a Tel Aviv, un arabo viene aggredito dalla folla e ferito gravemente davanti alla telecamera della televisione pubblica, che per 40 minuti trasmette tutto l’attacco in diretta, senza che la polizia sopraggiunga. A Haifa, una città nota per la tradizionale convivenza pacifica fra ebrei e arabi, alcuni arabi entrano nel parcheggio di un condominio abitato da ebrei ultraortodossi e incendiano decine di automobili in sosta. Sotto al palazzo si scatena un incendio furioso, che provocherà l’intossicamento di 60 israeliani, per lo più bambini.
   Sono passati appena quattro giorni dagli scontri alla Spianata delle Moschee: sul sud e sul centro di Israele piovono migliaia di razzi e nelle città a popolazione mista regna il caos. Benyamin Netanyahu fa entrare in campo lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno. «Questi episodi sono terrorismo vero e proprio», esclama. Intanto gli abitanti di Lod non si sentono più protetti dalla polizia e chiedono l’aiuto dei coloni della Cisgiordania. Dagli insediamenti arrivano subito torpedoni di giovani pronti a respingere con la forza la minaccia dei facinorosi arabi. Si vedono allora civili ebrei armati pattugliare le strade della città, mentre fra gli abitanti arabi di Lod (una città afflitta da decenni da problemi sociali e da una forte presenza della criminalità araba) le riserve di armi da fuoco sono ritenute preoccupanti. Sul terreno si crea una miscela esplosiva. Da un lato integralisti islamici appoggiati da elementi di dubbia reputazione – forse malavitosi – della loro comunità. Dall’altro, attivisti dell’estrema destra radicale israeliana, sostenuti da chi in Cisgiordania sa bene che talvolta è necessario utilizzare le armi da fuoco per sfuggire ad agguati e per tornare a casa indenni. Adesso la “febbre cisgiordana” minaccia di contagiare Israele.

 INCRINATA LA COESISTENZA
  Oggi, gli israeliani si chiedono come sia stato possibile che in soli cinque giorni si sia incrinata una coesistenza fra ebrei e arabi coltivata per decenni, anche se fra molte difficoltà. E se sarà mai possibile tornare indietro. Proprio nell’ultimo anno si erano registrati progressi importanti, che facevano ben sperare per il futuro. Innanzitutto la lotta al Covid, che aveva visto dottori e infermieri arabi in prima linea nella lotta alla pandemia, spalla a spalla con i loro colleghi ebrei, del tutto indifferenti alle convinzioni religiose di ciascuno. Lo stesso Netanyahu, per settimane, aveva voluto visitare personalmente località arabe, per spronare la popolazione a vaccinarsi. Scherzosamente si era anche guadagnato l’appellativo arabo di “Abu Yair”, il padre di Yair. E l’impegno comune tra arabi israeliani ed ebrei, aveva ottenuto un successo eclatante, facendo di Israele uno dei primi Paesi ad emergere dal Covid. Dopo le elezioni del 23 marzo, inoltre, alla luce del pareggio fra il blocco del Likud e quello dei suoi oppositori centristi, proprio due liste arabe erano divenute, con loro sorpresa, possibili aghi della bilancia per la formazione di una nuova coalizione di governo. Proprio un partito a base islamica, il Raam, aveva avviato contatti con il blocco del Likud per la formazione del nuovo governo, anche come possibile sostenitore esterno. Alla fine di aprile sembrava quasi fatta: imminente l’ingresso di deputati arabi nelle stanze del potere, per sollevare le condizioni della minoranza araba che soffre di un tasso elevato di povertà e di preoccupanti livelli di violenza, dovuti anche alla disoccupazione generata dal Covid.
   Su questo sfondo, che faceva ben sperare e obiettivamente incoraggiante, si è scatenata la violenza irrazionale in diversi agglomerati arabi. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza, cerca di stabilire se dietro ci sia stata una regia. Il principale sospettato è il movimento islamico, che è suddiviso in Israele in due fazioni. Quella settentrionale, più massimalista, in passato ha avuto contatti (a livello di istituzioni di beneficienza) con la Turchia di Erdogan e anche con Hamas. Ci si chiede: possibile che abbia avuto istruzioni da Gaza? Fra i primi passi compiuti dallo Shin Bet c’è stato l’arresto di uno dei suoi dirigenti. Invece la corrente meridionale legata a Raam si è rivelata ben più pragmatica. A Lod il suo leader, Mansur Abbas, ha visitato le sinagoghe bruciate e ha promesso che gli islamici contribuiranno alla ricostruzione.
   Ma lo Shin Bet ha dovuto indagare anche la violenza ebraica: l’ha localizzata nei “Nuclei religiosi” creati da collegi rabbinici ultra-nazionalisti all’interno di agglomerati principalmente arabi, a Lod, Jaffa, Akko e altrove. Come mai erano insediati in un ambiente così poco congeniale e accogliente? Perché? La popolazione araba non ha dubbio alcuno: si tratterebbe di una sorta di avamposti organizzati dal movimento dei coloni per accrescere la propria presenza nella fascia costiera di Israele. Ad alimentare questa sensazione, ossia che si tratti di una penetrazione di carattere politico, sono giunti i cospicui finanziamenti pubblici di cui i “Nuclei religiosi” abitualmente beneficiano. Milioni di shekel che provengono sia da ministeri, sia dalla Agenzia ebraica. La sensazione della popolazione araba è che si tratti di una replica di quanto avvenuto a Gerusalemme est nei rioni palestinesi di Silwan e di Sheikh Jarrah dove una presenza limitata di famiglie israeliane è andata velocemente estendendosi, alterando per sempre il carattere di quei quartieri. I duri scontri avvenuti all’inizio del mese a Sheikh Jarrah non potevano dunque non trovare una eco immediata nelle città a popolazione mista di Israele.
   Oggi si tratta di spegnere l’incendio ed evitare un’escalation. Ci hanno provato il capo dello Stato Reuven Rivlin, il rabbino capo Yitzhak Yosef, il leader islamico Mansur Abbas, esponenti del mondo politico e della cultura, organizzazioni di base e semplici privati. Ma le ferite si stanno rivelando molto profonde, e sarà necessario del tempo per rimarginarle. Un sistema efficace, suggeriscono alcuni analisti, sarebbe forse la inclusione immediata di un partito arabo nella futura coalizione di governo. Ma le probabilità appaiono al momento estremamente scarse.

