La nascita di uno Stato in Palestina è un progetto reso difficile non soltanto dalla forza di Israele, ma anche dalle divisioni interne al movimento palestinese, che si indebolisce con le proprie mani. Il movimento palestinese è infatti diviso in due anime contrapposte. Da una parte, Hamas, che controlla la città di Gaza; dall'altra, Al-Fatah, che guida l'Autorità Nazionale Palestinese, il cui centro amministrativo è a Ramallah, in Cisgiordania. Le tensioni e gli scontri tra le due parti per il controllo di Gaza sono esplose nel giugno 2007, quando Hamas, dopo un sanguinoso scontro con Al-Fatah, ha assunto il controllo della Striscia di Gaza.
Da qualche mese, Hamas impedisce ai capi di Al-Fatah di entrare in Cisgiordania per incontrare gli altri membri del loro movimento. L'ultimo episodio risale a martedì 11 luglio, quando le forze di sicurezza di Hamas hanno impedito al vice segretario del Consiglio rivoluzionario di Al-Fatah di entrare in Cisgiordania, senza fornire nessuna spiegazione. Secondo una fonte di Al-Monitor, che ha chiesto di rimanere anonima, l'obiettivo di Hamas è quello di "stringere il cappio sulla leadership di Al-Fatah".
Gli scontri tra i due gruppi si sarebbero intensificati dopo che, il 10 marzo 2017, Hamas ha istituito a Gaza un comitato amministrativo per gestire le istituzioni governative nel territorio. Al-Fatah ha più volte chiesto a Hamas di chiudere il comitato, senza però ottenere alcun risultato.
Al-Fatah ha colpito Hamas con alcune misure punitive nella Striscia di Gaza, al fine di spingere i suoi capi a riprendere i colloqui di riconciliazione. Tra le misure, vi è l'aumento delle tasse sulle importazioni, quindi anche sul carburante che nella Striscia di Gaza viene fornito da Israele, ma acquistato da Al-Fatah che poi lo vende ad Hamas. Israele e Hamas, infatti, essendo in guerra, non hanno scambi commerciali diretti. Ciò ha causato una grave crisi elettrica nella Striscia di Gaza, che ancora oggi consente ai palestinesi di avere l'elettricità per due sole ore al giorno.
Hamas sta cercando di rafforzare la propria posizione, migliorando i rapporti con l'Egitto. Dal 4 giugno 2017, l'Egitto sta aiutando la Striscia di Gaza ad affrontare la crisi elettrica, attraverso l'invio di carburante industriale nel territorio. I rapporti tra Egitto e Hamas sono migliorati notevolmente negli ultimi mesi. I rappresentanti di Hamas si sono più volte recati al Cairo per chiedere aiuto al governo egiziano di Al-Sisi.
L'Egitto, volendo assumere un ruolo da protagonista nel conflitto israelo-palestinese, ha un interesse strategico ad aiutare Hamas.
- Traduzione dall'arabo e redazione a cura di Laura Cianciarelli
(Sicurezza Internazionale, 21 luglio 2017)
Che senso ha allora parlare di "colloqui di pace" tra Israele e Palestina, quando non si sa con chi Israele dovrebbe parlare? La Palestina come sovrano Stato unitario non è mai esistita e non esiste ancora. E una finzione che mantiene viva lopposizione allo Stato dIsraele, che esiste, ma di cui si continua a mettere in dubbio il diritto allesistenza. M.C.
MANTOVA - Niente da fare, i lavori vanno avanti senza ripensamenti. Nell'area dell'ex cimitero ebraico di San Nicolò a Mantova, aperto nel 1442 e chiuso nel 1786, sorgerà la "Piazza della terra" con laboratori dedicati all'ambiente, un mercato per la promozione di prodotti agricoli locali e spazi per l'accoglienza dei disabili. La pronuncia della Sovrintendenza è chiara.
Le ricerche effettuate con il georadar hanno escluso la presenza di reperti degni di essere portati in superficie e conservati. Il riferimento è alle pressioni di alcuni rabbini ortodossi americani e israeliani che avevano invocato lo stop dei lavori. «Il nostro interlocutore è l'Unione delle comunità ebraiche italiane e finora non ha chiesto scavi archeologici nell'area dell'ex cimitero» taglia corto l'assessore all'urbanistica Andrea Murari intervistato dalla Gazzetta di Mantova.
(la Repubblica - il Venerdì, 21 luglio 2017)
di Angela Sorrentino
Lunghe settimane di polemiche, ma alla fine la musica, ancora una volta, ha vinto ed è riuscita a vincere anche le critiche più aspre.
Alla fine il concerto che non si doveva fare si è fatto, e oltre 50 mila persone hanno assistito alla lunghissima performance dei Radiohead al parco Yarkon di Tel Aviv, la prima in diciassette anni.
Questo è stato probabilmente il concerto più discusso degli ultimi tempi, ma i Radiohead sono riusciti a chiudere a Tel Aviv la loro tournée, dopo settimane di polemiche: da una parte esponenti della comunità artistica che hanno fatto pressione perché la band di Thom Yorke sostenesse il boicottaggio dello stato, dall'altra i Radiohead che hanno sempre sostenuto il loro diritto ad esibirsi.
La querelle, avviata dall'ex Pink Floyd Roger Waters, era andata avanti fino a poche ore prima dell'inizio del concerto nell'estremo tentativo di dissuadere Thom Yorke, ma il messaggio del cantante e polistrumentista britannico era chiaro sin da quando dieci giorni fa aveva risposto con il dito medio alle bandiere palestinesi e ai fischi che avevano accompagnato l'inizio della sua esibizione al Transmight Festival di Glasgow, in Scozia.
In un post su Twitter Yorke aveva pazientemente spiegato: "Suonare in un paese non equivale ad approvare il suo governo. Noi non sosteniamo Netanyahu più di quanto sosteniamo Trump, ma continuiamo a suonare in America".
E in intervista alla rivista Rolling Stone aveva dichiarato: "È profondamente offensivo supporre che noi siamo così disinformati o così ritardati da non poter prendere queste decisioni per conto nostro. È davvero impressionante che artisti che rispetto pensino che non siamo in grado di prendere da soli una decisione etica dopo tutti questi anni. Ci parlano con arroganza e sufficienza e trovo semplicemente sbalorditivo che credano di avere il diritto di farlo".
I Radiohead alla fine hanno suonato ed è facile e soprattutto ricco di speranza immaginare che ci fossero anche arabi-israeliani nel pubblico.
(Web.it, 21 luglio 2017)
di Davide Frattini
GERUSALEMME - Per dieci anni Ireneo è rimasto agli arresti conventuali, degradato da patriarca a monaco. Riceveva il cibo dopo aver calato la corda con il cestello tra i vicoli della Città Vecchia e riportava al terzo piano la generosità di una famiglia musulmana del quartiere. Per dieci anni non ha lasciato la stanza nel palazzo dove una volta comandava perché temeva di non poterci tornare.
Adesso Teofilo III, il successore alla guida della Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, rischia di trovarsi dallo stesso lato della fune e per la stessa ragione: una serie di operazioni immobiliari rimaste segrete fino a pochi giorni fa, smercio di terreni che è riuscito ad accomunare nello sdegno e nella rabbia gli israeliani e i palestinesi. Le centinaia di ettari vendute in questi anni non hanno solo un valore commerciale ma anche simbolico. A investitori misteriosi, società con sede nei paradisi fiscali dei Caraibi, sono andati: l'anfiteatro di Cesarea (fatto costruire da Erode il Grande) e il parco archeologico con gli altri resti dell'epoca romana; la piazza dove sorge la Torre dell'Orologio a Jaffa (eretta dagli ottomani nel 1903), il primo monumento che si incontra arrivando da Tel Aviv. I lotti in uno dei quartieri più eleganti di Gerusalemme ci abitano nelle residenze ufficiali il primo ministro e il presidente sarebbero stati acquistati invece da finanzieri ebrei. Tutti passaggi di proprietà che non sono stati comunicati, fino alle rivelazioni del Canale 2 televisivo, al governo israeliano.
Il patriarcato greco-ortodosso è il secondo maggiore possidente dopo lo Stato, sui suoi appezzamenti sorge anche il palazzo della Knesset, il Parlamento. Questo patrimonio gli garantisce un potere di contrattazione con le autorità israeliane molto superiore al ruolo. È stato accumulato durante il periodo ottomano e nel 1952 dato per la maggior parte in concessione durata novantanove anni al Fondo Nazionale Ebraico, l'organismo che fin dagli inizi del Novecento ha sostenuto l'acquisizione di terreni in Palestina.
Il ministero della Giustizia israeliano ha convocato una riunione d'emergenza per capire come sia possibile che l'anfiteatro a Cesarea, uno dei siti più visitati in Israele e dove vengono organizzati i concerti estivi, possa essere finito nelle mani di privati. Preoccupati sono anche i proprietari di 1.500 case a Gerusalemme, le hanno costruite con la convinzione che l'affitto decennale dei terreni garantito dal governo sarebbe stato rinnovato. Gli speculatori potrebbero invece decidere di vendere al miglior offerente. Nel 2005 Ireneo I è stato rimosso per aver dato via lui sostiene di essere stato incastrato quei metri quadrati che i palestinesi considerano fondamentali per edificare un eventuale Stato. Palazzi e pietre antiche nella Città Vecchia di Gerusalemme, i quartieri catturati nella guerra dei Sei giorni, poi annessi dagli israeliani, e che gli arabi considerano parte della futura capitale. Il successore Teofilo III replica di essere stato costretto a cedere le altre proprietà per cercare di ricomprare quei lotti politicamente così importanti.
La spiegazione non basta ai parlamentari giordani e ai politici palestinesi che chiedono al re e al presidente Abu Mazen di revocargli il beneplacito ufficiale, necessario per restare in carica. «Sta firmando un atto di vendita dopo l'altro, nonostante le prove non siamo ancora riusciti a ottenere la sua rimozione», spiega Alif Sabbagh tra i leader del gruppo che guida la campagna contro Teofilo III.
Le cessioni a investitori ebrei (anche in aree che sono parte di Israele da prima del 1967) sono considerate un tradimento della causa. Da anni gli arabi cristiani accusano il patriarcato di discriminazione, premono per prendere il controllo della Chiesa e affidarne la gestione a monaci e sacerdoti locali. Come ha commentato un palestinese al quotidiano New York Times: «Questi patriarchi arrivano dalla Grecia, sono stranieri. Non capiscono i nostri problemi».
(Corriere della Sera, 21 luglio 2017)
di Adam Smulevich
«Il grande ciclista italiano Gino Bartali salvò davvero degli ebrei durante la Shoah?». A porsi la domanda sulla testata web Tablet, voce influente dell'informazione ebraica americana, è lo storico Michele Sarfatti.
Sarfatti è stato direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.
Un duro atto d'accusa nei confronti della Commissione dei Giusti dello Yad Vashem, che nel 2013 ha voluto che la memoria di Ginettaccio trovasse collocazione in modo permanente tra gli eroi del popolo ebraico. Ma anche nei confronti di chi, in questi anni, si è adoperato perché frammenti vecchi e nuovi relativi a questa vicenda potessero trovare una composizione adeguata.
Nel suo attacco, che sembra voler smontare tutto il lavoro svolto finora, Sarfatti si basa quasi unicamente su documenti vecchi di decenni. E in particolare sul libro di un giornalista, Alexander Ramati, che nel 1978 fu tra i primi a parlare della rete di assistenza clandestina ad Assisi nel suo The Assisi Underground. Un racconto intrigante, anche se poco solido da un punto di vista storico. Vi sarebbero infatti alcune fragilità e incongruenze, chiaramente sottolineate da Sarfatti.
Peccato che da allora molta acqua sia passata sotto i ponti e che, in particolare negli ultimi anni, diverse prove sull'eroismo di Bartali siano emerse in modo chiaro arricchendo una pratica per lungo tempo giacente in un cassetto del Memoriale.
Fu proprio in considerazione di questa stasi, in assenza di testimonianze dirette da parte di salvati, che nell'aprile del 2010 si decise di comune accordo con Sara Funaro di lanciare sul mensile Ucei Pagine Ebraiche una mobilitazione per riscoprire il Bartali nascosto e di attivarsi con ricerche che battessero strade diverse. Una sfida premiata in tempi rapidi da un esito più che positivo. Tra le molte vicende inedite emerse quella che ha avuto come protagonista l'ebreo fiumano Giorgio Goldenberg, che fu nascosto da Bartali in una casa di sua proprietà in via del Bandino insieme a genitori, sorellina e cugino. «Se sono vivo lo devo a Bartali» mi spiegò Goldenberg al telefono da Kfar Saba, in Israele, dove viveva dal dopoguerra e dove è recentemente scomparso. Fu una rivelazione sconvolgente ed emozionante. Un capitolo nuovo che si apriva su Gino il Giusto. La testimonianza diretta che finalmente arrivava, colmando una lacuna grande come un macigno. Naturalmente però il Memoriale di Gerusalemme è un ente che agisce in base a criteri scientifici. Per cui film, libri e articoli - per quanto accurati - non sono considerati una prova. Non ha valore il fragile libro di Ramati, su cui Sarfatti sembra basare tutto il suo intervento. Ma in sé non poteva aver valore neanche l'intervista a Goldenberg pubblicata su Pagine Ebraiche e poi rapidamente circolata un po' ovunque. Serviva che Giorgio si presentasse di persona al Memoriale e certificasse, di proprio pugno, quanto raccontato a voce. L'ha fatto pochi giorni dopo, aiutato anche da un esperto di genealogia che gli è stato vicino: Nardo Bonomi.
La testimonianza di Goldenberg, insieme tra le altre a quelle dei fiorentini Renzo Ventura e Giulia Donati, si è rivelata decisiva. Ma solo dopo un attento esame della commissione, che ha svolto le sue indagini con la consueta autorevolezza e indipendenza. Non sorprende quindi l'amarezza di Sergio Della Pergola, noto demografo e membro della commissione stessa. Per lo studioso, intervenuto sul portale moked.it, operazioni di questo tipo rischiano di rappresentare «un'azione diffamatoria, indegna di chi voglia occuparsi seriamente delle vicende del periodo bellico e della Shoah».
(Corriere Fiorentino, 21 luglio 2017)
Una dura critica ai Paesi europei che «minano alla base Israele con pressioni politiche». Benjamin Netanyahu ha attaccato la «folle» politica dell'Ue in un discorso a porte chiuse a Budapest davanti ai leader del gruppo di Visegrad. Il primo ministro israeliano non si è reso conto che l'audio era rimasto acceso per sbaglio e che i giornalisti all'esterno hanno sentito ogni parola, riportandola sui siti israeliani. «Penso che l'Europa debba decidere se vivere e prosperare o se vuole appassire e scomparire», ha detto davanti ai leader di Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. «L'Unione europea - ha affermato - è l'unica al mondo che ponga condizioni politiche ai suoi rapporti con Israele, che produce tecnologia in ogni settore». «È folle, è completamente folle», ha proseguito Netanyahu, dicendo di parlare «nell'interesse dell'Europa» e invitando i quattro Paesi a chiudere le porte ai migranti.
(La Stampa, 20 luglio 2017)
Non c'è alcuna logica. Logorando i suoi rapporti con Israele, l'Ue mina la sua stessa sicurezza. Sta minacciando il proprio progresso compromettendo i legami con il più grande polo di innovazione al mondo per colpa di un tentativo folle di creare precondizioni politiche. L'Ue è l'unica organizzazione di stati a stabilire le sue relazioni con Israele, che fornisce loro la tecnologia, su condizioni politiche. Nessun altro lo fa. E' una cosa da pazzi. Ed è contro i suoi stessi interessi. Persino i paesi arabi parlano con noi di tecnologia e di tutto quello di cui stiamo discutendo qui". Il fuorionda del premier israeliano Benjamin Netanyahu, in visita in Ungheria, è iniziato così: pensava che il microfono fosse spento, ma tutti i giornalisti presenti hanno sentito in cuffia le sue parole. Il primo ministro ungherese Viktor Orbàn interrompe con una risata: "L'Unione europea è ancora più singolare. Pone condizioni anche agli stati al suo interno, non solo ai partner esterni". Netanyahu riprende: "Penso che l'Europa debba scegliere se vuole vivere e prosperare o se vuole avvizzire e scomparire. Io non sono molto politicamente corretto. So che è uno choc per alcuni di voi. Ma la verità è la verità. Sia la sicurezza dell'Europa sia il futuro economico dell'Europa necessitano di una politica diversa nei confronti di Israele. Noi siamo parte della cultura europea. A est di Israele, non c'è più Europa. Prima di tutto vi suggerisco di aiutarci ad accelerare la formazione di accordi tra Europa e Israele, e che passiate un messaggio ai vostri colleghi su come aiutare l'Europa stessa. Tutto (ciò che Israele può offrire, ndr) è a vostra disposizione, in qualsiasi campo. Dunque smettetela di attaccare Israele. Sostenetelo, invece, come gli americani, i cinesi e gli indiani stanno già facendo".
E ancora il premier israeliano: "Abbiamo avuto un grosso problema con gli Stati Uniti. E' diverso ora. C'è una presenza americana rinnovata nella regione (la Siria e il medio oriente in generale, ndr) ed è positivo. (Con l'Amministrazione di Donald Trump, ndr) siamo d'accordo sullo Stato islamico, non sull'Iran. Ho detto anche a Putin che se vediamo l'Iran che passa armi a Hezbollah sul nostro confine, intraprenderemo azioni militari, come abbiamo fatto (già in passato, ndr) una dozzina di volte, senza avere problemi con la Russia. Abbiamo bloccato la frontiera non solo in Egitto, ma sulle alture del Golan. Abbiamo costruito il muro perché c'era un problema con lo Stato islamico e l'Iran cerca di costruire là un fronte terrorista. Credo nella libera circolazione delle merci e delle idee, ma non delle persone. Proteggete i vostri confini".
(Il Foglio, 20 luglio 2017)
La musicista arabo-israeliana Nasreen Qadri ha preso posizione a favore della performance dei Radiohead, mercoledì in Israele, nonostante le furiose pressioni cui il gruppo britannico è stato sottoposto dal movimento BDS (per boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele) affinché annullasse il concerto estivo a Tel Aviv....
(israele.net, 20 luglio 2017)
E' probabilmente il concerto più discusso degli ultimi tempi. Stasera, 19 luglio, i Radiohead chiuderanno a Tel Aviv la loro tournée, dopo settimane di polemiche.
