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Notizie 1-15 luglio 2015


Israele - Teheran potrà sviluppare l'arma atomica nel giro di cinque anni

GERUSALEMME - Con l'accordo internazionale siglato dall'Iran e dal gruppo 5+1, Teheran sarà in grado di sviluppare un'arma nucleare nel giro di cinque anni. Lo ha detto il ministro israeliano delle Infrastrutture nazionali, dell'energia e dell'acqua Yuval Steinitz, spiegando che secondo Israele le ricerche di Teheran sull'energia nucleare consentite dall'accordo "permetteranno lo sviluppo di centrifughe per l'uranio fra le dieci e le venti volte più potenti di quelle attualmente a disposizione dell'Iran".
Questo consentirebbe alla Repubblica islamica di ridurre la cosiddetta 'breakout capability', vale a dire la capacità di ottenere la quantità sufficiente di uranio per costruire un'arma nucleare. Steinitz si è inoltre detto indignato per il fatto che l'accordo permette all'Iran di "assumere degli esperti e acquistare materiale nucleare o ottenere informazioni utili da Russia, Cina e Paesi occidentali".
"Calcoliamo che in cinque anni potranno completare lo sviluppo di queste centrifughe e, una volta che sarà avvenuto, in pochi mesi potranno produrre centinaia di centrifughe, installarle e ottenere materiale sufficiente per una bomba tale da ridurre il 'breakout' da un anno a sei mesi", ha aggiunto il ministro israeliano, affermando in conferenza stampa che "questo accordo è colmo di lacune". Le critiche di Israele si concentrano su quattro aspetti: il mancato smantellamento del programma nucleare iraniano, l'insufficienza delle ispezioni internazionali, l'accesso da parte di Teheran a fondi finanziari e la concessione all'Iran di continuare le attività di ricerca e sviluppo in ambito atomico.

(LaPresse, 15 luglio 2015)

*

Israele - Edelstein: Fare di tutto per fermare il nucleare iraniano

GERUSALEMME - Tutte le opzioni sono "aperte" e "legittime" per fermare il programma nucleare iraniano. Lo ha detto il presidente del Parlamento israeliano, Yuli Edelstein, membro del partito Likud, durante un dibattito in aula, affermando che l'accordo firmato ieri a Vienna è "l'inizio del crollo del muro occidentale di resistenza contro l'espansionismo assassino dell'islam estremista della scuola di Teheran". "Da oggi Israele ha la responsabilità morale di fare tutto, e assolutamente tutto il possibile, per fermare il programma nucleare dell'Iran", ha proseguito Edelstein.

(LaPresse, 15 luglio 2015)



Prima l'Iran diceva

Prima l'Iran diceva: "Israele deve essere distrutto"
e gli altri lo chiamavano "stato canaglia".
Adesso l'Iran dice: "Israele deve essere distrutto"
e gli altri non lo chiamano più "stato canaglia".

Che cosa è cambiato?

E' cambiato l'Iran?
Evidentemente no.
Sono cambiati gli altri
che sono diventati anche loro "stati canaglia".

 

Marino invitato in Israele dal presidente della Comunità Ebraica di Roma

ROMA, 15 lug. - "Questa mattina in Campidoglio il sindaco Ignazio Marino ha accolto la nuova presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, alla sua prima visita in veste istituzionale a Palazzo Senatorio. Durante il colloquio sono stati affrontati, in un clima di grande collaborazione, i temi più significativi per l'agenda cittadina dei prossimi mesi: dai grandi eventi come il Giubileo della Misericordia e la candidatura alle Olimpiadi del 2024 ai progetti del Campidoglio per il decoro urbano e la cultura. Il sindaco e il presidente della Comunità Ebraica romana hanno affrontato con grande attenzione le prossime tappe nel percorso di realizzazione del Museo della Shoah, una realtà storico culturale importante non solo per Roma ma per tutto il Paese. Al termine del colloquio, improntato al lavoro comune per lo sviluppo cittadino, la presidente Dureghello ha invitato il sindaco Marino a fare un viaggio insieme in Israele". Lo comunicano, in una nota congiunta, il Campidoglio e la Comunità Ebraica di Roma.

(la Repubblica - Roma, 15 luglio 2015)


A Gaza tutti sognano solo di andare via

di Francesca Borri

Inutile dirgli che non sono musulmana. Non sono neppure palestinese. E che comunque ho avuto l'ennesima ricaduta di tifo, ho la febbre, e quindi il Corano mi autorizza a rompere il Ramadan.
Ed è inutile, in realtà, dirgli qualsiasi cosa, perché il poliziotto di Hamas che mi ferma per tre ore - sono colpevole di avere con me una bottiglia d'acqua - non ha divisa né distintivo: so che è di Hamas solo perché sono a Gaza. Ed è inutile provare a discuterci: non discute. Impone.
Alla fine intasca cento dollari sottobanco e mi lascia andare.
Questa è Hamas, oggi. Stanno lì ai checkpoint a illuminarti con la torcia e ad accertarsi che il tizio al volante sia tuo padre o tuo marito. Controllano che non ti fumi una sigaretta, che non ti guardi la partita in televisione stappandoti una birra.
Controllano che tu non scriva un rigo contro di loro.
Tutto intorno, intanto, è fame e disperazione. Di 137mila abitazioni danneggiate, novemila distrutte, in un anno non una singola casa è stata ricostruita. Gli sfollati sono centomila. Secondo l'Onu saranno necessari trent'anni, a questo ritmo, perché Gaza torni come prima.
Perché il 70 percento della popolazione, cioè, torni a essere sotto la soglia di povertà.

Vivono così, su questi pavimenti inclinati, i pilastri spezzati, tra macerie miste a ordigni inesplosi e scaglie di amianto

In cinquantuno giorni di guerra l'anno scorso Israele ha rovesciato sulla Striscia di Gaza - quaranta chilometri di lunghezza e dieci di larghezza - una quantità di esplosivo equivalente all'atomica di Hiroshima. Quello che è rimasto di Shejaiya, l'area bombardata con più ferocia, è tutto rattoppato con ritagli di stoffa, lamiere, cartoni. Tranci di iuta. O anche con niente.
Le famiglie continuano a vivere in queste case scardinate dall'artiglieria, cammini, e invece che finestre vedi divani, tavoli, frigoriferi: l'interno degli appartamenti, i palestinesi dentro con il tè in mano. Vivono così, su questi pavimenti inclinati, i pilastri spezzati, tra macerie miste a ordigni inesplosi e scaglie di amianto, sotto questi soffitti che stanno per crollargli in testa.
Abu Nidal, come tanti altri, è seduto su un tappeto steso su polvere e sabbia, le scarpe ordinatamente allineate, e guarda fuori da uno squarcio di mortaio - guarda un bambino che tenta inutilmente di fare volare un aquilone che è un foglio di carta.
Abitava qui con moglie e figli, dieci persone in tutto, e dopo avere pagato duemila dollari per un anno di affitto della nuova casa, ora non ha più nulla, vive di elemosina, "non di solidarietà", precisa, "perché ho incontrato più giornalisti che Ong".
I figli sono meccanici. Avevano un'officina al piano terra, di cui non sono rimasti che pezzi sparsi appesi agli alberi, un parafango, due copertoni. Una batteria incastrata tra i rami. Sta qui tutto il giorno, accanto a questa rampa di scale che non conduce più a niente: "Dovesse passare l'Onu e non trovarmi".

Gaza ora è sotto assedio solo virtualmente. Si trova più o meno tutto, anche la Nutella: e tutto entra da Israele.

Eppure alcune case sono fresche di intonaco. Alcune sono state ricostruite. Perché l'unico settore dell'economia che tira, qui, è il mercato nero del cemento. La tonnellata a cui ognuno ha diritto al prezzo di venti shekel (quattro euro) è insufficiente, e quindi conviene rivenderla: il prezzo varia tra i quaranta e i sessanta euro, dipende dalla qualità. Da Israele sono entrate 1,1 milioni di tonnellate, ma le più ambite sono le ottomila entrate dall'Egitto, perché sono adatte anche ai tunnel.
Il 90 percento dei tunnel ormai non esiste più. Sono stati demoliti quasi tutti dall'Egitto, in realtà, non da Israele. Dal generale Al Sisi, che è contro gli islamisti. E Hamas, così, ha perso la sua principale fonte di finanziamento. Con i tunnel, in parte gestiti in proprio, in parte affidati a terzi, copriva il 70 per cento del bilancio di Gaza: ognuno in media rendeva centomila euro al mese.
Adesso, tra l'altro, Hamas ha perso anche molti dei suoi generosi amici del Golfo, concentrati sulle emergenze di Siria e Iraq, e ha problemi con l'Iran, contrariato dal mancato sostegno al presidente siriano Assad. E quindi cerca di racimolare il possibile imponendo tasse. Perché Gaza, in realtà, ora è sotto assedio solo virtualmente. Si trova più o meno tutto, anche la Nutella: e tutto entra da Israele.
Questo però significa che tutto viene tassato tre volte: da Israele, da Hamas, e dall'Autorità Nazionale Palestinese. Perché da un anno, in teoria, si ha un governo di unità nazionale, un solo governo; diversamente Hamas non avrebbe più potuto pagare i suoi quarantamila dipendenti pubblici.
Hamas controlla Gaza e Fatah controlla la Cisgiordania. Il risultato è che tutto è molto più caro. Hamas ricarica il 10 percento sul cibo, il 25 per cento sulle auto, il 50 per cento sulle sigarette. Alla fine una Fiat Panda, qui, costa quasi ventimila euro.
Anche se la disoccupazione è al 43 percento, e uno stipendio medio è di trecento euro. Anche se i due terzi dei palestinesi dipendono dagli aiuti umanitari.
Si gira in fuoristrada dai vetri blindati, a Gaza, oppure sugli asini.

Qui nessuno ha dubbi: Hamas è il migliore alleato di Israele

Ebaa Rezeq ha 31 anni, ed è una delle ricercatrici locali di Amnesty International. Qui nessuno ha dubbi, dice: Hamas è il migliore alleato di Israele. "Non governa. Non è né islamico né niente. Se ti scoprono a bere vino, finisci in carcere per un mese, o magari sei. Non c'è la sharia, qui, c'è solo la volontà del più forte. Hamas esiste ancora solo perché con i suoi razzi, rispetto all'arrendevolezza di Mahmoud Abbas e di Fatah, si fa paladino della resistenza. Sostiene di non avere mezzo dollaro per i dipendenti pubblici. Per la ricostruzione. Ma non è un segreto: l'unica ricostruzione in corso è quella dei tunnel. E del suo arsenale. Per Israele è perfetto. Tra uno, due anni, bombarderà tutto di nuovo. Demolirà tutto di nuovo. E si ricomincerà".
Del resto, la guerra si è conclusa con un accordo identico a quello della guerra precedente.
"Fidarsi di Israele è una follia", dice Fady Hanona, 28 anni, documentarista. "Possono chiudere la frontiera in qualsiasi momento, e ridurci alla fame". Soprattutto ora che è stato reso noto che due israeliani sono prigionieri di Hamas. Era ieri, in fondo, quando Israele autorizzava le importazioni di cibo contando le calorie necessarie alla sopravvivenza: 2.279 a testa.
I palestinesi vogliono semplicemente andare via da Gaza. Tutti. Perché non c'è più neppure acqua potabile, qui, solo acqua salata, acqua di mare: rimani appiccicaticcio tutto il giorno, tutti i giorni, per anni. Ogni tanto, in risposta a un razzo, gli israeliani bombardano. Ma in mezzo alla Siria, allo Yemen, all'Iraq, non fa più notizia.
Sharif ha 36 anni e quattro figli. Un tempo aveva una piccola rivendita di ricambi e accessori per auto: ma era tartassato dalle estorsioni, perché è vicino a Fatah. È stato arrestato tre volte. E per tre volte ha provato a raggiungere l'Europa: ma è stato scoperto, con il suo visto contraffatto, ed è stato rispedito indietro. Anche se per i palestinesi l'ostacolo non è tanto il visto, perché moltissimi per esempio studiano, hanno borse di dottorato.
L'ostacolo è l'Egitto. Raggiungere l'aeroporto del Cairo. Nel 2015, la frontiera di Rafah è stato aperta per un totale di dodici giorni. Si ha una specie di lista d'attesa, ma hanno priorità i malati - a Gaza il 30 percento dei farmaci essenziali è esaurito - e quindi sono passati solo tremila palestinesi su 15mila. La soluzione è pagare: tremila euro e un poliziotto viene a chiamarti per nome
Chiedo a Sharif cosa sogna dell'Europa, mi dice: farmi la doccia la mattina.
"Nessuno qui sostiene Hamas. Ma non si ha più alcuna attività politica: nessuno tenta di cambiare le cose", dice M., uno dei fondatori del Movimento 15 marzo, che nel 2011, sulle orme di Tunisia ed Egitto, scese in piazza per chiedere riforme e democrazia. E che in un raro esempio di unità nazionale, finì manganellato da Hamas a Gaza e da Fatah a Ramallah. "Ogni energia è drenata dallo sforzo di sopravvivere. Anche perché la battaglia è impossibile senza la Cisgiordania. E dalla Cisgiordania, l'unico gesto di solidarietà, durante la guerra, è stata una donazione di bare".

(Internazionale, 15 luglio 2015)


Se Tish'à Beàv cade di shabbàt

di Alberto Moshe Somekh

Quest'anno la data del 9 Av (Tish'ah be-Av) viene a cadere di Shabbat, giorno in cui sono in linea di massima proibiti il digiuno e molte manifestazioni di lutto. Ciò comporta dover spostare tali osservanze in altro giorno. A deroga del principio generale per cui si tende ad attuare le Mitzwòt prima possibile e quindi ad anticipare, nel nostro caso il Digiuno viene posticipato al giorno successivo, domenica 10 Av. Il motivo addotto dai Maestri è che "non si anticipa mai una punizione" per subire la quale c'è sempre tempo. Questa evenienza crea di fatto due serie di particolarità: 1) quelle legate alla posticipazione del Digiuno al giorno dopo e 2) quelle legate al fatto di osservare il Digiuno a Motzaè Shabbat. Ma vediamo le principali ad una ad una....

(Kolot, 15 luglio 2015)


Netanyahu non si fida: "Teheran andrà avanti il mondo è in pericolo"

Il premier di Israele: non siamo vincolati all'intesa. Obama gli telefona ma non riesce a convincerlo.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - «È un accordo che minaccia la sicurezza di Israele e il mondo intero»: Benjamin Netanyahu esprime di persona a Barack Obama il dissenso sull'intesa raggiunta a Vienna in una delle conversazioni più difficili avvenute fra i leader dei due Paesi alleati. «Quanto avete concordato con l'Iran gli consentirà di avere armi nucleari entro 10-15 anni se rispetteranno l'accordo, oppure anche prima se lo violeranno» ha detto il premier al presidente, aggiungendo se a questa «minaccia per l'esistenza di Israele» si aggiunge il fatto che l'abolizione delle sanzioni all'Iran «porterà a pompare miliardi di dollari nella macchina del terrorismo di Teheran che minaccia noi e il mondo»

 Obama rassicura
  Il capo della Casa Bianca ha replicato illustrando i dettagli degli accordi, difendendone la validità per «impedire all'Iran di avere l'atomica» e riafferman- do l'impegno per «la sicurezza di Israele» con misure di «cooperazione senza precedenti» che il segretario alla Difesa, Ash Carter, vaglierà di persona a Gerusalemme durante una missione ad hoc la prossima settimana. «L'intesa di Vienna non diminuisce i nostri timori sul sostegno dell'Iran al terrorismo e sulle minacce a Israele» ha aggiunto Obama.
  Il duello di posizioni sulla «sicurezza di Israele» anticipa uno degli argomenti su cui il Congresso di Washington dovrà esprimersi votando, entro 60 giorni, sull'intesa con l'Iran. Il presidente della Camera dei Rappresentanti, il repubblicano John Boehner, prevede «una corsa armamenti» e «gravi minacce per Israele».
  A rafforzare la posizione di Netanyahu arriva il pronunciamento del governo che vota all'unanimità un testo in cui afferma di «non essere vincolato all'accordo di Vienna». È una posizione con cui converge Isaac Herzog, leader dell'opposizione di centrosinistra, che parla di «accordo con il regno del terrore» e preannuncia un viaggio a Washington per chie- dere «ombrello difensivo e ingenti aiuti». Naftali Bennet, leader dell'ala destra della coalizione, aggiunge: «Oggi è nata una superpotenza terroristica nucleare e Israele sarà in grado di difendersi se necessario, abbiamo sempre detto che impediremo all'Iran di avere l'atomica e lo riaffermiamo».

 «Patto di Monaco»
  La convergenza fra i diversi partiti politici si spiega con l'umore di un'opinione pubblica in cui si sommano i timori per l'atomica di Teheran, l'incombere di un tipo di conflitto senza precedenti, la necessità di trasmettere nella regione la volontà di battersi contro la bomba iraniana e la dilagante delusione per la «resa dell'Occidente all'Asse del Male» come la definisce Tzipi Hotoveli, viceministro degli Esteri. «Sei potenze hanno giocato assai male sul nostro futuro collettivo» dice Netanyahu, evocando l'errore commesso a Monaco nel 1938 da Francia e Gran Bretagna nell'accettare la spartizione della Cecoslovacchia illudendosi in questa maniera di scongiurare la guerra contro Hitler e Mussolini. Anche Ron Prossor, ambasciatore all'Onu, adopera toni simili: «L'Iran può agire senza limitazioni, con ritrovata prosperità economica, continua a finanziare e promuovere il terrorismo: e il mondo ne pagherà il prezzo».

(La Stampa, 15 luglio 2015)


Herzog: grazie a Obama ora l'Iran avrà un'atomica puntata su Israele

di Pietro Vernizzi

Michael Herzog
"La posizione di Obama sull'Iran non è realista, perché non si rende conto del fatto che mentre firma accordi con il moderato Rouhani, chi controllerà il Paese nel mediolungo periodo saranno i falchi come Ali Khamenei, secondo cui Usa e Israele sono dei nemici". Lo evidenzia Michael Herzog, analista strategico israeliano e international fellow del Washington Institute for Near Policy. Ieri Stati Uniti e Iran hanno raggiunto un accordo sul nucleare considerato storico, in quanto permetterà agli ispettori dell'Onu di effettuare controlli sufficienti a impedire che Teheran si doti della bomba atomica. Anche se per il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, l'accordo rappresenta "un errore grave di portata storica" in quanto "in tutti i campi in cui occorreva negare all'Iran la capacità di dotarsi di armi atomiche sono state fatte generose concessioni".

- Perché Israele è così preoccupato e scontento per i contenuti di questo accordo?
  Israele è preoccupato per le sue implicazioni di medio-lungo termine. L'accordo avvicina i tempi iraniani di break-out (cioè il tempo necessario per produrre abbastanza uranio arricchito per una bomba atomica, ndr) a 10-15 anni. Nello stesso tempo legittima Teheran come uno Stato a fissione nucleare nel secondo decennio a partire dall'accordo. Gli consente infatti di espandere i suoi programmi per quanto riguarda i siti nucleari.

- Queste concessioni favoriranno un atteggiamento più positivo di Teheran sul piano politico?
  Il timore di Israele è che questo accordo non cambierà i comportamenti dell'Iran, ma anzi potenzierà i suoi attuali atteggiamenti destabilizzanti dell'intera Regione. Mi riferisco in particolare al suo sostegno di organizzazioni terroristiche, al fatto di gettare benzina sul fuoco sugli scontri tra sciiti e sunniti, al suo sostegno nei confronti del regime di Assad in Siria e al suo stesso ruolo in Yemen. L'intero Medio Oriente è in fiamme, e la percezione israeliana è che rafforzare l'Iran finirà per sconvolgere ulteriormente la stabilità della regione con un impatto negativo per tutti. Non dimentichiamo inoltre che pur non avendo partecipato ai negoziati, Israele è minacciata dall'Iran più di chiunque altro.

- Che cosa accadrebbe se dopo questo accordo l'Iran chiedesse all'America la creazione di uno Stato palestinese?
  Non è questa in realtà la posizione dell'Iran. Teheran si è opposta a un processo di pace tra israeliani e palestinesi, sostenendo quanti non lo vogliono come Hamas e la Jihad Islamica. Si tratta di gruppi che chiedono la distruzione di Israele e sono contrari a un processo di pace che conduca a una soluzione basata sulla creazione di due Stati. Chiedono infatti un solo Stato arabo, con la cessazione dell'esistenza stessa di Israele. Ritengo quindi difficile che l'Iran possa adottare una piattaforma comune con gli Usa per risolvere il conflitto israeliano-palestinese.

- Il riavvicinamento tra Usa e Iran può favorire un miglioramento dei rapporti tra israeliani e palestinesi?
  Ne dubito fortemente. Non è stato soltanto l'ex presidente, Ahmadinejad, ad avere chiesto la distruzione di Israele. Alcuni mesi fa la stessa Guida Suprema dell'Iran, Ali Khamenei, ha pubblicato su Twitter un documento dal titolo: "Nove modi per distruggere lo Stato d'Israele". La leadership di Teheran, nello stesso momento in cui negoziava con gli Usa sul nucleare, continuava a chiedere che Israele fosse raso al suolo. Non vedo quindi nessuna possibilità di una posizione più moderata di Teheran nei confronti di Israele. Il governo di Teheran è guidato da un'ideologia che mira alla distruzione di Israele, e non a una soluzione "due popoli due Stati", in cui israeliani e palestinesi possano vivere l'uno al fianco dell'altro in pace e sicurezza.

- L'Iran non è un unico blocco monolitico. Se si apre all'Occidente prevarranno i moderati come Rouhani?
  In Occidente ci sono grandi speranze sul fatto che una volta siglato l'accordo, ciò rafforzerà gli elementi più pragmatici come Rouhani. In realtà le nuove risorse di cui potrà beneficiare l'Iran andranno ai Guardiani della Rivoluzione, considerati come i falchi. Chi comanda realmente a Teheran non è Rouhani bensì l'ayatollah Khamenei, la cui posizione è che tanto Israele quanto gli Stati Uniti sono dei nemici. Dubito che Rouhani rimarrà al potere abbastanza a lungo per cambiare l'orientamento di fondo dell'Iran. Spero e prego perché ciò avvenga, ma dobbiamo essere realisti e sarei sorpreso se alla fine prevalesse la linea pragmatica del nuovo presidente.

- Il presidente siriano Assad esce rafforzato da questo accordo?
  E' possibile. Assad si trova sotto una pressione molto forte e sta perdendo terreno. Ma ora l'Iran consolida il suo ruolo regionale, e avrà maggiori risorse economiche per tenere in vita il regime di Damasco. Negli ultimi tre anni, dall'inizio della guerra in Siria, l'Iran pur essendo sottoposto a sanzioni ha investito miliardi di dollari per evitare una caduta di Assad. Ora che Teheran si trova con più risorse a sua disposizione, potrà sostenere il regime di Damasco come gli pare e piace.

(ilsussidiario.net, 15 luglio 2015)


"Hitler con l'atomica"

Teheran brama la fine di Israele. Il generale di Entebbe: "L'accordo di Vienna ci mette in pericolo".

di Giulio Meotti

 
Il presidente dell'Iran, Hasssan Rouhani
ROMA. Il Palais Coburg, il lussuoso hotel di Vienna dove è stato firmato l'accordo sul nucleare dell'Iran, sorge in una piazza particolare. E' intitolata a Theodor Herzl, il fondatore del sionismo. E proprio Israele martedì è quello che ha reagito più duramente all'accordo, definito una resa all'"asse del male". Tre giorni prima che l'Amministrazione Obama stringesse la mano ai mullah, l'ex presidente della Repubblica Islamica, l'ayatollah Hashemi Rafsanjani, aveva scandito: "Israele è uno falso stato temporaneo. E' un oggetto estraneo nel corpo di una nazione e sarà presto cancellato. Quando e come accadrà dipende da alcune condizioni che stanno cambiando rapidamente". Forse Rafsanjani si riferiva all'accordo. "L'Iran su Israele dice quello che pensa nel profondo", spiega al Foglio il generale dell'esercito israeliano Ephraim Sneh. Nel blitz di Entebbe, il 4 luglio 1976, tra le sue braccia morì Yoni Netanyahu, fratello dell'attuale primo ministro. Figlio di sopravvissuti alla Shoah, Sneh è anche "l'uomo che ha scoperto l'Iran", perché fu il primo a sollevare l'allarme sull'atomica iraniana. Il laburista Sneh sottopose le sue conclusioni all'allora primo ministro, Yitzhak Rabin che, il 26 gennaio 1993, annunciò alla Knesset: "L'Iran è un pericolo strategico per lo stato d'Israele". "Oggi siamo molto preoccupati perché l'ideologia della morte dell'Iran si coniuga a un apparato militare e nucleare immenso", ci dice Sneh. "L'accordo di Vienna non distrugge il programma nucleare, lo congela. Inoltre fornisce impunità e legittimità al regime iraniano nella sua conquista globale".
  L'analista Mark Langfan, direttore dell'organizzazione "Americans for a safe Israel", ha appena definito il regime iraniano "Hitler con la bomba atomica e il 56 per cento delle risorse petrolifere mondiali". Eppure, la "razionalità" del regime iraniano è diventata egemone nelle cancellerie e nei pensatoi occidentali. Nel 2007 l'allora presidente francese, Jacques Chirac, disse che la bomba atomica iraniana non avrebbe avuto alcun uso offensivo. "Dove dovrebbero tirare la bomba, su Israele?", chiese Chirac. Dello stesso avviso la Casa Bianca. Ma anche i volti più pragmatici del regime come Ali Akbar Salehi, l'attuale capo dell'Agenzia atomica iraniana, sono stati chiari: "Il regime israeliano è troppo piccolo per sopravvivere a una settimana di guerra". Chi ha orecchie intenda. Quando due anni fa è rimasto ucciso in un attentato Mostafa Ahmadi Roshan, lo scienziato a capo della centrale nucleare di Natanz, la moglie è stata intervistata dall'agenzia Fars. A domanda su quale fosse il principale scopo del lavoro del marito, la donna ha risposto: "La distruzione di Israele".

 "Per l'Europa, Israele è un peso"
  "Europa e America sul deal si sono mossi in nomi di cinici interessi economici", dice al Foglio Mordechai Kedar, uno dei massimi esperti di mondo islamico alla Bar Ilan University, con alle spalle vent'anni trascorsi nell'intelligence militare di Tsahal. "L'Europa voleva aprire il mercato iraniano. Non ha alcun interesse in Israele. Anzi le dirò di più: nel loro intimo pensano che Israele sia un peso e che il medio oriente sarebbe più pacifico senza uno stato ebraico". Secondo Kedar, gli ayatollah dicono quello che vogliono fare: "Agli occhi degli ayatollah, gli ebrei non hanno diritto a una terra e questo rende Israele votato alla scomparsa. Gli ebrei non hanno il diritto di sfidare i musulmani, meno che mai ucciderli, neanche per autodifesa. Per questo tutti gli ebrei in Israele sono meritevoli di morte. Gli iraniani faranno tutto il possibile per distruggere lo stato ebraico, e sanno che molte nazioni non verseranno una lacrima se Israele scomparisse. Uno dei leader iraniani ha già definito Israele un 'paese da colpire con una bomba', perché un'atomica su Tel Aviv è sufficiente a distruggere l'intero stato. Dobbiamo prenderli sul serio, ricordando che non abbiamo prestato attenzione agli avvertimenti degli anni Trenta. L'Europa, e una parte dell'America, non considerano più Israele come il primo bastione della civiltà. Ma l'Europa sarà la prossima a essere mangiata dal coccodrillo".

(Il Foglio, 15 luglio 2015)


Un patto col diavolo

di Cesare de Carlo

Questo accordo-dice Obama-renderà ilmondo più sicuroro? A una prima occhiata sembra la versione obamiana del patto col diavolo di faustiana memoria. Ricapitoliamo. L'Iran della teocrazia liberticida smantellerà due terzi delle centrifughe usate per arricchire l'uranio. Eliminerà gran parte dell'uranio già arricchito e produrrà meno plutonio. Ma solo per dieci anni. 0 forse meno. E dopo? Disporrà della bomba (ammesso che già non l'abbia). E intanto che fani Israele? Attenderà passivamente di essere incenerito come gli ayatollah ripetevano prima dell'avvento della 'colomba' Rohani?
   Quattro mesi fa in Congresso il primo ministro Netanyahu ha proclamato: mai più un altro Olocausto, ci difenderemo da soli se gli Usa ci abbandoneranno. E la sunnita Arabia Saudita? Si rassegnerà alla minaccia degli sciiti iraniani che allargano la loro egemonia sull'intero Medio Oriente? Già ora combattono contro i sunniti yemeniti, contro i sunniti iracheni che appoggiano l'Isis. Alimentano il terrorismo di Hezbollah in Libano.
   Forniscono armi e missili al siriano Assad e ad Hamas che li scarica sulla testa degli israeliani. Nessuna sorpresa allora se il governo saudita dice: abbiamo la tecnologia nucleare. E così l'Egitto. Il generale Al Sisi lotta per scongiurare il ritorno di quei Fratelli musulmani che agli occhi di Obama incarnavano la primavera araba.
   Dunque più e non meno armi nucleari. Minore e non maggiore sicurezza. Ci fa sapere la Casa Bianca: non c'era alternativa. In assenza di un accordo l'Iran sarebbe arrivato alla bomba molto prima. Può darsi. Ma la firma di Vienna rappresenta l'elevazione del regime al rango di potenza continentale. Chiediamoci infine perché gli altri Paesi al tavolo della trattativa abbiano approvato. Russia e Cina per la geopolitica. Indeboliscono ulteriormente la posizione americana e venderanno armi una volta tolte le sanzioni. Francia, Gran Bretagna, Germania per il nuovo mercato. Più export e più petrolio. Questo vale anche per l'Italia. Ma a che prezzo? Ora l'accordo dovrà essere ratificato dal Congresso. E questo nega il paragone con l'apertura di Nixon sulla Cina comunista. I repubblicani hanno l'arma del voto. Obama quella del veto.

(Nazione-Carlino-Giorno, 15 luglio 2015)


Lo schiaffo nucleare a Israele

Alleati traditi. Sauditi ed egiziani già pensano all'atomica, e a mollare l'alleato americano in favore di Putin. Con il deal non soltanto non si ferma la Bomba: i pasdaran ora sono pronti a ricostruire l'impero.

di Carlo Panella

Vladimir Putin
ROMA - "L'accordo con l'Iran apre la porta alla proliferazione nucleare, non la chiude". Questo secco giudizio non è del premier israeliano Bibi Netanyhau, ma di Turki bin Faisal, già capo dei servizi segreti sauditi e già ambasciatore a Washington, ed è stato espresso poche settimane fa. Abituato a un linguaggio diretto, Turki ha aggiunto: "Qualunque cosa gli iraniani hanno, la avremo anche noi". Non è un caso che questo esplicito annuncio dell'intenzione di Riad di dotarsi di un armamento atomico sia arrivato in coincidenza della firma a San Pietroburgo il 18 giugno del contratto con cui il regno saudita acquista 16 centrali atomiche dalla Russia. Il contratto è stato firmato da Vladimir Putin e - il fatto è indicativo - non dal ministro dell'Energia saudita, ma dal principe Mohammed bin Salman, che non solo è il ministro della Difesa, ma è anche figlio del re Salman e secondo nella successione al trono. E' palese e che le 16 centrali atomiche acquistate dai sauditi sono sproporzionate rispetto alle necessità energetiche del regno e sono funzionali a un raffinamento dell'uranio finalizzato all'atomica. Ci sono state poi le rivelazioni del Sunday Times (confermate da molti analisti), secondo le quali il Pakistan ha deciso di sdebitarsi per i finanziamenti di miliardi di dollari ottenuti da Riad per dotarsi di una bomba atomica, consegnandole l'assistenza per disseminare di atomiche la penisola arabica. Ma non basta: anche il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha deciso di affiancare i sauditi e il 15 febbraio scorso, durante la visita di Putin al Cairo, ha firmato un contratto per l'acquisto di una centrale atomica con tecnologia russa che sorgerà nella località di al Daba.
   E' dunque indubbio che l'accordo nucleare di Vienna spinge i due paesi arabi tradizionalmente alleati dell'America a buttarsi ora nelle braccia della Russia, stringendo vincoli di lungo periodo che muteranno la loro collocazione internazionale.
   Questi vincoli si completano con l'acquisto di parte saudita di armi per 1,4 miliardi di dollari - 150 elicotteri, di cui 30 Mi-35 (d'attacco) e 120 Mi-17 (per il trasporto), oltre a 150 carri armati T-90S - e da parte dell'Egitto di armamenti per ben 3 miliardi di dollari (prestati da Riad). Le ragioni di questa escalation nucleare saudita-egiziana, appoggiata dai paesi del Consiglio del Golfo, sono evidenti: Barack Obama ha condotto le trattative con l'Iran escludendo dal tavolo l'aggressività militare di Teheran nei confronti dei paesi sunniti, dispiegata ormai da quattro anni - un'aggressività che minaccia direttamente Riad, il Cairo e il Kuwait. Ammesso che il trattato di Vienna inibisca per 10 anni la costruzione della bomba atomica iraniana, è agli atti, per cartas, che da qui al 2025 l'Iran continuerà a inviare i suoi pasdaran e Hezbollah (che è una sua formale emanazione libanese) a combattere contro gli interessi sauditi, egiziani e dei paesi sunniti in Libano, Siria, Iraq, Yemen e a Gaza.
   Rinforzata l'economia con decine, forse centinaia, di miliardi di dollari per l'acquisto di petrolio e di investimenti occidentali, Teheran è ora libera di sviluppare la sua spinta aggressiva nei confronti dei paesi sunniti, finalizzandola alla "esportazione della rivoluzione" e addirittura alla "rinascita dell'impero Sassanide" (come teorizza il "riformista" Ali Younesi, consigliere del presidente Hassan Rohani ed ex ministro dell'Intelligence nel governo Khatami). Lo stesso assenso all'accordo di Vienna da parte del blocco costituito da pasdaran e "clero militante" ha questa motivazione.
   E' quindi facile prevedere cosa accadrà in Siria: la perdita del controllo di Damasco da parte di Bashar el Assad sarà seguita e attutita dai 10 mila pasdaran e miliziani di Hezbollah, già radicati nel paese. Stesso scenario in Iraq, dove le milizie sciite, sotto la guida del generale dei pasdaran Qassem Suleimani, sostituiranno sempre più un esercito iracheno inesistente, e saranno la "forza armata" di un governo di Baghdad ridotto a satellite di Teheran. Stesso scenario nello Yemen, là dove gli Houti sono arrivati a sfondare il confine e a combattere su suolo saudita. Identico lo scenario di Gaza. Infine, ma non per ultimo: Riad sa bene che i missili intercontinentali iraniani - esclusi dall'accordo di Vienna - sono puntati su Riad e Gedda e non solo su Tel Aviv e Dimona. Diventa così quasi obbligato il suo sganciamento da Washington e l'avvio di una escalation militare che trasformerà il medio oriente in un caos incontrollabile e incontrollato. A tutto vantaggio della Russia di Putin.

(Il Foglio, 15 luglio 2015)


Sembra proprio che Barack Obama sia «l’uomo del destino» arrivato al tempo giusto per avviare e favorire quell’inevitabile declino degli Stati Uniti come potenza mondiale che favorirà l’emergere di potenze “bibliche” come Iran e Russia. Tutto questo ben si accorda con le profezie contenute nelle Sacre Scritture arrivate agli uomini attraverso il popolo ebraico, oggi presente sulla scena politica mondiale nella forma dello Stato d’Israele. M.C.



Dov'è il centro del mondo?

«Il centro del mondo è Israele. Il centro di Israele è Gerusalemme. Il centro di Gerusalemme è Mea Shearim, e il centro di Mea Shearim sono gli Stüblach», ha detto una volta un ebreo ultraortodosso a un giornalista che lo interrogava. Mea Shearim è il quartiere di Gerusalemme abitato da ebrei particolarmente pii che vogliono vivere secondo le regole stabilite dalle tradizioni rabbiniche; gli Stüblach sono, in lingua yiddish, le innumerevoli minisinagoghe del quartiere in cui i devoti si immergono giorno e notte nello studio della Torà.
La dichiarazione dell'ebreo ultraortodosso è interessante, ma da un punto di vista biblico dovrebbe essere corretta così:
     «Il centro del mondo è Israele. Il centro di Israele è Gerusalemme. Il
     centro di Gerusalemme è il monte Sion».

"Mea Shearim o Sion?" Un bel dilemma, che potrebbe assumere anche altre forme: "rabbinismo o sionismo?" "moralità o storia?"
Per secoli l'ebraismo è vissuto in diaspora. In diaspora è vissuto e cresciuto nei primi secoli anche il cristianesimo, formato da gentili che si sono uniti agli ebrei che avevano creduto in Gesù come Messia. In diaspora avrebbe dovuto rimanere sempre anche il cristianesimo, nella convinzione di non avere alcun diritto - e di fatto alcuna possibilità - di anticipare i tempi stabiliti da Dio per il suo popolo Israele. La costituzione di una nuova centralità territoriale cristiana alternativa a quella ebraica costituisce il peccato politico del cristianesimo ufficiale, perché pretende, senza averne alcun diritto, di essere l'espressione visibile della sovranità di Dio sulla terra.


 

Israele esclude un accordo con Hamas per il rilascio dei due israeliani sequestrati

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, ha escluso l'eventualità di un accordo per lo scambio di prigionieri con Hamas, con l'obiettivo di ottenere la liberazione di due cittadini israeliani catturati nei mesi scorsi dopo aver varcato il confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Ya'alon è tornato a chiedere la liberazione dei due cittadini israeliani alle autorità di Gaza, anche se le loro sorti restano del tutto ignote. "Un accordo non è all'ordine del giorno e chiediamo che Hamas li liberi senza porre condizioni", ha detto Ya'alon, secondo cui Israele ha cercato senza alcun successo di trattare il loro rilascio negli ultimi mesi. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito la settimana scorsa che Israele ritiene Hamas responsabile della sicurezza dei due cittadini israeliani. La Knesset voterà domani per decidere se formare una commissione parlamentare d'inchiesta per indagare sulla scomparsa dei due uomini.

(Agenzia Nova, 14 luglio 2015)


L'ex contabile di Auschwitz "profondamente dispiaciuto"

Domani la sentenza di forse ultimo processo nazista.

 
Oskar Groening
LUNEBURG, 14 lug. - L'ex contabile di Auschwitz, Oskar Groening, accusato di complicità nell'omicidio di 300.000 ebrei, si è detto ancora una volta "profondamente dispiaciuto" alla vigilia della sentenza di quello che potrebbe essere l'ultimo processo nazista in Germania. "Auschwitz è un luogo al quale nessuno avrebbe dovuto partecipare", ha dichiarato con voce tremante l'imputato, 94 anni, al termine di tre mesi e mezzo di udienze a Luneburg (Nord). "Ne sono consapevole. Mi dispiace sinceramente di non essermene reso conto prima. Sono profondamente dispiaciuto", ha detto l'ex SS. Goering ha sempre detto di non aver preso parte direttamente alle uccisioni dei prigionieri del campo, pur dichiarandosi "moralmente colpevole". Ha riconosciuto le atrocità compiute nei lager nazisti. La difesa ne ha chiesto l'assoluzione insistendo che le mansioni svolte da Groening ad Auschwitz - era incaricato di selezionare le valute prelevate sui deportati e di trasferirle alle autorità naziste a Berlino - erano prettamente amministrative. La Procura ha chiesto tre anni e mezzo di reclusione. Oskar Groening sarà quasi certamente uno degli ultimi nazisti ad essere giudicato in Germania per il suo servizio, prestato dal 16 maggio 1944 all'11 luglio 1944. Durante questo periodo vennero deportate circa 425.000 persone nel campo di sterminio nazista, di cui almeno 300.000 sono morte nelle camere a gas.

(askanews, 14 luglio 2015)


Netanyahu: "Intesa con Teheran un errore dalla portata storica"

Un accordo storico. Così il capo della diplomazia europea Federica Mogherini e il ministro degli Esteri dell'Iran Mohammed Javad Zarif hanno definito l'intesa raggiunta oggi tra le potenze del 5+1 (Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia più la Germania) e Teheran sul nucleare iraniano. "Quello che abbiamo di fronte a noi, oggi, - ha dichiarato Mogherini da Vienna, nel corso di una conferenza congiunta con il ministro Zarif - è il risultato del duro lavoro di chi si è impegnato per settimane, giorni, notti, mesi e anni, in alcuni casi". Per l'Alto rappresentante agli Esteri dell'Unione Europea, l'accordo, ideato per evitare che l'Iran si doti di un'arma nucleare, non concerne solo quest'ultimo ma "può aprire la strada a un nuovo capitolo nelle relazioni internazionali e dimostra che la diplomazia, il coordinamento, la cooperazione possono superare decenni di tensioni e scontri".
   Anche il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito "storico" l'accordo siglato oggi con il regime degli Ayatollah ma secondo un'interpretazione completamente opposta: "si tratta di un brutto errore dalla portata storica", ha affermato Netanyahu, ribadendo che Israele cercherà di fare appello al Congresso americano perché ne blocchi l'approvazione da parte di Washington.
   Dalla Capital City arrivano intanto le rassicurazioni del presidente Usa Barack Obama, che parlando dell'intesa di Vienna, ha dichiarato "Grazie a questo accordo l'Iran non sarà in grado di sviluppare la bomba atomica, se Teheran dovesse violarlo tutte le sanzioni saranno ripristinate e ci saranno serie conseguenze".
   Netanyahu, di contro, ha ricordato agli alleati americani come non si possa riporre la propria fiducia nell'Iran degli Ayatollah, un paese "che brucia le bandiere americane e israeliane e urla 'morte all'America'" (il riferimento del premier israeliano alla recente manifestazione svoltasi in diverse città iraniane contro Israele e Stati Uniti).
   A rispondergli, in un botta e risposta a distanza, ancora Obama: L'intesa "non si basa sulla fiducia, ma sulle verifiche - ha assicurato il presidente americano - gli ispettori saranno in grado di accedere a tutti i siti sospetti e saranno in grado di verificare" quanto deciso nell'accordo. Poi un altro messaggio al governo di Gerusalemme e agli avversari repubblicani, annunciando che "Porrò il veto a qualsiasi legge che impedirà l'attuazione dell'accordo".
   A parlare in queste ore è stato anche il presidente iraniano Hassan Rohani, che ha prima applaudito all'accordo per poi lanciarsi in un attacco contro Israele. "I tentativi sionisti di affossare l'accordo sono falliti", ha dichiarato Rohani, riferendosi agli appelli di Gerusalemme alle potenze occidentali di fermare le trattative con l'Iran, paese che finanzia i movimenti terroristici di Hezbollah e Hamas.
   Da qui molti dei timori di Israele, che ha ricordato al gruppo dei 5+1 le minacce provenienti da Teheran, che più volte ha invocato la distruzione dello Stato islamico.
   Netanyahu e il ministro degli Esteri Moshe Yaalon, assieme ad altri esponenti del governo, hanno profondamente criticato il piano siglato a Vienna, affermando che non eviterà che l'Iran si doti della bomba nucleare ma anzi faciliterà la sua rincorsa per ottenerne una. Il primo ministro ha anche chiesto a tutte le ali politiche di unirsi al suo tentativo di bloccare l'accordo. Un appello arrivato dopo le critiche ricevute dal capo dell'opposizione Isaac Herzog e dal leader di Yesh Atid Yair Lapid: l'aver messo in crisi i rapporti con l'amministrazione americana ha portato a questa situazione, in cui Israele è rimasta esclusa dai negoziati, il concetto espresso sia da Herzog che da Lapid. Il riferimento è ai duri scontri tra Netanyahu e Obama degli scorsi mesi proprio sulla partita iraniana. Scontri che con ogni probabilità si rinnoveranno visto l'annuncio della diplomazia israeliana di voler far sentire la propria voce a Washington.

(moked, 14 luglio 2015)


Raggiunto accordo sul nucleare: a Teheran si preparano festeggiamenti

 
Mohammad Javad Zarif, capo negoziatore iraniano
ROMA, 14 luglio, ore 11 - L'Iran e i Paesi del '5+1' (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) hanno raggiunto un accordo sul programma nucleare di Teheran.
  Un alto diplomatico occidentale citato dalla Ap ha confermato di aver raggiunto l'intesa formale sul nucleare iraniano dopo aver superato gli ostacoli finali: l'accordo include un compromesso tra Washington e Teheran che permetterà agli ispettori Onu di chiedere di visitare anche i siti militari iraniani.
  La portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Marie Harf, conferma che alle 10.30 inizierà a Vienna la «riunione plenaria finale» Iran e Paesi del '5+1', l'incontro decisivo per la firma dell'accordo sul programma nucleare di Teheran. Successivamente, aggiunge la Harf su Twitter, ci sarà la conferenza stampa all'Austrian Center.
  Le sanzioni internazionali contro l'Iran saranno dunque cancellate e Teheran adempierà ai suoi impegni per creare fiducia sulla natura pacifica del suo programma nucleare. Sono i principi affermati nelle conclusioni dei negoziati che saranno annunciati tra breve a Vienna. Lo scrive l'Irna anticipando alcuni contenuti del testo dell'intesa.
  L'accordo sul nucleare Iraniano impedirà a Teheran di produrre materiale sufficiente per la costruzione di un'arma atomica per almeno 10 anni e prevede nuove clausole per le ispezioni dei siti del Paese, inclusi quelli militari.

 Il primo ministro israeliano
  L'accordo sul nucleare iraniano «é un grave errore di proporzioni storiche». Lo ha detto il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, citato dal Jerusalem Post all'inizio del suo incontro con il ministro olandese degli Esteri, Bert Koenders. «L'Iran otterrà un sicuro cammino verso le armi nucleari. Molte restrizioni che avrebbero dovuto impedirlo sono state rimosse. L'Iran ha vinto un jackpot, una fortuna in denaro, che gli permetterà di perseguire la sua aggressione e il terrore nella regione e nel mondo. Questo è un grave errore di storiche proporzioni», ha detto Netanyahu, facendo riferimento agli effetti del sollevamento delle sanzioni economiche contro Teheran.
  «L'Iran ha ricevuto licenza di uccidere»: lo sostiene il ministro israeliano dell'istruzione Miri Regev (Likud) commentando l'accordo di Vienna. Citata da Maariv, la Regev ha aggiunto: «Il fatto che a Teheran si festeggia dimostra che si tratta di un accordo negativo per il mondo libero e per l'umanità ». Comunque a suo parere ancora non è stata detta l'ultima parola ed è possibile indurre il Congresso Usa a bloccare «l'accordo di resa dell'Occidente».

 Il presidente americano
 
  Il presidente americano, Barack Obama, rilascerà una dichiarazione pubblica subito dopo la firma dello storico accordo sull'Iran. Le parole di Obama avvieranno un lungo processo in cui il presidente - scrive il New York Times - tenterà di «vendere» l'intesa al Congresso e all'opinione pubblica americana. Una volta firmato l'accordo il Congresso americano avrà 60 giorni di tempo per approvarlo o respingerlo. Dopo il disgelo con la ex Birmania e con Cuba, per Obama - sottolineano i media Usa - l'accordo con l'Iran è il terzo che cambia profondamente le relazioni diplomatiche degli Stati Uniti con Paesi con cui il dialogo era sospeso da decenni. L'Iran - evidenzia il Nyt - di questi tre Paesi è il più importante dal punto di vista strategico, il solo con un programma nucleare e ancora nella 'lista nera' degli stati ritenuti sponsor del terrorismo.

