A maggio [2019], nel giornale svizzero Anzeiger von Uster, un lettore ha lodato il cambiamento globale ed epocale del tempo in cui viviamo: «Sembra che nelle società illuminate e secolari il modo di pensare e agire sia cambiato in modo fondamentale e radicale. Anche la fede in Dio, così come la fede in spiriti, idoli e divinità ha fatto il suo tempo ed è ormai un modello superato.
Sempre più persone riconoscono che la religione è un efficace placebo e il Dio antropomorfo, maschilista, onnipotente, onnisciente e infinitamente buono è una invenzione umana condizionata dai tempi, il che spiega il crescente ateismo.» Egli ricorda: «Più è alto il numero di atei senza Dio in una società, più sarà alto il livello intellettuale e culturale.» Mi chiedo quale livello intellettuale e culturale intenda. Ogni anno ci sono 50 milioni di aborti - alcuni addirittura al nono mese di gravidanza. Le madri che li subiscono, per scelta o per imposizione, ne rimangono spesso profondamente traumatizzate. E dov'è il livello intellettuale e culturale nella diffusione dell'ideologia gender, che cancella semplicemente le differenze fra uomo e donna e crea grande insicurezza in molti giovani? Essi non ottengono risposta a domande che spesso vengono poste per tutta la vita: «Chi o cosa sono?» È forse espressione dell'innalzamento del livello intellettuale e culturale la precoce sessualizzazione dei nostri bambini, in parte attraverso l'esibizione di pratiche sessuali perverse? Le sue conseguenze sono menti infantili disturbate, sconvolte e danneggiate.
E se già parliamo del nostro alto livello intellettuale e culturale, che ne è della legalizzazione delle droghe? Questa porta con sé sempre più giovani affetti da psicosi ed incapaci di lavorare. Il portale internet «Neurologi e psichiatri in rete» scrive a proposito del consumo della cannabis: «L'azione della cannabis è caratterizzata da un'ampia gamma di effetti psichici. In tal modo, le sensazioni, i pensieri, la memoria e la percezione vengono influenzate. Il consumo intenso di cannabis nei ragazzi e nei più giovani può favorire la comparsa di psicosi.»
Come ha ragione la Bibbia quando dice:
«Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro» (Isaia 5,20).
Quale progresso con il nostro ateismo senza Dio! La rivista cristiana ideaSpektrum ha riportato la raccomandazione del Ministero federale della famiglia a scuole ed insegnanti: «riconoscere ed appoggiare la diversità sessuale nella scuola». Essi dovrebbero informare su «temi tratti dall'ambito dei modi di vita omosessuali e della diversità sessuale». Appendendo poster illustrativi, le scuole potrebbero «mettere in mostra la diversità». Dovrebbero rifornire le biblioteche scolastiche con «libri con protagonisti lesbiche, gay e bisessuali» e citare nelle conversazioni come normale il partner omosessuale di un amico: «Inoltre, il sostegno è efficace quando vi sono degli adulti che parlano a scuola liberamente del proprio stile di vita omosessuale.»
Così viviamo oggi. Le conseguenze sono tragiche! A maggio è circolata la notizia di un uomo che si era presentato in un ospedale negli USA con forti dolori al basso ventre, ricorrenti in modo regolare. La tragedia: l'infermiera disse che egli era nato donna. L'uomo era un «transessuale», originariamente una donna. Tuttavia all'inizio nessuno dei medici fece un test di gravidanza. Quando infine scoprirono che si trattava realmente di una gravidanza, per il bambino era troppo tardi. In modo appropriato si esprime un vecchio canto cristiano: «Senza Dio si procede nell'oscurità, ma con Lui si entra nella Luce.»
Dio ci parla attraverso i segni dei tempi. Le persone hanno paura. Lo vediamo dal loro rapporto con il cambiamento climatico. Qualsiasi cosa possiamo pensare in proposito, il fatto è che migliaia di persone scendono per le strade per dimostrare contro il surriscaldamento globale per paura di ciò che deve ancora avvenire.
Sorprendenti le proposte di soluzione che vengono presentate: vale a dire ridurre il consumo di carne, non mettere più al mondo figli, poiché si suppone che essi costituiscano un aggravio per l'ambiente e non guidare più veicoli a diesel. Certo, anch'io penso che qualcosa con il nostro clima non funzioni più. Tuttavia, mi chiedo se la causa potrebbe essere un'altra. Pietro afferma:
«… i cieli e la terra attuali sono riservati dalla stessa parola per il fuoco, conservati per il giorno del giudizio e della perdizione degli uomini empi» (2 Pietro 3,7).
Con queste parole egli si riferisce al «primo mondo» nei giorni di Noè (versetti 1-6), che venne distrutto dall'acqua. La causa: perché le persone non volevano più avere a che fare con Dio. Oggi andiamo incontro al ritorno di Gesù e le persone, sempre più, non vogliono avere nulla a che fare con Dio.
Il tempo che precedette il diluvio viene così descritto:
«Ora l'Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo. E l'Eterno si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo» (Genesi 6,5-7).
La malvagità degli uomini all'epoca era molto grande (v. 5), i pensieri del loro cuore non erano altro che male (v. 6). Tutta la terra era corrotta (v. 11), piena di violenza (v. 12). Le persone, prima del diluvio, agivano come agiamo noi oggi: avevano voltato le spalle a Dio, lo avevano escluso dai loro pensieri, dai loro cuori, dalle loro vite, dalle loro famiglie, scuole e comunità. E quando si dice a Dio di uscire, Egli se ne va! E quando Egli se ne va, Egli porta via con sé la Sua protezione e benedizione. Forse dovremmo anche considerare quest'aspetto, parlando del cambiamento climatico.
Anche per servire di esempio a noi, Dio aveva posto davanti a Israele la benedizione e la maledizione:
«Ma se non ubbidisci alla voce dell'Eterno, il tuo DIO, per osservare con cura tutti i suoi comandamenti e tutti i suoi statuti che oggi ti prescrivo avverrà che tutte queste maledizioni verranno su di te e ti raggiungeranno.[…] L 'Eterno farà sì che la peste si attacchi a te, finché ti abbia consumato nel paese che stai per entrare ad occupare. L'Eterno ti colpirà con la consunzione, con la febbre, con l'infiammazione, con il caldo bruciante, con la spada, con il carbonchio e con la ruggine, che ti perseguiteranno fino alla tua distruzione. Il cielo sopra il tuo capo sarà di rame e la terra sotto di te sarà di ferro. L'Eterno muterà la pioggia del tuo paese in sabbia e polvere, che cadranno su di te finché tu sia distrutto» (Deuteronomio 28:15, 21-24).
Dio ci ascolta e rispetta la nostra volontà. Ci lascia fare ciò che vogliamo. È dunque una concausa del cambiamento climatico la mancanza della benedizione divina?
Non è un Suo modo di esortarci?
Dio ci parla perché «Egli non si compiace della morte dell'empio, ma che l'empio si converta dalla sua via e viva» (Ezechiele 33, 11).
Ed ancora vale il versetto: «E avverrà che chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato» (Atti 2,21 ).
E noi che amiamo Gesù, aspettiamo il Suo ritorno e dobbiamo vivere in un mondo che diventa sempre più oscuro, possiamo fare ciò che a suo tempo fece Noè. Egli rimase fino alla fine un predicatore di giustizia (2 Pietro 2,5). Non venne meno al suo compito di esortare alla salvezza nell'arca (Gesù Cristo) e continuò a camminare con Dio - nonostante tutta l'opposizione. Così vogliamo fare anche noi.
Questa moda antiebraica – virale, mediatica e di piazza – si aggiunge e si integra con gli odiatori profondi e i massacratori seriali. Banalità del male che espande e rafforza il male assoluto. Superficialità idiota, che affianca l’abisso infernale del piano di morte del terrore jihadista.
Moda come conformismo dell’obbligo, sudditanza mentale, miseria morale, riverniciature modernista dei più antichi, triti, nefasti e infami stereotipi antiebraici.
La moda (“fashion”) è per Georg Simmel, che ha introdotto il termine nel lessico filosofico, il “mutamento obbligatorio del gusto”. Nel linguaggio ordinario, dal Seicento, vuol dire (provenendo dal francese) il cambiamento collettivo delle regole dell’abbigliamento.
Un senso concettuale lo diede Leopardi nel “Dialogo della moda e della morte” (1824, nelle “Operette Morali”), con la considerazione della relazione inevitabile tra cambiamento e distruzione, che rende “sorelle” la moda e la morte, entrambe “figlie della caducità”. La variabilità nel tempo e il carattere effimero sono proprio quello che pone la moda in relazione alla morte, in contrapposizione all’eternità del vero.
Gli individui atomizzati della società contemporanea hanno l’illusione di scegliere i loro abiti secondo i loro gusti e le loro identità, ma invece si osserva che queste scelte “libere” sono condizionate da molteplici e pesanti vincoli sociali, con le differenze tra abiti maschili e femminili, giovanili e per anziani, eccentrici trasgressivi e regolari.
Dunque, nel vestirsi, vi sono ”codici” elementari, come li ha descritti Roland Barthes (“Sistema della moda”, 1972).
La variabilità delle mode è, in una certa misura, imposta da apparati che la diffondono. La moda viene considerata, nell’ottica della “esteriorità”, cioè nella costruzione dell’apparenza sociale opposta a ogni pretesa o ricerca di verità. Proprio tali caratteristiche possiede l’attuale, dilagante, effimera, vacua, moda antisemita.
Ad essa resistono i liberi e forti, gli uomini con il senso della verità nella ricerca, mentre la massa si intruppa, beve il veleno, si intossica, ripete a pappagallo.
La massa delle menti servili si subordina a quel ribaltamento feroce dove gli ebrei assassinati diventano assassini, e i carnefici cannibali dell’azione genocida diventano liberatori. Le dosi di questa malattia, ideologica e sociologica, sono massicce, derivate dalla dittatura mediatica, dagli algoritmi coatti del web generatori di trogloditi di massa, dall’analfabetismo culturale e semi-analfabetismo grammaticale prodotti dal fallimento complessivo della scuola statale di massa, dalle ideologie dominanti degli accademici, dalla paura e dalla viltà. Nel complesso, quella “barbarie digitale” di cui ci ha parlato Bernard-Henry Levy.
Nuova è la superficie della forma dell’antisemitismo in atto, vecchissima, plurimillenaria invece la stratificazione, ora sommersa, ora emergente, dei duri inamovibili stereotipi antiebraici: testa dura, vendicatività, assassini e rapitori di bambini, cospirazione per il dominio, usurai, deicidi.
Ma, mentre la lunga tradizione antisemita è stata prevalentemente reazionaria, con un apice fascista (pur essendo presenti aspetti antisemiti illuministi e progressisti), oggi prevale un antisemitismo duro, implacabile, di tipo progressista o che si pretende tale.
Un antiebraismo urlato, dogmatico, ossessivo, totalizzante, che uccide la libertà di parola, che chiude la bocca con violenza verbale e fisica alla voce ebraica, che condanna alla clandestinità e alla morte la vita ebraica, che affianca il braccio armato dell’apocalisse terrorista e di Stati totalitari impegnati in una guerra civile contro i propri popoli.
Anche l’appello alla memoria di Hitler per completare l’opera della Shoah pretende di coprirsi con un segno progressista.
Universi dittatoriali totalitari terroristi all’offensiva, democrazie oscillanti tra debolezza difensiva, inerzia, cedimento, collaborazionismo. Democrazie deboli, corrose all’interno da una malattia mortale.
L’eminente e luminoso pensatore della libertà democratica, Alexis de Tocqueville, nel suo capolavoro “La Democrazia in America”, individua tale malattia, fin dai suoi albori:
“Penso dunque che la specie di oppressione che minaccia i popoli democratici non assomiglierà a nessuna di quelle che l’hanno preceduta nel mondo; i nostri contemporanei non possono trovare nessun antecedente nei loro ricordi. Cerco inutilmente lo stesso un’espressione che renda esattamente l’idea che me ne faccio, e la contenga; le vecchie parole come dispotismo e tirannide non sono più adeguate. La cosa è nuova, bisogna dunque cercare di definirla, visto che non posso darle un nome. Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca, ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire perlomeno che non ha più patria. Ho sempre creduto che questa specie di servitù ben ordinata, facile e tranquilla, di cui ho fatto adesso il quadro, potrebbe combinarsi più di quanto non si immagini con qualche forma esteriore di libertà, e che non le sarebbe impossibile stabilirsi all’ombra stessa della sovranità popolare”.
Hannah Arendt svolge considerazioni analoghe in “Le origini del totalitarismo”, la cui parte prima è significativamente destinata al tema dell’antisemitismo. Scrive la Arendt:
"L’atomizzazione della società sovietica venne ottenuta con l’abile uso di ripetute operazioni, che invariabilmente precedevano l’effettiva liquidazione di un gruppo. Per distruggere tutti i legami sociali e familiari, le epurazioni venivano condotte in modo da minacciare della stessa sorte l’accusato e tutta la sua cerchia, dai semplici conoscenti agli amici e ai parenti più stretti. La conseguenza dell’ingegnoso criterio della ‘colpa per associazione’ era che appena un uomo veniva accusato, i suoi vecchi amici si trasformavano di colpo nei suoi nemici più accaniti. […] Fu con l’impiego radicale di questi metodi polizieschi che il regime staliniano riuscì a instaurare una società atomizzata quale non si era mai vista prima, e a creare attorno a ciascun individuo un’imponente solitudine, quale neppure una catastrofe da sola avrebbe potuto causare”.
Ancora, un filosofo politico ebreo nato in Polonia, Jacob L. Talmon (professore di Storia nell’Università di Gerusalemme), nel suo libro fondamentale “Le origini della democrazia totalitaria” mostra come lo scontro tra liberalismo e comunismo presentasse lontane radici storiche. La sua visione di una “democrazia totalitaria” è generata da una tendenza propria della democrazia illiberale, che viene da un’aspirazione messianica a pianificare una società perfetta. Un pensiero che si illude di un perfettismo raggiungibile, che la storia abbia una meta, e che la felicità possa essere ottenuta grazie alla politica. Talmon riconosce l’origine di questa tradizione nel messianisimo politico dei filosofi enciclopedisti e giacobini, e nella dittatura giacobina dei Robespierre e dei Saint-Just.
La moda antiebraica in corso è talmente prigioniera della cecità ideologica e di una servitù alla guerra psicologica dei macellai jihadisti, che non farà mai i conti con le dichiarazioni esplicite, brutali, genocide del gangster numero uno di Hamas, Yahya Sinwar, maledetto sia il suo nome.
Il Wall StreetJournal ha pubblicato il suo vero programma, nella forma di ordini ai mediatori di Egitto e Qatar durante le ultime trattative: più morti civili a Gaza, meglio è per la causa del jihad. Quello che era chiaro alle menti aperte, cioè che la responsabilità politica, militare, civile, morale di tutte le vittime a Gaza è interamente e direttamente di Hamas, ora dovrebbe essere chiaro per tutti. Ma non sarà così, perché continua la dinamica della militarizzazione e fanatizzazione mentale, della negazione del cuore, intrinseca alla polarizzazione rigida amico-nemico a prescindere dalla realtà fattuale e dall’umana decenza.
I fanatici continueranno, come prima e più di prima, a pretendere l’eliminazione di Israele e la glorificazione liberatrice di Hamas e sodali. Del resto, all’inverso, Sinwar fa le sue dichiarazioni ultrahitleriane fidando sul servilismo degli idioti e degli schiavi.
Sinwar ha accusato il colpo della liberazione degli ostaggi da parte di Tsahal con la collaborazione americana, e ha reagito alla sua maniera. Così ha reso più chiara di prima la vera natura della guerra, fin dalla lunga preparazione del 7 ottobre. È lui l’architetto della tattica e strategia dell’orrore smisurato del genocidio e della guerra psicologica vinta dal terrore, e persa da Israele. Proprio lui, che deve la sua stessa vita alla generosità radicale di Israele nello scambio tra il sergente Gilad Shalit e un numero enorme di assassini stragisti. Il suo scopo è sempre stato la morte del maggior numero possibile di palestinesi, soprattutto donne e bambini, in nome del martirio islamico o, più semplicemente, per calcolo utilitario, nella sua totale cultura della morte, in odio alla cultura della vita e alle ragioni della dignità e della libertà umana. Foreign Affairs ha pubblicato un saggio sulla “reinvenzione della guerra sotterranea” e sull’organizzazione delle emozioni attraverso la pornografia delle immagini del 7 ottobre.
Una guerra sotterranea di tipo nuovo, diversa da quella delle trincee scavate nel fango della Prima Guerra Mondiale, attraverso l’organizzazione di 500 chilometri di gallerie tecnologiche, con centri di comando sotto scuole, ospedali e moschee, tutti in un lucido alluminio, perfetti, su più livelli, con prigioni, ospedali, centri distribuzione alimenti. Un piano strategico di una città metallica sotterranea, invisibile agli aerei e base per il massacro di ebrei, senza precedenti per disumanità efferata.
Sinwar si è addestrato allo sterminio degli ebrei massacrando uomini e donne arabi palestinesi “traditori e apostati”. Fin dall’inizio, Sinwar ha realizzato l’ordine genocida del sangue che chiama sangue con il 7 ottobre, con una azione peggiore dei nazisti per ferocia e sadismo, tale da obbligare Israele a una autodifesa, per poi pianificare nella Striscia quanti più morti possibili.
La realtà del 7 ottobre, di Hamas, del Jihad, dell’Iran e affini è la prova ulteriore della caduta del mito del progresso. Una caduta tanto radicale che i genocidi, i massacratori di figli davanti alle madri e madri davanti ai figli, di bambini arrostiti nei forni, di stupri omicidi di guerra fino a spezzare i bacini, di organizzazione di carne da macello per i palestinesi. Manifestanti che vogliono la continuazione dell’opera di Hitler e della Shoah, con forme più esibite e disumane, continuano a presentarsi senza vergogna, killer di verità, come “attori del progresso”.
Modaioli banali effimeri e mostri sanguinari uniti nella lotta per lo sterminio degli ebrei, e per aprire le porte a una schiavitù universale.
Ci soccorre la geniale purezza del poeta.
Leopardi, nel “Dialogo di Tristano e di un amico”, scrive parole di attualità feconda:
“Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sonno. Lasci fare alle masse, le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. […] Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava dritto in un paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvono essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. […] Anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo. In questo, la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. È così, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi”.
Quel che i gazzettieri non possono, non sanno dire, lo dice un genio, con acume trafiggente e preveggente.
(L'informale, 15 giugno 2024) ____________________
L’attuale moda antisemita è un’espressione della variabilità delle mode che è un elemento essenziale della cosiddetta “civiltà occidentale”. Non ha alcun senso allora difendere Israele come baluardo dell’Occidente, perché è proprio il marcio costume occidentale, e precisamente quello a trazione americana, ad aver aperto la porta a quest’ultima immonda forma di antisemitismo. Purtroppo molti aspetti di questo marcio costume occidentale sono penetrati in profondità anche in parti estese della società israeliana. La novità storica del transgender LGBTQecc., di cui in Israele si fa vanto, fa parte della variabilità delle mode occidentali. Ma di questo si preferisce non parlare. M.C.
Pride con polemica, gli ebrei non sfileranno: “Ci sentiamo bersagli”
di Marina de Ghantuz Cubbe
La ferita all’interno della comunità Lgbtq+ si è aperta poche ore prima del Pride e delle parate che oggi riempiono le strade a Roma, Bergamo e Torino:gli ebrei del movimento non parteciperanno. Troppa la paura di diventare dei bersagli. Grande la delusione per quella che definiscono una risposta troppo flebile delle organizzazioni territoriali agli attacchi antisemiti ricevuti da mesi sui social e per l’esclusione delle loro bandiere arcobaleno con la stella di David decisa a Bergamo. Intanto i partiti a Torino si spaccano.
• ”Una vera discriminazione” Keshet Italia, l’organizzazione ebraica queer, ha deciso che non parteciperà alle grandi parate dell’orgoglio per la propria identità sessuale. «Abbiamo fatto e tentato di tutto per capire anche con gli organizzatori se si potesse partecipare in sicurezza - spiega Raffaele Sabbadini, tra i fondatori di Magen David Keshet Italia - ma alla fine abbiamo dovuto arrenderci, e non ci saremo, a causa dei crescenti timori di aggressioni dovuti al clima d’odio attorno alla nostra partecipazione. Ci duole ad esempio che il Bergamo Pride abbia scritto che “nella piazza del 15 giugno non saranno gradite bandiere israeliane o inneggianti alla simbologia connessa allo Stato di Israele”, il che è una vera e propria discriminazione». Per questo il Comune guidato fino a qualche giorno fa da Giorgio Gori, ha tolto il patrocinio alla manifestazione stigmatizzando l’intolleranza dell’Associazione Bergamo Pride nei confronti dei simboli della comunità ebraica.
• “Siamo una minoranza delle minoranze” «Chi dice che sono bandiere israeliane dice un falso, le nostre sono bandiere rainbow e la stella ebraica che è di tutti noi non è da confondere né con lo Stato né tantomeno con il governo - continua Sabbadini - questa cosa ci ha lacerato perché noi siamo la minoranza delle minoranze, ma abbiamo ricevuto anche tanta solidarietà». Da esponenti storici del movimento come Ivan Scalfarotto e Anna Paola Concia, arrivando al consigliere comunale di Milano Daniele Nahum che ha letto il comunicato di Keshet Italia. Pubblicato sui social per ufficializzare la non partecipazione ai Pride, comprende “a corredo” alcuni degli attacchi ricevuti in questi mesi. Come «quest’anno onestamente farebbero meglio a starsene lontano gli ebrei», ma anche «forni ne abbiamo?».
• “Libera frociaggine in libero Stato" E se la polemica si sta diffondendo in tutta Italia, con l’associazione Keshet che chiede una riflessione ampia a tutta la comunità Lgbtq+, ogni città ha la propria organizzazione e anche le risposte dei partiti che storicamente sostengono il Pride sono diverse. A Roma ad esempio +Europa avrà il suo carro con la scritta "libera frociaggine in libero Stato". Nella Capitale, infatti, il portavoce del Roma Pride Mario Colamarino ha solidarizzato con la comunità ebraica Lgbtq+ sostenendo che «è una sconfitta per tutti quando succedono cose di questo tipo, noi come Roma Pride abbiamo sempre aperto le porte a tutti e quando ci sono stati gli incontri con il gruppo Lgbt ebraico gli abbiamo detto che il Pride è di tutti, anche vostro». D'altronde il manifesto politico della comunità romana condanna "la catastrofe umanitaria in corso a Gaza che sta provocando innumerevoli vittime tra la popolazione palestinese", chiede il cessate il fuoco e "la liberazione degli ostaggi, la protezione dei diritti umani e un processo di pace basato sulla soluzione di due popoli, due Stati", si legge nel documento.
• A Torino in tanti non partecipano Situazione diversa a Torino, dove infatti +Europa non parteciperà così come i Radicali dell'associazione Aglietta. È la prima volta che accade. La decisione è stata presa per supportare il grido d'allarme dell'associazione ebraica queer Keshet Italia sull'atteggiamento escludente dei Pride nei confronti delle persone ebree e fra le sigle che per gli stessi motivi non saranno presenti al Torino Pride ci sono anche Italia Viva Torino, Associazione Marco Pannella di Torino, Associazione Italia Israele, e Gruppo Sionistico Piemontese.
(la Repubblica, 15 giugno 2024)
Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole.
Levitico 18:22
Se uno ha relazioni carnali con un uomo come si hanno con una donna, entrambi hanno commesso una cosa abominevole; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro.
Levitico 20:13
Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: le loro femmine hanno mutato l'uso naturale in quello che è contro natura; allo stesso modo anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri, commettendo uomini con uomini cose ignobili, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento.
Romani 1:26-27
Perché Israele ha usato una catapulta in stile medievale per lanciare palle di fuoco in Libano
La scena, immortalata in un video, ha dato origine alle più svariate teorie sulle ragioni. L’Idf ha chiarito i motivi del gesto, spiegando che si è trattato di una scelta autonoma di una unità locale che sorvegliava il confine col Libano per evitare attacchi del gruppo islamico Hezbollah.
Tra radar, droni e missili teleguidati, oggi è decisamente inusuale vedere dei militari attaccare usando una catapulta in stile medievale e lo è ancora di più se a farlo è un esercito considerato tra i più potenti al mondo come quello di Israele. La scena è stata immortalata in un video, diventato virale sui social, in cui si vede una unità dell’Idf usare sistematicamente una catapulta creata per l’occasione per lanciare palle infuocate contro il nemico e cioè verso il Libano e le postazioni del gruppo islamico Hezbollah.
Nel video si vedono almeno sei soldati in piedi attorno a quello che assomiglia del tutto a una tipica macchina da assedio spesso utilizzata nel medioevo per assaltare i castelli. Nel breve filmato si vede lo strumento assemblato con assi di legno su un carrello di metallo che lancia palle di fuoco proprio come un trabucco, dando ancora di più l’impressione di una battaglia antica visto che i lanci avvengono nei pressi di un grosso muro, in realtà una barriera di cemento per proteggere i confini.
La scena ovviamente ha destato molto interesse e dato origine alle più svariate teorie sui motivi, dalla mancanza di mezzi, già massicciamente impegnati a Gaza, alla scarsità di munizioni. In realtà, come hanno confermato dall’esercito israeliano all’emittente pubblica israeliana Kan, si è trattato di un’iniziativa locale di una unità impegnata in zona per affrontare un problema sorto al momento e non di un ordine o un nuovo modello di combattimento.
In particolare la scena, che si riferisce ad alcune settimane fa, vede un’azione dei militari dell’Idf volta ad appiccare il fuoco al sottobosco nel sud del Libano dove, secondo gli israeliani, Hezbollah si nasconde per mettersi in posizione e lanciare attacchi nel nord di Israele. Secondo il quotidiano israeliano Maari, il trabucco è stato opera della brigata di riserva Carmeli che in questo modo ha voluto liberare la zona oltre confine da arbusti e rovi per rendere più facile per le forze israeliane identificare i militanti Hezbollah che tentavano di raggiungere il confine.
Il video del trabucco infatti arriva dopo che gli attacchi provenienti dal Libano hanno provocato grandi incendi nel nord di Israele la scorsa settimana, consumando aree di territorio e portando all’evacuazione dei residenti. Gli attacchi in questa zona di confine tra Israele e Libano sono aumentati questo mese, anche se al momento i combattimenti si mantengono a bassa intensità.
(fanpage.it, 15 giugno 2024)
I due terzi dei palestinesi approvano ancora il massacro del 7 ottobre
A rivelarlo è un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR)
di Sarah G. Frankl
Dopo otto mesi di guerra a Gaza, due terzi dei palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania sostengono gli attacchi di Hamas contro Israele del 7 ottobre, secondo un nuovo sondaggio d’opinione del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR), un think tank con sede a Ramallah che è una delle poche organizzazioni che effettua sondaggi sul campo tra i gazesi.
Il sondaggio ha rilevato che il 67% degli intervistati palestinesi ha sostenuto la decisione di Hamas di attaccare Israele quel giorno, un massacro che ha ucciso circa 1.200 persone e ha scioccato il mondo per la sua barbarie. Suddiviso per territorio, il sostegno in Cisgiordania era più alto, con il 73%, rispetto al sostegno a Gaza, con il 57%.
Sebbene il sostegno complessivo all’attacco di Hamas rimanga elevato, secondo il sondaggio, è diminuito di quattro punti percentuali rispetto all’ultima volta che il PCPSR ha condotto il suo sondaggio.
I sondaggi sui palestinesi sono notoriamente difficili, soprattutto a Gaza, dove i civili corrono il rischio di essere puniti se non dimostrano sufficientemente il loro sostegno ad Hamas.
Tuttavia, l’ultimo sondaggio del PCPSR è sorprendente. Più del 60% dei gazesi ha dichiarato di aver perso un familiare nella guerra in corso, ma un numero ancora maggiore ha affermato di aver sostenuto quanto accaduto il 7 ottobre, che ha portato all’invasione di Gaza da parte di Israele. Otto intervistati su 10 hanno dichiarato di ritenere che gli attacchi abbiano portato l’attenzione globale sulla causa palestinese.
Il sondaggio ha evidenziato un cambiamento significativo nelle difficili dinamiche politiche della regione, con un aumento del sostegno alla lotta armata e un netto calo del sostegno alla soluzione dei due Stati.
È aumentato anche il sostegno ad Hamas, con il 40% degli intervistati che preferisce il gruppo ad altre fazioni politiche – un aumento di sei punti rispetto al sondaggio precedente. Il sostegno a Fatah, guidato da Mahmoud Abbas in Cisgiordania, si è invece attestato ad appena il 20%.
Oltre il 60% degli intervistati ha espresso insoddisfazione nei confronti di Abbas e del suo approccio al conflitto e si è detto favorevole allo scioglimento dell’Autorità Palestinese (AP) che governa la Cisgiordania. La richiesta di dimissioni di Abbas è aumentata notevolmente, con il 94% dei palestinesi della Cisgiordania e l’83% di quelli di Gaza che ne chiedono l’allontanamento.
Walid Ladadweh, capo dell’Unità di ricerca sui sondaggi del PCPSR, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che l’aumento del sostegno a Hamas dovrebbe essere visto come una reazione all’offensiva di Israele a Gaza, che avrebbe provocato migliaia di morti tra i civili.
Guardando al di là dell’attuale conflitto, il sondaggio ha rilevato opinioni nettamente divergenti su chi dovrà governare una Gaza post-bellica. Il 56% degli intervistati ritiene che Hamas continuerà a governare la Striscia dopo la guerra. Una parte significativa dei gazesi ha anche espresso scetticismo sull’efficacia degli interventi internazionali e degli accordi di cessate il fuoco.
Il sondaggio del PCPSR, condotto tra il 26 maggio e il 1° giugno, ha intervistato 1.570 adulti palestinesi, con 760 interviste condotte faccia a faccia in Cisgiordania e 750 nella Striscia di Gaza. Il periodo del sondaggio ha coinciso con l’intensificarsi dell’offensiva di terra israeliana a Rafah, che ha esacerbato la situazione umanitaria e sfollato circa un milione di persone, secondo i dati delle Nazioni Unite.
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Una traduzione in inglese dell’indagine e della sua metodologia è disponibile qui.
Rav. Messianico Moldava Shimon Podgorica in Italia
Il rabbino messianico moldavo, Shimon Podgorica, già relatore nel 2017 dell’incontro Edipi nella chiesa Apostolica di Milano, ci farà visita, e predicherà a Caerano San Marco in prov. di Treviso, il 20/06 giovedì alle ore 19 nella Chiesa Cristiana Evangelica Bellunese del past. Davide Ravasio.
Figlio di un pescatore di Yaffa, Rifaat “Jimmy” Turk è stato il primo calciatore arabo a giocare nella nazionale israeliana di calcio e l’ultimo cittadino arabo a rappresentare Israele alle Olimpiadi. Correva l’anno 1976 e i Giochi erano quelli di Montreal, successivi a quelli di Monaco di Baviera insanguinati dal terrorismo palestinese. Quasi mezzo secolo dopo nella Parigi blindata a cinque cerchi che si appresta a ospitare la 33esima edizione della manifestazione sportiva tra molte preoccupazioni legate alla sicurezza ci sarà tra gli altri Adam Maraana, nuotatore di talento ventenne che appena pochi giorni fa è andato sotto la soglia dei 53 secondi e 74 centesimi posta come limite per qualificarsi alla gara dei cento metri a stile libero. Il cronometro si è fermato 14 centesimi prima, suscitando l’inevitabile entusiasmo del diretto interessato, che farà parte di una delegazione in cui spicca il nome di Anastasia Gorbenko, pure lei ventenne, medaglia d’argento nei 400 misti ai Mondiali di nuoto di Doha dello scorso febbraio.
Maraana ha origini arabe, ma è cresciuto come ebreo in una famiglia mista. «Mia madre è ebrea. Io ho servito nell’esercito, studiato Torah, celebrato il bar mitzvah (la maggiorità religiosa ebraica che i maschi conseguono all’età di 13 anni, ndr). Mio padre invece è musulmano», ha detto l’atleta in una recente intervista ripresa dal New York Post. «Sono orgoglioso di ciò e lui è orgoglioso di me». Il terzo atleta arabo in lizza per Israele alle Olimpiadi raccoglie idealmente il testimone da Turk e ancor prima dal sollevatore di pesi Eduard Meron, che fu in gara ai Giochi olimpici di Roma del 1960. Meron fu anche il portabandiera della squadra israeliana. Un anno dopo fu invitato alle Maccabiadi e vinse l’argento.
Medio Oriente: cresce il sostegno ad Hamas sia a Gaza che in Cisgiordania, rivela un sondaggio
Nella Striscia di Gaza il sondaggio è stato effettuato in zone dove non ci sono combattimenti
Nei Territori palestinesi – Gaza e Cisgiordania – il sostegno al movimento islamista palestinese Hamas si è attestato al 40 per cento, in crescita di sei punti rispetto a tre mesi fa. E’ quanto emerge dal sondaggio condotto dal 26 maggio al primo giugno dal Centro palestinese per la politica e la ricerca. Soltanto il 20 per cento degli intervistati sostiene il partito palestinese Fatah del presidente Mahmoud Abbas, al potere nella Cisgiordania. Prima del 7 ottobre, data dell’attacco terroristico di Hamas in Israele, il sostegno al gruppo islamista era pari al 22 per cento, mentre quello a Fatah al 26 per cento. Il sondaggio si basa su un campione di 1.570 intervistati, di cui 760 in Cisgiordania e 750 a Gaza.
Nella Striscia di Gaza il sondaggio è stato effettuato in zone dove non ci sono combattimenti. In Cisgiordania, il 41 per cento dei residenti ha dichiarato di sostenere Hamas, in aumento rispetto al 35 per cento emerso dal sondaggio condotto tre mesi fa, mentre il 17 per cento sostiene Fatah (rispetto al 12 per cento di tre mesi fa). Nella Striscia di Gaza, il sostegno ad Hamas è del 38 per cento, in aumento rispetto al 34 per cento di tre mesi fa, mentre il sostegno a Fatah si attesta, secondo il sondaggio, al 24 per cento (in lieve calo rispetto al 25 per cento di tre mesi fa). Circa l’8 per cento degli intervistati ha espresso l’appoggio ad altri gruppi, mentre il 33 per cento ha affermato di non sostenere alcun gruppo o di non conoscerlo.
Trovati alcuni stemmi della nobiltà britannica, incluso quello di Re Giorgio V, sulle pareti di un ospedale per la cura delle malattie oculari, attivo a Gerusalemme oltre 100 anni fa. La ricerca è stata condotta da Shai Halevi e Michael Tchernin dell’Israel Antiquities Authority (IAA), che hanno mappato e decifrato gli stemmi, considerati dagli studiosi una sorta di “carta d’identità grafica” per le famiglie nobili, che avevano contribuito all’ampliamento della struttura.
Lo straordinario edificio, uno dei primi ospedali costruiti a Gerusalemme, si trova ai margini della Valle di Hinnom, di fronte al Monte Sion, non lontano dalle mura della Città Vecchia. Nel corso degli anni, è stato trasformato nella “Jerusalem House of Quality”, un centro per l’arte e le mostre, e anche in un hotel.
Gli esperti hanno spiegato che l’ospedale oftalmico fu fondato nel 1882 dall’Ordine di San Giovanni. Unico all’epoca, svolse un ruolo centrale nel trattamento delle malattie oculari, curando pazienti da tutto il Medio Oriente. Al bisogno offriva anche cure gratuite. Durante il mandato britannico, il complesso ospedaliero fu ampliato in modo significativo, con l’aggiunta di una nuova ala sull’altro lato di Hebron Road.
Ciò fu reso possibile grazie alle generose donazioni di nobili e uomini d’affari britannici, molti dei quali erano membri dell’Ordine di San Giovanni. Come riconoscimento dei loro contributi, le pareti del complesso ospedaliero sono state adornate con decine di emblemi che rappresentano ciascuna famiglia donatrice.
L’edificio subì molti cambiamenti durante la Prima guerra mondiale e la Guerra d’Indipendenza, dei quali si trovano testimonianze in varie parti del complesso. Nel corso dei decenni, la destinazione d’uso del sito si è evoluta: la parte orientale fa ora parte del Mount Zion Hotel, mentre la parte occidentale è diventata la ‘Jerusalem House of Quality’. Inoltre, l’appartenenza e l’identità delle insegne nobiliari, che decoravano le pareti dell’edificio, sono scomparse dalla memoria pubblica e alcune sono state addirittura deturpate o distrutte.