Da una parte esponenti della comunità artistica che hanno fatto pressione perché la band di Thom Yorke sostenesse il boicottaggio dello stato (in particolare, si ricordano le dure esternazioni di Roger Waters e del regista Ken Loach), dall'altra i Radiohead (sostenuti da amici come Michael Stipe) che sostengono il loro diritto ad esibirsi.
Thom Yorke ha detto le parole probabilmente definitive sulla questione, spiegando che i Radiohead non sostengono il governo israeliano, e che "La musica, l'arte e il mondo accademico hanno a che fare con il superamento delle frontiere, non con la costruzione; con le menti aperte, non chiuse, l'umanità condivisa, il dialogo e la libertà di espressione".
E' una bella storia, in questo senso, quella di un fan palestinese che ha chiesto l'aiuto della rete per poter avere il permesso di andare nella capitale israeliana per il concerto. Permesso accordato dall'autorità militare Naranjah, grazie all'intervento di diverse persone che hanno comunicato la richiesta dopo averne letto su Reddit:
IL CAIRO - Il ministero dell'Interno egiziano ha annunciato l'uccisione di uno dei leader del gruppo terroristico Wilayat Sinai, precedentemente noto come Ansar Beit al Maqdis, che ha cambiato nome in Stato del Sinai dopo aver giurato fedeltà al sedicente califfato di Abu Bakr al Baghdadi nel novembre del 2014, in uno scontro a fuoco avvenuto ad al Arish, nel nord del Sinai. Il terrorista ucciso si chiamava Ahmed Hasan Ahmed al Nashu, il cui nome di battaglia era Ghandur al Misri. Per gli inquirenti si tratta di uno dei capi di spicco del gruppo jihadista nel Sinai legato all'esecuzione di diversi attentati ed aveva la responsabilità di reclutare nuove leve. Il terrorista viveva ad al Arish ed aveva 32 anni. Era nascosto in un seminterrato di un'abitazione ed ha risposto al fuoco della polizia che lo aveva individuato per catturarlo.
Le forze armate e la polizia hanno intensificato i controlli dopo l'attacco del 7 luglio che ha ucciso 25 soldati nei pressi di Rafah, non lontano dal confine con la Striscia di Gaza. Quest'ultimo è stato uno dei più sanguinosi attacchi condotti negli ultimi due anni nell'area, diventata fortemente instabile dopo il crollo del regime di Hosni Mubarak e, successivamente, dopo la caduta del presidente islamista Mohamed Morsi. L'attacco, rivendicato dallo Stato islamico, è stato condannato anche dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha invitato tutti i paesi membri dell'Onu a mettere da parte le divergenze per collaborare nel contrasto globale al terrorismo.
Dallo scorso 10 luglio, in Egitto è in vigore l'estensione dello stato di emergenza per altri tre mesi. Il capo dello Stato egiziano, Abdel Fatah al Sisi, aveva approvato per la prima volta la misura per un periodo di tre mesi lo scorso aprile, in seguito agli attacchi terroristici della Domenica delle Palme contro i luoghi di culto cristiani di Tanta e Alessandria, costati la vita rispettivamente ad almeno 29 e 17 persone. Il provvedimento consente alla polizia egiziana di "prendere tutte le misure necessarie per combattere il terrorismo e prosciugarne le risorse finanziarie, mantenere la sicurezza a livello nazionale, proteggere la proprietà pubblica e privata e salvare vite umane", riferisce il quotidiano filo-statale "Al Ahram", citando un comunicato del governo.
(Agenzia Nova, 19 luglio 2017)
di Ilaria Quattrone
"Tra Italia e Israele esistono rapporti consolidati nel tempo e proficui scambi sia sul piano economico che su quello culturale, turistico e della ricerca. Il cedro rappresenta una nostra eccellenza conosciuta in tutto il mondo, un esempio di Made in Italy unico e autentico, e un importante punto di contatto tra le nostre culture, quella italiana e quella israeliana. È significativo che un prodotto della nostra terra, sia così caro al popolo di Israele: come ogni anno i rabbini di moltissime comunità israelitiche, da Londra a New York sono qui per raccogliere il cedro di Santa Maria del Cedro che è un elemento fondante della Festa delle Capanne".
Così Dorina Bianchi, sottosegretario al Turismo, che oggi ha incontrato a Santa Maria del Cedro Oren David, ambasciatore di Israele presso la Santa Sede.
E ha aggiunto:
"La cooperazione tra Italia e Israele si sta implementando anche nel settore turistico e trova sostegno nella crescente domanda di Italia che si registra anche in ambito economico, scientifico e culturale. L'interscambio italiano con Israele è andato crescendo del +3,9% medio annuo negli ultimi dieci anni. L'Italia è una delle mete preferite dai turisti israeliani, attirati in modo particolare dal patrimonio culturale, dal settore moda e dall'enogastronomia. Al tempo stesso stiamo lavorando per sostenere presso il pubblico italiano l'immagine di Israele come Paese accogliente e tranquillo, favorendo anche il rilancio dei pellegrinaggi, che è un interesse prioritario della Custodia di Terra santa e della Chiesa cattolica".
(strettoweb.com, 19 luglio 2017)
BUDAPEST, 19 lug 14:28 - Cooperazione con Israele nel campo della sicurezza, l'innovazione, la scienza e la ricerca, la lotta contro la siccità e anche nel ramo informatico. Questi secondo il premier ceco Bohuslav Sobotka i principali argomenti trattati durante l'odierna riunione a Budapest dei capi di governo del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria - V4) cui ha partecipato anche il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. "Israele ha una tecnologia superiore e una vasta esperienza nel migliorare la gestione delle risorse idriche", ha detto Sobotka durante la conferenza stampa conclusiva dell'incontro, confermando che il paese è fonte d'ispirazione per il V4. "Il Gruppo di Visegrad sostiene il miglioramento e l'approfondimento delle relazioni tra l'Ue e Israele", ha detto Sobotka, in quanto Bruxelles e Gerusalemme "condividono legami storici, i valori democratici e interessi economici".
(Agenzia Nova, 19 luglio 2017)
di Iaia Shulamit Vantaggiato
ROMA - Collegio rabbinico, ore 5 del pomeriggio. I corridoi sono affollati come sempre ma la "quota rosa" sembra prendere il sopravvento. Allegre e disciplinate, emozionate e partecipi, le amiche e le compagne di corso di Grazia Gualano sono tutte lì. Solo qualche minuto e a Grazia verrà conferito il titolo di Bagrut. Il secondo dopo molto tempo perché il corso (equivalente a quello di "Maskil") è un impegno molto serio. Lo testimoniano, incalzanti, le domande che si susseguono nel corso dell'esame. La Commissione, composta dal direttore rav Riccardo Di Segni, rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano e membro della Consulta rabbinica, rav Gianfranco Di Segni e Luisa Basevi, non concede un attimo di tregua. Halakhà, Tanakh, Torah - e che ci dici di Rashì? - e poi ancora storia ebraica, dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme alla fondazione dello Stato d'Israele, e poi cashrut, le candele dello Shabbat e le regole del Kiddush ("può una donna fare il Kiddush al posto dell'uomo?"), la struttura della tefillà, lingua ebraica. Grazia - che declina il suo ebraico senza mai rinunciare alle sonorità della sua terra, Sannicandro - tiene testa come sempre. Anni di studio duro ma anche anni ricchi di relazioni. Perché parlano i nostri testi e i nostri Maestri ci accompagnano. Non sono previste soste.
Un Diploma coi fiocchi che si conclude con un brindisi alla presenza dei genitori di Grazia, delle compagne e amiche, della commissione al completo.
(moked, 19 luglio 2017)
di Enrico Mercadante
Nel pomeriggio di Heraklion, gli azzurrini di Buscaglia hanno incontrato Israele negli ottavi di finale dell'Europeo Under 20. Nonostante la dura battaglia offerta dalle due squadre, gli israeliani hanno avuto la meglio.
Dopo un iniziale parziale di 6-0, la formazione guidata da Dan Shamir, grazie ad una solida difesa ed essendo riusciti a sfruttare gli errori in fase di gestione italiana, hanno chiuso il primo quarto sul punteggio di 23-15, con 10 punti della guardia Yovel Zoosman, classe 1998 ed attualmente in forza al Maccabi di Tel Aviv.
Un secondo quarto a ritmi alternati, con un'Italia molto più compatta e cinica (nonostante un Lorenzo Caroti costretto in panchina causa infortunio) e Israele che sbaglia molto dall'arco (dopo 20 minuti le statistiche dicono 5/16), ha permesso alla formazione nostrana di ridurre il divario, andando al riposo lungo sul 38-33.
Al ritorno dagli spogliatoi, i medio-orientali non sembrano accusare la fatica e raggiungono il massimo vantaggio (17 punti) con il canestro di Artzi. Gli azzurrini, però, non si perdono d'animo e grazie all'ottima frazione di Tote, che dopo 30 minuti ha collezionato già 17 punti , all'ultimo riposo si arriva 55-48 per Israele.
L'ultimo quarto si apre a ritmi molto elevati, con entrambe le squadre che soffrono il gioco aggressivo altrui. Un Totè "on fire", segna 7 punti consecutivi e riporta gli azzurri ad un possesso di distanza da Israele, ma le due triple consecutive di Roi Huber ri-allontanano gli azzurri, mettendo in fresca la partita. Il risultato finale è di 79 a 71 con Artzi che chiude con 22 punti e 6 assist. Tra gli azzurri, un ottimo Totè lascia il campo con 27 punti (top scorer del match) tirando con il 56% da 3.
Israele, ora, incontrerà l'Islanda domani, nella partita valida per un posto in semifinale. L'Italia, invece, si giocherà un posto tra le prime 13 con la Svezia.
(La Gazzetta dello Sport, 19 luglio 2017)
di Giuseppe Cecere*
"Scambiereste le Tombe dei Patriarchi con le Mura della Serenissima?". La domanda è un filino provocatoria, ma la risposta, evidentemente, deve essere un sì. Altrimenti, come spiegare il fatto che gran parte del mondo mediatico-culturale italiano (ministro Franceschini in testa) sorvoli sulla deriva antistorica e antisemita dell'Unesco, per celebrare invece con tanta enfasi l'iscrizione di un nuovo sito del Bel Paese nel Patrimonio Mondiale dell'Umanità?
Un grande successo, ci viene detto, che dimostra (parole del ministro) "il ruolo notevole dell'Italia nella diplomazia culturale". Ma davvero serve una così grande abilità diplomatica perché l'Unesco aggiunga ogni tanto un nostro sito alla sua lista? E soprattutto: se abbiamo davvero un ruolo diplomatico così notevole, perché non provare a esercitarlo nel tentativo, non più rinviabile, di ricondurre l'Unesco al rispetto dei suoi valori fondanti?
Che senso ha battersi per inserire nuovi siti nella lista di una istituzione che rinnega il concetto stesso di patrimonio culturale mondiale (concetto intrinsecamente pluralista e laicamente fondato sul valore della storia come ricerca) e si fa strumento delle mire egemoniche di una tradizione culturale sulle altre?
Perché di questo si tratta. Questa è la vera posta in gioco nel conflitto di memorie in corso dentro l'Unesco: al di là della battaglia, combattuta a colpi sempre più bassi, per la delegittimazione politica di Israele (che già di per sé dovrebbe suscitare una controffensiva compatta di tutte il mondo libero), è in atto un gigantesco Kulturkampf di segno islamista. Una battaglia culturale che punta a riscrivere la storia, anzi il modo stesso di scrivere la storia. Sostituendo alle particolari e umanissime verità storiche - concrete quanto fragili, e sempre soggetto al dubbio, alla critica, alla ricerca - le universali e divine "verità della fede", astratte quanto inconfutabili ed eterne. In questa battaglia, nessuno, tanto meno l'Italia e l'Europa, può illudersi di poter restare alla finestra per il solo fatto di "non essere Israele" - o meglio per aver dimenticato di essere, in virtù delle proprie radici culturali, anche Israele.
Il voto su Hebron è emblematico della posta in gioco. Dire che le Tombe dei Patriarchi e delle Matriarche di Israele non abbiano legami... con Israele (!) è un controsenso sul piano logico, prima ancora che storico. Eppure, l'Unesco lo ha detto: quello "non è un sito ebraico", recita la risoluzione di Cracovia. Forse gli stati che hanno approvato questa risoluzione credevano di appoggiare "semplicemente" una aberrazione propagandistica contro Israele. In realtà, hanno dato l'ennesimo avallo (come già su Gerusalemme) a un'operazione culturale di portata, questa sì, mondiale: la riscrittura della storia dell'umanità sulla base delle esegesi tradizionali del Corano.
In questa visione, che resta maggioritaria nel mondo islamico al di là delle tante divergenze politiche e/o dottrinali che lo attraversano, l'islam non è semplicemente una religione storica costituitasi nella penisola araba a partire dal VII secolo e.v. in rapporto dialettico di continuità e di rottura con le altre religioni monoteistiche, ma è la religione. L'unica religione da sempre rivelata da Dio agli esseri umani (sin da Adamo ed Eva). L'unica religione predicata, nelle più varie epoche e alle più diverse latitudini, da tutti i Profeti - inclusi i Profeti di Israele - fino a Muhammad.
In questa visione, tutti i Profeti sono musulmani, anche se poi le loro comunità hanno "deviato" costituendo tradizioni religiose che sono solo un riflesso imperfetto del messaggio originale. Per questo, la Bibbia e i Vangeli sono visti come versioni alterate (nella forma e/o nell'interpretazione) di quella Rivelazione che il Corano invece presenta nella sua forma pura ed originaria. Muhammad, quindi, non sviluppa l'eredità dell'ebraismo e del cristianesimo in una forma religiosa nuova, ma restaura la religione perfetta per tutta l'umanità. L'islam, in realtà, non riconosce Abramo, Mosè, Gesù o le altre grandi figure delle tradizioni ebraiche e cristiane: se ne appropria, rappresentandole tutte come Profeti dell'islam. In quest'ottica, e solo in quest'ottica, diventa "logico" sostenere che le Tombe dei Patriarchi e delle Matriarche non siano un sito ebraico, perché quei Patriarchi e quelle Matriarche sono in realtà musulmani. Quindi, un sito sorto millenni prima della nascita storica dell'islam, diventa un sito musulmano. Ed è precisamente in quest'ottica che si è mossa l'Unesco.
Se una simile chiave di lettura sembrasse incredibile, o dettata da spirito non equanime nei confronti della controparte, segnaliamo che proprio questa è l'interpretazione orgogliosamente rivendicata da una protagonista della battaglia: la ministra palestinese Rula Maaya ha dichiarato che la risoluzione dell'Unesco "conferma l'identità dei Patriarchi". Ovvero, l'Unesco si è assunta il compito di stabilire che i Patriarchi di Israele erano musulmani!
In questa linea, una prossima risoluzione potrebbe stabilire, ad esempio, che la chiesa della Natività a Betlemme - o magari la Santa Casa di Loreto - "non sono siti cristiani". Perché Gesù è un Profeta dell'islam, e la Madonna (Maryam) è una santa (siddiqa) musulmana.
Non una semplice battaglia geopolitica, dunque, ma teologico-epistemologica. E' la fede - o una certa visione di una certa fede - che fagocita la scienza, utilizzando a questo fine, paradossalmente, anche il residuo prestigio delle istituzioni scientifiche internazionali. L'obiettivo non è "soltanto" la fine di Israele, ma la fine della Storia - e delle scienze storiche - come patrimonio plurale dell'umanità. In questo (come già in altri) Kulturkampf, l'odio contro Israele è il primo fronte di una guerra globale al pluralismo, al pensiero laico, alla libertà di tutti e di tutte.
Speriamo che la gravità del pericolo accenda un barlume di riflessione tra i distratti e gli indifferenti. Magari persino tra alcuni odiatori di Israele. Ma soprattutto, che possa risvegliare le coscienze di tanti dei suoi troppo timidi amici.
* Professore associato di Lingua e Letteratura araba, Università di Bologna
(Il Foglio, 19 luglio 2017)
di Claudio Franceschini
Oggi alle 21:15 è in programma Honved-Hapoel Beer Sheva; è una delle sfide che rientrano nel quadro del ritorno del secondo turno preliminare di Champions League 2017-2018. La partita di andata si è conclusa per 2 a 1 in favore degli israeliani, i quali però possono recriminare per il goal preso in casa, che lascia aperte delle speranze di qualificazione per la gloriosa compagine magiara.
Entrambe le compagini hanno fatto il loro esordio in questa Champions League 2017/2018 nella partita giocata al Toro Turner Stadium di Beer Sheva. Gli ungheresi sono arrivati a questo doppio confronto grazie alla vittoria del campionato nella scorsa stagione, evento che non si verificava addirittura dal 1993: la vittoria del titolo è stata davvero al cardiopalma, perché arrivata all'ultima giornata.
(ilsussidiario.net, 19 luglio 2017)
Hezbollah viola la risoluzione 1701 delle Nazioni Unite e sotto gli occhi dei caschi blu schierati nel sud del Libano prepara la prossima guerra con Israele. Lo denunciano le Forze di Difesa Israeliane (IDF) sul loro blog.
L'IDF diffonde un video nel quale si spiega come Hezbollah attraverso una finta organizzazione umanitaria denominata "Green Without Borders" che funge da copertura alle azioni dei terroristi libanesi, violi in realtà uno dei principi della risoluzione 1701 che impone ai terroristi di Hezbollah di non superare la linea blu delimitata dal fiume Litani...
(Right Reporters, 19 luglio 2017)
di Giordano Stabile
Le truppe russe arrivano al confine fra Siria e Giordania per controllare il rispetto della tregua nel Sud del Paese e Israele lancia l'allarme: così si rafforza l'Iran. L'accordo del 7 luglio fra Donald Trump e Vladimir Putin sembra funzionare e marcia a ritmi spediti. Ai presidenti Usa e russo si è allineato anche il francese Emmanuel Macron, ma l'alleato chiave dell'America in Medio Oriente, lo Stato ebraico, non è d'accordo e il premier Benjamin Netanyahu lo ha detto proprio a Macron durante la sua vista a Versailles.
Il nervosismo di Israele deriva anche da un retroscena sulle trattative russo-americane rivelato dal quotidiano «Haaretz». Nei mesi che hanno preceduto l'accordo, Israele ha tenuto diversi meeting con gli alti funzionari americani coinvolti, compreso Brett McGurk, inviato speciale anti-Isis della Casa Bianca. Gli israeliani hanno chiesto che Iran, Hezbollah, e altre milizie sciite venissero «tenute fuori dalle zone di de-escalation vicino ai confini di Israele e Giordania». Anche perché «Teheran progetta di costruire basi aeree, e persino una navale».
