Notizie 16-30 giugno 2022
Israele, sciolta la Knesset, si vota il primo novembre
Le elezioni in Israele si terranno il primo novembre
I deputati del parlamento di Israele hanno votato per lo scioglimento della Knesset: una decisione che provocherà la quinta elezione in meno di quattro anni nel paese mediorientale. La consultazione elettorale si svolgerà il primo novembre e nel frattempo il primo ministro ad interim sarà l'attuale ministro degli Esteri Yair Lapid.
• L'ETERNO RITORNO ALLE URNE
La terza ed ultima lettura del provvedimento che mette fine alla legislatura è stata approvata da 92 deputati su 120 e nessun voto contrario, mentre la Knesset ha respinto la proposta dell'opposizione di Benyamin Netanyahu di andare alle urne il 25 ottobre.
Con l'approvazione della legge per lo scioglimento della Knesset e della legislatura, inizia l'iter verso le prossime elezioni: l'attuale ministro degli Esteri Yair Lapid diventerà Primo ministro ad interim dalla mezzanotte del 30 giugno (data dello scioglimento del parlamento), fino al primo novembre, in cui si apriranno i seggi.
Si tratta della quinta volta in meno di quattro anni: la politica israeliana è segnata da grande instabilità e la coalizione di otto partiti guidata da Naftali Bennet è durata soltanto un anno. Forze politiche di diversa ispirazione, tra cui anche il partito Ra’am, che rappresenta gli arabi israeliani, si sono coalizzate principalmente per porre fine ai 12 anni di governo di Benjamin Netanyahu: il suo partito, Likud, è stato all'opposizione per 12 mesi.
• UNA COALIZIONE FRAGILE
L'intesa anti-Netanyahu si è però arenata presto, al punto che il governo non è stato in grado di approvare il rinnovo di una legge che garantisse agli oltre 475mila coloni nella Cisgiordania occupata gli stessi diritti degli altri israeliani. Di conseguenza il Primo ministro Bennett, leader del partito Nuova Destra e fervente sostenitore degli insediamenti dei coloni in territorio palestinese, ha preferito gettare la spugna e terminare l'esperienza governativa.
"Non ho intenzione di candidarmi alle prossime elezioni, ma rimarrò un fedele soldato di questo Paese, che ho servito per tutta la vita come soldato, ufficiale, ministro e Primo ministro", ha detto il Bennett, confermando anche di cedere la guida della sua formazione politica all'attuale ministro dell'Interno, Ayelet Shaked.
Netanyahu, da parte sua, proverà a ritornare al comando: "Questa sera la gente sorride - ha detto il giorno in cui si è consumata la rottura nell'esecutivo - ci stiamo liberando del peggior governo della storia di Israele". Alle elezioni in autunno l'esito rischia di essere molto incerto e il parlamento ancora più frammentato.
(euronews, 30 giugno 2022)
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Europei di calcio U19: Israele conquista la sua prima storica finale
di Jacqueline Sermoneta
“Sono orgoglioso della nostra giovane squadra che è entrata nella storia, qualificandosi alla finale dei Campionati Europei”. Queste le parole in un tweet del Primo ministro Naftali Bennett, dopo che la nazionale israeliana under 19, martedì scorso, ha battuto nella semifinale la Francia 2-1 alla DAC Arena di Dunajska Streda. Anche il ministro degli Esteri Yair Lapid si è congratulato con i giocatori.
Israele, dunque, affronterà nella finale l’Inghilterra il 1° luglio allo Stadio Anton Malatinsky a Trnava, in Slovacchia.
Grazie alla vittoria i giovani israeliani accedono per la prima volta anche alla Coppa del Mondo FIFA Under 20 in Indonesia 2023.
La Francia era considerata un duro rivale: l’allenatore della nazionale israeliana Ofir Haim, prima della partita, aveva affermato che i suoi giocatori, per avere una possibilità contro la squadra transalpina, avrebbero dovuto “compensare con intelligenza e saggezza la velocità e l’abilità fisica". “Congratulazioni all’allenatore Ofir Haim e ai talentuosi giocatori che ci hanno dimostrato che lavorare insieme duramente, funziona. – ha detto Bennett – Abbiamo una generazione giovane, meravigliosa e piena di speranza che ci porta gioia in tutti i settori”.
La partita sarà trasmessa sul Canale Rai Sport+HD e in diretta streaming su Rai Sport o Rai Play. Calcio d’inizio alle ore 20.00.
(Shalom, 30 giugno 2022)
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L’azienda di gelati Ben & Jerry’s continuerà a vendere i suoi prodotti nei territori della Cisgiordania
Mercoledì Unilever, la multinazionale che possiede l’azienda americana di gelati Ben & Jerry’s, ha fatto sapere che continuerà a vendere i propri prodotti in Israele e nei territori occupati della Cisgiordania. L’annuncio va in direzione contraria rispetto a quanto deciso l’estate scorsa, quando l’azienda aveva detto che non avrebbe più venduto i propri prodotti in Cisgiordania e sostenuto che farlo sarebbe stato «incompatibile» coi propri valori: la decisione era stata favorevolmente accolta dai palestinesi e duramente criticata dal governo israeliano. La vendita dei gelati Ben & Jerry’s in Cisgiordania, comunque, non era mai stata effettivamente interrotta: l’azienda aveva infatti deciso di sospendere le vendite una volta scaduto il contratto col proprio distributore israeliano, alla fine del 2022. Unilever ha invece deciso di rinnovare quel contratto, assicurando quindi la continuazione delle vendite dei gelati in Cisgiordania anche dopo la fine di quest’anno. Unilever ha detto che la decisione di interrompere le vendite in Cisgiordania era stata presa dal consiglio d’amministrazione dell’azienda Ben & Jerry’s, che ha un certo margine di autonomia su decisioni legate alla sua missione sociale, cioè ai valori che guidano la propria attività: la multinazionale ha spiegato di avere però il controllo del settore finanziario e operativo, e che dopo lunghe consultazioni, anche con il governo israeliano, ha deciso di continuare a vendere i propri gelati anche in Cisgiordania. Unilever ha motivato la sua decisione col rifiuto di «qualsiasi forma di discriminazione o intolleranza», sostenendo che «l’antisemitismo non trova posto in nessuna società»: è probabile però che sulla decisione abbiano anche pesato le azioni legali e la richiesta di risarcimento danni che il distributore israeliano dei gelati di Ben & Jerry’s – American Quality Products (AQP) – aveva avviato contro l’azienda dopo il suo annuncio della scorsa estate, oltre alle forti pressioni contro il ritiro delle vendite in Cisgiordania da parte di alcuni potenti azionisti americani dell’azienda.
(Post, 30 giugno 2022)
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Antincendio in Sardegna. Assessore Lampis con ambasciatore di Israele
Al termine del sopralluogo in una zona distrutta dai roghi la scorsa estate.
di Santu Lussurgiu
Usiamo i cookie per fornire un’esperienza più sicura e per rivolgere alcune inserzioni al pubblico giusto. Cliccando o navigando sul sito, acconsenti alla raccolta da parte nostra di informazioni tramite i cookie. Puoi anche disattivare la personalizzazione degli annunci o consultare la nostra informativa privacy. "La visita dell'ambasciatore israeliano in Sardegna è stata un'importante occasione per riavviare un discorso di collaborazione iniziato tempo fa e provvisoriamente interrotto anche a causa dell'emergenza sanitaria. Abbiamo deciso di pianificare un percorso che consolidi il rapporto e possa consentirci di avviare qualche progetto pilota, in particolare sul tema della prevenzione e della rilevazione degli incendi e della ricostituzione forestale", ha dichiarato l'assessore regionale della Difesa dell’ambiente, Gianni Lampis, al termine del sopralluogo, in compagnia di Dror Eydar, ambasciatore di Israele in Italia, nel cantiere forestale Pabarile nel Montiferru, in territorio di Santu Lussurgiu, nella zona dove la scorsa estate migliaia di ettari del patrimonio boschivo isolano erano stati distrutti da un incendio di grosse dimensioni. Al sopralluogo hanno partecipato anche il prefetto e il questore di Oristano, Fabrizio Stelo e Giuseppe Giardina. "La collaborazione con Israele, che potrà realizzarsi anche in altri settori di particolare interesse per la Sardegna, come acqua, energia, agricoltura, può essere un valore aggiunto per la nostra Isola -ha aggiunto l'assessore– Condividere sia aspetti di innovazione tecnologica che una consolidata esperienza in alcuni settori rappresenta una grande opportunità per la Regione Sardegna. Infatti, qualsiasi aiuto e collaborazione nell'ambito della lotta contro gli incendi significa fare un importante passo avanti verso il consolidamento delle buone pratiche che l'esperienza sarda mette in campo da anni”.
(AVIONEWS, 30 giugno 2022)
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Gallarate: vandalizzata pietra d’inciampo
di Nathan Greppi
Ha suscitato forte sdegno a livello locale quando, mercoledì 22 giugno, quando è stata vandalizzata da ignoti una pietra d’inciampo a Gallarate, in provincia di Varese, intitolata a Clara Pirani. Quest’ultima era una maestra che fu deportata ad Auschwitz nel ‘44 dopo essere stata denunciata da italiani, tra cui un suo vicino di casa. Morì nel campo di sterminio il 6 agosto 1944, uccisa nelle camere a gas. La pietra d’inciampo è stata posata il mese scorso, ed è la seconda posata a Gallarate; la prima, posata il 25 aprile, è intitolata a Vittorio Arconti, un operaio che venne deportato e ucciso in Germania per aver indetto uno sciopero di protesta contro il regime. Anche la sua pietra era stata vandalizzata, appena poche ore dopo l’inaugurazione. Clara Pirani era nata a Milano nel 1899, ed era un’ebrea convertitasi al cattolicesimo e sposata dal 1924 con un non ebreo, Francesco Cardosi. Si trasferì a Gallarate insieme al marito, preside di un liceo del posto, mentre lei era una maestra di scuola elementare. Con le Leggi Razziali, nel ‘38 sia lei che le sue tre figlie vennero allontanate dalla scuola pubblica in quanto registrate come “di razza ebraica”. La sera dell’11 maggio 1944, un loro vicino entrò a far loro visita apparentemente con intenzioni innocue, ma in realtà per verificare che fossero tutti in casa. Subito dopo vennero arrestate lei e le sue figlie dalla Questura di Varese; stando alle testimonianze, le giovani riuscirono ad essere scarcerate dalla Questura di Varese in quanto figlie di matrimonio misto, mentre la madre venne rinchiusa nel Carcere San Vittore di Milano. Da lì, l’8 giugno venne dapprima trasferita nel campo di Fossoli, e poi deportata e uccisa ad Auschwitz. Per manifestare dissenso contro questi atti di vandalismo, le sezioni locali dell’ANPI e dell’Associazione Mazziniana, responsabili per la posa delle pietre a Gallarate, hanno organizzato un presidio giovedì 23 giugno.
(Bet Magazine Mosaico, 30 giugno 2022)
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Il ricatto di Hamas che cerca di sfruttare la malattia di un giovane che ha sequestrato
di Ugo Volli
• IL PRIGIONIERO MALATO
Ieri l'organizzazione terroristica Hamas ha pubblicato un video che mostrava un civile israeliano rapito, ripreso in un letto d'ospedale e collegato a una macchina per l'ossigeno. Il video è stato pubblicato il giorno dopo un’insolita dichiarazione dell'ala militare di Hamas sulle condizioni dei due cittadini israeliani che tiene sequestrati, in cui sosteneva che le condizioni mediche di uno di loro sono peggiorate. Vale la pena di dire innanzitutto che il malato si chiama Hisham al-Sayed ed è un beduino con dei gravi problemi di salute mentale. La sua cattura risale all’aprile 2015, più di sette anni fa, quando il giovane riuscì ad attraversare la barriera di protezione e a entrare volontariamente nella striscia di Gaza. Già l’aveva fatto altre due volte, nel 2010 e nel 2013, e le autorità locali, che pure erano già di Hamas, lo respinsero di nuovo in Israele, rendendosi conto del suo stato di mente. Ma nel 2015 lo trattennero definitivamente, cercando di ottenere un riscatto come quello che avevano appena ricevuto in cambio della libertà di Gilad Shalit.
• L’ALTRO SEQUESTRATO
Anche l’altro israeliano sequestrato da Hamas è una persona segnata dalla malattia mentale, che ha oltrepassato spontaneamente il confine. Si chiama Avraham (Avera) Mengistu; è un ebreo di provenienza etiope ed è sotto sequestro dal settembre 2014, in circostanze analoghe a Hisham al-Sayed. Come il suo compagno è detenuto in condizione tale che ogni tentativo di liberarlo gli costerebbe la vita.
• IL PROGETTO DI HAMAS
Per la loro liberazione e la consegna dei resti di due soldati caduti durante l’ultimo conflitto di Gaza, Hamas ha stilato una lista di migliaia di terroristi condannati dai tribunali e detenuti nelle carceri israeliane. Si tratta di un obiettivo strategico per l’organizzazione terrorista, come lo fu nel caso di Shalit. I condannati liberati rafforzano molto il quadro del terrorismo, perché hanno esperienza e hanno conosciuto anche dall’interno le istituzioni israeliane, sanno la lingua e i modi di fare tanto da poter sostenere travestimenti preziosi per l’attività terrorista; e inoltre hanno subito nel gruppo dei detenuti una pressione propagandistica che li ha ulteriormente radicalizzati, se ce n’era bisogno. Inoltre si tratta di migliaia di persone, dunque di migliaia di famiglie, che dovrebbero la loro liberazione a Hamas e dunque li appoggerebbero anche nella competizione interna al campo palestinese.
• IL GIUDIZIO MORALE E LEGALE
Bisogna sottolineare che la detenzione di Shalit e il ricatto sulla sua vita che ha subito Israele era una palese violazione delle convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra. Ma quest’altro ricatto non riguarda un soldato catturato, bensì due civili malati di mente, che sono stati sequestrati senza nessun contesto militare. Si tratta di un caso evidente di crimine di guerra, a danno fra l’altro di un arabo e di un nero, che però non sono stati affatto difesi da coloro che sbandierano il loro antirazzismo, come i democratici americani. Per loro non vale il motto “black lives matter” né la tutela che si accorda a tutte le persone deboli. Il fatto di essere cittadini di Israele li ha condannati a una crudele prigionia senza ragioni e senza condanna. Oggi Hamas cerca di approfittare anche della malattia fisica di uno dei due, in cui probabilmente la condizione del sequestro è una concausa, per far pressione sul governo israeliano, che continua a rifiutare di cedere al ricatto. In una società civile, sufficientemente sensibile ai diritti, questo nuovo crimine di Hamas sarebbe ragione di una mobilitazione generale, di una condanna senza attenuanti. Ma purtroppo la società italiana, quella europea e anche quella americana non hanno questa elementare sensibilità morale.
(Shalom, 29 giugno 2022)
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Il Vaticano inaugura un archivio digitale degli ebrei perseguitati che invocarono l’aiuto alla Chiesa
di Paolo Castellano
Dopo aver aperto gli archivi di Pio XII a marzo 2020, il Vaticano ha pubblicato digitalmente 2700 richieste di aiuto che gli ebrei inoltrarono alla Chiesa per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste – prima e durante la Shoah. L’annuncio è arrivato il 25 giugno attraverso i canali stampa vaticani. I fascicoli si trovano sul sito Web dell’Archivio Storico della Segreteria di Stato, nella sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali. Nell’archivio virtuale sono presenti le riproduzioni fotografiche dei documenti e un inventario analitico che elenca tutti i richiedenti aiuto. Gli ebrei che si sono appellati al vaticano chiedevano informazioni su diversi argomenti: visti o passaporti per espatriare, pratiche per l’esilio, il ricongiungimento con un familiare, la scarcerazione o il trasferimento da un campo di concentramento all’altro, notizie su una persona deportata, cibo o vestiti, sostegno finanziario e spirituale. Come dimostra la documentazione, molte delle richieste avanzate purtroppo non sono state accolte “per problemi di vario genere”. In altri casi, però, i tentativi dei cittadini ebrei hanno avuto successo, ma nella maggior parte dei casi l’esito rimane “sconosciuto”. Come riporta il Jerusalem Post, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali, ha sottolineato che la recente iniziativa del Vaticano – caldeggiata fortemente da Papa Francesco – di “rendere disponibile su Internet la versione digitalizzata delle intere richieste di ebrei consentirà ai discendenti di coloro che hanno cercato aiuto per trovare tracce dei loro cari da qualsiasi parte del mondo”. «Allo stesso tempo consentirà agli studiosi e a chiunque sia interessato di esaminare liberamente e a distanza questo speciale patrimonio archivistico», ha sottolineato l’arcivescovo. L’inventario analitico della serie “ebrei” del fondo Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari può essere consultato qui.
(Bet Magazine Mosaico, 29 giugno 2022)
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Macellazione rituale, controversia tra libertà religiosa e benessere animale
di Alessio Arvonio
Nell’antica religione persiana del Manicheismo vi era l’idea che alla base della realtà vi fosse una lotta perenne tra il bene e il male; due forze in conflitto che muovevano le trame della storia. Ad oggi alcune cose sono cambiate. La lotta continua, ma a smuovere la storia partecipa, in aggiunta, una contrapposizione inedita fra due beni, per così dire, sul piano teorico. Il campo di battaglia è la macellazione rituale, che porta al fronte due diversi diritti: da un lato il benessere degli animali, dall’altro la libertà religiosa. L’alimentazione è un atto naturale, ma nel corso dei secoli ha assunto, presso molte civiltà e religioni, connotazioni sacre che prescrivono determinati procedimenti (preghiere, qualità tipiche del macellaio, condizioni geografiche particolari, invocazioni e benedizioni) per la produzione di un prodotto affinché diventi edibile. Un caso particolare riguarda la carne, per cui si parla talvolta di macellazione rituale, espressione intesa a sottolineare la sacralità di alcuni gesti, giudicati da molti cruenti. Ciò avviene soprattutto presso due grandi religioni: l’Ebraismo e l’Islam. In entrambe esistono due termini ben precisi finalizzati a connotare il cibo che può essere ingerito. “Kasher” è la parola che gli ebrei utilizzano per marchiare gli alimenti che hanno subito i processi tipici della propria religione, garantiti dalla presenza di un rabbino. Per la cucina islamica invece vi è la parola “Halal” (“Lecito”). In tutte e due le religioni è fatto divieto il consumo del sangue, con le dovute e occasionali eccezioni. Per questo motivo vi è la propensione, non sempre univoca, ad uccidere l’animale senza stordimento, perché ciò garantirebbe un perfetto dissanguamento e perché i testi sacri stabilirebbero uno stato vigile dell’animale. Contrariamente a quanto si è portati a credere, e per quanto opinabile agli occhi di molti, l’uccisione dell’animale in entrambe le religioni ha alla base un precetto fondamentale: ridurre al minimo lo stress e la sofferenza. La macellazione rituale di tipo musulmano prevede solitamente che l’animale venga ucciso senza la presenza di suoi simili, spesso bendato in modo che non possa vedere la lama. Il metodo più diffuso consiste nel recidere completamente la gola dell’animale con un unico movimento della mano con un coltello che deve essere affilatissimo. Anche nel caso del rito ebraico le procedure sono molto simili. È previsto l’uso di strumenti lisci, privi di dentature e molto più lunghi della superficie su cui devono agire. L’esposizione alla lama da parte dell’animale avviene in modo particolare, cioè mediante un apposito box metallico. La carne in seguito subisce un processo di purificazione, che consiste nell’asportazione dei vasi sanguini. Il motivo alla base di questo particolare accorgimento ebraico risiederebbe nel principio espiatorio del sangue, preceduto a sua volta da una motivazione più profonda, ovvero il dissanguamento garantirebbe, secondo i precetti biblici, una minore sofferenza dell’animale. Tuttavia, la posizione di alcuni animalisti nei confronti della macellazione rituale è critica ed è per questo motivo che è stata lanciata una petizione affinché lo stordimento degli animali diventi obbligatorio e senza deroghe. La normativa vigente a livello europeo, Il Regolamento (CE) 1099/2009 (G.U. dell’Unione Europea n. 303 del 18/11/2009) del 24 settembre 2009 “relativo alla protezione degli animali durante l’abbattimento”, infatti, prevede che gli animali destinati alla macellazione subiscano uno stordimento preventivo (mediante pistola a proiettile captivo, elettronarcosi o esposizione a biossido di carbonio) al fine di garantire una morte dignitosa e senza sofferenze. A questa norma, però, si affiancano le deroghe che alcuni Stati membri possono concedere a religioni come l’Ebraismo e l’Islam. È il caso dell’Italia, che permette la macellazione rituale, ma solo nei circa 200 macelli autorizzati. A questo punto si accende la lotta: da un lato il dovere dello Stato di permettere ad ogni culto di potersi manifestare, dall’altro il dovere di garantire il benessere degli animali, entrambi contemplati nell’ordinamento legislativo. Al di là del parteggiamento, però, permane lo scetticismo di alcuni ricercatori per l’impossibilità di stabilire con certezza il grado di sofferenza dell’animale in entrambe le procedure. Peccato, invece, che con forza si affermi la certezza che la sofferenza animale non si limiti solo agli ultimi istanti di vita.
(Libero Pensiero, 29 giugno 2022)
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La rivelazione: «Anche Israele ha i nuraghi»
La conferma è arrivata dall’ambasciatore Eydar ospite di Solinas a Villa Devoto. Gli scavi in Alta Galilea stanno restituendo altri reperti riferibili all’antica civiltà sarda.
di Paolo Curreli
CAGLIARI - Un altro tassello, un’altra traccia dei rapporti della civiltà nuragica con le culture del Mediterraneo orientale è stata svelata ieri dall’ambasciatore d’Israele Dror Eydar che ieri – accompagnato da una folta delegazione – ha incontrato il presidente Solinas a Villa Devoto. Tra gli altri argomenti trattati con il governatore sardo Dror Eydar ha reso note le novità relative ai recenti scavi archeologici nell’area del Monte Carmelo, nell’Alta Galilea, dov’è emersa una città costruita con elementi architettonici riconducibili a quelli nuragici, che dimostrerebbero la presenza di antiche popolazioni provenienti dalla Sardegna in un periodo individuato tra il dodicesimo e l’undicesimo secolo Avanti Cristo.
Già nei primi anni Novanta l’archeologo Adam Zertal aveva scavato in Israele i siti del Carmelo, la costa di fronte ad Haifa e la zona del lago Tiberiade trovando un grande insediamento, El – Ahwat (“la muraglia” in arabo) molto simile a quelli nuragici dell’isola datati dal XIV al XII secolo a.C. A questo si erano aggiunti reperti ceramici uguali a quelli rinvenuta a Nuoro o Sassari. A questa ricerca aveva partecipato un gruppo di archeologi dell’università di Cagliari tra cui Giovanni Ugas. I risultati di questi scavi furono resi pubblici nel ’92 nel convegno “I legami tra Mediterraneo occidentale ed orientale alla fine dell’età del bronzo e l’inizio di quella del ferro”.
Per gli studiosi la spiegazione degli insediamenti simili a quelli sardi in Israele sta nel movimento attraverso via mare e via terra, degli Shardana. Uno dei “popoli del mare”, pirati invincibili che divennero truppe de élite del faraone Ramesse III. Secondo Adam Zertal (scomparso nel 2015) gli Shardana erano sardi e avrebbero costruito la roccaforte di El – Ahwat per controllare il territorio per ordine del faraone, e in questo insediamento Zertal ha individuato la tomba del loro capo Sisara, guerriero citato nella bibbia.
(La Nuova Sardegna, 29 giugno 2022)
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Uno studio israeliano mostra che i vaccini COVID-19 fanno diminuire il numero di spermatozoi
Natural News - Uno dei tanti effetti collaterali negativi dei vaccini COVID-19 è la loro capacità di diminuire il numero di spermatozoi di un uomo, mostra un nuovo studio israeliano. Lo studio, che è stato condotto da ricercatori di Università di Tel Aviv, Shamir Medical Center, Sheba Medical Center e Herzliya Medical Center, hanno delineato l’impatto potenzialmente devastante di questi vaccini sulla fertilità maschile. È stato pubblicato sulla rivista Andrologia. Per lo studio, i ricercatori hanno studiato volontari maschi per sei mesi. Hanno testato i loro parametri spermatici in diversi punti prima e dopo aver ricevuto un vaccino COVID. Inoltre, sono stati sottoposti a screening per precedenti infezioni con il virus e determinati come negativi. Altri studi hanno dimostrato che le infezioni da COVID hanno un effetto negativo temporaneo sui parametri dello sperma che sembra invertire circa due o tre mesi dopo l’infezione. Lo stesso non sembra essere vero per i vaccini, tuttavia. In effetti, i vaccini non sembravano influenzare negativamente il numero di spermatozoi immediatamente. Invece, la differenza è stata notata da due a cinque mesi dopo la vaccinazione ed è persistita per tutto il resto dello studio. Lo studio ha rilevato che da 75 a 120 giorni dopo il completamento della vaccinazione, la concentrazione di spermatozoi degli uomini era inferiore del 15,4% rispetto al conteggio di base preso prima di essere vaccinati, mentre anche il loro conteggio mobile totale era diminuito del 22,1%. Le cifre degli ultimi 150 giorni dopo il completamento della vaccinazione hanno mostrato che i loro livelli sono rimasti inferiori ai livelli pre-vaccinazione. I soggetti non sono stati testati dopo la terza e la quarta iniezione, ma è del tutto possibile che il numero e la motilità degli spermatozoi possano aver subito ulteriori danni dopo le dosi successive. Le ragioni di questo effetto sono sconosciute, ma non sorprende. In effetti, gli studi di biodisponibilità originali di Pfizer hanno scoperto che le nanoparticelle lipidiche del vaccino si sono concentrate nelle ovaie e nei testicoli, tra gli altri organi, illustrando il loro potenziale di compromettere gravemente la riproduzione umana.
• I VACCINI COVID-19 HANNO ANCHE UN IMPATTO SULLA SALUTE RIPRODUTTIVA FEMMINILE
Tra le donne che hanno ricevuto il vaccino contro il COVID, ci sono forti segnali che anche la loro salute riproduttiva ne risente. In tutto il mondo si stanno notando alti tassi di irregolarità mestruali post-jab, tra cui menopausa precoce, mestruazioni ritardate e altri problemi. La dott.ssa Katarina Lindley del Consiglio mondiale per la salute ha osservato: “È profondamente preoccupante che ci troviamo di fronte all’ennesimo effetto collaterale allarmante di questi vaccini sperimentali, che ha implicazioni per la propagazione dell’umanità. Con i bambini di appena sei mesi che ora vengono iniettati, è chiaro che le implicazioni per la salute potrebbero essere avvertite per generazioni. È già stato fatto abbastanza male. È necessaria un’azione immediata per rimuovere questi prodotti dalla circolazione”. Nel frattempo, il dottor Peterson Pierre di America’s Frontline Doctors ha avvertito i genitori in attesa che c’è stato un aumento di quasi il 2000 percento delle morti fetali da quando sono stati lanciati i vaccini COVID. I dati che ha presentato dai Centers for Disease Control and Prevention hanno mostrato che all’epoca erano stati somministrati 550 milioni di colpi di COVID e c’erano 3.725 morti fetali. Ciò equivale a una morte fetale ogni 147.651 colpi. Confronta questo con il periodo dal 2006 al 2019, quando sono stati registrati 4 miliardi di iniezioni somministrate per vaccini diversi, ma ci sono state solo 1.368 morti fetali, il che equivale a uno ogni tre milioni di iniezioni. “Quindi, se fai i conti, ti rendi conto che da quando sono disponibili i colpi di COVID, c’è stato un aumento del 1.925% delle morti fetali”, ha concluso. In una risposta di Pfizer e della Food and Drug Administration a una richiesta del Freedom of Information Act, 23 delle 32 future mamme che hanno ricevuto i jab dell’azienda hanno avuto aborti spontanei e c’è stato anche un aumento significativo della gravidanza extrauterina dopo la vaccinazione. Sta diventando chiaro che questo è uno dei tanti vaccini che possono compromettere seriamente la salute riproduttiva.
(GP News, 29 giugno 2022)
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Parla il super esperto israeliano: «Per sconfiggere le cavallette servono tecniche militari»
Lo zoologo è a capo della task force anti locuste del suo Paese. «Occorrono un piano, un metodo e soprattutto una sola testa che decida».
di Giuseppe Centore
CAGLIARI - Per sconfiggere le cavallette occorrono tre strumenti: organizzazione, controllo e dialogo. L’esperienza israeliana sarebbe un toccasana per le condizioni delle campagne del centro-Sardegna, ma a condizione di applicarne i metodi e la filosofia, vincenti non solo in Israele ma anche in Etiopia, dove il problema delle cavallette raggiunge una dimensione ben diversa che da noi o nel deserto del Negev. Lì gli sciami fanno la differenza tra la vita e la morte. Qui, o in Israele possono fare danni, possono attaccare e distruggere le colture, ma non cancellano il cibo per decine di migliaia di persone.
Yoav Motro è zoologo presso il ministero dell’agricoltura dello Stato di Israele. Non è solo un funzionario governativo, ma è molto, molto di più: è il capo della lotta contro le locuste e responsabile unico della campagna di contrasto. È al vertice di una piramide. Motro è in Sardegna all’interno delle attività dell’ambasciata d’Israele in Italia per rafforzare la cooperazione tra Israele e l’isola. In questa intervista esclusiva alla Nuova Sardegna, Motro descrive come la sua task force opera.
- E come vi comportate? «La scelta del governo è stata quella di nominare un responsabile unico, con poteri assoluti di gestione dell’emergenza e di scelta degli interventi nel terreno. Io ho a disposizione dieci aerei, una cinquantina di elicotteri, decine di auto, tutto il personale che mi serve e tutto il budget che occorre. Chiamo chi voglio per fare quello che ritengo necessario. Tutti, ma proprio tutti gli agricoltori israeliani hanno il mio numero o quello dei miei più stretti collaboratori. Alla prima chiamata ci precipitiamo sul posto e installiamo un centro di comando e controllo avanzato dove vengono prese tutte le decisioni. Non abbiamo gente in ufficio che programma e altri che eseguono i protocolli, ma chi decide è in campagna e ci sta sino alla fine del problema. Nel 2013, quando le cavallette colpirono ampie fasce del mio paese rimasi fuori dal 3 marzo al 6 giugno; dormimmo nei luoghi dove c’era il problema, non mi mossi nemmeno un istante dalla prima linea: prendere decisioni immediate avendo tutti gli strumenti necessari a scegliere per il meglio fa la differenza tra disfatta o vittoria».
- Le piantagioni fertili nei kibbutz al confine con la Giordania o lungo il confine con l’Egitto non sono però come la piana di Ottana. Qui forse questo metodo può risultare in salita... «E perché mai? Nel mio paese l’area interessata alle cavallette può arrivare a coprire anche 150mila ettari: aree brulle, altre coltivate, collinari, montuose, abbandonate o produttive. Le cavallette non si preoccupano del terreno: attaccano e basta. C’è però una profonda differenza a vostro favore nel confronto tra le due zone: da noi gli sciami sono di importazione, se così si può dire; qui sono nate in loco, al massimo qualche sciame può essere sospinto dai venti che da sud arrivano a voi. Sono abbastanza certo, pur non avendo studiato ancora a fondo il problema sardo, che ad aprile del prossimo anno arriveranno i primi sciami, insignificanti, dall’Africa. Allora vanno fermati».
- Dunque: scatta l’allarme vi chiamano direttamente, arrivate in massa con uomini e mezzi: e poi? «Poi seguiamo gli sciami, vediamo dove vanno e quando la sera e la notte si fermano per riposarsi, li attacchiamo. Di giorno non si possono sconfiggere, quando cala il buio sì. Ma non è che la mattina e il pomeriggio ci riposiamo: abbiamo una nutrita flotta di droni che seguono, e si danno anche il cambio, ogni sciame, lo monitorano, individuano il punto dove esso è concentrato e quali aree sono a rischio. Con i droni buttiamo la deltametrina dove serve, altrimenti spariamo getti d’aria, per staccarle ad esempio dalle piante di datteri giganti Medjool».
- E cosa dicono gli agricoltori e gli allevatori quando arrivate? «Premetto: a loro non si possono dare ordini, perché li eseguono solo una volta; bisogna convincerli, parlarci, condividere progetti, interventi e strategie; il dialogo con gli allevatori è fondamentale. Senza di questo non si può vincere alcuna battaglia contro le cavallette, perché viene meno la fiducia. Sono loro le vere sentinelle del nostro sistema. Per questo decine di migliaia di allevatori e agricoltori hanno questo numero di cellulare (e mostra il suo telefono, ndr) a cui rispondo a qualunque ora del giorno. Sanno che io vado da loro e rimango sul posto sino a che il problema non è risolto. Mi sporco le scarpe come dite voi. Però con gli anni abbiamo conquistato l’apprezzamento e l’attenzione di chi vive in campagna. Sanno che non diciamo frasi senza senso, se dico loro: isoliamo una area, potete entrare e uscire da quella zona solo da questa strada, loro lo fanno, anche a costo di sacrifici. Il ministero dell’agricoltura è a capo della campagna anticavallette, ma non ristora dai danni nessuno».
- In quanto tempo venite a capo dell’emergenza? «Non c’è un tempo predefinito. Noi stiamo sul posto, presidiando le aree colpite in forze sino a quando il problema cessa. Possono essere due settimane, o tre mesi. Non lo sappiamo. Siamo elastici anche sulle azioni di contrasto. La deltametrina (che non fa male all’avifauna o al bestiame), può servire, come servono alcune specie di uccelli migratori, che seguono le cavallette, oppure insetti antagonisti, che possono essere riprodotti in laboratorio e depositati poi nelle zone a rischio: su questa strategia rimane il dubbio della sua efficacia finale. E se gli insetti antagonisti non mangiano le cavallette perché non hanno più fame, o ne mangiamo in parte? In ogni caso tutti gli strumenti sono efficaci. L’importante è mantenere ferme le tre componenti fondamentali della nostra strategia.
- E quali sarebbero? «Mappare con una precisione assoluta (anche i satelliti aiutano) gli sciami, testare i terreni per capire come lavorandoli fermano le capacità riproduttive (non basta zollare la terra) e controllare al centimetro le aree verdi e i possibili punti di attacco delle cavallette. La nostra flotta di droni monitora, misura, caratterizza ogni sciame e poi lo colpisce con la medicina, ma in maniera molto precisa, senza sprecare tempo e farmaco. Tutto questo però si può realizzare solo con una presenza continua, sulle 24 ore, del personale e con un uso condiviso dei mezzi aerei. Se mi chiedete dei costi dico che i nostri sono alla fin fine limitati. L’ultima campagna del 2013 è costata in tutto poco meno di tre milioni di euro, compreso il costo del farmaco antagonista».
