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Notizie 16-30 giugno 2021


Il commercio tra Israele e Emirati Arabi Uniti è di 675,22 milioni di dollari

di Binsal AbdulKader

ABU DHABI - Il commercio bilaterale Israele-EAU ha raggiunto oltre 2,2 miliardi di NIS (2,48 miliardi di AED/675,22 milioni di dollari USA), entro dieci mesi dalla firma degli accordi di Abraham nel settembre 2020, secondo il massimo diplomatico israeliano.
  In un'intervista esclusiva con l'Agenzia di stampa degli Emirati (WAM), il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha dichiarato: "Si stima che il potenziale commerciale bilaterale si moltiplicherà molte volte nei prossimi anni".
  Lapid, che ha raggiunto Abu Dhabi martedì mattina per una visita ufficiale di due giorni, è il primo ministro israeliano a visitare gli Emirati Arabi Uniti da quando sono stati firmati gli accordi di Abraham. Questa è la sua seconda visita all'estero da quando è diventato Primo Ministro supplente e Ministro degli Esteri nel nuovo governo di coalizione formato questo mese. La sua prima visita è stata a Roma all'inizio di questa settimana.
  Lapid ha parlato con WAM nella sua prima intervista con un media straniero da quando è diventato ministro degli Esteri. La sua rivelazione dell'ultimo dato commerciale bilaterale convalida le stime fatte da alcuni funzionari israeliani e degli Emirati Arabi Uniti, subito dopo l'annuncio degli Accordi, secondo cui anche gli impegni economici bilaterali iniziali sarebbero ammontati a centinaia di milioni di dollari.
  Il governo di Dubai ha annunciato il 30 gennaio che il commercio dell'emirato con Israele in cinque mesi (settembre 2020-gennaio 2021) ha raggiunto un valore di 1 miliardo di AED (272,26 milioni di dollari).

 Non una visita cerimoniale
  L'alto diplomatico israeliano ha affermato che "è un grande onore" essere il primo ministro israeliano a intraprendere una visita ufficiale negli Emirati Arabi Uniti. "Questa non è, tuttavia, una visita tecnica o cerimoniale; fa parte di una profonda comprensione che inizia qui con il viaggio condiviso di vera cooperazione."
  "Questa visita non avviene nel vuoto, viene dopo il lavoro completo svolto da tante persone, che oggi sta dando i suoi frutti. Questo momento storico è grazie a loro e giova a tutti noi", ha aggiunto.
  Martedì pomeriggio ha inaugurato l'ambasciata israeliana ad Abu Dhabi e ha incontrato Sua Altezza lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan, ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Mercoledì aprirà il consolato generale israeliano a Dubai.

 La vera pace non è sulla carta
  Riguardo alle prospettive nelle arene educative, culturali e sportive e nelle relazioni interpersonali tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, Lapid ha affermato: "La vera pace non esiste sulla carta ma nella pace tra nazioni, popoli e culture. Sono felice di vedere che gli israeliani stanno venendo a visitare gli Emirati Arabi Uniti e sono sicuro che il turismo congiunto si espanderà e non vediamo l'ora di accogliere i turisti degli Emirati in Israele.
  "Il primo anno [degli accordi di Abramo e della prima visita ufficiale] sono solo l'inizio del viaggio.
  "Dobbiamo permettere alle nostre economie di integrarsi e prosperare. Dobbiamo preservare il dialogo aperto e l'apertura mentale".
  Il padiglione israeliano a Expo 2020 Dubai, che aprirà a ottobre, è un altro trampolino di lancio nella costruzione di relazioni, ha affermato, aggiungendo che l'iniziativa, l'innovazione e la cooperazione in materia di salute, istruzione e tecnologia creeranno legami per molti anni a beneficio della generazione a venire.

 Cooperazione nelle tecnologie avanzate
  Il ministro israeliano ha affermato che la cooperazione commerciale nel campo delle tecnologie avanzate tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti "trova espressione, tra le altre cose," nelle transazioni di livello B2B e nell'incoraggiamento delle startup israeliane a svilupparsi tecnologicamente e finanziariamente ed a stabilire filiali negli Emirati Arabi Uniti .
  "Da settembre 2020, sono state firmate una serie di transazioni, per un valore di decine di milioni di dollari, tra società israeliane ed emiratine nei settori dell'intelligenza artificiale, della cyber, delle energie rinnovabili, della sicurezza idrica, della salute e altro", ha spiegato Lapid.
  "Gli orizzonti sono promettenti per le aziende di entrambi i paesi che operano in questi e altri campi, tra cui la sicurezza alimentare e la tecnologia del deserto".
  Oltre ai dieci accordi economici che erano stati firmati tra i due governi, altri accordi sono in fase di negoziazione, "nell'ambito della definizione dell'accordo infrastrutturale bilaterale tra i nostri Paesi nell'ambito degli Accordi di Abraham", ha aggiunto il ministro.

 Dai media alla politica
  Lapid, che era una celebrità dei media prima di entrare in politica, ha dichiarato: "La decisione di lasciare la vita nei media e in televisione è stata facile per me. Amo lo Stato di Israele e sapevo che il vero cambiamento avviene attraverso il lavoro politico nella Knesset [parlamento] e nel governo".
  Suo padre, Yosef Lapid, un sopravvissuto all'Olocausto e un politico antireligioso, una volta era anche a capo di un partito centrista ed era ministro della giustizia. Sua madre, Shulamit Lapid, è una nota scrittrice.
  Sebbene molte persone ed eventi nel corso della vita lo abbiano plasmato, uno dei più grandi influencer è stato suo padre, ha rivelato.
  "La sua storia e la sua storia di bambino nel ghetto durante l'Olocausto, la cui infanzia gli è stata strappata via, e la profonda comprensione che gli ebrei hanno bisogno di uno stato e che i bambini hanno bisogno di protezione, sono elementi fondamentali nella mia visione del mondo. Anche mia madre intelligente e la sua famiglia, così come mia moglie ed i miei tre figli, sono parte di ciò che sono oggi, dal mio processo decisionale fino a ciò che mi guida", ha detto.

(WAM - Agenzia di stampa degli Emirati, 30 giugno 2021 - trad. Hussein Abuel Ela)


Israele teme la quarta ondata di Covid-19

di Donato Moscati

Anche se le autorità sanitarie tendono a tranquillizzare la popolazione, gli ospedali israeliani esprimono la loro preoccupazione per l’aumento dei casi, 300 per il secondo giorno consecutivo, e si preparano ad affrontare un’eventuale quarta ondata.
   Sono molti i ragazzi che in questi giorni si stanno vaccinando per cercare di contenere l’espandersi del virus e di conseguenza un’eventuale mutazione.
   "Le squadre mediche sono esauste, non si sono ancora riprese dalle ondate precedenti e non saranno in grado di sopportarne un'altra", ha detto mercoledì un funzionario sanitario a Ynet mentre esortava le persone a vaccinarsi.
   Tre le persone ricoverate al Rambam Health Care Campus di Haifa, l'unico ospedale nel nord di Israele che attualmente cura pazienti con coronavirus. Tra questi una giovane donna di 20 anni incinta di due gemelli, ricoverata dopo aver ricevuto la seconda dose del vaccino Pfizer. Gli altri pazienti sono una donna recentemente tornata da un viaggio all'estero e che si dice sia in condizioni moderate e un uomo di 70 anni in gravi condizioni che soffre di difficoltà respiratorie.
   "Era ovvio per noi che rimuovere l’obbligo della maschera fosse sbagliato" - ha detto un funzionario a Ynet – “La maggior parte degli ospedali ha mantenuto l’obbligo all'interno delle proprie strutture ed ha fatto bene”.
   Rian Amin è un’infermiera che cura i pazienti affetti da Covid-19 sin dalla prima ondata: "Questo è il momento di ricordare alle persone che la pandemia non è finita e che non dobbiamo abbassare la guardia".
   Nonostante i medici israeliani siano preparati a curare i pazienti ed abbiano una migliore consapevolezza della malattia il rischio è nelle varianti e nel loro effetto sulla malattia.
   Il dottor Yoni Shapira del Shamir Medical Center ha affermato che la maggior parte dei nuovi casi sono stati riscontrati tra i bambini e che, per la maggior parte, soffrono di sintomi lievi, ma ha anche avvertito che potrebbero esserci più focolai nelle prossime settimane.
   "Potremmo vedere un aumento dei ricoveri nelle prossime due settimane", ha detto. "Spero che non ce ne sia bisogno, ma siamo preparati con personale e attrezzature per trattare più pazienti", ha detto.
   Shapira ha anche avvertito che le squadre mediche potrebbero essere soggette a stress emotivo "Le nostre squadre erano sotto un terribile stress mentale durante l'ultima ondata e sono preoccupate di dover affrontare una situazione simile. Ma ho fiducia che si comporteranno bene", ha detto.

(Shalom, 30 giugno 2021)


Lapid negli Emirati Arabi Uniti e l’incontro tra i popoli

di Ariela Piattelli

Yair Lapid è la figura più alta governativa israeliana che sia mai andata in visita ufficiale negli Emirati Arabi Uniti. Il paese del Golfo ospita per due giorni il Ministro degli Esteri, che inaugura ad Abu Dhabi l’Ambasciata d’Israele poi il Consolato a Dubai. Tra i momenti più attesi della visita definita “storica” dai media di tutto il mondo, sono l’incontro con il suo omologo, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan e la firma dell’accordo sulla cooperazione economica. Lapid segna così una tappa importante nel cammino iniziato dal precedente governo con gli Accordi di Abramo.
  Ma oltre all’importanza e la rilevanza politica della visita, lo sbarco del Ministro degli Esteri israeliano negli Emirati è un ulteriore segno dell’incontro tra i popoli, atteso in un crescendo di progetti messi in cantiere dai due paesi durante la pandemia, e che si stanno via via realizzando. All’Expo di Dubai 2020, che si è fatto attendere un anno a causa del Covid, al padiglione Israele gli organizzatori aspettano milioni di visitatori che giungeranno per conoscere “i tesori” dello Stato Ebraico. Sul turismo è stato già fatto molto, i due paesi protagonisti hanno studiato piani per la reciproca conoscenza. I tour operator israeliani offrono itinerari che includono le mete studiate appositamente per i nuovi turisti, dunque Gerusalemme con i suoi luoghi religiosi musulmani, e Tel Aviv, che per la sua modernità ricorda Dubai.
  L’interesse reciproco con cui si guardano i due popoli e i paesi converge infine su due temi sempre più importanti per la collettività, ovvero la salute e la sicurezza. La Cyber Security infatti rappresenta un settore in cui si incontrano l’interesse e i diversi know how dei paesi. Sul risparmio dell’acqua ci sono già progetti condivisi, e anche sulla salute, tema per il quale sono già in atto importanti collaborazioni: l’ospedale israeliano di Tel Hashomer condivide con Dubai progetti destinati a realizzare centri di ricerca e di cura. Insomma, la visita di Lapid suggella con la politica, un incontro vivo, tra i popoli, iniziato con il Governo Netanyahu.

(Shalom, 30 giugno 2021)


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Il ministro Lapid negli Emirati Arabi Uniti: "Il Medio Oriente è casa nostra, venite a parlarci"

Prima storica visita ufficiale di un membro di governo israeliano dalla firma degli Accordi di Abramo a settembre

di Sharon Nizza

TEL AVIV - "Israele vuole la pace con tutti i suoi vicini. Il Medioriente è casa nostra, siamo qui per rimanere: chiediamo a tutti nella regione di riconoscere questo fatto. Venite a parlarci". Guarda ben oltre Abu Dhabi il messaggio di Yair Lapid durante l'inaugurazione dell'ambasciata israeliana nella capitale emiratina. Il neoministro degli Esteri è atterrato ieri negli Emirati per la prima, storica visita ufficiale di un membro di governo israeliano dalla firma degli Accordi di Abramo a settembre. L'invito degli emiratini è giunto poco dopo gli 11 giorni di conflitto tra Israele e Hamas e testimonia la tenuta degli Accordi al primo test diplomatico tra i due Paesi.
  Lapid inaugurerà il consolato a Dubai, il padiglione Israele all'Expo e terrà incontri con imprenditori e comunità ebraica locale, cresciuta sensibilmente dalla firma dell'intesa estesa poi anche a Bahrein, Sudan e Marocco. "Siamo felici di mostrare al ministro come siamo stati accolti dalle autorità e dalla gente", dice a Repubblica Alex Peterfreund, vicepresidente del Consiglio ebraico degli Emirati, parte dell'Associazione delle Comunità ebraiche del Golfo (Arabia Saudita e Qatar comprese), un altro frutto degli Accordi che costituiscono il fiore all'occhiello della politica estera di Trump e Netanyahu, che Lapid ha ringraziato nel suo discorso.
  Nel faccia a faccia tra Lapid e l'omologo Abdullah bin Zayed Al Nahyan, l'Iran è stato uno degli argomenti, mentre a Washington Biden garantiva al presidente Rivlin in visita "che sotto la sua guardia non ci sarà mai un Iran nucleare". Ma l'economia è il vero motore di questa intesa: i due ministri hanno siglato un nuovo accordo quinquennale di cooperazione economica e commerciale. Cooperazione in realtà consolidatasi senza attendere le formalità della diplomazia già nei dieci mesi trascorsi da quel 13 agosto in cui l'emiro Mohammad bin Zayed ha cambiato la rotta della tradizionale politica araba per cui "non c'è normalizzazione con Israele senza una risoluzione del conflitto con i palestinesi". A oggi, oltre 200.000 israeliani hanno visitato Dubai sorvolando lo spazio aereo saudita per non scontata concessione di Riad. All'Università di Herzelia, il primo studente emiratino ha inaugurato la stagione degli scambi accademici. Il commercio tra i due Paesi ha già superato i 300 milioni di dollari. Settori leader: cyber, salute e rinnovabili. Asher Fredman, Ceo di "Gulf-Israel Green Ventures", dice a Repubblica che nei prossimi cinque anni sono previsti 480 milioni di dollari di investimenti in energie verdi, in primis tecnologie per il riciclo delle acque e agricoltura in condizioni climatiche estreme.
  Il segretario di Stato Antony Blinken si è congratulato per la "storica visita", sottolineando che gli Usa lavorano per estendere la cerchia delle normalizzazioni e "creare un futuro più pacifico, sicuro e prospero per tutti i popoli del Medioriente". Per smarcare gli Accordi dell'eredità trumpiana, la nuova amministrazione sa che deve incassarne nuovi. Ci sono lavori in corso: tra i nomi più papabili l'Oman - che di fatto è quasi dentro, Netanyahu aveva visitato Mascate ufficialmente nel 2018 - e la Mauritania, che dal 1999 al 2009 ha avuto rapporti diplomatici con Israele.
  Il complesso rapporto tra Biden e il principe saudita Mohammed Bin Salman fa pensare che Riad non sarà la prossima. Diverse fonti credono che la vera scommessa sia sul Pakistan, dove l'erede al trono saudita vorrebbe testare la reazione dell'opinione pubblica di un altro grande Stato sunnita prima di tendere la mano allo Stato ebraico.

(la Repubblica online, 30 giugno 2021)


González Laya: "Con l’Italia pronti a riallacciare il dialogo tra israeliani e palestinesi"

"Siamo due Paesi mediterranei, impegnati nel Medio Oriente, due Stati dell’Unione europea che vogliono aiutare questo negoziato".

di Alessandro Oppes

MATERA — Un’idea nata a Madrid per celebrare nel modo più utile possibile la ricorrenza di un grande evento che ebbe come sede proprio Madrid: la grande Conferenza di pace del 1991. La ministra degli Esteri spagnola, Arancha González Laya, a Matera per il summit dei capi delle diplomazie del G20, conferma a Repubblica che il governo Sánchez sta lavorando da mesi alla proposta di una nuova iniziativa di dialogo tra Israele e Palestina

- Come nasce questa iniziativa?
  «Ci è sembrato che si dovesse utilizzare l’efemeride per qualcosa di positivo, senza farci molte illusioni, perché è vero che riprendere una trattativa, interrotta da tempo, richiede molta energia politica, un consenso internazionale, stabilità all’interno dei Paesi. Ma eravamo coscienti di non poter lasciar passare questa opportunità. Così ne ho parlato con il collega Luigi Di Maio, e abbiamo cominciato a lavorare. Non pensiamo di mettere sul tavolo proposte concrete. Però vogliamo dare un sostegno politico a questa iniziativa. E riportare al centro del negoziato il Quartetto, che venne creato proprio a Madrid, perché sostenga questo sforzo. Al momento siamo modesti nelle nostre ambizioni, perché sappiamo che è un tema complicato. Siamo due Paesi mediterranei, impegnati nel Medio Oriente, due Paesi dell’Unione Europea che vogliono aiutare in questo negoziato tra Israele e Palestina».

- Perché insieme all’Italia?
  Perché mi pare che abbiamo una grande sintonia. Dall’arrivo al governo di Conte in Italia, lo scorso anno, abbiamo iniziato un processo di dialogo a tutti i livelli, per vedere in quali temi potevamo avere affinità. E certamente questo è uno di quei temi. Nella politica nel Mediterraneo, nel processo di pace, nell’impulso a una politica comune dei Paesi del sud dell’Ue, nella gestione congiunta del fenomeno migratorio. Sono tutte questioni nelle quali Italia e Spagna sono nella stessa sintonia».

- C’è la stessa sintonia ora con il presidente Draghi?
  «Assolutamente sì. Non è cambiato nulla. E difatti nella recente riunione di Barcellona tra Draghi e Sánchez abbiamo avuto modo di constatare fino a che punto si tratta di una visione condivisa, perché non sono cambiate le basi. Cambiano le persone, però restano gli stessi interessi strategici fondamentali».

- C’è una bozza di documento Italia-Spagna sulla quale si stanno già pronunciando altri partner europei? Si stanno facendo passi avanti su questa iniziativa per il Medio Oriente?
  «Al momento non ci sono documenti, c’è una nostra idea che ovviamente abbiamo condiviso con i soci comunitari. Ma non spetta a noi presentare una proposta formale, il nostro obiettivo è mettere a disposizione tutta l’energia politica necessaria. Lo stiamo facendo a Bruxelles e ne parleremo anche con Israele e Palestina in un viaggio che Luigi Di Maio ed io faremo tra la fine di luglio e l’inizio di agosto».

- Però si può dire che, per poter avanzare nel processo di pace, individuate come base necessaria il riconoscimento dei confini anteriori alla Guerra dei Sei Giorni e Gerusalemme come capitale dei due Stati?
  «Diciamo che Italia e Spagna pensano che il punto di partenza devono essere le risoluzioni delle Nazioni Unite: due Stati che vivono uno accanto all’altro in pace e sicurezza e con Gerusalemme come capitale. Questo è ciò che dicono le risoluzioni dell’Onu, e non saremo noi a cambiarle. Però, nella distanza che c’è tra la situazione attuale e le risoluzioni dell’Onu c’è spazio per creare motivi di fiducia reciproca tra le parti: distribuire vaccini ad esempio è una misura positiva; cercare progetti comuni in settori d’interesse reciproco, dal commercio al turismo. Bisogna cercare cose concrete che creino fiducia».

- La normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e una parte del mondo arabo contribuisce ad alimentare la speranza che l’iniziativa italo-spagnola possa avere successo?
  «Alla Spagna è sempre parso molto importante e positivo che si sia arrivati a una normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni Stati dell’area. Non si può costruire la pace se uno non parla con i suoi vicini. Questa però è una condizione necessaria ma non sufficiente, perché manca un tassello fondamentale che è la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Palestina».

(la Repubblica, 30 giugno 2021)


La comica della pace in Medio Oriente affidata a Di Maio

di Franco Londei

In questi giorni si è tornato a parlare di pace in Medio Oriente. Si parla sempre di questo argomento generalmente quando si vuole portare Israele su posizioni non consone allo Stato Ebraico.
  E anche questa volta non è diverso con la proposta di pace presentata da Italia e Spagna e della quale si è fatta promotrice anche l’Unione Europea attraverso Josep Borrell e con l’incredibile proposta del Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, sull’Iran.
  A parte che a Gerusalemme ogni volta che sentono parlare di Borrell e di Guterres suonano tutti i campanelli d’allarme. Se poi ci metti anche Luigi Di Maio e Arancha González Laya l’equazione diventa davvero catastrofica.
  Ma andiamo con calma. In questi giorni l’Europa sta spingendo per il piano di pace in Medio Oriente studiato da Di Maio e Gonzales che praticamente prevede di accettare quasi tutte le richieste palestinesi.
  Non si parla di robetta da niente ma di tornare ai confini precedenti alla guerra dei sei giorni del 1967, di condividere Gerusalemme come capitale e cosucce del genere.
  Di Maio e Gonzales non si sono nemmeno sforzati di scrivere qualcosa di nuovo, probabilmente hanno fatto copia-incolla di qualche documento della Autorità Palestinese o di Hamas.
  Lasciamo perdere. Già dovevamo lasciar perdere non appena scoperto che Luigi Di Maio, quello che insieme ai suoi compari del M5S urlava “buongiorno dalla Palestina” quando era in Israele, si era fatto promotore di una iniziativa di pace in Medio Oriente (che già fa ridere così).
  Ma la notizia più sconvolgente è arrivata ieri sera quando il Segretario Generale della Nazioni Unite, Antonio Guterrs, ha chiesto agli Stati Uniti di togliere le sanzioni all’Iran per facilitare la pace e fermare il programma nucleare iraniano.
  Si, avete letto bene. Secondo Guterres per fermare la corsa alla bomba degli Ayatollah bisogna ridargli accesso ai conti correnti bloccati con miliardi di dollari e riportarli al JCPOA.
  In sostanza, per portare pace in Medio Oriente basta fare in modo che gli iraniani possano accedere ai fondi per finanziare Hezbollah, la Jihad Islamica, Hamas e compagnia bella.
  Ok, da radio comiche per oggi è tutto. A risentirci alle prossime proposte di pace per il Medio Oriente.

(Rights Reporter, 30 giugno 2021)


Roma e Madrid, per la pace in Israele basta Abramo

di Fiamma Nirenstein

Sono passati 30 anni di fallimenti dalla conferenza di pace di Madrid, e ancora l'Europa non l'ha capita. Io c'ero a quella conferenza, piena di speranza che il conflitto israelo-palestinese trovasse se non una soluzione almeno un capo e una coda, e con esso si placasse l'odio antisraeliano e venisse a compimento l'idea di due stati per due popoli. Ma uno dei due, non voleva: quello palestinese. Quello che vedemmo già allora era il farsi di giorno di una tela di Penelope di chiacchiere che di notte, quando i membri della delegazione andavano in volo a riportare gli eventi ad Arafat a Tunisi, veniva disfatta. Tornavano alle riunioni carichi di odio, sicuri che Israele doveva essere distrutto.
   Adesso Madrid e Roma ripropongono una conferenza di pace. Sanno benissimo che da trent'anni i tentativi sono stati molti. La sottoscritta, da giornalista, purtroppo non ne ha mancato uno, e sono andati tutti nello stesso modo. Il decantato accordo di Oslo firmato da Rabin e Arafat, finito nel bagno di sangue della Seconda Intifada. Arafat rientrò trionfalmente, le città palestinesi furono sgomberate fino all'ultima consentendo al 98% dei palestinesi di vivere sotto il governo, fino a oggi. Anche Gaza nel 2005 è stata sgomberata e ancora i palestinesi amano parlarne come di terra occupata. Nel frattempo ci sono state parecchie altre conferenze di pace alla fine delle quali a fronte delle molteplici vantaggiosissime offerte di terra da parte di Israele i palestinesi hanno sempre risposto con dei no e con ondate di terrore.
   L'Ue sappia che non tutto il mondo arabo è contro la pace: lo dimostrano i patti di Abramo. Se i palestinesi capiranno che una vera amicizia può fiorire, pace contro pace, fra chi lo desidera veramente, forse usciranno dal loro desiderio di distruzione razzista. Emirati, Bahrein, Marocco, Sudan oltre all'Egitto e alla Giordania sono in pace con Israele. Israele sa darla, i Paesi arabi sanno lavorare insieme. I palestinesi, se l'Europa avesse davvero voluto coinvolgerli in un processo di pace, avrebbero dovuto essere invitati a Bruxelles nell'ambito della pace di Abramo, perché è quello l'involucro positivo. Non il solito disprezzo per cui a Israele ci si rivolge come a un suprematista invasore. La questione dell'occupazione, che è l'unica parola che l'Ue sa compitare, deve recuperare il suo significato storico: qui siamo a fronte di terre disputate, questione di suprema sicurezza e di reciproca accettazione. Non è fatta certo solo di terra la pace, è fatta di pregiudizio religioso e ideologico da parte palestinese, ma non più arabo.
   Ma non vi sembra che prima di rimettervi a progettare altre conferenze di pace, che il paradigma europeo vada riletto completamente? Quanto ad Abu Mazen, non vi siete accorti che è un dittatore i cui oppositori vengono uccisi? Che i denari che gli donate spariscono in vortici incontrollati? Che ha appena cancellato le elezioni dopo 17 anni di inutile e dannoso potere? La proposta di un ennesimo vertice di pace è di guerra al popolo palestinese stesso, che forse desidera la pace proprio come quello dei patti di Abramo ma non può dirlo.

(il Giornale, 30 giugno 2021)


COVID19: al Ben Gurion i passeggeri verranno separati nei due Terminal

I passeggeri provenienti da paesi cosiddetti “rossi” saranno accolti in un terminal separato all’aeroporto Ben Gurion come parte degli sforzi per frenare il contagio dall’estero.

Tra gli sforzi per impedire ai vettori di coronavirus di entrare in Israele, i viaggiatori che arrivano da paesi con casi diffusi di COVID19 sbarcheranno in un terminal separato all’aeroporto Ben Gurion, lo ha annunciato il ministero dei trasporti. Su ordine del ministro dei Trasporti Merav Michaeli, gli arrivi da questi Paesi saranno separati dagli altri passeggeri e portati al Terminal 1, a partire dalle prossime ore.
  Il ministero ha anche deciso di aumentare il numero di navette operanti nell’aeroporto, al fine di ridurre l’affollamento. Per ordine del Ministero della Sanità, gli israeliani sono attualmente esclusi da viaggiare in Argentina, Brasile, Sud Africa, India, Messico e Russia. Il Ministero ha anche emesso avvisi di viaggio “severi” per un certo numero di altri paesi a causa delle preoccupazioni relative alla propagazione del COVID19 . Si tratta di Emirati Arabi Uniti, Seychelles, Cile, Costa Rica e Georgia e i passeggeri provenienti da questi paesi saranno portati al Terminal 1.
  Nel frattempo, l’Autorità aeroportuale israeliana ha dichiarato martedì che gli israeliani vaccinati sono esentati dall’effettuare il test del coronavirus quando entrano in Egitto attraverso il valico di frontiera di Taba, un requisito in vigore da quando è stato riaperto a marzo, dopo una chiusura di un anno a causa della pandemia. I funzionari sanitari hanno collegato il recente picco di infezioni in Israele ai viaggiatori che hanno riportato nuove varianti del virus dall’estero e non si sono messi in quarantena adeguatamente dopo il loro arrivo.
  All’inizio della giornata, Bennett ha affermato che il governo si adopererà per reprimere gli israeliani che visitano i paesi vietati dove esiste un alto rischio di infezione da COVID19. “Stiamo lavorando per vietare completamente i voli verso i paesi rossi”, ha detto Bennett durante una visita in un centro di vaccinazione giovanile. “Sarà una violazione della legge”. Questa settimana, il Ministero della Sanità ha introdotto regolamenti che richiedono a tutti gli israeliani che lasciano il paese di compilare un modulo in cui dichiarano che non visiteranno i paesi nella lista “rossa”. Tutti gli israeliani che visitano un paese vietato rischieranno una multa di 5.000 NIS ($ 1.500).
  Con l’aumento delle infezioni quotidiane, attualmente 1.537 pazienti COVID19 in Israele, secondo i dati del Ministero della Salute diffusi martedì mattina. Di questi, 21 sono in gravi condizioni. Nonostante l’apparente aumento dei casi di variante Delta in Israele, i casi gravi e i ricoveri ospedalieri nel paese sono rimasti relativamente stabili e nelle ultime due settimane è stato registrato solo un decesso.
  Dall’inizio dell’epidemia di virus nel paese lo scorso anno, sono stati rilevati 841.319 casi di COVID-19 e 6.429 persone sono morte a causa della malattia.

(israele360, 30 giugno 2021)


Medio Oriente, cautela in Israele sul piano di pace italo-spagnolo

Via libera invece dai palestinesi all'iniziativa di Di Maio e Gonzalez

di Sharon Nizza

TEL AVIV - "Siamo disponibili a studiare qualsiasi proposta: Spagna e Italia hanno posizioni coerenti per una pace basata sul diritto internazionale e la fine dell'occupazione". Ahmad Majdalani, ministro e membro del Comitato esecutivo dell'Olp, accoglie con favore l'iniziativa italo-spagnola che mira a rilanciare il ruolo dell'Ue nel processo di pace israelo-palestinese.
  Hanno conosciuto tempi migliori le relazioni tra Europa e palestinesi: Bruxelles non ha apprezzato l'annullamento delle elezioni e chiede un'inchiesta sulla recente uccisione dell'attivista Nizar Banat, noto oppositore dell'Anp. Ma rispolverare il Quartetto e un ruolo europeo in Medioriente rimane tra i desiderata di Ramallah, che storicamente ha avuto più alleati in Europa che a Washington.
  "I 30 anni dalla Conferenza di Madrid possono essere un incentivo per concludere ciò che gli europei hanno iniziato allora", dice Majdalani. A Ramallah confermano che la proposta Di Maio-Gonzalez, che potrebbe essere presentata durante una missione programmata per fine luglio, era già nota tramite gli spagnoli.
  Una condivisione che pare invece non abbia raggiunto Gerusalemme: il ministro degli Esteri Yair Lapid avrebbe appreso dell'iniziativa solo giungendo a Roma domenica. Nell'incontro con Di Maio si è parlato della possibile missione in Israele. Per il resto, no comment dalle autorità israeliane, concentrate su altri fronti: Lapid è in partenza oggi per Abu Dhabi per la prima storica visita dagli Accordi di Abramo. E l'ufficio del neopremier Bennett conferma che è in preparazione il primo vertice con Biden a Washington a luglio.
  L'ambasciatore Avi Granot, alle spalle una lunga carriera nella diplomazia israeliana, sembra scettico su quella che potrebbe essere "un'iniziativa tra molte altre". Ma Israele vede nell'Ue un interlocutore? "L'Europa sente di essere solo uno scalo sulla via per Washington. Israele non crede che l'Ue capisca fino in fondo la questione mediorientale: quando per esempio ci condanna perché combattiamo contro Hamas - mentre non c'è uno Stato europeo che accetterebbe un solo razzo sul proprio territorio - non si guadagna credibilità come interlocutore".

(la Repubblica, 29 giugno 2021)


Bennett e Lapid si oppongono alla decisione di Biden di rientrare nell'accordo sul nucleare

di Massimo Caviglia

Anche se vuole puntare molto sul nuovo corso e sul dialogo, assicurando un approccio più collaborativo con Washington, il ministro degli Esteri israeliano Lapid ha detto chiaramente ieri al Segretario di Stato americano Blinken, a margine della Conferenza della Coalizione anti-Isis a Roma, che “Israele ha serie riserve sull'accordo nucleare con l’Iran”. Anche il Presidente israeliano Rivlin sta per incontrare il suo omologo Biden per discutere proprio delle sfide in Medio Oriente. L'Iran ha affermato che il monitoraggio dei suoi siti nucleari da parte dell'Agenzia per l’Energia Atomica è terminato e che non saranno più fornite informazioni. Il Ministero degli Esteri israeliano ha dichiarato che “il regime iraniano mostra ancora una volta le sue intenzioni, impedendo il controllo del suo programma atomico”.
  E, come Netanyahu, anche Bennett e Lapid si oppongono alla decisione del Presidente Biden di voler rientrare nell'accordo sul nucleare iraniano, che significherebbe la fine delle sanzioni sulla vendita del petrolio e finanziamenti miliardari alle attività destabilizzatrici di Teheran. Ma Biden non sta solo rientrando nell'accordo nucleare, intende anche tirare fuori gli Stati Uniti dall'intera regione, quindi Israele dovrà agire a breve, prima che l’influenza iraniana invada tutta l’area. Nel suo primo comizio post elettorale qualche giorno fa, l’ex Presidente americano Trump ha lanciato un messaggio al suo Paese e a Israele: “È probabile che scoppi una grande guerra a causa dell'accordo nucleare con l'Iran”. D’altronde, come ha affermato anche il premier israeliano Bennett: “Continueremo a consultarci con i nostri alleati cercando di convincerli e condividendo informazioni. Ma, alla fine, la responsabilità del nostro destino è nelle nostre mani”.

(San Marino Rtv, 29 giugno 2021)


Prima visita ufficiale del ministro degli Esteri israeliano ad Abu Dhabi

GERUSALEMME - Prende il via oggi una visita di due giorni del ministro degli Esteri israeliano e premier supplente, Yair Lapid, negli Emirati Arabi Uniti, dove inaugurerà ufficialmente l’ambasciata di Israele ad Abu Dhabi e il consolato a Dubai. Si tratta della prima visita ufficiale di un ministro israeliano in carica negli Emirati, dopo la firma degli Accordi di Abramo, avvenuta il 15 settembre 2020 a Washington. Il viaggio assume una duplice importanza, poiché si tratta del primo spostamento ufficiale del neo capo della diplomazia israeliana all’estero. Il nuovo governo israeliano ha ricevuto una risicata fiducia dal parlamento lo scorso 13 giugno, ponendo fine a uno stallo istituzionale durato oltre due anni.
   In occasione di un viaggio di lavoro a Roma avvenuto domenica, 27 giugno, il capo della diplomazia israeliano ha incontrato il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Luigi Di Maio, il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, e l’omologo del Bahrein, Abdullatif bin Rashid al-Zayani. In occasione dell’incontro con Blinken, Lapid ha definito la sua visita negli Emirati “storica e spero che sia la prima di molte. Non vedo l'ora di lavorare con voi per allargare il cerchio della pace nella nostra regione. Questo è il modo migliore per portare stabilità e prosperità in Medio Oriente”. Durante la visita, Lapid sarà ricevuto dal ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale emiratino, Abdullah bin Zayed al Nahyan.
   Dopo l'avvio della normalizzazione delle relazioni nel settembre 2020 i due Paesi hanno firmato una serie di accordi sia in ambito energetico, che finanziario e infrastrutturale, avviando una nuova fase nel capitolo dei rapporti tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi e musulmani.

(Agenzia Nova, 29 giugno 2021)


“Definirmi antisemita? È un’infamia”

L’intervista di Shalom a Matteo Salvini

di Ariela Piattelli

“Antisemita”. Un aggettivo “inaccettabile” per Matteo Salvini, tanto che il leader della Lega ha denunciato formalmente per diffamazione Carlo De Benedetti che lo ha definito “antisemita e xenofobo” rispondendo alle domande di Lilli Gruber in un’intervista del 2018. Così il 28 giugno Salvini si è presentato come parte civile a Cuneo al processo contro De Benedetti, e Shalom lo ha intervistato sulle ragioni della denuncia, sull’antisemitismo dilagante in Europa e sul ruolo della politica.

- Ieri in tribunale si è discusso della sua querela nei confronti di Carlo De Benedetti, che nel 2018 l’aveva definita antisemita. Perché ha ritenuto di non soprassedere ma di procedere con denuncia formale?
  Le critiche politiche le accetto da sempre, anche se pesanti e infondate, fanno parte della politica, e della vita. L'aggettivo antisemita invece proprio no, lo ritengo un'infamia pesante e inaccettabile, allora come ora. Con la storia, la sofferenza e gli stermini di milioni di persone non si può scherzare o fare finta di niente.

- In virtù di questa posizione netta contro l’antisemitismo. Che ne pensa dei nuovi rigurgiti antisemiti in Europa? Quali azioni si possono intraprendere contro i movimenti neonazisti e antisionisti dilaganti in Europa?
  Sono preoccupato e da tempo lavoriamo a stretto contatto con tante Comunità e associazioni ebraiche, in Italia e soprattutto in Europa, dove troppo spesso c’è un brutto clima alimentato dall’estremismo, di sinistra, di destra o islamista. Come si contrastano violenza e ignoranza? Con l’educazione, con la cultura, con la severa condanna di violenze, discriminazioni, abusi e negazioni di verità storiche. Che errore per l’Europa negare nella sua “Costituzione” le proprie radici giudaico cristiane per obbedire al politicamente corretto di certa sinistra! Dobbiamo ricordarci chi siamo e da dove veniamo. Quello che è stato negato da burocrati e politici a Bruxelles, è invece riconosciuto nella Carta Costituzionale del Marocco, che cita l’ebraismo fra le sue culture fondanti, e ha portato anche sui banchi di scuola l’insegnamento della storia e cultura ebraica. Un’Europa che rinnega le sue radici presta il fianco ad estremisti e negazionisti. Fondamentale poi è la difesa di Israele, della sua libertà, sovranità, legittimità e diritto all’esistenza, ancora oggi messe in discussione, aggredite e discriminate.

- Chi la critica lo fa sulla base delle sue alleanze in Europa, soprattutto quella con Marine Le Pen.
  Marine non è come suo padre, ha una diversa cultura e apertura, ha spirito di inclusione e lavora per l’integrazione, nel rispetto di identità e radici diverse. La nostra è un’alleanza basata su un’idea di un’Europa diversa, moderna, solidale e rispettosa di economie, tradizioni e culture, fondata su famiglia, lavoro, innovazione e progresso. L’immigrazione clandestina e di massa, molto spesso da paesi islamici, non aiuta sicuramente.

- Lei ha sempre rivendicato il suo rapporto di amicizia con Israele e personale con Netanyahu. Come vede il nuovo governo israeliano? La posizione della Lega di vicinanza resterà immutata?
  Vale lo stesso discorso che ho fatto per gli Stati Uniti: indipendentemente da chi guida il Paese, l’Italia non cambia alleanze e la Lega non cambia amicizie. Certo, ho conosciuto personalmente e apprezzato Netanyahu, per cui nutro profonda stima, ammirazione e rispetto, peraltro confermate anche dal voto degli israeliani pochi mesi fa. Ma in politica, in Israele come in Italia, non sempre basta vincere le elezioni per governare… A prescindere dai partiti comunque, finito il dramma del Covid spero di tornare presto in visita in Israele, un Paese che adoro, un Paese giovane, democratico, inclusivo e attaccato solo da quelli che non lo conoscono.

(Shalom, 29 giugno 2021)


Israele vieta le pellicce (tranne i cappelli)

La pelliccia è fuori legge. Almeno in Israele, primo Paese al mondo a vietare la produzione e la vendita di vestiario in pelle o pelo di animale. Proposta nell'ottobre scorso, la legge è passata grazie al compromesso che esclude dalla messa al bando gli shtreimel, i cappelli di pelliccia indossati dagli uomini di alcune comunità ultra-ortodosse. «L'industria delle pellicce provoca la morte di centinaia di milioni di animali in tutto il mondo e infligge crudeltà e sofferenze indescrivibili», ha dichiarato la ministra della protezione ambientale Gila Gamliel, firmando la legge il 9 giugno. «Usare la pelle e il pelo della fauna selvatica per l'industria della moda è immorale e certamente non necessario. La firma di questi regolamenti renderà il mercato israeliano più rispettoso dell'ambiente e molto più gentile con gli animali». La decisione è stata sostenuta dall'86 percento degli israeliani secondo il quotidiano Jerusalem Post.
   D'altra parte anche l'alta moda ha imboccato da tempo questa strada. Nel 2017 Gucci è stata una delle prime case di moda a porre fine all'uso della pelliccia nelle sue creazioni. Altri stilisti si sono impegnati a fare lo stesso, tra cui Armani, Michael Kors, Chanel, Prada, Versace, Hugo Boss, Stella McCarthy, Valentino, Brunello Cucinelii, Balenciaga.

(Corriere della Sera, 29 giugno 2021)


L’Autorità palestinese affronta un’intifada interna

di Pierre Haski

In questi giorni si percepisce un odore di intifada nelle città palestinesi, da Ramallah a Hebron. Contrariamente alle rivolte precedenti, però, l’obiettivo stavolta non sono l’esercito o i coloni israeliani, ma l’Autorità nazionale palestinese (Anp), il governo autonomo che dovrebbe incarnare e difendere la causa dei palestinesi in Cisgiordania.
   Tutto è cominciato con la morte di Nizar Banat, attivista di 43 anni originario di Hebron, deceduto il 24 giugno poche ore dopo che la polizia palestinese l’aveva arrestato. La famiglia di Banat parla di “omicidio” e afferma che il corpo dell’uomo mostrava i segni delle percosse. Le autorità, invece, hanno dichiarato che le condizioni di salute di Banat sono “rapidamente peggiorate”.
   Banat era conosciuto per le critiche spietate rivolte sui social network contro l’Anp, guidata da Abu Mazen. Migliaia di persone hanno partecipato ai suoi funerali a Hebron, nel sud della Cisgiordania, e da allora sono state organizzate manifestazioni ogni giorno a Ramallah, sede dell’Anp, con scontri tra manifestanti e polizia. Scene che ricordano le intifada degli anni ottanta e duemila.
   La morte di Banat è la goccia che ha fatto traboccare il vaso in un contesto segnato dal risentimento crescente nei confronti dell’Anp. All’origine della protesta c’è la decisione di Abu Mazen di annullare le elezioni presidenziali e legislative previste per il mese scorso nei territori palestinesi.