(Il Messaggero, 14 luglio 2015)


Il contro-piano di Israele: offensiva sul Congresso per far bocciare il piano

Netanyahu prepara la "campagna americana" per convincere i democratici a mollare Obama.

di Maurizio Molinari

Moniti sulle atomiche iraniane in arrivo, critiche alle grandi potenze «disposte ad accettare qualsiasi umiliazione», determinazione a difendersi «anche da soli se sarà necessario» e twitter in persiano: Benjamin Netanyahu è il regista di un'offensiva politica che guarda al dopo-accordo sull'Iran, puntando sul Congresso di Washington per affondarlo.
  Davanti a un negoziato di Vienna quasi concluso, la scelta del premier israeliano è di comportarsi come se fosse stato già firmato, lanciando una raffica di messaggi destinati anzitutto al pubblico americano ovvero a senatori e deputati di Capitol Hill che potrebbero bocciarlo, superando anche l'eventuale veto del presidente Barack Obama. Netanyahu definisce la bozza in discussione a Vienna «un'intesa che consentirà all'Iran di avere molti ordigni nucleari» e descrive le potenze occidentali «inclini ad accettare ogni condizione e umiliazione» pur di arrivare alla sigla di un «pessimo accordo» che consentirà a Teheran, secondo fonti israeliane, di ottenere grazie all'abolizione delle sanzioni «almeno cento miliardi di dollari» destinati a rafforzare gli arsenali di Hezbollah, Hamas e altri gruppi terroristici «che minacciano noi, la regione e il mondo intero».

 «Ci difenderemo da soli»
  Ecco perché il ministro della Difesa, Moshe Yaalon, risponde alle indiscrezioni sull'intesa imminente facendo presente che «Israele deve essere pronto a difendersi da solo» se l'Iran riuscirà a diventare una potenza nucleare. I portavoce di Gerusalemme sottolineano le «bandiere israeliane e americane bruciate a Teheran in questi giorni di negoziati a Vienna» e le frasi dei leader iraniani che «continuano a parlare della cancellazione di Israele dalla carta geografia» per suggellare un clima che vede lo Stato ebraico destinato a essere in prima linea davanti agli ayatollah dotati del nucleare, non solo civile ma militare. Yuval Steinitz, ministro dell'Energia e consigliere strategico di Netanyahu, offre la chiave di lettura di tale offensiva di «Public Diplomacy»: «Siamo in grado di cambiare l'orientamento del pubblico americano, spingendolo a rigettare il pessimo accordo che uscirà da questi negoziati».
  Il riferimento è alla battaglia che incombe al Congresso di Washington dove 435 deputati e 100 senatori saranno chiamati ad esprimersi sull'eventuale accordo nell'arco di 60 giorni dalla firma. In entrambi i rami di Capitol Hill l'opposizione repubblicana ha la maggioranza ma per annullare il prevedibile veto di Obama a difesa dell'accordo servirà, tanto alla Camera che al Senato, una maggioranza qualificata dei due terzi. Ciò significa che un numero importante di democratici dovrebbe voltare le spalle al presidente ma poiché si voterà «forse a metà settembre», come prevede Steinitz, ovvero a 14 mesi dall'Election Day 2016, deputati e senatori democratici potrebbero essere tentati di ascoltare più l'orientamento dei propri elettori - in gran parte ostili all'Iran - che un Presidente arrivato ad termine del secondo mandato.

 La carta Hillary Clinton
  Lo scetticismo di Hillary Clinton, favorita nella corsa alla nomination democratica, sul negoziato nucleare con l'Iran è un altro tassello: quando l'ex First Lady dice che il negoziato nucleare «non risolve i maggiori problemi» perché l'Iran resta comunque «una minaccia esistenziale per Israele» suggerisce un approccio diverso a quello di Obama che potrebbe pesare sul voti di alcuni, decisivi, senatori. È uno scenario che consente a Netanyahu, veterano della politica dentro la Beltway, di sperare di ottenere dal Congresso il blocco della «pessima intesa» che sta nascendo a Vienna.
  Proprio questa «offensiva americana» di Netanyahu spiega il debutto dell'account Twitter in persiano per rivolgersi agli iraniani avvertendoli che «se il regime incasserà l'accordo avrà più fondi per la repressione interna». Attorno al «no a Vienna» Netanyahu ridefinisce la posizione di Israele nella regione, puntando a diventare il punto di riferimento di ogni tipo di opposizione al regime degli ayatollah. Sperando in questa maniera di consolidare ancor più il rapporto con le potenze regionali sunnite intimorite dagli sciiti - a cominciare da Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto - per ridisegnare gli equilibri strategici in Medio Oriente.

(La Stampa, 14 luglio 2015)


Israele sacrificato

di Aldo Baquis

Israele si sente abbandonato: anche, e in primo luogo, dal suo alleato più intimo, gli Stati Uniti. Davanti alle telecamere, il premier Netanyahu si sbigottisce per l'ennesima volta alla vista di negoziatori statunitensi che continuano imperterriti a trattare, mentre a Teheran le folle gridano: «Morte agli Usa». Si indigna per il disinteresse delle potenze del 5+1 di fronte alla politica espansionistica dell'Iran (in Libano, Siria, Gaza, Yemen, Sudan e altrove) e per il suo sostegno a reti terroristiche, in primo luogo agli Hezbollah e a Hamas.
   Possibile, si chiede allibito, che i grandi della Terra non si interroghino mai sul futuro del Medio Oriente, e del mondo intero, una volta che le sanzioni saranno rimosse e che nelle casse di Teheran a affluiranno centinaia di miliardi a dollari? Che ne sarà della opposizione interna al regime degli ayatollah su cui almeno l'Occidente diceva di nutrire speranze?
Guardandosi intorno, il premier fatica a capacitarsi: possibile che solo Israele comprenda che l'accordo consentirà all'Iran di dotarsi in un futuro non lontano - come insegna il precedente della Corea del Nord - di armi atomiche e di mettere così in pericolo la pace nel mondo? Magari, sospirano i dirigenti israeliani, fosse solo una debolezza passeggera.
   Nasce spontaneo il dubbio che le potenze abbiano freddamente deciso di accettare l'Iran (che già oggi svolge funzione di gendarme in Libano. Siria e Iraq) come la nuova potenza regionale: anche se Israele, Arabia Saudita ed Egitto (Paesi di lunga fedeltà Usa) tremano a quel pensiero. Nasce il sospetto che il presidente Barack Obama sappia fin troppo bene quello che fa, e che abbia compiuto la sua scelta.
   Lunedì in parlamento Netanyahu ha solennemente ribadito l'impegno di impedire all'Iran, malgrado tutto, di dotarsi di armi atomiche. Ma nel nuovo contesto mondiale, specialmente in assenza di un ok americano, un blitz solitario israeliano in Iran appare ora remoto. Prima di balzare a scenari da Gog e Magog, la strada resta lunga. Israele può sperare in un'azione di disturbo al Congresso, magari col discreto aiuto di Hillary Clinton. Inoltre nella Regione l'opposizione è molto forte: dal paventato accordo con l'Iran potrebbe sbocciare una sintonia strategica fra Israele e i vicini sunniti. Verrebbe anche utile, tra l'altro, come puntello a intese con i palestinesi.
   
(La Nazione, 14 luglio 2015)


Obama è ingenuo o troppo furbo?

Sta con Tsipras a spese dell'Ue e con gli ayatollah a spese di Israele.

C'è qualcosa di poco chiaro nell'atteggiamento invariabilmente ispirato alla transigenza che caratterizza l'Amministrazione Obama nelle sue fasi conclusive. Sulla Grecia si sono sentite prediche sull'esigenza, per non meglio identificate ragioni geopolitiche, di accettare i ricatti di Syriza, senza alcuna preoccupazione per i costi di questa tolleranza che avrebbero dovuto sopportare i partner europei. Non è certo merito dell'America se all'accordo pare si possa arrivare in base a un solido programma di modernizzazione, del quale Barack Obama non si è mai mostrato un fautore. Su un altro dossier, quello della propensione del regime iraniano a dotarsi di missili balistici e di ordigni atomici, l'America pare ormai vicina a concludere un'intesa che renderà ancora più insicura la situazione dell'alleato israeliano. Persino nella normalizzazione delle relazioni con Cuba si è completamente dimenticato di ottenere una qualsiasi tutela dei diritti del dissenso interno, consentendo così a Raòl Castro di proclamarsi paradossalmente campione dei diritti umani.
   L'intransigenza americana pare ormai riservata solo alla Russia, paese che, a differenza dell'Iran e di Cuba, ha sicuramente compiuto passi rilevanti in direzione dell'adozione di un sistema di governo democratico, almeno se confrontato con la dittatura sovietica precedente. Sarebbe da ingenui considerare che la politica internazionale di una grande potenza debba essere strettamente vincolata a questioni di principio, anche se la alluvionale retorica obamiana avrebbe fatto pensare a una qualche aderenza a queste impostazioni "idealistiche". Anche trascurando i problemi di coerenza, resta difficile da comprendere un atteggiamento che finisce col favorire il consolidamento di dittature che per varie ragioni sembravano avviate a una fase agonica oppure a dare appoggio a politiche economiche disinvoltamente irresponsabili.
   Che cosa si aspetta di ottenere Obama? Il premio Nobel per la Pace lo ha già ricevuto, sebbene troppo precocemente, e difficilmente può ottenere un posto di rilievo nella storia comportandosi come Arthur Neville Chamberlain a Monaco (anche se il paragone, per ovvie ragioni, non potrà mai reggere). In un mondo in cui si staglia il pericolo del terrorismo islamico, che tende a diventare il problema principale del prossimo decennio, l'imperativo dovrebbe essere quello di unire in primo luogo le forze delle democrazie, di difendere il popolo israeliano sempre più direttamente minacciato, di rinforzare la leadership che spetta di fatto, per ragioni economiche e militari oltre che storiche, all'America. Questi obiettivi non sono l'ossatura della strategia obamiana, che appare invece ondivaga - quando non controproducente. Questo renderà ancora più arduo il compito del suo successore.
   
(Il Foglio, 14 luglio 2015)


Parata di Hamas per l'anniversario della guerra del 2014

GAZA - Il braccio armato di Hamas, le brigate al-Qassam, hanno organizzato una parata militare a Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza per ricordare il primo anniversario della guerra dei 50 giorni tra Israele e il movimento islamista palestinese. Il conflitto fu innescato dai ripetuti lanci di missili da Gaza sul territorio israeliano, all'indomani del rapimento e dell'uccisione di tre adolescenti israeliani organizzato dai membri di Hamas.

(askanews, 14 luglio 2015)


Autodafé, un quotidiano di sinistra licenzia due firme "islamofobe"

di Giulio Meotti

ROMA - Il West Highland Free Press è un quotidiano scozzese nato sull'onda del radicalismo di sinistra degli anni Settanta. Nei destini del giornalismo anglosassone, questo quotidiano non è propriamente strategico. Ma se ci guardi dentro come in un caleidoscopio, ci scorgi quasi il destino e la vocazione di tanta carta stampata. Brian Wilson, ex parlamentare del Labour ed ex ministro dell'Energia di Tony Blair, è stato accomodato alla porta dal West Highland Free Press dopo averci scritto per 38 dei 43 anni di vita del giornale, da quando Wilson lo fondò e diresse nel 1972. E' stato cacciato per aver usato la sua column settimanale per difendere un collega, il professor Donald Macleod, che aveva osato scrivere di islam. Il Telegraph parla di "un caso che non ha precedenti". In effetti non era mai successo che in un solo fine settimana due giornalisti, due firme importanti, tra cui un ex direttore e fondatore, venissero estromessi da una testata. Bbc, Telegraph, Guardian, Independent, Times e Daily Mail non parlano d'altro che di questo piccolo giornale il cui motto campeggia in gaelico sulla prima pagina.
   La prima testa a rotolare in questa vicenda è stata quella di Donald Macleod, reo di aver firmato un articolo sulla trasformazione dell'Europa. "La nostra libertà non potrà mai sopravvivere sotto un islam dominante. Nessun paese musulmano al mondo garantisce diritti civili o la libertà di parola ai cittadini. In Iraq, sotto Saddam Hussein, anche i membri del suo stesso partito vivevano nel timore quotidiano di un'esecuzione sommaria. In Arabia Saudita, nessuna donna può guidare la macchina. E nei paesi della cosiddetta 'primavera araba', la primavera si è trasformata rapidamente in inverno. Il rovesciamento di Mubarak non ha portato la libertà in Egitto e il rovesciamento di Gheddafi ha portato solo caos in Libia. L'islam e le urne, gli ayatollah e le libertà civili, non possono mai convivere".
   E ancora: "Abbiamo barriere intellettuali, ideologiche o spirituali da sollevare nei confronti dell'islam? L'umanesimo secolarista dominante è troppo impegnato a odiare il cristianesimo, che in molte parti della Gran Bretagna è diventato invisibile. La chiesa si è ritirata, lasciando un vuoto religioso, e una generazione spiritualmente senza spina dorsale. Sono deliri apocalittici di un cervello invecchiato? Forse, ma prendiamo in considerazione Agostino, la più grande mente cristiana che il mondo abbia mai visto. Nato in Algeria, divenne vescovo di Ippona (in Algeria) nel 396. Il cristianesimo sembrava al sicuro per i tempi a venire. Ma nel 622 Maometto si è stabilito a Medina, e un centinaio di anni più tardi il cristianesimo è stato cancellato in Algeria. La diocesi di Agostino era stata semplicemente sopraffatta da un esercito musulmano. La storia non deve ripetersi. Ma dormire da ritti è la strada verso la perdita di tutte le nostre libertà".
   Dopo aver pubblicato questa column, Macleod ha perso il posto. Quando l'ex direttore Wilson, una vita trascorsa ai vertici del laburismo inglese, lo ha scoperto, ha deciso di usare la sua rubrica, intitolata "Footnotes", per difendere l'ex collega, definendo il suo articolo "il più erudito, ben scritto e intellettualmente stimolante del giornalismo inglese". Il comitato di redazione del West Highland Free Press, che dal 2009 è una cooperativa di proprietà dei dipendenti, ha informato che i due non scriveranno più per il quotidiano. Ian McCormack, direttore del giornale da quarant'anni, non ha voluto rilasciare commenti.
   Sembra una storia degna di "Scoop", il celebre romanzo di Evelyn Waugh che prese in giro i tic del giornalismo. Sembra scritto per certi reporter occidentali che indossano sahariana e pashmina in tour promozionale, che rivendicano la tolleranza e praticano l'intolleranza. Questo vale per i campus liberal del Massachusetts come per la fredda redazione del West Highland Free Press.

(Il Foglio, 14 luglio 2015)


Anche in Israele si parla di Ghiurim

di Filippo Tedeschi

È di domenica 5 luglio la notizia del sostanziale blocco della nuova riforma sulle conversioni da parte del nuovo governo israeliano. La riforma proposta dal precedente governo Netanyahu prevedeva la creazione di tribunali rabbinici locali che avessero potere decisionale sui ghiurim (conversioni), spostando questa prerogativa dal rabbinato centrale a nuovi tribunali che, secondo la tesi di chi sosteneva questa riforma, sarebbero stati più in linea con le tendenze religiose del territorio.
Con le nuove elezioni di quest'anno però, per ottenere la maggioranza, Bibi ha dovuto far entrare nel governo i partiti della destra religiosa haredi sefardita (Shas) e askenazita (United Torah Judaism) che, come contropartita, hanno preteso sostanziali modifiche a questo provvedimento ridimensionandone la portata.
   Forte sostenitore di questa riforma nello scorso governo era stato Avigdor Lieberman di Yisrael Beytenu, partito che storicamente è vicino agli Israeliani di origine sovietica. È infatti di origine sovietica il principale blocco di Israeliani che, immigrati in Eretz Israel secondo la legge del ritorno che concede la cittadinanza diretta anche a chi abbia anche solo un nonno di fede ebraica, si ritrovano poi, ad esempio, ad avere difficoltà a sposarsi proprio per il fatto di non essere considerati Ebrei in terra d'Israele.
Messaggi di sgomento nei confronti di questo dietrofront arrivano anche da Nathan Sharansky dell'Agenzia Ebraica che sottolinea come un argomento così delicato non possa essere così stravolto ad ogni tornata elettorale in base solo a rapporti di potere e di maggioranza.
   Il rabbinato centrale da parte sua rivendica la necessità di un'uniformità di giudizio e di condotta del tribunale davanti ad ogni candidato al ghiur nel rispetto dell'alachà. Partendo dal presupposto infatti che chi decide di entrare a far parte del popolo d'Israele deve sostenere un impegno ancora più forte nell'osservanza delle mitzvoth, la fiducia nella futura condotta del candidato deve risultare piena e il giudizio imparziale.
   Evidente però è il peso politico di questa decisione. Da una parte i partiti del centro/centro-destra israeliano vedono nella possibilità di facilitare i ghiurim una risposta all'aumento demografico della popolazione araba musulmana in Israele, dall'altra il centro-sinistra condanna queste scelte del governo sostenendo con le parole di Herzog (Zionist Union) che Israele con queste politiche diventa "un paese più cupo che si arrende agli elementi più estremisti haredi". Terza campana di cui abbiamo già parlato è proprio quella haredi di Shas e UTJ sostenuta, in questo caso, anche dal rabbinato centrale.
   È intuibile però come la scelta di decentrare le decisioni sui ghiurim rischia di essere un rimedio pericoloso. Pensiamo ad esempio alla realtà italiana. Anche qui i sostenitori della tradizionale competenza del rabbinato locale spiegano giustamente che la vicinanza e la conoscenza di lunga data dello specifico caso può portare a decisioni più adatte. Tuttavia si è andati progressivamente verso il modello del Bet Din unico, o di pochi Batè Din, per avere dei criteri generali e condivisi su una materia così delicata. Pensiamo a cosa accadrebbe se gli 'Olim sapessero che è meglio stabilirsi nella tale o tal'altra città di Israele solo in base alla più o meno benevola giurisprudenza dei locali tribunali rabbinici. E' probabilmente su un piano culturale che in Israele si deve invece tentare di unire al giusto rigore della decisione alachica anche un realistico carattere di speranza e scommessa nell'avvenire.
   Ma anche al di là dello specifico tema dei ghiurim resta dunque la necessità degli Israeliani di riuscire a coniugare il fatto di essere uno stato ebraico, e quindi di non prescindere dall'alachà, con il dover essere comunque uno stato democratico e multietnico. Questa è una sfida che Israele deve essere in grado di affrontare e che sarà fondamentale per il suo futuro.

(UGEI online, 10 luglio 2015)


Iran-Israele: Netanyahu lancia il profilo Twitter in Farsi

Proprio nelle ore in cui sembra avvicinarsi l'accordo sul nucleare iraniano, il premier israeliano, che di quell'accordo è un forte oppositore, lancia il suo profilo Twitter in lingua Farsi.
I suoi primi tweet mostrano il presidente iraniano a una manifestazione nella quale compare uno striscione anti-americano, e Netanyahu ricorda le frasi anti-americane dei leader iraniani e dice che l'accordo "spianerà la via all'Iran per ottenere la bomba atomica e milioni di dollari per il terrorismo".
In un discorso alla Knesset Netanyahu ha poi detto che c'è "chi vuole firmare quell'accordo ad ogni costo, e non c'è modo nè voglia di bloccare quel pessimo accordo".
"Non fosse stato per i nostri sforzi nel corso degli anni, l'Iran avrebbe già potuto dotarsi da tempo di un'arma atomica - ha aggiunto -, ci siamo impegnati ad impedire all'Iran di dotarsi di armi atomiche e questo impegno è oggi valido più che mai".
Contro l'idea stessa di fidarsi dell'Iran, Netanyahu si espresse con tanto di disegno nel 2012 alle Nazioni Unite. Non servì a bloccare la linea di apertura già allora stabilita a Washington.

(euronews, 13 luglio 2015)


Israele - L'Iran e il pericolo dell'accordo

"Da questo accordo dovremo difenderci". È il commento del ministro della Difesa Moshe Yaalon all'ormai imminente firma dell'intesa tra il gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna più la Germania) e Teheran in merito al nucleare iraniano. "L'accordo che si sta costruendo a Vienna - ha dichiarato Yaalon nelle scorse ore, intervenendo alla Commissione della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa - influenzerà la nostra sicurezza più di qualsiasi altra cosa e, per quanto possiamo sapere, verrà firmato presto, forse persino nei prossimi giorni". "Anche se ci saranno degli miglioramenti dell'ultima ora - il commento negativo del ministro israeliano - si tratta comunque di un cattivo accordo che garantirà all'Iran di avvicinarsi alla soglia nucleare, con tutto ciò che questo ne comporta". In un'intervista al quotidiano on-line Times of Israel il direttore del ministero degli Esteri Dore Gold ha fatto sapere che Israele cercherà di far sentire la propria voce all'interno del Congresso americano, che dovrebbe essere chiamato a ratificare l'accordo con l'Iran. "Un accordo sbagliato che potrebbe portare a un nuovo conflitto globale", ha dichiarato Gold, sottolineando l'impegno della diplomazia israeliana per contrastare l'intesa.
Secondo il direttore dell'ufficio diplomatico israeliano, il governo di Gerusalemme, cercando di modificare quanto sta emergendo da Vienna, porta avanti i propri interessi così come quelli di una buona parte degli attori presenti nella regione. "Quando il primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu attacca l'Iran, si pronuncia anche in nome dell'Egitto, dell'Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, della Giordania e degli altri paesi sunniti", ha affermato Gold. Una eventuale - e apparentemente prossima - caduta delle sanzioni al regime degli Ayatollah, garantirebbe al paese un importante impulso economico, rafforzandone l'influenza e il potere sul Medio Oriente. Una delle preoccupazioni di Israele è che il nuovo flusso di denaro che, ad accordo siglato, confluirà nelle casse iraniane non venga reindirizzato verso i movimenti terroristici di Hamas e Hezbollah, che da anni possono contare sull'appoggio di Teheran. Intanto nella capitale iraniana è stata indetta per le 19.30 ore italiane una conferenza stampa del presidente Rohani legata agli accordi.

(moked, 13 luglio 2015)


Compagnia di ultra-ortodossi integrata nella Brigata Givati

GERUSALEMME - Una compagnia delle Forze di difesa israeliane (Idf) chiamata "Tamar" e di cui fanno parte esclusivamente militari ultra-ortodossi è stata integrata all'interno della Brigata di fanteria Givati. Lo riferisce il quotidiano locale "Haaretz", secondo cui l'esperimento potrebbe presto essere replicato con altre unità dell'esercito israeliano. "Questo modello di compagnia ultra-ortodosso all'interno di un battaglione sembra funzionare molto bene", ha affermato un ufficiale delle forze di terra a "Haaretz", aggiungendo che le compagnie ultra-ortodosse saranno allargate nei prossimi due anni. Con un'apposita e contestatissima legge approvata lo scorso anno, gli uomini della comunità ultra-ortodossa sono costretti ad arruolarsi nell'esercito israeliano al pari di tutti gli altri in età di leva.

(Agenzia Nova, 13 luglio 2015)


Carey Bernitz riconfermata presidente della congregazione ebraica milanese Beth Shalom

Resterà in carica per i prossimi due anni

MILANO - Carey Bernitz, imprenditrice milanese, è stata riconfermata nei giorni scorsi presidente della congregazione ebraica reform di Milano Beth Shalom. Resterà in carica per i prossimi due anni.
La Congregazione Ebraica Riformata Beth Shalom è stata fondata nel 2002 a Milano, per offrire una forma nuova e alternativa di ebraismo in Italia. Fa parte della "European Region" della "World Union for Progressive Judaism" che rappresenta di gran lunga l'organizzazione religiosa ebraica più diffusa nel mondo. Beth Shalom, come altre comunità italiane a Firenze, Roma, non 'ortodosse', vive senza una lira di denaro pubblico, senza otto per mille o altri tipi di finanziamenti pubblici.
L'ebraismo reform progressive italiano comincia nel 1999, e si sviluppa sino al marzo del 2001 alla nascita dell'Associazione Ebraismo Progressivo separandosi ufficialmente dall'associazione Keshet, che rappresenta a Milano una parte dell'ebraismo laico e umanistico. Dal 2001 è attiva a Firenze Shir Hadash la seconda sinagoga riformata in Italia. Nel 2014 è stata ufficialmente fondata la sinagoga Beth Hillel di Roma. A Torino da qualche tempo è attivo il gruppo Beth Israel, ma in moltissime città di tutta l'Italia nascono nuove realtà reform.
  «Ritengo che l'interpretazione dell'ebraismo nella vita di tutti i giorni, così come i nostri impegni nei riguardi di Dio e della Torah, siano in continua evoluzione - ha detto Carey Bernitz - Senza dimenticare in alcun modo la nostra tradizione millenaria in un mondo che cambia rapidamente, daremo il nostro contributo solo ad un dialogo armonioso con chiunque. Soprattutto con gli ebrei laici. A livello europeo, in Francia, Germania, Inghilterra, cosi come in Israele, il dialogo con gli ebrei ortodossi è iniziato da tempo. Siamo consapevoli - ha aggiunto Carey Bernitz - che fra ebrei ortodossi ( soprattutto il monolitico establishment ortodosso) ed ebrei riformati esistono ancora differenze profonde, ma vi sono molti ambiti in cui stiamo lavorando assieme con rispetto reciproco e sulla base di un grande senso di unità. All'interno delle nostre sinagoghe tutti i membri condividono pienamente a tutti gli effetti, gli ideali della pratica ebraica. Tutti siedono insieme, donne e uomini. In Italia, come nel resto del mondo, non credo che via sia un problema demografico dell'ebraismo, quanto di partecipazione alla vita comunitaria, ai fatti religiosi, alla realtà della società. Dio ci ha dato la legge che ha ispirato i grandi principi dell'agire umano ed ebraico - ha concluso Carey Bernitz, presidente di Beth Shalom - Senza alcun desiderio di polemica, perché riteniamo concretamente l'unità nell'ebraismo fondamentale, vorremo riaffermare che dobbiamo riflettere sul futuro dell'ebraismo perché cambiano le epoche, cambiano le condizioni di vita, cambiano gli atteggiamenti. Non possiamo affrontare un argomento così importante e fondamentale per noi parlando di rifiuto di ogni tipo di discriminazione e poi scandalizzarsi con ironia per i matrimoni gay o per le preghiere nelle sinagoghe senza alcun divisorio tra uomini e donne».

(mi-lorenteggio.com, 14 luglio 2015)


Nucleare, ride soltanto l'Iran

di Fiamma Nirenstein

 
Mohammad Javad Zarif, capo negoziatore iraniano
Dunque l'accordo con l'Iran è dietro l'angolo. Kerry ieri si è mostrato soddisfatto Laurent Fabius ha parlato di «ultimi metri». Ma se il leader del Paese con cui state per stringere un difficile patto che potrebbe cambiare la faccia del mondo riempie le sue piazze (a Teheran) di una folla che lo applaude entusiasta quando promette che, patto o no, resterete per sempre il solito nemico arrogante e prepotente, e la folla urla «morte all'America»; e se continuamente ripete che comunque la distruzione di Israele non è negoziabile ... non è che vi assalirebbe qualche dubbio su tutti quei sorrisi, quelle virgole e quei punti, che in queste ore, proprio mentre scriviamo, stanno portando alla firma dell'accordo fra i PS più uno e l'Iran degli ayatollah? No, inghiottireste e sorridereste se foste il segretario di stato John Kerry, perché Obama lo ha caricato della sua definitiva, incontrovertibile volontà di arrivare a quella firma a tutti i costi che è il suo maggiore, forse unico, retaggio in politica estera, e al diavolo se gli Egiziani e i Sauditi sono furiosi e si nuclearizzeranno a loro volta: in questi ultimi 16 giorni, ma si può dire in questi ultimi anni, Kerry non ha risparmiato concessioni per firmare quelle 20 pagine di accordo più un'altra ottantina di annessi tecnici che fra ieri notte e stamani devono, salvo imprevisti, esser siglati dai ministri degli Esteri ieri arrivati all'Hotel Coburg a Vienna.
   Così, sembra sia stato raggiunto il più evitabile, il più impicciato e inaffidabile di tutti gli accordi: suo scopo centrale è interrompere la corsa dell'Iran alla bomba atomica, e avrebbe dovuto farlo con determinazione, se si guardano le vecchie dichiarazioni di Obama quando ancora non aveva sfogliato tutta la margherita delle concessioni. Quel che resta oggi, per quel che si sa, è tale da consegnare nel giro di pochi anni all'Iran la possibilità di riavviare il motore per essere potenza atomica, con grave rischio per tutti noi. È finita la possibilità effettiva di fermare lo sforzo nucleare iraniano (dipende dalla sua volontà politica di accelerare o stare ai patti), e anche la giusta collera perché l'Iran ha un record spaventoso di violazioni dei diritti umani, dalle donne ai dissidenti agli omosessuali impiccati sulle gru, ed è uno dei maggiori sponsor del terrorismo in tutto il mondo. Di tutto questo non si è più parlato.
   Nelle ultime ore in cui si è cercato soprattutto di rispondere alle conditio sine qua non dell'Iran, quelle che Javad Zarif, il capo negoziatore gentile e durissimo,ha posto come punti intoccabili e fra poco sapremo se le ha ammorbidite: l'immediato sollievo dalle sanzioni, che dovrebbero sparire entro il primo quarto del 2016; l'interdizione dell'ingresso nelle strutture militari; la permanenza di un alto numero di centrifughe (6000) e la possibilità di utilizzarne di super moderne in caso di una tale decisione da parte del governo; controllo delle ispezioni, tema sul quale in questi ultimi giorni si è avuta una serie di incontri diretti fra la delegazione e l'Iaea, l'organizzazione mondiale di controllo del nucleare, il cui capo Yukiya Amano è riuscito a trovare una base di accordo per verificare strutture che non si erano mai potute visitare, e ha promesso il suo rapporto per la fine dell'anno. È peraltro evidente che le ispezioni sono sempre molto volatili a fronte di un interlocutore che voglia trovare scuse, e che comunque si possono interrompere con qualsiasi tipo di accusa. Un altra pretesa iraniana è la fine dell'embargo Onu sulle armi: si capirà come va a finire ben presto, ma il Congresso americano sembra poco disposto a inghiottire questo come altri punti dell'accordo, e forse li impugnerà. I disegni egemonici dell'Iran in Iraq, in Siria, in Libano, in Yemen fanno capire che le armi non resterebbero impacchettate. Così come si capisce bene che i 150 miliardi di dollari che con la fine delle sanzioni finiranno nelle casse dell'Iran, incrementerebbero operazioni di destabilizzazione del Medio Oriente e del mondo intero, se è vero che le operazioni terroristiche dell'Iran hanno insanguinato i cinque continenti e qui non se ne è parlato.
   L'Iran non è un partner di pace, è uno spregiudicato interlocutore che in tutti questi anni ha usato la Taqyyia, la dissimulazione permessa per motivi religiosi al mondo sciita minoritario e desideroso di emergere. Khomeini lo promise nel 1979, l'Iran avrebbe saputo avviare l'islamizzazione del mondo con la forza della storia sciita e di quella imperiale persiana.

(il Giornale, 13 luglio 2015)


L'agricoltura «coraggiosa» dello stand israeliano

Due giorni organizzata da Kkl sul futuro delle coltivazioni. Tra etica e ambiente.

di Carlo Baroni

Anche la pazienza della terra ha un limite. Possiamo coltivarla, piantarci alberi, seminarla, possiamo persino calpestarla ma a un certo punto anche lei dice basta. Si prende un anno sabbatico e poi è pronta a produrre ancora frutti e raccolti. Quello che era nato come un precetto religioso si è dimostrato avere solide basi scientifiche. Un viaggio affascinante tra etica e ambiente che si è snodato allo stand israeliano, non a caso uno dei Paesi più avanzati in quella che chiamano «agricoltura coraggiosa».
   La due giorni organizzata dal Kkl e dal suo presidente Silvio Tedeschi, ha visto alternarsi riflessioni sui rapporti tra religione ed ecologia con scienziati, medici, ambientalisti. Intanto una certezza: l'agricoltura è donna, come ha ricordato la Claudia Sorlini, docente alla Statale. Mentre l'uomo cacciava era la sua compagna che si doveva occupare di rendere fertile la terra, creare i vitigni, studiare il ciclo delle stagioni. Un lavoro di pazienza ed acume. Indispensabile per permettere al genere umano di progredire.
   Oggi l'inurbamento ci pone davanti nuove sfide, ha continuato Claudia Sorlini. I campi sono coltivati meglio, la produzione è migliorata, ma il verde erode sempre di più. Niente di Milioni sono gli alberi piantati in Israele grazie al Kkl, il fondo ebraico per la natura. Tra le zone rimboscate dagli italiani Segev, Yatir e il Parco Italia nuovo sotto il sole. Anche antiche civiltà si erano estinte per aver sottovalutato la rivoluzione. Un monito per donne ed uomini di oggi. Einat Kramer, fondatrice e direttrice di Teva Ivri, vive in Galilea. E una donna israeliana che cerca di coniugare al meglio le esigenze etiche e quelle ambientali. Ha cercato di spiegare come la Shmita, l'anno sabbatico riservato alla terra, sia un principio valido anche oggi.
   Intrigante l'analisi di Maurizio Fornari, neurochirurgo all'Humanitas. Un medico che parla di agricoltura può apparire curioso. Se non fosse che Fornari ha una profonda conoscenza personale del mondo contadino. La sua analisi ha messo in guardia dai rischi di cadere nell'integralismo. Di coloro che dividono il mondo tra chi è favorevole agli ogm e chi fa argine di fronte a qualsiasi idea dj cambiamento. La natura va rispettata, ha ricordato Fornari, ma anche aiutata. I riferimenti sono alti. La Bibbia ricorda che la terra è assegnata all'uomo perché la custodisca . Come se fosse in prestito. Quindi nessuna violenza o esperimenti alla Frankenstein. Ma la necessità anzi il dovere di farla rendere al meglio.
   
(Corriere della Sera - Milano, 13 luglio 2015)


I vent'anni di Srebrenica e la retorica del «mai più»

di Pierluigi Battista

«Mai più» è diventata una delle formule più consunte e oramai irritanti della retorica politica contemporanea. In questi giorni si ricordano i vent'anni del massacro di Srebrenica e si dice «mai più»: «mai più» la comunità internazionale che assiste impotente al massacro, l'Onu che dimostra tutta la sua inutilità, l'emergenza umanitaria che viene affrontata tardivamente, quando oramai gli aguzzini hanno portato a termine le mostruosità della pulizia etnica e le fosse comuni sono state riempite. Ma si diceva «mai più» anche ai tempi di Srebrenica. «Mai più Ruanda». Un altro clamoroso fallimento delle Nazioni Unite. E quante volte abbiamo sentito «mai più Auschwitz»? Poi però facciamo finta di non sentire le invocazioni delle televisioni arabe a farla finita con «i maiali ebrei» e di non capire quando un supermercato kosher diventa il bersaglio degli assassini jihadisti.
Allora il «mai più» sparisce, diventa un modo di dire da sfoderare nelle cerimonie del Giorno della memoria. Poi basta. Si ricomincia con l'indifferenza. «Mai più»? Ma se non ce ne importa nulla. Se non siamo minimamente toccati dalle immagini delle carneficina dei cristiani. Se lo stupro di gruppo delle bambine cristiane in Nigeria è una pratica che continua nel silenzio generale. «Mai più»? Ma le conversioni forzate all'islamismo dei fedeli yazidi, i corpi mutilati, i cadaveri oltraggiati, le fosse comuni in continua crescita, tutto questo quanti minuti alla settimana scuote le nostre coscienze? Noi sapevamo benissimo quello che stava accadendo vent'anni fa a Srebrenica. Sappiamo bene quello che sta accadendo adesso. Ma il realismo politico impone l'omertà. E c'è anche una logica in tutto questo: perché indebolire il macellaio Assad, il massacratore del suo popolo, il responsabile dell'assassinio di oltre 200 mila siriani, il devastatore di Aleppo dove i bambini muoiono di fame secondo lo scopo programmaticamente perseguito dal regime, se la caduta di Assad può favorire gli aguzzini ancora più repellenti del cosiddetto Stato Islamico? Questo è il realismo politico, basta non deturparlo con l'ipocrisia del «mai più». Non è vero che non succederà «mai più». Succederà e sempre di più nell'indifferenza del mondo e nell'impotenza dei governi, di un'Europa afasica e politicamente inesistente, con un'opinione pubblica allarmata e che non vede l'ora di tener lontane le immagini del massacro. «Mai più»: una formula che oramai suona oltraggiosa. Sarebbe il caso di non usarla, e poi voltarsi, come sempre, dall'altra parte.

(Corriere della Sera, 13 luglio 2015)


Oltremare - L'allarme medusa

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Quelli che frequentano le nostre pacifiche spiagge sanno bene che fra fine giugno e luglio i telegiornali lanciano allerte terrificanti sul pericolo meduse, costa per costa, giorno per giorno, manco si trattasse di alieni in ricognizione. Un paese che di solito ha davvero altre questioni per la testa, si trova per un mese tutto concentrato nella valutazione se fare o non fare il bagno, e dove, e segue con ansia lo svilupparsi dell'attacco a tenaglia della specie più temuta: la medusa bianca.
La medusa bianca sembra un innocuo ma abbastanza schifoso sacchetto di plastica, e invece di provocare il giusto disgusto del dove andremo a finire con tutto questo inquinamento, lascia scie ed eritemi e può in effetti essere un pericolo, se ci si trova in mezzo a un banco intero. Non succede, anche perchè le coste telavivesi sono dotate di un Iron Dome anti-medusa umano: i bagnini con megafoni infernali che dall'altro della loro casetta sulla riva sono capaci anche, ove occorra, di sgridare un bambino che si mettesse le dita nel naso.
Vedono tutto, commentano tutto, e soprattutto sono indefessi avvistatori di meduse. In sette estati a Tel Aviv non ne ho mai, dico mai visto uno scendere dalla torretta di avvistamento. È possibile che le loro palafitte siano autosufficienti per mesi anche in caso di calamità naturali assortite, e comunque fanno un fior fiore di servizio pubblico: sulle spiagge di Tel Aviv non ci si sente mai soli, non c'è mai un minuto di completo silenzio, e se fra giugno e luglio una medusa sta nuotando al tuo fianco da mezz'ora è sicuramente una di quelle blu, estetiche e fluttuanti, che non oserà pungerti neanche lontano dallo sguardo severo del bagnino.
Ah, che bello sapere che c'è chi ci protegge, almeno dalle meduse, mentre il nucleare iraniano, il Bds, l'Isis, i tunnel di Hamas, e il resto delle preoccupazioni possono stare lontane dai nostri castelli di sabbia.


(moked, 13 luglio 2015)


L'esercito israeliano propone misure per risollevare l'economia della Striscia di Gaza

GERUSALEMME - La decadenza economica della Striscia di Gaza costituisce una minaccia per la calma e la stabilità dell'area: lo riferisce un'analisi di "Haaretz", che cita ufficiali delle Forze di difesa israeliane, secondo cui ci sarebbe una connessione tra la politica di Israele e la crisi economica della Striscia. Gli ufficiali hanno quindi consigliato il ministro della Difesa Moshe Ya'alon di alleggerire alcuni restrizioni su Gaza. "L'esercito israeliano ha proposto di sollevare una restrizione o due su Gaza - introdotte dai militari e politici nei primi anni 1990 - per risollevare l'economia dell'area", si legge nell'analisi. Tra le misure consigliate dalle Forze di sicurezza ci sarebbe anche la possibilità per i palestinesi di lavorare nelle comunità di frontiera di Gaza e la riapertura del valico di Karni per aumentare il numero di camion di trasporto merce.

(Agenzia Nova, 13 luglio 2015)


In trent'anni, quattro grandi scarcerazioni di detenuti in cambio della liberazione di ostaggi

Nel corso degli anni Israele ha scarcerato 7.500 terroristi arabi per riportare a casa, in tutto, 14 israeliani vivi e sei salme.

Appena è emersa la notizia che due israeliani risultano "dispersi" nella striscia di Gaza, i rappresentanti della sicurezza israeliana si sono affrettati a dire che questa volta non ci sarà uno scambio ostaggi/detenuti con Hamas. A quanto risulta, per ora non sarebbe in corso una vera trattativa con Hamas per la restituzione dei due civili e delle salme di due soldati israeliani caduti durante la guerra anti-terrorismo della scorsa estate....

(israele.net, 13 luglio 2015)


Gill Rosenberg: quella che è andata a combattere contro i macellai dell'IS

 
Gill con una donna curda
Gill Rosenberg (31 anni) è felice di essere di nuovo a casa in Israele. Per più di sei mesi ha combattuto in Siria e in Iraq contro i macellai dello Stato Islamico (IS), ianco a fianco con soldati curdi. Ai media israeliani la donna, che è emigrata nel 2006 dal Canada in Israele, ha riferito che a gennaio ha lasciato la Siria per andare a combattere in Iraq. Ai primi di luglio ha lasciato l'Iraq e ha volato a Parigi. Adesso è tornata a Tel Aviv.
A proposito delle sue esperienze in Siria, Rosenberg ha detto che è stato difficile sopportare le sofferenze umane. "Il paese è in guerra, ci sono tre milioni di rifugiati, la maggior parte di loro sono donne e bambini. Tutti soffrono e si spezza il cuore a vedere tutto questo."
Nel novembre del 2014 Gill Rosenberg, che è stata addestrata nell'esercito israeliano, si è messa in marcia per andare a raggiungere i combattenti curdi. Passando per la Giordania è arrivata all'aeroporto Irbil, nella regione autonoma curda dell'Iraq, e da lì in Siria. Rosenberg era ben conosciuta in Israele, perché pubblicava continuamente foto di se stessa e del suo impegno nelle organizzazioni sociali. Oggi ammette: "Non ero sicura di dover tornare in Israele."
Ci sono state alcune situazioni pericolose. In Israele c'era anche chi criticava il suo impegno: come israeliana era una potenziale vittima di un rapimento da parte degli islamisti, cosa che avrebbe messo il governo in una situazione difficile.
Al suo ritorno è stata interrogata dall'intelligence israeliano Shin Bet, ma non arrestata. La soldatessa ha detto di aver sentito il bisogno di fare qualcosa contro l'IS, soprattutto perché le donne e i bambini sono violentati dai terroristi e costretti alla schiavitù sessuale. Gill Rosenberg: "Come ebrei, diciamo che non ci dovrà mai più essere un altro Olocausto o un nuovo genocidio. Ma questo non vale soltanto per noi ebrei, questo riguarda tutti. Una cosa simile non deve accadere mai più!"

(israel heute, 13 luglio 2015 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Notizie su Israele, 1 dicembre 2014


Unico comando per le forze speciali d'Israele

GERUSALEMME - Il Capo di Stato Maggiore israeliano, generale Gadi Eizenkot ha annunciato il 6 luglio la creazione di una brigata di commando per portare l'esercito israeliano al passo con il moderno campo di battaglia, non più costituito da scontri tra due grandi forze corazzate, ma da una lotta tra le forze asimmetriche, sull'anti-terrorismo in aree densamente popolate.
Riporta Al Monitor che Idf non hanno mai creato una brigata commando; le sue unità speciali sparse tra i vari corpi e rami militari. La nuova brigata riunirà sotto un un unico centro di comando alcune unità di commando esistenti: Duvdevan, unità sotto copertura dell'esercito israeliano; Egoz unità di ricognizione della Brigata Golani; la Magellano, specializzata nel distruggere obiettivi in profondità dietro le linee nemiche e nel fornire informazioni; la Rimon, specializzata nella guerra nel deserto, mentre le restanti unità di commando dell'esercito israeliano rimarranno indipendenti.
Si tratterebbe di una risposta alla tattica bellica usata dallo Stato Islamico, un vero esercito fantasma a detta degli esperti citati da Al Monitor; si tratta però di considerazioni contrastate, perché la creazione di questo nuovo comando potrebbe essere parte id un piano di riassetto previsto da tempo.

(agc, 12 luglio 2015)


Vogliono arrivare a Roma e il governo fa finta di niente

L'attentato del Cairo dimostra che siamo in guerra, ma dobbiamo combattere per vincere. Invece dalle istituzioni solo parole a vuoto.

di Magdi Cristiano Allam

Se un'autobomba potente esplode alle 6.30 del mattino devastando il consolato d'Italia al Cairo, capitale del più importante Stato del Medio Oriente il cui governo è in guerra contro il terrorismo sia dei Fratelli musulmani sia dei gruppi legati allo Stato islamico dell'Isis, chi ci governa dovrebbe trarre le seguenti conclusioni:
  1. è l'ennesima conferma che è in atto una guerra scatenata dal terrorismo islamico globalizzato.
  2. L'Italia è il bersaglio privilegiato del terrorismo islamico, innanzi tutto perché il suo essere «ventre molle» dell'Europa ha reso più credibile l'obiettivo di sottomettere Roma all'islam, profetizzato da Maometto e da sempre una certezza per tutti i musulmani; per il riconoscimento del regime laico di AI Sisi che si è imposto a furor di popolo su quello islamico di Morsi; per il suo coinvolgimento militare, seppur simbolico, in Irak contro l'Isis; per il suo impegno in Libia per un governo di unione nazionale anti lsis.
  3. È stato un avvertimento, avendo intenzionalmente voluto limitare il numero delle vittime, che sottintende che i terroristi islamici si attendono una contropartita dall'Italia per non replicare l'attentato in modo ben più sanguinoso. Non mi stupirei affatto se i nostri servizi segreti o i nostri diplomatici al Cairo giocassero su più tavoli, ricercando sottobanco un'intesa con i terroristi islamici per essere lasciati in pace pur continuando a sostenere ufficialmente il governo di Al Sisi.
Purtroppo non ci siamo affatto. A parte il fatto che, in assenza di vittime italiane, l'interesse per la devastazione del nostro consolato al Cairo è andato scemando nel giro di poche ore nelle televisioni e sui siti internet, la risposta del nostro governo è stata più che superficiale. Non si tratta, come hanno fatto il capo dello Stato Mattarella e quello del governo Renzi di rassicurare Al Sisi sulla collaborazione dell'Italia nella lotta al terrorismo, né come ha detto il ministro degli Esteri Gentiloni di non farsi intimidire, A questo punto o prendiamo atto che siamo in guerra e che in guerra o si combatte per vincere o la guerra la subiremo comunque e la perderemo inevitabilmente,
   Ebbene se vogliamo vincere la guerra dobbiamo in primo luogo conoscere il nemico. Sapere correttamente che sia i Fratelli musulmani sia l'Isis hanno come riferimento ideologico il Corano, i detti e i fatti attribuiti a Maometto, i testi dei rispettivi ideologi che talvolta coincidono. Affranchiamoci dall'illusione che esista un «islam moderato» e dall'idiozia secondo cui i terroristi islamici non sarebbero musulmani o addirittura nemici dell'islam. Pensiamo che i Fratelli musulmani, che vengono concepiti come i moderati, persino nel loro motto ricalcano in tutto e per tutto Al Qaida e l'Isis: «Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è la nostra via. Morire sulla via di Allah è la nostra suprema aspirazione». Impariamo dalla storia che ovunque si sono presentati sulla scena pubblica i Fratelli musulmani, inesorabilmente poi è esploso il terrorismo islamico. È successo in Egitto negli anni '70 culminando con l'assassinio di Sadat nell'81; in Algeria negli anni '90 con l'affermazione del Fis provocando ben 250mila morti; in tutto il Medio Oriente dopo la menzogna della Primavera araba i cui frutti avvelenati sono lo Stato islamico e il dilagare ovunque del terrorismo islamico.
   La verità è che oggi il vero nemico dell'Occidente sono gli occidentali filo islamici, C'è da inorridire quando l'esponente del Pd Federica Mogherini, assurta ad Alto commissario per la politica estera e della sicurezza dell'Unione europea, dice che «l'islam appartiene all'Europa» e che «l'islam politico dovrebbe essere parte del quadro» inteso come democrazia. Quest'Occidente che ama l'islam più di se stesso rassomiglia all'Europa che s'illudeva di giungere a patti con Hitler e che Churchill paragonò alla «persona conciliante che nutre il coccodrillo con la speranza di essere mangiata per ultimo».

