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Notizie 1-15 luglio 2021


Anticorpi naturali più potenti dei vaccini. Ma i guariti devono vaccinarsi

di Silvana Palazzo

Gli anticorpi naturali sono più efficaci nel prevenire i contagi rispetto alle vaccinazioni. È questa la conclusione a cui giunge uno studio israeliano, che di fatto contraddice la ricerca condotta da alcuni esperti americani, tra cui il dottor Anthony Fauci, e degli scienziati di Pfizer e Moderna, secondo cui gli anticorpi sviluppati dai vaccini sono più potenti di quelli prodotti dall’infezione naturale. E invece dall’analisi dei dati dei contagi il ministero della Salute israeliano hanno scoperto che le persone guarite spontaneamente dalla malattia, quindi quelle che sviluppano anticorpi naturali, hanno meno probabilità di essere reinfettati rispetto ai vaccinati. Ma il consiglio degli esperi resta quello di vaccinarsi anche se si è guariti dal Covid, in modo da avere una protezione ancor più elevata.
   Stando a quanto riportato da Israel National News, nell’ultima ondata sono stati registrati oltre 7.700 casi. Di questi, solo 72 erano relativi a persone già guarite e quindi con anticorpi naturali. Dunque, meno dell’1%. Invece circa il 40% dei nuovi casi, quindi oltre 3mila pazienti, era completamente vaccinato e si è infettato, ovviamente senza sviluppare una forma grave di Covid, che è il motivo per il quale è importante vaccinarsi.

 ISRAELE VERSO TERZA DOSE VACCINO COVID
  Dallo studio israeliano è emerso che i vaccinati avevano 6,72 volte più probabilità di contrarre il Covid dopo la somministrazione dei vaccini rispetto a chi ha sviluppato una protezione col naturale decorso della malattia. Una disparità che ha creato confusione tra gli esperti. Alcuni sostengono che questi dati dimostrano che il livello di immunità fornito dall’infezione naturale rispetto alla vaccinazione è più alto, altri non sono convinti. Il punto però è evidentemente un altro. Questi dati hanno senso se la questione verte sulla vaccinazione tra i guariti, ma non su chi non si è infettato. In tal casi è bene proteggersi da forme gravi del Covid, anziché esporsi al virus rischiando anche di morire. Israele non ha dubbi sull’importanza della vaccinazione, infatti con la diffusione delle varianti, in particolare quella Delta, e l’impennata di contagi, il ministero della Salute ha disposto la somministrazione di una terza dose di vaccino Pfizer agli immunodepressi. Nel frattempo è aperto un dialogo con le cause farmaceutiche per la terza dose per tutti coloro che hanno completato il ciclo vaccinale.

(ilsussidiario.net, 15 luglio 2021)


Vaccinatevi, vaccinatevi, prima o poi qualcosa si capirà. M.C.


Israele, scoperta una sezione della cinta muraria di Gerusalemme

di Jacqueline Sermoneta

Una sezione delle mura di Gerusalemme, risalente al periodo del Primo Tempio e in gran parte distrutta dai Babilonesi a Tish’à Be Av nel 586 a.C., è stata portata alla luce dagli archeologi presso il Parco Nazionale della Città di David. Gli scavi sono stati condotti dall’ Israel Antiquities Authority.
  La sezione delle mura rinvenuta sul versante orientale della città, “era stata costruita per proteggere Gerusalemme dagli attacchi durante il Regno di Giuda, fino all’arrivo dei Babilonesi che riuscirono a sfondarla e a conquistarla. Tuttavia non tutto fu distrutto e parti delle mura, che rimasero a difendere la città per decenni e oltre, sono rimaste in piedi fino ad oggi”, secondo quanto spiegato dai direttori degli scavi Filip Vukosavovic, dell’Ancient Jerusalem Research Center e da Joe Uziel e Ortal Chalaf dell’Israel Antiquities Authority.
  La sezione si collega ad altre due parti della cinta muraria portate alla luce precedentemente grazie agli scavi effettuati negli anni ’60 dall’archeologa britannica Kathleen Kenyon, che scopri la parte settentrionale, e negli anni ’70 dall’archeologo Yigal Shiloh, che trovò la parte meridionale delle mura.
  La scoperta conferma inequivocabilmente che le sezioni costituiscono le mura di Gerusalemme, mettendo fine al dibattito sorto anni prima, in cui si sosteneva il contrario.
  La ricostruzione rivela un’estensione della cinta muraria di 30 m, per un’altezza di 2,5 m e una larghezza di 5 m.
  Durante gli scavi sono stati rinvenuti altri reperti risalenti allo stesso periodo: un sigillo babilonese, che raffigura un’immagine di una persona in piedi di fronte ai simboli degli dei babilonesi Marduk e Nabu e una bulla (un’impronta di sigillo d’argilla), sul quale è inciso il nome in ebraico “Tsafan”.

(Shalom, 14 luglio 2021)


Picco di contagi in Israele

Via libera al vaccino agli under 16 e alla terza dose di Pfizer ai deboli

di David Zebuloni

La battaglia di Israele contro la minaccia del Covid continua e il quadro si fa sempre più complesso, persino per gli esperti. I dati parlano chiaro: nell’ultima settimana è stata superata la soglia dei 700 contagi giornalieri, 47 dei quali in gravi condizioni. Mai così tanti dal mese di marzo. Inoltre, circa il 53% di loro risultano essere vaccinati o pazienti guariti. Ed ecco il mistero: qual è l’effetto del vaccino sul virus? Quale protezione offre a chi l’ha assunto? Bastano due dosi per sconfiggere la nuova variante o ne serve una terza?
  Come accennato, gli esperti israeliani affermano di non poter ancora rispondere con certezza a questi interrogativi. Ciò che è certo, invece, è la natura del ritorno del virus. Sotto accusa infatti troviamo la variante Delta, identificata per la prima volta in India e ora responsabile del 90% dei nuovi casi in Israele. Tuttavia, il nuovo governo, guidato dal neoeletto Naftali Bennett, pare non voler adottare ancora delle norme drastiche a riguardo, prediligendo una politica meno radicale e più graduale.
  L’utilizzo delle mascherine è stato ripristinato all’interno degli ambienti chiusi, certo, ma dopo l’euforia provata nel mese di marzo (quando era stata annunciata ufficialmente la vittoria contro la battaglia al Covid, nonché il ritorno alla tanto agognata vita normale), gli israeliani sembrano aver abbassato del tutto la guardia. Nelle palestre e negli uffici, nei negozi e nei supermercati, infatti, risulta più comune che mai trovare dei volti non coperti dalle mascherine. Cosa del tutto impensabile fino a qualche mese fa.
  Il Ministero della Salute, inoltre, è intervenuto questa settima durante la seduta di Gabinetto dedicata alla questione Covid, proponendo di accorciare la quarantena da due settimane ad una settimana. Proposta che ha fatto storcere il naso a molti esperti. Il fulcro del problema, infatti, rimane l’aeroporto di Ben Gurion, identificato come responsabile assoluto della diffusione della variante Delta nel paese. Anche su questo fronte, il governo non si è ancora espresso in mondo definitivo, lasciando momentaneamente la riapertura totale e completa del paese ai turisti per i primi del mese di agosto.
  Il cuore della campagna di Bennett in questa nuova ondata del virus, dunque, torna ad essere il vaccino Pfizer. Il Ministero della Salute, infatti, ha dato il via libera alla somministrazione del vaccino ai minori di 16 anni e, i figli del Premier, sono stati i primi a promuovere l’iniziativa. Inoltre, a partire da domenica, Israele inizierà a offrire una terza dose del vaccino agli adulti con un sistema immunitario debole e ai più anziani, ovvero i cittadini maggiormente a rischio, ma il governo sta ancora valutando se rendere il richiamo disponibile anche al grande pubblico.
  In parallelo, Pfizer e BioNTech, ovvero i principali fornitori del vaccino in Israele, hanno dichiarato che entro qualche settimana chiederanno alle autorità di regolamentazione statunitensi ed europee, di autorizzare ufficialmente la somministrazione del terzo richiamo del vaccino anti-Covid. L’ultimo, si spera, per poter vincere definitivamente il virus.

(Bet Magazine Mosaico, 15 luglio 2021)


«Gli anticorpi naturali sono più efficaci delle vaccinazioni nel prevenire i contagi»

Studio israeliano

Con la diffusione delle varianti e con l’impennata dei contagi, in Israele il ministero della Sanità ha disposto la somministrazione di una terza dose di vaccino Pfizer agli immunodepressi. L’obiettivo è di frenare le nuove infezioni. Un provvedimento che, per il momento, riguarda chi abbia avuto trapianti di cuore, polmoni, fegato, midollo osseo o reni, oppure chi sia sottoposto a cure oncologiche. Ma nelle ultime settimane da Israele è arrivata anche un’altra notizia, utile per la ricerca e che potrebbe cambiare le modalità della lotta, ormai purtroppo lunga, al Covid.
  Analizzando i dati dei contagi, il ministero della Salute ha scoperto che i pazienti guariti spontaneamente dalla malattia, sviluppando anticorpi naturali, sembrano avere meno probabilità di essere reinfettati rispetto ai pazienti che erano stati vaccinati. Una scoperta che contraddice direttamente la ricerca di esperti americani come il dottor Anthony Fauci, e anche quella degli scienziati di Pfizer e Moderna, che hanno sostenuto che gli anticorpi creati dai loro farmaci sono più potenti di quelli prodotti dall’infezione naturale. Il consiglio degli esperti, comunque, resta quello di vaccinarsi anche dopo essere guariti spontaneamente dal Covid, in modo da ottenere una protezione ancora più elevata.
  Secondo Israel National News, durante l’ondata più recente, quindi a partire da maggio, sono stati rilevati oltre 7.700 nuovi casi di soggetti infettati dal virus. Di questi, solo 72 erano persone che erano state precedentemente colpite e avevano sviluppato anticorpi naturali: si tratta di meno dell’1%. Circa il 40% dei nuovi casi, quindi più di 3.000 pazienti, invece, è stato infettato nonostante fosse completamente vaccinato. Ovviamente, senza sviluppare la malattia in modo grave, che è il principale scopo dei farmaci immunizzanti.
  Dallo studio emerge che gli israeliani che erano stati vaccinati avevano 6,72 volte più probabilità di contrarre l’infezione dopo l’iniezione rispetto a che aveva sviluppato la protezione con il naturale decorso della malattia. Una disparità che ha confuso gli esperti: alcuni affermano che i dati dimostrano il livello più elevato di immunità fornito dall’infezione naturale rispetto alla vaccinazione, mentre altri rimangono poco convinti.
  Il Ministero della Salute israeliano aveva precedentemente stimato che l’efficacia del vaccino Pfizer fosse solo del 64% contro la variante Delta. Una ricerca che ha aiutato Pfizer e il suo partner BioNTech a sviluppare un nuovo vaccino progettato per proteggere dalle varianti, comprese la Delta e la Beta.

(Il Messaggero, 15 luglio 2021)


Sottomessi all’ansia

Si vive sottomessi all’ansia. A settembre ci sarà la resa dei conti. Gli svaccinati saranno “stanati”. Si troverà un marchingegno legale per obbligare al vaccino universale: anche per il vaccino esisterà la globalizzazione. Ma ho un sospetto: quando il 99,9 per cento sarà vaccinato, nessuno si dovrà illudere di poter abbassare la guardia, qualche altro pericolo incomberà. Vivremo in società dominate da sciami di malefici dai quali i governi ci proteggeranno.



A Toronto ebrei preoccupati per il crescente antisemitismo

I membri della comunità ebraica di Toronto mercoledì hanno espresso preoccupazione in seguito a due episodi di antisemitismo nella città la scorsa settimana.

Martedì, un uomo con una svastica sul petto è stato accusato di aggressione motivata dall’odio vicino a Stanley Park. Sabato 10 luglio, lo stesso individuo ha urlato insulti antisemiti a tre donne ebree vicino a Yonge e St. Clair prima di attaccare e soffocare un uomo ebreo. Lo riporta Israel National News.
   “Come tutti i membri della società, gli ebrei dovrebbero essere in grado di camminare per strada con fiducia nella nostra sicurezza e protezione. Siamo grati per l’immediata risposta del servizio di polizia di Toronto a questi incidenti”, il Centro per gli affari israeliani e ebraici (CIJA ) e UJA Federation of Greater Toronto hanno dichiarato mercoledì in una dichiarazione congiunta.
    “L’antisemitismo è una piaga che si sta rapidamente diffondendo in tutto il Canada e nel mondo. Negli ultimi mesi, gli ebrei canadesi – già la minoranza religiosa più presa di mira in questo paese secondo Statistics Canada – hanno assistito a un allarmante aumento di molestie, atti di vandalismo e aggressioni motivate dall’odio. Dalle aziende di proprietà ebraica, alle scuole, ai luoghi di lavoro e ai sindacati, l’antisemitismo è una preoccupazione sempre crescente per gli ebrei canadesi”, hanno aggiunto.
    “Mentre ci avviciniamo al vertice di emergenza sull’antisemitismo del governo del Canada, ci viene ricordato che ciò che inizia con gli ebrei, non finisce mai con gli ebrei. Combattere l’antisemitismo non significa solo proteggere i membri della comunità ebraica; è essenziale isolare tutti noi dall’odio che minaccia il tessuto stesso della nostra società”.

 Urla antisemite alla manifestazione a Toronto
  Toronto è stata colpita da una serie di attacchi antisemiti nelle ultime settimane. A maggio, il B’nai Brith Canada ha riferito che per la terza settimana consecutiva, l’antisemitismo e il sostegno al terrorismo sono emersi con violenza durante una massiccia protesta nel centro di Toronto. Oltre un migliaio di manifestanti anti-israeliani hanno marciato da piazza Yonge-Dundas al consolato israeliano a Yonge e Bloor, gridando ripetutamente per una “intifada“.
   Almeno un manifestante portava la bandiera di Hamas, mentre altri portavano cartelli con immagini antisemite, come uno che raffigurava ebrei israeliani come maiali, e un altro che equiparava le Forze di Difesa Israeliane (IDF) alle SS naziste. Gli organizzatori hanno anche affermato in modo bizzarro a un certo punto che “il Canada è una parte di Israele”.
    Una settimana prima, in un’altra protesta nel centro di Toronto, i partecipanti hanno minacciato gli ebrei ricordando la battaglia di Khaybar, in cui l’antica comunità ebraica d’Arabia è stata uccisa o espulsa.
    All’inizio di maggio, un’attività di proprietà di ebrei nell’area del mercato di Kensington è stata vandalizzata con graffiti antisemiti che includevano riferimenti a camere a gas.
    Diverse settimane fa, la polizia di Toronto ha avviato un’indagine dopo che le sedie a Downsview Park sono state dipinte a spruzzo con svastiche.
    Il Toronto Police Service e il Regional Municipality of York Police Services Board hanno recentemente pubblicato un rapporto secondo cui nel 2020 i crimini d’odio segnalati a Toronto sono aumentati di oltre il 50%, mentre i crimini d’odio segnalati nella regione di York sono aumentati del 20%.

(Bet Magazine Mosaico, 15 luglio 2021)


L'ultimo ebreo dell'Afghanistan se ne va

«ho deciso di restare qui per mantenere viva la tradizione della mia gente. ora però, con la presa di potere dei talebani in vista, è rischioso. presto raggiungerò la famiglia a Gerusalemme».

di Sergio Ramazzotti

L’uomo più solo del mondo vive in pieno centro, in un appartamento al primo piano, in una città di oltre quattro milioni di abitanti. Ogni giorno ha tre sole incombenze: prepararsi i pasti, prendersi cura della pernice che tiene in una gabbia, dare una spazzata al pavimento della vecchia sinagoga a fianco del suo appartamento. Il suo nome è Zabolon Simantov, figlio di Jacoub, nato nel 1959. Il motivo della solitudine: la città è Kabul, lui è ebreo. Anzi, come egli stesso sottolinea, l'ultimo ebreo rimasto in Afghanistan. Che molto presto sarà anche l'ultimo ad andarsene, probabilmente. Per non tornare mai più.
  Incontrai Simantov a casa sua un giorno d'estate del 2009. Trovarlo non fu difficile: tutti i negozianti di Flower Street, la via dei fioristi dove un tempo viveva e lavorava una comunità ebraica di parecchie centinaia di persone, conoscevano "Zabolon l'ebreo" e uno di loro mi accompagnò di fronte alla sua porta, in una casa di ringhiera con le pareti sgretolate da decenni di incuria. Zabolon mi invitò a entrare — una stanza di quattro metri per quattro che in effetti era parte della sinagoga, un tavolo, tre sedie di plastica, un vaso con tre rose finte, un materasso arrotolato nell'angolo che di sera diventava la camera da letto —, mise a scaldare l'acqua per il tè sul fornellino a gas, ascoltò quel che avevo da chiedergli, fece il prezzo: «Per raccontare la mia storia voglio cento dollari». Il mio interprete si scandalizzò: «È quanto prende al mese un poliziotto», disse a bassa voce. Si guardò intorno, valuto con occhio critico la povertà tangibile della stanza, mi esortò a contrattare. Lo feci senza convinzione. Zabolon l'ebreo accettò la controfferta al primo colpo.
  Bevemmo il tè senza fretta, quindi lui cominciò a parlare, il respiro reso pesante dal grosso ventre. L'esordio: un gesto verso il poster appeso al centro della parete. Era il ritratto di Najibullah, l'ex presidente filosovietico trucidato dai mujaheddin. Zabolon gli schioccò un bacio, poi disse: «Sotto di lui stavamo bene, gli ebrei erano benvoluti e lasciati in pace, in tutto il Paese ce n'erano almeno cinquemila. Altri tempi». Sospirò, si versò un'altra tazza di tè, si pulì le mani sul caftano sudicio, sintetizzò la storia dell'Afghanistan degli ultimi vent'anni. Le conseguenze: «Di tutti quegli ebrei, nel Novantasei, l'anno che andarono al potere i talebani, eravamo rimasti soltanto in due: io e Yitzakh Levin. Gli altri erano fuggiti in massa».
  Questa parte della storia, nonostante i protagonisti fossero ridotti a due (o forse proprio per questo), è la più intrigante, al punto che nel 2006 ha ispirato una pièce teatrale rappresentata nel Regno Unito: Levin è l'anziano custode della sinagoga, e a un certo punto le circostanze lo costringono a condividere con Simantov l'angusto appartamento di Flower Street, dove i due litigano spesso. La rottura definitiva arriva quando Simantov si offre di aiutare Levin a emigrare in Israele, perché, mi disse, «credevo che gli inverni a Kabul fossero troppo rigidi per un povero vecchio come lui, e inoltre pensavo gli avrebbe fatto pia cere ricongiungersi con gli amici fuggiti da tempo». Levin la prende male, pensando che il compagno di stanza voglia usurpargli il diritto di custodia della sinagoga, e lo denuncia ai talebani con la falsa accusa di essere una spia al soldo di Israele. L'altro reagisce sostenendo che Levin gestisce un bordello, predice il futuro a pagamento e vende amuleti magici alle donne afghane. Come prevedibile i talebani, che fino a quel momento avevano ignorato i due considerandoli innocue macchiette, se li tolgono di torno sbattendoli in galera.
  Non è chiaro quanto tempo ci abbiano passato. Simantov non me ne parlò volentieri, limitandosi a dire di essere stato torturato a frustate. Quel che è chiaro è che una mattina di gennaio del 2005, quando i due erano stati da tempo scarcerati dai talebani che non sopportavano più i loro litigi, Levin, che aveva superato gli ottant'anni, venne trovato morto (si presume di vecchiaia). Lapidario, a proposito, il commento di Simantov: «Non ho certo versato lacrime». Così, da quel momento Zabolon non è semplicemente "l'ebreo': bensì "L'Ebreo':l'ultimo rappresentante del popolo eletto in Afghanistan, risoluto a rimanerci per il resto della vita. O perlomeno, così era nel 2009.
  Qualche settimana fa, invece, Zabolon ha annunciato la sua intenzione di lasciare Kabul e tornare in Israele, dove vivono sua moglie e le due figlie che ha visto per l'ultima volta nel 1998, quando la situazione in Afghanistan cominciava a essere pesante e lui le fece fuggire. Stavolta la prospettiva del ritorno al potere dei talebani e del definitivo ritiro delle truppe occidentali innervosisce anche lui.
  Eppure quel giorno nella sinagoga disse in tono categorico: «Qui sono nato e qui voglio morire». In realtà, poco prima aveva detto di essere venuto alla luce in Turkmenistan, o forse in Tagikistan, ed ecco che d'improvviso sosteneva che la sua città natale era Herat, Afghanistan occidentale. Il mio interprete, attento a non farsi notare, si era battuto delicatamente l'indice sulla tempia. Possibile che la solitudine avesse intaccato le facoltà mentali, anche se Simantov, per quanto vivesse in isolamento, sembrava benvoluto dagli abitanti del quartiere che ogni tanto, raccontò, gli regalavano denaro per tirare avanti, e lo salutavano a gran voce quando si affacciava in strada.
  Ovunque sia nato, Simantov, figlio di un rabbino a sua volta figlio di un rabbino, cittadino afghano, non è però un rabbino. Lo disse lui stesso, aggiungendo che tuttavia ciò non gli impediva di prendersi cura della sinagoga e di macellare i propri polli secondo le regole kosher, attività che normalmente sono appannaggio esclusivo della gerarchia religiosa: «Date le circostanze, ho ottenuto una dispensa speciale dal rabbino più vicino, che sta in Uzbekistan».
  Di quando in quando, mi disse, entrava nella sinagoga, scostava le ragnatele dallo stipo a parete rivolto verso Gerusalemme, ne estraeva lo shofar — il tradizionale corno di ariete usato per il richiamo alla preghiera del sabato — e lo suonava. Sapendo che, come accadeva da vent'anni, non avrebbe ottenuto risposta, che non ci sarebbe stata nessuna funzione, che se anche ci fosse stata lui non avrebbe avuto titolo per officiarla: «Lo faccio solo per mantenere viva la tradizione». Lo fece, una volta di più, anche per me: per mantenere viva la tradizione.

(Famiglia Cristiana, 15 luglio 2021)


I Fratelli Musulmani fuorilegge in Austria

Finora i gruppi fondamentalisti islamici radicati nel Paese ricevevano finanziamenti statali. Ora chi fa propaganda per loro rischia la galera.

di Andrea Morigi

Per l'organizzazione «estremamente misteriosa» che va sotto il nome di Fratelli Musulmani, il territorio europeo inizia a scottare. In Austria sono finiti fuori legge.
   Rimangono pur sempre interlocutori di molti governi occidentali e cercheranno rifugio sotto le loro ali protettive, ma intanto scatta l'allarme: non basta più dichiararsi contro la violenza jihadista per farsi accettare come l'alternativa all'lsis. Anche perché ormai non ci casca più nessuno. Chi sostiene Al Nusra, cioè Al Qaeda, in Siria non è poi tanto credibile, perché combatte con gli stessi metodi.
   Non fa paura nemmeno l'accusa di islamofobia rivolta dai siti legati alla galassia del fondamentalismo islamico al governo di Vienna per aver bandito i simboli del gruppo - due spade incrociate sovrastate dal libro sacro e lo slogan: «Allah è il nostro obiettivo, il Profeta il nostro modello, il Corano la nostra costituzione, la Iìhad la nostra strada, e la morte per Allah il più sublime dei nostri desideri».
   In realtà, i diritti delle minoranze religiose in Austria sono ipergarantiti e non soltanto da un'intesa fra la Cancelleria e la Iggo, l'autorità religiosa islarnica d'Austria. Una legge contro la blasfemia ha fatto condannare una donna per aver presentato Maometto come «un pedofìlo» e la Corte costituzionale ha abrogato il divieto di indossare il velo per le alunne delle scuole primarie.

 MINORANZE PROTETTE
  Perciò, nessun criterio di discriminazione ha fatto sì che, dall'8 luglio, l'internazionale fondata un centinaio di anni fa dall'egiziano Hassan Al Banna sia finita sulla lista nera dove l'Austria relega la «criminalità a motivazione religiosa». E chi aderisce al movimento o ne diffonde la letteratura rischia un'ammenda di 4mila euro e la detenzione fino un mese. In fin dei conti, gli Ikhwan, come si autodefiniscono, sono in compagnia di estremisti di destra come gli Ustasha croati e i Lupi Grigi turchi, così come dei comunisti del Pkk curdo, oltre che di sigle fondate da correligionari quali l'Isis, Al-Qaeda, Hamas ed Hezbollah.
   I Fratelli Musulmani sono radicati nel Paese fin dagli anni Settanta, quando Youssef Nada in fuga dalla Libia si insedia in Austria. Nel 200l, dopo l'attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono, egli entra nella lista nera dei finanziatori di Bin Laden. Otto anni più tardi, ne uscirà pulito.
   «In Austria molte organizzazioni che si appoggiano alla Fratellanza operano nello stesso edificio, a Vienna, sulla Eimergasse», scrive Lorenzo Vidino, direttore del Program on Extremism alla George Washington University, nel suo recente Islamisti d'Occidente. Storie di Fratelli musulmani in Europa e in America, (Bocconi editore) dove ricorda inoltre che l'Islamisches Religion Padagogìsches Akademie (IRPA), diretta da Amina el Zayat, esponente di una delle famiglie più in vista dell'organizzazione nel mondo germanico, ha ricevuto finanziamenti pubblici per la formazione degli imam austriaci. Fra questi, compare anche Ayman Aly, già capo della moschea Al-Nur di Graz, dove si trova la Liga Kultur Verein für Multikulturellen Brückenbau, una delle numerose sigle con cui il gruppo si presenta. Aly è anche stato segretario generale della Federazione delle Organizzazioni Islamiche in Europa, l'ombrello che raduna le realtà facenti capo agli Ikhwan. Era stato anche direttore della Taibah International Aid Agency, che nel 2004 gli Usa avevano designato come finanziatori del terrorismo.
   Che il cancelliere austriaco Sebastian Kurz non li voglia più fra i piedi, è più che naturale.

Libero, 15 luglio 2021)


Gli Emirati Arabi Uniti aprono l'ambasciata a Tel Aviv: "Pietra miliare"

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Gli Emirati Arabi Uniti hanno aperto la loro ambasciata a Tel Aviv, introducendo così una rappresentanza diplomatica in Israele dopo la firma degli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. La misura segue l'apertura a giugno dell'ambasciata israeliana negli Emirati. Il presidente israeliano Isaac Herzog e l'ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti in Israele, Mohamed Al Khaja, erano presenti alla cerimonia inaugurale.
  Si tratta di "un'importante pietra miliare nelle crescenti relazioni tra i nostri due paesi", ha detto l'ambasciatore emiratino. "Gli Emirati Arabi Uniti e Israele sono entrambe nazioni innovative, possiamo sfruttare questa creatività per lavorare verso un futuro più prospero e sostenibile per i nostri paesi e la nostra regione", ha aggiunto il diplomatico. L'ambasciata si trova nell'edificio della Borsa di Tel Aviv.
  "Abbiamo reso possibile l'impossibile". Così il presidente israeliano, che ha definito "storico" l'accordo tra i due Paesi, ovvero gli Accordi di Abramo raggiunti con la mediazione della Presidenza Trump, Herzog ha auspicato che "altre nazioni che cercano la pace con Israele" seguano l'esempio di Abu Dhabi.
  Come riporta il quotidiano Haaretz, Herzog ha anche ringraziato l'ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il principe ereditario degli Emirati Mohammad bin Zayed per aver guidato il processo. A seguito dell'accordo con gli Emirati Arabi Uniti, Israele ha normalizzato le relazioni con Bahrain, Marocco e Sudan.

(la Repubblica online, 14 luglio 2021)


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Israele-Emirati Arabi Uniti: apre l’ambasciata a Tel Aviv

Primo accordo nel settore agricolo

Gli Emirati Arabi Uniti (UAE) hanno inaugurato, mercoledì 14 luglio, la propria ambasciata in Israele, nella città di Tel Aviv. Alla cerimonia era presente anche il presidente israeliano neoeletto, Isaac Herzog, e l’ambasciatore emiratino, Mohamed al-Khaja.
  La sede della rappresentanza diplomatica degli UAE si trova nell’edificio della Borsa di Tel Aviv. La sua apertura fa seguito a quanto avvenuto il 29 giugno scorso, quando la visita “storica” del ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, negli Emirati Arabi Uniti è stata occasione per inaugurare l’ambasciata di Israele ad Abu Dhabi, la prima in un Paese del Golfo. Ora, il 14 luglio, è stato il turno di Israele. “Vedere la bandiera emiratina a Tel Aviv era un sogno lontano solo un anno fa, mentre ora appare normale”, ha affermato Herzog, aggiungendo: “Abbiamo reso possibile l’impossibile”. Herzog, il cui mandato come presidente ha avuto inizio il 7 luglio, ha poi ringraziato l’ex premier Benjamin Netanyahu e il principe ereditario degli UAE, Mohammad bin Zayed, per aver guidato il processo di normalizzazione delle relazioni e ha fatto accenno alla possibilità di ulteriori accordi di pace regionali nel breve periodo.
  Da parte sua, l’ambasciatore al-Khaja ha definito l’inaugurazione dell’ambasciata a Tel Aviv una pietra miliare rilevante nello sviluppo delle relazioni tra Israele e gli UAE. Tuttavia, a detta del rappresentante emiratino, si tratta solo dell’inizio. Inoltre, è stato evidenziato come dalla sigla degli accordi di Abramo, firmati il 15 settembre 2020 alla Casa Bianca, siano state avviate diverse trattative in ambito commerciale, create opportunità di investimento e avviate collaborazioni tra ospedali e università. “L’ambasciata non sarà solo una casa per i diplomatici, ma una base per la nostra missione continua”, ha poi affermato al-Khaja, dichiarando di voler continuare a costruire sulla base del nuovo partenariato, alla ricerca del dialogo e non di conflitti, al fine di creare un “nuovo paradigma di pace” che possa essere un esempio di collaborazione nella risoluzione delle tensioni in Medio Oriente. “Speriamo di continuare a lavorare per rendere gli accordi di Abramo una realtà”, ha infine dichiarato l’ambasciatore.
  In generale, da settembre 2020, sono diversi i progressi registrati a livello diplomatico ed economico tra i due Paesi. In tale quadro si inserisce l’accordo siglato da Lapid e il suo omologo emiratino, Sheikh Abdullah bin Zayed al-Nahyan, durante i colloqui del 29 giugno, in materia di cooperazione economica e commerciale. Poi, il 13 luglio, Israele e gli UAE hanno siglato il primo accordo relativo al settore agricolo. In particolare, il ministro dell’Agricoltura israeliano, Oded Forer, e il ministro della sicurezza alimentare e idrica degli Emirati Arabi Uniti, Mariam al-Muhairi, hanno firmato un’intesa che consentirà alle parti di cooperare nell’ambito della ricerca e dell’innovazione nel settore agricolo, oltre che in materia di commercio e sicurezza alimentare.
  Tra le iniziative previste, vi sono lo sviluppo di prodotti da poter coltivare in aree desertiche e piani per la gestione delle risorse idriche. “Gli Emirati Arabi Uniti e Israele condividono molte sfide quando si tratta di sicurezza alimentare e stiamo collaborando per trovare soluzioni innovative e fattibili”, ha affermato al-Muhairi durante la cerimonia. Dall’altro lato, Forer ha dichiarato che l’accordo del 13 luglio rappresenta “una grande opportunità di cooperazione tra i due Paesi”, considerato che l’agricoltura svolge un ruolo fondamentale per fornire cibo fresco ai cittadini. “Abbiamo gettato i semi per molti progetti futuri”, ha poi dichiarato il ministro israeliano, senza, però, specificare ulteriori dettagli.
  Si stima che gli scambi commerciali tra Israele e UAE abbiano raggiunto un valore di oltre 354 milioni di dollari. Alcune delle intese siglate nell’ultimo anno tra i due Paesi riguardano anche l’ambito energetico. In tale quadro, il 20 ottobre 2020, la società di gasdotti israeliana Eilat Ashkelon Pipeline Company (EAPC) aveva dichiarato di aver firmato un accordo preliminare per favorire il trasporto di petrolio dagli Emirati Arabi Uniti all’Europa, attraverso un gasdotto che collega la città di Elat, sul Mar Rosso, e il porto di Ascalona, situato sulla costa mediterranea.
  Oltre agli Emirati Arabi Uniti, anche il Bahrein, il Marocco, il Sudan e il Bhutan hanno raggiunto accordi di normalizzazione con Tel Aviv, riconoscendo, in tal modo, la sovranità dello Stato di Israele. Il primo ad aver agito in tal senso era stato l’Egitto, nel 1979, e poi la Giordania, nel 1994. Per gli UAE, la decisione di normalizzare le relazioni con Israele ha “infranto la barriera psicologica” e rappresenta “la via da seguire” per portare la pace nella regione mediorientale.

(Sicurezza Internazionale, 14 luglio 2021)


14 luglio 1555: la bolla papale “Cum nimis absurdum”, inizio del ghetto di Roma

di Daniele Toscano

La data del 14 luglio 1555 rappresenta un momento particolarmente significativo nella bimillenaria storia degli ebrei di Roma. Il Papa Paolo IV, Gian Pietro Carafa, emana la bolla “Cum nimis absurdum”, «Poiché è oltremodo assurdo» in lingua latina, in cui si sottolineava come fosse inopportuno e disdicevole (“assurdo” appunto) che vi fosse una coesistenza tra ebrei e cristiani. Con questo provvedimento venivano istituite una serie di restrizioni alle libertà degli ebrei di Roma e dello Stato Pontificio, riguardanti soprattutto i numerosi mestieri che non potevano svolgere, i contatti assai limitati che potevano avere con i cristiani e soprattutto la reclusione nel ghetto. Strade anguste, spazi stretti, precarie condizioni igienico-sanitarie caratterizzeranno così la vita degli ebrei romani da questo momento fino all’apertura del ghetto nel 1870.

(Shalom, 14 luglio 2021)


Abu Mazen: “il pagamento ai terroristi è una forma di walfare”

Lo ha detto davvero il dittatore palestinese a una delegazione di senatori americani

di Maurizia De Groot

Il pagamento alle famiglie dei terroristi è una forma indispensabile di walfare, parola di Abu Mazen (vero nome Mahmud Abbas).
  Lo ha detto veramente il dittatore palestinese ai membri del Congresso americano in visita a Ramallah.
  A riferirlo citando una fonte anonima è il Times of Israel che ha ampiamente raccontato dell’incontro “molto acceso” avvenuto i giorni scorsi tra i membri del Congresso americano e Abu Mazen.
  Secondo il TOI la rappresentante Kathy Manning (D-NC) ha affermato che c’è stata una “grande discussione” sul Taylor Force Act, che è stato approvato dal Congresso nel 2018.
  Il Taylor Force Act sospendeva gli aiuti statunitensi all’AP finché avesse continuato ad attuare la politica attuale, che assegna stipendi ai detenuti in base alla durata della pena e, aggiungiamo noi, in base al danno arrecato, se uccidono un israeliano ecc. ecc.
  Non solo, sebbene nessuno ne abbia parlato, dal 2015 su Abu Mazen pende la condanna per aver finanziato atti di terrorismo contro cittadini americani e visto che anche le famiglie di quegli attentatori ricevono denaro per aver ucciso cittadini americani, la cosa appare ancora più grave.
  L’allora Presidente Barack Obama “sorvolò” su tutto, ma sembra che ora alcuni senatori americani abbiano ritirato fuori quei fatti gravissimi quando hanno saputo che il Presidente Joe Biden voleva ripristinare gli aiuti ai palestinesi tagliati dalla Amministrazione Trump proprio perché usati per pagare i terroristi.
  Sembra anche che Abu Mazen abbia protestato con gli Stati Uniti per il fatto che Israele stava normalizzando i rapporti con diversi paesi arabi.
  Secondo Abu Mazen i paesi arabi non dovrebbero normalizzare i rapporti con Israele senza mettere sul piatto la questione palestinese.
  Durante l’incontro al dittatore palestinese è stato risposto che «la normalizzazione è un bene per la regione e anche per i palestinesi» e che i palestinesi avrebbero dovuto cogliere l’opportunità invece di contrastarla.
  Breve riassunto dei fatti: Abu Mazen non intende togliere i vitalizi ai terroristi. Tuttavia non è ancora chiaro cosa intenda fare Biden a tal riguardo. I palestinesi protestano con gli USA per gli accordi di Abramo, ma ai paesi arabi la questione palestinese non interessa nulla (se mai è interessata).

(Rights Reporter, 14 luglio 2021)


Il punto d’equilibrio

Cosa si può imparare da Israele che cerca la via efficace tra la freedom inglese e le richiusure.

di Paola Peduzzi

MILANO - “Il virus non si ferma: evolve, è la sua natura. Ma la nostra natura è quella di sopravvivere”, dice Gadi Segal, capo dell’unità Coronavirus del Sheba Medical Centre vicino a Tel Aviv, dando nuova forma alla convivenza con il virus, che qualcuno aveva pensato come pacifica e invece no: è pur sempre una battaglia. Israele sta cercando quel che definisce il “golden path”, una via intermedia tra le riaperture in stile inglese e le chiusure più drastiche in stile australiano.
  Tutta l’Europa sta cercando questo equilibrio d’oro, ora che l’obiettivo di immunizzazione dell’Ue è stato raggiunto ma ci si ritrova con due problemi da affrontare: le sacche di esitazione sui vaccini e la variante Delta. Quattro settimane fa, Israele aveva celebrato il ritorno alla normalità, facendoci allo stesso tempo morire di invidia e di speranza, il distanziamento e le mascherine obbligatorie erano stati annullati, ma l’arrivo della variante Delta ha costretto il premier, Naftali Bennett (sì nel frattempo in Israele ci sono state anche le elezioni ed è cambiato il capo del governo), a studiare la strategia denominata “di soppressione soft”, che è un manuale di convivenza con il virus in costante equilibrio tra la promessa di normalità e l’imperativo di evitare un nuovo lockdown. Ma quali sono i valori da considerare per definirlo, il punto di equilibrio? E’ la domanda che più ossessivamente viene posta ai leader politici europei, ancor più ora che la Francia introduce il certificato vaccinale come via libera per la normalizzazione e il Regno Unito aspetta preoccupato il suo “freedom day”, previsto per il 19 luglio (non lo chiama più nemmeno il governo così e la perentorietà con cui si era escluso un ritorno ad alcune restrizioni in caso di peggioramenti è evaporata). Il comitato scientifico di Londra ha fissato ieri alcuni numeri della convivenza con il virus: il picco dell’ondata da exit, come viene chiamata la prossima possibile ondata, è stabilito a 1.000/2.000 ospedalizzazioni al giorno. Questa è la soglia di tolleranza: il modello matematico evidenzia che piccole differenze nei comportamenti hanno un grande impatto sull’esito del contagio, quindi è molto difficile fare previsioni accurate, anche se tutti, politici e scienziati, dicono che l’importante è non avere fretta nel tornare alla normalità. In pratica il governo inglese delega il principio di cautela ai cittadini.
  Anche in Israele il dato delle ospedalizzazioni è diventato il più sensibile: al momento i casi di Covid grave in ospedale sono pari a 45. Il governo ha reintrodotto l’obbligo di mascherina al chiuso e la quarantena per chi arriva in Israele. Dentro all’esecutivo ci sono molte polemiche: il ministero della Salute dice che badare soltanto alle ospedalizzazioni non permette di tenere monitorate le infezioni, “è possibile che non ci sia un aumento dei gravemente ammalati, ma il prezzo di un eventuale errore ci preoccupa molto” [risalto aggiunto], ha detto una funzionaria del dicastero. Da domenica, è a disposizione una terza dose di Pfizer/BioNTech per i più vulnerabili (con un sistema immunitario compromesso): non c’è una campagna governativa in corso a favore della terza dose perché non ci sono ancora studi univoci sulla necessità di un’ulteriore somministrazione e sulla sua efficacia contro la variante delta. Pfizer/BioNtech ha detto alle autorità competenti dell’Ue e degli Stati Uniti di verificare la possibilità di offrire anche loro una terza dose. Al momento, in Israele il 60 per cento della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino: fino all’arrivo della variante Delta, il livello di immunizzazione pari all’immunità di gregge era al 70 per cento della popolazione. Ora questa soglia è stata alzata all’80 per cento, mentre il governo ha reintrodotto con un certo rigore gli elementi cardine della “soppressione soft”: pubblicità sull’utilizzo delle mascherine, test rapidi, controllo delle infezioni (anche se i dati che più vengono pubblicati sono quelli della ospedalizzazione) e vaccini. In Israele come altrove la maggiore riluttanza è stata riscontrata tra i genitori che esitano a vaccinare i figli: da giorni, assieme alle mascherine sono aumentate le prenotazioni per gli under 18.