Recentemente il fotografo Shai Halevi, Michael Tchernin, archeologo dell’IAA, e l’artista Anastasia Prokofieva sono riusciti a decifrare i simboli rimasti. Sono stati identificati 18 dei 23 stemmi, appartenenti a persone illustri della storia britannica. Tra loro figurano quello di Re Giorgio V (1865-1936), del famoso produttore di birra irlandese Edward Cecil Guinness (1847-1927), dell’architetto Alfred Bossom (1881-1965), del costruttore navale Henry Grayson (1865-1951) e del nobile britannico Edward de Stern (1854-1933), zio della filantropa Vera Salomons, fondatrice del Museo di Arte islamica L. A. Mayer di Gerusalemme.
Inoltre, gli archeologi hanno scoperto un’iscrizione misteriosa su una pietra, che si è rivelata essere la pietra angolare dell’ospedale. “Per noi l’archeologia non si ferma all’antichità; questi sono reperti relativamente moderni, ma tra i nostri obiettivi c’è quello di indagare, fin d’ora, su ciò che sarà considerato archeologia in futuro”, ha detto il dott. Ram dell’IAA.
“Ogni pietra di Gerusalemme racconta una storia. – ha concluso Eli Eskusido direttore dell’IAA – I nostri ricercatori esaminano ogni pietra, in senso letterale e figurato, per scoprire l’affascinante storia di Gerusalemme in tutte le sue espressioni e culture”.
Le fotografie degli stemmi, le loro ricostruzioni artistiche a colori e le informazioni biografiche delle relative famiglie nobili, insieme a nuovi reperti archeologici saranno esposti dal 20 giugno al 2 luglio presso la ‘Jerusalem House of Quality’. La mostra è gratuita.
L’obiettivo dell’Autorità Palestinese nei tribunali internazionali? “Stringere il cappio” attorno a Israele “e porre fine” allo stato ebraico
Lo ha affermato esplicitamente in tv il viceministro degli esteri di Abu Mazen
di Itamar Marcus e Ephraim D. Tepler
La richiesta dell’Autorità Palestinese di affiancare il Sudafrica nella causa contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia non ha lo scopo di convincere Israele a cessare le operazioni a Rafah e nemmeno di fermare quello che chiamano falsamente il “genocidio dei palestinesi”.
Il vero obiettivo – come afferma in tv la stessa Autorità Palestinese – è quello di “stringere il cappio” attorno all’intero stato d’Israele “colonialista” e “porvi fine”.
Il che comporta la volontà di mettere sotto processo tutto Israele: “la politica e le istituzioni governative, il sistema legale, il sistema di governo e il sistema militare”.
Lo ha detto esplicitamente il viceministro degli esteri dell’Autorità Palestinese, Omar Awadallah.
Per essere chiari, quando il viceministro degli esteri dell’Autorità Palestinese parla di “questo sistema colonialista” si riferisce allo stato d’Israele come tale, esattamente come ha fatto il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen quando il 15 maggio 2023 alle Nazioni Unite ha definito Israele “un’altra entità nella nostra patria storica” fondata e impiantata dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti “per i loro scopi colonialisti” e per “sbarazzarsi degli ebrei” (video).
Allo stesso modo, il 23 ottobre 2023 l’allora primo ministro dell’Autorità palestinese Mohammed Shtayyeh definiva Israele “un’entità colonialista che ha occupato la nostra terra ed espulso il nostro popolo” (video).
Quello che segue è il testo dell’intervista della tv ufficiale dell’Autorità Palestinese al viceministro degli esteri dell’Autorità Palestinese Omar Awadallah (3 giugno 2024):
Conduttore della tv dell’Autorità Palestinese: Lo Stato di Palestina ha chiesto di unirsi al Sudafrica nella sua causa contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. Omar Awadallah, viceministro degli esteri dell’Autorità Palestinese: Vi sono tentativi da parte di alcuni stati di dimostrare che in Israele, l’autorità che in effetti gestisce l’occupazione, ci sono alcuni estremisti che commettono un certo numero di crimini contro il popolo palestinese. Noi diciamo loro “no”. La Corte Internazionale di Giustizia sta mettendo sotto processo la politica e le istituzioni governative, il sistema legale, il sistema di governo e il sistema militare in Israele, nel senso che tutto Israele è accusato di aver commesso questo crimine, in aggiunta alla nostra causa presso la Corte Penale Internazionale che mette sotto processo gli individui. Come abbiamo sempre detto, questo fa parte del processo legale che la dirigenza palestinese sta implementando per stringere il cappio attorno a questo sistema colonialista allo scopo di smantellarlo e porvi fine.
Parashat Nasò. Come garantire la pace fra individui
Appunti di Parashà
a cura di Lidia Calò
La parashà di Naso sembra, a prima vista, una raccolta eterogenea di elementi del tutto slegati tra loro. Innanzitutto c’è il racconto delle famiglie levitiche Ghershon e Merari e del loro compito di trasportare parti del Tabernacolo quando gli Israeliti erano in viaggio. Poi, dopo due brevi leggi sull’allontanamento delle persone impure dall’accampamento e sul risarcimento, poi arriva la strana prova della Sotah, la donna sospettata dal marito di adulterio.
Segue la legge del nazireato, la persona che volontariamente (e di solito per un periodo prestabilito) assumeva speciali restrizioni di santità, tra cui la rinuncia al vino e ai prodotti dell’uva, al taglio dei capelli e alla contaminazione da contatto con un corpo morto.
Segue, sempre apparentemente senza alcun collegamento, una delle preghiere più antiche del mondo ancora in uso: la benedizione sacerdotale. Poi, con inspiegabile ripetitività, arriva il racconto dei doni portati dai principi di ogni tribù alla dedicazione del Tabernacolo, una serie di lunghi paragrafi ripetuti non meno di dodici volte, poiché ogni principe portava un’offerta identica. Perché la Torà dedica tanto tempo a descrivere un evento che avrebbe potuto essere esposto in modo molto più sintetico nominando i principi e dicendoci poi genericamente che ciascuno di essi portò un piatto d’argento, un bacile d’argento e così via? La domanda che mette in ombra tutte le altre, però, è: qual è la logica di questa serie di argomenti apparentemente scollegati?
La risposta si trova nell’ultima parola della benedizione sacerdotale: shalom, pace. In una lunga analisi, il commentatore ebreo spagnolo del XV secolo Rabbi Isaac Arama spiega che shalom non significa semplicemente assenza di guerra o di conflitti. Significa completezza, perfezione, funzionamento armonioso di un sistema complesso, diversità integrata, uno stato in cui ogni cosa è al suo posto e tutto è in armonia con le leggi fisiche ed etiche che governano l’universo.
“La pace è il filo della grazia che esce da Lui, sia Egli esaltato, e che lega tutti gli esseri, superni, intermedi e inferiori. Essa sottende e sostiene la realtà e l’esistenza unica di ciascuno”. (Akeidat Yitzhak, cap. 74)
Allo stesso modo, Isaac Abarbanel scrive:
“Ecco perché Dio è chiamato pace, perché è Lui che lega il mondo insieme e ordina tutte le cose secondo il loro carattere e la loro particolare postura. Infatti, quando le cose sono nel loro giusto ordine, regnerà la pace”. (Abarbanel, Commento ad Avot 1:1)
Si tratta di un concetto di pace fortemente dipendente dalla visione di Genesi 1, in cui Dio fa uscire l’ordine dal tohu va-vohu, il caos, creando un mondo in cui ogni oggetto e forma di vita ha il suo posto. La pace esiste quando ogni elemento del sistema è valutato come parte vitale della complessità nel suo insieme e dove non c’è discordia in esso. Le varie disposizioni nella parashà di Nasò sono tutte volte a portare la pace in questo senso.
Il caso più evidente è quello della Sotah, la donna sospettata dal marito di adulterio. Ciò che più colpisce i Saggi del rituale della Sotah è il fatto che esso implicava la cancellazione del nome di Dio, cosa rigorosamente vietata in altre circostanze. Il sacerdote officiante recitava un ammonimento che includeva il nome di Dio, lo scriveva su un rotolo di pergamena e poi scioglieva la scrittura in acqua appositamente preparata. I Saggi ne dedussero che Dio era disposto a rinunciare al proprio onore, permettendo che il suo nome venisse cancellato, “per mettere pace tra marito e moglie”, scagionando così una donna innocente dai sospetti. Sebbene la prova sia stata abolita da Rabbi Yochanan ben Zakkai dopo la distruzione del Secondo Tempio, la legge è servita a ricordare quanto sia importante la pace domestica nella scala dei valori ebraici.
Il passo relativo alle famiglie levitiche di Ghershon e Merari segnala che ad esse fu assegnato un ruolo d’onore nel trasporto degli oggetti del Tabernacolo durante i viaggi del popolo attraverso il deserto. Evidentemente erano soddisfatti di questo onore, a differenza della famiglia di Kehat descritta alla fine della parashà della scorsa settimana, in cui uno dei membri, Korach, alla fine istigò una ribellione contro Mosè e Aronne.
Allo stesso modo, il lungo resoconto delle offerte dei principi delle dodici tribù è un modo drammatico per indicare che ognuna di esse era considerata abbastanza importante da meritare un proprio passaggio nella Torà. Le persone compiono azioni distruttive se si sentono offese e non ricevono il ruolo e il riconoscimento che spetta loro. Il caso di Korach e dei suoi alleati ne è la prova. Dando alle famiglie levitiche e ai principi delle tribù la loro parte di onore e attenzione, la Torà ci dice quanto sia importante preservare l’armonia della nazione onorando tutti.
Il caso del nazireo è per certi versi il più interessante. Esiste un conflitto interno al giudaismo tra, da un lato, una forte enfasi sulla pari dignità di tutti agli occhi di Dio e l’esistenza di un’élite religiosa nella forma della tribù di Levi in generale e dei Kohanim, i sacerdoti, in particolare. Sembra che la legge del nazireo fosse un modo per aprire ai non-Kohanim la possibilità di una santità speciale vicina, anche se non proprio identica, a quella dei Kohanim stessi. Anche questo è un modo per evitare i risentimenti dannosi che possono verificarsi quando le persone si trovano escluse per nascita da certe forme di status all’interno della comunità.
Se questa analisi è corretta, allora un unico tema lega le leggi e la narrazione di questa parashà: il tema degli sforzi speciali per preservare o ripristinare la pace tra le persone.
La pace è facilmente danneggiabile e difficile da riparare. Gran parte del resto del libro di Bamidbar è un insieme di variazioni sul tema del dissenso e della lotta interna. Così è stata la storia ebraica nel suo complesso. Nasò ci dice che dobbiamo fare di più per portare la pace tra marito e moglie, tra i leader della comunità e tra i laici che aspirano a uno stato di santità superiore al solito.
Non è quindi un caso che le benedizioni sacerdotali incluse nella parashà di Nasò terminano, come la stragrande maggioranza delle preghiere ebraiche, con una preghiera per la pace. La pace, dicono i rabbini, è uno dei nomi di Dio stesso e Maimonide scrive che l’intera Torà è stata data “per fare la pace nel mondo” (Leggi di Chanukah 4:14). La parashà di Nasò è una serie di lezioni pratiche su come garantire, per quanto possibile, che tutti si sentano riconosciuti e rispettati e che i sospetti vengano disinnescati e dissolti. Dobbiamo lavorare per la pace, oltre che pregare per essa. Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
(Bet Magazine Mosaico, 14 giugno 2024) ____________________
L'Onu accusa Israele su Gaza: «Crimini contro l'umanità». E Hamas ostacola la tregua
I miliziani pretendono garanzie Usa sul ritiro dell'Idf dalla Striscia. Blinken: «Alcune condizioni sono inaccettabili». Altre tensioni col Libano: colpito un leader di Hezbollah
di Stefano Graziosi
Continua a salire la tensione al confine libanese. Hezbollah ha reso noto che, nella tarda notte di martedì, un suo comandante è rimasto ucciso nel corso di un raid israeliano. Si tratta di Abu Taleb: il più alto esponente dell'organizzazione terroristica sciita che ha finora perso la vita da quando sono iniziati i combattimenti con lo Stato ebraico lo scorso ottobre. «Per molti anni, il terrorista ha pianificato, portato avanti ed effettuato un gran numero di attacchi terroristici contro i civili israeliani. Nel raid sono stati eliminati anche altri tre agenti terroristici di Hezbollah», ha riferito, dal canto suo, l'Idf confermando così l'uccisione di Taleb. Nella giornata di ieri, Hezbollah ha lanciato una raffica di oltre 200 razzi contro la parte settentrionale di Israele, provocando degli incendi. Tutto questo, mentre le forze dello Stato ebraico hanno compiuto dei raid contro alcune basi dell'organizzazione sciita nel Sud del Libano.
Insomma, la tensione sta salendo significativamente. E il rischio di un allargamento del conflitto è un'ipotesi sempre più probabile. Un ulteriore grattacapo per l'amministrazione Biden, che sta da giorni cercando di negoziare un accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Una settimana fa, il sito Axios riportava che, stando a quanto reso noto da due funzionari americani, la Casa Bianca starebbe facendo di tutto per convincere lo Stato ebraico a non avviare un conflitto in territorio libanese. In particolare, Joe Biden teme che una simile eventualità possa portare a un intervento diretto dell'Iran, che è il principale sostenitore tanto di Hezbollah quanto di Hamas.
Non solo. Le tensioni libanesi potrebbero avere impatti nefasti anche sul destino del piano, strenuamente caldeggiato dallo stesso Biden, per il cessate il fuoco. Sì, perché, almeno per ora, la strada su questo fronte continua a rivelarsi in salita. Ieri sera, un funzionario di Hamas, Osama Hamdan, ha accusato il segretario di Stato americano, Tony Blinken, di essere «parte del problema» in riferimento alla crisi in corso. Tutto questo, mentre alcune ore prima la stessa Hamas era sembrata aver proposto delle modifiche al piano sponsorizzato dalla Casa Bianca: modifiche che - secondo il Times of Israel - il governo di Gerusalemme aveva letto come un rifiuto de facto. Più possibilista, ma fino a un certo punto, si era invece mostrato Blinken. «Hamas ha proposto numerose modifiche alla proposta che era sul tavolo. Alcune modifiche sono realizzabili, altre no», aveva dichiarato ieri pomeriggio, durante una conferenza stampa a Doha insieme al primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani. «C'era sul tavolo un accordo che era praticamente identico alla proposta avanzata da Hamas il 6 maggio: un accordo sostenuto da tutto il mondo, un accordo che Israele ha accettato. Hamas avrebbe potuto rispondere con una sola parola: "sì". Invece, Hamas ha aspettato quasi due settimane e poi ha proposto ulteriori cambiamenti, alcuni dei quali vanno oltre le posizioni prese e accettate in precedenza», aveva proseguito Blinken.
Non va d'altronde trascurato che l'Iran respinse il piano per il cessate il fuoco appena pochi giorni dopo che Biden lo
aveva pubblicamente proposto a fine maggio" mentre Hamas chiede garanzie Usa per il ritiro delle truppe israeliane e per un cessate il fuoco permanente: un punto difficile da digerire per Gerusalemme. Il problema è che l'attuale amministrazione Usa continua a tenere un approccio blando nei confronti del regime khomeinista. E questo non favorisce né una risoluzione del conflitto né il piano postbellico per la governance di Gaza: un piano che, ieri, Blinken ha detto che sarà presentato «nelle prossime settimane». Il nodo resta sempre lo stesso. Washington spera in un futuro governo della Striscia guidato dall'Anp. Ma non ha ancora chiarito in che modo punti a espellere Hamas da Gaza, neutralizzando il sostegno che Teheran fornisce al gruppo terroristico. E attenzione, Hezbollah e la stessa Hamas non sono gli unici gruppi sostenuti da Teheran a mostrarsi sempre più pericolosi: secondo l'intelligence americana, gli Huthi starebbero infatti trattando per fornire armi all'organizzazione islamista alShabaab in Somalia. Se continuerà a rifiutarsi di ripristinare la politica della «massima pressione» sugli ayatollah adottata dal predecessore, sarà difficile per Biden conseguire risultati in Medio Oriente.
Non accennano frattanto a diminuire le tensioni tra lo Stato ebraico e le Nazioni Unite. Dei rapporti della commissione d'inchiesta sui territori palestinesi, istituita dal Consiglio per i diritti umani dell'Qnu nel 2021, hanno accusato sia Israele sia Hamas di aver compiuto crimini di guerra e atti di violenza sessuale da ottobre a oggi. «Israele respinge le accuse ripugnanti e immorali mosse contro l'Idf sia per quanto riguarda l'operazione militare a Gaza che per la sua risposta iniziale contro i terroristi di Hamas in Israele», ha replicato Gerusalemme, per poi aggiungere: «Hamas è un'organizzazione terroristica senza legge. Israele è un Paese democratico impegnato nello stato di diritto. L'Idf si comporta in linea con il diritto internazionale». La commissione d'inchiesta è guidata dalla giurista sudafricana, Navi Pillay, che fu alto commissario per i diritti umani dal 2008 al 2014. Sarà un caso, ma a dicembre il Sudafricaha accusato Israele di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia (che fa parte dell'Onu). Blinken, dal canto suo, ha detto ieri di non aver ancora visionato i rapporti. «Ma ovviamente li esamineremo», ha specificato.
Gaza, media: Hamas chiede garanzie scritte di un cessate il fuoco permanente e il ritiro delle Forze di Israele
Il movimento islamista palestinese Hamas ha chiesto garanzie scritte di un cessate il fuoco permanente e del ritiro completo delle Forze di difesa d’Israele (Idf) dalla Striscia di Gaza per accettare la proposta delineata dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, il 31 maggio scorso. Questa è una delle richieste presentate da Hamas nella sua risposta alla proposta di cessate il fuoco, consegnata l’11 giugno ai mediatori qatarioti ed egiziani. I nuovi dettagli delle modifiche richieste da Hamas sono stati pubblicati dalla rivista saudita “Al Majalla”, secondo cui il gruppo islamista ha affermato esplicitamente che l’accordo quadro è composto da tre fasi “collegate e interdipendenti”.
La prima fase durerebbe 42 giorni, durante i quali ci sarebbe la cessazione temporanea delle operazioni militari da entrambe le parti e il ritiro delle Idf verso est e lontano dalle aree densamente popolate lungo il confine in tutte le zone della Striscia di Gaza. Nella risposta di Hamas, per la prima fase è stata aggiunta la frase “compreso il corridoio di Filadelfia” (striscia di terra lunga 14 chilometri lungo il confine tra Gaza e l’Egitto), l’area di Wadi Gaza (a nord del campo profughi di Nuseirat), il corridoio di Netzarim (nel centro della Striscia) e la rotonda Kuwait (a Gaza City).
Un’altra delle principali modifiche alla proposta di accordo di cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi richiesta da Hamas è la richiesta che Cina, Russia e Turchia svolgano la funzione di garanti per qualsiasi accordo raggiunto con Israele. Una richiesta, secondo quanto riferito dall’emittente pubblica israeliana “Kan”, respinta sia dagli Stati Uniti che da Israele. Tra le altre modifiche proposte da Hamas figurano una nuova cronologia per il cessate il fuoco permanente e il ritiro delle forze militari israeliane da Gaza, inclusi Rafah e il corridoio di Filadelfia lungo il confine tra Egitto e Gaza.
GERUSALEMME - Un tassista fa un'inversione a U vicino a Mamilla, non lontano dalla Porta di Giaffa nella Città Vecchia di Gerusalemme, e incrocia una donna che cerca un taxi al cellulare. Suona il clacson e chiede alla cliente di salire. La donna chiede quanto costerà il viaggio verso la sua destinazione e il tassista risponde: "Quanto può pagare". Dopo aver concordato un prezzo insolitamente basso, spiega che questo è il suo primo e unico viaggio della giornata e che lavora da tre ore. Come gli albergatori, gli affittacamere e il Ministero del Turismo, il tassista cerca di rimanere ottimista nella speranza di poter in qualche modo rilanciare la sua attività estiva, un tempo fiorente. "Il 7 ottobre eravamo al completo, soprattutto con gli ebrei americani", ricorda Aya Grundman, amministratore delegato dell'hotel di lusso Isrotel "The Orient", situato nel ricco quartiere German Colony di Gerusalemme. "La guerra ha cambiato tutto". "Mentre alcuni turisti sono stati costretti a prolungare il loro soggiorno perché le compagnie aeree hanno cambiato gli orari dei voli, altri si sono affrettati a tornare a casa e molti del personale dell'hotel sono stati immediatamente richiamati, la gestione dell'albergo è diventata una sfida". L'hotel è rimasto chiuso per un mese e poi ha riaperto per accogliere gli sfollati dal sud e successivamente dal nord". "I membri del Kibbutz Or HaNer [vicino alla Striscia di Gaza settentrionale] che sono stati collocati qui hanno apprezzato il fatto che abbiamo uno standard molto elevato in Oriente", ha spiegato Grundman. "C'erano dei limiti: ad esempio, non si possono stendere i panni sui balconi. Sono state fornite lavatrici/asciugatrici e frigoriferi per aumentare il comfort, ma siamo stati attenti a mantenere l'atmosfera e la qualità dell'hotel. I membri del kibbutz sono stati molto grati e disponibili". Se all'inizio le missioni di solidarietà hanno attirato turisti internazionali, Grundman dice che è subentrata una "stanchezza da solidarietà". Ciononostante, un giovedì mattina c'erano molti clienti interessanti nella hall, la maggior parte dei quali israeliani, secondo Jason Gardner, responsabile delle vendite per il turismo in entrata di Isrotel. Egli attribuisce questo al fatto che molte compagnie aeree straniere hanno sospeso i voli verso Israele e che il costo dei biglietti aerei è salito alle stelle, che il desiderio di viaggiare durante la guerra è basso e che l'assicurazione di viaggio internazionale è diventata proibitiva. "Le compagnie aeree stanno tagliando la nostra ancora di salvezza", ha detto Gardner. "Per gli israeliani la vita continua", ha spiegato Grundman. "Le persone hanno bisogno di tempo prezioso con la famiglia, quindi vanno al ristorante, al bar e alle feste. E tra l'antisemitismo e il desiderio di stare vicino ai propri amici e parenti soldati, sempre più israeliani optano per vacanze brevi e rilassanti". "Siamo in ballo per il lungo periodo", dice Gardner, che passa il suo tempo a tenere riunioni Zoom con agenzie di viaggio, organizzazioni non governative e pastori cristiani, cercando di riportare i turisti. "Nessuno conosce la guerra come Israele. La storia dimostra che dopo ogni guerra c'è una grande ripresa del turismo", aggiunge. "Il turismo è la seconda industria più importante dell'economia israeliana", afferma Grundman. Gli alberghi, i tour operator, le compagnie di autobus e gli imprenditori fanno tutti affidamento sul turismo". Delta Air Lines ha ripreso i voli verso Israele il 7 giugno dopo averli sospesi da ottobre. Ci sono voli giornalieri tra l'aeroporto JFK di New York e l'aeroporto Ben-Gurion. Dal 9 giugno, anche United Airlines ha ripreso i voli giornalieri tra Newark, New Jersey, e Tel Aviv.
• NON È COSÌ GRAVE COME SEMBRA "Non è così grave come sembra", afferma l'ambasciatore del turismo Peleg Lewi, consigliere del ministro del turismo per gli affari esteri. "Dopo che i numeri sono scesi a zero dopo l'8 ottobre, il turismo è tornato al 25% del suo livello precedente. Ogni giorno arrivano 4.000 turisti. Rispetto ai 15.000 al giorno di un anno fa". Lewi ha sottolineato che El Al, le compagnie aeree emiratine e cinesi (Hainan Airlines) hanno continuato a volare nonostante la guerra, nonostante il numero ridotto di voli e gli alti prezzi dei biglietti. Anche le compagnie aeree israeliane Arkia e Israir hanno volato senza interruzioni. "La compagnia aerea degli Emirati [flyDubai] non ha interrotto le sue operazioni nemmeno per un giorno, così come Etihad Airways da Abu Dhabi", ha detto. Ciò è probabilmente dovuto ai viaggiatori israeliani, poiché anche prima della guerra pochi cittadini arabi della regione del Golfo visitavano Israele. Secondo Levi, le pensioni e il turismo rurale sono stati i più colpiti. "Il nord è un grosso problema", ha detto. "Oggi è difficile convincere qualcuno ad andare a nord. Eilat offre buone opzioni per i turisti che cercano una camera per gli ospiti".
• RISARCIMENTI Mercoledì il ministro del Turismo Haim Katz ha annunciato che i risarcimenti per i luoghi colpiti dalla guerra saranno estesi ai proprietari di pensioni e campeggi. "Il piano darà una risposta alle imprese turistiche che non si trovano sulla linea del conflitto ma che sono state drammaticamente danneggiate dalla guerra", ha spiegato Katz. "L'industria del turismo è un motore di crescita economica che genera regolarmente molti miliardi di shekel per il Paese. Siamo impegnati a sostenere le imprese e i cittadini i cui mezzi di sostentamento sono stati distrutti". Amit, che gestisce tre "ville per coppie" nell'Alta Galilea con 45 metri di superficie e piscine private con vista spettacolare sulle montagne, dice di aver approfittato dell'assenza di ospiti per rinnovare e modernizzare le ville. "Rispetto a maggio e giugno dell'anno scorso, l'occupazione è calata del 50%", afferma. "La gente disdice perché ha paura. Accendono la TV e vedono incendi e razzi, ma non sanno che il confine settentrionale è lungo centinaia di chilometri. Abbiamo sentito solo un totale di sei o sette sirene [di raid aerei], e siamo dotati di rifugi". Amit dice che le sue ville a Mishmar HaYarden e Nof Kinneret sono sicure come qualsiasi altro luogo del Paese. "Nessuno sa cosa succederà, e al momento è terribile per gli affari", ammette. "Dopo l'apertura, c'è stata un'enorme richiesta di pensioni. E ora tutto dipende da cosa succederà con la guerra. Non è scontato e non è facile, ma siamo forti e amiamo il nostro Paese e non potremo che diventare più forti". Per quanto riguarda i risarcimenti statali, dice che sono molto importanti. Per Amit significano, tra l'altro, la motivazione a continuare a impegnarsi per l'ospitalità in un momento complesso e difficile. Edna possiede un bed and breakfast chiamato Asia Suite a Moshav Dalton, vicino a Safed. È stata costretta a ridurre drasticamente i prezzi per attirare i clienti. Sebbene l'Asia Suite abbia accesso a una camera blindata e a un bunker pubblico, e non si sentano molte sirene, i suoi clienti, di solito israeliani, non hanno prenotato per l'estate. "In questi giorni non ci sono nemmeno turisti a Safed". Il piano del Ministero prevede anche il rimborso dei costi di riabilitazione per gli alberghi che hanno ospitato gli sfollati delle comunità vicine ai confini con il Libano e Gaza. "Gli alberghi hanno ospitato intere famiglie con bambini, cani e gatti", spiega Lewi. "Sono diventati intere città". Secondo Anat Aharon, vicepresidente delle vendite e del marketing, inizialmente gli hotel Fattal ospitavano quasi 20.000 sfollati. Ora sono solo 3.000, soprattutto da Kiryat Shmona.
• TURISTI, PELLEGRINI E ORGANIZZAZIONI EBRAICHE "Crediamo davvero che ogni guerra ci renda più forti", dice Aharon. "Dopo 25 anni nel settore dell'ospitalità e altre guerre, ho imparato che i turisti tornano, così come i pellegrini e le organizzazioni ebraiche che vogliono sostenere e vedere Israele. Le organizzazioni ci stanno ancora contattando, trattando con noi e progettano di riprendere la loro attività entro la fine del 2024. Sono molto ottimisti". L'autrice racconta che gli hotel nel sud del Paese hanno attirato persone da New York che hanno aiutato l'agricoltura della regione e hanno donato molti soldi ai kibbutzim locali. "Quando l'ho visto, questo mi ha reso davvero felice. So che le cose qui andranno molto bene quando la guerra sarà finita". Lewi aggiunge: "Il giorno dopo non è ancora arrivato. Speriamo che la situazione si riprenda entro la fine dell'estate. Affinché Israele non scompaia dalla mappa turistica, chiediamo ai visitatori di non cancellare, ma solo di rimandare. Stiamo contattando i leader cristiani e gli evangelici e ci stiamo coordinando con altri ministeri, come quello della Diaspora". Il sussidio per le imprese turistiche colpite sarà sotto forma di spese qualificate, ristrutturazioni per spese fisse e salari per le imprese con una perdita di entrate superiore al 25%. Katz ha dichiarato che sono in fase di preparazione le bozze per fornire garanzie agli organizzatori del turismo in entrata e che il Ministero prevede di distribuire 200 milioni di shekel - circa 54 milioni di dollari - per la ristrutturazione degli alberghi che hanno ospitato gli sfollati.
(Israel Heute, 13 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Mentre a nord si inasprisce lo scontro tra Israele e Hezbollah, con il rischio dell’apertura di una guerra a tutto tondo, Hamas continua a chiedere quello che da parte di Israele è irricevibile, la fine della guerra, ovvero la sua permanenza a Gaza.
I tentativi americani di costringere Israele a un accordo al ribasso si scontrano con il fatto duro e insormontabile che per Hamas Israele deve perdere la guerra. La guerra che Hamas ha voluto, che Hamas ha provocato, il 7 ottobre del 2023.
Ieri, Yahya Sinwar, il capo militare di Hamas a Gaza ha dichiarato che la morte dei civili palestinesi è un “sacrificio necessario”. Nulla di sorprendente per chi conosce Hamas. Il gruppo jihadista ha sempre lucrato sulla morte dei civili, usati come carne da macello per potere poi incolpare Israele di massacri indiscriminati se non di genocidio.
La dichiarazione di Sinwar è perfettamente in linea con la cultura della morte e del martirio professata dagli integralisti islamici, nella consapevolezza che questa carta diventa vincente quando i martiri non sono volontari, non si fanno saltare in aria con cinture esplosive ma diventano la popolazione di Gaza, i civili. Se non si donerà il proprio sangue volontariamente alla causa del jihad lo si farà obtorto collo, in modo da fomentare le piazze occidentali e l’odio nei confronti di Israele.
Chi, in questi mesi, ha inneggiato alla “liberazione” della Palestina dal fiume al mare, lo ha fatto sempre e solo in ossequio all’integralismo islamico, alla cultura della morte, a chi ha cinicamente usato e sta cinicamente usando uomini, donne e bambini come carne da sacrificare sull’altare del proprio fanatismo.
Che oggi, in tanti in occidente pensano che la responsabilità di quanto sta accadendo a Gaza sia principalmente di Israele, mostra solo a che punto di profondo e forse irrecuperabile smarrimento della ragione si sia giunti.
Le livide parole di Sinwar stanno a testimoniarlo inequivocabilmente.
Maltrattamenti quotidiani sugli ostaggi: lo rivela il medico dello Sheba Medical Center
di Luca Spizzichino
Gli ostaggi venivano picchiati e maltrattati “quasi ogni giorno”. Lo ha affermato il dottor Itai Pessach, responsabile delle cure mediche per i quattro ostaggi israeliani salvati sabato e che ora si trovano allo Sheba Medical Center di Tel HaShomer.
Il medico ha sottolineato che gli otto mesi passati in prigionia “hanno lasciato un segno significativo sulla loro salute”, nonostante sembrassero esternamente in buone condizioni. “Non assumendo abbastanza proteine i loro muscoli sono estremamente deteriorati, ci sono danni anche ad altri sistemi a causa di ciò”, aggiunge, sottolineando che la fornitura di cibo e acqua variava, e che venivano spostati più volte e gestiti da guardie diverse. “Ci sono stati periodi in cui non hanno praticamente ricevuto cibo”, ha aggiunto Pessach.
Le condizioni disumane in cui vivevano durante la prigionia “hanno avuto un effetto significativo sulla salute”, anche dal punto di vista psicologico, spiega il dottor Pessach, che ha curato alcuni degli ostaggi rilasciati a novembre. Il danno psicologico di questi quattro è più intenso a causa del periodo di tempo in cui sono stati trattenuti, ha spiegato alla CNN. Infatti secondo il medico dello Sheba Medical Center, “col passare del tempo, la speranza di essere rilasciato diminuisce e inizi a chiederti se tutto questo finirà mai”. “Nel momento in cui si perde quella fede si arriva al punto di rottura” ha concluso.
Antisemitismo – Monteleone (Le Iene): Per Israele battaglia impari online
Criticare Israele utilizzando parole come “genocidio”, “sterminio” e “nazismo” non è «un esercizio innocente». E chi oggi utilizza quelle parole «si colloca di diritto nella lunga storia dell’antisemitismo». Partendo da questa premessa, vari relatori hanno animato un incontro su “Israele e l’antisemitismo negato” al Centro ebraico Il Pitigliani di Roma, promosso dalla Comunità ebraica, dal Maccabi Italia e dall’associazione Inoltre. Tra gli intervenuti, a confronto su recrudescenza dell’ostilità anti-israeliana nella società italiana e racconto e distorsioni del conflitto a Gaza, il presidente di Equality Italia Aurelio Mancuso, l’ex parlamentare e attivista per i diritti LGBT Paola Concia, il docente universitario Giovanni Bachelet e i giornalisti Tommaso Giuntella, Antonino Monteleone e Alessandra Libutti, moderati da Filippo Piperno.
«Nelle ultime settimane, con la ciliegina sulla torta di “All eyes on Rafah”, abbiamo scoperto della grande bugia che il mainstream, con la prevalente componente dell’industria culturale, cinematografica e dei media sia schierata dalla parte di Israele. Tutto l’esatto contrario in questo momento», ha sostenuto Monteleone, inviato della trasmissione televisiva Le Iene. «Israele sta perdendo la partita della comunicazione, perché una quantità illimitata di capitali è stata investita su piattaforme che hanno trasformato le interazioni generate da alcuni contenuti, in linea teorica vietati dalle linee guida delle stesse piattaforme, nello strumento per cui si ascolta solo la voce di una parte, innescando un meccanismo con il quale il cosiddetto “antifascismo” interrompe ogni discussione con frasi come “Ma tu li hai visti i morti civili?”».
Monteleone è impegnato da tempo nella diffusione di contenuti volti a smontare la propaganda propal. «Io e pochi altri giornalisti siamo stati additati con un’accusa infamante, quella di essere insensibili alle morti civili», ha dichiarato durante la serata al Pitigliani. «Ogni morte è disgustosa, ma qui c’è un tema da comprendere relativo alle intenzioni. Se l’accusa è il genocidio, c’è chi il genocidio ce l’ha nella propria ragione sociale e gli viene impedito di commetterlo e chi un genocidio potrebbe commetterlo perché ne ha i mezzi e la capacità militare e tecnologica e non lo fa».
Un elicottero dell'IDF trasporta i membri delle Forze speciali israeliane che hanno preso parte all'"Operazione Arnon" presso il Centro medico Sheba di Ramat Gan, 8 giugno 2024
Dopo mesi in cui si è falsamente affermato che l'unico modo per salvare gli ostaggi era quello di scendere a patti con i terroristi islamici, Israele ha lanciato un'audace operazione di salvataggio alla luce del giorno, attaccando contemporaneamente due case in cui erano detenuti quattro ostaggi.
  L'operazione ha coinvolto la Israel Security Agency, la versione israeliana dell'FBI) e l'unità nazionale antiterrorismo della polizia israeliana "Yamam", che sono penetrate in profondità nel territorio nemico in un'operazione di salvataggio rischiosa che ha richiesto un tempismo preciso e che ha permesso di respingere le orde di terroristi che sciamavano fuori per attaccare i soccorritori.
  Contro ogni previsione, Israele ha avuto successo. E i media e l'establishment politico hanno rafforzato la loro narrazione.
  La Casa Bianca e i politici internazionali hanno ripetuto i loro appelli per un "cessate il fuoco" che avrebbe lasciato Hamas al potere e gli avrebbe permesso di lanciare un altro 7 ottobre.
  I media hanno diffuso con entusiasmo le affermazioni di Hamas sulle "vittime civili di massa".
  Entrambi hanno reagito al fatto che questa operazione ha dimostrato ancora una volta che l'unica strada giusta e morale è quella di sconfiggere i terroristi.
C'è un solo modo per fermare la spirale del terrorismo islamico, ed è quello di non fare accordi con i terroristi.