(Bet Magazine Mosaico, 1 giugno 2021)


2 giugno 2021, un nuovo presidente per Israele

Giunge al termine il mandato presidenziale di Reuven Rivlin e il parlamento di Israele elegge il suo successore. Due i candidati in lizza: Miriam Peretz e Isaac Herzog. Gli israeliani avranno la prima presidente donna?

L’ultimo atto importante della presidenza di Reuven Rivlin sarà forse consegnare a Israele un nuovo governo senza il premier uscente Benjamin Netanyahu nella compagine ministeriale (oppure, per intoppi inestricabili nei prossimi giorni, essere costretto a chiamare i connazionali alle urne per la quinta volta nel giro di poco più di due anni).
   Rivlin cessa dalla carica di capo dello Stato il 9 luglio prossimo e il 2 giugno spetta ai 120 deputati della Knesset – il parlamento monocamerale israeliano – eleggerne il successore a scrutinio segreto.
   Sono solo due i candidati che – entro il termine fissato del 20 maggio – hanno ottenuto il sostegno di almeno 10 parlamentari, soglia minima richiesta per entrare in lizza nella votazione che designerà l’undicesimo presidente di Israele (nel 2014, per il decimo, gli sfidanti furono tre).

 Il favorito e la sfidante
   Isaac Herzog (candidatura sostenuta da 27 deputati) è considerato il favorito. Nato nel 1960 a Tel Aviv, è avvocato e politico di lungo corso. Ha seduto in parlamento dal 2003 al 2018, militando nel partito Laburista e nell’Unione Sionista (dal 2015). Tra il 2005 e il 2011 è stato membro di vari governi nella veste di ministro dell’Edilizia (2005); del Turismo (2006-2007); della Diaspora, della Società e del Contrasto all’antisemitismo (2007-2009); dell’Assistenza e Servizi sociali (2007-2011). Suo padre, il generale Chaim Herzog – immigrato nella Palestina mandataria nel 1935 –, ricoprì la carica di capo dello Stato di Israele dal 1983 al 1993. Dal giugno 2018 presiede l’Agenzia ebraica, organismo che promuove il sostegno dello Stato di Israele presso la diaspora ebraica anche promuovendo e agevolando l’aliyah (immigrazione ebraica) da ogni parte del mondo. Ha una moglie, Michal, e tre figli.
   Miriam Peretz (candidatura sostenuta da 11 deputati). È nata nel 1954 a Casablanca (Marocco) e immigrata in Israele nel 1963. Si è sposata a metà degli anni Settanta e ha avuto sei figli, due dei quali sono morti per ragioni belliche. Anche il marito le è stato strappato prematuramente da una malattia. Peretz è laureata in Storia e Letteratura ebraica e ha svolto attività di docenza in istituti scolastici di vario ordine e grado. Ha dedicato gran parte delle sue energie a promuovere la consapevolezza dell’identità ebraica tanto in Israele quanto nella diaspora. Per la sua attività ha ricevuto numerosi riconoscimenti.