Gli americani hanno dato assicurazione agli israeliani su questo, ma poi l'accordo non ne ha tenuto conto. Netanyahu ne ha discusso con il segretario di Stato americano Rex Tillerson. Teme che l'Iran costruisca una testa di ponte al confine meridionale della Siria, che farebbe il paio con quella dell'alleato Hezbollah nel Sud del Libano, e «la tregua lo rafforza».
I russi insistono che saranno loro a gestire la situazione. Ieri sono arrivate le prime truppe per pattugliare i check-point fra le zone sotto controllo governativo e quelle in mano ai ribelli, nella città di Daraa. I russi erano già presenti con truppe speciali, ma ora si installeranno in un quartiere generale, a Izraa. Sono in arrivo anche gli uomini della «polizia militare», composta in gran parte da ceceni, musulmani sunniti, già usati con successo ad Aleppo.
Russi e americani vogliono replicare le zone di de-escalation, o «safe-zone», in altre parti della Siria. Questo permette di concentrare le forze nella battaglia contro l'Isis a Est. Gli alleati degli Usa, i curdi, hanno preso già un terzo di Raqqa. L'esercito siriano avanza verso la provincia di Deir ez-Zour, l'ultima in mano allo Stato islamico. A rimanere tagliati fuori sono i ribelli moderati nel Sud.
Ieri ad Amman c'è stato un incontro fra i capi delle milizie e l'inviato speciale americano per la Siria, Michael Ratney.
I ribelli potrebbero avere un ruolo nelle zone di de-escalation, magari assieme a militari statunitensi. Sono ipotesi. A parte mezza Daraa, ai ribelli rimane solo un altro capoluogo di provincia, Idlib. Ma qui sono stretti fra Al-Qaeda e l'Isis, che sta prendendo campo. Ieri in città sono apparse le bandiere nere sui tetti dei principali edifici. Potrebbe diventare, a sorpresa, l'ultima roccaforte del califfato.
(La Stampa, 19 luglio 2017)
ROMA, 19 lug - Ieri pomeriggio alle 18 il comandante generale dell'Arma dei carabinieri Tullio Del Sette, accompagnato dalla presidente della Comunità ebraica di Roma e dalla direttrice del Museo Ebraico di Roma ha partecipato a una visita esclusiva della mostra "La Menorà", il candelabro a sette bracci razziato dai romani nel 70 d.C. a Gerusalemme e portato a Roma. L'esposizione, allestita parallelamente nel Braccio di Carlo Magno dei Musei Vaticani e nel Museo Ebraico di Roma, rappresenta il primo progetto comune tra le due Istituzioni. Racconta la storia della Menorah - la lampada a sette bracci, simbolo identitario del popolo ebraico - attraverso un ricco percorso costellato da circa 150 opere d'arte, tra sculture, pitture, manoscritti e illustrazioni librarie.
(Il Messaggero, 19 luglio 2017)
di Paolo Alli
Sta destando curiosità la vittoria di Avi Gabbay nelle primarie laburiste israeliane, svoltesi lunedì 10 mentre mi trovavo a Gerusalemme nel mio ruolo di presidente dell'assemblea parlamentare Nato. Il leader uscente, Herzog, è stato sconfitto da un personaggio con una breve esperienza politica, iniziata peraltro come ministro nel governo conservatore di Netanyahu. Gabbay come Macron? Personalmente lo paragonerei piuttosto a Renzi, dal momento che non ha vinto le elezioni nazionali ma, appunto, le primarie laburiste. Probabilmente si tratta oggi dell'unico elemento potenzialmente in grado di introdurre una novità: non a caso la sua elezione sta cominciando a suscitare preoccupazioni in ambiente conservatore. Una novità che potrebbe smuovere una situazione caratterizzata dal più totale immobilismo. Infatti oggi le posizioni appaiono più che mai radicalizzate, e il sospetto che il mantenimento dello status quo, alla fine, vada bene a tutti i contendenti è più che legittimo.
Per anni, infatti, non si sono affacciate all'orizzonte leadership in grado di cambiare in modo sostanziale gli equilibri consolidati: all'abilissimo ed eterno Netanyahu continua a contrapporsi l'anziano Abu Mazen, sempre più indebolito all'interno del proprio popolo.
E ancora una volta ho constatato sul campo come, a livello sociale, israeliani e palestinesi si sentano ormai definiti dal conflitto. L'immagine del muro, così fisicamente visibile dappertutto, sta ormai nella testa della gente come dimensione esistenziale del vivere quotidiano. Tra le giovani generazioni, in entrambe le fazioni, convivono l'intransigenza di una parte, l'indifferenza di un'altra e il desiderio di andarsene di un'altra ancora.
Ma se il conflitto israelo-palestinese sembra oggi derubricato a guerricciola di provincia, dopo l'esplosione delle polveriere siriano-irachena e libica, esso è comunque sempre percepito nella regione come la madre di tutte le guerre. Perciò non si può abbassare l'attenzione su questo scenario, come dimostra il recente attacco terroristico palestinese sulla spianata delle moschee.
Israele è concentrata sull'Iran e sulla sua crescente influenza nella regione. La strategia di Teheran è molto chiara: creare un doppio corridoio per accerchiare l'Arabia Saudita, la Giordania e Israele, a nord attraverso l'Iraq, la Siria di Assad e il Libano degli Hezbollah, per chiudersi nella striscia di Gaza di Hamas; a sud attraverso Oman e Yemen.
L'Iran è oggi una potenza legittimata, dopo l'accordo sul nucleare, agli occhi della comunità internazionale e possiede missili balistici in grado di raggiungere Gerusalemme. Questo ha convinto Israele a cercare pur nell'estrema diffidenza rispetto a tutti gli interlocutori intese che fino a poco tempo fa apparivano improbabili se non impossibili: con la Turchia, con la quale è stato firmato un accordo per la ripresa dei rapporti; con la Russia, che ormai ha le proprie truppe a 200 km dalla capitale; persino con l'Arabia Saudita, nemico storico accomunato oggi dalla ferma volontà di Riyad di limitare l'influenza sciita nella regione. Unico punto certo, il solido legame con l'Egitto, che permette ad entrambi di governare la difficile frontiera del Sinai e di tenere sotto controllo le mosse di Hamas nella striscia di Gaza.
In questo contesto, Netanyahu ha incassato l'importante sostegno di Trump che, sia a Gerusalemme sia a Riyad ha tuonato contro l'Iran, ma ha bisogno di ulteriori alleanze. Questo spiega l'accoglienza a dir poco straordinaria riservata pochi giorni fa al primo ministro indiano Modi, oltre che all'ormai consolidato rapporto con la Cina, mentre estrema diffidenza è riservata all'Europa, soprattutto dopo le prese di posizione dell'Europarlamento a favore della soluzione a due stati.
Sul fronte palestinese, la partita è legata alla leadership interna. Hamas controlla completamente la situazione a Gaza mentre Abu Mazen, ai minimi storici della propria popolarità, farebbe carte false per mettere nell'angolo la stessa Hamas. La recente decisione di Israele di bloccare le forniture di energia elettrica e di carburanti a Gaza, è stata tacitamente avallata anche dallo stesso Abu Mazen, che ha in comune con Netanyahu la necessità di indebolire Hamas agli occhi della popolazione palestinese. La situazione esplosiva nell'area (2 milioni di persone ammassate in 370 chilometri quadrati) viene tenuta sotto controllo grazie alle forniture di benzina da parte dell'Egitto e favorendo la continuazione dei finanziamenti dal Qatar. E non vi è dubbio che la profonda divisione interna alla popolazione palestinese, con Gaza che ha eletto un proprio governo, costituisca un grande favore a Israele.
Tutto ciò spiega il fatto che non vi sia nessuna reale intenzione di modificare, almeno nel breve-medio periodo, i fragilissimi equilibri. Le dichiarazioni sia israeliane, sia palestinesi, di apprezzamento nei confronti di Trump e della sua proposta di mediazione appaiono più formali che sostanziali.
Né aiutano i numerosi ma velleitari pronunciamenti di organismi internazionali a favore della causa palestinese, che in realtà costituiscono unicamente una forma di legittimazione per la debole leadership di Abu Mazen. Il Parlamento europeo, molti Paesi occidentali, l'Unesco approvano risoluzioni a favore dei palestinesi che certamente mettono a posto la coscienza di molti ma che hanno l'effetto opposto, aumentando inutilmente le tensioni, portando acqua al mulino di Hamas e dando tutte le ragioni ad Israele di radicalizzare ulteriormente le proprie posizioni.
La realtà è che nella situazione estremamente complessa del Medio oriente non esistono soluzioni facili, tanto più in un quadro ulteriormente complicato da interferenze e pressioni di situazioni e attori esterni: la Russia, l'Arabia Saudita, l'Iran, la complessa realtà del Golfo, l'avvicinarsi delle grandi potenze orientali Cina e India , l'oscillante Turchia e il debole Egitto, le instabilità in Siria e Libia alle porte.
Auguriamoci che l'emergere di un personaggio nuovo come Gabbay possa portare elementi nuovi e positivi. Nel frattempo l'attentato di Gerusalemme sembra un lugubre monito alla comunità internazionale perché non abbassi la propria attenzione e non cerchi scorciatoie e semplificazioni inevitabilmente destinate a risolversi in nuovi fallimenti.
(ilsussidiario.net, 18 luglio 2017)
BUDAPEST - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha lodato oggi il sostegno mostrato allo Stato ebraico dall'Ungheria e ha espresso apprezzamento per il suo omologo ungherese Viktor Orban, respingendo le critiche di chi accusa Budapest di alimentare l'antisemitismo.
Netanyahu è il primo dirigente israeliano a recarsi in visita a Budapest dalla fine del regime comunista nel 1989. Un viaggio quindi storico, che arriva sulla scia delle pesanti polemiche scatenate dalla crociata governativa contro il miliardario americano di origine ungherese George Soros.
(askanews, 18 luglio 2017)
di Francesca Sironi
E' un testimone, fragile e prezioso, un capolavoro mantenuto fino a un mese fa al chiuso di una cassetta di sicurezza. Tra i suoi paragrafi scorrono animali fantastici, ricami, geometrie. Le colonne scritte si alternano a pagine miniate a colori - un disegno mostra Eva con i capelli sciolti, la mela rivolta ad Adamo mentre il cielo è occupato dalle fiamme, dall'aria del volo, l'acqua del mare, una roccia. È un manoscritto del 1349, traduzione dall'arabo all'ebraico de "La guida dei perplessi" di Mosè Maimonide, giurista, medico e filosofo del XII secolo che si era rifugiato dall'Andalusia alla corte del Saladino, lasciando fra gli altri la "Guida" in cui discute la coesistenza fra religione e scienza, fra fede e ricerca (vedi box a pago 90). Un secolo e mezzo dopo l'autore del manoscritto gli dedica pagine perfette, ma il contenuto del trattato e l'abilità del miniatore non Sono le sole ragioni della straordinarietà del volume. È anche la storia di cui è messaggero: il libro arriva a Mantova in un momento decisivo per la comunità ebraica italiana, nel 1500. E da allora, per cinque secoli, rimane attaccato alla stessa casa nella collezione dei Norsa, una delle più antiche famiglie della città. Questa rara continuità è però ora a rischio: le eredi vogliono vendere ii libro alla fondazione di un collezionista austriaco. Con un progetto che prevede mostre e restauri, finora mancati, l'immobiliarista di Vìenna ha ottenuto dalla segreteria del ministero un accordo esclusivo. Datato a maggio, sarebbe valido, si legge, per 40 anni, rinnovabili per altri 40. Uno schema senza precedenti. li passaggio è stato però bloccato da una nuova ispezione, imposta dal direttore generale per gli Archivi all'inizio di giugno. La conoscenza tramandata in quelle pagine da secoli è così ora al centro di una partita. Fra identità e valore. Fra fruizione e tutela.
Per comprenderne il senso, bisogna partire da Mantova. Dalla Mantova del 1500. Mosè ben Nathaniel Norsa è titolare di una delle più importanti banche della città. È una persona rispettata nella comunità ebraica locale, fondatore di una sinagoga, finanziatore del cimitero. Ed è un appassionato bibliofilo. Ha iniziato a collezionare nel 1487 e da allora non ha più smesso. Il lO gennaio del 1516 firma così l'atto di acquisto di uno dei volumi più preziosi di quella che sarà una biblioteca destinata con gli eredi a crescere fino a diventare il giacimento di «alcuni dei più superbi manoscritti mai eseguiti da scribi e artisti in Italia», diranno gli studiosi. La guida filosofica di Maimonide è un trattato controverso: Aristotele è usato come fondamento di un approccio nuovo ai principi della religione e della fede. La comunità ebraica mantovana del Rinascimento ne è attratta, tanto da dedicarvi tre ricchi commentari. Il volume che Mosè Norsa si è deciso a comprare, in quel clima, è imponente. È stato copiato in scrittura ashkenazita, sottoscritto da "Jacob ben Samuel', con rigoroso dettaglio, Il 10 marzo del 1349. Sono 228 fogli raccolti in 27 fascicoli. I paragrafi si alternano a miniature dai colori accesi di cultura boema, con i corpi affusolati e i capelli biondi che riportano allo stile gotico internazionale del suo autore, vissuto a Krems, nell'attuale Austria. Il banchiere mantovano è consapevole del suo straordinario valore. Vi commissiona una nuova rilegatura, realizzata in pelle con inserti dorati da una bottega di scuola veneziana. «Foglie d'edera nei ferri, rombi centrali che fanno il verso alle mandorle orientali portano verso un legatore d'area veneta», scrivono gli esperti. Non è un dettaglio secondario.
«La datazione all'inizio del 1516 contestualizza l'acquisto in un momento particolare della storia ebraica», ricorda infatti in una perizia la soprintendente Micaela Procaccia: «In questo stesso anno, le crescenti discussioni circa la sorte dei profughi dell'entroterra, fra i quali numerosi ebrei, che affollavano la città dopo la fine della guerra con la Lega di Cambrai, spinse i rabbini di Venezia a chiedere ai confratelli mantovani di accogliere parte dei profughi. Di lì a poco la Serenissima avrebbe creato il primo ghetto della storia, il 29 marzo l516».1l primo ghetto della storia: la grande linea degli eventi sfiora la vita carsica del libro, che continua a farsi testimone del tempo. Nel 1599 Domenico Gerosolimitano - ebreo convertito, medico presso il sultano a Costantinopoli, al servizio dell'Inquisizione prima a Venezia a Mantova poi - appone un visto di censura. La Guida resiste. E dovrà resistere presto a una prova ancora più dura. Rimasta sugli scaffali di famiglia, sopravviverà infatti ai sacco della città del 1630, come racconta Thérèse Metzger, autrice nel 2002 del più approfondito studio sul manoscritto. Il tomo sembra infatti sottoposto a «un trattamento brutale, a una volontà di distruzione», mostrano le legature divelte. Nel 1630 i mercenari dell'imperatore Ferdinando II devastarono le case degli ebrei. Le cronache dell'epoca raccontano che i Norsa furono «quasi i soli banchieri ebrei a recuperare e mantenere il loro status nel tempo». Da allora il libro è rimasto ininterrottamente nelle mani della famiglia. Per generazioni e generazioni. Secoli e secoli. Fino al nuovo millennio.
Nel 2013 le eredi decidono infatti di venderlo a un magnate degli Stati Uniti, disposto a pagare un milione e 900 mila euro. La soprintendenza non ha i fondi per esercitare il diritto di prelazione e il manoscritto sembra destinato ad andare oltreoceano, quando interviene la direttrice per i Beni Culturali
della Lombardia, Caterina Bon Valsassina (oggi a Roma alla guida della Direzione generale) che nel 2014 notifica un vincolo «di interesse artistico e storico particolarmente rilevante». Contro il decreto, il potenziale acquirente affida a uno dei migliori avvocati di Milano alcune osservazioni. Fra queste il fatto che «l'esportazione non costituirebbe un danno alla "memoria della comunità nazionale e del suo territorio"» poiché il testo sarebbe «estraneo alla cultura e ai valori identitari della nazione italiana. Infatti appartiene a una cultura straniera, la cultura ebraica ashkenazita». Il Consiglio superiore per i beni culturali invece avvalora le conclusioni della dirigente proprio su questo punto. La professoressa Francesca Cappelletti sostiene come sia «chiaro che ci si trovi di fronte a un oggetto importantissimo, eccezionale e anche straordinariamente legato alla storia italiana, alla storia della comunità ebraica a Mantova». Il presidente Giuliano Volpe sottolinea «l'importanza del bene per il suo valore storico-artìstìco e identitario rispetto alla storia e alla cultura» del paese. Entrambi si augurano, si legge nella relazione finale, che «venga sottoposto ad interventi urgenti di restauro, di conservazione corretta e di fruizione», Perché i decenni nel caveau di banca stanno danneggiando la sua tenuta.
Restauro e diffusione però non accadono. Nonostante il vincolo, infatti, e il grande valore attribuito al manoscritto, il libro resta nella cassetta di sicurezza. Continua a dormire nel bunker, senza esposizioni o nuove ricerche. È su quest'assenza che insiste la richiesta arrivata nel 2017 dalla fondazione di Ariel Muzicant, uno degli uomini più ricchi d'Austria. Il collezionista di Vienna ha firmato con le eredi un
contratto d'acquisto da due milioni di euro. È condizionato a un accordo che l'ente di Muzicant sottoscrive con il Segretario generale del ministero dei Beni e delle attività culturali, Antonia Pasqua Recchia. Nel testo si rimarca la volontà dell'acquirente di aggiungere la Guida alla propria collezione per «assicurarne la circolazione e la valorizzazione in Italia e all'estero». Per legge l'uscita delle opere per manifestazioni culturali o analisi per la conservazione, può essere richiesta anche per i beni vincolati, ma solo per un periodo massimo di quattro anni. L'accordo di maggio (approvato con il parere dell'ufficio legislativo) introduce invece un'assoluta novità: in cambio del restauro, della digitalizzazione e dell'impegno ad esporre il volume, infatti, il ministero rinuncia alla prelazione e si impegna «ad autorizzare l'esportazione temporanea» in tutti i musei citati in un allegato. Nell'elenco, fra il Louvre e alcuni importanti istituti ebraici e culturali d'Europa, del Giappone, degli Stati Uniti, appare la stessa Collezione Muzicant, sia nella sua sede di Vienna che nel suo deposito bancario in Israele. Fra le sedi c'è cioè anche la camera blindata della fondazione. Sono previste, si legge, uscite di quattro anni. Ma all'interno di un accordo «della durata di 40 anni», rinnovabili per altri 40 e quindi automaticamente, «agli stessi termini e condizioni» ogni 10 anni. A garanzia della vendita all'estero, altrimenti impossibile. Quando la soprintendenza lombarda riceve a fine maggio la "denuncia di trasferimento della proprietà'; il direttore generale Archivi, Gino Famiglietti, avvia però subito nuovi controlli. E un'ispezione, avvenuta ai primi di giugno, con cui i tecnici confermano la necessità del restauro e la possibilità di un nuovo vincolo. La direzione avvia così il trasferimento immediato della Guida, con i carabinieri per la Tutela del patrimonio, al laboratorio di restauro dell'Archivio di Stato di Torino. Ora è lì, in cura. In attesa che si decida del suo futuro. Dopo un così glorioso passato.