(il Giornale, 12 luglio 2015)


Arresti per l'incendio della chiesa a Tabgha

Al termine di un'inchiesta condotta dai servizi di sicurezza e dalla polizia di Israele, sono state arrestate alcune persone sospettate di aver partecipato il mese scorso all'incendio doloso della Chiesa della moltiplicazione dei pani a Tabgha.
Lo ha riferito la radio militare secondo cui in giornata queste persone saranno condotte al tribunale di Nazareth per l'estensione degli arresti.
Il luogo di culto sorge sulle sponde del lago di Tiberiade, in Galilea.
Dopo l'incendio su una parete della chiesa fu trovata una breve citazione biblica, tracciata in ebraico, contraria al culto di "idoli".
Sugli sviluppi dell'inchiesta è stata imposta la censura e per il momento non sono noti né il numero degli arrestati, né la loro identità. In ambienti dei media si è intanto appreso che al tribunale di Nazareth essi saranno rappresentati da due legali di Honenu, un'associazione specializzata nella difesa di ultrà della Destra ebraica.
L'incendio della Chiesa della moltiplicazione dei pani - che ha provocato ingenti danni e in cui alcune persone rimasero intossicate - ha destato un'ondata di sdegno in Israele e all'estero, ed è stato condannato dai dirigenti dello Stato ebraico.

(bluewin.ch, 12 luglio 2015)


"Beteavòn" offre i pasti ai profughi musulmani

Come già noto, il Memoriale della Shoah di Milano ospita in questo periodo dei migranti scappati dai loro paesi in guerra. Dei pasti di questi 30-40 ospiti per notte se ne occupa la Cucina Sociale Kosher "Beteavòn" diretta da rav Igal Hazan. Lo stesso rav Hazan ha accompagnato i volontari, che regolarmente si occupano di queste persone, portando con sé le challot (il pane dello Shabbat) per gli ospiti della struttura.
Rav Hazan ha incontrato e parlato in lingua araba con tutti questi profughi, provenienti principalmente da Eritrea e Somalia. Fra questi migranti, rav Hazan ha incontrato un giovane arabo fuggito dal regime di Hamas a Gaza.
"Il Talmud insegna che è più importante come si offre di quanto si offre" ha affermato rav Hazan, riconoscendo che il popolo ebraico conosce bene la condizione dell'essere profughi, perché l'ha sperimentata direttamente. Per questo ha voluto recarsi personalmente e consegnare il pane, simbolo di condivisione.

(Chabad.Italia, 12 luglio 2015)


Halivni e il significato della Shoà

di Lucetta Scaraffia

Credo in Dio anche se tace» era scritto su un muro del ghetto di Varsavia durante la Shoà. E questo in fondo è il significato profondo della risposta che il rabbino Halivni - il quale ha vissuto da ragazzo l'esperienza dei campi dove è stata sterminata tutta la sua famiglia - dà a chi dice «ad Auschwitz Dio è morto». Opponendosi così sia a chi afferma che dopo Auschwitz «Dio è morto», sia a chi vuole spiegare la tragedia della Shoà come punizione dei peccati del popolo ebraico, con il risultato - osserva il rabbino - di alleggerire la colpa dei carnefici.
   Halivni ha riflettuto per decenni sul problema, dal momento che considera la Shoà momento centrale della storia e vuole quindi comprenderne il significato essenziale per Israele e per l'umanità. È una riflessione tardiva, che sta dando frutti oggi quando il pensatore ha 87 anni, costruita nella compenetrazione fra esperienza diretta e riflessione, alimentata da una vita di studio della tradizione ebraica.
   La risposta che è venuto elaborando è originale: l'alleanza fra Dio e il suo popolo, anche se scossa, non è stata infranta. Ma l'avvenimento della Shoà costringe il rabbino a riflettere su una questione fondamentale, e cioè come si spiega l'assenza di Dio dalla storia in quel momento. Secondo Halivni, per rispondere bisogna prendere in considerazione il quadro dei rapporti fra Dio e l'uomo come libera scelta: il male per meritare il castigo dovrà essere scelto in piena libertà, senza alcun intervento esterno. Proprio per questo, per non diminuire la responsabilità dell'essere umano nella scelta, Dio può tenersi in disparte.
   Ma rimane aperta una domanda: perché in quel momento? Perché è stata scelta la nostra generazione? Per Halivni la libertà dell'uomo è garantita dal ritirarsi di Dio, dal fatto che è necessaria una periodica "contrazione divina" per non ridurre lo spazio della libertà umana. E la nostra generazione - scrive - «ha avuto la disgrazia di vivere in un tempo di necessari adattamenti cosmologici tra la creatura umana, dotata di libera volontà, e la divinità immanente alla creazione intera, ciò che include l'ambito della scelta morale».
   Anche la Shoà, quindi, come il Sinai a compimento dell'esodo dall'Egitto, è stata una rivelazione, ma non della presenza di Dio - che là si era concretizzata nelle tavole della Legge - ma della sua assenza.
   Dio però è partecipe anche quando non interviene, e quindi così si spiega la preghiera innalzata da molte vittime, che «cercavano quelle preghiere tradizionali che fossero in grado di esprimere il loro profondo anelito a superare le forze schierate contro di loro, e il loro senso che la sofferenza e la miseria intorno a loro fossero il risultato di forze sataniche, cosmiche, sulle quali essi non avevano controllo o influenza». Una preghiera che, come si augura lo stesso Halivni, chiede un ritorno di Dio nella storia, pur a spese dell'autonomia dell'uomo. Perché la Shoà dimostra che più grande è la libertà umana, più la catastrofe diventa inevitabile.

* David Weiss Halivni, L'alleanza scossa ma non rimossa. Riflessioni sulla Shoà, Effatà editrice, Cantalupa
  (Torino), pagg.128, € 11,00

(Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2015)


Beppe, ripulisci il blog

Grillo e la gravità di non controllare i commenti antisemiti sul blog.

C'è un avvertimento nel blog di Beppe Grillo. "Non sono consentiti messaggi con linguaggio offensivo o turpiloquio; messaggi con contenuto razzista o sessista". Due anni fa, dopo una polemica con l'ex presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, il leader del Movimento 5 stelle aveva promesso che avrebbe epurato la sua piattaforma digitale di commenti antisemiti. Purtroppo non è stato così e a Grillo può e deve essere chiesto di fare di più. Basta una rapida lettura di articoli che riguardano il terrorismo, il medio oriente o la crisi finanziaria per capire. In un post su Charlie Hebdo, i lettori si scatenano nel peggior complottismo: "Quanta puzza di servizi e longa manu israeliana!... Bisogna chiedere scusa agli ebrei!. .. Ancora!... Di nuovo... Ma lo capite o no che è sempre la stessa minestra?!... Moro... Kennedy... Torri gemelle… Ma ancora non volete capire??…" Campeggia anche un elogio della "resistenza" a Israele: "I palestinesi, i libanesi, i siriani, gli Iraniani, gli iracheni, gli yemeniti, e una volta, anche i pachistani, sono gli unici che combattono la prepotenza sanguinaria di Israele e le sue mire egemoniche in medio oriente. I sionisti, quindi, hanno come ostacolo per il compimento del loro disegno, proprio i musulmani perché, ribadisco, sono gli unici che gli resistono". Del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, c'è chi scrive che "è interessante constatare come proprio alla vigilia della sua nomina, GentiIoni abbia avuto un caloroso incontro con i maggiori rappresentanti della comunità ebraica italiana". Ah, la nota lobby. Si parla di Israele e acqua: "Sono passati i millenni e sono sempre gli stessi... i farisei". Questi ladri. Oppure: "La bestia è Israele!" In un altro post: "Non c'è dubbio che la bestia americana (la seconda bestia del libro dell'Apocalisse, la prima è Israele)... ''. E' una visione complottistica che proietta paranoicamente sui "nemici" una grande ossessione. Nella fiumana dei 5 stelle la realtà sparisce, sopraffatta dagli agguati della dietrologia. Grillo però ha una grande responsabilità nei confronti dell'opinione pubblica. Speriamo che provveda a cancellare davvero l'antisemitismo dal suo popolarissimo sito internet.

(Il Foglio, 11 luglio 2015)


Ma siamo proprio sicuri che Grillo non sia d'accordo con quei commenti? E che proprio questo sia il motivo per cui il blog non viene "ripulito"?


Riccardo Di Segni ospite a "SOUL"

Islam, Israele, bioetica. Domenica 12 luglio alle 12,05 e alle 20,45 su Tv2000

 
È Riccardo Di Segni, il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, l'ospite della puntata di "SOUL" che in onda domemica 12 luglio, alle 12.05 e alle 20.45, su Tv2000 (canale 28 del digitale terrestre, 18 di TvSat, 140 di Sky, in streaming su www.tv2000.it). Di Segni si racconta a Monica Mondo in un dialogo sereno e confidenziale ripercorrendo la storia della sua famiglia (il papà partigiano, la mamma sfuggita per un soffio alla retata del '43 nel ghetto di Roma) gli studi rabbinici, la sua professione di medico e il sentimento che lega gli ebrei all'Italia ("siamo amanti traditi, profondamente legati all'identità dell'Italia, nonostante quel che ci ha fatto. Questo paese resta una parte fondamentale della nostra complessa identità").
   In un ragionamento sul colloquio con il mondo islamico il rabbino spiega che "nel mondo islamico, e faccio delle generalizzazioni di cui mi scuso, credo non ci sia la distinzione che si fa in una società laica, o nel mondo cristiano, tra la religione ebraica e lo stato di Israele. Ogni ebreo, in modi e intensità differenti, sente una vicinanza con Israele di cui non può fare a meno, fa parte della nostra complessa identità che in parte del mondo islamico ci rende nemici naturali, e questo è terribile. C'è poi anche in Europa un'opposizione di fondo, concettuale, istituzionale all'idea dello stato di Israele, che è una nuova, vecchia forma di ostilità antiebraica: non si riesce a comprendere il diritto politico del popolo ebraico…"
   Il rabbino non nasconde il timore della comunità ebraica di essere, ancora una volta, vittima della storia. "Alla paura - sottolinea - facciamo fronte con una consapevolezza maggiore, con l'attenzione a quel che avviene intorno a noi. Ammesso che la paura si possa controllare, ci vogliono consapevolezza, attenzione e rapporto con la realtà. E cercare di cambiare le cose, non essere mai passivi. Il mondo lo dobbiamo trasformare noi, ciascuno per la parte che ha. Chi l'ha detto che siamo impotenti? La fede non è rassegnazione."
   Nell'intervista il capo della comunità ebraica di Roma parla anche di bioetica ammettendo che "l'evoluzione scientifica ci mette in mano strumenti in grado di moltiplicare le nostre capacità di intervento sulla natura". "Si può fare di tutto - puntualizza - ma bisogna capire ciò che è lecito fare. Parto dal presupposto molto radicato nella nostra tradizione religiosa che abbiamo la facoltà di usare la ragione, di intervenire per resistere ai guasti della natura, non di soccomberle. Naturalmente il rischio di credersi Dio è grande…Ma noi abbiamo una scansione severissima del tempo: sei giorni per fare gli uomini e uno per capire che non siamo Dio, cioè per essere veramente uomini".
   "SOUL" è l'appuntamento settimanale di Tv2000 (in onda il sabato e la domenica alle 20.30) con i protagonisti del mondo della politica, della cultura e dello spettacolo che, in un faccia a faccia di trenta minuti, si raccontano tirando fuori "l'anima", la verità di se stessi. A domande libere corrispondono risposte libere: a "SOUL" non interessano i personaggi ma le persone, e tutto ciò che dei grandi nomi dell'attualità politica e culturale l'opinione pubblica, ancora, non conosce.

(TV2000, 11 luglio 2015)


Quando palestinesi muoiono nelle carceri palestinesi

Mass-media occidentali, Nazioni Unite e ONG preferiscono voltarsi dall'altra parte quando i palestinesi torturano o uccidono i loro connazionali.

La settimana scorsa tre palestinesi sono stati trovati morti nelle celle carcerarie di Cisgiordania e striscia di Gaza. Le loro storie però non hanno suscitato l'attenzione dei mass-media internazionali né delle organizzazioni per i diritti umani che operano negli Stati Uniti e in Europa. Il loro caso non è stato segnalato alle Nazioni Unite né alla Corte Penale Internazionale.
Per contro, il caso del 17enne Mohamed Kasba, ucciso a nord di Gerusalemme da un ufficiale dell'esercito israeliano che aveva rischiato di schiantarsi quando la sua auto era stata presa sassate dal ragazzo, ha ricevuto ampia copertura sui mass-media occidentali. Anche le Nazioni Unite si sono precipitate a condannare l'uccisione del giovane Kasba chiedendo "di porre immediatamente fine alla violenza" ed esortando tutte le parti a mantenere la calma. "Questo conferma la necessità di un processo politico che punti a istituire due stati che vivano uno accanto all'altro in pace e sicurezza", ha detto Nickolay Maldenov, coordinatore speciale dell'Onu per il processo di pace di Medio Oriente. Inutile dire che Maldenov non ha trovato il tempo di fare alcun riferimento ai decessi avvenuti nelle prigioni dell'Autorità Palestinese e di Hamas. Non ha nemmeno ravvisato la necessità di esprimere preoccupazione per quanto accaduto o di chiedere l'apertura di un'inchiesta. Come i principali mass-media occidentali, le Nazioni Unite preferiscono voltarsi dall'altra parte quando i palestinesi torturano o uccidono dei loro connazionali....

(israele.net, 11 luglio 2015)


L'Università dell'insubria racconta la storia degli ebrei dell'Aprica

Il documentario "Gli zagabri" di Chiara Longo ripercorre la storia di un gruppo di ebrei internati nel 1943 nel piccolo paese della Valtellna.

 
È prodotto dal professor Giovanni Porta, genetista dell'Università degli Studi dell'Insubria, il documentario diretto da Chiara Francesca Longo "Gli Zagabri", sulle vicende di un gruppo di ebrei provenienti da Zagabria e internati ad Aprica. Proprio nella località orobica, nella sala centrale del Comune di Aprica, il prossimo 20 luglio, alle ore 21.15, e a seguire il 9 di agosto, sarà proiettato l'intero filmato, prodotto in collaborazione con Anpi, Università degli Studi dell'Insubria, BIM, Comune di Aprica. Le musiche sono di Delilah Sharon Gutman.
   Nel 1943 un gruppo di ebrei provenienti da Zagabria, sfuggiti all'occupazione nazista della ex Jugoslavia riesce a raggiungere l'Italia. A seguito delle leggi razziali, alcuni di loro vengono internati dal regime fascista in un piccolo paese della Valtellina, l'isolata e verde Aprica. Le famiglie contadine dovranno quindi ospitare nelle loro case i nuovi arrivati; l'iniziale diffidenza si trasforma in poco tempo in un legame assai più profondo, fino all'epilogo dell'8 settembre, quando molti ebrei saranno costretti a fuggire verso il confine svizzero, aiutati dagli stessi abitanti che sfideranno il regime per salvarli.
   Tra gli altri, conosceremo Vincenzo Negri, il "Caramba", partigiano delle Fiamme Verdi che ci racconterà le storiche vicende della Brigata Mortirolo, che tenne in scacco migliaia di tedeschi sul confine svizzero, in una Valtellina assediata da fascisti e tedeschi per via del ridotto, che doveva garantire una via di fuga a Mussolini. Questi partigiani furono operai e contadini, che giovanissimi scelsero di sfidare il regime, a volte anche a costo di sacrificare la loro giovane vita, come nel caso di Attilio Stampa, i cui funerali furono una vera e propria rivolta popolare.
   Il video racconta la guerra e il risveglio delle coscienze nella piccola comunità alpina attraverso l'amicizia con gli ebrei "erranti" di Zagabria, fino alla liberazione.
   Sempre dalla collaborazione tra il professor Porta e Chiara Longo - e con il patrocinio dell'Università degli Studi dell'Insubria - è nato il filmato "Sono razzista ma sto cercando di smettere" sull'inesistenza del concetto di razza umana, con la voce di Patrizio Roversi, e la partecipazione di Guido Barbujani, Genetista e Telmo Pievani, filosofo della scienza. Il video è online su Youtube e ha totalizzato oltre 3500 visualizzazioni.
   Entrambi i contenuti saranno disponibili a breve anche sui canali social e sul sito dell'Università degli Studi dell'Insubria.

(VareseNews, 9 luglio 2015)


Giovani Imprenditori di Confindustria: possibili business dai contatti con Israele
        - Articolo OTTIMO! -


Si rafforza sempre di più il rapporto tra i Giovani Imprenditori di Confindustria e lo Stato di Israele, paese di grande interesse per la nuova imprenditoria, soprattutto quella italiana, che può mettere a disposizione delle controparti locali forte capacità industriale e creatività, in cambio di tecnologie di altissimo livello. In Israele c'è infatti la più grande concentrazione del settore hi-tech, con un'elevata nascita di startup innovative nel mondo del dígitale. Nei giorni scorsi, lungo le tre tappe di Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa, 25 giovani hanno trascorso cinque giorni nel Paese ebraico. Tra di loro anche una rappresentante della territoriale del Canavese, Debora Ianni, di Tecnosystem spa.
   In questo periodo è stato realizzato un fitto programma di visite presso i principali centri di eccellenze in campo scientifico, ingegneristico e tecnologico: Weitzman Institute of Science, Technion Institute of Technology, visite aziendali alla Telit (High Tech lndustry) alla Strauss (Innovation Center in campo alimentare) Caesar Stone (lavorazione del Quarzo). I Giovani lmprenditori hanno anche incontrato i colleghi israeliani della locale Confindustria, la Manufacturers Association of Israel, per programmare future collaborazioni su progetti finalizzati a concretizzare networlding innovativi tra le due realtà giovanili.
   «La missione in Israele è stata sicuramente un'esperienza molto interessante - racconta Debora lanni - che ha consentito a me e agli altri giovani imprenditori italiani, che ogni giorno combattono con le difficoltà di un mercato stantio e di un sistema che poco incoraggia l'imprenditoria, di entrare in contatto con una realtà profondamente diversa, dinamica e vivace». «Nonostante la difficile situazione politica del Paese - ha aggiunto -, Israele investe sui giovani, sulle startup e sulla ricerca, valorizzando i talenti e le idee di imprenditori e ricercatori di tutto il mondo. Questo ha fatto sì che Israele sia diventato un punto di riferimento a livello mondiale per quel che riguarda le innovazioni tecnologiche nel settore medicale, farmaceutico e nel digital. Torno a casa da questa esperienza arricchita, con una visione di Israele che va oltre l'immagine di "polveriera" che i media trasmettono e con contatti commerciali estremamente interessanti».

(Giornale della Liguria e del Piemonte, 11 luglio 2015)


Egitto: diverse reazioni per la serie TV sugli ebrei egiziani

Durante il mese di Ramadan un programma televisivo apre il dibattito su Israele e l'ebraismo.

di Roberta Papaleo

 
"Harat al-Yahud" (Il Quartiere Ebraico) è una serie TV inedita trasmessa durante il mese di Ramadan di quest'anno. Il quartiere ebraico è un'area di Mousky, nel centro del Cairo, dove ebrei, musulmani e cristiani vivono pacificamente dal 1848. Il telefilm narra la storia d'amore tra Ali, un ufficiale dell'esercito egiziano, e Leila, che ricambia il sentimento per l'uomo, e ritrae la vita in questo quartiere residenziale e commerciale.
   Prima che la serie facesse il proprio debutto in TV, il quotidiano israeliano The Times of Israel si è complimentato per la positività con cui è ritratta la comunità ebraica. Analogamente, anche l'ambasciata israeliana in Egitto ha commentato sulla sua pagina Facebook che il telefilm rappresenta il popolo ebraico in una veste umanitaria.
   Tuttavia, l'ottimismo dell'ambasciata non è durato a lungo. Infatti, dopo alcune puntate, i rappresentanti della missione diplomatica israeliana in Egitto hanno cambiato idea, esprimendo tutto il loro disappunto per la piega negativa che il telefilm avrebbe preso, incitando contro Israele e usando i personaggi più sensibili per mascherare un sentimento anti-israeliano.
   Altre critiche sono arrivate dal Partito Costruzione e Sviluppo, un movimento islamico di destra, che ha descritto il programma come un nuovo preambolo per la normalizzazione dei rapporti tra l'Egitto e "l'entità sionista".
   Il produttore della serie Mohammed al-Adel ha affermato, però, che l'obiettivo di questo programma è sottolineare l'importanza dell'accettazione reciproca dimostrando che la disputa nei confronti d'Israele è di carattere politico e non religioso.
   Inoltre, secondo il critico Tarek el-Shennawi, "Harat al-Yahud" non dovrebbe essere criticata di indurre alla normalizzazione, poiché è necessario differenziare tra l'ebraismo come religione e il sionismo come politica adottata da Israele.
   Anche Ahmad Fouad Anwar, un ricercatore specializzato in affari israeliani presso l'Università di Alessandria, si è complimentato per la serie, poiché secondo la sua opinione, non mette in scena una generalizzazione basata su cliché, bensì si è concentra sull'unità nazionale dell'Egitto.
   La serie mette in luce anche alcuni eventi e fenomeni storici importanti, come l'emergere della militanza della Fratellanza Musulmana, l'uccisione del primo ministro Mahmoud Fahmi an-Nukrashi, e si sofferma a riflettere su quale sia stato il ruolo dei Fratelli Musulmani sull'abbandono dell'Egitto da parte della sua comunità ebraica.
   A tal proposito, secondo Anwar, però, non fu solo colpa della Fratellenza, ma ci furono anche altri fattori che portarono all'emigrazione degli ebrei egiziani, come il primo conflitto arabo-israeliano nel 1948, la Guerra di Suez nel 1956 e la Guerra dei Sei Giorni scoppiata il 5 giugno del 1967. Il ricercatore, infatti, afferma che fu solo dopo questa data che gli ebrei realizzarono di non poter più vivere in Egitto.

(ArabPress, 11 luglio 2015)


Erdogan al tramonto è ancora più pericoloso. Nell'aria l'attacco ad Assad

di Carlo Panella

Un Tayyp Erdogan in evidente declino politico - ma sempre arrogante e in preda a una sindrome dispotica da califfo ottomano - ha assegnato ieri al premier uscente Ahmet Davutoglu l'incarico di formare un nuovo governo. Impresa difficile, se non disperata, perché la Akp per cui Erdogan ha condotto una frenetica e arrogante campagna elettorale - nonostante fosse presidente della Repubblica, quindi tenuto ad una condotta super partes - ha solennemente perso le elezioni. È passata infatti dal 50% al 40,8% e ha solo 258 seggi (la maggioranza è di 276 su 550 seggi).
   Davutoglu ha quindi solo 45 giorni per formare una coalizione, pena il ritorno alle urne. Ma la coalizione più naturale, la più apprezzata da Europa e USA, con i laici nazionalisti del Chp è ben difficile da costruire. Questo partito infatti, che ha 132 seggi (col 25,2% dei voti), è il più interessato ad andare a nuove elezioni che segnerebbero la prova di una incapacità della Akp di garantire stabilità. Kemal Kilicdarlogu, segretario del Chp infatti, sino a oggi si è ben guardato dal prospettare questa alleanza e ha invece auspicato più volte la formazione di una coalizione con tutti i partiti, tranne la Akp. Sfiancare, neutralizzare, Erdogan e il suo straordinario potere personale è d'altronde, l'obbiettivo principe anche di tutti gli altri partiti turchi. Ma questa coalizione (che vedrebbe alleati un partito di estrema destra tipo Forza nuova, il Mhp, con uno centrista e di sinistra tipo Pd, il Chp, con uno curdo e progressista, tipo Syriza, il Hdp) è improbabile, se non impossibile, per radicali divergenze programmatiche.
   Difficile, se non esclusa, anche l'alleanza tra la Akp e il Hdp, il partito curdo di Selhattin Demirtas, clamorosa rivelazione delle ultime elezioni, non solo perché col suo 13% e i suoi 79 seggi ha dato per la prima volta rappresentanza parlamentare ai curdi, ma soprattutto perché ha calamitato i voti di settori compositi dell' elettorato turco: gay, giovani di Gezy Park, Verdi e femministe. In linea teorica, Davutoglu potrebbe offrire al Hdp di Demirtas una rapida e forte conclusione del processo di pace con i curdi e la fine di una guerra civile che ha fatto 35.000 morti in 30 anni, con la concessione di una forte autonomia del Kurdistan. Una prospettiva, peraltro già delineata dallo stesso Erdogan, che ha concordato una Road Map in questa direzione con Abdallah Oçalan, prigioniero a vita delle carceri turche. Ma è ben difficile che questo accordo venga siglato e ancora più improbabile che Dernirtas offra una ciambella di salvataggio a una Akp in palesi ambasce. Resta la pessima prospettiva di una coalizione tra la Akp e il Mhp, di estrema destra, erede dei Lupi Grigi di Ali Agca, anti cristiano, anti curdo, che segnerebbe una deriva para fascista della Turchia.
   Quadro contorto, dunque, con una prevedibile fase di usura reciproca di tutti verso tutti nei primi 35 giorni di trattative e una possibile, ma difficile, conclusione solo in "zona Cesarini",
   È certo, comunque vada questa trattativa, che è iniziata la fase declinante di Erdogan. Declino che già si rileva sulla scena internazionale, con l'allentamento delle pressioni di Ankara sulla Libia, a favore del governo di Tripoli e dei Fratelli Musulmani. Ma Erdogan può sempre ordinare - e pare accarezzi questa idea - una invasione turca della Siria, con l'obbiettivo di proteggere le popolazioni arabe e turcomanne dai soprusi - reali, incontestabili - dei curdi del Ypg. Mossa avventurista, quasi illegale in vacatio di governo. Ma mossa tipica dello "stile Erdogan".

(Libero, 11 luglio 2015)


Israele by Daizy Shely

Israele raccontata dalla designer Daizy Shely: i luoghi dove trova ispirazione quando torna a casa.

 
Piazza d'onore a Who is on Next 2014, la designer israeliana Daizy Shely vive e lavora a Milano, dove disegna collezioni sognanti e ispirate. Quando torna a casa, in Israele, si ricarica di energie e trova nuove idee. "Ogni volta che torno a casa mi ritrovo a visitare alcuni dei miei luoghi preferiti, i luoghi imperdibili da vedere nel mio Paese, Israele, che vorrei condividere con voi:

 Nahalat Binyamin St., Tel Aviv:
  La Nahalat Binyamin St. è sempre stata una delle mie strade preferite di Tel Aviv. Un mix incredibile di street art, negozi di stoffe, ristorantini, negozi vintage con un atmosfera magica
  Ogni martedì e giovedì c'è anche un mercatino artigianale. Ogni settimana centinaia di visitatori passeggiano per il mercatino di Nahalat Binyamin, adiacente al Tel Aviv's Carmel Market, per dare uno sguardo alle creazioni di oltre 200 artisti e godersi l'atmosfera familiare.
  Il mercato è stato aperto negli anni 80 quando Tel Aviv aveva approvato un progetto per sostenere gli artisti locali e l'artigianato. I venditori possono infatti vendere solo oggetti fatti a mano, e devono venderli personalmente. In questo modo l'acquisto diventa un'esperienza concreta, ogni prodotto può essere discusso con il designer che spiega anche come lo ha realizzato.

 Carmel Market, Tel Aviv:
  Il Carmel Market, o Shuk HaCarmel, è il mercato più famoso di Tel Aviv. Negli ultimi anni è diventato anche una zona trendy della città grazie ai suoi bar, ristoranti, caffè e bancarelle di cibo degli stessi chef. Non sorprende quindi che Shuk HaCarmel sia il mercato più grande e centrale di Tel Aviv: dallo Jachnun, un piatto tradizionale Yemenita, ai formaggi di qualità, dai pezzi unici ai capi firmati, HaCarmel ha davvero tutto. Potete pianificare la vostra visita a seconda dei vostri gusti: pesce sotto sale, affettati, piatti mediorientali, pasticceria francese appena sfornata, e ancora caffè macinato localmente, spremute di frutta fresca e centrifughe per accompagnare il cibo.

 Città antica, Cesarea:
  Il Parco delle Antichità è uno dei parchi più straordinari di Israele, e ospita edifici di varie epoche, essendo stato testimone silenzioso delle sollevazioni che si sono verificate a Cesarea negli ultimi 2300 anni. Si trova accanto a una zona ampia (125 acri), con antiche rovine del periodo ellenistico (terzo secolo AC) fino al periodo della Crociate (12o secolo), quando Cesarea era un porto e fu per molti anni la capitale di Israele.
  Una visita nel parco nazionale è come un viaggio nella storia, e passeggiando fra i palazzi antichi si può immaginare come vivesse la gente migliaia di anni fa ma anche fare un'esperienza del tutto moderna grazie agli splendidi concerti che si tengono nel teatro romano.

 La spiaggia di Mikhmoret:
  La spiaggia di Mikhmoret è sicuramente la mia spiaggia preferita in Israele. Il mio piccolo paradiso privato, da sempre. La spiaggia è quasi sempre vuota durante la settimana, per godersi il rumore del mare il più possibile.
  Mikhmoret è sul Mediterraneo, circa 9 chilometri a nord di Netanya.

 Le spiagge di Tel Aviv:
  Il fascino più grande di Tel Aviv è senza dubbio la costa mediterranea che dà alla città un senso di apertura e leggerezza alla Miami, o alla Rio de Janeiro. Ci sono otto spiagge principali in città, ognuna con le sue peculiarità e frequentatori.

 Dizengoff Square, Tel Aviv:
  In Dizengoff Square c'è la mia fontana preferita, la "Fire and Water Fountain", la fontana del fuoco e dell'acqua, che mi ispira sempre molto.
  La fontana è una scultura cinetica del 1986, opera dell'artista israeliano Yaacov Agam. Agam è noto a livello internazionale per essere uno dei fondatori dell' arte cinetica.

 Il Museo di Arte Moderna di Tel Aviv:
  Il Museo di Arte Moderna di Tel Aviv è sicuramente un must, non solo per le collezioni in mostra ma anche per l'architettura dell'edificio stesso.
  Il nuovo edificio del Museo di Arte Moderna di Tel Aviv, inaugurato nel Novembre 2011 è di per sé un capolavoro visivo ed architettonico. Progettato da Preston Scott Cohen, il nuovo edificio è stato descritto dal New York Times come "un cubo di Rubik allungato, inzuppato nella candeggina". La facciata è composta da 465 pannelli in cemento di diverse misure e forme incastrati fra loro. Dentro, 5 piani, su oltre 19mila mq, tre sottoterra e due sopra, collegati da un ampio atrio e un lucernaio che inonda di luce le gallerie d'arte.
  Nel museo troverete collezioni permanenti e temporanee di artisti locali e internazionali fra cui impressionisti e post-impressionisti. Nelle collezioni permanenti opere di Cezanne, Chagall, Dali, Monet, Henri Moore, Auguste Rodin, Archipenko, Picasso, Klimt, Kandinsky.

 Fiori, Yirmiyahu St. 21 Tel Aviv:
  Fiori è un negozio di fiori con un concept tutto nuovo. La prima volta che ci sono entrata me ne sono innamorata.
Non è un semplice negozio di fiori ma un luogo magico dove trovare ispirazione. La prima volta che ci sono entrata ho sentito i profumi meravigliosi, ho notato la cura nell'arredamento, e ascoltato le storie dietro a ciascun fiore.

 Città vecchia, Gerusalemme:
  Se siete già stati in Israele vi consiglio di fare una passeggiata nella Città vecchia di Gerusalemme.
Per sentire la migliaia di anni di storia. Un luogo davvero suggestivo e mistico.

 Il Mare della Galilea:
  Il Mare della Galilea è il più grande lago di acqua dolce del paese.
Il lago di acqua dolce più basso della Terra e il secondo lago più basso in assoluto (dopo il Mar Morto, un lago di acqua salata). Il lago è rifornito da sorgenti sotterranee ma la sorgente principale è il Giordano che lo attraversa da nord a sud.

 Mar Morto:
  Il Mar Morto è il luogo più basso della terra, un lago salato che confina con il Giordano a est, e la Palestina e Israele a ovest. Molti credono che l'acqua del lago abbia proprietà curative dermatologiche.

(testo e foto di Daizy Shely)

(Vogue, 10 luglio 2015)


Digital Accademia: via al master di formazione digitale tra Italia e Israele

Scatta l'ottava edizione di MA.D.E.E., MasterLab in Digital Economics & Entrepreneurship, il programma formativo lanciato dalla "scuola" di cultura digitale targata H-Farm Ventures. Il percorso prevede un viaggio studio di una settimana a Tel Aviv organizzato in partnership con The Adelson School of Entrepreneurship.

Ai nastri di partenza l'ottava edizione di MA.D.E.E., MasterLab in Digital Economics & Entrepreneurship, il programma per la formazione in ambito digitale lanciato da Digital Accademia, la "scuola" di cultura digitale targata H-Farm Ventures.
Questi i numeri delle sette edizioni concluse: 100 studenti selezionati, 41 aziende coinvolte per gli stage, 16 startup create durante e dopo il Master.
Il MasterLab, le cui prossime selezioni si terranno il 27 luglio e l'11 settembre, continua a prevedere 3 mesi di aula full time con lezioni interattive, laboratori, outdoor e varie forme di learning by experience e mentoring.
La novità di quest'anno è l'approfondimento sull'internazionalità. L'ottava edizione prevede la presenza di professionisti e docenti provenienti dall'estero nonché attraverso la "International Venture Week", un viaggio di formazione volto a favorire l'incontro tra diverse culture e realtà.
La nuova edizione del MA.D.E.E., in partenza il 5 ottobre, ha in programma un viaggio studio di una settimana in Israele organizzato in partnership con The Adelson School of Entrepreneurship, parte dell'Interdisciplinary Center IDC Herliya, una realtà creata a pochi passi da Tel Aviv per coltivare la cultura imprenditoriale, lo spirito innovativo e il talento creativo.
Questo percorso darà l'opportunità ai partecipanti di approfondire temi legati all'imprenditoria e a modelli di business innovativi attraverso incontri, lezioni frontali, workshop e altro.
"Il programma apre nuove opportunità per scambi tra Italia e Israele e spalanca la strada alla cultura d'impresa", commenta Liat Aaronson, Executive Director della Adelson School of Entrepreneurship, IDC Herzliya. "Questa collaborazione tra la Adelson School of Entrepreneurship e Digital Accademia consente anche di conoscere meglio l'ecosistema imprenditoriale della Startup Nation e di esplorare la cultura e il bellissimo paesaggio di Israele".

(EconomyUp, 10 luglio 2015)


Rivista israelitica del 1845, ripubblicata la collezione dalla Biblioteca Palatina di Parma

di Elena Lattes

Dall'uscita del primo periodico ebraico a Konigsberg in Germania, nel 1784, passarono poco più di sessant'anni per vederne uno stampato anche in Italia. Nell'ottobre del 1845, infatti, venne pubblicato dalla Stamperia Carmignani il primo numero della "Rivista israelitica", diretta dal modenese Cesare Rovighi, letterato e patriota del Risorgimento.
Nelle intenzioni iniziali sarebbe dovuto essere un mensile, ma nei poco più di due anni di vita, uscirono soltanto undici numeri, per problemi di vario genere, fra cui, forse, quelli economici e politici (non dimentichiamoci il fermento che animava in tutta la Penisola).
Di dimensioni variabili, era costituito in media da poco meno di settanta pagine, ma arrivava a volte fino alle 150 e trattava di argomenti diversi, usando stili differenti. Vi si potevano trovare racconti, poesie, sia in italiano che in ebraico accompagnate dalla traduzione, trascrizioni di discorsi pronunciati in varie cerimonie, dibattiti, notizie riguardanti gli ebrei estensi, ma spesso anche di altre regioni o altri regni italiani (Granducato di Toscana, Papato, Piemonte, e così via) e, perfino, di alcune lontane province dell'Impero Austroungarico e di quello zarista. Era aperto anche ad annunci privati e a contributi "esterni" (particolarmente significativo l'articolo di un sacerdote cattolico premonitore della posizione di una parte della Chiesa che venne ufficializzata soltanto centovent'anni dopo).
In sintesi, come recitava pure il sottotitolo, era un "Giornale di morale, culto, letteratura e varietà" dal quale traspariva il libero pensiero di alcune delle figure di spicco dell'epoca. Costava 15 Lire e veniva spedito per posta agli abbonati.
Anche gli argomenti erano i più disparati: dall'educazione ai problemi pratici, di ordine morale, o identitario, dalla linguistica alla storia, al rapporto con i governanti e con i concittadini appartenenti ad altre religioni.
Una rivista interessante, quindi, per capire l'atmosfera che regnava all'epoca delle guerre d'indipendenza e alla vigilia dell'emancipazione avvenuta nel 1848 con l'emanazione dello Statuto Albertino nel quale agli ebrei e ai valdesi venivano riconosciuti finalmente, dopo secoli di persecuzioni e vessazioni, pari diritti e pari dignità di cittadinanza. Un'atmosfera evidentemente molto ottimista, aperta, partecipativa e dialogante con le realtà circostanti, in cui si sentiva già un senso di libertà e veniva espressa, neanche troppo velatamente, l'aspirazione all'unità d'Italia.
Recentemente la Biblioteca Palatina di Parma, che è l'unica istituzione a possedere tutti gli undici numeri, ha deciso di ripubblicare l'intera collezione proponendo al grande pubblico un volume di oltre ottocento pagine a cura di Ercole Camurani con le note introduttive di Sabina Magrini, Direttore della Biblioteca, e di Vincenza Maugeri, direttore del museo ebraico di Bologna.
Il tutto corredato da una postfazione del professor Bruno Di Porto nella quale illustra magistralmente le varie correnti e l'ambiente dell'epoca contestualizzandoli, raccontando vari interessanti retroscena biografici, sociologici e storico-filosofici, la genesi della rivista e gli effetti che portò nella società ebraica italiana.
Una pubblicazione preziosa non soltanto per la diffusione di documenti così importanti e quindi non soltanto per storici o studiosi di ebraismo, ma anche per chi desidera conoscere meglio il proprio Paese e gli albori della democrazia odierna.

(Agenzia Radicale, 9 luglio 2015)


Khamenei: la causa palestinese è alla base del risveglio islamico

Avvertimento all'Occidente

TEHERAN, 10 lug 19:24 - Nel suo discorso Khamenei ha offerto la sua ricetta per la soluzione della questione palestinese chiarendo che la liberazione dell'intera Palestina, non di una sua parte e rigettare ogni piano che punta a dividere la Palestina. "Ogni soluzione deve essere basata sul principio tutta la Palestina per tutto il popolo palestinese", ha detto il leader iraniano. "La soluzione che propone la Repubblica Islamica dell'Iran per risolvere la questione della Palestina e per rimarginare questa vecchia ferita, è una proposta chiara e logica, basata sulla saggezza politica", ha detto il leader iraniano, sottolineando che Teheran non propone "né la guerra classica con gli eserciti dei paesi islamici, né di gettare in mare gli immigrati ebrei, né l'intervento delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni internazionali", ma un referendum tra il popolo palestinese.

(Agenzia Nova, 10 luglio 2015)


Il guanto che permette di comunicare ai sordi e ai ciechi vola in Israele

DbGlove vince Start Tel Aviv, un campus di 5 giorni per confrontarsi con startup europee e venture capital. In finale anche Kopjira e Quattrocento.

 
Il guanto che permette alle persone sordocieche di comunicare vola a Tel Aviv. E' dbGlove di Nicholas Caporusso il vincitore della quarta edizione di start Tel Aviv, concorso promosso dall'Ambasciata di Israele in Italia e da Luiss Enlabs. La tecnologia sviluppata dalla startup barese, la qualità del team e della presentazione hanno convinto la giuria a sceglierla come rappresentante del nostro Paese al campus che, a settembre, durante il Dld Innovation Festival, vedrà impegnate 21 startup di tutta Europa in un tour alla scoperta dell'ecosistema italiano. Un'esperienza - l'anno scorso vissuta da Giuseppe Morlino di Snapback - essenziale per stringere contatti importanti con venture capital e possibili partner tecnologici.

 Il guanto per le persone sordocieche
  «L'idea di DbGlove - ha spiegato Caporusso - è nata da un problema famigliare: mio padre a causa del diabete ha iniziato prima a perdere l'udito e poi un occhio. Perderà anche l'altro. Per persone come lui è fondamentale avere uno strumento che consenta di comunicare, leggere e scrivere. Il Braille è molto difficile da imparare , ecco così che il nostro guanto ingloba Braille e Malossi, un sistema basato sul tocco, per collegarlo con lo smartphone. DbGlove in pratica converte le lettere in stimoli tattili: in questo modo si può sia leggere che comunicare». Con collaborazioni e sperimentazioni già avviate in Germania e Inghilterra a settembre dbGlove partirà con la sperimentazione su 100 tutenti. Poi, dopo le certificazioni, prevede l'arrivo sul mercato nel 2016. Il break-even è previsto con la vendita di 1500 dispositivi: il business plan prevede incassi a 8 milioni di euro già nel 2018. «Ha vinto dbGlove - ha commentato l'ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon durante la cerimonia di premiazione al padiglione di Israele all'Expo - e avrà un'occasione unica per far conoscere la sua innovazione nella Startup Nation in un tour di 5 giorni. Ma va sottolineato che la risposta al bando, quest'anno, è stata di altissimo livello».

 Il software che monitora il copyright
  A contendere fino all'ultimo la vittoria a dbGlove è stato Kopjira, un software, sviluppato da una giovanissima startup (età media 25 anni) che monitora il web a caccia di violazioni del copyright. A presentarla Tommaso Grotto, 26 anni, ex hacker. «Sulla base delle violazioni riscontrate inviamo diffide non solo al titolare del sito ma anche ad agenzie pubblicitarie e hosting che stanno diffondendo materiale illegale. Il punto di forza che stiamo sviluppando è l'acquisizione forense della prova digitale. Attualmente una volta rimossa la pagina web che contiene il contenuto illegale, non è possibile far causa ex post. Noi stiamo automatizzando l'acquisizione della prova per renderla fruibile: un procedimento che vogliamo brevettare a livello internazionale». In cerca di mezzo milione di finanziamenti il team di Kopjira ha già come clienti lo Studio Previti di Milano e il Gruppo Mediaset.

 Quattrocento
  Terzi finalisti Quattrocento, startup fondata da due 28enni, una designer israeliana, Sharon Ezra e Rosario Pugliese. Il progetto prevede la vendita di occhiali di design a un prezzo fisso, 115 euro, che include montatura, lenti graduate e procedimento anti-riflesso. «Siamo un regista di filiera - spiega Pugliese -. Riusciamo a tagliare i costi saltando i passaggi degli agenti e i negozi». Quattrocento, nome che si vuol indicare un nuovo Rinascimento, sta ora lavorando con una società israeliana specializzata in Realtà Aumentata per sviluppare un «Virtual Try On», un procedimento che attraverso la scansione del viso e la riproduzione dell'occhiale permetta di provare «virtualmente» l'effetto di ogni modello sul nostro volto.

(Corriere Innovazione, 9 luglio 2015)


Hamas ha sequestrato civili israeliani

Gerusalemme: no alla liberazione di detenuti palestinesi

di Vincenzo Scichilone

Un giovane di origini etiopi, Avraham Mangisto, con qualche deficit mentale e seguito dai servizi sociali di Ashkelon, nel settembre scorso si avviò verso il confine tra Gaza e Israele e fu sequestrato da miliziani islamisti di Hamas. Finora la notizia era stata coperta dalla censura militare. Sequestrato anche un israeliano di origini beduine di 28 anni, di cui però non è stato diffuso il nome. Hamas ha rifiutato di rilasciare i due giovani su base umanitaria, pretende in cambio il rilascio di migliaia di detenuti palestinesi in carcere per terrorismo, ma il governo israeliano ha negato questa possibilità.

Avraham Mengistu, l'israeliano di origini etiopi, scomparso nel settembre 2014 a Gaza e sequestrato da Hamas  
Il movimento islamista Hamas, che tiene sotto scacco Gaza e la sottrae al controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese, ha sequestrato due cittadini israeliani di origini africane. Lo ha reso noto ieri il Governo israeliano, divulgando le generalità solo di uno dei due.
   I due giovani sono un israeliano di origini beduine del quale non è stato rilasciato il nome e un 29enne di origini etiopi, Avraham Mengistu. La divulgazione della notizia è stata possibile grazie alla revoca della censura militare sulla loro scomparsa nella Striscia di Gaza.
   Mengistu attraversò in modo autonomo la frontiera tra Israele e la Striscia di Gaza nel settembre dello scorso anno e subito dopo fu catturato dalle milizie di Hamas. Su questo aspetto ormai l'intelligence israeliana ha raccolto sufficienti informazioni. Dell'altro israeliano sequestrato dagli islamisti di Gaza non sono state fornite informazioni, se non che ha 28 anni ed è di origini beduine. Mengistu risiede ad Ashkelon, Israele meridionale, ed è seguito dai servizi sociali, perché soffre di problemi mentali.
   Un comunicato del ministero della Difesa ha riferito che, "secondo informazioni credibili di intelligence", Avraham Mengistu è trattenuto, "contro la sua volontà, da Hamas a Gaza" e che "il governo si è rivolto a interlocutori regionali e internazionali per chiedere l'immediata liberazione" del giovane, nonché per "verificare le sue condizioni". Nella nota anche il riferimento all'altro uomo sequestrato, ugualmente "trattenuto a Gaza". La nota del ministero della Difesa di Tel Aviv
non però fornisce altre informazioni, mentre Hamas sul caso ha rifiutato ogni commento.
   Secondo il quotidiano di Tel Aviv 'Yedioth Ahronoth', Mengistu nel settembre dell'anno scorso è uscito di casa e non è mai ritornato in territorio israeliano dopo aver attraversato la frontiera. Testimoni l'hanno visto camminare sulla spiaggia della costa di Ashkelon verso il sud fino a raggiungere la zona di Ziqim e superare il confine militare tra Israele e Gaza. Invano i servizi di sicurezza - che avevano rilevato la sua presenza - hanno cercato di recuperarlo inviando una pattuglia di militari supportati da un elicottero, ma il giovane ha continuato a camminare verso Gaza e non è più tornato indietro.
   Dopo la sua scomparsa, lo Shin Bet - il servizio segreto interno israeliano - ha ricostruito che Mengistu era sparito da casa almeno altre tre volte. Il fratello Ilan ha confermato ieri - nel corso di una conferenza stampa - che Avraham "non sta bene". "Sto chiedendo alla comunità internazionale di impegnarsi e di usare il proprio potere per liberare mio fratello", ha riferito ai giornalisti ieri, spiegando di aver "chiamato Hamas per chiedergli di predere in considerazione la sua salute e di rilasciarlo immediatamente", ha poi aggiunto.
   Pochi giorni dopo la sua scomparsa, miliziani della Brigate di Ezzedeen Al-Qassam organizzarono un enorme raduno a Rafah, nel sud della Striscia, al confine con l'Egitto, in cui presentarono sul palco un'enorme scatola nera, recante appunto la scritta 'scatola nera' in ebreo e arabo, alludendo al colore della pelle del giovane di origini etiopi. Ma non fornirono alcuna spiegazione, suscitando curiosità. Tuttavia, neanche i media palestinesi - che non galleggiano peraltro in un mare di libertà - riuscirono a comprendere il senso del messaggio. Un fatto che non fu riportato dai media israeliani appunto per l'apposizione della censura militare.
   L'intento dei jihadisti di Hamas con tutta probabilità era di diffondere la notizia prima, per premere sull'opinione pubblica israeliana attraverso i media arabi, superando di fatto la censura militare, che è venuta meno quando - mercoledì scorso - Khaled Meshaal, capo politico di Hamas che vive in Qatar, ha reso noto di essere stato contattato da autorità di Israele tramite canali diplomatici europei, per negoziare uno scambio con le salme di due soldati israeliani, Orn Shaul e Hadar Goldin, caduti nell'operazione a Gaza di un anno fa.
   Il gruppo islamista punterebbe adesso a uno scambio di prigionieri - vivi e morti - con Israele simile a quello ottenuto nell'ottobre 2011, quando in cambio di un migliaio di detenuti palestinesi tornò a casa Gilad Shalit, il soldato israeliano rimasto prigioniero a Gaza per oltre cinque anni.
   Il governo israeliano ha però negato questa possibilità. Funzionari governativi sotto condizione di anonimato hanno dichiarato al quotidiano di sinistra 'Haaretz' che non c'è alcuna intenzione di liberare detenuti palestinesi e che la liberazione di Mengistu e dell'altro giovane di origini beduine è una "questione umanitaria" e non rientra in eventuali negoziati per la riconsegna delle salme dei due militari.
   La Convenzione di Ginevra vieta la detenzione di civili e bolla come crimine di guerra il sequestro di civili, mentre impone la restituzione delle salme dei caduti in operazioni belliche.