(Israel Heute, 11 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Riservista con PTSD si toglie la vita dopo l’ordine di richiamo
L’IDF ha dichiarato che Eliran Mizrahi non può essere sepolto in un cimitero militare perché non era in servizio attivo al momento della morte; la madre dice che è rientrato dalla guerra di Gaza come “un uomo distrutto”.
L’IDF si rifiuta di riconoscere come soldato caduto un riservista con disturbo da stress post-traumatico che si è tolto la vita dopo l’ordine di tornare a combattere nella Striscia di Gaza, lo ha dichiarato la sua famiglia. Eliran Mizrahi, di Ma’ale Adumim, era stato chiamato nelle riserve poco dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando era stato incaricato di aiutare a rimuovere i corpi delle persone uccise dai terroristi palestinesi al festival musicale Supernova. È stato poi inviato a Gaza, dove ha prestato servizio come ingegnere di combattimento fino a quando è stato ferito in aprile.
Mizrahi era stato riconosciuto come veterano dell’IDF e gli era stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico, ma venerdì ha ricevuto l’ordine di presentarsi in servizio a Rafah due giorni dopo. Poi si è tolto la vita.
Lascia moglie e quattro figli.
La madre di Eliran, Jenny, ha raccontato che l’uomo è stato ferito due volte durante i sette mesi di servizio, e che la prima volta che è stato ferito si è rifiutato di lasciare Gaza, insistendo che voleva continuare a proteggere il Paese.
Voleva continuare a combattere, proteggere lo Stato di Israele e riportare indietro gli ostaggi”, ha detto.
Hila Mizrahi, sorella di Eliran, ha detto a Channel 13 news che il fratello ha “passato l’inferno” a Gaza e che si è rifiutato di parlare di molte delle sue esperienze di guerra. “Ha subito il lancio di razzi, ha visto morire i suoi amici, ha riportato i corpi e ha fatto comunque tutto per Israele”, ha detto. A seguito del periodo trascorso a Gaza, ha raccontato Hila, Eliran è stato ferito fisicamente e mentalmente e un medico gli ha detto che non sarebbe stato in grado di tornare a combattere.
Era una persona felice, allegra, divertente, positiva e ottimista”, ha detto Jenny. “Era la luce principale nella nostra casa e tra i suoi amici, e tornò a casa diverso. Siamo tornati con un uomo distrutto, impaziente con i bambini. Era arrabbiato e aveva gli incubi”.
La famiglia di Eliran ha lottato perché fosse riconosciuto come soldato caduto e fosse sepolto nel cimitero militare del Monte Herzl, ma l’IDF ha rifiutato la richiesta perché non era in servizio attivo quando è morto.
Jenny ha espresso la sua frustrazione per il modo in cui Eliran è stato trattato dopo la diagnosi di PTSD, dicendo che lui le aveva detto che gli psichiatri che lo avevano in cura avevano detto che non poteva essere aiutato. “Mandarlo in guerra con i suoi amici va bene, ma riconoscerlo come soldato caduto no? Perché?”, ha detto, aggiungendo che si rifiuta di seppellirlo se non in un cimitero militare.
La sorella di Eliran, Shir, ha detto a Canale 12 che il soldato ha perso la sua anima a causa della guerra. “Quest’uomo ha dato la sua vita a questo Paese e al nostro esercito, e non merita una sepoltura militare? Invece di concentrarci sul nostro dolore, siamo costretti a lottare per il suo onore”, ha detto la donna.
“Mio fratello merita di essere sepolto con una bandiera israeliana e che i soldati gli facciano il saluto. Non si merita questo”, ha detto Hila.
Rispondendo a una richiesta di commento, l’IDF ha detto che Eliran aveva fatto molto per l’esercito durante la guerra e nelle precedenti operazioni militari. Tuttavia, ha detto che “dopo aver esaminato la questione, abbiamo scoperto che al momento della sua morte, Eliran non era un soldato né in servizio attivo di riserva, quindi non è idoneo per la sepoltura militare secondo le leggi sui cimiteri militari”.
La liberazione dei quattro ostaggi tenuti prigionieri da oltre otto mesi nella Striscia di Gaza realizzata dall’IDF e dallo Shin Beth ha ridato speranza anche alle famiglie degli altri 120 ostaggi detenuti da Hamas dal 7 ottobre, giorno in cui migliaia di terroristi hanno fatto irruzione in territorio israeliano uccidendo, stuprando e rapendo anziani, donne e bambini.
I quattro ostaggi liberati sono Noa Argamani (26 anni), Almog Meir Jan (21 anni), Andrey Kozlov (27 anni) e Shlomi Ziv (41 anni). Erano detenuti in due distinti appartamenti di una zona ad alta densità abitativa di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza. La notizia del successo dell’operazione ha suscitato la felicità della popolazione. Il sentimento di gioia, tuttavia, è stato poco dopo offuscato dalla notizia della morte dell’ispettore capo della polizia israeliana Arnon Zamora, 36 anni, deceduto per le ferite riportate durante l’operazione di salvataggio degli ostaggi, che in suo onore è stata denominata “operazione Arnon”.
Nelle ultime ore i medici che seguono gli ex ostaggi hanno reso note alcune informazioni sulle loro condizioni di salute. Soffrono, tra le altre cose, di deficit vitaminici, malnutrizione, perdita di peso. Il Dottor Itai Pesach, direttore del Safra Hospital allo Sheba Medical Center – Tel Hashomer ha spiegato anche che «la loro situazione è simile a quella di altri ostaggi. Nelle ore iniziali, dopo la liberazione, erano entusiasti: felici, volevano comunicare e parlare di quello che hanno vissuto». Alla gioia iniziale è seguito però un deterioramento delle loro condizioni. «Hanno affrontato situazioni difficili e serviranno tanti mesi di supporto medico e psicologico». Secondo quanto rivelato da fonti dell’ospedale, i quattro si cercano continuamente tra di loro per un conforto reciproco.
Tra loro, Noa Argamani è l’unica ragazza liberata. Il suo volto aveva fatto il giro del mondo quando il 7 ottobre era stata rapita al Nova Festival dai terroristi a bordo di una moto. L’immagine di lei stretta tra due miliziani, con le braccia tese verso il fidanzato Avinatan Or mentre urlava disperatamente, ha fatto il giro del mondo ed è diventata emblematica di quella giornata. Durante la prigionia, sua madre Liora, malata di cancro al cervello al quarto stadio, si è battuta per ottenere la sua liberazione. I suoi appelli per vedere un’ultima volta la figlia prima di morire hanno commosso il mondo. Noa è stata liberata il giorno del compleanno di suo padre, che l’ha accolta abbracciandola. La possibilità di rivedere la figlia dopo otto mesi è stato considerato il regalo più bello. Nonostante la felicità per il suo rilascio, Noa non può dire di aver lasciato totalmente il trauma alle spalle, visto che il suo fidanzato Avinatan è ancora ostaggio di Hamas, mentre la madre, Liora è in gravissime condizioni di salute. Dopo una prima visita in ospedale, la ragazza è corsa proprio a trovare la madre, con la quale ha trascorso alcune ore. Al momento sono emerse poche informazioni sul periodo di prigionia di Noa a Gaza. La ragazza sarebbe stata nascosta in quattro diversi appartamenti. Da ostaggio ha imparato l’arabo, che le è servito inizialmente anche per aiutare altri ostaggi a fare alcune richieste ai loro carcerieri. Noa ha raccontato ai suoi parenti di aver rischiato più volte la vita. L’ultima volta durante l’operazione di salvataggio, quando il furgone che la trasportava si è improvvisamente rotto. In uno degli appartamenti in cui è stata detenuta avrebbe spesso lavato i piatti e cucinato per i suoi carcerieri. Per ora non si conoscono molti altri dettagli su cosa le sia accaduto in questi mesi. Noa resta ancora sotto osservazione.
I tre uomini erano invece detenuti insieme in un appartamento di Nuseirat. L’operazione di salvataggio dei tre è stata molto rischiosa e ha implicato uno scontro con armi da fuoco con i terroristi che li detenevano.
Almog Meir al suo ritorno è stato accolto dal caloroso abbraccio di amici e parenti che dopo mesi di attesa lo hanno salutato con canti e urla di gioia. La madre ha rivelato che dopo il ritorno del figlio ha finalmente potuto dormire la notte. Purtroppo il ritorno di Almog è segnato da una tragedia familiare, la perdita di suo padre. Il cuore dell’uomo non ha retto al dolore per il rapimento del figlio e dopo aver sofferto per otto mesi, dopo aver trascorso ore davanti alla televisione sperando di carpire qualche notizia su Almog, il suo cuore si è fermato poche ore prima della liberazione del figlio. Almog ha cominciato a rivelare qualche informazione sul suo periodo di prigionia. Come Noa, anche il ragazzo è stato preso in ostaggio durante il Nova Festival. La madre ha dichiarato che durante la prigionia ha imparato un po’ di arabo e di russo da Andrey Kozlov, che era detenuto insieme a lui. «Durante tutti questi mesi non hanno visto la luce del giorno. Sono stati chiusi in una stanza. Hanno provato a fargli il lavaggio del cervello» ha detto suo zio.
Andrey Kozlov è stato tenuto prigioniero insieme ad Almog. Aveva fatto l’alyiah da pochi mesi quando il 7 ottobre al Nova Festival è stato rapito dai terroristi. Quando è stato liberato dall’IDF la sua famiglia si trovava a San Pietroburgo ed è arrivata in Israele il giorno dopo. Il giovane vedendo la madre è scoppiato a piangere mettendosi in ginocchio. Andrey ha raccontato ai suoi cari che durante la prigionia ha pensato ogni giorno alla sua famiglia e alla sua compagna Jennifer Master. Andrey ha anche insegnato il russo ai suoi compagni di prigionia.
Shlomi Ziv, 41 anni, il 7 ottobre era al Nova Festival per lavorare come guardia di sicurezza insieme a due amici che sono stati assassinati dai terroristi, Aviv Eliyahu e Jake Marlowe, marito di sua cugina. Durante l’attacco di Hamas, Shlomi ha aiutato i ragazzi a scappare, fino a quando non è stato rapito. Dopo la liberazione, sua madre Rosa, intervistata da Maariv, ha commentato che il ritorno del figlio «è una grande gioia che non può essere descritta a parole . Ancora non ci credo che è qui. Credevo fermamente che Shlomi sarebbe tornato. Si deve credere nel bene, e il bene arriverà». In ospedale Shlomi è stato raggiunto dalla moglie, dalla madre e dalle figlie. Non sapeva che i suoi due amici fossero stati assassinati. Quando la moglie Miren gli ha detto che ne avrebbero parlato in un secondo momento, Shlomi ha intuito la loro sorte ed è scoppiato in lacrime. «È colpa mia» avrebbe detto ai presenti. Durante la prigionia Shlomi non sapeva cosa stesse accadendo in Israele e per ora non ha condiviso molto di cosa ha dovuto affrontare negli ultimi otto mesi a Gaza; ha però raccontato a Channel 13 di aver imparato l’arabo da trasmissioni di Al-Jazeera e che i terroristi li avrebbero quotidianamente fatti pregare leggendo il Corano. Shlomi abita a Elkosh, un moshav vicino al confine nord. I residenti dell’area sono stati evacuati a causa della minaccia di Hezbollah e la sua famiglia non ha ancora deciso se tornare a casa o meno.
Le lettere di Sinwar: “i bambini e le donne morte aiuteranno Hamas”
Una esclusiva del Wall Street Journal rivela la corrispondenza tra Yahya Sinwar e gli altri leader di Hamas dalla quale emerge il totale disprezzo per la vita umana del capo di Hamas a Gaza.
Per mesi, Yahya Sinwar ha resistito alle pressioni per un accordo di cessate il fuoco e scambio di ostaggi con Israele. Dietro la sua decisione, come dimostrano i messaggi che il capo militare di Hamas a Gaza ha inviato ai mediatori, c’è il calcolo che un maggior numero di combattimenti e di morti civili palestinesi vada a suo vantaggio.
“Abbiamo gli israeliani proprio dove li vogliamo”, ha detto Sinwar in un recente messaggio ai funzionari di Hamas che cercavano di mediare un accordo con funzionari del Qatar e dell’Egitto.
I combattimenti tra le forze israeliane e le unità di Hamas nel sud della Striscia di Gaza hanno interrotto le spedizioni di aiuti umanitari, causato un aumento delle vittime civili e intensificato le critiche internazionali agli sforzi di Israele per sradicare il gruppo estremista islamico.
Per gran parte della sua vita politica, plasmata da un sanguinoso conflitto con uno Stato israeliano che secondo lui non ha diritto di esistere, Sinwar si è attenuto a un semplice schema di gioco. Messo alle strette, cerca nella violenza una via d’uscita. L’attuale lotta a Gaza non fa eccezione.
In decine di messaggi – analizzati dal Wall Street Journal – che Sinwar ha trasmesso ai negoziatori del cessate il fuoco, ai compatrioti di Hamas fuori da Gaza e ad altri, ha mostrato un freddo disprezzo per le vite umane e ha chiarito di ritenere che Israele abbia più da perdere dalla guerra che Hamas. I messaggi sono stati condivisi da più persone con opinioni diverse su Sinwar.
Dall’inizio della guerra, secondo Hamas a Gaza sono state uccise più di 37.000 persone, la maggior parte delle quali civili. La cifra, sicuramente esagerata, non specifica nemmeno quanti fossero combattenti. Le autorità sanitarie hanno dichiarato che quasi 300 palestinesi sono stati uccisi sabato in un raid israeliano che ha salvato quattro ostaggi tenuti in cattività in case circondate da civili, facendo capire ad alcuni palestinesi il loro ruolo di pedine di Hamas.
In un messaggio ai leader di Hamas a Doha, Sinwar ha citato le perdite di civili nei conflitti di liberazione nazionale in luoghi come l’Algeria, dove centinaia di migliaia di persone sono morte combattendo per l’indipendenza dalla Francia, dicendo che “questi sono sacrifici necessari”.
In una lettera dell’11 aprile al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, dopo che tre dei figli adulti di Haniyeh sono stati uccisi da un attacco aereo israeliano, Sinwar ha scritto che la loro morte e quella di altri palestinesi avrebbe “infuso vita nelle vene di questa nazione, spingendola a risorgere alla sua gloria e al suo onore”.
Sinwar non è il primo leader palestinese ad abbracciare lo spargimento di sangue come mezzo di pressione su Israele. Ma l’entità dei danni collaterali di questa guerra – civili uccisi e distruzione provocata – non ha precedenti tra israeliani e palestinesi.
Nonostante il feroce tentativo di Israele di ucciderlo, Sinwar è sopravvissuto e ha microgestito lo sforzo bellico di Hamas, redigendo lettere, inviando messaggi ai negoziatori per il cessate il fuoco e decidendo quando il gruppo terroristico aumenta o riduce i suoi attacchi.
Il suo obiettivo finale sembra essere quello di ottenere un cessate il fuoco permanente che permetta ad Hamas di dichiarare una vittoria storica, superando Israele e rivendicando la leadership della causa nazionale palestinese.
Il Presidente Biden sta cercando di costringere Israele e Hamas a fermare la guerra. Ma il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si oppone a porre fine in modo permanente alla lotta prima di quella che definisce “vittoria totale” su Hamas.
Anche senza una tregua duratura, Sinwar ritiene che Netanyahu abbia poche alternative all’occupazione di Gaza e all’impantanamento nella lotta contro un’insurrezione guidata da Hamas per mesi o anni.
È un esito che Sinwar aveva prefigurato sei anni fa, quando è diventato leader nella Striscia di Gaza. Hamas potrebbe perdere una guerra con Israele, ma ciò causerebbe un’occupazione israeliana di oltre due milioni di palestinesi.
“Per Netanyahu, una vittoria sarebbe ancora peggiore di una sconfitta”, ha detto Sinwar a un giornalista italiano che ha scritto nel 2018 su un quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth.
Sinwar, oggi sessantenne, aveva circa 5 anni quando la guerra del 1967 gli fece vivere la prima esperienza di violenza significativa tra israeliani e arabi. Quel breve scontro riordinò il Medio Oriente. Israele prese il controllo delle alture del Golan dalla Siria e della Cisgiordania dalla Giordania. Inoltre, conquistò la penisola del Sinai dall’Egitto e la Striscia di Gaza, dove Sinwar crebbe in un campo profughi gestito dalle Nazioni Unite.
Il conflitto era una presenza costante. Sinwar ha pubblicato un romanzo nel 2004, mentre si trovava in una prigione israeliana, e nella prefazione ha scritto che era basato sulle sue esperienze personali. Nel libro, un padre scava una buca profonda nel cortile del campo profughi durante la guerra del 1967, coprendola con legno e metallo per creare un rifugio.
Un giovane figlio aspetta nella buca con la sua famiglia, piangendo e sentendo i suoni delle esplosioni che si fanno sempre più forti con l’avvicinarsi dell’esercito israeliano. Il ragazzo cerca di uscire, ma la madre gli urla: “È la guerra là fuori! Non sai cosa significa guerra?”.
Sinwar si unì al movimento che poi divenne Hamas negli anni ’80, diventando vicino al fondatore Sheikh Ahmed Yassin e creando una polizia di sicurezza interna che dava la caccia e uccideva i sospetti informatori, secondo la trascrizione della sua confessione agli interrogatori israeliani nel 1988.
Ha ricevuto diverse condanne all’ergastolo per omicidio e ha trascorso 22 anni in prigione prima di essere liberato nel 2011 in uno scambio con un migliaio di altri palestinesi per il soldato israeliano Gilad Shalit.
Durante i negoziati tra Israele e Hamas per lo scambio di Shalit, Sinwar ha esercitato una forte influenza nel chiedere la libertà dei palestinesi incarcerati per aver ucciso degli israeliani.
Voleva rilasciare anche coloro che erano stati coinvolti in attentati che avevano ucciso un gran numero di israeliani ed era così massimalista nelle sue richieste che Israele lo mise in isolamento per evitare che disturbasse i progressi.
Quando è diventato leader di Hamas a Gaza nel 2017, la violenza era una costante del suo repertorio. Hamas aveva strappato il controllo di Gaza all’Autorità Palestinese in un sanguinoso conflitto un decennio prima, e mentre Sinwar si è mosso all’inizio del suo mandato per riconciliare Hamas con altre fazioni palestinesi, ha avvertito che avrebbe “spezzato il collo” a chiunque si fosse messo di traverso.
Nel 2018, Sinwar ha sostenuto le proteste settimanali presso la recinzione tra Gaza e il territorio israeliano. Temendo una breccia nella barriera, l’esercito israeliano ha sparato sui palestinesi e sugli agitatori che si avvicinavano troppo.
• Faceva tutto parte del piano. “Facciamo notizia solo con il sangue”, ha detto Sinwar nell’intervista rilasciata all’epoca a un giornalista italiano. “Niente sangue, niente notizie”.
Nel 2021, i colloqui di riconciliazione tra Hamas e le fazioni palestinesi sembravano procedere verso le elezioni legislative e presidenziali per l’Autorità Palestinese, le prime in 15 anni. Ma all’ultimo momento, il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni. Con la pista politica chiusa, Sinwar giorni dopo è passato allo spargimento di sangue per cambiare lo status quo, lanciando razzi su Gerusalemme in mezzo alle tensioni tra israeliani e palestinesi nella città. Il conflitto di 11 giorni che ne è seguito ha ucciso 242 palestinesi e 12 persone in Israele.
Gli attacchi aerei israeliani hanno causato danni tali da indurre i funzionari israeliani a ritenere che Sinwar sarebbe stato dissuaso dall’attaccare nuovamente gli israeliani.
Ma è accaduto il contrario: I funzionari israeliani ritengono che Sinwar abbia iniziato a pianificare gli attacchi del 7 ottobre. Uno degli obiettivi era quello di porre fine alla paralisi nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese e di rilanciare la sua importanza diplomatica a livello globale, hanno detto funzionari arabi e di Hamas che hanno familiarità con i pensieri di Sinwar.
L’occupazione israeliana dei territori palestinesi dura da più di mezzo secolo e i partner di coalizione di estrema destra di Netanyahu parlano di annettere terre in Cisgiordania che i palestinesi vogliono per un futuro Stato. L’Arabia Saudita, un tempo sostenitrice della causa palestinese, era in trattative per normalizzare le relazioni con Israele.
Sebbene Sinwar avesse pianificato e dato il via libera agli attacchi del 7 ottobre, i primi messaggi ai negoziatori del cessate il fuoco mostrano che sembrava sorpreso dalla brutalità dell’ala armata di Hamas e degli altri palestinesi e dalla facilità con cui commettevano atrocità sui civili.
“Le cose sono andate fuori controllo”, ha detto Sinwar in uno dei suoi messaggi, riferendosi alle bande che prendevano in ostaggio donne e bambini civili. “La gente è rimasta coinvolta in tutto questo, e non sarebbe dovuto accadere”.
Questo è diventato un argomento di discussione per Hamas per spiegare il bilancio civile del 7 ottobre.
All’inizio della guerra, Sinwar si è concentrato sull’uso degli ostaggi come merce di scambio per ritardare un’operazione di terra israeliana a Gaza. Un giorno dopo l’ingresso dei soldati israeliani nella Striscia, Sinwar ha dichiarato che Hamas era pronto a un accordo immediato per lo scambio degli ostaggi con il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi detenuti in Israele.
Ma Sinwar aveva frainteso la reazione di Israele al 7 ottobre. Netanyahu ha dichiarato che Israele avrebbe distrutto Hamas e che l’unico modo per costringere il gruppo a rilasciare gli ostaggi era la pressione militare.
Sinwar sembra aver frainteso anche il sostegno che l’Iran e la milizia libanese Hezbollah erano disposti a offrire.
Quando il capo politico di Hamas, Haniyeh, e il suo vice, Saleh al-Arouri, si sono recati a Teheran a novembre per un incontro con la Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, è stato detto loro che Teheran appoggiava Hamas ma non sarebbe entrata nel conflitto.
“È stato in parte ingannato da loro e in parte da se stesso”, ha detto Ehud Yaari, un commentatore israeliano che conosce Sinwar dai tempi della sua prigionia. “Era estremamente deluso”.
A novembre, la leadership politica di Hamas ha iniziato a prendere le distanze da Sinwar, dicendo che aveva lanciato gli attacchi del 7 ottobre senza informarli, come hanno detto funzionari arabi che hanno parlato con Hamas.
Alla fine di novembre, Israele e Hamas hanno concordato un cessate il fuoco e il rilascio di alcuni ostaggi detenuti dai terroristi. Ma l’accordo è crollato dopo una settimana.
Mentre l’esercito israeliano smantellava rapidamente le strutture militari di Hamas, all’inizio di dicembre la leadership politica del gruppo ha iniziato a incontrare altre fazioni palestinesi per discutere la riconciliazione e un piano postbellico. Sinwar non è stato consultato.
In un messaggio inviato ai leader politici, Sinwar ha definito “vergognoso e oltraggioso” il dietrofront.
“Finché i combattenti sono ancora in piedi e non abbiamo perso la guerra, questi contatti dovrebbero essere immediatamente interrotti”, ha detto. “Abbiamo le capacità per continuare a combattere per mesi”.
Il 2 gennaio, Arouri è stato ucciso in un sospetto attacco israeliano a Beirut e Sinwar ha iniziato a cambiare il suo modo di comunicare, hanno detto i funzionari arabi. Utilizzava pseudonimi e trasmetteva le note solo attraverso una manciata di aiutanti fidati e tramite codici, passando da messaggi audio, messaggi parlati a intermediari e messaggi scritti.
Tuttavia, le sue comunicazioni indicano che cominciava a sentire che le cose stavano andando dalla parte di Hamas.
Alla fine del mese, l’avanzata militare di Israele era rallentata fino a una battaglia estenuante nella città di Khan Younis, la città natale di Sinwar. Israele ha iniziato a perdere altre truppe. Il 23 gennaio, circa due dozzine di soldati israeliani sono stati uccisi nel centro e nel sud di Gaza, il giorno più letale dell’invasione per l’esercito.
I mediatori arabi si sono affrettati ad accelerare i colloqui per un cessate il fuoco e il 19 febbraio Israele ha fissato la scadenza del Ramadan – un mese dopo – perché Hamas restituisse gli ostaggi o affrontasse un’offensiva di terra a Rafah, quella che i funzionari israeliani hanno descritto come l’ultima roccaforte del gruppo terrorista.
Sinwar, in un messaggio, ha esortato i suoi compagni della leadership politica di Hamas al di fuori di Gaza a non fare concessioni e a spingere invece per una fine permanente della guerra. Sinwar ha affermato che un alto numero di vittime civili creerebbe una pressione mondiale su Israele. L’ala armata del gruppo era pronta per l’assalto, secondo i messaggi di Sinwar.
“Il viaggio di Israele a Rafah non sarà una passeggiata”, ha detto Sinwar ai leader di Hamas a Doha in un messaggio.
Alla fine di febbraio, una consegna di aiuti a Gaza è diventata mortale quando le forze israeliane hanno sparato sui civili palestinesi che affollavano i camion, aumentando la pressione degli Stati Uniti su Israele per limitare le vittime.
I disaccordi tra i leader israeliani in guerra sono emersi pubblicamente, poiché Netanyahu non è riuscito ad articolare un piano di governance postbellica per Gaza e il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha avvertito privatamente di non rioccupare la striscia. Gli israeliani si sono preoccupati che il Paese stesse perdendo la guerra.
A maggio, Israele ha nuovamente minacciato di attaccare Rafah se i colloqui per il cessate il fuoco fossero rimasti in stallo, una mossa che Hamas ha considerato come una pura tattica negoziale.
Netanyahu ha detto che Israele doveva espandersi a Rafah per distruggere la struttura militare di Hamas e interrompere il contrabbando dall’Egitto.
La risposta di Sinwar: Hamas ha sparato al valico di Kerem Shalom il 5 maggio, uccidendo quattro soldati. I funzionari di Hamas al di fuori di Gaza hanno iniziato a fare eco alla posizione fiduciosa di Sinwar.
Israele ha poi lanciato l’operazione di Rafah. Ma, come Sinwar aveva previsto, ha avuto un costo umanitario e diplomatico.
I messaggi di Sinwar, nel frattempo, indicano che è disposto a morire nei combattimenti.
In un recente messaggio agli alleati, il leader di Hamas ha paragonato la guerra a una battaglia del VII secolo a Karbala, in Iraq, dove il nipote del Profeta Maometto fu ucciso in modo controverso.
“Dobbiamo andare avanti sulla stessa strada che abbiamo iniziato”, ha scritto Sinwar. “O lasciamo che sia una nuova Karbala”.
Il progetto americano e la necessità della vittoria
di Niram Ferretti
Con estremo nitore, alla luce del giorno, si incastrano ormai tutti i pezzi del mosaico. L’Amministrazione Biden, che fin dall’esordio della guerra di Israele contro Hamas, ha cercato di commissariarla, ed in buona parte ci è riuscita, sta ora approntando gli ultimi dettagli per la sconfitta dello Stato ebraico.
Il testo che è stato presentato ieri al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ne rappresenta con sigla notarile la certificazione. Il testo, in nessuno dei suoi paragrafi sottolinea che Hamas deve essere sconfitto e rimosso da Gaza, ed è questo esattamente il punto del contendere, che ha causato l’altro ieri l’ennesima presa di posizione di Netanyahu, il quale, dopo le indiscrezioni trapelate secondo le quali l’accordo prevede la fine della guerra senza lo smantellamento di Hamas a Gaza, ha ribadito che l’obiettivo principale della guerra in corso è sempre questo.
Il problema è che non è l’obiettivo americano e non lo è mai stato fin dal principio al di là delle dichiarazioni ufficiali. L’obiettivo americano è infatti quello di implementare uno Stato palestinese imponendolo a Israele e, a questo scopo, può cinicamente considerare un governo Fatah-Hamas a Gaza, come un male necessario. Questo tassello fa parte di una strategia geopolitica più ampia che, nei fatti, è la continuazione del programma intrapreso da Barack Obama e che consiste nel trovare una intesa regionale con l’Iran a totale discapito della sicurezza dello Stato ebraico.
Ieri, Gadi Taub, uno dei più acuti analisti politici israeliani, lo ha riassunto:
“Dal momento in cui questa amministrazione è entrata alla Casa Bianca e ha iniziato a negoziare con gli iraniani su un nuovo accordo nucleare, hanno operato sulla base dell’assunto che l’Iran possa essere placato. Per questo hanno sbloccato circa 100 miliardi di dollari attraverso l’allentamento delle sanzioni, per questo hanno rimosso gli Houthi dall’elenco delle organizzazioni terroristiche, per questo hanno imposto a Israele un cattivo accordo con Hezbollah nel Mediterraneo, e per questo ora stanno cercando di imporci un altro accordo che salverà Hezbollah da una guerra totale…Come parte degli sforzi per placare l’Iran, gli americani stanno cercando in ogni modo di soddisfare la sua richiesta di porre immediatamente fine alla guerra a Gaza”.
La guerra deve finire per consentire a Biden di non avere una spina nel fianco durante la campagna elettorale che entrerà nel vivo nei prossimi mesi, e perché, in questo modo, si rafforzerà il programma di Obama per il Medioriente, che, dopo il clamoroso fallimento delle primavere arabe da lui promosse, si incardina su due punti: l’ammorbidimento totale nei confronti dell’Iran, di cui l’Amministrazione Biden ha dato ampie prove, e la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania, che per l’Iran si trasformerebbe presto in un suo avamposto nel cuore di Israele. Perché questo disegno giunga a compimento gli strumenti a disposizione sono diversi e tutti in azione da mesi: la pressione internazionale spinta dalla Casa Bianca, le risoluzioni ONU, i costanti freni posti alla guerra in corso che hanno fortemente limitato l’operatività militare israeliana all’interno della Striscia, l’isteria mediatica costruita a tavolino contro una operazione su larga scala a Rafah dove Hamas è ancora forte, e non ultimo, l’appoggio interno in Israele da parte dell’opposizione allo scopo di fare cadere il governo Netanyahu e rimuovere gli ostacoli più forti alla realizzazione del progetto, ovvero, più che Netanyahu stesso, le formazioni ultranazionaliste guidate da Bezalel Smotrich e Itmar Ben Gvir.
Siamo al cospetto di un programma micidialmente avverso agli interessi di Israele, che, se si realizzasse, ne metterebbe seriamente in mora la sicurezza presente e quella futura. Per sventarlo non c’è che una sola strada, proseguire fino alla fine l’offensiva a Gaza, cercare, se possibile, di liberare il più alto numero di ostaggi, ma soprattutto sconfiggere Hamas, cioè vincere.
Solo una Striscia demilitarizzata da Hamas, delegato iraniano, può garantire a Israele di ristabilire la propria capacità di deterrenza dopo la catastrofe del 7 ottobre, arginare le spinte espansionistiche iraniane, e riabilitare la propria immagine fortemente lesionata. Si tratta esattamente di quello che l’Amministrazione Biden non desidera che accada.
Gli uomini che a Washington si occupano del dossier mediorientale, quasi tutti funzionari dell’ex presidente Obama, hanno bisogno di un Israele ridimensionato, ammansito, che non faccia troppa paura all’Iran, convinti che in questo modo il regime islamico assumerà una postura meno aggressiva. Si tratta di una prospettiva che capovolge la realtà dalle sue fondamenta. È vero esattamente il contrario. Solo un Israele forte e determinato a difendersi in modo risoluto può determinare la stabilità regionale necessaria, tenendo a bada l’Iran e i suoi pericolosi delegati. Solo un Israele forte e temuto può garantire la stabilità regionale in quella che è una delle regioni più politicamente instabili del globo. Infine, sempre e solo un Israele forte e temuto può fare da argine all’estremismo islamico, costituendo e garantendo di preservare nella regione i valori occidentali che esso incarna: libertà, democrazia e pluralismo.
Argento israeliano nella mezza maratona agli Europei di Roma
Mentre è in corso la penultima giornata di gare, l’Italia dello sport è già in festa: mai la squadra azzurra aveva ottenuto il numero di successi conquistati agli europei di atletica leggera in svolgimento a Roma. L’Italia è saldamente in testa al medagliere con otto ori e la sua supremazia dovrebbe essere al sicuro. Nel medagliere è presente anche Israele, argento nella mezza maratona a squadre maschile dietro proprio all’Italia. Una prestazione d’alto livello per entrambe le squadre, con gli azzurri impostisi nella gara individuale con la doppietta firmata Yeman Crippa e Pietro Riva. Primo degli israeliani il quarto della graduatoria generale, Maru Teferi, di origine etiope come gli altri cinque connazionali in lizza a Roma: Gashau Ayale, Girmaw Amare, Haimro Alame, Godadaw Belachew e Tesema Moges.
Teferi sarà uno degli atleti di punta della spedizione israeliana ai Giochi Olimpici di Parigi. Nel 2022 fu tra i protagonisti, insieme ad Ayale e Amare, dello storico oro vinto da Israele nella maratona a squadre agli Europei di Monaco di Baviera, a 50 anni dall’attentato palestinese nel villaggio olimpico della città bavarese. Lo scorso anno Teferi ha vinto l’argento ai Mondiali di Budapest, sempre nella maratona.
Tra risultati attesi ed exploit sorprendenti, le elezioni europee sono il tema del giorno e stanno suscitando reazioni anche all’interno del mondo ebraico.
«Non vediamo l’ora di lavorare con i nuovi membri eletti del Parlamento europeo. Il nostro impegno sarà volto garantire la sicurezza, il benessere e il futuro delle comunità ebraiche in tutta Europa», scrive in una nota lo European Jewish Congress (Ejc), l’organismo di riferimento a livello continentale. In questo senso, indica lo Ejc, «è imperativo affrontare e fermare l’allarmante aumento dell’antisemitismo, promuovendo una società unita contro l’odio e il pregiudizio». Nessun riferimento esplicito, almeno in questo primo commento, all’avanzata dell’ultradestra egemone in Francia e alla ribalta in Germania, oltre che in molti altri Paesi.
A Parigi la presa di coscienza della netta affermazione da parte del Rassemblement National di Marine Le Pen ha portato il presidente francese Emmanuel Macron a sciogliere l’Assemblea nazionale e convocare il voto anticipato per fine giugno. Una mossa «coraggiosa» e animata da «spirito di responsabilità» a detta del filosofo Bernard-Henri Lévy, animatore negli scorsi giorni di un’iniziativa contro l’antisemitismo che ha avuto eco anche fuori dai confini francesi. Nel corso degli anni il Crif, il Consiglio rappresentativo degli ebrei di Francia, ha spesso puntato il dito contro l’estrema destra nelle sue varie declinazioni, da Marine Le Pen a Eric Zemmour. Nel primo commento a caldo dopo il voto, l’attenzione del suo presidente Yonathan Arfi è puntata innanzitutto su un partito populista di sinistra, La France insoumise (LFI) di Jean-Luc Mélenchon, che accusa di aver fatto dell’odio verso gli ebrei la cifra della sua campagna elettorale, molto focalizzata sui fatti di Gaza e sulla condanna senza appello di Israele. L’appello di Arfi al Partito socialista e a ogni altra forza di sinistra è a «rigettare» ogni possibile alleanza con LFI. Mentre sul Rassemblement National servirebbero «chiarimenti» su almeno quattro questioni, sottolinea il presidente del Crif, indicando tra le questioni dirimenti il contrasto all’islamismo, i rapporti con la Russia, le politiche sull’antisemitismo, le posizioni del partito sulla laicità dello Stato.
In Germania un quarto dei voti è andato a forze populiste. Il presidente del Consiglio centrale ebraico tedesco Josef Schuster si è detto «preoccupato», in particolare per il 15,9% conquistato nell’urna da Alternative für Deutschland, partito «con chiari riferimenti a idee estremiste di destra» e con alcuni dei suoi candidati di punta «con legami con regimi dittatoriali». È un’Europa sempre più precaria per i suoi cittadini ebrei, ammoniva alcuni giorni fa il presidente della Conferenza dei rabbini europei Pinchas Goldschmidt in un intervento per Politico intitolato “For Jews voting in Europe, there are no good choices”. Secondo Goldschmidt, gli ebrei sentono «di non poter più fare affidamento sulla presunta incarnazione tradizionale degli ideali della democrazia europea per sostenere la nostra sicurezza o il nostro destino». Nel quadro incerto del presente, «una cosa è chiara: teniamo al futuro dell’Europa e per il nostro posto al suo interno come minoranza, indipendentemente dal nostro voto e dai vincitori».
