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Notizie 16-31 luglio 2018


Iran - Il crollo del rial mette a rischio la tenuta del governo Rohani

TEHERAN - Il nuovo crollo del rial iraniano, che in quattro mesi ha perso più di metà del valore rispetto al dollaro, sta mettendo a serio rischio la stabilità dell'Iran e del suo fragile sistema economico. Il prossimo 6 agosto gli Stati Uniti imporranno la prima tranche di sanzioni economiche contro Teheran che includeranno il settore automobilistico, il commercio di oro e altri metalli, a cui seguiranno quelle sul settore petrolifero previste per l'8 novembre. Ieri la divisa iraniana ha segnato un nuovo minimo contro il dollaro, con valori scambio sul mercato nero pari a 120.000 rial per un dollaro, rispetto ai 90.000 della scorsa settimana. Il governo iraniano per mostrare la sua risolutezza ad affrontare il problema delle speculazioni e la prontezza nel rispondere alla guerra economica lanciata da Washington ha arrestato decine di commercianti accusati di aver sfruttato il crollo della valuta nazionale per ottenere un guadagno personale.

(Agenzia Nova, 31 luglio 2018)


"L'ONU prenda posizione contro i crimini ambientali di Hamas": una nuova petizione online

di Nathan Greppi

Dopo la petizione che chiedeva al WWF di denunciare ciò che sta accadendo nel sud di Israele, su Change.org ne è stata pubblicata una nuova, due settimane fa, per chiedere alle Nazioni Unite di condannare Hamas per la distruzione delle riserve naturali israeliane. Questa volta, tuttavia, la petizione non è firmata da un utente qualsiasi, bensì dal Congresso Ebraico Mondiale. Raggiunte ad oggi 31 luglio 9.117 firme, obiettivo 10.000.
   "Noi ci appelliamo a Erik Solheim, direttore esecutivo del Programma Ambientale dell'ONU, affinché condanni Hamas e altri gruppi terroristi nella Striscia di Gaza per aver causato un serio danno ambientale al sud di Israele," si legge nella petizione. "Nel corso degli ultimi tre mesi, affiliati di Hamas e altri terroristi hanno bruciato migliaia di gomme e lanciato centinaia di ordigni incendiari in territorio israeliano. L'effetto combinato di questi atti efferati non solo ha portato al rilascio di materiale tossico nel fragile ecosistema, ma ha anche causato la distruzione di oltre 7.400 acri di terra, centinaia di acri di campi agricoli, e 2.700 acri di riserve naturali protette."
   La petizione continua spiegando che "quando questi ordigni atterrano in Israele tracciamo un sentiero mortale al loro risveglio. La fauna locale è stata uccisa o costretta a lasciare il suo habitat natio. Foreste e campagne sono state devastate. E i mezzi di sostentamento di migliaia di contadini che hanno dedicato le loro vite a trasformare in un'oasi quello che un tempo era un deserto sono stati distrutti. Ad oggi sono stati spediti 900 ordigni incendiari oltre il confine, portando a più di 900 incendi - una media di 11 al giorno. Non solo il costo dei danni supera di 3 milioni di dollari, ma occorreranno anni per riparare al danno ecologico causato da Hamas."
   "Sia le risoluzioni delle Nazioni Unite che la Legge Umanitaria Internazionale proibiscono espressamente la distruzione dell'ambiente naturale nei conflitti armati, e tuttavia la comunità internazionale è rimasta in silenzio mentre Hamas intraprende una guerra ambientale che mette in pericolo i civili, la fauna, e distrugge le bellezze naturali e le risorse della regione meridionale d'Israele."
   La petizione si conclude così: "Pertanto, il Congresso Ebraico Mondiale chiede al Programma Ambientale dell'ONU e al direttore Solheim di condannare questi atti e ricorrano a tutte le misure necessarie a loro disposizione per assicurare che queste azioni illegali cessino immediatamente."
Per firmare la petizione, cliccare qui.

(Bet Magazine Mosaico, 31 luglio 2018)


La Siria libera tutta la linea di demarcazione con Israele

L'Esercito Arabo Siriano è riuscito a liberare l'intera linea di demarcazione con Israele, prima occupata dagli jihadisti.
Le autorità siriane confermano che la rapidità degli ultimi combattimenti è conseguenza degli accordi Putin-Trump, conclusi nel vertice di Helsinki del 16 luglio.
Il ministro degli Esteri russo, Sergueì Lavrov, e il capo di stato maggiore russo, generale Valeri Guerassimov, si sono recati in Europa — nonostante il divieto d'ingresso al generale — e poi in Israele, ribadendo l'impegno al rispetto della linea di demarcazione fra Israele e Siria.
Tre riunioni segrete tra Esercito Arabo Siriano ed Esercito Israeliano si sono svolte sotto gli auspici di ONU e Russia.
Il governo di Netanyahu ha chiuso la frontiera ai collaborazionisti che, all'approssimarsi dell'Esercito Arabo Siriano, chiedevano asilo, astenendosi dal fornire loro munizioni. Netanyahu spera così di ottenere che l'Esercito Arabo Siriano presidi la frontiera senza avvalersi di truppe pro-iraniane.
In quanto all'esercito statunitense, esso dovrebbe ritirarsi dalla base occupata illegalmente di Al-Tanf, al confine con la Giordania.

(Rete Voltaire, 31 luglio 2018)


La proposta di legge irlandese anti-Israele e i Fratelli Musulmani

di Lawrence A. Franklin

L'11 luglio scorso, il senato irlandese ha approvato una proposta di legge che criminalizza le imprese locali che commerciano con le aziende israeliane situate in Giudea e Samaria (la Cisgiordania). Sottoposto al vaglio della Camera alta dal senatore indipendente Frances Black, il disegno di legge è passato con 25 voti favorevoli, 20 contrari e 14 astenuti. Il Control of Economic Activity (Occupied Territories) Bill, 2018 vieterebbe qualsiasi importazione di beni o servizi dai "territori occupati", con ammende da 250 mila dollari e con pene fino a 5 anni di reclusione per i trasgressori.
La reazione di Israele al voto del senato irlandese è stata immediata. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato l'ambasciatrice irlandese, Alison Kelly, per chiedere chiarimenti. Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha chiesto la chiusura immediata dell'ambasciata israeliana a Dublino. È improbabile, tuttavia, che Israele darà seguito alla minaccia di Lieberman, poiché il partito attualmente al governo in Irlanda, il Fine Gael, è contrario al disegno di legge, che in ogni caso deve passare alla Camera bassa del Parlamento, la Dàil, prima di diventare legge....

(Gatestone Institute, 31 luglio 2018)


Israele premia le startup hi-tech che esportano almeno il 25%

I vantaggi. Lo Stato dà un contributo pari al 20% degli investimenti per acquisto di terreni, impianti fissi e strutture produttive e, a seconda del tipo di società, la corporate tax cala dal 25% a un range tra il 12 e il 5%

di Enrico Marro

 
Con le sue 4.750 nuove aziende tecnologiche censite nel 2016 da Dun & Bradstreet, Israele si conferma la "Startup nation" celebrata dall'omonimo saggio di Dan Senor e Saul Singer, dedicato al miracolo economico di Tel Aviv. Grazie a una spesa in ricerca e sviluppo al top a livello globale (pari al 4,25% del Pil contro il 2,8% degli Usa), il giovane e piccolo Stato ebraico con i suoi otto milioni e mezzo di abitanti controlla quasi un centinaio di società quotate al Nasdaq.

 Cybersicurezza, mobilità e droni
  I settori trainanti della Silicon Wadi, l'area hi-tech vicino a Tel Aviv, sono quelli della cybersicurezza (con aziende del calibro di Check Point e Cyber Ark), dei sistemi di mobilità senza autista (Mobileye), della navigazione stradale (Waze), dei droni (Airobotics, Arbe Robotics e Flytrex), ma anche la water technology, il finte eh, il fintech, la robotica e l'intelligenza artificiale (tra l'altro con la suggestiva Cortica, startup che applica sofisticati sistemi di analisi dei big data alla prevenzione del crimine richiamando la "polizia predittiva" di Minority Report). Il risultato è che il 45% delle esportazioni israeliane è rappresentato da prodotti e servizi tecno-logici ad alto valore aggiunto.

 Finanziamenti e incentivi
 
  I fattori che hanno portato Israele a essere la "startup nation" per definizione sono tanti. Si va dal know- how tecnologico militare all'immigrazione di cervelli degli anni Novanta dall'ex Unione Sovietica, da un'ottima scolarizzazione (metà della forza lavoro è laureata) a un tasso di disoccupazione inferiore al 4%, da una crescita annua del prodotto interno lordo che oscilla fra il 3% e il 4% a un debito pubblico a livelli nordeuropei (circa il 60% del Pil).
Ma soprattutto l'ecosistema israeliano è costruito su una combinazione potentissima di enormi finanziamenti e generosi incentivi fiscali. Sul fronte venture capital, nel solo 2017 le società tecnologiche con la stella di David hanno raccolto ben 5,2 miliardi di dollari, con round medi di finanziamento pari a oltre 7 milioni. Tra quotazioni in Borsa e acquisizioni, il valore delle exit l'anno scorso ha toccato i 23 miliardi di dollari, alcune delle quali in grande stile, come quella di Mobileye (leader dei sistemi di controllo per veicoli senza autista) acquisita nel marzo 2017 da Intel per 15,3 miliardi.

 I criteri per gli sgravi fiscali
 
  Gli incentivi israeliani sono numerosissimi, in particolare per le aziende che investono capitali, creano occupazione e sono attive nella ricerca. Uno dei pilastri dell'attrattività è la "Law for Encouragement of Capital Investments", in vigore dal lontano 1959 ma continuamente aggiornata (l'ultima volta nel 2016), che prevede sia finanziamenti che sgravi fiscali. Gli incentivi sono rivolti ad aziende stabilite in Israele, con almeno il 25% delle vendite all'estero, e prevedono un contributo pari al 20% degli investimenti in acquisto di terreni, impianti fissi e strutture produttive (il 30% nell'area meridionale del Negev). Gli sconti fiscali distinguono tra società prioritarie (quelle industriali, con una quota di export almeno pari al 25%), prioritarie speciali (simili ma di grandi dimensioni e con robusti investimenti in R&S), tecnologiche e tecnologiche speciali, abbattendo la normale corporate tax del 25% a un range che oscilla, a seconda dei casi, tra il 5% e il 12 per cento. La tassa sui dividendi scende dal 30% al 20%, ma crolla a14% per le imprese tecno-

 La spinta a ricerca e sviluppo
  Sul fronte della ricerca e sviluppo, inoltre, esistono svariati programmi speciali dell'Autorità per l'Innovazione (un ramo del ministero dell'Economia), rivolti in particolare alle multinazionali. Chi apre un incubatore tecnologico viene finanziato all'85% dallo Stato, ma conserva il 50% delle quote della società, mentre le imprese industriali che decidono di investire in un "Innovation Lab" per favorire lo sviluppo tecnologico vengono finanziate al 33% (al 50% nelle zone periferiche) con un tetto di 1,1 milioni di dollari.
Tra i vari programmi di supporto alla ricerca universitaria applicata all'industria vanno ricordati Magnet e Sofar. Il primo sostiene la formazione di consorzi di ricerca finanziando per una durata da tre a cinque anni sia il budget degli atenei (al 100%) che delle imprese (al 60%). Nofar invece sovvenziona i progetti congiunti di trasferimento tecnologico tra università e industria al 90% del budget, fino a oltre l80mila dollari, ma a un patto: che al termine del lavoro vengano ottenuti risultati concreti, con la commercializzazione di una tecnologia innovativa.

Mobileye

SISTEMI DI CONTROLLO
DI GUIDA AUTONOMA

Leader di mercato
Mobileye è stata acquistata per 15,3 miliardi di dollari da Intel nel 2017

La regina delle «exit»
Con i 15,3 miliardi di dollari pagati da lntel nel marzo 2017 per acquistarla, Mobileye rappresenta la maggior exit della storia per una startup hi-tech israeliana. Fondata nel 1999 a Gerusalemme da Amnon Shashua, la società leader dei sistemi di controllo per veicoli a guida autonoma ha messo in piedi partnership con oltre 25 costruttori mondiali tra i quali Bmw, Volvo, Opel, RenaultNissan, Hyundai e Kia. La tecnologia di Mobileye si basa su un'unica sofisticata videocamera attorno alla quale "girano" numerosi software in grado di identificare forme (come veicoli o pedoni) e texture (segnali stradali). Dal 2016 la società è quotata alla Borsa di New York
Checkpoint

LA CYBERSICUREZZA
DAGLI 007 ISRAELIANI

Quotata al Nasdaq
La società ha 3.500 dipendenti e sedi di sviluppo e ricerca in Usa e Svezia

I pionieri dei firewall
Nata nel 1993 vicino a Tel Aviv, Check Point è una delle maggiori società di cybersicurezza. Pioniera nel settore dei firewall e dei Vpn, la società, quotata al Nasdaq, ha 3.500 dipendenti e sedi di ricerca e sviluppo in Galifornia, Svezia e Bielorussia. L'idea di un'azienda specializzata nella cybersicurezza venne a uno dei tre co-fondatori, il programmatore Gil Schwed, mentre svolgeva il servizio militare nella famosa Unità 8200 dell'intelligence israeliana, una delle migliori al mondo nella decrittazione di codici. Tra le acquisizioni della multinazionale vanno ricordate quella di Zone Labs, Protect Data, Nokia Security Appliances e Dynasec
Cortica

L'AI CHE «LEGGE»
I PENSIERI CRIMINALI

Analisi di bigdata.
Sperimenta un sistema che ricorda la polizia predittiva di Minority Report

"Polizia predittiva"
Fondata nel 2007 a Tel Aviv, Cortica sviIuppa sistemi di intelligenza artificiali per piattaforme autonome di diversi settori, in particolare automotive, sanità e difesa. Le tecnologie si basano sul funzionamento del cervello umano e ora l'azienda sta sperimentando un sistema che ricorda quello della "polizia predittiva" di Minority Report, il romanzo di Philip Dick diventato nel 2002 un film di Spielberg. Con l'uso di algoritmi in grado di analizzare i big data registrati da migliaia di telecamere di sorveglianza, il sistema riesce a rilevare anomalie espressive e comportamentali degli individui tipiche di chi sta per commettere un crimine, cercando di "anticipare" un delitto prima che avvenga.

(Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2018)


Napoli, torna la "Freedom Flotilla" per Gaza

di Rocco Schiavone

Una maniera "islamically correct" per farsi un giro in barca partendo da Napoli e sentirsi molto buoni
Come tutte le estati ci sono persone che credono di nobilitare le proprie vacanze snob partecipando alla "Freedom Flotilla" per Gaza. Una maniera "islamically correct" per farsi un giro in barca partendo da Napoli e sentirsi molto buoni per avere veicolato beni inutili a chi non ne ha alcun bisogno visto che già provvede Israele a nutrire i propri nemici da decenni e non solo all'interno della Striscia.
   In compenso, si fa un po' di propaganda anti-Stato ebraico e si contribuisce all'odio contro Israele che spesso poi sfocia nell'antisemitismo vero e proprio. Due giorni orsono abbiamo avuto notizia del blocco di una delle due navi della Flotilla a ridosso delle acque israeliane. La nave intercettata conteneva anche "giornalisti militanti" oltre a 13mila euro di medicinali, che al massimo potrebbero servire per curare gli stessi occupanti della nave in questione per qualche settimana. Insomma, la classica pagliacciata che ogni anno in questa stagione contribuisce ad alimentare il caos geopolitico del pianeta di per sé già enorme. Adesso gli israeliani attendono al varco anche la seconda nave della Freedom Flotilla. Ribattezzata "Al Awda", il ritorno (s'intende dei palestinesi dentro Israele con la cacciata degli attuali occupanti), che era salpata da Napoli lo scorso 18 luglio dopo la solita cena sociale e con la consueta benedizione del sindaco Luigi De Magistris, che già in passato aveva alimentato in proposito polemiche con la comunità ebraica partenopea.
   Certo, se la prima Flotilla si era caratterizzata per l'inquietante regia di Recep Tayyip Erdogan e dei turchi, portando a bordo armi improprie e militanti di Hamas, quelle che hanno seguito, comprese quelle odierne, sembrano più connotarsi per una valenza squisitamente propagandistica e talvolta persino goliardica. Rimane l'improvvida iniziativa che si reitera ogni anno. Come se i napoletani non avessero altri problemi estivi che rompere un embargo che a Gaza esiste solo per le armi e gli esplosivi e che è motivato dalla sicurezza interna dei cittadini israeliani. Ma questo il sindaco in carica alla plebe osannante non lo spiega.

(L'Opinione, 31 luglio 2018)


Israele uno «Stato ebraico». La Chiesa: discriminazione

La legge voluta dal Likud spacca il Paese. Il Patriarcato latino: arabi non rappresentati. Il presidente Rivlin torna a criticare il provvedimento. Perplessità anche della destra moderata. E Haaretz punta il dito contro Netanyahu: «È il primo ministro dell'apartheid».

di Lucia Capuzzi

E' una legge esclusiva piuttosto che inclusiva, contestata più che consensuale, politicizzata più che basata sulle norme fondamentali comuni». Al coro di critiche contro la qualifica normativa di Israele come «casa nazionale del popolo ebraico» si è unito, ieri, il Patriarcato latino di Gerusalemme. La misura, approvata dalla Knesset (Parlamento) il 19 luglio con un margine di sette voti, ha spaccato la società israeliana. Essa sancisce al livello semi-costituzionale il carattere ebraico dello Stato, poiché si tratta di una "Basic law" - la quattordicesima - cioè una legge fondamentale, deputata a guidare il sistema legislativo nazionale.
   La religione, la lingua e la cultura ebraica sono, fin dalla sua creazione, cardini della nazione. Al contempo, la dichiarazione di indipendenza è attenta nel garantire piena tutela alle minoranze: una parte consistente della popolazione, circa il20 per cento dei nove milioni di abitanti. La Basic law sulla dignità umana e la libertà, inoltre, ribadisce il carattere democratico di Israele. Negli ultimi anni, però, alcuni settori della popolazione hanno cercato di rafforzare il principio di ebraicità. Un primo disegno normativo al riguardo era stato proposto nel 2014 dal deputato del Likud, partito dell'attuale premier Benjamin Netanyahu, Avi Dichter. La norma era stata presto archiviata a fronte delle numerose critiche. Il Lìkud non si è, però, arreso: alla fine, a maggio, il provvedimento ha superato la prima lettura alla Knesset. Rispetto al testo originario' quello approvato due settimane fa è più morbido. Sono state eliminate le parti più spinose che avrebbero limitato la discrezionalità della Corte Suprema, la cui sentenze sono state in genere garantiste verso le minoranze. E, pur così, la legge ha rischiato di non passare.
   All'opposizione di centrosinistra s'è sommata una parte della destra moderata, convinta che essa confligga con i principi fondativi della democrazia israeliana.
   Perplessità sul provvedimento è stata espressa dal presidente, Reuven Rivlin che ieri è tornato sulla questione durante una tappa nella città beduina di Kuseife. «Come cittadino dello Stato d'Israele, nato in un Paese che è la realizzazione del sogno del movimento sionista, farò tutto quello che è in mio potere per avere una casa condivisa da tutti». E ha concluso: «Capisco i sentimenti dei cittadini arabi, la collaborazione tra di noi è necessaria». Rivlin, secondo Maariu ha detto di non poter non firmare la misura, «altrimenti dovrei dimettermi. Ma se la firmo, la firmerò in arabo».
   Un centinaio di intellettuali, tra cui gli scrittori David Grossman e Amos Oz, hanno sottoscritto una lettera contro il provvedimento, Nel mirino dei critici, in particolare le clausole che dichiarano «Gerusalemme unita» come capitale di Israele, affermano la «priorità» dell' ebraico e sottolineano «l'importanza dello sviluppo degli insedìamenti ebraici come valore nazionale». Il quotidiano Haaretz ha dedicato un durissimo editoriale alla misura. Il giornale ha pun tato il dito su Netanyahu, considerato il «responsabile» della «discriminazione costituzionale contro i cittadini israeliani non ebrei». Il premier viene anche definito «il primo ministro dell' apartheid». In tale contesto, si inquadrano le osservazioni del Patriarcato latino di Gerusalemme che ha definito la 14esima Basiclaw «discriminatoria». «Anche nel caso in cui tale legge non abbia effetti concreti, manda un segnale inequivocabile ai cittadini palestinesi di Israele, comunicando loro che in questo Paese non sono in casa loro».

(Avvenire, 31 luglio 2018)


*

Inaccettabile

Lo Stato d’Israele è pieno di contraddizioni. E’ inevitabile. Non solo: lo Stato d’Israele fa esplodere contraddizioni in chiunque ne parla. E anche questo è inevitabile. Sarebbe un lavoro interessante, ma lungo e noioso, individuare ed elencare tutte le contraddizioni di coloro che ritengono doveroso togliere da Israele la contraddizione-Netanyahu e di coloro che ritengono doveroso togliere dal mondo la contraddizione-Israele. Pensiamo soltanto alla CCR (Chiesa Cattolica Romana) che parla di discriminazione, essendo essa stessa, per autodefinizione, una struttura che si vuole differenziare da ogni altra forma di società umana. Pensiamo agli intellettuali laici, soprattutto di sinistra, che difendono la democrazia fino a che questa si mantiene nel solco del loro superiore, democraticamente vero, illuminato pensiero, poi cessa di essere democrazia. Nelle circostanze attuali si direbbe che la fonte e il nocciolo di ogni contraddizione si trovi in una persona: Benjamin Netanyahu. Questa però non è una contraddizione, ma una conferma. Molti ebrei non se accorgono, ma gli avversari della politica israeliana dicono Netanyahu per non dire Israele, e dicono Israele per non dire ebrei. E’ antisemitismo? Naturalmente no, secondo l’universalistico pensiero democratico. E neppure sono soggettivamente antisemiti coloro che lo praticano. Soggettivamente. Quanto a Netanyahu, certamente non è la quintessenza di Israele e del popolo ebraico, ma in questa occasione ha semplicemente cercato di fare, in modo umanamente imperfetto, quello che era da fare per muoversi nella giusta direzione, conformemente alla natura peculiare dello «Stato ebraico». E questo per molti, a cominciare dalla CCR, è inaccettabile. M.C.

(Notizie su Israele, 31 luglio 2018)


Caso Jorit, il "writer" italiano lascia Israele dopo il fermo

L'artista dei graffiti italiano Jorit Agoch e l'altro connazionale fermati lo scorso 28 luglio dalle autorità israeliane a Betlemme hanno lasciato questa mattina lo Stato ebraico. Lo ha riferito l'avvocato che ha seguito il caso dei due italiani, Azmi Masalha, secondo quanto riporta il quotidiano statunitense "The New York Times". Le autorità israeliane hanno interdetto l'ingresso nello Stato ebraico per dieci anni ad Agoch e all'altro connazionale, ha spiegato Masalha. L'artista italiano era stato fermato dalle autorita' israeliane dopo aver il dipinto il volto Ahed Tamimi, la 17enne palestinese liberata ieri dopo aver passato otto mesi in carcere per avere schiaffeggiato un militare israeliano, sul muro di separazione a Betlemme. L'artista è noto per aver arricchito e riqualificato le periferie di Napoli con murales di cantanti, artisti, attori, calciatori e persone comune.

(il denaro, 30 luglio 2018)


Un modo come un altro per farsi pubblicità. Ci è riuscito.


Delegazione palestinese di Hamas al Cairo in concomitanza con quella di Fatah

IL CAIRO - Una delegazione del movimento palestinese di Hamas ha attraversato oggi il valico di Rafah per dirigersi al Cairo. Lo riferisce il Centro di informazione palestinese, mentre l'ambasciata di Ramallah al Cairo non ha confermato la notizia. La presenza di esponenti di Hamas al Cairo giunge in concomitanza con la visita nella capitale egiziane di membri del partito rivale Fatah, anima dell'Autorità nazionale palestinese. La delegazioni di Fatah è arrivata ieri, 29 luglio, al Cairo, nel quadro della mediazione intra-palestinese svolta dall'Egitto. "Cerchiamo una riconciliazione intra-palestinese insieme all'Autorità nazionale palestinese e alla Striscia di Gaza (amministrata da Hamas dal 2007) in modo da avere un'unica leadership con cui negoziare e per il processo di pace", ha detto il presidente egiziano, Abdel Fatah al Sisi, in occasione del forum sulla gioventù presso l'Università del Cairo. Parlando del cosiddetto accordo del secolo voluto dal presidente statunitense Donald Trump, Al Sisi ha affermato che si tratta "più di un'espressione mediatica che politica". "Le posizioni dell'Egitto rispetto alla causa palestinese sono chiare: non accetteremo nulla che viene respinto dai palestinesi, mentre siamo soddisfatti per qualsiasi cosa che soddisfi i palestinesi", ha affermato Al Sisi. Rivolgendosi allo Stato ebraico, Al Sisi ha aggiunto: "Abbiamo una grande opportunità per la pace e la stabilità della regione e non sarà a scapito della vostra sicurezza".

(Agenzia Nova, 30 luglio 2018)


Gerusalemme - International Film Festival

 
Gerusalemme - International Film Festival
Gerusalemme alza il sipario sulla 35a edizione del Jerusalem International Film Festival. L'appuntamento culturale torna in città fino al 5 agosto per una undici giorni dedicata al cinema per presentare al pubblico locale le migliori tendenze cinematografiche contemporanee di tutto il mondo.
   Il Jerusalem International Film Festival è diventato un importante palcoscenico che punta i riflettori sul meglio del cinema contemporaneo e allo stesso tempo un evento da non perdere per locali e turisti provenienti da 60 paesi per assistere ad oltre 180 proiezioni.
   Durante il festival, i nuovi film israeliani ed internazionali verranno proiettati durante il corso delle giornate, facendo dell'evento un vero punto di ritrovo per registi provenienti da Israele e il resto del mondo. Assoluta novità di quest'anno è il JFF in the Park, un complesso cinematografico all'aperto nella cornice del parco di Harry Wilf (Independence) che offrirà un'ampia scelta di attività e rappresenterà una valida alternativa alla Cineteca di Gerusalemme. Proiezioni di film, eventi per gruppi di tutte le età, spettacoli musicali, una grande piscina all'aperto, una proiezione accompagnata da musica dal vivo ed un palco per spettacoli notturni animeranno gli undici giorni di rassegna; inoltre il Mobile Cinema, un originale truck itinerante, attraverserà i quartieri di Gerusalemme offrendo intrattenimento gratuito.
   Nel corso degli anni, il Festival ha proiettato i debutti cinematografici di Wong Kar Wai, Tsai Ming-liang, John Sayles, Jim Jarmusch, Stephen Frears, Spike Lee, Quentin Tarantino, Nuri Bilge Ceylan e tanti altri, oggi maestri del cinema e personalità particolarmente apprezzate dal pubblico israeliano. Attesissimo invece quest'anno è la proiezione della prima mondiale del film The Unorthodox di Eliran Malka durante la serata di inaugurazione del Jerusalem International Film Festival. Ispirato alla straordinaria storia sulla formazione del partito politico israeliano Shas, che creò un movimento per la comunità sefardita di Israele priva di diritti civili, il film è un dramma comico sugli eventi che hanno rimodellato la società israeliana e che continuano a lasciare traccia anche ai nostri giorni. Il film intreccia una narrazione unica nel suo genere: seria, profonda e divertente al tempo stesso.
   Il Jerusalem Film Festival si chiuderà con la proiezione del film d'animazione Isle of Dogs del regista americano Wes Anderson. Il film ha aperto il Festival del cinema di Berlino del 2018 e si sta diffondendo in tutto il mondo con ottime recensioni.
   Oltre al programma di proiezioni, il JFF, guidato dal Jerusalem Pitch Point, organizza appuntamenti per i membri dell'industria cinematografica israeliana ed internazionale; offre un punto di incontro per registi e produttori dai volti noti incoraggiando e promuovendo la coproduzione a livello mondiale di progetti cinematografici locali in fase di sviluppo o di post-produzione. La rassegna ospita inoltre numerosi workshop e master class professionali come il Sam Filéfel International Film Lab, che organizza eventi in contemporanea alla kermesse.
   Questa grande varietà di appuntamenti e una magica atmosfera che avvolge la città durante queste giornate ha gradualmente trasformato il Jerusalem Film Festival nel più importante raduno cinematografico di Israele.

(il Giornale website 30 luglio 2018)


Raggiunto un compromesso per la finale dell'Eurovision song contest

GERUSALEMME - Il governo israeliano ha accettato di prestare 12 milioni di euro all'emittente radiotelevisiva Kan come garanzia che consente di svolgere nello Stato ebraico il prossimo maggio la finale dell'Eurovision song contest. Lo riferisce il sito d'informazione economica israeliano "Globes". La Kan, infatti, dovrà versare entro il primo agosto 12 milioni di dollari come deposito all'Autorità per le telecomunicazioni europea per ospitare il festival musicale dopo la vittoria nella scorsa edizione dell'Eurovision della cantante israeliana Netta Barziliai. Il problema era sorto perché in base alle legge la neonata Kan ha un proprio budget annuale e qualsiasi cifra aggiuntiva richiede un decreto speciale. Secondo le stime, l'organizzazione dell'Eurovision avrà un costo di circa 35-45 milioni di euro. Fonti citate da "Globes" riferiscono che la Kan riceverà un prestito temporaneo per pagare il deposito, dopo le consultazioni fra il ministero delle Finanze, della Giustizie e delle Telecomunicazioni insieme al primo ministro Benjamin Netanyahu. Inoltre, il governo presenterà all'Autorità per le telecomunicazioni israeliana una lettera di intenti con cui garantisce la copertura di tutti i costi dell'evento.

(Agenzia Nova, 30 luglio 2018)


Sul post di de Magistris l'ira della comunità ebraica: "Indignati"

"Non può definire quella barriera il muro dell'apartheid Si occupi dei problemi della città e lasci perdere la politica estera".

Il post di solidarietà a Jorit pubblicato su Facebook dal sindaco Luigi de Magistris suscita «l'indignazione» della comunità israeliana di Napoli. Sotto accusa ci sono alcuni passaggi del messaggio postato sulla bacheca ufficiale nel quale l'ex pm scrive:
    «Sul muro dell'apartheid dei nostri giorni un muralista napoletano ha disegnato il volto di Ahed Tamini, la ragazzina palestinese arrestata da minorenne per aver manifestato il legittimo disprezzo contro l'esercito occupante della sua terra. Jorit viene da Napoli, dalla prima città d'Europa che ha visto il proprio popolo sollevarsi contro l'esercito più crudele della storia dell'umanità. Non potrà mai essere un torto raffigurare il bel volto di una giovane eroina palestinese, il torto è invece averla voluta prigioniera, tenere assediato il suo villaggio di provenienza, aver costruito quel muro che separa popoli e crea ingiustizie. Jorit deve tornare subito a Napoli. La sua libertà è questione di democrazia, riguarda tutti».
La comunità ebraica napoletana respinge la definizione di «muro dell'apartheid» e dice: «Al di là dell'arresto del muralista, definire così la barriera di confine tra Israele e la Cisgiordania, costituita di muro solo per il 10 per cento della lunghezza totale, è una distorsione che dimostra disprezzo per la sicurezza dei cittadini israeliani, visto che da quando esiste quella barriera gli attentati palestinesi in Israele si sono ridotti di più del 90 per cento».
   Quindi la nota prosegue: «Diversi nostri iscritti e di altre comunità italiane sono cittadini israeliani esposti, come gli altri abitanti di Israele, agli attacchi terroristici e missilistici e pertanto, in quanto nostri fratelli e nostri iscritti, questa comunità avverte l'obbligo morale di sottolineare la necessità, da parte delle istituzioni, di affrontare la questione israelo-palestinese con equilibrio e nel rispetto dei diritti di entrambi i popoli coinvolti». La nota punta anche l'indice sulle righe del post dedicate ad Ahed, definite «tendenziose e mistificatorie». La diciassettenne, si legge nella nota della comunità ebraica «È stata arrestata dopo aver aggredito un giovane militare senza che questi avesse colpito alcuna azione violenta. L'arresto e la condanna della giovane attivista palestinese, minorenne ma non certo una ragazzina, sono stati del tutto legittimi nell'ambito del rispetto delle leggi di un qualunque Stato democratico: questa è democrazia».
   La nota contesta al sindaco «termini suggestivi ma palesemente imprecisi per chiunque abbia una conoscenza approfondita dei fatti» che a giudizio della comunità «finiscono con l'incoraggiare e l'alimentare il pregiudizio antiebraico e antiisraeliano».
   Infine, la stoccata: «Napoli ha molti problemi ancora irrisolti che riguardano tutti i suoi abitanti e rispetto ai quali certi sconfinamenti in materia di politica estera da parte del suo sindaco risultano inspiegabili, a meno che non siano dovuti ad una visione pregiudiziale di Israele e della questione israelo-palestinese». - d.d.p.

(la Repubblica - Napoli, 30 luglio 2018)


Scarcerata Tamimi, il prodotto dell'indottrinamento all'odio e della glorificazione del terrorismo

La giovane, simbolo di un'intera generazione di palestinesi cresciuti nell'odio per ebrei e Israele, non poteva che diventare l'icona delle campagne anti-israeliane

E' stata accolta come un'eroina, dai palestinesi e dalla stampa internazionale, Ahed Tamimi, la giovane palestinese scarcerata domenica da Israele dopo aver scontato otto mesi di detenzione per istigazione esplicita al terrorismo e aggressioni, reiterate per anni, a calci pugni insulti e sputi contro soldati israeliani, sempre calcolatamente inscenate davanti alle telecamere (senza peraltro essere mai riuscita a suscitare la desiderata reazione violenta, da filmare e diffondere).
La detenzione di Ahed Tamimi (che nel frattempo, in carcere, ha compiuto 17 anni e ha completato gli studi di scuola superiore sostenendo l'esame di diploma) è stata accompagnata da una ininterrotta campagna internazionale per il suo rilascio incondizionato....

(israele.net, 30 luglio 2018)


Il ponte balcanico. Le relazioni tra Israele e Serbia

La collaborazione tra i due paesi in campo politico ed economico si fa sempre più stretta: lo scorso 26 luglio, per la prima volta, un capo di stato israeliano ha visitato Belgrado. Tel Aviv può ormai contare su un importante alleato in una regione spesso considerata a lei ostile.

ROMA - Lo scorso 26 luglio una delegazione del governo israeliano guidata dal presidente Rueven Rivlin ha fatto tappa a Belgrado per una visita ufficiale al suo omologo Alexsandar Vučić. Si tratta della prima visita di un capo di stato israeliano in Serbia. All'incontro, presentato come l'occasione per il miglioramento del dialogo e della cooperazione economica tra i due paesi, hanno partecipato anche il ministro dell'economia Eli Cohen e quello dell'agricoltura Uri Ariel.
  Il 26 luglio 2018 entrerà di diritto nella storia delle relazioni diplomatiche tra lo stato d'Israele e la Serbia. Per la prima volta infatti un capo di stato israeliano ha visitato la capitale serba per un incontro ufficiale. Il colloquio è stato l'occasione per discutere non solo di questioni economiche, con la decisione di avviare una più stretta collaborazione attraverso la creazione di un comitato misto nel settore della cooperazione e degli investimenti, ma anche per ricordare la presenza storica delle comunità ebraiche nella regione. Il presidente Rivlin ha espresso tutta la sua soddisfazione per la legge emanata nel 2016 dal parlamento serbo sulla restituzione alla comunità ebraica delle proprietà che erano state sequestrate dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale e considerata come una legge modello da diffondere anche in altri paesi.
  L'incontro tra i due capi di stato è stato seguito da una cerimonia per l'intitolazione di una via di Zemun, sobborgo alle porte di Belgrado, al fondatore del sionismo Theodor Herzl. La scelta della località non è stata casuale. Durante l'occupazione nazista l'ex quartiere fieristico di Sajmište a Zemun, fu trasformato in un enorme campo di concentramento per rom, ebrei e prigionieri politici. Si stima che nel campo trovarono la morte circa 8 mila ebrei deportati da tutta la regione. Nel periodo precedente la seconda guerra mondiale gli ebrei presenti in tutta la Jugoslavia erano circa 70 mila, mentre dopo la conclusione del conflitto il numero scese a 6500/7000 persone.
  I rapporti tra le comunità ebraiche, una quarantina disseminate in tutti i paesi della regione, e i gruppi partigiani comunisti guidati da Tito furono tutt'altro che conflittuali. Molti ebrei presero parte attiva alla resistenza armata contro i nazisti e il governo collaborazionista dello Stato Indipendente Croato (NDH), una scelta questa che ebbe ripercussioni più ampie anche a distanza di decenni nei rapporti tra Israele e gli stati nati dalla dissoluzione della Jugoslavia socialista negli anni '90. Le relazioni tra Israele e la Serbia, ai tempi una delle sei repubbliche jugoslave, sono state spesso altalenanti, legate più che altro a questioni politiche relative alle guerre arabo-israeliane.
  La fondazione dello Stato di Israele nel 1948 provocò inizialmente un positivo atteggiamento jugoslavo nei confronti degli ebrei. Le nuove istituzioni socialiste favorirono infatti il passaggio e il trasferimento di migliaia di persone verso il neonato stato. Il sostegno alla creazione di Israele rientrava, secondo le posizioni della dirigenza comunista, nella lotta antimperialista e si concretizzò nel caldeggiare la soluzione dei due stati presso le Nazioni Unite.
  La guerra arabo-israeliana dei Sei giorni del 1967 portò ad una prima vera rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi. La politica jugoslava in Medio Oriente divenne sempre più filo-araba giungendo ad identificare Israele come paese "aggressore". Precedentemente lo stesso Ben-Gurion chiese a Tito, leader e fondatore del Movimento dei Non Allineati, di mediare nel conflitto. Il Maresciallo però si rifiutò, sostenendo apertamente le rivendicazioni arabe e sostenendo il riarmo dell'Egitto dell'amico Nasser e dell'OLP. Le divergenze si mantennero però su un piano prettamente politico, mentre le relazioni commerciali tra i due paesi non subirono nessuna forma di rottura.
  La morte di Tito nel 1980 e l'avvio del processo di disintegrazione della Jugoslavia socialista cambiarono gli equilibri e gli interessi in campo. Durante le guerre degli anni '90, Serbia e Israele si trovarono nuovamente alleati. La dichiarazione di indipendenza croata del 1991 portata avanti da Tudjman non poteva provocare altra reazione se non quella di una chiara contrapposizione da parte israeliana. Il partito dell'Unione Democratica Croata (HDZ) di Tudjman non nascose mai le sue simpatie per il regime fascista, ne sono esempio la scelta di adottare la bandiera del regime collaborazionista come bandiera ufficiale del nuovo stato croato e le continue dichiarazioni revisioniste sull'Olocausto. Israele si rifiutò allora di instaurare qualsiasi forma di relazione diplomatiche con la Croazia fino alla morte di Tudjman, virando verso una politica filo-serba.
  A spingere Israele verso un aperto sostegno al regime di Milošević contribuì inoltre la guerra contro i bosniacchi, i musulmani di Bosnia. Tel Aviv era preoccupata di una possibile avanzata musulmana nella regione e del rischio di radicalizzazione islamica che avrebbe potuto creare non pochi problemi allo stato ebraico. A partire dalla fine degli anni '80 il miglioramento dei rapporti tra Belgrado e Tel Aviv si manifestò con la creazione nel 1989 della Società dell'amicizia ebraico-serba, che può essere considerata come la prima ONG ad operare in Jugoslavia. L'anno successivo, nell'estate del 1990, l'allora primo ministro serbo Stanko Radmilović e il suo entourage di 300 membri visitarono Israele come segno di una rinata amicizia tra i due paesi.
  La guerra in Kosovo del 1999 contribuì ulteriormente al miglioramento dei rapporti. L'allora ministro degli Esteri Ariel Sharon dichiarò che "un Kosovo indipendente potrebbe diventare un centro di terrorismo islamico in Europa". La paura del fondamentalismo islamico spinse Israele a sostenere le rivendicazioni serbe, creando non pochi screzi con l'alleato americano e la NATO.
  La situazione è continuata a migliorare dopo la caduta del regime di Milošević nell'ottobre 2000. Da allora la cooperazione tra i due paesi si è rafforzata sempre di più, coinvolgendo il settore culturale, quello economico e della lotta al terrorismo. Il mancato riconoscimento dell'indipendenza kosovara da parte di Tel Aviv ha rinforzato inoltre i legami politici con Belgrado. Il rifiuto di Israele di riconoscere il Kosovo come stato indipendente deriva dal timore di esser costretto ad attuare la stessa politica nei confronti della Palestina, oltre alla già citata paura circa la costituzione di una zona franca per il terrorismo islamico in Europa.
  Pur con le dovute e consistenti differenze tra la questione palestinese e quella kosovara, un eventuale riconoscimento di quest'ultima porrebbe Israele in una posizione contraddittoria all'interno della comunità internazionale. Lo stesso problema, ad esempio, è riscontrabile in Spagna alle prese con le lotte indipendentiste catalane e basche.
  La visita di Rivlin a Belgrado rappresenta senza dubbio un importante passo in avanti per una più stretta collaborazione non solo in campo politico, grazie alle comuni letture della storia meno recente e alle identiche posizioni sulle questioni attuali, ma anche in campo economico e commerciale. L'intenzione dei due presidenti è quella di sviluppare ulteriormente gli scambi e soprattutto favorire gli investimenti israeliani nel paese balcanico, anche attraverso progetti di sostegno al turismo.
  Con questo breve summit Vučić dimostra ancora una volta la sua capacità di interloquire indistintamente con tutti gli attori regionali e globali, riuscendo a trovare un equilibrio complesso ma sicuramente favorevole per il suo paese. Dall'altro lato Israele può contare su un importante alleato in una regione spesso ostile. L'incontro si è concluso con l'invito del presidente israeliano al suo omologo serbo per una visita ufficiale in Israele nel prossimo futuro.

(nena-news.it, 30 luglio 2018)


Siria: caos e diplomazia, girotondo tra Gerusalemme e Teheran

La situazione si complica. Fallito il vertice russo-israeliano organizzato per cercare di allentare la tensione con l'Iran.

Rischio di guerra aperta
La guerra "dimenticata" potrebbe riaccendersi in qualsiasi momento.
Gerusalemme vs. Teheran
A Gerusalemme non ne vogliono sapere di milizie sciite a ridosso del Golan

di Piero Orteca

La diplomazia israeliana e quella russa continuano a lavorare dietro le quinte per evitare che gli attriti tra Gerusalemme e Teheran sfocino in guerra aperta. Lunedì scorso Putin ha spedito da Netanyahu una delegazione di alto livello, per cercare di trovare un punto d'accordo. Assieme al Ministro degli Esteri Lavrov c'era il Capo di stato maggiore Valeri Geraimov, ma il meeting con i vertici dello Stato ebraico (era presente anche il Ministro della Difesa Avigdor Lieberman e il Capo di stato maggiore Gady Eisenkot), non ha sortito alcun effetto. I russi volevano offrire garanzie su un'ampia demilitarizzazione a ridosso del Golan. Putin parlava di una fascia di sicurezza larga 100 km, completamente liberata da truppe iraniane e milizie sciite. Ma gli israeliani hanno risposto picche e hanno ribadito che tutti gli sciiti combattenti in Siria devono alzare i tacchi e andarsene.
  Lieberman ha mostrato ai russi i report riservati elaborati dal Mossad e dallo Shin-Bet, i servizi segreti di Gerusalemme. Bene, da questi documenti appare chiaro che non solo gli sciiti continuano ad affollare le aree a ridosso del Golan, ma un flusso continuo di armi e rifornimenti parte da Teheran e, anche attraverso l'Irak, arriva nella Siria occidentale. Lo spionaggio di Netanyahu ha persino mostrato alla controparte russa immagini scottanti, che testimoniano come gli ayatollah continuino a pompare truppe nel teatro di guerra siriano. Colonne di mezzi militari iraniani sono stati segnalati in viaggio attraverso Abu Kamal. E tanto per far vedere di cosa si sta parlando, e per dimostrare la validità delle loro fonti di informazione, il Ministro della Difesa Lieberman ha snocciolato i nomi delle unità sciite dislocate in zona.
  Si comincia dalla Brigata internazionale 313, e dai "Quneitra Hawks" commandos di Hezbollah e dai miliziani inseriti nella Quinta brigata siriana. Si prosegue poi col reggimento corazzato "Al Ghith", facente parte della Quarta divisione governativa di Damasco, posizionato a ridosso del Golan settentrionale, vicino alla città di Majdal Shams. Il problema di fondo per Gerusalemme è una situazione strategico-militare non proprio ideale, dato che lo Stato ebraico si sente sotto attacco da nord e da sud, in direzione Gaza, dove i cecchini hanno cominciato a fare vittime tra i soldati israeliani che pattugliano il confine. Hamas dalla Striscia ha preso a sparare razzi contro un bersaglio privilegiato, il centro di Hof Ashkelon. Mentre a nord sono piovuti due "Grad" nel Mare di Galilea, in arrivo da un'area a 8 km dal confine.
  L'incidente fa il paio con quello verificatosi cinque giorni fa, quando il sistema antimissile David Slim non è riuscito a intercettare due missili SS-21 siriani diretti verso il Golan. Certo, la situazione militare sul campo e alquanto confusa e gli incidenti si ripetono quotidianamente. L'antiaerea israeliana, ad esempio, ha comunicato trionfalmente di aver abbattuto un Sukhoi- 24 siriano che aveva sconfinato. A entrare in azione sono state le batterie di missili Patriot fornite dagli americani. Per la verità, per quanto riguarda i due "Grads", pare che siano stati lanciati dalle milizie di Khalid Ibn Walid, una branca dell'Isis che sta rialzando la testa con azioni a macchia di leopardo. E infatti dell'altro giorno il sanguinoso attentato rivendicato dalle residue forze del Califfato, che hanno fatto oltre 250 morti a Sweida.
  Il contrattacco israeliano contro Khalid Ibn Walid ha suscitato molte polemiche a Gerusalemme. Diversi analisti hanno infatti sottolineato che colpendo le ultime milizie operative dell'Isis è stato fatto un gran favore ai reparti sciiti che operano in quell'area. A cominciare dalle Guardie rivoluzionarie iraniane.

(Remocontro, 29 luglio 2018)


Al Sisi riceve il presidente del Congresso ebraico mondiale

IL CAIRO - Il capo dello Stato egiziano Abdel Fatah al Sisi ha ricevuto il presidente del Congresso ebraico mondiale, Ronald Lauder. Lo ha reso noto il portavoce presidenziale egiziano Bassam Radi. All'incontro ha partecipato anche il capo dell'intelligence egiziana, Abbas Kamel. Al centro delle discussioni i colloqui di pace israelo-palestinesi. Al Sisi ha confermato il sostegno del suo paese agli sforzi volti a riavviare i negoziati sulla base delle risoluzioni internazionali pertinenti e la soluzione a due Stati con i confini del 1967. Lauder, da parte sua, ha sottolineato "la forza delle relazioni tra Egitto e Stati Uniti", esprimendo apprezzamento per gli sforzi del Cairo nella lotta contro il terrorismo e nelle riforme per portare sviluppo.

(Agenzia Nova, 29 luglio 2018)


Netanyahu potrebbe avere un nuovo problema

L'esenzione dal servizio militare per gli ultraortodossi: la Corte suprema ha imposto di abolirla entro settembre, e il governo rischia di cadere.

Nelle prossime settimane il governo israeliano guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu affronterà l'ennesima crisi interna che potrebbe portare alla fine anticipata della legislatura. L'oggetto della crisi è una sentenza della Corte suprema israeliana, che nel settembre 2017 dichiarò incostituzionale la legge che garantisce l'esenzione al servizio militare per gli uomini ebrei ultraortodossi. La Corte diede al governo un anno - quindi fino al settembre 2018 - per modificare la norma e renderla compatibile con la Costituzione. Il problema è che il governo Netanyahu ha una maggioranza molto risicata in Parlamento (66 seggi su 120 totali) e sta in piedi solo grazie all'appoggio di alcuni partiti ultraortodossi, che si oppongono in maniera netta a qualsiasi modifica alla legge sull'esenzione dal servizio militare obbligatorio.
  La prima legge sulla questione fu introdotta nel 1949 da David Ben Gurion, fondatore dello stato di Israele e primo capo del governo israeliano. Alla fine degli anni Quaranta, però, la comunità degli ebrei ultraortodossi era molto diversa da com'è oggi: era molto più piccola e numerosi religiosi e studiosi ebrei erano stato uccisi durante l'Olocausto. Il governo israeliano voleva garantire la sopravvivenza e lo status dei sopravvissuti che avevano raggiunto Israele e per questo introdusse l'esenzione al servizio militare per 400 studenti delle scuole religiose, le yeshiva.
  Oggi la situazione è molto diversa: più del 10 per cento della popolazione di Israele - che conta in totale 8,8 milioni di persone - si definisce ultraortodossa; il 16 per cento dei giovani in età da servizio militare è ultraortodosso, così come il 29 per cento dei bambini sotto i quattro anni. Le famiglie ultraortodosse con 8-10 figli non sono inusuali, e secondo alcune stime entro il 2030 almeno un israeliano su cinque sarà ultraortodosso.
  I sondaggi mostrano come la maggior parte degli israeliani sia favorevole il servizio militare obbligatorio per gli ultraortodossi, che sono visti sempre più come una categoria di persone che rifugge i pericoli del servizio militare mentre il resto della nazionale la protegge. Gli ultraortodossi, al contrario, dicono che quella in vigore sia una legge giusta e che chi sceglie di studiare la Torah, il testo sacro per gli ebrei, dovrebbe essere protetto dallo Stato. Aryeh Deri, ministro dell'Interno israeliano e leader del partito ultraortodosso Shas, ha definito la sentenza della Corte suprema «completamente disconnessa dalle nostre origini e tradizioni e dalla nostra gente».
  Netanyahu sta ora cercando di capire come uscire da questa situazione, cioè modificare la legge senza perdere l'appoggio dei partiti ultraortodossi che appoggiano il suo governo. Per il momento ha preso tempo: ha chiesto alla Corte suprema israeliana una proroga, proponendo che la scadenza per approvare la nuova legge sia spostata da settembre 2018 ad aprile 2019. Il quotidiano israeliano Haaretz ha scritto che i negoziati tra le varie parti si stanno concentrando su quali dovranno essere le sanzioni economiche da adottare contro gli ultraortodossi che si rifiutano di fare il servizio militare. La Corte comunque non si è ancora espressa ma, se dovesse rifiutare la richiesta, quattro deputati che sostengono il governo di Netanyahu, appartenenti al partito ultraortodosso Agudat Yisrael, hanno detto che si dimetteranno immediatamente.
  Non è la prima volta che in Israele si dibatte della legge sull'esenzione del servizio militare per gli ultraortodossi. La Corte suprema si era già espressa nel 2012, invalidando una legge che cercava di incoraggiare gli ultraortodossi a unirsi all'esercito. Dopo le elezioni del 2013, Netanyahu formò un governo senza ultraortodossi e con lo Yesh Atid, un partito centrista che da anni chiede che vengano adottate le stesse regole per tutti gli israeliani riguardo al servizio militare. Fu approvata una legge che introduceva l'obbligatorietà della leva per la comunità ebraica ultraortodossa e prevedeva sanzioni per chi si sottraeva ai suoi obblighi. La legge avrebbe dovuto entrare in vigore alla fine del 2017, ma le cose cambiarono di nuovo dopo le elezioni nel 2015, quando lo Yesh Atid fu estromesso dal governo e al suo posto entrarono i partiti ultraortodossi, che fecero in modo di reintrodurre le vecchie regole, almeno fino ad oggi.

