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Notizie 1-15 luglio 2016


Il vicepresidente degli imam di Francia si dimette

"Ormai è difficile distinguere l'islam dall'islamismo". Hocine Drouiche, imam di Nimes, prima di partire per Nizza: "Mi auguro che nelle moschee si parli dell'attentato, non di cose che non c'entrano nulla".

di Matteo Matzuzzi

Hocine Drouiche, imam di Nimes
"Annuncio le mie dimissioni e il mio rifiuto di queste istituzioni incompetenti che non fanno nulla per la pace sociale e che non la smettono di ripetere che l'estremismo non esiste, che è prodotto dai mass media". Il vicepresidente della Conferenza degli imam di Francia, Hocine Drouiche, imam di Nimes e candidato alla carica di rettore della Grande moschea di Parigi, comunica pubblicamente la decisione di lasciare ogni incarico all'interno della comunità musulmana francese. Lo fa in polemica con quanti, a cominciare da imam e predicatori, non hanno ancora speso una parola su quanto avvenuto a Nizza. "Spero che gli imam di Francia lascino perdere le loro riserve negative e, soprattutto, che non parlino nelle loro prediche del venerdì di argomenti che non hanno nulla a che fare con l'attentato. Il loro ruolo è quello di combattere l'odio e l'integralismo religioso".
All'indomani della strage del Bataclan, a Parigi, Drouiche spiegava al Foglio che "non si potranno mai fare passi avanti se i musulmani europei non si mettono in testa che l'estremismo è diventato un fenomeno evidente all'interno della loro stessa comunità. Dobbiamo dire la verità", aggiungeva: "Dai musulmani non è arrivato un vero impegno a trovare una soluzione al grande problema della radicalizzazione e dell'odio. Io auspico che gli eventi di Parigi possano svegliare i musulmani in Francia, in Italia e in tutta Europa per salvare la nostra convivenza e il futuro delle nostre società".
Qualche giorno fa, dopo la strage di occidentali a Dacca, commentava nuovamente: "Avevamo sempre pensato che il terrorismo fosse nato in Iraq e in Afghanistan a causa dell'orgoglio dell'Amministrazione Bush. La primavera araba ha mostrato con chiarezza che il problema dell'islamismo è legato alla crisi teologica e giuridica dell'islam".

(Il Foglio, 15 luglio 2016)


Principia guarda agli incubatori di startup israeliani

Principia Sgr, guidata da Antonio Falcone, ha appena concluso la sua prima missione in Israele. Alla società fanno capo tre fondi ed è reduce dall'operazione in Francia per l'acquisizione di Ixaltis Sas, una start up attiva nello sviluppo di farmaci. Il road show in terra israeliana ha l'obiettivo di individuare nuovi potenziali incubatori in cui investire. La missione di Principia, nell'azionariato figura anche il Cnr, è stata organizzata aTeI Aviv dal ministero dell'Economia israeliano. Falcone ha incontrato, tra gli altri, i vertici della fondazione dell'istituto di Tecnologia di Haifa e i rappresentati di Yeda Research & Development, ossia il braccio commerciale che gestisce gli investimenti del Weizman Institute di Rehovot, uno dei principali centri di ricerca scientifica israeliano.

(Corriere della Sera, 15 luglio 2016


Israele terra promessa delle med technologie. Il digitale chiave di volta

Oltre 100 milioni di fondi pubblici l'anno per favorire lo sviluppo dell'ecosistema

di Mila Fiordalisi

Circa 1.400 le aziende del comparto «Life Science» a cui si aggiungono 90 startup ogni anno. Nel solo 2015 il settore ha attratto 900 mln di dollari di investimenti. A gennaio 2016 è stata battezzata l'Authority nazionale per l'Innovazione tecnologica. Si occuperà di creare le infrastrutture, fornire servizi e finanziare progetti ad alto rischio.

Fare leva sull'lct e sulle tecnologie digitali per migliorare la ricerca medico-scientifica e dare spinta e sostegno ai progetti mirati a individuare cure a malattie importanti come i tumori, ma anche il diabete, l'Alzheimer, il morbo di Parkinson e la sclerosi multipla. È questa una delle principali sfide del governo di Israele.
 
   Numerose le iniziative già operative che possono contare sui fondi pubblici, su quelli messi a disposizione dai venture capitalist e delle principali tech-companies mondiali che sempre di più stanno dirottando investimenti e risorse nelle cosiddette medical technologies. A Tel Aviv la quindicesima edizione dello lati-Biomed, la mostra-convegno interamente dedicata alle tecnologie biomediche, ha acceso i riflettori sulle innovazioni già sul mercato e su quelle prossime venture. Dalla robotica alla diagnostica 3D, dalle applicazioni di e-health ai dispositivi avanzati, dalle piattaforme per l'analisi dei big data alla sensoristica avanzata: gli ingredienti della ricetta "smart" sono molti e altrettanti sono in via di sviluppo anche grazie al pullulare di startup intorno all'ecosistema "health".
   Ad oggi sono oltre 1.400 le aziende che in Israele fanno capo all'industria della "life science" e 90 le startup che si aggiungono ogni anno. Numeri da record considerato inoltre che quasi un terzo delle aziende in questione sta già generando revenues. Nel solo 20I5 ben 900 milioni di dollari sono stati investiti nelle aziende del comparto da parte di fondi di venture capi tal, business angels, privati e corporation, in salita dagli 800 milioni già iniettati ne120I4. Circa il 20% delle aziende attive nel biomed è impegnato in progetti di digital health e il 33% delle nuove compagnie ha deciso di investire nel settore negli ultimi tre anni. Una delle aree considerate più promettenti è quello della stampa 3D, già sperimentata ad esempio in campo odontoiatrico e che sta suscitando notevole interesse in quello della rigenerazione dei tessuti.
   Israele vanta già la leadership nello sviluppo di soluzioni che riguardano le cartelle mediche elettroniche, la biosensoristica, il monitoraggio lct, la big data analysys. Le principali compagnie mondiali, da GE a Philips, da Johnson & Johnson a Merck Serono sono da tempo attive in Israele anche con propri centri di ricerca e sviluppo. In campo anche Medtronic, a seguito dell'acquisizione di Covidien. Fosun e Sinopharm fra le compagnie cinesi che hanno recentemente deciso di investire nel settore biomedico israeliano e sta crescendo l'interesse da parte delle aziende giapponesi. E poi ci sono i colossi dell'Ict: Microsoft, Ibm, Google, Cisco, Hp, Samsung e Dell per citare alcune di quelle da tempo nel Paese con proprie strutture. E alla lista si sono aggiunte di recente Apple, Facebook, Blackberry, Dropbox. E in generale tutti i big del settore sono coinvolti direttamente o indirettamente attraverso partnership o finanziamenti di iniziative, alle sviluppo della "nuova" industria.
   Da parte sua il governo ha dato vita, a gennaio di quest'anno, all'Autorità nazionale per l'Innovazione tecnologica, un organismo che si occupa dello sviluppo di iniziative votate all'innovazione attraverso tre azioni: creare le infrastrutture di supporto alle varie industrie, fornire gli strumenti e mettere a punto programmi ad hoc, finanziare progetti considerati "high-risk". E l'Authority farà anche da "hub" tecnologico, ossia metterà a disposizione delle aziende competenze e risorse specifiche per testare e mandare avanti i progetti. "Il governo di Israele considera il settore del Life Science fondamentale e continuerà ad allocare fra il 25 e il 30% del budget pubblico, ossia circa no milioni di dollari all'anno, per sostenerne lo sviluppo", sottolinea Avi Hasson, Chief Scientist del ministero dell'Economia & Industria e a capo dell'Autorità per l'lnnovazio ne. "Il governo può permettersi di sostenere il rischio di finanziare anche le iniziative che non avranno successo perché, diversamente dal settore privato, non considera il fallimento negativo - continua Hasson -. Una startup potrebbe non riuscire a sviluppare soluzioni o prodotti commercializzabili e quindi redditizi per gli azionisti, ma alla lunga potrebbero nascere nuove imprese proprio grazie alle innovazioni sviluppate all'origine". Il 2016 è considerato un anno chiave: "Ci aspettiamo - sottolinea Hasson - importanti passi in avanti relativamente alla ricerca sui nuovi farmaci grazie all'avvio di numerosi test clinici e anche nel campo del digital health. E siamo certi che sempre più aziende farmaceutiche e mediche internazionali decideranno di investire nelle iniziative che si stanno sviluppando in Israele per aiutarci a creare un mondo migliore".

(Cor. Com., 15 luglio 2016)


Yenetics conquista anche Israele

Il progetto della start up cagliaritana maturata nell'ambito del ContaminationLab dell'Università del capoluogo, vince il contest lanciato da ministero degli Esteri israeliano e comune di Tel Aviv. Alla selezione hanno preso parte imprese innovative di 23 nazionalità.

Un test innovativo e non invasivo per le cento malattie genetiche più diffuse al mondo. Questa l'idea vincente del pool di Yenetics. La start up, lo scorso 19 febbraio, alla presenza del rettore Maria Del Zompo, del pro rettore Annalisa Bonfiglio, del presidente della Giunta regionale Francesco Pigliaru e del sindaco di Cagliari Massimo Zedda, nel teatro del conservatorio Pierluigi da Palestrina si è aggiudicata la terza edizione del ContaminationLab, direttore scientifico Maria Chiara Di Guardo, promosso dall'Università di Cagliari. Nei giorni scorsi, per il team di Chiara Saba (Ceo) un altro splendido gol: la vittoria nell'edizione italiana di Start Tel Aviv 2016. Osservatori specializzati (tra questi, gli esperti del Sole24Ore) hanno quantificato il valore del biotech in 7 miliardi di euro. Da qui, una rinnovata e continua attenzione delle grandi major internazionali per le start up. Peraltro, queste ultime, specie se nate in Italia, rendono fino al 30 per cento nelle quotazioni alla Borsa di Milano, Piazza Affari....

(Università degli Studi di Cagliari, 15 luglio 2016)


Dopo più di nove anni riapre a Eretz il valico per Gaza

GERUSALEMME - Israele ha riaperto, dopo oltre nove anni, il valico di Eretz con Gaza. Da ieri, quindi, camion, automobili e persone possono nuovamente passare da Israele alla Striscia di Gaza. Il valico di Erez era chiuso dal 2007, costringendo quindi a usare quello meridionale di Kerem Shalom. Il conseguente traffico di centinaia di mezzi pesanti e di automobili che quotidianamente attraversavano la zona aveva suscitato le lagnanze degli abitanti delle città israeliane. A maggio, l'allora ministro della Difesa Moshe Yaalon aveva annunciato la riapertura di Erez per consentire un più semplica flusso di merci verso Gaza e ridurre la congestione di Kerem Shalom. Un portavoce del Cogat, la sezione del ministero della Difesa responsabile per l'attuazione delle politiche governative nei territori palestinesi, nel confermare il passaggio di veicoli attraverso il valico di Eretz, ha detto all'agenzia AsiaNews che «la decisione è stata presa per facilitare il lavoro degli importatori palestinesi e quindi aiutare l'economia della Striscia di Gaza»». Un'associazione di proprietari palestinesi di veicoli ha detto che 110 mezzi sono arrivati attraverso Erez.

(Avvenire, 15 luglio 2016)


«Piano speciale di integrazione o servirà il modello Israele»

Ian Bremmer
Bremmer: il problema per Parigi è che l'8% degli abitanti non si sente francese.

dì Giuseppe Sarcina

NEW YORK La Francia ora ha due possibilità: o rimette in moto con decisione il processo di integrazione delle seconde e terze generazioni di immigrati; oppure non resta che il modello Israele, un Paese democratico dove però popoli di diversa origine vivono in modo separato. Ian Bremmer, 46 anni, politologo americano, fondatore e presidente del Centro studi Eurasia Group, ha appena ascoltato le notizie in arrivo dalla notte di Nizza. E' pessimista.

- Da Parigi a Bruxelles, poi da Orlando a Dacca. Ora di nuovo la Francia, con Nizza. E' una catena di attacchi che pare inarrestabile. Perché?
  laquo;Dobbiamo innanzitutto fare chiarezza su un punto. Lo Stato islamico sta perdendo vistosamente terreno in Siria e in Iraq. In Siria ha ceduto il 20% del territorio che controllava fino a pochi mesi fa. A questo punto è evidente che il Califfato costituito come Stato non ha futuro. Tuttavia conserva ancora una grande capacità organizzativa e la possibilìtà di reclutare combattenti dall'estero. Hanno cambiato tattica e ora colpiscono i nemici con attacchi che ricordano, sia pure con tutte le differenze del caso, quelli di Al Qaeda».

- Sono quindi imprevedibili, imprendibili in tutto il mondo?
  «C'è un secondo aspetto. Questi attacchi hanno colpito solo parzialmente gli Stati Uniti. Molto poco l'Asia. La grande maggioranza delle azioni terroristiche riguarda, invece, il Medio Oriente e l'Europa, in particolare la Francia. In Medio Oriente la spiegazione è più semplice: i terroristi si accaniscono contro Stati di fatto falliti».

- La Francia, invece, sembra l'epicentro di una crisi multipla, politica ed economica. E sul piano sociale fatica a integrare gli immigrati. Tutto ciò la rende più vulnerabile?
  «Certo, è così. Si sommano diverse componenti. L'arrivo massiccio di profughi, la crescita economica bloccata e l'alto tasso di disoccupazione. Ma c'è un numero chiave: circa l'8% della popolazione non si sente francese, non si riconosce nello Stato. E queste persone non sono rifugiati appena sbarcati. Sono figli di immigrati, giovani di seconda o terza generazione. E' la percentuale più alta tra i Paesi europei. Dalla Francia sono partiti tanti foreign fighter verso l'Iraq e la Siria».

- Messa così il governo di Parigi non sembra avere molti margini. Proprio ieri il presidente François Hollande aveva annunciato la revoca delle misure di emergenza ...
  «Il governo può rafforzare di nuovo le misure anti-terrorismo o i controlli alla frontiera. Ma questo non contribuirà a risolvere la questione di fondo, offrendo una possibilità ai giovani francesi, figli di immigrati, che oggi non si sentono accettati dal Paese. Quindi, se vogliamo andare in profondità, a questo punto per la Francia vedo solo due opzioni. O si apre con decisione o si blinda. Prima strada: intensificare al massimo l'opera di integrazione dei giovani che oggi si sentono esclusi. Vuol dire massicci investimenti nell'educazione, in programmi di deradicalizzazione mirati, in posti di lavoro. Oppure la Francia può scegliere di diventare come Israele: sottoporre a stretta sorveglianza i soggetti considerati un potenziale pericolo per lo Stato».

- Quale delle due opzioni sta guadagnando spazio politico e psicologico nell'opinione pubblica francese?
  «Mi piacerebbe fosse la prima opzione, quella dell'integrazione, ma vedo invece avanzare la seconda».

(Corriere della Sera, 15 luglio 2016)


Iran-Israele, la guerra del caviale: l'invasione delle meduse assassine

di Maurizio Stefanini

 
Sionisti, animali! Non è un insulto: è un curioso scenario paranoico che da qualche anno sembra accomunare tutto il mondo islamico. Sunniti o sciiti, moderati o integralisti, quelli che per lo meno in teoria avrebbero fatto la pace con Israele e quelli che si considerano ancora in guerra con lo Stato ebraico, musulmani che sono divisi tra di loro su tanti altri temi sembrano essere d'accordo nella convinzione che il Mossad sia capace di addestrare gli animali, per poi lanciarli in micidiali operazioni di spionaggio o sabotaggio.
   L'ultimo allarme viene dall'Iran, secondo il quale Israele avrebbe infilato nel Mar Caspio una "specie invaditrice" del suo ecosistema, in modo da danneggiare quell'export di caviale che dopo la revoca delle sanzioni sta diventando una fonte di valuta seconda solo al petrolio. Cinquanta grammi di caviale possono costare 300 euro: una cifra riservata quasi tutta all'estero. Per effetto del boicottaggio internazionale, tra 2000 e 2014 l'esportazione era discesa da 40 tonnellate all'anno a una sola, ma adesso il governo di Teheran sta approntando un ambizioso piano per riattivare entro il 2017 le vendite in Stati Uniti e Canada: non solo di caviale con cui si punta a un export da 100 tonnellate l'anno, ma anche di gamberi e frutti di mare, che la religione islamica vieta di mangiare.
   Non a caso, la sparata viene a ridosso della "giornata di al Quds": una data che la Repubblica Islamica dedica a rivendicare Gerusalemme e ad attaccare Israele. In un'intervista all'agenzia di notizie Mehr, Seyed Jafar Mousavi - responsabile dell'Organizzazione per la Difesa Dissuasoria e le Operazioni Biologiche e di Informazione del governo iraniano - ha appunto spiegato che non solo Israele avrebbe giurato «varie volte» di voler distruggere il business dello storione nel Mar Caspio, ma che si deve imputare proprio a Israele l'effettiva introduzione in quelle acque di varie tonnellate di ctenofori, una specie di meduse che avrebbe ridotto del 75% la quantità di plancton. «Siamo sicuri che è stato il regime sionista a lanciare da una barca questa specie nelle nostre acque», accusa. Gli ctenofori sono gli ultimi tra gli insospettabili "agenti sionisti" che, secondo i musulmani, verrebbero arruolati nel regno animale.
   Nel dicembre del 2010 fu il governatore del Sinai del Sud Mohamed Abdel Fadil Shousha a suggerire che gli squali che spaventavano i turisti di Sharm el Sheik potessero essere stati addestrati dal Mossad, per danneggiare il turismo egiziano. Un grande avvoltoio grifone nel gennaio del 2011 fu catturato come spia nella città saudita di Hyaal, denunciato da alcuni abitanti per via di un trasmettitore Gps targato Università di Tel Aviv. «Il Gps non fa altro che incamerare e conservare dati sugli spostamenti dell'uccello e sull'altitudine e la velocità del suo volo», fecero presente in Israele.
   Ma l'allarme sulle spie sioniste pennute si diffuse, e nel maggio del 2012 esplose in Turchia, dopo la scoperta di un uccello gruccione morto che attorno a una zampa aveva un anellino con la scritta "Israele". Gli stessi ornitologi turchi spiegarono che è il sistema più diffuso per studiare le migrazioni, ma il gruccione aveva anche il becco con narici più grandi del solito, e allora la bestiola finì sotto l'indagine dei servizi di Ankara, per vedere se non ci avessero fatto passare qualche antenna. Nel dicembre del 2012 un altro avvoltoio con gps e strumentazione alimentata a energia solare fu arrestato in Sudan. Nel settembre 2013 furono gli egiziani a arrestare una cicogna, e nell'ottobre successivo Hezbollah a fermare un'aquila. In compenso, il falco fermato in Turchia nel luglio di quel 2013 con alla zampa la fascetta metallica "24311 Tel Avivunia Israel" fu poi rilasciato.
   E non solo pennuti. Nel novembre del 2014 fu il presidente dell'Anp Abu Mazen a dire che Israele stava usando «cinghiali come armi segrete». E il 19 agosto del 2015 fu Hamas a dire di aver catturato nel mare di fronte alla Striscia di Gaza un delfino attrezzato con telecamere e altri dispositivi per spiare a favore di Israele le attività dell'organizzazione e per sparare «dardi capaci di ferire o anche uccidere essere umani». Per finire: lo scorso gennaio in Libano è stato arrestato un avvoltoio grifone.

(Libero, 15 luglio 2016)


Pentastellati in Israele ospiti sgraditi

Lettera al Giornale

Assurda la visita dei pentastellati in Israele pensando di essere ricevuti con il tappeto rosso e la guardia presidenziale, in quanto accompagnati dal vice presidente della Camera. Certe posizioni antisraeliane, con la pretesa che Israele si ritiri nei confini del '67, vengono condivise da tutto il movimento ed è già tanto che non abbiano vietato l'ingresso non solo a Gaza ma che abbiano permesso di riceverli sul suolo israeliano, viste le loro tendenze.
Armando Vidor - Loano (SV)

(il Giornale, 15 luglio 2016)


Una donna alla guida della comunità ebraica, le sfide di Noemi

Lotta all'antisemitismo e al terrorismo, educazione, difesa dei diritti d'Israele, identità europea: sono i temi su cui dovrà misurarsi.

di Franca Zambonini

Alla guida dell'ebraismo italiano c'è adesso una donna: Noemi Di Segni è stata eletta presidente dell'Ucei, l'Unione delle comunità ebraiche italiane. Ha 47 anni, nata a Gerusalemme, romana d'adozione, laureata all'Università di Roma in Economia e commercio con no e lode, è sposata e ha tre figli. Resterà in carica per quattro anni.
   Nel discorso di presentazione della sua candidatura, Noemi Di Segni ha detto: «L'essere ebrea cresciuta in un ambiente religioso, l'essere israeliana di Gerusalemme, l'essere donna, madre di tre figli, due di loro avviati a una vita in Israele, l'essere figlia di italiani e parte di una comunità antica e proiettata con energia verso il futuro, mi portano a stare qui». E ancora: «Le sfide che abbiamo da anni imparato ad affrontare, come israeliani, come ebrei e come comunità, sono divenute sfide anche dei Governi e delle istituzioni europee». Tra queste sfide c'è la lotta all'antisemitismo e al terrorismo, perché «la densa nuvola nera è arrivata anche sui cieli dell'Europa». Altre sfide: l'educazione dei giovani, la difesa dei diritti d'Israele, il confronto con un'identità europea che vive momenti difficili. Infine, la neopresidente ha citato la cantautrice israeliana Sarit Hadad: «Credere con tutto il cuore che andrà bene e che, nonostante tutto, noi ce la faremo». Noemi Di Segni non è la prima donna alla guida delle istituzioni ebraiche. Ebbe un ruolo di rilievo Tullia Zevi, scomparsa nel 2011 a 91 anni, che fu protagonista del dialogo tra ebrei e cristiani.
   Ed è ancora in carica Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica romana. La ricordiamo quando accolse Francesco al Tempio Maggiore di Roma, terzo Pontefice a compiere quella visita dopo Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Disse Ruth Dureghello in quella storica occasione: «La fede non genera odio, non sparge sangue ma, al contrario, richiama al dialogo». Per gli auguri alla neo-presidente Noemi Di Segni, prendo in prestito le parole della cantautrice israeliana Sarit Hadad da lei citata: tutto andrà bene e, nonostante gli ostacoli, ce la farà.

(Famiglia Cristiana, 14 luglio 2016)


Baby-sitter, vestiti all'arancia e test non invasivi. Le migliori app femminili di "Start Tel Aviv"

di Stefania Nicolich

 
Il Talent Garden (TAG) di Calabiana di Milano
 
Lunedì 11 luglio si è tenuta al Talent Garden (TAG) di Calabiana di Milano Start Tel Aviv, contest internazionale promosso dal ministero degli Affari esteri israeliano e la municipalità di Tel Aviv. Il contest ogni anno punta a selezionare le migliori start up di 23 paesi del mondo e a riunirle in Israele, in un bootcamp di 5 giorni (25-29 settembre 2016) ospitato a Tel Aviv, cuore dell'ecosistema israeliano dell'innovazione, in contemporanea con la Digital-Life-Design (DLD) Festival. L'edizione del 2016 è stata tutta in rosa: si è concentrata sull'imprenditoria femminile. Presenti tra i giudici l'ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon, Google con Livia Bettini, dPixel con Lisa Di Sevo, Girls in tech con Anna Sargian, Barbara Carfagna della Rai, Wired con Federico Ferrazza, Marco Trombetti di PiCampus, Roberto Magnifico di LVenture Group, Chiara Di Guardo di ContaminationLab, Corriere Innovazione con Giuseppe Di Piazza. Le tre stratup finaliste sono state Le Cicogne, Orange Fiber e Yenectics. La vincitrice che andrà a Tel Aviv per cinque giorni è Yenectics.

Le Cicogne è stata fondata da Monica Arcibugni ed è frutto della sua esperienza decennale di baby-sitter. La creazione di un gruppo privato su Facebook per raccomandare baby-sitter affidabili è diventata ora un app che permette alle famiglie di trovare la tata ideale dal proprio smartphone. Arcibugni ha spiegato come, secondo il censimento dell'Istat del 2015, il mercato dei lavoratori domestici irregolari ammonti a circa 876 mila euro in Italia. Con Le Cicogne ora è presente in 84 città italiane vuole risolvere diversi problemi che si riscontrano comunemente in questo campo. Le baby-sitter attraverso l'app svolgono il check-in e il check-out venendo pagate esattamente per il tempo impiegato, con pagamento cashless attraverso l'app e i genitori ricevono la notifica di tutto tramite email in tempo reale. Entrambe le parti beneficiano di un'assicurazione fino a un milione di euro in caso di eventuali danni a cose e a persone. I prezzi de Le Cicogne ammontano, oltre ai costi per l'utilizzo dell'app, a due euro per ogni ora lavorata dalla baby-sitter, per coprire i servizi di assicurazione, transazione e assistenza telefonica 24 ore su 24 7 giorni su 7.

Orange Fiber, fondata da Enrica Arena, crea tessuti che vengono ricavati dalle bucce delle arance. Arena nella sua presentazione ha sottolineato come la moda sia il secondo settore con il peggiore impatto ambientale al mondo. I tessuti più diffusi in commercio sono formati per il 60 per cento da petrolio, il 32 per cento da cotone o lana e l'8 per cento da cellulosa. Tra cinque anni è prevista una crescita del 106 per cento della cellulosa come componente principale dei tessuti. Dato preoccupante per il notevole impatto ambientale dal momento che la cellulosa deriva dal legno. Creare un tessuto dalle bucce d'arance aiuta anche a limitare le tonnellate di sprechi in campo alimentare dato che metà dell'arancia rappresenta uno scarto. Il processo parte da uno stabilimento di spremitura in Sicilia, passa in Spagna per la lavorazione e torna a Como per la filatura. Il tessuto così creato è paragonabile alla seta o alla viscosa. I tessuti vengono ideati su richiesta, secondo le esigenze dei clienti. Si posizionano per ora su un mercato di lusso, con un prezzo intorno ai 40/50 euro al metro.

Yenectics, come dice la fondatrice Chiara Saba, è il primo test prenatale non invasivo con una sicurezza del 99 per cento per cento malattie genetiche rivolto alle mamme in attesa. Saba ha illustrato il problema di molte donne incinte che di solito svolgono un test per le malattie genetiche dalla nona settimana di gravidanza in poi, test standard però che riguarda solo le principali malattie. Se si vogliono approfondire le analisi sono necessari test invasivi che possono causare nell'1 per cento dei casi all'aborto. L'innovazione di questo test è appunto il fatto di non essere invasivo: con un semplice prelievo del sangue si possono testare cento malattie genetiche e avere una sicurezza della validità del test del 99 per cento.

(Il Foglio, 14 luglio 2016)


Sogni, paure e speranze sotto il muro dell'indifferenza. «Ora è un luogo di dialogo»

Tra i quaranta profughi ospitati al Memoriale della Shoah

di Paolo Foschini

Memoriale della Shoah - Milano
Sopra il soffitto di cemento si sentono i treni partire. È un rumore di tuono, solo molto più lungo. E ogni volta è una stretta allo stomaco. Col pensiero alle migliaia che da qui tanti anni fa partirono per Auschwitz e davanti agli occhi quelli che invece sono in viaggio oggi. Come Ahmed che ha 22 anni e arriva dall'Afghanistan: «Nel mio villaggio i talebani hanno tagliato la gola a troppi miei amici. Spero di arrivare in Germania e raggiungere mio fratello. Se non ci riesco so solo una cosa: che a casa comunque non posso tornare». C'è Joseph che ne ha 29 e per approdare in Italia dall'Eritrea ci ha messo un mese: «È da quando sono ragazzo che sogno di andare a scuola. Ad Asmara però ti è permesso di studiare solo se accetti di fare il soldato. Alla fine sono scappato». È arrivato con cinque amici, il più magro di tutti ha un sorriso che spacca la penombra del Binario 21, si chiama Kayuma ed è al terzo piatto di riso: «London», dice. «È là che voglio arrivare». Nel tavolo accanto un gruppo di donne, eritree anche loro. Sperano di riuscire a partire presto. Ma quest'anno, con le frontiere bloccate, le parole più ripetute sono proprio queste: Speriamo, «vedremo», «non so». E la parte in ombra della serata. L'altra - per dire di ieri - è una porta che si apre e un gruppo di boyscout che entra con le casse di frutta per il dopocena. Duecento persone in meno di un giorno, sono quelle che han chiamato per chiedere «posso aiutare?». Non tutta l'ombra è fatta di buio.
  È la seconda stagione del Binario 21 aperto all'accoglienza notturna dei profughi. Fondazione memoriale della Shoah e Comunità di Sant'Egidio ancora insieme per unire accoglienza e testimonianza: 40 posti-letto, docce, cena e colazione ogni giorno dall'altro ieri fino al prossimo autunno, così come lo scorso anno dal 22 giugno al 14 novembre con quasi cinquemila persone ospitate negli spazi accanto al museo che Liliana Segre aveva voluto fosse dominato, al suo ingresso, dalla parola «Indifferenza» scolpita in lettere alte due metri e di fronte a cui questi ragazzi e ragazze provenienti dalla Somalia, dal Sudan, dall'Eritrea, dall'Afghanistan così come lo scorso anno soprattutto dalla Siria si fermano e chiedono «puoi tradurre?». E restano muti a guardare. Roberto Jarach per la Fondazione e Stefano Pasta per Sant'Egidio spiegano che la principale differenza con l'anno scorso è proprio la questione delle frontiere chiuse. Perché stiamo parlando di uomini e donne la cui meta finale non sarebbe Milano ma quasi sempre il Nord Europa: «Infatti l'estate scorsa quasi tutti si fermavano una notte e il giorno dopo partivano. Quando arrivavano ci mandavano gli sms per dire "ce l'abbiamo fatta". Ora è diverso». Dei quaranta arrivati la prima sera una ventina si è ripresentata qui la seconda, senza alcuna certezza su domani. Dalle nove in poi arriveranno i nuovi inviati qui dall'hub di via Sammartini. Ad aiutarli ci sono - unici assunti regolarmente per la conoscenza dell'arabo, in mezzo al mare di volontari - due egiziani e un marocchino.
  La Fondazione ha voluto che «dentro» il Memoriale - ed è la prima e unica installazione di questo luogo non direttamente collegata alla Shoah - ci fosse un cartellone fotografico permanente con le testimonianze dell'anno scorso. Cose diverse, ovvio. Ma un simbolo forte. «È la rivincita della storia come insegnamento per il presente», sintetizza Stefano. Con il conforto di alcune cose come la partecipazione solidale di tante realtà diverse: «Tra i volontari - dice - oltre a noi e alla Fondazione ci sono parrocchie, associazioni laiche, al sabato viene la chiesa anglicana, e poi gli amici del tempio induista ... L'Italia e l'Europa non son fatte solo di muri», dice.
  Sopra si sente partire un treno. Trema tutto. Ma si prova a dormire.

(Corriere della Sera, 14 luglio 2016)


Vizi e virtù del potere

Rav Laras approfitta degli ozii estivi per (ri)scoprire Tito Livio, Tacito, Cassio Dione e Svetonio. I Classici di Roma mostrano che l'empietà al governo è un fatto tutt'altro che straordinario. Specie quando il governo è affidato a uomini meno che ordinari.

di Giuseppe Laras (*)
Se una persona si radica, iterandolo costantemente, in un comportamento gravemente erroneo, sì che questo comportamento diventa per la persona un ethos, uno stile di vita, per costei diverrà impossibile - o quasi - poter- sene pentire. L'abitudine malvagia alla lunga vizia e scalfisce, erodendola, la nostra libertà, che nel momento in cui è ridotta a mero arbitrio inizia a consu- marsi e dissolversi.
Maimonide  

La pausa estiva è un'occasione propizia per le letture o, come nel mio caso, per le "riletture", Con il trascorrere del tempo, mi sono reso conto di trovarmi a rileggere sempre, nei momenti (rari) di quiete prolungata, classici della storia antica, greca e romana. Non si tratta soltanto di stantia erudizione, oppure di passione archeologica nei confronti della Classicità, radice e cardine, assieme alla Bibbia, di ciò che noi oggi siamo.
  Ho sempre trovato avvincenti i racconti degli storici antichi, in particolare quelli riguardanti le antichità romane. Nel corso dell'anno mi capita non di rado di sfogliare qualche pagina, di riconsiderare un tale fatto, di meditare su un determinato episodio, magari in qualche modo archetipico. Tuttavia, mi è impossibile sostare a lungo, debitamente, su dette pagine: questo è riservato agli ozii estivi.
  La domanda che vi farete - e che mi sono fatto anch'io molte volte - è: "che cosa rende leggibili oggi questi scritti?". Vorrei, allora, ammesso che la mia risposta sia "praticabile, offrire alcuni stimoli per caldeggiare (e, in estate, il verbo è forse eccessivo) la lettura di alcuni storici latini.
  In primo luogo, vi è l'indubbio fascino che esercita su un italiano la storia dell'antica Roma: luoghi che noi oggi conosciamo e abitiamo, furono altrimenti: talora permangono quasi immutati, spesso, al contrario, sono irriconoscibili. Eppure, nella discontinuità, vi è continuità. In quanto italiani, le vicende repubblicane e imperiali non ci sono estranee, ma, inevitabilmente, intrinseche. La storia di Roma, poi, è stata più volte soggetta a "riuso" nel corso della storia occidentale. In alcuni casi, essa ebbe modo di fungere da sprone positivo, specie nel corso della Rinascenza italiana e, successivamente, negli ambienti culturali e politici anglosassoni. In altre occasioni, al contrario, le vicende di Roma hanno eccitato, anche recentemente, menti perverse, con storie nefaste, sofferenze indicibili e rovinose cadute. È innegabile, tuttavia, che per l'uomo di genio, che crea e che governa, che modifica il Creato e che lo rende fruibile per una migliorata esistenza umana in ambienti spesso inospitali, la grandezza civilizzatrice di Roma, con le sue strade e i suoi acquedotti, con i suoi ingegneri e i suoi fori, con i suoi commerci e con l'universalità della lingua latina, eserciti una forza attrattiva unica. Al contempo, questa storia, per essere tale, fu intrinsecamente, e non per accidente, anche lilla storia di soprusi e di violenze, di arbitrio e di persecuzione, di schiavitù e di sfruttamento. La percezione della Roma antica, per i cristiani, è probabilmente sospesa tra la memoria della persecuzione e la cristianizzazione dell'Impero. Per gli ebrei, il ricordo di Roma evoca inevitabilmente la sconfitta, la distruzione, la dispersione e il rischio di annientamento.
  [ grandi storici latini, tra cui, in particolare, consiglio la lettura di Tito Livio, Tacito, Cassio Dione e Svetonio, ci narrano le vicende degli imperatori, per lo più individui meno che ordinari ricoprenti ruoli straordinari. Basti ricordare Tiberio, Nerone, Caligola e Domiziano. Questo è il secondo motivo per cui la storia di Roma va a calamitare la mia attenzione: l'empietà al governo è un fatto possibile, tutt'altro che occasionale o raro. Esso si declina in molti modi.
  Il primo modo riguarda l'individuo mediocre, che si trova a esercitare il potere: non potendo tollerare l'eccellenza, perché quest'ultima inevitabilmente smaschera la mediocrità e la elide, l'uomo mediocre si dimostra instabile, ossessionato, perverso, intollerante, crudele e repressivo. Vi è poi l'uomo folle, governato dalle sue passioni e dalle mutevoli passioni del popolo. Vi è l'uomo di potere, ma intemperante, innamorato del suo stesso potere e con personalità narcisistica, incapace di ascoltare e spietato. Vi sono stati, altrettanto devastanti, uomini deboli e incapaci, laddove l'ignavia e la mancanza di nerbo hanno portato molte sciagure. Vi furono poi i grandi corruttori, che compresero, impiegandola senza freno, la forza subdola che la corruzione è in grado di esercitare su moltissimi esseri umani, devastante la dignità del corrotto, comprato forse ma mai fedele. Molte delle personalità ritratte furono individui che si contraddistinsero per crudele ferocia e barbarie, omicidio e disprezzo degli esseri umani.

 Se l'errore diventa ethos
  Tutto questo scorre dinanzi a noi, fortunatamente abbastanza lontani da quei fatti, mentre leggiamo le cronache riportate dagli storici prima ricordati. E molte domande si affastellano: come può un uomo - o alcuni uomini - così irresponsabilmente ridurre ad arbitrio la propria libertà? Come può un'istituzione, con i suoi svariati centri di potere e di controllo, tollerare l'ascesa progressiva di esseri umani indegni e pericolosi? Fino a che punto - e a quali prezzi - i gruppi di potere possono tollerare l'intollerabile, e talvolta persino favorirlo, anche se si tratta di un'attitudine alla lunga suicida, incapace di tracciare il futuro e preoccupata solo di appoggiarsi al piolo dell'istante? Come è possibile che con la grandezza, la prosperità, la tecnica progredita e la cultura raffinata - comunque sempre preferibili al bon sauvage ai suoi ideologici sostenitori nel corso di ogni epoca - possano accompagnarsi, senza n'oppi imbarazzi, la sopraffazione e la ferocia? Come può essere possibile, infine, che, dinanzi all'intollerabile, dilaghi spesso, piuttosto che l'impegno personale e la buona determinazione, una sorta di rassegnazione, di "schiavitù volontaria" e di "soumission"? Com'è possibile che, tutto sommato, basti poco, molto poco, per la rapida regressione dalla convivenza civile, pur gravata e viziata sempre da molte difficoltà, carenze e contraddizioni, alla barbarie e al despotismo, perdendo in maniera subitanea quanto ha invece richiesto molto tempo per essere costruito?
  Quanto narrato da Cassio Dione, Tacito e Svetonio ci interroga con ulteriore domanda, inevitabile: "come è possibile che i vari Nerone, Caligola, Domiziano et altri, potessero pensare, a fronte delle nefandezzc compiute, di restare impuniti, di non pagare in questo mondo il fio, di non sollevare, cioè, presto o tardi, una reazione inevitabile che li distruggesse?". Congiure, intrighi, tradimento, terrore e uccisioni furono quello che puntualmente ottennero. Come può un uomo essere tanto cieco da non comprenderlo, se non per imperativo morale perlomeno per calcolo e strategia? Cosa ha inquinato e ottuso così potentemente l'intelletto di queste persone? Al riguardo mi sovviene la risposta che, in relazione ad alcuni passi biblici riguardanti personaggi crudeli e pervicacemente omicidi quali, ad esempio, il Faraone, ebbe a offrire il grande Mosè Maimonide: se una persona si radica, iterandolo costantemente, in un comportamento gravemente erroneo, sì che questo comportamento diventa per la persona un ethos, uno stile di vita, per costei diverrà impossibile - o quasi - potersene pentire. L'abitudine malvagia alla lunga vizia e scalfisce, erodendola, la nostra libertà, che nel momento in cui è ridotta a mero arbitrio inizia a consumarsi e dissolversi.

 Quel valori dimenticati
  Vi è, infine, un altro apprezzabile motivo per cui è significativo, specie oggi, leggere Tito Livio, Cassio Dione, Svetonio e Tacito. Si tratta, nel procedere della lettura e della riflessione su di essa, dell'educazione alla "virtù". Molte delle "virtù eroiche" espresse dalla cultura greca nei miti, ricompaiono in veste "storica" nelle virtù celebrate dagli antichi latini, talora riformulate e accostate a valori propri della romanità. Alcune "virtù eroiche" confliggono con le "virtù bibliche", altre, invece, pur non sovrapponendosi completamente a quelle bibliche-ebraiche, hanno possibilità di parziale traduzione e integrazione. Si tratta di "virtù" che una certa recente cosiddetta "cultura" ha cercato di divellere o comunque di ridimensionare in seno all'orizzonte valoriale occidentale, con risultati devastanti. Mi riferisco ai seguenti valori, raramente ricordati: fedeltà alla parola data, lealtà, fermezza, coraggio, tenacia, costanza, saldezza, rigore, austerità, severità.
  Non so se queste mie considerazioni abbiano allontanato, piuttosto che avvicinato, i potenziali nuovi lettori degli antichi Classici. È probabile che si trovi legittimamente tutto questo noioso e, forse, inattuale. Se, in relazione all'attualità di questi scritti, sono sinceramente convinto che la risposta sia positiva, circa, invece, la "noiosità" eventuale degli stessi, i gusti di ciascuno in materia sono eterogenei e spesso stravaganti. Assumendo la mia personale stravaganza, spero che i temi "caldi" ricordati non vadano troppo a ulteriormente provare i lettori di Tempi nel bel mezzo delle arsure estive. Buona estate!


(*) Presidente del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia, rabbino capo emerito della comunità ebraica di Milano

(Tempi, 14 luglio 2016)


La citazione di Maimonide fatta nell'articolo e riportata all’inizio nel riquadro si adatta alla perfezione all’«uomo libero» della nostra società occidentale. Comportamenti “costantemente iterati” e “gravemente erronei” sono diventati “un ethos, uno stile di vita” e rendono impossibile “potersene pentire” perché si ritiene che non ci sia nulla di cui doversi pentire, ma anzi di esserne fieri. Una libertà “ridotta a mero arbitrio” ha già iniziato da tempo a “consumarsi e dissolversi”, ma chi sguazza nel fango è convinto di diventare sempre più libero sguazzando sempre di più. M.C.



Parashà della settimana: Balak

Numeri 22:2-25:9

 - Balak, re di Moav (Moabita) è preoccupato per il passaggio nel suo territorio del popolo ebraico proveniente dall'Egitto in marcia verso la Terra Promessa. Balak sapeva che il potere d'Israele non era sulla forza militare ma nella sua Parola. Allora Balak si disse: "Chiederò aiuto ad un profeta perché la forza si trova ugualmente sulla sua bocca".
Balak aveva compreso come la propaganda era capace di trasformare la realtà, seminando il dubbio con la menzogna.
Per questo va a ricercare il divino Bilaam dicendogli: "Ecco un popolo appena uscito dall'Egitto… ora vieni e maledici questo popolo, perché esso è più forte di me" (Numeri 22:5).
Il Signore disse a Bilaam: "Non andare a maledire quel popolo perché esso è benedetto" (Numeri 22:12).
Bilaam non accetta la volontà di D-o e si mette in cammino cavalcando la sua asina. Ad un certo momento questa si rifiuta di continuare il tragitto, perché un angelo del Signore le sbarra la strada. Bilaam picchia l'asina con il suo bastone per ben tre volte, ma l'asina non si muove e dice in linguaggio umano le ragioni del suo rifiuto.
Bilaam vede allora l'angelo del Signore, riconosce il suo peccato e vuole tornare indietro, ma l'inviato di D-o lo invita a continuare la strada per dire quello che il Signore avrebbe posto sulla sua bocca.
Dice Bilaam: "Come potrei maledire chi il Signore non ha maledetto" (Numeri 23:8).
Egli è un profeta straniero che conosce D-o, cosa questa che non gli impedisce di praticare un culto idolatra perché i suoi istinti non hanno ricevuto la luce della Legge rivelata. Bilaam è originario del paese di Abramo, della regione compresa tra i due fiumi, dalla grande tradizione monoteista che ha cambiato il mondo.
In un certo grado Bilaam possiede il dono della profezia per dire nei riguardi di Israele: "Chi ti benedice sarà benedetto, coloro che ti maledicono saranno maledetti" (Numeri 24:9).
Tutta la profezia di Bilaam, nata per maledire Israele, diventa un'autentica espressione di ispirazione divina per benedirlo. Questo il mistero!

Le figlie di Moav (Moabite)
Considerato che il tentativo di maledire Israele da parte di Balak e di Bilaam non aveva avuto successo, non resteva che un solo mezzo per raggiungere questo scopo: gettare la discordia tra D-o e il suo popolo, istigando gli ebrei a commettere azioni immorali.
Bilaam si rivolse, alle sacerdotesse del culto di Baal Peor (il moderno Belfagor) che invitavano i figli di Israele a prendere parte ai loro giochi erotici, alle loro orgie ecc…
"Le figlie di Moav invitavano il popolo ai sacrifici fatti alle loro divinità e il popolo mangiava e si prostava ai loro idoli" (Numeri 25:2).
L'ira del Signore si accese contro Israele. Fu Pinhas il cohen a salvare l'onore della sua Comunità ebraica, facendo giustizia con la sua lancia. Trafisse gli adoratori del Baal Peor, che nelle loro tende praticavano la depravazione sessuale e l'idolatria (Numeri 25.7).
Per completare lo studio della parashà, gettiamo un rapido sguardo sul libro dello Zohar (Splendore) per avere maggiori chiarimenti, secondo la nostra Tradizione orale.
Le lettere che compongono i nomi di Balak -Bilaam, secondo lo Zohar corrispondono a due personaggi biblici, quali Amalek-Babel, dandoci la chiave per capire chi oggi è Amalek.
Cosa era la civiltà di Babele? Un regno fondato da Nimrod, autore del progetto per la costruzione della Torre di Babele.
Nimrod, re di Babel, aveva compreso la forza della parola e l'arte della demagogia, per allontanare gli uomini da D-o. Il suo programma di "costruire una torre per arrivare al cielo" raccogliendo l'Umanità in un'unica lingua e in una sola ideologia, niente altro è che la moderna "globalizzazione".
La ragione senza la fede porta all'ateismo (Nimrod) mentre la fede senza la ragione porta al fanatismo distruttivo (Amalek).
Chi non sa che le differenze tra i popoli sono causa di guerre? Chi non aspira all'unità e alla fraternità tra le Genti? Chi dunque poteva opporsi al progetto "buono" auspicato dal potere di Nimrod senza rischiare di essere additato come integralista, razzista ecc…?
Soltanto Abramo con la sua fede monoteista. Perché Abramo denuncia il progetto di Nimrod? Perché aveva compreso che Nimrod non voleva unificare per normalizzare le relazioni tra i popoli, ma solo e unicamente per dominare, togliendo a tutti la libertà.
Lo Zohar vuole insegnarci che Israele (Abramo) sarà il primo ad essere attaccato dalla globalizzazione in quanto rappresenta un ostacolo e una "spina nella sua gola". Personaggi come Nimrod-Amalek sanno che non vi sarà mai una globalizzazione nel mondo né atea né religioasa, finché il popolo d'Israele vive.
Per questi motivi gli ebrei sono stati sempre derisi ed odiati da moltii sedicenti profeti, essendo un popolo, scomodo testimone, delle loro "Innovazioni" senza fondamento. F.C.

*

 - Il testo di questa settimana è uno tra i più strani di tutta la Bibbia. Si combatte una guerra, ma non con armi usuali: è in gioco la parola. Il re di Moab, Balak, è angosciato al pensiero di doversi scontrare con un popolo che gli incute terrore, Israele, ma invece di prepararsi militarmente alla guerra cerca l'aiuto un mago famoso di nome Balaam, un potente occultista di quel tempo, chiedendogli di pronunciare una parola di maledizione su quel popolo di cui ha una paura tremenda. Naturalmente è disposto a pagare per il servizio, e anche bene, quindi invia al mago una rappresentativa delegazione di moabiti e madianiti con il compito di portargli la richiesta regale, insieme con un congruo cachet professionale che la Bibbia chiama "la mercede dell'indovino".
  Il mago, che in fatto di spiritismo se ne intende, sa che Israele è sotto l'autorità protettiva di un Dio di cui ha qualche conoscenza. Stranamente, trattandosi di un occultista pagano, Balaam riceve l'onore di una visita da parte di Dio stesso, il quale gli vieta tassativamente di andare con gli uomini arrivati e di guardarsi bene dal maledire Israele, perché - gli fa sapere - quel popolo è benedetto. Si badi bene, dice "benedetto", non "buono". E' importante.
  I delegati tornano da Balak a mani vuote. Il re pensa che sia soprattutto una questione di soldi, e allora invia al mago un'altra delegazione, con personaggi più importanti e più soldi.
  Balaam dapprima ripete il suo rifiuto, ma poi, forse ripensando ai soldi, invita i delegati a trattenersi da lui ancora una notte, perché - dice - forse Dio gli avrebbe comunicato qualcosa di più preciso.
  Inaspettatamente il Signore questa volta dice a Balaam di partire con quegli uomini, chiedendogli soltanto di attenersi scrupolosamente a quello che gli avrebbe detto di fare. Partita vinta per Balaam? Si direbbe di sì; sembrerebbe che sia avvenuto come nelle contrattazioni sindacali, quando una delle due parti cede, ma per non far vedere che ha ceduto su tutta la linea chiede una piccola contropartita per non perdere interamente la faccia. Ma non è così: Dio non ha ceduto affatto. Anzi, è arrabbiato nero. Con una di quelle stranezze profonde a cui la Bibbia abitua i suoi lettori, sta scritto che dopo aver detto a Balaam di andare con quegli uomini, "l'ira di Dio s'accese perché egli se n'era andato" (Numeri 22:22).
  Da questo segue subito una lezione generale: chi ha ricevuto dal Signore una risposta chiara, non ne cerchi un'altra; la seconda risposta potrebbe essere molto peggiore della prima.
  Questo infatti accade a Balaam, che non ottiene i soldi e gli onori che sperava; è obbligato a fare quello che non lui, ma Dio vuole; e alla fine della storia ci rimette anche la pelle (Numeri 31:8). Sulla strada che avrebbe dovuto portarlo a maledire Israele gli viene incontro Dio stesso, ma non si fa riconoscere. Lo terrorizza con la visione dell'Angelo con la spada sguainata; lo umilia mostrandogli che un'asina sa vedere le realtà spirituali meglio di lui; e da quell'animale gli fa dare una lezione di moralità.
  A questo punto Balaam "si pente". Dice a Dio che non l'aveva visto e che "se questo gli dispiace", lui è pronto a tornare indietro. Ma non gliel'aveva già detto, l'Eterno, che la cosa non gli piaceva? Perché allora ha fatto finta di non aver capito? A questo punto è obbligato ad andare avanti, con le cose che adesso si sono invertite: prima lui voleva andare e Dio no, adesso lui non vuole andare e Dio sì. Deve andare, per fare il contrario di quello che vogliono gli uomini ed essere obbligato a fare e subire quello che vuole Dio: benedire il popolo, dare gloria a Dio e ricevere la giusta punizione che spetta a chi resiste al Signore per interessi personali.
  La storia prosegue con tre abortiti tentativi di maledizione su richiesta. Ogni volta Balaam chiede di sacrificare giovenchi e montoni su sette altari, attenendosi probabilmente a collaudati protocolli di magia pagana. Nel terzo però la Scrittura dice che "non ricorse come le altre volte alla magia" (Numeri 24:1), evidentemente perché aveva visto che non serviva a niente, e sospinto dallo Spirito di Dio pronuncia un sublime oracolo di lode al Signore e di benedizione sul suo popolo.
  A questo punto il re Balak, furente, lo caccia via in malo modo. Balaam se ne va, ma prima dice al re che vuole fargli conoscere quello che succederà al suo popolo in un futuro non si sa quanto lontano. E qui il mago pagano, costretto dallo Spirito di Dio, si esibisce nella declamazione di un sublime oracolo che, come molti pensano, contiene un accenno non tanto velato alla venuta del Messia: "Lo vedo, ma non ora; lo contemplo, ma non vicino, un astro sorge da Giacobbe e uno scettro s'eleva da Israele" (Numeri 24:17). Il termine "scettro" (shevet), è lo stesso usato in Genesi 49:10: "Lo scettro non sarà rimosso da Giuda..." , un altro passo considerato un'anticipazione profetica del Messia.
  Se questo è vero, lo strano racconto di una singolare trattativa tra un re e un mago, entrambi pagani, conferma l'esistenza di un'irrevocabile benedizione divina su Israele e di un inscindibile legame di questo popolo con il suo Messia. In campo ebraico è abbastanza naturale fare un collegamento tra popolo e Messia, variamente inteso; in campo cristiano invece no. Troppi sedicenti cristiani mettono da una parte onorevole il Messia Gesù, e da un'altra parte, ben distinta, anzi addirittura contrapposta e disonorevole, il popolo d'Israele. Forse, come il re Balak, ne hanno paura: soffrono di giudeofobia. Ma, come insegna la sorte capitata al mago Balaam, sarà bene per loro cercare di esserne guariti. M.C.

  (Notizie su Israele, 14 luglio 2016)


Bilaterale militare italo-israeliano

di Luigi Medici

TEL AVIV - Il Capo di stato maggiore italiano, generale Claudio Graziano, è atterrato la sera del 12 luglio a Camp Rabin, nella zona di Hakirya a Tel Aviv.
Il generale e il suo staff sono stati accolti dalla guardia d'onore israeliana, guidata dal Capo di stato maggiore israeliano, generale Gadi Eisenkott, riporta Arutz Sheva7.
Durante la sua visita di Stato, alla luce del rafforzamento legami strategici tra l'Idf e l'esercito italiano, i due Capi di stato maggiore hanno discusso di questioni di sicurezza comuni, hanno esaminato lo stato attuale della sicurezza in Medio Oriente, e pianificato future attività militari congiunte.