Il Foglio, 14 luglio 2021)


“... è possibile che non ci sia un aumento dei gravemente ammalati, ma il prezzo di un eventuale errore ci preoccupa molto”. L'elemento che fra poco diventerà decisivo nella politica anticovid, e il cui indice sarà calcolato mediante opportuni algoritmi, è la PAURA. Ad ogni innalzamento dell'indice PAURA corrisponderà un inasprimento delle misure restrittive. E non mancheranno le persone "serie e responsabili" che si preoccuperanno, per il bene dell'umanità, di fare in modo che il suddetto indice resti sempre adeguatamente alto.
A proposito algoritmi, i cinque rigoristi inglesi che hanno calciato contro l'Italia sono stati scelti da un algoritmo... M.C.


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Africa-India: Covid tra disinformazione e strumentalizzazioni

La globalizzazione dell’informazione da troppo tempo sta invadendo ossessivamente l’etere con drammatici dati sull’effetto del Covid e le sue varianti. Ma il terrore dato da queste martellanti notizie uniformate fisiologicamente si sta lentamente spegnendo sotto quello che potremmo definire “affaticamento sociologico da stress da restrizioni”.
[...]
Dopo questa breve analisi di “ampio respiro”, mi sorge nuovamente il sospetto che molti virologi godano nell’inculcare un terrore sociale utile ad altri per il controllo della società e magari fare profitto nel quadro di una sovraesposizione mediatica. Consultando un qualsiasi manuale dove si tratta del controllo e della manipolazione di massa, si possono riscontare le sue applicazioni nella nostra realtà.

(l'Opinione, 14 luglio 2021)


Iran, vent’anni di guerra segreta contro Teheran

Il Paese è stato colpito negli ultimi 20 anni da decine di incidenti: gli avversari di Teheran, a cominciare da Israele e Stati Uniti, provano a rallentarne i programmi bellici.

di Guido Olimpio

Il bang di una bomba stordente in un parco a Nord di Teheran. Possibili incursioni di hacker nei computer della rete ferroviaria. Voci incontrollabili, smentite e denunce da parte di esponenti ufficiali sull’azione dei nemici, in particolare il Mossad.
  L’Iran è certamente un bersaglio, ma anche un teatro. Un bersaglio perché i suoi avversari sono determinati a rallentare i suoi programmi bellici, da quelli nucleari ai missili. Un teatro perché è la scena di azioni reali, ma anche di fatti non sempre chiari e altri interpretati secondo l’interesse del momento. Un atto doloso diventa incidente e viceversa. E se per molto tempo i mullah hanno negato l’evidenza, hanno poi cambiato nota indicando i presunti colpevoli. Di solito gli israeliani che, a loro volta, hanno retto il gioco. Per ragioni di politica interna gli iraniani hanno amplificato gli effetti, una conseguenza della lotta tra schieramenti, delle gelosie nei ranghi della sicurezza, dell’instabilità di uno Stato sotto assedio da decenni.
  La Repubblica islamica è nata da una rivoluzione, seguita da epurazioni sanguinose e marcata fin da subito da eventi traumatici. Uno su tutti: il 28 giugno 1981 una bomba uccide Mohammed Beheshti, una delle figure più importanti del regime, e decine di personalità. Una strage compiuta da oppositori ma che è sempre stata accompagnata da ombre. Un precedente solo per rimarcare un passato tumultuoso. Fratture che nel tempo possono diventare varchi. Con dirigenti che, in base ad agende personali, descrivono con toni allarmati l’infiltrazione. L’ultimo a farlo, l’ex ministro dell’intelligence Alì Younesi: «Sono riusciti a penetrare molti settori, al punto che le autorità temono per le proprie vite». Un riflesso del momento più difficile, con l’uccisione del padre del programma atomico, Mohsen Fakhrizadeh.
  Per molti il momento della svolta arriva nel settembre 2002, quando Meir Dagan è designato da Ariel Sharon come direttore del Mossad. E l’ex compagno d’armi del premier vara una strategia contro Teheran. Autorizza l’uso di elementi stranieri — membri dell’opposizione iraniana —, stringe rapporti d’azione con chiunque sia disposto ad aiutare nella missione, si muove in parallelo agli Stati Uniti. Inoltre impone che vi sia maggiore flessibilità da parte dell’intelligence: la raccolta di informazioni deve essere selezionata e i dati usati il prima possibile per colpire. Parliamo di molto tempo fa, ma la linea non si è mai interrotta. A comporla un’infinita serie di punti, episodi che ricadono in tre categorie: sabotaggi, incidenti determinati dal caso, altri indecifrabili. Lotta estesa di recente al fronte marittimo, con scambi di colpi reciproci. Gli ayatollah hanno subìto e reagito in una guerra prima segreta, poi palese.
  Un conflitto senza limiti e senza confini. Lo dimostra l’atto di accusa da parte della Procura di New York contro 4 operativi iraniani accusati di aver progettato un piano per rapire una giornalista iraniana-americana, Masih Alinejad, che vive da tempo negli Stati Uniti. Idea poi abbandonata. Altri oppositori in esilio sono stati meno fortunati.

(Corriere della Sera, 14 luglio 2021)


Centinaia di palestinesi manifestano contro Abbas

di Raffaello "Yazan" Villani

Centinaia di palestinesi hanno manifestato sabato nella città occupata di Ramallah, in Cisgiordania, contro il presidente Mahmoud Abbas.
  Fatah, il partito del presidente, sta perdendo sempre consensi anche nella Cisgiordania, a favore di Hamas che è popolarissimo anche a Gaza, infatti, il partito considerato fuori legge da Israele e tutte le democrazie occidentali, dice chiaramente che Abbas ormai non ha più voce in capitolo tra i palestinesi.
  La manifestazione è iniziata in piazza Al-Manara, nel centro di Ramallah, dove ha sede l’Autorità Palestinese, per poi proseguire per il centro della città cantando: “La gente vuole la caduta del regime” o “Abbas, vattene”, slogan usati nelle proteste delle Primavera Arabe in Medio Oriente nel 2011.
  Fatah, invece, ha tenuto una manifestazione nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania, in cui i sostenitori hanno sventolato le bandiere gialle del partito. La TV ufficiale palestinese dell’AP ha seguito il raduno di Hebron e ha ignorato la manifestazione di Ramallah.
  A Ramallah la polizia in tenuta antisommossa si è avvicinata ai manifestanti, che alla vista si sono seduti in strada a diversi metri di distanza. Ma la polizia, con squadre in borghese, non ha tenuto conto di questo e ha proseguito le sue azioni di repressione.
  Il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha dichiarato che gli Stati Uniti, durante le manifestazioni della scorsa settimana, sono “profondamente turbati dalle notizie secondo cui membri non in uniforme delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese hanno usato la forza contro manifestanti e giornalisti”.
  L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha dichiarato che le forze di sicurezza palestinesi hanno picchiato i manifestanti con manganelli e li hanno attaccati con gas lacrimogeni e granate assordanti non facendo differenza tra uomini, donne, passanti e giornalisti.
  Ha invitato l’AP “a garantire la libertà di opinione, espressione e riunione pacifica”.
  Adesso Abbas, per conservare il potere sembra comportarsi proprio come l’occupante e, i palestinesi sembrano trovarsi tra l’incudine e il martello.

(DailyMuslim, 13 luglio 2021)


Israele-Turchia. Cosa c’è oltre alla telefonata tra Erdogan e Herzog

I presidenti di Israele e Turchia parlano al telefono di relazioni bilaterali e del peso di queste nel delicato equilibrio della regione del Mediterraneo Allargato. Ankara e Gerusalemme si parlano, come piace a Washington.

di Emanuele Rossi

Tanto quanto il riavvio dei rapporti con la Giordania (con il viaggio segreto ad Amman), per il primo ministro israeliano, Naftali Bennet, la telefonata del presidente Isaac Herzog al suo omologo turco, Recep Tayyp Erdogan, rappresenta la continuazione di un percorso già avviato. Con uno slancio: se è vero che è per volontà di Benjamin Netanyahu che si sono scritti gli Accordi di Abramo — sebbene sotto dettatura di Washington — è altrettanto vero che il carattere di Bibi aveva chiuso alcune porte diplomatiche, come quelle giordane attraverso le quali si era consumato lo scontro anche personale con Re Abdullah II. E se è vero che gli Accordi di Abramo escono dalla necessità strategica statunitense di stabilizzare al massimo la regione MENA, volontà semplificata dall’amministrazione Trump, è altrettanto vero che anche la presidenza di Joe Biden continua a percepire come prioritari i contatti e il dialogo tra i diversi attori di quell’area. Contatto e dialogo che rappresentano la possibilità di dare priorità ad altri dossier (ossia a quello macro con la Cina).
  Erdogan e Herzog hanno discusso questioni bilaterali, come la soluzione — “a due stati — del conflitto israelo-palestinese, con Ankara che durante l’ultimo scontro a Gaza di pochi mesi fa si era intestata il ruolo di protettrice internazionale della Palestina. Un ruolo su cui Erdogan aveva costruito una forte narrazione per uso interno, ma usato anche per rivendicare la possibilità di giocare una posizione più terza. Posizione possibile in quanto non direttamente coinvolto con Israele come i firmatari degli Accordi (su tutti gli Emirati Arabi, ma anche l’Arabia Saudita, che quegli accordi li ha sostenuti sebbene non vi è entrata formalmente, impossibilitata dalla dimensione occupata nel mondo islamico come paese ospitante i luoghi sacri). Della telefonata con l’israeliano la Turchia ci tiene anche a sottolineare che si è discusso “l’elevato potenziale di cooperazione nel campo dell’energia, del turismo, della tecnologia”.
  La questione energetica è la prima necessità pratica di riallaccio delle relazioni con Gerusalemme per Ankara. Israele è parte del Forum energetico del Mediterraneo Orientale, i suoi reservoir recentemente scoperti hanno grande potenziale, le sue capacità politiche e tecnologiche (e militari) gli danno un ruolo di primo piano nel sistema geopolitico che si è creato nel quadrante Est del bacino. Un sistema di cui sono parte Cipro e Grecia e in cui si snoda la cooperazione con Francia ed Emirati: sebbene con sfumature diverse, tutte realtà ostili ad Ankara. Riagganciare Gerusalemme è fondamentale per Erdogan. Anche perché seguirebbe quella volontà chiaramente espressa da Washington — che osserva le potenzialità del Forum, della regione, dei suoi attori, con la consapevolezza che sebbene possano essere veicoli di prosperità, altrettanto possono diventarlo di disequilibri.
  Turchia e Israele hanno una grande importanza per la sicurezza nella regione, sottolinea Ankara consapevole del proprio ruolo nella Nato e di quello che Israele gioca come viceré americano in Medio Oriente.La chiamata di Erdogan, fatta ufficialmente per congratularsi con Herzog a poche settimane dall’entrata in carica, è inusuale. Come ha sottolineato su queste colonne Shalom Lipner (ex alto funzionario israeliano ora all’Atlantic Council), Herzog vuole giocare un ruolo importante nella politica estera israeliana e lo dimostra anche la sua presenza all’apertura dell’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti a Tel Aviv (in agenda mercoledì 15 luglio). Il presidente può vantare ottimi rapporti con il Vecchio Continente attraverso la filiera laburista che fa riferimenti ai Labour britannici, ma anche con i Democratici americani. Fattori che servono da moltiplicatore anche nel caso delle relazioni con la Turchia, su cui sia Usa che Ue sono in difficoltà. Un gancio anche per Ankara.

(Formiche.net, 13 luglio 2021)


Progetto Dreyfus alla Commissione Esteri della Camera

“In Medio Oriente conflitto tra democrazia israeliana e terrorismo palestinese”.

di David Di Segni

La Commissione Esteri della Camera dei deputati ha svolto un'audizione sulla questione israelo-palestinese ospitando la giornalista Fiamma Nirenstein ed il Presidente di “Progetto Dreyfus”, Alex Zarfati. L’analisi del conflitto israelo-palestinese è sicuramente una tra le più complesse nello spettro della geopolitica, perché vi subentrano, sotto mentite spoglie politiche, delle constatazioni religiose, ideologiche e sociali.
  Non è infatti un segreto che lo Statuto di Hamas, la famigerata organizzazione terroristica che occupa la Striscia di Gaza dal 2007, si fondi sulla necessità di distruggere Israele, gli ebrei ed il mondo occidentale. Perciò è importante, quando si tratta questo tema, dare la precisa definizione ad ogni soggetto che interagisca. “Il miglior servizio che si può fare ad un Medio Oriente stabile è quello di eliminare l’ambiguità di equivalenza morale tra Israele ed Hamas – ha detto Alex Zarfati – Ci deve essere equivalenza di diritti tra le due parti: avere una terra, confini sicuri e vivere stabilmente in pace.
  Non si può, tuttavia, mettere sullo stesso piano uno stato democratico, con le sue imperfezioni come quello nostro, alla ricerca della pace con un’organizzazione terroristica finanziata da entità esterne, che in questo caso commette due crimini di guerra: lancia i missili contro i civili israeliani con l’intendo di compiere stragi, mentre nasconde le proprie armi e i suoi soldati dietro i civili palestinesi con l’evidente pratica di usarli come scudi umani”.
  Proprio accettando questa distinzione di “ruoli” tra le due parti si evince la difficoltà alla base conflitto: democrazia contro terrorismo, come comportarsi? È un diritto essere discordi con le scelte di un governo, come in ogni paese democratico, ma c’è una sostanziale differenza tra la critica ed il negare il diritto all’esistenza ed alla difesa dello Stato d’Israele. Le numerose vittime che hanno lacerato il conflitto, da ambedue le parti, devono essere il monito per il raggiungimento di una pace. “Sono scosso per ogni singola vittima civile – ha sottolineato Zarfati – Tutte quelle morti, che sono dolorose, hanno una responsabilità. Questa non può ricadere su Israele, perché le morti sono state causate da chi la guerra l’ha predicata, provocata ed alimentata. Un nome ed un cognome: organizzazione terroristica di Hamas”. Come noto, il Casus Belli del recente conflitto è stato attribuito alla diatriba legale di Sheik Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est. In ogni altro Stato, il contenzioso su un affitto immobiliare sarebbe certamente rimasto nell’anonimato, ma non in Israele dove invece è diventato lo strumento per sfogare una tensione che Hamas, spiega Zarfati, ha accumulato nel tempo e che è stata riaccesa da un evento: il rinvio delle elezioni da parte di Abu Mazen. Così la guerra è diventata lo strumento per una prova di forza tra i due rivali di Gaza, scaltramente venduta ai civili palestinesi come la difesa dei loro diritti. Questo ha scosso il Medio Oriente tanto quanto il mondo intero, che come in passato è stato la vasca su cui riversare l’odio antiebraico. Una crescente onda d’antisemitismo, manifestatasi in violenze fisiche, assalti alle sinagoghe, manifestazioni d’inneggiamento all’intifada ha fortemente agitato le democrazie dell’occidente.
  Le numerose considerazioni attuabili sulla questione del Medio Oriente obbligano le istituzioni a trovare una soluzione. La chiave, secondo Fiamma Nirenstein, sono i “Patti di Abramo, in cui deve rientrare anche l’Autorità Nazionale Palestinese. Un ennesimo incontro che ribadisca gli incontri di Oslo non porterebbe ad una conclusione, perché i palestinesi alla fine rifiuterebbero ogni patto come in passato. Ma all’interno di una cornice più larga, in cui sono presenti quattro paesi musulmani desiderosi della normalizzazione e del rapporto personale, insieme ad Egitto e Giordania, si potrebbe raggiungere una mediazione. Scansiamoci da dove la pace non è realizzabile, andiamo laddove la pace sia accettata”.

(Shalom, 13 luglio 2021)


Esercitazione internazionale Blue Guardian in Israele per operatori di UAV

In Israele ha avuto inizio la “Blue Guardian“, prima esercitazione RPAV (veicolo aereo a pilotaggio remoto) internazionale del suo genere, guidata dall’Aeronautica Israeliana (IAF).

di Aurelio Giansiracusa

Equipaggi provenienti dagli Stati Uniti, Germania, Italia, Francia e Regno Unito sono atterrati in Israele per esercitare voli congiunti e missioni operative nella base aeronautica di Palmachim insieme agli operatori della IAF. Lo storico esercizio di due settimane migliorerà l’apprendimento reciproco tra le nazioni partecipanti e aprirà la strada alla futura cooperazione internazionale nel campo rivoluzionario dei RPAV.
  “Blue Guardian” è gestita dal 166 (“Fire Birds”) che impiega il “Kochav” (Hermes 900) RPAV prodotto da Elbit Systems.
  Uno degli obiettivi di Blue Guardian è rafforzare la cooperazione internazionale ed approfondire il partenariato tra Israele e le nazioni partecipanti, che è significativo per la sicurezza di Israele.
  L’esercitazione è divisa in due parti: la prima settimana di addestramento si concentrerà sull’addestramento di equipaggi internazionali per operare il RPAV israeliano “Zik” (Hermes 450). La seconda settimana dell’esercitazione vedrà i partecipanti praticare uno scenario di combattimento simulato tra una coalizione di nazioni alleate contro un nemico. Durante la seconda settimana, le forze voleranno in formazioni congiunte e coopereranno con le divisioni caccia ed elicotteri della IAF, nonché con le unità di commando.
  Particolare decisamente interessante di questa esercitazione è la circostanza che gli operatori non israeliani saranno addestrati per operare con il RPAV Hermes 900, con stazione di controllo a terra diversa rispetto a quelle in uso presso le rispettive Aeronautiche e con manuali operativi che sono redatti in lingua ebraica. Tutti gli operatori non israeliani provengono da personale esperto che opera con UAV Predator/Reaper e Heron/Harfang.

(Ares Osservatorio Difesa, 13 luglio 2021)


Israele continua nella sua ricerca archeologica

Rinvenuta una rara iscrizione risalente a 3.100 anni fa

di Michelle Zarfati

La ricerca archeologica negli ultimi anni in Israele sta raggiungendo il suo apice. Vicino a Kiryat Gat, negli scavi condotti dall'Università Ebraica di Gerusalemme, dalla Israel Antiquities Authority e dalla Macquarie University di Sydney, sotto la direzione dei Prof. Yossef Garfinkel, Sa'ar Ganor, Dr. Kyle Keimer and Dr. Gil Davies, per la prima volta è stata rinvenuta una rara iscrizione che risale al tempo dei Giudici. Una preziosa testimonianza di grande interesse, databile a 3.100 anni fa, unica nel suo genere.
  Il sito archeologico, che si trova nella foresta Shahariya del fondo nazionale ebraico KKL, è attivo dal 2015, in particolare nel periodo estivo per ragioni climatiche.
  La rara iscrizione, realizzata con inchiostro su vaso di ceramica, reca il nome "Jerubbaal" in caratteri alfabetici e risale al 1100 a.C. circa. Il vaso è stato trovato all'interno di una fossa rivestita di pietre, scavata nel terreno. L'iscrizione è riportata su un vaso in ceramica, probabilmente ad uso personale, con una capienza di circa un litro che potrebbe esser stata usata come contenitore di qualche liquido prezioso come olio o profumo. Da quanto emerge da una prima perizia il proprietario del recipiente avrebbe scritto il proprio nome su di esso, per affermarne la proprietà.
  L'iscrizione, decifrata dall'esperto epigrafico Christopher Rolston della George Washington University, mostra chiaramente le lettere yod, resh, bet, ayin, lamed e resti di altre lettere, che indicano la possibilità che l'iscrizione originale fosse più lunga.
  I Prof. Garfinkel e Ganor hanno spiegato alla stampa: "Il nome Jerubbaal è familiare dalla tradizione biblica del Libro dei Giudici, come nome alternativo per il giudice Gideon ben Yoash. Gedeone viene menzionato per la prima volta come combattente contro l'idolatria. rompendo l'altare di Baal e abbattendo il palo di Asherah. Nella tradizione biblica è poi ricordato come trionfante sui Madianiti, che erano soliti attraversare il Giordano per depredare i raccolti agricoli. Secondo la Torah, Gedeone organizzò un piccolo esercito di 300 soldati e attaccò i Madianiti di notte vicino a Ma'ayan Harod. Alla luce della distanza geografica tra la Shephelah e la valle di Jezreel, questa iscrizione potrebbe riferirsi ad un altro Jerubbaal e non al Gedeone della tradizione biblica, sebbene non si possa escludere la possibilità che la brocca appartenesse al giudice Gedeone. In ogni caso, il nome Jerubbaal era evidentemente di uso comune al tempo”.
  Le iscrizioni del periodo dei Giudici sono estremamente rare e quasi senza pari nell'archeologia israeliana. Questa è la prima volta che il nome Jerubbaal viene rinvenuto al di fuori della Bibbia in un contesto archeologico – databile inoltre al periodo dei Giudici.

(Shalom, 13 luglio 2021)


"Il gender è l'ultima grande ideologia". Éric Marty su una rivoluzione

di Giulio Meotti

ROMA - Quante volte in Italia è stato detto e scritto che la "gender theory" è soltanto un complotto della destra conservatrice per screditare e impedire il progresso per le persone transgender? "Potremmo essere sorpresi dalla negazione che non esiste una teoria, ma solo studi di genere. Per i sostenitori del `genere', è indubbiamente necessario rimanere elusivi, in una posizione di apparente pluralità".
  A scriverlo è Eric Marty, il celebre docente di Letteratura francese all'Università di Parigi VII Denis Diderot, adesso autore di un nuovo libro, "Le Sexe des Modernes. Pensée du Neutre et théorie du genre", pubblicato dalle edizioni Seuil. Si parla, ovviamente, del gender, battaglia politica in Italia con la legge Zan. Marty, che ha curato la pubblicazione delle "Oevres complètes" di Roland Barthes ed è specialista dell'opera di René Char, nel suo nuovo libro spiega la rivoluzione in corso. "Il gender è l'ultimo grande messaggio ideologico dall'occidente al resto del mondo".
  "Questo è ciò che mi ha spinto a scrivere questo libro. Sono rimasto stupito dalla velocità con cui questa nozione del gender ha invaso il pianeta e tutte le sfere della vita sociale, dai documenti amministrativi al marketing delle grandi multinazionali. E questo in soli trent'anni, da quando il libro di Judith Butler, 'Gender Trouble', è stato pubblicato nel 1990".
  Questa teoria del gender, che Marty fa risalire a Barthes, Deleuze e Derrida, "ha preso il posto del marxismo nell'immaginario collettivo, come orizzonte non più di emancipazione collettiva, ma individuale. La teoria del genere riprende, dopo il marxismo o l'Illuminismo, i grandi messaggi di emancipazione che l'occidente si è prefisso di inviare al mondo come sua missione. E' un discorso straordinariamente efficace, perché a differenza della lotta di classe può risuonare in ogni individuo. La borghesia, nonostante il patriarcato a cui è associata, è diventata rapidamente un importante mediatore della rivoluzione di genere, integrandola nelle proprie dinamiche storiche, culturali ed economiche. Ecco perché non dovrebbe sorprendere che i principali marchi internazionali stiano aiutando a espanderlo".
  Per avere successo, questo movimento deve "promuovere vittime esemplari la cui visibilità deve essere assicurata". Faticherà un po' a imporsi in Europa, perché il gender porta con sé tanti "stereotipi americani, un certo puritanesimo malcelato, un discorso saturo di acronimi (a partire da lgbtiq...), una visione profondamente pragmatica del linguaggio, l'ipotesi di una flessibilità quasi illimitata delle identità, l'ideologia di `self-making"'. Il movimento lgbt da libertario è diventato repressivo, scrive Marty. "La mutazione avviene a cavallo del nostro nuovo secolo con un orientamento oggi molto autoritario, rigido, con questo nuovo attivismo di sorveglianza. Alla dinamica della sorveglianza si affianca poi un'altra violenza più imprevedibile, una competizione tra vittime e minoranze". Ma il paragone con il marxismo di Eric Marty non si ferma all'aspetto autoritario. "Il gender è come il `proletariato', che alla fine annuncia la scomparsa di ciò che nomina".

Il Foglio, 13 luglio 2021)


UE. Borrell incontra Lapid: "Occasione per riavviare la relazione con Israele".

"L'alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza/vicepresidente Josep Borrell ha incontrato ieri a Bruxelles in un colloquio bilaterale il primo ministro supplente e ministro degli esteri israeliano Yair Lapid. La visita del nuovo ministro degli esteri rappresenta un nuovo inizio nei rapporti con il governo israeliano e un'opportunità per avere un confronto completo e lungimirante su questioni di interesse comune". Lo comunica una nota del Servizio per l'azione esterna dell'UE. "La visita del ministro degli Esteri israeliano a Bruxelles è un'opportunita' per riavviare la relazione con Israele, non solo dal punto di vista bilaterale ma anche sulla questione del Medio Oriente". Lo ha dichiarato l'Alto rappresentante dell'Ue per la Politica estera, Josep Borrell, al suo arrivo al Consiglio affari esteri a cui prendera' parte anche il capo della diplomazia israeliana, Yair Lapid. "E' una buona opportunità per ricominciare le relazioni con Israele che nel passato erano abbastanza deteriorate", ha insistito Borrell.
  "L'Alto rappresentante e il ministro degli esteri, ascoltando le reciproche aspettative, hanno avuto uno scambio ampio e onesto sulle relazioni bilaterali Ue-Israele, sulle questioni regionali e su come portare avanti il dialogo con i palestinesi. Hanno discusso dell'importanza di rafforzare le relazioni UE-Israele e hanno valutato come affrontare insieme le sfide esistenti al fine di raggiungere questo obiettivo comune. L'Alto Rappresentante Borrell ha accolto con favore questo importante e tempestivo impegno bilaterale con il ministro degli esteri Lapid, dopo il suo invito a venire a Bruxelles e a partecipare anche a un pranzo di discussione con i ministri degli esteri dell'Ue a margine del Consiglio Affari esteri". "E' una buona opportunità per ricominciare le relazioni con Israele che nel passato erano abbastanza deteriorate", ha detto Borrell.

(The World News, 12 luglio 2021)


Prime fratture nel nuovo governo israeliano

di Futura D’Aprile

Ad un mese dal suo insediamento, il governo guidato da Naftali Bennett ha già dovuto fare i conti con la prima sconfitta in Parlamento. L’esecutivo, formato da otto partiti molto diversi tra loro, non è riuscito a raggiungere la maggioranza necessaria per prorogare la legge provvisoria sull’immigrazione approvata per la prima volta nel 2003 dall’allora primo ministro Ariel Sharon. La norma impedisce l’estensione automatica di cittadinanza e residenza ai palestinesi di Cisgiordania e Gaza sposati a cittadini israeliani per “ragioni di sicurezza” e deve essere rinnovata dal Parlamento ogni anno. Secondo diverse organizzazioni per i diritti umani, la norma in questione è però discriminatoria e impedisce a circa 450.000 tra coniugi e figli di ricongiungersi con le proprie famiglie. La legge sull’immigrazione permette tra l’altro al governo di contrastare almeno in parte la crescita demografica della popolazione araba e mantenere inalterato il carattere ebraico di Israele, che deve fare da anni i conti con una diminuzione dei tassi di natalità. La stessa ministra dell’Interno del governo Bennett, Ayelet Shaked, ha definito la legge necessaria “per motivi di sicurezza e per ragioni demografiche” e ha cercato di trovare un compromesso con le forze di sinistra della coalizione per il suo rinnovo. La proposta avanzata da Shaked prevedeva la proroga di soli sei mesi della legge e la concessione dello status di residenza non-permanente a coloro che vivevano in Israele già da molti anni, ma non è bastata per blindare la maggioranza dei voti. Due membri del partito arabo Ra’am e uno di Yamina si sono astenuti, mentre i parlamentari di sinistra si sono visti costretti a sostenere una norma che non approvavano nel momento in cui Bennett ha trasformato il voto sulla legge in uno di fiducia. A lavorare dietro le quinte per il fallimento della votazione è stato principalmente Benjamin Netanyahu, che è riuscito a compattare l’opposizione e a portare ancora una volta dalla sua parte Amichai Chikli di Yamina, che già in passato aveva votato contro la formazione del governo Bennett-Lapid.
  Il mancato consenso intorno alla proroga della legge sull’immigrazione non è l’unico dossier divisivo con cui l’esecutivo ha dovuto fare i conti prima del previsto. A minacciare l’equilibrio di una coalizione tanto eterogenea è stata anche l’evacuazione di Evyatar, un insediamento illegale costruito nei pressi della città palestinese di Beita, in Cisgiordania. I coloni hanno raggiunto con il governo un compromesso definito da diversi commentatori israeliani come una vera e propria vittoria: in cambio dell’evacuazione dell’insediamento, l’esecutivo si è impegnato a non demolire le 40 abitazioni già esistenti e a riesaminare i diritti di proprietà della terra su cui esse sorgono. Una soluzione che ha soddisfatto prima di tutto il nuovo primo ministro, in passato direttore generale del Consiglio Yesha, una lobby che si occupa di promuovere la costruzione di insediamenti in Cisgiordania. Deludente è stata invece la reazione della sinistra, che non ha espresso alcuna condanna nei confronti dell’accordo e ha lasciato da solo il ministro della Difesa Benny Gantz, l’unico favorevole all’evacuazione anche forzata dell’insediamento e contrario al raggiungimento di un compromesso con i coloni. Meretz e Labour avevano promesso di mitigare l’anima di destra del governo e di implementare politiche diverse rispetto a quelle di Benjamin Netanyahu, ma la loro capacità di opporsi al leader di Yamina e ai ministri a lui fedeli si è dimostrata per ora molto limitata.
  Nonostante ciò, le divergenze tra i partiti della coalizione di governo non hanno tardato ad emergere ed è molto probabile che si ripresentino anche in futuro. La legge sull’immigrazione sarà presentata nuovamente in Parlamento non appena Shaked potrà contare su una maggioranza più solida e la questione dell’insediamento di Evyatar deve ancora essere risolta in maniera definitiva. Bennett non potrà ricorrere ogni volta ad un voto di fiducia per far approvare leggi che non trovano il favore di tutti i suoi alleati e dovrà guardarsi le spalle da Netanyahu, alla costante ricerca di parlamentari pronti a tradire il nuovo premier.
    "Volevano ucciderci", ha continuato Rabbi Eliyahu. “È imbarazzante per la città di Gerusalemme, per la città santa, che ci siano persone che lanciano pietre e che cercano di ucciderci. È incredibile."Poco dopo l'attacco, è stata presentata una denuncia alla polizia. “Ci aspettiamo che la polizia israeliana persegua (i colpevoli) e li metta in prigione, come assassini, e che il sistema giudiziario si occupi di loro piuttosto che rilasciarli. Non si può permettere agli arabi di cercare di uccidere gli ebrei nella capitale di Israele”.

(Shalom, 12 luglio 2021)


La rivolta di Ramallah contro l'Anp: "Basta Abu Mazen. Vogliamo votare"

La morte di un attivista anti-corruzione arrestato dalla polizia è diventata il catalizzatore della rabbia popolare Il rinvio delle elezioni, previste per maggio, ha fatto precipitare la popolarità del leader, al potere da 16 anni.

di Sharon Nizza

RAMALLAH - «Abbas vattene, vogliamo le elezioni», «Basta con il regime militare». Per la terza settimana consecutiva gli slogan accompagnano le manifestazioni a piazza Manara nel centro di Ramallah, così come a Hebron e Betlemme. Gli slogan rimangono, ma l’affluenza va diradandosi. Ieri a piazza Manara hanno sfilato poco più di un centinaio di manifestanti. «Pensi sia poco? È moltissimo considerata la minaccia a cui è sottoposta la gente», dice Nabil che parla a nome del Movimento nazional democratico.
  Lunedì scorso durante un sit-in, qui sono stati arrestati diversi attivisti, giornalisti e avvocati. Questa volta la presenza di Hady Amr nell’area, il vicesegretario di Stato Usa per la questione israelo-palestinese ha frenato la polizia. «Andiamo via da qui», dice mentre il raduno si sta disperdendo Diab, uno dei pochi che acconsente a parlare con la stampa straniera. «È verso la fine che caricano». Poco dopo circolano notizie di un giovane fermato.
  L’ondata di proteste è nata dopo la morte di Nizar Banat, popolare attivista contro la corruzione, critico dell’Anp, deceduto il 24 giugno poche ore dopo che la polizia palestinese l’aveva arrestato a Hebron. La famiglia e i sostenitori di Banat parlano di omicidio causato dalle percosse delle forze di sicurezza. Stati Uniti e Ue hanno chiesto di fare chiarezza e l’Anp ha istituito una commissione d’inchiesta. Le proteste sono nate per chiedere “Giustizia per Nizar”, ma qui nessuno crede che giustizia sarà fatta. «Per prassi attendiamo il risultato della commissione interna, ma avvieremo una procedura alla Corte penale internazionale», dice a Repubblica Gandhi Amin, avvocato della famiglia Banat.
  Al funerale e alle prime manifestazioni hanno partecipato migliaia di persone chiedendo le dimissioni del governo e di Abu Mazen. Immagini che non si vedevano da anni. Qualcuno si è chiesto se fosse l’inizio di una “primavera palestinese”. «Non mi piace questo termine, abbiamo visto cosa è successo in Egitto, in Tunisia, in Siria», dice Osama, attivista di Gerico. «Non è qualcosa di personale contro Abu Mazen: chiediamo elezioni democratiche».
  Convocate per il 22 maggio scorso da Abu Mazen, sono state annullate da lui stesso a fine aprile sostenendo che Israele vietava di tenerle a Gerusalemme Est, circostanza smentita dalle autorità israeliane e che in molti hanno visto come una scusa per evitare quella che si prospettava come una disfatta totale per il Fatah, il partito del presidente, dopo che si era diviso in tre liste. Una delle liste concorrenti era quella di Nissar al-Qudwa, nipote di Arafat, che nei giorni scorsi ha attaccato duramente l’Anp per la repressione.
  Ci sono altre voci critiche: Hanan Ashrawi, che già a dicembre si era dimessa dall’Olp in protesta contro la gestione Abu Mazen. O Dalal Erekat, figlia dello storico capo negoziatore Saeb Erekat, che ha fatto sentire la sua in un editoriale sul Jerusalem Post dal titolo «Non la Palestina che sognavamo, né che ci è stata promessa».
  In Israele non sembrano prestare troppa attenzione. «La maggior parte dei palestinesi si tiene lontana da questi raduni», dice Michael Milstein dell’Università di Tel Aviv. Il sondaggista palestinese Khalil Shkaki rileva che la popolarità di Abu Mazen è in caduta libera, specie dopo gli 11 giorni di conflitto in cui Hamas ha guadagnato popolarità. Oggi Hamas è stimata al 41% dei consensi rispetto al 30% di Fatah.
  A piazza Manara la maggior parte dei manifestanti sono laici e progressisti, ma non temono la vittoria di Hamas. «Si sono presentate 36 liste: vogliamo la possibilità di scegliere, con il monitoraggio della comunità internazionale», dice Nabil. È questo che vi aspettate dall’Europa? «Dall’Europa non ci aspettiamo più nulla: sostengono Abu Mazen e i corrotti, perché è quello che fa comodo a loro e a Israele».

(la Repubblica, 12 luglio 2021)


Sentenza della Corte Suprema israeliana: chiunque potrà utilizzare la maternità surrogata

Via libera in Israele all'utero in affitto per coppie gay.

È una sentenza che farà discutere quella pronunciata dalla Corte Suprema di Israele. La sostanza è questa: chiunque potrà avere accesso alla maternità surrogata, quindi anche le coppie omosessuali o gli uomini single. Si tratta di una "correzione" alla legge sulla maternità surrogata del 2010 e significa che chiunque potrà rivolgersi ad una donna e, pagando, ottenere che quest'ultima porti avanti una gravidanza, partorisca e consegni il nascituro a chi lo ha ordinato secondo il principio che «il diritto alla procreazione è inalienabile per tutti». Quindi, quello che prima era riservato alle coppie eterosessuali e alle donne single nei casi in cui le future madri non potessero restare incinte o portare a termine una gravidanza per ragioni sanitarie, ora è esteso a tutti.
  La decisione è stata accolta con grande fervore dalla comunità Lgtbq, che da dieci anni si batteva per ottenere tale risultato. Soprattutto perché l'esclusione delle coppie gay, per gli attivisti, aveva «danneggiato in modo sproporzionato il diritto all'uguaglianza e il diritto alla genitorialità» ed era, quindi, illegale. La Corte, che nel 2020 aveva dato un anno di tempo al governo per adeguarsi, ha sentenziato l'apertura a tutti anche perché «i giudici non possono più sopportare il continuo grave danno ai diritti umani causato dall'accordo di maternità surrogata esistente». La modifica alla legge dovrà entrare in vigore tra sei mesi per consentire di elaborare le linee guida professionali.
  L'Aguda, gruppo di attivisti Lgbtq israeliano, ha definito la decisione un «punto di riferimento storico nella nostra lotta per l'uguaglianza». Il legislatore ultra-ortodosso Aryeh Deri, ex ministro dell'Interno del Paese, ha scritto su Twitter che la decisione della Corte è stata un altro duro colpo per l'identità ebraica di Israele e che «la maggior parte della nazione desidera salvaguardare la tradizione dello Stato, preservando i valori della famiglia ebraica». Il vice ministro degli Esteri Idan Roll, che ha dichiarato di essere omosessuale, ha invece ribattuto: «Sono sicuro che la maggior parte della nazione ama e rispetta la mia famiglia ebrea che è stata creata attraverso la maternità surrogata». Etai e Yoav Pinkas Arad, la coppia gay che ha fatto appello alla Corte contro la legge sulla maternità surrogata nel lontano 2010, hanno affermato che la sentenza «è un grande passo per l'uguaglianza non solo per le persone Lgbtq in Israele, ma per l'uguaglianza in Israele in generale».
  La sentenza ha ricevuto le lodi anche di Niztan Horovitz, ministro della Sanità in Israele. Di sicuro la decisione avrà ripercussioni in tutto il mondo e darà il la a tutte le comunità Lgtbq nel mondo a seguire l'esempio.