(il Post, 30 luglio 2018)


Flottiglia per Gaza: una messinscena che serve solo a rinforzare il terrorismo palestinese

Una flottiglia che cerca solo di permettere agli assassini di avere accesso alle armi e i sindaci che sono solidali con questa complicità

di Ugo Volli

 
Odiare Israele, sentirsi buoni, ottenere consenso internazionale e divertirsi: tutto-compreso nel programma "Crociera Flottiglia per Gaza 2018"
Flottiglia per Gaza: una messa in scena che serve solo a rinforzare il terrorismo palestinese. Ci sono molti tipi di assassini. Fra le altre possibili classificazioni, è bene distinguere fra coloro che uccidono sapendo di commettere un atto gravissimo e colpevole, ma lo fanno lo stesso per odio, interesse, rabbia, e coloro che invece pretendono di compiere un atto meritorio uccidendo degli esseri umani che magari non conoscono e che non hanno fatto loro alcun male. Di questa seconda categoria, più perversa perché si proclama innocente, anzi meritevole, fanno parte in genere gli antisemiti. Essi infatti uccidono gli ebrei in quanto "deicidi", negatori della divinità di Gesù o della profezia di Maometto o della bontà del comunismo, oppure in quanto colpevoli di fantasmatici delitti come l'avvelenamento dei pozzi o l'impasto del pane azzimo con sangue cristiano. In tempi moderni, gli assassini di ebrei si sono giustificati, anzi vantati dei loro atti, attribuendo alle loro vittime un'inferiorità razziale, il dominio economico del mondo, l'usura, l'oppressione del popolo tedesco o di quello palestinese. In tutti questi casi, a fianco degli assassini non sono mancati sostenitori, tifosi, apologeti e propagandisti: colpevoli di concorso in quegli omicidi e ancor di più di averli provocati fornendo le ragioni ideologiche che servivano agli assassini per esaltare il loro crimine.
  Dopo le stragi delle Crociate e dell'Inquisizione, quelle comandate da Maometto o da Stalin e dai loro seguaci, oggi l'omicidio degli ebrei è una specialità islamista, in particolare dei palestinesi. Che hanno anche loro la speciale giustificazione per ammazzare qualunque ebreo capiti loro sottomano, l' "occupazione". Ammazzare bambini o padri di famiglia, far saltare autobus e centri commerciali, spedire missili sugli asili infantili e negli appartamenti di gente mai vista sarebbe "resistenza". E dato che tentare continuamente di trucidare degli ebrei (e talvolta purtroppo riuscirci) è cosa buona e giusta, criminali sono quelli che si oppongono ai loro piani: l'esercito israeliano che difende in confini dai tentativi di invasione da Gaza, la barriera di sicurezza che ha reso più difficile l'ingresso in Israele degli attentatori provenienti dai villaggi arabi di Giudea e Samaria, la marina che blocca l'arrivo delle armi necessarie per questi omicidi.
  Anche in questo caso ci sono gli esaltatori, i tifosi, gli apologeti, che spesso è gente "di sinistra" in Europa e negli Stati Uniti. Per esempio si sta svolgendo in queste ore l'ennesima vicenda di una "flottiglia" che viene via mare a Gaza, "per rompere il blocco" naturalmente ignobile e illegale che Israele imporrebbe alla Striscia. Che Israele sia disposto a far passare per i punti di transito qualunque rifornimento civile, e blocchi solo le armi o ciò che serve a costruirle, per gli assassini e i loro complici non conta nulla. Perché quel che rivendicano Hamas e Fatah e i loro sostenitori è proprio il diritto alla "resistenza", cioè a uccidere gli ebrei. E quindi il punto delle flottiglie non è far passare medicine e cibo che comunque arrivano a Gaza dagli ingressi legali, ma proprio liberare la strada per le armi. Le quali sarebbero usate in maniera così terrorista che neppure l'Egitto, paese arabo per eccellenza, si presta a farle passare sul suo territorio.
  Dunque la flottiglia, al di là degli scopi dichiarati, è un modo propagandistico molto efficace per concorrere nell'uccisione di ebrei solo in quanto tali. E chi aiuta le flottiglie è complice di complici dei tentativi di omicidio di massa di Hamas. Chissà se se ne sono resi conto i sindaci delle città italiane (Cagliari, Palermo, Napoli) che hanno accolto trionfalmente i conduttori delle barche dirette a Gaza. Dopotutto sono pubblici ufficiali e dovrebbero sapere che aiutare ad ammazzare a freddo degli esseri umani colpevoli solo di una certa appartenenza etnica non è una cosa né buona né legale, al di là della pretestuosa etichetta di "resistenza" che si cerca di appiccicare a questi omicidi. In particolare dovrebbe saperlo il sindaco di Napoli, che viene dall'ordine giudiziario. Qualcuno ha cercato di spiegare a questi sindaci che aiutando e onorando la flottiglia coinvolgevano le loro città nell'appoggio a un movimento terrorista come Hamas. Ma non ha ottenuto risposta. Vogliamo scommettere invece che protesteranno perché la Marina Israeliana bloccherà la flottiglia, mettendo in atto un blocco navale che l'Onu stesso ha dichiarato legale secondo le leggi di guerra?

(Progetto Dreyfus, 29 luglio 2018)


Allegra barca di crociera per provocatori antisionisti
Israele intercetta la barca di "pacifisti"
cioè provocatori antisionisti
salpata dall'Italia

L'esercito israeliano ha intercettato l'imbarcazione di "pacifisti"
vedi sopra
Al Awda, salpata dall'Italia, e ha intimato all'equipaggio di non proseguire il loro viaggio verso Gaza. Lo riporta il 'Jerusalem Post'. L'imbarcazione ha a bordo 22 attivisti di diverse nazionalità, tra cui anche cittadini israeliani e fa parte della più ampia 'Freedom Flotilla', formata da diversi natanti che cercano "regolarmente" di spezzare il blocco navale
"regolarmente" come quando si forza un blocco della polizia stradale
e fornire medicinali a Gaza. Finora nessuna missione ha avuto successo, tranne una, nel 2008.

(AGI, 29 luglio 2018)


Se gli sceicchi guardano a Gerusalemme

di Maurizio Molinari

E' il Grande Gioco su Gerusalemme che tiene banco in Medio Oriente: un discorso del re saudita a Dahran, la visita di una delegazione del Bahrein in Israele e l'arresto di alcuni militanti turchi nella Città Vecchia descrivono il braccio di ferro in corso fra Riad e Ankara, portabandiera di posizioni opposte rispetto allo Stato ebraico e all'assetto strategico della regione.
   Con il discorso di Dahran il re saudita Salman si è impegnato a sostenere con almeno 150 milioni di dollari alcune istituzioni religiose musulmane di Gerusalemme al fine di contrastare la crescente presenza di investimenti e militanti turchi dentro la Città Vecchia. La preoccupazione di Riad per le infiltrazioni turche a Gerusalemme, condivisa dai leader di Amman e Ramallah, è stata recapitata attraverso canali diplomatici a Israele, dove nelle ultime settimane sono stati arrestati più cittadini turchi militanti del partito di Recep Tayyp Erdogan che, entrati con regolari visti turistici, andavano sulla Spianata delle moschee per partecipare a proteste e disordini di matrice islamica. Ciò che più preoccupa l'Arabia Saudita sono le acquisizioni immobiliari di società e individui turchi a Gerusalemme perché le interpreta come la volontà di Erdogan di trasformare la Città Vecchia in una trincea della sua politica mediorientale tesa a strappare a Riad la leadership dell'intero mondo sunnita. Ovvero un tassello di una sfida più ampia che vede al momento Riad alla guida di un fronte composto da Bahrein, Emirati Arabi Uniti ed Egitto duellare con Ankara, sostenuta da Qatar e Sudan con alle spalle il gigante sciita dell'Iran.
   Non a caso a condividere i timori sauditi sulle mire di Erdogan a Gerusalemme sono Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, i due Paesi del Golfo protagonisti delle più evidenti aperture allo Stato ebraico.
   Manama ha accolto una delegazione israeliana per un recente evento dell'Unesco e una missione di suoi dignitari ha svolto una visita ufficiale a Gerusalemme mentre Abu Dhabi ospita una sede permanente israeliana presso l'Agenzia internazionale per l'energia rinnovabile che svolge il ruolo di ambasciata de facto presso i Paesi del Golfo. E ancora: gli stessi Emirati Arabi Uniti, secondo notizie trapelate su media arabi, sarebbero impegnati a fare acquisizioni immobiliari a Gerusalemme per contrastare le mosse di Ankara operando attraverso Mohammed Dahlan, ex capo della sicurezza palestinese inviso al presidente Abu Mazen. Se a tali tasselli aggiungiamo le insistenti indiscrezioni su un incontro segreto già avvenuto fra il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman e il premier israeliano Benjamin Netanyahu è facile arrivare alla conclusione che le aperture del fronte saudita allo Stato ebraico si sovrappongono al timore che Erdogan voglia sfruttare Gerusalemme per contendere a Riad la guida dei sunniti. Tanto più che Ankara, assieme a Doha e Teheran, è il maggior sostenitore economico della Striscia di Gaza governata da Hamas e considerata dall'Egitto di Abdel Farrah al-Sisi un tassello del mosaico islamista-rivoluzionario dei Fratelli musulmani. Insomma, Erdogan punta a cavalcare le istanze palestinesi più ostili a Israele mentre Riad è protagonista di numerose aperture - spesso al riparo dei riflettori - allo Stato ebraico a testimonianza che la questione mediorientale - e in primo luogo Gerusalemme - è uno dei tasselli dello scontro regionale fra i giganti sunniti: i sauditi alleati di Washington e i turchi partner della Nato ma tentati da legami privilegiati con Mosca e Teheran.
   Al centro di questo Grande Gioco su Gerusalemme c'è il Waqf, l'ente religioso musulmano che gestisce la Spianata delle moschee e risponde alla monarchia hashemita di Giordania in forza di un accordo con Israele siglato dopo la guerra del 196 7 e riconosciuto dall'Autorità nazionale palestinese. Il saudita Iyad Madani, segretario generale dell'Organizzazione della conferenza islamica, ha visitato la Spianata in gennaio e in precedenza Riad aveva contestato ad Amman la sua gestione arrivando anche a condividere l'iniziativa israeliana - poi rientrata - di posizionare metal detector agli accessi per ostacolare le violenze. Riad non si spinge fino a chiedere di sostituire Amman nella gestione del Waqf ma i generosi aiuti economici - 2,5 miliardi di dollari - versati ad Amman, assieme a Bahrein ed Emirati, per consentire al sovrano di fronteggiare le recenti proteste di massa, potrebbero facilitare un accordo più ampio. Un'ipotesi, che rimbalza da Washington, è la presenza di rappresentanti sauditi ed emiratini nel Waqf nell'ambito di un'intesa regionale fra Arabia Saudita ed Israele per tentare di affrontare in maniera inedita il conflitto arabo-israeliano. A dispetto del rivale disegno strategico di Ankara. In attesa di sapere come e quanto il Waqf potrà mutare, possono esserci pochi dubbi sul fatto che in Medio Oriente c'è una novità: la diplomazia religiosa saudita. Ovvero, gli sceicchi custodi dei luoghi santi dell'Islam a Mecca e Medina vogliono impedire alla Turchia erede dei sultani ottomani di insediarsi nella Città Vecchia di Gerusalemme e per riuscirci stanno ponderando una possibile, storica, intesa con lo Stato ebraico. Per questo un alto dignitario saudita ha recentemente detto: «Come arabi dobbiamo riconoscere che Gerusalemme è sacra per gli ebrei come Mecca e Medina lo sono per i musulmani».

(La Stampa, 29 luglio 2018)


L'ebreo errante non si ferma. «Sono un giovane nonno che dall'arte vuole gioia»

Il curatore di mostre: amo Torino, ma il Sud è pura energia

Filosofia
Le mode non mi interessano. Sono una sorta di manager di artisti, una start up vivente: li scovo, li faccio crescere e poi li lascio andare per il mondo.
Ricordo
L'esposizione che ho portato a Matera si intitola «L'infanzia indimenticabile», perché c'è la memoria storica e quella personale, altrettanto importante

di Barbara Notaro Dietrich

 
Dalla raccolta di Tedeschi di Mickey Mouse d'epoca. Al centro un topolino del 1933.
Un ebreo errante. Ama definirsi così Ermanno Tedeschi. Ed errante lo è davvero. Per lavoro e inquietudine. Per curiosità, legami familiari e radici sparse per il mondo: una figlia a Parigi, un figlio a Milano, il cuore in Israele. Non ha una casa di proprietà, non l'ha mai avuta. Ha avuto quattro gallerie d'arte (Torino, Milano, Roma, Tel Aviv) e oggi ha uno studio che pare una casa, tappezzato dalle opere dei suoi artisti e dai suoi feticci sentimentali, i giocattoli. Inclusa una bambola che è stata di sua madre. E una bambola campeggia in una delle opere dell'israeliana Orna Ben Ami che sarà in mostra con una personale all'Archivio di Stato di Torino a settembre, curata da Tedeschi e che è già passata per Agrigento. «Una regione incredibile la Sicilia - dichiara entusiasta Tedeschi - Di recente ho portato a Palazzo Steri a Palermo Sher Avner, che sarà a ottobre al Museo della Scrittura di Torino. È un artista che lavora sui graffiti e si è ispirato anche a quelli del Palazzo che era il luogo dove imprigionavano gli eretici, ebrei inclusi. Avner si è studiato le mappe di Palermo e le ha messe in contrapposizione a quelle di Gerusalemme, due città che hanno storie molto simili». Ma è tutto il Sud, o meglio la sua energia ad entusiasmare Tedeschi: «La senti. Percepisci una voglia di fare enorme, come in Israele. Quando torno qui mi invece mi intristisco».
   Eppure Torino è la città di Tedeschi, dove è nato, dove ancora vive il padre, nella stessa casa che fu del nonno. «Certo è bella e mi ha dato tanto e ci torno volentieri, ma vado via altrettanto volentieri. Mi deprime la staticità che si sta creando, una sorta di resa che si percepisce». Fatta eccezione per Borgo Dora, dove Tedeschi ha il suo studio: «Questo è appunto un borgo, una sorta di paese. I miei vicini sono un fotografo, un impresario edile, un venditore di oggetti vintage. Speriamo solo non diventi come San Salvarlo o il Quadrilatero. Ogni tanto vengono gli amici e capita quello che succedeva alle cene nelle mie gallerie». Incontri che nulla hanno a che vedere con il circo mediatico dell'arte. «Sinceramente non lo amo. Lo frequento ma alcuni atteggiamenti non mi appartengono. La socialità è altra cosa. L'arte va portata nelle cantine, negli ospedali, tra i sassi». È anche per questo se Tedeschi ha chiuso le sue gallerie: «E stato un insieme di elementi a farmi prendere quella decisione - spiega - da una parte lo stress che comportavano, dall'altra aver capito che si era chiusa un'epoca. Non le ho vendute ma semplicemente chiuse, ricomprando il mio magazzino». Di quell'esperienza resta un volume Work in progress, che dà ragione di dieci anni di vita professionale e non solo, perché l'appendice è scritta, e disegnata, dagli amici e da chi lo ha conosciuto e amato.
   Da quel momento, era il 2014, Tedeschi si è fatto curatore e non solo: «Ho lavorato e lavoro per la fondazione Meneghetti, poi per il museo della Scrittura di Cesare Verona e sono anche una sorta di manager di artisti, una start up vivente: li scovo, li faccio crescere e poi li lascio andare per il mondo». Ma non sceglie tutti quelli che si rivolgono a lui, «perché l'arte deve darmi gioia e serenità. Le mode non mi interessano, né quello che tira sul mercato. Era così anche quando avevo le gallerie». E tra i tanti artisti che Tedeschi ha seguito, è particolarmente affezionato a Valerio Berruti, «non solo un grande artista ma una persona pulita, e Barbara Neirotti, «una mia creatura totale».
   Ora l'arte è la sua vita ma da piccolo Tedeschi sognava di fare il taxista: «In realtà a 12 anni volevo fare il neuropsichiatra infantile, insomma medico come papà. Poi la mia vita è cambiata. Non solo perché sono entrato nel Bené akiva (movimento religioso giovanile mondiale ndr) ma perché volevo andare a vivere in Israele. Mi sono iscritto ad Agraria. Poi le cose sono cambiate. Non ho rimpianti, soprattutto perché ora ho 4 nipoti magnifici e sono un nonno giovane».
   Eppure Israele è rimasta nel cuore e nel dna di Tedeschi: «Mi sento profondamente legato alla radice ebraica». Nella sua lunga e breve vita Tedeschi si è occupato anche di politica. «Di questa esperienza rammento la figura di Valerio Zanone. Era un altro mondo, altri ideali. Che nemmeno si ricordano più. Se manca la memoria, viene a mancare tutto. La storia si ripete. I barconi che arrivano in Italia e vengono respinti sono come le navi che tentavano di attraccare in Palestina. La mostra che ho portato a Matera, con 25 artisti israeliani e 25 italiani, si intitola «L'infanzia indimenticabile», perché c'è la memoria storica e quella personale, altrettanto importante per la vita di ognuno di noi». Altri grandi uomini hanno segnato la vita di Tedeschi, da Shimon Peres, «a 93 anni diceva di dover guardare al futuro», ad Arturo Schwarz, «è stato il mio maestro».
   E oggi? «Oggi il vero intellettuale come il vero politico non esiste più, senza contare che per noi l'Olocausto ha significato un'intera generazione di pensiero azzerata che solo ora si sta riprendendo». E quindi si va avanti, tentando non di cambiare il mondo, ma almeno di correggerlo.

(Corriere Torino, 29 luglio 2018)


Lettera aperta alla signora Appendino, Sindaco della città di Torino

Riceviamo e volentieri riportiamo.

Alla cortese attenzione della signora Appendino, sindaco della città di Torino.

Gentile signora sindaco,
mi pregio farLe pervenire copia della lettera che la signora Bat Ye'or le ha indirizzato per mio tramite.
Le unisco alcune parole di presentazione di Bat Ye'or pubblicate su Wikipedia.
Rimango in attesa di una Sua cortese risposta alla mia richiesta di incontro e colgo l'occasione per inviarLe cordiali saluti.
Emanuel Segre Amar
Presidente del Gruppo Sionistico Piemontese



Gentile Sindaco di Torino,
Dopo aver ricevuto dall'amico Emanuel Segre Amar, presidente del Gruppo Sionistico Piemontese, copia della mozione approvata dal Consiglio comunale il giorno 9 luglio, ho immediatamente aderito alla sua richiesta di firmare la lettera aperta da lui preparata e che ha rapidamente raccolto oltre 900 firme.
Segre Amar mi ha fatto sapere che, nonostante i numerosi solleciti, la sua segreteria non ha mai risposto alla richiesta di avere un incontro con Lei allo scopo di esaminare insieme delle iniziative che possano mettere in risalto alcune delle eccellenze che in Israele non è difficile trovare, ma che vengono così spesso dimenticate, quando non addirittura boicottate.
Sono molto sorpresa da questo silenzio della sua segreteria, gentile Sindaco, anche in considerazione dell'attenzione del Movimento politico di cui Lei è una autorevole personalità, e pertanto, con la presente, la invito cortesemente a ricevere il presidente del Gruppo Sionistico Piemontese al fine di esaminare con lui le proposte delle quali egli sarà latore.
Aggiungo che, di fronte ad un crescendo di considerazione e ammirazione nei confronti del nuovo governo italiano che si sente in Europa, sarebbe un peccato se questo popolo coraggioso che ha perorato la propria libertà sull'ammirevole aria degli Ebrei nel Nabucco di Verdi fosse sospetto di antisemitismo.
Le invio questa mia lettera da persona nata italiana che ha dovuto abbandonare la nazionalità più bella che ci sia a causa delle leggi fasciste, ma che, ciò nonostante, si è sempre ritenuta italiana.
Conto sulla sua cortese conferma e, con l'occasione, le invio i miei cordiali saluti
Bat Ye'or

(Notizie su Israele, 29 luglio 2018)

La vera vergogna dei media? La differenza tra Ahed Tamimi e Maryam Faraji

Per capire la vergognosa malafede dei media basta mettere a confronto la storia di Ahed Tamimi, reginetta di Pallywood, con quella di Maryam Faraji, attivista per i Diritti Umani iraniana brutalmente uccisa dal regime di Teheran.

Oggi viene rilasciata Ahed Tamimi, la cosiddetta "Shirley Temple" palestinese, la nuova icona dei falsari, la reginetta delle fake news made in Pallywood e la stampa internazionale ci sguazza, quella stessa stampa che non ha speso una sola parola per la brutale uccisione di Maryam Faraji, vera attivista dei Diritti Umani iraniana, uccisa dal regime iraniano qualche settimana fa.
Eppure la storia di Maryam Faraji avrebbe meritato più di un titolo in prima pagina, non solo perché è una storia di resistenza vera ad un regime sanguinario come quello degli Ayatollah, ma soprattutto perché ricorda molto da vicino quella di Taraneh Mousavi, altra attivista per i Diritti Umani iraniana che nel 2009 venne rapita dalle forze Basij, torturata e violentata per 22 giorni e poi data alle fiamme....

(Rights Reporters, 29 luglio 2018)


Sori: scuola ebraica a Recco; il 10 agosto il docu-film

di Carla De Barbieri

 
Le sorelle Weil al cimitero di Polanesi
 
Le ragazze che hanno interpretato il docu-film, il giorno in cui furono tumulate le ceneri della vedova di Hans Weil.
SORI - Come ogni anno trascorreranno il mese d'agosto a Recco due gentili signore americane, Kathie ed Emily Rauch. Non sono turiste qualsiasi ma le ultime discendenti della famiglia Weil che ha avuto una parte importante nella storia passata e recente della nostra cittadina.
Il nonno di Kathie e Emily era infatti Hans Weil, un pedagogista e professore universitario ebreo tedesco, allievo di Max Weber, che nel 1934 intuì prima di tanti altri quello che sarebbe accaduto con l'avvento del Nazismo.
Decise così di emigrare con la famiglia in Italia, un luogo che riteneva sicuro, per fondare una scuola residenziale dove portare avanti le sue innovative teorie educative e nello stesso tempo salvaguardare la libertà e l'esistenza stessa di giovani ebrei tedeschi.
Per più di tre anni dal 1934 fino al 1937, quando fu chiusa per ordine dei ministri Ciano e Bottai su richiesta del Consolato tedesco, la Scuola del Mediterraneo ebbe sede nella bella Villa delle Palme sulle colline di Recco. Qui convivevano docenti e studenti tedeschi e lavoravano dipendenti italiani, tra loro la "mitica" cuoca Maria, madre del fotografo Emilio Razeto, allora solo un ragazzino.
Fu proprio lui molti anni dopo la fine della guerra che aveva distrutto la città privandola anche della sua memoria, a parlarne con lo storico Sandro Pellegrini e a poco a poco tutti i tasselli della storia furono ricomposti.
Laura Gottlob, ricercatrice a Oxford, Maria Pia Abbracchio e Angelo Reggiani, docenti universitari, ma anche gli amici d'infanzia Zelma Brunetto e Gino Massone contribuirono a questa riscoperta.
Constance, figlia di Hans Weil fu rintracciata negli USA e poté tornare a Recco, ospite dei coniugi Reggiani in quella stessa villa che aveva dovuto abbandonare tanti anni prima.
Oggi che non c'è più Constance, nominata nel 2010 cittadina onoraria, sono le sue figlie a tornare in Liguria per un evento del tutto speciale.
Venerdì 10 agosto alle ore 21 presso il cinema teatro di Sori si terrà la prima proiezione pubblica a inviti del docu-film dedicato alla Scuola del Mediterraneo e alla famiglia Weil.
Il film, finanziato dalle Amministrazioni Comunali di Recco e di Bogliasco e da FastUp School, è stato reso possibile anche grazie al sostegno di tanti donatori che hanno versato singole quote sulla piattaforma di crowfunding Eppela.
In un'ottica di continuità tra passato e presente le scene del film sono state re-interpretate dagli studenti dell'Istituto Comprensivo Bogliasco Pieve Sori, in un ambiente tipicamente ligure come Villa dei Pini e il meraviglioso parco della Fondazione Bogliasco.
Il film si chiude con scene più drammatiche legate alla chiusura della Scuola a causa delle leggi razziali, ma anche con un imprevisto lieto fine. Prima di riparare negli USA con la famiglia, infatti, il direttore Hans Weil riuscì a far emigrare in Svizzera i suoi studenti, organizzando una falsa gita sugli sci.
Nel film il regista Adel Oberto ha ambientato nella stube di Villa dei Pini la vestizione dei ragazzi che si preparano a lasciare i luoghi felici della loro infanzia.

(Levante News, 29 luglio 2018)



La vita vostra è nascosta con Cristo in Dio

Se dunque voi siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di sopra dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Abbiate l'animo alle cose di sopra, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste, e la vita vostra è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria.

Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Colossesi, cap. 3

 


L'Irlanda boicotta Israele: i Fratelli Musulmani lo chiedono

Il Senato irlandese approva una proposta di legge che istituisce un boicottaggio nazionale contro i prodotti israeliani provenienti da Cisgiordania e Gerusalemme Est. La legge non è ancora passata, ma ha provocato una bufera diplomatica. Ed è, con tutta probabilità, frutto dell'influenza dei Fratelli Musulmani, che in Irlanda sono fortissimi.

di Lorenza Formicola

 
Una decina di giorni fa, il Senato irlandese ha approvato una proposta di legge destinata a "criminalizzare" le società locali impegnate nel commercio con società israeliane con sede in Giudea e Samaria (Cisgiordania). La legge "Control of Economic Activity (Occupied Territories)" del 2018 nasce allo scopo di modificare radicalmente la politica commerciale di Dublino.
  Il bando nei confronti delle merci provenienti dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est è stato presentato dal senatore indipendente irlandese Frances Balck e co-firmato dai senatori Alice-Mary Higgins, Lynn Ruane, Colette Kelleher, John G Dolan, Grace O'Sullian e David Norris, il 24 gennaio di quest'anno. Frances Black sostiene che la sua proposta si ispira alle misure restrittive adottate in passato dall'Irlanda ai danni del Sudafrica dell'apartheid: "Varando tale provvedimento, il Paese dimostrerà di stare dalla parte del diritto internazionale, dei diritti umani e della giustizia". Il progetto nasce per proibire qualsiasi importazione di beni o servizi dai "territori occupati", con sanzioni finanziarie che ammontano a 25000 euro e fino a cinque anni di reclusione per i trasgressori.
  Netanyahu ha condannato dalla prima ora il disegno di legge come l'ennesima declinazione del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) ai danni dello Stato di Israele. E il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha chiesto la chiusura immediata dell'ambasciata israeliana a Dublino. Ma adesso la proposta di legge è passata con 25 voti a favore e 20 contrari con il supporto di tutti i principali partiti politici irlandesi, ad eccezione del partito governativo, Fine Gael. Adesso dovrà, prima di diventare legge, superare le varie fasi di revisione e modifica. Eppure si tratta di un progetto che, per stessa ammissione del Governo irlandese,è piuttosto inapplicabile, ma di una gravità, già nelle intenzioni, che ha mandato su tutte le furie il Lawfare Project - un think tank statunitense che si propone combattere, legalmente, la discriminazione anti-israeliana. E un gruppo di avvocati britannici del Lawfare Project ha già avviato l'azione legale contro la proposta di legge.
  Ma cosa c'è, o meglio, chi c'è davvero dietro la proposta di legge? Il ruolo sempre più importante svolto dalle istituzioni e organizzazioni islamiche in Irlanda, lascia intendere che la mano lunga dei Fratelli Musulmani, proprio in virtù dell'odio per Israele, stia collaborando ad ordire al meglio il boicottaggio. D'altra parte l' influenza della Fratellanza a Dublino è sintomatica nella notevole confidenza e facilità di infiltrazione nel governo irlandese. Ci sono prove che suggeriscono che i Fratelli Musulmani abbiano stabilito il loro quartier generale europeo a Emerald Isle. Ed è a sud di Dublino, a Clonskeagh, che hanno eretto il Centro Culturale Islamico dell'Irlanda (ICCI), che ospita diversi istituti musulmani affiliati proprio alla Fratellanza. L'ICCI comprende il Consiglio europeo per la Fatwa e la ricerca (ECFR), e un prestigioso istituto di giurisprudenza islamica, che è stato fondato dalla Federazione delle organizzazioni islamiche in Europa (FIOE), che a sua volta è un'istituzione della Fratellanza Musulmana. Il complesso dell'ICCI è stato generosamente donato dalla famiglia al-Maktoum di Dubai, finanziatori di spicco dei Fratelli Musulmani, che hanno premuto perché ospitasse, come fa egregiamente, anche la più grande moschea d'Irlanda. E l'imam è Sheikh Hussein, precedentemente braccio destro della guida spirituale della Fratellanza, Yusuf al-Qaradawi: il cui ingresso in Irlanda è stato vietato nel 2011 dopo che aveva espresso sostegno e solidarietà agli attentatori suicidi contro Israele.
  Ma è un vecchio vizio dell'ICCI quello di ospitare esponenti di spicco del mondo islamico più radicale. Uno di questi è sicuramente il saudita Mullah Aed al-Qarni, diventato famoso quando nel 2005, ad Iqra TV ha tenuto un sermone contro i " fratelli di scimmie e maiali " (cioè israeliani ed ebrei) chiedendo che le loro gole venissero "tagliate e i crani frantumati". L'Irlanda è diventata, negli anni, così tanto terra di gemellaggio con l'islam, specie quello legato ai Fratelli musulmani, che alcune informazioni ricavate nel 2006 dal Dipartimento di Stato e dall'Ambasciata degli Stati Uniti in Irlanda - tenute nascoste e poi pubblicate da Wikileaks nel 2011 - hanno rivelato che l'amministrazione di George W. Bush stava cercando di scoprire se il Consiglio europeo per Fatwa e la ricerca con base in Irlanda stesse lavorando per legittimare la sharia in Europa. James Kenny, all'epoca ambasciatore americano in Irlanda, era convinto del fatto che al di fuori del Qatar, l'Irlanda aveva la più imponente presenza dei Fratelli Musulmani, e che fosse direttamente al-Qaradawi a "gestire l'islam in Irlanda".
  L'apertura della società irlandese all'islam ha fatto sì che i gruppi jihadisti si sentano a casa loro in maniera del tutto naturale. E se la politica irlandese dimostra spassionatamente di essere protesa a favorire la narrativa islamica sul conflitto arabo-palestinese, diventa allora naturale accettare come imam di una moschea locale un membro di Hamas, Yayah al-Huessin. Nella provincia dell'Irlanda del Nord l'orizzonte è fatto anche di bandiere palestinesi che sventolano fuori dalle abitazioni private.
  E allora cosa c'è da meravigliarsi se Saeb Erekat, diplomatico palestinese ed esponente dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha accolto con favore il disegno di legge del Senato irlandese? In una dichiarazione citata dall'agenzia di stampa ufficiale dell'Autorità palestinese Wafa, Erekat ha detto così : "Questo coraggioso passo si basa sugli storici legami tra l'Irlanda e la Palestina, e [mostra] la via da seguire per il resto dell'Unione Europea".

(Bussola Quotidiana, 28 luglio 2018)


I giornali della comunità ebraica inglese contro Corbyn

di Alessandra Rizzo

Un governo laburista sarebbe «una minaccia esistenziale alla vita degli ebrei nel Paese». Con queste parole i tre più importanti giornali della comunità ebraica britannica hanno attaccato il segretario Jeremy Corbyn, gettando nuova benzina sulla questione dell'antisemitismo nel Labour. Solo la settimana scorsa, una deputata laburista di lungo corso, Margaret Hodge, signora ebrea settantenne di solito assai moderata, si era scagliata contro Corbyn nei corridoi di Westminster, chiamandolo «razzista» e «fottuto antisemita».
   Al centro delle accuse c'è la formulazione del codice di condotta del partito contro l'antisemitismo. Il codice riprende sì la definizione adottata dall'Alleanza Internazionale per la Memoria dell'Olocausto, ma omette alcuni esempi chiave di antisemitismo: per esempio quello di accusare gli ebrei di essere più leali ad Israele che non al proprio Paese; o di paragonare le attuali politiche israeliane al nazismo.
   Il Jewish Chronicle, il Jewish News e il Jewish Telegraph hanno pubblicato lo stesso titolo in prima pagina («United we stand») e lo stesso, durissimo editoriale. «Il partito che fino a poco tempo fa era la casa naturale della nostra comunità ha visto i suoi valori e la sua integrità erodersi sotto il disprezzo corbynista per gli ebrei e per Israele», hanno scritto.
   Le accuse di antisemitismo rincorrono Corbyn dai tempi della sua ascesa a segretario del partito nel 2015. Radicale di sinistra, anti-imperialista e anti-americano, Corbyn nel passato ha chiamato Hezbollah e Hamas «amici» e si è dovuto difendere per aver criticato la decisione di rimuovere un murale chiaramente antisemita a Londra, invocando la libertà di espressione. E ad aprile in tantissimi hanno manifestato accusandolo di essere insensibile alle loro preoccupazioni. Sebbene la comunità ebraica britannica sia limitata, circa 270 mila persone, la polemica è un disastro d'immagine per Corbyn, che si ritrova inaspettatamente avanti nei sondaggi mentre il partito conservatore si lacera sulla Brexit.
   Nel passato Corbyn ha ammesso l'esistenza di sacche di anti-semitismo nel partito, giurando di porvi rimedio, e ha incontrato i leader della comunità, senza alcun successo. Un suo portavoce ha detto che «un governo laburista non rappresenta alcuna minaccia di alcun tipo per gli ebrei» e ha promesso di tenere in considerazione i dubbi della comunità sulla definizione di antisemitismo. Ma, ha ammesso, «c'è molto lavoro da fare».

(La Stampa, 28 luglio 2018)


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Perché gli ebrei d'Inghilterra sono tanto preoccupati per la deriva del Labour

intervista al rabbino Andrea Zanardo

di Daniel Mosseri

BERLINO - Andrea Zanardo lo aveva scritto su Facebook già da alcune settimane. Quello che Jeremy Corbyn sta facendo per unificare l'ebraismo britannico non lo aveva mai fatto nessuno. Lo si è visto nell'appello firmato dai rabbini di tutte le correnti esistenti nel Regno Unito, coesi nel chiedere al Labour di adottare la definizione di antisemitismo dell'International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra). Fra i firmatari c'era anche Zanardo che guida la Brighton & Hove Reform Synagogue, la più grande del Sussex. "Hanno firmato i rabbini delle comunità ultraortodosse nelle circoscrizioni più laburiste di Londra. Loro non si farebbero mai vedere accanto a colleghi riformati, men che mai se donne. Eppure hanno firmato assieme alle rabbine liberali, fra le quali c'è qualche fiera militante lgbt'', racconta Zanardo al Foglio. Un miracolo teologico-politico senza precedenti in un paese dove dal tempo dell'editto di riammissione degli ebrei voluto da Cromwell, le diverse comunità ebraiche hanno sempre marcato le differenze culturali (sefarditi, russi, tedeschi, romeni e mediorientali), ideologiche (più o meno sionisti, tory e laburisti) e dottrinali (ultraortodossi, ortodossi, conservative, reform e liberal). L'uscita in edicola, giovedì, dei tre principali magazine degli ebrei britannici con la stessa copertina - "United we stand" - è stato il passo successivo.
   Ma c'è davvero bisogno di allarmarsi tanto per la mancata adozione di un testo? Se si considera che la definizione dell'Ihra è stata fatta propria da decine di governi, compreso quello britannico e dall'Ue, forse sì. Un futuribile governo laburista a guida Corbyn, c'è da immaginare, la ripudierebbe. Sotto la guida della corrente corbiniana chiamata Momentum, "il Labour ne ha proposta una tutta sua secondo cui accusare gli ebrei europei di essere terze colonne di Israele oppure paragonare Israele alla Germania nazista non sarebbe antisemitismo", spiega Zanardo. Sembra di essere tornati alla risoluzione dell'Onu del 1975 che equiparava sionismo e razzismo. "D'altronde il brodo di coltura di Corbyn è quello", osserva il rav nel ricordare che il leader con la barbetta ha riciclato un bel numero di trozkisti messi in cantina dalla passata gestione. "Non a caso la leadership laburista di oggi ha in media dieci anni di più di quella precedente: sono i vecchi compagni di battaglia che tornano alla ribalta".
   Quando negli anni Settanta il suo primo matrimonio entrò in crisi, Corbyn decise di farsi un giro in motocicletta con l'amante Diane Abbott nelle romantiche campagne della Ddr. Il suo è un ambiente politico che ha flirtato con i palestinesi negli anni '70 e continua a flirtarci adesso; tant'è che il leader laburista è considerato vicinissimo a Hamas mentre la Abbot ricopre oggi l'incarico di ministro ombra dell'Interno. Troppo poco per dire che il nuovo ma così vecchio Labour è antisemita? Andrebbe chiesto al cancelliere dello scacchiere (ombra anche lui) di Corbyn. "Una volta per tutte: siamo un partito antirazzista e antisemita", ha detto John McDonnell due giorni fa alla Bbc, per poi correggersi qualche secondo dopo. Un innocente slip of the tongue, Meno innocenti sono i progetti interni a Momentum, Ecco perché neppure gli esaltati rabbini antisionisti di Naturei Karta, famosi per le foto con l'iraniano Ahmadinejad, si farebbero vedere con Corbyn. Un conto è avercela solo con Israele, un altro è discutere se togliere la polizia davanti alle scuole ebraiche o vietare la circoncisione prima dei nove anni-un progetto su misura per colpire gli ebrei e non i musulmani. Chissà se i maschi di casa Windsor sono informati.

(Il Foglio, 28 luglio 2018)


Il valore della memoria per Raffaele, guida della comunità ebraica di Ivrea

di Floriana Rullo

Raffaele Pugliese
IVREA - Il ricordo del passato deve servire come monito per i più giovani. Perché eccidi e uccisioni possano non ripetersi più. Lo diceva spesso Raffaele Pugliese, morto a Ivrea dopo una breve malattia a 81 anni. Era il delegato della comunità ebraica di Torino per la sezione di Ivrea.
Memoria storica e instancabile, preparato e colto, era il promotore di iniziative relative alla gloriosa storia ebraica locale. Raffaele Pugliese è stato per la sezione di Ivrea un costante punto di riferimento. Della vita ebraica nella città piemontese ha curato con passione ogni aspetto, dall'organizzazione di attività culturali e incontri mensili con Maestri alle visite di cittadinanza e studenti nelle due sinagoghe. Un'attività incessante la sua che lascia un vuoto profondo in chi lo conosceva e in tutta la città dove era particolarmente stimato e apprezzato.
Alla guida di una comunità molto unita e impegnata su tutti i fronti, aveva sempre avuto grande attenzione ai valori ebraici nelle famiglie ancora radicate.
A Ivrea nel 2015, in una giornata carica di emozioni, avevano festeggiato, con Pugliese, emozionato sulla tevà, a fare gli onori di casa, l'ingresso di un nuovo Sefer Torah. Per lui essere ebrei oggi nelle piccole e piccolissime realtà del Piemonte ebraico voleva dire avere consapevolezza, orgoglio, determinazione in tutto ciò che si faceva.
Una delle ultime manifestazioni a cui aveva partecipato è stata quella del 17 gennaio scorso, quando davanti alla Sinagoga della città furono messe le pietre d'inciampo della memoria. Un vero simbolo per lui, che ha visto la sua famiglia salvarsi dalla deportazione solo perché avvisati in anticipo da alcuni amici. Destino che era invece toccato a molte persone che conosceva.
Sposato, aveva trovato la pace e la tranquillità familiare con la moglie Daniela, originaria di Ferrara. I funerali di Raffaele Pugliese, che lascia, oltre la moglie, i suoi due figli Susanna e Andrea, si sono svolti nella sezione ebraica del cimitero di Ivrea

(Corriere Torino, 28 luglio 2018)


Le due famiglie ebree tenute nascoste nel bar

Tempo di guerra

di Deanna Farina

Tante sono le storie che escono dall'oblio per ricordarci che cosa fu l'Olocausto. Una di queste avvenne a Lavezzola, frazione di Conselice, in provincia di Ravenna. Qui negli ultimi mesi del 1943 arrivano in treno da Trieste due famiglie che cercano di sottrarsi alle persecuzioni razziali. A venire in loro soccorso è Rina Rambaldi, che gestisce un piccolo bar situato nella locale Casa del Fascio. Approfittando di un locale in disuso, la signora Rina decide di nascondere quegli ebrei in fuga. In aiuto della barista c'è il fratello quattordicenne Marcello. Che oggi, 87enne, ricorda: «Ho ancora negli occhi i volti di quelle persone gentili che non avevano nulla da mangiare e alle quali offrivamo qualche pagnotta, un po' di verdura e patate. Come dimenticare così quegli incontri con Ghers Talmazschi, un professore rumeno dai modi distinti, insieme a sua moglie tedesca Etia Kats e ai loro due figli Valerio di 24 anni e Regina di 29, una bella ragazza. L'altra famiglia era composta invece dal polacco Simeone Krzentowski, con moglie e una figlia». Trascorrono alcuni mesi e, improvviso, arriva il momento drammatico della scoperta del rifugio di quel gruppo di ebrei. «Era il 9 dicembre 1943 - racconta ancora Marcello - quando i carabinieri, forse preceduti da una delazione, fecero irruzione nel rifugio dove si nascondevano i componenti delle due famiglie ebree. Seguì il loro arresto, nel gennaio 1944, e il trasferimento nelle carceri di Ravenna. E poiché tra di noi era ormai nato un sentimento di solidarietà e amicizia, fui io a essere incaricato di andare Ravenna, con il compito di portare alle famiglie Talmazschi e Krzentowski una sporta con del cibo. Un giorno un secondino mi disse che erano stati trasferiti nel carcere San Vittore di Milano. Apprendemmo solo in seguito che la loro destinazione finale era Auschwitz, da dove non sono più tornati». E ancora oggi, dopo la scomparsa di mamma Rina, è la figlia Aldina a conservare un orologio e alcuni oggetti d'oro che la famiglia Talmazschi aveva affidato a sua mamma prima dell'arresto. Un piccolo tesoro, quello che ci lasciarono, ricorda Marcello Rambaldi, «che continua a procurarmi sempre una grande emozione».

(il Giornale, 28 luglio 2018)


Perché Israele non può fidarsi delle garanzie internazionali

Il penoso teppismo degli osservatori internazionali a Hebron. Un aneddoto vergognoso

di Ugo Volli

 
Temporary International Presence in Hebron
Voglio raccontare oggi una storia piccola per dimensioni e conseguenze, ma estremamente significativa, su cui la stampa italiana non ha riferito. La vicenda riguarda la città di Hebron, che prima di Gerusalemme fu la vera patria del popolo ebraico in Terra di Israele. Qui Abramo fece seppellire la moglie Sara, ed egli stesso fu interrato, come poi gli altri patriarchi e matriarche; qui Davide regnò dieci anni prima di trasferirsi a Gerusalemme, qui visse ininterrottamente da allora una comunità ebraica, fino a quel 23 agosto del 1929 in cui, su incitamento del Muftì di Gerusalemme, i vicini arabi sgozzarono 67 ebrei del luogo e gli altri dovettero fuggire.
   Qui, nelle case che appartenevano da sempre agli ebrei, dopo la guerra del '67 si ristabilì una piccola comunità ebraica, sempre insidiata dal terrorismo islamico e ancora bisognosa di protezione per non essere massacrata dagli arabi. Qui, per vendetta, nel 1994 Baruch Goldstein sparò nella moschea annessa alla Tomba dei Patriarchi. Da qui hanno origine buona parte dei più sanguinosi atti di terrorismo degli ultimi anni, compreso il rapimento e l'uccisione dei tre studenti nel 2014. Ancora oggi vi sono solo un paio di strade aperte agli ebrei (e chiuse agli arabi per sicurezza), pattugliate dall'esercito; tutto intorno vi è odio e volontà omicida.
   Dopo il gesto omicida di Baruch Goldstein, nel 1994, Israele acconsentì alla creazione di una missione chiamata Temporary International Presence in Hebron (TIPH) col compito di cercare di aiutare una convivenza civile nella città "garantendo la sicurezza dei palestinesi" (ma non degli ebrei). Aver accettato una missione così sbilanciata è uno dei numerosi errori motivati dall'ideologia del governo Rabin, per certi versi paragonabile al disastro degli accordi di Oslo. Fatto sta che a Hebron vi è un corpo di osservatori internazionali, i cui membri sono italiani (carabinieri), svizzeri, svedesi, norvegesi e turchi, che sono lì per riferire di eventuali incidenti e debbono, per mandato, limitare la loro presenza alla parte araba della città.
   A parte i nostri carabinieri, che come sempre sono esempi di correttezza, nelle altre rappresentanze nazionali è prevalso l'uso di nominare al ruolo delicatissimo del TIPH immigrati musulmani, evidentemente più "rassicuranti" per gli arabi locali.
   I risultati si sono visti anche nell'ultima settimana. Vi sono stati due incidenti in cui membri del TIPH hanno esercitato violenza sugli ebrei locali, con cui per regolamento non dovrebbero neppure entrare in contatto. Nel primo caso un membro (svizzero!) dell'ufficio legale del TIPH ha accompagnato un gruppo di visitatori di un'associazione antisionista a visitare la zona ebraica (dove non aveva il diritto di entrare) ed evidentemente infastidito dal fatto di essere riconosciuto da un ragazzino ebreo del luogo, l'ha steso a terra con un pugno, protetto dai suoi colleghi, come si vede in questo filmato. Per sua sfortuna, il suo gesto è stato filmato da una telecamera di sorveglianza e l'energumeno è stato espulso da Israele (non processato perché protetto da immunità diplomatica).
   In un secondo caso, sempre grazie alle telecamere, due membri del TIPH sono stati identificati mentre compivano l'impresa non rara di andare a bucare le gomme di una macchina di ebrei. Qui non c'è stata neanche bisogno di espulsione: quando la polizia è andata a chiedere agli ufficiali del TIPH di identificare i colpevoli sulla base dei filmati, prima di dare una risposta, i due responsabili sono stati immediatamente rimpatriati prima di poter essere indagati: un altro caso di omertà da parte della missione internazionale.
   Rispetto ai problemi che Israele deve affrontare in Siria e a Gaza, questi sono piccoli incidenti, ma rivelativi. Vi sono degli uomini grandi e grossi, membri di una missione internazionale, diplomatici o militari, che si comportano come bulli di paese: picchiano i bambini, bucano le gomme delle macchine, non si assumono le loro responsabilità legali ma scappano. Questo mostra il grado di odio antisemita che si sono portati dietro dai loro paesi di origine o con cui sono stati contagiati a Hebron.
   E naturalmente fa capire quanto sia credibile la loro missione di "osservazione" degli incidenti. Ma al di là del TIPH, che conta pochissimo, questa spiega perché Israele non può assolutamente fidarsi di missioni internazionali, che su cose ben più importanti (come l'armamento di Hizbullah in Libano ai confini di Israele, o a suo tempo la garanzia della navigazione del Mar Rosso) hanno sempre mostrato una mistura velenosa di ignavia e pregiudizio antisemita. Nessuna garanzia internazionale può garantire semplicemente la sicurezza delle automobili di proprietà ebraica, figuratevi i confini più delicati e pericolosi.