- Alla fine cosa direbbe ai diversi enti sardi che dovrebbero nei prossimi giorni decidere quale strategia migliore per combattere le cavallette? I tecnici locali hanno difficoltà a entrare nei terreni . C’è diffidenza. «Serve un metodo e soprattutto una testa, una sola, che decida. Però non mi preoccuperei di queste incomprensioni. In Yemen, in Etiopia è possibile che gli agricoltori non capiscano, che gli allevatori ci vedano come stregoni. Qui no. Tutti sanno, tutti conoscono il problema e sono interessati a risolverlo».
(La Nuova Sardegna, 27 giugno 2022)
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Israele divisa (e sospesa) fra nuove elezioni e il ritorno di Netanyahu
Il Paese si avvia verso il quinto voto in poco più di tre anni. Domani il passaggio che dovrebbe sancire lo scioglimento della Knesset. Da dietro le quinte l’ex premier muove per tornare al potere, in questa o nella prossima legislatura. Rabbino pacifista: l’esecutivo Bennett non ha fatto alcun progresso su “grandi questioni” come “occupazione e processo di pace”.
di Dario Salvi
MILANO - Israele si avvia verso la quinta elezione parlamentare in poco più di tre anni, dopo il crollo della coalizione emersa in seguito al voto del 23 marzo 2021. Una maggioranza nata con numeri risicati - 60 deputati favorevoli, 59 contrari e un (decisivo) astenuto sui 120 della Knesset -, formata da partiti di ispirazione diversa e che aveva come unico (o quasi) collante l’opposizione a Benjamin Netanyahu. Il 22 giugno scorso i deputati hanno approvato in lettura preliminare lo scioglimento dell’assemblea, primo passo verso nuove elezioni. Ieri si è consumato uno stallo, condito da fitti quanto vani negoziati fra maggioranza e opposizione, alternati a giochi di palazzo per procrastinare l’iter giuridico di fine legislatura. Ciononostante, a fine giornata è arrivata la comunicazione secondo cui il voto decisivo si dovrebbe svolgere domani. Dietro le quinte alcune forze parlamentari hanno operato nel tentativo di dar vita a una coalizione alternativa. Fra i più attivi - assieme a Bezalel Smotrich, guida del Religious Zionist Party - vi è Moshe Gafni, del partito ultra-ortodosso United Torah Judaism, che muove col Likud per scongiurare il voto in autunno. Una scelta, spiega una nota del partito, nata dopo “consultazioni” fra lo stesso Gafni e il leader spirituale Rabbi Gershon Edelstein. Tuttavia, se il progetto non dovesse andare a buon fine - come probabile - la soluzione è “il ritorno alle urne”. Anche in questo caso vi è però una frattura profonda fra maggioranza e opposizione: la coalizione uscente vorrebbe votare l’8 novembre, mentre il fronte filo-Netanyahu spinge per il 25 ottobre o una data vicina alle festività ebraiche. Per nuove elezioni si è espresso il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz, che dice di “fare di tutto” affinché il Paese vada al voto secondo le scadenze prefissate. “Questa nuova situazione di crisi - sottolinea ad AsiaNews Jeremy Milgrom, rabbino israeliano e membro dell’ong Rabbis for Human Rights - non stupisce, siamo di fronte alla prospettiva di nuove elezioni e il sentimento prevalente è quello di stanchezza. Una parte del Paese è insofferente e preoccupata per la prospettiva di un ritorno al potere di Netanyahu, ma resta il fatto che egli abbia ancora molti sostenitori ed è pur sempre una personalità forte". Egli aggiunge che il limite di Bennett è forse il "suo essere poco carismatico e alla guida di una coalizione sin troppo ampia, pur non essendo molto distante dall’ex primo ministro sul piano ideologico. La sua è stata un’occasione persa, perché la presenza di un partito arabo al governo poteva costituire un elemento positivo”, ma l’esperienza è naufragata troppo presto e senza risultati tangibili.
• UNA COALIZIONE FRAGILE Da settimane la coalizione di governo, che racchiude elementi di destra, centro e sinistra, oltre al partito arabo Ra’am, registrava tensioni e fibrillazioni interne. Da qui la decisione dei due leader Naftali Bennett e Yair Lapid di serrare i tempi e presentare la mozione di scioglimento alla Knesset, per avviare l’iter che porterà il Paese ad elezioni anticipate. L’esecutivo di transizione, chiamato a garantire lo svolgimento dell’ordinaria amministrazione fino alle urne, dovrebbe essere guidato da Lapid, leader del partito liberale Yesh Atid e ministro degli Esteri uscente, come previsto dagli accordi che hanno portato alla nascita della prima maggioranza dopo un decennio di potere di Netanyahu. Secondo la legge, per la dissoluzione del Parlamento monocamerale con sede a Gerusalemme servirebbero tre votazioni plenarie e una revisione della commissione alla Camera, sebbene vi siano forze che stanno temporeggiando per dare ai deputati il tempo di far nascere un’alternativa di governo. Guidata, manco a dirlo, dallo stesso Netanyahu che ha già bollato l’esecutivo uscente come il “peggiore” della storia di Israele. Fin dalle prime mosse il tandem Bennett-Lapid ha palesato difficoltà di tenuta per evidenti contraddizioni interne che, col passare dei mesi, sono andate aumentando. Scontri ideologici - la “disfida sugli azzimi” solo per citarne una - si sono concretizzati nell’uscita dalla maggioranza di alcuni parlamentati di Yamina, vicini alla destra, ma pure dal partito arabo sono giunte minacce di abbandono in segno di protesta, dopo le violenze alla spianata delle Moschee durante il Ramadan. A sancire la probabile fine della legislatura sarebbe stata però la bocciatura della legge sui coloni: una norma “speciale” per i territori che rischia di innescare una nuova escalation della tensione e osteggiata da una parte della coalizione, in particolare da Mansour Abbas (Ra’am). Essa estende il diritto civile israeliano ai coloni ed è prorogata ogni quinquennio a partire dagli anni ‘70, sancendo una sorta di apartheid fra israeliani e palestinesi nello stesso territorio. Da sottolineare la posizione della destra di Netanyahu che, pur essendo favorevole alla legge e pur avendola rinnovata più volte in passato, ha votato contro per dare una ulteriore spallata all’esecutivo. In questi mesi, spiega Jeremy Milgrom, il Likud “ha manovrato per tornare al potere, manipolando alcuni membri del partito di Bennett, che hanno tenuto un atteggiamento ambivalente. Questi ultimi - prosegue - hanno subito pressioni molto forti per lasciare l’esecutivo, del resto anche l’attuale primo ministro ha tradito almeno in parte il proprio elettorato formando una maggioranza con il partito arabo”. Per quanto riguarda l’ex premier Netanyahu è evidente “il suo desiderio di tornare subito al potere e, in fondo, è lui che ha vinto le ultime elezioni, ma l’ipotesi più plausibile è quella dello scioglimento della Knesset e voto in autunno”.
• UN PAESE LACERATO ALLE URNE Preso atto della mancanza di una maggioranza per votare la norma “pro-coloni”, Bennett ha prospettato lo scioglimento della Knesset, per il quale è sufficiente un voto a maggioranza semplice. In caso di avvio dell’iter, il premier darà le dimissioni e proporrà come successore Lapid per gli affari correnti. Intanto muove le sue pedine Netanyahu che, da un lato, guarda a possibili alleanze già in questa legislatura con l’ala sionista/religiosa e fuoriusciti di Yamina, per tornare al potere e garantirsi uno scudo dai processi per truffa e corruzione in cui è imputato. Al contempo, egli non disdegna la prospettiva del voto sapendo che pur essendo divisivo mantiene un ampio - ma non sufficiente per governare in autonomia - consenso nell’elettorato. Le divisioni all’interno della (ex) coalizione rischiano poi di trascinarsi anche in fase di campagna elettorale, laddove non è chiaro se le diverse formazioni vorranno cercare un nuovo punto di contatto e rilanciare l’esperienza governativa. E che si è rivelata in gran parte fallimentare, fatta eccezione per l’approvazione - prima volta nell’ultimo triennio - della legge di bilancio 2021. Quel che emerge in una nazione dal panorama politico fluido e caratterizzato da alternanza delle alleanze, spiegano analisti e commentatori, è il ruolo di primo piano del Likud retaggio di un consenso che lo indica ancora come primo partito. Gli ultimi sondaggi gli assegnano fino a 35 seggi (sui 61 necessari per governare), con buona pace di quanti un anno fa decretavano la fine dell’era Netanyahu. “Questa esperienza - sottolinea Milgorm - sembra destinata a concludersi” ed è difficilmente proponibile come alleanza in vista del voto. “Bisogna capire - prosegue - dove punterà l’elettorato arabo e come si muoverà il partito islamico. Certo è che questo governo, seppur diverso nei toni e dialogico rispetto ai precedenti, non ha fatto alcun progresso sulle grandi questioni come l’occupazione e il processo di pace [con i palestinesi]. Al contempo, la prospettiva di un ritorno di Netanyahu appare più brutale anche perché alle sue spalle vi sono movimenti come Haredi [ebrei ultra-ortodossi, oggi all’opposizione], che sfruttano un laico come lui per tornare al governo e avere pieno controllo su budget e finanze”.
(AsiaNews, 28 giugno 2022)
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Governo Bennett: le diverse cause di un fallimento (per molti annunciato)
Come abbiamo già raccontato, dopo un solo anno, il governo guidato da Bennett verrà sciolto nei prossimi giorni, proiettando il Paese nella quinta tornata di elezioni. Molte e diverse le cause che hanno portato questa “strana alleanza” di otto diverse forze, molte in contrasto fra loro, al triste epilogo. Un’analisi interessante viene da un articolo di Daniel Haik pubblicato sul sito i24news, che riprendiamo di seguito.
• “Antibibismo”, collante insufficiente Questo governo molto eterogeneo, composto da otto partiti politici, si basava su un’unica base comune: l’eliminazione politica di Benjamin Netanyahu. Una volta compiuta questa missione il 13 giugno 2021, con il voto di fiducia del nuovo governo, la cosa principale è stata fatta! I vertici di questi otto partiti sono rimasti uniti ancora per qualche mese fino al voto sul Bilancio dello Stato nel novembre 2021. Ma poi, quando è svanita la paura di vedere Bibi tornare al potere, quel collante ha iniziato a sgretolarsi. Ciascuna delle formazioni ha poi cercato di promuovere la propria agenda politica e ideologica, senza sempre tener conto dei suoi partner. È stato allora che Bennett e il suo primo ministro alternativo, Yair Lapid, si sono trasformati in “vigili del fuoco parlamentari”. Non è trascorsa settimana senza che essi abbiano dovuto estinguere tale incendio parlamentare, o soddisfare le reiterate richieste delle molteplici componenti della coalizione.
• L’esperienza senza precedenti e problematica del partito Ra’am Integrando per la prima volta il partito islamista Raam di Mansour Abbas nella coalizione di governo, Bennett e Lapid hanno voluto credere in un cambiamento storico e nel desiderio del settore arabo di integrarsi nella realtà israeliana. Ma Mansour Abbas ha saputo sfruttare perfettamente questa situazione, a volte essendo troppo avido e il partito ha dimostrato di avere al suo interno correnti molto più radicali di quella propugnata da Abbas, che più di una volta hanno fatto vacillare la coalizione. Alla fine, è stato il rifiuto di Mazen Ganem e Arab Meretz MK Ghaida Rinawi-Zoabi a impedire alla Knesset di estendere il decreto su Giudea e Samaria, accelerando così la caduta del governo.
• Bennett, un Primo Ministro con “legittimità limitata” Poco più di un anno fa, quando a Yair Lapid è stato affidato dal presidente Rivlin il compito di formare il prossimo governo, Naftali Bennett avrebbe dovuto lasciare che il suo amico Yaïr, leader della seconda formazione politico israeliano, Yesh Atid, diventasse primo ministro, prendendo lui il Ministero degli Esteri. Ma Bennett ha rivendicato la presidenza del Primo Ministro, mentre il suo partito Yamina aveva solo sei parlamentari rimasti. Di fatto, Bennett è diventato presidente di un consiglio di amministrazione in cui ogni membro aveva lo stesso potere, se non di più, di lui. Più di una volta durante quest’anno si è trovato isolato e costretto ad allinearsi alla linea dei suoi ministri.
• Yamina, il gruppo sacrificato da Bennett Paradossalmente, è stato il partito “al potere”, quello del premier Bennett, a rivelarsi il più indisciplinato di quest’anno: Amihai Chikli, Idit Silman e Nir Orbach sono stati al centro della turbolenza che finalmente ha avuto la meglio su di essa dell’attuale coalizione. Da parte sua, il Presidente del Consiglio ha commesso il grave errore di trascurare i suoi compagni e di non ascoltare il loro disagio ideologico. Quando ha servito come mediatore tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky, tra Mosca, Kiev e Berlino, Bennett si è sentito in cima al mondo. Ma ha dimenticato i suoi stessi vice sul ciglio della strada.
• Un governo del cambiamento… senza molti cambiamenti Diciamolo subito: il governo Bennet-Lapid ha beneficiato quest’anno di una copertura mediatica particolarmente favorevole. L’aver estromesso Netanyahu dal potere gli ha dato credito pressoché illimitato di simpatia da parte di tutti i media, il che ha evidenziato i suoi successi e mascherato i suoi fallimenti. Ma fondamentalmente, questo governo del cambiamento non è riuscito ad allentare le tensioni che esistevano sotto Netanyahu.
• La mancanza di popolarità di Bennett Infine, quest’anno ha dimostrato che puoi essere come Bennett, coraggioso in battaglia e molto bravo negli affari, senza importi come leader. Durante quest’anno, l’indice di popolarità di Bennett è appena aumentato e il suo partito si è accontentato di ristagnare nei sondaggi. Senza popolarità, senza basi ideologiche, senza appoggio politico, Naftali Bennett ha capito, il 20 giugno, che la sua avventura a capo del governo stava volgendo al termine.
(Bet Magazine Mosaico, 28 giugno 2022)
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IA per analizzare l’ECG, un progetto italo-israeliano finanziato dal Maeci
L'utilizzo dell'IA sarà studiato per prevedere i possibili casi di morte cardiaca improvvisa da sindrome di Brugada, in una collaborazione che vede impegnato il gruppo del Politecnico di Torino guidato da Eros Pasero insieme all'Università di Torino e a quella di Tel Aviv.
di Giuliana Miglierini
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale (IA) per analizzare gli esiti degli elettrocardiogrammi e ricavare da essi la possibile aspettativa di vita dei pazienti affetti dalla rara sindrome cardiaca di Brugada è al centro di una collaborazione che vede impegnato gruppo di ricerca del Politecnico di Torino coordinato dal professor Eros Pasero (Dipartimento di Elettronica e Telecomunicazioni-DET). Il progetto è stato selezionato dal Ministero degli Affari Esteri (MAECI) tra i vincitori del bando scientifico Italia-Israele 2021-2023, che prevede un finanziamento di 300 mila euro. Obiettivo finale del gruppo torinese è mettere a disposizione dei cardiologi gli strumenti offerti dall’IA per estrarre informazioni “nascoste” negli elettrocardiogrammi. “I sistemi di intelligenza artificiale sono sempre più utilizzati per fare previsioni – ha spiegato il professor Pasero – I dati di cui disponiamo per analizzare gli eventi fatali dovuti alla sindrome di Brugada sono purtroppo molto scarsi. Ma i risultati finora ottenuti con i nostri algoritmi sui primi mille pazienti sono molto incoraggianti portando a prevedere l’evento fatale in oltre il 90% dei casi. L’uso di nuovi algoritmi che stiamo sperimentando offre inoltre la possibilità di vedere all’interno degli elettrocardiogrammi patologie non diagnosticate proponendo in futuro nuove prospettive diagnostiche”. La sindrome di Brugada è un disturbo dell’attività elettrica del cuore che può provocare episodi di aritmia ventricolare anche letali e rappresenta una delle principali cause di morte cardiaca improvvisa e non prevedibile. Il problema tocca soprattutto le persone giovani e senza nessuna sintomatologia particolare, fatto che rende spesso difficile capire se una persona è affetta dalla sindrome e impossibile diagnosticare un tale evento fatale futuro. Alla ricerca collabora anche l’Università di Torino, che vede il contributo dell’aritmologo Fiorenzo Gaita, che insieme a Carla Giustetto fornisce le competenze cardiologiche necessarie, e l’Università di Tel Aviv, che impegnerà tre scienziati per cercare di ottimizzare le tecniche di previsione.
(NCF, 28 giugno 2022)
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KKL Italia Onlus, alberi in Israele per salvare il pianeta
Piantare alberi in Israele. È questo il principale obiettivo del Keren Kayemeth LeIsrael (KKL), ente ebraico che opera nel terzo settore, la cui sede italiana, KKL Italia Onlus, è presieduta da Sergio Castelbolognesi. Il KKL ha avuto origine nel 1901, con l’intenzione originaria di raccogliere fondi allo scopo di riscattare le terre per la fondazione dello Stato Ebraico. Ben presto però, attraverso la lavorazione e la bonifica dei terreni per la costruzione dei primi kibbutzim, l’opera del KKL si trasformò in una vera e propria missione ecologica, con l’obiettivo di far diventare verdi le terre israeliane. Nel corso di oltre 120 anni il KKL ha piantato oltre 250 milioni di alberi, rendendo Israele l’unico paese al mondo ad avere oggi più alberi di quanti ne avesse un secolo fa. Nell’ebraismo l’albero è simbolo di vitalità: è tradizione, infatti, piantare e donare alberi per tutte le ricorrenze, più o meno liete, della vita, dalla nascita alla morte. A testimoniare l’importante valore della continuità della vita e del ricordo, anche quando le spoglie terrene non saranno più presenti, vengono piantati boschi o intere foreste di alberi, come quello piantato vicino Gerusalemme in memoria del fratello di Castelbolognesi.
Questa continua attività di raccolta fondi in favore del rimboschimento ha anche spinto l’organizzazione ad ampliare il suo campo d’azione, svolgendo studi approfonditi in campo ecologico e nella gestione delle risorse idriche. Oggi il KKL è all’avanguardia nella gestione di acque reflue e salate, arrivando ad irrigare i campi con acqua di mare desalinizzata. Un vantaggio non da poco, soprattutto per le regioni desertiche, come sottolinea il presidente della fondazione italiana, volontario come quasi tutti coloro che operano nell’ente. Difficile quantificare il numero di rappresentanti di KKL in Italia e nel mondo. Nello stivale sicuramente ce ne sono ovunque esistano comunità ebraiche: Milano, Roma, Padova, Ferrara, Trieste, Napoli, Bologna, Ancona, Firenze, Siena. Poi esistono persone che si legano all’ente, innamorandosi del fine che muove i volontari. Tra le zone che gli amici italiani hanno contribuito a migliorare si ricordano le foreste di Segev, Yatir e il Parco Italia. E per sostenere ulteriormente il rimboschimento portato avanti da KKL è possibile donare, anche online, tramite carta di credito o anche donando il 5x1000. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito www.kklitalia.it. Tante sono anche le persone che decidono di lasciare un lascito alla fine dei propri giorni. Un modo per essere ricordati, e per piantare lungimiranza, come insegnano in KKL.
• Ricordare la Shoah attraverso il rimboschimento
Tanti gli eventi in Italia a cui vengono invitati i volontari di KKL, uno di questi, un mese fa, li ha portati anche a incontrare il Papa. Altre attività riguardano invece le manifestazioni in memoria della Shoah e delle vittime del nazifascismo, come ad esempio quella in ricordo di Giovanni Palatucci, poliziotto medaglia d’oro al merito civile, che salvò centinaia di ebrei nella città di Fiume. Reggente della questura locale, venne arrestato nel 1944 dalle SS che lo internarono a Dachau, dove venne ucciso. Il suo sacrificio viene omaggiato anche da Israele, che nel 1990 lo ha insignito del titolo di “Giusto tra le nazioni”.
• Gino Bartali nel Giardino dei Giusti
Anche il corridore Gino Bartali è entrato nel Giardino dei Giusti: trasportando documenti falsi nel telaio e nel manubrio della bici da Assisi a Firenze ha salvato centinaia di ebrei, circa 800. “Il bene si fa e non si racconta”, diceva lui, che non ha mai pubblicizzato questi gesti altissimi. Insieme alla nipote Gioia il KKL gli ha dedicato un sentiero ciclabile nel verde a Gerusalemme. Bartali fu ricercato dalla polizia fascista a causa del suo coraggio, ma riuscì a sfuggire all’arresto grazie a degli amici che lo nascosero. Lui stesso ospitò ebrei per nasconderli dagli oppressori.
• I progetti di KKL
Tanti i progetti attivi e portati a termine. Tanti quanti gli alberi piantati nella zona boschiva di Hula, che da paludosa qual era è divenuta una delle principali mete di migrazione al mondo di diverse specie di uccelli. Un traguardo tutt’altro che scontato, che fa il paio con l’aiuto per rimboschire il polmone verde di circa 3000 ettari della Foresta Ben Shemen, così come uno spazio verde in memoria di Nechama Rivlin. Meritorio poi il ricordo dei 21 magistrati uccisi in Italia con alberi piantati in loro memoria in Israele e un libro dedicato: “Ritratti del coraggio”.
(la Repubblica, 28 giugno 2022)
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Israele, trovati resti di una città costruita con elementi architettonici riconducibili a quelli dei nuraghi
L’annuncio è stato dato dall’Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, nel corso della sua visita in Sardegna
In Israele, nell’area del Monte Carmelo (Alta Galilea) sono stati trovati i resti di una città costruita con elementi architettonici che possono essere ricondotti a quelli nuragici, che dimostrerebbero la presenza in quella zona di popolazioni sarde, in un periodo individuato tra il dodicesimo e l’undicesimo secolo Avanti Cristo. L’annuncio di questa importante scoperta è stato dato ufficialmente dall’Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, nel corso del suo incontro a Cagliari con il Presidente della Regione Sardegna Christian Solinas. “Si tratta di una notizia molto promettente”, ha commentato al riguardo il professor Raimondo Zucca, archeologo e docente dell’Università di Sassari, che ha ricordato anche come si abbiano già “testimonianze di presenza di piombo e argento sardo in Israele, databili dal secolo dodicesimo al decimo secolo avanti Cristo.” “Rame delle miniere israeliane di Tomba nel Negev è stato poi rinvenuto in Sardegna, nei territori di Orroli, Ballao e Ossi, in insediamenti risalenti all’undicesimo secolo avanti Cristo” ha affermato Zucca, che ha inoltre sottolineato come fossero “intensi in quel periodo i rapporti tra mondo filisteo e la Sardegna, come dimostrano anche i risultati degli scavi compiuti per molti anni in Israele dal Professor Giovanni Ugas dell’Università di Cagliari insieme all’archeologo israeliano Adam Zertal”. Quella dell’Ambasciatore israeliano in Sardegna, accompagnato da una folta delegazione, non è stata solo una visita di cortesia istituzionale, ma anche un’occasione per stringere rapporti sempre più stretti e cercare nuove forme di cooperazione in svariati campi. I temi legati alle applicazioni nell’agricoltura di tecnologie già sperimentate in aree desertiche o con scarsa disponibilità idrica, delle energie rinnovabili e delle tecnologie per combattere la piaga delle cavallette, grazie a strumenti innovativi gi
(Pagine Esteri, 27 giugno 2022)
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Industrie militari. L’italiana Leonardo si fonde con l’israeliana RADA
di Antonio Mazzeo
Leonardo SpA è sempre più made in Israel. Il 21 giugno la società a capo del complesso miltare-industriale nazionale ha comunicato che la controllata statunitense Leonardo DRS e l’azienda israeliana RADA Electronic Industries Ltd. (leader nella fornitura di radar tattici militari e software avanzati) hanno firmato un accordo vincolante di fusione. Nello specifico Leonardo DRS acquisirà il 100% del capitale sociale di RADA in cambio dell’assegnazione del 19,5% delle proprie azioni agli attuali azionisti della società israeliana. Il gruppo italiano a capitale pubblico, tramite la propria controllata statunitense Leonardo Holding, continuerà a possedere l’80,5% della società combinata. Al perfezionamento dell’operazione, previsto entro la fine del 2022, Leonardo DRS sarà quotata sia al NASDAQ che alla borsa di Tel Aviv con il simbolo DRS.
(Pagine Esteri, 27 giugno 2022)
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Hamas denuncia: “Gaza prepara battaglia contro Israele”
“Siamo pronti al martirio”, dichiara il leader Haniyeh
di Micaela Ferraro
Secondo il leader di Hamas Ismail Haniyeh, Gaza si starebbe preparando a una battaglia strategica contro Israele: «malgrado il blocco imposto da Israele 15 anni fa, Gaza si sta preparando ad una battaglia strategica contro il nemico sionista. Sappiamo bene che una guerra non è un picnic, ma siamo pronti al martirio mentre percorriamo la strada verso la libertà», ha dichiarato secondo quanto riportano i media israeliani.
«Ci troviamo oggi in un’era di vittorie e di grandi trasformazioni – ha aggiunto – rese possibili dal nostro popolo e dalla resistenza in Palestina, in Libano ed altrove. Dopo molti anni di cooperazione di sicurezza la Cisgiordania torna a sollevarsi e la città di Jenin eleva la bandiera della resistenza. Io dico ai sionisti: i vostri sogni andranno in fumo, per voi non c’è posto a Gerusalemme né nella moschea al Aqsa».
Haniyeh è intervenuto a una manifestazione a Sidone, nel Libano meridionale, e ha incontrato dirigenti politici libanesi nel corso della sua visita, tra cui il leader degli Hezbollah Hassan Nasrallah, ed il capo della Jihad islamica Ziad Nahale.
(Il Mondo, 27 giugno 2022)
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Nucleare iraniano, ripartono i colloqui. Con una novità israeliana
L’Alto rappresentante Ue annuncia il riavvio dei talks sull’accordo per il nucleare iraniano. Le prossime riunioni, probabilmente in Qatar, potrebbero avere dalle retrovie una forma di sostegno tattico da Israele.
di Emanuele Rossi
Diversi generali israeliani, tra cui il capo dell’intelligence militare, hanno iniziato a sostenere in modo più pressante e aperto il ritorno all’accordo Jcpoa del 2015. La posizione sull’intesa – che congelava il programma nucleare iraniano, prima dell’uscita statunitense del 2018 – va contro la politica ufficiale di Israele. La notizia è stata pubblicata dal sito dello Yedioth Ahronot, Ynet, domenica 27 giugno mentre le potenze mondiali si preparano a riconvocare i colloqui tenuti finora a Vienna per rilanciare i tentativi di ricomporre il Jcpoa dopo mesi di stallo. Ufficialmente, Israele si oppone: come sette anni fa, quando condusse una campagna al momento della firma, continua a considerare l’Iran inaffidabile e incapace di mantenere i propri impegni. Per lo Stato ebraico la linea è costante, indipendentemente dal governo: l’Iran sta cercando di dotarsi di un deterrente nucleare, lo sta facendo in segreto, non è un interlocutore affidabile. Da aggiungere che Israele – come i Paesi del Golfo – subisce le minacce (e le aggressività) della politica espansionistica iraniana giocata attraverso attori proxy come le milizie sciite. Tuttavia, alti funzionari dell’intelligence sono arrivati a pensare che in fin dei conti un cattivo accordo sia preferibile a nessun accordo. Questo racconta anche come il Jcpoa, sebbene non costruito con questo fine diretto, sia percepito da diversi attori come una parte dell’architettura di sicurezza regionale. Architettura che per altro è in costruzione anche attraverso un dialogo tra Israele, Stati Uniti e Paesi arabi. Secondo informazioni raccolte dal Wall Street Journal, che sull’argomento è molto avanti, il Centcom statunitense ha ospitato a marzo, a Sharm el Sheikh, un incontro segreto a cui hanno partecipato rappresentanti da Israele, Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Giordania. Questo sarebbe il primo meeting del genere a cui hanno preso parte direttamente sauditi e israeliani, due Paesi precedentemente divisi da posizioni ideologiche che Washington sta cercando di avvicinare. Parte della normalizzazione dei rapporti riguarda l’assestamento di dinamiche geostrategiche e geoeconomiche, ma il peso dell’Iran come nemico comune non è secondario – questo attualmente tocca anche la Turchia. Contemporaneamente, in questi giorni i principali funzionari dei ministeri degli Esteri di Israele, Egitto, Bahrain, Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Marocco parteciperanno alla prima riunione del Comitato direttivo del Forum del Negev. L’incontro che si terrà a Manama è una formalizzazione e un’attuazione degli impegni presi a marzo durante il Negev Summit. L’obiettivo è trasformare l’incontro in un forum permanente. Si creeranno dei gruppi di lavoro, che si occuperanno di sicurezza regionale, sicurezza alimentare e idrica, energia, salute, istruzione e tolleranza e turismo. Ciascuno dei sei paesi sarà a capo di un gruppo di lavoro, che si riunirà due o tre volte l’anno. Nell’ultimo anno le Forze di Difesa Israeliane hanno intensificato gli sforzi per preparare una minaccia militare credibile contro l’Iran, con decine di jet da combattimento dell’aviazione israeliana che hanno per esempio condotto manovre aeree sul Mar Mediterraneo simulando di colpire le strutture nucleari iraniane all’inizio di questo mese. Di questa deterrenza fanno parte anche gli Stati Uniti, che la ritengono un piano B dovesse saltare completamente il dialogo sul Jcpoa. Altrettanto i grandi player regionali, come Arabia Saudita ed Emirati Arabi o l’Egitto e Qatar, non possono essere tenuti fuori da certi tipi di discussioni. Soprattutto alla luce di quelle distensioni e quegli allineamenti in atto. La posizione maturata tra la Difesa israeliana potrebbe avere ragioni tattiche: stante l’assenza di fiducia nei confronti dell’Iran, si preferirebbe un accordo adesso che potrebbe permettere di prendere tempo e creare un’opzione di deterrenza armata più strutturata e integrata. C’è anche una lista di nomi di ufficiali a sostegno di un ritorno all’accordo elencati da Ynet. Tra questi il capo della Direzione dell’Intelligence militare dell’IDF, il generale Aharon Haliva; e poi il generale di brigata Amit Saar, che dirige la Divisione di ricerca dell’Intelligence militare; l’0mologo, Oren Setter, il capo della Divisione strategica dell’IDF; e il Tal Kelman, l’ufficiale militare responsabile degli affari con l’Iran. Per quanto noto, anche il ministro della Difesa del governo uscente, Benny Gantz, sarebbe favorevole a un ritorno all’accordo. Gantz ha già detto di essere favorevole a un accordo “più ampio, più forte e più lungo”. Un’altra parte dell’apparato israeliano, guidata dal capo del Mossad, David Barnea, e da quello dell’IDF, Aviv Kohavi, ritiene pericoloso un ritorno al Jcpoa. Secondo Ynet, il Mossad sostiene che un accordo è negativo per Israele e che al massimo gli permetterebbe di avere due anni e mezzo di tempo in cui l’Iran non avanzerà nelle sue capacità nucleari. Separatamente, l’articolo scrive che il Mossad ritiene la divulgazione delle posizioni degli ufficiali dell’intelligence come finalizzata a influenzare il primo ministro entrante Yair Lapid, affinché sostenga un ritorno all’accordo. Non è usuale che certe dinamiche politiche interne arrivino a toccare temi così delicati per la strategia israeliana. “L’establishment della difesa sta affrontando la minaccia iraniana giorno e notte come la questione strategica più importante e urgente per la sicurezza di Israele”, ha dichiarato Gantz su Twitter. “Questo viene fatto in coordinamento tra tutte le forze di sicurezza e, pur lasciando libertà di opinione, le decisioni vengono prese dai vertici politici”. “Continueremo a tenere questo discorso aperto e profondo solo nelle stanze chiuse. Qualsiasi altro modo danneggia la sicurezza dello Stato di Israele”, ha aggiunto Gantz. L’accordo originale del 2015 concedeva all’Iran un alleggerimento delle sanzioni in cambio di una limitazione del suo programma nucleare, ma gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente da esso nel 2018 sotto l’allora presidente Donald Trump, che ha reimposto pesanti sanzioni economiche. Il successore, il democratico Joe Biden, ha lasciato finora tutta la panoplia sanzionatoria attiva (viene definita “strategia della massima pressione”) pur avendoIs cercato forme di contatto per ricomporre l’intesa. L’uscita americana ha spinto l’Iran a iniziare a ridurre i propri impegni e ad arricchire l’uranio a un livello di purezza che è solo a un breve passo tecnico da quello necessario per produrre armi atomiche. I colloqui per il rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano, in stallo da tre mesi, dovrebbero riprendere a giorni, ha dichiarato sabato il capo della politica estera dell’UE, Josep Borrell, durante una visita a sorpresa a Teheran. Secondo le fonti consultate, quasi sicuramente saranno ospitati in Qatar – che guadagnerebbe così un’ulteriore centralità nelle dinamiche di distensione e dialogo regionale.
(Formiche.net, 27 giugno 2022)
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Passeggiare per la Roma ebraica con Francesco Rutelli
di Elisabetta Fiorito
Mettete assieme un ex sindaco di Roma e un decano della comunità ebraica ed ecco che anche a quaranta gradi con un tasso d’umidità ragguardevole si raggruppano una cinquantina di persone per scoprire la Roma ebraica al di là di Portico d’Ottavia. Francesco Rutelli e Sandro Di Castro sono gli artefici della passeggiata organizzata in collaborazione con il Centro di Cultura della Comunità che ha concluso “Ebraica”, le giornate della cultura ebraica. Un itinerario che si è terminato con la presentazione del libro di Rutelli “Roma, camminando” in cui l’ex sindaco suggerisce itinerari noti e meno noti per scoprire la città eterna.
• QUAL È IL LEGAME TRA RUTELLI E LA COMUNITÀ EBRAICA?
“Mio nonno è stato riconosciuto a Yad Vashem come giusto tra le nazioni perché ha rischiato la vita per salvare un suo dipendente giovane ebreo. La mia vita è cambiata quando l’ho saputo. Mia madre era nata lì in quella casa, nei pressi di via Nomentana, dove io sono nato una decina d’anni dopo quei fatti. Ho capito che la cosa veramente importante di mio nonno era il suo silenzio discreto, non era orgoglioso più di tanto di aver compiuto questo gesto, lo considerava una cosa giusta e normale da fare per un borghese romano che non accettava l’occupazione nazista e la persecuzione nei confronti degli ebrei.