Libero, 12 luglio 2021)


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Israele, la Corte suprema dà il via libera alla maternità surrogata anche per gli uomini

I giudici hanno rimproverato alla Knesset di non aver approvato la modifica della legge sulla procreazione assistita pur avendo avuto a disposizione un anno.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Tra sei mesi, la possibilità di accedere alla maternità surrogata in Israele verrà estesa anche alle coppie omosessuali e ai padri single. E' quanto ha stabilito oggi la Corte Suprema israeliana al termine di una battaglia giudiziaria condotta dalla comunità Lgbt negli ultimi dieci anni.
  La legge attuale consente solo alle coppie eterosessuali e, dal 2018, anche alle madri single con problemi di fertilità, di usufruire della maternità surrogata. In seguito all'iter giudiziario avviato da una coppia gay, la Corte aveva stabilito nel febbraio 2020 che la legge in questione era incostituzionale dando al Parlamento un anno di tempo per modificarla perché non discriminasse le coppie dello stesso sesso. Scaduto il termine, il precedente governo aveva chiesto un'ulteriore estensione, accordata fino al 6 luglio scorso. In quella data, il ministro della Salute Nitzan Horowitz, leader del partito di sinistra Meretz e il primo capo di partito apertamente gay, aveva presentato la risposta del nuovo governo: "Le probabilità che questa Knesset possa cambiare la legislazione in questione rasentano lo zero". In sostanza, una non risposta, che ha portato la Presidente della Corte Esther Hayut ad affermare che "la mancanza di praticabilità della vita politica non può giustificare la continua grave violazione dei diritti fondamentali" e alla sentenza di oggi, che stabilisce tra l'altro che lo Stato è tenuto a risarcire 7 mila e 500 euro di spese legali ai querelanti.
  Horowitz ha convocato una conferenza stampa con Itai e Yoav Pinkas Arad, la coppia che ha dato il via alla battaglia legale presentando il primo ricorso nel 2010. "Oggi è un giorno storico per la comunità Lgbt e per tutta la società israeliana", ha detto il ministro. Anche Yair Lapid, ministro degli Esteri e premier alternato nel nuovo governo, ha accolto con favore la sentenza: "Essere genitori è un diritto umano fondamentale e questa decisione è giusta, moralmente e socialmente".
  Nei prossimi sei mesi, sarà di competenza del ministero della Salute stabilire la nuova prassi dell'iter che includa anche le coppie dello stesso sesso o uomini single.
  Itai e Yoav, come migliaia di altri israeliani omosessuali (tra cui l'ex ministro degli Interni del Likud, Amir Ohana), nel corso dei lunghi anni di battaglia legale hanno portato alla luce tre bambini con la maternità surrogata esercitata all'estero. Infatti la legge israeliana consente il riconoscimento all'anagrafe dei figli nati in alcuni Paesi dove la pratica è legale - in primis negli Stati Uniti - ma comporta costi ingenti che precludono a molti la possibilità di accedere a questo percorso.

(la Repubblica, 11 luglio 2021)


Tremendo! Sodoma e Gomorra sono niente in confronto. Sia per quello che hanno fatto gli uomini, sia per quello che farà Dio. M.C.


Israele, terza dose di vaccino Pfizer per i pazienti immunodepressi

L'obiettivo, hanno spiegato le fonti governative, è di impedire che i più fragili siano contagiati e che sviluppino forme gravi della malattia. Previsto per oggi un incontro tra i vertici aziendali e le autorità statunitensi sull'ipotesi di autorizzare una terza dose contro la variante più aggressiva.
  Alla luce della rinnovata diffusione del Covid nelle ultime settimane in Israele, il ministero della Sanità israeliano ha dato istruzione oggi alle casse mutue di somministrare una terza dose di vaccino Pfizer agli immunodepressi. L'obiettivo è di impedire così che siano contagiati e che sviluppino forme gravi della malattia.
  Un comunicato del ministero della Sanità precisa che il provvedimento riguarda chi abbia avuto trapianti di cuore, polmoni, fegato, midollo osseo o reni. La terza dose può essere somministrata inoltre a chi sia stato o sia ancora sottoposto a cure oncologiche di vario genere.
  Il periodo ottimale per la vaccinazione con la terza dose - secondo il ministero - è di otto settimane dopo la seconda. In ogni caso, avverte, non devono trascorrere meno di quattro settimane fra seconda e la terza dose. Gli immunodepressi, avverte il ministero della sanità, devono comunque continuare a mantenere la massima cautela. Sono incoraggiati fra l'altro ad indossare mascherine protettive, ad osservare la igiene personale e ad astenersi da contatti con persone malate o non vaccinate.
  Giovedì scorso la Pfizer-BionTech aveva annunciato di essere intenzionata a chiedere l'autorizzazione alla Fda americana per una terza dose del vaccino sviluppata in maniera specifica contro la variante delta che nel giro di poco tempo diventerà quella predominante un po' in tutto il mondo.
  L'azienda farmaceutica aveva spiegato che esistono "dati incoraggianti", ma in una nota congiunta Fda e Cdc (Centers for Disease Control) avevano messo in dubbio la necessità sostenendo che al momento non ci sono evidenze scientifiche che facciano pensare al bisogno di un richiamo
  Pfizer oggi prevede di incontrare i massimi funzionari sanitari degli Stati Uniti per discutere la richiesta per l'autorizzazione federale di una terza dose del suo vaccino, poiché Anthony Fauci, consigliere medico del presidente Joe Biden, ha riconosciuto che "è del tutto concepibile, forse probabile" che in futuro siano necessari richiami.
  In una dichiarazione alla Associated Press, il dottor Mikael Dolsten di Pfizer ha detto che i primi dati dello studio di richiamo dell'azienda suggeriscono che i livelli di anticorpi delle persone aumentano da cinque a dieci volte dopo una terza dose, rispetto alla loro seconda dose mesi prima.
  Ieri Fauci non ha escluso la possibilità, ma ha detto che era troppo presto perché il governo raccomandasse un richiamo del vaccino. Fauci si è detto d'accordo con la posizione di Fda e Cdc di non considerare necessari i richiami "in questo momento".
  "Questo non significa che ci fermiamo qui - ha specificato Fauci - Ci sono studi ora in corso mentre parliamo di esaminare la fattibilità su se e quando dovremmo dare un richiamo alle persone.''
  Secondo il consigliere medico di Joe Biden è abbastanza possibile nei prossimi mesi "con l'evoluzione dei dati" il governo possa sollecitare un richiamo basato su fattori come l'età e le condizioni mediche di base. "Certamente è del tutto concepibile, forse probabilmente prima o poi, avremo bisogno di un richiamo", ha concluso Fauci.
  L'ipotesi di somministrare la terza dose di vaccino al momento lascia scettica gran parte della comunità scientifica statunitense. Nel Paese l'immunizzazione completa riguarda meno della metà della popolazione (48%) e la sensibile risalita dei casi di questi giorni è stata registrata negli stati dove le vaccinazioni sono ancora poche.
  La settimana scorsa la direttrice del Cdc Rochelle Walensky ha spiegato che ci sono due realtà: zone dove le persone completamente immunizzate tornano alla vita normale e altre dove le ospedalizzazioni continuano a crescere. L'ostilità verso i vaccini è più alta negli stati rurali e nel sud del Paese.

(la Repubblica, 12 luglio 2021)


"Vaccinatevi, vaccinatevi, forse probabilmente prima o poi qualcosa si capirà". Il laboratorio sperimentale del mondo, modello Israele, è in piena funzione. M.C.


Il Libano al buio: manca la valuta, spente le centrali elettriche

La crisi politica e finanziaria paralizza ormai totalmente il paese dei cedri. Effetti drammatici anche sulla distribuzione dell'acqua. Sciopero delle farmacie per carenze di medicinali.

di Vincenzo Nigro

La notte del Libano è sempre più buia, profonda e pericolosa. La crisi economica e politica che è esplosa da 2 anni è arrivata a un punto di svolta: da venerdì le centrali elettriche sono ferme, senza gasolio. La lira libanese è crollata, le riserve in dollari della Banca centrale sono prosciugate, e chi vende petrolio al Libano non accetta se non pagamenti immediati per ogni carico. Due petroliere cariche di benzina e gasolio sono ferme al largo del porto di Beirut: non scaricano perché il Libano non può pagare.
  Da venerdì notte, Electricite Du Liban (Edl) ha annunciato lo stop delle centrali di Deir Ammar e Zahrani, che insieme forniscono circa il 40% dell’elettricità del Paese. Il Libano di fatto può fare conto solo sui generatori elettrici privati, perché presto si bloccheranno anche le altre centrali che già lavorano a singhiozzo.
  Da decenni, non dagli ultimi mesi, il Libano ha sempre convissuto con la crisi elettrica: in ogni città una rete di commercianti e trafficanti vende quote di elettricità prodotta da generatori privati ai cittadini, a interi condomini. I rifornimenti di gasolio per quei generatori sono garantiti da un traffico di carburanti di contrabbando che aggira ogni legge e si poggia sulle varie mafie. Ma chi vende elettricità paga in dollari per il diesel, e i cittadini libanesi non hanno più soldi per pagare l’elettricità “privata”.
  Venerdì anche le farmacie sono entrate in sciopero per protestare contro le carenze diffuse di medicinali, in particolare di antibiotici. I rivenditori di medicine che si aspettano che i sussidi sui medicinali possano essere aboliti molto presto. E allora fanno scorte di medicine in attesa dell’aumento dei prezzi. Il Paese è alla fame, i cittadini con i loro stipendi in lire libanesi svalutati del 300% non hanno potere d’acquisto per il cibo, la carne, il pesce, persino le verdure. Alcuni studi hanno rilevato che la popolazione sta abbandonando in massa il consumo di carne di vitello e anche di pollo, «non siamo diventati vegani: non abbiamo più soldi», titolava l’altro giorno un giornale. Secondo le Nazioni Unite più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
  Alla crisi sociale, si aggiunge quella politica. Dopo l’esplosione al porto di Beirut dell’agosto 2020, i gruppi politici e settari non sono riusciti a mettersi d’accordo su un nuovo governo. Le pressioni internazionali sono fortissime: Stati Uniti e Francia con Arabia Saudita ed Emirati sono schierati con i sunniti e una parte dei cristiani. Iran, Russia, e Siria favoriscono l’altra metà del fronte cristiano e soprattutto i gruppi sciiti antioccidentali, Hezbollah e Amal.

(la Repubblica, 11 luglio 2021)


“L’antisemitismo corre sul web, è odio che scende nelle strade”

Intervista a Noemi Di Segni

di Ariela Piattelli

In molti paesi del mondo, tra Europa e Stati Uniti, l’antisemitismo è in crescita. Un fenomeno che torna con forza, anche a causa dell’ultimo conflitto tra Israele e Hamas, e che si annida anche nelle manifestazioni di antisionismo. In Italia l’antisemitismo corre soprattutto sul web, come dimostra l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Antisemitismo del CDEC, e sono spesso le tastiere degli influencer, di alcuni politici e personaggi noti a spargere odio sui social network, moltiplicando un messaggio pericoloso. “Non è un odio che rimane solo sulla rete. Si aggrega sulla rete ma poi scende nella strada” spiega Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) e Vice Presidente del World Jewish Congress. Shalom l’ha intervistata per capire cosa stanno facendo l’UCEI e le istituzioni, e quali sono le sfide, per contrastare l’antisemitismo.

- Viviamo in moti paesi, e anche in Italia, un aumento di antisemitismo. Quali sono le sfide dell’UCEI in questo senso?
  Ci sono vari elementi che ci indicano un aumento di antisemitismo. Le sfide per noi sono saper interpretare, saper leggere la realtà, misurarla e comprendere dove è pericolosa, e capire, per il ruolo istituzionale che abbiamo, con chi e cosa fare. E’ un tema complesso, che ci riguarda ogni giorno. Perché tutti i giorni, purtroppo, accade qualcosa.

- In Italia l’antisemitismo corre sul web, ce lo dicono i dati aggiornati dell’Osservatorio Antisemitismo. C’è anche un pullulare di personaggi noti, come di recente Michela Murgia con un’inquietante storia su Instagram, che pubblicano sui social post o storie in cui esprimono atteggiamenti antisemiti o antisionisti. Come affrontate questo fenomeno?
  Nell’espressione di antisemitismo c’è di tutto da per tutto. Dagli interventi di personaggi della strada, della politica, agli influencer. Ma quanto una nostra azione può correggere questi comportamenti? Se siamo nel campo del reato, penale, facciamo sempre le denunce, perché così prevede l’ordinamento italiano a nostra difesa. Il secondo obiettivo è incidere sull’opinione pubblica che ruota intorno a questi personaggi. Questo è molto difficile ed è un tema delicato. Io credo che alzare la voce, o fare i comunicati stampa, non sia efficace, anzi l’azione perde di efficacia. Così non si ottengano risultati. A seconda se sia un politico, o un influencer, scriviamo alle redazioni o alle segreterie di partito per sensibilizzare. Ultimamente per un TikTok molto offensivo dell’influencer Tasmin Ali sulla bandiera di Israele, abbiamo fatto denuncia e scritto alla redazione. Lei è giovane, musulmana, molto trendy, e percepita come attivista per le donne musulmane. Ma lei così come difende i musulmani, con la stessa energia denigra Israele e gli ebrei. Lei il rispetto dell’altro ce l’ha per se stessa, ma non le interessa difendere le minoranze. Le abbiamo fatto una denuncia. E’ un dilemma ogni volta decidere cosa fare, perché succede continuamente. Come voce ebraica non possiamo sottrarci alle denunce, alle lettere, a far capire alle realtà istituzionali che hanno il dovere di vigilare.

- In vari paesi del mondo si stanno prendendo provvedimenti indirizzati ai colossi dei social network per contrastare l’antisemitismo. Cosa si sta facendo in Italia?
  Il lavoro sui social va fatto. I social devono rendersi conto che hanno un impatto talmente forte e penetrante sulla società, che non possono sottrarsi al loro ruolo sociale, non possono limitare le loro responsabilità. Devono aggiungere uno strato di regolamentazione e autoregolamentazione su questi temi. E’ vero che ci sono problemi nello sviluppo della normativa, ma nella battaglia all’antisemitismo i social devono impegnarsi al di là di ciò che questa prevede.

- Quale è il pericolo concreto di queste forme di antisemitismo?
  La somma di ciò che leggiamo esplode nella società. Non è un odio che rimane solo sulla rete. Si aggrega sulla rete ma poi scende nella strada. In Italia le forze dell’ordine sono assolutamente consapevoli di questa dinamica e svolgono un lavoro molto prezioso. E con loro collaboriamo, ma quando la legge non consente un intervento siamo in una situazione di pericolo. E gestire questa situazione è la sfida.

- Lo scenario internazionale non è incoraggiante. In Europa e negli Stati Uniti l’antisemitismo sta avanzando, negli ultimi mesi anche a causa del conflitto tra Israele ed Hamas.
  C’è un aumento d’odio marcato, visibile. Molto preoccupante è la situazione in Inghilterra, Francia, e Stati Uniti. Ogni giorno leggiamo di episodi di antisemitismo. Negli Stati Uniti la difesa dal razzismo non va di pari passo con quella dall’antisemitismo. Mi preoccupa anche quello che succede in Israele nelle città, in cui convivono ebrei e musulmani, e ciò riguarda anche le istituzioni locali. Non è un tema strettamente legato all’antisemitismo, ma è un tema di natura sociale che quando scoppia diventa politico e arriva da noi. So bene che gli atti di attacco da parte degli arabi contro gli ebrei sono stati di gran lunga più gravi da parte dei primi, ma qualcosa si è rotto e bisogna provvedere.

- Sta scatenando un grande dibattito la legge sulle restituzioni in Polonia. Il Premier polacco ha detto che il paese non pagherà per crimini commessi dalla Germania. Crede che dietro alla legge e a questo tipo di atteggiamenti si celi un’espressione di antisemitismo?
  Credo di sì. Perché il tema dell’antisemitismo va gestito con uno spessore storico. Se c’è un approccio selettivo, di chi non riconosce le proprie responsabilità come nel mondo polacco, che è proprio l’opposto di quello che ha fatto la Germania, c’è un problema di antisemitismo. Questi atteggiamenti selettivi, e di imporre una lettura storica, sono forme che orientano il pensiero e educano le persone ad un rigidismo che porta antisemitismo.

- Che ruolo gioca il recepimento della definizione dell’antisemitismo dell’IHRA?
  Sul punto vorrei precisare l’impegno che ci aspettiamo rispetto all’invito fatto a livello europeo ed internazionale all’Italia (e tutti i Paesi) per recepire la definizione. Premessa l’autorevolezza politica, scientifica accademica di questa definizione, il concetto di recepimento non deve essere appiattito unicamente sulla pretesa di inserimento dei concetti evidenziati in un testo di norma di legge o più specificatamente del codice penale. Ci sono anche modifiche legislative che abbiamo proposto per rafforzare l’efficacia di alcune norme penali (come aggravanti di norme esistenti o con riguardo all’apologia del fascismo) ma va fatto di più. Il recepimento quindi va considerato come lavoro su più dimensioni che parte dalla definizione stessa come punto di riferimento internazionale e di legislazione europea. Non possono e non devono essere gli ebrei da soli a “gestire” la lotta ma deve essere un’intera rete istituzionale lavorando anzitutto sul presupposto della coerenza e responsabilità anche storico politica. Quindi con iniziative educative rivolte al mondo della scuola, formative per diverse categorie di professioni e settori, al mondo dello sport, modifiche di norme penali, interventi sui codici di condotta dei media e delle reti sociali, un approfondimento sull’abuso di diritti costituzionali e il rafforzamento di prevenzione da parte delle forze dell’ordine – alle quali va la nostra profonda gratitudine per un costante impegno qualificato e attento forse unico nel panorama internazionale - e non ultimo creare un utile raccordo per affrontare il fenomeno di under reporting – avere presidio immediato e facile per presentare denunce o testimonianze rispetto ad episodi vissuti in prima persona o notati, e su questo stiamo lavorando insieme ad altre istituzioni.

(Shalom, 11 luglio 2021)


Israele fornisce la spinta al vaccino Pfizer agli adulti a rischio

GERUSALEMME -Israele ha detto che inizierà a offrire iniezioni di richiamo Pfizer Inc (NYSE:) fornisce vaccini per adulti con sistema immunitario indebolito, ma sta ancora valutando se debba fornire il terzo ciclo di vaccini al pubblico.
  Poiché il numero di nuove infezioni è passato da una cifra a circa 450 al giorno nell’ultimo mese, la rapida diffusione della variante Delta ha riportato il tasso di vaccinazione in Israele.
  Il ministro della Sanità Nitzan Horowitz ha affermato che gli adulti con un sistema immunitario compromesso che hanno ricevuto due dosi di vaccino Pfizer possono ricevere immediatamente colpi di richiamo e si attende una decisione per una più ampia distribuzione.
  Pfizer e il suo partner BioNTech SE (Nasdaq:), il principale fornitore israeliano di vaccini che ha iniziato a lanciare rapidamente i vaccini a dicembre, hanno dichiarato giovedì che richiederanno alle autorità di regolamentazione statunitensi ed europee di approvare le iniezioni potenziate entro poche settimane.
  Le due società hanno affermato quando hanno chiesto il permesso per la terza iniezione che il rischio di infezione è aumentato dopo sei mesi.
  Criticate da alcuni scienziati e funzionari, queste aziende non hanno condiviso i dati che mostrano questo rischio, ma hanno affermato che lo avrebbero reso pubblico presto.
  “Stiamo studiando questa domanda, ma non abbiamo ancora una risposta definitiva”, ha detto Horowitz del richiamo dei comuni cittadini israeliani in un discorso alla Kan Public Radio.
  “Ad ogni modo, ora stiamo facendo una terza iniezione ai pazienti con immunodeficienza per esempio, queste persone hanno ricevuto trapianti di organi o hanno malattie che causano una ridotta immunità”.
  Secondo i dati del Ministero della Salute, circa la metà dei 46 pazienti gravemente malati attualmente ricoverati in Israele sono stati vaccinati. Il coordinatore israeliano della risposta alla pandemia di coronavirus, Nachman Ash, ha dichiarato mercoledì che la stragrande maggioranza di loro proviene da gruppi ad alto rischio, di età superiore ai 60 anni e ha problemi di salute.
  Horowitz ha detto che, inoltre, il Ministero della Salute utilizzerà Moderno (Nasdaq:) I vaccini dell’azienda sono già disponibili.
  Israele ha somministrato iniezioni Pfizer a quasi il 60% dei suoi 9,3 milioni di abitanti. Tuttavia, un lotto di 700.000 dosi di vaccino in scadenza alla fine di luglio è stato inviato in Corea del Sud perché il recente rallentamento dei tassi di vaccinazione potrebbe causare lo spreco di queste dosi.
  Secondo l’accordo di swap, Seoul restituirà la stessa quantità di iniezioni a settembre e ottobre, che sono già state ordinate da Pfizer.
  “Abbiamo il vaccino Moderna e gli adulti che vogliono vaccinarsi possono iniziare a usare il vaccino Moderna questa mattina o domani”, ha detto Horowitz.
  “Stiamo vaccinando i giovani con Pfizer e stiamo lavorando duramente per promuovere la consegna Pfizer”, ha affermato.
  Israele spera che consegne anticipate consentiranno a più giovani di essere vaccinati prima dell’inizio dell’anno scolastico a settembre.
  Secondo i regolamenti del Ministero della Salute, i giovani israeliani possono accettare iniezioni Pfizer, ma non possono accettare iniezioni prodotte da Moderna.

(Economia Finanza, 11 luglio 2021)


"Colpi di richiamo". Interessante. Sarà questo il destino dei Si-Vax duri e puri? Andare avanti a "colpi di richiamo"? M.C.


Israele, via libera alla fecondazione surrogata per coppie unisex

Con una sentenza che ha avuto subito grande eco, la Corte Suprema di giustizia israeliana ha stabilito oggi che possono avere accesso alla pratica di maternità surrogata anche coppie omosessuali o uomini single. In precedenza questa possibilità era limitata a coppie eterosessuali e a donne single nei casi in cui le future madri non potessero restare incinte o portare a termine una gravidanza per ragioni sanitarie.
  La Corte Suprema ha anche criticato la incapacità mostrata dalla Knesset di approvare questa estensione della legge, malgrado avesse avuto a disposizione un anno di tempo. Ha aggiunto che «il diritto alla procreazione è inalienabile per tutti» e che le nuove norme dovranno entrare in vigore entro sei mesi.
  La sentenza dei giudici è stata accolta con grande soddisfazione dalla Associazione Lgbt in Israele: «E' un evento storico nella nostra lotta per la eguaglianza - ha affermato. - I giudici hanno emesso una sentenza giusta ed umana che era rimasta bloccata alla Knesset per un decennio a causa del veto di partiti estremisti». La sentenza è stata lodata anche dal ministro della Sanità Niztan Horovitz, leader del partito per i diritti civili Meretz ed omosessuale.

(Gazzetta del Sud, 11 luglio 2021)


"Maternità surrogata per le coppie omosessuali". E' di questa priorità Lgbt che vuole vantarsi Israele? M.C.


Morta Esther Bejarano, si salvò ad Auschwitz perché sapeva suonare la fisarmonica

Aveva 96 anni, è stata uno storico emblema dell'Olocausto

di Roberto Brunelli

“Ai giovani ripeto sempre: non siete colpevoli di quanto accadde a quei tempi. Ma lo diventate se non volete saperne niente, di quei tempi”. Così disse Esther Bejarano, una delle maggiori testimoni dell’Olocausto, la donna che sopravvisse ad Auschwitz suonando la fisarmonica nell’“Orchestra delle ragazze”, morta a 96 anni ad Amburgo. “Si è addormentata la mattina presto nell’ospedale israelitico, non ha sofferto e non era sola”, ha riferito la sua cara amica Helga Obens, del Comitato di Auschwitz.
  Nata il 15 dicembre 1924, Esther Bejarano è nata a Saarlouis in una famiglia ebraica: nel 1941 i suoi genitori furono uccisi dai nazisti in Lituania, lei stessa fu costretta ai lavori forzati in un campo di concentrazione prima di essere ulteriormente deportata due anni dopo ad Auschwitz. Qui riuscì a sopravvivere solo perché suonava la fisarmonica nella cosiddetta “Maedchenorchester von Auschwitz” (orchestra delle ragazze di Auschwitz), creata nella primavera del 1943 per ordine delle Ss, che l’avevano pensata sia come strumento di propaganda per i cinegiornali che per “tenere alto” il morale nel lager di sterminio. Le musiciste erano di provenienza diversa – tra le altre erano polacche, greche, tedesche, ucraine – e venivano impiegate per suonare al cancello per ore ed ore, a qualsiasi condizione climatica, quando le squadre di lavoro entravano o uscivano dal campo, oppure per accompagnare le cerimonie delle Ss.
  Dopo la guerra, Bejarano emigrò in Israele, per decidere poi di tornare in Germania insieme al marito nel 1960. Con i suoi figli fondò all’inizio degli anni ottanta il Gruppo Coincidenze, che eseguiva canzoni del ghetto ebraico così come anche brani della tradizione antifascista. Un impegno che le valse numerosi riconoscimenti, tra cui la medaglia della Lega internazionale per i diritti umani e la Croce di merito della Repubblica federale.
  Per decenni Bejarano si è impegnata contro i fenomeni dell’estremismo di destra e la xenofobia. Ancora nel maggio di quest’anno ha partecipato con una conferenza ad una cerimonia in ricordo del rogo dei libri da parte dei nazisti ad Amburgo. Esther ha anche continuato per decenni a visitare le scuole ripetendo instancabilmente la sua testimonianza degli orrori della Shoah.
  Figura tra i fondatori del Comitato di Auschwitz in Germania e in tempi più recenti si è impegnata per far dichiarare l’8 maggio, giorno della liberazione dal nazismo, come giorno festivo in Germania. Anche il presidente della Repubblica tedesco Frank-Walter Steinmeier ha voluto onorare e ricordarne la figura: “Esther Bejarano ha vissuto sul proprio corpo cosa voglia dire essere discriminati, perseguitati e torturati”, così il capo dello Stato in una nota.
  “Dopo la guerra - prosegue il presidente tedesco - considerava un suo obbligo interiore quello di tenere viva la memoria degli orrori del regime nazista e di ammonire soprattutto i giovani circa i pericolo dell’estremismo di destra e dell’ostilità verso gli stranieri”. Pertanto Steinmeier esprime “grande gratitudine ed immensa stima” verso Esther Bejarano, “che avrà per sempre un posto nei nostri cuori”.
  Tra le tante reazioni, anche quelle ministro degli Esteri, Heiko Maas, e della leader dei Verdi, Annalena Baerbock: “La meravigliosa Esther Bejarano ci ha con la sua forza vitale e la sua storia incredibile”, ha affermato il capo della diplomazia tedesca, “la sua voce ci mancherà”. Per la candidata dei Verdi alla cancelleria, invece, “dipende da noi di portare avanti ciò che hanno vissuto le persone come lei, di ricordare e di non dimenticare mai”.
  Un commosso messaggio è arrivato anche dal Comitato Auschwitz: “Piangiamo insieme alla sua famiglia questa grande, coraggiosa e ferma donna, sopravvissuta ai campi di concentramento di Auschwitz e Ravensbrueck, antifascista, presidente del Comitato di Auschwitz e presidente onorario dell’Associazione dei perseguitati del regime nazisti. Oggi vogliamo fare una pausa. E stare in silenzio e piangere. Per poi realizzare la missione di Esther Bejarano: non stare mai più in silenzio quando accade l’ingiustizia”.

(AGI, 10 luglio 2021)



Il libro di Giona
Sermone per il pomeriggio di Yom Kippur
14 settembre 2013 Roma

L'articolo che segue è tratto dal sito di una Comunità Ebraica Progressiva di Roma. Riflettere sul modo in cui gli ebrei interpretano e applicano la Bibbia è sempre istruttivo per i cristiani. Non aggiungiamo qui commenti specifici, osserviamo soltanto che il taglio è quello solito. Risponde alla domanda: che dobbiamo fare noi che leggiamo dopo aver letto quello che abbiamo letto? Ed è lo stesso taglio antropocentrico usato di solito dai cristiani. Le risposte naturalmente sono diverse, ma si corrispondono. Il risalto in rosso è stato aggiunto. NsI

di Rav Joel Oseran

Il Libro di Giona è un'affascinante narrazione, solo apparentemente di facile lettura. Come buona parte delle scritture bibliche, più lo si studia a fondo più significati emergono. E allora approfondiamo insieme in questo pomeriggio di Yom Kippur - il momento in cui la nostra tradizione si concentra sul Libro di Giona.
  Da un lato, Giona arriva al termine del nostro periodo delle Grandi Feste - rispetto all'altra importante personalità con cui si apre questo periodo di dieci giorni. Sto ovviamente parlando del nostro antenato Abramo, il cui racconto leggiamo in occasione di Rosh Hashana.
  Le nostre Grandi Feste sono aperte e concluse da due uomini legati a Dio, due portavoce di Dio, Abramo e Giona. Due grandi uomini - eppure così incredibilmente diversi fra loro, due personalità molto differenti.
  Un nobile principio rabbinico recita: non dare nulla per scontato, nulla per ovvio. Esamina criticamente ogni sfumatura, esiste un significato recondito dietro ogni puntino - nulla è accidentale.
  Quindi, tenendo fede a questo principio secondo cui nulla è ovvio e scontato, esploriamo oggi il significato che si nasconde dietro questa "strana coppia", Abramo e Giona.
  Perché aprire i nostri dieci giorni di pentimento con Abramo e chiudere lo stesso periodo, appena prima di Ne'ilah, con Giona?
  È chiaro e semplice per tutti noi capire quanto sia fedele e devoto Abramo alla chiamata di Dio - come possiamo leggere nel Libro della Genesi, Capitolo 12:
    "Va' via dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla tua casa paterna, al paese che ti indicherò".
E così Abramo andò via come Dio aveva comandato - pronto nel rispondere, nell'accettare la sua chiamata immediatamente e senza discutere.
  Vediamo invece Giona - oggi pomeriggio leggiamo:
    E Dio dice a Giona "Su, recati a Ninive, la grande città abitata dai gentili, e proclama la volontà di Dio".
A quest'ordine Giona risponde girando le spalle e salpando esattamente in direzione opposta, non dirigendosi verso Ninive ma verso Tarsi.
  Torniamo ad Abramo. Quando Dio era sul punto di distruggere le città di Sodoma e Gomorra (anche in questo caso due città dei gentili) a causa della loro malvagità e scelleratezza, Abramo perorò immediatamente la loro causa di fronte a Dio. Così leggiamo una delle scene più intense e drammatiche di tutta la Torah, quella in cui Abramo sfida Dio, discutendo animatamente: "Davvero sterminerai il giusto con l'empio?", e negoziando con Dio stesso per salvare la città dalla distruzione se si fossero trovati prima 50 giusti, fino a scendere ad appena 10 giusti. Fino al punto culminante della sua esortazione: "Forse il Giudice di tutta la Terra non praticherà la Giustizia?"
  Paragoniamolo a Giona. Quando viene a conoscenza dell'intenzione di Dio di distruggere Ninive se i suoi abitanti non si pentiranno, scappa. Non ha alcun interesse nel perorare la loro causa innanzi a Dio; non pensa nemmeno ad andare dai niniviti e spronarli a pentirsi per avere salve le loro vite.
  E poi in seguito, dopo aver finalmente annunciato la sua profezia e quando, incredibile, i niniviti si sono pentiti, Giona cade in depressione, è frustrato. Come ha potuto Dio fare tutto questo proprio a lui? Tutta la sua missione è un fallimento: ha annunciato una profezia che poi non si è avverata!
  E infine, notiamo come Abramo risponda alla richiesta di Dio di sacrificare il suo stesso figlio Isacco come sacrificio al Signore. Senza alcuna esitazione e senza protestare, ben cosciente del fatto che una simile reazione avrebbe significato la fine dell'alleanza con Dio.
  Mettiamolo nuovamente a confronto con Giona - Giona che impazzisce di rabbia e tristezza quando la misera pianta di ricino che gli dava un po' d'ombra è divorata da verme. Giona preferirebbe morire piuttosto che vivere senza il ricino!
  Logicamente l'accostamento fra due personalità tanto contrastanti non può essere casuale. Cosa potrebbe volerci insegnare la nostra tradizione attraverso questo palese contrasto? Per quale ragione collocare una figura tanto nobile all'apertura del nostro periodo delle Grandi Festività e una tanto discutibile in chiusura?
  Forse la spiegazione al fatto che Abramo viene introdotto al principio delle nostre feste è che egli non è solo un valido modello da imitare, non solo è in possesso di nobili scopi e di una nobile fede in grado di smuoverci nel profondo all'inizio della nostra ricerca di fede personale durante i dieci giorni del pentimento... forse Abramo è posto al principio delle feste proprio come termine di paragone per Giona alla fine delle stesse.
  In evidente contrasto con la statura di Abramo, tanto più carente ci appare la figura di Giona. A confronto dell'eroismo di Abramo, quanto debole e fragile ci sembra Giona!
  Quando paragonato al convincimento di Abramo, tanto più ci appare egoista ed egocentrico Giona.
  Eppure Giona, se messo a confronto con la nobiltà d'animo di Abramo, non ci ricorda un po' più noi stessi? Di certo non sono un Abramo - mentre forse un Giona...
  Forse la nostra tradizione vuole insegnarci innanzitutto che Dio può dare il dono della profezia a qualsiasi tipo di persona. Saremmo naturalmente portati ad aspettarci di sentire la voce di Dio uscire dalla bocca di un Abramo, di un Mosè o di un Isaia. Personaggi imponenti che si stagliano nella storia. Uomini e donne di impareggiabile dedizione, determinazione e fede.
  Ma anche Giona viene scelto da Dio - proprio Giona che ogni tanto è impacciato, goffo, pauroso. E se da un lato sappiamo molte cose a riguardo di Abramo - dove è nato, da dove provenisse, quale fosse la sua famiglia - non sappiamo quasi nulla su Giona. Appare quasi dal nulla, così, semplicemente: non sappiamo dove o quando sia nato, non abbiamo informazioni sulla sua famiglia, né su che fine abbia fatto quando la storia che lo riguarda si è conclusa. Giona è solo un semplice Ebreo, come voi e come me. In fondo non fa alcuna differenza sapere il dove, il quando, il chi... perché Giona vive ovunque, in qualunque tempo e in ogni luogo. È in fuga verso Tarsi, verso New York, verso Roma.
  Esatto, Giona fugge via come un semplice ebreo: ha sentito la chiamata di Dio e ha risposto - NO, NO grazie ma no. Si accontenta di essere un semplice ebreo, non ha tempo per altre faccende, è già abbastanza impegnato a sbrigare i propri affari.
  Eppure la tradizione assegna a Giona un posto di assoluto rilievo - il pomeriggio di Yom Kippur, subito prima di Neilah, per mettere tutti noi di fronte alla verità.
  La nostra umile condizione, il nostro essere ebrei normali, nella media, ebrei di tutti i giorni, non può rappresentare per NOI una scusa per dire di NO più di quanto non lo fosse per Giona!
  E scavando ancora più a fondo, scopriamo nel libro di Giona un altro profondo insegnamento della nostra tradizione. Non solo a noi Giona viene richiesto a volte di diffondere il messaggio di Dio, ma ci viene anche ordinato di portarlo proprio nel bel mezzo del mondo non-ebreo: Ninive. È a Ninive che Giona deve andare, non a Gerusalemme e neppure nel Lower East Side di Manhattan.
  
"40 giorni ancora e Ninive sarà distrutta", non esattamente il messaggio che un simpatico ragazzo ebreo vorrebbe portare al centro di una città di gentili. Ehi, ascoltatemi bene tutti: Dio dice - comportatevi bene o ci penserà Lui, e allora sarete spazzati via.
  Ricordate, stiamo parlando di Giona, non di Abramo, di Giona il Semplice Ebreo, che deve viaggiare fino al cuore del mondo non-ebreo - un mondo che molto spesso in passato non avrebbe impiegato molto tempo a uccidere uno come Giona. Il messaggio appare inequivocabile - non solo noi semplici ebrei siamo tenuti a parlare a voce alta, ma dovremo farlo all'esterno delle nostre strette mura, fuori dai confini della comunità ebraica. Perché il nostro Dio è il Dio di tutta l'umanità - esattamente lo stesso messaggio con cui siamo entrati nelle nostre festività 10 giorni fa.
  E ovviamente non è un caso che questo messaggio ci venga riproposto proprio ora - nel pomeriggio di Yom Kippur, mentre ci apprestiamo a tornare nel mondo. In occasione di Rosh Hashana abbiamo affrontato la necessità di equilibrare le nostre identità fra B'nei Adam e B'nei Abraham. La nostra natura universalistica e quella particolaristica devono essere integrate fra di loro. E allo stesso modo concludiamo i nostri dieci giorni di pentimento, richiamando l'attenzione sulla stessa esigenza.
  Come Ebreo vengo al mondo, per perfezionare il mondo, come collaboratore di Dio. Giona sarà forse semplice, debole ed egocentrico alle volte, ma non ha mai rinnegato neppure per un solo minuto la sua identità.
  Quando i marinai gli domandarono chi fosse, rispose immediatamente - "Io sono Ebreo e temo il Signore Dio del cielo".
  È proprio perché Giona è Ebreo che deve portare il messaggio di Dio fino a Ninive. Poiché Giona, voi e io, abbiamo tutti un mandato - riparare il mondo sconvolto e sconquassato. Possiamo nasconderci, fuggire, o dormirci su senza pensarci, come fece Giona. Ma in base alla nostra alleanza con Dio siamo tenuti a condividere la nostra esperienza collettiva, la nostra civiltà e le nostre istruzioni con i nostri vicini Niniviti.
  In occasione di Yom Kippur, lo Shabbat di tutti gli Shabbatot, viene ricordato agli Ebrei che noi e il nostro Dio ci occupiamo essenzialmente e definitivamente di questioni di carattere universale. E ciò ci viene ricordato nello stesso esatto modo in cui venne ricordato a Giona. E infatti, come interpretano i rabbini la presenza della balena dentro il cui corpo Giona trascorse tanto tempo?
  Nel Midrash i rabbini paragonano la balena, e il rifugio e il conforto che essa offrì a Giona, a nient'altro che a una Sinagoga. Un Tempio in cui gli occhi della Balena diventano le finestre della Sinagoga.
  Ed è proprio all'interno della Sinagoga che Giona decide in via definitiva di voler tornare al mondo. Egli compie la sua teshuvah (pentimento,ndr) mentre si trova nella balena. La balena non è quindi una via di fuga - ma è una stanza di compensazione se volete - un rifugio dove Giona può darsi coraggio, rafforzare la sua convinzione, la sua visione del mondo, la sua saggezza e tornare fuori, al mondo a cui tutti noi in fondo siamo destinati.
  La nostra Sinagoga è questa balena - qui gli Ebrei non si nascondono, voltando le spalle ai Niniviti del mondo esterno. La nostra Sinagoga deve essere il luogo dove possiamo ritrovare noi stessi, il lato migliore del nostro essere, così da poter fare ritorno - prepararci all'interno per ciò che avverrà all'esterno.
  Il mondo è un luogo pericoloso e turbolento - può spaventarci, sopraffarci, impaurirci fino a farci fuggire via. Eppure qui dentro noi ritroviamo la forza, in Dio, nei nostri valori e nei nostri principi, in noi stessi. Ci pentiamo, torniamo a quel mondo che ha un disperato bisogno della nostra tradizione Ebraica, dei nostri insegnamenti, di vita, di amore, della famiglia, di
tikkun, e di riparazione.
  Il pomeriggio di Yom Kippur, Giona viene a insegnarci che noi Ebrei siamo collegati a Ninive, perché Dio è collegato a Ninive: il nostro destino è un destino condiviso.
  Quando gli affamati di tutto il mondo, di Gerusalemme o di Roma, fanno sentire alta la loro voce, siano essi Ebrei o Gentili, non si curano di chi risponde loro portando un pezzo di pane - per loro è importante solamente che qualcuno li senta, li sfami, e che possano vivere un altro giorno. Quando i bambini del Darfur hanno bisogno di medicine, di cure cliniche, di riabilitazione medica - non è forse nostra responsabilità, come per Giona, andare da loro e portare la benedizione di Dio?
  