(Progetto Dreyfus, 27 luglio 2018)


Scoperto trattamento che limita i danni causati da una lesione al midollo spinale

È possibile migliorare le lesioni del midollo spinale con l'iniezione di un potente enzima. La scoperta arriva dai ricercatori dell'Università di Tel Aviv, che dopo alcuni esperimenti sui topi hanno notato che l'iniezione effettuata dopo una lesione alla colonna vertebrale, può bloccare una serie di eventi che causano la morte dei neuroni provocando infiammazioni e cicatrici.
Il trattamento si basa sul controllo dei livelli di glutammato nei pazienti con malattie come il glioblastoma e la SLA.
La dottoressa Yona Goldshmit della Facoltà di Medicina Sackler dell'Università di Tel Aviv, come riporta Israel 21c, ha spiegato:
"Il danno meccanico primario al midollo spinale uccide una certa quantità di cellule neuronali. Ma c'è il danno secondario dovuto al rilascio di glutammati in eccesso nel sangue, che sono responsabili di una disabilità funzionale aggiuntiva. La nostra idea principale è di ridurre il danno secondario il prima possibile, in modo da bloccare la reazione naturale del corpo al trauma del midollo spinale. Questo è il ruolo dell'iniezione enzimatica che abbiamo ideato".
I ricercatori israeliani della TAU, insieme a colleghi del Weizmann Institute of Science, hanno studiato l'effetto neuroprotettivo degli scavenger (spazzini) di glutammato nel sangue nei topi con lesioni al midollo spinale.
L'iniezione di scavenger di glutammato può essere somministrata immediatamente dopo un incidente senza che sia stata ancora confermata una diagnosi di lesione del midollo spinale.
La dottoressa Angela Ruban della TAU, ha affermato:
"Suggeriamo di somministrare l'iniezione anche in caso di diagnosi incerta. Non c'è alcun effetto collaterale all'iniezione, ma potrebbe mitigare i danni secondari e migliorare drasticamente la qualità della vita di una persona. Il nostro nuovo trattamento ha l'obiettivo di ridurre i livelli di glutammato, che viene rilasciato in quantità tossiche dopo il trauma, somministrando per via endovena gli scavenger di glutammato nel sangue. L'intervento farmacologico con scavenger di glutammato in seguito ad una lesione del midollo spinale può essere neuroprotettivo e può creare un ambiente rigenerativo. Quando questo nuovo trattamento sarà disponibile per i soccorritori, le conseguenze delle lesioni saranno drasticamente ridotte".

Lo studio, pubblicato lo scorso maggio dal Journal of Neurotrauma, evidenzia che se viene ridotta la quantità di glutammato rilasciato subito dopo un incidente è possibile mitigare il danno al tessuto e consentire alle cellule neuronali di sopravvivere, attenuando l'infiammazione e le cicatrici.

(SiliconWadi, 28 luglio 2018)


I drusi chiedono la modifica dello 'Stato-Nazione'

Netanyahu 'non si impegna' ma continua le consultazioni

La modifica della legge che qualifica Israele come ''Stato nazionale del popolo ebraico, in cui esso realizza il proprio diritto all'autodeterminazione'' e' stata chiesta oggi dai leader politici e spirituali della minoranza drusa in un incontro a Gerusalemme con Benyamin Netanyahu. Lo riferisce l'ufficio del premier. Nei giorni scorsi la legge ha destato indignazione fra i 120 mila drusi cittadini di Israele, molti dei quali servono nell'esercito. All'incontro con Netanyahu hanno partecipato il ministro per le comunicazioni Ayub Kara (un druso del Likud), il leader dei drusi israeliani sceicco Mowaffak Tarif, Amal Assad (un alto ufficiale del riserva) e l'ex deputato druso Shaqib Shanan.
   Secondo il comunicato emesso dall'ufficio del premier il colloquio si e' svolto in un'atmosfera serena e i dirigenti drusi hanno detto di aver fiducia nella ''leadership di Netanyahu''.
   Il premier - si legge ancora nel comunicato - non ha ''assunto impegni'' ma ha promesso che continuera' le consultazioni nell'intento di raggiungere presto ''una soluzione che esprima la alta considerazione dello Stato d'Israele'' nei confronti della minoranza drusa.
   Secondo i drusi israeliani, la legge 'Stato-Nazione' e' fortemente discriminatoria nei loro confronti. Ieri manifestazioni di protesta si svolte nel monte Carmelo (Haifa) nei cimiteri militari dove sono sepolti i numerosi militari drusi morti mentre indossavano la divise dell'esercito o della polizia di Israele. Lo stesso vicepremier Naftali Bennett, del partito 'Focolare ebraico', si e' detto a favore di una revisione della legge a beneficio dei drusi.

(ANSAmed, 28 luglio 2018)


Cisgiordania, tre soldati israeliani accoltellati

di Giordano Stabile

Tre israeliani sono stati attaccati da un palestinese in un insediamento della Cisgiordania, Geva Binyamin, cinque chilometri a Nord-Est di Gerusalemme. L'assalitore è riuscito a entrare nella loro casa e li ha colpiti con un coltello. Uno è stato ferito leggermente, un 3lenne ha subito ferite gravi ma guaribili, un uomo di 58 era ieri sera invece in condizioni critiche. Il terrorista è stato ucciso sul posto a colpi di pistola da un altro abitante dell'insediamento, conosciuto anche con il nome di Adam.
  E' l'ultimo episodio della cosiddetta «Intifada dei coltelli», cominciata nel settembre del 2015 con gli scontri davanti alla moschea di AlAqsa e proseguita con armi rudimentali, da taglio, o investimenti con automobili e altri mezzi. In tre anni sono morti 51 israeliani e circa 300 palestinesi, ma l'insurrezione strisciante sembrava essersi spenta l'anno scorso, quando il conflitto si era spostato sulla questione dell'ambasciata americana a Gerusalemme e la dirigenza politica di Ramallah aveva puntato tutto sulla diplomazia.

 Hamas alza il livello di scontro
  L'offensiva per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi, in particolare a Gerusalemme, è però a un punto morto. Il presidente Abu Mazen, nonostante il sostegno alle famiglie dei «martiri», non ha mai creduto alla possibilità di sfidare Israele con la guerriglia, ma è sempre più debole e isolato. L'attenzione si è poi concentrata su Gaza, dove dal 30 marzo scorso sono stati uccisi oltre 140 palestinesi. Hamas, dopo le marce disarmate o quasi, ha di nuovo alzato il tiro. Sabato scorso un soldato israeliano è stato ucciso da un cecchino, mercoledì ne è stato ferito un altro.
  L'ala militare di Hamas, Brigate Izz ad-Din al-Qassam, cercano ormai lo scontro aperto, ieri hanno fatto appello alle altre fazioni islamiste, come la Jihad islamica, di «agire allo stesso modo». «Israele - hanno minacciato - pagherà un alto prezzo di sangue per i suoi crimini contro il popolo palestinese».
  Nella notte fra mercoledì e ieri sono stati lanciati nove fra razzi e colpi di mortaio verso Israele, l'aviazione e l'artiglieria della Stato ebraico hanno reagito e colpito «sette postazioni di Hamas» nella Striscia. Dove ieri è arrivato l'inviato Onu per il Medio Oriente, Nikolay Mladenov, per incontrare il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, e cercare di innescare una «quarta guerra di Gaza», cioè un intervento di terra dell'esercito israeliano.

(La Stampa, 27 luglio 2018)


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Israele, morto uno dei tre accoltellati

E' morto uno dei tre israeliani che nel tardo pomeriggio di ieri è stato accoltellato in un attacco ad opera di un palestinese 17enne in un insediamento vicino a Ramallah, in Cisgiordania. La vittima, 31 anni,era stata ricoverata in condizioni molto critiche all'ospedale Hadassah Mont Scopus,a Gerusalemme. Un secondo ferito, un 58enne,è nello stesso nosocomio in gravi condizioni, anche se stabili. Il terzo ferito, colpito leggermente a una gamba,è riuscito ad uccidere l'aggressore, nativo palestinese della città di Koba.

(RaiNews, 27 luglio 2018)


Hamas, l'assassino della porta accanto che chiede a Israele di dargli le armi

Togliete il blocco, grida Hamas, in modo che possiamo spazzarvi via e distruggervi con comodo. E c'è chi non vede l'assurdità della pretesa.

Alcuni anni fa è venuto ad abitare accanto a noi un nuovo vicino terribile: un ex-assassino impenitente. La vita è diventata un incubo. Diceva che eravamo sul suo terreno. Non era vero. C'era stata una disputa, prima che lui arrivasse, ma in effetti avevamo già ceduto. Giurava che ci avrebbe buttato fuori dal quartiere o che ci avrebbe ucciso. Diceva a chiunque lo ascoltasse che non avevamo alcun diritto di vivere qui e che ci odiava a morte. Incredibilmente, alcuni degli altri vicini gli davano ascolto e lo appoggiavano. Ci sono stati scontri alla staccionata. Avevamo paura ad uscire. Lui cercava di procurarsi delle armi. Aveva amici che sapevamo che gliele avrebbero date. Diceva che se non gli avessimo permesso di procurarsi delle armi, avrebbe continuato a tormentarci e aggredirci. Così abbiamo detto: okay. Gli abbiamo permesso di procurarsi delle armi. E lui ci ha uccisi....

(israele.net, 27 luglio 2018)


Niente Mondiale di scacchi per quella campionessa. "Sei israeliana"

Liel Levitan, sette anni, e la vera apartheid in Medio Oriente

di Giulio Meotti

ROMA - Liel Levitan viene da una famiglia di grandi scacchisti e a quattro anni ha iniziato a cimentarsi in questa disciplina. Liel si è da poco imposta nei campionati europei a Cracovia, cui hanno partecipato diverse centinaia di studenti di scuola elementare. Al termine della premiazione, Liel ha dichiarato: "Amo gli scacchi. Penso sia un gioco per tutte le età, non solo per gli adulti. Il mio sogno è diventare campionessa del mondo".
   Dal primo al nove di settembre, Liel avrebbe dovuto partecipare al Campionato del mondo di scacchi, in programma a Monastir, in Tunisia. Avrebbe ... Perché Liel non potrà partecipare, essendo una cittadina israeliana. Dallo stato arabo, il più moderato e che ha avuto maggior successo nella stagione delle primavere arabe, è arrivato un netto rifiuto: "Non vogliamo scacchisti israeliani in gara". E vale la pena ricordare che Beersheba, nel sud di Israele, è la capitale mondiale degli scacchisti, la città con la più alta percentuale pro capite di campioni. La Federazione internazionale di judo aveva cercato di spingere la Tunisia a cambiare idea, sospendendo il Gran prix di judo di Tunisi una settimana fa. Ma neppure questo ha modificato l'atteggiamento delle autorità tunisine. "Solo qualche mese fa, il Campionato mondiale di scacchi si sarebbe dovuto tenere in Arabia Saudita, ma era chiaro a tutti che gli eccezionali giocatori di scacchi israeliani non avrebbero avuto modo di partecipare alla competizione", ha dichiarato Lior Aizenberg, giocatore di scacchi israeliano. E prima ci sono stati altri casi eclatanti. Il judoka egiziano che, a Rio 2016, non ha stretto la mano al suo avversario israeliano che l'ha appena sconfitto, e i judoka israeliani che, protagonisti un anno fa in un torneo ad Abu Dhabi, furono costretti a cantarsi l'inno da soli. Ieri ha giustamente detto Piero Fassino, vicepresidente della commissione Esteri della Camera, che "l'odio antisemita impedisce a una bambina di sette anni, perché israeliana, di partecipare ai Mondiali di scacchi" e che "così si comportavano i nazisti".
   Una settimana fa, dopo l'approvazione della legge israeliana sullo stato-nazione, molti giornali europei hanno gridato alla "apartheid", facendo da cassa di risonanza delle rivendicazioni dei deputati arabi del Parlamento di Gerusalemme. Oggi, quasi tutti gli stati arabi non vietano più l'ingresso degli ebrei in quanto tali come accadde a lungo dopo il 1948. Ma quasi tutti continuano a vietare l'ingresso ai cittadini israeliani. Sei dei sette stati che compaiono nell'ordine esecutivo di Trump (Iran, Iraq, Libia, Sudan, Siria e Yemen) vietano l'ingresso a qualunque titolare di passaporto israeliano, così come fanno altri dieci paesi a maggioranza musulmana.
   Non solo. Molti di questi paesi non ammettono l'ingresso di cittadini non israeliani che abbiano sul passaporto un visto israeliano. Non risulta che la comunità internazionale abbia mai considerato questo comportamento come un oltraggio particolarmente clamoroso alle leggi internazionali. Né che i giornali abbiano urlato alla "apartheid", che colpisce anche quegli scrittori arabi che hanno osato mettere piede in Israele, dall'algerino Boualem Sansal al siriano Adonis, passando per l'egiziano Ali Salem. Lo scorso settembre, il regista libanese Ziad Doueiri, dopo avere assistito alla premiazione al Festival del Cinema di Venezia di Kamel El Basha come migliore attore protagonista del film "L'insulto", tornato a Beirut, venne arrestato per tre ore dal tribunale militare, accusato di "collaborazionismo con Israele". Aveva girato alcune scene in territorio israeliano.
   Il produttore cinematografico tunisino Said Ben Sard, invece, ha dovuto rinunciare alla direzione del Festival del cinema di Cartagine, in Tunisia. La sua "colpa"? Essere un membro della giuria del Festival del cinema di Gerusalemme. Ma di questa che è la sola, unica "apartheid" in medio oriente, quella del mondo araboislamico ai danni degli israeliani, non si dice niente.

(Il Foglio, 27 luglio 2018)


Siria: il protettorato di Assad

di Alberto Negri

 
Dopo oltre sette anni di guerra la Siria è un Paese in macerie con oltre sei milioni di profughi all'estero e tre-quattro milioni di rifugiati interni. È inoltre una sorta di condominio militare dove ci sono truppe russe, iraniane, turche, americane, francesi, britanniche, oltre alle milizie regionali e locali, dai curdi agli Hezbollah libanesi; dai jihadisti di ogni declinazione, Al-Qaeda compresa, alle ultime sacche di resistenza dell'Isis. È tra l'altro interessante notare che americani, russi e iraniani continuano a impiegare sul campo truppe mercenarie e di compagnie di sicurezza che hanno fatto questo "lavoro" in Iraq e in altre aeree della regione. A questo quadro si aggiungono gli israeliani che occupano dal 1967 le alture del Golan e non esitano a innescare i loro raid contro le postazioni dei pasdaran iraniani.
  Eppure in questa sorta di guerra mondiale a pezzi, che forse è stata soprattutto un conflitto per procura delle potenze sunnite e occidentali contro l'influenza regionale dell'Iran sciita, c'è un vincitore: Bashar al-Assad, l'ultimo raìs della vecchia generazione sopravvissuto alle primavere arabe del 2011, pur essendo giovane ed avendo ereditato il potere dal padre Hafez. Assad, che per altro non controlla ancora circa il 40% del territorio e alcune importanti istallazioni petrolifere, oggi non è più contestato: la sua permanenza in sella viene riconosciuta sia dagli Usa che da Israele mentre Gran Bretagna e Francia, che ne avevano reclamato a gran voce la destituzione, sono piombate nel silenzio e sotto banco riallacciano i rapporti con il regime alauita.
  Così come fa la Turchia, il Paese che con il suo leader Erdogan, da poco presidente con pieni poteri, accarezzava non solo di incenerire Assad, facendo passare migliaia di jihadisti dai suoi confini, ma di estendere la sua influenza politica ed economica sul mondo sunnita. Ora la Turchia è arrivata a patti con gli Usa con la Russia e Damasco per contenere i curdi siriani ai suoi confini.
  Ci sono in concreto "due fasce di sicurezza" principali, una turca a Nord e una israeliana a Sud, diverse altre aeree dove predominano i russi con la loro aviazione (a contatto visivo con quella americana sulla linea dell'Eufrate), in particolare sulla costa mediterranea di Latakia, e la presenza di truppe come quelle americane e francesi che tentano di fare da cuscinetto tra i curdi e i turchi e provano a interrompere o controllare le vie di rifornimento iraniane alla Siria e agli Hezbollah di Nasrallah. I russi sono intervenuti anche nelle ultime offensive dell'esercito di Assad nel Sud sia verso Daraa che verso il Golan per fare da interposizione ed evitare che gli iraniani si avvicinassero troppo alle postazioni israeliane.
  Non ci sono accordi ancora definiti e conosciuti per il ritiro delle truppe straniere ma una sorta di spartizione di zone di influenza, più o meno precaria. Questa è la Siria a pezzi, una sorta di conflitto a bassa intensità dove i russi vorrebbero cominciare la ricostruzione, organizzando il ritorno dei profughi, ma che resta una polveriera: a Idlib e provincia, nel Nord, sono stati evacuati decine di migliaia di ribelli, molti jihadisti e stranieri. Con questa spina nel fianco Assad non potrà mai controllare del tutto la situazione.
  L'unico messaggio chiaro uscito dalla cortina fumogena del vertice Trump-Putin di Helsinki riguarda proprio la posizione dell'Iran in Siria. Su questo punto Trump ha detto al summit le uniche parole che non ha poi dovuto smentire: "Fare pressioni per contenere le ambizioni nucleari dell'Iran e mettere fine alla sua campagna di odio in Medio Oriente". E Putin, che deve esportare i suoi oligarchi come Abramovic a Tel Aviv per aggirare le sanzioni, di rimando ha affermato "che farà di tutto per rendere sicuro il confine tra Siria, Israele e il Golan". Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che una settimana prima di Helsinki era stato a Mosca, è sembrato soddisfatto: se viene rispettata la linea del cessate il fuoco seguita alla guerra del 1973 - pattugliata sul Golan da truppe Onu - Israele può accettare un ritorno delle truppe siriane nell'area.
  Tutto come prima? Assolutamente no. In Siria non sarà mai più tutto come prima. Trump vorrebbe disimpegnare le truppe con l'aiuto di Macron ma i vertici del Pentagono per il momento non sono d'accordo. I russi hanno basi fisse che manterranno per decenni, secondo gli accordi stipulati con Damasco, e al Nord la situazione tra turchi, curdi e milizie ribelli jihadiste è ancora assai instabile. Complicato anche per Putin e Assad chiedere un ritiro agli iraniani, coloro che insieme agli Hezbollah hanno tenuto in piedi il regime dal 2012 all'autunno del 2015 quando intervennero i russi. Dalle macerie della guerra sta emergendo una nuova Siria, anche demograficamente dove i sunniti, la maggioranza, sono tenuti sotto stretto controllo. Assad oggi ha in mano la spina dorsale del paese, da Aleppo nel nord fino a Damasco al Sud ai confini della Giordania, quella che i colonizzatori francesi chiamavano in passato "la Syrie utile" (la Siria utile). Questa Siria non è un Paese né per tutti i siriani né del tutto indipendente né pacificato: è una sorta di protettorato di nuovo genere, con un raìs potente all'interno ma sotto tutela, con una guerra a bassa intensità e una ricostruzione che deve ancora ripartire.

(ISPI, 27 luglio 2018)


Palestina, il 25 per cento dei quindicenni non studia

di Ugo Elfer

Studiano fino all'adolescenza. Poi abbandonano i libri. I bambini palestinesi, fra i 6 e i 9 anni frequentano la scuola. Ma, arrivati ai 15 anni, circa il 25 per cento dei maschi e il 7 per cento delle ragazze lascia i banchi e resta a casa. È quanto emerge dallo studio "Palestina: Rapporto sui bambini che non vanno a scuola". Il documento è opera dell'Unicef Palestina e dell'Istituto di statistica dell'Unesco, in collaborazione con il ministero per l'Istruzione. Gli adolescenti maschi, fra i 14 e i 15 anni, rappresentano circa la metà di tutti i bambini che, fino all'età scolastica obbligatoria di 15 anni, non vanno a scuola. Il motivo principale dell'abbandono scolastico riguarda un'istruzione di scarsa qualità, considerata come un fattore non rilevante nelle loro esistenze. Non solo. Si sottolinea anche la violenza fisica ed emotiva a scuola, sia da parte degli insegnanti che dei coetanei. Senza dimenticare il terrore per il conflitto armato. Secondo Genevieve Boutin, rappresentante speciale dell'Unicef in Palestina, "raggiungere i bambini più a rischio di abbandono scolastico, come questi ragazzi adolescenti, e affrontare le problematiche che incontrano prima che sia troppo tardi, è fondamentale per farli continuare ad andare a scuola".
   Per Boutin, "creare lavoro per i giovani diplomati è pure una priorità, specialmente nella Striscia di Gaza, in cui oltre il 60 per cento dei giovani vive la disoccupazione". Boutin è convinta che "l'accesso ad un'istruzione di qualità in un ambiente scolastico sicuro aiuterà tutti i bambini a continuare a frequentare la scuola e a sviluppare le conoscenze e le competenze necessarie per progredire nella vita". Andare a scuola può anche rappresentare una sfida per i giovanissimi adolescenti maschi palestinesi. Boutin sostiene che "i bambini rimasti indietro a scuola hanno maggiori probabilità di abbandono scolastico e quindi incorrono in un rischio maggiore di abusi e sfruttamento fuori dalla scuola. Essere a scuola non aiuta solo i bambini palestinesi a imparare e svilupparsi, ma fornisce inoltre una stabilità e delle abilità utili per la vita che sono di particolare importanza in questi ambienti molto stressanti".

(L'Opinione, 27 luglio 2018)


Serbia: presidente di Israele loda la legge per la restituzione dei beni

Rivlin: le norme di Belgrado siano da esempio per altre nazioni

 
Belgrado - Il presidente Reuven Rivlin stringe la mano al suo omologo serbo Aleksandar Vucic
BELGRADO - Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha lodato oggi la Serbia per aver approvato due anni fa una legge per la restituzione alla comunità ebraica di proprietà non reclamate - e oggi senza eredi - confiscate durante l'Olocausto. Secondo quanto scrive l'agenzia serba Beta, incontrando a Belgrado il presidente serbo, Aleksandar Vucic, Rivlin ha sottolineato che la legge serba sulla restituzione - approvata nel 2016 - dovrebbe essere presa a modello da altre nazioni. Ricordando "lo storico mutuo rispetto" tra i due Paesi, Vucic ha assicurato che la Serbia è un Paese dove "l'antisemitismo quasi non esiste" e dove non attecchiscono "fascismo, neofascismo e neonazismo". Nel corso della Seconda guerra mondiale, migliaia di ebrei serbi furono eliminati durante l'occupazione nazista della Jugoslavia. Belgrado fu la prima città in Europa a essere dichiarata 'Judenfrei' dai nazisti, che crearono un lager nel cuore della capitale (l'allora Fiera di Belgrado) e utilizzarono in città la famigerata 'Dusegupka', un camion adattato per gasare gli ebrei rinchiusi nel cassone del veicolo. Rivlin è giunto in Serbia dalla vicina Croazia, dove ha visitato l'ex campo di concentramento ustascia di Jasenovac.
Ogni società, ha detto Rivlin citato dalla Tv pubblica di Zagabria, ha il dovere morale di fare i conti con i crimini del passato.

(ANSA, 26 luglio 2018)


Il leader laburista Jeremy Corbyn è "una minaccia esistenziale" per la comunità ebraica

LONDRA - La questione dell'anti-semitismo strisciante nella sinistra britannica continua a costituire una spina nel fianco per il Partito laburista e per il suo leader Jeremy Corbyn: oggi giovedì 26 luglio torna a parlarne il quotidiano fiancheggiatore "The Guardian", dando grande evidenza all'editoriale congiunto pubblicato dai tre principali giornali della comunità ebraica del paese. L'intera prima pagina dei tre quotidiani ebraici "The Jewish Chronicle", "Jewish News" e "The Jewish Telegraph" in edicola oggi è occupata appunto da un unico editoriale congiunto, intitolato "United we stand" ("Uniti ci leviamo in piedi", ndr), in cui si sostiene che un eventuale governo laburista guidato da Corbyn costituirebbe "una minaccia esistenziale per la comunità ebraica che vive in Gran Bretagna".
   La ragione di questo violentissimo attacco al leader della principale formazione della sinistra britannica, come spiega ampiamente il "Guardian", è la recente decisione del Partito laburista di adottare un codice interno di condotta che, pur essendo finalizzato a contrastare le forme più smaccate di anti-semitismo presenti tra i suoi ranghi, non ha accolto integralmente la definizione che del fenomeno anti-semitismo è stata riconosciuta a livello internazionale; i fogli ebraici inoltre puntano il dito sulle numerose dichiarazioni anti-ebraiche ed anti-Israele fatte da Corbyn.
   Dopo aver ricordato che fino a tempi recentissimi il Partito laburista è stato la "casa naturale" della comunità ebraica britannica, i tre giornali accusano che "i suoi valori e la sua integrità sono stati erosi dal disprezzo di Corbyn per Israele e per gli ebrei", che ora lo considerano come "istituzionalmente razzista": "La macchia e la vergogna dell'antisemitismo inficia l'opposizione da quando Corbyn ne ha assunto la guida nel 2015". L'editoriale dei tre giornali ebraici conclude affermando che "mentre l'attuale governo conservatore del paese è nel caos a causa della Brexit, corriamo il chiaro ed imminente pericolo che a diventare il prossimo primo ministro sia un uomo che chiude sempre gli occhi davanti alle paure della comunità ebraica, un uomo che non riesce a capire come la sua retorica dell'odio verso Israele possa troppo facilmente trasformarsi in antisemitismo".
Il clamoroso editoriale è stato accolto, riferisce il "Guardian", da una salva di commenti favorevoli da parte di diversi deputati laburisti; mentre un portavoce dei vertici del partito ha cercato di minimizzare, pur riconoscendo che "c'è molto lavoro da fare" per ricostruire la fiducia tra il Labour e la comunità ebraica britannica.

(Agenzia Nova, 26 luglio 2018)


Il surreale dibattito tra Israele e Russia sugli iraniani in Siria

Quanti secondi di sicurezza volete prima di un attacco?

di Daniele Raineri

In questi giorni c'è un dibattito surreale che coinvolge i leader militari e politici più alti in grado di Israele e della Russia e riguarda la presenza dell'Iran in Siria. E' surreale perché da mesi escono notizie sulle presunte trattative e ogni volta si parla di una fascia di rispetto misurata in chilometri che i russi dovrebbero imporre agli iraniani: state lontani almeno dieci chilometri dal confine siriano con Israele, anzi state lontani almeno quaranta chilometri dal confine siriano con Israele, fino ad arrivare al recente state lontani almeno cento chilometri dal confine siriano con Israele. Si parla di questa distanza di sicurezza tra gli iraniani e Israele come la soluzione che sistema tutto. Ma la realtà della guerra moderna rende questi retroscena e queste fughe di notizie molto bizzarre: Israele è un paese piccolo che gli aerei attraversano in pochi minuti, e a maggior ragione i missili, quindi non si vede perché dovrebbero negoziare su una differenza di sessanta chilometri dai loro nemici giurati. Un missile balistico Scud, piuttosto lento e vecchiotto, fila per aria a più di cento chilometri al minuto, è difficile credere che siano davvero in corso negoziati per togliere agli iraniani quaranta secondi di vantaggio nel caso decidessero di bombardare Israele da una base siriana. E ci sono missili che vanno tranquillamente a Mach 10, quindi la fascia "di sicurezza" aggiungerebbe nel caso migliore venti secondi. Inoltre c'è da considerare che gli iraniani in Siria non si muovono sotto la bandiera della Repubblica islamica e accompagnati da una fanfara, possono arrivare fin sotto le alture del Golan senza essere identificati. Difficile controllare che stiano dietro la immaginaria linea rossa tracciata dai russi a cento chilometri.
   Il concetto più generale è che Israele ha dichiarato che può tollerare la vicinanza con il regime di Bashar el Assad in Siria come già faceva senza troppe preoccupazioni prima della rivoluzione del 2011 ma non può tollerare la presenza in stile coloniale degli iraniani e di Hezbollah - come ha fatto presente a tutti i suoi interlocutori, da Washington a Mosca. E quindi per ora si aspetta una soluzione che non arriva, mentre il regime siriano consolida le proprie posizioni e riguadagna tutto il territorio che aveva perduto a sud. Per anni quella zona era stata la più tranquilla del paese, o quasi, ma in questi mesi è diventata una fonte quotidiana di breaking news gravi.
   Martedì gli israeliani hanno abbattuto un caccia siriano che aveva superato il confine e ignorato gli avvertimenti, i resti dell'aereo sono precipitati in Siria in un'area controllata dallo Stato islamico, un pilota è morto e dell'altro si sono perse le tracce. Ieri alcune squadre della morte dello Stato islamico - che ancora infestano le regioni meridionali del paese - hanno lanciato un assalto contro l'enclave drusa di al Suwayda, hanno occupato villaggi, hanno ucciso circa duecentoventi persone. I drusi sono una comunità che si è staccata dal governo di Assad e che era riuscita ad attraversare questi anni di guerra quasi intoccata e in modo pacifico. Hanno respinto l'attacco, ma il bilancio finale è un disastro come da tempo molti di loro temevano sarebbe successo.
   Ieri circolavano le immagini di tre uomini dello Stato islamico sorpresi mentre stavano per attaccare l'ospedale della città e subito impiccati a un'insegna. Molti drusi di al Suwayda su Facebook sostengono che la colonna dello Stato islamico che li ha massacrati è la stessa evacuata dal campo di Yarmouk, nella parte sud di Damasco, a maggio dopo un accordo con il governo e poi lasciata libera nel deserto a est.

(Il Foglio, 26 luglio 2018)


Il nuovo carro armato di Israele: svelato il Merkava IV "Barak"

di Paolo Mauri

 
Merkava IV "Barak"
Israele ha recentemente svelato alcuni dettagli in merito al design e allo sviluppo dell'ultimo aggiornamento del suo principale Mbt (Main Battle Tank), il Merkava IV, che prenderà il nome di Merkava IV "Barak".
  Il Merkava IV rappresenta l'ultimo modello della fortunata serie di carri armati in forza alla Idf. Progettato nel 1999 ha cominciato ad essere consegnato ai reparti nel 2004 quando è entrato in servizio.
  Il carro è lungo poco più di nove metri (con il cannone in avanti), è largo 3,72 metri ed è alto 2,66. Il suo peso è di 65 tonnellate e monta un pezzo di calibro 120 mm in grado di sparare munizioni tipo APFSDS-T, HEAT-MP-T e TPCSDS-T. L'armamento è completato da una mitragliatrice da 7,62 mm e da un mortaio da 60 mm che ha una gittata massima di 2700 metri. L'equipaggio è di quattro uomini (pilota, comandante, cannoniere, servente) e, a differenza degli altri Mbt, può trasportare sino a otto soldati oppure tre feriti su barella.
  Il Merkava IV è propulso da un V-12 diesel che sviluppa 1500 hp e ha la caratteristica peculiare di avere il motore posizionato nella sua parte interiore insieme ad un serbatoio di carburante.
  Il carro è protetto da una serie di minacce incluse missili guidati di precisione aria-terra e da altro tipo di munizionamento avanzato come ordigni anticarro top attack, ovvero che hanno la capacità di colpire lo scafo dall'alto, nella sua parte più vulnerabile. Nel Merkava IV sono stati anche installati sistemi automatici di scoperta e soppressione del fuoco fattore che nel teatro di un combattimento urbano rappresenta un importante ausilio per la sopravvivenza. Sopravvivenza ulteriormente garantita dalle protezioni aggiuntive antimine montate nella parte inferiore dello scafo.

 Il nuovo Merkava di Israele
  Per poter adeguatamente neutralizzare le nuove minacce a cui deve far fronte Israele, il Merkava IV "Barak" è stato pensato come un carro per il contrasto dell'attività di guerriglia piuttosto che per l'utilizzo in grandi battaglie campali tra carri armati. Del resto tutta la famiglia dei Merkava è nata con lo scopo principale di contrastare l'attività nemica in ambiente urbano.
  "Il nemico non sarà necessariamente uno Stato e degli eserciti, ma piuttosto un nemico che usa la gente (intesa come gruppi di guerriglia n.d.a.)" sono state le parole del brigadier generale Guy Hasson, capo delle forze corazzate dell'Idf.
  Il nuovo carro è pensato per essere uno smart tank, con tanto di computer dotato di intelligenza artificiale. Con decine di sensori il software del Merkava IV "Barak" sarà in grado di presentare una pressoché totale visione della situazione tattica del campo di battaglia non solamente al suo equipaggio ma anche agli altri sistemi d'arma ad esso collegati come truppe, velivoli o altri carri da battaglia: è il concetto della guerra netcentrica che caratterizza sia l'F-35 sia altri sistemi come il nuovo blindo "Centauro II".
  Grazie all'intelligenza artificiale il Merkava IV "Barak" ridurrà il carico di lavoro per l'equipaggio e lo aiuterà a localizzare e colpire i bersagli con più accuratezza.
  "Le capacità avanzate e l'uso di sistemi elettronici d'avanguardia permetteranno ai nostri soldati di effettuare missioni ai massimi livelli di prontezza" ha dichiarato un ufficiale anziano dell'Idf "e unitamente a questo, miglioramenti nella logistica saranno introdotti per permettere al carro di effettuare operazioni il 30% più lunghe rispetto ai precedenti".
  Il cuore del nuovo carro, e la vera novità che ne fa un unicum nel panorama degli Mbt, è dato dal nuovo casco di cui sarà fornito il capocarro. Il casco si chiama "Iron View" ed utilizza la tecnologia a realtà virtuale per dare una visione completa di quello che circonda il carro grazie a sensori e telecamere che spaziano per 360o.
  "Il casco permetterà ai soldati di vedere l'ambiente esterno restando all'interno del veicolo e i sensori permetteranno all'equipaggio di utilizzare il carro in modo semplice e avanzato contribuendo anche alla sua difesa sia fisicamente sia tecnologicamente".
  In effetti l'alto livello di interconnessione con altri sistemi sul campo di battaglia - come ad esempio Uav e mini droni - integrandosi alla presentazione dei dati in realtà virtuale (come avviene per il casco dell'F-35) permetterà al Merkava IV "Barak" di essere molto più efficiente nell'eliminazione delle minacce che vanno anche oltre il proprio diretto campo visivo: pensiamo ad esempio alla possibilità di colpire bersagli nascosti ma inquadrati da un mini drone in volo che ne trasmette le immagini al capocarro.
  A tutto il 2012 sono stati consegnati 260 carri Merkava IV e, in linea teorica, la produzione totale terminerà nel quinquennio 2025-2030 con ulteriori 300 esemplari. Questa nuova versione del carro dovrebbe entrare in servizio a cominciare dal 2020 e verosimilmente tutta la produzione prevista di Merkava IV (salvo future ulteriori varianti) sarà del tipo "Barak".

(Gli occhi della guerra, 26 luglio 2018)


Muro del pianto a rischio crollo. Gli esperti: "Va vietato l'accesso"

Secondo gli archeologi israeliani, il Muro del pianto sarebbe a rischio crollo. Essi hanno esortato le autorità a interdire ai fedeli l'accesso al luogo sacro, al fine di tutelare l'incolumità di questi ultimi.

di Gerry Freda

Un uomo guarda la pietra caduta
Muro del pianto a rischio crollo. Gli archeologi israeliani sono giunti a tale conclusione dopo avere esaminato le crepe che si sono recentemente aperte lungo tutto il monumento.
   Da quest'ultimo si sono anche staccate delle pietre, le quali, precipitando al suolo, hanno messo a repentaglio la vita dei fedeli intenti a pregare. Gli esperti hanno quindi esortato le autorità a interdire al pubblico l'accesso alla zona sacra, definita "estremamente pericolosa" per l'incolumità delle persone.
   Gli archeologi dell'Università di Bar-Ilan hanno esaminato il Muro del pianto al fine di accertare le cause del distacco di pietre verificatosi lunedì scorso dall'Arco di Robinson, nella zona sudoccidentale dell'area sacra. In quel giorno, un masso di circa un quintale è precipitato sulla piattaforma di preghiera riservata alla donne, schiantandosi al suolo a pochi passi dalla settantanovenne Daniella Goldberg. Quest'ultima si era recata a pregare davanti alla porzione di muro che si estende all'interno del Davidson Archaeological Park. Insieme al macigno, altri frammenti più piccoli si sono staccati dalle rovine del tempio voluto dal re Erode. I distacchi di pietre avvenuti lunedì sarebbero gli ultimi di una sequenza iniziata sabato scorso. Zachi Dvira, componente del team di archeologi inviato dall'Università di Bar-Ilan, ha definito "un vero e proprio miracolo" il fatto che tali crolli non abbiano finora provocato vittime. L'esperto ha quindi evidenziato l'enorme rischio al quale sono andati incontro i pellegrini accorsi in massa al luogo sacro dell'Ebraismo lo scorso fine settimana. Per il Tisha b'Av, commemorazione della distruzione del Tempio, più di diecimila persone hanno riempito l'area antistante al Muro occidentale. Fortunatamente, i frammenti caduti durante le celebrazioni non hanno ferito nessuno.
   In seguito al distacco del masso di un quintale, Dvira ha esaminato la profondità delle crepe apertesi lungo tutto il Muro del pianto e ha rilevato un "imminente pericolo di crollo". Secondo l'archeologo, l'erosione delle antiche rovine sarebbe dovuta alle radici delle piante che hanno attecchito negli spazi tra un blocco e l'altro. Un'altra causa del deteriorarsi della costruzione sarebbero gli uccelli, i quali, inserendo nelle crepe piccoli pezzi di metallo, starebbero, poco alla volta, riducendo in polvere le pietre di epoca erodiana: "Gli oggetti inseriti dagli uccelli compromettono la solidità dei blocchi. Il Muro, inoltre, ha intere porzioni gravemente danneggiate dalle radici delle piante e dall'umidità. Se non si interviene subito, rischiamo di assistere a incidenti peggiori di quello avvenuto nel 2004". In quell'anno, nel pieno delle celebrazioni dello Yom Kippur, un frammento dell'edificio precipitò al suolo ferendo in misura lieve un pellegrino.
   Dvira ha quindi esortato il Governo Netanyahu a interdire al pubblico l'accesso al luogo sacro: "Il Muro del pianto è divenuto ormai una zona a rischio. Il pericolo di crolli è costante. È necessario avviare subito i lavori per la messa in sicurezza. Fino a quando il restauro non sarà ultimato, il sito archeologico deve restare chiuso. Le autorità devono vietare al pubblico l'accesso all'intera area. È una questione di vita o di morte." Secondo Dvira, il deterioramento dell'antico edifico sarebbe giunto a uno stadio così avanzato a causa della mancata prevenzione: "Per colpa della politica israeliana, è dal 2004 che la zona non viene più adeguatamente monitorata. L'ultimo restauro è stato infatti condotto dai Giordani. I partiti preferiscono litigare su questioni minori, piuttosto che concentrarsi sulla prevenzione dei danni causati al patrimonio archeologico nazionale dall'avanzare del tempo e dagli agenti atmosferici."
   Il Governo Netanyahu ha deciso di avviare i lavori di messa in sicurezza del Muro del pianto. Per il momento, l'Esecutivo non ha disposto la chiusura al pubblico della zona sacra. Un team di restauratori della Israel Antiquities Authority (Iaa) si è immediatamente recato sul posto per individuare le porzioni di edifico che versano nelle condizioni peggiori. "Con l'aiuto delle ultime tecnologie, i nostri esperti," ha dichiarato Yisrael Hasson, direttore dell'Iaa, "inizieranno a monitorare con attenzione le aree in cui sono caduti i massi, per poi procedere con gli interventi necessari. Noi siamo consapevoli del fatto che tale emergenza deve essere affrontata con estrema rapidità, in quanto sono a rischio sia l'incolumità delle persone sia il bisogno di pregare."

(il Giornale, 26 luglio 2018)


"I paesi arabi hanno paura di dire la verità ai palestinesi"

Dati alla mano, l'ambasciatrice americana Haley sferza gli stati che si nascondono dietro discorsi intransigenti e danno ben pochi aiuti ai palestinesi, lasciando che la loro dirigenza viva in una realtà illusoria.
Dall'intervento dell'ambasciatrice Usa all'Onu, Nikki Haley, al dibattito del Consiglio di Sicurezza sul Medio Oriente (24 luglio 2018)


L'obiettivo principale delle mie osservazioni, oggi, è quello di fare luce su un altro elemento importante, e spesso trascurato, quando si tratta della comunità palestinese. Se si dovesse giudicare l'impegno di ogni nazione nei confronti del popolo palestinese in base alle parole pronunciate nel Consiglio di Sicurezza e nell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si ricaverebbe un'immagine estremamente distorta.
Qui all'Onu, a migliaia di chilometri di distanza dai palestinesi che hanno necessità reali, non ci sono limiti ai discorsi in loro nome. I paesi, uno dopo l'altro, professano solidarietà verso il popolo palestinese. Se quelle parole fossero utili nelle scuole, negli ospedali e nelle strade delle loro comunità, i palestinesi non si troverebbero a fare i conti con le condizioni disperate di cui stiamo discutendo oggi. Parlare non costa nulla. Nessun gruppo di paesi è più generoso coi palestinesi, a parole, di quanto lo siano i loro vicini arabi, e altri stati membri dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica. Ma tutte le parole pronunciate qui a New York non danno cibo, abiti e istruzione a un solo bambino palestinese. Tutto ciò che fanno è irritare la comunità internazionale....

(israele.net, 26 luglio 2018)


Sionismo senza democrazia?

Riportiamo un articolo di un ben noto cattolico di sinistra che vorrebbe convincere gli ebrei a sperimentare “una conversione culturale e religiosa profonda” che li porti a seguire un dio nuovo, più attuale, creato dall’Uomo a sua immagine e somiglianza e a cui ha dato il magico nome di «democrazia». I rilievi nell’articolo non sono originali.

di Raniero La Valle

 
Raniero La Valle
C'è una notizia che è stata quasi nascosta, perché è difficilissimo darla, non sanno come farla accettare dal senso comune, ma è di tale portata da marcare una cesura nella storia che stiamo vivendo. Lo Stato di Israele, almeno nella sua veste ufficiale e giuridica, cambia natura. Non è più lo Stato che unisce democrazia ed ebraicità, come era nel sogno del sionismo, ma è definito come uno Stato-Nazione ebraico, uno Stato del solo popolo ebreo nel quale gli altri, quale che sia il loro numero, sono neutralizzati nella loro dimensione politica, cioè nella loro esistenza reale: non partecipano di ciò che, in democrazia, si chiama autodeterminazione, la quale è riservata al solo popolo ebreo, il solo sovrano. Gli altri sono naturalmente gli Arabi, e in modo specifico i Palestinesi, musulmani o cristiani che siano.
  Infatti giovedì 19 luglio il Parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato a stretta maggioranza con 62 voti favorevoli e 55 contrari una legge di rango costituzionale che era in gestazione da tempo, la quale fissa in questi termini perentori la natura dello Stato, che finora non si era voluta definire in alcuna Costituzione formale, in base all'idea che la vera Costituzione d'Israele è la Torah (la Scrittura). Per intenderci un primo articolo Cost. del tipo "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…" sarebbe stato impensabile per Israele; e infatti, dopo un primo approccio iniziale per il quale furono consultati i libri di Carl Schmitt, il tentativo costituzionale fu abbandonato, come ci ha raccontato a suo tempo Jacob Taubes.
  Però per il sionismo fondatore che aveva voluto bruciare i tempi dell'Attesa visto il ritardo del Messia, era fuori discussione che dovesse trattarsi di uno Stato democratico. Sicché almeno una correzione è stata introdotta all'ultimo momento nel testo della legge, su richiesta del Presidente di Israele Reuven Rivlin, che in una lettera ai parlamentari aveva espresso il timore che essa potesse "recare danno al popolo ebraico, agli Ebrei nel mondo e allo Stato di Israele". È stata abolita infatti la norma che permetteva a qualsiasi comunità (ebrea ma anche non ebrea) di costituirsi come comunità identitaria chiusa, su base religiosa o nazionale, con esclusione dal proprio ambito di tutti gli altri (non-ebrei, non-drusi, non ortodossi, ecc), il che rischiava di creare in Israele una rete di apartheid segregati a pelle di leopardo; invece, caduta questa norma, la separazione che viene costituzionalizzata è posta a garanzia dei soli insediamenti ebraici, privando di diritti tutti gli altri.
  Dal punto di vista politico la legge votata dalla Knesset liquida la causa palestinese, prelude all'annessione dei Territori Occupati, licenzia definitivamente l'opzione fatta propria da tutta la comunità internazionale dei due popoli in due Stati e rottama le risoluzioni dell'ONU sul conflitto in Palestina e sullo status di Gerusalemme. Quali poi saranno i fatti è tutto da vedere: la resistenza di Gaza, da sola, con i suoi patetici aquiloni accesi, come le pietre di David contro Golia, tiene in realtà aperta tutta la questione.
  Ma c'è un livello ancora più profondo: che succede con l'ebraismo? La ragione per cui Israele si è decisa a questo passo non può essere banalizzata: l'andamento demografico in Medio Oriente è tale che ben presto in Israele gli Ebrei saranno una minoranza rispetto alla crescente popolazione arabo-palestinese; e siccome in democrazia contano i numeri e non si è fatta e neanche tentata la pace tra i due popoli, gli Ebrei di Israele temono di essere sopraffatti, e perciò la democrazia è un lusso che non possono mantenere. Nell'alternativa tra democrazia ed ebraismo, la scelta è per l'ebraismo. Purtroppo manca la lucidità di comprendere che è una falsa alternativa. Questa incompatibilità non è vera: ma per riconoscerlo ci vuole una conversione culturale e religiosa profonda.
  Gli Ebrei (anche gli Ebrei non credenti dello Stato d'Israele) fondano sulla Scrittura la loro identità di popolo e di Stato. Ma quando questa tradizione si è formata (quando Dio ha "parlato" ad Abramo, Mosè, David e anche ai profeti) poteva concepirsi che l'identità di un popolo si preservasse nell'uniformità di un regno, nella inviolabilità dei confini, nella non contaminazione con gli stranieri, nella regola di purità, antidoto ad ogni meticciato.
  Ma come preservare questa identità nelle condizioni della democrazia, del pluralismo, dell'eguaglianza, della globalizzazione, dello Stato di diritto, non poteva essere oggetto della rivelazione di allora, Dio non poteva dirlo al suo popolo. Un indizio fortissimo di come altrimenti essere popolo lo aveva fornito Gesù, ma quella Parola non fu riconosciuta da Israele come la Parola attesa. Dunque occorrerebbe che, come hanno fatto pur dolorosamente altre tradizioni, anche quella ebraica cercasse i nuovi sensi delle sue Scritture, che cosa davvero sarebbe la fedeltà alla Parola ricevuta letta non più nelle condizioni di ieri, con gli occhi rivolti alle tempeste passate, ma nelle condizioni di oggi, con gli uomini di oggi, con la meravigliosa multicolore umanità di oggi, con gli occhi rivolti al futuro da costruire, a questo Messia che ha sempre da venire, ma come pace non come apocalisse. È attraverso questo lavacro, non più nel sangue ma nell'acqua di nuovo condivisa della Palestina che Israele salverà se stesso, la propria identità, e la vita delle genti, non più stranieri.
  La cosa non interessa solo gli Ebrei. Sarebbe così importante che i nostri gruppi di dialogo ebraico-cristiano, liberi dalle suggestioni dei richiami a un vecchio fondamentalismo biblico, cercassero con i fratelli Ebrei questi nuovi sensi e questa nuova comprensione della Parola liberatrice.

(MicroMega 25 luglio 2018)


Nello stesso giornale abbiamo trovato un unico commento, che qui riportiamo:
“Lo Stato ebraico è Stato confessionale. Gli ebrei dicono di essere popolo eletto da Dio. Il buon Raniero La Valle è tenero nel valutare la gravità dei fatti. Questi signori hanno occupato terre che non erano loro. Lo hanno fatto con la connivenza dei paesi occidentali complici dello sterminio ebreo perpetuato da nazifascisti. I palestinesi pagano il prezzo della shoah. Sic! Questi signori stanno imponendo ai palestinesi violenze che dovrebbero perseguirsi come crimine contro l'umanità. Lo Stato ebraico è uno Stato confessionale e terrorista. I palestinesi rispondono alla violenza con gli aquiloni. Banalizzare quello che i palestinesi stanno sopportando, certifica da quale canaglia viene dominato il mondo. Drammaticamente risibili le risoluzioni dell'Onu. La verità vera è che dobbiamo procedere verso un nuovo ordine mondiale. Troppe e troppo gravi le ingiustizie.”


La minaccia della chiusura dello Stretto di Hormuz

L'Iran tenta di spingere la comunità internazionale a fare pressioni su Washington

 
ROMA - Le recenti tensioni tra Iran e Stati Uniti hanno nuovamente riportato al centro del dibattito internazionale la possibile chiusura dello Stretto di Hormuz da parte di Teheran, minaccia già utilizzata in passato dal governo degli ayatollah per rispondere all'imposizione di sanzioni economiche. Tuttavia, l'ipotesi di una reale chiusura di questo passaggio vitale per le forniture petrolifere globali appare lontana e come avvenuto più volte rappresenta una delle principali leve utilizzate dall'Iran per fare pressioni sulla comunità internazionale in caso di un rialzo dei toni con gli Stati Uniti. I maggiori esportatori di petrolio del Medio Oriente dipendono da questo passaggio che collega il Golfo Persico con le principali rotte commerciali e da dove transita la maggior parte delle esportazioni di greggio, circa 17,5 milioni di barili al giorno. Se un conflitto regionale dovesse bloccare questo collo di bottiglia, solo Arabia Saudita ed Emirati dispongono di gasdotti che consentirebbero loro di esportare fino a 4,1 milioni di barili di petrolio, ovvero meno di un quarto del totale che normalmente naviga sulle navi cisterna attraverso Hormuz.
  Finora la tensione tra Teheran e Washington resta solamente sul piano verbale, tuttavia non sono escluse azioni dimostrative da parte degli Stati Uniti, soprattutto dopo l'annuncio da parte dell'Iran dell'entrata in produzione su vasta scala di nuovi missili aria-aria (Fakour) a medio raggio e altri mezzi militari che potrebbero rappresentare una minaccia soprattutto per Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
  A scatenare la crisi attuale che ha portato ad un nuovo livello lo scontro tra Washington, alleati del Golfo e Teheran sono state le dichiarazioni del presidente iraniano Hassan Rohani che parlando lo scorso 22 luglio ad un gruppo di diplomatici a Teheran ha dichiarato che l'Iran ha "sempre garantito la sicurezza di questo stretto", invitando gli Stati Uniti "a non giocare con la coda del leone" dato che il conflitto tra Washington e Teheran rappresenterebbe "la madre di tutti i conflitti".
  Le parole di Rohani hanno scatenato la forte reazione del presidente. Il presidente Usa Donald Trump ha subito risposto alle parole di Rohani con un messaggio altrettanto forte: "Non minacci mai più di nuovo gli Stati Uniti o subirà conseguenze che in pochi nella storia hanno subito prima. Sia prudente". Ieri il portavoce del ministero degli Esteri Bahram Qasemi ha sottolineato che l'Iran risponderà con le stesse contromisure se gli Stati Uniti cercheranno di bloccare le esportazioni di petrolio. "Se gli Stati Uniti sono risoluti a fare un passo in questa direzione, riceveranno una reazione uguale da parte dell'Iran", ha dichiarato Qasemi citato dall'agenzia di stampa "Irna".
  Finora le minacce restano solo sul piano verbale tuttavia, secondo il senatore del Partito repubblicano Lindsey Graham, Trump "sarebbe pronto ad abbattere il regime iraniano". Intervistato dall'emittente "Fox News", Graham ha dichiarato: "La Russia, la Corea del Nord sono minacce. L'Islam radicale, come Al Qaeda, è una minaccia. Ma la più grande minaccia per tutti resta per noi l'Iran. Sono nazisti religiosi che stanno cercando di sviluppare una capacità nucleare".
  Lo scorso 8 maggio Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare iraniano, avviando un programma di sanzioni che sarà completato entro il 4 novembre e che comprenderà anche il settore petrolifero. Al momento sia Trump che i funzionari del Tesoro statunitensi appaiono risoluti ad applicare in modo rigido le sanzioni senza deroghe per i paesi alleati che dipendono fortemente dalle importazioni di petrolio iraniano in particolare il Giappone e la Corea del Sud.
  La minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz, rappresenta per Teheran una leva per generare preoccupazione tra gli alleati regionali di Washington e spingerli a fare pressioni sugli Usa per concedere deroghe che consentirebbero comunque all'Iran di esportare una parte del suo greggio.