(The Horsemoon Post, 10 luglio 2015)


Israele ammoderna i carri armati argentini

 
L'Argentina ha siglato un contratto di 111 milioni di dollari con Israele per ammodernare 74 carri armati Tam (Tanque Argerntino Mediano). Il contratto, secondo quanto riferisce l'Agenzia Nova, è stato firmato a fine giugno dal ministro della Difesa argentino Agustin Rossi e da Mishel Ben-Baruch, direttore della Divisione cooperazione della difesa internazionale del ministero israeliano.
Rossi ha annunciato che il contratto prevede una clausola di accordo di compensazione che dovrà stabilire una joint-venture per sovrintendere trasferimenti della tecnologia di aggiornamento in Argentina.
L'accordo rientra nel programma di modernizzazione militare iniziato dal paese latino americano nel 2009. La società israeliana Elbit aveva consegnato nel 2013 il prototipo del TAM ammodernato.
Il TAM è stato sviluppato negli anni '70 con il supporto tedesco (Thyssen Henschel) elaborando il veicolo da combattimento Marder della Bundeswehr, è stato prodotto (con il 70% di parti realizzate in Argentina e il 30% in Germania) in 200 esemplari fino agli anni '90 insieme a quasi 300 unità dei veicoli trasporto truppe, portamortaio e semovente d'artiglieria basati sullo stesso veicolo cingolato.
L'industria israeliana ha una consolidata esperienza nell'aggiornamento di mezzi corazzati sia di produzione occidentale che di origine russo-sovietica.

(Analisi Difesa, 10 luglio 2015)


Libri e pallottole

Hanno fatto di Malala un'icona con hijab. Vuole sconfiggere i talebani "con i libri, non con i fucili".

di Giulio Meotti

Ha lanciato uno slogan accattivante: "Books, not bullets". Due giorni fa Malala Yousafzai è tornata a Oslo, dove aveva ricevuto il Nobel per la Pace, per parlare ai leader mondiali. Ha detto che servono 39 miliardi di dollari l'anno per le sfide di alfabetizzazione. "Sembra un numero impossibile", ha detto la ragazza e attivista scampata a un attentato dei talebani. "In realtà rappresenta quello che i governi spendono per le Forze armate in soli otto giorni. Voglio che i leader mondiali scelgano i libri, non i proiettili". Malala è stata cooptata dagli istinti nannying dell'establishment occidentale. Per i liberal, Malala rappresenta l'archetipo della povera ragazza salvata dai barbari, il simbolo perfetto dell'esotismo degli oppressi. Così prima l'hanno portata alla Casa Bianca da Barack Obama e gli hanno fatto consegnare un messaggio: "I tuoi droni alimentano il terrorismo". Come se i droni non fossero invece una risposta al jihad. Poi l'annuncio di Malala in mondovisione da Oslo che per battere il terrorismo islamico non serve uccidere i capi della guerra santa, serve istruirli, serve portare libri alla popolazione, alfabetizzarli. Malala ha poi ripetuto che l'arte e l'intrattenimento debbano veicolare "un messaggio", una sorta di marxismo culturale che ci si aspetta da un burocrate delle Nazioni Unite, dove il padre, Ziauddin, è infatti consulente speciale per Global Education. C'è molta ipocrisia nel modo in cui l'apparato della sinistra occidentale si è appropriato di Malala per farne una icona di emancipazione femminile. E' stata presa di mira da islamisti contro cui gli Stati Uniti sono andati in guerra. Una guerra cui la sinistra si è sempre opposta. Ma cosa c'è di meglio che far attaccare l'apparato militare occidentale da una ragazza musulmana con hijab, questo simbolo della misoginia islamica la cui forma più estrema è la tendenza dei talebani, quelli che hanno cercato di porre fine alla vita stessa di Malala? Come se non bastasse, la Nobel ha appena donato 50 mila dollari alle scuole dell'Onu a Gaza, senza neppure chiedere in cambio che la smettessero di ospitare piste di lancio di missili iraniani diretti contro Israele.
   Gli studenti universitari in Afghanistan erano quattromila nel 2004. Oggi sono 120 mila, un quarto donne. E' stato possibile grazie a una guerra. Lo ha appena scritto anche Newsweek: "In città come Herat e Kabul ci sono donne tassiste. L'Afghanistan ha rapper femminili. Anche nei villaggi più remoti, la vita è cambiata per le donne". Se far studiare o meno le bambine afghane e pachistane, se rispettare i diritti naturali e positivi delle donne di Kabul, è questa la differenza fra "noi" e "loro". Per questo siamo andati in Afghanistan. Per questo Malala non torna più in Pakistan, ma continua la sua battaglia attorniata da ong a Londra. A Malala ha risposto Phyllis Chesler, celebre femminista americana: "Malala davvero crede che i libri possano fermare gli uomini che le hanno sparato? In linea di principio, l'educazione è fondamentale, ma richiede tempo, e bisogna prima aprire un varco per far arrivare i libri, per farli apprezzare più dell'apartheid di genere e del jihad, occorre un varco militare". Vedremo cosa accadrà quando gli americani se ne andranno da Kabul portando via fucili e droni. Vedremo quante ragazzine come Malala potranno ancora iscriversi a scuola. Books and bullets.

(Il Foglio, 10 luglio 2015)


Quelli che

Quelli che usano la forza per vincere la guerra si chiamano «falchi».
Quelli che usano il dialogo per avere la pace si chiamano «colombe».
Quelli che usano il dialogo per vincere la guerra si chiamano «volpi»,
e quelli che non lo capiscono si chiamano «babbei»
       Absit iniuria verbo
.
 

Pensioni semplificate per chi lavora in Giappone o Israele

di Marco Strafile

Previdenza più semplice per gli italiani che soggiornano in Giappone o Israele a seguito della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale 156 dell'8 luglio delle due leggi di ratifica ed esecuzione delle convenzioni di sicurezza sociale stipulate dall'Italia con tali Stati. Si tratta, rispettivamente, delle leggi 97 e 98, entrambe del 18 giugno 2015.
Gli accordi entreranno in vigore il primo giorno del terzo mese successivo a quello in cui gli Stati contraenti avranno completato lo scambio di note diplomatiche con cui si informeranno reciprocamente dell'avvenuto espletamento delle necessarie procedure interne di ratifica previste. Entro tale data si spera che possano essere definiti anche gli accordi amministrativi che fisseranno le norme di dettaglio.

GIAPPONE
L'accordo tra Italia e Giappone, siglato a Roma i16 febbraio 2009, costituisce una novità riguardo ai rapporti previdenziali tra i due Stati. La convenzione si applica alle persone che sono, o sono state, soggette alla legislazione di uno degli Stati contraenti ed estende i suoi effetti all'assicurazione generale obbligatoria (Ago) per la vecchiaia, l'invalidità e superstiti, alle gestioni speciali dell'Ago per i lavoratori autonomi, ai sistemi sostitutivi ed esclusivi dell'Ago, alla gestione separata e all'assicurazione contro la disoccupazione involontaria. Si tratta, pertanto, di un accordo parziale in quanto non copre tutti gli eventi (quali malattia, maternità, infortuni sul lavoro eccetera).
Viene sancito dall'articolo 6 il principio della lex loci laboris in base al quale i contributi devono essere versati esclusivamente nel Paese in cui si svolge l' attività lavorativa, salvo le eccezioni previste all'articolo 7. Vengono fissati criteri che consentono di derogare al principio della territorialità contributiva. Ciò è previsto nel caso di un dipendente distaccato per lavorare nell'altro Stato contraente, il quale potrà mantenere la contribuzione nel Paese contraente di provenienza per un periodo di cinque anni.In caso di proroga del distacco oltre tale limite le autorità o istituzioni competenti degli Stati potranno, di comune accordo, autorizzare la prosecuzione della contribuzione esclusiva nel Paese di origine del lavoratore.

ISRAELE
L'accordo, siglato a Gerusalemme il 2 febbraio 2010, quando entrerà in vigore sostituirà lo scambio di note del 7 gennaio 1987 che regolava i rapporti previdenziali tra i due Stati con riferimento all'ipotesi di distacco temporaneo di lavoratori. L'accordo disciplina la materia in maniera nettamente più sistematica rispetto al passato.
L'ambito soggettivo di applicazione della convenzione riguardale persone che sono, o sono state soggette, alla legislazione degli Stati contraenti, nonché ai familiari e ai superstiti di tali persone.
Gli eventi assicurati riguardano l'Ago per l'invalidità la vecchiaia e superstiti dei dipendenti, le relative gestioni speciali per i lavoratori autonomi, la gestione separata e i regimi sostitutivi ed esclusivi dell'Ago previsti per ciascuna categoria di lavoratori.
L'articolo 6 dell'accordo fissa il criterio di territorialità dell' obbligazione contributiva e l'articolo 7 le deroghe a tale principio: è infatti previsto che il lavoratore inviato in distacco nell'altro Paese potrà mantenere per 24 mesi la contribuzione nello Stato di provenienza. In caso di prosecuzione del distacco oltre tale limite le autorità o istituzioni competenti potranno autorizzare proroghe per altri due anni.
Anche in tale accordo (articolo 8) è contenuta una disposizione generale che consente agli Stati di concordare ulteriori eccezioni nell'interesse di alcune persone o categorie di persone.
Infine, è prevista la possibilità di totalizzare i periodi assicurativi accreditati nei due Stati ai fini della maturazione del diritto alla pensione. Una volta raggiunto il diritto per reciproco riconoscimento dei periodi, ciascuno Stato erogherà la prestazione pro quota, calcolata in base ai propri criteri.

(Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2015)


Israele, +25% di ebrei francesi immigrati. Boom dopo attentati di Parigi a gennaio

Previsti, entro la fine del 2015, come nuovi residenti in Israele circa 9mila ebrei provenienti dalla repubblica transalpina, ad agosto saranno 5.100. ''Ci stiamo preparando ad una grande ondata di immigrati", ha detto il ministro dell'Assorbimento Zeev Elkin.

Boom di ebrei francesi diretti in Israele. Rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso l'emigrazione ebraica dalla Francia è cresciuta del 25%, passando dalle 4mila persone alle oltre cinquemila. Il picco delle partenze è stato registrato a seguito degli attentati terroristici contro le comunità ebraiche transalpine di inizio anno, in particolare dopo l'episodio drammatico del sanguinoso sequestro avvenuto al supermercato Hypercacher di Parigi il 9 gennaio, in cui morirono quattro persone più l'attentatore, che seguì l'assalto mortale a Charlie Hebdo.
   Il numero degli ebrei transalpini che hanno deciso di trasferirsi a vivere in Israele è in costante crescita e raggiungeranno la cifra di 5.100 ad agosto da inizio 2015. I dati sono stati diffusi dalle comunità locali e ripresi dai media di Gerusalemme. "Ci stiamo preparando ad una grande ondata di immigrati", ha commentato le cifre record il ministro dell'Assorbimento Zeev Elkin. Alla fine del 2015 - se l'andamento dovesse continuare su questi ritmi - è stato stimato che saranno 9.000, contro i complessivi 7.200 registrati in tutto il 2014.
   Il premier israeliano Benyamin Netanyahu, successivamente alle violenze subite dagli ebrei francesi in aumento negli ultimi mesi, li invitò a venire in Israele "casa loro", provocando una dura replica da parte del presidente transalpino Francois Hollande, che disse: "Gli ebrei hanno il loro posto in Europa, e in particolare in Francia", Paese che ha per loro "una grande considerazione".
   
(il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2015)


Milano - Challot al Memoriale, ricordando il deserto

 
Continua a Milano l'impegno concreto delle organizzazione ebraiche a favore dei migranti. Al Memoriale della Shoah, dove da qualche settimana sono ospitati giovani in prevalenza eritrei e siriani, era arrivato ieri un folto gruppo di ragazze, anch'esse in fuga da Eritrea e Somalia.
E oltre ai pasti cucinati e consegnati ogni sera dalla cucina sociale del Merkos, nell'ambito del progetto Beteavon, ieri sono arrivate le challot: rav Igal Hazan, che ha iniziato a parlare con le nuove arrivate in inglese ma è presto passato all'arabo, ha spiegato alle ragazze che la challah è il pane tradizionale dello Shabbat, e ricorda la manna nel deserto. Ha poi aggiunto: "Il Talmud ci insegna che è più importante come si offre che quanto si offre. Dare conforto e solidarietà umana è fondamentale, e la nostra scelta è di essere presenti, di persona." Tutti occupati i trenta letti allestiti nel Memoriale, a riprova di come sia necessaria l'assistenza organizzata rapidamente dalle organizzazioni ebraiche milanesi e gestita dai volontari della Comunità di Sant'Egidio, fra i soci fondatori del Memoriale, ma è prevista già per questa mattina presto la partenza dei migranti, con l'obiettivo di ricongiungersi con parenti e amici, anche in altri paesi.

(Chabad.Italia, 10 luglio 2015)


Eurobasket U20. Grecia-Israele 62-69

di Enrico d’Alesio

Partita dominata per 25 minuti da Israele, che però rischia di buttarla via. La tripla allo scadere del primo tempo di Naor Sharon consegna ad Israele un vantaggio di 16 punti del tutto meritato. La squadra ellenica spreme non più di 10 punti al minuto nel primo tempo, e non sono le percentuali di tiro a far difetto ma la capacità di prendere un qualsiasi tiro. Il duo di guardie titolari israeliane, Sharon e Segal, mette pressione e recupera palloni, impicca gli esterni greci e li obbliga a penetrazioni senza esito o a scarichi complicatissimi. A dar consistenza al vantaggio di Israele pensano anche due lunghi molto diversi per tipologia: il 2.04 molto mobile e atletico Segev, che pianta 4 schiacciate nei primi otto minuti di gioco, e a lui si aggiunge il più classico centrone Zalmanson, molto abile a prendersi falli e andare in lunetta. Negli ultimi 15 minuti cambia tutto, anche per una certa stanchezza dei ragazzi israeliani che giocano quasi senza cambi. I greci recuperano palloni e rimbalzi offensivi, mentre la paura entra nelle menti degli Israeliani. a meno di due minuti alla fine il tiratore greco Spyridonidis imbuca la tripla che porta la Grecia avanti di uno. Purtroppo per la loro bella rimonta, però, gli ellenici pedono 4 palloni consecutivi in attacco, che sono tutti capitalizzati dal solito e solido duo israeliano Sharon-Segal, che non fanno rimpiangere l'uscita per 5 falli di Segev.

(Baskettiamo, 9 luglio 2015)


Record di riserve in valuta estera per Israele

La Banca Centrale d'Israele ha acquistato nel mese di giugno 2 miliardi di dollari in valuta straniera, ma il NIS (New Israeli Shekel) continua ad apprezzarsi. Questo ha portato le riserve di valuta estera alla cifra record di 88,1 miliardi di dollari, che supera il dato di agosto 2014 quando il valore complessivo e' stato pari a 87.6 miliardi di dollari. L'incremento e' legato, fra le altre ragioni, al programma di acquisto di valuta per compensare gli effetti della produzione di gas naturale sul tasso di cambio, a transazioni del settore privato, ai trasferimenti governativi dall'estero e alla loro rivalutazione.

(Tribuna Economica, 9 luglio 2015)


Nucleare Iran, l'ira di Israele: "Sbagliate a fidarvi di Teheran"

Intervista al ministro della Difesa Moshe Yaalon: "Accordo non porterà nulla di buono alla regione". E si dice convinto che l'Is sarà sconfitto.

di Vincenzo Nigro

Moshe Yaalon, ministro della Difesa di Israele
ROMA - Moshe Yaalon, ministro della Difesa di Israele, numero due del Likud, è in Italia per 3 giorni. "Condividiamo valori e interessi comuni con l'Italia, soprattutto in una fase così caotica per il Medio Oriente, una fase che è una sfida per tutti noi, per l'Occidente considerando Israele parte di questa comunità. Pensiamo solo a questo problema dei jihadisti che arrivano in Europa o a quelli che dall'Europa partono per andare a combattere nella nostra regione. È un nuovo fenomeno per il quale c'è una forte collaborazione fra le nostre intelligence, fra i nostri sistemi di difesa. Con l'Italia nella Difesa c'è poi una collaborazione speciale, i nostri piloti si addestrano sugli M-346 dell'Alenia che abbiamo ricevuto, siamo molto soddisfatti. Tutti noi poi dobbiamo rispondere alla minaccia "cyber", un'area relativamente nuova, in cui Italia e Israele collaborano sempre più intensamente. Sono molto contento, spero lo siano le mie controparti italiane".

- Ministro, in queste ore il tema dominante è il vicinissimo accordo di Vienna sul nucleare con l'Iran. Perché voi continuate ad essere critici?
  
"Noi in Israele non siamo per nulla contenti di questo accordo, che non porterà nulla di buono alla regione. Bisogna intendersi innanzitutto sull'Iran e sul suo ruolo nella regione. Questo paese da anni è diventato non solo il primo esportatore di terrorismo, di destabilizzazione nella regione, ma soprattutto il primo sostenitore di una fazione, quella sciita, in uno scontro totale con i governi e gli stati che si rifanno ai sunniti. Dall'Iraq, allo Yemen, al Libano, al Bahrein i capi iraniani esportano il loro sostegno a movimenti terroristici, a milizie che contribuiscono a destabilizzare la regione".

- Ma questo cosa c'entra con un accordo che prevede che l'Iran congeli la sua ricerca nucleare, evitando di avvicinarsi a una bomba atomica?
  "Numero uno: è chiaro ormai a tutti che quello che gli iraniani hanno sviluppato in questi anni è un progetto nucleare militare. E questa è una conferma ulteriore che hanno mentito per anni alla comunità internazionale. Secondo: dobbiamo ancora vedere ancora i dettagli finali, e se possibile sembra che stiano peggiorando in queste ultime ore, ma di fatto da Vienna uscirà un Iran che immediatamente riceverà una infusione di miliardi di dollari alla sua economia, un paese che non sarà costretto a smantellare fino in fondo nessuna installazione nucleare, e che fra 10 anni potrà riprendere le sue ricerche. Visto il comportamento in passato del regime iraniano, se fra solo 5 anni decideranno che la loro economia è risalita al punto da poterselo permettere, gli iraniani ripartiranno appieno col programma nucleare militare e allora non ci saranno più sanzioni economiche o null'altro per poter evitare la bomba atomica iraniana. Nessuna centrifuga verrà distrutta, ci sono molti "buchi" nell'accordo, rispetto alla dimensione militare, rispetto alle ispezioni. Quello che gli iraniani vogliono sono riusciti ad ottenerlo. Avranno la piena capacità di rilanciare il progetto nucleare militare, non avranno un piano di ispezioni totali, avranno un sostegno economico che farà ripartire la loro economia. Molti, anche i nostri amici italiani, ci dicono che questo regime potrà essere più responsabile, potrà diventare parte della soluzione: noi siamo certi che sarà il contrario, loro sono il primo generatore di problema nella regione".

- Voi non vedete l'Is, o il Daesh come lo chiamate in Medio Oriente, come il vero pericolo nella regione?
  "Daesh è un nuovo fenomeno, pericolosissimo, ma Daesh prima o poi sarà sconfitto, l'Iran è una minaccia molto più seria. Ci sono molti stati arabi che non vogliono quest'egemonia iraniana. La contrasteranno, e gli iraniani esporteranno ancora di più destabilizzazione. In questa parte del mondo si è innescato un processo che porta a modifiche profonde: alcuni Stati non esistono più come gli Stati che conoscevamo, Iraq, Siria, Libia, in qualche modo anche il Libano. Abbiamo delle enclave settarie, conflitti settari e tribali, soprattutto fra sciiti e sunniti, ma poi fra fazioni e tribù all'interno di una regione in cui il Daesh vuole il dominio del Califfato, mentre gli sciiti iraniani voglio la prevalenza della loro setta, vogliono un mondo sciita. Daesh vuole un califfato subito, Al Qaeda vuole un califfato ma solo più avanti. Abbiamo nuove divisioni geopolitiche nella regione; da una parte gli Iran, gli sciiti, Hezbollah in Libano, gli houthi in Yemen, Assad in Siria, le minoranze sciite in Arabia Saudita. Poi c'è il gruppo di Turchia, Qatar, Hamas a Gaza, una alleanza con aspirazioni neo-ottomane. Il terzo campo, quello con cui possiamo condividere alcuni obiettivi, è il campo arabo-sunnita: Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Emirati, gli stati del Golfo, Tunisia, Marocco. Noi crediamo che Usa ed europei dovrebbero sostenere questo campo nella battaglia contro gli estremisti, contro il Daesh, contro i radicali".

- Ministro, lei crede che sia possibile stabilizzare Stati in cui le primavere arabe sembrano fallite?
  "Non c'è più possibilità di ricreare stati artificiali come Libia, Iraq, Siria, in qualche modo perfino il Libano. E' la storia della frittata: se l'hai fatta, non puoi più tornare alle uova. La frammentazione è irreversibile, e l'unico modo per stabilizzare la situazione in questi paesi è permettere a popolazioni omogenee di autogovernarsi nelle aree in cui sono rilevanti. Poi potranno creare federazioni, confederazioni, le forme che decideranno, ma questo è il processo da seguire. Un esempio: in Siria abbiamo già un Siria-Kurdistan nel Nord, abbiamo già un Alawitistan soprattutto lungo la costa, ma non credo che Damasco potrà farne parte pienamente, non credo che Assad riuscirà a controllare la città pienamente".

- Sembrava che Assad dovesse cadere in pochi mesi...
  "Damasco sarà contesa dai sunniti, siano Jabat al Nusra o Daesh. I sunniti sono la parte più complicata del puzzle siriano. Jabat Nusra e Free Sirian Army nel nord e nel Golan, Bashar Assad controlla il 25 per cento del territorio siriano, e poi c'è la presenza del Daesh. Non c'è modo per riportare le cose indietro, ricreare una Siria unica".

- La situazione a Gaza: voi collaborate molto col governo egiziano, ci sono voci anche sulla collaborazione fra Hamas e ISIS, anche se sul terreno i due gruppi sono rivali. Per questo avete avuto contatti con Hamas, visto che loro sembrano più "moderati" del califfato?
  "Ci sono quelli che credono che i terroristi di Fatah sono più moderati di quelli di Hamas, che quelli di Hamas sono più moderati di quelli di Al Qaeda, che questi ultimi sono più moderati di quelli del Daesh.... così tu puoi scegliere il terrorista più moderato che venga ad ucciderti... Noi combattiamo tutti i terroristi. Comunque, seguiamo quello che succede fra Daesh e Hamas nel Sinai. Sono rivali, hanno tattiche diverse. Il Daesh è figlio di una "instant generation", vogliono un Califfato immediato, adesso, subito, a differenza di altri gruppi terroristici. Ci sono elementi del Daesh a Gaza, elementi palestinesi che hanno scelto di sostenere il Daesh. Secondo un sondaggio il 10-12 % dei palestinesi a Gaza sostengono l'ideologia di Daesh. Hamas combatte questa tendenza, non vogliono che conquistino potere a Gaza. Ma parallelamente Hamas e Daesh combattono insieme nel Sinai: il nemico comune è l'Egitto. Soldi, armi, anche assistenza sanitaria ai combattenti Daesh negli ospedali di Hamas a Gaza: c'è rivalità e c'è collaborazione. Così va il Medio Oriente oggi".

- Quale deve essere la reazione dei paesi europei a questo "nuovo Medio Oriente". Crede davvero che un supporto incondizionato al regime egiziano sia la soluzione? Molti valutano che la repressione messa in atto dal generale Sissi in pochi anni creerà di nuovo le condizioni per una rivolta, per una sollevazione.
  "Quello che lei mi chiede adesso è uno dei punti cruciali per la strategia occidentale nella regione. Israele è l'unica democrazia. Gli altri paesi hanno bisogno di un'evoluzione politica che sarà lunga. Per agire oggi, i paesi occidentali devono avere una lista delle loro priorità, delle loro alternative, delle opzioni che hanno sul tavolo. Senza farsi illusioni. Quando si prova a democratizzare velocemente il Medio Oriente attraverso elezioni si compie un terribile errore. Ci sono gruppi, movimenti che non santificano la vita e la pace, ma che celebrano e ricercano la morte. Come puoi pensare di avviare un processo democratico con questi elementi? Parlare di diritti umani a chi non apprezza la vita umana. Bisogna educare quest'area alle democrazia. E' un processo molto lungo. Democrazia a Gaza? Il risultato è che Hamas uccide gli uomini di Fatah. In Egitto non c'è stato un golpe, c'è stata una sollevazione popolare contro chi voleva imporre la sharia in maniera assolutista, Sisi è venuto fuori per guidare questa sollevazione. Bisogna riconoscere la realtà e comportarsi di conseguenza. Chi combatte il radicalismo, il terrorismo deve essere sostenuto. Questa è l'alternativa che abbiamo. E, ripeto, l'Iran secondo noi è la prima priorità. Daesh è la seconda minaccia, non la prima, Daesh può essere sconfitto. Se tutti quelli che vedono Daesh come un nemico sono pronti a collaborare militarmente ed economicamente ci sarà successo. E allora mi chiedo: la Turchia compra petrolio dal Daesh, permette ai jihadisti di entrare nei territori del Daesh. Eppure è un paese della Nato. Qual è la loro politica, quali sono le loro priorità? Sono diverse dagli altri paesi? Prendete invece la Russia: possono collaborare con noi, perché hanno una posizione molto chiara sul terrorismo islamista".

- Processo di pace con i palestinesi: per molti adesso è diventato marginale, ma Israele può sopravvivere a lungo come una democrazia di qualità continuando con l'occupazione militare dei territori?
  "Sfortunatamente il conflitto israelo-palestinese è influenzato da molti malintesi. Innanzitutto è sempre più chiaro che questo conflitto non è la maggior causa di instabilità in Medio Oriente. C'è ancora chi lo crede, è un non-senso. Le rivoluzioni in Tunisia oppure in Libia non hanno nessuna relazione con questo fattore. Quindi: per cortesia smettetela di dirci che questa è la causa della instabilità della regione".

- Ma nessuno di seriamente responsabile pensa questo. La domanda è un'altra: non crede sia necessario trovare un accordo con i palestinesi per difendere la stessa solidità della democrazia in Israele?
  "Io ho sostenuto gli accordi di Oslo, fra i responsabili dell'intelligence ai tempi di Rabin questa era la mia posizione. Ma oggi devo dire che il vero conflitto fra noi e la dirigenza palestinese che è dopo Arafat, con Abu Mazen o con chiunque altro, non è stato possibile ancora avere quello che noi chiediamo: il riconoscimento di uno stato ebraico all'interno dei confini di Israele. Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno provato due volte a far convergere le parti. E' sempre stato Abu Mazen a rifiutare il passo decisivo: riconoscere Israele. Noi in Israele, e le dico anche noi del Likud, non vogliamo governare i palestinesi, non vogliamo occupare i loro territori. Ma vogliamo garanzie di sopravvivenza. Che nessuno fra i palestinesi vuole concederci seriamente. Questa è la drammatica verità".

(la Repubblica, 9 luglio 2015)


«Quei miliardi di euro regalati dall'UE ai palestinesi»

Lettera al Foglio

Al Direttore - Ripensandoci meglio, forse qualcosa di buono può uscire dal "no" greco. Nel dicembre 2013, la Corte dei Conti europea rilasciò un importantissimo rapporto, che non si filò quasi nessuno (e mi sono sempre chiesta perché il M5S non ne facesse un suo cavallo di battaglia). Il succo: dal 1994, l'Unione europea ha fornito assistenza per oltre 5,6 miliardi di euro al popolo palestinese, senza un reale monitoraggio di come venissero impiegati questi soldi.
   "Il sostegno finanziario diretto dell'Ue all'Autorità palestinese - si legge nel rapporto - deve essere rivisto", cosa che ovviamente da allora nessuno si è preso la briga di fare. Ora, se la Grexit avverrà, è ovvio che l'Ue, per liberarsi dai suoi eterni sensi di colpa post bellici, passerà alla forma degli aiuti umanitari (lo dice già Schulz, che purtroppo non è uno qualsiasi, ma il presidente del Parlamento europeo: "Saranno necessari immediati aiuti umanitari"). Quindi, se ciò accadrà, ecco il risvolto positivo (o meglio wishful thinking): sarà la volta buona che il contribuente europeo comincerà a chiedere una seria rendicontazione dello sperpero di soldi pubblici in aiuti umanitari elargiti dall'Ue a destra e a manca da decenni? Ovviamente la risposta è no, ma volevo chiudere con un cenno positivo questa prova generale di una "Notte dei lunghi coltelli" rivisitata in chiave moderna.
Sharon Nizza

(Il Foglio, 9 luglio 2015)


Al Parlamento Europeo la prima conferenza dedicata ai sopravvissuti della Shoah

Martedì 31 Giugno il Parlamento Europeo di Bruxelles ha ospitato il seminario "Vivere con dignità" dedicato alle esperienze e alle condizioni dei sopravvissuti alla Shoah ancora in vita e alla restituzione dei beni confiscati dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. A condurre l'evento è stato l'eurodeputato olandese Bastiaan Belder, vice direttore della delegazione per i rapporti con Israele dell'UE e grande sostenitore della battaglia contro l'antisemitismo in Europa....

(Progetto Dreyfus, 9 luglio 2015)


"Io con il saio attraverso la Siria, fra i villaggi cristiani cancellati"

Intervista a Pierbattista Pizzaballa

dii Maurizio Molinari

 
Una chiesa in Siria data alle fiammo dallo stato islamico
- Brucia una chiesa in Siria: il terrorismo islamico colpisce alcune tra le più antiche comunità cristiane
  "Davanti al Male ci si sente impotenti». Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, racconta la sua visita fra i cristiani in Siria come un viaggio nell'Apocalisse. La sua voce si interrompe quando parla delle croci smontate nella valle dell'Oronte in mano ad Al Nusra o del possibile sequestro del frate Dhiya Aziz.

- Dove è statoin Siria e cosa ha trovato?
«Sono entrato a Nord con la prima tappa a Latakia, sulla costa, dove il maggior problema sono i black out elettrici. Ho raggiunto Homs, completamente devastata, e poi Aleppo, dove si vive sotto le bombe. Ultima tappa Damasco, che è una via di mezzo fra Latakia e Aleppo: al centro il problema è la corrente mentre nelle periferie c'è distruzione. La Siria che conoscevo non c'è più. Davanti a tanto male, orrore, odio, morte ho provato un senso di impotenza».

- È andato ovunque con indosso il saio?
  "Non l'ho mai tolto».

- Cosa le hanno detto i cristiani di Aleppo?
  "Prima della guerra erano 300 mila, ne sono rimasti 40 mila. Sono andato nelle case, li ho trovati con le valigie pronte per partire. Molti vogliono andarsene, in città i bombardamenti sono incessanti. Hanno imparato a riconoscere le esplosioni, sanno se sono del governo o dei ribelli. Quando ci sono stragi, cristiani e musulmani contano solo i propri morti, non quelli altrui. Anche pregando in chiesa si sentono le bombe. I più sono assuefatti ma c'è chi tradisce tic nervosi. Manca cibo, sono in povertà, le madri nascondono gli acciacchi ai figli. C'è incertezza su ciò che avverrà. Ma c'è anche chi aiuta il prossimo, spostando gli ospiti di una casa per anziani per farli stare in luoghi sicuri».

- Cosa avverrà se la città cadrà nella mani jihadiste?
  "Ne discutono, in continuazione. Tutti sanno cosa avviene in Iraq, dove i cristiani a Nord di Baghdad non ci sono più. L'opinione prevalente è aspettare e vedere cosa accadrà prima di decidere. Ma molti temono il peggio e vogliono andare via».

- Chi fugge dove va?
  "A Latakia, dove ci sono migliaia di cristiani sfollati. Chi lascia Damasco fa lo stesso. Ma a Latakia mancano lavoro e case, devono trovare le scuole per i figli, rimediare cibo per sfamare le famiglie, vivono nella precarietà, esposti a seri rischi».

- Cosa ha detto ai religiosi?
  "Li ho ascoltati. Sanno bene cosa fare. Il loro compito è essere pastori, restare con il gregge. Se si tratta di andare via, bisogna essere gli ultimi a farlo ma senza rischiare la vita».

- Quanti frati ci sono in Siria?
  "Quindici, incluso Dhiya Aziz del villaggio di Yacoubieh nella valle dell'Oronte. Non sappiamo più dove sia, da sabato scorso, quando l'Emiro locale lo ha convocato. È un'area dove c'erano tre villaggi cristiani, uno è stato completamente distrutto, ne restano due».

- Cosa è avvenuto a padre Aziz?
  "Ci parlavo al telefono quando andava con la sim turca vicino al confine. Mi disse di aver parlato con l'Emiro, che gli aveva detto "togli tutti i simboli cristiani perché è meglio per te". Aziz lo aveva fatto, è persona prudente. Abbiamo chiesto aiuto a più Paesi, inclusa la Turchia, per riuscire a capire dove si trovi».

- Chi è questo «Emiro» e come si comporta con i cristiani?
  "È iracheno, o ceceno, e in passato è stato in Egitto. Rappresenta Al Nusra (Al Qaeda in Siria) che occupa questi villaggi da maggio. Li ritiene strategici perché sono sulla strada che porta al confine turco. Al Nusra è diversa da Daesh (acronimo arabo di Isis, ndt). Sotto Daesh i cristiani non possono rimanere, con Al Nusra i diritti sono solo dei musulmani ma i cristiani sono tollerati».

- Cosa chiedono gli «Emiri» di Al Nusra ai cristiani?
  "Al Nusra non segna le case né impone tasse di sottomissione. Sono meno rigidi e più affaristi. Chiedono ai cristiani di togliere le immagini religiose e di non usare il vino nelle messe».

- Ciò significa che i frati devono togliere le croci dalle chiese?
  "I frati dei villaggi hanno tolto le croci dalle chiese. Così come i cristiani hanno dovuto levare croci, statue e immagini religiose, di qualsiasi tipo anche dalle case private. I contadini sono ingegnosi: le hanno coperte con veli di gesso. Le statue sono riposte al chiuso. Al Nusra aveva impedito ai contadini di lavorare nei campi ma ora glielo permette. Negli incontri con l'"Emiro" il religioso non parla di fede ma solo dei fedeli, di ciò di cui hanno bisogno. La pressione psicologica è forte».

- Cosa ha provato immergendosi in questa realtà?
  "È la fine di un'epoca, assomiglia alla Prima guerra mondiale per l'Europa. Non è una crisi di passaggio. Il Cristianesimo in questa regione è già stato più volte potato ma non è mai finito del tutto. Sarà così anche adesso. Mi sento impotente davanti al Male assoluto: per quanto ci sforziamo non siamo padroni della nostra Storia. Ma in questo mare vedo tanti giovani, solidi. Finché ci sono persone così non è tutto perduto».

- I cristiani della regione come vivono quanto avviene in Siria?
  "In Giordania e Libano si chiedono "Avverrà anche qui?". C'è pathos collettivo, incertezza su coloro di cui ci si può fidare. La Chiesa deve stare con i fedeli, bisogna rispettare chi resta e chi parte. E pensare al dopo, anche se ora è presto per farlo».

(La Stampa, 9 luglio 2015)


Borsa di studio: La pace si impara anche in Israele

L'Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam ha scelto di intitolare una borsa di studio a nome di Franca Ciccolo, anima dell'Associazione sin dalla sua nascita, per poter offrire a un giovane studente italiano l'opportunità di spendere un periodo di tirocinio formativo di tre mesi al Villaggio di
Neve Shalom Wahat al-Salam.
NSWAS è la sola comunità in Israele in cui ebrei e palestinesi, tutti di cittadinanza israeliana, hanno scelto di vivere insieme in equità e giustizia e dove esistono alcune istituzioni educative di grande importanza come la scuola primaria bilingue e binazionale e la Scuola per la pace. Lo studente avrà modo di conoscere da vicino il Villaggio vivendo insieme ai volontari, di studiarne la struttura e le istituzioni educative, di coglierne il valore all'interno del contesto geopolitico più ampio in cui si situa.

(quiBrescia.it, 9 luglio 2015)


Hanno già provato a fondare una simile «oasi di pace» con popolazione mista anche nei territori dell'Autorità Palestinese?


Ambasciatore dell'Autorità Palestinese: "Non esiste nessun popolo ebraico"

E cita il falso antisemita "Protocolli dei Savi di Sion" come prova autentica del perfido complotto mondiale degli ebrei.

Nel corso di una conferenza sulla pace fra israeliani e palestinesi tenutasi a Santiago del Cile presso la "Gran Logia" massonica lo scorso 15 maggio, l'ambasciatore palestinese Imad Nabil Jadaa ha citato il notorio falso antisemita di epoca zarista Protocolli dei Savi di Sion come prova che il sionismo è stato inventato per celare il complotto ebraico volto a dominare il mondo.
Parlando in spagnolo, il rappresentante dell'Autorità Palestinese ha affermato inoltre che "non esiste nessun popolo ebraico" e che i palestinesi non riconoscono l'esistenza di un popolo ebraico.
Una videoregistrazione del discorso di Imad Nabil Jadaa con sottotitoli in inglese è stata diffusa di recente da ISGAP (Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy)....

(israele.net, 9 luglio 2015)


Expo: Israele premia una startup italiana per guanto sordociechi

Guanto per sordociechi creato da due pugliesi

MILANO Due trentenni pugliesi hanno vinto a Expo il premio 'Start Tel Aviv', concorso per startupper organizzato dal Ministero degli Esteri israeliano, Google Israel, la città di Tel Aviv e Campus Tel Aviv. Nicholas Caporusso e Gianluca Lattanzi, fondatori della Intact, hanno inventato il DbGlove, un guanto che permette a persone con disabilità, in particolare sordo-ciechi, di poter interagire col mondo esterno, grazie a un guanto in grado di comunicare, tramite smartphone. "Intact si occupa di trovare soluzioni hardware e software per migliorare condizioni di vita di diversamente abili, anziani e persone malate - ha spiegato Caporusso -. E' un settore meno profittevole, ma che ha un forte impatto sulla vita delle persone. Nel mondo ci sono 1 milione e mezzo di sordociechi, e 150 milioni di persone che hanno deficit. I linguaggi come il braille possono essere difficili da imparare. DbGlove permette di avere una comunicazione bidirezionale anche con chi non conosce linguaggi alternativi".
   Il dispositivo è due volte più facile e veloce da imparare rispetto al braille, ed è 12 volte più economico rispetto ad altre tecnologie su mercato. E' il risultato di un lavoro durato 10 anni, iniziato quando Nicholas, oggi 34enne, stava ancora studiando. "Fino al 2013 però non avevamo le risorse per realizzarlo - ha raccontato -. Grazie al bando 'Valore assoluto' della Camera di Commercio di Bari, abbiamo raccolto 110 mila euro, che ci hanno permesso di sviluppare DbGlove a livello prototipale". Da allora i premi si sono susseguiti uno dopo l'altro: nell'ultimo anno "abbiamo raccolto un premio dell'Application Developers Alliance di Berlino, un premio del governo inglese, e 50 mila euro grazie al bando GoBeyond di Sisal Pay. Ora possiamo realizzare il prodotto".
   Intact è stato premiato dall'ambasciatore israeliano in Italia, Naor Gilon, e dal vicedirettore di La Stampa ed ex direttore di Wired, Massimo Russo. Il premio consiste in un viaggio a Tel Aviv dal 6 al 10 Settembre 2015, dove Intact rappresenterà l'Italia, insieme alle startup di altri 22 Paesi. Israele e Tel Aviv sono leader nell'innovazione. La città è stata definita il 'tech hub' leader d'Europa dal Wall Street Journal, ed è stata classificata da Startup Genome al secondo posto nel ranking tra le città più favorevoli per l'apertura di startup.

(ANSA, 8 luglio 2015)


«Grazie ai miei fratelli ebrei che mi hanno curata bene»

Lettera a Paolo Conti
    Caro Conti,
    mi chiamo Anna Maria Proietti Cecchi, ho 63 anni, vivo ad Ostia. Vengo da un'umile famiglia di pescatori da tante generazioni, anche mio figlio lo è. Scrivo questa lettera sui fogli di un quaderno per dire grazie ai medici, agli infermieri, agli addetti delle pulizie dell'ospedale israelitico di via Fulda, dove sono stata ricoverata per tre volte per problemi di pressione altissima. Non credevo di potere essere curata così bene, neanche in una clinica! Grazie ai medici competenti, seri, ma sempre gentili e sorridenti e... pazienti, Yoram, Murgiano, Perna e Braghitta. E così tutti, infermieri e uomini e donne delle pulizie. Sapete cosa conta di più per un paziente? Il tono della voce... mia mamma diceva sempre: cambia il tono, cambia il rapporto. E' proprio vero. Grazie ai miei fratelli ebrei che mia madre ci ha insegnato a conoscere e rispettare. Abbiamo pregato con loro anche se non capivamo le parole. Mi sono sempre trovata bene con i miei fratelli ebrei, educati, gentili, sorridenti. Volevo scriverlo sui muri vicino agli insulti e alle ingiurie che chi non sa e non capisce scrive di voi... Ora sono riuscita a scriverlo in questa lettera e sto meglio. Grazie ancora.
    Anna Maria Proietti Cecchi
Grazie per questa splendida lettera, soprattutto per la parte finale. C'è chi continua a offendere Roma con farneticanti scritte antisemite. Una testimonianza come la sua le cancella tutte in un colpo. Siamo fratelli, e lei dimostra che non è retorica.

(Corriere della Sera - Roma, 7 luglio 2015)


Atomica all'Iran, manca soltanto la firma

A un passo dalla firma che darà all'Iran la bomba atomica. Ultimo atto della fallimentare politica di Obama in Medio Oriente: Teheran avrà il nucleare e terrà lontani gli ispettori.

di Carlo Panella

Fiato sospeso a Vienna, fino all'ultimo, ma è probabile - non certo: probabile - che giovedì Usa e Iran firmeranno uno «storico accordo» sul nucleare. E sarà un pessimo accordo. Le ragioni di questa firma sono chiarissime: Barack Obama, sin dal momento della sua elezione ha puntato tutte le sue fiches solo e unicamente su questa opzione. Tutta la sua disastrosa «non politica» in Medio Oriente, inclusa la mancata risposta al Califfato Nero, ha infatti questa spiegazione: ritirando completamente gli Stati Uniti dal Medio Oriente, Obama si è ritagliato il ruolo di un player distante e non coinvolto in nessun conflitto, teso solo a chiudere la pagina nera, l'inizio della decadenza imperiale degli Stati Uniti, iniziata con la rivoluzione iraniana guidata dall'ayatollah Khomeini e poi proseguita con l'umiliante presa degli ostaggi nell'ambasciata Usa di Teheran. Per ottenere questo risultato, Obama ha seguito pervicacemente l'unica strada possibile con interlocutori come gli iraniani: ha calato le braghe, per usare un termine poco accademico, ma aderente ai fatti.
   L'accordo che si delinea infatti non impedirà affatto all'Iran di dotarsi di una bomba atomica, non permetterà agli ispettori dell'Aiea di verificare se nei siti militari (quelli in cui si raffina l'uranio per l'atomica, nel progetto «111»), guidati dal grande scienziato e ufficiale dei pasdaran Mohsen Fakhrizadeh si avanza verso la bomba atomica; non bloccherà la costruzione di missili intercontinentali iraniani, che hanno senso solo se armati di bomba atomica. In cambio, però, l'accordo toglierà il ricatto delle sanzioni economiche, permetterà all'Iran di esportare più petrolio e - forse - persino di poter acquistare armi dall'estero (Italia inclusa).
   Dunque, quell'accordo - se sarà firmato - sarà effettivamente «storico», ma in un senso drammaticamente opposto a quello che ipotizza l'irresponsabile Obama. Il senso evidente di quella firma sarà solo che «il delitto paga». L'Iran infatti non verrà penalizzato - anzi, verrà premiato - per avere destabilizzato il Medio Oriente: per aver garantito con migliaia di Pasdaran la sopravvivenza di Beshar al Assad; per aver spinto il governo di Baghdad a fare una politica settaria, violentemente anti sunnita, spingendo così le tribù arabe - e sunnite - dell'Iraq a buttarsi nelle braccia del Califfo nero; per aver innescato la rivolta degli Houti sciiti dello Yemen innescando una guerra civile; per aver regalato a Hamas i missili e l'addestramento militare per colpire Israele e infine per aver destabilizzato a morte il Libano tramite Hezbollah. D'ora in poi, potrà farlo con ancora più determinazione, con l'aura del primo paese musulmano che ha piegato «Il Grande Satana» americano a firmare un accordo burla. E che tale sia il pezzo di carta che si firmerà a Vienna l'ha ammesso lo stesso capo della Cia John Brennan che un mese fa è volato da Bibi Netanyhau per spiegargli che deve fidarsi della Cia che sarà in grado di spiare i progressi illeciti dell'Iran verso l'atomica, che sicuramente sfuggiranno alle ispezioni dell'Aiea previste dall'accordo di Vienna. Netanyhau, naturalmente ha mandato Brennan a quel paese e si appresta all'unica risposta possibile a fronte di tale follia americana: fare asse con l'Arabia Saudita, con l'Egitto e con la Giordania per costruire una «trincea» che intervenga militarmente sull'Iran non appena sarà evidente che la costruzione dell'atomica è imminente. Da parte sua, l'Arabia Saudita, ha accelerato una decisione già annunziata: compra centrali atomiche dalla Russia e cerca di farsi dare al più presto bombe atomiche dal Pakistan (che ha costruito le sue bombe, appunto, grazie a generosi finanziamenti di Ryad).
   Dunque, l'accordo di Vienna, destabilizzerà in modo parossistico il Medio Oriente. Ma c'è da scommettere che anche in Italia si brinderà per i contratti miliardari che l'Iran firmerà con le nostre grandi aziende e anche per il probabile ribasso del petrolio. La quiete prima della tempesta.
   
(Libero, 8 luglio 2015)


"Lupi solitari, fatevi branco": l'Isis incita ad attaccare Roma

Il manuale dello stato islamico: un ebook per istruire i terroristi.

di Maurizio Molinari.

 
«Trasformatevi da lupi solitari in gang»: è l'ordine dello Stato Islamico (Isis) ai jihadisti in Occidente contenuto in un ebook disseminato di consigli pratici su come portare la guerriglia nei centri urbani e la conclusione è dedicata all'assalto all'Italia. Ecco una sintesi di «Muslim Gangs», ottenuto dal website «Site».
  «Gang in arabo si dice Usbah, significa essere legati dalla forza». Per crearne una «bisogna essere fedeli come fratelli» e avere «l'obiettivo» di «imporre la guida di Allah sulla Terra». «Serve un leader carismatico» che vive «nel quartiere dove è nato e di cui la gente si fida» perché «proietta potere» ottenendo «la simpatia degli abitanti, garantendogli sicurezza, servizi e lavoro» e ricevendo in cambio «lealtà e tasse».

 La propaganda
  «Per trasformarsi da lupi solitari in gang bisogna scegliere il proprio obiettivo: fare propaganda o attività militari». Per propaganda si intende «incoraggiare la vostra comunità musulmana alla beneficenza in loco, non all'estero». «Immaginate di essere attaccati dai neonazisti e chiedevi cosa serve»: lezioni di pronto soccorso, tecniche di autodifesa. «Dovete conquistare cuori e menti della vostra comunità». «Aprite delle Dawah» per informare sull'Islam e per attirare la gente, «offrite cibo». Così «rimuoverete dai musulmani il timore per la polizia».
  La strategia è la «Tawwahhush» ovvero «isolare i musulmani dal resto della società» per «evitare interferenze» e «non avere pietà per gli estranei». A tal fine è importante «reclutare bambini e adolescenti».