• QUANDO ERA SINDACO, HA INIZIATO I VIAGGI DELLA MEMORIA…
I viaggi della memoria sono iniziati alla metà degli anni ’90 e poi sono proseguiti da tutti i sindaci, questa è una cosa estremamente positiva. Ricordo che chiesi ai presidi di non mandarmi i “secchioni”, gli alunni già motivati, ma gli studenti più difficili che dovevano capire cosa fosse Auschwitz e prenderne consapevolezza. Da allora abbiamo fatto molte cose, come dare alla comunità il centro della cultura ebraica che era una scuola abbandonata. Pagine normali per una comunità che appartiene alla storia di Roma. Gli ebrei sono stati qui prima dei cristiani, dal secondo-primo secolo a.C., poi arrivati e deportati in massa nel ’70 dopo la distruzione del tempio da parte di Tito. Gli ebrei romani sono stati a lungo umiliati, maltrattati, considerati come una realtà da ridicolizzare, da tenere ai margini da parte dei cristiani fino all’edificazione del ghetto, a metà del ‘500 da parte di Paolo IV, papa Carafa. Una pagina di gioia oggi, durante le giornate della cultura ebraica, di dolore per troppi secoli. Chi dimentica quel dolore che culminò nella deportazione durante l’occupazione non sa cosa l’attende. Lo attende il ritorno non di fantasmi, ma dei corpi fisici della sopraffazione, dell’orrore, della morte, della discriminazione.
• NEL SUO LIBRO, QUALI ITINERARI CONSIGLIA A CHI VUOLE CONOSCERE LA CULTURA EBRAICA?
Il mio libro è fatto di 18 itinerari lungo tutta la città di Roma che incrociano in tante parti fatti ebraici. La cosa più significativa è che gli ebrei non erano nel vecchio quartiere ebraico, ma in Trastevere e che si sono trasferiti in Portico d’Ottavia perché molti erano impegnati nell’attività della Pescheria che era in questa zona. Si raccontano tanti fatti, come quello dei due grandi Mosè, quello di San Pietro in Vincoli scolpito da Michelangelo, e quello che sta nella grande fontana voluta da Sisto V dove si mostra l’acqua felice. Segni della presenza ebraica ci sono un po’ dovunque. Dobbiamo imparare a considerare gli ebrei di Roma non come una particolarità, ma come una fibra stessa della nostra comunità e della vita di tutti i romani.
(Shalom, 27 giugno 2022)
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L’anacronistica sete di restaurazione
di Elena Loewenthal
«Noi non possiamo distrarci», scriveva ieri qui Linda Laura Sabbadini, dando voce a una preoccupazione tanto profonda quanto condivisibile. Perché il grande passo indietro degli Stati Uniti e della sua Corte Suprema riguarda tutti noi, e non soltanto indirettamente. L’Italia è arrivata piuttosto tardi al riconoscimento di alcuni diritti fondamentali. Noi donne siamo andate al voto per la prima volta nel 1946. Il divorzio e l’aborto sono usciti dalla sfera dell’illegalità grazie a referendum che non appartengono al passato remoto, anzi. Ma forse è proprio l’idea in sé di diritto civile che stenta ad affermarsi, che è ancora frutto di scivolose ambiguità. I diritti civili, infatti, sono per definizione un patrimonio comune che implica la consapevolezza e l’impegno a difenderli e sostenerli anche se non ci riguardano a livello personale. In parole povere, il diritto al divorzio va tutelato anche da chi ha la fortuna e s’impegna a tenere saldo il proprio matrimonio per tutta la vita. Anche la donna che non abortirà mai ha il dovere, come cittadina, di conservare il diritto all’interruzione volontaria di una gravidanza, magari imposta o subìta - le motivazioni che inducono una donna a decidere di abortire sono tutt’altra cosa dalla tutela del suo diritto di farlo. È precisamente questo che definisce la democrazia: un minimo comune denominatore di diritti civili che si ha la libertà di esercitare o meno. Al di fuori di ogni contesto storico, religioso, etico che non sia il rispetto dell’individuo e delle sue scelte.
Il passo indietro degli Stati Uniti e l’inno di vittoria di sterili conservatorismi locali spostano (chissà quanto consapevolmente) l’asse dai diritti civili a presunte sfere etico fideistiche. Senza rendersi conto di quanto questa sete di restaurazione sia non solo anacronistica ma anche approssimativa. Per l’ebraismo, ad esempio, l’aborto volontario è vietato in nome del principio primo che salvaguarda la vita come valore fondamentale. Se non che, in nome di questo stesso principio, per l’ebraismo la vita della madre viene sempre prima di quella del feto, che acquisisce uno status umano completo solo attraversando il canale di parto: ne consegue inevitabilmente un approccio etico e talora pratico diverso da quello della fede cristiana dominante. In questo senso, la presunzione di guidare le scelte individuali dei cittadini - ma soprattutto delle cittadine, perché non bisogna mai dimenticare che sulla questione dell’aborto c’è un soggetto primo che è anche l’unico: la donna – sulla base di apriorismi etico religiosi è esattamente il contrario della tutela di quei diritti civili che tengono insieme una società libera, democratica e rispettosa di tutti. Più che mai in un paese come il nostro, arrivato tardi alla conquista di questi diritti e di questa idea di libertà. Noi tutti – e soprattutto le donne! – abbiamo ancora nitida la memoria di quando questi diritti non c’erano ancora, e delle battaglie che sono state fatte in loro nome. Per questo, come dice Linda Laura Sabbadini, «non dobbiamo distrarci». Perché quei diritti, tanto negli Stati Uniti quanto in Italia, sono ancora fragili. Troppo fragili. Come dimostra la sentenza della Corte Suprema americana, non possiamo permetterci di darli per scontati, conquistati definitivamente. Basta, purtroppo, ancora poco per metterli a repentaglio, renderli reversibili. E compromettere quei diritti fondamentali – delle donne e della loro libertà innanzitutto – significa rimettere in discussione la democrazia stessa nei suoi fondamenti, la nostra idea di progresso.
(La Stampa, 27 giugno 2022)
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La Donna creatrice
di Marcello Cicchese
"... per l’ebraismo la vita della madre viene sempre prima di quella del feto, che acquisisce uno status umano completo solo attraversando il canale di parto", sostiene l'autrice dell'articolo precedente.
Termini come "ebraismo" e "cristianesimo" non esprimono concetti teologici: sono semplici indicazioni di realtà sociologiche osservabili da una molteplicità di punti di vista diversi e interpretabili in una quantità ancora maggiore di modi. Usarli per approvare o criticare una precisa scelta di governo in un determinato momento storico è segno di superficialità culturale. Ed è proprio questo che sembra caratterizzare oggi l'ebraismo politicizzato italiano (in senso, appunto, puramente sociologico). E' un ebraismo che in sostanza non dice nulla: si limita a dare una spruzzatina di religiosità ebraica a quello che "dicono tutti". Non proprio tutti a dire il vero, ma soprattutto quelli che si trovano più in alto in una certa scala di valori assunta come metro di valutazione dai media di maggiore importanza e diffusione.
Ed ecco allora la ripetizione della difesa dei sacri "diritti civili" della persona, in primo luogo naturalmente della donna, perché oggi è la donna l'icona da venerare, indipendentemente da chi la rappresenta.
Torniamo allora alla frase riportata all'inizio, secondo la quale il "feto... acquisisce uno status umano completo solo attraversando il canale di parto". Questo potrebbe essere un preciso enunciato teologico. Ma chi lo dice? L'ebraismo? Dunque per l'ebraismo il feto prima di scendere nel canale materno non è un essere umano? Sta nella donna il poter decidere se farlo nascere o no?
In tutto questo, naturalmente, Dio non c'entra. E' la donna che fa tutto. E' un suo diritto, sostiene il mondo occidentale benpensante insieme all'ebraismo benpensante che si differenzia - sottolinea l'autrice - dalla fede cristiana dominante.
Qui bisogna dire che un non meglio precisato "ebraismo" che si mette a pontificare un po' su tutto con riferimenti generici a una "fede cristiana" non meglio definita, non può pretendere di essere lasciato senza una contraddizione dura e forte. Si può chiedere allora all'autrice che cosa ha da dire l'ebraismo sui diritti civili calpestati da un'autorità che impone ai cittadini di sottoporre il proprio corpo a una forzata manipolazione con inoculazioni coatte di dubbio valore, adducendo motivazioni false e chiaramente ricattatorie.
Riportiamo un'altra frase dell'autrice:
«la presunzione di guidare le scelte individuali dei cittadini [...] sulla base di apriorismi etico religiosi è esattamente il contrario della tutela di quei diritti civili che tengono insieme una società libera, democratica e rispettosa di tutti.»
Proviamo a riformulare la stessa frase con una sola sostituzione:
«la presunzione di guidare le scelte individuali dei cittadini [...] sulla base di apriorismi etico scientisti è esattamente il contrario della tutela di quei diritti civili che tengono insieme una società libera, democratica e rispettosa di tutti.»
Proprio questo è stato fatto: il governo italiano, con l'appoggio dei benpensanti di diverse componenti sociali laiche o religiose, ha imposto l'obbligo della vaccinazione, pretendendo di guidare le scelte individuali dei cittadini sulla base di una morbosa religiosità scientista che ha preso il posto delle più deleterie superstizioni del passato, con tutto il dovuto equipaggiamento di maghi e indovini.
Quanto allo "status umano" che secondo l'ebraismo sarebbe assunto soltanto nel canale materno, ci limitiamo a riportare alcune parole dell'autore del Salmo 139:
- Sei tu che hai formato le mie reni,
che mi hai intessuto nel seno di mia madre.
- Io ti celebrerò, perché sono stato fatto in modo stupendo.
Meravigliose sono le tue opere, e l'anima mia lo sa molto bene.
- Le mie ossa non ti erano nascoste,
quando fui formato in segreto
e intessuto nelle profondità della terra.
- I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo
e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che mi erano destinati, quando nessuno d'essi era sorto ancora.
Se l'ebraismo moderno rinnega queste parole vuol dire che si è associato a quel movimento culturale mondiale, particolarmente forte nel progredito Occidente, che rigetta il Dio creatore e tenta in tutti i modi di sostituirlo con l'Uomo creatore. O per meglio dire, con la Donna creatrice.
"Sarete come Dio", disse qualcuno nel giardino di Eden.
(Notizie su Israele, 27 giugno 2022)
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El Al sospende le rotte per Toronto, Varsavia e Bruxelles, da fine ottobre
El Al Israel Airlines interromperà i collegamenti sulle rotte per Toronto, Varsavia e Bruxelles, il prossimo 30 ottobre. Secondo quanto spiegato dalla compagnia aerea, “Dall’uscita dalla crisi provocata dal Covid si sono verificati cambiamenti nella domanda prevista di voli da e per Israele. Questo ci ha costretto ad apportare modifiche agli orari e alle destinazioni dei voli, al fine di fornire ai nostri passeggeri le destinazioni adeguate, per la nuova domanda e le nuove destinazioni”.
Tuttavia, la compagnia aerea sta affrontando anche una carenza di piloti, come numerosi altri vettori in questo particolare momento.
(Travel Quotidiano, 27 giugno 2022)
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Emirates, nuova rotta per Tel Aviv
Una nuova rotta per Emirates: è stata inaugurata la tratta di Tel Aviv, la prima della compagnia in Israele. Ieri il volo Emirates EK931 è partito con 335 passeggeri, tra cui una delegazione VIP e i media israeliani, alle 12.20 ora locale.
Tra i dirigenti di Emirates a bordo c'erano: Adel Al Redha, responsabile operativo; Abdulla Al Hashimi, vicepresidente senior di divisione, Group Security; Adil Al Ghaith, vicepresidente commerciale senior per l’area del Golfo, Medio Oriente e Asia Centrale; Khalid Bel Jaflah, vicepresidente commerciale per l’area degli Emirati Arabi Uniti e Oman; David Broz, vicepresidente affari aeropolitici e Jeffrey Van Haeften, vicepresidente per il commerciale e le vendite del Cargo.
Il nuovo servizio giornaliero offrirà ai viaggiatori israeliani un comodo accesso a Dubai, con connessioni facilitate a destinazioni turistiche popolari come Australia, Filippine, Maldive, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam. Emirates offrirà anche un comodo accesso a Tel Aviv da diversi punti del suo network con più voli giornalieri e settimanali, molti dei quali sono sede di fiorenti comunità ebraiche.
Quest'anno saranno riattivati anche i servizi per Londra Stansted, Rio de Janeiro, Buenos Aires e Christchurch.
(AdvTraining, 27 giugno 2022)
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Le Beatitudini di Gesù (4)
di Marcello Cicchese
BEATI I MANSUETI
"Beati i mansueti, perché essi erederanno la terra" (Matteo 5:5).
Come nelle prime due beatitudini, anche questa beatitudine annunciata da Gesù scaturisce da una promessa: "essi erederanno la terra". Se, come sembra ragionevole supporre, questo versetto è una citazione del salmo 37, si può osservare che l'implicita domanda: "chi erediterà la terra? " è presente nel pensiero del salmista, e ad essa egli risponde ripetutamente: "chi spera nell'Eterno" (v. 9), "i mansueti" (v. 11), "gli uomini integri" (v. 18), "quelli che Dio benedice" (v. 22), "i giusti" (v. 29). Se per il salmista la terra è evidentemente la terra promessa, il "paese" concesso da Dio al suo popolo, in bocca a Gesù questo termine sta a significare la nuova creazione redenta, la nuova terra che, con il nuovo cielo (Apocalisse 21:1), costituirà l'ambiente in cui "Dio abiterà con gli uomini" (Apocalisse 21:3). Questa nuova terra di Dio apparterrà dunque ai mansueti: questa è la promessa di Gesù. Chi sono questi "mansueti"? Il termine ebraico usato nel salmo 37 e in altri passi dell' Antico Testamento, così dicono gli esperti, ha in realtà un significato un po' meno moralistico di quello contenuto nel corrispondente termine greco e in quello italiano. I mansueti, i miti dell'Antico Testamento sono coloro che per motivi economico-sociologici si trovano in una situazione bassa, subordinata, servile: non sono dunque molto diversi dai "poveri". Essi sono i miseri, gli umiliati, i bisognosi i quali, essendo oggetto della promessa della terra da parte di Dio, sono chiamati ad avere un atteggiamento di fiduciosa speranza, a "confidare in Dio e a fare il bene" (Salmo 37:3), a "non crucciarsi a cagione dei malvagi" (v. 1) perché "Egli opererà" (v. 5). In virtù della promessa divina, dunque, questi "umiliati" sono chiamati ad essere effettivamente "mansueti", a non volersi cioè appropriare della terra con la violenza, perché la terra appartiene a Dio ed Egli ha stabilito di darla in eredità ai miseri e agli umili. Nella versione delle beatitudini di Matteo, pur essendo preponderante l'indicativo, cioè l'annuncio di ciò che Dio sta per compiere, non manca l'aspetto esortativo, conseguenza della fiducia che deve essere posta nell'opera di Dio. Quindi se il salmista asserisce: "gli umili erederanno la terra e godranno abbondanza di pace", nel vangelo di Matteo viene detto: "beati i mansueti", cioè beati coloro che con mite e umile serenità vivranno nella fiduciosa attesa del compimento della promessa di Dio. L'esortazione alla mansuetudine è dunque presente nelle parole di Gesù, e in quanto tale riguarda tutti noi, ma essa scaturisce dall'annuncio dell'opera di Dio e non da qualche astratto imperativo morale a cui gli uomini dovrebbero adeguarsi. Che il Regno di Dio appartenga ai mansueti trova la sua conferma nel fatto che il re si insedia nel suo regno in modo mansueto, non violento:
"Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te mansueto, e montato sopra un'asina, e un asinello, puledro d'asina" (Matteo 21:5, cfr. Zaccaria 9:9).
Con ciò Gesù manifesta che il suo regno "non è di questo mondo" (Giovanni 18:36), perché ogni regime "di questo mondo" ha alle sue origini una "rivoluzione" violenta e si sostiene attraverso l'uso della forza. Si dirà, con molte buone ragioni, che certe forme di violenza sono assolutamente necessarie per evitare guai peggiori e per sconfiggere altre violenze ingiuste, e tutto ciò è purtroppo vero nell'ambito dei giochi di forza "di questo mondo", ma la fede cristiana si fonda sul fatto che nell'uomo Gesù, Dio è entrato in questo mondo e ha vinto il male di questo mondo non con le sue stesse armi, ma con le armi di un altro mondo, le armi della pace e dell'amore. Il Regno di Dio è una realtà in cui la vittoria finale non arride a chi fa uso della sua forza, ma a chi lascia che "la debolezza di Dio" vinca gli uomini. Si torna sempre, quindi, alla croce e alla risurrezione di Cristo. E non potrebbe essere che così. Ciò che Dio ha fatto, sta facendo e farà in Gesù Cristo è ciò che deve determinare l'agire dei cristiani, e non altro. Quando invece questo collegamento essenziale con l'opera di Cristo viene perso di vista o viene lasciato nello sfondo, le esortazioni morali finiscono per diventare vaghi moralismi, fondati, più che sul vangelo, sulle varie filosofie del momento. La mansuetudine, per esempio, è stata una virtù apprezzata nel mondo greco-ellenistico. Essa denota la grandezza d'animo di chi è capace di accettare il destino favorevole o avverso non solo con passiva rassegnazione, ma anzi con volontaria accettazione; esprime la saggezza di chi non si lascia dominare dalle passioni, ma reagisce con serena calma e superiore distacco alla stoltezza degli uomini e ai lati sgradevoli delle vicende umane. Gesù però non ha avuto questo tipo di virtù. Gesù non è uno stoico. Gesù è l'unico uomo che nella pazzia di questo mondo ha confidato interamente in Dio. E il mondo ha giudicato lui un pazzo:
"Si è confidato in Dio; lo liberi ora, se Egli lo gradisce" (Matteo 27:43).
Gesù non è stato superiore alle passioni: ha provato spavento, angoscia, tristezza mortale (Marco 14:33-34), ha sudato sangue, ha pregato di essere liberato dall'esperienza che gli stava davanti, senza essere in questo esaudito; non si è consolato da solo, con la sua filosofia e la sua forza d'animo, ma il conforto gli è venuto dall'esterno, dall'alto (Luca 22:43), senza che tuttavia la sua agonia avesse termine. In questa posizione di umile sottomissione al Padre, Gesù ha rinunciato a chiedere di far venire una "legione di angeli" a liberarlo. Tutto questo ci ricorda che la mitezza cristiana non è una virtù interna, ma è l'espressione di una fede obbediente in Dio. Il saggio ricerca la mansuetudine come atteggiamento di superiorità e distacco dalle passioni del rancore e dell'odio, e dalle loro conseguenze. Quando vi riesce, è perché in realtà è arrivato a sentirsi superiore agli altri uomini e a distaccarsi da loro: la mitezza pagana si trasforma troppo spesso in orgoglio e disprezzo. Si può essere calmi perché si è distaccati, non interessati. Ma al cristiano non è lecito distaccarsi dagli uomini e neppure dalle tensioni e dalle passioni della vita. Il cristiano che subisce un torto o vive in una situazione di ingiustizia non può, non deve rinunciare a soffrire, perché sa che ciò che gli sta accadendo è male, per lui che subisce come per chi compie l'ingiustizia, e perché mentre da una parte si rifiuta di accettare quella situazione, dall'altra sa di non dover uscirne con mezzi propri basati sull'uso della violenza. Non può né consolarsi da solo né risolvere da solo la questione: ha bisogno di "confidare in Dio", di essere confortato da Lui, di essere da Lui aiutato a trovare la giusta via d'uscita. La mansuetudine cristiana ha bisogno di speranza; e quest'ultima si fonda sulle promesse di Dio. Una mansuetudine che non abbia come base la speranza nell'opera di Dio, non è una virtù cristiana. Oggi la virtù della mansuetudine ha preso il nome di "nonviolenza". E' certo che le parole di Gesù dovrebbero spingere a confrontarci seriamente con questa corrente etico-politica; e forse i cristiani dovrebbero aspettarsi di essere più di altri classificati tra i non violenti. Purtroppo invece vecchie e meno vecchie tradizioni "cristiane" hanno favorito una colpevole insensibilità nei confronti delle forme di violenza organizzata (guerre, regimi dispotici). La mancanza di una seria riflessione sulla nonviolenza ha fatto trovare molti cristiani impreparati davanti alle correnti nonviolente laiche. Da una parte esiste ancora un'ingiustificabile indifferenza nei confronti di questi movimenti, come se le loro istanze non avessero nulla a che fare con gli obiettivi del vangelo. Si sente dire: "l'importante è convertirsi, tutto il resto viene dopo", ma questo "dopo" non è sempre facilmente osservabile in coloro che si dicono convertiti.
D'altra parte ci può essere un inserimento acritico in questi movimenti, come se per la loro stessa natura fossero portatori di "valori" cristiani. Credo che la ricerca sincera da parte dei credenti di forme nonviolente di pensiero e di vita debba essere fondata su un esercizio continuo della fede nelle promesse di Dio e nell'opera dello Spirito Santo. E questa fede deve anche essere testimoniata. Con convinzione e, oserei dire, con "evangelica aggressività". Non è sufficiente inserirsi silenziosamente nei migliori movimenti sociali che agiscono nel mondo: dobbiamo anche saper esprimere non ciò che distingue noi dagli altri, ma ciò che distingue la buona notizia di Gesù Cristo dai nostri migliori progetti. Il nostro prendere posizione ci procurerà forse un certo calo di reputazione davanti ai nostri compagni di opera e ci darà occasione di esercitare la mansuetudine anche nei loro confronti. Ma non deve essere evitato. Diventare dei "rispettabili cristiani di sinistra" è tanto poco utile alla causa del vangelo quanto il restare dei "rispettabili cristiani di destra (o di centro)".
(da "Credere e Comprendere", ottobre 1981)
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Gli insegnanti dell’odio: come l’ONU istiga alla violenza i bambini palestinesi
Anni e anni di rapporti che denunciano il continuo istigamento all’odio della UNRWA - l’ultimo due giorni fa - e la comunità internazionale invece di chiudere questa agenzia terrorista, la continua a finanziare lautamente.
di Franco Londei
Insegnanti dell’ONU, più precisamente dell’agenzia preposta unicamente ai palestinesi (UNRWA) insegnano ai bambini palestinesi che è giusto uccidere ebrei incitando così i bambini a diventare terroristi. È quanto scoperto da UN Watch che ha denunciato tutto in un rapporto nel quale sono stati pubblicati i nomi di almeno 10 insegnanti della UNRWA che propagavano antisemitismo tra i bambini palestinesi incitando alla violenza. Nel rapporto si legge che «UN Watch ha denunciato oggi l’antisemitismo e l’incitamento al terrorismo diffusi di recente da 10 insegnanti e altri dipendenti dell’UNRWA. Questo si aggiunge agli oltre 100 educatori e dipendenti dell’UNRWA precedentemente denunciati dall’organizzazione non governativa UN Watch, un gruppo indipendente di monitoraggio dei diritti umani con sede a Ginevra». Nel rapporto seguono i nomi dei dieci insegnanti che si sono macchiarti di questo gravissimo crimine. Rights Reporter già dal 2016 aveva lanciato la campagna per la chiusura della UNRWA spiegando nei dettagli i motivi per cui se ne chiedeva la chiusura (qui la seconda parte), per altro pubblicando un video in cui i bambini palestinesi di una scuola gestita dalla UNRWA venivano letteralmente incitati ad odiare gli ebrei. Il rapporto di UN Watch è stato presentato al commissario per gli affari esteri dell’UE Joseph Borell e all’ambasciatore statunitense Linda Thomas-Greenfield, i cui governi sono tra i principali finanziatori dell’UNRWA, nonché al Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e al capo dell’UNRWA Philippe Lazzarini. UN Watch chiede ai principali finanziatori dell’agenzia – tra cui Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Unione Europea – di garantire che nessuno dei loro 1,2 miliardi di dollari di donazioni all’UNRWA finanzi gli insegnanti che incitano all’odio, e di chiedere all’agenzia di rendere conto dei propri standard e impegni. Come rivelato da UN Watch, il personale UNRWA di stanza in Cisgiordania, Libano e Giordania incita pubblicamente all’antisemitismo e al terrorismo (nel rapporto ci sono tutti i link ai singoli casi). • È l’occidente che finanzia gli “insegnanti dell’odio” dell’UNRWA. La lista Questi insegnanti dell’odio sono stati finanziati lo scorso anno da donazioni statali all’UNRWA, tra cui 338 milioni di dollari dagli Stati Uniti, 177 milioni di dollari dalla Germania, 118 milioni di dollari dalla Commissione Europea, 54 milioni di dollari dalla Svezia, 40 milioni di dollari dal Regno Unito, 32 milioni di dollari dalla Svizzera, 30 milioni di dollari dalla Norvegia, 28 milioni di dollari dalla Francia, 28 milioni di dollari dal Canada e 27 milioni di dollari dai Paesi Bassi. Nonostante le tante denunce e le prove presentate, l’ONU non ha fatto assolutamente nulla. Non ha nemmeno sospeso gli insegnanti presi con le mani nel sacco ad insegnare antisemitismo ai bambini e ad incitarli all’odio verso gli ebrei. La UNRWA non è quindi solo una fabbrica di finti profughi, è anche una potentissima macchina per la propaganda antisemita e per l’incitamento all’odio e alla violenza. Il tutto bellamente alla luce del sole con l’ONU, Stati Uniti ed Unione Europea che continuano a finanziare gli insegnanti dell’odio palestinesi.
(Rights Reporter, 25 giugno 2022)
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Israele: non soffre per la mancanza di acqua
Da diversi anni il nostro pianeta sta vivendo una grave crisi climatica, ma adesso la situazione è molto peggiorata. In Italia, terreni coltivati a grano ormai secchi secchi, il fiume Po pian piano sta sparendo, molti animali si stanno estinguendo. La scarsità d’acqua preoccupa tutti noi, in un mondo che ancora si deve riprendere dal virus SARS-CoV-2, il quale è ancora tra di noi. Lo Stato di Israele convive con questa preoccupazione da tanti anni, ma per loro non è un problema così grave! Tra terre arride, risorse idriche scarse e mancanze di precipitazioni, che sono all’ordine del giorno. In Israele, non esiste il concetto di acqua pubblica! Un concetto spiegato da Raphael Singer Ministro per gli Affari Economici e Scientifici dell’Ambasciata israeliana in Italia, chiarendo che per il popolo israeliano è una cultura risparmiare acqua, una tradizione che esiste da tanti anni. Si viene educati già dalla prima infanzia a ridurre gli sprechi. Piccole cose come, non lasciarla aperta inutilmente, o usarla quando occorre. L’acqua non è gratuita, bisogna salvaguardala per un futuro prossimo. In Israele l’acqua, non solo è un bene prezioso, ma anche un fatto culturale, essa ha un costo e non si può sprecare. Nelle case e scuole pubbliche non c’è acqua gratuita, tutti devono pagare una quota, lo stesso vale per le aziende agricole (nonostante aiutino l’economia del paese). Pure lavarsi la macchina in autonomia non è consentito, si deve andare in auto lavaggio, mentre chi possiede un giardino è obbligato a tenere un sistema di irrigazione perché non può usare l’acqua che vuole. Gli impianti di irrigazione sono controllati, il tutto è seguito da un sistema di monitoraggio, che conteggia consumi e pressione. Il 70% dell’acqua in Israele viene riciclata, e viene donata a piccole e grandi aziende agricole e industriali. Sistemi di salvaguardia che vanno avanti dal secolo scorso, negli anni 60 veniva istituita la National Water Carrier, per il trasporto dell’acqua dal Nord al Sud del suo territorio, e veniva inventato e il sistema dell’irrigazione a goccia. Negli anni ’80 si utilizzavano acque reflue trattate per irrorare i suoi campi; negli anni ’90 mettevano già a punto un programma di dissalazione a osmosi inversa su larga scala per trasformare l’acqua di mare in acqua potabile. Molte aziende israeliane supportano Paesi dell’Africa, attraverso tecnologie per estrarre acqua dall’aria. Soluzioni che potrebbero tornare molto utili ad altre latitudini, e che salverebbero il nostro mondo, per una società che non conosce più le “mezze stagioni”.
(il Metropolitano, 25 giugno 2022)
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Scienziati israeliani: “Trovata la prima cura completa contro il cancro”
In Israele, una squadra di scienziati ha affermato che, probabilmente, fra un anno scopriranno una cura per il cancro. Lo scrive il Jerusalem Post. I ricercatori, guidati da Ilan Morad, CEO di Accelerated Evolution Biotechnologies, ritengono di avere trovato la prima cura completa contro il cancro, un trattamento simile a un antibiotico, chiamato MuTaTo (tossina multi-bersagio) che usa una combinazione di pepetidi che mirano al cancro e una tossina uccide specificatamente le cellule tumorali. Inoltre, sempre secondo gli studiosi, dal momento che le cellule vengono uccise, i pazienti potranno interrompere il trattamento dopo un certo numero di settimane e non avere bisogno di un cocktail di farmaci per tutta la vita. Dan Aridor, presidente del consiglio di amministrazione della società, è fiducioso nei progressi della squadra dei ricercatori: “Crediamo che offriremo tra un anno una cura completa contro il cancro che sarà efficace sin dal primo giorno, durerà per alcune settimane e non avrà effetti collaterali, a un costo molto inferiore rispetto alla maggior parte degli altri trattamenti sul mercato”. Morad ha spiegato al Jerusalem Post che il suo team ha concluso il suo primo esperimento esplorativo sui topi con risultati promettenti. L’esperimento ha mostrato un’inibizione della crescita delle cellule tumorali umane e non ha avuto alcun effetto sulle cellule sane dei topi. La società avvierà presto studi clinici che potrebbero essere completati entro “pochi anni” così da rendere disponibile il trattamento in casi specifici.
(DONNAclick.it, 25 giugno 2022)
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Ucciso a revolverate il ministro Rathenau, la Germania in lutto
Come ministro della Ricostruzione durante il primo governo Wirth, Rathenau insiste sulla necessità di eseguire le clausole del trattato di Versailles.
di Annabella De Robertis
«Rathenau ucciso a Berlino a revolverate» titola il «Corriere delle Puglie» del 25 giugno 1922.
«L’uomo più rappresentativo della Germania contemporanea è stato assassinato all’indomani di un grande discorso al Reichstag»: si tratta di Walther Rathenau, ministro degli Esteri tedesco, colui che è riuscito a rompere l’isolamento politico ed economico della Germania, uscita sconfitta dalla guerra. Nato a Berlino nel 1867, egli appartiene ad una ricca famiglia di industriali e banchieri ebrei. Si laurea in ingegneria e presiede l’AEG, la compagnia generale di elettricità fondata da suo padre Emil Rathenau. Allo scoppio del Primo conflitto mondiale ricopre incarichi strategici nel Ministero della Guerra: si oppone alla conclusione di un armistizio, ma partecipa, in qualità di esperto, alla conferenza di pace. Come ministro della Ricostruzione durante il primo governo Wirth, Rathenau insiste sulla necessità di eseguire le clausole del trattato di Versailles, ma solo per dimostrare l’impossibilità, da parte della Germania, di pagare le riparazioni di guerra.
Di idee politiche liberali e moderate, si oppone fermamente alle derive nazionaliste e dà avvio a un tentativo di riconciliazione con le altre potenze europee. Nel 1922, diventato Ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, ottiene un grande successo diplomatico con la firma del Trattato di Rapallo con l’Unione Sovietica. Si attira l’odio delle forze di estrema destra, tanto che il neonato Partito Nazionalsocialista lo accusa di essere alla testa della «cospirazione giudaico-comunista».
Sul «Corriere» si riportano i primi particolari sull’assassinio: il Ministro è stato colpito da revolverate provenienti da un’auto in corsa, a pochi metri della sua abitazione. «Circa le ipotesi che la polizia sta accampando e studiando, la più accertata è quella che gli assassini siano i mandanti di una vasta congiura, la quale da tempo mina gli organi della Repubblica», si precisa. «Il compianto è generale perché egli era l’uomo che in un breve tempo aveva saputo risollevare le sorti della politica estera tedesca». Ben presto si scoprirà che l’attentato è stato compiuto da due ex ufficiali dell’esercito, legati all’estrema destra reazionaria e militarista dei Freikorps.
L’assassinio segnerà l’inizio del declino della Repubblica di Weimar e avrà, pertanto, drammatiche ripercussioni in tutta Europa: in poco più di dieci anni Adolf Hitler, a capo del movimento, riuscirà a prendere il potere e ad instaurare una dittatura assoluta.
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 giugno 2022)
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Casale Monferrato - Nuovo appuntamento con la musica in Sinagoga
Domenica 26 giugno, alle 17, si esibiscono Paolo Calcagno al violino e Giacomo Indemini alla viola. E mercoledì prossimo verrà presentata una targa per gli avvocati espulsi dal fascismo.
Domenica 26 Giugno, alle 17, un nuovo appuntamento di “Musica nel complesso Ebraico” a Casale Monferrato ci introdurrà a una visione peculiare del repertorio cameristico: quello scritto da compositori di origine ebraica o che, in un modo o nell’altro, sono stati vicini a questo mondo. È infatti il filo conduttore di questa rassegna musicale diretta dal Giulio Castagnoli e arrivata alla 10ma edizione. Negli anni la proposta ha visto decine e decine di concerti all’interno dello splendido contenitore culturale che è la Sinagoga di Casale Monferrato. Questa volta ad esibirsi saranno Paolo Calcagno al violino e Giacomo Indemini alla viola in un programma che vede la tradizione ebraica sefardita in relazione alle musiche di Bach, Haydn e Mozart. Ascolteremo di J.S. Bach (1685 – 1750) la Sarabanda - Giga dalla Partita II per violino solo e a seguire il Preludio - Minuetto I e II – Bourrè dalla Partita III per viola sola; di F. J. Haydn (1732-1809) la Sonata III in Si bemolle maggiore (Hob VI:3) per violino e viola Andante - Adagio – Minuetto; di W. A. Mozart (1756- 1791),l’Allegro dal Duo in Sol K.423 e infine dello stesso Castagnoli in prima esecuzione assoluta la Piccola Suite (2017) per violino e viola Preludietto - Valzerino - Accenti - Adagietto - Inquieto - Notturno - Desolato – Kaddish. Indemini e Calcagno sono coetanei, del 1997, entrambi sono diplomati al Conservatorio di Torino e hanno già una carriera di affermati concertisti.
• UNA TARGA PER GLI AVVOCATI ESPULSI DAL FASCISMO
Mercoledì 29 giugno (l’orario è ancora da definire) verrà presentata in Comune a Casale e presso l’Ordine degli Avvocati di Vercelli la targa in memoria degli avvocati ebrei espulsi dall’albo a seguito delle leggi razziste del governo fascista. Giulio Disegni, Vice Presidente UCEI e consigliere dell’Age - Associazione italiana Giuristi e Avvocati Ebrei -, spiega il valore dell’iniziativa. “La vergogna delle leggi razziali non risparmiò nessun lavoratore, nessuna professione. Gli avvocati ebrei al pari di ogni altro professionista ebreo furono esclusi dal lavoro e dalla vita sociale semplicemente perché di altro credo religioso e oggi è un dovere ricordarli perché quello strappo sia conosciuto dai più e serva di monito perenne” Il testo della targa recita:
Il Regio Decreto Legge n, 1054 del 29 giugno 1939 vietò agli avvocati ebrei l’esercizio della libera professione. Gli Avvocati di Casale Monferrato e di Vercelli / rendono omaggio alla memoria dei Colleghi/ Vittorio Cingoli - Franco Levi - Renato Morello - Eugenio Ortona - Silvio Ortona - Camillo Ottolenghi - Giorgio Ottolenghi/ La barbarie delle leggi razziali/ li escluse dall’avvocatura e li cancellò dall’Albo/ solo perché ebrei.