Gantz e Eisenkot si dimettono dal gabinetto di guerra. Che succede ora
di Ugo Volli
• L’annuncio delle dimissioni
In un colpo di scena da tempo annunciato, ieri sera si sono dimessi dal governo israeliano i due ministri senza portafoglio del partito di “Unità Nazionale” (HaMaḥane HaMamlakhti ) Benny Gantz e Gadi Eisenkot, ex capi di stato maggiore delle forze armate e membri del gabinetto di guerra. L’annuncio doveva essere fatto sabato sera, quando scadeva un ultimatum di Gantz a Netanyahu, ma è stato posposto a ieri in seguito alla liberazione degli ostaggi. L’appello di Netanyahu a non lasciare il governo in questo momento critico è rimasto inascoltato e le dimissioni sono state annunciate comunque, con la richiesta di far svolgere al più presto elezioni straordinarie. Il governo non cade per questo, perché conserva una maggioranza parlamentare di 64 seggi su 120, che nella politica israeliana è normale.
• Il quadro politico
Ganz e Eisenkot erano entrati nel governo qualche giorno dopo il 7 ottobre senza condividerne il programma generale, solo per partecipare allo sforzo bellico, secondo un modello tradizionale di unità nazionale. Altri leader, come Yair Lapid e Avigdor Liberman non erano entrati o avevano posto condizioni che Netanyahu aveva giudicato inaccettabili; ora approvano la decisione di “Unità nazionale” e la sua richiesta di elezioni, che pure in tempo di guerra sarebbero difficili da tenere e molto devastanti sul piano politico. Va detto che i sondaggi di tutti questi mesi avevano premiato lo spirito unitario di Gantz con una forte crescita che ne faceva virtualmente il primo partito, mentre Lapid arretrava (come del resto il Likud di Netanyahu). Questo capitale politico accumulato con una scelta giudicata dall’elettorato come patriottica e costruttiva ora probabilmente rischia di erodersi.
• Che cosa vuole Gantz
È difficile che la mossa di Gantz abbia effetti immediati sul piano parlamentare. È una presa di posizione politica e non un rovesciamento delle alleanze. Bisogna chiedersene dunque la ragione e gli effetti. Il piano di Gantz formulato a metà del mese scorso comprendeva sei punti. Quasi tutti erano condivisibili dalla maggioranza, come la liberazione degli ostaggi e la sconfitta di Hamas, ma il punto critico era la definizione di un assetto per Gaza dopo la guerra che escludesse immediatamente la presenza israeliana, secondo il progetto degli Usa. In sostanza, Gantz sosteneva il piano americano di trattative immediate con Hamas, cessate il fuoco con uscita dell’esercito israeliano da Gaza, amministrazione delle Striscia con coinvolgimento di forze arabe e palestinesi (auspicabilmente per l’amministrazione Biden una “Autorità Palestinese rinnovata”) e senza la presenza di forze israeliane, in cambio della normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita. Netanyahu ritiene invece che non si possa fermare la guerra ora se non per tregue momentanee allo scopo di scambiare i rapiti israeliani con detenuti terroristi e che non sia possibile prendere impegni così anticipati sullo stato di Gaza dopo la guerra, che secondo lui dovrà comunque essere controllata dall’esercito israeliano per un certo periodo.
• Pressioni americane
Le dimissioni di Gantz sono dunque la conseguenza delle crescenti tensioni fra il governo di Netanyahu deciso a continuare la guerra fino alla vittoria, e a mantenere il diritto di intervento a Gaza per evitare la riorganizzazione del terrorismo e l’amministrazione americana, il cui scopo (certamente dovuto alle necessità della propaganda elettorale, ma corrispondente anche a scelte ideologiche che risalgono ai tempi di Obama) è invece la cessazione veloce delle ostilità anche al costo di non eliminare completamente le forze e i dirigenti terroristi e il rafforzamento dell’Autorità Palestinese, benché corrotta e complice del terrorismo. È uno scontro grave, che rende difficili le relazioni fra i due paesi. Per fare solo un esempio, oggi è uscita sui giornali israeliani la notizia che, alla vigilia dell’ennesima visita del segretario di Stato Blinken, un alto funzionario dell’amministrazione Biden ha dichiarato a NBC News che l’operazione israeliana che ha salvato quattro ostaggi sabato probabilmente complicherà gli sforzi del Segretario di Stato per raggiungere un accordo di cessate il fuoco. Secondo il funzionario, il successo dell’operazione ha rafforzato la determinazione del primo ministro Netanyahu a continuare le operazioni militari, piuttosto che accettare un cessate il fuoco, rafforzando allo stesso tempo la posizione della leadership di Hamas.
• Il problema del rapporto con Biden
Insomma, probabilmente le dimissioni di Gantz vanno lette come una candidatura a formare in futuro un governo più vicino al progetto americano per il Medio Oriente. Il governo Netanyahu non si indebolisce sul piano interno, anzi probabilmente acquista compattezza e velocità di decisione, ma certamente sarà più esposto alle pressioni americane, che in questi mesi si sono anche tradotte in gesti molto gravi, come il rifiuto di consegnare i rifornimenti militari concordati e approvati dal Congresso. Questo è un tema molto grave e importante, non tanto per Gaza, dove Israele ha tutti i mezzi per proseguire la sua caccia ai terroristi e il lavoro per liberare gli ostaggi, ma per il conflitto con Hezbollah, che continua a crescere e ormai nei prossimi giorni rischia di diventare guerra di terra.
Gli ostaggi erano a casa di un noto giornalista che scriveva anche per Al Jaseera
Confermata la connessione tra Hamas e i giornalisti e tra Hamas e Al Jazeera.
Tre dei quattro ostaggi salvati dalle forze speciali nella Striscia di Gaza centrale durante il fine settimana erano detenuti nella casa di Abdallah Aljamal, giornalista palestinese e membro del gruppo terroristico di Hamas. Lo ha confermato domenica l’esercito israeliano.
Le voci erano circolate sui social media dopo che Ramy Abdu, capo dell’Euro-Med Human Rights Monitor, aveva affermato in un post su X che i soldati erano entrati nella casa degli Aljamal durante l’incursione di sabato a Nuseirat, uccidendo diversi membri della famiglia, tra cui Abdallah e suo padre, il dottor Ahmed Aljamal.
Abdu ha pubblicato un’immagine apparentemente proveniente dalla casa degli Aljamal accanto al suo post, anche se non ha menzionato la possibilità che vi fossero tenuti degli ostaggi.
Abdallah Aljamal è stato in precedenza portavoce del ministero del Lavoro di Hamas a Gaza e in passato ha collaborato con diverse testate giornalistiche.
Durante la guerra a Gaza, numerosi articoli di Aljamal sono stati pubblicati dal Palestine Chronicle, anche mentre gli ostaggi Almog Meir Jan, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv erano presumibilmente tenuti prigionieri nella sua casa. Il quarto ostaggio, Noa Argamani, è stata salvata da un edificio vicino durante l’operazione di sabato.
Le Forze di Difesa Israeliane, in un comunicato, hanno dichiarato di essere in grado di confermare, insieme all’agenzia di sicurezza Shin Bet, che Aljamal teneva i tre ostaggi nella sua casa di Nuseirat, insieme alla sua famiglia.
“Questa è un’ulteriore prova del fatto che l’organizzazione terroristica di Hamas usa la popolazione civile come scudo umano”, ha dichiarato l’esercito.
Aljamal ha scritto anche una rubrica per Al Jazeera nel 2019, suscitando voci che lo volevano corrispondente da Gaza per l’emittente qatariota – un’affermazione che ieri il network ha smentito con decisione.
Argamani, Meir Jan, Kozlov e Ziv erano stati rapiti dal festival musicale Supernova vicino alla comunità di Re’im la mattina del 7 ottobre, quando circa 3.000 terroristi guidati da Hamas uccisero 1.200 persone e presero 251 ostaggi in una furia omicida nel sud di Israele.
Gli agenti dell’unità antiterrorismo d’élite Yamam, insieme agli agenti dello Shin Bet, hanno fatto irruzione simultaneamente in due edifici a più piani nel cuore di Nuseirat, dove i quattro ostaggi erano tenuti in ostaggio da famiglie affiliate a Hamas e da guardie del gruppo terroristico, secondo quanto riferito dai militari.
L’ufficio stampa del governo di Hamas ha affermato che almeno 274 persone sono state uccise durante l’operazione, una cifra non verificata che non distingue tra combattenti e civili.
L’IDF ha riconosciuto di aver ucciso civili palestinesi durante i combattimenti, ma ha attribuito la colpa ad Hamas per aver tenuto degli ostaggi e aver combattuto in un ambiente civile densamente popolato. “Sappiamo di meno di 100 vittime [palestinesi]. Non so quanti di loro siano terroristi”, ha dichiarato sabato il portavoce dell’IDF Daniel Hagari.
Sì e no! L'Europa si sta spostando a destra! Cosa significa questo per Israele?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - In Germania, Francia, Italia, Polonia e persino in Spagna, i partiti di destra sono stati i grandi vincitori delle elezioni, poiché molti europei hanno votato per i partiti di destra a causa della crisi migratoria nel continente. Israele e le comunità ebraiche in Europa devono quindi avere paura o i partiti di destra dell'UE mostreranno maggiore comprensione per la politica mediorientale di Israele e la guerra contro Hamas? In che misura le relazioni dei partiti di destra europei con la Russia possono disturbare le relazioni con Israele?
In Israele si ritiene che "il prossimo Parlamento europeo sarà più favorevole a Israele". Tuttavia, non c'è consenso sul fatto che si tratti di un pericoloso spostamento a destra dei partiti di estrema destra o solo dei partiti di destra. Nei media israeliani di sinistra si parla di più di partiti di destra radicale in Europa, mentre le reti e i media religiosi di destra parlano di più di partiti di destra. Non dobbiamo dimenticare che anche Israele si è spostato sempre più a destra negli ultimi dieci anni, quindi c'è una sorta di simpatia nei confronti dei colleghi di destra dei Paesi europei. Dal punto di vista israeliano, una cosa è chiara: lo spostamento a destra in Europa era atteso da tempo, e la causa scatenante è l'immigrazione illimitata e incontrollata di musulmani dal Nord Africa e dal Medio Oriente. O si chiama le cose con il loro nome o ci si inganna.
Questa mattina, i titoli dei media israeliani sono questi:
"I radicali di destra governeranno l'Europa", secondo il sito ortodosso Kikar.
"L'Europa si sposta a destra: le drammatiche elezioni che stanno cambiando l'Unione", di N12.
"Terremoto in Europa. L'estrema destra ha guadagnato in modo drammatico in alcuni Paesi chiave", scrive il sito ortodosso Chadrei Chaderim.
"Risultati drammatici nelle elezioni del Parlamento europeo, un grande successo per la destra in diversi Paesi", secondo il canale televisivo di destra Now14.
"Sconvolgimento: vittoria dei partiti di destra alle elezioni europee", secondo il quotidiano israeliano Israel HaYom.
"Risultati storici per l'estrema destra in Europa: Macron scioglie l'Assemblea nazionale, il primo ministro belga si dimette", secondo il principale quotidiano israeliano Jediot Achronot e Ynet.
Per un'Europa che in passato era di sinistra e umana, non è facile ammettere che i migranti arabi e musulmani sono la causa del declino della sinistra e dei verdi. È una buona intenzione aiutare il prossimo in difficoltà, ma non ha nulla a che vedere con l'amore per il prossimo della Bibbia se il vicino o il migrante lo interpreta in modo diverso e si approfitta solo di chi lo ospita in Europa. Non solo, le crescenti manifestazioni pro-palestinesi nelle principali città europee hanno certamente esercitato una pressione sui governi che si è rivolta politicamente contro Israele. Con tutto il rispetto per i governi di sinistra in Europa e nel Parlamento dell'UE, di solito non sono stati schizzinosi nelle loro decisioni nei confronti di Israele. Quindi cosa ha da perdere Israele?
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sempre mantenuto buoni rapporti con i governi di destra in Europa nel corso degli anni, mentre il primo ministro ungherese Viktor Orban è un amico intimo di Bibi.
Naturalmente, la parola d'ordine "Europa di destra" è sempre foriera di un timore storico, che porta automaticamente con sé la paura di un crescente antisemitismo. Ma i governi di sinistra non sono stati migliori: l'antisemitismo ha imperversato in Europa anche sotto di loro. Il cosiddetto Occidente cristiano deve decidere se vuole essere un continente aperto a tutti o in primo luogo alle nazioni europee. Nelle discussioni in questo Paese si dice spesso che l'Europa è e resterà l'Europa e potrà fare ai musulmani quello che ha fatto agli ebrei o, come i crociati, ai musulmani. Ci sono anche altre voci che ritengono che questo sia meno vero oggi perché ci sono Paesi arabi e islamici che interverranno nel nostro tempo. Non è stato così con l'Olocausto e lo sterminio degli ebrei. L'Europa ha commesso un errore tattico aprendo le frontiere e accogliendo tutti, perché i migranti non vogliono più andarsene. E questo crea paura, e la paura spinge le persone a ripensare e a fare una scelta diversa.
È così che la maggioranza della popolazione israeliana vede la situazione in Europa. Gli israeliani lo capiscono perché Israele stesso è in costante conflitto con arabi, musulmani e palestinesi. Israele comprende la mentalità dei migranti arabi molto meglio degli europei e quindi anche il pericolo. Questo può non suonare piacevole alle orecchie europee, ma è proprio per questo che gli elettori di sinistra in Europa sono ora scioccati e rattristati. Quando i partiti di governo commettono errori a lungo termine, questo fa sempre il gioco dei loro avversari, la destra. È successo anche in Israele, come abbiamo visto con il fallimento degli accordi di Oslo con l'OLP. Un'idea giustificata dai partiti di sinistra del Paese, che alla fine ha portato a uno spostamento a destra della popolazione. I partiti di sinistra israeliani non hanno alcuna possibilità reale di formare una coalizione puramente di sinistra in questo momento.
Se in Europa i partiti di sinistra che si oppongono a Israele e sostengono uno Stato palestinese si indeboliscono, l'ascesa della destra potrebbe rallentare la tendenza, ma dipende anche da quanto questi partiti siano vicini alla Russia. Il rafforzamento della destra e dell'estrema destra nel Parlamento europeo aiuta Israele perché negli ultimi anni abbiamo visto che le risoluzioni contro Israele sono più difficili da approvare nel Parlamento europeo con una maggioranza di destra rispetto a quando in Europa prevale una maggioranza di centro-sinistra.
La sfida per Israele verrà dai partiti di estrema destra, non da quelli di destra. Da un lato vogliono abbracciare Israele, dall'altro Gerusalemme non vuole davvero questo abbraccio e vi si oppone. Non tutti questi partiti appartengono alla stessa piattaforma politica, né l'AfD di estrema destra in Germania né il partito di governo di destra di Geert Wilders, il Partito per la Libertà, nei Paesi Bassi. Israele deve esaminare ciascuno di questi partiti in relazione al loro rapporto con lo Stato di Israele.
In questo contesto, va detto che in Israele si discute spesso su quanto l'Alternativa per la Germania sia un partito di estrema destra o di destra. Anche nei circoli politici, i politici di destra del Paese vedono l'AfD come un partner legittimo in Germania, e io stesso conosco molti cittadini in Germania che votano per l'AfD e sono pienamente a favore di Israele. D'altra parte, anche i nazisti e i tedeschi estremisti di destra votano per questo partito e questo naturalmente spaventa.
Ma ad essere onesti, i risultati delle elezioni in Europa sono una buona notizia per Israele in un momento in cui l'Europa sta toccando il fondo. Un politico israeliano ha dichiarato ieri sera a Israel Today: "Il rafforzamento della destra in Europa è positivo per Israele, ma soprattutto la sinistra non potrà più sostenere azioni anti-israeliane contro di noi. Il rafforzamento della destra in Europa è una conseguenza della crescente resistenza all'immigrazione degli arabi e del loro crescente potere nei Paesi europei. Qualche mese fa, abbiamo visto un segnale di svolta in Europa con la vittoria elettorale di Geert Wilders nei Paesi Bassi. Si prevede che il prossimo Parlamento europeo sarà più favorevole a Israele. Questo è possibile, ma Israele deve fare attenzione.
(Israel Heute, 10 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Spagna – Rav P.P. Punturello «È venuto il momento di farsi sentire»
A fine maggio il governo spagnolo, insieme a quelli di Norvegia e Irlanda, ha formalmente riconosciuto lo Stato palestinese. Una mossa «storica» per avvicinare la pace in Medio Oriente, ha sostenuto il capo del governo di Madrid Pedro Sanchez. Un «premio» per i terroristi di Hamas, ha replicato Israele contestando l’iniziativa unilaterale dei tre paesi. «Per anni gli ebrei spagnoli si sono cullati nella speranza che l’agio economico della società in cui vivono avrebbe garantito loro una relativa sicurezza. Oggi questa illusoria certezza è crollata e per la prima volta si trovano nella condizione di dover fare qualcosa per tutelare loro stessi e i loro valori», spiega il rabbino Pierpaolo Pinhas Punturello, direttore degli studi ebraici del Centro Ibn Gabirol – Colegio Estrella Toledano di Madrid. «Non è semplice, perché in Spagna non c’è l’abitudine di ‘scendere in piazza’, di alzare la voce con la politica. Ci si illude che tutto un giorno passerà da sé, ma non è così. Serve un cambio di mentalità. È quello che cerco di trasmettere il più possibile ai miei studenti».
Già rabbino della sua Napoli, Punturello vive a Madrid dal 2018. «Un altro mondo, un’altra mentalità. Lo spagnolo medio fa fatica a comprendere il valore dello scendere in piazza. L’ebreo spagnolo ancora di più, perché già costretto a ‘nascondersi’ sotto la dittatura di Franco in quanto cittadino non cattolico. È un problema culturale di cui si avverte oggi tutta la vastità. Perché senz’altro l’antisemitismo e l’antisionismo mi preoccupano, ma questa mentalità mi inquieta ancora di più». Non è forse un caso che il comparto educativo dell’istituto «sia in mano quasi esclusivamente a persone non spagnole, ma piuttosto a israeliani, argentini, educatori originari del Marocco francese: lo sforzo è di dare ai ragazzi una coscienza ebraica del proprio valore, dell’essere presenti nello spazio pubblico; c’è una cultura del dibattito da insegnare loro dalle fondamenta, affinché possa lasciare un segno». Un discorso che vale sempre, in ogni contesto, «ma ancora di più oggi», afferma rav Punturello. In un momento cioè in cui il risentimento verso Israele e l’ebraismo si fa sempre più forte, «sdoganato anche da iniziative come quella del governo Sanchez, anche se per fortuna abbiamo anche buoni amici in politica: ad esempio la governatrice della regione di Madrid, che poche settimane fa ha assegnato alla comunità ebraica un premio per la resilienza e il contributo culturale».
E tuttavia il clima è sempre più teso: il rav ne sa qualcosa in prima persona. «All’incirca un mese fa a mia figlia hanno sputato in faccia mentre stava entrando all’università; è stato uno degli studenti propal accampati all’esterno dell’ateneo, in una delle tante ‘acampade’ di cui si sente parlare in questo periodo, insofferente alla vista della stella di Davide e della spilla gialla per gli ostaggi da lei indossate». Un contesto intimidatorio non solo in ambito universitario «davanti al quale non penso sia giusto tenere un profilo basso come alcuni suggeriscono; occorre al contrario reagire e farsi sentire, anche a livello politico».
Beato l'uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi,
che non si ferma nella via dei peccatori;
né si siede sul banco degli schernitori;
ma il cui diletto è nella legge dell'Eterno,
e su quella legge medita giorno e notte.
Egli sarà come un albero piantato presso a rivi d'acqua,
il quale dà il suo frutto nella sua stagione,
e la cui fronda non appassisce;
e tutto quello che fa, prospererà.
Non così gli empi;
anzi sono come pula che il vento porta via.
Perciò gli empi non reggeranno davanti al giudizio,
né i peccatori nell'assemblea dei giusti.
Poiché l'Eterno conosce la via dei giusti,
ma la via degli empi conduce alla rovina.
SALMO 2
Perché questo tumulto fra le nazioni,
e perché i popoli meditano cose vane?
I re della terra si ritrovano
e i prìncipi si consigliano insieme
contro l'Eterno e contro il suo Unto, dicendo:
“Spezziamo i loro legami
e gettiamo via da noi le loro funi”.
Colui che siede nei cieli ne riderà;
il Signore si befferà di loro.
Allora parlerà loro nella sua ira,
e nel suo furore li renderà smarriti:
“Eppure”, dirà, “io ho stabilito il mio re
sopra Sion, il mio monte santo.
Io annuncerò il decreto”.
L'Eterno mi disse: “Tu sei mio figlio,
oggi io ti ho generato.
Chiedimi, io ti darò le nazioni come tua eredità
e le estremità della terra per tuo possesso.
Tu le spezzerai con uno scettro di ferro;
tu le frantumerai come un vaso di vasellaio”.
Ora dunque, o re, siate saggi;
lasciatevi correggere, o giudici della terra.
Servite l'Eterno con timore,
e gioite con tremore.
Rendete omaggio al figlio, che talora l'Eterno non si adiri
e voi non periate nella vostra via,
perché d'un tratto l'ira sua può divampare.
Beati tutti quelli che confidano in lui!
ISAIA 28
Voi dite: “Noi abbiamo fatto alleanza con la morte, abbiamo stabilito un patto con il soggiorno dei morti; quando l'inondante flagello passerà, non giungerà fino a noi, perché abbiamo fatto della menzogna il nostro rifugio e ci siamo messi al sicuro dietro la frode”.
Perciò così parla il Signore, l'Eterno: “Ecco, io ho posto come fondamento in Sion una pietra, una pietra provata, una pietra angolare preziosa, un fondamento solido; chi confiderà in essa non avrà fretta di fuggire.
Io prenderò il diritto come livella e la giustizia come piombino; la grandine spazzerà via il rifugio di menzogna e le acque inonderanno il vostro riparo.
La vostra alleanza con la morte sarà annullata, e il vostro patto con il soggiorno dei morti non reggerà; quando l'inondante flagello passerà voi sarete calpestati da esso.
Ogni volta che passerà, vi afferrerà: poiché passerà mattina dopo mattina, di giorno e di notte; sarà spaventoso imparare una tale lezione!
Poiché il letto sarà troppo corto per sdraiarsi e la coperta troppo stretta per avvolgersi.
ATTI 4
E dissero: “Signore, tu sei colui che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che sono in essi;
colui che mediante lo Spirito Santo, per bocca del padre nostro e tuo servitore Davide, ha detto:
'Perché si sono adirate le genti, e i popoli hanno tramato cose vane?
I re della terra si sono fatti avanti, e i prìncipi si sono riuniti insieme contro il Signore, e contro il suo Unto'.
Proprio in questa città, contro il tuo santo servitore Gesù, che tu hai unto, si sono radunati Erode e Ponzio Pilato, insieme con i Gentili e con tutto il popolo d'Israele,
per fare tutte le cose che la tua volontà e il tuo consiglio avevano prestabilito che avvenissero.
ATTI 13
E noi vi annunciamo la buona notizia che, la promessa fatta ai padri,
Dio l'ha adempiuta per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche è scritto nel salmo secondo:
'Tu sei mio Figlio, oggi io t'ho generato'.
ROMANI 1
Paolo, servo di Cristo Gesù, chiamato a essere apostolo, appartato per l'evangelo di Dio,
che egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture
e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne,
dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la sua risurrezione dai morti, cioè Gesù Cristo nostro Signore.
LUCA 7
Ed ecco, una donna che era in quella città, una peccatrice, saputo che egli era a tavola in casa del fariseo, portò un vaso di alabastro pieno di olio profumato;
e, stando ai suoi piedi, di dietro, piangendo cominciò a rigargli di lacrime i piedi e li asciugava con i suoi capelli; e gli baciava e ribaciava i piedi e li ungeva con l'olio.
“L’Idf minaccia i bimbi”: la lista nera di Guterres fa infuriare Israele
Netanyahu: “È un incoraggiamento al terrorismo di Hamas”. Gantz pronto a lasciare il governo
di Paolo Brera
Le forze armate israeliane entrano ufficialmente nella lista nera dell’Onu per i Paesi e le organizzazioni che minacciano i bambini: una lista del terrore in cui l’Idf, espressione dell’unica democrazia presente, sarà in pessima compagnia con l’Isis e al-Qaeda, Boko Haram e Paesi come Afghanistan e Russia, Iraq e Myanmar, Somalia, Yemen e Siria.
L’annuncio lo ha dato ieri l’ambasciatore israeliano all’Onu, Gilad Erdan, pubblicando sui social la sua indignazione subito dopo aver ricevuto «la notifica ufficiale sulla decisione da parte del Segretario generale» dell’Onu, Antonio Guterres. «È semplicemente oltraggioso e sbagliato — ha twittato — perché Hamas usa scuole e ospedali come strutture militari. Il nostro esercito è il più etico al mondo. L’unico a finire in lista nera è Guterres, che incentiva e incoraggia il terrorismo motivato dall’odio per Israele. Dovrebbe vergognarsi».
Non meno indignati sono gli uffici dello stesso Segretario generale dell’Onu, che avevano anticipato la decisione all’ambasciatore come atto di cortesia, come si fa di consuetudine. Sarebbe stata poi annunciata ufficialmente il 18 giugno: la pubblicazione annuale sugli eventi del 2023, di cui è un allegato, verrà portata nel Consiglio di sicurezza il 26 giugno. Spetta al segretario generale dell’Onu identificare «chi non ha messo in atto misure per migliorare la protezione dei bambini»: nella lista saranno iscritti anche Hamas e la Jihad islamica.
La reazione di Israele è ovviamente furente: «Oggi l’Onu ha aggiunto se stessa alla lista nera della Storia unendosi a chi supporta gli assassini di Hamas», ha detto il premier Benjamin Netanyahu. Il ministro degli Esteri Israel Katz parla di «atto cialtronesco che avrà conseguenze sulle relazioni con l’Onu». Ed è d’accordo con loro persino il leader centrista e ministro del Gabinetto di guerra Benny Gantz, che proprio oggi dovrebbe dimettersi dal governo: lo aveva annunciato il 18 maggio lanciando un ultimatum a Netanyahu perché cambiasse strategia a Gaza, dove «sta trascinando il Paese nell’abisso».
La decisione dell’Onu, dice ora Ganz, è «un nuovo minimo storico» in antisemitismo in cui «traccia spudoratamente false equivalenze tra Israele e Isis». Ma non è chiaro se basterà a rinsaldare le fila del governo, evitando una crisi che sbilancerebbe ancora più a destra l’esecutivo. La maggioranza resterebbe solida, ma altri mal di pancia come quelli dello stesso ministro della Difesa, Yoav Gallant, minacciano guai.
La decisione dell’Onu arriva dopo gli arresti chiesti dalla Cpi e l’accusa di genocidio avanzata da Sudafrica e Spagna presso la Corte di giustizia, e può avere nuove ripercussioni su partner e accordi militari. Nulla sembra però fermare gli attacchi quotidiani delle forze israeliane: all’indomani della strage nella scuola gestita dall’Unrwa nel campo profughi di Nuseirat — dove decine di video mostrano bambini fatti a pezzi dalle bombe, ma per la quale l’Idf assicura di avere colpito con precisione una base di Hamas e mostra una lista con otto miliziani uccisi — ieri è stata colpita l’area di un’altra scuola dell’Unrwa nella Striscia, uccidendo tre persone.
In questo clima difficilissimo inizia l’ottava missione del segretario di Stato Usa Antony Blinken: da lunedì torna in Israele, al Cairo e a Doha per tentare di chiudere l’accordo sulla bozza presentata dal presidente Joe Biden. Hamas non ha ancora risposto.
Scade l’ultimatum a Netanyahu. Gantz verso l’uscita dal governo. E si avvicina il conflitto con il Libano
Il leader centrista vuole le elezioni. L’ultradestra è pronta a subentrare e a dichiarare guerra a Hezbollah. L’Onu mette Israele nella lista nera: non rispetta i bambini. La replica: Nazioni Unite vicine ai terroristi.
di Aldo Baquis
Da otto mesi l’esercito israeliano manovra a Gaza, e i dirigenti militari di Hamas non sono ancora in ginocchio: continuano anzi a lanciare attacchi, a detenere oltre 120 ostaggi israeliani e a tergiversare nelle trattative per la fine dei combattimenti. In questo contesto problematico rischia adesso di spaccarsi il gabinetto di guerra di Israele, impegnato nel conflitto più lungo dalla guerra di Indipendenza del 1948. Dopo aver fissato la data dell’8 giugno come scadenza per l’uscita dal governo di emergenza, il leader centrista Benny Gantz ha preannunciato per stasera un annuncio alla nazione. Con lui lascerebbe il gabinetto di guerra anche il compagno di partito Gady Eisenkot, a sua volta ex capo di Stato maggiore. Dopo le dichiarazioni di Gantz, anche Benyamin Netanyahu parlerà al Paese.
Queste divergenze profonde e insanabili – relative alla conduzione dei combattimenti e alla visione politica per il futuro di Gaza al termine della guerra – giungono mentre lo status internazionale di Israele ha toccato ieri un nuovo minimo storico. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha incluso Israele nella ‘lista nera’ di quanti, in condizioni di guerra, si astengono dal prendere misure necessarie per la difesa dei bambini. La lista include la Russia di Putin, al-Qaeda e lo Stato islamico.
"L’Onu ha inserito sé stessa nella ‘lista nera’ della Storia essendosi associata ai sostenitori degli assassini di Hamas" ha replicato Netanyahu. "Il nostro è l’esercito più morale al mondo. Nessuna decisione delirante dell’Onu può alterare questo dato di fatto". Anche ieri familiari di ostaggi hanno lanciato appelli in extremis a Gantz affinché non abbandoni il governo. Ma Gantz ed Eisenkot ritengono di non riuscire più ad influenzare le decisioni. Lodano l’esercito per i successi tattici raggiunti sul terreno ma lamentano che non siano stati tradotti in un successo strategico. Ciò sarebbe invece possibile, secondo loro, se Israele assecondasse Joe Biden ed Antony Blinken, che lunedì torna in Israele.
Il partito di Gantz invoca dunque elezioni anticipate. Ma anche senza il suo sostegno Netanyahu mantiene alla Knesset una solida maggioranza di 64 deputati su 120. Questi sviluppi sono già accolti con soddisfazione da due ministri di estrema destra, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Da tempo reclamano l’ingresso nel gabinetto di guerra accanto a due altri ministri del Likud (Yoav Gallant e Ron Dermer). Il momento è reso particolarmente delicato dall’aggravarsi della situazione al confine col Libano dove mesi di bombardamenti degli Hezbollah hanno seminato distruzione e costretto alla fuga 60mila israeliani. "Dobbiamo ingaggiare la guerra con gli Hezbollah –, ha affermato Smotrich –. Dobbiamo piegarli, distruggerli, consentire ai nostri eroici combattenti di trionfare, di recuperare il nostro orgoglio nazionale". "Bruceremo tutte le postazioni degli Hezbollah" ha convenuto Ben Gvir.
Ma la prospettiva della apertura di un secondo conflitto (nel crescente isolamento diplomatico di Israele) desta inquietudine nei vertici militari. Dal 7 ottobre l’esercito a Gaza ha avuto 650 caduti e migliaia di feriti. Le forze di leva sono stanche, e nelle unita’ dei riservisti si avverte lo stress familiare dopo mesi di combattimenti. Inoltre Israele non è ancora riuscito a ricevere 3500 bombe ad alta precisione bloccate negli Stati Uniti per un riesame. A ciò si uniscono le preoccupazioni per le capacita’ offensive degli Hezbollah contro le città israeliane.
Ieri, a Ventimiglia è stato presentato il libro di David Elber, collaboratore fisso de L’Informale, “Il diritto di sovranità in terra di Israele” (Salomone Belforte Editore, 2024), durante il quale un gruppo agguerrito di contestatori ha cercato, senza successo, di impedire lo svolgimento dell’evento. Qui di seguito, il resoconto di quanto è accaduto. Se c’è un contesto in cui si rivela il disorientamento del popolo che occupa le università italiane con slogan su un conflitto di cui sanno ben poco, sono i luoghi di confronto. Se all’interno di una piazza con i militari schierati la tentazione di contrapporsi fisicamente alla polizia o all’avversario può apparire persino ragionevole per chi è in età di tempeste ormonali, utilizzare lo stesso registro comunicativo gridando al fascismo, al regime, al razzismo in una circostanza in cui il confronto tra posizioni diverse non sarebbe solo possibile, ma anche auspicabile, il cortocircuito si manifesta in tutta la sua grottesca evidenza. Ma andiamo per ordine. Siamo alla fine di una 3 giorni tra Liguria e Principato di Monaco dedicata all’informazione su Israele promossa da Maria Teresa Anfossi, presidente dell’Associazione Italia Israele di Ventimiglia. In agenda la presentazione di David Elber, storico, ricercatore, autore e brillante divulgatore che parlerà di diritto internazionale, requisito fondamentale per orientarsi in ogni discussione che inevitabilmente affronta i temi della sovranità, della terra e dello status di Gaza e dei territori contesi. Sullo sfondo c’è la Biblioteca Aprosiana di Piazza Bassi, nel centro di Ventimiglia, che questi giorni appare più bella che mai, baciata dalla bella stagione. Lo spazio è stato concesso dal sindaco Di Muro, seguendo una prassi che va oltre la cortesia istituzionale e che il nutrito gruppo di forze dell’ordine a presidiare l’entrata evidenzia. La richiesta della concessione di uno spazio che tocca i temi del conflitto non è solo un atto formale – e che i ringraziamenti in apertura sottolineano come non si dia per scontato – piuttosto si tratta di una meritevole scelta di campo, quella che contrappone legalità e dialogo al tentativo di una lettura a senso unico della guerra a Gaza e che rende in questi mesi un atto eroico anche il solo parlare di ebraismo e conflitto arabo-israeliano. La Resistenza, tema di cui una parte della società si è appropriata indebitamente, oggi è quella di chi mette gli spazi a disposizione di un evento potenzialmente in grado di richiamare frotte di facinorosi. Il coraggio sta dalla parte di chi decide di farsi quattrocento chilometri consapevoli che un pugno di fluidissimi figli di papà in un pomeriggio di giugno decida di combattere la noia cercando di venderci che lo fa per carità verso i palestinesi e amore della libertà e si possa sabotare un evento, tradendo il loro disinteresse per l’una e per l’altra causa. Alle 16 tutto è pronto per cominciare, quando tra il pubblico, oltre gli interessati al libro e alle parole di Elber cominciano ad occupare i posti in sala un gruppo nutrito di giovani, troppo numerosi, troppo colorati e troppo ben distribuiti per non apparire come l’alba di un’azione di disturbo coordinata. I relatori, tra i quali il sottoscritto, che ha il compito di introdurre l’incontro e l’editore Guido Guastalla non si scompongono anzi plaudendo alla partecipazione di così tanti giovani in un contesto in cui raramente si vede tanta partecipazione. Decido quindi di introdurre l’autore parlando della difficoltà di orientarsi basando la conoscenza solo sulle piattaforme digitali, portando esperienza diretta di dialogo e convivenza incoraggiando le nuove generazione al pensiero critico e all’imprescindibile studio condotto sui libri, perché l’elaborazione di una posizione – qualunque posizione si decida di avere sul conflitto – non può essere figlia di scorciatoie o regolata dall’esposizione di una qualunque narrativa suggerita dagli algoritmi dei nuovi media. Ma i ragazzi non sono attratti dal confronto né si dimostrano interessati al rispetto delle regole che assegna degli spazi a chi vuol fare domande e la pazienza di ascoltare le risposte. A nulla valgono i tentativi di spiegare la complessità dell’orientarsi in un epoca di bulimia informativa, dove farsi un idea ragionata del conflitto è già un atto sovversivo. Ma i gustatori non sono lì per ascoltare. Hanno consegne ben precise e non attendono nemmeno di un pretesto per esplodere. Con proclami scritti sugli schermi degli smartphone e recitati a memoria – come a ricordarci che oggi il problema passa principalmente per queste finestre digitali – Scattano in piedi a turno urlando slogan, impedendo ai relatori di intervenire. Il loro intento è quello di impedire lo svolgimento dell’incontro. Non hanno gli strumenti culturali per apprezzare dell’opportunità di beneficiare dell’esposizione nei pochissimi luoghi dedicati al bilanciamento dell’informazione su Israele. Vogliono prendersi tutti gli spazi e relegare in soffitta persino l’equidistanza ipocrita mostrata a piene mani prima del 7 ottobre: sono per il pensiero unico, per la tesi preconfezionata “Israele stato illegittimo e assassino”, la stessa propugnata dall’oscurantismo radicale. Sarebbe stato molto facile sbattergli in faccia che conciati come sono a Gaza molti di loro avrebbero fatto la fine degli israeliani linciati dalla folla. Ma a nulla valgono le parole nell’epoca della post-verità, della pietà a senso unico, dell’indignazione eterodiretta. Questi ragazzi sono un inconsapevole strumento di propaganda del quinto dominio, quella psychological warfare utilizzata da Hamas e dalle dittature che lo sostengono. Ma si illudono di combattere per loro stessi. Nella loro follia iconoclasta si abbattono non solo su tutto ciò che “israeliano” ma anche su ciò che è ebraico, confermando la sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo, se mai ci fosse ancora qualcuno che volesse distinguerle. Si appropriano di citazioni false di Primo Levi, fanno parallelismi con Auschwitz, parlano di lager a cielo aperto, di genocidio. Tutte parole ben scelte perché la vera lotta dell’asse Iran-Hezbollah-Hamas non è per la conquista di un fazzoletto di terra – militarmente impossibile da conseguire – ma per un bottino in grado di regalare ben più soddisfazione: le menti dei giovani occidentali, più facili da conquistare vista la loro ingenuità e autolesionismo. Le parole e i cartelli che si portano dietro – insieme alla sola bandiera palestinese che tradisce il superamento dell’anacronistico “due popoli due stati” – risuonano artefatte come le grafiche dell’intelligenza senza artificiale che ottengono decine di milioni di condivisioni grazie ad una nuova forma di antisemitismo. È quella che procede per imitazione, quella dell’aggregazione compulsiva alla scia di proteste ordite a tavolino dai nipotini del KGB che dalla guerra fredda hanno aggiornato i manuali investendo enormi capitali opachi nello sfruttamento della rete e dell’intelligenza artificiale. L’esposizione dell’autore continua, salvata dal provvidenziale intervento degli agenti della Digos che rimuovono uno ad uno i guastatori mentre si rivelano, urlando frasi scritte sugli smartphone e invitati a scattare in piedi grazie ad una regia che gli impone ordini su whatsapp. Le parole di David Elber sono uno strumento fondamentale per capire le basi del conflitto, se qualcuno di loro avesse la bontà di ascoltarle. L’incontro si conclude con gli organizzatori costretti ad uscire – inseguiti – da una porta sul retro, mentre nella piazza sottostante spuntano ancora più cartelli e megafoni nelle mani di contestatori venuti da Imperia, da Genova, da Milano. Senza timore di offendere l’autore, la vera lezione oggi è venuta dal comportamento delle forze dell’ordine, sempre più indispensabili a difesa dei pochi spazi di (potenziale) autentico confronto e dallo studio sociologico di un evento che rappresenta l’ennesimo esempio di quello che ci aspetta nel prossimo futuro. L’”Italia in miniatura” non è a Rimini, ma a Ventimiglia, oggi. Gli ingredienti ci sono tutti. Contestatori, forze dell’ordine aggredite, “cattivi maestri” a distanza, contorno ipocrita di claque che applaude con volti, occhi, parole sguaiate, che tradisce la religione dell’odio che li anima e con la quale, purtroppo, dovremo convivere per molto.