(agc, 14 luglio 2016)


Cibo e identità, il segreto di Joyce si chiama Italia

"Mi scusi, vado un momento a spegnere i fornelli". Del resto, se si incontra su skype una chef alle due del pomeriggio, che altro ci si può aspettare se non di trovarla in grembiule e guantone da forno? La cuoca in linea a un oceano e un continente di distanza è Joyce Goldstein, nota chef californiana esperta di cucina mediterranea, servita nel suo ristorante losangelino Square One, e autrice di numerosi libri di ricette di cui l'ultimo, appena uscito, è una sorta di summa. Si chiama infatti The New Mediterranean Jewish Table: Old World Recipes far the Modem Home (University of Califomia Press), ed è una enciclopedia della cucina ebraica mediterranea, con circa quattrocento ricette che vanno da Spagna e Portogallo a Marocco e Tunisia, da Turchia e Grecia all'Italia - immergendo tutto questo tripudio sefardita, maghrebino e mediorientale nel suo abbronzato, salutista e sempre frenetico habitat californiano.
Un vero e proprio periplo culinario, ma Joyce ha puntualizzato che nonostante tutto "i cibi italiani sono quelli che preferisco cucinare al mondo". Una passione nata sul campo, che l'ha poi portata a scrivere nel 1998 il suo Cucina Ebraica: Flavors cf the Italian Jewish Kitchen (Chronicle Books), un ricettario di cucina ebraica italiana arricchito da un po' di avventurosa autobiografia.
"Negli anni '60, ho vissuto qualche anno in Italia con mio marito, prima a Perugia poi a Roma" ha raccontato Joyce a Pagine Ebraiche. "Eravamo ospiti della famiglia Coen, composta da Clara e Guido, marito e moglie, e le due sorelle grandi di Guido, allora più o meno ottantenni. Erano loro a cucinare - ha proseguito Joyce - ma non erano delle buone cuoche e in più non era certo una famiglia benestante, mangiavamo praticamente solo pastina in brodo (chiamandola proprio in italiano 'pastina in brodo', come quasi tutti i piatti che ha nominato durante la conversazione)". Non c'era nemmeno un frigorifero, così Joyce doveva andare tutti i giorni a fare la spesa al grande mercato di fronte a casa. "Lì chiedevo alle persone di parlarmi di come cucinavano i vari cibi, prendevo nota delle ricette, e così è nata la mia passione per la cucina italiana, e in particolare quella ebraica. Poi ho letto tutto quanto sia mai stato stampato a riguardo". Joyce non è l'unica ad amare la cucina italiana, in America è ormai radicatissima. Anche la cucina ebraica è molto diffusa, ma solo quella ashkenazita. Ma è quella sefardita - su cui si concentra gran parte della sua bibliografia - che ha conquistato Joyce. "È molto più varia e raffinata - le sue parole - meno pesante e più ricca di verdure". "L'abbondanza di frutta e verdura fresche e di splendide erbe aromatiche non esiste nella cucina ashkenazita, alla base della quale ci sono tuberi e patate e che non dipende dalle stagioni. La cucina mediterranea - ha invece aggiunto - è strettamente legata alla natura e alla geografia". Del resto, spiega, "anche la California potrebbe essere un paese del Mediterraneo perché vi cresce la stessa frutta e verdura e dunque è stato naturale per me continuare a cucinare i piatti della dieta mediterranea". O come riassume con il suo motto, portare "il cibo del Vecchio continente nelle cucine del Nuovo Mondo".

(Pagine Ebraiche, luglio 2016)


L'Algeria dice no a Israele come membro osservatore dell'Unione africana

ALGERI - Il ministro degli Esteri algerino, Ramtane Lamamra, ha ribadito il suo "no" e quello del suo governo alla possibilità che Israele entri nell'Unione africana come membro osservatore. Intervistato dal quotidiano algerino "Echourouk", di ritorno dal vertice preparatorio del summit dei capi di Stato che si terrà in Ruanda, il capo della diplomazia algerina ha spiegato che "se qualcuno, sostenuto dalle lobby sioniste, presenterà la proposta di introdurre Israele come membro osservatore riceverà il rifiuto da parte della maggioranza dei paesi africani". Lamamra ha anche presentato il summit algerino-africano sugli investimenti che si terrà il prossimo 3 dicembre ad Algeri.

(Agenzia Nova, 14 luglio 2016)


Tornato alla luce, in Israele, un cimitero filisteo

 
"Il 90 per cento degli studi e degli articoli scritti sugli usi e consuetudini di sepoltura dei filistei dovranno essere rivisitati o dimenticati, ora che abbiamo riportato alla luce il primo e unico cimitero filisteo". Lo ha dichiarato Lawrence E. Stager, docente di archeologia, che assieme a una squadra di archeologi ha riportato alla luce un cimitero che si trova all'esterno della cinta di Tel Ashkelon. Sul luogo degli scavi sono state ritrovate 150 sepolture individuali databili tra l'Undicesimo e l'Ottavo secolo avanti Cristo che gettano nuova luce su un mistero che ha per lungo tempo interrogato gli archeologi: la vera origine dei filistei.
   "Da dove proveniva quella popolazione? È la questione che vogliamo chiarire", dice l'antropologa fisica Sherry Fox, mentre si appresta a sottoporre dei campioni di ossa ad analisi di laboratorio. Questa scoperta permetterà agli archeologi di studiare le pratiche funerarie dei filistei e, perciò, di meglio comprendere le caratteristiche di quel popolo e il suo modo di vivere. Con un tale campo d'indagine a disposizione per le loro ricerche, gli archeologi avranno anche la possibilità di condurre uno studio su ampia scala, non basandosi su un solo individuo, ma su un'intera popolazione, spiega Daniel M. Master, professore del Wheaton College e co-direttore della spedizione Leon Levy.
   "Possiamo già dire - continua Master - che le pratiche culturali venute alla luce si differenziano sostanzialmente da quelle dei cananei e delle popolazioni delle regioni montuose orientali. Le ossa offrono informazioni sulle abitudini alimentari, sul modo di vita e sulle usanze funebri. Una delle conclusioni già tirate è che gli individui privati furono risparmiati dai conflitti: "Non c'è alcuna traccia di traumi sulle ossa", ha osservato la Fox.
   Contrariamente alle altre pratiche funerarie in uso della regione - la sepoltura familiare o multipla, in cui i defunti venivano deposti su una piattaforma sopraelevata - le scoperte di Ashkelon sono sensibilmente diverse. I morti, in gran parte seppelliti in fosse di forma ovale, furono inumati secondo le tradizioni tipiche della civiltà egea.
   In mezzo ad oltre 150 tombe individuali sono state rinvenute anche sei camere funerarie, ciascuna contenenti più spoglie. Tra le altre c'è una magnifica camera funeraria costruita con arenaria perfettamente scolpita. Ma la grande porta di pietra che sigillava l'ingresso non ha potuto impedire che il tesoro che conteneva venisse saccheggiato. Ora non restano che gli scheletri.
   Accanto alle tombe sono stati dissotterrati anche vari oggetti: vasi, ciotole, punte di frecce e di lance e, in casi rari, anche gioielli. C'erano pure piccoli flaconi che dovevano contenere profumi. In due casi l'ampolla era posta vicino al naso del defunto, con l'apertura in prossimità delle narici, senza dubbio per far sì che il morto potesse essere accompagnato dal profumo per tutta l'eternità.
   Ricordiamo che i filistei sono menzionati a più riprese nella Bibbia. Abramo soggiorna presso di loro per un certo periodo, ma le relazioni con gli ebrei si deteriorano rapidamente, come narra il libro della Genesi. Dai ranghi dei filistei esce il gigante Golia.

(Faro di Roma, 13 luglio 2016)


Un italiano su cinque ha pregiudizi sugli ebrei. Noi primi in Ue

di Alessia Guerrieri

ROMA - Il campanello d'allarme è tutt'altro che da sottovalutare. Anche se, probabilmente, è presto per parlare di antisemitismo di ritorno. Certo è che nel nostro Paese un italiano su cinque (21 %) ha pregiudizi nei confronti degli ebrei, mentre in Francia e Gran Bretagna la percentuale si ferma al 7%. E le parole d'odio nei confronti degli ebrei corrono velocemente soprattutto sui socialmedia, dove nel 20l5 sono comparsi 156 nuovi profili Facebook antisemiti e in sei mesi (da agosto dell'anno scorso a febbraio 2016) postati su Twitter 6754 cinguettii negativi nei confronti del popolo d'Israele. A lanciare l'allarme è il rapporto sull'antisemitismo in Italia 2015 dell'Osservatorio del centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) di Milano, presentato ieri a Montecitorio insieme alla Mappa dell'Intolleranza su Twitter curata da Vox -Osservatorio sui diritti. Proprio la cartina dell'hate speech in Italia, dopo l'analisi di 2,6 milioni di cinguettii e aver isolato 412mila termini intolleranti, conferma come siano sei le categorie più colpite nei discorsi sul web dei cittadini. Al primo posto le donne (63%), seguite dai migranti e omosessuali 00%), quindi da islamici e disabili (6%) ed ebrei (2%).
  "Ebreo", "rabbino", "sionista", "strozzino" e "giudeo". Sono questi, infatti, i principali appellativi con cui vengono etichettati, che si aggiungono ai 90 episodi di antisemitismo registrati l'anno scorso nel nostro Paese, di cui 35 sul web e 4 attraverso stampa e tv. Inoltre, contro il popolo ebraico sono stati 15 i casi di diffamazione e insulti, 8 quelli di minacce, aggressioni e violenze, 19 di graffiti e scritte sui muri, 6 di atti vandalici. «Assistiamo a una diffusione inquietante delle nuove forme di odio onIine- per questo, sottolinea Milena Santerini (DeS-Cd), presidente dell'Alleanza parlamentare contro l'intolleranza e il razzismo del Consiglio d'Europa e autore dell'iniziativa alla Camera, «è in preparazione un Libro Bianco sull'odio in Italia, per individuare le diverse forme di neo- razzismo e combatterle».
  Un primo passo della politica è stato fatto, con l'approvazione dell'aggravante del negazionismo per reati discriminatori. Ma non basta. Gli antisemiti in Italia, «lo zoccolo duro - li definisce Betti Guetta, responsabile dell'Osservatorio del Cdec - sono il 7-12% della popolazione», ma il problema è che «siamo di fronte a un'emergenza verbale», così «una sorta di antisemitismo è stato sdoganato nella società», con alcuni discorsi sulla Shoah e su Israele «che fino a poco tempo fa erano impensabili». Lazio, Umbria e Lombardia - aggiunge Marilisa D'Amico, fondatrice di Vox - sono le zone in cui si concentrano di più i tweet antisemiti. Nel mirino soprattutto la Giornata della Memoria e persino alcune dichiarazioni di fratellanza di Papa Francesco». La lotta all' odio perciò è «un cammino da fare insieme», anche in un contesto europeo, dove ciascuno, «istituzioni, politica, genitori - insiste la presidente dell'Unione comunità ebraica italiana (Ucei) Noemi Di Segni - si prenda le proprie responsabilità per cambiare il trend di questi dati». Perché è una questione di «educazione, anche al sentimento».

(Avvenire, 13 luglio 2016)


Spuntata l'arma demografica di Arafat. Oggi sono le israeliane a fare più figli

Nel '90 la media di nati in Cisgiordania era di 5,7 per donna, ora è di 2,8 Per l'Anp la crescita doveva favorire la creazione dello Stato palestinese.

di Giordano Stabile

Alon Tal, demografo dell'Università Ben Gourion del Negev
BEIRUT - Negli Anni Settanta Yasser Arafat, in una delle sue frasi rimaste nella storia, diceva che il «grembo delle palestinesi» avrebbe creato lo Stato di Palestina. La nostra arma «biologica», così la definiva. La tumultuosa crescita della popolazione lasciava pensare a un esito scontato.
Oggi l'arma demografica è passata dalla parte di Israele. Merito dell'ondata migratoria, soprattutto dall'ex Unione sovietica, negli Anni Novanta. Ma anche del «grembo delle israeliane». Che ora fanno più figli delle palestinesi nella Cisgiordania. Un po' più di tre bambini a testa contro un po' meno di tre. Con le famiglie ultraortodosse che hanno addirittura una media di cinque figli per donna.
Crescete e moltiplicatevi Israele oggi conta 8,5 milioni di abitanti, oltre dieci volte la popolazione nel 1948. Le statistiche israeliane includono nel conto Gerusalemme Est, il Golan e alcuni insediamenti in Cisgiordania, che non sono riconosciuti come suo territorio dalla comunità internazionale. In ogni caso il trend demografico è quello. Dopo essere calato fino a 2,8 all'inizio degli Anni Novanta, il numero di figli per donna in Israele è arrivato l'anno scorso a 3,1. Analizzato per religione il tasso è del 3,1 per gli ebrei, del 3,3 per i musulmani e solo del 2,2 per i cristiani arabo-palestinesi.
Anche se non ci sono dati separati per gli abitanti della Cisgiordania, si può intuire un andamento simile, con una media finale di 2,8 figli per donna, meno che in Israele. Negli Anni Settanta era di otto figli per donna.
La popolazione palestinese ora è di 2,6 milioni in Cisgiordania, più 220 mila a Gerusalemme Est, che è stata annessa da Israele nel 1967. Anch'essa è più che decuplicata rispetto al 1948, ma la tendenza è al rallentamento. Gli abitanti degli insediamenti ebraici sono invece cresciuti fino a 400 mila nella Cisgiordania occupata, 350 mila a Gerusalemme Est. Ed è qui che la crescita naturale è più forte, oltre il tre per cento all'anno.
L'ingiunzione biblica «crescete e moltiplicatevi» è presa alla lettera. Queste dinamiche sono alla base dell'espansione degli insediamenti, criticata dall'Onu come uno dei maggiori ostacoli per la ripresa dei colloqui di pace. Ma la costruzione delle nuove case crea tensioni anche all'interno di Israele. Per la banale ragione che c'è sempre meno spazio.

 Densità massima
  Israele ha una superficie di circa 21 mila chilometri quadrati, più o meno come la Puglia. E una densità di 366 abitanti per kmq, una delle più alte al mondo. Secondo il demografo Alon Tal, dell'Università Ben Gourion del Negev, «servono ogni anno da 40 a 60 mila nuovi appartamenti», un ritmo di cementificazione che «mette a rischio la nostra biodiversità». Con questo tasso di crescita naturale e di immigrazione, il Paese conterà 15 milioni di abitanti nel 2050, con una densità di 750 abitanti per chilometro quadrato, la stessa delle grandi metropoli americane. Escluso il deserto del Negev, che si punta a colonizzare massicciamente a partire dalla città di Beersheba, sarà di fatto una grande area urbana.
Questi dati sono anche sui tavoli delle grandi potenze che stanno cercando di rilanciare i colloqui di pace. La Cisgiordania, 5.600 kmq, è altrettanto piccola e affollata. Le risorse in acque e terreno coltivabile sono scarse. Per non parlare di Gaza, 1,8 milioni di abitanti su 360 mq, dove la crescita demografica è ancora oltre il 3 per cento e i figli per donna 5. Al di là della storia e della geopolitica, c'è anche questa realtà dietro lo scontro apparentemente irrisolvibile fra Israele e palestinesi.

(La Stampa, 13 luglio 2016)


Figuraccia a cinque stelle e guerra stellare

Un grillino famoso, addirittura futuro candidato Premier, Luigi Di Maio, sta facendo una figuraccia a cinque stelle in Israele. Nonostante il suo aplomb istituzionale, Di Maio deve essere completamente digiuno di politica estera, almeno quella mediorientale. La sua fallimentare scampagnata ha fatto sorgere il sospetto che questo ragazzo dall'inglese mediocre voglia giocare a fare il piccolo Arafat. La consueta fitta serie di telefonate tra Gerusalemme, Tel Aviv e le comunità ebraiche italiane, da sempre riferimento per impressioni e aneddoti sul politico italiano di turno in visita, ha confermato i dubbi. I grillini vorrebbero imputare le loro improvvisazioni al nostro Ambasciatore che, secondo loro, non avrebbe preparato adeguatamente la visita, ma sarebbe stato meglio che si fossero ricordati, prima di partire, che a Tel Aviv non dimenticano certo che la bella compagna di Beppe Grillo, Parvin, è iraniana, e che suo padre aveva un conto aperto con Israele. Una guerra davvero stellare: ne vedremo delle belle.

(Fonte: Affaritaliani.it, 13 luglio 2016)


Chiara Saba, founder di Yenetics, ha vinto lo Start Tel Aviv Boot Camp 2016. Le altre finaliste

Quest'anno la competizione era dedicata alle startup al femminile. Per la vincitrice la possibilità di partecipare al boot camp dal 25 al 29 settembre a Tel Aviv e di incontrare nuovi investitori.

di Lara Martino

 
È Chiara Saba di Yenetics la vincitrice dello Start Tel Aviv Boot Camp 2016, la competizione per le startupper organizzata dal Paese delle startup, Israele. Il concorso, giunto alla sua quinta edizione, è promosso dal Ministero degli Affari Esteri israeliano e dalla municipalità di Tel Aviv. Per il 2016 il contest internazionale ha deciso di concentrarsi sulle startup al femminile. Le imprese innovative, cioè, in cui le donne hanno avuto un ruolo centrale sin dagli inizi. E ha portato in finale 23 startup per altrettante nazioni. Le vincitrici andranno in Israele dal 25 al 29 settembre per partecipare al boot camp a margine della conferenza DLD, il festival dell'innovazione israeliano. La premiazione di Chiara Saba è avvenuta al Talent Garden Calbiana di Milano l'11 luglio. Presenti l'Ambasciatore israeliano in Italia Naor Gilon e il Presidente di Talent Garden Davide Dattoli. La startup Yenetics si occupa di test genetici non invasivi per la diagnosi di malattie in laboratori privati, cliniche e ospedali. L'azienda opera in Italia, Germania e Stati Uniti e ha sviluppato una metodologia di analisi del sangue che abbatte i rischi della diagnosi prenatale per il feto.

 «Imparare da Israele e conoscere nuovi investitori»
  «Questa vittoria è per noi una fantastica opportunità per due principali motivazioni. Da un lato i cinque giorni in Israele rappresentano l'occasione di incontrare possibili investitori e poter accedere a capitali. Dall'altro Israele ha una notevole esperienza sul campo per quanto riguarda i test per la diagnosi di malattie rare e genetiche», ha detto a StartupItalia Chiara Saba. La sua startup Yenetics ha sede a Cagliari e il territorio sardo condivide alcune similitudini con Israele: «In Israele come in Sardegna ci sono zone il cui la circolazione genetica è scarsa a causa dell'alto tasso di consaguineità.
È per questo che risultano entrambe realtà particolarmente interessanti dal punto di vista dei test genetici». Inoltre, la Sardegna nel tempo è riuscita anche a diventare una regione attraente per i venture capitalists che sono più disponibili ad investire sui progetti imprenditoriali innovativi dell'isola: «Siamo ancora lontani dalle opportunità che offre il mercato israeliano delle startup. Il Boot Camp a Tel Aviv ci permetterà, però, di visitare aziende, incontrare altre startup e prendere contatto con gli investitori. Al di là del programma ufficiale, vorremmo visitare anche l'Institute of Human Genetics di Tel Aviv», ha aggiunto Chiara Saba.

 Le finaliste dell'edizione 2016 di Start Tel Aviv
  Oltre all'l'amministratore delegato di Yenetics, alla finale italiana di Start Tel Aviv sono arrivate Enrica Arena cofondatrice di Orange Fiber e Giulia Gazzelloni, cofondatrice di Le Cicogne.it. Hanno potuto partecipare alla selezione solo le startup nella loro fase iniziale, con un team declinato al femminile e con progetti nel campo dell'internet of things o della tecnologia già prototipati. Ma vediamo nel dettaglio i profili della vincitrice e delle altre due finaliste in questa competizione internazionale.

1. Chiara Saba, Yenetics
Chiara Saba
Nata a Cagliari 33 anni fa, Chiara Saba si è laureata in economia aziendale all'Università Bocconi di Milano nel 2008. Nel suo curriculum due anni in Cina come direttrice delle vendite alla GSG International di Pechino. Ha potuto lavorare per alcune delle maggiori banche mondiali: Lehman Brothers prima e Deutsche Bank a Londra poi. Oggi lavora di nuovo a Cagliari per Fineco. Dall'11 aprile 2016 è Ceo di Yenetics, la società che si occupa di sviluppare, produrre e commercializzare prodotti e servizi innovativi per effettuare screening prenatali non invasivi basati sull'analisi del DNA.
Chiara Saba è infatti membro attivo di Uniamo FIMR Onlus, la più grande federazione italiana per le malattie rare. E sono proprio le malattie rare e genetiche il pricipale interesse di Yenetics. Grazie alla collaborazione del Centro di Ricerca, Sviluppo e Studi Superiori in Sardegna (CRS4), Yenetics studia le 100 malattie rare più frequenti con un protocollo di sequenzionamento del DNA di ultima generazione. E offre alle strutture sanitarie un kit di analisi del sangue per individuare eventuali malattie genetiche nei genitori.
A guidare la startup oltre a Chiara Saba ci sono Amit Kumar, chief commercial officer, che ha un dottorato in biofisica e un'esperienza decennale nel campo biomedico e Roberto Cusano, chief scientific officer, che lavora al CRS4 e ha vent'anni di esperienza nel settore delle biotecnologie.

2. Enrica Arena, Orange Fiber
Enrica Arena
Nata a Catania nel 1985, Enrica Arena ha studiato Comunicazione per le relazioni internazionali all'Università Iulm di Milano. Ha poi completato un master in Cooperazione dello sviluppo all'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha lavorato in Egitto per il programma di sviluppo delle Nazioni Unite occupandosi della comunicazione dell'ufficio regionale del Cairo. Nel 2014 insieme a Adriana Santanocito fonda Orange Fiber, la startup che è in grado di produrre tessuto dagli scarti degli agrumi. Orange Fiber è un'azienda tutta al femminile.
Nel 2014 ha presentato il primo prototipo. Il progetto è stato finanziato da due business angels, un avvocato e Trentino Sviluppo. Oggi Orange Fiber ha un impianto industriale realizzato grazie al finanziamento di Smart&Start di Invitalia e ha già prodotto il primo lotto di tessuto attraverso l'estrazione della cellulosa dagli agrumi. Enrica Arena per Orange Fiber cura la comunicazione, le attività di finanziamento, la candidatura ai premi. Al suo attivo già diversi risultati come la vittoria al premio Il Talento delle Idee e a Changemakers for Expo.

3. Giulia Gazzelloni, Le Cicogne
Giulia Gazzelloni
Romana, laureata prima in scienze politiche e poi in General Management alla Luiss Guido Carli, Giulia Gazzelloni oggi è coo di Le Cicogne.it. Nel suo curriculum anche un'esperienza di insegnamento di applicazioni di Web marketing all'Università americana di Roma. Nel 2015 è stata selezionata da Che Futuro tra le 100 donne del mondo digitale.
Insieme a un team tutto rosa punta a far diventare Le Cicogne.it il principale servizio per mettere in comunicazione genitori e baby-sitter in Europa. Le Cicogne.it è oggi presente in 80 città italiane e riesce già a fornire supporto alle famiglie in meno di 24 ore sfruttando la rete degli utenti e i loro commenti. La startup ha partecipato al percorso di accelerazione di Luiss Enlabs e PiCampus e ha ricevuto finanziamenti per 435mila euro da LVenture Group e Club Italia Investimenti. Giulia Gazzelloni si occupa proprio delle relazioni con gli investitori e della gestione delle persone nell'azienda. Il ceo di Le Cicogne.it è Monica Archibugi.

(StartupItalia!, 13 luglio 2016)


Nuova campagna di comunicazione per Israele

E' "la più impegnativa degli ultimi 8 anni" per l'ente del Turismo. Focus su Gerusalemme e Tel Aviv.

E' partita la nuova campagna di comunicazione del ministero del Turismo di Israele, "Two Cities One Break". Focus, dunque, su Tel Aviv e Gerusalemme, "due città emozionanti e fantastiche, così diverse tra loro - sottolinea una nota dell'ente del Turismo -, che non sono mai state così vicine come adesso". Se da una parte "Gerusalemme rappresenta la tradizione e la storia millenaria assolutamente unica ed irripetibile, Tel Aviv vuole identificarsi con la modernità e il divertimento, ma anche con la tecnologia, la ricerca e la voglia di vivere e 24 ore al giorno". La campagna prevede anche una tessera "sconti" di 100 euro per quanti prenoteranno due notti in ciascuna delle due città negli hotel selezionati
"Dopo questa prima ondata di comunicazione estiva che vede l'utilizzo di carta stampa, outdoor e online, la campagna continuerà in autunno ancora su altri mezzi e così fino alla fine dell'anno" ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia. "La Terra della Creazione", così come recita il claim del logo del Ministero del Truismo di Israele, si presenta al pubblico sotto tutti gli aspetti più nuovi ed inaspettati. "Confidiamo molto in questa campagna" ha concluso Avital che è e sarà la più impegnativa degli ultimi 8 anni e che andrà a coinvolgere tutti i mezzi, dal tradizionali ai social.
L'ente del Turismo sarà presente alla prossima edizione di NF Travel&Technology Event.

(Guida Viaggi, 13 luglio 2016)


Attivisti anti-israeliani operano illegalmente in Israele con visto turistico e copertura religiosa

Padre Naddaf: "Mirano a logorare Israele, il posto più sicuro per i cristiani in tutto il Medio Oriente".

Un'indagine condotta dal Christian Empowerment Council ha rivelato che uno dei più noti gruppi BDS per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele fa ricorso a metodi illegali aggirando i controlli delle autorità israeliane.
L'Ecumenical Accompaniment Program in Palestine and Israel, gestito dal Consiglio Mondiale delle Chiese (World Council of Churches), è attivo in Israele dal 2002 ed è uno dei più grandi sostenitori delle campagne per il boicottaggio contro Israele. Come parte del programma, ogni anno arrivano in Israele un'ottantina di attivisti cristiani - finora ne sono arrivati più di 1.000 - che entrano con un visto turistico e poi si dedicano a monitorare le attività delle forze di sicurezza israeliane a Gerusalemme e in Giudea e Samaria (Cisgiordania) filmandole e postando in internet informazioni su di esse. Successivamente vanno a tenere conferenze nelle università in tutta Europa....

(israele.net, 13 luglio 2016)


L'islam o si riforma o è anti europeo

Un intervento utile e non buonista dell'imam francese Drouiche.

Avevamo sempre pensato che il terrorismo fosse nato in Iraq e in Afghanistan a causa dell'orgoglio dell'Amministrazione Bush. La primavera araba ha mostrato con chiarezza che il problema dell'islamismo è legato alla crisi teologica e giuridica dell'islam". A scriverlo, su AsiaNews, è stato Hocine Drouiche, vicepresidente della Conferenza degli imam di Francia nonché candidato a diventare rettore della Grande moschea di Parigi. "L'islam non ha potuto liberarsi delle interpretazioni e dei giudizi del Medioevo", aggiunge sicuro. Solo lunedì, dalle colonne del Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia invitava a farla finita con il buonismo che porta a non vedere dove stia il male (cioè nel fondamentalismo islamico) e che, tra una pruderia e l'altra, arriva a negare la dovuta memoria perfino alle vittime della macelleria di Dacca, fatte a pezzi solo per un'interpretazione non moderna - dicono così gli interpreti colti dell'universalismo pacifista à la page - dei versetti coranici. L'islam, insomma, non c'entra nulla. Sbagliato, scrive Drouiche (che è imam). Per accorgersene è sufficiente visitare qualche scuola coranica attiva anche in Europa, dove "l'autocritica è proibita. L'allievo non ha il diritto di assumere un punto di vista differente da quello del suo sheikh o del suo capo spirituale". Il buonismo, poi, è la migliore giustificazione alla "teoria del complotto" che porta le comunità musulmane a far propria la massima che viene inculcata secondo cui "voi non siete responsabili di nulla, perché voi siete vittime dell'occidente". E' la prova più evidente di quanto "il discorso religioso islamico non sia ancora adattato alla realtà e ai valori europei".

(Il Foglio, 13 luglio 2016)


"Vendere una casa a un ebreo è un tradimento di Allah"

di Khaled Abu Toameh (*)

Un musulmano palestinese che commette il "crimine" di vendere una proprietà agli ebrei non deve aspettarsi di essere sepolto in un cimitero islamico. I familiari di questo criminale non possono pensare di sposare un partner palestinese e se la famiglia celebra un matrimonio non ci saranno invitati. Da vivo o da morto, pagherà il prezzo per questo "tradimento". Questo è solo un esempio delle misure punitive cui dovranno far fronte i palestinesi residenti a Gerusalemme che sono coinvolti in transazioni immobiliari con gli ebrei. Queste misure sono state di recente annunciate da un gruppo di attivisti palestinesi di Gerusalemme Est come parte di una nuova campagna contro i palestinesi che sono ritenuti colpevoli di aver venduto una casa o un appezzamento di terreno a un ebreo o ad un'organizzazione ebraica.
  La campagna, che ha ricevuto la benedizione di alti dirigenti dell'Autorità palestinese (Ap) e Hamas, è stata pianificata dai palestinesi per contrastare i tentativi israeliani di "giudaizzare" Gerusalemme, ma anche a causa della convinzione che tutta la terra appartiene ai musulmani e che nessun musulmano ha diritto a rinunciare anche a un solo centimetro di essa a favore di un non musulmano. In altre parole, a un musulmano è vietato vendere la propria casa o il proprio terreno a un ebreo o a un cristiano. Questa campagna ha sollevato timori che i palestinesi possano riprendere le esecuzioni extragiudiziali di chi è sospettato di vendere terreni. Sebbene gli attivisti promotori della campagna non invochino apertamente l'esecuzione capitale dei palestinesi coinvolti nelle transazioni immobiliari con gli ebrei, l'esperienza passata dimostra che i "sospettati" spesso vengono rapiti e uccisi dal loro stesso popolo.
  Tra il 1996 e il 1998, almeno otto palestinesi sospettati di aver venduto proprietà immobiliari agli ebrei o di aver fatto da mediatori in tali transazioni furono sequestrati e uccisi da attivisti palestinesi.
  I palestinesi ritengono che la vendita di case o terreni agli ebrei sia un atto di alto tradimento. Le leggi e le fatwa (decreti religiosi islamici) dell'Ap vietano ai palestinesi di vendere terreni a "qualsiasi persona fisica o giuridica di nazionalità israeliana, residente in Israele o che agisce per suo conto".
  Nel 2009, un tribunale dell'Autorità palestinese a Hebron condannò a morte Anwar Breghit, 59 anni, per aver venduto dei terreni agli israeliani. Anche se la condanna non è stata eseguita, ha però raggiunto il proprio obiettivo: dissuadere altri palestinesi dall'effettuare transazioni simili con gli ebrei.
  Nel 2014, il presidente dell'Ap Mahmoud Abbas Abbas emise un ordine esecutivo che modificava alcuni articoli del codice penale relativi alle transazioni immobiliari e aumentava le pene per la vendita di terreni ai "paesi ostili" e ai loro cittadini. La decisione di Abbas è giunta a seguito della notizia che arabi di Gerusalemme Est avevano venduto case ad ebrei nel quartiere di Silwan.
  Tuttavia, non è una novità decretare che chi vende immobili agli ebrei verrà ucciso. Nel 1998, Amnesty International documentò in un rapporto che "la tortura di coloro che erano accusati di 'collaborazionismo' con Israele o della vendita di terreni ad israeliani sembrava essere sistematica".
  "Uccisioni illegali, tra cui possibili esecuzioni extragiudiziali, continuano a ripetersi. Tre persone che hanno venduto dei terreni sono state trovate morte a maggio [1998] dopo che il ministro della Giustizia dell'Ap Freih Abu Meddein aveva annunciato che l'Autorità palestinese avrebbe cominciato ad applicare una legge giordana che prevedeva la pena di morte per chi era accusato di vendere terreni agli ebrei".
  La settimana scorsa, un gruppo palestinese di Gerusalemme, il Comitato nazionale di lavoro, ha lanciato un ulteriore monito ai palestinesi sospettati di coinvolgimento in transazioni immobiliari con ebrei. In un volantino distribuito a Gerusalemme Est, il gruppo ha chiesto di porre in atto un boicottaggio religioso, economico e sociale delle persone sospettate della vendita di proprietà immobiliari ad ebrei e delle loro famiglie. "Chiediamo misure aggiuntive per rinunciare ad assediare i palestinesi di Gerusalemme che si mostrano deboli e agiscono da intermediari. Invitiamo a porre in atto un boicottaggio totale di queste persone a tutti i livelli - sociale ed economico - e di astenersi dall'avere rapporti commerciali con loro, dagli acquisti o dalle vendite, dal partecipare alle loro gioie e dolori e a tutte le manifestazioni di carattere religioso, nazionale o culturale. Chi vende i terreni deve sapere che non può evitare la punizione terrena e la pena capitale. Non solo queste persone non verranno sepolte nei cimiteri islamici, ma anche le loro famiglie saranno punite e sarà proibito sposare i loro familiari o avere a che fare in qualsiasi modo con loro". Il gruppo, che è composto da decine di attivisti politici palestinesi e figure di spicco di Gerusalemme Est, ha anche minacciato di pubblicare sui social media foto e dati personali di coloro che vendono i terreni. Inoltre, l'organizzazione ha chiesto ai paesi arabi di vietare l'ingresso di qualsiasi palestinese riconosciuto colpevole di essere coinvolto in transazioni immobiliari con ebrei. Questa minaccia arriva pochi giorni dopo che diverse famiglie palestinesi della Città Vecchia di Gerusalemme hanno lanciato una campagna simile diretta contro i palestinesi sospettati di essere coinvolti in transazioni immobiliari con ebrei. Le famiglie hanno firmato quello che hanno chiamato "il Documento dell'impegno per Gerusalemme" volto a evitare transazioni immobiliari con ebrei. Nel documento si afferma che qualsiasi palestinese sorpreso a vendere una casa o un terreno ad ebrei sarà "considerato un traditore di Allah e del suo Profeta" e chi sfiderà il divieto non potrà più recarsi a pregare in una moschea per tutta la sua vita e quando morirà non sarà sepolto in un cimitero islamico. Le famiglie firmatarie del documento hanno chiesto all'Autorità palestinese e ad altre fazioni e istituzioni palestinesi di prendere tutte le misure necessarie per "cacciare via i collaborazionisti e coloro che li coprono, di denunciarli e umiliarli indipendentemente dalla loro influenza e posizione sociale".
  Mustafa Abu Zahra, un importante uomo d'affari palestinese di Gerusalemme e uno degli artefici del documento, ha chiesto all'Autorità palestinese di "dissuadere" chiunque pensi di vendere o di agevolare la vendita ad ebrei di case e terreni appartenenti ad arabi. Un altro funzionario palestinese, Najeh Bkeirat, che ha avuto un ruolo importante nella stesura del testo, ha detto che Israele sta cercando di "svuotare la Città Vecchia di Gerusalemme dei suoi abitanti nativi, come hanno già fatto Haifa, Jaffa e Acri".
  Questa nuova campagna contro i palestinesi sospettati di vendere immobili ad ebrei potrebbe essere il colpo di grazia per ogni leader palestinese che tenta di raggiungere un compromesso territoriale come parte di un accordo di pace con Israele. La posta in gioco è altissima ed è il tradimento di Allah e del profeta Maometto.
  "Questo documento è un messaggio di avvertimento all'Autorità palestinesi e ai suoi negoziatori che essi non devono rinunciare a un solo granello del suolo di Gerusalemme e della terra di Palestina", ha spiegato l'editorialista palestinese Ghassan Mustafa Al-Shami. "Il documento rappresenta anche un messaggio rivolto a tutte le fazioni nazionali palestinesi invitate a prendere tutti i provvedimenti necessari per perseguire coloro che osano pensare di vendere le case e i terreni di Gerusalemme e della Cisgiordania, e processarli per tradimento".
  E per finire, questa campagna contraddice quanto asseriscono da tempo i palestinesi, ossia che a Gerusalemme gli ebrei "sottraggono illegalmente" agli arabi case e terreni. Ma anziché "sottrarli illegalmente", gli ebrei sono disposti a pagare in contanti le proprietà degli arabi. Approvando campagne del genere, ancora una volta la leadership dell'Autorità palestinese non solo si dà la zappa sui piedi, ma si spara anche alla testa.

(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 12 luglio 2016 - trad. Angelita La Spada)


Fondi - Inaugurazione di Largo Toaff e del Museo Ebraico

FONDI - Domenica 17 Luglio p.v. alle ore 18.00 nel quartiere ebraico di Fondi avrà luogo l'intitolazione di largo Aurilio Rufo a Elio Toaff, figura tra le più rappresentative del Novecento, protagonista del dialogo interreligioso e cittadino onorario di Fondi.
  A seguire sarà inaugurato il Museo Ebraico di Fondi, un nuovo elemento di interesse per la promozione dei valori storici, culturali e naturalistici del Parco Naturale Regionale Monti Ausoni e Lago di Fondi. Il Museo è stato allestito negli ambienti, acquistati e ristrutturati dalla Regione Lazio, dell'immobile tradizionalmente conosciuto come "la casa degli spiriti", nel cuore dell'antico quartiere ebraico nel centro storico cittadino.
  Le iniziative sono promosse da Regione Lazio, Parco Naturale Regionale Monti Ausoni e Lago di Fondi e Comune di Fondi.
  Interverranno il Commissario Straordinario dell'Ente Parco Naturale Regionale Monti Ausoni e Lago di Fondi Bruno Marucci, il Sindaco di Fondi Salvatore De Meo, il Direttore Regionale Ambiente e Sistemi Naturali Vito Consoli, il Presidente uscente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e l'Assessore Regionale ai Rapporti con il Consiglio, all'Ambiente e Rifiuti Mauro Buschini.
  Successivamente il programma prevede alle ore 19.00 la visita guidata al Museo e alle 20.00, sempre in largo Toaff, in collaborazione con l'Associazione Musicale "Ferruccio Busoni" un concerto dell'Orchestra da Camera "Città di Fondi" incentrato sull'esecuzione di brani di compositori di origine ebraica: Mendelssohn, Bloch, Mahler, Copland, Richman, Shemer. Direttore d'orchestra sarà il messicano Jesus Medina, al Violoncello si esibirà la colombiana Laura Maria Ospina Serrano, al Clarinetto il pontino Ivan Petruziello.
  A conclusione seguirà, nel cortile del complesso abitativo della "Giudea", una degustazione di prodotti tradizionali del territorio del Parco Ausoni a cura dell'Associazione "Ristoranti di Fondi".
  La valorizzazione della struttura che ospita il Museo è stata resa possibile grazie al progetto "Completamento del Museo del Medioevo Ebraico" realizzato attraverso un finanziamento ottenuto dall'Ente Parco partecipando al bando pubblicato nell'ambito del Programma Operativo Regione Lazio, Fondi Europei, denominato "POR FESR Lazio 2007/2013 - Attività II.4 "Valorizzazione delle strutture di fruizione delle aree protette" - Fase III - Progetto di Area Vasta.

(GolfoTV.it, 12 luglio 2016)


Liaisons dangereuses tra Hamas e Daesh

di Tommaso Dal Passo

NEW YORK - «Nelle ultime settimane, sono venute fuori una serie di notizie che non lasciano dubbi circa la cooperazione tra Hamas e Isis nel Sinai. Queste notizie (...) forniscono ulteriori prove che la Striscia di Gaza resta una base importante per i vari gruppi terroristici jihadisti che rappresentano una vera e propria minaccia non solo per la sicurezza nazionale dell'Egitto, ma anche d'Israele e dell'Autorità palestinese in Cisgiordania, così come per i paesi vicini come la Giordania e il Libano».
  Così una interessante analisi pubblicata dal Gatestone Institute , che riporta addirittura di cure mediche prestata nella Striscia di Gaza a leader Daesh feriti nel Sinai con il beneplacito di Hamas ed entrati nella Striscia di Gaza attraverso i tunnel lungo il confine con l'Egitto.
  Secondo il giornale on line Wattan24, uno dei leader di Wilayat Sina', Abu Sweilem, è stato curato a Rafah presso il Abu Yusef al-Najjar Hospital; Wattan24 pubblica addirittura la foto del combattente ferito a letto dentro l'ospedale. Abu Sweilem è stato ricoverato con la protezione del braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedin al-Qassam. In cambio delle cure, amo avrebbe ricevuto armi, fornite dal Wilayat Sina' di Daesh. Un altro articolo dello stesso giornale riporta che Mohamed Abu Shawish, membro di spicco delle Brigate Ezzedin al-Qassam a Gaza, ha addestrato e organizzato i mujahidin del Wilayat Sina'. Hamas ha sempre parlato di diserzione, ma nel servizio si afferma che Abu Shawish si muoveva liberamente tra la Striscia di Gaza e il Sinai utilizzando veicoli di Hamas, non proprio un comportamento tipico per un disertore. L'articolo di Wattan24 inoltre rivela che Shawish è in contatto con Eyad al-Khaldi, proprietario di una fabbrica di abbigliamento nella Striscia di Gaza, che rifornisce di uniformi militari e altre attrezzature i gruppi del Wilayat Sina'.
  «Hamas ha sì in passato fatto una serie di operazioni contro i gruppi affiliati a ISIS. Ma questo accadeva quando ISIS sembrava rappresentare una minaccia per il governo di Hamas nella striscia di Gaza», prosegue l'analisi del Gatestone. «Questo giro di vite, tuttavia, non ha chiaramente fermato i membri di Hamas, in particolare quelli appartenenti a Ezzedin al-Qassam, dalla collaborazione con altri gruppi collegati a ISIS e impegnati in attacchi terroristici contro gli egiziani nel Sinai. Isolata e alla disperata ricerca di denaro nella Striscia di Gaza, Hamas sembra pronta a collaborare con chiunque al fine di mantenerne il controllo», aggiunge il Gatestone. Il doppio standard di Hamas sarebbe il risultato di una scissione tra la sua ala politica e quella militare. Inoltre molti membri di Ezzedin al-Qassam sono fuggiti da Gaza per unirsi a ISIS in Sinai, Siria e Iraq «Il mese scorso, un'ulteriore prova di questa tendenza è stata fornita dalla morte di Khaled al-Tarabin, ex Hamas, ucciso mentre combatteva a fianco ISIS in Siria. «È il settimo palestinese affiliato a Hamas ad essere ucciso mentre combatteva a fianco di ISIS in Iraq e in Siria negli ultimi mesi».

(AGI, 12 luglio 2016)


"Deterrenza e dialogo" è la formula che usa (anche) Israele

Cade il veto turco e Gerusalemme apre una rappresentanza presso la Nato per collaborazioni di intelligence. Dietro agli incontri con gli egiziani e i russi c'è una dottrina di contenimento globale guidata da Israele. Gli obiettivi delle alleanze tattiche e la mancanza del perno americano.

di Anna Zafesova

 
Anna Zafesova
MILANO - "Deterrenza e dialogo". Il binomio proposto da Angela Merkel sembra essere diventato la parola d'ordine del vertice della Nato a Varsavia. Un appuntamento simbolico, nella capitale dove nacque il Patto filosovietico che per decenni si oppose all'Alleanza atlantica: un messaggio a Mosca, un omaggio alla Guerra fredda e alla sua fine, con la Polonia uno dei più convinti tra i 28 membri. Ma diversi leader dei 28 paesi Nato hanno sostenuto che la Russia sia più un partner che un avversario: fonti di Bruxelles hanno sdrammatizzato con il Financial Times, sostenendo che fossero prese di posizione a uso delle opinioni pubbliche domestiche, ma pare che Parigi in effetti si sia opposta al progetto di dislocare 4.000 uomini in "battaglioni di pronto intervento" nell'est Europa per contenere la "guerra ibrida" russa. Dalla fine del comunismo sovietico sono passati 25 anni, e la Russia di Vladimir Putin non è l'Urss, così come gli Stati Uniti di Barack Obama non sono quelli di Reagan, a dire il vero nessuno è più uguale a prima, e il segretario della Nato, J ens Stoltenbeg, riassume la schizofrenia della situazione: "La Russia non è un nostro partner strategico, la partnership strategica che abbiamo cercato di costruire non esiste. Ma non siamo nemmeno in una Guerra fredda". E infatti, nei prossimi giorni i diplomatici dell'Alleanza incontreranno i colleghi russi.
  A Bruxelles intanto è arrivata un'altra novità: Israele aprirà una rappresentanza presso la Nato, avviando una collaborazione sulla cyberwar, e scambiando informazioni di intelligence. Una mossa impossibile fino a qualche settimana fa, a causa del veto turco. Ma Recep Tayyip Erdogan ha deciso di firmare un accordo per ripristinare le relazioni dopo sette anni di rottura con Israele, con il gesto di buon auspicio di ritirare il veto alla Nato. Quasi contemporaneamente il presidente turco ha fatto un "reset" con Mosca, chiedendo scusa per l'abbattimento del caccia Sukhoi in missione siriana nel novembre scorso. Scuse accettate, e Putin ha già revocato le sanzioni contro la Turchia. Che intanto si appresta a negoziare con l'Egitto di al Sisi, con il quale era ai ferri corti, avendo sostenuto il Fratello musulmano Mohammed Morsi. Proprio mentre nel fine settimana il il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, del governo Al Sisi, ha tenuto una conferenza stampa con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, nella prima visita di un capo della diplomazia cairota da nove anni a questa parte. Egitto e Giordania sono gli unici due stati arabi che riconoscono l'esistenza di Israele. E di queste ore è la conferma che Gerusalemme starebbe usando droni contro gli islamisti nel Sinai, con il consenso del Cairo.
  Un intreccio di triangolazioni variabili. Israele diventa amica della Russia che è amica del siriano Bashar el Assad, di Teheran e di Erdogan, tutti più o meno nemici dello stato ebraico,e Benjamin Netanyahu è volato a Mosca tre volte dall'inizio della campagna russa in Siria. Erdogan diventa amico della Russia, che è amica di Assad - che Ankara vorrebbe vedere rovesciato - e dell'Iran, la potenza sciita che sfida i sunniti nel medio oriente. I russi diventano amici degli israeliani che diventano amici dei loro nemici della Nato. Gli israeliani fanno la pace con i turchi che hanno legami con Hamas a Gaza. Con aperta disapprovazione di Avigdor Lieberman, ministro della Difesa israeliano, e leader del partito Yisrael Beitenu, nato come formazione politica degli israeliani di origine russa.
  Questa girandola di cambiamenti di campo prende atto di una serie di realtà. La prima è la Siria, dove un accordo non sembra nemmeno all'orizzonte, mentre la sopravvivenza di Assad, grazie ai caccia russi, appare ormai un dato di fatto. La seconda è il terrorismo, e la svolta di Erdogan in particolare sembra dettata dall'ondata di attentati islamisti. I turchi infatti sembrano aver accettato la condizione russa di considerare il fronte al Nusra - il braccio siriano di al Qaeda, principale forza dell'opposizione anti Assad - come "terroristico" (linea sulla quale, secondo indiscrezioni del Washington Post, vorrebbe spostarsi anche Obama, nonostante l'opposizione del Pentagono a un allineamento con la Russia). Inoltre, Erdogan è interessato al gas israeliano, che lo aiuterebbe a svincolarsi dalla dipendenza (più del 60 per cento delle forniture) da Mosca: una cooperazione che Netanyahu avrebbe avuto difficoltà ad aprire se Ankara fosse rimasta ai ferri corti con Putin.
  Gli analisti israeliani che si interrogano sull'alleanza Netanyahu-Putin arrivano alla conclusione che il premier israeliano sta facendo real politik. Non solo perché gli ebrei russi sono una parte cospicua del suo elettorato, e non solo perché Putin non critica gli insediamenti, come Obama e l'Europa. Ma soprattutto perché preferisce negoziare che guerreggiare. Il filo diretto della Russia con l'Iran e con Assad viene letto come opportunità di contenimento, soprattutto per quanto riguarda Teheran, considerata la minaccia esistenziale strategica allo stato ebraico. La stessa logica si applica alla Turchia: Erdogan potrebbe avere più leve su Hamas. Non è un segreto che il vero obiettivo della politica estera russa in Siria è Washington, e in cambio di un accordo con gli americani Mosca sarebbe probabilmente disposta a scaricare i suoi alleati mediorientali. Il mondo delle grandi alleanze decennali, scelte per affinità ideologiche e strategiche, è finito, sostituito da un sistema di unioni tattiche, dettate dalla congiuntura e dal pragmatismo, senza promesse di fedeltà, con la consapevolezza che il perno americano non è più lo stesso.

(Il Foglio, 12 luglio 2016)


Enel lancia in Israele un hub per l'innovazione

Starace: operazione con fondi venture capital - Selezione di 20 start-up l'anno

di Laura Serafini

 
TEL AVIV - Enel entra nel mercato israeliano utilizzando una formula innovativa rispetto al passato. La società guidata da Francesco Starace ha annunciato ieri il lancio di hub per l'innovazione nel paese attraverso una partnership con Sosa, una delle community per l'innovazione di maggior successo e fondata da Jonathan Saacks, partner del fondo di venture capital Genesis. Israele interessa al gruppo elettrico - che aveva già cominciato a muovere i primi passi nel paese due anni fa - per la forte possibilità di sviluppare idee innovative tramite le start-up ma anche la forte capacità di connettere tra di loro imprese, università, realtà istituzionali e governative e giovani dalle idee brillanti. L'obiettivo è selezionare fino a 20 start-u p ad al to potenziale all'anno. A tal proposito Enel ha individuato alcune figure specializzate che entreranno a far parte del gruppo e saranno nella sede di Sosa a Tel Aviv per implementare il piano: tra questi Eran Levy, che ha già lavorato per un progetto analogo per At&t.
   Il modello che Enel intende sviluppare è già stato sperimentato in Cile e inBrasile. La società lavora a fianco a vari fondi di venture capital specializzati in start-up: Aster capital (francese), True North (Usa), Capital Natural (Israele), P101 (italiano), Next capital (russo), ma anche il fondo a matrice governativa italiano Invitalia Ventures. E Genesis, che è tra i principali partner in Israele. I fondi selezionano le idee più interessanti, Enel per le iniziative che interessano le proprie competenze o il proprio business fornisce un'advisory sulla qualità dei progetti da sviluppare, l'incubatore, nella fattispecie Sosa, fornisce supporto allo sviluppo delle start-up. «Non siamo interessati a investire direttamente nelle start-up, non vogliamo l'esclusiva sulle idee che aiutiamo a sviluppare - spiega l'ad di Enel, Starace-. Siamo interessati, invece, a capire dove va la tecnologia, che oggi non può più essere governata ma si muove con un processo vorticoso e autonomo. La nostra presenza a livello mondiale ci consente di mettere in contatto facilmente tra loro team che stanno sviluppando idee innovative su campi simili. E di poter sostenere a livello globale la commercializzazione delle iniziative più interessanti». L'attrattività del paese per questo tipo di iniziative è legata anche al forte sostegno che il governo locale dà allo sviluppo delle nuove idee. E' stata istituita un'Authority per l'innovazione, mentre i rischi iniziali per lo sviluppo delle start-up viene sostenuto con fondi pubblici. «A fronte di un investimento di 100 milioni - spiega il responsabile dell'innovazione di Enel, Ernesto Ciorra -. Il governo israeliano è riuscito ad attirare investimenti privati per 500-600 milioni». Enel non si fermerà a Israele. «Stiamo lavorando ad altri acceleratori: ne avvieremo uno nella Silicon Valley a fine anno, mentre un altro sarà avviato a Singapore, dove Enel ha già aperto un presidio», chiosa Starace.
   Enel in passato aveva investito direttamente in alcune start-up. «Il contributo di Athonet, realtà nata in Italia, ha consentito al nostro gruppo di garantire la copertura di dc in aree remote e dare copertura a impianti che non sono coperti da operatori locali», conclude Ciorra.

(Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2016)


Comunità ebraica: "Dal M5s populismo anti-sionista"

Dopo le frasi di Di Maio sulla Palestina.

di Gabriele Isman

La pancia e la politica della Comunità ebraica romana si ritrovano riunite nella rabbia verso il Movimento 5 Stelle per le frasi sul riconoscimento dello stato della Palestina e sul boicottaggio delle aziende dei Territori. La pancia è Angelo Sermoneta, che nel quartiere ebraico tutti conoscono come Baffone, anima del Circolo Ragazzi del '48: «Con questi negazionisti — dice — la politica italiana ha raggiunto il punto più basso della storia. Parlano di confini del 1967? Ma perché non chiedono alla Siria del Golan? Sono negazionisti, qualunquisti, populisti... Eppure nella prima giornata da sindaca Raggi visitò proprio la Sinagoga. «Mica decide lei, è Grillo che comanda» , taglia secco Baffone.
Più ampio il ragionamento di Riccardo Pacifici che dopo un'iniziale ritrosia — «Non posso parlare a nome della Comunità ebraica romana: quello è compito della ottima Ruth Dureghello» — riflette ad alta voce: «I pentastellati hanno diverse anime e dobbiamo distinguere la loro leadership e il loro popolo. Il laboratorio Cinque Stelle in Italia può diventare un modello esportabile, da affiancare a partiti come Alba Dorata in Grecia, senza dimenticare Austria e Ungheria, uniti nell'obiettivo di scardinare l'Europa. Sono un pericolo per tutto il Paese, e per questo sono preoccupato soprattutto da italiano e da europeo più che come ebreo: la loro base si illude di partecipare a decisioni via web, tra piattaforme non certificate e contratti privatistici, ma le determinazioni sono prese altrove. In Israele poi hanno portato argomenti triti e ritriti della sinistra antisionista, niente di nuovo insomma».
Pacifici, che in Comunità da presidente accolse il sindaco Alemanno, non è tenero neppure con Virginia Raggi: «L'accoglienza per noi è sacra, e certo accoglierei anche la sindaca. Con una differenza Alemanno, che pure non ho votato, almeno decideva. Per la Raggi decide tutto il Direttorio».

(la Repubblica, 12 luglio 2016)


Domandine per Di Maio e soci su Israele, per smetlerla con il cabaret

Lettera al Direttore di Il Foglio
    Sarebbe interessante sapere dall'onorevole Di Maio se, nel malaugurato caso di una sua presidenza del Consiglio, oltre all'annunciato riconoscimento dello Stato palestinese, intenderebbe chiedere ai palestinesi anche il riconoscimento di Israele. Così, tanto per toglierci la curiosità.
    Paola Ceva
Possono fare tutti i viaggi che vogliono in Israele, i compagni grillini, e possono far finta, da comici collaudati quali sono, che loro sì che sono amici di Israele, altroché. Possono continuare con questa sceneggiata oppure i Di Maio e Associati possono rispondere semplicemente ad alcune domande facili. Tipo: i signori che si fanno saltare in aria per uccidere israeliani ed ebrei fanno parte della categoria terrorismo o fanno parte della categoria l'esistenza? E' disposto a dire che difendere la libertà di Israele significa difendere la libertà dell'occidente? E' disposto a riconoscere, caro Di Maio, che il terrorismo che colpisce Israele non è soltanto un attacco a Israele ma è un attacco al simbolo di uno stile di vita libero e democratico? E' disposto a impegnarsi a boicottare chiunque boicotti Israele'! E' disposto a dire che Israele ha diritto a difendersi dal terrorismo'! E' disposto a riconoscere che in Europa c'è un antisemitismo travestito da antisionismo che minaccia il diritto di un ebreo a manifestare in ogni luogo i simboli del suo credo? Tutto il resto è cabaret. Con vivissirna cordialità.

(Il Foglio, 12 luglio 2016)


Ma chi erano i Filistei?