(Il Monferrato, 25 giugno 2022)
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Ucraina: è finita la carne da cannone. E Zelensky richiama i ragazzini dai banchi di scuola
di Martina Giuntoli
Il Presidente Zelensky annuncia in pompa magna la riforma dell’esercito ucraino durante una chiamata zoom con gli studenti della Hebrew University di Gerusalemme. L’uomo ha confermato che è intenzione sua e di tutte le autorità di Kiev quella di allargare il numero degli arruolati e di considerare anche ragazzi più giovani dando loro una forte formazione militare fin dai banchi di scuola, proprio come avviene in Israele. Durante il suo meeting on line, in realtà non tratta i suoi interlocutori proprio in guanti bianchi, anzi accusa il governo di Tel Aviv di non garantire abbastanza supporto all’Ucraina e soprattutto di non aver applicato le sanzioni alla Russia, come invece l’Occidente nella quasi totale compattezza ha fatto. Tuttavia, tra un rimprovero ed un’esortazione, esprime la sua profonda ammirazione per la struttura dell’esercito israeliano e la cultura militare a cui il leader ucraino dice di volersi ispirare per attuare la riforma nel proprio paese. Come dimostrano documenti circolanti nelle scuole di Kiev e dintorni, però, la riforma di cui parla Zelensky non è soltanto un’idea e una prospettiva lontana, bensì qualcosa che nel concreto si sta già verificando e nel modo più meschino che si possa immaginare. Evidentemente in grave affanno, il governo di Kiev ha terminato la carne da cannone di cui ha fatto scempio senza indugi in questi mesi, e adesso non si fa certo scrupoli nel cercarla tra i banchi di scuola facendo leva su adolescenti suggestionabili e al contempo approfittandosi di persone che non possono comunque sottrarsi ad un destino di morte. Gli insegnanti, secondo istruzioni del ministero dell’Istruzione, sono tenuti a compilare liste di studenti dell’età di 17 anni in base alla loro vocazione alla guerra, alla lealtà alla patria, e all’attitudine all’utilizzo delle armi, che risulteranno quindi arruolabili come (finti) volontari, e di cui pertanto nessuno si prenderà la responsabilità se moriranno al fronte. A quanto pare, saranno gli stessi genitori a dover scrivere le referenze ai propri figli. Per la precisione, madre e padre dovranno accuratamente descrivere come i propri figli si relazionano con il presente conflitto e se hanno intenzione di unirsi all’esercito per poi essere spediti immediatamente al fronte quando compiranno il 18esimo anno di età. Vi sono genitori disperati che si sono rifiutati di fornire agli insegnanti le informazioni richieste dai dirigenti scolastici, ma che hanno poi amaramente scoperto che non è affatto possibile sottrarvisi. Le direttive sono chiare: i genitori compilano le schede, gli insegnanti stilano le liste, il governo chiama alle armi. Fin troppo semplice il messaggio. Unica strada per chi non accetta questo massacro pare essere la fuga, ed è quello che molti genitori hanno pensato di fare, seppur con tutti i rischi che tale condotta potrebbe comportare se scoperti. Nel suo incontro zoom Zelensky non ha specificato se anche le donne si uniranno all’esercito improvvisato e recuperato tra i banchi di scuola, ed il dubbio è lecito, visto che la tanto ammirata Israele arruola obbligatoriamente anche il sesso femminile. Ma rimane da chiedersi come sia possibile che di fronte ad una nazione che non esita ad obbligare poveri genitori a mandare i propri figli a morire al fronte con l’inganno, combattendo di fatto una guerra già persa, vi sia ancora così tanto supporto alla politica militare ucraina in Occidente. Ed oggi ve n’è ancora di più, visto che anche la candidatura dell’Ucraina nell’Unione Europea è stata accettata, perché, come ha affermato più volte Ursula Von der Leyen: “Kiev merita la prospettiva europea perché condivide i nostri stessi valori”. Sono questi quindi i valori che i paesi del blocco UE condividono tra loro? Che l’Europa condivide, Italia compresa?
(VisioneTV, 25 giugno 2022)
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Gli sviluppi della crisi del governo israeliano spiegati in breve
di Ugo Volli
• COME SI ARRIVA ALLE ELEZIONI ANTICIPATE
Dopo la dichiarazione congiunta del primo ministro Naftali Bennett e del suo sostituto designato (col titolo di “primo ministro alternativo”), Yair Lapid, in cui dicevano di aver stabilito che il loro governo non poteva durare e che quindi per evitare una mozione di sfiducia avevano deciso di sciogliere la Knesset e di andare a nuove elezioni, si è messa in moto una macchina politica e legislativa molto complessa. Dal punto di vista legale, a differenza di quel che succede in Italia, dove è il presidente della Repubblica a sciogliere le camere se ce n’è la necessità, o da paesi come gli Usa, dove nessuno può sciogliere il Congresso, in Israele la Knesset stessa può stabilire la propria dissoluzione, ma per farlo ha bisogno di approvare una legge apposita. Dato che essa è un parlamento monocamerale, per evitare colpi di testa si è deciso alla fondazione dello Stato che per approvare una legge sono necessarie tre diverse votazioni dell’assemblea. Dunque lo scioglimento non è un atto singolo, ma un processo che richiede una decina di giorni. Al momento è stata fatta la prima votazione della legge voluta da Bennett e Lapid, che è passata all’unanimità dei presenti (110 sui 120 membri della Knesset) e si prevede che le altre due votazioni potranno essere svolte entro metà della settimana prossima. Se tutto andrà come previsto da Bennett, dunque, nei primi giorni di luglio la Knesset sarà sciolta, Lapid diventerà primo ministro al posto suo, e il paese andrà alle elezioni fra fine ottobre e inizio novembre.
• E COME FORSE È POSSIBILE EVITARLE
Nel frattempo le manovre politiche non si fermano. L’opinione pubblica è in genere contraria alle nuove elezioni, che sarebbero le quinte in meno di quattro anni. I parlamentari lo sono anche di più, perché molti di loro rischiano di non rientrare. Inoltre i sondaggi dicono che di nuovo la destra vicina a Netanyahu avrebbe un notevole vantaggio, ma non la maggioranza assoluta (dato che vi sono i deputati antisionisti soprattutto arabi, che stanno per principio all’opposizione). Per formare un governo ci sarebbe bisogno che alcuni dei partiti di destra e di centro schierati contro Netanyahu superassero il loro rifiuto di stare a un governo con lui. E’ una situazione simile all’attuale. E dunque perché non fare questo accordo adesso? In questo senso si muove naturalmente il Likud di Netanyahu e anche i partiti religiosi, che hanno subito molti provvedimenti a loro sgraditi dal governo Bennett. Ma si danno anche molto da fare i transfughi della vecchia coalizione, cioè i fuoriusciti dal partito di Bennett, e anche alcuni che gli erano rimasti fedeli ma non sono disposti a seguirlo nella probabile sconfitta elettorale, come il Ministro degli Interni Ayelet Shaked.
• LE DIFFICOLTÀ
Anche però se tutto il partito di Bennett votasse con il blocco di Netanyahu (lui escluso, probabilmente, vista la sua scelta di elezioni a cui, dicono voci insistenti, non si ricandiderà), non basterebbe a fare la maggioranza. C’è bisogno almeno di un altro partito. Potrebbero in teoria essere disponibili quelli di Libermann, che ha una forte avversione personale nei confronti di Natanyahu, e ha provocato la prima crisi di questo ciclo; di Gantz, che ha provato ad allearsi con Netanyahu un anno e mezzo fa e poi ha rotto con lui sentendosi imbrogliato; e di Sa’ar, che era il numero due di Netanyahu nel Likud e ne è uscito prima delle ultima elezioni, perché non accettava il suo ruolo subordinato. Difficile dunque che questi capipartito cambino l’atteggiamento di rifiuto per Netanyahu che ha portato alla costituzione dell’eterogeneo e fragilissimo governo Bennett-Lapid. Ma nella politica israeliana niente è impossibile: magari qualcuno potrebbe cambiare idea, o dei singoli parlamentari potrebbero decidere diversamente dai loro leader. Le trattative in questi giorni sono frenetiche, Bibi Netanyahu ha dichiarato di essere disposto a rinunciare ad alcune pretese importanti (per esempio al Ministero della Giustizia). E’ probabile che una risposta definitiva si potrà avere solamente all’ultimo momento, con la votazione della terza lettura della legge di scioglimento, o la presentazione di una mozione di sfiducia costruttiva col nome del nuovo primo ministro, firmata da 61 deputati.
• IL QUADRO INTERNAZIONALE
Nel frattempo però la politica internazionale non attende: c’è la guerra in Ucraina, che richiede decisioni, per Israele c’è soprattutto quella con l’Iran, che potrebbe dover portare presto al tentativo di distruggere l’armamento nucleare iraniano in via di completamento. Ci sono i patti di Abramo da completare e magari da estendere all’Arabia Saudita. C’è il terrorismo, in questo momento per fortuna in fase di calo, ma certo non sparito; c’è la crisi dell’Autorità Palestinese, con Abbas sempre più debole e una lotta per la successione che potrebbe esplodere in ogni momento anche sul piano militare; c’è la trattativa per i giacimenti di gas con il Libano, e tanti altri problemi da affrontare, da Hamas al Covid. A metà luglio è confermata la visita di Biden, che certamente si propone di mettere sotto pressione Israele sull’accordo con l’Iran e anche di riportare in vita la vecchia linea diplomatica che privilegiava l’accordo dell’Autorità Palestinese sui rapporti coi paesi arabi. Insomma, la carne al fuoco è tantissima e la crisi attuale influirà certamente sul modo in cui Israele la tratterà. Non sarà certo la stessa cosa se a discutere con Biden sarà Lapid o Netanyahu. Ne sapremo di più fra qualche giorno.
(Shalom, 24 giugno 2022)
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I 90 anni del museo TAMA di Tel Aviv
Alla guida della principale istituzione culturale di Israele c'è Tania Coen Uzzielli, "romanissima di nascita e formazione, cresciuta a Garbatella, ma da oltre 30 anni in Israele". E all'AGI dice: "La nostra missione è essere una sorta di ponte tra gli artisti locali e la grande arte contemporanea internazionale"
di Cecilia Scaldaferri
AGI - Un ampio edificio in cemento armato unito a un 'gemello' dalle complesse forme geometriche, un'installazione di opere in ferro sullo spiazzo e alcuni alberi intorno a separare l'area dal traffico cittadino: così si presenta il Tel Aviv Museum of Art (TAMA), principale istituzione culturale di Israele che ospita mostre permanenti e temporanee di arte moderna e contemporanea, locale e internazionale. Un centro pulsante di vita, "un catalizzatore" situato nel cuore della città, accanto all'Opera e alla biblioteca municipale. Alla guida del 'regno' c'è Tania Coen Uzzielli, "romanissima di nascita e formazione, cresciuta a Garbatella, ma da oltre trent'anni in Israele", racconta orgogliosa all'AGI. "Ho un'identità doppia inscindibile. Ho studiato archeologia e storia dell'arte all'università di Gerusalemme, città dove tuttora vivo. Una dicotomia che sento, perché mantengo sempre un po' la prospettiva dell'outsider: in Israele come italiana, in Italia come israeliana, a Tel Aviv come gerosolomitana. Sono sempre 'altro' rispetto al resto, il che mi dà una prospettiva un po' diversa". "Ho lavorato vent'anni al museo di Gerusalemme, ricoprendo vari ruoli, da assistente curatore fino a vice direttore per i contenuti. E nel 2019 sono arrivata qui: questo mi sembra quasi un paradiso, di aver vinto un terno al lotto", confessa, mentre parliamo nella caffetteria del museo, un'oasi di pace aperta a tutti che si affaccia su un giardino con delle opere in ferro, ampie sedie a disposizione e una dolce musica in sottofondo.
Il TAMA è un paradiso che richiede moltissimo lavoro, puntualizza Coen Uzzielli. "è molto difficile gestire un'istituzione culturale in Israele: primo, perché non sono abbastanza sovvenzionate dal governo. Dal ministero della Cultura ricevo il 3% del mio budget e dalla municipalità di Tel Aviv, che comunque è una delle più ricche al mondo, ricevo il 30%, che è molto. Riesco ad arrivare a un terzo del budget, un altro terzo proviene da fundraising e sponsorizzazioni mentre il restante sono entrate dalla biglietteria e altre attività. Quindi da un punto di vista amministrativo è una bella sfida". Ma 'scartoffie' a parte, continua la direttrice, c'è un intenso lavoro programmatico. "La missione di questa istituzione è di essere in qualche modo un ponte. Essere il luogo dove gli artisti locali vogliono presentare le loro opere - a me non piace chiamarla arte israeliana, ma l'arte di Israele, in un'accezione più vasta" - e allo stesso tempo "portare in Israele l'arte contemporanea internazionale", spiega, facendo l'esempio della mostra appena conclusa di Yayoi Kusama. "è un'artista giapponese molto gettonata, abbiamo avuto 620 mila visitatori, che è un numero eccezionale. Eravamo a fine Covid, ancora in mezzo lockdown, con le frontiere chiuse, quindi la maggior parte del pubblico era locale". Contemporaneamente, "siamo anche molto attenti a collaborazioni con moltissimi musei nel mondo, come la pinacoteca di Monaco di Baviera, il Centro Pompidou... l'Art Newspaper ci ha inserito tra i primi 50 musei al mondo dal punto di vista di visitatori, collezioni, mostre. Ne facciamo venti all'anno, abbiamo 15 mila mq di superficie per le mostre temporanee, piu' altri 8 mila per le esposizioni permanenti divise in due sezioni, la prima è quella moderna e contemporanea, con impressionisti e post impressionisti". "La seconda - prosegue - è una collezione di arte israeliana che di recente la curatrice ha reinterpretato", prendendo le distanze dall'associazione che c'è sempre stata tra l'arte e la storia del Paese, raccontandola invece "attraverso i quattro elementi fondamentali: fuoco, aria, acqua e terra. Sono stati così inseriti tutti quegli artisti che durante gli anni erano rimasti periferici, come donne, artisti palestinesi, ebrei di origine orientale. Il risultato è una mostra un po' meno politico-sociale, ma che invece recupera l'arte per l'arte e racconta tante altre storie. Anche perché, parlando di terra, tutte le tensioni che ci sono sul territorio ritornano evidenti ma reinterpretate. è il nostro cavallo di battaglia locale puo' attirare anche l'attenzione del turista".
• FESTEGGIARE 90 ANNI A fondarlo, nel 1932, quando lo Stato d'Israele era ancora un'utopia, fu Meir Dizengoff, il primo sindaco della città, che aveva una visione: "Sul suo diario scrisse che non era possibile fondare la prima città ebraica solo sulla tecnologia, ma bisognava assolutamente immaginare anche una capitale della cultura". Un impegno - il suo - in prima persona, tanto da spingerlo, all'indomani della morte della moglie, a mettere a disposizione due piani della sua casa per ospitarlo. E il luogo divenne centrale nella storia d'Israele: la dichiarazione d'indipendenza nel 1948 venne pronunciata proprio dalle sale del museo di Tel Aviv. "Ne vado molto fiera, che questo Stato sia nato in un'istituzione culturale", afferma Coen Uzzielli. Negli anni '50, con la crescita delle collezioni, si decise di costruire un altro padiglione, vicino al teatro Habima, inaugurato nel '59 con l'intenzione di innalzarne altri. Ma lo spazio non era sufficiente e nel '71 sorse l'edificio attuale, in un'altra zona. Negli anni 2000, poi, l'allora direttore volle una 'casa' ad hoc per l'arte israeliana e così fu aggiunta una nuova ala, collegata al corpo originale. Un percorso che si riflette nei vari stili architettonici degli edifici e che racconta la storia della città di Tel Aviv. Oggi è arrivato il "momento della maturità", che porta con sé "una riflessione su cosa sono stati questi 90 anni e dove siamo arrivati". Così, dopo la giapponese Kusama, in programma c'è "una mostra su Nft (non-fungible token) con virtual rendering, intelligenza artificiale, avatar", ma anche "un'enorme installazione di un'artista israeliana con 450 uccelli fatti di cera, come metafora della popolazione" e allo stesso tempo di un certo "virtuosismo dell'arte low-tech". "Una festa che va a toccare tutti i campi dell'arte, a 360 gradi, per capire come questo museo sia arrivato qui", spiega orgogliosa la direttrice.
• REINVENTARSI DOPO IL COVID E se la pandemia di Covid, e il lockdown, hanno sconvolto la vita della gente in tutto il mondo, le istituzioni culturali non ne sono rimaste immuni. Come tutti, anche il TAMA ha dovuto reinventarsi. E la sfida non ha spaventato Coen Uzzielli, anzi. "Sono qui ormai da tre anni e mezzo, di cui due durante i quali non ci sono stati turisti e ho dovuto investire molto sul pubblico locale. Così ho fatto, anche per far rimanere viva la presenza. Abbiamo fatto molte operazioni 'fuori le mura': in qualche modo - spiega la direttrice - ho sempre pensato che il museo fosse una specie di tempio nel quale tutti dovevano entrare. Con il Covid ci siamo resi conto che la fisicità era meno importante e che comunque lo spazio aperto, pubblico, doveva essere recuperato". "Il museo è uscito fuori dalle proprie mura e si è espresso in vari spazi e momenti, abbiamo guadagnato il fatto che la gente ci ha conosciuto. Il progetto piu' innovativo è stato quando, in pieno lockdown, abbiamo preso un piccolo furgoncino, scelto sei video di artisti israeliani, siamo andati in varie strade della città e li abbiamo proiettati. La mattina distribuivamo volantini e mandavamo sms tramite la municipalità agli abitanti della zona, invitandoli a mettersi alla finestra e sui balconi, con un bicchiere di vino, a godersi lo spettacolo: il museo di Tel Aviv è arrivato a casa vostra perché voi non potete venire. L'abbiamo fatto per alcune sere e poi trasmesso su Facebook".
• ATTRARRE NUOVI TURISTI DAL MONDO Per Coen Uzzielli, la prossima sfida è riuscire a intercettare il turismo straniero: "Dico sempre che il mio 'competitor' naturale sono il mare e i ristoranti, le principali attrattive che vuole chi arriva qui. Invece Tel Aviv è una città vibrante anche per la cultura: ci sono piu' di 150 gallerie d'arte, insieme ad altre istituzioni". L'obiettivo per il TAMA è "diventare tappa obbligata del turismo. Non è facile, perché gli stranieri sono meno interessati all'arte locale". L'altro pubblico da 'acchiappare sono i giovani: "Il museo, come piattaforma interdisciplinare, ospita due teatri con programmi di musica di tutti i generi che, insieme a un teatro off, richiamano un pubblico più particolare, tra cui parecchi giovani. Pero' ancora non li abbiamo catturati su ampia scala". Tentativi, di successo, sono stati messi in campo, un esempio è stata la mostra di Kusama così come quella dell'artista pop Jeff Koons. La strada è stata intrapresa ma - ammette la direttrice - la domanda, in generale per tutti i musei, resta quella di come riuscire a "fidelizzare" i visitatori.
(AGI, 24 giugno 2022)
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Al via un progetto per portare lavoratori dal Marocco a Israele
di Enrico Casale
Lavoratori edili e operatori sanitari marocchini potranno lavorare in Israele nell’ambito di un progetto pilota. Lo ha annunciato il ministro dell’Interno israeliano, Ayelet Shaked che ha parlato alla stampa dopo i suoi colloqui a Rabat con il ministro degli Esteri, Nasser Bourita. In precedenza, ha tenuto un incontro di lavoro con il suo omologo marocchino, il ministro dell’Interno Abdelouafi Laftit.
Yitzhak Moyal, presidente dell’Unione dei lavoratori delle costruzioni e del legno della confederazione sindacale israeliana Histadut, ha dichiarato: “Ci mancano 40.000 lavoratori in 10 diversi comparti. Speriamo di ricevere circa 15.000 lavoratori edili marocchini. Questo potrebbe davvero migliorare il ritmo di costruzione in Israele”. E ha aggiunto: “Dopo la firma dell’accordo di pace, il governo marocchino ha iniziato a parlare con noi. Abbiamo appreso che il Marocco ha un numero enorme di lavoratori professionisti. Dovremmo inviare squadre in Marocco per testare la professionalità dei lavoratori”. I lavoratori marocchini potrebbero iniziare ad arrivare in Israele entro l’inizio del 2023, ha aggiunto.
In Israele, secondo Histadrut, guadagnerebbero stipendi più alti: in Marocco la paga base è di 11.400 annui, mentre il salario minimo per i lavoratori edili in Israele è quasi il doppio. Israele soffre di una carenza anche di assistenti per gli anziani e gli infermi, la maggior parte dei quali sono lavoratori stranieri. Ci sono 60.000 operatori sanitari nel paese, principalmente asiatici.
Prima di volare in Marocco lunedì, Shaked ha dichiarato: “Siamo certi che questa cooperazione con i marocchini ci aiuterà a far progredire il mercato immobiliare e sosterrà anche la popolazione anziana in Israele”.
Shaked è il terzo ministro israeliano a visitare il Marocco negli ultimi mesi, dopo il ministro dell’Economia, Orna Barbivai, e il ministro della Scienza e della Tecnologia, Orit Farkash-Hacohen.
(AFRICA, 24 giugno 2022)
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8×1000: la tua firma per l’UCEI – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
L’emergenza Covid nel 2020 e 2021 ha messo a dura prova gli italiani e l’UCEI, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha sostenuto diversi progetti per far fronte alla crisi: ha finanziato Ame (Associazione Medica Ebraica) per lo sviluppo del tele-monitoraggio domiciliare nei soggetti fragili e post–COVID, la Fondazione Scuola ebraica di Milano per interventi di contrasto all’emergenza, l’Ospedale israelitico per l’acquisto di umidificatori ad alto flusso e ventilatori polmonari. Sono solo alcuni esempi di come l’UCEI ha destinato i fondi ricevuti dall’Otto per mille. Ma come ogni anno, non sono mancati gli interventi a favore della Cultura ebraica, delle Scuole, di iniziative di dialogo e incontro, di volontariato, così come progetti per favorire l’inclusione sociale dei più svantaggiati, per contrastare l’antisemitismo, per sostenere la crescita della società civile in una direzione di apertura e sviluppo sociale e culturale. In questi giorni in cui siamo chiamati a presentare le dichiarazioni dei redditi, non dimentichiamo di destinare il nostro Otto per mille all’UCEI, firmando nella casella apposita. Qualsiasi tipo di dichiarazione tu faccia, puoi destinare l’Otto per mille all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Se non sei tenuto a presentare la dichiarazione dei redditi, puoi esprimere la tua scelta nell’apposito modulo allegato alla Certificazione Unica rilasciata dal tuo ente pensionistico. L’Otto per mille è il meccanismo con cui lo Stato italiano, attraverso la scelta dei contribuenti, devolve l’Otto per mille dell’intero gettito fiscale IRPEF allo Stato Italiano o ad associazioni religiose riconosciute e firmatarie di intese. La campagna per la destinazione dell’Otto per mille a UCEI porta in primo piano la cultura ebraica in tutta la sua complessità e varietà, raccontando il suo impegno costante al dialogo e al confronto fra idee, identità e culture diverse. Ogni cittadino può scegliere la destinazione dell’Otto per mille del gettito IRPEF all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. La scelta si compie mettendo la propria firma sul modello in corrispondenza dell’istituzione prescelta e non comporta alcun onere per il contribuente. Si noti che la scelta espressa con la propria firma non determina direttamente la destinazione della propria quota di gettito fiscale, ma quella di una quota media uguale per tutti i cittadini. Lo Stato calcola l’importo totale delle entrate dovute all’IRPEF e da questo importo totale scorpora l’otto per mille; poi calcola il numero totale di firme e le percentuali di queste firme attribuite ai vari enti; infine ripartisce l’otto per mille tra gli enti in base alle percentuali delle firme espresse. In questo modo le firme di tutti i contribuenti hanno lo stesso peso, indipendentemente dal loro reddito.
(Bet Magazine Mosaico, 24 giugno 2022)
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Cinema, il Pitigliani Kolno'a Festival: l'ebraismo e la nascita di Israele nella sua quindicesima edizione
ROMA - Torna, dal 27 al 30 giugno 2022 a Roma - ingresso gratuito fino a esaurimento posti – il Pitigliani Kolno’a Festival - Ebraismo e Israele nel Cinema, giunto alla quindicesima edizione, dedicato alla cinematografia israeliana e di argomento ebraico. Il festival si tiene in tre luoghi distinti: il 27 e 28 giugno alla Casa del Cinema, il 29 giugno presso Scena - il cinema lungo il Tevere e la serata di chiusura, il 30 giugno, al Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani, che lo ha prodotto, con la direzione di Ariela Piattelli e Lirit Mash. Il festival propone un assaggio variegato dell’ultima produzione israeliana, dal film d’autore, in cui la Storia incontra l’interpretazione del regista, al film per il grande pubblico, al documentario, passando per una commedia che tocca i temi dell’immigrazione russa in Israele.
LUNEDI' 27 La catastrofica Battaglia di Nitzanim, del 1948. Ad aprire il festival, lunedì 27 giugno, in una serata alla Casa del Cinema, presentata dalla giornalista Francesca Nocerino, la proiezione di 'Image of Victory', ultimo lungometraggio di Avi Nesher. Interpretato da Joy Rieger, Amir Khoury, Ala Dakka ed Eliana Tidhar, e nominato a 15 categorie dei Premi Ophir tra cui Miglior Film, 'Image of Victory' è un affresco storico che racconta i drammatici momenti della nascita di Israele. Un film epico, anti bellico, basato su fatti realmente accaduti, nella messa in scena dell'episodio della catastrofica Battaglia di Nitzanim del giugno 1948, che vide la resa israeliana di fronte all'attacco egiziano di un kibbutz durante la Guerra d'Indipendenza di Israele. Girato nel deserto del Negev, il racconto è accompagnato dalle musiche di Tom Oren e Randy Kerber e fonde dramma con l'ironia di una narrazione che riguarda un filmmaker egiziano ed una operatrice radio kibbutznik, i quali finiranno per cambiare opinione su quello che sanno e pensano della vita e della guerra. Il regista, produttore, sceneggiatore e attore israeliano è Avi Nesher.
MARTEDI' 28 Il documentario su David Grossman. Alla Casa del Cinema alle 20 in Sala Deluxe la proiezione di 'Grossman', diretto da Adi Arbel, documentario incentrato sullo scrittore David Grossman in cui l'autore svela la delicata e complessa relazione che lega le sue vicende personali e i suoi romanzi. Il film crea una biografia alternativa basata sugli scritti di David Grossman e utilizzando la sua voce, si passa da un personaggio all’altro attraverso le varie storie. Con i personaggi dei suoi romanzi ci si sposta dalla città al Kibbutz, al sentiero nazionale israeliano, costruendo un percorso di vita individuale con infinite possibilità di esistenza. I vendicatori. La serata continua all’aperto, alle ore 21:30 all'Arena della Casa del Cinema, con la proiezione del film 'Plan A', diretto a quattro mani da Yoav e Doron Paz, basato sull'incredibile storia vera dei 'Vendicatori'. Un gruppo di vigilanti ebrei, uomini e donne, che dopo essere sopravvissuti alla Shoah, giurano di vendicare la morte dei propri cari - occhio per occhio, dente per dente. Max, un sopravvissuto all'Olocausto ha perso tutta la sua famiglia nei campi. Pieno di rabbia e senza più nulla per cui vivere se non la vendetta, aiuta la Brigata Ebraica, soldati sotto il comando britannico, a trovare e a giustiziare in modo ufficioso i nazisti accusati di posizioni di rilievo nel sistema nazista. Quando la brigata viene sciolta dopo la guerra e si preparano i processi di Norimberga, incontra Anna, una combattente partigiana fuggita dal campo di Vilna. Guidati dal leader carismatico Abba Kovner, un gruppo di ex partigiani e sopravvissuti formula la più grande operazione di vendetta ebraica della storia - "Piano A". Si infiltrano nelle aziende idriche tedesche come ingegneri sotto copertura con un solo obiettivo: avvelenare l'acqua potabile di cinque città tedesche.
MERCOLEDI' 29 Non solo film. Il festival abbraccia anche la letteratura con la presentazione del libro'Nazisti a Cinecittà' (edito da Nutrimenti), alla presenza dell'autore Mario Tedeschini Lalli, che si svolgerà mercoledì 29 giugno alle ore 20:00 a Scena - il cinema lungo il Tevere (Banchina Lungotevere Ripa, presso Ponte Sublicio). Dalle Fosse Ardeatine a Cinecittà, dalla divisa nazista indossata per uccidere alla divisa nazista indossata per fare cinema. Borante Domizlaff e Karl Hass, due ufficiali delle SS che il 24 marzo 1944 spararono agli ordini di Herbert Kappler, riappaiono, con altri ex ufficiali tedeschi, nella produzione di alcuni dei più celebri film italiani del dopoguerra. Una scoperta casuale che ha dato il via a una lunga ricerca tra carte di servizi segreti, cineteche, archivi privati e interviste a famigliari. Un racconto che a tratti si tinge di giallo, una finestra su una realtà paradossalmente ‘normale’ dell’Italia del dopoguerra: il ‘nazista della porta accanto’ tornava utile per raccontare il nazismo. A seguire, alle ore 21:30, la replica del documentario 'Grossman', diretto da Adi Arbel, sullo scrittore israeliano.
GIOVEDI' 30 Golden voices – Voci d'oro' . Il festival si chiude alle ore 21.30 con la proiezione al Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani (Via dell'Arco De' Tolomei, 1) del lungometraggio 'Golden voices – Voci d'oro' diretto da Evgeny Ruman e interpretato da Maria Belkin, Vladimir Friedman, Evelin Hagoel, Uri Klauzner e Elizabeth Kon. Victor e Raya Frenkel sono stati per decenni le voci d’oro del doppiaggio sovietico. Tutti i film western che hanno raggiunto gli schermi sovietici sono stati doppiati da loro. Nel 1990, con il crollo dell’Unione Sovietica, i Frenkel decidono di fare l’Alyia – immigrare in Israele, proprio come altre centinaia di migliaia di ebrei sovietici. Ma in Israele non c’è alcun bisogno di doppiatori in lingua russa, e i tentativi di Victor e Raya di usare il proprio talento, causerà eventi bizzarri e inaspettati durante i loro primi mesi in Israele, trasformando l’inizio del nuovo capitolo della loro vita in una divertente, dolorosa e assurda esperienza. Il festival è realizzato con il contributo di: Ambasciata di Israele in Italia, dalla Fondazione Museo della Shoah e Regione Lazio, in collaborazione con Casa del Cinema e Scena, il cinema lungo il Tevere. L'ingresso è gratuito fino a esaurimento posti, ma è possibile prenotare scrivendo a eventi@pitigliani.it
(la Repubblica, 24 giugno 2022)
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Ambasciata d'Israele e Fondazione Bioparco inaugurano itinerario culturale "Animali della Bibbia"
“Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra”, disse Dio, nella genesi del mondo. “La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche”.
Animali e Sacre Scritture: un rapporto simbiotico, specchio della centralità che l’essere vivente riveste in ogni fede.
Alle specie animali menzionate nella Bibbia è dedicato l’itinerario “Animali della Bibbia. Un percorso per scoprirli al Bioparco di Roma” inaugurato questa mattina presso il Giardino Zoologico della Capitale e promosso dall’Ambasciata d’Israele in Italia e dalla Fondazione Bioparco di Roma.
Hanno preso parte alla cerimonia l’Ambasciatore d’Israele in Italia, Dror Eydar, il Presidente della Fondazione Bioparco di Roma, Francesco Petretti, l’Assessore ai Grandi Eventi, Sport, Turismo e Moda del Comune di Roma, Alessandro Onorato e la Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello.
Il percorso, che attraversa i 17 ettari del Parco, è costituito da punti di sosta con pannelli descrittivi dedicati a undici, selezionate specie animali citate nei testi sacri: mandrilli, struzzi, leopardi, ippopotami, leoni asiatici, elefanti, asini selvatici, orsi bruni, anfibi, leoni, lupi, cicogne bianche e pellicani bianchi.
Nello specifico, ciascun pannello riporta un’illustrazione dell’animale, una citazione tratta dalla Bibbia ebraica curata da Rav Riccardo Disegni alcuni anni fa, un testo esplicativo e un QR code a cura dell’Ambasciata per conoscere la storia della specie in Israele, le caratteristiche del Paese che ne hanno favorito la diffusione e le iniziative israeliane per promuoverne il reinsediamento nella regione e/o tutelarne la sopravvivenza.
“La Bibbia ha affidato a noi esseri umani la responsabilità per il mondo già agli albori dell’umanità; la tradizione ebraica, più di 2000 anni fa, ha ulteriormente esteso la centralità del nostro ruolo nella conservazione dell’ambiente”, ha dichiarato l’Ambasciatore d’Israele. Ciascun animale dell’itinerario del Bioparco condurrà i visitatori nel mondo della Bibbia e a conoscere la Terra Santa, Israele, Paese in una posizione geografica unica, che funge da ponte fra tre continenti, la cui ricca natura -flora e fauna- contribuisce alla protezione e allo sviluppo di specie che stavano scomparendo… Aver cura del mondo, dell’ambiente, è un valore profondo con delle solide basi nella Bibbia. Auguro a questo luogo di prosperare e fiorire e di ospitare moltissime persone. Questi versetti biblici che abbiamo ricollegato agli animali possano essere per i visitatori una finestra per far loro conoscere la più grande opera mai scritta”.
“Parlare degli animali nella Bibbia, significa affrontare il tema del rapporto fra gli uomini e la natura sin dai primi tempi – sottolinea il Presidente della Fondazione Bioparco di Roma, il biologo Francesco Petretti – rapporto che ha visto l’uomo interagire con gli animali e le piante in tantissime situazioni, basti pensare al diluvio universale e all’Arca di Noè, popolata da ogni specie di viventi. Mi è ancora più gradito parlarne, insieme a Sua Eccellenza l’Ambasciatore, per l’impegno che Israele da sempre dedica alla conservazione della Biodiversità, in una terra – conclude Petretti – che per collocazione geografica è il punto di incontro di mondi diversi anche dal punto di vista biologico, e di cui il Bioparco di Roma custodisce una rappresentanza preziosa.”
“Il Bioparco si è ormai affermato come luogo di incontro e punto di riferimento per tante famiglie della nostra città”, ha sottolineato la Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello. “Questa iniziativa ne valorizza la funzione educativa e pedagogica, consentendo ai più piccoli di avvicinarsi ai testi sacri durante momenti di svago e intrattenimento. Il ruolo degli animali nella Bibbia è fondamentale, sotto il profilo simbolico e sostanziale. Con questi percorsi sarà possibile cogliere tutti i tratti essenziali di questo rapporto simbiotico. Gli appuntamenti nel Bioparco sono sviluppati in sinergia con l’Ambasciata di Israele, che conferma così la propria sensibilità quando si tratta di coniugare spiritualità, cultura e formazione”.