 Come avviene l’elezione
  La seduta è convocata per le 11:00 del mattino, ora locale. Risulta eletto al primo scrutinio chi dovesse ricevere la maggioranza dei voti dei membri della Knesset (vale a dire 61 consensi). Se non si raggiunge il quorum, si va al secondo scrutinio e risulta eletto chi ottiene il maggior numero di voti.
   In Israele – come in Italia – il capo dello Stato resta in carica sette anni, ma non è rieleggibile. Rappresenta lo Stato e i suoi valori morali e democratici rimanendo al di sopra delle parti. Spetta a lui affidare l’incarico di formare il governo al candidato che abbia ottenuto l’avallo del maggior numero di deputati. Un compito frustrante negli ultimi due anni, considerata la maggioranza risicata che la coalizione di centrodestra che fa capo al primo ministro Netanyahu ha ottenuto in quattro successive, ed eccezionalmente ravvicinate, consultazioni elettorali.

(Terrasanta.net, 1 giugno 2021)


"Basta con la demonizzazione di Israele", 15 cittadini cesenati scrivono una lettera aperta

“Siamo quindici cesenati di diverso orientamento politico ma uniti da un unico filo conduttore, quello della passione per la libertà, la democrazia e la verità”

“Siamo quindici cesenati di diverso orientamento politico ma uniti da un unico filo conduttore, quello della passione per la libertà, la democrazia e la verità”. Inizia così una lettera aperta alla cittadinanza, i cui proponenti (15 cesenati di diverso orientamento politico) puntano a chiarire le troppe “mistificazioni storiche e le strumentalizzazioni dei fatti” sulla situazione israelo-palestinese rese possibili dalla “scarsa conoscenza storica di molti” al solo scopo di “demonizzare Israele l’unico Stato veramente democratico del Medio Oriente”.
   “Abbiamo letto di una manifestazione pro-palestinesi. Difendiamo e difenderemo sempre la libertà di manifestare pacificamente”, ma “abbiamo tutto il diritto di criticare” chi si attribuisce il diritto di colpevolizzare sempre lo Stato ebraico, che per “una certa area politica e culturale non ha mai ragioni né scusanti. Israele è visto come il ‘male assoluto’ e sta proprio in questo paradigma la contaminazione tra antisemitismo e antisionismo, tra l’odio antisemita e l’odio per Israele”.
   Nella lettera è poi citata una nota dichiarazione di Ugo La Malfa, “la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme”.
   “Una verità tuttora attualissima: la libertà, la democrazia, i diritti che vorremmo fossero patrimonio di tutti si stanno infrangendo sotto la pressione di nuovi imperialismi teocratici islamici che non esitano a usare ogni mezzo, dal terrorismo all’educazione dei propri popoli all’odio, dalla propaganda martellante al sacrificio di civili, per ‘estirpare’ definitivamente lo Stato di Israele considerato un corpo estraneo, democratico e occidentale, in quest’area geografica”.
   Ne è una prova lo Statuto di Hamas, fra i cui obiettivi ci sono, in sintesi, “la distruzione dello Stato di Israele e l’assassinio di ebrei ovunque si trovino. Degli ‘ebrei’ non degli ‘israeliani’: dunque questo documento non a caso è stato definito ‘nazista’”.
   Non si comprende quindi “come esponenti del PD e di Articolo Uno, che a Cesena hanno sostenuto la messa a dimora delle ‘pietre d’inciampo’, ergendosi a tardivi difensori delle vittime del nazifascismo, possano sostenere la causa di chi vuole portare a termine il nefando disegno nazista, ovvero la ‘soluzione finale’ della questione ebraica”.
   Nella lettera si ricordano anche “i miliardi di dollari e di euro che gli Stati occidentali hanno profuso a Gaza”, utilizzati “dal regime di Hamas, manovrato dall’Iran, non per la popolazione ma per fini terroristici, per trasformare Gaza in un presidio militare da cui colpire Israele senza soluzione di continuità, usando i civili palestinesi come scudi umani” e non a caso “il recente attacco missilistico di Hamas contro Israele” e gli “incidenti nella spianata delle moschee a Gerusalemme fanno parte di una precisa strategia per costringere Israele a difendersi, ma soprattutto per indebolire ulteriormente l’Autorità palestinese e Abu Mazen”, obiettivo di Hamas per “prendere il sopravvento nei territori palestinesi come accadde a Gaza nel 2006”. “Un piano che, se avesse successo, significherebbe chiudere la possibilità di qualsiasi accordo”.
   “Non capire cosa ci sia in gioco - si legge ancora nella lettera - è molto grave, ma è ancora peggio rimanere imprigionati dentro una narrazione falsa quanto obsoleta che contrapponeva i cattivi (Israele) ai buoni (Hamas e Autorità palestinese)”.
  Tra gli obiettivi c’è quindi isolare “i movimenti ostili a qualunque soluzione equa e condivisa tra i due popoli. Sarebbe questo l’inizio di un percorso che potrebbe davvero portare alla soluzione auspicata di due popoli, due Stati democratici”.