(L'Espresso, 18 luglio 2017)
di Francesca Sironi
«Per raccontare l'importanza di Maimonide da dove possiamo cominciare? È come parlare di un gigante, non meno di Platone, o di Aristotele». L'autore della "Guida dei Perplessi" è questo: un gigante.
Per provare a raccontarlo, allora, Haim Baharier, allievo di Lévinas, matematico e grande biblista, decide di partire da una delle numerose complessità del suo testo più celebre: «Forse dovremmo innanzitutto ricordare che gli storici non sono ancora d'accordo se l'opera sia stata scritta in arabo o in ebraico. Di certo Maimonide ha avuto accesso al pensiero greco attraverso la lingua araba», esordisce. L'opera di Maimonide, continua lo scrittore, è densa di contraddizioni, soprattutto nei suoi testi normativi. «Ma è grazie a queste contraddizioni, credo, che nasce un pensiero», aggiunge. La ricerca del pensatore medioevale era «difficile da accettare nelle comunità ebraiche europee», spiega, che non concepivano «una filosofia separata dalla pratica».
Eppure ebbe una fortuna e un'eco vastissime. In un'epoca in cui l'Occidente non conosceva o quasi Aristotele, Maimonide pone lo Stagirita al centro della sua Guida, «diretta a stabilire affinità e differenze fra pensiero greco e d'Israel», a dare «una risposta all'impatto dell'ellenismo». Per Maimonide «la fede, che in ebraico è "fiducia", deve essere alimentata dal pensiero, dalla razionalità, dalla logica. È così che discute i 13 principi, o valori, della fede».
Nella Guida si serve «della dottrina di Aristotele e soprattutto del suo metodo dimostrativo ed espositivo», scriveva in una prefazione il rabbino Giuseppe Laras, uno dei suoi massimi conoscitori e commentatori: «Per dimostrare in una veste di maggiore intelligibilità e chiarezza i fondamenti dell'ebraismo». Ebreo, Rambam (dalle iniziali del suo patronimico) era nato in Andalusia nel 1128. Morto al Cairo nel 1204, trascorse una vita alla confluenza dei monoteismi: sotto la dominazione islamica, prossima alla minaccia crociata. Fu filosofo, giurista, commentatore delle scritture e medico alla corte del Saladino, un impegno
di cui racconta oneri e onori: «Una rumorosa folla di pagani e di ebrei, di plebei e di nobili, di giudici e di mercanti, di amici e di nemici» lo aspettava sotto casa per una visita, come racconta lui stesso in una lettera citata da Giorgio Cosmacini in "Maimonide e il suo tempo", raccolta di studi pubblicata da Franco Angeli nel 2007. «La Guida può essere compresa soltanto commentata», riflette Baharier: «Un testo che consiglierei di leggere, per la sua incredibile modernità, sono i suoi "Otto capitoli" di introduzione all'etica».
(L'Espresso, 18 luglio 2017)
di Giordano Stabile
Il vertice di Riad doveva spianare la strada ad Abu Mazen nel suo duello con Hamas, e riconsegnargli la Striscia di Gaza che il movimento islamista si è preso dieci anni fa, nell'estate del 2007. Sta per accadere il contrario. Il raiss palestinese ha giocato così male la partita che i rivali, con in mano pochissime carte, lo hanno messo all'angolo. A Riad, Trump e gli alleati sunniti avevano posto Hamas, e i Fratelli musulmani, in cima alla lista del nuovo asse del male. Egitto e Arabia Saudita, protettori di Abu Mazen, davano le carte. Che è successo poi? Il raiss ha tentato di mettere in ginocchio la Striscia, ha tagliato l'elettricità, reso ancora più difficili gli spostamenti, anche dei malati. Gli egiziani si sono resi conto però che così non si andava da nessuna parte, si rischiava un'esplosione pericolosa anche per gli equilibri interni del Cairo e in tutto il mondo arabo. Hanno trovato una via alternativa, condivisa da Emirati e Israele. Puntare su Mohammed Dahlan, l'uomo di Al-Fatah nella Striscia (è nato a Khan Younis) e rivale numero uno di Abu Mazen, che nel 2012 lo ha spedito in esilio ad Abu Dhabi e fatto condannare in contumacia per corruzione. Per sottrarre la Striscia al controllo di Hamas, e all'influenza del Qatar, Emirati ed Egitto pensano che sia l'uomo giusto. Israele vuole invece un nuovo interlocutore, prima a Gaza e poi forse in Territori palestinesi: ha da sempre buoni rapporti con Dahlan. A metà giugno Dahlan ha incontrato al Cairo il leader di Hamas Yahya Sinwar. L'accordo è stato trovato sui punti principali: Dahlan avrebbe il controllo dei valichi di frontiera e delle finanze mentre ad Hamas resterebbe il «ministero dell'Interno». Una sorta di governo di grande coalizione fra Hamas e Fatah, quello che Abu Mazen non è mai riuscito a costruire. A completare la manovra ci sarebbe poi la fine del blocco dal lato egiziano e la costruzione di una centrale elettrica a Rafah, finanziata con 150 milioni di dollari dagli Emirati. Nel frattempo Il Cairo fornisce il gasolio all'unica centrale a Gaza, ora al buio 22 ore al giorno. Se il piano funziona e Dahlan riesce a migliorare le condizioni di vita dei quasi due milioni di palestinesi chiusi nella Striscia avrà la strada spianata per la presidenza, se mai ci sarà un bis delle presidenziali del 2005. Il mandato di Abu Mazen è scaduto da otto anni.
(La Stampa, 18 luglio 2017)
di Leonardo Coen
Il Tour de France lunedì 17 luglio ha riposato. La memoria del ciclismo no. E tornata indietro di 75 anni, a un altro 17 luglio. Quello del 1942. Per i francesi, la data indelebile della vergognosa Rafle du Vel d'Hiv, la retata del Velodromo d'Hiv, il tempio della pista, cominciata alle 4 del mattino del giorno prima e conclusa trentasei ore dopo: 4.660 poliziotti francesi rastrellarono Parigi per catturare e deportare 28mila ebrei, compresi tra i 2 e i 60 anni d'età. La caccia deluse le aspettative di René Bousquet, il responsabile dell'Opération Vent Printanier (Operazione Vento Primaverile) che aveva accolto le richieste dei nazisti: gli arresti furono la metà di quelli preventivati, ossia "soltanto" 13.152, di cui 5.802 donne e 4.115 bambini. Circa 15mila ebrei riuscirono a beffare i gendarmi e gli sbirri e a scappare. Ottomila vittime della retata vennero trasportate con cinquanta autobus della Compagnia metropolitana al Velodromo d'Hiv, che si trovava non lontano dalla Tour Eiffel.
Non un solo tedesco fu coinvolto nel rastrellamento, tantomeno nella sorveglianza dei prigionieri. Se ne occupò la polizia francese che si comportò in modo disumano: gli ottomila rimasero "parcheggiati" al Velodromo in condizioni drammatiche per cinque giorni, senza acqua né sanitari. Qualcuno impazzì. Parecchi tentarono il suicidio. Morirono in una trentina, molti erano bimbi. Ancora oggi è difficile ricostruire quelle ore maledette. Nei giorni successivi gli ebrei sono ammassati sui treni della morte e deportati nei lager del Reich o in quelli del Loiret, sempre dagli zelanti poliziotti francesi, complici così degli aguzzini tedeschi di Auschwitz di Mauthausen. Dall'inferno dei campi di concentramento tornarono in meno di cento. La Shoah marcata Francia. Come ha ricordato impietosamente domenica il presidente Macron, nella dolente commemorazione della Rafle (presente il premier israeliano Netanyahu), "fu la Francia che la organizzò (...) È tanto comodo vedere nel regime collaborazionista di Vichy una mostruosità nata da nulla .. ma è falso". Per riconoscere la responsabilità dello Stato - allora nelle mani di Pétain - si dovette attendere l'ammirevole ma tardiva ammissione del presidente Jacques Chirac che dichiarò nel 1995: "La Francia, patria dell'Illuminismo e dei diritti umani, terra d'accoglienza e d'asilo, la Francia, quel giorno, compì l'irreparabile". François Hollande ammise il "crimine commesso dalla Francia", negato invece dall'ineffabile Marine Le Pen, durante la campagna elettorale delle presidenziali di quest'anno. Del Vel d'Hiv, smantellato nel 1959, oggi resta una lapide, posta in boulevard de Grenelle, all'incrocio con rue Nélaton, dove sorgeva il tempio delle due ruote, nel 15esimo arrondissement. Era diventato l'imbarazzante simbolo della collaborazione con il Reich di Hitler, il luogo dove la Francia ambigua e oscura del regime fantoccio di Vichy aveva compiuto la più importante e la più emblematica azione repressiva. E tuttavia, Bousquet, il segretario generale della polizia di Vichy che materialmente aveva ordinato la Rafle, se la cavò. Uno scandalo. Peggio: amico di François Mitterand, ne godette la protezione e si trasformò in un fortunato uomo d'affari dopo la Liberazione. La giustizia, lentissima, lo incriminò solamente negli anni Ottanta. Finirà assassinato da uno squilibrato nel giugno del 1993. Quanto al velodromo, nel dopoguerra, servì come prigione per i collaborazionisti, prima di ospitare comizi politici e qualche avvenimento sportivo, come gli incontri di boxe (nel 1947 si scazzottarono Marcel Cerdan amato follemente da Edith Piaf e Sugar Ray Robinson, il pugile che pareva danzare sul ring). Pochi sanno che il Vel d'Hivebbe sussulti di gloria ciclistica proprio negli anni infami dell'occupazione.
A ricordarlo è stato Jean Bobet in un mirabile saggio uscito dieci anni fa (Le vélo à l'heure allemande, La bicicletta al tempo tedesco, ed. La Table Ronde, 2007). Jean, ex giornalista, ex professore d'inglese e soprattutto ex corridore, era fratello brocchino del celebre campione Louison Bobet, rivale di Coppi e Magni, vincitore di tre Tour, di un campionato mondiale, di una Milano-Sanremo e di una Parigi-Roubaix. La bicicletta era tornata a essere la regina dei trasporti. Lontano dai conflitti e dalle sventure, i campioni della strada si affrontavano sulla pista ovale in abete del Vel d'Hiv, davanti a 17mila spettatori. Le Sei Giorni erano eventi mondani: nel parterre si avvicendavano divi dello schermo e della musica, malavitosi e borsaneristi, ufficiali tedeschi e funzionari di Vichy. Prima di Cerdan, Edith Piaf ebbe un'avventura anche con Toto Gèrardin, grande pistard. I tedeschi volevano che il calendario ciclistico continuasse normalmente, pretesero persino un ersatz del Tour. I giornali collaborazionisti scrivevano pagine sulle imprese dei corridori emergenti come Robic, Bobet e Géminiani. Non una riga sulla Raile. Né sui percorsi eroici dei corridori che contribuirono alla Resistenza. Jean Bobet non vinceva. Ma è stato il primo a raccontare quegli anni difficili rimasti sotto silenzio.
(il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017)
Tutto è iniziato almeno un paio di mesi fa, con il solito aut aut del solito Roger Waters, ormai non più frontman dei Pink Floyd ma piuttosto leader del più redditizio movimento per il boicottaggio di Israele. Aveva detto ai Radiohead: dovete cancellare il vostro concerto a Tel Aviv - concerto previsto per domani. Thom Yorke, leader del gruppo, aveva risposto con un'intervista a Rolling Stone dicendo, in pratica: ci state dando degli ignoranti, ma non lo siamo. Semplicemente, non siamo d'accordo con il boicottaggio per motivi politici. E' uno spreco incredibile di energie, che "crea divisioni, non unisce". Alla puntuta risposta di Yorke, aveva replicato ancora l'altro campione del boicottaggio, il regista Ken Loach, con un editoriale sull'Independent. "Dovete decidere se stare dalla parte degli oppressi o degli oppressori. Così sostenete l'apartheid". E sembra impossibile, ma a quel punto Yorke aveva ancora le forze per rispondere, via Twitter: suonare non significa fare endorsement a un governo. Non siamo d'accordo con la politica di Donald Trump ma non smettiamo di suonare in America, "la musica, l'arte e la ricerca dovrebbero costruire ponti, non muri". Il tono persecutorio dei sostenitori del boicottaggio ha il suono del linciaggio mediatico nei confronti di chi la pensa diversamente, di chi crede che un concerto sia un concerto e basta. E conduce alla paradossale situazione di una band che è costretta a giustificarsi più volte per un concerto organizzato in un paese che aspetta da anni l'evento - come sabato scorso in sessantaduemila hanno aspettato a Tel Aviv i Guns N' Roses, tre ore di musica e rock. Ma c'è una novità. Qualcuno, nel sistema musicale omologato e che spesso ha voltato le spalle a Israele, inizia a non poter più sentire la parola boicottaggio. Michael Stipe, voce e anima dei Rem, ha scritto ieri su Instagram: "Io sto con i Radiohead e la loro decisione di esibirsi". E Stipe non può proprio essere definito un sostenitore di Israele, ma magari più realista: fascista è chi non fa suonare, non chi suona.
(Il Foglio, 18 luglio 2017)
L'Inaugurazione
Resti della necropoli ebraica |
Trastevere si racconta, svelando la sua vita quotidiana attraverso i secoli. Il viaggio indietro nel tempo avviene a Palazzo Leonori che da oggi apre al pubblico un nuovo spazio museale dedicato alle grandi scoperte archeologiche avvenute durante i lavori di ristrutturazione. È qui che è tornato alla luce (da uno scavo profondo fino a otto metri) il sepolcreto medievale della comunità ebraica di Roma, il cosiddetto Campus Iudeorum databile tra la metà del XIV secolo e la metà del XVII secolo. Non solo, perché a riaffiorare sono stati anche i resti della grande conceria di Settimio Severo, il famoso impianto artigianale voluto dall'imperatore per la lavorazione delle pelli al servizio dell'esercito, noto dalle fonti come i Coraria Septimiana, risalente al III secolo d.C. Siamo a viale delle Mura Portuensi (numero 33), nella nuova sede delle Assicurazioni di Roma, che grazie agli archeologi della Soprintendenza speciale di Roma (lo scavo è stato diretto da Daniela Rossi), hanno valorizzato l'area. Non tutto si è potuto restituire al pubblico per esigenze conservative, ma la storia resta comunque avvincente.
Il cortile
Al centro del cortile-museo sfilano reperti preziosi provenienti dalle concerie: un mosaico a tessere bianche, rappresentante un Tritone, i resti di un sacello dedicato al dio Silvano, la statua della dea Fortuna seduta su un trono arcaico. E ancora l'epigrafe che ha consentito l'identificazione della necropoli ebraica. «Della forte presenza ebraica a Roma in antichità, in fondo, non erano emerse numerose testimonianze archeologiche - dichiara Daniela Rossi - In questo caso è forse la prima volta che torna alla luce uno spaccato di vita reale della società di quel tempo. Tanto più importante è l'aver trovato i resti che confermano oggi la presenza del Campus Iudeorum, di cui parlavano le fonti. Solo ora le prove storiche gli restituiscono la giusta importanza. La presenza ebraica nella Roma antica era molto diffusa, soprattutto a Trastevere», Della scoperta, annunciata in un convegno a marzo, ha parlato persino il New York Times. «Nonostante la difficoltà di uno scavo che ha raggiunto una quota profonda otto metri, siamo riusciti a trovare una soluzione adeguata per raccontare al pubblico un capitolo della storia più significativa di Trastevere attraverso i secoli - commenta l'archeologa Marzia Di Mento che ha seguito gli scavi - A partire dalla conceria che evoca la vocazione commerciale del rione». L'allestimento offre una panoramica sui ritrovamenti avvenuti in quest'area, dalla prima età imperiale alla metà del 1600. Un'avventura ripercorsa tra reperti e pannelli didattici ricchi di dettagli, storie, informazioni del tutto sconosciuti.
(Il Messaggero, 18 luglio 2017)
di Stefania Consenti
MILANO - Porte riaperte all'accoglienza per il terzo anno consecutivo al Memoriale della Shoah, in un luglio segnato dall'emergenza sbarchi. Quaranta migranti da domenica sera hanno trovato pasti caldi, docce, il conforto di un sorriso durante questa fuga verso la libertà, in un luogo, nei sotterranei della Centrale, che è stato teatro della deportazione verso i campi di sterminio nazisti di tanti ebrei e prigionieri politici italiani.
Oggi sono siriani, afghani, eritrei, e almeno 15 minori non accompagnati, accolti dai volontari della Comunità di Sant'Egidio in collaborazione con Fondazione Memoriale della Shoah. Iniziativa che si inserisce nel piano di accoglienza del Comune. Ed è scattata subito la gara di solidarietà. Un attimo dopo l'annuncio dell'apertura del Memoriale, almeno cento i milanesi che si sono offerti come volontari per servire colazioni e cene ai profughi.
«Se l'ostilità e la xenofobia sono contagiose, la solidarietà lo è altrettanto - sottolinea Stefano Pasta, responsabile per la Comunità di Sant'Egidio dell'accoglienza profughi al Memoriale - Questa iniziativa si regge unicamente sull'impegno gratuito e sulle donazioni di privati cittadini. Rilevante è anche il carattere interreligioso ed ecumenico dell'accoglienza: insieme alla Comunità e ad alcune parrocchie, qui si alterneranno volontari ebrei, musulmani, anglicani, induisti, non credenti». Ieri la Fondazione Arca ha servito parte della cena, tutto quello che manca lo portano i volontari della parrocchia di Santa Francesca Romana e le altre che sono collegate in un passaparola. «C'è una docente del liceo Caravaggio che è al suo terzo anno come volontaria - prosegue Pasta - e ha coinvolto i suoi allievi e perfino qualche collega». D'altronde c'è una parola che campeggia a caratteri cubitali all'ingresso del Memoriale ed è «Indifferenza», quella che qui, racconta Pasta, si cerca di combattere in tutti i modi, «con un'idea di accoglienza dei profughi che viene condivisa da Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah. Nel 1943 la sua famiglia aveva pagato un trafficante per passare la frontiera con la Svizzera, ma fu respinta da un poliziotto elvetico, fu arrestata con il papà, finì prima a San Vittore e poi deportata ad Auschwitz». Infine, i dati: 3.707 da giugno a novembre 2015 i profughi ospitati per poche notti, in transito al Memoriale. Scesi 1.474 nello stesso periodo del 2016 per via della difficoltà di puntare alle rotte verso il Nord Europa. «La decisione di ripetere per il terzo anno l'esperienza dell'accoglienza all'interno di questi spazi conferma il grado di sensibilità e coinvolgimento della Fondazione Memoriale della Shoah, della Comunità Ebraica di Milano e della Comunità di Sant'Egidio verso quest'emergenza che interessa l'Europa, l'Italia e noi tutti» è il commento di Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano.