In questo Yom Kippur preghiamo di avere la capacità di emulare entrambi i nostri adorati maestri. Che noi si possa essere saldamente ancorati alla nostra alleanza con Dio, come fu per Abramo nostro Padre, e che possiamo rispondere con coraggio, anche quando siamo semplici e impauriti come Giona - rispondere a un mondo così bisognoso del nostro impegno, delle nostre energie, della nostra speranza e del nostro Amore.
Amen


Nell'articolo si paragona la balena ad una sinagoga in cui Giona compie la sua teshuva; in un articolo evangelico si paragona il ventre del pesce alla cameretta in cui Gesù invita ad entrare per avere comunione con Dio. Al mandato per gli ebrei di riparare il mondo andando ad aiutare i Gentili bisognosi corrisponde il mandato per i cristiani ad essere presenti nel mondo andando ad evangelizzare gli increduli inconvertiti. Ma sta qui il punto centrale della parabola profetica che Dio ha elaborata e tramandata con la storia di Giona? M.C.

 


Israele: maxi-sequestro di armi del valore di 800 mila dollari introdotte dal Libano

BEIRUT - L'esercito israeliano ha sventato un tentativo di contrabbando di armi lungo la linea di demarcazione con il Libano e sta indagando sul sospetto coinvolgimento di Hezbollah, il “Partito di Dio” libanese. Lo ha annunciato oggi il portavoce militare israeliano, Avichay Adraee, precisando che un totale di 43 armi, tra cui decine di pistole, sono state sequestrate dai soldati delle Forze di difesa israeliane (Idf) che pattugliavano l'area del villaggio di Ghajar. Secondo la ricostruzione delle autorità dello Stato ebraico, i soldati hanno individuato dei sospetti mentre trasportavano borse dal Libano in territorio israeliano. Le armi sequestrate hanno un valore di oltre 800 mila dollari, secondo il portavoce. "Le Idf stanno indagando sulla possibilità che Hezbollah abbia fornito aiuto nel tentativo di contrabbando e stanno indagando con la polizia sull'identità dei sospetti coinvolti", ha detto Adraee via Twitter, affermando che l'esercito continuerà a combattere "i tentativi di contrabbando di droga e armi provenienti dal Libano".

(Agenzia Nova, 10 luglio 2021)


L'Alta corte conferma lo Stato-nazione: gli israeliani non sono tutti uguali

Rigettati i ricorsi palestinesi contro la legge che afferma l'esclusiva proprietà ebraica di Israele. Festeggia il ministro della giustizia. Forte la delusione nella Lista araba unita.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - «Non abbiamo altre strade da percorrere. L'Alta Corte di Giustizia, con i suoi 11 giudici, è il grado più elevato del sistema giuridico israeliano e purtroppo ha legittimato la legge Stato-nazione». Non getta la spugna l'avvocata Mayssana Morani, del centro di azione legale Adalah, ma sa che la legge fondamentale contro la quale ha scritto la petizione presentata ai massimi giudici ora è una realtà piena e sarà arduo metterla in discussione se non interverranno in Israele profonde trasformazioni politiche e ideologiche. E al momento nulla segnala che ciò possa accadere in tempi brevi.
  Due giorni fa la Corte ha convalidato la legge fondamentale approvata dalla Knesset esattamente tre anni fa che definisce Israele come Stato della nazione ebraica e non di tutti i suoi cittadini, molti dei quali (circa il 21%) sono arabi. Dieci degli 11 giudici - ha fatto eccezione solo George Karra, l'unico arabo nella corte - hanno sostenuto che la legge non contravviene «il carattere democratico» di Israele.
  «Questa legge fondamentale è solo un capitolo della nostra costituzione che sta prendendo forma e non nega il carattere di Israele come Stato democratico», ha scritto nella sentenza Esther Hayut, la presidente della corte. Un'interpretazione fortemente contestata dalla minoranza araba e diversi israeliani ebrei: afferma nero su bianco la proprietà ebraica dello Stato di Israele e, denunciano i centri per i diritti civili, rappresenterà una fonte primaria per sentenze delle corti minori che potrebbero discriminare i cittadini non ebrei nell'assegnazione delle terre statali e nella sfera pubblica. Il testo inoltre non contiene la parola «uguaglianza» che è inclusa nella dichiarazione d'indipendenza di Israele.
  «E stata introdotta una norma in cui la natura ebraica di Israele è superiore rispetto ai valori democratici dello Stato. Se prima Israele si definiva ebraico e democratico ora è lo Stato della nazione ebraica. Appartiene a ogni ebreo nel mondo ma non ai suoi cittadini arabi». Così disse al manifesto tra anni fa, dopo il voto alla Knesset, lo stimato storico israeliano Zeev Sternhell (scomparso lo scorso anno). Un giudizio condiviso oggi da Morani: «I leader israeliani ripetono che la natura dello Stato di Israele è ebraica e democratica. Ma per chi opera per i diritti, la democrazia e l'uguaglianza questa affermazione contiene un ossimoro. C'è una contraddizione intrinseca tra dichiarare Israele lo Stato degli ebrei e non di tutti i suoi cittadini e proclamarlo al contempo democratico. Assegna nero su bianco status diversi ai cittadini ebrei e quelli non ebrei».
  La legge Stato-nazione tra i suoi vari punti afferma che la biblica Terra d'Israele è la patria storica degli ebrei e che al suo interno è stato fondato lo Stato d'Israele, lasciando intendere che i cittadini non-ebrei non hanno diritto di reclamare la propria appartenenza a quella stessa terra. In termini pratici un ebreo che abita a Washington e non ha mai vissuto in Israele può vantare diritti e appartenenza a differenza di un cittadino arabo israeliano che pure con la sua famiglia vive da generazioni nella sua terra storica. Sancisce anche che lo Stato di Israele «vede lo sviluppo dell'insediamento ebraico come un valore nazionale e agirà per promuovere il suo consolidamento». Ciò non vale per i cittadini arabi. Tutto regolare per il ministro della giustizia Saar che ha accolto con soddisfazione la decisione. \\1Lo STATO-NAZIONE, ha twittato Saar, è «una legge importante che sancisce l'essenza e il carattere di Israele come Stato del popolo ebraico». Forte è la delusione di Ayman Odeh, leader della Lista unita araba: «Continueremo a combattere fino a raggiungere la piena uguaglianza per tutti i cittadini, la vera giustizia e la vera democrazia», ha promesso.

(il manifesto, 10 luglio 2021)


 Valigie di soldi e aiuti da Teheran, così Hezbollah si prende il Libano

Washington e Parigi temono l'Iran: a Riad per chiedere sostegno ai sauditi Nei quartieri sciiti controllati dal Partito di Dio la crisi morde di meno

di Giordano Stabile

La strada che scende verso l'incrocio fra Tabaris e Charles Malek è già intasata di auto. I benzinai della stazione Tamoil si sbracciano e urlano come ossessi per far passare l'autobotte con il rifornimento. In fila ci sono le auto scassate dei "service", i taxi collettivi, accanto a Suv enormi. Il prezzo della benzina è raddoppiato rispetto alla settimana scorsa ma resta irrisorio al cambio in nero, quattromila al litro, pari ormai a 20 centesimi di dollaro. Il problema è che puoi mettere soltanto venti litri. E per chi viaggia molto per lavoro si tratta di farsi ore di coda ogni giorno. E per chi non ha entrate in dollari la benzina, assieme a tanti altri beni primari, sta diventando inaccessibile. All'angolo c'è un capannello di gente davanti al cambista del quartiere. «Addeish al-dullar al-youm?». A quanto il dollaro oggi?, è il ritornello. Diciannovemila lire. Venti mesi fa, prima della "rivoluzione", del Covid, era ancora a 1500. Il naufragio è lento, ma i flutti della marea arrivano adesso anche i quartieri benestanti, compresi quelli cristiani. L'Electricité du Liban, l'azienda pubblica, eroga dalle due ore di luce al giorno. I generatori privati non possono sopperire, perché si surriscaldano. Di notte, dall'una alle sette, è blackout totale.
  Da undici mesi il premier incaricato, il sunnita Saad Hariri, prova a formare il governo chiesto da Emmanuel Macron subito dopo l'esplosione al porto del 4 agosto. E bloccato dai veti incrociati e sta per gettare la spugna. L'influenza della Francia si sfilaccia, persino fra i cristiani. Sono soprattutto le divisioni fra le Forces libanaises, gli ex falangisti ostili a Hezbollah, e il partito del presidente Michel Aoun, filo-sciita, a impedire l'intesa. Il Libano affonda ma dal gorgo rischia di emergere un solo vincitore, il Partito di Dio, legato a doppio filo all'Iran. È quello che temono le cancellerie occidentali. Teheran è già pronta a offrire carburante gratis, con la mediazione di Hezbollah, deciso a ergersi a "salvatore" dei libanesi. In caso di accordo sul nucleare, gli iraniani avrebbero le risorse per inviare anche aiuti finanziari. Il timore è che i cristiani finiscano per cedere a queste offerte. Per questo Stati Uniti e Francia hanno avviato un'operazione anomala. Le ambasciatrici Dorothy Shea e Anne Grillo sono andate insieme a Riad, per chiedere aiuto al governo saudita. I colloqui seguono il solco del vertice a tre del 29 giugno a Matera fra Antony Blinken, Jean-Yves Le Drian e il ministro degli Esteri saudita Faisal bin Fahran.
  L'obiettivo è convincere Riad a fornire dollari freschi, per evitare il dilagare degli iraniani. Ieri L'Orient-le-Jour, quotidiano francofono punto di riferimento dei cattolici, titolava sull'alleanza "naturale" fra sauditi e cristiani. Persino Israele ha offerto aiuti umanitari. L'obiettivo è evitare che Hezbollah si presenti come unica forza "responsabile". Il segretario generale Hassan Nasrallah continua a ripetere che l'alleato sciita è pronto «a fornire subito petrolio e medicinali». Il Partito di Dio riceve ancora valigie di dollari dall'Iran, al ritmo di 100 milioni al mese. Nelle aree sotto la sua influenza girano più soldi. I servizi di base, come ambulatori, scuole, sono rimasti in piedi. A Dahiyeh, la banlieue sciita di Beirut, specie nei quartieri più borghesi come Ghobeiri o Safarat Kuwait, l'impressione è che la crisi morda meno. Dalla Siria già arrivano i generici prodotti in loco, e le farmacie appaiono meno spoglie che nella ricca Ashrafieh cristiana. Per questo i Paesi occidentali si mobilitano. Francia, Italia e altri hanno lanciato il programma Rrrt, orientato soprattutto alla ricostruzione dei quartieri sopra il porto, come Gemmayzeh e Mar Mikhail. Mancano però il «governo tecnico» chiesto da Macron e i dieci miliardi di finanziamenti occidentali e del Golfo già promessi quattro anni fa alla Conference des Cèdres. Il braccio di ferro continua ma è ormai chiaro che chi arriverà primo «si prenderà il Libano».

(La Stampa, 10 luglio 2021)


La papessa Zan

La sua teoria è diventata battaglia politica in Italia. Judith Butler la filosofa-star che ha lanciato la grande rivoluzione del gender.

di Giulio Meotti

Studi con Gadamer in Germania, Butler insegna a Berkeley, dove vive con un'altra docente, e guida le campagne di boicottaggio d'Israele "In lei c'è una deliberata oscurità che seduce", ci spiega Jean François Braunstein, che a Butler ha dedicato un capitolo di un libro.
"C'è un disprezzo per il corpo umano, per la realtà fisica, che ricorda la Gnosi, l'eresia cristiana del secondo secolo" "Viviamo già in un mondo forgiato dalle idee di Judith Butler, dove si arriva a cancellare le parole 'donna'

[Il risalto in colore è stato aggiunto. NsI] I suoi testi sono astrusi, un verbiage indecifrabile, ma l’impatto del suo pensiero è impressionante e coinvolgente. E’ la professoressa di Berkeley che ha cambiato radicalmente il discorso sulla differenza e l’identità di gene, compresa l’Italia con la legge Zan. Fa il pieno di studenti e le sue idee sono state citate e attaccate anche dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nel 2004. In due libri dei primi anni Novanta, Judith Butler ha presentato una nuova concezione del gender. C’è una moltitudine aperta di generi che non sono vincolati alla distinzione biologica tra donne e uomini. Il sesso per Butler non è un fatto anatomico, ma creato dalla parola. Come nota Sylviane Agacinski, celebre femminista e sua critica, “per Butler tutto diventa effetto della parola, compresi i corpi stessi, come se la parola potesse avvolgere la vita e, in una certa misura, anticiparla”.
  La sua vocazione eterodossa nasce da quando con un rabbino della sua scuola di Cleveland l’allora quattordicenne Judith studiava l’esclusione di Spinoza dalla sinagoga di Amsterdam, mettendola in discussione. Butler oggi è una delle icone del boicottaggio di Israele, tanto che l’assegnazione del Premio Adorno da parte della città di Francoforte ha provocato proteste indignate dal Consiglio centrale degli ebrei tedeschi. Nel 2006, a un sit-in a Berkeley, Butler disse che “bisogna capire Hamas e Hezbollah come movimenti sociali progressisti, di sinistra, che fanno parte di una sinistra globale, è estremamente importante”. Poi ha precisato che, pur combattendo “il colonialismo”, quei movimenti usano mezzi non giustificabili.
  “Gender Trouble”, pubblicato nel 1990, ha reso Butler una star. Ha introdotto la “performatività”, l’idea che il genere sia qualcosa che facciamo continuamente. Una grande erudizione nata da una borsa di studio di un anno a Heidelberg, in Germania, dove è andata a studiare con Hans Georg Gadamer. Butler avrebbe poi attinto dalla French Theory, Foucault, Lévi-Strauss, Lacan, Irigaray, Wittig, Kristeva e de Beauvoir. Jack Halberstam quando è uscito “Gender Trouble” ricorda il libro come una rivelazione, una fuga dal “soffocamento” della politica identitaria dell’epoca. “Il femminismo accademico era pieno di problemi a quel tempo basati su frasi come ‘il personale è politico’, che aveva portato le persone a sedersi in cerchio tenendosi per mano e raccontandosi le proprie vite”, ha detto Halberstam. “‘Gender Trouble’ ha dato alle persone un modo di pensare in modo critico, filosofico, su cosa significa essere in una lotta politica in cui la categoria della femminilità, piuttosto che tenere insieme e coesistere, potrebbe benissimo frantumarsi e cadere a pezzi”. La filosofa Martha Nussbaum non è d’accordo e ha scritto un lungo saggio su Butler per il New Republic, dove scrive che Butler sta ignorando la “sofferenza materiale delle donne affamate, analfabete, violentate, picchiate” a favore di una ossessione “narcisistica sull’autopresentazione personale”. Butler, ad esempio, è a favore della prostituzione: “Non sono convinta che tutta la prostituzione sia forzata”, ha detto. “E’ una scelta che le persone fanno a determinate condizioni economiche. E posso pensare a molte forme di lavoro in cui le donne potrebbero non piacere molto, che desidererebbero avere un’altra serie di opzioni, ma non sono sicuro che la prostituzione sia la peggiore di loro. E credo che lo chiamerei lavoro sessuale piuttosto che prostituzione”. E’ arrivata a Berkeley dopo che “Gender Trouble” le ha aperto la strada. Nella Bay Area vive oggi con Wendy Brown, anche lei professoressa di Scienze politiche a Berkeley.
  “L’immensa fama di Judith Butler, negli Stati Uniti e poi ovunque nel mondo, si spiega senza dubbio con il carattere di ‘radicalità’ e ‘sovversione’ sotto il quale le piace presentare il suo lavoro” spiega al Foglio Jean-François Braunstein, docente di Filosofia alla Sorbona di Parigi e specialista di Foucault. Ad accomunarla a Butler è anche il fatto che Braunstein le ha dedicato un capitolo di “La Philosophie devenue folle: le genre, l’animal, la mort”. “Si dice che Butler abbia messo fine alla visione tradizionale della sessualità basata sulla coppia eterosessuale e che abbia finalmente permesso la liberazione di identità sessuali che erano state dominate o represse fino ad allora. Judith Butler è quindi prima di tutto un idolo degli attivisti gay e lesbiche, ma anche degli attivisti queer e transgender. La sua incredibile popolarità è dovuta anche alla doppia natura della sua opera, sia politica che filosofica. Butler è sia un’attivista per tutte le cause femministe e gay sia una delle fondatrici della teoria queer, che mira a mettere in discussione le identità maschili e femminili, gay e lesbiche. Parla spesso del trauma di fare coming out in una famiglia ebraica tradizionale. Si è anche espressa contro le politiche antiterrorismo americane post 11 settembre, così come contro le politiche israeliane, che lei critica severamente in nome della sua ‘identità ebraica’. Ma Butler non è solo un’attivista, è anche una filosofa di formazione, originariamente specializzata in filosofia tedesca, da Hegel alla Scuola di Francoforte. Le sue opere sono spesso piuttosto ‘tecniche’, condite di riferimenti alla ‘teoria francese’ (Derrida, Foucault) e alla psicoanalisi (Lacan). Ma sembra che questa oscurità sia essa stessa intesa ad evitare un ‘linguaggio normalizzato’. Come nota Butler in ‘Gender Troubles’, ‘chi decide i protocolli di ‘chiarezza’ e a quali interessi servono?’. Questa deliberata oscurità è senza dubbio uno degli elementi che rende le tesi di Butler così seducenti; la difficile impresa di leggerla dà la sensazione di accedere a un livello di verità superiore alle verità del senso comune. Bisogna aggiungere che Judith Butler è un’oratrice incantatrice, in senso letterale, che esercita una forte influenza su un pubblico che è stato comunque conquistato in anticipo”.
  C’è qualcosa di incendiario nella sua visione. “La grande idea di Judith Butler è che la propria identità non è legata al proprio sesso biologico ma al proprio ‘genere’, cioè alla sensazione che si ha di essere maschio o femmina, o eventualmente a questo o quell’altro genere. Ciò che conta per definirci non è più il nostro sesso biologico ma il genere con cui ci identifichiamo. In questo senso, Judith Butler fa parte di un profondo movimento di emancipazione, o più precisamente di evaporazione, del corpo che iniziò negli anni Cinquanta con lo psicologo John Money. E’ stato il primo a usare il termine ‘genere’ per designare la sensazione che si ha di essere un ragazzo o una ragazza, indipendentemente da qualsiasi substrato biologico. Per Money, ‘il comportamento e l’orientamento sessuale, maschile o femminile, non hanno una base innata, istintuale’ e deve essere possibile, crescendo un bambino come una ragazza, farlo diventare una ragazza. La sua teoria, dapprima lodata come rivoluzionaria, si rivelò in pratica un completo fallimento, con conseguenze disastrose, per il giovane ragazzo che era stato curato da Money. Ma ora è stato lanciato il movimento di emancipazione di genere. Dopo Money, la biologa Anne Fausto-Sterling è arrivata a contestare la binarietà sessuale della specie umana. Non ci sono due sessi, ci sono un numero infinito di generi: ‘Anche se la morfologia e la costituzione dei corpi sembrano confermare l’esistenza di due e solo due sessi, niente ci autorizza a pensare che i generi debbano essere limitati a due. La biologia che si ostina a pensare che ci siano due sessi e che la riproduzione nella specie umana sia sessuale è una scienza falsa, virilista e patriarcale’. Infine, per Butler è ormai il genere che determina non solo il sesso ma anche il corpo. Nel suo libro più famoso, Butler mira prima di tutto a recidere qualsiasi legame tra genere e sesso biologico. Il genere non deve essere visto come la ‘forma’ di una ‘materia’ preesistente che sarebbe il sesso: ‘non si può dire che i corpi abbiano un’esistenza significante prima del marchio del genere’. Infatti, se dovessimo ammettere che i sessi e i corpi hanno un’esistenza oggettiva, sarebbe la fine delle teorie di Butler. Secondo lei, è il genere che costituisce il sesso: ‘i presunti fatti naturali del sesso’ che la biologia pretende di imporci sono in realtà al servizio di interessi ‘politici e sociali’. I modelli dei corpi stessi sono costruiti da ‘discorsi’ e ‘poteri’. E’ dunque il genere che ‘esegue’ il sesso, come Butler mostra con il famoso esempio della drag queen che fa esistere in forma iperbolica ma anche parodica il genere che rimette in scena”.
  Ma dovremmo andare oltre. “Dopo aver negato l’esistenza fattuale del corpo in questo modo, dovremmo poi attaccare il genere. E’ necessario, secondo il titolo delle opere di Butler, ‘disturbare il genere’ o ‘disfare il genere’. L’identità di genere non dovrebbe essere stabile e sarebbe auspicabile poter passare da un genere all’altro a piacimento. Questo ideale di ‘fluidità di genere’, di ‘deriva’ da un genere all’altro (gender drifting), sarebbe quindi il futuro luminoso dell’umanità. Avremmo così finito con il sesso e con il corpo, ma anche con qualsiasi identità fissa. E’ sorprendente ma questo disprezzo contemporaneo per il corpo non può che evocare la Gnosi, l’eresia cristiana del secondo secolo, che considerava il corpo come una prigione o una tomba da cui ci si doveva liberare. Slavoj Zizek ha giustamente parlato di ‘cybergnosi’ in relazione a questo disprezzo contemporaneo per il corpo così come per il sesso”.
  Secondo Braunstein, le conseguenze sociali e culturali se questa visione diventasse egemonica sarebbero immense. “Viviamo già in un mondo che è stato plasmato dalle idee di Butler e di altri teorici del genere. Gli attivisti del genere sono ora estremamente attivi, non solo nel mondo accademico ma nella società in generale. Possiamo vedere che il termine ‘genere’ tende ora a sostituire il termine ‘sesso’ in molte istituzioni internazionali, che sono ampiamente penetrate da attivisti pro-gender. Il termine stesso ‘donna’ tende a essere cancellato, il che scandalizza molte attiviste femministe classiche che deplorano, per esempio, il fatto che i concorsi femminili siano ormai destinati a scomparire nei paesi in cui sono aperti a transgender maschi che si dichiarano donne e le cui prestazioni non sono paragonabili a quelle delle donne. Questa nozione di genere sta penetrando nelle scuole, soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Europa: in Scozia, ai bambini delle scuole elementari di cinque o sei anni viene insegnato che ‘il tuo genere è una tua scelta’. Si può facilmente immaginare la perplessità dei bambini di fronte a questi imperativi incomprensibili a un’età simile. E il personaggio ‘transgender’ è ormai diventato il nuovo eroe del nostro tempo, perché è colui che è riuscito a liberarsi da tutte le determinazioni, compresa quella più fondamentale, la differenza sessuale. E’ questa dimensione di ultima emancipazione che è l’ammirazione del nostro tempo. Le reti sociali e le industrie culturali ne stanno approfittando, con la conseguente esplosione del numero di bambini e adolescenti transgender. Nel Regno Unito, l’aumento dei casi trattati dal sistema sanitario nazionale all’interno del Gender Identity Development Service (Gids) è spettacolare: da 97 nel 2009-2010 a 2.590 nel 2017-2018. Bambini molto piccoli entrano in ‘percorsi di transizione di genere’ medicalizzati e forse chirurgici, senza che si faccia mai riferimento a un minimo principio di precauzione. Eppure alcuni giovani vogliono ora ‘detransitare’ per tornare al loro genere originale, e alcuni psicoanalisti stanno cominciando a organizzarsi per resistere a questa moda catastrofica. I pediatri americani hanno avvertito che ‘l’ideologia di genere fa male ai bambini’. Ma più in generale, al di là di Butler, lo scollamento tra sessualità e procreazione sta diventando sempre più importante nelle nostre società. In Francia in particolare, le leggi di bioetica tendono a rendere questo tipo di procreazione artificiale la regola. Non abbiamo idea di quali saranno le conseguenze civili di questa cancellazione radicale dei luoghi distinti di ‘padre’ e ‘madre’. Possiamo anche immaginare che la sessualità, tradizionale o meno, cadrà in disuso a vantaggio di altre forme di godimento più virtuali e narcisistiche. La liberazione radicale da ogni determinazione corporea che è evidentemente l’obiettivo finale della teoria del gender rischia così di avere tutta una serie di conseguenze che sembra difficile immaginare oggi”.
  C’è un fantasma che fluttua intorno all’istituzionalizzazione globale dell’identità di genere. Il suo nome è transumanesimo.

Il Foglio, 10 luglio 2021)


A Napoli ora c'è via Arafat. Ma il Comune dimentica gli israeliani Peres e Rabin

Per il Nobel alla Pace assegnato in condivisione con i leader ebrei

NAPOLI - Da Giuseppe Garibaldi a Yasser Ararat. Dall'eroe dei due inondi al leader dell'Olp. La seconda traversa dell'omonima piazza a due passi dalla stazione centrale cambia nome e assume quello di Arafat. La decisione è della commissione toponomastica comunale su proposta dell'assessore Alessandra Clemente. Era già stata approvata «in forma generica su proposta della Comunità palestinese di Roma e del Lazio e della Comunità palestinese di Napoli, presieduta da Dhafiq Kurtam.

 Lo sgarbo
  La scelta della commissione potrebbe provocare polemiche perché quello di Arafat resta comunque un nome «divisivo», la scelta infatti non sarebbe particolarmente stata apprezzata dalla Comunità ebraica perché la procedura dell'intitolazione, avviata nel 2017, era motivata dal fatto che ad Arafat era stato tributato il Nobel per la pace. Ma in questo modo l'amministrazione sembra aver dimenticato che, nel 1994, quell'autorevolissimo riconoscimento venne tributato dall'Accademia di Svezia ad Arafat in condivisione con i leader israeliani Shimon Peres e Yitzhak Rabin. La motivazione: gli sforzi comuni nel processo di pace in Medio oriente culminati con gli accordi di OsIo. Finì nei libri di storia la foto con cui il 13 settembre del '93, nel cortile della Casa Bianca, davanti a Bill Clinton, Rabin e Arafat si strinsero la mano ed era la prima volta che i due leader lo facevano in pubblico.

(Il Corriere del Mezzogiorno, 10 luglio 2021)


In Israele crescono i casi: primi due morti da giugno

GERUSALEMME - Israele ha registrato due morti per Covid-19, dopo che non vi erano stati più decessi dal 23 giugno. Prima di questa data non vi erano stati morti per oltre una settimana. La notizia delle due vittime arriva mentre il Paese, con un tasso di vaccinati fra i più alti del mondo, sta sperimentando una ripresa di contagi legata alla variante Delta e Delta Plus. Nelle ultime 24 ore vi sono stati 518 casi positivi, superando per il terzo giorno consecutivo la soglia di 500. Le vittime sono un uomo non vaccinato di 48 anni, che non aveva particolari problemi preesistenti di salute, e un 86enne, che aveva ricevuto due dosi di vaccino. Al momento ci sono 3.568 casi attivi in Israele. Le persone ricoverate sono 78 persone, di cui 46 gravi. Nel Paese di 9,3 milioni di abitanti, quasi 5,7 milioni di persone hanno ricevuto almeno una dose e 5,2 milioni sono totalmente vaccinati.

(Avvenire, 9 luglio 2021)


Incontro segreto tra Bennet e Abdullah di Giordania. Amman preoccupa

Aumentata drasticamente la quantità di acqua che Israele fornisce alla Giordania. Ma non solo...

di Sarah G. Frankl

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett e Re Abdullah di Giordania si sono incontrati in segreto la scorsa settimana al palazzo della corona ad Amman.
  La stabilità del regno Hascemita preoccupa moltissimo sia Israele che gli Stati Uniti che infatti hanno programmato un incontro a Washington tra il Presidente Biden e Re Abdullah per la fine di luglio.
  Nell’incontro tra il Re giordano e il Premier israeliano si è deciso di aumentare drasticamente la quantità di acqua fornendo 50 milioni di metri cubi nel 2021.
  La Giordania sta vivendo una grave carenza d’acqua da mesi e a marzo ha presentato una richiesta a Israele per ulteriori forniture.
  L’allora primo ministro Benjamin Netanyahu ha approvato la richiesta dopo diverse settimane garantendo pero solo 5 milioni di metri cubi d’acqua contro gli otto chiesti dalla Giordania. I 50 milioni di metri cubi garantiti da Bennet dimostrano come Israele sia preoccupato per la stabilità della Giordania che proprio a causa della carenza d’acqua viene messa in pericolo.
  La Fratellanza Musulmana sta usando infatti la scarsità d’acqua come pretesto per mettere in discussione Re Abdullah.
  Ma non è solo la siccità a mettere in pericolo il prezioso regno giordano. Anche le difficoltà economiche aggravate dalla pandemia di COVID e la dura repressione politica contribuiscono a destabilizzare la Giordania.
  Fino ad oggi, a parte qualche crisi isolata, tra Gerusalemme e Amman c’è sempre stato un ottimo rapporto anche perché la Giordania ha sempre contribuito a mantenere la pace regionale e si è sempre posta in posizione di negoziatore tra l’Islam e il resto del mondo.
  Per questo motivo era il bersaglio dello Stato Islamico e sempre per questo motivo la Fratellanza Musulmana cerca di destabilizzarla.
  Proprio i Fratelli Musulmani erano probabilmente (ma non ci sono prove) dietro al tentativo di colpo di Stato messo in opera ad aprile dal fratellastro di re Abdullah, il principe Hamzah.
  La Giordania è troppo importante per la stabilità del Medio Oriente per essere lasciata al proprio destino.
  Bennet lo ha capito e per questo non ha esitato un momento a garantire le risorse idriche di cui il regno Hascemita aveva bisogno.

(Rights Reporter, 9 luglio 2021)


Gli Usa plaudono all’accordo dell’acqua tra Israele e Giordania

MILANO - "Passi tangibili che aumentano la prosperità per tutti e promuovono la stabilità regionale". Gli Stati Uniti accolgono con favore l'annuncio che Israele e il Regno di Giordania hanno avviato accordi commerciali che rafforzano la cooperazione civile tra i due Paesi e "sosterranno il popolo palestinese consentendo un aumento degli scambi tra la Giordania e la Cisgiordania". Così Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato Usa.
    La scorsa settimana secondo indiscrezioni di stampa, il premier israeliano Naftali Bennett ha incontrato segretamente re Abdallah di Giordania nel palazzo ad Amman per concludere accordi che riguardano anche la vendita di acqua al regno.
    Secondo la dichiarazione del portavoce Price, "questi accordi miglioreranno l'accesso della Giordania all'acqua dolce, di ulteriori 50 milioni di metri cubi quest'anno, e consentiranno alle esportazioni giordane in Cisgiordania di passare da 160 milioni di dollari di un anno fa, a circa 700 milioni di dollari".

(askanews, 9 luglio 2021)


Gadeer Kamal-Mreeh, una drusa per l’Agenzia Ebraica negli Stati Uniti

di Claudia De Benedetti

L’Agenzia Ebraica per Israele ha nominato la nuova shlichà, emissaria, negli Stati Uniti: è Gadeer Kamal-Mreeh, 36 anni, drusa, attualmente impiegata alla Knesset.
  La notizia è stata accolta ovunque con sorpresa e stupore: certo è una novità non da poco che la giovane non sia ebrea ma è al tempo stesso un segnale della straordinaria vivacità culturale e dell’ampiezza di vedute di una istituzione che, malgrado la sua struttura tutt’altro che moderna, non perde occasione di dimostrare la sua lungimiranza.
  “Sono una donna in carriera, mi considero liberal - dice di sé - ho fatto la presentatrice televisiva, mi sento parte integrante della mia comunità e del mio paese. Essere israeliana non ebrea, non musulmana, non cristiana, arricchisce straordinariamente la mia identità, mi aiuta a superare gli stereotipi.”
  I drusi si considerano arabi di madrelingua araba. Il legame con il popolo ebraico risale alla Bibbia e alla figura di Yitro, suocero di Mosè, sono circa un milione nel mondo, vivono tra Libano e Siria. In Israele la popolazione drusa ammonta a circa 143.000 persone giunte durante il Mandato Britannico, rappresentano meno del 2% dei residenti. Abitano principalmente nel nord del paese: a Carmel, in Galilea e nelle alture del Golan; l’85 % dei giovani svolge il servizio militare prediligendo le unità di combattimento.
  A Washington D.C. lei porterà un’aria nuova e lo ha dimostrato fin dal suo primo tweet in cui ha scritto: “Sono onorata di rappresentarci in Nord America. Un privilegio e una sfida! Racconterò la storia, l’identità e la bellezza di Israele accompagnando chi intraprenderà il percorso per trasferirsi in Israele”.
  Prima tappa del nuovo incarico di Mreeh sarà l’inizio dell’anno scolastico e l’incontro con gli studenti dei College americani. “Cruciali nella lotta all’antisemitismo in un periodo in cui la recrudescenza del fenomeno è tangibile”. Farà tappa nelle istituzioni più blasonate ma anche nei centri più periferici. Nei mesi autunnali costruirà un format che permetterà di avvicinare attivisti e testimonial e di programmare eventi che culmineranno con le celebrazioni di Chanukkà prima e di Yom Hazikaron e Yom Ha’Azmaut.
  Daniel Elbaum, presidente e CEO di Jewish Agency International Development (JAID) e capo dell’Agenzia Ebraica in Nord America ha spiegato: “Con l’incarico a Mreeh intendiamo far capire come anche i non ebrei possono essere i migliori testimonial dello Stato d’Israele. Appartengono a delle minoranze con grandissime eccellenze nei settori cardine dell’economia e della politica israeliana, senza trascurare lo sport, la medicina e l’arte. La loro storia è la nostra storia e vogliamo raccontarla e farla conoscere agli americani”.

(Shalom, 9 luglio 2021)


Joe il pacifista taglia i fondi per la pace

Biden blocca i finanziamenti agli Accordi di Abramo. Congelati tre miliardi stanziati da Trump. Si raffreddano anche le relazioni diplomatiche fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti

di Andrea Morigi

Sono spariti i soldi «per promuovere la cooperazione economica e incoraggiare la prosperità nel Medio Oriente e oltre». Erano più di tre miliardi di dollari, gestiti dal Fondo Abraham e stanziati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump e da istituzioni finanziarie private nel settembre 2020, come segno concreto della volontà americana di far avanzare il processo di pace fra Israele e i Paesi vicini.
   Commerciare e concludere affari è l'antidoto principale alla guerra. Quando si smette di muovere capitali, è un segno opposto alla distensione.
   Appena è arrivato al potere Joe Biden, il gestore del Fondo, il rabbino Aryeh Lightstone, si è dimesso e l'amministrazione Usa ha fatto sapere a Gerusalemme che tutte le attività connesse andranno «riviste», mentre una fonte di alto livello, citata dalla rivista israeliana Globes, ha precisato che la Casa Bianca, benché si auguri il successo degli Accordi di Abramo, ne farà avanzare la parte diplomatica, ma ha «definitivamente congelato» il Fondo. Una delle ragioni addotte pare sia la crisi economica causata dalla pandemia, che avrebbe dirottato il denaro verso la spesa interna.

 GLI INVESTIMENTI
  In realtà, i Dem sembrano intenzionati a ribaltare le politiche dei Repubblicani. Del resto, Antony Blinken, il neosegretario di Stato americano, durante la sua visita a Roma il mese scorso ha fatto sapere come la pensa sugli Accordi di Abramo: «Non sono un sostituto per affrontare le questioni tra israeliani e palestinesi che devono essere risolte».
   Ma il primo segnale era arrivato subito dopo l'insediamento del neopresidente, con il blocco di una commessa multimilionaria di armamenti agli Emirati Arabi Uniti, che comprendeva 50 aerei caccia F-35, proprio quelli che Trump intendeva come incentivo per portare Abu Dhabi al tavolo delle trattative con Israele. Poi, nell'aprile scorso, la consegna è stata confermata, anche se rimandata almeno al 2025.
   Così, anche il principe ereditario degli Emirati, Mohamed Bin Zayed, ci sta ripensando. Nei suoi programmi, c'era un megainvestimento da 10 miliardi nel settore privato, da realizzare nelle infrastrutture, nella sanità, nella ricerca spaziale, nell'innovazione energetica e industriale. Ma occorre il consenso della controparte per spenderli. E nemmeno il nuovo governo di Naftali Bennett che si è insediato a Gerusalemme sembra mostrarsi sensibile nei confronti delle opportunità create dal predecessore Benjamin Netanyahu. Tanto che, durante la sua recente visita negli Emirati, il ministro degli Esteri israeliano Yann Lapid ha firmato un accordo quadro sull'economia e il commercio con l'omologo Abdullah Bin Zayed Al Nahyan e «altri verranno firmati a luglio in Israele», ha annunciato il capo della diplomazia israeliana. Ma per «pensare, sviluppare, cambiare il mondo insieme» la collaborazione deve passare «dai governi al business fino alle persone», ha spiegato Lapid. Poi, a sorpresa, ha cancellato un incontro con gli imprenditori locali pronti a trasferire denaro fresco nello Stato ebraico.
   Quindi, per ora, i progetti rimangono sulla carta. In particolare, l'impasse rischia di fermare lo sviluppo degli accordi per la costituzione della Europe-Asia Pipeline Company, che dovrebbe trasportare petrolio dal Golfo Persico a Israele, per essere infine fornito alle raffinerie del Mediterraneo.

 L'AMBASCIATA VUOTA
  Raffreddatisi gli entusiasmi, anche la ripresa delle relazioni diplomatiche bilaterali sembra segnare il passo. Secondo il sito web The Jewish Press, a testimonianza della scarsa volontà della nuova maggioranza politica di procedere sulla strada aperta dai predecessori, mancherebbero perfino i quattrini per arredare i locali della nuova ambasciata di Israele e la residenza privata del rappresentante di Gerusalemme a Dubai sarebbe rimasta vuota.
   A meno di un anno dagli Accordi di Abramo, firmati il 15 settembre 2020, che aprirono la strada alla normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico gli Emirati e anche col Bahrein, insomma, la prospettiva rimane ancora quella di un matrimonio d'interesse. Ma, se quest'ultimo viene a mancare, rischia di sfumare anche lo sposalizio. E, con esso, la stabilità geopolitica della regione.