(AgenPress.it, 23 giugno 2022)
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All’EJA di Budapest analisi e proposte per la sicurezza degli ebrei in Europa
di Sarah Tagliacozzo
Si è conclusa a Budapest la Conferenza annuale della EJA - European Jewish Association. Tra gli spunti trattati, emerge uno studio condotto dal British Institute of Jewish Policy Research, che ha messo in evidenza come gli stati europei con la migliore qualità di vita ebraica sono l’Italia e l’Ungheria, in contrasto con Belgio e Polonia – i due Paesi in fondo alla classifica stilata dagli autori dello studio.
Il Direttore della EJA, il Rabbino Menachem Margolin, ha evidenziato che «Lo scopo dello studio non è quello di attaccare i governi, e certamente non è quello di imbarazzare o di fare campagna contro governi specifici, ma di creare un’infrastruttura scientifica comparata sulla qualità della vita ebraica in vari paesi europei e di consentire ai leader delle comunità e ai governi di sapere quali siano i passi per superare insieme le sfide principali».
I rappresentanti di alcune comunità o organizzazioni ebraiche che hanno partecipato alla conferenza hanno evidenziato la necessità di istituire un coordinatore nazionale per l’antisemitismo. Il problema è particolarmente sentito in Francia – il Paese europeo in cui i cittadini di religione ebraica si sentono meno al sicuro, secondo quanto è emerso dallo studio.
L’Italia, pur risultando prima tra i paesi europei per il livello di sicurezza percepito dai membri delle comunità, ha alcune debolezze che sono state evidenziate mediante lo studio – specificamente per quanto riguarda l’esistenza di un budget governativo allocato per il sostegno della cultura ebraica, l’educazione, e le sinagoghe. Inoltre, l’Italia non ha mai votato a favore di Israele all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Riccardo Pacifici, ex presidente della Comunità Ebraica di Roma, presente alla conferenza, ha commentato i risultati riguardanti l’Italia mostrandosi sorpreso che l’Ungheria «paese in cui comunque i gruppi neonazisti sono troppo tollerati» abbia votato per 12 volte a favore di Israele in tutte le risoluzioni antisraeliane, a differenza dell’Italia che «ha un atteggiamento di forte rispetto dei diritti civili e di forte emarginazione dei gruppi estremisti neonazisti» ma che «nelle parole dei governi e anche dello stesso attuale Ministro degli Esteri ha sempre votato contro Israele, o si è astenuta. Su questo c’è ancora da capire dove sia il corto circuito».
Lunedì sera il Vice Primo Ministro dell’Ungheria e il Ministro dell’Interno Sàndor Pintér sono stati premiati da EJA con il King David Award per l’impegno dedicato a migliorare la pubblica sicurezza e combattere l’antisemitismo.
La Conferenza si è conclusa sulle rive del Danubio con una cerimonia al memoriale delle scarpe. Qui è stato cantato il Kaddish e sono stati accesi dei lumini da alcune personalità del mondo politico ed ebraico europeo, come la Vicepresidente del Parlamento Europeo Nicola Beer, dal viceministro dell’interno greco, Stavros Kalafatis, e dal senatore polacco Michal Kaminski.
(Shalom, 23 giugno 2022)
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Da volto televisivo a incubo di Netanyahu. L'ascesa di Yair Lapid in Israele
Il nuovo premier, figlio d'arte, corona una rincorsa lunga dieci anni, tra gaffe e compromessi, che lo ha portato alla soglia di Balfour Street a Gerusalemme.
di Cecilia Scaldaferri
Da giornalista, scrittore, attore e mezzo busto di successo della tv a futuro primo ministro di Israele: una parabola ascendente - segnata da alcuni inciampi iniziali, una serie di gaffe e compromessi anche dolorosi - che in dieci anni ha portato Yair Lapid a superare anche la venerata figura del padre fino alla soglia della residenza ufficiale di Balfour Street a Gerusalemme. Al battesimo del suo partito centrista Yesh Atid ('C'è un futuro'), nel gennaio 2012, in pochi credevano che sarebbe sopravvissuto così a lungo, men che meno che riuscisse nell'intento di diventare premier. Senza esperienza politica, neanche un titolo di scuola superiore, modi da 'bulletto' che ispiravano commenti ironici e feroci meme su Internet, sul telegenico Lapid - nominato una volta tra gli uomini più avvenenti del Paese - scommettevano in pochi. Pugile amatoriale, l'ex giornalista di Maariv e Yedioth Ahronoth, poi volto di Channel 2 con il suo popolare show, poteva vantare all'attivo numerosi libri - tra cui gialli e opere per bambini - nonché un'esperienza attoriale ne 'Il canto della sirena' (1994) in cui interpretava una specie di Hugh Grant in salsa israeliana. Eppure alla sua prima prova nell'arena politica, alle elezioni del 2013, Lapid fa il botto conquistando 19 seggi, dopo che le proiezioni lo davano a 10-12: l'inesperto figlio di Yosef 'Tommy', il volto noto della tv amante della boxe e dei sigari fa breccia tra la classe media ashkenazita, urbana e laica. Un successo di cui Benjamin Netanyahu, leader del Likud e già premier da quattro anni, ha bisogno e che gli frutta l'incarico di ministro della Finanze. 'Time' lo incorona "il nuovo uomo forte della politica israeliana" ma la coabitazione dura poco, fino a dicembre 2014, quando viene licenziato in tronco dopo settimane di tensioni, un 'divorzio' brutale che gli ha lasciato una feroce antipatia verso Bibi e una totale sfiducia nei suoi confronti (condivisa da molti, anche e soprattutto tra i leader a destra, vedi Naftali Bennett, Avigdor Lieberman e Gideon Saar, tutti ex accoliti malamente trattati). Nonostante l'intoppo, Yesh Atid continua a esistere, drenando voti al Labour in caduta libera, e Lapid dall'opposizione non manca di dare battaglia. Sono gli anni in cui il figlio dell'ex ministro della Giustizia - fieramente laico - Yosef 'Tommy' Lapid e della nota scrittrice e poetessa Shulamit Lapid affina le arti oratorie, domandole, e ricalibra la sua immagine, da fustigatore laico a rappresentante di una credibile forza politica di governo, deciso a spodestare Bibi. Nel 2019 si unisce all'outsider Benny Gantz, ex capo di Stato maggiore sceso in politica con il suo partito Blu e Bianco come campione della democrazia israeliana, con l'intento programmatico di mettere fine al lungo regno del padre e padrone del Likud, in carica continuativamente dal 2009 (oltre alla parentesi tra il 1996 e il '99). La seconda doccia fredda per Lapid arriva quando, dopo tre round di votazioni inconcludenti, di fronte al protrarsi dell'impasse politica (nessuno dei due blocchi riesce a raggiungere una maggioranza), nel 2020 Gantz spacca l'unione e sceglie l'abbraccio mortale di una coalizione di governo con Netanyahu. Lapid irremovibile resta fermo sul suo 'no', accusando l'ex alleato di "tradimento". Quando l'alleanza al potere tra i due collassa, meno di un anno dopo, sotto i colpi della reciproca incomprensione e sfiducia - come lui stesso ha previsto - Lapid si prende la rivincita, raccogliendo i frutti della sua scelta di attendere la fine del duo Netanyahu-Gantz dagli scranni dell'opposizione. L'ennesima campagna elettorale mostra la maturità raggiunta: Lapid spinge il suo partito senza però cercare di fare le scarpe alle altre formazioni dell'opposizione, in modo che superino la soglia di sbarramento senza sprecare voti e possano servire per formare un'ampia coalizione di governo. La sua strategia paga e alle elezioni della primavera 2021, Yesh Atid torna secondo partito d'Israele con 17 seggi mentre la paziente opera certosina del suo leader porta tre mesi dopo alla nascita di un variegato esecutivo, che va da destra a sinistra, passando per il centro, con la partecipazione per la prima volta di un partito arabo-israeliano, gli islamisti conservatori di Raam (la foto dei tre leader che firmano l'intesa e' entrata nella storia). Per raggiungere l'obiettivo di mandare a casa Bibi, Lapid fa addirittura un passo indietro e nell'accordo con Naftali Bennett prevede una premiership alternata, con il leader di Yamina che nonostante abbia solo 7 deputati, ottiene l'incarico per primo. Una prova di abilità politica e arte del compromesso acquisita con il tempo, in linea con la 'lezione' che diede in diretta nel 2003 al padre Tommy, ospite del suo programma tv: "Quando ero un bambino, mi hai insegnato che un uomo onesto non infrange mai le sue promesse. Avevi promesso che non saresti mai stato la sponda sinistra di un duro governo di destra, e ora lo stai facendo. Hai infranto la tua promessa", gli dice, duro. Lapid padre, un sopravvissuto all'Olocausto di origine ungherese, si scusa e poi aggiunge: "Ho fatto un compromesso. Forse mi sono dimenticato di dirti, quando eri bambino, che la vita a volte porta anche te a scendere a compromessi". Il resto è storia recente: in un anno di vita del 'governo del cambiamento', di crisi ce ne sono state diverse ma Bennett e Lapid, insieme, sono riusciti a superare ogni scoglio, in una chiara corsa contro il tempo di una fine annunciata, fino a cadere sotto i colpi degli opposti membri della coalizione e della pressione della destra nazional-religiosa guidata da Netanyahu. Ma per non dargli vantaggi, hanno scelto di staccare loro la spina al governo prima che li facesse cadere lui, in modo da presentarsi alle elezioni da una (relativa) posizione di forza. E hanno onorato l'accordo per la rotazione della premiership che presto porterà Lapid - se l'iter dello scioglimento della Knesset si concluderà positivamente - a Balfour Street.
(AGI, 23 giugno 2022)
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Benvenuti nell’era della necropolitica
ELOGIO DELLA MORTE - È imposta come soluzione inevitabile ai conflitti. Così mistica dell’eroismo e ideologia del sacrificio sono diventate il cuore dell’agire di chi ci governa: perché? Con quali conseguenze per il futuro?
di Donatella Di Cesare
Uno dei traumi che la nuova guerra d’Ucraina ha provocato in questi mesi nelle nostre esistenze è l’incombere funesto della morte. Come se non fosse sufficiente già lo choc del Coronavirus con tutte le comprensibili ansie, le legittime preoccupazioni che ha portato con sé. Un cigno nero dopo l’altro, o meglio, accanto all’altro – pandemia, guerra, recessione, carestia, siccità, cambiamento climatico – disegnano un orizzonte con tinte sempre più fosche e apocalittiche. Di fronte a questo scenario, che giorno dopo giorno è stato presentato in tutta la sua assoluta irreversibilità, l’istinto vitale insorge e si ribella. Non per opportunismo o indifferenza, né per cieco amor di sé o insensibilità, bensì perché oltre a fiutare l’enorme rischio rappresentato da questa guerra, coglie tutto l’arbitrio di scelte politiche che, pur essendo dirompenti ed epocali, vengono invece spacciate come asettiche manovre amministrative. Perché dovremmo accettare la morte come soluzione inevitabile dei conflitti? Perché dovremmo d’un tratto far nostra quell’ideologia del sacrificio di cui le nostre madri e i nostri padri, usciti dalla Resistenza, ci hanno insegnato a diffidare? Perché dovremmo proprio ora allontanarci dalle vie della civiltà per abbracciare la mistica dell’eroismo? Necessità del sangue che irrori il suolo patrio – corpi giovani di soldati quasi adolescenti gettati nelle fauci della macchina bellica. Ragazzi russi e ragazzi ucraini che vanno a morire nel nome della Nazione. Il loro corpo schiacciato tra le lamiere di un carrarmato – francese, italiano, chissà – o gettato insieme ad altri in un’anonima fossa comune. E intanto, lontano da questa ecatombe, i capi dei rispettivi governi e delle potenze implicate inneggiano a una Vittoria che dovrebbe arridere alla fine, dopo la carneficina di giovani vite immolate sull’altare di vecchi ferri da smaltire. È così che si può infatti rinnovare l’equipaggiamento, procedendo a un sistematico riarmo. Con un eufemismo chiamano ciò deterrenza. Si svuotano gli arsenali solo per incrementare ulteriormente le spese militari, com’è avvenuto in quasi tutti i Paesi europei, compresa l’Italia. L’industria bellica ringrazia. Tutto questo mentre il mondo si dibatte in crisi senza precedenti. Eppure dovrebbe essere finalmente chiaro che le armi servono solo a morire e a far morire. A che cos’altro? Chi lavora il grano, per farne i derivati, produce beni di consumo, o meglio, mezzi per vivere, chi fabbrica armi contribuisce alla distruzione. Una politica che richiede la morte, che la postula e la pretende come soluzione necessaria, come unico mezzo, è una necropolitica. Si rimette alla violenza, alla brutalità, alla legge del più forte. Che decida chi avrà la meglio “sul campo”! E cioè chi produrrà più cadaveri tra ferocie ed efferatezze. Questa politica della morte permette che le armi producano la massima distruzione possibile delle persone. Anzi, lo sancisce e lo promuove. In ciò consiste l’invio di armi. E in questo quadro diventano labili i confini tra resistenza e suicidio, tra libertà e martirio. Non dovremmo forse guardare a quell’ecatombe come un immane suicidio di massa? Un terrificante martirio collettivo in pieno XXI secolo, dopo aver condannato i gesti dei jihadisti? La morte è l’eccesso, l’ultima mossa oltre cui c’è solo il nulla. Il supertecnico Draghi rappresentava già un esperimento azzardato, una sospensione della politica in una governance amministrativa che avrebbe dovuto risolvere problemi burocratico-finanziari. Oggi scopriamo il volto più nascosto di questa amministrazione che si è rivelata una forma di necropolitica perché considera la possibilità di far morire come espediente e via d’uscita all’inatteso problema del conflitto. La politica che aveva già abdicato una volta all’amministrazione certifica così il proprio ulteriore fallimento. Di questa duplice sconfitta democratica è simbolo l’invio di armi. Una necropolitica, che rivendica il diritto di uccidere, e di far ipocritamente uccidere, disegna mondi di morte, forme di coesistenza sociale in cui la violenza, sopraffazione, arroganza determinano le relazioni personali e decidono la vita dei singoli. Se si guarda al fondo lo scontro tra posizioni opposte si riassume qui. Da una parte i cantori dell’eroismo, gli entusiasti interventisti, che nelle tribune dei dibattiti si eccitano al pensiero mortifero della vittoria e, trascinati dal nesso di eros e thanatos, invocano più armi, più letali, più distruttive. Dall’altra coloro che non intendono sottomettersi a una necropolitica amministrativa e temono che quell’invasione criminale, “non impedita”, come ha detto Papa Francesco, diventi un attacco alla vita dell’intero pianeta, al ciclo alimentare, energetico, esistenziale. Dobbiamo disertare il mondo di morte che stanno disegnando intorno a noi. E pretendere che si torni a una politica democratica, nel senso eminente di questa parola. Non si può accettare come nulla fosse il peggio che deve ancora venire. Perché se l’esito della guerra può essere incerto, si sa bene a che cosa porterà la politica distruttiva delle armi. L’assurdità della situazione in cui da mesi viviamo, la sproporzione tra il conflitto circoscritto e gli esiziali effetti che ne verrebbero, devono far riflettere e spingere a chiedere l’interruzione immediata di questa deriva necropolitica prima ancora della guerra stessa. Malgrado tutto il conformismo non crediamo più agli eroi sporchi di sangue, né ai miti fondativi della terra, la grande madre che richiede il sacrificio dei corpi. La nostra identità non è relegata a questo orrore, perché si articola insieme agli altri – non contro. Quelli che oggi sono responsabili o complici di questa necropolitica, domani, quando cominceranno a farsi sentire le ripercussioni devastanti della guerra, fingeranno di non ricordare. Sarà troppo tardi, e saranno altri a pagare.
(il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2022)
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E' consolante prendere atto che anche dal mondo ebraico si eleva una voce decisamente critica contro l'attuale politica del nostro governo. Di emergenza in emergenza, dallo scoppio della pandemia allo scoppio della guerra, l'ebraismo italiano si è acriticamente appiattito su tutte le posizioni filogovernative. Senza sollevare seri dubbi o formulare proposte alternative. Deludente. M.C.
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È il contesto a definire il cibo ebraico: una mostra a Budapest
András Koerner, architetto ungherese, appassionato studioso di gastronomia, è il curatore di Jó Lesz a Bólesz, la prima mostra storica e cronologica completa che sia mai stata fatta sulla cultura culinaria ebraica.
di Camilla Marini
András Koerner, architetto ungherese studioso della gastronomia ebraica del suo paese di origine è il curatore di una mostra allestita presso il Museo ungherese del turismo e del commercio di Budapest. Trasferitosi da tempo a New York, Koerner ha oggi 81 anni, si è ritirato ufficialmente dalla professione da venti e quarant’anni fa si è riavvicinato alle sue origini ebraiche. Lo ha fatto attraverso il cibo, grazie alle ricette tramandate dalle donne di casa a partire dalla bisnonna, i libri di cucina e gli utensili, oggi esposti nelle sale del museo dell’antico quartiere di Obuda. La mostra si intitola Jó Lesz a Bólesz, come l’ultimo libro pubblicato da András, un gioco di parole che può essere tradotto approssimativamente come “il bólesz sarà buono”. Il riferimento è a un dolce di pasta lievitata arrotolato e ripieno di uvetta e di altra frutta secca. Storicamente legato alla comunità ebraica ungherese, «rappresenta uno dei pochissimi esempi di influenza sefardita nel carattere prevalentemente ashkenazita della cucina ebraica ungherese», racconta Koerner in una intervista a Tablet. Si tratta di una delle tante varianti del classico bolo, il pane dolce spagnolo che gli ebrei espulsi dalla penisola iberica portarono, tra gli altri luoghi, in Olanda. Qui un viaggiatore ungherese ebreo dell’Ottocento lo apprezzò al punto da volerlo riprodurre una volta rientrato in patria. Creando così la chiocciola ripiena che è ancora oggi patrimonio della pasticceria locale. La storia del bólesz fa parte dei sette saggi sulla cultura gastronomica ebraica ungherese che compongono il libro Jó Lesz a Bólesz, in uscita questa estate in inglese con il titolo Early Jewish Cookbooks: Essays on the History of Hungarian Jewish Gastronomy. Tornando a Koerner, il suo interesse per la cucina ebraica è nato da anni di chiacchierate con la madre dopo che lui, sposato con una ragazza americana, si era ormai trasferito negli Stati Uniti. Scampato all’Olocausto da bambino, lo studioso ammette di avere trascurato le proprie origini per lungo tempo. In casa si festeggiavano le ricorrenze cristiane come la Pasqua e il Natale, mentre la sinagoga veniva ignorata. Questo però non gli aveva certo impedito di sperimentare la discriminazione e la persecuzione. Durante la seconda guerra mondiale aveva pochissimi anni e quella stella gialla che i grandi dovevano indossare a lui sembrava una medaglia. Troppo piccolo per capirne il senso drammatico, racconta che avrebbe voluto portarla pur non essendo obbligato a farlo. Scampati ai campi ma non al ghetto, i suoi famigliari si erano visti sottrarre la casa, occupata da una famiglia cristiana, ed erano stati costretti a trasferirsi nelle famigerate case della stella gialla. Sarebbero poi finiti a vivere nel ghetto di Budapest fino all’arrivo dei sovietici nel gennaio del 1945. Figlio di un architetto, Koerner aveva seguito le orme del padre, esercitando la professione prima nel paese natale e poi in America, dove sarebbe riuscito a prendere la cittadinanza solo nel 1973. Fino a quel momento, non si era mai occupato granché della sua identità ebraica. «Non ne sapevo praticamente nulla» ha dichiarato a Tablet. «Non conoscevo le festività e mi sembrava che il mio background ebraico non meritasse molta attenzione». A fargli cambiare idea ci avrebbe pensato il desiderio di riavvicinarsi, sia fisicamente sia spiritualmente, alla madre rimasta a Budapest. Emigrato illegalmente secondo il governo comunista, una volta diventato ufficialmente americano András poteva finalmente tornare a casa e recuperare il tempo perduto. «Ho avuto un pessimo rapporto con mia madre», racconta. «Quando è invecchiata, ho pensato che lavorare a un progetto insieme a lei in qualche modo ci avrebbe avvicinati». A partire dal 1983, ogni anno Koerner ha fatto così visita alla famiglia a Budapest, registrando ore e ore di conversazione con la mamma. È da questi racconti che è emersa la curiosità per la cultura gastronomica ebraica. Per quanto disinteressata al pari del figlio alla religione, la donna era stata infatti cresciuta nei suoi primi anni di vita dalla nonna Therese Berger, religiosa e osservante. Sarà dal ricordo della bisnonna, e degli ultimi della sua famiglia ancora rispettosi di festività e kashrut, che András inizierà ad appassionarsi alla tradizione degli ebrei ungheresi. Il risultato di questo primo lungo ciclo di ricerche nel 2003 prenderà la forma di un libro, A Taste of the Past, in cui lo studioso porta i lettori a casa dei suoi bisnonni, nell’Ungheria ebraica dell’Ottocento, con i polli in cortile e le dispense stipate di conserve. Il libro include ricette risalenti al 1869 scritte dalla bisnonna nella grafia tedesca Fraktur, in mostra insieme alla sua Haggadah del 1878 alla mostra Jó Lesz a Bólesz. Le ricette costituiscono i primi resoconti scritti in Ungheria di pietanze ebraiche ashkenazite, come la zuppa di polpette di matzo, il cholent e il kugel. Per il resto, sottolinea Koerner, la maggior parte dei piatti erano stati presi da vicini cristiani e leggermente modificati per rispettare la kashrut. Un esempio classico sono le torte che Therese preparava per Pesach utilizzando noci o mandorle macinate al posto della farina per evitare l’uso di agenti lievitanti o chametz vietati. Da qui la coscienza che la cucina ebraica derivi dal contesto. Fatte salve alcune specialità tipiche come quelle citate o il flodni, una pasta a quattro strati diversi come semi di papavero, noci, marmellata di prugne e mele, immancabili nelle festività, i pasti quotidiani erano più o meno gli stessi che mangiavano gli ungheresi non ebrei. Al limite, venivano modificati come i dolci di Pesach o come il pollo alla paprica, piatto tipico ungherese che gli ebrei preparavano senza la panna acida per evitare di mescolare latticini e carne. Spaziando dalla gastronomia alla storia e il costume, Koerner pubblica 13 anni dopo How They Lived, due volumi in cui indaga sulla vita quotidiana degli ebrei ungheresi tra la fine XIX secolo e l’inizio del XX attraverso una ricca raccolta di foto e di documenti d’epoca. Seguirà nel 2019 Jewish Cuisine in Ungheria, vincitore del National Jewish Book Award 2019 per la scrittura alimentare e i libri di cucina. Incentrato sulla cultura culinaria degli ebrei ungheresi prima dell’Olocausto, il lavoro è stato definito dalla studiosa di cultura ebraica Barbara Kirshenblatt-Gimblett, che ne ha curato la prefazione, «il resoconto più completo di una cultura gastronomica ebraica fino a oggi». Di primato in primato, anche l’esposizione allestita a Budapest fino al prossimo novembre rappresenta secondo il suo curatore «la prima mostra storica e cronologica completa che sia mai stata fatta sulla cultura culinaria ebraica di qualsiasi paese». In particolare, gli utensili di cucina e per la tavola del XIX secolo, gli appunti e i ricettari che l’uomo ha donato al museo dopo averli ereditati dai suoi antenati, «sono il complesso più completo di manufatti e manoscritti culinari del XIX secolo di una famiglia ebrea in Ungheria». Nonostante le indagini sulla sua eredità ebraica, che si affiancano a diversi altri studi sull’arte, l’architettura e la poesia ungherese, Koerner si dichiara interessato alla cultura del suo popolo senza per questo aderire ai rituali religiosi. Non credente, continua a non frequentare la sinagoga dicendo che «sì, faccio parte della cultura, ma penso di potervi appartenere senza passare attraverso i rituali». Capisce però perché le generazioni più giovani stiano esplorando più intensamente i loro antenati familiari e rivendichino tradizioni fino a quel momento trascurate. «Dà loro soddisfazione sperimentare in qualche modo le proprie radici», dice, azzardando pure una spiegazione al fenomeno: «Fa parte della vita moderna. Le ideologie sono venute a mancare e le persone ora cercano ancore. E in questo la religione è di sicuro una parte importante».
(JoiMag, 22 giugno 2022)
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Turgovia si scusa per aver respinto ebrei in fuga
Le autorità rifiutarono l'entrata in Svizzera a centinaia di persone. Il Governo locale studierà ora se sia possibile creare un luogo simbolico di ricordo nella regione frontaliera del cantone
Il Governo turgoviese ha chiesto scusa per la politica “disumana” operata dal Cantone ai tempi della Seconda guerra mondiale nei confronti di chi era in cerca di rifugio dai nazisti. Tra il 1933 e il 1945, le autorità rifiutarono l'entrata in Svizzera a centinaia di ebrei, abbandonandoli al loro destino. Le scuse dell'Esecutivo cantonale giungono in risposta a un'interrogazione parlamentare del deputato Daniel Frischknecht, presidente a livello nazionale dell'Udf. All'epoca dei fatti, la Confederazione aveva già rimproverato Turgovia per la sua politica in materia, una delle più restrittive del Paese.
• I RESPONSABILI
Il principale responsabile di questo capitolo oscuro della storia locale è stato individuato nel comandante della polizia turgoviese. Il diretto interessato ha verosimilmente distrutto i documenti incriminati, spariti dalla circolazione nel 1958, anno in cui andò in pensione. Nel suo intervento al Gran consiglio, Frischknecht si è augurato che l’attuale Consiglio di Stato “riconosca ufficialmente e formalmente i torti del Cantone e presenti le sue scuse”. Nella sua risposta, il Governo ha riconosciuto che le autorità turgoviesi non hanno mai espresso il loro dispiacere per le rigide pratiche della polizia degli stranieri ai tempi della Germania nazista. “Il Consiglio di Stato si rammarica profondamente di quello che è successo e vuole rimediare facendosi carico della domanda di perdono”, scrive oggi.
• UN MEMORIALE?
Questa richiesta tuttavia arriva “troppo tardi e non potrà raggiungere numerose persone che per molto tempo hanno sperato giustamente di riceverla”, ammette il Governo. L'Esecutivo studierà ora se sia possibile creare un luogo simbolico di ricordo nella regione frontaliera del Cantone. Prima però bisogna aspettare che Berna svolga i lavori per la creazione di un sito svizzero in memoria delle vittime dei nazisti, come esige una mozione approvata dalle Camere federali. Interpellato dal St. Galler Tagblatt, Frischknecht ha affermato di sperare che un memoriale sia installato a ogni attraversamento del confine fra il canton Turgovia e la Germania. Il deputato di Romanshorn si è detto soddisfatto della risposta ottenuta, ma ritiene che il Governo debba esplicitamente rivolgere le proprie scuse alla comunità ebraica.
(Ticinonews, 22 giugno 2022)
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Buio pesto alla knesset
“Quinte elezioni in tre anni e Netanyahu è pronto a tornare”. Parla Nahum Barnea, famoso giornalista israeliano. Il ruolo della religione nella caduta del governo e nel futuro dello stato ebraico.
di Giulio Meotti
Il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, scioglie la Knesset e porta il paese alla quinta elezione in tre anni. Il ministro degli Esteri, Yair Lapid, guiderà la transizione, che potrebbe durare diversi mesi. I due leader, provenienti da parti opposte dello spettro politico israeliano, avevano unito le forze lo scorso anno per estromettere l’allora premier Benjamin Netanyahu. La prospettiva di nuove elezioni offre a “Bibi”, il primo ministro più longevo della storia israeliana, una concreta possibilità di riconquistare il potere. La decisione pone fine a un periodo insolito nella politica israeliana, dove una coalizione di centro, destra, sinistra e un partito arabo-islamico si erano uniti per la prima volta per formare un governo. Ma i partiti si sono scontrati sulle politiche relative agli insediamenti in Cisgiordania, ai palestinesi e alle questioni di religione e stato. La coalizione aveva perso la maggioranza ad aprile dopo che un legislatore del partito di Bennett si era dimesso. Nuove elezioni si terranno tra la fine di ottobre o l’inizio di novembre. “L’Italia è il nostro modello”, dice al Foglio scherzando Nahum Barnea, il più famoso giornalista israeliano, storica firma del quotidiano Yedioth Ahronoth. Tre anni fa era uscita la notizia che Netanyahu aveva chiesto all’editore di Yedioth, Arnon Mozes, di mettere Barnea al guinzaglio. “All’opera c’è un misto di trumpismo di Netanyahu e di frammentazione dell’arena politica. Bibi è riuscito in qualcosa di unico nella storia israeliana: è stato capace di costruire un fronte politico che non è una coalizione, ma un blocco leale a Netanyahu più che ai rispettivi partiti. Ci sono quattro partiti, dagli ultraortodossi ai coloni al Likud, e sono tutti leali a Bibi. Netanyahu ha fatto passare l’idea che il patriottismo è dalla sua parte. Come se Bibi fosse il leader naturale, dopo essere stato dodici anni al potere e una generazione di israeliani non abbia mai conosciuto una alternativa. Bibi è un genio nel marketing della sua stessa immagine e visione di Israele. Per quattro turni elettorali non è riuscito a creare una maggioranza e non so se questa volta sarà in grado di farcela, ma potrebbe essere possibile”. Bibi ha dalla sua la demografia israeliana, ci dice Barnea. Anche se i religiosi in Israele sono riusciti a imporre alcune regole, come il rispetto nei pubblici servizi delle regole alimentari, è stato un patto non scritto a salvaguardare l’armonia: la scelta compiuta da David Ben Gurion quando decise di non scrivere nessuna Costituzione e di lasciare alla lotta politica la convivenza fra laici e religiosi, fra le élite e la Torah. Il primo politico abbastanza spregiudicato da usare l’arma religiosa fu Menahem Begin, che vinse le elezioni del 1977 col voto religioso sefardita contro il potere dei vecchi socialisti, Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Dayan, Ygal Allon. Netanyahu ha raccolto questa eredità, che oggi però ha dalla sua numeri impressionanti. La popolazione israeliana aumenterà del 70 per cento, arrivando a quasi 16 milioni, nel 2050, con gli ultraortodossi che rappresenteranno un terzo di tutti gli ebrei israeliani, secondo una nuova stima elaborata dal National Economic Council. Entro il 2050, Israele salirà a 15,68 milioni, l’80 per cento dei quali ebrei. Ci saranno 3,24 milioni di arabi, lo stesso 21 per cento di oggi. Ma la popolazione ultra-ortodossa crescerà a 3,8 milioni dal 12,6 per cento di oggi. Anche la popolazione ebraica della Cisgiordania raddoppierà dai 458.000 di oggi a 1,1 milioni nel 2050. “Coloni, ortodossi e religiosi, questo è il grande bacino di voti di Bibi”, dice Barnea. “E ha lo stesso istinto di Trump nel saperlo intercettare e manipolare. Oggi avevamo un governo abbastanza di destra e buono per i coloni, ma c’era questa idea che fosse ‘venduto’ ai Fratelli musulmani”. Ieri leader e media ultraortodossi si sono rallegrati per l’imminente scioglimento della Knesset e la caduta del governo guidato dal primo premier della storia a portare la kippà (Naftali Bennett), il copricapo religioso ebraico. Perché il suo governo è uno dei pochi nella memoria recente a non includere i partiti ortodossi. Il rabbino Shalom Cohen, leader spirituale del partito Shas, che rappresenta gli ebrei sefarditi e mizrahi, ha ringraziato Dio. “Un governo che ha danneggiato e cercato di distruggere l’ebraismo e la santità di Israele”, ha detto Cohen. Ce l’hanno con Avigdor Lieberman, falco ma laico, che ha sollevato la loro ira attraverso una serie di politiche, inclusa una norma che aumentava le tasse sui piatti usa e getta – utilizzati in modo massiccio dalle famiglie ortodosse – e un’altra che condizionava le agevolazioni fiscali per l’assistenza all’infanzia a entrambi i genitori impiegati, norma che ha colpito duramente le famiglie ultraortodosse perché molti uomini non lavorano e studiano nei seminari religiosi. E una proposta di legge che avrebbe consentito di eseguire conversioni all’ebraismo da parte di altre autorità religiose oltre al Gran Rabbinato. Infine, anche la prima defezione dal governo Bennett si è consumata sulla religione. Idit Silman, presidente della coalizione e parlamentare del partito Yamina di Bennett, è passata con il Likud di Netanyahu dopo che si è scontrata con il ministro della Sanità, Nitzan Horowitz, di sinistra e che aveva incaricato i funzionari del suo ministero di dare seguito a una sentenza della Corte Suprema e permettere ai pazienti di portare pane lievitato negli ospedali durante Pesach, la Pasqua ebraica. Silman è contraria alla norma perché in contrasto con la Legge ebraica, la Halakà. Poi un altro parlamentare di Yamina, Nir Orbach, ha presentato al primo ministro un ultimatum per rimanere al governo: l’annullamento del piano del governo di annullare i sussidi per gli asili nido per gli studenti delle scuole ebraiche e approvare quattromila nuove case per gli insediamenti ebraici. Insomma, il governo cade sulle questioni religiose. “Israele è normale ma anche diverso da altri paesi, abbiamo ancora problemi che sono esistenziali, dall’Iran ai palestinesi, che altri paesi non hanno, come Italia o Francia”, prosegue Barnea. “Abbiamo movimenti molto interessanti con i paesi arabi della regione, non so cosa accadrà nel futuro, se la strada seguirà i governanti, ma grazie all’Iran ci sono più opzioni. La domanda ora è se Bibi sarà in grado di ottenere una maggioranza. Se non ce la farà, sarà difficile riuscire a continuare a restare il leader della destra. Siamo comunque a una svolta”. In una scena che nessuno sceneggiatore avrebbe mai pensato, mentre il primo ministro Bennett annunciava il crollo della coalizione lunedì sera, le luci si sono spente nella sala della Knesset dove lui e Yair Lapid si stavano rivolgendo alla nazione. Bennett stava promettendo un “trasferimento ordinato” del potere a Lapid, quando la Knesset è piombata nel buio. Anche questo, avranno pensato i timorati di Dio, sarà stato un segno del destino.