 Attività militari
  Servono «soldi, armi e rifugi». Si inizia «con piccole cellule dentro la gang, formate da persone fidate». Per ottenere fondi le scelte suggerite sono «rapine in gioiellerie», «frodi con le carte di credito» e «far esplodere i bancomat». Poi ci sono le «bombe fatte in casa»: il suggerimento è di confezionarle in «lattine» e «pentole» riempiendole «di esplosivo e schegge» usando cellulari come detonatori. Infine, le istruzioni per autobombe e attacchi «con auto in corsa come fanno i palestinesi in Israele» ma «rinforzandole davanti con metalli» per riuscire a causare più vittime fra i passanti.
  La previsione è che «la politica dell'Occidente favorirà l'estrema destra» portando a «scontri coi neonazisti» che favoriranno il «reclutamento». L'obiettivo militare è «creare corridori terrestri per collegarsi con i musulmani dei Paesi vicini». L'esempio fatto è l'Italia. «Entreremo in Italia da Nord, convergeranno i musulmani inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi e scandinavi. E da Est i bosniaci, albanesi e kosovari. Così raggiungeremo Roma».

(La Stampa, 8 luglio 2015)


Dieci anni dopo la strage multiculti di Londra

Noi siamo sempre più stanchi e gli islamisti sempre più impassibili

di Giulio Meotti

Londra ha pianto morti e mutilati nel decimo anniversario del-la strage del 7 luglio 2005. Cinquantasei vittime per mano di kamikaze con certificato di nascita di Luton, Bradford, Manchester. Alcuni giorni fa, in una spiaggia sul Mediterraneo, il jihad è tornato a uccidere trenta inglesi. Ma a dieci anni di distanza - è la tesi di alcuni osservatori - "they still don't get it". Non abbiamo capito che il terrore che colpi la metropoli era una guerra, non l'ipotesi di pochi fanatici, ma la vocazione dei migliori dell'integrazione, ragazzi e ragazze musulmani che hanno frequentato la Foremarke Hall di Repton che annovera tra i suoi ex allievi scrittori come Christopher Isherwood e arcivescovi di Canterbury. Ragazzi e ragazze che ascoltavano i Coldplay, volevano cambiare il mondo e si facevano fotografare con i ministri (come Reyaad Khan, uno dei capi della cellula inglese agli ordini del Califfo). Una cifra? Viene da Shiraz Maher, dell'International Center for the Study of Radicalisation: "Ci sono più musulmani inglesi nelle file dell'Isis che nelle Forze armate britanniche". L'occidente, Inghilterra in testa, dieci anni fa portò la guerra nel cuore del medio oriente e mentre a Londra venivano attaccati bus e metro, a Baghdad i terroristi assassinavano l'ambasciatore egiziano. Dieci anni dopo, siamo in ritirata e la menzogna è diventata luogo comune con le parole dell'allora ambasciatore inglese a Roma, Sir Ivor Roberts: "Bush è il più efficiente reclutatore di al Qaida".
  Dieci anni Tony Blair nominò consulente Tariq Ramadan, il fratello dalla lingua biforcuta. Dieci anni dopo, David Cameron chi ha preso come consulente? Tariq Ramadan. Perché non si è capito che il retroterra del jihad è il multiculturalismo, questo giardino delle delizie con cento corti della sharia su cui noi non mettiamo il becco per paura di scorrettezza ideologica, dove ferve la sottomissione all'unico Dio e dove i terroristi islamici sono o giustificati o negati. A dieci anni dai botti di King's Cross ripetiamo lo stesso copione con lo stesso spin blairista per coprire lo stesso buco dell'appeasement tramite lo stesso gioco di specchi: nascondiamo le immagini del dolore per non spaventare la gente; nascondiamo che gli attentatori, vecchi e nuovi, sono insider; siamo prigionieri delle nostre libertà ma proclamiamo che non cambieremo "stile di vita"; mascheriamo sotto le insegne del diritto la rinuncia a batterci; censuriamo i criteri fondativi della nostra civiltà. Samuel Johnson una volta ha detto che chi è stanco di Londra è stanco della vita. Dieci anni dopo, non è che noi siamo sempre più stanchi e loro sempre più impassibili? Intanto, da dieci anni, arrivano in aereo, in treno o in bus, ci fanno saltare in aria mentre ci ripetono che amano la morte più di quanto noi amiamo la vita.

(Il Foglio, 8 luglio 2015)


Israele, in mostra la sfida dell'acqua

Dal 6 al 13 luglio gli scatti dell'artista Norma Picciotto

MILANO - Invitano alla riflessione sulla difficile sfida dell'umanità per il reperimento dell'acqua le immagini dell'artista milanese Norma Picciotto, in mostra dal 6 al 13 luglio al Padiglione di Israele a Expo. In 'Riproducetevi e moltiplicatevi' una inedita serie di 12 immagini, rielaborazioni digitali di scatti fotografici, c'è la visione dell'artista di un mondo di pace in cui "la guerra per l'acqua" non ha motivo di esistere. Alberi, fiori e persone di culture diverse vivono grazie all'acqua del mare nella quale sono immersi e da cui traggono vitalità. La mostra invita a riflettere sulle sfide del futuro: l'umanità dovrà fare ricorso a tutta la sua creatività per trovare soluzioni alla carenze idriche, anche attraverso la tecnologia applicata alla depurazione e desalinizzazione dell'acqua del mare. Utilizzare l'acqua degli oceani per nutrirsi, riprodursi e prosperare diventa la realizzazione di un sogno visionario, inimmaginabile fino a poco tempo fa.

(ANSA, 7 luglio 2015)


Ryanair annuncia i primi voli per Israele: da novembre per Eliat

A partire da novembre tre collegamenti per Eliat, località balneare

GERUSALEMME - La compagnia aerea lowcost Ryanair ha annunciato il lancio dei primi voli diretti in Israele, con la località balneare di Eilat che sarà raggiungibile dall'Europa a partire da novembre. "Ryanair è lieta di annunciare il suo ingresso sul mercato israeliano, il nostro 31esimo Paese, a partire da novembre 2015, con tre collegamenti da Eilat Ovda verso Budapest, Kaunas (Lituania) e Cracovia, che trasporteranno circa 40mila passeggeri l'anno", ha dichiarato il direttore commerciale della compagnia a basso costo irlandese, David O'Brien.
Eilat è una località balneare sul Mar Rosso molto popolare tra i vacanzieri, in particolare i subacquei. Sarà complessivamente servita da sei voli settimanali. Ryanair ha indicato che continuerà a negoziare con le autorità israeliane per sviluppare nuove rotto nel Paese. La compagnia aerea serve esclusivamente destinazioni di corto e medio raggio, in Europa ma anche verso il Marocco e le Canarie. La sua grande rivale britannica Easyjet vola già su Israele, con rotte verso Tel Aviv.

(Quotidiano.net, 7 luglio 2015)


L'Autorità palestinese avverte Hamas: no ad attacchi terroristici in Cisgiordania

GERUSALEMME - L'Autorità palestinese ha messo in guardia Hamas dal lanciare attacchi terroristici contro i membri delle forze di sicurezza palestinesi in Cisgiordania. L'avvertimento - riferisce la "Jerusalem Post" - è giunto ieri in risposta alle minacce pronunciate dal leader di Hamas negli ultimi giorni, e a seguito dell'arresto di più di 120 membri di Hamas in Cisgiordania da parte delle forze di sicurezza dell'Ap in soli quattro giorni. Il generale Adnan Dmeiri, portavoce delle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese, ha avvertito che Hamas fronteggerà "l'impensabile" se oserà sferrare attacchi terroristici contro Fatah. L'Ap ha giustificato gli arresti dei sostenitori di Hamas accusando il movimento islamico di lavorare per minare la stabilità nel territorio occupato e seminare il caos. Il giro di vite dell'Ap contro Hamas è il più vasto vissuto dalla Cisgiordania negli ultimi anni.

(Agenzia Nova, 7 luglio 2015)


Il ministro degli Esteri greco: occorre rafforzare la cooperazione della Grecia con Israele

Il ministro degli Esteri greco Kotzias e il primo ministro israeliano Netanyahu
ATENE - Il ministro degli Esteri greco Nikos Kotzias, in visita in Israele, e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno ribadito l'impegno reciproco a rafforzare i legami bilaterali. Lo riporta il quotidiano ellenico "Kathimerini" riferendo che Kotzias ha anche sottolineato l'importanza di rafforzare la cooperazione per salvaguardare la sicurezza e la stabilità nella regione. L'esponente greco ha detto di aver parlato con diversi funzionari israeliani di energia, aggiungendo che "non vede l'ora di sviluppare molti progetti comuni, non solo per la nostra generazione ma anche per le prossime. Secondo Kotzias è importante rafforzare le relazioni tra Israele, Cipro e Grecia per contribuire alla stabilità dell'area in vista dei colloqui trilaterali attesi nel prossimo autunno.

(Agenzia Nova, 7 luglio 2015)


Ritrovato in una casa il messaggio di una coppia ebrea deportata

Il proprietario della casa ha detto di non aver ancora rintracciato la coppia, ma di essere interessato ad entrare in contatto con i loro familiari per trasmettere il messaggio.

«Il Signore abbia pietà del popolo ebraico»: è l'ultima invocazione, prima di essere deportati, scritta a matita nel 1942 da una coppia di ebrei di Amsterdam sulla parete di una casa nella cittadina di Bilthoven in Olanda.
A trovarla ad oltre 70 anni di distanza è stato - secondo il sito israeliano Nrg (Maariv) - il proprietario della casa, Yale Captan, dopo aver fatto dei lavori di restauro dell'edificio. Oltre alla preghiera - scritta sotto il pannello della struttura di una porta da Levi Site ed Ester Zilberstein - c'è anche la richiesta che chiunque trovi il messaggio si metta in contatto con i parenti dei due a guerra finita. Captan - secondo il Nrg - ha detto di non aver ancora rintracciato la coppia, ma di essere interessato nell'entrare in contatto con i loro familiari per trasmettere il messaggio come richiesto dalla scritta.

(globalist, 7 luglio 2015)


Una vacanza a Tel Aviv? Puoi partire da Venezia

La compagnia lowcost Volotea lancia la nuova tratta dalla Laguna e punta anche ai turisti trevigiani

VENEZIA - I Boeing 717 di Volotea sono pronti a decollare verso un'estate ricca di novità: prenderà infatti il via domani, mercoledì 8, la nuova rotta Venezia-Tel Aviv, mentre ripartiranno sabato 25 luglio i voli alla volta di Salonicco. Le due tratte vanno ad aggiungersi a quelle ripartite nei giorni scorsi: Kos, Preveza, Rodi e Zante, altra novità dell'estate Volotea disponibile dal 2 luglio. Salgono così a 32 le destinazioni collegate da Volotea al Marco Polo.
"Siamo felici di poter raggiungere dalla nostra base operativa di Venezia un network di destinazioni sempre più ricco", commenta Carlo Muñoz, presidente e fondatore di Volotea, "E' proprio per soddisfare le esigenze di viaggio più diverse che abbiamo introdotto i nuovi collegamenti con Tel Aviv: se da un lato la cultura di questa città saprà affascinare gli appassionati di storia, dall'altro la vivacità della vita notturna garantirà il massimo divertimento anche ai viaggiatori più giovani".

(la tribuna di Treviso, 7 luglio 2015)


Terrorismo, petrolio e Iran. Israele e Arabia quasi alleati

Il principe AI- Walid prepara una visita a Gerusalemme che apra la strada ad accordi Riad vuole anche evitare la concorrenza dei giacimenti scoperti nello Stato ebraico.

di Michael Sfaradi

 
Il principe saudita Al-Walid bin Talal
Il principe saudita Al-Walid bin Talal oltre ad essere uno degli uomini più ricchi del mondo è anche imparentato con gli Al Saud la famiglia reggente dell'Arabia Saudita. Anche se non ha alcun incarico politico e vive a Londra gode comunque di ottimi contatti con chi detiene il potere, e i suoi consigli vengono ascoltati a corte. In nessun luogo come in medioriente la famiglia, anche allargata, è una cosa importante. Al Walid già in passato si era reso protagonista di alcune esternazioni decisamente contro corrente affermando che il Medioriente avrebbe potuto diventare più pacifico solo dopo che il mondo arabo avesse rivisto la sua politica nei confronti di Israele. Queste dichiarazioni, spesso ignorate dai grandi mezzi di comunicazione sia occidentali che arabi, avevano poi avuto blande smentite di facciata che non sono mai riuscite a togliere la sensazione che il principe fosse il portavoce di una nuova scuola di pensiero che stava sempre più prendendo piede nel mondo sunnita, prova ne è l'alleanza anti Isis fra Egitto e Israele.
   Al-Walid bin Talal è tornato nei giorni scorsi agli onori della cronaca a causa di diverse voci di corridoio riportate dal Jerusalem Post, dal Times of Israel e da varie agenzie di stampa, secondo le quali il principe avrebbe in programma un viaggio di sette giorni in Israele durante il quale vorrebbe recarsi a Gerusalemme per poter pregare all'interno della moschea di al Aksa. Mentre in Israele si attendono conferme per avviare la procedura di accoglienza del Principe, si tratta sempre di un nobile legato a una famiglia regnante, questi rumors stanno creando un vero terremoto in molti ambienti e sarebbero una sorta di preparazione a un avvicinamento diplomatico alla luce del sole fra Arabia Saudita e Israele.
   Se fino a qualche anno fa tutto questo era impensabile oggi la situazione è diversa e per vari motivi. Riad si troverà presto a doversi confrontare con l'Iran sciita (gli accordi di Ginevra non fermeranno il programma nucleare iraniano), e anche con il Califfato che dopo aver inglobato cinque nazioni sta minacciando ciò che resta del mondo arabo rimasto senza guida dopo il fallimento delle "primavere arabe". Questi sono gli incubi odierni dell'Arabia Saudita alla quale, per ironia della sorte, non rimane altro, sia in chiave strategica che anti-terroristica, che un avvicinamento a Israele.
   Che le due nazioni dietro alle quinte abbiano avuto in passato contatti importanti è un dato di fatto, notizie mai smentite danno per certo che Riad abbia concesso a Gerusalemme il permesso di sorvolo del proprio territorio nel caso in cui si decidesse di bombardare i siti nucleari iraniani. E, cosa molto importante per capire a che livello siano arrivati i rapporti fra le due nazioni, di recente sono arrivati in Israele alcuni aerei della Saudi Arabian Airlines che oltre a trasportare uomini d'affari da e per Riad hanno anche eseguito lavori di manutenzione presso la stazione della EL AL dell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.
   Ma c'è di più. Nei prossimi mesi le due piattaforme petrolifere israeliane nel Mediterraneo denominate Leviathan e Tamar entreranno a pieno regime, e se fino a oggi le estrazioni di gas naturale sono state assorbite dal mercato interno, presto lo Stato Ebraico si affaccerà come produttore sul mercato dell'energia e non è un segreto che grandi potenze, Cina e India in testa, siano già in attesa con le loro offerte per accaparrarsi i primi contratti. Anche questo aspetto, che non è di poco conto, starà pesando sulle decisioni che verranno prese a Riad, i giacimenti israeliani sono i più importanti fra quelli scoperti negli ultimi trenta anni e l'Arabia Saudita, che ha sempre guidato la politica dell'OPEC, ha tutte le intenzioni di evitare l'entrata massiccia di gas israeliano sul mercato a prezzi molto più bassi da quelli decisi dal cartello dei produttori.

(Libero, 7 luglio 2015)


Il padiglione israeliano a Expo premia la creatività con il concorso TrendIsrael

Avital Kotzer Adari
Il padiglione Israele all'Expo ha ospitato la prima edizione del premio TrendIsrael, organizzato dall'Ambasciata di Israele a Roma in collaborazione con l'ufficio nazionale israeliano del turismo, la scuola di moda milanese Burgo e la Tel Aviv Hotel Association. Molti i partecipanti al concorso, principalmente della scuola Burgo, ma non solo. Avital Kotzer Adari (nella foto), direttore dell'ufficio del turismo, ha presentato le proposte dei 10 finalisti sul tema della cravatta: «Un modo per conoscere l'aspetto creativo di Israele è trasferire questa idea agli italiani, in modo che possano scoprire come Israele possa essere terra di moderna ed inaspettata creatività» soprattutto grazie alle scuole di moda all'avanguardia come il Shenkar College di Tel Aviv. Dieci i giovani finalisti: Rebeca Maytorena, Ilaria Giordano, Chiara Boero e Melania Benassi della scuola milanese di moda Burgo, grazie alla cui collaborazione il progetto ha avuto origine; Beatrice Furia dello Ied - Istituto Europeo di Design di Torino; Marika Padula e Dunia Vecchini dell'Accademia Italiana Samantha Rocca e Lucrezia Kauffmann del Cdm Cheidy Formazione, Giovanni Campagnaro degli Istituti Vicenza. Ospite d'eccezione della serata Naor Gilon, ambasciatore dello Stato di Israele in Italia. «Non è stato facile scegliere il vincitore - ha dichiarato Avital Kotzer Adari - ma la nostra preferenza è caduta in modo quasi unanime su Giovanni Campagnaro, che ha saputo tradurre nella sua creatività originalità e freschezza grazie anche ad una approfondita e personale ricerca sul grande artista israeliano Menashe Kadisman, a cui si è voluto ispirare». La cravatta prescelta diverrà un privilegiato regalo che sarà utilizzato dall'Ambasciata israeliana a Roma; il premio per il vincitore sarà un volo ed un soggiorno a Tel Aviv realizzato in collaborazione con la compagnia El Al e la Tel Aviv Hotel Association.

(Travel Quotidiano, 7 luglio 2015)


Sisi avverte la stampa: "Vietato parlare di Stato islamico"

Un vocabolario di parole "consigliate" sul Califfato. E anche i giornalisti stranieri rischiano il carcere. Pene per chi usa Internet in modo non gradito alle autorità: "Chiamate terroristi quegli assassini".

di Fabio Scuto

GERUSALEMME - Di fronte a un' ondata di attacchi jihadisti senza precedenti il governo egiziano vuole adottare una nuova legge anti-terrorismo che concede l'impunità alla polizia, taglia un grado di giudizio, censura la stampa e mina le libertà di espressione. Esperti e difensori dei diritti umani denunciano il testo repressivo che sta per essere promulgato questa settimana dal capo dello Stato Abdel Fattah Al Sisi. Ma ancora non basta. Il ministero degli Esteri ha fornito un decalogo ai media stranieri sui termini da usare nel descrivere i gruppi terroristi. Vietate le parole: islamisti, gruppi islamici, jihadisti, Isis, Stato islamico e fondamentalisti. Approvate invece le parole: terroristi, estremisti, criminali, selvaggi, assassini, radicali, fanatici. Nella nota il ministero deplora l'uso di termini che «offuscano l'immagine dell'Islam e attribuiscono falsamente alla fede islamica gli orrendi atti commessi dai gruppi estremisti». Dopo l'assassinio il 29 giugno del procuratore generale Hisham Barakat con un attentato spettacolare vicino al palazzo presidenziale di Heliopolis e l'attacco multiplo dei gruppi armati nel Sinai, Al Sisi aveva promesso una legislazione più severa contro il terrorismo». «Ma la stretta che impone la nuova legge», ha detto ieri un rappresentante di un'Ong, «ha il sapore della vendetta».
   La proposta di legge prevede una pena minima di due anni di carcere per la pubblicazione di «false informazioni sugli attacchi terroristici che contraddicono le dichiarazioni ufficiali». Il ministro della Giustizia Ahmed al-Zind ha spiegato che l'articolo è stato particolarmente motivato dalla copertura mediatica degli attacchi dei jihadisti del Sinai la scorsa settimana. Il portavoce ufficiale dell'esercito aveva riferito di 21 soldati uccisi e più di un centinaio di jihadisti uccisi nei combattimenti, ma i media egiziani e internazionali hanno pubblicato bilanci molto più pesanti, citando funzionari della sicurezza. «Il governo ha il dovere di proteggere i cittadini dalle false informazioni», ha detto alla tv egiziana il ministro Zind.
   La pensano diversamente i giornalisti egiziani. «In questo modo», dice Gamal Eid del sindacato, «si pubblicheranno dichiarazioni ufficiali, limitando il diritto ad acquisire informazioni da fonti diverse da quelle istituzionali». Il sito del quotidiano egiziano Al Ahram scrive che secondo alcuni analisti diversi articoli della legge sono «incostituzionali», violerebbero la Carta che tutela la libertà d'espressione e stabilisce che non si va in carcere per le opinioni espresse in forma orale o scritta, fatta eccezione per i «reati legati all'incitamento alla violenza o alla discriminazione tra i cittadini».
   La legge rimuove anche per i reati di "terrorismo" una delle due procedure di ricorso successive alla Corte di Cassazione previste dalla legge egiziana. Prevista la pena di morte per le persone colpevoli di aver creato, diretto o finanziato un' organizzazione «terroristica», e cinque anni di carcere per chi utilizza internet o social network per promuovere il «terrorismo».

(la Repubblica, 7 luglio 2015)


Waze sta sperimentando il carpooling in Israele

di Irven Zanolla

 
Secondo l'autorevole agenzia di stampa britannica Reuters, Google starebbe conducendo un programma pilota in Israele, creando un servizio di carpooling basato sul proprio navigatore sociale Waze. L'applicazione si chiama RideWith ed utilizza il sistema di navigazione di Waze per calcolare quali sono i percorsi più utilizzati dagli utenti per recarsi al lavoro e cercando di combinarli con le necessità delle persone che stanno cercando un passaggio nella stessa direzione. Waze sta conducendo un esperimento nell'area urbana di Tel Aviv e per il momento non sembra intenzionata a rivelare molto sul progetto. Di sicuro c'è il fatto che ogni guidatore potrà effettuare solo due "corse a pagamento" in modo che la cosa non possa trasformarsi in un business. In questo modo Google mira ad evitare i problemi che sta attraversando Uber in parecchi Paesi, con le autorità locali che mirano a proteggere il lavoro di centinaia di migliaia di tassisti in possesso di regolare licenza. Inizialmente il numero di guidatori non dovrebbe essere in grado di soddisfare la domanda, che sembra essere elevata ma se il numero di utilizzatori di Waze continuerà a crescere allora molti utenti potranno trovare un passaggio economico risparmiando qualche euro.

(TuttoAndroid, 7 luglio 2015)


«Siamo tornati indietro di cento anni»: un anno dopo la guerra di Gaza

A un anno dalla guerra, nella regione di Gaza la frustrazione cresce. Molte persone sono disoccupate, e le famiglie in miseria lottano per la sopravvivenza. Eppure le milizie di Hamas sono ancora al potere, più forti che mai.

di Karin Laub e Fares Akram

Emad Firi è furioso. Durante la guerra tra Israele e Hamas, giusto un anno fa, era caduta una granata sul tetto della sua casa, e lui si era trovato con la gamba destra maciullata. Firi da allora non è più in grado di lavorare, e alla guida del taxi è subentrato il figlio. Per questa famiglia di Gaza City la lotta per la sopravvivenza è una realtà quotidiana.
  Il 50enne ritiene responsabili della guerra sia Israele che il movimento islamico estremista Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dal 2007, anno in cui aveva preso il potere con la forza. Da allora questo fazzoletto di terra ha vissuto tre guerre con Israele e la paralizzante chiusura del confine tra Egitto e Israele, che tiene prigioniera gran parte della popolazione, pari a un milione e 800.000 abitanti.
  «Chi non sarebbe furioso in questa difficile situazione?», dice Firi, in attesa di una protesi per la gamba presso un centro medico di riabilitazione. Eppure la popolazione della Striscia di Gaza non è pronta per la rivolta; molti degli abitanti hanno paura. «Due parole di troppo e finisco in galera», dice Firi riguardo alla durezza con cui Hamas procede contro i suoi oppositori. «E allora preferiamo stare buoni.»
  A un anno dalla più devastante guerra finora combattuta sul territorio autonomo palestinese, Hamas è ancora al potere. La frustrazione tuttavia cresce. Secondo un'indagine, se venisse aperto il confine, metà della popolazione sarebbe pronta a emigrare.

 Nessuna alternativa in vista
  Un'alternativa ad Hamas non è visibile al momento. Vari tentativi di formare un governo unitario per la Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono falliti a causa della forte rivalità tra la milizia e il presidente palestinese, Mahmoud Abbas. Inoltre circa un terzo della popolazione sostiene tuttora incondizionatamente Hamas.
  In Egitto e Israele si preannuncia intanto un cambio di strategia politica: se finora ambedue gli stati puntavano su un indebolimento e una possibile caduta del governo di Hamas - tra le altre cose anche grazie al blocco attuato negli ultimi otto anni - ora per ambedue i paesi di tratta più che altro di tenere sotto controllo quell'organizzazione.
  Le forze militari egiziane negli ultimi giorni hanno aperto più volte il confine con la Striscia di Gaza, anche se sempre per breve tempo, e migliaia di persone per la prima volta dopo tanti mesi hanno lasciato la zona. Allo stesso tempo sono stati fatti passare diversi mezzi che trasportavano il cemento di cui c'era urgente bisogno. Il governo egiziano ha motivato l'apertura con una nuova valutazione sullo stato della sicurezza. Rappresentanti di Hamas hanno dichiarato inoltre di aver ricevuto assicurazioni circa l'ulteriore ammorbidirsi delle misure restrittive.
  Israele dal canto suo ha ridotto le limitazioni alla libertà di movimento degli abitanti di Gaza. Secondo quanto riportano alcuni, alcuni diplomatici stranieri stanno mediando tra Israele e Hamas per tentare di ottenere una tregua duratura.

 Realtà
  Anche il governo israeliano cambia toni: Sami Turgeman, comandante in capo uscente e responsabile della Striscia di Gaza, di recente ha dichiarato che Israele e Hamas hanno interessi comuni, mentre il ministro esponente della destra politica, Naftali Bennett, ha definito la presenza della milizia nella Striscia di Gaza una realtà concreta. «Non si tratta di scegliere se farci piacere o meno (il governo di Hamas)», ha dichiarato all'emittente televisiva israeliana Channel 2. «Io al momento posso solo constatare la presenza di Hamas in quell'area.»
  La milizia che si pone come obiettivo la cancellazione dello stato di Israele, dallo stesso stato di Israele e dall'Occidente è ritenuta un'organizzazione terroristica. Il portavoce di Hamas, Salah Bardawil, ha comunicato di avere l'impressione che Egitto e Israele siano diventati «più realisti». A suo dire avrebbero ormai «riconosciuto di non poter raggiungere i propri obiettivi con la violenza».
  Il problema principale che Hamas affronta attualmente è la mancanza di liquidità. Da quando l'Egitto due anni fa ha chiuso le centinaia di tunnel di contrabbando che si trovavano al confine con la Striscia di Gaza, le milizie si trovano a corto di tutto. Attraverso i tunnel giungevano a Gaza cemento e carburante a prezzi convenienti, risorse fondamentali per l'industria. Tassando le merci di contrabbando, Hamas riscuoteva inoltre ogni anno diversi milioni di dollari.
  Oggi Hamas non è più in grado di pagare gli stipendi dei 40.000 dipendenti della pubblica amministrazione e dell'esercito. Da alcuni mesi l'organizzazione, che alcune fonti affermano riceva aiuti dall'Iran, si sta adoperando per trovare nuove fonti di introito. Sono stati così introdotti nuovi dazi sulle importazioni, che per le auto, ad esempio, ammontano al 25 percento.

 Le tasse accrescono la frustrazione
  Per i commercianti d'auto di Gaza, che già devono fare fronte alle imposte altissime, riscosse dal governo di Abbas, la cosa è insostenibile. «Data la situazione (a Gaza) non c'è margine per altre tasse», dice il commerciante Alaa Badwan. Saremmo costretti ad aumentare i prezzi, e in tal caso crollerebbero le vendite. In ogni caso la metà della popolazione in età da lavoro è già disoccupata e non può quindi permettersi un'auto.
  La povertà genera crescente frustrazione tra gli abitanti, come rileva un'indagine pubblicata nel mese di giugno da un istituto palestinese indipendente, secondo cui uno su due abitanti di Gaza sta valutando di emigrare. Si tratta di un incremento di cinque punti percentuali rispetto a quanto rilevato in precedenza. Il 63 percento degli intervistati si è mostrato insoddisfatto dell'esito della guerra combattuta la scorsa estate.
  Durante i 50 giorni di intensi combattimenti, Israele, a partire dall'8 luglio, aveva sferrato oltre 6000 attacchi aerei contro Gaza, mentre Hamas aveva lanciato più di 6600 missili e razzi su Israele. Secondo i dati delle Nazioni Unite erano stati uccisi oltre 2000 palestinesi, appartenenti prevalentemente alla popolazione civile. Per la parte israeliana i morti erano stati 73, di cui sei civili.
  Esponenti ONU criticano il fatto che ricostruzione vada a rilento. Decine di migliaia di persone sono ancora ospitate in alloggi di emergenza o vivono in abitazioni danneggiate. Fadi Dschundia è uno di loro. «Un assedio è sempre e comunque un assedio, e nulla è cambiato», ha detto il 29enne che vive al piano terra della casa di famiglia, a Gaza, insieme a dodici parenti. I piani superiori sono andati distrutti. «Siamo tornati indietro di 100 anni.»

(Bluewin, 7 luglio 2015)


Gaza - I due cuccioli di leone verso la libertà in Giordania

di Beatrice Montini

Mona e Max saranno presto liberati in una riserva naturale in Giordania. Ha un lieto fine la storia dei due cuccioli di leone vissuti per alcuni mesi come «animali domestici» a Gaza, nel campo profughi di Al-Shabora, nella zona meridionale della Striscia, nella città di Rafah, confinante con l'Egitto. I due animali erano stati portati a Gaza attraverso i tunnel che collegano il territorio palestinese con l'Egitto per finire nello zoo locale.
Quando dopo l'ultimo attacco israeliano lo zoo è stato praticamente distrutto, i due leoncini erano stati presi in casa da Saed Eldeen Al Jamal che li aveva accolti in famiglia come due normalissimi cuccioli. Ma dopo un po' di tempo la vita in casa dei leoni era divenuta un problema perché la famiglia di Saed non riusciva più a sfamarli a dovere.
A questo punto è intervenuta un'organizzazione animalista internazionale, Four Paws (che già si era occupata degli altri animali dello zoo di Rafah) che si è mobilitata per trasferire Mona e Max in una riserva naturale in Giordania. Dopo alcuni problemi per il passaggio della frontiera (i leoncini sono rimasti alcuni giorni confinati in un hotel) i due animali sono finalmente usciti da Israele e hanno raggiunto la loro nuova casa.

(Corriere della Sera, 7 luglio 2015)


Hamas sempre più debole a Gaza

Il rischio di una presa di potere delle frange jihadiste guidate dallo Stato islamico.

GERUSALEMME - Il ruolo di Hamas nella Striscia di Gaza rischia di essere surclassato dalle frange più estremiste presenti all'interno e all'esterno dell'organizzazione, in particolare salafiti e simpatizzanti dello Stato islamico. I recenti attentati contro le forze di sicurezza egiziane nei distretti di al Arish e Sheik Zuid (Sinai settentrionale), che vedrebbero implicate direttamente alcuni membri di Hamas, la ripresa del lancio di razzi nelle aree meridionali dello Stato di Israele da parte di gruppi al di fuori del movimento, sono per gli analisti un evidente segno della debolezza del movimento, anzitutto a partire dalle sue divisioni interne. La frammentazione del movimento vede da un lato la vecchia guardia attualmente a capo delle istituzioni che gestiscono la Striscia di Gaza, impegnata in un tentativo di accordo con Israele, in particolare rispetto alla cancellazione dell'embargo e allo sviluppo del territorio, in cambio della fine degli attacchi contro il sud del paese, mentre dall'altro vede i giovani miliziani, molti dei quali cresciuti nelle brigate Izzledine al Qassam (braccio armato del movimento) virare su posizioni sempre più estremiste.
  A pesare su tale situazione vi sarebbe la crisi del movimento dei Fratelli Musulmani, alla base dell'ideologia di Hamas, la riduzione del sostegno finanziario e politico da parte del Qatar e il congelamento dei rapporti con l'Iran, prima di Doha, storico finanziatore e sostenitore del movimento islamista. Oltre all'abbandono parziale dei partner economici e politici Hamas sta patendo le conseguenze del giro di vite lanciato contro il movimento islamista dalle autorità egiziane, dove l'arresto e le condanne a morte della maggior parte dei leader islamisti, fra cui la guida suprema Mohamed Badie e l'ex presidente egiziano Mohamed Morsi, avrebbero spinto migliaia di giovani ad aderire ad altri gruppi più integralisti, Stato islamico incluso. Secondo l'analista egiziano Maged Atef, la vecchia generazione crede che per sopravvivere, il movimento abbia bisogno di un compromesso per mantenere un livello di legittimità negli anni a venire, ma sta vivendo un profondo dissidio interno, perché i giovani desiderano la vendetta e aderiscono al jihad violento. La parabola dei Fratelli Musulmani egiziani saliti al potere con regolari elezioni e con grandi legami in occidente e paesi del Golfo ha minato soprattutto la rigida struttura del gruppo, che prevede da parte degli adepti l'assoluta fedeltà agli anziani, oltre ad un percorso di indottrinamento di circa cinque anni con passaggi analoghi a quelli della massoneria. Come in Egitto anche a Gaza le nuove generazioni avrebbero perso fiducia nel movimento islamista colpevole di aver ceduto in parte alla laicità, senza ottenere alcun beneficio in termini di sviluppo e ricchezza, trasformandosi in una sorta di mafia legalizzata.
  I gruppi salafiti e jihadisti come "Jihad islamico" attivi all'interno della Striscia avrebbero sfruttato il malcontento con il risultato che le giovani generazioni ora preferiscono il Jihad armato. Tale tesi è condivisa da Zvi Mazel ex ambasciatore israeliano al Cairo, che un'intervista al quotidiano "Jerusalem Post" ha sottolineato che quanto sta accadendo in Egitto e in altri paesi musulmani, fra cui Gaza, "rappresenta il declino della più importante organizzazione musulmana dei tempi moderni, un'organizzazione che aspirava a creare un califfato, ma ha perso di fronte ai movimenti jihadisti". Un altro segno evidente della perdita di potere del movimento è la minaccia diretta da parte dello Stato islamico che lo scorso 30 giugno ha dichiarato la volontà di trasformare la Striscia di Gaza in un altro dei suoi feudi del Medio Oriente, accusando Hamas di non essere sufficientemente severa nell'applicazione delle norme religiose. In un video apparso in rete girato in Siria, definito come messaggio ai "Tiranni di Hamas", l'Is ha inoltre contestato i rapporti fra Hamas e Israele, oltre alla tregua con al Fatah: "Noi sradicheremo il regime degli ebrei, voi e al Fatah e tutti i laici non sono nulla per noi e voi sarete rovesciati dai nostri adepti infiltrati". Lo Stato islamico ha avvertito che la sharia sarà attuata a Gaza, nonostante le opposizioni di Hamas e che quanto accaduto nel campo di Yarmouk in Siria, accadrà anche nella Striscia.
  In questi mesi le forze di sicurezza di Hamas hanno arrestato decine di salafiti, sostenendo che essi erano membri dello Stato islamico, sequestrando ingenti quantità di ordigni ed esplosivi che sarebbero serviti per attentati contro edifici pubblici, fra cui strutture delle Nazioni Unite e la casa di Gaza del presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas. In maggio Hamas ha anche distrutto una moschea che utilizzata come quartier generale dalle frange salafite pro Stato islamico. La tesi che l'Is sarebbe già a Gaza è sposata anche dai vertici militari israeliani, che dopo aver lodato implicitamente Hamas per il suo impegno ora starebbero in realtà voltando le spalle al movimento accusandolo di sostenere direttamente i terroristi. Oggi il coordinatore dell'Attività del governo israeliano nei territori palestinesi (Cogat), Yaev Mordechai, ha detto in un intervista all'emittente del Qatar al Jazeera che i membri dell'ala militare di Hamas nella Striscia di Gaza hanno sostenuto i terroristi dello Stato islamico nella serie di attacchi dello scorso primo luglio contro le forze di sicurezza egiziane nel Sinai settentrionale. "Nei recenti attacchi, Hamas ha dato armi e assistenza organizzativa a un gruppo che sostiene lo Stato islamico", ha detto il responsabile del Cogat, precisando che vi sono esempi di comandanti di Hamas che hanno partecipato attivamente all'offensiva come ad esempio Wael Faraj, il quale ha gestito inoltre la fuga dei feriti dall'area del Sinai verso la Striscia di Gaza.
  Mordechai ha aggiunto che un altro membro di Hamas ha addestrato membri dello Stato del Sinai, sottolineando che le due organizzazioni hanno contatti regolari per la pianificazione di azioni sul territorio egiziano. "Io sono convinto di quello che sto dicendo, e ho le prove", ha affermato l'ufficiale israeliano. Secondo il quotidiano israeliano "Haaretz" le dichiarazioni del responsabile del Cogat confermano una serie di precedenti rivelazioni da parte di altri membri delle forze di sicurezza e fanno inoltre emergere una sorta di campagna diplomatica sui media da parte di Israele contro Hamas. Infatti come nota il quotidiano è di fatto impossibile che Mordechai abbia rilasciato tali dichiarazioni senza avere il benestare dei vertici militari e del governo. La dichiarazioni di Mordechai offrirebbero inoltre ulteriori conferme rispetto ai tentativi da parte di Gerusalemme di spingere Il Cairo ad agire direttamente contro l'ala militare di Hamas a Gaza, nonostante in queste settimane Israele abbia evitato scontri diretti con il movimento islamista dopo il lancio di razzi verso il sud di Israele, precisando inoltre che Hamas aveva preso misure per frenare tali azioni. Nei giorni scorsi ha fatto scalpore un articolo pubblicato dal quotidiano israeliano "Haaretz", nel quale una fonte vicina al governo egiziano rivelava la possibilità di un'alleanza militare fra Egitto e Gerusalemme contro lo Stato islamico. Secondo la fonte infatti il presidente Abdel Fatah al Sisi sarebbe pronto, in caso di un rischio reale di una presa di potere dei terroristi a Gaza, ad invitare le forze di difesa israeliane ad agire.
  Di fronte alla perdita di potere di Hamas all'interno della Striscia di Gaza, l'Autorità nazionale palestinese (Anp) che guida invece la Cisgiordania, sta approfittando di fatto per lanciare un giro di vite contro gli esponenti del movimento nei territori. Dopo aver sciolto l'appena nato governo di unità nazionale realizzato circa un anno fa insieme ai leader di Gaza, questa notte con una operazione sostenuta anche dalle forze di sicurezza israeliane, gli agenti di polizia dell'Anp hanno arrestato 100 membri di Hamas accusati di essere responsabili di vari attacchi contro israeliani dentro e fuori dai territori. La campagna di arresti è la più imponente dalla scontro fra Hamas e al Fatah dopo la presa di potere del movimento islamista nella Striscia nel 2007, che segnò la mattanza dei seguaci del partito di Mahmoud Abbas per le strade di Gaza.

(Agenzia Nova, 6 luglio 2015)


New Delhi sempre più vicina a Israele

di Matteo Miavaldi

 
Benjamin Netanyahu con il Primo Ministro indiano Narendra Modi
L'astensione indiana al voto di una risoluzione Onu che accusava Israele di aver commesso crimini di guerra durante l'ultima offensiva nella striscia di Gaza, segna un cambiamento sostanziale nei rapporti tra New Delhi e Tel Aviv. L'India di Modi è sempre più vicina a Israele.
Venerdì scorso lo United Nations Human Right Coouncil (Unhrc) ha votato una risoluzione di condanna della condotta di Israele durante l'ultima offensiva nella striscia di Gaza dove, secondo un rapporto dell'Onu, l'esercito di Tel Aviv avrebbe commesso dei crimini di guerra. La risoluzione, in particolare, evidenzia che l'esercito israeliano, durante le operazioni, avrebbe deliberatamente preso di mira la popolazione civile palestinese, auspicando la fine dell'impunità per gli ufficiali coinvolti nel processo decisionale. Nel conflitto, solo la scorsa estate, i morti civili hanno superato le 1.400 unità, in 50 giorni.
La risoluzione ha incassato 41 voti a favore (tra cui diversi membri dell'Unione europea), uno contro (gli Stati Uniti, tradizionalmente alleati di Israele) e 5 astensioni: Kenya, Etiopia, Paraguay, Macedonia e... India.
L'astensione di New Delhi è una novità assoluta, in seno all'Onu, poichè il paese nelle questioni tra Palestina e Israele si è sempre posizionato, a livello diplomatico, dalla parte palestinese. Pur mantenendo fitte relazioni sottobosco, specie nel campo della sicurezza, con Tel Aviv. Israele è al momento il secondo partner commerciale indiano per tecnologia bellica ed armamenti, dietro solo alla Russia (qui, qualche tempo fa, me ne ero occupato con numeri e storia dei rapporti).
L'astensione dell'India è un ulteriore segnale di avvicinamento delle amministrazioni Modi e Netanyahu, soprattutto per quanto riguarda le modalità del gesto: secondo l'Economic Times, infatti, pare che il primo ministro israeliano, a pochi giorni dal voto, abbia telefonato personalmente a Narendra Modi chiedendo che l'India si astenesse. Una richiesta arrivata pochi mesi dopo la promessa di accordi commerciali nell'ambito della difesa per due miliardi di dollari.
Il delegato indiano, diligentemente, mentre si votava è uscito dalla sala.
La mossa indiana è stata notata anche dal quotidiano israeliano Haaretz, che l'ha descritta come un "cambiamento significativo nella politica tra i due paesi".
Narendra Modi quest'anno si recherà in Israele per una visita ufficiale. Non è cosa da poco: sarà il primo premier indiano nella Storia a farlo.

(eastonline.eu, 6 luglio 2015)


Vueling inaugura la nuova ed esclusiva rotta estiva Firenze - Tel Aviv

La compagnia sarà l'unica durante l'estate a operare la rotta diretta, attiva con una frequenza settimanale fino a ottobre. Diventano ufficialmente operative tutte le 16 rotte previste per l'estate da Firenze, con altre 78 destinazioni raggiungibili attraverso l'hub di Barcellona.

Airbus A319 Vueling
Vueling ha inaugurato ufficialmente la rotta per Tel Aviv da Firenze con il primo aereo che sabato scorso ha percorso i 2.446 km di distanza tra le due città, divenuta ora la sua tratta più lunga dall'aeroporto di Peretola. Per tutta l'estate la compagnia sarà l'unica a operare un collegamento diretto dal capoluogo toscano alla città israeliana, strategico sia per i molti turisti dall'Italia interessati a conoscerne la storia millenaria, le magnifiche spiagge o le occasioni di divertimento, sia per quelli in arrivo dal Medio Oriente alla scoperta delle bellezze del nostro Paese.
Per il nuovo volo è in programma una frequenza settimanale tra sabato e domenica, in servizio fino a ottobre con un (150 posti). Con l'avvio del collegamento per Tel Aviv diventano così operative tutte le 16 rotte dirette da Firenze lanciate da Vueling per la stagione estiva 2015: le 5 domestiche (Bari, Cagliari, Catania, Olbia e Palermo) e le 11 internazionali (Barcellona, Berlino, Copenaghen, Ibiza, Londra, Madrid, Mykonos, Parigi, Santorini, Spalato e Tel Aviv). Inoltre, grazie al servizio dei voli in connessione, i passeggeri dalla Toscana potranno raggiungere attraverso l'hub di Barcellona-El Prat altre 78 destinazioni in Italia, Europa, Medio Oriente e Africa, con un unico check-in e il ritiro del bagaglio imbarcato direttamente all'aeroporto di arrivo.

ORARI DEI VOLI
Firenze - Tel Aviv
23:40 - 04:00 (sabato)
Tel Aviv - Firenze
05:10 - 08:00 (domenica)

(Firenze Today, 6 luglio 2015)


Startup, sfida finale tra startup all'Expo: in palio un bootcamp in Israele

Il vincitore rappresenterà l'Italia tra le nuove imprese di 23 paesi che si riuniranno a settembre al "Digital Life desing festival" di Tel Aviv. Al contest hanno preso parte i Founder e i Ceo tra i 25 e i 35 anni con i prototipi delle proprie idee.

Sarà il padiglione israeliano dell'Expo Milano 2015 a fare da cornice alla finale della Start Tel Aviv Copetition 2015. Alla finale, in programma l'8 luglio, parteciparanno le tre migliori startup selezionate tra quelle che si sono candidate all'edizione italiana della competizione internazionale, organizzata dal ministero degli Affari esteri israeliano, della città di Tel Aviv e di Google Israel, e promosso in Italia dall'Ambasciata di Israele e da Luiss Enlabs. All'evento parteciperanno l'ambaciatore di Israele in Italia, Naor Gilon, Luigi Capello, fondatore di Luiss Enlabs e ceo di LVenture group, Giuseppe Morlino, ceo di Snapback e vincitore dell'edizione 2014 del premio.
   La startup vincitrice rappresenterà l'Italia a Tel Aviv insieme alle startup di altri 22 paesi per partecipare a un bootcamp che si svolgerà dal 6 al 10 Settembre 2015 a margine del Digital Life Design Festival. "Da sempre l'Italia è al nostro fianco in questo progetto - aveva dichiarato l'Ambasciatore Gilon alla presentazione del bando - Questo paese sta facendo grandi passi avanti nel campo dell'innovazione e luoghi come Luiss EnLabs, che ci affianca da tre edizioni, sono un esempio concreto di questo fermento. Invitiamo i giovani italiani con la voglia di innovare a partecipare numerosi al contest per vincere l'opportunità di volare a Tel Aviv, uno spazio che vanta la più alta concentrazione di imprese innovative per abitante".
   La candidatura al concorso era aperta ai Founder e Ceo di startup del web, mobile e security, tra i 25 e i 35 anni, che abbiano già ricevuto un finanziamento di tipo seed e sviluppato un prototipo del proprio prodotto/servizio possono candidarsi inviando un video pitch, un executive summary, un Cv e un link (opzionale) alla demo del prodotto/servizio, il tutto in lingua inglese, che verranno esaminati da giornalisti, imprenditori e investitori esperti del mondo dell'innovazione. Il bootcamp consiste in un intenso programma di conferenze, workshop e incontri con imprenditori, investitori e professionisti israeliani che si svolgeranno a Tel Aviv.