 Il problema è che le ultime elezioni risalgono a quindici anni fa
   Ufficialmente la scelta è stata dettata dal rifiuto di Israele di consentire il voto a Gerusalemme Est, ma i palestinesi sono convinti che Abu Mazen abbia annullato la tornata elettorale per paura di una sconfitta, anche perché il suo partito, Al Fatah, era diviso in diverse liste concorrenti, mentre Hamas minacciava di ottenere un ottimo risultato. L’annullamento delle elezioni ha giocato un ruolo nella decisione del partito islamista di lanciare la sua “guerra dei razzi” contro Israele.
   La legittimità di Abu Mazen, successore di Yasser Arafat, è dunque discutibile. Per questo motivo il presidente è finito al centro della collera dei manifestanti dopo la morte di Banat.
   Nei territori palestinesi è arrivata la fine di un ciclo. Il sistema ereditato dagli accordi di Oslo del 1993 è in crisi, a causa dell’assenza della prospettiva di uno stato indipendente come previsto dagli storici accordi, ma anche della divisione delle forze palestinesi tra Cisgiordania e Gaza, dell’autoritarismo crescente di un’Autorità screditata e dell’emergere di una nuova generazione palestinese che non ha conosciuto le lotte del passato.
   A cosa può portare tutto questo? Il carattere di questa intifada senza precedenti è imprevedibile, perché la lotta è diretta contro i propri leader storici che secondo i giovani manifestanti hanno ormai fatto il loro tempo.
   Alcuni palestinesi si considerano “occupati” sia da Israele sia dall’Anp. Lo scontro si allarga, insomma, ma forse il necessario chiarimento politico palestinese, che non è stato possibile attraverso le urne, potrebbe concretizzarsi nelle piazze.

(Internazionale, 28 giugno 2021)


Lapid: “Serie riserve sull’accordo nucleare con l’Iran”

Nella capitale l’incontro dell’inviato di Biden con il ministro degli Esteri israeliano. Washington ribadisce “il profondo impegno degli Usa alla sicurezza dello Stato ebraico”

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Allargamento della cerchia degli accordi di normalizzazione tra Israele e vicini arabi – gli “Accordi di Abramo” –, consolidamento della tregua Israele-Hamas e trattative sul nucleare iraniano. Questi sono i temi principali del primo vertice, svoltosi a Roma, tra l’amministrazione Biden e il nuovo esecutivo israeliano di Naftali Bennett, insediatosi il 13 giugno mettendo fine a 12 anni consecutivi di governi Netanyahu. Yair Lapid, ministro degli Esteri israeliano e premier alternato, ha raggiunto nella capitale il Segretario di Stato Antony Blinken in una tappa del suo intenso tour europeo. «Negli ultimi anni sono stati commessi errori. La posizione bipartisan di Israele è stata colpita. Ripareremo insieme a questi errori», ha detto in apertura del suo intervento Lapid, con un chiaro riferimento alle critiche mosse a Netanyahu per il sostegno troppo entusiasta ai repubblicani già dall’epoca Obama. Sull’argomento più caldo sul tavolo, le trattative per il rientro degli Usa nell’accordo sul nucleare iraniano – ora messe a rischio dal mancato consenso di Teheran al prolungamento del monitoraggio dell’Aiea - , Lapid ha parlato di «serie riserve» che però intende discutere con l’alleato più importante «in conversazioni dirette e professionali e non in conferenze stampa». Se intesa deve essere, come sembra, gli israeliani premerebbero dietro le quinte perché venga estesa anche al sostegno iraniano a gruppi terroristici mediorientali e al programma missilistico di Teheran.
   Blinken, ribadendo «il profondo impegno degli Usa alla sicurezza d’Israele», ha messo al primo posto della sua agenda la necessità di cementare la fragile tregua raggiunta il mese scorso dopo 11 giorni di conflitto tra Israele e Hamas – un ruolo che di fatto stanno svolgendo gli egiziani. Il Segretario di Stato ha ribadito l’importanza degli Accordi di Abramo, osservando però che «per quanto vitali, non sostituiscono l’impegno sulla questione israelo-palestinese». Lapid martedì si recherà negli Emirati Arabi Uniti per il primo viaggio (alla luce del sole) di un esponente di governo israeliano.
   A Roma ha incontrato per la prima volta anche Abdullatif al-Zayani, il ministro degli Esteri del Bahrein e ha concluso il tour con un faccia a faccia con il ministro Luigi Di Maio. Nel colloquio con il titolare della Farnesina si è discusso anche dell’iniziativa italo-spagnola volta a rivitalizzare il ruolo dell’Ue nel processo di pace mediorientale, anticipata nei giorni scorsi da Di Maio annunciando una visita in Israele e nei Territori Palestinesi in programma per fine luglio.

(la Repubblica, 28 giugno 2021)


Israele e l’incognita Delta

Ritorno del virus nonostante i vaccini

di Meir Ouziel (da Maariv)

Eravamo convinti di averla sconfitta e invece ci troviamo ad affrontare il timore di una recrudescenza della pandemia. In Israele la percentuale degli immunizzati è la più alta al mondo e il Paese ha raggiunto da tempo il traguardo di zero morti di Covid e quasi zero contagi. Fino a che la variante Delta è penetrata anche in Israele e i contagi sono ricomparsi, anche tra i vaccinati. Scopriremo che il vaccino non è abbastanza efficace contro questa mutazione? L’altro grande interrogativo è: come si comporteranno le persone che pensavano di aver sconfitto il virus con il vaccino? Un primo esempio ci è arrivato venerdì, quando le autorità israeliane hanno chiesto ai partecipanti al Gay Pride di Tel Aviv di indossare le mascherine. La tipica reazione è stata: "Nessun timore, siamo vaccinati".
  Il virus, che gli israeliani davano per sconfitto, si è infiltrato nel Paese. E poi, negli ultimi giorni, all’improvviso hanno cominciato a spuntare i nuovi contagi. Sono ancora contenuti, ma crescono. Così è iniziata la prima terribile ondata che si è poi diffusa in tutto il mondo. Ovunque spuntavano piccoli numeri che diventavano ingestibili.
  Ci troviamo di fronte a un enorme esperimento comportamentale. Se Israele fino a oggi è stato il laboratorio del mondo per misurare l’efficacia della campagna vaccinale, ora può diventarlo per esaminare un’altra questione: come si comporteranno le persone che pensavano di essere al sicuro perché immunizzate, nel momento in cui emerge la possibilità che il virus possa superare lo scudo vaccinale? Credo che gli studiosi del comportamento umano scopriranno che l’atmosfera del "ritorno alla vita" è così inebriante che al momento nessuno è pronto a tornare alla clausura. L’atmosfera generale è più conforme alla tipica filosofia israeliana dell’"andrà bene", persino di fronte all’allarmante notizia che circa il 40% degli israeliani contagiati dalla variante Delta sono stati immunizzati con due dosi di Pfizer.
  A complicare la situazione per gli israeliani c’è il fatto che nel frattempo è nato un nuovo governo, formato da forze politiche provenienti dai poli opposti, unite nell’obiettivo di mandare a casa Netanyahu. "Tutto tranne Bibi" — sebbene questi abbia portato allo sradicamento del Covid — era l’obiettivo finale di tutte le formazioni politiche che hanno dato vita al nuovo governo Bennett-Lapid. Un obiettivo che ha reso possibile la creazione di una strana coalizione caratterizzata da ideologie e finalità diverse, spesso persino opposte. Per la prima volta nella storia d’Israele, a governare il Paese è un premier con soli sei seggi, il 5% del parlamento israeliano. Non si può di certo incolpare il nuovo governo per l’aumento dei contagi a pochi giorni dall’insediamento. Ma Netanyahu ha dimostrato di sapere gestire la pandemia. La domanda che si pongono gli israeliani è se altrettanto saprà fare la nuova, eterogenea coalizione, che sin dagli esordi affronta questioni sulle quali non è in grado di prendere decisioni chiare a causa dei divari interni.

(la Repubblica, 28 giugno 2021- trad. Sharon Nizza)


"Nessun timore, siamo vaccinati", assicurano gli omo-lesbo-bi-inter-transessuali festosamente radunati a Tel Aviv. Nel loro rotolarsi si sentono protetti dal dio vaccino. Anche contro le ire del Dio d'Israele? M.C.



La sapienza grida: 'Fino a quando?'

Dal libro dei Proverbi, capitolo 1

  1. La sapienza grida per le vie, fa udire la sua voce per le piazze;
  2. nei crocicchi affollati ella chiama, all'ingresso delle porte, in città, pronunzia i suoi discorsi:

  3. 'Fino a quando, o scempi, amerete la scempiaggine? fino a quando gli schernitori prenderanno gusto a schernire e gli stolti avranno in odio la scienza?
  4. Volgetevi a udire la mia riprensione; ecco, io farò sgorgare su voi lo spirito mio, vi farò conoscere le mie parole.

  5. Ma poiché, quand'ho chiamato avete rifiutato d'ascoltare, quand'ho steso la mano nessun vi ha badato,
  6. anzi avete respinto ogni mio consiglio e della mia correzione non ne avete voluto sapere,
  7. anch'io mi riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando lo spavento vi piomberà addosso;
  8. quando lo spavento vi piomberà addosso come una tempesta, quando la sventura v'investirà come un uragano, e vi cadranno addosso la distretta e l'angoscia.

  9. Allora mi chiameranno, ma io non risponderò; mi cercheranno con premura ma non mi troveranno.
  10. Poiché hanno odiato la scienza e non hanno scelto il timor dell'Eterno
  11. e non hanno voluto sapere dei miei consigli e hanno disdegnato ogni mia riprensione,
  12. si pasceranno del frutto della loro condotta, e saranno saziati dei loro propri consigli.
  13. Poiché il pervertimento degli scempi li uccide, e lo sviarsi degli stolti li fa perire;
  14. ma chi m'ascolta se ne starà al sicuro, sarà tranquillo, senza paura d'alcun male'.

 

Lite sui risarcimenti della Shoah La Polonia taglia, Israele protesta

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Rischio di crisi diplomatica tra Israele e Polonia sul controverso disegno di legge in discussione a Varsavia volto a limitare le richieste di risarcimento dei beni confiscati durante e dopo la Seconda guerra mondiale. La legge, passata la settimana scorsa dalla camera bassa del parlamento polacco e diretta ora al senato, fissa un limite di 30 anni per presentare richieste di indennizzi, con attuazione retroattiva. Secondo Gideon Taylor, presidente dell’Organizzazione mondiale ebraica per la restituzione, la legge comprometterebbe circa il 90% delle rivendicazioni ebraiche in corso. «Una vergogna», l’ha definita il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid in un tweet giovedì. «Una legge immorale che rischia di danneggiare le relazioni bilaterali. Nessuna legge cambierà la storia ». Concetti ribaditi da Alon Bar, il capo del dipartimento politico del ministero degli Esteri, che ieri ha convocato l’ambasciatore polacco in Israele dopo che a Varsavia hanno tuonato contro le dichiarazioni di Lapid. Il viceministro degli Esteri, Pawel Jablonski ha accusato il capo della diplomazia israeliana di «profonda ignoranza dei fatti». «Posso solo dire che finché sarò premier, la Polonia sicuramente non pagherà per i crimini tedeschi. Non uno sloty, non un euro, non un dollaro», era stata la reazione del primo ministro Mateusz Morawiecki. A cui Lapid, poco dopo essere atterrato ieri a Roma per incontrare Blinken, ha risposto: «Non ci interessano i soldi polacchi e solo accennarlo è antisemitismo. Noi ci battiamo per la memoria delle vittime della Shoah e non permetteremo a nessun parlamento di emanare leggi volte a negare l’Olocausto».
  Anche gli Stati Uniti hanno auspicato, tramite il portavoce del dipartimento di Stato Ned Price, lo stop dell’iter legislativo. Il presidente del World Jewish Congress, Ronald Lauder, ha detto che la legge è «uno schiaffo in faccia a ciò che resta dell’ebraismo polacco e ai sopravvissuti delle brutalità naziste ». I polacchi riferiscono che la normativa dà attuazione a una sentenza del Tribunale costituzionale del 2015 che ha stabilito di fissare un termine oltre il quale decisioni amministrative errate non possono più essere impugnate. La Polonia non ha mai approvato una legge comprensiva sulla restituzione dei beni espropriati agli ebrei durante l’occupazione nazista, in seguito confiscati e nazionalizzati dal regime comunista. Solo nel 1989 sono iniziate le prime cause avviate dalle vittime di espropriazioni — ebrei e non — con iter estremamente lunghi e burocratici a causa dell’assenza di una legge ad hoc. Venerdì 70 lapidi sono state distrutte nel cimitero ebraico nella città di Bielsko-Biala, nel sud della Polonia. Il rabbino capo della Polonia, Michael Schudrich, citato da Jerusalem Post ha connesso l’episodio antisemita con le tensioni. «Quando i politici usano un linguaggio pieno d’odio, non sorprende che succedano questo genere di cose».

(la Repubblica, 28 giugno 2021)


Israele. Un laser contro i droni è questa l'arma del futuro

di Fabio Scuto

Primi test con successo in Israele per un innovativo sistema laser aereo in grado di distruggere l'aviazione più letale di questi anni a basso costo: i droni. Come parte dei test, il laser ha colpito diversi velivoli senza equipaggio che volavano a varie altitudini e distanze diverse. Il sistema è stato sviluppato da Ebit Systems e i test sono stati eseguiti in coordinamento con l'IAF e l'Amministrazione per lo sviluppo delle armi e le infrastrutture tecnologiche del ministero della Difesa (MAFAT).
   La guerra in Libano del 2006 portò allo sviluppo tecnologico che pochi anni dopo diede vita all'Iron Dome, il sistema antimissile particolarmente efficiente ma che ha un costo elevato (50.000 dollari ogni colpo). Di qui l'esigenza di trovare un sistema alternativo e a un costo minore. Il progetto prevede un laser aereo, sviluppato dalla Elbit per i droni, e un laser terrestre sviluppato dalla Rafael Advanced Weapons Systems per i missili. L'intercettazione utilizzando un sistema laser aereo ad alta potenza presenta molti vantaggi, oltre al risparmio, la capacità di intercettare minacce provenienti da lunghe distanze, operando a grandi altitudini senza restrizioni legate a condizioni meteorologiche, fornendo così una zona protetta su vaste aree.
   Secondo il capo del MAFAT,il generale Yaniv Rotem, il completamento dei prototipi richiederà tre-quattro anni, e spera che per allora possa essere implementato il primo sistema per la difesa delle comunità vicine al confine di Gaza, le più bersagliate dai missili di Hamas. Il sistema, ha spiegato Rotem, è completamente automatizzato: "È un sistema ottico molto avanzato, con capacità di monitoraggio e intelligenza artificiale. Non appena un bersaglio si sposta in un'area di interesse, il sistema lo aggancia. Questo sistema sarà montato su aerei.
   In seguito, riducendo le sue dimensioni, potrebbe essere montato anche su altre piattaforme, cioè su basi mobili a terra. I droni, ha aggiunto Rotem, restano l'obiettivo principale ma i laser potranno intercettare anche missili in arrivo da Paesi nemici come l'Iran, "il nostro obiettivo è che il sistema abbia la capacità di intercettare bersagli a distanze di centinaia di chilometri entro un decennio".

(il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2021)


Per lei volano gli eroi: un viaggio emotivo nella storia d’Israele tra amicizia e amore

di Michelle Zarfati

Amir Gutfreund è nato il 23 luglio 1963 ad Haifa e morto il 27 novembre 2015 nella medesima città. Figlio di sopravvissuti alla Shoà fu colonnello dell’aeronautica militare israeliana ma anche ricercatore di matematica e fisica; è annoverato oggi tra i maggiori scrittori israeliani. Grazie ai suoi libri è stato insignito del Buchman Prize, del Sapir Prize e del Book Publishers Association’s Gold Book Prize. Da Per lei volano gli eroi, più precisamente dalle ultime settanta pagine, è stata tratta la serie tv Netflix di Omri Givon.
  “Per lei volano gli eroi” può esser considerato il suo capolavoro. Eshkol Nevo lo ha definito “Un romanzo monumentale. Una storia d’amore e di amicizia in una miscela di umorismo e compassione…”. Un’opera che riesce ad intrecciare sinergicamente la grande storia e i mutamenti dello stato d’Israele nel corso degli anni, alla storia personale di ciascun personaggio. La storia di un’amicizia, di cinque ragazzi diversi come solo i veri amici sanno essere, che abitano in un quartiere popolare di Haifa e provengono da ambienti socioculturali estremamente diversi. Ma sarà proprio la loro diversità caratteriale, il modo differente di vedere la vita, di elaborare l’atrocità della guerra, e le loro storie familiari a legarli tanto profondamente.
  Arik la voce narrante, che sogna di diventare uno scrittore. Benni, Zion, Gideon e Yoram. Cinque amici inseparabili che nella loro diversità condividono un grande affetto per Michal, la sorella minore di Benni. Lei è la donna per cui volano gli eroi. Ma il personaggio più significativo del libro, il più potente che si insinua pagina dopo pagina prepotentemente è Israele: con i suoi tanti personaggi che gravitano intorno al microcosmo di questo quartiere dove passano gli anni, si succedono gli attentati, le guerre, la tristezza, la felicità, i governi, la morte e gli amori. Personaggi diversi ma che si completano costruendo inconsapevolmente un mosaico variopinto, specchio della realtà contraddittoria e ricca che da sempre contraddistingue la società israeliana. Gutfreund è in grado infatti di ripercorrere la storia attraverso la lente di chi l’ha vissuta, disegnandone i contorni. Una narrazione che corre storicamente e che vedrà i cinque amici protagonisti di un’ultima missione alla fine degli anni Novanta. Divenuti ormai adulti, con la loro storia personale, le loro ferite, e i loro successi si ritroveranno uniti da un solo scopo: salvare la bella Michal, tenuta prigioniera a Chicago da una setta guidata da un ex soldato israeliano, rimasto intrappolato psicologicamente sul monte Hermon durante la guerra del Yom Kippur. Così la narrazione spicca il volo geograficamente conducendoli lontano da casa, ma dando sia al lettore che ai cinque amici la possibilità di compiere un viaggio di formazione senza fine. Un libro meraviglioso, potente e indimenticabile.

(Shalom, 28 giugno 2021)


Attacchi americani in Siria e Iraq contro milizie sostenute dall’Iran

Gli Stati Uniti hanno effettuato diversi attacchi aerei in Siria e Iraq contro siti riconducibili alle milizie sciite sostenute dall’Iran.
Lo hanno annunciato fonti del Pentagono precisando che le azioni statunitensi erano una risposta agli attacchi con droni portati dai miliziani contro basi americane in Siria e in Iraq.
Ad essere prese di mira sono state strutture operative e di stoccaggio di armi in due località in Siria e una in Iraq.
Al momento non è chiaro se negli attacchi ci siano state vittime o feriti.
Questo è il secondo attacco della Presidenza Biden contro le milizie sciite sostenute dall’Iran. «
Come dimostrato dagli attacchi di questa sera, il presidente Biden è stato chiaro in merito al fatto che agirà per proteggere il personale statunitense», ha affermato il Pentagono in una nota diffusa nella serata di ieri.

(Rights Reporter, 28 giugno 2021)


L'incontro tra Lapid e Blinken oggi a Roma

Il ministro degli Esteri israeliano e il segretario di Stato americano parleranno anche di come preservare il fragile cessate il fuoco entrato in vigore il 21 maggio tra Israele e il movimento islamista palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza.

Il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid incontrerà oggi a Roma il segretario di Stato americano, Antony Blinken, mentre l'amministrazione del presidente Usa, Joe Biden, resta impegnata in nuovi colloqui sul rilancio dell'accordo del 2015 sul nucleare iraniano, fortemente osteggiato da Israele.
  Il viaggio sarà il primo di Lapid da ministro degli Esteri e quello di Roma sarà il primo incontro tra esponenti del nuovo governo israeliano e del gabinetto di Biden. L'incontro cade esattamente due settimane dopo il giuramento del nuovo governo israeliano. Biden e Blinken stanno inoltre cercando di preservare il fragile cessate il fuoco entrato in vigore il 21 maggio tra Israele e il movimento islamista palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza.
  Il nuovo governo di coalizione israeliano considera ancora l'Iran come la principale minaccia per Israele e ha lanciato attacchi sulla Striscia di Gaza, ma si è impegnato a dare alta priorità all'alleanza con Washington.
  Blinken e Lapid hanno già avuto diversi colloqui telefonici e l'incontro si tiene poco dopo la chiusura del sesto round di colloqui indiretti tra Stati Uniti e Iran. Funzionari a Teheran hanno affermato che Washington è vicina alla revoca delle sanzioni petrolifere contro la Repubblica islamica, mentre Germania e Francia hanno affermato che ci sono ancora importanti questioni da negoziare.
  Il segretario di Stato Usa ha rimarcato l'impegno degli Stati Uniti per la sicurezza di Israele, l'importanza delle relazioni bilaterali e la necessità di migliorare i rapporti israelo-palestinesi. Come il precedente governo israeliano, anche quello guidato da Bennett e Lapid si oppone allo sforzo dell'amministrazione Biden di rientrare nell'accordo nucleare iraniano noto come Joint Comprehensive Plan of Action.
  Tuttavia, Lapid - e secondo quanto riferito anche Bennett - hanno sottolineato che qualunque siano i loro disaccordi con gli Stati Uniti, hanno in programma di affrontarli a porte chiuse, piuttosto che cercare schermaglie pubbliche come ha fatto Netanyahu durante l'amministrazione Obama.
  Lapid ha incontrato Blinken per la prima volta il mese scorso quando il segretario di Stato era a Gerusalemme come parte dello sforzo degli Stati Uniti per raggiungere il cessate il fuoco che ha posto fine a una guerra di 11 giorni tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza.

(AGI, 27 giugno 2021)


Un sondaggio preoccupante: I palestinesi preferiscono Hamas e la lotta armata

di Ugo Volli

I sondaggi contano. Contano anche dove non si tengono elezioni da moltissimi anni e quelle annunciate vengono sempre annullate, e il potere è in mano a dittature sanguinose, come nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese e a Gaza. Qui non servono a prevedere la composizione di un parlamento che non funziona da un decennio e che probabilmente non sarà rinnovato per tantissimo tempo ancora. Ma sono essenziali per capire gli umori della gente, le domande che fanno ai gruppi che li amministrano, che cosa sono disposti ad accettare e che cosa rifiutano: questioni che in un posto dove le armi sono dappertutto e pochi si fanno scrupolo a uccidere i nemici pubblici o privati, sono di vita o di morte.
  Dunque il sondaggio uscito nei giorni scorsi, il primo che fotografa l’atteggiamento politico degli arabi di Giudea, Samaria e Gaza dopo tutto quel che è successo negli ultimi due mesi, è importante. Non ci sono state le elezioni politiche promesse dall’Autorità Palestinese, c’è stata un’ondata terroristica, il lancio di migliaia di razzi di Hamas e Jihad Islamica su Israele, la reazione dello stato ebraico che ha distrutto buona parte dell’apparato militare terrorista. In Israele è cambiato il governo, perfino in Siria e in Iran hanno votato (o piuttosto hanno tenuto sceneggiate elettorali); ma nei “territori palestinesi” comandano sempre quelli, da tempo immemorabile. Che ne pensa la gente?
  Il risultato è piuttosto scoraggiante, soprattutto per chi, come l’amministrazione Biden e in genere la sinistra, anche in Israele, crede che il consenso dei palestinesi sia una precondizione essenziale per la pace fra Israele e mondo arabo. Il sondaggio, condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research, ha rilevato che il 53 percento dei palestinesi è d'accordo con l'affermazione "Hamas merita di più di rappresentare e guidare il popolo palestinese", contro solo il 14 percento che dice lo stesso di Fatah, il partito de dittatore dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas. E’ un’altra prova che se si tenessero ora le elezioni, Abbas le perderebbe disastrosamente e che ormai rappresenta solo se stesso e i suoi clienti.
  Ciò si spiega anche perché la grande maggioranza dei palestinesi (il 77%) crede contro ogni evidenza che Hamas abbia vinto il recente conflitto con Israele (il 18% ritiene che nessuna delle due parti ha vinto e il 2% ha affermato che entrambe hanno vinto. Solo l'1% crede che Israele sia emerso vincitore). È un risultato che mostra l’efficacia della propaganda e soprattutto la potenza dell’illusione, ma che dà da pensare: è difficile fare accordi e stringere compromessi con un pubblico così impermeabile alla realtà.
  Il 72% degli intervistati dice di credere che Hamas, come sostiene, abbia lanciato l'attacco del 10 maggio contro Israele per difendere Gerusalemme e la moschea di Al-Aqsa, mentre solo il 9% pensa che si sia trattato di una protesta contro la cancellazione da parte di Abbas delle elezioni parlamentari palestinesi. Il 65% ritiene che Hamas abbia raggiunto il suo obiettivo, descritto dal sondaggio come la fine delle restrizioni israeliane all'accesso dei musulmani ad Al-Aqsa e l'arresto dell'espulsione delle famiglie arabe dal quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme.
  La stragrande maggioranza, il 94%, afferma di essere orgogliosa di come hanno agito i governanti di Gaza durante il conflitto di maggio. La ragione di questo orgoglio è per il 39 % perché hanno sferrato un attacco in difesa di Gerusalemme e hanno esposto la debolezza dell'esercito israeliano. Un altro 39% si è detto orgoglioso perché Gaza ha riportato la causa palestinese in “prima linea nella politica araba e internazionale”. Il 13% si è detto orgoglioso perché Gaza aveva sofferto con “pazienza e dignità in difesa di Gerusalemme”. Il sondaggio ha anche riscontrato un picco nel sostegno al ritorno al conflitto armato, in forte aumento fino al 60%. L’appoggio ai negoziati e in generale la fiducia nella diplomazia (che è l’argomento retorico anche se non il comportamento reale di Abbas) sono ormai condivisi solo da una minoranza molto scarsa.
  I sondaggi riflettono sempre solo l’atteggiamento momentaneo degli intervistati. Ma questo rappresenta un segnale allarmante di bellicismo e perdita di contatto con la realtà, vicino non solo nel tempo all’elezione di un nuovo presidente iraniano esplicitamente estremista. Per il Medio Oriente si prospettano nuovi scontri, nuovi conflitti, nuovo terrorismo.

(Shalom, 27 giugno 2021)


Israele invierà una squadra di soccorsi a Miami

Uno Shabbat di angoscia, mentre si rincorre la sottile speranza di trovare persone ancora vive tra i 159 dispersi dopo il crollo dell’edificio di Surfside, vicino a Miami Beach in Florida.
  Mentre i testimoni descrivono ai media uno scenario catastrofico e spettrale nel luogo della tragedia, e i soccorsi sono a lavoro, si fa sempre più flebile la speranza di trovare sopravvissuti. Ieri sera il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha annunciato che una squadra d’emergenza dell’IDF, specializzata nei soccorsi in eventi catastrofici, sarà inviata nel luogo del disastro per prestare aiuto. «Faremo ogni sforzo per aiutare a salvare vite umane e per offrire il nostro sostegno alla comunità ebraica e ai nostri amici americani» ha detto Gantz.
  Nachman Shai, il ministro nella diaspora, è partito ieri notte per raggiungere Surfside. Nei prossimi giorni incontrerà i leader della comunità ebraica locale e il sindaco Daniella Levine Cava. Prima del suo viaggio, Shai ha detto che intende verificare vari modi per assistere la comunità ebraica di Miami. «Faremo tutto il possibile per aiutare gli americani in qualsiasi modo ritengano opportuno - ha detto Shai al Jerusalem Post - L'America può imparare dall'esperienza israeliana. Sfortunatamente, abbiamo troppa esperienza con i disastri».
  Il primo ministro Bennet aveva già assicurato nei giorni scorsi che Israele avrebbe inviato aiuti a Miami. Sabato sera, il primo ministro ha parlato con il governatore della Florida Ron DeSantis, ribadendo il suo impegno a fornire aiuti. «Gli Stati Uniti sono il nostro più grande alleato e siamo tutti al vostro fianco in questo momento difficile. - ha detto Bennett a DeSantis - Preghiamo tutti per la salute dei feriti. Ho incaricato tutti i settori del governo israeliano di prestare assistenza in ogni modo necessario».
  Israele invierà inoltre a Miami una squadra di aiuto per i traumi psicologici destinata all’assistenza dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime.

(Shalom, 27 giugno 2021)


Non toccate i soldi degli Ayatollah. Ecco i “patrioti” iraniani

Il vero motivo per il quale i colloqui a Vienna sono bloccati e perché non porteranno a niente? I miliardi del Grande Ayatollah Ali Khamenei e del figlio Mojtaba Khamenei nonché una legge americana che permette al Congresso di bloccare tutto.

di Franco Londei

Uno pensa ai colloqui in corso a Vienna sul nucleare iraniano e immagina una specie di partita a scacchi dove il meglio della diplomazia internazionale si confronta sull’arricchimento dell’uranio, sul programma balistico di Teheran e su cose simili.
  E invece no, a bloccare i colloqui di Vienna per un (in)possibile ritorno al JCPOA è solo una mera questione di soldi.
  E si, perché nonostante quello che si dice in giro, gli iraniani non iniziano nemmeno a trattare se prima non vengono tolte le sanzioni alle società che fanno capo al Grande Ayatollah, Ali Khamenei, e all’intero gruppo dirigente iraniano.
  In particolare, le più dolorose per le tasche del “patriota” Khamenei, quelle imposte dall’ex Presidente Donald Trump che riguardano la “fondazione” Bonyad Mostazafan che fa capo proprio al leader supremo iraniano.
  Bonyad Mostazafan ufficialmente dovrebbe essere una fondazione benefica che attinge al denaro pubblico per opere di carità e assistenza.
  In realtà è la copertura di almeno 160 società sussidiarie impegnate in diversi settori che finiscono per generare miliardi (esatto, miliardi) di utili che finiscono nelle tasche del “povero” Ayatollah e di suo figlio, l’altrettanto “povero” Ayatollah Mojtaba Khamenei (prossimo leader supremo).
  Altre sanzioni imposte da Trump hanno colpito poi alcuni dei principali leader dei Guardiani della Rivoluzione, anche quelle sul piatto delle “trattative” sul ripristino del JCPOA.
  Come detto, si tratta di miliardi di dollari ai quali gli Ayatollah non hanno più accesso e che erano destinati in parte a finire nei loro conti personali e in parte a finanziare il terrorismo islamico di matrice sciita.
  La brutta notizia (per Khamenei) è che a prescindere da quello che la diplomazia americana concederà nelle trattative di Vienna sperando di fermare la corsa alla bomba dell’Iran (che non si fermerà), c’è sempre quella legge del 2015 nota come Iran Nuclear Agreement Review Act che permette al Congresso di bloccare tutto.
  È quello che ha fatto notare il Membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti per lo stato del Texas, Mike McCaul, in una lettera firmata da altri 21 membri del suo partito inviata al Segretario di Stato Antony Blinken.
  Nello specifico, l’Iran Nuclear Agreement Review Act del 2015 (“INARA”) è stato emanato con un forte sostegno bipartisan per garantire la supervisione del Congresso sulla politica statunitense in merito al programma nucleare iraniano.
  Tale legge richiede che il presidente presenti al Congresso entro cinque giorni qualsiasi accordo nucleare raggiunto con l’Iran, nonché un dettagliato rapporto di valutazione e certificazione di verifica.
  Quello che vogliono dire i repubblicani a Blinken (e a Biden) è che è quindi impossibile riprendere il rispetto reciproco del JCPOA come scritto e considerato dal Congresso sei anni fa come se fosse la continuazione dello stesso accordo.
  Gli Stati Uniti si sono ritirati dal JCPOA più di tre anni fa, nel maggio 2018. Nel frattempo il programma nucleare iraniano è andato “al galoppo”, con numerose violazioni delle limitazioni imposte dal JCPOA.
  Poi c’è da considerare che secondo i rapporti dell’AIEA, le scorte di uranio arricchito dell’Iran sono circa 16 volte oltre il limite consentito e l’Iran ha iniziato ad arricchire l’uranio fino al 60% di purezza nell’aprile 2021.
  Tutte queste violazioni renderanno impossibile che il Congresso approvi qualsiasi tipo di accordo e quindi che tolga anche l’ostacolo principale, cioè il blocco del denaro dell’Ayatollah Ali Khamenei e del figlio Mojtaba Khamenei.

(Rights Reporter, 27 giugno 2021)


Direttore del Meis da Napolitano: «Grazie per la donazione»

Si tratta del risarcimento disposto dal tribunale della capitale nel processo per diffamazione contro Alessandro Sallusti.

Il direttore del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-Meis di Ferrara, Amedeo Spagnoletto ha incontrato ieri mattina a Palazzo Giustiniani il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. Un’occasione per ringraziare sentitamente il presidente Napolitano che negli scorsi giorni ha donato al Meis il risarcimento disposto a suo favore dal tribunale di Roma nel processo per diffamazione contro Alessandro Sallusti. La scelta era ricaduta sul Meis, ha dichiarato il presidente Napolitano «quale luogo di memoria della storica presenza ebraica in Italia, di testimonianza delle persecuzioni razziali e della Shoah e di promozione del dialogo e della civile convivenza tra culture, religioni e tradizioni diverse». ”.
  «Il suo generoso contributo, accompagnato dalle Sue significative parole di apprezzamento – ha scritto in una nota il presidente del Meis, Dario Disegni – ci è di sprone nel proseguire la nostra missione con forte senso di responsabilità e con l’impegno di far diventare il Meis ogni giorno di più un luogo di tutti».
  Il presidente Napolitano ha accolto con partecipazione le parole del direttore Spagnoletto: «Investiremo questa preziosa donazione – ha dichiarato – per potenziare i nostri programmi educativi. Il Meis crede fortemente nelle generazioni future e vuole fornire strumenti nuovi, basi solide e spazi di dialogo ed incontro volti a favorire un mondo più giusto e accogliente».
  Quando nel dicembre 2011 venne inaugurato il Meis a Ferrara con una cerimonia solenne, in coincidenza con l’inizio di Hanukkah, la Festa delle Luci, avevano preso parte alcune centinaia di persone. L’allora presidente della repubblica Giorgio Napolitano, aveva inviato un messaggio, esprimendo «plauso e compiacimento per l’iniziativa». La donazione che ha fatto al Meis suggella la stima del presidente emerito per l’attività del museo ebraico.

(la Nuova Ferrara, 26 giugno 2021)



Il segno del profeta Giona (11)

di Marcello Cicchese

Dal Vangelo di Matteo, capitolo 12
  1. Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno».
  2. Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti compariranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco, qui c’è più che Giona!
  5. La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui c’è più che Salomone!
Anche in questo racconto evangelico compaiono i tre elementi fondamentali presenti in tutta la Bibbia: Dio, Israele e le Nazioni, rappresentati nell'ordine da Gesù, gli scribi e farisei, i Niniviti e la regina del mezzogiorno.
  Le autorità religiose israelite vorrebbero avere da Gesù un segno chiaro e indiscutibile che Egli rappresenta il profetizzato anello di collegamento tra Dio e Israele: cioè il Messia. Gesù si rifiuta e gli scribi e farisei considerano anche questo come un segno che Gesù non è il Messia ma un disturbatore della relazione fra Dio e Israele. Gesù sostiene invece che è in crisi la relazione fra Dio e la ”generazione malvagia e adultera” che in quel momento governa Israele. E fa intervenire nella scena il terzo elemento della storia: le Nazioni. I Niniviti e la regina del Mezzogiorno assunsero a suo tempo il giusto atteggiamento nei confronti di Dio: i primi riconobbero l'azione di Dio nella persona di Giona e si ravvidero dei loro peccati; la seconda riconobbe l'azione di Dio nella persona di Salomone e rese gloria a Dio per la sua sapienza. E qui - dice Gesù ai suoi connazionali - c'è più che Giona e Salomone.
  Gesù aveva iniziato il suo ministero annunciando, sulla scia di Giovanni Battista, una buona notizia: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Marco 1:15). Era la notizia che Israele aspettava da molto tempo, ma che cosa dovevano fare gli israeliti nell'imminenza del grande fatto annunciato? Gesù lo spiega subito dopo: ”Ravvedetevi e credete al vangelo”. Sembra facile, ma per ravvedersi bisogna anzitutto riconoscersi in colpa, e questo a molti appare insopportabile. I Niniviti invece lo fecero, e davanti alle parole di Giona si ravvidero; la generazione malvagia e adultera di Israele invece non lo fece, e davanti alle parole di Gesù si indurì. Gli chiesero un segno, come per dire che se l'avesse fatto l'avrebbero accolto come Re nel regno di Dio. Ma Gesù non li esaudì, ben sapendo che qualunque nuovo prodigio in aggiunta a quelli già fatti non sarebbe servito a nulla. E replicò che avrebbero ricevuto il segno del profeta Giona. Ma che voleva dire Gesù? Avrebbero capito i capi religiosi queste parole? Sì, i capi religiosi capirono benissimo che cosa intendeva dire Gesù, perché a questo riguardo erano stati più attenti alle sue parole dei suoi stessi discepoli. Ai suoi infatti Gesù aveva detto chiaramente: «Il Figlio dell’uomo sta per essere dato nelle mani degli uomini ed essi l’uccideranno; ma tre giorni dopo essere stato ucciso, risusciterà» (Marco 9:31), ma si direbbe che se ne erano tutti dimenticati, perché ad aspettare vicino alla tomba che comparisse Gesù risuscitato dopo ”tre giorni e tre notti” passati sotto la terra non c'era nessuno. La mattina del primo giorno della settimana erano arrivate alcune donne a cercare Gesù, ma lo cercavano tra i morti, non tra i viventi. E non lo trovarono.
    “Mentre se ne stavano perplesse di questo fatto, ecco che apparvero davanti a loro due uomini in vesti risplendenti; tutte impaurite, chinarono il viso a terra; ma quelli dissero loro: «Perché cercate il vivente tra i morti? Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quand’era ancora in Galilea, dicendo che il Figlio dell’uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare». Esse si ricordarono delle sue parole” (Luca 24:4-8).
”Ricordate come egli vi parlò”, dicono i due angeli, ed ”esse si ricordarono delle sue parole”. Se le erano dimenticate. Anche loro, le pie donne che avevano a cuore Gesù come persona e volevano quindi onorare quello che restava del suo corpo. Come anche gli uomini, che da competenti politici desiderosi di veder installarsi il Regno di Dio sulla terra non erano certo interessati a vedere nel corpo di Gesù morto il fallimento delle loro speranze. L'apostolo Pietro, avvertito dalle donne che tornavano dal sepolcro, neppure dopo aver visto coi suoi occhi la tomba vuota si ricordò di quello che aveva detto Gesù sulla sua risurrezione, ma se ne tornò a casa, ”meravigliandosi dentro di sé per quello che era avvenuto” (Luca 24:12).
  I discepoli non si ricordarono delle parole di Gesù sulla sua risurrezione per il semplice motivo che fin dall'inizio non le avevano capite. Il pensiero di un Messia che muore e poi risorge appariva loro talmente strano da non riuscire ad entrare nel loro giro di pensieri. E non potendo contestare l'autorità spirituale di Gesù, a loro non restava altro che riporre quelle strane parole nel cassetto delle cose non chiarite. E di quello che rimane in quei cassetti molto presto ci si dimentica.
    “Egli istruiva i suoi discepoli, dicendo loro: «Il Figlio dell’uomo sta per essere dato nelle mani degli uomini ed essi l’uccideranno; ma tre giorni dopo essere stato ucciso, risusciterà». Ma essi non capivano le sue parole e temevano d’interrogarlo” (Marco 9:31,32).
I soli che dopo la morte di Gesù si ricordarono delle sue parole sulla risurrezione furono i capi religiosi di Israele:
    “L’indomani, che era il giorno successivo alla Preparazione, i capi dei sacerdoti e i farisei si riunirono da Pilato, dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quel seduttore, mentre viveva ancora, disse: “Dopo tre giorni, risusciterò”. Ordina dunque che il sepolcro sia sicuramente custodito fino al terzo giorno; perché i suoi discepoli non vengano a rubarlo e dicano al popolo: “É risuscitato dai morti”; così l’ultimo inganno sarebbe peggiore del primo»” (Matteo 27:62-64).
I capi religiosi infatti, a differenza dei discepoli, non subivano l'influenza dell'autorità spirituale di Gesù, quindi per loro non era difficile pensare che un fanatico adescatore del popolo, come ritenevano fosse Gesù, potesse immaginarsi o far credere di risuscitare dopo tre giorni. Così, quando effettivamente risultò che la tomba di Gesù era stata trovata vuota, furono posti ancora una volta davanti a un dilemma: è davvero risorto Gesù? è proprio questo il segno autentico e definitivo della sua messianicità? o si tratta ancora una volta di uno dei tanti imbrogli di quel seduttore? Questa volta non era Gesù a rispondere alle loro domande, ma erano loro a dover rispondere a Gesù che implicitamente diceva loro: il segno della mia messianicità è questo, lo riconoscete? Ma per loro riconoscerlo avrebbe significato anche riconoscere di avere sbagliato, e ammettere di averlo fatto per non essersi ravveduti alla predicazione di Giovanni Battista prima e di Gesù poi. Non lo fecero. E anche dopo di loro i capi religiosi di Israele non l'hanno fatto.
  Ma perché Gesù ha parlato del segno di Giona? Non bastava dire che sarebbe risuscitato dai morti, e che sarebbe stato quello il segno della sua messianicità? Basta la coincidenza numerica dei tre giorni e tre notti? oppure il fatto di Giona rappresenta davvero, nella sua interezza, un segno profetico anticipatore di quello che poi sarebbe avvenuto con il fatto di Gesù nei rapporti fra Dio, Israele e le Nazioni?
(11) continua

(Notizie su Israele, 27 giugno 2021)


 

Israele affronta nuove epidemie

di Aroldo Calabresi

Fino a pochi giorni fa Israele era uno dei pochi Paesi al mondo ad essere tornato, con poche eccezioni, a una relativa normalità, soprattutto grazie alla campagna di vaccinazione contro il coronavirus più veloce ed efficace al mondo. Meno di due settimane fa è stato revocato l’obbligo di indossare le mascherine al chiuso e da luglio era prevista anche una lenta ripresa dell’arrivo dei turisti stranieri.
  Ma ora la presenza di nuove epidemie ha portato il governo a reintrodurre l’obbligo della mascherina ma anche di fare qualche passo indietro, soprattutto a causa della circolazione della cosiddetta variante delta del virus: Israele potrebbe aver allentato le misure di sicurezza in anticipo.
  I nuovi focolai sono stati individuati in alcune scuole di Modiin, che si trova più o meno a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, e in particolare a Binyamina, una sessantina di chilometri a nord di Tel Aviv. A seguito dei nuovi casi, centinaia di persone stanno attraversando un periodo di quarantena domiciliare e per la prima volta in diversi mesi in Israele è stata istituita una “zona rossa”, quella di Binyamina.
  Oltre a riprendere l’uso delle mascherine negli ambienti chiusi – l’ultima delle restrizioni ad essere revocate dopo che altre misure hanno iniziato ad essere progressivamente allentate già a febbraio – il nuovo premier israeliano Naftali Bennett ha deciso di riattivare il comitato di crisi per l’emergenza coronavirus. . Allo stesso tempo, il capo della squadra di emergenza, Nachman Ash, ha invitato i residenti a evitare viaggi all’estero non necessari.
  Già mercoledì, il governo ha annunciato di aver rimandato di un mese – dal 1 luglio al 1 agosto – l’apertura delle frontiere ai turisti stranieri, per i timori legati alla variante delta.
  Secondo i dati forniti dal Ministero della Salute, solo 26 delle 729 persone attualmente infette (al 24 giugno) necessitano di cure ospedaliere e negli ultimi mesi si sono registrati pochissimi decessi per cause legate al COVID-19.
  Tuttavia, prima della scoperta dei focolai Modiin e Binyamina, i contagi giornalieri da coronavirus erano al massimo qualche decina, e in poche settimane si sono moltiplicati: secondo Dati raccolti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella settimana al 7 giugno, i casi settimanali scoperti in Israele sono stati 85; nei 222 successivi e in quello dal 15 al 21 giugno 419. Solo giovedì 24 sono stati rilevati 227 casi.
  Il merito dei pochissimi contagi riscontrati fino a poche settimane fa è dovuto in particolare ad una campagna vaccinale molto efficace, iniziata presto e continuata ad un ritmo molto alto, a tal punto che attualmente il 57% degli oltre 9 milioni di abitanti di Israele – in Italia siamo ancora sotto il 30% – ha già ricevuto le due dosi di vaccini contro il coronavirus autorizzate nel Paese (quelle di Pfizer-BioNTech e Moderna).
  Sebbene secondo gli esperti citati da New York Times la variante delta non dovrebbe rappresentare un rischio maggiore per le persone che hanno già ricevuto entrambe le dosi del vaccino, il governo israeliano sembra particolarmente preoccupato per una possibile ampia diffusione di infezioni. Le autorità sanitarie del paese hanno detto che 70 percento nuove infezioni sono legate a questa variante, e secondo il direttore generale del ministero della Salute, Chezy Lévy, molte persone risultate positive al coronavirus negli ultimi mesi erano state vaccinate, anche se non ha specificato se con una dose o due.
  Dall’inizio della pandemia in Israele, sono state segnalate oltre 840.000 infezioni da coronavirus e oltre 6.400 decessi per cause legate al COVID-19. Il numero di quei giorni è lontano dai picchi massimi di gennaio, quando nel giro di un mese i casi riscontrati erano oltre 60.000 e, secondo Ash, è improbabile che le autorità istituiscano un quarto blocco nel Paese. Ash stesso Egli ha detto non credendo che una nuova ondata di contagi stia arrivando in Israele, ma allo stesso tempo ha riconosciuto che c’è “potenziale” per una più ampia diffusione dei casi.

