Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 16-31 luglio 2015


Cordoglio per l'attentanto in Cisgiordania. Inaccettabili gli attacchi ad Israele

Abbiamo ricevuto e volentieri diffondiamo.

«Ci teniamo ad esprimere il nostro cordoglio per la cruenta e spietata uccisione del piccolo Duma, e sottoscriviamo nell'esprimere preoccupazione le parole del premier israeliano Benyamin Netanyahu, che telefonando al presidente palestinese Abu Mazen ha espresso l'orrore con cui Israele vede l'uccisione del bambino Ali Dawabshe avvenuta oggi in Cisgiordania. "Dobbiamo combattere assieme il terrorismo, da qualsiasi direzione provenga" ha detto Netanyahu e questo valga anche per l'Italia e tutto il mondo.
Riteniamo inaccettabile e tristemente strumentale che il gravissimo attentato di oggi, probabilmente responsabilità di qualche colono israeliano fanatico ed estremista, venga imputato ad Israele. È inaccettabile che in questi casi l'Autorità palestinese e il mondo dell'associazionismo ad essa vicino anche in Italia, attribuiscono la responsabilità allo Stato d'Israele, che da subito ha condannato quanto accaduto ed ha promesso giustizia.
Al contrario, quando Hamas o altre organizzazioni terroristiche colpiscono cittadini israeliani o Israele stesso, nessuno da parte palestinese prende le distanze, ma non vuole nemmeno assumersi la responsabilità del suo silenzio assenso.
Siamo convinti che Israele individuerà i responsabili dei misfatti e li punirà come ha fatto più volte in passato, dimostrandosi ancora una volta nella regione l'unico Stato realmente serio, democratico, in cui vige uno stato di diritto a tutela di tutti i cittadini.»

Alessandro Bertoldi
Membro del Direttivo nazionale della Federazione delle Associazioni Italia-Israele.

(Notizie su Israele, 31 luglio 2015)


Il riconoscimento alla famiglia di Modena che salvò due concertisti ebrei e le figlie

I coniugi Andreoni hanno ricevuto l'onorificenza dall'ambasciatore di Israele Dan Haezrachy. La loro storia rivive grazie alle nuove generazioni di Fanano, attraverso lo spettacolo teatrale "Una famiglia nella bufera".

di Annalisa Dall'Oca

"Chi salva una vita", dice il Talmud babilonese, "salva il mondo intero". E la famiglia Andreoni, che ai tempi della seconda Guerra Mondiale viveva a Fanano, in provincia di Modena, sulle montagne dell'Appennino emiliano romagnolo, di vite ne ha salvate quattro. Quelle di Cesare Valabrega, di sua moglie Carla, e delle figlie Benedetta e Emma. E per questo, il 29 luglio è stata insignita dall'ambasciatore di Israele Dan Haezrachy dell'onorificenza di Giusto tra le Nazioni, il riconoscimento assegnato ai non ebrei che ai tempi della Shoah agirono in modo eroico, e a rischio della propria vita, per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista. 24mila in tutto, dal 1962, anno in cui la commissione guidata dalla Suprema corte israeliana si insediò, a oggi, sono i Giusti riconosciuti, tra cui Oskar Schindler, Giorgio Perlasca, Irena Sendlerowa e Giovanni Palatucci.
   "La storia delle famiglie Andreoni e Valabrega è una di quelle storie che potresti trovare scritte in un romanzo - racconta Massimo Turchi, storico di Fanano, la cui famiglia era legata da un'amicizia ai Valabrega - e ovviamente, l'aspetto più bello è che è a lieto fine". Iniziò nel 1938, quando l'Italia promulgò le leggi razziali fasciste, e i Valabrega, Cesare e Carla, concertisti ebrei bolognesi, persero il lavoro, trovandosi costretti a vivere d'espedienti, sempre in fuga. "Si spostarono di città in città, grazie ai documenti falsi forniti dal Cln bolognese, il Comitato di liberazione nazionale, col quale Cesare era in stretto contatto - racconta Turchi - finché, nell'autunno 1942, la famiglia arrivò a Sestola, sistemandosi nella casa di Luigi Galli". Sull'Appennino all'epoca erano sfollate numerose famiglie ebree, e per qualche mese, i Valabrega affittarono una casa, finché alcuni amici da Bologna li convinsero che era necessario trasferirsi ancora, per evitare di essere scoperti dall'esercito nazifascista. Così, nel 1943, il parroco di Sestola consigliò loro di recarsi a Ospitale, nella vallata di Fanano, dove curato della parrocchia locale, don Giovanni Ricci, li accompagnò a casa di Gildo Andreoni.
   Lì, la famiglia Valabrega visse nascosta per due anni in una stanza al primo piano di casa Gioiello, così si chiamava il casolare di proprietà degli Andreoni, Gildo, la moglie Elisa, e le figlie, Rosa e Adelinda. "E uno degli aspetti che più colpiscono di questa storia - spiega Turchi - è che in paese tutti sapevano, o sospettavano, che una famiglia di ebrei fosse nascosta lì, a casa dei loro vicini, ma nessuno disse una parola. Nessuno fece la cosiddetta spiata. Tutta la comunità contribuì a proteggere i Valabrega, a rischio della loro stessa vita". Un giorno, ad esempio, i militari repubblichini delle Rsi andarono a casa Andreoni per prelevare Gildo, che, rientrato dalla Russia, era considerato un disertore, con la famiglia Valabrega sempre nascosta in una camera del primo piano. "Fu una fortuna che l'abitazione non venne perquisita". La famiglia, quindi, si salvò, e nel 1944 fu in grado di oltrepassare la Linea Gotica per raggiungere Roma.
   Oggi quella storia è raccontata dalle nuove generazioni di Fanano, attraverso lo spettacolo teatrale "Una famiglia nella bufera" scritto e interpretato dagli studenti della Scuola Secondaria, curato dalla professoressa Caterina Muzzarelli, che la sera della prima vide ospite il nipote di Cesare Valabrega, Marco, che partecipò allo spettacolo con un contributo musicale. "Un bell'epilogo per tutta la comunità di Ospitale, che sarà presente al momento del conferimento dell'onorificenza".
   Alla cerimonia parteciperà anche Emma Valabrega, che all'epoca dei fatti aveva un anno, e si svolgerà, non al museo dello Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto a Gerusalemme, ma al centro tematico Monti della Riva a Trignano, frazione di Fanano. Un museo non ufficiale, che nelle sue sale racchiude 40 biografie di altrettanti personaggi che ebbero un ruolo, positivo o negativo, durante la Seconda Guerra Mondiale: soldati tedeschi, soldati americani, partigiani, staffette, uomini e donne che nascosero chi fuggiva dall'esercito nazifascista, semplici cittadini che contribuirono come poterono alla Resistenza. "Un luogo della memoria, insomma - spiega Turchi - perché la storia va ricordata attraverso tutte le sue sfaccettature, positive o negative, sia conoscendo il nome dei carnefici, sia quello delle vittime, sia degli eroi".

(il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2015)


L'israeliana Fattal (Leonardo hotel) raddoppia su Milano e punta sull'Italia

di Vincenzo Chierchia

 
Accelerano gli investimenti stranieri nel comparto turistico. Il gruppo turistico israeliano Fattal raddoppia su Milano. Di recente il gruppo alberghiero ha rilevato nel capoluogo lombardo da Monrif l hotel Hermitage (zona Garibaldi) per un controvalore di 20,5 milioni. Ora il gruppo israeliano si appresa a siglare un accordo per riconversione e gestione di un immobile adiacente alla Stazione centrale di Milano, lato Piazza Quattro Novembre, un'area di recente interessata da un importante investimento di riqualificazione legato al rilancio dello storico Hotel Excelsior Gallia promosso da Katara hospitality e Starwood.
L'intervento di Fattal una volta espletate tutte le procedure riguarderà un complesso a circa 17mila metri quadrati; l'operazione vede come soggetto coordinatore la Realty Advisory Spa esclusivista per l' Italia del marchio Coldwell Banker Commercial. Al gruppo Fattal fanno capo cinque catene alberghiere: Leonardo, U hotels, Magic, Herods e Rothschild22. L'operazione a Milano dovrebbe essere gestita sotto l'egida della Leonardo hotels. Il gruppo gestisce 35 alberghi in Israele e una cinquantina in Europa. Lo sviluppo nel Vecchio Continente è iniziato nel 2007 con un investimento in Germania, cui ha fatto seguito nel 2013 l'acquisizione della Queens Moat Houses Holding GmbH. Oggi il gruppo opera in vari Paesi (Austria, Ungheria, Svizzera, Regno Unito, Spagna e Belgio) . Allo studio investimenti del gruppo alberghiero anche su Roma, Firenze e Venezia.

(Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2015)


Zurigo - Ebreo ortodosso insultato. "È intimorito e non ha ancora deciso se sporgere denuncia"

Il presidente della Federazione svizzera delle comunità israelite Herbert Winter si dice molto preoccupato per quanto avvenuto il 4 luglio scorso.

ZURIGO - Una ventina di estremisti di destra hanno attaccato e insultato verbalmente sulla pubblica via un ebreo ortodosso a Zurigo. Il presidente della Federazione svizzera delle comunità israelite (FSCI) , Herbert Winter, si dice molto preoccupato.
   "Gli aggressori hanno agito in pieno giorno e senza il minimo ritegno, nonostante la presenza di passanti", dichiara Winter in un'intervista pubblicata oggi dal "Tages Anzeiger" e dal "Bund". Ciò che più preoccupa il presidente della FSCI è il fatto che gli autori di simili ingiurie e minacce agiscono sempre più in pieno giorno e sui social media non esitano ad attaccare persone con nome e cognome.
   La vicenda risale al 4 luglio scorso - un sabato - ed è stata resa pubblica nel fine settimana dalla "SonntagsZeitung". A quanto si è appreso, gli estremisti stavano prendendo parte ad una "festa" di addio al celibato e si sono recati a Zurigo a bordo di un bus.
   Imbattutisi nell'uomo sulla quarantina con il tipico abbigliamento da ebreo ortodosso, i facinorosi gli hanno impedito di continuare il cammino e facendo il saluto romano gli hanno rivolto insulti antisemiti. Il caporione del gruppo avrebbe anche sputato in faccia all'uomo e lo avrebbe spintonato.
   Il presidente dalla FSCI afferma nell'intervista di essere in contatto con l'uomo che è stato aggredito. "È intimorito e non ha ancora deciso se sporgere denuncia per paura che la sua identità diventi di dominio pubblico", precisa Herbert Winter.
   Anche la sindaca di Zurigo Corine Mauch (PS) si è espressa sulla vicenda: in un messaggio su Facebook definisce "assolutamente inaccettabile" l'attacco "antisemita". Zurigo vuole rimanere "una città aperta al mondo e preservare con tutte le forze il rispetto fra persone di diverse religioni e diverse provenienze", scrive la Mauch.

(tio.ch, 31 luglio 2015)


Il 6 settembre Giornata Europea della Cultura Ebraica

Torna domenica 6 settembre 2015 la Giornata Europea della Cultura Ebraica, il tradizionale appuntamento coordinato e promosso nel nostro Paese dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che invita a scoprire il patrimonio culturale ebraico , proponendo centinaia di eventi tra spettacoli, mostre, concerti, degustazioni kasher, incontri culturali e percorsi alla scoperta delle sinagoghe italiane, dei quartieri e dei musei ebraici.
La manifestazione, giunta alla sedicesima edizione, nasce quale proposta di condivisione e di amicizia tra culture: intenti ben espressi dal tema dell'edizione 2015, "Ponti & AttraversaMenti", minimo comun denominatore degli appuntamenti organizzati nei trentadue Paesi europei e nelle settantadue località che aderiscono quest'anno in Italia.
   "Quello ebraico è un patrimonio di grande interesse culturale, storico, archeologico, architettonico e artistico, non sempre conosciuto e valorizzato, ma che è parte integrante della storia d'Italia e d'Europa", ha affermato il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna. "La Giornata sarà una occasione per scoprire, grazie a 'ponti ideali' che saranno presenti in tutto il continente, un assaggio di una cultura antica e aperta al mondo, orgogliosa della propria identità e desiderosa di farsi conoscere."
   In Italia gli ebrei sono presenti da oltre due millenni, con testimonianze di vita e cultura diffuse sul territorio, dalle grandi città ai piccoli centri, da nord a sud alle isole. Siti e percorsi tra i più belli d'Europa, che rendono l'edizione italiana, con circa cinquantamila presenze, una delle più seguite, realizzando da sola più di un quarto dei visitatori complessivi dell'intero continente.
Città capofila per l'Italia è quest'anno Firenze, dove risiede una importante e vivace comunità ebraica. Nella Sinagoga, una delle più belle d'Italia, si darà il "via" simbolico alla manifestazione, con l'inaugurazione ufficiale della Giornata alla presenza di esponenti delle istituzioni, della società civile e dell'ebraismo italiano. Una occasione per ribadire, in tempi difficili e conflittuali, la necessità di amicizia e incontro tra diverse culture, identità e fedi.

(agenzia fuoritutto, 29 luglio 2015)


Portavoce comunità ebraica di Har Braha (Nablus): "Quello che è successo ieri notte è terribile"

Gli abitanti del villaggio di Har Braha, a pochi chilometri dal luogo dell'attentato, condannano il gesto estremo: "Siamo scioccati".

di Marco Maisano

 
  La casa incendiata nel villaggio di Duma  
L'attentato della scorsa che ha causato la morte di un bambino di 18 mesi nei dintorni di Sichem (Nablus in arabo), ha sconvolto l'opinione pubblica israeliana e reso l'aria ancora più tesa a poche ore dalla "Giornata della Collera" proclamata da Hamas a seguito dell'irruzione del esercito israeliano all'interno della mosche di Al-Aqsa.
   Come è noto la vicinanza tra gli abitanti israeliani di Giudea e Samaria e gli arabi ha da sempre portato a violenze che spesso sono finite in vere e propie tragedie. Come quella della scorsa notte, appunto.
   Gli abitanti israeliani nei dintroni di Sichem condannano gli esecutori dell'attentato. A parlare a il Giornale è il preside della scuola e della Yeshiva di Har Braha, nonchè il portavoce del villaggio stesso a pochi chilometri dal luogo dell'incendio. "Sono nato a Hevron, ho sempre vissuto nei territori, conosco la mia gente. Quello che è successo ieri notte è terribile. Siamo tutti scioccati. Anche il rabbino di Har Braha (Eliezer Melamed) ritiene che sia stato un atto terribile, atroce, un vero crimine. Uccidere un bambino, che non ha fatto nulla, che non ha neppure iniziato a vivere, è un atto terribile. Chi lo ha fatto, sono probabilmente dei ragazzi che cercavano una vittima, senza rendersi conto di cio che facevano, ma certo cio non rende la loro azione meno terribile. Mi rattrista che anche tra gli ebrei ci siano ora dei terroristi, perche di questo si parla, di terroristi. Attraverso di voi vorrei porgere le mie condoglianze alla famiglia. So cosa vuol dire perdere dei cari a causa del terroismo, nella mia vita sono state molte le vittime del terrorsimo che conoscevo".
   Nethanyahu ha da subito condannato senza riserve il gesto, definendolo un "atto terroristico". Da più parti si sono levate voci di condanna, esponenti politici di ogni schieramento. Yair Lapid, ex Ministro delle Finanze , ha da poco pubblicato su facebook un lungo commento a condanna dell'attacco: "Siamo in guerra. Chi brucia un bambino palestinese ha dichiarato guerra a Israele. Chi attacca con un coltello i giovani al Gay Pride ha dichiarato guerra a Israele. Chi lancia pietre contro le forze di sicurezza, ha dichiarato guerra a Israele. Chi fa parte della organizzazione Lehava è un traditore che aiuta il nemico in tempo di guerra". Poi la condanna precisa all'omicidio: "I terroristi sono entrati nella notte e hanno bruciato un bambino. Come sempre, l'esercito va in guerra contro il nemico , solo che questa volta il nemico è qui, all'interno, tra di noi. Queste persone sono partner naturali di Hamas, Hezbollah, ISIS. Sembrano come noi, ma non sono come noi. Sono traditori di tutto ciò che è sacro per noi, traditori della idea su cui si basa lo Stato di Israele, traditori della nostra religione. Anche il Presidente di Israele Rueven Rivlin ha subito reagito puntando il dito contro il terrorismo e accusando i gruppi estremisti di lavorare per il male del paese: "Abbiamo a che fare un pericoloso gruppo di estremisti che punta a distruggere il fragile ponte che stiamo costruendo". Il riferimento è ovviamente quello al difficile accordo che da anni il Governo cerca di raggiungere con la controparte palestinese. Oggi stesso il Presidente si recherà in visita ai feriti dell'attentato al Chaim Sheba Medical Center di Tel Hashomer.
   Ad intervenire è stato anche il Ministro della Difesa Bugi Ayalon: "L'incendio doloso e l'omicidio di un bambino di questa notte nel villaggio di Duma sono gravi attentati terroristici che non possiamo tollerare e che condanniamo. In questo momento le forze di sicurezza stanno facendo uno sforzo supremo per catturare gli assassini. Li perseguiremo fino a quando non li cattureremo".

(il Giornale, 31 luglio 2015)


Quei terroristi ebrei che facilitano il compito dei jihadisti

In seguito agli scontri a Gerusalemme, che hanno visto le forze di sicurezza israeliane entrare nella Moschea di al-Aqsa per fermare il lancio di pietre sugli ebrei che stavano pregando al sottostante Muro Occidentale per la ricorrenza di Tisha Beav, Hamas aveva istituito per oggi la "Giornata della Rabbia". Molti hanno dato poco peso a questa notizia credendo fosse l'ennesimo tentativo, destinato a fallire, da parte di Hamas di alimentare la violenza nella West Bank. Ciò che è successo nel villaggio palestinese di Duma ha cambiato totalmente le carte in tavola....

(Progetto Dreyfus, 31 luglio 2015)


«Ospita Fiano». Ex terrorista vuole boicottare Radio Popolare

MILANO - Nella classifica della vergogna, la posizione della pagina Facebook che chiede di boicottare Radio Popolare perché ha intervistato Emanuele Piano, deputato Pd e candidato alle primarie del centrosinistra per le comunali di Milano dei 2016, meriterebbe uno dei primi posti in classifica. «Emanuele Piano è un sionista — scrive l'autore della pagina, Francesco Giordano, già condannato a 21 anni di carcere per l'omicidio di Walter Tobagi, sostenitore della causa palestinese —esponente di destra del Pd, partito razzista (Cie), guerrafondaio». Ma se esistesse veramente quella classifica, il primo posto in assoluto lo meriterebbe tal Leibnitz o08 che aderendo all'iniziativa, scrive: «Pur di far carriera si laverebbe col sapone fatto coi suoi parenti».
   Per la cronaca, Lele Flano è figlio di Nedo Piano, deportato a 18 anni ad Auschwitz con tutta la famiglia. Nedo fu l'unico sopravvissuto, tutti i suoi cari vennero sterminati dai nazisti. Alla miseria del signor Leibnitz 008 si aggiunge quella di LisaCa: «Probabile. Ma bisogna ricordarglielo ogni tanto...». Alle prime avvisaglie della tempesta responsabili del sito hanno fatto sparire i due post. Così come è sparita la foto dei redattori di Radiopop messi alla gogna come fiancheggiatori.
   Giordano prende di mira un altro candidato alle primarie, Pierfrancesco Majorino. La pagina si chiama «Non vogliamo Piano sindaco».Con l'aggiunta: «E nemmeno Majorino... siamo di sinistra, non israeliani».
   «Qualcuno sta riaprendo i tombini delle fogne nella campagna elettorale — replica Fiano — Ricevo messaggi, leggo appelli e mi segnalano post che da un lato attaccano il mio e altrui essere ebreo, con i più classici stereotipi dell'antisemitismo di matrice nazista, fascista e dell'estremismo di sinistra filopalestinese. Chiedono ci sia tolto il diritto di parola. Un classico. lo semplicemente non ci sto, non accetterò di scendere a questo livello, la discussione non può essere intorno a quanto dicono questi nipotini di Hitler». Anche Radiopop con il direttore Michele Migone replica al boicottaggio: «Noi siamo nati per essere liberi e indipendenti e tali rimarremo. Piano e Majorino saranno sempre nostri graditi ospiti. A loro la nostra totale solidarietà». Come quella del Pd con Lorenzo Guerini e Piero Fassino: «La considero — dice il sindaco di Torino — una vergogna e un'indecenza che dimostra solo la miseria umana e l'abisso morale in cui vivono coloro che diffondono certe espressioni».
   
(Corriere della Sera, 31 luglio 2015)


Goebbels, l'eredità scomoda

 
Hitler e Goebbels sorridenti
L'eredità del nazismo allunga la sua ombra ingombrante anche nel presente. A settant'anni dalla fine del più grande conflitto su scala planetaria, la Germania è un paese modello, soprannominato la "locomotiva d'Europa". È una nazione che ha saputo anche affrontare con tenacia e senso critico quel passato oscuro, ora divenuto memoria storica collettiva. Ogni tanto però quel passato come nei peggiori incubi ritorna, senza far paura, ma suscitando inevitabili polemiche.
   In questo caso la questione riguarda i diritti d'autore che non sarebbero stati pagati agli eredi di Joseph Goebbels, braccio destro di Hitler e ministro della Propaganda nella Germania nazista. Il gruppo editoriale Random House, tra i più grandi al mondo come fatturato, ha infatti pubblicato recentemente una biografia sul gerarca nazista, a cura di Peter Longerich, professore universitario di storia tedesca. Nel libro sono presenti citazioni tratte dai Diari di Goebbels, materiale sicuramente prezioso per ricostruire il profilo storico, politico e umano di una delle figure più controverse del regime totalitario. E che dovrebbe essere a disposizione di tutti gratuitamente, secondo la Random House.
   Il verdetto del tribunale di Monaco ha invece dato ragione agli eredi di Goebbels.
   La richiesta di pagamento dei diritti d'autore, inoltrata dall'avvocato Cordula Schacht (anche lei figlia di un ministro dell'era nazista), è stata accolta pienamente dai giudici tedeschi. Random House ha dichiarato che farà ricorso alla Corte Suprema, e molti intellettuali tedeschi si schierano dalla sua parte. Come si può d'altronde pagare per le parole di un criminale di guerra? Ma dall'altra parte, si chiedono alcuni, come non riconoscere un diritto (quello generalmente noto come sfruttamento commerciale delle opere di ingegno) sancito dalla Costituzione e dalle leggi tedesche?
   Il gruppo editoriale, in un primo momento, aveva tentato un approccio con il legale della famiglia Goebbels, offrendo l'1% del ricavato delle vendite, da donare esclusivamente a un'associazione delle vittime del nazismo. La risposta sdegnata della controparte aveva chiuso la porta ad ogni compromesso, e da qui il ricorso al primo grado di giudizio di un tribunale.
   Certamente la questione animerà il dibattito culturale in Germania, dimostrando ancora una volta come quella memoria storica che si credeva condivisa può traballare su più fronti.

(Italy Journal, 31 luglio 2015)


Un viaggio in Israele e la voglia di conoscere

Lettera al direttore del Corriere del Trentino

Caro direttore,
un viaggio in Israele, per turismo o per studio collettivo, può essere un tentativo di comprensione, un'esperienza sul campo anche se breve e guidata. Uscire da Israele è più difficile che entrarvi, non solo per i controlli di sicurezza particolarmente accurati, dunque un po' lenti, ma anche perché il farlo davvero esige una riflessione. Perché è nato questo Stato, perché a quasi settant'anni dalla sua costituzione non è ancora accettato dalla grande maggioranza del mondo arabo, dai Paesi terzomondisti e — se si bada ai fatti e non alle belle parole — da buona parte dell'Europa? Quando ci si trova di fronte, magari per la prima volta, a un'economia in grande sviluppo, a un'agricoltura meravigliosa, a una popolazione accogliente e cordiale, che certo non ignora contraddizioni e rivendicazioni, ma gode di un livello di vita e di soddisfazione senza paragoni con i vicini, a una cultura e a una scienza che sono fra le prime al mondo, tali domande si impongono. I limiti effettivi di Israele, quelli su cui si estende la sua amministrazione e l'intraprendenza dei suoi cittadini, sono marcati dal verde dei campi e dei boschi che hanno trasformato il paesaggio: un segno di appropriazione fortissimo perche prodotto dall'amore della terra, che sembra fisicamente ricambiato. Perché si chiede insistentemente, come fosse un segno di giustizia, di restringere drammaticamente i suoi confini, di portarli sotto il limite economico e militare di sostenibilità, quando lo spazio geografico si estende per migliaia di chilometri al di là da essi, praticamente disabitato e vuoto, certo oggi desertico, ma non meno di quanto lo fosse Israele centocinquanta anni fa, a portata dunque del lavoro e della tecnologia? Perché si vuole distruggere questo gioiello politico economico e culturale che, essendo in primo luogo figlio della tradizione ebraica, discende però anche dalla grande cultura occidentale, dalla tradizione politica della democrazia e da quella tecnica dell'impresa scientifica europea? Ecco la domanda principale che un viaggio in Israele pone ai suoi partecipanti.
   Forse la visita allo Yad Vashem, il museo della Shoah, dolorosissima ma necessaria, propone una risposta. Attraversato con strazio immenso tutto l'orrore della Shoah, l'abisso che inghiottì tutto questo mondo, si arriva a un balcone che si affaccia sulle colline verdi di Israele, rimboschite con un secolo di sforzi. Si vedono villaggi, campi, boschi, un pezzetto di autostrada lontana. La vita di Israele, la sua bellezza.
   Il Paese che è nato nel 1948 non è una consolazione alla distruzione del mondo che avvenne nel decennio precedente. Tanto meno è una compensazione, una riparazione concessa dal mondo. Fu conquistato anche contro i colonialisti inglesi, oltre che contro gli arabi che volevano completare il genocidio. È stato costruito con il sudore e la fatica di generazioni. Nessuno l'ha concesso quel verde, nessuno l'ha regalato.
   Chi parla del sionismo, dell'amore per Israele, addirittura del popolo ebraico come invenzioni come chi nega il legame del popolo ebraico con la sua terra dovrebbe riflettere su un lutto che si prolunga per duemila anni e passa, ed è sempre stato celebrato solennemente, anche in mezzo agli eventi più terribili, anche ad Auschwitz o nelle prigioni dell'inquisizione. Questa è la risposta che il passaggio per lo Yad Vashem dà a chi si interroga: Israele è la risposta ebraica all'antisemitismo. Non è solo un compianto per il passato, ma un avvertimento per il futuro. Di fronte a tutto ciò, Israele significa «mai più».
   
Marcello Malfer
Presidente associazione trentina Italia-Israele

(Corriere del Trentino, 31 luglio 2015)


Gay Pride, ortodosso accoltella sei persone

GERUSALEMME - Un ebreo ultra-ortodosso ha ferito con un coltello sei partecipanti al Gay Pride a Gerusalemme. L'aggressore, Shlissel Yishai, era uscito appena tre settimane fa dal carcere dove era detenuto dopo aver scontato dieci anni di prigione per l'attacco che aveva cornmesso durante il Gay Pride sempre a Gerusalemme nel 2005, quando aveva ferito tre persone. Due dei feriti di ieri sono in gravi condizioni.

(Avvenire, 31 luglio 2015)


Prima o poi doveva accadere. L’azione di uno spostato “ultra-ortodosso” contro l’esaltazione pubblica dell’omosessualità spingerà ancora di più i “difensori della libertà” ad esaltare l’omosessualità e chi la patrocina. E forse prima o poi si arriverà anche ad introdurre il reato di “negazionismo biologico”, oltre a quello di “negazionismo storico”, per chi osa negare pari dignità a tutti i possibili matrimoni di ogni genere. M.C.


Sicurezza nello spazio: la NASA sceglie Israele

 
L'azienda israeliana StemRad ed il gigante americano Lockheed Martin hanno annunciato la firma di un accordo di cooperazione per adattare la tecnologia di protezione dalle radiazioni StemRad alle esigenze di astronauti nello spazio.
In caso di disastro nucleare, i primi soccorsi che arrivano sul posto sono fortemente esposti alle radiazioni. L'apparecchiatura convenzionale di cui sono dotati non può però impedire l'erosione ossea che comporta conseguenze disastrose. Con sedi a Tel Aviv e Palo Alto, Stemrad ha sviluppato un indumento, chiamato Gamma 360, che protegge la fonte delle cellule staminali del midollo osseo (posizionata sui fianchi).
StemRad lavora già con le organizzazioni governative, con i produttori di energia nucleare e con le istituzioni militari. Lockheed Martin è il produttore principale della NASA (l'Agenzia Spaziale Usa) e sta attualmente lavorando sulla creazione di un veicolo spaziale del futuro, l'Orion.
L'Orion è conosciuto è progettato per trasportare l'uomo nello spazio, molto oltre rispetto a ciò che si fa oggi. Questo uovo accordo di Ricerca e Sviluppo è volto ad utilizzare le competenze di StemRad per garantire la massima sicurezza degli astronauti nello spazio, durante il lancio di Orion che includerà una visita su Marte.
Randy Sweet, Direttore dello Sviluppo presso Lockheed Martin, è entusiasta:

Il nostro team è convinto che questo accordo possa portare alla scoperta di una soluzione innovativa per migliorare la sicurezza dell'equipaggio durante il viaggio su Marte.

Il progetto di cooperazione ha ricevuto un sostegno finanziario da parte di Space Florida (Agenzia di sviluppo economico aeronautico della Florida) e da parte della MATIMOP (Israel Industry Center For R&D).

(SiliconWadi, 31 luglio 2015)


Aumenta l'antisemitismo in Inghilterra

Denuncia di Community Security Trust: gli episodi preoccupanti sono saliti del 50% (a 473) tra gennaio e giugno.

LONDRA - Episodi di antisemitismo in aumento di oltre il 50% in Gran Bretagna: lo denuncia un rapporto dell'organizzazione non governativa Community Security Trust (Cst), che conferma tendenze già segnalate dalle comunità ebraiche e da altre indagini negli ultimi mesi, sullo sfondo di paralleli fenomeni di radicalizzazione di settori dell'ormai numerosa comunità di fede musulmana del Paese.
Il Cst indica 473 atti antisemiti censiti nel Regno Unito fra gennaio e giugno, il 53% in più rispetto allo stesso periodo del 2014. Le aggressioni vere e proprie (44) costituiscono quasi un decimo di questi "incidenti" e in due casi si è trattato di attacchi "estremamente violenti". Gli episodi di danneggiamento o dissacrazione di simboli o luoghi ebraici sono stati 35 e una novantina gli insulti o le minacce attraverso i social media.
Dati analoghi aggiornati arrivano dalla polizia britannica, che riferisce di 459 denunce di presunti reati di matrice antisemita nel 2014-15 contro i 193 del 2013-14. Il ministro dell'Interno, Theresa May, ha promesso fermezza assicurando che queste cifre vengono prese sul serio. "In Gran Bretagna non ci può essere spazio per l'antisemitismo", ha detto.

(Corriere del Ticino, 30 luglio 2015)


Libano - Gli Hezbollah perdono l'alleanza con il gruppo palestinese Ansar Allah

BEIRUT - Le milizie sciite libanesi Hezbollah hanno perso come alleato il gruppo Ansar Allah, composto da palestinesi sciiti che vivono nei campi profughi presenti in Libano di Ain al Halwa e Miya Miya. Secondo quanto riferisce l'emittente televisiva "al Jazeera", la decisione di separarsi da Hezbollah è stata presa a causa della guerra siriana. Il gruppo dirigente di Ansar Allah ha infatti deciso di passare con l'opposizione siriana e di non sostenere la presenza Hezbollah in Siria al fianco del regime di Bashar al Assad. Tutto è iniziato quando hezbollah ha allontanato il segretario del gruppo Ansar Allah, colpevole di essersi rifiutato di andare in Siria a combattere. Questo episodio ha provocato uno scontro all'interno del gruppo tra chi era favorevole alla guerra in Siria e chi contrario.

(Agenzia Nova, 30 luglio 2015)


Trema il Medio Oriente: terremoto magnitudo 4.3 tra Israele e Giordania questa notte

Un terremoto 4.3 registrato in nottata in Asia, in questo mercoledl 30 luglio, è una notizia di per sé poco significativa; ogni giorni, nell'immenso continente asiatico, avvengono centinaia di terremoti e dunque un 4.3 è un qualcosa di quotidiano: ma questa notizia In realtà è molto rara. Infatti, il sisma in questione si è verificato in uno dei luoghi considerati meno sismici dell'intero pianeta: il terremoto ha avuto epicentro In pieno Mar Morto alle 4:39 di questa notte, ora italiana, erano invece le 6:39 In medio oriente. L'epicentro viene segnalato a 19 km dalla città israeliana di 'En Boqeq ed a 37 km da Karak, cittadina giordana, nonché ad 81 km da Amman, capitale della Giordania; un sisma davvero strano e molto raro da annotare, la cui profondità è di 10 km.

(Centro Meteo Italiano, 30 luglio 2015)


Roma - Museo della Shoah, ripartenza con polemica

L'ex presidente della Fondazione, Leone Paserman: mi avevano lasciato solo. «Impossibile lavorare». Mario Venezia: serve una deroga al Patto di stabilità.

Nuova partenza per il Museo della Shoah. Con l'arrivo alla presidenza della Fondazione di Mario Venezia, figlio di Shlomo, uno dei pochi sopravvissuti di Auschwitz, il processo che porterà alla sua realizzazione cambierà marcia. Ma il nuovo corso dovrà superare problemi e polemiche, cominciando dalla riorganizzazione della squadra di ricercatori che dovrà curare i contenuti dei progetti legati alla memoria. Sono dieci anni che Roma attende questo museo, presente in tutte le grandi capitali del mondo, da Washington a Berlino, da Gerusalemme a Parigi: verrà edificato a Villa Torlonia (che fu la principale residenza di Mussolini) ma ancora non è stata messa la prima pietra. «Un cammino lento, ma non più di altre iniziative in corso di realizzazione a Roma - afferma Mario Venezia -. Ci sono ancora passaggi burocratici da compiere come un'ulteriore deroga del governo al "patto di stabilità", dopo quella concessa dal governo Monti. La gara di appalto per la costruzione, però, è già stata assegnata».
   Ma il nodo principale delle polemiche in questo momento, che ha anche portato alle dimissioni del precedente presidente Leone Paserman, sono le future assunzioni nella Fondazione. «Secondo il consiglio - spiega il presidente Mario Venezia - i ricercatori, storici e archivisti, rappresentano un elemento che valorizzerà il futuro Museo. E chi ha già lavorato alla Fondazione ha contribuito a raccogliere un fondamentale patrimonio librario, di opere filmiche e fotografiche, e ha realizzato importanti mostre. Adesso si tratta di trovare un punto di equilibrio - aggiunge - fra il pieno rispetto della normativa del "[obs act" e la necessità di non privarsi di questo patrimonio di conoscenze».
   La Fondazione è stata guidata per oltre sette anni da Leone Paserman, che pochi mesi fa ha presentato le dimissioni. diventate irrevocabili lunedì, per motivi familiari ma anche perché «ero rimasto solo. Noi avevamo dei contratti a progetto che erano scaduti tutti tra marzo e giugno e quindi non avevo più nessun collaboratore. In questi sette anni penso di aver svolto bene il mio compito - prosegue - ma alla fine ero in condizioni di non poter più lavorare: non avevo né segreteria, né amministrazione, né personale».
   Nella fondazione sono presenti organi istituzionali come il Campidoglio, la Regione e la Città Metropolitana (oltre alla Comunità ebraica di Roma e all'Associazione Figli della Shoah) per cui la Corte dei Conti nel 2013 aveva espresso un parere «molto articolato nel quale era riportato che una fondazione partecipata da enti pubblici deve rispettare tutte le norme previste in materia di assunzione del personale - spiega Paserman -. Noi avevamo regolarissimi contratti a progetto, adesso si devono fare i nuovi bandi». Prima vi erano 19 persone parttime, forse diventeranno qualcuna di meno full-time, mentre il direttore scientifico Marcello Pezzetti, contento che sia alla guida della Fondazione il figlio di uno dei suoi più vecchi amici afferma: «Vediamo come evolve la situazione, anche io sto aspettando e non è che si può buttar via il lavoro fatto. Stanno preparando i bandi - prosegue Marcello Pezzetti - e credo che il nuovo consiglio di amministrazione farà di tutto per offrire a questa città un centro che sia di eccellenza. Non so quanto ci vorrà per arrivare a un museo ma fin d'ora bisogna offrire un luogo di consulenza al più alto livello».
   Il neo-presidente si augura che «tutti gli interessati alle tematiche della Memoria siano coinvolti nel progetto». E il progettista Luca Zevi spiega che «il nuovo Museo vuole rappresentare in maniera esplicita quello che è stata la Shoah: una scatola nera nella storia d'Europa, un suicidio culturale prima ancora che fisico. Così l'edificio è una scatola nera sollevata dal suolo perché passandoci sotto si abbia la sensazione di una tragedia che incombe sulle nostre coscienze e la cui elaborazione
è ancora quanto mai urgente».

(Corriere della Sera - Roma, 30 luglio 2015)


Istruzione, Roma guarda a Israele

 
Il ministro Glannini e il presidente UCEI Gattegna insieme a Gerusalemme
Vedere il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna attraversare un aeroporto insieme a Stefania Giannini, ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, è immagine ormai consueta, segno di una consolidata tradizione di viaggi condivisi e di una collaborazione sempre più solida. La missione di luglio in Israele del ministro, che ha voluto accanto a sé il presidente dell'Unione, porta l'attenzione sull'eccellenza delle università israeliane, con incontri con i rettori, e con i ministri della Scienza e dell'Istruzione. Ricerca e innovazione, declinati nel mondo dell'impresa come "start up nation", sono punti forti delle istituzioni educative.
   Significativo è allora iniziare la missione con una visita al Technion di Haifa, capace di fare ricerca ad altissimo livello come pure di divertire con i video di auguri creati dagli studenti in occasione delle principali festività ebraiche.
   Dopo il direttore del Technion, Peretz Lavie, è la volta del professor Amos Shapira, direttore dell'Università di Haifa, per proseguire con una visita alla scuola italiana Carmelit, e con il confronto con Danny Danon, ministro della Scienza, e con il presidente dell'Università di Tel Aviv, Yoseph Klafter. Con Avner Shalev, e soprattutto con Eyal Kaminka, della scuola internazionale di Yad Vashem, è l'occasione per ritrovarsi dopo il convegno tenutosi a Roma Io scorso dicembre sulla didattica della Shoah, che ha visto protagonista la prestigiosa istituzione.
   Senza dimenticare l'occasione di confronto con il ministro dell'Istruzione, Naftali Bennett, e l'incontro con la delegazione dei rettori italiani e con il direttore del dipartimento Pianificazione e Bilancio del Council of Higher Education, Liat Maoz, a chiudere un viaggio in cui il focus è l'eccellenza educativa, grande ricchezza di Israele.

(pagine ebraiche, luglio 2015)


Yahoo! sceglie Israele per il suo primo acceleratore di startup

Per la prima volta nella sua storia, Yahoo! apre un acceleratore di startup ed il gigante statunitense sceglie Israele.
   Già presente nella Startup Nation con i suoi centri di Ricerca e Sviluppo di Haifa e Tel Aviv, Yahoo ha deciso di creare un acceleratore, confermando il proprio interesse per le startup israeliane. In collaborazione con il fondo di investimento anglo-israeliano Entrée Capital, il nuovo acceleratore sarà installato a Ramat Gan (un quartiere di Tel Aviv) e si concentrerà principalmente sulle nuove imprese in settori come tecnologia finanziaria, nuove forme di pubblicità, video online e Big Data. A differenza di altre multinazionali, Yahoo non ha propri fondi di investimento, di qui la necessità di creare partnership con i noti fondi di investimento per entrare nel mercato delle startup made in Israel.
   Linat Wager, responsabile Yahoo Israel per l'Innovazione e Relazioni con le Startup, afferma che questo acceleratore non è altro che l'inizio di un più ampio progetto di cooperazione con Entrée Capital:

Iniziamo con Tel Aviv, ma arriveremo anche a Haifa e al Sud.

Il gigante Microsoft ha confermato la propria partecipazione al nuovo acceleratore, in qualità di partner, settore in cui Microsoft, già ben a conoscenza delle dinamiche delle startup israeliane, eccelle.
Wager spiega questa scelta:

L'unico obiettivo è che l'imprenditore abbia successo, e noi dobbiamo fornire tutti gli strumenti.

(SiliconWadi, 30 luglio 2015)


Gerusalemme pronta per la 40ma Fiera dell'artigianato

Dal 3 al 15 agosto si rinnova l'appuntamento con "Hutzot Hayotzer"

 
ROMA - Decine di migliaia di turisti, visitatori e naturalmente gli stessi abitanti di Gerusalemme si preparano ad accogliere la 40a edizione dell'appuntamento internazionale con la Fiera dell'Artigianato dal 3 al 15 agosto.
Il coloratissimo appuntamento con "Hutzot Hayotzer", come viene definito in ebraico, è uno degli appuntamenti più importanti per la cultura ed il turismo di Gerusalemme - ricorda l'Ufficio israeliano del Turismo -, dove gli appassionati di arte internazionale provenienti da decine di Paesi potranno scoprire le realizzazioni degli oltre 200 artisti e artigiani israeliani che hanno aderito all'iniziativa in uno spettacolo a cielo aperto che include anche una fiera alimentare internazionale, attrazioni per bambini, laboratori creativi, teatro, danza e musica dal vivo.
Gli eventi si svolgono presso il Khutsot Hayotser Arts and Crafts Center, presso i Giardini Mitchell e presso l'anfiteatro Merrill Hassenfeld all'interno della in piscina del Sultano, di fronte alla Torre di David e ai piedi delle mura della Città Vecchia.
Artisti e artigiani esporranno dipinti, ceramiche, gioielli, tessuti, oggetti di Judaica, lavorazioni in legno provenienti dall'Estremo Oriente, dal Sud e dal Centro America, da Europa, Asia, Africa e Medio Oriente. In esposizione oggetti dalla pittura alla gioielleria.

(askanews, 29 luglio 2015)


Il caso Pollard e la distanza con Israele

Washington libera la spia, l'incomunicabilità con Gerusalemme resta.

dopo trent'anni passati in prigione, a Jonathan Pollard sarà concessa la liberazione anticipata entro novembre. Il cittadino statunitense fu arrestato nel 1985, quando era arruolato nella marina del suo paese, perché accusato di aver passato centinaia di documenti sensibili all'intelligence israeliana.
   Nel 1987 fu condannato all'ergastolo. Di fronte all'evidenza di Washington spiata così sfacciatamente dal suo storico alleato in medio oriente, ne nacque innanzitutto un caso diplomatico. Oggi però sarebbe superficiale spiegare con sole ragioni diplomatiche la liberazione anticipata di Pollard. Vero, è stato appena siglato l'accordo di appeasement nucleare con l'Iran, comprensibilmente inviso a Israele. Vero, l'attuale primo ministro israeliano è quello che simbolicamente ha voluto premiare Pollard dandogli la cittadinanza israeliana, visitandolo in carcere e perorando la sua liberazione in tante occasioni ufficiali. Ma la tesi dello zuccherino dato in pasto a un paese che teme la nuclearizzazione del vicino è solo una parte della storia. Piuttosto proprio l'intesa con Teheran, salutata dall'Amministrazione e dai benpensanti del pianeta come un "successo storico", prim'ancora di vederne gli effetti concreti, per il solo fatto di essere stata raggiunta con mezzi diplomatici, di aver soddisfatto tic pacifisti e irenisti nel rapporto con un regime islamico rivoluzionario, conferma l'incomunicabilità, in questa fase storica, tra Stati Uniti e Israele. E' la replica di quanto accaduto all'inizio degli anni 80, con Israele che soltanto grazie agli "occhi" di Pollard poté ottenere le informazioni utili a colpire l'Olp a Tunisi e a non farsi cogliere impreparato dai missili di Saddam. Il caso Pollard è storia, epica per qualcuno. La distanza tra Washington e Gerusalemme invece è attualità, resa più perigliosa dagli errori di Obama.

(Il Foglio, 30 luglio 2015)


La truffa delle "due" Gerusalemme

I governi occidentali dovrebbero smetterla di incoraggiare gli arabi a credere che un giorno Israele abbandonerà mezza Gerusalemme, a favore di un futuro stato palestinese. Non succederà mai. E più i nostri politici condannano Israele quando costruisce nella periferia della capitale, più mantengono le ambasciate a Tel Aviv; e più gli arabi si persuadono di poter rovesciare la creazione del moderno stato di Israele.
Ecco cosa ha da dire sul tema Eli E Hertz, presidente di "Myths and Facts", una organizzazione dedicata alla ricerca e alla divulgazione di informazioni sul Medio Oriente....

(Il Borghesino, 30 luglio 2015)


Leone de' Sommi e il teatro della modernità

L'ebraismo mantovano in epoca rinascimentale: Giorgio Pavesi ripercorre la vita del drammaturgo.

L'ebraismo mantovano, importante motore nei secoli anche della vita imprenditoriale e commerciale di Mantova, visse un periodo di particolare eccellenza culturale in epoca rinascimentale, dagli anni Quaranta del Cinquecento agli anni Trenta del Seicento. In quel secolo ebbe luogo la stampa delle principali opere della mistica ebraica, la qabbalà, che radunò a Mantova cultori di spessore internazionale; una stagione a stampa ancora apprezzabile grazie ai tesori librari ebraici custoditi, oltre a molto altro, nella biblioteca Teresiana. Per tacere della pubblicazione a Venezia, nel 1622/23 di quella primizia assoluta che sono I canti di Salomone del mantovano Salomone Rossi, il primo esempio di musica polifonica su testi ebraici.
   Sbocciò in quel secolo, a Mantova, anche un talento teatrale difficilmente sopravvalutabile, quello di Leone de' Sommi (ca. 1527-ca. 1592). Figlio di una tradizione ebraica (teatrale così come di danza) solidissima e di alto profilo, de' Sommi lasciò il proprio segno almeno in due direzioni fondamentali: di queste tratta con ampiezza di sguardo e capacità interpretativa Giorgio Pavesi nel suo libro Leone de' Sommi hebreo e il teatro della modernità uscito recentemente per i tipi della Gilgamesh Edizioni. Pavesi mette in luce anzitutto la peculiarità dell'operato, pratico e teorico, di de' Sommi alla luce della temperie culturale rinascimentale di quel tempo. E dunque legge in controluce tanto la Mantova rinascimentale quanto la Mantova ebraica a confronto con il più ampio contesto italiano, offrendo così al lettore la possibilità di cogliere determinate specificità della corte dei Gonzaga e del mondo ebraico cittadino. De' Sommi gettò le basi per la fondazione del teatro della modernità, che avrebbe caratterizzato l'Europa per i tre secoli a venire. Con geniale intuizione utilizzò il teatro come strumento della mediazione culturale fra ebrei e cristiani, scardinando i luoghi comuni del sentimento antigiudaico radicato fin dai primi secoli dell'era corrente.
   Venne poi attribuito a metà del Novecento a Leone de' Sommi, sulla base di fortissimi indizi storici, il primo lavoro teatrale in assoluto in lingua ebraica (e aramaica, in parte), ossia Un elegante divertimento matrimoniale (nell'originale Tzachut bedichuta de-qiddushin), su cui pure Pavesi si sofferma, cogliendo le implicazioni che una simile novità comportò. Per la prima volta, infatti, la plurimillenaria tradizione ebraica (anche linguistica) venne messa in collegamento, tramite il mezzo del teatro, con la tradizione teatrale del Rinascimento, dando così vita a un unicum di straordinario valore. Apre il volume un saggio di Stefano Patuzzi socio ordinario dell'associazione italiana per lo studio del giudaismo e presidente dell'associazione di cultura ebraica "Man Tovà - La città della manna buona" . Il volume (in vendita a 12 euro anche online nei maggiori store) è edito grazie al sostegno del Comune di Mantova e appunto dell'associazione "Man Tovà" (www.mannabuona.it).

(Gazzetta di Mantova, 30 luglio 2015)


Denuncia di Daniele Nahum (Pd): «Insulti a Israele, l'hanno paragonato all'Isis»

MILANO - «Molti si stanno nascondendo dietro questa nobile causa [palestinese, ndr] per sfogare il loro più becero antisemitismo. Negli ultimi giorni, nella mia Milano, devo dire di aver respirato una brutta aria. Dagli insulti rivolti a Fiano per alcuni non degno, in quanto ebreo, di concorrere per diventare Sindaco o a Majorino per aver partecipato alla Brigata Ebraica. Ora, rimbocchiamoci le maniche e lavoriamo affinché l'aria non diventi putrida».
Così Daniele Nahum, responsabile cultura del Pd milanese ed esponente della comunità ebraica, su Facebook dopo un episodio avvenuto a un incontro a cui ha partecipato e durante il quale una donna che, spiega Nahum raccontando l'accaduto, «fa parte di un comitato in sostegno della causa palestinese» si è scagliata contro Israele paragonandolo, tra l'altro, all'Isis. L'episodio e le parole della donna, stigmatizzate da Nahum, sono state commentate anche da Emanuele Fiano, deputato Pd pronto per le primarie per il candidato sindaco.

(Il Giorno - Milano, 30 luglio 2015)


La «causa palestinese» è la forma nobile che ha assunto oggi l’eterno odio antiebraico, comunemente detto antisemitismo. Molti fanno fatica a capirlo, soprattutto le persone orientate a sinistra, soprattutto gli ebrei di sinistra. M.C.