Il Foglio, 22 giugno 2022)
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Il destino degli Accordi di Abramo, diventati alleanza militare
di Luca Gambardella
ROMA - Pochi giorni prima di arrendersi alla realtà e di decidere di rimettere alla Knesset il futuro del governo, Naftali Bennett era volato ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Era andato a portare le sue condoglianze per la morte dell’emiro Khalifa bin Zayed al Nahyan e discutere di diversi dossier. In patria, nel frattempo, la crisi politica imperversava, con il governo che sembrava pronto a cadere da un momento all’altro. Alcuni giornali non avevano mancato di sottolineare lo strano tempismo della visita “a sorpresa” nel paese del Golfo. Non troppo ironicamente, il New York Times scrisse che forse, per Bennett, quella negli Emirati era “una distrazione” per allontanarsi da chi lo voleva fare fuori in Israele. Se fu Benjamin Netanyahu a dare vita agli accordi di Abramo nel 2020, siglati con Emirati, Bahrein e Marocco, è stato Bennett invece a capitalizzare sulla storica intesa. Lo scorso maggio, israeliani ed emiratini avevano siglato un accordo commerciale senza precedenti, il più corposo per volume di affari mai siglato fra Israele e un paese arabo. Ma ora il patto si stava evolvendo in qualcosa di più di un’opportunità economica: in un’alleanza militare, denominata Alleanza di difesa aerea del medio oriente. Lo ha confermato lunedì lo stesso ministro della Difesa israeliano Benny Gantz: “Il programma è già operativo e ha permesso di intercettare con successo diversi tentativi iraniani di attaccare Israele e altri paesi”, ha detto. Se la sostanza dell’alleanza è ancora da chiarire – si ipotizza una forma di cooperazione con gli altri membri degli accordi di Abramo sull’intercettazione di droni – lo scopo è invece noto: difendersi dall’Iran. La visita del presidente americano Joe Biden in Israele il prossimo 13 luglio sarà decisiva “per finalizzare un chiaro piano di azione con gli Stati Uniti per fermare il programma nucleare iraniano”, ha spiegato lunedì Bennett. E’ la moneta di scambio che Israele chiedeva a Washington per accettare un ipotetico deal con Teheran: sostenere un piano di Difesa regionale stabile e integrato contro i pasdaran. Richiesta condivisa dai paesi sunniti. Compresa l’Arabia Saudita, altra tappa delicatissima del viaggio di Biden del mese prossimo. Il suo “ripensamento” su quello che definì “stato paria” per le violazioni dei diritti umani prevede di includere Riad nell’alleanza, sempre in funzione antiiraniana. In cambio, i sauditi offrirebbero un’intercessione più decisa in seno all’Opec per aumentare la produzione del petrolio. Ma proprio mentre l’orizzonte degli accordi di Abramo stava per ampliarsi, ecco che le dimissioni di Bennett aprono ora alcuni interrogativi sul futuro. Non è chiaro, per esempio, se la cooperazione commerciale e militare con il mondo arabo procederà spedita come era stato fino a ieri. Bennett è andato due volte negli Emirati, il possibile prossimo premier, Netanyahu, nemmeno una. In un libro di Barak Ravid, corrispondente di Axios, si ventilò persino che il giorno prima della firma degli accordi Bibi intendeva ripensarci. Persino il suo storico viaggio a Riad, nel novembre 2020, rimase segreto, sempre per sua volontà. La vecchia premura di Netanyahu a non spaventare troppo l’elettorato conservatore potrebbe essere un indizio su quel che sarà degli accordi.
Il Foglio, 22 giugno 2022)
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L’Iran costruisce i tunnel per la prossima escalation con Israele
di Cecilia Sala
ROMA - Ieri il capo dei pasdaran Hossein Salami ha detto: “Gradualmente, stiamo diventando una delle potenze mondiali di alto livello, questo è un processo già in corso”. Si riferisce al programma atomico e alla possibilità che, in tempi relativamente brevi, l’Iran diventi una potenza nucleare. Quattordici giorni fa la Repubblica islamica ha spento ventisette telecamere dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica che servivano a monitorare le attività nelle centrali, a garantire che non ci fossero progetti militari in corso. Il giorno prima, una dichiarazione congiunta di Regno Unito, Francia e Germania aveva avvertito che l’Iran sta trasformando parte delle sue scorte di uranio in “materiale arricchito e irradiato”, che è un pessimo segnale perché “nessuna di queste attività ha una giustificazione per l’uso civile che sia credibile”. Attraverso le immagini satellitari, l’intelligence israeliana e quella americana stanno guardando con molta attenzione il cantiere per scavare una rete di tunnel a sud della centrale di Natanz, in una zona desertica nel centro del paese, e dicono che si tratta del più importante progetto visto finora per costruire nuove strutture che possano ospitare centrifughe per l’arricchimento sotto le montagne, tanto in profondità da resistere anche alle bombe antibunker. In sostanza, sono gallerie capaci di resistere a un eventuale piano militare dell’aviazione israeliana per smantellare il programma atomico iraniano con la forza. Secondo gli esperti, nel momento in cui ci sarà la volontà politica di fare il passo, gli iraniani – dal punto di vista tecnico – sono pronti a portare l’arricchimento dell’uranio al novanta per cento (ciò che serve per la bomba) in poche settimane. I colloqui sul nucleare iraniano cominciati a Vienna a novembre si erano arenati, poi – una settimana dopo l’invasione russa dell’Ucraina – la finestra per tornare all’accordo si è riaperta e le condizioni sembravano propizie: per rendere possibile un embargo europeo sul gas russo e far fronte all’aumento del prezzo dell’energia, gli Stati Uniti avevano appena alleggerito le sanzioni contro il Venezuela. L’Iran è il quarto paese al mondo per dimensione dei giacimenti e quel petrolio – con l’accordo – sarebbe automaticamente tornato sul mercato. Fin da quando era candidato alla Casa Bianca, Joe Biden aveva promesso di resuscitare il Jcpoa, l’accordo voluto da Barack Obama e stralciato da Donald Trump: un accordo che ha molti nemici negli Stati Uniti, anche tra i parlamentari democratici. Il documento con il nuovo Jcpoa – per quanto riguarda le questioni di merito – è pronto da tempo, e chiuderlo mentre l’attenzione generale era concentrata sui crimini commessi da Vladimir Putin in Ucraina sembrava più semplice (politicamente) che in altre fasi. Ma quella finestra di opportunità si è già richiusa, come hanno fatto capire sia l’inviato speciale dell’Amministrazione Biden Robert Malley sia la delegazione iraniana: il governo di Naftali Bennett si è dissolto proprio nel momento in cui gli iraniani accelerano il programma atomico, comportandosi come se l’accordo non fosse più sul tavolo, e si preparano per affrontare un’escalation con Israele.
Il Foglio, 22 giugno 2022)
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Delegazione italiana in Israele per scoprire nuove tecnologie idriche da importare
di Luca Spizzichino
Una delegazione italiana composta da 22 società di servizi idrici e 3 studi di ingegneria ha recentemente concluso una visita in Israele per cercare collaborazioni e partnership sulle tecnologie idriche, incontrando rappresentanti di startup e autorità governative.
La delegazione è stata ospitata all'inizio di questo mese dall'Israel Export Institute, un'agenzia governativa incaricata di facilitare opportunità commerciali, partnership e alleanze strategiche sotto la competenza del Ministero dell'Economia e dell'Industria.
Le parti si sono incontrate a Tel Aviv e a Gerusalemme per l'Israele Water Innovation Technology Summit e hanno visitato gli impianti di desalinizzazione, purificazione e conservazione dell'acqua di Mekorot, la compagnia idrica nazionale israeliana che fornisce circa 1,7 miliardi di metri cubi di acqua l’anno e che collabora con le startup del settore per trovare nuove soluzioni innovative.
Ami Levin, direttrice del Dipartimento per l'Europa presso il Ministero dell'Economia e dell'Industria, ha osservato che Israele ha dovuto affrontare sfide idriche sin "dal primo giorno", e che ha dovuto "pensare fuori dagli schemi e trovare soluzioni innovative".
Levin ha affermato inoltre che lo Stato ebraico ha la percentuale di riutilizzo dell'acqua più alta al mondo, infatti recupera circa il 90% delle sue acque reflue, principalmente per l'agricoltura. Oggi la maggior parte della sua acqua potabile proviene da impianti di desalinizzazione ed è considerata un leader mondiale in tutti gli aspetti della gestione dell'acqua.
Ci sono circa 250 aziende che sviluppano tecnologie e attrezzature per l'acqua in Israele, secondo i dati forniti nel 2019 dall'Israel Export Institute, e la nazione esporta per circa 2,4 miliardi di dollari all'anno. Secondo il database Finder su Start-Up Nation Central, un'organizzazione no-profit che tiene traccia del settore, oltre 180 startup operano nei settori del trattamento delle acque e delle acque reflue, irrigazione, sistemi idrici, gestione della rete idrica, tecnologie di desalinizzazione e rilevamento della qualità dell'acqua.
Asterra e Kando, due delle principali aziende israeliani del settore, operano già in Italia con l'aiuto del consulente e imprenditore italiano Franco Masenello, co-fondatore e CEO di BM Tecnologie Industriali e 2F Water Venture, che è stato intervistato da The Times of Israel.
L’imprenditore italiano, ha spiegato, è alla ricerca di altre società idriche israeliane per fornire soluzioni alla siccità che sta colpendo il Paese negli ultimi mesi.
“Speriamo di fare questi incontri ogni anno, - ha detto Masanello - vogliamo creare legami con le startup e rafforzare le relazioni con Mekorot e altre autorità idriche. Non si tratta solamente degli affari, ma riguarda anche il legame tra i due Paesi".
(Shalom, 22 giugno 2022)
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L’Italia è il Paese in cui gli ebrei vivono meglio
Lo rivela uno studio presentato alla conferenza annuale dell’EJA
L’Italia è il Paese europeo in cui gli ebrei si sentono più al sicuro, mentre la Francia (in cui c’è la comunità ebraica più grande d’Europa) è quello in cui il senso di sicurezza degli ebrei è il più instabile. Il Belgio è quello che intraprende meno azioni sulla vita ebraica nel paese, mentre quelli in cui gli ebrei in Europa si sentono più sicuri sono la Danimarca e l’Ungheria, con l’Ungheria anche al primo posto con il numero più basso di ebrei che subiscono attacchi antisemiti, seguita dall’Italia. Sono alcune delle principali evidenze emerse da uno studio condotto negli ultimi due anni che esamina le prestazioni dei governi europei, presentato alla conferenza annuale dei leader delle comunità ebraiche organizzata dalla European Jewish Association (EJA) a Budapest il 20 e il 21 giugno....
(Bet Magazine Mosaico, 22 giugno 2022)
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I radar israeliani a Leonardo. Così Drs sbarca al Nasdaq
Leonardo entra nel mercato domestico israeliano con Drs che incorpora la società di radar per la difesa Rada e trova così anche la strada per l'attesa quotazione della controllata americana. Chiusa l'operazione, Drs sarà automaticamente quotata al Nasdaq a New York ed al Tase di Tel Aviv. È una «importante mossa strategica» per Leonardo: di «valore forte», con un «ottimo livello di complementarità strategico, commerciale e finanziario», evidenzia l'ad Alessandro Profumo. Come valenza industriale, i radar tattici avanzati di Rada entreranno con una «forte complementarità» del portafoglio dei prodotti di Leonardo.
Sul fronte commerciale Leonardo entra in Israele e si rafforza sul mercato americano mentre per i prodotti di Rada, già presente negli Usa con clienti come il corpo dei Marine, si aprono nuove opportunità nei programmi europei. Soprattutto, poi, è la svolta sul fronte finanziario che riporta Drs in Borsa dopo la battuta di arresto di marzo 2021, quando ad un passo da Wall Street Leonardo ne ha fermato la quotazione valutando che le avverse condizioni di mercato non avrebbero consentito una adeguata valutazione. «Abbiamo concordato un'operazione di fusione all-stock cogliendo anche l'opportunità di quotare Drs nell'attuale contesto di volatilità dei mercati, realizzando così quanto prospettato lo scorso anno», rileva Profumo.
Drs e Rada hanno firmato un accordo vincolante per l'operazione e ne prevedono il perfezionamento entro la fine dell'anno: Drs acquisirà il 100% del capitale sociale di Rada. In cambio, agli azionisti di Rada verrà assegnato il 19,5% circa di Drs. Chiusa l'operazione, Leonardo, tramite la controllata statunitense Leonardo Holding, continuerà a possedere l'80,5% di Drs che sarà quotata al Nasdaq ed al Tase. La fusione tra «due società leader nella difesa, con un'esposizione diversificata ai principali programmi del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e una presenza internazionale crea un vero vantaggio per gli azionisti di Rada e Drs», commenta Dov Sella, il ceo di Rada: «È la prima volta che un'importante società della difesa con sede negli Stati Uniti (Drs), sostenuta da un gruppo globale di primo piano (Leonardo), ha acquisito una importante società israeliana di tecnologie per la difesa (Rada). Questa operazione, unica, rafforzerà l'industria della difesa israeliana e definirà una nuova direzione per il futuro», per Rada «aumentandone la competitività» anche in nuovi mercati. Positiva la reazione all'annuncio dell'operazione di Piazza Affari, con le azioni Leonardo che hanno chiuso le contrattazioni in rialzo del 3,51%, a 10,08 euro, dopo aver toccato i massimi di giornata a 10,68 euro per azione, miglior titolo del Ftse Mib.
(il Giornale, 22 giugno 2022)
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I libri russi vietati da Kiev. Un autogol sulla via dell'Ue
di Gian Micalessin
Chi cercava argomenti per dimostrare quanto fosse avventato il via libera alla candidatura dell'Ucraina alla Ue non ha dovuto attendere molto. La prova migliore è arrivata, servita su un piatto d'argento, dal Parlamento di Kiev pronto a sfornare, solo 48 ore dopo il via libera della Commissione Europea, una legge di orwelliana memoria per la messa al bando di libri e opere musicali prodotti in Russia e Bielorussia. Una legge in evidente e paradossale conflitto con l'articolo 11 della «Carta dei diritti fondamentali» dell'Unione che difende la libertà d'informazione e il pluralismo culturale. Ma non è una svista. E neppure un passo falso conseguenza della pressione bellica.
Lo stesso Parlamento aveva già votato nel 2019 una legge che proibiva l'insegnamento in russo nelle scuole e imponeva l'immediato passaggio ai libri di testo in ucraino. Mentre un altro articolo dello stesso testo introduceva l'obbligo dell'ucraino in tutti gli uffici pubblici. Il testo, ratificato dal presidente uscente Petro Poroshensko nelle ultime ore del suo mandato, sembrava fatto apposta per delegittimare Volodymyr Zelenskiy il presidente- attore protagonista di film recitati esclusivamente in russo. Particolare subito dimenticato da Zelensky che si è ben guardato dal contraddire i propri parlamentari. Del resto il governo Zelensky non ha mai smentito neanche Oleksandra Koval, la direttrice dell'«Istituto del Libro Ucraino» che a maggio ha proposto di rimuovere dalle biblioteche del paese 100 milioni di titoli definiti «libri della propaganda russa». Titoli in cui la Koval inserisce anche le opere di Alexander Pushkin e Fyodor Dostoyevsky, colpevoli di aver alimentato il «messianismo russo» e aver favorito il diffondersi del «dominio della lingua russa».
Tesi suggestive, ma slegate dalla realtà linguistica e culturale di un'Ucraina dove chi ha finito le scuole dell'obbligo prima del 1991 ha studiato solo su testi russi. Come peraltro la maggior parte degli studenti diplomatisi fino al 2022 vista la scarsissima disponibilità di libri di testo in ucraino. Ma il paradossale tentativo di mettere al bando una lingua e una cultura russa impostasi nei secoli come l'unica vera radice culturale del paese cozza non solo con i più elementari principi sulla tutela delle minoranze linguistiche, ma anche con il buonsenso. Secondo «Rating», autorevole agenzia di sondaggi basata non a Mosca, ma a Kiev, il 29% della popolazione identificatasi nel 2012 come «russa» era solo una parte del ben più ampio 43/46 per cento che in Ucraina usava comunemente il russo a casa propria e nella vita di tutti i giorni.
(il Giornale, 20 giugno 2022)
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Farenheit 451 in Ucraina: i libri di Dostoevskij e Puskin finiscono al rogo
di Andrea Sartori
Lo avevamo già capito durante le maldestre imitazioni occidentali col tentativo (fortunatamente fallito) di mettere al bando Dostoevskij in Italia, ma in Ucraina sta avvenendo una “purificazione della cultura” con tanto di roghi di libri russi. Cosa che da parte di un regime nazista non deve troppo stupire, ma che comunque lascia basiti nell’Europa del XXI secolo. E’ notizia di ieri che il Parlamento di Kiev ha vietato l’importazione di musica e libri russi. Il Parlamento ucraino ha approvato un disegno di legge che vieta l’importazione e distribuzione di libri e prodotti editoriali da Russia, Bielorussia e «territori temporaneamente occupati» dalle forze russe in Ucraina. Lo hanno riferito i media di Kiev. Limiti sono stati decisi anche per la musica, con il divieto di esibizioni pubbliche, proiezioni, concerti di cittadini russi”. In realtà questa “derussificazione” di stampo nazista era già cominciata. Già dall’inizio di giugno Oleksandra Koval, direttrice dell’Istituto del Libro Ucraino, ha deciso di far mandare al macero “libri di propaganda” custoditi nelle biblioteche ucraine e utilizzarne la carta come “riciclo”. Tra questi libri nocivi sono comprese le opere di Dostoevskij e Puškin. Dei libri russi saranno conservate le fiabe di era sovietica e i romanzi d’amore perché, a detta della Koval, serviranno agli specialisti (perché solo gli specialisti potranno leggerli) per “studiare le radici del male e del totalitarismo”. Agghiacciante. Roba degna di un romanzo di Orwell o di Ray Bradbury. O dei “Bücherverbrennungen” della Germania nazista. Ma non stupisce, visto che l’eroe nazionale ucraino è il criminale nazista Stepan Bandera, quindi gli ucraini seguono l’esempio dei loro maestri del Terzo Reich. In realtà, per parafrasare il Qohelet, non vi è nulla di nuovo sotto il sole. Esisteva già un bando di pubblicazioni in lingua russa almeno dal 2016 per ordine dell’allora presidente Petro Poroshenko che provocò le vivaci reazioni degli editori ucraini. La derussificazione della cultura ha qualcosa di nazista. Cosa resta all’Ucraina? Ben poco. La messa al macero dei libri russi depriverà le biblioteche ucraine di ben cento milioni di volumi. E verranno mandati al macero anche i due più grandi autori ucraini, Gogol e Bulgakov, che scrivevano in lingua russa. Diciamo che questo rogo nazista dei libri si ricollega alla “Cancel Culture” di matrice anglosassone: in fondo in Canada è successo qualcosa di simile o come quando in Usa è stato cambiato il nome al premio Lovecraft per la narrativa fantastica a causa delle opinioni personali dell’autore. “Chi brucia i libri prima o poi brucerà anche le persone” scriveva nell’Ottocento il poeta ebreo tedesco Heinrich Heine. Beh, in Ucraina in realtà si sono portati avanti, bruciando prima le persone e solo in un secondo momento i libri.
(sfero, 21 giugno 2022)
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Il governo israeliano di nuovo in crisi
A Gerusalemme attacco hacker fa suonare le sirene
Israele si avvia verso la quinta elezione in tre anni e mezzo, dopo che il primo ministro Naftali Bennett e il vice primo ministro Yair Lapid hanno dovuto rinunciare a tenere insieme la coalizione di governo andata in crisi sulla “Legge di emergenza per la Cisgiordania” che non può essere aggirata o prorogata oltre la scadenza del 30 giugno. Ogni cinque anni, a partire dalla “Guerra dei Sei Giorni” dal 1967, il Parlamento israeliano deve approvare il “Regolamento di emergenza – Giudea e Samaria, giurisdizione e assistenza legale”, più nota come Legge di emergenza per la Cisgiordania. Si tratta di un provvedimento che permette di applicare la legge civile israeliana – e non quella militare – ai soli cittadini israeliani che vivono negli insediamenti in Cisgiordania. La normativa, approvata di fatto automaticamente da decenni, regola dunque in modo esteso e fondamentale la vita di cinquecentomila israeliani nei Territori Palestinesi, escludendo però Gerusalemme che da sempre vive una condizione specifica. Non avendo modo di far passare la legge, Bennett e Lapid hanno deciso che sarebbe stato meglio sciogliere la Knesset, il che avrebbe automaticamente esteso le norme di sicurezza israeliana in Cisgiordania. Il ministro della Giustizia Gideon Sa’ar ha attribuito la colpa della caduta del governo al “comportamento irresponsabile dei membri della Knesset nella coalizione”. Alcuni giorni fa il governo di Bennett è andato sotto. Cinquantotto i voti dell’opposizione contro i cinquantadue della maggioranza. Ad essersi sfilati, in particolare, due parlamentari: Mazen Ghanaim del partito islamico Raam e Ghaida Rinawie Zoabi della sinistra di Meretz. La coalizione vacilla da settimane, dal momento che il deputato Nir Orbach (Yamina) ha deciso di lasciare la coalizione per l’incapacità di approvare il disegno di legge di emergenza per la Cisgiordania, composto da misure che applicano la legge israeliana agli ebrei in Cisgiordania. In precedenza, il governo di Bennett ha sconfitto due voti di sfiducia alla Knesset lunedì pomeriggio con un voto di 57-52, nonostante le ribellioni all’interno della coalizione. I membri della Lista congiunta erano misteriosamente assenti alle votazioni, il che ha contribuito a sconfiggere le mozioni di sfiducia. Il leader di Ra’am (Lista Araba Unita) Mansour Abbas ha definito la decisione di sciogliere la Knesset “corretta”. Secondo il Jerusalem Post, in teoria ci sarebbe una possibilità che Netanyahu riesca a formare un nuovo governo all’interno dell’attuale Knesset. Questo accadrebbe se i membri della coalizione – di Nuova Speranza e Yamina – cambiassero schieramento e si unissero al blocco di destra di Netanyahu. Fonti del Likud hanno detto che il leader di Nuova Speranza Orbach non riceverà un posto riservato nella lista del Likud a causa della sua esitazione, ma lo riceverebbe invece il deputato di Yamina Idit Silman. Dopo lo scioglimento della Knesset, Lapid diventerà primo ministro provvisorio fino a quando un nuovo governo non presterà giuramento. Dati i vincoli legali e festivi, le prossime elezioni sono previste per la fine di ottobre. A rendere ancora più complicata la vita politica israeliana, il Times of Israel riferisce che a Gerusalemme e nella città meridionale di Eilat domenica pomeriggio si sono udite le sirene in quello che i militari hanno dichiarato essere un falso allarme. In una prima dichiarazione, le Forze di Difesa Israeliane hanno affermato che le sirene erano state il risultato di un malfunzionamento tecnico, in seguito hanno detto che a suonare erano quelle da altoparlanti civili e non da quelli appartenenti al Comando del Fronte Interno dell’esercito. L’Israel National Cyber Directorate (INCD) ritiene che dietro l’incidente ci possano essere degli hacker a causa del fatto che le sirene attivate erano civili e non facevano parte della rete del Comando del Fronte Interno.
(CONTROPIANO, 21 giugno 2022)
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Israele andrà al voto nuovamente… La quinta volta in tre anni e mezzo
Il governo israeliano intende sciogliere il Parlamento e convocare nuove elezioni. Lo annuncia un comunicato congiunto dei due architetti della coalizione di governo, il primo ministro Naftali Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid che dicono di aver “esaurito” tutti gli sforzi per tenere insieme l’esecutivo di fronte alle ribellioni di deputati della fragile maggioranza. Il centrista Lapid assumerà l’interim come primo ministro dopo lo scioglimento del Parlamento. Il provvedimento per lo scioglimento della Knesset verrà messo ai voti lunedì prossimo, con le elezioni che si dovrebbero tenere il 25 ottobre. Si avvia così alla conclusione dopo un anno la coalizione di otto partiti che aveva messo fine al lungo regno politico di Benjamin Netanyahu, unendo partiti di destra, centro, e sinistra oltre ad un partito arabo. Israele si avvia a tornare alle urne per la quinta volta in tre anni e mezzo. La prossima fine del governo di Naftali Bennett è stata salutata da Netanyahu come “una grande notizia per milioni di cittadini israeliani”. “E’ chiaro per tutti che il peggior governo della storia d’Israele è giunto al termine”, ha aggiunto ‘Bibi’, in un comunicato ripreso dai media israeliani. Netanyahu ha promesso di formare “un ampio governo nazionale” guidato dal suo partito Likud. Il ministro israeliano della Difesa, Benny Gantz, non era stato informato della decisione di sciogliere il governo di cui fa parte. Lo hanno riferito a Times of Israel fonti del suo partito centrista ‘Blu e Bianco’. E’ “una vergogna che il Paese debba essere trascinato a elezioni”, ha detto Gantz, aggiungendo però di non voler “giudicare” la decisione del primo ministro Bennett e del ministro degli Esteri Lapid.
Libero, 21 giugno 2022)
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In Israele fallisce il governo e si scioglie il parlamento
Ecco che cosa è successo e perché
di Ugo Volli
• LA CADUTA DI BENNETT
Quasi esattamente un anno dopo la sua costituzione, il governo Bennett cade. Ieri sera Naftali Bennett e Yair Lapid hanno annunciato di voler andare a nuove elezioni, presentando loro la legge di scioglimento della Knesset che il sistema politico israeliano richiede per indire le elezioni, prima che possa farlo l’opposizione mercoledì come si proponeva. Sembra un gesto di orgoglio ma è in sostanza una resa. Se non ci saranno nuovi colpi di scena, Israele andrà alle quinte elezioni generali in tre anni e mezzo il 25 ottobre, dopo la conclusione del ciclo delle feste autunnali. Il governo di tutti, che doveva gestire il paese “unitariamente” non ha retto alle sue contraddizioni.
• LE CAUSE PROSSIME
Si conclude così un mese di agonia fatta di sconfitte, di leggi non approvate al vaglio parlamentare, di nomine non ratificate, di parlamentari che sono usciti dalla maggioranza a destra e a sinistra. Il caso più importante è quello di una legge che dev’essere periodicamente approvata per estendere certi aspetti della legislazione israeliana ai territori di Giudea e Samaria. Era necessario votarla di nuovo entro giugno fra l’altro per permettere ai cittadini israeliani che vi abitano di avere la sicurezza sociale come tutti gli altri, per estendere loro la giurisdizione civile e poter arrestare secondo la legge israeliana i terroristi. Normalmente questa legge viene riapprovata senza problemi ogni cinque anni, ma questa volta la maggioranza conteneva partiti contrari ideologicamente al governo israeliano di Giudea e Samaria (gli arabi di Ra’am e gli ultrasinistri di Meretz). Mentre i loro dirigenti erano disposti a passare sopra le loro convinzioni pur di continuare a escludere la destra dal governo, alcuni loro parlamentari non erano disposti a rinunciare all’ideologia. Il governo sperava in un soccorso dell’opposizione di destra, che invece è d’accordo sulla logica della legge, ma naturalmente questa ha rifiutato di fare da stampella a un governo detestato e a un primo ministro considerato come un traditore della destra e non l’ha votata. Si è certificato così che la maggioranza non c’era più. Di fronte alla presentazione di una mozione di sfiducia nei prossimi giorni, i leader del governo hanno deciso di gettare la spugna.
• LE CAUSE REMOTE
Questa vicenda è uno dei temi di divisione della maggioranza, importante e urgente; ma ve ne sono molti altri già emersi: le costruzioni negli insediamenti ebraici e i finanziamenti di quelli illegali dei beduini, la difesa dal terrorismo e l’atteggiamento verso l’Iran, l’economia e la religione, la giustizia e la politica estera. Cioè praticamente tutto. In realtà il governo Bennett è stato costituito mettendo assieme delle forze politiche che non erano d’accordo su niente, salvo che sul tentativo di tener lontano dal potere il leader più popolare del paese, cioè Bibi Netanyahu. Ma a un governo non basta occupare il potere, deve governare e cioè fare scelte. Ma su ogni scelta concreta, la maggioranza era destinata a dividersi, perché le convinzioni erano opposte.
• CHE SUCCEDE ADESSO
Salvo improbabili colpi di scena (per esempio una mozione di sfiducia costruttiva che nomini un nuovo governo evitando le elezioni), prima di tutto scattano gli strani accordi di coalizione che hanno presieduto alla nascita del governo. In seguito a questi Bennett non gestirà l’ordinaria amministrazione nei quattro mesi fino alle elezioni (o più probabilmente sei fino alla costituzione del nuovo governo). Gli subentrerà subito Yair Lapid, come avrebbe dovuto fare comunque a metà legislatura se essa fosse durata. Sarà lui a incontrare Biden e a gestire le difficili condizioni di sicurezza di qui a ottobre (o a gennaio), inclusa la scelta se e quando attaccare gli impianti atomici iraniani. Ci sarà poi un gran balletto sulla presentazione delle liste elettorali: sia il partito di Bennett che quello di Saar, nell’ex maggioranza, rischiano di non superare la soglia del 3,5% necessaria per entrare al Knesset. E’ possibile che si uniscano, e così Meretz e i laburisti. Si dice anche che il partito di Bennett probabilmente si spacchi e che lo stesso leader non si candidi. I sondaggi assegnano una vittoria alla destra, ma forse non così amplia per costituire un governo senza i pezzi di destra transfughi (Bennett, Sa’ar, Lieberman). Insomma i giochi sono del tutto aperti. Nel frattempo è probabile che Lapid governi, senza maggioranza, secondo la sua ideologia di sinistra, mentre il paese è orientato al 60% almeno sulla destra. C’è insomma il rischio di forti tensioni. L’ultimo tema da citare è quello della legge sulla Giudea e Samaria, che verrà automaticamente prorogata, essendo caduto il governo prima della sua scadenza.
• IL SISTEMA POLITICO ISRAELIANO È MALATO?
Certamente sì, si tratta di una malattia comune a molti sistemi politici occidentali: come la Francia, che non ha al momento una maggioranza; l’Italia con un governo dalla maggioranza ampia e rissosissima; gli Usa col presidente meno popolare da decenni. Eccetera. Senza affrontare il grande problema della debolezza dei paesi democratici in questo periodo, bisogna dire che il sistema elettorale israeliano proporzionale puro, con una soglia d’accesso molto bassa, liste decise dai partiti, una forte frammentazione etnica e religiosa oltre che politica, una personalizzazione altrettanto forte della politica, la politicizzazione del sistema investigativo e giudiziario fa sì che lo stato ebraico sia particolarmente a rischio e rende molto difficile la costituzione di governi compatti ed efficienti. Comunque finisca questa nuova difficile prova della democrazia israeliana, è chiaro che una riforma istituzionale è necessaria. Ma bisogna aggiungere una cosa fondamentale: la democrazia israeliana è autentica, segue le regole della legge e la volontà dell’elettorato, conta le teste e non le taglia. Meglio troppe elezioni, come in questi anni, che nessuna, come avviene in quasi tutti i paesi del Medio Oriente (e purtroppo della maggior parte del mondo).
(Shalom, 21 giugno 2022)
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Israele e Omicron, oltre 10.000 casi in un giorno: mai così tanti da aprile
Registrati 168 casi gravi, 32 persone intubate. Riaperti i reparti Covid chiusi da mesi
Israele, il Covid rialza la testa. Sono più di diecimila i nuovi casi di Omicron registrati nelle ultime 24 ore, mai così tanti da aprile. Lo riferiscono le autorità sanitarie israeliane parlando di 10.200 nuovi contagiati, 168 dei quali versano in gravi condizioni e 32 intubate.
Il tasso di positività è al 38,95 per cento, in leggero aumento rispetto al giorno precedente. Solo nell'ultima settimana, il numero dei casi gravi è aumentato in Israele del 95%, come spiega il ministero della Salute. A seguito della crescita dei contagi, le autorità hanno ordinato agli ospedali di riaprire i reparti Covid chiusi da mesi.
• SESTA ONDATA
Il Paese intanto, si sta preparando a una nuova ondata, la sesta, della pandemia. Lo ha detto lo “zar del Covid” Salman Zarka, responsabile del piano contro il coronavirus in Israele, spiegando che il ministero della Salute di Tel Aviv sta monitorando tutte le nuove varianti che stanno emergendo nel mondo. Zarka ha anche spiegato che «la prossima ondata può essere simile a quella causata dall'Omicron, ma gli esperti di salute sono preoccupati dalla possibilità che una nuova variante della specie Delta, che risulta più aggressiva, possa colpire gravemente la popolazione giovane e le donne in gravidanza».
• VACCINI
Israele è uno dei Paesi con il più alto tasso di vaccinazione al mondo, sempre in prima fila da quando è eplosa la pandemia. Così la quarta dose di vaccino è stata raccomandata per tutti i cittadini di età compresa tra i 18 e i 60 anni. L'indicazione relativa al nuovo booster riguarda le persone guarite, come ha scritto il Jerusalem Post, o che abbiano ricevuto la terza dose da almeno 5 mesi. Ricordiamo che inizialmente la quarta dose era stata indicata solo per i fragili mentre successivamente era stata allargata a tutti gli over 60. Il via libera è arrivato dopo l'analisi dei dati relativi all'effetto della quarta dose: la protezione contro la malattia grave aumenta di 3-5 volte e la protezione dall'infezione raddoppia rispetto allo scudo prodotto da 3 dosi. I dati inizialmente diffuso dal ministero della Salute hanno evidenziato che la quarta dose offre una protezione particolarmente valida agli over 60, i soggetti più a rischio dal punto di vista anagrafico. Il quadro è stato delineato osservando gli effetti su 400mila persone che hanno ricevuto la quarta dose e 600mila che hanno ricevuto la terza almeno 4 mesi fa.
(Il Messaggero, 21 giugno 2022)
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"Israele è uno dei Paesi con il più alto tasso di vaccinazione al mondo, sempre in prima fila da quando è eplosa la pandemia". Sì, è vero, purtroppo. Israele è in prima fila nella promozione dell'infausta politica vaccinale diffusa in tutto il mondo. Non tornerà a suo vantaggio. M.C.
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Israele. La guerra con l’Iran continua, fra omicidi e attacchi hacker
di Giuseppe Gagliano
Due dipendenti del settore aerospaziale iraniano sono stati trovati morti domenica in circostanze misteriose. Mohammed Abdus, impiegato del centro spaziale Samanan, è stato ucciso mentre era in servizio secondo i media locali. Poche ore prima Ali Kamani, un membro dell’aviazione delle Guardie Rivoluzionarie, è morto in un incidente d’auto. “Due funzionari aerospaziali iraniani sono stati martirizzati durante una missione”, ha detto l’agenzia iraniana Fars.