(Corriere delle Comunicazioni, 6 luglio 2015)


Anche le parole (dei palestinesi) uccidono

di Mario Del Monte

 
Se la tv tedesca riportasse la notizia che Israele avvelena le risorse idriche della Striscia di Gaza o un giornale scrivesse che durante la Pasqua gli ebrei usano impastare il pane azzimo con il sangue dei bambini penseremmo sicuramente che il nazismo stia per riaffacciarsi sulla scena internazionale. Quando invece queste parole vengono pronunciate dal canale televisivo ufficiale dell'Autorità Nazionale Palestinese o sono scritte sul giornale al-Hayat al-Jadida ci siamo ormai abituati a considerarle la normalità. Il nazismo qui c'entra poco, la fonte di questa arroganza razzista è tutta di sinistra, di quei movimenti politici che si definiscono progressisti.
   Diversi giorni dopo gli attacchi terroristici condotti con le automobili e il tentato omicidio di Yehuda Glick, il giudice palestinese Mahmoud al-Habash si prese la libertà di dire ai media che "è benedetta ogni tappa verso la realizzazione della Guerra Santa alla Moschea di al-Aqsa e a Gerusalemme." Immaginate cosa sarebbe accaduto se una figura pubblica israeliana avesse fomentato così altre violenze dopo l'omicidio di un palestinese: in poche ore sarebbe stato arrestato e condotto davanti a un giudice. Perché i concetti di "Stato di Diritto" e di "eguaglianza davanti alla legge" non devono essere rispettati quando a incitare è un musulmano?
   Un altro esempio di questo doppio standard sono le parole di Jibril Rajoub, rappresentante per la Palestina presso la FIFA, ai microfoni della tv palestinese: "Fratelli, io non impedisco a nessuno di andare massacrare gli ebrei negli insediamenti." La comunità internazionale ignorò queste parole e nemmeno una settimana dopo ci fu la richiesta di esclusione delle squadre israeliane dalle competizioni calcistiche.
   Questo disprezzo per la legge Israele lo paga ormai quasi ogni giorno con gli attacchi dei cosiddetti "lupi solitari", persone che senza aver bisogno di un'organizzazione terroristica alle spalle decidono di attentare alla vita dei civili israeliani. Sono soli nella realizzazione delle loro azioni ma hanno il supporto della massa grazie all'impunità garantita dalle istituzioni palestinesi.
   Quando si parla del governo Netanyahu e di alcune sparate dei suoi collaboratori, alla sinistra internazionale piace ricordare come "anche le parole uccidono". Perché questo splendido principio non dovrebbe applicarsi anche ai palestinesi che inneggiano alle stragi di ebrei? Davvero si può essere così miopi e non vedere che dall'incitamento alla realizzazione di un omicidio il passo è breve?
   La Germania ha dovuto lavorare molto per eliminare dal paese l'ideologia violenta del nazismo e lo ha fatto in modo decisamente non democratico: ha chiuso i giornali e le riviste del regime, bandito qualsiasi pubblicazione, simbolo, bandiera e slogan dal sapore nazista, sostituendo il tutto con il liberalismo e il pluralismo, vere fondamenta della democrazia. Gli architetti di Oslo invece hanno scelto la strada opposta. Hanno cercato di istituire una democrazia a Ramallah per poi chiedergli di ripudiare la violenza. Pensando di lavorare per la pace non hanno fatto altro che dare più strumenti a chi non ha intenzione di rinunciare alla guerra.

(Progetto Dreyfus, 6 luglio 2015)


Ebrei italiani, Vito Volterra

Lettera a Sergio Romano

Caro Romano,
ho una grande ammirazione per Vito Volterra, che è stato un matematico e fisico eccezionale. Nel 1883, a soli 23 anni, ebbe l'incarico di docente all'Università di Pisa. Non gli mancò il coraggio di rifiutarsi di giurare fedeltà al fascismo (furono solo 12 su un migliaio). Alcuni credono che le sue traversie iniziarono soltanto nel 1938 con le leggi razziali; invece la sua carriera era stata stroncata in precedenza. Mi ha tuttavia sorpreso la sua foga, allo scoppio della Prima guerra mondiale, prima ancora che l'Italia aderisse, per il movimento interventista e per il suo sostegno a D'Annunzio. Si mostrò addirittura fanatico. Come lo si può giustificare?
Giampaolo GruIll


L'atteggiamento di Volterra nel 1915 fu quello della grande maggioranza degli ebrei italiani. Erano grati ai Savoia per la cancellazione delle interdizioni israelitiche nel 1848. Avevano vissuto con forte partecipazione l'epopea risorgimentale. Amavano la cultura del Paese in cui avevano trovato una patria. Le ricordo che il Comando supremo, durante il conflitto, autorizzò, per quanto possibile, una celebrazione collegiale della Pasqua ebraica.

(Corriere della Sera, 6 luglio 2015)


Oltremare - La penisola accanto

di Daniela Fubini, Tel Aviv

La crisi greca ha esposto uno dei classici vizi israeliani: il sospiro di solievo in diretta televisiva quando qualcuno se la passa peggio di noi. Fanno quasi tenerezza i giornalisti che hanno vissuto da adulti la crisi di metà anni Ottanta, quando l'inflazione aveva tre cifre percentuali, e alla sera si andava a dormire senza sapere quanto sarebbero valsi il giorno dopo i soldi che si avevano in banca. I telegiornali trasmettono servizi che celebrano l'uscita dalla crisi del 1984 (450% l'inflazione annuale, e impallidite pure) come esempio di ottima condotta del governo in tempi di gravi pericoli per una volta nella storia non militari.
Tutta questa attenzione per la Grecia, e soprattutto per le sue spiagge e zone turistiche - si potrà ancora andare in vacanza? Alberghi, ristoranti e stabilimenti rimarranno aperti nonostante il "No" di ieri? Interviste a chiunque parli ebraico e si trovi in Grecia, vacanzieri in costume da bagno che tranquillizzano il pubblico a casa: qui è tutto normale, i turisti se la spassano come ogni estate, noi la crisi non la sentiamo, e via edificando. Ma noi israeliani, che facciamo le stesse identiche dichiarazioni quando parte una offensiva locale al nord o al sud, leggiamo in filigrana. È lo stesso copione, anche se la minaccia sulle spiagge greche non sono i missili di Hezbollah o di Hamas, ma il buco nero della possibile uscita dall'Europa.
Quindi ci caschiamo, e quest'estate andremo lo stesso in Grecia a goderci il mare, mentre intorno il paese rischia il collasso? Probabilmente sì, se non altro perchè l'epoca d'oro delle vacanze in massa degli israeliani in Turchia è finita quando la Marmara (turca) è arrivata al largo di Gaza. Gli albergatori turchi ancora si leccano le ferite, perchè improvvisamente gli israeliani hanno cercato altri lidi, e li hanno trovati. E siccome siamo un popolo tendente agli esodi, compatto verso una destinazione preferita, se il popolo ha parlato ed è Grecia, si va comunque.

(moked, 6 luglio 2015)


Bisogna eliminare l'ISIS finché è ancora un fenomeno relativamente piccolo

Quando cercheremo di schiacciarli? Quando saranno milioni? Quando avranno raggiunto i nostri confini e attaccheranno i nostri soldati e civili?

Qualche tempo prima della guerra dello Yom Kippur, un carro armato siriano era riuscito a infiltrarsi nella parte israeliana delle alture del Golan, a girovagare un po' sulla strada e a tornarsene a casa in tutta sicurezza. Quasi tre anni fa, nell'estate del 2012, dei terroristi dalla striscia di Gaza riuscirono a penetrare il valico di frontiera di Kerem Shalom e a percorrere la strada vicina per parecchi minuti. In entrambi i casi vi fu chi, in Israele e nelle Forze di Difesa israeliane, sostenne che si trattava di una "spia accesa", un segnale di avvertimento di ciò che stava per accadere, ma i decisori preferirono minimizzare questi avvertimenti e tirare avanti: siamo bravi, sapremo sempre vincere.
Non è un segreto che forze relativamente modeste garantiscono la sicurezza dei nostri confini con gli stati arabi. Non abbiamo mezzi da investire per schierare grandi divisioni che ci proteggano dalle infiltrazioni da Siria, Libano, Egitto e Giordania. Gli accordi di pace firmati con Egitto e Giordania tengono da decenni, e così facciamo affidamento sul fatto che anche loro facciano la loro parte a guardia del confine comune...

(israele.net, 6 luglio 2015)


Gerusalemme, famiglia ristruttura casa e scopre un Mikve di 2000 anni fa

All'improvviso, un pezzo di storia plurimillenaria piomba in casa. Anzi, ti accorgi di averla sempre avuta in casa senza che nessuno lo sapesse. È successo ad una famiglia di Ein Kerem, un quartiere di Gerusalemme, che durante una ristrutturazione dell'appartamento, ha scoperto un antichissimo Mikve, un bagno rituale ebraico risalente ai tempi del Secondo Tempio di Gerusalemme.
La famiglia ha provveduto subito a chiamare la Israel Antiquities Authority per far studiare il sito archeologico che hanno sempre avuto sotto i piedi senza mai saperlo. Gli esperti non hanno dubbi: il Mikve ha più di 2000 anni. È considerato un bagno rituale molto grande, con una vasca di 3,5 x 2,4 metri e alta 1,8 metri. All'interno vi erano anche diversi manufatti di ceramica sempre risalenti a quell'era...

(Progetto Dreyfus, 6 luglio 2015)


La storia dei "Judei de Urbe" diventa un libro a fumetti

di Francesca Nunberg

La pagina 231 è tutta nera: della Shoah moltissimo si è detto e si è scritto e i lager, pensa l'autore, non hanno bisogno di essere disegnati. Ma il resto, e sono oltre 2200 anni di storia, è illustrato con dovizia di particolari, si raccontano grandi eventi ed episodi poco noti di una comunità di ebrei che non appartiene né ai Sefarditi spagnoli né agli Askenaziti dell'Europa centro orientale: sono i "Judei de Urbe", gli ebrei di Roma, a cui è dedicata la prima storia illustrata ad opera di Mario Camerini, edita da Giuntina.

 La via del mare
  «Non può essere considerato un vero fumetto - spiega l'autore - perché i fumetti sono ricchi di azione, personaggi, dialoghi, mentre io ho cercato di esporre in ordine cronologico il susseguirsi degli eventi suggerendo con i disegni l'ambientazione, i costumi, l'atmosfera. Senza pretesa di valore scientifico perché non sono uno storico».
  Nella Storia comunque si casca fin dalle prime pagine. Si parte da quando gli ebrei vivevano in Palestina nel loro piccolo stato, la Giudea, da dove si spostarono ad Alessandria d'Egitto attorno al 300 a.C. per poi approdare a Roma, o meglio a Ostia, percorrendo quella che già allora si chiamava "la via del Mare". «Ho voluto raccontare la storia di questa comunità che nel corso dei secoli ha sempre vissuto a Roma in diretto rapporto con la Chiesa cattolica. E nonostante l'umiliazione del ghetto, la vicinanza con il Papa li ha salvati dai massacri che avvenivano ciclicamente in Europa».
  All'inizio gli ebrei si stabiliscono a Trastevere, il quartiere fuori porta riservato agli stranieri, fangoso e malsano, ma godono di una certa libertà di culto, edificano diverse sinagoghe e possono lavorare. Conoscono l'arte di soffiare il vetro ignota ai romani e diventano famosi per la raffinatezza di coppe, ciotole e gioielli.
  Camerini segue con i suoi disegni le alterne vicende dai tempi felici di Augusto quando si contano in città ben 14 sinagoghe, a quelli infausti di Tiberio che arruola gli ebrei per combattere contro i briganti in Sardegna. Ne arrivano poi a Roma altri, resi schiavi da Tito che nel 70 d.C. sconfigge il regno di Giudea e distrugge il Tempio di Gerusalemme.

 La Menorah d'oro
  «Quando gli ebrei videro sfilare gli uomini catturati e il bottino depredato, con la Menorah d'oro e le trombe d'argento del tempio, un senso di sciagura li colse». Ne avrebbero avuto ben donde, nei secoli a seguire, tra Costantino che parlava di «una setta abominevole, nefasta e bestiale», le tasse, le delazioni, i roghi delle sinagoghe, i saccheggi dei vandali. Dall'Alto al Basso medioevo, alla creazione del ghetto nel 1555, quando viene eletto Papa Paolo IV Carafa, che con la bolla "Cum nimis absurdum" riduce gli ebrei a schiavi senza diritti; un muro li chiude nell'area tra piazza Cenci, via Pescheria e il Tevere; sarà distrutto nel 1848.

 La visita del Papa
  Dalle scene domestiche alla povertà, dalle botteghe artigiane alle fughe, a storia sotto forma di fumetto fa tutt'altro effetto. Nel 1885 il Comune decide la bonifica del ghetto, l'area viene rasa al suolo e ricostruita, nel 1904 si inaugura il Tempio maggiore, poi arrivano le guerre, le leggi razziali, l'attentato del 1982, il caso Priebke, la visita del Papa in sinagoga. Il libro si chiude con un glossario giudaico-romanesco di cui ancora si avvertono gli echi.
   Ho cominciato questa storia quattro anni fa - dice Camerini - come se la stessi raccontando a mio figlio che allora aveva 12 anni. Penso che un libro a fumetti possa essere letto nelle scuole, ma istruire anche gli adulti e aiutare a comprendere il ruolo che gli ebrei hanno sempre avuto in questa città. Vista l'ondata di razzismo, adesso servirebbe un fumetto sui rom».

(Il Messaggero, 6 luglio 2015)


L'esercito di Damasco entra nella strategica città di Zabadani

DAMASCO - Le forze del regime siriano, aiutate dalla milizia alleata libanese di Hezbollah, sono entrate nella citta' di Zabadani, una delle ultime localita' ancora controllate dai ribelli alla frontiera con il Libano. Lo hanno reso noto i media di Stato. Il progresso dell'esercito di Bashar al-Assad e' stato confermato dall'Osservatorio siriano per i diritti umani e dall'emittente di Hezbollah, al-Manar. Secondo l'Osservatorio, un'ong con sede a Londra ma che si avvale di una rete di informatori sul terreno, il regime ha lanciato almeno 12 barili di esplosivo sulla citta', ormai deserta. Le forze del regime adesso hanno il controllo, riferisce l'agenzia di notizie statale Sana, dei quartieri di Al Yamiyat e Al Sultaneh. L'esercito e d Hezbollah hanno lanciato sabato l'offensiva per recuperare il controllo di Zabadani, che era in mano ai ribelli sunniti e ha un'importanza strategica per il regime perche' si trova sulla rotta che unisce Damasco con la provincia centrale di Homs e la zona costiera del nord, rotta su cui passano uomini, armi e combustibile. Un tempo popolare destinazione turistica, ormai la citta' e' praticamente deserta e ormai distrutta all'80 per cento.

(AGI, 5 luglio 2015)


Milano - In piazza per Israele

 
Una manifestazione in solidarietà di Israele è stata organizzata venerdì scorso a Milano, in piazza Cordusio. Un incontro, a cui hanno aderito diversi esponenti della Comunità ebraica milanese tra cui i presidenti Milo Hasbani e Raffaele Besso, organizzato per sensibilizzare l'opinione pubblica di fronte all'ultimo e vergognoso atto vandalico perpetrato contro la bandiera israeliana, esposta lungo le vie di Milano assieme a quella degli altri Paesi che partecipano a Expo. Negli scorsi mesi la bandiera con il Maghen David era già stata presa di mira (l'atto vandalico della scorsa settimana è il quinto) e per questo era stata spostata da Via Mercanti a Via Dante. Nuova collocazione che però non ha evitato il ripetersi dell'attacco incivile e da qui la manifestazione - promossa da associazione Amici di Israele, Progetto Dreyfus e il movimento Sionista Over The Raibow Italy - di venerdì scorso. Le autorità stanno analizzando le telecamere di sorveglianza per cercare di individuare i responsabili.

(moked, 5 luglio 2015)


L'Autorità Palestinese arresta cento membri di Hamas

di Roberta Papaleo

Le forze dell'Autorità Palestinese hanno arrestato 100 membri del movimento Hamas in Cisgiordania, in quello che è stato definito il più grande blitz nel suo genere negli ultimi 10 anni.
Husam Badram, portavoce di Hamas, ha dichiarato che gli arresti sono un modo per fermare l'ondata di attacchi da parte dei palestinesi contro Israele. Badram ha accusato le forze di sicurezza palestinesi di collaborare con Israele e ha aggiunto che Hamas ritiene Mohmoud Abbas direttamente responsabile.
Da parte sua, l'Autorità Palestinese non ha rilasciato commenti.

(ArabPress, 3 luglio 2015)


Se l'Isis minaccia Israele: il nuovo fronte del Sinai

Dopo il lancio dei tre razzi verso il deserto del Negev.

di Davide Frattini.

GERUSALEMME - I sessanta cadaveri depositati sul fondo bluastro di una piscina vuota. Le ruspe che scaricano le armi e le munizioni catturate ai miliziani. La parata davanti al presidente ridiventato per un giorno generale che si presenta davanti alle truppe con l'uniforme mimetica. Per dimostrare che la capitale non ha abbandonato la penisola di sabbia, che è tempo di lasciar andare con il vento del deserto le parole di un intellettuale locale, a trentaquattro anni dal ritiro israeliano: «Il Sinai è ritornato all'Egitto, l'Egitto non è mai ritornato al Sinai».
   Abdel Fattah al Sisi è volato dal Cairo per incoraggiare gli «eroi in prima linea» mentre la guerra va avanti e rimbalza verso Israele: venerdì tre razzi sono stati sparati contro il sud del Paese, l'attacco è stato rivendicato dal gruppo che alla fine dell'anno scorso ha giurato fedeltà allo Stato islamico. L'esercito israeliano è in allerta da mercoledì, la strada numero 12 che corre lungo la frontiera è rimasta chiusa da quando gli estremisti hanno assaltato quindici basi militari egiziane nel Nord del Sinai e hanno ucciso 70 persone tra militari e civili. In tre giorni la controffensiva ordinata da Sisi avrebbe ammazzato 250 miliziani.
   I droni telecomandati israeliani controllano le montagne di pietra rossa, volteggiano dove i caccia egiziani non si arrischiano a volare, i miliziani di questo nuovo distaccamento del Califfato sono equipaggiati con missili antiaerei. La cooperazione tra i due Paesi avvicinati dalla pace fredda non è ufficiale ma di certo il governo di Benjamin Netanyahu ha acconsentito a un incremento delle truppe arabe nella penisola (il limite è stabilito dall'accordo di Camp David del 1979). «Dobbiamo sperare che gli egiziani siano in grado di risolvere i loro problemi — commenta Shaul Shay, già vicecapo del consiglio di sicurezza nazionale — prima che si riversino su di noi. Stiamo assistendo a un livello di confronto militare mai visto nel Sinai».
   Gli analisti temono che i gruppi locali tentino di utilizzare i blindati catturati all'esercito del Cairo per attaccare i valichi e la barriera lungo in confine. «Gli uomini di Ansar Bayt al Maqdis, l'organizzazione che ha stretto un'alleanza con il Califfo, hanno sviluppato grandi capacità tattiche — scrive Ron Ben-Yishai sul quotidiano Yedioth Ahronoth —.
L'operazione coordinata di mercoledì dimostra che non si tratta più di una banda di criminali capaci al massimo di sparare a qualche bus israeliano o tentare un'imboscata a una pattuglia».
   Netanyahu considera i sessantunmila chilometri quadrati di deserto il «selvaggio Far west», ancor più adesso che — avverte — «lo Stato islamico è alle nostre porte».
   Il premier e i suoi consiglieri sembrano tentati di sfruttare il caos dall'altra parte della frontiera per indebolire Hamas. Il generale Yoav Mordechai, che coordina le attività nei territori, sostiene («con prove») che i fondamentalisti palestinesi abbiano aiutato gli estremisti egiziani a organizzare i raid di mercoledì. L'obiettivo è riammorbare i rapporti tra la fazione che domina la Striscia di Gaza e il governo egiziano: negli ultimi mesi Sisi sembra aver deciso di «perdonare» il movimento palestinese dopo averlo accusato di appoggiare la ribellione dei Fratelli musulmani in tumulto dalla deposizione del loro presidente Mohammed Morsi due anni fa.
   «Non possiamo permettere che il Califfato spalleggi Hamas dal Sinai — spiega Alex Fishman su Yedioth — e non dobbiamo illuderci: lo Stato islamico non si è installato solo nella penisola, sarebbe ingenuo non rendersi conto che è penetrato nel deserto del Negev e la sua ideologia sta influenzando gli arabi con carta d'identità israeliana. È una malattia infettiva ed è già tra noi».
   
(Corriere della Sera, 5 luglio 2015)


Hamas: Israele ha fatto sapere che non lancerà una nuova offensiva su Gaza

RAMALLAH - Israele non darà il via a una nuova offensiva contro la Striscia di Gaza nonostante il lancio di alcuni raggi nei giorni scorsi provenienti dall'enclave palestinese. E' quanto affermano i dirigenti del movimento islamico palestinese di Hamas, che controlla la Striscia di Gaza. Durante una preghiera in occasione del Ramadan all'interno della della moschea del campo profughi di Nuseirat, nel centro di Gaza, il numero due di Hamas, Ismayl Haniyeh, ha affermato che "Israele ha fatto sapere che non intende lanciare un attacco" contro la Striscia". Lo scorso anno hanno deciso di dichiararci guerra mentre quest'anno hanno dimostrato aperture nei nostri confronti", ha detto Haniyeh.
Simpatico, Haniyeh!


(Agenzia Nova, 5 luglio 2015)


Il Califfato nel Sinai, Al Sisi chiede aiuto a Israele

Uccisi 250 jihadisti

di Michael Sfaradi

GERUSALEMME - Venerdì scorso un missile è stato lanciato dal Sinai verso le citta israeliane del Neghev e il suono delle sirene è risuonato nel sud di Israele rinnovando l'incubo che sembrava finito con l'operazione militare a Gaza della scorsa estate. L'Isis ha rivendicato poche ore dopo, ma questo è solo l'ultimo degli eventi accaduti negli ultimi giorni e il Medioriente sta purtroppo vivendo una fase così fluida che anche i più esperti commentatori non riescono a dare alcuna previsione, neanche a breve termine. Da tempo infatti, anche se i diretti interessati si sono sempre nascosti dietro al "no comment", Israele, in chiave anti Isis, collabora a livello di intelligence sia con la Giordania che con l'Egitto: furono infatti i satelliti israeliani a dare le coordinate all'aereonautica militare giordana per l'attacco in Siria nel febbraio scorso dopo l'uccisione del pilota arso vivo dentro a una gabbia metallica. Questa collaborazione ha però fallito mercoledì scorso quando i terroristi di diverse fazioni affiliate al Califfato hanno condotto diversi attacchi nel Sinai, principalmente contro posti di blocco dell'esercito egiziano. In questi attacchi circa 70 soldati sono stati uccisi. La reazione egiziana è stata dura: il presidente Al Sisi ha annunciato ieri l'uccisione di 250 jihadisti.
   II Sinai è ormai diventata una base territoriale per attacchi di tutti i tipi e questo sia per l'Egitto che per Israele è inaccettabile. I servizi di intelligence israeliani non fanno mistero di avere la certezza che gli affiliati all'Isis nel Sinai avrebbero ricevuto da Hamas le armi per condurre l'attacco dei giorni scorsi. Se questo venisse confermato sarebbe di una gravità enorme perché metterebbe allo scoperto un legame operativo fra l'organizzazione di Ismail Haniyeh e ISIS, aprendo il futuro a nuovi e ancora più inquietanti scenari. Il Presidente egiziano Al-Sisi, che deve dare un segnale importante dopo l'ondata che ha travolto i suoi militari, ha chiesto a Israele il permesso di dislocare più truppe e mezzi pesanti nel Sinai - il trattato di pace del 1979 permette agli egiziani di dislocare solo una quantità limitata di truppe e mezzi al ridosso del confine - e Gerusalemme lo ha immediatamente concesso. Poi ha inoltrato formale richiesta di aiuto al governo israeliano di far intervenire il suo esercito nel Sinai in chiave antiterroristica. Anche se nessuna decisione è stata per il momento presa, probabilmente il governo israeliano affronterà la questione nella riunione prevista oggi, truppe di terra con mezzi pesanti sono state dislocate non lontano dai confini in attesa delle decisioni politiche che matureranno nelle prossime ore. Israle, con l'Isis a meno di 60 chilometri dal confine del Golan a nord e ora anche a ridosso del Neghev a sud, non si tirerà certamente indietro e fornirà al Cairo un aiuto importante sia tattico che strategico.
   Le ipotesi vanno dall'intensificazione del passaggio di informazioni di intelligence, alla massiccia presenza di droni, fotografici o armati, nei cieli del Sinai. Non è neanche da escludere un vero appoggio aereo alle truppe egiziane. Questo è necessario anche in base a delle realtà che non si possono più ignorare, sono circa 700, fra militari e poliziotti, gli egiziani uccisi nel Sinai settentrionale negli ultimi 20 mesi e questo conferma che davanti alla guerriglia terroristica anche il 13 esercito del mondo ha difficoltà a difendere e a difendersi.
   
Libero, 5 luglio 2015)


Milano - Sicurezza aumentata alla scuola ebraica

 
La scuola ebraica di Milano
Prima "l'affronto" poi venerdì pomeriggio la manifestazione di solidarietà, alla quale hanno partecipato il consigliere comunale del Polo dei milanesi, Manfredi Palmeri e l'expresidente del Consiglio provinciale Bruno Dapei assieme a decine di cittadini. In pratica, la bandiera di Israele esposta per Expo in via Dante è stata imbrattata con vernice rossa. L'azione sarebbe avvenuta il 30 giugno. Secondo quanto riferito dalla polizia sembra che l'autore abbia intinto il pennello per tre volte in un secchio di vernice e per tre volte abbia schizzato il colore. Non è la prima volta che la bandiera è oggetto di contestazioni così come sono sempre nel mirino dei vandali anche altre strutture della Comunità ebraica. Proprio per questo motivo la bandiera era stata spostata da via Mercanti a via Dante, dall'altra parte di piazza Cordusio. E le minacce contro Israele e la Comunità ebraica milanese sembrano essere aumentate negli ultimi tempi, tanto che la Prefettura ha chiesto nei mesi scorsi che si inasprissero le misure di sicurezza (attiva e passiva) alla scuola ebraica ortodossa Merkos l'Inyonei Chinunch in via Forze Armate, struttura di proprietà del Comune e gestita dal Chabad-Lubavitich.

(Avvenire, 5 luglio 2015)


Profughi a Milano: accoglienza sul binario della Shoah

di Paolo Lambruschi

Ogni tanto il tetto trema, nel vecchio magazzino ferroviario dove il tempo si è fermato a 70 anni fa. Sono i treni della Centrale che passano sopra la nostra testa, quelli che i profughi di passaggio a Milano per entrare in Europa, i transitanti, cercano di prendere senza documenti e spezzando i percorsi fino a triplicare i tempi del tragitto per evitare i controlli delle polizie di frontiera della Fortezza Europa. Da più di 10 giorni, con la regia di Sant'Egidio, la Comunità ebraica milanese, anglicani ed evangelici, ortodossi, musulmani e cattolici, accolgono ogni sera una trentina di profughi di passaggio in città - donne, bambini e minori - nella sede del Memoriale della shoah, il binario 21 da cui partirono i treni maledetti che deportarono gli ebrei ad Auschwitz. Fu Liliana Segre, deportata bambina nel gennaio del 43 verso il lager nazista e una delle poche superstiti, a ritrovare quel sotterraneo della vergogna e a farlo riaprire nel 1997. Nell'androne i volontari hanno steso delle brandine da campo per i profughi. È un angolo fresco ricavato accanto al binario 21, interrato per non far vedere i vagoni in partenza carichi di deportati alla città. Ragazzi e ragazze, dopo essersi lavati e cambiati con gli indumenti portati dai milanesi alla Stazione quando è scoppiata l'emergenza di giugno, dovuta al blocco delle frontiere tedesca (ora riaperta) e francese (sempre chiusa), mangiano.
   In questa iniziativa interreligiosa solidale, quasi incredibile in questo tempo, dolce come una carezza e forte come un pugno, la cosa che più colpisce è che i giovanissimi transitanti dall'Eritrea, dall'Etiopia, dal Darfur sudanese e dalla Siria chiedono di vedere i vagoni originali degli anni '40. E di frequente, una volta che hanno capito, pregano e sulle loro brandine, assicurano i volontari, nascono discorsi incredibili sulla fede e sull'Europa che ieri aveva girato la testa davanti alla persecuzione degli ebrei e oggi chiude le porte ai profughi che arrivano dal mare. È stata la stessa Liliana Segre a dire che i barconi di oggi dei viaggi della speranza che solcano il Mediterraneo sono come i vagoni dei nazifascisti. Molti profughi sono minorenni che cercano di raggiungere le famiglie in Germania, Scandinavia e, addirittura in Gran Bretagna passando per Calais, dove i migranti danno l'assalto ai camion che devono entrare nell'Eurotunnel. Nessuno ha passaporti o visti, dormono qualche ora in Centrale per una, al massimo due notti prima di tentare la via del nord con incoscienza adolescenziale, in barba ai regolamenti.
   Al binario 21 eritrei ed etiopi raccontano le loro storie di viaggio. A Tripoli dicono che i miliziani di Alba libica affoghino chi non paga la tangente per imbarcarsi, mentre i darfurini parlano di Iskandria, Alessandria, la nuova base di partenza, dove i trafficanti per confondere la Guardia costiera egiziana fanno cambiare la barca obbligando i passeggeri a lunghe ed estenuanti marce nelle isole prima di prendere la nave madre. Non tutti ce la fanno. Sant'Egidio da anni ha fatto un cavallo di battaglia della richiesta - che sarebbe a costo zero - di aprire varchi umanitari attraverso le ambasciate per evitare questi drammi e migliaia di morti. Passa ancora un treno sui binari sopra e il magazzino del binario 21 rimbomba. Ma i giovanissimi transitanti non lo sentono neppure, forse domani è l'alba giusta per loro.

(Avvenire, 5 luglio 2015)


Iran: il fumo grigio dell'accordo nucleare

di Esmail Mohades

Si va ai tempi supplementari, ma l'accordo sulla questione nucleare tra il regime iraniano e i 5+1 sarà firmato, mentre la questione non terminerà con la firma. L'accordo" sarà siglato probabilmente il 7 luglio, che non è una data qualunque, ma l'ultimo giorno utile per evitare che il Congresso statunitense abbia, non uno, ma due mesi per approvare l'accordo e revocare le sanzioni di sua competenza o immettere nuovi ostacoli e incognite sull'intesa. Già! Un solo mese in più aggraverebbe le disastrose condizioni del regime religioso al potere in Iran. Quando dall'altra parte del tavolo dei negoziati siedono i perfidi uomini indottrinati da Khamenei, c'è sempre da aspettarsi qualche sorpresa; alla fine l'inchiostro scorrerà sull'accordo, proprio per le condizioni disperate del regime islamico di Teheran. L'accordo sarà figlio della debolezza della politica estera dell'Amministrazione di Obama e dell'estrema vulnerabilità del regime islamico immerso nelle sue crisi socio, economico e soprattutto politiche.
   L'Iran e i 5+1 hanno bisogno di siglare l'accordo; in caso di fallimento, Rouhani, il presidente dei mullà, oltre a perdere i vitali 500 milioni di dollari al mese che riceve dallo scongelamento dei beni iraniani dal
Secondo le cifre ufficiali della banca centrale dell'Iran, il Paese viaggia con una recessione a -7 e un'infla- zione a +40. Rouhani potrà scaricare il fallimenti su Khamenei, e lo farebbe volentieri.
novembre 2013, non potrà più spendere le sue vacue promesse di miglioramento alla popolazione pronta a esplodere. Secondo le cifre ufficiali della banca centrale dell'Iran, il Paese viaggia con una recessione a -7 e un'inflazione a +40. Rouhani potrà scaricare il fallimenti su Khamenei, e lo farebbe volentieri, ma rimane sempre la spada di Damocle: la Repubblica islamica sopravvivrà alla sua Guida? Proprio Khamenei ha dato ordine a Rouhani - come aveva fatto nel 2009 con Ahmadinejad - di proseguire i negoziati, perché non poteva non farlo. Da qui l'intenso rapporto epistolare con Obama. I negoziati dovevano però concentrarsi sui siti già noti. Ecco perché nell'ultima maratona gli uomini del regime islamico, in particolare Zarif, cercavano di acquistare la "fiducia" dei partner anziché mostrare "trasparenza". Bisogna affermare che i 5+1, soprattutto John Kerry, sono stati al gioco.
   L'Amministrazione di Obama finora ha proseguito spedita sostenendo che era possibile far rinunciare il regime iraniano senza l'uso della forza militare. Questo è vero, ma non come fa lui. Nel corso della negoziazione i restanti cinque paesi si sono chiesti se John Kerry difendesse la parte dei 5+1 oppure quella iraniana. Barack Obama, l'uomo dall'intelligenza corta, dopo la famosa "we don't have a strategy yet" dell'agosto 2014 doveva pur ottenere qualche risultato nella sua fallimentare politica estera. Oltre al riallacciamento dei rapporti con la Cuba di Castro, tutto sommato maturo e prevedibile, una firma con gli iraniani gli è sembrata indispensabile, e su questa strada ha superato il proverbiale cinismo del suo predecessore repubblicano Nixon.
   L'accordo avrà la sua firma, ma la questione nucleare sarà sempre aperta finché campa lo Stato islamico
Uno stato che esporta il suo inte- gralismo e terrorismo e fa della repressione interna la caratteristica intrinseca di uno Stato islamico che appartiene ai secoli ormai trascorsi, mentre la società civile iraniana viaggia nel ventunesimo secolo.
al potere in Iran. Uno stato che non solo esporta il suo integralismo e terrorismo ma fa della repressione interna la caratteristica intrinseca di uno Stato islamico che appartiene ai secoli ormai trascorsi, mentre la società civile iraniana viaggia nel ventunesimo secolo. La settimana scorsa il prestigioso Washington Institute for Near East Policy, think tank della capitale - molti esperti con l'esperienza in seno all'Amministrazione, tra cui il generale David Petraeus e il negoziatore Dennis Ross - in una lettera indirizzata alla Casa Bianca scriveva che "L'accordo non impedirà all'Iran di ottenere armi nucleari perché non impone lo smantellamento delle infrastrutture per l'arricchimento. Le ridurrà soltanto per i prossimi dieci o quindici anni…".
   Tutte le parti negoziali, compresi i contraddittori uomini del regime tanto scaltri quanto languidi, esternano ottimismo e dichiarano che alla fine dal camino non uscirà il fumo nero. Temo che questa volta neanche i più devoti e interessati tifosi occidentali del regime dei mullà potranno giubilare; il fumo tutt'al più sarà grigio, così com'è la politica occidentale in tutto il Medio Oriente. L'inaffidabile Stato teocratico al potere in Iran, detestato dalla sua popolazione stremata dalla repressione e dalle pressioni economiche, non potrà dare nessuna garanzia sui suoi progetti nucleari per il futuro. Le armi nucleari fanno parte della strategia del regime di Teheran. Il cancerogeno regime dei mullà ha fatto già avanzare le metastasi in mezzo mondo. Questa morsa integralista potrebbe essere fatale, se i governi occidentali tardassero ancora a intraprendere la strada giusta, che è affrontare il regime con fermezza e appoggiare la lotta degli iraniani per uno Stato di diritto.

(L'Opinione, 4 luglio 2015)


Battipaglia vuole "riabilitarsi". Cittadinanza onoraria a Levi

Fu un militare della Piana a "smascherare" e far arrestare l'intellettuale ebreo Ora alcune associazioni pressano il Comune per un riconoscimento alla memoria.

di Francesco Piccolo

La lunga marcia di Primo Levi, dalla resistenza, all'arresto, fino alla prigionia ad Auschwitz e alla successiva liberazione, partì da Battipaglia. O meglio, da documenti falsi intestati ad un cittadino battipagliese che Levi aveva con sé il giorno dell'arresto in Valle d'Aosta, il 13 dicembre 1943. E fu proprio un soldato battipagliese a riconoscere la falsità di quei documenti, di fatto condannando Levi alla prigionia nel campo di sterminio famigeratamente noto in Polonia. Un dettaglio non trascurabile della vita di Levi venuto alla luce solo negli anni'90, grazie da un libro-intervista pubblicato da Ferdinando Camon dal titolo "Conversazioni con Primo Levi" (Garzanti, 1991).
   In tale libro, lo scrittore ebreo rivelò, con dovizia di particolari, le modalità del suo arresto sul Colle di Joux, in Valle d'Aosta, e la presenza dei documenti falsi, intestati ad un battipagliese, in suo possesso. Aspetti della vita di Primo Levi che sono finite anche allo studio del Comune di Battipaglia. Al punto che l'ente potrebbe decidere - la proposta è stata già presentata da alcuni cittadini particolarmente attenti alla storia - di conferire a Levi, scomparso nel 1987, la cittadinanza battipagliese alla memoria.
   Raccontò lo scrittore a Camon: «Fui io a farmi riconoscere come ebreo. Ero stato preso con carte false, vistosamente false: tra l'altro, risultavo nato a Battipaglia, e il militare che mi ha preso (e schiaffeggiato) era di Battipaglia, e questo mi ha messo subito in una posizione difficile. Ero sospettato di essere ebreo, correva qualche voce in Valle d'Aosta che io fossi ebreo. I militi che mi avevano catturato mi avevano detto: "Se sei un partigiano ti metteremo al muro, se sei un ebreo ti manderemo a Carpi"». La risposta di Primo Levi per salvarsi la vita è facilmente intuibile. E da lì iniziò la lunga marcia dello scrittore, descritta in seguito nelle sue opere.
   Dopo l'arresto da parte della milizia fascista nel villaggio di Amay, sul versante verso Saint-Vincent del Col de Joux (tra Saint-Vincent e Brusson), fu trasferito nel campo di Fossoli, insieme al suo generale Luigi Casaburi (originario dell'agro nocerino sarnese), presso Carpi, in provincia di Modena. Il 22 febbraio 1944, Levi ed altri 650 ebrei, donne e uomini, vennero stipati su un treno merci (oltre 50 persone in ogni vagone) e destinati al campo di sterminio di Auschwitz in Polonia. Levi fu qui registrato (con il numero 174.517) e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come Auschwitz III, dove rimase fino alla liberazione da parte dell'Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio 1945.
   Fu uno dei venti sopravvissuti dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo. La storia della prigionia e del suo ritorno a casa è raccontata nei romanzi "Se questo è un uomo" (1947) e "La tregua" (1963). È difficile ritrovare in altre opere o interviste dei riferimenti, da parte di Primo Levi, a Battipaglia o al suo arresto con documenti falsi intestati ad un battipagliese. La stessa intervista di Ferdinando Camon fu ripresa dallo scrittore Frediano Sessi per il volume intitolato "Il lungo viaggio di Primo Levi - La scelta della resistenza, il tradimento, l'arresto. Una storia taciuta", edito da Gli Specchi Marsilio. Ma senza ulteriori dettagli. Non si conosce neppure il nome del soldato battipagliese che arrestò Primo Levi, così come non si è a conoscenza dei dati che erano inseriti sui documenti in possesso dello scrittore, ma intestati ad un cittadino di Battipaglia.
   Nell'ambito dell'attività di ricerca che singoli cittadini ed associazioni stanno portando avanti per convincere il Comune a conferire a Levi la cittadinanza battipagliese alla memoria, si potrebbe giungere a conoscere altri particolari. D'altra parte, allo scopo anche di conferire la cittadinanza alla memoria di Primo Levi, il Comune di Battipaglia potrebbe essere costretto a modificare il regolamento per il conferimento di tale onorificenza, approvato cinque anni fa. In tale documento, infatti, non è prevista, oltre alla cittadinanza onoraria, quella benemerita. Che si concede anche alla memoria, a differenza della prima. L'iter burocratico ed amministrativo, che prevede solitamente una proposta da parte della giunta comunale ed il voto del consiglio, potrebbe essere decisamente sveltito dalla presenza a Palazzo di Città di una commissione straordinaria che incamera i poteri dell'esecutivo e del parlamentino cittadino. Basterà semplicemente la volontà di farlo.

(la Città di Salerno, 3 luglio 2015)


Milano - Kosher Expo continua alla "Casa 770"

MILANO - A seguito del successo del convegno sull'alimentazione Kosher svoltosi all'Università Bocconi, il KosherExpo, organizzato da EuroKosher, prosegue con iniziative settimanali alla Casa 770 di via Poerio 35.
Gli incontri, denominati 'Aperitivi dal Gusto Kosher' sono gratuiti e aperti al pubblico e dedicati alla degustazione del cibo Kasher, accompagnati da una lezione e un momento di intrattenimento musicale.
Le degustazioni sono cibi tradizionalmente italiani ma con il certificato Kosher come salumi, vino, olio, birra, etc…
L'intrattenimento musicale è eseguito da artisti locali come il trio Kimiagar, Negri e Lazzarelli, e dal cantore rabbino Mendy Kaplan.
La location che ospita il progetto prende il nome della prima casa Chabad costruita nel '40 al civico 770 di Eastern Parkway, Brooklyn. KosherExpo è un progetto "contenitore" in concomitanza con Expo 2015 che affronta il tema della Kasherut, l'insieme delle regole alimentari della religione Ebraica.
Eurokosher è una società diretta da Rav Avraham Hazan, riconosciuto a livello internazionale per la sua conoscenza delle regole alimentari halachiche ed esperienza nel settore.Tale società si occupa di certificazione kosher per aziende alimentari italiane ed europee e in collaborazione con il ramo educativo di Chabad Lubavitch, il Merkos.

(Chabad.Italia, 3 luglio 2015)


Tunisia - L'imam: la strage è colpa dei turisti

di Mirko Molten!

A una settimana dalla strage di Sousse, sembra che due anime della Tunisia si fronteggino, a dimostrazione che lo scopo dei terroristi è destabilizzare una nazione islamica moderata. Proprio la zona di Sousse, dove 1126 giugno sono state massacrate 38 persone, quasi tutte turisti stranieri, è stata scenario di scontri fra centinaia di dimostranti e la polizia a causa del decreto di chiusura per 80 moschee non controllate dallo Stato. I facinorosi hanno bersagliato di sassi gli agenti, che hanno risposto sparando lacrimogeni. Non è un buon segnale, tenuto conto che Sousse è una delle aree a infiltrazione estremista. Ieri è arrivato a 12 il totale delle persone arrestate dopo la strage, e la polizia seguita a indagare. Sono stati rimossi i commissari di Sousse, Monastir e Kairouan, città quest'ultima di cui era originario l'attentatore Seifeddine Rezgui. Tre membri di una cellula Isis sgominata a Sfax sono ancora latitanti in Libia, ormai "santuario" senza leggi. In tutto ciò, piomba una critica ai turisti stranieri da parte di un capo religioso salafita, Adel Admi, che ha dichiarato: «Col turismo straniero si diffondono da noi alcol, relazioni extraconiugali e peccati. I tunisini più religiosi potrebbero reagire e potrebbero finire con l'essere usati dall'Isis». Admi ha inoltre rincarato: «Trattandoli come loro servi e pagandoli un'inezia, i turisti spogliano della loro dignità i tunisini. E un insulto vedere ufficiali della polizia con un mucchio di turiste in bikini, i politici si ricordino che l'Islam è la religione di Stato». Commenti che sembrano incolpare le vittime uccise sulla spiaggia e gettano benzina sul fuoco.
   Frattanto è stato confermato dagli americani e anche dalla polizia tunisina che il maggior ispiratore dell'attentato a Sousse è stato già ucciso un paio di settimane fa, il 14 giugno, in Libia dallo stesso drone dell'US Air Force che attaccava e uccideva coi suoi missili anche il capo jihadista algerino Mokhtar Belmokhtar. Altra notizia positiva è che hanno superato i 1700 i poliziotti armati aggiunti alla sorveglianza delle località di vacanza. Intanto, in mattinata, si era svolta la cerimonia di commemorazione dei morti di Sousse, tenutasi sulla spiaggia maledetta alla presenza del primo ministro Habib Essid e dell'ambasciatore britannico Hamish Cowell.
   Ma si apre un altro fronte in Israele. Un gruppo armato di Gaza legato allo Stato islamico, la brigata Omar Hadid, ha rivendicato il lancio di un razzo, caduto in una zona aperta del Paese vicino al confine con l'Egitto senza causare vittime né danni. Per l'esercito israeliano in realtà il razzo sarebbe stato lanciato dalla penisola del Sinai, in Egitto, e non dalla Striscia di Gaza.

(Libero, 4 luglio 2015)


Il sorriso dell'assassino

di Giulio Meotti

 
Sorride Hakim Awad, il terrorista palestinese condannato a cinque ergastoli per l'assassinio di cinque membri della famiglia Fogel a Itamar (Israele).
 