(Hamelin Prog, 26 giugno 2021)


Lapid vola a Roma per vedere Blinken

E' il primo incontro del nuovo governo con gli Usa. Il segretario di Stato Usa sarà in Italia per un summit alla Farnesina sulla guerra all'Isis, e vedrà anche papa Francesco

di Sharon Nizza

TEL AVIV – Yair Lapid, neo-ministro degli Esteri, nonché premier alternato, sarà a Roma domenica per la prima missione di Stato dall’insediamento del nuovo governo israeliano meno di due settimane fa. In un comunicato ufficiale, il portavoce del ministero degli Esteri ha reso noto che Lapid si recherà nella capitale italiana per incontrare il segretario di Stato americano Antony Blinken, che, nell’ambito del tour europeo in corso, farà tappa a Roma per la riunione della Coalizione globale anti-Isis e poi a Bari e Matera per il G20.
  Il Vaticano ha reso noto che lunedì Blinken incontrerà anche papa Francesco. Fonti diplomatiche israeliane confermano invece a Repubblica che a Roma Lapid incontrerà anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che proprio oggi, nel corso di un convegno pubblico, ha annunciato una visita in programma in Israele e nei Territoti Palestinesi per fine luglio, “nell'ottica di rivitalizzare il ruolo del Quartetto provando a innalzare il profilo dell'Ue” per riportare le parti al negoziato del processo di pace.
  Il faccia a faccia Lapid-Blinken costituisce il primo vertice tra l’amministrazione statunitense guidata da Joe Biden e il nuovo governo israeliano di Naftali Bennett, che il 13 giugno ha messo fine a 12 anni consecutivi di governi Netanyahu. Blinken aveva incontrato Lapid durante la sua prima visita di Stato in Israele a fine maggio, quando questi vestiva ancora i panni di capo dell’opposizione. Tra gli argomenti che verranno affrontati ci sono le trattative in corso per cementare la tregua con Hamas dopo 11 giorni di conflitto a maggio, nonché il quadro delle alleanze regionali. Martedì Lapid si imbarcherà nella sua seconda missione da capo della diplomazia dello Stato ebraico e visiterà gli Emirati Arabi Uniti, il primo viaggio alla luce del sole di un esponente di governo israeliano dalla firma degli Accordi di Abramo a settembre. Una visita che Netanyahu ha cercato per ben quattro volte di realizzare negli ultimi mesi, ma che è stata rinviata a causa delle restrizioni Covid o di polemiche legate all’ultima campagna elettorale.
  La questione iraniana ricoprirà un ruolo centrale nell’incontro tra Lapid e Blinken a Roma. Israele segue con preoccupazione l’evolversi delle trattative sul possibile rientro americano nell’accordo nucleare Jcpoa, sul quale si è appena concluso un sesto round di colloqui a Vienna del gruppo 5+1. Dalle cancellerie occidentali arrivano ancora segnali di esitazione circa il raggiungimento di un’intesa: oggi, in una conferenza stampa con l’omologo francese a Parigi, Blinken ha affermato che “ci sono ancora significative divergenze con l’Iran”, esprimendo “seria preoccupazione” per l’atteggiamento di Teheran rispetto al monitoraggio dei siti nucleari da parte dell’Aiea.
  D’altro canto, in Israele riecheggiano le recenti dichiarazioni alla stampa iraniana di Mahmoud Vaezi, capo dello staff del premier uscente Hassan Rouhani, secondo cui nelle trattative in corso è stato raggiunto un accordo per eliminare “circa 1,040 sanzioni dell’era Trump, comprese alcune contro individui della cerchia ristretta del leader supremo” Khamenei. Secondo Zvi Barel, l’esperto militare di Haaretz, in vista dell’eliminazione delle sanzioni sul greggio, l’Iran da mesi sta immagazzinando riserve di petrolio, aumentando significativamente la propria abilità produttiva tanto da quasi raddoppiare la capacità di esportazione (da 2,1 a 3,8 milioni di barili al giorno).
  Come il precedente governo Netanyahu, anche quello guidato da Bennett e Lapid si oppone agli sforzi dell'amministrazione Biden di rientrare nell'accordo sul nucleare iraniano, abbandonato da Trump nel 2018. “Preferiremmo che il mondo capisse da solo che con un regime fanatico, che elegge a presidente il ‘boia di Teheran’, non si dovrebbe fare affari”, ha affermato giovedì il premier Naftali Bennett. “Continueremo a consultarci con i nostri alleati, cercando di convincerli, condividendo informazioni. Ma, alla fine, la responsabilità del nostro destino è nelle nostre mani”.
  La dichiarazione di Bennett arrivava poche ore dopo la rivelazione del New York Times su un tentativo di sabotaggio – conclusosi senza vittime o danni, secondo fonti iraniane riportate dal quotidiano statunitense - del principale sito di produzione di centrifughe nucleari a Karaj, alla periferia di Teheran. Un sito che si trova nella lista degli obiettivi che Israele avrebbe in passato presentato agli Usa per contrastare il programma nucleare iraniano.

(la Repubblica online, 26 giugno 2021)


Bandiera di Hamas vietata in Germania. Thorsten Frei: “Un segnale ai nostri cittadini ebrei”

di Lucia Conti

Con una legge approvata venerdì, nell’ambito di una maratona che ha visto l’approvazione di numerosi provvedimenti di vario genere, il parlamento tedesco ha bandito sul suolo tedesco tutte le bandiere di organizzazioni riconosciute come terroristiche dall’Unione Europea.
   Questa lista include la bandiera di Hamas e non è un segreto che questa iniziativa sia nata da una specifica necessità del governo, vale a dire quella di prendere provvedimenti per arginare le degenerazioni verificatesi in Germania a seguito dell’inasprirsi del conflitto israelo-palestinese.

 Coinvolta nel divieto anche la bandiera del PKK
  Finora il divieto di specifiche bandiere si applicava solo a organizzazioni vietate sul suolo tedesco. In base alla nuova legge, invece, il raggio si estende ed è probabile che in futuro il giro di vite riguarderà anche l bandiera del PKK curdo, che, come Hamas, è considerato dall’Unione Europea un’organizzazione terroristica.
   Vietate anche le bandiere del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e del Partito Comunista delle Filippine.

 Bandita la bandiera di Hamas: la legge figlia degli scontri di maggio
  La settimana scorsa il vice-capogruppo della CDU in Parlamento, Thorsten Frei, aveva esplicitamente riferito a Die Welt che il governo tedesco intendeva vietare la bandiera di Hamas come reazione alle manifestazioni anti-Israele avvenute in Germania a maggio. “
   Non vogliamo che le bandiere delle organizzazioni terroristiche sventolino sul suolo tedesco” aveva dichiarato Frei, per poi aggiungere che il divieto avrebbe inviato “un chiaro segnale ai nostri cittadini ebrei“.
   A maggio, durante gli scontri tra Israele e Hamas, in Germania diverse manifestazioni a tema avevano subito degenerazioni: slogan antisemiti, e non solo israeliani, bandiere israeliane bruciate davanti alle sinagoghe e l’ingresso di una sinagoga danneggiato da un lancio di pietre.
   Anche a Berlino avevano avuto luogo diverse proteste e durante una, in particolare, i manifestanti avevano lanciato pietre e bottiglie e scatenato uno scontro, per un totale di 59 persone arrestate e decine di poliziotti feriti.

 La preoccupazione delle istituzioni ebraiche
  Il Consiglio Centrale degli ebrei in Germania aveva denunciato di aver ricevuto, in seguito a questi eventi, “il peggior diluvio di insulti antisemiti” sui social media, mentre il presidente Josef Schuster aveva dichiarato che questi incidenti ricordavano “il periodo più buio della storia tedesca” e aveva esortato la polizia ad aumentare la protezione delle istituzioni ebraiche.
   Anche il ministro dell’Interno Horst Seehofer aveva annunciato severi provvedimenti contro chiunque avesse diffuso “odio antisemita”. Alla Bild aveva dichiarato: “Non tollereremo i roghi di bandiere israeliane e gli attacchi alle istituzioni ebraiche sul suolo tedesco“.

(Il Mitte, 26 giugno 2021)


Danni di guerra agli ebrei: stop in Polonia. L'ira di Israele

Legge contestata

di Daniel Mosseri

BERLINO - Il Sejm, la Camera bassa del Parlamento polacco, ha approvato un controverso disegno di legge sui risarcimento dei danni subiti dai cittadini durante la Seconda guerra mondiale. Con i voti di Diritto e Giustizia (PiS), il partito conservatore e nazionalista al potere a Varsavia, il Sejm ha fissato un limite di 30 anni per la presentazione delle richieste di indennizzo da parte di chi ha visto i propri beni prima depredati dai nazisti e poi confiscati dal regime comunista fino al 1989. Prima di diventare legge dello stato, il provvedimento deve essere votato dal Senato.
   Nel frattempo la tensione fra Stati Uniti e Israele da un lato, e la Polonia dall'altro, è salita ai massimi livelli. Il Dipartimento di Stato Usa ha definito il progetto del paese alleato «un passo nella direzione sbagliata che sarebbe meglio non portare avanti». Più diretto, il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha parlato di una legge «immorale» destinata a «danneggiare gravemente» le relazioni fra Gerusalemme e Varsavia. Il sottosegretario polacco agli Esteri Pawel Jablonsky ha replicato: «La dichiarazione di Lapid denota cattiva fede e una profonda mancanza di conoscenza. Sia i polacchi sia gli ebrei sono stati vittime di orribili atrocità tedesche».
   Già nel 2018 il PiS ha fatto approvare una legge per sanzionare chi sostenga la complicità dei polacchi nello sterminio degli ebrei. Nonostante i pogrom antisemiti siano proseguiti anche dopo il 1945, per Varsavia la verità è una sola: l'Olocausto è responsabilità esclusiva dei tedeschi.
   A poco sono valse le preoccupazioni dell'incaricato d'affari Usa a Varsavia, Bix Aliu, rivoltosi per iscritto ai parlamentari polacchi: «Questo progetto di legge renderebbe impossibile il risarcimento per le proprietà dell'Olocausto o dell'era comunista». Ma se è vero come spiegato da Jablonksi che il limite di 30 anni è stato introdotto in ottemperanza a una sentenza del 2015 della Corte costituzionale secondo cui le decisioni amministrative errate non possono più essere impugnate dopo un determinato periodo di tempo, è parimenti vero che lo stop agli indennizzi è stato brandito in campagna elettorale nel 2020 dal rieletto presidente Andrzej Duda. Mentre anche ieri il primo ministro Mateusz Morawiecki, anche lui del PiS come Duda, ha affermato che «finché sarò premier la Polonia non pagherà uno zloty per i crimini dei tedeschi».

(il Giornale, 26 giugno 2021)


Israele rimette le mascherine al chiuso. L'Ema: vaccini efficaci contro la variante

Nel Regno Unito sono stati registrati 15.800 nuovi casi e 18 decessi nell'ultimo giorno

La variante Delta, rilevata per la prima volta in India, allarma l'Ue mentre i contagi sono tornati a salire nel Regno Unito e in Israele, due dei Paesi in cui la campagna di vaccinazione è stata più rapida.
   Il ceppo «sta diventando dominante anche nel nostro continente e non possiamo dire che siamo già alla fine della pandemia», ha avvertito la cancelliera tedesca Angela Merkel al termine del Consiglio europeo. La leader ha ribadito di indossare le mascherine e di rispettare il distanziamento sociale. «Sono le prime misure da adottare per evitare l'insorgere di una quarta ondata», ha spiegato la cancelliera. La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha detto che l'Europa è «molto preoccupata» per la variante Delta, che rappresenta ad ora il 90% del totale delle infezioni rilevate nel Regno Unito. «Sta rapidamente progredendo ma abbiamo buone notizie - ha detto l'ex ministra tedesca, spiegando che con due dosi di vaccino contro il Covid-19 si ha una «protezione molto buona». Per questo von der Leyen ha invitato a somministrare quante più dosi possibili, soprattutto ai gruppi vulnerabili. L'efficacia della vaccinazione completa contro la variante è stata certificata anche dall'Agenzia europea per i medicinali (Ema). «La seconda dose è fondamentale per evitare la diffusione del contagio», ha spiegato la direttrice esecutiva Emer Cooke. Nel Regno Unito sono stati 15.810 i nuovi casi e 18 i decessi in 24 ore. Negli ultimi sette giorni, 90.511 persone sono risultate positive al Covid-19 con un aumento del 47,9% rispetto alla settimana precedente. L'aumento dei decessi è stato invece del 52,8%.
   Israele intanto ha ripristinato l'obbligo delle mascherine al chiuso, abolito lo scorso 15 giugno. Con un'ordinanza, il ministero della Salute ha anticipato il provvedimento di due giorni (l'obbligo sarebbe dovuto scattare domenica), entrando in vigore alle 12 di venerdì. La causa sarebbe proprio l'aumento esponenziale dei casi di contagio da variante Delta. Il ministero della Salute ha raccomandato inoltre che gli israeliani indossino mascherine durante gli eventi pubblici di massa, anche se si svolgono all'aperto, «come gli eventi del Pride del fine settimana». «So che a livello globale c'è attualmente molta preoccupazione per la variante Delta del Covid-19 e anche l'Oms è preoccupata», ha detto il direttore generale dell'Agenzia Onu Tedros Adhanom Ghebreyesus in conferenza stampa a Ginevra, «è la variante più contagiosa di quelle identificate finora, è stata rilevata in almeno 85 Paesi e si sta diffondendo rapidamente tra le popolazioni non vaccinate».

(Il Tempo, 26 giugno 2021)


Ue e ong italiana finanziano una scuola palestinese dove si insegna l’odio per Israele

Uno studio commissionato dall’Unione europea ha recentemente portato alla luce come i libri scolastici palestinesi siano a dir poco ostili nei confronti dello Stato d’Israele e del popolo ebraico.
Studio che, in realtà, non ha fatto altro che confermare quello che era già stato denunciato da tempo.
Il fatto che, però, arrivasse da una fonte istituzionale, aveva ovviamente dato un peso diverso all’intera vicenda, anche perché è la stessa Unione europea a elargire cospicue somme di denaro al Ministero dell’Istruzione dell’Autorità Palestinese per costruire scuole e migliorare l’intero sistema scolastico.
Gli “auspici” dei vertici europei vengono periodicamente disattesi. Ultima, in ordine di tempo, è stata la scuola elementare femminile di Hawara, nella West Bank, sul cui muro esterno è apposta una targa con una scritta in inglese che recita:
“Finanziato da ECHO, Dipartimento per gli aiuti umanitari della Commissione Europea, attività comunitarie nella città di Huwwara”.
Una scuola, quindi, costruita con i finanziamenti dall’Europa in collaborazione con COOPI-Cooperazione Internazionale, una ong italiana presente in 28 paesi diversi.
Fin qui nulla di strano, direte voi.
Il problema è che la suddetta scuola ha da poco organizzato una mostra, in cui veniva mostrata una cartina geografica in cui Israele non esiste. C’è una gran mappa formata dalla bandiera della Palestina con la figura di razzo con la scritta “Ayyash 250”.
Cosa possono imparare gli studenti palestinesi vedendo il poster?
Possono imparare solo odio per chi fa credere loro che Israele sia l’invasore. Possono imparare a glorificare i missili che venivano lanciati dai terroristi di Hamas verso il territorio dello Stato ebraico.
Odio per Israele e cultura della guerra. Questi sono i valori che vengono insegnati nelle scuole palestinesi.
Sono questi i valori che hanno spinto l’Unione europea e la ong italiana a finanziare la costruzione della scuola?
Siamo portati a pensare di no, ma tant’è.
L’Occidente continua a riempire di denaro le leadership palestinesi che, in quanto a istruzione, non vogliono il meglio per i loro studenti. Vogliono esclusivamente insegnare che lo Stato ebraico non deve esistere ed è per questo legittimo lanciargli contro i missili.

(Progetto Dreyfus, 25 giugno 2021)


Israele, da oggi torna l’obbligo delle mascherine

Da oggi, venerdì 25 giugno, alle ore 12.00 Israele ripristinerà l’obbligo di indossare le mascherine nei luoghi al chiuso.
   La decisione è stata presa dal ministero della Sanità a causa della diffusione della contagiosa variante Delta del Covid nel Paese.
   Le mascherine dovranno essere indossate in tutti i luoghi chiusi, tranne nello spazio abitativo permanente. Sono esentati dalla direttiva: i bambini sotto i 7 anni, le persone con disabilità, chi è da solo, due dipendenti che lavorano stabilmente nello stesso luogo e durante la pratica di attività fisica.
   Il Ministero raccomanda l’uso della mascherina durante i grandi raduni tenuti all’aperto e consiglia a coloro che sono a rischio o non vaccinati di astenersi dal partecipare a riunioni di qualsiasi genere.
   "Attualmente la variante Delta si sta diffondendo con rapidità in tutto il mondo con un tasso di contagiosità molto più alto di quanto ci aspettassimo", ha affermato il premier Naftali Bennett. "Purtroppo stiamo assistendo all'inizio della diffusione di un virus all'interno dello Stato di Israele e non sempre siamo in grado di individuarne l’origine”.
   Il primo focolaio è stato individuato nelle scuole di Binyamina e Modi'in, città dove sono state reintrodotte subito le restrizioni.
   Ieri è stato il quarto giorno consecutivo in cui si sono registrati più di 100 casi positivi al giorno, dopo che per settimane il numero dei contagi ha rasentato lo zero. Nuovi focolai si sono diffusi in molte altre città, tra cui Kfar Saba, Ramla e Herzliya, principalmente causati da violazioni della quarantena da parte di persone di ritorno dall'estero.

(Shalom, 25 giugno 2021)


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Israele in allarme: la metà dei nuovi casi di COVID sono vaccinati

In Israele preoccupa sempre di più la variante Delta del virus COVID-19, specialmente perché oltre il 50% dei nuovi casi di questa variante ha colpito persone vaccinate.
   Qualche giorno fa Israele aveva ripristinato i controlli per le persone in arrivo dall’estero, oggi sembra che deciderà per reintrodurre anche l’obbligo della mascherina nei locali al chiuso.
   Secondo il coordinatore israeliano della risposta alla pandemia, Nachman Ash, ieri in Israele si sono avuti oltre 200 nuovi casi di COVID-19, il numero più alto da due mesi.
   Nachman Ash ha detto di temere che il virus stia accelerando in particolare nella sua Variante Delta che, secondo il Ministero della Salute Israeliano, risulta interessare la maggioranza dei nuovi casi.
   Ma il vero problema, secondo Nachman Ash, è che un numero compreso tra il 40 e il 50 per cento dei nuovi casi infettati dalla Variante Delta del virus COVID-19 ha interessato persone vaccinate, anche se al momento non è chiaro quante siano quelle completamente vaccinate.
   In ogni caso «le persone completamente vaccinate che sono entrate in contatto con la Variante Delta dovranno essere messe in quarantena», ha detto Chezy Levy, direttore generale del ministero della salute israeliano.
   Secondo il Ministero della Salute ieri si sono registrate 227 infezioni confermate, la cifra giornaliera più alta dal 7 aprile.
   Nachman Ash ha detto che il tasso di test positivi è salito allo 0,6 percento, «il che testimonia anche l’aumento del tasso di contagio».

(Rights Reporter, 25 giugno 2021)


“L’Inquisizione degli offesi”

Il nuovo libro di Salman Rushdie. “La scomunica è tornata sotto forma laica”. Se nel 1989, al tempo della fatwa iraniana, ci fosse stato questo clima, “molti amici non mi avrebbero difeso”

di Giulio Meotti

ROMA - Era la festa di San Valentino del 1989 quando un libro scatenò una guerra culturale ancora in corso. Erano “I versi satanici” di Salman Rushdie, condannato a morte dalla fatwa di Khomeini. Librerie attaccate, traduttori accoltellati a morte, boicottaggi internazionali, l’opinione pubblica divisa fra chi era contro l’autore (i più), chi difendeva il diritto alla libertà di espressione (pochi) e lui che diventava per un decennio uccel di bosco. Se ne sarebbero visti di sequel di questa drammatica saga: Charlie Hebdo, Theo van Gogh, Mila e tanti altri.
   Un anno fa, memore di essere stato quasi cancellato da quell’editto iraniano, Rushdie ha firmato la lettera su Harper’s contro la cancel culture, fenomeno nato in America e dalle conseguenze profonde in tutte le democrazie. Non passa giorno senza che un libro, uno scrittore, un oratore, un professore o una parola non sia cancellata.
   Adesso Rushdie torna sul tema con un nuovo libro di saggistica, “Languages of truth”. Vi spiega che i nuovi inquisitori non portano turbante e tonaca, ma giacca, cravatta e jeans. “L’idea che ferire i sentimenti delle persone, offendere la sensibilità delle persone, stia andando troppo oltre ora ha un ampio credito”, scrive Rushdie. “E quando sento brave persone dire cose del genere, sento che il vecchio apparato religioso della blasfemia, dell’Inquisizione, dell’anatema, tutto questo potrebbe essere sulla via del ritorno sotto forma laica”.
   E’ in gioco, scrive Salman Rushdie in “Languages of truth”, la natura e il futuro della società aperta: “Posso sostenere e sostengo che una società aperta debba consentire l’espressione di opinioni che alcuni membri di quella società possono trovare spiacevoli; altrimenti, se accettiamo di censurare i sentimenti sgradevoli, entriamo nel problema di chi dovrebbe avere il potere di censura. Quis custodiet ipsos custodes, come si dice in latino. Chi ci proteggerà dai guardiani?”.
   L’Inghilterra che ha ospitato e protetto Rushdie non è più la stessa di allora. Racconta il Telegraph che il sindacato studentesco di Oxford recluterà “lettori sensibili” per impedire la pubblicazione di “materiale insensibile” sul più antico e glorioso giornale dell’università. Il Telegraph riferisce che, secondo il consiglio della Oxford Student Union, sono stati pubblicati “articoli problematici” che sono “implicitamente razzisti o sessisti” o “solo generalmente imprecisi e insensibili”. Ora un gruppo selezionato di studenti “giusti” deciderà cosa può e cosa non può essere pubblicato. L’Università di Edimburgo assumerà un ricercatore per compilare un elenco e un registro dei “crimini d’odio e dei comportamenti offensivi”, spiega il Times. Sir Tom Devine, eminente storico scozzese, ha affermato che una “cultura della paura” ha preso piede nelle università britanniche.
   Se questa visione fosse stata mainstream nel 1989, Rushdie allora sarebbe stato lasciato in balia dei suoi carnefici, un po’ come Mila oggi. “All’interno del movimento progressista c’è l’accettazione del fatto che certe idee dovrebbero essere soppresse e penso che sia preoccupante”, ha detto Rushdie all’Irish Times. “Ovunque ci sia stata censura, le prime persone a soffrirne sono le minoranze. Quindi, se in nome delle minoranze desideri sostenere la soppressione dei pensieri sbagliati, è un pendio scivoloso”. Nel 2015, numerosi scrittori si sono ritirati dal gala del PEN American Center per protestare contro la decisione dell’organizzazione di onorare Charlie Hebdo. Ripensandoci ora, Rushdie è furioso: “Se il PEN come organizzazione per la libertà di parola non può difendere e celebrare le persone che sono state assassinate per aver fatto dei disegni, allora francamente l’organizzazione non vale questo nome. Quello che vorrei dire loro è che spero che nessuno venga mai a cercarli”. Rushdie continua all’Irish Times, confessando: “Mettiamola così: il tipo di persone che mi hanno difeso negli anni brutti – in altre parole, le persone nelle arti liberali e di sinistra – potrebbero non farlo ora. L’idea che essere offesi sia lo stesso di ricevere una critica ha guadagnato molta popolarità”. Wokeism fa rima con Islamism.

Il Foglio, 25 giugno 2021)


Tel Aviv Pride 2021: la ‘Capitale gay’ del Medio Oriente riparte con l’orgoglio LGBT

La parata del Tel Aviv Pride 2021 sarà la più grande al mondo dopo la pandemia di Covid 19.

di Alessandro Bovo

Anche la comunità LGBT di Israele cerca di tornare alla normalità con il Tel Aviv Pride 2021, al quale sono attesi migliaia di partecipanti e ospiti internazionali.
   Per Tel Aviv, questa sarà la ventunesima Pride Parade, e partirà oggi, venerdì 25 giugno. Sarà una festa con musica, sfilate e un grande party al Charles Clore Park.
   Il Tel Aviv Pride è da anni uno dei più grandi eventi nel Paese. Oltre a riempiersi di turisti, l’intera città si illumina con i colori dell’arcobaleno e un’energia positiva si espande ovunque, facendo di Tel Aviv la “Capitale Gay” del Medio Oriente.
   Kalanit Goren Perry, direttore dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano, ha dichiarato:
   Gli eventi di orgoglio a Tel Aviv-Yafo sono una tradizione di lunga data, incentrata su un messaggio di uguaglianza, accettazione e rispetto dei diritti umani e civili. Tel Aviv rappresenta una casa accogliente per tutte le comunità che qui risiedono ed è orgogliosa di essere una città rivoluzionaria nel suo approccio alla comunità LGBTQ, una fonte di ispirazione internazionale. Quest’anno, più che mai, si festeggia la gioia del ritorno ad eventi in presenza, nella speranza che la crisi Covid 19 sia solo un ricordo.
   Questa sarà la parata più grande al mondo dopo la pandemia di Covid 19.

- Gli eventi del Tel Aviv Pride 2021
  Alle 12:00, la sfilata partirà da Sderot Ben Zion e scenderà lungo Bograshov Street, per passare poi su Hayarkon. Girerà poi a sinistra, verso Frishman e Herbert Samuel, per concludere poi in spiaggia, nel grande Charles Clore Park. È qui che la festa continuerà, tra concerti e divertimento per tutta la giornata.
   Tel Aviv, questo week end, non offre solo la parata, ma è un luogo da vivere a 360 gradi. Divertimento, cultura, storia: questa città sa soddisfare qualsiasi esigenza.

- Tel Aviv: città da scoprire
  Tel Aviv Pride 2021: la 'Capitale gay' del Medio Oriente riparte con l'orgoglio LGBT (tel aviv pride gay 00001)
   Se si trascorre un fine settimana in Israele per il Tel Aviv Pride, è doveroso riservarsi qualche ora per visitare la città. Ecco i punti più importanti da non perdere.
   Una tappa obbligatoria è una visita all’antica Jaffa, dove riscoprire l’artigianato, tra oro, argento e materiali riciclati o rinnovati. E non si potrà andarsene senza un salto al Carmel Maket e nel quartiere di Sarona.
   Un must del venerdì è il flea market a Jaffa. Tra una sosta al mercatino delle pulci e una pausa rigenerante nei ristoranti tipici, si potrà passare qualche ora di spensieratezza e relax.
   Il quartiere Bauhaus è detta la città bianca di Tel Aviv, zona della movida e anche per questo “cuore pulsante della città che non dorme mai”. Patrimonio dell’Unesco, questa è la zona abitata principalmente dall’upper class, attorno al Rothschild Boulevard. Passeggiare quei palazzi bianchi e squadrati, espressione dell’architettura anni ’30, regalerà un’emozione incredibile.

- Moda e Fashion nella Tel Aviv che non ti aspetti
  Tel Aviv è la casa di alcuni tra i più interessanti designer della scena contemporanea e sempre un punto di riferimento della moda internazionale.
   La storia della moda e del fashion di Tel Aviv ha origine lontane. Era il 1934 quando Erich Moller fondò ATA, industria leader nel settore tessile. Con la sua filosofia “form follows function”, Moller ha dato lavoro a tutte quelle persone desiderose di rifarsi una vita e di contribuire a realizzare la loro “Terra Promessa”.
   Gli amanti della moda non possono perdersi la Shenkar College, una prestigiosa scuola di design con 2.800 studenti iscritti e con un corso in Fashion Design eletto tra i primi 6 al mondo secondo la rivista The Business of Fashion. Per tutte le informazione per organizzare il tuo viaggio, visita i siti istituzionale di Israele e Tel Aviv.

(Gay.it, 25 giugno 2021)


E' con disgusto e amarezza che riportiamo la notizia di questo evento in Tel Aviv. Lo facciamo perché è qualcosa che comunque avviene in Israele. Non esigiamo né che un evento simile non avvenga, né che non ne venga riportata la notizia, come conferma il fatto che qui la riportiamo. Ma ci prendiamo la piena libertà di ribadire con chiarezza che i sessi in natura e nella Bibbia sono due, e soltanto due: maschio e femmina. Fino a non molto tempo fa questo era ovvio, ora non più. Chi oggi insiste ancora a dirlo è incriminabile del reato di "omofobia". Paura: è questo che si vuole ingenerare in chi osa esprimersi contro questa degenerazione dell'originaria creazione di Dio. E' penoso, ma non sorprendente, che la capitale morale di questo lugubre movimento di opposizione al Creatore dei cieli e della terra, che ha formato Israele come suo popolo, sia collocata proprio sulla terra che Dio ha preparata per il suo popolo. Ma i tempi devono maturare; il giudizio deve cominciare dalla casa di Dio; il Regno di Dio sulla terra deve essere preceduto dai tempi dell'angoscia di Giacobbe. Che forse si stanno già velocemente avvicinando. M.C.


Israele: l'IDF testa con successo un'arma laser aria-aria

di Fabrizio Scarinci

GERUSALEMME - Alcuni giorni fa il Ministero della Difesa israeliano ha annunciato che l'Administration for the Development of Weapons and Technological Infrastructure, agenzia nazionale dedicata allo sviluppo di nuovi sistemi di difesa, ha portato a termine con successo una serie di test finalizzati alla sperimentazione di un'arma laser utilizzabile per missioni di tipo "aria-aria".
   In particolare, stando a quanto comunicato, il sistema, installato a bordo di un velivolo Cessna Grand Caravan C208, sarebbe riuscito ad intercettare ed ad abbattere diversi tipi aeromobili non pilotati collocati a diverse distanze e in presenza di differenti tipi di condizioni climatiche, mostrando contro ognuno di essi un notevole grado di efficienza e un più che accettabile livello di efficacia.
   Nel corso degli ultimi decenni diversi Paesi hanno condotto esperimenti con armi laser o ad energia diretta , ma finora solo pochi di essi sono riusciti ad ottenere sistemi aviotrasportabili capaci di colpire bersagli aerei in movimento. L'esempio più noto a riguardo è certamente costituito dal dispositivo COIL (Chemical Oxygen Iodine Laser) installato dall'USAF su una variante modificata del Boeing 747, nota come YAL-1A, allo scopo colpire i missili balistici nemici nelle fasi immediatamente successive al lancio.
   Pensato tra la fine degli anni 90 e primi anni 2000 essenzialmente al fine di contrastare vettori di tipo IRBM (ma volendo anche di tipo ICBM), lo YAL-1A compì il suo primo volo nel 2009, ma già nel corso del 2011 il mastodontico progetto inerente il suo sviluppo venne abbandonato a causa dei costi e della sua relativa inefficacia (per colpire i missili nemici nella fase di boost, infatti, il velivolo avrebbe dovuto già trovarsi a ridosso della zona di lancio, cosa che sarebbe stata possibile solo sorvolando costantemente il territorio del nemico, con l'inevitabile rischio di essere colpiti ancor prima di un eventuale lancio di missili).
   Dalla sperimentazione dello YAL-1 gli USA hanno, però, imparato moltissimo e attualmente sarebbero anche loro alle prese con nuovi e ambiziosi progetti inerenti lo sviluppo di questo tipo di armi.
   Per quanto riguarda Israele, invece, con il progetto in questione l'IDF e la Elbit Systems (azienda incaricata di portare avanti il suo sviluppo) sperano di mettere in campo, già nella seconda metà di questo decennio, un'arma altamente flessibile ed efficace, in grado di individuare e colpire droni e vari altri tipi di aeromobili tattici ad almeno una ventina di km di distanza, ponendo anche le basi per ulteriori (e strategicamente più rilevanti) sviluppi di queste tecnologie, che, nel corso dei prossimi decenni, al pari di quelle spaziali, robotiche ed elettroniche, avranno certamente un impatto notevole sull'evoluzione della cosiddetta "arte della guerra" e sugli equilibri internazionali ad essa connessi.
   
(yepper, 24 giugno 2021)


UK, Cile e Israele: nei paesi con più vaccinati al mondo aumentano di più i contagi

Cosa sta succedendo? Vediamo la situazione nei tre paesi al top della campagna di vaccinazione e le possibili cause.

di Fabio Marcomin

Negli ultimi giorni la curva di nuovi casi di Covid-19 nei paesi con i più alti tassi di vaccinazione segna un'impennata. Vediamo la situazione nei tre paesi al top della campagna di vaccinazione e le possibili cause.

 In Uk con quasi il 50% di vaccinati con due dosi sono al numero massimo di contagi degli ultimi quattro mesi. Un caso grave su tre è vaccinato.
   Nel Regno Unito sono stati vaccinati con entrambe le dosi il 47% dei cittadini, ma nell'ultimo mese si è registrata un'impennata della curva dei contagi, con il picco di 16.135 casi il 23 giugno, un dato che non si vedeva dal mese di febbraio e che sembra in continuo aumento. Il giorno prima erano 11.000 già in crescita rispetto ai giorni precedenti. Fino al 14 giugno, su 806 ricoverati per la Delta, solo 527 non erano vaccinati, e ben 84, più del 10%, avevano ricevuto due dosi di vaccino. Il 16 giugno la percentuale di casi gravi tra i vaccinati è salita al 31%.

 Il Cile è tornato in lockdown con il 50% della popolazione vaccinata con due dosi
  Nonostante il 50% della popolazione sia completamente vaccinato e il 63% abbia ricevuto la prima dose, il 12 giugno il governo ha reintrodotto il lockdown per la capitale Santiago e altri 40 Comuni delle Regioni di Valparaíso, O'Higgins, Maule e Los Lagos. La decisione è stata presa dopo la ripresa della curva di contagi per oltre due mesi, con una media settimanale poco sotto i 7.000 casi e i letti di terapia intensiva che hanno già raggiunto il limite massimo di occupazione.

 Israele ha il tasso più alto di vaccinazione al mondo, ma negli ultimi giorni i contagi stanno crescendo in tripla cifra
  Israele è il Paese con il più alto tasso di vaccinazione al mondo, il 60% della popolazione ha ricevuto due dosi, e la settimana scorsa era stato tolto l'obbligo dell'utilizzo della mascherina al chiuso, dopo mesi in cui i numeri giornalieri di infezioni erano a una sola cifra. La variabile Delta ha cambiato completamente la situazione. Negli ultimi giorni si è infatti registrata una rapida crescita della curva dei contagi, il 22 giugno i casi sono stati 125, oltre il doppio rispetto al giorno precedente di 49, ieri sono saliti a 146. Il governo di Israele è quindi dovuto ritornare indietro sulle decisioni prese reintroducendo l'obbligo della mascherina nei luoghi e ha rinviato al 1° agosto l'ingresso ai turisti vaccinati.