Queste morti, in circostanze non chiare, si aggiungono all’elenco delle morti misteriose e degli omicidi non rivendicati di membri delle Guardie Rivoluzionarie e di scienziati nelle ultime settimane. Ayub Anthzari, un esperto aerospaziale che lavorava sul programma missilistico iraniano, è stato trovato morto all’inizio di giugno, mentre il colonnello Hassan Sayed Khodai, alto funzionario dell’IRGC, è stato assassinato a colpi di arma da fuoco a fine maggio. Secondo le informazioni pubblicate dal New York Times, Israele avrebbe avvertito gli Stati Uniti di essere responsabile dell’assassinio del colonnello Khodai, coinvolto in atti ritenuti terroristici contro obiettivi israeliani in Africa e in Sud America. Mentre Teheran giura di vendicare la morte dell’alto funzionario delle Guardie Rivoluzionarie, Israele negli ultimi giorni ha sventato i tentativi di attacco ai turisti israeliani in Thailandia e Turchia, e ha alzato il livello di allerta in quest’ultimo Paese. L’ondata di sparizioni in Iran arriva quando il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha affermato che lo stato ha intensificato la sua offensiva contro l’Iran. Non va dimenticato che lo stato di Israele si considera in stato di guerra permanente non solo con l’Iran, ma anche con i suoi alleati e di conseguenza gli omicidi mirati da parte di unità speciali di servizi di sicurezza rientrano nel suo modus operandi.
Tuttavia accanto agli omicidi mirati vi è anche la Cyber Warfare posta in essere dall’Iran. Un media israeliano ha affermato che gli hacker iraniani hanno violato l’e-mail di un generale della riserva israeliana e hanno effettuato attacchi informatici per suo conto contro diversi centri politici, accademici e commerciali israeliani di alto livello. Il canale televisivo israeliano KAN, che ha pubblicato un servizio in merito, sostiene che gli hacker citati fossero di origine iraniana e che tra le vittime di questo attacco vi fossero nomi di personalità politiche come l’ex ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni ed ex Ambasciatore degli Stati Uniti in Israele. L’autore del rapporto, un certo Ittai Shickman, citando fonti ben informate, ha riconosciuto che gli hacker si erano infiltrati nel cyberspazio israeliano da almeno sei mesi, e che per conto di questo anziano generale di riserva dell’esercito israeliano e di una serie di altre note personalità avevano avuto accesso a documenti e informazioni dalle alte autorità del regime di Tel Aviv. L’emittente in lingua ebraica sottolinea che l’attacco e l’incursione iniziali sono stati effettuati tramite l’e-mail del generale di riserva e che gli hacker hanno effettuato i loro attacchi elettronici contro istituzioni politiche, accademiche ed economiche di alto livello.
Facendo riferimento a un rapporto di Check Point Software Technologies, uno dei principali fornitori mondiali di soluzioni di sicurezza informatica per governi e aziende e attore chiave nell’high-tech israeliano, il canale televisivo KAN ha riconosciuto questo martedì che gli hacker si erano infiltrati almeno sei mesi fa, cioè a partire da dicembre 2021, e che sono rimasti attivi fino alla scorsa settimana, e grazie a ciò hanno potuto accedere a vari documenti relativi ad alti funzionari israeliani. Sempre secondo la televisione israeliana, uno dei metodi utilizzati dagli hacker era quello di mandare inviti a funzionari per partecipare a conferenze all’estero e per inviare articoli sul programma nucleare iraniano, mentre chiedevano alle loro vittime di inserire le loro password di accesso collegate al loro indirizzo e-mail per accedere ai dati.
Affermando che l’ex ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni fosse tra le vittime, l’outlet rileva che un’altra vittima era l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, mentre il capo di un centro di ricerca altamente sensibile in Israele, il cui nome non è stato rivelato, era anche sull’elenco. Tutte le vittime sono state reindirizzate a una pagina specifica ed è stato chiesto loro di inserire la propria password e-mail o di ricevere un codice di accesso registrando il proprio numero di cellulare, il che ha aiutato gli hacker a creare un ampio database delle loro vittime. Secondo gli esperti di Check Point, il messaggio di testo inviato ai cellulari delle vittime conteneva anche malware che facilitava l’hacking nei destinatari.
Il quotidiano israeliano Maariv, soffermandosi sull’attacco, ha fornito maggiori dettagli sull’incidente: “La principale vittima di questa operazione informatica è un generale della riserva impegnato in una posizione molto sensibile. La sua e-mail è stata violata e gli hacker hanno inviato messaggi per suo conto. Un’altra vittima dell’attacco informatico è stato il ministro degli Esteri israeliano Livni. Gli hacker avevano cercato di convincerla a digitare la sua password e-mail su una pagina presentata per ricevere un invito a partecipare a una conferenza all’estero. A questo si aggiunge un’altra vittima, il capo di un centro di ricerca chiave in Israele. Gli hacker hanno preso il controllo della sua casella di posta, accedendo alla sua corrispondenza con uno degli ex ambasciatori americani in Israele. Gli hacker hanno utilizzato questa corrispondenza per inviare più email al direttore del centro di ricerca per conto dell’ambasciatore, cercando di ottenere da lui determinate informazioni. Tra le vittime c’è anche l’amministratore delegato di una delle principali società di sicurezza in Israele, le cui informazioni personali sono state violate.
(Notize Geopolitiche, 20 giugno 2022)
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Israele: giorni decisivi per il governo, possibile sfiducia
Opposizione all'attacco della maggioranza Bennett-Lapid
La settimana che si apre potrebbe essere decisiva per il governo di Naftali Bennett e Yair Lapid. L'opposizione guidata da Benyamin Netanyahu è orientata ad avanzare mercoledì prossimo una legge per lo scioglimento della Knesset se il governo, oltre alla già svanita maggioranza, perdesse - come appare - anche l'attuale parità di seggi. Tutto è legato alla figura del deputato Nir Orbach - dello stesso partito 'Yamina' di Bennett - che da giorni tiene la coalizione di governo sul filo del rasoio con la sua intenzione di lasciare la maggioranza. Se Orbach confermerà le intenzioni - nonostante la frenetica attività del governo di tentare con lui una mediazione - l'opposizione di Netanyahu presenterà la legge per la quale tuttavia occorrono 3 approvazioni formali. Tuttavia - come hanno anticipato i media - la strada appare in parte segnata, visto che l'opposizione ha altre strade tra cui una mozione di sfiducia o la bocciatura del bilancio statale.
(ANSA, 20 giugno 2022)
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In Marocco firmato un appello per preservare il patrimonio ebraico in Africa
Questa settimana in Marocco è stato firmato dai leader ebrei di sei paesi africani un appello a promuovere la cooperazione in tutta l’Africa per preservare il patrimonio ebraico-africano, durante la seconda Jewish Africa Conference organizzata dall’Associazione Mimouna, una ONG marocchina e dall‘American Sephardi Federation (ASF) dal 13 al 15 giugno con tema “Past, Present and Future”. L’appello, chiamato “Call of Rabat” (l’appello di Rabat, capitale del Marocco) spinge per il riconoscimento da parte di individui, gruppi della società civile e governi della lunga storia della vita ebraica in Africa, sottolineando al contempo la conservazione e l’accessibilità dei siti storici ebraici. “Sono felice di annunciare da Rabat, la Capitale della Cultura Africana del 2022, che in questo giorno è stato lanciato un appello all’Africa e a tutto il mondo per preservare l’eredità ebraica africana”, ha affermato El Mehdi Boudra, fondatore e presidente dell’Associazione Mimouna. L’appello è stato firmato da Malcolm Hoenlein, vicepresidente della Conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane; il ministro delle Comunità capoverdiane Jorge Santos; l’ex ministro del Turismo tunisino René Trabelsi; Serge Berdugo, segretario generale del Consiglio delle comunità ebraiche marocchine; Shaun Zagnoev, presidente del consiglio dei deputati ebraico sudafricano; Magda Haroun, presidente della comunità ebraica del Cairo; il professor Ephraim Isaac, fondatore del Centro per la pace e lo sviluppo dell’Etiopia; il Direttore Esecutivo dell’ASF Jason Guberman, e Boudra. “Riconosciamo l’importanza dell’eredità ebraica che esiste nel nostro paese, Capo Verde, a tutti i livelli… Spero davvero che questa Conferenza faccia luce e… promuova l’unità, la solidarietà e la cooperazione nel mondo”, ha affermato Santos. In totale 51 funzionari governativi, imprenditori, studiosi, diplomatici, rabbini e leader di comunità di 22 paesi hanno partecipato alla seconda Conferenza sull’Africa ebraica. Guberman ha evidenziato come “nel corso della storia l’Africa sia stata un luogo di rifugio e di rinascita per il popolo ebraico…. Gli astronomi e gli artisti sefarditi, i viaggiatori e i commercianti, gli editori e i filosofi che hanno aperto la strada al mondo cosmopolita di oggi provenivano o si trovavano spesso in Africa”. Hoenlein, che alla conferenza ha anche ricevuto il “Moses, the African Jewish Leadership Award”, ha affermato: “L’Africa è la frontiera del futuro. Affinché l'[Africa] abbia successo, deve essere saldamente radicata nel suo passato, nella sua storia e nella sua realtà… Gli ebrei si guardano indietro non per perdersi nella storia ma per imparare le sue lezioni… Dobbiamo ricordare, studiare e valorizzare le comunità di lunga data, solo mentre accogliamo, riconosciamo e promuoviamo nuove comunità”. La prima edizione della Jewish Africa Conference si è tenuta nel 2019 a New York.
(Bet Magazine Mosaico, 20 giugno 2022)
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Israele - Covid, oltre diecimila contagi in 24 ore
Mai così tanti da aprile, riaprono i reparti specializzati: 168 dei nuovi casi sono gravi
Sono più di diecimila i nuovi contagi da coronavirus registrati in Israele nelle ultime 24 ore, mai così tanti da aprile. Lo riferiscono le autorità sanitarie israeliane parlando di 10.200 nuovi contagiati, 168 dei quali versano in gravi condizioni e 32 intubate. Il tasso di positività è al 38,95 per cento, in leggero aumento rispetto al giorno precedente. Solo nell'ultima settimana, il numero dei casi gravi è aumentato in Israele del 95 per cento, come spiega il ministero della Salute. A seguito della crescita dei contagi, le autorità hanno ordinato agli ospedali di riaprire i reparti Covid chiusi da mesi.
(Adnkronos, 20 giugno 2022)
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Israele. Stanziati più di 3 milioni di shekel per progetti legati alle energie rinnovabili
di Luca Spizzichino
Il ministero dell’Energia israeliano e la Israel Innovation Authority hanno assegnato 3,3 milioni di shekel a tre società energetiche per dei progetti pilota legati ai settori delle energie rinnovabili. Le aziende vincitrici riceveranno una sovvenzione fino al 50% delle spese del progetto.
“Il Ministero dell'Energia comprende che il modo migliore per raggiungere gli obiettivi del Paese in termini di riduzione delle emissioni è attraverso la promozione e la maturazione di prodotti innovativi - ha affermato Yael Herman, Capo della Divisione Ricerca e Sviluppo presso l'Ufficio del Capo Scienziato del ministero dell'Energia - Con questa idea in mente, il Ministero si sta adoperando con queste sovvenzioni per sostenere l'innovazione”.
“Riteniamo che la partnership tra i tecnici del ministero dell'Energia e gli esperti nell'Autorità per l'innovazione porterà al significativo sviluppo di tecnologie rivoluzionarie nel campo dell'energia in Israele" ha poi aggiunto.
“La partnership tra il settore pubblico e quello privato garantirà a Israele di mantenere il suo ruolo guida come hub dell'innovazione tecnologica” ha dichiarato Zvica Goltzman, vicepresidente ad interim della Israel Innovation Authority.
Tra le proposte vincitrici della sovvenzione ci sono alcuni progetti degni di nota: la realizzazione di un sistema di accumulo di energia da fonti rinnovabili, la sperimentazione di un sistema per la ricarica ultraveloce di veicoli elettrici e un sistema per monitorare i guasti nei pannelli solari utilizzando una scansione termografica eseguita da un drone nelle fattorie di tutto il Paese.
(Shalom, 20 giugno 2022)
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La cultura in Sinagoga
Mostra dedicata ad uno dei più grandi fumettisti Israeliani e inizio del ciclo musicale di Castagnoli.
Una mostra dedicata ad uno dei più grandi fumettisti Israeliani, che ha unito il complesso ebraico di Casale Monferrato alla grande kermesse di CasaleComics in quel momento in pieno svolgimento al Castello, e poi il primo appuntamento di una rassegna musicale unica nel suo genere, arrivata alla 10ma edizione. E’ il riassunto di una nuova giornata ricca di cultura attorno alla sinagoga di Casale, quella di domenica 19, iniziata appunto con 40 tavole di Asaf Hanuka, esposte in Sala Carmi per l’inaugurazione della mostra “Diario di un realista. Il presidente della Comunità Elio Carmi ha introdotto l’evento spiegando il forte legame che nell’ebraismo unisce il racconto delle difficoltà di un periodo storico, anche quello complesso che stiamo vivendo, alla narrazione della realtà quotidiana. E’ sicuramente la prima chiave di lettura per comprendere un artista dallo sguardo sempre molto intimo come Hanuka, ma è stata Ada Treves, curatrice della mostra, ad entrare nel dettaglio delle tavole attraverso le aree tematiche della mostra. Hanuka ha un fratello gemello Tomer, altro elemento importante della sua narrazione, lavora per il New Yorker eppure è insicuro del proprio successo, vive i social con ansia, così come si interroga a lungo sul suo ruolo di marito e padre. Ma sono soprattutto le sue riflessioni sulla sua identità a farci comprendere come “Diario di un realista” sia un documento anche estremamente utile per comprendere la società israeliana contemporanea. Del resto è nato da una richiesta del quotidiano economico israeliano Calcalist: una tavola a settimana che in Italia sono state raccolte e pubblicate da Bao Pubblishing con il titolo KO a Tel Aviv. La mostra sarà aperta fino a domenica 3 luglio compresa. Pomeriggio dedicato alla musica con una rassegna immancabile nella pianificazione culturale della Comunità casalese e che ha portato negli anni a scoprire le peculiarità di autori di origine ebraica o legati all’ebraismo. Il compositore Giulio Castagnoli, che l’ha ideata, la definisce “una meditazione sul suono scritto”. Per questo primo appuntamento, che ha richiamato un buon numero di interessati, c’erano Dario Destefano al violoncello e Giacomo Indemini alla viola ad esibirsi davanti all’aron ha-qodesh. Il concerto si è aperto con la celeberrima “suite in sol maggiore per violoncello solo” di Bach, le cui note rimbalzano in ogni angolo della storica sala di preghiera, rotonde, perfette, verrebbe da dire rinfrescanti. Sempre per violoncello solo la Sonata op 25 di Paul Hindemith diventa quasi uno specchio della suite precedente, non per lo stile, certo, tra i due brani passano più di 200 anni, ma per l’utilizzo dello strumento capace di essere protagonista assoluto dello spazio. Il legame con la tradizione ebraica per questi due autori è di un “grado di separazione”: Bach aveva per amico Abraham Birnbaum che passò la vita a difendere la sua opera, Hindemit la moglie, per difendere la quale emigrò dalla Germania nazista agli Stati Uniti. Indemini fa il suo ingresso in sala, per eseguire tre brani della Partita III per viola sola di Bach, suscitando emozione non solo per l’esecuzione, ma anche per lo strumento: una bellissima viola del liutaio monferrino Arnaldo Morano appartenuta al compianto violista casalese Mario Patrucco. Insieme interpretano poi il brillante “Duo degli occhiali” di Beethoven e poi i Tre canti ebraici di Giulio Castagnoli nella versione per viola e violoncello. E’ un brano intenso, per scrittura e per l’esecuzione, ma anche per la provenienza. Sergio Liberovici, etnomusicologo di fama internazionale, la cui madre era Monferrina, nel 1946 registrò e trascrisse i canti rimasti nella memoria dei sopravvissuti alla Shoah che passarono per Torino. Una materiale su cui Castagnoli costruisce una struttura personale, tanto semplice quanto emozionante.
(Il Monferrato, 20 giugno 2022)
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Le Beatitudini di Gesù (3)
di Marcello Cicchese
BEATI QUELLI CHE FANNO CORDOGLIO
"Beati quelli che fanno cordoglio perché essi saranno consolati" (Matteo 5:4).
Queste parole di Gesù non ricorrono molto frequentemente nei sermoni e nelle conversazioni tra credenti, molto probabilmente perché non si prestano ad essere citate in modo staccato. E' uno di quei tanti passi che non parlano immediatamente alla nostra coscienza di uomini moderni, ma hanno bisogno di essere inseriti, anche formalmente, nel mondo espressivo biblico. L'intenzione di Gesù è infatti, anche in questo caso, di proclamare che in lui si stanno adempiendo le parole di Isaia:
"Lo spirito del Signore, dell'Eterno è su me, perché l'Eterno m'ha unto ... per consolare tutti quelli che fanno cordoglio ... " (Isaia 61:1-3, cfr. Luca 4:16-21).
I termini tradotti con "fare cordoglio" e "consolare" hanno dunque un significato profetico-teologico e non possono quindi essere interpretati con categorie psicologiche o sociologiche. L'espressione "fare cordoglio" traduce quasi sempre, nella versione Riveduta, verbi che in greco o in ebraico indicano il dolore, l'afflizione che si esprime con lacrime, lamenti, atti esterni per la morte di una persona cara o per una sventura che ha colpito, o sta per colpire, il gruppo al quale appartiene colui che piange. Quando, per esempio, a Giacobbe portano le vesti insanguinate del figlio Giuseppe, si dice che
"Giacobbe si stracciò le vesti, si mise un cilicio sui fianchi, e fece cordoglio del suo figlio per molti giorni" (Genesi 37:34).
Il profeta Michea, davanti alla visione di Samaria ridotta a un mucchio di pietre esclama:
"Per questo io farò cordoglio e urlerò, andrò spogliato e nudo, manderò dei lamenti come lo sciacallo, grida lugubri come lo struzzo" (Michea 1:8).
Talvolta si fa cordoglio o si invita a far cordoglio per esprimere pubblicamente dolore e pentimento per l'infedeltà davanti a Dio:
"Esdra ... non mangiò pane, né bevve acqua, perché faceva cordoglio per l'infedeltà di quelli che erano stati in esilio (Esdra 10:6).
Oppure si fa cordoglio per esprimere il dolore provocato dal giusto giudizio di Dio sulle infedeltà degli uomini:
"Il Signore, l'Iddio degli eserciti, è quegli che tocca la terra, ed essa si strugge, e tutti i suoi abitanti fanno cordoglio" (Amos 9:5).
In conclusione possiamo dire che nella Bibbia il far cordoglio denota una manifestazione pubblica di dolore e lutto di qualcuno il cui ambiente vitale (famiglia, città, popolo) è stato colpito da una sventura o da un giudizio divino. Resta quindi esclusa ogni interpretazione puramente psicologica; e forse questo è uno dei motivi per cui la beatitudine sugli afflitti viene così poco citata. Nel libro del profeta Isaia, da cui Gesù ha tratto le parole di questa beatitudine, Dio annuncia da una parte che il popolo avrà occasione di far cordoglio a motivo dei giudizi che stanno per abbattersi su Gerusalemme, e dall'altra promette che verrà un giorno in cui Egli "consolerà" il popolo e ristabilirà Gerusalemme:
"Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della servitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che ella ha ricevuto dalla mano dell'Eterno il doppio per tutti i suoi peccati (Isaia 40:1);
"Rallegratevi con Gerusalemme e festeggiate a motivo di lei, o voi tutti che l'amate! Giubilate grandemente con lei, o voi tutti che siete in lutto per essa! … Come un uomo cui sua madre consola, cosi consolerò voi, e sarete consolati in Gerusalemme" (Isaia 66:10,13).
La consolazione di Dio consiste dunque nella sua opera di salvezza a favore del popolo e di tutta la creazione. Dio interviene in una situazione di dolore e di afflizione e crea un nuovo stato di cose in cui trovano conforto coloro che gemono sotto il peso dell'afflizione e fanno cordoglio per l'infedeltà del popolo. Anche al tempo di Gesù il popolo d'Israele gemeva sotto il peso di una situazione umiliante: il dominio dei Romani. Alcuni vedevano in questo stato di cose il giusto castigo di Dio per il peccato del popolo e aspettavano, come il giusto e timorato Simeone, "la consolazione di Israele" (Luca 2:25). Gesù proclama che in lui Dio è venuto a consolare il suo popolo: beati dunque coloro che fanno cordoglio perché essi saranno consolati. Se questo può essere, nel suo insieme, il giusto senso da dare a queste parole di Gesù, dobbiamo chiederci quale significato possono avere per noi oggi. Credo che per applicare queste ed altre parole di Gesù a noi che viviamo tra la risurrezione e il ritorno di Cristo, si debba da una parte tener presente che in Gesù le profezie messianiche si sono veramente adempiute, e dall'altra che il loro compimento pieno e manifesto avverrà alla sua venuta. In Gesù gli ultimi tempi messianici sono iniziati, la consolazione di Dio è giunta agli uomini, e forse per questo motivo lo Spirito Santo sparso sugli uomini, secondo la profezia di Gioele, viene anche chiamato nel vangelo di Giovanni il "Consolatore". Ma d'altra parte, il male, benché vinto è ancora presente tra gli uomini, i quali sono chiamati a fare cordoglio per questo stato di cose, a ravvedersi, a lasciarsi consolare da Dio mediante il suo perdono, la sua pace, la sua forza. Per noi che crediamo, fare cordoglio potrebbe forse significare il riconoscere nelle nostre sofferenze, di qualunque tipo esse siano, una partecipazione alle conseguenze del peccato che è entrato nel mondo, nella convinzione che dove c’è sofferenza c'è peccato; non peccato personale, ma peccato dell'umanità, della creazione, che "con brama intensa “aspetta la manifestazione dei figli di Dio" (Romani 8: 19). Il fatto che soffriamo come tutti gli altri ci deve ricordare che siamo peccatori come tutti gli altri e che non è possibile per noi una piena liberazione dal nostro male personale se non viene vinto il male che è nel mondo e attanaglia tutti gli uomini. Fare cordoglio potrebbe inoltre significare per noi la disposizione ad umiliarci, come Esdra e Daniele, per la situazione di peccato, cioè di ingiustizia, di egoismo, di violenza, di inganno di odio in cui siamo immersi, e di cui non siamo probabilmente i principali responsabili, ma di cui non siamo neanche del tutto incolpevoli. In questo atteggiamento può rientrare anche il cordoglio per i propri peccati, intesi però non solo e non tanto come peccati individuali quanto come corresponsabilità nel peccato di tutti. In questa situazione di cordoglio, prendere sul serio le promesse di consolazione può significare il credere fino in fondo che soltanto nella risurrezione di Cristo si trova la soluzione radicale ai mali e alle sofferenze del mondo; che soltanto il Consolatore può dare oggi la vera pace, quella pace che il mondo non conosce e non dà, e che soltanto nei nuovi cieli e nella nuova terra ogni lacrima sarà asciugata, "né ci sarà più cordoglio, né grido, né dolore, poiché le cose di prima sono passate" (Apocalisse 21: 4). Dobbiamo però anche renderci conto che se la nostra fiducia in queste parole di consolazione è reale, essa si deve esprimere nel rifiuto di ogni altra consolazione. Se ci consoliamo da soli non conosceremo la consolazione di Dio. Purtroppo, davanti ai peccati e alla sofferenza del mondo abbiamo trovato molte forme di autoconsolazione: una situazione economica garantita, una pietà tutta centrata sul rapporto io-Dio, l'erezione di innumerevoli steccati di disinteresse davanti a problemi umani che non ci toccano direttamente. Certamente non possiamo farci carico dei problemi di tutto il mondo: il Signore non ci chiede questo. Ma forse dovremmo avere quel po' di fede che è sufficiente a darci il coraggio di vivere su questa terra un po' meno protetti e corazzati: se davvero ci decidessimo a vivere nella "debolezza di Dio" incontreremmo forse qualche occasione in più per "fare cordoglio", ma conosceremmo anche più profondamente e fin d'ora la ricchezza delle consolazioni di Dio. La pace che anche in questi tempi di sofferenza Dio concede a coloro che credono e sperano in Lui è un'anticipazione di quella consolazione escatologica che porterà giustizia e pace e gioia fra tutti i popoli e in tutta la creazione. Dunque non può essere, neanche oggi, una pace tutta privata, personale, perché per sua natura questa pace desidera comunicarsi, estendersi. Quando questo non riesce, quando le forze della malvagità tuttora operanti sulla terra si oppongono all'espansione della pace di Cristo, allora chi annuncia questa pace ne subisce il contraccolpo. E non può che soffrirne, e far cordoglio per sé e per gli altri. In simili situazioni diventano attuali le parole di Gesù: "Beati quelli che fanno cordoglio, perché essi saranno consolati".
(da "Credere e Comprendere", luglio 1981)
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Razzo di Hamas e raid di Israele, a Gaza rotta una tregua di due mesi
L'esercito israeliano ha dichiarato di aver colpito un sito di produzione di armi di Hamas e altri obiettivi nella Striscia di Gaza in rappresaglia al lancio di un razzo da parte di militanti palestinesi nel sud di Israele sabato mattina.
L'episodio interrompe una tregua di due mesi di violenza al confine tra la Striscia e Israele, mentre in Cisgiordania gli scontri sono continuati.
All'alba di sabato, i sistemi di difesa aerea di Israele hanno intercettato un razzo sparato da Gaza, che non ha provocato vittime. Nessuno ha rivendicato l'azione, che lo Stato ebraico ha imputato ai militanti di Hamas. Poche ore dopo l'esercito israeliano ha colpito quello che ha identificato come un sito di approvvigionamento di armi dell'organizzazione palestinese. In un video diffuso dai militari, si vede un edificio con una torretta mentre viene distrutto, sollevando un'alta colonna di fumo.
• RAPPRESAGLIA Secondo il governo israeliano, l'attacco di questa mattina è una rappresaglia della Jihad islamica dopo l'uccisione di tre miliziani palestinesi armati - e il ferimento di altri 8 - avvenuta ieri mattina in scontri con i militari a Jenin nel nord della Cisgiordania. Sia la Jihad islamica sia Hamas avevano minacciato che il fatto "non sarebbe rimasto impunito".
Inoltre, nel pomeriggio di ieri, un pallone spia usato dall'esercito israeliano era caduto nel nord della Striscia alimentando ulteriormente la tensione.
(euronews, 18 giugno 2022)
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“Con la crisi, odio diffuso”
L’allarme lanciato da uno dei leader dell’ebraismo francese.
Qualche giorno prima di recarsi a Roma Francis Kalifat, il presidente del Crif, è stato turbato da una notizia passata relativamente in sordina sui mezzi di informazione: l'uccisione di un anziano ebreo di Lione, l’89enne Rene Hadjadj, defenestrato dal suo appartamento dal vicino di casa reo confesso in un'azione criminale per molti versi simile a quella di cui è stata vittima cinque anni fa Sarah Halimi. Almeno all'inizio non c'erano indizi che lasciassero supporre una matrice antisemita in questo omicidio. A stretto giro, una settimana dopo, sono invece emersi segnali piuttosto inquietanti che lascerebbero aperta anche questa opzione. Come una serie di post dal contenuto antisemita e cospirazionista che l'assassino avrebbe pubblicato in passato sui social media, segnalati nel loro contenuto da alcuni organi di stampa. Appreso questo ulteriore sviluppo, il leader dell'ebraismo transalpino ha annunciato la costituzione del Crif come parte civile nel procedimento giudiziario che sarà intrapreso.
Una scia di sangue che sembra allungarsi ulteriormente quella nel nome di un antisemitismo, spesso di matrice islamica, che ha già fatto molte vittime in Francia. Non sempre con la dovuta consapevolezza da parte di un Paese talvolta smarrito davanti a questa minaccia. Kalifat l'ha ribadito a chiare parole, sia durante la conferenza voluta dall'UCEI che nei minuti che l'hanno preceduta, intrattenendosi nel merito anche con i giornalisti presenti.
”L’antisemitismo in Francia - la sua testimonianza - è costituito da quello che definirei un mix micidiale di Islam radicale, estrema destra ed estrema sinistra. Purtroppo la Francia, una Repubblica con vari 'territori perduti', è un arcipelago in cui odio e violenza hanno una significativa diffusione. Anche nei confronti di Israele". Un problema largamente esteso come anche i numeri ufficiali del ministero certificano "ma che, già drammatico di per sé, è in realtà sottostimato perché la gran parte delle vittime finisce comunque per non denunciare quello che ha subito". Una situazione sempre più esplosiva, prosegue Kalifat, "e che si è ulteriormente aggravata in regime di crisi sanitaria, con l'emergere di teorie complottiste dalla evidente connotazione antisemita". Dietro ogni vittima, una storia. "Sento ancora le grida di dolore dopo il dramma di Tolosa. Risuonano
nella mia testa, come se tutto ciò stesse accadendo adesso", lo sconforto del presidente del Crif. Che ha però parole di apprezzamento per l'impegno svolto in questo ambito dal presidente Macron. "Nel corso dell'ultima cena annuale del Crif ha espresso concetti importanti. Come il riconoscimento di Gerusalemme quale 'capitale eterna del popolo ebraico', oppure come la ferma condanna dell'ultimo rapporto di Amnesty International in cui si accusava Israele di apartheid. Un intervento che ho molto gradito e per il quale - conclude Kalifat - gli ho rivolto la mia gratitudine".
(Pagine Ebraiche, giugno 2022)
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Frammenti di storia per la ricostruzione del quartiere ebraico di Lecce
Si terrà mercoledì 22 giugno, alle ore 10:30, presso il Museo Ebraico di Lecce, la presentazione dei risultati connessi al progetto regionale “Misure di promozione del ‘welfare aziendale’ e di nuove forme di organizzazione del lavoro Family Friendly”.
Le finalità del progetto sono la messa a punto di una piattaforma per la visita virtuale dei luoghi legata alla cultura ebraica nel Salento e la realizzazione di un docu-film che presenta i primi risultati di uno studio ricostruttivo del quartiere ebraico di Lecce ed esprima una ricerca costante condotta dal Museo Ebraico di Lecce in collaborazione con specialisti nelle diverse discipline, per recuperare una storia misconosciuta, ma anche per riflettere sulle trasformazioni urbanistiche e sociali di Lecce, tra Medioevo ed Età Moderna.
Questa ricerca, nata tramite l’uso delle tecnologie emergenti, la rilettura delle fonti archivistiche ma soprattutto tramite lo studio delle murature dell’attuale Palazzo Personè, ha come scopo la restituzione di un patrimonio di conoscenze ancora da esplorare, per comprendere pienamente la multiculturalità della società del Salento Medievale.
Grazie allo studio delle murature dell’attuale palazzo Personè, è stato possibile rappresentare virtualmente l’antica sinagoga e immaginare la fisionomia del quartiere ebraico tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI secolo, per ricucire le tracce di una memoria che abbiamo il dovere di conoscere, valorizzare e comunicare.
Oltre a ciò, sarà presentata la versione inglese della Jewish Salento Travel Guide, a cura di Fabrizio Ghio e Fabrizio Lelli, tradotta da David Katan e pubblicata grazie al supporto della famiglia Khalili.
La guida sviluppa degli itinerari volti alla riscoperta dei luoghi del Salento ebraico partendo dalle prime diaspore in età romana sino al secondo dopoguerra, contribuendo così ad arricchire il patrimonio culturale salentino.
Il volume è composto da cinque itinerari che portano alla ricerca di tracce labili, dirette e indirette, di comunità ebraiche che vanno dall’età romana fino ai nostri giorni. Alla fine di questi itinerari ci sarà una degustazione offerta da Cantine Leuci, Melograni Martino e Pasticceria Natale.
Alla presentazione della conferenza stampa parteciperanno: Claudio Michele Stefanazzi, Luca Scannale, Stefano Minerva, Fabiana Cicirillo, Paolo Foresio, Gregorio Pecoraro, Vito Andrea Mariggiò, Fabrizio Lelli , Fabrizio Ghio e Marco Di Porto.
(LecceSette, 18 giugno 2022)
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Israele minaccia di colpire il palazzo presidenziale di Bashar al-Assad
Dopo che Israele ha lanciato con successo attacchi all'aeroporto della capitale siriana, Israele ha minacciato che i prossimi attacchi potrebberp essere effettuati anche al palazzo del presidente siriano Bashar al-Assad.
"Israele ha inviato un messaggio al presidente siriano Bashar al-Assad avvertendolo di non coprire ulteriormente le operazioni iraniane nel suo paese e di trasferire armi di qualità in Siria e lo ha informato che uno dei suoi palazzi sarebbe stato l'obiettivo del prossimo raid di caccia israeliani in Siria .", secondo The Jerusalem Post. In precedenza si è appreso che l'ambasciatore israeliano è stato convocato presso il ministero degli Esteri russo per fornire spiegazioni sugli attacchi all'aeroporto internazionale di Damasco. Apparentemente, una tale provocazione da parte dell'IDF ha fatto arrabbiare molto la Russia. A questo proposito, è logico presumere che in caso di attacco al palazzo presidenziale, la posizione di Mosca nei confronti di Gerusalemme sarà estremamente dura, poiché oggi la Siria è quasi l'alleato chiave della Russia in questa regione. Un veicolo aereo senza pilota britannico Watchkeeper WK450 è stato abbattuto da un sistema di disturbo elettronico tra la costa di Cipro e la Siria. Secondo i dati preliminari, durante il volo il veicolo aereo senza pilota ha subito un guasto ai sistemi di bordo, a seguito del quale quest'ultimo è caduto nelle acque del Mar Mediterraneo. Secondo l'agenzia di stampa Avia.pro, il drone da ricognizione multiuso britannico Watchkeeper WK450 è decollato dalla base navale di Akrotiri e si è diretto verso il Mar Mediterraneo orientale. Durante il volo il drone ha subito inaspettatamente un guasto ai sistemi di controllo a causa della perdita di contatto con l'operatore, a seguito del quale il drone è caduto in acqua. Secondo i dati preliminari, il motivo di tutto è stato un potente impatto elettronico, inoltre, si tratta del secondo drone britannico Watchkeeper WK450 perso nell'area nell'ultimo mese. Al momento è noto che nella parte orientale del Mar Mediterraneo, tra le coste siriane e cipriote, è presente una potente perturbazione elettronica, in particolare si tratta di problemi con il funzionamento del sistema di posizionamento globale e di un numero di segnali, che è stato registrato in questa regione negli ultimi due mesi, dovuto al lavoro di un potente sistema di guerra elettronica. L'ultima volta che l'esercito britannico ha perso un drone Watchkeeper WK450 nell'area è stato nel maggio di quest'anno, mentre le indagini sulle circostanze dell'incidente sono ancora in corso, tuttavia, le ragioni sono sempre le stesse.
(AVIA.PRO, 17 giugno 2022)
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Siria, “Wsj”: Israele coordina con gli Usa gli attacchi contro obiettivi iraniani
Gli attacchi aerei israeliani puntano anzitutto a interrompere il flussi di armamenti avanzati dall'Iran alla milizia libanese Hezbollah e alle forze militanti sostenute da Tehran in Siria.