Prove di distensione con Israele gli Usa liberano la spia Pollard

Detenuto da 30 anni, aveva rivelato gli aiuti militari americani a Pakistan e Paesi arabi.

di Paolo Mastrolilli

Jonathan Pollard
NEW YORK - Jonathan Pollard, la spia americana che passava segreti a Israele, verrà liberato a novembre. L'amministrazione Obama nega che sia uno scambio per placare lo Stato ebraico, dopo le polemiche per l'accordo nucleare con l'Iran, ma il sospetto nasce dalla tempistica del provvedimento.
  Pollard era un analista civile della US Navy, in sostanza un membro dell'intelligence della Marina militare americana. Nel 1985 era stato arrestato e incriminato perché aveva passato a Israele intere valigie piene di documenti segreti degli Stati Uniti. L'anno dopo aveva ammesso la sua colpevolezza e nel 1987 era stato condannato all'ergastolo.
   
 Fuori il 21 novembre
  II suo caso aveva fatto scalpore perché aveva dimostrato come all'epoca della Guerra fredda, ma ancora oggi a giudicare dalle pratiche rivelate da Edward Snowden, lo spionaggio infuriava anche fra alleati stretti. Lo Stato ebraico era intervenuto in favore di Pollard, per chiedere clemenza, ma l'amministrazione Reagan e tutte quelle che l'avevano seguita erano rimaste ferme. II problema è che questo genere di attività mette a rischio le vite di migliaia di militari e operatori americani, e anche di civili. Quindi il governo non può transigere e usare due pesi e due misure: il tradimento di Pollard valeva quanto quello di Aldrich Ames, che grosso modo negli stessi anni vendeva segreti a Mosca.
  Per anni i legali di Pollard hanno chiesto che gli venisse concessa la «parole», ossia la libertà condizionata, anche in base alla sua confessione, al comportamento esemplare in carcere, e al fatto che non rappresentava più un pericolo, ma per anni gli era stata negata. Israele aveva sollevato la questione in tutti gli incontri bilaterali con gli Stati Uniti, e anche dietro le quinte, senza risultati.

 L'ultima udienza
  L'ultima udienza per considerare il suo rilascio era stata tenuta l'anno scorso, e i giudici l'avevano bocciato, rispondendo che forse sarebbero tornati a discuterlo fra quindici anni.
  Negli ultimi dodici mesi, però, è cambiato qualcosa. Le relazioni fra il presidente Obama e Netanyahu sono decisamente peggiorate, soprattutto quando il premier è venuto a parlare in Congresso contro il negoziato nucleare con l'Iran, senza neppure avvertire la Casa Bianca. Ora l'accordo con Teheran è stato siglato, e Israele l'ha bocciato come un errore che renderà il mondo più pericoloso.
  Proprio mentre avvenivano queste discussioni, il primo luglio scorso l'avvocato di Pollard è stato informato che se avesse presentato un'altra richiesta per il suo rilascio, il dipartimento alla Giustizia non si sarebbe opposto. L'udienza è avvenuta il 7 luglio a Butner, il carcere della North Carolina dove l'ex spia è detenuta, e la «parole» è stata concessa. Jonathan, che ora ha 60 anni e ha passato metà della sua vita in prigione, verrà liberato il 21 novembre prossimo. In base agli accordi presi, dovrà vivere negli Stati Uniti per i prossimi 5 anni, ma se Obama deciderà di concedergli la grazia, potrebbe trasferirsi subito in Israele.

(La Stampa, 29 luglio 2015)


Torino - Blitz dei leghisti in Comune. "Qui dentro i musulmani non pregano"

di Maria Teresa Martinengo e Letizia Tortello

TORINO - Il tappeto rosso è pronto, steso sul pavimento della Sala Matrimoni del Comune per un momento privato di preghiera degli ospiti musulmani. Investitori e imprenditori venuti da Dubai e da altri 19 Paesi per un convegno sulla moda islamica, la Turin Modest Fashion Roundtable, confronto tra operatori ed istituzioni della moda organizzato dalla Città con Thomson Reuters, Dubai Chamber sulle prospettive economiche del «Modest Fashion», moda che al femminile prevede braccia e gambe coperte e linee sobrie, non aderenti. Un appuntamento atteso dagli imprenditori.
  Due consiglieri comunali della Lega Nord, Fabrizio Ricca e Roberto Carbonero, entrano nella stanza, lo prendono dai quattro lembi, piegano il tappeto e ne fanno un fagotto. Lo portano via, mentre riprendono il blitz con il cellulare e spiegano al popolo del web: «Loro fanno una sala di culto per islamici a Palazzo Civico, dove non ci risultano esserci cappelle per i fedeli cristiani. E noi la chiudiamo. Chi vuole pregare lo faccia fuori di qui».
  In pochi minuti, su Facebook arrivano centinaia di condivisioni e solidarietà ai leghisti, per il gesto compiuto sotto gli occhi dei vigili, che fermano i consiglieri sulla porta, prima che se ne vadano con l'arazzo del Comune sotto il braccio. Il convegno in Sala Rossa sulla moda è ancora in corso. Tanto che i 95, rappresentanti di 55 aziende e istituzioni, donne in maggioranza, nemmeno si accorgono dell'intrusione.

 L'indagine
  Sull'irruzione leghi sta la Procura di Torino ha aperto un'inchiesta. È intervenuto il Procuratore Armando Spataro, che ha affidato alla Digos le indagini. Gesto eclatante e provocatorio? Violazione della libertà di culto? In attesa degli accertamenti, in Comune è esplosa la polemica politica. Non tarda ad arrivare la condanna del Pd: «Disallestire la stanza adibita per qualche ora a luogo di preghiera, in occasione di un'iniziativa pubblica, è un atto inaccettabile e arbitrario, che parla di intolleranza», dichiara il capogruppo a Palazzo Civico, Michele Paolino. Quello commesso da Ricca e Carbonero, secondo il Pd, è «un gesto violento. Offende il credente di qualsiasi religione e la Costituzione, che all'articolo 19 garantisce a tutti il diritto di professare liberamente la propria fede». Il suo vice, il vulcanico medico Silvio Viale, radicale e protagonista di molte battaglie, una per tutte quella per la pillola abortiva Ru486, va giù ancora più pesante: «Gesto di inciviltà di due imbecilli».
  Anche il sindaco Fassino si schiera duro contro la Lega e parla di «comportamento indecente e offensivo per la Città e per i suoi ospiti». Le elezioni dell'anno prossimo si avvicinano. Ma per lui, «è una manifestazione d'ignoranza che nemmeno una strumentalità preelettorale può giustificare». il presidente della Sala Rossa Porcino parla di atto «violento ed esecrabile».
  Ma la Lega va avanti per la sua strada. Fiera della battaglia. Che, come precisano i consiglieri padani, non vuole essere «contro la religione musulmana». Riteniamo che «il Comune di Torino, essendo un luogo laico ed istituzionale, non debba avere luoghi di preghiera a prescindere». La pensano così anche i grillini: «Questa è una sede istituzionale, non uno spazio aperto alla preghiera», dice il capogruppo Vittorio Bertola.

(La Stampa, 29 luglio 2015)

*


I consiglieri comunali leghisti di Torino forse hanno voluto soltanto impedire che il cammello mettesse il muso nella tenda. Che significa? Ci risponde la sapienza araba. E' da lì infatti che proviene la storiella del cammello che per ripararsi dal freddo dell'inverno chiede al beduino di poter mettere soltanto il muso nella tenda. Dopo il muso chiede di far entrare la testa, poi il collo, poi tutto il resto. Fino a che, dopo essere entrato tutto, il cammello spinge il beduino fuori della tenda dicendo che dentro non c'è posto per due.
La didascalica storiella è stata adattata e messa in rima da Lydia Howard Sigourney, poetessa americana del XIX secolo.


Il muso del cammello

Un giorno lavorava nel suo negozio un artigiano
con pensiero indolente e inoperosa mano
quando attraverso lo spazio della finestra aperto
vide un cammello che spingeva il muso al coperto.
«Il mio naso è freddo», piangeva mite e inoffensivo,
«Lascia che me lo scaldi finché son vivo».
Poiché nessun no si sentì pronunciare,
il muso e poi la testa fece entrare,
e sicuro come la predica segue il testo,
così venne il lungo collo e poi il resto;
come infatti si abbatte minaccioso il temporale,
così d'un tratto comparve il goffo corpo nel finale.
Il proprietario tutt'attorno si guardò spaventato
e al rude invasore si rivolse accigliato,
per convincerlo che non c'era spazio da spartire,
ma stupito così si sentì dire:
«Se stai scomodo, vai per la tua strada e non urtarmi
perché qui ho scelto di fermarmi».

Oh giovani cuori, alla gioia nati e all'intelligenza
non disprezzate l'araba sapienza.
Agli inganni del male, antico maliardo
non prestate orecchio né sorriso né sguardo,
soffocate l'oscura fonte da cui sgorga
né al muso del cammello ospitalità si porga.
 

Aspetteremo che il cammello sia entrato tutto per arrivare dire, quando ormai è troppo tardi, che forse avremmo dovuto accorgerci prima delle sue vere intenzioni?

(Notizie su Israele, 29 luglio 2015)


Il vero volto della palestinese che pianse davanti alla Merkel: "Spero che Israele sparisca"

Intervistata da un quotidiano tedesco, la profuga non appare così innocente: "Quella terra non dovrebbe più essere chiamata Israele, ma piuttosto Palestina".

di Sergio Rame

Le lacrime di Reem Sahwil hanno fatto il giro del mondo. E tutti si sono schierati al suo fianco e hanno deprecato Angela Merkel per aver parlato con chiarezza alla rifugiata palestinese di soli 14 anni che le aveva chiesto di poter restare più a lungo in Germania.
   Ora i tedeschi, che tanto avevano criticato la cancelliera per averle risposto con sincerità ("Non possiamo accogliere tutti"), hanno scoperto che la ragazzina non è poi così innocente.
   "La mia speranza è che prima o poi Israele non ci sia più - ha detto in una intervista - e che esista solo la Palestina".
   Il giornale Die Welt Am Sonntag ha dedicato una lunga intervista a Reem Sahwil per cavalcare l'ondata emotiva che ha innalzato la 14enne a paladina dei diritti dei rifugiati e la Merkel a carceriera inospitale. Peccato che è bastato ascoltare cosa pensa la giovane palestinese su Israele e più in generale sull'Occidente ha aperto gli occhi a buonisti e progressisti che l'hanno a lungo difesa. Alla domanda su cosa fosse la Palestina, la giovane ha letteralmente spiazzato il giornalista che la stava intervistando: "La mia speranza è che prima o poi Israele non ci sia più, e che esista solo la Palestina.
   Quella terra non dovrebbe più essere chiamata Israele, ma piuttosto Palestina". E quando il cronista le ha detto con chiarezza di trovarsi in difficoltà di fronte a quell'affermazione chiaramente antisemita e le ha fatto presente che "la Germania non ammette l'odio verso gli ebrei", Reem Sahwil ha replicato severamente: "Sì, ma qui c'è la libertà di espressione. Qui posso affermare cose del genere e sono pronta a confrontarmi su qualsiasi argomento". E, in conclusione, ha rincarato la dose: "La mia patria è la Palestina, prima o poi mi trasferirò lì".

(il Giornale, 29 luglio 2015)


Firenze - Il tesoro riscoperto. A cinquant'anni dall'alluvione

di Francesca Matalon

 
L'articolo della Nazione che racconta la devastazione subita allora dalla Comunità ebraica fiorentina
Alcune centinaia i volumi che fanno parte del grande patrimonio librario e documentario della Comunità ebraica fiorentina colpito dall'alluvione del 1966. Esattamente cinquant'anni dopo, molti di quei volumi (che si trovano prevalentemente a Roma e versano in gravi condizioni) torneranno nel capoluogo toscano recuperati e valorizzati per iniziativa della Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia insieme alla Biblioteca Nazionale di Firenze, e saranno protagonisti di una mostra la cui inaugurazione è prevista proprio per il giorno in cui ricorre l'anniversario, il 4 novembre 2016.
   Si tratta di "un'occasione importante, che permette di riportare permanentemente a Firenze il patrimonio librario della Comunità ebraica collocandolo in un sede prestigiosa", ha affermato il presidente della Fondazione Dario Disegni nel corso di una prima riunione svoltasi martedì all'interno della Biblioteca Nazionale, che ospiterà sia la mostra sia poi l'intera collezione di volumi restaurati.
   In mostra ci saranno tra le altre cose anche alcuni incunaboli e cinquecentine, e poi molti volumi che si trovano ora nei magazzini del Centro Bibliografico dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e in altri depositi romani, ma anche alcuni preziosi esemplari che non furono colpiti dall'alluvione "ma sono tesori della cultura ebraica che è importante far conoscere", come ha sottolineato la direttrice della Biblioteca Nazionale Letizia Sebastiani. Insieme a lei, nei comitati che organizzano la mostra e il recupero dei libri - che avverrà grazie a una collaborazione tra la Biblioteca fiorentina e la Regione Toscana - il vicepresidente della Fondazione Renzo Funaro, il consigliere Alberto Boralevi, il sofer Amedeo Spagnoletto, Gisele Levy del Centro Bibliografico UCEI, la presidente della Comunità ebraica Sara Cividalli, l'assessore comunitario alla cultura Enrico Fink e il rabbino capo Joseph Levi.
   Nei convegni che affiancheranno l'esposizione, ha aggiunto Sebastiani, "è inoltre nostra volontà parlare di una figura che è nel nostro cuore, Emanuele Casamassima", direttore della Biblioteca Nazionale nel 1966 che lottò con determinazione per limitarne i danni sul patrimonio culturale. Ma sono numerosi i fattori per cui l'iniziativa acquisisce grande valore, tra cui, ha notato la direttrice, l'avanzamento di studi di paleografia ebraica (ramo in cui ci sono pochi esperti). La collocazione della collezione restaurata e della mostra nella Biblioteca Nazionale, ha sottolineato Funaro, renderanno i volumi della Comunità ebraica agli occhi dei cittadini e delle istituzioni "un nuovo simbolo dell'alluvione".

(moked, 29 luglio 2015)


Indottrinamento fondamentalista dei bambini palestinesi all'opera a Gerusalemme

Vano e isolato il generoso tentativo di un passante arabo di porre fine a tale "vergogna"

Un predicatore musulmano è stato filmato lunedì scorso nella Città Vecchia di Gerusalemme, nei pressi del Monte del Tempio, mentre indottrinava sul martirio violento e sulle vergini in paradiso una ventina di bambini in gita scolastica estiva. Un passante arabo ha cercato invano di farlo smettere, dicendogli di vergognarsi. Per tutta risposta i bambini sono stati spronati a scandire slogan fondamentalisti e antisemiti.
Nel video di quattro minuti, diffuso martedì con sottotitoli in inglese da MEMRI (Middle East Media Research Institute), si vede lo sceicco Khaled al-Maghrabi che ammaestra un gruppo di ragazzini, i più grandi dei quali appena adolescenti, proclamando che "il martire viene assolto dai suoi peccati sin dalla prima goccia del suo sangue"....

(israele.net, 29 luglio 2015)


Israele - Sì alla cannabis terapeutica in farmacia

Nel tentativo di venire incontro alle esigenze di malati gravi il ministero della sanita' israeliano ha deciso di snellire le procedure, oggi molto restrittive per la distribuzione di cannabis terapeutica.
L'annuncio e' arrivato dal viceministro della sanita' Yaakov Litzman, un rabbino del partito Fronte della Torah. Litzman, che e' in carica da pochi mesi, ha detto che in un futuro non lontano sara' possibile acquistare la cannabis in farmacia, dietro presentazione di ricetta.

(ANSA, 28 luglio 2015)


Hamas: interrotti gli aiuti iraniani a Gaza

DOHA - Il vicecapo dell'ufficio politico di Hamas, Mousa Abu Marzouk, ha dichiarato in una intervista all'emittente panaraba "Al Jazeera" che gli aiuti dell'Iran all'organizzazione palestinese sono stati in gran parte congelati. Stando al funzionario palestinese, gli aiuti provenienti da Teheran contribuivano a organizzare le "operazioni di resistenza, in particolare contro Israele". "L'assistenza è stata interrotta e rimane in sospeso", ha aggiunto Abu Marzouk, secondo cui "la mancanza di aiuti militari e alla popolazione della Striscia di Gaza è difficile da gestire". Abu Marzouk ha dichiarato che Hamas continua a lavorare per rafforzare le relazioni con la Repubblica islamica "per il bene della causa palestinese".

(Agenzia Nova, 28 luglio 2015)


Israele e Cipro verso la cooperazione per gas e petrolio nel Mediterraneo

MILANO - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente cipriota Nicos Anastasiades hanno discusso a Cipro di sull'esplorazione di riserve di gas e petrolio nell'est del Mediterraneo. Il campo Afrodite, scoperto nel 2011 al largo delle coste cipriote, si stima che possa contenere fra 100 e 170 miliardi di metri cubi di gas. Israele ha anche scoperto riserve al largo delle sue coste e i due paesi auspicano di poter cooperare sulle questioni energetiche. "Pensiamo che cooperando, possiamo sfruttare meglio (il gas naturale) e venderlo meglio, per il beneficio" dei due paesi, ha dichiarato Netanyahu.

(Il Sole 24 Ore Radiocor, 28 luglio 2015)


Il ripiegamento di Obama deve avvicinare ancora di più l'Italia a Israele

di Benedetto Della Vedova*

 
Benedetto Della Vedova
Fin dai suoi albori, la storia di Israele è intrecciata alle tragedie italiane ed europee e alla colpa inestinguibile della Shoah consumata nel cuore del Vecchio continente. Quella storia è oggi legata alla nostra da ragioni (se possibile) ancora più profonde e vitali di quelle che, dopo la fondazione dello stato ebraico, portarono a difendere Israele in prospettiva euroatlantica, come avamposto dell'identità e della libertà occidentale, in un'area in cui le tensioni della Guerra fredda e del nazionalismo arabo si scaricavano con particolare violenza sulla disprezzata "entità sionista" e alimentavano il sogno di guerre di riconquista.
   Come sappiamo, la fine della logica dei blocchi non ha stabilizzato un ordine internazionale pacifico e ha invece rinfocolato conflitti endemici, a partire da quelli religiosi. Questo processo ha aggravato le ragioni di ostilità contro Israele, ma ha soprattutto comportato la letterale esplosione dell'ordine politico mediorientale (e dell'ordine interno palestinese, non dimentichiamo), che letture un po' pavloviane continuano ad addebitare a errori occidentali, eludendone le cause endogene ed essenzialmente intra-islamiche.
   A questo si aggiunga il ripiegamento strategico americano dall'asse atlantico a quello pacifico e l'obiettiva difficoltà dell'Unione europea, senza una vera politica comune estera e di difesa, di surrogare dal punto di vista strategico e militare il ruolo dell'alleato americano nel medioriente: non c'è da stupirsi che Israele si senta sola e reagisca all'isolamento enfatizzando la necessità dell'autodifesa. Su questo tema si sono giocate anche le ultime elezioni della Knesset, premiando il leader, Netanyahu, che a questa esigenza dà la risposta più elementare e nel contesto attuale apparentemente più convincente presso l'elettorato.
   Era inevitabile che l'accordo sul nucleare iraniano sollevasse in Israele un allarme particolare, cui deve responsabilmente rispondere proprio chi ritiene che l'Europa e gli Stati Uniti abbiamo compiuto una scelta non priva di rischi, ma tutt'altro che azzardata, scommettendo sulla normalizzazione dei rapporti con un player sempre più essenziale negli equilibri mediorientali, non solo in funzione anti-Daesh. Ma su questo dobbiamo ai nostri interlocutori israeliani una speciale chiarezza. L'accordo avrà senso non solo se cambierà i rapporti tra Teheran, il vecchio "Satana americano" e i suoi alleati europei, ma se servirà a neutralizzare la minaccia contro lo stato ebraico e a ridurre i rischi per la sua sicurezza.
   Nessun esercizio acrobatico di equidistanza, dunque. Su questo punto suonano inequivocabili le parole con cui il presidente del Consiglio Renzi ha ribadito la fratellanza morale e l'alleanza strategica dell'Italia con lo stato ebraico: "La nostra sicurezza è anche quella di Israele". Nella sfida che il terrorismo islamista ha lanciato contro "ebrei" e "crociati", le ragioni del nostro indissolubile legame con Israele sono scritte - a chiare lettere - nelle parole dei nostri nemici.
   Una posizione così netta è il viatico più promettente anche per il ruolo che l'Italia vorrà giocare sul tavolo del dialogo e dei possibili accordi con le autorità palestinesi, sulla base della logica "due popoli, due stati". Lo ha sottolineato ieri anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla Conferenza degli Ambasciatori: "Rimettere in agenda il tema cruciale del riconoscimento pieno e non reversibile del diritto alla sicurezza di Israele e del diritto all'esistenza dello stato palestinese". Una logica "giusta", che ha avuto troppo spesso, però, interlocutori "sbagliati".

* Sottosegretario agli Esteri

(Il Foglio, 28 luglio 2015)


Turchia - Danneggiato da un'esplosione il gasdotto con l'Iran

ANKARA - Il gasdotto che unisce l'Iran alla Turchia è stato danneggiato in un attentato avvenuto nella notte fra lunedì e martedì: lo ha reso noto il ministro dell'Energia turco, Taner Yildiz.
Un'esplosione causata da un ordigno ha provocato un incendio subito domato, danneggiando l'impianto; il sabotaggio non è stato rivendicato ma le autorità turche puntano il dito contro i ribelli curdi del Pkk.

(Contatto News, 28 luglio 2015)


Taybeh: la birra palestinese in Italia, passando da Brescia

Arriva in Italia passando da Brescia la Taybeh Beer, la prima birra palestinese: pensata, prodotta e commercializzata da e per la comunità locale a Ramallah. Nella nostra città è stato il ristorante palestinese I Nazareni, in via Gasparo da Salò, ad ospitare la presentazione ufficiale.
Grazie alla collaborazione tra il tour operator Zerotrenta, Zeffiro e l'enoteca A la Cave è stato possibile superare le numerose questioni doganali e burocratiche e far partire da Brescia la distribuzione nazionale della Taybeh.
La birra palestinese arriva in Italia in quattro diverse tipologie, dalla chiara alla scura, in grado di abbracciare un'ampia gamma di gusti e abbinamenti.

(Giornale di Brescia, 28 luglio 2015)


Roma - Museo della Shoah, si cambia: al vertice arriva Mario Venezia

Mario Venezia è il nuovo presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma. Ieri pomeriggio, infatti, si è svolta la seduta del Cda della Fondazione: Mario Venezia sostituirà Leone Paserman. Il Consiglio ha discusso al primo punto dell'Odg la nomina del nuovo presidente. I consiglieri all'unanimità hanno espresso gratitudine per il lavoro svolto da Paserman fino ad oggi e lo hanno elogiato per «la costanza e la determinazione che hanno contraddistinto la sua presidenza».
   Già giovedì scorso, durante la precedente riunione del Cda della Fondazione, il presidente onorario Giovanni Maria Flick aveva chiesto a Paserman di ritirare le dimissioni, certi potesse traghettare la Fondazione in una nuova fase. Paserman ha però confermato la sua volontà di lasciare l'incarico e i consiglieri hanno preso atto della sua decisione.
   Nella riunione di ieri si è dunque votato il nuovo Presidente. A guidare la Fondazione sale Mario Venezia, dottore commercialista, consulente d'azienda. Sposato con due figli è da sempre impegnato nelle attività della Comunità Ebraica legate alla Memoria e ai Giovani, sviluppando in qualità di consigliere dell'organizzazione ebraica Benè Berith progetti legati all'innovazione e al mondo delle Start Up.
   Il consiglio guidato da Venezia si è subito posto l'obiettivo di formalizzare nelle prossime settimane i bandi per la ricerca di personale e di ricercatori della Fondazione. Dovrà inoltre organizzare lo spostamento della sede da via Florida alla Casina dei Vallati, con l'obiettivo di inaugurarla il prossimo 16 Ottobre. Sarà un luogo dedito alla ricerca e la formazione degli insegnanti e degli studenti in attesa della costruzione del Museo della Shoah a Villa Torlonia.

(Il Messaggero, 28 luglio 2015)


28 luglio 1904: inaugurazione del Tempio Maggiore a Roma

di Lorenzo Bruno

 
Il Tempo Maggiore a Roma nel 1904
 
Il francobollo emesso nel 2014
Era precisamente il 28 luglio del 1904 quando nella città ci Roma veniva inaugurato il Tempio Maggiore, la principale sinagoga di Roma ed una delle più importanti del continente europeo.
Progettato da Vincenzo Costa e Osvaldo Armanni, con dipinti curati da Bruschi e Brugnoli e le vetrate affidate a Picchiarini, la posizione dell'edificio venne scelta dagli stessi ebrei, in un luogo tra il Campidoglio, sede del Comune, ed il Gianicolo, teatro delle battaglie rinascimentali.
Il 13 aprile del 1986 papa Giovanni Paolo II venne accolto dal Rabbino Capo Elio Toaff nel Tempio Maggiore e fu la prima volta che un Pontefice Romano visitò un luogo di culto ebraico, il 17 gennaio del 2010 invece fu papa Benedetto XVI a recarsi in visita al Tempio Maggiore vistandone anche il museo composto da sei sale.
Il 9 ottobre 1982 un commando di cinque terroristi di origine palestinese compì quello che ad oggi è ritenuto il più grave atto antisemita in Italia del secondo dopoguerra, un attentato che portò al ferimento di 37 persone e alla morte di Stefano Gaj Tachè (di soli due anni) colpito da una scheggia di una bomba a mano.
La Sinagoga oltre ad essere il luogo di preghiera per gli ebrei romani (la comunità romana è la più numerosa ed importante in Italia) ospita, nel seminterrato, il già citato Museo Ebraico di Roma.
L'edificio è diviso in due piani, nel piano posto sotto il livello del terreno oltre al museo sorge una piccola sinagoga chiamata Tempio Spagnolo mentre al piano terra ha sede la sinagoga grande, con due navate laterali, ogni navata ospita sul fondo un piccolo Aron Ha-Kodesh mentre il principale Aron, di dimensioni più grandi, è posizionato nella parete rivolta ad Oriente.
Per celebrare il centenario dell'inaugurazione, nel 2014, le Poste Italiane emisero un francobollo del valore di sessanta centesimi raffigurante la facciata della Sinagoga.

(2duerighe.com, 28 luglio 2015)


Quelle aggressioni assassine che gli arabo-israeliani chiamano "legittima e civile protesta"

Prendere a sassate innocenti passanti non sarà più lo sport impunito dei terroristi in erba.

Dalla scorsa settimana, scagliare pietre al passaggio di veicoli sulle strade israeliane è considerato per legge un atto terroristico che può procurare agli autori lunghe condanne al carcere. La Knesset ha infatti ratificato pene più severe per gli attacchi contro il traffico civile. La normativa consente all'accusa di chiedere fino a 10 anni di detenzione senza dover dimostrare un preciso intento di nuocere. Nel caso in cui tale intento fosse dimostrato, le condanne possono essere raddoppiate.
La legge, approvata da una maggioranza di 69 parlamentari (compresi molti dell'opposizione) contro 17 (per lo più dalla Lista Araba Comune), corregge la legge vigente in base alla quale una pena severa era possibile solo dopo aver dimostrato una precisa intenzione di ferire o uccidere (come se fosse possibile sparare colpi di pistola verso veicoli civili sostenendo di non avere la precisa intenzione far del male). La vecchia legge permetteva spesso che gli aggressori se la cavassero con una ramanzina o addirittura che la facessero franca del tutto impuniti....

(israele.net, 28 luglio 2015)


Polemiche per la visita del ministro tedesco Gabriel a Teheran

di Simone Zoppellaro

Grandi attese, ma anche polemiche e critiche, per la prima visita di una delegazione governativa europea a Teheran dopo la firma dello storico accordo sul nucleare, stipulato lo scorso 14 luglio a Vienna. Tre giorni di incontri, fra il 19 e il 21, che hanno visto protagonista il ministro degli affari economici e dell'energia Sigmar Gabriel, insieme con un nutrito seguito. Gabriel, che oltre ad essere ministro è anche vice cancelliere e presidente della SPD, è stato accompagnato dal presidente della federazione delle industrie tedesche, Ulrich Grillo, e da rappresentanti di grandi imprese fra cui la Siemens e la Linde, e di colossi automobilistici quali la Mercedes e la Volkswagen. La Germania getta sul piatto tutto il suo peso politico ed ecomomico in vista della revoca delle sanzioni, prevista con gradualità nel prossimo futuro. Un mercato dal potenziale enorme riapre le sue porte dopo anni di forzato isolamento e - non sarà un caso - i primi ad approdare a Teheran sono proprio i tedeschi.
  Quella del ministro Gabriel è stata la prima visita governativa di alto livello da parte di Berlino negli ultimi 13 anni. Fra i risultati raggiunti, la programmazione di un incontro irano-tedesco a livello ministeriale che avrà luogo il prossimo anno con l'obiettivo di rilanciare la cooperazione economica fra i due paesi. Ma le ambizioni sono ancora più alte e concrete. Per comprendere quale siano le mire della Germania, basta leggere le dichiarazioni del presidente della camera di commercio Eric Schweitzer, anche lui in visita a Teheran. L'obiettivo dichiarato è quello di raddoppiare entro breve, e addirittura quadruplicare sul lungo termine, il volume di affare fra i due paesi: si punta ad arrivare a un export verso l'Iran di 10 miliardi di euro, a partire dai 2,4 miliardi del 2014. Delle mire, queste, in linea con il ruolo di primo partner commerciale che la Germania aveva ancora ai tempi della presidenza Khatami. Fra i settori su cui ha messo gli occhi Berlino: sanità, petrolchimico, automazioni ed energie rinnovabili. A onor del vero, è giusto ricordare come negli ultimi anni la Germania si sia distinta - come raccontano fonti ben informate a Teheran - come un attore particolarmente propenso a raggirare il regime di sanzioni internazionali.
  Fra i vari incontri di alto livello nella tre giorni di visita, si segnalano quelli con il ministro del petrolio Bijan Namdar Zangeneh, con il presidente Hassan Rouhani e con il ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif, a testimonianza di un notevole interesse per un riavvicinamento anche da parte di Teheran. Fra le note più problematiche, invece, l'appello dello stesso Gabriel affinché l'Iran riconosca Israele, una condizione indispensabile - a suo dire - per avere buone relazioni economiche con la Germania. Come prevedibile, la risposta iraniana è stata un'alzata di spalle: non avrebbe potuto essere altrimenti.
  Una visita, quella di Gabriel, che ha destato non poche polemiche in patria, come riportato dalla stampa. Secondo la folta schiera dei detrattori, che annovera esponenti politici, organizzazioni non governative e rappresentanti della comunità ebraica tedesca, si sarebbe trattato infatti di una visita prematura, che non tiene conto delle numerose violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime di Teheran e del mancato riconoscimento di Israele. Come dichiarato dal politico verde di origine iraniana Omid Nouripour: "Non c'è spazio per una corsa all'oro iraniana." Sotto tiro anche il ruolo di Gabriel, ministro degli affari economici e dell'energia. Secondo molti, in questa fase sarebbe stata più auspicabile un visita da parte del ministro degli esteri, per porre in rilievo un approccio politico anziché economico - mossa da effettuare, semmai, in un secondo momento.
  La risposta di Gabriel si riassume in uno slogan, "contatti invece di conflitti" (Kontakte statt Konflikte, in tedesco), che è circolato ampiamente sulla stampa negli ultimi giorni. In un contesto internazionale instabile come quello attuale è auspicabile un ritorno alla diplomazia, al fine di prevenire l'insorgere di nuove guerre. Questa la versione ufficiale di Berlino. La verità è però un'altra: gli affari sono affari, e quando è in palio un boccone ghiotto come quello dell'Iran, non ci sono santi che tengano. La Germania c'è e in prima fila: Israele se ne farà una ragione, i diritti umani possono attendere.

(East Journal, 27 luglio 2015)


I fiori e l'Alyah: la storia di Emilia

di Miriam Spizzichino

 
Emilia Astrologo
Fare l'Alyah non è semplice. Ritrovarsi in un posto a noi cosi vicino, ma pur sempre diverso. Lo sa bene Emilia Astrologo, Zarfati da sposata, che il 14 luglio 2013 ha fatto il grande passo insieme a marito e tre figli. Nonostante i problemi iniziali, ora, a 40 anni, è un'organizzatrice di eventi ed è riuscita a riscoprire se stessa. "La mia Alyah non è stata fatta per scelta, Non amavo, né conoscevo Israele e non ero sionista. Lavoravo come maestra al Gan Rivka e la mia vita italiana mi piaceva molto. Allora perché sono partita? In primis era il sogno di mio marito che vedeva Eretz come l'unica patria di ogni ebreo nel mondo e poi per far avere ai miei fìgli quel futuro radioso che tanto sognavo per loro e che, a causa della crisi, in Italia non era possibile dargli. Ogni giorno per via di questa crisi economica il lavoro di mio marito calava mentre le spese aumentavano." Cosi si è fatta coraggio ed è salita su quell'aereo. "Ricordo i pianti nel distacco con gli amici piu cari, il dolore nel lasciare la mia casa pagata con 15 anni di sudore, il trauma dell'aeroporto con le valige in eccesso e la gente che urlava, la fatica e le mie lacrime nascoste sotto gli occhiali". Emilia ricorda tutto, anche l'arrivo al centro di accoglienza per immigrati dove hanno vissuto per sette mesi in cinque persone dentro due piccole stanze. "La mia anima si è frantumata in milioni di pezzi, non ero piu nessuno, non avevo una casa, ero un'analfabeta, non ero in grado di comprare neanche il pane ... Ero imprigionata in un enorme torre di Babele dove tutti parlavano, ma nessuno mi capiva. Ero frustrata!"
   
Fu così che passò quasi un anno a piangere, ha perso nove chili ... Era impazzita dalla rabbia. Si svegliava la mattina con un groppo in gola che l'accompagnava in qualsiasi cosa facesse. Piano piano, studiando all'Ulpan, si rese conto che la lingua migliorava e che cominciava a capire qualcosa, sentendosi però ancora sola.
   Dopo questi nove mesi è tornata una settimana a Roma, ma al ritomo in Israele tornò piu depressa di prima. "Solo quando tocchi il fondo poi trovi la forza di risalire e H. ci manda il suo aiuto nei modi più strani. Ero aI telefono con una mia cara amica di Roma e piangevo disperata, mi mancava l'aria. Lei mi disse di calmarmi, uscire e andare a comprare un mazzo di fiori da mettere sulla tavola di Shabbat per sentirmi meglio. Comprai un bruttissimo mazzo di fiori da campo, lo misi in un vaso e apparecchiai la tavola. Mio marito, rientrando daI lavoro, mi ringraziò per la bella tavola e mi chiese di farla ogni venerdì. Inizia così la mia storia, Shabbat dopo Shabbat. Erano sempre più belle."
   
Dopo l'Ulpan Alei, suo marito, le propose di cercare un corso che l'aiutasse a sviluppare questa piccola passione. All'inizio rifiutò pensando di avere un ebraico limitato e che non poteva andare a fare un corso professionale lì, in quella lingua, era fuori discussione! Il corso, inoltre, durava 7 mesi ed era a Tel Aviv dalle 17 alle 22. Ciò significava rientrare ad Ashdod, dove lei viveva, a mezzanotte. "Un giorno arrivò una frase che mi colpì e a pronunciarla fu mio marito dopo l'ennesima nottata passata a piangere. Mi disse che io avevo una grande opportunità, quella di ricominciare da capo la mia vita come un foglio bianco su cui scrivere cio che più mi piaceva. Cosi iniziai il corso e scoprii di avere capacità e risorse che non credevo di avere".
   
Non è stato tutto rose e fiori. Emilia ha faticato il triplo degli altri e molte volte non riusciva a stare al passo con la classe, ma imparò a chiedere aiuto quando serviva e ha iniziato a vedere le cose in un'ottica più ottimistica. Il corso prevedeva due stage di 16 ore in aziende che si occupavano di realizzare eventi e, per caso, capitò a Iaroch Al Amaim. "Il Menaelet Irua mi propose un lavoro dopo il primo giorno di stage. Mi pagava una miseria, ma mi avrebbe insegnato un lavoro piuttosto che stare a casa! I primi giorni furono duri. Mi facevano lavare e pulire centinaia di vasi e pavimenti. Lavoravo 8 ore sotto il sole cocente di agosto per meno di 25 euro al giorno, ma ero felice, conoscevo tante persone e la mia lingua migliorava."
   
Dopo 15 giorni la misero a fare i fiori, il suo Menael aveva capito che quello era il suo talento. Ogni giorno riusciva a creare cose sempre più belle e fu così che diventò l'addetta ai fiori per la Cuppà, poi ai centri tavola ed infine la spedirono a fare un corso professionale da fiorista "dove ho conosciuto persone stupende che hanno arricchito la mia anima!" Dopo il primo corso arrivò il secondo, la tecnica migliorava e le cose imparate erano sempre di più. In concomitanza con l'ingresso nel mondo del lavoro, Emilia ha iniziato a vedere le cose in modo diverso e a rinascere, ritrovando se stessa. "A quel punto ho capito di aver trovato la mia strada ed ho cercato di imparare ogni giorno di più dai professionisti che lavoravano con me fino a quando è arrivata l'opportunità di fare un matrimonio tutta da sola. Non solo i fiori, ma tutta la sua organizzazione! Avevo mille dubbi e paure, ma tirando fuori tutto quello che ho imparato, impegnandomi, é stato un grande successo e proprio quella sera mì è stato commissionato un altro matrimonio."
   Oggi, Emilia ha aperto una sua azienda di organizzazione di eventi, continuando a collaborare con laroch Al Amaim come Shoseret. Anche se organizza i suoi matrimoni da sola, non lascerà mai il suo primo lavoro in quanto rappresenta la sua famiglia, la sua felicità e infine la sua vittoria. Tutto è bene quel che finisce bene, anche Emilia ha avuto il suo lieto fine nella terra promessa.

(Shalom, luglio 2015)


Nessun segno d'Intifada imminente nonostante le crescenti tensioni

GERUSALEMME - I disordini di ieri nei pressi del Monte del Tempio hanno innescato un nuovo aumento delle tensioni a Gerusalemme, con Hamas che ha prontamente spronato i palestinesi a riunirsi attorno alla moschea al Aqsa. Secondo la "Jerusalem Post", l'organizzazione palestinese che amministra Gaza cerca di sfruttare un incidenti per promuovere la violenza nella capitale e in Cisgiordania. Secondo quanto riferisce il quotidiano, l'obiettivo di Hamas è quello di recuperare un "punto d'appoggio in una zona governata dal'Autorità nazionale palestinese (Anp)". nell'arco degli ultimi mesi, la presenza di Hamas in Cisgiordania è stata fortemente ridotta dagli arresti dell'Anp e dalle operazioni dello Shin Bet (l'intelligence israeliana), che ha individuato e smantellato non meno di 150 cellule di Hamas in Cisgiordania, in gran parte coordinate dalle sedi dell'organizzazione a Gaza e in Turchia. La minaccia, però, è sempre incombente; "Hamas sta tentando di ricostruire la propria infrastruttura in Giudea e Samaria", spiega una fonte della sicurezza alla "Jerusalem Post". Per il momento, però, la minaccia più immediata alla sicurezza dei cittadini israeliani è rappresentata dalla violenza spontanea e non organizzata, che spesso assume le forme di sommosse o di attacchi terroristici da parte di "lupi solitari". Nel mese di giugno lo Shin Bet ha registrato 120 attacchi terroristici nelle aree di Gerusalemme, Giudea e Samaria, contro i 151 del precedente mese di maggio. Gli attacchi del mese di giugno, pur se meno numerosi, sono risultati in un bilancio più grave in termini di vittime e feriti. Uno sguardo complessivo agli ultimi cinque mesi, inoltre, rivela un netto aumento degli episodi di violenza. Per il momento, comunque, le autorità israeliane assicurano che il quadro non è affatto assimilabile a quello di una intifada.

(Agenzia Nova, 27 luglio 2015)


Scontri alla Spianata delle Moschee. Gerusalemme teme un'altra Intifada

Palestinesi si barricano e lanciano pietre: sgomberati dalla polizia

di Maurizio Molinari

Video diffuso dalla polizia israeliana
GERUSALEMME - Battaglia fra manifestanti palestinesi e polizia israeliana sulla Spianata delle Moschee. Gli scontri iniziano poco dopo l'alba, quando un gruppo di palestinesi - alcuni dei quali con il volto coperto - entra nella moschea di Al Aqsa, erige delle rudimentali barricate e la trasforma in una base da dove lanciare pietre e petardi contro i militari.
  L'intento dei palestinesi è impedire che sulla Spianata delle Moschee entrino fedeli ebrei in occasione del digiuno del Nove di Av, il giorno in cui si ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte delle legioni di Tito nell'anno 70. Gli ebrei ortodossi in genere salgono a piccoli gruppi ma per il giorno di lutto religioso sono attesi in gran numero sul Monte del Tempio - chiamato dai musulmani Haram elSharif - e i manifestanti hanno accumulato, nella notte fra sabato e domenica, ingenti quantitativi di munizioni.
  Appena la sassaiola inizia la polizia interviene in forze, sostenuta da unità della Guardia di Frontiera. Vi sono momenti di battaglia frontale: una pioggia di sassi e petardi contro i lacrimogeni degli agenti. L'intento dei militari è rimuovere le barricate poste all'entrata della moschea, per chiuderne i grandi portoni verdi e impedire ai manifestanti di lanciare oggetti. I palestinesi vogliono invece attirare gli agenti dentro la moschea, per poi accusarli di sacrilegio, trattandosi di uno dei luoghi più sacri dell'Islam. La battaglia si conclude con sei palestinesi arrestati e una dozzina di agenti feriti ma il Waqf, l'ente islamico che gestisce la Spianata, accusa Israele di aver «aggredito e ferito almeno 19 nostre guardie» oltre a «tappeti nella moschea di Al Aqsa». in violazione delle intese con la Giordania sullo status del luogo.
   
 La Giordania protesta
  Immediata la protesta di Amman che parla di «provocazione israeliana». Dura la reazione di Abu Mazen, il presidente dell'Autorità palestinese, che lancia un appello a «tutti i musulmani» affinché «difendano la Spianata dagli ebrei che vi vogliono pregare». «Temiamo che Israele voglia restringere il diritto dei palestinesi a pregare sulla Spianata» spiega Mohamed Elian, portavoce di Abu Mazen, e in un'email il ministero degli Esteri palestinese aggiunge: «Hanno aggredito la moschea sacra, l'Onu adotti provvedimenti».
  Per Israele invece si è trattato di «atti di violenza e terrorismo intollerabili» come osserva il capo dello Stato, Reuven Rivlin, precisando che «il fatto di compierli in un giorno come il Nove di Av deve essere condannato in maniera inequivocabile».

(La Stampa, 27 luglio 2015)


Israele richiama i riservisti. Ci si prepara alla guerra?

Una mega-esercitazione in Israele. Richiamati moltissimi riservisti e simulati anche attacchi cibernetici.

di Andrea Riva

L'accordo sul nucleare iraniano ha spaventato (e non poco) Israele, tanto che in questi giorni sono state effettuate esercitazioni a sorpresa per centinaia di migliaia di riservisti che, di prima mattina, hanno ricevuto l'ordine di raggiungere le proprie basi.
Per la grande maggioranza si è trattato soltanto di una simulazione telefonica; ma diverse migliaia hanno dovuto effettivamente lasciare le abitazioni ed unirsi alle proprie unità fino al termine della esercitazione, domani sera.
Secondo la stampa vengono oggi simulate situazioni di emergenza nel sud di Israele, in prossimità della striscia di Gaza, e nel nord, lungo le linee di demarcazione con Libano e Siria. L'esercitazione include inoltre attacchi cibernetici ad Israele.

(il Giornale, 27 luglio 2015)


Yoav, l'ebreo inseguito dalla jihad morto per fermare il killer di Parigi

Ecco la storia del ragazzo tunisino che cercò di strappare il mitra a Coulibaly

di Stefania Miretti

 
Yoav Hattab
 
Yoav
 
Yoav religioso
 
Yoav nazionalista
 
Il dolore della madre di Yoav al funerale
Si chiamava Yoav Hattab ed era bello come una giornata di sole a La Goulette, il sobborgo di Tunisi dove quest'estate, proprio in questi giorni, avrebbe ingaggiato interminabili sfide a racchettoni in riva al mare con gli amici Moché, Matoilah, Eytan, e al collo avrebbe avuto, come sempre, una stella di David grande così. Ma lui, quest'anno, non è più tornato a casa.
  Gli piaceva cantare, con una voce melodiosa che tendeva a stonare, struggente, sui toni più alti. Giocava benissimo a calcio, però quando prendeva il pallone non lo passava mai e gli amici gli gridavano dietro. Era molto religioso, era spiritoso, era innamorato di Delphine da quindici giorni, gli ultimi quindici della sua breve vita.
  Cresciuto da ebreo in Tunisia, Yoav è stato ucciso, perché ebreo, in Europa: questa è la storia di una delle quattro vittime della presa d'ostaggi all'Hyper Cacher di Porte de Vincennes lo scorso 9 gennaio. Il più giovane, 21 anni appena, il più coraggioso. Era risalito dalla ghiacciaia, dov'era nascosto insieme ad altri clienti del supermercato, per provare a ragionare con Amedy Coulibaly, il sequestratore. Ma l'estremista islamico non sapeva ragionare. Allora Yoav ha provato a sottrargli la mitraglietta; ma il ragazzo coraggioso non sapeva sparare.
  L'eroe ventunenne dell'Hyper Cacher era uno dei 1500 ebrei di Tunisia che ancora vivono tra la capitale e l'isola di Djerba; un patriota, orgoglioso d'aver votato per la prima volta dopo la cacciata di Ben Ali, perfettamente a suo agio con la kippah in testa e la bandiera tunisina sulle spalle. Secondo dei nove figli del rabbino di Tunisi, Yoav era un ragazzo «multiplo e poliglotta, particolare e universale», così lo descrive il suo amico Johann Taieb; ma a Tunisi i fratelli Hattab sono e si sono sempre sentiti ragazzi di quartiere: «Del quartiere Lafayette: tunisini duri e puri» dice Avishay, il maggiore. I giovani di confessione ebraica studiano nella scuola diretta dal rabbino Hattab, pregano nella Gran Sinagoga di Avenue de Paris, poi inseguono sogni e palloni sui campetti di periferia come tutti i loro coetanei musulmani, e come loro emigrano per cercare l'Europa, la mixité, una vita migliore.

 Il sogno francese
  In Francia Yoav c'era arrivato dopo il diploma, per condurre la non facile vita dello studente lavoratore con pochi euro in tasca. Una vita di banlieue, tra Vincennes e Montreuil; una vita da maghrebino a Parigi, problemi di visto, stanze rimediate, troppi pasti consumati da solo; una vita da ebreo a Parigi, in strade dove se porti la stella di David al collo rischi l'aggressione. Il rabbino Hattab racconta che i primi tempi suo figlio, quanto telefonava a casa, gli diceva: «Papà, ma qui sui muri c'è scritto "morte agli ebrei!"». Quasi un percorso di formazione alla rovescia, oltre una frontiera già attraversata da tanti ebrei tunisini prima di lui. Per esempio Gabriel Mamou. Lui s'è sentito male la prima volta che gli è sfilato accanto un corteo di solidarietà a Gaza: «C'erano 30 mila persone che gridavano "morte agli ebrei". In Tunisia non potrebbe mai succedere. Per come abbiamo vissuto noi a Djerba, se io non trovo una sinagoga posso entrare in moschea e fare la mia preghiera».

 Solidarietà religiosa
  Non è, naturalmente, il mondo ideale quello che ha cresciuto Gabriel e i ragazzi Hattab. Ma se in Europa - come nota Jacob Lellouche, voce storica della comunità ebraica tunisina - «la gente crede di avere anche la libertà d'odiare l'altro», in Tunisia ancora resiste una solidarietà religiosa tra credenti di fedi diverse, impastata con lunga tradizione di laicità. Il papà di Yoav ci ha raccontato che quando era a Parigi per riconoscere il corpo del figlio, dalla vicina moschea, terminata la preghiera dell'alba, una delegazione è partita per bussare alla porta di casa sua: «"Madame", hanno detto a mia moglie, "siamo a sua disposizione". I musulmani qui sono più che fratelli e non abbiamo mai avuto quel genere di problemi. Li abbiamo avuti soltanto in Europa».

 Islam radicale europeo
  Già, in Europa, dove mette radici un islam radicale che - così la pensa il rabbino Hattab - «è stato fabbricato, non è l'originale». In Europa dove un terrorista che non sa leggere l'arabo uccide, in nome dell'islam, il ragazzo di Tunisi che l'arabo lo parla benissimo perché è la lingua in cui la sua mamma ebrea gli ha insegnato a parlare. In Europa dove anche Yoav, che un tempo scriveva su Facebook «lo amo Mosè, amo Gesù, amo Maometto: la pace sia con loro», misura la distanza che passa tra la nostalgia d'un universo ricomposto e una realtà che sempre più ti costringe a schierarti. «lo a Djerba ho moltissimi amici musulmani. In Francia, zero»: così la spiega Gabriel, a Parigi da anni.
  Quando è morto a Porte de Vincennes, Yoav era appena rientrato da un viaggio di gruppo in Israele, e per lui era stata un'esperienza entusiasmante. Dicono alcuni degli amici più recenti che stesse pensando di trasferirsi là. Dicono i vecchi compagni di scuola, i suoi familiari, che sarebbe invece senz'altro tornato a Tunisi. Un pensiero postato su Facebook prima di salire sull'aereo per Tel Aviv segnala il travaglio, o magari il presentimento: scritto metà in arabo e metà in francese, è una dichiarazione d'amore per la Tunisia, «la nostra magnifica patria, dove non odiamo nessuno».
  A Gerusalemme, questo è certo, il religiosissimo Yoav avrebbe voluto essere sepolto, ed è lì che riposa: «Per me è molto doloroso saperlo così lontano» confida il padre, il rabbino che mentre interrava il suo magnifico ragazzo a un giorno di viaggio e zero relazioni diplomatiche di distanza, ne ha approfittato per stringergli i piedi tra le mani, «come lui faceva con me, quando avevo dei problemi».
  Difficile non sentirsi costretti a scegliere tra due bandiere, di questi tempi, se si è un ebreo maghrebino che vive in una banlieue di Parigi. Ma a vent'anni il finale non può che essere aperto, e così è giusto lasciarlo; salvo sapere che tutto può finire in un attimo, perché con mille suggestioni in testa, un amore nuovo e un amico che t'aspetta per fare insieme Shabbat, vai a comprare una bottiglia di vino nel posto in cui sta per entrare un Coulibaly. Perché la fine di Yoav è anche la storia di come si diventa assassini senza aver capito in nome di cosa. Una storia tristissima.