La famiglia Fogel. Padre, madre e tre bambini, tutti sgozzati mentre dormivano. In tribunale l'assassino faceva il segno di vittoria ridendo ai parenti delle vittime.
Il malvagio che sghignazza ferisce l'umanità. John Wayne Gacy Jr. si travestiva da clown, "Pogo il clown", per i bambini del quartiere. Ridevano tutti assieme. Ma lui rideva di più. In sei anni, tra il 1972 e il 1978, ne uccise trentatré di ragazzi tra i nove e i ventisette anni. Li nascondeva sotto il pavimento. Sopra ci recitava da clown. Diverso il riso catatonico, quasi un buco nero, di Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwakee che faceva a pezzi le sue vittime. Inarrivabile il Malcolm McDowell che recita la parte del serial killer di Rostov. Lo ha voluto impersonare dopo averne visto "il sorriso goffo e sghembo in un filmato".
  Di Pol Pot, che sterminò un terzo della popolazione cambogiana nel tentativo perverso di reinventare, letteralmente, la società, si parlava come di "una persona sorridente che emana serenità". Scrive Peter Froberg Idling nel suo libro "Il sorriso di PoI Pot": "I Khmer rossi sorridevano tutti allo stesso modo: un sorriso affettato, come se copiassero qualcun altro. Una sorta di sogghigno privo di gioia. PoI Pot sorride. Ieng Sary sorride. Khieu Samphan sorride. Lo stesso strano sorriso". Samphan era l'asceta rosso che combatteva la corruzione, che andava al ministero in bicicletta, che lasciava che la madre continuasse a vendere banane arrostite all'angolo della strada e che nel frattempo pianificava il genocidio del proprio popolo. Come scrisse Charles Meyer, consigliere francese del principe Sihanouk, "dietro il sorriso dei Khmer rossi c'era molta violenza".
  In aula, nel 1987, rideva sul banco degli imputati KIaus Barbie, il "boia di Lione", capo della Gestapo nella città francese durante l'occupazione nazista, responsabile della cattura di centinaia di ebrei francesi. Il suo "capolavoro" fu la deportazione di 44 bambini ebrei catturati in una colonia-rifugio a Izieu. Il più piccolo aveva tre anni, il più grande diciassette: nessuno si salvò.
  Nel 2007, l'Us Holocaust Memorial Museum rese pubblico un album che conteneva 116 fotografie di ufficiali nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz. Si vede Josef Mengele, il medico del campo famigerato per i suoi esperimenti, che sorride mentre le camere a gas operano notte e giorno nei camini della vicina Birkenau. "Ridere ad Auschwitz", titolò il settimanale Spiegel. In un altro scatto, dodici ausiliari delle SS siedono felicemente su una ringhiera a mangiare mirtilli. La foto era stata scattata nel 1944 a Solahùtte, una casa di villeggiatura ad Auschwitz, mentre migliaia di persone venivano uccise e cremate nel campo di sterminio vicino. In alcune foto, ufficiali delle SS ridono e cantano. Fra di loro, Mengele. Una sopravvissuta ai suoi esperimenti, Eva Kor, lo ricorda ridere mentre spiegava alle sue cavie che non rimaneva loro da vivere che pochi giorni.
  E' allucinato il riso di Charles Manson, prototipo del Joker, pubblicato sulla prima pagina del Los Angeles Times. Le più feroci al suo servizio furono le donne. Nella villa di Bel Air, infierirono con il coltello su Sharon Tate, la moglie di Roman Polanski, e inzupparono un asciugamano nel suo sangue per scrivere la parola "Pig'' sulla porta di casa. Porco. Signorine cattoliche, tutte di buona famiglia, prestate alla teoria del subumano da uccidere (il pig) per sperimentare il massimo godimento C'Oh, è meglio di un orgasmo!", disse ridendo Susa n Atkins a Ronnie Howard). Poi arriveranno i jihadisti contro "i figli di maiali e scimmie". All'epoca del processo, tutta la stampa californiana underground salutò Manson come un messia, mentre davanti al tribunale non mancavano mai i picchetti di menadi che digiunavano per maledire chi teneva ammanettato quel Cristo laico. Gli imputati, prima di essere caricati sul furgone, ricevevano dal pubblico fiori, dolci, opuscoli apologetici, bigliettini d'amore. Manson, magro e storto, brutto e misero, indossando ciabatte di spugna rideva e testimoniava in aula: "lo non penso come voi. Voi date un'importanza alle vostre vite".
  E' lo stesso messaggio che oggi lanciano all'occidente gli islamisti: "Voi amate la vita così come noi amiamo la morte". Adesso sono i terroristi islamici, infatti, che ridono e spengono vite umane. Ma il loro è un sorriso inerte, inebetito. E' quello che è conosciuto nella tradizione islamica come "bassamat al Farah", o "sorriso della gioia" scatenato dal proprio, imminente martirio e accesso nel cielo delle vergini. Dopo l'11 settembre, verrà composto anche un sonetto in onore di Mohammed Atta dal titolo "Sorridi al cielo". Una combinazione seducente di senso di colpa post-coloniale e di condiscendenza liberaI ha offuscato i nostri sensi morali e ci ha reso ciechi al sorriso di questi messaggeri di morte che continuano a colpire.
  Secondo i testimoni, Seifeddine Rezgui, mentre uccideva i turisti occidentali sulla spiaggia di Sousse, "mostrava un grande sorriso". Sorrise anche alla guardia del resort di lusso, dicendogli "voglio soltanto gli occidentali", mentre gli risparmiava la vita perché musul mano. A Sarissa, in Kenya, terroristi descritti dai sopravvissuti come "sorridenti" separavano studenti cristiani e musulmani mentre abbattevano i primi con i kalashnikov, uno a uno. E il terrorista della maratona di Boston, Dzhokhar Tsarnaev, emulo di KIaus Barbie, nell'udienza in cui è stata formalmente emessa la sentenza di condanna a morte non ha mai smesso di ridere di fronte alle sue vittime presenti in tribunale, molte delle quali rimaste mutilate.
  Un video girato il 18 gennaio del 2000 in Afghanistan mostra Mohammed Atta e Ziad Jarrah, i due capi del commando suicida che si sarebbe schiantato contro le Torri gemelle e in Pennsylvania. I terroristi scherzano e ridono a crepapelle tra di loro. E' un riso febbrile, isterico, pallido. I giornali tedeschi hanno poi raccontato la storia del "kamikaze sorridente". Un giovane uomo che guarda direttamente nella fotocamera. Sorridendo, con il dito puntato verso il cielo, ad Allah. L'uomo è un cittadino tedesco di origine turca, Cuneyt Ciftci, originario di Frisinga, in Baviera. Il fungo della sua bomba umana è salito a ottanta metri verso il cielo.
Amrozi bin Nurhasyn
  Un sorriso luminoso, infantile, rallegrava il volto di Amrozi bin Nurhasyn durante il processo per l'attentato di Bali. Colpevole di aver ucciso 202 persone facendo esplodere un'autobomba, Nurhasyn rideva mentre spiegava ai magistrati che le stragi avrebbero incoraggiato la gente a riavvicinarsi alla religione indebolendo "l'influenza dei corrotti turisti stranieri". Non ha mai abbandonato il sorriso Hakim Awad, il terrorista palestinese condannato a cinque ergastoli per l'assassinio di cinque membri della famiglia Fogel a Itamar. Padre, madre e tre bambini, tutti sgozzati mentre dormivano. In tribunale faceva il segno di vittoria ridendo ai parenti delle vittime.
  La svolta qualitativa nel terrorismo contro Israele avvenne proprio quando la madre di un kamikaze votato al suicidio si fece riprendere in un video in cui abbracciava e benediceva il figlio con un grande sorriso sulle labbra. Accadde a poche ore dall'attentato dell'8 marzo 2002 contro l'insediamento ebraico di Atzmona, a sud di Gaza, culminato con la strage di studenti religiosi. Il suo nome era Mohammad Farahat e aveva solo diciannove anni. "Sono stata io a spingere mio figlio a compiere la Jihad sulla via di Dio. E' un dovere religioso che dobbiamo adempiere" disse la madre in un video registrato da Hamas. "Non sarebbe stato giusto far leva sugli affetti per dissuaderlo. Non devo dar retta ai miei sentimenti materni, devo sacrificarli per un fine più nobile. Proprio perché amo mio figlio devo desiderare per lui ciò che è meglio, e il meglio non è questa vita terrena, no, è la vita eterna. Se io amo veramente mio figlio, devo desiderare per lui la vita eterna". E finì concedendo un grande sorriso alla telecamera.
  Nel 2002, attentatori palestinesi attaccarono un seggio del Likud a Beit Shean. Sette le vittime. "Ho aperto la finestra e ho semplicemente visto il terrorista in piedi, che sorrideva sparando in tutte le direzioni", racconterà Galit Cohen, testimone oculare del massacro. L'anno dopo, ancora in Israele: era uno splendido sabato di sole, la spiaggia di Haifa era affollata degli ultimi bagnanti della stagione, quando Henadi Jaradat lasciò la sua casa di Jenin, in Cisgiordania, ha attraversato il valico di Barta e accompagnata da un arabo israeliano raggiunse il ristorante Maxim. Il corpetto era pronto a seminare la morte, ma Henadi voleva gustare ogni momento. Un cameriere arabo le portò il menu e prese l'ordinazione. La terrorista mangiò con calma, sorrise alle famiglie israeliane che consumavano ignare il loro ultimo pasto, che respiravano i loro ultimi soffi di vita. Poi si fece esplodere. L'ultima cosa che le sue vittime hanno visto è stata un sorriso mefistofelico.
  Francesco De Rosa era il comandante dell'Achille Lauro quando nell'85 la nave da crociera fu attaccata e dirottata da un commando di terroristi del Fronte per la liberazione della Palestina. Di Abu Abbas e dei suoi uomini, che uccisero e gettarono in mare un passeggero ebreo con passaporto americano, disabile, Leon KIinghoffer, ricordava soprattutto il sorriso. "Un sorriso maligno, che mi ha accompagnato sempre".
  NeI1983, a Beirut, un kamikaze a bordo di un camion di dinamite andò a schiantarsi contro il quartier generale dei marines, provocando 225 morti. Una guardia che sparò contro l'autista suicida riferì poi: "Era giovane e sorrideva, per lui morire sembrava piacevole".
  Ancora Libano: ancora espressioni beffarde e illuminanti. Furono soprattutto due filmati, in cui si potevano seguire minuto per minuto le fasi finali di due attentati compiuti da giovani libanesi (un ragazzo e una ragazza) che a bordo di vetture cariche di dinamite si erano lanciati contro autocolonne dell'esercito israeliano, a impressionare gli spettatori d'oltre Atlantico, a far capire loro che il termine "Jihad" non era semplice propaganda. N elle prime sequenze li si vedeva sorridenti e ridanciani, mentre annunciavano la loro operazione suicida, la preparavano, ne spiegavano i motivi dicendo: "Ci sacrifichiamo affinché altri possano vivere".
  Dal medio oriente al Caucaso, lo scenario non cambia di molto. Zalina, un'adolescente che fu testimone della strage di Beslan, di quel carnaio di 186 bambini assassinati nella scuola osseta nel settembre 2004 ha un'immagine in particolare stampata nella mente: "Quando i ragazzi hanno rotto i vetri per scappare, un terrorista li ha inseguiti e si è messo a sparare alle loro schiene. Non dimenticherò mai come sorrideva mentre sparava". Un video, ottenuto dalla Cbs, mostra i terroristi islamici che ridono con i fucili rivolti ai bambini piangenti di Beslan. Alcuni vennero uccisi perché avevano chiesto di fare la pipì. L'unico terrorista sopravvissuto a quel mattatoio, Nurpashi Kulaev, oggi detenuto in una prigione russa nel Circolo polare artico, ha detto con una smorfia sorridente: "Non provo pentimento per quello che ho fatto". Era cosa buona e giusta spazzare via dalla faccia della terra tutti quei bambini e insegnanti.
  Lo Stato islamico in Siria e Iraq ha usato le fotografie dei combattenti uccisi mentre posano sorridenti, post mortem, come strumento di propaganda per reclutare altri giovani. Appaiono beati dopo la morte in battaglia. Una prova che il paradiso dei "martiri" esiste? La faccia barbuta di un terrorista è come congelata in un ampio sorriso ultraterreno. "Lui diceva sempre: 'Quei martiri sorridono. Che cos'è che vedono?"', ha scritto un compagno di guerra santa in omaggio al combattente, identificato come Abu Hamad al Saya'ri.
  E' stato proprio con la distruzione di un grande sorriso, quello impresso sul volto dei meravigliosi Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, che il terrorismo islamico ha inaugurato - nel marzo del 2001, sei mesi prima delle Torri gemelle - questa l unga guerra. I tal ebani volevano deturpare quel volto sublime riportando la paura fra gli uomini. Avevano un sorriso paziente, calmante, i grandi Buddha afgani. Alloro posto, su tutta l'umanità, da allora è calato il ghigno feroce del jihad.

(Il Foglio, 4 luglio 2015)


Expo - Danneggiala la bandiera di Israele

MILANO - La bandiera di Israele esposta per Expo in via Dante (nella foto) è stata imbrattata per l'ennesima volta con vernice rossa. L'azione sarebbe avvenuta il 30 giugno. Secondo quanto riferito dalla polizia, sembra che l'autore abbia intinto il pennello per tre volte in un secchio di vernice e per tre volte abbia schizzato il colore sulla bandiera con la stella di David. Non è la prima volta che la bandiera è oggetto di contestazioni. Proprio per questo motivo era stata spostata da via Mercanti a via Dante, dall'altra parte di piazza Cordusio.
   Il cambio di posizione, però, non è bastato a fermare i vandali. Il simbolo di Israele è esposto su una viale assieme alle altre bandiere dei Paesi che partecipano all'Esposizione Universale. Ora saranno analizzate le telecamere di sorveglianza nel tentativo di individuare il responsabile. Nel pomeriggio di ieri in Cordusio si è tenuto un presidio da parte della comunità ebraica in solidarietà a Israele e contro l'ennesimo danneggiamento della bandiera.
   Il governatore, Roberto Maroni, ha accusato: «Imbrattata da qualche idiota la bandiera di Israele in centro a Milano. Tutta la mia solidarietà al popolo israeliano per questo vile gesto».

(il Giorno, 4 luglio 2015)


Terrorismo, il prefetto di Milano al Comune: "Blindare la scuola ebraica"

Vetri antiproiettile in grado di resistere a un attacco prolungato con armi automatiche. Non si esclude l'arrivo dei metal detector nell'edificio che ospita anche scuole primarie comunali.

di Franco Vanni

Vetri antiproiettile di ultima generazione, con rinforzi in policarbonato o termoplastica, in grado di resistere a un attacco prolungato con armi automatiche. Li installerà il Comune alle finestre della scuola Merkos l'Inyonei Chinuch in via Forze Armate, ospitata in uno stabile di proprietà di Palazzo Marino e gestita dal Chabad-Lubavitch, movimento ebraico ortodosso. L'intervento è stato deciso su indicazione della Prefettura, che lo scorso maggio "considerato il contesto internazionale", ha espresso al Comune "l'auspicio di un innalzamento della sicurezza nella struttura". Nell'edificio, che ospita anche scuole primarie comunali, studiano circa 200 studenti dai 3 ai 18 anni, in maggioranza figli di ebrei ortodossi. E anche fra gli insegnanti molti sono Haredim.
   Già l'11 gennaio scorso, quattro giorni dopo l'attentato a Parigi della redazione del giornale Charlie Hebdo, il capo della polizia Alessandro Pansa firmò una circolare in cui indicava la necessità di "una rivisitazione delle disposizioni di sicurezza" per quanto riguarda gli obiettivi "sensibili per il terrorismo di matrice islamista". Un'impostazione ribadita da una nota del ministro dell'Interno, Angelino Alfano, lo scorso 17 febbraio.
   L'intervento di installazione di vetri e infissi, il cui costo sarà di 650mila euro, dovrà essere approvato come sub emendamento al bilancio dei Lavori pubblici del Comune. Il testo, proposto dal consigliere del Pd Ruggero Gabbai, è già stato approvato dai capigruppo dei partiti a Palazzo Marino. Mercoledì sarà sottoposto al voto dell'aula. Carmela Rozza, assessore ai Lavori pubblici, spiega: "Contiamo di fare tutto in tempi brevi, in ogni caso entro dicembre. Lo consideriamo un intervento di prevenzione, non una risposta a un allarme che a Milano non c'è". Un'impostazione in linea con quella della Prefettura e degli investigatori specializzati nel contrasto al terrorismo.
   Nelle scorse settimane, i tecnici del Comune hanno fatto un sopralluogo in via Forze Armate assieme al responsabile della sicurezza della scuola ebraica. Si è deciso di dotare di vetri antiproiettile anche le aule delle scuole comunali ospitate nel complesso di edifici, per evitare possibili intrusioni. Non si esclude che in un secondo momento possano essere installati metal detector, ma solo per quanto riguarda gli ingressi alla scuola Merkos l'Inyonei Chinuch. E comunque, non a spese del Comune. Già oggi, di fronte all'entrata, staziona giorno e notte un mezzo dell'Esercito, nell'ambito del programma nazionale Strade sicure.
   "Trovo che sia un gesto bello e doveroso, da parte del Comune, farsi carico della sicurezza di un luogo considerato a rischio - dice Gabbai - ed è importante che tutti i partiti presenti in Consiglio, da Fratelli d'Italia a Sel, abbiano autorizzato la spesa in via preliminare". Alessandro Morelli, capogruppo della Lega Nord, replica: "Siamo contenti che il Pd appoggi l'intervento, ma stupisce che sia poi pronto ad affidare la costruzione di moschee ad associazioni poco affidabili. Siano coerenti quando si tratta di contrastare il terrorismo. Non basta difendere i bambini con i vetri antiproiettile, bisogna anche contrastare chi vuole fare loro del male".
   Daniele Nahum, esponente della Comunità ebraica e responsabile Cultura del Pd Milano, replica: "La necessità di sicurezza non ci deve fare retrocedere sul piano del diritto al culto delle comunità religiose, compresa quella islamica. L'associazione a cui sarà concesso di costruire la moschea dovrà essere distante dalle posizioni antisemite della Fratellanza musulmana".

(la Repubblica - Milano, 4 luglio 2015)


Così l'avanzata dell'Isis divide Hamas

di Michele Pierri

Il terrore sprigionato dal Califfato di al-Baghdadi continua a dare vita a convergenze parallele, come quella tra i drappi neri e una parte di Hamas.

 Intensa collaborazione
  A suffragare questa tesi ci sarebbero almeno due elementi che dimostrano come i leader militari di Hamas a Gaza aiutano Isis nel Sinai ed hanno collaborato agli ultimi attacchi: il possesso di alcuni tipi di armi da parte dello Stato Islamico e il supporto sanitario di cui hanno disposto alcuni dei jihadisti neri.

 Le prove del sodalizio
  "Durante la battaglia - scrive Haaretz citando la voce di protagonisti come Yoav Mordechai, generale israeliano che coordina le attività nei Territori palestinesi - alcuni feriti di Isis sono stati evacuati a Gaza". Non solo, per l'alto grado c'è dell'altro. "Il maggior sospetto riguarda i razzi anti-aerei usati contro gli Apache egiziani: sono simili a quelli lanciati da Hamas contro gli elicotteri israeliani durante il conflitto della scorsa estate. Da qui l'ipotesi di raid egiziani a Gaza per colpire retrovie e arsenali di Isis".

 Possibile sconfinamento
  L'analisi di Mordechai coincide con quella delle Forze Armate del Cairo. Tanto che, dopo il debutto dello Stato Islamico nel Nord Sinai, dove continuano a volare gli F-16 che sganciano bombe contro i jihadisti, il conflitto potrebbe allargarsi a Gaza, dove i caccia egiziani potrebbero identificare alcuni obiettivi. Hamas lo sa, e inizia a schierare "unità scelte a ridosso di Rafah", come precisa oggi sulla Stampa Maurizio Molinari. Contemporaneamente, però, Hamas si divide sul sostegno al Califfato, così come lo sono i drappi neri nell'appoggio al gruppo terroristico che opera nella Striscia.

 L'analisi di Meotti
  È vero, "Hamas è diviso", commenta con Formiche.net Giulio Meotti, scrittore e giornalista del Foglio, autore del libro "Ebrei contro Israele" (Belforte, 2014). "Al suo interno ci sono un'ala militare che guarda con favore allo Stato Islamico e una politica che li percepisce come un pericolo", e che è stata attaccata e minacciata dall'Isis in un recente video perché "collaborazionista" con Israele.
Sono molti gli esperti che in queste ore valutano la frattura in Hamas come un possibile elemento a favore di Israele. Un'analisi condivisa da Meotti, che però resta cauto su alcuni aspetti.

 Il nemico resta Hamas
  "Sicuramente Israele beneficia di questo - aggiunge il giornalista del Foglio fondato da Giuliano Ferrara - ma sarei molto attento a definire i salafiti dell'Isis come il principale nemico di Israele. Questo titolo, se così vogliamo chiamarlo, rimane saldamente nelle mani dei terroristi di Hamas, che anzi, presto potrebbero dare vita a un nuovo round di scontri nella Striscia di Gaza, come avverte da un po' di tempo lo Shin Bet, l'agenzia di intelligence per gli affari interni del Paese".

(formiche.net, 3 luglio 2015)


Israele interverrà per salvare i drusi?

Dal punto di vista israeliano, i drusi sono cittadini di prima categoria, titolari di tutti i diritti.

di Haytham Mouzahem

Giovani drusi guardano il confine con la Siria dalle Alture del Golan
BEIRUT - In virtù del principio secondo cui 'il nemico del mio nemico è mio amico', gli intellettuali e gli sheikh drusi siriani hanno fatto appello al Governo israeliano e alle sue forze di sicurezza affinché li difendano da un probabile massacro per mano dei membri dell'ISIS, qualora riuscissero a penetrare nell'area del Jabal al-Drus (ndt: Trad. lett. monte druso, anche noto come Jabal al- Arab). Dopo che Assad li ha abbandonati a sé stessi, nel futuro dei drusi ci sono due possibili opzioni, una più terribile dell'altra: l'ISIS o le organizzazioni islamiche.
   I drusi si stanziarono già in tempi antichi in Medio Oriente, nell'area della Grande Siria, e i loro villaggi sorsero in quei Paesi che oggi corrispondono a Siria, Libano, Giordania e Israele. Negli anni, la comunità drusa si è trovata al centro di numerose questioni ideologiche, dovute soprattutto al loro credo. Non è chiaro infatti se sono musulmani, se devono essere definiti come un gruppo a sé stante i cui membri si sposano unicamente tra loro; la poligamia è proibita, e, nelle loro abitazioni , spesso è possibile trovare tutti e tre i libri sacri.. vi è addirittura chi li considera ebrei!
   Dal punto di vista di Israele, i drusi sono cittadini israeliani di prima categoria e lo Stato riconosce loro i diritti che appartengono a ogni israeliano; sono infatti arruolati nell'esercito di Israele in delle unità speciali ma hanno la possibilità di raggiungere le cariche più elevate sia nella carriera militare sia in politica. Da tempo esiste all'interno dell'esercito israeliano un corpo speciale druso, in servizio nella zona di confine settentrionale. Tuttavia, l'attuale Capo di Stato Maggiore, Gadi Eisenkot, ha deciso di sopprimere questo battaglione e integrare i suoi membri negli altri corpi dell'esercito di Israele, data la loro lealtà allo Stato. La percentuale di arruolamento tra i drusi nell'esercito israeliano è più alta di quella degli ebrei israeliani stessi, come dimostrano i cimiteri militari israeliani, pieni di centinaia di lapidi recanti i nomi di soldati e ufficiali drusi caduti nelle battaglie combattute da Israele.
   È noto che i drusi sono tradizionalmente leali all'autorità centrale dello Stato in cui vivono, e raramente si trovano in posizioni di conflitto con esso. Un esempio della loro lealtà è dato dalla loro devozione nei confronti del precedente Presidente siriano Assad e di suo figlio Bashar. La stessa situazione caratterizza la loro relazione con lo Stato di Israele, dove non sono mai sorte controversie con il Governo, ma anzi si sono perfettamente integrati nella società e hanno persino raggiunto posizioni di alto livello (come nel caso del membro della precedente Knesset e attuale vice ministro della Sanità Ayoub Kara, un druso originario della città di Daliyat al-Karmel).
   Israele ha adottato una politica tale che ha portato ad una effettiva separazione dei drusi israeliani dal resto dei drusi stanziati nei Paesi circostanti, facendo leva sulla la loro lealtà e il senso di appartenenza. Il Governo infatti, ha concesso loro tutti i privilegi di un cittadino israeliano. Fanno eccezione i drusi che vivono nelle alture del Golan: dopo la conquista di Israele dell'altopiano nel giugno del 1967, quasi 20 mila drusi hanno rifiutato la possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana offerta loro dal governo, dichiarando di preferire rimanere sotto il regime siriano. Desiderando però continuare a vivere sull'altura montuosa che garantisce alla loro comunità una sorta di protezione dei loro villaggi, questi drusi hanno mantenuto buoni rapporti con le autorità israeliane. Così come in Libano e Siria i loro villaggi si sono sviluppati principalmente sul Jabal al-Drus, in Israele i drusi si sono stanziati soprattutto nella regione settentrionale, sulle alture del Golan e in luoghi relativamente elevati.

(L'indro, 2 luglio 2015)


Confindustria Ascoli, giovani imprenditori fanno tappa in Israele

Si rafforza sempre di più il rapporto tra i Giovani Imprenditori di Confindustria e lo Stato di Israele, paese di grande interesse per la nuova imprenditoria, soprattutto quella italiana, che può mettere a disposizione delle controparti locali forte capacità industriale e creatività, in cambio di tecnologie di altissimo livello. In Israele c'è infatti la più grande concentrazione del settore hitech, con un'elevata nascita di start up innovative nel mondo del digitale.
   Cinque giorni (dal 26 giugno al 1o luglio), 3 tappe (Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa), 25 giovani imprenditori (provenienti da tutta Italia e rappresentativi di una varietà significativa di settori), guidati dal Presidente Marco Gay e dal Vice Presidente all'innovazione e internazionalizzazione Giacomo Gellini.
   Grazie a una proficua sinergia con l'Ambasciata d'Israele in Italia, con la nostra Ambasciata e con il Consolato di Gerusalemme è stato realizzato un fitto programma di visite presso i principali centri di eccellenze in campo scientifico, ingegneristico e tecnologico: Weitzman Institute of Science, Technion Institute of Technology, visite aziendali alla Telit (High Tech Industry) alla Strauss (Innovation Center in campo alimentare) Caesar Stone (lavorazione del Quarzo).
   Tra i Giovani Imprenditori che hanno anche incontrato i colleghi israeliani della locale Confindustria, la Manufacturers Association of Israel, anche Franco Bucciarelli e Mario Caroselli: finalità programmare future collaborazioni su progetti finalizzati a concretizzare networking innovativi tra le due realtà giovanili. Già in calendario una missione di follow up dei Giovani Imprenditori israeliani per la firma di un Memorandum of Understanding e la visita a Expo nel mese di settembre.
   A chiusura della missione, il Presidente Gay e il Vice Presidente Gellini hanno partecipato ieri all'incontro con la Comunità ebraica italiana di Gerusalemme alla presenza dei Ministri degli Esteri Paolo Gentiloni e dell'Istruzione Stefania Giannini.

(PicenoTime, 3 luglio 2015)


La Maggiorità Religiosa con il Bat Mitzvah Club

MILANO - Quest'anno dodici ragazze
Nelle foto, a dire il vero, se ne vedono soltanto dieci.
hanno festeggiato tutte insieme il Bat Mitzvah, la maggiore età religiosa nell'Ebraismo, grazie al "Bat Mitzvah Club". Il Bat Mitzvah Club, diretto da Mashi Hazan e Suri Rubini, si è riunito a fine anno all'Hotel Marriott a Milano, con lo scopo di celebrare l'anno di studio delle ragazze che hanno raggiunto la loro maturità religiosa.
Alla celebrazione sono accorsi genitori, nonni e amici, le ragazze hanno ognuna acceso una candela posta su un candelabro da loro creato assieme alle loro madri, hanno ricevuto un diploma, e sono state benedette dai loro rispettivi padri.

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Una volta compiuti i 12 anni la ragazza diviene parte integrante della Comunità, ed è obbligata a seguire i precetti che tale rito di passaggio comporta. All'interno dell' evento del "BMC" le ragazze, durante l'anno si sono riunite per le attività ludiche, di creatività e di studio. In particolare le Mitzvot che riguardano la donna come l'accensione delle candele il venerdi sera, in onore dello Shabbat, e la separazione l'impasto del pane (Challà) sempre per Shabbat.

(Chabad.Italia, 1 luglio 2015)


L'Isis insedia le sue basi anche nel deserto del Sinai

di Maurizio Molinari

Sono sempre di più le sacche di territorio controllate dagli jihadisti Gli egiziani preoccupati dallo scontro di terra ricorrono agli F16.

Lo Stato Islamico si è insediato nel Nord Sinai, gli F-16 egiziani lo bersagliano dall'alto e lo scontro minaccia di estendersi a Gaza. Vista da Kerem Shalom, l'ultimo lembo di deserto israeliano stretto fra Gaza e l'Egitto, la guerra di Abdel Fattah Al Sisi contro i jihadisti del Califfo è in pieno svolgimento. All'indomani della cruenta battaglia di terra a Sheikh Zuwaid, i protagonisti sono gli F-16 egiziani: il boato delle bombe che sganciano attorno a Rafah arriva fino al kibbutz di Nirim, a 20 km dalla frontiera. Sono tuoni costanti, ravvicinati, che danno la sensazione della guerra e fanno rintanare i bambini nelle case.

 Armi avanzate
  Il comando egiziano parla di almeno 23 jihadisti uccisi nei raid delle ultima giornata ma ciò che conta, spiega l'analista israeliano Uri Rosset esperto di jihadisti, è che «devono usare i jet perché le sacche controllate da Isis nel Nord Sinai sono molte e non possono colpirle con gli elicotteri Apache». È una delle scoperte che gli egiziani hanno fatto mercoledì: il «Welayat Sinai» (Provincia di Sinai) di Isis dispone non solo dei missili anti-tank «Kornet» ma di vettori anti-aerei, lanciati a spalla, che minacciano gli elicotteri.

 L'analisi israeliana
  A spiegare cosa sta avvenendo oltre frontiera è Nir Peled, vice capo della pianificazione di «Tzahal» in questo teatro di operazioni: «Isis combatte qui come in Siria, Iraq e Libia, si insedia in aree minori, le consolida e poi lancia all'improvviso offensive multiple usando attacchi suicidi e ondate di jihadisti, alcuni dei quali in divise governative». È un'analisi coincidente con quanto affermano gli ex generali egiziani Hisham El-Halaby e Talaat Moussa (già capo dell'intelligence militare) secondo cui l'intento finale di Isis «è allargare il territorio che controlla dando vita a proprie enclave». L'analisi convergente rivela la stretta cooperazione nella sicurezza fra i due Paesi.
Ma rispetto alle altre cellule dello Stato Islamico il «Welayat Sinai» vanta «il più alto rapporto fra propri militanti e vittime nemiche» osserva l'esperto militare Amos Harel su «Haaretz» riferendosi ai quasi 650 soldati e poliziotti egiziani uccisi in meno di 24 mesi da «poche centinaia di jihadisti».

 L'aiuto di Hamas
  A spiegare tale efficacia negli attacchi è Yoav Mordechai, generale israeliano che coordina le attività nei Territori palestinesi, secondo cui «i leader militari di Hamas a Gaza aiutano Isis nel Sinai ed hanno collaborato agli ultimi attacchi» a Rafah, Al-Arish e Sheikh Zuwaid. «Durante la battaglia alcuni feriti di Isis sono stati evacuati a Gaza» afferma in particolare Mordechai. E il maggior sospetto riguarda i razzi anti-aerei usati contro gli Apache egiziani: sono simili a quelli lanciati da Hamas contro gli elicotteri israeliani durante il conflitto della scorsa estate.
Da qui l'ipotesi di raid egiziani a Gaza per colpire retrovie e arsenali di Isis. Hamas percepisce il pericolo e schiera unità scelte a ridosso di Rafah. «Hamas è spaccata - osserva Rosset, che risiede nel kibbutz di Magen - perché i leader militari a cominciare da Mohammed Deif sono sensibili ai jihadisti mentre quelli politici, tipo Ismail Haniyeh, se ne sentono minacciati». Il video con cui Isis ha detto di voler rovesciare i «tiranni di Hamas» è per Rosset «una sfida ai leader politici che negoziano in segreto la tregua con Israele e sono l'espressione palestinese dei Fratelli Musulmani, considerati da Isis degli apostati perché tendono a operare legalmente negli Stati arabi, non a distruggerli».

 I due fronti
  Nel Nord Sinai, Isis dunque ha due fronti aperti: contro Egitto e Israele da un lato, contro i leader politici di Hamas dall'altro. È il fronte occidentale della guerra del Califfo al-Baghdadi, dove gli odiati sciiti non ci sono. I tank israeliani schierati a Kerem Shalom, con i cannoni non verso Gaza ma il Sinai, svelano il timore per uno scenario divenuto verosimile: attacchi suicidi alla frontiera.

(La Stampa, 3 luglio 2015)


Lo Stato "ZZZZ"

di Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino

Pierpaolo Pinhas Punturello
Forse non tutti sanno che noi italiani di Gerusalemme abbiamo scritto sul nostro passaporto, rilasciato dal Consolato Generale d'Italia, che viviamo nello Stato "ZZZZ" e non in Israele.
Non è questo il luogo per analizzare l'ipocrisia dei motivi politici e diplomatici che sono alla base questa definizione dello stato di Israele come "ZZZZ" nell'aerea di Gerusalemme, però la prossima volta che dovesse venire in visita presso la sede della Comunità Italiana di Gerusalemme in Rechov Hillel un ministro, un sottosegretario, un sindaco o un usciere qualsiasi dello Stato Italiano potremmo provare a fare un esperimento: mostrando loro il nostro Museo di arte italiana, la Sinagoga di Conegliano Veneto e gli arredi e le collezioni di oggetti di Roma, Saluzzo, Mantova, Venezia, Ancona, Livorno, Firenze, Sabbioneta, Cuneo, Mondovì o chissà dove, potremmo dire: "Sono tutti pezzi di storia ebraica italiana giunti a Yerushalaim, capitale dello Stato 'ZZZZ' da moltissime città che videro gloriose pagine di storia ebraica ai tempi dei granducati toscani, degli Asburgo-Lorena, degli Austriaci e dello Stato Pontificio, città che da centocinquanta anni sono state occupate ed annesse al regno Sabaudo divenuto Repubblica Italiana con dubbia vittoria dopo il referendum del 1946". Insomma un italico stato "ZZZZ". E vedere di nascosto l'effetto che fa.

(moked, 3 luglio 2015)


Dopo la strage nel Sinai le mire del Califfato su Gaza

Lo Stato Islamico vuole regolare i conti con i nemici palestinesi colpevoli di avere rapporti con Hezbollah e i pasdaran iraniani.

di Gian Micalessin

A dieci anni esatti dal ritiro israeliano la Striscia di Gaza rischia di cadere sotto il controllo dello Stato Islamico. Sembra un azzardo, ma da mercoledì l'ipotesi è al vaglio dei comandi militari e dei servizi di sicurezza israeliani.
   L'offensiva di «Ansar Bayit al Maqdes», un'ex formazione qaidista del Sinai allineatasi con lo Stato Islamico, sta cambiando tutti gli scenari. Dopo l'attacco, costato la vita ad una settantina di militari egiziani, gli israeliani sono pronti ad ogni evenienza. Anche quella di un'alleanza tra «Ansar Bayit al Maqdes» e gli adepti dello Stato Islamico per cacciare Hamas da Gaza e trasformarla in una nuova appendice del Califfato da cui colpire gli «eretici» di Hamas e lo Stato ebraico.
   «Saremo la spina nel fianco di Hamas e di Israele», promette fin da ora Abu Al Ayna Al Ansari, portavoce dei «Sostenitori dello Stato Islamico», l'organizzazione radicale a cui fa capo qualche migliaio di ex qaidisti palestinesi allineatisi con il Califfato. Lo Stato Islamico sembra, insomma, deciso a regolare i conti con i rivali palestinesi colpevoli, per quel che riguarda l'ala militare, d'intrattenere rapporti con Hezbollah e con i pasdaran iraniani. Ovvero con i peggiori nemici del Califfato. Il primo segnale lo si è visto a Yarmouk, l'enorme campo profughi alla periferia di Damasco dove le fazioni filo e anti siriane di Hamas si massacrano a vicenda da tre anni. Lì, ai primi di aprile, lo Stato Islamico ha fatto piazza pulita di Hamas per conquistare il pieno controllo del campo. E così ora qualcuno s'attende uno scacco matto al cuore di Gaza. Un video intitolato «Messaggio alla nostra gente a Gerusalemme» diffuso dallo Stato Islamico di Aleppo invita «tutti i monoteisti di Gaza ad unirsi ai mujaheddin e allo Stato Islamico». A dar retta ad Abu Qataba Al Filistini (il Palestinese), il predicatore protagonista del video, la discesa di Hamas nell'eresia risale al 2009 quando i suoi militanti attaccano una moschea uccidendo una dozzina di jihadisti ultraradicali. Jihadisti legati, a quel tempo, ad Al Qaida, ma che oggi lo Stato Islamico considera i propri precursori a Gaza.
   Tra questi anche Mahmoud Al Salfiti, responsabile nel 2011 dell'assassinio del cooperante italiano Vittorio Arrigoni ucciso perché colpevole di collaborare con Hamas. Uscito di galera grazie ad un permesso carcerario concesso dalle autorità di Gaza nel tentativo d'ingraziarsi i detenuti più radicali Al Salfiti è velocemente riparato prima in Sinai e poi in Siria dove combatte sotto le bandiere dell'Isis. Anche lì lo Stato Islamico non manca di scontrarsi con i propri simili. E proprio lì ha sviluppato una delle proprie caratteristiche più peculiari ovvero la capacità d'ampliarsi e rafforzarsi prima combattendo e poi inglobando i gruppi jihadisti concorrenti. La conquista di mezza Siria non è tanto il frutto delle sconfitte inflitte al regime di Bashar Assad, ma delle stragi di rivali messe a segno nelle zone controllate dai ribelli appoggiati dai sauditi o da quelli legati alla Fratellanza Musulmana. Spregiudicato quanto crudele l'Isis non manca di stringere - nelle aree dove il regime è ancora forte - alleanze tattiche con Jabat Al Nusra, il gruppo alqaidista considerato il suo principale rivale.
   Una tecnica utilizzata anche in Libia e Tunisia. Lì il Califfato ha rapidamente assorbito tutte le posizioni di Ansar Al Sharia, la formazione qaidista responsabile nel 2012 dell'uccisione a Bengasi dell'ambasciatore statunitense. Un'operazione fallita soltanto a Derna. Nel caposaldo jihadista della Cirenaica dove lo Stato Islamico ha aperto la sua prima base infuriano, da due settimane, le battaglie con i militanti dei «Martiri di Abu Salim», una formazione radicale poco disposta ad accettare l'egemonia del Califfato. Il prossimo inevitabile capitolo della guerra fratricida tra formazioni qaidiste e sostenitori del Califfato sembra a questo punto l'Afghanistan. La prima mossa l'ha messa a segno il Califfo Abu Bakr Al Baghdadi che ad aprile ha liquidato il Mullah Omar come un «signore della guerra folle ed analfabeta». Un attacco verbale seguito dagli assalti nella provincia afghana di Nagahar dove i mujaheddin fedeli allo Stato Islamico hanno strappato ai talebani il controllo di sei province. Insomma la guerra tra lo Stato Islamico e i propri simili sembra appena agli inizi. Auguriamoci che si riveli lunga e sanguinosa.

(il Giornale, 3 luglio 2015)


Una vera e propria guerra culturale

ISIS e gruppi affini esprimono odio ideologico verso l'Occidente e i suoi principi, e la volontà di cancellarli.

dii Kobi Michael

 
Maometto V
Il mondo è apparso stordito dalla recente ondata di terrorismo globale legata allo "Stato Islamico" (ISIS) e a varie organizzazioni terroristiche ad esso affiliate. Ma uno sguardo più ravvicinato alla strategia operativa del gruppo lascia pochi dubbi. Impregnata di ideologia islamista-jihadista-salafita, la logica dell'ISIS si basa sulla rete che opera su più fronti contemporaneamente, con sanguinari metodi criminali. L'ISIS impiega anche efficaci strategie mediatiche, compreso un uso sagace dei social network destinati a servire un duplice scopo: primo, generare trauma e terrore fra le popolazioni e i regimi; secondo, spronare le proprie forze e reclutare nuovi combattenti ansiosi di giurare fedeltà allo Stato Islamico e al suo "califfato".
   L'Occidente fatica a comprendere questo fenomeno e le sue conseguenze, e in alcuni casi vive nel totale diniego. L'Occidente preferisce vedere l'ISIS come una minaccia militare, ignorando in questo modo l'ideologia politica che rappresenta in nome dell'islam. Lo Stato Islamico si batte per minare l'ordine mondiale esistente, basato sul concetto di stato-nazione, cancellare i confini esistenti e annullare le nazioni arabe, in particolare le monarchie, che considera alla stregua di entità eretiche. Quello che sta facendo è promuovere una vera e propria guerra culturale. Gli sforzi per dare vita al califfato islamico e riconquistare i fondamenti dell'islam esprimono un odio feroce verso l'Occidente e i suoi principi, e la volontà di cancellarli. E questo altro non è che uno scontro fra opposte concezioni della civiltà.
   Spinti dall'ideologia fondamentalista, i militanti dello Stato Islamico tornano ai rispettivi paesi d'origine, dopo aver combattuto nelle sue prime linee, decisi a costituire cellule locali al solo scopo di terrorizzare la popolazione e incoraggiare i musulmani fanatici che vivono in quelle nazioni.
   La percezione del tempo e dello spazio dello Stato Islamico deriva da un profondo senso religioso della storia: il gruppo si sente investito di una lotta a lungo termine, in quanto mira sia a sconfiggere l'Occidente che a installare un governo islamico, non necessariamente nel tempo di questa generazione.
   La Tunisia non può combattere da sola lo Stato Islamico, la Francia non può contrastare la crescente radicalizzazione islamica della sua comunità musulmana, l'Iraq perde letteralmente terreno di fronte al gruppo e i curdi possono al massimo proteggere il loro territorio. Combattere lo Stato Islamico richiede una collaborazione regionale e internazionale guidata dall'Occidente e dalle potenze regionali. Richiede inoltre leadership e determinazione.
   Non si può non vedere il collegamento fra l'attività di lobbying della Francia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite circa il conflitto israelo-palestinese e la situazione che Parigi si trova ad affrontare: gran parte degli sforzi della Francia hanno evidentemente lo scopo di placare le forze che ribollono al suo interno. Ma è solo un'illusione. Non è questo il modo di contrastare le minacce che incombono dall'interno e dall'esterno.
L'attacco che la settimana scorsa ha portato anche in terra francese l'orrore delle decapitazioni non è che l'ultimo di una serie di attentati terroristici che hanno colpito la Francia e altri paesi europei. Ogni volta, però, la necessità di mantenersi politicamente corretti e la paralizzante paura di potenziali tumulti ad opera delle locali comunità musulmane hanno decurtato gli sforzi dei leader europei per combattere il terrorismo interno ed esterno.
   Forse gli ultimi tragici eventi spingeranno l'opinione pubblica a imporre la sua volontà ai decisori, e finalmente maturerà la consapevolezza che la lotta contro lo Stato Islamico è una guerra da condurre in nome dalla cultura occidentale nel senso più ampio del termine, contro coloro che cercano di sradicarla.
   Una volta capito che si tratta di una battaglia esistenziale - e prima o poi verrà capito - lo smarrimento sarà sostituito dalla determinazione, con tutto ciò che comporta. Fino ad allora, però, altro sangue verrà versato.

(israele.net, 3 luglio 2015)


«
Lo Stato Islamico si batte per minare l'ordine mondiale esistente, basato sul concetto di stato-nazione, cancellare i confini esistenti e annullare le nazioni arabe, in particolare le monarchie, che considera alla stregua di entità eretiche.»
Maometto V fu il sultano che proclamò la prima jihad invitando i fedeli musulmani a combattere nella Prima Guerra mondiale contro gli infedeli delle nazioni occidentali (ad eccezione di Germania e Austria, con cui era alleato). Nel novembre 1914 rivolse ai fedeli questo proclama:
    «O musulmani! Voi che con tanta passione tendete alla felicità, voi che siete alla vigilia di sacrificare la vostra vita e i vostri beni per la causa del diritto e di sfidare il pericolo, unitevi tutti oggi attorno al trono imperiale, obbedite agli ordini dell'Onnipotente che, nel Corano, ci promette beatitudini in questo mondo e nell'altro. Comprendete che lo Stato è in guerra con la Russia, l'Inghilterra e la Francia e i loro alleati. Comprendete che questi Paesi sono nemici dell'Islam. Il comandante dei credenti, il califfo, vi chiama sotto la sua bandiera per la Guerra santa!»
La "Guerra santa" islamica fu persa e pochi anni dopo la morte di Maometto V il califfato fu abolito. Il mondo non ha voluto e non vuole riconoscere a Israele il carattere di “nazione ebraica” e pretende che divida il suo territorio con una finta nazione araba chiamata “Palestina”. Il risultato è che adesso il concetto stesso di nazione araba è diventato insignificante e ritorna, con caratteri diabolici, quel califfato che con la Prima Guerra Mondiale era andato distrutto. I conti tornano. M.C.


Quel che l'Italia può fare per evitare il fallimento militare dell'egiziano Sisi

di Carlo Panella

ROMA - Abdel Fattah al Sisi ha fallito sul piano militare e rischia un più grave fallimento sul piano politico. Il sigillo sulla sconfitta subìta dalle sue Forze armate durante la battaglia del Sinai di mercoledì è non solo il sigillo nero del Califfato che per molte, troppe, ore ha sventolato sulla caserma della polizia di Sheikh Zuweid, ma anche la notizia di solida fonte egiziana: il Cairo si accinge a chiedere all'esercito di Israele di intervenire a difesa di Rafah, al Arish e Sheikh Zuweid. Il quadro è tanto grave da imporre ai governi europei - e in primis al governo italiano - il dovere di un forte intervento di sostegno, ma anche di correzione degli errori.
   I fatti sono impietosi: a due anni dai primi attacchi jihadisti nel Sinai, le Forze armate egiziane (forti di 450 milaoperativi, più 450 mila logistici) si sono dimostrate inette nel difendere i due obbiettivi di sempre in una guerra in cui hanno perso ormai più di 500 militari. Refah, El Arish e Sheikh Zuweid sono circondate da terra brulla, se non desertica, in cui gli assalitori si vedono a occhio nudo, ore e ore prima dell'attacco. Eppure hanno subito, indifese, una decina di assalti l'una negli ultimi 30 mesi e quella specie di "offensiva del Tet" che lo Stato islamico ha proclamato per questo Ramadan, mercoledì ha sfondato su tutti i 22 obiettivi prescelti dagli jihadisti. Non basta: fonti egiziane attestano che gli assalitori hanno impiegato armi moderne ed efficienti - alcune parlano addirittura di carri armati - provenienti dall'arsenale libico. Ma tra il Sinai e la Libia c'è l'intero Egitto. Come è stato possibile attraversalo? Ancora: sempre fonti egiziane attendibili indicano che ai combattimenti hanno partecipato decine di miliziani del Jihad islamico fuoriusciti dai tunnel di Gaza. Ma come è possibile che vi siano ancora tunnel aperti sotto il valico di Rafah? La risposta a questi quesiti è brutalmente semplice: le Forze armate egiziane, finanziate con 1,2 miliardi l'anno da trentasei anni dagli Stati Uniti "per non combattere", sono inaffidabili e inefficienti.
   Questo quadro va valutato da Matteo Renzi e dai governi europei perché, in nome di una sana realpolitik, è ammissibile che chiudano più di un occhio sul palese "bonapartismo autoritario" di al Sisi. Al limite, potrebbero addirittura accettare - con sole proteste formali - che al Sisi mandi sulla forca, come ha annunciato dopo l'attentato al procuratore generale Hisham Barakat (altra sua umiliante sconfitta), qualche dirigente dei Fratelli musulmani tra i 1.000 che ha fatto condannare a morte. Ma tutto questo è tollerabile, forse anche indispensabile, solo a patto che poi al Sisi vinca, che sbaragli lo Stato islamico nel Sinai, che spacchi in due o tre pezzi i Fratelli musulmani. Insomma, che pacifichi l'Egitto.
   Invece, a due anni dal 30 giugno 2013, il bilancio è opposto, tanto che il premier Ibrahim Mahlab ha ammesso sconfortato: "L'Egitto è in stato di guerra reale". Al Sisi non si è preoccupato di recuperare il consenso delle tribù beduine del Sinai (emarginate e vessate dal suo regime come da quelli precedenti) in mezzo alle quali gli jihadisti "nuotano come pesci nell'acqua". Non ha modernizzato le Forze armate, i cui generali badano essenzialmente a gestire (male e parassitariamente) il 30 per cento dell'economia (resort turistici inclusi), in cui gli ufficiali sono corrotti e non motivati e la truppa è costituita da soldati di leva mal addestrati e indolenti. Sul piano politico interno, al Sisi non ha voluto o saputo creare nuovi "corpi intermedi" che permettessero a lui e al suo regime - indubbiamente carismatici e popolarissimi - di interagire con una società complessa, dopo che quelli dell'era Mubarak (soprattutto gli ordini professionali) o si sono sbriciolati o sono stati conquistati dalla Fratellanza. Inoltre, ha cinicamente favorito la demente "strategia del martirio" indicata da Mohammed Badie e da Mohammed Morsi, senza mai tentare di offrire all'ala moderata della Fratellanza una ipotesi di dialogo, di mediazione. Infine, non ha riformato i servizi segreti, talmente inefficienti da non saper cogliere i segnali della battaglia tradizionale scatenata nel Sinai da una consistente forza armata jihadista e non hanno impedito il clamoroso attentato contro il procuratore generale Hishan Barakat, non difendendo l'uomo che aveva chiesto e ottenuto la pena di morte contro Mohammed Morsi e tutta la dirigenza dei Fratelli musulmani.
   In questo contesto il governo italiano può intervenire in maniera solidale, ma con energia, su più piani. Può spendere il notevole prestigio che gode sia ad Ankara sia al Cairo per tentare una pur difficile mediazione tra Recep Tayyip Erdogan e al Sisi che punti a ottenere che il primo (cui l'Italia, tramite l'Eni, può offrire una mediazione sullo strategico gas di Cipro) favorisca l'emergere dell'ala moderata - minoritaria - dei Fratelli musulmani, ottenendo in cambio, dal secondo, una sua interlocuzione con gli islamisti moderati e l'abbandono della "politica della forca" nei confronti di Morsi e compagni ("Se c'è una sentenza di morte, che sia eseguita!", ha detto con voce vibrata ai funerali di Barakat). Sempre in maniera soft e senza urtare sensibilità comprensibili, può offrire consiglieri militari ad alto livello per una riforma efficace delle Forze armate egiziane. Azione che dovrebbe dispiegare anche nei confronti del governo tunisino, addirittura arrivando a subordinare indispensabili aiuti economici a una riforma (anche con l'apporto dell'affidabile Marocco) di servizi segreti che si sono dimostrati - vedi il Bardo e Sousse - inefficienti al pari, se non più, dell'esercito egiziano.
   La debolezza dei nuovi governi arabi, sommata all'incredibile scomparsa dalla scena degli Stati Uniti, apre all'Italia enormi spazi di intervento unilaterale nel Mediterraneo. Ma è urgente saperli sfruttare.