I Radiohead nel mirino degli odiatori che vogliono eliminare gli ebrei ovunque vivano
“Vi spiego perché i boicottatori che demonizzano israeliani ed ebrei non mi faranno vergognare d'essere un'ebrea israeliana"
Poiché sono stata trascinata nella mischia (accusata addirittura di essere pro-guerra) con il reportage dal Guardian su mio marito Jonny Greenwood, dei Radiohead, che difende la decisione di continuare ad esibirsi con il musicista israeliano Dudu Tassa, ho deciso di scrivere della mia esperienza.
Tanto per cominciare, per togliere ogni dubbio: sono per la pace. Non dovrebbe essere necessario dirlo, eppure siamo a questo.
Sono figlia di ebrei egiziani e iracheni, nipote di un ebreo nato a Giaffa, nel 1912, epoca in cui molti ebrei vivevano a Giaffa insieme a musulmani e cristiani.
Sono passati 243 giorni da quando mi sono svegliata con la sconvolgente notizia che molte centinaia di ebrei erano stati massacrati nelle loro case, violentati e uccisi durante un festival musicale, e centinaia rapiti a Gaza da Hamas. Ho appreso che è andata avanti per ore senza soste. Senza pietà. Vecchi, donne, bambini, neonati fucilati, alcuni addirittura bruciati vivi da aggressori giubilanti....
I combattimenti delle ultime settimane sono stati i più sanguinosi dall’inizio del conflitto e le trattative per il cessate il fuoco a Gaza proseguono a rilento.
di Federico Bosco
Le trattative per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza procedono a rilento: il piano proposto dagli Stati Uniti si è incagliato di fronte all’indisponibilità di Hamas nell’accettare un accordo che non preveda la tregua permanente e il totale ritiro dell’esercito israeliano (Idf), una condizione inaccettabile per Israele. Nel frattempo nell’enclave palestinese i combattimenti si stanno intensificando, anche in zone che l’Idf aveva detto di aver messo in sicurezza.
Da settimane i soldati israeliani sono tornati a combattere a Jabalia, nella zona Nord di Gaza, e negli ultimi giorni sono in corso durissimi scontri a Bureij, nella zona centrale: due quadranti della Striscia separati dal cosiddetto ‘corridoio di Netzarim’, l’insediamento dell’Idf che ha lo scopo di rafforzare il controllo militare sull’enclave dividendola in due blocchi. Nella notte di mercoledì l’aviazione israeliana (Iaf) ha bombardato una scuola dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) a Nuseirat, molto vicino a Bureij, dicendo che all’interno vi si trovava una base di Hamas.
Secondo gli analisti militari la presenza di Hamas nella parte centrale e settentrionale della Striscia è ancora massiccia e gli scontri di Jabalia e Bureij rivelano la capacità dell’organizzazione di riemergere in zone da cui era stata costretta a ritirarsi. Attualmente potrebbero esserci più miliziani di Hamas a Gaza Nord che a Rafah, la città meridionale al confine con l’Egitto descritta da Tel Aviv come «l’ultima roccaforte» dell’organizzazione dove si troverebbero «i quattro battaglioni rimasti» e il leader Yahya Sinwar.
I combattimenti delle ultime settimane sono stati descritti come i più violenti dall’inizio del conflitto. Gli ufficiali dell’Idf hanno detto ai cronisti che le milizie adottano tattiche di contro-guerriglia organizzando imboscate e agguati con armi leggere e lanciarazzi a spalla. Una minaccia asimmetrica che può trascinare Israele in un’estenuante guerra di logoramento ancora per molti mesi o addirittura negli anni a venire.
Hamas non si sta limitando a far riemergere gli uomini del suo braccio armato. Pur mantenendo un basso profilo per non farsi colpire con attacchi mirati, l’organizzazione sta cercando di riaffermare la sua autorità sulla vita civile di Gaza. I residenti di Jabalia hanno raccontato di aver visto i funzionari di Hamas pattugliare i mercati, imporre controlli sui prezzi dei beni essenziali e organizzare la distribuzione dei pochi aiuti umanitari che entrano nell’enclave. «Questo non è un governo ombra, tutt’altro. C’è una sola autorità dominante e prominente a Gaza ed è Hamas. I suoi leader si sono adattati alla nuova situazione e stanno preparando le prossime mosse» ha detto al “Guardian” Michael Milstein, analista del think tank israeliano Moshe Dayan Center.
L’organizzazione non può dichiarare vittoria di fronte alla distruzione della Striscia causata dagli attentati del 7 ottobre, tuttavia non ha intenzione di arrendersi o abbandonare la lotta armata, consapevole di poter reclutare nuovi miliziani fra la popolazione palestinese disperata. La resilienza di Hamas è una minaccia non soltanto per le trattative di un cessate il fuoco, ma anche per la possibilità di progettare una ricostruzione efficace e un futuro diverso per la governance di Gaza, che dopo sette mesi di guerra sembra condannata a restare – in un modo o nell’altro – il regno di Hamas.
Gordin: Israele ha completato i preparativi per un confronto con Hezbollah
"La settimana scorsa abbiamo completato i preparativi per un attacco nel nord".
Israele ha completato i preparativi per un confronto con Hezbollah. Lo ha detto il capo dell’Idf, il maggiore generale Ori Gordin.
Secondo Ynet, citando fonti israeliane, Gordin ha parlato ad una cerimonia che celebra i 18 anni dalla seconda guerra del Libano.
" L’esercito è pronto ad affrontare ancora una volta Hezbollah. La settimana scorsa abbiamo completato i preparativi per un attacco nel nord" ha detto e aggiunto "I soldati sono addestrati e determinati. Sono sicuro che saranno in grado di affrontare qualsiasi compito contro Hezbollah. Siamo preparati e pronti, e quando riceveremo l’ordine, il nemico incontrerà un esercito forte e pronto”.
"Non ci fermeremo nemmeno per un momento. Continueremo a combattere usando forza e intelligenza fino a quando la missione non sarà completata. La missione è portare sicurezza al nord. L'esercito israeliano ha combattuto contro gli elementi armati di Hezbollah ogni giorno e ogni notte negli ultimi 8 mesi”.
Israele, che continua i suoi attacchi alla Striscia di Gaza dal 7 ottobre, è in conflitto anche al confine nord con Hezbollah libanese.
In questi scontri, è stato riferito che 325 membri di Hezbollah, 65 civili libanesi, 19 membri del Movimento Amal, 13 di Hamas, 15 della Jihad Islamica e 14 soldati israeliani e 10 civili israeliani sono stati uccisi.
(TRT italiano, 7 giugno 2024)
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Israele è pronto alla inevitabile guerra con Hezbollah
Il momento che tutti temevano sembra arrivato
di Maurizia De Groot Vos
Sin dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele ha previsto l’apertura del secondo fronte. Negli ultimi otto mesi, ogni giorno il gruppo terrorista Hezbollah, legato all’Iran, ha provocato scontri a fuoco con le forze israeliane lungo il confine tra Libano e Israele.
Finora, decine di migliaia di civili sono stati sfollati dal nord di Israele e dal sud del Libano, con dieci cittadini israeliani, 15 soldati e almeno 400 libanesi uccisi finora. Ma dati i numeri di Gaza, questi livelli relativamente bassi di vittime non hanno attirato molta attenzione.
La violenza degli ultimi giorni, tuttavia, suggerisce che la situazione sta per cambiare. Lunedì, missili e droni di Hezbollah hanno scatenato vasti incendi nei campi di Galilea, ormai secchi, e mercoledì dieci israeliani sono stati feriti e un altro ucciso in un attacco di droni sulla città settentrionale di Hurfeish.
Durante una visita a Kiryat Shmona, che dal 7 ottobre è stata regolarmente colpita dai missili di Hezbollah, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha assicurato i residenti locali che Israele “non se ne starà con le mani in mano” in risposta a questi ultimi attacchi.
Sono stati richiamati altri 50.000 riservisti e le notifiche di dispiegamento sono in corso in tutto Israele. Il capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), Herzi Halevi, ha recentemente annunciato: “Ci stiamo avvicinando al punto in cui si dovrà prendere una decisione, e l’esercito israeliano è preparato e molto pronto per questa decisione”. Sembra che un’altra guerra sia imminente.
Gli Hezbollah sono avversari più temibili di Hamas, sia in termini di calcolo strategico che di materiale. Hanno accumulato un vasto arsenale: alcuni stimano che il suo stock di razzi sia di quasi 150.000 unità, compresi i missili balistici. Avranno passato gli ultimi otto mesi a riflettere attentamente sulle loro opzioni e sul loro piano d’azione nel caso di un attacco israeliano su larga scala.
Un tale conflitto sarebbe una cosa molto diversa dalla guerra di Gaza. Per cominciare, mentre qualsiasi attacco infliggerebbe danni immensi al Libano meridionale, i comandanti dell’IDF sono altrettanto consapevoli che il tasso di vittime relativamente basso dal 7 ottobre ad oggi sarebbe difficile da mantenere in qualsiasi guerra con Hezbollah.
Ci sono anche considerazioni politiche riguardo alla popolazione locale: tra gli abitanti ebrei del nord di Israele (l’area ospita anche un gran numero di israeliani arabi e drusi), molti sono naturali sostenitori di Netanyahu e del suo partito Likud.
Nella sua visita a Kiryat Shmona, mercoledì, Netanyahu ha evitato di incontrare il sindaco locale Avichai Stern, che ha criticato l’inazione del Primo Ministro nel nord del Paese nonostante sia un membro del Likud. Decine di migliaia di residenti del nord – che hanno trascorso gli ultimi otto mesi come rifugiati interni – hanno fatto pressione sul governo per rendere l’area sicura in modo da poter tornare a casa. Molti si lamentano di essere stati di fatto abbandonati da Netanyahu e insistono sulla necessità di trovare una qualche soluzione entro settembre, quando inizierà l’anno scolastico.
A un recente forum per discutere l’impatto di otto mesi di dislocazione sull’economia e sulle imprese del nord, non un solo membro della Knesset si è preoccupato di partecipare. “Lo Stato di Israele si sta staccando da noi”, ha detto il sindaco della città settentrionale di Margaliot, Eitan Davidi, in un’intervista radiofonica: Non abbiamo bisogno di separarci, perché il governo lo ha già fatto per noi”. I cittadini qui sono attualmente più esposti dell’esercito”.
La situazione nel nord ha esacerbato anche la crescente spaccatura tra i conservatori mainstream e i politici di estrema destra come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che i primi accusano di essere ossessionati da Gaza e dalla Cisgiordania a scapito del territorio israeliano vero e proprio.
Ciò ha incoraggiato gli israeliani di destra e centristi a diventare più favorevoli alla fine della guerra contro Hamas, in modo che l’esercito possa concentrarsi completamente sulla difesa del nord.
Tuttavia, in questo momento, senza che si intraveda la fine della guerra a Gaza, Israele sembra pronto a un’altra battaglia più pericolosa con un avversario molto più attrezzato di Hamas. L’escalation da tempo prevista in questo conflitto regionale sembra sul punto di verificarsi.
Shmuel Trigano – Ombre sul futuro degli ebrei d’Europa
Vede un futuro problematico per gli ebrei d’Europa Shmuel Trigano, professore emerito di Sociologia all’Università Paris X-Nanterre e fondatore del Collegio di studi ebraici dell’Alliance Israélite Universelle. Autore di importanti opere di sociologia, filosofia, religione e psicoanalisi, Trigano è una delle voci più influenti della cultura francese. È da poco uscito il suo nuovo libro, Le chemin de Jérusalem, in cui denuncia l’isolamento di Israele e di riflesso del mondo ebraico della diaspora. Un tema spartiacque in vista delle elezioni europee e dei nuovi assetti di potere che emergeranno dalle urne. A prescindere dai risultati «un’epoca è finita» e sarà bene tenere la guardia sempre più alta per l’impatto potenzialmente devastante del conflitto in Medio Oriente, spiega a Pagine Ebraiche rispondendo da Israele.
Tante le insidie, rileva lo studioso: «Le principali minacce provengono innanzitutto dall’evoluzione del quadro europeo, intrinsecamente fragile, che incide sulla condizione strategica delle comunità. Vengono poi dall’antisemitismo di antica radice importato dai migranti, un antisemitismo islamico che ha trovato nell’odio verso Israele un modo per nascondersi e avanzare sul terreno politico: le attuali manifestazioni sono d’altronde promosse da giovani musulmani con kefiah e velo. Parimenti abbiamo trascurato il fatto che università come al-Azhar al Cairo e la tunisina Zitouna abbiano decretato legalmente la guerra santa contro gli ebrei; a livello mondiale come possiamo vedere. Il pericolo arriva ancora dalle prese di posizione contro Israele da parte delle autorità internazionali, ad esempio i tribunali dell’Aia, che fanno degli ebrei ovunque e in modo imprevedibile dei ‘paria’ globali». Preoccupa Trigano anche la minaccia proveniente dall’estrema sinistra: «In Francia la ‘Palestina’ è diventata il principale argomento di dibattito alle elezioni europee, con il partito LFI di Jean-Luc Mélenchon che ha adottato una posizione filo-islamica e oggettivamente antisemita per preservare il proprio elettorato musulmano». Ma cosa è oggi l’antisemitismo, come classificarlo rispetto ai precedenti storici? «Fino ad oggi si sono susseguite nella storia varie forme di odio verso gli ebrei», risponde Trigano. «L’antigiudaismo cristiano, poi islamico, l’antisemitismo specifico dell’età democratica, l’antisionismo ‘anticolonialista’. Oggi entriamo nell’era postmoderna. Il ‘palestinismo’ innesca un odio impazzito contro gli ebrei: invoca il popolo palestinese, il genocidio, l’apartheid, ma tutto è falso. Quando queste persone scandiscono lo slogan ‘dal fiume al mare’ non sanno né di quale popolo né di quale fiume parlano. È un odio insensato e quindi estremamente pericoloso. Può manifestarsi ovunque, all’improvviso. Questa isteria collettiva finirà per rivoltarsi contro gli ebrei in quanto ebrei». Nel frattempo i palestinesi sono diventati una sorta di «nuovo popolo messianico, l’idolo del pensiero woke». C’è una fonte di antisemitismo “globale” nel postmodernismo, riprende il ragionamento Trigano, evocando nel merito la «dottrina dell’intersezionalità che stabilisce una somiglianza tra tutte le condizioni ‘dominate’, intercambiabili di fronte all’oppressore ‘ebreo’ che ricalca l’archetipo del ‘bianco’: tutti questi odi si sommano e finiscono per pesare in modo grave sugli ebrei». Hamas sembra intanto vincere la “guerra” della comunicazione: «Hamas ha reinventato il modello delle invasioni musulmane in Europa: crudeltà, presa di ostaggi, schiavitù sessuale e decapitazioni: questi atti dimostrano che le vittime non sono considerate degli esseri umani». Forse, continua Trigano, «avrete notato nella sua propaganda un tratto tipico dell’odio verso gli ebrei: la messa in risalto dei bambini e delle donne palestinesi che sarebbero stati uccisi gratuitamente dall’esercito israeliano, come testimonianza della crudeltà degli ebrei e delle ragioni quindi per ucciderli». Al riguardo, rammenta Trigano, si è sentito dire durante la guerra nel nord di Gaza «che Israele aveva ucciso 32.000 bambini: una cifra inventata presa però per verità dai media occidentali». Ciò ha veicolato la riproposizione «delle classiche figure dell’odio, risvegliando una sindrome arcaica nei confronti degli ebrei di oggi».
In questa parashà viene raccontato come venne fatto il censimento dei figli d’Israele. Prima vennero censite le tribù nell’ordine con cui avrebbero marciato verso la Terra Promessa. Per primo l’accampamento della tribù di Reuven con le tribù di Shim’on e Gad; poi le tribù di Yehudà, Issakhar e Zevulun; il terzo gruppo con le tribù di Efraim, Menashè e Binyamin; e infine le tribù di Dan, Asher e Naftalì. In tutto 603.550 uomini di età tra i venti e i sessant’anni (Bemidbàr: 1:1-47).
La tribù di Levi venne censita separatamente, contando tutti i maschi da un mese in su. In totale ventiduemila (ibid., 3: 5-39).
Dopo il censimento delle dodici tribù e prima del censimento della tribù di Levi, la Torà inserisce una breve sezione nella quale si parla di Aharon e dei suoi figli: “Questa è la discendenza di Aharon e di Moshè nel giorno in cui l’Eterno parlò a Moshè sul monte Sinai. Questi sono i nomi dei figli di Aharon: il primogenito era Nadav, poi Avihù, El’azar e Itamar. Questi sono i nomi dei figli di Aharon che furono unti come kohanìm e abilitati al servizio. Nadav e Avihù morirono davanti all’Eterno quando presentarono un fuoco non autorizzato davanti all’Eterno. Essi non avevano figli. El’azar e Itamar funsero da kohanìm (già) durante la vita del loro padre Aharon” (ibid., 3: 1-4).
Rashì (Troyes, 1040-1105) fa notare che nel testo è scritto: “Questa è la discendenza di Aharon e di Moshè”. Poi però vengono solo nominati i figli di Aharon e non Gershom ed Eli’ezer, figli di Moshè. Rashì commenta che i figli di Aharon furono chiamati “discendenza di Moshè” perché fu Moshè che insegnò loro la Torà. E da qui impariamo, aggiunge Rashì, che chi insegna Torà al figlio di un suo compagno, viene considerato dalla Scrittura come se l’avesse generato.
R. Meir Leibush Wisser (Ucraina, 1809-1879) detto Malbim dalle sue iniziali, offre un’altra spiegazione sul motivo per cui la Torà non cita i nomi dei figli di Moshè. Egli commenta che dopo avere censito separatamente i figli d’Israele e apprestandosi a censire i leviti, la Torà ricorda separatamente i kohanìm che non vennero censiti né tra gli israeliti, né tra i leviti. Aharon e Moshè furono entrambi kohanìm. Infatti è scritto nel Tehillìm (Salmi, 99): “Moshè e Aharon erano tra i Suoi kohanìm e Shemuel tra quelli che invocarono il Suo nome, che invocarono l’Eterno ed Egli li esaudiva” (Moshè servì nel ruolo di kohen nei sette giorni dell’inaugurazione del Mishkàn). Al monte Sinai erano vivi tutti i quattro figli di Aharon; Nadav e Avihù morirono durante l’inaugurazione del Mishkàn.
Il motivo per cui la Torà, nel versetto commentato da Rashì, non parla dei figli di Moshè, è che essi non erano kohanìm. I figli di Moshè vengono ricordati più tardi dove è scritto: “Da Kehat, discendeva la famiglia degli amramiti…” (ibid., 3:27). ‘Amram era il padre di Aharon e di Moshè. I figli di Aharon erano già stati citati tra i kohanìm, pertanto la discendenza qui ricordata degli amramiti comprende solo i figli di Moshè. Per questo nella Torà sono citati solo i figli di Aharon che erano kohanìm, perché i figli di Moshè non furono nominati kohanìm e rimasero semplici leviti. Infatti così è scritto nel libro delle Cronache (I, 23: 13:15): “I figli di ‘Amram: Aharon e Moshè. Aharon fu prescelto per esser consacrato come kodesh kodashim, egli con i suoi figli, in perpetuo, per offrire i profumi dinanzi all’Eterno, per servirLo, e per pronunciare in perpetuo la benedizione con il Suo nome. Quanto a Moshè, l’uomo di Dio, i suoi figli furono contati nella tribù di Levi. I figli di Moshè: Ghershom ed Eliezer”.
Così furono contati 603.550 israeliti, ventiduemila leviti e quattro kohanìm.
Non sono suonati allarmi, non ci sono state intercettazioni. I due droni carichi di esplosivo lanciati da Hezbollah ieri contro il villaggio di Hurfeish, nel nord d’Israele, sono passati inosservati. Una breccia nella sicurezza costata la vita al sergente Refael Kauders, 39 anni, e il ferimento di altre nove persone. Per spargere più sangue, ha ricostruito Tsahal, i terroristi libanesi hanno fatto esplodere prima uno dei droni su un gruppo di soldati. Poi, quando sul luogo dell’attacco sono arrivate le squadre di primo soccorso, hanno colpito con il secondo.
Riservista che prestava servizio nel 5030° Battaglione della Brigata Alon come coordinatore del rabbinato militare, Kauders era figlio di Vittorio Biniamin e Tirza Kauders. Alla famiglia in queste ore il Comitato degli italiani residenti all’estero (Comites) d’Israele ha inviato un messaggio di cordoglio.
Il padre del sergente Kauders, Vittorio è parte della comunità degli italkim, gli italiani d’Israele. Cresciuto a Milano insieme ai fratelli Mirella e Bianca, sfuggì alle persecuzioni antisemite rifugiandosi con la famiglia in Svizzera nel novembre del 1943. Ad aiutarli a passare il confine fu don Franco Rimoldi, poi torturato dai nazifascisti per il suo sostegno agli ebrei perseguitati.
Finita la guerra, dopo il ritorno a Milano, i fratelli Kauders scelsero di fare l’aliyah in Israele. Qui nel 2003 un’altra tragedia ha segnato la famiglia. Era il periodo della sanguinosa seconda intifada. Bianca Kauders, insieme a decine di persone, l’11 giugno 2003 era a bordo dell’autobus 14a, che stava percorrendo le vie centrali di Gerusalemme. Nei pressi di piazza Davidka, un terrorista di Hamas travestito da ebreo religioso si fece esplodere all’interno del mezzo. Nell’attentato morirono 17 persone, tra cui Bianca, e oltre cento furono i feriti.
A distanza di 21 anni da quella tragedia, un’altra ha colpito la famiglia Kauders, con l’uccisione di Refael. «Tanta tristezza, dolori e lutti in questi mesi ci sconvolgono», ricorda il Comites nel suo messaggio di cordoglio. «L’onore ed il rispetto per i nostri caduti, ci impone di essere forti ed uniti. Verranno giorni migliori, ed anche se la strada è lunga ed in salita arriveremo alla pace ed alla serenità».
I funerali si svolgono oggi al cimitero militare di Kfar Hetzion.
Cresce la tensione con Hezbollah. Netanyahu: “Siamo pronti ad un’azione molto forte nel nord”
di Luca Spizzichino
Cresce la tensione al Nord di Israele. Da ormai diverse settimane Hezbollah sta lanciando centinaia di razzi e droni suicidi verso le comunità al confine con il Libano. Una situazione insostenibile per chi abita al nord, che vede il suo ritorno a casa sempre più lontano.
I missili e i droni da ormai diversi giorni stanno causando ingenti danni e stanno rendendo impossibile una vita normale di chi è rimasto nelle proprie case. Infatti, il gruppo terroristico libanese sta deliberatamente lanciando i missili e gli UAV in zone disabitate, eludendo così l’Iron Dome. Negli ultimi giorni sono stati diversi gli incendi causati dal continuo lancio di razzi da parte di Hezbollah.
“Siamo pronti ad un’azione molto forte nel nord. In un modo o nell’altro ripristineremo la sicurezza”. Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu che questa mattina ha visitato Kiryat Shmona, dove ieri sono divampati incendi dopo il lancio di droni dal Libano. Hezbollah ha risposto con diversi attacchi contro le posizioni israeliane, compreso un raid con “missili guidati” contro una “piattaforma Iron Dome nella caserma Ramot Naftali”.
In un articolo uscito martedì sul quotidiano israeliano Maariv, il ricercatore Tal Beeri, capo del dipartimento di ricerca dell’Istituto Alma, ha descritto gli scenari di una possibile guerra su vasta scala nel Nord.
“Nel caso in cui scoppiasse una guerra totale, il fronte israeliano vedrebbe un volume di fuoco mai visto prima, più imponente di quello del 2006”, prevede Beeri. “La principale potenza di fuoco di Hezbollah sono i missili e i razzi, con alcuni in grado di colpire l’intero territorio dello Stato di Israele con una capacità di tiro precisa” prosegue, sottolineando come la principale area colpita in questo caso è l’intera area settentrionale fino ad Haifa. “In questa zona, la maggior parte degli incendi proverrà da razzi di vario tipo considerati a corto raggio”, secondo Beeri nelle prime due settimane di guerra “sarà quasi impossibile condurre una vita normale”.
Secondo le stime dell’istituto di ricerca, Hezbollah dispone di 150.000 mortai, 65.000 razzi con una gittata fino a 80 km, 5.000 razzi e missili con una gittata di 80-200 km, 5.000 missili con una gittata di 200 km o più, 2.500 velivoli senza pilota (UAV) – e centinaia di missili avanzati, come missili anti aerei o missili da crociera.
“Inoltre, la linea più meridionale – Hadera, Netanya e Gush Dan – sarà nel loro mirino” ha previsto il ricercatore di Alma. Per Hezbollah, infatti, colpire l’area del Gush Dan sarebbe una vittoria, e per questo “concentreranno i loro sforzi lì”.
“Da un lato, questa è una guerra psicologica e dall’altro un segno di ciò che verrà. Dopotutto, è noto che prima del 7 ottobre Hezbollah voleva la guerra con Israele e intendeva invadere la Galilea, ma Hamas ha giocato le sue carte”, ha osservato Beeri, che ha rivelato di essere venuto in possesso di “un proclama interno di Hezbollah, inviato ai suoi membri in cui veniva loro detto di essere pronti alla guerra”, ovviamente prima del 7 ottobre.
Dopo il massacro di Hamas, infatti, la strategia di Hezbollah è cambiata drasticamente, tuttavia “il 7 ottobre ha solo congelato i piani di Hezbollah, non li ha annullati”.
Prima della guerra: lavoratori palestinesi aspettano al valico di frontiera di Erez verso Israele. Oggi, gran parte della popolazione non vuole più vederli in Israele. La fiducia è venuta meno.
GERUSALEMME - Gli israeliani hanno perso la fiducia nella possibilità di vivere in pace con i palestinesi. Lo sento dire sempre più spesso negli ultimi otto mesi. Soprattutto dai miei figli adulti e dai loro amici. Una generazione che alla fine dovrà prendere in mano il futuro di Israele. Lo sento dire anche da colleghi e amici di ogni estrazione sociale del Paese. Il 7 ottobre ha distrutto ogni residuo di fiducia. Non solo verso gli arabi, ma anche verso altri popoli e pagani. La gente sta perdendo la fede e la fiducia negli altri, soprattutto in un momento in cui l'opinione pubblica mondiale non comprende il diritto alla difesa di Israele. A Israele si chiedono cose impossibili, come la moderazione e l'amore in guerra, che le altre nazioni non chiedono a se stesse, e questo rende il popolo della nazione furioso e triste.
Inbar Haiman (a sinistra) con il fidanzato Noam Alon durante una partita di calcio del Maccabi Haifa
"Ho perso la fiducia negli arabi", afferma il noto presentatore televisivo
Avri Gilad.
La modella e celebrità israeliana
Adel Bespalov ha scritto nel suo post che "ha paura dei bambini arabi che vanno all'asilo con i loro figli. Prima non ne parlavamo, ma ora lo facciamo". Hana Cohen, zia di Inbar Haiman, rapita nella Striscia di Gaza e uccisa dai terroristi di Hamas, ha detto in un monologo straziante: "La cosa assurda è che Inbar è stata uccisa dalle persone di cui si fidava e in cui credeva".
La gente non vuole tecnici arabi nelle proprie case. Questo è ciò che i cittadini dicono ai numerosi centri di assistenza del Paese e insistono per avere solo tecnici ebrei. Quando il frigorifero dei nostri vicini ha smesso di raffreddarsi, Naomi ha insistito solo per un tecnico ebreo e così hanno dovuto aspettare un giorno in più.
Sì, questa è la situazione nel Paese, gli israeliani non vogliono arabi in giro. Non ha nulla a che fare con il razzismo. È per questo che l'attuale governo non permette ai palestinesi ospiti e ai lavoratori edili dei territori palestinesi in Giudea e Samaria di tornare in Israele per lavorare. Tutte le attività edilizie nel Paese si sono quindi fermate.
Questa è pura paura. Questo è il risultato del massacro. Le persone sono lacerate all'interno, come dimostrano molte conversazioni. Gli amici di sinistra oggi hanno più paura e sono meno sicuri di potersi fidare davvero dei loro vicini palestinesi. Anche le mie idee e i miei pensieri sui nostri vicini sono cambiati. Ne parliamo spesso in famiglia e con gli amici.
Un recente sondaggio mostra chiaramente cosa pensano gli israeliani di uno Stato palestinese. Una maggioranza del 68% della popolazione israeliana continua a rifiutare la creazione di uno Stato palestinese. Anche se questo significherebbe rinunciare alla pace con l'Arabia Saudita, il 64% degli intervistati rifiuta uno Stato palestinese. L'Arabia Saudita ha legato la normalizzazione delle relazioni alla condizione che Israele si impegni a creare uno Stato palestinese. Il sondaggio è stato condotto dal Jerusalem Centre for Public Affairs (JCPA). Tuttavia, la situazione potrebbe cambiare se Donald Trump tornasse alla Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali statunitensi di novembre.
Ai margini della società israeliana, ci sono ancora israeliani che vedono soltanto o maggiormente la parte palestinese nell'attuale conflitto e mostrano più considerazione per loro che per la propria parte del popolo. Israeliani che vedono l'attacco palestinese del 7 ottobre come una legittima lotta di liberazione da parte dei palestinesi e quindi vedono il leader terrorista Yahya Sinwar come il Nelson Mandela palestinese. Continuano a credere che uno Stato palestinese sia l'unica vera salvezza per la pace con i nostri nemici. Ma la maggior parte non ha una risposta, o semplicemente ne ha una senza senso, se messa alla prova.
Molti rabbini ripetono nei loro sermoni e nelle loro interpretazioni bibliche che "gli ebrei non possono credere e fidarsi dei gentili", come il rabbino Josef Mizrahi, il rabbino Amnon Itzchak, il rabbino Samir Cohen e molti altri rabbini. Naturalmente ci sono altri rabbini che non sono d'accordo, ma tutti concordano sul fatto che non c'è altro popolo su questa terra che sia stato espulso, perseguitato e distrutto più del popolo ebraico nella sua storia. Per generazioni, secoli e millenni, a partire dalla storia biblica, i gentili hanno combattuto contro il popolo di Israele. Questo ha lasciato al popolo d'Israele un pesante fardello che ancora oggi deve portare con sé. Il popolo eletto da Dio ha sofferto sotto gli Egiziani in schiavitù, sotto gli Amalekiti, sotto i Filistei, sotto altri popoli e imperi della storia biblica come l'Assiria e Babilonia e poi sotto l'Impero romano fino alla seconda distruzione del tempio.
Durante i duemila anni di esilio nella diaspora, le comunità ebraiche sparse hanno sofferto ovunque sotto il dominio cristiano e islamico, come nell'Inquisizione spagnola, nei Paesi arabi e in Europa durante l'Olocausto della Seconda guerra mondiale. Oggi, i vicini arabi e palestinesi cercano di espellere Israele dalla sua patria e di distruggerlo. È quindi naturale che gran parte della nostra popolazione abbia perso fiducia negli arabi. Ma non solo, la gente della nostra nazione ha perso fiducia negli stranieri, non per odio, ma per il semplice motivo che per generazioni altri popoli hanno cercato di espellere le persone di origine ebraica. Nessuno può accusare il popolo ebraico di razzismo. Questa è la reazione di Israele alle continue azioni dei popoli stranieri contro Israele nel corso della storia, che fondamentalmente hanno un problema con il popolo della Bibbia. Il fatto che oggi gli israeliani non vogliano far entrare gli arabi nelle loro case è evidente e non ha nulla a che fare con il razzismo.
(Israel Heute, 6 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Dite a Biden che non può confondere Netanyahu con Sinwar
L’opinione mondiale dovrebbe esercitare una maggiore pressione sul leader militare di Hamas, Yahya Sinwar, piuttosto che sul leader della democrazia israeliana, Benjamin Netanyahu
di Daniel Henninger
Mentre dall’amministrazione Biden giungono indiscrezioni volutamente fuorvianti sui colloqui per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, sembra che si tenga poco presente che l’obiettivo di una delle parti in causa rimane l’eliminazione della nazione sovrana di Israele.
Lo statuto di Hamas del 1988 continua a chiedere la distruzione di Israele. Ali Khamenei, leader supremo della Repubblica Islamica dell’Iran, le cui ricchezze sovvenzionano le operazioni militari di Hamas, ha dichiarato: “Il tema perpetuo dell’Iran è l’eliminazione di Israele dalla regione”. E tale rimane.
Nonostante la recente comparsa dei cessate il fuoco come mezzo per porre fine alle guerre, i conflitti militari attivi di questa portata di solito non si concludono in questo modo. Più spesso, i cessate il fuoco si verificano quando l’opposizione è stata effettivamente sconfitta, come la Germania e il Giappone nella Seconda Guerra Mondiale.
Il dibattito sui termini dell’attuale proposta di cessate il fuoco tra Israele e Hamas verte principalmente sul fatto che la cessazione dei combattimenti sia permanente o temporanea, dopo uno scambio di ostaggi e prigionieri. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu afferma di volersi riservare il diritto di riprendere i combattimenti contro Hamas.