 Le possibili cause della crescita dei contagi
  Ma quali possono essere le possibili cause di questa crescita? I vaccini possono essere imperfetti, e anche quelli contro il contro il Covid-19 non sfuggono da questa ipotesi essendo in aggiunta in una fase sperimentale. Come accaduto con altri vaccini in passato, spiega Luca Ferretti, ricercatore di Genetica statistica e dinamica dei patogeni all'università di Oxford, anche quello contro il Sars-Cov-2 "può aver reso il virus più virulento." Un'altra possibile causa è il fatto che il vaccino non esclude la possibilità di contagiarsi, mentre riduce il rischio di ammalarsi gravemente, e una copertura massima del 90%. Pertanto oltre ai ceppi originari del virus le persone vaccinate possono contagiarsi anche con le varianti diventate resistenti sia al vaccino che al sistema immunitario.

(milanocittàstato.it, 24 giugno 2021)


Attacco con droni a sito nucleare iraniano. Ingenti danni

Contrariamente a quanto affermavano ieri mattina fonti ufficiali iraniane, l'attacco portato con piccoli droni contro la centrale nucleare di Karaj, a nord-ovest di Teheran, nota come Karaj Agricultural and Medical Research Center, non sarebbe stato affatto sventato.
I media statali iraniani avevano sostenuto che l'attacco era fallito e che "non aveva lasciato vittime o danni e non era stato in grado di interrompere il programma nucleare iraniano".
Invece, secondo fonti della dissidenza iraniana, l'attacco sarebbe perfettamente riuscito e avrebbe provocato ingenti danni.
Sebbene gli iraniani sostengano che il sito di Karaj venga utilizzato per scopi civili, indagini dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) hanno accertato che viene usato per il programma nucleare militare e per il programma balistico e quindi sottoposto a sanzioni da parte dell'Onu e dell'Unione Europea.
Secondo fonti non verificate l'attacco avrebbe colpito una fabbrica di componenti per le centrifughe usate per l'arricchimento dell'uranio.
Gli iraniani non hanno identificato chi c'è dietro l'attacco ma come sempre hanno accusato Israele.
Questo è solo l'ultimo di una serie di attacchi/incidenti che colpiscono il programma nucleare iraniano dei quali l'Iran accusa lo Stato Ebraico.
Il più clamoroso fu quello che lo scorso mese di aprile colpì l'impianto nucleare sotterraneo di Natanz. Una "misteriosa" esplosione danneggiò seriamente diverse centrifughe.
Solo pochi giorni fa un misterioso incidente aveva colpito la centrale nucleare di Bushehr.
Gli iraniani accusano Israele anche per l'uccisione di Mohsen Fakhrizadeh, capo del programma nucleare iraniano, ucciso lo scorso mese di novembre.
Se l'attacco con droni di ieri venisse confermato, sarebbe il primo [conosciuto] effettuato con velivoli in territorio iraniano, e sarebbe quindi un grosso [molto grosso] campanello d'allarme per gli Ayatollah.
Israele ha sempre affermato che non avrebbe mai permesso all'Iran di dotarsi di armi nucleari e che avrebbe usato qualsiasi mezzo per farlo. E questo a prescindere dal governo che lo Stato Ebraico avrebbe avuto.

(Rights Reporter, 24 giugno 2021)


Israele e la variante Delta, nel Paese con più vaccinati al mondo tornano contagi e mascherine

In vista di un nuovo focolaio, il premier Naftali Bennett ha introdotto nuove restrizioni

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Solo una settimana fa Israele festeggiava quella che sembrava la fine della pandemia, eliminando l'ultimo divieto rimasto in vigore: l'obbligo di indossare le mascherine in luoghi chiusi. Ma la contagiosa variante Delta del Covid non risparmia nemmeno il Paese con il più alto tasso di vaccinazione al mondo e per il secondo giorno consecutivo si sono registrati più di 100 casi positivi al giorno, dopo che per settimane il numero dei nuovi contagi rasentava lo zero.
  
Il premier Naftali Bennett, annunciando che è in vista un nuovo focolaio, ha reintrodotto alcune restrizioni: la mascherina torna obbligatoria all'aeroporto, ai valichi di frontiera, negli ospedali e negli ambulatori medici. L'apertura ai turisti che era prevista per luglio - i confini sono chiusi da marzo 2020 - è stata posticipata ad agosto e potrebbe slittare nuovamente. Il governo Bennett-Lapid, insediatosi da 10 giorni, ha oggi istituito il nuovo gabinetto ministeriale per il Covid, mentre ha dato istruzione di riaprire diversi centri per i tamponi che erano stati smantellati quasi totalmente nel corso dell'ultimo mese.
  Il ministero della Salute ha annunciato inoltre che anche i vaccinati e i guariti dal Covid dovranno sottoporsi a quarantena se venuti a contatto con un "ceppo pericoloso" del virus. In una conferenza stampa all'aeroporto Ben Gurion, ieri il premier Bennett ha chiesto agli israeliani di evitare di recarsi all'estero, se non strettamente necessario, e di indossare le mascherine nei luoghi chiusi. Al momento si tratta solo di raccomandazioni, che però potrebbero trasformarsi a breve in nuove direttive.
  
"Credo che vedremo un ritorno delle mascherine nei luoghi dove vi sono persone più vulnerabili, come nelle case di riposo, o dove ci sono alti tassi di persone non vaccinate, come nelle scuole" dice a Repubblica il professor Nadav Davidovitch, presidente dell'Associazione dei Medici della Sanità Pubblica e membro del comitato scientifico per la lotta al Covid. "In generale è opportuno che ognuno di noi continui a utilizzare la mascherina in qualsiasi luogo in cui può venire a contatto con persone estranee", prosegue Davidovitch. "È importante chiarire che il Covid continuerà a fare parte delle nostre vite, così come succede con il morbillo e altre malattie. Il vantaggio è che abbiamo i vaccini e quindi dobbiamo sensibilizzare quanto più possibile le persone all'inoculazione".
  
La diffusione nel mondo della nuova variante indiana (Delta), considerata 1.5 volte più contagiosa di quella britannica (Alfa) che in Israele aveva segnato un picco dei contagi a gennaio, aveva portato le autorità israeliane già il mese scorso a vietare i viaggi in Russia, India, Argentina, Sud Africa, Brasile e Messico, salvo permessi eccezionali. Tuttavia, da un'inchiesta pubblicata dal quotidiano Yediot Ahronot domenica, è emerso che i controlli sono stati lacunosi e che, nell'ultimo mese, almeno mille persone sono rientrare nel Paese senza effettuare alcun tampone.
  
L'incidenza della nuova variante è particolarmente alta fra i giovani, che non sono vaccinati o lo sono in minima parte. Un paio di focolai sono infatti comparsi in alcune scuole elementari e per la prima volta da settimane in cui la mappa del Paese era tutta segnata dal verde "Covid free", ora si ripresentano alcune zone arancioni e gialle.
  A inizi giugno, Israele ha aperto la campagna vaccinale anche ai ragazzi tra i 12 e 15 anni, ma solamente il 4% di questa fascia di età si è sottoposto finora all'inoculazione. Questo anche a causa della decisione delle autorità di non spingere la campagna vaccinale tra i giovani a seguito di uno studio che aveva individuato una possibile connessione tra l'iniezione della seconda dose e la probabilità di sviluppare infiammazione da miocardite, seppure in forma lieve, tra gli uomini fino ai 30 anni.
  Ieri il ministero della Salute ha invece rilasciato una nuova direttiva raccomandando la vaccinazione dei minorenni aventi diritto, nella convinzione che sia un passo critico per evitare nuovi focolai e raggiungere l'immunità di gregge, soprattutto a fronte di nuove varianti contagiose. "Non credo che Israele abbia agito troppo in fretta nel rallentare le restrizioni, però ha reagito in ritardo per quanto riguarda i mancati controlli all'aeroporto e ha anche smesso di promuovere con insistenza la campagna inoculazioni" dice Davidovitch. "Dobbiamo invece tornare alla promozione del vaccino con campagne mirate, come è stato fino a marzo, in particolare rivolte ai giovani, dopo che è stato dimostrato, con la vaccinazione di centinaia di migliaia di bambini in tutto il mondo, che il vaccino è efficace e sicuro anche per loro e che gli effetti collaterali sono rari e passeggeri".
  A oggi, il 65% della popolazione israeliana (9,3 milioni di abitanti) è stata inoculata con entrambe le dosi del siero Pfizer (si tratta dell'85% della popolazione avente diritto tra i 12 anni in su). Gli scienziati reputano che l'indice R (il numero medio di persone infettate da un positivo) della variante Delta sia nettamente superiore a quello del virus originario riportato nei primi casi all'inizio della pandemia: allora si attestava a 3, nella variante britannica a 5, nella mutazione Delta si stima sia tra 6 e 8.
  L'impatto della variante si ripercuote anche sulla protezione fornita dall'inoculazione. Secondo i dati del Ministero della Salute israeliano, tra il 22 maggio e il 20 giugno sono stati segnalati 564 nuovi casi, tra cui 165 (29%) erano persone inoculate con entrambe le dosi di Pfizer. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista medica Lancet, il vaccino Pfizer-BioNTech è efficace all'88% contro la variante Delta, 5% in meno di quanto lo era per la variante britannica.

(la Repubblica online, 24 giugno 2021)


Israele molto preoccupato per aumento casi COVID variante Delta

Israele è sempre stato preso come esempio nella lotta al COVID e anche adesso che si dice preoccupato sulla variante Delta dovrebbe essere osservato attentamente.

By Sarah G. Frankl

Israele è molto preoccupato per l'aumento dei casi di COVID-19 nella variante Delta. Ad affermarlo è stato ieri sera il Primo Ministro Naftali Bennett.
In un discorso televisivo alla nazione Bennett ha affermato che il governo stava prendendo provvedimenti per reprimere l'epidemia - attribuita alla variante Delta originariamente scoperta in India - nelle sue fasi iniziali.
Il Premier israeliano ha invitato gli israeliani ad agire con cautela poiché la variante Delta potrebbe infettare anche coloro che sono stati completamente vaccinati contro il virus.
Bennet ha annunciato che l'obbligo della mascherina all'interno dell'aeroporto Ben Gurion sarà ripristinato e che tutti gli arrivi verranno testati contro il COVID-19.
Il ministero della Difesa ha a sua volta annunciato ieri che avrebbe allestito un complesso di test presso l'aeroporto, che è il gateway principale di Israele.
Bennet ha poi sconsigliato agli israeliani di viaggiare all'estero aggiungendo che in un prossimo futuro il Governo potrebbe cambiare le disposizioni in materia di viaggi all'estero.
A seguito di una epidemia di COVID-19 nelle scuole, il Premier israeliano ha infine invitato i genitori a vaccinare i bambini contro il virus.

 Gli esperti: "proteggere i confini e completare vaccinazioni anche ai bambini"
  
Molto allarmati anche gli esperti che hanno plaudito alla decisione del Premier di ripristinare l'obbligo delle mascherine all'interno dell'aeroporto Ben Gurion e di fare test alle persone che arrivano dall'estero.
La protezione dei confini è molto importante, afferma Moshe Bar-Siman-Tov su Yedioth Ahronoth. Ma non è una cosa semplice, vanno prese immediatamente misure restrittive che chi entra in Israele da qualsiasi punto.
«I recenti focolai di coronavirus in Israele sono motivo di preoccupazione e dovrebbero far scattare tutte le spie di allarme» afferma Moshe Bar-Siman-Tov.
Israele è sempre stato considerato un paese all'avanguardia nella lotta al COVID-19 e non di rado viene preso come esempio.
Anche ora dovrebbe essere preso ad esempio per il fatto che non sottovaluta affatto la variante Delta né il fatto che occorre vaccinare anche i bambini.
Ma più importante di tutti, gli israeliani ci insegnano che contro la variante Delta il punto focale rimane il controllo rigoroso dei confini.
Ora spetta ai nostri governanti capire come muoversi in anticipo per scongiurare la quarta (annunciata) ondata.

(Rights Reporter, 23 giugno 2021)


Lapid incontrerà domenica a Roma il Segretario di Stato americano Blinken

di Ugo Volli

Il Ministro degli Esteri israeliano incontrerà domenica a Roma il segretario di stato americano Blinken. È il secondo viaggio di Lapid come ministro degli esteri israeliano, dopo quello a Dubai di due giorni fa e il secondo incontro ad alto livello fra Israele e Stati Uniti dell'ultima settimana dopo i colloqui che il Capo di Stato Maggiore dell'esercito Israeliano Kochavi ha avuto ieri con il suo omologo americano. Difficile dire che cosa si diranno i due diplomatici, ma certo l'incontro è imprevisto e non sarà un puro gesto di amicizia.
Il quadro diplomatico del Medio Oriente si sta muovendo con rapidità inconsueta: in Iran è stato eletto presidente Raisi, il "macellaio" che come capo di tutto il settore giudiziario ha represso nel sangue le rivolte giovanili degli scorsi anni e che è esponente della linea dura anche sugli armamenti nucleari e sulla politica regionale iraniana.
Da Gaza arrivano a Israele segnali di nuova possibile escalation, dopo che Bennett ha dichiarato di non essere disposto ad accettare che Hamas detti le regole del gioco.
Nel frattempo in Iran continuano roghi sospetti di parti del sistema nucleare (l'altro ieri è stata arrestata per un "guasto tecnico" la sola centrale atomica civile del paese). Ma a Vienna proseguono le trattative per fare ripartire l'Jcpoa, l'accordo con l'Iran voluto da Obama, da cui Trump si era ritirato e che Israele giudica "molto pericoloso".
Si dice che gli americani siano pronti ad accettare una precondizione importante dell'Iran per far ripartire le trattative, che ora sono sospese e cioè che vogliano abolire le sanzioni sul petrolio iraniano imposte da Trump. È questo che Blinken dirà a Lapid? O è Lapid che farà sapere a Blinken tutto ciò che i servizi segreti di Israele stanno scoprendo sul progetto di armamento nucleare iraniano? Difficile dire. Certo che l'incontro è importante e probabilmente sarà condotto con molta cordialità, dato che Lapid nel composito schieramento governativo di Israele è uno dei più vicini per idee e sensibilità alle amministrazioni democratiche.

(Shalom, 23 giugno 2021)


Israele ha vinto contro Hamas

Ma ne è anche uscito indebolito agli occhi degli Stati Uniti. Ed è quello che voleva Teheran. La guerra degli 11 giorni si inserisce in un contesto più ampio.

L 'Egitto si è imposto come il grande mediatore del conflitto. Questa volta però non è stato super partes il ministro degli esteri Shoukry è andato in visita, ufficiale nel Qatar. Israele è il maggior oppositore del Jcpoa e indebolirla equivale ad affievolire le voci negli Usa contro l'accordo. Questo indebolimento è un successo per l'Iran. L'Iran ha utilizzato l'escalation di Hamas contro Israele per migliorare la sua influenza negoziale sull'accordo nucleare con gli Usa e testare Biden.

di Anna Mahjar-Barducci

Hamas non è più un gruppo circoscritto a Gaza, ma è ormai diventato un movimento regionale. La strategia politica e militare di Hamas infatti non tiene più in considerazione soltanto gli aspetti locali, ma anche quelli dei suoi alleati in Medio Oriente: Iran e Qatar.
   La prova ci viene data dalla non-reazione di Hamas alla «marcia delle bandiere», organizzata dai settlers e dai movimenti di estrema destra israeliana, lo scorso 15 giugno a Gerusalemme. Israele aveva già dichiarato l'allerta e schierato l'Iron Dome, per prepararsi a un eventuale attacco missilistico da Gaza, come era avvenuto lo scorso maggio. Nonostante il sito vicino a Hamas, Gaza Alan, avesse annunciato durante lo svolgimento della marcia che un'autobomba fosse pronta a esplodere e che i missili sarebbero arrivati in serata, niente di tutto ciò è accaduto.
   Non solo, ma dopo che Israele ha bombardato Gaza, già due volte dal 15 giugno, in risposta ai palloncini incendiari lanciati dall'unità Barq (vicina al gruppo Jihad Islamica), Hamas ha nuovamente deciso di non reagire, dicendo che non sarà Israele a dettare i tempi della guerra o a cambiare «l'equazione» sul terreno. Questo fa capire che Hamas non è più il movimento che reagisce di pancia e che pensa a soddisfare soltanto le richieste dei palestinesi, che dai social media gridano: «Abu Obeida [portavoce del braccio armato di Hamas, ormai diventato una star, ndr] pensaci tu!- «Abu Obeida fai sentire al nemico le fiamme dei missili da Gaza». Hamas adesso è un movimento regionale, che segue le logiche e le necessità dei suoi finanziatori/sostenitori.
   Per capire meglio, facciamo un passo indietro e torniamo allo scorso maggio, quando è iniziata la guerra degli «11 giorni» (o come la chiama Hamas, la battaglia della spada di Al-Quds). I primi di maggio, la situazione a Gerusalemme è sempre più tesa, a causa degli sfratti a Sheikh Jarrah e per alcune barricate messe dalla polizia (e poi tolte) davanti a Bab Al-Amoud (la porta che conduce al quartiere musulmano in città vecchia) durante il mese del Ramadan. Poi il 10 maggio, si svolge come di consuetudine la «marcia delle bandiere» per ricordare l'unificazione israeliana dei due settori (est e ovest) della città di Gerusalemme durante la Guerra dei sei giorni. Hamas approfitta pertanto dell'occasione, e - mentre gli israeliani (per lo più settlers e di estrema destra) sventolano le bandiere bianche e blu nel cuore della città sacra - lancia i primi missili su Gerusalemme, dando inizio a una guerra che sarebbe durata quasi due settimane. Ma perché Hamas ha lanciato i missili, dopo 7 anni di tregua dall'ultima guerra nel 2014?
   Come suggeriscono gli stessi analisti del Golfo, Hamas non ha iniziato una guerra per «difendere» quattro case a Sheikh Jarrah, ma bensì per rispondere alle necessità di Teheran di fare pressione sugli Stati Uniti. Da qualche mese, l'Iran, finanziatore di Hamas ha iniziato a negoziare il rinnovo dell'accordo sul nucleare (Jcpoa). Questo accordo era stato raggiunto durante l'amministrazione Obama nel 2015 tra l'Iran, il P5+ 1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite-Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti - più la Germania) e l'Unione europea.
   Nel 2018, sotto l'amministrazione Trump, gli Stati Uniti sono usciti dall'accordo (considerato non adeguato a prevenire l'acquisizione dalla bomba nucleare da parte iraniana), accusando l'Iran di aver violato il Jcpoa e rilanciando così le sanzioni economiche contro Teheran. Adesso però l'amministrazione Biden vuole unirsi nuovamente all'accordo, ma con nuove condizioni, che il regime iraniano non è disposto ad accettare. Allo stesso tempo però Teheran, se vuole vedere eliminate le sanzioni, deve accettare di negoziare il Jcpoa con Washington. Qui subentra il ruolo di Hamas.
   L'Iran, infatti, che non vuole accogliere tutte le condizioni imposte dagli Stati Uniti, sa di poter contare su Hamas per portare avanti una proxy war. L'Iran ha pertanto utilizzato l'escalation di Hamas contro Israele per due motivi: primo, migliorare la sua influenza negoziale sull'accordo nucleare con gli Stati Uniti; secondo, testare la nuova amministrazione Biden e la sua volontà di sostenere Israele.
   Dalla guerra degli 11 giorni, che cosa ha quindi ottenuto l'Iran? L'Iran ha ottenuto quello che voleva. Infatti, nonostante Israele abbia vinto militarmente, al contempo ne è uscito dalla guerra politicamente indebolito, a differenza di Hamas. L'indebolimento politico di Israele ha causato anche un indebolimento della propria influenza sugli Stati Uniti per quanto riguarda l'accordo nucleare con l'Iran. Israele è infatti il maggior oppositore del Jcpoa e indebolire politicamente Israele equivale ad affievolire le voci negli Stati Uniti contro l'accordo. Questo indebolimento è pertanto un grande successo per l'Iran.
   Però perché Hamas non attacca nuovamente? A questa domanda ci sono varie risposte:
Elezioni in Iran - L'Iran adesso, con le elezioni che si sono svolte il 18 giugno, non ha bisogno di problemi o distrazioni da parte dei suoi proxies. Fino all'insediamento del nuovo governo, non ha bisogno di una nuova guerra con Israele.
Rapprochment Egitto-Qatar - Nel dopoguerra si sono aperti nuovi scenari. L'Egitto si è imposto come il grande mediatore del conflitto tra Hamas e Israele, ritornando a essere un attore di prestigio nel contesto mediorientale. Queste volta però l'Egitto non sembra aver adottato un approccio super partes. Infatti, lo scorso 14 giugno, il ministro degli affari esteri egiziano, Sameh Shoukry, è andato in pompa magna in visita ufficiale nel Qatar, maggior sostenitore di Hamas, ufficializzando così la ripresa dei rapporti diplomatici. La visita infatti può essere considerata storica dato che era da ben 8 anni che un ministro egiziano non andava a Doha. I rapporti fra Egitto e Qatar, alleato della Turchia e nemico dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, sembrano pertanto essersi normalizzati, tanto che il presidente egiziano, Abdel Fattah el-Sisi, ha invitato l'emiro qatariota, Tamim bin Hamad Al Thani, a visitare il Cairo alla prima occasione possibile.
Il Qatar è contento di questo rapprochement con l'Egitto, che era prima schierato con gli Emirati Arabi e l'Arabia Saudita. In cambio della normalizzazione dei rapporti, il Cairo vuole che il Qatar moderi le attività antigovernative dei Fratelli Musulmani in Egitto. Allo stesso tempo però Sisi deve riconoscere Hamas come rappresentante del popolo palestinese, a discapito dell'Autorità palestinese. Adesso che l'Egitto ha ritrovato un suo ruolo di prestigio come mediatore tra Hamas e Israele (esaltato dalla stessa amministrazione Biden) non può permettersi di perderlo con l'inizio di un nuovo conflitto. Il Qatar, che non vuole perdere l'Egitto come alleato, frena pertanto la reazione di Hamas contro Israele.
Finanziamenti del Qatar a Gaza - Hamas richiede da tempo a Israele di far entrare i finanziamenti del Qatar direttamente a Gaza. Il movimento terroristico ha infatti un bisogno urgente di questi soldi per poter ricostruire le postazioni militari colpite durante la guerra. Nelle ultime settimane, i leader del movimento hanno più volte minacciato di ricominciare l'escalation per fare pressione su Israele sulla questione dei finanziamenti. Hamas però si rende conto che, se dovesse ricominciare una guerra, Israele non lascerebbe entrare a Gaza nessun aiuto economico da parte del Qatar. E importante sottolineare che Hamas vuole che questi finanziamenti arrivino direttamente a Gaza, senza passare da intermediari come l'Autorità palestinese o l'Egitto, temendo di vedere sottratto da questi ultimi buona parte dell'aiuto economico.

(ItaliaOggi, 23 giugno 2021)


In Israele contagi tra gli adolescenti

Variante Delta

La rapida crescita di contagi di Covid, per lo più attribuiti alla variante Delta, ha allarmato le autorità sanitarie israeliane. Dopo varie settimane in cui il numero quotidiano dei nuovi contagi era inferiore a 10, negli ultimi giorni si è registrata una accelerazione e ieri il totale dei nuovi casi è stato di 125, per lo più fra adolescenti. Il ministero della Sanità ha consigliato di procedere alla vaccinazione dei giovani di età compresa fra i 12 e i 15 anni. «Ne abbiamo già vaccinati 23 mila, con una prima dose, senza rilevare ripercussioni significative» ha detto al sito Ynet il direttore generale del ministero Chezi Levy. Secondo la stampa è prevedibile che le loro vaccinazioni saranno completate entro la fine di luglio. L'ingresso di nuove varianti in Israele è attribuito alle visite di persone in Paesi a rischio. Al momento, secondo Chezi Levi, i più pericolosi sono sei: Russia, India, Messico, Brasile, Argentina e Sudafrica.

(Il Messaggero, 23 giugno 2021)


Israele rimanda di un mese la riapertura delle frontiere

di Fabiana Magrì

Il Covid torna in prima pagina in Israele e il governo fa retromarcia sul turismo internazionale.
   Per stendersi al sole delle spiagge di Tel Aviv o per smarrirsi nei vicoli della Città Vecchia di Gerusalemme, per galleggiare sulle acque del Mar Morto o scendere fino alla punta del Mar Rosso a Eilat, i viaggiatori vaccinati dovranno attendere un altro mese, fino ad agosto.
   E' così che, una settimana dopo la revoca dell'obbligo di indossare le mascherine tout court, a causa dell'aumento del numero dei nuovi contagi giornalieri, Israele si rinserra.
   "Se i numeri saliranno a oltre 100 nuovi casi per diversi giorni consecutivi - aveva ammonito il premier Naftali Bennet, ieri in visita all'aeroporto Ben Gurion - saranno possibili cambiamenti significativi nelle modalità di ingresso e uscita da Israele".
   Così è stato.
   Tutto è partito dall'allarme lanciato nei giorni scorsi dal ministero dell'Istruzione. Nelle scuole israeliane, 183 studenti e 20 membri dello staff sono stati trovati infetti, anche se nessun caso è grave. Come conseguenza, oltre 5 mila studenti sono entrati in quarantena.
   Il responsabile per il coronavirus in Israele, Nachman Ash, ha rassicurato la popolazione dichiarando ai media che "Questo è un focolaio locale, che si è originato all'estero". L'ingresso di nuove varianti in Israele è attribuito infatti all'arrivo di persone da fuori. Il direttore generale del ministero della Sanità Chezi Levy ha segnalato le sei nazioni più pericolose - Russia, India, Messico, Brasile, Argentina e Sudafrica - facendo appello alla popolazione a non viaggiare verso quelle destinazioni.
   Di più, il premier Naftali Bennett, dall'aeroporto Ben Gurion, ha esortato gli israeliani a evitare viaggi internazionali non essenziali, facendo presente che il recente focolaio di Covid-19 è stato fatto risalire a una famiglia tornata da Cipro, che non è considerato un paese ad alto rischio. "Al momento la raccomandazione di limitare i viaggi non è un ordine, è una richiesta", ha specificato Bennett, dopo aver visitato le postazioni per i tamponi insieme con il ministro della Sanità Nitzan Horowitz, il ministro degli Interni Ayelet Shaked e il ministro dei trasporti Merav Michaeli.
   La falla è stata attribuita anche a una crisi logistica della capacità di test in aeroporto dovuta a un picco di viaggiatori. Venerdì scorso, a migliaia di israeliani, è stato permesso di uscire dall'aeroporto senza fare il tampone obbligatorio a causa del sovraffollamento della stazione. Da allora il governo ha potenziato le postazioni e intensificato l'applicazione della quarantena.
   Ci sono molte buone ragioni per ritenere che Israele non sia a rischio di una nuova ondata, si legge su Ha'aretz: "Lo sviluppo dei vaccini ha segnato un punto di svolta nella guerra contro il virus a livello globale; le campagne di vaccinazione stanno avvicinando il mondo al punto in cui la pandemia è contenuta. Anche se in teoria emergesse una nuova forma più virulenta e contagiosa del coronavirus che mostra una maggiore resistenza al vaccino, la strada per sviluppare un vaccino su misura sarà più breve e veloce rispetto alla prima volta", scrive il giornalista Ido Efrati. Tanto che per ora il Ministero della Salute non ha reintrodotto le restrizioni da poco abbandonate, se non in aeroporto, dove le mascherine tornano obbligatorie. Tuttavia si consiglia agli israeliani di indossarle di nuovo, per precauzione, in ogni ambiente al chiuso, nelle aree affollate, compresi i mezzi pubblici.
   
(Shalom, 23 giugno 2021)


Contro il tifo da stadio sul Covid

I contagi di Londra. Le mascherine in Israele. Il ritorno dei tracciatori. I paesi all'avanguardia contro il virus ci ricordano perché è un errore far credere ai cittadini che la pandemia sia finita. Due svolte necessarie.

di Claudio Cerasa

E' davvero finita? C'è una domanda molto impegnativa, e persino proibita, che riguarda il nostro futuro rapporto con la pandemia e che con l'estate che ti salta addosso diventa difficile da porsi. Quella domanda, per quanto si possa essere travolti dal contagioso ottimismo offerto dal presidente del Consiglio, diventa però terribilmente necessaria se si uniscono alcuni puntini e se ci si chiede, per esempio, quanto sia preoccupante il fatto che alcuni tra i paesi considerati più all'avanguardia nella lotta contro il Covid-19 oggi si ritrovano in una situazione del tutto imprevista fino a qualche mese fa. I paesi in questione sono l'Inghilterra e Israele, due paesi che hanno vaccinato finora rispettivamente il 50 e il 60 per cento della popolazione, e il dato su cui vale la pena riflettere riguarda alcune notizie, registrate negli ultimi giorni, difficili da nascondere. La prima notizia riguarda un aumento dei contagi in Inghilterra tale da aver suggerito al presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, prima un periodo di quarantena di cinque giorni per chiunque arrivi dalla Gran Bretagna e poi un invito rivolto all'Uefa a considerare anche altre città, con meno contagi, per la finale degli Europei, prevista per il dieci luglio a Wembley, a Londra (la media degli ultimi sette giorni è di 10 mila contagi al giorno e il governo di Boris Johnson, dopo avere rinviato di un mese la fine delle restrizioni, non è ancora certo di poter mantenere la promessa di revocare le ultime restrizioni il prossimo 19 luglio). La seconda notizia, anch'essa non troppo incoraggiante, riguarda una serie di segnali raccolti nelle ultime ore nello stato simbolo della lotta contro il Covid-19. E chiunque ieri mattina abbia avuto l'occasione di curiosare sui siti di informazione israeliana non avrà potuto fare a meno di notare la presenza di cinque notizie non esattamente eccitanti. Notizia numero uno: lunedì, in Israele è stato registrato il più alto tasso giornaliero di infezioni da coronavirus da due mesi a questa parte. Notizia numero due: il direttore generale del ministero della Sanità, Chezy Levy, ha dichiarato alla televisione israeliana che circa il settanta per cento delle nuove infezioni riguarda la variante Delta e che un terzo degli infetti è stato già vaccinato con entrambe le dosi. Notizia numero tre: per la prima volta da maggio, Israele ha scelto di reintrodurre delle restrizioni alla mobilità in alcune zone, a seguito di un focolaio individuato in una città nel distretto di Haifa, Binyamina-Giv'at Ada. Notizia numero quattro: a pochi giorni dalla fine dell'obbligo dell'uso delle mascherine al chiuso, il Consiglio regionale di Drom HaSharon, nel cuore di Israele, ha ripristinato l'obbligo di indossare le mascherine in alcune scuole. Notizia numero cinque: a seguito di una inaspettata recrudescenza dei contagi, il ministro della Difesa, Benny Gantz, ha chiesto all'esercito israeliano di prepararsi a rinnovare gli sforzi per il tracciamento dei contagi e di non chiudere più, come invece era stato precedentemente previsto, il dipartimento per la Ricerca dei contatti dei contagiati. Fortunatamente, né in Inghilterra né in Israele l'aumento dei contagi ha avuto, almeno finora, un impatto sul numero dei decessi.
   Nel Regno Unito negli ultimi quattordici giorni ci sono stati 134 morti, una media di nove al giorno, in Israele, invece, ci sono stati dodici decessi in quattordici giorni, meno di un decesso al giorno. Ma il fatto che il governo israeliano (all'avanguardia nella lotta alla pandemia) abbia deciso di mantenere e di rafforzare la struttura necessaria a tracciare i contatti dei contagiati e il fatto che il governo inglese (all'avanguardia nella lotta alla pandemia) abbia deciso di mantenere una media di 900 mila tamponi al giorno nonostante la fine della fase acuta della pandemia (l'Italia ne fa 200 mila) dovrebbe suggerire al nostro paese di non confondere la fine dell'emergenza acuta con il repentino ritorno alla normalità. Il Cts, come sappiamo, ha deciso che, nell'attuale scenario epidemiologico, sarà possibile, a partire dal 28 giugno, superare l'obbligatorietà dell'uso delle mascherine all'aperto in tutte le regioni che si trovano in zona bianca. La stessa scelta è stata fatta anche dalla Francia, che a partire dal 17 giugno aveva eliminato l'obbligo di indossare le mascherine all'aperto. Ma ciò che un paese come l'Italia dovrebbe chiedersi oggi, osservando quello che succede in paesi all'avanguardia come Israele e come l'Inghilterra, è se sia accettabile o no accontentarsi di dominare il virus a colpi di vaccini (ieri anche grazie ai vaccini ci sono stati 31 morti in Italia e il tasso di positività allo 0,4% è il più basso di sempre) o se non sia doveroso in una fase di transizione attrezzarsi per fare quello che l'Italia promette di fare da due anni senza successo: investire nello screening della popolazione e nel tracciamento dei contagiati, non quando i contagi sono fuori controllo ma quando questi sono sotto controllo. Una politica con la testa sulle spalle, piuttosto che provare a intestarsi ogni giorno l'uscita progressiva dall'emergenza acuta, dovrebbe attrezzarsi per aiutare il sistema sanitario a prepararsi ad affrontare una stagione che promette di non essere corta e che ci porterà non a vivere senza il virus, ma a imparare a convincerci. Michael Osterholm, epidemiologo americano, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Università del Minnesota e consigliere di Joe Biden, nell'ultimo incontro avuto a metà maggio con i suoi omologhi dei paesi europei (il prossimo sarà il 30 giugno) ha detto di essere convinto che la pandemia andrà avanti ancora per mesi, se non per anni, e che fino al 2023 sarà difficile contenere in modo definitivo il grande serbatoio di contagi che esiste in Asia e in Africa. Vaccinarsi, vaccinarsi, vaccinarsi è dunque necessario per governare la pandemia (gli over 60 non vaccinati, caro Figliuolo, vanno individuati casa per casa e convinti caso per caso: subito, non a fine luglio) ed evitare che varianti pericolose possano diffondersi in un paese (anche se per fortuna la maggiore contagiosità delle varianti non ha avuto un impatto significativo su decessi e ospedalizzazioni). Ma la storia inglese e la storia israeliana ci dicono che per proteggere un paese dal virus è necessario anche attrezzare le strutture sanitarie (screening) per non farsi trovare impreparati in caso di nuove ondate. Farsi trovare impreparati un anno e mezzo fa era inevitabile. Farsi trovare impreparati oggi sarebbe imperdonabile.
   
Il Foglio, 23 giugno 2021)


Vaccino Pfizer: casi di miocardite tra i giovani, lo ha reso noto uno studio israeliano

Sotto i riflettori, sul tema vaccini, c'è anche Pfizer. Secondo uno studio israeliano, riportato anche dal quotidiano Il Messaggero, sarebbero 275 su oltre 5 milioni di vaccinati i casi di complicanze legate a miocarditi (infezione al cuore che provoca scompenso cardiaco) nei giovani (maschi) tra i 16 e i 30 anni.
   La Pfizer è stata interpellata e ha risposto di essere a conoscenza dello studio israeliano, ma che non è stato individuato nessun nesso causale tra vaccino e infiammazione. Dallo studio si apprende che sussiste il rischio di miocardite dopo la vaccinazione Pfizer. Nei giorni scorsi, alcune ricerche statunitensi avevano messo in guardia sui rari casi di miocardite emersi in soggetti giovani dopo la seconda dose di vaccini a mRna. "I benefici della vaccinazione anti-Covid" con i vaccini a mRna di Pfizer/BioNTech e di Moderna superano enormemente il raro e possibile rischio di complicanze cardiache, inclusa la miocardite". Lo hanno precisato, in una nota congiunta, l’American Heart Association (Aha) e l’American Stroke Association (Asa) che hanno aggiunto: "Esortiamo vivamente tutti gli adulti e i bambini di età pari o superiore a 12 anni a sottoporsi a vaccinazione anti-Covid non appena possibile, si legge in una nota. Le evidenze continuano a indicare che i vaccini COVID-19 sono efficaci quasi al 100% nel prevenire morti e ricoveri causati dall’infezione da Sars-CoV-2".
   Quando compaiono gli effetti di eventuali miocarditi? Entro 4 giorni dalla somministrazione, nei maschi più spesso che nelle femmine e dopo la seconda dose più frequentemente che dopo la prima. I cardiologi comunque rassicurano, confermando appunto che i benefici dell’iniezione-scudo superano di gran lunga i rischi.

(Team iLMeteo.it, 22 giugno 2021)


Covid, risalgono i contagi in Israele

Oltre 100 nuovi casi, prima volta da aprile. Il 70% delle nuove infezioni sono riconducibili alla variante Delta. Bennett: "Evitate viaggi non necessari"
   Per la prima volta da due mesi Israele segnala più di 100 nuovi contagi da Covid-19 confermati nell'arco di 24 ore. Secondo i dati del ministero della Salute, riportati stamani dal sito di notizie Ynet, ieri 125 persone sono risultate positive al Covid-19, il bollettino più alto dallo scorso 23 aprile.
   I dati ufficiali parlano di 397 casi attivi, con 51 pazienti ricoverati in ospedale, 25 dei quali in condizioni descritte come serie. Il tasso di positività rispetto al numero di test effettuati è salito ieri, sottolinea Ynet, a 0,3% da una media dello 0,1%. In tv, riferisce l'agenzia Dpa, il direttore generale del ministero della Salute, Chezy Levy, ha spiegato che circa il 70% delle nuove infezioni sono riconducibili alla variante Delta. Nella metà dei casi, ha precisato, si tratta di bambini, mentre un terzo delle persone contagiate è vaccinato contro il Covid-19.
   La scorsa settimana in Israele è stato revocato l'obbligo di indossare la mascherina, ma poi da domenica in due città è tornato l'obbligo nelle scuole dopo la scoperta di focolai negli istituti. Le autorità hanno anche deciso di potenziare la capacità di controllo con i test per i viaggiatori negli aeroporti.
   A causa del crescente numero di infezioni e della diffusione della variante Delta, in Israele si raccomanda la vaccinazione per la fascia d'età 12-15 anni. Nel Paese, con circa 9 milioni di abitanti, 5,5 milioni di persone hanno ricevuto almeno la prima dose del vaccino anti-Covid e più di 5,1 milioni hanno completato la vaccinazione.
   Il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha esortato i suoi concittadini ad evitare i viaggi all'estero non essenziali. "Per ora non è un ordine, ma una richiesta", ha detto il premier, ricordando che il nuovo focolaio scoppiato a Binyamina ha avuto origine da una famiglia che si era recata a Cipro, paese non considerato ad alto rischio. All'aeroporto le mascherine sono obbligatorie e Bennett ha consigliato di tornare ad indossarle in tutti i luoghi chiusi.

(Adnkronos, 23 giugno 2021)


La sicurezza immunitaria dei vaccinati è paragonabile alla sicurezza finanziaria dei ricchi: i vaccinati temono di perdere la salute come i ricchi temono di perdere i soldi. Chi cerca sicurezza in questo modo, di una sola cosa può essere sicuro: che continuerà a vivere in uno stato di latente e cronica paura. M.C.



Sicura in man di Cristo

Sicura in man di Cristo,
sicura nel suo cor,
l'anima mia riposa,
all'ombra dell'amor.

Dal cielo a lei discende
un inno di vittoria,
e parla della gloria
che un giorno sua sarà!

Sicura in man di Cristo
l'alma senz'ansia sta:
né tentazion né fallo
ivi la ferirà.

Salva da tema e affanni,
dal dubbio che addolora;
sol qualche prova ancora
un po' di pianto ancor.

Rifugio del cor mio,
Gesù morì per me;
fermo in Te, Rocca eterna,
confido solo in Te!

Aspetto con pazienza
poich'egli è notte ancora;
aspetto, ormai l'aurora
la sponda indorerà!

Sicura in man di Cristo,
sicura nel suo cor,
l'anima mia riposa,
all'ombra dell'amor.

Teodorico Pietrocola Rossetti (1825-1883)
    Inno cantato il giorno del mio battesimo (da adulto), più di sessant'anni fa. M.C.
Testo e musica

 


Alta tensione a Gerusalemme: scontri tra palestinesi e ebrei a Sheikh Jarrah

Lanci di pietre e Molotov. Gli agenti usano granate stordenti e gas lacrimogeni per disperdere la folla

Si riaccende la tensione a Sheikh Jarrah, il quartiere delle case contese a Gerusalemme est. La scorsa notte manifestanti palestinesi e residenti ebrei si sono scontrati più volte con la polizia intervenuta a fermare gli incidenti. Secondo i media, almeno 20 dimostranti e un agente sono rimasti feriti. Secondo i residenti ebrei, i manifestanti palestinesi hanno lanciato pietre e Molotov contro le case ebraiche ferendo leggermente una donna incinta colpita alla schiena. Il luogo - su cui è attesa una sentenza della Corte Suprema per quanto riguarda la permanenza nelle case di famiglie palestinesi - è da mesi teatro di scontri. Hamas ne ha fatto uno dei pretesti per il lancio di razzi verso Israele sfociato poi nel conflitto maggiore.