Libero, 9 luglio 2021)


Per Netanyahu accuse con rinvio

L'ennesimo rinvio nel processo a carico dell'ex premier israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto slittare l'udienza a oggi. Mancano poche settimane a Rosh Hashanah, il capodanno ebraico che cade tra il 6 e l'8 settembre: i giornali sottolineano che ci sarà poco tempo da qui alla sosta per le Festività e il processo finirà per rallentare ancora. Ma il rinvio concesso dalla Corte è sembrato inevitabile: serviva alla difesa per analizzare 350 mila messaggi e mail di Ilan Yeshua, ex Ceo del sito di notizie Walla!, che ha un ruolo non indifferente in questa storia.
   Ricapitolando: Bibi Netanyahu è accusato di aver favorito politicamente ed economicamente, dal 2014 al 2017, l'imprenditore Shaul Elovitch, ex proprietario della compagnia di telecomunicazioni Bezeq, in cambio di una copertura molto benevola sui media controllati da Elovitch, tra cui appunto il sito di news Wallal. Secondo l'accusa, Netanyahu e i suoi familiari avrebbero più volte dettato la linea editoriale da tenere su vicende che li riguardavano e imposto la pubblicazione di alcuni contenuti. L'ex Ceo del portale, Yeshua, è il primo testimone importante del "Caso 4000": le ingerenze, ha detto, erano continue.
   La linea degli avvocati difensori dell'ex primo ministro punta invece a stabilire che Bibi e la sua famiglia facessero pressioni come molti altri politici, aziende e imprenditori (e ne cercano traccia nel telefono di Yeshua).

(Corriere della Sera, 9 luglio 2021)


Lievissima guerra

Israele ha colpito un altro sito nucleare dell’Iran, le milizie martellano con i droni suicidi.

di Daniele Raineri

ROMA - Una sequenza brutale di attacchi in medio oriente tra israeliani, americani e iraniani sottopone a una pressione enorme la politica estera dell’Amministrazione Biden, che invece vorrebbe molta diplomazia soft e pochi problemi. Lunedì sera quattro droni esplosivi lanciati dalle milizie legate all’Iran si sono schiantati vicino all’ambasciata americana a Baghdad e a una base militare americana, Union III, a poca distanza dall’ambasciata. Sono droni che seguono una rotta preimpostata con il Gps quindi non hanno bisogno di essere pilotati da remoto, possono portare decine di chilogrammi di esplosivo e sono prodotti con tecnologia fornita dall’Iran. Prima le milizie lanciavano razzi, ma da aprile usano un misto di razzi, che sono più economici, e droni, che sono più precisi. Lo stesso giorno, le milizie hanno sparato tre razzi contro la base americana di al Asad, in Iraq ma più a ovest. Martedì sera le milizie hanno lanciato un altro drone contro la base americana dentro all’aeroporto di Erbil, nel Kurdistan iracheno. “Volevano colpire un bersaglio specifico e importante, ma non ci sono riusciti”, dice il comunicato degli americani, che però non specifica quale bersaglio. Ad aprile un drone aveva centrato l’hangar nella base di Erbil che ospita la Cia. Ieri le milizie hanno lanciato un drone contro la base americana di al Omar, in Siria, e quattordici razzi di nuovo contro la base di al Asad in Iraq.
  Di fatto le milizie dell’Iran giocano d’azzardo, perché questi attacchi colpiscono a caso dentro le basi e se uccidessero uno o più americani la notizia finirebbe in televisione e sulle prime pagine dei giornali e ci sarebbe un’escalation – che l’Amministrazione Biden non vuole, ma a quel punto non potrebbe evitare.
  Spesso i militari americani riescono a neutralizzare i droni all’ultimo momento con il Cram, un ingombrante sistema che segue l’arrivo dei droni sul radar e attiva una mitragliatrice ad altissima cadenza di fuoco che spara una raffica verso l’intruso. Gli attacchi avvengono con il buio, il Cram quando risponde produce un caratteristico rumore da tritatutto elettrico e lunghe scie di proiettili traccianti nel cielo, e tutto questo avviene nel mezzo di zone abitate: la capitale Baghdad, l’aeroporto di Erbil che è contiguo alla città curda, le case attorno alla base di al Asad. Sono scene di guerra che fanno parte di un quadro surreale, da sdoppiamento della personalità: nelle stesse settimane dei negoziati internazionali al Grand Hotel di Vienna con l’Iran, i combattenti che prendono ordini dall’Iran bombardano le guarnigioni americane in Iraq e in Siria. Gli americani rispondono nella speranza di ristabilire un minimo di deterrenza: l’Amministrazione Biden ha ordinato un bombardamento con gli aerei il 28 giugno contro le basi delle milizie e un altro era già stato autorizzato a febbraio. Così, sul piano ufficiale americani e iraniani discutono (in via indiretta, tramite mediatori europei) con ragionevoli speranze di successo la resurrezione dell’accordo nucleare del 2015. Sul piano pratico invece, sul piano della schizofrenia mediorientale, si scambiano bombardamenti. E questi attacchi e i raid di risposta fanno parte di uno scontro più grande al quale partecipano altri soggetti – e il primo è Israele. Il 23 giugno in Iran c’è stata un’esplosione nella fabbrica che produce centrifughe atomiche a Karaj, pochi chilometri a ovest della capitale Teheran. L’agenzia di stato iraniana ha parlato di un attacco “sventato” che non avrebbe prodotto danni, il New York Times ha parlato di un attacco con un drone (è tutto un incrociarsi di droni), il Jerusalem Post nega l’attacco con il drone e parla di un’esplosione dall’interno. Il 3 luglio l’Intel Lab, un’azienda privata israeliana che analizza immagini satellitari, ha scoperto che nel tetto della fabbrica c’è un foro attraverso il quale si vedono danni – e due giorni fa gli iraniani hanno messo un nuovo tetto per coprire tutto. La scoperta smentisce il governo iraniano, che già aveva cercato di minimizzare l’esplosione devastante di una bomba dentro il bunker sotterraneo del sito nucleare di Natanz l’11 aprile scorso. E’ molto probabile che gli israeliani in qualche modo siano riusciti a colpire la fabbrica delle centrifughe, nello sforzo continuo di rallentare l’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. Sarebbe la prima azione visibile dei servizi segreti israeliani dopo l’arrivo il primo giugno del nuovo direttore David Barnea al posto di Yossi Cohen.
  Nel giorno stesso della scoperta del foro, una nave da carico israeliana in navigazione vicino agli Emirati arabi uniti è stata colpita da un’esplosione e da un incendio a bordo. Questi attacchi alle navi fanno parte di una faida marittima fra iraniani e israeliani che va avanti da anni, ma questa sarebbe la prima volta che gli iraniani attaccano in reazione a un sabotaggio avvenuto a terra (quello nella fabbrica di centrifughe). Il 5 luglio è scoppiato un incendio molto vasto nella zona industriale di Karaj, la stessa della fabbrica di centrifughe atomiche, ma è difficile capire sotto il velo dell’opacità iraniana se si tratta di un secondo attacco oppure di un normale rogo – soprattutto in questo periodo di frequentissimi blackout estivi che stressano la griglia elettrica e provocano cortocircuiti. Aspettarsi indicazioni dalle fonti ufficiali del regime è inutile. Anche questi attacchi clandestini, eseguiti molto probabilmente da un gruppo di iraniani creato dai servizi israeliani, come gli atti di guerra in Iraq e in Siria, non interferiscono con la liturgia ufficiale dei negoziati nucleari, che vanno avanti in Europa e portano verso un risultato atteso sia dall’Iran sia dall’Amministrazione Biden: il recupero del deal atomico. Ma è tutto affidato al caso e la calma di adesso non potrà sopportare ancora a lungo questo ritmo – dodici attacchi in un solo mese contro le basi americane soltanto in Iraq.

Il Foglio, 8 luglio 2021)


Attacchi iraniani a basi USA: colpita anche l'ambasciata americana a Baghdad

Gli attacchi possono essere considerati come “attacchi iraniani” in quanto, come sempre, Teheran delega vigliaccamente gruppi sciiti esterni non avendo il coraggio di attaccare a viso aperto.

di Sadira Efseryan

Le milizie sciite in Siria e in Iraq che fanno capo all’Iran, negli ultimi giorni hanno portato diversi attacchi contro basi americane nei due paesi mediorientali, attacchi culminati con quello di questa mattina quando tre razzi sono stati sparati contro l’ambasciata americana a Baghdad.
  Secondo osservatori locali sentiti da RR si tratterebbe della risposta iraniana agli attacchi americani della fine di giugno contro le basi dei gruppi sciiti che fanno capo a Teheran.
  L’ambasciata americana non è stata colpita, i tre razzi sono caduti nella zona verde a pochi metri dal complesso diplomatico americano. Tuttavia il gesto è gravissimo.
  Ieri quattordici razzi sono stati lanciati contro la base aerea Ain al-Assad che ospita truppe americane nella provincia occidentale di Anbar, causando lievi ferite a due membri del personale.
  Martedì le forze curde in Siria, alleate degli Stati Uniti, hanno affermato di aver sventato un attacco con droni nell’area del giacimento petrolifero di al-Omar.
  A rivendicare gli attacchi è stato il gruppo sciita Revenge of al-Muhandis Brigade.
  Il gruppo che fa capo a Teheran prende il nome da Abu Mahdi al-Muhandis, ucciso in un attacco americano all’inizio dello scorso anno insieme al generale iraniano Qassem Soleimani.
  Gli attacchi possono essere considerati come “attacchi iraniani” in quanto, come sempre, Teheran delega vigliaccamente gruppi sciiti esterni non avendo il coraggio di attaccare a viso aperto. È l’Iran infatti a finanziare ed armare questi gruppi sciiti che diventano il suo braccio armato.

(Rights Reporter, 8 luglio 2021)


L'arma di Israele contro Hamas? gli sciami di droni

Il "New Scientist" rivela che a maggio l'esercito israeliano ha sconfitto i terroristi utilizzando l'intelligenza artificiale, che permette ai velivoli di coordinarsi tra di loro senza necessità di un pilota da terra.

Per la prima volta al mondo, Israele ha usato uno sciame di droni per dare la caccia ai terroristi di Hamas. I droni non vengono guidati dagli umani, ma si collegano tra di loro utilizzando l’intelligenza artificiale per cercare i bersagli.
  La tecnica è stata utilizzata nei giorni del conflitto di maggio, quando Hamas ha dato il via alla battaglia sparando razzi su Israele dopo le proteste palestinesi. Il conflitto è durato 11 giorni ed è costato la vita a 256 persone a Gaza e 13 in Israele.
  Durante il conflitto, secondo l’esercito israeliano, da Gaza sono stati sparati più di 4.300 razzi. Israele ha reagito con attacchi aerei e artiglieria, ma non ha schierato forze di terra. Il New Scientist ha svelato che le forze israeliane hanno usato sciami di droni per colpire Hamas.
In precedenza i droni venivano guidati da un operatore che perlustrava l’aerea da remoto. Ma negli ultimi anni i militari hanno lavorato allo sviluppo dell’intelligenza artificiale che consente ai droni di lavorare insieme senza la necessità di un operatore.
  L’idea alla base dello sciame animato dall’AI è fare in modo che le macchine prendano decisioni tra di loro. Il gruppo continua la missione anche se perde alcuni pezzi. Il sistema di apprendimento automatico è alimentato con dati provenienti da satelliti, altri droni da ricognizione e veicoli aerei, nonché da informazioni raccolte da unità di terra.
  L'Unità 8200 del Corpo di intelligence delle forze di difesa israeliane ha sviluppato algoritmi che utilizzano dati geografici, di segnale e di intelligence umana per identificare i punti strategici di attacco. L'IDF ha utilizzato l'intelligenza artificiale e i supercomputer per identificare i luoghi dell'attività di Hamas e pianificare attacchi per rimuovere qualsiasi vantaggio strategico.
  L'IDF non ha confermato alcun dettaglio dell'attacco autonomo dello sciame agli obiettivi di Hamas. Oltre a Israele, diversi paesi tra cui Regno Unito, Russia, Stati Uniti e Cina hanno lavorato sugli sciami di droni.
  Desta preoccupazione, tuttavia, la possibilità le armi autonome commettano errori. Human Rights Watch sta conducendo una campagna chiamata Stop Killer Robots. «Ci sono seri dubbi sul fatto che armi completamente autonome sarebbero in grado di soddisfare gli standard del diritto umanitario internazionale», sostiene l’organizzazione. Tra queste ci sono “le regole di distinzione, proporzionalità e necessità militare, mentre minaccerebbero il diritto fondamentale alla vita e il principio della dignità umana”.

(Dagospia, 8 luglio 2021)


Israele, riflettori sul turismo

“Israele ha somministrato il vaccino ad oltre il 58% della popolazione e già dallo scorso mese di aprile ha tolto l’obbligo della mascherina all’aperto. La vita è ripresa nella sua vivacità e dinamica normalità, aprendo totalmente ristoranti, teatri e cinema, ma soprattutto spiagge, parchi e siti turistici pronti ad attendere i turisti che arriveranno a partire dal I agosto”. E' quanto ha dichiarato Kalanit Goren Perry durante la conferenza stampa organizzata dall’Ufficio Nazionale israeliano del Turismo
  E parlando di novità sono stati presentati percorsi nuovi che si apprestano ad accogliere turisti provenienti da tutto il mondo in una dimensione di turismo “slow”, dove anche il turismo a piedi sarà protagonista.Ecco allora la presentazione di nuovi percorsi come il cammino di Emmaus, un sentiero che dall’area di Abu Gosh si snoda nella natura per 20km fino a Gerusalemme. Il percorso è stato realizzato grazie all’impegno della fondazione Saxum. Parlando di sentieri a piedi, una delle novità è anche il percorso che dalla Galilea giunge fino alla splendida località di Ein Karem, il luogo della visitazione di Maria ad Elisabetta e dell’esternazione del Magnificat .
  Alle novità dei percorsi a piedi si somma anche la possibilità di organizzare eventi culturali ed appuntamenti spirituali all'interno dei Parchi grazie alla collaborazione tra il Ministero del Turismo di Israele e l'Autorità dei Parchi .E parlando di novità, interessante e davvero da scoprire anche l'offerta dei nuovi musei: primi tra tutti lo splendido Terra Sancta Museum dove tra archeologia e storia sarà possibile scoprire interessantissimi reperti dal I sec a.C. in avanti, oltre ad esempi di doni che le differenze case reali hanno donato ai francescani nel corso dei secoli scorsi.
  Infine, novità di hotel ed Ostelli pronti ad accogliere turisti che potranno fruire dei nuovi eventi che Israele si appresta ad organizzare come il Jerusalem Film Festival del prossimo mese di Agosto o l'appena concluso Pride di Tel Aviv. Il Ministero del Turismo di Israele ha lanciato un nuovo claim "Israele ti aspetta" per evidenziare le novità. la varietà delle offerte e la privilegiata relazione tra l'Italia e questa splendida Terra.

(Turismo & Attualità, 8 luglio 2021)


La prima sconfitta parlamentare di Bennett mette in dubbio la tenuta del governo

di Ugo Volli

Sono bastate tre settimane dalla formazione del governo Bennett (23 giugno) per certificare, con la prima votazione parlamentare importante, che la crisi politica israeliana non è affatto conclusa. La questione in gioco era il prolungamento di una legge che stabilisce un’eccezione al principio dei ricongiungimenti familiari, per cui i coniugi di cittadini israeliani hanno diritto a ottenere lo status di residenti e quindi a soggiornare a tempo indeterminato nel paese. Questa eccezione riguarda in particolare i cittadini dell’Autorità Palestinese. È una disposizione provvisoria, che deve essere rinnovata ogni anno e serve soprattutto a evitare ingressi truffaldini e pericolosi. Negli ultimi anni la legge era sempre stata fatta passare facilmente dalla maggioranza di centrodestra, in particolare dal Likud, mentre era osteggiata dall’estrema sinistra di Meretz e dai partiti arabi.
  Ora però la nuova maggioranza di governo (che è sempre sul filo del rasoio, la fiducia alla formazione del governo è stata approvata per 61 voti a 59) va dall’estrema sinistra ai partiti arabi al centrosinistra di Lapid e Gantz fino alla destra di Bennett e dunque su molte questioni come questa non ha una posizione comune. La condizione necessaria per la formazione di un governo così disomogeneo, imposta a tutti da Yair Lapid, l’uomo forte della maggioranza, è stata di evitare di discutere dei problemi divisivi, che però sono quasi tutti quelli importanti. Alla base del governo non vi è né un consenso ideologico né un accordo generale, ma solo compromessi su alcune singole questioni, per lo più poco problematiche: costruzione di università e ospedali, riorganizzazioni organizzative, ecc. Sulle altre questioni ogni parte della maggioranza si comporta come crede.
  Così è andata anche sul problema della legge dei ricongiungimenti familiari. Bennett e il suo partito l’ha proposta e appoggiata, ottenendo l’accordo delle componenti di centrosinistra, ma il rifiuto degli arabi e di Meretz. Il nuovo primo ministro sperava, o meglio pretendeva che la destra desse il suo appoggio alla legge, perché l’aveva votata in passato. Ma le leggi sono atti politici, che dipendono dal contesto parlamentare. Perciò Bennett non ha nemmeno cercato di aprire una trattativa col Likud e ha cercato la prova di forza, ma i parlamentari di destra sono rimasti compatti all’opposizione.
  Una regola fondamentale delle democrazie parlamentari, in Israele come in Italia e altrove, è che la vita di ogni governo è affidata all’autosufficienza della maggioranza. Salvo casi molto particolari, in genere non politici, che implicano la possibilità dell’obiezione di coscienza, o di autentica emergenza, la maggioranza deve far passare le leggi che propone con le sue forze. Se ciò non accade su casi importanti è segno che la maggioranza non tiene e che il governo è destinato a cadere. Sulla base di questo principio e di questa speranza la destra si è rifiutata di fare da “ruota di scorta” della maggioranza che l’ha esclusa e ha votato contro la legge, bocciandola. A nulla è servita una trattativa molto spregiudicata in cui il braccio destro di Bennett, il ministro degli interni Ayelet Shaked, ha cercato di procurarsi i voti degli arabi di Ra’am e della sinistra di Meretz, promettendo loro 3000 visti per cittadini dell’Autorità Palestinese. Questo mercato ha convinto solo due deputati di Ra’am e però ha disgustato un parlamentare del partito di Bennett che ha votato contro.
  Bennett, invece di prendersela con i suoi compagni di governo che non hanno sostenuto la sua prima legge importante, ha polemizzato con l’opposizione che non ha accettato di sostituirli. Ora, avendo perso già due volte con questa legge (in commissione e poi in aula), ha dichiarato di volerla ripresentare. È possibile che riesca alla fine a farla passare, ma il problema non è questa legge, bensì il problema molto più fondamentale, di un paese che ha bisogno di essere governato, di fare scelte strategiche chiare, di formulare piani a lunga scadenza e che è governato da una maggioranza divisa nei progetti e nei valori, incapace di trovare accordi o anche solo compromessi sui temi di fondo. Alla prossima prova importante è possibile che ci siano altre dissidenze, altre polemiche, altre paralisi. La crisi politica israeliana, purtroppo, non accenna a finire.

(Shalom, 7 luglio 2021)


Hamas e Jihad Islamica, i campi estivi per minori dove si insegna l’odio e la guerra

Ci sono campi estivi dove i ragazzi si divertono, giocano fra loro e svolgono numerose attività ludiche. Ce ne sono altri, invece, dove gli adolescenti vengono indottrinati all’odio e formati per combattere una guerra, che non dovrebbero neanche conoscere.
  Una guerra che Hamas e Jihad Islamica vogliono far vivere loro in prima persona. Perché per i due gruppi terroristici palestinesi, la guerra è un affare per bambini, che non vanno protetti, ma utilizzati per i propri scopi.
  Una vergogna che invece di essere nascosta, va avanti da anni e viene pubblicizzata ripetutamente anche per mezzo di video propagandistici che si trovano sul web.
  Basti pensare a Abu Billal, un portavoce delle Brigate al-Kassam, che ha ammesso pubblicamente che le iscrizioni hanno superato le previsioni.
  A chi pensa che il terrorismo palestinese sia gestito da persone inesperte, dovrà ricredersi anche in virtù della trovata di marketing: i campi estivi dove si insegna l’odio e a diventare baby-soldati sono gratis. Secondo le stime del Jerusalem Post sarebbero 50mila i ragazzi che vi hanno partecipato.
  Sì, avete letto bene, 50mila ragazzi tra i 14 e 17, cui viene insegnato che Israele è il male e causa delle disagiate condizioni di vita di gran parte del popolo palestinese della Striscia di Gaza.
  Popolo palestinese che è vittima di questa storia. Quel popolo palestinese inconsapevole che i suoi problemi non sono frutto delle decisioni prese nelle segrete stanze del governo di Gerusalemme, ma a casa loro, dalle stesse persone che mandano i loro figli in guerra. Uno spostamento delle responsabilità su cui da anni si gioca il conflitto tra il terrorismo palestinese e Israele.
  Scontato, ma doveroso ribadirlo, è che la prima vittima dei campi estivi dell’odio sono i ragazzi, cui viene rubata l’adolescenza e la possibilità di sognare un futuro migliore. Un futuro che per loro non diventa sinonimo della realizzazione dei loro sogni e obiettivi, ma di quelli dei terroristi palestinesi.
  L’altra vittima (consapevole?) è parte della Comunità internazionale, che punta il dito contro Israele. E l’ha puntato sempre di più nel maggio scorso quando durante l’escalation voluta da Hamas, sono morti diversi minori palestinesi, le cui foto sono state pubblicate dal New York Times, di cui più di uno si è scoperto essere un bambino-soldato di Hamas.
  La morte dei bambini è un’aberrazione della vita. Ma se questi bambini vengono utilizzati per demonizzare Israele, le colpe vanno ricercate nei capi di Hamas e Jihad Islamica, che giocano sulla pelle del loro popolo, costringendolo a una vita di stenti.
  Chi condanna Israele, condannerà mai questi campi estivi voluti da Hamas e Jihad Islamica?

(Progetto Dreyfus, 7 luglio 2021)


Israele - Record di immunizzati ma i contagi risalgono. E tornano i divieti

di Sharon Nizza

Record di contagi in Israele: ieri 501, il numero più alto da marzo. La variante Delta è la causa del 90% dei nuovi focolai nel Paese con il più alto tasso di immunizzazione al mondo (65% della popolazione). L’indice R è salito a 1.43, così come il tasso di positività allo 0,7%. Da inizio luglio, sono stati diagnosticati 2.024 positivi: a giugno erano 2.389. A fronte di questi dati preoccupanti, non vi è stato nessun decesso da Covid nelle ultime due settimane, né si registra un conseguente aumento delle ospedalizzazioni.
   Secondo gli esperti, questo è il dato significativo a cui guardare, che avvicina il Paese alla condizione di «imparare a convivere con il Covid», grazie alla campagna vaccinale avanzata. Dati preliminari rilasciati dal ministero della Salute lunedì — che dovranno essere confermati da un’ampia indagine in corso — indicano che l’efficacia del siero Pfizer di fronte alla mutazione indiana cala del 30% rispetto a quanto sperimentato con la variante inglese. A fronte di questi dati, è stato reintrodotto l’uso della mascherina al chiuso, è stata ripristinata la quarantena anche per gli immunizzati di rientro da Paesi a rischio e sono al vaglio altre restrizioni che potrebbero contemplare limitazioni agli assembramenti.

(la Repubblica, 7 luglio 2021)


La globalizzazione vaccinale

di Antonio Saccà

Le agenzie di informazione ieri hanno segnalato che in Israele, Paese considerato ormai fuori dai rischi pandemici, la cosiddetta variante Delta in 24 ore ha provocato 500 casi. I medici temono si possano raggiungere i mille casi la prossima settimana: la circostanza grave è che gli studenti, per il 50 per cento, potrebbero ad essere contagiati. Inoltre, 50mila persone sarebbero in quarantena e 33 persone in gravi condizioni. Ma forse la notizia più inquietante è quella diffusa dal ministero della Salute: il vaccino Pfizer, efficace al 94,3 per cento, con la variante Delta sarebbe incisivo al 64 per cento. Ulteriori notizie sulla situazione attuale della pandemia hanno evidenziato la recrudescenza della mortalità in India, Africa, Iran, Russia, e altri Paesi.
  Da noi i medici prospettano obblighi vaccinali, sostenendo che il vaccinato – quantunque contagiato – non corre rischi mortale. Non è chiaro se la mortalità dipenda dalla non vaccinazione o da condizioni ospedaliere insufficienti. In Paesi come l’India, il Pakistan, l’Iran le situazioni dei nosocomi non rassicura. Meno ancora rasserena la perdita di efficacia dei vaccini nei confronti delle varianti (Delta) e di certo non favorisce la disposizione a vaccinarsi. È contraddittorio proporre o sostenere l’obbligo vaccinale e contemporaneamente dichiarare che un rilevante vaccino, Pfizer, perda efficacia. Del resto, tutto l’insieme è problematico, ancora resta oscura la durata della protezione dei vaccini e se vanno ripetutamente somministrati come per l’influenza! Anche in Inghilterra e in Austria i contagi si propagano.
  Per quanto sia tesi scientifica sostenibile che i virus sopravvivono cambiando, siamo ormai alla ideologia della mutazione: è da tempo che si prospetta la mutazione, quasi un non voler uscire dalla pandemia. Si dirà: sarebbe riprovevole lo scienziato che ipotizza la realtà, ossia la mutazione del virus? Non fa che cogliere lo svolgimento effettivo del morbo. È vero. Ma poiché siamo folgorati da sempre che i vaccini avrebbero estirpato il morbo, apprendere che esso ha di nuovo posto radici sconvolge, facendo dissipare la fiducia nei vaccini e nei medici.
  Non è una reazione del tutto razionale, ma l’uomo non è soltanto razionale. E francamente si è giocato esageratamente sulla certezza che i vaccini fossero acqua santa che toglie il peccato virale. Ora invece siamo a dire che il vaccino sminuisce di molto la mortalità ma non la contagiosità. Il che dovrebbe consolare, invece rattrista. Un disgraziato cittadino sperava nel risorgimento vitale e invece pur vaccinato “non deve abbassare la guardia”, in quanto “la pandemia non è finita”. Stando così gli eventi non soltanto la pandemia non è finita ma è infinita, oltretutto già concepita in sue possibili varianti.
  In tale condizione suscitiamo una divaricazione netta di comportamenti, abbiamo i credenti nel Vaccino Eterno e nella Mascherina incorporata, persone che si vaccinerebbero ogni mese oppure quindici giorni stanno chiusi in casa, rompono le amicizie con chi non indossa la mascherina, mangiano con il cucchiaio inserito sotto la mascherina, tengono la mascherina anche durante le video-conferenze. E coloro i quali non ne vogliono sapere si smascherano, non si vaccinano, mangiano e trincano a bocca larga, stringono la mano, abbracciano. Costoro sono i Volontaristi dell’irresponsabilità, possono correre dei rischi ma sentono la necessità di liberarsi da questa eruzione di angoscia che schiaccia la mente e ti fa (non) vivere.
  Si vive sottomessi all’ansia. Ma io credo che i volontari dell’irresponsabilità ne avranno per poco. A settembre ci sarà la resa dei conti. Gli svaccinati saranno “stanati”. Si troverà un marchingegno legale per obbligare al vaccino universale: anche per il vaccino esisterà la globalizzazione. Ma ho un sospetto: quando il 99,9 per cento sarà vaccinato, nessuno si dovrà illudere di poter abbassare la guardia, qualche altro pericolo incomberà. Vivremo in società dominate da sciami di malefici dai quali i governi ci proteggeranno.
  Quale altra tutela ci piomberà sulla schiena? Ci saranno varianti ultra-vaccinali? Non che bisogna irridere temi drammatici, ma indigna il modo con cui si induce l’opinione pubblica a sottomettersi all’obbligo di vaccinazione. Vi è una strategia. E questo scandalizza: con tanto timpaneggiare sulla efficienza dei vaccini scopriamo che sono bucati ed emanano un suono fesso. Quindi, invece di progettare la vaccinazione obbligatoria, ideate vaccini davvero salutari. In silenzio. Dopo aver condannato l’umanità al vaccino forzato, sarebbe un crimine scoprire che siamo ancora in pericolo. O ci fornite un vaccino rassicurante o lasciateci liberi. Lo so, la scienza va per tentativi, sperimenta. Ma siete voi scienziati e voi politici (non tutti) che ci avevate rassicurato: vaccinatevi e ritorneremo come prima. Ora invece annunciate: vi siete vaccinati e non siete ritornati come prima, dunque rivaccinatevi.
  Il cittadino “paziente” dice a se stesso: se il vaccino serve poco o niente, che mi vaccino a fare? Erra? Ma l’uomo è così. Ancora non ha compreso che la scienza è una disciplina errante o falsificabile, come dice qualche filosofo. E che la religione è stata concepita per avere certezza (fede). La colpa degli scienziati è di rendere la scienza una religione. Meglio dubitare.

(l'Opinione, 7 luglio 2021)



IMPAURITI, INGANNATI, SEDOTTI E SCHIAVIZZATI
IL DIAVOLO STA PREPARANDO IL MONDO
AD ACCOGLIERE L'ANTICRISTO

 


Israele, Bennett fallisce il primo test politico. Netanyahu si gode la rivincita alla Knesset

Maggioranza fragile, non passa la legge sulla cittadinanza ai palestinesi

di Francesco De Remigis

Dopo la fiducia ottenuta in extremis alla Knesset (il Parlamento israeliano) meno di un mese fa, il governo-collage guidato dal premier Naftali Bennett inciampa al primo scoglio. La legge che impedisce l'estensione automatica della cittadinanza ai palestinesi sposati con cittadini israeliani, sempre prorogata da 18 anni a questa parte, non è passata. Una notte di trattative serrate, poi l'intesa che sembrava trovata. Invece ieri in aula sono spuntati i franchi tiratori, che hanno inceppato il motore del neonato esecutivo «anti-Netanyahu», consegnando la prima «rivincita» al defenestrato «Bibi», oggi all'opposizione dopo dodici anni di dominio.
  Fallito dunque il primo test politico, Bennett non ha dovuto neppure cercare i responsabili della significativa battuta d'arresto della sua eterogenea maggioranza. Ben due partiti alleati, lontani dal suo Dna nazional-conservatore, Meretz (estrema sinistra) e Raam (islamista), hanno infatti indicato il loro voto contrario (o d'astensione), per un provvedimento ritenuto discriminatorio nei confronti della minoranza araba di Israele, circa il 20% della popolazione. Ma inaspettatamente anche il parlamentare Amichai Chikli, ribelle del partito del premier Yamina, ha negato il «Sì».
  È finita così 59 a 59. Pareggio e legge non approvata. «Israele ha bisogno di un governo funzionante, non di un mosaico», ha spiegato su Twitter ChiIdi, che critica il sostegno di una formazione islamista come Raam a un esecutivo guidato da un leader nazionalista. A gridare «vittoria» è solo l'opposizione: composta pure da partiti di destra. Ha votato contro la legge difesa da Bennett solo per far inciampare il premier, accusato di aver tramato (con i cartelli di sinistra e arabi) per estromettere l'inossidabile Netanyahu.
  «Bibi», pur facendo votare all'opposto della sua storia (la controversa legge di «cittadinanza» è stata rinnovata ogni anno dalla Knesset dalla prima adozione nel luglio 2003, durante la seconda Intifada), ha spiegato ai membri del suo Likud che «la cosa più importante era rovesciare questo pericoloso governo sostenuto da elementi antisionisti». Per il partito del premier Yamina, è invece l'opposizione ad aver messo «in pericolo la sicurezza di Israele».
  In realtà è l'accordo di coalizione a non aver retto: se i leader di destra, centro e sinistra che compongono la larghissima intesa a 8 si fossero espressi a favore, sarebbe passata. Le autorità israeliane hanno sempre considerato la legge necessaria «per ragioni di sicurezza». Ora invece le domande dei coniugi originari della Cisgiordania o della Striscia di Gaza dovranno essere considerate: coppie con figli, per motivi di salute o in altri casi. I palestinesi che hanno sposato israeliani, salvo sorprese, potranno chiedere la nazionalità. Almeno «15mila domande», secondo la ministra dell'Interno Ayelet Shaked, tra le principali artefici della trattativa fallita.

Libero, 7 luglio 2021)


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Israele, non passa la legge sulla cittadinanza. Primo ostacolo per il governo Bennett

Alla proroga della norma che impedisce l'estensione automatica della cittadinanza di Israele a palestinesi sposati con cittadini israeliani si opponevano il partito di sinistra Meretz e quello islamista Ra'am. Il paradosso di Netanyahu, fa cadere una legge che da premier aveva sempre sostenuto.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - A tre settimane dall’insediamento, convalidato allora da una risicata maggioranza di 60 voti contro 59, il nuovo governo Bennett-Lapid continua a muoversi sul filo del rasoio, rivelando le grandi tensioni all'interno della fragile coalizione che riunisce otto partiti con profondi divari ideologici. Questa notte l’arte del compromesso politico ha superato alla Knesset i limiti del paradosso: dopo 15 ore di seduta, la maggioranza è stata sconfitta su un voto dai risvolti altamente simbolici, oltre che pratici.
  Al centro della discussione, la proroga della legge che, dal 2003, impedisce la naturalizzazione di palestinesi di Gaza e Cisgiordania che abbiano contratto matrimonio con cittadini israeliani, de facto impedendo il ricongiungimento familiare tra cittadini arabi israeliani e palestinesi (in seguito la legge è stata estesa anche agli Stati nemici: Libano, Siria, Iraq, Iran). Si tratta di un decreto a scadenza annuale voluto dall’allora premier Ariel Sharon nel pieno della Seconda Intifada a seguito del coinvolgimento in atti terroristici di diversi palestinesi che avevano ottenuto la cittadinanza israeliana in virtù del ricongiungimento familiare.
  Per 18 anni, la legge è stata rinnovata annualmente, con consenso trasversale e opposizione limitata ai partiti arabi e alla sinistra di Meretz. A cambiare le carte in tavola questa volta, il fatto che Meretz e il partito islamista Ra’am fanno parte dell’attuale, eterogenea coalizione di governo. La maggioranza contava sui voti dell’opposizione per quello che reputava un voto di routine. Sostegno invece non pervenuto: Netanyahu, che per 12 anni consecutivi ha fatto passare la legge in questione, non si è fatto sfuggire l’opportunità di mettere i bastoni tra le ruote al nuovo esecutivo. “Non saremo di certo noi a offrire una rete di sicurezza a chi ha scelto di allearsi con chi mette a rischio la sicurezza d’Israele”, ha detto l’ex premier, che ha dichiarato guerra al governo Bennett-Lapid dal primo istante in cui è tornato a guidare l’opposizione.
  Dopo estenuanti trattative, il governo era riuscito a raccogliere il sostegno alla legge in seno alla coalizione, con un compromesso per cui la legge veniva prolungata per soli sei mesi, con impegno di revisione e di concessione di almeno 1,600 eccezioni per motivi umanitari. All'ultimo l'opposizione ha chiesto il procedimento fosse convertito in un voto di sfiducia. Meretz ha votato a favore, Ra'am ha dato 2 voti di sostegno e 2 astensioni. Non è stato sufficiente perché, Amichai Chikli, parlamentare di Yamina (il partito del premier Naftali Bennett) si è opposto, contro le previsioni del partito con cui in realtà era già in rotta di collisione non avendo votato il 13 giugno la fiducia. Risultato: 59 voti a favore, 59 contrari, insufficienti per fare passare la legge, ma anche per fare passare la mozione di sfiducia (che richiede 61 sostegni).
  Il paradosso? L'ha espresso bene Ayman Oudeh della Lista Araba Unita ringraziando i compagni ai banchi dell'opposizione - Netanyahu, i partiti ultraortodossi e la destra nazionalista religiosa di Betzalel Smotrich - con i quali dopo 18 anni sono riusciti ad abrogare la controversa legge. Per smarcarsi dall'insolita joint venture, Netanyahu sostiene ora di voler dimostrare "l'impegno sionista" della coalizione di governo trasformando il decreto in una legge fondamentale dello Stato che regoli in pianta stabile la materia.
  Al termine della seduta, il premier Naftali Bennett ha rilasciato una dichiarazione di fuoco: "L'opposizione, guidata da Bibi e Tibi, non è riuscita a rovesciare il governo, ma è sì riuscita a minare la sicurezza di Israele, con una politica spicciola ai danni dei cittadini. Per Bibi, se lui non è al potere, lo Stato può andare in fiamme".
  Il grande perdente di oggi rischia di essere Mansour Abbas, che con il suo partito islamico Ra'am ha fatto la storia sostenendo per la prima volta una coalizione guidata da un premier di destra. Il suo sostegno a una legge che colpisce in primis il suo elettorato rischia di alienargli il consenso popolare a favore dei rivali della Lista Araba Unità, che sono di fatto riusciti, grazie a Netanyahu, ad abrogare la legge.
  Oltre alle ragioni di sicurezza, la legge implica anche motivazioni demografiche. Nel decennio dagli Accordi di Oslo all’adozione della norma, sono stati naturalizzati 135,000 palestinesi (tra loro anche le tre sorelle del leader di Hamas Ismail Hanyeh, che da Gaza si sono trasferite negli anni a Tel Sheva a seguito di matrimonio con cittadini israeliani). Un ritmo che “contribuirebbe a mettere a rischio il carattere ebraico dello Stato d’Israele in meno di due generazioni”, secondo il professore emerito dell’Università di Haifa Arnon Soffer, uno dei principali sostenitori della legge.
  Secondo gli oppositori, si tratta di una legge discriminatoria che mina i diritti fondamentali dell’individuo e pone innumerevoli questioni umanitarie che ledono la vita di circa 15.000 nuclei familiari. Molti dei coniugi vivono in Israele con permessi temporanei che limitano il loro diritto alla libera circolazione, all’accesso alla sanità, o anche solo la semplice possibilità di ottenere la patente di guida. Negli anni, a seguito di due ricorsi alla Corte Suprema, sono state aumentate le prerogative del ministero dell’Interno che ha facoltà di agevolare le pratiche umanitarie e di concedere lo status di residenza temporanea, che viene concesso ogni anno a circa 1.600 domande.
  Nelle motivazioni presentate dagli apparati di sicurezza durante la discussione del provvedimento, sono stati citati dati per cui la seconda generazione di ricongiungimenti familiari è risultata coinvolta in atti di terrorismo (attacchi compiuti, pianificati, assistenza economica o fornimento di armi) in una proporzione tre volte superiore rispetto al loro peso demografico.
  Con la legge scaduta, di fatto la situazione non cambia nell'immediato, perché ora ogni caso andrà vagliato singolarmente dalla ministra degli Interni Ayelet Shaked, insieme agli apparati di sicurezza. Shaked, braccio destro di Bennett, intende ripresentare la legge a stretto giro.