Il più famoso era sicuramente Golia, il gigante sconfitto da un giovanissimo Davide, prima di diventare re. Ma che popolo era quello dei Filistei? Ce lo rivela il risultato di una ricerca trentennale condotta in Israele dall'università di Tel Aviv.

di Silvia Noli

 
Un membro della Leon Levy Expedition, Rachel Kalisher, misura uno scheletro del decimo-nono secolo a.C.
Il culto della morte e le usanze funerarie di un popolo raccontano molto della sua storia. Per questo, scoprire nelle polveri di un paesaggio incontaminato un intero cimitero filisteo, potrebbe rivelarci i segreti di un popolo di cui si è sentito tanto parlare ma di cui si sa molto poco.

 Ma chi erano i Filistei?
  Erano una popolazione che viveva nella terra di Canaan, tra la Striscia di Gaza e Tel Aviv. Vissero qui tra il 1200 e l'800 a.C. . Spesso sono stati identificati con i misteriosi "Popoli del mare", provenienti da Creta e Micene che sconfissero il potente esercito del faraone Ramses III.
Probabilmente, dopo la sconfitta del sovrano egiziano, si stanziarono nel territorio che proprio dal nome "Filastinia" o terra dei Filistei, prese l'odierna denominazione di Palestina.
E' proprio in quest'area che le ricerche archeologiche condotte dalla Leon Levy Expedition, dopo 30 anni hanno portato alla luce un antico cimitero composto da circa 175 reperti archeologici tra resti umani e corredi funerari.
Ampolle di profumo, gioielli, armi e cibo: questi oggetti circondavano solo alcuni dei corpi dei defunti inumati, mentre altri erano sepolti più semplicemente. Alcuni erano anche ornati con orecchini e braccialetti.
Sugli scheletri rinvenuti si stanno già effettuando ricerche e test del DNA per scoprire l'originaria e controversa provenienza di questo popolo.
Gli importanti ritrovamenti sono stati tenuti nascosti per tre anni, fino alla chiusura definitiva degli scavi, per evitare le proteste degli Ebrei Ortodossi, i quali già manifestarono contro l'apertura delle ricerche.
Insieme alla scoperta del cimitero, sono stati rinvenuti i resti dell'antica città di Gath, biblicamente governata dal gigante Golia, situata sulla collina di Tel Zafit, al confine occidentale della Giudea.
Un enorme cancello d'entrata e resti di mura alte 30 metri, un'estensione pari a quattro volte quella di Gerusalemme, lasciano pensare ad un complesso architettonico imponente che mai, prima del regno di Davide e Salomone, fu mai attaccato dal popolo ebraico.

(Ultima Voce, 11 luglio 2016)


Start up Tel Aviv, a Milano la finale tutta al femminile

Da Babysitter a tessuti realizzati da arance a biotech prenatale

ROMA - Si chiamano Orange Fiber, Le Cicogne e Yenetics le tre neonate aziende tutte al femminile selezionate per la finale della quinta edizione di Start Tel Aviv Competition 2016 che si tiene oggi a Milano, al Talent Garden Calabiana, alla presenza dell'ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon e del presidente Talent Garden Davide Dattoli.
Hanno provato e sono riuscite a mettere su, rispettivamente, un portale che connette chi cerca e chi offre servizi di baby sitting; un tessuto naturale realizzato con gli scarti degli agrumi e un test prenatale non invasivo.
Solo una di loro avrà quindi la possibilità di prendere parte a un bootcamp di 5 giorni che avrà luogo a Tel Aviv e in cui vengono riunite le migliori startup di 23 Paesi del mondo.

(ANSAmed, 12 luglio 2016)


Tre giovani scrittori italiani raccontano Israele oggi

Appuntamento il 21 luglio all'Istituto italiano di cultura di Tel Aviv con tre giovani scrittori italiani che presentano le loro opere e, attraverso queste, raccontano Israele oggi. L'Aperikucha Letterario vedra' la partecipazione di Gabriele Barbati con il suo "Trappola Gaza. Nel fuoco incrociato tra Israele e Palestina", Fiammetta Martegani con "Life on Mars" e Anna Momigliano di "Israele e gli altri. Un dissidio irrisolto". A coordinarli sara' Bianca Ambrosio.
   Gabriele Barbati e' corrispondente da Gerusalemme dal novembre 2011 per Radio Popolare e per le reti Mediaset. Reporter, cameraman e montatore, collabora anche con media internazionali. "Trappola Gaza" racconta i due mesi di paura, razzi e bombardamenti vissuti nell'estate del 2014 e la trasformazione di Gaza in una trappola su due fronti, per i palestinesi che ci vivono e per i giornalisti, soggetti a pressioni continue e sistematici tentativi di disinformazione dalla propaganda di entrambi gli schieramenti.
   Fiammetta Martegani vive a Tel Aviv dal 2009. Dal 2012 svolge un postdottorato in Cinema e Letteratura Comparata presso l'Universita' di Tel Aviv. Dal 2009 è corrispondente da Israele per il quotidiano online Q-Code, per il programma radiofonico Catterpillar di Radio 2 e per il Canale 2 della Radio Svizzera Italiana. "Life on Mars" e' il suo primo romanzo, e racconta la storia di un Israele diverso, visto dal punto di vista di chi arriva da un altro "pianeta" come la giovane protagonista che arriva dall'Italia e si trova presto coinvolta nelle vite di gruppo di personaggi conosciuti quasi per caso al bancone del caffe' Casbah di Tel Aviv.
   Anna Momigliano e' una giornalista e scrittrice che vive a Milano. E' redattrice della rivista Studio, scrive su Haaretz e il Corriere della Sera. Per Marsilio ha pubblicato nel 2009 Karma Kosher. Il suo ultimo libro e' "Israele e gli altri: storia di un conflitto irrisolto", una storia ragionata del rapporto di Israele con gli 'altri' al suo interno, la sua minoranza araba e tutte le altre minoranze che negli ultimi anni stanno aumentando sempre di piu' e con cui Israele si trova inevitabilmente a dover fare i conti.

(AGI, 11 luglio 2016)


Di Maio, il dilettante in Medio Oriente. Bussa a Gaza e scopre che è chiusa

Il leader grillino s'indigna, Israele gli spiega: è controllata da Hamas.

di Rosalba Carbutti

Gli attacchi
I fans di Grillo scrissero: «Israele è come la Germania nazista»
Sfottò su Twitter
«Dice frasi da Bar Sport e pensa di risolvere il conflitto arabo-israeliano»

ROMA - Il viaggio in Israele doveva servire ad «accreditare» la sua leadership a livello internazionale. Perché Luigi Di Maio, candidato premier in pectore del Movimento 5 Stelle, in questa fase si gioca tutto. E, quindi, eccolo lo storytelling stellato su Facebook: Di Maio in Palestina nel villaggio di Bil'in in camicia bianca stile renziano; Di Maio a Hebron in giacca e cravatta blu istituzionale col sindaco Daoud Zatari; Di Maio sempre in giacca e cravatta ( tendente al rosso) al cimitero delle vittime israeliane del terrorismo. Ma, nello scacchiere mediorientale, tre post ( con foto, ovvio) su Facebook non bastano. Detto fatto. Così Di Maio - con la delegazione pentastellata composta dal deputato Manlio Di Stefano e la senatrice Ornella Bertorotta - butta lì qualche ricetta di buonsenso per risolvere la questione arabo-israeliana, tipo «la politica dei muri va superata». Bella scoperta si cinguetta su Twitter: «Ci mancavano solo le frasi da Bar Sport». Le due fazioni, del resto, si fanno la guerra dal 1948, anno di nascita dello stato d'Israele, ma per Di Maio sembra tutto facile quasi quanto postare una sua frase ad effetto sui social network.
  Così, ieri, l'ingresso negato nella Striscia di Gaza non gli è andato giù. E via con una delle sue dichiarazioni: «Israele ci vieta di entrare a Gaza. Un brutto segnale per la pace», ha detto piccato. Forse il vicepresidente della Camera non sa che entrare a Gaza è un'impresa non facile (venne bloccata anche una delegazione di Podemos). O forse non ricorda le ripetute guerre nella Striscia di Gaza che, solo nel 2014, hanno causato più di 2mila vittime, il 71 per cento civili (fonte Amnesty International). Tant'è che l'ambasciata di Israele, tramite il suo portavoce a Roma, Amit Zarouk, tenta di fargli presente che si trova in una zona «calda»: «La Striscia di Gaza è controllata dall'organizzazione terroristica di Hamas che è un'entità ostile ad Israele. E l'ingresso da Israele a Gaza e viceversa deve coinvolgere permessi specifici e speciali che sono soggetti a considerazioni di sicurezza». Una gaffe non da poco, considerato che l'invito in Medio Oriente per Di Maio era proprio arrivato dall'ambasciata israeliana a Roma. Considerando, poi, i pregressi, la figuraccia rischia di diventare un boomerang. Il viaggio da futuro statista, infatti, avrebbe dovuto evitare «sbilanciamenti» pericolosi sull'una o l'altra posizione, soprattutto per far dimenticare le frasi antisioniste di Beppe Grillo. «Israele è come Attila: dove gli israeliani sono passati, nessun palestinese crescerà», disse qualche tempo fa. Tant'è che i fan del comico sul blog e nelle pagine Facebook si spinsero (era il 2012) a paragonare Israele «alla Germania nazista, assassini che uccidono in modo indiscriminato donne e bambini». Non contenti, i grillini, rincararono la dose. E un anno dopo il deputato MSS Paolo Bernini disse senza mezzi termini che «il sionismo è una piaga».
  Viste le premesse, Di Maio avrebbe dovuto «rimediare». E, invece, l'altro ieri con sicurezza dettava la linea: «Se il Movimento 5 Stelle va al governo riconoscerà lo Stato Palestinese». Oggi il vicepresidente della Camera sarà alla Knesset, il parlamento israeliano. Se interpellato sulla questione, ha assicurato che «non si tirerà indietro». Sul web pure questa non gliel'hanno fatta passare: «Arriva Di Maio e risolve il conflitto arabo-israeliano».

(Nazione-Carlino-Giorno, 11 luglio 2016)


Gli antisionisti, i complottisti, i filo-Hamas. Le star della politica mediorientale grillina

Da Di Stefano a Sibilia, da Bernini a Vignaroli. Partendo dal leader Di Battista

di Jacopo Iacoboni

 
Nel luglio del 2013, all'epoca della prima visita in Israele di una delegazione M5S, il neoeletto deputato del Movimento Manlio Di Stefano postò su facebook una suggestiva foto e, sotto, il commento: «Buongiorno Palestina». La foto però era Gerusalemme, non Ramallah.
   Naturalmente quella missione fu assai diversa da quella di oggi; era una delegazione di neodeputati senza pressioni, quasi increduli di esser lì, anche allora c'era Manlio Di Stefano, e poi Stefano Vignaroli, Paola Carinelli e Maria Edera Spadoni. Quel viaggio segna un punto di partenza di una storia che in questi tre anni ha avuto diversi apici, la storia dei terzomondismi e della geopolitica mediorientale più spensierata che l'Italia recente ricordi. Nel Movimento cinque stelle, da molto prima dell'ascesa di Luigi Di Maio a candidato premier in pectore - con le conseguenti svolte sull'euro, sull'uso dei soldi, sulla tv, forse sul doppio mandato -, la politica estera è stata da sempre appaltata al gemello-rivale di Di Maio, Alessandro Di Battista, insediato nella commissione eteri, e a una cordata di parlamentari che non si sono fatti mancare ogni genere di spericolatezza verbale delle posizioni. Israele è spesso stato un loro bersaglio, ma si sono udite uscite scivolosissime sull'Isis, virtuosismi linguistici sull'Iraq, frasi non adeguatamente pesate su Hamas. Ogni viaggio è stato sempre al limite dell'incidente diplomatico, o ha tessuto relazioni che andranno indagate meglio (come la partecipazione recentissima, sempre di Di Stefano, al congresso di Putin a Mosca). Occasioni esterne, come una visita del Dalai Lama alla Camera, si sono tramutate in spunti teatrali per mostrarsi rivoluzionari: come quando, intrufolatosi con Alessio Villarosa al cospetto del leader tibetano, che smozzicò una frase sulla corruzione in Cina, Di Battista gli fece: «È lo stesso in Italia. Stiamo combattendo la stessa battaglia che fate voi». In favor di telecamera.
   Di Battista, che in un ipotetico governo cinque stelle sarà il candidato alla Farnesina, conquistò i riflettori per un ragionamento di questo tenore sull'Isis: «Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana». Il terrorismo, scrisse sul blog di Grillo, resta «la sola arma violenta rimasta a chi si ribella».
   Paolo Bernini, deputato noto per le prese di posizione contro le scie chimiche, disse al Corriere: «lo sono antisionista. Per me il sionismo è una piaga». Vignaroli comunicò: «Eccomi a Gerusalemme, città della pace dove l'uomo occupa, separa, violenta». La critica ai governi israeliani è scivolata, insomma, molto spesso in zone sdrucciolevoli. Nel luglio 2014 sempre Di Stefano e Sibilia presentarono un'interrogazione per chiedere l'interruzione delle commesse militari con Israele. Il primo dei due scrisse, sul blog di Grillo, un passaparola che spiega il conflitto israelo-palestinese attribuendolo tout court al sionismo: «Comprendere a fondo il conflitto israelo-palestinese significa spingersi indietro fino al 1880 circa quando, nell'Europa centrale e orientale, si espandevano le radici del sìonìsmo», E sul sionismo Bernini assurse a vette complottiste: «L'11 settembre? Pianificato dalla Cia americana e dal Mossad aiutati dal mondo sionista», disse alla Camera. A chi di recente gli chiedeva se Hamas per lui è terrorista o no, Di Stefano ha risposto: «È una questione secondaria, in questo contesto. I militanti di Hamas dicono: preferiamo morire lottando che continuare a vivere in una gabbia. Per definirli come terroristi o meno dovremmo vederli in una situazione di libertà. Cosa che in questo momento non hanno».
   Già nel 2014 i cinque stelle formularono varie proposte di interruzione dei rapporti commerciali fra Italia e Israele. Ieri si sono limitati a dire che «non facciamo accordi sui prodotti che vengono dalle colonie israeliane dei Territori». Luigi Di Maio pare assai distante da tutto questo, ma allora la visita è stata organizzata un po' alla svelta, e qualcuno nel Movimento, con quei compagni di viaggio, gli ha teso uno sgambetto, lungo la via dell'accreditamento in Israele.

(La Stampa, 11 luglio 2016)


«I grillini sottovalutano il rischio del terrorismo»

La presidente delle comunità ebraiche: "L'ostilità verso l'azienda idrica è tutta politica".

di Gabriele Isman

Riconoscimento
Mi pare molto difficile che un governo europeo possa riconoscere autonoma- mente lo Stato palestinese
Sicurezza
Prima di tutto dovrebbe esserci la garanzia del diritto di esistere in sicurezza per la nazione israeliana

ROMA - «Cosa dovrebbe stare alla base di un eventuale riconoscimento dello Stato palestinese da parte del governo italiano? Innanzitutto un riconoscimento al pieno diritto di esistere in sicurezza per Israele da parte della Palestina. Occorrerebbe una scelta esplicita e fattuale. Ma mi pare molto difficile che un governo europeo possa compiere un simile passo autonomamente».
Noemi Di Segni - 47 anni, cornmercialista nata a Gerusalemme ma romana d'adozione - da una settimana è la nuova presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, dopo essere stata assessore al Bilancio nella giunta precedente guidata da Renzo Gattegna. Di Segni - nessuna parentela con l'omonimo rabbino capo della Capitale - non si sottrae a una valutazione sulle posizioni assunte dai grillini nel viaggio in Israele, sulla volontà di riconoscere lo Stato della Palestina ribadita sabato da Luigi Di Maio.

- Presidente, perché quelle parole non la convincono?
  
«Ragioniamo su quanto accede in questi mesi in Europa e negli stessi Territori: il gruppo palestinese è formalmente riconosciuto come terroristico. Il nostro cuore piange le morti di chiunque, anche quelle di Israele. Ma cercando di dare un segnale di stimolo a chi porta avanti le politiche di integrazione europee - tema difficile di questi tempi - ragioniamo su chi si invita e sui valori portati dagli invitati».

- Cosa teme, presidente?
  
«In Europa si è vissuto per decenni in serenità, ma sappiamo quanto terrorismo c'è e quanto è pericoloso. Dobbiamo riconoscere il problema prima delle soluzioni, e temo che nelle parole dei 5Stelle vi sia una sottovalutazione del rischio terrorismo. La questione è italiana, non solo di quel Movimento: c'è un disagio nel riconoscere il problema Noi possiamo essere d'aiuto nella soluzione, ma è arrivato il momento per la società italiana di maturare questa consapevolezza. Si può scegliere la strada della sicurezza oppure si può scegliere di riconoscere soggetti deboli se tolti da quella violenza che li circonda I palestinesi starebbero meglio con una guida diversa da quella attuale».

- Per lei la soluzione del conflitto isaelo-palestinese può essere nella formula dei due popoli, due Stati?
  «E' questa la strada verso cui si sta andando. Anche da parte del governo israeliano c'è stata un'apertura in questo senso, ma il presupposto è il riconoscimento reciproco del diritto all'esistenza in sicurezza. La Carta nazionale palestinese non è una Costituzione matura, ma il grido di chi cerca un' affermazione politica».

- I 5Stelle prima ancora di conquistare il Campidoglio avevano messo in discussione le intese tra Acea e l'azienda israeliana Mekorot. Ora ribadiscono: "Non facciamo accordi sui prodotti che vengono dalle colonie israeliane dei Territori".
  «Mekorot è una società a partecipazione statale molto importante, affidataria della gestione delle fonti idriche in Israele. Tutta la geografia della regione poggia su queste limitatissime risorse. Temo che quella dei 5Stelle sia una presa di posizione politica aprioristica, senza conoscere la topografia e la tecnologia. Beneficiamo tutti del credito tecnologico anziché etichettarlo politicamente. Poi colpisce che si metta in discussione un'intesa tra Acea, che ha problemi di dispersione dell'acqua, e Mekorot, specializzata nel valorizzare ogni goccia della risorsa».

- II viaggio dei 5Stelle era stato organizzato con la collaborazione dell'ambasciata israeliana ma ha evidenziato comunque tensioni tra il movimento e il governo ospitante.
  «Al di là delle parole sono certa che le percezioni di chi ha visto Israele con i propri occhi abbiano fatto palpitare il cuore in vari momenti. Questo viaggio li aiuterà a usare parole e terminologie diverse. Ci vuole tempo per maturare. Oggi poi devono andare alla Knesset di Gerusalemme: anche questo li aiuterà a capire meglio e a ricalicalibrare i giudizi. O almeno me lo auguro».

(la Repubblica, 11 luglio 2016)


«I Cinque stelle devono fare ancora tanti passi avanti»

Quattro domande a Ruth Dureghello
«Doveva essere una paciosa domenica coi bimbi» scherza il presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello. Invece fioccano le telefonate per commentare le notizie che giungono da Israele.

Di Maio a Gerusalemme
- I parlamentari del Movimento 5 Stelle hanno protestato per non aver avuto il permesso di entrare a Gaza. Si aspettava questo seguito alla prima visita ufficiale dei pentastellati in Israele?
  
«La visita non è finita e si può sempre migliorare ma finora ci sono state delle dichiarazioni un po' contraddittorie, prime il sostegno alla soluzione due popoli per due Stati, poi la condanna della violenza di Hamas e ora Gaza. Se Israele, che è il massimo esperto mondiale di anti terrorismo, chiede delle autorizzazioni speciali per Gaza lo fa per la sicurezza dei parlamentari. Ma comunque, più di ogni altra cosa mi inquieta la dichiarazione unilaterale dei 5 Stelle sullo Stato di Palestina».

- Cosa la inquieta? Di Maio ha parlato dei confini del '67, quelli a cui rimanda la soluzione due popoli per due Stati.
  «I rappresentanti di 5 Stelle pongono il tema in modo un po' superficiale, senza specificare di quale Stato palestinese parlano. Intendono uno
Stato governato da quello stesso Hamas di cui hanno condannato la violenza? Quello dell'Autorità Nazionale Palestinese che non perde giorno per mostrarsi ambigua e violenta? Uno Stato teocratico sul modello dell'Iran?».

- Che impressione ha, per il momento, di questa visita del Movimento 5 Stelle?
  «Ho guardato e guardo con attenzione al fatto che si tratta di una visita in Israele per la quale si è impegnata anche l'ambasciata. So che quello del M5S è un popolo variegato e con tante anime. Ma, posto che la visita non è finita, mi pare che si debbano ancora fare parecchi passi avanti nella conoscenza della realtà israeliana. Non dico che sono rimasta male, ma mi sarei aspettata una maggiore consapevolezza e più lungimiranza dopo quanto negli ultimi mesi si è parlato di Israele a proposito del contro-terrorismo».

- Come Comunità ebraica romana avete incontrato la neoeletta Virginia Raggi?
  «Ovviamente sì, è la nostra interfaccia. La Raggi è all'inizio del suo percorso da sindaco e non abbiamo ancora avuto modo di affrontare le tematiche legate ad Israele e anche a lei abbiamo ribadito il legame sentimentale che ci lega a quella terra. Altra cosa è la visita di parlamentari e del vice presidente della Camera».

(La Stampa, 11 luglio 2016)


Israele non è un ponte verso Hamas

di Fiamma Nirenstein

Tutti hanno diritto di visitare Gaza, ma non si può chiedere a Israele di prendersi la responsabilità di introdurvi una delegazione parlamentare italiana: Gaza è dominata da Hamas, un'organizzazione terrorista molto attiva contro cittadini, donne, bambini israeliani; che domina con prepotenza islamista; che per prendere il potere compì una strage di palestinesi; che ha organizzato e rivendicato migliaia di attacchi terroristici e di rapimenti; che perseguita i cristiani; sotto il cui dominio è stato anche ucciso il giovane Vittorio Arrigoni; che è dotato di uno statuto in cui si promette lo sterminio di tutti gli ebrei. A Cinque Stelle non importa? Vuole portare i sentimenti della sua simpatia perché pensa che due Stati per due popoli sia una formula cui aderirebbero volentieri? Prego, ma è del tutto evidente che la sua insistente richiesta è una provocazione fatta a Israele per dimostrargli la sua antipatia così da compiacere un pubblico che segue sulla sua democraticissima «Rete». I consueti commenti su Israele, inaugurati da Grillo stesso, sono collezioni di un sacco di balle. Soprattutto ci si richiama a principi mal conosciuti, forse mai letti, vani come i comunicati della delegazione che dicono che Israele gli ha dato «un cattivo segno». La cosa risulta vuotamente, frivolmente minacciosa, una specie di ruggito del topo di fronte ai grandi problemi del Medio Oriente. M5S ignora che Hamas punta alla delegittimazione di Israele, che vorrebbe vederlo sparire? Avendo già sgomberato Gaza per averne in cambio gli attacchi quotidiani dei missili di Hamas, Israele ha ben diritto di difendere la sua popolazione. Ma nessuno si angoscerà troppo per l'ignoranza di questi Uomini Nuovi sul conflitto mediorientale. Perché comunque se si vogliono trovare segnali della loro grande esperienza in politica internazionale, si frequentino le loro frequenti espressioni di entusiasmo per l'Iran degli Ayatollah.

(il Giornale, 11 luglio 2016)


«Grillini, fuori da Yad Vashem»

di Deborah Fait

 
Il bambino e il pedagogo
Manlio Di Stefano, nella sua pagina facebook, annuncia il viaggio del Movimento 5 stelle in Israele e "Palestina" come un prosieguo del dialogo intrapreso da lui durante la sua prima visita in "Palestina", luglio 2013, e continua il suo elenco di baggianate oscene assicurando che la soluzione del conflitto passa "solo" per le scelte del governo israeliano, smantellamento delle "colonie" e ritiro dello stato ebraico ai confini del 67. Parlare di confini del 67 significa soltanto imbrogliare la gente che non sa, che non è obbligata a conoscere la situazione e che quindi non si rende conto di essere raggirata in modo cinico e vile. I confini del 67 non sono altro che una perfida menzogna per non dire che Israele dovrebbe tornare alla situazione territoriale del 1949, alle linee armistiziali, non certo confini, dell'epoca successiva alla prima guerra di indipendenza senza tener conto di tutte le altre guerre e aggressioni arabe per la distruzione totale di Israele che si sono succedute negli anni fino ad oggi.
I vigliacchi non hanno il coraggio di dire la verità, non hanno le palle per ammettere che chiedere a Israele di ritirarsi nei confini del 49, i confini di Auschwitz come li ha chiamati Aba Eban, equivale a decretarne la fine. Lo sanno perfettamente che per Israele sarebbe un suicidio perchè tutti i territori regalati ai palestinisti diventerebbero un'enorme Gaza. Luigi Di Maio spudoratamente dichiara:
    "Esistono alcuni esempi di integrazione sia culturale che religiosa cui è importante guardare con fiducia. Uno di questi è la città di Betlemme dove, sotto la guida della sindaco Vera Baboun, convivono pacificamente cristiani, musulmani ed ebrei."
Convivono pacificamente cristiani, musulmani ed ebrei? ma cosa sta dicendo? Come si può mentire in modo così vergognoso? Chissà forse nella sua ignoranza non pensa di mentire forse è convinta si dire la verità così come gliela raccontano i palestinisti, geni della manipolazione che trovano terreno fertile proprio in chi è digiuno di nozioni storiche e ha l'animo aperto all'odio.
A Betlemme vivono ebrei? Dove? Ce lo dica Di Maio dove ha visto ebrei a Betlemme e ci dica anche se i suoi amici palestinisti gli hanno raccontato che i cristiani, dal 99% del periodo in cui Betlemme era israeliana, sono scesi al 7% sotto il dominio dell'ANP. Scommetto che non glielo hanno detto! Continua Di Maio:
    "Questa mattina, dopo aver visitato il campo profughi palestinesi di Aida, uno dei più grandi creatisi dopo la guerra del 1948, nonché simbolo della lotta palestinese per il diritto al ritorno, abbiamo incontrato la prima cittadina e abbiamo visitato la Basilica della Natività. Un luogo storico e simbolico per la cristianità."
Occupata e dissacrata da Hamas nel 2002, ricoperta di immondizie e di escrementi umani, acquesantiere distrutte a martellate... si sa ma non si dice, vero Di Maio?
    "Betlemme porta con sé tutta la pazzia di questo conflitto anacronistico: vi si celebra insieme la storia di Gesù ed è considerata una delle sedi della spiritualità delle più antiche religioni. Nello stesso tempo però si vede divisa, spaccata e umiliata da un muro, alto otto metri, che corre tra le sue strade e la taglia fuori dal mondo ricordandoci che non ci può essere pace senza integrazione e dialogo. Non ci può essere pace senza il rispetto del diritto internazionale e umano. Non ci può essere pace all'ombra di un muro illegale".
Dunque un muro costruito per salvare la vita degli israeliani sarebbe illegale. Certo i grillini possono considerarlo tale dal momento che i kamikaze, ahiloro, non possono più entrare in Israele per fare stragi.
    "E dopo l'incontro con il primo cittadino abbiamo avuto modo di far visita ai nostri carabinieri della missione TIPH a Hebron. Qui abbiamo ascoltato le parole del responsabile della missione e dei vertici del contingente italiano. Ci hanno spiegato come circa l'80% dei conflitti nella zona siano dovuti ai comportamenti dei coloni israeliani."
Beh, i carabinieri non potevano dire altro, sarebbe impossibile vivere a Hebron e incolpare i palestinisti! Molto più prudente e sicuro gettare la colpa sugli ebrei e vorrei ricordare come i carabinieri inviati in missione a Gaza dopo l'uscita dell'ultimo soldato di Zahal, hanno resistito fin che hanno potuto ma alla fine hanno dovuto abbandonare il territorio diventato incontrollabile e estremamente pericoloso. Hebron è diventata la succursale di Gaza in Giudea.
    "Come già ricordato tante volte le colonie israeliane in territorio palestinese sono illegali secondo tutta la comunità internazionale e dunque ostacolo alla pace. Ce lo ha ricordato l'Onu con numerose risoluzioni. Questo è un elemento fondamentale se si vuole la pace in questa terra martoriata."
Le "colonie" non esistono se non nel linguaggio "cattocomunista" italiano, in ebraico e in inglese si chiamano "insediamenti" peraltro legalissimi poichè Giudea e Samaria non sono ancora "territorio palestinese" e non erano mai appartenuti, prima, a nessun altro stato. Il trattato di Sanremo del 1920 recita che Giudea e Samaria, come tutta quella che viene chiamata Cisgiordania, doveva far parte del "Focolare ebraico" . Inoltre i palestinisti hanno sempre rigettato con sdegno ogni tipo di offerta israeliana per arrivare alla fine del conflitto e da anni rifiutano di incontrare il Governo.
Naturalmente il Movimento dei grillini non sa niente di terrorismo palestinista, non conosce lo statuto di Hamas che parla della distruzione di Israele. Potete qui leggere lo statuto in tutta la sua delirante realtà, leggerlo richiama alla mente l'ideologia dell'Isis di Al Baghdadi e fa venire i brividi.
Lo statuto è tradotto da Hamza Picardo, padre di quel Davide Picardo rappresentante dei musulmani in Lombardia, che tutti i media televisivi fanno passare per "moderato". Il movimento 5 Stelle non conosce l'incitamento all'odio che si fa quotidianamente nelle scuole palestinesi? Non glielo ha detto nessuno? Dalla scuola materna dove si insegna a bimbetti di 4, 5 anni che gli ebrei vanno sgozzati, all'università dove si insegna come legarsi i candelotti di esplosivo e pallini di acciaio intorno alla vita e farsi saltare in mezzo a gente innocente urlando Allhu Akhbar. L'ignoranza storica, l'arroganza e l'odio antisemita del Movimento 5 Stelle fanno paura se si pensa che è diventato il primo partito italiano e che, se si votasse oggi, andrebbe al governo. Un governo guidato da un clown, un pagliaccio, un comico come Grillo il cui pensiero politico si condensa tutto nei vaffa urlati nelle piazze italiane, vaffa che mandavano tutti in visibilio. Ridevamo allora, credevamo fosse una gran pagliacciata, forse sorridevano anche i tedeschi quando Hitler urlava dalle piazze, forse anch'essi pensavano "non durerà" invece ha distrutto l'Europa con guerra e odio infinito.
Il destino dell'Italia sarà questo? I grillini al governo? Se sì sarà colpa degli italiani che li voteranno... come i tedeschi hanno votato per Hitler e il nazismo. Ho letto che i tre della delegazione grillina Di Maio, Di Stefano e una sconosciuta donna, sono andati a visitare lo Yad Vashem, il Memoriale della Shoà. Una decisione ipocrita e sconcertante! Non posso accettare che chi auspica la distruzione dello Stato di Israele, con l'eliminazione inevitabile di altri milioni di ebrei, si metta in testa la kippà del popolo che odia e vada ad accendere la fiamma nella grotta dove sono scritti i nomi dei campi della morte dell'Europa nazista. Fuori i grillini da Yad Vashem.

(Inviato dall'autrice, 11 luglio 2016)


"Palazzo Taurino Medieval Jewish": la Lecce ebraica si svela alla città

Giovedì 14 luglio la presentazione di "Palazzo Taurino Medieval Jewish Lecce": nei suoi sotterranei la storia dell'insediamento ebraico leccese e salentino.

I sotterranei di Palazzo Taurino a Lecce
Appuntamento nei sotterranei di Palazzo Taurino giovedì 14 luglio alle ore 11.30. Sarà quella l'insolita location per la conferenza durante la quale verranno illustrati i dettagli dell'allestimento museale e i contenuti della mostra permanente realizzata e curata dal professor Fabrizio Lelli, docente di Lingua e Letteratura ebraica presso l'Università del Salento.
"La riscoperta dell'interesse per la cultura ebraica a Lecce e in Salento è un fenomeno significativo ma improvviso" afferma il Prof. Fabrizio Lelli. "Occorrono pertanto tempi tecnici per interpretare una memoria storica brutalmente rimossa cinquecento anni fa e una preparazione adeguata per ristabilire i contatti con una società oggi avvertita come distante".
Alla conferenza stampa prenderanno parte ed interverranno Paolo Perrone - sindaco Comune di Lecce; Michelangelo Mazzotta - Palazzo Taurino Medieval Jewish Lecce; Prof. Fabrizio Lelli - Università del Salento; Avv. Cosimo Yehuda Pagliara - Comunità Ebraica; Dott. Fabrizio Ghio - Architetto e Archeologo; Prof. David Mark Katan - Università del Salento; Prof. Paul Arthur - Università del Salento.
A seguire i partecipanti presenteranno ulteriori progetti in programma all' interno del museo.

(Lecce Sette, 11 luglio 2016)


Elisabeth Mantovani svela i segreti e le curiosità della Modena Ebraica

Quale ruolo ha avuto la comunità ebraica nella storia di Modena? L'esperta di storia e arte modenese Elisabeth Mantovani ci porterà in un viaggio tra antichi simboli, tradizioni dimenticate e curiosità su una delle comunità più importanti della storia della nostra città.

di Francesco Folloni

Quale ruolo ha avuto la comunità ebraica nella storia di Modena? L'esperta di storia e arte modenese Elisabeth Mantovani ci porterà in un viaggio tra antichi simboli, tradizioni dimenticate e curiosità su una delle comunità più importanti della storia della nostra città.

- Quanto è stata importante la comunità ebraica nella storia di Modena?
  
La Comunità Ebraica è stata per secoli al centro delle vicende modenesi soprattutto per i legami tra il Ducato Estense e gli ebrei. Si trattava soprattutto di legami economici e commerciali che hanno però avuto ripercussioni di grande portata in tutti gli aspetti della vita nei territori governati dagli Estensi. Per finanziare gli sfarzi ed anche le frequenti guerre per proteggere il loro territorio, gli Estensi hanno accolto molti Ebrei che fornivano loro denari utili al mantenimento di un piccolo stato pressato da ogni parte da potenze politiche più forti. Già dall'epoca di Alberto V (fine XIV secolo) abbiamo notizie di banchi feneratizi (prestito ad interesse) a Modena come a Ferrara. I Duchi rimasero dipendenti dai denari degli Ebrei anche dopo l'apertura del ghetto a Modena la quale nel frattempo diventata capitale del Ducato (1598). Le attività di prestito a Modena cessarono solo nel 1767: molto più tardi che nella maggior parte del resto d'Italia. Dopo il breve capitolo dell'apertura Napoleonica, inoltre, gli ebrei presenti a Modena avevano conosciuto un periodo di forte repressione durante il ritorno degli Asburgo-D'Este, perciò molti parteciparono ai moti risorgimentali e nel nostro territorio la presenza ebraica fu fondamentale nel contributo dato dalla nostra città al processo di unificazione nazionale. Inoltre, in un territorio dove la Resistenza giocò un altro ruolo fondamentale nella storia della città, gli ebrei furono di nuovo in prima linea nel processo di Liberazione nazionale: molti di loro parteciparono attivamente e caddero come resistenti durante la Seconda Guerra Mondiale.

- Davanti alla sinagoga sono stati posti degli alberi, è voluta la scelta di nasconderla in parte rispetto a via Emilia?
  
Sì esatto. L'attuale sinagoga è un complesso artistico di valore, armonioso ma molto imponente. Il suo peso architettonico doveva essere un simbolo dell'emancipazione degli ebrei dopo l'Unità d'Italia ma ai primi del Novecento qualche cittadino si lamentò poiché, passando dalla via Emilia, cuore pulsante della vita cittadina, la sinagoga "dava troppo nell'occhio" e così disturbava, era per alcuni troppo "sfacciata".

- La comunità ebraica come ha contribuito alla tradizione storica e culinaria modenese?
  
In molte zone del territorio nazionale la tradizione culinaria porta il segno della ricca e affascinante gastronomia ebraica. La spongata ad esempio, dolce tipico del parmense ma conosciuto anche a Modena, ha origini ebraiche. Una curiosità: la celebre torta è citata nel poema eroi-comico "La Secchia Rapita" di Alessandro Tassoni, uno degli emblemi letterari del territorio modenese.

- Quali sono i luoghi che più rappresentano la storia degli ebrei modenesi?
  
A Modena le tracce visibili sono rimaste poche ma significative. Sicuramente possiamo citare l'area dove si trova ora la Sinagoga, un gioiello architettonico e un importante luogo per la presenza e la Memoria ebraica. In quell'area già dal Medioevo gli ebrei vivevano ed esercitavano le attività loro permesse come la compravendita di oggetti e vestiti usati ad esempio. Oppure attività umili legate alla fiorente industria dei tessuti. Un altro luogo significativo è il Cimitero Ebraico di San Cataldo. Qui tra le tante iscrizioni ne è riportata una, dal libro di Giobbe, che mi ha colpito molto: "Piccolo e grande colà si ritrovano." È un concetto che specialmente in questo momento storico ci porta a importanti riflessioni sul significato della vita e della morte. Di grande importanza simbolica è anche la tomba di Pio Donati, personaggio e politico di spessore nella storia modenese, appartenente alla Comunità Ebraica di Modena oltre che a un'importante famiglia presente in città sin dal 1600. Pio Donati migrò all'estero durante le persecuzioni della Seconda guerra mondiale ed è sepolto vicino Francesco Luigi Ferrari anche lui migrato all'estero per le sue idee anti-fasciste. Nonostante le tombe dei due politici e letterati italiani si trovino rispettivamente l'una nella parte ebraica del Cimitero di San Cataldo e l'altra nella parte cattolica, esse sono state poste vicine separate soltanto da un vetro che, solo in quel punto, sostituisce il muro di cinta.

- Gli ebrei modenesi furono accettati dagli altri modenesi in passato o ci furono periodi oscuri?
  
Quando i duchi accolsero numerosi ebrei dalla Spagna e dal Portogallo tra il XV e il XVI secolo i modenesi furono spaventati da un tale afflusso in città di "stranieri" che "occupavano spazio e le migliori case". Furono soprattutto i rappresentanti delle Arti e dei Mestieri, allora fornai, "lardaroli", "pellizzari", "merzai" e così via, che si lamentarono dell'intraprendenza degli ebrei nel gestire le attività loro concesse e i banchi di prestito. Dopo l'apertura del ghetto iniziò un lungo periodo di predica antisemita ad opera dei francescani che nel frattempo avevano aperto un Monte di Pietà in diretta concorrenza ai banchi di prestito degli ebrei. Anche prima della data di apertura del ghetto (1638), i francescani alleati alle corporazioni di mestiere, avevano proposto ai duchi vari progetti di segregazione. Se vogliamo andare ancora più indietro possiamo ricordare la peste del 1300: anche in questo caso gli ebrei a Modena furono accusati di essere gli untori. E' probabilmente vero comunque che gli ebrei, grazie alle loro scrupolose norme igieniche nella preparazione e nella consumazione del cibo e al fatto che erano abituati a vivere in comunità abbastanza coese, furono forse meno contagiati di altri.

- Come si comportarono i modenesi con gli ebrei durante la persecuzione nazi-fascista? Raccontaci cosa accadde a Modena agli ebrei in quel periodo.
  
Durante la persecuzione nazi-fascista i modenesi mostrarono con evidenza un aspetto della loro comunità che è ancora oggi una peculiarità che caratterizza il territorio: l'accoglienza e il desiderio di integrazione.
Anche a Modena gli ebrei furono tuttavia perseguitati a causa delle leggi razziali e dell'avvicinamento di Mussolini alla politica hitleriana: ben 18 ebrei modenesi furono deportati e 8 morirono nei campi di concentramento. Ciononostante numerosi ebrei residenti nel territorio modenese trovarono rifugio in abitazioni private, case di cura e istituti religiosi del modenese. Questi luoghi diedero ospitalità anche a ebrei che provenivano da altre parti d'Italia e addirittura da altri paesi europei dimostrando, appunto, quella facciata della comunità modenese che diventerà una costante fino ai nostri giorni. Persino la questura modenese fu solidale con gli ebrei e si premurò di avvisare prima coloro che erano destinati ai campi di sterminio affinché avessero la possibilità di mettersi in salvo. Grazie a queste rete di solidarietà nel modenese la repressione nazi-fascista fu meno dura che altrove e qui trovarono rifugio e accoglienza tanti perseguitati, basta solo pensare che molti ebrei aderirono alla Resistenza dando un contributo non indifferente alla Liberazione di Modena, così come a quella di altre parti d'Italia.

(Modena Today, 10 luglio 2016)


Fast food kasher in 6 mosse. Come l'hamburger diventa consentito (e goloso)

di Antonella De Santis

 
Ha conquistato la comunità ebraica di Roma e non solo. Perché gli hamburger piacciono a tutti, se kasher anche di più: sarà per la qualità delle carni, o perché l'assenza di latticini rende i panini più digeribili, o forse è solo per le ricette, studiate su misura. Sta di fatto che il fast food fatto secondo le regole della kasherut va alla grande. Ma quale è la differenza tra un hamburger tradizionale e uno kasher? Lo spieghiamo qui.
Non è una questione religiosa, o meglio non solo quella che ha determinato il successo di Fonzie, fast food aderente alle regole della kasherut che ha, nel giro di un paio di anni, punteggiato il territorio romano con le sue insegne. E non più solo all'interno dell'ex Ghetto ebraico: "la sfida per noi è stata rilanciare in un altro quartiere" dice David Gay, proprietario insieme alla famiglia del locale. Una paninoteca in perfetto stile americano, così come sempre più di frequente si incontrano nelle nostre città. Coniugare la tradizione del fast food, con hamburger in tutte le sue varianti, hot dog e patatine fritte, alle regole della kasherut è stata la chiave vincente, e non solo perché ha intercettato un'esigenza specifica, sull'onda della rivoluzione dell'hamburger gourmet declinato in conformità delle regole della comunità ebraica, ma per una semplice questione di gusto. "Seguiamo tutti i precetti, a 360 gradi, e il risultato di questa osservanza è un prodotto qualitativamente valido e interessante per tutti". I clienti di Fonzie, infatti, sono persone di ogni genere: romani e non, ebrei e non. "Quando ci siamo resi conto che solo il 50% dei nostri clienti era di religione ebraica abbiamo capito che il nostro è un prodotto per tutti. Così abbiamo voluto scommettere con il locale di via Cicerone in Prati". Perché la maggior parte dei ristoranti di cucina ebraica, a Roma, sono concentrati al Portico d'Ottavia "qui si gioca un po' in casa" dice. La prova del nove si fa fuori, dove si è allo stesso livello di tutti gli altri locali. La scommessa ha dato i suoi frutti: "adesso abbiamo una fascia di clientela che solo per il 30% è ebraica", un risultato che li ha spinti ad aprire un terzo punto vendita, stavolta nella zona di piazza Bologna, a via Catanzaro. Il segreto è nella scelta dei prodotti, sempre freschi, nelle salse, varie e preparate in casa quotidianamente, nelle ricette. "La difficoltà maggiore" dice "è trovare buoni prodotti kasher, è un impegno costante, anche perché in Italia la scelta su alcuni settori è molto limitata. Cerchiamo soprattutto in America e qualcosa ci facciamo arrivare dal Belgio. Lì c'è più tradizione rispetto a determinate esigenze alimentari".
Ma in cosa si distingue un fast food kosher? La kasherut è molto complicata, e la sua osservanza impone moltissima attenzione. Ecco quelle fondamentali per gli appassionati di burger.

 Cuoco e cucina
  Partiamo dall'inizio: il cuoco. Chi accende il fuoco e cucina deve essere di religione ebraica. Per quanto riguarda la cucina serve uguale attenzione: carne e latticini devono rimanere separati, tanto nelle ricette quanto negli strumenti di cottura e nei contenitori. Per evitare la promiscuità alimentare, niente latte e formaggio nella hamburgeria. Non solo: il burger di salmone (pesce consentito perché ha pinne e squame) è cotto in una padella usata esclusivamente per quello, e mai per la carne.
Chi sta in cucina ha il compito anche di controllare gli alimenti e come vengono trattati. Nonostante le ricette siano, in gran parte, affini a quelle classiche da fast food, è stato fatto un processo di kasherizzazione di ogni ogni materia prima: dall'olio, proveniente da aziende certificate, alla panatura dei fritti, come le onion ring, alle birre artigianali e altri prodotti: conservanti e altri additivi possono rivelarsi, a un'analisi attenta, non conformi, per questo evitati il più possibile. Stesso discorso per i prodotti da forno, che non di rado nascondono delle insidie come il latte nei panini o lo strutto nelle tortilla. "È stato fatto un lavoro con il forno del Ghetto, per avere pani adatti alle nostre ricette".

 Carne
  No al maiale, ovviamente. Ma anche no al coniglio, no ai quarti posteriori dei bovini (sono ammessi solo quelli anteriori). La carne usata è quella certificata dal Rabbino Capo, macellata secondo il rituale delle prescrizioni kosher. Per dirla in soldoni non deve contenere tracce di sangue quindi subisce una pulizia con il sale, per una durata variabile tra i 20 e i 60 minuti, che elimina ogni residuo ematico rimasto dopo l'uccisione dell'animale e il suo dissanguamento. Questo il motivo del suo sapore meno deciso, ma anche della sua digeribilità, a detta di molti. Non solo: le carni kosher sono controllare secondo un disciplinare molto rigido che esamina lo stato di integrità degli organi interni, e solo se supera tutti controlli la carne è pura, dunque lecita. Per ravvivare al sapore più delicato della carne, mai surgelata, si è lavorato molto in cucina, sulle ricette e sulle salse, per arricchire e valorizzare i panini.

 Latticini
  I latticini non possono convivere con la carne. Questo significa sostituirli in ogni preparazione che li preveda. Primo tra tutti, in un fast food, il cheeseburger. "Abbiamo trovato un formaggio di soia molto simile al cheddar" dice David "e siamo soddisfatti". Per le altre ricette si è dovuto procedere per prove aggiustamenti: latte di soia o di riso, oppure olio danno consistenza alle salse, realizzate in casa quotidianamente: bbq, cocktail, di funghi, di fagioli, aioli, guacamole, maionese di patate. Sempre meno la margarina, che si trova in alcuni dolci ma sta andando a scomparire.

 Uova
  Si tratti di una maionese, di un uovo fritto da aggiungere nel sandwich, o altre preparazione, le uova devono essere pure, non contenere, cioè, tracce di sangue. Questo implica il controllo di esemplare per esemplare, prima dell'utilizzo. Le uova "ingallate" vengono eliminate.

 I panini
  Il pastrami, di per sé, non è una preparazione proibita, ma qui la carne di manzo usata è quella macellata e controllata dal Rabbino. Al posto del bacon, nei panini che lo prevedono, si usa la carne secca di manzo, per ottenere un risultato simile ma non del tutto uguale, dato che è più sapida una volta passata sulla piastra: interviene qui la ricetta a bilanciare i sapori, come la salsa di fagioli in certi panini. Molto usato il pollo, la bistecca, gli straccetti (in abbinata alla concia di zucchine, in un panino tipo osso). Ogni nuova apertura porta con sé 4 o 5 ricette nuove, secondo un'ispirazione diversa: se prima c'erano state quella asiatica e americana, questa nuova apertura include anche suggestioni messicane. Via libera ad affumicatura, marinature, ricette cucinate, con l'idea che si può anche proporre una steak nel panino.

 I dolci
  Il lavoro sulle ricette è evidente sui dolci: niente burro né latte per i brownies, latte di soia per il crumble di mela, realizzato con una ricetta ad hoc, crema di cioccolato senza latte per i fonzine, i bocconi di pasta fritta.

(Gambero Rosso, 10 luglio 2016)


L'esperienza di israele nella lotta al terrorismo
     Articolo OTTIMO!


di Maurizio Caprara

Le organizzazioni terroristiche studiano, si aggiornano, ricavano insegnamenti dalle esperienze di formazioni armate straniere. Così fanno gli apparati degli Stati che le combattono, ma gli esempi di maggiore efficacia nel resistere alle offensive stragiste meritano di essere conosciuti anche dalle società potenzialmente bersagli di molteplici attacchi. Ridurre il terrore provocato dal terrorismo - non la consapevolezza della minaccia - è una necessità. Richiede capacità di prevenire gli attentati, di affrontarli adeguatamente preparati, di circoscrivere lo smarrimento dopo incursioni sanguinose e di saperlo superare.
   Mentre le cronache descrivono ancora dettagli delle stragi di due sabati fa a Dacca e del 28 giugno all'aeroporto «Ataturk» di Istanbul, Israele può fornire insegnamenti utili. E un Paese di circa otto milioni di abitanti. Dal 13 settembre dell'anno scorso, a causa di azioni terroristiche di gruppi o singoli palestinesi ha subito la morte di 40 persone e il ferimento di 511 (inclusi quattro palestinesi). Gli accoltellamenti a sorpresa sono stati 155, compresi i 76 tentati. Gli attacchi con armi da fuoco 96, gli speronamenti e investimenti con auto 45. Eppure a Gerusalemme, aTeI Aviv, in centri più piccoli la popolazione non ha rinunciato alla propria vita di tutti i giorni.
   Violenza e terrorismo di origine palestinese hanno ucciso dal 2000, secondo i conteggi del governo israeliano, oltre 1.300 persone. Non si tratta qui di esaminare l'intera e complessa questione israelo-palestinese, bensì di constatare che l'abitudine a convivere con il terrorismo, seppure al prezzo di dolore e sforzi, non ha impedito alla società dello Stato ebraico di ottenere risultati positivi. Tra il 2004 e il 2013 Israele ha avuto una media di sviluppo economico di circa il 5% all'anno. Anche quando tensioni internazionali lo hanno contratto, il tasso di crescita è stato migliore del nostro: nel 2015, il 2,5%.
   Le vittime sarebbero state di più se la prevenzione non fosse stata di alto livello. Che numerose pattuglie della polizia israeliana - 29 mila dipendenti - compiano ricognizioni frequenti delle strade lo si vede (e serve). Meno si sa che per i pattugliamenti vengono cambiati continuamente ritmi e percorsi, anche agli agenti in borghese. Il terrorista, per sua natura, deve sorprendere. Dunque va sorpreso. Non deve avere modo di decidere le proprie mosse calcolando in anticipo e con certezza quelle del nemico.
   Gli israeliani sono tempestivi nel segnalare a chi vigila il pacco o la persona che può esporre a rischi i concittadini. Questa propensione deriva da un'inclinazione a vita comunitaria, altro fattore che favorisce verso i feriti e le famiglie delle vittime una solidarietà profonda. Gli addetti alla sicurezza sono tenuti a studiare le aree di propria competenza. Si tratti di sinagoghe, centri commerciali o altro, ne devono conoscere ingressi, uscite, tragitti lungo i quali ci si muove. In Italia, invece, spesso a piantonare edifici vengono mandati militari che non sanno nulla delle le strade della zona. Conoscere i posti è essenziale. Perché la regola, in Israele, è che in caso di attentato chi vigila nella zona deve intervenire subito per neutralizzare gli attentatori, non dare loro modo di conquistare spazi o ostaggi.
   L'Italia, dal 1969 agli anni Ottanta, ha convissuto con bombe in luoghi pubblici e su treni senza perdere la razionalità. Ha sofferto, non si è avvilita. È un patrimonio da non dimenticare mentre il terrorismo integrali sta islamico cerca di insidiare altri musulmani, l'Occidente e, come dimostrato in Bangladesh, anche noi. L'esperienza di Israele può arricchire un patrimonio prezioso.

(Corriere della Sera, 10 luglio 2016)


Se un treno può ricucire il Paese

 
Il presidente israeliano Reuven Rivlin ne ha simbolicamente visitato un tratto in occasione di Yom Yerushalaim, la ricorrenza che celebra l'unità della Capitale, La linea ferroviaria ad alta velocità che la collegherà a Tel Aviv (inaugurazione prevista per il 2018) costituisce anche concretamente un passo in più verso l'unità dell'intero paese, o come ha detto Rivlin, "una dimostrazione che tutte le strade portano a Gerusalemme". La decisione di costruire un collegamento ad alta velocità tra le due città risale al 2001, e una volta aperto sarà possibile spostarsi in circa mezz'ora - contro i 78 minuti sulla vecchia linea costruita ai tempi dell'Impero ottomano - con treni che partiranno ogni quarto d'ora.
   I lavori, finanziati da fondi pubblici, vanno avanti da ben quindici anni tra battaglie legali di vario genere, avvicendamenti politici e qualche fisiologico imprevisto. Il direttore delle Ferrovie dello stato israeliane Boaz Tzafrir ha promesso a fine marzo a un gruppo di parlamentari che aveva visitato il cantiere che non si protrarranno oltre il 2018. Secondo i piani iniziali avrebbero dovuto essere già conclusi dal 2008, solo che alcune proteste da parte di gruppi ambientalisti, preoccupati che la linea potesse causare dei danni ad alcune zone collinari e valli protette intorno a Cerusalemme, hanno causato uno stallo.
   In particolare, a destare contrarietà era stata la costruzione di un ponte che facesse passare i treni sotto l'Yitlah Stream - parco nazionale nonché località biblica, menzionata nel libro di Giosuè - e per questo era stato chiesto di costruire un tunnel in alternativa. Ma una commissione del ministero dell'Interno aveva stabilito che una galleria avrebbe fatto ritardare il progetto di due ulteriori anni - con relativa ulteriore spesa - dando il via libera aIle Ferrovie dello Stato, Tanto che, munito di elmetto e giubbotto catarifrangente, Rivlin a inizio giugno ha passeggiato proprio in quel tratto e il ponte, con i suoi 97 metri, è il più alto del paese. Impressionato dal progetto, il presidente ha affermato che si tratta di "un risultato davvero importante per lo stato di Israele".
   Per citare qualche altro numero da record, è lungo 11,6 chilometri il tunnel più lungo della linea, e anche lui è il più lungo di Israele. Nel tratto fra Modiin e Gerusalemme si contano poi quattordici tra ponti e gallerie, gli ingegneri al lavoro sul progetto sono circa 680 e i treni andranno a una velocità di circa 160 Chilometri orari. La stazione di Gerusalemme costruita ad hoc, chiamata "Hauma", che si troverà accanto alla stazione centrale degli autobus ma a 80 metri sottoterra, servirà anche come rifugio in caso di bombardamenti, contenendo fino a duemila persone.
   E il progetto non si conclude qui. Il ministro dei trasporti israeliano Yisrael Katz ha annunciato che si prevede già, una volta inaugurata la linea, di aggiungere nuove tratte "da Kiryat Shmona al nord fino a Eilat al sud".