(La Stampa, 27 luglio 2015)


Oltremare - I tetti di Tel Aviv

di Daniela Fubini, Tel Aviv

In questi giorni torridi, che per noi sono assolutamente normali d'estate, ma comunque non piacevolissimi, mi colpiscono due cose.
Primo, che l'anno scorso esattamente in questi giorni non ne potevamo più di sirene e rifugi, e di missili e di quei pezzi di metallo che cadevano sui tetti, nei giardini e accanto agli asili. Non se ne parla molto, salvo per quanti hanno perduto un figlio, fratello o marito a Gaza, e in questi giorni devono andare al cimitero a chiudere l'anno di lutto religioso. Sabato sera sulla Tayelet, a pochi metri da dove leggevamo in mezzo alla sabbia le lamentazioni di Eichà che danno inizio al digiuno del 9 di Av, è spuntato un mini-memoriale per uno di caduti di Tzuk Eitan, che prima del richiamo giocava a beach volley in uno dei campi illuminati tutta la notte.
La seconda cosa che mi colpisce è che ultimamente mi è capitato, per ragioni di lavoro e non, di frequentare molti tetti. A Tel Aviv non hanno ancora raggiunto l'utilizzo intenso che se ne fa a New York, dove quasi ogni palazzo ha un tetto ricoperto di catrame scuro, se non abitabile, di certo attrezzabile anche per una singola festa o un ritrovo fra amici. Quando si cerca casa a New York, è automatico chiedere di vedere il tetto. E al tetto poi si sale spesso, magari solo per prendere aria, o il contrario, per fumare.
A Tel Aviv i tetti piatti sono sbiancati con una specie di palta bianchissima, che vorrebbe tenere lontano il calore. Tornando a casa da un evento o da una chiacchierata su di un tetto, ho imparato che le scarpe è meglio lasciarle fuori: sembrano le scarpe di un muratore. Quello che manca lassù è l'aria condizionata, ma se si è abbastanza vicini al mare la brezza notturna la sostituisce egregiamente.
Certo l'anno scorso nessuno avrebbe organizzato un evento su di un tetto. Forse per questo quest'anno tutti si sono scatenati: il post-trauma declinato dai festaioli telavivesi.


(moked, 27 luglio 2015)


Gli USA non riusciranno a comprarsi l'Iran, presto Teheran si unirà ad asse con Russia e Cina

Washington non avrà un nuovo "vassallo" nelle vesti dell'Iran, ritiene l'editorialista di Sputnik Pepe Escobar. E' convinto che dopo la revoca delle sanzioni, una Teheran politicamente indipendente distruggerà "il corso USA in Asia" e contribuirà a realizzare il progetto eurasiatico insieme a Pechino e Mosca.

L'accordo del sestetto sul programma nucleare iraniano porterà ad importanti cambiamenti geopolitici in Eurasia, scrive il giornalista brasiliano Pepe Escobar nella sua rubrica per Sputnik.

"Prima o poi, a prescindere dagli sforzi dei lobbisti neoconservatori israeliani, sauditi e americani, tutta l'architettura delle sanzioni, soprattutto nella parte finanziaria e bancaria, collasserà e l'Iran sarà aperto al business di tutta l'Eurasia," — scrive l'editorialista.

L'analista ritiene che in uno scenario indipendente e non integrato con l'imperialismo di Washington nel Sud-Est asiatico, l'Iran impedirà agli USA di realizzare la sua "politica in Asia". Secondo la posizione dell'ayatollah Khomeini, l'accordo sul programma nucleare iraniano non cambierà la politica di Teheran nei confronti degli Stati Uniti: questo suggerisce che l'Iran sceglierà un percorso geopolitico diverso da quello occidentale.
Gli Stati Uniti a loro volta sottovalutano che Mosca, Pechino e Teheran formino un "terzetto eurasiatico", come sottolinea la strategia militare del Pentagono recentemente resa pubblica: il problema numero uno per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti è il contenimento strategico della Russia e della Cina, ritiene il giornalista.
Secondo Escobar, la strada dell'Iran sarà la combinazione nell'integrazione eurasiatica, strutturata intorno alla partnership tra Russia e Cina.

"L'Iran non sarà il nuovo vassallo degli Stati Uniti, non riusciranno a comprarsi Teheran, pertanto serve aspettarsi che un nuovo "muro di sfiducia" si alzerà prima della scomparsa della vecchia architettura di sanzioni", — dice l'analista.

(Sputnik Italia, 26 luglio 2015)


Il cantante palestinese Mohammed Assaf fa impazzire Tunisi

ROMA - Il cantante palestinese Mohammed Assaf ha fatto impazzire Tunisi con la sua esibizione davanti a centinaia di fan al Festival Internazionale di Cartagine, nel teatro romano antico. Mohammed, 25 anni, nato a Misurata in Libia, ma trasferitosi poco dopo a Gaza con i genitori, è cresciuto nel campo profughi di Khan Younis. Con la sua voce e le sue canzoni pop, ha vinto l'edizione 2013 del più famoso talent show del mondo arabo: "Arab Idol" e da allora ha iniziato a farsi conoscere nel panorama internazionale, cantando anche brani in inglese.
Nello stesso anno è stato nominato ambasciatore di pace dalle Nazioni Unite e ambasciatore per la cultura e le arti dal governo palestinese. Con la sua musica, infatti, racconta la Palestina a tutto il mondo, porta un messaggio di pace e vorrebbe creare nella Striscia di Gaza un centro culturale dove i giovani possano fare come lui e coltivare il proprio talento.
A Tunisi sono venuti da tutto il mondo per vederlo, come questo fan arrivato dal Lussemburgo: "Sono venuto qui oggi solo per lui. L'ho visto tante volte sul web, ho una figlia che lavora in Lussemburgo e che è pazza di lui, come mia moglie. Adesso anche io sono diventato un suo grande fan. Ha un suo modo, attraverso la musica di portare un messaggio per la liberazione della Palestina".
O questa ragazza tunisina: "Lo seguo fin da 'Arab Idol', la verità è che mi piace molto. Sono una fan e conosco a memoria tutte le sue canzoni, allora sono venuta per vederlo dal vivo, è la prima volta che viene a cantare in Tunisia".

(askanews, 27 luglio 2015)


Iran - Israele respinge le affermazioni di Kerry. Gelo con gli Usa sul voto del Congresso

GERUSALEMME - Israele ha respinto la recente affermazione del segretario di Stato Usa, John Kerry, secondo cui se il Congresso americano bloccherà l'accordo sul nucleare iraniano la comunità internazionale riterrà Israele responsabile del fallimento. Il ministro dell'Energia, Yuval Steinitz, ha dichiarato al sito Walla che Israele non subirà pressioni perché smetta di esprimere il proprio scetticismo sull'accordo sul nucleare. "Israele dirà con chiarezza il suo punto di vista sulla questione del nucleare iraniano, importante per la sua sicurezza, e nessuno ha l'autorità di intimidirci", ha affermato il ministro.
Venerdì, parlando al think tank Council on Foreign Relations a New York, Kerry aveva detto che se il Congresso Usa non approverà l'intesa, "i nostri amici in Israele potranno finire per essere più isolati e incolpati". L'amministrazione Obama sta facendo campagna a favore dell'accordo firmato a Vienna il 14 luglio da Teheran e dal gruppo 5+1 (Usa, Regno Unito, Cina, Franccia, Russia, Germania).

(LaPresse, 26 luglio 2015)


E poi dicono che la "Palestina" è un'invenzione...

 
Buon compleanno alla Anglo-Palestine Bank! È il 26 luglio 1903 e l'istituto di credito apre la prima filiale a Jaffa: la targa qui a lato ne attesta con certezza la data di costituzione di quella che sarebbe in seguito stata ribattezzata in Leumi Bank. In realtà la banca aprirà i battenti al pubblico il successivo 2 agosto, ma ci sono due problemi, che fanno venire il mal di pancia a chi con un po' di leggerezza crede che i "palestinesi" esistessero prima del 1968.
Intanto la targa è bilingue, ma una delle due lingue è incontestabilmente ebraico.
Soprattutto, la Anglo-Palestine Bank fu costituita dal movimento sionista: il Jewish Colonial Trust, di fatto la prima banca sionista, fu costituita nel 1899, con l'obiettivo di raccogliere capitali ed erogare credito alle iniziative che si andavano costituendo in "Palestina". Tre anni dopo fu costituita una società controllata, la APB, appunto, con un capitale iniziale di 50.000 sterline, impiegato per l'acquisto di terre e il finanziamento di attività produttive da parte degli insediati.
Nel 1950, dopo la costituzione dello stato di Israele, la banca modificò sede legale dal Regno Unito al risorto stato ebraico, e fu ribattezzata Bank Leumi Le-Israel, ovvero Banca Nazionale di Israele. Con la successiva (1954) costituzione delle Banca Centrale israeliana, la ex APB fu rinominata definitivamente Leumi Bank.
Leumi Bank è oggi il principale istituto di credito dello stato ebraico. A capitale prevalentemente privato, è quotata alla borsa di Tel Aviv, dove circola la maggior parte del flottante.
Una banca nata dunque come "palestinese", ma da sempre ebraica. Strano, vero?

(Il Borghesino, 26 luglio 2015)


Il titolo dell'articolo è leggermente fuorviante perché molti per "Palestina" intendono uno stato arabo, il quale effettivamente è un'invenzione. Molti per ignoranza non sanno, altri per malafede fingono di non sapere, che il termine Palestina non ha mai significato una nazione, ma soltanto una regione geografica. Sono stati proprio i primi pionieri ebrei ad usare questo termine per indicare istituzioni attive della loro comunità, come appunto la "Anglo-Palestine Bank", diventata poi la "Leumi Bank" , il giornale "The Palestine Post" diventato poi "The Jerusalem Post", la "Palestine Symphony Orchestra" diventata poi "Israel Philharmonic Orchestra". Fino alla guerra dei sei giorni del 1967, il termine “Palestina” aveva quindi un suono più ebraico che arabo, e per questo non era particolarmente amato dagli arabi residenti in quella regione. L’attuale nazione “Palestina”, che secondo i suoi capi sarebbe sorta agli albori dell’umanità e ha prodotto oggi il “Palestinismo” come religione osservata da gente di ogni lingua, tribù, popolo e nazione, è pura favola. Anzi, meglio, è una creazione idolatrica. M.C.


Il viaggio della Mogherini in Iran incoraggia altre esecuzioni

Federica Mogherini, Alto Rappresentante dell'Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza
Sicurezza di chi?
Il prossimo viaggio di Federica Mogherini a Tehran, i suoi incontri con i responsabili di 120.000 esecuzioni politiche e di 700 esecuzioni negli ultimi sei mesi incoraggia altre esecuzioni, viola i valori della democrazia e dei diritti umani e deve essere annullato
   Il Comitato Affari Esteri del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana ribadisce che il prossimo viaggio in Iran di Federica Mogherini, Alto Rappresentante dell'Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza e gli incontri con i leaders del fascismo religioso al potere incoraggiano questo regime a continuare le torture e le esecuzioni. Il Comitato esorta tutti i sostenitori dei diritti umani, dei diritti delle donne e della democrazia a intraprendere un'azione urgente per far annullare questo viaggio. Questo e gli altri viaggi nell'Iran dei mullah al potere, vanno contro gli interessi nazionali del popolo iraniano, la loro determinazione a rovesciare questo regime, a voler ristabilire la democrazia e il governo del popolo in Iran.
   La Mogherini ha in programma di incontrare i responsabili di 120.000 esecuzioni politiche e del massacro di 30.000 detenuti politici avvenuto nell'estate del 1988. Amnesty International in un comunicato stampa del 23 Luglio ha detto che, nella prima metà del 2015, almeno 694 detenuti sono stati giustiziati in Iran, aggiungendo che: "Lo sconcertante numero di esecuzioni della prima metà di quest'anno da' un'immagine inquietante di un apparato dello stato che compie omicidi premeditati e legalmente legittimati su vasta scala... Probabilmente assisteremo a più di 1000 morti legittimate dallo stato per la fine dell'anno".
   Federica Mogherini incontrerà a Tehran quelli che sono i primi responsabili dell'esportazione del terrorismo e del fondamentalismo, nonché del massacro di persone innocenti in Iraq, Siria, Yemen e Libano. Questi esponenti del regime dovranno essere processati per crimini contro l'umanità per i reati commessi sia in Iran che all'estero.
   Nei nove mesi da quando la Mogherini ha assunto la sua carica a Schuman Square, circa 1000 detenuti sono stati giustiziati in Iran. Le donne hanno subito le più gravi pressioni e le minoranze etniche e religiose sono state l'obbiettivo di una massiccia repressione e discriminazione. Ma la Mogherini si è astenuta dal pronunciare persino una condanna verbale su queste atrocità quotidiane. Ciò è vergognoso per l'Unione Europea le cui stesse basi si fondano sulla lotta al fascismo e sul sostegno alla democrazia e ai diritti umani.
   Mentre ogni giorno centinaia di donne iraniane vengono arrestate, multate e frustate dagli agenti del regime con la falsa accusa di essere "mal-velate", la Mogherini ha intenzione di compiacere i mullah e di obbedire al loro ordine di indossare il velo durante i suoi incontri con assassini dei diritti umani come Hassan Rouhani, Ali Akbar Rafsanjani, Javad Zarif e Ali Larijani. Questo atto della Mogherini è uno sfacciato insulto a tutte le donne iraniane.
   Il Comitato Affari Esteri del CNRI condanna fermamente questo viaggio ed esorta la Sig.ra Mogherini a non mettere il sale sulle ferite del popolo iraniano, anche se si rifiuta di fare qualunque cosa per alleviare il suo dolore e le sue sofferenze.
   Il popolo iraniano, in particolare le donne, i giovani, i detenuti politici e i familiari delle persone giustiziate, si aspetta che i difensori dei diritti umani e dei diritti delle donne, in particolare quelli italiani, intervengano per fermare questa visita che viene considerata una pugnalata al cuore della democrazia e dei diritti umani.

(Comitato Affari Esteri del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 26 luglio 2015)


Viagra, hashish e antidolorifici. Così si sopravvive ad Hamas

Reportage. Tra i profughi "intrappolati" dal regime palestinese. Anche un afrodisiaco fatto in casa per rendere l'esistenza nella Striscia meno infelice. Spie e abbrutimento Gli informatori sono ovunque: nessuno parla, beve o fuma, se non chiuso in casa.

di Francesca Borri

 
GAZA - Impegnati tutto il giorno a fermarti ai check-point, e accertarsi che l'uomo alla guida sia tuo padre o tuo marito, paladini della moralità, i tipi di Hamas hanno dimenticato come si corteggia una signora. Offrirle questa sorta di Viagra in polvere non è la migliore delle strategie. E neppure uno solo: due. Devo sembrargli un caso disperato. Questo trentenne che mi è stato affibbiato da Hamas insieme all'autorizzazione a entrare a Gaza, e che non mi lascia sola un minuto, ufficialmente a tutela della mia sicurezza, ha un compito preciso: non farmi vedere niente. A parte i crimini di Israele, ovviamente. E l'indifferenza, l'inefficienza della comunità internazionale. Gli sprechi dell'Onu. A parte il giro turistico tra sfollati, e macerie e mutilati. Non posso parlare con nessuno. E anche i palestinesi che conosco, mi liquidano rapidi: si sente, hanno paura - poi mi scrivono una mail: quando vai via, ti chiamo e ti dico tutto. Che per telefono parliamo tranquilli.
   Mi fermano per tre ore, alla frontiera, perché ho una bottiglia d'acqua, in borsa, ed è Ramadan: il tipo invece mi accompagna a casa, si stappa una birra e si accende una sigaretta. E la sera, prima di cena, come tanti, si fa di Tramadol, un antidolorifico per cani che a Gaza, in mancanza di meglio, è usato come una specie di ecstasy. Ed è vietato. Hamas, se te lo trova addosso, ti arresta. Ed è il vero simbolo di Gaza. Più dei tunnel. Perché ti stordisce, non ti fa sballare. Ti fa dimenticare. Perché Hamas, prima ancora che indignarti, ti fa tristezza.
   È arrivata al potere nel 2006 con elezioni regolari e democratiche e, se americani ed europei non avessero risposto con le sanzioni, e il blocco degli aiuti, con l'isolamento, le cose sarebbero andate diversamente. Ma oggi, intanto, Hamas è questo: un regime. Non è che i palestinesi, all'improvviso, volessero la sharia: Hamas vinse perché aveva già vinto a livello locale, governava già molte municipalità, e aveva dato prova di onestà e trasparenza. Appariva rigorosa. L'opposto dalla ormai marcia Fatah. La sua icona non erano i razzi, ma Ismail Haniyeh, premier che abitava nel campo profughi di al-Shati. E abita ancora lì, tra le macerie, con l'umiltà di sempre: solo che intanto ha intestato al genero una casa sul mare a RimaI, l'area più bella di Gaza. 2.500 metri quadri con giardino. 4 milioni di dollari. Da buon padre, ha comprato una casa a ognuno dei figli. Che sono 13.
   L'assedio è stato così feroce che gli israeliani a un certo punto calcolavano le calorie quotidiane necessarie a mantenere i palestinesi sul filo della sopravvivenza fisica: 2.279 a testa: e non lasciavano entrare un grammo di cibo in più. A Gaza, senza i tunnel, sarebbero morti tutti.

"MA L'ASSEDIO, oltre che un crimine, è sempre stato anche un gigantesco affare", dice Ebaa Rezeq, una delle ricercatrici locali di Amnesty International. Perché i tunnel, che sono stati distrutti quasi tutti, ormai, erano centinaia. E definirlo contrabbando è fuorviante. I tunnel erano regolamentati da una commissione di controllo, in parte gestiti in proprio, in parte appaltati a terzi. Ognuno, in media, rendeva 100mila dollari al mese. "Ora, invece, tutto arriva con regolari importazioni da Israele. Monopolizzate, ovviamente, dai soliti imprenditori vicini ad Hamas". Perché questa, oggi, è Gaza. Fuoristrada dai vetri blindati, o carretti trainati da asini. Il 70% dei palestinesi vive di aiuti umanitari. Manca il 30% dei farmaci classificati come essenziali. Poi, però, trovi tre tipi di Viagra. E hashish. Che anche quello, poi - se te lo trovano addosso - ti arrestano.
   L'obiettivo di Hamas è rimanere al potere. Nient'altro. Non governa. Considerato che l'istruzione e la sanità sono a carico dell'Unrwa, l'agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi, che a Gaza sono l'80% della popolazione, e considerato che poi, appunto, vivono quasi tutti di aiuti umanitari, Hamas dedica ogni sua energia a reprimere non tanto ogni forma di dissenso, dal momento che non esiste più alcuna attività politica, qui: dedica ogni sua energia a reprimere ogni forma di vita.

I SUOI INFORMATORI sono ovunque - d'altra parte: è una delle poche opportunità di lavoro a disposizione. Controllano che tu non beva. Che ti vesta in modo appropriato. Controllano cose che neppure noti: ma per esempio, una ragazza, qui, non va in bici. E il sesso fuori dal matrimonio, naturalmente: che è l'ossessione di Hamas. Vietato anche uno scambio accidentale di sguardi. Tutte regole non scritte, perché poi, in realtà, non è in vigore né la sharia né niente, qui: solo la volontà di Hamas.
   C'è il codice penale, quello di sempre: ma c'è anche un sistema parallelo, e del tutto informale, di arresti, punizioni, sparizioni. Compaiono all'improvviso. Le perquisizioni, gli avvertimenti, i fermi sono quotidiani. E anche qui: selettivi. "Hai l'aria stanca", mi dice un pomeriggio il mio guardiano. "Lavori troppo. Un paio d'ore in spiaggia, e torni come nuova", mi dice spingendomi fuori. "Ti aspetto qui". E usa il mio appartamento per incontrare un'amica sposata.
   L'obiettivo di Hamas sembra coincidere con quello di Israele. Per cui Hamas "è il migliore degli alleati", dice Ebaa Rezeq. Perché anche i negoziati di pace, intanto, sono fermi. L'unica cosa che progredisce, qui, sono gli insediamenti. Occupano ormai il 40% di quello che dovrebbe essere il futuro stato palestinese - e che è già, di per sé, solo il 22% di quello che avrebbe dovuto essere secondo il piano dell'Onu del 1945.
   A Gaza Hamas non ha più il minimo consenso. Ha consenso nella West Bank, in cui ancora è vista come un'alternativa a Fatah. Come il bastione della resistenza. Ma qui che hanno sperimentato i risultati ottenuti dai razzi, e cioè un assedio, tre guerre, e più morti che nell'intera seconda Intifada, con l'Onu che stima siano necessari trent'anni perché Gaza torni come prima, e cioè perché la sua popolazione torni a essere per il 70% sotto la soglia di povertà - qui nessuno sostiene Hamas. I palestinesi vogliono solo andar via. Tutti. L'ostacolo, però, non è tanto il visto per l'Europa. L'ostacolo è l'Egitto. Raggiungere l'aeroporto del Cairo. Nel 2015, il confine di Rafah è stato aperto per 12 giorni. La lista d'attesa è lunghissima. E hanno priorità i malati. Ma al solito - 3mila dollari sottobanco e un poliziotto viene a chiamarti per nome. Persino Hamas, qui, è stanca di Hamas. Persino i suoi miliziani vogliono andar via: stanno tutto il tempo a chiederti aiuto per un visto per l'Italia. Anche se guadagnano molto di più di quello che potrebbero mai guadagnare da noi: dai giornalisti stranieri incassano 350 dollari al giorno - quanto uno stipendio mensile. Dollari che poi non sanno come spendere. Se non in Tramadol. Per dimenticare.
   
(il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2015)


Il Festival del Cinema a Gerusalemme

 
E 'stato John Turturro a inaugurare la 32esima edizione del Festival del Cinema di Gerusalemme. Lo scrittore, attore e regista statunitense (di origini italiane) ha recitato in oltre 70 film diretti da registi del calibro di Martin Scorsese, Spike Lee, Joel ed Ethan Coen, Woody Allen, Francesco Rosi, Michael Cimino.
Naturalmente il festival ha lo scopo di valorizzare il comparto cinematografico israeliano che vanta diversi primati.
Wolfgang Spindler, euronews: "Nel corso degli ultimi anni Israele ha implementato quantità e qualità dei suoi film. Il paese dispone di molti strumenti, di aiuti finanziari e di talenti. Certamente molti suoi film sono centrati su questioni politiche e sociali che interessano Israele."
I film di genere non sono frequenti in Israele. "JeruZalem" di Doron & Yoav Paz è uno 'Zombie Film' che vede in azione turisti americani che affrontano incontri letali nelle loro notti a Gerusalemme. Il fim ha incassato il premio del pubblico per il miglior montaggio.
Molte delle opere vertono sui conflitti e non sono facili ma attraggono i patiti del genere. Il regista turco Tayfun Pirselimo?lu ha fatto parte della giuria.
Tayfun Pirselimo?lu, regista: "Tutti i film che ho visto qui esprimono la paura della società. A tutta prima sembrano cose geograficamente molto limitate ma alla fine abbracciano problematiche universali".
Il film documentario "Strung Out" racconta di giovani donne che vivono per le strade di Tel Aviv, vittime di prostituzione ed eroina. L'opera ha ottenuto il primo premio per la regia del film documentario ma anche un riconoscimento per la colonna sonora. La regista Nirit Ahroni è entrata lentamente in contatto con le sue protagoniste.
Nirit Ahroni, regista: "C'è voluto un anno prima che entrassi in confidenza con queste donne. Mi occupavo di loro, le aiutavo, le curavo, capivo che percepivano il tutto come un'ultima occasione, mi raccontavano la loro situazione, questa poteva diventare un' ultima testimonianza della loro vita".
"Tikkun," è il ritratto impietoso degli ultra-ortodossi a Gerusalemme. Il film ha incassato 4 premi tra i quali quello del Miglior Film, la migliore sceneggiatura e per il miglior attore.
Su tutto il film, nel mezzo del rapporto padre e figlio, incombe il giudizio di dio.
Khalifa Natour, attore: "Il mio protagonista è lontano dalla mia vita reale e non ha un carattere facile. Prima di affrontare questo copione non ne sapevo nulla di questo mondo e della vita di persone cosi', ho dovuto studiare molto".
Avishai Sivan, regista: "La sceneggiatura ha molti risvolti psicologici e presenta domande senza risposta".
Il film "Wedding Doll" ha vinto il premio per la miglior regia e la migliore attrice, Asi Levi, che interpreta una madre con due figlie che lotta sul posto di lavoro e per portare avanti la famiglia.
Asi Levi, attrice: "Ho sempre fatto ricorso ai sentimenti personali anche per fare l'attrice, alle cose in cui credo. So bene cosa significa essere madre perchè anch'io sono madre ed è un istinto".

(euronews, 24 luglio 2015)


Washington: la spia Pollard potrà essere liberata a novembre

WASHINGTON - La spia israeliana Jonathan Pollard, che sta scontando una pena all'ergastolo negli Usa, potrebbe essere rilasciato a novembre quando saranno trascorsi 30 anni dal suo arresto ed essere, quindi, come ogni altro detenuto, idoneo a chiedere il rilascio sulla parola (liberta' condizionata). Cosi' il ministero della Giustizia Usa ha chiarito il rebus sulle voci che si erano diffuse di un imminente rilascio di Pollard come scambio per ridurre l'ira di Israele per l'accordo sul nucleare iraniano. Pollard venne condannato all'ergastolo per spionaggio ai danni degli Usa (cittadino americano nato in Israele passo' ad Israele segreti Usa sulle armi dei Paesi arabi e del Pakistan) nel 1987 ma era stato arrestato due anni primi. Quest'anno a novembre ricorrono quindi i 30 anni che fanno scattare il diritto a chiedere la liberta' condizionata. Il ministero della Giustizia, questa e' la novita' ha fatto sapere che non si opporra' alla concessione della liberta'.
   Alistair Baskel, uno dei portvaoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca ha quindi ribadito che nell'eventualita' che Pollard esca di prigione non c'e' alcun legame con l'accordo sul nucleare: "Lo status di "Pollard sara' deciso dalla commissione Usa che decide sulla concessione della liberta condizionate solo sulla base delle procedure standard, e senza alcun legame con considerazioni di politica estera". Il caso Pollard e' stato da sempre continua fonte di attrito tra Washington e Gerusalemme.
Il testo diceva erroneamente "Tel Aviv".


(AGI, 25 luglio 2015)


Russia-Iran, vicino l'accordo sulla difesa aerea

Una fonte del ministero della Difesa iraniano: sistema di difesa missilistica a disposizione di Teheran "entro la fine dell'anno".

TEHERAN - La fornitura di sistemi di difesa aerei di produzione russa all'Iran, anche più moderni del sistema missilistico S-300 sarebbero vicini a una positiva conclusione. Lo ha comunicato oggi a Sputnik una fonte del ministero della Difesa iraniano. Anche un'altra fonte ministeriale aveva detto, martedì, che il recente accordo sul nucleare fra le sei potenze mondiali e l'Iran potrebbe consentire a Teheran di avere accesso a un sistema missilistico di difesa aerea più avanzato. I negoziati - aveva detto la fonte - sono quasi terminati, e l'Iran "potrebbe acquisire un sistema più moderno rispetto all'S-300". Se il processo negoziale dovesse proseguire con i ritmi che ha mostrato finora, il sistema - aveva precisato la fonte - potrebbe essere a disposizione di Teheran entro la fine dell'anno. In tal caso - aveva concluso - "sarà possibile affermare che il cielo sopra Teheran sarà protetto da qualsiasi attacco aereo". Nel 2007 la Russia aveva siglato un contratto per la fornitura a Teheran del sistema di difesa missilistico S-300. Tre anni dopo, Vladimir Putin aveva lasciato in 'stand-by' l'accordo dopo che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite aveva introdotto un embargo sulle forniture di armi all'Iran a causa delle presunte attività di arricchimento dell'uranio per la realizzazione di armamenti nucleari. Ad aprile, il presidente russo Putin ha interrotto la sospensione dell'accordo relativo al sistema S-300, poco dopo che i negoziatori internazionali dei paesi del gruppo dei 5+1 (Cina, Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Germania) e l'Iran avevano raggiunto l'accordo sulla questione del nucleare di Teheran. Già alla metà di giugno, una fonte aveva anticipato a Sputnik che Mosca e Teheran avevano riavviato i colloqui per l'applicazione del contratto relativo al sistema S-300.

(AGV News, 25 luglio 2015)


L'Occidente si è perso i successi della Russia nella ricerca di nuovi alleati

L'accordo sul programma nucleare iraniano cambia il contesto geopolitico internazionale e la Russia è riuscita a trovare una nuova nicchia strategica, scrive la rivista tedesca Die Zeit.

La Russia conduce una politica molto intelligente in Medio Oriente, che sfugge alla vista dei politici occidentali, ritiene la rivista tedesca Die Zeit.
"L'Occidente segue gelosamente ogni evento, persino il più insignificante, nelle relazioni tra la Grecia e la Russia, trascurando i successi più significativi della politica estera di Mosca," — ritiene l'autore dell'articolo, ricordando l'incontro di giugno tra il presidente Putin e il ministro della Difesa dell'Arabia Saudita a San Pietroburgo.
Le parti hanno firmato una serie di accordi: per esempio il fondo dell'Arabia Saudita nei prossimi anni prevede di investire in Russia circa 10 miliardi di dollari. Inoltre la Russia e l'Arabia Saudita hanno intenzione di instaurare una cooperazione nei settori nucleare e petrolifero, così come nella Difesa per le forniture di armi.
"Fino a poco tempo fa un incontro simile era difficile persino da immaginare, in quanto la Russia e i sauditi hanno assunto posizioni diverse sulla guerra in Siria e l'Arabia Saudita è un alleato degli Stati Uniti, mentre la Russia sostiene l'Iran," — commenta il giornalista tedesco.
Tuttavia la situazione in Medio Oriente sta cambiando rapidamente e la Russia sfrutta abilmente le opportunità emergenti, scrive.
"Il significato profondo della politica russa apparentemente contraddittoria in Medio Oriente consiste nel fatto che Mosca è diventata un cacciatore di opportunità: l'accordo sul programma nucleare iraniano cambia completamente la situazione in Medio Oriente e la Russia è alla ricerca di nicchie strategiche, cosa che le riesce con successo," — conclude il giornalista tedesco.

(Sputnik Italia, 25 luglio 2015)


Obama sarà ricordato soltanto per essere un buon marito e un buon papà

Per il resto, un disastro

di Riccardo Ruggeri

In questo ultimo mese sono successe molte disgrazie politico-economiche (Iran, Grecia, immigrazione, etc.), mi hanno intristito. Prima di andare in vacanza, e rallentare l'uscita dei Camei (scrivere sotto l'ombrellone è più difficile che farlo da casa), prego i lettori di accettare lo sfogo di un vecchio signore che, pur non avendo neppure un goccio di sangue ebreo, per quel che vale (nulla) è furibondo verso l'Occidente tutto. E' da vili, pugnalare alle spalle Israele, insieme alla Svizzera l'ultimo Paese liberale.
   Solo una banda di persone, certamente perbene, ma totalmente idiote, appartenenti a più Paesi, di antica e nobile tradizione, poteva firmare un accordo come quello nucleare con l'Iran. Il colpevole è solo uno, che lo ha voluto a ogni costo per lasciare una traccia dei suoi otto anni (inutili) trascorsi alla Casa Bianca, Barack Obama. In realtà, lui sarà ricordato per l'orto (di Michelle), per essere stato un buon papà, un buon marito, soprattutto per una sfilza imbarazzante di errori di politica internazionale, che hanno creato danni irreparabili. Ovviamente hanno firmato anche gli altri, ma la moralità politica di Francia e Inghilterra, dopo il caso Libia è zero (Cameron, Sarkozy, Obama, se fossero stati serbi, sarebbero già stati condannati dal tribunale dell'Aia), la Russia l'abbiamo talmente umiliata da renderla indifferente. Mogherini, perdoniamola, è una brava ragazza che non ha fatto nulla di male.
   Salvo alcuni colleghi (Pierluigi Battista in primis, e Il Foglio, tutto) nessuno ha avuto il coraggio di svolgere un'analisi e un ragionamento appena decenti su questo tema dirimente. Settant'anni fa, Stati Uniti e Russia hanno voluto/dovuto dotarsi di un arsenale nucleare, prima per timore di Hitler, poi per un terrore reciproco. A Cuba, spinti da quel criminale politico che è stato Fidel Castro, i russi sono arrivati fino a un istante prima di premere il pulsante, non l'hanno fatto (chapeau!), da allora la minaccia nucleare si è andata via via spegnendo. Sono nate altre potenze nucleari, ma solo a scopo difensivo: la Cina per timore della Russia, l'India per timore della Cina, il Pakistan per timore dell'India, Israele per ragioni di pura sopravvivenza, il Regno Unito per la sua storia imperiale, la Francia per la grandeur (a Carlà stava bene un marito qualsiasi, purché, diceva, dotato di valigetta atomica, e sul mercato c'era solo Sarkò). Nessuna di queste potenze atomiche ebbe mai l'intenzione di usarla, neppure come minaccia politico-verbal-ricattatoria.
   Invece, l'unico Paese che ha dichiarato, fin dalla sua fondazione, ripetendolo ad ogni cambio di leadership, di avere un solo obiettivo strategico, l'annientamento fisico di Israele, è stato l'Iran. Le virgolette sono loro: «annientare l'entità sionista», «espellere gli ebrei da Israele perché deturpano la terra sacra dell'Islam», «con la bomba atomica Israele sarà cancellato dalla carta geografica». Potrei continuare all'infinito, ma tre virgolettati bastano e avanzano. Possibile che i nostri leader non vedano come il nazismo non abbia attecchito in nessun Paese, salvo che in Iran? Dove si svolge il Festival negazionista dell'Olocausto? A Teheran. Si sono mai chiesti perché l'Isis ha come nemico mortale, non certo l'Occidente, ma la teocrazia iraniana? Avete notato con che surplace Israele tratta i sunniti dell'Isis, la Turchia di Erdogan? Loro sanno distinguere il differente grado di criminalità dei loro vicini.
   Si sono accorti, Obama e soci, che, autorizzando la bomba, seppur fra dieci anni (un battito di ciglia, per la storia), hanno osato violare i due tabù sui quali si regge la moralità etica e politica dell'Occidente? Per anni abbiamo pronunciato con commozione e enfasi «mai più Auschwitz, mai più Hiroshima». Tutto dimenticato, per un Nobel anticipato, per quattro barili di petrolio, e noi, miserabili, per un terzo di un punto di Pil. Bottegai.
   Inutili altre considerazioni, solo vergogna e disprezzo per queste leadership occidentali.
   
(Italia Oggi, 25 luglio 2015)


Calcio - Vittoria del Palermo sugli israeliani dell'Hapoel Haifa

 
Il Palermo si impone anche nell'amichevole contro l'Hapoel Haifa. I rosanero di mister Beppe Iachini, nell'amichevole di questo pomeriggio a Temu' hanno vinto per 2-1 contro gli israeliani nel terzo match amichevole del ritiro pre-campionato. Rosanero in campo con il 3-5-2. Colombi tra i pali, in difesa Goldaniga, Vitiello e Velazquez. In mediana Rispoli, Brugman, Hiljemark, Benali e Daprela' ad agire alle spalle del tandem composto da Quaison e Cassini. Palermo in vantaggio al 10' con una gran botta di esterno destro di Brugnam su assist di Benali. Chiuso il primo tempo avanti di un gol, Iachini presenta lo stesso undici al rientro in campo. Al 10' giunge il pareggio degli israeliani grazie al rigore trasformato da Swisa. Allo scadere giunge la rete di Jajalo direttamente su calcio di punizione a dare il successo al Palermo.

(la Repubblica, 25 luglio 2015)


La questione degli ebrei riformati, aumenta la distanza fra Israele e Stati Uniti

Il governo israeliano, sostenuto da due partiti ultra-religiosi, sta facendo nascere un pericoloso conflitto con i movimenti ebraici ritenuti troppo liberali che dominano la scena , religiosamente parlando, in America. Il rischio è di ampliare ulteriormente la spaccatura creatasi tra Stati Uniti e Israele nell' ultimo periodo, emarginando un gran numero di ebrei americani.
La disputa costringe il premier israeliano Netanyahu a un delicato ruolo che lo vede contemporaneamente compiacere gli ebrei americani e placare i membri più ortodossi del suo governo. Proprio gli ebrei americani costituiscono la seconda comunità ebraica più grande al mondo e hanno costituito per decenni una fonte di incondizionato sostegno morale, lobbying, o pressione politica che dir si voglia, e raccolta fondi....

(Progetto Dreyfus, 24 luglio 2015)


Stai serena, Israele

Lettera al Corriere della Sera

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi in visita a Gerusalemme ha rassicurato il Primo ministro Netanyahu che nulla ha da temere Israele, qualora l'Iran si mettesse a giocare con qualche arma nucleare. Di fronte a tali parole, il Premier israeliano deve aver pensato: se Matteo Renzi gestisce questo problema come gestisce l'immigrazione in Italia, allora possiamo stare sereni, tanto quanto gli italiani.
Rachele lannis

(Corriere della Sera, 25 luglio 2015)


Matteo Renzi, l'Iran e la sicurezza italiana

di Arturo Diaconale

Matteo Renzi è andato in Israele per confermare a Netanyahu che l'Italia è favorevole all'accordo sul nucleare tra Usa ed Iran e che "vigilerà" sull'applicazione di questo accordo. Non sappiamo se lo scopo del viaggio a Tel Aviv fosse di rabbonire il governo israeliano mentre gli imprenditori pubblici e privati italiani fanno la fila a Teheran per riprendere a commerciare con il governo iraniano. Ma se l'obiettivo della missione fosse stato proprio questo, sarebbe stato meglio se il Premier si fosse risparmiato il viaggio e l'occasione di pronunciare banalità sul David di Donatello e sulla tradizionale amicizia tra Italia ed Israele.
   Invece di recarsi a Tel Aviv per annunciare che l'Italia vigilerà sul rispetto di accordi da lei non sottoscritti in quanto esclusa dalle trattative, avrebbe fatto meglio a recarsi negli Stati Uniti per denunciare il problema di sicurezza che quegli accordi sollevano non solo nei confronti di Israele ma nei confronti di tutti i Paesi del Mediterraneo, Italia compresa.
Con Netanyahu, in sostanza, Renzi non avrebbe dovuto parlare di sciocchezze in libertà (come se gli israeliani non sapessero che l'Italia non può vigilare su ciò che non ha sottoscritto e che pensa solo a riaprire ufficialmente gli scambi commerciali con l'Iran). Avrebbe dovuto spiegare che l'accordo Usa-Iran pone un grave problema di sicurezza anche all'Italia, così come a tutti gli altri Paesi del Mediterraneo. Ed avrebbe dovuto concordare con il governo israeliano una linea comune da seguire nel porre al Presidente Barack Obama la richiesta di estendere a tutti i Paesi potenzialmente esposti alle possibili minacce nucleari iraniane il sistema di difesa che al momento gli Usa assicurano di voler garantire ad Israele, Arabia Saudita, Emirati ed Egitto.
   L'ipotesi di ritrovarsi nel giro di pochi anni (cinque o dieci poco importa) un Iran in possesso di armi nucleari e di missili in grado di colpire qualsiasi bersaglio nell'area mediterranea, non è affatto campata per aria. Tutti, ovviamente, sperano che la fine delle sanzioni favorisca un mutamento nel gruppo dirigente iraniano e la sua conversione convinta alle ragioni della pace. Ma fino a quando questo non avverrà è facile prevedere che Israele, Arabia Saudita, Emirati sunniti ed Egitto cercheranno di fronteggiare la minaccia costituita dal regime iraniano sciita fornendosi di armamenti nucleari ed accettando la copertura antimissilistica offerta da Obama.
   L'Italia, così come gli altri Paesi della sponda mediterranea dell'Europa, dovrebbe non solo pretendere di essere inserita nel sistema di difesa ideato da Obama, ma incominciare a riflettere sul proprio sistema di difesa che appare del tutto inadeguato rispetto all'aumentato rischio di conflitto nucleare nell'area compresa tra il Golfo Persico e lo stretto di Gibilterra. Il buffo è che a Tel Aviv Renzi ha detto che "la sicurezza d'Israele è anche la sicurezza dell'Italia". E lo ha fatto senza avere neppure la più pallida idea di quanto diceva!

(L'Opinione, 23 luglio 2015)


Iran - Gentiloni: Le imprese italiane non si lascino sfuggire l'occasione
     "Pecunia non olet"


ROMA - L'Italia non deve lasciarsi sfuggire la sfida economica offerta dall'accordo sul nucleare iraniano. Parola del ministro Paolo Gentiloni che, in un'intervista al 'Corriere della Sera', afferma: "La 'corsa' dell'Italia a Teheran non comincia oggi - spiega il titolare della Farnesina - dura da una sessantina d'anni, da Enrico Mattei in avanti. C'è un grande Paese in procinto di aprirsi, non tra qualche anno ma tra qualche mese, quando verranno eliminate le sanzioni finanziarie ed energetiche. Per le nostre imprese, alcune delle quali saranno con noi in agosto, altre ci andranno in una seconda missione in ottobre, è un'occasione da non lasciarsi sfuggire. Per l'Iran - prosegue Gentiloni - il messaggio è che l'Italia è da decenni partner affidabile e coerente e la qualità italiana può tornare ad avere un ruolo di primo piano".Sul versante politico e strategico secondo Gentiloni l'accordo sul nucleare "se attuato in tutte le sue parti, potrà essere considerato di valore storico e ci consegnerà anche una valutazione un po' diversa sulla presidenza Obama, fin qui forse sottovalutata". Gentiloni dice anche di "rispettare la preoccupazione di Israele" ma afferma che senza accordo "avremmo corso rischi notevoli".

(LaPresse, 25 luglio 2015)


In amore con l'Iran

La sinistra e gli ayatollah. Oggi tutti pazzi per l'accordo nucleare, trent'anni fa giornalisti e politici genuflessi di fronte a Khomeini.
   

di Giulio Meotti
   
 
E' un mistero che cosa di quell'imam abbia potuto attrarre la truppa di laiconi europei e scialbi liberal americani, libertini e materialisti, strutturalisti e femministe, esistenzialisti e teorici della rivoluzione sessuale, postmodernisti e borghesi moralisti, fino ai comunisti di ogni sorta. L'ayatollah Khomeini aveva definito la laicità come "l'opera di Satana" e gli ebrei ("che Dio li sprofondi") come i nemici più pericolosi, ce l'aveva con la musica ("genera l'immoralità e la lussuria"), aveva regole anche per la buona creanza (modo di bere e di mangiare), ma anche su come soddisfare i più bassi bisogni sessuali. Diceva che i non musulmani, compresi i bambini impuberi, sono impuri "alla stessa stregua dell'urina, gli escrementi, lo sperma, le ossa, il sangue, il cane, il porco, il vino, la birra e il sudore del cammello". Pensava persino che gli indumenti venuti a contatto prima della conversione col loro corpo sudato fossero impuri.
   Eppure, trent'anni fa pezzi da novanta della cultura e della politica europea si genuflessero di fronte alla Guida suprema della Repubblica islamica dell'Iran. Questa loro prima infatuazione è in grado di spiegare la seconda, la rapidità con cui oggi praticamente tutto l'establishment occidentale, giornalistico e intellettuale, gioisce per l'accordo atomico siglato a Vienna fra le democrazie e gli eredi di Khomeini.
   Furono loro, gli intellettuali gauchisti e liberal d'occidente a fare dell'ayatollah Khomeini, esiliato dallo Scià, l'antagonista immacolato d'un imperatore accusato di rubare e uccidere e di stravolgere i connotati
La sinistra immaginava Khomeini nelle vesti del vendicatore, la sua barba come quella del Che, nell'atto di scacciare il monarca reazionario e filo-americano. Iniziarono allora i tempi della grande illusione occidentale.
culturali d'un antico paese indoeuropeo. La sinistra lo immaginava nelle vesti del vendicatore, la sua barba come quella del Che, nell'atto di scacciare il monarca reazionario e filo-americano. Iniziarono allora i tempi della grande illusione occidentale, quando i gauchisti credevano ancora di poter dominare la locomotiva islamica. Il professor Djahr, docente di Linguistica a Parigi, in quei giorni proclamava ai giornalisti occidentali: "La rivoluzione iraniana è una presa di coscienza popolare dell'alienazione prodotta dal tipo di società capitalistica e dalla sua cultura". Un messaggio davvero edificante.
   Nel suo esilio parigino di NeauphleIe-Chàteau, dalla villetta sulle colline a pochi chilometri dalla capitale francese, Khomeini venne vezzeggiato notte e giorno da giornalisti e intellettuali della gauche, la sinistra parigina. Tutti volevano toccare e parlare con il vecchio imam dagli occhi di brace. Per settimane, la villetta di Neauphle-Ie-Chàteau e l'annesso tendone-moschea imbiancato di neve si trasformarono nel quartier generale della rivoluzione islamica e nel suo centro stampa internazionale. Tra una tazza di tè e un po' di formaggio acido, una fetta di torrone di datteri e mandorle, i volonterosi seguaci dell'ayatollah cercavano di spiegare al resto del mondo le idee di Khomeini.
   Cinque volte al giorno, Khomeini usciva dal suo ritiro, attraversava la strada, entrava nello chalet antistante per le preghiere. Lì erano tutti uniti nel sogno di cacciare lo Scià e di costruire la nuova Repubblica islamica. Tutti cresciuti nelle analisi del marxista Maxime Rodinson sui rapporti tra islamismo e strutture economiche. Tutti ammaliati dal verbo sommesso di Khomeini, avvolto nel turbante nero e dallo sguardo che impressionava.
   Andarono a trovarlo, estasiati, il filosofo Louis Rougier e lo storico della Rivoluzione francese Claude Manceron. Ma anche Roger Garaudy, filosofo comunista, poi cattolico e infine islamico. Senza considerare Vincent Monteil, ex attacché militare francese nella capitale iraniana, anche lui convertito all'islam. Rougier scrisse un saggio per paragonare Khomeini a Davide che trionfa su Golia.
   A cadere nella vertigine khomeinista furono anche tanti ufficiali e studiosi americani. Andrew Young, l'ambasciatore presso le Nazioni Unite sotto l'Amministrazione Carter, disse che Khomeini era "un santo socialdemocratico" e paragonò la sua rivoluzione nel nome di Allah al movimento americano per i diritti civili. L'ambasciatore americano a Teheran, William Sullivan, accostò l'imam iraniano a Gandhi. Il consulente di Jimmy Carter, James Bill, scrisse ammirato che l'ayatollah "è un uomo di integrità".
   Richard Folk, giurista di Princeton e futuro inviato dell'Onu in medio oriente, guidò la missione
Richard Cottam definì Khomeini "moderato e centrista", un eremita che non era interessato al potere ma che una volta sconfitto lo Scià si sarebbe ritirato nella città santa di Qom.
americana in visita nel sobborgo di Parigi per incontrare Khomeini e si scaldò non poco al fuoco della sua rivoluzione: "Avendo creato un nuovo modello di rivoluzione popolare basato, in gran parte, su tattiche non violente, l'Iran può rappresentare per noi un modello, di cui avevamo disperatamente bisogno, di governo umanitario in un paese del Terzo mondo". L'iranologo Richard Cottam sul Washington Post definì Khomeini "moderato e centrista", un eremita che non era interessato al potere ma che una volta sconfitto lo Scià si sarebbe ritirato nella città santa di Qom. Ovviamente avvenne l'esatto contrario.
   Come racconta Houchang Nahavandi, ex ministro dello Scià e autore del libro "Iran, the Clash of Ambitions", "molti movimenti della sinistra europea inviarono le loro delegazioni alla conferenza internazionale tenutasi a Teheran a favore dell'operazione della presa di ostaggi del 4 novembre 1979". Dalla Francia, il poeta Jean Genet, ignaro di cosa facevano i mullah iraniani agli omosessuali, espresse grande simpatia nei confronti di Khomeini perché questi aveva osato opporsi all'occidente. Il giornalista André Fontaine, direttore del Monde, paragonò Khomeini a Giovanni Paolo II in un articolo dal titolo "Il ritorno del divino", mentre il filosofo Jacques Madaule, riferendosi al ruolo di Khomeini, scrisse sul Monde un articolo dal titolo "La voce del popolo" in cui si domandava se "il suo movimento non aprirà le porte del futuro dell'umanità", definendo il khomeinismo come un "clamore dal profondo dei tempi" che rifiutava "la schiavitù".
   Michel Foucault, in celebri articoli sul Corriere della Sera e sul Nouvel Observateur, riuscì a elogiare l'impresa di Khomeini come "la prima grande insurrezione contro sistemi globali, la forma più moderna di rivolta", definendo l'ayatollah "il sant'uomo esiliato a Parigi". Ma Foucault non era il solo. Lo stesso Jean-Paul Sartre decise di andare di persona a Teheran per sostenere pubblicamente, con grande rinforzo di pubblicità, l'imam dallo sguardo allucinato.
   Uno tra i più celebri inviati del Monde, Eric Rouleau, fu a dir poco infatuato di Khomeini. L'Humanité, organo dei comunisti francesi, definì l'imam "il Lenin islamico". Il Partito socialista francese organizzò una manifestazione pubblica di sostegno a Khomeini il 23 gennaio 1979 presso la Maison de la Chimie. Lionel Jospin, lirico e mistico, citò in quell'occasione l'imam Ali: "Non essere né oppressore né oppresso. Devi essere il nemico di tutti gli oppressori e l'amico di tutti gli oppressi". Il 14 febbraio 1979, i socialisti francesi salutarono la vittoria della rivoluzione islamica come "un movimento popolare senza precedenti nella storia".
   Allo scoppio della rivoluzione islamica, il velo femminile diventò il simbolo della resistenza al "dispotismo monarchico" e all'''imperialismo occidentale". Dall'occidente partirono alla volta di Teheran numerose
Allo scoppio della rivoluzione islamica, il velo femminile diventò il simbolo della resistenza al "dispotismo monarchico" e all'''imperialismo occidentale". Dall'occidente partirono alla volta di Teheran numerose femministe, tra cui l'americana Kate Millett e da Parigi Simone de Beauvoir.
femministe, tra cui l'americana Kate Millett e da Parigi Simone de Beauvoir, che avrebbe presieduto un "Comitato Internazionale dei diritti delle donne". Facevano parte della delegazione Claire Brière, Sylvie Caster, Catherine Clément, Martine Franck, Françoise Gaspard, Paula Jacques, Katia Kaupp, Michèle Le Mans, Gaélle Montlahuc, Michele Perrain, Micheline Pelletier-Lattès, Alice Schwarzer, Martine Storti, Anne Tristan, Hélène Védrine. Occidentali che a Teheran gridavano il nome di Khomeini, e sembravano volutamente ignare di quel che pure avrebbero dovuto sapere. Avrebbero potuto intuire, come fece Oriana Fallaci, quello che di lì a poco sarebbe successo: non solo il chador obbligatorio, ma le innumerevoli lapidazioni pubbliche delle adultere, la perdita di qualsiasi diritto civile per le donne.
   Sartre, intanto, andava dicendo: "Non ho alcuna religione, ma se ne dovessi avere una sarebbe quella di Shariati". Alla Sorbona di Parigi studiava l'ideologo della rivoluzione iraniana, Ali Shariati, discepolo del neomarxista Georges Gurvitch. Shariati tradusse in farsi "I dannati della terra" di Fanon. Conquistato dalle idee marxiste, Shariati scrisse dell'islam in termini millenaristici: "Mille quattrocento anni fa alcuni schiavi, venditori di datteri, cammellieri e operai seguivano la religione di Maometto. Oggi debbono essere i lavoratori, i contadini, i mercanti, i burocrati e gli studenti a farla rivivere". Il padrino intellettuale della rivoluzione iraniana non inventò nulla, ma traspose a Teheran le idee dei suoi professori francesi, da Jacques Berque Cdi cui divenne assistente) e Sartre e Fanon. Ma soprattutto aveva studiato con l'orientalista e teologo cattoislamico Louis Massignon.
   Lungo è l'elenco di chi impazzì per Khomeini, dai futuri premi Nobel per la Letteratura Gabriel Garcia Màrquez e Gunter Grass ai comunisti italiani più o meno ortodossi, come Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, fino a Lotta Continua. Proprio il comunista Ingrao scrisse di Khomeini: "Guai se ci lasciamo abbagliare dai nostri pregiudizi e non ci accorgiamo che nella forma peculiare di quella esperienza si
Il direttore del giornale comunista Rinascita, Romano Ledda, annun- ciava estasiato che Khomeini aveva avviato "una nuova fase rivoluzio- naria, quella delle rivoluzioni atipiche". Il titolo che scelse fu gramsciano: "Rivoluzione contro il Capitale".
stanno lì affrontando questioni a noi non estranee: quale modello di sviluppo, se e come deve esplicarsi una funzione dei partiti, quale ruolo devono avere movimenti di massa e forme di democrazia diretta".
Il direttore del giornale comunista Rinascita, Romano Ledda, annunciava estasiato che Khomeini aveva avviato "una nuova fase rivoluzionaria, quella delle rivoluzioni atipiche". Il titolo che scelse fu gramsciano: "Rivoluzione contro il Capitale". Nessuno prestò attenzione alle fucilazioni di omosessuali, alla repressione dei curdi e degli ebrei persiani, alle pene corporali inflitte agli "adulteri" e alla tortura degli intellettuali laici. Intanto, però, sul Manifesto Lidia Campagnano garantiva che sotto il regno dei turbanti sciiti ci sarebbe stata una grande ventata di liberazione delle donne, che non sarebbero state più trattate alla stregua di "prostitute dello scià". Si odono echi sul chador.
   Fu un'ubriacatura di miopia e di ideologia. Di lì a poco, dopo la partenza di corrispondenti e intellò da Teheran, Khomeini avrebbe imposto il velo a tutte le donne, assaltato l'ambasciata americana, iniziato le decapitazioni "corali", lanciato un editto di morte senza precedenti contro uno scrittore occidentale (Salman Rushdie) e riportato il fanatismo nel cuore di quella Parigi che lo aveva così gentilmente ospitato.
   Da allora, quanto silenzio della stessa sinistra europea per gli ebrei, bahai, zoroastriani, ismaeliti, curdi, armeni, arabi del Sud, che per anni sono stati perseguitati, torturati, assassinati nella più generale indifferenza internazionale. Neauphle-le-Chàteau fu il primo, madornale errore dell'occidente e dei suoi intellettuali orientalisti. Fu lì, in un sobborgo di Parigi, che sorse "la capitale provvisoria della rivoluzione islamica". Fu da lì che il vecchio imam riuscì a incendiare il mondo. Finita la sbornia rivoluzionaria, l'ayatollah si lasciò dietro una lunga catena di cadaveri.
   