La proposta dell’amministrazione Biden per un cessate il fuoco di sei settimane prevede il ritiro delle forze israeliane dalle aree popolate di Gaza. Tale ritiro sarebbe sicuramente interpretato come una vittoria per Hamas, e in particolare per il suo leader militare, Yahya Sinwar.
Sinwar – il principale artefice dell’invasione del 7 ottobre – che presumibilmente risiede all’interno del sistema di tunnel di Gaza, dovrebbe essere visto come la figura centrale del conflitto, più importante per la sua risoluzione di Netanyahu o del Presidente Biden.
Recenti notizie hanno suggerito che la cosiddetta leadership politica di Hamas in Qatar è più disponibile a porre fine al conflitto di quanto non lo sia Sinwar, sebbene entrambi insistano sul fatto che Hamas mantenga un ruolo primario di governo a Gaza. Sinwar sembra credere di aver impantanato Israele in un pantano e che l’opinione pubblica internazionale abbia trasformato lo Stato ebraico in un paria, spingendo gli israeliani verso un accordo alle sue condizioni.
Come nel caso degli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, che vivono semplicemente come “11 settembre”, l’origine della guerra tra Israele e Hamas è stata ridotta allo stesso modo a “7 ottobre”. Se l’attacco del 2001 aveva come obiettivo principale l’uccisione di americani, c’è il rischio di perdere di vista gli scopi politici molto più ampi dell’invasione del 7 ottobre da parte di Sinwar.
Quando è avvenuto, gli eventi dell’assalto sono sembrati incomprensibilmente atroci: sparatorie a bruciapelo di innocenti, stupri e il rapimento di 252 ostaggi a Gaza (molti dei quali si ritiene siano morti durante la prigionia). A posteriori è chiaro che la barbarie era la strategia a lungo termine di Sinwar.
L’intenzione di Hamas era quella di costringere le Forze di Difesa Israeliane all’interno di Gaza per un tempo indefinito, mentre perseguiva la politica israeliana di liberazione degli ostaggi. Con Hamas che teneva i prigionieri all’interno della sua virtualmente impenetrabile città sotterranea di tunnel, il calcolo politico di Sinwar era corretto: le immagini dell’inevitabile assalto di Israele ad Hamas nei quartieri di Gaza per liberare gli ostaggi avrebbero col tempo trasferito la colpa internazionale su Israele, aiutato, ovviamente, dai gruppi di protesta organizzati tra Palestina e Hamas negli Stati Uniti e in Europa.
E infine da Joe Biden. Alla domanda, rilasciata giorni fa in un’intervista, se pensasse che Netanyahu stesse prolungando la guerra per autoconservazione, il presidente americano ha risposto: “Ci sono tutte le ragioni per trarre questa conclusione”. A marzo, il leader della maggioranza del Senato Chuck Schumer ha dichiarato in un sorprendente discorso che Netanyahu “non è più adatto alle esigenze” di Israele. Nell’opinione pubblica mondiale è emersa la convinzione che se Netanyahu sarà costretto a lasciare l’incarico, emergerà una leadership israeliana “moderata” e in qualche modo la guerra finirà.
Raramente viene discussa, perché è così incredibile, l’ipotesi che un eventuale governo israeliano successivo a quello attuale consentirebbe ad Hamas, guidato da Sinwar, di emergere intatto da Gaza. La realtà più plausibile è che se Hamas e la sua leadership vogliono evitare la loro esecuzione, dovranno pianificare i loro prossimi passi in un luogo diverso dalla Striscia di Gaza. Forse la Spagna, l’Irlanda o la Norvegia, che hanno riconosciuto uno Stato palestinese, si potrebbero offrire di accogliere Hamas.
Un’ulteriore realtà, che nessuna proposta di cessate il fuoco può dissipare, è che l’eliminazione di Israele continuerà ad essere un obiettivo attivo di Iran, Hamas, Hezbollah e alcuni gruppi di protesta con sede negli Stati Uniti. Il 31 maggio, un altro gruppo di disinvestimento anti-israeliano ha invaso e chiuso il Brooklyn Museum, portando cartelli con slogan come “No alla normalizzazione del colonialismo dei coloni”.
Il dibattito sulla guerra tra Israele e Hamas è caduto profondamente in uno squilibrio morale. Lo status quo del conflitto – con i palestinesi e gli ostaggi israeliani che continuano a morire – ha poche speranze di cambiare fino a quando le dichiarazioni dei leader stranieri, degli analisti, dei media e, non da ultimo, di Biden e dei suoi numerosi traduttori non cominceranno a imporre una seria pressione politica e morale sull’uomo che ha messo in moto questo orrore: Il comandante militare di Hamas Yahya Sinwar. Incolpate lui per primo. (da Wall Street Journal, 06/06/2024)
Meloni: 'Israele caduta in trappola fondamentalisti, si sta isolando'
ROMA - "Io penso che gli amici di Israele debbano avere il coraggio di dire a Israele che si sta infilando un po' nella trappola che sembrava disegnata dai fondamentalisti islamici contro Israele: una trappola che puntava all'isolamento dello Stato di Israele. Purtroppo è quello che sta accadendo". Così la premier Giorgia Meloni al Tg La7.
"Penso che per questo chi crede nella sicurezza di Israele e nel suo diritto, non debba smettere di dire parole chiare. Così come penso che il modo più efficace per costruire una pace in Medio Oriente sia lavorare concretamente, e da ora, alla soluzione di due popoli in due Stati".
(Adnkronos, 6 giugno 2024) ____________________
Dunque sul tema Israele anche il nostro Presidente del Consiglio non sa fare altro che ripetere a pappagallo la consunta formula della “soluzione di due popoli in due Stati”. Purtroppo dà l’impressione di essere sincera, il che significherebbe che sull’argomento non ci capisce niente. Oppure, se si vuol dare maggior credito alle sue capacità di comprensione, potrebbe essere che capisce più di quel sembra, ma trova politicamente più opportuno far finta di non capire e andare dietro all’onda di massima corrente. In ogni caso, sul tema Israele l’Italia è messa molto male. M.C.
Israele – Governatore Yaron: economia regge, urge integrare haredim
«L’economia israeliana è fondamentalmente solida e possiede le caratteristiche necessarie per prosperare anche durante la guerra. Ma non avverrà in automatico», ha avvertito il governatore della Banca centrale d’Israele Amir Yaron. Tra i relatori della conferenza annuale del Jerusalem Post a New York, Yaron ha mandato un chiaro messaggio al governo di Benjamin Netanyahu: perché l’economia israeliana torni a crescere rapidamente saranno decisive le politiche messe in campo da Gerusalemme.
I costi della guerra – stimati in 63 miliardi di euro – costringeranno Israele a prendere provvedimenti fiscali dolorosi ma necessari, ha spiegato l’economista. Alcuni sono già stati adottati dal governo, come l’aumento dell’Iva dal 17 al 18% per il 2025. Ma il ministero delle Finanze, riporta il sito Globes, sta valutando di introdurre la misura già quest’anno per rispondere all’aumento della spesa pubblica e per la Difesa.
Sempre quest’anno potrebbero essere tagliati alcuni ministeri. A fine 2023 i tecnici del ministero delle Finanze ne avevano individuati dieci da cancellare per un risparmio di 4 miliardi di shekel (quasi un miliardo di euro), tra cui quello degli Insediamenti e delle Missioni nazionali, diretto da Orit Strock; il ministero di Gerusalemme e della Tradizione ebraica, guidato da Meir Porush; quello per la Diaspora e l’Uguaglianza sociale, guidato da Amichai Chikli.
Per il governatore Yaron è necessario anche indagare in modo approfondito come sono strutturate le spese militari. Di recente il governo ha istituito una commissione per occuparsi proprio di questo argomento e per dare delle linee sui costi futuri della Difesa. Iniziativa applaudita da Yaron, che da tempo chiedeva un provvedimento simile.
«È chiaro che un’economia prospera ha bisogno di sicurezza, ma anche la sicurezza ha bisogno di un’economia prospera», ha affermato il capo della Banca centrale. Per lui due sono le maggiori sfide su cui deve concentrarsi il governo: la mancanza di infrastrutture e l’integrazione nel mercato del lavoro di uomini haredi e donne arabe. Riguardo al secondo punto, «l’inserimento di queste due minoranze in posti di lavoro di qualità sosterrà l’economia israeliana». Yaron ha sottolineato come sia necessario per i giovani haredi studiare a scuola alcune materie del curriculum di base del sistema educativo israeliano, come matematica, scienze e inglese. Secondo un rapporto governativo del 2022, l’84% dei ragazzi delle scuole superiori haredi (13-18 anni) non ha studiato nessuna di queste materie. Senza queste competenze il loro inserimento nel mercato del lavoro è difficile. Ma si tratta di risorse fondamentali per il futuro d’Israele, ha avvertito Yaron, considerando che si prevede che questa minoranza continua ad espandersi e diventerà una percentuale importante della società israeliana con il passare del tempo». Attualmente i haredi rappresentano 14% della popolazione, ma nei prossimi 25 anni dovrebbero diventare il 25%.
(moked, 4 giugno 2024)
Gaza, stallo su cessate fuoco: perché Hamas e Israele diffidano della proposta Usa
Si registra un "momento di stallo" sulla proposta di accordo per un cessate il fuoco a Gaza ed il rilascio degli ostaggi avanzata nei giorni scorsi dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Lo ha riconosciuto anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani in un'intervista a La7, mentre il direttore della Cia, William Burns, ed il consigliere speciale per il Medio Oriente di Biden, Brett McGurk, sono volati rispettivamente in Qatar e Egitto per tentare di imprimere l'accelerazione decisiva sull'intesa.
Proprio Doha ed Il Cairo sono i due tavoli in cui si continua a giocare la partita dei negoziati. Oggi nella capitale dell'emirato del Golfo è previsto un incontro trilaterale Usa-Egitto-Qatar alla presenza, oltre che di Burns, del suo omologo egiziano, Abbas Kamel e del primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdurrahman Al Thani. Sempre a Doha, i mediatori egiziani e del Qatar contatteranno i leader di Hamas per convincerli a mostrare flessibilità sull'ultima proposta. Intanto una delegazione che rappresenta i due dei più stretti alleati di Hamas - la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina - è arrivata al Cairo per colloqui con funzionari egiziani.
• Usa in pressing Gli Stati Uniti sembrano più che mai decisi a fermare l'operazione a Gaza. Da settimane il pressing di Washington su Tel Aviv si è intensificato. Lo stesso Biden in un'intervista al Time ha risposto che "ci sono tutte le ragioni per trarre questa conclusione" alla domanda se fosse d'accordo con chi in Israele ritiene che Netanyahu stia prolungando il conflitto per i propri interessi politici. Posizione rivista poche ore dopo, quando alla Casa Bianca ha detto di non pensare che il leader israeliano stia facendo la guerra per giochi politici, riconoscendo che Israele ha "un problema serio".
Ma Netanyahu, nonostante gli appelli arrivati anche dall'Europa e dalle famiglie degli ostaggi a sottoscrivere l'accordo - sul quale vige il veto dei due ministri di estrema destra Smotrich e Ben Gvir che minacciano di far cadere il governo - sembra restio a chiudere la partita a Gaza. Il premier ha aperto alla possibilità di sospendere temporaneamente le ostilità per alcune settimane e, intanto, sembra voler aprire un fronte con Hezbollah. Israele è "pronto ad un'azione estremamente potente nel nord", è il monito che ha lanciato stamane durante una visita a Kiryat Shmona, al confine con il Libano.
Ma perché la proposta di cessate il fuoco annunciata da Biden per Gaza è in fase di stallo dato che finora nessuna delle parti ha accettato ufficialmente il piano? A questa domanda prova a rispondere un'analisi di Middle East Eye, secondo cui Hamas, Israele e gli Stati arabi hanno dubbi sull'affermazione della Casa Bianca secondo cui il piano di cessate il fuoco sarebbe stato originato dal governo Netanyahu. E, data la premessa, il ritardo ad accettare il piano da parte di Israele, secondo il sito, è imbarazzante per gli Stati Uniti.
• Proposta israeliana o americana? Il piano - diviso in tre fasi, con una tregua di sei settimane accompagnata dal rilascio degli ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi - sembra quasi identico a quello mediato dalla Cia e che Hamas aveva accettato all'inizio di maggio. La proposta, tuttavia, era stata respinta da Israele che aveva lanciato l'invasione di Rafah.
Il dubbio principale della nuova proposta riguarda se sia israeliana o americana. Ieri il portavoce del ministero degli Esteri del Qatar ha definito il piano consegnato a Hamas "la proposta degli Stati Uniti per Gaza". E' poi andato oltre, suggerendo che la proposta non ha il completo appoggio del governo israeliano, che appare spaccato. Non solo perché almeno due ministri, Smotrich e Ben Gvir appunto, hanno annunciato che lasceranno la maggioranza in caso di via libera all'intesa. Lo stesso Netanyahu ha dichiarato ai deputati della Knesset che Biden ha nascosto alcuni dettagli chiave della proposta.
• Il nodo del post tregua Per Hamas il nodo riguarda sempre cosa accadrà dopo che saranno scaduti i termini del cessate il fuoco temporaneo. Le sue capacità militari sono state degradate dopo otto mesi di combattimenti, ma il gruppo - senza la garanzia di un cessate il fuoco permanente e del ritiro israeliano da Gaza - probabilmente vede pochi vantaggi dal firmare l'accordo, dato che consentirebbe alle Idf di riprendere la guerra dopo aver liberato gli ostaggi.
"Abbiamo chiesto ai mediatori di ottenere una posizione chiara da Israele affinché si impegni per un cessate il fuoco permanente e un ritiro completo da Gaza", ha spiegato l'esponente di Hamas, Osama Hamdan, in una conferenza stampa a Beirut.
Biden è l’unico che sta realmente prolungando la guerra a Gaza
Tutti gli errori (gravissimi) del Presidente americano, altro che Netanyahu.
di Gabor H. Friedman
I commenti del Presidente Biden su Israele continuano a peggiorare, come dimostra un’intervista pubblicata martedì dalla rivista Time.
Alla domanda se il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu stia “prolungando la guerra per la propria autoconservazione politica”, Biden ha risposto: “Non ho intenzione di commentare”. Poi ha commentato: “Ci sono tutte le ragioni per cui la gente possa trarre questa conclusione”.
Mettiamo da parte il fatto di minare in tempo di guerra il governo eletto di un alleato, che è tanto costante da parte di Biden quanto inopportuno. Sarebbe una cosa se intendesse dire che Netanyahu avrebbe dovuto mantenere più truppe a Gaza e invadere Rafah mesi fa per finire la guerra. Questo è ciò che sostengono molti critici israeliani, e hanno ragione. Ma Biden si oppone a tutto questo. Secondo lui Netanyahu avrebbe dovuto smettere di combattere e accettare una sconfitta con l’intermediazione degli Stati Uniti.
Martedì poi, in modalità di controllo dei danni, il Presidente ha cercato di ritrattare il suo commento. La sua osservazione ha avuto un effetto negativo perché è lui che ha rallentato Israele in ogni fase. Dopo il 7 ottobre, ha detto a Israele di contenere la sua invasione di terra. Poi ha appoggiato la decisione dell’Egitto di intrappolare i gazesi nella zona di guerra. Quando gli israeliani hanno sconfitto Hamas nel nord di Gaza, ha fatto pressione su Israele affinché “passasse alla fase successiva”, rimandando a casa la maggior parte delle truppe e combattendo con meno potenza di fuoco nel sud di Gaza. Israele lo ha fatto e ha vinto molto lentamente a Khan Younis.
Poi, Biden ha cercato di impedire a Israele di invadere Rafah, insistendo erroneamente sul fatto che Israele non avrebbe mai potuto evacuare i civili. Ha tagliato le armi come leva. Alla fine Israele ha invaso Rafah, ma con meno truppe per soddisfare il Presidente. Questo significa un’operazione più lenta.
La decisione di Biden di fare pressione su Israele, mentre si è mostrato morbido nei confronti dei mediatori Egitto e Qatar, ha anche dato ad Hamas un motivo per far fallire i colloqui con gli ostaggi e continuare la guerra. Come ha riconosciuto il Presidente nella sua intervista al Time, Hamas è responsabile della mancanza di un accordo. “Hamas potrebbe porre fine a tutto questo domani”, ha detto. “L’ultima offerta fatta da Israele è stata molto generosa”, ha aggiunto. “Bibi è sottoposto a enormi pressioni sugli ostaggi e quindi è pronto a fare qualsiasi cosa per riaverli”.
L’ultima offerta israeliana di ostaggi ne è la prova. Le critiche di Biden a Israele, d’altra parte, suggeriscono la frustrazione per il suo stesso fallimento politico.
Israele in fiamme: incendi nell’Alta Galilea e sulle alture del Golan
di Sofia Tranchina
Israele in fiamme: gli attacchi di Hezbollah e il fallimento dell’Iron Dome hanno acceso gravi incendi nell’Alta Galilea e sulle alture del Golan.
Nella scorsa settimana si è verificata un’escalation delle ostilità tra Israele e il gruppo terroristico libanese.
Quest’ultimo ha lanciato raffiche di razzi sulla zona del Monte Meron, Zar’it, Kiryat Shmona e Malkia. Nel sito di lancio razzi contro Malkia, localizzato ad Aynata, l’IDF ha eliminato un agente terroristico.
Tra il 30 e il 31 maggio, aerei da combattimento israeliani hanno colpito edifici di Hezbollah a Houla, Maroun al-Ras, Aitaroun, Markaba, Jebbayn e Khiam, oltre ad aver neutralizzato un lanciarazzi a Majdal Zoun e una cellula terroristica a Naqoura.
Hezbollah ha poi lanciato 15 razzi contro le comunità di Ga’aton e di Peki’in, causando tre feriti israeliani: un uomo di 66 anni, una donna di 34 anni e un uomo di 26 anni ferito da schegge. Due razzi libanesi sono caduti anche in aree aperte vicino a Yiftah, mentre dei razzi Burkan con testate pesanti sono atterrati in una base militare israeliana adiacente a Kiryat Shmona, causando gravi danni alle infrastrutture, alle proprietà e ai veicoli.
Aerei da caccia israeliani hanno poi colpito i posti di osservazione di Hezbollah a Tayr Harfa e infrastrutture terroristiche a Rachaya al-Foukhar.
Il primo giugno l’IDF ha colpito due terroristi a Majdel Selm e degli edifici di Hezbollah a Baalbek, a Bint Jbeil, a Qana e Baraachit, e ha neutralizzato un deposito di armi a Mays al-Jabal.
Tra domenica 2 e lunedì 3 giugno, i detriti dei razzi di Hezbollah lanciati contro Nahariya, Katzrin, Kiryat Shmona, il Kibbutz Kfar Giladi, il Monte Adir e Amiad, hanno acceso diversi incendi nell’Alta Galilea e sulle alture del Golan.
Complice anche la nuova ondata di caldo, gli incendi hanno consumato già 10mila acri, causando danni significativi alla riserva naturale della foresta di Yehudiya.
Martedì mattina i vigili del fuoco sono finalmente riusciti a guadagnare il controllo dei fuochi, ma un nuovo attacco da parte di Hezbollah e il fallimento di un intercettore israeliano hanno provocato un nuovo incendio a Safed.
Secondo l’Alma Research and Education Center, maggio ha visto un drastico aumento degli attacchi da parte del Libano, contando un totale di 325 attacchi (ovvero, in media, più di 10 al giorno).
A seguito della netta presa di posizione di Hezbollah al fianco delle forze di Hamas e delle continue piogge di razzi finanziati dall’Iran, circa 250.000 residenti della zona settentrionale di Israele sono stati evacuati, e da allora – abbandonate le case e la routine – vivono come rifugiati interni. I razzi lanciati dal libano dall’8 ottobre hanno mietuto 24 vittime israeliane, di cui 10 civili e 14 tra soldati e riservisti.
Inoltre, la gittata delle munizioni del gruppo terroristico si è allungata inglobando nel raggio d’azione di Hezbollah migliaia di residenti finora ritenuti al sicuro: il 31 maggio la difesa aerea israeliana ha annientato un razzo libanese sulla città di Acri.
Gli incendi di questa settimana e l’intensificarsi della guerriglia hanno riacceso con nuova forza la paura e la rabbia degli sfollati.
Dopo il massacro di civili perpetuato da Hamas il 7 ottobre, i residenti del nord si sono uniti in un’organizzazione che ha come obiettivo di garantire la sicurezza dei 120km del confine settentrionale israeliano.
Il gruppo, fondato da Nisan Zeevi lo scorso dicembre, si chiama Lobby 1701, prendendo il nome dalla risoluzione ONU 1701 firmata nel 2006, che stabiliva la smilitarizzazione del Libano settentrionale fino al fiume Litani dalle forze di Hezbollah, dando il controllo militare della “zona cuscinetto” alle forze dell’UNIFIL (Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite).
La risoluzione ONU è stata ripetutamente violata da Hezbollah, la cui presenza è stata normalizzata negli ultimi tre anni al punto che le sue truppe si spostano liberamente sulla linea blu (linea di demarcazione tra Libano e Israele resa pubblica dalle Nazioni Unite il 7 giugno del 2000).
Lobby 1701 ha fatto appello direttamente al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, al primo ministro francese Emmanuel Macron e alla comunità internazionale per chiedere l’attuazione della risoluzione 1701.
Il gruppo, che per otto mesi si è sentito trascurato dal governo, chiede che venga restaurata la zona cuscinetto, sia attraverso mezzi diplomatici che – se necessario – con un’azione militare diretta, proclamando che l’attuale status di rifugiati interni è insostenibile sul lungo termine.
Nonostante non si veda ancora la fine della guerra nella Striscia di Gaza, alcuni ritengono che il governo di coalizione abbia concesso troppo spazio a Nasrallah (leader di Hezbollah), e spingono per una risposta militare massiccia contro il Libano.
Il governo israeliano si è detto disposto a una soluzione diplomatica, pur dichiarandosi pronto a una guerra totale se la diplomazia fallisse. Perdere 120km di territorio israeliano sotto le forze nemiche può solo portare la guerra sempre più vicino al cuore del Paese, e, secondo il ministro della sicurezza nazionale di destra Itamar Ben Gvir, una risposta limitata a brevi contrattacchi mirati perpetra l’atteggiamento che ha portato al massacro del 7 ottobre.
Hezbollah, che si prefigge di invadere il Golan, conta ad oggi il più grande esercito terrorista del mondo, e riceve missili e finanziamenti dall’Iran.
Per questo motivo, una volta stabilito un confinericonosciuto tra Israele e Libano, una soluzione diplomatica dovrebbe passare, secondo Amos Hochstein (consigliere senior di Biden per l’energia e gli investimenti), per un rafforzamento delle forze armate libanesi (reclutamento, addestramento ed equipaggiamento), permettendo loro di contrastare la prevaricante potenza militare di Hezbollah. Una seconda fase potrebbe comportare un pacchetto economico per il Libano.
CyberWell esorta le reti a combattere la negazione dei crimini sessuali di Hamas
Il cane da guardia dell'antisemitismo online dice che i moderatori non stanno facendo abbastanza per rimuovere i contenuti che mettono in dubbio le testimonianze del 7 ottobre
Manifestanti durante una manifestazione che denuncia le violenze sessuali subite dalle donne israeliane durante l'assalto di Hamas al sud di Israele il 7 ottobre, davanti alla sede delle Nazioni Unite a New York, il 4 dicembre 2023.
Sulla prima pagina dell'edizione del 27 marzo 2024 del New York Times, accanto a articoli sul crollo del Francis Scott Key Bridge a Baltimora, sull'accesso alle pillole abortive e sui problemi legali di Donald Trump, c'era il titolo "Ostaggio israeliano racconta un'aggressione sessuale a Gaza".
In circa 4.000 parole, l'ostaggio rilasciato il 30 novembre come parte dell'estensione di un accordo temporaneo di cessate il fuoco, Amit Soussana, racconta il suo brutale rapimento dal Kibbutz Kfar Aza il 7 ottobre e il fatto di essere stata costretta a compiere atti sessuali dal terrorista che la teneva prigioniera nella Striscia di Gaza.
"Mi ha fatto sedere sul bordo della vasca da bagno. Ho chiuso le gambe. Ho opposto resistenza. Lui ha continuato a colpirmi e mi ha puntato la pistola in faccia", ha raccontato Soussana al New York Times. "Poi mi ha trascinato in camera da letto".
Il suo racconto, che secondo il giornale è coerente con quanto ha detto ai professionisti al momento del rilascio dopo 55 giorni di prigionia, conferma ciò che altri ostaggi liberati, sopravvissuti al massacro, familiari ed esperti forensi affermano da tempo: le violenze sessuali, tra cui stupri e mutilazioni, hanno avuto luogo il 7 ottobre, quando i terroristi di Hamas hanno brutalmente devastato il sud di Israele, e coloro che sono stati catturati e portati a Gaza con la forza hanno continuato a subire violenze sessuali.
Eppure, a quasi otto mesi dal barbaro e sadico assalto del gruppo terroristico palestinese Hamas al sud di Israele il 7 ottobre, e a più di due mesi da quando Soussana è stata la prima a parlare degli abusi subiti, i resoconti delle violenze sessuali continuano a essere messi in discussione o peggio. Questo nonostante le prove sempre più evidenti che Hamas ha usato la violenza sessuale come arma di guerra, tra cui un documentario dell'ex COO di Meta Sheryl Sandberg sulla violenza sessuale sistematica e un rapporto delle Nazioni Unite che ha trovato "ragionevoli motivi" per sostenere le accuse di stupro e violenza sessuale del 7 ottobre.
A causa di un'applicazione lassista o di standard obsoleti, i social network hanno ampiamente permesso agli apologeti del gruppo terroristico palestinese Hamas, ai critici di Israele e ad altri di diffondere e sostenere la falsa narrativa secondo cui i resoconti di aggressioni sessuali, stupri di gruppo e altre atrocità sono inventati o grossolanamente esagerati, secondo CyberWell, un'organizzazione no-profit fondata nel maggio 2022 per creare un database aperto per monitorare e aiutare a rimuovere i contenuti antisemiti online.
Il team del gruppo di monitoraggio dei social media online CyberWell
"Nonostante i terroristi di Hamas documentino le loro atrocità, le trasmettano in livestreaming e carichino video e foto sulle piattaforme, i radicali che agiscono sui social network hanno rapidamente iniziato a negare il fatto stesso della violenza sessuale - narrazioni che hanno guadagnato slancio e continuano a essere diffuse online fino ad oggi", ha dichiarato il CEO di CyberWell Tal-Or Cohen Montemayor. "La negazione dello stupro è un tentativo di riscrivere la storia, oscurare i crimini deliberati commessi contro le donne e deviare la compassione dalle vittime alla giustificazione e alla celebrazione dei loro aggressori".
Gli eventi senza precedenti del 7 ottobre hanno portato alla luce un'ondata di terrorismo che utilizza il potere dei social network per prendere di mira i parenti delle vittime, danneggiare gli israeliani e raggiungere milioni di utenti internet in Medio Oriente e nel mondo.
David Saranga, responsabile della diplomazia digitale presso il Ministero degli Affari Esteri, avverte che i social network sono diventati una minaccia strategica per Israele e per le altre democrazie di stampo occidentale.
"Nessun Paese democratico dispone di mezzi efficaci per combattere questa cultura della menzogna", ha avvertito Saranga. "Anche se migliaia di persone segnalano il tweet come dannoso e alla fine viene rimosso dalla piattaforma, il danno è già stato fatto e milioni di persone sono state esposte alla menzogna".
L'ostaggio liberato Amit Soussana parla degli abusi sessuali di Hamas in un filmato pubblicato il 3 aprile 2024, tratto dal documentario di prossima uscita "Screams Before Silence", prodotto da Kastina Communications
Una recente analisi di CyberWell ha rivelato che 135 post sui social network, in inglese e arabo, che negano che Hamas abbia perpetrato violenze sessuali e stupri il 7 ottobre, sono riusciti a raggiungere più di 15 milioni di utenti. Quasi la metà dei messaggi è apparsa su X, il 27% su Facebook, il 13% su TikTok e il 6% su Instagram.
CyberWell ha rilevato che gli utenti dei social network che negano l'esistenza di una violenza sessuale di solito fanno riferimento alla mancanza di prove concrete o di testimonianze di vittime di stupro, molte delle quali sono state anche uccise. Quando vengono rese pubbliche testimonianze toccanti, i critici cercano di minare la loro credibilità, accusandole di mentire, e tentano di screditare l'affidabilità dei giornalisti che riferiscono di aggressioni sessuali.
In alcuni casi, i negazionisti hanno usato affermazioni dubbie sulle atrocità, fatte nella confusione e nel caos che hanno seguito immediatamente i massacri senza precedenti, per assolvere il gruppo terroristico palestinese Hamas dalle sue colpe.
Secondo Montemayor, c'è anche chi sostiene che i terroristi di Hamas non avrebbero potuto commettere crimini sessuali perché guidati da un'ideologia religiosa musulmana, sostenendo che le vittime sono state violentate dagli israeliani, una teoria cospirativa che si unisce all'idea, generalmente marginale, che Israele sia dietro le atrocità commesse il 7 ottobre.
Il presidente Isaac Herzog con i membri senior del social network cinese TikTok, a Gerusalemme, il 6 febbraio 2024.
Anche se queste storie violano le politiche delle piattaforme di social network che ospitano questi contenuti, il loro tasso medio di rimozione da parte dei moderatori è stato solo del 22% circa, inferiore al tasso medio di rimozione del 32% per i messaggi antisemiti nel 2023, secondo CyberWell.
I moderatori dei contenuti hanno eliminato poco più del 24% dei post segnalati su Facebook, il 20% su YouTube, il 12,5% su TikTok, mentre X ha contrassegnato il 4% dei tweet con il flag "visibilità limitata" della piattaforma e ha eliminato solo l'1,5% dei post.
Secondo il rapporto di CyberWell, Instagram, che è di proprietà della società madre di Facebook, Meta, ha avuto il tasso di cancellazione più basso per i contenuti che negano lo stupro del 7 ottobre, con un tasso di azione dello 0%.
Il basso tasso di cancellazione è dovuto a carenze significative nell'applicazione delle politiche della piattaforma o alla mancata inclusione dei massacri del 7 ottobre nella "lista" degli eventi violenti riconosciuti, secondo il gruppo di vigilanza nel suo rapporto.
Tal-Or Cohen Montemayor, amministratore delegato di CyberWell
"Le piattaforme devono far rispettare le loro attuali politiche sull'hate speech e sulla violenza sessuale, riconoscere la negazione delle aggressioni sessuali del 7 ottobre come contenuto proibito e rimuovere questi messaggi su larga scala", ha sottolineato Montemayor. "Siamo a più di sette mesi dal 7 ottobre e notiamo che le piattaforme di social network non stanno ancora rimuovendo sistematicamente questi contenuti e non hanno pubblicato alcun tipo di dichiarazione o posizione su questo tema".
Montemayor ha lamentato il fatto che non esiste una guida alla cancellazione automatica per i moderatori di contenuti all'interno dei social network, ad eccezione della pornografia, in particolare quella infantile, e della violazione del diritto d'autore, in quanto esistono politiche chiare che riconoscono questo tipo di contenuti come "attività illegali".
"Ciò che stanno facendo è affidarsi a un sistema di fact-checking di terze parti, il che significa che tutto ciò che viene riportato sui social network è soggetto a un fact-checking di terze parti se si tratta di fatti, e quindi rallenta l'intero processo necessario per verificare o confutare un'affermazione, mentre le informazioni potenzialmente false rimangono online", ha lamentato Montemayor. "Il risultato è una popolarità senza precedenti per la campagna di smentita del 7 ottobre".
CyberWell mira a promuovere l'applicazione e il miglioramento delle politiche digitali e degli standard comunitari nello spazio dei social network e a combattere l'antisemitismo e l'incitamento all'odio online. Il gruppo di vigilanza ha utilizzato l'intelligenza artificiale (AI) per costruire un database open source in tempo reale che utilizza l'intelligence open source per monitorare e segnalare l'antisemitismo online.
CyberWell fa parte del programma Trusted Partner di Meta, che gli consente di comunicare direttamente con Facebook e Instagram sui contenuti che ritiene possano essere o siano considerati discorsi di odio. Il gruppo di monitoraggio partecipa a un programma simile con TikTok e condivide anche i dati con il social network X di Elon Musk quando identifica hashtag rilevanti o picchi di antisemitismo, ha detto Montemayor.
Il gruppo di monitoraggio ha creato un lessico esclusivo per segnalare i contenuti antisemiti che hanno un'alta probabilità di essere diffusi online. Il lessico si basa sulla definizione di antisemitismo dell'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). I contenuti segnalati vengono poi controllati manualmente dal team di ricerca di quattro persone di CyberWell e incorporati in un avviso di conformità di alto livello per i moderatori di contenuti, i team di policy e gli ingegneri dei social network.
"In effetti, siamo uno strumento di conformità all'antisemitismo online per le piattaforme di social network, in quanto forniamo loro dati reali sul mancato rispetto delle loro regole", ha sottolineato Montemayor. "Questo permette ai loro team di indagare in modo indipendente e quindi di rimuovere i contenuti in questione".
Dall'assalto del 7 ottobre, CyberWell ha contribuito a rimuovere oltre 50.000 contenuti che violano le politiche delle piattaforme di social network, ha dichiarato Montemayor.
Manifestanti durante una manifestazione che denuncia le violenze sessuali subite dalle donne israeliane durante l'assalto di Hamas al sud di Israele il 7 ottobre, davanti alla sede delle Nazioni Unite a New York, 4 dicembre 2023
Tuttavia, le piattaforme di social network non stanno ancora rimuovendo questi contenuti su larga scala, ha accusato l'autrice.
I rappresentanti di Facebook, Instagram, della loro società madre Meta e di TikTok non hanno risposto alle richieste di commento prima della stampa di questo articolo. Non è stato possibile contattare alcun rappresentante di X.
Secondo Montemayor, i principali social network devono rilasciare una dichiarazione in cui si dichiari che la negazione del 7 ottobre è "un contenuto proibito perché è una negazione di eventi violenti, progettati per vittimizzare le vittime di un grande attacco terroristico".
CyberWell ha invitato tutti i social network a riconoscere e trattare i contenuti che confutano e distorcono le atrocità del 7 ottobre nello stesso modo in cui tratterebbero i contenuti che confutano o distorcono l'Olocausto, in base a politiche che limitano il discorso che nega l'esistenza di eventi violenti ben documentati.
"All'inizio, le piattaforme di social network erano riluttanti a stabilire qualsiasi tipo di politica sulla questione del 7 ottobre, dato che continuavano a essere pubblicate informazioni sugli eventi", ha detto Montemayor. "Ma a questo punto, l'esitazione a rispondere a questo appello e a riconoscere che si tratta di una campagna antisemita deliberata e a farne una questione di politica è una pigrizia che porterà alla violenza contro il popolo ebraico e questo è inaccettabile".
(The Times of Israël, 5 giugno 2024)
Giusto in tempo per Yom Yerushalaim: la popolazione di Gerusalemme supera il milione di abitanti
di Michelle Zarfati
Yom Yerushalaim celebra quest’anno i 57 anni dalla riunificazione della città nella Guerra dei Sei Giorni. L’Istituto di Gerusalemme per la Ricerca Politica ha pubblicato il suo 38° rapporto annuale sulla città, che fornisce uno sguardo statistico approfondito sulla capitale. Con 1.005.900 abitanti nel 2022, la popolazione di Gerusalemme è il doppio di quella di Tel Aviv, secondo i dati dell’ultimo censimento.
La costruzione a Gerusalemme ha raggiunto un nuovo massimo nel 2023, con l’inizio dei lavori per 5.800 unità abitative, il numero più alto fino ad oggi. Nel 2023, anche il tasso di partecipazione alla forza lavoro tra le donne arabe in città è continuato a salire, raggiungendo il 29%. Mentre 7.600 nuovi immigrati hanno scelto Gerusalemme come prima destinazione in Israele nel 2022, continuando una tendenza al rialzo, il saldo migratorio complessivo della città è rimasto negativo a -7.200 rispetto ai -6.600 dell’anno precedente.
Le principali destinazioni per coloro che migrano fuori da Gerusalemme sono state Beit Shemesh (18%), Bnei Brak (4%), Givat Ze’ev (4%), Tel Aviv-Jaffa (6%), Modi’in (3%), Beitar Illit (3%), Modi’in Illit (2%), Ma’ale Adumim (2%) e Kochav Ya’akov (1%).