(Pagine Ebraiche, luglio 2016)


Quando Gheddafi asfaltava i cimiteri per azzerare l'identità della Libia

Lettera al Direttore di La Stampa
    Caro Direttore.
    quando noi andiamo a ripescare da una imbarcazione affondata i cadaveri dei poveri migranti che volevano venire, dalla Libia in Europa, non posso fare a meno di ricordare. A Tripoli, il tanto rimpianto colonnello Gheddafi, che controllava con le maniere forti tutti i movimenti e qualsiasi contestazione, aveva allora raso al suolo il cimitero ebraico di Tripoli disperdendo i resti dei miei antenati e quelli di tutti gli ebrei tripolini. Le tombe degli italiani defunti venivano invece restituite, perfettamente imballate, ai parenti in Italia.
    Guido Hassan
Caro Hassan,
durante una visita a Tripoli, alla fine degli Anni Novanta, andai a visitare l'area dell'ex cimitero ebraico ed alcuni collaboratori dell'ex colonnello Gheddafi mi mostrarono la grande autostrada che vi era stata costruita sopra. La stessa che era stata realizzata distruggendo l'ex lungomare di Tripoli. Gheddafi volle in questa maniera ridisegnare la pianta urbana della capitale per azzerare, anche da un punto di vista topografico, quanto era esistito prima della sua rivoluzione. Per la stessa ragione la Cattedrale, sull'omonima piazza a ridosso dell'ex Città Giardino, venne trasformata in moschea. I regimi totalitari hanno spesso l'ambizione di annientare ogni identità a loro precedente. E nel caso libico ciò ha causato gravi conseguenze. La cancellazione dell'eredità ebraica ha infatti privato la Libia di una storia bimillenaria così come l'espulsione degli italiani nel 1970 ha portato alla scomparsa di un ceto medio che avrebbe potuto aiutare la crescita economica nazionale. Anche perché la maggioranza degli italiani di Libia era intenzionato a rimanere. Così come gli ebrei sarebbero in gran parte rimasti se nel 1967 - quando il Libia c'era ancora re Idriss - i pogrom non li avessero obbligati alla fuga. In qualche maniera, negli ultimi anni del suo regime, Gheddafi riconobbe la gravità di tali errori quando, durante una visita a Roma che lo vide accamparsi sotto una tenda beduina a Villa Pamphili, tentò di convincere l'Italia a tornare protagonista dello sviluppo dell'economia libica e provò anche a spingere la comunità ebraica libica a tornare a Tripoli e Bengasi. Ma la Storia raramente fa marcia indietro.
Maurizio Molinari


(La Stampa, 10 luglio 2016)


Di Maio attacca Israele: le colonie sono ostacolo alla pace

"Come già ricordato tante volte, le colonie israeliane in territorio palestinese sono illegali secondo tutta la comunità internazionale e dunque ostacolo alla pace. Ce lo ha ricordato l'Onu con numerose risoluzioni. Questo è un elemento fondamentale se si vuole la pace in questa terra martoriata". Lo scrive su Facebook Luigi Di Maio, membro del direttorio 5 Stelle, in visita in Cisgiordania con i portavoce Manlio Di Stefano e Ornella Bertorotta, pubblicato su Facebook.
"Abbiamo avuto modo di far visita ai nostri carabinieri della missione TIPH a Hebron - continua il vicepresidente della Camera - . Qui abbiamo ascoltato le parole del responsabile della missione e dei vertici del contingente italiano. Ci hanno spiegato come circa l'80% dei conflitti nella zona siano dovuti ai comportamenti dei coloni israeliani".
"Quello che diciamo facciamo: se il M5S arriverà al Governo, riconosceremo lo Stato di Palestina"."E' un indirizzo politico che avevamo all'opposizione e quindi avremo anche in maggioranza ".
Di Maio si trova in visita in Israele e Palestina a capo di una delegazione pentastellata. "Un riconoscimento che ovviamente - ha specificato il capogruppo in Commissione Affari Esteri alla Camera, Manlio Di Stefano - si deve basare sui confini del 1967 e che deve comportare anche il ritiro dal Golan. E' quello che diremo agli israeliani".

(Imola Oggi, 9 luglio 2016)


L’ignoranza faziosa al governo, è questa la speranza del futuro per le sorti dell’Italia? La peggiore forma di antisemitismo si sta facendo strada: quella basata su un’ignoranza non tanto usata consapevolmente e fraudolentemente per particolari scopi politici, ma inconsapevolmente subita e considerata come strumento di salvezza per le sorti della nazione. Non a caso quest’ignoranza adotta tra i suoi strumenti teorici e pratici l’ultima forma di “decoroso” antisemitismo: l’antisionismo. M.C.


Israele, emergono rarissimi mosaici sull'Arca di Noè e il Passaggio del Mar Rosso

Raffigurazioni davvero particolari quelle emerse in una sinagoga in Israele. Si tratta di mosaici raffiguranti il Passaggio sul Mar Rosso e l'Arca di Noè.

di Angelo Petrone

Una sinagoga del V secolo in Israele ha restituito una serie di mosaici davvero preziosi. Si tratta di raffigurazioni rarissime che rappresentano l'Arca di Noè e la separazione delle acque del Mar Rosso. Scene bibliche dell'Antico Testamento quasi mai presenti nelle raffigurazioni artistiche e descritte nei mosaici nei minimi particolari. Carri che si rovesciano sotto la furia delle onde, cavalli travolti ed enormi pesci che inghiottono i soldati del Faraone d'Egitto; insomma una scena che romanda ad un episodio che tutti noi conosciamo.
A rivelare la scoperta è un gruppo di studiosi della Baylor University, le università della Nord Carolina e di Toronto. In un'altra serie di raffigurazioni si notano, invece, delle coppie di animali tra cui elefanti, leopardi, asini, serpenti, orsi, struzzi, cammelli, pecore e capre. Si tratta di un altro mosaico che rappresenta, in questo caso, l'Arca di Noè l'altro episodio dell'Antico Testamento.

(Scienze Notizie, 9 luglio 2016)


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Israele, torna alla luce la città di Golia

3000 anni dopo la lotta con Davide, trovate mura e ingresso

EL ZAFIT - Tremila anni dopo l'epica sfida col pastore israelita Davide la citta' del gigante filisteo Golia, Gat, torna alla luce. Per il 21/mo anno consecutivo una squadra di archeologi guidati dal prof. Aren Maeir della Universita' Bar Ilan di Tel Aviv riporta alla luce a Tel Zafit (fra Gerusalemme e Ashqelon) i resti di una localita' abitata per cinquemila anni consecutivi, dall'era del bronzo in poi.
In una natura rimasta incontaminata per miracolo, non e' difficile ricostruire anche oggi il tragitto possibilmente percorso da Golia. Sceso dal Tel (la maestosa collina di Gat che nel decimo secolo a.C. dominava militarmente la zona) usci' da un possente ingresso fortificato - i cui resti sono stati scoperti proprio nella scorsa stagione di scavi - e supero' il letto di un fiume. Piego' poi a destra nella valle (tuttora ben visibile) dedicata alla divinita' Elah e punto' verso le colline antistanti Gerusalemme. A quindici chilometri da la' era atteso da Davide.

(ANSA, 9 luglio 2016)


«Rapire i palestinesi per fare pressione su Hamas»

Il suggerimento è stato enunciato dal ministro dell'istruzione Naftali Bennett.

Israele dovrebbe rapire palestinesi coinvolti in atti di terrorismo per fare pressione su Hamas e costringerlo così a restituire alle famiglie i corpi di due soldati israeliani caduti a Gaza due anni fa.
Il suggerimento, secondo il Jerusalem Post, è stato enunciato dal ministro dell'istruzione Naftali Bennett (leader del partito nazionalista 'Focolare ebraico') in un'intervista a una emittente locale.
Bennett, secondo il giornale, ha detto di essere contrario alla liberazione in cambio dei resti dei soldati di palestinesi reclusi in Israele per terrorismo. "Dovremmo tornare a fare quello che Israele ha già fatto in passato in circostanze simili" ha detto il ministro. "Dovremmo compiere rapimenti fra di loro, creare un maggiore incentivo, non certo liberare terroristi".
Nei giorni scorsi il leader di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, ha condizionato l'avvio di qualsiasi scambio di prigionieri con Israele alla liberazione di decine di militanti di Hamas già rilasciati in Cisgiordania in un precedente scambio e poi di nuovo arrestati. Hamas inoltre detiene a Gaza due civili israeliani, probabilmente infermi di mente, entrati nella Striscia di propria volontà.

(tio.ch, 9 luglio 2016)


Lo Schindler giapponese

Un film racconta la vita del console che in Lituania salvò seimila ebrei. Leredità di Chiune Sugihara.

di Giulia Pompili

Con quei 2.139 visti firmati durante i ventinove giorni più difficili della sua missione rischiò la vita e la carriera. Nel 1968 Nishri convocò Sugihara, si abbracciarono. "Vorrei che mio figlio studiasse in Israele", chiese. Il film "Persona non grata " è stato diretto dal regista nippo-americano Cellin Gluck e prodotto dalla Nippon Tv. La storia degli ebrei in Giappone ha le sue radici a Kobe. Lì arrivava chi scappava dalla Polonia e dalla Lituania.

"Non ho mai dimenticato quello che hai fatto. Finalmente ti ho trovato", disse Yoshua Nishri a Chiune Sugihara nel 1968, dopo averlo incontrato per la seconda volta nella sua vita. Si abbracciarono. Secondo i racconti, che ormai si confondono con la leggenda e il mito, Nishri aveva scelto di farsi assegnare come attaché economico dell'ambasciata israeliana in Giappone soltanto per poter ritrovare Sugihara. In tasca aveva ancora il visto di immigrazione firmato da Sugihara, quello che gli salvò la vita quando era un giovane ebreo polacco. Fu grazie a quel secondo incontro, a quell'abbraccio, che la storia del console giapponese in Lituania, Chiune Sugihara, tornò sui giornali e portò alla rivalutazione della sua persona - fino ad allora dimenticata.
 
L'attore giapponese Toshiaki Karasawa fa la parte di Chiune Sugihara nel film
  Oggi lo chiamano lo Schindler giapponese. Grazie ai 2.139 visti firmati da Sugihara durante i venti nove giorni più difficili della sua carriera al consolato in Lituania - tra il 31 luglio e il 28 agosto del 1940 - ha salvato più di seimila ebrei (dai quali si calcolano più di quarantamila discendenti) rischiando la sua vita, la vita della sua famiglia e soprattutto sacrificando la carriera.
  Una mattina del 1968 qualcuno telefonò a casa Sugihara dall'ambasciata israeliana di Tokyo. C'è qualcuno che vuole incontrarvi, disse la persona dall'altro capo del telefono. Dal 1947 la famiglia viveva a Fujisawa, nella prefettura di Kanagawa, e non era stato facile trovarli. A quel tempo l'ormai ex diplomatico lavorava per una ditta giapponese che esportava in Russia, e non aveva la minima idea della sorte delle persone a cui aveva consegnato i visti - Sugihara sapeva che i visti erano tecnicamente illegali: il Giappone, benché fosse alleato della Germania nazista, non aveva a cuore la causa antisemita, anzi. Il problema del Giappone del 1940, esattamente come quello di oggi, era piuttosto una mera questione d'immigrazione. Per vivere su territorio nipponico bisognava avere un sufficiente ammontare di soldi, e gli ebrei che scappavano dalla Polonia e dalla Lituania non ne avevano. La guerra era ormai alle porte, e gli ebrei polacchi e i lituani che scappavano dalle loro case iniziarono a formare delle lunghe code fuori al consolato dove lavorava Sugihara. Il console domandò al ministero di Tokyo come avrebbe dovuto comportarsi. Lo domandò più volte. La risposta fu sempre la stessa: se non hanno denaro sufficiente, non possono entrare. Ma questo non lo fermò. Secondo quanto raccontato dalla moglie, Sugihara ogni giorno, per tutti quei ventinove giorni, firmò lo stesso numero di visti di transito che si facevano in un mese. Ogni tanto sua moglie gli massaggiava la mano dolente. Quando il governo di Tokyo gli chiese di chiudere il consolato - la guerra ormai era iniziata - e di tornare in Giappone, portò la sua famiglia alla stazione, e fin sopra il treno continuò a firmare visti, alcuni in bianco, lanciandoli dal finestrino. Sugihara fu fatto fuori dal corpo diplomatico giapponese nel 1947.
  Nel 1968 Nishri convocò Sugihara in ambasciata, si riconobbero, e si abbracciarono. Quando chiese a Sugihara cosa avrebbe potuto fare per lui, per sdebitarsi, Sugihara indicò il figlio più piccolo, Nobuki: "Vorrei che studiasse in un'università israeliana". La settimana successiva, Nobuki riceveva una borsa di studio e i biglietti aerei per Tel Aviv. Nel 1970 tutta la famiglia andò in visita in Israele, accolta dal governo.
  La storia di Sugihara oggi è nota in Israele, in Giappone, e tra la comunità ebraica di Lituania e Polonia. Meno nel resto del mondo. Il mese scorso a Netanya, capitale della pianura costiera di Sharon, c'è stata una cerimonia pubblica per celebrare i trent'anni dalla morte dell'eroe giapponese, e per inaugurare una strada dedicata a Sugihara san - detto Sempo -, come lo chiamano ancora oggi gli israeliani, perché quando arrivò nell'allora capitale della Lituania, a Kaunas, nel marzo del 1939 per aprire il consolato giapponese, nessuno riusciva a pronunciare il suo nome di battesimo. Alla cerimonia del mese scorso ha partecipato suo figlio Nobuki, che oggi ha 67 anni e parla fluentemente l'ebraico, avendo vissuto gran parte della sua vita tra Israele e il Belgio. La città di Netanya è quella più legata a Sempo: quasi tutte le famiglie aiutate dal console nipponico, dopo aver attraversato il Giappone con i visti di transito, si ritrovarono lì. Nel 1985 l'Ente israeliano per la Memoria della Shoah lo insignì del riconoscimento di Giusto tra le nazioni, unico giapponese ad avere il suo nome inciso nel Giardino dei Giusti del museo Yad Vashem di Gerusalemme. L'anno successivo, Sugihara mori, lasciando a sua moglie e ai suoi figli l'onere di raccontare la sua storia. Il mese scorso Nobuki ha partecipato a un tour in Israele per assicurarsi l'appoggio di Tel Aviv per un piccolo monumento dedicato a suo padre a Fujisawa. In quell'occasione è stato accompagnato dai rappresentanti della sezione asiatica dell'associazione israeliana StandWithUs. Il 29 giugno scorso sul Jerusalem Post Gilad Kabilo, direttore di StandWithUs Asia, ha scritto: "Purtroppo, la storia di Sugihara rimane ancora oggi ampiamente sconosciuta. Non badiamo a spese quando si tratta di insegnare le storie sull'Olocausto, eppure un diplomato di scuola superiore israeliano difficilmente conosce il nome di Sugihara. Questo è il prodotto del modo eurocentrico di insegnare la storia ai nostri figli, e rappresenta un'occasione mancata per dare ai giovani israeliani una visione più ampia del mondo. E' una lezione importante quella di una persona che ha seguito la sua coscienza e ha fatto ciò che era giusto in una circostanza impossibile. Inoltre, la memoria di Sugihara è un potenziale ponte per i rapporti con il popolo giapponese, che hanno bisogno di vedere dei punti di luce nel buio della Seconda guerra mondiale".
  A raccontare i dettagli della vita di Sempo è stata per prima la moglie, Yukiko Sugihara, nel libro del 1995 "Visas for Life" (mai tradotto in italiano). Poi ci furono alcuni documentari, e un famoso dramma prodotto dalla televisione Yomiuri andato in onda nel 2005.
  Nell'ottobre 2015 è stato proiettato in anteprima mondiale a Kaunas, in Lituania, il film "Persona non grata", diretto dal regista nippoamericano Cellin Gluck e prodotto dalla Nippon Tv. In Giappone è uscito al cinema il5 dicembre del 2015, e nel primo weekend ha realizzato 1,2 milioni di dollari di incassi. Il premier giapponese Shinzo Abe è andato a vederlo durante le vacanze dell'ultimo Capodanno. In una lunga intervista a Vice del 30 gennaio del 2015, Gluck ha detto di essere stato "commosso dal fatto che Sugihara abbia fatto tutto di sua spontanea volontà e senza alcun compenso, salvo che per la sua stessa coscienza. Non ha salvato nessuno per diventare o dimostrare a se stesso di essere un eroe, ha soltanto fatto tutto quello che poteva e che sentiva fosse giusto per il suo prossimo". Nel film il personaggio di Sugihara è interpretato dall'attore giapponese Toshiaki Karasawa, e il racconto inizia negli anni subito precedenti al trasferimento in Lituania. La pellicola - che secondo il figlio Nobuki è stata "molto romanzata" - riesce a far emergere anche i personaggi secondari (il console giapponese di Vladivostok, la console olandese in Lituania) come ingranaggi di una catena di salvatori, in grado di supportare la scelta di Sugihara (sempre considerando che per la cultura giapponese non eseguire un ordine è molto, molto difficile). Il titolo prende le mosse dal provvedimento preso contro di lui dal governo sovietico: nel 1924 Sugihara era stato assegnato in Manciuria, ma il governo giapponese voleva usarlo per strappare ai russi il controllo di una ferrovia. Mosca lo dichiarò "persona non grata" per spionaggio, e Sugihara, che conosceva molto bene la lingua e la cultura russa e sognava di diventare ambasciatore giapponese a Mosca, perse per sempre le speranze. Secondo Gluck l'esperienza con la sua amata Russia "lo aiutò a capire come si sentivano gli ebrei, cacciati da ogni posto". Il film "Persona non grata" non è stato ancora distribuito nelle sale europee ma mercoledì scorso è stato proiettato per la prima volta in Italia (la terza proiezione in Europa) all'isola del Cinema di Roma grazie all'Istituto giapponese di cultura e al lavoro di selezione delle pellicole di Joana De Freitas Ginori per il Festival Isola Mondo - uno degli ormai pochissimi appuntamenti romani estivi per vedere film che difficilmente trovano distribuzione, in lingua originale con sottotitoli in italiano.
  Masha Leon, columnist di origini polacche che da anni lavora per il giornale yiddish newyorchese Forward, nel 1940 ricevette il visto n. #1881 dalle mani di Sugihara. Nel febbraio scorso ha incontrato Cellin Gluck, e insieme hanno parlato della figura dell'uomo che in qualche modo ha cambiato la vita a entrambi. Leon racconta di essere stata crescita a Kobe, in Giappone, esattamente come Cellin Gluck. A Kobe negli anni Quaranta si trovava la più grande comunità di ebrei di origini europee, riconosciuta dal governo, che aveva costruito anche due sinagoghe. Prima che il germe dell'antisemitismo - ma più che altro del fastidio nei confronti degli immigrati - si diffondesse in Giappone, la società nipponica aveva fatto di tutto per accogliere favorevolmente gli ebrei (nel 1979 il rabbino Marvin Tokayer pubblicò il libro "The Fugu Pian", l'incredibile vicenda del gruppo di funzionari giapponesi che intorno al 1930 decise di creare una zona franca e protetta per gli ebrei nella Manciuria occupata dall'Impero giapponese, allo scopo di farsi aiutare nella tecnologia e nell'ingegneria. In "The Fugu Pian" si parla anche del periodo in Manciuria di Sugihara. Secondo Tokayer, gran parte del favore dei giapponesi nei confronti degli ebrei deriva dalla figura di Jacob Schiff, il banchiere che concesse il prestito alla Banca centrale giapponese per condurre - e vincere -la guerra con la Russia nel 1904). Tra gli anni Trenta e i Quaranta, gli ebrei europei, soprattutto dalla Polonia e dalla Lituania, arrivavano in Giappone attraverso Vladivostok, poi in nave fino al porto di Tsuruga: da lì altri centocinquanta chilometri per Kobe. Quando nell'estate del 1941 la Germania dichiarò guerra alla Russia, il Giappone decise di non poter più accogliere ebrei, e molti di quelli che avevano trovato salvezza a Kobe furono trasferiti a Shanghai.
  Masha Leon racconta nell'intervista con Cellin Gluck che nel 1994 venne invitata a Yaotsu, la città natale di Sugihara, nella prefettura di Gifu, per una commemorazione dell'eroe cittadino. In quell'occasione Walter Mondale, allora ambasciatore giapponese negli Stati Uniti, disse che "Sugihara non era Schindler. Schindler fece lavorare gli ebrei come schiavi prima che il suo cuore gli fece cambiare idea. Sugihara, al contrario, rischiò la sua carriera e tutto per farli scappare, senza la promessa di alcun riconoscimento". Oltre a un memoriale a Tel Aviv, anche nella Little Tokyo di Los Angeles c'è una statua di Sempo Sugihara, ritratto seduto su una sedia mentre tiene in mano la carta per i visti. Quando gli chiedevano perché avesse firmato tutti quei visti, Sugihara rispondeva: "Erano esseri umani, e avevano bisogno di aiuto. Potevo disobbedire al mio governo, ma non potevo disobbedire a Dio". Sugihara era un cristiano ortodosso, si era convertito durante il suo periodo in Manciuria. Oggi la sua storia viene raccontata per mostrare come la decisione, la scelta di un solo uomo, può cambiare la vita di molti.

(Il Foglio, 9 luglio 2016)


Prisoners of wars: foto, video e cose da sapere

Arriva in Italia la serie cult israeliana che ha ispirato Homeland e ottenuto il plauso di Stephen King

di Eugenio Spagnuolo

 
Chi l'ha detto che d'estate la bella tv va in vacanza? Dal 13 luglio su Infinity sarà disponibile in streaming Prisoners of War, serie pluripremiata che ha ispirato Homeland, l'adattamento americano vincitore di numerosi Emmy e Golden Globe. La serie narra le vicende di due soldati israeliani che tornano alla normalità dopo 17 anni di prigionia.

Che cosa vedremo
Dopo anni di trattative serrate per ottenere la loro libertà, due soldati israeliani tornano a casa vivi, ma un terzo commilitone non ce la fa. Una lunga inchiesta prova a far luce sulle sull'intera vicenda e sui racconti discrepanti forniti da prigionieri, dopo il rientro in patria. Prisoners of Wars affronta una serie di questioni drammaticamente attuali ed esplora il processo di reintegrazione dei militari nella società israeliana.

Gli autori
Il deus ex machina è il regista, sceneggiatore e produttore Gideon Raff, che ha scritto la serie nel 2009, al ritorno in Israele dopo un periodo passato negli Usa, dove si è fatto le ossa come aiuto-regista di Mr e Ms Smith.

Da sapere
Prisoners of Wars, il cui titolo israeliano è Hatufim, è stata in assoluto la serie tv più vista in Israele, con picchi di share del 47%, nel finale di stagione. È anche la prima serie tv in lingua ebraica che arriva in Italia. La buona notizia è che non bisognerà attendere un anno per la seconda stagione, che sarà disponibile su Infinity dal prossimo settembre 2016.

Accoglienza
Stephen King ha incluso Hatufim nella classifica dei suoi 10 programmi televisivi preferiti del 2012.

(Panorama, 9 luglio 2016)


Oltre le barriere da Israele con amore

Usciamo dall'Italia per fermarci in uno stato in cui i giovani e la cultura prendono posizione per un rimodernamento della società, Israele: qui i festival pullulano, a testimoniare la vivacità e l'energia di idee nuove, di unione e superamento delle barriere religiose. C'è il Gerusalem Film Festival dal 7 al 17 luglio quasi contemporaneo al Telaviv Blues Festival (13-16 luglio, kvish61.org/). Ancora in tema di cartoon, sempre nell'internazionalità che caratterizza Israele, a Tel Aviv dal 2 all'8 agosto la XVI edizione del festival di fumetti, animazione e caricature dal titolo «Cinemateque Tel Aviv». Alla ricerca di mete alternative e di Festival internazionali non si può mancare lo «Sziget Festival», sul'omonima isoletta sul Danubio a Budapest: è un appuntamento multitematico che presenta mille spettacoli su 60 palchi diversi.

(il Giornale, 9 luglio 2016)


Grazie alla tecnologia israeliana, Salento in primo piano per la produzione di insalate

Venti tonnellate a settimana per i mercati europei.

Lattuga iceberg con marchio "Jentu"
Coldiretti Lecce accende il riflettori su Guagnano, dove ha sede l'unico stabilimento in grado di produrre insalata iceberg tutto l'anno, grazie a delle innovative tecniche sperimentate in Israele e trasferite nel Salento. Nelle strutture salentine dell'azienda "Agronomia" la coltivazione diretta e il processo di trasformazione vengono eseguiti in loco garantendo tracciabilità e filiera corta e una produzione settimanale di circa 20 tonnellate.
L'iceberg è una delle insalate che si trovano più spesso in commercio, nei panini del MacDonald's ad esempio, o in qualsiasi pub. Alcuni Paesi che si contraddistinguono per le elevate temperature estive, come ad esempio l'Italia, sono costretti a rifornirsi dai mercati esteri. A dispetto dei limiti climatici Agronomia, azienda con sede a Bergamo che ha deciso di investire nel Salento, riesce oggi a produrre in Italia lattuga iceberg per 12 mesi l'anno con marchio "Jentu". Evitando così il classico fenomeno del tip burn, ossia la vera e propria bruciatura dell'apice fogliare.
"La sperimentazione del know how israeliano nelle coltivazioni leccesi va avanti con grande successo dal 2014," spiega Stefano Zanini, responsabile per le coltivazioni. "Per ottenere un cuore di iceberg croccante viene prestata una particolare attenzione alla data esatta di maturazione e raccolta - continua - Per contrastare le alte temperature, l'irrigazione viene effettuata con meno acqua ma più volte al dì in modo da ottenere una temperatura mite costante".
"Per raggiungere questo importante risultato agronomico ci siamo avvalsi di competenze portate dall'estero, tra cui know-how dagli Usa, trasferito attraverso la nostra sede per il Technology transfer attiva da alcuni anni in Israele", aggiunge Guglielmo Baggi, senior agronomist di Agronomia.
Il segreto dell'iceberg Salento - osservano da Coldiretti Lecce - è la posizione strategica di Guagnano: la presenza dei due mari crea una falda acquifera più salina dando un gusto totalmente diverso a questo tipo di insalata, più saporito e particolare. Il micro clima che si viene a creare è rarissimo da trovare, in Italia esistono solo altri due paesi con queste caratteristiche, Pachino in provincia di Siracusa e Cavallino nel Veneto e oggi grazie a queste sperimentazioni anche il Salento è uno dei luoghi privilegiati per la produzione di questo tipo di insalata.

(Manduria Oggi, 8 luglio 2016)


Congresso USA contro la contro la vendita di velivoli all'Iran

WASHINGTON - Il Congresso degli Stati Uniti ha votato a favore di due emendamenti che potrebbero bloccare la vendita di velivoli all'Iran, rischiando di far saltare l'accordo da 25 miliardi di dollari annunciato nelle scorse settimane dalla società statunitense Boeing. Le modifiche interessano un disegno di legge sugli stanziamenti presentato dal deputato del Partito repubblicano Peter Roskam che vieterebbe sia a Boeing che al rivale europeo Airbus, che vede gran parte delle componenti prodotte negli Stati Uniti, di vendere velivoli a Teheran nel timore che essi possano essere utilizzati a scopi militari. Uno dei due emendamenti al disegno di legge vieta all'Ufficio per il controllo delle attività all'estero di utilizzare i suoi fondi per autorizzare la licenza necessaria per consentire la vendita di aerei all'Iran.

(Agenzia Nova, 8 luglio 2016)


Le quattro curiosità che non sapevi sulla Sinagoga di Modena

La Sinagoga di Modena è uno degli edifici più interessanti sia dal punto di vista artistico che storico, capace di raccontare la storia di un popolo e di una comunità presente in città fin dal XIV secolo.

di Francesco Folloni

 
La Sinaagoga di Modena
La Sinagoga di Modena è uno degli edifici più interessanti sia dal punto di vista artistico che storico, capace di raccontare la storia di un popolo e di una comunità presente in città fin dal XIV secolo. Ecco le 4 curiosità che non sapevi sul tempio israelitico di Modena:

 Il ghetto a Modena arrivo' gia' nel '600
  Quando si parla di Ghetto degli ebrei, molti pensano subito alle politiche messe in campo dai nazional-socialisti, tuttavia la ghetizzazione degli ebrei iniziò molti secoli prima. Infatti già nel 1638 il duca Francesco I d'Este creò un'area delimitata all'interno delle mura di Modena nella quale vivevano esclusivamente gli ebrei. Il quartiere, dal quale gli Ebrei non potevano uscire durante le ore notturne, era chiuso con due cancelli in via Blasia e in via Coltellini, e la sinagoga sorgeva al centro di quest'area.

 Gli alberi in Piazza Mazzini non furono posti a caso
  Una volta che fu aperta Piazza Mazzini, la Sinagoga cambia facciata, in quanto in precedenza si trovava sul lato di Via Coltellini. Non solo, infatti inizia ad occupare una posizione centralissima, a poche decine di metri dal Palazzo Comunale, dal Duomo e dalla Ghirlandina. In epoca fascista la facciata fu parzialmente nascosta dalle chiome degli alberi piantati nella piazza.

 Stile eclettico
  L'architettura e le decorazioni della sinagoga, sono esemplari di uno stile ben lontano da quello istituzionale dei tempi israelitici. Infatti, essa è una commistione di neoclassicismo, neorinascimento e stili esotici. Questa commistione, unita alla capacità delle immagini e dei colori di "uscire" dalle pareti, ne hanno fatto un edificio in perfetto stile eclettico, uno dei più contemporanei.

 Oggetto di vandalismo
  Questa curiosità è più disonorevole delle precedenti, in quanto la Sinagoga di Modena è stata oggetto di atti di vandalismo, sia negli anni 20 e 30, ma anche nel 2003 quando durante la notte tra l'11 e il 12 Dicembre, fu teatro di una violenta esplosione. Si pensò subito fosse stato un attentato suicida di matrice islamica, in realtà la vittima, Al Khatib Muhannad Shafiq Ahma, lasciatosi esplodere a bordo della sua macchina, sulla quale aveva caricato bombole di gas, era un personaggio scarsamente inserito nella locale comunità islamica, affetto da depressione e varie psicosi, per le quali era sottoposto a dosi massicce di psicofarmaci.

(Modena Today, 8 luglio 2016)


Romania: Elie Wiesel e il destino degli ebrei romeni

di Ida Valicenti

Il presidente della Romania Klaus Iohannis ha trasmesso, domenica, un messaggio di condoglianze per la scomparsa del Premio Nobel per la Pace, Elie Wiesel. Uno dei più grandi spiriti del '900 che si è opposto alla tirannia, mobilitandosi per gli sfavoriti e gli oppressi. La Romania onorerà la sua memoria con grande rispetto, inchinandosi alla perdita di una delle voci più forti della comunità storica degli ebrei di Romania.
Elie Wiesel nasce nel 1928 a Sighet, nella regione della Transilvania, in Romania, da Sarah Feig e Shlomo Wiesel, che gli impartirono l'interesse per la letteratura e la Torah. Con il diktat di Vienna del 1940, la Romania perse parte della Transilvania a favore dell'Ungheria. Il 6 maggio 1944, le autorità ungheresi diedero l'autorizzazione all'esercito tedesco di effettuare la deportazione degli ebrei di Sighet ad Auschwitz-Birkenau. Elie aveva 16 anni quando fu liberato dal campo di concentramento, qualche giorno prima aveva visto suo padre morire davanti ai suoi occhi

 Gli ebrei di Romania
  A partire dal XVIII secolo, gli ebrei della Galizia austriaca e gli ebrei russi iniziarono ad emigrare verso le terre fertili e libere della Romania. Nel 1830, in Moldavia e in Valacchia gli ebrei costituivano il 3,6 per cento della popolazione totale. Tuttavia sino al 1866 la Costituzione del recente Stato di Romania esplicitava all'articolo 7 che solo gli stranieri di religione cristiana avrebbero potuto acquisire lo status di romeni e in tal modo godere dei pieni diritti civili e politici. Grazie alle pressioni delle potenze occidentali, nel 1879 il Parlamento emendò l'articolo 7, permettendo a tutti gli stranieri, a prescindere dal credo, di ottenere la naturalizzazione. Gli ebrei entrarono a tutti gli effetti nella vita economica e politica della società romena, contribuendo alla sua crescita. Il numero degli ebrei in Romania crebbe costantemente, nel 1912 la comunità ebraica contava 240mila persone.
Dopo la Prima guerra mondiale essi contribuirono al riassesto politico-istituzionale della nazione. Il Partito ebraico di Romania, fondato nel 1931, riuscì ad inviare cinque rappresentanti al Parlamento, dopo il successo alle elezioni del 1932. Tuttavia, proprio in quelle stesse elezioni la Guardia di Ferro, apertamente antisemita, dimostrò di essere ormai diventato un movimento di massa.
Con il diktat di Vienna del 1940 il dittatore Antonescu accettò la deportazione degli ebrei di Bessarabia e Moldavia verso la Transnistria, mentre gli ebrei di Transilvania, riconquistata dall'Ungheria, vennero deportati in Polonia. Gli ebrei romeni deportati furono 120mila. Solo in Transnistria vennero uccisi 115mila ebrei deportati.
Gli scampati alle deportazioni iniziarono a militare nel Partito Comunista, molti di loro si formarono a Mosca. È il caso di Ana Pauker, una delle fondatrici del PCR. Tuttavia l'élite comunista romena guidata da Gheorge-Dej, mise in funzione un apparato di sicurezza e repressione senza precedenti, epurando il Partito della dirigenza ebraica.
La nazionalizzazione delle industrie, delle banche, delle scuole colpì la comunità ebraica nelle sue fondamenta. Molti ebrei scampati all'Olocausto non fecero più ritorno in Romania. La nascita dello Stato di Israele, nel 1948, fornì un ulteriore incentivo all'emigrazione di massa, di chi era rimasto. Ceau?escu usò gli ebrei come merce di scambio, li vendette allo Stato di Israele. Dollari in cambio di ebrei.
Nel 1977 la comunità ebraica contava 25.000 persone, nel 1992 si annoveravano appena 9.000 aderenti.

 Elie Wiesel e la Romania
  L'Istituto Nazionale per gli Studi dell'Olocausto di Romania porta il suo nome. Nel 2002 Wiesel è stato decorato dell'Ordinul Steaua României, nel grado di Grande Ufficiale, dall'allora Presidente, Ion Iliescu. Lo scrittore restituì la Medaglia d'Oro nel 2004, dopo che questa venne ricevuta da Corneliu Vladim Tudor e Gheorghe Buzatu, sostenendo che i due erano noti antisemiti e negazionisti dell'Olocausto.

(East Journal, 8 luglio 2016)


Gli insegnamenti del Rebbe

ROMA - "I chachamim [saggi] vedono le grandi guide del popolo ebraico come dei pastori, capaci di occuparsi di qualunque esigenza e qualunque questione, ed è la massima carica che si possa avere. E questo era il Rebbe, un vero pastore di Israele". Così lo ha ricordato il rav Shalom Ber Hazan, rabbino della comunità Chabad di Roma, nel corso di una serata svoltasi ieri all'Hotel Quirinale di Roma in memoria di Menachem Mendel Schneerson, settimo e ultimo Rebbe del movimento Chabad-Lubavitch, nell'anniversario dalla sua scomparsa avvenuta nella data ebraica del 3 tammuz di 22 anni fa. A partecipare al limmud, anche gli shlichim Chabad Yitzhak Hazan e Ronnie Canarutto, il preside della Scuola ebraica di Roma Benedetto Carucci Viterbi, e il professor Gavriel Levy.
   La serata è stata anche l'occasione per ricordare un'altra importante figura dell'ebraismo contemporaneo recentemente scomparsa, il Testimone della Shoah e premio Nobel per la Pace Elie Wiesel. Il rav Yitzchak Hazan ha ricordato la sua vicinanza con il Rebbe, grazie a un incontro avvenuto negli anni Sessanta da lui stesso raccontato nelle sue opere, con il quale Wiesel riuscì a superare molti dei traumi riguardanti il suo rapporto con la religione all'indomani della Shoah. "Nel Rebbe Elie Wiesel trovò una guida spirituale e quando si rivolse a lui pieno di rabbia nei confronti di Dio per quanto aveva dovuto subire, egli gli rispose che abbandonare la propria fede e la propria osservanza della religione sarebbe stato come far vincere i nazisti", ha raccontato Hazan. "E questo è proprio un esempio di quello che era il modo di intendere la religione del Rebbe - ha spiegato - il quale a tutto cercava sempre di dare una risposta positiva e costruttiva". Una visione, ha aggiunto il rav Canarutto, ben sintetizzata da un dialogo tra Wiesel e il Rebbe: "Come si fa a credere in Dio dopo la Shoah?, gli chiese il Testimone. Come si fa a non credere in Dio dopo la Shoah?, gli chiese di rimando il rabbino".
   Il rav Carucci Vitebi ha quindi proposto una sichah, un discorso, del Rebbe, riguardante la parashah di Shelah, letta lo scorso venerdì, nella quale si racconta degli esploratori che furono mandati in Terra di Israele prima che il popolo vi entrasse. Mettendo in evidenza la dimensione sovrannaturale del deserto, dove gli ebrei vivevano una vita completamente spirituale anche nelle questioni materiali - come il cibo, l'acqua, le abitazioni e i vestiti, tutti oggetto di miracoli da parte di Dio - e viceversa quella terrena della Terra di Israele, dove gli ebrei avrebbero dovuto dedicarsi anche alla materialità, il Rebbe, ha sottolineato Carucci Viterbi, "afferma che anche noi nella vita quotidiana dobbiamo avere sia momenti di midbar, deserto, sia momenti di Eretz Israel. Il midbar è quando preghiamo e quando studiamo, mentre Eretz Israel è quando lavoriamo ed entriamo nella materialità. Il nostro compito - le sue parole - è di mettere insieme queste due dimensioni" A riportare una lezione del Rebbe anche il professor Levy, che si è invece concentrato sul commento alla parashah di questa settimana, quella di Korach. Anche lui, come Hazan, ha messo in evidenza la capacità del Rebbe di vedere sempre elementi di positività anche a fronte delle più grandi difficoltà, riuscendo sempre a trasmettere questo spirito con grande emotività. "In una delle sue interpretazioni il Rebbe sottolinea come il vero senso di commettere una averah, una trasgressione, sia nel fatto che poi si può fare una teshuvah, esprimere il proprio pentimento, in modo particolarmente sentito, poiché il dolore di aver trasgredito imprime forza alla preghiera. Questa lezione ci dimostra - ha quindi concluso - che anche nelle cose più negative ci può sempre essere qualcosa di positivo".

(moked, 8 luglio 2016)


Gaza: arrivati altri 50 camion di aiuti turchi

Una cinquantina di camion con a bordo circa 2 mila tonnellate di aiuti umanitari inviati dalla Turchia sono arrivati a Gaza. Lo scrive l'agenzia statale turca Anadolu, citando fonti locali.
L'ingresso nella Striscia è avvenuto ieri attraverso il valico israeliano di Kerem Shalom. Gli aiuti consistono principalmente in cibo, carburante e vestiti.
Il primo contingente umanitario inviato dalla Turchia era arrivato nella Striscia nella notte tra lunedì e martedì, a una settimana dalla firma dell'accordo di riconciliazione con Israele, 6 anni dopo l'incidente della Mavi Marmara. Nelle prossime settimane, sono attesi a Gaza fino a 400 camion turchi carichi di aiuti.

(swissinfo.ch, 8 luglio 2016)


Una nuova era nelle relazioni Africa-Israele

di Marco Cochi

 
Il presidente del Kenya Uhuru Kenyatta e Benjamin Netanyahu firmano una dichiarazione congiunta sulla cooperazione in materia di acqua e agricoltura
Dopo ventidue anni dal viaggio di Yitzhak Shamir in Marocco, un capo di governo israeliano è tornato in terra d'Africa per consolidare le relazioni diplomatiche e commerciali con il continente. Una visita ufficiale di cinque giorni, svolta tra misure di sicurezza senza precedenti, che ha portato Benjamin Netanyahu in Kenya, Etiopia, Uganda e Ruanda.
Il tour del primo ministro israeliano nei quattro Stati chiave dell'Africa orientale ha assunto anche una forte valenza personale perché ha coinciso con il quarantesimo anniversario dell'Operazione Fulmine, nome in codice, che i militari dell'unità speciale Sayeret Matkal diedero al raid che condusse alla liberazione di 105 passeggeri di un volo Air France, proveniente da Tel Aviv e diretto a Parigi.

 La lunga notte di Entebbe
  Il velivolo con a bordo 248 passeggeri e 12 membri dell'equipaggio venne dirottato il 27 giugno 1976 dopo uno scalo tecnico ad Atene da due terroristi palestinesi e due tedeschi.
Dopo una prima sosta a Bengasi, in Libia, l'Airbus 300 si diresse alla volta di Entebbe, in Uganda, dove al commando dei dirottatori si aggiunsero altri quattro terroristi, che godevano dell'appoggio del governo del sanguinario dittatore Idi Amin Dada, che simpatizzava per la causa palestinese.
Dapprima, Amin era stato sostenuto da Israele, ma le sue relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico degenerarono quando Tel Aviv rifiutò al governo di Kampala la vendita di velivoli di combattimento, che dovevano servire per attaccare la Tanzania.
Alla fine nelle mani dei sequestratori rimasero 105 cittadini israeliani ed ebrei, che insieme all'equipaggio furono rinchiusi nel vecchio terminal dell'aeroporto. Tutti gli ostaggi vennero liberati dalle Forze armate israeliane nella notte tra il 3 luglio ed il 4 luglio, in un blitz guidato dal fratello dell'attuale premier israeliano, il trentenne tenente colonnello Yonatan Netanyahu, che fu l'unico militare a perdere la vita nell'azione.
Il leader israeliano ha quindi voluto onorare la memoria di Yoni, recandosi sul luogo dell'operazione che coprì di gloria l'esercito con la Stella di David e costò la vita al fratello maggiore.

 Know-How in cambio dell'appoggio all'Onu
  La visita di Netanyahu è stata organizzata con l'obiettivo di inaugurare una nuova era che consenta a Israele di fornire il proprio know-how ai Paesi africani, soprattutto nell'ambito della sicurezza, in cambio del sostegno che potrebbe risultare decisivo negli organismi internazionali.
Specialmente nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu dove i palestinesi da tempo tentano, senza successo, di ottenere i consensi necessari per andare a una votazione dei 15 membri per il riconoscimento dell'indipendenza del loro Stato.
Prima di partire per il tour africano, Netanyahu aveva dichiarato che il suo viaggio disegna "cambiamenti epocali" nel rapporto tra Israele e l'Africa, che risale alle origini dello Stato ebraico, quando alcune nazioni africane furono tra le prime al mondo a riconoscere Israele votando a favore del piano di partizione della Palestina elaborato dall'Unscop.
Subito dopo Tel Aviv strinse ottimi rapporti di collaborazione con gran parte dei Paesi africani, che nella prima metà degli anni sessanta portarono Israele ad aprire missioni diplomatiche permanenti in 32 Stati africani.
Poi, negli anni settanta, la guerra dello Yom Kippur e l'affermarsi della contrapposizione tra i due blocchi produssero un forte peggioramento dei rapporti tra i due attori regionali.
Ciononostante, Tel Aviv mantenne un'ottima collaborazione, in particolar modo nei settori militare e nucleare, con il Sudafrica del regime dell'apartheid, mentre l'ANC di Mandela stringeva rapporti con l'OLP di Yasser Arafat.
In seguito, sul finire degli anni ottanta, nonostante il parere contrario di diversi esponenti politici, il governo israeliano assunse una posizione sempre più critica verso il regime sudafricano diminuendo i contatti con Pretoria.

 Una paziente opera di riavvicinamento
  Il tour appena concluso corona un'opera di riavvicinamento, già avviata negli anni scorsi dall'attuale ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, che in veste di ministro degli Esteri aveva visitato il continente nell'autunno del 2009 e nell'estate del 2014.
A loro volta, decine di dignitari africani hanno visitato Israele negli ultimi anni. Gli ultimi in ordine di tempo, il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, recatosi a Tel Aviv lo scorso febbraio, mentre il mese passato è stata la volta della presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf.
Solide premesse che la settimana scorsa hanno consentito al governo israeliano di approvare l'apertura, nei quattro Paesi visitati da Netanyahu, degli uffici dell'Agenzia di Israele per lo sviluppo internazionale.
Un ricongiungimento diplomatico sostenuto anche a livello finanziario dal lancio di un pacchetto di aiuti da 13 milioni di dollari che servirà a rafforzare i legami economici e la cooperazione, ad ogni livello, tra Israele e l'Africa.

(eastonline, 8 luglio 2016)


Azienda israeliana crea tessuto antibatterico

La macchina che produce NanoTextile, il tessuto antibatterico
L'azienda israeliana Nano Textile ha inventato una tecnologia in grado di rendere qualsiasi tessuto un "killer di batteri". La tecnologia impedisce la crescita di batteri su fibre naturali e sintetiche, che aiuta a prevenire la diffusione delle infezioni contratte in ospedale, riducendo la contaminazione incrociata tra personale medico e pazienti.
Sviluppata dal Prof. Aharon Gedanken del Dipartimento di Chimica presso l'Università di Bar Ilan e finanziato da circa 17 milioni di dollari dal programma FP7 dell'Unione Europea, la tecnologia funziona grazie all'integrazione nel tessuto di nanoparticelle di ossido di zinco, che ha proprietà antibatteriche e che è anche in grado di sradicare i batteri resistenti agli antibiotici.
Le nanoparticelle vengono create all'interno di una soluzione e trasferite sul tessuto tramite una reazione chimica. Il processo è conveniente perché cambia l'aspetto al tessuto e ne consente una resistenza maggiore fino a 65 cicli di lavaggio a 92 gradi e fino a 100 cicli di lavaggio a 75 gradi - standard molto più alti rispetto a quelli che vengono richiesti nelle strutture ospedaliere.
Brevettata sia negli Stati Uniti che in Israele, la tecnologia è ancora in attesa di approvazione in Asia e in Europa.
Come sottolinea il Prof. Aharon Gedanken:
I principali vantaggi della tecnologia, è che si possono applicare proprietà antibatteriche per qualsiasi tipo di tessuto senza alterarne i colori.
In un ambiente ospedaliero, per esempio, la tecnologia può essere utilizzata per l'inserimento di caratteristiche antibatteriche alle divise del personale, pigiami dei pazienti, lenzuola, coperte e tende, al fine di ridurre in modo significativo la contaminazione e parallelamente ridurre i costi di ospedalizzazione.
Il potenziale di questa tecnologia antibatterica va ben al di là delle applicazioni mediche, in quanto potrà essere utile anche per una varietà di settori, come aerei, treni e auto di lusso, abbigliamento per bambini, abbigliamento sportivo, ristoranti e alberghi.

(SiliconWadi, 8 luglio 2016)


Cibi kosher contro le intolleranze

La qualità dei prodotti e il confezionamento seguono regole ferree. Tutta la filiera è tracciata. Ora un'app ci aiuta a sceglierli.

di Caterina e Giorgio Calabrese

Le intolleranze alimentari sono oramai così diffuse che sembra impossibile difendersi, se non con regimi alimentari che prevedano l'esclusione di alimenti che causano intolleranze. Per difendersi da queste, sta emergendo una nuova scelta alimentare: consumare i cibi kosher, cioè quelli consentiti nell'alimentazione degli ebrei osservanti.
Tutta la normativa sul cibo è detta kasherut. Per seguire queste regole si compra cibo in negozi specializzati, con marchi specifici. Sono considerati impuri crostacei e molluschi, specie quelli che filtrano e trattengono le impurità delle acque. Sono taref (proibiti) anche equini, suini, scimmie, rettili e insetti, molte di queste specie si nutrono anche di carcasse animali, che potrebbero essere veicoli di batteri. Il rabbino controlla che ogni bestia da macellare sia sana, con i polmoni integri e che non abbia ferite. Ciò aggiunge garanzia per la salute.
In passato, all'epoca delle peste, per evitare il contagio i più abbienti acquistavano i cibi kosher, a prescindere dalla religione. Uno dei punti di forza è la tracciabilità che interessa un pubblico ben più vasto del circa 24 mila ebrei che vivono in Italia (dato Ucei) e poiché gli ebrei non possono mescolare carne e latte, controllano non solo il prodotto finito ma tutta la filiera. La doppia certificazione kosher parve, la si attribuisce a quei cibi che non contengono né came né latte, è una garanzia, ad esempio, per vegani e vegetariani perché implica la totale assenza di carne, di latticini e delle proteine che li compongono.

 La "dieta biblica"
  Il marchio che garantisce i celiaci è kosher passover. Chi deve evitare i lieviti ricorre a pane azzimo, biscotti e tortini e prodotti da forno col marchio kasher le Pesach. Al nuovo (per noi) regime alimentare è stato dato un nome appropriato battezzandolo: "dieta biblica" e promette di annoverare un buon numero di seguaci. L'esercito può comprendere anche musulmani, induisti e avventisti del settimo giorno, con alcuni tabù alimentari simili alla religione ebraica, fra tutte la più restrittiva.
Ma il core business del kosher non è la salvezza dell'anima, bensì il desiderio di trovare cibi maggiormente controllati. La novità è che a fine giugno Il ministero dello Sviluppo Economico ha lanciato anche l'applicazione con l'elenco di tutti i prodotti in commercio; l'app permette di vedere la lista di prodotti certificati BOOM di kosher per tablet e smartphone dove verranno elencati tutti i prodotti kosher italiani in commercio con relativa certificazione. Essendo sempre più numerosi i consumatori che si affidano alla dieta ebraica, il ministero dello Sviluppo Economico italiano ha intuito le potenzialità di questo mercato in piena espansione e ha supportato il progetto dell'Unione delle comunità ebraiche italiane che ha creato un ente certificatore nazionale con il marchio K.it, dedicato a tutte le imprese del Paese e utile per chi cerca sugli scaffali dei negozi un prodotto kosher. Tutti i grandi produttori alimentari italiani si stanno facendo certificare per allargare la propria capacità di marketing sia in Italia che all'estero. In America il prodotto kosher vende il 40% in più rispetto a un prodotto non certificato dello stesso prezzo.

(Corriere della Sera - Sette, 8 luglio 2016)


Abu Mazen rifiuta ogni riferimento all'istigazione palestinese alla violenza

Ma i suoi rappresentanti celebrano terroristi spietati ed esortano a "tagliare la gola" agli israeliani.

"Ovunque trovate un israeliano, tagliategli la gola". Lo ha detto lo scorso 27 giugno, in un'intervista al sito di notizie palestinese Donia al-Watan, Sultan Abu al-Einein, consigliere del presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) per le organizzazioni della società civile nonché membro del Comitato Centrale di Fatah, l'organizzazione palestinese che fa capo ad Abu Mazen. Rispondendo una domanda sulla normalizzazione dei rapporti fra i membri del suo gruppo e Israele, Sultan Abu al-Einein ha detto: "Se volete sapere la mia posizione personale, io direi: ovunque trovate un israeliano, tagliategli la gola. Allo stesso modo sono contro i colloqui, i negoziati, gli incontri e la normalizzazione in tutte le sue forme con l'occupazione israeliana".
   Ha commentato su Facebook Yoav Mordechai, coordinatore delle attività governative israeliane nei Territori: "Parole come queste, pronunciate nell'estate 2016 in una regione che ogni giorno si sveglia alla notizia di azioni terroristiche perpetrare letteralmente in questo modo, non si può far finta che siano solo un'esagerazione retorica, per quanto odiosa". Mordechai ha esortato i palestinesi, e in particolare la dirigenza palestinese, a denunciare questi discorsi come si fa con le azioni dello "Stato Islamico" (ISIS).