(Il Giorno - Milano, 18 luglio 2017)
di Marco De Palma
I membri dell'organizzazione islamica Waqf, che si occupano del controllo e della gestione degli attuali edifici musulmani intorno al Monte del Tempio, nella città vecchia di Gerusalemme, stanno inscenando una serie di proteste e istigando alla violenza contro le misure di sicurezza messe in atto da Israele. Gli attivisti del Waqf non intendono, infatti, cedere alle nuove misure che comprendono anche controlli con metal detectors e screening, presi come conseguenza dell'attacco terroristico palestinese avvenuto venerdì scorso.
Forse proprio perché tre dei 'funzionari' del Waqf sono stati messi in stato di arresto perché sospettati di essere complici dell'attentato terroristico, gli altri membri della organizzazione si sentono in diritto ed in dovere di protestare e di fare resistenza. Addirittura, secondo quanto riporta il Jerusalem Post, già domenica la comunità islamica ha diffuso un messaggio in cui si consigliava ai fedeli musulmani di evitare l'accesso al complesso, e circa 200 persone si sono poi riunite in segno di protesta fuori la Porta delle Tribù. I manifestanti hanno persino chiesto al re Abdullah di Giordania e al resto del mondo musulmano di intervenire, ma soprattutto di interferire, al fine di ripristinare quanto prima lo status quo, la situazione precedente l'attacco.
Tra la folla si sono anche alzate grida di protesta contro la polizia: "Disgraziati, ne abbiamo abbastanza, ci state soffocando! Al-Aksa appartiene ai musulmani!". Stando a quanto riporta poi The Times of Israel sono decine gli uomini che bloccano i fedeli per impedire che si sottopongano alle misure di sicurezza. Mentre la polizia riferisce che alcuni dei manifestanti - anche palestinesi - hanno cominciato a lanciare pietre alle forze dell'ordine. La porta del Monte del Tempio è praticamente da sempre strumento utile si palestinesi per alimentare la violenza contro Israele. Nei primi anni 2000 i palestinesi usarono una visita al Monte del Tempio di Ariel Sharon come pretesto per lanciare una campagna terroristica in grande stile contro Israele.
Una decina di gironi fa, per esempio, l'agenzia dell'Onu per la cultura e la scienza, in poche ore, ha "islamizzato" i siti sacri ebraici a Gerusalemme e ad Hebron. Nella riunione annuale a Cracovia, l'Unesco aveva già definito Israele "potenza occupante", e due giorni dopo, sempre l'Unesco aveva tolto al popolo ebraico la sovranità sulla Tomba dei patriarchi a Hebron, la città dei patriarchi biblici. Decisioni scellerate e storicamente infondate che sono alla base dell'atteggiamento di aperta rivolta degli islamici che si respira oggi a Gerusalemme. I musulmani si sentono legittimati a inscenare le proteste, salvo poi stracciarsi le vesti e gridare al "fascismo" se Israele interviene per riportare l'ordine.
(l'Occidentale, 17 luglio 2017)
GERUSALEMME - L'attacco al Monte del Tempio (Spianata delle Moschee) di Gerusalemme, venerdì mattina, è più complesso e problematico rispetto ai precedenti e numerosi attacchi subiti negli ultimi anni dalla Città Santa, scrive "Haaretz", che sottolinea come entrambi gli agenti di polizia uccisi fossero drusi israeliani, mentre gli attentatori erano tre giovani arabi israeliani residenti nel nord del paese. Le possibili implicazioni che l'attentato potrebbe avere sui legami tra le due comunità hanno suscitato forte preoccupazione tra le autorità, soprattutto nelle aree con popolazione mista drusa-musulmana. Le comunità druse israeliane hanno già fortemente condannato l'attacco, mentre alcuni membri della comunità araba musulmana hanno dichiarato che i due drusi, in quanto poliziotti, erano parte delle "forze di occupazione". Questa escalation di tensione tra comunità interne a Israele sta suscitando l'apprensione anche del re di Giordania Abdullah, che sabato ha invitato le diverse parti a mantenere la calma e ha esortato la riapertura della Spianata delle Moschee, chiusa da Israele per motivi di sicurezza in seguito all'attacco. La zona è infatti sotto controllo congiunto da parte delle autorità israeliane e giordane.
(Agenzia Nova, 17 luglio 2017)
L'accordo riguardava un'area che era stata oggetto delle rappresaglie di Tel Aviv.
Il responsabile dello stato ebraico ha reso nota la posizione contraria del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, al cessate-il-fuoco nel sudovest della Siria concordato da Russia e Stati Uniti, dal momento che consentirebbe all'Iran di consolidare la sua presenza nella zona.
L'accordo del 9 luglio per creare una zona di de-escalation nelle regioni di Daraa, Quneitra e Sweida comprende zone in cui ci sono state rappresaglie israeliane per i colpi arrivati nella zona delle Alture del Golan occupata dallo stato ebraico a causa dei combattimenti tra forze del regime siriano e ribelli.
Israele ha inoltre sferrato diversi attacchi aerei in altre zone della Siria dallo scoppio della guerra civile nel Paese, nel 2011. La maggior parte dei raid hanno preso di mira convogli o depositi militari di Hezbollah, il suo storico nemico in Libano.
Il movimento sciita sostenuto dall'Iran è un sostenitore cruciale del regime siriano e combatte al fianco delle forze governative. Un responsabile israeliano, che ha parlato a condizione dell'anonimato, ha spiegato che Netanyahu è contrario all'accordo "a causa della presenza iraniana" in Siria.
Secondo il quotidiano Haaretz, Netanyahu ha espresso la contrarietà di Israele al cessate-il-fuoco nel corso dell'incontro avuto ieri con il presidente francese Emmanuel Macron a Parigi.
(globalist, 17 luglio 2017)
Spettabile sito Ilvangelo-Israele.it,
desidero ringraziarVi perché, attraverso la Vostra diffusione della notizia, ho saputo dell'iniziativa de "Il Foglio" [lappello contro lUnesco, ndr].
Vi invio il testo inviato al quotidiano, per farVi sentire la mia vicinanza.
Con i più cari saluti
Maria Laura D'Onofrio
Grazie della vicinanza che ci fa sentire e della sua lettera a Il Foglio che diffondiamo come incoraggiamento per coloro che sostengono la giusta causa di Israele. Ecco il testo della lettera:
"Queste risoluzioni sono un passo verso l'islamizzazione. Può l'Onu decidere che la Mecca non è islamica? O che il Vaticano non è cattolico? | Mai una protesta dell'Unesco contro la Turchia che sta reislamizzando Santa Sofia, la cattedrale della cristianità orientale. |
L'lsis ha raso al suolo le tombe dei profeti ebrei a Mosul. L'Unesco ha sradicato la storia dei patriarchi ebrei in Israele | Mentre in Polonia, tomba dell'ebraismo, si attaccava Israele, 200 ebrei francesi partivano per Tel Aviv a causa dell' antisemitismo |
di Giulio Meotti
Nel 1929 un gruppo di archeologi inglesi fece una scoperta sensazionale: il diluvio descritto nella Bibbia era una catastrofe culturale che aveva sconvolto l'attuale Iraq. Gli archeologi rinvennero una sorta di strato di terra pulita fra due di straordinari reperti archeologici. Due differenti presenze umane erano state divise da quella terra vergine. Era come una spaccatura nella civiltà. Ninive, la capitale della civiltà mesopotamica, era stata ridotta in macerie da babilonesi e persiani. Se quegli archeologi visitassero oggi l'Iraq, scoprirebbero un altro strato di terra gettata sopra alcuni dei più antichi culti a Ninive. Una guerra ai figli di Abramo, di Gesù, di Zarathustra e di Gilgamesh. Lo Spectator parla della "terra degli dèi perduti". Come ha detto Louis Sako, a capo della più grande congregazione cattolica irachena, "questo non era mai successo nella storia. Neppure Gengis Khan arrivò a tanto". Non solo i cristiani e gli yazidi sono stati uccisi e scacciati. Tutti i più antichi culti non islamici del medio oriente sono minacciati di estinzione: i kakai, i sincretisti noti per i loro baffoni rituali che gli islamisti considerano "blasfemi"; gli shabak, i cui antenati erano adoratori del fuoco; gli alawiti e i drusi, la cui tradizione è ancorata nella filosofia greca; i mandei, gli ultimi gnostici, gli eredi dei nestoriani e dei giacobiti; gli zoroastriani e i sabei, i figli delle civiltà sudarabiche e della regina di Saba. Di fronte a questa impresa senza precedenti, qual è la preoccupazione dell'Unesco, dedita alla preservazione dei siti patrimonio dell'umanità, che ha fatto della cultura occidentale e dei suoi riferimenti storici e politici l'anima dell'organizzazione delle Nazioni Unite per la scienza, la cultura e l'educazione? Cancellare la storia dell'unico paese, fra Rabat e Rawalpindi, dove chiese, moschee e sinagoghe sono protette e piene di fedeli. Israele, dove il 24 per cento della popolazione è non ebreo (1,8 milioni di persone). Dove gli stessi palestinesi spiccano fra gli arabi più fortunati del medio oriente. Dove il terrorismo islamico usa i luoghi santi per attaccare Israele, come è successo venerdì a Gerusalemme sulla Spianata delle Moschee, dove due poliziotti israeliani sono rimasti uccisi in un attentato senza precedenti. L'Unesco sta cercando di cancellare la storia di un popolo il cui testo sacro, la Bibbia, rimane anche il libro più attendibile per chi visita le città dissepolte fra il Tigri e l'Eufrate, Ur dei Caldei, Babilonia e Ninive, di cui "si dimenticherà anche il nome". Una sterminata distesa desertica e, in quel giallo allucinante, un solo punto di riferimento, la ziggurat, la torre sacra comune a tutte le città mesopotamiche, distrutta dall'Isis nella sua furia iconoclastica. A sud di Israele, c'è l'apartheid dell'Arabia Saudita wahabita, che ha distrutto tante tombe islamiche e separa musulmani e non musulmani; nel nord-ovest, i domini dello Stato islamico e la devastazione della guerra siriana; a est l'Iraq e l'Iran, terre di persecuzione. L'Unesco avrebbe potuto parlare con i drusi (un decimo della popolazione mondiale vive in Israele), con i beduini, con i musulmani della moschea Ahmadi di Haifa, con i Bahai che hanno in Israele la sede del loro movimento religioso perseguitato dal regime iraniano e con tutte le altre minoranze religiose israeliane. Eppure, è a questo piccolo stato, pegno della cultura occidentale in una terra che la sta espiantando, come le tombe dei profeti biblici Daniele, Giona e Seth distrutte dall'Isis, che l'agenzia della cultura dell'Onu ha dichiarato guerra.
A ottobre, l'Unesco ha cancellato la storia ebraica di Gerusalemme, regalando all'islam e ai palestinesi il Muro del pianto. La scorsa settimana, a Cracovia, in una risoluzione voluta da Libano, Kuwait e Tunisia, l'Unesco ha islamizzato poi la tomba di Hebron, dove riposano i patriarchi della Bibbia. Un anno fa, a meno di una settimana dall'inaugurazione, l'Unesco aveva cancellato una mostra che documenta i 3.500 anni di legami ebraici con la Terra d'Israele. Due anni prima, l'Unesco aveva inserito "con urgenza" la Basilica della Natività di Betlemme, luogo sacro per i cristiani, fra i siti a rischio. Ma la stessa "urgenza" non venne dimostrata dall'Unesco quando la chiesa venne profanata da terroristi palestinesi nel 2002. Allora, solo silenzio. Come quando i palestinesi distrussero il terzo luogo santo dell'ebraismo, la tomba di Giuseppe a Nablus. "L'Unesco è diventato Ionesco", dice al Foglio Ruth Wisse, accademica a Harvard e massima studiosa al mondo di yiddish. "E' una caricatura di se stessa. Questo teatro dell'assurdo dimostra soltanto quanto sia importante preservare la storia ebraica". All'Unesco-Ionesco la settimana scorsa l'ambasciatore tedesco, Stefan Krawielicki, ha osservato un "minuto di silenzio" per le vittime palestinesi chiesto dalla delegazione cubana dopo quello ufficiale per le vittime ebree della Shoah. Shimon Samuels, direttore internazionale del Centro Wiesenthal presente a Cracovia, ha scritto ad Angela Merkel: "Collegare l'Olocausto alle cosiddette 'vittime palestinesi' è una forma di revisionismo illegale in Germania". Succede all'Unesco, il palazzo dell'incultura. Nelle stesse ore da Parigi, sede dell'Unesco, duecento ebrei facevano le valigie per andare a vivere in Israele. A causa dell'antisemitismo.
"L'Onu, l'Unesco, il Consiglio di Ginevra, questi combattono Israele da quando è diventato un paese forte, avanzato e supermoderno", dice al Foglio Noah Klieger, veterano del giornalismo israeliano e reduce dei campi di concentramento nazisti, insignito della Legione d'onore da François Hollande. "Molti di loro hanno abbracciato l'islam. Ma noi israeliani sopravviveremo" .
La Tomba dei Patriarchi a Hebron meritava l'inclusione nella lista dell'Unesco. Con migliaia di anni di storia, è il luogo di sepoltura di Abramo, Isacco, Giacobbe, Sara, Rebecca e Lea della Bibbia. Includendola tra i siti patrimonio dell'umanità, l'Unesco ha trattato Hebron come alcune zone di Città del Messico o il centro storico di Cordoba presenti nella stessa lista. Tuttavia, l'Unesco nota che "nel Tredicesimo secolo, sotto Ferdinando III il Santo, la Grande Moschea di Cordoba è stata trasformata in una cattedrale". A Città del Messico non c'è alcun tentativo di negare l'eredità azteca. A Hebron e Gerusalemme, invece, l'Onu ha eliminato la storia ebraica, come se la tomba o il Muro del pianto non fossero stati costruiti in origine come luoghi ebraici, migliaia di anni prima dell'avvento dell'islam. L'Autorità palestinese ha sfruttato l'Unesco per dichiarare tutti i suoi siti "in pericolo", come altri in Libia, Mali, Iraq, Congo, Siria e Yemen. Come l'lsis che ha demolito Hatra e ha fatto saltare parti di Palmira.
"Le recenti risoluzioni assunte dall'Unesco su Gerusalemme e su Hebron si iscrivono in un lungo filone di degiudaizzazione della storia ebraica", dice al Foglio il grande storico francese di origini marocchine Georges Bensoussan, direttore editoriale del Mémoral de la Shoah di Parigi e autore in Italia di una "Storia del sionismo" (Einaudi) e della "Storia della Shoah" (Giuntina). "Era già vero, ad esempio, nel corso della Seconda guerra mondiale, quando Mosca rifiutava di nominare la nazionalità ebraica delle vittime. Una cancellazione che si perpetuerà e si estenderà al di là dell'Unione sovietica, in tutte le nazioni che le saranno sottomesse all'inizio della Guerra fredda. Sarà il caso, in particolare, della Polonia, epicentro del genocidio quando, nel mese di aprile del 1967, in occasione dell'inaugurazione del monumento internazionale ad Auschwitz, alla fine del suo discorso il primo ministro polacco non pronunciò una sola volta la parola ebreo. Eppure si sapeva già che il 90 per cento delle vittime di Auschwitz erano ebree. Questa cancellazione del segno ebraico ha, tuttavia, delle radici più antiche. Nel mondo cristiano come nel mondo musulmano, il giudaismo è il segno dell'origine ed è appunto questa origine e questa discendenza che genera il problema. Si parlerà, nel cristianesimo, di una sostituzione di Israele secondo la carne con Israele secondo lo spirito (verus Israel) e la cancellazione del segno ebraico marchierà il cristianesimo con continuità fin dai primi secoli. Oggi fa parte della matrice culturale dell'occidente, al di là del processo di secolarizzazione degli ultimi tre secoli. In questa negazione della legittimità ebraica sulla sua storia e sulla sua terra c'è tuttavia un'altra radice, quella della colpevolezza legata alla Shoah, che si è riversata in aggressività. Se ne vuole a colui che vi ricorda ciò che Vladimir Jankélévitch chiamava il 'segreto opprimente'. Questa colpevolezza nata dal crimine induce un astio anti-israeliano che prende di mira l'esistenza stessa dello Stato ebraico, al di là di questa o di quella sua politica. Con, alla base, questo refrain che vuole vedere nelle vittime di ieri i nazisti di oggi. Propositi insulsi sul piano storico ma importanti perché svelano un certo sottofondo mentale e intellettuale".
Intanto, la metà degli ebrei francesi intende lasciare la Francia. Uno studio dell'Università di Oslo pubblicato a giugno è una delle relazioni più metodologicamente complete che esplorano la crescita dell'antisemitismo europeo. Nel 2015, 10 mila ebrei dell'Europa occidentale sono partiti per farsi una nuova vita in Israele, "il più grande numero ad aver lasciato l'Europa dal 1948". "L'Unesco ha attaccato gli ebrei come nazione, ripudiando la storia ebraica e delegittimando qualsiasi presenza ebraica su questa terra", dice al Foglio Josef Olmert, docente alla South Carolina University e fratello dell'ex primo ministro israeliano. "Ma dimostra anche che il problema non è la politica israeliana, non sono gli insediamenti, ma la stessa esistenza dello Stato ebraico. Queste risoluzioni sono un passo verso l'islamizzazione e tutti conosciamo le conseguenze dell'appeasement. Può l'Onu decidere che la Mecca non è islamica? O che il Vaticano non è cattolico? L'antisemitismo viola tutte le regole quando si tratta di ebrei".