(Agenzia Nova, 25 luglio 2018)


Orsini (FI), oggi, in Commissione Esteri alla Camera, fatta propaganda anti-israeliana

ROMA, 25 luglio - «Mi sarei aspettato che parlando di diritti umani a Gaza, oltre alla solita propaganda anti-israeliana, si fossero ricordate le denunce di Amnesty International sulle restrizioni della libertà di espressione, sulle torture e sulle illegittime detenzioni, sulle discriminazioni alla donna e sulle esecuzioni pubbliche condotte dall'autorità di Hamas.
Mi sarei aspettato anche che si ricordassero le aggressioni contro la popolazione civile di Israele, dagli aquiloni incendiari ai razzi Qassam gettati contro le località di confine.
Mi sarei aspettato che non si usasse la parola 'apartheid' riferita a Israele e al popolo ebraico: dopo Auschwitz trovo che questo accostamento sia semplicemente osceno.
Mi piacerebbe che i rappresentanti di un Centro per i Diritti Umani non usassero l'espressione 'bande sioniste' per definire chi ha difeso Israele dalla guerra di aggressione del 1948, mirata a distruggere il nuovo stato ignorando la spartizione del territorio decisa dalle Nazioni Unite.
Oggi ci è stata consegnato uno scritto di un giornalista israeliano, Gideon Levy, che plaude ad Hamas ed ai razzi lanciati contro Israele. Può farlo tranquillamente scrivendo da Tel Aviv. Mi domando - e chiedo ai rappresentanti del Centro dei Diritti Umani - cosa succederebbe a un giornalista che da Gaza scrivesse articoli a favore di Israele. Probabilmente non succederebbe nulla, perché sarebbe stato eliminato prima, come è accaduto a tutti coloro che nei territori amministrati da Hamas sono sospettati di collaborazione con lo Stato Ebraico.»
Lo ha detto Andrea Orsini, deputato di Forza Italia, intervenendo in Commissione Esteri alla Camera in occasione dell'audizione dei rappresentanti del Palestinian Center for Human Rights di Gaza.

(Prima Pagina News, 25 Luglio 2018)


Le promesse di Putin non bastano a Israele

Ieri l'esercito ha abbattuto un jet siriano entrato nel suo spazio aereo.

Israele ha abbattuto un jet da combattimento siriano che si era addentrato nel suo spazio aereo per circa due chilometri. La Siria nega, dice che l'aereo, un Sukhoi partito dalla base T-4, stava rispettando le norme territoriali, ma Israele ha fatto sapere che prima di colpire l'esercito aveva lanciato diversi segnali al pilota per avvertirlo dello sconfinamento. L'abbattimento potrebbe avere delle ripercussioni importanti - era dal 2014 che Israele non colpiva un aereo siriano - in un momento in cui, da metà giugno, le forze governative siriane, appoggiate dalla Russia, conducono una campagna di bombardamenti vicino alle alture del Golan per riconquistare terreno a ridosso del confine con Israele. Gerusalemme chiede che sia la Russia a risolvere la questione allontanando le truppe iraniane, inviate in Siria per aiutare il regime di Assad, dalle vicinanze del territorio israeliano. Lunedì il primo ministro, Benjamin Netanyahu, e il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, si sono incontrati a Gerusalemme. Mosca ha proposto che le forze iraniane vengano tenute lontane dal Golan, cento chilometri dalla linea di demarcazione, ma Israele ha ribadito la sua contrarietà a ogni tipo di presenza militare iraniana sul territorio siriano, affermando che l'insediamento iraniano non verrà tollerato né nei pressi della frontiera, né a cento chilometri. Aumenta per Israele la necessità di avere delle garanzie da Mosca, soprattutto in un momento in cui le truppe governative hanno sottratto ai ribelli il controllo della maggior parte delle province nel sud della Siria e in prossimità del Golan, zona che il regime di Assad continua a rivendicare.

(Il Foglio, 25 luglio 2018)


Il Muro del Pianto viene giù

Si stacca una pietra dalla parete su cui gli ebrei pregano. Sotto accusa l'umidità, le testate dei fedeli, gli eccessi femministi. E le date nefaste.

di Ilaria Pedrali

Una pietra di cento chili si è staccata dal Muro del Pianto, a Gerusalemme e per miracolo non ha colpito una donna che si trovava lì in preghiera. Si potrebbe pensare che a continuare a dare testate al muro, così infatti pregano gli ebrei per muovere l'intero corpo e non le sole labbra come dice il Salmo 35, un pietra si sia staccata. Un'argomentazione che fa sorridere, ma che è utile a sdrammatizzare una potenziale tragedia.
Gli ebrei, però, hanno preso sul serio l'incidente, anche perché il modo un cui la pietra è rotolata giù da sette metri di altezza ha un che di misterioso. Sembra quasi che qualcuno l'abbia spinta. Ma chi, dato che dietro quel muro non c'è nulla se non, da qualche parte sotto le macerie dei due templi di Gerusalemme distrutti, il sancta sanctorum che custodiva l'Arca dell'Alleanza? La stessa donna, Daniella Goldberg, ha dichiarato di non aver sentito nulla e di essersi resa conto della pietra solo quando è caduta ai suoi piedi, lasciando un grande buco nel pavimento. Ha poi guardato in alto e ha visto il punto da cui si è staccata.

 Il rabbino
  C'è chi dice che sia un presagio e che per questo urge una seria opera di introspezione da parte degli ebrei. A pensarla così è il rabbino del Muro, Shmuel Rabinowtz, il quale ha affermato che mai in decenni aveva visto una cosa simile e che forse la pietra è caduta per via dell'umidità o della crescita delle piante lì attorno. Però ha anche dichiarato che la caduta «dischiude perplessità e domande di fronte alle quali l'anima umana è troppo piccola per potersi misurare con loro. Di certo è necessario che compiamo un esame di coscienza. Ringraziamo intanto il Cielo che non sia accaduto un disastro». A Gerusalemme, e chiunque ci sia stato non può non averlo avvertito, tutto ha un altissimo valore simbolico e si ritiene che nulla di ciò che accade succeda per caso.
  A voler tirare in ballo il fato, va detto che la caduta della pietra non è avvenuta in un giorno qualsiasi, ma all'indomani del 9 del mese di A v secondo il calendario ebraico. Giorno in cui per ben due volte furono distrutti il primo e il secondo Tempio di Gerusalemme a distanza di cinque secoli. Per gli ebrei questo giorno è di lutto, digiuno e preghiera, e così è stato anche domenica, quando per un soffio una donna che pregava non è rimasta sotto la pietra. Inoltre la pietra è ruzzolata giù proprio nella zona del Kotel, così viene chiamata dagli ebrei la zona sacra dove sorge il Muro del Pianto, dove uomini e donne pregano insieme.
  Un'usanza recente a Gerusalemme, dove lo spazio per la preghiera è sempre stato rigidamente separato. Dal 2016 il governo israeliano ha acconsentito che esistesse questa area mista, che però non è comunicante con le altre aree di preghiera.

 La rivoluzione
  Le correnti dell'ebraismo riformato, che con forza hanno fatto pressioni affinché l' area per la preghiera potesse essere senza distinzione di genere, hanno parlato di passo «rivoluzionario». È stata una battaglia lunghissima, con scontri aspri, portata avanti da un gruppo femminile chiamato «Donne del Muro», che hanno ottenuto di poter pregare come gli uomini, recitando la torah ad alta voce, indossando gli scialli della preghiera, i tallit, e i tefilin, ossia le scatolette di cuoio legate con le cinghie e contenenti versetti sacri. Tutti elementi che erano appannaggio maschile.
  Di parere opposto i rappresentanti dell'ebraismo ultraortodosso, che hanno parlato di un vero e proprio scandalo, e che da sempre si sono battuti contro queste istanze, non tanto per una questione di promiscuità, quanto perché secondo loro le donne vogliono pregare come gli uomini in nome di un'idea femminista, da condannare. All'epoca il rabbino Rabinowitz accolse la creazione di questo luogo come qualcosa che unisce e che avrebbe potuto trasformarsi in «un'arena per confronti senza fine». Per il momento si è trasformato in un luogo altamente pericoloso e per questo è stato temporaneamente chiuso.

(Libero, 25 luglio 2018)


Un imam invoca la morte degli ebrei e inaugura moschee

L'altro parla con Israele ed è minacciato di morte. Pazzo multiculturalismo.

di Giulio Meotti

L'imam Hassen Chalghoumi "sorpreso" a parlare con il portavoce dell'esercito israeliano, Ronen Manelis
ROMA - Ad aprile, dopo l'assassinio della cittadina francese di origine ebraica Mireille Knoll nella sua casa di Parigi, alcune personalità lanciano un appello al mondo musulmano per eliminare dai testi sacri islamici i versetti che incitano all'antisemitismo. La Grande moschea di Parigi, per bocca del suo celebre rettore Dalil Boubakeur, parla di "processo delirante" e infondato contro l'islam. Tre mesi dopo, mentre una riorganizzazione dell'islam è pianificata dal presidente Emmanuel Macron, l'imam Hassen Chalghoumi dimostra quanto pericoloso sia mettere in discussione quel tabù.
  Chalghoumi, imam della banlieue di Drancy, ha ricevuto minacce di morte in seguito alla pubblicazione di un video in cui dialoga per strada a Parigi con il portavoce dell'esercito israeliano, Ronen Manelis. Parlano di fondamentalismo islamico. della situazione in medio oriente e Chalghoumi attacca Hamas, i Fratelli musulmani e l'Iran. Accusato di essere un "traditore" e un "sostenitore dei sionisti", Chalghoumi è condannato a morte.
  Poche ore dopo stavolta protagonista è un altro imam, Mohamed Tataì, a capo della nuova Grande moschea di Tolosa, la "città rosa" di Mohamed Merah, che uccise quattro concittadini ebrei nella scuola locale. Tataì è filmato mentre pronuncia un sermone in cui invoca la distruzione degli ebrei e di Israele. "Non ci sarà un ebreo dietro un albero o una pietra senza che questo albero o pietra dica: o musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo dietro di me, uccidilo", afferma Tataì citando un versetto del Corano. Ma Tataì non si ferma qui. Commentando la decisione americana di trasferire l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, Tataì aggiunge: "Israele non ci sarà più a 76 anni" (lo stato ebraico ha appena celebrato il suo settantesimo anniversario). Sacha Ghozlan, presidente dell'Unione degli studenti ebrei di Francia, dice che "il futuro della Repubblica è in gioco quando un imam incita a uccidere gli ebrei".
  In un'inchiesta a firma di Hadrien Mathoux sul settimanale Marianne si legge che lo scorso 23 giugno era il grande giorno che Tolosa aspettava da tredici anni: l'apertura della Grande Moschea che può ospitare tremila fedeli. Ci sono tutti, sindaco, presidente della regione occitana, prefetto e l'imam Tataì, che parla di quel luogo di culto come di un "baluardo contro l'estremismo". C'è anche Abouabdallah Ghulam-Allah, presidente del Consiglio islamico superiore dell'Algeria, che ha finanziato la moschea con sei milioni di euro. Il rettore della moschea di Parigi Boubakeur difende la "buona fede" di Tataì, noto per il "rispetto di tutte le comunità religiose, e in particolare della comunità ebraica", salvo poi condannarne il sermone. Ad Algeri, il ministro degli Affari religiosi Mohamed Arssa lo scagiona dalle "false accuse". Sul Figaro commenta il caso Céline Pina: "La solita tolleranza per i predicatori di odio".
  Così va nel nostro pazzo multiculturalismo: l'imam che apre a Israele, che parla con gli ebrei, che condanna l'antisemitismo e il fondamentalismo islamico è minacciato di morte e costretto a vivere nell'ombra, scortato. L'imam che incita alla distruzione degli ebrei e di Israele cammina libero per strada. Durissimo il commento dell'imam di Nimes, Hocine Drouiche, vicepresidente della Conferenza degli imam, che questa settimana ha attaccato "i politici che vogliono formalizzare la vittoria dell'islam politico in Francia, che non nascondono il desiderio di islamizzare l'Europa gettando la nostra società in una guerra religiosa". Poi il terribile presagio di Drouiche sul futuro dell'Esagono: "Un bagno di sangue e una guerra civile alla libanese desiderata dagli islamisti, che non smetteranno di usare la violenza quando non riusciranno più a convincere".
  L'antisemitismo è la tomba del multiculturalismo.

(Il Foglio, 25 luglio 2018)


Casellati: "Le leggi razziali una pagina di vergogna per l'Italia"

La presidente del Senato in visita alla Comunità ebraica di Roma: «Il danno che fu apportato alla cultura del nostro Paese da quella pagina ignobile fu incalcolabile».

di Ariela Piattelli

 
La Presidente del Senato Elisabetta Casellati
«Una pagina di vergogna per la nazione italiana». Così la Presidente del Senato Elisabetta Casellati, ha ricordato le leggi razziali a 80 anni dalla loro emanazione, nella sua prima visita ufficiale alla Comunità Ebraica di Roma. Ad accoglierla nella grande Sinagoga il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, la presidente della Comunità di Roma Ruth Dureghello, e la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni.
   «Il danno che fu apportato alla cultura del nostro Paese da quella pagina ignobile fu incalcolabile. - ha ricordato la Presidente Casellati- Ottant'anni fa, nel luglio del '38 iniziò l'espulsione da tutte le scuole italiane. L'offensiva contro gli ebrei si spostò quindi all'interno della burocrazia ministeriale ed investì poi le stesse libere professioni. La patria inizia a morire e va verso la rovina proprio in quei giorni di luglio con l'approvazione di leggi estranee alla storia nazionale dello Stato italiano, alla sua ispirazione risorgimentale e al costume stesso degli italiani». Citando Benedetto Croce, che definì le leggi razziali "negazione degli ideali di libertà e di umanità" e Giovanni Spadolini che da presidente del Senato ricordò come "il riscatto della patria coincise col no risoluto ad ogni razzismo comunque mascherato e comunque dissimulato", la Presidente Casellati ha sottolineato l'impegno del Senato contro ogni forma di discriminazione, e il contributo dell'ebraismo italiano alla vita del Paese. Così ha voluto ricordare Umberto Terracini, presidente dell'Assemblea costituente, «figura fondamentale nella costruzione dell'architettura democratica repubblicana».
   Unite le voci dei rappresentati delle istituzioni ebraiche nel ricordare che oggi in Senato siede la sopravvissuta alla Shoah Liliana Segre, e nel chiedere alla Presidente Casellati di proseguire nella lotta all'antisemitismo e all'intolleranza. «La differenza culturale dell'ebraismo italiano per questa nazione rappresenta una grande ricchezza. - ha detto il Rabbino Capo Di Segni - e noi siamo grati alle istituzioni perché la coltivano». Dureghello ha poi chiesto impegno nel miglioramento della qualità del dibattito politico. «Che questo sia sempre inclusivo e rispettoso, - ha detto Dureghello - al fine di ottenere un dialogo sano in una società matura che non debba più incorrere nei rischi e nei pericoli di ottant'anni fa». Infine l'invito di Noemi Di Segni ad aderire alla definizione dell'IHRA (The International Holocaust Remembrance Alliance) sull'antisemitismo e ad «impegnarsi affinché ogni legge risponda non solo al rigoroso criterio della legalità formale, ma che sia frutto di un impegno di tutti noi a promuovere vita e progresso per l'umanità».

(La Stampa, 25 luglio 2018)


I bambini soldato di Allah: vergognoso silenzio di UNICEF e ONG

Quante volte UNICEF, ONU e varie ONG hanno condotto campagne di sensibilizzazione per combattere l'uso di bambini in guerra? Eppure per i bambini soldato di Allah non si è mai visto niente né sentito una parola. Come mai?

I campi scuola dei bambini soldato di Allah non sono come i campi scuola dei bambini normali, quelli del resto del mondo dove si gioca e si studia. Nei campi scuola dei bambini soldato di Allah si insegna a uccidere, a sacrificarsi al grido di "Allah è grande", a maneggiare armi ed esplosivi. Si insegna il culto della morte in luogo del culto della vita.
Anche quest'anno Hamas e la Jihad Islamica hanno riaperto le loro fabbriche di martiri bambini, i loro "campi estivi" dove i bambini soldato di Allah imparano le tecniche per uccidere, imparano l'odio non solo verso gli ebrei ma verso ogni cosa che esuli dai dettami dell'Islam.
E' un lavoro capillare sulle nuove generazioni quello che fanno gli "insegnanti di morte" di Hamas e della Jihad Islamica, un lavoro per fare in modo che le nuove generazioni di bambini arabi non conoscano il significato del termine "pace" ma crescano con il culto dell'odio....

(Rights Reporters, 25 luglio 2018)


Perché nessuno si indigna per i disastri ecologici provocati da Hamas?

Sotto questa complicità c'è un doppio razzismo, quello antisemita che odia Israele e quello paternalista che protegge gli arabi perché "diversi".

di Ugo Volli

Se c'è un valore condiviso nella nostra società, al di là delle divergenze politiche sociali, nazionali, è quello della natura. Tutti, più o meno, ci rendiamo conto che l'aumento del numero degli esseri umani e delle risorse che consumano mette a rischio il pianeta, che in particolare fauna e flora sono a rischio e che se non stiamo attenti rischiamo di lasciare ai nostri discendenti una Terra difficile da abitare e più povera di quella che abbiamo ricevuto. E' necessario curare l'ambiente, combattere la desertificazione, ripiantare i boschi, proteggere gli animali, evitare di inquinare con fumi, rifiuti, residui industriali.
  Fin qui, credo, tutti saranno d'accordo, anche se magari sulla gravità dei mali e sui rimedi da adottare ci può essere discussione. Ma allora saremo anche tutti d'accordo che bisogna lodare i comportamenti ecologici dei vari stati e movimenti e condannare quelli che invece abusano delle risorse, le sprecano o le rovinano per scopi politici. Per esempio, bisogna guardare a Israele e a Hamas.
  Israele è un miracolo ecologico. Tutte le testimonianze e le immagini che ci sono rimaste dicono che la terra di Israele, prima della costituzione dei primi rinnovati insediamenti ebraici, un secolo e mezzo fa, era uno dei luoghi più desolati della costa mediterranea: paludoso e malarico sulla costa, desertico all'interno, quasi totalmente privo di alberi e di popolazione. Oggi chi è stato anche solo per un breve viaggio turistico in Israele ne riporta il sentimento di un territorio verde, con campi ordinati e boschi ombrosi, pieno di verde anche dove la natura è di per sé molto aspra, come nella valle del Giordano o nel Negev. In una regione devastata da una carestia che dura ormai da sei anni, Israele ne ha limitato moltissimo i danni, grazie all'uso di tecnologie innovative come i grandi desalinizzatori, l'irrigazione a goccia, il riciclo intensivo delle acque usate. Bisogna aggiungere che Israele ha tanta attenzione e amore per la sua fauna selvatica, da essere diventato la tappa più importante del Mediterraneo per gli uccelli migratori e da aver recuperato una popolazione di animali selvatici del Medio Oriente altrove quasi distrutta, come antilopi, avvoltoi, caprioli e cani del deserto, che non è difficile vedere anche nei parchi delle grandi città.
  Hamas invece dell'ecologia non ha alcuna cura, anzi evidentemente la disprezza. Nonostante tutti gli aiuti internazionali ricevuti ha scelto di non istallare depuratori e di lasciare che le acque di scarico di Gaza fluiscano senza controllo in mare, ottenendo con ciò non solo di inquinare alcune delle più belle spiagge israeliane del sud, ma anche il suo territorio. Di recente, per orchestrare la lugubre scenografia degli assalti di massa che ha organizzato contro la frontiera israeliana, ha fatto bruciare migliaia di pneumatici provocando un inquinamento inaudito dell'aria, del suolo e della falda, infinitamente peggiore di quello delle zone industriali più arretrate. Sempre in questa occasione, ha scoperto una nuova arma terroristica e cioè gli aquiloni e i palloni a elio con carichi incendiari che hanno messo a fuoco migliaia di ettari di campi e di riserve naturali in Israele. L'odio per la natura è arrivato al punto di usare come veicolo incendiario un povero falco selvatico, condannato così a morte atroce.
  Non ci potrebbe essere conflitto più chiaro: da una parte quelli che piantano i boschi, dall'altro coloro che li incendiano; da un lato quelli che difendono la fauna selvatica, dall'altro chi la tortura; di qua chi depura e ricicla, di là chi usa i propri rifiuti come strumento di offesa. E' un tema che dovrebbe coinvolgere in particolare verdi ed ecologisti. Ma in tutto il mondo questo settore di solito molto attivo e rumoroso della vita sociale ha mantenuto il più rigoroso silenzio. Un po' come i tutori dei diritti civili che sono pronti a criticare le leggi israeliane (per esempio per non aver legalizzato la "paternità surrogata" di coppie omosessuali) ma tacciano totalmente quando si tratta di giudicare i veri e propri crimini che i terroristi di Hamas e i loro simili di altre sigle islamiste commettono contro le donne che non si piegano alla sottomissione prescritta o gli uomini che praticano "costumi immorali dell'Occidente". E' una forma di ipocrisia che si spiega solo con un doppio razzismo: quello antisemita per cui Israele è lo stato che si odia a prescindere; e quello paternalista e cioè colonialista, per cui non bisogna chiedere ragione agli arabi dei loro delitti, perché "sono diversi, non possiamo applicare loro i nostri criteri".

(Progetto Dreyfus, 24 luglio 2018)


Siria: missili israeliani intercettano un caccia infiltrato

Il portavoce militare israeliano ha fatto sapere che "due missili Patriot sono stati lanciati verso un caccia siriano Sukhoi, penetrato nello spazio aereo israeliano". Il velivolo era stato monitorato e si è infiltrato in Israele di due chilometri. Nella zona del Golan e dell'alta valle del Giordano erano risuonate le sirene. Il ministero della Difesa di Damasco ha puntato il dito contro lo Stato Ebraico, accusandolo di aver abbattuto il jet nello spazio aereo siriano: "Il nemico israeliano ha preso di mira un nostro aereo da guerra, che stava colpendo i terroristi in territorio siriano, nei pressi di Saida".
Secondo l'osservatorio siriano per i diritti umani uno dei due piloti del jet abbattuto "è rimasto ucciso mentre sono in corso le ricerche del secondo, che è riuscito a lanciarsi dall'aereo. Il ripetuto lancio di missili dai paesi vicini contro Israele ha fatto aumentare la tensione nella regione. lo scorso settembre Israele aveva colpito uno stabilimento in territorio siriano che avrebbe prodotto armi chimiche.

(euronews, 24 luglio 2018)


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Come si abbatte un Sukhoi. Il messaggio di Israele a Siria, Iran e Russia

di Emanuele Rossi

Già nel 2014 un Patriot israeliano aveva abbattuto un jet siriano più o meno sulla stessa zona: anche in quel caso, l'aereo aveva sconfinato sul Golan durante i combattimenti tra i governativi e i ribelli e non era rientrato dopo i richiami
  L'esercito israeliano ha comunicato ufficialmente di aver abbattuto un caccia siriano Sukhoi questa mattina. I radar sul Golan hanno tracciato i movimenti di diversi aerei dell'aviazione di Damasco che si avvicinavano alla linea di confine, poi uno l'ha superata per due chilometri. Diverse richieste di rientro sono state avanzate dalle torri di controllo, in diverse lingue, fa sapere il comunicato stampa dell'Idf (Israeli Defence Force), ma senza ricevere risposte: a quel punto le batterie missilistiche americane Patriot, in dotazione all'anti-aerea israeliana, hanno aperto il fuoco. Due missili lanciati, uno ha centrato il bersaglio.
 
Caccia Sukhoi
  Il caccia di fabbricazione russa era decollato dalla base T-4, che si trova vicino alla città storica di Palmira, dove Israele aveva lanciato attacchi mesi fa contro postazioni che l'intelligence di Tel Aviv aveva individuato come controllate dall'Iran e usate da Teheran per piazzare armi da utilizzare contro lo stato ebraico, e per passarne altre alle milizie sciite che la Repubblica islamica ha spostato in Siria a puntellare il regime di Damasco (armi che secondo le intelligence israeliane, una volta finita la crisi siriana sarebbero state dirette verso Israele).
  Prima di oggi, già nel 2014 un Patriot israeliano aveva abbattuto un jet siriano più o meno sulla stessa zona: anche in quel caso, l'aereo aveva sconfinato sul Golan durante i combattimenti tra i governativi e i ribelli e non era rientrato dopo i richiami. In questi ultimi giorni la situazione nell'area che le forze assadiste stanno strappando alle opposizioni armate è piuttosto tesa e delicata. Ieri gli israeliani, per la prima volta, hanno usato il sistema di intercettazione missilistica "Fionda di David" per fermare almeno un missile che proveniva dalla Siria con una traiettoria che avrebbe potenzialmente potuto raggiungere Israele. Poche ore prima, una base siriana ad Hama era stata colpita da un attacco aereo, presumibilmente israeliano, mentre un F-35 della Iaf (Israeli Air Force) era stato fatto volare con il trasponder accesso per renderlo identificabile mentre tagliava il confine libanese; un messaggio.
  Due giorni fa, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e il capo di stato maggiore della Difesa, Valery Gerasimov, erano a Gerusalemme: il centro della discussione è stata la re-imposizione della linea di separazione che dal 1974 divide le alture contese del Golan. Non a caso nella nota odierna in cui Idf comunicava l'abbattimento del jet siriano, veniva sottolineato che Israele "è in allerta e continuerà ad operare contro la violazione della 1974 separazione delle forze di accordo".
  Ieri il giornalista israeliano Barak Ravid, che è sempre molto informato sulle questioni di sicurezza del paese, ha scritto (su Axios, con cui collabora) che dopo l'incontro dei due russi con il premier Benjamin Netanyahu (e con il ministro della Difesa Avigdor Lieberman e il capo dello stato maggiore generale dell'Idf, Gadi Aizenkot), è stato deciso di risolvere la situazione forzando gli iraniani - e le loro forze proxy - a 100 chilometri di distanza dal Golan. Il coinvolgimento dei russi arriva per diretta richiesta israeliana dopo che per mesi si sono tenuti contatti in questo senso (dieci giorni fa, per esempio, Netanyahu era in Russia) includendo nel formato anche gli americani - i presidenti Donald Trump e Vladimir Putin avrebbero discusso anche di questo accordo pragmatico durante il summit di Helsinki.
  Netanyahu ha fornito a Lavrov una lista di restrizioni da imporre agli iraniani, tra cui il ritiro di armamenti sofisticati e missili dalla Siria e lo stop dei trasferimenti di armi agli Hezbollah. Inoltre ha ricordato che Israele intende mantenere la libertà di azione contro le mosse iraniane in tutta la Siria e vedrà Bashar el Assad responsabile di qualsiasi aggressione iraniana contro Israele dal territorio siriano "perché Assad è colui che ospita gli iraniani" ha detto un funzionario a Ravid.
  Israele sfrutta la sponda russa perché sa che Mosca ha influenza sulla situazione siriana e potrebbe convincere Teheran a cedere - quanto gli ayatollah saranno disposti ad accettare è piuttosto difficile da prevedere. Nel frattempo, Gerusalemme ottiene dagli americani bordate politico-diplomatiche secondo una strategia della "massima pressione" contro Teheran.
  Tre giorni fa, Israele ha aperto i confini per far entrare dalla Siria 420 persone tra Caschi Bianchi siriani e famiglie. L'operazione è una di queste coordinate a cui hanno partecipato giordani e americani, con la supervisione dei russi (che controllano la Siria dal cielo e a terra), ed è servita per mettere al riparo dalle attività militari gli uomini della protezione civile siriana che per mesi i siti di disinformazione filo-russa e complottista hanno diffamato accusandoli di essere membri di al Qaeda (ma si sa che la Russia non crede nei fatti alla disinformazione che diffonde attraverso i troll, che è piuttosto un'operazione di guerra informativa a cui abboccano i creduloni, ndr). Una volta al sicuro in Israele, avranno accoglienza in Germania, Canada e Gran Bretagna.

(formiche.net, 24 luglio 2018)


"Forze iraniane a cento chilometri dal Golan". Ma Israele rifiuta l'offerta di Mosca

I colloqui a Gerusalemme

Il conflitto in Siria e la presenza iraniana nel Paese sono stati i temi al centro dell'incontro convocato ieri a Gerusalemme con urgenza tra il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. I colloqui sono stati chiesti dal presidente Vladimir Putin, con il quale Netanyahu ha avuto numerosi contatti negli ultimi mesi. L'Iran, impegnato in Siria a fianco delle forze di Assad e di Mosca, è il nemico numero uno per Israele e Netanyahu vuole impedire che si radichi militarmente nel Paese. Israele ha chiesto che tutte le forze iraniane siano costrette a lasciare la Siria. Ieri Mosca ha assicurato il suo impegno nel garantire l'allontanamento delle forze siriane a 100 chilometri dalle alture del Golan, ma secondo alcune fonti vicine al governo dello Stato Ebraico Netanyahu avrebbe rifiutato l'offerta perché «Israele non permetterà agli iraniani di stabilirsi neanche a 100 chilometri dal confine».

(La Stampa, 24 luglio 2018)


I mondiali tunisini vietati per la piccola scacchista israeliana

di Marco Ansaldo

 
Liel Levitan
ISTANBUL - I riccioli d'oro, gli occhi fissi sulla scacchiera, lo sguardo concentrato e imperturbabile. Liel Levitan ha solo sette anni e ha vinto da poco i Campionati europei di scacchi per la sua categoria. Ora la piccola, considerata un prodigio, non potrà partecipare ai Mondiali perché il Paese arabo organizzatore, la Tunisia, non permette agli israeliani di entrare per motivi politici.
   Liel gioca da solo tre anni, eppure è stata capace di battere ragazzi ben più grandi all'inizio di luglio alle eliminatorie svoltesi in Polonia, vincendo 6 delle 7 partite. «Mi sono commossa», ha detto quando dal podio è partito l'inno israeliano. «Gli scacchi sono un gioco per tutti - ha aggiunto - non solo per i bambini come me. Il mio sogno adesso è di diventare campionessa del mondo».
   Ma il desiderio non potrà realizzarsi. Tunisi ha regole ben precise sull'ingresso di cittadini provenienti da Israele, come altri Paesi arabi. La Federazione internazionale di Judo ha di recente cancellato due eventi in Tunisia e negli Emirati arabi uniti, perché «non assicurano la libera e uguale partecipazione a tutte le nazioni». Lo scorso anno alcuni giocatori di scacchi israeliani non hanno potuto accedere ad alcune gare organizzate in Arabia Saudita. Israele ha allora organizzato una manifestazione parallela, che vedrà la partecipazione di giocatori provenienti dall'Europa e dal mondo arabo. La piccola campionessa di Haifa potrà comunque mostrare il suo talento nel dare scacco matto.

(la Repubblica, 24 luglio 2018)


Barenboim: «Mi vergogno di essere israeliano»

La legge sullo Stato nazionale del popolo ebraico

«Oggi mi vergogno di essere israeliano»: lo afferma il direttore d'orchestra Daniel Barenboim con un polemico intervento su Haaretz in seguito alla approvazione alla Knesset della legge che qualifica Israele come «lo Stato nazionale del popolo ebraico». Il significato di quella legge, sostiene, è che «gli arabi in Israele diventano cittadini di seconda classe. Questa è una forma molto chiara di apartheid». Barenboim sostiene che il parlamento ha tradito gli ideali dei Padri fondatori. Loro puntavano «alla giustizia, alla pace ... promettevano libertà di culto, di coscienza, di lingua, di cultura». Ma 70 anni dopo, accusa, «il governo israeliano ha approvato una legge che sostituisce il principio di giustizia ed i valori universali con nazionalismo e razzismo». Barenboim conclude: «Non mi capacito che il popolo ebraico sia sopravvissuto duemila anni, malgrado le persecuzioni ed infiniti atti di crudeltà, per trasformarsi in un oppressore che tratta crudelmente un altro popolo».

(Il Messaggero, 24 luglio 2018)


Barenboim non si capacita e si vergogna. Non si capacita che Israele sia potuto sopravvivere duemila anni (in realtà sono molti di più), e quando un artista geniale non si capacita, non cerca di capacitarsi studiando e riflettendo un po' di più, ma dà di piglio alla sua arte ed esprime ad alta voce il suo non aver capito niente. Poi aspetta gli applausi, che spesso, soprattutto quando si parla male di Israele, non tardano a venire. Ma oltre a non capacitarsi, lui si vergogna. Non del fatto di non aver capito niente, ma di essere israeliano. Nessuno gli dica che probabilmente in Israele sono molti di più quelli che si vergognano di lui. M.C.


Legge Fondamentale

di Emanuele Calò

Se, come tutti si augurano, arrivasse la pace, magari con l'approvazione di uno dei due Piani di Pace finora respinti, questa Basic Law israeliana (vedi, sotto, una sbrigativa traduzione) diventerebbe una timidissima copia delle norme dei suoi vicini. Poiché non spasimiamo per macchiarci dei peccati di apartheid, razzismo, fascismo, comunismo et similia, saremmo sorpresi che quel che è deleterio e immorale in un'area geografica, diventasse entusiasmante in un'altra. Sarebbe facile, fin troppo facile, dimostrarvi che ciò che commesso dagli israeliani sarebbe, giustamente, un'atrocità, se commesso da altri, secondo qualcuno, degraderebbe ad errore. Ebbene, se questo fosse razzismo, saremmo stati tutti razzisti a non denunciarlo laddove (non serve guardare lontano) è in vigore da sempre. Per quella ragione, speriamo di incontrare chi creda nella sostanziale eguaglianza dell'essere umano, senza fare eccezioni a seconda che si tratti di giorni pari o dispari, feriali o festivi. Gli ebrei non debbono fare né di più né di meno per farsi accettare; per i monoteisti, non esistono divinità minori da cui si discenda. Coloro i quali, per contro, sono sempre più difficili da trovare, sono i laici ed i democratici. Ma non disperiamo. Anzi, magari, potremmo discuterne in pubblico, se qualcuno si degnasse, beninteso.


Legge fondamentale: Israele come Stato-nazione del Popolo ebraico
  1. Principi fondamentali
    1. La Terra d'Israele è la patria storica del Popolo ebraico, in essa è stato fondato lo Stato d'Israele.
    2. Lo Stato d'Israele è il focolare nazionale del Popolo ebraico, in cui si realizza il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all'autodeterminazione.
    3. Il diritto di esercitare l'autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele & egrave; un diritto esclusivo del popolo ebraico.

  2. Simboli dello Stato
    1. Il nome dello Stato è "Israel"
    2. La bandiera dello Stato è bianca con due strisce blu vicino ai bordi e una Stella di Davide blu al centro.
    3. L'emblema dello Stato è una menorah a sette bracci con foglie d'ulivo su entrambi i lati e la parola "Israele" sotto di essa.
    4. L'inno dello Stato è la "Hatikvah".
    5. I dettagli sui simboli dello Stato saranno definiti con legge.

  3. Capitale dello Stato
    • Gerusalemme, completa e unita, è la capitale di Israele.

  4. Lingua
    1. La lingua dello Stato è l'ebraico.
    2. La lingua araba godrà di uno statuto speciale nello Stato; la regolamentazione dell'uso dell'arabo nelle istituzioni dello Stato o da parte di esse sarà stabilita per legge.
    3. La presente clausola non pregiudica lo status attribuito alla lingua araba prima dell'entrata in vigore della presente legge.

  5. Riunione degli esuli
    • Lo Stato sarà aperto all'immigrazione ebraica e alla riunione degli esuli.

  6. Legame con il popolo ebraico
    1. Lo Stato si impegnerà per assicurare la sicurezza dei membri del Popolo ebraico in difficoltà o in prigionia per via del loro ebraismo o della loro cittadinanza.
    2. Lo Stato agirà in seno alla Diaspora per rafforzare la vicinanza fra lo Stato ed i membri del popolo ebraico.
    3. Lo Stato agirà per preservare il patrimonio culturale, storico e religioso del Popolo ebraico fra gli ebrei della Diaspora.

  7. Insediamento ebraico
    • Lo Stato considera lo sviluppo dell'insediamento ebraico come un valore nazionale e si adopererà per incoraggiarne e promuoverne la creazione e il consolidamento

  8. Calendario ufficiale
    • Il calendario ebraico è il calendario ufficiale dello Stato e assieme ad esso il calendario Gregoriano sarà usato come calendario ufficiale; il loro uso sarà stabilito dalla legge.

  9. Giorno dell'Indipendenza e giorni di commemorazione
    1. Il Giorno dell'Indipendenza è la festa nazionale ufficiale dello Stato.
    2. Il Giorno della Memoria per i Caduti nelle Guerre d'Israele e il Giorno della Memoria della Shoah sono giorni ufficiali di Commemorazione dello Stato.

  10. Giorni di riposo e Shabbath
    • Lo Shabbat e le feste di Israele costituiscono giorni di riposo ufficiali; i non ebrei hanno diritto di mantenere giorni di riposo nei loro Shabbat e festività; i dettagli su questo tema saranno determinati dalla legge.

  11. Immutabilità
    • La presente Legge Fondamentale (Basic Law) non sarà emendata, a meno che un'altra Legge Fondamentale (Basic Law) sia approvata a maggioranza dalla Knesset.


(moked, 24 luglio 2018)


È Tel Aviv la frontiera più avanzata dei diritti gay

di Elena Loewenthal

Raramente si è vista in Israele una mobilitazione come quella che domenica, cioè il primo giorno lavorativo della settimana, ha coinvolto in forme diverse praticamente tutto il Paese. Mentre l'universo ortodosso celebrava il digiuno del 9 di Av, forse il momento più triste del calendario ebraico in cui si ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme ( e che quest'anno era stato posticipato di un giorno perché non cadesse durante lo Shabbat), il resto del Paese si infuriava contro il governo per un emendamento alla legge sulla genitorialità surrogata che di fatto esclude questa possibilità per i padri gay, mentre lo stesso Netanyahu aveva poco prima assicurato i movimenti Lgbt sul fatto che il provvedimento sarebbe passato. Di fatto, soprattutto a Tel Aviv, le coppie di genitori omosessuali sono più che «normali», ma si costruiscono attraverso adozioni o diversi escamotage giuridici. L'emendamento non avrebbe fatto altro che fotografare la realtà.
   Tel Aviv, frontiera avanzata dei diritti gay, Tel Aviv che è una fra le città più gay friendly del mondo, dove il paesaggio urbano e umano contempla tutta la possibile gamma di situazioni di coppia e non, con o senza bambini, si è sentita profondamente tradita, e ha reagito portando alla propria causa grandi fette del Paese.
   La protesta è culminata in quello che è stato un inedito, concettualmente rivoluzionario sciopero nazionale a favore dei gay, a cui hanno preso parte moltissimi lavoratori. E moltissimi datori di lavoro hanno deciso di non detrarre dallo stipendio la giornata di sciopero dei propri dipendenti, in questa occasione, per solidarietà. Domenica sera in piazza Rabin circa sessantamila persone si sono radunate per la manifestazione di protesta. Esponenti politici, compresi alcuni del Likud, ufficiali dell'esercito, il sindacato nazionale, e altre voci istituzionali non hanno fatto mancare la loro solidarietà alla protesta. E sui sodai network lo slogan «tutti hanno diritto a una famiglia» accompagnato dalla bandiera arcobaleno, ha spopolato su profili di gay, etero, uomini, donne. In altre parole, quella grossa fetta d'Israele estranea alle restrizioni degli schemi tradizionali, liberale e aperta, ha alzato la voce sdegnata dal passo falso del governo - e soprattutto di Netanyahu che si è rimangiato la parola data sull'emendamento, con un gesto di sudditanza all'ala ortodossa e conservatrice dello schieramento politico. Il tutto a pochi giorni dallo «scandalo» del rabbino conservative, cioè non ortodosso, fermato per avere celebrato un matrimonio - in Israele non esiste ancora il matrimonio civile, lo celebrano le diverse autorità religiose, e per l'ebraismo vige quello dell'ortodossia-, e all'indomani del national bill che se in realtà non dice nulla di nuovo su nazione, religione, identità, è stato visto da molti come l'apripista per una restrizione dei diritti delle varie minoranze che vivono nel Paese, gli arabi prima di tutti.
   Dunque la protesta di domenica, che si è manifestata nelle forme più diverse, anche spontanee (per qualche tempo i manifestanti hanno anche bloccato la tangenziale di Tel Aviv) attesta una preoccupazione generale che ha al suo cuore la questione fondamentali dei diritti individuali in una società multiforme, fatta di tante identità diverse che devono poter convivere senza conflittualità, nel rispetto dei diritti. E naturalmente anche dei doveri.

(La Stampa, 24 luglio 2018)


Ecco di che cosa si vanta l'ebraismo laico, israeliano e non. Ma potrà Israele essere salvato dal Signore, se si comporta in modo così sfacciato contro le leggi di Dio? si chiederà qualcuno. Sì, certamente, perché la sorte finale di Israele non dipende dal buon comportamento degli ebrei, ma dalle promesse di Dio. Però... (questi maledetti però) però se Israele come nazione sarà salvata, non per questo saranno salvati tutti i suoi abitanti. Se nella Shoah un terzo degli ebrei è stato sterminato e due terzi si sono salvati, nella purificazione finale operata da Dio le percentuali si invertiranno: due terzi saranno sterminati e solo un terzo si salverà. Non lo dico io, lo dicono gli scritti sacri del popolo ebraico: «E in tutto il paese avverrà, dice l'Eterno, che i due terzi vi saranno sterminati, periranno, ma l'altro terzo vi sarà lasciato. E metterò quel terzo nel fuoco, e lo raffinerò come si raffina l'argento, lo proverò come si prova l'oro; essi invocheranno il mio nome e io li esaudirò; io dirò: 'È il mio popolo!' ed esso dirà: 'L'Eterno è il mio Dio!'» (Zaccaria 13:8-9). Attenzione dunque a farsi vanto di saper trasgredire le leggi di Dio prima e meglio degli altri, se si vorrà un giorno essere tra quelli a cui Dio dirà: “E’ il mio popolo”. M.C.



Un capolavoro del diavolo
Essere riuscito a fare in modo
che il mondo considerasse Tel Aviv
come capitale degli omosessuali
e nello stesso tempo scegliesse Tel Aviv
come capitale d'Israele
al posto di Gerusalemme
è un capolavoro del diavolo.

 


Ebrei e laburisti, è ormai maturo un divorzio storico?

di Luigi Ippolito

 
Dame Margaret Hodge
Come un fiume carsico, da due anni a questa parte la questione dell'antisemitismo nel partito laburista riappare a intervalli periodici: e ogni volta scava un fossato più profondo tra gli ebrei britannici e il partito della sinistra. L'ultima polemica è di questi giorni e riguarda il «codice contro l'antisemitismo» appena adottato dal Labour: una dichiarazione di intenti che ha fatto seguito a una lunga inchiesta interna volta proprio a prendere le distanze da una vera o presunta ostilità nei confronti degli ebrei e di Israele. Ma, come si suol dire, la toppa è stata peggiore del buco: perché il nuovo codice di condotta si è scontrato con la condanna delle autorità religiose rabbiniche e l'indignazione di molti esponenti laburisti di estrazione ebraica. Infatti la «carta» adottata dal Labour riproduce la definizione di antisemitismo dell'Alleanza Internazionale per il Ricordo dell'Olocausto: ma significativamente ne omette alcuni punti, che riguardano fra l'altro l'accusa agli ebrei di essere più leali a Israele che al proprio Paese o il paragone fra le politiche di Israele e quelle naziste. La polemica è deflagrata quando una deputata laburista ebrea, Dame Margaret Hodge, ha affrontato il leader Jeremy Corbyn nei corridoi di Westminster dandogli del «fottuto antisemita». E non è un caso che la questione divampi da quando l'esponente della sinistra radicale ha assunto la guida del partito: lui ha sempre militato nel campo antimperialista e terzomondista, spesso attraversato da ostilità verso Israele. Tanto che oggi gli ebrei nel partito denunciano un clima di ostilità tollerato dai vertici: la combattiva deputata Luciana Berger si è fatta in questi mesi portavoce del disagio. Che sta avendo costi anche sul piano elettorale: alle ultime amministrative, il Labour ha perso a sorpresa nella circoscrizione di Barnet, quella con la più alta presenza ebraica. L'avvio di un divorzio storico?

(Corriere della Sera, 24 luglio 2018)


Un'associazione per difendere gli ebrei europei minacciati dall'antisemitismo

Intervista a Daniel, figlio di Mireille Knoll, uccisa a Parigi

di Daniel Mosseri

BERLINO - Commemorare i defunti è un imperativo della tradizione ebraica. La regola religiosa vuole che i congiunti più stretti della persona scomparsa recitino il Kaddish durante la liturgia in sinagoga. Il dovere religioso di ricordare si è però ampiamente allargato alla sfera civile e, chi può, svela una targa, dedica uno spazio o un libro, istituisce un premio alla memoria. La nascita a settembre dell'associazione "Mireille Knoll" va in questa direzione. "Ci sono diversi progetti in cantiere ma l'associazione è quello più importante per onorare il ricordo di mia madre", dice Daniel Knoll al Foglio. Knoll, 61 anni, è uno dei due figli della signora Mireille, ebrea francese sfiorata dalla morte per mano dei collaborazionisti di Vichy quando era bambina e uccisa da una mano diversa - un vicino di casa - all'età di 85 anni. Due mani diverse guidate da un solo movente: l'antisemitismo. Nata nel 1932, Mireille a dieci anni sfugge al rastrellamento del Velodrome d'Hiver (Parigi, 16 luglio 1942) quando oltre 13 mila ebrei francesi, fra i quali 4 mila bambini, vennero ammassati nell'impianto sportivo, internati e poi spediti a morire ad Auschwitz. Mireille e la madre scappano all'estero: prima il Portogallo, poi il Canada, "dove è nato mio fratello Alain". racconta Knoll. Sia da bambina sia da anziana, la signora Knoll è stata additata come ebrea, "ecco perché lo scopo principale dell'associazione è aiutare gli ebrei che stanno soffrendo o vengono discriminati". L'associazione non si dà limiti geografici ma il suo sguardo parte da casa: Parigi, la Francia, l'Europa.
   Prima dell'omicidio della signora Knoll, accoltellata undici volte dal vicino di pianerottolo, la capitale francese era stata scossa dall'omicidio di Sarah Halimi, sessantacinquenne ebrea massacrata e defenestrata lo scorso anno dal giovane Kobili Traoré. Anche lui, come l'assassino di Mireille Knoll, agì al grido di Allah Akbar. Ci vorranno oltre sei mesi perché gli inquirenti francesi ammettano la matrice antisemita del caso Halimi. "Il nostro legale fa parte dell'associazione Avocats sans frontières con la quale collaboreremo per sostenere gli ebrei isolati, minacciati o sotto attacco".
   Lenire le ferite aiuta ma non basta. E Knoll spiega che l'altro grande obiettivo è riavvicinare le comunità musulmana e cristiana a quella ebraica. "Bisogna far capire che noi vogliamo dialogare". I contatti con il mondo islamico non mancano. A giorni Knoll vedrà Najat Azmy del Consiglio della comunità marocchina all'estero ed esperta di protezione delle donne. "Un partner ideale per chi, come noi, punta ad aiutare le persone più modeste". Il problema semmai è l'assenza di interlocutori istituzionali, il che è anche il riflesso della mancanza in Francia di un organismo rappresentativo del mondo islamico. Troppe le divisioni - e le ostilità - fra arabi e subsahariani, fra maghrebini e siriani, musulmani d'Asia e quelli del Corno d'Africa, lamenta Knoll per il quale neppure l'Union des organisations islamiques de France è particolarmente rappresentativa. Daniell ricorda la sgradevole sensazione seguita ai proclami antisemiti pronunciati in arabo dall'imam Mohammed 'I'ataì della grande moschea di Tolosa, prima difesi e poi condannati da altri imam attivi in Francia.
   Scontato invece l'appoggio delle organizzazioni ebraiche francesi, con il presidente del Concistoro centrale, Joèl Mergui, fra i padrini annunciati dell'associazione. "Noi siamo alla ricerca di volti noti che aiutino la 'Mireille Knoll' ad affermarsi". Un segnale positivo è arrivato dal produttore dello champagne Taittinger che ha insignito i fratelli Knoll del titolo di "cavalieri della riconciliazione". Ma è dalla politica che l'associazione deve essere legittimata. Una strada impervia per chi come Knoll afferma apertamente che i maggiori pericoli per gli ebrei "arrivano da una minoranza musulmana; una racaille minoritaria capace però di influenzare anche il francese medio e di far credere a tutti, musulmani o meno, che gli ebrei sono tutti ricchi e cattivi. Mia madre non possedeva nulla". Lo scopo dei fratelli Knoll è interrompere la catena di una comunicazione perversa e pervasiva che ha trasformato le comunità ebraiche in obiettivi da colpire. Daniel Knoll si astiene dai commenti di carattere politico e anzi segnala di aver ricevuto il sostegno di parlamentari da ogni schieramento. Non ci vuole molto per capire però che la strada politica dell'associazione non sarà facile: è una difficoltà comune a tanto ebraismo europeo, maltrattato da una sinistra-non fa differenza se post comunista o corbyniana - incapace di mascherare un'ostilità quasi epidermica nei confronti di Israele e pronta a condannare chi esula dal politically correct (vedi alla voce Zemmour); e blandito da larga parte di una destra xenofoba le cui simpatie per la causa sionista servono a liberarsi da un passato oscuro, ora a sostenere aprioristicamente un paese minacciato dall'islam radicale. Due diverse chiusure che non servono alla causa dell'associazione "Mireille Knoll".