(Il Foglio, 25 luglio 2015)


Dal 27 luglio a Berlino la 14ma edizione delle Olimpiadi ebraiche

Duemila atleti in gara per gli European Maccabi Games

BERLINO - Sono oltre duemila gli atleti ebrei, provenienti da 36 Paesi che, da lunedì 27 luglio, a Berlino si sfideranno in gare d'atletica durante la 14edizione degli European Maccabi Games, versione ebraica dei giochi olimpici che fanno da contraltare ai giochi nazisti del 1936, dai quali gli ebrei furono esclusi.
Per la prima volta nella sua storia, la manifestazione sportiva si tiene in Germania; 70 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, un luogo simbolico e soprattutto un modo in più per inviare al mondo un messaggio di pace, inclusione e tolleranza.
"È importante essere di nuovo a Berlino - spiega Alon Meyer, responsabile della federazione Maccabi tedesca - la storia dei maccabei procede all'unisono con quella di Berlino. Nel 1921 la federazione fu fondata in questa città, con un presidente tedesco. Nel 1932 i giochi si tennero in Israele mentre nel 1936 ci furono i giochi olimpici a Berlino. Oggi siamo di nuovo qui, sapendo che abbiamo superato un momento difficile".
"La comunità ebraica sta crescendo e prosperando in Germania - aggiunge il ministro della Giustizia tedesco, Heiko Maas - oggi qui ci sono circa un milione e 300mila ebrei e 2mila atleti stanno arrivando da tutto il mondo, è un segno che la vita degli ebrei può ancora svilupparsi in Germania ed è un bene".
I "giochi della riconciliazione" prevedono 19 diverse discipline tra cui calcio, basket, nuoto, tennis e scherma ma anche bowling, scacchi e addirittura il bridge. Si cercherà inoltre anche di battere il record "non sportivo" per la più grande festa del Shabbat, stabilito nel 2014 a Tel Aviv.

(askanews, 25 luglio 2015)

*


Olimpiadi di ebraismo nella città di Berlino. «Vittoria sulla storia»

di Adam Smulevich

Vittorio Pavoncello, presidente del Maccabi Italia
Una sessantina di atleti, diverse fasce d'età, Roma la città di gran lunga più rappresentata. E in partenza la delegazione italiana che sarà protagonista ai quattordicesimi Giochi del Maccabi, le «Olimpiadi» dell'ebraismo europeo che si apriranno lunedì prossimo a Berlino.

 Ideologie
  Istituiti in un'epoca segnata dalla diffusione di ideologie che avrebbero influenzato in modo tragico i destini del Novecento, e quindi in origine presidio identitario contro le minacce esterne, i Giochi (che si svolgono a cadenza quadriennale) rappresentano oggi un significativo momento di incontro non solo interno alle comunità ebraiche ma anche tra comunità, istituzioni e società civile. Inevitabilmente, il fatto di andare in Germania (è la prima volta) arricchisce il significato di questa iniziativa. Lo ricorda Vittorio Pavoncello, presidente del Maccabi Italia, che vede nell'evento «una vittoria del popolo ebraico sulla Storia, a 70 anni dalla Shoah». Berlino eredita il testimone da Vienna, sede dei Giochi nel 2011, in un'ideale fusione tra le due capitali simbolo del Terzo Reich, oggi cuore pulsante di vita e cultura ebraica. Un concetto che sarà ricordato dal presidente federale, Joachim Gauck, che interverrà portando un saluto e offrendo alcune considerazioni a riguardo.

 Discipline
  Duemila i partecipanti al torneo, diciannove le discipline in cui si daranno battaglia nell'arco della settimana di gare. Per la spedizione azzurra, che ha come sponsor Federcalcio e Federazione Italiana Nuoto, le speranze di medaglia sono riposte in particolare nel calcio (sia juniores che senior) oltre che in tennis, pallanuoto e golf. Difenderanno il tricolore, tra gli altri, alcuni nipoti di Testimoni della Shoah. Scenario dei Giochi il parco olimpico. Proprio sotto i cinque cerchi, 79 anni fa, Berlino ospitò la celebrazione della potenza nazista e il trionfo della propaganda di Goebbels. Oggi, al posto delle svastiche, l'area pullulerà di bandiere con la stella di Davide: un'immagine potentissima. «Noi abbiamo vinto e loro hanno perso. E questa scelta, questo contesto così evocativo — dice Pavoncello — sono una conferma di ciò».

(Gazzetta dello Sport, 25 luglio 2015)


Attacco antisemita. Fiano: «Non ho paura di un ex terrorista»

Il «Fronte Palestina» contro il deputato Pd.

«Nessuno si spaventi. Non ci spaventerà un ex terrorista antisemita che farnetica: la democrazia non è per sempre, va difesa ogni giorno, per tutti». Queste le parole di Emanuele Fiano, deputato Pd e candidato alle primarie, dopo l'attacco nei suoi confronti da parte dei promotori della manifestazione del 19 settembre «No Expo No Israele» che annunciando le ragioni della manifestazione hanno scritto tra l'altro del «tentativo di presentare come candidato sindaco di Milano un sionista dichiarato, sostenitore di Israele e dei crimini che ha commesso in questi decenni».
Ieri mattina, infatti alla Camera, Verini del Pd è intervenuto per esprimere solidarietà a Fiano. Nel mirino delle critiche, oltre a Fiano, anche Pierfrancesco Majorino, altro candidato sindaco. La sua colpa? Aver partecipato alla manifestazione del 25 aprile nel servizio d'ordine allestito per proteggere la Brigata ebraica. «Volevo esprimere solidarietà a Fiano scrive Majorino su Facebook - per l'attacco un po' idiota sul suo essere sionista e così via. Poi ho scoperto di essere stato trattato allo stesso modo. E la cosa è abbastanza, come dire, stupefacente. Beh, sono assolutamente felice di aver difeso il diritto della Brigata Ebraica a manifestare il 25 Aprile. Lo rifarei domattina, primarie o non primarie».
«Parole vergognose contro Fiano, scritte da idioti senza alcuna dignità» dice Pietro Bussolati, segretario milanese del Pd. «Il promotore degli insulti a Fiano, nonché in prima linea ad offendere la brigata ebraica fece da palo durante l'omicidio di Walter Tobagi - dice il responsabile cultura del Pd Daniele Nahum - Va bene tutto, però farsi dare degli assassini da uno del genere è quantomeno intollerabile».

(il Giornale, 25 luglio 2015)


La travagliata storia della comunità ebraica in Eritrea

Settant'anni fa sull'altopiano eritreo vivevano centinaia di ebrei, scampati alle persecuzioni in Europa. Ma nel corso del tempo la sinagoga di Asmara si è svuotata. A pregare è rimasto solo un fedele…

di Enrico Casale

 
Ogni giorno varca il grande portone e, in silenzio, si mette a pregare. Ma in quel luogo non incontra solo Dio. Sulle panche vuote rivede uno ad uno, come in una sorta di Spoon River, amici, conoscenti e parenti. Ritrova la storia della sua comunità che, piano piano, è sparita. Lui si chiama Samuel (Sami) Cohen, ha 67 anni ed è l'ultimo ebreo di Asmara.

 Gente in fuga
  È l'erede di una storia che affonda le radici nella cacciata degli ebrei dai possedimenti spagnoli nel 1492. Un piccolo gruppo di loro, invece di fuggire in Marocco, si diresse verso Livorno e Ancona, dove esistevano comunità ebraiche. Da questi porti intrecciarono relazioni commerciali con la sponda meridionale del Mediterraneo. Poi sempre più a sud, fino ad Aden, nello Yemen. Qui, tra il XVII e il XVIII secolo, crearono una base commerciale. Un secolo dopo, a causa delle vessazioni subite dai dignitari musulmani, decisero di lasciare lo Yemen e di trasferirsi a Massaua, località strategica della neonata colonia italiana. Nel 1921 un terremoto rase al suolo la città.
Si rifugiarono ad Asmara, sull'altopiano, dove nel 1905 costruirono una sinagoga. Nel 1936, quando Mussolini lanciò l'offensiva contro l'Etiopia, arrivarono dall'Italia altri fedeli: erano commercianti, imprenditori e militari. Nel 1938, però, il fascismo decise di adottare le leggi razziali. Anche nella colonia iniziò a soffiare il vento della discriminazione.

 La pace ritrovata
  Nel 1941 l'Eritrea passò sotto il controllo britannico e la comunità si ingrandì ulteriormente grazie ai numerosi militari di religione ebraica presenti nelle file dell'esercito inglese. In quegli anni la sinagoga di Asmara si gonfiò di fedeli: oltre ottocento. Il numero iniziò a calare alla fine degli anni Quaranta, quando intere famiglie si trasferirono nel nuovo Stato di Israele.
Con l'avvento del regime comunista di Menghistu, gli ebrei di Asmara vennero nuovamente vessati e molte delle loro proprietà furono espropriate. Iniziò un esodo massiccio verso Israele, Usa, Canada, Gran Bretagna e Italia. «Della vecchia comunità - dice sconsolato Cohen - sono rimasto solo io. Prego tutti i giorni in sinagoga, a volte mi affiancano un paio di funzionari dell'ambasciata israeliana… In Eritrea le varie confessioni religiose convivono in pace. Chiese ortodosse, moschee, chiese cattoliche sono presenti nel centro di Asmara a poche centinaia di metri l'una dalle altre. Le relazioni tra i fedeli sono ottime. Che il Signore ci sia sempre vicino e mantenga questa pace e questa concordia nel tempo!». È l'ultima preghiera del custode della memoria di una storia secolare.

(Africa, 25 luglio 2015)


Una legge contro il boicottaggio di Israele

Al discorso alla Knesset Renzi faccia seguire i fatti. Vedi la Francia.

No al boicottaggio di Israele", ha scandito il premier Renzi alla Knesset, il Parlamento israeliano. Musica per le orecchie dei popoli cosiddetti civili che dovrebbero battersi contro la delegittimazione dello stato ebraico. Ma la musica ha uno spartito. Non basta un tweet o uno speech per fermare il BDS, il movimento per il "Boicottaggio, la Delegittimazione e le Sanzioni" contro Israele. Serve una legge. E Renzi e il ministro Boschi potrebbero imparare dalla Francia, che ha una legge che criminalizza i boicottaggi economici e una che bandisce l'incitamento al boicottaggio. Cardine di questa legge è l'idea che la libertà di opinione sia sacrosanta, ma anche che non possa essere usata per veicolare l'esclusione di un paese e un popolo dal consesso civile. Il BDS è nato a Durban, durante la conferenza dell'Onu contro il razzismo nel 2001 che degenerò in un festival dell'odio per Israele. Da allora ha dilagato in cooperative, fondi pensione, università, giornali, chiese, ong, municipi. Il peso che il BDS potrebbe avere su Israele è stato quantificato, senza considerare il danno morale e di immagine. L'economia di Israele potrebbe perdere fino a 10,5 miliardi di dollari all'anno e migliaia di persone potrebbero perdere il posto di lavoro se il paese fosse soggetto a un boicottaggio internazionale completo, secondo un rapporto del ministero delle Finanze di Gerusalemme. Si tratta di un antisemitismo mascherato che il Centro Wiesenthal ha paragonato alla campagna di Hitler "non comprate dagli ebrei". L'Italia, memore di quando sotto il fascismo si boicottavano i negozi ebraici ("questo negozio è ariano"), deve fare qualcosa di concreto per fermare questo movimento odioso.

(Il Foglio, 24 luglio 2015)


Israele fornisce 16 elicotteri da guerra alla Giordania per combattere l'Isis

Ciò lascia intendere che Amman prevede un impiego intenso per via aerea.

di Maurizio Molinari

 
Droni Cobra israeliani
GERUSALEMME - Israele ha consegnato alla Giordania di re Abdullah 16 elicotteri Cobra per consentirgli di rafforzare la difesa dalle infiltrazioni dello Stato Islamico (Isis) attraverso i confini con Iraq e Siria. Nelle ultime settimane l'intelligence di Amman ha scoperto più volte, in tempo utile, simili tentativi di gruppi armati che sono stati bersagliati ed eliminati.
La Giordania già possiede 25 Cobra ma ne servono altri, da qui il passo di Israele, compiuto con l'avallo del Pentagono trattandosi di apparecchi "made in Usa". Proprio in questi giorni Ash Carter, ministro della Difesa Usa, ha fatto tappa a Gerusalemme ed Amman.
Israele ha consegnato i Cobra gratis, spiegando che alcuni possono essere adoperati anche per estrarre pezzi di ricambio. Ciò lascia intendere che Amman prevede un impiego intenso degli elicotteri d'attacco. Israele aveva due squadroni di Cobra, ognuno di 30 unità, ma sono stati smantellati nel 2005 e 2013 per sostituirli con gli Apache, sempre di produzione Usa.
I Cobra sono in grado di svolgere operazioni di sorveglianza aerea come di attaccare con mitragliatrici pesanti e razzi. Un sistema di difesa anti-missile li protegge da attacchi di armi tipo-Stinger. La fornitura di elicotteri mette in evidenza l'alto livello di cooperazione militare fra Gerusalemme ed Amman contro i jihadisti islamici. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto in pubblico che "la nostra frontiera orientale è con l'Iraq" per sottolineare l'interesse vitale alla stabilità del regno hashemita.

(La Stampa, 24 luglio 2015)


Il Mossad ci avverte: 162 infiltrati in Italia

Ieri altre due espulsioni

di Mirko Molteni

Due nuove espulsioni di sospetti islamisti da Genova e da Varese, ripropongono il tema della sorveglianza antiterrorismo. Sono almeno 17 i «combattenti stranieri» dell'Isis provenienti dall'Italia, parte italiani convertiti all'Islam, parte immigrati. Nel conteggio, alcuni uccisi in combattimento in Siria e Iraq, come il genovese Giuliano Delnevo, ma di molti presunti caduti non v' è certezza' se irreperibili i corpi. Fanno parte del più ampio gruppo di 59 volontari che hanno legami con l'Italia anche solo per transito. Si aggiungono ben 162 infiltrati dell'Isis sul nostro territorio, stando alle «dritte» che il Mossad, il servizio segreto israeliano, ha passato agli 007 nostrani. Lo ha segnalato ieri il Tempo, mentre le espulsioni delle ultime ore confermano una situazione delicata. A Genova il 37enne franco-tunisino Sahbi Chriaa è stato processato per direttissima a un anno di carcere per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Sospetto estremista, era stato arrestato a Lavagna il lO gennaio e nel carcere di Marassi inneggiava alla jihad. Proprio ieri mattina durante l'udienza era giunta alla polizia una telefonata anonima che segnalava una bomba nel tribunale ligure. Falso allarme. Chriaa, definito «indesiderabile», è stato accompagnato dalla polizia alla frontiera di Ventimiglia per essere consegnato ai francesi. Sempre ieri è stato espulso dall'Italia su ordine del ministero degli Interni il figlio 34enne dell'ex-imam di Varese, il noto Abdelmajid Zergout, che secondo l'ordinanza «avrebbe espresso sostegno alle attività del Califfato». In particolare, il marocchino può «essere plagiabile dai terroristi e diventare parte attiva dell'organizzazione» poiché ha frequentato su internet «siti che inneggiano alla jihad esprimendo opinioni favorevoli a quanto sta accadendo in Siria e in Iraq e all'avanzata dello Stato islamico.
  È stato in serata portato all' aeroporto di Malpensa e non potrà rientrare in Italia per molto tempo. Essendo il giovane Zergout sposato a un'italiana e con una vita da lavoratore, la notizia è stata accolta con incredulità a Brunello, dove risiede. La sorella: «Gli dicevo: non credi che scrivendo queste cose avrai dei problemi? Mi rispondeva: Siamo in un Paese democratico. Esprimo la mia opinione». Dalla lista dei sorvegliati, molti nomi rilanciati dalla stampa. Come il30enne calabrese Giampiero F., convertito le cui tracce nel luglio 2014 si perdono a Simak, al confine turco-siriano. Da settembre 2013 ha invece lasciato Brescia per la Siria Anas El Abboubi, che fa parte del gruppo integralista «Sharia for Italy», che sogna la legge islamica a casa nostra. Il bosniaco Ismar Mesinovic, che abitava vicino a Belluno, sarebbe morto ad Aleppo a gennaio 2014, ma non è ancora sicuro. TI convertito Mario S., italiano con passaporto tedesco, ha passato nel luglio 2013 la frontiera fra Bulgaria e Turchia per sparire nel nulla. Transitati dal nostro Paese anche Ayman Ramadan, Abde Irrhamn EInahass, Mohamed Hamrouni.

(Libero, 24 luglio 2015)


Iran - Lisa Billig: Obama ingenuo, realista è Netanyahu

di Maria Elena Ribezzo

Lisa Palmieri Billig
ROMA - "Un accordo in cui si autorizzano i controlli con 24 giorni di preavviso non è un accordo serio", dice, in un'intervista a LaPresse, Lisa Palmieri Billig, rappresentante in Italia dell'American Jewish Committee e corrispondente del Jerusalem Post. "In 24 giorni, gli iraniani possono fare scomparire di tutto". L'accordo sul nucleare tra l'Iran e i 5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio dell'Onu, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia e Cina, più la Germania) è stato concluso il 14 luglio.
Ma Israele non ci sta e accusa, in particolare, gli Stati Uniti e l'Aiea, l'Agenzia dell'Onu per l'energia atomica, colpevoli di aver firmato, a detta del premier Benjamin Netanyahu, una "pessima intesa, che dà il via alla corsa dell'Iran verso l'atomica". Il documento prevede l'annullamento di sette risoluzioni dell'Onu contro l'Iran, non appena l'Aiea avrà verificato che Teheran abbia fatto quanto previsto. Allegati segreti all'accordo pubblico renderebbero però, a parere d'Israele, il monitoraggio degli impianti troppo blando e vago. Inoltre, una clausola dell'intesa implica l'impegno da parte degli Usa e degli altri firmatari ad adoperarsi per "salvaguardare gli impianti nucleari iraniani contro attacchi terroristici, e tentativi di danneggiamento o di sabotaggio esterni".

- L'accordo spiana la strada all'Iran per la bomba atomica, come sostiene Netanyahu, o l'intesa è stata l'approccio più forte che si poteva avere per evitare che Teheran si doti della bomba atomica, come dice Obama?
  
Cerco di essere obiettiva, è una situazione problematica. Condivido i desideri di Obama per la pace, capisco i suoi intenti. Penso però che Netanyahu sia realista e Obama un po' ingenuo. L'Iran continua a minacciare Israele, continua a finanziare il terrorismo in varie parti del mondo. Fino a due giorni prima dell'accordo bruciava in piazza la bandiera israeliana al grido di 'A morte Israele'. Non capisco come ci si possa fidare di un Paese così. Anche molti Paesi arabi sono spaventati.

- Si doveva proseguire con le sanzioni?
  Andando avanti con i controlli, probabilmente l'Iran si sarebbe piegato. La guerra non è dietro l'angolo.

- Si è parlato di contatti del governo israeliano con Hamas. Non è solo l'Iran che dialoga con gli estremisti?
  La diplomazia non è solo quella ufficiale: questo mondo dietro le quinte è sempre stato misterioso. Ci sono stati nella storia contatti tra nemici dei quali siamo venuti a sapere solo molto tempo dopo. Non ho informazioni a riguardo, ma se anche fosse ben vengano, perché se ci sono i contatti, significa che in qualche modo si cerca di ragionare.

- Visto il peso che storicamente l'elettorato della comunità ebraica ha durante le elezioni americane, quali ricadute avrà, secondo lei, l'intesa sulle presidenziali 2016? Quanto le scelte di Obama rischiano di penalizzare il candidato democratico?
  Non bisogna esagerare il peso dell'elettorato ebraico negli Usa. Siamo pochissimi, rispetto ai non ebrei. L'elettorato ebraico non farà la differenza, anche perché gli ebrei americani sono divisi sulla questione, come tutti i popoli. Non tutti condividono le critiche, anzi la maggior parte appoggia Obama.

- Ci sarà secondo lei una contropartita che il governo americano dovrà 'pagare' a Tel Aviv?
  È possibile. Non ho informazioni riservate, ma immagino che se Israele si sentirà minacciata chiederà più aiuti sul fronte della difesa. Se le minacce aumentano, i mezzi di difesa devono essere più sofisticati.

- "La nostra sicurezza è anche quella di Israele", ha affermato il premier italiano Matteo Renzi alla Knesset, difendendo al tempo stesso l'accordo con l'Iran. Che ne pensa?
  Renzi è stato molto caloroso. In Israele, si sono sentiti confortati dalle sue dichiarazioni. Per una volta tanto gli israeliani hanno sentito di avere un grande amico in Europa. Ma con l'Italia c'è sempre stato un buon rapporto in entrambi i sensi.

(LaPresse, 24 luglio 2015)


Nasce a Modena il primo CyberLab sulla sicurezza in collaborazione con la Tel Aviv University

 
Unimore stipula una convenzione con la Tel Aviv University (Israekle) per la realizzazione di un laboratorio di "sicurezza informatica" CyberLab presso il Dipartimento di Ingegneria "Enzo Ferrari" -
   L'accordo, patrocinato dal Ministero degli Affari Esteri, siglato a Tel Aviv il 20 luglio in occasione della visita del Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Stefania Giannini, che ha preceduto l'arrivo nel Paese medio-orientale del Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, ed alla presenza dell'Ambasciatore d'Italia in Israele S.E. Francesco Maria Talò, prevede l'ospitalità di studenti di dottorato, ricercatori e docenti presso l'ateneo modenese-reggiano per condurre ricerche sulle tematiche più avanzate della sicurezza informatica, che ormai coinvolge qualsiasi settore finanziario ed industriale.
   Il recente attacco condotto al computer di bordo di una Jeep Cherokee, che ha portato al controllo a distanza di alcune delle sue funzioni, è solo l'ennesimo esempio di come ogni prodotto ad elevata tecnologia sia vulnerabile tanto da motivare la necessità di strumenti interamente nuovi per garantire robustezza e sicurezza.
   "Tutto il mondo che sta integrando elettronica ed informatica nei sistemi di produzione, controllo, logistica, comunicazione e finanziario sarà soggetto a simili attacchi. E' arrivato il momento - afferma il prof. Michele Colajanni di Unimore, che sarà il Direttore del CyberLab - di ripensare il progetto di tali sistemi dalla base. Non è più accettabile che in certi settori critici, l'informatica continui a produrre sistemi vulnerabili e applicazioni scadenti da aggiornare continuamente, in quanto stiamo mettendo a rischio non solo le carte di credito o le informazioni riservate, ma la stessa sicurezza fisica di intere comunità e dell'ambiente. Come farlo, con quali costi aggiuntivi e con quali garanzie di robustezza saranno tutti temi di interesse e sviluppo per noi del CyberLab".
   Presente all'atto di firma per conto di Unimore il prof. Sergio Ferrari, Pro Rettore e Delegato del Rettore per l'internazionalizzazione, che ha messo in evidenza che "la Tel Aviv University costituisce un'eccellenza mondiale in campo di cybersecurity e rappresenta il centro vitale della cosiddetta start-up nation che Israele rappresenta. Siamo pertanto onorati dal fatto che il primo laboratorio di ricerca congiunto voluto da questa prestigiosa istituzione israeliana possa appoggiarsi sulle competenze presenti nel nostro Ateneo. E' davvero un bel segnale della qualità raggiunta dai nostri ricercatori in questo campo".
   Il CyberLab si rivolge al futuro, a un mondo che presto sarà costituito da 5 miliardi di persone connesse e 50 miliardi di oggetti che interagiranno tra loro mediante Internet. Tale scenario influenzerà radicalmente tutta la società e il modo produttivo. Pertanto, il prof. Alessandro Capra, Direttore del DIEF di Unimore, si dimostra molto soddisfatto dal risultato raggiunto e dal fatto che il laboratorio trovi sede all'interno del Campus di Ingegneria di Modena "Il nostro Dipartimento - afferma il prof. Alessandro Capra -, che ha raggiunto e raccolto significative competenze in diverse aree industriali, ambientali, elettroniche e informatiche, è l'ambito più adatto ad ospitare e far crescere un laboratorio che si occupa di tali tematiche trasversali, e lo faccia in modo innovativo. Attorno a questo nucleo saremo lieti di ospitare anche ricercatori di altre aree dell'Ateneo, che ci aiuteranno ad affrontare in modo multi-culturale le sfide sempre più complesse che ci attendono".
   Oltre alla possibilità di ospitare ricercatori della Tel Aviv University, l'intesa raggiunta prevede la possibilità di promuovere collaborazioni per corsi di formazione, summer school e la partecipazione congiunta a progetti di ricerca internazionale.

(Modena2000, 24 luglio 2015)


La campagna BDS per il "diritto al ritorno" è il peggior nemico della pace

Decine di milioni di profughi (compresi i profughi ebrei) non hanno mai esercitato un "diritto al ritorno". Perché dovrebbe essere diverso per i palestinesi?

Un secolo fa mia nonna arrivava in Israele da Sana'a, nello Yemen. Non sapeva niente della "Palestina" perché a quel tempo questa entità non esisteva. Quello che esisteva allora era l'Impero Ottomano. Mia nonna è scappata perché era rimasta vedova e, se fosse rimasta nello Yemen, mio padre, che allora era un bambino, sarebbe stato costretto a convertirsi all'islam. Mi sono tornate in mente queste cose quando ho letto in un'intervista a Le Monde le parole di Omar Barghouti, uno dei promotori del movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele), a proposito degli ebrei nei paesi arabi. Ma Barghouti ha la più pallida idea di ciò di cui sta parlando? Davvero non sa nulla dei secoli di discriminazioni e persecuzioni? Ha idea dei tanti pogrom e delle calunnie del sangue da parte dei musulmani contro gli ebrei prima che esistesse il sionismo e prima della nascita di Israele?...

(israele.net, 24 luglio 2015)


Giordania: arrivati in riserva i cuccioli di leone salvati a Gaza

Salvati dalla casa di un rifugiato palestinese, Mona ed Alex, così sono stati chiamati i due cuccioli di leone, sono arrivati nella loro nuova casa, la riserva di fauna selvatica in Giordania.

di Valentina Ferrandello

I cuccioli di leone salvati all'inizio di Luglio a Gaza sono giunti nella loro nuova casa, la riserva di fauna selvatica in Giordania.
Nei primi giorni di Luglio i due cuccioli, di sette mesi ciascuno, erano stati ritrovati nella casa di un rifugiato palestinese in cui non avevano le necessarie cure e spazi per la loro sopravvivenza, secondo quanto ha dichiarato Mahdi Quatrameez, il capo esecutivo del Ceo della sede ad Amman del Al Ma'wa per la natura e la fauna selvatica. I due cuccioli è stato dato il nome di Alex e Mona, sono in bona salute, molto attivi, giocano e si divertono fra di loro assistiti dai volontari del centro di Amman che si occuperanno di loro.

(MeteoWeb.eu, 24 luglio 2015)


Torna la Giornata della Cultura Ebraica, tanti ponti tra i saperi

Il 6 settembre mostre e degustazioni in tutta Italia, capofila Firenze.

di Silvia Lambertucci

ROMA - A Roma, tra i tanti appuntamenti, anche una passeggiata da Ponte Rotto a Ponte Garibaldi insieme ad esperti e artisti di strada. A Venezia un concerto in Campo del Ghetto Nuovo con la Musica dal Mare. A Livorno un workshop sul couscous.
   Torna il 6 settembre la Giornata della Cultura Ebraica con mostre, conferenze, spettacoli, visite guidate, degustazioni anche in 32 paesi del vecchio continente e 72 località italiane, capofila quest'anno Firenze. E il tema, per il 2015, è quello dei 'ponti e attraversaMenti' (con il gioco della M maiuscola) tra culture e saperi. "Un'occasione per scoprire un assaggio di una cultura antica e aperta al mondo", sottolinea il presidente delle comunità ebraiche italiane (Ucei) Renzo Gattegna.
   Il via dalla Sinagoga di Firenze, tra le più belle d'Italia, con l'inaugurazione ufficiale della Giornata alla presenza di esponenti delle istituzioni, della società civile e dell'ebraismo italiano. Una occasione per ribadire, in tempi difficili e conflittuali, la necessità di amicizia e incontro tra diverse culture, identità e fedi, spiegano dall'Unione delle comunità. Tant'è, i programmi di molte città sono ancora in fieri, ma gli eventi in elenco per la giornata, dalla Sicilia al Trentino Alto Adige, sono già tantissimi, con un tripudio di occasioni per entrare in luoghi e monumenti anche meno conosciuti, riflettere, scoprire sapori nuovi.
   A Palermo per esempio si può approfittare (su prenotazione) di una visita guidata della Giudecca, compresi l'ipogeo di Palazzo Marchesi e l'Aula Damiani Almeyda, l'antica area sinagogale.
   A Trani, oltre all'apertura al pubblico della Sinagoga Scolanova, una conferenza su Abramo padre delle genti con relatori di diverse università.
   A Santa Maria del Cedro, in Calabria, un'intera giornata con la visita guidata dell'opificio cinquecentesco e visite alle cedriere, incontri, dibattiti, musica, film e naturalmente degustazioni e buffet a base di cedro.
   A Torino sarà una conferenza del rabbino capo Ariel di Porto di Franco Segre, consigliere al Culto, ad introdurre il tema dei ponti, seguito da mostre, visite guidate delle tre Sinagoghe, vendita di libri, per finire con una serata musicale 'Ponti, legami e commistioni musicali', a cura di Eyal Lerner.
   A Sabbioneta, in Lombardia, oltre alle visite guidate e all'esposizione di una antica Torah, un viaggio immaginario tra Sefarad e lo Shtetl attraverso la musica con il gruppo Le Haim.
   A Bologna la fiera del libro ebraico, ma anche una serie di itinerari da scoprire, mostre, degustazioni di dolci e biscotti kasher.
   A Ferentino, nel Lazio, una mostra sui 'Documenti matrimoniali e di nascita' messa a disposizione dal centro ebraico italiano Il Pitigliani.
   "Gettare ponti, favorire momenti di incontro e confronto, in un periodo storico difficile e complesso come questo è estremamente importante - fa notare Gattegna -. Per contrastare, quantomeno idealmente, coloro che della persecuzione della diversità fanno una bandiera e una distorta 'missione', scagliandosi contro libertà e diritti e macchiandosi di terribili violenze. E per alimentare gli indispensabili anticorpi contro i germi del razzismo, dell'antisemitismo e del rifiuto per il 'diverso' e per lo 'straniero'".

(ANSAmed, 23 luglio 2015)


L'UE si oppone alla demolizione dell'insediamento illegale di Susya

Khirbet Susiya (Susya), originariamente antico villaggio ebraico a sud delle montagne della Giudea, sede di una antica sinagoga; è oggi situato nella zona C del West Bank, che gli Accordi di Oslo sottoscritti nel 1993 fra israeliani e palestinesi assegnano alla piena giurisdizione di Gerusalemme. Che è pertanto responsabile della pubblica sicurezza e dell'amministrazione civile; che include la possibilità di edificarvi, in virtù delle esigenze della popolazione.
Susya ospita oggi circa 1000 individui: 250 palestinesi e circa 750 coloni ebraici, ivi insediativisi nel 1983. Nel tempo parte del villaggio ha conosciuto un'espansione caotica ed incontrollata, a causa della componente araba della popolazione che ha edificato senza disporre dei necessari permessi. Il governo israeliano ha disposto la demolizione delle costruzioni abusive, malgrado l'opposizione di diversi governi, fra cui quelli di Stati Uniti ed Unione Europea; e il trasferimento della popolazione nell'insediamento di Yatta, vicino Hebron. Il mese scorso una delegazione europea ha visitato Susya, accompagnata dal capo del governo di Ramallah....

(Il Borghesino, 23 luglio 2015)


Maccabi, i giochi ebraici sbarcano a Berlino per un evento storico

di Vittorio Pavoncello*

 
Dopo 70 anni dalla fine della II Guerra Mondiale, dal tentativo della Germania nazista e dei suoi alleati, di annientare, di eliminare il Popolo ebraico dalla faccia della terra, proprio a Berlino si svolgeranno i XIV Giochi Europei Maccabi.
  Oltre 2.000 atleti ebrei da 36 Paesi del mondo, torneranno a gareggiare negli stessi luoghi dove fu loro vietato di partecipare.
  Io sono un uomo molto fortunato, non solo perchè nel 2007 organizzai a Roma i XII Giochi Europei Maccabi, il più grande evento ebraico mai organizzato in Italia, ma anche perchè avrò l'onore di guidare la Delegazione Italiana a questo importantissimo appuntamento, così pieno di significati.
  Sfileremo e cammineremo per le strade di Berlino non più con l'offensiva e distintiva Stella Gialla "Jude", cucita sul petto, ma fieri e orgogliosi con il Maghen David, simbolo del Maccabi e dello Sport ebraico.
  Subito mi viene in mente mio nonno, Vittorio Pavoncello, chiamato Pippo er boia, per la sua bontà, ucciso appena sceso dal treno della morte a Birkenau.
  Penso ad Angelo Calò Lupetto tornato dai campi di sterminio ma mai completamente guarito dentro. Grande appassionato di Sport, sfidò la dirigenza Maccabi e mi portò in Israele con la squadra di calcio e giocare per l'Italia, per poi affidarmi sua figlia, mia moglie Marina. Non volle mai, però, parlarmi della sua prigionia.
  Vedo Raimondo Di Neris, indomito antifascista, allenatore di quella Stella Azzurra, squadra di calcio romana, composta da sopravvissuti ai lager, capace di vincere i campionati, zì Raimondo spese la sua vita, fino all'ultimo giorno, a combattere l'antisemitismo.
  Poi I campioncini della Stella Azzurra come Ciccio Bozambo Moresco, capace di fare 2 goal alla Roma, durante un provino e andare via dicendo che con i suoi amici si divertiva di più e che avrebbe guadagnato di più giocando a carte nelle bische.
  Altri atleti come Alberto Mieli Pucchio e Michele Sugone. I primi "professionisti" della squadra del Ghetto. Loro la domenica dovevano lavorare al mercato di Porta Portese e i compagni, pur di averli in squadra, si tassavano e pagavano loro la giornata di lavoro che avrebbero perso.
  Alberto Mieli, zio Pucchio, accese il braciere che diede inizio ai Giochi Maccabi di Roma del 2007.
  Come fosse un sogno, per averla immaginata milioni di volte, vedo l'immagine di Leone "Lelletto" Efrati pugile, che il 28 dicembre 1938 sfidò in USA, per la scalata al titolo mondiale dei pesi Piuma, Leo Rodak, pareggiando. Proprio in quel periodo in Italia entravano in vigore le Leggi razziali, Leone rifiutò l'ospitalità degli USA e tornò in Italia, per essere deportato ad Auschwitz, dove i suoi aguzzini, dopo il lavoro massacrante che era chiamato a fare, lo facevano combattere.
  Quando seppe che alcuni kapò, avevano ridotto in fin di vita il fratello, anche lui deportato, volle farsi giustizia da solo, ma fu massacrato di botte e lasciato per terra moribondo, era il 16 aprile del 1944.
  Lazzaro Anticoli Bucefalo, pugile, dal nome del cavallo di Alessandro il Grande, per quanto fosse grosso e fiero,fu strappato alla sua famiglia per trovare la morte nei campi di sterminio, dopo aver opposto strenua resistenza.
  Rubino Romeo Salmoni, scampato perchè era un simpatico italiano che cantava sempre col sorriso, ma con una rabbia e una voglia di vivere più forte dell'annientamento fisico e mentale dei suoi persecutori, ora è in cielo a fornire di cuscinetti mio padre, per costruire i mono pattini dei bambini del Paradiso.
  Rubino Di Segni "Ruenne", il primo ad accorgersi della razzia del 16 ottobre, il quale allertò gli abitanti del "Portonaccio" al 13 di Portico d'Ottavia, facendoli fuggire per i tetti del Ghetto.
  Tutti loro saranno con noi il 28 luglio a Berlino al Waldbuhne all'Olimpia Park.
  Noi saremo lì, sfileremo con le nostre divise, noi diremo al mondo che Hitler è stato definitivamente sconfitto, noi urleremo che un mondo di fratellanza e tolleranza è possibile.
  Noi grideremo che il Popolo di Israele è vivo e questo sarà il nostro riscatto.

* Presidente Maccabi Italy

(Il Messaggero, 23 luglio 2015)



Sei contro le nozze arcobaleno? Rischi il posto e l'obbrobrio morale

Arriva la dittatura morbida della gay culture.

ROMA - La domanda è dell'Atlantic: "Cosa viene dopo le nozze gay?". La risposta è di Damon Linker su The Week "Il matrimonio gay ha vinto e ora viene la parte più difficile: proteggere la libertà religiosa". Vinta la battaglia politica a favore delle nozze arcobaleno in America e praticamente in tutta Europa, adesso la militanza LGBT (Lesbian Gay Bisexual Trans) prepara l'offensiva culturale in uno scenario che avrà esiti certamente anche in Italia dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Al centro del dibattito c'è una torta bianca, cremosa, a tre piani e una coppia dello stesso sesso in miniatura che si bacia. Costringere i pasticcieri a sfornare queste torte gay non è più evidentemente grottesco. Prima è successo in Irlanda, dove alcuni pasticcieri sono a processo per essersi rifiutati. In America il caso più clamoroso è quello di Aaron e Melissa Klein, condannati dallo stato dell'Oregon a pagare 135 mila dollari per "danni emotivi" a una coppia di lesbiche che aveva chiesto una torta. I Klein si sono rivolti al fundraising per far fronte alle spese legali. E di dollari ne hanno raccolti 375 mila. Il triplo di quelli che servivano. Perché la battaglia dei pasticcieri tira in ballo qualcosa di più della panna montata. Riguarda la libertà di coscienza e ottocento anni di pensiero occidentale, Spinoza, Kant, Locke e Mill.
   Se lo chiede questa settimana l'Economist, giornale non certo beghino: "I pasticcieri religiosi devono realizzare le torte gay?". Se Coca-Cola, American Airlines e Kellogg, per citare tre grandi corporation, hanno fatto campagna per la sentenza pro gay della Corte suprema, lo small business è sulle barricate a difesa della libertà di parola. Sia esso un pasticciere, un fioraio, un fotografo o un catering. A New York, un'azienda famigliare di ristorazione si è rifiutata di servire a un matrimonio gay e rischia conseguenze penali serie. Un fioraio di Washington potrebbe subire il sequestro dei conti bancari per garantire il pagamento dei futuri danni e chiusura del negozio.
   Il Wall Street Journal la chiama "la nuova intolleranza". Perché come scrive Roger Pilon del Cato Institute, "un conto è non discriminare le coppie omosessuali, altra cosa è costringere individui e organizzazioni" a uniformarsi al pensiero unico. Al Congresso c'è già un disegno di legge a tutela della libertà di coscienza, mentre c'è chi, come l'esperto di religione del New York Times Mark Oppenheimer, chiede già la fine della tassazione privilegiata per le organizzazioni religiose. Benemerite charities cristiane come World Vision e le scuole cattoliche potrebbero perdere i sussidi federali se non rinunciassero alle loro clausole a sostegno del matrimonio naturale. La posta in gioco è alta: a professarsi favorevoli alla famiglia uomo-donna sul luogo di lavoro si rischia la galera o, come minimo, una multa salata. Di sicuro c'è l'obbrobrio morale. Lo ha spiegato il commissario al Lavoro dell'Oregon, Brad Avakian, intervenendo sui coniugi Klein. Lo scopo "non è di chiudere un negozio. Lo scopo è di rieducare: per coloro che violano la legge vogliamo che imparino da quell'esperienza". Rieducare, appunto. E' la dittatura morbida della gay culture.
   
(Il Foglio, 23 luglio 2015)


Pacifismo e transessualismo hanno assunto l'arcobaleno come loro simbolo comune. Il primo movimento è la base "morale" di innumerevoli organizzazioni anti-israeliane; il secondo sembrerebbe invece appoggiare Israele, nazione oggi aperta agli omosessuali di ogni tipo, ma è un inganno. L'arcobaleno oggi è un simbolo diabolico con cui gli uomini esprimono la loro aperta ribellione a Dio. Al Dio creatore nel transessualismo e al Dio legislatore nel pacifismo anti-israeliano. M.C.


Quella campagna lanciata dalle Ong per isolare lo Stato ebraico

di Maurizio Molinari

Denunciando il boicottaggio di Israele dal podio della Knesset, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha indicato una ferita nei rapporti fra Europa e Stato ebraico. Si tratta della campagna «Bds» - Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni - lanciata dieci anni fa da un network di Ong palestinesi e riuscita a contagiare più Paesi dell'Unione europea. La mente del «Bds» è Omar Barghouti, autore del libro «Boycott, Divestment, Sanctions», da cui il movimento trae i tre obiettivi: diritto al ritorno di tutti i profughi palestinesi; equiparazione dei diritti degli arabi-palestinesi d'Israele agli altri cittadini e fine di «occupazione e colonizzazione delle terre arabe da parte di Israele».

 L'ispirazione
  «Ci ispiriamo al movimento anti-apartheid contro il Sudafrica razzista» ha scritto Barghouti in un articolo-manifesto, puntando a mobilitare singoli, organizzazioni e Stati contro «la giudaizzazione di Gerusalemme, Galilea, Valle del Giordano e Negev». È una campagna cresciuta coinvolgendo Ong, europee e non, cogliendo risultati in Paesi come l'Irlanda, dove 140 accademici e 250 artisti hanno aderito, e la Danimarca, con la decisione della «Danske Bank» di interrompere i rapporti con la «Bank Hapoalim», maggiore banca israeliana. E in Scandinavia la mobilitazione contro l'azienda israeliana «SodaStream» ha portato a far smantellare l'impianto di Mishor Adumim, in Cisgiordania, trasferendolo nel Negev.
  Lo studioso israeliano Gerald Steinberg, che ha approfondito il fenomeno, parla di un «nuovo antisemitismo attraverso le Ong» spiegando che «accusare tutta Israele di crimini di guerra e apartheid ha poco a che vedere con la soluzione dei due Stati» anche perché «gli obiettivi del "Bds" e quanto afferma Barghouti chiamano in causa territori di Israele all'interno dei confini pre-1967». «Promuovendo il rispetto dei diritti umani, "Bds" demonizza Israele» sottolinea Steinberg.
  E l'Istituto di studi sulla sicurezza nazionale di Israele, in un rapporto, afferma che il «Bds» «è impegnato a descrivere lo Stato ebraico come razzista e totalitario» al fine di colpire «obiettivi diplomatici, economici, accademici e culturali» con l'«incitamento all'odio». Il timore di Israele è che il «Bds» possa cogliere un successo di rilievo se l'Unione europea deciderà di etichettare i prodotti provenienti dagli insediamenti, indicando «West Bank». Un rapporto del governo, rivelato da «Calcalist», prevede in tal caso danni annuali all'economia per 1,4 miliardi di dollari.