(la Repubblica, 7 luglio 2021)


Il Libano in caduta verticale. Israele offre aiuto umanitario

La proposta del ministro della difesa Benny Gantz: «Come israeliano, come ebreo, come essere umano, il mio cuore sanguina di fronte alle immagini di persone affamate per le strade del Libano».

di Barbara Uglietti

Metula è la cittadina più a nord di Israele, a sei chilometri dalla frontiera con il Libano. E' vicina al Paese dei cedri e non solo geograficamente: tanti, da queste parti, non hanno mai smesso di guardare oltre il confine, e le spinte di solidarietà si mischiano ai sentimenti di ostilità ereditati dalla guerra.
   Domenica il ministro della Difesa Benny Gantz era lì con il capo di Stato maggiore delle Forze di Difesa Aviv Kochavi per inaugurare il memoriale ai soldati dell'Esercito del Libano del sud (Sla) morti in combattimento tra il 1982 e il 2000. «Come israeliano, come ebreo, come essere umano, il mio cuore sanguina di fronte alle immagini di persone affamate per le strade del Libano», ha scritto l'ex generale in un post su Facebook. «Israele ha offerto assistenza al Libano in passato - ha sottolineato Gantz - e anche oggi è pronto ad agire e ad incoraggiare altri Stati a tendere la mano affinché il Paese possa nuovamente prosperare ed emergere dalla crisi».
   Il Libano dal 2019 è in caduta verticale: corruzione, instabilità e soprattutto le ambizioni criminali di Hezbollah hanno portato il Paese al collasso: niente benzina (ci sono quotidianamente code di 100-200 auto davanti ai distributori), pochi medicinali, valuta a picco. Da un anno e mezzo le banche limitano i prelievi e convertono la moneta a tassi di cambio improponibili. L'esplosione al porto di Beirut dell'agosto scorso è stato il moltiplicatore di una crisi che ha radici in conflittualità antiche e irrisolte: quel governo si è dimesso e un altro ancora non c'è, perché i partiti non riescono, come si dice, a "fare sintesi': Con Israele è formalmente in vigore un accordo di armistizio. Non ci sono rapporti diplomatici anche se nei mesi scorsi erano ripresi i negoziati indiretti per definire i confini marittimi.
   Israele non è nuovo a proposte come quella appena formulata da Gantz. Ha porto la mano dopo l'esplosione al porto (ottenendo un diniego da parte libanese); ci riprova ora. L'obiettivo è umanitario ma anche strategico: tagliare la strada a Hezbollah, che punta a riguadagnare in patria il consenso (perduto) usando i soldi dell'Iran. Gantz ha detto di essersi già messo in contatto con Unifil per il trasferimento degli aiuti tramite l'Ufficio di collegamento delle Idf. Secondo la Banca mondiale, la crisi libanese potrebbe diventare una delle peggiori mai verificatesi dalla metà dell'800.

(Avvenire, 7 luglio 2021)


«Così ho liberato gli ostaggi di Entebbe»

Quarantacinque anni fa il raid dell'aviazione di Gerusalemme. Joshua Shani nel 1976 pilotava uno dei C-130 che riportarono a casa cento ostaggi ebrei in Uganda.

di Daniel Mosseri

Nella notte fra il 3 e il 4 luglio del 1976, Israele invia 200 uomini e quattro Hercules all'aeroporto di Entebbe, in Uganda, a liberare oltre 100 passeggeri ebrei e israeliani di un volo Air France Tel Aviv-Parigi dirottato giorni prima da un manipolo di terroristi palestinesi e tedeschi. Sostenuti dal dittatore ugandese Idi Amin Dada, i sequestratori chiedono la liberazione di 40 terroristi e minacciano di uccidere gli ostaggi.
   Nell'impresa israeliana di 45 anni fa i prigionieri furono liberati, i sequestratori uccisi e l'aviazione ugandese distrutta ma persero la vita il comandante delle forze speciali israeliane Yoni Netanyahu (fratello del più volte premier Bibi) e un ostaggio di 20 anni. Libero ha intervistato il generale Joshua Shani, allora giovane pilota del primo Hercules israeliano atterrato a Entebbe, oggi chief executive di Lockheed Martin Israel.

- Perché scelsero lei!
  «Ero il comandante dello squadrone di C-130 da trasporto, all' epoca l'unico nell'aviazione militare israeliana (IAF). A seguito del dirottamento, il governo capì che solo degli Hercules avrebbero potuto portare a termine una missione a oltre cinquemila miglia da casa».

- Quanti anni aveva all'epoca!
  «Troppo pochi, meno di trenta. Ma la situazione era unica: gli Hercules erano nuovi nella dotazione della IAF e io ero stato il primo a pilotare i primi velivoli uno a uno dagli Usa a Israele. Benché giovane, all' epoca ero quello che ne sapeva di più».

- La scelta di affidarle la missione aerea fu temeraria!
  «Lo può dire forte: però mi misero alla prova chiedendomi di far atterrare l'aereo da trasporto su una pista priva di strisce e contrassegni. Mi esaminarono il comandane in capo delle IAF assieme ad altri tre generali: nel cockpit dell'aereo sentivo il loro fiato sul collo. L'esercitazione si svolse presso la base aerea di Sharm el-Sheikh (la penisola del Sinai restò sotto controllo israeliano dalla guerra dei Sei giorni nel 1967 fino agli accordi di pace di Camp David nel 1979, ndr]»,

- Quale fu il passo successivo!
  «Dopo che superai il test, fu organizzato un convoglio con quattro Hercules, ma il dettaglio delle operazioni fu discusso fino all'ultimo minuto. All'inizio si era pensato di paracadutare forze speciali, i - seals, nelle acque del Lago Vittoria e di lasciare che con dei gommoni si infiltrassero fino allo scalo di Entebbe, costruito proprio in riva allago. L'ipotesi fu poi scartata perché il governo temeva da un lato la reazione dei militari di Idi Amin, mentre i nostri seals non erano entusiasti all'idea di buttarsi in uno specchio d'acqua infestato dai coccodrilli del Nilo!».

- Cosa fu deciso?
  «La scelta cadde su quattro Hercules. Il primo era il mio: trasportavo l'unità scelta Sayeret Matkal guidata da Yoni Netanyahu, ma anche una Mercedes e due Land Rover. Su Cbs News avevamo visto Idi Amin era solito arrivare allo scalo di Entebbe dalla pista con una Mercedes nera scortata da due fuoristrada. Ci dicemmo: "Se ricreiamo questa scena, i militari ugandesi esiteranno prima di aprire il fuoco". Trovare quel modello di auto non fu facilissimo nell'Israele nel 1976. Seguivano due Hercules con unità speciali di paracadutisti portati come riserva se la situazione fosse degenerata A chiudere c'era un ultimo C-130 da trasporto quasi del tutto vuoto per riportare gli ostaggi a casa».

- Come andò il volo!
  «Volammo da Sharm el-Sheikh per circa quattro ore: appena pochi metri sopra il livello del mare per evitare i radar egiziani da una parte e quelli sauditi dall'altra. Solo una volta entrati nello spazio aereo dell'Eritrea e dell'Etiopia ci portammo in quota: sapevamo che quei due paesi non avevano un sistema radar. In tutto volammo per sette ore e mezza».
   E l'atterraggio a Entebbe «lo atterrai per primo mentre gli altri aerei si attardavano nello spazio aereo del Kenya: l'idea era minimizzare il rumore e massimizzare l' effetto-sorpresa. La prima cosa che facemmo fu segnalare la pista agli altri piloti: sapevamo che al nostro arrivo gli ugandesi avrebbero spento le luci dell' aeroporto. Gli altri atterrarono solo dopo che le forze speciali ebbero preso il controllo dello scalo».

- Per quale motivo Entebbe è diventato sinonimo di operazione militare di successo?
  «La risposta è una sola: chutzpa (termine ebraico che coniuga sfacciataggine e audacia, ndr); nessuno all' epoca si sarebbe mai immaginato che Israele avrebbe inviato quattro aerei e 200 effettivi a salvare degli ostaggi trattenuti a grandissima distanza. La pianificazione strategica si basò su questo: nessuno ci sta aspettando»,

- E mai tornato a Entebbe!
  «Sì, il giornale israeliano Yediot Ahronot invitò me, mia moglie, un ex unità speciale e un ex ostaggio a tornare in quel luogo per qualche giorno: l'accoglienza fu grandiosa».

- Come sono le operazioni di oggi!
  «Più intelligenti e sofisticate. Di alcune si sa qualcosa, come il furto anni fa dei piani nucleari iraniani sottratti dal luogo più sicuro di Teheran; di tante altre non si ha alcuna notizia. La mia impressione è che le nostre capacità e il nostro coraggio sono in crescita costante».

- Chi fu il responsabile dell' operazione?
  «Negli anni si è sostenuto che l'allora premier Yitzhak Rabin fosse la colomba della vicenda mentre il ministro della Difesa Shimon Peres fosse il falco. Io li incontrai più volte e non ho mai avuto questa impressione. Di certo l' ok all'operazione venne dal primo ministro. Rabin era preoccupatissimo che qualcosa potesse andare storto. "È l'operazione più rischiosa che abbia mai preso", dirà più volte. Se uno degli Hercules fosse precipitato oppure bloccato dagli ugandesi le conseguenze avrebbero potuto essere gravissime».

Libero, 7 luglio 2021)


Bennett, il nuovo premier israeliano - che affronta la variante Delta con successo

di Jonathan Pacifici*

La prima volta che ho incontrato Naftali Bennett era il 2005. Lui era ceo di una promettente startup, Cyota, specializzata nella lotta alle frodi bancarie. lo ero un giovane consulente. Avevo da poco lasciato un importante società di management consulting per mettermi in proprio e Cyota fu uno dei miei primi clienti. Il mio compito, aiutarli a sviluppare il mercato italiano, era strategico. La società andava molto bene negli Usa ma gli investitori volevano vedere risultati anche in Europa. «Ti voglio presentare Naftali», mi disse un giorno la responsabile dello sviluppo internazionale con la quale collaboravo. Ricordo perfettamente il piccolo ufficio in Rechov Shenkar ad Herzelya Pituach, l'epicentro della StartupNation. Ricordo anche la mia prima impressione: un altro ceo che ha il peso del mondo sulle spalle. Da qualche giorno Bennett si cimenta con quello che, a ragione, è considerato il mestiere più difficile al mondo: primo ministro dello Stato d'Israele. Dopo dodici anni ininterrotti di premiership Netanyahu, vedere un'altra persona al centro del tavolo del governo fa veramente impressione. Ma al di là della naturale acerrima ostilità politica, l'ascesa di Bennet è storicamente una grande vittoria della dottrina Netanyahu.
  Il nuovo premier incarna il mito della Startup Nation, della tecnologia, del successo. Di quella Israele che Netanyahu ha plasmato negli ultimi decenni. Da buon ceo, Naftali è un decisionista preciso e metodico. Dall' opposizione, ha passato i mesi della pandemia spiegando cosa si dovrebbe fare. Ha girato Israele in lungo e in largo parlando con imprenditori e commercianti colpiti dal virus. Ha scritto un libro-manuale intitolato Come sconfiggere la pandemia. Ha coniato una frase diventata tormentone: «Se non è lavoro, non interessa a nessuno», a indicare che l'unica priorità del governo doveva essere mitigare le ripercussioni sociali del Covid. Ora al comando c'è lui e immagino abbia già capito che non esiste un manuale per il compito che lo attende. La vera novità della premiership Bennett non è la politica. E' il metodo. Bennett incarna l'ethos israeliano del problem solving, che è la pietra angolare del successo planetario della tecnologia israeliana e del suo apparato militare.
  Il primo banco di prova lo sta offrendo la variante Delta. Se concettualmente il premier si è subito mostrato interventista, segnalando al pubblico la serietà della minaccia con il ripristino delle mascherine nei luoghi chiusi, appena 11 giorni dopo averle tolte, nella pratica si è subito concentrato su ciò che conta davvero. La nuova policy si basa su due assunti fondamentali. Il primo è l'Aeroporto Ben Gurion, la porta d'Israele verso il resto del mondo. E' da lì che la variante è entrata. Non era ineluttabile. Bennett si è presentato al Ben Gurion con i ministri competenti e non se ne è andato fino a che non sono state definite nuove procedure che mirano a eliminare l'ingresso delle varianti. Il secondo pilastro è la vaccinazione. Il vaccino si sta dimostrando estremamente efficace non solo nel contenere la diffusione delle varianti (pur con minore successo), ma soprattutto eliminando quasi totalmente il rischio che i contagiati debbano essere ospedalizzati. Il condizionale, lo abbiamo imparato, e d'obbligo ma sembra che al netto di un forte incremento dei contagi, non ci sia stata alcuna variazione nelle ospedalizzazioni. Questo è il motivo per il quale si sta insistendo molto sulla vaccinazione degli adolescenti, la fascia 12-16 anni. Qui nasce quello che Amit Segal, uno dei più attenti analisti politici israeliani ha chiamato il «dilemma del governo»: di fronte alla tenuta del vaccino, all'altissima percentuale di vaccinati, e in assenza di malati gravi siamo di fronte alla quarta ondata Covid o piuttosto a qualcosa di simile a un'influenza stagionale? Al momento il governo propende per la seconda. Ovviamente tutto può cambiare e la situazione è attentamente monitorata, ma quanto accade qui ora potrebbe paradossalmente rappresentare un raggio di luce per tutto il mondo. Forse, se continuiamo a vaccinare a tappeto e conteniamo i contagi, possiamo convivere con il virus e tornare alle nostre vite. Certo non Bennet, che continuerà ad avere sul tavolo dossier come il nucleare iraniano e i gangli del terrorismo jihadista da Gaza e dal Libano. Ma del resto, lo abbiamo detto, si è scelto il mestiere più difficile al mondo. (riproduzione riservata)

* Presidente del Jewish Economic Forum e general partner di Sixth Millennium Venture Partners

(MF, 6 luglio 2021)


"... quanto accade qui ora potrebbe paradossalmente rappresentare un raggio di luce per tutto il mondo". Dunque anche il Covid riporta Israele al centro dell'attenzione del mondo. Raggio di luce? M.C.


Israele alle prese con la variante Delta: salgono i contagi e cala l'efficacia del vaccino Pfizer

Il virus mutato rappresenta ormai il 90% dei casi, l'efficacia del siero in chi ha ricevuto entrambe le dosi è scesa dal 94,3% al 64%.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME – La variante Delta del Covid, attualmente causa del 90% dei contagi in Israele, sembra avere un impatto significativo sull’efficacia dei vaccini Pfizer-BioNTech. Secondo dati del ministero della Salute israeliano diffusi dal quotidiano Ynet oggi, nelle ultime settimane si assiste a un calo dell’efficacia della copertura vaccinale nel Paese in cui il tasso di immunizzazione è il più alto al mondo.
  I dati del mese di maggio dimostravano un’efficacia del vaccino del 94,3% nella prevenzione dei contagi asintomatici, mentre i dati di giugno – da quando la variante Delta si è diffusa significativamente – riporterebbero una copertura del 64%. Si tratta di dati ancora preliminari. Oggi il premier Naftali Bennett ha istruito il ministero della Salute di avviare un’ampia indagine tra gli israeliani immunizzati che sono risultati positivi nelle ultime settimane, anche per valutare l’eventualità di aggiungere un richiamo terza iniezione da somministrare a tre mesi dalla seconda dose.
  Ieri si sono registrati in Israele 343 nuovi contagi (il tasso di positività è salito allo 0,7%) e tra questi il 51% era vaccinato con entrambe le dosi del siero Pfizer (l’unico utilizzato in Israele). Nel corso dell’ultima settimana il numero dei positivi è raddoppiato: 2,597 rispetto ai 1,228 della settimana precedente.
  Tuttavia, gli esperti fanno notare che il dato significativo a cui guardare è l’efficacia elevata che il vaccino continua a presentare rispetto alla possibilità di contrarre il virus gravemente. Rispetto a questo dato infatti, l’efficacia è in calo solo del 5%: a maggio, il tasso di efficacia del vaccino nella prevenzione dei ricoveri era del 98,2%, mentre a giugno del 93%. Attualmente risultano 68 ospedalizzazioni da Covid nel Paese, 27 delle quali tra persone vaccinate.
  “Dai nuovi dati impariamo che il vaccino è efficace nel prevenire la malattia grave e quindi il pericolo della congestione degli ospedali è lontano. Per arrivare a un record di ospedalizzazioni come nel periodo precedente all’introduzione del vaccino, dovremmo avere 15-20,000 contagi quotidiani”, dice il professore Eran Segal, biologo computazionale del Weizmann Institute che dall’inizio della pandemia analizza l’evoluzione dei contagi.
  “Abbiamo ripetuto più volte che è necessario imparare a convivere con il Covid e penso che ci stiamo avvicinando a questo scenario” dice il prof. Cyrille Cohen, immunologo dell’Università Bar Ilan, citato da Ynet. “Lo scenario è quello in cui la gente sarà sì ancora esposta al Covid, ma, grazie al vaccino, non si tratterà di una malattia grave”.
  La maggior parte dei nuovi contagi sono tra i bambini nelle scuole. A inizi giugno, Israele aveva autorizzato la somministrazione del siero Pfizer anche ai bambini tra i 12 e i 15 anni, esattamente nel momento in cui tutte le restrizioni Covid venivano eliminate nel Paese. A oggi, il 65% della popolazione israeliana (9,3 milioni di abitanti) è stata inoculata con entrambe le dosi del siero Pfizer.
  L’atmosfera di “fine pandemia” che si respirava a inizi giugno aveva portato a una scarsissima campagna di vaccinazione tra i più giovani e, fino a dieci giorni fa, solo poche migliaia degli aventi diritto in questa fascia di età si erano sottoposti all’inoculazione. La recente diffusione della variante Delta e il conseguente aumento dei contagi hanno però subito portato alla reintroduzione della mascherina nei luoghi chiusi. Inoltre, è stato deciso di posticipare la riapertura del Paese ai turisti (solo vaccinati) ad agosto e sembra che questa data potrebbe slittare ulteriormente. Attualmente sono in esame nuove possibili misure restrittive, in primis la limitazione degli assembramenti. In parallelo, il ministero della Salute ha avviato una campagna pubblicitaria massiccia rivolta ai giovani, tanto che, nel corso di dieci giorni, già in 120.000 hanno effettuato almeno la prima dose.
  L’obiettivo dell’immunità di gregge potrebbe essere minato dal fatto che i vaccini Pfizer in dotazione in Israele scadranno a fine luglio e ciò consente di accedere alla prima dose solo entro la fine di questa settimana. Israele è in trattativa con alcuni Paesi stranieri (si parla di Inghilterra e Repubblica Ceca) per un baratto delle dosi che, se non impiegate entro la fine di questa settimana, rischiano di andare buttate. La trattativa riguarderebbe la possibilità di fornire ora le fiale israeliane in scadenza a un Paese più arretrato nella campagna vaccinale, che verrebbe ricambiato con una spedizione a settembre.
  Oggi il quotidiano Haaretz ha reso pubblico anche che Israele è in trattativa con una casa farmaceutica straniera per vendere la tecnologia del vaccino made in Israel “BriLife”, che l’Istituto Biologico Israeliano ha iniziato a sviluppare agli inizi di marzo 2020 e si trova ora nella terza fase della sperimentazione.

(la Repubblica, 6 luglio 2021)


Israele fa paura, salgono i casi tra i vaccinati: "Pfizer efficace solo al 64% contro la Delta"

di Antonio Caperna

Suona l'allarme per la variante Delta e stavolta l'attenzione diventa preoccupazione, per le notizie che arrivano da Israele. Lo «Stato modello» nella campagna di vaccinazione, per velocità e numero di adesioni (57% con 2 dosi, 88% è over 50) ha registrato domenica 343 nuovi positivi, battendo un record di 3 mesi, a causa della diffusione della variante Delta salita dal 60% di due settimane fa al 90%.
  Secondo il ministero della Salute, più della metà dei nuovi malati di coronavirus è vaccinata (51%) e solo 15 erano viaggiatori di ritorno. Un terzo dei nuovi pazienti sono bambini sotto gli 11 anni e un altro 13% ha tra i 12 e i 18 anni. Anche il numero di casi gravi in Israele è aumentato di quasi il 50% dalla scorsa settimana, secondo i dati del ministero della Salute. Ad allarmare erano già stati i dati preliminari dell'Hadassah University Medical Center, con una diminuzione dell'efficacia del vaccino Pfizer tra il 60% e l'80% contro l'infezione da Delta. Poi l'annuncio su twitter del professor Yaniv Erlich della Columbia University, scienziato israeliano-americano, che ha rilanciando i nuovi dati del ministero della Salute: «Brutte notizie in arrivo stamattina da Israele. L'efficacia di Pfizer per la protezione contro la variante Delta scende dal 94% al 64%. Ciò ha importanti implicazioni per l'immunità di gregge e la capacità del virus di evolversi ulteriormente».
  Venerdì scorso, il 55% dei nuovi contagi è avvenuto tra persone già vaccinate. Per quanto riguarda la protezione contro il ricovero e i casi gravi si passa dal 98,2% al 93% anche se i ricercatori israeliani avvertono che è troppo presto per una risposta certa, a causa del ritardo di circa dieci giorni nella morbilità grave.

(il Giornale, 6 luglio 2021)


"Non c'è un popolo in Israele, solo coloni e occupanti", dice Nasrallah

"L'esistenza di Israele dipende dal sostegno americano"

"Non c'è nessuno nell'entità israeliana, sono tutti occupanti e coloni", ha detto il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah in un discorso lunedì pomeriggio a una conferenza dal titolo "La Palestina è vittoriosa".
Hassan Nasrallah non ha detto se anche gli arabi israeliani sono da considerare "occupanti e coloni".
Mentre aumentano le tensioni tra gli Stati Uniti e le milizie filo-iraniane in Siria e Iraq, Hassan Nasrallah ha sottolineato lunedì che Hezbollah "affronta l'egemonia americana" in Iraq e Siria.
Il leader di Hezbollah ha aggiunto che i conflitti con Israele e gli Stati Uniti non possono essere separati perché l'esistenza di Israele dipende dal sostegno americano, affermando che "ogni massacro commesso dal nemico è un massacro americano".
Per quanto riguarda l'aggravarsi della crisi economica in Libano, Nasrallah ha incolpato gli Stati Uniti, affermando che le politiche americane sono il "motivo principale" della crisi perché "gli americani vogliono assediare, punire e impedire che arrivino aiuti in Libano".

(i24news.tv, 6 luglio 2021)


“Non date all’attentatore della sinagoga di Pittsburgh la pena di morte”

Lo chiede la comunità ebraica Dor Hadash

di David Fiorentini

“Non date all’attentatore della sinagoga di Pittsburgh la pena di morte.” Questa è la richiesta di una delle congregazioni ebraiche prese di mira dal suprematista bianco che ha ucciso 11 fedeli in un attacco nel 2018.
  La comunità di Dor Hadash, una delle tre comunità con sede presso l’edificio “Tree of Life”, che il 27 Ottobre 2018 subì l’attacco antisemita più letale della storia americana, ha inviato una lettera al Procuratore Generale degli Stati Uniti Merrick Garland, esortando il Dipartimento di Giustizia a risparmiare la pena di morte per il carnefice.
  Nel processo in corso contro Robert Bowers, 49 anni, la giustizia dovrebbe essere ottenuta “in un modo che sia coerente con i nostri valori religiosi e che ci dispensi dal doloroso calvario di prolungate manovre legali” ha scritto il presidente di Dor Hadash, Bruce Herschlag, a nome del Consiglio della Comunità.
  La lettera cita anche una dichiarazione secondo cui l’imputato è addirittura disposto a rinunciare al suo diritto a un processo e rilasciare una dichiarazione di colpevolezza in cambio di una sentenza di reclusione a vita, piuttosto che di morte.
  “Dato che undici individui sono stati uccisi – spiega il Presidente Herschlag – l’imposizione di ergastoli multipli garantirebbe comunque che il colpevole non venga mai rilasciato. Questo è il risultato che desideriamo.”
  Inoltre, citando testi ebraici, la missiva rileva che “nonostante i crimini capitali siano stati elencati nella Torah, i nostri saggi e rabbini hanno sviluppato un sistema legale che ha reso quasi impossibile una condanna a morte. La giustizia deve essere temperata dalla misericordia.”
  Delle 11 persone assassinate nella sinagoga di Pittsburgh, uno era un membro di Dor Hadash, il Dr. Jerry Rabinowitz, il quale, secondo la difesa, “era fermamente e inequivocabilmente contrario alla pena di morte.” Per questo, secondo la comunità americana, un verdetto in tal senso onorerebbe simbolicamente la sua memoria.
  Infine, conclude il Presidente Herschlag “un lungo processo e anni di appelli” costringerebbe i membri di Dor Hadash a “rivivere gli eventi del 27 Ottobre in dettaglio e in modo straziante, sia attraverso le testimonianze in tribunale sia tramite l’inevitabile cronaca giornalistica” e ciò potrebbe “impedire il processo di guarigione per alcuni dei nostri membri”.

(Bet Magazine Mosaico, 6 luglio 2021)


La bimba ebrea che un giudice voleva morta per il suo "bene

Condannata all'eutanasia dai soloni inglesi, la bimba ebrea salvata da America e Israele.

di Giulio Meotti

ROMA - Dopo Charlie Gard, Isaiah Haastrup e Alfie Evans, è il turno di Alta Fixsler, due anni, ebrea, cittadina israeliana, ricoverata all'ospedale Royal Children di Manchester per un grave danno neurologico. Un nuovo caso di eutanasia infantile che da due mesi scuote l'Inghilterra. Lo scorso 28 maggio, l'Alta corte ha accolto la richiesta della direzione sanitaria di sospendere, nel "migliore interesse" della bambina, i trattamenti che l'aiutano a mangiare, bere e respirare. La famiglia chiedeva di trasferire la piccola in uno dei due ospedali di Tel Aviv che si sono offerti di accoglierla. "Non sta soffrendo, abbiamo il diritto di prendercene cura", aveva detto il padre.
  Il padre di Alta aveva chiesto che un team di medici arrivasse da Israele a Manchester, con l'obiettivo di portarla nello stato ebraico. Ma il giudice inglese MacDonald aveva concluso: "Non è nell'interesse di Alta che le cure mediche a sostegno della vita continuino". Il presidente d'Israele, Reuven Rivlin, aveva scritto una lettera al principe Carlo, chiedendogli di esercitare la propria influenza per assecondare la richiesta della famiglia. Il rabbino capo di Israele, Yosef Yitzchak, aveva scritto all'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby.
  Gli Stati Uniti ieri hanno concesso il visto ad Alta. Il senatore democratico Charles Schumer ha annunciato che è stato approvato e ottenuto con urgenza il visto, che consentirà alla bambina e al padre, cittadino americano, Abraham Fixsler, di recarsi negli Stati Uniti e ricevere le cure necessarie. Potranno decidere di portare Alta in Israele. Un gruppo di dieci senatori repubblicani aveva inviato una lettera al presidente Joe Biden esortandolo a chiedere l'intervento del premier britannico Boris Johnson.
  "Tutto ciò che i Fixsler vogliono è seguire la loro fede e dare alla loro bambina le migliori cure", ha detto Schumer. "Le immagini della piccola Alta ti fanno sciogliere il cuore e sapere quanto i genitori la amano ci ispira a fare tutto il possibile per assicurarle le migliori possibilità. Oltre a questa azione federale per ottenere un visto, offro anche le mie più fervide preghiere a lei e alla sua famiglia".
  Parte della stampa israeliana ci era andata giù pesante. Steve Rodan sul Times of Israel aveva scritto: "Charlie non era un cittadino straniero. Alta lo è e il rifiuto da parte del governo e del sistema legale britannico di consentire ai suoi genitori di combattere per la sua vita segna una tendenza che riecheggia la Germania nazista degli anni Trenta".
  Il giudice MacDonald aveva stabilito che Alta doveva morire per non "soffrire" ulteriormente. Cosa è successo all'Inghilterra? Forse la risposta sta in quanto dice un intellettuale inglese ateo, Douglas Murray, che ritiene che il cristianesimo sia essenziale perché i secolaristi sono stati finora totalmente incapaci di creare un'etica dell'uguaglianza che corrisponda al concetto che tutti gli esseri umani sono creati a immagine di Dio. In un articolo sullo Spectator, Murray ha notato che la società post cristiana ha tre opzioni. La prima è quella di abbandonare l'idea che tutte le vite umane sono preziose. "Un'altra è lavorare furiosamente per fissare una versione atea della santità dell'individuo". E se questo non funziona? "Allora c'è solo un altro posto dove andare. Che è tornare alla fede, che ci piaccia o no". Altrove, Murray è stato ancora più schietto: "La santità della vita umana è una nozione giudeo-cristiana che potrebbe facilmente non sopravvivere alla scomparsa della civiltà giudeocristiana". Forse in America e in Israele c'è ancora un po' del buon vecchio giudeo-cristianesimo.

Il Foglio, 6 luglio 2021)


Israele: le preoccupazioni di Bennett fra Libano e Iran

di Massimo Caviglia

Sono almeno tre le notizie che agitano i sonni del nuovo premier israeliano Bennett. Innanzitutto le vittorie in Afghanistan dei talebani, che hanno catturato il distretto di Kandahar, mentre le truppe regolari subiscono continue sconfitte e i soldati afghani si arrendono passando a far parte delle milizie dei talebani in seguito al ritiro degli Stati Uniti dal Paese. Pur con le dovute differenze, è un assaggio di quanto potrebbe accadere nel caso di un disimpegno americano dal Medio Oriente.
   L’altra notizia è molto più vicina a Israele e riguarda il Libano e la defezione di 1.200 ufficiali e soldati dell'esercito libanese perché il denaro, il cibo e le medicine non sono più sufficienti per le forze armate. Il quotidiano Al-Akhbar ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero messo a disposizione 120 milioni di dollari, e il comunicato ha frenato il flusso di disertori dall'esercito. Ma il problema preoccupa molto Israele perché la milizia parallela Hezbollah, finanziata dall’Iran, potrebbe impadronirsi del Paese in breve tempo.
   L’ultima notizia fa parte di una trattativa in cui le parti si sono mostrate prima disponibili e poi intransigenti. Come aveva annunciato la settimana scorsa, l’Iran ha bloccato l’accesso alla centrale di Natanz degli ispettori dell’Agenzia per l’Energia Atomica. Anche se i colloqui sull’accordo nucleare iraniano procedono con lentezza, il premier israeliano sa che il Presidente americano Biden vuole firmare il trattato a breve. Bennett deve quindi puntare a che l'accordo copra anche questioni non nucleari, come il programma missilistico. Ma Teheran potrebbe ritenere che i recenti accordi economici con la Cina possano essere sufficienti ad alleviare il costo delle sanzioni americane, ed essere restìa a sottoscrivere il trattato. E un Iran senza controllo potrebbe fare progressi definitivi sull’arma atomica.

(San Marino Rtv, 5 luglio 2021)


Oltremare – Attrito

di Daniela Fubini

Riassumendo l’ultimo anno e mezzo in modo israeliano, si può tranquillamente dire che credevamo all’inizio di aver vinto una novella guerra dei Sei Giorni e invece ci troviamo impantanati in una guerra di attrito, la cosa peggiore che qui si possa concepire in termini di definizione di vincitori e vinti. Mentre la guerra dei Sei Giorni aveva avuto un inizio, una breve durata e una fine molto chiari, con tanto di foto ricordo al Kotel e slogan ancora oggi usati per esprimere il senso di vittoria assoluta, “Har Habayit Beyadenu (il monte del Tempio è in mano nostra)”, quello che sta succedendo perlomeno dall’estate scorsa, in epoca ancora pre-vaccini, è un continuo di schermaglie fra le nostre forze, noi civili nelle retrovie e tutto il sistema sanitario in prima linea, e il coronavirus che si batte come un leone e ogni volta che sembra alle corde si rialza, cambia strategia, e torna a combattere.
   La sensazione di essere in guerra contro un nemico che non solo è invisibile all’occhio ma colpisce senza che ci sia un vero luogo riservato alla battaglia – il campo di battaglia è ovunque ed è sempre – non è nuova per noi israeliani. La si è vissuta forse anche più fortemente durante gli anni durissimi della seconda intifada, quando gli attentati nelle città e per le strade erano letteralmente all’ordine del giorno. Forse anche per questo qui ci si è prestati ai lockdown e alle misure di distanziamento sociale con un atteggiamento vagamente snob: se siamo sopravvissuti a tutte le guerre dal ’48 in qua cosa vuoi che ci faccia un virus. E mettiamole queste mascherine, ma appena possibile le togliamo e ritorniamo ad abbracciarci e a salutarci con i baci sulle guance, altro che gomiti o pacche sulle spalle.
   In queste ultime settimane la guerra d’attrito sta tornando a fare i primi titoli in ogni telegiornale, e ci costringe a controllare continuamente qual è lo stato delle misure per contenere il virus. Ora si consideri che dopo la fine della guerra d’attrito originale e qualche anno di finta calma siamo stati travolti dalla guerra del Kippur. Non per far pressione, ma ecco, se riuscissimo stavolta a debellare alla radice la causa della guerra sarebbe una gran cosa.

(moked, 5 luglio 2021)


Ad un anno dalla firma si rafforzano gli accordi di Abramo

Nonostante l’elezione del democratico Joe Biden alla Casa Bianca l’amministrazione Usa non ha cambiato la sua linea sugli accordi, sponsorizzati dalla precedente amministrazione, mentre si rafforzano le relazioni tra Marocco e Israele.

di Massimiliano Boccolini

Ad un anno dalla firma si rafforzano gli accordi di Abramo. Nonostante l’elezione del democratico Joe Biden alla Casa Bianca l’amministrazione Usa non ha cambiato la sua linea sugli accordi, sponsorizzati dalla precedente amministrazione, mentre si rafforzano le relazioni tra Marocco e Israele
  Il prossimo 15 settembre ricade il primo anniversario degli accordi di Abramo firmati da Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti a Washington, a cui poi si è aggiunto il Bahrein. Nonostante pochi mesi dopo sia stato eletto il presidente democratico, Joe Biden, la linea della Casa Bianca rispetto al sostegno nei confronti di questi accordi non è cambiata e se ne vedono i primi risultati. Non è cambiata infatti nemmeno la posizione degli Usa sul riconoscimento della sovranità marocchina del Sahara occidentale, come spiegato il primo luglio in conferenza stampa dal portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price. “Questa rimane la posizione dell’amministrazione, non ho nulla di nuovo”, ha detto il portavoce della diplomazia statunitense durante il suo briefing rispondendo alla domanda del corrispondente della tv in lingua araba, “al-Hurra”.
  Posizione legata indirettamente agli accordi di Abramo che ha consentito un importante riavvicinamento tra il Marocco e Israele, a garanzia delle migliaia di marocchini ebrei che vivono in entrambe i Paesi.
  La novità ora è che un C-130 delle forze armate marocchine è atterrato questa domenica 4 luglio alla base aerea di Hatzor, alla vigilia di un’esercitazione militare internazionale prevista nei prossimi giorni in Israele. È la prima volta nella storia delle relazioni tra i due Paesi che un aereo militare marocchino atterra sul suolo israeliano.
  Secondo il giornalista israeliano, Barak Ravid, l’arrivo del C-130 marocchino è legato ad una grande esercitazione militare internazionale che si terrà in Israele e che coinvolgerà un certo numero di Paesi, compresi gli Stati Uniti. Lo stesso giornalista pochi giorni prima aveva rivelato che gli Stati Uniti non avrebbero riconsiderato il riconoscimento della sovranità del Marocco sul Sahara.
  Dalla firma, il 22 dicembre scorso, dell’accordo tripartito tra Marocco, Stati Uniti e Israele, la partnership tra i tre Paesi ha registrato un salto di qualità senza precedenti, confermando la volontà del Regno di fare di questo accordo un elemento chiave per rafforzare le dinamiche di pace in Medio Oriente. Ora si apre una nuova pagina nelle relazioni tra Marocco e Israele, che vede il Regno come uno dei principali alleati degli Stati Uniti.
  Il Marocco sarà inoltre invitato alle celebrazioni del primo anniversario degli accordi di Abramo insieme a Israele, Emirati e Bahrain. Lo riferisce il sito locale “Maghreb-Intelligence”, citando fonti di Rabat. Queste celebrazioni, che saranno organizzate sotto forma di vertice multipartitico, si svolgeranno nei prossimi mesi e celebreranno la firma di questi accordi tra Israele da una parte e Bahrain ed Emirati dall’altro lato. Il Marocco è invitato a questo vertice anche se ha ripreso i rapporti con Israele solo il 12 dicembre scorso.
  La stessa fonte ha aggiunto che questo vertice potrebbe tenersi negli Emirati o in Bahrain, ma che nulla è stato ancora deciso sul livello di partecipazione del Marocco, anche se tutto sembra indicare che il regno sarà presente con una nutrita delegazione.
  Relazioni che si concretizzano con il rafforzamento in ambito economico, come nel settore della logistica e dei trasporti, e si allargano a Paesi alleati che formalmente ancora non hanno firmato questi accordi. Una nuova linea marittima dovrebbe collegare un porto dell’Arabia Saudita, il cui governo è strattemente legato a quello del Bahrein, con i porti di Agadir e Dakhla, nel sud del Marocco, via Israele già nelle prossime settimane. Lo riporta il mensile di Casablanca, “Economie & Entreprises”.
  L’operatore marittimo israeliano ZIM dovrebbe farsi carico di questo nuovo collegamento tra i tre Paesi. Secondo fonti vicine a questo dossier, citate dal mensile marocchino, il punto di partenza di questa linea marittima dovrebbe essere il porto di Gedda nel Mar Rosso, per poi passare per il porto di Haifa nel Mediterraneo prima di arrivare ad Agadir e Dakhla nell’Oceano Atlantico.

(Formiche.net, 5 luglio 2021)


Variante delta, "efficacia del vaccino Pfizer solo al 64%"

"Brutte notizie in arrivo stamattina da Israele". Ad annunciarlo su Twitter è Yaniv Erlich, scienziato israeliano-americano, professore associato alla Columbia University, rilanciando nuovi dati del ministero della Salute di Tel Aviv sulla protezione del vaccino anti-Covid nei confronti della variante Delta del covid.
  "Il ministero della Salute - scrive Erlich - riferisce che l'efficacia di Pfizer per la protezione contro la variante Delta scende al 64% dal 94% contro altri ceppi. Ciò ha importanti implicazioni per l'immunità di gregge e la capacità del virus di evolversi ulteriormente".
  I dati sulla diffusione del coronavirus in Israele, uno dei Paesi con il più alto numero di persone completamente vaccinate, dimostrano che la variante delta, associata alla cancellazione delle restrizioni, provoca una riduzione di efficacia del vaccino Pfizer/BioNTech usato per la campagna vaccinale del Paese, scrive Fortune.
  Fra il 2 maggio e il 5 giugno il vaccino aveva dimostrato, sul campo in Israele, di avere una efficacia del 94,3%. Dal 6 giugno, cinque giorni dopo che il governo ha cancellato le restrizioni contro il covid, all'inizio di luglio, l'efficacia è crollata al 64%. Venerdì scorso, il 55% dei nuovi contagi erano persone già vaccinate.
  E' invece solo attenuata la protezione contro i casi gravi e il ricovero, si precisa. Fra il 2 maggio e il 5 giugno la protezione contro il ricovero del vaccino è stata del 98,2%, contro quella del 93% registrata dal 6 giugno al 3 luglio. Ieri c'erano in Israele 35 casi gravi di covid, contro i 21 del 19 luglio scorso.
  Il governo israeliano, che ha già reintrodotto l'obbligo di mascherine all'interno degli spazi pubblici, sta considerando l'adozione di altre misure di distanziamento e la possibilità di raccomandare una terza dose di vaccino.
  Il 57% degli israeliani è completamente vaccinato, l'88% fa parte della popolazione con più di 50 anni.