(CorriereTV, 22 giugno 2021)


La dimestichezza con Hezbollah & Co. del leader iraniano Raisi

di Tatiana Boutourline

ROMA - Alla sua prima conferenza stampa da presidente eletto, Ebrahim Raisi non ha detto una parola che non avrebbe potuto pronunciare la Guida suprema Ali Khamenei. "Il mondo deve sapere che la politica estera del nostro governo non inizierà con l'accordo nucleare e non si limiterà a esso", ha detto alla stampa internazionale l'apprendista di Khamenei, rigido e più che mai severo, senza un accenno di sorriso a indicare che è l'uomo del momento. Ha più microfoni davanti che voti nelle urne elettorali, era la battuta che girava tra i giornalisti iraniani su Telegram, ma c'era un clima mesto nella sala mentre la Cnn chiedeva a Raisi se avrebbe preso in considerazione l'idea di incontrare il presidente americano Joe Biden una volta eliminate le sanzioni, e lui replicava con un "no" che non avrebbe potuto essere più secco. L'esperienza dell'Iran con il Joint comprehensive plan of action, l'accordo nucleare, non è stata buona, ha spiegato Raisi elencando richieste, minacce e lagnanze di Teheran. Sono stati gli americani a tradire il deal, le sanzioni devono essere rimosse in modo verificabile, non rimarremo agganciati a colloqui che non portano risultati; le nostre alleanze regionali e il programma missilistico non sono negoziabili.
   Per cui alla fine della conferenza stampa l'impressione predominante, suffragata da una serie febbrile di annunci da parte del ministero degli Esteri di Teheran ancora targata Rohani, l'attuale presidente, era un po' quella del "cogliete l'attimo", firmate quel che dovete firmare (mancano solo le firme nelle capitali, ha ripetuto il plenipotenziario iraniano a Vienna, Abbad Arachci) prima che si insedi Raisi.
   Non c'è niente di nuovo nelle dichiarazioni del presidente eletto e la politica nucleare e strategica di Teheran notoriamente non la decide certo lui, ma il pupillo di Khamenei dovrà avventurarsi per un sentiero stretto, marcato da un lato dall'esigenza della discontinuità con Rohani e dall'altro dal bisogno di assicurare una ripresa economica difficile da immaginare senza il congelamento delle sanzioni. Se il deal fosse firmato entro agosto, Raisi potrebbe beneficiare dei risultati del team Rohani e allo stesso tempo rivendicare, senza paura di smentita, che la sua amministrazione avrebbe ottenuto di meglio. Muovendo lo sguardo oltre il dossier nucleare, la visione del mondo di Raisi è molto simile a quella di Khamenei. Pressoché digiuno di esperienze internazionali, l'apprendistato diplomatico di Raisi si è svolto a partire dal 2016 e tutto nell'alveo dell"'asse della resistenza", dopo l'inizio del suo incarico come custode del "sacro recinto" di Mashad. L'Astan Quds Razavi (Aqr), la fondazione che vigila sul santuario dell'imam Reza, è un impero economico da 20 miliardi di dollari che gestisce interessi che vanno dall'agricoltura, al settore energetico alle costruzioni e che, quando occorre, non disdegna la collaborazione con Hezbollah e con la pletora di milizie che più o meno convintamente fanno capo a Teheran. Nei suoi anni al vertice dell'Aqr (2016-2019), Raisi ha sostenuto e intensificato queste relazioni. Nel 2016, per festeggiare i suoi primi 200 giorni alla guida del santuario, ha dedicato una giornata alla "resistenza islamica" aprendo i lavori con un messaggio del segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah. La conoscenza tra i due si è approfondita nel gennaio del 2018 quando Raisi si è recato in Libano per incontrarlo. Alla fine del colloquio, il nuovo presidente iraniano ha magnificato la profonda consonanza "ideologica e sentimentale" tra Nasrallah e l'allora leader di al Quds, Qassem Suleimani. E in quell'occasione Raisi ha accantonato il proverbiale riserbo per farsi immortalare insieme ai familiari dei "martiri" di Hezbollah e in particolare con quelli del famigerato Imad Mughniyeh, numero due dell'organizzazione, coinvolto in alcune delle azioni più efferate contro obiettivi occidentali.
   In un altro rendez-vous, stavolta con il capo del consiglio supremo sciita, lo sceicco Abdul Amir Qablan, Raisi si è felicitato della crescente penetrazione culturale iraniana in Libano e ha incensato la logica della guerra asimmetrica di Teheran rispolverando la più ridicola delle teorie cospirazioniste. "Il regime sionista, per via della sua natura terroristica, si augurava che lo Stato islamico costituisse un secondo centro di potere con le medesime caratteristiche terroristiche nella regione, ma il fronte della resistenza ha neutralizzato questo disegno".

Il Foglio, 22 giugno 2021)


Hamas: incontro "negativo" con il coordinatore dell'Onu Wennesland

GERUSALEMME - Il leader del gruppo palestinese Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar, ha avuto un incontro definito "negativo" con il coordinatore speciale dell'Onu per il processo di pace in Medio Oriente, Tor Wennesland. Lo ha detto lo stesso Sinwar, sottolineando che l'incontro è stato "cattivo" e "non positivo nel risolvere la crisi nella Striscia di Gaza". "Non ci sono segni che sarà risolta la crisi umanitaria qui", ha aggiunto Sinwar, citato dal quotidiano panarabo "Asharq al Awsat", sottolineando che "l'occupazione (Israele) sta cercando di ricattare il popolo palestinese riguardo all'assistenza ai residenti della Striscia di Gaza". Hamas ha informato Wennesland, giunto ieri nell'enclave, che non accetterà il suo ruolo come mediatore, perché non ha esercitato pressioni sufficienti su Israele.

(Agenzia Nova, 22 giugno 2021)


Iran, Raisi sfida Biden: «Non lo vedrò, tolga le sanzioni»

Il nuovo leader iraniano: «Tornino all'accordo sul nucleare. E sui missili non negoziamo»

di Andrea Nicastro

L'Iran di cui parla Ebrahim Raisi non ha nulla del Paese piegato dalle sanzioni americane. È invece orgoglioso, assertivo, indisponibile a rinunciare alle vittorie ottenute sul campo e, anzi, ansioso di togliersi parecchi sassolini dalle scarpe. L'era della presidenza Raisi, il mullah diventato giudice, il giudice diventato presidente, il presidente che potrebbe diventare Guida Suprema comincia con una porta in faccia agli Stati Uniti.
  Se servisse a favorire il ritorno americano agli accordi nucleari del 2015, incontrerebbe Biden? Raisi assumerà l'incarico il 3 agosto, ma nella prima conferenza stampa da presidente eletto, non ha dubbi, la risposta è: «No». «Sono stati gli Usa a violare gli accordi liberamente firmati nel 2015. E, quando l'hanno fatto, gli europei non hanno saputo opporsi. Le nostre richieste alle trattative in corso a Vienna sono che Washington rispetti la propria firma, si comporti seriamente e tolga le sanzioni. Il mio team sta già ricevendo rapporti dai negoziatori a Vienna e la linea iraniana non cambierà. Noi siamo rimasti fedeli a quanto firmato. Perché gli Usa hanno tradito i loro impegni? Perché gli europei si sono ritirati? Il nobile popolo iraniano sta aspettando le risposte. Questo pensiamo a Teheran, con l'attuale governo e con il mio prossimo». Gli Usa vorrebbero inserire nel nuovo accordo anche altre questioni, dai missili alle milizie regionali che hanno allargato la sfera d'influenza iraniana. Ma anche su questo Raisi è categorico. «I nostri programmi missilistici non sono discutibili. Perché inserirli in un accordo che gli Usa hanno violato? Noi siamo per un nucleare pacifico che aiuti la scienza in medicina e nell'industria. Le verifiche internazionali hanno sempre dimostrato la nostra fedeltà ai patti fino a che erano rispettati da tutti».
  I dossier di guerra aperti sul tavolo iraniano sono tanti. Raisi ne ha toccati solo tre. Israele: «Il regime sionista viola i diritti dei palestinesi e noi staremo sempre con gli oppressi». Yemen: «Sauditi e altri devono smettere di ingerirsi e lasciare agli yemeniti la soluzione». Arabia Saudita con cui l'Iran ha riaperto contatti informali dopo 5 anni di gelo: «È nostra priorità stabilire buoni rapporti con tutti i nostri vicini. Riaprire le rispettive ambasciate non è un problema». I concetti sono quelli della Guida Suprema, Ali Khamenei, di cui Raisi è il possibile successore. Un indizio su questa ipotesi è arrivato proprio ieri quando, per la prima volta in un'occasione ufficiale, è stato presentato con il titolo di ayatollah. Il riconoscimento del massimo grado nella gerarchia sciita è essenziale per ambire alla poltrona di Guida Suprema.
  Il presidente ayatollah Raisi si altera solo quando un giornalista ricorda le tante condanne a morte comminate come giudice che hanno portato gli Usa a sanzionarlo due anni fa. «Sono un difensore dei diritti umani — dice — e della sicurezza del popolo. È stato un privilegio farlo da magistrato. Chi mi accusa, dovrebbe piuttosto processare chi ha creato l'Isis, lo Stato Islamico. Terroristi allevati nei Paesi accanto al nostro, per indebolirci, e poi andati ad uccidere in giro per il mondo. Non c'è pace senza giustizia».

(Corriere della Sera, 22 giugno 2021)


Il colosso tedesco dell'editoria digitale Axel Springer espone la bandiera israeliana

Proteste dei dipendenti

"Se siete contro Israele, non lavorate per noi", questa la risposta di Mathias Döpfner, CEO di Axel Springer, ai dipendenti che protestavano contro la decisione dell'azienda di esporre la bandiera israeliana fuori dalla sede berlinese, come riporta il Jpost.
   L'azienda Axel Springer, fondata nel 1946, è il colosso tedesco dell'editoria digitale con oltre 15mila dipendenti. Pubblica inoltre i quotidiani Die Welt e Bild e possiede il più grande sito web di annunci commerciali di Israele, Yad2.
   "Sosteniamo il popolo ebraico e il diritto dell'esistenza dello Stato d'Israele": è uno dei cinque dei principi fondamentali scritti sul sito di Axel Springer.
   Durante l'incontro con i dipendenti il CEO Döpfner ha ribadito che la bandiera israeliana è stata esposta insieme alla bandiera europea e a quella tedesca come gesto di solidarietà, dopo le violente manifestazioni avvenute le scorse settimane a Berlino, segnate da marce verso le sinagoghe, con cori antisemiti e roghi di bandiere israeliane.
   "Chiunque usi tali proteste per proclamare il proprio odio per gli ebrei sta abusando del proprio diritto di protestare", ha affermato la cancelliera tedesca Angela Merkel, nel periodo delle manifestazioni. "Chiunque diffonda odio antisemita sentirà tutta la forza della legge", ha aggiunto il ministro degli Interni tedesco Horst Seehofer.

(Shalom, 22 giugno 2021)


Ebrahim Raisi è il nuovo presidente dell’Iran, plauso di Hezbollah e Hamas

Ebrahim Raisi è il nuovo presidente dell’Iran. Il capo della magistratura prenderà il posto di Hassan Rouhani all’inizio di agosto. Con il 60enne Raisi, conservatore e intransigente, si è congratulato, tra gli altri, il segretario generale del movimento terroristico libanese Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e Hazem Qassem, portavoce di Hamas a Gaza, che in una nota ha scritto:
“Ci congratuliamo con la Repubblica islamica dell’Iran per il successo del processo democratico, lo svolgimento delle elezioni presidenziali e la vittoria di Ebrahim Raisi come presidente dell’Iran. Auguriamo alla Repubblica Islamica dell’Iran progresso e prosperità. L’Iran è sempre stato un sostenitore fondamentale e reale della causa palestinese e della resistenza palestinese”.
Di tutt’altro avviso Israele, che considera Ebrahim Raisi il “presidente più estremista dell’Iran fino ad oggi”. Lior Haiat, portavoce del ministero degli Esteri israeliano, ha ricordato che il neo presidente iraniano è considerato:
“Il macellaio di Teheran ed è stato giustamente denunciato dalla comunità internazionale per il suo ruolo diretto nelle esecuzioni extragiudiziali di oltre 30.000 persone. Una figura estremista, impegnata nel programma nucleare militare in rapido progresso dell’Iran, la sua elezione chiarisce le vere intenzioni maligne dell’Iran e dovrebbe suscitare grave preoccupazione nella comunità internazionale”.
Lior Haiat ha continuato a commentare la vittoria di Ebrahim Raisi alle presidenziali iraniane:
“Dopo che il Leader Supremo ha effettivamente dettato al pubblico iraniano chi poteva scegliere, meno del 50% dei cittadini iraniani aventi diritto al voto ha eletto il suo presidente più estremista fino ad oggi. Il nuovo presidente dell’Iran, è un estremista responsabile della morte di migliaia di iraniani. La sua elezione dovrebbe provocare una rinnovata determinazione a fermare immediatamente il programma nucleare iraniano e porre fine alle sue distruttive ambizioni regionali”.
A salutare con favore l’elezione di Ebrahim Raisi sono stati anche due gruppi terroristici come Hamas ed Hezbollah. Basterebbe questo per presentare chi è il nuovo presidente dell’Iran, considerato da più parti l’erede di Ali Khamenei. 

(Progetto Dreyfus, 21 giugno 2021)


La sicurezza di Israele e l’amministrazione Biden

Intervista all’analista americano Tony Badran

di Ugo Volli

Tony Badran è un ricercatore alla Fondazione per la difesa delle democrazie, un importante istituto di studi politici con sede a Washington. Il suo campo di ricerca è il Medio Oriente. In questo campo ha scritto per molte riviste, fra cui Tablet, una autorevole rivista di cultura ebraica negli Stati Uniti. Shalom l’ha intervistato per capire meglio la situazione di sicurezza di Israele in questo delicato momento.

- Tony Badran, partiamo dall’ultimo conflitto armato in cui è stato coinvolto Israele. Chi ha davvero iniziato gli scontri di Gaza e perché?
  Gli attori principali nella politica di potere del Medio Oriente sono gli stati. Di conseguenza, mentre il partito che ha iniziato la guerra lanciando razzi da Gaza era Hamas, il gruppo è uno strumento dell'Iran (come lo è, ancor di più, la Jihad islamica palestinese). È finanziato dall'Iran. I suoi razzi sono forniti dall'Iran. E i suoi quadri sono addestrati dall'Iran. Militarmente, infatti, Hamas dipende interamente ed esclusivamente dall'Iran. Questo è qualcosa che le persone tendono a dimenticare perché Hamas ha relazioni diplomatiche ed economiche con il Qatar e, in una certa misura, con la Turchia. Ma le capacità militari di Hamas sono esclusivamente iraniane. Inoltre, l'Iran tratta direttamente con i comandanti militari a Gaza, scavalcando le figure "politiche". Questo tipo di sostegno decisivo comporta un certo controllo da parte dello Stato patrono. Infatti, i tempi e il quadro strategico all'interno del quale si è svolta la guerra erano iraniani, come si è visto nelle dichiarazioni di Ali Khamenei e Hassan Nasrallah di Hezbollah alla vigilia e subito dopo la fine della guerra. Gli iraniani l'hanno inquadrata come un attacco al "progetto di normalizzazione" - con cui intendono gli Accordi di Abramo Il messaggio di Khamenei era che "l'equilibrio del potere è cambiato" dai giorni dell'amministrazione Trump che ha prodotto gli Accordi.

- C'è una responsabilità dell'amministrazione Biden in questa situazione?
  L'amministrazione Biden fornisce il contesto internazionale che spiega i tempi della decisione iraniana. Dopotutto, una domanda ovvia è: perché questa guerra non è scoppiata quando l'amministrazione Trump ha trasferito l'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, una mossa che tutti all'epoca dichiaravano con sicurezza avrebbe portato a una violenza diffusa? E perché l'ultima grande guerra a Gaza è avvenuta nel 2014? In contrasto con la politica di massima pressione dell'amministrazione Trump, l'amministrazione Biden è arrivata dopo aver già dichiarato la sua intenzione di rilanciare l'accordo nucleare iraniano e revocare tutte le sanzioni significative. Inoltre, l'amministrazione ha reso perfettamente chiara la sua opposizione agli accordi di Abramo, la cui logica è diametralmente opposta alla dottrina del gruppo intorno a Biden. Curiosamente, si riferisce a loro usando il vocabolario di Khamenei e Nasrallah: "normalizzazione". L'amministrazione ha segnalato inequivocabilmente ai sauditi, ad esempio, che per quanto riguarda Washington, la priorità è che i sauditi aprano canali con l'Iran, non con Israele. Inoltre, in concomitanza con l'abbandono degli Accordi di Abramo, l'amministrazione Biden fin dall'inizio ha annunciato che stava riportando i palestinesi al centro della scena. E parallelamente al 2014, l'ultima guerra di Gaza è scoppiata mentre i diplomatici americani e iraniani stavano negoziando a Vienna. Se letta contro questa posizione degli Stati Uniti - il privilegio dell'Iran, la revoca delle sanzioni, l'abbandono degli accordi di Abramo, la rinnovata attenzione sui palestinesi - la decisione iraniana di infiammare il fronte palestinese è facile da capire. Ciò che è inquietante è come la posizione dell'amministrazione Biden e le priorità dichiarate si allineino perfettamente con quelle dell'Iran.

- Qual è la grande strategia di Biden per il Medio Oriente?
  Per essere chiari, la "strategia di Biden" è in realtà la strategia di Obama, che l'amministrazione Biden sta completando e spingendo fino al traguardo. Quella strategia è ciò che io e Michael Doran abbiamo chiamato il riallineamento. Cioè, riallineare gli interessi degli Stati Uniti con l'Iran. Il JCPOA è stato il veicolo più ampio e completo per questo riallineamento. Obama ha immaginato un nuovo ordine in Medio Oriente e un nuovo atteggiamento degli Stati Uniti nei suoi confronti. Per Obama, non era nell'interesse dell'America guidare un sistema di alleanze regionali che si oppone all'Iran. Invece, Obama ha deciso che c'era bisogno di un nuovo equilibrio. Ha evitato l'architettura di sicurezza in cui l'America aveva precedentemente investito e si è riposizionato lontano dagli alleati tradizionali e più vicino all'Iran. Nella visione di Obama, la posizione di vecchi alleati come Israele e Arabia Saudita nei confronti dell'Iran rappresenta un ostacolo a un riavvicinamento americano-iraniano. Quindi, ha dichiarato Obama, questi alleati dovevano "adattarsi al cambiamento" e "imparare a condividere il vicinato" con l'Iran. In questa visione, l'Iran diventa un interlocutore e partner privilegiato degli Stati Uniti. Le sue “azioni” regionali – come Obama ha eufemisticamente chiamato il progetto espansionistico iraniano in tutta la regione – godranno del riconoscimento americano, come è accaduto in Yemen, Iraq, Siria e Libano. D'altra parte, i vecchi alleati degli Stati Uniti saranno spinti a sottostarvi. Gli Stati Uniti continueranno a professare un impegno ferreo per la sicurezza di questi vecchi alleati, all'interno dei propri confini. Ma si opporrà a qualsiasi tentativo di affrontare l'Iran in altri teatri, come lo Yemen e la Siria, per esempio. Questa politica di elevazione degli interessi iraniani e di declassamento di quelli degli ex alleati è presentata in termini alti, come "de-escalation". O "dialogo" e "diplomazia", ​​vale a dire l’espansione forzata dell'Iran e dei suoi tentacoli regionali dal Golfo al Mediterraneo. La nuova posizione privilegiata dell'Iran sarà coronata da un programma di armi nucleari senza restrizioni e capacità di arricchimento su scala industriale entro il 2031, alle condizioni del JCPOA, con protezione e assistenza internazionali.

- Il nuovo governo israeliano cambierà la strategia di Israele di fronte all'Iran e a Hamas?
  È troppo presto per dire qualcosa con certezza a questo punto. Ma bisogna chiedersi come questa instabile coalizione bilancerà gli imperativi di sicurezza nazionale di Israele nei confronti dell'Iran e le richieste dell'amministrazione Biden, la cui posizione nei confronti dell'Iran è antitetica alla sicurezza nazionale di Israele. Già, prima del cambio di governo in Israele, l'amministrazione Biden aveva fatto capire di essere contro le operazioni israeliane contro l'Iran, secondo il modus operandi dell'amministrazione Obama. L'intento era quello di scoraggiare Israele da tali operazioni e di segnalare agli iraniani la volontà degli Stati Uniti di opporsi alle azioni israeliane. All'epoca, gli israeliani hanno ignorato queste indiscrezioni. Ora, la nuova coalizione in Israele ha segnalato il desiderio di abbassare le tensioni e assumere un atteggiamento più cooperativo nei confronti dell'amministrazione Biden. Resta da vedere come faranno a quadrare quel cerchio. È difficile prevedere che Israele potrà smettere di agire, sia contro il programma nucleare iraniano o il suo programma missilistico, sia contro la sua infrastruttura militare ai confini dello stato. Tuttavia, sarà interessante vedere se c'è un cambiamento di ritmo, almeno temporaneamente, in accordo alle priorità degli Stati Uniti. Questo senza affrontare la potenziale longevità di questa coalizione. La questione di Hamas, sebbene correlata, è separata. L'amministrazione Biden voleva che Israele concludesse rapidamente la sua operazione a Gaza e disapprova l'"escalation". Inoltre, c'è un elemento interno negli Stati Uniti, dove abbiamo visto l'opposizione all'operazione israeliana a Gaza all'interno del Partito Democratico, dove Israele e i palestinesi sono stati inseriti nel dibattito di politica interna. La copertura negativa dei media statunitensi sulla guerra, o anche sulla recente risposta israeliana agli attacchi di Hamas con palloncini incendiari, riflette questa realtà nel partito democratico. Israele non può permettere ad Hamas, e dietro di esso all'Iran, di stabilire nuove regole di base. Ma tutti ora stanno regolandosi sulla bizzarra realtà in cui gli Stati Uniti effettivamente guidano il campo del rifiuto.

- L'Iran avrà armi nucleari? Cosa dovrebbe fare Israele a questo proposito?
  A suo modo, il JCPOA eliminerà tutte le restrizioni nucleari entro il 2031. Dunque, sì, le avrà. L'amministrazione Biden sta cercando di calmare i critici dicendo che cerca un accordo "più lungo e più forte", che affronti il ​​problema di queste clausole finali dell’accordo. Tuttavia, nessuno crede né alla sincerità dell'amministrazione, né alla credibilità di questa posizione, poiché essa nel frattempo avrà eliminato tutti gli incentivi per l'Iran ad accettare limiti. Resta da vedere se questa realizzazione spingerà Israele ad agire. Ci sono persone che credono che la politica dell’amministrazione Biden lascerà Israele senza altra scelta che agire per prevenire questa eventualità.

- Gli accordi di Abramo sopravviveranno?
  Ciò che la guerra di Gaza ha mostrato è stata la resilienza degli accordi con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, in primo luogo, ma anche con il Marocco e il Sudan. Nessuno di questi paesi vuole concedere all'Iran, tramite Hamas, una sorta di veto sulle sue scelte strategiche e di sicurezza nazionale. Il problema principale ora è che, mentre l'amministrazione Trump ha cercato di far culminare gli accordi di Abramo con una qualche forma di accordo tra Israele e Arabia Saudita, l'amministrazione Biden vuole tornare al quadro del 1967 e concentrarsi sui palestinesi. Il motivo è che, a parte l'ideologia, questo quadro consente all'amministrazione Biden di mantenere Israele preoccupato e sbilanciato. Qualunque cosa l'amministrazione potrebbe fare nel contesto di ciò che chiama promozione di "accordi di normalizzazione", se farà davvero qualcosa, sarà orientata verso il suo quadro alternativo, non quello previsto dall'amministrazione Trump. Alla fine, la dottrina del riallineamento dell'amministrazione è in diretta opposizione al quadro degli accordi di Abramo, poiché quest'ultimo si basa sull’idea di un campo guidato dagli Stati Uniti di alleati regionali che cooperano di fronte alle sfide comuni, in particolare quelle poste dall'Iran, mentre l'amministrazione Biden dà la priorità al riallineamento con l'Iran.

(Shalom, 20 giugno 2021)


Dal Vaticano a Bruxelles, i nuovi ambasciatori d'Israele

Sono 36 i nuovi ambasciatori e consoli generali nominati dal governo israeliano nelle scorse ore. Un rinnovamento importante del corpo diplomatico che tocca alcune posizioni chiave, come la missione israeliana presso l'Unione europea e l'ambasciata presso la Santa Sede. A capo della prima è stato scelto Haim Regev, già vicedirettore del ministero degli Esteri. Mentre il nuovo ambasciatore in Vaticano sarà Raphael Schutz, già alla guida delle ambasciate di Spagna e Norvegia. In Europa, anche le sedi di Danimarca, Polonia, Portogallo e Repubblica Ceca hanno visto un cambio al vertice, così come, in Medio Oriente, l'ambasciata di Giordania. Una realtà, quest'ultima, particolarmente importante per Israele visti i delicati rapporti con il re Abdullah II.
  "Lo Stato d'Israele ha bisogno di persone eccellenti per difendere il suo buon nome. - ha dichiarato il ministro degli Esteri Yair Lapid, annunciando l'approvazione delle nomine - Questi sono alcuni dei nostri migliori professionisti, che rappresentano una parte essenziale nel rafforzamento della posizione politica e di sicurezza di Israele nel mondo". Lapid in queste ore ha inoltre confermato che il 27 giugno intraprenderà la storica missione negli Emirati Arabi Uniti. Sarà il primo viaggio ufficiale di un ministro israeliano nel paese del Golfo. Oltre che il primo viaggio estero di Lapid nelle vesti di nuovo capo della diplomazia israeliana. Un passaggio chiave nei rapporti con gli Emirati, frutto degli storici Accordi di Abramo siglati nel settembre del 2020.
  Diplomazia israeliana in grande movimento dunque in queste settimane, con nuovi incarichi anche per due funzionari che l'Italia e il suo mondo ebraico conoscono molto bene: Naor Gilon e Ofra Farhi. Il primo, già ambasciatore a Roma, dopo un breve passaggio in Olanda è stato nominato per guidare la sede diplomatica in India; Ofra Farhi invece, che in Italia ha ricoperto il ruolo di addetto culturale e poi di viceambasciatore d'Israele, è stata scelta per la sede che raccoglie quattro paesi africani, Namibia, Botswana, Zimbabwe e Zambia.
  Si conclude invece la missione dell'ambasciatore Oren David presso la Santa Sede, iniziata nel 2016. Come anticipato sarà Raphael Schutz a prenderne il testimone. Dopo aver iniziato la sua carriera in Cile, Schutz è stato ambasciatore in Colombia e in Spagna nonché capo del Dipartimento Europa del ministero degli Affari Esteri israeliano. In una intervista a un sito d'informazione norvegese, Schutz ha raccontato che i suoi genitori fuggirono dalla Germania per trovare rifugio nella Palestina mandataria. "Sono arrivati con i miei nonni negli anni '30. - il racconto del diplomatico - E la sensazione di essere un rifugiato e di dover lottare per i propri diritti fondamentali, uno Stato proprio, è ciò che mi definisce principalmente. Sono un israeliano che non dà per scontata l'esistenza di Israele". Rispetto al suo percorso di studi, nella stessa intervista, spiega di essersi laureato all'Università Bar-Ilan. "Non sono un ebreo praticante. - prosegue - Ma a livello nazionale, mi definisco al 100% un ebreo, perché l'ebraismo non è solo religione". dr

(moked, 21 giugno 2021)


L'Iran: «Via le sanzioni e limitiamo il nucleare». Israele: «Non fidatevi»

Trattative senza fine per tornare all'intesa del 2015. Ma l'elezione di Raisi è un rischio

di Chiara Clausi

TEHERAN - I colloqui tra l'Iran e gli Usa, con la mediazione dei Paesi europei, Russia e Cina, per il ritorno di Washington nell'intesa del 2015 e la revoca delle sanzioni, sono ripresi ieri, il giorno dopo l'elezione dell'ultraconservatore Ebrahimi Raisi a presidente dell'Iran. Da aprile, Teheran e gli altri firmatari stanno cercando di trovare un terreno comune per mantenere vivo l'accordo. L'incontro di ieri rientra nella sesta tornata di colloqui iniziata il 12 giugno. Dopo l'annuncio ufficiale della vittoria di Raisi, Washington ha criticato il voto. Lo ha definito «né libero, né equo», anche per la scarsa affluenza, la più bassa dalla Rivoluzione islamica del 1979. Ma ha assicurato che continuerà a impegnarsi nei negoziati a Vienna.
  Il ministro degli Esteri uscente iraniano Javad Zarif ha espresso ottimismo e ha fatto trapelare che un accordo potrebbe essere possibile anche prima che il nuovo presidente si insedi ad agosto. «C'è una buona possibilità che raggiungeremo un accordo prima della fine del nostro mandato», ha detto Zarif. Il vice ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, capo negoziatore ha sottolineato: «Siamo vicini a un accordo», le parti hanno svolto finora «un lavoro intenso». «Tutti i documenti sono quasi pronti - ha poi aggiunto - e i negoziatori sospenderanno i colloqui per alcuni giorni per ritornare alle loro capitali per le decisioni da prendere».
  La nuova leadership oltranzista, tanto più se con il nuovo accordo le sanzioni saranno sospese, preoccupa Israele e il premier Naftali Bennett. L'elezione di Raisi alla presidenza dell'Iran «è un campanello di allarme» per il mondo intero, ha avvertito: «Per quelli che hanno dubbi, non è stata la gente a eleggerlo ma - ha aggiunto - la guida suprema ayatollah Ali Khamenei ha permesso la sua nomina. Hanno eletto il carnefice di Teheran». A giudizio di Bennett questa potrebbe essere l'ultima occasione per l'Occidente per «capire con chi ha a che fare» prima di ritornare «all'accordo sul nucleare». «Un regime di carnefici non può avere - ha concluso - armi di distruzione di massa».
  L'accordo del 2015 voluto dall'amministrazione Obama ha stabilito limiti al programma nucleare civile iraniano per impedire a Teheran di sviluppare bombe atomiche. In cambio la Repubblica islamica ha ottenuto la revoca delle sanzioni internazionali. Il ritiro degli Stati Uniti di Donald Trump nel 2018 e il ripristino delle sanzioni hanno inferto un duro colpo all'intesa e alla economia dell'Iran. Teheran ha risposto violando le parti dell'accordo. Un recente rapporto dell'Aiea ha confermato che l'Iran dispone già di circa 3.200 chilogrammi di uranio arricchito, invece dei 300 consentiti.
  Inoltre, Teheran è riuscita ad arricchire l'uranio fino a una purezza del 60%, ben al di sopra del consentito (3,67%) e vicino al livello necessario per realizzare ordigni nucleari (90%). Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, vuole rientrare nell'accordo, ma chiede che prima l'Iran rispetti tutti i suoi obblighi. Teheran invece chiede una revoca delle sanzioni prima di tornare a rispettare l'intesa. Su chi per primo farà la mossa per superare l'impasse vertono i colloqui in corso. Raisi, nonostante si sia schierato con le frange più estremiste del suo Paese fermamente contrarie all'accordo nucleare, nella sua campagna ha promesso di lavorare per la riduzione delle sanzioni e ha affermato che avrebbe rispettato qualsiasi impegno preso dalla precedente amministrazione, incluso l'accordo sul nucleare o Jcpoa.

(il Giornale, 21 giugno 2021)


Arabi: Hamas e l'Iran hanno trasformato Gaza in un cimitero di bambini

di Khaled Abu Toameh

L'affermazione di Hamas di aver "vinto" l'ultima guerra con Israele è diventata oggetto di scherno e derisione da parte di molti arabi, i quali sono consapevoli che l'unico interesse di Hamas è quello di rabbonire i mullah in Iran per ottenere più denaro e armi.
  L'affermazione di Hamas di aver "vinto" l'ultima guerra con Israele è diventata oggetto di scherno e derisione da parte di molti arabi, i quali non hanno paura di criticare pubblicamente il gruppo terroristico appoggiato dall'Iran per aver mentito ai palestinesi e al resto del mondo.
  Gli arabi non temono nemmeno di ritenere Hamas responsabile della distruzione massiccia e della morte di israeliani e palestinesi innocenti al fine di servire gli interessi dei suoi padroni in Iran.
  Le scene dei palestinesi che celebrano la "vittoria" di Hamas hanno suscitato un'ondata di condanne nel mondo arabo, soprattutto nei Paesi del Golfo. Le reazioni degli arabi all'autoproclamata vittoria di Hamas mostrano che molti nel mondo arabo non si lasciano ingannare dalla macchina di propaganda del gruppo terroristico. Gli arabi sono consapevoli che l'unico interesse di Hamas è quello di rabbonire i mullah di Teheran allo scopo di ottenere da loro più denaro e armi. Gli arabi capiscono che questa è solo un'altra farsa di Hamas, e in particolare dell'Iran.
  Il noto giornalista arabo Amjad Taha, esperto di affari internazionali e popolare commentatore nei media e sui social network nel Golfo, è scoppiato a ridere quando gli è stato chiesto durante un'intervista televisiva se pensava che Hamas avesse ottenuto una "vittoria" contro Israele.
  "Nella guerra nella Striscia di Gaza, nessuno ha vinto", ha detto Taha. "I bambini e le donne di entrambe le parti hanno perso. La vittoria significa l'utilizzo di donne e bambini come scudi umani? La vittoria significa la morte di 269 palestinesi e il ferimento di altri 8.900, nella Striscia di Gaza?"
  Taha ha rilevato che alcuni dei palestinesi uccisi durante la guerra di 11 giorni sono stati vittime dei razzi di Hamas: "Su 3.700 razzi lanciati da Hamas [contro Israele], 400 razzi sono caduti su aree residenziali della Striscia di Gaza e hanno ucciso donne e bambini".
"Che strano! Viviamo in un'epoca in cui la sconfitta è diventata vittoria. Buon appetito a Ismail Haniyeh [il leader di Hamas che vive in Qatar] per l'auto Mercedes, per l'orologio Rolex e per l'abito Armani. Buon appetito a Hamas per il traffico di sangue di palestinesi innocenti. Come al solito, Haniyeh ha vinto e il popolo ha perso."
Facendo eco alla diffusa convinzione nel mondo arabo che l'Iran stia usando i suoi delegati palestinesi, Hamas e la Jihad Islamica Palestinese, per ottenere concessioni dagli Stati Uniti e da altre potenze mondiali ai negoziati di Vienna per rilanciare l'accordo sul nucleare iraniano del 2015, Taha ha aggiunto:
"Le milizie di Hamas nella Striscia di Gaza appartengono all'Iran. Ciò che queste milizie hanno fatto di recente è stato servire il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione iraniana. Teheran vuole usare la questione palestinese come carta vincente ai negoziati di Vienna. Teheran vuole usare la questione palestinese per costringere gli Stati Uniti a revocare le sanzioni contro l'Iran in cambio della fine dell'escalation dei problemi di sicurezza che minacciano Israele. Il terrorista Ismail Haniyeh, che vive in Qatar, ha dichiarato: 'Ringraziamo l'Iran per averci fornito denaro e armi". Il denaro dell'Iran è destinato ad aiutare i mercenari a continuare a trafficare con la questione palestinese. Le armi iraniane sono armi di distruzione e non di costruzione".
I negoziati tra l'Iran e le potenze mondiali per l'accordo sul nucleare firmato nel 2015 sono ripresi la scorsa settimana a Vienna con l'obiettivo di riportare gli Stati Uniti nell'accordo.
  Il giornalista e scrittore degli Emirati Arabi Mohamed Taqi è stato ancora più schietto nelle sue critiche alla presunta vittoria di Hamas e alla sua alleanza con l'Iran.
  "La maledizione di Dio su tutti coloro che hanno sfruttato la Moschea di al-Aqsa, la questione palestinese e il popolo palestinese in cambio di gloria personale e denaro", Taqi ha detto in un video da lui postato su Twitter. "La maledizione di Dio sui traditori che hanno venduto la questione palestinese per offrirla su un piatto d'argento ai mullah iraniani".
  Come molti arabi, Taqi ha denunciato i leader di Hamas per vivere nel lusso in Qatar e in Turchia, sacrificando la propria gente nella Striscia di Gaza per rabbonire Teheran. "Di quale 'resistenza' parli, Haniyeh, quando tu e i tuoi figli soggiornate negli hotel del Qatar e della Turchia?", ha chiesto Taqi, rivolgendosi al leader di Hamas che vive in Qatar, il quale è stato visto viaggiare su una nuova Mercedes a Doha durante i combattimenti tra Israele e Hamas.
"Di quale 'resistenza' parli quando sacrifichi la tua gente mentre tu e i tuoi figli fate la bella vita? E poi chiedi agli arabi, che hai accusato di tradimento, di ricostruire la Striscia di Gaza mentre presenti la tua 'vittoria' all'Iran?"
Lo scrittore e analista politico marocchino Saeed Al-Kahel ha accusato Hamas di trasformare la questione palestinese in una "risorsa commerciale".
  Hamas, ha scritto Al-Kahel, "non vuole che il conflitto israelo-palestinese finisca perché desidera ottenere profitti politici e finanziari. Hamas ha trasformato la questione palestinese in una risorsa commerciale che genera fondi da varie fonti e assicura prosperità e ricchezza per i suoi leader".
  Anche Al-Kahel condivide l'opinione che l'Iran stia usando la campagna terroristica dei suoi alleati palestinesi contro Israele per convincere gli Stati Uniti a revocare le sanzioni contro l'Iran. "Hamas ha trasformato la 'resistenza' in una carta di pressione nelle mani dell'Iran, che la sta sfruttando nel suo conflitto con l'Occidente per revocare le sanzioni sul suo programma nucleare", ha scritto Al-Kahel.
"Pertanto, qualunque sia l'esito dello scontro armato con Israele, Hamas non dichiarerà la sua sconfitta. Piuttosto, ne farà una vittoria, anche se la celebra tra le rovine e le bare. Quanto più sono le uccisioni e la distruzione, tanto più aumenta il reddito di Hamas mentre i palestinesi continuano a soffrire di assedio e povertà. Ma quel che è peggio è che le organizzazioni politiche islamiche sono orgogliose della vittoria illusoria ottenuta da Hamas. Nessuna di queste organizzazioni si è interrogata sulla natura di questa vittoria e sui suoi guadagni a beneficio dei palestinesi e della loro causa: quanta terra è stata liberata, quanti prigionieri sono stati rilasciati e quanti rifugiati [palestinesi] sono tornati? Niente di tutto questo è stato ottenuto e non lo sarà finché Hamas controllerà il processo decisionale palestinese. Il sangue palestinese è diventato economico per Hamas, così come per il Movimento Islamico [in Marocco], i cui leader si sono affrettati a congratularsi con la leadership di Hamas per una 'chiara vittoria'".
Anche Samir Ghattas, ex parlamentare egiziano e direttore dell'Egyptian Middle East Forum for Strategic Studies, ha messo in guardia contro il tentativo dell'Iran di utilizzare Hamas per ottenere guadagni dagli Stati Uniti e da altre potenze mondiali durante i negoziati di Vienna.
  Ghattas ha osservato che l'Iran ha cercato dal primo giorno dei combattimenti tra Israele e Hamas di affermare la propria presenza sul campo di battaglia rilasciando dichiarazioni a sostegno dei gruppi terroristici palestinesi nella Striscia di Gaza. Tra le dichiarazioni, egli ha detto, c'era anche una lettera inviata dal generale maggiore Esmail Qaani, comandante della Forza Quds iraniana, all'arci-terrorista di Hamas Mohammed Deif, in cui si prometteva pieno sostegno alla guerra palestinese contro Israele.
  "L'Iran vuole ottenere qualitativi e notevoli progressi nei negoziati di Vienna e sta giocando la carta delle fazioni e delle milizie che gli sono fedeli nella regione, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen, Hamas e la Jihad Islamica in Palestina, allo scopo di confermare la sua forza e il suo peso regionale", ha dichiarato Ghattas in un chiaro avvertimento all'amministrazione statunitense e alle potenze mondiali che negoziano con Teheran. "L'Iran ha sfruttato Hamas e la Jihad Islamica solo a proprio vantaggio e, se avesse voluto l'interesse dei palestinesi, avrebbe contribuito alla ricostruzione della Striscia di Gaza", ha aggiunto.
"Teheran non ha contribuito né ha fatto donazioni per scopi umanitari o progetti di ricostruzione a Gaza, ma ha piuttosto contribuito a finanziare l'acquisto di armi e altro per trasformare Gaza in un deposito di armi che minaccia la sicurezza della regione. La recente guerra di Gaza e le guerre simili che l'hanno preceduta nel 2008, nel 2012 e nel 2014 sono state delle mere opportunità che l'Iran ha sfruttato politicamente e militarmente solo per i propri interessi, e non per l'interesse del popolo palestinese e di Gaza, ma al prezzo del loro sangue".
Muhammad Mujahid Al-Zayyat, un consulente dell'Egyptian Center for Thought and Strategic Studies, ha affermato che l'appoggio offerto dall'Iran a Hamas durante la guerra con Israele mirava a inviare un messaggio all'Occidente che i gruppi terroristici palestinesi sono diventati una merce di scambio per Teheran nei suoi rapporti con i Paesi occidentali.
  La recente guerra di Gaza, ha argomentato Al-Zayyat, è un altro tentativo di mostrare la forza da parte di Teheran e fare capire che andrà ai negoziati di Vienna con una "vittoria" di Hamas nelle sue mani per revocare le sanzioni contro il Paese e raggiungere ciò che vuole dall'accordo sul nucleare iraniano.
  In altre parole, l'esperto egiziano si unisce ad altri arabi nel mettere in guardia l'amministrazione Biden e le potenze occidentali contro la possibilità di consentire all'Iran di essere ricompensato per la guerra al terrorismo di Hamas contro Israele.
  Anche l'analista politico saudita Abdul Rahman Altrairi si è fatto beffe dell'affermazione di Hamas di aver vinto la guerra. Ha rilevato che la milizia terroristica libanese di Hezbollah aveva precedentemente dichiarato la vittoria su Israele dopo aver causato una massiccia distruzione delle infrastrutture libanesi durante la guerra del 2006 con Israele.
  Altrairi ha rammentato a quegli occidentali che stanno lavorando sodo per rabbonire Teheran che gli iraniani sono responsabili di "distruzione e corruzione" in Iraq, in Libano, in Siria e in Yemen.
  Altrairi ha avvertito l'Occidente che uno degli obiettivi dell'Iran durante la guerra di Gaza era quello di distruggere i trattati di pace tra Israele e alcuni Paesi arabi e "riposizionare Israele come nemico degli arabi".
  Anche il predicatore degli Emirati Arabi, Waseem Yousef, ha condannato Hamas per la sua ipocrisia nel trattare con gli arabi:
"Hamas ha lanciato razzi dalle case della gente, e quando è arrivata la risposta [israeliana], Hamas ha pianto e gridato: 'Dove sono gli arabi, dove sono i musulmani'. Hamas ha trasformato Gaza in un cimitero di persone e bambini innocenti. Hamas ha bruciato le bandiere della maggior parte dei Paesi arabi, ha offeso tutti i Paesi arabi e non ha rispettato nessuno".
È confortante vedere voci del mondo arabo che ridicolizzano Hamas per aver dichiarato vittoria contro Israele mentre portava alla rovina i palestinesi nella Striscia di Gaza. È altresì confortante vedere quanti arabi sono consapevoli dei pericoli del coinvolgimento dell'Iran con i gruppi terroristici palestinesi che vogliono innanzitutto l'eliminazione di Israele e poi la loro.
  Il messaggio più importante che arriva da molti arabi, tuttavia, è quello che si rivolge all'amministrazione Biden e alle potenze occidentali, avvertendole del fatto che l'Iran sta cercando di approfittare della recente guerra nella Striscia di Gaza per intimidirle e indurle a fare ulteriori concessioni a Teheran. Resta ora da vedere se l'amministrazione Biden e le potenze occidentali daranno ascolto a questo monito o continueranno a nascondere la testa sotto la sabbia, facendo credere che i mullah iraniani, in cambio di enormi tangenti da parte degli Stati Uniti, cambieranno magicamente la loro mentalità crudele. L'ultima volta non l'hanno fatto; cosa accadrà alla regione se non lo faranno di nuovo?

* Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.

(Gatestone Institute, 18 giugno 2021 - trad. di Angelita La Spada)


Israele, prospettive di aperture delle frontiere con la Giordania

di Andrea Gussoni

Buone notizie sul fronte Covid e non solo da Israele. L’obbligo di indossare le mascherine in casa è stato revocato, segnando la fine di una delle ultime importanti restrizioni sul coronavirus rimaste in Israele. Tutte le attrazioni turistiche, i siti, i ristoranti, i caffè, gli eventi culturali e sportivi sono aperti. Senza limitazioni di capacità legate al COVID, al chiuso o all’aperto. Gli israeliani hanno dismesso le mascherine all’aperto fin dallo scorso 18 aprile.

 Israele e il Covid
  Le mascherine saranno ancora necessarie per i passeggeri sui voli e per i visitatori delle strutture mediche e delle case di cura. Il Ministero della Salute israeliano continuerà anche ad aggiornare il suo elenco di Paesi rossi proveniendo dai quali i viaggiatori dovranno rispettare un periodo di quarantena di 10 giorni.

 Vaccini
  La mossa arriva sei mesi dopo che Israele ha iniziato la sua campagna di vaccinazione per gli adulti, con oltre il 55% dei 9,3 milioni di abitanti di Israele completamente vaccinati e una campagna di vaccinazione attualmente in corso per i bambini di età compresa tra 12 e 15 anni. Il numero di casi giornalieri in Israele è sceso da 8.600 al culmine della crisi sanitaria a soli 19 all’inizio della settimana.

 Frontiere
  All’abbandono delle mascherine, si aggiunge un’altra notizia davvero confortante. Uno dei valichi di frontiera israeliani con la Giordania, chiuso da marzo 2020, riaprirà il mese prossimo, con l’attenuarsi della pandemia in entrambi i Paesi. Il terminal Yitzhak Rabin è stato infatti chiuso dall’inizio della pandemia di COVID-19. Da allora è rimasto chiuso. Gli israeliani potranno entrare e uscire dal regno hashemita attraverso il valico dal 4 luglio p.v.

(Time Magazine, 20 giugno 2021)


Israele. La bandiera LGBT sventola per la prima volta al ministero degli Esteri

Yair Lapid: "Un messaggio di tolleranza, fraternità e libertà". Venerdì la Gay Pride Parade

La bandiera LGBT sventola da oggi, per la prima volta, all'ingresso del ministero degli Esteri israeliano, accanto alla bandiera nazionale con la stella di Davide. "Su mia istruzione", ha spiegato il ministro degli Esteri Yair Lapid,"Abbiamo deciso di esporre quella bandiera in occasione degli eventi legati al gay pride". "Il ministero degli Esteri e i suoi dipendenti", ha aggiunto, "Sono in prima linea nel diffondere un messaggio di tolleranza, fraternità e libertà".
Il corteo del Gay Pride, appuntamento tradizionale per Tel Aviv, sfilerà venerdì 25 giugno. In previsione dell'evento che richiama usualmente migliaia di persone, il municipio ha predisposto la chiusura al traffico dell'intero lungomare e di numerose strade del centro. Tel Aviv ospita annualmente la Gay Pride Parade dal 1998. L'edizione di quest'anno è dedicata a quanti hanno dato espressione artistica di 'orgoglio gay' nel cinema, nella musica, nella letteratura e a quanti si sono mobilitati a favore della uguaglianza.

(RaiNews, 21 giugno 2021)


Ecco di che cosa si vanta l'Israele laico e democratico di oggi. Primi in tutto. Primi ad uscire dal Covid, primi a far sventolare la bandiera dei transgender accanto alla bandiera nazionale con la stella di Davide. Penoso. M.C.


Bennett, guai a chi gli tocca la sua kippah

di Fabio Scuto

Naftali Bennett, che si è insediato la scorsa settimana, è il primo premier nella storia di Israele ad indossare regolarmente la kippah, il copricapo rituale ebraico, a volte chiamato yarmulke o zucchetto. A differenza dei suoi predecessori laici, lui si identifica come un sionista religioso e pratica l'ebraismo ortodosso moderno, che richiede agli uomini di coprirsi il capo. Ma Bennett è anche calvo. Ciò rende una sfida mantenere il piccolo disco all'uncinetto fermo in cima alla sua testa. I metodi tradizionali per fissare una kippah - forcine e fermagli metallici per capelli - non sono utili a Bennett. Eppure la kippah rimane attaccata. Non importa dove sia Bennett - alla Knesset, durante un comizio o un incontro pubblico - la kippa è sempre lì, appoggiata sul suo cuoio capelluto, o talvolta sul sottile strato di capelli corti che circonda la sua zona calva. Naftali Bennett non usa il normale scotch. Il suo adesivo preferito è un prodotto inventato e venduto a partire dal 2013 da Haim Levin, un autista di autobus di 65 anni che vive in un sobborgo prevalentemente ortodosso di Tel Aviv. Il prodotto, chiamato Kippah Keeper, è realizzato con nastro medico biadesivo ipoallergenico riutilizzabile, che consente alla kippah di aderire a teste con pochi o nessun capello. È venduto in confezioni da 40 strip e costa 40 shekel (14 euro), compresa la consegna.
In Israele, dove la scelta della kippah spesso significa identità religiosa e politica, lo stile personale di Bennett - una piccola kippah all'uncinetto - segnala che è un sionista religioso. Al contrario, una kippah di velluto nero lo identificherebbe come Haredi, o ultra-ortodosso, mentre una più grande lavorata all'uncinetto o lavorata a maglia, che potrebbe stare più facilmente su un cranio calvo, è favorita da un sottogruppo di coloni che tendono ad essere più religiosi, apertamente spirituali e nazionalisti. Il fatto che la kippah di Bennett sia piccola e portata verso la parte posteriore della testa, suggerisce che appartenga alla parte più "moderna" della comunità ortodossa moderna.

(il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2021)


Bennett, elezione Raisi campanello d’allarme per il mondo

GERUSALEMME - Il primo ministro di Israele, Naftali Bennett, ha aperto oggi la prima riunione di gabinetto del suo nuovo governo condannando duramente l’elezione del neoeletto presidente iraniano, l’ultraconservatore Ebrahim Raisi. “Tra tutte le persone che (il leader supremo iraniano Ayatollah Ali) Khamenei avrebbe potuto scegliere, ha scelto il boia di Teheran, l'uomo noto tra gli iraniani e in tutto il mondo per aver guidato i comitati di morte che hanno tolto la vita a migliaia di cittadini iraniani innocenti nel corso degli anni”, ha detto Bennett, spiegando che l’elezione di Rais dovrebbe essere un “campanello d’allarme” per il mondo.
   Il titolare dell’esecutivo israeliano ha detto che seguirà la politica della precedente amministrazione di Benjamin Netanyahu per impedire all’Iran di ottenere armi nucleari. "Un regime di brutali boia non dovrebbe mai avere armi di distruzione di massa che gli consentirebbe di uccidere non migliaia, ma milioni di persone", ha detto il primo ministro, parlando brevemente in lingua inglese.
   L'Iran e le potenze mondiali riprendono proprio oggi colloqui indiretti a Vienna per ripristinare l’accordo sul programma nucleare di Teheran del 2015. Da settimane diplomatici iraniani e statunitensi stanno negoziando un ritorno degli Usa all'accordo nella capitale austriaca tramite intermediari europei. I colloqui odierni sono i primi dopo l'elezione di Raisi, che entrerà in carica il prossimo agosto.
   L'inviato iraniano, il viceministro degli Esteri Abbas Araghchi, ha affermato che dopo l'incontro a Vienna i negoziatori si prenderanno una pausa per tornare nelle loro capitali, concludendo il sesto round di colloqui. Bennett ha affermato che l'elezione di Raisi a presidente iraniano, proclamata ufficialmente ieri, è "l'ultima possibilità per le potenze mondiali di svegliarsi prima di tornare all'accordo nucleare e di capire con chi stanno facendo affari. Queste persone sono assassini di massa".

(Agenzia Nova, 20 giugno 2021)


Tra esecuzioni di massa e elezioni farsa ora sarà corsa senza freni all'atomica

Il nuovo leader, che disprezza l'Occidente e vuole la morte di Israele, promette al mondo guai e bugie. E pugno di ferro a casa

di Fiamma Nirenstein

Dunque l'Iran ha da ieri il suo nuovo presidente dopo aver vissuto ancora la farsa che ogni quattro anni mette in scena di fronte al mondo: una cosa che il regime chiama «elezioni» e che la gente schiva per la grande maggioranza. Ebrahim Raisi era sin dall'inizio «il presidente eletto», dato che così aveva deciso Alì Khamenei, il leader supremo. Dei 500 candidati che si erano presentati per la selezione, incluse 40 donne, ne erano rimasti nel setaccio del comitato che scelgono i personaggi possibili solo 7, di cui solo 4 realmente eleggibili. Si dice di lui che è un «ultraconservatore»: ma è una definizione che lascia spazio all'idea che altrove dei riformatori aspettino il loro turno. Non è così. Solo la gente sarebbe la grande riformatrice del Paese, ed è messa a tacere con la forza a regolari puntate. Cerca di dimostrare il suo scontento non venendo a votare per quel che può, e così ha fatto anche stavolta. Il pane in Iran costa 40 dollari al chilo, il salario minimo è di 215 dollari al mese. Spesso i lavoratori non vengono pagati per mesi, l'obbedienza al regime è un obbligo che si paga con la vita, la libertà di opinione e di manifestazione è una barzelletta che finisce sempre in lacrime.
   Ebrahim Raisi, 60 anni, nei suoi vari ruoli determinanti nel sistema giudiziario iraniano è il diretto responsabile di migliaia di condanne a morte per i più svariati crimini di violazione delle sacre leggi del regime degli Ayatollah, quindi di violatore seriale di diritti umani. Questo dovrebbe creare un serio imbarazzo internazionale, anche adesso durante le trattative di Vienna cui gli Stati Uniti sembrano tenere tanto per il rinnovo del Jcpoa, l'accordo nucleare del 2015 per cercare, del tutto inutilmente di bloccare il progetto della bomba iraniana. Illusione. L'Iran infatti, dopo aver firmato l'accordo che poi il presidente Trump ha cancellato, ha seguitato a perseguire il suo piano di diventare una potenza atomica devota prima di tutto alla distruzione fisica di Israele e poi di tutto l'Occidente, secondo le prove asportate in faldoni originali di migliaia di pagine dal Mossad e anche secondo le difficoltose verifiche dell'Iaea, l'agenzia atomica internazionale sempre impedita nei movimenti dal regime.
   Intanto, al comando del generale Qasem Soleimani guerreggiava ovunque, Libano, Siria, Iraq, Yemen, Gaza nel grande disegno imperialista di occupazione del Medio Oriente. Ora che è stato eliminato, il regime prosegue nel suo disegno. Così farà Raisi.
   Raisi sarà un altro presidente della serie: negli anni 90 Rafsanjani che probabilmente approvò l'esplosione del centro ebraico di Buenos Aires, è stato dipinto come una colomba; Mohammad Khatami, sospettato di essere moderato, fu rapidamente sostituito con l'invasato Mahmoud Ahmadinejad. Poi Hassan Rouhani e il suo ministro degli esteri sempre sorridente Javad Zarif diventarono grandi amici di Obama e anche dell'Unione Europea mentre programmavano il migliore imbroglio del secolo, l'accordo nucleare, e seguitavano a usare il terrorismo internazionale e la persecuzione interna come armi preferite del regime. Per la gente, le cose sono seguitate a cambiare in peggio. Ne ha goduto, nel tempo la crescita del rapporto con Russia e Cina. E si è anche consolidata l'amicizia con tutta la falce islamista estrema anche sunnita, da Erdogan a Hamas, regolarmente ospite di Teheran.
   Quali garanzie di mantenere la parola data sia sulla questione atomica che su qualsiasi altro patto con un Occidente disprezzato e vilipeso dia Raisi, un «guardiano» professo del sistema «velayat-e faqih», che determina la struttura giuridica e morale del mondo interiore ed esterno cui si ispira l'Iran odierno, è certo una domanda che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il resto del mondo si sta ponendo in queste ore. Il popolo iraniano sa la risposta, ed è certamente triste.

(il Giornale, 20 giugno 2021)


Mettiamo fine all’odio nell’educazione dei palestinesi

di Micol Ottolenghi

I libri scolastici hanno autorità unica nel comunicare i valori culturali e politici che la società vuole impartire alle nuove generazioni. Questo è specialmente vero in alcuni paesi del Medio Oriente dove l’educazione si interrompe dopo alcuni anni di elementari privando quindi i giovani di una formazione globale e diversificata che possa donare una prospettiva più ampia. Se da un lato i manuali possono rappresentare una barriera contro la violenza, dall’altro possono facilmente diventare un potente tramite per radicalizzare. Purtroppo è proprio a questo scopo che vengono utilizzati in molti paesi arabi. Si è svolta recentemente una conferenza sul tema della demonizzazione ebraica nei libri scolastici Palestinesi con l’eurodeputato Lukas Mandl e l’amministratore delegato di Impact-se Marcus Sheff.
  Marcus Sheff spiega che dal 1998 l’organizzazione Impact-se esamina i curriculum e i libri scolastici avvalendosi degli standard di pace e tolleranza stabiliti dall’UNESCO. Grazie al loro contributo effettivi miglioramenti sono stati ottenuti ad esempio con la riforma del curriculum nel 2006 degli Emirati Arabi Uniti o quella del 2014 della Giordania che hanno prodotto libri conformi alle norme europee. “Ma non è tutto rose e fiori” ammonisce Marcus, infatti le nuove pubblicazioni turche sono state radicalizzate in modo significativo per volere del presidente Erdoğan con un forte indottrinamento sulla visione nazionalista che combina neo-ottomanesimo e panturchismo per non parlare dei libri iraniani, siriani e qatariani che incitano alla Jihad. Il peggioramento più grave è quello del curriculum scolastico palestinese che è stato di recente revisionato. Trattati con Israele o possibili risoluzioni del conflitto pacifiche che inizialmente apparivano nei libri, ora non sono nemmeno accennati ai bambini palestinesi a cui viene insegnato che le negoziazioni non sono la via per ottenere uno stato indipendente. Sono stati sostituiti da rappresentazioni di ebrei nemici dell’islam, bugiardi che controllano la finanza i media e la politica. “I bambini di nove anni imparano matematica, non facendo addizioni di mele e arance ma sommando il numero di martiri delle intifada” espone Marcus, che aggiunge “la seconda legge di Newton che relaziona la forza necessaria per dare ad una massa una specifica accelerazione è insegnata con esempi di esperimenti che incoraggiano dodicenni a mettersi in pericolo, a sacrificare il proprio sangue per eliminare l’usurpatore, idee che non hanno spazio nella nostra moderna società pacifica”.
  Lukas Mandl interviene affermando che tutto ciò non è passato inosservato: il governo europeo ha condannato l’odio e l’antisemitismo nei curriculum palestinesi nell’agosto 2019 e in particolare, degna di nota è l’azione decisa del governo Norvegese che ha tagliato i fondi inviati alle autorità palestinesi. “Condizionalità è la parola chiave” dice Lukas che continua a lottare anche in veste di presidente del gruppo “Amici transatlantici di Israele” (TFI) per ottenere cambiamenti concreti e tagli di fondi anche da parte del Parlamento europeo.

(Shalom, 20 giugno 2021)


Gli ebrei nel Friuli Occidentale

Eugenio Gazzola, scrittore e regista, ha realizzato un bellissimo video dal titolo Gli ebrei nel Friuli Occidentale. Eugenio ha dedicato questo bellissimo lavoro a Teresina Degan. Donna illuminata, fu docente prima e dirigente scolastico nelle scuole superiori del Friuli Occidente. E fu Lei a scrivere un libro dedicato agli ebrei che conobbe a Pordenone e non solo prima durante e dopo l’introduzione delle leggi razziali.

(TVT Triveneta, 20 giugno 2021)


David Grossman a Taormina: "La letteratura aiuta a costruire la pace"

Lo scrittore, ospite di Taobuk, dialoga stasera con il direttore di "Repubblica" Maurizio Molinari

di Eleonora Lombardo

Pacato, sorridente, con una placida luce interiore che emerge in ogni parola pronunciata, David Grossman è arrivato a Taormina per ricevere al teatro antico il Taobuk Award for litterary excellence e per l'atteso incontro di oggi del festival letterario, alle 20, nel quale dialogherà con Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, partendo dagli spunti raccolti in "Sparare a una colomba" (Mondadori): una selezione di saggi e articoli su politica, società e letteratura.
Lo scrittore israeliano, autore di libri come "Che tu sia per me il coltello", "A un cerbiatto somiglia il mio amore" e "Applausi a scena vuota", è da sempre innamorato dell'Italia, Paese nel quale confessa di avere dei luoghi segreti prediletti nei quali, passeggiando, trae ispirazione, si dice molto contento che la destinazione del suo primo viaggio all'estero dopo il lockdown sia proprio la Sicilia e il Taobuk, festival del quale è già stato ospite nel 2015.

- Grossman, come si sente a ritornare a partecipare a un festival e a incontrare i suoi lettori dopo un anno e mezzo "a distanza"?
  "Sono proprio felice di tornare a incontrare i miei lettori, felice ed eccitato. Farlo in Sicilia poi è un privilegio. Amo molto quest'Isola, è la quarta volta che la visito e ogni volta mi sorprende. Purtroppo non sono un esperto della vostra ricchissima letteratura, ma ho letto diversi libri di Leonardo Sciascia e li ho amati molto".

- Nel suo ultimo romanzo, "La vita gioca con me", il personaggio principale è ispirato alla vita di Eva Panic Nahir, nata in una famiglia ebrea in Croazia e sopravvissuta ai gulag di Tito nell'isola di Goli Otok. Come è riuscito a bilanciare immaginazione e biografia?
  "È stato difficile, non solo perché si tratta di un personaggio reale, ma anche di una personalità molto forte. Le ho subito detto di non essere un documentarista, che avrei avuto bisogno di usare l'immaginazione. Che era necessario per me raccontare la sua storia in un altro modo. Purtroppo, Eva è morta prima di poter leggere il romanzo, ma sono convinto, e la sua famiglia me lo ha confermato, che lei avrebbe apprezzato come ho raccontato la sua vita, soprattutto le parti che non ho abbellito, in cui ho mostrato le sue contraddizioni. A lei mi ha legato un'amicizia ventennale e non è mai stata una sentimentalista: era una roccia in questioni politiche, una leonessa. E io, nel narrarla, non l'ho resa più morbida".

- Ha definito Eva una sorta di Shahrazad, la protagonista di "Mille e una notte": ci spiega perché?
  "Il nostro rapporto è cominciato con una telefonata, 25 anni fa. Era arrabbiata per un mio articolo e voleva discutere. Parlando, le ho chiesto dove fosse nata esattamente, così lei ha iniziato a raccontarmi la sua storia. A un certo punto si è interrotta e mi ha detto: "Basta, il resto te lo racconto un'altra volta". E così, per anni, mi ha chiamato una volta alla settimana per continuare il racconto. Come Shahrazad, mi ha tenuto sulla corda. Il potere della narrazione e della curiosità di sapere come una storia va a finire ha costruito la trama del nostro racconto. È stato come ballare un lungo tango, la stessa capacità di seduzione".

- Nei suoi libri spesso sono le donne le protagoniste: come fa a trovare la voce giusta per parlare attraverso i suoi personaggi femminili?
  "È molto interessante per me scrivere dal punto di vista di una donna. Non sempre è facile: per esempio, mentre scrivevo "A un cerbiatto somiglia il mio amore" mi ero bloccato, non capivo perché ed ero disperato. Finché ho deciso di scrivere una lettera alla protagonista, Orah. Allora ho proprio preso carta e penna e le ho scritto: "Orah, perché mi sfuggi? Perché mi resisti?". E subito, per magia, ho capito che ero io che facevo resistenza. Quindi la risposta alla domanda è: smetto di fare resistenza e scrivo".

- Per l'edizione italiana dei suoi saggi è stato scelto il titolo "Sparare a una colomba". È un'immagine forte che ha a che fare con l'uccisione dell'innocenza. È quello che sta accadendo? Stiamo uccidendo l'innocenza?
  "La colomba è simbolo di pace, anche se ho avuto modo di osservare i colombi che sono molto aggressivi fra di loro. Il riferimento è alla Bibbia e a Noè, ma si dovrebbe rivedere questo simbolo. Per me vuol dire uccidere il sogno, il sogno della pace ma anche di un mondo migliore. Un mondo dove l'idea della pace venga davvero presa in considerazione. Tutti i contendenti del conflitto tra Israele e Palestina scelgono la via della guerra dicendo che è l'unica strada: nessuno fa riferimento alla pace. Alle ultime elezioni nessuno ha neanche nominato la pace, perché nominarla vorrebbe dire aprire un'altra possibilità. È in atto una vera e propria distorsione della realtà che non riesce neanche a pronunciare la parola "pace"".

- Come può la letteratura aiutare a costruire la pace?
  "Nel modo di ri-raccontare la storia. Facendo vedere altre possibilità, ma soprattutto lottando contro lo stereotipo. Nel Talmud si dice: "Non c'è gioia più grande che liberarsi dai debiti". Io dico: "Non c'è gioia più grande che liberarsi dagli stereotipi". La letteratura riesce a fare vedere le cose da angolazioni diverse, contiene quella complessità che sfugge a qualunque altro tipo di narrazione".

- Amos Oz disse: "A volte troppa memoria non è una buona cosa". Cosa pensa di questa affermazione?
  "Sono molto d'accordo. Troppa memoria soffoca, impedisce il respiro. Noi israeliani siamo strozzati dall'eccesso di memoria, dovremmo guardare alla nostra storia con più misericordia e non rappresentarci sempre e solo come vittime. Credo che i siciliani possano capire il senso del peso di un'eccessiva memoria".

- Lei ambienta i suoi libri in Israele, perché dice che è il Paese che sa decodificare: ma c'è un altro Paese del quale ha mai desiderato scrivere?
  "Sì, finora ho scritto solo di Israele perché è l'unico Paese che capisco e conosco. Forse la mia risposta potrà sorprendere: se scegliessi di scrivere di un altro Paese, sceglierei la Siria. Perché è considerato nemico di Israele e spero che non sia più così in futuro. Perché fin da piccolo sono stato educato a considerare i siriani nemici e so molto poco di loro e di quel Paese nel suo profondo. Penso che è un Paese nel quale si è sofferto molto. Sono stato educato a essere spaventato dalla Siria e io sono attratto dallo scrivere di ciò che mi spaventa".

(la Repubblica, 20 giugno 2021)


Hamas ringrazia il Marocco per il sostegno alla causa palestinese

RABAT - Il capo politico del gruppo palestinese Hamas, Ismail Haniyeh, ha accolto con favore "gli sforzi profusi dal Marocco per sostenere la causa palestinese". Il leader del partito al potere a Gaza ha parlato nel corso di un incontro a Rabat con i rappresentanti delle organizzazioni non governative marocchine. Secondo una nota diffusa da Hamas, Haniyeh ha espresso il suo “apprezzamento per il sostegno del Marocco alla questione palestinese a tutti i livelli”.
  Venerdì 18 giugno il re del Marocco Mohammed VI ha ospitato una cena per il leader di Hamas in occasione della sua visita nel Regno. Haniyeh è arrivato mercoledì 16 giugno a Rabat per la sua prima visita nel Paese nordafricano su invito del partito al governo Giustizia e sviluppo. La visita giunge pochi mesi dopo che il Marocco ha ripristinato le relazioni con Israele nel dicembre 2020, a seguito della normalizzazione delle reazioni tra lo Stato ebraico con Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Sudan, nell'ambito dei cosiddetti Accordi di Abramo sponsorizzato dalla precedente amministrazione Usa di Donald Trump.

(Agenzia Nova, 19 giugno 2021)



Il segno del profeta Giona (10)

di Marcello Cicchese

La storia di Giona di solito piace. Può essere raccontata in forma gioiosa per bambini, o elaborata in forma pensosa per filosofi e psicologisti. E' stata rappresentata innumerevoli volte in forma pittorica e le sono stati attribuiti significati di vario genere. Gli studiosi della Bibbia si preoccupano di stabilire a quale "genere letterario" appartiene il racconto; dopo di che si cerca di trarne applicazioni interessanti.
  Ma già l'espressione "genere letterario", usata anche da tenaci difensori della Bibbia, tradisce l'ottica con cui si guarda il testo. Perché i generi letterari non esistono in natura, non sono oggetti della primordiale creazione come il sole e la luna, le piante e gli animali, ma oggetti del pensiero umano, data base entro cui si catalogano e ordinano modi di parlare e scrivere degli uomini. Nulla di più. Ma forse i pensatori postmoderni direbbero che non c'è nulla di più; che la realtà delle cose non è nulla di più che il nostro parlare delle cose: le nostre narrazioni.
  Seguendo questa linea di pensiero, il libro di Giona si presta meravigliosamente a servire come spunto per una varietà illimitata di nuove elaborate narrazioni, come si fa in musica: variazioni sul tema.
  In opposizione a questo fuorviante modo di pensare, ho elencato in altra sede tre cose che al di là di ogni opinione nel mondo ci sono: la Bibbia, Israele e la diaspora di Gesù. In questa sede, come membro della diaspora di Gesù intendo usare la Bibbia per trarre vantaggio da un bene prezioso appartenente al patrimonio storico di Israele.
  Il libro di Giona indubbiamente è un racconto, ma chi racconta è Dio. E per noi che leggiamo è il racconto di qualcosa che un giorno è veramente avvenuto. Dunque è storia. Ma non è storia che si esaurisce in un resoconto puro e semplice di fatti, in stile reportage, perché il Regista che sta dietro ai fatti, anzi che determina la forma dei fatti, vuole trasmettere a chi legge il significato che ad essi si deve dare; cioè il carattere di segno per altri fatti che avverranno in seguito. E' questo che si vuol intendere quando si dice che il racconto di Giona è una parabola profetica, raccontata da Dio stesso attraverso interventi concreti nella realtà storica degli uomini, prima che con la parola scritta.
  Resta allora per chi legge il compito di provare a ricercare i significati che stanno dietro ai vari particolari del racconto, ed è quello che qui si tenterà di fare, senza la pretesa di darne l'interpretazione autentica e definitiva, ma con il desiderio di individuare e offrire spunti di riflessione.
  Come già detto in precedenza, i personaggi principali della parabola storica di Giona sono anche i protagonisti fondamentali di tutta la Bibbia: Dio, Israele e le Nazioni. L'elemento con cui si apre e chiude la parabola presenta un Dio che parla. All'inizio parla a Giona trasmettendogli un ordine d'azione, alla fine parla di nuovo a Giona cercando di far capire al suo recalcitrante servitore i motivi per cui ha agito in quel modo. E stando a quel che è scritto, si direbbe che non ci sia riuscito.
  Ma è soltanto con Giona, rappresentante di Israele, che Dio entra in relazione verbale diretta; mentre le Nazioni, rappresentate da marinai e niniviti, vengono a conoscere la volontà di Dio soltanto attraverso Giona.
  Il senso della parabola va dunque ricercato nel gioco che si stabilisce fra questi tre elementi. E' vano dunque voler fare riferimenti generici a elementi universali come la misericordia di Dio verso tutti o la necessità per l'uomo di sottomettersi all'autorità divina. E quanto a misericordia, è bene ricordare che soltanto cento anni dopo Dio non mostrerà verso i niniviti la stessa delicatezza usata al tempo di Giona, come si legge nel libro del profeta Naum, interamente dedicato a il giudizio che ricadrà sulla città di Ninive: Tutti quelli che ti vedranno fuggiranno lontano da te, e diranno: Ninive è distrutta!” (Naum 3:7).
  Giona è la personificazione di Israele, servo del Signore. L'ordine che Dio dà Giona è una disposizione di tipo "militare", non un generico ordine di moralità personale. Dio ha un piano d'azione per quella che si potrebbe chiamare la riconquista del mondo, e Israele è parte del suo esercito.
  Che Giona rappresenti la parte di Israele si vede dal fatto che Dio si è rivolto a lui come profeta, cioè come riconosciuta controparte di Dio nel suo rapporto con Israele. La "disubbidienza" di Giona può essere paragonata al dissenso di un Generale sul campo di battaglia nei confronti di un ordine proveniente dal Comando Supremo. Il Generale dissente, ma per motivi che a lui sembrano validi: forse non ritiene giusto l'ordine ricevuto, per ragioni militari o umanitarie. E in qualche modo prende le distanze. Da notare inoltre che il dissenso tra Dio e Giona-Israele riguarda il rapporto da avere con il terzo degli elementi fondamentali della storia: le Nazioni.
  Ma la distanza che Giona ha voluto prendere da Dio era davvero pericolosa per lui. Proseguendo nel paragone militare, Dio avrebbe potuto passarlo per le armi, o quanto meno destituirlo, ma in questo modo la rottura sarebbe stata definitiva. Dio non poteva permettere che questo avvenisse, non perché Giona, o per lui Israele, lo meritasse, ma perché si era obbligato con Se stesso a non farlo mai. Aveva stipulato con Israele un patto, fin dal tempo di Abramo, ed era un patto unilaterale, dipendente soltanto dal Suo impegno.
  L'originario patto con Abramo, tuttora in auge, è stato stipulato al fine di riconquistare il mondo a Dio; e pur nell'unilateralità del Suo impegno, Dio si è imposto di far avanzare il suo progetto preparando occasioni che consentissero ogni volta all'uomo di dare una libera risposta positiva alla Sua parola. Perché per Dio riconquistare il mondo significa arrivare ad avere una creazione abitata da una umanità che lo accolga liberamente e con gioia come suo Creatore e Signore.
  Ma sarà mai possibile tutto questo? Non è forse vero che nella sua struttura l'uomo ha un cuore "insanabilmente maligno" (Geremia 17:9). Nel piano di Dio è prevista una soluzione anche a questo problema:
    Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne (Ezechiele 36.26).
Concedere all'uomo spazi di libertà per offrirgli la possibilità di rispondere a Dio, fa inevitabilmente correre il rischio di sentir rispondere no. Ed è quello che è accaduto molte volte in Israele. Ma il no "primordiale", quello che ha influenzato in modo determinante - anche se non definitivo - il suo successivo percorso, è la "caduta" dell'adorazione del vitello d'oro. E' questo l'autentico "peccato originale" di Israele. In quel punto iniziale della storia di Israele è stato violato il patto originario di Mosè; e la successiva forma che ha preso la legge dopo quella caduta porta tracce inconfondibili di questa violazione, insieme a segni anticipatori di una futura redenzione.
  Da quel momento si può dire che Israele è in fuga dall'Eterno. Dio però non demorde, e pazientemente lavora alla preparazione di un'occasione in cui il suo popolo arriverà a rispondergli liberamente . Questo è assolutamente necessario, perché non è possibile che Dio accolga un dall'umanità in generale senza aver ricevuto prima un decisivo dal Suo popolo particolare. E questo indubbiamente avverrà, anzi è già avvenuto, in una forma giuridicamente valida anche se ancora priva di effetti storici visibili.
  Se Giona rappresenta Israele tuttora in fuga dall'Eterno, si pongono osservazioni e domande interessanti, a cui si cercherà di dare qualche risposta in seguito. Ecco subito due spunti di riflessione.
  Osservazione - Nel racconto, l'allontanamento interiore di Giona dall'Eterno subisce un arresto e un mutamento con l'episodio del pesce, ma non si conclude. Alla fine Giona ubbidisce, ma resta sulle sue. Dio l'invita a riflettere ponendogli domande, ma non lo riprende, né gli dà nuovi ordini. Il racconto appare troncato, privo di un finale.
  Domanda - Che peso si deve dare, sia in riferimento a Giona nel racconto, sia in riferimento a Israele nella storia, alla straordinaria esperienza di Giona-Israele nel ventre del pesce?
(10) continua

(Notizie su Israele, 20 giugno 2021)


 

Karine Elharrar, in Israele si svolta

La nuova ministra delle Infrastrutture, che è figlia di ebrei immigrati dal Marocco, ha studiato Legge in Israele e si è specializzata negli Stati Uniti, si batte per le persone disabili.

di Paolo Lepri

Seduta sulla sua sedia a rotelle, Karine Elharrar è in prima fila nella foto del nuovo governo israeliano, accanto al presidente uscente Reuven Rivlin, al primo ministro Naftali Bennett e al premier supplente Yair Lapid, destinato a prendere il posto dell’ex leader dei coloni a metà legislatura se la coalizione che ha evitato le quinte elezioni in due anni riuscirà a sopravvivere con un solo voto di maggioranza. La neo ministra delle Infrastrutture nazionali, dell’Energia e delle Risorse idriche è malata di distrofia muscolare. Sulla scheda biografica del Parlamento — dove è entrata per la prima volta nel 2013 per essere poi sempre riconfermata — si legge che si è occupata tra l’altro di provvedimenti in favore delle persone disabili. «Le leggi ci sono — dice — ma siamo indietro nell’applicarle».   
  Quarantatré anni, figlia di ebrei immigrati dal Marocco, sposata e madre di due figli, Karine Elharrar ha studiato Legge in Israele, specializzandosi nella difesa dei sopravvissuti all’Olocausto e si è perfezionata negli Stati Uniti. Ha aderito fin dall’inizio a Yesh Atid (C’è un futuro), la formazione liberal-centrista fondata da Lapid, un uomo che è riuscito a creare movimento nella politica israeliana. Grazie soprattutto all’ex giornalista (e all’ottimo risultato ottenuto nel voto di marzo) si è finalmente chiusa l’epoca di Benyamin Netanyahu, rimasto attaccato al potere nonostante le sue disavventure giudiziarie. In un’intervista a Jewish Insider, rilasciata prima delle elezioni, la nuova ministra delle Infrastrutture sottolineava la coerenza di chi «non ha mai tradito le promesse» e si diceva ottimista sulla possibilità di una svolta. «Una combinazione di partiti diversi può rimpiazzare il premier». È andata proprio così.   
  Certo, un governo che va dall’estrema destra alla sinistra corre il rischio di essere paralizzato dalla necessità di continue mediazioni. Per quanto riguarda progressi sulla questione palestinese, le aspettative non possono che essere basse. Solo l’America di Biden è forse in grado di sbloccare la situazione, se lo vorrà, cercando di farsi ascoltare a Gerusalemme. Karine Elharrar ha sempre auspicato che un «cambiamento» in Israele potesse «rilanciare i rapporti con gli Usa». Una speranza di tutti.

(Corriere della Sera, 19 giugno 2021)


Germania - Più risoluti contro l'antisemitismo

I ministri degli interni del Bund e dei Länder hanno concordato un'azione più risoluta contro i criminali antisemiti. Lo hanno annunciato alla fine della loro conferenza di primavera a Rust, nel Baden. Vogliono elaborare standard uniformi a livello nazionale per limitare manifestazioni anti-israeliane contro sinagoghe e, se necessario, vietarle. Sarà aumentata inoltre la pena per i reati di antisemitismo. In futuro, atti antisemiti non chiariti non saranno più assegnati automaticamente alla destra. Quando lo sfondo non è chiaro, dovranno essere registrati in una categoria separata nelle statistiche sulla criminalità. Questo dovrebbe consentire una migliore prevenzione. Ma non si tratta di relativizzare l'estremismo di destra, ha affermato il ministro dell'Interno federale Horst Seehofer (CSU). Ha parlato di un riconoscibile "antisemitismo importato" che sta diventando evidente nelle strade.

(Die Welt, 19 giugno 2021 . trad. www.ilvangelo-israele.it)


Molto delicata l'espressione "antisemitismo importato" per non dire "antisemitismo islamico".