(israele.net, 8 luglio 2016)


In morte della piccola Hallel Z.L.

di Maurizio Del Maschio

 
Hallel Yaffa Ariel con la madre
Hallel Yaffa Ariel era una bella tredicenne israeliana, accoltellata a morte, in casa sua, nel suo letto, da un giovane terrorista palestinese. Era solo colpevole di abitare a Kyriat Arba nelle vicinanze di Hevron, la città delle sepolture di Abramo, Isacco e Giacobbe a cui gli ebrei sono tanto legati perché sintetizzano gli albori della loro storia. La notizia è passata quasi sotto silenzio e nessuno si è mobilitato al grido Je suis Hallel. La causa? Sempre la stessa: il "colonialismo sionista" che occuperebbe abusivamente le terre dei poveri palestinesi. Soprattutto la sinistra e una frangia minoritaria di formazioni di estrema destra danno ad intendere che il sionismo, cioè il movimento politico internazionale il cui fine è l'affermazione del diritto all'autodeterminazione, all'istituzione e alla legittimazione dello Stato ebraico, sia un fenomeno imperialista e colonialista.
  Per millenni il cristianesimo ha diffuso l'idea antigiudaica secondo la quale gli ebrei sono la personificazione del male assoluto, perché ritenuti responsabili dell'uccisione di Gesù. La motivazione è di carattere religioso, non etnico. Con il progredire delle società laiche, questa odiosa menzogna si è gradualmente affievolita, insieme all'accusa di responsabilità della morte di Gesù addossata a tutti gli ebrei di ogni luogo e di ogni epoca. Il sorgente antisemitismo del XIX secolo, culminato con la concezione del superuomo nazista, ha trasformato gli ebrei in una sottospecie umana per definizione. La versione nazista corrisponde, sotto il profilo etnico, all'accusa di essere il "male assoluto" che il cristianesimo aveva rivolto agli ebrei sotto il profilo religioso.
  Dopo la seconda guerra mondiale è stato il nazismo a diventare il principale simbolo di tutto ciò che è demoniaco. Ma oggi in Occidente (e non solo) si sta diffondendo l'applicazione di questa efinizione di "male assoluto" a Israele. I quattro maggiori fenomeni negativi della storia dell'Occidente nel XIX e XX secolo, cioè il olonialismo, l'imperialismo, il razzismo e il nazismo, sono sovente applicati allo Stato di Israele. Questi quattro attributi nati in Occidente sono stati adottati dagli arabi palestinesi e dai loro sostenitori e fanno parte del bagaglio ideologico della guerra globale contro Israele, demonizzato e stigmatizzato come "Stato nazista, razzista, colonialista e imperialista". Si tratta di un'accusa clamorosamente falsa che mira a delegittimare lo stesso diritto di Israele ad esistere. Negli ambienti intellettuali ed accademici occidentali, dominati da un'ideologia sinistra, il sionismo, di cui Israele è frutto, è considerato espressione dell'imperialismo coloniale ebraico in Medio Oriente. Vi sono studiosi del post-colonialismo che sostengono e diffondono l'idea che gli ebrei si stiano comportando nei confronti degli arabi palestinesi come gli Stati colonialisti europei. Peraltro, vi sono fatti incontrovertibili che provano l'inconsistenza dei pretesi legami tra Israele e il colonialismo europeo di un tempo.
  Innanzi tutto va detto che, mentre non esisteva alcun rapporto fra i Paesi coloniali europei e le terre colonizzate, per gli ebrei il legame con la terra dei padri è indiscutibilmente provato dalla storia, dall'archeologia e dall'ininterrotta presenza ebraica in quella terra da tremila anni. I propagatori di false equivalenze tra sionismo e colonialismo sono smentiti dalla storia. L'attività sionista in Palestina sotto l'Impero Ottomano e sotto il mandato britannico ha avuto una valenza positiva.
  Infatti, il territorio palestinese è migliorato e sono migliorate enormemente le condizioni di vita dei suoi abitanti. Ciò contrasta con le aspirazioni imperiali delle potenze europee dell'epoca, perché la concezione delle colonie sioniste in Israele non ha nulla a che vedere con il colonialismo europeo. Infatti, tutti i progetti coloniali europei si sono realizzati a seguito di un'appropriazione violenta, imponendo ovunque un'opprimente supremazia militare. Il potere politico fece seguito alle vittoriose guerre di conquista. Comportandosi così, i colonialisti-imperialisti europei hanno applicato regole seguite da millenni.
  Il progetto sionista di "colonizzazione" della Palestina si è realizzato in modo affatto differente. Invece di arrivare violentemente con vittorie militari, i sionisti scelsero la soluzione positiva del buon vicinato. Non avevano le attitudini dei conquistatori e se hanno costruito delle difese dei loro insediamenti, lo hanno fatto per sventare gli attacchi di predoni arabi e beduini stanziati sul territorio. Invece, i rapporti con i vicini arabi sedentari erano buoni, grazie alla modernizzazione portata dai sionisti che migliorava la vita di tutti gli indigeni della regione, ebrei ed arabi. A ciò va aggiunto che i sionisti, tramite l'Agenzia Ebraica, non hanno occupato forzatamente e furtivamente le terre che andavano a bonificare, ma le hanno acquistate dai latifondisti siriani che ne erano proprietari, i quali giunsero a vendere terreni desolati, acquitrinosi e malsani come fossero terre fertili e gli ebrei continuavano a comprarli senza protestare per le esose ed ingiuste pretese.
  Pertanto, definire il sionismo una forma di colonialismo è un errore e una grave offesa a Israele. Si tratta di una grande menzogna che fa comodo a chi si augura che nel più breve periodo Israele scompaia dalle carte geografiche. C'è chi si illude che gli Stati Uniti decideranno di abbandonarlo (evento possibile quantunque allo stato attuale poco probabile) o gli ebrei finiranno per ritenere che mantenerlo sia troppo costoso; allora decideranno di abbandonare quella terra per trasferirsi in altri Paesi più sicuri e confortevoli. Una simile evenienza è impossibile, perché il colonialismo è qualcosa che dura solo se è conveniente, mentre le vere nazioni sono durevoli a causa dei legami fra esse e la loro terra. Ciò vale pure per Israele, il cui Stato si fonda su legami di identità connessi al territorio e di solidarietà nazionale che travalicano le generazioni.
  La falsa equivalenza fra sionismo e colonialismo può essere così confutata: i colonialisti conquistarono altri Paesi al fine di impossessarsi delle loro risorse per sfruttarle a proprio vantaggio anche a costo di depredare le economie locali, mentre i sionisti hanno investito e investono capitali e risorse umane, prima durante l'Impero Ottomano e il mandato britannico e poi con lo Stato d'Israele, migliorando le condizioni di vita di tutti gli abitanti di quella regione. Infatti, la loro attività portò benessere anche ai cittadini arabi (ai pochi autoctoni e ai molti immigrati in conseguenza delle opportunità di lavoro che i sionisti avevano creato), con il risultato che il reddito medio si è moltiplicato diverse volte rispetto a quello dei Paesi circostanti. Tutti gli arabi, non solo quelli rimasti in territorio israeliano, ne avrebbero potuto ugualmente partecipare se non avessero abbandonato le loro residenze dando retta alla violenza e all'odio propalati dai loro leaders. In realtà, dietro l'antisionismo, oggi si nasconde una versione aggiornata del tradizionale, falso e mai estirpato antisemitismo di cui è rimasta vittima innocente e non sufficientemente compianta la piccola Hallel. Che la sua memoria sia in benedizione.

(Online News, 7 luglio 2016)


Diario di un soldato - Pensieri

di David Zebuloni

Questa volta ci ho pensato, ci ho pensato davvero. E ho cambiato idea. Mi sono concesso questo piccolo lusso, questo privilegio, il beneficio del dubbio di essermi sbagliato sino ad ora.
Questa volta ci ho pensato, ci ho pensato davvero. E sono arrivato all'amara conclusione che il silenzio della stampa mondiale di fronte alla morte della piccola Hallel non sia poi così oltraggioso, che il lutto, in fondo, sia solamente nostro.
D'altronde, nemmeno io mi sono pronunciato a gran voce quando sono stati infranti diritti umani e compiute terribili stragi in giro per il mondo, nemmeno io ho sventolato bandiere e sono sceso nelle piazze.
In realtà, non provo più alcuna necessità di condividere le mie lacrime con amici dichiarati o nemici secolari, non provo più alcuna soddisfazione nell'essere compianto o consolato.
Anche se con un macigno sul cuore, accetto di buon grado che il destino degli Azzurri sia più importante del conflitto mediorientale. Capisco pure che la crisi economica in Italia, le elezioni in America e i referendum in Inghilterra riscuotino più interesse del terrorismo di matrice islamica.
Comprendo con una smorfia appena accennata che la strage ad Orlando faccia più gola ai media rispetto alla strage a Tel Aviv, che lo shock di Parigi sia più violento della routine a Gerusalemme.
Questa volta ci ho pensato, ci ho pensato davvero. E ho deciso di non condannare più chi ha scelto la via del silenzio, chi si è finto cieco, sordo e muto. Ho deciso di vivere il dolore reprimendo il desiderio di scrollarmelo di dosso, di gettarlo su spalle più forti e disinteressate delle mie. Ho deciso di tollerare di più gli scettici e i malpensanti, gli indifferenti e gli idioti.
Questa volta ci ho pensato, ci ho pensato davvero. E mi sono imposto di imparare ad accettare tutto e tutti, a prescindere dai pensieri formulati e dalle parole soffocate, ma… Gli pseudo ambasciatori della pace, coloro che puntualmente si improvvisano massimi esperti della questione israelo-palestinese, gettando così fango e sentenze nel momento meno opportuno: quelli no, non li ho ancora digeriti.

(moked, 7 luglio 2016)


Bulgaria - Il premier Borisov incontra il presidente israeliano Rivlin

Focus su scambi bilaterali e sicurezza

SOFIA - La Bulgaria da una grande importanza all'attrazione di investimenti israeliani verso la propria economia, il modo migliore per dare continuità ad una tradizione di amicizia fra i due paesi. Lo ha dichiarato il primo ministro di Sofia Bojko Borisov, durante un incontro con il presidente israeliano Reuven Rivlin, in visita oggi in Bulgaria. Borisov ha sottolineato l'importanza di Israele come partner commerciale estero per il paese balcanico. "Ci aspettiamo che tutti gli sforzi fatti per promuovere gli scambi bilaterali diano slancio al commercio, agli investimenti e al turismo", ha aggiunto il premier bulgaro. Borisov ha inoltre sottolineato come negli ultimi due anni siano progressivamente aumentate le esportazioni della Bulgaria, specialmente nella produzione alimentare.

(Agenzia Nova, 7 luglio 2016)


Romania-Israele: Collaborazione idrica senza precedenti

Recentemente, la più grande società di acqua della Romania, RAJA Constanta, ha firmato un contratto di cooperazione con la Hagihon Company Ltd. di Gerusalemme, leader nel mercato idrico e nella gestione delle acque reflue.
RAJA Constanta ha anche firmato un contratto di servizio con la società israeliana Utilis, che crea una avanzata tecnologia che rileva le fuoriuscite di acque reflue sotterranee utilizzando immagini satellitari.
Secondo Matan Safran, Capo della missione commerciale del Ministero dell'Economia per la Romania, la questione dell'acqua nel paese è un problema urgente dal momento che "circa la metà della popolazione romena non ha acqua corrente o servizi per il trattamento dei rifiuti".
I contratti israelo-rumeni sono stati firmati nel corso di un seminario d'affari binazionale tenutosi a Constanta. Durante la stipula dell'accordo sono state firmate collaborazioni anche con l'Israel NewTech, specializzata in tecnologie per il trattamento dell'acqua potabile, strumenti che permettono di individuare le perdite delle acque reflue, aumentando così l'efficienza. I rappresentanti della RAJA Constanta hanno visitato Israele all'inizio dello scorso mese di aprile incontrando numerose aziende tra cui la Hagihon.

(SiliconWadi, 7 luglio 2016)


Conversioni, dagli Usa a Israele gli scontri interni all'ortodossia

Lo scorso aprile un tribunale rabbinico di Petah Tikvah, città nei pressi di Tel Aviv, ha respinto il ghiur (la conversione) di una donna convertitasi sotto la guida di un noto rabbino americano, rav Haskel Lookstein (già rabbino capo di Kehilath Jeshurun, una sinagoga modern-orthodox di Manhattan). La decisione della Corte ha avuto una grande risonanza in Israele e negli Stati Uniti, sollevando l'indignazione di rappresentanti del mondo religioso e civile ebraico di entrambi i Paesi. Nonostante l'autorità di rav Lookstein - riconosciuta anche dai due rabbini capo d'Israele rav David Lau e rav Itshak Yosef -, la Corte di Petah Tikvah ha deciso di non riconoscere la conversione perché il nome del rabbino americano non era nella lista di coloro che hanno il titolo per eseguire i ghiurim approvata dal Rabbinato Centrale israeliano. Secondo il direttore dell'organizzazione israeliana Itim, rav Seth Farber, questa vicenda evidenzia "l'approccio caotico del Gran rabbinato nel trattare queste situazioni", affermando che situazioni simili si sono già verificate e con una certa frequenza. Per Farber, che ha fatto ricorso contro la decisione del Tribunale di Petah Tikvah, "l'ebraismo americano è offeso da questa situazione e in questo modo non si fa che aumentare l'abisso che già esiste (con il mondo ebraico Usa)". Il messaggio che passa all'ebreo americano medio, continua il direttore di Itim, è "non siete i benvenuti, non riconosciamo la vostra identità o la vostra leadership religiosa e questo - conclude Farber - è inaccettabile". La questione, tramite il ricorso, è arrivata nelle scorse ore davanti alla Corte suprema rabbinica di Gerusalemme, dove si è formato un campanello di persone, tra cui diverse personalità di spicco, in sostegno di rav Lookstein e soprattutto contro la decisione della Corte di PetahTikvah.
   "Siamo al culmine della battaglia contro la delegittimazione di Israele - ha dichiarato Nathan Sharansky, tra i partecipanti alla manifestazione (nell'immagine, Sharansky in un momento del picchetto a Gerusalemme) e noto per le sue battaglie per i diritti umani sotto il regime sovietico - , mentre i nostri nemici tentano di recidere i legami tra giovani ebrei della Diaspora e lo Stato di Israele, e noi diciamo loro che non c'è motivo per vergognarsi di questo legame. Ma improvvisamente proprio lo Stato di Israele dice loro 'i vostri leader e i vostri rabbini non sono i nostri e noi non li riconosciamo'. Questo è un grave danno dello status che Israele ha agli occhi dell'ebraismo mondiale".
   La palla è dunque ora nelle mani della Corte suprema rabbinica, riunitasi ieri, e la sua posizione è, a quanto è emerso, vicini a quella del Tribunale di Petach Tikvah. "Ci sono istituzioni a cui è stato riconosciuto il permesso (di convertire) e ci sono rabbini che si occupano di conversioni, ma questo non è istituzionalizzato e inoltre c'è una lista. Il rabbino Lookstein non è su questa lista", la dichiarazione dei giudici della Corte, contraria alle aspettative dei ricorrenti. Nemmeno il citato endorsment del rabbino capo ashkenazita David Lau ha giocato a favore delle conversioni di Lookstein. Rav Lau ha infatti respinto le critiche mosse al Gran Rabbinato facendo sapere di aver consigliato alla corte di accettare i ghiurim del rabbino americano.
 Se la situazione non dovesse sbloccarsi, tutte le persone convertitesi sotto rav Lookstein non potrebbero ottenere il riconoscimento della conversione stessa in Israele. Tra queste, la figlia del candidato repubblicano e miliardario Donald Trump, Ivanka Trump.

(moked, 7 luglio 2016)


L'esempio di Wiesel contro i genocidi

Da operoso custode della memoria della Shoah ha avuto anche il merito di stimolare l'ardente solidarietà con tutte le vittime di tutti gli altri terribili crimini.

di Bernard-Henri Lévy

Intellettuale
Fu il primo a criticare l'oscura imbecillità di chi mette le tragedie della storia in competizione
Testimone
La sua era la viva coscienza di tempi tormentati, più che mai, da violenza e oblio

 
Tutto ha inizio in un mondo oggi scomparso, ai confini della Rutenia, della Bucovina e della Galizia; nomi di Paesi perduti che furono la gloria dell'impero degli Asburgo come del giudaismo europeo, e di cui settant'anni dopo restano solo palazzi in rovina, chiese barocche vuote e sinagoghe mai ricostruite. Uno degli ultimi testimoni di questo mondo perduto, svuotato dei suoi ebrei e delle sue opere, è appena morto. Si chiamava Elie Wiesel. Ha vissuto molti più anni del popolo cancellato dei suoi fratelli.
  Ma ha voluto che questa cancellazione fosse la sua seconda nascita; ha dedicato la propria vita a resuscitare, nel tremore, gli umili destini in forma di tenebre e di fiamme dei propri fratelli. È questo infatti che tengo a mente pensando alla vita dell'autore di La notte e di Celebrazione hassidica. Elie Wiesel ha frequentato i più grandi di questo mondo. Molto presto ha raggiunto la gloria immensa, mondiale, durevolmente iconica quanto quella di un Yehudi Menuhin. Non ha mai smesso di essere un yehudi, un piccolo ebreo, un sopravvissuto il cui cuore batteva all'improvviso troppo forte nel passare la dogana degli aeroporti di New York o di Parigi. E quel che tengo a mente è che si assegnò un compito, uno solo, impossibile e al tempo stesso categorico; un compito che fu, per tutta la sua vita - con l'unica risorsa della lingua, che poi non era quella materna ma dell'orfanotrofio, appresa a quindici anni presso le Opere di Soccorso ai bambini deportati, la lingua francese, così estranea e che fu un'altra sua passione - il compito, dunque, di diventare la tomba vivente, il cenotafio dei mendicanti del ghetto di Sighet, degli Hasidim con le loro goffaggini da clown, o del vicino di Lager che davanti al silenzio di Dio recita il kaddish, la preghiera per i morti. Vite minuscole, svanite in cenere e fumo, mutate in polvere o in ricordo senza consistenza e di cui, senza di lui, non resterebbe alcuna traccia, alcuna eco.
  Non so se Elie Wiesel fosse un «grande» scrittore. Sono del resto convinto che anch'egli pensasse, come l'altro mio amico Benny Lévy, che un ebreo come lui non fosse venuto al mondo per «fare» letteratura. E la sua opera non ha, in effetti, né la sublimità inaccessibile di Kafka, né la potenza paradossale di Proust né, forse, la grazia laconica di Paul Celan il quale, a proposito del loro comune Paese, osservava che vi si incontrano soltanto libri e uomini. Ma è una delle rare persone ad avere detto l'indicibile sui campi di concentramento. Egli condivide con Primo Levi e Imre Kertész - ce ne sono stati tanti altri? - il terribile privilegio di aver visto sei milioni di ombre appoggiarsi alla sua esile figura e trovare un posto quasi impercettibile nel grande libro dei morti di questo mondo. E se Elie Wiesel ha un altro merito è di aver fatto sì che, nella sua opera come più tardi nella mente di coloro che essa avrà saputo ispirare, il ricordo oscuro dell'eccezione che fu la Shoah non escludesse, ma obbligasse, l'ardente solidarietà con tutte le vittime di tutti gli altri genocidi.
  Lo ricordo, nel 1979, alla frontiera della Cambogia dove l'incontrai per la prima volta, con il suo ciuffo di capelli, simile a un'ala allora nerissima, che ondeggiava sul suo bel volto emaciato: è la prima persona che ho sentito teorizzare sull'oscura imbecillità dei sostenitori della competizione tra le vittime, pretendendo già che ciascuno scegliesse i propri morti: ebrei o khmer, martiri di un genocidio o di un altro.
  Lo ricordo, sette anni dopo, a Oslo, dove lo accompagnai quando ricevette il Nobel che tanto aveva desiderato: lo trovo inaspettatamente cupo; inspiegabilmente ansioso; e nel suo sguardo, che a momenti esprimeva gioia, gaiezza, un'umida scintilla verlainiana dell'eterno bambino colmo di intelligenza e malizia, e a momenti l'infinita tristezza di colui che ne ha viste troppe e non si rimetterà mai dal fatto di essere stato testimone di quel che di peggio l'uomo può fare all'uomo, è chiaramente la tristezza a prevalere.
  Poi con François Mitterand. Il giorno del suo ultimo incontro con la sfinge, il Machiavelli dell'Eliseo. Le icone parlano alle icone. Il paesano di Sighet con il borghese della Charente. Fra loro, molte conversazioni. Forse si sono voluti bene. In Mitterrand, ha avuto la sensazione di ritrovare, con l'aggiunta del potere, qualcosa della untuosità e del linguaggio dell'altro François, François Mauriac, che lo aveva legittimato e aiutato quand'era tornato dal campo di concentramento e con il quale riteneva di aver lavorato bene, all'epoca, per ridurre il malinteso millenario fra ebrei e cristiani. Ma poi capisce: il Principe «marista» ( della congregazione Frères Maristes, ndr) era andato tranquillamente a giocare a golf il giorno in cui il suo soldato Pierre Bérégovoy si suicidava; e fino all'ultimo giorno aveva continuato a vedere e a proteggere il denunciatore di ebrei René Bousquet. Allora si chiede: sono stato tradito? Ingannato? Imbrogliato? Di chi ero lo zimbello? Conosceva gli ebrei di corte. Eccolo consacrato ebreo ufficiale. Perché non aver ricordato la massima raggelante del Trattato dei Padri: «Non farti conoscere dal potere»? Loro sapevano che essere ebreo ufficiale è, sempre, una lusinga e una trappola.
  La grandezza di Elie Wiesel, in verità, fu di essere rimasto fino all'ultimo, e in ogni circostanza, uno dei piccoli ebrei che egli riteneva fossero la corona dell'umanità. La sua immensa grandezza, la sua nobiltà furono di non aver mai dimenticato la lezione del Rabbi di Wishnitz che gli intimava, anche con il bell'abito del letterato, di non dimenticare mai che era responsabile dei suoi fratelli dal caftano e il copricapo di pelo che volevano farsi belli come i nobili polacchi che li «pogromizzavano».
  Credo che non abbia passato un solo giorno della sua lunga vita di grande intellettuale celebre e celebrato, ricoperto di onori e fasti, consultato ogni anno dai Clinton, Bush e Obama, senza fermarsi, almeno un'ora, davanti a una pagina del Talmud o del Zohar, sapendo che all'inizio non vi avrebbe capito nulla, vi avrebbe consumato le proprie forze, dello spirito e del corpo, ma che quello era lo sforzo necessario per avere l'unica vera celebrazione.
  Così accadeva a Sighet quando si credeva che un giorno sarebbe giunto il Messia. Così accade oggi quando si sente dire che né la Cambogia, né il Darfur, né i massacri in Siria, né l'urgenza di stanare la bestia che dorme nell'uomo, distolgono dal sacro compito di salvare il possibile di memoria, di senso e, quindi, di speranza.
  È la lezione di Elie Wiesel che, partito dal Paese degli uomini e dei libri per rivolgersi ai suoi fratelli in attesa di poter emigrare a Manhattan e a Parigi, è diventato una delle coscienze di tempi tormentati, più che mai, dal crimine e dall'oblio.

(Corriere della Sera, 7 luglio 2016 - trad. Daniela Maggioni)


Di Maio, il viaggio in Medioriente per farsi conoscere

di Marco Franchi

Il tour internazionale
Il leader Cinque Stelle in Israele fino a martedì. Ma proverà anche a entrare nella Striscia di Gaza.
L'ultima grana
Ieri lo scivolone del senatore MS5 Giarrusso: prima chiede l'immunità, poi fa retromarcia.

Luigi Di Maio
Giusto il tempo di riprendersi dai festeggiamenti per i suoi trent'anni ieri sera, a Roma, in un locale ospitato su un barcone ormeggiato nel Tevere - poi Luigi Di Maio ha preso l'aereo per il viaggio finora più importante della sua breve carriera politica: da oggi fino a martedì sarà in Israele' tappa considerata fondamentale per accreditare la propria leadership a livello internazionale. Sarà l'antipasto della trasferta americana in programma a settembre, altro tassello decisivo per far conoscere il più papabile tra gli sfidanti di Matteo Renzi alle prossime elezioni italiane.

IL VIAGGIO IN ISRAELE nasce proprio dall'esigenza, cautamente fatta arrivare all'orecchio del Movimento, di capire chi è quel ragazzo che i sondaggi elettorali danno sopra al premier in carica. Così Di Maio è partito, insieme ai colleghi parlamentari Manlio Di Stefano e Ornella Bertorotta, per tentare di posizionarsi il meglio possibile sullo scacchiere mediorientale. Sono ben attenti, nei Cinque Stelle, a non apparire schiacciati su una delle due parti in causa. La delegazione grillina proverà ad approcciarsi alla questione arabo-israeliana nella maniera più neutra possibile. Si incontreranno i rappresentanti della società civile attivi nella mediazione del conflitto, si siederanno al tavolo con le organizzazione umanitarie più autorevoli nei Territori e ci saranno occasioni di confronto sia con le autorità israeliane che con quelle palestinesi. Il programma è chiuso ma ha ancora una grossa incognita: riusciranno Di Maio e gli altri a entrare nella Striscia di Gaza? La richiesta è stata avanzata, la trafila dei permessi, come noto, è difficile da superare e dal Movimento ricordano che, due anni fa, a una delegazione spagnola di cui faceva parte anche il leader di Podemos Pablo Iglesias fu negata l'autorizzazione.

L'INGRESSO A GAZA sarebbe il coronamento della trasferta che, sul fronte israeliano, tocca tutte le principali tappe delle visite istituzionali dei leader politici: c'è la visita al Memoriale dell'Olocausto - anche se non è chiaro se Di Maio parteciperà alla "cerimonia" di accensione di una candela dello Yad Vashem -, c'è l'ingresso alla Knesset, il Parlamento israeliano (dove però non sono previsti discorsi). ATeI Aviv la delegazione Cinque Stelle vedrà i rappresentanti di Breakingthe silence, l'ong che raduna soldati e veterani di guerra e quelli di Parents Circle, un gruppo di genitori in lutto impegnato per la pace fra israeliani e palestinesi. Incontrerà anche gli scrittori israeliani Abraham Yehoshua e Etgar Keret e i rappresentanti dell'agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesialcampo diAida. E poiRamallah, Hebron, Gerusalemme, Betlemme: il tour si chiuderà martedì.

PRIMA DI PARTIRE, ieri, a Di Maio è toccato risolvere un'ultima grana: il senatore Mario Giarrusso ha rischiato l'incidente vero, chiedendo l'immunità per difendersi dalle accuse di diffamazione ricevute in seguito a un comizio a Enna. Il caso è arrivato in giunta al Senato e i Cinque Stelle hanno dovuto respingere le accuse del pd che, per tutto il giorno, ha ricordato come lo stesso Di Maio avesse in passato detto che mai avrebbero fatto ricorso allo scudo che difende i parlamentari. Alla fine Giarrusso ha chiesto ai colleghi di bocciare la sua richiesta. Di Maio può imbarcarsi tranquillo per Tel Aviv.

(il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2016)


Ex CEO di Google: Tecnologia israeliana seconda solo alla Silicon Valley

Eric Schmidt, ex amministratore delegato e presidente di Google ora dirigente della società Alphabet, ha dichiarato che Israele, un paese di solo circa otto milioni di persone, ha un successo nel mondo tecnologico, senza precedenti.
Stiamo parlando di un paese relativamente piccolo ma che ha un ruolo super all'interno del panorama dell'innovazione tecnologica.
Non riesco a pensare ad un posto dove si possa vedere questa diversità e questa raccolta di iniziative oltre alla Silicon Valley. Questa è una dichiarazione piuttosto forte.
Israele incoraggia lo spirito imprenditoriale, soprattutto nel settore tecnologico. Tuttavia, le aziende sono spesso state vendute a investitori statunitensi, piuttosto che rimanere nel paese del Medio Oriente.
Schmidt ha comunque sottolineato di aver visto una "maturazione" della Startup Nation negli ultimi anni.
Sto cominciando a vedere aziende che si trovano sulla strada giusta per essere valutate miliardi di dollari.
Google ha acquisito Waze, l'applicazione per il traffico made in Israel, per più di 1 miliardo di dollari nel 2013 e ha acquistato anche altre aziende israeliane più piccole. L'azienda sviluppa molte delle sue tecnologie nei centri di ricerca e sviluppo a Tel Aviv e Haifa.

(SiliconWadi, 7 luglio 2016)


"Sionista? Non si stampi!". Lo strisciante boicottaggio dei romanzi israeliani

"Liberal o altro, poco importa", denuncia l'agente Harris

di Daniel Mosseri

 
Deborah Harris
BERLINO - Parte da Israele ma passa dagli Stati Uniti per essere raccontata. E' la storia vergognosa di un boicottaggio intellettuale o, meglio, di un boicottaggio di una serie di intellettuali israeliani. In particolare quelli rappresentati da Deborah Harris, una donna colpevole di fare molto bene il suo lavoro. Americana di nascita, dopo alcune esperienze nell'editoria a New York, nel 1979 Deborah si trasferisce a Gerusalemme. Qui fonda The Domino Press ma in breve si rende conto di funzionare meglio come agente che come editrice, per cui dà vita alla Deborah Harris Agency. Il lavoro la porta per 20 anni nel CDA della Fiera internazionale del libro di Gerusalemme e a fondare il Jerusalem Film and Television Fund. "Per lei non si tratta solo di un business", racconta al Foglio uno dei suoi autori che preferisce restare anonimo, "ma il suo è un vero e proprio amore per la letteratura d'Israele". Nella scuderia di Deborah ci sono molti fra i più importanti scrittori d'Israele: romanzieri, scienziati, saggisti, politici. La sua agenzia include David Grossman, Meir Shalev e Tom Segev, "e la maggior parte di quello che viene letto in Europa o in America passa dalle sue mani". Fra i suoi titoli c'è anche "Sapiens", l'acclamato bestseller di Yuval Harari sulla storia dell'umanità, un libro tradotto in trenta lingue.
   Il lavoro di Deborah è di alta qualità così come i curricula dei suoi collaboratori scelti fra i laureati a Harvard, alla Johns Hopkins o a Cambridge. Eppure negli ultimi dieci anni l'agente "ha scoperto che alcuni editori internazionali rifiutano le opere di autori israeliani, boicottano gli eventi letterari legati a Israele o rifiutano di far tradurre in ebraico i loro libri". E' la testimonianza di David Wolpe, autore del Time e amico personale di Deborah. Secondo Wolpe, "parte della dolorosa ironia di questo sabotaggio è che il posizionamento politico dell'autore è del tutto irrilevante". Agli stampatori epigoni del Bds, il movimento per il boicottaggio di Israele in ogni sua manifestazione politica, socio-economica o culturale, non interessa che la Deborah Harris Agency rappresenti Grossman - apprezzato in Europa per le sue critiche contro i governi del suo paese -, o Avraham Burg, un politico che nel 2015 ha lasciato il Partito laburista per unirsi a Hadash, formazione comunista araba ed ebraica "per la pace e l'uguaglianza". Per i professionisti dell'antisionismo non è rilevante: la sola etichetta di israeliano ti rende degno del loro odio a 360 gradi. Pacifisti, accademici, letterati, attivisti lgbt che proteggono gli omosessuali palestinesi: sono tutti equiparati ai dirigenti bianchi del Sudafrica ai tempi dell'apartheid. "Mi rifiutano con gentilezza titoli che solo dieci anni fa sarei riuscita a vendere facilmente a grandi editori - dice la Harris al Time - Alcuni mercati internazionali nel settore della fiction sono in flessione, è vero, ma il crollo della letteratura israeliana è più che proporzionale". "E' una brutta sensazione", conferma l'autore rappresentato da Deborah, "a me non risulta che un autore abbia mai respinto un manoscritto turco o cinese, ma ormai la diffamazione a mezzo stampa di Israele è la regola in occidente".
   A occidente ma non solo. Da alcuni mesi i libri di Grossman - che pure è favorevole all'etichettatura delle merci prodotte nei territori palestinesi come vuole la vulgata boicottatrice - sono sotto attacco tanto in Scozia quanto in Arabia Saudita dove Obeikan, la prima catena di librerie, è stata presa di mira da attivisti pro Bds perché sui suoi scaffali ci sono i libri dell'autore sionista.
   
(Il Foglio, 7 luglio 2016)


Seimila moschee nel mondo dove si insegna il terrorismo

Cosa accomuna le stragi di Molenbeek a Dacca. Ecco la prova che all'origine degli attentati c'è sempre l'islam.

di Carlo Panella

I jihadisti macellai di Dacca erano figli di papà: ancora una volta i fatti smentiscono le ipocrite analisi che addebitano il terrorismo islamico alla emarginazione, alla miseria o - e qui Obama sfiora il ridicolo - al libero commercio delle armi.
   Anche Mohammed Atta, il capo degli attentatori delle Twin Towers era figlio di papà, così come gli attentatori del Tube di Londra, Ihiadi Iohn e migliaia di jhadisti che da anni seminano morte nel mondo.
   Ma qual è il percorso che porta gli agiati studenti della migliore scuola inglese di Dacca a diventare feroci jihadisti? La risposta è semplice: la diffusione in tutto il mondo musulmano - Bangladesh incluso - a partire dal 1973 di 5-6.000 moschee che predicano uno scisma islamico, il wahabismo (o salafismo). In quell'anno, la guerra del Kippur tra Siria - Egitto ed Israele volgeva al peggio - al solito - per gli attaccanti arabi. Ariel Sharon era a soli 100 chilometri dal Cairo con le sue colonne di carri armati. Gli Stati arabi salvarono però Sadat e Assad lanciando la «bomba atomica petrolifera»: un embargo sul greggio il cui prezzo passò in pochi giorni da 3 a 10 dollari al barile (poi, arrivò a 80). La guerra del Kippur finì e nelle casse dei Paesi arabi entrarono centinaia, migliaia di miliardi di «petrodollari». L'Arabia Saudita investì buona parte di queste enormi masse di denaro fondando in tutti i Paesi musulmani, così come in Europa, 5-6.000 moschee wahabite. Moelenbeek, il quartiere di Bruxelles da cui venivano gli attentatori di Parigi e della metro della capitale belga divenne così un conglomerato di predicazione oscurantista e jihadista. Lo stesso avvenne in Cecenia, in Pakistan, in Afghanistan. Ovunque.
   L'espansione a macchia d'olio nelle comunità musulmane dello scisma wahabita, nato nel XVIII secolo (sino ad allora confinato nella penisola araba) e la predicazione della sua sharia hanbalita hanno così formato il substrato culturale di un integralismo diffuso, terreno fertile per la formazione dei gruppi jihadisti e terroristi. Come a Dacca, a Bruxelles, a Kabul, a Islamabad, a Gaza. Di nuovo: ovunque.
   Sia chiaro, non tutti i wahabiti sono terroristi o jihadisti, esattamente come non tutti i musulmani sono terroristi (è sbagliato' in tutti i sensi, affermarlo). Ma è vero il contrario: così come tutti i terroristi oggi sono musulmani, anche tutti i musulmani jihadisti e terroristi sono wahabiti (con l'eccezione degli Hezbollahi, che sono sciiti filo iraniani).
   Nel corpo del wahabismo infatti si è operata una scissione seguita a una guerra civile combattuta nel 1926-1929: vinse il regno dell'Arabia Saudita, che, come gli Emirati del Golfo, ha scelto la strada di una corrotta realpolitik statuale (che in effetti contrasta con molti caposaldi del wahabismo), persero e si inabissarono carsicamente i wahabiti fondamentalisti e jihadisti. Ma sono riemersi alla luce del sole con la guerra anti sovietica in Afghanistan. Ma tra gli uni e gli altri, questa è la forza dei jhadisti, non vi sono differenze dottrinarie: soprattutto, la sharia è la stessa, identica. L'unica differenza è che l'lsis e al Qaeda, la applicano con più ferocia e contro l'Occidente.
   La ragione del fascino di questa orrenda utopia è presto detta: sostiene che la umma musulmana si può salvare solo ritornando alle leggi e alle regole della Medina di Maometto e dei suoi primi 4 successori - califfi - «ben guidati». Crudeltà dell'Alto Medioevo inclusa. E convince. Muove le coscienze di tanti musulmani.
   Il wahabismo ha un suo spessore ideologico, definito dal medioevale Ibn Taymyyia e attualizzato nel secolo scorso Sayyed Qutb, riferimento dei jihadisti contemporanei. Il principio fondante di questo scisma religioso (va sottolineato che è uno scisma, che non coinvolge affatto tutto l'islam) è l'obbligo del Jihad che ibn Taymmyyia considerava «più importante per i musulmani del ramadan, della preghiera, della autotassazione, del pellegrinaggio». Il Jihad contro gli infedeli - gli sciiti e i cristiani giudicati idolatri e politeisti, così come contro gli ebrei - è per i wahabiti il più importante «pilastro dell'islam».
   Quella wahabita è così una predicazione improntata sulla violenza, sulla sopraffazione dell'uomo sulla donna, sull'intolleranza nei confronti delle altre fedi, sulle punizioni corporali praticate nel Medioevo. Lapidazione inclusa. Addirittura sulla prassi - regolamentata dal Corano - della schiavitù degli «infedeli» (ampiamente praticata in Arabia Saudita, de facto).
   Questo è l'alveo del terrorismo jihadista. Supportato oggi da migliaia di moschee nel mondo. Italia inclusa.

(Libero, 7 luglio 2016)



Parashà della settimana: Chukat (Decreto)

Numeri 19:1-22:1

 - Chukat significa Legge-decreto. "Parla ai figli d'Israele che prendano una vacca tutta rossa, perfetta, senza difetto e che non abbia mai portato il giogo" (Numeri 19.2).
Il sacerdote sacrificava la vacca sul monte degli Ulivi, in Gerusalemme, dove tutta intera veniva bruciata. Le sue ceneri venivano raccolte in luogo puro per essere poi mescolate con l'acqua lustrale, necessaria alla purificazione di coloro che si erano resi impuri.
Rashì spiega che la parola "chukat" significa legge, ma anche la parola "mishpat" significa legge. Perché la Torah usa due parole differenti?
Nel caso di Chukat siamo difronte a leggi "rivelate" di difficile comprensione, mentre per "mishpat" si intende sempre le leggi rivelate, ma accessibili alla ragione umana.
Durante il processo di combustione della vacca, "Il sacerdote prende del legno di cedreo, dell'issopo e della lana scarlatta e li getta nel fuoco che consuma la vacca" (Numeri 19.6).
Ed infine "Un uomo raccolga le ceneri della vacca e le deponga fuori dell'accampamento in un luogo puro" (Numeri 19.9).
E' l'unico caso nella Torah in cui le ceneri di un animale sacrificato e bruciato vengono raccolte e poi asperse nell'acqua.
Vi sono molte interpretazioni riguardo al sacrificio sulla vacca rossa, anche se per un mortale, secondo rabbi Yohanan ben Zaccai, sarebbe conveniente astenersi dall'esaminare le ragioni di questa prescrizione Divina.
Riportiamo quella del Rashì, il più noto commentatore della Torah, che interpreta in senso letterale (Peshat) il sacrificio della vacca rossa, riferito al peccato del vitello d'oro.
"Ordina ai figli d'Israele di prendere una vacca perfettamente rossa ecc…." significa che la vacca deve essere di loro proprietà (degli ebrei) come di loro proprietà erano gli anelli d'oro usati per fabbricare il vitello.
"Perfettamente rossa che non ha mai portato il giogo". Il rosso è il simbolo del peccato, mentre il giogo è quello della Legge, che Israele ha rifiutato, con la rottura delle prime tavole, scritte da D-o stesso.
"Voi porterete la vacca al sacerdote Eleazar". Non è detto ad Aronne in quanto un accusato non può essere nello stesso tempo un difensore. Aronne difatti aveva partecipato insieme al popolo, alla fabbricazione del vitello d'oro nel deserto del Sinài.
"Si brucerà la vacca e il sacerdote getterà nel fuoco un legno di cedro, dell'isoppo e un filo di lana scarlatta..." Come fu bruciato e ridotto in cenere il vitello. Le tre specie gettate nel fuoco corrispondono ai tremila uomini morti a causa del peccato di idolatria.
"Un uomo raccoglierà le ceneri della vacca, le metterà in luogo puro, dove resteranno in deposito" perché D-o si ricordi del peccato commesso dal popolo per chiederne conto alle generazioni future.
La parashà di Chukat si legge nelle sinagoghe anche nel Sabato precedente la Pasqua (Pesah) per ricordare al popolo queste leggi.
Difatti una persona in stato di impurità non poteva partecipare al sacrificio pasquale (corban Pesah). Questo è il motivo per cui le guardie ebraiche non entrarono nel Tribunale romano di Gerusalemme per non contrarre "impurità" da un luogo non ebraico e non poter celebrare la Pasqua, come riportato in Giovanni 18.28.
Oggi, dopo la distruzione del Tempio queste leggi non sono state più osservate, ma la Tradizione ebraica continua a ricordare il cerimoniale della vacca rossa per non dimenticare.
La parashà riferisce infine sul "peccato" commesso da Moshè.
"Il Signore parlò a Moshè dicendo: Prendi la verga e raduna la congrega. Tu e tuo fratello Aronne e parlate alla rupe davanti ai loro occhi, perchè dia la sua acqua" (Numeri 20.7).
Questo era l'ordine di D-o. Invece "Moshè alzata la mano, battè due volte con la verga sulla roccia" (Numeri 20.11).
Il bastone (verga) simbolo del miracolo della sopravvivenza del popolo ebraico nel deserto, deve far posto alla Parola.
Il Signore disse a Moshè e ad Aronne: "Siccome non avete fiducia in Me da santificarmi agli occhi dei figli d'Israele, perciò voi non condurrete questo popolo alla Terra che ho deciso di dare a loro" (Numeri 20.12).
Esiste una disproporzione tra il peccato di Moshè e la pesante sanzione divina. Moshè però, che è stato l'uomo dell'Egitto, del mar Rosso, del Sinài, avrebbe dovuto capire che la santificazione di D-o si fa anche con la Parola. F.C.

*

 - Si sente dire talvolta che Dio ha fatto uscire il popolo dalla schiavitù d'Egitto per donargli la Torah e metterlo in grado di osservarla in piena libertà. L'osservanza dei precetti sarebbe allora una prova di "ubbidienza cieca, pronta e assoluta", come ironizzava una volta Giovannino Guareschi? Stando alla storia di Israele come riportata nella Scrittura, per molti secoli, quanto meno fino alla distruzione del primo Tempio, non sembra che la rigorosa osservanza dei precetti sia stato un elemento di grande attenzione per il popolo. E a dire il vero neppure per Dio. Certo, i precetti ci sono, come le regole di purificazione riportate nel nostro testo, ma tutto mira a sostenere un elemento essenziale: il rapporto d'amore privilegiato tra Dio e il suo popolo, fondato sulla fiducia nella Sua Parola.
  Ma se Dio ama davvero il suo popolo, perché lascia che in certi momenti si trovi in situazioni umanamente insostenibili. Troviamo scritto, per esempio, che nel deserto di Tsin "non c'era l'acqua per la comunità" (Numeri 20:2). Una cosa grave. Si fa presto a scriverlo, ma si provi a immaginare una comunità di centinaia di migliaia di persone che languiscono per la sete e sono prese da una comprensibile disperazione. A questo punto lo scoramento prende anche Mosè ed Aaronne, che in aggiunta devono anche subire l'ira del popolo, che non potendo prendersela con Dio si scaglia rabbiosamente contro di loro. Che fare? I due si allontanano dalla comunità e si rivolgono direttamente a Dio, prostrati con la faccia a terra, davanti alla tenda di convegno. Finalmente Dio si decide a farsi vivo e ordina ai due poveretti di parlare ad una roccia e di ordinarle di far sgorgare acqua per il popolo. Ma non è questo uno strano modo di agire? Perché tutta questa messa in scena per dare ad una massa di sventurati in mezzo al deserto quello di cui in fondo "avevano diritto" (diremmo noi oggi)? Risponderà Mosè stesso alla fine del viaggio, quando farà sapere al popolo che "l'Eterno ti ha fatto fare questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore... e ti ha fatto provare la fame e poi ti ha nutrito di manna... per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma vive di tutto quello che l'Eterno avrà ordinato" (Deuteronomio 8:2-4). Non erano dunque di esercizi di cieca ubbidienza quelli che il popolo doveva fare nel deserto, ma test di fede.
  Nel nostro caso il test non è superato neppure da Mosè ed Aaronne, che innervositi dalla continua ribellione dei loro compagni di viaggio, manifestano a Dio la loro irritazione colpendo con rabbia la roccia, invece di limitarsi a darle ordini a voce. Il primo colpo non funziona, il secondo sì. All'irritazione degli uomini il Signore risponde con la sua misericordia. Mosè ed Aaronne però vengono a sapere che non entreranno nella Terra promessa. Perché? Erano venuti meno nell'insegnamento della Torah, non erano stati d'esempio nella sua scrupolosa osservanza? No. "L'Eterno disse a Mosè e ad Aaronne: «Siccome non avete avuto fiducia in me per dare gloria al mio santo nome agli occhi dei figli d'Israele, voi non condurrete questa assemblea nel paese che io le do»" (Numeri 20:12). "Non avete avuto fiducia in me": questo è il motivo della punizione. E' la mancanza di fede che impedisce di dare gloria al Santo Nome del Signore.
  Segue quasi subito un altro test di fede. Non superato, come tutti gli altri. Gli israeliti si trovano nei pressi del monte Hor, al sud di Edom, e invece di avviarsi in direzione nord, verso la meta agognata, Mosè allunga il viaggio facendoli muovere in direzione sud, "verso il mar Rosso, per fare il giro del paese di Edom" (Numeri 21:4). Alzi la mano chi non avrebbe cominciato a brontolare. E infatti brontolano. E anche forte. "Il popolo parlò contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatti salire fuori d'Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c'è né pane né acqua, e l'anima nostra è nauseata di questo cibo tanto leggero»" (Numeri 21:5). Dio reagisce, ma in modo diverso dal solito. La punizione non arriva in modo collettivo, come un terremoto, un incendio o un'inondazione, ma colpisce in modo individuale. Nella zona dove si trova il popolo, Dio fa arrivare dei serpenti velenosi, i quali mordono le persone ad una ad una. Gli israeliti dunque non muoiono tutti insieme, ognuno di loro quindi può sempre sperare di riuscire a farla franca con qualche accortezza. E naturalmente ci prova, ma gli resta sempre la paura di non continuare a riuscirci. Un terrore individuale s'impadronisce di ognuno: «Fino ad ora è toccato ad altri, ma quando toccherà a me?» Il popolo allora si pente, di un pentimento simile a quello che coglie i politici corrotti quando sono scoperti dalla Guardia di Finanza e rischiano di andare in galera. In questo caso sono i serpenti velenosi a risvegliare la coscienza morale del popolo. Si pentono, e lo dicono a Mosè affinché lo faccia sapere a Dio. Ma di che cosa si pentono? di non aver osservato tutti i precetti della legge? No, si pentono di non aver avuto fiducia in Dio. Davanti a questa espressione di pentimento collettivo però il Signore non caccia via subito i serpenti; quelli continuano a mordere. Dio fa un'altra cosa: dice a Mosè di innalzare su un'asta un serpente di rame e di dire al popolo che chiunque sarà morso, se getterà uno sguardo sul serpente innalzato non morrà. Dunque, chi si è davvero pentito di aver parlato contro Dio e contro Mosè, per salvarsi dovrà stare a sentire proprio quello che Dio ha detto a Mosè. E crederci. E farlo. Libero di non crederci e di non farlo: vorrà dire che passerà il resto della sua vita a cercare di non essere morso dai serpenti.
  Gesù, da buon israelita, conosceva bene questo passo, e inaspettatamente l'ha applicato a Se stesso. "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna. Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna. Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui" (Giovanni 3:14-17). M.C.

  (Notizie su Israele, 7 luglio 2016)


Ruanda-Israele: a Kigali la terza tappa del tour africano di Netanyahu

KIGALI - Dopo l'Uganda e il Kenya, il Ruanda ha accolto quest'oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu, impegnato in questi giorni in un tour africano denso di appuntamenti e di significati. Non ha fatto eccezione la tappa a Kigali, dove il capo del governo di Tel Aviv ha visitato il memoriale del genocidio del 1994 a Gisozi, distretto nella zona nord della capitale ruandese. Nell'occasione, accompagnato dal presidente del Ruanda Paul Kagame e dalla sua consorte, Netanyahu ha espresso "grande commozione" nel ricordo di "uno dei maggiori crimini della storia, che ricorda il genocidio del nostro stesso popolo", come si legge sul guest book del memoriale firmato dallo stesso premier.

(Agenzia Nova, 6 luglio 2016)


Israele e Usa hanno concluso positivamente un test di difesa missilistica integrata

GERUSALEMME - L'Organizzazione per la difesa missilistica israeliana e l'Agenzia per la difesa missilistica statunitense hanno concluso lo scorso 22 giugno un'esercitazione volta a verificare l'integrazione tra i due sistemi missilistici. Lo ha riferito oggi il ministero della Difesa israeliano, precisando che il test si è concluso positivamente. L'esercitazione "Integrated Ground Test" è la prima che ha visto l'uso del nuovo sistema missilistico ed ha avuto una durata di cinque giorni. Il test ha permesso di verificare la capacità dei due sistemi missilistici, uno localizzato in Israele e l'altro negli Usa, di comunicare tra loro in tempo reale. Lo scenario simulato prevedeva il lancio simultaneo di razzi e missili dall'Iran e dal Libano verso Israele ed aveva l'obiettivo di verificare l'efficienza con cui i sei diversi sistemi missilistici avrebbero collaborato per eliminare la minaccia. Lo scopo dell'esercitazione era collegare il sistema missilistico di difesa ai radar statunitensi per identificare la minaccia. I sistemi missilistici utilizzati sono Arrow 2, Arrow 3, David's Sling e i sistemi statunitensi Aegis Ships, Terminal altitude area defense (Thaad) ed il sistema antimissile Patriot.
  L'esercitazione si è svolta in simultanea dai centri di comando e controllo in Israele e da altre sale operative localizzate begli Usa. "Abbiamo testato la capacità del sistema di lavorare in tandem fino al momento dell'intercettazione, senza lanciare il missile", ha dichiarato un ufficiale israeliano. Dal canto suo il ministero della Dfiesa israeliano ha dichiarato che la verifica rappresenta "un'altra pietra miliare nel programma di difesa missilistica, che vede la cooperazione di Israele e Usa". L'esercitazione è stata realizzata dall'azienda Elisra, una società sussidiaria della Elbit systems.
  Nelle scorse settimane la questione dei finanziamenti alla difesa missilistica israeliana ha avuto un ampio seguito sui media internazionali. Durante la sua recente visita negli Stati Uniti, il ministro della Difesa israeliana Avigdor Lieberman ha detto che le trattative tra Gerusalemme e Washington sui fondi statunitensi da destinare alla difesa israeliana potrebbero concludersi a novembre. Si tratta di un accordo multimiliardario. La dichiarazione è avvenuta a margine della cerimonia di presentazione del primo caccia israeliano F-35 prodotto dalla Lockheed Martin, che si è svolta il 21 giugno a Fort Worth, in Texas. "Abbiamo bisogno di un buon accordo entro un tempo ragionevole e non vedo alcuna contraddizione tra i due (governi). Credo che possiamo raggiungere un accordo entro novembre", ha detto Lieberman in riferimento ai negoziati in corso per la stesura di un nuovo memorandum d'intesa della durata di dieci anni per i fondi statunitensi destinati al programma di difesa missilistica israeliano. L'accordo si aggirerebbe sui tre miliardi all'anno.
  "C'è un accordo sulla maggior parte delle questioni. Le controparti stanno cercando di migliorare le proprie posizioni sui negoziati", ha dichiarato il ministro Lieberman, come riferisce la radio dell'esercito israeliano. Israele è il primo partner straniero che riceverà l'F-35, velivolo che consentirà al governo di Gerusalemme di mantenere il suo livello qualitativo nel settore militare nel Medio Oriente. I primi due F-35 arriveranno in Israele il prossimo 12 dicembre. "Il fatto che siamo i primi a ricevere un F-35 ed i primi ad utilizzarlo vuol dire molto", ha dichiarato Lieberman. La commessa di Israele prevede la consegna di 33 velivoli F-35 entro il 2021, ma secondo i media israeliani il loro numero potrebbe aumentare. L'F-35 ha un'autonomia di 2.200 chilometri e può trasportare un massimo di 8,2 tonnellate di armamenti.
  Lunedì scorso, 20 giugno, il ministro Lieberman ha incontrato l'omologo statunitense Ashton nell'ambito di un incontro bilaterale presso il Pentagono. Carter e Lieberman hanno ribadito la forza delle relazioni bilaterali nel settore della Difesa tra Washington e Gerusalemme. Gli Usa hanno sottolineato il loro impegno risoluto per la sicurezza di Israele. Al centro dei colloqui anche le sfide della sicurezza regionale nel Medio Oriente e le aree di interesse comune nell'ambito della cooperazione nel settore difesa e le trattative per il nuovo memorandum d'intesa per i fondi statunitensi destinati al programma di difesa missilistica israeliano. La scorsa settimana il consigliere per la sicurezza nazionale israeliana, il generale Yaakov Nagel, ha riferito che le divergenze tra Gerusalemme e Washington sono "ancora vaste" perché "gli Usa offrono meno di quello che vuole Israele".
  Nagel ha precisato che Israele ha chiesto agli Usa una cifra compresa tra i 40 e i 50 miliardi di dollari in dieci anni, mentre la controparte ne offre 34-37 miliardi di dollari. Infine, Il consigliere per la sicurezza nazionale ha sottolineato la volontà del premier Benjamin Netanyahu di concludere l'accordo entro la fine del mandato del presidente statunitense Barack Obama, ma "non a qualsiasi prezzo". Il 14 giugno la Casa Bianca ha annunciato la totale opposizione a una proposta del Congresso di aumentare di 455 milioni di dollari i fondi destinati dal bilancio di previsione della Difesa Usa per il 2017 al programma di difesa missilistica di Israele.
  Un comunicato pubblicato dall'Ufficio di gestione e bilancio della Casa Bianca ribadisce che l'amministrazione presidenziale è "contraria all'aggiunta di 455 milioni di dollari da destinare alle acquisizioni e ai programmi di cooperazione allo sviluppo per la difesa missilistica israeliana nel 2017". Il mese scorso, la commissione per gli stanziamenti del Senato ha suggerito di allocare 600 milioni di dollari per l'anno fiscale 2017, che rappresenterebbe un incremento di 113 milioni rispetto ai fondi destinati lo scorso anno. Le indicazioni del Senato superano di 454 milioni di dollari la cifra prospettata da Obama. Lo scorso 15 giugno, invece, l'ufficio del premier israeliano ha smentito che gli Stati Uniti taglieranno i fondi per il programma di difesa missilistica israeliano.
  Netanyahu sta lavorando per inserire la questione dell'aumento dei fondi statunitensi all'interno delle trattative attualmente in corso tra Israele e Stati Uniti per firmare un nuovo memorandum d'intesa della durata di dieci anni, è stato scritto nel comunicato ufficiale. "Non solo non sarà tagliata la spesa statunitense per la difesa missilistica israeliana, ma verrà aumentata", ha precisato la fonte. "Il tentativo di spostare il dialogo con gli Stati Uniti in uno strumento politico interno è improprio, e le preoccupazioni non sono legittimate", conclude il comunicato.
  A metà giugno anche l'American Israel public affairs committee (Aipac), un gruppo di pressione statunitense noto per il forte sostegno allo Stato di Israele, ha manifestato la sua "profonda disapprovazione" per l'opposizione della Casa Bianca all'aumento di 455 milioni di dollari di fondi per il programma di difesa missilistica israeliano. L'Aipac ha sottolineato "l'importanza dei finanziamenti statunitensi nel settore della Difesa", soprattutto alla luce delle tensioni regionali. "I programmi di cooperazione, che includono i progetti Iron Dome, Arrow e David's Sling, sono critici per la Difesa israeliana per contrastare una crescente varietà di minacce missilistiche e danno un importante contributo ai programmi di difesa missilistica statunitensi", si legge nel comunicato dell'Aipac.

(Agenzia Nova, 6 luglio 2016)


Hamas manda soldi ai terroristi in Cisgiordania e continua a scavare tunnel

Le rivelazioni di due contrabbandieri arrestati confermano il cinico uso dei civili come scudi umani e dei permessi umanitari per scopi terroristici.