 La controffensiva
  È tale pericolo che ha spinto il viceministro degli Esteri, Tzipi Hotovely, a rivolgersi, proprio ieri, all'Ue per chiedere di «porre fine al finanziamento delle Ong che sostengono il "Bds"». Si tratta ad esempio della «Coalition of Women for Peace» (Cpw), creata in Israele, che ha promosso l'offensiva contro «SodaStream» come le azioni, in più Paesi, contro banche israeliane e la compagnia idrica Mekorot accusandole di «sostenere gli insediamenti». Per «Ngo Monitor» la «Cpw» ha ricevuto fondi da Paesi Bassi, Spagna, Germania, Irlanda, Canada e Ue con i maggiori aiuti arrivati da «Oxfam Novib», ramo olandese di «Oxfam International», a cui l'Aja versa «decine di milioni di euro ogni anno».
  Sebbene Oxfam neghi ogni coinvolgimento, Israele ritiene che sia un sistema di scatole cinesi per raccogliere ingenti fondi e «continuare con nuovi mezzi la campagna di boicottaggio - termina Steinberg - che gli Stati arabi iniziarono nel 1948 e vide nel 2001 il Forum delle Ong alla Conferenza di Durban adottare tale strategia per ottenere il completo isolamento di Israele».
SCHEDA

(La Stampa, 23 luglio 2015)


Rettori italiani in missione in Israele

Tra il 20 e il 23 luglio 2015, una delegazione di rettori, prorettori e delegati dei rettori delle Università italiane (Ca' Foscari Venezia, Brescia, Roma Tre, Padova, Milano-Bicocca, Trieste, Roma Tor Vergata, Politecnico di Torino, Politecnico di Milano, Verona, Catania, Cassino, Cagliari, Bergamo e Parma) è in visita in Israele. La missione, promossa dalla Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e dal Ministry of Foreign Affairs dello Stato di Israele in collaborazione con l'Ambasciata italiana in Israele, prevede l'incontro con tutti i principali attori dell'ecosistema dell'innovazione e del trasferimento tecnologico che hanno trasformato il piccolo Paese mediorientale in una vera e propria Start-up Nation.



1 - Ecco perché in Israele il technology transfer funziona davvero

Visita a Yissum, il centro che deve trasferire alle aziende le ricerche sviluppate nei laboratori della Hebrew University of Jerusalem

di Paolo Gubitta

 
L'Exelon è il farmaco che rallenta il decorso dell'Alzheimer, permettendo ai pazienti di poter recuperare alcune funzioni cognitive. I pomodorini a grappolo (o ciliegino), che in Italia sono associati alla cittadina siciliana di Pachino, mantengono inalterate le caratteristiche per 2-3 settimane dopo la raccolta e così è più semplice venderli sugli scaffali dei negozi di tutto il mondo. Mobileye è un occhio elettronico che assiste chi guida un'auto, avvisando in tempo reale della presenza di ostacoli o situazioni pericolose, riducendo in tal modo i rischi di collisioni e incidenti. Oltre al fatto di migliorare in vario modo la vita di tutti noi, queste innovazioni così diverse tra loro in realtà hanno un paio di cose in comune. La prima è che le invenzioni e le scoperte su cui si basano sono state concepite da studiosi israeliani nei laboratori della The Hebrew University of Jerusalem. La seconda è che la loro trasformazione in autentiche «galline dalle uova d'oro» è stata accompagnata e guidata da Yissum, il centro dedicato al trasferimento tecnologico dell'Università che ha sede a Gerusalemme [1].
  Si potrebbe sbrigativamente liquidare la questione ricordando che in Israele le Università sono immerse in un ecosistema dell'innovazione che agevola il trasferimento tecnologico e che, quindi, è impossibile portare quel modello in Italia. Queste argomentazioni sarebbero corrette e condivisibili, e ad esse io aggiungerei anche che noi non abbiamo né il tempo né le risorse per rincorrere il modello israeliano e che dovremmo invece definire in breve tempo una via originale e sostenibile per recuperare il gap. Ma non è questo il nocciolo della questione. L'artefice dei successi nel campo dell'innovazione della The Hebrew University of Jerusalem è Yissum. Bisogna entrare nei suoi processi strategici e organizzativi per trarre qualche indicazione sulle pratiche manageriali virtuose, che a differenza dei modelli istituzionali, possono essere trasferite con maggiore facilità. Eccole.

 Le tre caratteristiche
  Yissum è una società autonoma, ha l'università come ha socio di maggioranza, ma sul piano gestionale è indipendente e adotta le pratiche manageriali tipiche delle imprese private. Non si tratta di un modello «buono a prescindere» [2], ma di una scelta strategica che nel caso specifico rende Yissum più flessibile. Yissum ha un organico intorno alle 40 persone, divise nelle varie aree aziendali per coprire tutto il percorso che porta una buona scoperta a diventare un prodotto o servizio in grado di produrre molta ricchezza: dallo scouting alla cura della proprietà intellettuale, dall'individuazione dei mercati di sbocco alla ricerca dei partner migliori per far decollare l'idea. Yissum «ha pazienza», nel senso che adotta orizzonti temporali di medio lungo termine e supporta gli scienziati-innovatori durante tutto il percorso di sviluppo, anche quando quest'ultimo è lungo e ambiguo, come sempre succede con le innovazioni dirompenti. Yissum è molto selettivo e si prende cura solo di scoperte e invenzioni che hanno un potenziale sul mercato. La presa in carico è preceduta da un'approfondita analisi dei possibili sviluppi, delle applicazioni e del commitment del gruppo di ricerca. Se non viene superata questa fase, l'aspirante innovatore deve cercarsi altri interlocutori per realizzare la sua idea. La severa selezione in ingresso, da un lato aumenta le probabilità di successo e dall'altro permette anche di adottare schemi di ripartizione dei risultati economici dell'innovazione, che soddisfano tutte le parti coinvolte (i ricercatori leader, il team di ricerca che li supporta e Yissum che trasforma l'invenzione in innovazione). Per concludere, è bene anche ricordare che la The Hebrew University of Jerusalem è un'università generalista che ha anche numerose facoltà in area umanistica e sociale: è stata fondata nel 1918, ma già nel 1964 pensò di aprire Yissum [3]. Insomma, conta anche la lungimiranza delle decisioni.

[1] Il fascicolo "Innovators Way" della The Hebrew University of Jerusalem, in realtà, indica ben 23
     innovazioni dirompenti in termini di risultati di mercato e, forse, l'elenco non è esaustivo
[2] Le unità dedicate al trasferimento tecnologico in altre Università israeliane hanno strutture istituzionali
     diverse.
[3] La creazione dei servizi a supporto del trasferimento tecnologico del Weizmann Institute of Science
     (Yeda) e della Tel Aviv University (Ramot) risale rispettivamente al 1954 e al 1973


* Università di Padova e CUOA Business School

(Corriere Innovazione, 21 luglio 2015)

*

2 - Israele, le startup e gli investimenti in ricerca di base

Anche nella «Startup Nation» la ricerca è un tema di base: dai laboratori al mercato almeno servono almeno 10 anni. Ma la pazienza paga, come nella formazione. E i nostri studenti ne sono un esempio.

di Riccardo Pietrabissa*

 
L'incontro tra rettori e ricercatori
Israele si dichiara «Startup nation» e infatti non è un paese di grandi imprese o di multinazionali. La sua forza è quella di trasformare risultati della ricerca scientifica in nuove imprese che sviluppano processi e prodotti innovativi. Le nuove imprese vengono messe sul mercato e acquistate da grandi imprese straniere che spesso aprono propri centri di ricerca e sviluppo in Israele, proprio come conseguenza delle acquisizioni. Questo processo produce investimenti stranieri e una importante quota di questi sono diretti alla ricerca universitaria. E' noto che le grandi imprese tecnologiche fanno in proprio lo sviluppo di processi e prodotti, ma non la ricerca per nuova conoscenza da applicare. Questa resta un tema universitario in tutto il mondo. Il modello di relazione tra impresa e università si fonda quindi sull'innovazione basata su nuova conoscenza che nasce dalla ricerca, anche di base. L'esigenza che i laboratori e la ricerca universitaria siano utilizzati per risolvere problemi tecnologici contingenti delle imprese è residuale.

 I tempi lunghi della ricerca
  La visione della ricerca è, anche qui in Israele, nelle università della Startup nation, un investimento di medio/lungo periodo. La prospettiva è che la buona ricerca non raggiunga il mercato prima di dieci anni. Ma cosa si intende per ricerca di base, ricerca fondamentale, nuova conoscenza? Un buon parallelismo si può fare con la formazione universitaria degli studenti. Molti criticano l'impostazione della nostra didattica che ha ancora un approccio «teorico» e poco «applicato». Ma è vero che questo sia un difetto da correggere? Lunedì sera, a cena dall'Ambasciatore d'Italia in Israele, Francesco Maria Talò, erano stati invitati molti giovani italiani che studiano in Israele e si specializzano con corsi di dottorato di ricerca. Tutti hanno dichiarato che, contrariamente alle loro aspettative, la loro preparazione universitaria si è rivelata mediamente migliore, in alcuni casi molto migliore, rispetto a quella dei loro compagni di altri paesi incontrati qui nelle università israeliane. La loro preparazione li abilita a imparare facilmente e a diventare operativi nei centri di ricerca internazionali più rapidamente e efficacemente degli altri. Loro hanno capito che hanno gli strumenti adatti per affrontare temi e problemi per loro nuovi.

 Orgoglio e classifiche
  E' di questi giorni la pubblicazione di alcune classifiche delle università del mondo, le israeliane sono in ottima posizione, davanti alle italiane. Certamente se si misurassero i risultati rispetto alle risorse investite l'Italia sarebbe ai primi posti nel mondo. Ma anche così i nostri laureati sono fra i più ambiti, in tutte le discipline. Ancora una volta quindi il nostro modello formativo e la nostra ricerca si dimostrano un grande valore del nostro paese, nel mondo. Purtroppo occorre uscire di casa per verificarlo. E' strano che nel nostro paese non sia evidente come per fare del buon vino occorra iniziare con la coltivazione dell'uva. L'abbiamo insegnato noi a tutto il mondo ma sembra che lo abbiamo dimenticato.

* Politecnico di Milano e Università degli Studi di Brescia

(Corriere Innovazione, 22 luglio 2015)


*

3 - La lezione di Israele: a ciascuno il suo mestiere

Come l'Università può davvero contribuire allo sviluppo economico dell'Italia sfruttando gli asset che già ha.

di Annalisa Bonfiglio*

 
Il ministro Giannini al tavolo interistituzionale
Il tour nei centri di ricerca e trasferimento tecnologico delle principali Università Israeliane è quasi al termine ed è giunto il momento di fare qualche bilancio. La prima lezione imparata è che una strategia di trasferimento tecnologico di successo non si improvvisa nel giro di poco, seppure le startup vivano, quasi per definizione, in un vortice di accelerazione. Qui i centri di trasferimento tecnologico sono nati diverse molte decine di anni fa e il numero di brevetti in loro possesso nonché i ritorni economici da essi generati per le Università stesse si misurano rispettivamente in migliaia e in centinaia di milioni di dollari. Tuttavia, il modello israeliano può essere una buona fonte di ispirazione per noi, persino, e anzi, forse a maggior ragione, per quelle regioni, dove lo spirito dell'imprenditore non si assorbe con il latte del biberon.

 Il ruolo delle Università
  Nel modello israeliano, le Università sono al centro, pur occupandosene attraverso delle società partecipate, di due attività che si svolgono su scale temporali molto diverse: 1) da un lato la tutela della proprietà intellettuale, che richiede tempi lunghi e investimenti pesanti; 2) dall'altro la promozione delle startup, in cui si seleziona una tecnologia e si sviluppa un prodotto in tempi brevissimi. La seconda si nutre necessariamente della prima e l'Università necessariamente partecipa ad entrambe. La ricetta che l'Università Italiana può seguire, adattandola alla propria realtà, è quella di puntare ancora una volta sul suo prodotto più importante, quello che a torto non entra nel computo dei ranking, ma che, se fosse considerato, ci farebbe risalire sicuramente di molte posizioni: questo prodotto sono i laureati, che seppure in numeri considerati insufficienti, l'Università Italiana continua a sfornare con livelli di qualità ovunque considerati eccellenti e quasi inevitabilmente a mandare all'estero dove ci sono realtà più pronte della nostra ad accoglierlo. Nella presentazione delle attività di promozione delle startup presso la Tel Aviv University e anche presso il Technion di Haifa, questo concetto è stato più volte sottolineato: l'asset primario su cui tutte le Università possono contare sono i loro laureati e se si vuole perciò stimolare lo sviluppo e la creazione di nuove imprese, la mentalità imprenditoriale va trasmessa agli studenti. Contemporaneamente, l'Università attraverso la ricerca generata al suo interno produce un potenziale economico elevatissimo, ma è un errore pensare che lo possa gestire e valorizzare in modo diretto, per tramite dei suoi ricercatori. È una lezione importante da imparare: in Italia negli ultimi anni, si sono fatti nelle università dei tentativi di trasformare la ricerca in impresa attraverso la creazione di spinoff companies gestite dagli stessi ricercatori. Nella stragrande maggioranza dei casi l'obiettivo non è stato centrato. Non è difficile capire perché: la ricerca è un mestiere profondamente diverso dall'imprenditoria e richiede attitudini praticamente opposte. L'errore è puntare sulla sola idea (la tecnologia e le sue potenzialità di exploitation) senza considerare il capitale umano. Dobbiamo invece capire che la strada è un'altra ed è quella di formare prima il capitale umano, e poi fornirgli la tecnologia. È solo da questo connubio che nasce l'innovazione. Perciò l'Università è il motore di questa azione, perché da un parte ha il capitale umano (gli studenti, che possono essere selezionati in base alla loro «vocazione imprenditoriale» e formati in modo mirato) e dall'altra ha le tecnologie, frutto maturo di una ricerca di qualità che a dispetto della scarsa consapevolezza da parte dei cittadini e degli stakeholder, viene prodotta principalmente nelle Università. Così hanno fatto e stanno facendo in Israele.

 L'ecosistema
  Chiaramente questa visione va poi implementata ed è qui che nasce l'esigenza per l'Università di far parte di una rete, di un cosiddetto ecosistema, che comprenda molti attori: le politiche locali e nazionali, i capitali privati, il mondo dei servizi, e, non ultima, l'opinione pubblica, che va aiutata a capire, coi fatti, che la cultura è la base di un paese avanzato, che non esiste ricerca di base e ricerca applicata ma solo ricerca di alto e di basso livello, che la ricerca costa ma non più di quanto costi formare studenti per 20 e più anni e poi lasciarli andare altrove, o essere costretti a dipendere dai brevetti altrui. È così, che sfruttando il vantaggio competitivo unico che la nostra storia e le nostre tradizioni ci danno (e che, questo sì, assorbiamo con il latte del biberon) l'Italia può provare a ripartire e a dare corpo ad un futuro che torni a farci sentire orgogliosi.

* Pro-rettore all'Innovazione e ai Rapporti con il Territorio, Università di Cagliari

(Corriere Innovazione, 23 luglio 2015)


Netanyahu dice 'Basta' in italiano all'antisemitismo

"Basta" all'antisemitismo, al boicottaggio di Israele e all'ostilità contro lo Stato ebraico. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, rivolgendosi al presidente del Consiglio Matteo Renzi, ha pronunciato questa parola in italiano, invitandolo a "stare al fianco di Israele in questa lotta". Netanyahu ha citato l'Olocausto e le sei milioni di vittime della Shoa. "Voglio pregarti di stare fermamente al nostro fianco contro l'antisemitismo", ha aggiunto, concludendo che "l'antisionismo è antisemitismo".

(LaPresse, 22 luglio 2015)


Tutti a Teheran: la corsa dei tedeschi, poi francesi e italiani

L'Europa si muove dopo l'accordo sul nucleare. Una fretta che a Israele non piace.

di Viviana Mazza

Tutti a Teheran. I primi ad arrivare, domenica scorsa, sono stati i tedeschi con la visita del vicecancelliere e ministro dell'Economia Sigmar Gabriel accompagnato da un'ampia delegazione di imprenditori. La prossima settimana sarà la volta di Parigi: Laurent Fabius è il primo ministro degli Esteri francese in dodici anni ad atterrare a Teheran - senza imprenditori: la missione della Medef, la Confindustria francese, è prevista per settembre. L'aver scelto la linea dura nei negoziati sul nucleare - hanno chiesto a Fabius - non danneggerà ora le aziende francesi che vogliono fare affari con l'Iran? No, ha assicurato il ministro, «perché in passato avevamo una forte presenza nel Paese» (con Peugeot e Total per esempio).
  Il 4 e il 5 agosto, arrivano gli italiani: in programma la visita del ministro degli Esteri Gentiloni e del ministro allo Sviluppo economico Federica Guidi. Ma le nostre aziende, dal petrolio alla moda, si sono attivate già prima della firma tra Iran e i «5+1» a Vienna che porterà alla rimozione delle sanzioni. L'amministratore delegato dell'Eni Claudio Descalzi, per esempio, è volato a Teheran a maggio per discutere con il ministro del petrolio Bijan Zanganeh (lo stesso hanno fatto Shell, Lukoil, Total). Elia Saramin, general manager del gruppo «Kelid e Talaei» ha trattato per un anno per arrivare ad aprire, il prossimo settembre, la prima boutique mono-brand ufficiale di Cavalli e Versace a Teheran.
  La «fretta» dei politici europei non piace a tutti: benché Gabriel abbia detto che il miglioramento dei rapporti tra Teheran e Tel Aviv è prioritario per i tedeschi, il vicecancelliere è stato criticato dallo stesso leader dell'ala giovanile del partito della Merkel: «I nostri partner israeliani sono irritati dalla facilità con cui le crisi e il ruolo problematico dell'Iran nella regione vengono sottovalutati». Per tentare di contenere le preoccupazioni di Israele ma anche dell'Arabia Saudita, l'America nei mesi scorsi ha aumentato la vendita di armi ai sauditi e offre altri 3 miliardi per la difesa di Israele. Si ipotizza inoltre lo sviluppo di un sistema integrato di difesa balistica nella regione (simile agli Euromissili sul finire della Guerra fredda). Nel frattempo il ministro degli Esteri inglese, Philip Hammond, e quello della Difesa americano, Ashton Carter, sono subito volati da Benjamin Netanyahu, per rassicurarlo, ma l'incontro col primo è finito in un teso battibecco. Dopo i colloqui con il secondo, non c'è stata conferenza stampa.

(Corriere della Sera, 22 luglio 2015)


Iran - Capacità di difesa aerea intatta: gli accordi non toccano gli S-300 russi

Intervenendo in una conferenza stampa Abbas Araqchi, capo negoziatore iraniano sul nucleare, ha sottolineato che sebbene le tipologie di armi soggette a restrizioni per l'Iran sono sette, queste non includerebbero gli S-300.
"L'acquisto del sistema di difesa aerea S-300 è fuori dalla giurisdizione del Consiglio di Sicurezza e della recente risoluzione".
Parlando poi dell'ondata di funzionari europei in viaggio per l'Iran, ha detto che la responsabile della politica estera dell'Unione Europea Federica Mogherini e il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius sono attesi la prossima settimana.
Ha ribadito che l'accordo di Vienna ha aperto la strada alla cooperazione economica con diversi paesi che erano stati tenuti lontani dai rapporti con la Repubblica islamica a causa delle sanzioni vigenti.
Sottolineato infine che l'Iran gode di legami "cordiali, positivi e costruttivi" con Russia e Cina.

(Difesaonline, 22 luglio 2015)


L'avvertimento di Lapid: "Non investite dagli ayatollah, le sanzioni possono tornare"

L'accordo di Vienna è la più grande disfatta della politica israeliana dalla nascita dello Stato.

di Davide Frattini

Yair Lapid
Benjamin Netanyahu tiene sul comodino l'autobiografia e in ufficio il busto di Winston Churchill. Paragona la sua lotta contro il nucleare iraniano a quella del primo ministro britannico contro i nazisti e l'accordo siglato a Vienna all'intesa firmata da Neville Chamberlain con Adolf Hitler a Monaco nel 1938. Dopo essere stato il suo ministro delle Finanze per un paio d'anni, dall'opposizione Yair Lapid gli ritorce addosso quei paralleli storici: «Netanyahu non è Churchill — ha ripetuto nei discorsi in parlamento — assomiglia piuttosto alla nostra Golda Meir con il fallimento che portò alla guerra di Yom Kippur. Il documento tra Teheran e le grandi potenze è la più grande disfatta della politica israeliana dalla nascita dello Stato, soprattutto per come il premier ha gestito i rapporti con gli Stati Uniti».
Leader del partito di centro C'è un futuro, è stato anche giornalista, attore, scrittore di romanzi gialli. Nel suo ufficio alla Knesset le prime parole di avvertimento sono per gli imprenditori italiani e per Paolo Gentiloni, il ministro degli Esteri che visiterà Teheran agli inizi di agosto per rilanciare i rapporti economici (le nostre esportazioni possono valere 3 miliardi di euro): «Non correrei a proporre affari agli ayatollah — commenta Lapid — perché c'è il rischio di scottarsi. Le sanzioni potrebbero essere reintrodotte e gli investimenti andrebbero perduti. Gli iraniani sono convinti che mentire e falsificare siano uno strumento della guerra santa, è inevitabile che prima o poi ci provino».

- Quindi i meccanismi di controllo previsti dall'intesa le sembrano ben congegnati?
  «Nient'affatto. La procedura per arrivare alle ispezioni è ridicola, gli iraniani hanno ventiquattro giorni per far sparire il materiale prima che gli scienziati occidentali possano verificare. Ma lo sforzo dell'intelligence internazionale per individuare gli inganni iraniani sarà enorme e saranno scoperti».

- Il presidente Barack Obama proclama i benefici per la stabilità in Medio Oriente.
  &
«L'accordo è un premio ai leader iraniani che negli anni hanno continuato a mentire. Il messaggio è stato recepito dalle altre nazioni nella regione: violate la legalità internazionale e riceverete un regalo».

- Obama è convinto che l'Iran possa contribuire alla lotta contro lo Stato Islamico.
  
«Non devi andare a letto con il male per combatterne un altro. II Califfato ha una forza di 25-30 mila uomini, Teheran è una superpotenza regionale e costituisce un pericolo molto più grande. L'unica ragione per cui gli ayatollah combattono il Califfo è perché vogliono il monopolio sull'Islam radicale».

- Quella che doveva essere la «primavera araba» è diventata uno scontro caotico.
  
«Usiamo ancora i nomi di Siria ed Iraq, ma quelle nazioni non esistono più. Da questo disordine possono nascere delle opportunità. Israele deve accettare di partecipare a un vertice che rilanci il processo di pace, la soluzione dei due Stati è viva, anche se per attuarla è necessario un cambiamento di governo nel mio Paese. Non servono negoziati bilaterali tra israeliani e palestinesi, ce ne sono stati 11 dalla firma degli accordi di Oslo in avanti. Ci vuole un summit con i Paesi arabi, con le nuove coalizioni che si sono create là fuori, per far ripartire le trattative dall'iniziativa saudita. Ne sto già discutendo con Roma perché il vostro Paese deve avere un ruolo di spinta. L'Italia sta in mezzo al Mediterraneo, può parlare con tutti ed è ascoltata da tutti».

- L'Unione Europea preme, vuole imporre l'obbligo di etichettare i prodotti esportati dalle colonie costruite nei territori palestinesi e illegali per le norme internazionali.
  
«Ne ho parlato con Federica Mogherini, l'Alta rappresentante per la politica estera, e le ho provato a spiegare di non farsi trascinare dal movimento per il boicottaggio delle colonie che finge di sostenere i due Stati invece vuole la nascita di quello palestinese sulle ceneri di Israele».
Ma forse la cosa non dispiacerebbe poi molto alla Mogherini


(Corriere della Sera, 22 luglio 2015)


Renzi e Netanyahu: alcuni titoli dei giornali di oggi
    Sponda di Renzi a Netanyahu: prima di tutto la sicurezza
    Iran: Renzi a Netanyahu, vigileremo su applicazione accordo
    Matteo Renzi con Netanyahu: «L'Italia sostiene l'accordo con Iran e la sicurezza d'Israele»
    Renzi a Netanyahu: "Sì a Iran ma tutelare Israele"
    Renzi incontra Netanyahu: "Accordo Iran non è compromesso su sicurezza di Israele"
    Renzi a Netanyahu: Posizioni diverse sull'Iran ma sulla sicurezza di Israele nessun compromesso
    Renzi a Netanyahu: "Sì all'accordo nucleare, vigileremo sul suo rispetto"
Tutti questi titoli potrebbero essere sostituiti così:
    Renzi a Netanyahu: Obama m’incarica di dirti di “stare tranquillo”.
La stessa formula fu usata a suo tempo da S.E. Osvaldo Sebastiani, segretario di Mussolini, per tranquillizzare gli ebrei che scrivevano al Duce chiedendo di non essere sottoposti alle leggi razziali.
Sarà riuscito l’attuale segretario italiano di Obama a tranquillizzare l’ebreo israeliano Netanyahu?

(Notizie su Israele, 22 luglio 2015)


Netanyahu: ''Con l'Iran è stato raggiunto un cattivo accordo, è un errore storico''

"L'accordo con l'Iran rappresentauna grande minaccia per Israele, l'Europa e tutto il mondo e metterà Teheran in condizione di avere a disposizione decine di armi atomiche entro 10 anni". Così il premier israeliano Benyamin Netanyahu in una conferenza stampa con Renzi. "L'accordo con l'Iran rappresenta una grande minaccia per Israele - ha aggiunto - e metterà l'Iran sulla soglia di avere un intero arsenale nucleare entro dieci anni, tra un decennio potrà avere a disposizione decine di armi atomiche", ha ribadito ancora Netanyahu, che oggi a Gerusalemme ha anche ricevuto il segretario alla Difesa americano Ashton Carter, cui ha rivolto le medesime critiche. "L'accordo - ha proseguito - darà centinaia di miliardi di dollari" a Teheran con i quali il regime degli Ayatollah potrà "alimentare il terrorismo in tutto il mondo, a partire da Hezbollah, Hamas e Jihad islamica".

(la Repubblica, 21 luglio 2015)


Israele - La ricercatrice: Vogliamo scoprire il cancro da un prelievo

TEL AVIV - "Vogliamo arrivare a individuare il cancro grazie a un campione di sangue e a identificare il tumore dormiente prima che si svegli". E' l'obiettivo del laboratorio di biologia vascolare e nano-medicina della Sackler School of Medicine israeliana. A spiegarlo è stata la responsabile Ronit Sachi-Fainaro, intervendo a 'I-3: Italy-Israel-Innovation/ from Knowledge to Growth' all'università di Tel Aviv. Il progetto fa parte di una delle aree di collaborazione tra Italia e Israele.
"Noi - ha spiegato - cerchiamo di scoprire quali sono i meccanismi per mantenere dormiente lo stato del tumore. Creiamo modelli e usiamo la nanotecnologia per intervenire sul tessuto malato. L'obiettivo è partire dalla persona, trovare i tessuti malati e intervire in modo mirato, senza interventi chirurgici".
"Abbiamo molte collaborazioni con l'Italia su questo progetto - ha spiegato -. Noi diciamo che se tiri via tutta l'acqua dall'oceano scopri che tutte le isole sono collegate. Così lo sono le discipline e così vogliamo che siano anche le università".

(LaPresse, 22 luglio 2015)


Israele inasprisce le pene per chi lancia le pietre

GERUSALEMME, 21 lug. - Il Parlamento di Israele, la Knesset, ha approvato un emendamento a una legge che prevede l'inasprimento delle pene contro chi partecipa a disordini e lancia pietre contro forze di sicurezza o civili. In base alla nuova legge, approvata con 69 voti a favore e 17 contrari, le sentenze per questo tipo di reato saranno comprese fra 10 e 20 anni di prigione. Il via libera dell'aula, in seconda e terza lettura, è giunto in serata.
Il testo è stato proposto dalla ex ministra della Giustizia Tzipi Livni ed è stato portato avanti dalla ministra che l'ha sostituita, Ayelet Shaked. La legge punta a contrastare principalmente i giovani che partecipano alle proteste nei territori palestinesi e che in alcune occasioni attaccano le forze di sicurezza. L'inasprimento delle pene riguarderà anche le persone che, come singoli individui o membri di gruppi armati palestinesi, lanciano sassi contro i veicoli che circolano nelle strade della Giudea-Samaria.

(Fonte: LaPresse, 21 luglio 2015)



Israele: tecnologie del XXI secolo per una Bibbia di 1500 anni fa

GERUSALEMME - "Il Signore chiamò Mosè dalla tenda del convegno e gli disse: Parla agli Israeliti e riferisci loro: Quando uno di voi vorrà fare un'offerta al Signore...".Tecnologie d'avanguardia hanno finalmente permesso agli studiosi di leggere i primi versi del Levitico, libro dell'Antico testamento, scritti in uno dei più antichi rotoli della religione ebraica rinvenuto, nel 1970, tra le ceneri di antica sinagoga distrutta dalle fiamme a Ein Gedi, località sulle rive del Mar Morto. Dopo i celebri manoscritti del Mar Morto, scoperti tra il 1947 e il 1956 in undici grotte intorno a Qumran, si tratta del reperto della Bibbia più significativo. I frammenti, lunghi circa sette centimetri e risalenti al VI secolo, erano però completamente carbonizzati e per questo impossibili da decifrare. Con l'ausilio dell'attuale tecnologia è stato possibile srotolare in modalità virtuale l'antico papiro, una pellicola con un'età di 1.500 anni, per leggere i primi otto versi del Levitico relativi agli olocausti del Rituale dei sacrifici.
   "Risale a 1.500 anni fa ed è il primo documento del genere di cui disponiamo a parte i manoscritti del Mar Morto, che risalgono alla fine del secondo Tempio - spiega Pnina Shor, direttrice dell'Agenzia israeliana per i beni archeologici. - Non avevamo altro e poi troviamo questi frammenti".
   Ma sino a oggi quel ritrovamento sembrava tanto prezioso quanto inutile. "Basta vedere le condizioni in cui si trova per capire perché ci è voluto tanto tempo per decifrarlo. È completamente carbonizzato perché non solo la sinagoga andò distrutta dalle fiamme ma anche l'arca e la Bibbia che vi era conservata", sottolinea la Shor.
   L'archeologo Sefi Porat era nella squadra che scavò le rovine di Ein Gedi nel 1970. Tanta fatica, tanta polvere e sabbia del deserto, e tanto sudore. Per raggiungere, dopo oltre 40 anni, un grande traguardo. "Abbiamo tentato in tanti modi in questi anni, - ricorda Porat, - ma tutto è stato inutile. Continuavo ad avere speranza ma era sempre più ridotta al lumicino. E questa è un'altra lezione: non si deve mai perdere la speranza".

(askanews, 21 luglio 2015)


Premio scientifico Italia-Israele intitolato a Rita Levi Montalcini

TEL AVIV, 21 lug. - Un premio scientifico binazionale per la cooperazione Italia-Israele intitolato a Rita Levi Montalcini. Lo ha annunciato oggi Stefano Boccaletti, collaboratore scienfico dell'ambiasciata italiana in Israele, intervenendo a 'I-3: Italy-Israel-Innovation/ from Knowledge to Growth' all'università di Tel Aviv. Il premio rientra nell'ambito della collaborazione scientica Italia-Israele, ha spiegato, che rappresenta, ha detto, "una bella storia di investimento pubblico".
Una collaborazione che prosegue ormai da 14 anni e che può contare su sei strutture fisse. Sono sette attualmente le aree di collaborazione tra i due Paesi: neuroscienze (con un laboratorio congiunto), neurostimolazione (coinvolto per l'Italia il San Raffaele di Milano), salute pubblica (Istituto superiore di Sanità) atomi freddi (Università di Firenze), energia solare (Enea), sicurezza informatica e ricerca spaziale (tra l'agenzia italiana e quella israeliana).

(LaPresse, 21 luglio 2015)


La lezione di Cameron per la destra italiana

di Pierluigi Battista

 
David Cameron
David Cameron, il leader dei conservatori inglesi, sta rovesciando uno schema che sembrava aver assegnato una volta per tutte i ruoli nel centrodestra europeo, nel mondo che un tempo si chiamava dei «moderati». Volendo dare un profilo ideologico netto al suo governo, Cameron ribalta l'idea che solo la destra delle barricate, urlatrice, estremista, radicale sappia parlare alle emozioni, mentre la destra responsabile è troppo prigioniera del suo pragmatismo, della sua cronica incapacità di avere idee, della sua sudditanza al linguaggio delle cifre e dei bilanci, della sua afonia culturale. Cameron no: dice che esistono due destre, e la sua sa proporre una visione delle cose. Come non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher. Dai tempi della Thatcher e di Ronald Reagan, per l'esattezza.
   Cameron dice che il tempo del «multiculturalismo», fiore all'occhiello del modo britannico di integrare le culture diverse, è fallito. Che la sfida dell'Islamismo radicale non viene da lontano, ma si alimenta nel cuore della Gran Bretagna, con i suoi figli che ripudiano i valori della democrazia liberale, della tolleranza e della libertà, per abbracciare un'ideologia totalitaria di morte e fanatismo. Non è semplicemente un modo di dire. Il suo dirimpettaio Tony Blair, che pure aveva impresso una svolta radicale alla cultura dominante nella sinistra laburista, non aveva mai messo in discussione i pilastri del «multiculturalismo» fino al punto di arruolare come consulente una figura ambigua e proteiforme come Tariq Ramadan, persona indesiderata negli Stati Uniti. E gli stessi leader conservatori che l'hanno preceduto non hanno mai affrontato duramente la convivenza del diritto inglese con la presenza capillare dei tribunali islamici chiamati a comporre le controversie legali all'interno della comunità musulmana.
   David Cameron rompe con i silenzi e la subalternità del mondo Tory e opera una frattura che si mette nel solco della rivoluzione thatcheriana. Che fu una rivoluzione idealista, anche se la cosa può sembrare inconcepibile per chi considera la Lady di ferro come una crudele cavaliera delle disuguaglianze e delle ingiustizie. Non è vero, la rivoluzione conservatrice thatcheriana e reaganiana fu la riscoperta dell'individuo, il risveglio dell'intraprendenza e della creatività, la distruzione creatrice degli spiriti animali del capitalismo, della proprietà diffusa, del ceto medio un po' imbolsito spronato al benessere e al miglioramento. Il programma antimulticulturalista di Cameron arriva a pochi giorni dalla presentazione del Budget del Cancelliere dello Scacchiere George Osborne in cui un forte taglio del Welfare si accompagna a un aumento del salario minimo e a una consistente riduzione del torchio fiscale. Una rivoluzione che dovrebbe trasmettere anche un messaggio al centrodestra italiano, stretto tra il declino inesorabile del berlusconismo e l'impetuosa crescita dell'estremismo salviniano che rischia di trascinare per lungo tempo la destra nel recinto chiassoso della protesta e dell'opposizione eterna.
   Quel che resta della destra di Forza Italia dovrebbe far tesoro della duplice lezione, elettoralmente confortata da ottimi risultati, di Sarkozy in Francia e di Cameron in Gran Bretagna. Tutti e due cercano un profilo netto, tutti e due si candidano come alfieri di un mondo che non vuole lasciare l'Europa in mano alla sinistra, tutti e due si richiamano a una politica che non mortifichi il dinamismo dell'economia di mercato e non sia impotente nelle politiche sull'immigrazione. Ma Sarkozy in Francia non arretra di fronte a una dura battaglia politica contro la destra di Marine Le Pen e Cameron traccia una netta linea di demarcazione con l'Ukip di Nigel Farage. Cameron porta avanti la sua rivoluzione conservatrice nel solco della lezione della Thatcher ma non si accoda al richiamo estremista di una destra protestataria ma incapace di governo. In Italia invece, sembra che non sia possibile altra destra che non si metta sulla scia di Matteo Salvini e delle sue ruspe anti rom e delle sommosse contro gli alloggi ai profughi.
   Ma la battaglia contro il multiculturalismo di Cameron non ha nulla da spartire con l'esibizione delle ruspe a favor di telecamere. Il centrodestra di Cameron dimostra che in quel campo il monopolio delle emozioni non ce l'ha il massimalismo che urla ma le idee che governano. Una lezione che gli eredi del berlusconismo non dovrebbero sottovalutare.
   
(Corriere della Sera, 21 luglio 2015)


Ulisse, da Troia a Itaca nella lingua di Sefarad

di Francesca Matalond

Tamburella con le dita per seguire il ritmo cadenzato e melodioso degli esametri dattilici, destreggiandosi tra epiteti formulari e invocazioni alle Muse. Moshe Ha'elyon non è invero un poeta semi cieco e dall'identità vaga, però anche a lui si possono attribuire gesta letterarie non da poco: 87 anni, sopravvissuto alla Shoah, ha portato a termine la prima traduzione al mondo di tutta l'Odissea direttamente dal greco antico in ladino, lo spagnolo degli ebrei sefarditi.
   Gli ci sono voluti quasi quattro anni concludere la sua opera, pubblicata in due volumi con testo a fronte in ebraico, e Ha'elyon ha davvero lasciato intatta la metrica del poema omerico, trasferendo dattili e spondei nella versione ladina aiutandosi con il picchiettare delle dita, così come le numerose figure di suono. Ma anche a livello di lessico è stata una dura prova: "Il ladino è una lingua parlata - spiega - e improvvisamente ho dovuto trovare parole per mondi che non ne hanno, come quello dell'agricoltura, della navigazione o dei nomi di alberi". Per risolvere il problema si è affidato al dizionario ebraico-ladino dello studioso Avner Peretz e anche alla traduzione in ladino della Bibbia. "Non ho inventato nessuna parola - garantisce - ho una documentazione per tutto".
   Il ladino è la lingua madre di Moshe, che ha dedicato gli ultimi anni alla missione di mantenerlo in vita, e tra le altre cose ha publicato anche una traduzione del "Piccolo principe", il citatissimo libro per bambini di Antoine de Saint-Exupéry. A dargli l'idea di tradurre anche l'Odissea è stato proprio Peretz, dopo che Ha'elyon gli aveva confessato di non aver mai potuto finire il liceo a causa dell'inizio della guerra, ma di aver studiato il greco antico.
   In realtà, aveva cominciato con l'Iliade, solo che era più lungo e un pochino più difficile, e quindi ha ripiegato sull'uomo dal multiforme ingegno. Però a dire il vero l'Odissea è quasi più affine alla sua incredibile storia, durante la quale ha più volte rischiato la vita, compiuto viaggi per terre e per mari ed è stato protagonista di gesta epiche, e che tra l'altro è l'oggetto di uno dei suoi scritti, naturalmente in ladino. Anche la sua Odissea personale inizia in Grecia, a Salonicco, dove Moshe è nato nel 1925. La sua gioventù è stata caratterizzata dall'alternarsi del ladino parlato in casa e il greco antico studiato a scuola, fino ai primi anni del liceo in cui si è trovato per la prima volta di fronte ai poemi omerici. Poi nel luglio del 1942 la persecuzione nazista ha portato lui e tutta la sua famiglia nel campo di sterminio di Auschwitz. Moshe è stato l'unico sopravvissuto e deve tutto proprio al tanto vituperato greco antico: ha infatti raccontato che si è potuto salvare dando lezioni di greco a un prigioniero cristiano che aveva dei privilegi speciali e lo pagava in cibo. Dopo due marce della morte è arrivato in Austria, dove è stato liberato dagli americani. Nel 1946 si è poi imbarcato sulla Josiah Wedgwood, una nave della cosiddetta Aliyah Bet che tra l'altro è stata anche intercettata, e così non senza avventure è approdato sui lidi israeliani. Ha combattuto nella guerra d'indipendenza, nel corso della quale è rimasto ferito gravemente in un incidente con la jeep che guidava. Dopo essersi nuovamente rialzato, Ha'elyon ha iniziato l'addestramento per ufficiali da cui è uscito con il grado di luogotenente colonnello e ha continuato al lavorare nelle Forze di difesa israeliane fino al 1990, quando è andato in pensione. Ma non si è fermato nemmeno allora, dedicando il suo tempo alla scrittura in ladino.
   Prossima missione? Ora che la sua Odissea è stata pubblicata, ha già annunciato che cantare nella secolare lingua sefardita del pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli achei nella secolare lingua sefardita sarà una passeggiata.

(moked, 21 luglio 2015)


Zarif: Onu unita sull'accordo dimostra l'isolamento di Israele

TEHERAN - L'adozione unanime da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite dell'accordo sul programma nucleare iraniano rappresenta l'isolamento di Israele nel mondo. Lo ha detto il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, presentando il testo dell'accordo in Parlamento a Teheran. "La rabbia dei nemici della Repubblica islamica, in testa a tutti il regime sionista, è un chiaro segno della forza regionale e internazionale dell'Iran", ha detto Zarif. L'appoggio unanime all'accordo in Consiglio di sicurezza e l'appello di Israele al Congresso americano affinché si opponga all'intesa mostrano che gli israeliani vengono isolati anche dai loro stessi alleati, ha aggiunto Zarif.
Tutti gli obiettivi dei colloqui sul nucleare sono stati soddisfatti dall'accordo nonostante la propaganda di Israele, ha aggiunto il ministro. Domenica il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha criticato l'accordo affermando che l'Iran non merita alcuna concessione finché non cambierà la sua politica estera nei confronti di Israele e Stati Uniti.

(LaPresse, 21 luglio 2015)


“L'appoggio unanime all'accordo in Consiglio di sicurezza e l'appello di Israele al Congresso americano affinché si opponga all'intesa mostrano che gli israeliani vengono isolati anche dai loro stessi alleati”. Il mondo ha detto Sì all’Iran e No a Israele. Il mondo ha scelto Barabba. M.C.


In Israele la minaccia del deal atomico riunisce antichi nemici

 
MILANO - Benjamin Netanyahu e Isaac Herzog in politica non sono d'accordo su molto. Oggi però li avvicina la loro opposizione all'intesa sul nucleare iraniano, raggiunta tra Teheran e sei potenze internazionali la settimana scorsa. "L'accordo firmato è un cattivo accordo". Lo ha detto, anzi ripetuto ossessivamente nei mesi passati il premier israeliano Netanyahu, Cassandra che ha costruito sul contrasto ai negoziati di Vienna la sua eredità politica. Mercoledì ha pronunciato le stesse parole il capo della sinistra laburista israeliana, il leader di quell'Unione sionista sconfitta alle elezioni di marzo dalla destra del Likud. Isaac "Bougie" Herzog, il candidato che forse piaceva di più a una Casa Bianca affaticata da anni di tensioni con il governo Netanyahu, è oggi la prova di come sia difficile per l'Amministrazione Obama vendere l'intesa atomica anche agli "amici". Ed è con l'obiettivo di rassicurare gli alleati mediorientali più irrequieti e preoccupati dalla firma di Vienna che in queste ore il segretario della Difesa americano, Ashton Carter, è in visita in Israele e nelle corti del Golfo. Ha incontrato ieri il suo omologo israeliano, Moshe Ya'alon, e il premier Netanyahu, ha visitato il confine nord d'Israele, quello lungo il quale si muovono e agiscono le milizie sciite di Hezbollah, il Partito di dio sostenuto militarmente e finanziariamente da Teheran. L'Iran, nonostante l'accordo, resta sottoposto a un secondo pacchetto di sanzioni degli Stati Uniti perché accusato di foraggiare il terrorismo internazionale. Secondo le indiscrezioni della stampa americana, per addolcire il colpo e rendere meno rumorosa l'opposizione israeliana all'accordo, la Casa Bianca avrebbe pensato di aumentare i già robusti tre miliardi di dollari in aiuti militari annui a Israele. Il governo israeliano non sarebbe convinto. Accettare significherebbe piegarsi a un'intesa che per il governo e per l'opposizione ritengono un errore. Dopo la firma di Vienna, Isaac Herzog ha annunciato che presto volerà a Washington, dove ha intenzione di spiegare ai politici americani perché l'Amministrazione sta commettendo uno sbaglio sull'Iran. E Netanyahu mercoledì, davanti alla Knesset, ha chiesto ai rivali politici di unire le forze: "Su temi essenziali non ci sono coalizione e opposizione. Quello che serve è un fronte unito per assicurare la nostra esistenza". "Gli studenti di Jabotinsky devono unire le mani con quelli di Ben Gurion", ha detto facendo riferimento alle due diverse tradizioni politiche della destra del Likud e della sinistra laburista.
   Questa unione d'intenti creata dal deal ha fatto subito risorgere le voci di un governo di unità nazionale dove Herzog diventerebbe il volto moderato della coalizione "falca" di Netanyahu, il ministro degli Esteri equilibrato di un esecutivo sbilanciato sulla destra più radicale: l'ipotesi, come ha registrato a marzo il Foglio, era già sorta nelle prime ore delle consultazioni post-voto. Ne parlano ora fonti interne al Likud, la leader della sinistra di Meretz, Zehava Gal-On, ha detto di sapere per certo che "l'Unione Sionista è sulla via del governo". Le indiscrezioni dicono che in queste ore il presidente Reuven Rivlin, che già ci aveva provato in primavera, sta passando messaggi tra i due leader rivali, che si sono incontrati il giorno della firma di Vienna per fare il punto sulla situazione. Herzog nega di voler entrare in coalizione, ma il programma di un viaggio a Washington per convincere gli americani sulle ragioni di Israele sa molto di tour informale di un "ministro degli Esteri in attesa", come la ha definito il sito della rivista americana Atlantic nel titolo di un'intervista da poco rilasciata a Jeffrey Goldberg. L'accordo - ha detto il laburista, che domani incontra il premier Matteo Renzi a Gerusalemme - scatenerà il leone fuori dalla sua gabbia, avrà un'influenza sugli equilibri di potere nella regione, avrà un effetto lungo i nostri confini e sulla sicurezza dei miei figli".
   
(Il Foglio, 21 luglio 2015)


Giannini in Israele, obiettivo: potenziare la cooperazione con scuole ebraiche e Università

Visita in Israele per il Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Stefania Giannini. Nella mattinata di ieri il Ministro ha visitato lo Yad Vashem, a Gerusalemme, dove è stato annunciato il riconoscimento della loro Scuola di formazione tra gli Enti di formazione accreditati dal Miur.
   "L'impegno del nostro Paese e del mio Ministero - ha spiegato Giannini - è di proseguire concretamente nella cooperazione con la Scuola di Yad Vashem per la creazione di un network europeo per la formazione sulla Shoah. Si tratta di un progetto cui il Miur sta già lavorando in collaborazione con l'Ucei, l'Unione delle comunità ebraiche italiane". Nel corso della visita il Ministro ha incontrato una delegazione di insegnanti italiani in occasione di uno dei seminari di formazione.
   Giannini ha poi incontrato alla Knesset (il Parlamento) il suo omologo Naftali Bennett per un confronto sui sistemi di istruzione dei due Paesi. "Bennett - ha sottolineato Giannini - ha mostrato interesse per la riforma recentemente approvata dal Parlamento italiano e per gli aspetti connessi all'attuazione dell'autonomia scolastica". I Ministri hanno convenuto di favorire nuove collaborazioni sia nel settore della scuola (ad esempio in materia di formazione professionale e di istruzione digitale), sia in quello dell'alta formazione. Si è infine parlato dell'insegnamento dell'italiano nelle scuole israeliane, un tema di interesse comune.
   Nella giornata di domenica, Giannini ha visitato il Technion Israel Institute of Technology con una delegazione di rettori italiani. A riceverla, il presidente Peretz Lavie. Nel corso dell'incontro si è parlato di un "incremento" della cooperazione tra l'Italia e Israele, con particolare riferimento ai programmi di scambio di giovani ricercatori e ai programmi comuni di ricerca. Il Ministro ha incontrato anche Padre Arturo Vasaturo, direttore della scuola italiana Carmelit di Haifa, accompagnato da Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa.
   Sempre domenica il Ministro ha concordato con il Ministro israeliano della Scienza, Danny Danon, di continuare a promuovere la cooperazione scientifica bilaterale sulla base dell'accordo del 2002. I due Ministri hanno inoltre convenuto su due priorità: il progetto Shalom, per la realizzazione di un satellite per l'osservazione della Terra, e il programma europeo Prima, per iniziative di ricerca nel settore delle risorse idriche e dei sistemi alimentari nell'area del Mediterraneo.