(Il Foglio, 24 luglio 2018)


Israele salva i Caschi bianchi e bombarda Assad

di Giordano Stabile

 
Caschi bianchi siriani
Un «favore» chiesto da Donald Trump e dal premier Justin Trudeau. Così il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha spiegato l'operazione che nella notte fra sabato e domenica ha portato in salvo 800 "Caschi Bianchi" intrappolati al posto di frontiera di Quneitra fra la Siria e le Alture del Golan. L'esercito è andato a prenderli, li ha portati in territorio israeliano e di lì al confine con la Giordania. Tutto in poche ore, nella massima segretezza, con il rischio di innescare un conflitto con le truppe governative che stavano per riconquistare l'intera provincia di Quneitra, come poi è accaduto nella giornata di ieri. Israele ha poi condotto in serata un pesante raid aereo contro il centro di ricerche militari a Masyaf nella provincia di Hama, sospettato dai servizi occidentali di produrre armi chimiche.

 Lo sforzo "umanitario"
  Le forze armate hanno spiegato che il salvataggio di volontari della Difesa civile siriana è stato «uno sforzo umanitario a causa dell'immediato pericolo per le loro vite». I "Caschi bianchi", protagonisti dei salvataggi di molte vite nelle zone controllate dai ribelli sotto i raid dell'aviazione siriane e russa, saranno trasferiti in Germania, Olanda, Gran Bretagna e Canada, come rifugiati. Né Israele né gli Stati Uniti hanno accettato di accoglierli. Le nuove norme volute da Trump impediscono l'arrivo negli Usa da Paesi giudicati «pericolosi».
   I "Caschi bianchi", volontari della cosiddetta "Difesa civile siriana", sono il volto più mediatico, a volte controverso, dell'opposizione al regime di Bashar al-Assad. Hanno denunciato le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra delle forze governative, in particolare l'uso di armi chimiche. L'ultima denuncia però, l'uso di cloro e gas nervini a Douma, non ha trovato riscontro nell'indagine dell'agenzia Opac dell'Onu. Per Damasco sono invece al servizio dei gruppi ribelli, anche islamisti, e dei servizi segreti occidentali.
   Con la conquista della Ghouta orientale, poi della provincia di Daraa e infine di Quneitra, gli spazi di azione dei «Caschi Bianchi» si sono ristretti fin quasi a zero, finché si sono trovati intrappolati alla frontiera, con la certezza di essere catturati, forse torturati o uccisi. Per questo è scattato il piano di salvataggio. Trump ha telefonato a Netanyahu per chiedergli di intervenire. Il premier si è «coordinato» anche con Vladimir Putin, in modo che le forze armate siriane non interferissero, e tutto è andato liscio. Forse la prima prova di intesa America-Russia-Israele nella futura Siria, dove Assad è più in sella che mai e si appresta a riconquistare la quasi totalità del territorio.

(La Stampa, 23 luglio 2018)


*


Siria, operazione di Israele: salvati 800 Caschi bianchi

«Erano in pericolo di vita». Il via libera di Netanyahu all'esercito: «Passati dal Golan e portati in Giordania».

di Simona Verrazzo

Con una complessa operazione logistica, preceduta da un'intensa attività diplomatica, Israele, in collaborazione con la Giordania, ha messo in salvo centinaia di 'Caschi Bianchi' siriani con le loro famiglie. L'intervento, ha precisato l'esercito israeliano, è stato condotto su richiesta degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei, tra cui il Regno Unito.
  Ed è la TV britannica BBC a fornire ulteriori dettagli. Nella notte tra sabato e domenica, 422 persone sono state tratte in salvo dalla Siria sud-occidentale - grazie alla mediazione della Russia - attraverso il valico di Quneitra, località abbandonata ma che si trova nella zona cuscinetto creata dalle Nazioni Unite per dividere Siria e Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni. Israele ha scortato, in sicurezza, il convoglio sulle alture del Golan fino al confine con la Giordania. Una volta arrivato alla frontiera del Regno Hashemita è stato preso in carico dall'esercito di Amman, che aveva precedentemente dato all'Onu l'autorizzazione all'entrata sul proprio territorio.

 Gesto umanitario
  I Caschi Bianchi siriani sono stati «evacuati dalla zona di guerra nel sud della Siria a causa di una minaccia immediata alle loro vite», ha detto l'esercito, aggiungendo che si è trattato di un «eccezionale gesto umanitario». L'organizzazione creata nel 2013, che si proclama indipendente e si occupa di mettere in salvo i civili rimasti intrappolati nella aree contese del conflitto in Siria, è operativa esclusivamente nelle zone controllate dai ribelli, in particolare l'Esercito libero siriano. Il regime di Damasco, così come Mosca, li accusa di sostenere i gruppi jihadisti impegnati a rovesciare il presidente Bashir Al Assad.
  I Caschi Bianchi, il cui nome ufficiale è Difesa civile siriana, contano circa 3.000 volontari, di cui almeno duecento morti nel conflitto, e nel 2016 sono stati candidati al premio Nobel per la Pace. Secondo dati forniti dalla stessa organizzazione, grazie al loro intervento in questi anni sono stati salvati 100.000 civili. Resta ora da capire quanti ne siano rimasti in Siria. Inizialmente era prevista l'evacuazione di un convoglio di 2.500 persone, composto da 800volontari e dai membri delle loro famiglie. Quelli di cui si ha la certezza che abbiano lasciato il territorio siriano, in questo intervento, sono stati soltanto cento, a cui vanno aggiunti i parenti, per un totale di poco più di 400 persone.
Ora è necessario organizzare la seconda fase, quella del trasferimento in altri paesi come richiedenti asilo. Fonti della Giordana hanno dichiarato che Regno Unito, Germania e Canada si faranno legalmente carico del loro ricollocamento.

 Diplomazia all'opera
  L'operazione logistica è stata preceduta da un'intesa attività diplomatica. Come riferito da Euronews, la cooperazione tra Russia e Israele ha portato all'accordo per il transito. Secondo la radio militare israeliana, che ha riportato per prima la notizia, le intese logistiche necessarie per realizzare la complessa operazione umanitaria sono state decise giorni prima, cominciando con una telefonata fra il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, e il presidente russo, Vladimir Putin. È seguito un secondo contatto tra il ministro della Difesa dello Stato ebraico, Avigdor Lieberman, e il suo omologo di Mosca, Sergey Shoygu.
Alla fine di giugno l'esercito siriano ha lanciato l'offensiva contro i ribelli a Daraa, annunciando di averne ripreso il controllo. Si tratta di una località dal grande valore simbolico e strategico: è da lì che partì, nel 2011, la protesta contro il regime di Assad e si trova in una posizione geografica particolare, sul confine meridionale con la Giordania. Centinaia di migliaia di civili, tra i 70.000 e i 100.000.

(Il Messaggero, 23 luglio 2018)


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Siria. Israele ha evacuato i "Caschi bianchi"

di Manuel Giannantonio

Circa 800 siriani membri dei "Caschi bianchi" accompagnati dalla loro famiglie, sono stati evacuati con segretezza dall'esercito israeliano. Minacciati dall'avanzata delle truppe di Bashar al-Assad, si sono ritrovati con asilo provvisorio in Giordania.
   Domenica mattina un comunicato di Tsahal (Forze armate israeliane) ha confermato il successo di questa operazione precisando che non si tratta di uno scambio politico con Israele, paese che rifiuta di accogliere rifugiati siriani sul proprio territorio. "Si tratta di un gesto umanitario eccezionale. Israele mantiene la sua politica di non intervento nel conflitto siriano e continua a considerare il regime di Damasco come responsabile di tutte le attività che hanno avuto luogo sul territorio siriano", riporta il testo citato dal quotidiano libanese "L'Oriente il giorno". L'esercito israeliano indica ugualmente che questa operazione è stata condotta "su richiesta degli Stati Uniti e di diversi paesi europei", senza fornire però altri dettagli.
   Attraverso il quotidiano popolare Yediot Aharonot un portavoce del governo giordano ha confermato che il Regno accoglierà "per ragioni umanitarie" circa un centinaio di rifugiati che saranno mandati in Germania, Gran Bretagna e Canada. Il quotidiano precisa che i Caschi bianchi erano principalmente finanziati dagli Stati Uniti, da diversi paesi europei ma anche dal Canada e dal Giappone. Secondo il dipartimento di Stato Usa, le loro azioni sul territorio hanno permesso di salvare "più di 100mila vite dopo l'inizio della guerra in Siria".
   L'evacuazione, secondo la stampa israeliana, si è svolta nell'assoluta riservatezza. Secondo il quotidiano di sinistra Haaretz questa operazione è stata condotta dalla divisione Bashan Tsahal (un'unità impiegata nel nord del paese dall'inizio della guerra civile) e coordinata dal Consiglio nazionale di sicurezza. Una lista precisa di persone è stata preventivamente stabilita qualche giorno prima. I siriani si sarebbero presentati in un secondo momento, intorno alle 23.00 di sabato 21 luglio, a due check point dall'ingresso nel territorio siriano, nei pressi di Quneitra, dove ad attenderli c'erano due autobus. Il viaggio è avvenuto di notte, fino alla frontiera giordana, dove li attendevano altri autobus. L'operazione è durata in tutto sei ore.
   Secondo il The Jerusalem Post, quotidiano conservatore, il ruolo d'Israele in questa operazione è stato mantenuto segreto - e non menzionato dai Giordani - per evitare di creare polemiche nei paesi arabi ma anche e soprattutto per non mettere in pericolo l'evacuazione.

(Notizie Geopolitiche, 23 luglio 2018)


La coltivazione di mango israeliano aumenta ogni anno

Comincia la stagione d'importazione per la Germania

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La maggior parte dei frutti esotici sui mercati tedeschi proviene attualmente dall'America Latina, ma ci sono anche alcune regioni alternative, come Israele. I produttori si sono sempre più concentrati sulla coltivazione di mango di alta qualità, guadagnando notorietà in Europa occidentale. "Di recente, i primi lotti della varietà Aya sono stati spediti in Germania" ha affermato Raimund Dieterich, amministratore delegato della Israel-specialties GmbH, con sede a Lenningen.
La varietà Aya è la prima proveniente da coltivazione israeliana e si distingue per un gusto molto aromatico e una polpa fruttata con sentore di arancia. "La nostra stagione del mango va avanti fino a ottobre e, a seconda della stagionalità, ci sono molte tipologie disponibili - ha continuato Dieterich - Finora prevediamo un raccolto abbastanza soddisfacente. Inoltre, notiamo che i mango stanno acquisendo gradualmente importanza e, allo stesso tempo, la superficie coltivata si sta espandendo. La produzione dei pomelo è chiaramente diminuita a causa della presenza di prodotti cinesi".

 Red Sweety
  Oltre ai mango, lo Stato di Israele è conosciuto anche per le sue arance di alta qualità. Facendo un bilancio sull'ultima stagione di successo, Dieterich ha dichiarato che ci sono altre possibilità nella coltivazione israeliana: le arance Jaffa, ad esempio, potrebbero essere prodotte più spesso e con più varietà, come Cara Cara e Valencia Late. I consumatori sarebbero felici di acquistarle".
Gli israeliani sono certamente pronti a espandere il loro portfolio di prodotti e offrire nuove varietà. Dieterich usa come esempio la Sweetie dalla polpa rossa. "Questo incrocio tra arancia e pomelo solitamente viene fornito verde o giallo, ma l'anno scorso i nostri coltivatori hanno prodotto una varietà a polpa rossa che è certamente più grande delle cultivar comuni. Quest'anno, è nuovamente disponibile un interessante ampliamento della nostra gamma. A partire da fine luglio, verranno importati da Israele lime biologici".

 Clienti vegani
  Da più di 10 anni, Raimund Dieterich fornisce ai suoi clienti un'ampia selezione di prodotti israeliani. Attraverso le vendite online, interagisce direttamente con il consumatore. A parte gli agrumi e i frutti esotici, i datteri sono di gran lunga i prodotti più importanti, nel settore frutticolo. La clientela dell'azienda annovera anche consumatori 100% vegani.
Email: info@israel-spezialitaeten.de
Web: www.israel-spezialitaeten.de

(Fresh Plaza, 23 luglio 2018)


Quello che gli europei proprio non capiscono di Israele e del medio oriente
      Articolo OTTIMO!


Una regione dove l'uso della forza rende popolari, la paura d'essere cancellati come entità politica è concreta e non è un'esclusiva di Israele.

Scrive il Jerusalem Post (28/6)

Molti, israeliani e no, lamentano gli insuccessi della diplomazia pubblica d'Israele nel cercare di spiegare all'estero le ragioni del paese" scrive Efraim Inbar, politologo israeliano molto vicino al premier Benjamin Netanyahu. "Come può essere così difficile spiegare ciò che la maggior parte degli israeliani considera un comportamento perfettamente normale per uno stato che si batte da sempre contro il terrorismo e un odio profondissimo? Eppure è così: non è facile spiegare in Europa le ragioni di Israele. Vi sono diversi motivi.
   Innanzitutto esiste un radicato fondo di antisemitismo a vari i livelli nella società europea. L'Europa non è mai stata un ospite benevolo verso gli ebrei, che per molti secoli vi hanno subito pregiudizi, discriminazioni, pogrom, espulsioni e infine il peggio di tutto: il genocidio.
   Va inoltre considerato il fatto che, man mano che la memoria diretta della Shoah si va allontanando, il tradizionale antisemitismo, che spesso e volentieri si esprime e si mescola con atteggiamenti visceralmente anti-israeliani, non risulta più politicamente scorretto. In un'Europa che purtroppo non si è mai del tutto liberata dalla malattia antisemita, l'immigrazione musulmana non ha fatto che aggiungere un altro strato di virulento antisemitismo. Oggi un ebreo che indossa la kippà o una catenina con la Stella di David non è al sicuro nelle strade di molte città dell'Europa occidentale, e dovrebbe suscitare indignazione il fatto che da decenni tutte le istituzioni ebraiche (comprese le scuole) devono essere sorvegliate giorno e notte dalle forze di sicurezza locali.
   Un altro fatto che mette Israele in una luce sfavorevole agli occhi di molti europei è la percezione (corretta) di Israele come di un grande alleato degli Stati Uniti. E questo, mentre negli ultimi anni la distanza tra Europa e Stati Uniti si va gradualmente ampliando. La cultura strategica degli Stati Uniti è molto diversa da quella europea e molto più vicina al pensiero strategico israeliano, cosa che inevitabilmente getta cattiva luce su Israele.
   Esiste poi il senso di colpa degli europei per il loro passato coloniale, che mette Israele in svantaggio dal momento che il prisma coloniale viene (scorrettamente) applicato al conflitto israelo-palestinese. Considerare gli israeliani come coloni europei che hanno scalzato i nativi arabo-palestinesi significa ignorare gli antichissimi e ininterrotti legami storici e culturali degli ebrei con la loro madrepatria (nonché il carattere imperialista delle ideologie panaraba e panislamica, e il carattere anti-coloniale della lotta d'indipendenza anti-britannica dei sionisti), Significa anche promuovere un atteggiamento di gratuita giustificazione verso entità palestinesi corrotte e dittatoriali (come l'Autorità palestinese e il controllo di Hamas su Gaza) e la loro sistematica violazione dei diritti umani.
   Ma soprattutto, gli europei fanno fatica a capire la spietata realtà del medio oriente, che vive in un'era storica diversa. A differenza della pacifica Europa, il medio oriente è una regione dominata dai conflitti. In medio oriente, stati e organizzazioni fanno la guerra per conseguire obiettivi politici. L'uso della forza è parte integrante delle regole del gioco e degli strumenti a disposizione di capipopolo e capi di stato. Mentre in Europa, in particolare nella sua parte occidentale, il ricorso alla forza è visto come primitivo e anacronistico, in questa parte del mondo l'uso delle armi è considerato normale e persino popolare. Saddam Hussein venne osannato come l'eroe del mondo arabo quando conquistò con la forza il Kuwait. L'intervento militare di Ankara in Siria è acclamato dalle masse turche; la sanguinosa guerra di Riad nello Yemen non suscita la minima critica in patria. E' difficile immaginare oggi un'azione militare europea che non sia accompagnata all'interno da critiche, accuse e manifestazioni contro la guerra. Dato questo contesto, va da sé che i sempre elevati livelli di percezione della minaccia negli stati e nelle società del medio oriente non vengono mai capiti appieno dagli europei, che da tempo pensano di vivere in una sorta di paradiso strategico. Gli europei non sono disposti a spendere molti soldi per la difesa, approfittando da decenni dell'ombrello militare americano. Al contrario, gli stati mediorientali devolvono grandi fette del loro pil alle esigenze della sicurezza nazionale. E vivono tutti nel costante sospetto e timore per le intenzioni dei loro vicini. Gli stati dell'Unione europea non devono fare i conti con una continua sfida alla legittimità delle loro frontiere o della loro stessa esistenza. Viceversa, sono molte le dispute di confine che travagliano gli stati del medio oriente, come quelle tra Siria e Turchia, o fra Iran e Iraq. Inoltre l'ideologia del panarabismo, che minava alla radice la legittimità dei governanti arabi e delle loro strutture statali, è stato in gran parte rimpiazzata da un'altra ideologia transnazionale, il panislamismo, con ripercussioni simili se non peggiori. Entrambi sono movimenti transnazionali (imperiali) che tendono a ricorrere alla violenza.
   Anche la religione è un fattore politico poco compreso in un'Europa per lo più laica. L'influenza intellettuale di Max Weber e Karl Marx ha creato una cecità nei confronti del comportamento religioso. In medio oriente, la maggior parte delle persone sono in qualche misura religiose, e la loro identità è fortemente modellata da testi sacri. Vale per gli arabi, i turchi, i persiani e gli ebrei. In contrasto con l'Europa post Riforma, la separazione tra religione e stato è un concetto estraneo in questa parte del mondo. L'enorme potere delle convinzioni religiose nel motivare le persone all'azione e la loro disponibilità a sopportare grandi sofferenze è pressoché incomprensibile per l'europeo medio. Il medio oriente è il focolaio dell'estremismo religioso, e gli europei sono molto mal equipaggiati per capire i fanatici dello stato islamico. Naturalmente esistono isole di sostegno alle ragioni di Israele anche nel Vecchio continente, ma innegabilmente vivere nell'Europa di oggi non predispone a comprendere la realtà del medio oriente.
   Ecco perché la diffusa incomprensione per il punto di vista degli israeliani, per le loro scelte politiche e per il loro ricorso alla forza quando necessario, non può essere corretta da maggiori sforzi di diplomazia pubblica. Gli atteggiamenti così spesso faziosi e prevenuti degli europei sono il risultato di un pesante bagaglio culturale e di un insieme di orientamenti totalmente differenti in fatto di politica estera e di difesa".

(Il Foglio, 23 luglio 2018)


Il blocco su Kerem Shalom potrebbe essere revocato

 
Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha dichiarato che il blocco imposto sul valico di Kerem Shalom potrebbe essere revocato martedì 24 luglio, se la tregua tra Hamas e il governo israeliano reggerà. La decisione di chiudere l'unica traversata commerciale con la Striscia di Gaza era stata presa il 9 luglio, in risposta agli aquiloni e palloncini incendiari lanciati dall'enclave palestinese contro il territorio israeliano. Lo Stato Ebraico, il 16 luglio, aveva deciso di rafforzare ulteriormente il blocco imposto sulla Striscia di Gaza, impedendo le consegne di gas e carburante e riducendo la zona di pesca adiacente all'enclave palestinese da 6 a 3 miglia nautiche.
   In seguito a tali provvedimenti, alcuni funzionari delle Nazioni Unite hanno evidenziato che la Striscia di Gaza sta affrontando gravi carenze di carburante, le quali colpiscono sia ospedali, sia strutture idriche e igieniche. Alla luce di ciò, il coordinatore umanitario dell'ONU responsabile per i territori palestinesi, Jamie McGoldrick, ha invitato Israele a porre fine alle restrizioni imposte, avvertendo che gli ospedali saranno costretti a chiudere, con le forniture di emergenza destinate ad esaurirsi entro l'inizio di agosto. "Considerando che i blackout attuali durano circa 20 ore al giorno, se Gaza non riceverà immediatamente del carburante, ci saranno in gioco le vite delle persone. I pazienti più vulnerabili, come quelli cardiaci, in dialisi e i neonati in terapia intensiva saranno quelli più a rischio" ha affermato McGoldrick.
   L'apice delle ostilità in corso tra Israele e Gaza è stato raggiunto venerdì 20 luglio, quando al confine con la Striscia, alcuni palestinesi armati di pistole hanno ucciso un soldato israeliano e, in risposta, l'esercito dello Stato Ebraico ha avviato una violenta serie di raid, uccidendo 4 palestinesi, tra cui 3 miliziani di Hamas. Nell'escalation sono stati feriti almeno 120 abitanti di Gaza. Il soldato israeliano morto venerdì è la prima vittima israeliana dai tempi della guerra tra Israele e Hamas nel 2014. Il militare si trovava impegnato in "attività operative" quando, insieme ai colleghi, è stato preso di mira dal fuoco palestinese.
   "Mediante gli sforzi dell'Egitto e delle Nazioni Uniti, è stato convenuto di fare ritorno a un periodo di calma tra Israele e le fazioni palestinesi", ha riferito all'agenzia di stampa Reuters un portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum. La giornata seguente agli scontri appena descritti è stata definita dal ministro della Difesa come "il giorno più tranquillo dal 30 marzo", data di inizio delle proteste palestinesi. "Se oggi e domani vedremo un prolungamento di questa situazione, martedì riprenderanno le attività di routine a Kerem Shalom e le zone di pesca ritorneranno alle misure concordate in precedenza" ha altresì affermato il ministro.
   L'attraversamento di Kerem Shalom è l'unico presente tra Gaza e Israele disposto al trasporto merci, mentre un confine separato, noto come Erez, è predisposto al passaggio di persone. Lo Stato Ebraico, che dal 2008 ha combattuto 3 guerre contro il movimento islamista di Hamas, controlla rigorosamente entrambe le frontiere. L'unico altro punto di entrata per la Striscia di Gaza è in Egitto. Tuttavia, tale ingresso è rimasto chiuso negli ultimi anni, ad eccezione di un'apertura avvenuta a metà maggio dell'anno corrente.
   Dall'inizio della Marcia del Ritorno, il 30 marzo, sono stati uccisi 140 palestinesi, inclusi 15 bambini, e sono state ferite più di 12.000 persone. Gli scontri al confine hanno raggiunto il picco il 15 maggio, quando 40.000 abitanti di Gaza hanno protestato lungo la recinzione, risultando nella morte di almeno 60 palestinesi. Tali accadimenti si sono verificati il giorno dell'apertura dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme. L'obiettivo della protesta era il ritorno dei rifugiati palestinesi nei territori in cui adesso sorge Israele, una delle questioni discusse nei negoziati di pace tra le due parti. Il popolo palestinese considera il ritorno nei territori israeliani un diritto, che dovrebbe essere garantito dalle norme internazionali. Al contrario, Israele considera la questione una richiesta politica che dovrebbe essere discussa nel processo di pace.

(Sicurezza Internazionale, 23 luglio 2018)


Ebraismo messianico

Riportiamo due brani tratti dalla periodica rassegna stampa del Caspari Center di Gerusalemme.

da The Jerusalem Report (13/7)

Recentemente gli ebrei messianici in Israele hanno fatto sentire in modo più chiaro le loro richieste di riconoscimento e di uguaglianza dei diritti, specialmente per quanto riguarda il diritto al ritorno. Ma sono veramente ebrei? Questo articolo sostiene che non lo sono, perché indipendentemente da come gli ebrei messianici si autoidentificano, la legge ebraica ha determinato che sono cristiani. L'ebraismo ha un atteggiamento favorevole nei confronti del cristianesimo e dell'islam, religioni intese come legittime e non pagane. Quindi il problema con gli ebrei messianici non è che sono cristiani, ma piuttosto che sono ebrei apostati. A causa della loro apostasia, "la legge ebraica non può concedere loro i privilegi di coloro che sono ebrei". Gli ebrei messianici possono ribattere dicendo che c'è una grande varietà di credenze all'interno dell'ebraismo, e mentre questo è vero, ci sono anche "linee rosse che una volta attraversate indicano che uno ha lasciato l'ebraismo e si è unito ad un'altra religione". I tribunali hanno confermato la decisione secondo cui la legge del ritorno non si applica agli ebrei che si sono convertiti ad altre religioni. "In considerazione di ciò", ha concluso l'autore, "vorrei esortare tutte le persone che hanno aderito a questi cosiddetti gruppi messianici a leggere questo articolo per ripensarci. Se vuoi davvero essere ebreo, smetti di ingannarti e seriamente pensa di tornare al gregge ebraico."


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Atteggiamenti di israeliani ed ebrei verso cristiani e cristianesimo

Da The Jerusalem Post (15/7)

Nell'ultimo decennio c'è stata una fioritura di alleanze tra cristiani evangelici e lo stato di Israele. L'autore di questo articolo sostiene che per Israele è giunto il momento, quando si considerano le relazioni ebraico-cristiane, di "crescere e guardare avanti, oltre noi stessi e le nostre necessità immediate". L'autore sottolinea, ad esempio, che circa 6.000 cristiani nigeriani sono stati massacrati e che, più vicino a casa, la popolazione cristiana del Medio Oriente è scesa dal 20% al 4%. I cristiani di tutto il mondo subiscono persecuzioni e spesso vivono come minoranze in seno a maggioranze ostili. Ma per la maggior parte degli israeliani, la parola "cristiano" evoca un'immagine del Natale occidentale o dell'Inquisizione spagnola: "Quando pensiamo al cristianesimo tendiamo a pensare a una potente, trionfale, chiesa occidentale". In realtà, molti cristiani vivono in modi che assomigliano a come gli ebrei hanno storicamente vissuto durante la diaspora. L'autore quindi chiede: "Che significato avrebbe, per il nostro senso delle relazioni ebraico-cristiane, esplorare seriamente la cristianità non solo come parte del trionfale cristianesimo occidentale, ma come una religione minoritaria che spesso vive sotto il dominio ostile di un'altra fede?" L'autore invita Israele a considerare il suo ruolo e il suo significato nel mondo, e a interrogarsi sullo scopo per cui esiste. L'autore suggerisce che lo scopo di Israele, in parte, è "agire in aiuto dei cristiani e di altre minoranze che affrontano il genocidio. È tempo per Israele di imparare come comportarsi con i cristiani.

(Caspari Center, 22 luglio 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Tregua Israele-Hamas, torna la calma a Gaza

Annunciato il cessate il fuoco. Ma la situazione continua ad essere in bilico

di Massimo Lomonaco

Dopo il cessate il fuoco annunciato la notte di venerdì da Hamas una fragile calma è scesa al confine tra Israele e Gaza. Ma la situazione continua ad essere in bilico e alimenta più di un dubbio sul futuro prossimo. Non solo ieri ci sono stati due episodi di nuovi confronti, ma anche il fatto che Hamas non ha avvalorato la notizia di fonte israeliana che la tregua comprenda la rinuncia a lanciare palloni incendiari verso Israele. «Hamas ha sostenuto un grave colpo (68 gli obiettivi colpiti, ndr) ed ha chiesto - ha detto un'accreditata fonte diplomatica israeliana - un cessate il fuoco tramite l'Egitto. Al tempo stesso ha promesso di fermare gli attacchi terroristici e con il fuoco alla frontiera». Se l'Egitto si è fatto garante della tregua di Hamas (che Israele non ha confermato), secondo la stessa fonte sarà tuttavia «il campo a determinare dove vanno le cose. Se Hamas rompe la tregua - ha aggiunto - pagherà un prezzo ancora più alto». A testimoniare la precarietà della situazione sono appunto i due episodi avvenuti nelle scorse ore.
   Il primo - ha denunciato l'esercito - ha riguardato «un gruppo di sospetti» che dalla frontiera nord della Striscia si «è infiltrato in Israele, facendo poi ritorno a Gaza». «In risposta - ha spiegato un portavoce militare - un tank ha colpito una postazione militare di Hamas» nella stessa area e al momento non si hanno notizie di vittime. Il secondo, citato dalla Radio militare, è il pallone incendiario che, lanciato da Gaza nel primo pomeriggio di ieri, ha appiccato il fuoco in un'area del kibbutz di Nahal Oz vicino alla Striscia. Anche in questo caso l'esercito ha sparato in direzione di una postazione di Hamas. Pur nell'attuale situazione precaria l'esercito ha invitato i residenti delle comunità ebraiche intorno alla Striscia a ritornare ad una normale «routine civile». Anche la spiaggia di Zikim ad esempio - ad un passo dal confine con Gaza e che ieri era stata chiusa - è stata riaperta. «Non ci sono particolari restrizioni da parte del Fronte del Comando interno», ha detto un portavoce militare.
   Intanto è stato reso noto il nome del soldato ucciso venerdì dai cecchini di Hamas: si tratta di Aviv Levi (20 anni) della Brigata Givati di stanza al confine. E' il primo militare dello stato ebraico ad essere ucciso dalla guerra del 2014 con Hamas. Intanto fonti della sicurezza israeliana hanno fatto trapelare notizie di «un forte malumore» e «critiche aperte» sui social media da parte della popolazione di Gaza nei confronti delle «Marce del Ritorno» appoggiate da Hamas.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 22 luglio 2018)


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Hamas si spacca sull'orlo della guerra. L'ala militare vuole l'escalation a Gaza

Tregua con Israele dopo razzi e bombardamenti. I miliziani boicottano l'accordo con l'Anp- Il cessate il fuoco :raggiunto nella notte grazie alla mediazione dell'Egitto.

La chiusura del valico
Contro gli aquiloni incendiari che da 4 mesi arrivano da Gaza e altri attentati, Israele annuncia la chiusura del valico commerciale di Kerem Shalom.
Le vittime
Venerdì scorso nella Striscia di Gaza perdono la vita quattro palestinesi e un soldato israeliano, il primo a morire a Gaza dopo quattro anni. Israele reagisce.
Gli obiettivi
L'esercito dichiara di aver colpito 68 postazioni di Hamas, tra cui siti di produzione di armi, un magazzino di droni e una sala operativa militare.

di Giordano Stabile

Un'inversione di marcia sull'orlo del precipizio. Così hanno descritto gli analisti israeliani la tregua raggiunta nella notte fra venerdì e sabato tra Hamas e Israele. I tank stavano scaldando i motori per l'intervento di terra. Il consiglio di guerra guidato dal premier Benjamin Netanyahu aspettava un'ultima provocazione, un lancio massiccio di razzi come quello di una decina di giorni fa, per far scattare l'attacco. I servizi segreti egiziani erano corsi nella Striscia, a colloquio con i due leader del movimento islamico, Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh. Con loro anche un emissario del Qatar. La leadership politica ha mobilitato allora tutte le risorse per un controllo capillare del territorio. Razzi e mortai hanno taciuto e alla mezzanotte c'è stato l'annuncio del cessate il fuoco.

 Come è nata l'escalation
  I conti però ancora non tornavano. La «quarta guerra di Gaza» stava per essere innescata da un errore di calcolo impossibile da attribuire a capi esperti come Sinwar e Haniyeh. L'escalation comincia giovedì, quando un tank israeliano spara su un gruppo di palestinesi che preparavano il lancio di un aquilone incendiario, nel Sud della Striscia. Un militante dell'ala militare di Hamas rimane ucciso. Le Brigate Ezz al-Din al-Qassam annunciano vendetta. Non è la prima volta che lo fanno da quando sono cominciate il 30 marzo scorso le «marce del ritorno» al confine ed è scattata la dura reazione israeliana, 140 vittime palestinesi. Di solito la risposta sono lanci di razzi o colpi di mortaio. Non questa volta.
  Nel primo pomeriggio di venerdì i dimostranti si ammassano al posto di confine di Khan Younis. C'è anche Haniyeh. Un cecchino palestinese spara su una pattuglia israeliana. Uccide un coscritto di 19 anni. È il primo soldato israeliano morto in servizio dall'estate del 2014, dall'operazione Protective Edge. Una provocazione grave. Israele non lascia passare le uccisioni o i rapimenti dei suoi soldati. Molte guerre, a cominciare dal Libano 2006, sono cominciate così. Haniyeh è ancora lì. Per questo gli uomini sulla torre di osservazione più vicina non possono essere evacuati, devono proteggere il leader. Un tank li colpisce in pieno e uccide quattro militanti.

 La trappola
  È chiaro che la leadership politica non aveva nessun interesse a esporre a un rischio così alto il suo maggiore rappresentante. L'ipotesi più probabile è che invece le Brigate Al-Qassem volessero coinvolgerlo e trascinarlo nel confronto armato. Per gli analisti militari israeliani, a cominciare dal veterano Ron Ben Yishai, non ci sono dubbi. L'ala militare è disposta a tutto pur di evitare la «riconciliazione» con l'Autorità nazionale palestinese, cioè la consegna della Striscia ad Abu Mazen e il disarmo delle milizie. Su questo punto la mediazione egiziana è in stallo dall'autunno dello scorso anno, quando è stato raggiunto un accordo quadro per la formazione di un governo di unità nazionale guidato dal premier Rami Hamdallah.

 La morsa Israele-Egitto
  Hamas ha accettato anche perché la morsa Israele-Egitto-Usa l'ha messa con le spalle al muro. Il Cairo ha chiuso il valico di Rafah e ormai nella Striscia mancano anche le bombole di gas che servono per cucinare. Pochi giorni fa il trio di mediatori formato da Jared Kushner, Jason Greenblatt e l'ambasciatore David Friedman ha dato un ultimatum in codice con una lettera sul «Washington Post»: o Hamas accetta la riconciliazione, nel qual caso ci sarà la ricostruzione di Gaza e massicci aiuti umanitari, o perderà ogni copertura e Israele avrà mano libera. Netanyahu e i suoi ministri hanno cominciato una raffica di visite al confine. Il titolare della Difesa Avigdor Lieberman ha minacciato «una guerra peggiore che nel 2014» se non fossero cessati i lanci di aquiloni molotov e razzi. Un'ultima pressione per indurre Hamas a quella che assomiglia a una resa. La leadership politica sembra disposta ad accettare. L'ala militare no.

(La Stampa, 22 luglio 2018)


Complicità preoccupante

Riportiamo questo articolo da un editoriale di “Il Cristiano”, mensile evangelico arrivato all’anno 131 dalla fondazione. L’anno scorso abbiamo riportato, a più riprese, diverse notizie tratte dall’archivio storico di questo giornale; adesso, in un tempo in cui l’antisemitismo si sta gradualmente propagando anche nel mondo evangelico, riportiamo volentieri questo editoriale del suo direttore. NsI

di Paolo Moretti

Nei primi giorni di giugno, mentre la nazionale argentina si stava allenando in un centro sportivo di Barcellona in Spagna, è improvvisamente apparso un corteo, per la verità non tanto numeroso, che sventolava bandiere e magliette della nazionale sudamericana con il numero 10 di Lionel Messi macchiate di sangue. Da tutti riconosciuto come uno dei più grandi campioni della storia del calcio, Messi, dopo questa vicenda, è diventato, purtroppo per sua scelta, campione di ben altro. I calciatori argentini si stavano allenando per i campionati del mondo in Russia e, in modo più imminente, per una partita amichevole ''di preparazione" ai mondiali. Come i Bravi dei "Promessi Sposi" dal corteo è salito il grido: "Questa partita non s'ha da fare"! I calciatori argentini, invece di respingere le minacce, hanno pensato bene di imitare l'assai inglorioso esempio di viltà di Don Abbondio, così la partita è stata annullata, non si è più fatta e la sera di sabato 9 giugno lo stadio di Gerusalemme è rimasto desolatamente vuoto. Sì, perché è proprio la nazionale israeliana quella che l'Argentina avrebbe dovuto affrontare.
   Così i giocatori argentini, la loro federazione calcistica, il loro governo si sono resi complici di chi odia Israele auspicandone da anni la distruzione. Non dobbiamo infatti dimenticare che Hamas, il movimento politico (?) che di fatto guida con le sue direttive il governo palestinese, continua a ritenere "illegittima" la presenza di Israele nella Terra Promessa e si pone come obiettivo finale quello della ''distruzione dello Stato di Israele". Hamas si colloca fra gli stessi nemici di Israele ben descritti quasi tremila anni fa da Asaf:
    "Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome di Israele non sia più ricordato!»" (Salmo 83:2-4).
   Impressionante: a tanta distanza di tempo si ripetono i tentativi di distruggere Israele, ma, nonostante una dolorosa scia di sofferenze e di morte che ogni tentativo si è lasciato dietro, tutti sono falliti. Israele è ancora là, come nazione, come popolo: unico nella storia ad aver conservato la propria identità etnica e politica.
   In tutto questo Dio non è certo estraneo; anzi Asaf identificava come nemici ed avversari di Dio coloro che congiuravano contro Israele. E Paolo ricorda che, nonostante la disubbidienza di gran parte di loro nei confronti del Vangelo, gli Ebrei "per quanto concerne l'elezione, sono amati a causa dei loro padri; poiché i carismi e la vocazione di Dio sono irrevocabili" (Romani 11:28-29 ). Scegliere di schierarsi dalla parte dei nemici di Israele equivale ad ignorare i progetti di Dio nella storia, equivale ad ignorare che dagli Israeliti "proviene, secondo la carne, il Cristo che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno" (Romani 9:5). Con la forza e la convinzione che ci vengono dalla Parola stessa di Dio, dobbiamo riaffermare che non è dirsi discepoli di Cristo e schierarsi allo stesso tempo dalla parte dei nemici del popolo da cui Cristo "proviene".
   Il triste esempio che ci è venuto dall'Argentina è là per ricordarci che per essere antisemiti non occorre esprimere apertamente, con parole e con azioni, il proprio odio per Israele e per gli Ebrei. È sufficiente allinearsi, come complici, con i loro nemici, sottostare alle loro minacce e ai loro ricatti. Antisemita non è soltanto chi è palesemente ostile ad Israele, ma anche chi si fa suo complice come anche chi è, più semplicemente, indifferente. Con Paolo proviamo "una grande tristezza'' (Romani 9:2) nel pensare ai tanti Ebrei che non riconoscono in Gesù di Nazaret il loro Messia, il loro Cristo, ma, a questa, si aggiunge anche la tristezza nel veder diffondersi in modo sempre più preoccupante antipatia ed ostilità nei loro confronti.

(Il Cristiano, Anno 131, Numero 7, luglio 2018)


«Stretta sulle carni kosher»: bufera sul governo di Vienna

Un assessore della Bassa Austria ha proposto di consentirne il consumo solo agli ebrei "registrati". L'esecutivo: regola che non sarà mai applicata

di Stefano Giantin

 
VIENNA - Una proposta "indecente". Polemiche che crescono a dismisura e superano i confini nazionali. Alla fine, ieri, un'autorevole retromarcia, quando però lo scandalo era già scoppiato. Scandalo che tiene banco da giorni, in Austria, a causa di una controversa proposta lanciata da Gottfried Waldhäusl, influente membro del partito di destra Fpö e responsabile, nel Land della Bassa Austria, del dicastero regionale che si occupa del benessere degli animali. Benessere che andrebbe difeso anche limitando al massimo produzione e vendita di carne "kosher", che secondo i critici sarebbe macellata con metodi rituali, crudeli verso gli animali. Carne, questa l'idea di fondo di Waldhäusl, che dovrebbe essere venduta in Bassa Austria, in futuro, solo agli ebrei che dimostrino di essere strettamente osservanti. Come ha sintetizzato la stampa israeliana, che ha dato ampissima eco alla notizia, la misura è contenuta in una bozza di legge regionale, che mira a circoscrivere le vendite di carne kosher «solo agli ebrei e alle ebree che mangino esclusivamente kosher», introducendo una sorta di «licenza» individuale per acquistare quel tipo di carne, ha denunciato il quotidiano Wiener Zeitung.
  Licenza che porterebbe però automaticamente alla creazione di "liste" di cittadini di religione ebraica, un passo che riporta indietro a epoche buie. Sorprendono poco, allora, l'alzata di scudi e lo sdegno che hanno unito rappresentanti ebraici - e musulmani, potenziali vittime perché la macellazione della carne halal è assai simile - contro Waldhäusl. Oskar Deutsch, presidente della comunità ebraica di Vienna, ha paventato così la creazione di elenchi di ebrei, parlando di misure che riportano «a tempi che non voglio ricordare». Ancora più duro l'influente American Jewish Committee (Ajc), che ha parlato di «obbligo di registrazione per ebrei e musulmani» che riporta ai «capitoli più gravi e tragici della storia tedesca e austriaca». «Presto» si penserà «alla stella» gialla «sul petto?», si è chiesto l'Ajc. Sulla stessa onda anche il numero uno della comunità islamica in Austria, Ibrahim Olgun, che ha dichiarato che è «inaccettabile che cittadini vengano stigmatizzati a causa della propria religione», attraverso restrizioni che sarebbero tra l'altro «incostituzionali», ha segnalato tra l'altro il giurista Richard Potz. Critiche e indignazione che hanno portato a qualche risultato. Registrare chi consuma carne kosher o halal è contrario «al diritto fondamentale della libertà religiosa» e si tratta di temi che non vanno usati per «vantaggi politici spiccioli», ha affermato il presidente della Camera dei deputati austriaca, Wolfgang Sobotka.
  E ieri sul tema è intervenuto anche il ministro federale, Gernot Blümel, che ha rassicurato ebrei e musulmani della Bassa Austria e non che «una registrazione» del genere «non sarà applicata» finché «Sebastian Kurz sarà Cancelliere». Ma Waldhäusl, già giovedì sera, aveva promesso battaglia, dopo essere stato difeso dal suo partito, che aveva parlato di provvedimenti pensati solo per «la protezione degli animali, con il cuore e con la ragione». «Non mi dimetterò, rispondo solo agli elettori», ha sbottato Waldhäusl, ribadendo che l'idea di una «registrazione dei compratori di carne kosher» sarebbe del tutto ammissibile.

(Il Piccolo, 22 luglio 2018)


Design 'kasher'. scandaloso per alcuni

Negli ultimi anni diversi designers hanno conferito agli oggetti rituali ebraici nuove forme, ridefinendo il significato di abitudini secolari e colmando lo iato tra tradizione e modernità.

di Marta Spizzichino
Marta Spizzichino
Romana da generazioni, addirittura dal 60 a.e.v. anno più anno meno. Laureata in Filosofia presso l'Università di Roma "La Sapienza". Nella redazione di Shalom e di Hatikwà (giornale ufficiale dell'Unione dei giovani ebrei italiani) si occupa della sezione cultura. Nel tempo libero dipinge e fotografa. Già sa che in futuro suonerà il violoncello e imparerà a distinguere i frutti commestibili da quelli velenosi, così da non morire durante le gite in montagna.


Chanukkia di Karim Rashid
Quando Karim Rashid creò una chanukkià simil ameba per il centenario del Museo ebraico di New York nel 2004, alcune comunità ebraiche della Grande Mela mostrarono il proprio disappunto. Dello stesso parere non furono i clienti, che dai colori accesi della chanukkià rimasero deliziati. Oggi questa chanukkia (nella foto), che sembra un accessorio da bagno stile Ikea, si può comprare per la modica cifra di 50 dollari su Amazon.
Che tu sia un fan dello stile di Rashid poco importa, è la questione che deriva da tale gesto che risulta interessante: sfida la tradizione, ponendosi come alternativa a quel mondo formulare e ripetitivo degli oggetti rituali. Si ricerca il minimalismo, la compattezza e la praticità. Di tutto ciò è esempio la mostra temporanea tenuta all'Israel Museum di Gerusalemme con le opere - siamo sicuri sia il termine giusto? - di due artisti austriaci, Katharina Mischer e Thomas Traxler, cui è stato demandata la realizzazione di oggetti da viaggio da utilizzare durante le festività ebraiche: una chuppah (baldacchino nuziale) portatile, un kit per preparare le matzot (pane azzimo) e oggetti per l'Havdala (cerimonia che segna la fine della festa). Non è incoerente né increscioso unire il vecchio al nuovo mondo, è umano. Ciò che può essere disdicevole è invece l'assenza di bellezza nel medium utilizzato, ma questa è un'altra storia.

(Shalom online, luglio 2018)


Bosnia ed Erzegovina - Congresso mondiale ebraico: "Condanna per i graffiti antisemiti"

"Il Congresso mondiale ebraico sta dalla parte della comunità ebraica di Bosnia ed Erzegovina nell'esprimere il suo shock e la sua condanna dopo due recenti episodi di graffiti antisemiti spruzzati su case di membri della comunità ebraica". Lo comunica il Congresso con una nota in cui sottolinea la necessità che "le autorità trattino seriamente la questione e facciano ogni sforzo per assicurare i colpevoli alla giustizia". Il Congresso ebraico mondiale si dice "costernato dalla recente ondata di espressioni antisemitiche e condanna duramente qualsiasi manifestazione di odio, violenza e xenofobia". Il vicepresidente esecutivo Robert Singer esprime apprezzamento per la condanna del gesto pronunciata dal sindaco di Sarajevo, Abdulah Skaka, in seguito all'incidente nella sua città. "La Bosnia ed Erzegovina è storicamente uno dei Paesi più sicuri e accoglienti per gli ebrei, generalmente privo di antisemitismo e ricco di relazioni strette tra cittadini di ogni fede e provenienza", aggiunge Singer. Quindi, la richiesta alle autorità del Paese di "fare tutto quanto in loro potere affinché la comunità ebraica continui a vivere con lo stesso senso di sicurezza e fiducia che ha prosperato in Bosnia ed Erzegovina per così tanto tempo".

(Servizio Informazione Religiosa, 21 luglio 2018)



Una speranza viva in vista di una eredità incorruttibile

Benedetto sia l'Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale nella sua gran misericordia ci ha fatti rinascere, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, ad una speranza viva in vista di una eredità incorruttibile, immacolata ed immarcescibile, conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio, mediante la fede, siete custoditi per la salvezza che sta per esser rivelata negli ultimi tempi. Nel che voi esultate, sebbene ora, per un po' di tempo, se così bisogna, siate afflitti da svariate prove, affinché la prova della vostra fede, molto più preziosa dell'oro che perisce, eppure è provato col fuoco, risulti a vostra lode, gloria ed onore alla rivelazione di Gesù Cristo: il quale, benché non l'abbiate veduto, voi amate; nel quale credendo, benché ora non lo vediate, voi gioite d'un'allegrezza ineffabile e gloriosa, ottenendo il fine della fede: la salvezza delle anime.

Dalla prima lettera dell’apostolo Pietro, cap. 1

 


Tregua tra Hamas e Israele dopo l'ultimo scontro a fuoco nella Striscia di Gaza

Raggiunto un accordo sul cessate il fuoco dopo l'uccisione di un soldato dello Stato ebraico e quattro palestinesi

Una marcia indietro sull'orlo del precipizio. Il mondo tira un sospiro di sollievo per la tregua firmata tra Hamas e Israele dopo una giornata di scontri e bombardamenti che minacciava di diventare il prologo a un nuovo conflitto. Venerdì nella Striscia di Gaza hanno perso la vita quattro palestinesi e un soldato israeliano, il primo a morire a Gaza dopo quattro anni. Nella notte con la mediazione dell'Onu e dell'Egitto è arrivato l'accordo per il cessate il fuoco.
   La relativa calma è stata subito turbata sabato mattina da un incidente: l'esercito israeliano ha detto che un carro armato ha colpito un punto di osservazione di Hamas, a est di Gaza City, in rappresaglia per un tentativo di infiltrazione al confine nord. Non ci sono state segnalazioni di feriti in questo nuovo raid. "Con gli sforzi egiziani e delle Nazioni Unite, abbiamo raggiunto un accordo per tornare al precedente stato di calma tra l'occupazione (israeliana) e le fazioni palestinesi", ha detto il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, in una dichiarazione. Un alto funzionario di Hamas, parlando in condizione di anonimato, ha detto a Afp che l'accordo prevede "la cessazione di ogni forma di escalation militare", inclusi gli attacchi aerei israeliani e i colpi di mortaio e i razzi usati da Hamas.
   Venerdì tre militanti di Hamas sono stati uccisi nei bombardamenti aerei lanciati su tutta Gaza in risposta all'uccisione di un militare israeliano, il primo a perdere la vita nella zona dal 2014. Un quarto palestinese è stato poi ucciso a colpi di arma da fuoco. L'esercito israeliano ha dichiarato di aver colpito 68 postazioni di Hamas, tra cui siti di produzione di armi, un magazzino di droni e una sala operativa militare. All'origine dello scontro un episodio che risale a giovedì: i soldati di Israele avevano sparato contro alcuni palestinesi che lanciavano aquiloni incendiari. Un membro dell'ala militare di Hamas era stato ucciso e il gruppo aveva minacciato vendetta.
   Venerdì, durante le proteste a est di Khan Younis, un cecchino palestinese ha colpito un soldato israeliano, poi morto per le ferite. Da qui l'escalation, l'ultima dopo mesi di manifestazioni e scontri sulla frontiera dell'enclave, che da marzo hanno visto la morte di almeno 149 palestinesi. Oltre ai raid, l'esercito israeliano ha dichiarato di aver usato ordigni esplosivi e sette bombe a mano, mentre sono stati lanciati numerosi razzi. Jason Greenblatt, inviato di pace in Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha incolpato Hamas per le settimane di crescenti tensioni. "Hamas lavora instancabilmente per distruggere le vite israeliane (e gli abitanti di Gaza soffrono a causa di Hamas)", ha twittato, offrendo le condoglianze alla famiglia del soldato israeliano. Le Nazioni Unite, attraverso l'inviato Nickolay Mladenov, avevano invitato le parti ad "allontanarsi dal ciglio del burrone. Non la prossima settimana. Non domani. Subito".