"Queste risoluzioni riflettono l'influenza crescente della Organizzazione della conferenza islamica all'Onu, ma sono anche un passo significativo verso l'islamizzazione di tutto il medio oriente", dice al Foglio Nina Shea, direttrice dell'Hudson Institute's Center for Religious Freedom, una delle massime esperte e studiose di libertà religiosa negli Stati Uniti. "Gli ebrei sono stati espulsi dal resto del medio oriente e ora si fanno sforzi per cacciarli da Gerusalemme e Israele. Anche i cristiani sono spogliati dal medio oriente musulmano, paese dopo paese. E poi i mandei, gli yazidi, gli zoroastriani, i bahai sono tutti eliminati da questa regione che un tempo era un mosaico culturale". Non è un caso che l'Unesco abbia dichiarato guerra alla storia di Israele, uno dei pochi stati nazionali realmente radicati nella storia, con alle spalle una tradizione millenaria.
Fra i primi nella comunità accademica a scagliarsi contro il voto dell'Unesco è il giurista che insegna alla Northwestern University, Eugene Kontorovich, che al Foglio dice: "Questa risoluzione mostra la perversità dell'Unesco che ha scelto Cracovia, nota per essere una delle più grandi tombe di massa ebraiche in Europa, per negare la prima tomba ebraica della storia. Dove gli ebrei sono stati cancellati fisicamente, le nazioni del mondo li hanno cancellati dalla storia. Ciò dimostra che le agenzie delle Nazioni Unite sono facilmente manipolate dall'anti-scienza. Il fatto che alcune organizzazioni facciano anche bene non è un argomento rispettabile per la loro esistenza, non più del fascista che mandava i treni in orario. I paesi rispettabili dovrebbero tagliare i loro finanziamenti a queste organizzazioni o interromperli completamente. La pretesa europea di opporsi a queste risoluzioni astenendosi, consentendo di farle passare, è disprezzabile". Israele, come annunciato dal premier Netanyahu, lo ha fatto.
"Queste risoluzioni fanno parte di una campagna molto più grande per negare qualsiasi connessione ebraica alla terra di Israele", dice al Foglio l'islamologo americano Daniel Pipes. "E significa che c'è un blocco musulmano gigantesco presso le Nazioni Unite". "La città di Hebron è citata diverse volte nella Bibbia", ricorda David Gelernter, informatico con cattedra a Yale e fra i maggiori intellettuali ebrei americani. "Quando ero bambino, la Grotta dei Patriarchi era in mani arabe e agli ebrei era vietato andarci. Era nota per il massacro del 1929, in cui circa 70 studenti, insegnanti e bambini ebrei furono uccisi dai terroristi arabi a sangue freddo. Il massacro del 1929 fu un impulso per la creazione delle forze di autodifesa ebraiche che costituiscono la base delle forze di difesa israeliane. Gli ebrei erano orgogliosi del loro ruolo nella creazione della religione occidentale e, con essa, della cultura occidentale. Gli ebrei erano felici di pensare che la Grotta fosse santa non solo per loro, ma anche per i musulmani, e che Gerusalemme fosse santa per tutte e tre le religioni. Ma quando l'Onu decide che la Grotta è un sito religioso islamico e non ebraico - come se avessero annunciato che Roma è un sito storico etrusco senza rapporti con gli antichi romani e con gli italiani, o che Venezia è un sito commerciale sviluppato dall'Austria - gli ebrei e gli israeliani dovrebbero sorridere e ignorarlo. Noi ignoriamo le minacce di qualsiasi altro psicotico o lunatico, ed è giusto ignorare anche l'Onu. Vorrei che Israele e gli Stati Uniti (e l'Europa) si dimettessero dall'Onu e riprovassero a creare una seria organizzazione internazionale che cerca di creare la pace invece di distruggerla e (tra le altre cose) di sopprimere l'odio ebraico anziché promuoverlo" .
Nei prossimi mesi l'Unesco potrebbe subire una ulteriore islamizzazione. Il Centro Wiesenthal ad aprile ha denunciato la possibilità che un politico del Qatar, Hamad Bin Abdulaziz al Kawari, prenda il posto di Irina Bokova come direttore dell'Unesco. Su nove paesi candidati, Francia, Cina e Qatar sono i favoriti. Tuttavia, la Francia e la Cina si trovano ad affrontare un ostacolo nel fatto che funzionari europei e asiatici hanno guidato l'organizzazione. Parigi è anche l'ospite della sede dell'Unesco. "L'ex ministro della cultura del Qatar, al Kawari, non ha nascosto la sua capacità di trovare i fondi per risolvere la crisi dell'Unesco, dato che gli Stati Uniti hanno chiuso i finanziamenti a causa dell'ingresso palestinese nel 2011", dice Shimon Samuels, direttore delle relazioni internazionali del Centro Wiesenthal. Samuels aveva scritto due volte ad al Kawari quando era ministro della Cultura sulla fiera del libro di Doha. "Quella fiera era piena di testi antisemiti", ha detto Samuels.
Un rappresentante del mondo islamico ci riprova dopo la candidatura nel 2011 di Farouk Hosni, ex ministro della Cultura egiziano, che rispose così alla domanda di un deputato preoccupato del fatto che potessero essere introdotti libri israeliani nella gloriosa biblioteca d'Alessandria: "Bruciamo questi libri; magari li brucerò io stesso davanti a voi". Lo stato più ricco del mondo pro capite, il Qatar, ha da tempo fornito un enorme sostegno finanziario e politico agli estremisti palestinesi, tra cui l'organizzazione terroristica Hamas. La Freedom House classifica il Qatar, dove prevale la legge islamica della sharia, come "non libero". Il Qatar è anche uno dei focolai di estremismo islamico sunnita nella regione. Eppure, questo non ha impedito che acquisisse un ruolo di primo piano all'Unesco: in ottobre il Qatar è stato tra gli sponsor della risoluzione che negava la storia ebraica di Gerusalemme.
Lo scorso maggio, la direttrice dell'Unesco, Irina Bokova, ha espresso apprezzamento per il sostegno del Qatar che aveva stanziato un finanziamento di due milioni di dollari come parte di un impegno da parte del primo ministro Abdullah bin Nasser bin Khalifa al Thani a donare dieci milioni di dollari all'Unesco. Sono cifre strategiche per l'agenzia dell'Onu per la cultura. I regimi islamici hanno da tempo lanciato un'opa sull'Unesco e sulla cultura che essa dovrebbe rappresentare. Bokova di recente ha elogiato la cooperazione dell'agenzia con il Qatar, nominando la seconda delle tre moglie dello sceicco qatariota al Thani, Sheikha Moza bint Nasser, "Unesco Special Envoy for Basic and Higher Education and Advocate for the Un Sustainable Development Goals". Bokova ha poi incontrato la figlia di al Thani, Sheikha Hind bint Hamad al Thani, portavoce della Fondazione qatariota per la scienza e l'istruzione. Esperti di ventuno paesi si sono riuniti a Parigi, alla sede dell'Unesco, in un meeting finanziato dai sauditi e focalizzato su come "garantire che il contenuto rivolto agli studenti rifletta sistematicamente la diversità culturale e religiosa". Pochi giorni dopo, il re saudita Abdallah Ibn Abdul Aziz al Saud ha donato venti milioni di dollari al Fondo di emergenza dell'Unesco. L'ambasciatore Ziad Aldrees ha dichiarato che "questo contributo non è il primo e non sarà l'ultimo dal regno saudita". Bokova ha ringraziato vivamente il re dell'Arabia Saudita "per questo importante annuncio che è un segno di profondo impegno e di leadership fatta in un momento difficile per l'organizzazione". Il fondo saudita copre, infatti, di quasi un terzo i contributi degli stati membri al fondo, che ha un valore di 58,5 milioni di dollari. "I libri di testo sauditi sono estremamente odiosi e pieni di xenofobia", ha denunciato Ali al Ahmed, il dissidente saudita direttore del Gulf Institute di Washington. Ahmed ha detto che l'Unesco sta tradendo il suo mandato a difesa del "valore dell'istruzione e della tolleranza" mentre ha avvertito che l'agenzia dell'Onu è "suscettibile agli acquisti finanziari provenienti da paesi come l'Arabia Saudita". Ahmed ha fornito esempi di ciò che i bambini sauditi apprendono in quei libri: "Aderire all'islam è l'unico modo per entrare nel paradiso e sfuggire all'inferno; si devono amare i musulmani e odiare i non credenti e non imitarli; esempi di false religioni includono l'ebraismo e il cristianesimo". Brooke Goldstein, direttore del progetto Lawfare, un thinktank giuridico con sede a NewYork, ha poi detto che "lavorando con l'Arabia Saudita l'Unesco non solo legittima il sistema di educazione all'odio del regno, ma promuove condizioni educative favorevoli alla diffusione del terrorismo". Anche gli Emirati arabi uniti hanno stanziato quindici milioni di dollari all'Unesco, rinvigorito da un altro assegno di sei milioni nel novembre 2015 da parte di Hamdan bin Rashid al Maktoum, ministro delle Finanze degli Emirati. Le donazioni hanno conseguenze. Così, Irina Bokova ha nominato la città di Sharjah, negli Emirati, "capitale della cultura nel 2019", sebbene non si capisce quale contributo questa città abbia dato alla cultura (un quarto delle edizioni di questo appuntamento annuale sono state organizzate dall'Unesco in capitali del mondo islamico). Non solo, ma l'Unesco ha anche istituito un "Premio Sharjah alla cultura araba", che si assegna dal 1998. Ora, l'Unesco ha sei premi intitolati a personalità culturali. Due, un terzo, portano i nomi di filosofi e città del mondo islamico. Il Kuwait sostiene l'Unesco con cinque milioni di dollari, mentre il Marocco con uno e mezzo. L'Unesco ha stretto un patto di ferro con l'lsesco, una sorta di Unesco dell'islam, il cui direttore, Abdulaziz Othman Altwaijri, ha siglato un accordo con Flavia Schlegel, vice direttrice dell'Unesco. Al quartier generale dell'Unesco a Parigi è stato presentato il progetto "Combattere l'islamofobia attraverso l'educazione". Pochi giorni dopo, il ministro della Cultura dell'Oman, Madeeha bint Ahmed al Shaybaniyah, si è incontrato con Bokova per un altro accordo di collaborazione con il paese islamico. La direttrice dell'Unesco ormai non fa che presenziare a un grande evento di cultura islamica dietro l'altro. Il 27 marzo, a Parigi, Irina Bokova era invitata a presentare i volumi "The different aspects of Islamic culture", in un evento dove figurava il fondatore dell'Oxford Centre for Islamic Studies, Farhan Nizami. Citando le parole del re saudita Abdullah bin Abdulaziz al Saud, Bokova ha dichiarato: "Gli esseri umani sono stati creati come l'uno pari all'altro su questo pianeta. O vivono insieme in pace e armonia o saranno inevitabilmente consumati dalle fiamme del malinteso e dell'odio". Da quando è stata eletta alla guida dell'Unesco, Bokova non fa che visitare paesi islamici. E' stata la prima segretaria a mettere piede in Iran nel 2014, dove ha incontrato tutti i vertici della Repubblica islamica.
"Le risoluzioni dell'Unesco che cancellano la storia ebraica stanno cancellando anche i cristiani, visto che il cristianesimo si basa sulla storia ebraica, la Bibbia, che è la storia del popolo d'Israele" dice al Foglio la storica ginevrina di origini egiziane Bat Ye'or, la studiosa della dhimmitudine, ovvero le minoranze nell'islam. "Poiché ci sono più di due miliardi di cristiani, il loro silenzio e persino il consenso sulla distruzione della propria storia e della maggior parte dell'identità e dei valori interiori, dimostrano la portata della disintegrazione morale e culturale dell'occidente. Inoltre, tale voto conferma l'islamizzazione della cultura occidentale, fingendo che i patriarchi ebraici fossero profeti musulmani come affermato dal Corano. La gente dovrebbe rispondere a questa offensiva dell'infamia rifiutando di pagare i burocrati volgari dell'Unesco che mostrano tale ignoranza e rapacità". Nel 2012 durante la sua visita in Arabia Saudita, la direttrice Bokova incontrò il ministro degli Esteri Saud al Faisal, che ringraziò l'Unesco per essere stata la prima agenzia dell'Onu ad ammettere la "Palestina" come membro a pieno titolo, decisione che aveva spinto l'Amministrazione Obama a tagliare i fondi all'Unesco. Quell'anno, l'Arabia Saudita aveva donato cinque milioni di dollari all'Unesco per attuare un programma internazionale di tre anni destinato a costruire una "cultura della pace e del dialogo" (gli eufemismi abbondano nei comunicati dell'Unesco). L'Unesco ha poi ospitato un evento di tre giorni presso la sede di Parigi intitolato "Saudi Cultural Days", con arte, piatti, costumi e danze saudite. L'allora ministro dell'Informazione e Cultura saudita, Abdul Aziz Khoja, aveva denunciato "l'ignoranza dell'occidente sull'islam".
Va da sé che tutta la preoccupazione dell'Unesco per i "siti in pericolo", come nel caso della tomba di Hebron, non si manifesti per le grandi chiese e cattedrali nel mondo islamico. E' il caso di Santa Sofia, la grande cattedrale della cristianità a Istanbul, reislamizzata dal presidente Erdogan (il canto del muezzin ha risuonato per la prima volta in 85 anni, da quando Ataturk ne fece un museo). Il silenzio si compra. La Turchia nel 2012 donò cinque milioni di dollari al fondo di Emergenza dell'Unesco "a seguito della sospensione dei contributi da parte degli Stati Uniti e di Israele". La Turchia è diventata uno dei principali finanziatori dell'Unesco. E Ankara è stata eletta nel Comitato per il patrimonio mondiale che resta in carica quattro anni. L'ambasciatore turco della buona volontà all'Unesco, Zulfu Livaneli, romanziere, regista, compositore, si è dimesso per il silenzio dell'agenzia dell'Onu sulle distruzioni perpetrate da parte del suo stesso paese. "Pontificare sulla pace rimanendo in silenzio su tali violazioni è una contraddizione degli ideali fondamentali dell'Unesco", ha affermato Livaneli.
Lo stesso vale per la cattedrale di Cordoba, una chiesa cattolica da sette secoli, ma "la grande moschea di Cordoba" per l'Unesco, che vorrebbe vi si officiasse nuovamente il culto islamico. E chi c'è dietro il tentativo di decristianizzare la cattedrale di Cordoba? Lo ha appena spiegato Emilio Sanchez de Rojas, analista del ministero della Difesa spagnolo. Ha accusato il Qatar e l'Arabia Saudita di condurre "campagne d'influenza in occidente", e di essere "una fonte di finanziamento per la campagna di reislamizzazione della Cattedrale di Cordoba". I paesi islamici sono spalleggiati a Cordoba dall'ex direttore dell'Unesco, Federico Mayor Zaragoza.
A cosa servono tutti questi fondi? Dei 195 stati membri dell'Unesco, 35 sono nazioni completamente islamiche, altre 21 sono membri dell'Organizzazione per la cooperazione islamica e quattro ne sono osservatori. Questo comporta 60 membri che rappresentano un blocco favorevole alle risoluzioni ispirate all'islam. Questo blocco riesce a condizionare l'elezione del comitato di ventuno paesi chiamato a votare e a condannare Israele e il popolo ebraico come un capro espiatorio, proprio mentre il volto di quei paesi diventa sempre più islamico. Questo voto traduce, prima di tutto, un rapporto di forze. "Esterno, quando l'occidente deve vedersela con i 57 stati musulmani del pianeta e la ventina di stati della Lega araba", continua con il Foglio lo storico della Shoah Georges Bensoussan. "All'interno delle grandi organizzazioni internazionali, l'Onu, l'Unesco, l'Oms e alcune altre, questo rapporto di forze, banale in sé, spiega la comicità involontaria di alcune risoluzioni e di alcune nomine. Come quando l'agenzia dell'Onu specializzata per i diritti dell'uomo porta alla sua guida l'Arabia Saudita alcuni anni dopo averne affidata la presidenza alla Libia di Gheddafi. Comicità involontaria quando, dagli anni 2000, lo stato di Israele concentra su di sé una cifra vicino all'80 per cento delle condanne per violazioni dei diritti dell'uomo. Rapporto di forze interno, anche, perché l'occidente, e in particolare l'Europa occidentale, deve ormai fare i conti con la presenza di una numerosa popolazione di origine arabo-musulmana, sovente anti israeliana, addirittura, a volte, ostile all'esistenza stessa di Israele, e che trova nell'estrema sinistra i suoi alleati più efficaci. Questa popolazione partecipa ai rapporti di forza politici locali come in Francia, per esempio, dove in questi ultimi anni numerosi politici hanno avuto la tendenza di acconsentire a degli accomodamenti con alcune pratiche religiose musulmane in vista di 'preservare la pace sociale', ma anche di preparare la propria rielezione".
"Bisogna per questo parlare di islamizzazione della società? - si chiede Bensoussan - Io penso piuttosto che una soglia di equilibrio demografico si stia oltrepassando così come lo aveva mostrato già, alcuni anni fa, Christopher Caldwell. Coniugato alla matrice culturale evocata più sopra, questo ribaltamento demografico rischia di accrescere la frequenza dei voti anti israeliani. Quando Gerusalemme viene decretata essere 'senza legami col popolo ebraico', questa demolizione del racconto ebraico costituisce, sul piano della legittimità, la tappa antecedente alla distruzione dello Stato ebraico. Anche se molti si rifiutano ancora di sentirlo, è proprio la sparizione dello stato di Israele che ci si augura in molti ambienti".
Lo scorso gennaio, la direttrice Bokova ha incontrato il direttore dell'Organizzazione per la cooperazione islamica, Yousef al Othaimeen. Funziona dunque così l'opa islamista sulla cultura occidentale, ebraico-cristiana: si inizia con un finanziamento, si ottengono le poltrone che contano, si costituiscono maggioranze in seno a commissioni e comitati, e da lì si riscrive la storia di Israele.