Un nuovo tunnel terroristico mostrato da Hamas in un recente filmato di propaganda
Si è appreso martedì che a giugno polizia e servizi di sicurezza israeliani hanno arrestato due palestinesi accusati di contrabbando di denaro dalla striscia di Gaza verso terroristi di Hamas attivi in Cisgiordania.
Nel corso delle indagini, Itallah Sarhan, 47 anni, un camionista che lavora per una ditta impiegata da Hamas e Jihad Islamica nella rimozione della terra e della sabbia dai siti di scavo dei tunnel terroristici destinati ad infiltrare terroristi in Israele, ha rivelato una notevole quantità di informazioni sugli sbocchi delle gallerie che ha potuto vedere di persona durante il suo lavoro. Sarhan ha detto che a diversi di questi tunnel si accede attraverso strutture civili, come edifici d'abitazione e moschee. Sarhan ha anche rivelato informazioni sui siti di lancio dei razzi, che vengono appositamente situati in prossimità di strutture civili "in un modo che mette in grave pericolo la popolazione civile della striscia", hanno sottolineato i servizi israeliani....

(israele.net, 6 luglio 2016)


Banca statunitense Merrill Lynch: previsioni di crescita di Israele in ribasso

GERUSALEMME - Gli analisti della banca statunitense Merrill Lynch hanno rivisto al ribasso le previsioni di crescita di Isarele a causa dei crescenti rischi globali, dovuti all'impatto negativo della Brexit e alla debole crescita del paese nel primo trimestre dell'anno. Merrill Lynch ha abbassato le sue previsioni relative al 2016 al 2,4 per cento (prima erano di 0,1 per cento in più), mentre quelle per il 2017 sono passate dal 3,1 al 2,8 per cento. Lo riferisce oggi il sito d'informazione economica "Globes". La banca statunitense ha seguito l'orientamento dettato dalla Banca centrale israeliana che lo scorso mese ha ridotto le previsioni di crescita per il 2016 e il 2017 rispettivamente a 2,4 e 2,9 per cento (precedentemente erano del 2,8 per cento per il 2016 e del 3 per cento per il 2017).

(Agenzia Nova, 6 luglio 2016)


«Il valore particolare delle donne è un patrimonio dell'ebraismo»

Il nuovo presidente dell'Ucei: estendere alla comunità il saper tutelare la famiglia.

di Paolo Conti

L'uguaglianza
In Israele la parità tra sessi è un dato acquisito. In Italia si è fatto tanto, ma la sfida resta.
L'eredità
È un onore confrontarmi conia straordinaria eredità di Tullia Zevi anche se su temi diversi.
I social network
L'antisemitismo si evolve e cambia, ci sono forme subdole che resistono. Molti pericoli dai social.

Noemi Di Segni, 47 anni, nata a Gerusalemme e romana d'adozione, è il nuovo presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane. Torna una donna alla guida dell'ebraismo italiano: «È il risultato di un lavoro di 4 anni realizzato da un gruppo di donne all'interno dell'Unione. Come succede per gli alberi, c'è voluto tempo per vedere i frutti».

Noemi Di Segni
- Lei idealmente succede a Tullia Zevi, presidente dell'Unione dal 1983 al 1998.
  
«È un onore confrontarmi con la straordinaria eredità di Tullia Zevi che ha guidato l'Unione svolgendo un lavoro fondamentale in anni di sfide faticose. Necessariamente diverse da quelle di oggi che hanno come sfondo le nuove tecnologie e il loro uso, l'integrazione, il dramma del lavoro, l'identità europea in crisi».

- Quale valore aggiunto può portare una donna in un incarico molto delicato come quello di rappresentare un ebraismo italiano compatto ma insieme diversissimo?
  
«C'è il valore particolare delle donne: il loro saper tutelare e salvaguardare il nucleo familiare. Io ho tre figli e so bene quanto sia essenziale. Nella mia famiglia però tutte le donne non solo hanno avuto rapporti familiari forti ma hanno sempre consolidato il loro percorso personale affrontando studi universitari e inserendosi nella vita pubblica e nelle istituzioni. In Israele, l'uguaglianza tra uomini e donne è un dato acquisito: l'importanza di quella parità apparteneva alla matrice sociale degli anni in cui nacque lo stato di Israele. Anche in Italia sono stati compiuti molti passi in avanti ma le sfide restano numerose. Una donna alla presidenza dell'Unione può trasferire il proprio momento familiare a una famiglia più allargata, quella dell'ebraismo italiano, trasmettendo con passione l'affetto per la comunità con spirito di servizio. Il mio non è un "lavoro", ma un incarico gratuito in un ente che notoriamente non è lucrativo».

- Anche la comunità ebraica romana, la più numerosa, è guidata da una donna, Ruth Dureghello. C'è dunque una nuova linea di tendenza nell'ebraismo italiano?
  
«L'impegno delle donne sta diventando un patrimonio dell'ebraismo italiano. Ruth è bravissima ed è bello pensare che Noemi e Ruth, nella Bibbia, siano unite da un fortissimo legame tra suocera e nuora. Ma voglio ricordare che non poche comunità, anche le più piccole tra le nostre 21, sono state o sono dirette da donne. Ed è doveroso sottolineare l'importanza che hanno le comunità più piccole, in cui è magari più difficile mantenere la peculiarità e l'identità per la mancanza di scuole. Sono comunità diverse tra loro, con tradizioni spesso differenti. Un valore che va tutelato e protetto».

- Pensa che in Italia ci sia ancora un antisemitismo diffuso, che il livello sia preoccupante?
  
«L'antisemitismo si evolve e cambia. Oggi nessuno teorizza l'eliminazione fisica come fece il nazismo. Ma ci sono forme subdole che resistono, lo sa chi vive sulla propria pelle quel non valorizzare, non riconoscere l'altro. Oggi il pericolo maggiore viene dai social media dove, come dimostrano i recenti episodi di terrorismo legati all'Isis, i giovani meno strutturati possono essere attirati dai catalizzatori d'odio che sfruttano debolezze e fragilità. Bisogna operare nelle scuole, sostenere i giovani, spiegare i pericoli del web e raccontare cosa sta accadendo nel mondo ma senza generare panico. L'ebraismo, per la sua capacità di affrontare il nodo della sicurezza fisica e psicologica, può dare un grande contributo».

- Quanto hanno contato, nel rapporto tra ebrei e cattolici, le visite dei tre Pontefici in Sinagoga?
  
«Come ha sempre detto il mio predecessore Renzo Gattegna, che per me è una luce, un maestro e una grande persona, è diventato un rapporto tra chi vuole conoscersi tra diversi ma ha molti messaggi comuni da portare. Quelle visite sono state importantissime. Ci sono ancora questioni da affrontare ma guardo con fiducia a un percorso che sta proseguendo molto positivamente».

(Corriere della Sera, 6 luglio 2016)


Alla scoperta dei contratti nuziali ebraici

Secondo appuntamento di "Museo sotto le stelle (di David)"

 
Sinagoga di Firenze
FIRENZE - Tutto il fascino della Sinagoga e del Museo Ebraico declinato in notturna per "Museo sotto le stelle (di David)", domani giovedì 7 luglio a partire dalle 19. Si tratta del secondo appuntamento della rassegna parallela alle serate del Balagan Cafè promosse dalla Comunità Ebraica di Firenze, con cui CoopCulture promuove l'apertura straordinaria del Museo e della Sinagoga in orario serale, in collaborazione con il ristorante "Ruth's".
Sotto le arcate del Tempio maggiore israelitico di Firenze, sarà possibile assistere alla proiezione intitolata "Uguali e diversi. Storia di Firenze e degli ebrei", un filmato prodotto da Frankenstein - Progetti di vita digitale a cura di Laura Forti e Enrico Fink che racconta la storia degli ebrei a Firenze e il loro rapporto con la città. Un gioco di immagini, foto d'epoca, animazioni, luci e musica per arricchire, durante le serate estive, la visita alla Sinagoga.
Non finisce qui. Alle 20, appuntamento al secondo piano del Museo con "Memorie di Gluckel Hameln: affari, figli e feste di nozze nella straordinaria vita di una donna ebrea del Seicento": letture, proiezioni e una visita speciale alla scoperta dei contratti nuziali ebraici conservati in Museo. Infine, alle 21.30, visita guidata alla Sinagoga per addentrarsi tra le meraviglie di questo edificio che si distingue per la cupola verde rame che svetta nel panorama cittadino.
Le aperture in "notturna" sono state pensate per accogliere il pubblico al di là del consueto orario di apertura, accompagnando la visita a un drink da sorseggiare nella verdeggiante cornice del giardino. Un invito ad assaporare con lentezza spazi, colori e profumi di uno dei luoghi più suggestivi della città. Ogni serata sarà dedicata all'incontro con un personaggio, a una storia o a un oggetto conservato in Museo, in un percorso nel mondo ebraico a cavallo tra passato e presente. Il costo complessivo della serata è di 10 euro comprensivo di visita, aperitivo e attività.

(#gonews.it, 6 luglio 2016)


Kenya-Israele: Netanyahu, forniremo assistenza d'intelligence a Nairobi

NAIROBI - Nel corso della sua visita a Nairobi Netanyahu parteciperà ad un business forum congiunto israelo-keniota e a seguire un incontro con gli Amici kenioti dell'organizzazione israeliana. Domani Netanyahu sarà invece in Ruanda, dove avrà un colloquio con il presidente Paul Kagame e presenzierà a una cerimonia in ricordo delle vittime del genocidio del 1994. In seguito sarà in Etiopia, dove è in programma un altro incontro con il premier Hailemariam Desalegn ed uno con il presidente Mulatu Thesome. Ad Addis Abeba è previsto anche un intervento di Netanyahu in parlamento, un business forum israelo-etiope e una visita al Museo nazionale d'Etiopia prima del ritorno in Israele.

(Agenzia Nova, 6 luglio 2016)

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"Nei prossimi mesi nuove ambasciate in Africa e Medio Oriente"

GERUSALEMME - Probabilmente nei prossimi mesi saranno aperte nuove ambasciate israeliane in Africa e in Medio Oriente. Lo ha detto oggi il vice-ministro della Cooperazione regionale Ayoob Kara, durante una riunione informale del partito Likud avvenuta a Netanya. Kara ha sottolineato che Gerusalemme ha fatto "grandi passi diplomatici" in Africa, Kurdistan, in Turchia e nel mondo arabo: "Oltre la metà degli Stati africani sostiene Israele". All'incontro, a cui hanno partecipato anche il ministro per la Sicurezza interna, Gilad Erdan, ed altri membri del Likud, Kara ha detto: "Tutto è iniziato in Africa soltanto quattro anni fa. Non aveva alcun contatto", riferendosi agli sforzi compiuti dal governo di Gerusalemme per modificare la situazione. Citando alcune delle motivazioni che avrebbero spinto il governo di Israele a proiettarsi verso il continente africano, dove in questi giorni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu - leader del Likud - è in visita, Kara ha detto: "Avevamo un grande problema con il treno unilaterale palestinese che parte dall'Onu e non avevamo nessuno che ci sostenesse".

(Agenzia Nova, 6 luglio 2016)


Ricreata a Gerusalemme la prima birra bevuta dall'uomo

di Sabrina Quartieri

Non c'è prodotto artigianale che tenga di fronte alla prima birra bevuta dall'uomo o ad una sua quasi perfetta imitazione. Provare per credere, per adesso la bevanda può essere assaggiata solo a Gerusalemme. Se vi trovate in città quindi, non dimenticate di fare un salto da Herzl e di chiederne una bottiglia. Attenzione solo alla fila, perché il già storico birrificio israeliano di Talpiot, piccolissimo e molto apprezzato, dopo aver elaborato la formula di ciò che può essere considerata la prima birra conosciuta dall'uomo, è diventato ancora più famoso e nelle ore di punta viene preso d'assalto dai tantissimi curiosi che si trovano a passare per la zona industriale.

(Il Messaggero, 6 luglio 2016)


Israele e le accuse a Facebook. Legge per fermare i post d'odio

«Il social diffonde la violenza». Zuckerberg assume un lobbista

di Davide Frattini

GERUSALEMME - «Hai le mani sporche di sangue» è la formula che qualunque politico israeliano usa per squalificare un avversario. L'accusa è di complicità con il nemico, con i molti da cui lo Stato ebraico si sente circondato. Che anche quelle di Mark Zuckerberg siano ormai macchiate è diventata una convinzione nel governo, una convinzione che si sta trasformando in legge.
   Il primo ad attaccare è stato Gilad Erdan, ministro per la Sicurezza Interna: «Facebook è diventato un mostro. L'incitamento alla violenza, l'odio, le bugie che nutrono i giovani palestinesi sono diffuse dalla piattaforma digitale», ha commentato durante un'intervista televisiva. E quando pochi giorni fa sono stati uccisi una ragazzina di 13 anni (nella colonia di Kiryat Arba) e un rabbino (sulle strade della Cisgiordania) i portavoce della coalizione di destra al potere hanno messo in evidenza dove gli assassini avessero lasciato gli ultimi messaggi. «La morte è un diritto e io ho il diritto di morire», scrive su Facebook il giovane palestinese che ha accoltellato l'adolescente israeliana. La sorella è stata arrestata per averne esaltato il «martirio» in un video postato sempre su Facebook.
   Così Erdan e Ayelet Shaked, ministra della Giustizia, propongono una legge che permetta di intervenire in poche ore per bloccare il materiale che incita al razzismo, agli attentati, minaccia la sicurezza dello Stato o quella individuale. Promettono di definire le regole per evitare che la libertà di espressione sia limitata.
   Erdan ha cercato di dialogare con i manager della società. In questi mesi ha incontrato Simon Milner, direttore delle strategie per la Gran Bretagna, il Nord Africa e il Medio Oriente, che aveva garantito di essere pronto ad allestire una squadra pronta a rispondere alle denunce. Alla fine Facebook - rivela la rivista digitale Al Monitor - ha usato i soldi di quell'investimento per assumere una lobbista che faccia pressioni sul governo per bloccare la legge. «Lavoriamo regolarmente con organizzazioni che si occupano di sicurezza e policy-maker di tutto il mondo, Israele compreso - replicano i portavoce di Facebook -. Non c'è spazio per contenuti che promuovono la violenza, minacce, terrorismo o odio sulla nostra piattaforma. Abbiamo stabilito degli standard pensati per aiutare le persone a capire che cosa sia concesso e invitiamo gli utenti a segnalare quando ritengono che un contenuto violi queste regole, in modo da poter esaminare ciascun caso segnalato e agire prontamente».
   Anche la sinistra israeliana ormai considera Facebook un pericolo. È all'invenzione di Zuckerberg che il rapper The Shadow deve la popolarità e la sua capacità di aizzare le squadracce contro i pacifisti o chiunque - «traditore» per The Shadow - sia convinto di poter arrivare a un accordo con i palestinesi. Il quotidiano liberal Haaretz ha espresso le critiche in un editoriale: «La folla di Facebook sostiene idee e leader politici infettati dalla stupidità e dalla distruttività: da Donald Trump allo Stato Islamico. La piattaforma ha indebolito così tanto i media tradizionali da minacciare di imporre un ordine mondiale razzista, separati sta, tribale, militante e fondamentalista».

(Corriere della Sera, 6 luglio 2016)

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Ministro israeliano attacca Facebook: "E' un mostro"

Israele sta per votare una legge che impone a Facebook la cancellazione rapida dei messaggi di odio e legati al terrorismo

di Matteo Testa

                                Gliad Erdan, Ministro per la Sicurezza Interna                                                                            Ayelet Shadek, Ministro della Giustizia
E' un dato di fatto che le organizzazioni terroristiche sfruttano i social network per la propria propaganda del terrore nonostante gli sforzi di queste piattaforme per eliminare i messaggi razzisti, xenofobi e violenti. Recentemente uno dei genitori di una delle vittime della strage del Bataclan ha denunciato Facebook, Google e altri servizi accusandoli di aver favorito le organizzazioni terroristiche. Ora anche il governo israeliano ha deciso di prendere provvedimenti per fermare la propaganda in Rete e si prepara a varare un'apposita legge.
   A seguito di alcuni attentati di matrice palestinese, il ministro per la Sicurezza Interna israeliano, Gliad Erdan, ha usato parole molto dure nei confronti di Facebook: "E' diventato un mostro. L'incitamento alla violenza, l'odio, le bugie che nutrono i giovani palestinesi sono diffuse dalla piattaforma digitale. Zuckerberg dovrebbe controllare meglio il suo dominio". Il suo appello è stato accolto dal ministro della Giustizia, Ayelet Shadek, che ha avanzato una proposta di legge che consenta di bloccare entro poche ore qualsiasi materiale che esalta il razzismo, terrorismo o che minaccia la sicurezza nazionale o individuale. Il governo assicura che non verrà limitata la libertà di espressione sul social network e ha chiesto alla piattaforma di Menlo Park di applicare lo stesso metro utilizzato in Germania, dove le pagine dedicate all'odio vengono bloccate entro 24 ore.
   La risposta di Facebook, che insieme a YouTube ha studiato un nuovo strumento per eliminare i video con contenuti violenti, non è tardata ad arrivare. "Lavoriamo regolarmente con organizzazioni che si occupano di sicurezza e policy maker di tutto il mondo, Israele compreso. - affermano i portavoce del social network - Non c'è spazio per contenuti che promuovono la violenza, minacce, terrorismo o odio sulla nostra piattaforma. Abbiamo stabilito degli standard pensati per aiutare le persone a capire cosa è concesso su Facebook, e invitiamo gli utenti a segnalare quando ritengono che un contenuto violi queste regole, in modo da poter esaminare ciascun caso segnalato e agire prontamente".

(Data Manager, 6 luglio 2016)


Gaza - Aiuti turchi arrivati nella Striscia via Israele

11 mila tonnellate di alimentari, vestiti e giocattoli

GAZA - Sono arrivati la scorsa notte a Gaza e sono stati subito accolti dalla Mezzaluna Rossa i primi aiuti materiali inviati dalla Turchia all'indomani di un accordo di riconciliazione con Israele che non mette fine al blocco della Striscia, ma che cerca di alleviarne le conseguenze.
Giunto a bordo di una nave, il carico e' stato verificato al porto israeliano di Ashdod e poi trasferito via terra al valico di Kerem Shalom da dove ha infine fatto ingresso nella Striscia.
Secondo il ministro per lo sviluppo sociale di Gaza, Yussef Ibrahim, la Turchia ha inviato in questa occasione 11 mila tonnellate di aiuti che hanno incluso farina, zucchero, riso, olio da cucina, vestiti, giocattoli e pannolini. Il tutto sara' distribuito fra i piu' bisognosi, ha aggiunto il ministro mentre nella Striscia fervono gli ultimi preparativi per l'Id el-Fiter, ossial lafine del Ramadan. In futuro altri aiuti dovrebbero entrare allo stesso, in maniera regolare. Nell'accordo di riconciliazione la Turchia ha anche ottenuto da Israele un assenso di principio per la costruzione di una centrale elettrica e di un impianto per la depurazione dell'acqua. Ma cio', ha avvertito un ministro israeliano, a condizione che persista la calma fra Gaza e Israele.

(ANSAmed, 5 luglio 2016)


A scuola di cucina kasher con Laura Ravaioli. A Roma il primo corso professionale per ragazzi

 
Ci sarà Laura Ravaioli nell'aula di cucina del Centro Ebraico Pitigliani, che da settembre ospiterà un corso formativo di cucina kasher per ragazzi fino a 18 anni. 100 ore tra teoria e pratica per scoprire la Kasherut in cucina e proporsi al mondo del lavoro.

 Formazione professionale. Obiettivo: futuro
  Dietro al progetto LiberaMente, promosso dall'Istituto Pitigliani di Roma, c'è il desiderio di fornire agli adolescenti qualche riferimento utile per il futuro. Come? Senza far pesare loro lo studio e l'onere dei compiti a casa (pure previsto nel calendario delle attività), e piuttosto suggerendo stimoli, sollecitando interessi, proponendo ai ragazzi di età compresa tra i 14 e i 17 anni laboratori e attività ludico-ricreative, momenti di dibattito, sport e dinamiche di gruppo. A Roma il Pitigliani lo conoscono tutti: è il Centro Ebraico di riferimento in città. Per questo, quando si è trattato di individuare materie che potessero attirare l'attenzione dei più giovani, evitando nello specifico il problema della dispersione scolastica, la cucina kasher ha giocato un ruolo decisivo. E proprio in questo contesto ha preso forma il progetto del Corso professionale di cucina kasher con Laura Ravioli, che alla comunità ebraica romana appartiene e da sempre è impegnata nel recupero del patrimonio tradizionale di ricette della cucina ebraica romanesca (si veda anche il format televisivo Kasher recentemente andato in onda su Gambero Rosso Channel). La chef è uno dei volti di punta del canale 412 di Sky e non è nuova all'insegnamento in cucina; ai ragazzi proporrà un corso formativo a titolo gratuito di 100 ore in aula attrezzata, con molteplici obiettivi.

 Il corso di cucina kasher. Con Laura Ravaioli
  In primis, fornire loro le principali regole alimentari della Kasherut sia dal punto di vista teorico, che pratico. Ma anche insegnargli come si lavora in brigata e trasmettergli un bagaglio di conoscenze che spazia dall'assimilazione delle tecniche di base della cucina ai segreti di preparazione dei piatti tradizionali ebraici. Al termine del corso, chi vorrà, potrà sfruttare le competenze acquisite per entrare nel mondo del lavoro, proponendosi alle aziende di settore attraverso stage e tirocini, dopo aver sperimentato il lavoro sul campo durante eventi di beneficenza organizzati per l'occasione. Ma l'opportunità sarà offerta solo a dieci partecipanti (tra i 14 e i 18 anni) e le selezioni sono già iniziate. Laura Ravaioli dirigerà le lezioni in cucina, mentre per l'insegnamento della parte teorica si avvarrà di esperti in ambito alimentare ebraico, figure rabbiniche e non. Tra loro Gianni Spizzichino (mashghiach, colui che sovrintende alla produzione alimentare negli stabilimenti kasher), Alberto Ouazana (macellazione), Marco Sed Yotvata (formaggi), Giovanni Terracina (vino e pesce), Elizabeth Cetorelli (pasticceria dolce e salata tripolina), Alessandra Di Castro (dolci e pane) e Miriam Zarfati (pasta all'uovo). Al termine i ragazzi riceveranno un attestato di frequenza da spendere per nuove esperienze nel settore. E così anche i ragazzi più giovani saranno chiamati a tramandare le usanze di una cucina antichissima, che a Roma, nei secoli, ha sposato le tradizioni e gli ingredienti della città, dando vita a ricette celebri in tutto il mondo. Qualche esempio? Il carciofo alla Giudia, la concia di zucchine (fritte e marinate), lo stracotto dello Shabbat, la cassola, un dolce di ricotta che ogni famiglia interpreta a modo suo. Nello spirito di una comunità che a tavola ritrova le sue origini e la storia percorsa sin qui, come ci spiegava proprio Laura qualche mese fa: "Tutta la cucina ebraica come molti altri aspetti della vita di un ebreo, segue la regola imprescindibile della Kasherut, pur nella varietà di colori e sapori che è peculiare di una cucina cosmopolita, in grado di assimilare ingredienti e consuetudini delle culture locali".

(Gambero Rosso, 5 luglio 2016)


Wiesel sapeva che senza Israele non si può combattere l'antisemitismo
     Articolo OTTIMO!


Addio al Nobel per la pace, una vita per lo Stato Ebraico

di Antonio Donno

Elie Wiesel
Elie Wiesel è stato un difensore dei diritti di Israele senza se e senza ma. E' stato autore di romanzi splendidi, tra i quali l'indimenticabile "La notte", ha girato il mondo per parlare della Shoah, ha ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 1982, è stato il protagonista di mille battaglie per la giustizia, ma la sua vita era per Israele. E' stato tetragono nel difendere lo Stato degli ebrei di fronte ai suoi più accaniti critici, agli antisemiti di destra ma soprattutto di sinistra, ai sostenitori delle "buone" ragioni dei terroristi, da Hamas alla Jihad islamica, fino gli Hezbollah filo-iraniani; e ai politici occidentali, proni di fronte alle prepotenze e ai ricatti islamici. Quando, nel 1975, una risoluzione delle Nazioni Unite equiparò il sionismo al razzismo - uno degli esempi più osceni di antisemitismo - Wiesel, pieno d'orrore, scrisse: "Non è la prima volta che il nemico ci imputa i delitti di cui egli stesso è colpevole. Si mettevano le mani sui nostri beni, e ci trattavano da avari; massacravano i nostri bambini, e ci accusavano di infanticidio. Per indebolirci, si cercava di colpevolizzarci. Per condizionarci, si tentava di deformare l'immagine che avevamo di noi stessi. No, il procedimento non è nuovo". Ed è ancora in piena attività, oggi, come non mai.
  Il richiamo di Wiesel allora è ancor più valido - e necessario - oggi: "I nostri amici non-ebrei dovrebbero [...] rivendicare il sionismo come un onore". In "Un juif aujourd'hui", del 1977, Wiesel poneva la questione fondamentale, di un'attualità sconcertante: c'è posto per gli ebrei nel mondo? Nella Germania pre-nazista i tedeschi dicevano di avercela solo con gli ebrei polacchi, perché non volevano assimilarsi; in Francia, i francesi dicevano di avercela solo con gli ebrei tedeschi, perché erano troppo assimilati. E così via, in una serie ininterrotta di falsificazioni. " Tutto falso - scrive Wiesel - e ora lo sappiamo. Si trattava sempre e ovunque di noi tutti". Oggi è come allora. Più di allora.
Il problema è, dunque, e Wiesel ben lo sapeva, che l'antisemitismo non fa distinzioni di condizione sociale, nazionalità, età. Sembra quasi che l'antisemita conosca e condivida, per i suoi fini persecutori, i versi di "Ani maamin", l'incipit del dodicesimo dei tredici Principi della Fede di Mosè Maimonide: "Essere ebrei è credere / In ciò che ci lega /L'uno all'altro, e tutti in Abramo". L'antisemitismo non conosce stagioni, situazioni, differenze. L'attuale, dilagante antisemitismo non ne è forse la prova? Wiesel ripeteva negli ultimi tempi che l'Europa ha dimenticato gli orrori contro gli ebrei di cui è stata artefice nel passato e sembra che non se ne vergogni.
  Ecco perché Wiesel è stato un bastione del diritto di Israele all'esistenza: "Ora sappiamo - scrive - a che cosa aggrapparci: Israele rimane unito. Chi s'oppone a Israele, si mette contro tutto il popolo ebraico". Tutti gli ebrei, nei secoli, hanno sperato di ritrovarsi "l'anno prossimo a Gerusalemme", ma nessuno ci credeva. "Se qualcuno mi avesse detto un tempo - scrive Wiesel in "Credere o non credere" - nella mia infanzia, che in vita mia avrei visto la risurrezione di uno Stato ebraico libero e sovrano, non l'avrei creduto". E' stato così nel 1948; e da quel momento Wiesel non ha ceduto di un solo millimetro nella difesa di Israele. Anche quando, come si è accennato, le Nazioni Unite votarono la famosa, orribile risoluzione. Poi venne lo spettacolo più indecente, scrive Wiesel: "Appaiono già segni inquietanti. Il nauseante spettacolo di un'assemblea internazionale in delirio che accoglie in festa un portavoce del terrore". Il riferimento era ad Arafat, ovvio.
  Fu da quel momento che Wiesel cominciò ad avere paura per Israele, come scrive sempre in "Un juif aujourd'hui". Ai suoi tempi, Hitler propose una soluzione finale, mentre il mondo voltava lo sguardo dall'altra parte. Oggi, invece, lo spettacolo dell'antisemitismo è palese e gratuito. Di fronte a questa realtà, Wiesel ha sempre sostenuto che il popolo ebraico e Israele dovessero più che mai essere convinti che la loro storia sfiderà i secoli. Dopo la guerra del 1973, Wiesel, osservando la vita in Israele, scrisse con orgoglio: "Attraverso un mondo in effervescenza, giovani ebrei parlanti ogni lingua e usciti da ogni classe sociale partecipano ora alla stessa avventura rappresentata ai loro occhi dall'ebraismo. Un fenomeno, questo, che raggiunge il suo culmine in Israele". Oggi questo è ancor più vero. Il 18 aprile 2010 Wiesel indirizzò una lettera ad Obama, in cui affermava che Gerusalemme è così parte di Israele da essere al di là della politica. Gerusalemme è menzionata seicento volte nelle Scritture, scriveva Wiesel, ma nessuna nel Corano. Ma Obama è culturalmente troppo distante da Wiesel per comprendere il significato della sua lettera. Il 3 marzo di quest'anno, quasi a chiusura della sua stagione terrena, Wiesel ha sostenuto senza indugi il discorso tenuto da Netanyahu al Congresso americano. Un'ultima prova di fedeltà a Israele.

(Il Foglio, 5 luglio 2016)


Ciak sulla segretaria di Goebbels: «Non sapevamo nulla degli ebrei»

A 105 anni la sua storia diventa un film: ci tenevano tutto nascosto. A fianco del gerarca nazista l'intervista riapre una ferita nella società tedesca.

di Roberto Giardina.

 
Sullo striscione in fondo a sinistra: "Guerra totale, guerra più corta"
UNA VITA tedesca, è quella di Frau Brunhilde Pomsel. Una lunga vita. È stata la fedele segretaria di Joseph Goebbels, il ministro della propaganda del III Reich, e da poco ha compiuto 105 anni. Sempre lucida: hanno girato un film documentario "Ein deutsches Leben", una vita tedesca per l'appunto, di cui Brunhilde, nome wagneriano, è una delle voci più importanti. Il regista le dedica una lunga intervista, e lei sostiene: «I campi di sterminio, la morte di milioni di ebrei, vi assicuro, noi non sapevamo nulla, neanch'io che ero a contatto quotidiano con Goebbels».
Un'assoluzione per milioni di tedeschi. Le dobbiamo credere? Intervistai nel 1969 Albert Speer, l'architetto di Hitler, che gli diede pieni poteri quando aveva appena 28 anni. Era appena uscito dal carcere di Spandau dove aveva trascorso vent'anni. Non lo impiccarono a Norimberga perché fu l'unico a dichiararsi colpevole. Ero giovane e inesperto alla mia prima intervista importante, e gli feci la domanda sbagliata, e ottenni la risposta giusta: Sapeva dei lager? «Non sapevo», mi rispose mentre la moglie mi offriva una torta alle visciole fatta con le sue mani, «ma se avessi voluto sapere, avrei saputo». Ed era una confessione.

«CI È SEMPRE stato tenuto nascosto tutto», ribadisce Frau Brunhilde. Per decenni gli storici non hanno voluto parlare con i piccoli testimoni, coloro che «vissero fianco a fianco con i mostri». Nel timore, forse, che i loro racconti banalizzassero le figure di Hitler e dei suoi collaboratori, mostrandoli come uomini normali. Traudl Junge era la segretaria di Hitler e non trovò un editore per le sue memorie, fin quando girarono "Der Untergang", la caduta, il film sugli ultimi giorni del Führer nel Bunker di Berlino, grazie al suo manoscritto, con protagonista Bruno Ganz. Una testimonianza preziosa.

«GOEBBELS era vanesio», ci confida Brunhilde, «ogni giorno si faceva la manicure». Era piccolo, e fragile, niente affatto un eroe ariano. Ma era il terrore delle dive del cinema nazista: chi non cedeva, veniva cacciata dagli studios. E se parlava faceva una brutta fine. Goebbels aveva una fiducia assoluta nella sua segretaria: «Mi consegnò gli atti dei fratelli Scholl, quelli della Rosa bianca, giustiziati a Monaco. Erano segreti ma si fidava di me. Ne sono ancora orgogliosa».
Perché seguì il suo capo fino all'ultimo? le chiedono nel documentario: «Non potevo opporre alcuna resistenza... Sono troppo vigliacca». «Oggi — continua — molti sostengono di essersi adoperati a favore degli ebrei. Voglio credere alla loro buona fede, ma eravamo tutti come sotto una campana, eravamo in un certo modo tutti rinchiusi in un campo. Non si poteva far nulla».
Alla fine della guerra, i russi non credettero alla sua innocenza. La rinchiusero per cinque anni a Buchenwald, e quando ne uscì, ricominciò da dove aveva iniziato: prima di venir assunta da Goebbels era stenografa alla radio, riuscì a farsi assumere dalla Sudwestfunk, l'emittente della Baviera. Fece carriera e andò in pensione come segretaria capo all'ARD, il primo canale pubblico televisivo. Una lunga vita da segretaria.

BRUNHILDE è figlia di un imbianchino di Berlino. Il padre di Traudl Junge era un birraio di Monaco. Ragazze modeste, e per loro — confessano — fu una grande fortuna venire scelte dai grandi del nazismo. Traudl sognava di diventare ballerina, ma nel 1933, l'anno della presa di potere di Hitler, rinunciò alle ambizioni, la famiglia non aveva mezzi, e si iscrisse a una scuola per segretaria. Raggiunse nel 1942 la sorella a Berlino, ballerina di fila al Deutsches Theater, partecipò a una selezione per il personale della Cancelleria, sostenne una prova di dettatura nella "Tana del Lupo", piacque al Führer che la scelse come segretaria particolare.

LAVORÒ al suo fianco per tre anni, e fu a lei che il Führer il 28 aprile del '45 dettò il testamento prima di togliersi la vita con Eva Braun. Trauld aveva 23 anni, riuscì a fuggire dal Bunker, e fu più fortunata di Brunhilde: cadde nelle mani degli americani, che la giudicarono troppo giovane per essere colpevole. Anche lei tornò a lavorare come segretaria, presso la rivista "Quick". Le sue memorie vennero pubblicate solo postume, in Italia con il titolo "Fino all'ultima ora". Non fece in tempo a vedere se stessa sullo schermo interpretata da Alexandra Maria Lam. I suoi ricordi furono confermati dall'autobiografia di Rochus Misch, la guardia del corpo di Hitler. Per anni lo seguì passo per passo: «Non era un bruto, scrisse, non era un mostro, non era un superuomo». E la soluzione finale, e Auschwitz? «Non era una argomento di conversazione». Un Adolf uomo normale, uno come noi, fa più paura di un mostro.

(Nazione-Carlino-Giorno, 5 luglio 2016)


«Islamici italiani ambigui e ipocriti». Il leader ebraico: basta omertà

Pacifici: «Chi vive qui condanni chiaramente il terrorismo globale». «Le nostre comunità sono qui da duemila anni tra identità e rispetto»

di Orlando Pacchiani

BOLOGNA - «Anche l'Islam italiano deve uscire dall'ambiguità e prendere con chiarezza le distanze dal terrore globale, ma purtroppo è difficile trovare interlocutori attendibili». Riccardo Pacifici, esponente di primo piano del mondo ebraico italiano e a lungo presidente della Comunità romana, lancia l'allarme: «Non tutto il mondo islamico è assimilabile al terrorismo, è fuori di dubbio, ma l'adesione di molti predicatori delle nostre moschee ai Fratelli musulmani è un segnale da non sottovalutare».

- Perché Pacifici! qual è il legame con le azioni sanguinarie?
  
« Un' associazione che definisce porci gli ebrei, auspicando la scomparsa di Israele e di tutti gli infedeli, è una fonte di pericolo che va ben oltre le parole di circostanza espresse dai suoi rappresentanti in occasione di ogni nuovo massacro».

- Cosa si dovrebbe fare allora?
  
«Chiudere le moschee non sicure, ma al tempo stesso aprirne di nuove pienamente trasparenti. Dai princìpi che hanno fondato le nostre democrazie deriva il giusto dovere morale dell'accoglienza e della solidarietà umana nei confronti di chi viene a vivere qui. Ma al tempo stesso bisogna essere vigili e non fare sconti a chi ha scopi diversi».

- Quale può essere lo strada da seguire? Su che basi si imposta una piena integrazione?
  
«So che può apparire un paradosso, perché le comunità ebraiche sono insediate qui da duemila anni e noi siamo italiani da generazioni, ma il nostro percorso può essere un esempio: una forte difesa della propria identità religiosa inserita nel pieno rispetto dell'identità nazionale».

- Non ci sono davvero controparti nel mondo islamico italiano in sintonia con questa prospettiva?
  
«Posso citarne uno: l'imam Pallavicini, del Coreis, insieme al quale facciamo attività importanti anche all'interno delle scuole. Per il resto è dura, prevale l'ipocrisia. In un tweet mi sono stupito che il rappresentante della comunità palestinese italiana, ospite di una trasmissione Rai, in 24 ore non avesse trovato il tempo di condannare l'accoltellamento nel suo letto della tredicenne Hillel Yafa Ariel, a Hebron, da parte di un ragazzino di 17 anni. Un altro omicidio figlio della cultura dell'odio, di una pericolosa commistione tra religione e ideologia, che sta dilagando sempre di più anche in Europa, con nuovi inquietanti timori».

- Quali?
  
«Da una parte la necessità di difendersi dal fondamentalismo islamico, dall'altro la risposta dei populismi che spesso giocano su pulsioni xenofobe e talvolta sconfinano in tendenze neonaziste. Noi ci sentiamo nel mezzo e ribadiamo la necessità di rafforzare ognuno la propria identità come base per confrontarsi con gli altri, per cancellare la paura e non alimentare il razzismo. Chi non ha questa apertura, vuol dire che preferisce giocare con l'ambiguità».

(Nazione-Carlino-Giorno, 5 luglio 2016)


Netanyahu in Uganda sulle orme del fratello Yoni, l'eroe di Entebbe

Il Premier israeliano avvia il tour in Africa sub-sahariana

 
GERUSALEMME, 4 lug. - Il premier israeliano Benyamin Netanyahu è partito oggi per l'Uganda, dove esattamente 40 anni fa fu ucciso suo fratello e che oggi diventa la prima tappa di una "storica" quattro giorni in Africa sub-sahariana. L'obiettivo è quello di consolidare le relazioni israelo-africane, oltre che onorare la memoria di Yonatan, detto Yoni, morto nel celebre raid di Entebbe, di cui il fratello maggiore dell'attuale primo ministro, all'epoca trentenne era il il comandante. prigionieri perse la vita.
   "Spesso devo mandare gente in posti dove, se qualcosa va storto, non torneranno più. E allora, in quei momenti, mi consulto con mio fratello. Lo faccio molto più spesso di quanto possiate immaginare", ha raccontato il primo ministro israeliano in un'intervista al New York Times, che scandaglia in un lungo articolo il legame tra i due fratelli, uno in vita, l'altro morto, "che ha cambiato profondamente Israele".
   Nel quarantesimo anniversario del raid costato la vita a Yoni, la vicenda è tornata con vigore nella vita e nella narrativa del Paese ebraico. Un libro di testimonianze di compagni del commando - tutti sopravvissuti - è stato appena pubblicato in lingua ebraica, una mostra è stata allestita a Tel Aviv, la memoria di quel blitz è tornata nel dibattito pubblico, con molti quesiti proprio sulla trasformazione in "leggenda" di Yoni Netanyahu, descritto come guerriero, poeta, brillante giocatore di calcio, studente modello, la cui memoria è stata coltivata con grande fervore dalla famiglia dell'attuale premier. "Aveva l'anima del poeta, era un grande scrittore, ma era anche un uomo d'azione, un comandante senza pari, sapeva pensare ed agire", dice oggi il fratello "Bibi". "Aveva una grande anima".
   Nel 1976, la "stella" dei Netanyahu era comandante della Sayeret Matkal, le Forze di Difesa Israeliane, unità d'elite specializzata e della cui attività si sa sempre poco. Il 27 giugno un commando di palestinesi e tedeschi dirottò un volo Air France in rotta da Tel Aviv a Parigi e lo fecero atterrare ad Entebbe, a 3.000 chilometri da Israele. Quanto i terroristi cominciarono a dividere gli ostaggi tra ebrei e non ebrei, Shimon Peres, che era all'epoca ministro della Difesa, decise di mandare un commando militare: furono uccisi tutti i sequestratori e furono liberati gli ostaggi, ma il comandante Netanyahu venne colpito da un unico colpo di pistola, fatale. Ad oggi ancora si discute su chi fu a spararlo.
   Così oggi il premier Netanyahu è partito sulle tracce della memoria del fratello e su un sentiero africano ancora pochissimo battuto da Israele, accompagnato da 80 imprenditori a rappresentanza di una cinquantina di importanti imprese israeliane. Dopo l'Uganda, dove è in agenda una commemorazione del raid di Entebbe e dove il suo arrivo è stato salutato da 19 salve di cannone e dalla fanfara militare che ha intonato l'inno israeliano, Netanyahu andrà in Kenya, Rwanda ed Etiopia.
   "Israele è stato messo sulla lista nera in Africa, noi siamo stati scartati a causa di pressioni politiche da parte di un gruppo di Paese dove noi eravamo impegnati negli anni '60 e '70 ed è servito tempo per cambiar le cose. Perchè non rivedere questa assurdità?", si è chiesto il primo ministro israeliano in una intervista al quotidiano ugandese Daily Monitor.

(askanews, 4 luglio 2016)


Ad Alghero l'ambasciatore israeliano

Naor Gilon ha incontrato il sindaco Mario Bruno.

SASSARI - Dopo tre anni di assenza ritorna ad Alghero l'ambasciatore israeliano in Italia, Naor Gilon. Il diplomatico è stato incontrato dal sindaco Mario Bruno nella sede storica del Municipio in via Columbano dove si è avuto un breve e cordiale colloquio e lo scambio di doni. Nella precedente visita l'ambasciatore era stato invitato nella cittadina catalana per l'inaugurazione della Placa della Juhuaria, lo spazio che nei secoli scorsi era il mercato degli ebrei, proprio all'ingresso della città, dove si accoglievano tutti i commerci che giungevano dal mare.
Da una ricerca svolta proprio dalla moglie di Naor Gilon, Amira, studiosa della storia di Israele e appassionata ricercatrice dei segni del passaggio degli ebrei nel mondo, si è scoperto che Alghero ospitava la colonia più numerosa della Sardegna, circa 800 persone quando la popolazione sarda non raggiungeva le 10 mila unità. La vicinanza tra la città catalana e Israele si è consolidata in concomitanza con i lavori di recupero del quartiere ebraico medioevale, quelli del complesso di Santa Chiara, dove ha sede la facoltà di architettura dell'università di Sassari. L'ambasciatore israeliano, che parla un ottimo italiano, ha ricordato come quella comunità contribuì alla crescita e allo sviluppo di Alghero. Naor Gilon, che nei giorni scorsi ha incontrato il presidente della Regione Francesco Pigliaru ha posto le basi per possibili punti di collaborazione tra la Sardegna e Israele, soprattutto nel settore agroalimentare.

(Sardegna Dies, 04 luglio 2016)


Shin Bet: gli attentatori di Sarona ispirati dall'ideologia dello Stato islamico

Ma non hanno ricevuto né soldi né addestramento dall'Isis

GERUSALEMME - Il servizio di intelligence interna israeliano, lo Shin Bet, ha dichiarato oggi che i due attentatori responsabili della sparatoria avvenuta lo scorso 8 giugno nell'area commerciale di Sarona, a Tel Aviv, si sono ispirati all'ideologia dello Stato islamico (Is). L'intelligence ha precisato, tuttavia, che i due cugini, Ahmed e Khalid Muhamra, originari di Yatta, in Cisgiordania, non hanno giurato fedeltà all'Is, né hanno ricevuto finanziamento o addestramento da parte di altri affiliati all'Is. Lo Shin Bet ha reso noto che uno dei due cugini, Ahmed, ha studiato in Giordania ed era un sostenitore dello Stato islamico. L'altro attentatore palestinese, invece, sarebbe stato traumatizzato per la demolizione della sua abitazione da parte degli israeliani quando era più piccolo. Il giorno dell'attacco a Sarona i due cugini, insieme al loro complice, Yunis Zayn, che avrebbe fornito le armi usate ed avrebbe aiutato a pianificare l'attentato, hanno scattato una foto con la bandiera dell'Is sullo sfondo.

(Agenzia Nova, 4 luglio 2016)


Israele. Torna la protesta degli etiopi

Centinaia di manifestanti hanno bloccato le strade di Tel Aviv per protestare contro i presunti abusi della polizia contro di loro e per chiedere giustizia per Yosef Salamsa, un giovane etiope suicidatosi nel 2014 in seguito alle violenze subite da parte delle forze dell'ordine.

di Roberto Prinzi

 
Proteste della comunità etiope
ROMA, 4 lug - Centinaia di etiopi israeliani sono tornati di nuovo in strada ieri sera a Tel Aviv per protestare contro gli abusi della polizia e le discriminazioni del governo nei loro confronti. I manifestanti hanno bloccato alcune strade della città paralizzando il traffico cittadino in particolare a Kaplan Street, una delle principali arterie di Tel Aviv. Rispetto a quanto accaduto in passato, il corteo è sfilato in maniera pacifica sebbene a fine serata siano stati dodici gli attivisti della comunità etiope arrestati perché accusati di aver "bloccato il traffico" (sono stati rilasciati tutti solo in tarda nottata). Molti dei partecipanti indossavano t-shirt in cui si chiedeva giustizia per Yosef Salamsa, un etiope-israeliano che si è suicidato nel 2014 in seguito alle (presunte) violenze subite da parte della polizia israeliana. Il suo corpo senza vita fu ritrovato in una cava nella cittadina di Binyamina, nel nord d'Israele.
   Il caso Salamsa è una ferita ancora aperta all'interno della comunità etiope dello stato ebraico ed è, denunciano i manifestanti, emblematica della discriminazione che essi subiscono in Israele pur essendo ebrei. Per capire i malumori degli etiopi bisogna ritornare indietro di qualche mese: a inizio anno la polizia ha deciso di chiudere le indagini sul caso Salamsa per mancanza di prove circa una eventuale "condotta criminale" da parte delle forze dell'ordine. A febbraio, però, un comunicato del Dipartimento indagini della polizia interna (DIPI) del ministero di giustizia israeliano se, da un lato, determinava che la morte del ragazzo non era stata causata dagli abusi compiuti dagli agenti, sottolineava, dall'altro, i diversi "errori procedurali" compiuti dagli ufficiali durante la sua incarcerazione. Errori che, si leggeva ancora nella nota, richiedevano l'applicazione di misure disciplinari.
   Salamsa era stato arrestato nel marzo 2014 nei pressi della cittadina di Zichron Ya'acov e, dopo essere stato soggetto ripetutamente a taser, veniva rilasciato. Il ragazzo, hanno sempre sottolineato gli attivisti della comunità, era stato detenuto senza essere accusato di alcun crimine e senza essere mai interrogato: una "anomalia" che non si verifica mai quando a cadere nelle mani della polizia sono ebrei ashkenaziti. Le violenze subite lo avrebbero portato ad una forte depressione al punto che la famiglia decise di denunciare il DIPI. Secondo i familiari di Salamsa, però, quella denuncia avrebbe peggiorato la situazione: il giovane sarebbe diventato ancora di più bersaglio degli abusi degli ufficiali di polizia. Un esposto, tuttavia, che la vittima non ha mai presentato personalmente e che - motiva il Dipi - ha portato alla chiusura anticipata delle indagini.
   Una decisione, quest'ultima, che ha mandato su tutte le furie la comunità etiope d'Israele (oltre 130.000 persone) che già da tempo chiede con forza al governo Netanyahu di porre fine una volta e per tutte al "razzismo sistematico e istituzionale" che vive all'interno dello stato ebraico. Proprio l'emarginazione sociale, economica e politica che essi subiscono aveva spinto migliaia di loro a protestare in varie occasioni per le strade di Tel Aviv e Gerusalemme. A scatenare la rabbia della comunità era stata la pubblicazione di un video in cui si vedevano alcuni agenti della polizia assaltare senza motivo un soldato etiope.
   Un episodio che non si sarebbe mai verificato, sottolineò in quella circostanza la comunità, se l'aggredito, invece di essere di pelle nera, fosse stato un ebreo bianco ashkenazita. Le proteste dello scorso anno furono duramente represse dalla polizia: a maggio almeno 41 persone rimasero ferite negli scontri con le forze di sicurezza. Per disperdere i manifestanti la polizia arrivò ad usare bombe stordenti e cannoni ad acqua: una novità se si considera che erano "ebrei" e non palestinesi.

(Nena News, 4 luglio 2016)


Tra scienza e magia: la cabala ebraica e i suoi significati

Scienza e fede sono sempre stati come due coniugi tanto diversi quando indispensabili l'uno per l'altro. Non esiste al mondo un solo elemento che non abbia fatto la spola fra i due, passando prima dal mito della magia, dal campo dei segnali divini, per poi essere 'promosso' a fatto scientifico nudo e crudo, razionale e finalmente spiegato da teorie scientifiche e concrete.
Eppure, nel 2016, sono innumerevoli gli aspetti della propria vita che l'essere umano non riesce ancora a spiegare, ma che si manifestano puntualmente, tanto da essere una via di mezzo fra magia e realtà. E forse è bello che oggi si possa ancora sognare, in tutti i sensi.

 La magia della cabala ebraica
  Quando si parla di magia, spesso ci capita di entrare nel campo del divino: che non significa avere direttamente a che fare con un dio in particolare, ma piuttosto con un macro-cosmo superiore all'essere umano, che travalica qualsiasi religione e finisce lì dove noi non potremo mai arrivare.
Ovvero alla conoscenza dei luoghi e dei segreti del creato, con la speranza che qualcosa arrivi anche a noi. La cabala ebraica si pone esattamente in questa dimensione: è una vera e propria arte, la cui nascita si trova radicata nell'era dei tempi e che ha fatto proseliti in tutte le fedi e in tutto il mondo. È interpretazione mistica pura, è esoterismo, è la scoperta della pietra filosofale della vita.
È, in altre parole, l'unico modo che abbiamo noi comuni mortali di avvicinarci a qualcosa che, altrimenti, non potremmo mai cogliere. E non è un caso che la cabala ebraica (qabbalah significa 'ricevere') serva a cogliere questi segnali, nella credenza che tutto nella vita ha un significato, che tutto è scritto, e che tutto può essere decifrato partendo proprio dai sogni.
La cabala ebraica si fonde alla perfezione con altre arti divinatorie antichissime e altrettanto affascinanti, come ad esempio la numerologia. Nel testo della Qabbalah ebraica, infatti, troviamo una connessione molto forte con i numeri, e non è un caso che nell'alfabeto ebraico ad ogni lettera corrisponda un numero. Su DonnaD.it si possono trovare numerosi informazioni riguardo a come interpretare i sogni, attraverso l'interpretazione dei numeri della cabala ebraica. Infatti, è soprattutto nei sogni che il divino ci comunica messaggi veri e propri, al punto da scoprire cosa ci attende al nostro risveglio.

 Cabala ebraica e scienza
  DNA ed esoterismo? Stando alle ultime scoperte scientifiche, pare che i due vadano a braccetto. Esiste infatti una teoria che sostiene che i pensieri ed i linguaggi umani siano in grado di modificare il genoma umano, al punto che la stessa bibbia ebraica sarebbe di fatto una mappa del nostro DNA. Com'è possibile? Il motivo sarebbe da far risalire al fatto che la creazione dell'essere umana continua a far sentire i suoi effetti attraverso il verbo, consentendoci di evolverci non solo a livello fisico ma anche mentale. In altre parole, cabala ebraica e scienza a braccetto insieme.

(Viterbo News, 4 luglio 2016)


“Non si trovi in mezzo a te chi fa passare il suo figlio o la sua figlia per il fuoco, né chi esercita la divinazione, né pronosticatore, né augure, né mago” (Deuteronomio 18:10).
Questo dice la Torah. La cabala può essere definita come la via ebraica all’occultismo e alla magia. L’articolo riportato sopra lo dice bene: “La cabala ebraica si fonde alla perfezione con altre arti divinatorie antichissime e altrettanto affascinanti”. Queste affascinanti “arti divinatorie antichissime” sono appunto le arti idolatriche pagane contro cui si sono scagliati i profeti biblici. Nella commistione di scienza e magia si riconosce la forma “nobile”, in stile New Age, che ha preso oggi l’occultistica cabala. Il “macro-cosmo superiore all'essere umano, che travalica qualsiasi religione e finisce lì dove noi non potremo mai arrivare” è in realtà la sfera del diabolico. M.C.


Jerusalem Day a Teheran

TEHERAN - Decine di migliaia di iraniani sono scesi in strada, il 1 luglio, in occasione della Giornata di Gerusalemme per mostrare il loro sostegno al popolo palestinese e protestare contro la politica di Israele a Gaza.
A Teheran, riporta Efe, manifestanti di tutte le età innalzavano cartelli con slogan come "Gerusalemme appartiene ai musulmani", oltre a gridare slogan contro i governi di Arabia Saudita e Stati Uniti perché alleati di Israele. Alcuni manifestanti portavano cartelli sul presunto supporto di Israele allo Stato islamico e una caricatura del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che bacia i piedi del re dell'Arabia Saudita. La marcia per la Giornata di Gerusalemme, che si tiene in Iran dal 1979, si è conclusa con la preghiera del venerdì, cui le autorità iraniane avevano esortato a partecipare.