Sul fronte dell’istruzione e del turismo, Gerusalemme ha guidato il Paese con 41.300 studenti nei suoi istituti di istruzione superiore nell’anno accademico 2022/23 e 2.735.400 pernottamenti di visitatori stranieri nel 2023. L’uso del trasporto pubblico è aumentato del 13% nel 2023 rispetto all’anno precedente, con un aumento del 20% dei passeggeri della metropolitana leggera. Il rapporto ha inoltre dettagliato l’impatto che la guerra con Hamas iniziata il 7 ottobre ha avuto sui dati statistici della città: sono infatti circa 13.800 gli sfollati dei kibbutzim che si troverebbero oggi negli hotel e nelle case di Gerusalemme.
(Shalom, 5 giugno 2024)
SALMO 118
Celebrate l'Eterno, poiché egli è buono,
perché la sua benignità (חסד) dura in eterno (לעולם).
Sì, dica Israele:
“La sua benignità dura in eterno”.
Sì, dica la casa d'Aaronne:
“La sua benignità dura in eterno”.
Sì, dicano quelli che temono l'Eterno:
“La sua benignità dura in eterno”.
Dal fondo della mia angoscia invocai l'Eterno;
l'Eterno mi rispose e mi portò in salvo.
L'Eterno è per me; io non temerò;
che cosa mi può fare l'uomo?
L'Eterno è per me fra quelli che mi soccorrono;
e io vedrò quel che desidero su quelli che mi odiano.
È meglio rifugiarsi nell'Eterno
che confidare nell'uomo;
è meglio rifugiarsi nell'Eterno
che confidare nei prìncipi.
Tutte le nazioni mi hanno circondato;
nel nome dell'Eterno, eccole da me sconfitte.
Mi hanno circondato, sì, mi hanno accerchiato;
nel nome dell'Eterno, eccole da me sconfitte.
Mi hanno circondato come api,
ma sono state spente come fuoco di spine;
nel nome dell'Eterno io le ho sconfitte.
Tu mi hai spinto con violenza per farmi cadere,
ma l'Eterno mi ha soccorso.
L'Eterno è la mia forza e il mio cantico,
ed è stato la mia salvezza.
Un grido d'esultanza e di vittoria risuona nelle tende dei giusti:
“La destra dell'Eterno fa prodigi.
La destra dell'Eterno si è alzata,
la destra dell'Eterno fa prodigi”.
Io non morirò, anzi vivrò,
e racconterò le opere dell'Eterno.
Certo, l'Eterno mi ha castigato,
ma non mi ha dato in balìa della morte.
Apritemi le porte della giustizia;
io entrerò per esse e celebrerò l'Eterno.
Questa è la porta dell'Eterno;
i giusti entreranno per essa.
Io ti celebrerò perché tu mi hai risposto
e sei stato la mia salvezza.
La pietra che i costruttori avevano disprezzata
è divenuta la pietra angolare.
Questa è opera dell'Eterno,
è cosa meravigliosa agli occhi nostri.
Questo è il giorno che l'Eterno ha fatto;
festeggiamo e rallegriamoci in esso.
O Eterno, salvaci!
O Eterno, facci prosperare!
Benedetto colui che viene nel nome dell'Eterno!
Noi vi benediciamo dalla casa dell'Eterno.
L'Eterno è Dio e ha fatto risplendere la sua luce su di noi;
legate la vittima della solennità con le corde e conducetela ai corni dell'altare.
Tu sei il mio Dio, io ti celebrerò;
tu sei il mio Dio, io ti esalterò.
Celebrate l'Eterno, perché egli è buono,
perché la sua benignità dura in eterno.
Negoziare con il diavolo
Si può chiamare “piano Bibi” o“piano Biden”, resta il fatto che Israele ha formulato una proposta ideale per Hamas, ma Sinwar può rifiutare. La pressione internazionale, il Libano, i quattro ostaggi uccisi a Gaza.
di Micol Flammini
TEL AVIV - Non c’è scelta senza costi in Israele, non c’è decisione senza il dilemma: prima gli ostaggi o prima la sicurezza del paese? Tutto va al di là dei calcoli politici, della volontà del premier Benjamin Netanyahu di rimanere attaccato ai suoi alleati problematici di estrema destra – il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich – e riguarda piuttosto come il paese si è trovato nella necessità di fare una proposta di accordo rischiosa per vedere tornare gli oltre centoventi israeliani rapiti il 7 ottobre e concedere il cessate il fuoco dentro alla Striscia di Gaza, secondo un piano che è stato descritto dal presidente americano Joe Biden venerdì sera e che ha seguito a una proposta israeliana. Nonostante le rettifiche di Netanyahu, israeliana la proposta lo è davvero: due settimane fa, dopo la pubblicazione del video che mostrava il rapimento delle ragazze dalla base di Nir Oz, sanguinanti, con le mani legate, trascinate dai terroristi di Hamas verso le jeep dirette a Gaza, era stato proprio il premier a dare alla squadra di mediatori israeliani il mandato di formulare una nuova proposta di accordo, prendendo in considerazione di assecondare molte delle richieste di Hamas. I negoziatori aveva portato la proposta al gabinetto di guerra, in cui Netanyahu siede assieme a un gruppo ristretto di ministri: tutti avevano accettato la nuova proposta, anche il ministro degli Affari strategici Ron Dermer, stretto collaboratore del premier, di rado contrario alle sue posizioni. Tutti, il premier per ultimo, avevano accettato, ma la proposta prima di essere condivisa con il resto del governo è stata mandata agli Stati Uniti, ai mediatori egiziani e qatarini e anche a Hamas. Prima di tenere il suo discorso, Biden non aveva raccontato fino a che punto avrebbe delineato il piano, neppure l’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Herzog, sapeva quanto oltre si sarebbe spinto Biden. Il capo della Casa Bianca aveva deciso di andare davanti alle telecamere e raccontare di un piano in tre fasi che gradualmente porterebbe alla liberazione di tutti gli ostaggi e al cessate il fuoco permanente nella Striscia di Gaza. Un piano costoso per Israele che di fatto accetta tutte le condizioni di Hamas tranne una: il cessate il fuoco permanente immediato. Secondo la proposta israeliana la prima tregua dovrebbe durare sei settimane. Le proposte sono sempre soggette a interpretazioni, non sono accordi fatti e firmati, servono a far ripartire le trattative, per questo e non soltanto per motivi di politica interna, dopo l’annuncio di Biden, Netanyahu ha precisato che ci sono differenze tra il piano raccontato da Washington e quello delineato in Israele. “Biden ha collegato il cessate il fuoco temporaneo della prima fase a quello permanente della seconda, dando un forte segnale della fine della guerra, ed è un dettaglio non piccolo”, ha detto al Foglio Nahum Barnea.
• Il piano che lascia Hamas al suo posto e che Sinwar può rifiutare
Barnea è un giornalista dello Yedioth Ahronoth, una leggenda del giornalismo israeliano ed è convinto che non ci sia trucco nella decisione di Biden di parlare per primo della proposta israeliana che le famiglie degli ostaggi chiamano “piano Netanyahu”, ribadendo la paternità dell’iniziativa del premier che non può rinnegare quanto già ha accettato. “Netanyahu ha chiarito le differenze su questo punto”. Per Biden durante le sei settimane di tregua bisognerà negoziare la seconda fase e se la seconda fase non verrà raggiunta, il cessate il fuoco verrà esteso. Questo rischia di mettere Hamas nelle condizioni di ritardare la liberazione degli ostaggi, legando Israele alla minaccia di non rivederli più. Ieri Netanyahu ha detto che i negoziati per la seconda fase cominceranno entro il sedicesimo giorno di tregua e se Israele avrà prove del fatto che Hamas sta costringendo i mediatori a discorsi infruttuosi allora i combattimenti riprenderanno. Secondo Barnea, “Biden non fa pressione su Israele, ma su tutti gli altri: su Hamas che comunque ancora non si è seduto al tavolo dei negoziati, e su Qatar ed Egitto affinché a loro volta ottengano un accordo serio da Hamas”.
La politica israeliana è litigiosa di natura, per costituzione, e in tempo di guerra, con il paese dilaniato da una scelta tanto difficile, le ossessioni politiche di una maggioranza che ha poco in comune, non aiutano. I sondaggi dicono che Netanyahu sta recuperando consensi e forse deve temere le elezioni meno di qualche mese fa. Se il governo cadesse, con Smotrich e Ben-Gvir pronti a togliergli il sostegno perché contrari alla proposta di accordo, il premier avrebbe già pronta una nuova maggioranza, costituita dall’ex capo di stato maggiore già nel gabinetto di guerra, Benny Gantz, dal leader del partito Yesh Atid, Yair Lapid, dal suo ex ministro Gideon Sa’ar, e dall’eterno alleato-rivale Avigdor Lieberman, che da anni è pronto a creare e distruggere i governi di Bibi. Questo paracadute politico costituito da rivali acerrimi del premier si è messo a disposizione con una richiesta: elezioni anticipate, ma non immediate. Prima c’è da risolvere il dramma del paese, la situazione a Gaza e la guerra a nord, dove i combattimenti con Hezbollah stanno aumentando, sono furiosi, alcuni dei villaggi ormai evacuati sono circondati dalle fiamme. Israele ha sette fronti da guardare, difficile concentrarsi soltanto su Gaza, ma il pensiero comune dei Gantz, dei Lapid e dei Sa’ar è che non può risolverli sotto tanta pressione. “Non esiste una decisione semplice – ripete Barnea – gli israeliani vogliono il ritorno degli ostaggi e l’eliminazione di Hamas, la domanda è quale obiettivo viene prima? I sondaggi dicono che prima vengono gli ostaggi e non c’è consolazione perché per vederli liberi scarcereremo terroristi che torneranno a Gaza o in Cisgiordania”. Le parole di Barnea indicano la consapevolezza che Israele farà uscire dalle sue prigioni minacce reali e potenziali, la paura di un nuovo attacco. E il prezzo che il paese è disposto a pagare non finisce qui.
Nella proposta israeliana e nel piano delineato da Biden non c’è la risposta a una domanda: che fine farà Hamas? Secondo alcuni retroscena israeliani, il capo della Casa Bianca e Netanyahu si intendono più del previsto, a porte chiuse il secondo è più incline al compromesso, quando apre la porta, cambia. In ebraico Bibi è in un modo e parla di fine della guerra, in inglese è in un altro e dice andiamo avanti a qualunque costo. Secondo chi lo osserva da anni, meglio ascoltarlo in ebraico che in inglese e Biden lo ha capito. Questo lascia la speranza per un negoziato ma non per la fine di Hamas: “Così come il piano è stato presentato, dimostra che sia Israele sia gli Stati Uniti accettano Hamas come dato di fatto. E’ ovvio che non è possibile sviluppare alcuna alternativa se il gruppo manterrà il potere e rimarrà il padrone degli aspetti militari e civili di Gaza”, spiega al Foglio Michael Milshtein, analista nel Moshe Dayan Center che segue e studia Hamas da tempo. Secondo l’Egitto, il gruppo della Striscia guarda in modo positivo alla proposta, “si adatta alla maggior parte dei suoi interessi e al desiderio di restare al potere a Gaza. Ma Hamas non ha ancora presentato una risposta formale”, conclude Milshtein. Netanyahu ha promesso la distruzione di Hamas, non ottenendola potrebbe controbilanciare l’insuccesso con la normalizzazione storica dei rapporti con l’Arabia Saudita, come già accaduto quando aveva promesso che Israele avrebbe annesso i territori dell’area C della Cisgiordania e dimenticò la promessa per l’avvio degli Accordi di Abramo. Fu una decisione oculata e con meno responsabilità rispetto a quella che è chiamato a prendere ora.
Nel racconto di questi giorni di annunci mancano però dei personaggi: nessuno dei leader di Hamas ha parlato e Yahya Sinwar potrebbe avere buone ragioni per continuare la guerra. Con il 7 ottobre ha ucciso milleduecento cittadini israeliani nei kibbutz che continuano a restituire corpi, come quello di Dolev Yahud, identificato ieri; ha rapito più di duecento persone, alcune uccise durante la prigionia, come Nadav Popplewell, Amiram Cooper, Yoram Mezger, Haim Perri, la morte di tutti e quattro è stata annunciata ieri, i loro corpi sono ancora nelle mani dei terroristi; e nonostante la devastazione, è riuscito a trascinare Israele in un pantano di accuse internazionali, a ricucire la causa palestinese, a rafforzare il gruppo in Cisgiordania e davanti alla possibilità di indebolire ancora di più lo stato ebraico potrebbe volere altra guerra, altri morti a Gaza, altre proteste in Israele. La proposta di accordo è di fatto dettata da Hamas, l’aggressore che non è detto sia pronto ad accettare. La pressione internazionale unilaterale diretta contro Israele ha reso Sinwar il padrone di ogni mediazione e il maestro di una lezione pericolosa.
• La proposta di Biden
Ma perché non volete un cessate il fuoco? Perché non fate una tregua per salvare gli ostaggi? Sono domande che sentiamo spesso, anche da parte degli amici e certamente in cuor nostro ci siamo posti più di una volta questioni del genere. Soprattutto quando i giornali parlano di nuovi piani per sospendere e magari concludere la guerra. Vi sono state decine di tali progetti in questi otto mesi, spesso annunciati in maniera trionfalistica dai giornali. L’ultimo caso è il cosiddetto “Piano Biden” che però il presidente americano attribuisce (certamente per motivi negoziali) a una fonte israeliana, anche se questo non risulta vero. Israele ha comunque dichiarato di considerare “cattivo” il progetto Biden, ma di essere disposto ad accettarlo con le opportune precisazioni. Lo schema americano, condiviso con Egitto e Qatar, non è però molto diverso dai tanti già proposti.
• La sintesi del piano
Prima fase: entrambe le parti rispetterebbero un cessate il fuoco di sei settimane. Israele si ritirerebbe dai principali centri abitati di Gaza e un certo numero di rapiti verrebbero rilasciati: donne, anziani e feriti, in cambio di centinaia di palestinesi condannati spesso di multipli omicidi e incarcerati. Gli aiuti a Gaza crescerebbero arrivando a circa 600 camion al giorno. Durante la prima fase, Israele e Hamas continuerebbero a negoziare per raggiungere un cessate il fuoco permanente. Se i colloqui durassero più di sei settimane, la prima fase della tregua continuerebbe fino a quando non si raggiungesse un accordo, ha detto Biden.
Seconda fase: con un cessate il fuoco permanente, Israele si ritirerebbe completamente da Gaza. Tutti i restanti ostaggi israeliani viventi sarebbero rilasciati, compresi i soldati maschi, e in cambio verrebbero scarcerati altri detenuti palestinesi, a centinaia.
Terza fase: Hamas restituirebbe i resti degli ostaggi morti. Le macerie verrebbero rimosse e inizierebbe un periodo di ricostruzione da tre a cinque anni, sostenuto dagli Stati Uniti, dall’Europa e dalle istituzioni internazionali.
• I problemi
Si tratta di uno schema estremamente povero, così generico da dare a Hamas praticamente quel che vuole. Israele lo vuole rendere concreto e fa alcune domande essenziali: quanti sono gli ostaggi vivi? Chi governerebbe Gaza dopo l’eventuale ritiro? Hamas certamente cercherà di sfruttare un cessate il fuoco per ricostituire il suo dominio a Gaza. Come essere sicuri che non si ripeta un 7 ottobre? Che garanzie che non ricominci subito il riarmo di Hamas? E che non si prolunghi artificialmente il cessate il fuoco, con trucchi negoziali o col semplice rifiuto di mettersi d’accordo, per trasformarlo in una tregua permanente anche senza liberare i rapiti? I terroristi dal canto loro non vogliono dare queste informazioni e sono disposti a trattare sul cessate in fuoco solo dopo e non prima del ritiro israeliano. O almeno vogliono la garanzia americana che comunque vadano le cose, Israele sarà costretto a ritirarsi da Gaza, senza terminare l’eliminazione delle loro forze militari e dei loro capi.
• Un bluff?
È probabile insomma che il Piano Biden sia un bluff destinato soprattutto alla politica interna americana, e insieme sia una mossa nel tentativo di Biden di destabilizzare il governo israeliano per averne un altro guidato dalla sinistra e disposto a far prevalere gli interessi elettorali democratici sulla sicurezza di Israele. Ed è probabile che sia un bluff anche l’accettazione del governo israeliano pressato dagli americani e da un’opposizione di sinistra sempre più inquieta. Ed è un bluff naturalmente anche da parte di Hamas. Bisogna aver chiaro infatti che i terroristi non hanno fatto il massacro del 7 ottobre e rapito centinaia di persone allo scopo di far tacere le armi. Bastava che non facessero partire il pogrom e Gaza sarebbe rimasta in pace. Non si sono mossi per un’esplosione incontrollata di fanatismo, ma con un piano preciso e un obiettivo chiarissimo.
• Quel che vogliono i terroristi
L’obiettivo di Hamas (e di Hezbollah, degli Houti, in definitiva dell’Iran) è la distruzione di Israele. Non possono sperare di ottenerla in un colpo solo, quindi si tratta di un piano a fasi che mira a indebolire, destabilizzare, isolare progressivamente lo Stato ebraico. Il 7 ottobre serviva a mostrare al mondo che Israele non è invincibile e a demoralizzare e dividere i suoi cittadini. Il rapimento degli ostaggi era finalizzato a ricattare il Paese e frammentare la sua opinione pubblica: sono obiettivi politici e non puramente militari, che in parte sono stati raggiunti. La trattativa serve a questi stessi scopi. Hamas non ha certamente sacrificato buona parte delle sue forze e costretto Israele a una difficile e dolorosa guerriglia urbana con molti caduti, al fine di ottenere alla fine la pace, e neppure di liberare qualche suo terrorista catturato e condannato. Lo scopo è quello di uscirne con un vantaggio politico sostanziale nel cammino verso la distruzione di Israele e la propria affermazione come organizzazione guida di questo progetto. Cioè la chiara sconfitta (politica, non militare) di Israele. Probabilmente non pensava di avere tanti alleati nei ceti intellettuali e nei dirigenti politici di Europa e Usa, molti di più di quanti ne abbia nel mondo arabo.
• Ciò cui Israele non può rinunciare
Israele non può limitarsi a chiudere la guerra ottenendo indietro i rapiti sopravvissuti a otto mesi di sevizie, perché facendolo accetterebbe che si possa devastare il suo territorio, rapire i suoi cittadini, violentare le sue donne, bombardare la sue città e sopravvivere. Consentirebbe cioè all’esempio che Hamas vuole dare e aprirebbe la strada a altri episodi di terrorismo di massa, bombardamenti, stragi, stupri. Darebbe ragione a coloro che, come dicono spesso i terroristi “preferiscono la morte alla vita”. Salvare alcuni rapiti senza eliminare i rapitori, magari tenendosi addosso l’odio delle classi dirigenti occidentali e lo scetticismo degli alleati mediorientali, sarebbe un suicidio collettivo. La maggior parte degli israeliani, come mostrano i sondaggi, capisce benissimo la posta in gioco.
• Perché il cessate il fuoco non può che essere provvisorio
Come ha detto Netanyahu, Israele può sospendere i combattimenti, non può chiudere la guerra senza aver eliminato completamente Hamas (e fatto i conti con Hezbollah, che è sempre più attivo). La pressione degli Usa e degli europei costringe Israele a diluire e prolungare la guerra, a combatterla con crescenti limiti tattici. Ma se Israele non vuole cadere in una terribile spirale terroristica, deve portare avanti questa guerra e vincerla chiaramente, senza consentire scappatoie ai terroristi. Sarà durissima, dovrà probabilmente farlo da solo, ma questo è lo spirito di Israele.
(Shalom, 4 giugno 2024)
ISAIA 31
Guai a coloro che scendono in Egitto in cerca di soccorso e hanno fiducia nei cavalli, che confidano nei carri perché sono numerosi, e nei cavalieri perché molto potenti, ma non guardano al Santo d'Israele e non cercano l'Eterno!
Eppure, anch'egli è saggio; fa venire il male e non revoca le sue parole, ma insorge contro la casa dei malvagi e contro il soccorso degli artefici di iniquità.
Gli Egiziani sono uomini, e non Dio; i loro cavalli sono carne e non spirito; quando l'Eterno stenderà la sua mano il protettore inciamperà, cadrà il protetto e periranno tutti assieme.
Poiché così mi ha detto l'Eterno: “Come il leone o il leoncello ruggisce sulla sua preda e, benché una folla di pastori gli sia raccolta contro, non si spaventa alla loro voce, né si lascia intimidire dallo strepito che fanno, così scenderà l'Eterno degli eserciti a combattere sul monte Sion e sul suo colle.
Come gli uccelli spiegano le ali sulla loro nidiata, così l'Eterno degli eserciti proteggerà Gerusalemme; la proteggerà, la libererà, la risparmierà, la farà scampare”.
Tornate a colui dal quale vi siete così profondamente allontanati, o figli d'Israele!
Sposarsi in tempo di guerra in Israele
Un matrimonio in Israele è l’occasione per alcune riflessioni sui tempi che viviamo.
Emanuele Luzzatti - Il matrimonio ebraico in italia
Ieri sono stato al matrimonio del figlio di un mio carissimo amico, a Tel Aviv: Michael e Benedetta – che vivono entrambi da tempo in Israele – sono stati sposati dalla “spina dorsale”della Rabbanut di Roma, Rav Riccardo Shmuel Di Segni, Rav Yoseph Pino Arbib e Rav Avraham Alberto Funaro. E, nel momento più emozionante della cerimonia, con la Chuppah che ci regalava un ineguagliabile tramonto sul mare, non ho potuto fare a meno di pensare (ma dove va la testa, in certi momenti?) al sindaco di Bologna che ha esposto la bandiera palestinese dal Palazzo comunale della sua città. Inutile e superfluo chiedersi perché non abbia fatto lo stesso il 7 ottobre con la bandiera israeliana… Peccato non fosse presente, magari come invitato, al matrimonio… Forse (dico forse) ci avrebbe ripensato e, sempre forse, avrebbe capito lo stato d’animo – degli ebrei, israeliani e non – in questo tempo di guerra in cui si celebrano (ancora e sempre) matrimoni. In Israele, da sempre, la voglia di pace, di convivenza e di felicità, prevale su tutto, e tuttavia, in Israele, la via di mezzo, il compromesso – portatore di guai più gravi in futuro – non è mai piaciuto. Con questo sentimento nazionale, sebbene trascinati in una guerra sanguinosa non voluta – che ogni giorno provoca morti e feriti nella gioventù – e nonostante che il nord d’Israele sia rimasto disabitato per evitare vittime civili, la società israeliana risponde con il Matrimonio che, oltre ad essere grande mitzvah, rappresenta l’aspetto più alto della resilienza ebraica. Portiamo con noi le nostre ferite, ricordando che, oggi come un tempo, le alleanze e le amicizie sono fondamentali per affrontare il male. Per riemergere dalle tenebre alla luce: questa è la storia ebraica. Superiamo il male attraverso l’unità e, non meno importante, grazie ai legami e alle profonde amicizie e, nelle ore più buie, dalla persecuzione nazifascista alla strage di Hamas, il popolo ebraico comunque riesce a guardare avanti. Le voci e le parole dei Rabbanim, che celebrano un rito antichissimo e prezioso, calmano la mia anima inquieta – che vaga avvolta dalla luce di un tramonto accecante – e aprono un sempre nuovo e rinnovato varco tra noi e il Divino. Ne abbiamo tutti bisogno, consapevolmente o meno. In realtà, ammettiamolo, abbiamo pochissimi luoghi fisici, nel mondo, che ci accolgano per celebrare i nostri riti e le nostre sacre ricorrenze, ma di tempo, tempo dello spirito e della preghiera, oh, di quello ne abbiamo tanto, tantissimo, infinito e circolare. E le parole, già, le parole del Rito matrimoniale e anche altre parole (ieri sera tutte le parole si intrecciavano, con significanze arcane): qui, in Israele, diciamo insieme vinceremo; ma chi è incluso in insieme? Insieme Ebreo? Insieme Israeliani? Insieme di chi vuole la pace? Insieme a chi cerca la luce? Forse dovremmo iniziare a decodificare le parole. Ma non oggi, domani. Oggi c’è la cerimonia del matrimonio, con il suo fortissimo impatto emotivo e visivo che ci ricorda di rispettare e di non perdere tradizioni antiche e forti. La sua celebrazione è coinvolgente, ricca di usanze, rituali, nenie e litanie, è un’unione spirituale tra due persone e rappresenta l’adempimento dei comandamenti del Signore. Oggi Israele non è guerra a Gaza, non è gioventù in divisa senza anima. Oggi si crea una nuova famiglia e, senza dimenticare quelle distrutte e gli ostaggi, si continua a guardare al futuro. La vita, alle volte, diviene un turbine di impegni, obblighi e incertezze, ma oggi è un universo completo in se stesso e possiede in sé sentimenti ed emozioni, tocca corde differenti, che se ne stavano lì, tranquille, sopite, prima di cominciare il Rito. Mi accorgo che solo così, solo attraverso il Rito, possiamo recuperare il giusto abbandono verso la Vita e ricominciare di nuovo tutto da capo. Il Rito matrimoniale di Michael e Benedetta, così bello e compiuto nella sua perfezione, mi induce quella sensazione dolce-malinconica, quel delicato senso di perdita, quel piacevole struggimento che vorremmo sempre replicare… Mi sento come travolto da una tensione fisica che genera il mondo attorno a me. Il fatalismo non appartiene all’anima ebraica, ma l’ostinazione e la nostalgia, quelle sì. E oggi parlo anche di uno struggimento, di una melancolia agra e dolce alla fine, con la sensazione di incrociare qualcosa di immenso, che travalica la nostra vita, la supera e assurge a caposaldo per manifestare tutto, mentre fisso le onde che – lente – si increspano sul bagnasciuga. E non posso evitare di pensare a tutte le vite che abbiamo perso, dal 7 ottobre in poi. A chi non c’è più, agli ostaggi, ai nostri giovani al fronte – tutti celebravano ogni giorno la Vita e l’Amore, come noi, questa sera. C’è forse bisogno del giusto periodo, un tempo di cura, per guarire dalla fine, ma voglio ancora stupirmi delle cose semplici, sorridere, perché dopo il dolore la vita continua, perché, quando provi un dolore insopportabile devi pensare che la vita va avanti e vivere con il sorriso. Resistono gli affetti che non hanno bisogno del tempo materiale, i rapporti che non hanno bisogno di essere nutriti dal tempo materiale. Per questa sera, evitiamo di dividerci in buoni e cattivi, anche se mai nella storia così tanti si sono trasformati in utili strumenti di un asse del male. Decido di non farmi risucchiare e, con parole antiche, non chiedo miracoli o visioni, ma la forza di affrontare il quotidiano, di preservarci dal timore di poter perdere qualcosa della vita, di non darci ciò che desideriamo ma ciò di cui abbiamo bisogno, di insegnarci l’arte dei piccoli passi. Mazal Tov, Michael e Benedetta!(Riflessi Menorah, 4 giugno 2024)
Clamoroso: salta il convegno sul 7 ottobre. Il motivo? C’erano esperti ebrei
Ennesimo sabotaggio nei confronti degli israeliani: niente confronto sui traumi dell’attacco di Hamas.
di Franco Lodige
Dal 7 ottobre si sono moltiplicati gli episodi di antisemitismo in Italia e in Occidente, questo è noto. In maniera più o meno subdola, sono state registrate iniziative di boicottaggio nei confronti degli israeliani, ritenuti responsabili di un presunto genocidio a Gaza. Dagli studenti dei collettivi a certi politici di sinistra, è stata sdoganata una pericolosa caccia all’ebreo che non conosce confini. L’ultimo episodio riguarda la conferenza internazionale intitolata “Trauma personale e collettivo, condivisione di punti di vista ed esperienze professionali” in programma – originariamente – il 9 giugno a Roma: il convegno sulla psicanalisi sui traumi del 7 ottobre (data dell’attacco brutale dei terroristi di Hamas) è saltato per la presenza di esperti israeliani. Nessuna boutade, purtroppo.
Nonostante l’assenza di qualsivoglia intento politico, la conferenza in programma tra esperti di Italia, Israele e Gran Bretagna per discutere dei traumi del 7 ottobre e delle terapie per aiutare adulti e bambini per superarli è stata sabotata per la presenza degli israeliani. Il portale “Moked Pagine Ebraiche” ha confermato che a far saltare il tutto sono state le critiche interne mosse dai soci dell’Aipa (Associazione italiana di psicologia analitica). Una sconfitta per tutti, l’ennesima testimonianza di una sorta di caccia all’ebreo. Ancora più preoccupante che il boicottaggio sia firmato dagli psicanalisti, abituati a discernere la complessità del pensiero umano. “Siamo di fronte a studiosi delle emozioni umane che fanno prevalere gli istinti peggiori del genere umano, come l’odio o la discriminazione, invece che la conoscenza e il ragionamento. Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza, avrebbe detto Dante”, la denuncia più che comprensibile di Emanuele Fiano.
Lo stop all’evento in programma a Roma segue la scia dei tanti casi riguardanti gli israeliani, discriminati se non emarginati a causa del passaporto o della religione. Il più delle volte ci troviamo di fronte a un’esplosione di odio covato per anni, mentre in questo caso si tratta di una sconfitta del buonsenso: cancellare il dialogo – soprattutto tra psicanalisti – è una Caporetto del senno. E poco cambia con l’annuncio dell’Aipa, che parla di evento rimandato e non annullato: giustificare il sabotaggio con il “clima” in Medio Oriente o con le azioni militari in corso è clamorosamente sbagliato, perché gli psicanalisti ebrei non hanno nulla a che fare con tutto ciò. Ma si sa, l’ideologia è spesso più forte di tutto. Anche della ragione.
Veicoli militari israeliani fuori Nablus (la biblica Sichem) durante un raid antiterrorismo la scorsa settimana
Centinaia di residenti ebrei della Samaria (i cosiddetti "coloni") hanno assediato domenica la città palestinese di Nablus dopo che la polizia locale dell'Autorità Palestinese ha dato rifugio a un terrorista. Nablus, la città biblica di Sichem, è un punto focale dell'attività terroristica palestinese. È la stessa città di Sichem che si comportò in modo incauto con i figli di Giacobbe (Israele) e ne subì l'ira (Genesi 34).
Gli ebrei locali hanno bloccato tutte le uscite di Sichem e hanno chiesto all'Autorità Palestinese di estradare il terrorista che mercoledì scorso ha compiuto un attacco con un'auto a un posto di blocco fuori città, uccidendo due soldati delle Forze di Difesa Israeliane, Eliya Hilel (20) e Diego Shvisha Harsaj (20).
L'aggressore è fuggito immediatamente a Sichem e si è arreso alle forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese (AP).
Familiari e amici di Eliya Hilel partecipano al suo funerale
nel cimitero militare di Monte Herzl, a Gerusalemme, il 30 maggio 2024
Il corrispondente di Channel 14 News Hillel Baton Rosen ha raccontato che l'IDF e il servizio di sicurezza israeliano (Shin Bet) inizialmente pensavano che l'Autorità Palestinese avrebbe consegnato il terrorista come parte di una collaborazione. Invece lo hanno lasciato andare e l’hanno aiutato a sfuggire all'arresto da parte degli israeliani.
L'IDF non ha ripreso le ricerche del terrorista e i residenti ebrei ritengono di poter contribuire impedendo a chiunque di lasciare Sichem. Inoltre chiedono giustizia.
Secondo il servizio di notizie online HaKol HaYehudi (La Voce ebraica), la madre di Eliya Hilel ha chiesto l'assedio di Sichem: "Assedieremo Sichem finché il terrorista non sarà catturato, vivo o morto. Invito tutti a unirsi a questa giusta dimostrazione perché sia fatta giustizia".
I soldati dell'esercito israeliano ai posti di blocco a Sichem avrebbero incoraggiato i manifestanti civili e concordato sulla necessità di bloccare il traffico fuori dalla città. Yossi Dagan, capo del Consiglio regionale della Samaria, ha dichiarato lunedì che l'IDF dovrebbe mettere in custodia il governatore dell'Autorità Palestinese a Nablus fino alla consegna del terrorista.
"L'Autorità Palestinese è un'organizzazione terroristica, proprio come i nazisti di Hamas. Loro [Hamas] sono nazisti con un nastro verde in testa, e loro [l'Autorità Palestinese] sono nazisti in giacca e cravatta", ha detto Dagan. "Se lo Stato di Israele ha anche solo un briciolo di onore nazionale, allora il terrorista in giacca e cravatta noto come "Governatore di Nablus", questa feccia che ha ospitato l'assassino dei nostri soldati e lo ha aiutato a fuggire, deve essere arrestato immediatamente".
(Israel Heute, 3 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
I mullah iraniani accelerano il programma nucleare: a qualcuno interessa?
Nel bel mezzo del conflitto tra Hamas e Israele, mentre l'attenzione del mondo è focalizzata sulla guerra iniziata dall'Iran e da Hamas, i mullah al potere in Iran hanno colto l'occasione per portare avanti il loro programma nucleare.
Sostenendo, armando e addestrando Hamas, Hezbollah e gli Houthi, l'Iran ha iniziato una guerra per procura contro Israele, sfruttando in parte il conflitto per distogliere l'attenzione dalle proprie ambizioni nucleari.
Questa mossa calcolata favorisce gli interessi immediati dell'Iran nel destabilizzare i suoi avversari, ossia gli Emirati Arabi Uniti, l'Arabia Saudita, la Giordania, il Bahrein e soprattutto gli Stati Uniti, che Teheran vorrebbe vedere fuori dalla regione, in modo da poter presumibilmente avere il Medio Oriente tutto per sé. L'azione diversiva della guerra di Gaza è però in linea anche con l'obiettivo di sradicare Israele.
Mentre gli emissari dei mullah combattono in prima linea contro il "Piccolo Satana", Israele, l'Iran si muove nell'ombra, sfruttando il caos per fare passi da gigante nelle sue capacità nucleari.
Dallo scoppio della guerra, il programma nucleare iraniano è rapidamente cresciuto, spinto da attività clandestine all'interno del suo impianto super-fortificato di Fordow.
Da recenti rivelazioni del Washington Post è emerso che dietro il velo di segretezza di Teheran, la produzione iraniana di uranio arricchito ha raggiunto una soglia di purezza molto vicina al 90 per cento (il cosiddetto stadio "weapon grade", N.d.T.) necessario per lo sviluppo di armi nucleari.
Il report mette in luce uno sviluppo preoccupante: all'interno del sito nucleare, le apparecchiature appena installate, presumibilmente finanziate almeno in parte dall'amministrazione statunitense, ora hanno tutte le potenzialità per raddoppiare la produzione di uranio arricchito dell'impianto. Questa escalation clandestina non solo viola i confini degli accordi internazionali, ma sottolinea anche la determinazione dell'Iran a costruire quanto prima le sue armi nucleari.
L'intento di dotarsi di armi nucleari sembra essere dettato soprattutto da una forte determinazione a raggiungere l'obiettivo di lunga data di annientare Israele, un Paese più piccolo del New Jersey, che l'ex presidente iraniano Ali Akbar Hashemi Rafsanjani ha di fatto definito un Paese "[che può essere colpito con] una sola bomba", asserendo che "l'uso di una bomba nucleare su Israele non lascerà nulla al suolo, mentre danneggerebbe soltanto il mondo islamico".
Attraverso il suo sostegno a Hamas, Hezbollah e agli Houthi, l'Iran ha orchestrato un'escalation delle ostilità contro Israele secondo la strategia della "rana bollita" ("boiling frog"), adottando gradualmente, in primo luogo, la guerra per procura come mezzo per "cancellare Israele dalle carte geografiche", per usare le parole dell'ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.
Hamas, il 7 ottobre 2023, ha sferrato il suo brutale attacco lanciando migliaia di razzi contro Israele, mentre circa 3 mila terroristi attraversavano la barriera tra Israele e la Striscia di Gaza, assaltando basi militari israeliane e 22 comunità civili.
Questo assalto ha portato i terroristi di Hamas a uccidere circa 1.200 persone in Israele: ebrei, musulmani, cristiani, israeliani, lavoratori stranieri e turisti. Hamas ha perpetrato atrocità che vanno dagli stupri di gruppo, alle torture di uomini, donne e bambini, all'uccisione di un neonato bruciato in un forno, fino alla decapitazione di bambini. Hamas ha inoltre preso in ostaggio 240 persone, portate nei tunnel di Gaza.