"L'Unesco dovrebbe incoraggiare la comprensione interculturale e preservare il patrimonio culturale di tutti i popoli e non cancellare la storia e il patrimonio culturale degli ebrei e più di duemila anni di presenza a Gerusalemme" dice al Foglio Ibn Warraq, studioso dell'islam, maestro di tanti dissidenti come Ayaan Hirsi Ali, autore del celebre "Why I am not a Muslim" e che ha appena scritto un nuovo libro, "The Islam in Islamic terrorism" (New English Review Press). "L'Unesco, negando così il legame ebraico con Gerusalemme, contraddice il proprio obiettivo dichiarato di far crescere la celebrazione culturale, l'illuminismo e la comprensione tra culture diverse. Ma sappiamo da settant'anni che sia l'Onu che l'Unesco sono diventati strumenti e piattaforme per i paesi islamici nel diffondere il loro odio contro l'occidente e Israele. Gli Stati Uniti dovrebbero assumere il comando e iniziare a disfarsi di entrambe queste istituzioni corrotte". Per evitare il peggio: l'islamizzazione della cultura occidentale. "E' la perdita di valori e istituzioni occidentali derivanti da Gerusalemme, Atene e Roma e che si sono formate lentamente in diversi secoli di discorso razionale. Quali sono questi valori e le libertà che costano la vita a tanti popoli coraggiosi, le libertà che assumiamo come scontate? Le grandi idee del razionalismo occidentale, l'autocritica, la ricerca disinteressata della verità, la separazione della chiesa e dello stato, lo stato di diritto, l'uguaglianza davanti alla legge, la libertà di coscienza e di espressione, i diritti umani, la democrazia liberale, che sono il migliore e forse il solo mezzo per tutte le persone, non importa a quale razza o credo appartengano, di vivere in libertà e raggiungere il loro pieno potenziale. I valori occidentali -la base del successo sociale, politico, scientifico e culturale dell'occidente - sono chiaramente superiori a qualsiasi altra serie di valori elaborati dall'umanità. Quando i valori di Westminster sono stati adottati da altre società, come il Giappone o la Corea del Sud, i loro cittadini ne hanno beneficiato. La vita, la libertà e la ricerca della felicità: questo trittico di successi definisce l'attrattiva e la superiorità della civiltà occidentale. In occidente siamo liberi di pensare a ciò che vogliamo, di leggere ciò che vogliamo, di praticare la nostra religione, di vivere come vogliamo. La libertà è codificata nei diritti umani, che trascendono valenze locali o etnocentriche, conferendo pari dignità e valore a tutta l'umanità, indipendentemente dal sesso, dall'etnia, dalla preferenza sessuale o dalla religione. Allo stesso tempo, è in occidente che i diritti umani sono più rispettati. Eppure, in occidente sembriamo troppo pronti ad abbandonare questi principi, valori e libertà, in una forma di ecumenismo sentimentale e sotto la perniciosa influenza del relativismo culturale e soprattutto della paura di offendere i musulmani. La libertà di espressione, il nostro principio fonda la causa della nostra paura dell'islam".
Questo forse ci dice la sottomissione delle potenze occidentali all'Unesco, le astensioni, i pilatismi. Ma tutto questo, giova ai palestinesi, ad esempio? "Non vi è assalto maggiore alle possibilità di pace che negare la radice del popolo ebraico nella terra d'Israele", spiega al Foglio Yossi Klein Halevi, intellettuale israelo-americano e collaboratore di molte testate liberal fra cui il New York Times. "Non ci sarà la soluzione a due stati se la parte palestinese non accetta la legittimità della presenza ebraica nella terra che condividiamo. Negando la presenza ebraica a Gerusalemme e a Hebron, l'Unesco rafforza il rifiuto e l'estremismo palestinese. L'impatto sul pubblico israeliano è stato devastante, approfondendo il nostro senso di isolamento. I vincitori sono i politici israeliani duri, che ci hanno avvertito che 'il mondo è contro di noi'. Se i leader europei pensano di poter indulgere nella delegittimazione della storia ebraica e mantenere la credibilità dell'Europa come un arbitro equo e bilanciato, allora non capiscono le dinamiche delle società israeliana e palestinese".
La risoluzione dell'Unesco ha allarmato anche i musulmani liberali, pochissimi, che vivono in occidente. Come Salim Mansur, giornalista e intellettuale musulmano di origine indiana che scrive oggi per alcune testate in Canada. "Il voto dell'Unesco di dichiarare la città di Hebron come luogo di eredità del mondo palestinese è notevole in quanto coronato di sentimento antiebraico, come lo fu il voto dell'Unesco lo scorso ottobre che si riferì al Monte del Tempio a Gerusalemme solo in arabo come 'al-Haram al-Sharif'. Settant'anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la piena divulgazione dell'Olocausto come politica della Germania nazista di Hitler per la soluzione finale del 'problema ebraico' in Europa, stiamo assistendo al ritorno dell'antisemitismo europeo nella veste della concezione della difesa dei palestinesi contro gli ebrei. L'antisemitismo europeo non si è mai davvero estinto ma rimane latente e ora rivive nella giudeofobia arabo-musulmana. Le Nazioni Unite e le sue agenzie, come l'Unesco, hanno ripreso l'antico fervore contro gli ebrei".
Ma secondo Mansur, questi voti indicano anche una offensiva islamista all'interno dell'occidente. "L'appello agli stati arabi e musulmani alle Nazioni Unite da parte degli stati membri europei, come nei recenti voti su Gerusalemme e Hebron all'Unesco, è la leva con la quale gli stati europei stanno perseguendo la loro politica di tirannia 'morbida' simboleggiata dall'Unione europea. Nell'abbracciare l'islamizzazione, l'Europa rivela la sua nostalgia per i valori totalitari basati sui diritti collettivi, sul multiculturalismo, sull'autoritarismo come affidamento sulla potenza, sulla correttezza politica e sulla negazione dell'eredità culturale dell'occidente. L'islamizzazione è accentuata dalla negazione dei diritti ebraici e della storia ebraica nell'antica terra della Giudea e Samaria, e l'Europa nell'approvvigionamento della politica dell'islamizzazione sta facendo risorgere il suo passato totalitario trascinato nell'antisemitismo. Nessuno dovrebbe essere ingannato dalla falsità delle affermazioni europee che, sostenendo in modo non critico le richieste palestinesi, stanno difendendo i diritti umani di un popolo, in questo caso i palestinesi, votando contro i diritti del popolo ebraico e di Israele, quando in realtà tali voti alimentano gli incendi dell'antisemitismo nel bel mezzo del radicalismo islamista e del terrorismo".
Non a caso, prosegue con il Foglio la storica svizzera Bat Ye'or, i due presidenti dell'Unesco e dell'Isesco firmarono un programma di cooperazione per gli anni 2008-2009 con un budget che copriva 128 progetti. Nel Report dell'Alleanza delle Civiltà si richiedeva di aumentare gli scambi tra giovani di paesi occidentali e dell'Organizzazione della cooperazione islamica. "L'obiettivo dovrebbe essere facilitare la diffusione della cultura islamica contemporanea nei loro paesi e, così facendo, promuovere la causa del dialogo e della comprensione. La palestinizzazione della storia nega l'identità, i diritti storici e culturali di Israele nella propria patria, comprese Giudea, Samaria e Gerusalemme. Questo contesto spiega l'islamizzazione dell'eredità religiosa giudaica e cristiana, un approccio che implica di negare l'identità di queste due religioni, dal momento che il cristianesimo si considera una derivazione del giudaismo, di cui ha adottato le Scritture. La negazione della storia biblica, a cui l'Europa si è convintamente allineata sostenendo che Israele è uno stato colonizzatore che ha invaso la propria patria ancestrale - vale a dire ricusando i diritti storici degli ebrei alla propria patria - nega anche la storia cristiana e avvalora l'interpretazione coranica che rifiuta la storicità della Torah e dei Vangeli. Pertanto, se non c'è mai stata una storia di Israele o dei Vangeli, ma soltanto la storia di Ibrahim, Ismaele e Isa - il Gesù del Corano -, se tutti i re e i profeti biblici erano musulmani, quali sono le radici dell'occidente? Non sarebbero forse coraniche? Se in passato Israele non è mai esistito, allora la sua moderna restaurazione è soltanto un abuso coloniale su un territorio su cui non può vantare alcuna pretesa storica, religiosa o culturale, e dunque la sua distruzione è giustificata. Ma se la storia testimonia il contrario, allora l'Europa diventa deliberatamente responsabile dell'abominevole crimine di genocidio: spazzar via l'esistenza passata di un popolo per eliminarne la legittimità attuale e i suoi diritti umani, religiosi, culturali e storici. Questo annullamento di identità è soltanto l'ennesima concessione all'islam e alla sua cultura, che è ostile a ebrei e cristiani, fatto che non è stato né ammesso né ripudiato. Gettare il giudaismo (Israele) e il cristianesimo (l'occidente) nel cestino della spazzatura della storia vuol dire eliminare i diritti storici, religiosi, culturali e nazionali di ebrei e cristiani e optare per la dhimmitudine". Secondo Bat Ye'or, è questo che si persegue all'Unesco: "La guerra contro Israele, la de-giudaizzazione del cristianesimo europeo e la de-cristianizzazione dell'Europa". E tutte sembrano passare per l'islamizzazione del medio oriente.
"I non musulmani - gli antichi cristiani, gli yazidi e le comunità ebraiche - sono scacciati dal medio oriente in attacchi mirati di vari gruppi islamisti", conclude Nina Shea, che dirige il dipartimento per la libertà religiosa all'Hudson Institute. "A questo ora si aggiungono le risoluzioni anti israeliane all'Unesco, risultato delle campagne anti occidentali da parte delle lobby islamiste e di sinistra. Il risultato sarà la delegittimazione dello stato di Israele e l'eventuale sradicamento dei cristiani dal medio oriente, così che soltanto i musulmani saranno tollerati. Il risultato sarà una regione islamizzata, una gigantesca Arabia Saudita". Israele non permetterà che sul Monte del Tempio di Gerusalemme o alla Tomba dei Patriarchi di Abramo vengano applicate le regole della Mecca e Medina. Lo ha detto Avi Dichter, presidente della Commissione esteri e difesa della Knesset, riferendosi alle città sante in Arabia Saudita nelle quali l'ingresso è vietato ai non musulmani. "L'idea - ha spiegato Dichter a Israel Radio - che venga fatto anche sul Monte del Tempio ciò che è stato fatto in Arabia Saudita, dove le due città sante dell'islam La Mecca e Medina sono luoghi in cui solo i musulmani hanno diritto di entrare, è un'idea totalmente sbagliata, e noi non permetteremo che si avveri".
Dopo settant'anni, Israele è ancora nella fase di stabilire le condizioni per la propria esistenza e questa sua lotta per la sopravvivenza fornisce all'occidente la possibilità di salvare anche se stesso. Soprattutto nel momento in cui il mondo islamico si dà appuntamento a Parigi, la capitale della cultura occidentale, per eliminare gli ebrei dai libri di storia e dalla storia. L'occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme.
(Il Foglio, 17 luglio 2017)
di Marcello Cicchese
"L'occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme", sostiene l'autore dellarticolo precedente. E' diffusa l'idea che Israele sia il baluardo di un Occidente progredito contro il resto del mondo ancora avvolto da residui di oscurantismo religioso. "Israele siamo noi", è il titolo di un libro di Fiamma Nirenstein, e tutto fa pensare che con quel "noi" s'intenda lOccidente, democratico nel governo e libertario nei costumi.
L'Onu, con il braccio armato dell'Unesco, starebbe dunque insidiando l'Occidente togliendo a Israele il sostegno della storia. E la difesa di Gerusalemme sarebbe compito di chiunque voglia opporsi alle mire dell'Onu contro l'Occidente.
Il fatto è che l'Onu, prosecuzione della Società delle Nazioni, è un prodotto originale e genuino dell'Occidente, non dell'Islam. L'Onu è la Torre di Babele laica, prodotto della crisi delle nazioni dopo la macelleria della Prima guerra mondiale. L'Onu esprime il desiderio del governo umano non di un popolo, non di una nazione, ma dell'intero mondo. L'Islam si è accorto di questo, e cerca di usare lo strumento creato dai nemici di Allah per farne uno strumento di governo del mondo nelle mani dei fedeli di Allah. Che c'è di strano in tutto questo?
L'Occidente laico democratico e libertario adesso s'accorge che la conquista di Gerusalemme da parte dell'Islam metterebbe in pericolo anche lui, e allora si mobilita per la sua difesa. L'Occidente laico democratico e libertario però ha già rinunciato a Gerusalemme, e l'ha fatto nel momento della sua più grande vittoria contro ciò che laico e libertario non è: quando ha strappato Gerusalemme Vecchia dalle mani della Giordania e ha consegnato il Monte del Tempio nelle mani dell'Islam. "Che ce ne facciamo di questo Vaticano ebraico", ha detto con disprezzo del Dio di Israele il laico Moshè Dayan. E la nazione ha acconsentito.
La storia che oggi l'Occidente vuol far giocare a favore di Gerusalemme e contro lIslam è una storia laica, i cui racconti sono certo molto più veritieri delle favole islamiche, ma che tuttavia non sono tutta la storia. La storia di Gerusalemme è storia sacra, cioè racconto degli interventi di Dio nella storia degli uomini, con un centro di azione che è la nazione di Israele, come popolo che Dio si è scelto per svolgere la sua azione di governo nel mondo. E in questo progetto di governo del mondo è già stabilito che Gerusalemme diventerà la capitale del Regno.
"Bello si erge, e rallegra tutta la terra, il monte Sion: parte estrema del settentrione, città del gran Re (Salmo 28:2), "Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran Re" (Matteo 5:34-35).
Chi non è interessato a conoscere chi è questo gran Re, e che cosa ha detto e che cosa vuole, difenda pure Gerusalemme da ogni menzogna che si oppone alle semplici e più evidenti verità che appaiono nei libri di storia, ma non trasformi Israele in ciò che non è mai stato e non faccia diventare Gerusalemme ciò che non è.
Gerusalemme non è il baluardo dellOccidente.
Israele non crollerà.
(Notizie su Israele, 17 luglio 2017)
Scrive l'editoriale di Ha'aretz: «L'attentato omicida sul Monte del Tempio che venerdì mattina ha ucciso gli agenti di polizia Hael Sathawi e Kamil Shnaan avrebbe potuto degenerare in un attacco strategico non solo in ambito arabo e internazionale, ma anche all'interno di Israele. Non esiste luogo politicamente e religiosamente più delicato del Monte del Tempio, dove la lava bollente aspetta solo di erompere e incenerire tutto ciò che c'è attorno. E non c'è luogo come il Monte del Tempio che richiede la massima saggezza militare e politica da parte di coloro che ne hanno il controllo. Dal momento in cui i luoghi santi vennero conquistati da Israele nel 1967, lo Stato si è adoperato il più possibile per dimostrare di poter essere un tutore responsabile di questi siti sacri ai fedeli delle tre religioni. È riuscito a prevenire folli attacchi progettati da estremisti ebrei, così come ha impedito che il sito venisse trasformato in un centro di azioni violente da parte di musulmani fanatici....
(israele.net, 17 luglio 2017)
di Gabriele Ferrieri
A Tel Aviv dal 12 al 14 settembre 2017 si svolgerà il GreenMed Summit, una business convention bilaterale Italia/Israele finalizzata a promuovere l'High Tech italiano verso il mercato israeliano e favorire la realizzazione di accordi commerciali e produttivi tra le aziende leader nei settori Green Power, Smart Grid, GreenTech, Trattamento delle acque, Protezione ambientale, Ict, Digital Applications. L'iniziativa (aziende, startup e centri di ricerca interessati a prendere parte al progetto potranno fare domanda entro il 21 luglio inviando la scheda di adesione ad application@greenmedsummit.com) si svolge in occasione della conferenza biennale Watec Israel 2017, fiera internazionale, sulle tecnologie delle acque ed il controllo dell'ambiente. L'ecosistema startup israeliano è un esempio di eccellenza come dimostrano i numeri. Nel 2016 il 20% degli investimenti privati mondiali sono finiti in aziende israeliane, sono tra 450 e 500 le start up nel settore della cyber sicurezza, con 40-50 che si uniscono ogni anno. Ma l'innovazione in Israele non si limita a questo settore: la profonda partnership tra pubblico e privato ha portato investimenti in tutti i settore dell'economia. Il risultato sono le oltre 6 mila startup innovative esistenti nello Stato ebraico e i 2,7 miliardi di euro di investimenti e 231 deal solo nel 2016. Abbiamo incontrato Francesco Marcolini - Coordinatore GreenMed Summit 2017 per farci raccontare le opportunità di interscambio possibili tra Italia e Israele.
- Quali sono le principali opportunità che potranno trovare le startup italiane in questo confronto con l'ecosistema innovazione israeliano?
«L'ecosistema israeliano è molto avanzato e ha un carattere innovativo estremamente d'avanguardia. L'innovazione è tecnologica, ma è una conseguenza di un sistema sociale di relazioni e di propensione sempre verso la trasformazione, qualcosa che si vuole raggiungere e che in Italia obiettivamente abbiamo solo in qualche area o ambiente. Quello che le startup italiane potranno trovare sono principalmente tre: tecnologia di avanguardia con cui fare benchmarking, modelli organizzativi di ricerca, di commercializzazione e di gestione da poter assimilare. E grandi aziende internazionali, presenti sul territorio, con cui poter sviluppare delle collaborazioni e nel caso di startup che abbiano degli alti livelli tecnologici da offrire».
- Questo interscambio tra Italia e Israele quali benefici può portare in termini di crescita e formazione per tutti i giovani innovatori italiani?
«Israele è un esempio di innovazione a tutti i livelli. Avere un'esperienza di lavoro in Israele o avere una join venture con una società israeliana, apre obiettivamente anche la mente su nuove formule organizzative. Questo lo posso confermare anche come mia esperienza personale diretta in questa organizzazione. L'imprenditore israeliano ad un primo impatto può sembrare una persona molto dura, e apparentemente poco disponibile, per cui occorre conquistare la sua fiducia soprattutto con elementi concreti, quindi con la capacità tecnologica, con la capacità organizzativa e con la qualità del proprio prodotto».
- In base alla sua esperienza e confrontando l'ecosistema startup Italia vs Israele, quali sono gli aspetti su cui ci si dovrebbe maggiormente soffermare?
«Israele è uno stato che sta sviluppando grandi tecnologie, ma che cerca mercati perché chiaramente non ha un mercato alle spalle. L'Italia invece ha un importante rete commerciale e di mercato, sia a livello nazionale che nell'Unione Europea. Per cui quello su cui stiamo spingendo, anche grazie ai bandi del Ministero degli Esteri per la collaborazione industriale, è quello di dire agli israeliani di vedere l'Italia come l'approdo e l'ingresso dell'Unione Europea. E questo in parte è già accaduto e sta accadendo. E infine quello di dire agli italiani di vedere Israele come un modello per poter prendere non solo tecnologie, ma anche esempi organizzativi».