(Adnkronos, 5 luglio 2021)


Perché Hamas non governa la Striscia di Gaza ma la tiene in ostaggio

di Franco Londei

Su una cosa credo che tutti i paesi occidentali, molti paesi arabi e persino le Nazioni Unite (quelle del Palazzo di Vetro) siano d’accordo: Hamas è un gruppo terrorista.
  Alcuni come i paesi europei, quelli arabi del Golfo, l’Egitto e altri lo affermano ufficialmente, altri ufficiosamente e altri ancora lo danno per scontato (nel senso che, solo gli stupidi pensano il contrario).
  Solo la Turchia, in quanto Hamas fa parte della Fratellanza Musulmana, il Qatar per lo stesso motivo e l’Iran in configurazione anti-israeliana, li considerano come un gruppo resistente e addirittura come una entità politica.
  Ora, non sarebbe quindi comprensibile il motivo per cui quando Israele risponde agli attacchi terroristici di Hamas viene così brutalmente criticata.
  Come non sarebbe comprensibile il motivo per cui si continua a donare denaro per la Striscia di Gaza lasciando che sia Hamas ad amministrarlo e sapendo benissimo che quel denaro finirà per finanziare il terrorismo e non per emancipare la Striscia di Gaza.
  Il condizionale è d’obbligo perché in realtà tutti sappiamo benissimo il motivo per cui Israele viene criticato per le “reazioni sproporzionate” e perché si continua a mandare denaro nella Striscia di Gaza. Perché Hamas non governa la Striscia di Gaza ma la tiene in ostaggio.
  E quando si dice “tenere in ostaggio” si intende letteralmente e non metaforicamente. Più di due milioni di persone subiscono il regime islamista di Hamas. Nulla di diverso da quello dello Stato Islamico.
  Più di due milioni di persone che se potessero liberarsi di Hamas lo farebbero domattina. Centinaia di aziende taglieggiate. Persino le ONG (e finanche l’ONU) che distribuiscono aiuti umanitari devono pagare il pizzo ad Hamas se vogliono operare.
  Hamas non ha bisogno di sistemi di difesa per fermare le risposte israeliane agli attacchi terroristici o una invasione via terra. Hanno più di due milioni di scudi umani come sistema di difesa.
  Gli basta posizionare i loro centri di comando e i loro arsenali in mezzo ad abitazioni civili ed ecco belle che pronto il sistema di difesa.
  Se Israele sbaglia di un millimetro a colpire quei punti e disgraziatamente muoiono civili, si scatena il finimondo e Hamas vince.
  Se Israele dovesse entrare nella Striscia di Gaza con i carri armati e con l’esercito, le vittime civili sarebbero inevitabili anche perché i terroristi di Hamas non usano una divisa. E Hamas vince. Hamas vince sempre.
  Ieri Israele ha chiesto alla Germania e ad altri paesi europei di contribuire finanziariamente alla ricostruzione di Gaza e ad evitare una grave crisi umanitaria.
  Vi chiederete il perché. Perché buona parte della popolazione di Gaza oggi non c’entra nulla con Hamas ed è costretta a subire il regime islamista e mafioso imposto questa da gentaglia.
  Quello che invece dovremmo chiederci è come mai tanta gente in occidente sostiene Hamas e dice di sostenere anche i palestinesi. È una contraddizione in termini. Non si può sostenere i palestinesi e anche Hamas. È un ossimoro.

(Rights Reporter, 5 luglio 2021)


Sulla resilienza della democrazia israeliana

Gli ebrei sono entrati nel mondo moderno con una lunga tradizione di rappresentanza e processi elettorali, una barriera contro derive autoritarie che è insita nel DNA politico d’Israele

Il governo israeliano è recentemente passato di mano, fra gravi timori e vani tentativi di silurarlo fino all’ultimo momento. Questo successo del processo democratico è stato attribuito a varie cause: le continue manifestazioni di protesta, vari tipi di opposizione, un sistema giudiziario indipendente, mass-media critici e talvolta aggressivi, reiterate elezioni che non hanno prodotto un chiaro vincitore, il processo in corso a carico all’ex primo ministro Benjamin Netanyahu. Tutti questi fattori si sono sommati formando una massa critica. Tuttavia vale la pena soffermarsi un momento non solo su queste cause prossime, ma sui fondamenti più profondi della cultura politica d’Israele. E in questo contesto, vale la pena evidenziare alcuni aspetti che non compaiono nelle analisi standard, che si concentrano sulle cause prossime.

(israele.net, 5 luglio 2021)


La Romania si riconcilia con il proprio passato nel riconoscere le responsabilità nella Shoah

Ottant'anni dopo il pogrom e le persecuzioni che costarono la vita a migliaia di ebrei, Bucarest si confronta con una storia a lungo rimossa

Si parla spesso di “Olocausto dimenticato” riguardante la Romania. Il Paese, che per lungo tempo ha negato la propria partecipazione al genocidio ebraico, ha reso omaggio il 30 giugno alle vittime del pogrom del 1941, durante una commemorazione in Parlamento senza precedenti, simbolo dell'opera di memoria compiuta negli ultimi anni.
  «Dobbiamo riconoscerlo: il nostro passato non è sempre stato glorioso», ha dichiarato il presidente del Consiglio Florin Citu, riferendosi a «l'inimmaginabile sofferenza, la crudeltà, la ferocia». Il massacro, compiuto per ordine del maresciallo filonazista Ion Antonescu a Iaşi (nord-est), ha lasciato quasi 15.000 morti, ovvero un terzo della popolazione ebraica dell'epoca di questa grande città universitaria. Il politico ha sottolineato «il dovere della verità e della giustizia affinché una simile tragedia non si ripeta», in occasione della cerimonia cui hanno partecipato gli ultimi sopravvissuti oltre a ministri e diplomatici. Un difficile dovere di verità e giustizia.
  «Commemorando questo massacro, il peggiore nella storia moderna della Romania, il Parlamento sta gettando le basi per la riconciliazione», ha affermato Alexandru Muraru, il rappresentante del governo per la memoria dell’Olocausto.
  All'epoca la città di Iaşi era popolata per metà dalla comunità ebraica, ovvero circa 40.000 persone. La maggior parte di loro erano semplici artigiani o piccoli commercianti. È qui che negli anni '20 nacque la "Guardia di ferro", un partito fascista. Mentre questa ostilità contro gli ebrei fioriva, la fragile democrazia della Romania stava cedendo alla tentazione dell'estrema destra. Nel 1940, il maresciallo Antonescu prese il potere e si alleò con il Terzo Reich.
  Pochi mesi dopo, nel giugno 1941, in accordo con Hitler che aveva appena lanciato l'Operazione Barbarossa, il dittatore rumeno inviò l'esercito del suo paese per liberare la Moldova occupata dai sovietici. In risposta, la città subì attacchi aerei dall'Armata Rossa. Una psicosi antiebraica si impadronì della popolazione. Ogni individuo ebreo era visto come un nemico dall'interno. Voci di un complotto ebraico al servizio del nemico sovietico si diffusero a macchia d'olio e incontrarono una grande credulità. La situazione è favorevole ai disegni del maresciallo Antonescu che non nasconde il suo desiderio di eliminare «il problema ebraico».
  Il 25 giugno 1941 la polizia consigliò alla popolazione cristiana di contrassegnare la propria casa con una croce. Le facciate della città sono ricoperte di manifesti che invocano la morte degli ebrei. Si dice che i paracadutisti sovietici siano entrati in città. Iniziano i rastrellamenti. Le autorità decidono di arrestare tutti i "sospetti".
  Un primo convoglio di 2.500 ebrei partì il 30 giugno per Călărași, nel sud della Romania. Solo nel tragitto morirono 1.194 persone. Stessa cosa avverrà con i convogli successivi.
  Oltre al suo carattere particolarmente barbaro, il pogrom di Iaşi è anche uno dei più documentati. Numerose foto sono state scattate durante questi giorni orribili. Alcuni da soldati tedeschi, presenti in città, desiderosi di inviare "ricordi" alle loro famiglie, altri da membri dell'intelligence rumena. Queste immagini ci mostrano, tra le altre cose, che individui comuni sono diventati carnefici insieme a membri delle forze di sicurezza e degli eserciti rumeni e tedeschi. «A Iaşi, sono stati i vicini, uomini e donne, che hanno partecipato agli omicidi e alla spoliazione dei loro vicini ebrei. A volte si trattava di azioni spontanee, a volte di azioni organizzate dai servizi segreti rumeni, che usavano le loro reti di informatori per maltrattare e assassinare ebrei», spiega lo storico rumeno Radu Ioanid, autore del libro "il pogrom di Iaşi " (Ed. Calmann-Lévy).
  Almeno 280.000 ebrei rumeni e ucraini morirono sotto l'amministrazione di Ion Antonescu.
  Per molto tempo questa pagina è stata taciuta. I criminali di guerra di Iaşi furono processati nel 1948 in un procedimento lampo. Solo 25 di loro sono stati condannati all'ergastolo. La Romania del periodo comunista ha voluto scaricare sulla Germania e anche sull'Ungheria, alleata della Germania, la responsabilità di tutti i crimini commessi sul suo territorio. I paesi che hanno conosciuto regimi comunisti tendono a percepire e presentarsi come vittime del totalitarismo. È difficile, nel caso rumeno, ammettere che lo stesso regime precedente fosse totalitario e commettesse grandi crimini. Di conseguenza, solo nel 2004 il governo rumeno ha riconosciuto la sua diretta responsabilità per il pogrom di Iaşi e si è ufficialmente scusato con la comunità ebraica.
  Otto decenni dopo, il Paese vuole mostrare un altro volto. Il primo ministro rumeno Florin Cîțu ha nominato lo scorso gennaio un rappresentante speciale del governo per la Memoria e la lotta all'antisemitismo. Questo nuovo incarico è occupato dallo storico Alexandru Muraru, specialista della Shoah. Quest'ultimo ammette che la Romania ha troppo a lungo ignorato il suo passato. «Nel nostro paese, come in altri paesi dell'Europa centrale e orientale, c'è una tendenza al nazionalismo e alla glorificazione degli eventi storici nazionali. Questa visione minimizza gli episodi più oscuri».
  Per bloccare finalmente la strada a queste idee, il governo ha adottato lo scorso maggio per la prima volta un piano strategico nazionale per combattere l'antisemitismo, la xenofobia, la radicalizzazione e l'incitamento all'odio. In occasione dell'80° anniversario del pogrom di Iaşi, la Romania vuole sottolineare questa buona volontà. Le delegazioni di molti Paesi sono invitate alla cerimonia che ha avuto luogo martedì 29 giugno nel cimitero dove i resti delle vittime sono raccolti in un'enorme fossa comune. Lo stesso giorno è stato inaugurato anche un nuovo museo nel sito dell'ex Questura. Un altro dedicato più ampiamente alla storia della comunità ebraica nel Paese è in programma a Bucarest.

(Riforma.it, 5 luglio 2021)


Meir Banai, omaggio a un grande artista

di Nathan Greppi

Quando, esattamente 60 anni fa, nacque il cantante Meir Banai, quella israeliana era una cultura fortemente secolarizzata: nell’immaginario comune degli anni ’50 e ‘60, il tipico cittadino israeliano era un non praticante, secondo il quale le tradizioni erano qualcosa da lasciarsi alle spalle per pensare al futuro. Ma Banai, scomparso nel 2017 a soli 56 anni per un tumore, è stato tra coloro che per primi hanno sdoganato elementi legati alla fede e alle tradizioni ebraiche nella cultura pop.
  Come ha ricordato alla sua morte la rivista Tablet Magazine, Banai è nato nel 1961 in quella che si può considerare la prima famiglia di artisti in Israele: oltre a lui, anche suo zio Yossi Banai era un cantante, e musicisti sono anche i cugini Ehud e Yuval, nonché il fratello Eviatar; sua sorella Orna, invece, è un attrice. Meir ha pubblicato il suo primo album, intitolato proprio Meir Banai, nel 1984, mentre il secondo, Geshem del 1987, è quello che lo ha reso uno dei musicisti israeliani più celebri della sua generazione.
  Nei primi vent’anni dalla nascita d’Israele, il fervore che aveva accompagnato la nascita dello Stato si era unito a un desiderio collettivo di lasciarsi alle spalle uno stile di vita visto come opprimente: grandi padri del sionismo come Nachman Bialik, David Ben-Gurion e Shimon Peres venivano da famiglie ortodosse, e tuttavia erano diventati fortemente laici. Tuttavia, negli anni ’70 le giovani generazioni non presentavano il desiderio di laicismo che aveva caratterizzato le generazioni precedenti, e iniziarono a manifestare una certa curiosità per le tradizioni dei loro avi.
  Questo divario generazionale ha caratterizzato anche la famiglia Banai, di origini persiane: Yossi era fortemente laico, mentre i cugini di Meir, Ehud e Yuval, furono tra i primi a combinare musica pop occidentale con elementi mediorientali, e negli anni ’90 tornarono alla Teshuvah, adottando uno stile di vita osservante. Lo stesso Meir, pur non diventando ortodosso, fece spesso ricorso ad elementi tradizionali nella sua musica: il suo album del 2007 Shema Koli (La mia voce) presenta adattamenti musicali di testi religiosi; ad esempio, la canzone Lekha Eli (A te, Mio Signore) è tratta dagli scritti di Rav Abraham ibn ‛Ezra, rabbino spagnolo vissuto nel XII secolo. In totale, togliendo le raccolte e le registrazioni dei concerti, ha pubblicato otto album, ai quali se ne aggiunge uno del 1999, Domino, realizzato in coppia con un altro musicista, Arkadi Duchin.
  Oggi non è strano sentire messaggi di tipo religioso nella musica israeliana: come ha ricordato il giornalista di Mosaico Roberto Zadik, oggi abbiamo canzoni di successo tra i giovani come Mishe maamin (Chi crede) di Eyal Golan, o a Hashem Melech (Dio è il Re del mondo) del cantante ortodosso Gad Elbaz.
  La vita e la carriera di Banai dimostrano quanto sia importante mantenere un legame con le proprie radici, che non deve per forza passare attraverso un’osservanza rigorosa delle regole. I testi e le melodie delle sue canzoni trasmettono un amore puro e pieno di vita per le tradizioni ebraiche, e sono tuttora un esempio per le successive generazioni di musicisti israeliani.

(Bet Magazine Mosaico, 5 luglio 2021)


“Ogni piano di pace per il Medio Oriente deve partire dagli Accordi di Abramo”

Intervista a Gianni Vernetti

di Ugo Volli

Nell’ultima settimana sono apparsi sui giornali italiani diversi articoli che anticipavano una proposta italo-spagnola per un’iniziativa europea in favore di negoziati di pace fra Israele e l’Autorità Palestinese. “Shalom” ne ha parlato con Gianni Vernetti, uno dei politici e degli intellettuali italiani più autorevoli sul Medio Oriente: già sottosegretario agli esteri nel secondo governo Prodi, è stato editorialista della “Stampa” e ora scrive di politica estera per “Repubblica”.

- Gianni Vernetti, che cosa pensa di questa iniziativa?
  “Bisogna fare qualche premessa per capire di che cosa stiamo parlando. L’iniziativa italo-spagnola nasce alla vigilia di un anniversario importante: il 30 ottobre del 1991, trent’anni fa, ci fu la conferenza di Madrid in cui per la prima volta si svolsero discussioni di pace fra Israele e rappresentanti palestinesi. Fu un passo decisivo che portò due anni dopo alla firma degli accordi di Oslo. L’intenzione di prendere spunto da quel dialogo per far ripartire oggi il processo di pace mi sembra positiva. L’altra cosa di cui bisogna tener conto è che oggi l’Europa è il principale donatore dell’Autorità Palestinese, tanto dal punto di vista finanziario che dei servizi. Dico questo al di là delle osservazioni che si possono fare su come tali aiuti siano impiegati. Con Israele l’Europa ha un interscambio importante non solo sul piano commerciale, ma anche su quello scientifico, tecnico, della difesa. Israele è uno stato democratico, con stampa libera, giustizia indipendente e standard politici del tutto allineati a quelli degli stati democratici, che l’Europa non può non considerare un interlocutore pienamente legittimato. Dunque l’ambizione dell’Unione Europea di dialogare con tutti in questo contesto e di essere protagonista nella ripresa del processo di pace non è affatto infondata. Dal mio punto di vista si tratta di un’intenzione positiva, che può aiutare a far progredire la situazione regionale.”

- Si sono anticipati anche alcuni contenuti del progetto. Si propone il riconoscimento dei cosiddetti “confini del ‘67” e la condivisione della capitale Gerusalemme.
  Non mi sembra che sia un’idea realistica. Ristabilire le linee di divisione che valevano prima del 1967 è un progetto anacronistico. La storia determina evoluzioni, cambiamenti che non possono essere disconosciuti. Oggi di fatto quei confini non dividono più territori disomogenei, la situazione è profondamente cambiata. Partire da questa idea vuol dire incoraggiare una rigidità palestinese e impedire ogni progresso. Bisogna aggiungere che Israele ha superato quelle linee durante la Guerra dei Sei Giorni, difendendosi da un’aggressione che ne minacciava l’esistenza stessa. Era un’aggressione che aveva lo scopo dichiarato di farlo sparire e di cacciare in mare tutta la popolazione ebraica. Questo è un fatto storico determinante.”

- Per quanto riguarda Gerusalemme?
  “Io credo che in un contesto di piena pacificazione dello statuto di Gerusalemme si potrebbe parlare. Ma oggi il tema è certamente prematuro.”

- Dunque la proposta italo-spagnola è poco realistica.
  “E’ poco realistica soprattutto per quel che le manca. Negli ultimi due anni c’è stata una grande novità positiva per il Medio Oriente, gli ‘Accordi di Abramo’. Con questi accordi si è visto un cambiamento significativo di atteggiamento di una parte importante del mondo arabo: Emirati, Bahrein, Sudan, Marocco, che si può estendere ad altri. Questa parte del mondo arabo non ritiene più che la nascita di Israele sia stata una “catastrofe”, come dice l’uso della parola Nakbah da parte dei palestinesi, ma anzi ritiene che gli ebrei abbiano il pieno diritto a un loro stato in Medio Oriente e che con essi sia utile collaborare sul piano economico, tecnologico, politico e anche militare. Si sono aperte ambasciate, sono partiti progetti comuni, collegamenti aerei. E’ paradossale che questi accordi siano nati anche a causa delle minacce che l’Iran fa tanto a Israele che a questi stati.”

- Dunque anche dopo il cambio di amministrazione americana bisogna partire da questi accordi?
  “Sì, si tratta di una grandissima opportunità, la prima apertura dopo trent’anni. Ogni progetto di pace deve proseguire su questa strada, evitando di alimentare gli irrigidimenti e di tornare indietro, rinunciando al progresso in corso.”

- Ma l’Autorità Palestinese è pronta per questa prospettiva?
  “L’autorità palestinese è in un momento molto difficile. Metà dei suoi territori sono sotto il dominio di Hamas, un gruppo riconosciuto come terrorista anche da parte dell’Unione Europea, che governa con violenza, non tollera alcun dissenso e risponde sul piano internazionale alle politiche aggressive dell’Iran. L’altra metà è in mano a Fatah. Senza entrare nei dettagli basta pensare che da 15 anni non riescono a tenere le elezioni.”

- E secondo lei che cosa si dovrebbe fare?
  “La comunità internazionale dovrebbe fare uno sforzo di realismo e non farsi condizionare dalle retoriche che guardano al passato. Deve sostenere un processo di pace che parta dagli accordi di Abramo e che non faccia il gioco dell’Iran e dei suoi satelliti.”

(Shalom, 4 luglio 2021)


Nella Teheran degli ebrei persiani fedeli alla Repubblica Islamica

Il regime vuole dimostrare che non è anti-semita e che tutela le minoranze religiose I mizrahi non condividono la politica di Gerusalemme contro i palestinesi

di Giordano Stabile

TEHERAN - La mezuzah è ben in vista sullo stipite della porta a casa di Maryam Yashayaie, nel quartiere residenziale di Tavanir, in quella Teheran che con i suoi viali alberati sale sempre più ripida verso le montagne, verso il fresco, e anche nella scala sociale. E una zona di professionisti, medici, avvocati, e le famiglie ebraiche sono ancora numerose. E uno dei paradossi della Repubblica islamica, il più acerrimo nemico di Israele, ma che vuole preservare ottimi rapporti con la sua comunità ebraica, la più importante del Medio Oriente, 25 mila persone in tutto il Paese, diecimila nella capitale.
  Dopo la nascita dello Stato ebraico le grandi comunità di Baghdad, Aleppo, Damasco, Alessandria sono scomparse, gli abitanti sono emigrati, o cacciati in massa, specie in seguito alla disfatta araba nella guerra dei Sei giorni del 1967. Gli ebrei iraniani hanno seguito un'altra traiettoria. Prima sotto lo scià alleato degli americani, in buoni rapporti persino con il Mossad. E poi con l'ayatollah Ruhollah Khomeini, che dopo la vittoria non dimenticò i rivoluzionari curati e nascosti nell'ospedale ebraico di Sapir ed emanò un fatwa in loro protezione, anche se poco dopo dichiarò Israele il «piccolo Satana», accanto al «grande Satana», gli Usa.
  In ogni caso le mezuzah, questo simbolo di protezione e volontà di preservare la propria fede all'ingresso di casa, sono rimaste. E così centinaia di sinagoghe grandi e piccole, quaranta solo a Teheran. Nel salone Maryam Yashayaie tiene una foto del figlio dopo la cerimonia per la maggiore età e una del padre, Haroon, a lungo alla guida della comunità ebraica, una figura stimata da tutti. Ricorda quando l'ex presidente Mahmoud Ahmadinejad cominciò con le sue provocazioni, la minimizzazione dell'Olocausto, la proposta di trasferire gli ebrei israeliani in Austria o Germania. «Mio padre gli scrisse subito una lettera - ricorda -. E gli chiese di ritirare quei propositi assurdi. Non ha mai ricevuto risposta». Haron Yashayaie si dimise poco dopo, ma passato il periodo burrascoso di Ahmadinejad le cose sono tornate alla normalità. «Godiamo di quasi tutti i diritti civili - precisa Yashayaie, giornalista scientifica specializzata in medicina - anche se siamo esclusi dalle forze armate e da alcuni posizioni apicali nella pubblica amministrazione e nel settore giudiziario. Ma per esempio partecipiamo alle elezioni come tutti gli altri. Io ho votato il dottor Hemmati, che purtroppo è andato molto male».
  Sul vincitore, il nuovo presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, il giudizio è ancora sospeso. «Nella comunità abbiamo accolto con sollievo il fatto che la moglie sia andata subito in visita alla sinagoga di Yazd. È un segnale positivo, anche se non sorprendente». Per il regime è importante dimostrare che non è antisemita e che tutela le minoranze religiose. Le visite degli ayatollah sono frequenti, specie per le festività più importanti. Il grande tabù resta Israele. Pregare al muro del Pianto è uno dei sogni di Yashayaie, come di tutti i suoi correligionari, ma è consapevole che un viaggio verso lo Stato ebraico può essere senza ritorno. «In teoria è proibito e rischi di non poter tornare indietro o perdere la cittadinanza, anche se alcuni sono riusciti ad andare, passando per altri Paesi». Un conto però è la Terra promessa, un conto il governo israeliano: «Non condivido la politica nei confronti dei palestinesi: non riconoscere i diritti degli arabi è stato il grande errore di Benjamin Netanyahu. E’ uno degli errori degli ashkenaziti».
  Gli ebrei persiani fanno parte dei mizrahi, quelli mediorientali, e sostengono di essere arrivati in Iran «2600 anni fa, ai tempi della grande cattività babilonese». Allora l'impero persiano era un rifugio dalle persecuzioni del re Nabuccodonosor. Un'affinità elettiva che culminò con Ciro il Grande, l'editto per la libertà di culto in tutte le terre sotto il suo dominio, la possibilità per gli ebrei del ritorno in Israele.
  La memoria storica ha attraversato decine di regimi diversi ma si è riverberato fino alla fatwa di Khomeini, che stabiliva la protezione di ebrei, cristiani, e persino zoroastriani, la religione tradizionale prima dell'arrivo dell'islam. Con la repubblica islamica la comunità si è però chiusa in se stessa, con meno contatti verso il mondo esterno, tesa soprattutto a preservare le tradizioni, senza immischiarsi troppo con la politica.
  La sera gli uomini si riuniscono in sinagoga, a leggere i libri sacri e a pregare. Quella di Youssef Abad, costruita dal grande rabbino Abri Shamir, è una delle più frequentate. La scritta in ebraico all' esterno resta nascosta dalle fronde dei platani, l'interno è magnifico, con due grandi menurah dorate, i candelabri ebraici, sulla parete dietro il bimah, il podio, e una serie di orologi accanto all'hekhal, l'arca. Servono a conoscere con precisione il momento di ogni preghiera. «L'ebraismo è tutto digiuni e salmi, non le consiglio di convertirsi», scherza il rabbino Elias Yahoo. Sui banchi vicino all'entrata sono disponibili per tutti i libri sacri. Ne apre uno, con le righe in ebraico in caratteri più grandi, e la traduzione in persiano sotto. Nella comunità pochissimi parlano l'ebraico e tutta la vita quotidiana si svolge in farsi. Ma i testi sacri vengono preservati con cura certosina e le preghiere riecheggiano la lingua dei profeti. Anche sugli altipiani iranici così lontani dalla Terra promessa.

(La Stampa, 4 luglio 2021)


La straordinaria rinascita dello Yiddish. Chi lo studia, chi lo parla e chi si nutre delle sue radici

Una lingua che andrebbe declinata al plurale: c’è quello polacco e quello lituano; è contaminato dal tedesco ma anche dal russo; e ci sono poi tutte le varianti locali e vernacolari. Un’inchiesta tra i “parlanti yiddish” oggi in Italia.

«C’è uno humor sereno nello yiddish, una gratitudine per ogni giorno di vita, per ogni briciola di successo, per ogni incontro d’amore. Lo yiddish non è arrogante, non è sicuro di vincere, non pretende né combatte, ma passa sopra, vive ai margini, si defila di contrabbando in mezzo ai poteri della distruzione, comunque consapevole del fatto che il piano di Dio per la Creazione è solo al suo inizio». Con queste indimenticabili parole d’amore per la sua lingua perduta, Isaac Bashevis Singer riceveva a Stoccolma il premio Nobel nel 1978. Ma Singer parlava a nome di tutti gli yiddishofoni del mondo, e di tre generazioni di scrittori che avevano reso grande la storia e la letteratura della yiddishkeit. «Fra tutti gli idiomi parlati dagli ebrei nella diaspora, solo nel caso dello yiddish è sorta una ricca letteratura», affermava il grande yiddishista polacco Chone Shmeruk (1921 – 1997), professore di Lingua e letteratura yiddish all’Università Ebraica di Gerusalemme.

(Bet Magazine Mosaico, 4 luglio 2021)


La Fiat 500 elettrica debutta in Israele. La prima volta fuori dall'Europa

Per il 64° compleanno la nuova generazione della citycar più famosa del mondo sbarca fuori dal vecchio continente. Il messaggio di Olivier François, capo del marchio.

TORINO - Un compleanno speciale per la nuova Fiat 500 elettrica. Per Il 64° anniversario la citycar più famosa di sempre debutta nel primo Paese fuori dall’Europa: Israele dove sarà disponibile nei 4 allestimenti: dalla “Action” – proposta grazie agli incentivi allo stesso prezzo della ICE – a “la Prima” e nei 3 body cabrio, hatchback e 3+1.
   "Sono estremamente orgoglioso di celebrare il compleanno della nostra icona con un passo simbolico molto significativo: la Nuova 500, la terza generazione dell’icona nata esattamente 64 anni fa a Torino dove è anche prodotta, oggi viene lanciata nel primo Paese al di fuori dell’Europa: Israele - ha commentato Olivier François, Fiat Chief Executive Officer e Stellantis CMO –. E non potevamo scegliere una location più rilevante per raccontare questo momento: la pista sul tetto del Lingotto. In passato era la pista di prova delle 500 e si trovava proprio sul tetto della fabbrica dove venivano prodotte. Oggi, è il ponte che unisce passato e futuro di Fiat e di 500 infatti proprio su questo tetto stiamo lavorando alla creazione del giardino pensile più grande d’Europa, si chiamerà La Pista 500. Un giardino per la città di Torino, un polmone verde nel cuore della città a disposizione di tutti, che rappresenta il percorso green di Fiat e ne riprende i valori, perché secondo noi “è green solo se è green per tutti”, questo è il DNA di Fiat e questo è il nostro impegno".

 La Pista 500, ponte tra passato e futuro
  Il messaggio di Olivier Francois è stato realizzato sul tetto del Lingotto a Torino, un luogo simbolico che unisce il glorioso passato del marchio italiano e del suo modello più famoso con la visione per un futuro più sostenibile. Il Lingotto era la fabbrica dove nasceva la 500 e sul tetto della struttura vi era la leggendaria pista su cui venivano testate anche le prime 500. Una vera e propria pista di prova con due sopraelevate. Proprio da qui simbolicamente la 500 partiva “alla conquista del mondo”. Ed è sul tetto del Lingotto, dell’ex fabbrica già protagonista all’inizio degli anni Novanta di uno dei primi recuperi di archeologia industriale, dove passato e futuro s’incontrano, che nascerà il giardino pensile più grande d’Europa. E sempre al Lingotto, la cui struttura innovativa stupì persino l’architetto Le Corbusier, trova spazio il nuovo museo Casa 500, incastonato nella preziosa Pinacoteca Agnelli, che racconta passato e futuro, cultura e iconicità dell’ambasciatrice del made in Italy nel mondo.

 Nuova 500 è il massimo dell’espressione green per la mobilità urbana del futuro
  Pensata, ingegnerizzata e prodotta a Torino, la Nuova 500 è il primo modello della storia di Fiat nato full electric e 100% Made in Italy. Benchmark per autonomia e velocità di ricarica: percorre sino a 320 km (ciclo WLTP) con batterie Lithium-Ion con capacità di 42kWh. Fast charger da 85 kW, per una ricarica sufficiente a percorrere 50 chilometri sono necessari solo 5 minuti e, per ricaricare l’80% della batteria, ne occorrono 35.
   Prestazioni: Passion, Icon e la Prima sono equipaggiate con un motore elettrico da 87 kW (118 CV), velocità massima 150 km/h (autolimitata), accelerazione 0-100 km/h in 9,0 secondi e 0-50 km/h in 3,1 secondi. La versione Action è equipaggiata con un e-motor da 70 kW con accelerazione da 9,5 sec 0-100 km/h, velocità massima di 135 km/h e autonomia di 190 km (ciclo WLTP).
   ADAS e Guida Assistita di Livello 2: la Nuova 500 è equipaggiata con i sistemi ADAS “Advanced Driver- Assistance Systems” che rendono la guida più facile, sicura, semplice e anche divertente, oltre a essere la prima vettura del suo segmento a essere equipaggiata con la Guida Assistita di Livello 2.
   Connessa sempre: la Nuova 500 è equipaggiata con il nuovo sistema Infotainment R1 con display touchscreen da 10,25”. È sempre connessa, consente aggiornamento over the air, oltre al pairing con 2 smartphone contemporaneamente, in meno di 5 secondi.

 Una storia leggendaria che affonda le sue radici nel passato ma con un chiaro sguardo al futuro
  Per immaginare il futuro della 500, e dare vita alla Nuova 500, Fiat è partita dal suo gioiello più prezioso che ha influenzato le abitudini degli automobilisti e la storia dell’automotive con il suo design, lo stile, la sua rilevanza e la sua forte personalità. Così è stato per la prima generazione, quella che negli anni Sessanta ha dato mobilità e libertà, diventando un vero fenomeno di costume e si è imposta come love brand. Con la seconda generazione, lanciata nel 2007, Fiat 500 ha introdotto nel mondo delle city car il concetto di coolness e di fascino, diventando un’icona di moda e di stile che dall’Italia ha conquistato il mondo. Un modello in continua evoluzione che, negli ultimi tredici anni, ha ispirato artisti, musicisti ed è rimasta sempre attuale con più di 30 serie speciali. E nel 2020 è stata lanciata la terza generazione, la Nuova 500, che è pronta a rivoluzionare la mobilità urbana sostenibile con tutta la sua carica di simpatia, innovazione e tecnologia. La Nuova 500, già pluripremiata 10 volte a partire da prima del suo lancio – tra i riconoscimenti il Red Dot Award, IF Design Award e "Green Car" agli Automobile Awards - dopo aver conquistato l’Europa, sbarca in Israele compiendo il suo primo passo verso il mondo.

(la Repubblica, 4 luglio 2021)



Il peggiore dei profeti




febbraio 2015


DAL VANGELO DI MATTEO

Capitolo 12
  1. Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
  2. Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!

DAL LIBRO DI GIONA

Capitolo 1
  1. La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
  2. 'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
  3. Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
  9. Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
  11. E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
  13. Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
  14. Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'


 


Gaza, colpiti siti militanti palestinesi. La risposta di Israele ai palloni incendiari di Hamas

Colpiti con attacchi aerei siti dei militanti palestinesi a Gaza dopo il lancio di palloni incendiari partiti dall'enclave palestinese. Lo segnalano fonti di sicurezza di Hamas, che parlano di attacco contro i siti di addestramento. Non sono stati segnalati feriti.

di Sharon Nizza

Ieri i vigili del fuoco israeliani hanno affermato che il lancio di palloni incendiari da Gaza ha provocato quattro incendi minori nella regione meridionale di Eshkol, al confine con Gaza. Gli incendi erano "piccoli e non pericolosi" e sono stati rapidamente domati, ha riportato una nota dei vigili del fuoco. "L'esercito - ha detto il portavoce della Difesa israeliana - risponderà con determinazione a tutti gli attacchi terroristici che arrivano dalla Striscia".
  I palestinesi hanno dichiarato che il lancio dei palloni vuole fare pressione su Israele per allentare le restrizioni sull'enclave costiera, rafforzate durante i combattimenti di maggio. I lanci erano diminuiti dopo che Israele aveva allentato alcune restrizioni su Gaza la scorsa settimana. Ma giovedì sono stati nuovamente lanciati, provocando almeno quattro incendi vicino alle città israeliane lungo il confine.
  "In risposta all'incendio doloso del pallone aerostatico contro il territorio israeliano, oggi i caccia dell'Idf (esercito israeliano) hanno colpito un sito di produzione di armi appartenente a Hamas", hanno affermato i militari in una nota. Non ci sono stati commenti immediati da Hamas. L'Egitto e le Nazioni Unite hanno intensificato gli sforzi di mediazione per gli attacchi israeliani e il lancio di palloni a Gaza, sebbene gli incidenti non abbiano portato a un'escalation importante.

(la Repubblica, 2 luglio 2021)


La politica estera d’Israele nell’era post Netanyahu

Smantellare una decade di lavoro di Netanyahu potrebbe non richiedere molto tempo

di Alfredo De Girolamo1 e Enrico Catassi2

Nel 1978 il premier israeliano Menachem Begin aveva solo da guadagnare dall’iniziativa di pace egiziana, avallata dagli Usa. Israele era in una fase ancora calda di tensioni nell’area e l’operazione diplomatica con il Cairo avrebbe alleggerito le pressioni esterne, aprendo un nuovo capitolo di relazioni. La formula “terra in cambio di pace” alla base dei negoziati era appropriata, e vantaggiosa. Incluso per Washington, che investiva molto sulla stabilità del Canale di Suez.
  Nel 2020 con gli accordi di Abramo, o di normalizzazione, tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, è ancora la Casa Bianca a tessere le fila, questa volta a mediare è Donald Trump. L’obiettivo dell’allora presidente statunitense, alla sua maniera, è istituzionalizzare la cooperazione tra Gerusalemme e le monarchie del Golfo in chiave anti-iraniana.
  Il riconoscimento formale di Israele è il primo passo della visione trumpiana per disegnare il futuro Medioriente, altri gradini non avrà tempo di salirne. Chi in quella partita di posizionamento delle alleanze arabe non ha avuto voce in capitolo è il leader palestinese Abu Mazen, marginalizzato non può non rifiutare l’offerta del piano di Trump. Al contrario è incontrovertibile il successo internazionale di Bibi Netanyahu. Che, tuttavia, non potrà godersi gli allori e i tappeti rossi.
  Gli onori se li prende Yair Lapid, ministro degli esteri e co-leader dell’attuale esecutivo in tandem con Naftali Bennett. Lapid, che dal padre Tommy ha preso la passione per il giornalismo, quella per la politica e la fede negli ideali laico-liberali, è riuscito nella missione di silurare il falco della destra, e dare al Paese un’alternativa di governo.
  Dal giorno del suo insediamento al vertice della diplomazia israeliana ha mostrato dinamismo e propensione a fare rete. La stretta collaborazione con il segretario di stato Tony Blinken, fatta di lunghe telefonate e incontri, ultimo quello sulle sponde del Tevere, è il modus operandi dell’era post-Bibi. Ad Abu Dhabi durante la celebrazione dell’apertura della rappresentanza israeliana ha salutato l’evento storico riconoscendo al rivale Netanyahu l’onore delle armi: “architetto degli accordi di Abramo”.
  Il ringraziamento ufficiale seppur dovuto non era scontato, in passato tra i due politici è volato di tutto, epico l’affronto di uno spot elettorale di Lapid dove Netanyahu viene ridicolmente apostrofato: “Messaggero di Dio, leader della destra e signore dei draghi”. Comunque, il messaggio al rivale di sempre, tranne che per una breve parentesi, più che distensivo è apparso una manifestazione di continuità di indirizzo. Almeno, in quella parte specifica di mondo si segue la traccia lasciata da Bibi. Porta aperta da Trump, che lo stesso Biden si è guardato bene dal chiudere, e non è stata l’unica nel contesto mediorientale. L’inquilino del 1600 di Pennsylvania Avenue aveva esplicitamente messo in chiaro di non aver nessuna intenzione di spostare l’ambasciata da Gerusalemme, non perché il trasloco da Tel Aviv è durato mesi, costato un’enormità e ha avuto notevoli problemi logistici, ma perché lui stesso aveva votato nel 1995 il Jerusalem Embassy Act, che riconosceva Gerusalemme capitale di Israele e prevedeva la ricollocazione della sede diplomatica. Oltre a raccogliere i frutti maturi piantati da chi li ha preceduti sia Biden che Lapid si vogliono liberare delle mele marce lasciate in eredità.
  Il vento di cambiamento di Lapid prevede lo stop ai sodalizi con il circolo populista globale e alle campane degli evangelici. Ricostruire la fiducia con l’Unione Europea. E non annettersi altri territori palestinesi, forse. Smantellare una decade di lavoro, costruito minuziosamente da Netanyahu, potrebbe non richiedere molto tempo, la lista del corpo diplomatico che dovrà rimuovere celermente la corte di re Bibi è già stata approvata. I plenipotenziari dell’ex premier sono stati richiamati in patria. Dove ad attenderli non troveranno il loro amato sovrano.