(AGI, 4 luglio 2016)


Iran: "Hezbollah potrebbe lanciare centomila missili contro Israele"

"Una mossa sbagliata e tutti i territori occupati dai sionisti saranno liberati. Le potenze occidentali cercano di sfruttare le differenze tra sunniti e sciiti per distogliere l'attenzione dal conflitto israelo-palestinese".

di Franco Iacch

Generale Hossein Salam, vice comandante delle Guardie Rivoluzionarie iraniane
Centomila missili sono pronti a volare dal Libano per colpire Israele. E' quanto ha dichiarato poche ore fa all'agenzia Tasnim, il vice comandante delle Guardie Rivoluzionarie, il generale Hossein Salami.
Il week end appena trascorso si è contraddistinto per essere stati particolarmente ricco di minacce iraniane contro Israele e Stati Uniti. Durante una manifestazione per esprimere sostegno ai palestinesi, il presidente Hassan Rouhani ha commentato, poche ore fa, ha commentato gli accordi sul nucleare per poi puntare il dito contro l'Occidente:
"Quell'accordo è stato il modo più economico per raggiungere gli obiettivi e gli interessi dell'Iran, adesso dobbiamo sfruttare il nuovo contesto. Le potenze occidentali cercano di sfruttare le differenze tra sunniti e sciiti per distogliere l'attenzione dal conflitto israelo-palestinese. Quell'arroganza globale (Stati Uniti ed alleati) vuole solo creare discordia tra i musulmani. L'unità è l'unico modo per ripristinare la stabilità nella regione, noi siamo con la nazione palestinese diseredata".
L'Iran sostiene i gruppi militanti palestinesi e libanesi che si oppongono alla pace con Israele.
Il leader supremo del paese, l'Ayatollah Ali Khamenei, sabato scorso, si è invece rivolto agli studenti del mondo musulmano. Dalle associazioni studentesche - ha affermato l'Ayatollah Khamenei ripreso da Tasnim - mi aspetto un fronte unificato contro gli Stati Uniti ed Israele.
"Utilizzando i nuovi mezzi di comunicazione nel cyberspazio, si dovranno organizzare le principali campagne in opposizione alle politiche degli Stati Uniti e del regime sionista di Israele. In caso di necessità, milioni di giovani studenti musulmani potrebbero creare un imponente movimento in tutto il mondo islamico".
Khamenei ha concluso il suo intervento auspicando attenzione massima contro "le trame dei nemici che cercano di sabotare il Paese".
Sono state comunque le dichiarazioni del generale Salami, per quei "centomila missili pronti a volare dal Libano", a destare particolare attenzione in Occidente. Al di là dell'aspetto propagandistico interno, il vice comandante delle Guardie Rivoluzionarie, ha dichiarato che "i motivi per l'annientamento e la caduta del regime sionista, oggi sono presenti più che mai".
"Una mossa sbagliata e tutti i territori occupati dai sionisti, a Dio piacendo, saranno liberati. Hezbollah possiede centomila missili che sono pronti a colpire Israele per liberare i territori palestinesi occupati".
Gli Stati Uniti hanno sviluppato o finanziato congiuntamente tutti e tre i livelli di difesa missilistica di Israele: Iron Dome (corto raggio), David's Sling (medio raggio) ed Arrow (lungo raggio).
Il sistema mobile Iron Dome della Rafael, progettato per la difesa di piccole città, è operativo dal 2011. Ogni lanciatore è dotato di venti missili ed è ritenuto in grado di intercettare tutte le minacce a corto raggio (da 4 a 70 km) in qualsiasi condizione meteo. Le polemiche che hanno contraddistinto lo sviluppo dell'Iron Dome, sono legate principalmente al suo costo proibitivo rispetto al Qassam. La Cupola di Ferro ha fino ad oggi intercettato più di 1.200 razzi. Secondo le stime israeliane, Iron Dome ha una percentuale di intercettazione pari al 90%.
Se da un lato è vero che l'intercettazione dei missili nemici ha dimostrato la capacità di Israele di rispondere a molteplici minacce simultaneamente, dall'altro bisogna rilevare che nessun paese al mondo può considerarsi realmente al sicuro dagli attacchi stratificati, come quelli eseguiti nel 2014 dai palestinesi.

(il Giornale, 4 luglio 2016)


Marina Jarre, tra valdesi e diaspora ebraica

Morta a Torino a 91 anni, è stata la scrittrice dei "padri lontani".

di Mario Baudino

 
Marina Jarre
TORINO - Marina Jarre si è trovata a essere scrittrice all'incrocio tra due passati, entrambi fieri e dolorosi: quello dei valdesi perseguitati dal Medioevo fino all'editto di Carlo Alberto, e quello della diaspora ebraica, dalla Spagna del Cinquecento allo sterminio. Li ha ripercorsi entrambi, in un'opera di ricerca e di tenerezza, tra romanzi e memoir come Un leggero accento straniero o Padri lontani, Ascanio e Margherita o La principessa della luna vecchia. È morta a Torino, alla soglia dei 91 anni, cinquanta dei quali dedicati alle scrittura e culminati idealmente in uno dei suoi titoli più famosi, Ritorno in Lettonia, lungo viaggio alla ricerca del padre divorato dall'Olocausto.
   Era nata a Riga, nel '25, dall'erede, ebreo lettone, di una dinastia industriale, Samuel Gersoni, e da madre italiana e valdese, lettrice all'università. Ben presto però i genitori si separarono, e Clara Coìsson - grande traduttrice dal tedesco e dal russo - portò con sé a Torre Pellice lei e la sorellina Annalisa. Dall'incontro tra due culture, molte lingue e una riflessione continua sul peso della storia è nata una scrittrice (edita per lo più da Einaudi e Bollati Boringhieri, in una fedeltà tutta torinese) che aveva in sé una non rinnegata filigrana cosmopolita e una forte adesione alla tradizione italiana.
   Marina Jarre sapeva guardare alla storia (come nei romanzi dedicati ai valdesi) e insieme a un'umanità spoglia nella sua semplice verità, eroicamente traversata dal quotidiano. Sono, i suoi, libri che resteranno. I libri dei «padri lontani».

(La Stampa, 4 luglio 2016)


Una donna alla guida degli ebrei italiani: «Sicurezza la priorità»

Intervista a Noemi Di Segni, nata a Gerusalemme e romana d'adozione subentra a Gattegna. Era stata assessore al Bilancio dell'Ucei.

Noemi Di Segni, subito dopo la nomina a Presidente
ROMA - «Sappiamo cosa vuole dire essere obiettivo dei terroristi. Lo sappiamo per vissuto, conosciamo l'emergenza sicurezza, Ia necessità di interpretare i segnali e capire come si muovono i gruppi sul territorio, senza chiudere gli occhi per paura. E l'aiuto che possiamo dare all'Europa in questo momento in cui la densa nuvola nera è arrivata a oscurare anche i nostri cieli». Parte determinata Noemi Di Segni, appena eletta Presidente dell'Ucei, l'Unione delle Comunità ebraiche italiane. 47 anni, di professione coordinatrice dei rapporti internazionali dei commercialisti, nata a Gerusalemme e romana d'adozione, sposata. tre figli. Una outsider, rispetto al panorama dell'ebraismo romano. La lista con cui il 19 giugno si era presentata alle elezioni comunitarie si chiama Benè Binah, i figli della saggezza. Per quattro anni Di Segni è stata assessore al Bilancio dell'Ucei e ora prende il posto di Renzo Gattegna, avvocato, da dieci anni alla guida degli ebrei italiani. Ha conquistato il cuore delle piccole comunità italiane.

- Di Segni, il suo primo gesto quale sarà?
  
«Non ci sarà un atto simbolico perché le sfide sono tante e in parallelo. Non si tratta di mettere una targa. ma di analizzare i fenomeni. Rimarcando il contributo valoriale che l'ebraismo italiano offre e condivide con la società esterna e il modo in cui l'ebraismo stesso viene riconosciuto e tutelato».

- Un doppio sguardo, quindi?
  
«All'interno è necessario dare un messaggio di unità, l'ebraismo italiano è frastagliato, le comunità sono 21, ma oltre alle maggiori di Roma e Milano ne esistono altre 19 con le quali bisogna definire nuovi modelli di networking per gestire in sinergia i servizi comunitari. I finanziamenti dell'otto per mille andranno rafforzati. Ma bisogna anche affrontare il tema dell'identità ebraica, con la formazione religiosa, la scuola. la socializzazione».

- Vede dei rischi?
  
«Quello di una banalizzazione di quanto appartiene alla nostra memoria, di volgarizzazione della cultura ebraica e dei suoi simboli portati all'esterno e vissuti come festival».

- Ma all'esterno la sicurezza non rischia di diventare argomento dominante?
  
«Il problema è che bisogna sviluppare una strategia vincente per difendere le nostre comunità da un antisemitismo che diventa sempre più aggressivo e subdolo. Ma la sicurezza va gestita informando e senza generare panico. Di concerto naturalmente con le forze dell'ordine e l'intelligence».

- Dopo Ruth Dureghello presidente degli ebrei romani, lei è la seconda donna alla guida di un'istituzione comunitaria. E a Roma da un paio di settimane abbiamo anche il sindaco donna. Segno di nuovi tempi?
  
«Spero che donne giovani con voglia di fare portino il loro entusiasmo a vantaggio della collettività. Staremo a vedere».

- Lei è nata a Gerusalemme, poi è venuta a vivere in Italia, un percorso inverso rispetto a quello fatto da molti.
  
«Sono cresciuta in un ambiente religioso, fino a vent'anni ho vissuto in Israele dove ho fatto il servizio militare. sono madre di tre figli due dei quali avviati verso una vita in Israele. Sono figlia di italiani e parte di una comunità antica ma proiettata verso il futuro, Come comunità siamo al fianco dello Stato di Israele. Sappiamo come la sua sopravvivenza rappresenti una garanzia per resistenza. e aggiungerei oggi resistenza, dell'intera compagine europea. Continueremo a difenderlo come luogo di eccellenza nello sviluppo etico, scientifico, tecnologico e sociale, unico nel Mediterraneo».

- Ci sarà continuità con la presidenza Gattegna dell'Ucei?
  
«Assolutamente sì. Lo considero un esempio di presidenza da seguire, da lui ho imparato moltissimo, soprattutto l'ascolto e il rispetto delle persone».

(Il Messaggero, 4 luglio 2016)


Mostra unica sulla tecnologia israeliana all'Aeroporto di Ben Gurion

L'Aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv ospita una mostra della durata di un anno sull'innovazione israeliana che mette in luce la fama mondiale del paese come Startup Nation. I viaggiatori attraverso il gateway principale di Israele entrano in contatto con una panoramica delle 60 invenzioni e scoperte scientifico-tecnologiche, molte delle quali provenienti dai laboratori dell'Università di Ben Gurion, con particolare attenzione ai Premi Nobel di Israele.
E se vi dovesse capitare di essere a Tel Aviv, la mostra si trova appena dopo il controllo passaporti.
Si tratta di un ottimo modo per passare il tempo tra un volo ed un altro. L'esibizione si chiama Israeli Discoveries and Developments that Influenced the World ed è stata lanciata dal Ministero israeliano della Scienza, della Tecnologia e dello Spazio.
Il Ministro della Scienza e della Tecnologia, Ofir Akunis, sottolinea in una nota:
Stiamo dimostrando al mondo e a tutta l'umanità il vasto contributo della scienza e della tecnologia. E i progetti presentati sono davvero vasti e variegati.
Come emerge dal comunicato ufficiale, tra le moltissime invenzioni in esposizione, compaiono:
  • L'unità flash (o chiave USB);
  • Microchip Intel;
  • Vasta gamma di dispositivi robotici e farmaci in grado di migliorare la vita di milioni di persone in tutto il mondo.
Presente anche Netafim, il principale produttore al mondo di sistemi di irrigazione a goccia, che permette di risparmiare fino al 70 per cento dell'acqua utilizzata in agricoltura. Lo sapevate che l'irrigazione a goccia è un'invenzione israeliana? La tecnica è stata inventata nel 1960 nel Kibbutz Hazerim, sviluppata e raffinata dall'ingegnere Simcha Blass, il quale ha poi iniziato la produzione in loco dei primi sistemi a goccia.

TaKaDu affronta l'erogazione dell'acqua, offrendo soluzioni intelligenti per i tubi che perdono. Amir Peleg ha fondato l'azienda nel 2009 la quale, grazie all'utilizzo di sensori, consente ai clienti di monitorare le loro reti idriche, rilevare perdite, inefficienze e tenere traccia delle prestazioni in tempo reale.

BioBee, sviluppa metodi sostenibili di controllo dei parassiti per scopi agricoli.

Flux è una tecnologia per semplificare la coltivazione del cibo sostenibile utilizzando la coltivazione idroponica. Il prodotto verrà lanciato questa estate.
Israele è leader mondiale nel settore tecnologico, ha dato vita a migliaia di innovazioni in una serie di settori tra cui agricoltura e medicina, che incidono direttamente sulla vita di milioni di persone in tutto il mondo.

(SiliconWadi, 4 luglio 2016)


"Sharia free zone": in Texas è legge e cresce il consenso per la messa al bando dei musulmani

di Marco Dotti

 
Il fatto che in Texas non vadano troppo per il sottile è cosa risaputa. Ma dopo la decisione di mettere giuridicamente al bando «ogni forma di legge islamica» anche la nota risolutezza texana è parsa eccessiva a molti, ma non a tutti. Soprattutto non ai texani.
Da tempo i think tank conservatori parlano di una "penetrazione giuridica" islamica nelle corti di giustizia statunintensi e il dibattito, che va avanti da circa due anni - e si era finora tenuto sul piano locale - rischia adesso di rompere gli argini. I sondaggi vedono la maggioranza dei texani d'accordo con un eventuale messa al bando dei musulmani non cittadini americani.
A rivelarlo è un'indagine dell'Università del Texas a Austin. La combinazione tra la campagna presidenziale di Donald Trump e il voto per brexit nel Regno Unito ha riportato d'attualità un atteggiamento "nativista" nei settori del commercio, dell'immigrazione, della politica estera e del "divieto ai musulmani non cittadini di entrare negli Stati Uniti". Torna di moda anche il "muro", ipotesi che alcuni tra i più noti magnati del petrolio texani si sono detti ben disponibili a sostenere, anche economicamente.
Stando alla ricerca dell'Università del Texas, oltre il 76% degli elettori repubblicani dello Stato risulta d'accordo con la messa al bando dei musulmanti. Nel complesso, il 52% degli aventi diritto al voto è d'accordo con questa posizione, che sta guadagnando margini anche sul fronte democratico. Torniamo alla shari'a e alle polemiche a non finire fra conservatori e organizzazioni islamiche. A queste polemiche hae risposto nei giorni scorsi il procuratore generale Ken Paxton, ribadendo la liceità della decisione texana.
Una decisione che, di fatto, replica quella già accolta da altri 16 Stati americani.
I Tribunali texani non dovranno più far valere, nelle controversie, norme di diritto di famiglia provenienti da ordinamenti ritenuti in contrasto con questo divieto. Si tratta, nella sostanza, di una norma che, soprattutto in tema di separazioni e controversie matrimoniali, pone dei limiti alla discrezionalità dei giudici. Poco più che un caso di scuola secondo i critici, ma dall'effetto mediatico dirompente. Nessuno vuole vietare a nessuno di seguire i precetti religiosi del Corano, spiegava lo scorso anno la senatrice Donna Campbell, che chiariva: "vogliamo che non siano applicate quelle decisioni prese da corti straniere che contemplano la shari'a come fonte di diritto positivo".

(Vita, 4 luglio 2016)


Turchia e Israele firmano la svolta

di Alighiero Casassa

Ma la tappa romana di Netanyahu segna soprattutto la normalizzazione dei rapporti con Ankara a sei anni dalla vicenda Mavi Marmara, quando Israele sparò contro la nave carica di aiuti per Gaza uccidendo 9 cittadini turchi. Sarà anche per questo motivo che a Gaza, nella Striscia controllata dai terroristi di Hamas, l'accordo tra Netanyahu ed Erdogan è stato subito bocciato, essendo le bande criminali al potere in quelle lande ben asservite a Teheran (ma non solo gli iraniani, nella Striscia si trova di tutto).
Ieri sono stati resi noti i dettagli dell'accordo raggiunto dopo i negoziati di Roma.
La riparazione di 20 miliardi di dollari per i familiari delle vittime, che Israele verserà ad un fondo speciale preposto a tale compito, sta già aprendo un dilaniante dibattito all'interno di Israele, ove la destra di governo (guidata da Avigdor Lieberman e Naftali Bennet), si unisce alle critiche provenienti dal leader laburista Isaac Herzog, nell'accusa di piegarsi a rimborsare i familiari di coloro che essi definiscono terroristi, aggressori dei soldati israeliani che compivano il loro dovere.
L'accordo è quindi un compromesso che consentirà alla Turchia di portare aiuti umanitari attraverso il porto israeliano di Ashdod e non direttamente ai Territori palestinesi, il completamento dell'ospedale di Gaza con 200 posti letto al più presto possibile, oltre alla costruzione di una nuova centrale elettrica e di un impianto di desalinizzazione dell'acqua. Il premier Israeliano ha precisato che il materiale destinato a Gaza sarà affidato alle autorità Israeliane e da queste poi consegnato ai palestinesi mentre le navi della marina continueranno sotto sorveglianza il tratto di mare prospiciente la Striscia.
L'accordo tra Turchia e Israele è "un importante e incoraggiante segnale di distensione nella regione".
L'accordo sarà firmato questa mattina a Roma, dopodiché sarà avviato il processo di ratifica presso i parlamenti dei due paesi.
A Roma Netanyahu ha incontrato il premier Matteo Renzi che ha espresso il suo apprezzamento per la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Israele e Turchia.
Il segretario generale dell'Onu però se la prende come al solito con Israele.
Da molti Paesi si levarono reazioni internazionali di condanna. La "diplomazia del gas", secondo di esperti, è destinata anche a rafforzare le relazioni commerciali tra Gerusalemme e Ankara.
Infine, se Erdogan riuscisse nell'intento di essere considerato il salvatore di Gaza, le aspirazioni dell'altro giocatore chiave nella competizione per l'influenza sulla Striscia verrebbero frenate.

(Alghero News, 4 luglio 2016)


Il consorzio Tamar approva un progetto per un nuovo pozzo nel giacimento israeliano

GERUSALEMME - Un consorzio guidato dalla società Usa Noble Energy ha approvato un progetto del valore di 265 milioni di dollari per scavare un nuovo pozzo nel giacimento Tamar, nel Mediterraneo orientale. Lo hanno annunciato oggi funzionari del consorzio formato da Noble e dalle due israeliane Delek Drilling e Avner Oil. "I partner del Tamar hanno deciso di approvare un bilancio di circa 265 milioni di dollari per scavare il 'Tamar 8' e collegarlo alle infrastrutture esistenti nel giacimento di Tamar", si legge in un comunicato congiunto di Delek e Avner. Nella nota si aggiunge che quest'ultimo pozzo consentirà di aumentare le forniture del giacimento durante "periodi di picco della domanda".
   Il nuovo pozzo, Tamar 8, si trova 100 chilometri offshore e raggiungerà una profondità di 3,5 chilometri sotto il fondale marino. I lavori di perforazione inizieranno nell'ultimo trimestre dell'anno, mentre per la connessione tra questo pozzo e le condutture esistenti ci vorranno quattro mesi. Il giacimento Tamar è stato scoperto nel 2009 e ha iniziato a pompare gas nel 2013. Si trova a 130 chilometri dal porto di Haifa e ha riserve stimate fino a 238 miliardi di metri cubi. Il suo gas per ora viene usato per forniture domestiche nello Stato di Israele. Il consorzio guidato da Noble Energy sta sviluppando anche un altro giacimento scoperto in acque israeliane, il Leviathan, che dovrebbe divenire operativo nel 2019. L'obiettivo del governo israeliano è esportare il gas del Leviathan in Europa, probabilmente attraverso la Turchia con cui Gerusalemme ha siglato il 28 giugno scorso un accordo di riconciliazione dopo sei anni di gelo diplomatico.

(Agenzia Nova, 4 luglio 2016)


"Israele e i sunniti dialogo positivo in Medio Oriente"

Intervista a Mark Regev, ambasciatore di Israele nel Regno Unito

di Alain Elkann

 
Mark Regev
Ex portavoce del premier israeliano Netanyahu, Mark Regev è da aprile ambasciatore nel Regno Unito dove ha dovuto affrontare la questione Livingstone, quando l'ex sindaco di Londra paragonò Netanyahu a Hitler. «Ci sono due luoghi comuni diffusi - spiega -. Che l'antisemitismo sia una malattia degli ignoranti e che si possa battere con l'informazione e l'istruzione. Ma non è così: anche gli intellettuali hanno credenze antisemite ... pensi a Shakespeare, Voltaire, Dostoevskij ... L'altro luogo comune è che la gente di sinistra non sia antisemita, invece una parte sostiene l'uguaglianza solo a parole».

- Molti criticano Israele per la sua politica. È un modo per camuffare l'antisemitismo?
  
«Dire che gli israeliani sbagliano non è antisemitismo. La critica della politica di Israele è il nostro pane quotidiano. Ma associarlo a ogni male è antisemitismo. Invece di odiare i singoli ebrei si sceglie di odiare lo Stato ebraico. Oggi dire che lo Stato ebraico ha la responsabilità della guerra, che gli ebrei uccidono deliberatamente i bambini palestinesi è una manifestazione di odio che risale a 2000 anni fa. Se sostieni il diritto dei popoli all'autodeterminazione e all'indipendenza, e pensi che gli ebrei siano gli unici a non averlo, di che cosa stiamo parlando?»,

- Lei ritiene che Israele non abbia difetti?
  
«Nessuno è senza colpe, e Israele ha le sue, ma nulla giustifica l'odio irrazionale, proprio come quando un nero è linciato in Alabama. Bisogna condannare gli odiatori, gli istigatori dell'antisemitismo. Se l'Italia fa un errore nessuno dice che va distrutta».

- Perché la gran maggioranza degli europei sostiene la causa palestinese?
  
«Vedono il mondo attraverso la propria esperienza coloniale e quindi pensano che abbiamo torto. Poi molti vivono idealmente questo mondo post-moderno e post-conflittuale, dove siamo tutti fratelli e sorelle. Infine, c'è una fissazione, in alcuni ambienti, con gli ebrei e lo Stato ebraico».

- Dov' è la verità?
  
«La verità è che noi vogliamo la pace. Israele cerca una soluzione sicura, due Stati per due popoli. E siamo pronti a riavviare i colloqui di pace immediatamente e senza condizioni».

- Purtroppo, dall'assassinio diYitzhak Rabin non sono stati fatti molti progressi.
  
«Shimon Peres, Netanyahu nel suo primo mandato e Ehud Barak hanno cercato dialoghi per la pace con i palestinesi e i siriani e si sono ritirati dalla Striscia di Gaza, negli ultimi otto anni ci ha riprovato Netanyahu. Non ci siamo dati per vinti. In alcune aree c'è stato qualche progresso. Mi permetta di darle qualche buona notizia. Quando si parla di Medio Oriente oggi ci si concentra spesso sull'andamento negativo, lo scioglimento degli Stati, i Paesi che sono implosi, come la Libia, la Siria, lo Yemen, l'aumento dell'estremismo e del terrorismo, Isis, Hezbollah, insomma tutti vediamo ciò che sta andando male. Ma sotto la superficie c'è un cambiamento positivo, ed è il nuovo dialogo tra Israele e gli stati arabi sunniti. Storicamente non sono mai stati aperti a Israele ma oggi si rendono conto che siamo dalla stessa parte nella lotta contro l'estremismo».

- C'è un nuovo rapporto tra Netanyahu e Putin?
  
«La Russia è una grande potenza con interessi storici in Medio Oriente ed è coinvolta in modo molto significativo a Nord del nostro confine. È importante avere un rapporto diretto per evitare equivoci e che le forze israeliane e russe si sparino addosso a vicenda. Non vogliamo che si ripeta la storia dell'aereo russo con i turchi».

- Dopo i negoziati con l'Iran la relazione con gli Stati Uniti pare indebolita invece.
  
«Siamo chiari: Israele è saldamente in Occidente e il rapporto più importante è con gli Stati Uniti. Abbiamo avuto un battibecco sull'Iran, ma anche i migliori amici non sono automaticamente d'accordo su tutto. Si ricordino sempre Roosevelt e Churchill, alleati che sconfissero il nazismo, ma non senza contrasti».

- L'lran rimane un problema per Israele?
  
«L'Iran è un problema che, purtroppo, non cambia. Sostiene il terrorismo e l'eliminazione d'Israele. Non abbiamo sostenuto l'accordo sul nucleare, ma ora che è firmato diciamo: "Teniamoli sotto pressione"».

- Cosa cambierà con Hillary Clinton o DonaldTrump?
  
«Che alla Casa Bianca ci sia un democratico o un repubblicano, gli Stati Uniti e Israele hanno in comune una fede nella democrazia e molti interessi. Questo rapporto speciale continuerà».

- Come vede Israele oggi?
  
«Non mancano le sfide, ma Israele resta una storia di successo. Un popolo errante che ha una casa. Un popolo perseguitato e indifeso che ora ha la capacità di difendersi. Abbiamo costruito una democrazia stabile e forte in una regione dove non ce n'è. Anche l'economia di Israele è una storia di successo. Il pii cresce, siamo leader nella scienza, nelle risorse idriche, nelle comunicazioni e nella medicina. Negli Anni 70 si parlava dello svantaggio di Israele senza petrolio. Oggi abbiamo ciò che il mondo vuole: la tecnologia».

- Israele inizia come stato socialista e diventa capitalista. Qual è oggi lo spirito?
  
«Il nostro simbolo erano le arance di Jaffa. Oggi è l'ingegneria hi-tech. Ma è sempre lo stesso Paese, dallo spirito vivace e dal forte livello di coesione sociale».

- Ma c'è un crescente estremismo religioso. Come lo affrontate?
  
«Tolleranza zero anche quando si tratta di vittime palestinesi: l'anno scorso una famiglia è stata colpita a Duma e c'è stata una forte solidarietà oltre all'uso delle forze antiterrorismo».

- State aiutando altri Paesi per questo?
  
«Collaboriamo con molti Paesi europei per aiutare tutte le popolazioni a sentirsi sicure».

- Qual è la sua speranza per il futuro?
  
«L'odio fatica a giustificarsi quando diventa plateale. L'antisemitismo non sparirà, ma forse gli antisemiti saranno costretti a giocare in difesa».

(La Stampa, 3 luglio 2016 - trad. Carla Reschia)


La Cina aiuterà Israele a costruire un'isola nel Mediterraneo

L'esperienza di Pechino nella costruzione di isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale potrebbe essere richiesta da Israele.

 
Yisrael Katz
Il vice premier israeliano Yisrael Katz ha proposto il progetto per creare un'isola artificiale a largo delle coste della Striscia di Gaza, nel Mar Mediterraneo. Vede l'iniziativa come una piattaforma per un'ampia cooperazione internazionale. Tra i Paesi che potrebbero partecipare al progetto Yisrael Katz considera la Russia e la Cina.
Il progetto sull'isola a 4,5 chilometri dalla costa prevede un porto, un aeroporto, un impianto di dissalazione dell'acqua marina, una centrale elettrica e alberghi, tuttavia non sono previsti edifici residenziali. L'isola sarà collegata alla Striscia di Gaza da un ponte con un checkpoint nel mezzo. In ambito di sicurezza il controllo dell'isola sarà per 100 anni di carattere internazionale, tuttavia le acque resteranno sotto il controllo di Israele.
Secondo Yisrael Katz, il progetto è economico, anche se ha importanza strategica e politica. In un'intervista con Sputnik il professor del Centro per lo Studio delle Relazioni Internazionali dell'Istituto cinese dei mezzi di comunicazione di massa Yan Mian ha commentato il possibile coinvolgimento della Cina nel progetto:

"Se il progetto contribuirà a migliorare la situazione attorno alla Striscia di Gaza, o aiuterà Gaza tramite le forniture di acqua dolce e la costruzione del porto ad alleviare i problemi della vita della popolazione civile, la Cina riterrà di poter partecipare al progetto."

Commenta Ren Yuanzhe, esperto dell'Accademia diplomatica cinese:

"La Cina attribuisce grande importanza ai negoziati israelo-palestinesi, la risoluzione pacifica del conflitto e la costruzione dell'isola possono contribuire a calmare la situazione nella regione.

La Cina ha avviato la costituzione della Banca Asiatica d'Investimento per le Infrastrutture (AIIB), ha proposto di costruire legami di partnership in ambito logistico e nei trasporti su scala internazionale. Esistono primi progetti tramite la AIIB con il Bangladesh, l'Indonesia, il Pakistan e il Tagikistan, all'elenco si potrebbe aggiungere il progetto israeliano. Tanto più che 2 dei 4 progetti della AIIB sono lanciati insieme alla Banca Mondiale e alla "Asian Development Bank" (Banca Asiatica di Sviluppo). La futura opera in Medio Oriente potrebbe diventare una piattaforma per sforzi internazionali concertati".
La Russia è una delle potenze in grado di prendere parte al progetto, ha detto Yisrael Katz, che nel consiglio dei ministri dirige il ministero dei Trasporti e di Intelligence israeliano. La Russia ha l'esperienza necessaria e la conoscenza di quello che sta accadendo in Medio Oriente, nonché buoni legami con i capi di Stato della regione.

Il "Washington Post" scrive che "lo Stato ebraico sta attivamente cercando partner finanziari per il progetto da 5 miliardi di dollari".

La partecipazione della Cina rifletterebbe le aspirazioni geopolitiche della diplomazia economica di Pechino, ha detto a Sputnik il politologo israeliano e presidente dell'Istituto di Partenariato Orientale Rabbi Avraham Shmulevich:
"L'idea di costruire un'isola artificiale è stata portata avanti da più di un decennio fa da Shimon Peres, quando era primo ministro. E' abbastanza chiara l'idea da un punto di vista tecnico-operativo e in termini di convenienza politica ed economica. La Cina amplia la sua presenza nella regione mediorientale attorno ad Israele in modo molto prudente, intelligente e costante. Ora detiene una posizione di leadership nella maggior parte dei Paesi africani, ha grandi progetti di investimento nel mondo arabo, nei Paesi produttori di petrolio del Golfo Persico.

La Cina ha sempre investito nel controllo delle infrastrutture di trasporto del mondo. Gli obiettivi strategici ed economici sono chiari: diventare una vera e propria potenza mondiale per controllare il flusso delle merci e smettere di essere un Paese completamente dipendente dalla tecnologia e dagli investimenti occidentali. In particolare la Cina segue il corso per diventare una potenza economica mondiale: l'isola nei pressi della Striscia di Gaza è uno dei progetti in questo senso.

Il capo redattore della casa editrice di Tel Aviv "Notizie della Settimana" Leonid Belotserkovsky ipotizza:
"I cinesi sono entrati attivamente nell'economia israeliana, soprattutto nel campo dell'alta tecnologia, dove Israele è leader mondiale. Però penso sia un po' rischioso, ma non si può fare nulla. Ma bisogna dire che Israele fa molto in Cina. Ad esempio il ruolo delle tecnologie israeliane high-tech è abbastanza grande nello sviluppo della Cina. Nell'agricoltura cinese molto è fatto dagli esperti israeliani, ci sono aziende agricole speciali dimostrative. Pertanto la cooperazione è reciprocamente vantaggiosa".
Alla fine di marzo la Cina ed Israele hanno avviato i negoziati per l'accordo sul meccanismo per l'instaurazione di una zona di libero scambio. La zona di libero scambio raddoppierà il volume d'affari tra la Cina e Israele a 16 miliardi di dollari. In Israele, come in tutto il mondo, la Cina sta facendo incetta di marchi nazionali e internazionali.

(Sputnik, 3 luglio 2016)


E' morto Elie Wiesel, una vita per raccontare l'orrore dell'Olocausto

Il giornalista e scrittore, Premio Nobel per la pace, aveva 87 anni. Sopravvissuto all'Olocausto, fin dagli anni Cinquanta decise di essere un testimone, un combattente contro l'oblio

di Susanna Nirenstein

 
Elie Wiesel
Non c'era cosa in lui che non parlasse di Dio, che non ci discutesse e litigasse: in una delle sue rare commedie, Il processo di Shangorod, l'aveva anche incriminato e messo a giudizio in uno shtetl del 1649, in Russia: era un dibattimento tra tre rabbini che aveva davvero visto ad Auschwitz, e non era mai riuscito a raccontarla. Tuttavia di Dio non dissertava mai, studiava e leggeva piuttosto ogni pagina dei testi sacri, traboccava di ebraismo, ne scriveva in continuazione, memorie, racconti, romanzi, personaggi biblici, riflessioni sul Talmud, 57 libri, migliaia di pagine. Col Signore aveva un conto aperto da quando nel lager la Shoah bruciava intorno a lui e gli rapiva gran parte della famiglia: "Non dimenticherò mai quelle fiamme che consumarono la mia Fede per sempre".
  Elie Wiesel, scomparso oggi a 87 anni, non dimenticava, diceva di essere carico di rabbia, contro il Mondo, la Storia, se stesso: fu così che alla fine, all'inizio degli anni '50, scelse di essere un testimone, di scrivere, per contenersi diceva, anche se si forzava, diceva: sapeva di produrre qualcosa di buono solo quando "le parole erano incandescenti". Fu così che decise di essere un combattente contro l'oblio, l'indifferenza, la menzogna, un partigiano del suo popolo e degli oppressi, come più o meno recitava il Nobel che ricevette nel 1986, perché ha sempre lottato per la libertà degli ebrei russi, finché c'era la Cortina di ferro, e quelli etiopici, e moltissimo si è speso contro i genocidi in Cambogia, Ruanda, l'apartheid in Sudafrica, per i desparecidos in Argentina, le vittime bosniache, gli indiani Miskito in Nicaragua, i Curdi, chiedendo interventi in Darfur, Sudan, una risoluzione Onu che definisse e giudicasse il terrorismo un crimine contro l'umanità. Con Primo Levi ha condiviso il ruolo insostituibile di testimone, precoci e affilati, capaci di parlare alla Terra, che sarà di noi senza di loro? Eppure sono stati così diversi. Levi, scientifico, matematico, sezionatore dell'indicibile, composto. Wiesel, secco nella scrittura e nelle descrizioni, ma carico di simboli, di evocazioni, di radici, di mondo ebraico, del wit mistico in mezzo a cui era cresciuto.
  Era nato a Sighet, tra i Carpazi, allora Romania, il 30 settembre 1928 da Sarah Feig e Shlomo Wiesel. A casa parlavano yiddish, ma anche tedesco, ungherese, rumeno. La madre era figlia di un rinomato chassid, il padre un umanista appassionato, che lo spinse e l'accompagnò nello studio dell'ebraico e della Torah. Aveva allora tre sorelle, Hilda, Beatrice, Tzipora. Le prime due sopravvissero.
Sighet durante il conflitto era divenuta ungherese: da uno dei due ghetti creati nella cittadina, il 6 maggio 1944 la famiglia Wiesel fu deportata a Auschwitz Birkenau. Sul binario Elie baciò sua madre e Tzipora per l'ultima volta. Divenne A-7713, il numero che i nazisti gli tatuarono sul braccio. Mandato col padre nel campo di lavoro di Buna, un sotto-lager di Auschwitz III-Monowitz, e poi a Buchenwald nel gennaio '45, vide il babbo picchiato a morte poche settimane prima dell'arrivo della III Armata Americana l'11 aprile. Elie Wiesel aveva 16 anni.
  Riprese a vivere in un orfanatrofio francese. Mentre insegnava l'ebraico, studiava francese e poi filosofia, iniziò a fare il giornalista in tutte le lingue, compreso l'yiddish, per giornali francesi, israeliani... Ancora però non voleva parlare di Shoah. Era piccolo. E poi quanti sopravvissuti furono pronti allora ad affrontare un tema tanto immenso? Primo Levi scrisse Se questo è un uomo nel 1947, aveva 28 anni, e comunque l'Einaudi (nella persona di Natalia Ginzburg) gli rifiutò il manoscritto. Wiesel si appassionava di attualità invece, voleva andare in Palestina: però era emotivamente un sostenitore dell'Irgun, la formazione sionista che combatteva gli inglesi col terrorismo, non gli dettero il visto. Come mai, gli chiesero poi tutti, aveva scelto un'associazione armata? "Ero giovane, e nel 1946 volevo fare qualcosa. Anche se ero contro ogni uccisione, il popolo ebraico si stava svegliando e il mio posto era con loro, qualsiasi cosa stessero facendo". E poi ha aggiunto mille volte "Sono pacifista, contro la violenza, e sono totalmente con Israele". Sì, totalmente con Israele, oltre a altre mille prese di posizione, nel 2010 comprò una pagina sul New York Times e tre altri giornali americani per sottolineare il legame degli ebrei con Gerusalemme ("è nominata 600 volte nella Torah e non una sola volta nel Corano... è un legame che non si può sciogliere: per un ebreo vederla la prima volta vuol dire tornare a casa") e criticare Obama che chiedeva a Israele di fermare la costruzione delle case ad Est. Ha ricomprato una pagina sui giornali durante l'ultima guerra di quest'estate con Gaza, perché l'America condannasse Hamas e il suo uso dei bambini come scudi umani, e con essi il culto della morte. Questo era Wiesel, urbano, commovente, ma anche un combattente non conformista: Israele, diceva, significa che per gli ebrei niente sarà più come prima. Niente più discriminazioni, niente umiliazioni, niente pogrom, niente Shoah.
  Torniamo alla vita e ai libri. In Francia Wiesel capì che la sua vocazione erano le parole, lavorava per i giornali, leggeva come un pazzo, adorava Camus, l'Olocausto però gli appariva un territorio proibito. Tutto cambiò durante un'intervista allo scrittore cattolico Francois Mauriac: lo fece piangere paragonando le sofferenze dei bambini ebrei a quelle di Gesù. Mauriac gli suggerì di parlarne. E lui scrisse una prima versione di La notte in yiddish, più di 900 pagine (Und di Velt Hot Geshvign, E il mondo rimase in silenzio). Una volta riscritto in francese e molto più brevemente, Mauriac gli regalò un'introduzione. Fu rifiutato da tutti gli editori fuorché dal piccolo Editions de Minuit nel 1958. Ma non vendette quasi niente, e così fu in America: nessuno lo voleva, vendere il Diario di Anna Frank era possibile, non mostrava l'orrore dei campi, e terminava con parole di speranze nell'umanità. Non così La notte che cominciava dove Anna Frank finiva, e si chiedeva dell'assenza di Dio durante lo sterminio. Era un grido. Fu stampato nel '59, pochi lo comprarono.
  Poi nel '61 la cattura di Eichmann e il suo processo a Gerusalemme mutarono la scena, e le guerre dei Sei Giorni e di Kippur ancor di più: l'umanità divenne consapevole della Shoah e si interrogava dei destini ebraici. Elie Wiesel che era andato a vivere a New York a metà degli anni '50, iniziò a tenere lezioni. Nel '78 Jimmy Carter lo inserì nella commissione per l'Holocaust Museum. Quando nell'85, Reagan visitò il cimitero militare (dove erano sepolte le SS) in Germania, Wiesel gli disse: "Non è quello il suo posto, signor presidente, il suo posto è accanto alle vittime delle SS". Il giorno dopo era su tutte le prime pagine. E l'anno dopo ricevette il Nobel. Alla fine degli anni '90, La notte vendeva 400.000 copie all'anno. E' arrivato a molto più di 10 milioni. In Italia Daniel Vogelmann lo scoperse per primo e lo pubblicò nel 1980: iniziò così le pubblicazioni della sua casa editrice, la Giuntina, che ne pubblicò poi molti altri (come altri ne hanno stampati tanti editori).
  Era il resoconto di Auschwitz. L'unico che scrisse. Poi cantò i suoi progenitori, il chassidismo, la formazione religiosa, lo shtetl, gli ebrei oggi e la difficoltà di uscire dall'incubo della Shoah, e con profondità psicologica i personaggi biblici attraverso il Midrash, racconti autobiografici come L'ebreo errante che narrano dall'infanzia a una Parigi popolata anche di spettri bellici, La città della fortuna, Sei riflessioni sul Talmud. Troppi, non si possono citare tutti. L'ultimo è stato A cuore aperto (Bompiani), dopo un'operazione urgente di poco tempo fa in cui si ritrovò ancora una volta di fronte alla morte: "Questa volta ero più solo. Allora ero con gli altri", disse. Crede ancora nell'umanità, qualcuno gli chiese: "La Torah insegna a scegliere la vita. Credo nell'umanità contro l'umanità. Credo in Dio contro Dio".

(la Repubblica, 2 luglio 2016)


Netanyahu in Africa nei prossimi giorni per la prima visita di un premier israeliano in 20 anni

GERUSALEMME - Il viaggio in Africa, ha detto Netanyahu, "rientra in un grande impegno da parte nostra per tornare in Africa in modo rilevante. E' importante per le compagnie israeliane e per lo Stato di Israele. E' importante anche per i paesi dell'Africa". L'ufficio di Netanyahu ha reso noto nei giorni scorsi che Israele ha appena lanciato un programma di aiuti da 13 milioni di dollari per rafforzare i legami economici e la cooperazione con i paesi africani. Lo Stato ebraico fornirà ai paesi africani anche corsi di addestramento sulla sicurezza interna. "Il continente africano rappresenta una grande potenziale per Israele in molte aree", ha aggiunto l'ufficio di Netanyahu.

(Agenzia Nova, 2 luglio 2016)


Negli attentati terroristici non esistono complotti ma esecutori e mandanti

Lettera al direttore di Varese News

di Demetrio Shlomo Yisrael Serraglia

Gli attentati terroristici sono un crimine, non sono frutto di complotti, ma ci sono esecutori materiali e mandanti.
Risulta strano che all'indomani della sigla di un annunciato accordo tra Israele-Turchia-Russia per stabilizzare la situazione in medioriente, e cercare di creare un clima di collaborazione positiva tra tre attori della geopolitica in quella turbolenta area si sia avuto un sanguinoso attentato all'aeroporto di Istanbul. È bene ricordare che come ogni accordo internazionale la firma è il frutto di mesi di trattative, e quindi non è un avvenimento estemporaneo, infatti da quando i tre governi si sono dimostrati disponibili a trovare una soluzione condivisa ai problemi sul tappeto, la Turchia è stata oggetto di continui attentati, e il livello di attentati che sta subendo Israele si è evoluto tragicamente (dai coltelli e auto, a stragi nei locali).
Qui l'attentato non se l'è cercato nessuno, come nessun attentato se lo cercano le vittime, c'è chi lo ha progettato e chi lo ha compiuto, e come in ogni crimine è necessario verificare chi trae ora benefici dall'instabilità del medioriente.
Diciamo che da quando l'amministrazione Obama guida la politica estera statunitense ha appoggiato tutti i gruppi terroristici islamisti, per diventare potenza egemonica nel nord Africa e nel medioriente, rinnegando e rigettando la decennale alleanza con Israele.
Ma ciò non è una novità nelle modalità con cui il partito democratico USA compie le sue scelte di politica internazionale: negli ultimi vent'anni le amministrazioni democratiche USA hanno favorito il progetto islamista, prima in Somalia e Bosnia poi in Kosovo con l'UCK, ed in Afghanistan con i Talebani, per arrivare al culmine dell'indecenza con il discorso di Obama all'università del Cairo, e per poi manifestare tutto il proprio essere succubi dell'islamismo quando il duo Obama-Clinton ha permesso si massacrasse il proprio ambasciatore a Bengasi, palesando il fatto che le amministrazioni democratiche non muovono un dito per difendere i cittadini USA impegnati in prima linea per la difesa dei principi di libertà, e ciò dimostra che a queste amministrazioni nulla interessa della vita umana in generale, e che non hanno principi etici che li muove ma solo principi di potere e morte.
Questa serie di attentati ha dei mandanti, e per trovarli, come in ogni crimine, dobbiamo riflettere su chi ne trae i maggiori benefici, le cellule terroristiche sono pedine con un'ideologia propria ma che per il loro agire ricevono finanziamenti cospicui, chi li finanzia segue logiche egemoniche globali o di area, e ciò non è complotto ma logica di potere che purtroppo molto spesso gli Stati utilizzano per raggiungere i propri scopi.
É la somma che da il totale, seguiamo a ritroso gli eventi e troviamo quale logica sta alle spalle di questi atti terroristici, solo cambiando il nostro modo di affrontare la vita e non lasciandoci travolgere dagli eventi ma assumendoci tutte le responsabilità del nostro agire quotidiano potremmo invertire la rotta di questi fatti, perché la somma delle nostre piccole azioni danno il totale della storia umana.

(Varese News, 2 luglio 2016)


Studi ebraici. Un nuovo corso universitario nel progetto dei grandi atenei

Il Diploma universitario triennale in Studi ebraici costituisce una componente irrinunciabile del patrimonio scientifico e culturale del paese. Lo afferma una convenzione resa nota dal ministero per l'Istruzione, l'Università e la Ricerca e sottoscritta dai rettori delle Università di Bologna, di Roma Tor Vergata, Giuseppe Novelli e Francesco Ubertini, dal presidente del Collegio rabbinico italiano rav Riccardo Di Segni e dal presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna.
   Il documento, che segna il rilancio del Corso triennale in studi ebraici e la sua entrata nel vasto mondo accademico italiano, indica il percorso che dovrebbe consentire ad alcuni dei maggiori atenei italiani di adeguare le proprie potenzialità formative fino a comprendere corsi di materie ebraiche di livello europeo.
   Lo sottolinea lo stesso ministro dell'Istruzione Stefania Giannini, che in un suo messaggio indirizzato ai quattro firmatari della Convenzione dà atto del paziente lavoro per sviluppare il Diploma triennale in studi ebraici per derivare da quella struttura allestita dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane due corsi triennali nelle due università di Bologna e di Roma 2 che hanno una feconda tradizione di studi in materia.
   Il Ministro conferma di aver anche disposto che il suo consigliere professor Alberto Melloni, prenda parte al Comitato ordinatore assieme al presidente UCEI Renzo Gattegna e alla professoressa Myriam Silvera per favorire un esito felice e rapido dell'iniziativa. Un modo per affermare che il Ministero percepisce il valore dell'iniziativa e la sostiene per la crescita scientifica e culturale del paese.
   La svolta interviene a seguito dell'iniziativa, assunta dalla Giunta dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, di convocare il professor Alberto Melloni e il rav Di Segni per analizzare la situazione del Corso di laurea in Studi ebraici organizzato dall'UCEI. Un serrato lavoro di confronto e di progettazione ha aperto la strada a quello che si annuncia come un salto di qualità nell'iniziativa culturale.
   "Si tratta - ha affermato il presidente dell'Unione Renzo Gattegna ringraziando il ministro Giannini - di un risultato straordinario e capace di garantire un futuro stabile e prestigioso alla preziosa iniziativa del Corso di laurea. Un patrimonio di tutti gli italiani che vogliono studiare e vogliono conoscere quanto l'identità e i valori ebraici siano da oltre due millenni componenti essenziali dell'identità nazionale. Ma si tratta anche di una grande soddisfazione per le istituzioni dell'ebraismo italiano, che da sole non possono sostenere il peso di strutture formative tanto complesse, ma hanno la responsabilità e sono depositarie degli autentici valori ancora troppo poco conosciuti nell'ambito dell'Italia che investe sulla cultura. L'impegno del Ministero si è così rivelato essenziale - ha aggiunto - per raggiungere questo traguardo. Ma il varo della Convenzione è stato anche il banco di prova di come gli ebrei italiani, quando lavorano nella concordia di intenti, nel rispetto reciproco e nella consapevolezza del giusto valore da attribuire al rapporto con le Istituzioni nazionali, possono raggiungere, nonostante gli esigui numeri, traguardi molto positivi. Grazie dunque a chi si è impegnato sul fronte degli atenei e del Ministero, ma grazie anche al rav Riccardo Di Segni, ai componenti della Giunta dell'Unione e a tutti gli esponenti ebraici che hanno contribuito ad aprire una strada dove il maggior prestigio si coniuga con la migliore sostenibilità economica, con l'apertura di nuovi orizzonti di cultura e di formazione, con la creazione di nuove opportunità professionali per i docenti".
   Lo sviluppo del progetto potenzia la realtà esistente, senza pregiudicare in alcun modo il diritto dell'esistente Corso in Studi ebraici di rilasciare l'attuale diploma alle condizioni esistenti e con le procedure di riconoscimento previste dalla normativa vigente, la Convenzione rimanda a soluzioni normative che il MIUR dovrà prevedere per rendere possibili gli accordi attuativi fra atenei e enti non universitari italiani, favorendo la stesura di convenzioni specifiche e il superamento di parte dei vincoli previsti dal sistema di regolazione e accreditamento nazionale.

(Faro di Roma, 2 luglio 2016)


Raid israeliani nella Striscia di Gaza contro postazioni di Hamas

GERUSALEMME - L'aviazione militare israeliana ha bombardato oggi quattro siti nella Striscia di Gaza, senza causare morti né feriti. Lo riferiscono le forze armate israeliane, dopo che ieri notte un razzo ha colpito un edificio della città di Sderot adibito a centro ricreativo per bambini nel sud di Israele. I quattro obiettivi colpiti dai raid sono un laboratorio, due postazioni del braccio armato di Hamas e un campo di addestramento militare del gruppo della jihad islamica. In un comunicato delle forze armate israeliane si afferma che sono state colpite "quattro postazioni che facevano parte delle infrastrutture operative di Hamas nel nord e nella parte centrale della Striscia di Gaza", in risposta all'attacco della scorsa notte a Sderot attribuito a miliziani palestinesi. Nessun gruppo finora ha rivendicato il lancio del razzo, avvenuto dopo che lo Stato di Israele ha annunciato la chiusura delle strade vicino ad Hebron, in Cisgiordania, a seguito degli ultimi atti di violenza verificatisi nell'area.

(Agenzia Nova, 2 luglio 2016)


La comunità ebraica ringrazia

“Con commozione ho letto la delibera della Giunta Comunale di Zambrone riguardo l’atto di solidarietà rivolto alle vittime dell’attentato terroristico di Tel Aviv dello scorso 8 giugno. Ringrazio Lei e la Giunta per la manifestazione di solidarietà con l’auspicio che le diverse convinzioni religiose non siano causa di divisione e di odio, ma solo e sempre sorgente di fratellanza, di concordia e di amore. È per noi da sempre una missione e conosciamo bene quanto gravi siano gli effetti di tanto odio, soprattutto nei confronti degli ebrei nel mondo e in Israele. Colgo l’occasione per inviarle un cordiale Shalom”.
Questo il tenore della lettera ricevuta qualche giorno fa dalla Comunità Ebraica di Roma e a firma di Ruth Dureghello.
Una missiva che inorgoglisce il sindaco di Zambrone, Corrado L’Andolina e l’intero esecutivo comunale.
A tale propositivo vale la pena ricordare che con deliberazione numero 1, l’attuale Giunta aveva espresso formale solidarietà al popolo ebraico e allo Stato d’Israele per il grave attentato dello scorso 8 giugno. L’attualità, purtroppo, registra con cadenza sistematica un’avanzata della strategia terroristica che causa morti e lutti in ogni angolo del pianeta.
L’auspicio è che i propositi di morte e di oppressione cedano il passo a quelli della vita e della libertà.
Da segnalare anche il saluto dal presidente della Comunità ebraica di Napoli, Lydia Lydia Schapirer che all’indomani delle elezioni comunali ha testimoniato amicizia e stima al neo eletto sindaco con un messaggio dal seguente tenore: “Sono stata informata del suo costante impegno in difesa dei diritti civili di tutti. Le auguro di poter lavorare con l’appoggio di tutte le forze sane di questa sua bella terra”.
Un messaggio condiviso da Roque Pugliese riferimento della Comunità ebraica calabrese e dell’intero Meridione da sempre attivo nella diffusione e conoscenza dell’Ebraismo nel Mezzogiorno e nella ricerca del dialogo interreligioso e da Dova Cahn eminente figura del popolo ebraico per il suo impegno civile e culturale e residente a Tel Aviv.

(Vibonesiamo.it, 30 giugno 2016)


Caccia grossa e titoli piccoli. E' Israele

Due morti in 24 ore. E i nostri giornali fanno tristemente finta di nulla.

La scorsa settimana Abu Mazen, il volto "moderato" dell'Autorità palestinese, si è presentato a Bruxelles per raccogliere una standing ovation dopo aver detto che un gruppo di rabbini israeliani avrebbe consigliato di avvelenare l'acqua nella Cisgiordania così da uccidere il maggiore numero possibile di palestinesi. Nel Medioevo, in Europa, si diceva la stessa cosa degli ebrei e iniziavano così i pogrom. Qualche giorno dopo il segretario del Labour inglese, Jeremy Corbyn, ha detto che così come gli "amici ebrei" non sono responsabili delle azioni di Israele non lo sono neppure gli "amici musulmani" per le azioni dello Stato islamico.
L'incitamento all'odio funziona. Funziona quando vibra dal cuore della vecchia Europa così come quando viene promosso dai palestinesi. In ventiquattro ore, due civili israeliani sono stati ammazzati a sangue freddo. Prima una ragazzina è stata pugnalata a morte mentre dormiva nel suo letto. Poi un padre è stato assassinato di fronte ai figli e alla moglie alla guida dell'auto. Ma i nostri quotidiani fanno tristemente pena. "Cisgiordania: aggredita in casa muore 13enne americana". "M.O.: muore 13enne israeloamericana accoltellata nel suo letto in casa colonica". Questi i titoli dei siti dei due principali quotidiani nazionali, Corriere della Sera e la Repubblica, a proposito dell'attentato in cui è stata uccisa la ragazzina israeliana Hallel Yaffa Ariel. Sulla carta, invece, appena una didascalia sotto una foto. Sembra uno scherzo, ma non lo è. E' l'orrenda mentalità dominante. E' un imbroglio. E' uno scandalo senza fine. E' il titolo di un libro di André Glucksmann: "Silence, on tue". Silenzio, si uccide! Ebrei.