Israele coordina segretamente con gli Stati Uniti gli attacchi aerei effettuati contro milizie filo-iraniane nel territorio della Siria. Lo hanno dichiarato al quotidiano “Wall Street Jorunal” funzionari ed ex funzionari del governo Usa, confermando che gli attacchi aerei israeliani puntano anzitutto a interrompere il flussi di armamenti avanzati dall’Iran alla milizia libanese Hezbollah e alle forze militanti sostenute da Tehran in Siria.
Secondo le fonti consultate dal quotidiano Usa, “molte delle missioni effettuate da Israele negli scorsi anni sono state esaminate e autorizzate preventivamente dai vertici del Comando unificato delle forze armate Usa (Centcom) e del dipartimento della Difesa”. L’attività di supervisione statunitense punterebbe anzitutto a garantire che i raid aerei israeliani “non interferiscono con la campagna contro lo Stato islamico guidata dagli Stati Uniti”. Nello specifico, i vertici militari statunitensi esaminerebbero preventivamente le missioni delle forze aeree israeliane nella Siria Orientale, vicino all’avamposto militare Usa di al Tanf, al confine tra Siria e Giordania.
(Nova News, 17 giugno 2022)
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Israele interrompe i viaggi dei liceali ad Auschwitz, polemica con Varsavia
Lo scontro con la Polonia va avanti da almeno quattro anni, da quando il partito Diritto e Giustizia ha introdotto una legge che vieta di sostenere il coinvolgimento della popolazione locale nell’Olocausto.
di Davide Frattini
Una volta all’anno gli studenti dei licei israeliani visitano il campo di concentramento di Auschwitz in Polonia. È un viaggio educativo, fa parte del curriculum scolastico. Non bastano le baracche ricostruite al Memoriale dell’Olocausto di Gerusalemme: per vedere da vicino il sistema dell’orrore, per comprendere gli ingranaggi dello sterminio, i ragazzi varcano i cancelli con la scritta in ferro battuto Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Per la prima volta il governo ha deciso di interrompere questo rito estivo che si accompagna al diploma. È un ulteriore passo nella contrapposizione con i nazionalisti al potere a Varsavia: lo scontro va avanti da almeno quattro anni, da quando il partito Diritto e Giustizia ha introdotto una legge che vieta di sostenere il coinvolgimento della popolazione locale nell’Olocausto. A 313 chilometri dalla mostruosità nazista di Auschwitz-Birkenau 279 deputati avevano votato – proprio il 27 gennaio, quando il mondo si ferma a ricordarne la liberazione – per punire con tre anni di carcere chi usi la formula «campi polacchi». Come a dire: sono stati gli occupanti tedeschi, non siamo stati complici dei carnefici a Chelmno o Treblinka o Sobibor o Belzec o Majdanek. I polacchi pretendono di poter vigilare sulle lezioni presentate ai giovani prima e durante il viaggio, chiedono di introdurre come tappe anche i luoghi dedicati alle loro vittime. I politici israeliani – a parte l’ex premier Benjamin Netanyahu più benevolente per questioni di alleanze da destra a destra – respingono questi tentativi «di riscrivere la Storia». Yair Lapid, il ministro degli Esteri, ha bloccato le visite scolastiche dopo qualche titubanza tra i funzionari all’Educazione e in passato aveva twittato: «Mia nonna è stata uccisa in Polonia da tedeschi e da polacchi». Il predecessore Yisrael Katz ha ripetuto una frase del premier Yitzhak Shamir: «Hanno succhiato l’antisemitismo con il latte delle madri». Haaretz, il quotidiano della sinistra israeliana, riconosce la frustrazione del governo di Varsavia nel tentare di portare l’attenzione anche sui bambini polacchi rapiti e mandati nei campi di lavoro in Germania o usati per esperimenti: «Gli studenti possono essere esposti a una realtà complessa, in cui la stessa nazione che ha prodotto i persecutori ha sofferto sotto i nazisti». Perfino gli studiosi dello Yad Vashem ammettono che «campi della morte polacchi sia una rappresentazione sbagliata». Ricordano però che nei lager nazisti in Polonia fu sterminato il 90 per cento dei 3 milioni di ebrei del Paese, almeno 200 mila consegnati dagli abitanti.
(Corriere della Sera, 17 giugno 2022)
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Docenti e Rabbini dall’Università Bar Ilan di Tel Aviv a Brindisi
Ospiti del Centro Ebraico di Cultura «Torah veZion» di Brindisi un folto gruppo di visitatori, con l’organizzazione del Shai Bar Ilan, nel corso di un lungo Tour dedicato alla scoperta della presenza e della rinascita ebraica in Puglia, ha fatto tappa a Brindisi.
Accolti dal Coordinatore del CEC, avv. Pagliara, per un intero pomeriggio hanno visitato, tra l’altro, il Museo «Ribezzo» che conserva importanti epigrafi ebraiche, risalenti al IX secolo, ritrovate a Brindisi nel corso degli scavi per la posa dei binari della ferrovia e della costruzione della stazione ferroviaria di Brindisi, qualche anno dopo l’Unità d’Italia.
Dalla ripresa delle attività culturali dopo la pandemia, in poche settimane, è già il secondo gruppo di esperti qualificati che visita il capoluogo messapico. Questa volta addirittura in presenza del Rabbino dell’Università Bar Ilan di Tel Aviv, peraltro docente di storia presso la stessa prestigiosa università.
(AgendaBrindisi, 17 giugno 2022)
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“Entrate nella Ue ma cedete qualcosa a Putin”, la trattativa dei leader con Zelensky
di Angela Nocioni
Non sembra all’altezza della tragedia in cui la Storia l’ha cacciato Volodymyr Zelensky. Non è scappato a fine febbraio, chapeau. È rimasto sotto le bombe insieme agli ucraini e questo non glielo toglie nessuno. Eppure, nonostante piazzi ogni tanto una battuta ben calibrata e abbia una sua personale capacità di guardare sempre a filo telecamera, sembra poter soltanto ripetere dichiarazioni già preparate prima, come se nessuna notizia, nessuna telefonata, nessuna riunione nel frattempo intercorsa possa avere un effetto sul suo ragionare e possa indurlo a modulare la reazione. Come se non fosse in grado di adattare in corsa i suoi testi. O come se non ne avesse facoltà. Anche ieri, non aveva ancora finito di dire buon giorno in Tshirt verde a Macron, Scholz e Draghi (e Klaus Ioannis, presidente romeno) appena arrivati in Ucraina per vederlo e parlargli di come fare per arrivare a una pace con la Russia senza aspettare altri mesi e senza contare altri morti, che già consegnava la lista delle richieste: bene che siete qui ma a noi servono armi pesanti e moderne. Testuale Zelensky in conferenza stampa: “Ci serve aiuto, ogni arma è una vita umana salvata e ogni proroga aumenta la possibilità per i russi di uccidere gli ucraini”. Ora, a parte l’opinabilità dell’ultima frase, sta di fatto che i tre capi di governo, francese tedesco e italiano, erano lì a dirgli quel che Zelensky sa già da settimane. In sintesi: il tanto agognato ingresso in Europa è a portata di mano per l’Ucraina (“L’Ucraina nella Ue rafforza la libertà europea” ha detto Draghi ed anche “non vedo ancora i margini per la pace”) ma prima è necessario arrivare a un accordo per far finire la guerra. E per fare un accordo è con la Russia che si deve trattare. E per trattare bisogna cedere qualcosa, anche se si è l’incolpevole paese aggredito, bisogna cedere almeno qualcosa di quell’integrità territoriale ucraina che (è stato fatto notare con la crudele levità del linguaggio diplomatico) è già persa da prima del 24 febbraio perché la Crimea è sotto dominio russo da quattro anni e l’est filorusso in parte pure. Tradotto: caro Vlado, nessuno dubita che l’Ucraina entrerà a pieno diritto nell’Unione europea, ma il cammino è lungo, tortuoso e potrebbe anche non riuscire mai a concludersi. Come presidente dell’Ucraina tu ti puoi sentir libero di puntare i piedi e non cedere un millimetro di terra a Putin, sicuro di avere dalla tua parte un intero popolo disposto a morire per un angolino di Donbass, ma noi invece non siamo liberi di far pagare ai nostri paesi il prezzo che questa guerra ci sta causando e non possiamo non voler evitare la carestia alimentare mondiale che della guerra è conseguenza. Infine, il muto affondo: quindi molla qualcosa, sennò in Europa metterete un piedino ma non entrerete mai davvero a pieno titolo. Tutto il dietro le quinte del governo ucraino ieri era furioso per questo. Già Macron mercoledì in visita in Romania aveva detto: “Il presidente ucraino e la sua equipe dovranno trattare con la Russia”. E nonostante questa frase sia stata opportunamente preceduta dall’accenno a “quando i combattimenti saranno finiti e l’Ucraina avrà vinto”, moltissimi hanno sentito in queste parole l’eco della raccomandazione di Macron sul “non umiliare Mosca”. Perché umiliare il Cremlino non è utile, non perché non possa essere considerato giusto. È il contrario di quel che serve per arrivare a un accordo sul cessate il fuoco, visto che il fuoco è fuoco russo. Niente da fare, nonostante l’evidenza semplice del buon senso espresso da Macron, quella prima frase ha scatenato reprimende indignate in mezzo mondo. E la seconda frase è rimasta lì appesa. L’obiezione è sempre la stessa: è noi ucraini che stanno attaccando, non possiamo accettare nessun accordo che preveda la cessione di territorio, se lo facessimo la Russia tornerebbe ad aggredirci nel giro di un paio d’anni. Il messaggio diplomatico di Francia, Germania e Italia è stato comunque consegnato, con toni e parole che non usciranno certo dal palazzo presidenziale di Kiev per come sono stati pronunciati. Ai giornalisti italiani a Kiev Draghi ha detto: “La premessa per la pace per gli ucraini è l’integrità territoriale. Deve essere una pace giusta e sostenibile. E tutti gli altri Paesi devono aiutare questi due Paesi a trovare la pace. C’è stata la telefonata di Xi a Putin (è notizia di ieri che ce ne sarà un’altra in estate, fonte Bloomberg su informazioni dell’amministrazione americana ndr) , ci sono altri colloqui, c’è tutta un’iniziativa diplomatica mondiale che non c’era un mese fa”. “Le condizioni che gli ucraini pongono oggi è l’integrità territoriale. È la premessa per iniziare i negoziati di pace da parte ucraina. Al momento non si vedono margini, ma c’è un atteggiamento che è cambiato molto nelle ultime settimane”, anche “degli altri Paesi che li devono aiutare a trovare la pace. C’è un’iniziativa diplomatica mondiale che non c’era un mese fa”. “Devono essere gli ucraini a decidere cosa va bene per l’Ucraina. Una pace forzata, ammesso che sia possibile, è solo generatrice di nuovi conflitti. Non credo sia comunque possibile e realistica oggi”. Tra le ipotesi rimaste sospese ieri ci sarebbe quella di cedere una parte del Donbass per permettere a Putin di portare a casa qualcosa ma con una formula tollerabile per Kiev. In ballo c’è sempre la Crimea (russa da anni), un funzionario francese ha detto alla Cnn che Kiev dovrebbe recuperarla ma non è detto sia questa la posizione di Macron. L’iter per l’ingresso dell’Ucraina della Ue è avviato. Oggi Bruxelles presenterà la sua proposta di dare all’Ucraina e alla Moldavia lo status di paese candidato all’ingresso, accompagnato da condizioni i cui dettagli erano ieri ancora da stabilire. E saranno i leader europei nel vertice del 24 e 25 giugno a dare il loro (primo) sì. Tutto ciò avviene mentre le fanfare dalla propaganda, a Mosca come a Kiev, continuano il loro lavoro. L’ex presidente russo ed ex delfino di Putin, Dmitry Medvedev, twittava pensierini delicati del tipo: “I fan europei di rane, salsicce di fegato e spaghetti” vanno a Kiev “con zero utilità”. Prometteranno all’Ucraina “l’adesione all’Ue e vecchi obici, si leccheranno i baffi con l’horilka (vodka locale ndr) e torneranno a casa in treno, come cento anni fa. Tutto va bene. Ma non avvicinerà l’Ucraina alla pace. Il tempo scorre”. Mentre Zelensky si preparava a ricevere a palazzo presidenziale gli ospiti europei, era in corso a Kiev una votazione on line per derussificare la toponomastica dell’Ucraina: sbianchettare i nomi delle strade dedicate a Mosca e a Anton Checov. Povero Checov.
(Il Riformista, 17 giugno 2022)
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"Non sembra all’altezza della tragedia in cui la Storia l'ha cacciato", dice all'inizio l'articolista parlando di quel penoso guitto ucraino che non tanto la Storia con la S maiuscola, quanto un intreccio di interessi internazionali politico-mafiosi ha trasportato al centro di un vortice lui che non può in alcun modo pilotare e da cui tanto meno può riuscire a venirne fuori. Si pensi ai primi tentativi di mediazione coi russi: sono stati fatti intervenire gli "oligarchi". Chi sono? Che posto occupano nelle istituzioni? Mafia. Questo è il posto che occupano. Esiste il serio rischio che il guitto di Kiev sia spinto sempre di più a pensare prima di tutto a salvare i suoi personali interessi e la sua pelle. Un po' come accade da tanti anni al guitto di Ramallah. M.C.
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Il grande cuore di Doron Almog designato Presidente di Agenzia Ebraica
di Claudia De Benedetti
Doron Almog è stato designato Presidente dell’Agenzia Ebraica per Israele, la sua nomina verrà ratificata il 10 luglio. “Sono orgoglioso ed emozionato per la fiducia che è stata riposta in me. Sono grato a tutti i membri dell’Agenzia Ebraica che lavorano instancabilmente per rafforzare il popolo ebraico e lo Stato d’Israele. Lavoreremo fianco a fianco, accenderemo la fiamma e l’orgoglio impegnandoci per garantire un futuro di speranza alle prossime generazioni”
E Doron Almog sarà certamente un Presidente dal cuore grande perché nella vita ha dovuto superare operazioni militari ad alto rischio ma anche la prova più dura che un padre debba affrontare: quella di un figlio malato.
Nel 1976 è stato il primo comandante ad essere paracadutato sulla pista di Entebbe nell’operazione di ricognizione degli aerei dell’esercito israeliano in procinto di atterrare. Ha condotto l’occupazione della torre di controllo dell’aeroporto nella memorabile operazione di salvataggio degli ostaggi in mano a terroristi nell’aeroporto ugandese. Ha preso parte negli anni ’80 al salvataggio e al trasporto aereo di circa seimila ebrei dall’Etiopia in Israele. Nel suo ultimo incarico, come capo della regione militare meridionale d’Israele, dal 2000 al 2003, ha sventato tutti i tentativi di strage perpetrati dai terroristi della striscia di Gaza che cercavano invano di infiltrarsi in Israele.
“Prendermi cura di mio figlio: questa è la sfida più grande che io abbia mai dovuto affrontare”. Almog si è sempre dedicato al miglioramento del benessere dei bambini gravemente disabili in Israele. Dopo aver lasciato l’esercito attraverso la sua opera per una organizzazione non-profit dedicata alla memoria del figlio, ha fornito cure mediche e riabilitative di eccellenza ai bambini fisicamente e mentalmente disabili in tutto Israele e in particolare nelle zone più disagiate come il Negev. Proprio per questo suo impegno nel 2016 ha ricevuto il prestigioso Premio Israele alla carriera.
(Shalom, 17 giugno 2022)
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Firmato accordo tra Israele, Egitto e Unione Europea per l’esportazione di gas naturale
di Luca Spizzichino
Ieri Israele, Egitto ed Unione Europea hanno firmato al Cairo uno storico memorandum d'intesa per l’esportazione del gas naturale. Israele esporterà per la prima volta il proprio gas in Europa. L’accordo è stato siglato in una conferenza stampa congiunta insieme al capo della Commissione europea Ursula Von der Leyen e al ministro del Petrolio egiziano Tarek el-Molla.
Grazie a questo storico accordo aumenteranno le vendite di gas naturale liquefatto ai paesi dell'UE, che mirano a ridurre la dipendenza dalla Russia a seguito delle sanzioni imposte dopo l’invasione dell’Ucraina. Israele invierà il proprio gas in l'Egitto verso il terminale GNL che si trova nel Mediterraneo, a quel punto verrà inviato nelle strutture per la liquefazione e successivamente esportato via mare attraverso delle navi cisterna.
"Questo è un momento straordinario, uno stato piccolo come Israele sta diventando un attore significativo nel mercato energetico globale", ha affermato il ministro dell'Energia israeliano Karine Elharrar, che ha evidenziato anche la crescente cooperazione tra Egitto e Israele. "Questa è una dimostrazione del fatto che nella nostra regione non ci siano solo forze negative come la divisione e il conflitto", ha sottolineato.
"Accolgo con grande favore la firma di questo storico accordo” ha dichiarato la Von der Leyen spiegando come l'accordo faccia parte degli sforzi dell'Europa di diversificare le fonti energetiche, importando idrocarburi da "altri fornitori affidabili", come nel caso di Israele ed Egitto.
El-Molla ha descritto l'accordo come "un'importante pietra miliare”, aggiungendo inoltre che il memorandum porterà a un'ulteriore cooperazione tra i membri dell'East Mediterranean Gas Forum, che comprende Giordania, Israele, Cipro, Grecia, Egitto, Autorità Palestinese, Francia e Italia.
Secondo una stima del canale israeliano Channel 12, l'accordo inizialmente dovrebbe portare alle casse statali 1 miliardo di shekel all'anno (circa 290 milioni di dollari).
l protocollo riconosce il ruolo chiave che ha il gas naturale nell'economia energetica dei paesi dell'UE fino al 2030, momento in cui il suo consumo dovrebbe diminuire gradualmente fino al 2050, così da raggiungere l'obiettivo di emissioni zero fissato a seguito della Cop26. Inoltre, è prevista una clausola in base alla quale l'Unione Europea incoraggerà le società europee a partecipare a gare d'appalto e investimenti in progetti di esplorazione e produzione di gas naturale sia in Israele che in Egitto.
(Shalom, 16 giugno 2022)
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Tutti i limiti dell’accordo tra Ue, Israele ed Egitto sul gas
Il memorandum sulle esportazioni di gas da Israele ed Egitto verso l’Ue non specifica né quantità né tempistiche. Tel Aviv e Il Cairo, poi, devono potenziare estrazione e impianti, mentre Bruxelles deve risolvere la questione tassonomia. Tutti i dettagli.
di Marco Dell'Aguzzo
Mercoledì 15 giugno l’Unione europea ha firmato un memorandum d’intesa con Israele ed Egitto sull’aumento delle esportazioni di gas naturale verso il Vecchio continente. L’accordo prevede in sostanza che il gas israeliano venga inviato in Egitto attraverso le tubature esistenti; lì verrà liquefatto e ri-esportato in Europa. Il documento tuttavia non fornisce dettagli né sui volumi di gas, né sui tempi di completamento delle infrastrutture necessarie a sostenere la crescita dei flussi. Il patto rientra nel piano di Bruxelles per ridurre in fretta la dipendenza energetica dalla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, che è particolarmente forte proprio sul gas: Mosca è la prima fornitrice del blocco, con una quota del 40 per cento circa sul totale importato a livello comunitario.
• ISRAELE ED EGITTO HANNO UN PROBLEMA Sia Israele che l’Egitto hanno scoperto importanti giacimenti di gas negli ultimi anni e potenziato le esportazioni, ma la loro cooperazione energetica con l’Europa è limitata da una realtà di fondo: Tel Aviv e Il Cairo ripetono da mesi – come avevamo segnalato su Startmag, anche recentemente – di non avere volumi sufficienti a soddisfare anche il fabbisogno europeo. Nel 2021 L’Unione europea ha importato dalla Russia circa 155 miliardi di metri cubi all’anno. Sempre nel 2021, l’Egitto ha esportato 8,9 miliardi di metri cubi di gas liquefatto (GNL), e 4,7 miliardi solo nei primi cinque mesi di quest’anno. I carichi si dirigono però soprattutto in Asia, e l’aumento della domanda energetica interna sta riducendo i volumi destinabili ai mercati esteri. Israele conta di raddoppiare il suo output di gas nel giro di qualche anno, portandolo a 40 miliardi di metri cubi all’anno, attraverso l’apertura di nuovi giacimenti e l’espansione dei progetti già avviati. Al momento, però, la maggior parte della sua capacità produttiva è impegnata con l’Egitto e la Giordania, oltre al soddisfacimento del fabbisogno domestico: non gli rimane insomma molto gas da mandare all’Europa.
• IL GAS NELLA TASSONOMIA EUROPEA Il memorandum trilaterale firmato mercoledì affronta la questione della capacità produttiva israeliana ed egiziana: prevede infatti che Bruxelles incoraggi le aziende europee a partecipare all’esplorazione di gas in Egitto e in Israele. Se però a luglio il Parlamento europeo dovesse respingere la tassonomia della Commissione (cioè le regole che servono a dirigere i capitali finanziari verso destinazioni dall’impatto ambientale positivo), e dunque non considerare il gas una fonte “sostenibile”, gli ipotetici investimenti nei giacimenti di idrocarburi israeliani ed egiziani potrebbero farsi più complicati.
• I TEMPI PER GLI IMPIANTI Al di là della produzione di gas, poi, è necessario del tempo per potenziare la capacità di liquefazione dell’Egitto, in modo che il paese possa processare ed esportare quantità significativamente maggiori di GNL. Ci vorranno probabilmente un paio di anni per adeguare le infrastrutture. La Commissione europea prevede di importare 7 miliardi di metri cubi di GNL dall’Egitto nel 2022, e il doppio l’anno prossimo.
• OLTRE IL GAS
Il gas naturale continuerà probabilmente ad avere un ruolo centrale nel mix energetico europeo fino al 2030, andando a stabilizzare un sistema sempre più dominato da fonti rinnovabili intermittenti (l’eolico e il solare) almeno finché non si affermeranno tecnologie di stoccaggio energetico (le batterie) migliori e meno costose. Nei vent’anni tra il 2030 e il 2050 il consumo di gas in Europa dovrebbe poi diminuire, in modo da permettere il raggiungimento dell’obiettivo di neutralità carbonica (l’azzeramento netto delle emissioni di gas serra) entro la metà del secolo. Di conseguenza, la cooperazione energetica tra Bruxelles, Tel Aviv e Il Cairo dovrà evolvere e andare oltre il gas. C’è già l’intenzione – dovrebbe venire annunciata a novembre alla COP27, la conferenza sul clima – di istituire una partnership sull’idrogeno verde, ossia generato dall’elettricità rinnovabile, tra l’Unione europea e l’Egitto (la costa del mar Rosso ha un grande potenziale). Un altro progetto coerente con il percorso di transizione ecologica è l’interconnettore EuroAsia, un cavo sottomarino che muoverà l’elettricità generata in Israele (dal gas o dalle rinnovabili) verso Cipro e la Grecia.
• NIENTE EASTMED? Il memorandum di mercoledì ha scelto, come modalità di trasporto del gas nel Mediterraneo orientale, l’opzione forse più conveniente rispetto all’EastMed, il progetto di gasdotto per spostare il gas israeliano fino all’Europa, passando per Cipro e la Grecia. Di EastMed se ne parla da tempo, ma l’opera è sia costosa (6 miliardi di euro, da rapportare alla capacità di trasporto) sia controversa sul piano politico (la Turchia è contraria perché la condotta la taglierebbe fuori dai flussi energetici nella regione). L’EastMed potrebbe peraltro non possedere un vero valore strategico per Bruxelles: la strategia guarda infatti al lungo termine, e da oggi al 2050 l’Unione europea ha intenzione di ridurre sempre di più i consumi di combustibili fossili. In un contesto di transizione ecologica, dunque, solo le forniture di gas meno costose riusciranno a rimanere sul mercato, e non è chiaro se l’EastMed sia in grado di garantire questa competitività di prezzo.
(Startmag, 16 giugno 2022)
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Israele riaprirà il valico di Taba con l’Egitto
TEL AVIV– Israele riaprirà il valico di frontiera di Taba con l’Egitto 24 ore su 24 a partire dal 3 luglio, secondo quanto affermato dal ministro dei Trasporti e riferito dall’agenzia stampa Anadolu. “Dopo il duro lavoro del ministero dei Trasporti e del valico di frontiera di Taba, il terminal sarà aperto 24 ore su 24, sette giorni su sette, a partire dal 3 luglio”, ha affermato Merav Michaeli in un tweet. “L’apertura del valico dovrebbe ridurre il sovraffollamento, rafforzare i legami con il nostro vicino e alleato (Egitto) e consentire [il transito] ai turisti”, ha aggiunto. La United Arab List ha affermato che l’apertura del valico avviene su richiesta del leader del partito, Mansour Abbas, per facilitare il movimento dei turisti della comunità araba in Israele durante il festival Eid al-Adha, che segna l’inizio del pellegrinaggio dell’Hajj, e per ridurre l’affollamento al terminal. Non ci sono stati commenti da parte delle autorità egiziane sul rapporto. Il valico di Taba è stato chiuso due anni fa a causa della pandemia di COVID-19. Nel 2019, circa mezzo milione di israeliani ha attraversato il valico di Taba nella penisola egiziana del Sinai, con un aumento del 30% rispetto al 2018. Egitto e Israele hanno firmato un trattato di pace dal 1979, dopo aver combattuto diverse guerre.
(Infopal, 16 giugno 2022)
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Catania e le sue due giudecche
La Sicilia è uno scrigno prezioso di reperti d’interesse storico e culturale di matrice ebraica
di Giuseppe Sciacca
La Sicilia è uno scrigno prezioso di reperti d’interesse storico e culturale di matrice ebraica. A Siracusa, ad Ortigia, si trova un mikveh (bagno per la purificazione rituale) risalente al VI secolo d. C. uno dei pochi esistenti, in ottimo stato di conservazione, che viene visitato da turisti provenienti da tutto il mondo. Ad Agira, in provincia di Enna, è custodito un aron, in pietra finemente intagliata, una tra le tre più antiche arche sinagogali d’Europa.
• Tante le giudecche in Sicilia L’elenco di questi beni potrebbe proseguire a lungo, ma la elencazione di questi tesori sarebbe, comunque, monca se non si ricordassero le tante giudecche (quartieri ebraici) dell’isola, che ancor oggi si conservano, e che sino alla data di espulsione degli ebrei dalla Sicilia (1493) erano ricche di vita ed attività. Siti rimasti fuori dai circuiti del turismo e spesso dimenticati, come le giudecche di Modica, Castiglione di Sicilia e tanti altri non di minore rilevo. In questo contesto Catania, appare spoglia di un rispondente patrimonio, sebbene sia certo che dal secondo secolo d. C. abbia ospitato una popolosa cittadinanza ebraica, come confermato dal rinvenimento di lapidi funerarie di sicura datazione. La carenza di reperti archeologici ebraici è da imputare sia alla possente eruzione dell’Etna del 1669, le cui lave attraversarono la città, coprendone interi quartieri, sino a giungere al mare, ed al successivo devastante terremoto del 1693, che rase al suolo quanto la lava aveva risparmiato. A ciò si aggiunse l’opera non meno devastante della mano dell’uomo, sia per il succedersi di dominazioni straniere incuranti di custodire la memoria storica della città, sia per l’incendio appiccato, nel dicembre del 1944, al palazzo comunale di Catania dai giovani della classe di leva 1922-1944, che in tutta la Sicilia protestavano contro la chiamata alle armi, in un momento in cui le sorti della guerra apparivano segnate. Incendio le cui fiamme si propagarono all’Archivio comunale, cancellando la memoria collettiva della città.
• La comunità ebraica vissuta a Catania Oggi quanto è in gran parte noto della comunità ebraica che ha vissuto a Catania, sino alla sua espulsione avvenuta in forza del decreto dell’Alhambra, emanato dai sovrani di Spagna, è noto solo grazie al recente rinvenimento negli archivi della locale Università della tesi di laurea, in Lettere e Filosofia, dello studente Carmine Fontana, che la discusse, il 21 novembre del 1900, ottenendo il massimo dei voti, la lode ed il diritto alla pubblicazione. L’elaborato era intitolato “Gli ebrei a Catania (sec. XV); nel testo del manoscritto il suo autore non mancava di raccomandare ai posteri: “chi farà la storia di Catania non può né deve in alcun modo trascurare di occuparsi de’ Giudei. Questo io ho fatto cercando di trattare con amore, ma a un tempo con imparzialità”; oggi grazie a queste pagine, è possibile conoscere con affidabile certezza, non solo i costumi, le usanze, i riti e le attività lavorative di queste genti, ma anche stimare la loro non indifferente consistenza demografica, visto che nel XV secolo, erano pari ad un settimo dell’intera popolazione cittadina.
• Due giudecche a Catania Il Fontana ha pure avuto il merito sia di catalogare un grandissimo quantitativo di documenti riguardanti gli ebrei di Catania, sia di delimitare i confini delle due giudecche catanesi. Operazione di ricostruzione, in vero, pure effettuata da altri studiosi con risultati topografici che di volta in volta, presentavano divergenze, a secondo della mano che li aveva tracciati. E’ opportuno chiarire che le giudecche nulla hanno a che vedere con i ghetti, giacché a differenza di questi ultimi, non erano luoghi in cui la permanenza veniva imposta ed assoggettata all’obbligo vigilato di permanenza notturna. A Catania la prima giudecca fu voluta dagli ebrei, per una loro esigenza di non avere continui contatti con la restante popolazione della città, tutta cristiana, con la quale non mancavano frequenti attriti, anche per la differenza dei costumi e delle abitudini. La seconda venne realizzata per accogliere e dare alloggio all’incremento della popolazione stanziale che negli anni si era registrata.
• Una vera città nella città Ciascuna giudecca aveva una propria autonomia ed era dotata degli edifici pubblici necessari per soddisfare tutte le esigenze della vita dei propri abitanti. Una vera città nella città, giacch´ la giudecca disponeva di una propria organizzazione amministrativa, riconosciuta dalle autorità cittadine. La prima, la più antica, nota come Judeca suprana, si estendeva da quella che oggi è la parte sommitale della salita di via Sangiuliano, zona che all’epoca era del tutto desertica, tanto da meritare la denominazione di Montevergine, e costeggiando il fiume Amenano, che proprio a causa della presenza dei giudei venne chiamato Judicello, proseguiva dall’attuale piazza Dante, in direzione dell’odierna via Quartarone, sino a piazza Asmundo, con il limite di via Teatro Greco, dove iniziava, senza soluzione di continuità la Judeca suttana che proseguiva sino a giungere alla odierna Villa Pacini. Il giovane Fontana per trasmettere ai posteri una idea dell’abbominio della cacciata degli ebrei, che partendo perdevano anche ogni loro avere, a beneficio di chi restava, scriveva nella sua tesi, a proposito del senato catanese: “solito a nicchiar sempre, in quei giorni appare colpito da febbre, tanta è la furia con cui esegue gli ordini regi o viceregi; non solo si mostra lesto, ma fedele e preciso interprete. Degli ebrei neanche una parola, né in bene né in male, sino all’ultimo momento, ma un silenzio altezzoso molto simile all’odio e al disprezzo e che senza dubbio condusse a tramandare ai posteri, con una lapide murata sulla facciata del palazzo senatorio, allora inauguratosi, l’espulsione degli ebrei come di un fatto nazionale, d’una grande battaglia vinta e non di una grande infamia”. Per chi volesse approfondire l’argomento si consiglia la lettura di: “Gli ebrei a Catania nel XV secolo” di A. G. Cerra, o “Ebrei a Catania dalle origini al 1492” di N. Foiadelli Vinciguerra, entrambi editi dalla Bonanno Editore.
(qds.it, 16 giugno 2022)
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Matrimonio: un rito laico, non religioso?
di Rav Scialom Bahbout
L’Istituto di statistica nota che il numero dei matrimoni civili è in progressivo aumento (nell’Italia del nord sarebbero due terzi del totale e nel meridione un terzo); molte altre manifestazioni – un tempo esclusivamente religiose (funerali, nascite) - vengono oggi celebrate in modo laico con l’aiuto di un celebrante che, come segnala un articolo recentemente pubblicato *, ha seguito dei corsi abilitanti per organizzare la cerimonia concordandone i contenuti con gli interessati. Questa nuova figura del celebrante va a sostituire quella del “sacerdote” ed ha la funzione di ritualizzare il momento di passaggio che non si vuole che sia un atto puramente burocratico, come spesso avviene ad esempio nei matrimoni civili fatti in fretta e in serie.
• Come si pone l’ebraismo di fronte a questo fenomeno?
Innanzi tutto va sottolineato quanto la vita dell’ebreo sia costellata da riti che non sono affatto banali e che vengono osservati da gran parte degli ebrei, più o meno religiosi, e questo perché molti riti sono espressione immediata dell’identità ebraica, al di là del significato “religioso” che essi hanno. Questo vale per la Milà, per il matrimonio, per un funerale e per tutti i “riti” che un ebreo compie a casa e non nelle sinagoghe: quanti ebrei mantengono la propria iscrizione alla Comunità perché in ogni caso desiderano essere sepolti in un cimitero ebraico? quanti ebrei non rinunciano fare il seder di Pèsach e a essere presenti il giorno di Kippur, espressione della religiosità più completa?
La società moderna ha spesso reso anonimi e privi di identità gli eventi di passaggio più importanti della vita dell’uomo, burocratizzandoli e arrivando così a eliminarli del tutto. Nell’ebraismo coloro che svolgono la funzione “sacerdotale”, cioè spesso i rabbini, non sono assolutamente necessari: in realtà ogni persona può svolgere le stesse finzioni e la funzione non si limita a ripetere formule vuote, ma viene sempre accompagnata da riflessioni sulla figura della persona scomparsa, sulla famiglia, sul momento: questa è la funzione dell’Hespèd durante il funerale e in tutte le altre circostanze, quando ognuno è chiamato a ricordare una persona venuta a mancare, affinché attraverso le parole di chi l’ha conosciuta e apprezzata possa continuare a rimanere viva.
Tutti i riti ebraici possono essere svolti in qualsiasi luogo e non nelle Sinagoghe: la casa è il luogo in cui molti riti vengono svolti, anche se talvolta si ricorre alla Sinagoghe in quanto luogo che ha le dimensioni adatte ad accogliere un pubblico numeroso: ricordiamo che Beth hakeneset, significa casa di riunione.
Gli ebrei hanno quindi un patrimonio unico che devono salvaguardare: compito dei rabbini è di insegnare come fare questa operazione, ma la salvaguardia è compito di ogni ebreo/a.
Più che di rabbini abbiamo quindi bisogno di ebrei consapevoli e capaci di trasmettere la propria identità.
(Kolòt, 16 giugno 2022)
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Il matrimonio è un'istituzione creaturale che riguarda tutti gli uomini, indipendentemente da quello che credono. Per i cristiani, la visione strettamente biblica di cui purtroppo non tutti gli evangelici sembrano essere consapevoli, può essere sintetizzata da una semplice frase: «Non esiste un matrimonio cristiano; esiste un modo cristiano di vivere il matrimonio». Il vero matrimonio si compie davanti all'autorità civile. Dio ne è testimone, garante e giudice. M.C.
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