(LaPresse, 21 luglio 2018)


"Viaggio nella memoria". La UIL incontra delegazione UCEI

Barbagallo: Il valore della memoria e della vita è fondamentale e va infuso soprattutto nei giovani

 
Noemi Di Segni e Carmelo Barbagallo
Una delegazione della Uil, guidata dal Segretario generale Carmelo Barbagallo, ha incontrato oggi una delegazione dell‘Ucei, guidata dalla Presidente Noemi Di Segni.
   Barbagallo ha voluto illustrare alla Presidente dell‘Unione delle comunità ebraiche l'iniziativa «Viaggio nella memoria» organizzata dal suo Sindacato e rivolta ai giovani interessati a un viaggio nei tragici luoghi di Auschwitz.
   La Uil, in collaborazione con la Uil scuola e l‘Irase, ha invitato ragazze e ragazzi tra i 18 e i 35 anni a seguire un percorso formativo a distanza che culminerà nella visita ai due campi di concentramento nei primi giorni del mese di ottobre. «Abbiamo apprezzato l'attenzione e l'incoraggiamento della Presidente Di Segni - ha dichiarato Barbagallo - a proseguire nel nostro progetto. Il valore della memoria e della vita è fondamentale e va infuso soprattutto nei giovani a cui è affidato il futuro della nostra società. Bisogna esaltare la centralità del dialogo, della tolleranza, della pace per respingere i rigurgiti antisemiti che riemergono in Europa e nel mondo e per evitare che si ripetano gli orrori della Shoah.
   La Presidente - ha proseguito Barbagallo - si è dichiarata disponibile a collaborare alla riuscita del progetto, proponendo sia la partecipazione anche di alcuni giovani ebrei sia l'attuazione di ulteriori iniziative, a partire da un incontro tra alcuni superstiti dell'Olocausto e tutte le ragazze e i ragazzi in partenza per Auschwitz. È anche un momento importante, in occasione dell‘80esimo delle leggi antiebraiche - ha concluso Barbagallo - per consolidare gli ottimi rapporti che, ormai da anni, intercorrono tra la Uil e le comunità ebraiche, entrambe attente ai temi del lavoro e dello sviluppo».

(Agenpress, 21 luglio 2018)


Israele e Hamas a un passo dalla guerra

Gerusalemme risponde ai cecchini con i raid. Possibile un intervento di terra. Onu: fermatevi prima del baratro.

di Giordano Stabile

Israele ha lanciato una «operazione su vasta scala» contro obiettivi di Hamas nella Striscia di Gaza dopo che alcuni cecchini palestinesi avevano colpito una pattuglia di soldati e ucciso uno dei militari. I raid, prima con colpi di cannone sparati dai tank poi con i cacciabombardieri, sono cominciati nel pomeriggio e sono continuati fino a notte tarda, in quella che stata definita dalle stesse forze armate israeliana «la peggiore escalation dal 2014». Il gabinetto di guerra si è riunito in presenza del premier Benjamin Netanyahu e sul tavolo c'è la possibilità di un intervento di terra, il primo da quattro anni, mentre l'Onu ha lanciato un appello a «tutte le parti» perché «si fermino prima del baratro».
   Ieri scadeva anche l'ultimatum ad Hamas perché fermasse il lancio di aquiloni incendiari, pena un'azione in profondità dell'esercito. Il gruppo islamista ha reagito con due elementi nuovi, in questa crisi cominciata il 30 marzo con le «marce del ritorno». Prima di tutto i cecchini, che hanno preso di mira i militari mentre era in corso un manifestazione. Le forze armate hanno reagito con durezza e comunicato che «finora pensavamo di poter gestire l'escalation, ma ora non è più così, seguiranno decisioni».
   Una frase che fa seguito alle dichiarazioni del ministro della Difesa Avigdor Lieberman: «Hamas - ha detto - ci sta trascinando in una guerra che sarà peggiore di quella del 2014». L'ipotesi dell'invasione della Striscia è sempre più concreta e unità di élite dell'esercito stanno conducendo questo tipo di esercitazione, vicino al fronte. Ieri però la rappresaglia è stata dal cielo. I jet con la stella di David hanno colpito «15 obiettivi», a partire da Khan Younis, dove ci sono stati tre morti. E poi la città di Gaza, in pieno centro. In totale le vittime palestinesi di ieri sono state almeno quattro, 120 i feriti, mentre il bilancio dal 30 marzo è salito a 140.
   Le proteste sono scandite anche da lanci di aquiloni incendiari, che hanno distrutto almeno cinquemila ettari di vegetazione. E qui c'è il secondo elemento di novità: per la prima volta un aquilone-molotov è arrivato anche a Gerusalemme. La situazione sta sfuggendo di mano e il coordinatore dell'Onu per il Medio Oriente Nickolai Mladenov ha lanciato un drammatico appello su Twitter. « Tutti a Gaza devono fare un passo indietro, prima del baratro. Non la settimana prossima, non domani, adesso. Quanti vogliono provocare un nuovo conflitto fra palestinesi ed israeliani non devono riuscire nel loro intento». Ma forse è già troppo tardi.

(La Stampa, 21 luglio 2018)


"La legge di Israele è simile a quella di molti paesi europei". Parla Kontorovich

Il giurista della controversa norma sullo "Stato-nazione"

di Giulio Meotti

ROMA - Si chiama "legge sullo stato-nazione degli ebrei", mercoledì è stata approvata dalla Knesset, il Parlamento di Gerusalemme, e fa discutere e divide Israele, la Diaspora e la comunità internazionale. "Apartheid", gridano i deputati arabi alla Knesset. "Pericolo per la democrazia israeliana", modulano i critici della nuova legislazione, che prevede la definizione di Israele come "patria del popolo ebraico", il diritto all'autodeterminazione nazionale in Israele "unicamente per il popolo ebraico", Gerusalemme come "capitale unita", l'ebraico come "lingua ufficiale" (status speciale per l'arabo) e il riconoscimento dei tanti simboli nazionali.
   Nessuno scandalo, ha scritto invece ieri sul Wall Street Journal Eugene Kontorovich, il giurista della Northwestern University che in quanto direttore internazionale del Kohelet Policy Forum ha fornito assistenza legale alla norma votata dalla Knesset. "La Legge fondamentale di Israele non sarebbe fuori luogo tra le costituzioni democratiche liberali dell'Europa, che includono disposizioni simili e che non hanno suscitato polemiche" spiega Kontorovich. La legge dichiara che Israele è un paese creato per adempiere al "diritto all'autodeterminazione del popolo ebraico". E ne costituzionalizza i simboli, dall'inno nazionale al calendario. "Non c'è nulla di antidemocratico o addirittura insolito in questo. Tra gli stati europei, sette hanno disposizioni costituzionali simili sulla nazionalità". Prendiamo la Costituzione slovacca, che si apre con le parole "Noi la nazione slovacca", e rivendica "il diritto naturale delle nazioni all'autodeterminazione".
   Così nei Paesi Baltici, che hanno grandi minoranze. La Costituzione lettone si apre invocando la "ferma volontà della nazione lettone di avere il proprio stato e il suo inalienabile diritto all'autodeterminazione". La Lettonia è al 25 per cento russa.
   La nuova legge israeliana stabilisce anche l'ebraico, la lingua dell'80 per cento della popolazione di Israele, come sola lingua ufficiale. "La maggior parte degli stati dell'Unione europea multietnica e multilingue danno lo status ufficiale solo alla lingua maggioritaria. La Costituzione spagnola, ad esempio, rende il castigliano lingua nazionale ufficiale e richiede a tutti i cittadini di impararlo, anche se la loro lingua madre è basca o catalana". Lo stesso vale per l'Irlanda con il gaelico.
   Israele non ha religioni ufficiali e nulla nella nuova legge fondamentale cambia questo. "A tale riguardo, Israele è più liberale rispetto ai sette paesi europei con religioni di stato costituzionalmente incastonate". Questi paesi sono Inghilterra, Danimarca, Norvegia, Islanda, Finlandia, Grecia e Bulgaria.
   Al Foglio, Kontorovich spiega che "gran parte dei paesi europei ha lingue nazionali, molti hanno l'autodeterminazione e anche disposizioni sul carattere nazionale. E' questo che fa la legge di Israele". Quanto alla bandiera israeliana con la Stella di Davide, 31 paesi al mondo hanno simboli cristiani nella bandiera, dalla Spagna all'Inghilterra, dall'Australia alla Danimarca, dalla Grecia alla Norvegia, dalla Svezia al Portogallo, così come 21 paesi islamici hanno la mezzaluna. Un terzo dei 196 paesi al mondo ha simboli religiosi nelle loro bandiere.
   Perché per Israele dovrebbe essere diverso?

(Il Foglio, 21 luglio 2018)


Viktor Orban in visita al Muro del Pianto

Si è conclusa con una visita al muro del pianto di Gerusalemme la visita ufficiale del premier ungherese Viktor Orban in Israele.
"In passato sono stato qui in visita e le mie preghiere sono state esaudite", ha detto Orban.
''Continuerò ad essere un sostenitore di Israele, malgrado ciò non sia facile di fronte all' opposizione che c'è nel mondo''.
Orban ha concluso così la sua controversa visita ufficiale, che ha diviso l'opinione pubblica e la stampa. I suoi critici lo ritengono un antisemita dopo il linguaggio utilizzato per attaccare l'investitore George Soros e i suoi apprezzamenti per il leader ungherese dei tempi di guerra Miklos Horthy.
Durante una visita al Museo dell'olocausto di Gerusalemme il convoglio che trasportava Orban è stato brevemente fermato da alcuni manifestanti.

(euronews, 20 luglio 2018)


L'Ayatollah Khamenei festeggia i suoi 79 anni minacciando Israele su Twitter

di Paolo Castellano

Quest'anno il leader supremo dell'Iran, l'Ayatollah Ali Khamenei, ha deciso di festeggiare il proprio compleanno minacciando Israele su Twitter. Il 16 luglio ha infatti pubblicato 4 messaggi - uno dietro l'altro - in cui ha parlato dei palestinesi, dello Stato ebraico e degli Stati Uniti. 79 anni inaugurati con la speranza che "il sionismo venga sradicato" dalla prossima vittoria palestinese.

 "L'America non deciderà il futuro dei palestinesi"
  L'anziano leader iraniano non ha neppure risparmiato gli Stati Uniti: «Tutti dovrebbero essere a conoscenza del satanico e vizioso piano che gli USA hanno per la Palestina - lo chiamano l'affare del secolo - non succederà mai», e poi ancora, «Per il dispiacere dei politici americani, la Palestina non sarà mai dimenticata e Al-Quds rimarrà la capitale della Palestina e la prima Qibla dei musulmani».
Con "Qibla" Khamenei intende l'assidua preghiera e l'obiettivo iraniano nel supportare i palestinesi contro lo Stato ebraico; Al-Quds è invece il termine arabo per riferirsi a Gerusalemme.
Come riporta il Jewish Journal, l'esternazione sarebbe una critica al recente piano sulla pacificazione del Medio Oriente voluto dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e dal presidente della Federazione russa, Vladimir Putin.

 I palestinesi assisteranno alla cancellazione di Israele
  Non è mancata la staffilata a Israele: «Il sogno turbolento in cui Al-Quds verrà consegnata ai sionisti non diventerà realtà. La nazione palestinese si opporrà e le nazioni musulmane la sosterranno, non permettendo mai che ciò accada». E poi la minaccia agli israeliani: «Per grazia di Dio, la nazione palestinese otterrà la vittoria sui nemici e sarà testimone un giorno dello sradicamento del regime fabbricato dai sionisti».

 L'abitudine iraniana di minacciare la distruzione d'Israele
  Questa è solo l'ultima intimidazione del lungo elenco di minacce a Israele da parte dei rappresentanti iraniani. Nel febbraio del 2018, il segretario del Consiglio dell'Interesse del Sistema Iran, Moshen Rezai, aveva proferito le seguenti parole durante una trasmissione televisiva: «Qualsiasi attacco intrapreso contro l'Iran da parte di Israele porterà alla distruzione dello stato israeliano. Se Israele farà anche la più piccola mossa contro l'Iran, raderemo al suolo Tel Aviv e a Netanyahu non daremo l'opportunità di salvarsi».
Invece nel febbraio del 2017, Mojtaba Zonour, esponente politico iraniano, aveva promesso una pioggia di missili su Israele se Donald Trump avesse dato ulteriori sanzioni all'Iran.

(Bet Magazine Mosaico, 20 luglio 2018)


La donna che ha portato l'Hapoel Beer Sheva ai vertici del calcio israeliano

 
La città di Beer Sheva si trova nel deserto, nella parte meridionale di Israele. Se il suo carattere è tipicamente mediorientale, ha una cosa in comune con le maggiori città europee: la sua squadra, l'Hapoel Beer Sheva, si è qualificata per il terzo anno consecutivo in Champions League.
   Una delle persone che hanno portato a questo risultato è Alona Barkat, proprietaria della squadra nonché una delle poche donne a guidare una squadra di calcio ad alti livelli.
   Nel 2007 la Barkat è stata la prima donna a diventare proprietaria di un club calcistico professionista in Israele, quando ha acquisito l'Hapoel Beer Sheva con il sostegno del marito Eli Barkat, imprenditore del settore tecnologico e fratello di Nir Barkat, attuale sindaco di Gerusalemme. Per sua stessa ammissione, Alona Barkat nel 2007 non era particolarmente preparata di calcio, né aveva eccessiva familiarità con la città di Beer Sheva, dal momento che è nata ad Ashkelon e al tempo era appena tornata da un lungo soggiorno negli Stati Uniti.
   Tuttavia, questi iniziali limiti non sono stati un ostacolo: l'Hapoel Beer Sheva, che militava in seconda divisione, non solo è tornata nella massima serie ma nel 2016 ha vinto il suo primo titolo nazionale dopo quattro decenni, impresa ripetuta nel 2017 e nel 2018. Lo scorso 10 luglio, mentre la maggior parte degli appassionati di calcio era concentrata sulla prima semifinale del Mondiale di Russia tra Francia e Belgio, la squadra israeliana è scesa in campo nel primo turno preliminare di Champions contro gli estoni del Flora Tallin, vincendo per 4-1. Grazie alla vittoria per 3-1 in Israele, l'Hapoel Beer Sheva si è così qualificata per il turno successivo, da giocare contro i croati della Dinamo Zagabria.
Il segreto della Barkat è stato concentrarsi sulla squadra, superare gli ostacoli della sua scarsa conoscenza di calcio e impegnarsi senza mezzi termini nel portare l'Hapoel Beer Sheva ai vertici del calcio israeliano. Nel 2016, ad esempio, ha dichiarato in un'intervista alla testata tedesca Bild di seguire regolarmente le partite insieme ai tifosi in modo da poter sapere cosa pensano. Ha anche detto che all'inizio non la prendevano in considerazione e diversi procuratori pensavano di potersi prendere gioco di lei, ma il duro lavoro ha contribuito a cambiare questa percezione iniziale.
   I tifosi dell'Inter ricorderanno bene quanto sia diventata forte questa squadra, dopo averla incontrata nel 2016 in Europa League e avervi perso entrambe le partite, 2-0 a Milano e 3-2 in Israele.

(TPInews, 20 luglio 2018)


Lieberman: Hamas ci sta spingendo verso un conflitto su vasta scala

GERUSALEMME - Il movimento islamico palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dal 2006, "sta spingendo Israele verso un conflitto su vasta scala", più ampio dell'operazione "Margine di protezione". È quanto dichiarato oggi dal ministro della Difesa israeliano, Avigdor Liberman, durante una visita a Sderot, città israeliana a circa 3,4 chilometri dalla linea di demarcazione tra lo Stato ebraico e la Striscia di Gaza. "I leader di Hamas ci stanno portando con la forza in una situazione dove non avremo altra scelta se non imbarcarci in una dolorosa operazione militare su vasta scala", ha affermato Lieberman. Il ministro ha aggiunto che "Hamas è responsabile della crisi" tra l'enclave palestinese e Israele, "ma sfortunatamente potrebbero essere gli abitanti di Gaza a pagarne il prezzo". Una nuova operazione delle Forze di difesa israeliane (Idf) nella Striscia di Gaza, ha evidenziato Lieberman, "sarà più vasta e più dolorosa" di "Margine di protezione", l'iniziativa militare condotta dalle Idf nell'enclave palestinese da luglio ad agosto 2014. A fronte di tale possibile sviluppo, il ministro della Difesa israeliano ha chiesto agli abitanti di Gaza di "premere su Hamas perché cambi direzione, fermando i suoi attacchi contro Israele che, nelle ultime settimane, hanno visto l'impiego di aquiloni incendiari, razzi e mortai". Nelle relazioni tra Israele e Gaza, ha sottolineato Lieberman, è infatti "possibile ripristinare uno stato di ragionevolezza in cui gli aiuti economici possono essere scambiati con la completa cessazione del terrorismo e dell'incitamento alla violenza".

(Agenzia Nova, 20 luglio 2018)


Il punto 7 dell'odg del Consiglio Onu per i diritti umani è "contro l'esistenza di Israele"

Lo ha detto l'ambasciatrice Usa Haley, denunciando paesi e ong che in privato si dicono "disgustati" da come funziona l'organismo, ma in pubblico si oppongono alle riforme.

Dal Jerusalem Post (19.7)

Il controverso punto 7 dell'ordine del giorno di ogni sessione del Consiglio Onu per i diritti umani è pensato per minare l'esistenza di Israele. Lo ha denunciato l'ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Niki Haley, intervenendo mercoledì scorso all'Heritage Foundation di Washington. Haley ha illustrato la decisione presa dal suo paese di ritirarsi dal Consiglio Onu per i diritti umani, dopo che non era riuscito a promuovere seri provvedimenti di riforma dell'agenzia, composta da 47 stati membri, per impedire ai peggiori violatori dei diritti umani di continusre a sequestrare a loro vantaggio il programma dei lavori. Il costante trattamento discriminatorio contro Israele da parte del Consiglio Onu per i diritti umani è sintomatico del problema, ha detto Haley.
   Prima di lasciare l'agenzia, gli Stati Uniti hanno tentato invano di far eliminare il punto 7 dell'ordine del giorno, quello che impone al Consiglio per i diritti umani di discutere ad ogni sessione le (vere o presunte) violazioni dei diritti umani da parte di Israele. "Questo punto permanente dell'agenda del Consiglio è dedicato esclusivamente a Israele - ha spiegato Haley - Non c'è nessun altro paese del mondo - non l'Iran, né la Siria, né la Corea del Nord - che abbia un punto permanente dell'ordine del giorno ad esso esclusivamente
Il punto 7 dell'ordine del giorno di ogni sessione del Consiglio Onu per i diritti umani impone al Consiglio di discutere ogni volta le vere o presunte violazioni da parte di Israele. Non c'è nessun altro paese al mondo che abbia un punto permanente dell'ordine del giorno ad esso esclusivamente dedicato.
Il punto 7 non è diretto contro qualcosa che Israele si presume abbia fatto: è diretto contro l'esistenza stessa di Israele.
dedicato. Il punto 7 non è diretto contro qualcosa che Israele si presume abbia fatto: è diretto contro l'esistenza stessa di Israele. E' una spia d'allarme, che segnala la degenerazione politica e la bancarotta morale del Consiglio Onu per i diritti umani".
   Prima di lasciare il Consiglio, gli Stati Uniti hanno incontrato più di 125 stati membri dell'Onu per discutere le proposte di riforma. "Alla fine - ha detto Haley - gli Stati Uniti non sono riusciti a convincere un numero sufficiente di paesi a prendere posizione e dichiarare apertamente che in queste condizioni il Consiglio per i diritti umani non è degno del proprio nome. La prima e più ovvia ragione - ha continuato l'ambasciatrice - è che i regimi autoritari sono ben felici dello status quo. Cercano di sedere nel Consiglio per sottrarre al suo controllo ciò che fanno, loro e i loro alleati, nel campo dei diritti umani. Paesi come la Russia, la Cina, Cuba e l'Egitto traggono vantaggio dal farsi beffe del Consiglio per i diritti umani. Quindi non sorprende che si siano apertamente opposti ai nostri tentativi di riformarlo".
   Ciò che invece sorprende, ha continuato Haley, è il rifiuto di cooperare con gli Stati Uniti alla riforma del Consiglio da parte di paesi e organizzazioni non governative pro-diritti umani che pure ne riconoscono, in privato, le gravi lacune. "Quelle ong - ha denunciato Haley - si sono pubblicamente schierate contro le nostre riforme, esortando gli altri paesi a votare contro di noi. Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch si sono schierate con la Russia e la Cina su una questione così cruciale per i diritti umani". Temevano, secondo Haley, che i paesi notoriamente grandi violatori dei diritti umani si vendicassero facendo passare "emendamenti ostili" in Assemblea Generale. Temevano anche di perdere i loro "vantaggi istituzionali" alle Nazioni Unite. "Quelle ong - ha detto Haley - dispongono di grandi staff, godono di intense relazioni con la burocrazia dell'Onu e vedono i cambiamenti come una minaccia".
   I paesi pro-diritti umani ammettono in privato d'essere pure loro "disgustati dal fatto che Stati come Cuba e Venezuela, Arabia Saudita e Congo siedano autorevolmente nel Consiglio, e dai loro incessanti attacchi contro Israele. Ma dopo essersi detti d'accordo con noi per mesi su tutte le gravi carenze del Consiglio per i diritti umani - ha affermato Haley - s'è visto che non avrebbero mai preso posizione, se non a porte chiuse e lontano dagli occhi del pubblico".
   Haley ha voluto ribadire che gli Stati Uniti rimangono impegnati a combattere a favore dei diritti umani sia a livello globale che all'interno dell'Onu: "Semplicemente - ha detto - non lo faremo all'interno di un Consiglio che tradisce sistematicamente la causa dei diritti umani. Il nostro ritiro dal Consiglio per i diritti umani non significa che rinunciamo alla nostra lotta per le riforme. Al contrario, qualsiasi paese che voglia collaborare con noi per ridisegnare il Consiglio non ha che da dirlo". E ha concluso: "Rimediare alle deficienze istituzionali del Consiglio per i diritti umani era e continuerà ad essere una delle più importanti priorità all'Onu".

(israele.net, 20 luglio 2018)



L'Onu è illegale

 


«Stato del popolo ebraico». La nuova legge divide Israele

Dichiarata anche Gerusalemme capitale. nuove regole sulla lingua e sulla politica degli insediamenti.

Ok dalla Knesset al provvedimento voluto da Netanyahu con 62 sì e 55 no Protestano i partiti arabi. Dubbi della Ue. Il premier: momento chiave del sionismo

di Simona Verrazzo

 Il caso
  Da oggi Israele è lo «Stato nazione del popolo ebraico». Lo stabilisce una controversa legge approvata dopo un infiammato dibattito alla Knesset con il voto di 62 deputati contro 55. Un provvedimento esaltato dal premier Benyamin Netanyahu che l'ha definito «un momento chiave negli annali del sionismo e dello stato di Israele» e condannato dall'opposizione (coni testa i partiti arabi), dai palestinesi e dalla Ue. Bruxelles ha ammonito che il rischio principale è che la nuova norma «possa complicare un pochino la strada che porta alla Soluzione a 2 stati» e che le minoranze non siano tutelate. La legge passata - ha detto il primo ministro palestinese Rami Hamdallah - «istituzionalizza e legittima le politiche di apartheid più che promuovere la giustizia e la pace». Secondo il leader di Lista Araba Unita Ayman Odeh il provvedimento dimostra che Israele «non vuole» nel suo territorio i cittadini arabi. «È stata approvata una legge sulla supremazia ebraica e ci dice chiaramente - ha aggiunto - che
noi siamo cittadini di seconda classe».

 Il percorso
  Le nuove norme hanno avuto una lunga gestazione e numerose revisioni e sono state a più riprese contestate sia dall'opposizione al governo Netanyahu - che ha presentato molti emendamenti - sia dallo stesso presidente Rivlin che di recente ne ha in parte messo in discussione la correttezza istituzionale. Punto centrale della legge - ed alcuni commentatori hanno parlato a proposito di una «seconda nascita dello stato» - è l'articolo in base al quale «Israele è la storica patria del popolo ebraico che ha il diritto unico alla autodeterminazione nazionale». La legge dichiara anche Gerusalemme capitale di Israele e adotta il calendario ebraico come quello ufficiale dello Stato secondo cui sono stabilite le feste sia civili sia religiose. La «menorah», il candelabro a sette braccia, insieme all'attuale bandiera sono «simboli nazionali» così come l'inno Hatikvà (La Speranza). La lingua araba retrocede da idioma «ufficiale» dello stato a «speciale», anche se una aggiunta specifica che «questa clausola non danneggia lo status dato alla lingua prima che la legge entri in vigore». Altra norma controversa è la sanzione del fatto che «lo Stato vede lo sviluppo dell'insediamento ebraico come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuovere il suo consolidamento». Nella formula precedente - contestata da Rivlin - si consentiva allo stato di «autorizzare comunità composte da persone con la stessa fede e nazionalità in modo da mantenere il carattere esclusivo di quella stessa comunità». Una dizione mal digerita anche da molti giuristi.

 La soddisfazione
  «Questo è il nostro stato, lo stato ebraico. In anni recenti - ha commentato Netanyahu - ci sono stati alcuni che hanno tentato di mettere questo in dubbio, di offrire a minor prezzo il cuore del nostro essere. Oggi abbiamo fatto legge di questo: questa è la nostra nazionale, la nostra lingua, la nostra bandiera». «Siamo preoccupati e abbiamo espresso la nostra preoccupazione e - ha detto una portavoce della Commissione Ue - continueremo ad essere impegnati con Israele su questo tema. Deve essere evitata ogni soluzione che non punti alla soluzione a due Stati». «Un altro tentativo - ha tagliato corto Hamdallah - di cancellare l'identità arabo-palestinese».

(Il Messaggero, 20 luglio 2018)


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Lingua, feste e colonie: la nuova legge di Israele e l'ira del mondo arabo

Sancito ufficialmente lo Stato-nazione dei soli ebrei, la minoranza grida all'apartheid

«Principi basilari»
Interesse nazionale per gli insedia- menti e Gerusalemme capitale
«Discriminazione»
Idioma e festività declassate: il rischio di cittadini di serie B

di Roberto Fabbri

Il Parlamento di Gerusalemme approva a stretta maggioranza (62 voti contro 55) una legge che definisce Israele «Stato-nazione del popolo ebraico» e scoppia la polemica sulle accuse di razzismo e di apartheid nei confronti della minoranza araba. Non solo gli arabo-israeliani (i discendenti della popolazione araba che viveva sull'attuale territorio israeliano al momento della fondazione dello Stato nel 1948 e che non ha lasciato il Paese: sono oggi circa il 17,5% della popolazione) ma anche i palestinesi ( discendenti di coloro che invece lasciarono il Paese e che vivono da profughi in Cisgiordania, a Gaza e in numerosi Paesi arabi) protestano e sostengono che in questo modo la prospettiva di una pacificazione con la creazione di due Stati sarebbe resa di fatto impossibile.
   La legge sullo Stato-nazione israeliano fa esplicito riferimento al popolo ebraico e al suo «diritto naturale culturale, religioso, storico» da esercitare sul territorio, nonché a quello «all'autodeterminazione». Si stabilisce inoltre che la lingua ebraica è la sola lingua ufficiale dello Stato, mentre a quella araba - che finora aveva lo stesso status - viene attribuito uno «status speciale».
   Inoltre, Gerusalemme «unita» (inclusa quindi la parte orientale conquistata alla Giordania con la guerra del 1967, e annessa ufficialmente nel 1981) viene proclamata capitale nazionale.
   Si ufficializza anche «l'interesse nazionale» nei confronti della «promozione e del consolidamento» degli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata. Una formulazione questa che tiene conto delle perplessità espresse dal presidente della Repubblica Reuven Rivlin rispetto a un articolo della bozza originale che ipotizzava la creazione di località «riservate alla comunità ebraica». Rimarrebbe invece una riforma delle feste nazionali che le limita a quelle ebraiche.
   Il premier Benjamin Netanyahu, che ha fortemente voluto ciò che definisce «aver sancito per legge i principi basilari della nostra esistenza» e «un momento decisivo della storia di Israele e del sionismo», si gode la sua vittoria politica, conseguita contando sul sostegno - mai forte ed esplicito come ora da decenni a questa parte - della Casa Bianca. Ma gli arabi gridano alla legalizzazione dell' apartheid e alla volontà di discriminazione. «La democrazia è morta», denuncia Ayman Odeh, capo della Lista araba unita alla Knesset, dove copie della nuova legge sono state strappate polemicamente, mentre per il ministro degli Esteri dell'Autorità nazionale palestinese Riad al-Malki «l'immagine di Israele come unica democrazia del Medio Oriente risulta demolita da questa legge razzista, che fermerà per sempre qualsiasi iniziativa verso la pace, la sicurezza e la stabilità nella regione».
   Sembra dargli ragione Federica Mogherini, che a nome dell'Unione Europea esprime «preoccupazione» e ricorda che Bruxelles ritiene che la soluzione dei due Stati «sia l'unica strada percorribile e che qualsiasi passo che possa ulteriormente complicare o impedire questa soluzione dal diventare realtà dovrebbe essere evitato».
   Tra le voci più dure verso la nuova legge dello Stato-nazione israeliano c'è quella di Ankara: il ministero degli Esteri turco la bolla come «il prodotto di una mentalità antiquata e discriminatoria» e «nulla per la comunità internazionale».

(il Giornale, 20 luglio 2018)


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Israele "Stato-nazione del popolo ebraico". Il voto della Knesset che divide il Paese

L'opposizione: discrimina gli arabi. Il presidente Rivlin fa cancellare l'articolo che consentiva quartieri solo per ebrei

di Giordano Stabile

Israele diventa più «ebraica», un «passo storico», per il premier di Benjamin Netanyahu, che la renderà più sicura e «inattaccabile». Ma secondo l'opposizione la legge fondamentale voluta dal centro-destra è una marcia verso uno «Stato per soli ebrei» che discrimina la minoranza araba e i palestinesi. La legge «Israele Stato-nazione del popolo ebraico», approvata poco prima dell'alba di ieri dalla Knesset, dopo una dura battaglia parlamentare che ha visto scendere in campo anche l'Alta Corte e lo stesso presidente Reuven Rivlin, è destinata a segnare un cambiamento epocale, ma ha spaccato il Paese.
  A favore del provvedimento hanno votato 62 deputati su 120. La legge stabilisce che Israele è la «patria storica del popolo ebraico» e soltanto gli ebrei «hanno il diritto di esercitare l'autodeterminazione nazionale». Per il governo è un passo indispensabile a conservare la maggioranza ebraica. I partiti di centrosinistra e la minoranza araba temono però una deriva «etnica», la trasformazione dei non ebrei in cittadini di serie B. Per il quotidiano liberal «Haaretz» la legge è la «negazione dei principi di eguaglianza» iscritti nella Dichiarazione di indipendenza del 1948, che spinge Israele verso «l'apartheid».
  È vero che la legge è stata emendata dopo l'intervento del presidente Rivlin.
  Per esempio è stato cancellato l'articolo sulla possibilità di creare città o quartieri «soltanto per ebrei». Ma è rimasto quello che prevede che l'arabo non sia più la seconda lingua ufficiale, anche se avrà «uno status speciale», e quello che stabilisce come «l'intera Gerusalemme unita» sia la capitale, un passo che allontana la possibilità di un compromesso con i palestinesi. Come pure l'articolo che promuove «lo sviluppo degli insediamenti ebraici come un valore nazionale». Il calendario ebraico diventa quello ufficiale, anche se sarà usato accanto a quello gregoriano.

 La protesta delle minoranze
  Netanyahu ha cercato di smorzare i toni, parlando di «rispetto di tutti i cittadini». La legge è stata voluta soprattutto dai partiti dalla destra religiosa, mentre i conservatori laici, come Rivlin appunto, ne hanno sottolineato i rischi. Il premier si è mantenuto in mezzo, e incassa la possibilità di restare in sella un altro anno. «A 122 anni di distanza dalla visione di Herzl - ha puntualizzato - abbiamo sancito i principi basilari della nostra esistenza: è un momento decisivo nella storia d'Israele e del sionismo». La minoranza araba è però sul piede di guerra. Adalah, la Ong che difende i diritti degli arabi, parla di un provvedimento che promuove «la superiorità etnica». Per Ayman Odeh, leader dei partiti arabi, la norma dimostra che Israele «non ci vuole qui».
  Gli arabi sono il 20 per cento degli 8,7 milioni di abitanti di Israele e hanno sempre goduto di pari diritti civili, anche se non possono fare il servizio militare. Ora temono discriminazioni più pesanti. Ma la legge ha anche un impatto internazionale. Per il premier palestinese Rami Hamdallah «è l'ultimo chiodo sulla bara della soluzione dei due Stati, un tentativo di cancellare l'identità arabo-palestinese». Anche la Turchia ha protestato contro la violazione delle «norme del diritto universale».
  Arabi israeliani e palestinesi costituiscono circa la metà degli abitanti fra il Mediterraneo e la riva del Giordano (Israele, Cisgiordania, Gaza) e uno dei timori degli israeliani è di ritrovarsi un giorno in minoranza, il che spiega la volontà di ribadire il carattere ebraico dello Stato. La nuova legge fondamentale promuove anche l'immigrazione ebraica da tutto il mondo, l'aliyah. E arriva alla vigilia del Tisha B'Av, il giorno di lutto che ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme. E' la sindrome dell'assedio. Israele è una piccola nazione, in mezzo a 350 milioni di arabi. Resta da vedere se questa legge la renderà più sicura.

(La Stampa, 20 luglio 2018)


Orbàn dall'«amico» Bibi, polemiche in Israele

Netanyahu riceve il premier ungherese. Insorge l'opposizione: « Una vergogna»

di Davide Frattini

GERUSALEMME - I due «patrioti» - come si chiamano a vicenda tra i sorrisi - sono entrati in politica negli stessi anni, hanno vinto subito (il primo ministro più giovane nei rispettivi Paesi) e perso subito, sono rimasti all'opposizione per un decennio e da allora sono tornati al potere per tre mandati consecutivi. Quello che gli analisti israeliani definiscono il bromance conservatore tra Benjamin Netanyahu e Viktor Orbàn non è solo fatto di storie politiche parallele, l'affinità è soprattutto ideologica, fa notare Anshel Pfeffer su Haaretz, il quotidiano della sinistra.
   Questi due giorni rappresentano la prima visita ufficiale in Israele del premier ungherese, dopo quella di Netanyahu a Budapest un anno fa. Altri scambi di cortesie: Netanyahu ha zittito le preoccupazioni degli ebrei ungheresi per i toni antisemiti della campagna elettorale la scorsa primavera, Orbàn gli ha garantito l'appoggio del cosiddetto gruppo di Vìsegràd (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) le cui posizioni ultranazionaliste irritano il resto dell'Ue. Sono stati questi Paesi a bloccare un documento europeo che criticava la decisione americana di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.
Così è toccato al presidente Reuven Rivlin ricordare a Orbàn che «il neofascismo è una minaccia per il mondo e nutre l'odio nazionalistico». Il premier ungherese gli ha assicurato di avere «tolleranza zero per l'antisemitismo». Le critiche dell'opposizione - Yair Lapid, il cui padre è sopravvissuto ai campi di sterminio, ha bollato l'incontro «una vergogna» - e le proteste davanti al memoriale della Shoah durante la visita di Orbàn non hanno fermato l'abbraccio di Netanyahu: il primo ministro ungherese gli ha fatto anche il regalo di non incontrare Abu Mazen, il presidente palestinese, come sarebbe prassi diplomatica per i leader europei che arrivano nella regione.

(Corriere della Sera, 20 luglio 2018)


La giunta comunale di Torino fa pace con le comunità ebraiche

Dopo la mozione anti-Israele

Il chiarimento, avevano detto le Comunità ebraiche, era «indispensabile». La mozione del Comune anti-Israele «Paese occupante» aveva causato lo «sdegno» di Noemi Di Segni e Dario Disegni, rispettivamente presidenti dell'Unione delle Comunità ebraiche e della Comunità di Torino. Ieri Appendino, apparsa in imbarazzo nei giorni scorsi, e l'assessore Giusta li hanno incontrati per rimarginare la frattura. «Guardiamo avanti. Quella mozione è buona solo per chi strumentalizza - dicono i rappresentati ebraici - ma abbiamo riflettuto su quanto di positivo può fare il Comune con iniziative che, invece di condannare, mettano insieme le due parti». «È doveroso da parte nostra, mia e del Consiglio comunale - dice la sindaca, con una correzione del tiro dei suoi - ascoltare le ragioni di tutti, per poter portare un contributo utile».

(La Stampa - Torino, 20 luglio 2018)


Israele, esercito in stato d'allerta: pronta una vasta operazione a Gaza

di Lorenzo Vita

Israele è pronto a avviare un vasta operazione militare contro la Striscia di Gaza. A rivelarlo, i media israeliani, in particolare Channel 10, che ha riportato la notizia secondo cui le autorità israeliane avrebbero dato ordine alle Israel defense forces (Idf) di tenersi in allerta.
  Secondo i media, il governo di Benjamin Netanyahu ha mandato ad Hamas un messaggio molto chiaro: se non sarà fermato immediatamente qualsiasi lancio di ordigni incendiari, l'esercito israeliano potrebbe passare alle maniere forti, facendo partire l'attacco su Gaza.
  Il messaggio, a detta delle informazioni ottenute dalle autorità israeliane, sarebbe stato recapitato ai vertici di Hamas tramite l'intelligence egiziana. Egitto e Israele da anni condividono informazioni e politiche per ciò che riguarda la Striscia di Gaza. Il Cairo ha su Hamas una forte influenza e i valichi per l'accesso alla Striscia rappresentano uno strumento di fondamentale importanza per piegare l'organizzazione che controlla l'enclave palestinese. E la chiusura in queste ore del valico di Rafah è un segnale inequivocabile.

 La fragile tregua di Hamas
  Hamas ha ordinato una tregua unilaterale. Il lancio di razzi si è interrotto dopo che gli aerei israeliani avevano colpito in risposta all'ennesima scarica di missili nel territorio dello Stato ebraico. Ma il governo Netanyahu non sembra essere in procinto di accettare questo tipo di situazione. La questione degli aquiloni incendiari, ad esempio, è diventata prioritaria. Gli israeliani considerano questo tipo di arma un pericolo: Hamas, tuttavia, non ha incluso questo strumento nella tregua, parlando esclusivamente di missili.
  Citando fonti palestinesi, il rapporto afferma che Hamas si limiterà a fermare completamente i lanci di aquiloni incendiari soltanto se riuscirà a ottenere prima qualche prova di buona fede da parte israeliana, come ad esempio la riapertura del valico di Rafah con l'Egitto. Per la Striscia, i valichi sono l'unica fonte di sostentamento e l'unica porta di accesso verso l'esterno. E le condizioni economiche, sanitarie e sociali dell'enclave sono ormai vicine al collasso.
  Ma, da parte del governo Netanyahu, la questione è diversa. Non accetteranno alcuna deroga se non saranno fermati gli ordigni, di qualsiasi tipo, verso lo Stato ebraico. Nella scorsa settimana, uno dei palloni incendiari lanciati da Gaza ha colpito il giardino di un asilo: nessun ferito, ma la paura è stata molta. E gli abitanti locali hanno già mostrato tutta la loro insoddisfazione al premier (l'altro giorno in visita a Sderot) per l'assenza di protezione.

 Le esercitazioni militari su Gaza
  Intanto, come scritto su questa testata, domenica scorsa le forze armate israeliane hanno avviato imponenti esercitazioni militari in tutto il Paese. Fra queste manovre, spicca la simulazione ad opera della 162esima Divisone corazzata, che si addestra nell'occupazione di Gaza.
  Netanyahu, in tour nel Paese, ha detto che Israele era già in una "campagna militare". "Siamo in una campagna militare in cui ci sono stati scambi di colpi. Sono pronto a dire che le Forze israeliane sono preparate per qualsiasi scenario". Il primo ministro è stato raggiunto dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman, dal capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot e dal capo dello Shin Bet, Nadav Argaman. Le Idf sono pronte, così come i servizi d'intelligence.
  Ma l'opinione pubblica non è totalmente a favore di questa guerra. Molti ritengono un eventuale conflitto con Gaza una scelta sbagliata. I media che non si allineano a Netanyahu contestano in particolare il fatto che non si possa giustificare, di fronte alla comunità internazionale, una guerra di vasta entità soltanto per il lancio di aquiloni incendiari. Il rischio di provocare una dura reazione del mondo e di isolare ancora di più Israele dai partner mediorientali è molto elevato. Le immagini dei morti durante le manifestazioni al confine con la Striscia sono ancora molto vive nelle menti dei governi locali e dei media internazionali.

(Gli occhi della guerra, 19 luglio 2018)


Il mistero del popolo di Israele

In Geremia 31, Dio dichiara che Israele rimarrà come il suo popolo finché il sole, la luna e le stelle rimarranno quelli che sono (vv. 35-36). Questo capitolo è uno degli argomenti più forti per l'elezione permanente del popolo ebraico.

di Fredy Peter

MarkTwain (1835-1910), scrittore e viaggiatore del mondo, scrisse nel 1899:
     
    Mark Twain: «Tutte le cose sono mortali tranne l'ebreo; tutte le altre forze passano, lui rimane. Qual è il segreto della sua immortalità?»
    «Se le statistiche sono corrette, gli ebrei costituiscono solo l'uno per cento dell'umanità - una scintilla insignificante nello splendore della Via Lattea. Normalmente di una popolazione così esigua, come numero, non si dovrebbe sentir nulla, in quanto il suo apporto è talmente piccolo da rasentare lo zero. Eppure non solo abbiamo sentito parlare di lui, ma la sua presenza è, a volte, sconcertante per quanto sia ingombrante: l'ebreo. È famoso e la sua importanza negli affari e nel commercio è sproporzionata rispetto all'entità della sua popolazione. Il suo contributo alla lista di grandi nomi della letteratura, della scienza, dell'arte, della musica, della finanza, della medicina e dell'apprendimento approfondito è altrettanto sorprendente. Ha fatto grandi cose in questo mondo nel corso dei secoli - con le mani legate dietro la schiena. Potrebbe giustamente essere altero e orgoglioso di se stesso. Gli egiziani, i babilonesi e i persiani salirono al potere, riempiendo la terra con il loro splendore, i loro suoni e le loro ambientazioni. Seguirono Greci e Romani, anche loro fecero molto rumore e scomparvero. Altri popoli si sono alzati, la torcia bruciava per un po' e poi si spegneva inesorabilmente e queste popolazioni svanivano. Popolazioni gloriose quasi invincibili, e oggi sono al crepuscolo oppure sono completamente scomparse. Di alcune di loro non è rimasta nessuna traccia. L'Ebreo le vede, le batte tutte ed è ora quello che è sempre stato. Nessun decadimento, nessun invecchiamento, nessuna debolezza, nessuna diminuzione di potenza ma spirito dinamico. Tutte le cose svaniscono tranne l'ebreo; tutte le altre forze passano, lui rimane. Qual è il segreto della sua immortalità?»
E' forse un essere particolarmente dotato? Ha nel corredo cromosomico naturale, qualcosa che lo rende intelligente o particolarmente recettivo nell'ambito culturale, scientifico, musicale o altro?
NO! Non è questo il segreto! Il segreto sta nell'elezione e nella chiamata di Israele da parte dell'unico Dio vero, eterno e vivente! «Sì, io ti amo di un amore eterno; perciò ti prolungo la mia bontà.» (Geremia 31:3). I versetti dal 31 al 40 di Geremia capitolo 31 sono tra i più meravigliosi di tutto l'Antico Testamento. Mostrano, con forti argomenti, che Israele è al sicuro nelle mani di Dio anche in tempi di grande angoscia.
Dio promette al suo popolo:
  1. Un nuovo patto: «Ecco, i giorni vengono», dice il Signore, in cui io farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda».
  2. Rinnovamento spirituale: «io metterò la mia legge nell'intimo loro, la scriverò sul loro cuore».
  3. Rinnovamento nazionale: «io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo».
  4. Rinnovamento legale: «Perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò del loro peccato».
  5. Sicurezza di rinnovamento: Così parla il Signore, che ha dato il sole come luce del giorno e le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte; che solleva il mare in modo che ne mugghiano le onde; colui che ha nome: il Signore degli eserciti. «Se quelle leggi verranno a mancare davanti a me», dice il Signore, «allora anche la discendenza d'Israele cesserà di essere per sempre una nazione in mia presenza».
  6. Rinnovamento topografico: Gerusalemme sarà ricostruita «Ecco, i giorni vengono», dice il Signore, che questa città sarà ricostruita in onore del Signore».
Tutti questi impegni saranno espletati con certezza. Israele non andrà giù!

Come con Israele, Gesù Cristo giungerà sicuramente alla meta anche con noi e le nostre vite (vedi Filippesi 1: 6 ). Possiamo essere certi che «per coloro che amano Dio tutte le cose cooperano al bene» (Romani 8:28) e che nulla «potrà separarci dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani 8:39).

(Chiamata di Mezzanotte, maggio/giugno 2018)


Palloncini incendiari, sfida dei ragazzi di Gaza che mette in crisi Israele

Il ministro estremista: eliminare questi terroristi. Ma il capo di Stato maggiore: non spariamo sui minori

 
Effetti dell'«aviazione» palestinese
GERUSALEMME - Gli aquiloni, i preservativi gonfiati con l'elio, un falco. L'autoproclamata «aviazione» palestinese si affida al vento e all'istinto di un volatile per colpire dall'altra parte della barriera, per bersagliare con bottiglie incendiarie e bombe artigianali i campi coltivati dagli agricoltori dei kibbutz nei dintorni di Gaza. Il filo che controlla l'aquilone fa da miccia, le molotov in caduta libera sul terreno appiccano le fiamme, è la stagione secca: gli incendi sono già 750, gli ettari di terreno bruciato 2.600, gli ordigni sono precipitati anche vicino alle case.
   Così un'arma quasi primitiva sta complicando le scelte strategiche dei comandanti israeliani che non riescono ancora a trovare la soluzione per fermare questi rudimentali palloni aerostatici. Al punto che Gadi Eisenkot, il capo di Stato maggiore, ha dovuto respingere le pressioni di Naftali Bennett: il ministro dell'Educazione a capo del partito dei coloni gli ha chiesto di eliminare i «terroristi degli aquiloni». Il generale - in un confronto durante il consiglio di sicurezza riportato dai giornali locali - si è rifiutato «di sparare a bambini e ragazzi: è la risposta sbagliata da un punto di vista morale e operativo».
   Resta per lui l'urgenza di riuscire a trovare questa risposta. Il premier Benjamin Netanyahu ha visitato per la prima volta in due mesi - e per due giorni di fila - le campagne annerite dal fuoco. E andato a Sud assieme ad Avigdor Lieberman, il ministro della Difesa, e sono loro due per ora a tentare di allontanare il rischio di una guerra. Gli ufficiali sanno, però, che l'ordine potrebbe arrivare e nei giorni scorsi hanno organizzato un'esercitazione al confine con Gaza per simulare la conquista della Striscia. È stato più che altro un avvertimento per i leader di Hamas: «Non esagerate costringendoci all'attacco».
   Già sabato scorso lo scontro ha raggiunto un'intensità che ha riportato gli israeliani e i palestinesi ai 59 giorni di conflitto tra luglio e agosto di quattro anni fa. L'aviazione di Tsahal ha colpito oltre 40 obiettivi, i miliziani hanno sparato almeno cento tra razzi e proiettili di mortaio, le sirene sono risuonate per tutto il giorno nelle città e nei villaggi a pochi chilometri dalla Striscia.
   Sono stati i mediatori egiziani a ottenere un cessate il fuoco, che però non ha fermato gli aquiloni incendiari. Così il governo Netanyahu ha deciso di chiudere fino a domenica il valico di Kerem Shalom alla maggior parte dei materiali, compreso il carburante per far funzionare l'unica centrale elettrica di Gaza, e il Cairo ha ridotto i passaggi attraverso quello di Rafah.
   Tappare gli sbocchi della Striscia verso l'esterno dovrebbe spingere i capi fondamentalisti a fermare le operazioni con i palloncini. Hamas ripete di non cercare un conflitto totale con gli israeliani, non è chiaro quanto sia in grado - o davvero voglia - intervenire per fermare i responsabili dei lanci. Anche perché questi gruppi ormai si presentano come «truppe» organizzate e hanno dichiarato in un comunicato di non essere disposti a smettere: «fin quando gli israeliani non toglieranno il blocco, le nostri missioni saranno ancora più frequenti». Come è già successo nel 2014 - temono gli analisti - potrebbe scoppiare la guerra che tutti proclamano di non volere.
   