Dentro i misteri dei Fratelli musulmani. Così gli islamisti s'insinuano in Occidente

L'inchiesta di un super esperto sulla rete dell'estremismo e dell'islam politico.

di Gian Micalessin

«Ciò che resta è conquistare Roma. L'Islam tornerà in Europa per la terza volta dopo esser stato espulso due volte. Conquisteremo l'Europa, conquisteremo l'America! Non con la spada, ma con la predicazione». Parole di Yusuf Al Qaradawi, leader della Fratellanza Musulmana, che Lorenzo Vidino, studioso italo-americano dei movimenti islamisti e direttore del «Programma sull'estremismo» della George Washington University cita più volte nel suo nuovo Islamisti d'Occidente (Egea-Università Bocconi Editore). E lo fa per mettere in risalto non solo la volontà di conquista e di pretesa superiorità culturale-religiosa della Fratellanza Musulmana, ma anche la sua vocazione alla dissimulazione. Fondata in Egitto nel 1928 dall'Imam Hasan Banna, la Fratellanza oltre che portabandiera dell'Islam politico è il terreno di coltura, grazie ai testi dell'ideologo Sayyd Al Qutb, di idee e azioni di terroristi come Osama Bin Laden e Ayman Al Zawahiri.
  Unendo il rigore della ricerca accademica a un incisività di stampo giornalistico, Vidino offre un dettagliato e inedito resoconto delle attività svolte dalla Fratellanza in seno alle società europee e statunitensi. Vidino ha analizzato per oltre 20 anni le attività della Fratellanza diventandone uno dei pochissimi esperti occidentali, fin da quando all'indomani dell'11 settembre un'inchiesta statunitense svelò i rapporti tra la moschea milanese di viale Jenner, al tempo succursale europea di Al Qaida, e la banca ticinese di Al Taqwa gestita da un trio di facoltosi esponenti della Fratellanza trasferitisi a Milano dopo l'addio ai Paesi d'origine (Egitto, Eritrea e Siria). Vidino è oggi consulente del governo inglese per le attività della Fratellanza.
  Come fanno ben capire le interviste dell'autore ai fuoriusciti del movimento, le severe regole di segretezza dell'organizzazione e la rigida compartimentazione della sua filiera rendono difficile percepirne l'influenza. E così, mentre, paradossalmente, Paesi come Egitto, Emirati Arabi ed Arabia Saudita la equiparano alle formazioni terroriste in Europa, la Fratellanza diventa un punto di riferimento per governi e autorità ignari di affidarsi alle sue strutture. E il caso dell'Italia dove nel novembre 2015 l'Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche in Italia), evidente, ma non esplicita filiazione della Fratellanza, ottiene dal Ministero di Grazia e Giustizia l'incarico di selezionare gli imam autorizzati a entrare nelle carceri per amministrare il culto islamico e prevenire la radicalizzazione. Lo stesso Ucoii che tra il 2013 e il 2016 gestisce «25 milioni di euro di fondi» donati dal Qatar, grande padrino internazionale dei Fratelli Musulmani, per garantire «la costruzione di 43 moschee, tra cui quelle di Ravenna (la seconda più grande d'Italia), Catania, Piacenza, Vicenza, Saronno...».
  «La segretezza del movimento - scrive Vidino - rende difficile la maggior parte degli sforzi volti a comprendere il complesso meccanismo interno suo e dei suoi spin-off». Un meccanismo ben presente nel panorama italiano dove l'Ucoii continua a negare o celare i suoi legami con la Fratellanza. «Uno degli aspetti più problematici -sottolinea Vidino - è l'identificazione di quali organizzazioni e individui possono essere collegati al movimento». Un'ambiguità che permette alla Fratellanza di operare come una piovra invisibile usando le sue smisurate risorse finanziarie per creare intrecci di associazioni, enti o fondazioni dove la Fratellanza Pura, ovvero la rete riservata ai membri dell'organizzazione, non è distinguibile dalle sue emanazioni o dai gruppi che ne subiscono l'influenza. Un labirinto in cui si smarriscono anche magistrati, investigatori e politici.

(il Giornale, 19 giugno 2021)


Guida completa sull’apertura di un conto bancario e sulla gestione delle tasse in Israele

Gestire le finanze in Israele non deve essere una seccatura con la giusta preparazione. Non appena ti sarai sistemato, potrai facilmente aprire un conto presso una delle cinque principali banche israeliane. Quando lo fai, tieni presente che è pratica standard nelle banche israeliane addebitare quasi tutti i servizi. Assicurati di chiedere in anticipo le commissioni bancarie e di avere una chiara comprensione di quali saranno.
Comprendere i conti bancari e il sistema fiscale in Israele è qualcosa con cui ogni nuovo espatriato dovrà fare i conti una volta arrivato in Terra Santa. Ad esempio, sapevi che diverse banche in Israele offrono conti per non residenti? Il processo per aprire il tuo account potrebbe richiedere un po’ più di tempo poiché dovrai superare una serie di controlli. Tuttavia, questi tipi di conti spesso presentano vantaggi come tassi di interesse migliori ed esenzioni da determinate tasse e altre commissioni. Questa potrebbe essere una buona notizia considerando che le tasse in Israele sono tra le più alte al mondo, arrivando addirittura al 50% di tasse sul reddito!...

(Investimenti Magazine, 19 giugno 2021)


Tottenham. Radici ebraiche, ma ora il club è il più green

I tifosi sono affezionati a simboli e slogan ma non c'è più il carattere etnico-religioso.

di Andrea Antonioli

L'Hotspur Football Club (ribattezzato poi Tottenham Hostpur FC dal nome del sobborgo in cui nasce), viene fondato nel Nord di Londra, nel 1882, mentre si sta esaurendo l'epopea della rivoluzione industriale. Il XIX secolo d'altronde aveva portato la capitale dell'impero britannico dal milione di abitanti del 1800 ai 6.7 milioni dei primi anni del '900, e da qui dovrebbero partire i tanti che si interrogano sul numero spropositato di club londinesi: dall'Arsenal al Tottenham, dal Chelsea al West Ham, passando per QPR, Millwall, Charlton, Crystal Palace etc., nella Londra a cavallo tra i due secoli sono molti i borghi (e sobborghi) che trovano una propria squadra in cui riconoscersi.
  Così fa Tottenham Hale che, tuttavia, non offre rappresentanza solo ai residenti ma anche alla comunità ebraica, sempre più numerosa nella zona: stando a quanto raccontano Martin Cloake e Alan Fisher nel loro "A People's History of Tottenham Hotspur Football Club", inizialmente il club, pur avendo i primi tre presidenti ebrei, può contare su una sparuta minoranza di tifosi della comunità ebraica; poi però, soprattutto nei primi decenni del '900, il legame si consolida. Il Jewish Cronichle, giornale ebraico di Londra, afferma che negli anni `20 pressoché tutti gli appassionati di football ebrei tifano Spurs, un numero destinato a crescere negli anni `30. Nel 1935, addirittura, diversi quotidiani scrivono di circa 10mila tifosi ebrei a White Hart Lane, un terzo del pubblico totale. Un vero e proprio fattore di integrazione se come dichiara Anthony Clavane, docente, scrittore e giornalista inglese, sugli spalti «l'identità etnica si intreccia con quella nazionale». Il paradosso però sta qui: oggi la stima in percentuale dei tifosi del Tottenham ebrei raggiunge circa il 5%, numero simile a quello degli odiati cugini - a proposito di Nord di Londra - dell'Arsenal; eppure la squadra continua a essere indicata come espressione della comunità ebraica, in un rapporto che si è spogliato del suo carattere etnico-religioso ma ha mantenuto un tratto (post)identitario.
  Negli anni i tifosi Spurs sono diventati gli `Yids", termine dispregiativo che viene dal tedesco antico Jüde, ma che gli stessi supporter del Tottenham hanno fatto proprio: tra il vecchio e il nuovo White Hart Lane più volte si sono viste bandiere di Israele, stelle di David, pezze e bandiere con la scritta "Yid Army" (una sigla che ormai è passata, per sineddoche, a rappresentare l'intera tifoseria); e ancora più spesso abbiamo sentito cori quali we are the yids, we are we are we are the Yids!, nella rivendicazione di «un tratto identitario per distinguersi da altri tifosi [...] espressione di orgoglio e di appartenenza esclusiva al Tottenham. Ma privo di alcuna appartenenza religiosa», come scrivono Mauro Bolzoni e Matteo Grazzini in `T. H. La storia del Tottenham Hotspur".
  Oggi quindi molte cose sono cambiate, e la presunta identità ebraica è più che altro una risposta per cementarsi all'interno ma sprovvista di solide basi. Al contrario il tifo Spurs è molto variegato così come multietnica è la prima squadra, con calciatori di ben 16 nazionalità differenti. Anche per questo il club, recentemente nominato il più "green" e "sostenibile" del campionato (qualunque cosa voglia dire), è ormai a tutti gli effetti espressione di una Premier League sempre più globalizzata. Lo stesso borgo di Haringey, in cui si trova Tottenham, è un feudo ultralaburista nel quale i conservatori hanno conquistato 0 seggi contro i 42 dei Labour (elezioni 2018), e il "Remain" nel referendum sulla Brexit ha toccato quasi l'80% delle preferenze (uno dei tassi più alti di tutta l'Inghilterra). Anche qui vanno ricercate le cause dell'indignazione per le frasi di Gattuso: in un luogo dove la Calabria profonda, probabilmente, è più lontana di Marte.

(Corriere dello Sport, 19 giugno 2021)


Firma di un accordo tra Brasile e Israele

di Lia Boni

Giovedì 10 il Comitato per le relazioni estere e la difesa nazionale (CREDN) della Camera dei Rappresentanti ha ratificato l’Accordo sulla cooperazione scientifica e tecnologica firmato tra Brasile e Israele, a Gerusalemme, il 31 marzo 2019. Parere del Rappresentante Aroldo Martins (REPUBLICANOS-PR) è stata accettata a favore Convenzione.
   Il trattato firmato dal ministro Marcos Pontes prevede che i due Paesi conducano ricerche scientifiche e tecnologiche congiunte, sviluppino programmi e progetti, forniscano e scambino attrezzature per la ricerca. Inoltre, Brasile e Israele dovrebbero incoraggiare la partecipazione dei rappresentanti dei loro paesi a tavole rotonde, seminari, simposi, workshop e conferenze sui temi della cooperazione.
   Secondo Aroldo Martins, Brasile e Israele condividono una lunga storia di cooperazione nei campi scientifico e tecnologico, nel settore agricolo e nei campi della difesa e degli affari militari. Dagli anni ’60, Israele ha contribuito allo sviluppo dell’agricoltura semi-arida, applicando tecniche di irrigazione e diffondendole nelle regioni del nord-est del Brasile.
   Attualmente, il Brasile è al 71° posto nel Global Competitiveness Ranking del Global Competitiveness Report, mentre Israele è al 20° posto e al primo posto nel MENA Competitiveness Ranking e al 10° posto nel Global Innovation Index. .
   Inoltre, secondo i dati del Ministero degli Affari Esteri, Israele è anche il Paese che investe la quota maggiore del proprio PIL in ricerca e sviluppo (4,3%). Il Paese è anche il primo al mondo per numero di startup pro capite. Hanno attirato collettivamente investimenti per $ 6,47 miliardi nel solo 2018.

(Giornale di Siracusa, 18 giugno 2021)



La nuova barbarie digitale

Il dibattito sul ruolo dei social network

di Bernard-Henri Lévy

Il presidente della Repubblica Macron ha ragione. Esiste sul serio un imbarbarimento collettivo ascrivibile al successo dei social network. E ciò è dovuto a cinque motivi.

Il primo è l’istantaneità dei pensieri che vi si esprimono, il fatto che questi non conoscano più un minimo di distacco, di filtro e, letteralmente, di mediazione. Di conseguenza, i pensieri sui social sono affini a quel linguaggio troppo crudo, troppo presente a sé stesso, troppo intenso che Hegel considerava tra le cause di violenza e ferocia tra gli uomini.

Il secondo è l’inganno di questi social che, lungi dal farci socializzare come starebbe a indicare il loro nome, in verità non fanno altro che desocializzarci, con la conseguente illusione di presunti amici che ci amano con un click, che smettono di amarci con un altro click e il cui incremento è segno, come per i non-cittadini di Saint-Just, del fatto che non abbiamo davvero più amici… Falsa ricchezza di autentiche parole a vanvera che si misura in like e follower che dovrebbero apportare maggior valore alle nostre esistenze e, al contrario, ci confinano in una solitudine senza precedenti.
In sintesi, regno di un narcisismo che, con il pretesto della connessione, sottolinea la rottura rispetto a tutto quello che un tempo plasmava le comunità, la solidarietà, la fraternità.

Terzo: conosciamo la storia del famoso vescovo Dionigi, decapitato dai barbari e che nondimeno attraversò a piedi la collina di Saint-Denis tenendo sottobraccio la sua testa mozzata. Con i meccanismi della Rete, assistiamo a un fenomeno dello stesso tipo, ma su scala planetaria e che interessa tutti gli esseri umani. Oggi non si tratta più della nostra testa, certo, ma della nostra memoria. Non la portiamo più con noi sottobraccio, ma nel palmo delle nostre mani, oppure in fondo a una tasca, considerato che sui nostri smartphone ci alleggeriamo dell’attenzione che consente di risalire consapevolmente a informazioni, situazioni e frammenti di ricordi che dimentichiamo tanto più di buon grado quanto più la tecnologia ci consente di recuperarli a nostro piacimento. In questa dislocazione, in questa esfiltrazione, in questo scaricabarile della nostra facoltà di ricordare affidata alle macchine c’è un fatto antropologico che conduce all’inesorabile atrofizzazione di una facoltà della memoria che, dai tempi di Platone, sappiamo essere uno dei legami più solidi tra gli esseri umani e uno di quelli più adatti a scongiurare il peggio.

Quarto, la volontà di verità. Anch’essa crea un legame tra gli uomini. Nel riconoscimento di una verità – il cui amore, se non altro, è condiviso – vi è un’altra ragione concreta che impedisce loro di uccidersi a vicenda. E nondimeno, che cosa è un social network? È la sede di uno slittamento progressivo, di cui non si sono quantificate a sufficienza tutte le conseguenze. Si comincia con il dire: “Tutti hanno pari diritto di esprimere ciò in cui credono”. Poi si passa a: “Tutte le cose espresse in cui si crede godono del medesimo diritto a essere rispettate nello stesso modo”. E poi, ancora: “Se tutte sono rispettabili nello stesso modo, significa che sono tutte valide, importanti e apprezzabili nello stesso modo”. Ecco, è così che, a partire dal desiderio di democratizzare il “coraggio della verità” caro a Michel Foucault e pensando di offrire a tutti il mezzo tecnologico per contribuire all’avventura della conoscenza, si è creato un parlottio globale in cui nulla autorizza più a gerarchizzare o a distinguere tra intelligenza e delirio, tra informazione e fake news, tra ricerca della verità e passione per l’ignoranza. Si tratta di un ritorno, quasi ricalcando l’eleganza greca, di quei celebri sofisti che sostenevano che quella che un tempo chiamavano “la” Verità è un’ombra indistinta in una notte in cui tutte le illusioni sono grigie. E, in questa profusione oscura e assordante in cui si sono trasformati i social network, la verità di ognuno vale quanto quella del suo vicino e ha diritto a tutti i mezzi – assolutamente tutti, fossero pure violenti e financo feroci – atti a imporre la propria legge.

E, infine, quinto. Ricordiamo tutti la struttura panoptica teorizzata per le prigioni dal filosofo utilitarista inglese del XVIII secolo Jeremy Bentham, basata su un osservatorio collocato in una torretta centrale che permetteva alle guardie di osservare senza essere viste e ai detenuti, sistemati in celle individuali poste a raggiera attorno a essa, di vivere sotto il loro sguardo. L’originalità dei social consiste nel fatto che quell’occhio non si chiude mai, sorveglia i corpi e penetra nelle anime, viola la loro interiorità rendendola evidente a chiunque e non è più l’occhio di una guardia, di un superiore, di un padrone, bensì di ciascuno di noi. La novità è che questo progetto consistente nel voler vedere tutto, sapere tutto e penetrare nello spirito e nell’intimità altrui è alla portata di qualsiasi nostro vicino in Rete. Nella misura in cui permette ai superiori di spiare i sottoposti, ma anche ai sottoposti di spiare i superiori, e indifferentemente a tutti di controllare o condannare chiunque altro, questo meccanismo neobenthamiano crea un regime politico nuovo che non si può definire né seriamente democratico né distintamente autocratico; che si sarebbe tentati di chiamare scopocratico, in ragione di questa teoria dello sguardo e del voyerismo gaudente a cui esso dà vita; e che viola una delle leggi più antiche della Storia, enunciata dai tempi dei tragici greci a Epidauro e Olimpia: “Uomini, non andate a guardare troppo da vicino – con il rischio di essere accecati o, peggio ancora, imbrattati dal loro sangue – da quel lato dello specchio che è il corpo animale dei vostri simili.” I tragici greci non avevano torto. Da questo furore scopocratico, infatti, nasce depredazione. Una rabbia accusatrice osservata di rado nella storia del genere umano. Un clima di giustizia popolare che viaggia alla velocità della luce virale di una Rete che funziona a pieno regime e crea un’umanità assetata, come gli dèi di Anatole France, non di sangue ma di chiacchiericcio. E, al termine di questa mischia – in cui a ogni istante, o quasi, un’altra testa cade nella cesta panoptica dei nuovi corvi – è in corso una guerra di tutti contro tutti, la cui ferocia nessun Hobbes ha mai immaginato.
Come uscire da questo incubo? Lo ignoro.

(la Repubblica, 19 giugno 2021)


Dunque con i social "si è creato un parlottio globale in cui nulla autorizza più a gerarchizzare o a distinguere tra intelligenza e delirio, tra informazione e fake news, tra ricerca della verità e passione per l’ignoranza". Bellissima l'espressione sintetica con cui l'autore riassume l'essenza dei social: "un parlottio globale". Poco dopo l'uscita di Facebook, chi scrive lo definiva più pedestremente "un cortile". E dopo esserci entrato una volta quasi per sbaglio, ne è uscito subito dopo. Ma - dicevano e dicono ancora molti - nel cortile si possono dire, imparare e fare molte cose utili e interessanti. Pragmaticamente sarà anche vero, ma forse è anche vero che in questo modo si è soppressa la verità. In modo pratico, non filosofico. Chi si immerge nel chiacchiericcio dei social, ha già fatto sparire dal suo orizzonte il pensiero della verità. M.C.


 

Elezioni iraniane: ecco chi è Ebrahim Raisi, il prossimo Presidente iraniano

Ecco chi è il vincitore designato delle “libere” elezioni iraniane di oggi. Uno sterminatore di prigionieri politici e di oppositori del regime.

di Darya Nasifi

Oggi in Iran si tengono le discusse elezioni iraniane, mai così apertamente falsate per consentire la vittoria del candidato gradito al Grande Ayatollah Ali Khamenei, cioè Ebrahim Raisi.
Già il Consiglio dei Guardiani, cioè l’organismo che decide chi può o non può partecipare alle elezioni presidenziali, aveva tagliato tutti i candidati “riformisti” rendendo le elezioni una farsa.
Ma non è bastato al Grande Ayatollah Khamenei. Voleva essere così sicuro che vincesse Ebrahim Raisi che con una mossa senza precedenti ha praticamente costretto tre candidati a ritirarsi.
Giusto per capire chi è il prossimo Presidente dell’Iran, Ebrahim Raisi è il capo intransigente della magistratura iraniana che nella sua lunga carriera da magistrato ha mandato a morte migliaia di prigionieri politici.
Giusto per capirci, in Iran non esiste un candidato Presidente moderato, esistono (o esistevano) candidati meno intransigenti e meno radicali.
Il termine “moderato” che veniva usato per il Presidente uscente, Hassan Rohuani, è in realtà un termine usato impropriamente in occidente specie da quella stampa che pur di nuocere a Israele preferisce definire “moderato” un assassino.
Ciò detto, Ebrahim Raisi è qualcosa di più di un semplice assassino, è uno sterminatore di prigionieri politici e di riformisti. Ha mandato a morte uomini e donne con le accuse più stravaganti solo perché non si conformavano alle intransigenti leggi coraniche imposte dagli Ayatollah.
È l’uomo che ha fatto sparire nel nulla centinaia di attivisti del Movimento Verde, ragazzi e ragazze dei quali da anni non si sa assolutamente più nulla.
Eppure diranno [avranno il coraggio di dire] che Ebrahim Raisi “è stato eletto in libere e democratiche elezioni” e che quindi è giustificato a guidare l’Iran per i prossimi anni.
Non vi fate ingannare. Le elezioni in Iran sono tutto fuorché democratiche e Ebrahim Raisi è tutto meno che il Presidente degli iraniani.
Lo sterminatore di giovani ragazzi e ragazze, il boia di migliaia di oppositori, non rappresenta l’Iran. Rappresenta Khamenei e i Guardiani della Rivoluzione, ma non gli iraniani.

(Rights Reporter, 18 giugno 2021)


Grazie, Bibi, per il tuo impegno

Da "The Washington Times", 10/06/2021

di Daniel Pipes

Seguendo l'esempio del primo ministro Benjamin "Bibi" Netanyahu, molti dei suoi sostenitori diffamano i tre capi dei partiti conservatori israeliani che hanno rifiutato la sua leadership, a favore di quello che viene chiamato il governo del cambiamento. Nonostante io sia un ammiratore di lunga data (ci incontrammo per la prima volta nel 1983) del premier, apprezzo Naftali Bennett, Avigdor Liberman e Gideon Sa'ar per le loro azioni di principio. Meritano consensi, non insulti.
  Quegli insulti fanno parte di una campagna per far cambiare idea al trio e ai membri dei loro partiti. Netanyahu si scaglia contro quello che erroneamente definisce un "pericoloso governo di Sinistra". Il suo alleato Itamar Ben Gvir ha denunciato "l'emergente governo estremista di Sinistra". Un altro alleato di Netanyahu, Aryeh Deri, ha prospettato che Bennett "distruggerà e rovinerà tutto ciò che abbiamo preservato per anni". Un altro ancora, May Golan, è andato oltre, paragonando Bennett e Sa'ar ad "attentatori suicidi". Manifestanti nelle strade hanno bruciato la foto di Bennett e lo hanno definito un "traditore". In un avvertimento molto insolito, il capo del servizio di sicurezza interna israeliano, lo Shin Bet, ha avvisato che l'aumento dell'istigazione e dell'incitamento potrebbe innescare la violenza politica.
  Quella campagna di pressione potrebbe funzionare perché la coalizione del cambiamento ha solo 61 seggi alla Knesset contro i 59 del partito di Netanyahu; una sola defezione farebbe fallire la formazione del governo e richiederebbe lo svolgimento delle temute quinte elezioni del Paese in poco più di due anni.
  Finora, tuttavia, la campagna è fallita, grazie a politici con dei princìpi. Sa'ar, membro di lunga data del partito di Netanyahu, esemplifica la loro linea d'azione. Netanyahu gli ha di recente offerto di diventare primo ministro, se solo avesse mantenuto ["ritirato", non "mantenuto", errore di traduzione, ndr] la sua promessa elettorale di non formare una coalizione con lui. Ma Sa'ar ha subito respinto la tentazione e ora è in lizza per ricoprire la carica decisamente più modesta di ministro della Giustizia nel governo del cambiamento. Se questo non è un principio, non so cos'altro lo sia.
  Spero quindi che la campagna di pressione fallisca. Sì, è vero, Netanyahu è stato un eccellente leader; ma più di quindici anni alla guida dell'Esecutivo di Israele lo lasciano alle prese con casi giudiziari che distorcono le sue priorità e con ex alleati che diffidano della sua leadership e la rifiutano. Inoltre, la campagna di pressione è immorale e pericolosa. Per questi (e per molti altri motivi) lo stesso Netanyahu è diventato il fulcro della disputa nazionale. L'attuale dramma di Israele non ha quasi alcun contenuto politico di fondo – non c'entra l'Iran, né l'annessione della Cisgiordania, né i palestinesi, né l'economia e nemmeno la pandemia – ma piuttosto è incentrato sul suo personaggio.
  Solo quando Netanyahu lascerà il premierato i partiti conservatori e centristi potranno unirsi e governare uniti. Con Netanyahu fuori dal governo, la disorganica e perfino bizzarra coalizione odierna di 61 membri provenienti da tutto lo spettro politico (Destra, Centro, Sinistra e islamista) potrebbe essere sostituita da un ragionevole blocco di centro-destra composto da un massimo di 81 membri, ossia più di due terzi dei 120 seggi del Parlamento. Ciò consentirebbe a Israele di ottenere finalmente il governo che questo Paese sempre più conservatore merita, uno che in particolare potrà affrontare le sue due questioni interne più importanti e a lungo termine: l'integrazione della crescente popolazione haredi (ultra-ortodossa) e di quella musulmana.
  La comunità degli Haredim è riuscita a diventare un pupillo del governo, dipendente dalla liberalità, pur sottraendosi al dovere militare, e in molti casi non riconosce lo Stato. Non sorprende affatto che questa combinazione generi un notevole risentimento tra i suoi connazionali che pagano le tasse e prestano servizio militare. Lieberman, il quale dovrebbe sovrintendere alle finanze statali, ha fatto dell'integrazione degli Haredim la sua massima priorità, promettendo di usare la sua posizione per "fare tutto il possibile per fornire loro un'istruzione e consentirgli di imparare una professione permettendo loro di essere indipendenti". E Lieberman è nella posizione ideale per svolgere questo compito.
  I musulmani di Israele sono ancora più problematici, e gli scontri del mese scorso sono serviti a ricordarlo vividamente. Come da me osservato quasi un decennio fa, la questione fondamentale è che la maggior parte degli arabi israeliani "vorranno continuare ad essere con convinzione dei cittadini non-fedeli dello Stato ebraico (in contrapposizione a essere cittadini fedeli di uno Stato palestinese)". Pur apprezzando i numerosi vantaggi di vivere in Israele, dal tenore di vita allo Stato di diritto alla copertura assicurativa, continuano a nutrire, tuttavia, una diffusa e profonda ostilità per l'integrazione nell'impresa sionista. Questa contraddizione è stata messa da parte per troppo tempo e necessita di uno sguardo onesto e sostenuto con l'obiettivo di trovare soluzioni creative: e l'autonomia comunale in stile mediorientale offre un possibile approccio.
  Finché Benjamin Netanyahu continuerà a essere primo ministro, la politica israeliana rimarrà nell'impasse, statica e bloccata. Pertanto, è giunto il momento di ringraziare Netanyahu per lo straordinario servizio da lui reso e, mentre la sua era volge al termine, di aspettare con impazienza che Israele passi oltre procedendo verso nuovi traguardi.

Pezzo in lingua originale inglese: Bibi, Thank You for Your Service

(danielpipes.org, 18 giugno 2021 - trad. Angelita La Spada)


In Iran si vota, tra minacce e dittatura

di Ugo Volli

Le elezioni non sono necessariamente sinonimo di democrazia. Anche molti paesi dittatoriali tengono elezioni: l’ha appena fatto la Siria, rieleggendo Assad col 96% dei voti, nel 2019 l’ha fatto la Corea del Nord, nel 2018 la Cina e Cuba. Forse solo l’Autorità Palestinese non tiene elezioni da quindici anni. Tutto sta naturalmente a come si svolgono le elezioni, chi ha diritto di candidarsi e di fare campagna elettorale, quanto libero e segreto è il voto, quanto contano poi davvero gli eletti. Nessuna meraviglia dunque che domani 60 milioni di iraniani siano chiamati alle urne per sostituire il presidente attuale Hassan Rouhani, ineleggibile in quanto ha già completato due mandati.
   In realtà il presidente iraniano non è affatto il massimo responsabile della politica iraniana, anche se formalmente è il capo dell’esecutivo come il presidente americano o quello francese. La vera autorità che ha il potere di comandare a tutti, compreso il presidente, in Iran è la “guida suprema” che governa a vita. Finora, a quarantadue anni dalla rivoluzione islamica, ce ne sono state solo due, prima per dieci anni, fino alla morte, l’ayatollah Ruhollah Khomeini; dal 1989 Ali Khamenei. La “guida suprema” è eletta da un’”assemblea degli esperti dell’orientamento” di 88 clerici islamici nominati per 8 anni da un “consiglio dei guardiani della costituzione” di 16 membri, la metà dei quali è scelta direttamente dalla guida suprema e l’altra metà dal capo del potere giudiziario che dipende sempre dalla guida suprema. Il “consiglio dei guardiani” ha anche il potere di selezionare i candidati alle elezioni. La regola è che “qualsiasi cittadino iraniano nato in Iran, purché sia maschio, credente in Dio e nell'Islam, e sia sempre stato sempre stato fedele alla Costituzione, alla tutela del giurista islamico [cioè, al potere clericale sulla società politica, una novità assoluta nella tradizione islamica stabilita da Khomeyni], al leader supremo, alla Repubblica islamica, può registrarsi come candidato presidenziale.” Poi però ci pensa il “consiglio dei guardiani” a decidere chi possa comparire davvero sulle schede elettorali, senza dover nemmeno spiegare le ragioni delle sue scelte; a ogni buon conto la “guida suprema” può firmare o meno il decreto di nomina, senza il quale l’eletto non diventa presidente.
   Valeva la pena di spiegare per bene questo circuito di nomine tutto clericale, maschile e autoreferenziale, da cui il popolo è del tutto escluso, perché esso rende assai poco significativa la votazione vera e propria. Le scelte delle candidature sono sempre molto unilaterali sul piano politico, escludono i democratici, coloro che vorrebbero cambiare il regime anche solo un po’, per non parlare delle donne o dei non islamici. Le scelte sono tutte interne e funzionali alla continuità del potere degli ayatollah.
   Quest’anno le candidature ammesse sono quattro. Il più giovane è con meno chances si chiama Amir Hossein Ghazizadeh Hashemi ha 50 anni, è stato deputato quattro volte ed è definito “conservatore”.
   Il successivo è Mohsen Rezaei, 66 anni, da 25 presidente del “consiglio per il discernimento dell'Interesse del sistema”, un organismo consultivo nominato dalla guida suprema. E’ stato per 16 anni comandante in capo della milizia del regime, le potenti e ricche “guardie rivoluzionarie”. E’ considerato un membro della “linea dura” della rivoluzione.
   Segue Abdolnaser Hemmati, 64 anni, l’unico che viene definito tecnocrate o moderato, avendo presieduto per un paio d’anni la banca nazionale dell’Iran. La sua elezione è considerata del tutto improbabile.
   Il candidato più accreditato è Ebrahim Raisi, 64 anni, attualmente capo della corte suprema dell’Iran e in generale dell’ordine giudiziario, anche lui esponente della linea dura. E’ considerato responsabile della pesantissima repressione del movimento di protesta giovanile degli anni scorsi, colui che in genere ha avallato e anzi guidato le migliaia di esecuzioni capitali eseguite in Iran ogni anno, le torture, gli imprigionamenti arbitrari di chiunque sia sospetto di scarsa adesione al regime.
   Se nessuno otterrà la maggioranza assoluta, vi sarà un secondo turno coi due candidati più votati. Come si vede, si tratta di candidati che non hanno affatto non solo la possibilità ma nemmeno l’ambizione di cambiare la politica iraniana. Tutti vogliono il nucleare, tutti appoggiano l’imperialismo iraniano, tutti odiano Israele e l’America, tutti appoggiano l’integralismo islamico. Forse solo Hemmati potrebbe presentare al mondo la faccia apparentemente tranquillizzante che era l’arma principale di Rouhani, anche se poi la sostanza non corrispondeva affatto alla sua affabilità.
   Gli altri, in particolare Raisi e Rezaei sono personaggi particolarmente esposti nell’attività repressiva e nell’imperialismo del regime. Durante i dibattiti televisivi che si possono vedere filmati e sottotitolati in rete grazie al lavoro meritorio dell’istituto MEMRI si sono minacciati l’un l’altro di processi per tradimento, condanne al carcere e peggio.
   Il regime traballante degli ayatollah evidentemente ha più bisogno di mano dura nel tenere sottomesso un paese impoverito e inquieto che di sembrare civile e democratico. Tanto hanno capito che all’amministrazione Biden e all’Unione Europea va bene chiunque si presenti in nome della rivoluzione islamica.

(Shalom, 17 giugno 2021)


 La Sfilata delle Bandiere

di Valentino Baldacci

E così anche la Sfilata delle Bandiere a Gerusalemme è passata senza dar luogo a incidenti particolarmente gravi. Ma è bene dire subito che la Sfilata di quest’anno è stata qualcosa di molto diverso da quelle che si sono tenute in passato in occasione di Yom Yerushalayim, il Giorno di Gerusalemme dedicato al ricordo della riunificazione della città con la guerra del 1967.
   Un discorso analogo va purtroppo fatto anche per la manifestazione che si è tenuta martedì 15 giugno: in passato la Sfilata delle Bandiere era l’occasione per una grande festa di popolo, che univa tutti i cittadini ebrei di Gerusalemme, con canti e balli, con una presenza preponderante dei giovani e in particolare delle ragazze delle scuole superiori che con le loro magliette multicolori davano il senso della festa, della gioia condivisa.
   Quest’anno la Sfilata ha avuto tutt’altro svolgimento e tutt’altro significato. Non è stata una festa unificante ma divisiva: da momento di unità si è trasformata in una manifestazione di parte, della parte più nazionalistica della popolazione di Gerusalemme, diretta essenzialmente contro il Governo appena insediato. Una manifestazione nazionalistica dove non sono mancati gli slogan anti-arabi dal contenuto razzista, come ha rilevato il ministro degli Esteri Yair Lapid.
   Ma anche visivamente la Sfilata ha avuto un carattere del tutto diverso rispetto al passato: è stata una manifestazione quasi esclusivamente maschile, le ragazze erano quasi del tutto assenti, i partecipanti indossavano in maggioranza la kippah per sottolineare la loro appartenenza politico-religiosa; l’unica cosa in comune con le precedenti Sfilate è stata il grande sventolio delle bandiere bianco-azzurre, usate però in questa occasione come segno di divisione, non di unità.
   La divisione è stata il segno non solo della parte ebraica ma anche di quella palestinese. Il leader di Ra’am Mansour Abbas, pur affermando che la Sfilata, tenuta in queste condizioni, appariva una provocazione, ha tenuto a sottolineare che essa era rivolta soprattutto contro il Governo appena insediato. Viceversa altri due membri della Knesset, appartenenti all’altra lista araba, la Joint List, si sono lasciati andare a dichiarazioni incendiarie, uno sostenendo che la bandiera palestinese un giorno sventolerà sulle mura di Gerusalemme, l’altro che Gerusalemme sarà un giorno la capitale della Palestina riconquistata. C’è solo da augurarsi che la Sfilata delle Bandiere del 2022 ritorni a essere ciò che era sempre stata, un momento di unità e di festa.

(Pagine ebraiche 24, 17 giugno 2021)


Era davvero unitaria la Sfilata che si faceva gli anni scorsi? Erano davvero uniti “tutti i cittadini ebrei di Gerusalemme”? Anche gli ultraortodossi? E che popolo era quello che si riuniva “per una grande festa di popolo”? Popolo ebraico? Popolo israeliano? Non appena si prova a definire che cos’è l’unità, escono fuori le divisioni. M.C.


La narrativa perdente di chi difende Israele

Le campagne di immagine pro-Israele che presentano una nazione di spiagge assolate e locali notturni sono destinate a far presa su pochi individui.

di Davide Cavaliere

Tutti i conflitti tra Israele e i suoi nemici, siano essi Stati arabi o gruppi terroristici, scatenano ondate di odio antisemita e antisionista. Sono poche le voci sui quotidiani, nei dibattiti televisivi e sui social media schierate con Israele. Fatto ancor più drammatico, molti e sinceri sostenitori dello Stato ebraico impiegano argomenti futili e inefficienti contro le menzogne dei filopalestinesi.
  La canonica campagna in difesa di Israele si risolve in un racconto composto da innovazioni tecnologiche, belle soldatesse in bikini, arabi con cittadinanza israeliana che servono nell’esercito, gay pride, diffusione della dieta vegana tra le truppe e medici ebrei che curano bambini arabi. Il tutto accompagnato dalla più scontata delle affermazioni: “Israele unica democrazia del medioriente”. Una tale narrazione non può che fallire.
  Intanto, richiamarsi alla democrazia è infruttuoso. I nemici di Israele, siano essi di estrema destra, estrema sinistra o islamisti, odiano Israele proprio in quanto democrazia. Dir loro che lo Stato ebraico è liberale e laico significa dargli un buon motivo per continuare a disprezzarlo. Islamisti e neofascisti vedono la democrazia come elemento di decadenza morale, mentre la sinistra radicale la intende come maschera dello sfruttamento capitalista.
  Una narrazione filoisraeliana incentrata sulla libertà, il pluralismo e i diritti umani non può rompere il muro della menzogna perché si appella ai fatti e alla ragione. Al contrario, i terroristi di Hamas e i loro alleati propongono all’opinione pubblica una storia avvincente, che fa leva su passioni rivoluzionarie: Gaza è sotto assedio da parte di Israele, ultima potenza coloniale ancora in vita. Milioni di persone affamate e disperate combattono in ogni modo possibile tra le macerie delle loro case. Sono un mucchio di bugie, ma non importa, sono appassionanti.
  Il problema non è che i terroristi islamici e i loro apologeti mentano, il nemico mente sempre, ma che Israele e i suoi sostenitori non sappiano più raccontare delle storie avvincenti. Hanno sostituito le peripezie dell’avventura sionista con un resoconto sulla prosperità economica e l’avanzamento dei diritti civili. Il ritratto di Israele come società festosa e tollerante, ricca e aperta, è poco più entusiasmante di un opuscolo turistico.
  Tutta l’epopea sionista è ricca di eventi avvincenti. Israele è uno Stato venuto alla luce contro tutte le probabilità. I suoi fondatori lo hanno edificato sfidando l’impero ottomano, quello britannico, il nazismo e le masse arabe. Scavando nel passato si rinvengono vicende di eroi e profughi in fuga, resistenze disperate e idee brillanti.
  Le uniche storie capaci di fare presa su un vasto pubblico sono quelle di lotta. Quando le società che hanno combattuto iniziano a esporre la ricchezza e la tranquillità che hanno ottenuto, dimostrano di avere paura di perderle. Non sempre tale timore rende più risoluti.
  Le campagne di immagine pro-Israele che presentano una nazione di spiagge assolate e locali notturni sono destinate a far presa su pochi individui. È quanto mai necessario raccontare la storia, vera, di milioni di persone che hanno combattuto e combattono per la propria vita contro nemici implacabili. I toni non dovranno essere né concilianti né sfumati, ma netti. Occorre anche parlare della prosperità economica di Israele, ma per opporla, in modo deciso, all’arretratezza araba. Lo Stato ebraico deve prima raccontare la storia di Daniel Gold e del sistema antimissilistico Iron Dome e, solo successivamente, la movida di Tel Aviv.
  Se Israele e i suoi fautori non riescono a narrare la lotta in cui si trovano perché cruda e politicamente scorretta o perché hanno troppa paura di affrontarla, allora non solo non l’affronteranno, ma insinueranno nei loro nemici il sospetto di non essere in grado di vincerla.

(Il Corriere Israelitico, 16 giugno 2021)


Il nodo palestinese è del 1918

Il Medio Oriente viene concesso agli arabi e la Palestina agli ebrei

di Gabriele Amore

Quando si parla del conflitto israelo-palestinese non si può ignorare il contesto storico all'origine di tutto: l'esito della Prima Guerra Mondiale. Nel 1918 ormai in ritirata su tutti i fronti e con l'esercito ridotto a un sesto della forza originaria, all'Impero ottomano non restò altro che trattare la propria resa: il 30 ottobre i suoi rappresentanti siglarono l'armistizio di Mudros e il 13 novembre una forza d'occupazione alleata si stabilì a Costantinopoli. Negli anni successivi, dopo le vicende della guerra d'indipendenza turca, che vede l'ascesa al potere del «padre della Turchia» Kemal Atatürk, con i vari mandati stabiliti dall'allora Società delle Nazioni i Paesi arabi facenti parte dell'Impero ottomano vengono assegnati a Francia e Regno Unito. La Francia ebbe il mandato sulla Siria e sul Libano, mentre il Regno Unito sulla Palestina, la Transgiordania e la Mesopotamia (l'odierno Iraq), seguendo le sfere di influenza definite negli accordi segreti di Sykes-Picot del 1916.
   Con le suddivisioni territoriali, gli Alleati della Prima Guerra Mondiale beneficiavano della vittoria attraverso un controllo diretto o indiretto di ampi territori, in questo caso, anche del Medio Oriente. Lo scopo della Società delle Nazioni era quello di guidare l'economia dei Paesi arabi, promettendo piani di sviluppo per migliorare le già allora precarie condizioni di vita di ampie fette della popolazione.
   La comunità ebraica era già presente in Palestina e nel 1915 contava 83 mila persone. Il progetto «sionista», già teorizzato nel diciannovesimo secolo, mirava a far sì che gli ebrei sparsi per il mondo potessero ritornare ad avere, dopo secoli, una propria nazione. Quando la Palestina fu assegnata al mandato britannico, il Regno Unito decise di avallare il progetto, anche per tenere sotto controllo la presenza araba. Lord Arthur J. Balfour nel 1917 disse: «Il governo di Sua Maestà vede con benevolenza l'istituzione in Palestina di una National Home per il popolo ebraico e farà del suo meglio perché tale fine possa essere raggiunto, rimanendo chiaro che niente deve essere fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina»
   Questo è un punto fondamentale per comprendere l'origine delle ostilità. Il punto di vista ebraico parte proprio da qui: dopo la Prima Guerra Mondiale gli arabi avevano diritto certamente ad avere dei propri Stati, ma in realtà ciò non sarebbe stato individuato nella Palestina, che sarebbe dovuta essere di pertinenza ebraica nella sua integralità. In effetti una versione della bandiera della Palestina durante il mandato britannico aveva impressa la «stella di David», così come appare oggi anche nella bandiera dello Stato di Israele. La possiamo vedere ritratta in una edizione del dizionario Larousse del 1939.
   È importante soffermarsi su questo punto. Gli inglesi avevano certamente promesso delle terre alle popolazioni arabe per aver supportato l'Alleanza nell'attacco decisivo contro gli ottomani, di cui loro stessi erano desiderosi di liberarsi definitivamente, ma anche leggendo la storica dichiarazione di Balfour è la versione ebraica che appare maggiormente avvalorata: l'intero mandato britannico sulla Palestina sarebbe dovuto passare sotto il controllo del popolo ebraico, mentre agli arabi sarebbero spettati gli altri Stati. Sarebbero sorti successivamente infatti il Libano, la Siria, l'Iraq, la Giordania, la stessa Arabia Saudita, tutti Paesi che nei piani dei vari mandati erano già stati assegnati alle popolazioni arabe. Se non si parte da questo dato storico fondamentale non riusciamo a capire perché la Palestina è stata da sempre una terra contesa sia dalle popolazioni ebraiche che da quelle arabe.
   Accade così che dagli 84 mila presenti nel 1922 si arriva a oltre 900 mila ebrei nella Palestina del 1947. La grande immigrazione viene coadiuvata dall'Agenzia ebraica Sochnut) che permetteva anche l'utilizzo di fondi per acquistare i terreni dagli arabi presenti in Palestina, per sistemare così l'arrivo dei nuovi coloni. L'efficace organizzazione spinse le autorità britanniche a consigliare agli arabi di fondare una Agenzia con le stesse finalità, proposta che però fu subito respinta dai leader delle comunità locali. La forte immigrazione non tardò ad alimentare le tensioni con le comunità arabe che si sentivano minacciate dal crescente arrivo dei coloni ebrei. Aggiungiamo pure le scarse risorse presenti e l'aumento della disoccupazione, in particolare tra gli arabi, e il quadro è completo. Nonostante l'Agenzia acquistasse regolarmente le terre dagli arabi, provocandone così l' allontanamento da diverse aree, si andò diffondendo l'idea di una invasione da parte degli ebrei in una terra la quale venne regolarmente assegnata dagli accordi successivi alla Prima Guerra Mondiale.
   Il sionismo ha fatto certamente comodo agli inglesi, che vedevano negli ebrei una presenza rassicurante in Medio Oriente, come baluardo e argine alla espansione araba. La proposta dei due Stati in Palestina in realtà nasce solo successivamente, lì dove fallisce il progetto di un unico Stato che avrebbe dovuto essere il perfetto continuum del mandato britannico, senza alterarne i confini. In sostanza gli arabi ivi presenti, certamente garantiti nei diritti civili e religiosi, avrebbero dovuto lasciarsi governare dalla comunità ebraica come in parte accade oggi nell'attuale Stato di Israele. Agli arabi sarebbe rimasto il governo diretto di tutti gli altri Stati sorti dalla caduta dell'Impero ottomano. Il popolo ebraico viene visto invece come una minaccia esistenziale da parte delle comunità arabe dall'accettazione si passa rapidamente al loro rifiuto. I nuovi assetti geopolitici in Medio Oriente sorti dalla Prima Guerra Mondiale furono quindi rifiutati dagli arabi. La Palestina divenne così il vero oggetto di scambio, quella eterna terra promessa sempre negata ad un popolo fiero ed orgoglioso delle sue origini e della sua storia.