(1) Esperto ambientale, giornalista
(2) Storico, analista del contesto mediorientale

(L'HuffPost, 2 luglio 2021)


Rabbino pugnalato a Boston davanti a un centro ebraico

La vittima è un israeliano. Preso l'aggressore. Il console generale: "Inorriditi e preoccupati"

Un rabbino è stato aggredito e accoltellato più volte davanti a un centro ebraico. L'aggressione è avvenuta ieri nel quartiere di Brighton, a Boston. L'uomo è ricoverato in condizioni stabili. Secondo quanto riferito dal Times of Israel, che cita il portale Chabad.org, il rabbino Shlomo Noginski, cittadino israeliano, è stato attaccato mentre si trovava fuori dalla Shaloh House, un istituto per ebrei di lingua russa.
  Secondo quanto riportato, un uomo si è avvicinato a Noginski, che si trovava fuori dall'istituto ed era impegnato in una telefonata, ha estratto una pistola e ha detto al rabbino di portarlo alla sua auto. Quando ha cercato di costringerlo a entrare, Noginski ha provato di fuggire e l'uomo lo ha pugnalato ripetutamente.
  Il rabbino Dan Rodkin, direttore esecutivo della Shaloh House, ha affermato che Noginski è stato pugnalato otto volte. L'aggressore è stato fermato dalla polizia, che in seguito lo ha identificato come Khaled Awad, 24 anni. È stato accusato di aggressione e percosse con arma pericolosa e aggressione e percosse a un agente di polizia.
  La polizia non ha fornito dettagli sulle motivazioni dell'aggressione, né ha classificato immediatamente l'attacco come crimine d'odio. Le autorità hanno riferito che sono stati intensificati i pattugliamenti nelle vicine sinagoghe e nei luoghi ebraici.
  "Siamo inorriditi da quello che è successo", ha dichiarato il console generale di Israele a Boston, Meron Reuben, parlando al Boston Herald. "Siamo molto preoccupati e stiamo seguendo la situazione".

(la Repubblica, 2 luglio 2021)


"Viaggio nell'innovazione fra Italia e Israele", presentate a Savona le startup bio e medtech

Spazio alle esperienze italiane e israeliane nell’evento in Provincia. Franco (associazione Italia-Israele): “Israele è all’avanguardia ma anche la Liguria e tutta Italia hanno eccellenze incredibili”.

“Israele è all’avanguardia ma anche la Liguria ha eccellenze incredibili. Nel 2021 siamo a 100 più uno anni di Israele in Liguria”.
  Con queste parole, dopo il convegno del febbraio 2020 a Palazzo Nervi con la presenza dell’ambasciatore di Israele in Italia Dror Eydar, Cristina Franco, presidente dell’Associazione Italia Israele di Savona, ha dato il via nel palazzo della Provincia a Savona all’evento “Viaggio nell’innovazione fra Italia e Israele”, dedicato all'innovazione tecnologica in ambito bio e med tech e blue economy con esperienze italiane e israeliane.
  L’evento, patrocinato da Ambasciata di Israele in Italia, Provincia di Savona, Unione industriali Savona e Università degli Studi di Genova, si è avvalso della collaborazione di Cristina Biasizzo di Bio4Dreams, importante business nursery italiana.
  All’illustrazione delle startup italiane e israeliane con la presenza di spin off universitari di eccellenza, sono intervenuti in apertura il consigliere regionale Angelo Vaccarezza, il presidente della Provincia Pierangelo Olivieri, il consigliere regionale Brunello Brunetto, il vicesindaco Massimo Arecco, il direttore generale dell’Asl2 Marco Damonte Prioli e il presidente dell’Ordine dei Medici Alessandro Corti.
  L’incontro ha rinnovato il legame fra la nostra Regione e le sue eccellenze con lo Stato di Israele, in un percorso di cooperazione e vicinanza sempre più stretto e di grande opportunità. Ha rappresentato anche una vetrina per spin off universitari e uno strumento di reciproca conoscenza e collaborazione aziendale e universitaria fra i due Paesi.
  “Abbiamo eccellenze incredibili nelle nostre università, giovani geniali e abbiamo voluto dar loro voce – commenta Cristina Franco, presidente dell’Associazione Italia Israele di Savona - Così come abbiamo voluto coinvolgere le aziende israeliane, attraverso il prezioso contributo del Dipartimento economico dell'Ambasciata di Israele in Italia, perché Israele rappresenta un'avanguardia e un faro nel mondo dell'innovazione tecnologica a 360 gradi”, conclude il presidente.
  Bioextreme invece ha sviluppato un sistema robotico per la riabilitazione dei traumi da ictus e infarto, TBI e altri disordini cerebrali. Successivamente è stata presentata Neteera, che ha inoltre sviluppato una soluzione per l’assistenza dei pazienti, anche in telemedicina, con microsensori che analizzano i dati vitali, raccolgono gli stessi, analizzano su base IA e supportano nella diagnosi.
  Una delle start up israeliane presentate nel pomeriggio è stata Soapy Care, lo scorso aprile i loro dispositivi intelligenti per il lavaggio e la sanificazione della mani erano stati donati dall’ambasciata all’Ospedale San Paolo di Savona.
  Tra le italiane sono state presentate le spin off dell’ateneo ligure Bio3D Matrix, che ha realizzato un procedimento e un sistema per il trattamento delle superfici di supporti o contenitori per colture cellulari neuronali bidimensionali.
  ScreenNeuro Pharm ha sviluppato strumenti per l’ingegnerizzazione di colture cellulari per lo screening farmacologico con riduzione dei costi e della sperimentazione animale.
  L’ingegner Ilan Misano, che ha studiato alla Technion di Haifa, è un ingegnere biomedico esperto di telemedicina e digital health e program manager dello Startups team di Google Israele. Gestisce 13 progetti di telemedicina in Italia e ha raccontato la sua esperienza fra Italia e Israele, di come le aziende italiane stiano guardando il panorama dell’innovazione in Israele e del modo in cui le tecnologie innovative israeliane di telemedicina/biotech stanno aiutando le vite di molti bambini e famiglie negli ospedali Bambino Gesù e “Gemelli” di Roma, nell’ASL di Vercelli e in vari altri contesti in Italia.
  "È stato un vero onore come Presidente della Provincia ospitare questo evento che rinnova lo spirito di fratellanza tra le Comunità Liguri e Israeliane e rafforza la collaborazione tra i due Paesi dando un ulteriore slancio ad innovativi progetti in ambito culturale, sociale, economico - commenta il presidente della Provincia di Savona Pierangelo Olivieri - L'incontro di oggi è stato una importante occasione di confronto sulle più recenti innovazioni tecnologiche in campo biomedico e l'incontro tra eccellenze del settore: la Provincia di Savona, nel proprio ruolo di coordinamento e rilancio del Territorio è orgogliosa di aver patrocinato questo evento dando spazio ad un settore di particolare rilievo per tutti noi".

(SavonaNews.it, 2 luglio 2021)


I campi estivi di Hamas. Sono immagini poco social

Indottrinamento criminale dei ragazzini della Striscia di Gaza alla guerra e al fanatismo anti Israeliano. Sono immagini poco social.

di Daniel Raineri

Durante l’ultimo conflitto tra Israele e Hamas, sui social media c’erano molte accuse contro i media convenzionali, accusati di non coprire abbastanza bene quello che succedeva nella Striscia di Gaza e di dare soltanto una parte delle informazioni e in definitiva di stare con Israele. Accadeva precisamente il contrario. I media convenzionali sono stati più precisi, più solidi e meglio informati dei social media. Una ragione è che i social media non sono obbligati a restare ancorati alla realtà e si vede. Gli esempi che si possono fare sono numerosi. Su Instagram c’erano “spiegazioni del conflitto” in formato video di tre minuti che dimenticavano di menzionare Hamas – che era una delle due parti più importanti della guerra. Su Facebook c’erano post che denunciavano: “Gli israeliani stanno cercando di ammazzare il numero più grande possibile di palestinesi”, che è un’accusa demenziale.
  C’è da chiedersi come fa uno che prende le notizie soltanto dai social media a capire che in Israele un partito religioso arabo grazie ad accordi politici con altri partiti israeliani ha fatto cadere il governo di Benjamin Netanyahu. Cosa potrebbe pensare delle ondate continue di arresti del partito palestinese Fatah contro Hamas e viceversa, che sono ricominciate subito dopo i dieci giorni di conflitto a Gaza. O dei ringraziamenti pubblici fatti da Hamas al termine della guerra, rivolti all’Iran “che ci ha fornito soldi e armi”. O della notizia che Hamas ha di nuovo riallacciato i rapporti con il regime siriano di Bashar el Assad, che ha una sezione apposita dei servizi segreti per dare la caccia ai palestinesi. O delle proteste di piazza contro l’Autorità nazionale palestinese, che si sono scatenate pochi giorni fa dopo la morte in carcere per percosse di un dissidente, Nizar Banat, che aveva denunciato la corruzione dell’establishment nella West Bank. Sono state represse con violenza. O della sezione 152 del codice penale in vigore nella Striscia di Gaza, che punisce i gay con dieci anni di carcere.
  Le foto in queste pagine sono prese dai social media di Hamas e di un altro gruppo armato della Striscia di Gaza, il Jihad islamico. Si riferiscono ai due campi estivi per bambini che si sono appena conclusi. Mostrano il momento delle iscrizioni e alcune delle attività, che ruotano tutte attorno alla guerra e all’indottrinamento. Non sono foto rubate, anzi, i due gruppi le hanno messe con orgoglio sui propri canali social. Fanno parte di tutto quello che i media convenzionali vedono e seguono, perché si occupano di Gaza tutto l’anno e non soltanto durante i dieci giorni di guerra quando l’attenzione sale e le interazioni sui social media si fanno frenetiche. Quindi si è creato questo sbilanciamento bizzarro. Se la ong Human Rights Watch accusa Israele di “apartheid” i media riportano la notizia, come pure danno conto delle vittime dei bombardamenti e del resto. I social invece sono selettivi. Prendono soltanto quello che vogliono e quello che vogliono non mette mai in crisi la loro versione dei fatti. E nel resto del tempo accusano i media di essere parziali, di non dare le informazioni e di obbedire a una non meglio specificata censura. I social in questo caso non offrono più informazioni: ne offrono meno.
  Torniamo alle foto. Hamas le ha pubblicate perché vuole essere vista così. E’ un’organizzazione di irriducibili che rifiutano i negoziati e vogliono una guerra definitiva con lo scopo dichiarato di distruggere Israele. E addestrano le nuove generazioni a fare lo stesso. Oltre alle foto hanno diffuso anche i video girati durante i campi estivi: si vedono i ragazzini giocare a catturare un altro ragazzino vestito da soldato israeliano. Non è materia da social, non attira attenzione, arriva fuori tempo massimo rispetto ai giorni della guerra quando a molte voci sembrava così urgente spiegare il conflitto in bianco e nero, i buoni e i cattivi. Tocca ai media vecchia scuola prendere le immagini direttamente dai siti del gruppo terroristico Hamas e pubblicarle, in attesa della prossima fiammata di violenza.

Il Foglio, 2 luglio 2021)


L'Iran blocca l'accesso degli spettori AIEA al sito di Natanz

La decisione che potrebbe affossare i colloqui indiretti di Vienna tra USA e Iran

di Sadira Efseryan

L’Iran ha bloccato l’accesso al sito di Natanz agli ispettori della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).
  A renderlo noto sono funzionari dell’organismo delle Nazioni Unite deputato a controllare le questioni riguardanti il nucleare.
  Il sito di Natanz è il più importante del programma nucleare iraniano per l’arricchimento dell’uranio.
  Lo scorso mese di aprile il sito di Natanz è stato vittima di un “incidente” che ne ha compromesso seriamente la produttività e probabilmente la struttura.
  Secondo gli iraniani l’interdizione all’accesso al sito di Natanz per gli ispettori è tuttavia temporanea e sarebbe dovuta a non precisati “motivi di sicurezza”.
  È convinzione comune che “l’incidente” di aprile sia in realtà un sabotaggio israeliano che avrebbe compromesso la produzione di uranio altamente arricchito per mesi.
  E sarebbe questo il vero motivo per cui agli ispettori della AIEA non viene permesso di entrare nel sito di Natanz. Gli iraniani non intendono mostrare i danni del cosiddetto “incidente”.
  La decisione iraniana di bloccare l’accesso degli ispettori della AIEA al sito di Natanz è piombata sui colloqui indiretti di Vienna come un macigno.
  Già i colloqui indiretti tra USA e Iran erano stati rinviati a data da destinarsi. Dopo questo episodio sarà difficile che possano riprendere.
  Nel 2020 l’Iran aveva negato l’accesso agli ispettori ad altri due siti nucleari. Ora l’interdizione al sito di Natanz potrebbe essere davvero la tipica goccia che fa traboccare il vaso.
  Un accordo temporaneo per il monitoraggio di diversi siti era stato raggiunto ma dopo la sua scadenza, lo scorso mese, l’Iran non ha ritenuto opportuno rinnovarlo.
  Ormai solo gli americani e gli Stati Europei non vedono [o non vogliono vedere] cosa sta facendo l’Iran e che è sempre più vicina alla bomba atomica.
  Una cosa sembra essere certa, i colloqui di Vienna, che Teheran usa solo per prendere tempo, sembrano essere irrimediabilmente compromessi.

(Rights Reporter, 2 luglio 2021)


L’impresa di Entebbe, 45 anni fa

Intervista a Tamir Pardo, uomo del commando israeliano di Yoni Netanyahu

di Ugo Volli

Sono passati 45 anni da quei giorni di fine giugno e inizio luglio del 1976 quando si svolse la più ardita azione antiterrorismo di Israele, l’impresa di Entebbe. Il 27 giugno un aereo dell’Air France diretto da Parigi a Tel Aviv fu dirottato, dopo una sosta tecnica ad Atene, da quattro terroristi, due del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e due della banda tedesca Baader-Meinhof. I terroristi costrinsero l’equipaggio a dirigersi prima a Bengasi in Libia e poi all’aeroporto di Entebbe in Uganda. Qui separarono i non ebrei dagli ebrei: i primi furono liberati e poterono tornare in Francia, i secondi, circa un centinaio, furono tenuti come ostaggi in un locale del terminal dell’aeroporto, con l’appoggio del governo dell’Uganda. I dirottatori volevano, in cambio della loro vita, la liberazione di circa 25 terroristi che scontavano la pena nelle carceri  di Israele e di altri paesi. Israele decise di non cedere e di cercare di liberare gli ostaggi con la forza. così nacque l’impresa di Entebbe, che si svolse il 4 luglio sotto la direzione di Yoni Netanyahu. “Shalom” ne ha parlato con un testimone eccezionale, Tamir Pardo, che allora partecipò alla liberazione degli ostaggi essendo responsabile delle comunicazione del commando che assalì il terminal. In seguito Pardo ha lavorato a lungo nei servizi segreti di Israele, fino a diventare l’undicesimo capo del Mossad, da gennaio 2011 a gennaio 2016.  

- Signor Pardo, come entrò nel gruppo che compì l’impresa di Entebbe?
  “Era appena finita la guerra del Kippur e la situazione per noi non era facile. C’erano state molte perdite, molti morti, un senso generale di difficoltà. Io avevo finito il mio servizio militare obbligatorio e sentivo fortemente la necessità di reagire,  di impegnarmi per rafforzare la difesa Israele. Ero paracadutista, decisi di fare la scuola per ufficiali e feci domanda di entrare in un reparto di combattimento speciale, i commando della Sayeret Matkal  (un nome che significa “Unità di Ricognizione dello Stato Maggiore”). Il mio comandante era Yoni Netanyahu, il fratello di Bibi.”  

- Chi decise l’operazione?
  “Fu una responsabilità che si assunsero i massimi vertici dello stato. In quel momento primo ministro era Yitshak Rabin, il ministro della difesa era Shimon Peres. Decisero loro, in caso di fallimento la catastrofe sarebbe stata loro. Fu una scelta difficilissima, perché l’operazione presentava moltissime incognite. Entebbe si trova a oltre 4000 chilometri da Israele, in un posto che nessuno di noi conosceva neanche vagamente. Erano gli anni settanta, pochi israeliani uscivano dal paese, se non per andare magari a fare una visita in Europa. Non sapevamo nulla dell’Africa. Certo, dal punto di vista tecnico liberare una scuola presa dai terroristi in Israele o un terminal a Entebbe non era molto diverso, lo sapevamo fare. Ma il problema era arrivarci.”  

- Come ci riusciste?
  “Furono impiegati quattro aerei da trasporto che ci misero quasi otto ore di volo. Dovevamo volare molto bassi, rasi al suolo, per sfuggire ai radar. C’era anche un tempo terribile, una specie di uragano.  Sulla rotta non avevamo certo degli amici: l’Egitto con cui c’era appena stata la guerra, l’Arabia Saudita, il Sudan. Bisognava evitare che ci vedessero. Era vitale che i terroristi e gli ugandesi non si accorgessero del nostro arrivo, perché, se avessero intuito la possibilità che arrivasse una forza israeliana, avrebbero avuto il tempo di sparare con armi contraeree contro i nostri aerei e comunque di uccidere o spostare gli ostaggi. Io stavo nel primo aereo, quello che doveva compiere l’attacco. Altri due erano dieci minuti dietro, per imbarcare gli ostaggi che avremmo liberato e il quarto con altri commando doveva servire da copertura e forza di riserva, se ci fosse stata battaglia. Avevamo pochissimi minuti per uccidere i terroristi, far fuggire i loro alleati ugandesi, liberare gli ostaggi e ripartire, prima che l’esercito ugandese organizzasse una controffensiva e magari ci abbattesse al decollo. Dal nostro aereo abbiamo sbarcato tre macchine, una Mercedes in testa per confondere le idee e due Land Rover. Io ero sulla prima jeep. Ci fu un errore, suscitammo i sospetti delle sentinelle ugandesi e ci fu subito uno scontro a fuoco con loro. E’ qui che colpirono da dietro Yoni Netanyahu, proprio accanto a me. Avevamo un medico con noi, ma non era possibile salvarlo. Lo vedemmo cadere, ma non abbiamo saputo della sua morte se non in volo. Noi andammo avanti subito senza il nostro comandante: eravamo molto bene allenati e decisi, non ci furono esitazioni o ritardi. In otto minuti prendemmo il terminal e liberammo gli ostaggi e l’equipaggio: il comandante, con un gesto da vero ufficiale, aveva rifiutato di separarsi da loro. Nel frattempo erano arrivati gli altri e bisognava subito ripartire. L’ultimo aereo decollò da Entebbe novanta  minuti dopo il nostro arrivo. Rifornimmo di carburante gli aerei a Nairobi e facemmo ritorno in Israele il giorno dopo con gli ostaggi. Fu un trionfo, ma senza il nostro comandante.  

- Com’era Yoni Netanyahu?
  “Era un uomo straordinario, al tempo stesso un grande soldato e un intellettuale, con convinzioni profonde e idee personali. Quando c’era una pausa, un momento di riposo, apriva sempre qualche libro. Ma io ero un giovanissimo ufficiale, avevo poco più di vent’anni, e lui era il mio comandante.  Lo stimavo moltissimo, lo seguivo dove ci portava; ma naturalmente c’era una distanza, non solo di grado ma anche d’età”.  

- C’è una morale nella storia di Entebbe?
  “Sì, mai arrendersi al terrorismo, mai farsi fermare dalle difficoltà tecniche, avere il coraggio di fare quel che si deve.”

(Shalom, 2 luglio 2021)


Le contorsioni mentali della “nazificazione” degli ebrei

di Davide Cavaliere

In un celebre romanzo di Philip Roth , Lo scrittore fantasma, il protagonista è Nathan Zuckerman, promettente scrittore ospite nella casa del suo idolo letterario, tale Lonoff. Nell’abitazione è presente anche una giovane donna, Amy Bellett, scampata alla Shoah e trasferitasi in America. Zuckerman si mette in testa che la ragazza sia Anna Frank.
  In un altro romanzo, intitolato Prove per un incendio, lo scrittore
   Shalom Auslander
racconta l’incontro, in una cornice inquietante, tra l’irresoluto Solomon Kugel e un’anziana donna sopravvissuta ai nazisti, Anna Frank.
  Si tratta di due romanzi, scritti da autori americani di origine ebraica, che hanno al centro della trama la tredicenne ebrea. Entrambe le creazioni narrative collocano Anna Frank in contesti e ruoli improbabili o difficili da associare all’autrice del Diario. Nel libro di Roth è una femme fatale, mentre in quello di Auslander è una vecchia che da quarant’anni vive in una soffitta.
  Se Anna Frank fosse davvero sopravvissuta allo sterminio degli ebrei e, invece di riparare negli Stati Uniti, si fosse trasferita in Israele, oggi sarebbe un’anziana donna con un anno in più di Liliana Segre. Ma non solo, oggi sarebbe anche considerata una “nazista” e una “colonialista”.
  Qualcosa, in noi, stride all’idea che Anna Frank possa essere tacciata di nazismo, eppure è quello che è successo, e continua ad accadere, a centinaia e centinaia di sopravvissuti alla Shoah che hanno trovano una casa nello Stato ebraico. Tutte le volte che Israele viene definito “stato nazista” o “cancro”, si accusano dei sopravvissuti al genocidio, uomini e donne con storie non dissimili da quelle di Anna, di essere uguali ai loro carnefici o malattie da estirpare.
  Se non fosse morta nel campo di sterminio di Bergen-Belsen, la piccola ebrea non sarebbe una vittima sulla cui vicenda versare lacrime, molte delle quali ipocrite perché provenienti da antisionisti radicali, bensì una compare di Eichmann.
  Esiste qualcosa di più turpe della “nazificazione” degli ebrei e del loro Stato, compresi molti sopravvissuti alla Shoah? No, eppure tanti antisemiti, malamente mascherati da anti-israeliani, continuato a sviluppare il suddetto parallelo, magari tirando in ballo anche la povera Anna Frank che, da anni, viene associata ai palestinesi.
  Spesso, gli attivisti palestinisti accusano Israele di sfruttare l’Olocausto per giustificare i loro presunti “crimini” ma, in realtà, sono gli antisionisti a saccheggiare la storia dello sterminio degli ebrei europei.
  La nuova ideologia antiebraica che si è formata e diffusa a partire dalla fine della Guerra dei sei giorni (giugno 1967), si presenta come una forma di antirazzismo, accusando gli “ebrei-sionisti” di essere razzisti, proprio come i nazisti. Inoltre, lo Stato d’Israele viene incolpato di condurre uno sterminio sistematico della popolazione palestinese. Questa allucinata narrativa, che non ha alcuna consistenza oltre a quella lessicale, permette a molti di definire Gaza come “campo di sterminio” o di paragonare la famiglia Frank a quelle morose e abusive di Sheikh Jarrah.
  Gli ebrei, non solo i sionisti, vengono deformati dalla propaganda e trasformati in nazisti. I sostenitori della Palestina sottraggono la Shoah a Israele, se ne appropriano per fare leva sul senso di colpa occidentale e bucare lo schermo.
  L’intellettuale palestinese-americano Edward Said, antisionista al cubo, riassume questa visione, basata sull’inversione tra vittime e carnefici, con la seguente frase: “I palestinesi sono le vittime delle vittime”. In modo implicito si afferma che gli ebrei sono peggiori dei nazisti poiché da antichi oppressi sono diventati oppressori, dimenticando il loro tragico passato.
  Israele, dunque, diventa indegno di custodire la memoria della Shoah che deve, necessariamente, passare in mano palestinese. L’ebreo, diventato israeliano, non può avanzare diritti sulla sua storia. Nelle grinfie palestinesi, la Shoah non viene valorizzata, ma banalizzata e giustificata: “Hitler ha tentato di sterminare i nostri attuali oppressori, dunque non ha fatto nulla di così sbagliato”. La nazificazione di Israele si traduce in una legittimazione dell’operato nazista. Ecco gli “ebrei-sionisti” diventare “peggiori dei nazisti”, mentre i veri nazisti si trasformano in carnefici preveggenti, capaci intuire il “male” che sarà inflitto ai palestinesi.
  Le suddette contorsioni mentali, che possono essere verificate leggendo una qualsiasi delle tante, troppe, pagine antisioniste presenti sui social media, rappresentano una nuova forma di demonizzazione del popolo ebraico. Bisogna, risolutamente, sottrarre la Shoah a ogni indebita appropriazione.

(Il Corriere israelitico, 1 luglio 2021)


Stallo nei colloqui per la pace tra Israele e Gaza

TEL AVIV - Nessun progresso nei negoziati indiretti tra Israele e Gaza per arrivare a un accordo, dopo il cessate il fuoco che ha messo fine il mese scorso al nuovo scoppio di violenza tra le due parti: undici giorni di violenze costati la vita a oltre 250 palestinesi e 13 israeliani. Lo ha riferito ieri l'emittente Kan, dopo il ritorno in patria dal Cairo della delegazione israeliana.
   I media israeliani sottolineano che una condizione cruciale per Israele è il rilascio di due suoi cittadini nelle mani di Hamas, il gruppo palestinese che controlla la Striscia di Gaza dal 2006 e che è considerato da molti Stati un'organizzazione terroristica. Inoltre, Israele chiede il rientro delle spoglie di due soldati morti nella guerra del 2014.
   Intanto, a Gaza la situazione resta molto difficile per la popolazione civile. Le forniture di combustibile per la centrale elettrica della Striscia sono riprese ieri, nel contesto di alcune misure di allentamento del blocco della Striscia decise da Israele nel tentativo di sostenere la tregua con Hamas. Secondo l'emittente Kan, questo sforzo è sostenuto dalla diplomazia egiziana e anche dal Qatar, che ha finanziato in parte il combustibile destinato a Gaza. Secondo la emittente israeliana, resta per il momento irrisolta la questione dell'arrivo a Gaza di milioni di dollari provenienti dal Qatar destinati al pagamento degli stipendi e al sostegno delle famiglie più povere. Per dare l'autorizzazione all'arrivo dei finanziamenti, Israele vuole prima l'impegno di Hamas a mantenere la calma lungo il confine. Se ciò avverrà, ha concluso la emittente, entro la fine di questa settimana saranno riaperti i valichi fra la Striscia ed Israele e arriveranno i finanziamenti.
   Intanto, ieri il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, ha inaugurato il consolato generale a Dubai, definendolo un centro di «cooperazione» e di dialogo. «Questo spazio simboleggia la nostra abilità di pensare insieme, sviluppare insieme, cambiare il mondo insieme», ha affermato il capo della diplomazia israeliana nel corso della sua visita negli Emirati Arabi Uniti, la prima di un esponente del governo da quando i due Paesi hanno normalizzato le relazioni diplomatiche lo scorso settembre. Gli Emirati Arabi Uniti erano rappresentati dal sottosegretario per l'Intelligenza artificiale, Omar Sultan Al Olama, convinto che i rapporti tra i due Paesi «favoriranno una regione più stabile e sicura».

(L'Osservatore Romano, 1 luglio 2021)


Il ministro saudita Faisal bin Farhan: "Nei negoziati con l'Iran anche i missili balistici"

Intervista al capo della diplomazia di Riad: "Ci preoccupa il sostegno di Teheran alle milizie, dagli Houthi nello Yemen a Hezbollah in Iraq". "Con l'Italia non ci sono tensioni: dispiaciuti per la decisione sull'embargo alle armi, ma le relazioni sono ottime".

di Alessandro Oppes

MATERA – Due giorni intensi di colloqui tra Roma, Bari e Matera. Il principe Faisal bin Farhan al Saud, ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, è soddisfatto dei risultati del vertice della coalizione globale anti-Daesh come del summit del G20, l’organizzazione alla cui presidenza Roma ha raccolto quest’anno il testimone proprio da Riad. In questa intervista esclusiva con Repubblica, spiega la posizione saudita su alcuni dei temi più caldi dello scenario mediorientale.  

- Il nuovo presidente iraniano Raisi ha detto che non vede ostacoli a una ripresa delle relazioni diplomatiche con Riad. Come giudica questa apertura?
  Ciò che è importante per noi è l’azione sul terreno. Speriamo che l’Iran possa dimostrare attraverso i fatti che è impegnato a garantire sicurezza e stabilità nella regione”.  

- Quali cambiamenti concreti l’Arabia Saudita si aspetta dall’Iran perché il dialogo tra i due Paesi possa essere realmente costruttivo?
  “Per noi la prima preoccupazione è il sostegno alle milizie, ad attori non statali nella regione, prima di tutto gli Houthi ma non solo: abbiamo visto l’Iran sostenere le milizie di Hezbollah in Iraq. E in Yemen continua a fornire armi, tecnologia missilistica, droni, ma anche armi convenzionali. Vogliamo vedere un cambiamento rispetto a questo approccio”.  

- A che punto sono i contatti diretti tra i due Paesi iniziati a Bagdad qualche mese fa? Quali sono i punti su cui sono stati fatti progressi e quali quelli che rappresentano i maggiori ostacoli?
  “Non voglio entrare nei dettagli del negoziato. Ciò che posso dire è che l’atteggiamento è stato positivo e noi siamo aperti ad andare avanti in questo dialogo. Ci impegneremo con gli iraniani in una discussione molto franca e veramente speriamo che questo ci conduca a voltare pagina”.  

- Il ruolo dell’Iran è centrale anche in un’altra trattativa in corso, quella tra Riad e gli Houthi che controllano buona parte dello Yemen: la mediazione in questo caso è omanita. Dobbiamo aspettarci una svolta a breve? Su quali punti si sta concentrando la trattativa e che cosa chiedete agli Houthi?
  “Abbiamo messo sul tavolo una proposta di cessate il fuoco globale e una road map per un processo politico. Speriamo che gli Houthi la accettino, ma finora non l’hanno fatto. Se ci aspettiamo una svolta? Purtroppo per ora non la vediamo. Speriamo anche che la comunità internazionale, compresi gli iraniani, convinca gli Houthi ad accettare la proposta e a lavorare perché questo conflitto possa arrivare a una conclusione aprendo la strada a un processo politico”.  

- Come giudica l’Arabia Saudita le trattative in corso a Vienna per il rinnovo dell’accordo sul nucleare iraniano? È giusto includere anche l’arsenale balistico di Teheran?
  “Dal nostro punto di vista è fondamentale che affrontiamo sia la minaccia nucleare sia la questione dei missili balistici. E può avvenire attraverso i colloqui di Vienna o con altri meccanismi, ma è importante che inquadriamo tutto il problema, non una piccola parte. Ma in questo momento siamo anche molto preoccupati dal fatto che il monitoraggio dell’Aiea non sta andando avanti, perché non c’è stata un’estensione dell’accordo con l’Iran. E questo è molto pericoloso: il monitoraggio non dev’essere tema di negoziato, è una linea di base che non può essere sottoposta a trattativa. Su qualunque altra cosa si può discutere”.  

- Il presidente Biden si augura nuovi Accordi di Abramo in tempi brevi. A quali condizioni potrebbe essere l’Arabia Saudita a riconoscere Israele?
  “Credo che ora la priorità sia che Israele e Palestina tornino al tavolo negoziale. La pace e la stabilità nella regione non saranno raggiunte se non si risolve il conflitto centrale, che è quello tra israeliani e palestinesi, assicurando che i palestinesi possano ottenere uno Stato con Gerusalemme come capitale e che sia loro consentito vivere in condizioni dignitose”.  

- Dalla Siria alla Libia fino al Golfo Arabico, in più scenari la Turchia sostiene leader politici e milizie armate legate ai Fratelli Musulmani. Che opinione avete della strategia di Erdogan?
  “Non abbiamo nascosto la nostra preoccupazione riguardo alla presenza di player esterni in Libia, compresa la presenza di militari turchi. I problemi della Libia devono essere risolti dai libici, questa è la cosa importante. Anche il coinvolgimento della Turchia in altri scenari è motivo di preoccupazione se non avviene in coordinamento con gli Stati nazionali”.  

- Il Parlamento italiano ha approvato da pochi mesi un embargo di armi al vostro Paese a causa dell’intervento militare in Yemen. Ciò ha portato a tensioni nei rapporti bilaterali. Come possono essere superate?
  “Prima di tutto vorrei dire che non ci sono state tensioni: eravamo scontenti per la decisione. Ovviamente ogni rapporto si deve basare sulla fiducia, quando questa non c’è possono sorgere difficoltà. Nonostante ciò abbiamo un’ottima relazione con l’Italia. La principale preoccupazione riguardo all’esportazione di armi è che siamo un Paese che ha l’obbligo di difendersi e ci procuriamo i mezzi dove possibile: speriamo che l’Italia possa essere una delle fonti che possano aiutarci a proteggere la nostra sicurezza”.  

- L’Afghanistan è stata la culla di un terrorismo jihadista che ha colpito anche l’Arabia Saudita. Il completamento del ritiro della Nato apre la strada al ritorno dei talebani o il governo di Kabul è in grado di resistere da solo?
  “Di certo speriamo che il governo di Kabul sia in grado di continuare a mantenere la sicurezza. Stanno affrontando grandi sfide ed è importante che noi – come comunità internazionale – continuiamo a sostenere il governo di Kabul quanto più possibile per assicurare che possa far diventare l’Afghanistan un posto sicuro. Ma saranno momenti difficili”.

(la Repubblica, 1 luglio 2021)


Murgia senza freni: «su Israele sto con Hamas». Sdegno della comunità ebraica: inaccettabile

La scrittrice posta su Instagram una conversazione e rivendica le sue idee

di Alberto Giannoni

«La penso come Hamas». Michela Murgia lo rivendica così, con fierezza, e nelle Comunità ebraiche sono letteralmente increduli: «È gravissimo e incomprensibile che possa sostenere queste tesi inaccettabili». Gli ebrei italiani sono davvero stupefatti per l'ultima uscita della scrittrice, di recente assurta all'improbabile ruolo di paladina progressista e del politicamente corretto, con la coerenza che si è vista anche in questo caso.
  Senza un particolare motivo d' attualità, e un mese dopo la fine dell' ennesimo conflitto scatenato dagli attacchi delle milizie palestinesi, ieri Murgia ha pensato di far sapere al mondo come vede la questione arabo-israeliana, vicenda delicatissima che si è aperta quasi un secolo fa e si trascina per l'irriducibile ostinazione con cui le fazioni egemoni del mondo islamico e palestinese negano il diritto all'esistenza dello Stato d'Israele.
  Mentre stava «pulendo la cartella delle immagini» nel telefono infatti, Murgia ha trovato un vecchio «screenshot», che considera cosa «di cui andare ancora fiere». E lo ha reso noto pubblicandolo sui social. Nella conversazione - fino a ieri privata, e poi sparita - Murgia rispondeva a qualcuno che sollecitava un suo giudizio sulla questione: «Non è affatto complicato - ha detto spavalda - La penso come Hamas». «Stai scherzando?» l'ha incalzata comprensibilmente l'interlocutore. «Non scherzo mai su Gaza» ha chiuso solenne l'opinionista.
  Avrebbe fatto meglio a lasciare che lo scambio di idee privato restasse tale. «Pensarla come Hamas - ha reagito infatti la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello - significa sostenere il terrorismo islamista, volere lo sterminio degli ebrei, la sottomissione delle donne e la lapidazione degli omosessuali. È gravissimo ed incomprensibile che Michela Murgia possa sostenere queste tesi inaccettabili e intrise di odio».
  Se questa «simpatia» pro Hamas fosse rimasta cosa intima, sarebbe stato meglio soprattutto per Murgia e per la sua immagine. Come è noto, infatti, Hamas è un movimento politico islamista, è stato fondato come sezione palestinese dei Fratelli musulmani, possiede un'ala armata dedita ad azioni di terrorismo e non a caso è considerata a tutti gli effetti un'organizzazione terroristica dall'Unione europea, oltre che dagli Usa e da Israele.
  Inoltre Hamas coltiva posizioni antisemite, oltre che antisioniste, e si pone dichiaratamente l'obiettivo di distruggere lo Stato ebraico. Non solo, coltiva relazioni con Turchia e Iran e - in linea con la sua ispirazione islamista - propugna idee che in Occidente (dai compagni di Murgia) sarebbero considerate, con eufemismi, omofobe e misogine. Qualcuno ricorda che Murgia si è detta preoccupata del fatto che il commissario antì-Covìd, Francesco Paolo Figliuolo, vada in giro in divisa (è generale alpino). «Non ho mai subito il fascino della divisa» ha spiegato. Forse le mimetiche, i passamontagna e le armi di una milizia islamista le fanno un altro effetto. «Se si rendesse conto di quello che dice - chiosa amaro Andrea Orsini, deputato di Forza Italia e amico di Israele - Murgia si vergognerebbe di dirlo».

(il Giornale, 1 luglio 2021)


Il Presidente Hasbani: intollerabili le posizioni antisemite sui social

di Milo Hasbani*

Devo constatare, con grande amarezza e preoccupazione, il continuo proliferare di dichiarazioni e prese di posizione fortemente antisemite, che trovano solo in alcuni casi una condanna o almeno una presa di distanza da parte della opinione pubblica.
   Mi riferisco in particolare agli ultimi episodi che hanno invaso con pericolosità i social più seguiti. Il primo è un video della ragazza egiziana Ali Tasnim, influencer con migliaia di followers su TikTok e Instagram, che sollecitata da una voce fuori campo che le dice di avere pestato una cacca, si pulisce la suola della scarpa sulla quale è disegnata la bandiera israeliana con la stella di David, simbolo sacro di Israele e del popolo ebraico.
   Il secondo è quello relativo alla dichiarazione della scrittrice e giornalista Michela Murgia, che sul suo profilo Instagram dichiara senza giri di parole di stare dalla parte di Hamas, l’organizzazione terroristica che ha nello statuto la cancellazione di Israele dalla carta geografica.
   Sono solo gli ultimi due vergognosi e inaccettabili episodi che purtroppo sappiamo non essere isolati. Non può che esserci ancora una volta quindi la nostra più ferma condanna nei confronti di chi fomenta l’odio nei confronti di Israele e degli ebrei, una condanna che auspichiamo arrivi con la stessa determinazione e forza anche dalle forze politiche, dalle istituzioni e da tutti coloro che non possono tacere e sottovalutare azioni e prese di posizione, che hanno come obiettivo la distruzione di un popolo. La storia purtroppo ci ha insegnato che questo è possibile.

* Presidente Comunità ebraica di Milano

(Bet Magazine Mosaico, 1 luglio 2021)


Israele dal 1° agosto riapre al turismo individuale

Con il 58% della popolazione vaccinata e tutte le strutture ricreative ormai ripartite a pieno regime, Israele dal prossimo 1 agosto è pronta a riaprire al turismo individuale. “Ovviamente ci saranno ancora delle regole da seguire, ma è un ottimo segnale per la ripartenza del settore, l’Italia nel periodo pre pandemia rappresentava il sesto mercato. Il 19 giugno, oltretutto, abbiamo avuto il piacere di ospitare un primo piccolo gruppo proveniente dall’Italia –spiega Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo– In questo periodo di stop forzato ci siamo impegnati per accrescere e migliorare ulteriormente la nostra offerta soprattutto per quanto riguarda le attività outdoor con la realizzazione di nuovi cammini e parchi”.
   Ad esempio questi ultimi sono stati aperti a tutti per i momenti di spiritualità, così come il Cammino di Emmaus di 10 km da Gerusalemme a Emmaus. Non solo, rinnovata anche l’offerta museale con il Tower of David e il Terra Sancta. Il target religioso resta uno dei cardini della destinazione e, proprio per questo motivo, è attivo il nuovo sito web Israel Land of the Bible. In fermento anche il settore ricettivo che, il prossimo 5 agosto, vedrà l’apertura di un hotel di lusso nel deserto del Negev: il Six Senses Sharut.

(Guida Viaggi, 1 luglio 2021)


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