I proponenti, in ordine alfabetico, sono:
Aida Agostini, Lidia Cappelli, Alessandro Carli, Marco Casali, Enrico Castagnoli, Antonella Celletti, Luigi Di Placido, Gianluigi Giacomini, Tommaso Marcatelli, Stefano Molari, Paolo Montesi, Angelo Pagliacci, Franco Pedrelli, Stefano Spinelli, Andrea Torri. A queste prime firme se ne aggiungeranno altre, viste le numerose richieste di sottoscrizione.

(Cesena Today, 1 giugno 2021)


Il leader di Hamas pronto a negoziare con Israele per consegnare i prigionieri a Gaza

La dichiarazione di Yahya Sinwar arriva dopo l'incontro tra il capo dell'intelligence egiziana con il premier Netanyahu e la leadership dell'organizzazione palestinese. In precedenza il vice capo aveva affermato che l'accordo sui detenuti non dovrebbe essere collegato alle questioni palestinesi.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - La mediazione egiziana per consolidare la tregua tra Israele e Hamas dopo 11 giorni di conflitto potrebbe portare a una svolta anche rispetto alla trattativa in corso da anni tra le parti su uno scambio di prigionieri. Israele pone come condizione che, nei negoziati in corso, vengano consegnati i corpi dei due soldati Oron Shaul e Hadar Goldin – uccisi a Gaza durante l’Operazione Margine Protettivo del 2014 - nonché rilasciati Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, due civili mentalmente instabili che hanno attraversato il confine con Gaza e sono detenuti in ostaggio da anni. Hamas finora si è rifiutato di legare la questione alle trattative per la ricostruzione di Gaza in seguito all’ultimo conflitto, sostenendo che faccia parte di un dossier separato che deve includere il rilascio di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
   Negli anni sono fallite numerose mediazioni in merito. Negli ultimi giorni, che hanno visto un picco di intensità nell’interventismo del Cairo per cementare il cessate il fuoco, la questione sembra essere tornata di primo piano. Ieri il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ha affermato che Hamas è pronto a condurre negoziati immediati e indiretti con Israele in merito a un accordo per lo scambio di prigionieri. “Ricordatevi il numero 1111, capirete più avanti cosa significa”, ha detto Sinwar, in un chiaro riferimento al “Shalit deal”, con il quale nel 2011 Israele ha rilasciato 1.027 prigionieri palestinesi, tra cui centinaia di condannati per atti terroristici, in cambio del soldato Gilad Shalit, rapito nel 2006 da una forza di commando di Hamas infiltratasi in Israele attraverso un tunnel sotterraneo.
   Secondo fonti riportate dal Canale israeliano Kan 11, Israele avrebbe consegnato a Hamas un mese e mezzo fa – quindi prima dell’ultimo conflitto - un elenco con nomi di prigionieri che sarebbe disposto a rilasciare come parte di un nuovo accordo, senza ricevere riscontro. L’elenco comprendeva “più di qualche dozzina e meno di centinaia di prigionieri”. Non è noto se includesse prigionieri “con sangue sulle mani”. Sinwar sostiene che i contatti si sono interrotti a causa dello stallo politico in cui si trova Israele da mesi.
   Domenica il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi ha affrontato il dossier prigionieri durante l’incontro al Cairo con il suo omologo Sameh Shoukry. Si è trattato della prima visita alla luce del sole di un ministro degli esteri israeliano dal 2008: un chiaro segnale – diretto in primis all’amministrazione Biden - della volontà del presidente al-Sisi di porsi come figura chiave nello scacchiere mediorientale.