Queste barbare perversioni evidenziano la disponibilità, se non addirittura il piacere, dei leader iraniani nell'impiegare qualsiasi mezzo a disposizione per raggiungere i propri obiettivi. Molto probabilmente non considerano la devastazione all'estero come un fattore scatenante dell'instabilità, ma, al contrario, come un mezzo per raggiungere l'egemonia, dopo la quale ci sarà la pace, almeno per loro stessi.
Dal punto di vista dell'Iran, l'acquisizione di armi nucleari è il modo più semplice per completare in modo significativo la conquista della regione ed "esportare la rivoluzione":
"Esporteremo la rivoluzione in tutto il mondo. Finché il grido: 'Non vi è altro Dio fuorché Allah' non risuonerà in tutto il mondo, ci sarà lotta".
Armare le sue milizie per procura di capacità nucleari servirebbe da leva per rafforzare la posizione strategica di Teheran nella regione, fingendo allo stesso tempo di oscurare il suo coinvolgimento diretto. Fornendo armi nucleari a questi gruppi estremisti, e potenzialmente ad altri, l'Iran non solo amplificherebbe la minaccia per i suoi avversari, ma cercherebbe anche di ridurre al minimo il rischio di ritorsioni dirette contro di sé.
Purtroppo, il piano rappresenta una minaccia esistenziale non solo per la stabilità regionale, ma anche per la sicurezza globale. L'Iran si sta muovendo verso l'America Latina, forse per prendere di mira il "Grande Satana", gli Stati Uniti.
La prospettiva che gruppi terroristici dotati di armi nucleari operino impunemente richiede la massima attenzione. Considerata la dipendenza di Teheran dalle entrate derivanti dal petrolio e dal gas per finanziare le proprie ambizioni nucleari, imporre e applicare sanzioni contro l'industria petrolifera dell'Iran e prenderne di mira le sue infrastrutture petrolifere potrebbe almeno ritardare lo sviluppo di armi nucleari. Dovrebbero anche essere compiuti sforzi per colpire i siti nucleari iraniani e il suo brutale Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Non c'è assolutamente tempo per porre indugi nell'affrontare questa minaccia esistenziale. Il regime iraniano ha dimostrato la sua ferma determinazione ad acquisire armi nucleari ad ogni costo. ---
* Majid Rafizadeh, accademico di Harvard, politologo e stratega, consulente aziendale, è anche membro del consiglio consultivo della Harvard International Review e presidente dell'International American Council on the Middle East. È autore di numerosi libri sull'Islam e sulla politica estera statunitense. Può essere contattato all'indirizzo e-mail Dr.Rafizadeh@Post.Harvard.Edu
(Gatestone Institute, 3 giugno 2024 - trad. di Angelita La Spada)
“Riportateli a casa, ora!”. Questo il messaggio lanciato dagli organizzatori di “United we bring them home”, la manifestazione internazionale di solidarietà per gli ostaggi israeliani, che si è tenuta a Largo Argentina, nel cuore di Roma e che ha visto la partecipazione di oltre 200 persone. Promossa dal Forum delle Famiglie degli Ostaggi e Run for Their Lives, e a cui ha aderito anche l’Unione Giovani Ebrei d’Italia, la maratona oratoria si è tenuta in contemporanea con altre città in giro per il mondo, tra cui Londra e New York. A introdurre le varie personalità che sono intervenute, il noto giornalista di Mediaset Antonino Monteleone.
Oltre 125 persone – bambini, ragazzi, donne, uomini e anziani – sono ancora nelle mani dei terroristi di Hamas. “Noi oggi siamo qui per dire alle loro famiglie e al mondo intero che non ci siamo dimenticati di loro. Non ci siamo dimenticati di ciò che hanno subito e stanno ancora subendo” ha affermato il portavoce italiano del Forum delle Famiglie degli Ostaggi e promotore dell’iniziativa, Benedetto Sacerdoti. “Il 7 ottobre è una giornata infinita, una ferita aperta che attende il ritorno a casa di ciascuna di quelle 125 persone per potersi finalmente rimarginare e guarire” ha continuato Sacerdoti, ribadendo più volte come sia necessario “riportarli a casa adesso”.
“Vogliamo ricordare al mondo che ci sono ostaggi di 27 nazionalità diverse, cinque religioni diverse, e noi qui manifestiamo per tutti gli ostaggi” ha detto Tiziana Levy, coordinatrice italiana di Run for Their Lives, gruppo non politico privato e umanitario che è attivo in più di 200 città in tutto il mondo. “Manifestiamo per far aprire gli occhi a tutte quelle persone che ancora non credono quello che è successo, e infine camminiamo per mantenere una luce, la stessa luce che mantengono i familiari degli ostaggi” ha concluso Levy.
“Non possiamo rimanere in silenzio di fronte alla barbarie che i terroristi di Hamas stanno compiendo da ormai 240 giorni sulla pelle dei nostri fratelli e sorelle. Il nostro pensiero va a tutti loro, ai loro volti e alle loro voci, che non possono gridare aiuto. Siamo qui per farlo al loro posto” ha affermato Luca Spizzichino, presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia. “È un nostro dovere morale alzare la voce e rivendicare con forza e determinazione che si faccia tutto il possibile per riportarli a casa” ha proseguito, ricordando come i giovani ebrei italiani non smetteranno mai di lottare per la loro libertà.
“Tutti i morti che abbiamo contato fino a oggi, sia ebrei che palestinesi, sono da addebitare a Hamas” ha detto Stefano Parisi, presidente dell’associazione Setteottobre, che è intervenuto alla manifestazione. Sono scesi in piazza anche diversi consiglieri della Comunità Ebraica di Roma, tra loro anche Johanna Arbib, che ha preso la parola. “Oggi per noi è il 7 ottobre, sono passati 240 giorni, ma è ancora il 7 ottobre. – ha sottolineato Arbib – Noi abbiamo un compito chiarissimo, dobbiamo diffondere la verità e la verità è che il 7 ottobre Israele è stato attaccato e sono state uccise più di 1200 persone”.
A chiudere il presidio una preghiera per il ritorno degli ostaggi letta da Elio Tesciuba.
La comunità israelita svizzera denuncia il crescente antisemitismo
La Federazione svizzera delle comunità israelite (FSCI) “condanna fermamente l’atto terroristico di Hamas e i relativi tentativi di minimizzazione”. Chiede anche che Parlamento e Consiglio federale attuino rapidamente il divieto dell’organizzazione palestinese e invita Berna a impegnarsi maggiormente per la liberazione degli ostaggi a Gaza.
Questo il contenuto di una risoluzione approvata domenica da un’ampia maggioranza dell’assemblea dei delegati svoltasi nella capitale federale, nella quale viene espressa anche solidarietà al popolo israeliano e viene ribadito che il diritto di autodeterminazione di Israele non è negoziabile.
“Allo stesso tempo, si esprime il rammarico per le grandi sofferenze della popolazione civile causate da questa guerra scatenata da Hamas. La pace e la sicurezza devono essere ricercate per la popolazione israeliana, per i palestinesi e per l’intera regione”, si legge in un comunicato diffuso nella serata di domenica dalla FSCI.
• Crescente antisemitismo
I delegati si aspettano inoltre che l’Esecutivo federale e i Cantoni adottino misure efficaci per contrastare il crescente antisemitismo, anche nelle scuole universitarie. “Dopo l’iniziale solidarietà per gli attentati, il clima è cambiato improvvisamente. C’è una situazione politica a migliaia di chilometri da qui che porta molti ad accusarci di colpe cui siamo estranei, lo si vede soprattutto nelle università. Molti di noi subiscono questa situazione”, ha spiegato uno dei partecipanti all’assemblea ai microfoni della Radiotelevisione della Svizzera italiana RSI.
“La cosa più difficile da far capire è la posizione degli ebrei svizzeri”, gli fa eco un altro membro della comunità. “Vediamo ovunque manifestazioni ed esternazioni che vanno contro i principi di una convivenza pacifica”.
Il quartiere ebraico nella Città Vecchia di Gerusalemme
Dopo due anni di lavori di sviluppo e ristrutturazione costati 5 milioni di dollari, l'antico quartiere erodiano di Gerusalemme riaprirà al pubblico questa settimana.
Questo straordinario sito archeologico nel quartiere ebraico della Città Vecchia comprende un quartiere residenziale di 2.600 metri quadrati risalente al periodo del Secondo Tempio. Comprende case lussuose, squisiti mosaici, strade acciottolate e numerosi bagni rituali.
Il quartiere è stato scoperto durante gli scavi condotti dal professor Nahman Avigad dell'Università Ebraica di Gerusalemme dopo la riunificazione di Gerusalemme nel 1967. A causa della sua vicinanza al Monte del Tempio e dei numerosi bagni rituali e vasi di pietra ritrovati, gli archeologi ipotizzano che in questa zona vivessero le famiglie sacerdotali benestanti che prestavano servizio nel complesso del Secondo Tempio sotto il dominio degli erodiani.
I numerosi ritrovamenti di bagni rituali indicano la stretta osservanza delle leggi di purezza che caratterizzavano le case dei sacerdoti. Le grandi case, alcune grandi fino a 800 metri quadrati, con ornamenti elaborati e intricati mosaici, riflettono la ricchezza dei loro abitanti.
Il sito di scavo del Quartiere Erodiano è stato chiuso ai visitatori negli ultimi due anni per migliorare le infrastrutture e i servizi ai visitatori. Le case rimaste sono state ricostruite con cura e fedeltà, mentre esperti artigiani hanno restaurato i mosaici scoperti.
Un innovativo sistema di illuminazione e audio mette ora in scena in modo dinamico i reperti e riempie i resti dell'antico quartiere con suoni ambientali che ricordano la vita in questa enclave sacerdotale all'epoca del Tempio.
Archeologi israeliani scoprono resti dell'epoca degli erodiani a Gerusalemme
Con l'aiuto di display multimediali che proiettano ologrammi, animazioni e video sugli antichi reperti, l'antico quartiere viene “riportato in vita". I visitatori possono simulare il percorso verso il Monte del Tempio dalla prospettiva di due abitanti. Passerelle di vetro sospese permettono di accedere da vicino alle case senza interferire con i reperti archeologici.
“Nel quartiere ebraico sta tornando in vita la storia, ha dichiarato Herzel Ben Ari, amministratore delegato della Società per la ricostruzione e lo sviluppo del quartiere ebraico. "Il museo rinnovato offre uno sguardo sul maestoso passato di Gerusalemme durante il periodo del Secondo Tempio. Invito tutti a visitare il museo e a entrare in contatto con questo magnifico patrimonio della città".
(Israel Heute, 3 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Che cosa significa oggi riconoscere la “Palestina”
di Ugo Volli
A Palazzo d’Accursio, sede del Comune di Bologna, il sindaco Matteo Lepore (Pd) ha appeso personalmente la bandiera palestinese. Lo stesso è accaduto a Pesaro per decisione di Matteo Ricci (Pd); anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala (sostenuto da tutti i partiti di sinistra) ha detto di avere intenzione di compiere lo stesso gesto dopo un passaggio in consiglio comunale. Le bandiere palestinesi sono state sventolate nell’emiciclo di Montecitorio durante un dibattito da deputati del Movimento 5 Stelle ed esposte all’esterno da un ex deputato dei Verdi. All’Università di Torino, al centro delle polemiche per le sue posizioni sul conflitto mediorientale, non ci sono solo le bandiere e i murales degli occupanti. Una bandiera palestinese è appesa anche a Palazzo Campana, sede del dipartimento di matematica. Che tutto ciò sia esplicitamente proibito dalla legge italiana (art. 8 del DPR 121/2000) evidentemente non interessa a nessuno.
• Perché questa epidemia?
Che cosa significa questa moda di omaggiare la “Palestina” in una maniera che non è stata applicata né per il Tibet e gli Uiguri e Hong King oppressi dalla Cina, né per Cipro e i curdi minacciati dalla Turchia, né per Ucraina e Georgia sotto il tallone della Russia, né per tutti gli altri conflitti in corso nel mondo? Spiegare le cause di questa epidemia è complesso, ma i motivi e i fini dei responsabili sono invece semplici. Come ha detto Matteo Ricci: “Basta massacri, l’Italia riconosca lo Stato palestinese!” i massacri che si vogliono far finire non sono certo gli omicidi a sangue freddo non provocati di 1200 persone del 7 ottobre scorso, col contorno di centinaia di stupri e di rapiti. Sono un modo insensato ma diffuso di condannare l’autodifesa israeliana, che altre volte viene addirittura definita dalle stesse fonti “genocidio”, rovesciando orribilmente sugli ebrei il nome del reato coniato per descrivere la Shoah. Come si esprime in contorto politichese Matteo Lepore “per aprire alla possibilità di nuovo di avere due Stati, come in tanti spesso affermiamo, occorre avere anche due popoli e questo per quello che i palestinesi stanno subendo rischia di non potere più accadere”.
• I due gruppi nemici di Israele
Bisogna prendere atto insomma che ci sono due gruppi di nemici di Israele: i “rivoluzionari” o espliciti filoterroristi che rivendicano il 7 ottobre e il progetto di eliminare lo Stato di Israele e i suoi abitanti, per esempio con lo slogan “Dal fiume al mare…”, come gli occupanti delle università e i membri dei gruppuscoli di estrema sinistra. Poi vi sono i “moderati” di tutti i partiti, ma soprattutto di quelli di sinistra, che vogliono “il riconoscimento della Palestina” perché, dicono, questa è la premessa ai “due stati”. Tale è del resto ormai la posizione ufficiale del Pd. C’è qualcuno fra loro che ha una fantasia sufficientemente sfrenata, o una faccia tosta così incurante dei fatti da sostenere che “riconoscere la Palestina” dopo il massacro guidato da Hamas sarebbe “una sconfitta per Hamas”.
• Le obiezioni
Al riconoscimento ci sono ovvie obiezioni: il preteso Stato di Palestina non ha confini stabiliti, non esercita una sovranità incondizionata su alcun territorio, non ha moneta sua, non è autosufficiente dal punto di vista fiscale, energetico, dell’acqua, dei trasporti con l’esterno; il trattato costitutivo che ha firmato per potersi costituire (Oslo) esclude la sua statualità; non è una democrazia, non tiene neanche elezioni fittizie da vent’anni, non conosce la separazione dei poteri né i diritti della difesa, esercita largamente la tortura e l’omicidio dei dissidenti, ha una politica razzista che esclude dal suo territorio tutti gli ebrei, è completamente corrotto, finanzia ufficialmente il terrorismo, non accetta l’esistenza del suo maggior vicino, Israele, con cui si considera in guerra, anzi, che vuole completamente cancellare; non ha mai accettato di discutere le proposte di pace che le sono state sottoposte. Insomma non è uno stato e tanto meno è un’organizzazione rispettosa dei diritti umani e della pace.
• Dopo il riconoscimento
Ma questi argomenti evidentemente non bastano ai sostenitori “moderati”. Proviamo allora a prenderli alla lettera. Che cosa succede se uno stato riconosce la “Palestina”, come hanno fatto Spagna, Irlanda e Norvegia? Questo riconoscimento che cosa comporta? Dei confini? Quali? Quelli attuali controllati dall’ANP, senza cioè Gaza e le zone A e B del trattato di Oslo, inclusa la città vecchia di Gerusalemme? Quelle che fino al ’67 erano controllate da Giordania e Egitto (la vecchia “linea verde”)? Quelle rivendicate da tutti i movimenti palestinisti, non solo da Hamas, cioè “dal fiume al mare”? E la capitale dov’è, a Ramallah, a “Gerusalemme Est” (qualunque cosa ciò voglia dire)? A Gaza? Il governo è quello attuale nominato da Muhammed Abbas? O uno di “unità nazionale” con Hamas? E che succede se Israele sta ai trattati e non riconosce l’Autorità Palestinese come stato, ma continua a combattere il terrorismo anche sul “suo” territorio? Vengono gli spagnoli o gli irlandesi a fermare gli attentatori suicidi? Mistero. La verità è che il riconoscimento non cambia niente, è solo propaganda.
• Due stati?
Ma forse bisogna prendere sul serio la storia dei due stati. Il riconoscimento, dicono, serve a realizzare questa formula. Peccato che una lunga esperienza mostri che la formula non funziona. Hamas non li vuole e lo dice apertamente. Fatah, cioè l’Autorità Palestinese, non li vuole nemmeno, ma invece di dirlo chiaro ha sempre sabotato le trattative, si è sempre rifiutata di indicare anche solo un fazzoletto di terra che è disposta a lasciare allo Stato degli ebrei. Infatti si rifiutano di dire “due stati per due popoli”, perché nei più generosi l’idea è di avere una “Palestina 1” nei limiti della linea verde e una “Palestina 2” dove ora c’è Israele, perché condizione fondamentale dei due stati, come la intendono loro è che Israele accetti l’immigrazione selvaggia di tutti quanti dicono di essere “rifugiati palestinesi”, tanti da avere la maggioranza e da distruggere Israele senza colpo sparare. Sono pochi, oggi, gli israeliani così ingenui da cadere nella trappola.
• La ragione del fallimento
Insomma se le trattative fra Israele e Autorità Palestinese sono sempre fallite con governi israeliani di destra, centro e sinistra, con presidenti da Clinton a Bush a Obama a Trump a Biden, la ragione è molto semplice: che i palestinisti non sono assolutamente disposti a convivere con uno Stato ebraico. E certamente il riconoscimento spagnolo o bolognese non fa loro cambiare idea, ma eventualmente li rafforza nelle loro convinzioni che “con l’anima e col sangue, la Palestina sarà libera”, cioè Israele sarà distrutta. I “moderati” credono di lavorare per una politica diversa dai filoterroristi, ma semplicemente sono più ipocriti. O molto meno lucidi.
Ugo Volli non ha bisogno di molte presentazioni. Il suo impegno documentato e accurato, appassionato e lucido a favore di Israele è noto a tutti coloro che si occupano da vicino dell’argomento. L’Informale ha voluto ascoltarlo un'altra volta in merito al contesto drammatico generato dall’eccidio compiuto da Hamas in Israele il 7 ottobre 2023.
- Stiamo entrando nell’ottavo mese di guerra e Israele sembra ancora lontano dalla vittoria. In compenso si è scatenata una offensiva politico-giudiziaria contro lo Stato ebraico che non ha precedenti rispetto ad altre guerre. Quale è la tua riflessione in merito? Questa guerra, insieme a quella in Ucraina e a quella che si prospetta a Taiwan, è un momento storico fondamentale non solo per Israele, ma per l’intera politica mondiale. Molti non capiscono che è in gioco il futuro della democrazia liberale: a seconda di come andranno queste guerre i prossimi decenni saranno dominati da feroci dittature islamiste, comuniste, fascistoidi o vedranno invece l’affermazione dei sistemi democratici. Se la Russia riuscirà a sfondare o anche solo a imporre lo status quo all’Ucraina e se Israele sarà costretto a fermarsi prima della distruzione di Hamas e dell’allontanamento della minaccia di Hezbollah, la Cina probabilmente capirà di potersi prendere Taiwan. Potrebbe essere l’inizio di una guerra mondiale, o più probabilmente gli Usa cederanno e si salderà in blocco che dominerà buona parte dell’Eurasia, dal Baltico al Mar Rosso, con forti influenze su Europa continentale, Africa e America Latina e il dominio di buona parte delle materie prime del mondo. Fuori da questo blocco resteranno solo potenze insulari residue, come Usa, Australia, India, Giappone qualche paese europeo e sudamericano. La situazione sarà molto peggiore di quella del 1941. Quanto a Israele, questa è una guerra esistenziale, accuratamente calcolata dai nemici che lo vogliono distruggere. Se non viene vinta ora, gli attacchi presto si moltiplicheranno, le alleanze si romperanno, sarà in gravissimo pericolo la sopravvivenza stessa di uno stato ebraico.
- Questa guerra ha fatto riaffiorare prepotentemente l’antisemitismo nelle sue più variegate sfaccettature, non ultimo quello di matrice cristiana dal sapore preconciliare. Il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni ha parlato in proposito di “teologia regredita”. E’ qualcosa che ti ha sorpreso? Purtroppo no. L’antisemitismo attuale non è un incidente di percorso, è connesso alla cultura europea e mediorientale da più di due millenni, è entrato nel paniere ideologico non solo della cristianità e dell’Islam, ma anche dell’Illuminismo, del socialismo, dell’attuale mondialismo. Pensare che il ricordo della Shoà lo inibisse era ottimismo ingenuo. A questo bisogna aggiungere la prevalenza di una tendenza filoaraba dei paesi europei e soprattutto di quelli mediterranei, sia per ragioni geopolitiche, sia per il senso di colpa del colonialismo, sia per la presenza di consistente minoranze islamiche, la cui importazione è stata a sua volta favorita da questo stesso orientamento E inoltre c’è l’odio di sé della sinistra occidentale, disposta ad appoggiare qualunque cosa possa distruggere la libertà di cui pure ha bisogno per esprimersi, organizzarsi, esistere. Qualunque valore progressivo, come l’uguaglianza dei sessi, la tolleranza, il suffragio universale, la tutela delle persone, la pace, viene sacrificata da costoro all’odio per l’Occidente.
- A me sembra che questa guerra abbia messo in luce una cosa in modo particolare, come gli ebrei siano sempre e comunque il bersaglio preferito di una criminalizzazione unica nella storia. Sei d’accordo? Sì, l’antisemitismo ha sempre avuto non solo un carattere eliminazionista (differenziandosi molto fortemente anche in questo da razzismi e altri pregiudizi), sia un aspetto ideologico. Ci sono stati altri odi fra popoli nella storia (ma durati molto meno, non a senso unico e non eliminazionisti) come quello fra francesi e tedeschi, fra russi e polacchi, o anche fra Europa e Islam, fino a un secolo fa circa. Ma essi funzionavano ritraendo il nemico come pericoloso, odioso, ridicolo, disgustoso, non come “colpevole”. L’ideologia antisemita funziona colpevolizzando gli ebrei e per di più accusandoli di quel che si vorrebbe fare loro. Si è detto a lungo che gli ebrei volevano ammazzare i cristiani innocenti, specie bambini, per levare loro il sangue; ciò serviva ad ammazzare gli ebrei, anche bambini. Oggi si imputa a Israele un “genocidio” per appoggiare l’esplicita e spesso ripetuta volontà genocida dei palestinisti. Si dice che i governi israeliani non rispettano i diritti dell’uomo per toglierli ai cittadini di Israele e in genere agli ebrei.
- La vittimizzazione dei palestinesi, la loro trasformazione in reietti della storia, si propone come una sorta di teologia della sostituzione in chiave laica. Al posto degli ebrei, gli arabi. La Nakba diventa la nuova Shoah, la morte dei civili a Gaza si trasforma in genocidio, Israele viene portato davanti alla Corte Internazionale dell’Aia con questa accusa come se fosse il Terzo Reich. Cosa hai da dire in proposito? L’imitazione da parte dei palestinisti di temi e giustificazioni della storia ebraica è sotto gli occhi di tutti, dalla rivendicazione di un’antichità sul territorio che non ha alcuna base, al rovesciamento dei fatti rispetto alla guerra di liberazione del ‘48 e ai pogrom, alle accuse all’esercito israeliano. Non avendo ragioni, non avendo storia, non avendo tradizione culturale propria, i palestinisti provano a rispecchiare en travesti la storia ebraica. L’antisemitismo occidentale riprende questi temi per colpevolizzare gli ebrei, secondo la sua antica tradizione ideologica. Non è però una teologia rovesciata, niente di così elevato. E’ solo propaganda. Molto efficace e molto volgare, senza alcuna base di cultura o di realtà.
- Nelle università, soprattutto negli Stati Uniti, abbiamo assistito e assistiamo a una preoccupante saldatura tra sostenitori di Hamas e studenti occidentali convinti che Israele sia lo Stato canaglia per eccellenza. Come siamo arrivati a questo punto? E’ molto semplice, sono stati indottrinati fin dalle elementari a credere alle idee “progressiste”, di cui fa parte l’odio per Israele e la mitizzazione della “Palestina” C’è stato nelle scuole americane, ma anche in quelle europee un lungo indottrinamento di massa, durato generazioni. Già Allen Bloom quaranta o cinquant’anni fa parlava a questo proposito di “closing of American mind”. Spesso si attribuisce al progetto gramsciano, magari rivisto da Althusser, questa egemonia di sinistra nella scuola (ma anche nella cultura: in tutto l’Occidente sono molto rare case editrici, televisioni, radio, giornali, produttori cinematografici che non siano “politically correct”). E’ vero che la generazione dei Foucault, dei Deleuze, dei Chomski, Calvino, Barthes, Marcuse ecc. ha avuto un ruolo importante nel lavoro di dissoluzione della “cultura borghese”. Ma in realtà il gioco è molto più vecchio, risale all’”impegno” di Sartre e compagni negli anni Cinquanta e prima ancora alla gigantesca occupazione della cultura realizzata dai totalitarismi negli anni Venti e Trenta del Novecento, distruggendo la cultura liberale con la violenza fisica e istituzionale. Oggi, senza bisogno di ripetere quegli eccessi, per semplice effetto di continuità, è quasi altrettanto difficile essere intellettuali liberali o democratici-conservatori quanto lo era nella Russia di Stalin o nell’Italia di Mussolini e nella Germania di Hitler. E c’è una totale persistenza nell’odio culturale attuale verso la società liberale con quello degli anni del totalitarismo, anche perché alla fine della guerra c’è stata una conversione di massa dal fascismo al comunismo. Non c’è solo l’insegnamento universitario, soprattutto nelle facoltà umaniste, che giudica suo compito non di trovare fatti relativi al proprio campo disciplinare, ma diffondere “le idee giuste”. Questa stessa forma di propaganda generalizzata si ritrova, in una forma o nell’altra in cinema, tv, romanzi, serie, canzoni, testi scolastici: una gigantesca camera a eco in cui è facilissimo focalizzare qualche tema, dal gender a Israele al ‘razzismo sistemico’ di Black Lives matter”.
- Oggi, a parte l’antisemitismo di matrice islamica, quello che maggiormente è emerso nella sua prepotenza e di cui si erano già date ampie prove nel recente passato, basti pensare alle posizioni su Israele di Jeremy Corbin, ex leader del Labour, è l’antisemitismo di sinistra. Quali sono, a tuo giudizio, le sue basi? Odiano Israele gli antisemiti, consapevoli o meno, che non tollerano un’identità separata e libera; ma odiano Israele anche i nemici interni ed esterni dell’Occidente (del capitalismo, del libero mercato, della democrazia pluralista, della libertà individuale) perché Israele ai loro occhi indica tutto questo: odiano Israele, perché la tradizione ebraica è alla base dell’idea della libertà e della responsabilità individuale che ne è il cuore e perché gli arabi odiano Israele per ragioni di conflitto religioso e territoriale; costoro pensano follemente che l’Islam possa essere l’arma decisiva per arrivare dove il comunismo non è riuscito, all’asservimento universale travestito da utopia.
- Ancora oggi gli ebrei devono lottare per il diritto alla loro sicurezza e alla loro esistenza, là dove hanno avuto origine, mentre intorno a loro, da parte di chi dovrebbe sostenere questa lotta contro il fanatismo islamico, assistiamo alla messa alla berlina di Israele. Quali riflessioni ti suggerisce tutto ciò? Ripeto in conclusione quel che ho detto all’inizio. Siamo a una battaglia decisiva non solo per Israele, ma per quella straordinaria forma di vita che si è costruita in Europa (e poi si è espansa negli Stati Uniti e altrove) sulla base della tradizione biblica. Come disse una volta Ugo La Malfa, la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme. Cioè oggi a Gaza e al confine col Libano.
Paolo, servitore di Dio e apostolo di Gesù Cristo per la fede degli eletti di Dio e la conoscenza della verità che è secondo pietà,
nella speranza della vita eterna la quale Iddio, che non può mentire, promise avanti i secoli,
manifestando poi nei suoi proprî tempi la sua parola mediante la predicazione che è stata a me affidata per mandato di Dio.
1 TIMOTEO, cap. 6
Se qualcuno insegna una dottrina diversa e non s'attiene alle sane parole del Signor nostro Gesù Cristo e alla dottrina che è secondo pietà,
esso è gonfio e non sa nulla; ma langue intorno a questioni e dispute di parole, dalle quali nascono invidia, contenzione, maldicenza, cattivi sospetti,
acerbe discussioni d'uomini corrotti di mente e privati della verità, i quali stimano la pietà esser fonte di guadagno.
Or la pietà con animo contento del proprio stato, è un gran guadagno;
poiché non abbiam portato nulla nel mondo, perché non ne possiamo neanche portar via nulla;
ma avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di questo contenti.
Ma quelli che vogliono arricchire cadono in tentazione, in laccio, e in molte insensate e funeste concupiscenze, che affondano gli uomini nella distruzione e nella perdizione.
TITO, cap. 2
Poiché la grazia di Dio, salutare per tutti gli uomini, è apparsa
e ci ammaestra a rinunziare all'empietà e alle mondane concupiscenze, per vivere in questo mondo temperatamente, giustamente e piamente,
1 TIMOTEO, cap. 4
Ma schiva le favole profane e da vecchie; esèrcitati invece alla pietà;
perché l'esercizio corporale è utile a poca cosa, mentre la pietà è utile ad ogni cosa, avendo la promessa della vita presente e di quella a venire.
Caccia israeliani colpiscono obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano
La scorsa notte, i caccia israeliani hanno colpito “risorse significative” appartenenti al movimento filo-iraniano Hezbollah nel sud del Libano, in risposta ai recenti attacchi missilistici diretti verso Israele. Secondo le Forze di difesa israeliane (Idf), gli attacchi aerei hanno preso di mira le aree di Ain Qana, Hmaileh e Aadloun.
Inoltre, i caccia israeliani hanno colpito postazioni di osservazione di Hezbollah a Tayr Harfa, edifici utilizzati dal gruppo sciita a Jebbayn e Khiam, e un lanciarazzi a Majdal Zoun, responsabile dell’attacco di ieri contro il nord di Israele. Ulteriori infrastrutture a Rachaya al Foukhar sono state anch’esse colpite.
Questa mattina, due razzi sono stati lanciati dal Libano contro la comunità settentrionale israeliana di Yiftah. Le Ifd hanno confermato che entrambi i proiettili sono caduti in aree aperte, evitando così vittime e danni significativi.
Descrivendo il piano come un percorso verso “una fine duratura” al conflitto attuale, Biden ha detto che Hamas “non è più in grado di portare avanti un altro 7 ottobre”. Ne siamo proprio sicuri?
di Maurizia De Groot Vos
Sono tre i motivi principali per cui Israele ha scatenato l’offensiva contro Hamas a Gaza: riportare a casa gli ostaggi, fare giustizia sull’eccidio del 7 ottobre e fare in modo che Hamas non possa mai più in alcun modo nuocere né a Israele né ai cittadini israeliani.
Il mancato raggiungimento anche di uno solo di questi obiettivi inficia qualsiasi ipotesi di cessate il fuoco e questo a prescindere da chi ci sia al governo a Gerusalemme.
Ora, ieri sera il Presidente americano, Joe Biden, ha presentato il piano (definito “israeliano”) per un cessato il fuoco temporaneo da trasformare in un cessate il fuoco permanente dopo che gli ostaggi rimasti in vita e i corpi dei defunti saranno restituiti alle famiglie. Biden considera gli altri due punti raggiunti e quindi, secondo lui, giustizia è fatta per il massacro del 7 ottobre e, soprattutto, Hamas non è nelle condizioni di poter di nuovo nuocere a Israele.
Hamas è sia un esercito terrorista che l’organo di governo di Gaza dal 2007. L’accordo presuppone che il gruppo terrorista sia stato così danneggiato dall’esercito israeliano da non poter più svolgere efficacemente nessuna delle due funzioni. Delinea inoltre rapidi passi per sostituirlo, prima inondando Gaza con gli aiuti umanitari, poi ricostruendo Gaza e installando un nuovo governo sotto l’Autorità Palestinese che ora governa la Cisgiordania.
Ecco dove fa acqua piano di Biden. Prima di tutto, per quanto possa essere stato danneggiato, ancora Hamas non solo è in grado di nuocere ma siccome l’intera struttura gerarchica della Striscia di Gaza dopo tanti anni di governo di Hamas è basata totalmente sul gruppo terrorista, è semplicemente impensabile che Hamas non riesca a infiltrare suoi uomini nei punti di comando della “nuova Gaza”.
In secondo luogo Biden continua a insistere di voler mettere la corrotta Autorità Palestinese al governo della Striscia di Gaza, una soluzione invisa sia a Israele che agli abitanti della Striscia e quindi impraticabile se non si vuole fare la fine del 2007 quando i dirigenti di Fatah volavano giù dai tetti dei palazzi di Gaza. Si era pensato a un “governatorato arabo” gestito da quei paesi arabi che hanno relazioni con Israele. Che fine ha fatto quella proposta? E solo il pensare di mettere nelle mani di Abu Mazen i miliardi della ricostruzione va venire i brividi.
In terzo luogo c’è la questione non da poco della UNRWA alla quale verrebbe affidata la gestione degli aiuti umanitari. Dire UNRWA nella Striscia di Gaza significa dire Hamas. Non esiste un solo palestinese dipendente della UNRWA che non sia stato messo lì dal gruppo terrorista. Lasciare aperta l’agenzia ONU per i palestinesi significa quindi lasciare che Hamas gestisca tutto l’apparato umanitario. Che fine ha fatto l’obiettivo di distruggere completamente il gruppo terrorista palestinese?
Io capisco la necessità elettorale per Biden di chiudere velocemente la faccenda, ma questo accordo salva la vita di Hamas e di tutta la sua struttura, non rende affatto più sicuro Israele e non è detto che restituisca gli ostaggi o quello che rimane di loro. Non credo che si siano fatti quasi otto mesi di guerra per questo.
(Rights Reporter, 1 giugno 2024)
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La capitolazione di Israele che chiede Biden
Il piano in tre fasi articolato ieri da Joe Biden nelle sue modalità essenziali, sei settimane di tregua congiunte a un cessate il fuoco completo e il ritiro di tutte le forze israeliane da Gaza e il rilascio di un numero limitato di ostaggi da pareggiare in ampio esubero con quello di terroristi palestinesi, a cui seguirebbe un negoziato preludente la fase due, ovvero la cessazione permanente delle ostilità con la liberazione di altri ostaggi e quindi l’avviarsi della terza fase la ricostruzione delle zone distrutte di Gaza, non è nulla di nuovo. Si tratta dello stesso canovaccio già presentato al Cairo e il cui esito sarebbe la sconfitta di Israele e la vittoria di Hamas. Nulla in questa bozza, infatti, fa accenno allo scopo fondamentale della guerra, che non è la liberazione degli ostaggi, ma la demilitarizzazione di Hamas a Gaza e il ripristino della sicurezza ai confini di Israele.
Come ha lucidamente evidenziato Jonathan Spyer su The Spectator, “È possibile che la pressione interna delle famiglie degli ostaggi e dei loro sostenitori che giungono fino al gabinetto di guerra, unita alla pressione esterna delle potenze occidentali derivante dall’indignazione per come si presenta la guerra, portino alla fine della campagna militare, lasciando intatto il potere di Hamas. Se così sarà, questo esito conterrà una lezione molto incoraggiante per tutti coloro che desiderano danneggiare le democrazie occidentali”.
Vincere la guerra, per Hamas, come qui non ci siamo mai stancati di ripetere, non significa sconfiggere l’esercito israeliano sotto il profilo militare, compito impossibile per l’esorbitante sproporzione di mezzi a disposizione a favore di Israele, ma restare a Gaza, potere continuare ad avere un ruolo politico nel suo futuro e dunque affermare di avere “resistito” contro “l’entità sionista”.
Per giungere a questo esito, Hamas necessita della garanzia incontrovertibile che Israele lasci Gaza, e che quindi termini la guerra. È la garanzia che la Casa Bianca, appoggiata in maggioranza dalle Cancellerie europee, desidera concedergli.
Netanyahu ribadisce: “La distruzione Hamas resta la condizione”
“Le condizioni di Israele per porre fine alla guerra non sono cambiate: la distruzione delle capacità militari e di governo di Hamas, la liberazione di tutti gli ostaggi e la garanzia che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele”.
Lo ha ribadito oggi il premier Benyamin Netanyahu in un comunicato diffuso dal suo ufficio. “Secondo la proposta, Israele continuerà a insistere sul fatto che queste condizioni siano soddisfatte prima che venga messo in atto un cessate il fuoco permanente. L’idea che Israele accetti un cessate il fuoco permanente prima che queste condizioni siano soddisfatte è un non-inizio”.