(Corriereuniv.it, 21 luglio 2015)


Un demografo italiano a Gerusalemme

Intervista a Sergio Della Pergola

di Stefania Miccolis

Sergio Della Pergola
Poche volte si ha la fortuna di parlare con persone che spiegano un argomento tanto difficile e complesso in maniera lineare e semplice. Sarà perché Sergio Della Pergola, Professore di demografia all'Università di Gerusalemme, è da anni nel settore ed ha studiato costantemente e seriamente il problema demografico e il flusso migratorio ebraico. "La raccolta dei dati è molto penosa e faticosa, per dare un quadro della situazione bisogna lavorare su centinaia e centinaia di fonti diverse, creare questo mosaico e cercare di dare coerenza alle definizioni e alle qualità dei dati. Questo lavoro certosino lo faccio da moltissimi anni." Della Pergola è nato a ridosso della guerra, ha passato due anni in Svizzera, la famiglia perseguitata dai fascisti, il padre Massimo della Pergola, giornalista sportivo, inventore del Totocalcio, internato in un campo di lavoro - sorride nel ricordarlo: "ebbe questa idea geniale mentre si trovava ai lavori forzati in Svizzera. Ritornato in Italia a Milano, nel maggio 1946, ecco la prima schedina, riuscì ad organizzare la società Sisal e a lanciare questo concorso. Dopo alcune settimane molto stentate divenne popolare, una vera febbre, e il governo italiano vi vide una miniera d'oro; il sottosegretario allo sport Andreotti nazionalizzò il concorso" -. Finita la guerra, molto attivo nel fronte studentesco e in politica giovanile, Della Pergola laureatosi in scienze politiche a Pavia nel 1966, con una piccola borsa di studio si è trasferito in Israele, "è stata si può dire una scelta" ; ha condiviso una stanza alla casa dello studente con uno studente arabo con cui aveva "un ottimo rapporto", ed è entrato all'università nel 1968.
  Professore tra i più stimati, per molti anni è stato nominato direttore dell'istituto che si occupa delle ricerche sulle comunità contemporanee. "Abbiamo una struttura universitaria molto capace che studia diversi aspetti delle comunità ebraiche nel mondo e io in particolare mi occupo di demografia e ho tirato su bravi assistenti, formando un gruppo di lavoro di persone competenti più giovani e meno giovani". Ma fondamentale nello studio della diaspora ebraica è avere delle buone relazioni nei diversi paesi del mondo: "sono fortunatamente noto per aver lavorato seriamente ed ho creato molte buone relazioni , viaggiando in tutti paesi del mondo in cui ci sono comunità ebraiche; si tratta di creare una rete di colleghi. Poi ogni paese ha le proprie fonti, alcuni hanno dei censimenti, altri ricerche svolte da enti privati o pubblici."
  In questi ultimi anni spiega che vi è stato un flusso migratorio importante di ebrei da Italia, Francia, Belgio, Ungheria. "Non è una drammatica emigrazione di massa come qualcuno ha voluto descrivere, ma migliaia di persone che arrivano annualmente". I motivi sono diversi e con un progetto finanziato dall'UE si è cercato di capire quali sono le percezioni della popolazione ebraica europea. "Il risultato di questa ricerca è interessante e preoccupante : la grande maggioranza degli ebrei in Europa percepisce il forte incremento di del fenomeno di antisemitismo, che non è isolato, ma fa parte di un fenomeno molto più ampio di razzismo, di intolleranza religiosa, di xenofobia. Non si tratta di aver subito affronti, attacchi o discriminazione, ma l'inquietudine è molto diffusa. La delegittimazione di Israele, il revisionismo nei confronti dell'olocausto, le forme di antisemitismo classiche secondo cui gli ebrei sono troppo potenti e detengono il controllo di stampa, banche, economia, creano un senso di forte disagio.
  Alcune persone combattono con strumenti politici, con pubblicistica e altri modi, altre, non ritrovandosi più bene nel loro paese, preferiscono andare altrove. Ed in Israele molti hanno famiglia, parenti, amici - risultato di immigrazioni degli anni precedenti - e non è difficile integrarsi in un ambiente che non è del tutto estraneo; c'è un certo senso affettivo al di là di quello che potrebbe essere la politica, su cui hanno idee anche diverse. Il governo e le istituzioni sono abbastanza attente a queste cose e cercano di combatterle, ma se si fa una attenta analisi di quello che si dice nei mezzi di comunicazione, televisione, stampa o internet, esistono fenomeni molto incresciosi e si può capire la reazione da parte della comunità ebraica". C'è una presentazione molto negativa di Israele, "un antisemitismo mescolato a anti-israelismo". L'immigrazione arriva di solito da paesi dell'Europa orientale, da paesi più poveri o da paesi con regimi meno democratici come la Russia o l'Ucraina e in passato l'Etiopia. "Israele riceve emigrati da tutti i paesi del mondo, ma nel 2014 la Francia ha avuto il primato, e poi l'Italia e il Belgio, questo anche per la crisi economica che da alcuni anni attanaglia l'Europa. E l'immigrazione è soprattutto verso il centro dell'economia di Israele, Tel Aviv, un enorme agglomerato urbano con molti comuni e municipi, con quasi tre milioni di persone; ma anche a Gerusalemme, la capitale e la città più culturale, poi ad Haifa e nelle città del sud".
  La forte maggioranza è una immigrazione di famiglie ebraiche, molte fra l'altro anche con membri non ebrei, ma hanno lo stesso diritto di immigrare e di avere la cittadinanza israeliana se lo richiedono. Anche se la politica di Israele è di privilegiare l'immigrazione ebraica, una supposta scelta ideologica, ora arrivano lavoratori stranieri con contratti stagionali, una certa immigrazione illegale, cioè persone che scaduto il visto continuano a lavorare sotterraneamente, e negli ultimi anni un discreto afflusso di profughi dall'Africa soprattutto dall'Eritrea o dal Sudan, perseguitati nei loro paesi e che cercano di avere un rifugio politico e migliorare la loro situazione economica. Quando gli si chiede che cosa pensa della Comunità ebraica italiana e che rapporto vi sia con Israele, Della Pergola sottolinea come l'opinione pubblica italiana non debba sottovalutare il forte legame affettivo intimo (che poi esiste in tutti paesi della diaspora ebraica) fra l'Italia ebraica ed Israele. " l'ebraismo italiano ha finito per riflettere quelle che sono anche le divisioni politiche della società in Israele, che ha una democrazia con in parlamento ben dodici partiti con idee molto contrapposte. Diverse opinioni che esistono in Israele sui temi principali le troviamo anche sulla stampa italiana; ma va ricordato che il dibattito intellettuale, culturale, politico, in televisione o radio si svolge in ebraico e quindi chi vuole partecipare al dibattito deve capire e leggere anche le sfumature, le allusioni; ma fra molti dei corrispondenti della stampa italiana questa finezza manca. Resta il fatto che c'è un forte interesse appassionato e sincero con tutte le differenze di opinione. Chi parla in maniera difensiva chi invece in maniera negativa, ma sicuramente non indifferente".
  Non si poteva tralasciare poi di domandargli il suo rapporto con Rav Toaff con cui ha avuto il privilegio di un legame stretto, era suo suocero. Della Pergola ne parla in maniera affettuosa e di rispetto. La consapevolezza di " una figura storica e impareggiabile"; "è stato l'ultimo grande leader dell'ebraismo italiano e forse europeo", " con il suo passaggio finisce una intera generazione". Una figura che si ergeva al di sopra degli altri: "sia per la sua vita personale che lo ha fatto protagonista di grandi esperienze storiche" - Rav Toaff si è trovato in mezzo al fascismo, al nazismo, alla Resistenza, durante la ricostruzione dell'Italia dopo la II guerra mondiale e dell'Italia ebraica in particolare. È stato Rabbino di Roma, quindi con una posizione più sensibile di fronte alle autorità italiane, ha avuto il confronto con il papato, non si dimentica il grande incontro con il Papa nel 1986. Infine il suo legame molto forte con Israele in cui era molto rispettato -, "sia perché aveva saputo coagulare intorno a sé persone molto diverse: è stato il catalizzatore di un consenso e questa è la più grande dote del leader, quello di esser capace di stare al di sopra delle parti. Non il leader di una fazione, ma il leader di tutti: una qualità impareggiabile che pochissimi hanno". Al funerale erano presenti il capo dello Stato, il primo ministro, i presidenti della Camera e del Senato, dirigenti militari; ma anche persone più umili e più semplici: tutti commossi. "Raggiungere il più alto ma anche il più umile, è la qualità unica di quest'uomo che ne fa una grande figura del XX secolo. È molto difficile raccoglierne l'eredità".

(Futuro Quotidiano, 21 luglio 2015)


Accordo nucleare con l'Iran: i tedeschi sono già a fare affari a Teheran

170 deputati repubblicani Usa chiedono di bocciare l'intesa Iran - G5+1

Il vice-cancelliere socialdemocratico e ministro dell'economia tedesco, Sigmar Gabriel, non ha nemmeno fatto depositare il sollievo per il sofferto accordo nucleare raggiunto tra Iran e G5+1 (Cina, Gran Bretagna, Francia, Russia, Usa e, appunto, Germania) e ha preso il volo per l'Iran, dove da ieri è in visita ufficiale con una folta - e non certo improvvisata… - delegazione di 60 persone che comprende anche «rappresentanti di aziende, gruppi industriali e centri di ricerca». Gabriel è così il primo alto rappresentante di uno dei governi occidentali che hanno imposto le sanzioni all'Iran a visitare il paese dopo il raggiungimento del patto sul nucleare iraniano firmato il 14 luglio a Vienna.
   Lo scatto tedesco ha bruciato tutti e, come spesso accade recentemente, è abbastanza spregiudicato, visto che una delle ragioni della crisi nucleare iraniana è la centrale di Bushehr, che i tedeschi iniziarono a costruire sotto la dittatura dello Scià di Persia e che abbandonarono dopo la vittoria della rivoluzione islamica sciita. Poi ci hanno pensato i russi (altro Paese del G5+1) a completare l'opera che andava bene per lo Scià e che era intollerabile per la Repubblica Islamica.
   Partendo per l'Iran, Gabriel ha assicurato che «L'accordo raggiunto a Vienna ha posto le basi per una normalizzazione delle relazioni economiche con l'Iran».

19 luglio - Il ministro dell'economia tedesco, Sigmar Gabriel, parte da Berlino per recarsi in Iran 19 luglio - Il ministro tedesco arriva all'aeroporto di Teheran 19 luglio - Il ministro tedesco è accolto dal viceministro iraniano per il petrolio Amit Hossein Zamaninia 19 luglio - Il ministro tedesco  e il viceministro iraniano a colloquio 20 luglio  - Il ministro Sigmar Gabriel a colloquio col ministro iraniano per il petrolio Bijan Zanganeh 20 luglio -Il ministro tedesco e il ministro iraniano parlano di affari 20 luglio - Il ministro tedesco e il ministro iraniano  ascoltano una conferenza 
20 luglio . Il ministro tedesco dell'economia Sigmar Gabriel  è ricevuto  con grande onore dal Presidente iraniano Hassan Rouhani
mootools lightbox gallery by VisualLightBox.com v6.0m

   Secondo l'agenzia di stampa tedesca Dpa, nella sua visita di tre giorni in Iran Gabriel incontrerà il presidente iraniano Hassan Rohani, alcuni ministri di spicco e i responsabili della Banca centrale iraniana e della Camera di commercio. Dopo la visita a Teheran il ministro tedesco andrà a Isfahan.
   Intanto è una vera e propria corsa a prendersi i meriti per l'accordo nucleare. In una intervista alla Stampa l'alta rappresentante per la politica estera dell'Ue, Federica Mogherini, ha detto: «Abbiamo la possibilità di lavorare a un nuovo inizio per il Medio Oriente e l'Asia minore». Secondo lei, l'accordo con Teheran è «un'importante investimento nella pace e nella distensione» e «una dimostrazione di ciò che l'Ue deve saper fare: appoggiare il multilateralismo, aver fede nella diplomazia, creare ponti tra potenze che non si parlano. L'accordo con l'Iran un modello per altre crisi. Sono molti, in Italia e no, che da anni negano l'esistenza di una politica estera europea. Talvolta hanno avuto ragione. Ora però s'è visto che, in ventotto e nel quadro comunitario, si possono raggiungere traguardi importanti».
   Chi invece deve fare i conti con l'opposizione interna e con quella di Israele e dell'Arabia saudita sono il presidente Barack Obama e il suo segretario di Sato John Kerry: 171 deputati repubblicani della Camera dei rappresentanti hanno chiesto l'approvazione di una risoluzione - redatta da Peter Roskam - contro l'intesa raggiunta a Vienna. Il tutto mentre più di 100 ex ambasciatori statunitensi, nominati da presidenti democratici e repubblicani, hanno scritto a Obama per congratularsi dell'«accordo storico», invitando il Congresso a sostenerlo.
   Il Dipartimento di Stato Usa ha infatti comunicato che il testo dell'intesa è stato inviato al Congresso che ora avrà 60 giorni di tempo per esaminarlo e eventualmente votarlo a partire dal 20 luglio.
   Kerry ha avvisato i repubblicani - e anche Tel Aviv e le monarchie assolute del Golfo - che «Non c'è alcuna alternativa all'accordo con l'Iran» ed ha aggiunto che «il vero pericolo in quella regione sarebbe non avere un'intesa», sottolineando che «Se il Congresso dirà no all'accordo non ci saranno costrizioni per l'Iran, uccideremmo l'opportunità di fermarli»…
   Ma anche in Iran i dubbi sulla tenuta dell'accordo non mancano: oggi Press Tv riferisce che Foad Izadi, docente all'università di Teheran «Ritiene che un meccanismo collocato nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu possa mandare all'aria gli accordi sul nucleare riportando in vigore le sanzioni contro l'Iran».
   Secondo Izadi, «la risoluzione dell'Onu per riconoscere il Joint Comprehensive Plan of Action concordato il 14 luglio a Vienna, dà un periodo di 90 giorni per rimuovere le sanzioni ma ciò a patto che tutto proceda bene nelle capitali dei 5 Paesi membri del Consiglio di Sicurezza altrimenti ci potrebbero essere tanti problemi e le sanzioni potrebbero tornare automaticamente». Che poi sarebbe quello che potrebbe succedere a Washington se i repubblicani proseguiranno nella loro opposizione ideologica e suicida.
   Inoltre Izadi fa notare che «La risoluzione prevede un periodo di 10 anni per portare fuori dal capitolo 7 il dossier dell'Iran ma dieci anni sono un periodo molto lungo e qualsiasi problema con uno solo dei Paesi membri del 5+1 potrebbe mandare tutto a monte».
   Governo e imprenditori tedeschi evidentemente scommettono che tutto andrà bene. Speriamo solo che non propongano agli iraniani di ricostruire nella Repubblica Islamica una delle centrali nucleari che si apprestano ad eliminare in Germania.

(Greenreport, 20 luglio 2015)


Il Regno Unito revoca il parziale divieto di vendita di armi a Israele

GERUSALEMME - Il Regno Unito ha revocato quello che a tutti gli effetti era "un embargo parziale sulla vendita di armi a Israele", imposto a Tel Aviv
dopo l'inizio dell'operazione militare Protective Edge su Gaza, lo scorso anno. Lo riferisce la "Jerusalem Post". Il parlamento di Londra aveva imposto le restrizioni durante le ultime fasi del conflitto nella Striscia, la scorsa estate, nel timore che armi o sistemi di fabbricazione britannica potessero essere utilizzate anche contro i civili palestinesi. Poco dopo la fine del conflitto, il Department for Business Innovation and Skills, guidato da Vincent Cable, un liberal-democratico che faceva parte dell'allora coalizione del governo conservatore, aveva introdotto criteri ancor più severi per la vendita di armi a Israele. Nonostante le proteste di alcuni suoi colleghi conservatori, Cable aveva sospeso 12 permessi per l'esportazione di armamenti verso Israele. La direzione del dipartimento, però, è passata negli ultimi mesi a Sajid Javid, un ministro britannico conservatore di orientamento marcatamente pro-israeliano che la scorsa settimana ha annunciato la fine delle verifiche relative ai 12 permessi stabilendo la loro corrispondenza ai criteri fissati dalla normativa britannica.

(Agenzia Nova, 20 luglio 2015)


Mérieux NutriSciences acquisisce Milouda & Migal e si espande in Israele

 
Mérieux NutriSciences si è stabilita per la prima volta in Israele, acquisendo i laboratori Milouda & Migal. Con questa acquisizione, Mérieux NutriSciences continua a consolidare la sua posizione come leader internazionale nella sicurezza alimentare e rafforza la sua presenza nella regione.
   Con oltre 50 anni di esperienza nel settore della sicurezza alimentare, presente in 20 Paesi con più di 80 laboratori, Mérieux NutriSciences continua la sua espansione investendo in mercati attrattivi ed in rapida crescita.
   Fondato nel 1980, il laboratorio Milouda svolgeva analisi sui prodotti di Milouot, una società holding che produceva ortofrutticoli e mangimi per animali. I laboratori Migal, sviluppati come divisione di MIGAL Galilee Research Institute, la cui missione è quella di promuovere lo sviluppo industriale, economico e accademico della Galilea, si sono uniti a Milouda nel 2011, integrando l'expertise scientifico della società.
   Con sedi in Haifa e Kyriat Shmona, i laboratori Milouda & Migal sono tra i gruppi di laboratori più avanzati di Israele. Dal 2000 offrono al mercato israeliano un servizio completo di analisi di microbiologia e chimica, dedicandosi maggiormente alle analisi sugli alimenti e ambiente. I laboratori sono certificati ISO 17025 e accreditati dal Ministero della Salute, Agricoltura e Ambiente. Mérieux NutriSciences continuerà a sviluppare questi due siti, gestiti da dipendenti altamente qualificati, mantenendo solidi rapporti con MIGAL Galilee Research Institute. Mérieux NutriSciences prevede di intraprendere una cooperazione futura con MIGAL Galilee Research Institute, al fine di potenziare ulteriormente le sue attività di ricerca scientifica. Philippe Sans, presidente e CEO di Mérieux NutriSciences ha commentato "L'acquisizione ci permette di entrare in un mercato florido di servizi analitici e al tempo stesso offre a Milouda & Migal una vasta gamma di servizi, forniti dal network di Mérieux NutriSciences in tutto il mondo. Questa risulta essere un' ottima occasione per entrambi."
   Raya Harel, CEO di Milouda & Migal, e Omer Harari, membro del consiglio di amministrazione, hanno dichiarato "Questa acquisizione dà l'opportunità alle nostre attività, team e soprattutto ai clienti, di trarre beneficio da una società leader, che fornisce servizi tecnico-scientifici all'avanguardia."
   Avishai Levy, CEO di MIGAL Galilee Research Institute ha riferito "La presenza di Mérieux NutriSciences in Kyriat Shmona è un passo importante verso la creazione di un centro agrobiomedico specializzato. Mérieux NutriSciences è un' organizzazione unica. La loro cultura nel promuovere la ricerca applicata, e la loro esperienza sulle normative della sicurezza alimentare è sinergica con le attività e i piani di Galilee Research Institute, e speriamo di intraprendere presto un rapporto di collaborazione."
   Onn Barzilay, CEO del gruppo Milouot, ha commentato "Il team esecutivo dei laboratori Milouda & Migal, supportato dal gruppo Milouot, ha fondato questa società, leader di mercato negli ultimi dieci anni. Noi siamo orgogliosi di aver contribuito in questo straordinario periodo di crescita. Sostenuti dalle risorse di Mérieux NutriSciences, siamo fiduciosi che i laboratori Milouda e Migal continueranno a prosperare negli anni a venire."

(Tribuna Economica, 20 luglio 2015)


Il Weizmann Institute fra i dieci migliori istituti di ricerca al mondo

Il Centro per gli Studi Scientifici e Tecnologici dell'Università olandese di Leiden, noto come CWTS, ha stilato una classifica degli istituti di ricerca le cui pubblicazioni hanno avuto un grande impatto sulla comunità scientifica internazionale. Tra questi, decimo su settecentocinquanta, anche l'israeliano Weizmann Institute, unico non statunitense a dare filo da torcere a giganti come MIT e Harvard e a classificarsi nella top dieci.
La classifica del CWTS valuta il numero di articoli scientifici di ricerca pubblicati dagli istituti, le loro dimensioni relative e il numero di volte che gli articoli prodotti vengono citati in altre pubblicazioni. In particolare l'ultimo parametro è di notevole importanza in quanto maggiore è il numero di citazioni maggiore è il peso che la comunità scientifica attribuisce a quella ricerca....

(Progetto Dreyfus, 20 luglio 2015)


Oltremare - Le due città

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Il 17 novembre del 1873 le due città ungheresi di Buda e Pest vennero unificate e presero il nome di Budapest. In mezzo gorgogliava pacifico il Danubio, da pochi anni celebrato da Strauss con il suo valzer, ma chissà se a Buda e Pest si sapeva già di quel che capitava a monte, sulla scena musicale viennese. Un gran peccato che non ci sia nessuno in grado di raccontare che effetto abbia fatto, quella unificazione.
Il 19 agosto del 1950 altre due città vennero unificate, in luoghi molto meno austro-ungarici: Tel Aviv e Yafo. Non suona bene fuso, come Budapest, ma di fatto è una città sola. Nessun Danubio a dividerle, nessun fiume in generale; da inizio secolo un mondo nuovo si era fatto spazio, affondando fino alle ginocchia nella sabbia fuori dalle mura, al nord del porto antico, popolato in maggioranza da arabi. La città nuova, la città degli ebrei, nel '50 era ormai molto più che la strada modello far west che era stata, con tutte le case in una fila su Rothschild Boulevard e dietro il nulla. Tel Aviv aveva preso forma e in fretta, si costruiva a ritmi per nulla mediorientali, si piantavano alberi, si facevano i bagni al mare.


(moked, 20 luglio 2015)


La disfatta morale dell'accordo con l'Iran
Articolo OTTIMO!


di Pierluigi Battista

Fuori dai parametri del realismo politico e del realismo economico, che ciascuno giudicherà come crede, l'accordo nucleare con l'Iran sancisce tuttavia sul piano morale una prima molta assoluta nella storia dell'arma atomica: la prima molta di un Paese che disporrà entro un certo numero di anni della bomba, certo con ritmi rallentati per onorare gil impegni assunti, certo con qualche difficoltà per la produzione di uranio arricchito, ma alla fine, tra dieci, vent'anni, disporrà di un'arma nucleare esplicitamente, programmaticamente, deliberatamente finalizzata alla distruzione di un nemico, di un Paese, come dicono i falchi della teocrazia iraniana, che con la bomba sarà «cancellato dalla carta geografica», cioè Israele.
   La bomba atomica, se si eccettua la Seconda guerra mondiale in cui era prioritaria la corsa contro gli scienziati di Hitler e in cui comunque l'immagine di Hiroshima e Nagasaki sopravviverà per sempre come la pagina più oscura di quella vicenda, ha sempre avuto un carattere difensivo e dissuasivo. Nella guerra fredda, il possesso della bomba atomica sanciva il reciproco terrore dell'annientamento: non ti azzardare a usare la Bomba altrimenti perirai dopo che noi avremo sganciato le nostre. La bomba degli israeliani è eminentemente difensiva. Persino la Corea del Nord, che pure è controllata da un pugno di fanatici, concepisce la bomba atomica come arma estrema per rompere l'accerchiamento nemico. Nel caso dell'Iran no, lo scopo è eliminare lo Stato di Israele, annientare «l'entità sionista», espellere ogni presenza ebraica nella terra santa, sradicare gli ebrei che deturpano la sacralità dell'islam e che occupano una terra non loro in virtù di una colossale menzogna: la menzogna di Auschwitz. Per questo il Paese che avrà, sia pur in tempi molto più lunghi, la bomba atomica, ospita a Teheran un festival delle vignette negazioniste sull'Olocausto. Per questo Israele ha paura di questo accordo. Una paura primaria, perché con quella Bomba viene messa in discussione l'esistenza stessa dello Stato degli ebrei.
   Diranno che sono paranoici, gli ebrei di Israele, e le loro risposte «sproporzionate». Ma, come sostiene Klein Halevy, con l'accordo con l'Iran antisemita e antisionista si sono violati «i due tabù del dopoguerra: mai più Auschwitz e Hiroshima». Auschwitz attraverso l'arma usata a Hiroshima. Al di là dei parametri del realismo politico ed economico, la disfatta morale di un duplice tabù infranto non è certo un'esagerazione.
   
(Corriere della Sera, 20 luglio 2015)


"Caro Renzi, fermi le accuse a Israele"

Fatah è il problema, Abu Mazen torni a trattare.

di Fiamma Nirenstein

Caro Presidente Renzi,
mi permetta di scriverle candidamente, da veterana del Medio Oriente, alla vigilia di un evento importante. Lei domani parlerà alla Knesset. Che magnifica occasione, non se la faccia sfuggire. Guardi bene, mentre cammina verso l'aula che raccoglie 120 parlamentari, le foto appese nei corridoi sulle mura bianche e verdi. Vedrà istantanee di David Ben Gurion con la sua criniera, Moshè Dayan con la benda, Rabin, Peres, Begin, Golda Meyer, Shamir. Non sono mai in posa. Vedrà dei ritratti di leoni in lotta per la sopravvivenza, volti su cui si legge spontaneità e coraggio; già di per sé esprimono allegria e concentrazione, ma si capisce che sono preoccupati per la guerra se verrà, sentono la grande responsabilità, ma anche sanno che ce la faranno. Vedrà i leader con la camicia bianca aperta sul collo, massima concessione all'ufficialità. Si ispiri, ritrovi lo spirito colto del Vecchio Continente studiando nei volti determinati il segreto della sopravvivenza del popolo ebraico, l'orgoglio di avere per la seconda volta nella storia dopo il re David fondato lo Stato Ebraico. Quanta strada per arrivarci, quante sofferenze, quanta democrazia in un'area che non l'aveva mai conosciuta prima e non la conoscerà poi. Lo dica, Presidente, ma non si limiti a dire che apprezza «l'unica democrazia del Medio Oriente». Sfoderi il suo spirito di protesta in tempi in cui ad ogni riunione dell'Onu, del suo inutile Consiglio per i diritti umani, dell'Ue gregaria, si scova un modo di condannare Israele solo perché difende la vita dei suoi cittadini. Dica che l'Italia non ci starà più, che cercherà di bloccare la perversa delegittimazione di Israele. Esca dalla retorica di «non più muri» quando si sa che quella (brevissima) barriera di cemento ha salvato dal terrorismo il 99 per cento delle vittime predestinate.
   Lei giunge in Israele mentre il Medio Oriente è in pieno terremoto e Israele conosce nuovi pericoli. È giusto dare conto del fatto che i confini del Paese sono in fiamme: due stati islamici odiano Israele, quello nuove dell'Isis con le sue atrocità, e l'Iran, che, accordo o no, seguita a promettergli morte. Il Golan e tutto il bordo con la Siria sono a rischio ora a causa dell'Isis, ora dell'Iran e dei suoi protetti, a seconda di chi in quel momento conquista la zona; il Libano è preda degli Hezbollah, i peggiori terroristi del mondo; il Sinai è luogo di caccia dell'Isis che odia l'Egitto quanto Israele, e anche la Giordania è insidiata; poco lontano l'Irak e lo Yemen sono teatri di guerra; e Hamas usa i missili iraniani oppure quelli del Qatar. Sarebbe l'ora che una grande nazione come l'Italia dicesse che dall'esito della battaglia di sopravvivenza di Israele dipende la guerra al terrore. L'Italia deve promuovere un'alleanza di tutti i Paesi interessati all'equiibrio in Medio Oriente, e può farsi garante di un nuovo rapporto in funzione anti estremista di Israele, Egitto, Arabia Saudita, il Golfo, la Giordania. Lei, presidente, trova un Paese scioccato dall'accordo dei P5+1 con l'Iran: Israele sa che questo azzardo può pagarlo per primo. Per quanto Rouhani e Zarif siano diplomatici, l'Iran promette di distruggere l'America (quindi l'Occidente) e Israele e mantiene il progetto nucleare anche se dice che non è bellicoso. Il leader supremo Khatami si cura di ripetere le minacce. Dica che se n'è accorto, Presidente, o si penserà che gli europei sono ciechi e sordi. Le garanzie nell'accordo non sono sufficienti per evitare l'arricchimento dell'uranio in segreto. E come la mettiamo conle guerre di conquista, con le impiccagioni degli omosessuali? Presidente, diciamo una parola sull'azzardo-Iran. Dia conto a un Paese stupefatto dall'indifferenza e dal cinismo verso chi promette un nuovo olocausto che l'Italia ascolta, trovi il modo di dire che non ci butteremo come pescecani sul nuovo bottino della caduta delle sanzioni. Sui palestinesi, tutti si nascondono facile dietro il tema di Hamas: sono terroristi, sparano sulla popolazione civile, ma la colpa della mancanza delle trattative è di Israele, perché Abu Mazen invece è pacifista. Presidente, dica una volta per tutte che è Fatah il problema, inviti Abu Mazen a tornare al tavolo delle trattative, e a cessare dall'esaltazione del terrorismo. Infine, lei ha una passione per la magnifica abilità tecnologica e scientifica di Israele. Certo, dirà che questo ne fa un partner irrinunciabile. Ma se può, spieghi: se non la si smette col boicottaggio ci troveremo a dover vivere senza parti essenziali dei computer e medicine per l'Alzheimer.
   Mi metto davanti alla tv, Presidente, tanti auguri, insegni all'Europa la verità.
   
(il Giornale, 20 luglio 2015)


Il vicecancelliere tedesco in Iran

Prima visita dopo l'accordo nucleare. «Le priorità: economia e Israele»

I tedeschi sono stati i primi ad arrivare dopo l'accordo nucleare. Il vicecancelliere Sigmar Gabriel, che è anche il ministro dell'Economia, è atterrato ieri a Teheran con una delegazione di industriali e imprenditori per una visita di tre giorni durante la quale incontrerà anche il presidente Hassan Rouhani. Gabriel ha cömunque invitato le autorità locali a migliorare i rapporti con Israele se, dopo la rimozione delle sanzioni, vorranno stabilire relazioni economiche strette con la Germania e gli altri Paesi occidentali. «Mettere in dubbio il diritto ad esistere di Israele è qualcosa che noi tedeschi non possiamo accettare», ha detto Gabriel. Ha aggiunto che va affrontata anche la questione delle violazioni dei diritti umani nella Repubblica Islamica.
L'accordo siglato martedì, che porterà a rimuovere le sanzioni in cambio di limiti al programma atomico dell'Iran, è stato inviato da Obama al Congresso Usa: da oggi 60 giorni per esaminarlo.

(Corriere della Sera, 20 luglio 2015)

*

Il ministro dell'Economia tedesco a Teheran con imprenditori e industriali

BERLINO - La visita di Gabriel in Iran non ha mancato di suscitare profonde critiche da parte dell'opinione pubblica, in particolare delle organizzazioni per i diritti umani che considerano Teheran un regime disumano. Dure critiche sono giunte anche da Israele. Secondo quanto emerge da alcuni stralci in anteprima di una intervista al quotidiano tedesco "Bild", che verrà pubblicata domani, il ministro ha precisato che i legami a lungo termine con Teheran dipenderanno dal futuro riconoscimento dello Stato di Israele. "Il diritto di Israele a esistere non deve più essere messo in discussione. Le relazioni stabili si svilupperanno solo quando ciò verrà riconosciuto dai responsabili politici iraniani", ha detto.

(Agenzia Nova, 19 luglio 2015)


"...
come pescecani sul nuovo bottino della caduta delle sanzioni", ha scritto Fiamma Nirenstein. I pescecani sono arrivati subito. Hanno vinto la corsa i tedeschi. Interessante la frase del ministro: “I legami a lungo termine con Teheran dipenderanno dal futuro riconoscimento dello Stato di Israele”. Il che significa: i legami a breve termine, cioè gli affari economici che contano, li facciamo subito, ma per mantenere i legami a lungo termine ci aspettiamo un futuro riconoscimento di Israele da parte dell’Iran, E se poi dovesse accadere che invece del futuro riconoscimento di Israele si verificasse la futura distruzione di Israele? Al fine di mantenere i legami a breve termine, probabilmente il ministro tedesco non si è posto questa domanda. M.C.


Gaza - L'Isis incendia le auto di Hamas

È' certamente a firma del Daesh (Isis) la serie di attacchi verificatisi oggi a Gaza, dove ben cinque automobili di dirigenti di Hamas e della Jihad islamica sono state date alle fiamme: l'azione, di per sé dimostrativa (non vi sono state vittime), non è stata rivendicata, ma vicino alle auto distrutte sono state rinvenute scritte inneggianti allo Stato Islamico.
Da qualche tempo nella Striscia è in atto una cruenta lotta fra le molte fazioni, con azioni che sfuggono al controllo di Hamas, come il recente lancio di razzi verso Israele ad opera delle Brigate dello sceicco Omar Khadir, gruppo che si riconosce nel Daesh. La stessa cellula è responsabile di numerosi attentati nei confronti di obiettivi di Hamas come gli uffici della Striscia, per cui nei giorni scorsi sono stati arrestati un centinaio di terroristi.
I jihadisti del Daesh criticano Hamas in quanto accusato di laicismo e di aver cessato le ostilità con Israele.

(Notizie Geopolitiche, 19 luglio 2015)


Obama offre aiuti militari a Israele dopo l'accordo sul nucleare iraniano

GERUSALEMME - Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha proposto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di avviare colloqui immediati per discutere il rafforzamento delle capacità offensive e difensive delle Forze di difesa israeliane, all'indomani dell'accordo internazionale sul nucleare iraniano duramente criticato da Tel Aviv. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Haaretz", che cita fonti governative statunitensi anonime. Stando alle fonti, il premier Netanyahu non ha ancora risposto all'offerta, che Obama avrebbe rivolto alla sua controparte israeliana già lo scorso aprile, per poi ribadirla nelle scorse ore. Lo scorso maggio, Netanyahu aveva sdegnosamente respinto l'offerta, dichiarando che accettarla sarebbe significato avvallare implicitamente l'accordo negoziato dalle maggiori potenze globali con l'Iran. Stando alla fonte consultata da Haaretz, Obama avrebbe detto a Netanyahu di aver compreso le ragioni del suo iniziale diniego, ma lo avrebbe altresì invitato a tornare sui suoi passi, citando l'esigenza di mantenere la superiorità militare israeliana sull'Iran.

(Agenzia Nova, 19 luglio 2015)


La soap opera più seguita in Palestina è sugli ebrei

di William Booth e Sufian Taha - Washington Post

Si chiama "Haret el Yahud", è egiziana ed è stata sia lodata che criticata perché racconta gli ebrei come personaggi positivi

Alcuni palestinesi si sono radunati dopo mezzanotte in una piccola fattoria vicino a Betlemme, in Cisgiordania, per crogiolarsi in un nuovo piacere: guardare una soap opera sugli ebrei. I ragazzi palestinesi si mettono di fronte al televisore, qualcuno chiede il silenzio, altri sorseggiano limonata o sgranocchiano dolci. Poi parte la sigla della serie televisiva Haret el Yahud ("il quartiere ebraico"), la più seguita in Palestina degli ultimi mesi.
   Haret el Yahud racconta una storia d'amore un po' alla Romeo e Giulietta fra la bellissima figlia di un mercante ebreo e un comandante musulmano dell'esercito. È ambientata al Cairo, in Egitto, durante la guerra arabo-israeliana del 1948 e il periodo immediatamente successivo. L'atmosfera della soap è un misto fra Casablanca, Il violinista sul tetto e Lawrence d'Arabia. Non è raro che gli israeliani e gli ebrei siano presenti nelle serie televisive prodotte nel mondo arabo: il fatto è che nelle altre serie sono ritratti in modo stereotipato come avari, malvagi e dal naso lungo (oppure come occupanti della Palestina). In Haret al Yahrud gli ebrei parlano arabo, bevono molto caffè e discutono all'infinito di soldi, famiglia e politica. Proprio come i musulmani. «Non avrei mai pensato di poter guardare una cosa del genere», dice Mahmoud Dadoh, un agricoltore palestinese.
   Quello che ha stupito Dado e i suoi amici è che Haret al Yahrud mostra gli ebrei in un'ottica positiva - come persone normali, e anche lodevoli - e che va in onda sulla tv pubblica palestinese, e quindi con l'implicito appoggio del governo. Secondo Dadoh, «è una cosa nuova per noi. Guarda quanta dignità, questi personaggi!». I suoi amici annuiscono. Durante il Ramadan in Palestina e nel mondo arabo è tradizione seguire assieme alla propria famiglia o ai propri amici alcune serie televisive che spesso contengono delle pubblicità costosissime come quelle del Super Bowl (durante il Ramadan la giornata "inizia" dopo il tramonto, quando si può bere, mangiare e fumare). Le serie più di successo di questo tipo vengono prodotte in Egitto e in Siria, e trasmesse un po' ovunque in tutto il mondo arabo.
   Haret el Yahud, prodotta in Egitto all'inizio del 2015, ha però ricevuto anche diverse critiche. Sulle prime, l'ambasciata israeliana in Egitto aveva lodato la soap opera per raffigurare gli israeliani «come esseri umani, prima di tutto». In seguito, dopo che alcuni personaggi ebrei della storia sono stati messi in cattiva luce, gli israeliani si sono lamentati del fatto che la soap opera aveva preso una strada ostile verso Israele. Anche i commentatori arabi si sono lamentati, spiegando che i personaggi musulmani della serie sono figure di poco conto - ballerine o trafficanti - mentre gli ebrei sono sempre raffigurati come personaggi patriottici e positivi. In un'intervista, uno dei creatori della seria ha effettivamente detto che uno degli obbiettivi non era «solamente fare soldi», ma anche «mandare un messaggio».
   Khalid Sudar, il responsabile della programmazione della tv pubblica palestinese, ha detto di aver comprato i diritti per trasmettere Haret el Yahud ancora prima che iniziasse la produzione. Sudar ha aggiunto che sapeva di stare prendendo un rischio, ma che era certo del fatto che la soap opera «avrebbe fatto il botto». Oggi Haret el Yahud ottiene in Palestina circa il 40 per cento di share in prima serata. Sudar ha anche detto di avere recentemente incontrato il presidente della Palestina Mahmoud Abbas, il quale gli ha detto che Haret el Yahud è l'unica serie televisiva che segue. Secondo Sudar, «per molti palestinesi un ebreo è visto solamente come un soldato o un colono. E basta. Ecco cosa vede la nostra gente. Ora però sono io a chiedere agli israeliani di rappresentare i palestinesi in modo diverso. Siamo umani anche noi. Mostrateci come tali in tv».

(il Post, 19 luglio 2015)


Pallacanestro - Maccabi Tel Aviv insaziabile, vicino Jeffery Taylor

Il Maccabi gli ha offerto un biennale e attende ora una risposta

Il Maccabi Tel Aviv è letteralmente esploso sul mercato dopo l'ultima stagione disastrosa, uscendo dai cardini di squadra misurata e dedita ad investimenti mirati e "turchizzandosi".
La squadra pluricampione di Israele ha infatti presentato un'offerta a Jeffery Taylor. Il giocatore, in uscita dagli Charlotte Hornets, deve rispondere, ma le parti sono abbastanza vicine. Il contratto offerto è biennale.

(Sportando, 19 luglio 2015)


Technion-Sapienza, insieme per la scienza

Sull'asse Roma-Haifa la missione di un gruppo di docenti dell'Università Sapienza di Roma, guidati dal rettore Eugenio Guadio, in visita in queste ore ad una delle eccellenze d'Israele: il Technion, fucina di premi Nobel e tra i luoghi di scienza e ricerca più accreditati al mondo.
   Accompagnati dai rappresentanti dell'Italian Technion Society, associazione presieduta da Piero Abbina che da anni lavora per costruire un ponte accademico tra i due paesi, i docenti della Sapienza sono coinvolti nel fitto programma di incontri della tre giorni israeliana del ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Stefania Giannini. Obiettivo della missione: consolidare il rapporto di collaborazione già in atto tra i due atenei e al tempo stesso implementare nuove iniziative e nuove strategie condivise.
   "La missione - spiega Abbina a Pagine Ebraiche - è focalizzata sia sull'università in sé che sui rapporti tra università e industria, approfondendo le sfide più importanti sviluppate proprio ad Haifa. Faccio l'esempio di Rewalk, progetto che è venuto incontro alle esigenze di chi aveva perso l'uso degli arti inferiori e che ha conquistato l'attenzione dell'opinione pubblica internazionale".
   È la prima volta che il rettore si reca in Israele per dare continuità alle iniziative già intraprese. E questo, sottolinea Abbina, "è un fatto particolarmente significativo".
   Sono una quindicina gli studenti italiani iscritti al Technion, alcuni dei quali impegnati a fare ricerca sui nanosatelliti e attivamente coinvolti nello scambio tra Italia e Israele. Un asse che, a detta di Abbina, andrebbe ulteriormente rafforzato. A tal fine l'Italian Technion Society è impegnata a portare il messaggio di eccellenza del Technion in tutto il paese, con legami saldi in modo particolare, oltre che con la Sapienza, con i politecnici di Milano e Torino e con l'Università di Perugia. Ogni autunno viene inoltre organizzato un grande evento tematico di presentazione delle proprie attività. A novembre di quest'anno, anticipa Abbina, il confronto verterà sull'eurospazio.

(moked, 19 luglio 2015)


Calcio - Israele mette fuorilegge gli ultras

Richiesta avanzata in Parlamento dopo gli scontri in Europa League, in casa del Charleroi. Anche Israele deve fare i conti con gli ultras.

Nel Paese il tifo organizzato è cresciuto negli ultimi anni. I supporter di alcune squadre, come l'Hapoel Tel Aviv o il Bnei Sakhnin, si riconoscono nella sinistra e sono vicini alla causa palestinese; altri, invece, fanno parte della destra nazionalista ebrea, come il Maccabi Tel Aviv o il Beitar Gerusalemme.
Proprio i tifosi della squadra della capitale, in particolare il gruppo 'La Familia' è al centro di un vero caso nazionale. Gli ultras gialloneri si sono resi protagonisti di scontri e di lanci di fumogeni e petardi in campo nella trasferta di qualificazione di Europa League sul campo dei belgi del Charleroi, costringendo anche l'arbitro a sospendere la partita.
Il presidente del club, Eli Tabib, è disperato per la figuraccia internazionale e vuole vendere immediatamente la società; ma addirittura in Parlamento stanno ragionando su manovre drastiche per punire i colpevoli.
E' stato infatti chiesto di mettere fuorilegge il gruppo 'La Familia' e mercoledì, in occasione del ritorno di Gerusalemme, sarà in servizio uno schieramento straordinario di poliziotti per prevenire ulteriori violenze.

(Sportal, 19 luglio 2015)


Nucleare iraniano, il capo del Pentagono atteso oggi a Tel Aviv

l segretario americano alla Difesa Ashton Carter intende rassicurare i vertici israeliani sull'accordo.

Il segretario americano alla Difesa Ashton Carter è atteso questa sera a Tel Aviv, dove intende rassicurare i vertici israeliani sull'accordo nucleare con l'Iran.
Sono previsti incontri sia con il primo ministro Benyamin Netanyahu che con il titolare della Difesa, Moshe Yaalon. Successivamente Carter si recherà in Giordania e Arabia Saudita, paesi che condividono le preoccupazioni d'Israele in merito all'accordo.
Netanyahu ha intanto nuovamente espresso dure critiche contro l'intesa. "Se qualcuno pensa che le straordinarie concessioni fatte all'Iran porteranno ad un suo cambiamento di politica, la risposta è chiaramente già arrivata con l'aggressivo discorso del leader iraniano Khamenei", ha detto Netanyahu intervenendo al consueto consiglio dei ministri della domenica.
Gli iraniani, ha aggiunto, "stanno chiaramente dicendo che continueranno a combattere contro gli Stati Uniti e i suoi alleati, soprattutto Israele".

(tio.ch, 19 luglio 2015)


Ecco il solito Iran antiamericano

Invettive contro l'Occidente e Israele a pochi giorni dall'intesa sul nucleare. L'ayatollah Khamenei: «L'accordo non cambierà mai la nostra politica nei confronti dell'arrogante governo Usa».

di Fiamma Nirenstein

 
Ali Khamenei
L'accordo nucleare con le maggiori potenze non cambierà la politica iraniana contro «l'arrogante governo americano» né modificherà la politica della Repubblica islamica «nell'aiuto ai suoi amici» nella regione. L'ha ripetuto ieri il Supremo Leader Ayatollah Ali Khamenei, fra canti di «Morte all'America» e «Morte a Israele» a Teheran per marcare la conclusione di Ramadan. Le reazioni occidentali sono pari allo scacciare una mosca con un gesto della mano: ma via, dicono, l'Iran è un Paese coperto di inutili maldicenze. Si sa, gli iraniani hanno il tic di giurare guerra e distruzione agli Usa e Israele, di promettere di schiacciare gli infedeli, hanno la fissazione che l'islam sciita, preparando l'avvento messianico e apocalittico del Mahdi, faccia del mondo un dominio islamico sconfinato ma la realtà, dicono gli speranzosi, è che si tratta di un artificio retorico fatto per conservare il consenso, per mantenere il punto. Insomma, segnali di fumo mentre quel che conta è l'accordo siglato a Vienna nei giorni scorsi, sono quei 150 miliardi che si preparano a tornare a casa, facendo dell'Iran una nazione fra le nazioni. Peccato che invece le minacce del mondo islamico, storicamente, non si siano mai rivelate peregrine, dai talebani a Bin laden all'Isis: lo dicono, e poi lo fanno.
   Khamenei è stato preciso: ha elencato tutti i campi di battaglia della battaglia egemonica iraniana, che, come quella dell'Isis, prima punta al Medio Oriente, e poi passerà al mondo occidentale. Il supremo leader ha detto e ripetuto con un twitter: «Non cesseremo di sostenere le nazioni oppresse in Palestina, Yemen, Siria, Bahrain, Lebanon». Ciò significa: il Libano resterà in mano dei nostri Hezbollah, combatteremo per Bashar Assad, sosteniamo con le armi gli Houti ribelli in Yemen, finanziamo Hamas, usiamo il Bahrain come base di attacco nella Penisola Arabica. Manca l'Irak, dove le forze del generale iraniano Qasem Soleimani controllano ogni movimento strategico. Insomma, col suo approccio Khamenei, che scrive anche «anche dopo l'accordo, le nostre politiche non cambieranno, non abbiamo nessun colloquio con gli Usa su questioni regionali. Abbiamo parlato con loro occasionalmente del nucleare».
   Insomma, Khamenei non chiacchiera, promette: conferma che l'Iran conduce la sua politica internazionale di dominio, che i 150 miliardi andranno in attività belliche che scombineranno del tutto il Medio Oriente, lo renderanno campo di battaglia e probabilmente anche di nuclearizzazione ulteriore. L'ha già ammesso Susan Rice, che ha detto «noi volevamo occuparci solo di nucleare, non del cattivo comportamento e del militare dell'Iran». Solo che l'atteggiamento ringhioso renderà difficile anche sorvegliare l'accordo, dato che le ispezioni in strutture sospette devono essere annunciate 24 giorni prima, devono ricevere l'approvazione di una commissione e dell'Aiea; l'agenzia nucleare internazionale non dovrà avere nessun ispettore americano o di altro stato che non abbia rapporti diplomatici con l'Iran. Figuriamoci.
   Obama forse ormai si rende conto, di aver fatto un passo troppo lungo e sembra cercare di correre ai ripari, di giustificarsi prima che il Senato, che deve rivedere l'accordo, decida per un eventuale «no». Obama ha già annunciato che opporrebbe il veto allo stop eventuale, ma sarebbe un gesto poco adatto allo splendore dei media. Così ieri ha fatto un discorso tronfio e imbarazzato: «Accolgo ogni approfondimento, non temo nessuna domanda. Come Comandante in Capo non mi scuso di mantenere il Paese in pace e sicurezza. Questo trattato risolve tutti i problemi che l'Iran pone ai suoi vicini e al mondo? No. Fa di più quanto chiunque abbia fatto prima per assicurare che l'Iran non ottenga l'arma nucleare? Si». Ma si sarebbe potuto far di più, per esempio essere più duri sulle sanzioni che contrariamente a quello che ha detto il Presidente ieri, non sarà davvero facile ripristinare in caso di violazioni dell'accordo.
   Dati i precedenti storici sotto gli occhi di tutti, le tecniche di nascondimento iraniane possono vincerla di nuovo sul meccanismo di sorveglianza basso, il numero delle centrifughe nelle mani dell'ayatollah alto, le leziosità di Mohammad Javad Zarif quando dice «Siamo stati molto lieti di trattare con l'amministrazione Obama». Certamente: Obama ha una tendenza a scambiare la resa per una vittoria morale. È così che l'Isis prospera anche a casa sua dove l'attacco di Chattanooga mostra l'infiltrazione islamista sunnita in un mondo apparentemente integrato. L'islamismo impazza a tenaglia, in Siria e in Irak l'uso di gas venefici da parte dell'Isis contro i Curdi attaccano l'unico vero guerriero che l'Isis abbia dovuto fronteggiare finora sul campo di battaglia, l'auto bomba al mercato di Baghdad che ha fatto 100 morti per festeggiare la fine di Ramadan, gli spari contro una nave egiziana...
   Largo come una nera macchia d'olio l'aggressività islamica si diffonde, e chi la guarda è accusato di islamofobia e di non capire i progressi portati dalla politica obamiana.

(il Giornale, 19 luglio 2015)


L'Isis punta su Roma, ma il governo lo ignora

di Magdi Cristiano Allam

Ce l'hanno fatto capire in tutti i modi che sono estremamente seri quando dicono che conquisteranno e sottometteranno Roma all'Islam. Ma chi ci governa fa ostinatamente finta di niente. Ancora venerdì scorso in un terrificante video che mostra un bambino decapitare un soldato siriano, un terrorista adulto dello «Stato islamico» ha sostenuto che «i nostri obiettivi non sono solo Palmira, Homs o Damasco, ma anche Gerusalemme e Roma».
   La differenza tra Gerusalemme e Roma è che mentre Israele reagisce alla guerra scatenata dal terrorismo islamico e si prepara a bombardare le centrali nucleari iraniane prima che il regime tirannico degli ayatollah produca la bomba atomica, per l'Italia la guerra non esiste proprio e in ogni caso non ci riguarda. Dopo che l'11 luglio i terroristi dello «Stato islamico» hanno rivendicato l'attentato all'autobomba che ha devastato la sede del Consolato italiano al Cairo, due giorni dopo il ministro degli Esteri Gentiloni ha dichiarato con la massima serenità che «l'attentato è un fatto grave, un probabile avvertimento, ma non dobbiamo interpretarlo come qualcosa di diretto verso l'Italia», assicurando che non c'è «un problema Italia».
   Eppure ci hanno avvertito in tutti i modi. Il 22 giugno in un video si sono spinti a sostenere che «il Califfato con la conquista di Roma sta per compiere un'impresa epica e tutti i libici sono invitati a tornare nel loro paese per ristabilire la legge di Allah. La Libia non è lontana da Roma. I mujaheddin hanno già combattuto contro i miscredenti italiani e non temono di rifarlo».
   Hanno riservato una copertina di Dabiq, la rivista dello «Stato islamico», a un fotomontaggio che ritrae la bandiera dell'Isis sventolare sul capitello al centro di Piazza San Pietro, con sopra la scritta «La crociata fallita». Ci hanno inviato una serie di immagini dal messaggio inequivocabile. In una si vede il Colosseo su cui sventola la bandiera nera dello «Stato islamico» mentre avanza un terrorista islamico con sulle spalle una mitragliatrice pesante e una scritta indica le sue intenzioni in lingua araba ed inglese: «Dalla Libia stiamo arrivando o Roma».
   In una seconda c'è il disegno del gasdotto Greenstream che da Wafa in Libia arriva a Gela, con la minaccia di conquistarci per adempiere alla profezia di Maometto: «Le onde ancora ci separano, ma questo è un mare piccolo, è una promessa al nostro Profeta. State attenti, ogni stupido passo vi costerà caro. Ogni stupido passo incendierà tutto il Mediterraneo». In una terza un terrorista sventola la bandiera dello «Stato islamico» con la didascalia che recita in inglese: «Prossima tappa Roma», mentre il predicatore Musa Cerantonio, australiano di origini calabresi riparato nello «Stato islamico», ci ha beffato facendosi riprendere con la bandiera dell'Isis in Piazza San Pietro.
   Dobbiamo capire che i terroristi islamici sono estremamente sinceri e seri perché dicono e fanno solo ciò che Allah ha prescritto nel Corano e ciò che ha detto e fatto Maometto. Noi invece non sappiamo neppure che nell'813 e nell'864 gli islamici per ben due volte invasero Roma e saccheggiarono la Basilica di San Pietro. Ma soprattutto non sappiamo che l'insistenza con cui ci ripetono che conquisteranno Roma, si fonda sulla certezza assoluta che Roma sarà islamizzata perché è stato Maometto stesso a profetizzare che dopo Costantinopoli anche Roma cadrà. Ebbene Renzi e Alfano o ci dicono che i terroristi islamici sono dei millantatori che non meritano alcuna attenzione, oppure sono loro pazzi e irresponsabili perché fanno finta di niente. Basta omertà: ora più che mai devono parlare!
   