(StartupItalia!, 17 luglio 2017)
di Piero Orteca
E' confermato dai servizi di sicurezza occidentali: per la prima volta truppe russe sono entrate nel sud della Siria mercoledì scorso, prendendo posizione nei sobborghi della città di Daraa, finora al centro di furiosi combattimenti. L'operazione è stata resa possibile dalla tregua siglata dopo l'incontro di Donald Trump e Vladimir Putin ad Amburgo. Secondo diversi analisti, le unità di Mosca, comprendenti polizia militare e paracadutisti dei reggimenti ceceni, sono state viste arrivare, a bordo di blindati trasporto-truppe e prendere posizione a Daraa.
Sempre le notizie diffuse da osservatori occidentali, parlano di un vero e proprio cambio della guardia avvenuto nel centro della città, da dove si sarebbero ritirate le formazioni blindate della Quinta divisione corazzata governativa di Damasco e le milizie di Hezbollah. In effetti, l'arrivo dei soldati di Mosca risponde all'esigenza di garantire una sorta di supervisione "peace-enforcing" senza coinvolgere gli estremisti sciiti libanesi i gruppi armati sostenuti da Teheran. Sembra sia questo uno dei punti nodali che il Presidente degli Stati Uniti e il capo del Cremlino hanno sciolto ad Amburgo.
Tutto questo per rispondere alle esigenze di sicurezza reclamate dagli israeliani, che non si fidano di avere Hezbollah vicino ai confini del Golan. Nello stesso tempo, una manovra del genere, ha garantito anche i giordani, i quali a loro volta guardavano di malocchio qualsiasi presenza sia dei governativi di Assad e sia delle milizie sciite lungo la loro frontiera. I combattenti russi erano provvisti solo di armi leggere per"autodifesa", così come concordato qualche tempo fa dall'inviato speciale di Putin per gli affari siriani Aleksander Levrentiev.
L'unico problema, fatta la legge trovato l'inganno, è che accanto alla polizia militare russa (come era stato concordato con Trump) sono comparsi anche i paracadutisti, presenza ritenuta scomoda e sospetta da parte del governo di Gerusalemme. È infatti noto che gli israeliani non gradiscono avere ai loro confini, in qualsiasi veste esse si presentino, truppe di Mosca. La preferenza di Netanyahu, infatti, sarebbe quella di lasciare agli americani i compiti di supervisione ai loro confini nord, fino all'area di Quneitra. In caso contrario, Gerusalemme potrebbe continuare (e forse lo farà) a sostenere i ribelli "laici" anti-Assad.
Tra le altre cose, questo spiega perché gli israeliani, negli ultimi tempi, abbiano modificato la loro scala delle priorità, monitorando strettamente tutto ciò che si muove tra il Golan e le pietraie del deserto siriano. Non a caso è suonato l'allarme rosso quando l'esercito siriano, sostenuto da ingenti forze delle milizie di Hezbollah, ha attaccato su larga scala i ribelli nella zona di Al-Suweida, che con Quneitra e Daraa era considerata una delle località demilitarizzate e coperte dalla tregua. La Quinta divisione corazzata dell'esercito siriano è stata la punta di diamante dell'offensiva denominata "Operazione Grande Alba". Durante la loro avanzata, le truppe siro-sciite hanno conquistato 11 villaggi e piccoli centri, inclusi Tel Asfar e Al-Qasr, località baricentriche tra la Giordania e il Golan. La Quinta divisione corazzata di Damasco e gli Hezbollah hanno anche costretto gli uomini delle Syrian Democratic Forces a ritirarsi.
Tutto questo ha mandato in bestia i vertici del governo di Gerusalemme, che, allertati dai propri servizi segreti, si sono rivolti a Trump per fare in modo che la tregua proclamata ad Amburgo non si rivelasse un boomerang proprio per Israele. E in questa chiave va interpretata la presenza russa nella zona o almeno quella della polizia militare di Mosca.
Difficile viene immaginare, invece, lo "sbarco" dei paracadutisti ceceni. Evidentemente il Cremlino li schiera di riserva per rispondere a qualsiasi eventuale "provocazione" della controparte americana. Qualche giorno fa, infatti, il cessate il fuoco è stato in qualche modo aggirato proprio da Washington, che ha rifornito di armi, munizioni e vettovagliamenti i ribelli anti-Assad schierati a Daraa. Certo, a scherzare col fuoco qualche volta ci si brucia. Speriamo non sia questo il caso della Siria, dato che le truppe di Mosca e di Washington operano pericolosamente vicine. Un incidente, anche un minimo incidente, potrebbe innescare un confronto dalle conseguenze inimmaginabili.
(Gazzetta del Sud, 16 luglio 2017)
In occasione delle commemorazioni per i 75 anni della deportazione di massa di migliaia di ebrei francesi, il presidente francese Emmanuel Macron ha condannato il ruolo svolto dal suo Paese nell'Olocausto. «Fu la Francia a organizzarla», ha dichiarato Macron alla cerimonia alla quale ha partecipato anche il premier israeliano Benyamin Netanyahu. «Neanche un tedesco fu coinvolto, fu la polizia francese a collaborare con i nazisti», ha continuato il capo dell'Eliseo bollando come «comode ma false» le tesi dell'estrema destra francese secondo le quali il regime collaborazionista di Vichy non rappresentava lo stato francese.
Il 16 e 17 luglio del 1942 oltre 13.000 ebrei francesi furono arrestati e portati nel velodromo di Hiv - il rastrellamento viene infatti ricordato come "Vel d'Hiv" - per poi essere trasferiti ad Auschwitz e in altri campi di sterminio. In occasione del suo primo incontro con il nuovo presidente francese, Netanyahu ha detto di essere a Parigi «per commemorare le vittime. Settantacinque anni fa, un buio pesante scese su questa città. I valori della rivoluzione francese furono schiacciati sotto lo stivale dell'antisemitismo».
Il premier Netanyahu ha messo in guardia contro gli estremismi di oggi elogiando «i grandissimi esseri umani che rischiarono la vita» per salvare ebrei francesi. La sua visita è stata tuttavia preceduta da polemiche: alcuni commentatori hanno criticato la presenza di Netanyahu alle commemorazioni del Vel d'Hiv, affermando che così la cerimonia si è eccessivamente politicizzata. Elie Barnavi, ex ambasciatore di Israele e Parigi, ha detto all'Afp che la presenza del premier lo aveva «messo un po' a disagio. Questa storia non ha niente a che vedere con Israele». L'Unione degli ebrei francesi per la pace (Ujfp), un gruppo filo-palestinese ha definito l'invito a Netanyahu «inaccettabile». Ma alla cerimonia ha preso parte la Crif, principale associazione dei gruppi ebraici francesi.
I due leader hanno discusso di temi bilaterali nel corso del loro incontro, ribadendo l'intenzione di mantenere una stretta cooperazione nella lotta al terrorismo. L'ultima volta di Netanyahu a Parigi era stata in occasione della «marcia dell'unità» dopo gli attacchi terroristici del gennaio 2015 contro la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo e un supermercato kosher. Macron ha quindi sollecitato il premier israeliano a riprendere i negoziati di pace in Medio Oriente. In una conferenza stampa dopo i colloqui, il capo dell'Eliseo ha anche evidenziato la necessità di attuare la soluzione dei due Stati, posizione che aveva espresso anche al leader palestinese Abu Mazen all'inizio del mese.
(La Stampa, 16 luglio 2017)
PARIGI - La Francia è pronta a svolgere un ruolo diplomatico per affrontare la minaccia posta dalle armi di Hezbollah nel sud del Libano, al confine con Israele. Lo ha detto oggi il presidente francese, Emmanuel Macron, al termine dell'incontro con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in visita a Parigi. Durante la cerimonia celebrata oggi per celebrare il 75mo anniversario della "rafle du Vel' d'Hiv", ovvero il rastrellamento del Velodromo d'inverno, Macron ha detto che l'antisionismo è il nuovo antisemitismo e va combattuto. Riguardo alle attività del gruppo Hezbollah nel sud del Libano, dove la Francia è presente all'interno della missione Onu Unifil, Macron ha detto che Parigi condivide "le preoccupazioni di Israele riguardo all'attività di Hezbollah e promuove un'iniziativa diplomatica per limitare la minaccia". La Siria, la lotta al terrorismo e l'Iran sono stati un altro argomento di discussione tra i due leader. Macron ha sottolineato che la Francia rimane vigile nel monitorare l'attuazione dell'accordo sul nucleare con Teheran. Il presidente francese ha inoltre condannato l'attacco avvenuto venerdì 14 luglio al Monte del Tempio, chiamato Spianata delle moschee dai musulmani in cui sono rimasti uccisi due agenti di polizia israeliani.
(Agenzia Nova, 16 luglio 2017)
"Il popolo degli Stati Uniti è affranto", si legge, "estendiamo le nostre preghiere e la nostra vicinanza alle vittime". La nota prosegue sottolineando che "ci deve essere tolleranza zero per il terrorismo. È incompatibile con il raggiungimento della pace e dobbiamo condannarlo nei termini più forti, sconfiggerlo e sradicarlo".
Sottolineando poi che l'attacco ha obbligato il governo di Israele a chiudere temporaneamente il Monte del Tempio/Spianata delle Moschee per condurre le indagini, si rimarca che "Israele ha assicurato al mondo che non ha intenzione di alterare lo status del luogo sacro, una decisione cui gli Stati Uniti plaudono e che accolgono.
Esortiamo tutti i leader e le persone di buona volontà ad essere comprensivi mentre questo processo va avanti e raggiunge la sua conclusione".
(ATS News, 16 luglio 2017)
di Monica Mistretta
È l'11 giugno. Il sito di 'Press Tv', la televisione di stato iraniana in lingua inglese, ipotizza una futura guerra dell'acqua nella regione. Il ministro iraniano dell'Energia, Hedayat Fahmi, interviene per parlare del Gap Project turco. Una serie di dighe sul Tigri ed Eufrate, nella regione sud orientale dell'Anatolia, che hanno ridotto l'afflusso di acqua nei paesi a valle dei due fiumi: Siria e Iraq. Il ministro iraniano precisa che è l'Iran a occuparsi del problema perché gli altri due paesi al momento ne hanno di più gravi. Alla fine di giugno 'Press Tv' torna ancora sul tema accusando la Turchia di gravi danni ambientali.
L'acqua è solo una delle questioni aperte tra Ankara e Teheran. Nella guerra civile siriana le due capitali sembrano avere trovato una forma di accordo al tavolo dei negoziati di Astana, in Kazakistan. Ma l'equilibrio è fragile.
Il controllo dell'acqua nella regione non è l'unica arma in mano al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Se l'Iran spartisce con il Qatar il più grande bacino di gas naturale nel Golfo Persico, la Turchia è un passaggio quasi obbligato per i gasdotti verso l'Europa. Quasi obbligato, perché Teheran avrebbe un'idea alternativa: un gasdotto che attraversa Iraq, Siria ed eventualmente il Libano, senza passare per la Turchia.
Certo, il fatto che Siria e Iraq siano esposti al ricatto turco dell'acqua, complica i piani iraniani.
La Turchia non è un produttore di gas. Per portarlo in Europa, lo deve prendere da altri paesi.
Il primo potrebbe essere il Qatar: è ovvio che nella disputa che divide Doha dagli altri paesi del Golfo, Erdogan abbia preso le sue parti. Lo ha fatto in grande stile mandando truppe turche nella base militare inaugurata in Qatar un anno prima.
Il secondo fornitore della Turchia potrebbe essere Israele, uno dei migliori nemici dell'Iran.
Pochi giorni fa, il 12 luglio, il ministro israeliano dell'Energia, Yuval Steinitz, ha annunciato alla stampa che la controparte turca, Berat Albayrak, sarà in visita in Israele entro la fine dell'anno. Motivo: concludere un accordo per la costruzione di un gasdotto tra i due paesi. Albayrak è il genero di Erdogan. Secondo inviperiti media turchi sarebbe in contatto quasi quotidiano su 'WhatsApp' con ufficiali israeliani.
L'entrata di Gerusalemme nella mappa regionale del gas cambierebbe le carte in tavola per tutti. Israele ha già firmato con la Giordania accordi preliminari per l'esportazione di gas naturale dal bacino Leviathan, al largo delle sue coste. Secondo il quotidiano israeliano 'Haaretz', agli inizi di quest'anno il passaggio di gas oltre confine avrebbe già iniziato. Non direttamente, ma utilizzando una società americana di facciata. Gli arabi si muovono con cautela quando scendono ad accordi con il governo di Gerusalemme. La rete di gasdotti israeliana è già collegata a quella delle compagnie giordane Arab Potash e Jordan Bromine. La via che porterebbe il gas del Qatar in Turchia è parzialmente spianata.
L'unico neo sarebbe una probabile opposizione di Cipro: il gasdotto Turchia Israele dovrebbe passare per le sue acque territoriali. Turchi e ciprioti si sono incontrati alla fine di giugno per risolvere le dispute che dividono l'isola in due da oltre 40 anni: i colloqui sotto l'egida dell'Onu sono ancora una volta falliti.
A dire il vero, nel risiko del gas mediorientale, ci sarebbe anche un altro progetto, cui partecipa il nostro paese. Un gasdotto che da Israele dovrebbe passare da Cipro, Grecia e Italia tagliando fuori la Turchia. La società che lo sovrintende è italiana, la Igi Poseidon, come italiano è uno dei partner, l'Edison. L'accordo preliminare tra le parti è stato firmato in aprile. Il gasdotto coprirà una distanza di 3.500 chilometri. Per raggiungere l'Italia bisognerà spendere oltre sei miliardi di euro. Se ne parlerà nel 2020, quando verrà presa la decisione finale sull'investimento. La Turchia deve fare in fretta a siglare l'accordo con Israele: Erdogan ha già pensato di mandare avanti il genero.
In Europa oggi arriva solo gas russo. Tutti gli altri gasdotti per ora sono solo sulle mappe. Ma valgono miliardi di dollari e hanno già fatto centinaia di migliaia di morti in Medio Oriente. I russi, impegnati militarmente in Siria, mantengono un canale aperto di dialogo con tutti i protagonisti della partita del gas: Iran, Turchia e Israele.
Una piccola nota, quasi irrilevante nel quadro generale: nessuno di questi gasdotti toccherà la Cisgiordania. Mentre la leadership palestinese si culla con le risoluzioni dell'Unesco, l'economia della regione sta per tagliare fuori il futuro stato palestinese prima che sorga. Anche l'Egitto di Al Sisi ha voltato le spalle al presidente palestinese Abu Mazen. In questi giorni sta scendendo a patti con Hamas, il movimento islamico palestinese che da dieci anni controlla la Striscia di Gaza. È da qui che passava il gasdotto egiziano diretto in Israele via mare. In passato era stato più volte attaccato nei pressi di Al Arish, a pochi passi dall'enclave palestinese. Nel 2012, sotto la presidenza del Fratello Musulmano Al Mursi, il gasdotto aveva smesso di esportare in Israele. In questo momento è l'Egitto ad avere bisogno di gas. Al Sisi sa che deve controllare la situazione a Gaza per partecipare ai grandi progetti regionali. Anche perché al largo delle coste egiziane, in prossimità del Sinai, l'italiana Eni nel 2015 ha scoperto un giacimento di 30 trilioni di piedi cubi di gas.
In marzo una delegazione israeliana ha fatto tappa al Cairo per discutere la costruzione di un nuovo gasdotto, questa volta dal bacino Tamar, nel nord di Israele. I colloqui, come al solito, continueranno in gran segreto. Per la piazza araba, come per quella turca, Israele è ufficialmente un paria regionale con il quale nessuno ha rapporti. Ma se di mezzo ci sono gli interessi, la causa palestinese può attendere.
(Articolo Tre, 16 luglio 2017)
di Luigi Grassia
Inviato sul Monte Nebo (Giordania)
Giordania, a un passo da Israele: sul Monte Nebo, con vista sul Mar Morto e sul Giordano e su tutta la Terrasanta al di là del fiume, si ha il sacrosanto diritto di scattarsi un bel selfie. Va bene, niente da ridire. Siamo nel XXI secolo e questo è uno dei grandi panorami del mondo, e un po' tutti approfittano dell'occasione, è logico. Ma speriamo che ognuno, anche se miscredente, oltre allo smartphone si porti qui, su una vetta non meno mitica del Sinai, una Bibbia tascabile, e si metta a leggere queste poche righe del Deuteronomio, per ricordarsi dov'è, e percepire la solennità del momento: «Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima di Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutto il Paese...». Cioè la Terra Promessa.
Ecco, adesso anche noi siamo qui, e vediamo tutto quello che vide Mosè tremiladuecento anni fa. Anzi vediamo pure un po' di più: perché oggi il panorama comprende (almeno nelle giornate più nitide) anche la grande Gerusalemme, dove prima che ci arrivasse il popolo ebraico esisteva solo un villaggetto insignificante, e (di sicuro) invisibile a questa distanza. Comunque, qualora la nebbiolina velasse una parte del panorama - come capita di frequente, ci dicono i locali -, è pure lei una foschia con un suo fascino, quasi ideata per avvolgere il Mito.
La Bibbia sul Monte Nebo regala un ulteriore colpo a effetto, che Mosè, di certo, avrebbe preferito evitare, ma che è degno di una grande sceneggiatura: «Ti ho fatto vedere il Paese con i tuoi occhi», gli dice Dio, «ma tu non vi entrerai! E Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo». Oggi un cippo segnala dove Mosè esalò l'ultimo respiro, e un'antica basilica marca in senso cristiano il Monte Nebo; grazie al paziente lavoro degli studiosi ne può osservare tutta l'archeologia stratificata, le porzioni più vecchie risalgono al quarto secolo. Ci sono alcune tombe d'antan, e un battistero con un fantastico mosaico. Un'enorme pietra rotonda viene interpretata come la porta d'accesso a un antico monastero.
Il Memoriale di Mosè sul Monte Nebo è tornato visitabile solo di recente, dopo una chiusura per restauri. Lo hanno riaperto al pubblico nell'ottobre scorso. Adesso è di nuovo possibile fare questo bagno di spiritualità. Poi si può proseguire il viaggio di esplorazione della Giordania, se questo era il nostro scopo, oppure realizzare il sogno di Mosè, fare quello che lui avrebbe voluto ma non ha potuto 3200 anni fa: scendere dal Nebo ed entrare in Israele. Il ponte di Allenby è lì che ci aspetta.
(La Stampa, 16 luglio 2017)
Senza Israele e la cultura ebraica l'Occidente semplicemente non esisterebbe. Per questo desta sconcerto lo scarsissimo rilievo che viene dato ai vergognosi e infami attacchi terroristici perpetrati contro il popolo ebraico. Ancora una volta i luoghi sacri d'Israele sono sotto attacco e per difenderli è scorso il sangue. I terroristi non hanno alcuna giustificazione e chi si dichiara neutrale ne ha ancora meno.