(la Repubblica, 1 giugno 2021)


Il tessitore

I riflettori sono tutti per Bennett, ma è Lapid la mente del governo che cerca di formarsi in Israele

di Micol Flammini

ROMA - Le trattative per la formazione del nuovo governo in Israele sono complicate. Gli otto partiti che dovrebbero formare la maggioranza anti Netanyahu hanno iniziato a litigare un po’ su tutto, su ministeri grandi e piccoli, e sui punti della bozza di programma che mercoledì dovrà essere consegnata al presidente Rivlin. Questo governo in formazione ha al suo interno varie anime che poco si conciliano tra di loro, uno spettro di partiti che va dalla destra alla sinistra e avrà la premiership a rotazione. Il primo a iniziare sarebbe Naftali Bennett, il leader nazionalista del partito di destra Yamina, ex alleato di Benjamin Netanyahu, che in questi mesi ha lasciato tutti in attesa, lui con i suoi sette seggi vinti alle elezioni di marzo. Si è contraddetto varie volte, ha smentito ogni promessa fatta, ma domenica ha detto di essere pronto a formare un governo di unità nazionale. E non importa se lui, a favore di una maggiore espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dovrà allearsi con la sinistra, e non importa se per diventare premier avrà bisogno di fare concessioni a Mansour Abbas, il leader del partito arabo Ra’am, Bennett è pronto e con il discorso di domenica ha rotto in modo definitivo con Netanyahu. Ma nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza Yair Lapid, leader di Yesh Atid, il partito di centrosinistra arrivato secondo alle elezioni. Lapid ha ottenuto diciannove seggi, undici in più rispetto a Bennett, eppure si è accontentato di lasciare al leader di Yamina il privilegio di assumere la premiership per primo.
   L’ha corteggiato, assieme a lui ha corteggiato Mansour Abbas, si è tenuto vicino l’ex deputato del Likud Gideon Sa’ar, si è riavvicinato all’ex alleato Benny Gantz e ha saputo attendere. Ha lasciato sempre i riflettori agli altri, soprattutto a Bennett, capendo che per formarsi il suo “governo del cambiamento” avrebbe avuto bisogno di pazienza. Mentre Bennett strepitava per ottenere attenzione e adesioni, Lapid rimaneva in silenzio, cercava le alleanze, i pesi e i contrappesi. Incontrava uno a uno i leader dei vari partiti che dovrebbero entrare in questo enorme contenitore contro Netanyahu. Il leader di Yesh Atid faceva le prime promesse, distribuiva in segreto i primi ministeri e lasciava agli altri le liti con il premier.
   Lapid è il più paziente di tutti, ieri ha ammesso che persistono degli ostacoli, c’è stato un grande litigio tra Kahol Lavan – il partito di Benny Gantz – e Yisrael Beiteinu di Avigdor Lieberman. Vogliono tutti e due il ministero dell’Agricoltura, ma questi scontri che sono tipici di ogni coalizione non sono nulla in confronto a quello che potrebbe avvenire durante la stesura del programma. Yair Lapid e Naftali Bennett hanno già lavorato insieme, ma nonostante da qualche giorno durante i loro discorsi non facciano che chiamarsi “amico”, sono opposti in tutto. Sono stati dentro alla stessa coalizione quando a tenerli uniti c’era Netanyahu, ma i due la pensano in modo diverso sulla sicurezza, gli insediamenti e la politica estera. Ancora meno colmabile sembra la distanza tra i partiti di sinistra come Labor e Meretz e Yamina o New Hope, il partito di Gideon Sa’ar. Lapid ha deciso però di tenere tutti insieme, fino all’ultimo vuole cercare di accontentare ogni membro della sua coalizione e tra gli alleati, ognuno con le sue motivazioni e battaglie, la regola che Lapid ha dato è: non parliamo degli argomenti che ci dividono.
   Se il governo del cambiamento dovesse insediarsi, se Bennett dopo dodici anni di Netanyahu dovesse diventare il prossimo premier di Israele, le questioni che più potrebbero generare tensioni verrebbero tutte rimandate di almeno un anno. Per il primo anno non si parlerà di negoziati di pace con i palestinesi, non si parlerà di insediamenti. Tutto rimarrà immobile, paralizzato, in attesa che, governando assieme, tutti i leader trovino dei punti in comune che evitino la caduta dell’esecutivo. Più che un governo del cambiamento rischia di diventare un governo dell’immobilismo, in cui ogni decisione, al di fuori della riforma della Giustizia che tanto sta a cuore ai nemici di Netanyahu, verrebbe congelata. Così come avvenuto negli ultimi due anni caratterizzati dalle quattro elezioni di fila, il funzionamento di Israele si baserebbe sulla macchina solida e ben oliate delle sue istituzioni.
   Lapid è stato il tessitore di questa coalizione che prova a nascere e mai, in dodici anni, si era arrivati tanto vicini a un governo senza la leadership di Netanyahu. Lapid ha stabilito le regole di convivenza, si è accontentato del secondo posto, si è messo in attesa e, se l’esecutivo reggerà, il suo momento per diventare premier arriverà nel 2023. Finora Lapid ha fatto qualcosa di impensabile: ha messo attorno a un tavolo otto partiti diversissimi. Se davvero l’esecutivo di unità nazionale dovesse insediarsi, Israele avrebbe la sua occasione di dimostrare che può farcela senza Netanyahu, che la sua democrazia è solida e il suo futuro non è legato al destino di un premier. Netanyahu è anche stato il collante dell’opposizione e Lapid ha il compito più difficile di tutti: se riuscirà a costruire questa alleanza, per tenere davvero Bibi lontano dalla politica di Israele, dovrà trovare anche il modo per governare senza parlare di Bibi.