(il Giornale, 19 luglio 2015)


La cannabis aiuta a riparare le fratture

Mentre in Parlamento si parla di legalizzarla negli Usa uno studio mostra che il cannabidiolo presente nella cannabis accelera la guarigione in caso di fratture. Rispondi al test di Wired sulle droghe.

di Simone Valesini

Mentre in Italia si discute della possibile legalizzazione della cannabis anche a scopo ricreativo (se non lo avete ancora fatto, ricordatevi di rispondere al Wired Drug Survey), le prove della sua utilità, per lo meno in campo terapeutico, continuano ad accumularsi. Oltre ad alleviare i sintomi di patologie come il Parkinson, i tumori e la sclerosi multipla, la marijuana potrebbe infatti risultare benefica anche in un modo forse difficile da immaginare: aiutando a far saldare più rapidamente le ossa fratturate. A suggerirlo è uno studio realizzato dall'Università di Tel Aviv e dalla Hebrew University, e pubblicato sul Journal of Bone and Mineral Research.
   Il nuovo studio ha preso il via da risultati precedenti dello stesso team di ricercatori, che avevano dimostrato come in varie parti del nostro corpo, anche al di fuori del cervello, esistano recettori sensibili all'azione dei cannabinoidi (sostanze chimicamente simili al Thc contenuto nella cannabis), che a livello dello scheletro hanno il compito di stimolare la formazione di tessuto osseo, e inibirne la perdita nel caso di patologie come l'osteoporosi. "Alla luce di queste scoperte - spiega Yankel Gabet, ricercatore dell'Università di Tel Aviv che ha coordinato lo studio - il potenziale clinico dei composti imparentati con i cannabinoidi risultava semplicemente innegabile".
   I ricercatori israeliani hanno quindi concentrato la loro attenzione sul cannabidiolo, o Cbd, un metabolita del la cannabis che una volta separato dal Thc ha principalmente proprietà antinfiammatorie, e non presenta effetti psicoattivi. Nello studio, un gruppo di ratti con frattura del femore ha ricevuto per diverse settimane il cannabidiolo, mentre ad un secondo gruppo di animali, che fungeva da controllo, sono stati somministrati sia Cbd che Thc, per verificare se il principio attivo della cannabis fosse indispensabile per promuovere la formazione di nuovo tessuto osseo.
   Dopo circa otto settimane, le ossa dei ratti di entrambi i gruppi hanno iniziato a guarire ad un ritmo superiore a quello normale. Particolare importante dal punto di vista della ricerca, il Cbd anche in assenza del Thc ha mostrato la stessa efficacia nel promuovere la crescita ossea, ed è risultato inoltre in grado di potenziare la resistenza delle ossa una volta risaldate. "Abbiamo dimostrato che il cannabidiolo è sufficiente per rendere le ossa più forti nel corso della guarigione, migliorando la maturazione della matrice collagenica, che fornisce la base per la mineralizzazione del nuovo tessuto osseo", continua Gabet. "Dopo essere stati trattati con il Cbd, le nuove ossa saranno quindi anche più resistenti".
   Il prossimo passo, conclude Gabet, sarà ora quello di sperimentare l'efficacia del cannabidiolo anche su pazienti umani.

(Wired.it, 19 luglio 2015)


Israele, l'enigma dei mosaici

A poca distanza da Cafarnao, il villaggio di Gesù, in un'antica sinagoga tornano alla luce mosaici che rappresentano misteriose figure, tra cui forse quella di Alessandro Magno.

di A.R. Williams

Fotogalleria
Alla fine del mese di giugno, fra le chiacchiere e i rumori degli archeologi intenti a scavare nel sito, è risuonato un grido: "Andate a chiamare Jodi! Ci sono altri mosaici!". Gli archeologi invocavano Jodi Magness, direttore degli scavi all'antico villaggio ebraico di Huqoq, in Israele.
Su una collina affacciata sul Mare di Galilea, gli studiosi hanno riportato alla luce uno straordinario pavimento a mosaico dopo l'altro nelle rovine di una sinagoga di epoca romana.
Da quando nel 2012 è tornato alla luce il primo frammento composto dalle piccole pietre colorate, Magness, professore alla University of North Carolina, Chapel Hill, e Shua Kisilevitz, archeologo dell'Autorità Israeliana per le Antichità, sono tornati sul sito ogni estate per la campagna di scavi.

(National Geographic Italia, 18 luglio 2015)


Possibile aumento degli aiuti militari Usa a Israele dopo l'accordo sul nucleare iraniano

GERUSALEMME - In un'intervista rilasciata all'emittente israeliana "Channel 2", il ministro della Difesa Moshe Ya'alon ha sottolineato che la ratifica dell'accordo da parte del Congresso sarà una conclusione scontata rivelando l'opportunità di nuovi colloqui con Washington rispetto alle conseguenze del nuovo scenario geopolitico scaturito dopo il successo dei negoziati sul nucleare iraniano. "Se parliamo di aiuti nel settore della Difesa è evidente che la situazione è cambiata e deve essere attentamente studiata", ha detto Ya'alon, ricordando che i vantaggi che economici di Teheran derivanti dalla revoca delle sanzioni consentirebbero alla Repubblica islamica di aumentare il sostegno ai guerriglieri Hezbollah in Libano e ai movimenti armati dei territori palestinesi. Un'altra conseguenza, secondo il ministro della Difesa, è la corsa alle armi da parte dei paesi sunniti.

(Agenzia Nova, 18 luglio 2015)


AAA: Cercasi odiatori di Israele (si offre buona paga)

Un'offerta di lavoro che non passa inosservata. Il datore è la "Jewish Voice for Peace" (JVP), un'organizzazione le cui finalità, se non fosse sufficientemente chiaro, sono enfatizzate dalle foglie di ulivo che ne accompagnano il logo. Dunque la JVP assume un "Artist Council Organizer", e offre in cambio di 20 ore di lavoro a settimana, una sontuosa retribuzione: 25.000 dollari all'anno, più «generosi benefici» ed esenzioni fiscali....

(Il Borghesino, 18 luglio 2015)


Gli usurai della UE ricattano i greci e regalano miliardi alla Palestina

Gli usurai della Troika tengono sotto ricatto i greci concedendo quel tanto che basta a mantenerli soggiogati, mentre ai palestinesi concedono tutto in cambio di nulla. Se leggete la relazione dell'11 dicembre del 2013 la Corte dei Conti Europea, affermava che sin dal 1994 la fogna UE ha fornito assistenza per oltre 5,6 miliardi di euro ai palestinesi, senza avere un minimo di riscontro o un reale monitoraggio (come pretendono da tutti gli altri Paesi membri) di come venissero effettivamente impiegati questi soldi (leggasi armi).
Oltre al danno la beffa perchè nello stesso rapporto, erano proprio i giudici contabili europei a scrivere che: "Il sostegno finanziario diretto dell'Ue all'autorità palestinese deve essere rivisto", cosa che ovviamente è stata rivista, ma aumentando e non di poco i finanziamenti.

(Imola Oggi, 18 luglio 2015)


Khamenei: Usa "arroganti", la politica di Teheran "non muta"

TEHERAN, 18 lug. - L'opposizione iraniana all'"arroganza" degli Stati Uniti non cambiera' a dispetto dell'accordo sul programma nucleare iraniano: parola della guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, in un discorso pronunciato per la fine del Ramadan.
   La massima autorita' politica e religiosa della Repubblica Islamica ha chiarito che Teheran rimarra' all'opposizione della politica statunitense in Medio Oriente: l'accordo sul nucleare non cambiera' dunque la politica iraniana nei confronti dei governi di Siria e Iraq e dei "popoli oppressi" di Yemen e Bahrein, o dei palestinesi. Khamenei ha inoltre esortato il Parlamento iraniano a esaminare con attenzione il testo dell'accordo per verificare che effettivamente tuteli gli interessi nazionali, in modo che non vengano disattesi i principi della rivoluzione islamica ne' depotenziate le sue capacita' militari e difensive. Washington - ha aggiunto - vorrebbe la "resa" dell'Iran.
   Teheran non vuole la guerra, ma qualora ci fosse, gli Stati Uniti ne uscirebbero "umiliati". "La nostra politica non cambiera' contro il governo degli arroganti Stati Uniti", ha detto Khamenei, le cui parole venivano accolte dalle tradizionali invettive anti-occidente, "Morte all'America", "morte ad Israele". "La Repubblica Islamica dell'Iran non rinuncera' a dare sostegno ai suoi alleati nella regione, i popoli oppressi della Palestina, dello Yemen, i popoli e i governi siriani e iracheni, il popolo oppresso del Bahrein e i combattenti sinceri della resistenza in Libano e in Palestina". Il leader iraniano, che ha parlato nel corso delle preghiere per Aid el-Fitr, in una moschea di Teheran, ha anche elogiato i negoziatori iraniani per aver "lavorato sodo": "Che l'accordo sia approvato o meno all'interno del processo legale previsto, essi meritano un premio". Ma ancora una volta ha ripetuto le 'linee rosse' della politica nazionale: "Abbiamo detto molte volte che non abbiamo un dialogo con gli Stati Uniti su questioni internazionali o regionali, e neanche su questioni bilaterali. A volte, come nel caso nucleare, abbiamo negoziato con gli Stati Uniti, ma sulla base dei nostri interessi. Le politiche americane nella regione sono diametricamente opposte alle politiche dell'Iran". E a tale proposito ha ricordato che "gli americani sostengono di aver impedito all'Iran di acquisire la bomba atomica". Ma - ha aggiunto - "essi sanno che non e' vero. Noi abbiamo una 'fatwa' (un editto religioso), secondo cui le armi nucleari devono essere proibite dalla legge islamica. E questo non ha nulla a che vedere con i negoziati nucleari".

(AGI, 18 luglio 2015)


Una semplice nota d’agenzia chiarisce le cose più di tanti concettosi articoli di fondo. Per Khamenei non c’è nessun dialogo con gli Stati Uniti, nessun cedimento, nessun compromesso. Per l’islam il compromesso è già una sconfitta, quindi è obbligatorio presentarsi sempre come vincitori. Obama non ha ottenuto niente, perché la bomba atomica non è mai stata nei piani dell’Iran, il quale invece è riuscito a sconfiggere l’arroganza statunitense che voleva strangolare l’Iran con le sanzioni. Con l’accordo in corso di adempimento Obama uscirà sconfitto e Khamenei vincitore perché l’Iran potrà risollevarsi economicamente e usare i miliardi che entreranno nelle sue casse per continuare la politica che ha sempre fatto in Medio Oriente: perseguire il dominio iraniano sul mondo islamico e giungere alla distruzione finale di Israele. Questi restano obiettivi da raggiungere su cui nessuno, tanto meno Obama, può illudersi di poter mettere bocca. E se il finanziamento e l’organizzazione di milizie per ottenere questi scopi è chiamato genericamente "terrorismo", questo non fa che confermare l’arroganza degli Stati Uniti. Questo dice Khamenei, e molti, anche fra gli ebrei, si rallegrano del risultato fin qui raggiunto perché - dicono - è “il miglior accordo possibile”. Forse sarà vero in quel concetto di “migliore dei mondi possibili” coniato da Leibniz e motteggiato da Voltaire, ma per molti quel mondo, per essere davvero il migliore, deve escludere l’esistenza di uno Stato d’Israele. M.C.


Accordo con l'Iran: siamo caduti in una trappola?

di Vincenzo Cassano

 
Dopo la firma dell'accordo tra Usa e Iran, la maggior parte dei commentatori ha applaudito alla risoluzione pacifica di un conflitto storico dai toni molto accesi. Uno tra i nemici più terribili degli Usa si trasforma, quasi in una notte - in realtà con un processo di apertura e morbidità da parte del presidente Rouhani - in un docile alleato, capace di un accordo che è di pace, ma non certo di sottomissione.
  Chi ci guadagna senza se e senza ma è infatti l'Iran, che, strangolato dalle sanzioni, vede finalmente la luce.
  Certamente gli Usa e gli altri Stati del 5+1 hanno firmato un accordo che volevano. L'idea è di farsi amico l'Iran per frenare l'Isis. Ma mentre l'Iran ha tutto da guadagnarci, ottenendo la fine graduale delle sanzioni e lo sblocco parziale del programma nucleare in cambio dei controlli da parte delle Nazioni Unite, gli Usa e il resto del mondo hanno varie questioni spinose da tenere d'occhio, e devono assicurarsi di non farsi distrarre troppo dall'Isis o da altre problematiche, con il rischio che l'Iran di nascosto formi una bomba atomica.
  Non si tratta di una visione semplicemente pessimistica. Pur essendo passati dai toni accesi di Ahmadinejad a quelli morbidi di Rouhani, il vero capo dell'Iran è rimasto sempre lo stesso. In Iran, infatti - spiega Antonio Stango, segretario del Comitato Helsinki per i Diritti umani e politologo di cui pubblichiamo l'intervista - a comandare davvero non è il presidente Rouhani. E gli Usa sarebbero caduti in una trappola.
  Ma andiamo per ordine.

- Cosa ne pensa dell'accordo in generale?
  «Intanto io direi che ci sono voluti molti anni per arrivare a quest'accordo, perché era evidente fin dall'inizio che i punti di partenza erano molto diversi.
  «Il problema a mio parere è che il regime iraniano sin dagli anni 90 ambiva a dotarsi di un programma nucleare. Il che in un Paese che è grande produttore di petrolio già dovrebbe destare sospetti, perché il programma nucleare non serve all'Iran per dotarsi di energia. È molto probabile che in realtà fin dagli anni 90, quando fu per la prima volta concepito, servisse per rafforzare il proprio ruolo di potenza regionale attraverso la minaccia dell'uso di un'arma atomica. Ci sono voluti anni e si è dovuti arrivare ad una politica che io definisco di accondiscendenza da parte di molti Stati occidentali verso il regime iraniano.
  Credo che sia complessivamente un errore. Poi c'è qualche aspetto positivo in tutta la vicenda. L'aspetto positivo è che in parte il regime iraniano è stato costretto ad arrivare a delle trattative. Deve assumere una maschera di apparente maggiore morbidità rispetto al passato. Si tratta di maschera perché come sappiamo la politica del regime iraniano è sempre guidata dalla stessa persona, che non è il presidente della Repubblica, che tra l'altro si chiama Repubblica Islamica (né più né meno dell'Isis), ma è la cosiddetta Suprema Guida Spirituale o Supremo Giureconsulto, nella persona dell'ayatollah Khamenei e le politiche di Khamenei sono rimaste esattamente le stesse che erano sotto la presidenza formale di Ahmadinejad.
  Semplicemente il presidente della Repubblica Islamica Rouhani ha un modo di parlare normalmente più pacato di Ahmadinejad. Ma sempre di un regime sanguinario si tratta, e di un regime del quale non ci si può fidare, come hanno dimostrato 36 anni di potere».

- Qual è il rapporto esatto tra questa guida spirituale e il governo? In che modo è al comando questa autorità spirituale?
  «Khamenei è il successore di Khomeyni. La Costituzione della Repubblica Islamica, voluta da Khomeyni, prevede che tutti i poteri siano subordinati al Supremo Giureconsulto o Suprema Guida. Fra le altre cose è lui, con un suo consiglio ristretto che dipende da lui, a scegliere i candidati alla carica di presidente. Nessuno può candidarsi a presidente della Repubblica Islamica del'Iran se non passa il vaglio della Suprema Guida. Per cui anche coloro come Rouhani che si presentano come moderati, in realtà sono parte dell'establishment, sono parte del sistema di potere assoluto del clericalismo degli ayatollah.
  Ed è un potere che ha determinati cardini. Un cardine evidente è la discriminazione delle donne. Un cardine è il dogma della distruzione di Israele, un altro è quello della ferocia contro gli oppositori, che possono venire definiti 'nemici di Dio' e in quanto 'nemici di Dio' condannati automaticamente a morte. Un altro cardine è l'uso sistematico della pena di morte, per tutta una categoria di reati, anche reati senza vittime.
  Quando ci sono state delle manifestazioni contro il regime sono sempre state represse con estrema violenza, in modo tale da spargere il terrore fra i possibili manifestanti. Ed è un sistema che è stato messo quasi in ginocchio da molti anni di sanzioni combinate, in parte della Nazioni Unite, in parte dagli Usa in parte dall'Ue. Ora questo accordo prevede, dopo una prima fase sperimentale, l'ammorbidimento e la fine delle sanzioni economiche, ed è questo lo scopo che ha fatto ridere di gusto il ministro degli esteri iraniano come si vede in alcune immagini di ieri che sono circolate nel mondo.
  Il regime poteva probabilmente spegnersi per incapacità di gestire l'economia del Paese, oltre che per numerose crisi interne e contrasti anche all'interno della nomenclatura. La prospettiva, e quasi la certezza, di un accantonamento delle sanzioni, dà respiro al regime. E poi c'è la questione, l'altro punto molto importante, che l'accordo prevede che l'Iaea, l'agenzia internazionale per il controllo dell'energia atomica, che fa parte del sistema delle Nazioni Unite, possa chiedere di controllare tutti i siti relativi all'arricchimento dell'uranio, ma che le autorità iraniane possano rifiutare di concedere l'ingresso per le ispezioni. Quindi mi sembra una possibilità di controllo in realtà molto debole».

- Per quanto riguarda questi controlli che richiedono un permesso da parte dell'Iran...convengo che sia una cosa un po' particolare. Ma suppongo che se l'Iran dovesse negare questi permessi, si inizierebbe a parlare di caduta dell'accordo o...
  «Sì, sì, ma intanto l'Iran prende tempo. Che è quello che sta facendo da 20 anni, quindi nel momento in cui l'Iran rifiutasse dei controlli in alcuni impianti di arricchimento dell'uranio, turbìne e altri elementi che servono per la produzione di armi nucleari, in quel momento si inizierebbe un complesso procedimento di richiesta di revisione o di sospensione dell'accordo. Ma intanto fra una cosa e l'altra passano anni. E intanto molte sanzioni saranno state abolite. Intanto in alcuni degli impianti, quelli tenuti sostanzialmente segreti, può andare avanti l'arricchimento in misura sufficiente a poter produrre testate nucleari, e il regime in questo modo cerca di consolidare la propria egemonia sull'area, in gran parte gabbando gli Stati partner di questo accordo».

- Secondo lei si può dire che i nuovi toni dell'Iran, più tranquilli, siano in realtà un piano di questa autorità guida per ottenere delle concessioni?
  «In gran parte sì. Poi l'aspetto che ci dà speranza è che trovandosi costretti a poter votare soltanto candidati alla presidenza della Repubblica Islamica scelti dalla Suprema Guida, quindi comunque elementi del regime, il fatto che molti abbiano scelto almeno la maschera di un parziale moderato, anziché la maschera di un fanatico islamista estremo, questo ci dà speranza non nel regime, ma in parte del popolo iraniano, che è un popolo composto in gran parte di giovani, un popolo di persone nate soprattuto dopo la fine del regime dello Shah e la rivoluzione del febbraio 1979, un popolo in cui dobbiamo sperare. Mentre non possiamo, non dobbiamo credere nel regime, che ha dimostrato di non meritare la fiducia internazionale».

- Che ne pensa del ruolo anti-Isis di questo accordo?
  «È una trappola in cui purtroppo gli Stati Uniti hanno voluto cadere. Perché non credo non avessero analisti in grado di capire che si tratta di una trappola.
  L'Isis in realtà nasce da diversi fattori, che sono in parte riconducibili proprio al regime iraniano. Intanto il regime iraniano è uno dei maggiori sostenitori di quello siriano di Assad, contro cui si è creato negli ultimi anni un vasto schieramento che comprende anche forze estremiste, fra le quali l'Isis. Per cui l'Isis, con altre forze che invece sono anche democratiche o almeno moderate, nasce come risposta agli stermini del proprio stesso popolo da parte del regime di Assad, sostenuto direttamente da quello iraniano.
  In secondo luogo l'Isis si è potuto espandere in Iraq perché il governo iracheno di Al-maliki, dopo che sono andate via le forze militari americane, è stato un governo assolutamente infiltrato, finanziato, manovrato e in parte armato dal regime iraniano. Il regime di Al-maliki si è reso responsabile negli anni scorsi di operazioni molto cruente, di uccisioni di massa, di persecuzioni in vario modo della popolazione irachena sunnita, soprattutto nell'Iraq centrale. Quando sono entrate in Iraq l'anno scorso delle bande - all'inizio si trattava di poche centinaia di uomini - di combattenti dell'Isis, alcune tribù sunnite irachene hanno preferito schierarsi con l'Isis anziché continuare ad essere vittime delle vessazioni, se non dei massacri, da parte delle bande sciite o di Al-maliki o addirittura delle bande dei miliziani iraniani, delle guardie rivoluzionarie iraniane, mandate a combattere contro i sunniti in Iraq.
  Per cui in realtà l'Isis è molto più un prodotto del regime iraniano di quanto possa sembrare. Che l'Iran combatta contro l'Isis, potremmo dire, è un problema loro. Che invece gli Stati occidentali sostengano non il popolo iraniano ma il sanguinario regime di quella che è la Repubblica Islamica dell'Iran - il vero Isis è l'Iran come regime, non come popolo - questo a mio parere è molto inquietante, molto pericoloso, molto sbagliato».

(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 18 luglio 2015)


Hezbollah ride, l'Iraq rischia, l'Onu è umiliato. Le conseguenze del deal

Otto effetti collaterali dietro la stretta di mano con gli ayatollah. Intervento apparso su “Politico Europe” di Danielle Pletka, vicepresidente del think tank “American Enterprise Institute”.

L'accordo sull'Iran stipulato martedl sarà analizzato in profondità per mesi. I meccanismi di ispezione funzionano davvero? In che modo l'Iran ridurrà le sue riserve di uranio arricchito? E' saggio dare legittimità al programma missilistico iraniano? Le domande sono migliaia e ogni fronte darà risposte differenti. Ma quali sono le altre conseguenze di quello che Barack Obama continua a definire come un deal "storico"?

1. II raddoppio delle divisioni settarie dei musulmani.

  Giusta o sbagliata, la percezione di molti in medio oriente è che la regione sia nel mezzo di una battaglia tra l'impero neo ottomano sunnita e l'impero neo persiano sciita. Sembra una semplificazione, e per molti versi lo è, ma il fatto che l'Iran lavori per rafforzare un alleato alawita in Siria, gli Houthi sciiti in Yemen e Hezbollah in Libano rinforza l'idea che la Repubblica islamica stia cercando di spezzare lo status quo e imporre un'egemonia sciita ovunque le sia possibile. Dovremo aspettarci che i poteri sunniti della regione facciano tutto quello che possono per respingere questo tentativo.

2. Più guai per le minoranze sciite.

  Benché i paesi sunniti come il Bahrein dicano il contrario, la verità è che gli sciiti sono a lungo stati oggetto di oppressione nel medio oriente. In stati a maggioranza sciita ma dominati da sunniti come il Bahrein, o dove ci sono minoranze sciite consistenti come in Arabia Saudita, Kuwait e Yemen, c'è sempre stato il sospetto che gli sciiti agissero come quinte colonne dell'Iran. E con le potenze sunnite convinte che il deal nucleare dia all'Iran il potere di aumentare la sua intromissione nei loro affari, il sospetto non farà che peggiorare.

3. Aumento consistente della capacità militare dei proxy dell'Iran.

  Si prenda Hezbollah come modello. Da quando l'Iran ha fondato il gruppo terroristico basato in Libano, le sue capacità sono cresciute esponenzialmente. Benché una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu vieti il trasferimento di armi, l'Iran ha aumentato in maniera aggressiva il potere letale di Hezbollah e ha trasformato il gruppo da una marmaglia di combattenti per la "resistenza" in una delle più efficienti organizzazioni paramilitari del medio oriente. Solo gli impedimenti finanziari hanno limitato il supporto dell'Iran in favore di Hezbollah e di altre milizie come Hamas. Ora che il flusso del denaro si sta liberando, questi gruppi riceveranno appieno i benefici del potere militare iraniano.

4. L'inizio della fine del TNP.

  Come ogni Oltre il deal L'accordo tra America e Iran è ricco di effetti collaterali per l'occidente e il medio oriente. Eocene otto altro elenco di regole, il Trattato di Non Proliferazione nucleare (TNP) è valido soltanto finché lo vogliono i suoi membri. Un tempo, un paese che si nascondeva dietro al TNP per violare gli accordi di salvaguardia e lavorare ad armi nucleari affrontava la certezza della punizione internazionale. Questo è quello che è successo alla Corea del nord. Con questo deal, sta succedendo l'esatto opposto nei confronti dell'Iran. L'Iran adesso viene perdonato, riabilitato e autorizzato a mantenere le sue infrastrutture nucleari dopo aver usato il Trattato per portare avanti il suo programma di armi nucleari. Possiamo immaginare che altri paesi, soprattutto quelli più preoccupati per la crescita della potenza iraniana nel medio oriente, imiteranno l'Iran e useranno il TNP come copertura per portare avanti i loro programmi di armi nucleari.

5. Più violenza in Siria.

  Gli Stati Uniti e altri paesi si sono rifiutati di portare la questione del Muro della Siria al tavolo negoziale con l'Iran. Come risultato, il flusso di combattenti, armi e denari che finanziano il conflitto tragico in Siria non potrà che peggiorare. II presidente siriano Bashar el Assad, il cui potere è a rischio, ha reagito con gioia alla notizia del deal, e per buone ragioni. Il suo alleato avrà adesso le risorse per aiutarlo a riguadagnare il vantaggio strategico.

6. Spingere l'Iraq ancora di più nell'orbita dell'Iran, e più violenza.

  Dopo che Obama ha ritirato tutte le truppe dall'Iraq nel 2011 e messo fine alla cooperazione in materia di sicurezza con il governo di Baghdad, il paese è scivolato di nuovo nella violenza settaria che ha caratterizzato gli anni del dopo Saddam. Benché in buona parte per colpa di un cattivo governo, l'assenza di ogni contrappeso all'influenza iraniana ha accelerato il ritorno dell'Iraq alla violenza. Ora che l'Iran e gli Stati Uniti sembrano allineati ci sono ancora meno ragioni per i sunniti del paese per credere che il governo di Baghdad abbia altre intenzioni che quella di sottometterli al controllo di Teheran. Di conseguenza, lo Stato islamico e i suoi sostenitori tribali colpiranno ancora più forte per tornare al potere.

7. Rafforzamento della divisione tra repubblicani e democratici sulla politica estera.

  (In America) c'è sempre stato un certo consenso bipartisan per alcune delle sfide più importanti del nostro tempo. Ma esattamente come l'Affordable Care Act ha aumentato il divario sulla politica interna, il deal iraniano aprirà una divisione duratura in politica estera. Obama e il suo team hanno già reso chiaro che vogliono che i democratici si schierino con il presidente, non perché sono d'accordo con il deal, ma perché la lealtà di partito dovrebbe superare i principi. Hillary Clinton ha fatto il suo endorsement in favore del deal, mentre tutti i candidati repubblicani lo hanno condannato.

8. Indebolimento ulteriore del Consiglio di sicurezza dell'Onu.

  Quante risoluzioni del Consiglio di sicurezza che facevano richieste all'Iran sono state approvate? Quante sono state rispettate? Alla Repubblica islamica è mai importato qualcosa? Non solo le risoluzioni erano carta straccia per Teheran, il deal si è arreso al disprezzo dell'Iran per le richieste della comunità internazionale. Molti gioiranno per l'ulteriore evirazione del Consiglio. Ma forse apprezzeranno meno l'indifferenza per la legalità che l'umiliazione del Consiglio comporta.

(Il Foglio, 18 luglio 2015)


Una mamma ebrea ama la vita anche se le hanno ucciso il figlio

Rachel Fraenkel ricorda il suo Naftali, assassinato dagli islamisti un anno fa. Senza rancori: vuole incontrare la palestinese che ha vissuto lo stesso dolore.

di Elena Loewenthal

Le lingue talvolta parlano per allusione, talvolta sanno essere spietate come la realtà. L'ebraico, ad esempio, conosce un participio passivo (e come potrebbe essere altrimenti) per indicare una condizione che in italiano non ha modo di esprimersi: quella del genitore che ha perso un figlio. Madre o padre che sia, cambia solo un debole suffisso. Ma è una parola terribile, che quando la incontri ti sgomenta per il dolore assurdo che racconta oltre che per il fatto che in italiano non esiste.
Rachel oggi
Rachel al funerale di Naftali
  E ora, eccola davanti ai miei occhi, quella parola, con una voce e un volto molto diversi da come me li immaginavo, con un sorriso dolce che è la prima cosa che appare di lei, sulla soglia di casa. Rachel Fraenkel ha sepolto il suo Naftali il 1 luglio di un anno fa. Lui aveva sedici anni. In realtà l'aveva perduto il 12 giugno precedente, quando di Naftali, Yilad Shaar e Eyal Yifrach si erano perse le tracce nei pressi della fermata dell'autobus di Alon Shvut. I corpi dei tre ragazzi furono ritrovati il 30 giugno, nei pressi di Hebron.
  Rachel è un'insegnante di Talmud con una laurea in biologia, oltre che una grande esperta di legge ebraica. Ha addosso quella mitezza che viene da una forza straordinaria, la stessa che mise dentro la voce quando, al funerale del figlio, fece un gesto davvero dirompente recitando pubblicamente il Kaddish, la preghiera per i defunti che è in fondo un inno esaltato e disperato all'onnipotenza (e all'inconoscibilità) divina, ed entrando con il proprio dolore in quel territorio liturgico ebraico esclusivamente maschile.
  «Ho detto il Kaddish anche per l'anniversario di Naftali», dice con lo sguardo fermo. A un anno di distanza la famiglia abita nella stessa casa di Nof Hayalon, non lontano da Gerusalemme, in un caos magmatico di libri, stoviglie, giocattoli, scarpe da bambino. Ci sono anche due porcellini d'India in una grande gabbia che campeggia in salotto. Accanto al portoncino d'ingresso una catasta di biciclette di diverse dimensioni e stato di conservazione. È quel disordine animato tipicamente israeliano, là dove ci sono bambini che girano, vivono e parlano.
  «Sono sei, adesso. Maschio, femmina, femmina, femmina, femmina, maschio». Dai venti ai cinque anni. Tutti con l'impronta di famiglia: occhi vispi, un accenno di malinconia nello sguardo, capelli folti, carnagione chiara. Il più piccolo succhia un gelato alla fragola e sorride nascondendo il viso contro il collo della madre, che è seduta. «Che cosa mi ha aiutato di più in questi mesi? Tanto. Il cuore delle persone che sono venute a trovarmi, aprendolo a me. La comunità qui tutt'intorno a noi. E poi? La famiglia, la famiglia, la famiglia. I figli sono una benedizione dal cielo. È proprio così».

 Le fotografie
  Rachel si gira verso una scatola. C'è dentro una pila di fotografie. Ne prende una e la porge. «Naftali. Ma qui è un po' più piccolo di come è rimasto da quando non c'è più». La voce non si incrina. C'è in lei una pacatezza sorprendente, che non viene solo da quella fede che guida tutta la famiglia in ogni momento del giorno. È qualcosa di diverso, che va oltre la fede e si fatica a decifrare: penso a come tremerebbe a me la mano se toccasse a me porgere la fotografia di quel figlio.
  «Ma le persone sono persone normali anche quando diventano delle "star". La famiglia: il mio mondo è questo. Questa è la vita. L'ebraismo è cultura della vita, e fors'anche per questo ci sentiamo vicini all'Italia, di qui: perché siamo piccoli e perché ammiriamo e apprezziamo la vita. In questi mesi io e mio marito abbiamo imparato a fare posto al riso e al pianto nei nostri cuori. A non respingere né l'uno né l'altro».
  Rachel non sa che cosa sia la solitudine. Ma l'impressione che dà è quella di una persona capace di reggere anche la solitudine, e più che mai quella inevitabile che viene da un dolore indicibile come il suo. Che l'ha trasformata, o forse no: ha tirato fuori quello che già c'era. Come quando nel 2014 partecipò a una manifestazione in memoria di Yitzhak Rabin «alternativa» a quella laica e progressista. In fondo, questa donna rappresenta il volto umanista più autentico dell'ebraismo religioso, con la sua storia millenaria che parte dal rabbino Hillel e arriva sino a Martin Buber. Il mondo non si regge solo sul principio della giustizia, ci vuole anche la pietà, che poi è capacità di mettersi nei panni degli altri, di riconoscere l'altro da sé. Una settimana dopo il funerale di Naftali e dei suoi due amici (sono sepolti insieme, a Modiin), Rachel chiese di andare a trovare la famiglia dell'adolescente palestinese ucciso a Gerusalemme. Non le hanno ancora aperto la porta di casa, ma lei non ha perso la speranza di incontrarli, prima o poi. Da allora è diventata, in Israele e non solo - verrà presto in Italia, dice - un personaggio pubblico, una voce importante.
  «No, solitudine mai. I compagni di scuola di Naftali, ad esempio, ci sono sempre stati molto, molto vicini. Solitudine mai perché tanti sono venuti a trovarci, a darci una parola di conforto, a farci sentire la loro vicinanza, anche se venivano da molto lontano. E poi, in questa casa, quando hai la tentazione di infilare la testa sotto la coperta e sparire per un attimo, c'è subito un bambino che monta sul letto e con le manine la tira giù, per mettere la sua faccina contro la tua».

 Gli altri figli
  Attraverso il salotto con lo sguardo: due faccine ci stanno guardando dal terzo gradino della scala che porta al piano di sopra. Una quasi dodicenne (a breve farà la maggiorità religiosa, mi dice Rachel) sta spazzando svogliatamente ma giudiziosamente, una di poco più piccola sbircia dentro il forno, il più piccolo ha quasi finito di stampare il suo gelato sulla maglia di mamma. Si apre la porta sul retro, verso la caotica cucina, e arriva un ragazzo con una enorme challah, il pane festivo, a forma di ghirlanda: sta per «entrare» il Sabato, è ora di sistemare la casa per accogliere la festa. Per Rachel è un Sabato come tutti gli altri, fatto di riposo e voci che si levano tutte insieme per cantare. Per me sarà sicuramente un po' diverso da tutti gli altri, ora che l'ho incontrata.

(La Stampa, 18 luglio 2015)


Il nucleare iraniano e la distruzione mutua assicurata

di Giulia Bonometti

La distruzione mutua assicurata è una teoria che prevede una situazione di stallo tra due Paesi entrambi muniti di armi nucleari e che potrebbero quindi distruggersi a vicenda: proprio per evitare questa catastrofe, il possedere entrambi armi di distruzione di massa porta ad un reciproco freno.
E' con questo espediente che le due grandi potenze protagoniste della Guerra fredda hanno evitato di riproporre al mondo uno scenario brutale come quello che pochi anni prima aveva posto fine alla seconda guerra mondiale. Si era avviata una forma di deterrenza basata sulla "distruzione reciproca assicurata" che, per quanto precaria, ha funzionato.
  Il problema del nucleare è però rimasto in primo piano da quell'agosto del '45, in cui le sue potenzialità e la sua immediatezza hanno ridotto il mondo ad uno spettatore inerme di fronte ad uno spettacolo terrificante.
  La corsa al nucleare ha affascinato anche le potenze regionali del Medio Oriente che nella seconda metà del secolo scorso hanno destinato gran parte delle loro risorse all'arricchimento dell'uranio, nonostante dal punto di vista energetico non fosse necessario poiché quasi tutti Paesi petroliferi.
  Per problemi di instabilità di questa ragione, per emulazione occidentale o per avanguardia tecnologica, questa ricerca ha portato Israele a raggiungere l'obiettivo e, a oggi, è effettivamente l'unico Paese dotato di un arsenale nucleare e rimane fermo oppositore al medesimo sviluppo nei Paesi vicini.
  Oggi però il problema nucleare tocca l'Iran. Culla di una delle civiltà più antiche del mondo e teatro di rivalità tra le potenze occidentali durante il XX secolo, l'Iran rappresenta un'oasi di modernità in un Medio Oriente che agli occhi occidentali significa arretratezza e isolamento.
  ll modello nucleare iraniano è da sempre al centro del dibattito politico tra Unione Europea, Stati Uniti e Israele; un dibattito che sembra esseri concluso martedi a Vienna e che, secondo l'alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza dell'unione Europea Federica Mogherini, ha aperto una nuova pagina nelle relazioni internazionali.
  L'accordo prevede la cancellazione delle sanzioni internazionali contro Teheran che però non potrà produrre per dieci anni materiale che possa portare alla costruzione di un'arma atomica e dovrà garantire, agli ispettori dell'Aiea, l'agenzia internazionale per l'energia atomica dell' Onu, la natura pacifica del suo programma nucleare.
  La preoccupazione per lo sviluppo di armi di distruzione di massa in Paesi mediorientali ha preoccupato gli Stati Uniti già negli anni della presidenza di George W. Bush che senza mezzi termini ha definito l'Iraq, l'Iran e la Corea del Nord come protagonisti di un' "asse del male".
  "[Il nostro secondo obiettivo] - diceva il Presidente degli Stati Uniti allora - è quello di impedire ai regimi che sponsorizzano il terrorismo di minacciare con armi di distruzione di massa l'America e i nostri amici e alleati. Alcuni di questi regimi sono rimasti piuttosto inerti a partire dall'11 settembre. Ma noi conosciamo la loro vera natura. La Corea del Nord è un regime che si sta dotando di missili e armi di distruzione di massa, mentre fa morire di fame i suoi cittadini.
  L'Iran è alla ricerca frenetica di queste armi e esporta terrore, mentre una minoranza non eletta reprime le speranze di liberta' del popolo iraniano.[….] Stati come questi, e i terroristi loro alleati, rappresentano un asse del male, che si arma per minacciare la pace nel mondo. Nel ricercare armi di distruzione di massa, questi regimi rappresentano una crescente e grave minaccia. Potrebbero fornire quelle armi ai terroristi, dando loro i mezzi per soddisfare il loro odio. Potrebbero attaccare i nostri alleati o tentare di ricattare gli Stati Uniti. In ogni caso, il prezzo dell'indifferenza sarebbe catastrofico." Parole di un passato ormai lontano.
  Alla soddisfazione di Unione Europea e Stati Uniti per l'accordo appena siglato, si oppongono i dubbi del Primo ministro israeliano Netanyhau, che non è affatto indulgente con i fautori del compromesso e dice: "nel prossimo decennio questo accordo garantirà all'Iran centinaia di miliardi di dollari, un' abbondanza di fondi che sarà utilizzata per diffondere il terrorismo e per accrescere gli sforzi di distruggere Israele".
  In effetti, il tentativo di arrestare la proliferazione nucleare non sembra preoccuparsi di un futuro neanche troppo lontano, poiché tra soli dieci anni l'Iran potrà riprendere a correre, forse più veloce di prima.
  I due nemici storici dello sviluppo nucleare in Iran sembrano quindi ora contrapporsi ma la storia sembra purtroppo dare ragione ad Israele: tentare di fermare lo sviluppo bellico di una potenza regionale non ha mai funzionato e nel più emblematico dei casi ha portato allo scoppio della seconda guerra mondiale.
  L'accordo sul nucleare, più che una "svolta storica" sembra invece il triste ciclo della storia che si ripete, e tornare nel 2025 ad una distruzione mutua assicurata sembra mettere in dubbio che historia magistra vitae.

(Secolo Trentino, 17 luglio 2015)


Oskar Gröning, «primo e unico responsabile nazista a chiedere perdono in un processo»

Soprannominato il "contabile di Auschwitz", era nel lager nei mesi in cui furono sterminati 300 mila ebrei. «Ho visto i forni crematori, ero lì. Mi dispiace»

di Leone Grotti

 
Oskar Gröning
Oskar Gröning è stato condannato a quattro anni di carcere in Germania per «complicità» nel massacro di almeno 300 mila ebrei ad Auschwitz nel 1944. L'ex "contabile di Auschwitz", membro delle SS, ha lavorato nel campo di sterminio nazista per due anni e soprattutto tra il 16 maggio e l'11 luglio del 1944, periodo in cui arrivarono al campo 425 mila ebrei, dei quali 300 mila furono subito uccisi nelle camere a gas.

 Concorso in sterminio
  Allora Gröning aveva 23 anni, oggi ne ha 94. È stato condannato solo ora perché solo dal 2011 il sistema giuridico tedesco ha cominciato a condannare ex nazisti anche senza provare la loro responsabilità individuale. Dalla condanna di John Demjanjuk nel 2011 per "concorso in omicidio" di quasi 30 mila persone, è sufficiente aver partecipato in diverse forme alla soluzione finale voluta da Adolf Hitler per essere incriminati e condannati.

 «Ho visto, io ero lì»
  Il caso di Gröning, rispetto ad altri, non è importante solo perché ha dato scacco ai tanti negazionisti con le sue parole: «È un mio dovere, alla mia età, dire le cose che ho visto e oppormi a coloro che le negano. Ho visto i forni crematori, ho visto le fosse dove si bruciavano i corpi. Voglio che voi sappiate che queste atrocità sono esistite. Io ero lì».

 «Mi dispiace»
  L'ex nazista di 94 anni ha rilasciato anche una dichiarazione mai fatta da tutti gli altri responsabili dello sterminio arrestati e processati: «Mi dispiace». A far notare questo dettaglio è stata Marie-Pierre Samitier, giornalista di France 2, che ha appena scritto un libro per i tipi di Lemieux dal titolo: Carnefici e sopravvissuti, bisogna perdonare tutto? Nel volume, scritto a 70 anni dalla liberazione di molti lager, Samitier racconta attraverso storie e interviste come i sopravvissuti ricordano quei giorni terribili e indaga la possibilità di «perdonare» i persecutori.

 «Il primo e unico»
  Intervistata dal Le Figaro sul caso Gröning, Samitier ha affermato: «Lui è il primo responsabile nazista ad aver chiesto perdono ai rappresentati delle vittime all'interno di un processo. Questo è un atto forte perché chiedere perdono significa riconoscere gli errori commessi. Questo è un atto forte anche perché è un atto unico. Come racconto nel mio libro, i nazisti non hanno mai espresso richieste individuali di perdono: sono sempre stati persuasi di avere avuto ragione fino alla fine».

 Nuovo inizio
  Secondo la giornalista, solo «la richiesta di perdono e il riconoscimento di aver sbagliato» possono dare vita a un «nuovo "inizio"». «Oscar Gröning ha fatto questo cammino, ha espresso pubblicamente rincrescimento per le azioni commesse. È vero che l'ha fatto molto in ritardo (…) ma mi sembra che questa richiesta di perdono sia importante dal punto di vista simbolico».

(Tempi, 17 luglio 2015)


Nucleare iraniano: accordo "antistorico"

di Antonio Stango

Più che uno 'storico' accordo, come molti media di tutto il mondo hanno scritto, quello sottoscritto a Vienna fra Regno Unito, Francia, Germania ("con l'Alto Rappresentante dell'Unione Europea per la Politica Estera e la Sicurezza", come recita il testo), Stati Uniti, Federazione Russa e Cina da un lato e Repubblica Islamica dell'Iran dall'altro potrebbe essere definito un accordo 'antistorico'. Sembra, infatti, che la storia sia stata del tutto trascurata almeno dai negoziatori occidentali, che non hanno tenuto conto del fatto che mai l'accondiscendenza con regimi sanguinari e inattendibili ha prodotto alcunché di positivo al di là del breve o brevissimo periodo. Per non citare che il più celebre e catastrofico degli accordi che hanno costituito un segnale di via libera per una guerra, basti ricordare che dall'accordo di Monaco del 30 settembre 1938 passarono solamente undici mesi perché il regime di Hitler invadesse la Polonia - anche grazie al patto Molotov-Ribbentrop - e desse inizio alla seconda guerra mondiale, mostrando tutta l'inconsistenza delle illusioni del Chamberlain e del Daladier di allora, come dei micro-Chamberlain e dei micro-Daladier di oggi.
  Il regime degli ayatollah è certamente meno organizzato di quello nazista, ma non è meno fanatico; inter alia, oltre a proclamare di continuo l'impegno a distruggere Israele (che spesso chiama ufficialmente "piccolo Satana", a differenza del "grande Satana" che sarebbero gli Stati Uniti), nega che la shoah sia avvenuta. Hitler, però, non fece in tempo a disporre dell'arma atomica; Khamenei o il suo futuro successore nella carica di "Supremo Giureconsulto", cui spetta ogni decisione, potrebbero riuscirci entro pochi anni. A valutare negativamente l'accordo - il cui nome è, in realtà, "Joint Comprehensive Plan of Action" (Piano d'Azione Comune Complessivo") - potrebbe essere sufficiente la constatazione di cosa sia il regime iraniano, di cosa abbia commesso in 36 anni di potere assoluto all'interno e di azioni terroristiche all'esterno, e di come nulla autorizzi razionalmente a sostenere che le sue linee politiche siano destinate a cambiare. Ciononostante, ho letto anche le oltre cento pagine del testo, il che mi consente di evidenziarne alcuni punti specifici.
  Il 14 luglio, data dell'accordo, non è il momento dal quale iniziano a dispiegarsene gli effetti - se non quelli propagandistici dell'annuncio. Tale giorno è definito "della finalizzazione", non "dell'adozione": questa scatterà solo 90 giorni dopo l'approvazione (che si dà per scontata) da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU; quindi, per arrivare al "giorno dell'attuazione" occorrerà che sia stato presentato e accolto un rapporto dell'AIEA - l'agenzia dell'ONU per il controllo dell'energia nucleare. Dopo otto anni è previsto un "giorno di transizione", dal quale dovrebbero essere accantonate alcune delle restrizioni per l'Iran; dopo altri due anni è fissato un "giorno del termine" di gran parte delle limitazioni stesse, mentre le ultime sarebbero superate al compimento del quindicesimo anno dal "giorno dell'attuazione".
  Ad esempio, l'Iran (che, come forse alcuni negoziatori hanno dimenticato, è un grande esportatore di petrolio e non si direbbe avere una vitale necessità di energia nucleare per riscaldamento o per usi industriali) è autorizzato a mantenere in esercizio "non più di 5.060 centrifughe IR-1 per 10 anni" e ad arricchire l'uranio "a non più del 3,67 per cento per 15 anni". Alle rispettive scadenze, tali limiti potranno quindi essere superati. Resterebbero poi in vigore per ancora 10 anni alcuni controlli minori da parte dell'AIEA.
  Si intende che l'intero Piano d'Azione si regge sulla giustificazione di fondo, scritta fin dall'inizio e reiterata qua e là, che la Repubblica Islamica userebbe gli impianti nucleari "per scopi pacifici", impegnandosi a non perseguire la produzione e il possesso di armi atomiche; ma le ispezioni dell'AIEA cesseranno quasi del tutto dopo 15 anni e, cosa ancora più grave, l'Iran anche nel primo periodo consentirà tali ispezioni esclusivamente in alcuni siti: per altri, è scritto che l'AIEA potrà "chiedere" delle visite, ma dovrà spiegare in base a quali elementi di sospetto presenti tali richieste (a volte, in pratica, denunciando le proprie fonti) e il governo iraniano potrà in ogni caso rifiutare, dopo un meccanismo piuttosto articolato di commissioni esaminatrici e arbitrali senza poteri effettivi. Il fatto che negli ultimi anni la Repubblica Islamica dell'Iran abbia continuato ricerche ed esperimenti nel settore dei missili balistici, abbia sviluppato impianti nucleari segreti e abbia intrapreso accordi di cooperazione tecnologica nel settore anche con la Corea del Nord non agevola propensioni all'ottimismo; così come avrebbe dovuto costituire un insormontabile ostacolo all'accordo il sostegno finanziario e militare diretto del regime iraniano a quello di Assad in Siria, a Hezbollah, a Hamas, nonché ai ribelli dello Yemen, del Bahrain o dell'Arabia Saudita. Consentire il programma nucleare iraniano e contestualmente procedere con l'annullamento delle sanzioni significa nell'immediato rafforzare ed espandere l'egemonia del regime iraniano nella regione, incluso un forte aumento del suo sostegno di ogni tipo a movimenti terroristici internazionali, e spingere alcuni degli Stati arabi del Golfo ad avviare propri programmi nucleari.
  Quanto alla questione dell'ISIS, non si deve dimenticare che è stato il soffocamento della popolazione sunnita dell'Iraq centrale da parte del governo iracheno di al-Maliki, manovrato da Teheran, a causare la sua espansione nell'ultimo anno. Che gli Stati Uniti e l'Unione Europea deleghino in misura rilevante al regime iraniano il contrasto all'ISIS è un paradosso e, nello stesso tempo, un'ammissione di impotenza.
  Obama ha provato con dichiarazioni entusiaste a convincere della pretesa bontà dell'accordo molti membri del Congresso, che sono stati finora scettici e credo abbiano tutte le ragioni per non modificare le proprie valutazioni. Intanto, in assenza di comprensione e di considerazione da parte delle potenze occidentali, rimane la possibilità che il popolo iraniano nel suo insieme continui coraggiosamente a contrastare il regime fino al suo crollo; il quale solo potrà restituirci la speranza concreta di non dovere assistere a una guerra con armi nucleari in Medio Oriente.