(Atlantico Quotidiano, giugno 2021)


Lancio di palloni incendiari dalla Striscia di Gaza e risposta israeliana

Dopo meno di un mese dall'entrata in vigore della tregua

TEL AVIV - Dopo il cessate il fuoco del 21- maggio che ha messo fine a undici giorni di guerra, ieri sera sono avvenuti numerosi lanci di palloni incendiari dalla Striscia di Gaza verso il Sud di Israele e, nella notte, i caccia israeliani hanno colpito siti a est della città di Khan Younis e altri a Gaza. Secondo Israele, i jet da combattimento «hanno colpito complessi militari» appartenenti a gruppi palestinesi, in particolare «strutture e luoghi di incontro» delle Brigate alQassam. Sono state colpite diverse strutture appartenenti ad Hamas, il gruppo palestinese che controlla la Striscia di Gaza, considerato una organizzazione terroristica da molti Paesi. Non sono state segnalate vittime. Secondo le autorità israeliane, il lancio di palloni incendiari ha provocato più di 25 incendi nel Sud del Paese, senza però causare feriti.
  Questa risposta militare di Israele contro gli attacchi da Gaza è la prima dopo l'insediamento del nuovo governo di coalizione guidato da Naftali Bennett. Droni da ricognizione dell'esercito hanno sorvolato il territorio palestinese intorno a mezzanotte e successivamente sono state udite le esplosioni. L'esercito israeliano è «pronto a ogni scenario, compresa la ripresa delle ostilità a fronte delle continue attività terroristiche dalla Striscia» stando a quanto afferma un portavoce militare. «L'organizzazione terroristica di Hamas — ha spiegato il portavoce — è responsabile di tutti gli atti che originano dalla Striscia e porta le conseguenze per le sue azioni». Nei raid sono state colpite «strutture militari di Hamas usate come depositi e punti di raccolta per operativi terroristici a Khan Yunis e delle Brigate Gaza. Gli obiettivi colpiti erano usati per attività terroristiche».
  Come accennato, i militanti di Hamas avevano lanciato decine di palloni incendiari per protestare contro la cosiddetta "Marcia delle bandiere", una manifestazione che ha visto almeno cinquemila ultranazionalisti israeliani marciare a Gerusalemme est. La marcia, che ha attraversato la Città Vecchia, ma non il quartiere musulmano, per poi concludersi nell'area del Muro Occidentale, voleva ricordare la "giornata di Gerusalemme" che segna per gli israeliani la "riunificazione" della città nel 1967. Per i palestinesi, invece, questa giornata rappresenta l'occupazione di Gerusalemme est.
  La marcia, che in precedenza era stata rinviata due volte per motivi di ordine pubblico, si è svolta in un clima di relativa calma. Si sono tuttavia registrati alcuni episodi isolati, soprattutto da parte di giovani palestinesi. Questi si sono rifiutati di rispettare gli ordini della polizia, che ha cercato di disperderli prima e durante la marcia. Negli incidenti che ne sono scaturiti, 33 palestinesi sono rimasti leggermente feriti. Anche due agenti israeliani sono rimasti feriti nei lanci di pietre contro la polizia, che ha arrestato 17 persone.

(L'Osservatore Romano, 17 giugno 2021)


Bennett, la prima mossa. Notte di raid anti Hamas contro i palloni di fuoco

Scintille nel governo per la marcia delle bandiere. I nazionalisti: "Morte agli arabi"

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — Non è trascorso nemmeno un mese dalla firma del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, ma già si rinnovano le tensioni con cui le parti testano i parametri della nuova deterrenza, mentre i mediatori egiziani sono ancora al lavoro per consolidare la tregua. Si tratta anche del primo test per il nuovo governo di unità nazionale del premier Naftali Bennett, insediatosi domenica. Martedì, in vista della parata delle bandiere che ha sfilato in serata a Gerusalemme, sono scoppiati una ventina di incendi nel sud d’Israele causati dal lancio di palloni incendiari da parte di Hamas. In risposta, nella notte l’esercito israeliano ha effettuato una serie di attacchi aerei nella Striscia di Gaza, colpendo strutture militari di Hamas. Il portavoce dell’Idf ha precisato che l’«esercito è pronto ad affrontare tutti gli scenari, inclusa la ripresa delle ostilità». I raid sono arrivati al termine di una giornata di crescente tensione intorno alla manifestazione a Gerusalemme confermata dalla nuova coalizione, dopo che era stata posticipata dal governo uscente. Circa 5mila persone hanno sfilato in un tragitto diverso da quello con cui ogni anno celebrano la cattura della parte orientale della città dai giordani a seguito della guerra dei Sei giorni, ripercorrendo il percorso dei soldati israeliani fino al cuore della città vecchia nel 1967. La marcia era stata riprogrammata dopo che il 10 maggio, durante il Giorno di Gerusalemme, era stata interrotta dal lancio dei missili di Hamas.
  La richiesta di ripristinare la marcia è stata il primo banco di prova del nuovo governo Bennett. Mansour Abbas, leader del partito islamico Ra’am che sostiene la coalizione, ha detto che la marcia è una provocazione e approvarla è stato un errore. Alcuni manifestanti, legati al partito della destra nazionalista Sionismo religioso, hanno attaccato il nuovo premier per aver aderito a un governo con la sinistra e un partito arabo. Sono gli stessi manifestanti che hanno intonato "morte agli arabi" e altri cori razzisti, cercando di aizzare scontri con giornalisti e attivisti palestinesi presenti alla porta di Damasco. A poche centinaia di metri da lì, ci sono stati scontri tra manifestanti palestinesi e la polizia.
  Il ministro degli Esteri e premier alternato Yair Lapid ha difeso la decisione di autorizzare la manifestazione, elogiando il ministro della Sicurezza interna, ma ha condannato duramente i cori razzisti. «È inconcepibile che si possa sfilare con la bandiera d’Israele gridando al contempo ‘morte agli arabi’. Queste persone sono una vergogna per il popolo d’Israele», ha twittato. Il primo ministro Bennett non si è espresso pubblicamente, ma l’autorizzazione dei raid aerei a Gaza dice molto: raramente in passato Israele ha risposto agli ordigni incendiari lanciati da Hamas, mentre il neo-premier ha sempre sostenuto che «ai palloni incendiari si risponde come ai razzi». Hamas canta vittoria. Il portavoce da Gaza, Fawzi Barhoum, ha espresso soddisfazione perché «le azioni della resistenza hanno portato l’occupazione a cambiare il tragitto della marcia delle bandiere, a deviare le rotte dei voli e a dispiegare batterie di Iron Dome: tutto dimostra il nostro successo nell’imporre nuovi parametri nel confronto».

(la Repubblica, 17 giugno 2021)


Ra’am, un partito arabo nel governo israeliano

di Francesco Petronella

C’è una novità importante nel primo esecutivo di Israele senza Benjamin Netanyahu, esautorato dopo dodici anni ininterrotti di governo. Quella formata da Yair Lapid – incaricato di formare il nuovo governo ‒ è certamente una compagine complessa e, per certi versi, inorganica, di cui fanno parte partiti di destra come Yisrael Beiteinu e Yamina (il cui leader Naftali Bennett sarà premier), i centristi di Yesh Atid, Kahol Lavan, New Hope e partiti del centrosinistra come il Labour e Meretz. Ma la vera novità sta nella presenza, tra le forze politiche che sostengono l’esecutivo, del partito arabo Ra’am.
  Si tratta di uno dei movimenti che rappresentano i cittadini arabi di Israele, detti anche arabi israeliani o arabi del ’48 (in riferimento al fatto che dopo la nascita dello Stato ebraico nel 1948 sono rimasti entro i suoi confini e non sono finiti a vivere come rifugiati in Cisgiordania e nei Paesi arabi limitrofi). In un sistema elettorale proporzionale puro come quello di Israele è fisiologico che si formino alleanze composite tra partiti anche molto piccoli per ottenere la maggioranza alla Knesset, il Parlamento monocamerale di Gerusalemme. Nondimeno, il caso di Ra’am e del suo leader Mansour Abbas assume caratteristiche del tutto particolari.
  Il nome ufficiale del partito è Lista araba unita, ma è significativo che sia più noto con la dicitura in ebraico Ra’am (HaReshima HaAravit HaMe'uhedet). I partiti arabi in Israele rappresentano in teoria le istanze di 1.890.000 persone di nazionalità palestinese e cittadinanza israeliana, pari al 20,95% della popolazione totale dello Stato ebraico. Ra’am si inserisce nella storia di questi partiti, che iniziò nel momento in cui gli arabi in Israele decisero di partecipare attivamente alla vita politica dello Stato ebraico, operazione giudicata come negativa da altri, in quanto va implicitamente a legittimare lo Stato sionista. Nella storia della partecipazione araba alla politica dello Stato ebraico, tanto per dirne una, si inserisce anche il poeta nazionale palestinese Mahmoud Darwish, membro negli anni Cinquanta di Rakah (HaMiflega HaKomunistit HaYisra'elit), il Partito comunista israeliano.
  Quanto a Ra’am, il movimento vide la luce nel 1996 in un’alleanza elettorale con il Partito democratico arabo e la fazione meridionale del Movimento islamico, lo storico partito degli arabi musulmani in Israele la cui branca settentrionale è considerata più estremista (bandita dalla Knesset nel 2015 per la sua vicinanza a Hamas e alla Fratellanza musulmana). Negli ultimi due anni, Israele ha assistito a ben quattro tornate elettorali – nonostante la pandemia di Covid-19 – conclusesi con il primo governo anti-Netanyahu in 12 anni.
  Mansour Abbas, pragmatico leader di Ra’am, è un dentista originario di Maghar, nel cuore della Galilea. L’ascesa di Ra’am al governo è in gran parte frutto della sua personale spregiudicatezza, tale da non impedirgli di dialogare con leader sionisti intransigenti come Bennett. Secondo le indiscrezioni, nella fitta trama politica per le nomine nell’esecutivo e nel sottobosco governativo, Abbas punta ad ottenere la presidenza della Commissione Affari interni e Ambiente della Knesset, dove potrà agire su dossier considerati centrali come le politiche abitative e le demolizioni. Prima del voto di fiducia al nuovo governo, domenica 13 giugno 2021, Abbas ha pronunciato un discorso di fronte al Parlamento in cui ha definito con chiarezza la linea che intende adottare.
  Il leader di Ra’am ha promesso di reclamare la terra che è stata “espropriata” dagli arabi israeliani. «Reclameremo le terre che sono state espropriate al nostro popolo, questa è una causa nazionale di primo piano», ha detto Abbas in arabo, cosa che la legge israeliana gli consente dal momento che l’arabo è la seconda lingua ufficiale dello Stato. Passando all’ebraico, poi, ha osservato che «veniamo da nazioni diverse, religioni diverse e settori diversi. C’è una cosa che unisce tutti i cittadini di Israele ed è la cittadinanza».
  Sembrerebbero parole di un leader moderato, che riconosce in toto l’appartenenza della comunità araba a Israele. Ciononostante, vale la pena sottolineare che a livello ideologico Ra’am si colloca su posizioni conservatrici e vicine all’Islam politico e questo ne fa una sorta di “cugino di secondo grado” del movimento palestinese Hamas, che è innanzitutto un partito (anche se dotato di un’ala militare). Abbas è stato oggetto di aspre critiche all’interno del mondo arabo-islamico, soprattutto a mezzo stampa. Il quotidiano saudita Arab News vede nell’ingresso di Ra’am al governo di Israele una chiara dimostrazione della spregiudicatezza della Fratellanza musulmana e dei movimenti politici da essa discendenti nel cercare il potere a tutti i costi. Anche in uno Stato come Israele «la cui legittimità, e persino il diritto di esistere, è ancora così pesantemente contestata in gran parte del mondo arabo e musulmano», si legge sul quotidiano di Riyad.
  Il sito Middle East Eye, che adotta posizioni progressiste, critica Abbas definendolo «un’icona per i sostenitori del colonialismo israeliano», cioè il leader che, accettando di far parte del governo, ha legittimato le politiche dure e di occupazione sposate da molti altri esponenti della stessa coalizione (come ad esempio Ayelet Shaked, del partito Yamina).
  Non è facile capire quale piega prenderanno gli eventi, ma i numeri con cui il governo Lapid-Bennett è venuto alla luce parlano chiaro: i voti di Ra’am sono fondamentali per la tenuta dell’esecutivo e questo dà a Ra’am una leva negoziale piuttosto importante nelle future dinamiche politiche. Ciononostante, fuori dai corridoi della Knesset, molti arabi in Israele e, soprattutto, nei territori palestinesi, continuano a contestare l’opportunità stessa che un partito arabo prenda parte ad un esecutivo del genere, considerata soprattutto la sua nutrita componente sionista e nazionalista.

(Treccani, 17 giugno 2021)


Procuratore Capo del Tribunale Penale Internazionale sotto pressione per inquisire Israele

Karim Asad Ahmad Khan prende il posto di Fatou Bensouda alla guida della Corte Penale Internazionale ma il discorso non cambia. L’importante è sempre attaccare Israele

di Franco Londei

Ieri Karim Asad Ahmad Khan è diventato il nuovo Procuratore Capo del Tribunale Penale Internazionale (TPI). Prende il posto della discussa e discutibile Fatou Bensouda.
Karim Asad Ahmad Khan è un avvocato britannico specialista in diritto penale internazionale e diritto internazionale dei diritti umani e già dal suo primo giorno è sotto pressione per incriminare Israele per crimini di guerra.
La “grande” stampa ha chiesto sin da subito che il nuovo Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale segua le orme del suo predecessore è che proceda contro lo Stato Ebraico colpevole di legittima difesa.
Perché è questo il vero crimine di cui viene accusato Israele, quello di essersi difeso dagli attacchi di gruppi terroristici che vogliono il suo totale annientamento.
Secondo la “grande” stampa dopo l’ultimo conflitto tra Israele e Hamas il nuovo Procuratore Capo del TPI ha in mano le prove che Israele ha compiuto crimini di guerra.
Israele avrebbe deliberatamente bombardato edifici civili e annientato intere famiglie palestinesi. Non c’è nessun accenno al fatto che Hamas usi proprio questi edifici civili per nascondere i suo arsenali e che le famiglie che li abitano ne sono perfettamente consapevoli.
Non c’è nessun accenno al fatto che Hamas posizioni deliberatamente i lanciatori di missili in mezzo a obiettivi civili e che gli abitanti di quegli edifici sono perfettamente consapevoli del rischio che corrono ma li lasciano fare.
Secondo questi “esperti” di Diritto Internazionale queste cose vanno bene se a farle è un gruppo terrorista e Israele non dovrebbe quindi difendersi da questi attacchi.
Secondo questi “esperti” di Diritto Internazionale non è Hamas che dovrebbe essere accusato di crimini di guerra per usare i civili come scudi umani, per di più mentre attacca in maniera deliberata obiettivi civili con l’intenzione di farne strage.
Ormai il Tribunale Penale Internazionale è diventato come il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, diretto persino da Sauditi e Iraniani che vive solo per attaccare Israele mentre le violazioni dei Diritti Umani nel mondo proliferano.
E c’è da stare certi che Karim Asad Ahmad Khan non si farà pregare per inquisire Israele con le accuse più grave e infamanti, accuse false, ma in fondo cosa conta? L’importante è accusare Israele.

(Rights Reporter, 17 giugno 2021)


Così l'orrore delle leggi razziali mise al bando gli avvocati ebrei

Con la legge numero 1054 del 29 giugno 1939 sulla "disciplina dell'esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica" il regime completò la sua opera di persecuzione. Oggi l'iniziativa presso l'Ordine degli avvocati di Padova che ha voluto ricordare con una targa celebrativa i 15 colleghi radiati per effetto della normativa antiebraica.

di Francesca Spasiano

C'è una parte di storia rimossa che si può ancora salvare dall'oblio per tentare di riparare al torto più grande. È la storia, questa, che più di ottanta anni fa sconvolse il destino di centinaia di avvocati ebrei che nell'Italia fascista furono discriminati, perseguitati e infine banditi dalla professione per motivi razziali e religiosi.
   La loro vicenda è pressoché ignota, perduta tra le pagine buie del secolo scorso. Solo più di recente testimonianze e documenti dell'epoca sono tornati oggetto di studio e motivo di riflessione per chi doverosamente ancora si interroga sulla più grave lacerazione dei principi fondamentali dello Stato di diritto prodotta dalla normativa antiebraica. Per effetto di quelle leggi «abominevoli», per dirla con Piero Calamandrei, anche l'avvocatura si conformò all'indifferenza della società civile, contribuendo in parte alle persecuzioni perpetrate dal regime ai danni dei professionisti ebrei. Lo racconta bene il volume a cura di Antonella Meniconi e Marcello Pezzetti "Razza e inGiustizia: gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche", promosso nel 2018 dal Consiglio Superiore della Magistratura e dal Consiglio Nazionale Forense, con la partecipazione del Senato della Repubblica e dell'Unione delle Comunità Ebraiche, al fine di recuperare la memoria di quegli anni.
   In questo spirito si inserisce anche l'iniziativa dell'Ordine degli avvocati di Padova, che ha voluto ricordare con una targa celebrativa, affissa all'interno del Tribunale, i colleghi ebrei radiati dall'Albo per effetto delle leggi razziali del 1939. Si tratta di 15 avvocati - sui 187 che risultavano iscritti all'Ordine nel 1938-i cui nominativi sono stati individuati attraverso un'attività di ricerca sui verbali del Consiglio Direttivo di quegli anni: per cancellare la loro esistenza bastò un tratto di penna e l'apposizione della parola "ebreo" accanto al nome. Il graduale, ma inesorabile, processo di discriminazione avviato dalla propaganda fascista con il Manifesto della razza del 1938 culminò per gli avvocati ebrei nell'impossibilità di svolgere l'attività forense con la legge numero 1054 del 29 giugno 1939 sulla "Disciplina dell'esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica". La norma obbligava a denunciare la propria appartenenza alla "razza ebraica" entro 20 giorni dall'entrata in vigore della legge, pena l'arresto fino a un mese o l'ammenda, e sanciva la fine del libero esercizio della professione costituendo tre distinti Albi. Per primo, quello degli avvocati e procuratori di razza ariana, liberi di svolgere la propria attività. Per gli avvocati di razza ebraica, invece, la legge prescriveva l'iscrizione in "elenchi aggiunti", qualora avessero «ottenuto la discriminazione»: cioè la possibilità di esercitare con alcune limitazioni. In ultimo, gli avvocati ebrei «non discriminati» che rientravano negli "elenchi speciali" e potevano esercitare esclusivamente in favore di cittadini ebrei.
   Affinché simili aberrazioni non si ripetano «mai più», l'Ordine di Padova ha «deciso di riparare una ferita dolorosa della propria storia, riportando alla memoria dei propri iscritti quanto avvenuto, anche nella nostra Città, in un passato che appare lontano, ma che pericolosamente getta le sue ombre in un presente difficile e spesso caratterizzato da improvvise ventate di odio». Con lo stesso fine, il Coa ha deciso di commissionare e collocare all'interno della sala conferenze dell'Ordine un nuovo busto dedicato all'avvocato Giacomo Levi Civita: patriota, combattente agli ordini di Giuseppe Garibaldi in Aspromonte, senatore del Regno, già presidente del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Padova, e sindaco della città dal 1904 al 1910. Il suo busto si trovava all'interno della sede del Consiglio dell'Ordine, ma fu rimosso nel 1939, e poi se ne persero le tracce, perché, si suppone, Levi Civita era ebreo e le leggi razziali non ne consentivano la conservazione. Sia il busto che la targa, con incisi i nomi dei 15 avvocati espulsi, saranno scoperti oggi durante una solenne cerimonia che si terrà presso la sala conferenze dell'Ordine alla presenza di numerose autorità cittadine e del mondo giudiziario padovano e veneto.

(Il Dubbio, 17 giugno 2021)


Da Rodi a Girifalco: la storia di Moshe morto nel manicomio

I nipoti sono arrivati a Girifalco per scoprire dove riposa il loro compianto bisnonno. La nonna è sopravvissuta ad Auschwitz.

Edoardo e Giuseppe non erano mai venuti in Calabria. Arrivano a Girifalco ieri. In un caldo pomeriggio di giugno. Zaino in spalla e kippah in testa. Sono ebrei, la loro famiglia lo è. Da mesi preparano il loro viaggio nel comune delle preserre. Hanno contattato gli uffici del Comune e, ieri, ci sono arrivati. Edoardo arriva da Roma. Giuseppe da Tel Aviv, dove vive da ormai qualche anno. In Calabria ci sono venuti per scrivere le pagine di vita del bisnonno rimaste vuote per troppo tempo.
  Lo fanno perché la nonna è anziana ed ha un desiderio: scoprire dove riposa il povero padre, il bisnonno di Edoardo e Giuseppe.
  I due giovani sono riusciti a recuperare la cartella clinica di Moshe, così si chiamava il loro bisnonno. Conoscono la data della morte: 30 settembre 1943, tre anni dopo il suo arrivo a Girifalco. Nell’ospedale psichiatrico.
  Moshe viene imbarcato su una nave perché depresso. Faceva il falegname a Rodi ma quando la sinagoga di famiglia viene chiusa, il giovane uomo sprofonda nel dolore più cupo. I genitori gli mettono tra le mani un libro di preghiere e lo mandano in Italia, in Calabria, a Girifalco. Nell’ospedale psichiatrico. Ci resta solo tre anni. Muore a poco meno di 60 anni. Nel 1944 gli ebrei della comunità ebraica di Rodi vengono deportati dai nazisti e la stragrande maggioranza muore nelle camere a gas di Birkenau.
  La moglie di Moshe e i figli vengono rinchiusi nel campo di concentramento; la donna muore in una camera a gas, i figli sopravvivono. Tra questi bambini, sopravvissuti al lager, c’è la nonna di Edoardo e Giuseppe.
  I due giovani le vogliono fare un regalo: dare l’ultimo saluto a Moshe nel luogo lì, dove nel lontano 1943, è stato sepolto. Arrivano a Girifalco nel primo pomeriggio. Visitano il cimitero, si fermano all’ossario e pregano. Promettono di ritornare presto a Girifalco per omaggiare, ulteriormente, la memoria del bisnonno. Alle 18 si rimettono in auto, qualche ora dopo mandano un messaggio all’Amministrazione Comunale.
  Il messaggio viene pubblicato sui profili social dell’Ente. Nella prima parte si parla del passato, nella seconda del presente:
    “Oggi – scrivono Edoardo e Giuseppe – abbiamo ripercorso i passi di Moshe, il nostro bisnonno, abbiamo visitato i luoghi in cui ha passato gli ultimi anni della sua vita e abbiamo cercato la sua tomba. Purtroppo, troppo tempo è passato, ma siamo riusciti a dire una preghiera presso l’ossario dove i suoi resti verosimilmente riposano. Un grazie di cuore per tutto l’aiuto va alla dott.ssa Delia Ielapi e alla dott.ssa Alessia Burdino che ci hanno accompagnato passo passo. E grazie a tutta la comunità di Girifalco che abbiamo potuto incontrare nella persona del sindaco dott. Pietrantonio Cristofaro. Grazie per l’accoglienza e l’attenzione dedicataci e per essersi presi cura tanti anni fa del nostro bisnonno quando era più fragile”.
(Catanzaroinforma, 17 giugno 2021)


«Netanyahu non c'è ma cambierà poco»

Intervista a Uzi Rabi. La coalizione guidata da Bennet e Lapid è fragile, rischierà il crollo ogni giorno

di Daniel Mosseri

Israele si cambia. Esce Benjamin Netanyahu e il suo Likud di solito sostenuto dai partiti ultraortodossi e nazionalisti, ed entra in scena Naftali Bennet, il primo premier israeliano con la kippah in testa. Leader dei nazionalisti religiosi (ma non ultraortodossi) della Nuova Destra, Bennet si porta dietro i nazionalisti russi mangiarabbini di Avigdor Lleberman, i nazionalisti di Yamina, i centristi di Yair Lapid, una costola del Likud, i laburisti, la sinistra arcobaleno, e una rappresentanza dei Fratelli musulmani guidati dal deputato arabo Mansour Abbas con tanti saluti alle accuse di apartheid. Un governo-macedonia con un ministro arabo, uno druso, tante donne, fra le quali una ministra disabile, e un ministro apertamente gay. Al professor Uzi Rabi, direttore del Moshe Dayan Center for Middle Eastern Studies dell'Università di Tel Aviv, abbiamo chiesto se e come cambia l'approccio del nuovo gabinetto nei rapporti con i palestinesi.
   «La tattica forse, non certo la strategia. Chi crede che questo esecutivo abbia la bacchetta magica per risolvere i problemi con Hamas si illude. Pensi alla marcia delle bandiere in programma oggi (ieri, ndr) a Gerusalemme: alle minacce di Hamas, Bennet ha risposto ridispiegando l'Iron Dome e allertando le forze armate».

- Quali saranno le novità?
  «Non escludo che questo governo, che è molto più fragile di quello precedente, possa raggiungere con Hamas un accordo sullo scambio dei prigionieri (Hamas trattiene le salme di due soldati delle lsraeli Defense Forces caduti nel 2014, e tiene prigionieri due civili israeliani: uno arabo e un israeliano nato in Etiopia, ndr). Allo stesso tempo temo che un esecutivo che si regge anche sull'appoggio di un partito arabo possa cadere alle prime avvisaglie di un conflitto con il movimento islamico che controlla la Striscia di Gaza. La vera differenza con i governi di Netanyahu è che la tenuta del gabinetto Bennet-Lapid verrà testata giorno per giorno».

-Gli accordi di Abramo firmati da Netanyahu con l'aiuto di Trump terranno?
  «È paradossale che questi accordi siano stati firmati con governi del Golfo che combattono contro la Fratellanza musulmana, un cui rappresentante oggi sostiene il governo d'Israele. Queste intese non sono però basate su simpatie personali ma su comuni interessi strategici (il contenimento dell'Iran e lo sviluppo nella regione, ndr). Netanyahu è uscito di scena, questi interessi no».

Libero, 16 giugno 2021)


Scontri alla Marcia nazionalista. Ma il governo di Bennett supera il primo «test»

di Luca Geronico

Già nel primo pomeriggio si erano registrati degli scontri al confine con la Striscia di Gaza tra militari israeliani e palestinesi. Un primo segno di tensione, nel giorno della Marcia delle Bandiere: i soldati hanno sparato lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere i manifestanti e, secondo quanto riferisce la stampa locale, ferendone leggermente uno alla gamba. Il lancio di palloni incendiari dall’enclave palestinese, sempre in giornata, definita dai miliziani palestinesi «una risposta iniziale», ha provocato incendi nel sud dello Stato ebraico. Questo mentre l'esercito è in allerta rafforzata in Cisgiordania e lungo la linea di separazione con la Striscia di Gaza e le batterie del sistema antimissile Iron Dome sono state viste dispiegate nella città meridionale di Netivot.
  Doveva essere il primo esame sul terreno, per il nuovo esecutivo di Naftali Bennett e, nonostante tafferugli violenti, la piazza è stata contenuta. Era stato il leader di Ràam, Mansour Abbas, partito arabo tra i sostenitori del nuovo esecutivo, a definire la Marcia delle Bandiere «una provocazione sfrenata, un tentativo di appiccare il fuoco alla regione per scopi politici». «Non c'è dubbio che l'obiettivo degli organizzatori della parata è di mettere alla prova il nuovo governo e logorarlo con una serie di eventi esplosivi nel prossimo futuro», ha affermato il capo del partito islamico.
  L’inizio della marcia, nel tardo pomeriggio, è avvenuto tra severe misure di sicurezza: duemila gli agenti schierati lungo il percorso che hanno bloccato il traffico ed eretto transenne. La marcia - indetta per celebrare la unificazione israeliana dei due settori di Gerusalemme avvenuta dopo la guerra dei sei giorni (1967) - erano presenti circa 5mila partecipanti: tra loro pure deputati della destra religiosa e alcuni del Likud. Prima del loro arrivo sono iniziati gli incidenti con i dimostranti palestinesi che, tenuti lontano dal luogo da un fitto cordone di poliziotti, protestavano contro l'iniziativa.
  Un paio di ore dopo le immagini, diffuse sui social, mostravano manifestanti che si scontravano con le forze dell'ordine: otto i palestinesi arrestati, almeno 33 i feriti in violenti tafferugli scoppiati due ore dopo l'inizio della marcia. Una cinquantina di giovani ebrei, secondo i media palestinesi, hanno visitato la spianata delle moschee, mentre il palazzo del ministero della Giustizia, a Gerusalemme Est, è stato colpito dal lancio di pietre.
  Dopo aver a lungo sventolato le bandiere israeliane la polizia ha cominciato a premere perché i manifestanti, come concordato, si incamminassero verso la Porta di Giaffa, ingresso nella parte cristiana e armena della Città Vecchia. Da qui il corteo si è diretto verso il Muro del Pianto fra non pochi slogan nazionalisti - «Morte agli arabi» e «Gerusalemme è nostra» - oltre che contro il premier Bennett accusato in alcuni cartelloni di essere un «bugiardo». La parata nazionalista, originariamente prevista per il 10 maggio quest'anno era già stata rinviata due volte. Un’iniziativa prevede che i manifestanti, sventolando bandiere israeliane, sfilino dalla Porta di Damasco per entrare a Gerusalemme Est, la parte della città che le risoluzioni delle Nazioni Unite hanno assegnato all'amministrazione palestinese e sono abitate in maggioranza da famiglie arabe.
  Hamas lunedì sera aveva avvertito che la manifestazione ultra-nazionalista ebraica «è come esplosivo che causerà una nuova campagna per proteggere Gerusalemme e la moschea al-Aqsa». La marcia ha pure sfiorato il quartiere di Sheikh Jarrah, dove i tentativi della magistratura israeliana di confiscare case a famiglie palestinesi per consegnarle a cittadini israeliani, è stata tra le cause dei disordini del mese scorso a Gerusalemme e del successivo conflitto nella Striscia di Gaza.

(Avvenire, 16 giugno 2021)


Palestinesi al governo del Paese che si descrive loro sopraffattore

di Andrea Molle

Con l'alleanza tra la destra del partito Yamina, il centro laico rappresentato da Yesh Atid e gli arabi Islamisti moderati di Raam si conclude il regno di Benjamin Netanyahu. La fine di una leadership durata 12 anni, permette ad Israele di aggiungersi alla lista dei paesi mediorientali nei quali una minoranza religiosa siede al governo del Paese.
Una lista così esclusiva che al momento non contiene nessun altro paese. Un evento inaspettato per la giovane democrazia che si aggiunge alla già impressionante serie di unicità dello Stato Ebraico.
  Tutte caratteristiche che ne fanno il principale nemico di una certa sinistra, che quanto ad antisemitismo ha forse troppo in comune con l'estremismo di destra. Vediamo di elencarne alcune, in modo volutamente ironico.
Prima di tutto, ça va sans dire, essere l'unica nazione al mondo accusata di occupare illegalmente un territorio nel quale il suo popolo, quello ebraico, vive da migliaia di anni ma che, ovviamente, non ha alcun diritto all'autodeterminazione.
  Secondo, il fatto di essere l'unico paese nella storia umana che ha creato una forma di apartheid così brutale che le minoranze hanno addirittura pieni diritti civili e persino una forte rappresentanza politica.
  Terzo, la curiosa caratteristica di essere l'unico Stato al mondo che abbia mai operato un genocidio così scientifico ai danni di un'altra popolazione, quella Palestinese, da ottenere il risultato di farla crescere in modo costante negli anni nella misura media del 2%.
Infine, avere l'ardire di offrire assistenza sanitaria agli occupati e persino garantire protezione contro Hamas alle donne vittime di abusi o alla minoranza LGTBQ+ oggetto continuo di violente persecuzioni.
  Tutto in barba al sacrosanto sovrano diritto dell'estremismo islamista, che governa di fatto i territori sotto controllo palestinese, di imporre la legge coranica.
Tutto questo mentre le forze di difesa di Tel Aviv, lo Tzahal, si permettono di avvisare la popolazione civile della Striscia di Gaza prima di un attacco aereo volto a eliminare la minaccia terroristica limitando il più possibile i danni collaterali. Un atto che rende difficile l'uso di scudi umani e gli abusi continui che i benpensanti fingono di non vedere.
  Insomma, se le cose stanno così: o Israele, che di errori in questo conflitto ne ha fatti molti, è incapace di essere uno stato criminale oppure i conti non tornano e i criminali, almeno a livello ideologico, sono altri.

(ItaliaOggi, 16 giugno 2021)


Islam e antisemitismo tedeschi

Per gli ebrei, gli aggressori sono in gran parte musulmani. Lo Stato, per quieto vivere, in genere tende a attribuire la violenza antisemita agli estremisti. In alcuni casi si giunge al paradosso di non criticare o denunciare gli atti compiuti dagli immigrati islamici per timore di essere accusati di razzismo.

di Roberto Giardina

Il 90% degli atti di antisemitismo è compiuto dagli estremisti di destra. Lo ha affermato il Bundeskriminalamt, l'ufficio federale per la criminalità, un dato ufficiale e dunque attendibile. Invece è falso, basta chiederlo agli ebrei vittime di aggressioni: in gran parte i colpevoli sono musulmani. Perché si vuole relativizzare e occultare l'antisemitismo degli immigrati islamici?
  I ministri degli interni della Nord-Renania Westfalia e del Baden Württemberg hanno riconosciuto il problema e hanno chiesto di analizzare l'antisemitismo a livello nazionale con più rigore e precisione. Se non è possibile identificare il colpevole, l'atto non dovrebbe essere attribuito automaticamente all'estremismo di destra.
  Ovviamente, gli aggressori sono anche tedeschi. Gli antisemiti in Germania sarebbero intorno al 20%, sempre troppi, ma nella media europea. E non sono tutti elettori dell'AfD, il partito dell'estrema destra.
  C'è un antisemitismo di sinistra che si manifesta negli attacchi a Israele.
  Le critiche possono essere fondate, ma dipende: non si può accusare ad esempio gli israeliani di compiere un genocidio, come i nazisti, a danno dei palestinesi. Negli ultimi trent'anni si sono triplicati. Se si commenta che finita l’era di Benjamin Netanyahu si potrà giungere alla pace, si insinua che fosse lui l'unico ostacolo, dimenticando Hamas.
  «Se proibiamo giustamente le manifestazioni dei neonazi, dovremmo logicamente proibire anche quelle degli islamisti», hanno sostenuto i ministri degli interni dei due Länder. Le statistiche vengono manipolate per dare l'impressione che l'antisemitismo dei musulmani sia una bagatelle.
  Secondo un'altra statistica, che tiene conto delle dichiarazioni delle vittime, il 62% delle offese verbali, e l’81% delle violenze fisiche è opera di musulmani. E questo dimostra, ha commentato Die Welt che nei rapporti della polizia, valutati dal Bundeskriminalamt, non si è ritenuto di dover tener conto delle testimonianze degli ebrei.
  Se a una manifestazione pro palestinesi, si grida Heil Hitler e non viene identificato il responsabile, il fatto viene registrato semplicemente come «di estrema destra». Le aggressioni a scuola a danno degli studenti ebrei non vengono denunciate da professori e presidi, e considerate «normali litigi tra ragazzi». Lo ha denunciato Uffa Jensen, vicedirettore del centro di ricerca sull'antisemitismo.
  Si giunge al paradosso di non criticare o denunciare gli atti degli immigrati musulmani per il timore di essere accusati di islamofobia, di razzismo. Ma si può avere paura di qualcuno o di qualcosa, sia pure irrazionalmente, senza essere razzisti.
  Fino a pochi anni fa, farsi riconoscere come ebreo per le strade di Berlino, non era un rischio, nonostante che i musulmani, in gran parte turchi, fossero oltre il 10% della popolazione. La situazione è cambiata dal 2015, con l'arrivo in pochi mesi di oltre un milione di profughi, non tutti siriani, come si vuole continuare a credere. Da quella data, inizia l'avanzata dell'Afd che, da meno del 5%, ha quasi triplicato i voti, e nelle regioni della ex Ddr, è diventato il secondo partito.
  Ci sono ovviamente anche altri motivi, e molti votano per protesta contro il governo federale, ma già a rivelare questa coincidenza si rischia l'accusa di antislamismo.
  Secondo un sondaggio, per il 43% dei tedeschi, non solo quelli della ex Germania Est, è l'AfD, il partito che si preoccupa del problema dell'immigrazione islamica, più di tutti gli altri partiti messi insieme, i cristianodemocratici giungono al 21%, i socialdemocratici al 9%, i verdi al 5%.
  Se si vuole bloccare il partito dell'estrema destra, bisognerebbe tenerne conto, e non accusare genericamente di razzismo i tedeschi orientali.

(ItaliaOggi, 16 giugno 2021)


L’ingegneria aerospaziale al servizio della medicina

Accordo tra Soroka Medical Center ed Elta System Ltd/Iai

Il Soroka Medical Center di Beersheba e la Elta System ltd, una filiale di Israel Aerospace Industries (IAI), la più grande azienda aerospaziale e di difesa militare israeliana, hanno firmato un accordo per creare un centro di innovazione che svilupperà nuove tecnologie mediche, grazie agli studi per la sicurezza e la difesa civile.
Come riporta il Times of Israel, l’idea di base è quella di avviare un processo di brainstorming, in cui i medici indicheranno le loro esigenze mediche e tecniche e gli ingegneri aerospaziali cercheranno di trovare soluzioni. Un comitato direttivo poi deciderà quali saranno i progetti che dovranno essere portati avanti. Radar, sensori, sistemi avanzati di comunicazione, di sicurezza informatica e software saranno impiegati in campo medico.
"L'innovazione è un valore strategico per noi", ha affermato il dott. Shlomi Codish, direttore generale del Soroka Medical Center.
Già durante la pandemia IAI, Microsoft e il Soroka Medical Center hanno sviluppato una cabina di monitoraggio che ha permesso alle equipe mediche di supervisionare i pazienti anche a distanza.
Il vicepresidente di IAI e amministratore delegato di Elta System ltd, Yoav Turgeman, ha affermato che la collaborazione aiuterà a promuovere gli sforzi di IAI "per convertire le tecnologie avanzate in campo civile e consentire un percorso aziendale per lo sviluppo di “tecnologie mediche uniche".

(Shalom, 16 giugno 2021)


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