Il Foglio, 1 giugno 2021)


La politica israeliana non riuscirà a liberarsi di Bibi Netanyahu

di Ugo Tramballi

C'è una strana dicotomia attorno a Israele: con una generalizzata dose di entusiasmo, la stampa internazionale celebra la fine del lungo regno di Bibi Netanyahu; giornali, tv e studiosi israeliani sono invece molto più cauti, chiedendosi con una certa discrezione se un'era controversa della loro vita sia davvero vicina alla condusione.
  Naftali Bennett, leader del partito Yamina e uomo decisivo nella creazione di una maggioranza parlamentare alternativa a Netanyahu, non intende promettere ai suoi elettori «che questo sia il governo dei nostri sogni». La sua partner politica Ayelet Shaked, il cui volto angelico non corrisponde alla durezza delle sue idee ultra-nazionaliste, in questi giorni è rimasta silenziosa. Non sono segnali che galvanizzino una base. Anche a sinistra laburisti e Meretz - l'ultimo dei partiti pacifisti - devono superare il disagio di governare assieme a una destra più destra del vecchio Likud.
  La ragione ufficiale di tanta disponibilità è che bisogna impedire con qualsiasi mezzo di portare gli israeliani alla quinta elezione in poco più di due anni Ma quello che ora pervade una notevole parte del paese è un irrefrenabile disgusto per Netanyahu. È una rivolta contro i suoi 13 anni di potere ininterrotto (più tre dal 1996 al '99) e un sistema elettorale super-proporzionale che impedisce chiare alternanze di governo. Una sollevazione così sentita da «preferire tutto tranne Bibi».
  È dunque probabile che entro una settimana, dopo la conta conclusiva fra i 120 deputati della Knesset, il fronte anti-Bibi vari un governo che nei primi due anni sarà guidato da Bennett, poi da Yair Lapid del partito centrista Yesh Atid. In realtà alle ultime elezioni del 23 marzo Lapid aveva conquistato più del doppio dei seggi di Bennett. Ma occorreva qualche incentivo per spingerlo a garantire voti necessari per raggiungere la maggioranza. L'importante, insistono i promotori, è dare un governo al paese.
  E poi? E per quanto tempo? Qualsiasi nome verrà dato alla coalizione ora chiamata "di unità nazionale", il fronte Bennett-Lapid che prenderà il posto di quello guidato da Netanyahu, assomiglierà a un Frankenstein politico che non risolverà la profonda crisi istituzionale d'Israele: le braccia a destra, le gambe a sinistra, la testa al centro, il complicato cervello diviso fra tutti, il cuore di nessuno perché forse non c'è. Ci sarà probabilmente l'appoggio esterno di uno dei partiti dei palestinesi d'Israele. Il premier dovrebbe dunque diventare il leader di un partito ultra-nazionalista e anti-arabo come Yamina, che alle ultime elezioni è arrivato quinto e ha conquistato 7 seggi contro i 30 del Likud di Netanyahu. E il Likud ne ha presi quasi il doppio dei centristi di Lapid.
  A meno che non siano i giudici dei processi aperti per frode a estrometterlo dalla scena politica, il fantasma di Bibi incalzerà gli avversari in attesa della loro fine, convinto che avverrà certamente grazie al suo abile mestare. Una crisi di questa strana coalizione porterebbe comunque a una quinta elezione con il risultato di rafforzare Netanyahu, anziché estrometterlo dal potere.
  Nahum Barnea, firma del quotidiano Yedioth Ahronot, scriveva che «gli israeliani sono abituati a progettare la loro vita con una guerra. Sono nati un anno dopo la guerra, sono andati sotto le armi l'anno prima di un'altra guerra, si sono sposati giusto dopo la fine di una terza guerra, e hanno avuto un figlio prima o dopo la guerra successiva».
  In realtà in 13 anni di potere Bibi Netanyahu non ha mai portato gli israeliani in guerra, ad eccezione delle crisi di Gaza che non sono paragonabili ai conflitti del passato. Ma non ha mai fatto nulla per costruire una qualsiasi forma di accordo di pace con i palestinesi o gli iraniani. Ha tenuto il paese in uno stato di mobilitazione psicologica; con una sicurezza costantemente in allarme anche se mai davvero minacciata. Non sarà facile liberarsi dell'ombra di Bibi.

(Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2021)


Ted Cruz: «la debolezza di Biden è la forza di Hamas»

di Maurizia De Groot Vos

Il Senatore Repubblicano Ted Cruz, in visita in Israele, attacca duramente il Presidente Biden. «Più dimostra debolezza con i nemici di Israele, più cresceranno gli attacchi terroristici»
    Ha ragione il senatore Ted Cruz quando afferma che la debolezza di Biden alimenta la forza di Hamas.
    Lo si è visto purtroppo durante l’ultima guerra tra Israele e il gruppo terrorista che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza.
    Prima di tutto Biden trattava con gli iraniani, che finanziano ed armano Hamas, proprio mentre su Israele piovevano centinaia di missili.
    Non è stata certo un bella dimostrazione di forza né è stata una dimostrazione di vicinanza a Israele trattare con il peggior nemico dello Stato Ebraico nonché fornitore di quei missili che in quelle ore cadevano sulle teste degli israeliani.
    In una intervista alla Associated Press, il Senatore Ted Cruz ha accusato il Presidente Joe Biden di “essere tenero con i nemici di Israele”
    «Più a lungo Joe Biden mostra debolezza ad Hamas o Hezbollah o all’Iran, più vedremo aumentare gli attacchi terroristici», ha detto Cruz dopo una giornata trascorsa a visitare il sistema di difesa israeliano Iron Dome e a vedere i danni ad Ashkelon.
    A tal proposito Cruz ha detto anche che il Presidente Biden deve interrompere qualsiasi aiuto ai palestinesi fino a quando non ci sarà la certezza che quegli aiuti o una parte di essi non finisca nelle mani di Hamas.
    L’ex Presidente Donald Trump aveva interrotto qualsiasi aiuto ai palestinesi e alle numerose sigle che girano attorno alla causa palestinese riuscendo a relegare in un angolo questa storia che da oltre 70 anni impedisce alla regione di svilupparsi e di pacificarsi.
    Il Presidente Biden invece ha riattivato quegli aiuti, è tornato a trattare con i nemici di Israele e come primo risultato abbiamo visto cosa è successo. Migliaia di missili sparati in pochi giorni contro lo Stato Ebraico.
    Cruz e il senatore Bill Hagerty, hanno visitato le macerie di Ashkelon dove un razzo sparato da Hamas ha colpito un appartamento e ucciso la badante di una donna anziana.
    Sono tanti i politici repubblicani americani ad essere in Israele in questi giorni per dimostrare la loro solidarietà allo Stato Ebraico. Tra loro Mike Pompeo e la senatrice Lindsay Graham.

(Rights Reporter, 1 giugno 2021)


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