(L'Opinione, 17 luglio 2015)


Lord Weidenfeld, l'ebreo salvato dai nazisti che salva i cristiani dall'Isis

Nel 1938 fu aiutato dai quaccheri a fuggire dall'Austria occupata da Hitler. Oggi finanzia l'operazione "Safe Havens" per soccorrere i cristiani siriani e iracheni perseguitati dallo Stato islamico. «Inconcepibile che l'Occidente non faccia nulla per sbarazzarsi di quella gente»

 
Lord George Weidenfeld
«Avevo un debito da saldare». Arthur George Weidenfeld, 94enne Lord britannico, cofondatore nel 1948 della casa editrice Weidenfeld and Nicolson, ha spiegato così al Times la sua decisione di spendere energie e denaro per aiutare i cristiani siriani e iracheni a salvarsi dai tagliagole dello Stato islamico. Il fatto è che Lord Weidenfeld è ebreo, e come ha raccontato in una intervista pubblicata dal quotidiano londinese martedì 14 luglio, deve la vita proprio ai cristiani, che nel 1938, quando lui era ancora «un ragazzino senza un penny», lo aiutarono a fuggire dall'Austria occupata dai nazisti e a raggiungere l'Inghilterra a bordo di un treno.

 «Dobbiamo essere grati»
  Si chiamava Plymouth Brethren l'organizzazione cristiana che salvò la vita al giovanissimo Weidenfeld. E sono tanti, dice, gli ebrei come lui che all'epoca scamparono allo sterminio nazista grazie ai convogli denominati "Kindertransport", rimediati da quel gruppo di volonterosi. «Sono stati i quaccheri e altre denominazioni cristiane a portare tutti quei bambini in Inghilterra», ricorda il Lord. «Fu un'operazione davvero nobile, gli ebrei dovrebbero essere grati e fare qualcosa per i cristiani in pericolo».

 I primi 150
  Da parte sua, Lord Weidenfeld si sdebita finanziando - sia direttamente che con fondi raccolti da altre associazioni benefiche - l'operazione "Safe Havens", intesa a soccorrere fino a duemila famiglie cristiane in Iraq e in Siria e portarle appunto in un "rifugio sicuro", lontano dai fucili, dalle lame e dalla sharia dei jihadisti di Al Baghdadi. Venerdì scorso, informa il Times, nella prima fase del progetto «un gruppo di 150 cristiani siriani è stato portato in aereo a Varsavia».

 Come Sir Winton
  L'obiettivo primario, sottolinea Lord Weidenfeld, «è portare i cristiani in un rifugio sicuro», offrendo loro i mezzi necessari per il sostentamento nei primi 12-18 mesi. L'anziano sopravvissuto all'Olocausto si augura di riuscire a emulare imprese come quella di Sir Nicholas Winton, scomparso proprio il 1o luglio scorso, il quale - ricorda il Times - «contribuì a organizzare tanti treni del "Kindertransport" da salvare più di 10 mila bambini ebrei dalla persecuzione».

 «Ammazzare il drago»
  Agli occhi di Lord Weidenfeld le violenze perpetrate dallo Stato islamico sono perfino più crudeli di quelle ordinate da Hitler. «Nella sua ferocia primitiva, l'Isis è qualcosa di senza precedenti in confronto ai più sofisticati nazisti. Quanto a puro desiderio di orrore e sadismo, non hanno precedenti. Non si è mai vista una feccia tale». Ma a sconvolgere questo filantropo 94enne è anche «la mancanza di volontà di difendersi» dimostrata dai governi occidentali, una cosa «tremendamente importante per me, membro della generazione che può ancora ricordare l'epoca precedente la Seconda Guerra mondiale». È inconcepibile per Lord Weidenfeld «la mancanza di volontà di sbarazzarsi di quella gente, di combattere il nemico, di ammazzare il drago nella sua tana». Tanto più che a Kobane «i valorosi curdi», praticamente da soli, hanno dimostrato che non sarebbe una missione impossibile.

 Le critiche americane
  Safe Havens, però, non è rimasta esente da critiche internazionali, legate soprattutto alla decisione di non includere tra i destinatari degli aiuti i siriani e gli iracheni di religione musulmana. Stando a quanto rivela il Times, il governo degli Stati Uniti avrebbe deciso di non prendere parte all'operazione, ritenendola discriminatoria. «Non posso salvare il mondo, ma esiste una particolare possibilità sul versante ebreo e cristiano», si difende Lord Weidenfeld. «Gli altri facciano quel che vogliono per i musulmani».

(Tempi, 17 luglio 2015)


Un attacco preventivo all'Iran? Metà degli israeliani direbbe sì

Sondaggio del quotidiano Maariv: il 71% crede che con l'accordo di Vienna Teheran avrà l'atomica.

GERUSALEMME - L'accordo di Vienna sul nucleare iraniano spaventa Israele. E secondo un sondaggio del quotidiano Maariv, circa la metà degli israeliani si dice favorevole a un ipotetico intervento militare unilaterale contro l'Iran per impedire in via preventiva che la Repubblica islamica si doti di una bomba atomica. Circa tre quarti delle persone intervistate sono inoltre convinte che l'accordo siglato il 14 luglio a Vienna con l'Iran accelererà le capacità di Teheran di sviluppare un'arma nucleare piuttosto che prevenire questa ipotesi. Alla domanda "Sosterresti un'azione militare indipendente da parte di Israele contro l'Iran se fosse necessario per impedire all'Iran di avere un'arma nucleare?" il 47% degli iraniani ha detto si "sì", il 35% "no", il 18% non ha espresso opinioni. E alla domanda "A tuo parere, l'accordo siglato porterà l'Iran più vicino allo sviluppo di un'arma nucleare?", il 71% degli intervistati ha risposto "sì". Il governo israeliano del premier Benjamin Netanyahu si è opposto in ogni modo alla conclusione dell'intesa, definita "un errore storico".

(askanews, 17 luglio 2015)


La fine di Israele come lo conosciamo

"Un Iran nucleare viola i due tabù del dopoguerra: mai più Auschwitz e Hiroshima". Parla Klein Halevi.

di Giulio Meotti

Klein Halevi
ROMA - Come una sentenza di morte diluita nel tempo. Così in Israele è stato percepito l'accordo di Vienna sul nucleare iraniano. "L'Iran nuclearizzato è il più grande pericolo che Israele abbia mai affrontato in sett'antanni, da quando nel 1948 mezzo milione di ebrei sconfissero gli eserciti arabi", dice al Foglio Yossi Klein Halevi, intellettuale americano diventato un astro dell'intellighenzia israeliana, arruolato da pensatoi a Gerusalemme, editorialista di New York Times, Wall Street Journal e New Republic, nonché autore di "Like Dreamers". C'è angoscia nelle parole di tanti commentatori israeliani, anche fra i liberal come Klein Halevi. "Puoi abusare del potere in due modi: usandolo in maniera eccessiva o non usandolo affatto", dice. "Israele commetterebbe questo secondo errore se consentisse all'Iran di nuclearizzarsi. Significherebbe che l'impegno del popolo ebraico dopo la Shoah verrebbe meno. Per noi 'never again' non vuol dire come in Europa 'mai più razzismo'. Per noi significa mai più ebrei indifesi, ebrei vittime, ebrei mandati al macello". L'Olocausto è raramente invocato nella politica israeliana. "Ma la minaccia iraniana ha riportato la 'soluzione finale' al cuore del discorso israeliano", spiega Klein Halevi. "Comandanti dell'esercito , che probabilmente una volta consideravano le analogie con l'Olocausto come un affronto al sionismo, ormai abitualmente parlano di 'secondo Olocausto'. Editoriali, scritti da sinistra, così come commenti da destra, paragonano questi tempi al 1930. Gli israeliani ricordano come la comunità internazionale abbia reagito con indifferenza quando una nazione fortemente armata dichiarava guerra al popolo ebraico e percepiscono un modello simile oggi. Le invocazioni dell'Iran alla distruzione di Israele tendono a essere liquidate come pura retorica dai media occidentali".
  Che succede ora? "Non sono più sicuro adesso di cosa accadrà. Penso che dobbiamo attaccare o l'Iran avrà la bomba. E purtroppo dobbiamo subire ancora un anno e mezzo di Barack Obama, questo presidente americano disastroso, il peggiore nella storia per Israele. L'accordo di Vienna è anche la fine di ogni speranza di accordo con i palestinesi, Israele si sente troppo vulnerabile per scommetterci ancora". Il pericolo non è solo l'atomica di Teheran "che l'accordo rende possibile", come ha detto ieri Yuval Steinitz, ministro e consigliere del premier Benjamin Netanyahu, ma anche la minaccia di attacchi convenzionali e terroristici grazie ai cento miliardi di dollari cui Teheran avrà accesso con la fine delle sanzioni.
  Ma anche senza colpo ferire, un Iran nuclearizzato per Yossi Klein Halevi sarebbe la fine del sionismo. "Gli investitori stranieri fuggirebbero dal paese, come pure molti israeliani. In un sondaggio, il 27 per cento degli israeliani ha detto che prenderebbe in considerazione di lasciare il paese se l'Iran si nuclearizzasse. La minaccia iraniana è penetrata nella vita quotidiana come un'ansia costante, appena cosciente. Gli israeliani credono ancora nella loro capacità di proteggere se stessi, e molti credono anche nella protezione divina. Entrambe sono espressioni di fede di un popolo che teme possa ancora una volta affrontare l'impensabile da solo".
  Un'ansia che emerge anche sotto forma di umore. Ieri, il magazine liberal israeliano +972 ha scritto: "Le 77 cose da fare prima che gli iraniani ci uccidano tutti". Un'ansia che Yedioth Aharonot, il maggiore giornale del paese, trasformava in titolo a tutta pagina: "Il mondo si arrende all'Iran", e il paragone è con Monaco 1938, quando Francia e Gran Bretagna sacrificarono la Cecoslovacchia a Hitler per "salvare la pace", salvo poi gettare l'Europa tutta in guerra. Secondo molti commentatori israeliani, l'accordo di Vienna sancisce un fatto politico senza precedenti, e per usare una analisi di Debka, vicina all'intelligence israeliana, "l'accordo nucleare spinge Israele da parte e innalza l'Iran a primo partner degli Stati Uniti".
  "Israele non avrà altra scelta che sostenere il suo ruolo di rifugio del popolo ebraico", conclude Klein Halevi. "Il filosofo francese André Glucksmann ha scritto che, con la minaccia di distruggere Israele e raggiungendo i mezzi per farlo, l'Iran viola i due tabù su cui l'ordine del dopoguerra è stato costruito: 'Mai più Auschwitz e mai più Hiroshima'. Uno stato ebraico che si permette di essere minacciato con le armi nucleari, da un paese che nega il genocidio di sei milioni di ebrei europei e minacciando sei milioni di ebrei di Israele, perderà il suo diritto di parlare in nome della storia ebraica". Ma sull'attacco, c'è chi, come l'ex capo del Mossad Meir Dagan, ha persino sostenuto che Israele potrebbe lanciarlo soltanto "quando il coltello sta già tagliando la carne" (di Israele).
  Klein Halevi dice che non è possibile arrendersi a questo fatalismo. "Oggi l'Iran controlla sei capitali del mondo arabo-islamico: Teheran, Damasco, Beirut, Sanaa, Baghdad e Gaza, dove Hamas è il suo unico alleato nel mondo sunnita. Adesso vuole Gerusalemme. Allora secondo me ci sono soltanto due scenari possibili: o Israele attacca o l'Iran avrà la bomba, e allora sarà la fine di Israele così come lo conosciamo".

(Il Foglio, 17 luglio 2015)


In un articolo del Sole 24 Ore di ieri si dice che Obama nei suoi discorsi ha "ringraziato" Putin con queste candide parole: «Ci ha molto aiutato e mi ha stupito». Che il capo di una grande potenza come gli Stati Uniti resti sorpreso dalla mossa del capo di una grande potenza avversaria come la Russia significa semplicemente che non ne sta capendo la politica. Il che è gravissimo. Che poi, invece di vergognarsi, allarmarsi e correre ai ripari, lo vada candidamente a dire in pubblico con soddisfazione è infantile. Ma in quali mani stanno oggi i cittadini americani? E da quale testa dipendono fatti importantissimi della politica mondiale? M.C.


Primi effetti del patto con l'Iran: razzi da Gaza e bombe sui sauditi

Gli alleati degli ayatollah, rinvigoriti dall'accordo sul nucleare, passano all'offensiva. Telefonate gelide di Obama con Netanyahu e il re d'Arabia.

di Carlo Panella

I ribelli sciiti Houti, sostenuti da Teheran, hanno bombardato ieri Aden, mentre Hamas ha lanciato un missile di fabbricazione iraniana su Ashkelon, in Israele. E in serata è arrivata l'autobomba (probabile matrice sciita) nel centro stesso di Riad, che ha provocato almeno un morto. I primi frutti dello «storico accordo» sul nucleare si sono visti subito: tutto continua come prima in Medioriente. Anzi, peggio di prima perché quell'accordo ha anche altri effetti immediati e sconcertanti.
Barack Obama si trova a fronteggiare un fatto clamoroso e inedito in Medioriente: Israele e Arabia Saudita, acerrimi nemici dal 1948, principali alleati degli Usa da 60 anni condannano con le stesse analisi, le stesse previsioni e - va detto - la stessa furia l'accordo che ha firmato con l'Iran. Per rimediare a questa gravissima crisi che terremota - a tutto vantaggio della Russia - gli equilibri mediorientali, Obama non ha trovato di meglio che telefonare al re saudita Salman e al premier israeliano Bibi Netanyhau... offrendo loro armi! Dunque, l'accordo che doveva aprire alla pace la zona più terremotata del globo, apre invece una escalation militare senza precedenti di cui peraltro Obama, furbescamente, vuole trarre profitto.
 
Il principe Bandar bin Sultan bin Abdulaziz al-Saud
   La mossa è stata così incauta e dilettantesca che Barack si è sentito dire un gelido «ci penserò, non è il momento, vedremo...» da parte di Netanyahu. Invece - e perfidamente - il re Salman, che è stato glaciale al telefono col presidente americano, ha fatto assumere la prima posizione ufficiale del suo governo dall'autorevole principe Bandar bin Sultan (figlio di un erede al trono, fratello di re Salman, morto nel 2011) che ha una funzione chiave in tutto il Medioriente: è il capo dei Servizi Segreti sauditi. L'analisi di Bandar bin Sultan, pubblicata a sua firma sul sito panarabo Elaph, è impietosa nei confronti di Obama: «Analisti accreditati hanno affermato che l'accordo con l'Iran del presidente Obama è un dejà vu rispetto all'accordo sul nucleare tra Bill Clinton e la Corea del Nord (l'accordo del 1994 fu infranto da Pyongyang nel 2003). Quell'accordo si basava su rapporti di intelligence, ma Clinton non avrebbe preso quella decisione se avesse saputo che si basava su un grande fallimento dell'intelligence e su analisi sbagliate. Obama ha invece preso la decisione di firmare l'accordo sul nucleare iraniano nonostante fosse pienamente consapevole che le analisi di politica estera, le informazioni dell'intelligence nazionale e quelle degli alleati, tutte prevedessero non solo lo stesso risultato della Corea del Nord, ma anche peggio, con i miliardi di dollari a cui l'Iran avrà accesso.
   Questo accordo sarà devastante nel Medioriente, che già vive in un contesto disastroso, nel quale l'Iran è uno degli attori più destabilizzanti. Ideologicamente, Obama è convinto di fare la cosa giusta, perché crede che le conseguenze negative dell'accordo siano solo un danno collaterale accettabile». Dopo aver dato a Obama del cinico e dell'incapace, Bandar chiude l'editoriale in modo addirittura irridente: «Sono convinto che il mio vecchio amico Henry Kissinger avesse ragione quando diceva che "I nemici dell'America devono aver paura dell'America, ma gli amici dell'America dovrebbero averne ancora più paura". I popoli della mia regione ora si affidano alla volontà di Dio e rafforzano le loro forze e le loro analisi insieme a tutti, tranne che con il nostro vecchio e più potente amico».
   Un vero e proprio addio agli Usa dell'uomo che gestisce la Sicurezza saudita, la formalizzazione di un divorzio feroce e sdegnato. Un percorso, che peraltro fa saltare da subito, irrimediabilmente, l'auspicio di Obama, come della Mogherini e degli altri leader europei, sui benefici effetti che l'accordo di Vienna avrà sulla crisi in Siria, Iraq e Yemen.
   Questa autorevolissima posizione saudita significa infatti una sola cosa: su tutti questi quadranti, nei quali l'Arabia gioca un ruolo determinante, Riad farà di tutto per inasprire i conflitti con i tanti emissari di Teheran. Che si tratti della crisi definitiva, ormai imminente, del regime di Bashar al Assad, che della guerra civile nello Yemen, che dello stesso contrasto militare all'Isis in Iraq, d'ora in poi vedremo il «partito saudita» (per meglio dire, il «partito sunnita») sempre più agguerrito e in conflitto - armato - con quello iraniano. Vienna si mostra per quello che è: il prologo di un disastro.

(Libero, 17 luglio 2015)


Il trattato sul nucleare. L'accordo con l'iran: un pericolo anche per noi

Lettera al direttore del Corriere della Sera

di Riccardo Paclfici

Caro direttore, mentre si esulta per un «Medio Oriente stabile», Israele si prepara ad una guerra, visto che lo sblocco di 150 miliardi di dollari sarà usato dal regime dispotico iraniano per finanziare i loro più fedeli alleati primi fra tutti Hezbollah, Jihad Islamica e Flamas. Consapevoli che Califfato Islamico e Iran, sebbene diversi, hanno lo stesso obiettivo di dominazione del Medio Oriente.
   L'accordo firmato a Vienna accetta l'Iran come stato nucleare e la decisione sulle tempistiche per la realizzazione di una bomba atomica. Un riconoscimento che, invece di fermare la proliferazione delle armi nucleari, costringerà le potenze arabe sunnite, Arabia Saudita ed Egitto in primis, a dotarsi dei loro programmi atomici per frenare l'egemonia sciita guidata dall'Iran nella regione.
   Proprio mentre l'Egitto deve affrontare la sfida più importante per arginare l'avanzata del Califfato Islamico nel suo Paese, a cominciare dalle infiltrazioni dentro la penisola del Sinai e dopo l'attentato al consolato italiano ad Il Cairo, le potenze del 5+1 sbloccano l'embargo economico, in cambio di promesse che la storia del regime teocratico iraniano ha dimostrato che non rispetterà. Stiamo parlando di un regime che cerca non solo di colpire obiettivi israeliani ed ebraici nel mondo (l'esempio argentino ne è una delle prove), ma di esportare dal 1979 la rivoluzione e portare alla dominazione sciita nell'intero Medio Oriente e in ogni continente.
   Mentre ci si affretta a giustificare questo accordo scellerato, dichiarando che era l'unica alternativa affinché l'Iran non fosse coinvolto in un conflitto armato, ci si dimentica di raccontare all'opinione pubblica occidentale, che l'Iran è già in guerra in Siria, in Iraq e nello Yemen.
   Nessuno vuole qui sostenere che quegli accordi sono un atto ostile ad Israele, ma è lecito chiedersi come mai in quelle loo pagine dettagliate di accordi, non si è preteso per esempio che lo sblocco dell'embargo doveva passare anche attraverso il riconoscimento da parte del regime iraniano dello Stato d'Israele senza la quotidiana minaccia di distruzione «dell'Entità Sionista». Si doveva pretendere che l'Iran non neghi la Shoah (periodicamente Teheran organizza un concorso a premio di vignette negazioniste). Era dovere da parte della stessa Europa dei diritti alla famiglia con le «unioni civili» di pretendere che l'Iran sia terra in cui l'omosessualità non si paga con la morte e dove la vita della donna non può valere legalmente metà di quella dell'uomo.
   Adesso tutto è nelle mani della grande democrazia americana che nei prossimi due mesi dovrà ratificare tale accordo alla Camera e al Senato. Sia dentro il Partito Repubblicano, ma anche in quello Democratico, vi sono forti perplessità. Per questo dobbiamo guardare con rispetto l'esito.
   Su questo esempio, forse sarebbe opportuno che nei parlamenti nazionali in Europa o nello stesso parlamento europeo, si apra un dibattito e si ratifichi, magari con alcuni emendamenti, questo accordo.
   In gioco non vi è solo la sicurezza d'Israele e degli ebrei nel mondo, vi è in gioco la sicurezza degli Usa e dell'Europa, visto che la capacità balistica dei missill iraniani, ad oggi, già può colpire il cuore dell'Europa.
   Mentre vi è chi esulta nelle pubbliche piazze a Thheran, oggi noi cittadini europei siamo chiamati a coniugare le preoccupazione per la guerra in Ucraina e la lotta al fondamentalismo Islamico, con la presa di coscienza che questo accordo non aiuterà ad aumentare la sicurezza della comunità internazionale ma, amplificando le crisi in Medio Oriente, metterà a repentaglio la stessa sicurezza del continente europeo. È facile prevedere, per esempio, che questa contrapposizione determinerà un aumento del numero di rifugiati che busseranno alla porta dell'Europa. Probabilmente sarebbe stato meglio che sul quel tavolo di Vienna, fosse stato presente un libro sulla tragica storia del Terzo Reich.
   
(Corriere della Sera, 17 luglio 2015)



Ebrei, la Storia nella storia di un popolo

Abitbol fa il punto sull'antisemitismo nei secoli: dai massacri romani ai pogrom del Novecento.

di Giuseppe Montesano

La Storia non è semplice da capire, e i libri degli storici meno ancora, e se parlano di questioni intorno a cui si scontrano ideologie opposte, allora si tocca il culmine del peggio e del nero della seppia che oscura tutto: allora sarà cosa ottima andare a leggersi un libro che si intitola Storia degli ebrei: Dalle origini ai nostri giorni, appena pubblicato da Einaudi e scritto dall'importante orientalista Michel Abitbo, perché Storia degli ebrei è esattamente il contrario dei cattivi libri di Storia. Abitbol scrive e fa storia con grande chiarezza, e lo fa su un argomento che ne ha grande bisogno, perché, come dice lui stesso, proprio oggi che si sa moltissimo sulla storia ebraica, tornano a crescere le mitologie antiebraiche nel grande mare di ignoranza presuntuosa di Internet e dei suoi naviganti privi di bussola: o dotati della sola bussola, che sembra intramontabile, dell' antisemitismo.
   I luoghi centrali di Storia degli ebrei sono molti, anche se alcuni colpiscono di più perché sono meno vulgati, e erroneamente ritenuti non fondamentali. Ma come sottovalutare i fatti accaduti sotto l'Impero romano intorno al 70 dopo Cristo? In breve: il massacro da parte dei Romani di ebrei di ogni età, la distruzione del tempio a Gerusalemme e della città di Masada, la riduzione in schiavitù di un popolo. Una storia che mostra cosa fossero «capaci» di fare i Romani in termini di violenza politica: una vicenda alla fine della quale accade una cosa quasi irreversibile, che sarà superata solo dalla fondazione di uno Stato ebraico duemila anni dopo, accade cioè che il popolo del Tempio è costretto a diventare il popolo del Libro, un popolo non più riunito in un luogo materiale, ma riunito intorno alle parole dell'Antico Testamento e degli altri suoi libri sacri.
   È per questo che poi, dopo la storia della distruzione di Gerusalemme e di Masada, appaiono più sorprendenti i rapporti complessi, ma molto meno violenti, degli arabi musulmani con gli ebrei nei primi tre secoli di dominio arabo; o la fioritura di una civiltà ebraico-andalusa in Spagna, una complessa cultura arabofona ma in buoni rapporti con i cristiani, e retta politicamente da ebrei con l'appoggio del califfato di Cordova: una realtà che nutrì la Spagna a lungo, finché non fu scatenata la persecuzione anti-ebraica e anti-araba che si potrebbe mettere tra le cause dell'indebolimento della potenza spagnola nell' atto stesso del suo sorgere; o ancora la scoperta che si fa nel libro di Abitbol che Voltaire, che diceva di volersi far uccidere per permettere a chi la pensava diversamente di esprimere le proprie idee, non era poi affatto tollerante nei confronti degli ebrei, dal momento che li aggrediva violentemente in vari luoghi del Dizionario filosofico, passando nei loro confronti dall' accusa di essere «sediziosi» a quella di essere antropofagi e «avidi di denaro», e finendo con il dire che il suo amore per loro lo spingeva a volere che se ne tornassero a Gerusalemme.
   Mentre invece, pochi anni dopo, l'intollerante Robespierre si metteva dalla parte degli ebrei, e tutta la Rivoluzione del1789, quanto più si radicalizzava socialmente e in senso anticlericale, tanto più dava diritti a coloro che in Francia erano sempre stati visti come diversi e nemici: con l'aggiunta che, l'analisi della Francia politica fatta da Abitbol attraverso la cartina di tornasole della storia degli ebrei tra fine Ottocento e guerre mondiali, è ricca di indicazioni utili a capire anche la diarchia Francia-Germania attuale e le sue contraddizioni.
   E poi c'è il Novecento, con gli zar inventori dei falsissimi «Protocolli dei Savi di Sion» e fautori dei pogrom, con Henry Ford fautore della scschiavizzazioneegli operai alle macchine e fautore dell'antisemitismo, con l' antisemitismo di sinistra e di destra e di centro, e infine con la fondazione di uno Stato ebraico: in un groviglio che Abitbol riesce quasi sempre a districare. Forse entrati nel Novecento di questa Storia degli ebrei, che si legge come un racconto, le coordinate non sono altrettanto «conoscitive» come per la storia precedente: ma è un segno della difficoltà che chiunque incontra quando ha a che fare con la storia contemporanea. Resta che il li bro di Abitbol può essere letto da chiunque, e che chiunque farebbe bene a saperne un po' di più su questa storia complessa.
   Ignorare «le» realtà storiche vuol dire ignorare anche «le» realtà e le complessità del presente; ignorare il presente vuol dire essere succubi delle menzogne, e essere succubi delle menzogne vuol dire andare verso servitù e catastrofi: di ogni genere. Meglio sarebbe assumere, attraverso la lettura della Storia, qualche anticorpo: la malattia mortale della cecità mentale di individui e masse non è certo finita.

(Il Mattino, 17 luglio 2015)


Il tycoon israeliano Lev Leviev rafforza gli investimenti in Romania

di Evelina Marchesini

Lo sviluppatore Afi Europe, focalizzato sull'Europa centrale e orientale e parte del gruppo israeliano Afi Group, ha deciso di investire nella città romena di Brasov, acquistando un vasto terreno per costruire un centro polifunzionale a uso retail e uffici.
   «Brasov è il principale centro turistico in Romania e attira 1,5 milioni di visitatori l'anno e la città ha un grande numero di abitanti con un reddito decisamente sopra la media del Paese ha spiegato il Ceo di Afi Europe, David Hay, comunicando l'operazione . L'analisi di questi dati ci ha convinti a investire in uno sviluppo polifunzionale nel centro della città». La parte del mall avrà una superficie di 45mila metri quadrati, su tre livelli, oltre a una parte di entertainment tra cui sale cinematografiche. Il centro retail sarà pronto nel 2017 e avrà la certificazione Leed Gold: lo sviluppatore è già in contatto con retailer e un ipermercato per mettere a reddito l'edificio.
   Adiacente al mall ci sarà uno sviluppo di uffici di 11mila metri quadrati. Afi Europe, secondo Pie (Property investor Europe) non è certo al suo primo investimento in Romania: ha già sviluppato il centro commerciale Palace Cotroceni a Bucarest (80mila metri quadrati) e l'Afi Palace Ploiesti (33mila mq); negli uffici sta costruendo l'Afi park a Bucarest, che è costituito da cinque edifici per un totale di 70mila metri quadrati, di cui tre building già terminati e totalmente locati. Attiva dal1997 in Europa, Afi Europe è controllata da Afi Properties, che fa capo al tycoom israeliano Lev Leviev e opera in Romania, Repubblica Ceca, Polonia, Germania, Bulgaria, Serbia, Ungheria e Latvia.

(Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2015)


L'etica protestante e lo spirito della terra

L'agricoltura ha dissanguato il suolo e alterato il suo stato e le sue funzioni naturali, dimenticando che bisogna seguire il ciclo della Creazione. Di "etica della terra" s'è parlato in un seminario al Padiglione Israele dell'Expo di Milano.

di Aldo Grasso

 
In un brano meraviglioso del Levitico (è il terzo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana, si occupa prevalentemente di prescrizioni religiose e sociali) si legge: «il Signore disse ancora a Mosè sul monte Sinai: "Parla agli Israeliti e riferisci loro: Quando entrerete nel paese che io vi do, la terra dovrà avere il suo sabato consacrato al Signore. Per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore; non seminerai il tuo campo e non poterai la tua vigna. Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dal seme caduto nella tua mietitura precedente e non vendemmierai l'uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra. Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nel tuo paese servirà di nutrimento quanto essa produrrà"». La legge ebraica, dunque, prevede ogni sette anni l'osservanza della Shmitah, l'anno sabbatico, che coincide con l'anno ebraico in corso, il 5775. Di questa "etica della terra" si è discusso in un seminario organizzato dal Keren Kayemet Le Israel al Padiglione Israele (7-8 luglio). La terra va rispettata, la terra segue il ciclo della Creazione: «Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati», è scritto nella Genesi.

 Perdita di biodiversità.
  É curioso che si parli di riposo della terra, quando da anni, l'industrializzazione della campagna ha seguito il percorso opposto: quello dello sfruttamento intensivo. L'agricoltura ha dissanguato il suolo e alterato il suo stato e le sue funzioni naturali, determinando spesso la perdita di biodiversità, l'inquinamento delle acque, dei terreni e dell'aria. Intorno alla metà del XX secolo si è assistito a uno stravolgimento di portata rivoluzionaria della vecchia agricoltura, stimolato dai miglioramenti tecnici, dai nuovi prodotti chimici, una rivoluzione silenziosa che ha cambiato il nostro rapporto con la terra. Ricordo ancora quando si praticava la rotazione delle colture. Il primo anno nel primo terreno veniva piantato il grano, nel secondo i legumi e il terzo veniva lasciato a maggese (ossia a riposo). Poi, a partire dal secondo anno si ruotava, in modo da arricchire il terreno in modo naturale e farlo riposare. All'etica biblica della terra abbiamo preferito l'etica protestante del lavoro, dove non sono più previste soste.

(Corriere della Sera, 17 luglio 2015)


Israele, raid notturno sulla striscia di Gaza

Israele torna a bombardare Gaza. Nella notte aerei israeliani hanno colpito più obbiettivi di Hamas. Stando a quanto reso noto dal gruppo terroristico, gli obbiettivi colpiti dai jet sarebbero un campo di addestramento delle Brigate Al-Qassam ad Al Bureij e un centro di comunicazioni.
La decisione dei vertici militari israeliani sarebbe stata presa dopo il lancio di un razzo contro Ashkelon, città a sud del paese dove risiedono oltre 100mila persone. L'attacco, imputato ad Hamas e rivendicato da un gruppo salfita (la cui attendibilità è ancora da verificare), non ha provocato vittime né danni alle proprietà, ed era stato in qualche modo 'preannunciato' dal lancio di una serie di razzi verso i territori israeliani del sud. «Se noi non dormiamo la notte, neanche i terroristi di Hamas dormiranno», ha affermato Chaim Fargiun, responsabile del Consiglio regionale di Ashkelon, commentando l'attacco sferrato da Israele nella notte.

(Nuova Società, 16 luglio 2015)


Fyrom: eventi per festeggiare 20 anni di relazioni diplomatiche con Israele

SKOPJE - Numerosi eventi si svolgeranno nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) in occasione dei 20 anni dall'istituzione delle relazioni diplmatiche tra Fyrom e Israele nel luglio 1995. Secondo quanto comunica il ministero degli Esteri, gli eventi prenderanno il via con un festival del film israeliano a Ocrida. Le attività andranno avanti con diversi eventi fino al prossimo 21 luglio e sono sostenute dal ministero degli Esteri macedone, dal ministero degli Esteri israeliano e dalla comunità ebraica nella Fyrom. Parteciperanno agli eventi per i 20 anni delle relazioni diplomatiche Israele-Fyrom anche il premier Nikola Gruevski ed il ministro degli Esteri Nikola Poposki.

(Agenzia Nova, 16 luglio 2015)


Israele teme il gioco sporco dei mullah. «Sono maestri nell'arte dell'inganno»

Produzione clandestina II timore è acuito dalla strenua (e vittoriosa) opposizione all'accesso degli ispettori a tutti i siti.

di Benny Morris

Benny Morris
Su una cosa tutti - americani, iraniani, israeliani ed europei - sembrano essere d'accordo: l'intesa sul nucleare iraniano siglata l'altro ieri è «storica». Ma il vero significato di questa definizione resta un'incognita, e probabilmente lo sarà ancora per un decennio o due. Solo a quella scadenza sapremo se la corsa dell'Iran all'arma nucleare è stata fermata, come oggi sostiene il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, o se gli abili negoziatori iraniani si sono fatti beffe delle anime candide di Washington, Londra e Parigi. Tra dieci o vent'anni, Teheran avrà la Bomba — non un singolo ordigno esplosivo, ma un arsenale di armi nucleari pronto a essere dispiegato - oppure no. Gli israeliani e i loro alleati a Washington (tra cui la maggior parte dei componenti delle due Camere del Congresso, dove i repubblicani detengono la maggioranza) temono due cose: che gli iraniani violino l'accordo e facciano il gioco sporco, ovvero che rispettino l'intesa, lasciando intatti i loro principali impianti nucleari (Fordow, Natanz, etc.), e tra dieci o quindici anni riprendano la corsa all'arma nucleare, stavolta senza i vincoli dell'accordo.
   Quanto al gioco sporco, l'esperienza delle Grandi Potenze e dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) da un decennio a questa parte dimostra che gli iraniani sono maestri dell'inganno e del raggiro in tutto ciò che attiene al nucleare (per inciso, come lo fu Israele nel periodo 19581968, al quale viene fatta risalire la costruzione dei suoi impianti nucleari). II timore è che l'Iran possa continuare (clandestinamente) a produrre uranio arricchito (o altamente arricchito) in siti sconosciuti o ancora da costruire, e che prosegua nell'attività di ricerca e sviluppo sulle testate nucleari (miniaturizzazione) e sui sistemi di lancio (raggi e missili). Dato che le sanzioni contro Teheran saranno presto revocate, gli iraniani disporranno di parecchi miliardi di dollari con cui finanziare il proprio programma nucleare (oltre che le loro azioni sovversive e gli alleati terroristi all'estero).
   Il timore di un'attività di produzione e sviluppo clandestina da parte dell'Iran è stato acuito nel corso dei negoziati dalla strenua (e infine vittoriosa) opposizione di Teheran all'accesso immediato e incondizionato degli ispettori internazionali a tutti i siti. E il caso di notare che Obama l'altro giorno ha annunciato che l'accordo prevede l'accesso agli «impianti nucleari chiave» - non a qualsiasi impianto o sito militare. Gli ispettori dell'Aiea - e i loro supervisori europei e americani - avranno difficoltà a monitorare l'attività degli scienziati e dei tecnici iraniani, ed è ragionevole aspettarsi per i prossimi anni un gran mercanteggiare tra l'Iran e i cofirmatari dell'accordo a questo riguardo.
   Obama ha anche annunciato che l'intesa aiuterà a fermare la proliferazione nucleare. C'è da dubitarne. Il rafforzamento dell'Iran rivoluzionario sciita - con l'afflusso di centinaia di miliardi di dollari e nuove, sofisticate armi convenzionali, in aggiunta alle infrastrutture nucleari esistenti (impianti di arricchimento, reattore al plutonio, e così via) - difficilmente placherà i timori dei re e generali dei centri di potere arabi sunniti (Arabia Saudita, Egitto), né quelli di Turchia e Israele. È lecito presumere che alcuni di questi Stati diano avvio a nuovi programmi nucleari o rafforzino quelli già intrapresi.
   Tra gli israeliani, c'è chi ripone le proprie speranze in una mancata ratifica dell'accordo, cioè nella possibilità che nei prossimi 60 giorni il Congresso statunitense si rifiuti di approvarlo. Al momento appare improbabile. Negli ultimi giorni, diversi politici israeliani hanno continuato a lanciare allusioni più o meno esplicite a una possibile campagna aerea israeliana volta a distruggere gli impianti nucleari iraniani, nonostante l'accordo internazionale. La maggior parte dei commentatori, tuttavia, liquida questa ipotesi come irrealistica, a meno che l'Iran non venga colto in flagrante violazione dell'accordo. In quel caso Obama, o il suo successore, sarebbe costretto ad alzare le mani e dare luce verde a Gerusalemme. (
   
(Corriere della Sera, 16 luglio 2015 - trad. Enrico Del Sero)


Visita a sorpresa di Meshal in Arabia Saudita

RIAD, 16 lug - Il capo dell'ufficio politico di Hamas, Khaled Meshal, ha iniziato una visita a sorpresa in Arabia Saudita. Ieri sera il leader del gruppo palestinese è giunto in territorio saudita per svolgere il piccolo pellegrinaggio alla Mecca in occasione della fine del Ramadan. Al termine è previsto che Meshal incontri alcuni funzionari e membri del governo saudita per discutere della situazione in Medio Oriente. L'emittente televisiva "al Aqsa" di Hamas che ha dato la notizia non menziona però le personalità saudita con le quali Meshal si incontrerà. Il leader di Hamas è stato in Arabia Saudita per la prima volta nel 2012.

(Agenzia Nova, 16 luglio 2015)


"Così Israele prepara l'azione militare contro l'Iran"

Parla il generale Eiland, ex capo della sicurezza nazionale. Gli F-35 e gli scenari per l'attacco.

di Giulio Meotti

 
Ron Ben Yishai, corrispondente militare israeliano,
ROMA - Nel 2013, quando Israele sembrava pronto a lanciare un attacco militare preventivo contro le installazioni atomiche dell'Iran, fu l'ex premier Ehud Olmert a rivelare quanto l'establishment militare aveva investito per preparare lo strike. Dieci miliardi di shekel. Tre miliardi di dollari. Olmert lo rivelò per indebolire il già allora primo ministro Benjamin Netanyahu. Sono passati due anni e quella cifra adesso vedrà un forte incremento dopo la firma dell'accordo atomico fra America e Iran. II capo di stato maggiore, Gadi Eizenkot, ha messo il suo vice, Yair Golan, a capo di una squadra che deve preparare un piano di attacco militare da utilizzare contro l'Iran. Un mese fa, cento piloti israeliani si sono addestrati in voli a lungo raggio sulla Grecia. E Israele avrebbe chiesto alla Lockheed-Martin, che produce gli F-35, di aumentare del trenta per cento l'autonomia di volo, per coprire mille e cinquecento chilometri. La distanza fra Gerusalemme e Teheran. Un team dell'aviazione israeliana si trova attualmente a Fort Worth, in Texas, per seguire il prototipo che arriverà a Tel Aviv nel 2016. Ieri da Gerusalemme si sono levate voci bipartisan contro l'accordo di Vienna. L'ex premier e ministro della Difesa, Ehud Barak, al Canale Due ha detto che l'Iran diventerà presto uno stato nucleare. II ministro Naftali Bennett ha parlato di "giorno buio per il mondo libero", mentre l'ex ministro Yair Lapid ha detto dell'Iran: "E' un regime basato sulla menzogna e ora otterranno armi atomiche con l'aiuto della comunità internazionale". Adesso gli occhi del mondo sono puntati su di loro. Iran e Israele. Se il primo rispetterà l'accordo, e cosa farà il secondo in caso lo violasse. "
   L'accordo è sicuramente un evento storico", dice al Foglio il generale della riserva Giora Eiland, già capo del Consiglio per la sicurezza nazionale e uno dei più importanti strateghi dello stato ebraico. "Fino a due anni fa, si poteva sperare in un accordo migliore. La posizione strategica degli Stati Uniti era che l'Iran non poteva arricchire uranio sul proprio territorio. Poi Obama ha cambiato posizione e ha difeso il diritto iraniano all'arricchimento. Da quel momento tutto è cambiato".
   Ci sono due presupposti nell'accordo che Israele non può accettare. "ll primo è che l'Iran rispetterà l'accordo, come pensano gli americani. Noi pensiamo che lo violerà, forse non subito, ma un domani di sicuro. Il secondo è che l'Iran dopo l'accordo modererà la sua politica, diventerà più mansueto, più stabile, più cooperativo. Falso. L'accordo fornisce all'Iran incentivi a sostenere il terrore". Cosa accadrà ora è un dilemma "Dal punto di vista militare, Israele non può fare niente finché l'accordo è in piedi", ci dice Eiland. "Se ci sarà una crisi dell'accordo, allora Israele attaccherà. Politicamente il dilemma è se premere sul Congresso contro l'accordo oppure no. Netanyahu è probabile che spinga per un confronto ancora più duro con Obama". Ci sono due scenari che potrebbero far scattare l'opzione militare israeliana. Ce li spiega Ron Ben Yishai, il più rispettato e celebre corrispondente militare israeliano, immortalato nel film "Valzer con Bashir" per essere entrato per primo a Sabra e Shatila e per aver visitato in clandestinità il reattore nucleare di Damasco dopo il bombardamento israeliano. "Israele si sta già preparando all'opzione militare, acquistando armi avanzate e potenziando le proprie capacità", dice Ben Yishai. "Israele rafforzerà l'intelligence sull'Iran per minimizzare il rischio di una sorpresa strategica, migliorerà la difesa missilistica, così come gli attacchi aerei e navali, si preparerà per un potenziale attacco preventivo contro gli impianti nucleari iraniani e Hezbollah, che dovrà essere attaccato allo stesso tempo, perché è chiaro che avrà un ruolo proattivo nel conflitto tra Israele e Iran. L'Iran è diventato uno stato-soglia, in grado di arricchire l'uranio al livello richiesto per sviluppare una testata atomica in due-tre mesi. ll più grande successo dell'accordo è che mantiene un tempo di 'breakout"'. Quando nel 2003 il colonnello Gheddafi smantellò il programma nucleare, la Libia acconsenti a trasferire negli Stati Uniti la tecnologia acquistata dai pachistani e usata oggi dagli iraniani. ll materiale fu portato a Oak Ridge, la centrale nel Tennessee dove americani e israeliani hanno riprodotto la centrale iraniana di Natanz e dove avrebbero studiato i tempi di fabbricazione della Bomba.
   ll primo scenario, il più realistico, è quello in cui l'Iran viola l'accordo e assembla la Bomba. "Israele avrebbe non più di due mesi per attaccare", ci dice Ben Yishai. "Specie se non è sicuro che lo faccia l'America. L'Iran ha più volte dichiarato di voler cancellare lo stato ebraico dalla mappa geografica". C'è un secondo scenario, più estremo. "Un giorno ci svegliamo e scopriamo che l'Iran ha già la Bomba. Allora ci dovremmo preparare a una nuova Guerra fredda, perché in quel caso l'opzione militare israeliana diventerebbe di mera deterrenza". Ma che Israele ha già la bomba atomica è un segreto di pulcinella. "Questo lo dice lei. Gli iraniani lo sanno meglio di lei".
   
(Il Foglio, 16 luglio 2015)


Israele - Un nuovo accordo con l'Italia sulla previdenza sociale

Previdenza e clero

di Vittorio Spinelli

La recente legge 98 dell'8 luglio scorso introduce nell'ordinamento italiano un nuovo accordo previdenziale dell'Italia con lo Stato di Israele. Sarà operativo, presumibilmente, entro il 2015 dopo la prevista ratifica della convenzione in ciascuno dei due Stati. Il nuovo trattato sostituirà il parziale accordo, siglato con la legge 309 del 1989 e tuttora in corso, tra l'Inps e Bituach Leumi, l'istituto di assistenza israeliano, che regola la competenza dei due enti nei confronti dei lavoratori temporaneamente distaccati all'estero. Finora, i distaccati sono stati esentati dalle assicurazioni del luogo, restando totalmente soggetti alla legge del Paese di provenienza per un periodo di 36 mesi e prorogabile al massimo per altri 12. L'intesa con Israele opera invece a più ampio raggio ed estende le classiche garanzie della previdenza per la vecchiaia e l'invalidità a tutti i lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai collaboratori (ed anche ai relativi familiari ed eventuali superstiti) che versano, o che hanno versato, contributi assicurativi nei due Stati. Diversamente da altre convenzioni internazionali, l'accordo con Israele non si estende all'assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali. I diversi aspetti previdenziali saranno meglio regolati attraverso un prossimo accordo amministrativo fra le due parti e dalla prevedibile circolare dell'Inps che ne farà seguito.

 Fondo rabbini
  Il clero italiano non è ufficialmente considerato dal nuovo accordo. Manca in Israele un'assicurazione speciale per i ministri di culto, qualcosa di simile ad un "Fondo rabbini", che consenta di trattare in maniera omogenea i versamenti pensionistici versati in Italia al Fondo Clero e viceversa. Tuttavia, nel testo dell'accordo, alcuni spiragli sembrano riferirsi a questa opportunità. Una disposizione generale prevede che possano essere concordate alcune eccezioni nell'interesse di "persone o categorie di persone". Gli stessi sacerdoti italiani sono invece soggetti alla convenzione, nei diritti e nei doveri, qualora rivestano formalmente una delle qualifiche lavorative beneficiarie.

 Libici
  Fra i residenti in Israele si calcolano numerosi ex italo libici (circa 80 mila persone) che in passato furono espulsi da Gheddafi e che scelsero di non rientrare in Italia. Grazie ad una legge del 1991 i rimpatriati in Italia ottennero un risarcimento per la perdita dei contributi versati all'istituto di previdenza libico. Per gli ex italo libici ora in Israele e per i relativi familiari si apre la strada per riconsiderare i vecchi versamenti e conseguire il diritto ad una pensione in Italia o in Israele.

(Avvenire, 16 luglio 2015)


Israele ad Expo 2015: cucina ebraica e alimentazione bio in due nuovi libri

di Matteo Carriero

All'Expo2015 due libri sulla cucina ebraica, le coltivazioni bio e le relative certificazioni: un'occasione per parlare, come da tema dell'esposizione universale milanese, di alimentazione, ma anche delle caratteristiche proprie della gastronomia ebraica e delle certificazioni kasher e halãl.

All'Expo2015 di Milano, nel padiglione di Israele, sono stati presentati i libri "Le diversità convergenti - Guida alle certificazioni alimentari kasher, halãl e di produzione biologica", di Elena Toselli, edito da Franco Angeli, e "(Non) si può avere tutto", di Gheula Canarutto Nemni, edito da Mondadori. L'incontro di ieri sera è stata un'occasione per approfondire le specificità della gastronomia ebraica, dai pomodori a mezzo ai Torzelli di indivia, passando per le triglie uvetta e pinoli e i carciofi alla giudia. Un viaggio virtuale nella storia della cucina ebraica, nelle regole kasher e nel mondo delle produzioni biologiche su cui molti padiglioni hanno puntato come tema fondamentale per un futuro più sostenibile dal punto di vista alimentare, e migliore per la salute dell'uomo.
  Le bontà della cucina israeliana si possono sempre gustare nel padiglione di Israele all'Expo 2015, nell'Israeli Picnic ad esempio, un angolo alle spalle della struttura dove è possibile, per esempio, acquistare felafel. L'incontro di ieri, denominato "Intersezioni ed incontri con il cibo - La ragione, il sentimento e gli ingredienti che creano armonia", si è focalizzato da un lato sugli aspetti più squisitamente culinari della tradizione israeliana, dall'altro su argomenti più tecnici come l'analisi delle certificazioni kasher, ovvero della certificazione relativa alla conformità, da parte di determinati alimenti, alle prescrizioni alimentare ebraiche. Tutti argomenti in linea con il grande tema dell'Expo di Milano, Nutrire il pianeta - Energia per la vita, che potranno essere ritrovati nei due libri sopra citati.
  I libri presentati ieri al padiglione di Israele all'Expo sono molto differenti tra loro: (Non) si può avere tutto è un romanzo con protagonista Gheula. Come da descrizione:

La realtà di una famiglia ebraica ortodossa è incredibilmente simile a quella di qualsiasi altra. La differenza sta nel cibo, kasher, nelle preghiere, nello shabat, il giorno del riposo ebraico in cui cellulare e computer vengono spenti per 25 ore. Un libro che trasforma il pre-giudizio in post-giudizio e invita a non demordere. Perché nella vita forse non si può avere tutto. L'importante però è provarci.

Nel romanzo presentato all'Expo di Milano l'alimentazione gioca un suo ruolo, poiché "solo il cibo kasher ha la capacità di rendere semplice un atto come mangiare, un servizio spirituale".
  Le diversità convergenti di Elena Toselli, invece, è una vera e propria guida alle certificazioni alimentari, dalle certificazioni kasher e halãl a quelle per i prodotti biologici: il testo spiega caratteristiche e peculiarità delle certificazioni e la loro importanza per la tutela dei consumatori, come elemento di mediazione culturale, ma anche come fattore di competitività dal punto di vista imprenditoriale e leva per il marketing. Un saggio che coniugando, peraltro, le tradizioni israeliane con il movimento per il biologico rappresenta un'interessante strumento per la conoscenza di altre culture e il dialogo tra le stesse.

(ecologiae, 16 luglio 2015)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.