(Corriere della Sera, 19 luglio 2018)


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L'ultimatum di Israele ad Hamas: "Fermate gli aquiloni incendiari"

Cinquemila sono gli ettari di terreni distrutti dagli aquiloni incendiari e dai palloni lanciati dalla Striscia di Gaza al di là del confine israeliano. Il governo minaccia un'invasione di terra se non si fermeranno le armi rudimentali lanciate dalla Striscia di Gaza.

di Giordano Stabile

Israele lancia l'ultimatum ad Hamas sugli aquiloni incendiari e quella che sembrava un'arma rudimentale diventa la possibile causa di un nuovo intervento di terra, a quattro anni dall'operazione Protective Edge che nell'estate del 2014 ha fatto oltre duemila morti. Gli aquiloni, e i palloni, che appiccano incendi sono diventati però l'incubo del governo guidato da Benjamin Netanyahu e del suo ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Non fanno vittime ma hanno distrutto in quattro mesi oltre 5mila ettari di vegetazione e campi coltivati, con danni per centinaia di milioni. La popolazione al confine con Gaza, soprattutto gli agricoltori, li temono ormai quanto i razzi, mentre l'esercito non ha trovato ancora contromisure efficaci.
  Per questo le forze armate hanno comunicato al movimento islamista che controlla la Striscia dal 2007 di fermare i lanci «entro venerdì», cioè domani, o ci sarà un intervento di terra, con una brigata già pronta a dare la caccia alle «squadre», gruppi di otto-dieci ragazzi, spesso minorenni, che costruiscono gli aquiloni e li lanciano non appena il vento è abbastanza forte e favorevole. Il ministro dell'Educazione Naftali Bennett ha chiesto in realtà, anche per guadagnare consensi a spese del Likud, di «bombardare i siti di lancio» ma il capo delle forze armate Gadi Eisenkot si è rifiutato perché «in mezzo ci sono bambini».
  Esercito e aviazione le hanno provate tutte. Sono stati utilizzati droni armati per intercettare e abbattere gli aquiloni, con scarsi risultati: sono piccoli, difficili da individuare e colpire, e possono essere lanciati in numero soverchiante. I droni sono stati poi usati per individuare le basi di lancio, in coordinazione con l'artiglieria, per sparare colpi di avvertimento e dissuadere i lanciatori. Ma anche qui, basta uno spiazzo e pochi minuti per il lancio e controllare tutta la zona di confine con rapidità sufficiente è impossibile.
  Gli aquiloni sono costruiti in casa, al costo di pochi shekel, con fogli di plastica, quattro bastoncini di legno, una cordicella per il lancio e una lunga «coda» fatta con uno spago. In fondo è legato il materiale incendiario, stracci imbevuti di benzina, ed è fatta. L'aquilone può volare per chilometri e la coda diffondere il fuoco per centinaia e centinaia di metri. Alcuni hanno i colori della bandiera palestinese e portano anche messaggi di propaganda e minacce.

 L'Egitto in allarme
  A questo punto, se Hamas non desiste, non resta che l'intervento di terra. Un paradosso, perché in quattro anni Israele ha gestito minacce come i tunnel d'attacco, mortai e razzi senza dover entrare con le truppe nella Striscia. Hamas ha ribadito di «non essere responsabile» dei lanci, una manifestazione di «lotta popolare» spontanea, come le «marce del ritorno» che ogni venerdì portano migliaia di persone verso la recinzione che segna la frontiera. Centotrenta persone sono morte dalla scorso 30 marzo, per lo più sotto i colpi dei cecchini israeliani, ma nonostante le proteste internazionali per «l'uso eccessivo della forza» lo Stato ebraico è riuscito a tenere la situazione sotto controllo. Gli aquiloni invece si sono rivelati ingestibili, l'arma segreta di Hamas.
  È vero che probabilmente il movimento non organizza direttamente i lanci, ma «lascia fare» e approva questa forma di lotta, tanto che, secondo fonti egiziane, dopo l'ultimatum israeliano ha comunicato che «interverrà». Anche Il Cairo, su richiesta israeliana, ha aumentato la pressione sulla Striscia e chiuso il valico di Rafah, mentre Israele ha bloccato il valico commerciale di Kerem Shalom: impedirà fino a domenica l'ingresso nella Striscia di combustibili, ma non di medicinali e di prodotti alimentari. La tenaglia di embargo e minaccia di invasione è destinata a far cedere Hamas. Ma gli aquiloni restano un fattore imprevedibile nella «guerra asimmetrica».

(La Stampa, 19 luglio 2018)


C'è un nuovo bisogno di religione per rafforzare la nostra cultura liberale

Un plauso a Bruno Forte. riprendere in mano Tocqueville

di Giuseppe Bedeschi

Sul Sole 24 Ore di domenica 8 luglio l'arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, ha scritto: "C'è un nuovo bisogno di religione, oggi. La constatazione emerge da più parti: inchieste sociologiche, riflessioni filosofiche, analisi dei processi storici in atto. Finito il tempo delle ideologie intese come risposta totalizzante alla ricerca umana di giustizia per tutti, constatata la 'caduta degli Dei', di quegli idoli del potere, dell'avere e del piacere, che il consumismo e l'edonismo avevano esaltato come surrogato di un Dio dichiarato inutile. Torna il bisogno di un orizzonte ultimo, assoluto, capace di unificare i frammenti del tempo e dell'opera umana in un disegno in grado di motivare la passione e l'impegno". Non è difficile immaginare le ironie che queste parole dell'arcivescovo avranno suscitato in molti, i quali avranno detto: ma non sa l'arcivescovo che viviamo in società sempre più secolarizzate, nelle quali ormai i cristiani praticanti sono una assai ridotta minoranza? Certo, con quelle parole l'arcivescovo fa il suo mestiere, ma egli vive ormai in una piccola isola.
   Io credo, invece, che Bruno Forte abbia ragione: "C'è un nuovo bisogno di religione, oggi". In primo luogo per rafforzare e rinsanguare la nostra cultura liberale, anch'essa sempre più minoritaria.
   Questa mia affermazione può sorprendere solo se non si tiene presente l'atteggiamento dei classici del liberalismo verso il cristianesimo. Si pensi a Tocqueville, un 'classico' sempre attuale per le sue riflessioni sul nesso liberalismo-democrazia. In una lettera a Gobineau del 5 settembre 1843 il pensatore normanno scriveva: "lo non sono credente (e sono ben lontano dal vantarmene), ma, per quanto non credente io sia, non ho mai potuto difendermi da una passione profonda leggendo il Vangelo. Molte delle dottrine che vi sono contenute, e delle più importanti, mi hanno sempre colpito come fossero assolutamente nuove, e l'insieme soprattutto forma qualche cosa di completamente differente dal corpo di idee filosofiche e di leggi morali che in passato avevano retto le società umane. lo non concepisco che, leggendo questo ammirevole libro, il vostro animo non abbia provato, come il mio, questa sorta di aspirazione che determina una atmosfera più vasta e più pura". Il pensiero liberale ha un'ispirazione profondamente cristiana: tutti gli esseri umani sono creature di Dio, dunque godono di diritti intangibili che nessuna autorità terrena può violare; se vìola quei diritti, quell'autorità perde ogni legittimità.
   Questo in primo luogo. Ma anche per quanto riguarda il rapporto liberalismo-democrazia il cristianesimo ci insegna molte cose assai preziose. Nel suo capolavoro La democrazia in America Tocqueville ha visto seri pericoli insiti nell'assetto democratico. Egli ha rilevato a questo proposito che, a mano a mano che i cittadini diventano più eguali e più simili, la disposizione di ciascuno a identificarsi nella massa e a credere in essa aumenta, ed è sempre più l'opinione comune a guidare il mondo. Il pubblico viene quindi a godere presso i popoli democratici di un singolare potere: "Non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma le impone e le fa penetrare negli animi attraverso una specie di gigantesca pressione dello spirito di tutti sull'intelligenza di ciascuno". E' la dimensione della spiritualità interiore che viene meno. Ancora: la democrazia, che pure porta grandi vantaggi, induce negli uomini un culto eccessivo per il benessere e per i godimenti materiali. Una sorta di materialismo, negatore di qualunque trascendenza, finisce per diventare l'atteggiamento spirituale della società. Ciò tende a isolare gli uomini gli uni dagli altri, e induce ciascuno a non occuparsi d'altro che di se stesso e del proprio status sociale. La religione cristiana, dice Tocqueville, può attenuare queste tendenze delle democrazie, ma non può annullarle.
   La religione cristiana, si badi: essa può aiutarci a combattere edonismo, conformismo, materialismo (in quanto indebolimento o eclisse dei valori), cioè alcuni dei grandi mali del nostro tempo. "Più vivo - disse il grande pensatore normanno - e meno vedo la possibilità che i popoli facciano a meno di una religione positiva". Parole attualissime, ieri e oggi. (E su questi temi tocquevilliani si veda ora il bel libro di Roberto Giannetti Alla ricerca di una scienza politica nuova. Liberalismo e democrazia nel pensiero di Alexis Tocqueville, Rubbettino editore).
   
(Il Foglio, 19 luglio 2018)


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Cristianesimo a piccole dosi

La religione cristiana "per rafforzare e rinsanguare la nostra cultura liberale". Ma sì, perché no? Somministrata in piccole dosi, anche la religione cristiana può servire a mantenere un certo equilibrio sociale che impedisca agli uomini di oggi di porsi improvvisamente davanti alla tremenda domanda: ma che vivo a fare? Già, perché il teologo Francis Schaeffer l'aveva detto qualche anno fa: l'incredulo, se fosse coerente, dovrebbe suicidarsi. Per evitare il suicidio allora si consiglia, anche allo spregiudicato, sovranamente libero uomo di oggi, di fare uso, in dosi omeopatiche, della religione cristiana in una delle varie forme in cui si presenta oggi al consumatore. I Vangeli però sono un'altra cosa. I Vangeli sono stati scritti per rispondere ad una sola, fondamentale, onnicomprensiva domanda: Chi è Gesù? E a loro volta pongono al lettore una fondamentale, decisiva domanda: E tu, chi dici che sia Gesù? Tutto il resto è conseguenza della risposta a queste domande. Il Vangelo di Giovanni spiega: "Queste cose sono scritte affinché crediate che Gesù è il Cristo (Messia d'Israele, ndr), il Figlio di Dio, e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome" (Giov. 20:31). Chi non crede che Gesù è il Messia d'Israele morto e risuscitato, per onestà intellettuale deve dire che i Vangeli sono soltanto un pio imbroglio e che chi si riferisce ad essi è uno che si compiace di essere imbrogliato perché vuole illudersi. Gesù aveva avvertito: "Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde" (Luca 11:23). Prendere o lasciare. M.C.

(Notizie su Israele, 19 luglio 2018)


"Il suono delle campane è meglio del muezzin". E l'ateo Dawkins non piace più

Il guru evoluzionista scopre l'importanza del cristianesimo

 
Campanile o minareto?
ROMA - "Sto ascoltando le bellissime campane di Winchester, una delle nostre grandi cattedrali medievali. Molto più belle dell'aggressivo 'Allahu Akhbar'. O è solo la mia educazione culturale?".
   A scriverlo, ai suoi tre milioni di follower su Twitter, non è uno della Fondazione Lepanto, ma Richard Dawkins, guru dell'ateismo mondiale, il biologo evoluzionista che ha portato per le strade di Londra gli autobus in cui si diceva che "non c'è alcun Dio". La reazione al suo tweet con foto della cattedrale non si è fatta attendere. Fatima Bhutto, nipote dell'ex premier pakistana, ha risposto: "No, è la tua bigotteria". Al quotidiano britannico Independent, che ieri gli ha chiesto conto della dichiarazione, Dawkins ha detto: "Le campane delle chiese sono bellissime. Anche la chiamata alla preghiera del muezzin può esserlo, ma 'Allah Akbar' è l'ultima cosa che senti prima che il kamikaze si faccia saltare in aria".
   C'è chi ha parlato di un tweet che "sa di intolleranza", "fascista", "razzista", "islamofobo". "Le campane di Winchester suonano magnifiche, così come la chiamata alla preghiera di un muezzin, l'unico suono aggressivo e sgradevole è questo tweet prevenuto", ha scritto un altro. "Si scopre che l'autore di 'God Delusion' (il bestseller planetario di Dawkins, ndr) era un vecchio razzista noioso", ha aggiunto un altro.
   Perché l'ateo si porta sempre molto quando attacca Joseph Ratzinger, sant'Agostino e i polverosi arnesi giudeocristiani. Ma se tocca l'islam, è un'altra storia. Un anno fa, l'emittente radiofonica Kpfa, liberaI e che va in onda in America dal 1949, ha cancellato un incontro con Dawkins a causa "dei discorsi insultanti di Dawkins contro i musulmani. Il discorso che abbiamo considerato comprende asserzioni sul fatto che l'islam sia la più cattiva delle religioni del mondo".
   Ma non sorprende tanto la critica all'islam, che accomuna Dawkins ad altri celebri atei blasonati come il compianto Christopher Hitchens. E', piuttosto, la rivalutazione che Dawkins fa del cristianesimo. Un anno fa, il biologo evoluzionista ha messo in guardia dal celebrarne la fine in Europa: «Prima di gioire per gli spasimi della religione cristiana relativamente benigna, non dimentichiamo la minacciosa filastrocca di Hilaire Belloc: 'Tieni sempre a portata di mano l'infermiera - Per paura di trovare qualcosa di peggio'». Dawkins in precedenza aveva espresso preoccupazione per il declino della fede cristiana, "nella misura in cui il cristianesimo potrebbe essere un baluardo contro qualcosa di peggio. E' allettante dire che tutte le religioni sono cattive, e dico che tutte le religioni sono cattive, ma è una tentazione peggiore dire che tutte le religioni sono ugualmente cattive perché non lo sono. Se si guarda all'effetto reale che le diverse religioni hanno sul mondo, è abbastanza evidente che al momento la religione più malvagia al mondo deve essere I'islam'',
   Nel 2013, Dawkins era già finito nei guai per un'altra affermazione: "Tutto il mondo islamico ha meno premi Nobel del Trinity College di Cambridge". Il più celebre ateo del mondo così perse molti lettori dopo che in una intervista aveva dichiarato: "Sono abbastanza ottimista per quanto riguarda l'America e l'Europa; sono pessimista per quanto riguarda il mondo islamico. Considero l'islam uno dei grandi mali del mondo, e temo che sarà una battaglia davvero dura".
   Un mese prima, Dawkins era incappato nella contestazione degli studenti musulmani dell'University College di Londra. E' successo che l'aula, a causa dell'alta presenza di alunni di fede islamica, era stata divisa fra uomini e donne, in omaggio alla sharia, la legge islamica. Dawkins ha detto che non avrebbe avallato questa "segregazione sessuale", questo "apartheid".
   L'ultimo stadio evolutivo del biologo non piace ai suoi adepti. L'attacco al Papa paga sempre, in termini di copie vendute e applausi. Quello all'islam, mai.
   
(Il Foglio, 19 luglio 2018)


Ebrei, uccisi fino all'ultimo

È quello che l'imam di Tolosa ha detto in arabo durante una sua predica nella moschea. Il testo tradotto è ora in mano ai magistrati francesi.

di Andrea Brenta

Il profeta ci ha detto, «durante una battaglia sanguinosa, una battaglia decisiva: «Il giorno del giudizio arriverà soltanto dopo che i musulmani avranno combattuto gli ebrei e non ci sarà più un solo ebreo dietro un albero o una pietra senza che questo albero o questa pietra dicano: o musulmano, o servitore di Dio, questo ebreo è dietro di me, vieni a ucciderlo - a eccezione dell'albero del Gharad, che è uno degli alberi degli ebrei». Questo è un hadith (racconto sulla vita del profeta Maometto, ndr) riportato dal beneamato imam Muslim. Questa profezia è presente presso i cristiani e presso gli ebrei».
  In Francia monta il caso Mohamed Tatai. L'imam di Tolosa, di nazionalità algerina, è sotto accusa per aver proferito queste parole durante una predica pronunciata in arabo nel dicembre 2017. La traduzione ufficiale della registrazione della predica incriminata è stata consegnata nei giorni scorsi al procuratore della repubblica della città, dopo la denuncia da parte del prefetto dell'Alta Garonna per possibile «incitamento all'odio» e da parte dell'Unione degli studenti ebrei di Francia per «incitamento all'odio razziale».
  Il quotidiano francese Le Figaro ha chiesto a un professore universitario, autorevole specialista dell'Islam, una traduzione letterale della videoregistrazione realizzata il 15 dicembre scorso nella moschea di Tolosa. La registrazione riprende solo il passaggio, sottotitolato in inglese, disponibile sul sito nemri.org. In esso l'imam si esprime in un arabo classico e dialettale maghrebino.
  Il passaggio riportato all'inizio di questo articolo è quello che si potrebbe definire un «classico»: è estratto da una delle sei raccolte di hadith effettivamente attribuiti a Sahih Muslim, un maestro dell'Islam. Questo imam visse tra 1'821 e 1'875, ossia due secoli dopo la morte di Maometto, nel 632 e fece un importante lavoro di compilazione in sei volumi, divenuti uno dei riferimenti delle parole e degli atti del profeta Maometto.
  Ma l'imam Tatai non si è fermato lì. Nella sua predica ha citato il primo ministro israeliano, il quale in occasione dell'annuncio del presidente Usa Donald Trump di trasferire l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, «ha detto di temere che lo Stato di Israele non superi i 76 anni, cosa che è presente nelle loro profezie. E così oggi, dopo che il loro presidente è morto due anni fa, una delle loro celebrità ha detto: «La gente non è venuta per il funerale di Peres, ma per quello di Israele». Che, per inciso, ha celebrato i 70 anni di vita proprio lo scorso aprile.
  Le due citazioni, una che evoca la fine del mondo a condizione che non ci sia più un solo ebreo sulla faccia della terra e l'altra sulla durata di vita dello Stato di Israele, sono legate nella predica dell'imam, il quale, contattato a più riprese, non ha mai risposto alle richieste di chiarimento di Le Figaro. Residente in Francia da più di trent'anni, Tatai si esprime male in francese e utilizza un traduttore. In compenso, ha rilasciato un'intervista a La Dépèche du Midi, in cui afferma che «gli estremisti prendono i passi che fanno loro comodo e li utilizzano fuori contesto perché servano alle loro intenzioni nefaste» e fa mea culpa: «Presento le mie scuse a tutte le persone che si sono angosciate per queste parole. Soprattutto tra i nostri amici israeliti». Aggiungendo una precisazione, che finora non è stato possibile verificare: «Nell'insieme della predica citata, io ripeto a cinque riprese che nel mirino non vi è né il giudaismo in quanto religione né il popolo ebreo».
  Resta il fatto che Tatai, formatosi all'università egiziana di al-Azhar e che finora ha goduto di un'immagine relativamente buona a Tolosa, ora si ritrova isolato. E anche il suo principale sostenitore, la Moschea di Parigi, gli ha voltato le spalle. «Teniamo a riaffermare la nostra condanna ferma e senza equivoci dei termini utilizzati da questo imam durante la sua predica tenuta nel dicembre 2017», sottolinea in un comunicato il rettore, Dalil Boubakeur.
  Ora si attende che la giustizia faccia il suo corso.

(ItaliaOggi, 19 luglio 2018)


Siria, l'esercito avanza a sud-ovest

La bandiera siriana adesso sventola su una collina strategica strappata dai soldati di Assad e dai suoi alleati ai ribelli. L'esercito ha diffuso un video che mostra la sua nuova conquista, che si trova proprio vicino alle Alture del Golan controllate da Israele.
La zona è a sud di Quneitra ed è in una buona posizione per proseguire l'offensiva in tutta l'area del Golan Orientale. La conquista fa parte dell'offensiva in corso dell'esercito per conquistare le parti rimanenti della zona sudoccidentale in mano ai ribelli.
Le forze di Assad si stanno avvicinando al confine di Israele, che ha minacciato una dura risposta se le forze siriane dovessero entrare nella zona di disimpegno.
Israele ha chiesto a Mosca di intervenire. Proprio della zona vicino alle Alture del Golan hanno discusso Trump e Putin nel corso del loro incontro a Helsinki. Non sono emersi molti dettagli ma sembra che i due leader abbiano concordato sulla necessità di proteggere i confini settentrionali di Israele.

(euronews, 18 luglio 2018)


La Bei gela l'Ue sull'accordo nucleare: "Non possiamo concedere prestiti all'Iran"

Il presidente della Banca europea per gli investimenti: "Non possiamo mettere a rischio il business model, trovare soluzioni più intelligenti"

BRUXELLES - Per salvare l'accordo per il nucleare iraniano e i buoni rapporti con Teheran l'Unione europea dovrà fare a meno della Banca europea per gli investimenti. Lo chiarisce il presidente della stessa Bei, Werner Hoyer, nel corso di una conferenza stampa in cui spiega chiaramente come l'istituto comunitario di credito di Lussemburgo "non può" concedere prestiti alla repubblica islamica. Prevedere operazioni con l'Iran, avverte, vorrebbe dire "mettere a rischio il modello di business" della Bei, cosa che Hoyer vorrebbe evitare. Per questo motivo l'Ue deve rinunciare all'idea di utilizzare la Bei per gestire la delicata situazione siriana, e "trovare un modo più intelligente" per tentare di salvare l'accordo sul nucleare.
   L'Unione europea è decisa a fare il possibile per colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, che unilateralmente hanno deciso di uscire dall'accordo internazionale, entrato in vigore il 20 gennaio 2014, in base al quale Teheran si impegna a non produrre energia nucleare per fini bellici e in cambio la comunità internazionale normalizza le relazioni con il Paese e rimuove l'embargo economico decretato contro il regime degli ayatollah. L'Ue ha ottenuto del tempo. Il governo iraniano ha fatto sapere sin da subito che si riserva il diritto di recedere a propria volta dagli impegni.
   L'uscita di scena della Bei pone certamente degli interrogativi sia sulla tenuta in vita dell'accordo tra Iran e altri partner, sia sulle misure a cui l'Ue dovrà concepire in alternativa alla Banca europea per gli investimenti. La Commissione potrebbe a questo punto chiedere un contributo economico agli Stati membri, ma non è chiaro se su una simile ipotesi i governi troverebbero un accordo.

(EuNews, 18 luglio 2018)


Orbàn in Israele, per incontrare "l'amico" Netanyahu

da Cinzia Rizzi

E' arrivato in Israele il primo ministro ungherese Viktor Orbàn, per la due giorni di visita ufficiale, durante la quale incontra l'omologo, Benjamin Netanyahu, e il presidente israeliano, Reuven Rivlin. Un viaggio che sta dividendo l'opinione pubblica nello Stato Ebraico. Una manifestazione di protesta è stata organizzata infatti per questo giovedì, quando il premier magiaro si recherà a Gerusalemme, al Museo della Shoah. Venerdì, poi, vedrà il Muro del Pianto, ma non incontrerà il presidente palestinese, Mahmoud Abbas.
Si tratta della prima visita di Orbàn in Israele, un anno dopo quella lunga quattro giorni di Netanyahu, a Budapest. Da allora, i due leader sono rimasti in ottimi rapporti, anche a causa della loro avversione comune verso i media, i migranti e l'attivista George Soros.

(euronews, 18 luglio 2018)


Dopo la pioggia di razzi da Gaza, Israele riduce gas e carburante

Hamas minaccia Israele: "Per voi gravi conseguenze"

di Paolo Castellano

Non si sono fatte attendere le contromisure economiche di Israele dopo i 31 razzi lanciati da Hamas il 14 luglio sul territorio israeliano. Dal 16 fino al 22 luglio, lo Stato ebraico ha deciso di ridurre il trasferimento di carburante e gas nella Striscia di Gaza, applicando misure stringenti al valico di passaggio Kerem Shalom. Come riporta Israel National News, la notizia ha fatto infuriare la dirigenza di Hamas, che ha diramato un comunicato stampa attraverso il suo portavoce Fawzi Barhoum minacciando "gravi conseguenze".

 "Israele non fermerà l'assedio palestinese"
  «Questo è un altro crimine che Israele sta commettendo contro il popolo palestinese e contro i residenti della Striscia di Gaza nel bel mezzo di un silenzio regionale e internazionale sui crimini di Israele, e dell'assenza di risoluzioni deterrenti contro gli israeliani nell'arena internazionale», ha dichiarato il portavoce del gruppo terroristico palestinese. Fawzi Barhoum ha poi rincarato la dose: «Gli atti di pura vendetta di Israele illustrano il suo intento d'ingiustizia nella Striscia di Gaza - ha poi sottolineato - gli israeliani non influenzeranno la politica di Hamas e non fermeranno l'assedio palestinese».

 La decisione del ministro della Difesa israeliano
  Nella mattina del 16 luglio, il ministro della Difesa israeliano Avigdor Liberman, con l'appoggio del capo staff dell'IDF (l'esercito israeliano), ha deciso di vietare il trasferimento di carburante e gas attraverso il valico di passaggio tra Gaza e Israele fino al 22 luglio. Il governo israeliano ha però specificato che sarà consentito solo il passaggio di medicinali e viveri dopo previe verifiche. Liberman ha infine aggiunto che verrà ridotta anche l'area di pesca a Gaza.

 I recenti attacchi di Hamas verso Israele
  Israele ha preso questa decisione alla luce dei continui e violenti attacchi terroristici di Hamas. Nell'ultima offensiva palestinese, avvenuta tra il 13 e 15 luglio, sono piombati 200 ordigni esplosivi sul territorio dello Stato ebraico. Solamente nella nottata del 14 luglio i miliziani islamici hanno lanciato 31 razzi sulle comunità israeliane di confine, dove hanno risuonato a lungo le sirene. Fortunatamente non ci sono state vittime anche grazie al sistema missilistico di protezione Iron Dome, che ha intercettato 6 missili sparati contro le abitazioni israeliane. Non cessano inoltre le attività incendiarie dei rivoltosi palestinesi, che nelle ultime settimane hanno provocato parecchi roghi con l'utilizzo di aquiloni e palloni gonfiabili incendiari.

(Bet Magazine Mosaico, 18 luglio 2018)


Hamas d'accordo con la proposta egiziana per la riconciliazione palestinese

GAZA - Una delegazione del gruppo islamico palestinese Hamas, presente da diversi giorni al Cairo, avrebbe raggiunto con i mediatori egiziani un accordo sulla ripresa dei negoziati per la riconciliazione con al Fatah. Secondo quanto riferisce l'emittente televisiva libanese "al Mayadeen" sarebbe stata conclusa anche un'intesa di massima sulla rimozione delle restrizioni imposte dall'Egitto alla Striscia di Gaza e sulla consegna del controllo della città al governo di riconciliazione palestinese. Vi sarebbe poi una identità di vedute sul futuro degli impiegati pubblici assunti da Hamas a Gaza, circa 20 mila. L'11 luglio scorso Hamas ha deciso di accettare l'appello egiziano di discutere con i suoi funzionari a proposito delle relazioni bilaterali e delle questioni palestinesi.

(Agenzia Nova, 18 luglio 2018)


Yesh Atid: la visita di Orban è una "disgrazia"

Benjamin Netanyahu e Viktor Orban
GERUSALEMME - La visita del primo ministro ungherese Viktor Orban in Israele, che si terrà nelle giornate di oggi e domani, è una "disgrazia". È quanto affermato da Yair Lapid, presidente di Yesh Atid ("C'è un futuro"), partito centrista e laico all'opposizione in Israele. In un messaggio sul suo profilo Twitter, Lapid ha poi criticato duramente il premier israeliano Benjamin Nethanyahu per la visita di Orban, noto per le sue posizioni xenofobe, nello Stato ebraico. Il presidente di Yesh Atid ha scritto: "Dopo aver insultato la memoria di quanti sono morti durante l'Olocausto con un accordo con la Polonia, oggi Netanyahu renderà gli onori al primo ministro ungherese Orban, che ha elogiato il governo antisemita e collaboratore della Germania nazista nello sterminio degli ebrei ungheresi: che disgrazia! Il riferimento di Lapid è ai regimi succedutisi in Ungheria durante la seconda guerra mondiale e alle loro politiche antisemite.

(Agenzia Nova, 18 luglio 2018)


Israele, pazza idea: è meglio Hamas di un nuovo nemico

Tensioni sulla Striscia. L'ultra-destra esorta il premier Netanyahu all'offensiva ma per gli osservatori il vuoto di potere è più pericoloso.

di Fabio Scuto

GERUSALEMME - L'estate di Gaza è sempre bruciante. La calura insopportabile, la mancanza di acqua ed energia. È in estate che gli artiglieri di Hamas e degli altri gruppi armati testano i loro arsenali di missili e mortai, provano a sfruttare la rabbia e la disperazione dei due milioni di civili "assediati". L'estate per Gaza è propizia alla guerra.
  Ci sono i politici dell'ultra-destra che incalzano il premier Benjamin Netanyahu perché "si tolga i guanti" e ordini all'Idf un'offensiva su vasta scala che liberi il sud di Israele dalla minaccia dei missili e dalle fiamme innescate dagli aquiloni incendiari che divorano i campi coltivati appena oltre il confine della Striscia. Ieri Netanyahu si è recato in una base militare vicina alla striscia di Gaza per consultazioni; con lui il ministro della difesa Avigdor Lieberman, il capo di stato maggiore, generale Gady Eisencot, il capo dello ShinBet (sicurezza interna) Nadav Argaman e il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Dhabbato.
  La "questione Gaza" deve essere affrontata, concordano anche molti ufficiali dell'Idf. Ma come? Le condizioni di vita dentro sono terribili e l'emergenza umanitaria è dietro l'angolo. Israele può combattere contro Hamas ma non può riconquistare Gaza militarmente, il costo umano - oggi - sarebbe spaventoso.

 L'Anp di Abu Mazen non è in grado di riprendere politicamente il controllo della Striscia. E in caso di un attacco che faccia crollare il potere di Hamas nella Striscia, è altamente probabile che il movimento islamista - già diviso in tre fazioni al suo interno - possa polverizzarsi, dando vita a decine di altri gruppetti e cellule incontrollabili. Altri movimenti potrebbero vedere in questo la grande occasione, come le cellule salafite filo-Isis finora represse dalla Preventive Security di Hamas. Ecco perché alla fine sembra che Israele preferisca tollerare un "diavolo che conosce".
  L'Idf e Hamas sono in una situazione di stallo da mesi, mentre le proteste della "Marcia di ritorno" lungo il confine della Striscia sono sfociate in incessanti episodi di incendi che, a loro volta dopo la risposta dell'Idf, hanno portato al modello abituale di scambio di razzi e attacchi di rappresaglia da parte delle forze aeree israeliane.
  La tensione senza fine, le sirene di allarme che ululano tutto il giorno spingono la popolazione civile a chiedere al suo esercito di eliminare ciò che il ministro della Difesa Avigdor Lieberman chiama un gruppo di "cannibali".

 Se il governo israeliano decidesse di rovesciare Hamas, ci sarebbe un vuoto di potere ed è incerto quale gruppo riuscirebbe rapidamente a riempirlo. In tale eventualità,la paura è che un nemico o una minaccia ancora più grande possa riempire quel vuoto. Dopo gli attacchi di domenica da parte dell'Idf contro 40 obiettivi di Hamas a Gaza, sorge spontanea la domanda: perché non vengono distrutte queste infrastrutture terroristiche che sono note da tempo?
  "È meglio che Hamas abbia una struttura di comando", spiega Eran Lerman, dello Shalem College e vicepresidente dell'Istituto per gli studi strategici di Gerusalemme. La reticenza di Israele nel varcare la linea sottile tra una "risposta militare proporzionale" e un'invasione completa è aggravata dalla mancanza di desiderio di rioccupare Gaza, che costerebbe dal punto di vista militare centinaia di vite e sarebbe un enorme fardello politico ed economico da gestire. Secondo Gabriel Ben-Dor, che insegna all'Università di Haifa, il governo preferisce spendere queste risorse per combattere l'Iran, il cui potenziale nucleare è considerata una minaccia esistenziale. Inoltre, ha sottolineato, due organizzazioni che potrebbero giovarsi della caduta di Hamas sono la Jihad islamica e i Comitati di resistenza popolare, che hanno entrambi legami più stretti (di Hamas) con Teheran.

 "Se Hamas è abbastanza stupido da entrare nella fossa dei leoni", sostiene Lerman, allora Israele potrebbe passare a una risposta militare più forte. Tuttavia, come dimostra l'apparente cessate-il-fuoco raggiunto nel fine settimana, dimostra che Hamas non vuole la guerra aperta. Per questo Ben-Dor sostiene che la migliore possibilità per una soluzione a lungo termine è quella di migliorare condizioni umanitarie a Gaza e pressioni per la smilitarizzazione di Hamas. Questo, visto l'inafferrabile processo di pace israelo-palestinese, potrebbe col tempo portare a una svolta importante.

(il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2018)


Medio Oriente: meglio tornare con i piedi in terra. E di Erdogan ne parliamo?

Non condivido l'ottimismo del dopo-incontro tra Trump e Putin, soprattutto perché si continua a sottovalutare il pericolo rappresentato da Erdogan

Dopo lo show offertoci dall'incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin, dopo la ritrattazione del Presidente americano in merito alle sue affermazioni sul ruolo della Russia nelle elezioni americane, finite le sparate propagandistiche sui media, in Medio Oriente si torna come sempre con i piedi in terra e a fare i conti con la realtà....

(Rights Reporters, 18 luglio 2018)


“Islamofobo" e "reazionario", Zemmour estromesso dalla prima radio di Francia

La redazione era "inorridita" dalle sue idee

di Giulio Meotti

 
Eric Zemmour
ROMA. In Rtl ci fu più di un mugugno quando a Eric Zemmour offrirono una piattaforma mattutina sulla prima radio di Francia. "E' una personalità iconoclasta e uno spirito originale", disse Christopher Balzelli, patron di Rtl. E poi il divisivo Zemmour, ancora prima che vendesse un milione di copie col Suicide Français e diventasse l'oggetto del consumo di massa "reazionario", lo trovavi ovunque, da France2 a Bfm Tv, fino alla prima pagina del Monde e le copertine di Libération. La decisione di Rtl non ha nulla di commerciale. Zemmour bucava lo schermo. Eppure, la sua rubrica "Non siamo necessariamente d'accordo", che teneva due volte alla settimana, non ci sarà alla rentrée. Rtl aveva ricevuto numerosi avvertimenti dal Consiglio superiore degli audiovisivi per i commenti del giornalista su islam, società e immigrazione, e dalla prossima stagione farà a meno del suo format. Due mesi fa, Zemmour è stato condannato dalla Corte d'appello di Parigi a cinquemila euro di multa per "incitamento all'odio religioso per le osservazioni antimusulmane fatte nel 2016 in un programma televisivo". Zemmour aveva detto che era necessario imporre ai musulmani "la scelta tra l'islam e la Francia" e che "negli innumerevoli sobborghi francesi in cui molte ragazze sono velate" è in corso una "lotta per islamizzare il territorio". Lo staff di Rtl aveva chiesto alla direzione di "lasciarlo andare" in numerose occasioni, ma Zemmour era stato sempre difeso. "Rispetto le persone che sono disposte a morire per ciò in cui credono, cosa che non siamo più in grado di fare", aveva detto Zemmour un anno fa sui jihadisti. Yves Calvi, a capo della redazione di Rtl, criticò Zemmour dal vivo: "Lo staff di Rtl è inorridito". Nel 2015, Rtl aveva già ridotto della metà la presenza di Zemmour in programmazione, dopo aver cassato Z comme Zemmour, mentre la rete televisiva iTélé quell'anno lo aveva messo alla porta.
   Il Collettivo contro l'islamofobia aveva più volte invocato il suo licenziamento, la Società dei giornalisti aveva detto che "le posizioni di Zemmour offuscano i valori della convivenza che sono sempre stati difesi da Rtl", le organizzazioni islamiche lo avevano trascinato in tribunale, i fondamentalisti islamici lo avevano minacciato di morte e costretto a girare con la scorta dopo che Charlie Hebdo e il Movimento contro il razzismo e per l'amicizia tra i popoli e il Club Averroes (associazione di media a favore della "diversità") avevano presentato esposti contro di lui all'Authority per radio e tv. Il cordone sanitario si stava stringendo sempre di più. Rtl era già vicino al suo licenziamento quando Zemmour aveva attaccato il ministro della Giustizia socialista: "Christiane Taubira ha già scelto chi sono le sue vittime e i carnefici: le donne e i giovani delle banlieue stanno nel campo dei buoni, il maschio bianco fra i cattivi". Se in Francia c'è spazio per Edwy Piene!, l'ex eminenza grigia del Monde passato a moralizzare e islamizzare il giornalismo con la sua Mediapart, non si vede perché non dovrebbe essercene per la sua nemesi, il petit juif conservatore Zemmour. Ma questo è proprio il punto. Perché come ha detto ieri l'avvocato Gilles-William Goldnadel, che difese Oriana Fallaci quando a Parigi provarono a bandire il suo La Rabbia e l'Orgoglio: "Scopriamo che è stato a causa della pressione di alcuni dei redattori che Rtl è stata costretta a salutare l'editorialista. Tale decisione, da parte di un'emittente commerciale, dà la misura del potere della censura dilagante che anima il clero dei media". E' la sorte dei malpensanti "islamofobi": Robert Redeker perde la sua cattedra, Richard Millet il suo lavoro da editor in Gallimard, Renaud Camus la sua casa editrice (Fayard) e ora l'ossessivo Zemmour perde il suo microfono. Liberté, ma non per te.

(Il Foglio, 18 luglio 2018)


La famiglia ebrea Foà sterminata a Meina

Lettera al Giornale

Leggendo in «Tempo di guerra» il racconto «l'8 settembre sul Lago Maggiore» (il Giornale 10/7), mi è tornata alla mente la storia della famiglia ebrea Foà. La maggiore delle quattro figlie Foà era stata compagna alle scuole medie di mia sorella e all'epoca dei fatti aveva venti o ventun anni. Il padre, fino alla promulgazione di quel malaugurato «Manifesto della razza» fu un dirigente della Pirelli. Dopo di che l'azienda, data la sua ottima conoscenza dell'inglese, lo inviò a Londra. Ma i Foà si sentivano talmente italiani che quando «l'uomo del balcone» fece la sua alzata d'ingegno, vollero tutti tornare in Italia. Ovviamente, la Pirelli non poteva riassumerlo (anche volendo, non le sarebbe stato possibile in virtù delle leggi razziali). Perciò si occupava di consulenze esterne nella sua villa a Meina. In quei tragici giorni anche tutta la famiglia Foà fu sterminata. Furono immersi uno per uno in vari bidoni di benzina a cui fu dato fuoco. Si salvò soltanto l'ultima delle sorelline, una bambina di tredici anni, grazie alla sua istitutrice svizzera. Questo fatto la dice lunga su quanto si sentissero italiani molti ebrei e su come invece furono ricompensati dalla «grata patria».
Mario S. Manca di Villahermosa, Milano

(il Giornale, 18 luglio 2018)


I nuovi percorsi delle comunità ebraiche d'Emilia oltre la Shoah

Le comunità ebraiche della nostra regione si raccontano, andando oltre la Shoah e l'Olocausto per rappresentare la contemporaneità, attraversando piazze, entrando in palazzi storici e in luoghi sacri -come le sinagoghe e i cimiteri - ma riscoprendoli attraverso chi li frequenta e li vive oggi. È questo il senso del volume "Ebrei d'Emilia-Romagna. Voci, luoghi e percorsi di una comunità", pubblicato da Pendragon e in libreria da domani. Il curatore, Dantel Fishman, l'ha presentato ieri con il sindaco Virginio Merola, l'assessore alla Cultura della Regione Massimo Mezzetti, che firma la prefazione del volume, Daniele De Paz e rav Alberto Sermoneta. L'autore ha intervistato una cinquantina di persone, a rappresentare tutte le comunità emiliano romagnole, «per spiegare non solo cosa siamo stati ma anche cosa abbiamo da dire al mondo oggi». Molti sono ritratti nelle foto originali di Michele Levis. C'è chi ha lasciato la sua città, Ferrara, come Corrado lsmael Debenedetti che oggi vive in Israele, e chi si è convertita all'ebraismo in età adulta, come Valentina Rebecca Soluri.
Ci sono i ricordi di Alessandro Haber, che da bambino viveva a Tel Aviv, e quelli di Luisa Modena Marini che parla del padre Flaminio, direttore del carcere ma anche poeta che scriveva sonetti in dialetto giudaico modenese. Ci sono le testimonianze dei rabbini e chi si è messo pubblicamente al servizio della società come Arrigo Levi. «In questo libro si raccontano pochissimi periodi bui perché è importante ascoltare storie di vivi e non di archeologia», dice il rabbino capo Alberto Sermoneta.

(la Repubblica - Bologna, 18 luglio 2018)


L'Egitto chiude il valico di Rafah

Gaza è quasi del tutto isolata, dopo che ieri l'Egitto ha chiuso - senza preavviso - il valico di Rafah e Israele ha inasprito la chiusura del valico commerciale di Kerem Shalom.
Il provvedimento del Cairo impedirà fino a domenica l'ingresso nella Striscia di combustibili, ma non di medicinali e di prodotti alimentari.
   Nelle ultime ore, da Gaza - nonostante la tregua concordata sabato da Hamas - sono stati lanciati verso lo stato ebraico un razzo e molti palloni incendiari. Poco prima, l'aviazione israeliana aveva colpito due postazioni di Hamas nel nord della Striscia. In Israele è stata elevata l'allerta.
   Nel timore di una recrudescenza dei combattimenti con Hamas, Israele ha dislocato batterie di difesa aerea Iron Dome attorno a Tel Aviv e ha richiamato in servizio riservisti addetti a quelle postazioni. Lo ha reso noto un portavoce militare israeliano.
   In parallelo, la radio militare ha riferito che il governo, in una nota, ha istruito le forze armate di impedire - «anche col fuoco, se necessario» - ulteriori lanci da Gaza di aquiloni incendiari verso Israele.

(L'Osservatore Romano, 17 luglio 2018)


Israele, dopo i missili regge la fragile tregua

Il cessate il fuoco annunciato sabato dalle fazioni palestinesi, con la mediazione dell'Egitto. Netanyahu: «Agiremo in base ai fatti». Hamas a Gaza non ferma gli aquiloni.

di Camllle Eid

Calma precaria tra Israele e la Striscia di Gaza, dopo la lunga giornata di sabato che ha visto lo scambio di colpi di artiglieria, il lancio di oltre 200 missili oltre il confine e la risposta con i raid dell'Aviazione israeliana su decine di obiettivi. Il cessate il fuoco, annunciato sabato sera da Hamas e dalla Jihad islamica con la mediazione dell'Egitto, sembra reggere nonostante alcuni lanci sporadici di razzi verso Israele e i commenti scettici della stampa visto che Hamas non si è impegnato a cessare i lanci di aquiloni incendiari né di organizzare manifestazioni sul confine.
   Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ieri si è recato in visita alle zone colpite, ha fatto sapere che «l'atteggiamento di Israele si fonderà sui fatti sul terreno e non sulle dichiarazioni delle fazioni palestinesi». Intanto, nel timore di una nuova escalation, Israele ha dislocato batterie di difesa aerea attorno a Tel Aviv e ha richiamato in servizio riservisti addetti a quelle postazioni. «Sulla base della valutazione del contesto operativo - si legge nel comunicato diramato dall'esercito -, i militari hanno rafforzato le posizioni di Iron Dome nell'area di Gush Dan, nel centro di Israele, così come nella parte meridionale del Paese. È stato richiamato un numero limitato di riservisti per aumentare la preparazione della contraerea».
   In parallelo la radio militare ha riferito che il governo ha dato istruzioni alle forze armate di impedire - anche col fuoco, se necessario - ulteriori lanci da Gaza di aquiloni incendiari verso Israele. La risposta agli aquiloni incendiari aveva creato una certa tensione alla riunione del governo israeliano. Secondo quanto emerso sui media, il ministro dell'Istruzione Naftali Bennett, leader del partito vicino ai coloni "Focolare Ebraico", ha detto che non bisogna sparare colpi d'avvertimento a chi lancia gli aquiloni, ma colpirli direttamente, ma ha trovato contrario il capo di Stato Maggiore Gadi Eisenkot, il quale ha replicato dicendo che «non è giusto sparare a bambini e adolescenti, che a volte sono fra i lanciatori di aquiloni». Proseguono, intanto, le incursioni israeliane contro presunte basi iraniane in Siria.
Secondo l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, almeno nove miliziani siriani e tre militari iraniani sarebbero stati uccisi nel raid missilistico compiuto domenica sera nei pressi dell'aeroporto militare di Nayrab, a est di Aleppo.
   Altre fonti non governative parlano di 22 uccisi, tra cui una decina di pasdaran iraniani. La zona era stata colpita da raid attribuiti a Israele già nei mesi scorsi.

(Avvenire, 17 luglio 2018)


"Non traducete i miei libri in Israele". Un'inquietante moda letteraria

Quegli scrittori che rifiutano la pubblicazione in ebraico

di Giulio Meotti

ROMA - Il romanziere John Berger, vincitore di un Booker Prize, chiese ai colleghi di rifiutare di pubblicare in Israele. Poco prima di morire, il celebre scrittore inglese Iain Banks annunciò che i suoi romanzi non sarebbero mai più stati pubblicati nello stato ebraico. Per ostracismo e inimicizia nei confronti di Israele, alcuni scrittori occidentali hanno sempre praticato questa odiosa forma di intolleranza ideologica, ordinando ai propri agenti e alle proprie case editrici di rifiutare qualsiasi traduzione in ebraico. Ma adesso sta diventando un fenomeno letterario, tanto da spingere Haaretz, il giornale della sinistra israeliana, a dedicargli un intero dossier.
   "La scorsa settimana un editore israeliano ha fatto un'esperienza insolita", scrive Haaretz. "L'editore voleva acquisire i diritti degli ultimi due libri dell'autrice britannica Kamila Shamsie, premiata e apprezzata scrittrice britannica. I suoi primi libri furono pubblicati in Israele nel 2010 da Keter. Da allora ha pubblicato altri due libri e l'editore voleva acquistare anche quelli. La risposta è arrivata: 'Sfortunatamente, non potrò condividere il lavoro dell'autore con i lettori ebraici in questo momento' ha risposto l'agente di Shamsie".
   Quando l'editore ha chiesto chiarimenti, la risposta è arrivata da Shamsie: "Sarei molto felice di essere pubblicata in ebraico, ma non conosco editore ebraico che non sia israeliano". Anche il britannico China Miéville, uno dei più noti scrittori viventi di fantascienza, ha annunciato il rifiuto di tradurre i suoi libri in ebraico. "Volevo pubblicare uno dei suoi libri che considero un capolavoro e avevo parlato con i suoi agenti, ma mi hanno informato che era impossibile", ha detto l'editore israeliano Rani Graff.
   "Ho incontrato casi del genere diverse volte", afferma Ornit Cohen-Barak, editor della serie di pubblicazioni di editori di Modan. "Come Christos Tsiolkas, uno scrittore australiano di origine greca (la serie televisiva 'The Slap' è basata sul suo omonimo libro). Mi è stato detto che non è disposto a essere pubblicato in Israele a meno che non pubblichiamo un'edizione in arabo per i palestinesi.
   Quando abbiamo rifiutato ci ha informato che non era disposto". Anche Alice Walker, autrice del celebre "Il colore viola" da cui fu tratto il film di Steven Spielberg, ha rifiutato la traduzione in ebraico, attaccando lo "stato di apartheid" di Israele.
   Deborah Harris è uno dei principali agenti letterari di Israele (David Grossman, per citarne uno, è fra i suoi autori assieme a Meir Shalev). Negli ultimi dieci anni, Harris ha scoperto che alcuni editori in tutto il mondo stanno rifiutando le opere di autori israeliani, boicottando gli eventi letterari israeliani e rifiutandosi di tradurre i loro libri. "Libri che avrei potuto facilmente piazzare con i principali editori dieci anni fa sono stati educatamente respinti", ha detto Harris al Time.
   "Non c'è un solo autore israeliano che non abbia mai assistito a un'interruzione", dichiara Eshkol Nevo, i cui libri sono stati tradotti in inglese, italiano e tedesco. "Ho avuto un incontro con un pubblico in Sudafrica, un paese in cui non ho un pubblico particolare, quindi ero contento di vedere che molte persone si erano presentate. Ma poi ho iniziato a parlare e l'ottanta per cento di loro si è alzato ed è uscito".
   Nevo dice che in alcuni paesi c'è un vero e proprio diktat non scritto. "Non sono stato tradotto nei paesi scandinavi e le persone con cui lavoro mi hanno detto che il boicottaggio è la ragione". Il ministero della Cultura israeliano ha sovvenzionato la traduzione di titoli israeliani nella speranza di farli pubblicare all'estero. Ogni anno sono scelti 23 titoli, ma dopo la loro traduzione molti di questi titoli sono rimasti senza editore. Tradotti e poi consegnati alla spazzatura.
   Non risultano autori occidentali che abbiano mai respinto la pubblicazione dei loro romanzi in Turchia o in Cina, dove gli scrittori languono a decine in carcere e dove un premio Nobel per la Pace, come lo scrittore Liu Xiaobo, ci è anche morto dietro le sbarre. Ma ai boicottatori interessa soltanto dare addosso a Israele, l'unica società aperta di tutto il medio oriente.