(Il Foglio, 3 luglio 2015)


Visionario, romantico, un po' Tolstoj un po' Dostoevskij: Buber visto da Scholem

di Massimo Giuliani

 
Martin Buber
Chi era davvero Martin Buber? II cantore della fede genuina del chassidismo o il dotto filosofo del dialogo? Un profeta del sionismo o un sofisticato traduttore della Bibbia? Un anarchico teocratico e pacifista o un araldo del monoteismo etico? Un po' tutte queste cose, risponde Gershom Scholem, che gli fu allievo e amico, ma non tutte contemporaneamente. In un ritratto intellettuale critico ma con punte di simpatia, Buber esce dalla penna di Scholem come un visionario romantico che pagò i suoi ideali e il suo metodo di studio con una grande solitudine, che suona paradossale per colui che è registrato, nella storia del pensiero, come teorico del dialogo e del rapporto autentico tra l'Io e il Tu. Emblematici gli ultimi anni in Israele, dove morì cinquant'anni fa, isolato nel cuore della terra e del popolo in essa "rinato", «amara ironia per cui un filosofo del dialogo non riuscì a trovare interlocutori nel proprio popolo».
   Spesso definito il Tolstoj dell'ebraismo, ma che in queste pagine ha tratti piuttosto dostoevskiani, Buber secondo Scholem è incline a contrapposizioni quasi tragiche e ad «antitesi eccessive, che non colgono più i fenomeni reali della fede, sebbene contengano sempre, al loro interno, una certa parte di verità». Se in ciò sta la debolezza del suo pensiero, nondimeno la forza di tale fede attraversa le diverse fasi del suo pensiero in modo persuasivo e avvincente: la prima che ruota attorno alla scoperta della mistica; la seconda nella quale l'ethos ebraico è tradotto in linguaggio filosofico come relazione e dialogo autentici; una terza e infine una quarta dove la traduzione e lo studio dei testi biblici attenuano la vis rivoluzionaria dei primi anni e lo riconciliano con una religione dei precetti. II ritratto è complesso, sfumato, in bilico tra intuizioni profonde ma non in sintonia con i processi storici. Non sorprende che la solitudine sia una cifra della sua parabola esistenziale e persino un titolo di merito per colui che Gustav Landauer, a sua volta profeta e martire dell'anarchismo ebraico (ucciso nel 1919), ha definito «l'apostolo dell'ebraismo di fronte all'umanità». In quest'appellativo vi è ammirazione, ma anche riserva e timore che qualcosa di essenzialmente ebraico sia stato frainteso o addirittura perduto.
   Che Buber sia più apprezzato dal mondo non-ebraico non è a motivo della sua scarsa ebraicità, per così dire, ma piuttosto un segnale che tale ebraicità è più vasta e articolata della sintesi filosofica che Buber ne ha fatto. Ha dunque ragione Landauer a lodarlo come un «nuovo mistico» capace di coniugare profezia biblica e idealismo tedesco, Eraclito con il Ba'al ShemTov, Nietzsche con Mosè; ma ha ancor più ragione Scholem nel collocarlo in quel movimento che, tra Otto e Novecento, colse la crisi della tradizione e quello slancio vitale che sembrò annunciare un mondo diverso, ispirato alla forza creativa di natura e cultura ormai riconciliate. Le incoerenze e le contraddizioni buberiane, facili oggi da stigmatizzare, non sminuiscono la profondità del suo pensiero. Ci costringono invece a storicizzarlo e apprezzarlo nel suo contesto, meno come un oracolo di sentenze buone per tutte le stagioni e più come un ricercatore esposto a errori e compromessi; meno come un profeta e più come uno sperimentatore storico. La sua inattualità politica e religiosa potrebbe, presto, essere causa della sua stessa rivalutazione.

Gershom Scholem, Martin Buber interprete dell'ebraismo Guntina. Pagine 106. Euro 12

(Avvenire, 3 luglio 2015)


Il Congresso americano manda un avvertimento ad Obama per l'accordo sul nucleare iraniano

CNRI - "368 membri della Camera dei Rappresentanti americana hanno scritto al Presidente Barack Obama sottolineando che qualunque accordo internazionale sul nucleare con il regime iraniano deve garantire che gli ispettori internazionali possano visitare tutte le basi militari iraniane", ha detto il Rep. Ed Royce, Presidente del Comitato Affari Esteri della Camera.
   Royce, parlamentare repubblicano della California, ha detto a "Sunday Morning Futures", di FOX NEWS: "Finora l'Iran ha respinto tutti i quattro obbiettivi-chiave che gli Stati Uniti avevano in questo accordo, come: ottenere l'accesso alle basi militari e la possibilità di andare ovunque, in qualunque momento per gli ispettori internazionali. Questo è stato categoricamente respinto dagli ayatollah... Ma, allo stesso tempo, ogni altro obbiettivo-chiave è stato respinto. Sembra che l'accordo ora revocherà le sanzioni prima e non dopo l'accordo, così si darà un'enorme quantità di denaro all'Iran, l'AIEA non otterrà risposta alle sue 12 domande sul programma nucleare iraniano in corso e sui tests che ha già fatto".
   "Beh, questo è stato un bell'errore finora, in termini di nostra gestione dei negoziati, da parte degli Stati Uniti", ha detto Royce. "Gli ispettori internazionali pare che non avranno la possibilità di entrare nelle basi militari. E questo è lo stesso problema che abbiamo avuto con l'accordo con la Corea del Nord, l'impossibilità di accedere realmente ai siti che hanno portato la Corea del Nord ad ottenere armi nucleari".
   Il corrispondente di Fox News, Eric Shawn, durante il programma ha detto: "Nonostante le loro dichiarazioni ottimistiche, nuove potenziali garanzie d'insuccesso giungono dal provocatorio leader supremo dell'Iran, l'ayatollah Khamenei. No alle ispezioni ai siti militari, no alle interviste agli scienziati atomici iraniani, no ai 10 anni di limitazione del nucleare cose che, per inciso, erano già stata concordate. E la revoca delle sanzioni immediatamente al momento della firma dell'accordo".
   "I critici prevedono che questo aiuterà l'Iran a finanziare ulteriormente il terrorismo e che la Casa Bianca dovrebbe prestare attenzione agli avvertimenti dell'opposizione iraniana come il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, invece di contare sulle affermazioni di Tehran che dice di non volere sviluppare una bomba atomica", ha detto.
   Shawn ha puntualizzato che la scadenza del 30 Giugno per la conclusione di un accordo internazionale è slittata ulteriormente al 9 Luglio quando l'accordo dovrà essere sottoposto al riesame del Congresso.
   Alla domanda se rimandare la scadenza di alcuni giorni farà qualche differenza nel risultato dei colloqui, Royce ha detto: "Penso che questo sia solo ansia di ottenere l'accordo. Abbiamo visto lo stesso atteggiamento nei negoziati con il regime nordcoreano a suo tempo".
   "I segnali di avvertimento erano là. Senza verifiche, senza la possibilità di fare andare gli ispettori internazionali in quei siti militari e di riuscire ad ottenere delle risposte alle loro domande, senza la possibilità di parlare con quegli scienziati iraniani, questo accordo non varrà neanche la carta su cui è scritto e il risultato sarà lo stesso dell'accordo nordcoreano", ha detto.
   "Perciò penso che sia ora che gli Stati Uniti restino fermi. L'amministrazione è stata avvertita. Ho inviato una lettera, insieme a 367 co-firmatari, sul tavolo del presidente. E' la vasta maggioranza della Camera che illustra le quattro cose che devono esserci in questo accordo e le ho descritte nei dettagli. Non ci sono in questo accordo. Dobbiamo rimanere fermi ora, insieme alla comunità internazionale ed ottenere delle verifiche".

(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 2 luglio 2015)


"Perché non c'erano ebrei all'Onu a manifestare per Israele?"

di Giulio Meotti

Si è svolta lunedì 29 a Ginevra, di fronte al Palazzo delle Nazioni Unite, la manifestazione di protesta contro il documento del Consiglio dei diritti umani che accusa Israele di "crimini di guerra" a Gaza. Il documento stabilisce una orrenda simmetria legale e morale fra una democrazia che si difende e una banda di terroristi che la attacca.
Era stata fatta una notevole pubblicità a questa manifestazione in tutta Europa, ed è stata una bella piazza di mille persone. Poche. Troppo poche. Dovevano essere diecimila. Soprattutto pochissimi ebrei. Dall'Italia sono arrivate appena 300 persone e appena una ventina di iscritti alle Comunità ebraiche. Se non fosse stato per i cristiani evangelici, la manifestazione sarebbe stata un flop. La dimostrazione che Israele è davvero rimasto solo in Europa....

(Progetto Dreyfus, 2 luglio 2015)


Iran, l'accordo folle con un regime inaffidabile

di Antonio Stango

Il negoziato fra gli Stati "5+1" (USA, Regno Unito, Francia, Russia e Cina, membri del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, più la Germania) e la Repubblica Islamica dell'Iran proseguirà oltre il termine fissato del 30 giugno almeno per un'altra settimana. Il regime degli ayatollah, stremato da quasi nove anni di sanzioni dell'ONU, degli Stati Uniti e dell'Unione Europea a causa del suo rifiuto di fermare un programma iniziato fin dagli anni Novanta e che può portarlo ormai in tempi brevi all'arma nucleare, ha finora ingannato in modo smaccato gli altri negoziatori, riuscendo a guadagnare tempo e fidando da un lato su meri interessi economici di alcuni Stati, dall'altro sull'incapacità e le indecisioni palesi in politica estera sia di governi europei che dell'Amministrazione Obama. Solo per questo un regime sanguinario, che sarebbe potuto crollare in più occasioni per la crisi economica e sociale, si trova oggi nella possibilità concreta di ottenere sia l'annullamento delle sanzioni che un 'via libera' di fatto all'arma atomica, che entro pochi anni potrebbe utilizzare anche abbinandola ai missili balistici dei quali si sta dotando.
  Ora, di fronte a governi che sembrano ansiosi di arrivare a un accordo quasi ad ogni costo, cedendo ulteriormente alle richieste di Tehran, il ministro degli esteri iraniano Zarif si è permesso di dichiarare: "L'unico accordo che la nazione iraniana accetterà è un accordo che rispetti la grandezza della nazione e i diritti del popolo iraniano". La frase, che casualmente riecheggia le parole pronunciate pochi giorni prima da Tsipras sulla grandezza passata della Grecia, contiene due elementi che richiederebbero una risposta forte. Uno è il riferimento ai "diritti del popolo iraniano": possibile che nessuno degli Stati di democrazia politica coinvolti (non la Russia e la Cina, che con la democrazia e i principî dello stato di diritto non riescono ancora a dialogare) faccia presente a Zarif e ai suoi sodali che sono loro a soffocare, da 36 anni, i diritti del proprio stesso popolo? Fra l'altro, per non citare che un parametro, da quando l'ayatollah Rouhani occupa il posto di presidente sono state eseguite circa 1.800 condanne a morte, con un ritmo più elevato che sotto il più rozzo - nei modi - Ahmadinejad. Il secondo elemento che andrebbe contestato è il richiamo alla "grandezza della nazione": il fatto che un regime sia al potere su un territorio che fu amministrato da un impero secoli o millenni fa deve forse consentirgli di violare apertamente il diritto internazionale? Può il governo messicano godere di particolari privilegi in memoria dell'impero azteco? Può quello italiano dotarsi di armi atomiche in nome dell'impero di Augusto? Può (e qui entriamo in un caso meno teorico) Erdogan aspirare all'egemonia su parte del Medio Oriente, dell'Asia centrale e del Nord Africa considerandosi erede degli Ottomani? In essenza, si tratta di logiche ipernazionaliste - o fasciste, se vogliamo usare questo termine; e applicarle alla Grecia di oggi può essere solo teoricamente sbagliato, ma impostare su di esse le pretese nucleari di Teheran è anche estremamente pericoloso.
  Sui termini tecnici dell'accordo, i nodi dipendono soprattutto dall'ostinata proclamazione degli ayatollah di non accettare ispezioni sui siti militari e di voler mantenere un numero elevato di centrifughe ad altissima capacità di arricchimento dell'uranio; ma anche gli insufficienti controlli dell'AIEA cesserebbero del tutto in 15 anni. C'è poi la probabilità che l'accordo non sia ratificato dal Congresso degli Stati Uniti: sia i repubblicani che molti democratici lo considerano un gravissimo errore, in particolare per la minaccia alla sicurezza di Israele e per il rischio che si avvii una corsa all'arma nucleare da parte di altri Stati della regione, a iniziare dall'Arabia Saudita. La richiesta del governo russo di fare approvare formalmente l'eventuale accordo dal Consiglio di Sicurezza mira probabilmente a superare tale ostacolo.
  Al di là di ogni aspetto tecnico, tuttavia, la questione di fondo è che il regime iraniano è del tutto inaffidabile. Lo stesso Rouhani, che è stato per alcuni anni capo negoziatore iraniano sulla materia, si è vantato pubblicamente di avere ingannato gli interlocutori e di essere sempre riuscito a guadagnare tempo. Che poi quel regime si presenti oggi come 'alleato' degli Stati occidentali nella lotta contro l'ISIS è paradossale: l'ISIS non avrebbe mai iniziato la propria espansione in Iraq se l'Iran non avesse, con le proprie milizie e sostenendo quelle sciite irachene, operato una violenta repressione della popolazione sunnita dell'Iraq centrale, provocando una disperata rivolta. Eliminare il sedicente 'Stato Islamico" è necessario ed urgente; ma immaginare di farlo attraverso un'alleanza con l'attuale Stato Islamico di Teheran sarebbe la più tragica delle illusioni.

(L'Opinione, 2 luglio 2015)


Israele perde gli investitori e le chiese d'America. Colpa del boicottaggio

Anche le ong cattoliche ostili allo stato ebraico

di Giulio Meotti

ROMA - Israele ha perso metà degli investimenti stranieri nel 2014, a causa della guerra di Gaza e del crescente boicottaggio internazionale. Un rapporto, stilato dalla United Nations Conference on Trade and Development, rivela che lo scorso anno sono stati investiti soltanto cinque miliardi e settecento milioni di euro, contro i dieci miliardi e mezzo del 2013. Ronny Manos, uno degli autori del rapporto, ha detto che il boicottaggio contro Israele è "una delle cause principali del declino economico". Alcuni giorni fa, il gigante norvegese delle assicurazioni Klp Forvaltning, che vale settanta miliardi di euro, ha disinvestito da due multinazionali presenti in Israele, la messicana Cemex e la tedesca Heidelberg Cement. In controtendenza, da ieri, col voto del Congresso, le aziende europee che boicottano Israele avranno vita dura negli Stati Uniti.
   Martedì sera è arrivato lo storico voto per il boicottaggio di Israele da parte della United Church of Christ, una delle più grandi denominazioni protestanti d'America, la chiesa d'origine del presidente Obama (è la chiesa del pastore Jeremiah Wright). La chiesa ha approvato il disinvestimento dalle "aziende che traggono profitto dall'occupazione israeliana". I delegati hanno votato 508-124 per il boicottaggio. Il reverendo John Deckenback, che ha presentato la risoluzione, l'ha giustificato nello "spirito di amore per israeliani e palestinesi". "Immorale" è stato il commento sul voto del ministero degli Esteri di Gerusalemme. Altre due chiese - la Chiesa Episcopale e la Chiesa Mennonita - questa settimana discutono misure di disinvestimento contro Israele.
   Un anno fa era stata la chiesa presbiteriana, una delle più ricche d'America, a disinvestire da Caterpillar, Hewlett-Packard e Motorola perché "complici dell'occupazione". E ha persino suggerito di bandire la parola "Israele" dalle sue preghiere. La United Methodist Church ha venduto le azioni dell'azienda G4S, che lavora con l'apparato di sicurezza d'Israele. Poi è stata la volta della Evangelical Lutheran Church in America, che ha approvato la politica "Peace, not walls", per evitare di investire in aziende legate alla sicurezza di Israele. La United Methodist General Board of Church & Society ha votato per il boicottaggio della Sodastream, azienda israeliana leader nel trattamento dell'acqua e che aveva la "colpa" di avere una fabbrica nell'insediamento di Mishor Adumim. Stabilimento poi chiuso a causa del boicottaggio.
   Ma non ci sono soltanto le chiese protestanti. Dietro la recente decisione della compagnia francese di telefonia Orange di lasciare Israele c'è il rapporto di una ong cattolica, il Comité catholique contre la faim et pour le développement. L'associazione che monitora il boicottaggio d'Israele, Ngo Monitor, ha pubblicato un rapporto dal titolo "Catholic Aid Societies and Political Campaigns Directed at Israel", rivelando la presenza di ong cattoliche dietro a molte campagne antisraeliane. Lungo è l'elenco: Agency for Overseas Development (Inghilterra), Cordaid (Olanda), Pax Cristi, Caritas, Secours Catholique (Francia), Trócaire (Irlanda), Catholic Relief Services (Stati Uniti), Development and Peace (Canada), Broederlijk Delen (Belgio) e Misereor (Germania). Trócaire, ad esempio, è l'agenzia umanitaria dei vescovi irlandesi e non esita a parlare di "nakba", l'espressione dell'irredentismo arabo per indicare la "catastrofe" della creazione di Israele.
   Dopo il voto della United Church of Christ è arrivato il commento, durissimo, di importanti leader cristiani d'America. Come il reverendo Wesley Shaw della chiesa pentecostale: "La percezione del mondo da parte della United Church of Christ rappresenta esattamente ciò che ha fatto la Germania nazista durante la Shoah". Oltre agli investimenti stranieri, Israele sta perdendo anche l'appoggio di pezzi importanti della cristianità occidentale. Per dirla con il maggiore giornale israeliano Yedioth Ahronoth, "si boicotta Israele nel nome di Gesù". E va da sé che gli israeliani diventino Erode.
   
(Il Foglio, 2 luglio 2015)


Isis muove guerra in Sinai, Egitto risponde con gli F-16 e gli Apache. Israele schiera i droni

Numeri discordanti sugli attacchi multipli a check-point dell'esercito egiziano da parte dei miliziani jihadisti di Wilayat Sinai (Provincia del Sinai) affiliata al sedicente 'califfato' islamico. Il premier egiziano Ibrahim Mahlab: "Egitto in stato di guerra". Operazione delle 'teste di cuoio' al Cairo: uccisi nove jihadisti latitanti dei 'Fratelli Musulmani', che chiamano all'insurrezione per deporre al-Sisi a due giorni dall'anniversario della liberazione dell'Egitto dalla dittatura islamista

 
Un blindato dell'esercito egiziano nel Sinai
IL CAIRO - "L'Egitto è in stato di guerra". Con queste parole il premier egiziano Ibrahim Mahlab ha delineato ieri la situazione che vive il Paese dopo i molteplici attacchi suicidi contro posti di controllo dell'esercito e delle forze di sicurezza nella parte settentrionale della penisola del Sinai, che ieri - secondo alcune fonti internazionali - avrebbero causato la morte di un'ottantina di militari egiziani e il ferimento di almeno altri cento.
   Numeri che non trovano conferme da parte egiziana: fonti militari - rilanciate dai media locali e israeliani - riferiscono di 17 soldati uccisi, tra cui quattro ufficiali, e 13 feriti. Una valutazione ottimistica, a fronte della quale l'esercito del Cairo comunica di aver neutralizzato oltre 100 miliziani jihadisti di Wilayat Sinai (Provincia del Sinai), la locale affiliazione del cosiddetto 'Stato Islamico'.
   Obiettivo degli attacchi anche una stazione di polizia nei dintorni della città egiziana di Sheik Zuid. Fonti locali hanno riferito di esplosioni e di sparatorie, a seguito delle quali sarebbero rimasti uccisi 20 uomini delle forze di sicurezza, tra cui 11 per un'autobomba, e altri 40 sarebbero rimasti feriti.
   I miliziani jihadisti hanno sferrato gli attacchi suicidi a bordo di fuoristrada. Tre di questi mezzi sarebbero stati distrutti dai militari egiziani, cui sono arrivati in soccorso gli F-16 dell'aviazione militare e gli elicotteri Apache in dotazione all'esercito.
   "In un raid benedetto reso possibile da Allah, i leoni del califfato hanno attaccato simultaneamente più di 15 punti di controllo appartenenti all'esercito degli apostati (egiziani, ndr)", ha dichiarato il gruppo jihadista affiliato all'Isis in un comunicato pubblicato sul web
Il sedicente Stato Islamico aveva esortato i propri seguaci a intensificare gli attacchi durante il mese santo islamico del Ramadan, iniziato a metà giugno, anche se non aveva specificato che l'Egitto fosse tra i destinatari degli attacchi.
   Israele ha mosso i droni di sorveglianza per monitorare la situazione e raccogliere dati di intelligence, che di certo saranno passati al presidente al-Sisi, vero 'leone' della resistenza musulmana civile alla barbarie del cosiddetto Stato Islamico.
Mentre era in corso la reazione delle forze armate egiziane nel Nord del Sinai, le 'teste di cuoio' egiziane hanno fatto irruzione in un'abitazione della capitale in cui si rifugiavano nove latitanti dei 'Fratelli Musulmani', gruppo dichiarato fuorilegge come organizzazione terroristica dal governo del presidente al-Sisi, dopo diverse pronunce in tal senso della magistratura. Tra i nove ricercati vi era anche un ex deputato del Parlamento egiziano, ricercato per terrorismo.
   Per tutta risposta, la 'Fratellanza' ha lanciato un appello all'insurrezione per deporre il presidente al-Sisi, a due giorni dall'anniversario della liberazione dell'Egitto dalla dittatura islamista di Mohammed Morsi. Al riguardo, i festeggiamenti previsti sono stati sospesi a causa dell'assassinio del procuratore generale Hisham Barakat, avvenuto con un'autobomba lunedì.
   La capitale è presidiata però da forze di sicurezza, perché vi sono timori di disordini fomentati dai sostenitori dell'ex presidente Morsi, di recente condannato a morte per la maxi evasione dalle carceri promossa nel 2011.

(The Horsemoon Post, 2 luglio 2015)


Anche Gaza nel mirino "Rovesceremo i tiranni"

Diffuso un video jihadista contro Hamas

di Maurizio Molinari

«Rovesceremo i tiranni di Gaza»: i miliziani dello Stato Islamico (Isis) affidano ad un video la sfida a Hamas per il controllo della Striscia di Gaza. Intitolato «Messaggio alla nostra gente a Gerusalemme», il video mostra un gruppo di jihadisti armati con alcuni di loro che si rivolgono direttamente ai leader del gruppo fondamentalista palestinese che controlla la Striscia dal 2007.

 La minaccia
  «Quanto sta avvenendo nel Levante ed è avvenuto a Yarmuk avverrà molto presto anche Gaza» afferma uno dei miliziani, riferendosi al campo profughi palestinese alle porte di Damasco dove Isis ha decapitato numerosi combattenti ad Hamas. «Non vi diciamo cosa vi faremo ma rovesceremo i tiranni di Hamas - afferma un altro jihadista, con il volto coperto e al collo due radiotrasmittenti simili a quelle adoperate a Gaza - sradicheremo lo Stato degli ebrei ed anche Al Fatah».

 Le «ragioni»
  L'accusa dell'Isis è duplice: «Vi siete alleati con gli Hezbollah sciiti e i gruppi laici» considerati infedeli e «non fate rispettare la legge islamica». Il progetto è di estendere lo Stato Islamico a tutti i territori dal Giordano al Mediterraneo, spazzando via Israele, Hamas e l'Autorità palestinese. A rendere credibile la sfida contenuta nel video è quanto sta avve- nendo dentro Gaza dove i salafiti hanno creato i «Sostenitori dello Stato Islamico» con l'ala militare del «Battaglione Sheick Omar Hadid» che opera su due fronti: il lancio di singoli razzi contro il Sud di Israele e gli attacchi dinamitardi contro militanti di Hamas a Gaza, incluso l'ufficiale dell'intelligence Saber Siyam. Come riassume Abu al-Ayna al-Ansari, nome di battaglia del portavoce di Isis a Gaza, «siamo un coltello alla gola tanto di Hamas che di Israele».

(La Stampa, 2 luglio 2015)

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Hamas: i 'tiranni' di Gaza saranno rovesciati

Hamas, l'organizzazione islamica palestinese che governa la Striscia di Gaza, finisce nel mirino del sedicente Stato islamico (Is). Militanti del 'califfato' hanno diffuso un video in cui minacciano di rovesciare i "tiranni" dell'enclave palestinese e di trasformare Gaza in uno dei loro feudi, sostenendo che Hamas non applica con sufficiente severità la sharia.
   Nel video, della durata di 16 minuti e, secondo al-Jazeera, diffuso da alcuni sostenitori dell'Is sui social media, alcuni combattenti jihadisti della provincia di Aleppo accusano Hamas anche di reprimere i gruppi salafiti nella Striscia.
   "L'obiettivo del jihad non è quello di liberare territori, ma il jihad, come è definito da Dio, è combattere per l'attuazione della sharia", ha affermato uno dei miliziani dell'Is che inoltre ha condannato Hamas per i suoi rapporti con l'Iran e i libanesi del movimento sciita Hezbollah.
"Sradicheremo lo Stato degli ebrei (Israele, ndr), il vostro e di Fatah - ha aggiunto il combattente a volto coperto - La regola della sharia sarà attuata a Gaza, malgrado voi. Giuriamo che ciò che sta accadendo oggi nel Levante (in Siria, ndr), e in particolare nel campo di Yarmouk, succederà a Gaza".
   Nell'ultimo periodo Hamas ha lanciato una campagna contro l'Is a Gaza. Lo scorso 2 giugno alcuni membri dell'organizzazione palestinese hanno ucciso un militante del 'califfato', un jihadista 27enne che si era rifiutato di arrendersi. In precedenza l'Is aveva dato a Hamas un ultimatum di 48 ore per mettere fine alla campagna contro i suoi militanti e liberare quanti sono stati arrestati a Gaza con l'accusa di sostenere il gruppo terroristico.

(Adnkronos, 1 luglio 2015)

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L'Isis minaccia Israele: «Sradicheremo lo stato degli ebrei e imporremo Sharia»

L'Isis, in un video diffuso sul web e ripreso dai media israeliani, ha sfidato Hamas nel suo potere a Gaza. «Otto anni che controllano il territorio - dice uno speaker nel filmato che, secondo fonti locali, ha destato preoccupazione nella Striscia - e ancora non hanno imposto la legge islamica».
«Sradicheremo lo stato degli ebrei - aggiunge un uomo mascherato nel messaggio destinato »ai tiranni di Hamas - voi e Fatah e tutti i laici che non sono nulla... La legge della Sharia sarà messa in pratica a Gaza, nonostante voi«.
   «Giuriamo - afferma poi l'uomo, secondo la traduzione apparsa nei media israeliani - che ciò che sta accadendo nel Levante oggi e in particolare nel campo di Yarmuk, succederà a Gaza». Il video - che ha sul lato destro in alto la scritta Aleppo ma non appare databile - sembra riferirsi all'avanzata dell'Isis in Siria, incluso nel distretto di Damasco, dov'è ubicato il campo profughi di Yarmuk, fondato dai palestinesi e dove, nei mesi passati, si sono svolti scontri proprio con i miliziani dello Stato islamico.

(Il Messaggero, 1 luglio 2015)


Forse adesso qualcuno comincerà a capire la stupidità del mantra “due stati per due popoli che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza”. Forse, ma non è affatto sicuro. M.C.


Israele - Al Sud fronte rovente

Yoram Cohen, capo dell'Intelligence dello Shin Bet, a colloquio con Netanyahu
Almeno cinquanta soldati egiziani, riportano i media, sono stati uccisi da miliziani dell'Isis nelle ultime ore nel nord del Sinai, a pochi chilometri di distanza dal confine con Israele. Cinque postazioni militari sono state attaccate dal movimento jihadista in un'area che il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva recentemente definito un "Far-west selvaggio". E proprio a causa dell'instabilità della zona, sempre più preda degli attacchi degli uomini del Califfato, le autorità israeliane hanno deciso nelle scorse ore di chiudere i valichi con l'Egitto di Nitzana e Kerem Shalom. E mentre da Gerusalemme si guarda con attenzione all'evoluzione degli eventi in Egitto, le forze di sicurezza israeliane hanno diffuso in queste ore la notizia di una maxi-operazione compiuta in Cisgiordania per fermare il tentativo di Hamas di ricostituirvi alcune cellule terroristiche. L'organizzazione terroristica si sta nuovamente armando a Gaza, ha dichiarato questa mattina il capo dell'Intelligence dello Shin Bet Yoram Cohen (nell'immagine assieme al Premier Netanyahu), ma il suo controllo sulla Striscia si sta gradualmente erodendo. Secondo Cohen, che ha riferito alla Commissione Affari Esteri della Knesset, Hamas sta cercando di ricostruire i tunnel sotterranei distrutti dall'esercito israeliano durante il conflitto della scorsa estate. Il movimento islamista si sta preparando per un nuovo possibile conflitto con Israele, ha spiegato Cohen, seppur non abbia intenzione nell'immediato di attaccare per primo. A continuare a dare il proprio supporto a Hamas, spiegava il capo dello Shion Bet, l'Iran, in queste settimane al centro del dibattito internazionale per la questione dell'accordo sul nucleare.
   Cohen ha parlato anche della ricostruzione di Gaza e di come la maggior parte dei finanziamenti non siano arrivati a causa della frattura tra Hamas e Autorità nazionale palestinese. La rottura ha portato al blocco dei proventi destinati alla Striscia a causa della preoccupazione, soprattutto dell'Occidente, di una possibile distrazione del denaro da parte di Hamas per fini terroristici. Cohen ha sottolineato che di fatto è stata Israele una degli elementi cardini perché si continuasse in questo periodo alla ricostruzione di Gaza.

(moked, 1 luglio 2015)


Sisi alla prova del Sinai

L'Egitto e i problemi in casa da risolvere prima di combattere in Libia.

Mercoledì lo Stato islamico in Egitto, sotto il segno del suo gruppo locale, la "Provincia del Sinai", ha sferrato una serie di attacchi coordinati contro le postazioni delle forze di sicurezza egiziane a Sheikh Zuwaid. Il conto dei militari morti non è ancora ufficiale mentre questo giornale va in stampa, ma potrebbero essere settanta. Si tratta dell'offensiva più grande lanciata dallo Stato islamico contro l'esercito egiziano e viene dopo l'attentato nelle strade del Cairo che ha ucciso il procuratore generale che si occupa anche dei processi agli islamisti. Due anni esatti dopo il rovesciamento da parte dei militari dell'esecutivo dei Fratelli musulmani e del suo presidente Mohammed Morsi - ora condannato a morte - il governo di Abdel Fattah al Sisi e il suo esercito sono alle prese con un'offensiva jihadista virulenta come non si era mai vista.
   La campagna militare egiziana contro lo Stato islamico è molto dura e senza esitazioni (i soldati non fuggono, come in Iraq). L'impiego degli aerei F-16 mercoledì nel Sinai per bombardare i guerriglieri islamisti sembra inoltre il risultato del clima di intesa strategica perdurante con Israele, che consente l'invio di uomini e di mezzi pesanti in un'area che in teoria dovrebbe rimanere demilitarizzata. Nel Sinai i giornalisti occidentali non arrivano perché sono tenuti alla larga, segno che il Cairo considera la zona un teatro di guerra piena.
   Eppure, se dopo più di un anno di campagna militare nelle zone aride del Sinai lo Stato islamico ha ancora le forze per montare questa offensiva monstre di Ramadan, vuol dire che qualcosa non funziona. Al Sisi ha in pratica una delega in bianco da parte dell'occidente contro i terroristi, ma deve riuscire a risolvere i problemi in casa. Anche con la politica, considerato che non riesce ancora a portare dalla propria parte i signori del Sinai, i clan di beduini locali che controllano la penisola e senza il cui appoggio ogni operazione militare è vuota di significato. Al Sisi deve provare la sua efficienza nel Sinai per essere considerato ancora di più un alleato indispensabile e un kingmaker quando si parla del problema dei problemi: la Libia.

(Il Foglio, 1 luglio 2015)


Furono espulsi perché docenti ebrei. Dopo quasi 80 anni, le scuse dell'Ateneo palermitano

Al Palazzo Steri l'Ateneo di Palermo commemora i docenti espulsi a causa delle leggi razziali. Il rettore Roberto Lagalla chiede scusa a nome dell'Università e del suo predecessore che ha firmato il decreto di espulsione nel 1938. L'iniziativa, proposta dall'Istituto siciliano di studi ebraici nella persona del presidente Evelyne Aouate, ha aperto il programma annuale "Univercittà Prize".

 
Palazzo Chiaramonte Steri a Palermo
Emilio Segre, ordinario di Fisica sperimentale, futuro Premio Nobel, Maurizio Ascoli, clinico famoso per avere scoperto una cura contro la tubercolosi, cui è intitolata un'aula del Policlinico di Palermo, l'italianista Mario Fubini, straordinario di Letteratura e l'ordinario di Ingegneria elettronica Alberto Dina e il fisiologo Camillo Artom. La giornata di ieri sera, proposta dall'Istituto siciliano di studi ebraici nella persona del presidente Evelyne Aouate, è stata per loro. Una commemorazione che è stata l'occasione per chiedere scusa dopo 77 anni ai cinque docenti che nel 1938, furono espulsi perchè ebrei, come imponevano le leggi razziali di allora.
   «Chiedo scusa a nome dell'Università e del mio predecessore dell'epoca che ha firmato il decreto di espulsione di cinque docenti che avevano la sola colpa di essere ebrei» ha detto il rettore Roberto Lagalla nel corso della manifestazione che ha aperto il programma annuale "Univercittà Prize", la manifestazione concepita con l'intento di collegare, la proposta culturale dell'Ateneo con le realtà e le proposte delle arti, delle professioni, dell'associazionismo e della vita pubblica della Città.
   Nel corso della serata si è svolta la cerimonia della collocazione di una targa nell'atrio dello Steri realizzata a mano dallo staff di tecnici guidati dall'architetto Domenico Policarpo, con i nomi dei docenti espulsi. Un appuntamento storico con cui l'Università, alla presenza di rappresentanti del mondo ebraico, ha voluto ricucire lo strappo avvenuto nel 1938, quando cinque illustri professori hanno perduto cattedra e stipendio in osservanza di due decreti legge che sancivano l'espulsione da ogni scuola, dall'asilo fino all'università, di studenti e insegnanti ebrei italiani e l'espatrio di tutti gli ebrei stranieri.
   «Ricordare quello che è successo nel periodo dell'oppressione del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale - ha detto il vice presidente UCEI Roberto Jarac - è fondamentale per costruire la coscienza della Nazione. Il nostro sforzo educativo è volto infatti, alla creazione delle coscienze soprattutto dei giovani che siano poi l'antidoto che quanto accaduto non si verifichi più in futuro».
   Lo storico Matteo Di Figlia, nel suo intervento, ha ripercorso il tragico periodo nazifascista, tratteggiato la figura del rettore Giuseppe Maggiore, un gigante della cultura e luminare del "Diritto penale" a livello nazionale ed europeo che si macchiò della colpa di firmare il decreto di espulsione dei docenti dall'Università. «Ma non dobbiamo dimenticare nemmeno - ha aggiunto il docente - i tanti studenti espulsi dall'Università a cui venne privato il diritto di studiare».

(Palermo MeridioNews, 1 luglio 2015)


Addio allo "Schindler inglese", salvò 669 bimbi ebrei

LONDRA - E' morto all'eta' di 106 anni Nicholas Winton, lo 'Schindler inglese' che a Praga nel 1939 salvo' dai nazisti 669 bambini ebrei destinati ai campi di concentramento.
Winton e' morto nel sonno al Wexham Hospital di Slough, ovest di Londra.
Nato nella capitale inglese da genitori ebrei tedeschi, Winton viaggio' nella Cecoslovacchia occupata dai nazisti come impiegato della Borsa di Londra e fu li' che riusci' a organizzare il trasferimento in treno di 669 bambini ebrei in Gran Bretagna, salvandoli cosi' dai campi di concentramento. Da qui l'appellativo dello Schindler inglese, in riferimento a Oskar Schindler, l'imprenditore tedesco che porto' il salvo centinaia di ebrei polacchi durante la guerra.

(AGI, 1 luglio 2015)


FCA, CNH Industrial e Fuel Choices. Initiative di Israele per EXPO 2015

Prosegue la partnership tra FCA, CNH Industrial e Fuel Choices Initiative di Israele (IFCI), il programma decennale del governo israeliano promuovere lo sviluppo di combustibili alternativi. In occasione del National Day all'Expo di Milano, festeggiato il 25 giugno, Israele ha celebrato la ricorrenza nel suo padiglione. FCA è presente nel padiglione con una 500L alimentata a metano.

Prosegue la partnership tra FCA, CNH Industrial e Fuel Choices Initiative di Israele (IFCI). Dopo la vendita del primo veicolo a CNG in assoluto nel mercato Israeliano - uno Stralis 4x2 prodotto da Iveco brand di CNH Industrial, alimentato a gas naturale compresso (CNG) con motore Iveco Cursor 8 Euro VI - la partnership con Israele prosegue sempre con l'obiettivo di trasformare il Paese in un punto di riferimento per lo sviluppo dei combustibili alternativi. In questo scenario il programma mira a incrementare l'uso delle tecnologie basate sull'utilizzo del gas naturale nel settore dei trasporti entro il 2020, ampliando la flotta di veicoli dello stato di Israele alimentati con questo e altri combustibili alternativi fra i quali anche i biofuel.
   In occasione del proprio National Day all'Expo di Milano, festeggiato il 25 giugno, Israele ha celebrato la ricorrenza nel suo padiglione con una festa (e un ricco calendario di manifestazioni per il pubblico) e con un evento istituzionale in cui è stata messa in evidenza la collaborazione che unisce i due Paesi. FCA è presente nel padiglione con una 500L alimentata a metano per testimoniare la continua vivacità della partnership tra FCA/CNH Industrial e Israele, sempre attiva nell'ambito delle iniziative volte ad assicurare un ambiente più pulito per le generazioni future.
   I veicoli CNG di FCA/CNH Industrial possono essere alimentati anche a biometano, che può essere prodotto dai rifiuti alimentari, agricoli e di allevamento, posizionandosi così come biocombustibile rinnovabile e realmente sostenibile, in grande coerenza con il messaggio di Expo Milano 2015. FCA e IFCI stanno inoltre lavorando insieme per sviluppare un programma di cooperazione esteso per la ricerca e lo sviluppo, al quale parteciperanno aziende israeliane operanti in settori collegati a quelli dei combustibili alternativi e della mobilità intelligente, oltre all'indotto dell'industria automobilistica.
   In qualità di leader europei nell'ambito dei veicoli a gas naturale - con oltre 650 mila veicoli venduti dal 1997 a oggi - FCA si impegna a realizzare soluzioni di mobilità sostenibile (pratiche e con benefici in termini di sostenibilità ambientale) per i vari settori nei quali opera, dal trasporto pubblico e privato, al trasporto merci. Per raggiungere questi obiettivi, la società lavora attivamente per coinvolgere tutti gli aspetti della propria filiera, in modo da garantire un approccio integrato con l'impegno di tutte le parti interessate.

(InfoMotori, 1 luglio 2015)


L'ira di Al Sisi: a morte i fratelli musulmani

Il presidente egiziano annuncia tribunali speciali egiura: condanne eseguite al più presto. Morsi ha igiorni contati.

di Carlo Panella

«Se c'è una condanna a morte, la condanna a morte sarà eseguita, la legge è legge!». Con tono irato, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha annunciato al popolo egiziano e al mondo che ha intenzione di porre fine alla commedia - da lui stesso imbastita - delle condanne a morte fittizie. E questa, ed è feroce, la sua risposta all'uccisione in un attentato del procuratore generale Hisham Barakat, che aveva chiesto e ottenuto dai tribunali egiziani buona parte delle mille condanne a morte sin qui emesse, inclusa contro quella dell'ex presidente Mohammed Morsi. Con la sua orazione funebre pronunciata nella moschea del campo "Feldmaresciallo Tantawy", al Sisi si rimangia dunque l'assicurazione che da un anno in qua ha dato - a quattr'occhi - a tutti gli ospiti stranieri che ha incontrato.
   Da oggi, quelle condanne a morte non sono più sospese sulla testa dei condannati a solo scopo dimostrativo. Saranno una terribile, feroce, realtà. Vale la pena di leggere per intero il passaggio centrale di questo proclama, che cambia radicalmente il clima politico dell'Egitto: «Il braccio della giustizia è incatenato dalla legge, non aspetteremo più e il prima possibile modificheremo le leggi in modo da permetterci di applicare il diritto. Funzionano i tribunali in questi casi? Funzionano queste leggi? Funzionano con gente normale. Ma noi stiamo affrontando nemici codardi e tutti dobbiamo guardare insieme questo nemico per conoscerlo bene. L'arma della giustizia è incatenata dalle leggi. Queste devono essere cambiate per affrontare gli sviluppi che stanno avvenendo e affinché la giustizia possa agire il più velocemente possibile. Useremo ogni metodo previsto dalle leggi per combattere i terroristi, incluse la pena di morte e l'ergastolo. Servono leggi più dure contro gli estremisti!».
   In concreto, ieri stesso il governo egiziano si è riunito per approvare nuove leggi per il reato di terrorismo che - non a torto - le organizzazioni umanitarie - definiscono liberticide: riduzione della durata del processo fino ad un massimo di tre anni; facoltà dei giudici di decidere i testimoni a difesa da ascoltare e inappellabilità delle sentenze della Corte Suprema di Sicurezza nazionale, responsabile dei processi per terrorismo, che saranno approvate direttamente dal presidente della Repubblica. In breve: istituzione di un Tribunale speciale per i reati di terrorismo e per la Fratellanza Musulmana. in cui la difesa non avrà nessun diritto e i condannati - anche a morte - non potranno ricorrere in appello. Dunque, il secondo anniversario del colpo di Stato portato a termine il 30 giugno 2013, da al Sisi contro Mohammed Morsi -peraltro regolarmente eletto- e il suo governo della Fratellanza Musulmana, segna una drammatica svolta. È la conseguenza prevedibile - e forse voluta, nella perversa strategia perseguita dalla Fratellanza Musulmana- del clamoroso attentato di lunedì che ha inflitto personalmente al presidente egiziano una umiliante sconfitta. Gli attentatori hanno infatti dimostrato che al Sisi non sa difendere la vita dell'alto magistrato a cui aveva chiesto di condurre la repressione giudiziaria dei Fratelli Musulmani. Il tutto, per di più - a ulteriore sfregio-con una autobomba che è esplosa vicino alla Accademia Militare di Heliopolis, simbolo dell'onore dell'Esercito egiziano.
   Il clima ieri, anniversario della defenestrazione dei Fratelli Musulmani, era plumbeo, come le parole di morte di al Sisi. Per timore di manifestazioni spontanee è stata addirittura chiusa la stazione della metropolitana di piazza Tahrir.
   Da parte sua. La Fratellanza reagisce al solito con due linguaggi. Mohammed Monta-ser, portavoce della Fratellanza ha definito «inaccettabile» l'omicidio di Barakat, ma ha poi aggiunto: Non c'è altra via per fermare questo bagno di sangue che quella di fermare il golpe militare e far ritornare al potere le autorità rivoluzionarie». Più diretto e inequivocabile Ahamed al Moughir, braccio destro dell'ex tesoriere dei Fratelli Musulmani Khairat al Shater (condannato a morte): dal suo esilio in Sudan ha minacciato lo stesso al Sisi «di fare la fine di Anwar el Sadat», il presidente ucciso dal primo nucleo di al Qaeda, nel 1981.
   
(Libero, 1 luglio 2015)


Netanyahu pronto a colloqui senza precondizioni con Abu Mazen

di Maurizio Molinari

 
Disponibilità alla ripresa del negoziato con i palestinesi «senza precondizioni» e ferma opposizione all'accordo sul nucleare con l'Iran: sono i due messaggi che il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha consegnato ieri mattina al ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, durante un intenso incontro a Gerusalemme.

 Dissenso sull'Iran
  Fonti diplomatiche al corrente dei contenuti del colloquio, spiegano a «La Stampa» che Netanyahu ha espresso un «secco e articolato rifiuto» del possibile accordo fra il gruppo 5+1 e Teheran sul nucleare iraniano, lasciando intendere che Israele vi si opporrà «con fermezza» a prescindere dalle sue caratteristiche tecniche. Tale determinazione è stata ribadita in pubblico da Netanyahu quando, nella conferenza stampa, ha detto che l'intesa «consentirà a Teheran di avere non solo la bomba ma un ordigno nucleare». Affidare un simile messaggio all'Italia - considerata uno degli alleati europei più vicini, assieme alla Germania - significa da parte di Israele voler far sapere all'Ue che «l'intesa con l'Iran rappresenta un pericolo per il mondo intero».

 I negoziati con i palestinesi
  Sul fronte dei negoziati con l'Anp di Abu Mazen, Netanyahu si è dimostrato invece aperto a possibili iniziative diplomatiche tese a raggiungere un'intesa sull'obiettivo dei due Stati. «Siamo favorevoli ad una ripresa dei colloqui senza precondizioni», ha detto il premier all'ospite italiano, lasciando intendere disponibilità anche per una cornice multilaterale che potrebbe vedere più Paesi recitare un ruolo di garanzia: non solo europei ma anche arabi come l'Egitto, la Giordania e l'Arabia saudita. Netanyahu però si oppone al progetto francese di risoluzione Onu perché «il negoziato non può avere già un esito predefinito». Sono contenuti che confermano e rafforzano quanto era emerso nel recente incontro fra il premier e il «ministro degli Esteri Ue», Federica Mogherini, soprattutto riguardo la possibilità di un coinvolgimento dei Paesi sunniti in pace con Israele o, come nel caso dei sauditi, accomunati dall'opposizione al nucleare dell'Iran. Lo scenario di una ripresa dei negoziati era stato evocato, il giorno precedente a Ramallah anche dal palestinese Abu Mazen con Gentiloni, sottolineando però l'importanza di ricevere «segnali israeliani sul tema degli insediamenti».
  A Ramallah c'è preoccupazione per i negoziati segreti Hamas-Israele, temendo che possano portare alla nascita di un'Autorità palestinese concorrente. A conclusione della maratona di incontri, il ministro Gentiloni ha riassunto i messaggi raccolti sul fronte della ripresa delle trattative - bloccate dall'aprile 2014 - augurandosi che «nei prossimi mesi possano esservi notizie positive su questo dossier». È su questo sfondo che Matteo Renzi, sarà a Gerusalemme e Ramallah il prossimo 21 luglio.

(La Stampa, 1 luglio 2015)


"Infliggere dolore è sempre inaccettabile"

"Vietare queste procedure costringe una fascia della popolazione a disattendere a fede e cultura". Intervista a Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma.

ROMA - «Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, ovvero il suo sangue...». Così, nella Genesi, dispone Dio: «È una concessione, non un avallo ad agire in modo selvaggio: da Adamo a Noè l'umanità fu vegetariana, e forse, un giorno, tornerà a esserlo» spiega Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, medico e autore di Noten ta'am leshevach, libro sulle regole alimentari.

- Qual è il senso originario della macellazione kosher?
  «La morte di un altro essere non è mai banale. In segno di rispetto, l'antica regola ci impone di seppellire il sangue di volatili, come i polli, o degli animali selvatici. Quanto al pesce, ci è permesso solo quello con le squame».

- Conosce le mozioni contro le macellazioni rituali?
  ««In ogni legislatura europea sbocciano simili proposte, che pongono però un problema di libertà religiosa. Vietare procedure con 35 secoli di storia costringerebbe una fascia di popolazione a disattendere a fede e cultura. Qualcuno lo fa; vedi, già da fine '800, la Svizzera. Il divieto fu applicato pure dal Fascismo con le leggi razziali».

- Lo stordimento preventivo è inaccettabile?
  ««Siamo certi che abbatta il dolore? Il nostro rito, dalle analogie solo formali con quello musulmano, ha operatori competenti, l'affilatura della lama è perfetta. Il taglio netto di carotide e giugulare determina un brusco calo della pressione e anossia cerebrale. E mi stupisce ci si appunti sugli ultimi attimi, sorvolando su quanto inflitto da allevamenti intensivi e trasporti. Controlli e leggi più stringenti dovrebbero tutelare gli animali dalla nascita fino al viaggio per il macello. Su un punto ritengo siamo tutti d'accordo: la loro sofferenza non è mai accettabile».

(la Repubblica, 1 luglio 2015)


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