(Il Foglio, 2 luglio 2016)


Così quarant'anni fa lo Stato di Israele nacque la seconda volta

Un blitz liberò 107 ostaggi di un commando. E tutto il mondo vide l'orgoglio di un popolo.

di Fiamma Nirenstein

 
Solo una spinta imprescindibile, una necessità morale dettata dalla storia, poteva ispirare quaranta anni fa, il 4 di luglio, un'azione come quella che Israele osò condurre a 3500 chilometri di distanza dai propri confini, a Entebbe, in Uganda, per salvare i 106 ostaggi imprigionati nel terminal dell'aeroporto da un commando palestinese-tedesco.
  Forse si tratta del gesto più impossibile mai realizzato da un Paese per affermare un principio salvando vite umane. Il commando di soldati israeliani contava cento ragazzi divisi in squadre, di cui la prima era guidata da Yonathan Netanyahu, il fratello dell'attuale primo ministro. Yoni fu l'unico soldato ucciso durante l'operazione. L'obiettivo: piombare di sorpresa in soccorso degli ebrei prigionieri, scardinando per sempre la norma per cui gli ebrei sono facile preda della follia antisemita.
  Due membri del gruppo palestinese di Wadie Haddad, insieme a un uomo e una donna tedeschi, Wilfried Böse e Brigitte Kuhlmann, membri della banda comunista Baader Meinhof, il 27 giugno sequestrarono il volo Air France 139 da Tel Aviv ad Atene e Parigi. I terroristi salirono ad Atene, armati di pistola e bottiglie molotov nascoste in scatole di caramelle e in una falsa bottiglia di champagne. Böse, che aveva pernottato all'Hotel Rodos, una volta penetrato con le armi nella cabina di pilotaggio mentre i suoi compagni tenevano sotto la minaccia del fuoco i 246 passeggeri, si dichiarò il nuovo comandante del volo nelle mani, disse, della «Che Guevara Force» e gli dette il nome «Haifa».
  L'aereo fu fatto atterrare a Bengasi, in Libia, e poi dopo il rifornimento si diresse a Entebbe, in Uganda, il Paese nelle mani della follia violenta e opportunista del dittatore Idi Amin Dada, che ospitò e aiutò i terroristi per stringere un rapporto col mondo arabo e sfruttare le prede che portarono nell'hangar maggiore dell'aeroporto. Nella vicenda i palestinesi furono le belve al guinzaglio dei due comunisti tedeschi, sempre più simili nel comportamento ai loro genitori nazisti, per istinto e per scelta. Dal primo momento l'obiettivo sono chiaramente gli ebrei: sono loro il classico nuovo-antico odiato nemico, la preda necessaria contro «l'imperialismo e il capitalismo sionista», come spiegò Böse, ridotti a oggetti, sottouomini, merce di scambio con quaranta prigionieri palestinesi di Israele. La donna urla «Schnell, Schnell» spingendo di corsa, come fossero deportati scesi dal treno di Auschwitz, la massa dei viaggiatori verso l'hangar della prigionia; mostra solo un odio maggiore quando un anziano viaggiatore le mostra il numero del campo di concentramento che ha tatuato sul braccio. E con Böse compie, una volta fatti entrare tutti i viaggiatori terrorizzati, accatastati sul pavimento, fra cui bambini e vecchi, il gesto che probabilmente spinse il governo israeliano a tentare l'impossibile: la selezione degli ebrei, dando all'antisemitismo la sua forma moderna, quella dell'identificazione con lo Stato d'Israele.
  I passaporti vengono ammucchiati su un tavolo, tutti gli israeliani vengono fatti passare in una hall adiacente tramite un buco nel muro creato dai volenterosi soldati di Idi Amin Dada, e dei passeggeri ne restano 107 con la squadra di piloti, le hostess, gli stuart francesi che si sono rifiutati di lasciare i prigionieri. Gli ebrei vengono chiamati uno a uno per nome, con la voluttuosa perversione di ripetere una scena tipicamente nazista. Gli altri vengono liberati, e l'aereo riparte con i suoi «ariani».
  Per capire come si arrivò a decidere l'inosabile, si deve immaginare che la scena a Gerusalemme è di indicibile angoscia. Un amico di Yitzhak Rabin, la cui figlia era stata rapita, gli chiese direttamente (in mezzo alla tempesta di interrogativi che occupava la stampa, la radio, l'opinione pubblica, le menti di Shimon Peres ministro della difesa e di Motta Gur capo di Stato Maggiore): «Fino a quando giocheranno alla roulette coi nostri figli?». Il massacro di Maalot del 1974, in cui erano stati assassinati dai palestinesi 22 ragazzi, era ancora molto vicino, come la strage di Monaco.
  Furono giorni di ansia terribile; l'incertezza durò persino per una parte del volo di otto ore con cui gli Hercules israeliani, nottetempo, raggiunsero l'obiettivo. Il permesso giunse solo quando il commando era già vicino alla meta in mezzo a una tempesta di fulmini. Ma durante i tre giorni precedenti, mentre si avvicinava la scadenza del mezzogiorno del 4 luglio in cui i primi ostaggi, secondo l'annuncio dei terroristi, sarebbero stati giustiziati, un piano era già stato disegnato in silenzio, provato, rivisto in ansiose riunioni con Netanyahu e Muki Betzer, alla testa dell'unità speciale della Sayeret Matkal, oltre che col comandante Dan Shomron. Rabin, Peres e Gur sapevano di non avere le informazioni indispensabili per un'operazione tanto rischiosa. Yoni ebbe con Peres un incontro a quattr'occhi quando ormai Rabin aveva quasi avviato una trattativa con i terroristi. Peres chiese a Yoni se pensava di potercela fare, Yoni gli risposte che gli pareva di sì, anche se aggiunse che spesso non si hanno tutte le informazioni necessarie quando ci si avvia a una impresa di grandi dimensioni. Rabin ebbe l'eroismo di decidere per il sì.
  Molti nomi di primo piano come Matan Vilnai, Shaul Mofaz e Ehud Barak furono implicati nella preparazione e nella realizzazione del piano a velocità supersonica. Dal primo dei quattro aerei partiti da Tel Aviv prese la via del terminal nel buio, contando sulla sorpresa, un commando di 29 persone con in testa una Mercedes nera seguita da due jeep, a simulare una visita di Idi Amin Dada. In una sparatoria improvvisa con le guardie, proprio al terminal, Yoni fu colpito a morte. Ma ciò non impedì la liberazione degli ostaggi e l'uccisione dei terroristi. Nonostante la sparatoria, il commando israeliano lavorò come un orologio. La forza d'animo di Yoni (e quella di Betzer, il quale oggi reclama per sé una parte maggiore nell'impresa di quella che, nell'ombra della memoria di Yoni, gli è stata attribuita), è rimasta l'impronta maggiore nella memoria collettiva di Israele. La sua immagine di ragazzo puro falciato sul campo mentre amava la vita, è diventato il modello di quell'audacia incurante che tutto il mondo invidia a Israele, quella che l'ha portata a bombardare il reattore di Osirak (altra impresa impossibile), a rapire Eichmann, a vincere con inimmaginabile velocità la Guerra dei Sei Giorni. Entebbe è, con la Guerra dei Sei Giorni, l'impresa che più di ogni altra ha cambiato l'immagine degli ebrei nel mondo. Non più pecore al macello, ma padroni della loro vita e anzi protagonisti di imprese impossibili per la maggior parte dell'umanità; non più abbandonati al fato e alla violenza, soli, ma col diritto di pensare che qualcuno verrà, e saranno i soldati di Israele. Nessun ebreo è più solo al mondo da quando esiste Israele.
  Di israeliani ne morirono tre. La morte di Yoni resta uno degli episodi più tragici della storia di Israele; la gioia incontenibile di fronte al ritorno di figli, mogli, madri, ne fu funestata come oggi lo è il vitale lavorio quotidiano di un Paese democratico dai quotidiani attacchi terroristici. Come allora, nel mondo nessuno dedica alle sue tragedie parole di solidarietà, né gli viene in aiuto, come invece Israele fa con altri Paesi colpiti dal terrorismo. Dopo Entebbe il Consiglio di Sicurezza dell'Onu discusse una richiesta di condanna di Israele. Proprio così, e Kurt Waldheim descrisse l'operazione «una seria violazione della sovranità di uno Stato membro». Misera consolazione: la mozione non passò. Ancora oggi, a ogni risposta di Israele al terrore, il Consiglio di Sicurezza cerca di condannare Israele.

(il Giornale, 02 luglio 2016)


Perché Hamas ha ripreso i legami con l'Iran

Alla luce del peggioramento della sua crisi finanziaria e del bisogno di sostegno militare, Hamas ha ripristinato le sue relazioni con Tehran deterioratesi con l'inizio della rivoluzione siriana.

di Hazem Balousha

Abu Marzuk
GAZA - Hamas ha deciso di ripristinare le sue relazioni pubbliche con la Repubblica islamica d'Iran dopo gli anni di freddezza in seguito alla crisi siriana. Segnali che confermano tale riavvicinamento sono giunti dal vice presidente dell'Ufficio politico di Hamas, Mousa Abu Marzouk e Ismail Haniyeh.
   Nel corso di una intervista alla rete televisiva affiliata ad Hamas al-Aqsa Tv lo scorso 15 giugno, Abu Marzuk ha lodato l'Iran per la prima volta da quando Hamas ha lasciato la capitale siriana Damasco. "Il sostegno offerto dall'Iran alla resistenza palestinese - ha detto - sia esso logistico, economico e di addestramento [militare] è senza pari e va oltre le capacità [offerte] dagli altri stati. Il sostegno iraniano alla resistenza e alla causa palestinese è chiaro, esplicito ed è uguale alla posizione degli arabi, dei musulmani e delle persone libere del mondo che appoggiano la resistenza".
   Le relazioni tra Hamas e Teheran hanno iniziato a deteriorarsi nel 2012, quando l'ondata delle rivoluzioni della Primavera araba ha raggiunto la Siria, la principale alleata iraniana in Medio Oriente. Un gran clamore è nato quando il capo dell'Ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal, ha lasciato Damasco (dove risiedeva da anni) dopo essersi rifiutato di sostenere il regime siriano di al-Asad e la posizione iraniana sulla rivoluzione siriana.
   La disputa si è intensificata successivamente quando Hamas ha appoggiato la legittimità del regime del presidente yemenita Abed Rabbo Mansour Hadi quando gli houthi hanno preso possesso delle istituzioni statali nonostate l'aperto sostegno che gli iraniani hanno offerto a quest'ultimi.
   Il leader di Hamas a Gaza Hanieh, invece, ha avuto una conversazione telefonica con il Presidente iraniano del Consiglio della Shura, Ali Larijani, durante la quale si è congratulato con lui per la nomina che ha ottenuto. Un comunicato, rilasciato dall'ufficio di Haniyeh il 3 giugno, ha confermato che "il nostro intento è quello di non deviare dalle nostre idee e dal sentiero della resistenza, dal nostro impegno a restare fedeli al [nostro] percorso, a resistere in Palestina, a esortare la nazione [araba e musulmana] a restare unita, a mettere da parte le discordie per il bene di Gerusalemme e della Palestina".
   Le dichiarazioni di Abu Marzuk e la telefonata di Haniyeh confermano il cambiamento nelle relazioni tra il movimento islamico palestinese e Tehran e sono prova del fatto che i loro rapporti sono stati ripristinati con un ritorno del finanziamento iraniano.
   In alcune clip audio diffuse il 30 gennaio su You Tube, si sente Abu Marzouk attaccare l'Iran e negare l'affermaziaone di quest'ultima circa il suo sostegno alla resistenza palestinese. In questi estratti, Marzouk parla di quelle che descrive come bugie iraniane: "Dal 2011 ogni volta che hanno perso una nave, [gli iraniani] hanno dichiarato che era destinata alle nostre coste. Di una nave che trasportava armi e che si è persa in Nigeria dissero che stava venendo qui [da noi]. Ho detto loro che nessuna nave è arrivata, sembrava quasi come se tutte le nave che venivano scoperte fossero destinate a noi".
   Un importante leader di Hamas a Gaza ha riferito ad al-Monitor che l'Ufficio politico di Hamas "ha risolto il dibattito politico interno votando a favore della ripresa delle relazioni con l'Iran, soprattutto dopo le attese svanite riguardo al rapporto con l'Arabia Saudita". La fonte, che ha chiesto di restare anonima, ha poi aggiunto: "Il ramo militare di Hamas ha appoggiato fortemente la ripresa delle suddette relazioni, specialmente per l'urgente bisogno di fondi e sostegno militare che solo l'Iran può offrire".
   Intervistato da al-Monitor, l'editorialista politico del quotidiano al-Risalah vicino ad Hamas, Ibrahim al-Madhoun, ha detto che "Hamas sperava di costruire forti relazioni con l'Arabia Saudita, soprattutto dopo che è salito al potere Re Salman. Ma il piano sembra essere saltato per via delle complicazioni politiche interne al regno". Madhoun continua: "Hamas e il suo braccio militare necessitano di confrontarsi con il nemico sionista e l'impareggiabile abilità dell'Iran a sostenere il movimento finanziariamente, militarmente e politicamente in un eventuale confronto lo ha portato ad una maggiore apertura verso Tehran in una fase in cui l'asse arabo non è riuscito ad offrire abbastanza per attrarlo al suo campo".
   Un altro leader del movimento islamico palestinese che ha chiesto di essere anonimo ha affermato che le "relazioni tra Hamas e l'Iran non si sono mai interrotte e non sono state intaccate negli ultimi anni. Sono diminuite a certi livelli e per del tempo, ma il rapporto è rimasto ininterrotto, almeno a livello militare". "La differenza oggi - ha aggiunto - è che Hamas e l'Iran hanno deciso di rendere pubblica questa relazione e non hanno più bisogno che resti clandestina. La retorica pubblica di una ripresa delle relazioni è ora chiara ed esplicita".
   Dopo la nomina del falco di destra Avigdor Lieberman a capo del ministero della Difesa israeliano e le sempre più insistenti voci di una possibile nuova guerra contro Gaza, l'ala militare d Hamas, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, si sono ritrovate in disperato bisogno di sostegno militare e finanziario, mentre il ramo politico ha cercato un sostegno pubblico e politico esplicito. Hamas ha provato a procrastinare la ripresa delle relazioni con l'Iran dopo la caduta di alcuni leader arabi e l'ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto. Ma la caduta di questi e la deposizione del presidente Mohammed Morsi nel 2013 hanno reso il movimento islamico - che è il ramo palestinese della Fratellanza - più aperto a riprendere i contatti con l'Iran.
   L'alto dirigente di Hamas lo spiega: "Il mondo arabo sta andando incontro ad una ridefinazione della sua mappa politica. Il regime siriano sta ottenendo sul campo dei successi contro i suoi rivali, l'Arabia Saudita è preoccupata dalla sua guerra nello Yemen, mentre la Turchia sta ripristinando i suoi rapporti con Israele. Pertanto, a causa degli sviluppi regionali, Hamas teme una continuazione del suo isolamento. Sta così consciamente riavvicinandosi all'Iran perché la sua leadership è pienamente convinta che questa sia la migliore opzione per salvaguardare la sua forza militare e politica".
   La decisione di Hamas di tornare in seno all'Iran può rappresentare la sua unica possibilità ora visto il peggioramento della crisi finanziaria e la necessità di sostegno militare. Grazie a questo appoggio, Hamas vuole controbbattere alla persistente ricerca israeliana dei tunnel lungo il confine con Gaza che mira a colpire questa capacità militare e strategica specifica utilizzata da Hamas per confrontarsi con le forze israeliane.

(Nena News, 2 luglio 2016)


Israele: dopo gli attentati anche i missili. Raid aereo su Gaza e non solo

Dopo la serie di attentati contro civili israeliani fomentati da Abu Mazen ieri sera anche Hamas ha fatto sentire la sua (r)esistenza (come direbbe la Mogherini) lanciando un missile dalla Striscia di Gaza che ha colpito un asilo nido di Sderot. Vista l'ora non c'erano bambini nella scuola materna ma il segnale mandato da Hamas è chiaro.
Immediata la risposta israeliana. Nella notte l'aviazione con la Stella di David ha attaccato obiettivi terroristici nella Striscia di Gaza colpendo quattro siti appartenenti ad Hamas e alla Jihad Islamica, due a Gaza e due nella città di Beit Lahiya, a nord della Striscia di Gaza. Non vengono segnalate vittime....

(Right Reporters, 2 luglio 2016)


Unione delle Comunità Ebraiche, il nuovo Consiglio al lavoro

 
 
Si riunisce per la prima volta domenica 3 luglio, con all'ordine dei giorno la nomina del presidente che subentrera a Renzo Gattegna, che ha retto l'ente per dieci anni eonsecutivi, il nuovo Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche determinato il 19 giugno dalle designazioni dei Consigli Comunitàri e dalle consultazioni elettorali svoltesi nelle cinque Comunità chiamate al voto (Roma, Milano, Firenze, Livorno e Trieste). Venti i Consiglieri che spettano alla Comunità di Roma, dove gli elettori potevano scegliere tra quattro formazioni con voto su liste bloccate e dove l'affluenza è stata dei 24,7% degli aventi diritto (nel 2012, ultima consultazione UCEI; erano stati il 19,1%). Otto i seggi assegnati alla lista Kol Israel (38,2% delle preferenze), cinque a testa invece per Menorah (27,5%) e Benè Binah (23,2%), due per il gruppo Israele siamo noi (11%). Oltre alla capolista Ruth Dureghello, attuale presidente della Comunità capitolina, Kol Israel porta in Consiglio Gianni Ascarelli, Settimio Di Porto, Raffaele Sassun, Claudio Moscati, Franca Formiggini Anav, Gianluca Pontecorvo e Angelo Sed. Oltre alla capolista Noemi Di Segni, assessore al Bilancio nel passato mandato UCEI, Benè Binah porta in Consiglio Sabrina Coen, Jacqueline Fellus, Davide Jona Falco e Saul Meghnagi. Oltre alla capolista Livia Ottolenghi, ex assessore alla Cultura delia Comunità, Menorah porta in Consiglio Guido Coen, David Meghnagi, Hamos Guetta e Victor Magiar. Israele siamo noi porta infine Marco Sed e Giacomo Moscati. Dieci i Consiglieri attribuiti alla Com unita di Milano, dove gli elettori potevano scegliere liberamente i nomi dei candidati incrociando le preferenze anche fra candidati di liste diverse e dove l'affiuenza è stata del 31,5%, in calo rispetto al dato dei 2012 (33,6%).
   Sei i seggi che sono andati alla lista Wellcommunity per Israele, due a testa invece per Comunità Aperta e Milano per l'Unione -1'Unione per Milano. Wellcommunity per Israele, 1- tre che dal capolista Raffaele Besso, uno dei due copresidenti delia Comunità. sara rappresentata da Sara Modena, Dalia Gubbay, Guido Ascer Guetta, Raffaele Turiel e Guido Osimo. Comunità aperta dal capolista Cobi Benatoff, Consigliere UCEI nel passato mandato, e da ]oyce Bigio. Milano per l'Unione - l'Unione per Milano dall'altro copresidente Milo Hasbani e Giorgio Mortara.
   Le tre Comunità dove si andava al voto, con una scelta tra più candidati - Firenze, Livorno e Trieste - hanno espresso ciascuna il loro rappresentante. Nell'ordine, entrano in Consiglio Sara Cividalli (che ha ottenuto più preferenze di Ugo Caffaz e Dario Bedarida), Vittorio Mosseri (arrivato davanti a Daniel Polacco e Daniela Sarfatti) e Mauro Tabor (che era in competizione con Joram Bassan). Cividalli e Mosseri sono stati presidenti delle rispettive Comunità nell'ultimo quadriennio (Mosseri è stato eletto anche nel nuovo Consiglio). Tabor è stato rappresentante della Comunità giuliana anche nel passato mandato dell'Unione.
   Le 16 Comunità dove la designazione è stata decretata dal Consiglio locale hanno invece espresso i seguenti nominativi: Manfredo Coen (Ancona), David Menasci (Bologna), Elio Carmi (Casale Monferrato), Andrea Pesaro (Ferrara), Angiolo Chicco Veroli (Genova), Licia Vitali (Mantova), Elisabetta Rossi Innerhofer (Merano), Arturo Bemporad (Modena), Sandro Temin (Napoli), Davide Romanin ]acur (Padova), Giorgio Giavarini (Parma), Arsenio Veicsteinas (Pisa), Giulio Disegni (Torino), Sandra Levis (Venezia), Rossella Bottini Treves (Vercelli) e Roberto Israel (Verona). Coen, Pesaro, Innerhofer, Jacur, Giavarini, Bottini Treves sono presidenti delie rispettive cornunita: hanno lavorato nello scorso Consiglio dell'Unione, oltre a Innerhofer, ]acur, Giavarini e Bottini Treves, anche Menasci, Vitali, Bemporad, Temin, Disegni e Israel. Rav Alfonso Arbib, rav Ariel Di Porto, rav Giuseppe Momigliano, rav Elia Richetti, rav Alberto Somekh: questi i cinque nominativi scelti dall'Assemblea dei Rabbini d'Italia, tra i quali il Consiglio dell'Unione dcsignerà i tre rappresentanti che faranno parte della Consulta Rabbinica. I primi tre sono rabbini capo, rispettivamente, nelle citta di Milano, Torino e Genova. Rav Momigliano è anche presidente dell'Ari.

(Pagine Ebraiche, luglio 2016)


Vince Allah nella terra del dio Po

Trionfo sinistro. Il triste destino di Varese, dalla città del dio Po alla rivincita di Allah.

di Fabio Rubini

II nuovo sindaco di Varese, il piddino Davide Galimberti, sarebbe stato eletto per volere di Allah. O almeno così pensa fi portavoce della comunità islamica cittadina, Samir Baroudi, che in un'intervista a La Prealpina ha spiegato: «Così Allah si è preso la sua rivincita» sulla precedente giunta leghista, accusata di «ipocrisia ideologica e settaria». Ora con Galimberti che è «un ragazzo col cervello le cose cambieranno». Che tradotto vuol dire: adesso la comunità islamica potrà sperare nella costruzione di una moschea con annesso centro islamico. Quella cioè che i sindaci del Carroccio che si sono succeduti hanno sempre ostacolato con forza.
   Questa volta però, almeno stando alla rivelazione di Baroudi, pare che più del Sacro Monte abbia potuto la Mecca, che ha guidato la mano dei varesini al ballottaggio, per tracciare con la matita copiativa la «x» sul nome di Galimberti e non su quello dello sfidante Orrigoni. Staremo a vedere. Del resto Varese è città abituata ai cambiamenti radicali, visto che dopo essere stato un feudo democristiano e del «In cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!», nei primi anni '90 è diventata la culla della Lega Nord, che per anni ha portato avanti il culto di Eridano, il dio Po e delle ampolle da trasportare dal Monviso a Venezia.
   Scherzi a parte il caso Varese rischia di far discutere e non poco. Qui due mesi fa è stato arrestato un imam (che non faceva parte della comunità locale) con l'accusa di terrorismo. E subito dopo l'elezione di Galimberti una delle discussioni più animate in città è stata quella sulla volontà di togliere la storica bandiera bianca con croce rossa, che da (...) (...) anni sventola dalla sommità di Palazzo Estense. Quasi che quella croce potesse infastidire qualcuno. Infine l'imam che parla di «Vendetta di Allah» nell'elezione di un sindaco.
   Una storia, questa varesina, che fa il paio con le polemiche nate a Milano con l'elezione in consiglio di Sumaia Abdel Quader, accusata di vicinanza con l'islam radicale, e che fa nascere il dubbio che tra islam e Pd ci sia un problema che, per il bene di tutti, va chiarito il prima possibile, onde evitare spiacevoli inconvenienti. Che i varesini si siano già pentiti di aver voltato le spalle al caro vecchio centrodestra?
   
(Libero, 2 luglio 2016)


Bernard-Henrì Lévy, esempio dell'intellettuale organico che disprezza chi vota

Per lui, il popolo non merita di andare alle urne.

di Gianfranco Morra

 
Bernard-Henrì Lévy
L'itinerario della modernità è del tutto evidente: dalle teste d'uovo puritane ai giacobini e ai leninisti la lasse degli intellettuali ha accentuato le sue caratteristiche gnostiche: produrre cioè dei mutamenti sociali che assicurino a tutti gli uomini una salvezza terrena, una «riforma intellettuale e morale» (Gramsci) gestita dal cosiddetto «intellettuale organico»: una sintesi di intellighenzia e politica, un sacerdote incardinato nella Chiesa (Partito), dentro la quale ha il compito di dare alle masse quella coscienza, di cui sono prive. Questa messa è finita: la lasse operaia è scomparsa, il Partito è divenuto Pd, la società è postindustriale, di rivoluzione si parla ormai solo sul letto. Gli intellettuali sono oggi degli esperti: economisti, burocrati, tecnici, operatori dei mass-media. Giocano con la democrazia e la religione, sono aperti e problematici, disponibili e moderati. Hanno tuttavia mantenuto il vecchio vizio: sono dei philosophes, hanno una intelligenza superiore che ne fa le guide degli erranti, cioè della maggioranza degli uomini.
   L'ultima prova ad abundantiam di questa vocazione alla direzione spirituale l'abbiamo avuta con la loro reazione, indignata e moralistica, alla Brexit. La loro forma mentis sicuramente antidemocratica si è rivelata con evidenza nel tentativo, sostenuto a dismisura dai poteri economici e dagli intellettuali padroni dei media, di considerare il voto come una coglionata. Frutto della stupidità e dell'incultura delle masse. Lo ha sottolineato più di tutti un homme de lettre così pieno di intelligenza che ne butta via quintali ogni giorno, Bernard-Henri Lévy. E dobbiamo essere grati al Corriere della Sera per aver pubblicato il suo lungo articolo di lunedì scorso, un selfie che ne rivela l'animo da Piccolo Inquisitore: «Hanno vinto il populismo, la demagogia e la destra dura». E giù con gli aggettivi demonizzanti: «stupidi, estremisti, violenti, avvinazzati, ignoranti, cretini, volgari».
   Non è stato il solo. Anzi. Gli intellettuali hanno mostrato orrore per un voto, espresso nel pieno rispetto delle regole democratiche. Ne hanno anche chiesto la ripetizione. Forse è stato un voto sbagliato, ciascuno ha il diritto di pensarlo. Ma demonizzare la maggioranza dei cittadini di un paese di lunga e radicata civiltà come il Regno Unito mostra che la democrazia, esibita all'occhiello, per loro vale solo quando fa comodo alle caste privilegiate. Lévy ha confermato quanto sapevamo: che nessun ceto quanto gli intellettuali di sinistra è lontano e sprezzante dell'animo popolare, per il quale, il più delle volte, quanto dicono non è né giusto, né sbagliato, ma solo incomprensibile. Col comunismo facevano barricate contro l'Unione europea, oggi, mentre la difendono come una Bibbia, sappiamo che hanno cambiato l'abito, ma non la presunzione e il fanatismo. Comunisti non sono più, illuminati lo sono ancora, come prima e più di prima.
   
(ItaliaOggi, 2 luglio 2016)


Turchia-Israele, gas israeliano verso l'Europa

ISTANBUL - Turchia e Israele pianificano una collaborazione per portare il gas israeliano in Europa tramite un gasdotto che passera' attraverso la Turchia. Il progetto potrebbe diventare operativo a partire dal 2019, ha dichiarato dal ministro israeliano dell'Energia, Yuval Steinitz, al quotidiano Hurriyet. "L'esportazione del nostro gas in Turchia e' una possibilita' concreta, che ci permetterebbe di arrivare ad esportare fino all'Europa attraverso il gasdotto attualmente in costruzione, un progetto che portera' vantaggi sia a noi che ad Ankara". Queste, le parole di Steinitz all'indomani della ratifica dell'accordo che ha riportato la normalita' nei rapporti tra Ankara e Gerusalemme, bruscamente interrotti nel marzo 2016 in seguito alla morte di 10 attivisti turchi, avvenuta durante l'assalto da parte di militari israeliani della nave umanitaria Mavi Marmara diretta a Gaza.
   La cooperazione in ambito energetico con Israele diventa un'opzione importante per un paese come la Turchia, obbligato a importare il gas necessario a soddisfare il proprio fabbisogno interno. Steinitz ha poi confermato che, una volta limati alcuni particolari relativi all'accordo, il gasdotto che colleghera' le acque territoriali israeliane con la Turchia sara' realizzato attraverso una joint venture di compagnie turche e israeliane-americane.
   Il volume di gas israeliano attualmente esportato ammonta a 350 miliardi di metri cubi, ma secondo Steinitz in pochi anni l'esportazione potrebbe raggiungere i 2500 miliardi di m3, una stima confermata anche dalla sezione Energia del Dipartimento di stato Usa.Il ministro dell'energia ha anche confermato la possibilita' che Israele esporti anche attraverso il gasdotto Tanap, che colleghera' il Mar Caspio e l'Europa attraverso la Turchia. Steinitz ha poi illustrato a Hurriyet le tre opzioni che Gerusalemme ha sul tavolo per pianificare l'esportazione del gas dei propri giacimenti. "La prima possibilita' -ha detto- riguarda l'export di gas liquido (Lng) attraverso il delta del Nilo, che permetterebbe di portare Lng in Europa via nave grazie ai porti egiziani. La seconda opzione prevede la costruzione di un gasdotto che colleghi le acque israeliane alla Grecia attraverso Cipro", ma con una criticita' nei costi elevati e nei tempi lunghi, stimati "tra i cinque e gli otto anni". La terza opzione coinvolge la Turchia, destinataria sicura del gas israeliano e probabile ponte per raggiungere la regione est del Mediterraneo, sopratutto nell'eventualita', definita da Steinitz "molto probabile" che nuovi giacimenti vengano scoperti.
   
(AGI, 1 luglio 2016)


Il rabbino capo rav Di Segni fila la Seta Etica 100% italiana

 
NOVE - Giovedì 30 giugno rav Riccardo Di Segni, il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, si è recato a Nove (VI) per rinnovare in Italia, dopo più di 60 anni, un'antica tradizione legata alla realizzazione del talled, lo scialle di preghiera ebraico - ampio telo di stoffa bianca a strisce azzurre o nere, solitamente di lana, cotone o seta - la cui storia risale ai tempi della compilazione della Torah.
   Il talled è un tradizionale indumento rituale ebraico che accompagna il fedele in ogni momento liturgico e nelle tappe religiose della vita, dalla circoncisione alla sepoltura; è ornato da frange - in ebraico tzitzit - fra loro intrecciate a simboleggiare il ricordo degli obblighi religiosi.
   Secondo un cerimoniale raro nel mondo (ad oggi si svolge solo in Israele e negli Stati Uniti) ed unico in Italia, rav Di Segni ha partecipato a tutte le fasi di produzione del cordoncino di seta che servirà per la creazione delle frange, che verranno attaccate ai quattro angoli del talled come promemoria dei comandamenti.
   Le frange servono per adempiere il comandamento espresso dalla Torah: "Metterai delle frange alle quattro estremità del mantello con cui ti copri" (Libro del Deuteronomio 22:12). Sono formate da quattro fili doppi, per un totale di otto, di cui uno più lungo si avvolge intorno agli altri; sono legate in un determinato numero di nodi, corrispondente al valore numerico delle lettere che compongono il nome di Dio o (in base ad altri usi) al valore numerico dell'espressione "HaShém Echad" ("il Signore è uno").
   Grazie al recente ripristino di una filandina - macchinario che serve per trasformare i bozzoli in filo di seta - un filato interamente prodotto in Italia può tornare ad essere utilizzato nella creazione degli scialli rituali ebraici, nel rispetto delle Antiche Scritture.
   Attualmente la filandina, risalente al 1971 è l'unica nel suo genere in Europa per la produzione di seta di alta qualità; è ubicata presso l'azienda orafa D'orica, capofila di una rete d'imprese che dopo circa 50 anni ha ricostruito e riorganizzato l'intero ciclo produttivo della seta in Italia.
   Questa autentica seta 100% italiana, dal baco da seta al filato, è oggi prodotta secondo principi etici e a breve anche biologici. Derivata da una filiera certificata 100% Made in Italy sarà destinata all'utilizzo in vari settori: oltre a quello della moda, questa seta oggi può essere impiegata nella produzione di gioielli, cosmetici, farmaci, applicazioni biomediche, alimentari e molto altro ancora.
   La sapienza del passato, la passione del presente, l'innovazione del futuro sono le linee guida di questa filiera, composta da un network di imprese, professionisti ed esperti del settore, che ha dato vita a un ambizioso progetto, già selezionato a Bruxelles nel 2015 per ricavarne delle best practice per il settore Ricerca & Innovazione comunitaria, da diffondere alle imprese di tutta Europa.
   Un'impresa davvero originale e unica che ha affascinato fin da subito rav Di Segni, tanto che ha voluto organizzarne la visita in tempi brevi. Ad accogliere il capo rabbino a Nove, Giampietro Zonta e Daniela Raccanello di D'orica.
   "Abbiamo accolto, fin da subito - spiega Giampietro Zonta - con grande entusiasmo la richiesta del rabbino capo Riccardo Di Segni, nel voler utilizzare la nostra seta per la realizzazione delle frange del talled. Siamo davvero onorati di poterlo ospitare qui oggi e ancor più di aver contribuito alla rinascita di un'antica tradizione religiosa che va proprio ad intrecciarsi con la ricostruzione dell'intera filiera della seta. L'incontro con rav Di Segni conferma ancora una volta la straordinarietà di questo progetto: un filo di seta ci ha condotti a conoscere persone, luoghi e realtà davvero speciali; un filo di seta potrà riunire l'Italia partendo dal Veneto".
   "Siamo qui oggi - dichiara rav Di Segni - perché finalmente, dopo oltre sessant'anni, possiamo rinnovare un'antica tradizione ebraica. Secondo la Bibbia, durante la preghiera, si deve indossare il talled, uno scialle con delle frange applicate ai quattro angoli, frange realizzate artigianalmente da un ebreo osservante. Comunemente veniva utilizzata la lana, ma in Italia lo scialle bianco e azzurro (anziché bianco e nero) veniva realizzato anche in seta. Ogni capofamiglia possedeva un prezioso scialle che veniva tramandato di generazione in generazione. Purtroppo, a causa della mancata produzione di questo filato in Italia, questa nostra tradizione è stata interrotta. Oggi siamo qui in funzione di "operai" perché lavoreremo la seta, guidati da esperti tecnici, per la creazione delle frange destinate al talled, rinnovando così un antico cerimoniale."
   "Dopo lunghe e difficili ricerche - racconta il rabbino Pino Arbib - finalmente siamo riusciti a ritrovare una filanda per poter ripristinare una nostra antica tradizione. Con la seta che produrremo qui oggi, riusciremo a creare le frange e lo scialle lavorati interamente in Italia. Così avremo un talled tutto italiano, dall'inizio alla fine."
   Hanno partecipato all'evento Silvia Cappellozza, direttrice del CREA di Padova, centro di ricerca d'eccellenza mondiale a sostegno della gelsibachicoltura, e alcuni imprenditori industriali interessati al progetto Seta Etica.
   
(TVIWEB, 1 luglio 2016)


Uccisa da un palestinese un'israeliana di tredici anni

di Daniel Mosseri

«Mio figlio è un eroe e mi ha resa orgogliosa. E' morto da martire per difendere Gerusalemme e la moschea al-Aqsa. Sia lodato Allah». Sono le parole della madre di Mohammed Taraireh, il 18enne palestinese che ha accoltellato a morte la 13enne israeliana Halel ArieL Ieri mattina la ragazzina è stata pugnalata nel sonno nella sua abitazione di Kiryat Arba, un insediamento israeliano nei pressi di Hebron. Partito a piedi dal vicino villaggio di Bani Na'im, Taraireh ha scavalcato la recinzione che circonda Kiryat Arba, si è introdotto in casa Ariel, ha accoltellato Halel ed è riuscito a ferire un guardiano accorso in aiuto della giovane. Poco dopo il ragazzo è stato abbattuto da altri guardiani.
   «Mio figlio ha raggiunto gli altri martiri e con il volere di Allah, tutti i giovani di Palestina seguiranno il suo cammino». Le dichiarazioni della madre del terrorista riflettono il clima di odio e incitamento alla violenza contro tutti gli ebrei - siano essi militari delle Israeli Defence Forces o bambine addormentate - che pervade i media e le scuole dell'Autorità palestinese. Nella Striscia di Gaza govemata dagli islamici di Hamas questa violenza è regolarmente festeggiata per strada, e tuttavia in Cisgiordania il clima non è molto diverso: qua l'Autorità palestinese è solita intestare scuole e uffici pubblici a «martiri» del calibro di Taraireh, le cui famiglie diventano spesso beneficiarie di pensioni, a compensare la dipartita dell'«eroe». Una politica, condotta dal presidente palestinese Mah-moud Abbas, a metà fra tolleranza e sostegno alla violenza; eppure la settimana scorsa Abbas ha condannato a parole davanti all'Europarlamento gli attacchi terroristici come mezzo di costruzione di uno Stato, guadagnandosi gli applausi dei deputati. Nel clima d'odio voluto dal suo governo è cresciuto Taraireh: poche ore prima di uccidere Halel il giovane aveva twittato che «morire è un diritto, e io voglio morire».
   Il dipartimento di Stato americano ha condannato «nel modo più netto» l'atto di terrore, mentre il ministero degli Esteri tedesco ha spiegato che «nessuna religione, nessun conflitto politico, nessuna frustrazione personale possono giustificare il vile assassinio di un bambino che dorme». «Il mondo intero condanni questo atto terroristico così come è stato fatto per gli attacchi a Orlando e a Bruxelles», ha affermato il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Un appello che ancora in serata la Farnesina non aveva ritenuto necessario ascoltare. Intanto nella città costiera di Netanya due altri israeliani venivano accoltellati da un palestinese, poi ucciso dalla polizia Nelle stesse ore è stato celebrato il funerale di Halel.

(Libero, 1 luglio 2016)


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Ancora sangue in Cisgiordania, mentre cresce il boicottaggio europeo

In Francia il primo comune che vieta i prodotti israeliani

di Mauro Zanon.

Hillel con la sua famiglia
La scena del fatto
Il dolore dei genitori
E' stata uccisa nel suo letto, mentre dormiva, da un giovane palestinese che è riuscito a superare il muro di sicurezza che protegge il quartiere di Harsanina e a penetrare nella sua abitazione. Aveva tredici anni Hillel Yafa Ariel, ragazza israeliana che viveva con i suoi genitori a Kyriat Arba, insediamento nei pressi di Hebron. I familiari e i vicini di casa l'hanno soccorsa immediatamente per provare a salvarla, ma non c'è stato niente da fare. Poche ore dopo il suo arrivo all'ospedale di Gerusalemme è deceduta, a causa della gravità delle ferite provocate dall'accoltellamento. Ancora sangue in Cisgiordania, ancora una vittima dell'intifada dei coltelli che dallo scorso ottobre a oggi ha causato la morte di trentasette cittadini israeliani e due statunitensi.
   L'attacco di ieri è uno dei più gravi da quando è scoppiata la "terza intifada", al punto che il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in concertazione con il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, ha ordinato all'esercito di chiudere il villaggio palestinese di Bani Naim, da dove veniva l'attentatore, di annullare i permessi di lavoro dei suoi famigliari e di avviare le procedure per la demolizione della loro casa. Tra le altre cose, l'autore dell'accoltellamento, il diciassettenne Mohammed Taraireh, che le guardie armate hanno abbattuto subito dopo il suo assalto, è parente dell'uomo che a marzo ha compiuto un attacco con la sua auto nello stesso insediamento ebraico di Kyriat Abra. "Mi aspetto che la leadership palestinese condanni chiaramente e senza equivoci questo orrendo omicidio e prenda immediati provvedimenti per fermare l'istigazione", ha dichiarato Netanyahu al termine di una riunione di sicurezza. "L'assassinio di una ragazzina nel suo letto - ha aggiunto - sottolinea la sete di sangue e l'inumanità dell'istigazione indotta nei terroristi che abbiamo di fronte". "L'intero mondo - ha continuato Netanyahu - deve condannare questo omicidio come ha condannato gli attacchi terroristici di Orlando e Bruxelles".
   Non si ferma l'intifada di coltelli, così come non si fermano in giro per l'Europa le pericolose iniziative di alcune entità pubbliche e associazioni che confermano un crescente clima di antisemitismo. L'ultima notizia in questa direzione giunge ancora una volta dalla Francia, che nel 2015, l'anno delle stragi jihadiste di Charlie Hebdo, dell'Hyper Cacher e del Bataclan, ha registrato ottomila "aliyah", ritorni in Israele, diventando il primo paese europeo per numero di ebrei partiti. Giovedì scorso, la cittadina di Bondy, nel Seine-Saint-Denis, è diventata il primo comune europeo a rendere obbligatorio il boicottaggio dei prodotti degli insediamenti israeliani con solo 5 voti contrari in un'assemblea composta in totale da 45 eletti. A rivelare la notizia, che è stata oscurata dai principali media parigini, è stato il giornale israeliano Haaretz, citando il sito controcorrente francese Rezo Citoyen. Il sindaco socialista del comune situato a nord di Parigi, Sylvine Thomassin, ha fatto votare la mozione non solo con l'obiettivo di non acquistare più prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani, ma anche di "ricercare prima dell'acquisto l'origine dei prodotti che non specificano chiaramente la loro provenienza", scrive Haaretz. La mozione, votata quasi all'unanimanità dal consiglio comunale guidato dalla sinistra, potrebbe tuttavia essere invalidata dalla giustizia francese. Ma restano le intenzioni, peggiori ancora la direttiva europea sull'etichettatura dei prodotti fabbricati negli insediamenti israeliani, adottata dalla Commissione europea nel novembre 2015. I consiglieri comunali hanno dichiarato nella loro mozione che "accettare o di rifiutare di acquistare dei prodotti in funzione della loro origine" è un "diritto civile legittimo".
   Che in Francia tiri una brutta aria per la comunità ebraica, lo hanno appena evidenziato le cifre della aliyah. Che tra Parigi e Tel Aviv ci sia ancora molto da lavorare dal punto di vista diplomatico, lo certifica questa notizia.

(Il Foglio, 1 luglio 2016)


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Netanyahu visita la famiglia della ragazza uccisa

Durante il colloquio, nuovo attentato nelle vicinanze

GERUSALEMME - Accompagnato dal ministro della difesa Avigdor Lieberman, il premier Benyamin Netanyahu si e' recato oggi nell'insediamento di Kiryat Arba per una visita di conforto ai genitori di Hallel Yafa Ariel, la ragazza di 13 anni accoltellata ieri a morte nel proprio letto da un adolescente palestinese, che e' stato poi ucciso a sua volta.
''Vedere la stanza di Hallel, vedere le macchie di sangue accanto al suo letto, i libri e i vestiti di una ragazzina, e' sconvolgente. Tutto cio' ci ricorda chi e cosa abbiamo di fronte''. Netanyahu ha promesso che il suo governo provvedera' a rafforzare Kiryat Arba. ''Loro vorrebbero sradicarci ma noi - ha precisato approfondiremo le nostre radici. Non ci espelleranno da qua''.
Mentre Netanyahu era Kiryat Arba, nella vicina citta' di Hebron un'assalitrice palestinese, secondo la versione ufficiale, ha cercato di accoltellare una soldatessa israeliana ed e' stata colpita a morte. Proveniva dal medesimo villaggio, Bani Naim, dove risiedeva l'assassino della ragazzina ebrea.

(ANSAmed, 1 luglio 2016)


Padre di famiglia ucciso dall'odio. È ancora terrorismo palestinese

Non si è ancora spento il dolore per il brutale omicidio di Hallel Yaffa Ariel, la bambina di 13 anni accoltellata a morte ieri a Kiryat Arba (insediamento israeliano in Cisgiordania) da un terrorista palestinese, che già Israele deve contare una nuova vittima. Nelle scorse ore infatti, riportano i media locali, un israeliano è stato ucciso mentre sua moglie e i suoi due bambini di 15 e un anno sono rimasti feriti in un attacco nei pressi dell'insediamento di Otneil, 15 chilometri a sud di Kiryat Arba. I quattro erano a bordo della propria auto quando terroristi palestinesi hanno fatto fuoco contro di loro. Il veicolo è andato fuori strada, colpito da 19 proiettili, riporta ynet. Quando sono arrivati i soccorsi per il padre non c'era nulla da fare mentre la madre è stata ricoverata d'urgenza all'Hadassah Ein Kerem Medical Center e versa in condizioni gravi. Anche i due figli sono stati ricoverati, sono fuori pericolo ma sono comunque rimasti feriti nell'attacco.
   Secondo fonti dell'esercito israeliano, gli attentatori, fuggiti a bordo di un auto, sono dello stesso villaggio - Bani Naim -, vicino Hebron, del 17enne che ieri ha ucciso nel suo letto la piccola Hallel.
   Nelle ore precedenti, una donna palestinese ha cercato di accoltellare degli agenti della polizia di frontiera israeliana presso la Tomba dei Patriarchi a Hebron. L'attentatrice è stata uccisa ed è anche lei proveniva da Bani Naim. Ieri sera invece un altro terrorista ha attaccato con un coltello e ferito due israeliani, un uomo e una donna, a Netanya, prima di essere ucciso da un civile che ha fatto fuoco contro di lui.
   Il Primo ministro Benjamin Netanyahu, in visita nelle scorse ore a Kiryat Arba assieme al ministro della Difesa Avigdor Lieberman alla famiglia di Hallel Ariel, ha promesso di rinforzare la sicurezza nella zona. "Tredici anni fa, dopo tante sfide e tentativi, ho avuto il privilegio di farti nascere. Da allora nella mia vita è arrivata la luce". Le commosse parole di addio pronunciate da Rina Ariel, dedicate alla figlia assassinata ieri da un giovane terrorista palestinese. "Una ragazza innocente uccisa a sangue freddo mentre dormiva nel suo letto. Il popolo d'Israele è al fianco della sua famiglia e di tutta Kiryat Arba", il cordoglio espresso dal presidente d'Israele Reuven Rivlin che ha poi denunciato l'istigazione all'odio presente nel mondo palestinese e che ha armato la mano del terrorista, un ragazzo di 17 anni. "Questo terrorismo degli adolescenti, fomentato dalle sanguinarie accuse dei loro leader, deve essere fermato", ha dichiarato Rivlin, "combatteremo fino alla fine, in modo fermo e senza compromessi. Sradicheremo i terroristi e chi li comanda. Continueremo a costruire qui le nostre vite, senza il terrore ma con il continuo impegno a rafforzare Israele". Alla madre del giovane terrorista, che ha celebrato l'atto criminale del figlio, si è rivolta la madre di Hallel: "Con il cuore in lutto, mi rivolgo a te, la madre musulmana che ha mandato suo figlio a uccidere. Hai cresciuto tuo figlio nell'odio; è tempo di guardarsi dentro".

(moked, 1 luglio 2016)

Aeroporti più sicuri: il modello Tel Aviv. «Ma il rischio zero non esiste»

di Giorgio Maggi

 
L'aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv
Quando si parla di aeroporti sicuri, il modello da tutti citato è l'aeroporto di Tel Aviv, fino ad oggi considerato una case history di successo. Qui l'aeroporto è inteso come una fortezza, e non come uno shopping mall, e per accedervi bisogna passare attraverso una serie di cerchi difensivi affidati ad agenti in divisa e in borghese. Non per nulla, per prendere un volo dal Ben Gurion, l'invito è di recarsi in loco almeno tre ore prima della partenza. E poi, nulla viene lasciato sguarnito: strada d'accesso, ingresso, check in, porte d'imbarco, navette, gli agenti in borghese sono dappertutto. In compenso, gli israeliani non controllano i liquidi dei viaggiatori, concentrandosi su una sorta di profiling, cercando di individuare i potenziali attentatori sulla base dei dati personali raccolti in vari modi. Dall'intervista al check in all'osservazione del loro comportamento in aeroporto. Insomma, nell'aeroporto più sicuro del mondo nulla viene lasciato al caso.
  Una volta arrivati all'interno dello scalo, dopo aver già superato due livelli di controllo, prima del check in, decine di agenti sottopongono tutti i passeggeri a un intenso interrogatorio che alla fine porta all'assegnazione di un «indice di pericolosità». Si va quindi al banco dell'accettazione con un'etichetta gialla sul retro del passaporto, contenente un codice a barre e una serie di dieci numeri. Quella che conta è la prima cifra che va da «1» - il passeggero non è considerato una minaccia - a «6», di solito attribuito ad arabo-israeliani, attivisti filo-palestinesi, visitatori con diverse nazionalità o origini da un paese musulmano. Dopo il check in, i percorsi si dividono, e i viaggiatori che hanno ricevuto il «5» e il «6» vengono sottoposti a ulteriori controlli.
  Chissà se adesso, dopo la strage di Istanbul, cambierà qualcosa anche in Europa. Già all'indomani degli attentati di Bruxelles si era parlato di rafforzare i controlli in entrata negli aeroporti, almeno di quelli ritenuti più a rischio. Di fronte alla complessità e ai costi di rendere più sicure almeno le zone check in degli scali del vecchio continente, però, le autorità europee avevano preferito raccomandare agli Stati membri, seppure in modo non vincolante, di istituire un primo controllo di sicurezza subito all'entrata degli aeroporti, con metal detector per bagagli e persone, e relativo controllo di biglietto e passaporto.
  Nel mondo, oltre all'aeroporto-modello di Tel Aviv, anche a Beirut si sono prese delle contromisure; o a Mosca, sia a Domodedovo che a Sheremetyevo, dove l'accesso al piano partenze è strettamente monitorato da polizia e metal detector. Nello stesso Jfk di New York, come in molti altri scali Usa, dopo le stragi dell'11 settembre la sicurezza è stata rafforzata tanto che nel principale aeroporto della Grande Mela si entra sotto sorveglianza di polizia e body scanner. In Europa, invece, tranne rari casi, questi ultimi non sono ritenuti un investimento necessario su larga scala, se non per alcuni voli sensibili, ad esempio quelli verso gli Usa. Uniche eccezioni, a Vienna dove sono stati introdotti i controlli biometrici all'ingresso di tutto il personale o a Zurigo, da tempo considerato uno degli scali più sicuri ed efficienti d'Europa.
  Il problema, fanno sapere da Bruxelles, è che il rischio zero non esiste. E quindi meglio procedere caso per caso. Un po' quello che è successo dopo lo sventato attacco della scorsa estate nel treno ad alta velocità Amsterdam-Parigi, quando dopo aver valutato l'ipotesi di introdurre una serie di controlli di bagagli e identità nelle stazioni ferroviarie, i costi elevati e gli intralci alla circolazione avevano allontanato l'emanazione di disposizioni vincolanti da parte dell'Unione Europea.
  «Solo adeguate misure di prevenzione da parte dell'intelligence potrebbero ridurre la probabilità di questi attentati terroristici e potrebbero garantire maggiore sicurezza negli aeroporti», ha ribadito Antonio Bordoni, docente di gestione delle compagnie aeree all'università Luiss, in un'intervista a La Stampa. E a pensarla così è anche Giulio De Carli, progettista di infrastrutture aeroportuali in tutto il mondo, e amministratore delegato di One Works, nonché di quel piano aeroporti italiano che non ha mai visto la luce. «Gli aeroporti sono dei luoghi che rimangono sensibili ed esposti agli attentati. Dal punto di vista della sicurezza - afferma - sarebbero necessari molti investimenti, sia per aggiornare gli strumenti in uso, sia per installare apparecchi di nuova generazione. E ancora di più se si volesse configurare gli spazi aeroportuali in modo che sia fisicamente più facile effettuare i controlli. Per un kamikaze, poi, il fatto che un attacco avvenga prima o dopo l'ingresso in aeroporto cambia poco. La verità è che con questo tipo di attacchi azzerare il rischio è impossibile».

(Agenzia di Viaggi, 1 luglio 2016)


Corbyn: come gli ebrei, così i musulmani... come Israele, così l'ISIS

Vivaci proteste, in Israele, dopo che il leader laburista britannico Jeremy Corbyn ha paragonato Israele "Stato Islamico" (ISIS). Commentando i risultati di un'indagine del suo partito sul tasso di antisemitismo interno, Corbyn ha affermato: "I nostri amici ebrei non sono responsabili per le azioni di Israele o del governo Netanyahu più di quanto i nostri amici musulmani siano responsabili per le azioni del sedicente Stato Islamico".
Il leader laburista israeliano Isaac Herzog (Unione Sionista) ha dichiarato: "L'equivalenza morale suggerita da Corbyn tra Israele e ISIS è scandalosa e inaccettabile, e costituisce un tradimento dei valori del laburismo a livello mondiale". Herzog ha paragonato Corbyn a Ernest Bevin, ministro degli esteri laburista all'epoca in cui venne istituito lo stato di Israele contro la volontà della Gran Bretagna. "Corbyn incarna una posizione di odio coerente nei confronti di Israele come era quella del famigerato Ernest Bevin, e fallirà come fallì Bevin", ha detto Herzog.
Itzik Shmuly, parlamentare di Unione Sionista, ha detto che Corbyn "è uscito di testa e la sua leadership è una vergogna per il laburismo".
Yair Lapid, leader del partito israeliano d'opposizione Yesh Atid, ha invitato il partito laburista a tagliare i rapporti con la controparte britannica finché Corbyn non sarà sostituito. "E' inaccettabile - ha detto Lapid - che nel giorno in cui Israele piange una ragazzina innocente assassinata nel sonno da un terrorista solo perché ebrea, il leader dell'opposizione nel Regno Unito metta sullo stesso piano Israele e ISIS. E' un paragone vergognoso, la prova che Corbyn è un ignorante. Lo stato di Israele è governato da valori democratici, da moralità e giustizia, e combatte ogni giorno contro le organizzazioni terroristiche votate all'assassinio di innocenti".
Il presidente della commissione esteri e difesa della Knesset Avi Dichter (Likud) ha ricordato che in passato Corbyn ha usato la parola "amici" parlando di Hamas e Hezbollah. "Solo uno collegato a quelle organizzazioni terroristiche poteva parlare in modo così antisemita - ha detto Dichter - Corbyn non ha imparato nulla dalla storia del popolo britannico, di Israele e del popolo ebraico".
Sarcastico il commento su Twitter di Tzipi Livni (Unione Sionista): "Come tutti i musulmani non sono responsabili per le azioni dell'ISIS, non tutti gli inglesi sono responsabili per le azioni di Corbyn".

(israele.net, 1 luglio 2016)

Israele, coraggio militare e politico a Entebbe

GERUSALEMME - Israele ha condotto operazioni militari più complesse o di maggior rilevanza storica rispetto a quella di Yonatan per il contrasto del terrorismo in Uganda), eppure, nessuna è stata avvincente quanto il salvataggio di Entebbe del 1976, scrive in un articolo la "Jerusalem Post", che analizza tutti i retroscena dell'operazione. La distanza che gli aerei israeliani hanno dovuto percorrere per raggiungere l'Uganda non sono stati l'unico motivo per cui a questa missione è stato dato un posto speciale nella storia militare del paese. Il 27 giugno 1976 un gruppo misto di terroristi palestinesi e tedeschi si impadronì di un Airbus dell'Air France in volo da Tel Aviv a Parigi via Atene con 250 persone a bordo, e lo dirottò all'aeroporto di Entebbe, in Uganda. I dirottatori chiedevano che Israele rimettesse in libertà 53 terroristi detenuti in diversi paesi. Posto di fronte a una situazione che sembrava lasciare ben poche possibilità di scelta, il governo israeliano annunciò che avrebbe avviato trattative. Ciò permise di guadagnare tempo prezioso, necessario per preparare un intervento militare. Secondo l'analisi del quotidiano israeliano, l'operazione Yonatan costituisce un testamento al coraggio del premier di allora, Yithzak Rabin, e ala sua determinazione a ergersi a difesa dei principi su cui è stato fondato lo Stato di Israele.

(Agenzia Nova, 1 luglio 2016)


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