(Il Foglio, 17 luglio 2018)


Mostra di Chagall a Mantova: una serie di capolavori, dal Teatro ebraico di Mosca

Chagall a Mantova dal 5 settembre al 13 gennaio: "Come nella pittura così nella poesia". Aspetti inediti racchiusi in oltre 130 opere. La mostra apre in concomitanza con il Festivaletteratura.

di Roberto Zadik

 
Una tela di Chagall del museo Tretyakov
Marc Chagall, come non si era mai visto, arriva a settembre al Palazzo della Ragione di Mantova. Una serie di opere di grande fascino e suggestione saranno oggetto dell'importante esposizione "Marc Chagall - Come nella pittura così nella poesia", curata da Gabriella Di Millia e in corso dal 5 settembre 2018 al 13 gennaio 2019. L'evento è stato presentato l'11 luglio alla Triennale di Milano dalla curatrice, che ha raccontato una serie di interessanti aneddoti sul grande pittore ebreo bielorusso, e da altri due relatori di primo piano come il sindaco di Mantova Mattia Palazzi e Rossana Cappelli, direttore generale arte, mostra e cultura Electa.
   La mostra, promossa dal Comune di Mantova in collaborazione con la Tretyakov Gallery, che ha prestato i quadri per l'occasione, organizzata e prodotta con la casa editrice Electa, esplora dunque aspetti del tutto inediti racchiusi in oltre 130 opere, fra dipinti e acquerelli, realizzate da questo immenso talento (Vitebsk, 7 luglio 1887 - Saint-Paul-de-Vence, 28 marzo 1985) che sicuramente non solo è l'artista ebreo più conosciuto di tutti i tempi ma una leggenda internazionale dell'arte del Novecento per abilità, originalità, carisma e intensità.
   Ma quale era la personalità del pittore , quali gli eventi salienti della sua vita e come egli influenzò il suo tempo? Da cosa nasce questa mostra e quali le caratteristiche di queste opere? Come ha ricordato la curatrice della mostra nella sua introduzione Chagall, era un personaggio intenso, carismatico e originale e personalizzò tutti i linguaggi e i messaggi con cui venne a contatto. Come il cubismo, che egli trovava però "troppo realistico" e che colorò di elementi onirici e fantastici, "trasformando oggetti e persone in qualcosa di nuovo e sconosciuto". Divenne un autore "capace più di ogni altro di far sognare grandi letterati e scrittori del suo tempo, stringendo amicizia con grandi nomi come i poeti Apollinaire Guillaume e Paul Eluard, che divennero suoi grandi amici, lo scrittore Andrè Malraux e il collega Max Ernst".
   Ripercorrendo alcune fasi salienti della sua vita, dal matrimonio con l'adorata prima moglie, Bella Rosenfeld nel 1915, morta nel settembre 1944, ai periodi a Parigi e a Berlino, Chagall poi tornò in Russia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Lì si scontrò però con diverse difficoltà, come la lotta al suprematismo di un altro artista suo rivale, Kazimir Malevich, che "voleva azzerare tutto" mentre Chagall era un uomo sensibile ed emotivo.
   Fu a Mosca che lavorò per il Teatro ebraico da camera realizzando opere innovative di estrema originalità, con vistosi echi di cultura chassidica e richiami fiabeschi ben visibili nelle scene, dove i personaggi danzano e ballano gioiosi. A Mantova sarà presentato il ciclo completo dei 7 teleri dipinti da Chagall nel 1920 per il Teatro ebraico da camera di Mosca: opere straordinarie che rappresentano il momento più rivoluzionario e meno nostalgico del suo percorso artistico. I teleri sono di assai rara presenza in Italia: furono esposti a Milano nel 1994 e a Roma nel 1999 dopo le esposizioni del 1992 al Guggenheim di New York e del 1993 al The Art Institute di Chicago. Il progetto espositivo proporrà, attorno alle sette opere, la ricostruzione dell'environment del Teatro ebraico da camera, ossia una "scatola" di circa 40 metri quadrati di superficie, per cui Chagall aveva realizzato, oltre ai dipinti parietali, le decorazioni per il soffitto, il sipario, insieme a costumi e scenografie per tre opere teatrali.
   Si tratta, dunque, di opere esclusive e pregiate, un prestito eccezionale della Galleria di Stato Tretjakov di Mosca e, come ha ricordato il sindaco di Mantova, "ottenerli non è stato semplice perché c'era molta richiesta e non era scontato avere nella nostra esposizione queste opere. La nostra è una città di grande cultura e tradizione, con un importante Comunità ebraica e iniziative prestigiose come il Festival della Letteratura. Il Palazzo della Ragione di Mantova - ha proseguito il sindaco - è un luogo straordinario che, dopo un lungo restauro, è tornato al suo splendore originario di sontuoso edificio comunale medievale, costruito nel 1250 e divenuta poi sede podestarile nel '400". Mantova si conferma così prestigiosa capitale culturale, grazie a importanti realtà e iniziative, come il Festival della Letteratura.
   La Mostra sarà un'occasione in più per visitare la città del grande poeta latino Virgilio, scoprendone il fascino e le bellezze, e per conoscere o riscoprire il genio di Chagall, al secolo Moshe Segall, e il suo periodo russo con i dipinti e le immagini più caratteristiche della sua arte fascinosa e simbolica. Come le stralunate e oniriche figure umane e animali e l'audace anticonformismo di questo autore che non aderì mai veramente a nessuna corrente artistica, sviluppando uno stile unico e molto personale. Fra le opere presenti nell'esposizione mantovana, ci saranno le raffigurazioni di forme d'arte, dalla Letteratura (simboleggiata da un Sofer, mentre scrive un Sefer Torah) alla Musica, con "I musicanti" di cui uno imbraccia il violino, alla Danza; fino al famoso e splendido quadro "Sopra la città" dove un uomo e una donna, forse gli stessi Marc e Bella, volano abbracciati. Un caleidoscopio di linguaggi, tematiche, sogni e speranze che ci riporta nel fantasmagorico universo artistico di Chagall e al suo fertile periodo russo.
   In mostra anche una serie di acqueforti, eseguite tra il 1923 e il 1939, tra cui le illustrazioni per le Anime morte di Gogol', per le Favole di La Fontaine e per la Bibbia. Le incisioni si inseriscono nel percorso espositivo a testimoniare lo stretto rapporto tra arte e letteratura nel periodo delle avanguardie.

(Bet Magazine Mosaico, 17 luglio 2018)


Medio Oriente: dal vertice Trump - Putin brutte notizie per Hamas e Iran

Seppur con le dovute cautele dovute alla segretezza e alla "volubilità" dei due leader, dalle dichiarazioni rilasciate dal Presidente Trump dopo il vertice e da alcune "indiscrezioni" si evincono alcune cose interessanti.

Non si poteva non parlare di Medio Oriente nel vertice Trump - Putin, troppo importante la stabilizzazione della regione per non essere un punto fondamentale della discussione dei due leader. Lo conferma lo stesso Presidente Trump in una intervista rilasciata a Fox News dove ha detto che «il vertice è stato molto positivo per Israele».
Premesso che il Presidente Trump non è entrato nei dettagli né della discussione riguardante il Medio Oriente né in quelli di una eventuale intesa sui "punti caldi" che con molta probabilità hanno riguardato la Siria e la presenza iraniana in quella regione, ma tra le righe si può leggere che la discussione è stata molto proficua per le richieste israeliane....

(Rights Reporters, 17 luglio 2018)


Haaretz: Gli ebrei cominciano a temere la democrazia

Riprendiamo questo articolo da un sito chiaramente anti-israeliano, che a sua volta lo riprende e lo traduce da un articolo di Haaretz, presentato come “il più autorevole dei quotidiani israeliani”, che da noi sarebbe come dire: “Il manifesto”, il più autorevole dei quotidiani italiani. L’articolo tuttavia è degno di essere letto perché effettivamente tocca punti nodali e mette in evidenza inevitabili contraddizioni della situazione e della politica di Israele. Sì, le contraddizioni ci sono, e sono ineliminabili all’interno di qualsiasi collocazione puramente umana di Israele, sia di sinistra, sia di destra. NsI

di Anshel Pfeffer

Martedì mattina una parlamentare della Knesset è stata espulsa da una riunione della commissione parlamentare per aver declamato una parte della Dichiarazione di Indipendenza israeliana.
  L'articolo che ha letto sancisce che lo Stato di Israele "promuoverà lo sviluppo del Paese a beneficio di tutti i suoi abitanti; si baserà sulla libertà, la giustizia e la pace, come previsto dai profeti di Israele; garantirà la completa eguaglianza dei diritti sociali e politici per tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla religione, dalla razza o dal sesso."
  Dubito che la 'Legge sullo Stato-Nazione', che la commissione stava discutendo e che cerca di vanificare formalmente quella "completa eguaglianza", verrà davvero approvata in tempi brevi. Benjamin Netanyahu la sta improvvisamente promuovendo per ciniche ragioni elettorali. La legge, al centro di controversie, non ha bisogno di percorrere tutto il suo iter perché i suoi detrattori - i partiti di opposizione, i consiglieri legali dello stesso governo, i media, potenzialmente l'Alta Corte - siano tacciati di essere traditori.
  E comunque, al di là della sceneggiata parlamentare di Tzipi Livni (dirigente della coalizione di centro "Unione Sionista", all'opposizione, ndtr], quegli articoli non sono stati mai applicati in 70 anni di esistenza di Israele. Ma è stato certamente un momento simbolico. L'espulsione di Livni, dopo che le è stato vietato di presentare una copia della Dichiarazione d'Indipendenza in una tribuna nell'aula della commissione, ha rappresentato un chiaro slittamento di Israele da ogni aspirazione a costruire il proprio futuro in base a valori, verso un Israele edificato esclusivamente sul nazionalismo ebraico.
  Ciò significa una scelta tra due tipi di democrazia e due tipi di stile di vita ebraico. E non si tratta solo di Israele. Lo stesso slittamento sta avvenendo dovunque. Nel 1945, quando gli ebrei hanno incominciato a realizzare il fatto devastante che un terzo del loro popolo era stato sterminato in pochi anni, si è verificato un altro mutamento importante. Con la distruzione di ciò che era stato il cuore della civiltà ebraica per 1000 anni, per la prima volta gli ebrei che vivevano nelle democrazie vittoriose del nord America e della Gran Bretagna stavano diventando la maggioranza [degli ebrei in Occidente, ndtr.].
  Per molti secoli il benessere degli ebrei, spesso la loro stessa sopravvivenza, erano dipesi dalla benevolenza di monarchi e dittatori. Questo aveva imposto un certo tipo di discreta ricerca di indulgenza. I dirigenti delle comunità ebraiche dovevano valutare quale despota ingraziarsi. Era una questione di sopravvivenza.
  Con lo spostamento del centro di gravità della vita ebraica verso le Nazioni democratiche e con l'aumento del numero di ebrei che conducevano una vita di cittadini liberi ed uguali - con l'emigrazione dei sopravvissuti in Europa e degli ebrei Mizrahi [detti anche sefarditi, ndtr.] dai territori arabi verso l'Occidente ed Israele - l'attivismo ebraico assunse un carattere molto differente. Venne allo scoperto, con campagne pubbliche, pressioni politiche, uso dei media e attività di sensibilizzazione. Infine gli ebrei ebbero eguali diritti e parallelamente fiducia in sé stessi sufficiente per esigerli fino in fondo e pubblicamente.
  Gli anni del dopoguerra annunciarono anche un nuovo tipo di coinvolgimento degli ebrei nella società. Alcuni ebrei in precedenza erano stati importanti in tutti i movimenti per l'eguaglianza e la giustizia, ma questo avveniva normalmente a livello personale. Spesso, come nel caso degli ebrei comunisti, era un passo verso l'assimilazione e la perdita di identità religiosa e nazionale a favore di una più grande fratellanza umana. Nelle situazioni in cui ebrei si univano tra loro per lottare per cause sociali, si occupavano abitualmente delle questioni specifiche dei lavoratori ebrei.
  Ma vivere in un ambiente più aperto e libero incoraggiò per la prima volta l'ampia partecipazione degli ebrei nelle Nazioni democratiche a cause più generali, per i diritti civili, identificandosi come ebrei, sia che si trattasse di rabbini in quanto membri di intere comunità. Non vi era più la preoccupazione che marciare per obbiettivi controversi e contestati avrebbe provocato la collera delle autorità verso tutti gli ebrei.
  E vi era anche un senso del dovere. Gli ebrei conducevano una vita tranquilla. Nella diaspora ogni grave minaccia fisica di antisemitismo stava scomparendo. Per coloro che lo scegliessero, vi era uno Stato ebraico sovrano dove vivere. Per gli altri, una vita come membri di una minoranza rispettata e ben integrata. Per molti ebrei una nuova era di sicurezza e prosperità significava che noi ora dovevamo garantire che altre, meno fortunate, minoranze, come anche i rifugiati e gli immigrati, avrebbero ricevuto il nostro incondizionato appoggio: un grande senso etico di 'tikkun olam' [riparare il mondo, ndtr.], che ha animato molti ebrei negli ultimi 60 anni. E quando nei primi anni '90 l'impero sovietico crollò, rendendo liberi ancor più ebrei sia di emigrare in Occidente e in Israele, sia di restare nelle loro patrie di nuova democrazia, la tendenza sembrò irreversibile.
  Un quarto di secolo fa, per la prima volta nella storia, quasi l'intero popolo ebraico viveva in società libere. Con l'eccezione dell'Iran e di poche piccole e isolate sacche, tutti gli ebrei, dovunque vivessero, sono stati liberi e uguali ormai da una generazione. Non abbiamo ancora cominciato a comprendere il vero significato di quel fenomeno storico - e stiamo ormai affrontando un enorme problema riguardo a quale sia il tipo di libertà in cui vogliamo vivere.
  Non avviene solo in Israele, dove siamo in un limbo tra la costruzione di una società basata sui valori ed una che considera la preservazione della nazionalità ebraica superiore ad ogni considerazione morale. Lo stesso divario si sta aprendo nell'America di Trump ed in tutta Europa, dove un Paese dopo l'altro soccombe alla nuova ondata di politiche populiste.
  La grande maggioranza degli ebrei americani può in questo momento mostrare tendenze progressiste, ma vi è una sostanziale, forse crescente, minoranza tra loro che crede fermamente che una stabile sicurezza si possa trovare soltanto nell'alleanza con un establishment conservatore, e sì, bianco.
  E se si parla con gli ebrei in Europa si troveranno molti con un approccio sfrontatamente illiberale. Non solo tra le comunità ebraiche in Francia e Belgio, dove gli ebrei sono stati uccisi in anni recenti per il fatto di essere ebrei. Questa mentalità si rafforza più si va verso est.
  Come mi ha detto il capo di una comunità regionale in Russia: "Quando Israele bombarda Gaza ed uccide gli arabi è una buona cosa per gli ebrei. È ciò che fa sì che i nostri vicini qui ci rispettino molto di più. È il miglior antidoto all'antisemitismo."
  Questa settimana un rabbino in Ungheria mi ha detto: "Gli ebrei progressisti sono attori di un dramma storico in cui loro rappresentano le vittime, tutte le vittime. Perché questo è ciò che apprendono dall'esperienza storica ebraica. Ma questo è solo un sacco di buoni propositi.
  Il mondo adesso sta diventando un posto meno liberale, un posto in cui i non ebrei stanno dimenticando l'olocausto. Gli ebrei hanno bisogno di una strategia di sopravvivenza, perché non diventiamo vittime un'altra volta. Questo significa essere una Nazione forte, alleata con altre Nazioni forti. Non con le vittime."
  È una strategia di sopravvivenza nel mondo di Trump, Putin e Netanyahu.
  In Europa, non più un importante centro di vita ebraica, ma ancora una patria per ben due milioni di ebrei sparsi nel continente, ho incontrato sempre più ebrei alle prese con i valori liberali del dopoguerra con cui sono stati educati. Istintivamente rifiutano la retorica anti-immigrati e islamofobica che li circonda. Non gli appare soltanto sbagliata. È troppo simile a ciò che i loro genitori e nonni sentivano non molto tempo fa.
  Ma poi portano i figli nelle sinagoghe e nelle scuole ebraiche circondate da guardie armate e temono di dover scegliere da che parte stare. Potrebbe essere terminato il breve periodo nella storia ebraica in cui è sembrato che il mondo intorno a noi stesse allineandosi con ciò che volevamo credere fossero valori sia ebraici che liberali, che la bilancia pendesse dalla parte opposta al razzismo e all'odio, non solo verso gli ebrei, ma verso chiunque, ed in cui pensavamo che fosse solo questione di tempo perché potessimo costruire società migliori e più giuste, in Israele ed in ogni altro Paese dove vivono gli ebrei.
  Di sicuro non può più essere dato per scontato. Prepariamoci a dover mettere alla prova quei valori.

(Nena News Agency, 17 luglio 2018)


Come abbiamo detto, seguendo vie e logiche puramente umane, Israele non riuscirà mai ad essere “una nazione come tutte le altre”: ogni tentativo in questa direzione non può che far nascere contraddizioni. I “buoni di sinistra”, pur di eliminare le contraddizioni sarebbero disposti a sopportare l’eliminazione di Israele; i “cattivi di destra”, pur di lasciar vivere Israele sono disposti a sopportare qualche contraddizione. M.C.


Israele, Hamas e lo scenario generale
      Articolo OTTIMO!


di Niram Ferretti

Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas dopo il lancio di duecento missili verso le comunità che si trovano lungo il confine con Gaza e la massiccia risposta di Israele sulla Striscia, la maggiore dal 2014, è fragile quanto può mai esserlo ogni tregua tra il gruppo integralista islamico e lo Stato ebraico.
   Dal 30 marzo scorso, quando cominciò ai confini della Striscia la manifestazione orchestrata da Hamas e mascherata come protesta pacifica culminata il 14 maggio in coincidenza del trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, con l'uccisione da parte di Israele di 62 "pacifici" manifestanti tutti affiliati con l'organizzazione terrorista che dal 2007 controlla Gaza, si è poi giunti agli aquiloni incendiari corredati anche da svastiche che hanno bruciato centinaia di ettari di coltivazioni. Fa tutto parte del medesimo copione.
   Hamas ha disperatamente bisogno di rilegittimarsi agli occhi di chi domina e a fronte di un disastro socio-economico che si fa sempre più drammatico nella Striscia. Disastro che è la conseguenza della gestione mafioso terroristica dell'organizzazione, la quale continua imperterrita a utilizzare una parte cospicua dei fondi che le arrivano per armarsi e costruire tunnel. Tutti soldi immancabilmente sottratti alla popolazione, allo sviluppo delle infrastrutture, a un benessere maggiore. Ogni bene che entra all'interno della Striscia dalla parte di Israele e dell'Egitto è una ghiotta opportunità per il mercato nero, per gli ottimi affari che Hamas fa alle spalle dei suoi sudditi.
   Prendiamo ad esempio i 30 milioni di litri di diesel fatti arrivare dall'Egitto nel corso di un intero anno e che avrebbero dovuto essere utilizzati per potenziare la maggiore centrale energetica consentendo di incrementare le ore di elettricità disponibili nella Striscia (attualmente solo 4 al giorno). Di questo ammontare solo 17, 8 milioni di litri sono arrivati alla centrale, 12, 2, milioni sono stati venduti sul mercato nero e i profitti convogliati a scopo militare.
   Per non sprofondare nell'assoluta irrilevanza, Hamas non può rinunciare, di tanto in tanto, a mostrare di essere il principale attore palestinese del conflitto arabo-israeliano a fronte di un'Autorità Palestinese ormai completamente screditata. E' una questione fondamentale di immagine, prima di tutto a scopo interno e poi internazionale. Il consenso si guadagna, infatti, su due fronti politico-mediatici.
   In Medioriente Hamas mostra ai palestinesi di continuare a combattere Israele e di offrire martiri per la "causa", mentre all'estero offrendo "vittime" e non "martiri" può godere della simpatia di chi ama travestire i terroristi con i panni laceri degli "oppressi", Europa in testa. E' così, d'altronde, dall'epoca dell'OLP, quando il lord of terror Yasser Arafat veniva ricevuto nelle capitali europee come un combattente irredentista, con, in Italia, Bettino Craxi che giunse, in un memorabile discorso, a paragonarlo a Giuseppe Mazzini.
   La realtà, naturalmente, presenta ben altri scenari rispetto a quelli dipinti su i fondali, il principale riguarda la natura stessa del conflitto tra arabi (poi declinatosi strumentalmente come palestinesi) e israeliani. Un conflitto ormai estenuato e conclusosi da anni sul terreno con la vittoria manifesta di Israele. Nessuno dotato di favella può pensare che Hamas, nella Striscia, possa contrapporre la propria esigua forza alla sproporzione militare tecnologica dello Stato ebraico. Nessuno stato arabo può farlo. La storia ha insegnato agli arabi una lezione amara.
   Come evidenziato da Daniel Pipes in una intervista pubblicata da L'Informale l'anno scorso, "I palestinesi vivono in un mondo di fantasia". Una fantasia alimentata dalla propaganda e dal sostegno mediatico dato principalmente loro dall'Europa. Ma i fatti sono più pervicaci dei sogni, e tra questi un fatto emerge chiaro. Se Israele lo volesse, Hamas verrebbe spazzato via con facilità, ma, dopo avere abbandonato la Striscia nel 2005, non ha alcuna intenzione di farsi carico di due milioni di arabi lungo la costa, ha già le sue grane in Cisgiordania. Hamas lo sa di essere funzionale a Israele, e che fintanto che le condizioni permarranno, resterà al governo della Striscia. Un altro conflitto potrebbe costringere Israele a rimuoverlo permanentemente, e non è questo quello che i due contendenti auspicano.
   Nel frattempo la Storia si muove sulla testa del gruppo terrorista figliato dai Fratelli Musulmani, si fa in altri luoghi, in altre stanze. Si fa in virtù del coordinamento americano-israeliano con la sponda degli stati arabi, in testa l'Arabia Saudita che ha posto Hamas nella lista delle organizzazioni considerate nemiche del regno, insieme a Hezbollah e Al Qaeda. Si prova a ridisegnare il Medioriente in funzione anti-sciita (oggi il principale finanziatore di Hamas) con un consenso che va da Riad ad Amman al Cairo, passando per gli emirati arabi.
   In questo ampio scenario geopolitico, il conflitto arabo-israeliano risulta essere il residuo di un'epoca passata, di una storia esausta, ormai accartocciata su se stessa. Hamas è solo una piccola escrescenza, una purulenza passeggera. Per Israele non si tratta di sconfiggerlo, ma di tenerlo a bada e al contempo di mantenere gli occhi bene aperti su sommovimenti circostanti ben maggiori, nella regione più politicamente tettonica del mondo. Sulla Turchia, che cerca di agguantare attraverso il suo proselitismo il Monte del Tempio, ma soprattutto sulla Siria, con alle spalle l'ombra dell'Iran, il nemico principale, il regime da mettere in ginocchio. La convergenza degli sguardi di Donald Trump e Mohammad bin Salman è, in questo senso, la medesima.

(L'informale, 17 luglio 2018)


Batterie Iron Dome dislocate a Tel Aviv

Nel timore di una recrudescenza dei lanci di missili di Hamas sparati da Gaza, Israele ha dislocato batterie di difesa aerea Iron Dome attorno a Tel Aviv e ha richiamato in servizio riservisti addetti a quelle postazioni. Lo ha reso noto il portavoce militare. In parallelo la radio militare ha riferito che il governo ha istruito le forze armate di impedire - anche col fuoco, se necessario - ulteriori lanci da Gaza di aquiloni incendiari verso Israele. "Siamo determinati a proteggere i civili israeliani e siamo pronti ad affrontare sviluppi diversi, che potrebbero intensificarsi" ha affermato il portavoce militare in un comunicato relativo al dislocamento delle batterie di Iron Dome nella zona di Tel Aviv. Il portavoce militare ha peraltro confermato che oggi "cellule di lanciatori di palloni incendiari" sono state prese di mira da velivoli israeliani mentre si apprestavano ad attaccare Israele dalla striscia di Gaza.

(Shalom, 16 luglio 2018)


Netanyahu: contro Hamas un muro d'acciaio

''L'importante e' che Hamas comprenda che si trova di fronte ad un muro d'acciaio, composto in primo luogo da un governo determinato, da una forte leadership locale, e da una popolazione di coltivatori sionisti che noi continueremo a sostenere con l'aiuto delle forze armate'': lo ha affermato il premier Benyamin Netanyahu incontrando a Sderot (pochi chilometri a nord della striscia di Gaza) una delegazione di rappresentanti della popolazione locale. ''Ho detto loro - ha aggiunto - che siamo impegnati in una lotta prolungata. Cosi' come stiamo completando la ostruzione dei tunnel terroristici, bloccato gli attacchi di massa sui reticolati di confine, dato istruzione all'esercito di mettere fine al terrorismo degli aquiloni e dei palloni incendiari''. ''Da un secolo combattiamo contro il terrorismo. In questo momento questa zona e' il punto di frizione col terrorismo islamico. Siamo determinati a vincere - ha concluso - ma si tratta di una lotta prolungata, per il sionismo''.

(ANSA, 16 luglio 2018)


Nuovo lancio di razzi su Israele. A Tel Aviv il sistema antimissile

Bombardate le postazioni di Hamas dopo la violazione del cessate il fuoco. nel fine settimana partiti dalla striscia più di 200 tra missili e colpi di mortaio.

di Rolla Scolari

Israele bombarda le postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza come rappresaglia al nuovo lancio di razzi e dispiega l'Iron dome (il sistema di difesa anti-missile) per proteggere Tel Aviv e non soltanto il Sud. Il cessate il fuoco annunciato l'altra notte da Hamas è durato poche ore, poi i miliziani hanno lanciato due razzi: in totale nel fine settimana sono stati sparati almeno 200 tra razzi e colpi di mortaio contro Israele dalla Striscia di Gaza e sono rimaste ferite quattro persone.
   Per questo, nel timore di una recrudescenza dei combattimenti con Hamas, Israele ha richiamato in servizio riservisti addetti alle postazioni dello scudo anti-missili. In parallelo la radio militare ha riferito che il governo ha istruito le forze armate di impedire - anche con il fuoco, se necessario - ulteriori lanci da Gaza di aquiloni incendiari verso Israele.
Ma da Gaza tornano minacciose le parole del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh. In un discorso durante i funerali dei due adolescenti morti sabato, ha avvertito Israele che la «Marcia del ritorno» - ossia la protesta popolare che ogni venerdì ha luogo lungo il confine di Gaza - è destinata a continuare «fino al raggiungimento dei nostri obiettivi». L'emissario americano per il Medio Oriente Jason Greeblatt ha criticato il comportamento di Hamas e lo ha sollecitato a «provare la pace».
   Intanto un sondaggio ha evidenziato come il 44% degli israeliani ritenga che Hamas abbia prevalso nel confronto degli ultimi due giorni. Secondo il 61 % Israele avrebbe dovuto opporsi al cessate il fuoco.

(La Stampa, 16 luglio 2018)


Briciole

Dal primo gennaio di quest'anno compare sul nostro sito la rubrica "Briciole" (colonna di sinistra), con il commento giornaliero di un versetto della Bibbia, tratto da calendari evangelici degli anni scorsi. Riportiamo qui un commento comparso in un calendario di quest'anno.

"La salvezza viene dai Giudei". (Giovanni 4:22)
Dio ha scelto un popolo per benedire tutta l'umanità. È Israele, il popolo che prende nome dal nipote di Abramo al quale Dio promise: "Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza" (Genesi 26:4). Dio ha mantenuto queste promesse perché, attraverso Israele, ha dato all'uomo la Sua Parola. Quella scritta, la Bibbia, l'unica, vera, infallibile rivelazione di Dio e dei Suoi piani, affidata appunto agli ebrei (Romani 3:2) e quella incarnata, quel Gesù Cristo nato da una famiglia ebrea, vissuto tra Galilea e Giudea, morto, risorto e asceso al cielo in Gerusalemme per aprire ai Suoi discepoli le porte del Paradiso. Forse non lo sai, ma quel popolo da sempre disprezzato, deriso, odiato, combattuto, perseguitato è lo strumento che Dio ha scelto per salvare la tua anima. m.m.

(Il Calendario - Edizioni CEM, 15 luglio 2018)


Israele felice nonostante tutto: per l'abbondanza di significato

di Rolla Scolari

Il conflitto israelo-palestinese non trova soluzione da 70 anni, come provano le ricorrenti violenze lungo il reticolato che separa Gaza e Israele, mentre nel Nord, sul confine con la Siria in guerra, sono più recenti disequilibri a tenere alta la tensione con il rafforzarsi dell'Iran atomico. Nel vicino Sud del Libano, Hezbollah rappresenta una costante minaccia per Israele.
   Come è possibile che un Paese da decenni anni nel mezzo di questa instabilità si trovi all'undicesimo posto nella lista del World Happiness Report, vicino a Costa Rica e Finlandia? Che sia quinto tra i Paesi dell'Ocse per soddisfazione dello stile vita, prima di Gran Bretagna e Stati Uniti? «Come può essere così?» per un Paese che non vive soltanto una realtà di guerra e terrorismo, ma anche di «governi instabili, corruzione, abuso di potere, condanna internazionale, servizio militare obbligatorio, alte tasse, mancanza di alloggi a prezzi accessibili, scuole affollate, immigrazione massiccia», è la domanda cui cerca risposta Giulio Meotti, giornalista del Foglio, nel suo Israele. Ultimo Stato europeo (Rubbettino, pp. 169, € 13).
   «L'origine paradossale della felicità israeliana», scrive, è forse spiegata da uno studio del Jewish People Policy Institute: «Risiede in un modello culturale opposto a quello ormai in voga in Occidente. Questo studio ha rivelato che l'83% dei cittadini ebrei di Israele considera la propria nazionalità "significativa" per l'identità. L'80% dice che la cultura ebraica è "significativa". Più dei due terzi (69%) cita la tradizione ebraica come importante. Tutti questi fattori rafforzano la ragion d'essere dello Stato ebraico».
   Ciò che rende «dannatamente» felici gli israeliani, spiega Meotti, scarseggia oggi all'Occidente: il significato. Per gli ebrei, Israele non è un posto qualsiasi in cui vivere, è l'unico luogo possibile. E in questa «abbondanza di significato» che per l'autore Israele diventa lezione per un Occidente che «sta attraversando un periodo di immensa confusione causata da una sorta di sfiducia nella nostra identità: il politicamente corretto, il multiculturalismo, un floscio secolarismo che si inginocchia di fronte a islamisti che promuovono la più fanatica incarnazione della fede. L'Occidente è quello che è grazie alle sue radici bibliche. Se l'elemento ebraico di quelle radici è rovesciato e Israele è perso, allora anche noi siamo persi».

(La Stampa, 16 luglio 2018)


Il mondo riconosca il Golan israeliano

Cinquant'anni di Israele sul Golan. Godetevi le vacanze, il prossimo anno potrebbero essere politicamente scorrette. Il popolo usato a fare da mascotte, come se fosse una capra. La verità sull'antisemitismo ungherese.

Scrive il Times of Israel (6/7)

 
Il confine con la Siria sulle alture del Golan
Viviamo in un mondo pieno di complicati dilemma diplomatici, ma per una volta eccone uno semplice: prendereste una regione che sta prosperando in uno stato democratico, dove vivono in armonia cinquantamila persone di etnie e religioni diverse, e la cedereste a una violenta dittatura retta dal peggiore genocida del nostro tempo in modo che possa distruggere questa regione e uccidere la maggior parte degli abitanti?", Così Yair Lapid e Moshe Yaalon. "Se la vostra risposta è 'no', ciò denoterebbe un riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan.
   Nel 1981, Israele applicò formalmente le sue leggi alle alture del Golan. I siriani ne pretendevano la restituzione. La maggior parte dei paesi, tra cui gli Stati Uniti, evitarono di assumere una posizione chiara. Riteniamo che sia giunto il momento di prendere una decisione. Le alture del Golan sono una vicenda singolare nel conflitto arabo-israeliano. Sono una regione montuosa dell'estensione di 695 miglia quadrate (1.800 kmq, circa quanto un ranch texano di dimensioni medie), nel nord di Israele. C'è da dire che ovviamente tale vicenda non è collegata al conflitto di Israele con i palestinesi. Nessun palestinese vive in questa regione. Storicamente, il Golan è conosciuto come la terra biblica di Bashan, come si legge nel libro del Deuteronomio. E' una regione con uno storico e profondo legame ebraico. I siriani, invece, governarono sulle alture del Golan per solo 21 anni, tra il 1946 e il 1967. Nei cinquantuno anni trascorsi da allora, Israele ha sviluppato la regione trasformandola in uno straordinario luogo di riserve naturali, meta di turismo, applicando metodi di agricoltura hi-tech, producendo vini di eccellenza, sviluppando una fiorente industria tecno-alimentare e costruendo strutture alberghiere di lusso molto richieste. Ai drusi delle alture del Golan, che costituiscono quasi la metà della popolazione, sono stati garantiti gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino residente in Israele, come si farebbe in una vera democrazia.
   Dall'altra parte del confine, la vita è andata nella direzione opposta. Un regime oscuro guidato da uno psicopatico sostenuto dalle forze più malvagie esistenti oggi sulla terra. L'uomo che non ha esitato a usare armi chimiche contro donne e bambini ha continuato a chiedere la restituzione delle alture del Golan in nome del 'diritto internazionale'. Il fatto che le alture del Golan siano sotto la sovranità israeliana è l'unica cosa che le ha salvate dalla valle della morte siriana, che sta crollando sotto il peso della violenza e della distruzione. La comunità internazionale, con gli Stati Uniti in testa, deve fare una cosa semplice: dire di vedere il mondo per com'è.
   Esortiamo dunque l'Amministrazione americana, i repubblicani e i democratici, a guidare un processo internazionale volto a riconoscere la sovranità israeliana sulle alture del Golan. E' storicamente giusto, è strategicamente intelligente e permetterà agli Stati Uniti di porre un freno al comportamento spregevole della Siria senza dover mettervi piede".

(Il Foglio, 16 luglio 2018)


Il Mossad. Lancia termica per trafugare

Un'azione coordinata al secondo, con gli 007 israeliani impegnati a superare porte blindate, allarmi e le corazze di 32 casseforti con una lancia termica capace di raggiungere i 3.600 gradi. Tutto per recuperare mezza tonnellata di documenti segreti che racconterebbero la verità sul programma atomico iraniano. L'impresa del Mossad in una località imprecisata della Repubblica islamica risale alla notte del 31 gennaio. In parte il contenuto dei documenti rubati è stato già presentato alle intelligence alleate e determinati leader occidentali (Trump li ha utilizzati come la prova decisiva per ritirarsi dall'accordo sul nucleare siglato con l'Iran). Ma nei giorni scorsi il governo di Israele ha invitato alcuni giornali, tra i quali il New York Times, a esaminare una selezione dei «piani» trafugati. il quotidiano Usa ne riferisce dettagliatamente facendo però notare come i documenti - giudicati autentici dalle intelligence Usa e britannica - si riferiscano al passato, agli anni precedenti l'accordo siglato a Vienna nel 2015 e che dopo quella data tutto si sarebbe fermato. Ma il condizionale è d'obbligo.

(Corriere della Sera, 16 luglio 2018)


Gli ebrei, Visegrad e l'islam radicale

L'ebreo Coldman smonta un po' delle favole che circolano su Orbàn

Scrive First Thinge (5/7)

Viktor Orbàn
La battuta dell'epoca di Breznev chiedeva se fosse un crimine dire che il presidente del partito era un idiota. La risposta era sì, perché è un segreto di stato. Per chi ha perso l'umorismo dell'era sovietica, il presidente francese Emmanuel Macron ha fornito qualche consolazione, licenziando l'ambasciatore francese a Budapest per aver osservato in un memorandum privato che il presidente dell'Ungheria non è un antisemita. Evidentemente questo è un segreto di stato in Francia". Così scrive David Goldman.
   "In un dispaccio del 18 giugno, Eric Fournier, l'ambasciatore francese in Ungheria, ha riferito che il presunto antisemitismo del presidente ungherese Viktor Orbàn era 'una fantasia della stampa straniera'. Ha aggiunto che l'accusa ha distolto l'attenzione dal 'vero moderno antisemitismo', 'la cui fonte sono 'i musulmani in Francia e Germania'. Il memo era privato, ma Macron lo ha licenziato comunque. Il memo di Fournier ha colpito un nervo scoperto. L'ambasciatore Fournier era del tutto corretto: i dati dei sondaggi forniscono enormi prove dell'antisemitismo musulmano in Francia. I soldati francesi proteggono sinagoghe e scuole ebraiche. Gli ebrei francesi sono avvisati dai leader delle loro comunità di non mostrarsi per la strada con segni visibili di identità ebraica, come una kippah.
   Al contrario, i 100 mila ebrei dell'Ungheria camminano indisturbati fino alla sinagoga in costume tradizionale ebraico. Durante una visita a Budapest a maggio, ho camminato dal mio hotel alla sinagoga venerdì sera indossando una kippah, attraversando la città quattro volte. Nessuno mi ha guardato due volte. Non tenterei di farlo in Francia o in Germania. Budapest è sicura per gli ebrei perché ospita pochi migranti musulmani.
   L'Ungheria, insieme a Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, ha rifiutato di accettare le quote comunitarie per i migranti musulmani dopo il 2015, quando la Germania ha accettato più di un milione di rifugiati di guerra putativi (tre quinti dei quali si sono rivelati migranti economici). Orbàn non è un radicale di alcun tipo; al contrario, è un cristiano-democratico della vecchia scuola. Dire che Orbàn è antisemita è scandalosamente sbagliato. L'Ungheria è uno dei pochi amici di Israele nella diplomazia mondiale. La porta di Orbàn è aperta ai leader ebrei di Budapest, e alcuni dei più importanti rabbini della città mi hanno detto che è un buon amico della comunità ebraica. E Budapest sta diventando un luogo di scelta per gli imprenditori israeliani, grazie alla sua buona infrastruttura e ai bassi costi. Ho partecipato a una cena serale di sabato in una sinagoga di Budapest con 200 invitati, più della metà dei quali erano israeliani".
   L'accusa di antisemitismo contro Orbàn dipende dalla questione di George Soros. "Orbàn ha fatto campagna contro Soros. Questa strategia non aveva nulla a che fare con le origini ebraiche di Soros, e tutto ciò che aveva a che fare con il suo sostegno alle frontiere aperte e la sua enorme impronta nella politica ungherese. Il miliardario nato in Ungheria ha speso 600 milioni di dollari in Ungheria. Se un miliardario espatriato avesse speso quella somma di denaro negli Stati Uniti, ci si aspetterebbe che i politici facessero una campagna contro di lui".
   
(Il Foglio, 16 luglio 2018)


«I miei 14 anni, dalle celle di San Vittore al lager di Bolzano»

Essere adolescenti nel 1938. La fuga, la cattura, la tortura dei fascisti… A 89 anni, Luciano Modigliani rievoca il clima di delazione e violenza, la sua deportazione a Bolzano, vero campo di sterminio su cui fu steso un velo di omertà e insabbiamento, a partire dalla ferocia del Comandante Franz. «Andrò dal Presidente Mattarella, l'Italia ha avuto un altro lager della morte e nessuno ne sa nulla…»

di Marina Gersony

«Mi hanno portato a San Vittore e mi hanno fatto scendere in uno scantinato per interrogarmi. Erano in tre, un comandante delle SS, un brigadiere dell'esercito tedesco e un fascista italiano, probabilmente un delatore. Mi hanno intimato a parlare, volevano che rivelassi dove si trovavano i miei fratelli maggiori che si erano uniti ai partigiani. Ma io non lo sapevo, non ne avevo la più pallida idea. A un certo punto uno di loro mi ha afferrato gli indici e li ha spezzati. Poi mi hanno gettato per terra e un altro ha iniziato a calpestarmi e a camminare sul mio corpo. "Parla, parla", gridava. Improvvisamente ho avuto un'intuizione, è stato il Dio di Israele a darmi la forza di rispondere. Ho avuto la prontezza di dire che anche se anche avessi affermato la verità non mi avrebbero creduto. A quel punto mi hanno lasciato andare e mi hanno rinchiuso in una cella del quinto raggio. Le dita penzolavano e provavo un dolore senza nome. Porto ancora i segni di quelle torture. Avevo 14 anni e mezzo. Fino a quel momento avevo vissuto come un principino, ultimogenito di dieci figli. Con le Leggi razziali tutto cambiò».
 
Il lager di Bolzano
  Luciano Modigliani è nato a Siena nel 1929, figlio di Germano Modigliani, italiano, e di Emma Misul, di origine spagnola. Ricorda ogni dettaglio come se fosse oggi. «La mia era una famiglia toscana di religione ebraica - racconta -. Amedeo Modigliani, il pittore, era nostro cugino. Oggi della mia famiglia di origine non è rimasto più nessuno. L'unico sopravvissuto sono io». Elegante, curato nell'aspetto, sembra molto più giovane rispetto all'età anagrafica. Occhi vivaci, tono affabile, accompagna ogni parola da gesti garbati, disposto a raccontare ancora una volta le atrocità vissute in un periodo storico di oscura memoria. Sì, perché dopo quarant'anni di silenzio, in cui non aveva mai voluto parlare del suo passato («Nessuno mi avrebbe creduto»), da qualche anno ha deciso di andare nelle scuole a raccontare: «Lo sento come un dovere, il tempo che mi resta lo dedico a diffondere quello che è accaduto, non solo a me e a quelli che hanno avuto la fortuna di sopravvivere, bensì a tutti quei sei milioni di fratelli uccisi nella Shoah. Le nuove generazioni devono sapere. Se non lo faccio io, chi lo farà? Dopo di me, chi parlerà?». Per questo suo encomiabile impegno, Modigliani è stato insignito della cittadinanza benemerita di Brugherio, dove vive attualmente.
  Nel corso dell'intervista ha raccontato la storia della sua famiglia, di come suo padre, uomo di sani principi e grande lavoratore, sia sempre stato rispettato da tutti, anche dagli stessi fascisti. «Quando al mattino presto andava a lavorare incontrava le squadracce - spiega - che, vedendo in lui un onesto lavoratore al servizio di una numerosa famiglia, lo salutavano con gentilezza».
  Tuttavia, i tempi erano quelli che erano, e per gli ebrei tirava un'aria brutta. La paura era diffusa e sempre in agguato. «Già poco prima dell'emanazione delle Leggi razziali nella scuola che frequentavo a Milano, dove ci eravamo trasferiti, alcuni ragazzi cominciavano a burlarsi dei compagni ebrei - racconta -. E ricordo quanto questo mi facesse male …». Dopo la promulgazione delle norme antiebraiche suo padre decise di lasciare la città: prima andarono a Fiorenzuola, poi a Salsomaggiore e, infine, a Cabiate, in provincia di Como. Come sfollati in fuga dai bombardamenti, i Modigliani cercavano di stringere rapporti cordiali con gli abitanti di tutte le località in cui si trasferivano, senza però mai rivelare la propria identità ebraica. Tutto questo fino al 1944. «Non dimenticherò mai quel 23 dicembre del '44 in cui sono andato con i miei a Milano per salutare alcuni parenti - racconta commosso -. Quella mattina faceva molto freddo e nostro padre ci raccomandò di andare a ripararci al Cristal Bar, all'angolo con via Boscovich. Dopo qualche minuto entrò un Capitano della Squadra d'azione Muti. Conosceva mio padre e sapeva delle nostre origini ebraiche, ma non gli aveva mai detto nulla in proposito. Quel giorno, invece, lo apostrofò con tono aspro, molto diverso dal solito: "Ma tu cosa ci fai qui? Stai proteggendo per caso degli antifascisti, dei partigiani e degli ebrei?". Poi prese il fischietto e di corsa arrivarono i suoi soldati. Ci condussero prima in piazza Lima e poi verso San Vittore. Durante il tragitto mia madre mi esortò a scappare adottando una sua tipica espressione portoghese che equivale all'italiano di "Vai, vai". Mi sussurrò l'indirizzo di una cugina, Floretta Coen, che stava in via Canaletto: "Vai da lei - mi incitò -, vai, vai". Di colpo mi ritrovai solo, spaesato e confuso. Ricordo che presi un tram e arrivai da Floretta che mi accolse a braccia aperte nel suo appartamento. C'erano nascosti altri ebrei e non ebrei. Dopo una decina di giorni, in seguito alla delazione di un condomino che denunciò la nostra presenza in cambio di soldi, fummo prelevati dalle SS e dai fascisti che ci portarono a San Vittore. Lì mi hanno riconosciuto, interrogato, torturato e buttato in una cella del quinto raggio come ho raccontato all'inizio».

 Troppa omertà sul campo di Bolzano
Luciano Modigliani si ferma un attimo, sembra soppesare ogni parola. Il mondo deve sapere. Prende fiato e procede. «Dopo una decina di giorni, una mattina all'alba, ci hanno fatto vestire in fretta e furia e ci hanno portati in Stazione Centrale, al Binario 21. Eravamo una settantina di persone, tutte destinate alla deportazione. Ci hanno stipati in un carro bestiame dove siamo rimasti rinchiusi per tre giorni senza mangiare. L'aria era irrespirabile. Avevamo bisogno di espletare i nostri bisogni fisiologici, lo spazio vitale era ridotto al minimo, qualcuno non ce l'ha fatta a resistere ed è morto. Non so come ho fatto, ma sono riuscito a trascinarmi verso un finestrino, ho respirato un po' d'aria e sono ritornato a vivere. A un certo punto ci hanno portato del cibo, una brodaglia disgustosa che galleggiava in un enorme catino. Infine siamo arrivati nel campo di sterminio di Bolzano. Sì, un campo di sterminio, questo era Bolzano e ancora oggi non viene definito nel modo giusto. Ho deciso che scriverò una lettera al Presidente Mattarella perché questa cosa venga chiarita e si sappia che lì, in quella città, c'era un lager».
  È indignato Luciano Modigliani: perché sul campo di Bolzano c'è stata troppa omertà. Tutta la documentazione, compresi gli elenchi degli internati, è stata distrutta dal comando nazista poco prima della liberazione. Inizialmente il Polizei und Durchgangslager Bozen era stato concepito come campo di transito nazista. Fu attivo dall'estate del 1944 alla fine del secondo conflitto mondiale. Raccoglieva prigionieri civili politici e razziali - e in misura minore prigionieri militari - smistati per essere dirottati ad Auschwitz, Mauthausen, Dachau e Flossenbürg. «Dopo i bombardamenti americani del Brennero, che avevano interrotto i collegamenti ferroviari con la Germania - osserva Modigliani -, il campo fu trasformato in un vero e proprio campo di sterminio. Ci hanno rasati, ci hanno dato una divisa di iuta e un numero di matricola. Lavoravamo ininterrottamente con turni massacranti dalle sei di mattina alle sei di sera con venti gradi sottozero. Una povera anziana è stata innaffiata con dell'acqua e lasciata mezza nuda a morire al gelo fino a quando si è trasformata in una statua di ghiaccio. Il cibo era scarso e rivoltante. Ricordo il comandante Franz, sempre in giro con il suo cane lupo. Per farci capire che era lui a comandare aveva fatto appendere un prigioniero a un albero a testa in giù. Un monito per noi prigionieri. Per non parlare delle punizioni frequenti, le violenze e le angherie. Noi ebrei eravamo considerati meno dei topi e degli scarafaggi, dormivamo accatastati sopra delle cuccette, una sopra l'altra, l'igiene era precaria, le coperte puzzavano, avevamo i pidocchi che ci corrodevano la carne».
  Il campo fu liberato alla fine dell'aprile 1945: a partire dal 29 aprile e fino al 3 maggio gli internati cominciarono ad essere rilasciati. Modigliani si salvò insieme ai suoi genitori: «Gli americani arrivarono insieme al Comité International della Croix-Rouge de Genève il 28 aprile 1945. Ci hanno portati a Merano in un castello per curarci, riaprire lo stomaco atrofizzato e riabituarci a mangiare. Io ero entrato nel campo che pesavo 59 chili e ne sono uscito che ne pesavo 29. In seguito ho saputo che tre dei miei famigliari erano morti a Dachau e altri tre a Mauthausen. Mia cugina Luisa Millul, una bellissima cantante di 23 anni, è stata costretta a cantare per settimane in prossimità dei forni crematori. Due mesi dopo l'hanno gasata ad Auschwitz. Vuole sapere perché mi sono salvato? Non lo so. O forse sì. Probabilmente per un senso di sopravvivenza, ma soprattutto grazie all'aiuto di Dio. Sono stato fortunato. Molto fortunato».
  La voce di Luciano Modigliani si incrina. Nonostante abbia raccontato questa storia infinite volte, si commuove ogni volta. Gli occhi si riempiono di lacrime e abbassa il capo. Durante l'intervista non ha mai espresso una sola parola di odio e di rancore verso i suoi aguzzini. Gli rimane solo un cruccio, un pensiero fisso che lo addolora. «Se non ci fossero stati italiani che denunciavano noi ebrei, mettendo in pericolo la nostra vita, i nazisti non avrebbero mai saputo dove trovarci. E non avremmo vissuto e visto tanto orrore».

(Bet Magazine Mosaico, 16 luglio 2018)


Startup israeliane nominate Cool Vendor da Gartner per le tecnologie innovative

 
L'intelligenza artificiale (AI), l'Internet delle cose (IoT) e la rivoluzione digitale sono al centro delle tecnologie di aziende e startup innovative.
Tra queste aziende ci sono anche le startup israeliane che la società Gartner, con sede negli Stati Uniti, ha inserito nell'elenco dei Cool Vendors per il 2018.
Gli analisti di Gartner nominano nella loro classifica i vendors le cui innovazioni hanno il potenziale di trasformare i mercati. Essere selezionati come Cool Vendor è un'occasione unica per un'azienda perché potenzia la sua traiettoria di crescita.
Gartner è leader mondiale nella consulenza strategica, ricerca e analisi nel campo dell'Information Technology con oltre 60.000 clienti nel mondo. L'attività principale consiste nel supportare le decisioni di investimento dei clienti attraverso ricerca, consulenza, benchmarking, eventi e notizie.
Nell'elenco dei Cool Vendors, in cui figurano 256 aziende, sono presenti gli Stati Uniti con 133 startup, Israele con 30, il Regno Unito con 20 e la Cina con 10.
I vendors sono raggruppati per settore. Nel settore della sicurezza informatica sono presenti 13 startup israeliane: Cymulate, Snyk, Luminate Security, Alcide, BigID, InnoSec, Demisto, Logz.io, Diskin Advanced Technologies, Siga, GuardiCore, CyberWrite e D-ID.
Nella categoria Digital Commerce/AI/Retail sono elencate cinque startup israeliane: Syte.ai, Twiggle, Namogoo, Pepperi e Unbotify.
Quattro le aziende nella categoria IoT e Enterprise: Vayyar, Neura, Sedona Systems e Presenso.
Nella categoria Automotive/Mobility troviamo Otonomo, Phantom Auto, Moovit e Karamba.
Nella lista, come riporta Israel21c, troviamo anche Amenity Analytics, Augury, 3DSignals e Techsee.

(SiliconWadi, 16 luglio 2018)


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