Il capo di Hamas Ismail Haniyeh, “mente” del 7 ottobre, ucciso a Teheran
Aveva detto: “Il sangue dei bambini palestinesi è utile alla causa”
«Abbiamo bisogno del sangue delle donne, dei bambini e degli anziani palestinesi»
Il 27 ottobre aveva detto, dal suo “esilio” dorato di Doha: “Il sangue delle donne, dei bambini e degli anziani palestinesi… siamo noi che abbiamo bisogno di questo sangue per risvegliare lo spirito rivoluzionario dentro di noi, per spingerci avanti”. Ecco chi era Ismail Haniyeh, capo del movimento terroristico Hamas, responsabile della strage perpetrata il 7 ottobre 2023 in Israele, 1300 uccisi in modo efferato, quasi 300 rapiti di cui ormai centinaia morti, oltre 7000 feriti.
Un missile lo ha ucciso a Teheran, questa notte alle 2.00, dove si trovava per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente iraniano Massoud Pezeshkian e dove aveva incontrato la Guida suprema iraniana Ali Khamenei.
Un omicidio mirato in territorio iraniano è un duro colpo per la rappresentazione che l’IRAN dà di sé, come Stato che si vuole leader regionale. Fonti del New York Times hanno riferito che i funzionari iraniani sono «in stato di shock totale» per l’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh. Lo scrive su X un giornalista del Nyt. Secondo le fonti, l’omicidio è un «duro colpo alla reputazione dell’Iran» in un momento in cui il paese sta cercando di proiettare il suo potere nella regione.
(Bet Magazine Mosaico, 31 luglio 2024)
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Morti che camminano
A due settimane dalla presunta uccisione a Gaza di Mohammed Deif, “l’ombra”, uno dei più imprendibili leader di Hamas, ora è il turno di Ismail Haniyeh a Teheran, dove si era recato ieri per rendere omaggio al nuovo presidente eletto.
Haniyeh una delle figure principali del politburo di Hamas insieme a Kaled Meshal, il 29 ottobre scorso, da Doha, esilio dorato condiviso con Meshal, proclamava «Abbiamo bisogno del sangue di donne, bambini e anziani palestinesi. Abbiamo bisogno di questo sangue per risvegliare dentro di noi lo spirito rivoluzionario, per risvegliare in noi la sfida, per spingerci avanti».
Poche ore prima, a Beirut, con un attacco mirato come quello a Teheran, Israele eliminava Faud Shukr, braccio destro di Hassan Nasrallah e il responsabile principale dell’ala militare di Hezbollah, ritenuto responsabile del lancio del razzo che ha colpito Majdal Shams, villaggio druso nel Golan, causando la morte di dodici tra bambini e ragazzi drusi.
Si tratta di uccisioni mirate, una specialità di Israele, atte a decapitare la leadership del terrore sponsorizzata da Teheran, e che seguono episodi analoghi verificatosi nei mesi precedenti.
L’uccisione di Haniyeh direttamente a Teheran dopo il suo incontro con Ali Khamenei è un ulteriore messaggio recapitato all’Iran dall’inizio della guerra a Gaza, a seguito della distruzione del consolato iraniano a Damasco il primo aprile scorso. Evidenzia come sia solo questione di tempo e di opportunità, prima che Israele colpisca bersagli umani ritenuti legittimi. Non è certo un mistero che, da dopo il 7 ottobre, i leader di Hamas vengano considerati da Israele, morti che camminano.
(L'informale, 31 luglio 2024)
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Chi era Ismail Haniyeh, il leader terrorista di Hamas eliminato a Teheran
di Daniele Toscano
Nella notte Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, è stato ucciso a Teheran, dove si trovava per il giuramento del nuovo presidente della repubblica islamica, Masoud Pezeshkian. Fonti vicine ad Hamas e ai pasdaran parlano di un attacco aereo, probabilmente un drone. Morta anche una guardia del corpo. Questo evento rappresenta un ulteriore passo significativo nel conflitto mediorientale, che va oltre il mero confronto tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza e si sviluppa su più fronti. Quali saranno i prossimi passi chiaramente non è ancora possibile stabilirlo, ma si può tracciare il profilo politico di Haniyeh per capire quali fossero le sue posizioni, presunte moderate, e cosa significhi la sua morte.
Haniyeh era nato il 29 gennaio 1963 nel campo profughi di Al-Shati a Gaza. Ha studiato nelle scuole dell’Unrwa e si è laureato in letteratura araba all’Università islamica di Gaza. Ha iniziato la sua carriera politica in stretta collaborazione con il fondatore di Hamas, Sheikh Ahmed Yassin, di cui è stato anche segretario personale. Negli anni ’80 e ’90 e stato più volte nelle carceri israeliane. Un curriculum che gli è valso un’ascesa nelle gerarchie del movimento terroristico.
Nel 2003 Israele tentò di ucciderlo insieme al suo mentore; Yassin fu eliminato l’anno successivo. “Non dovete piangere”, disse allora Haniyeh a una folla davanti all’ospedale al Shifa a Gaza City. “Preparatevi alla vendetta”.
Fu nominato leader di Hamas nella Striscia nel 2006; in quell’anno salì alla ribalta internazionale dopo la vittoria elettorale di Hamas nella Striscia, quando divenne primo ministro del governo di unità nazionale. Questa esperienza ebbe però la durata solo di alcuni mesi, visto che fu interrotta dal violento colpo di stato e da una cruenta guerra civile con cui gli stessi terroristi di Hamas eliminarono Fatah da Gaza. Dal 2014 al 2017 è stato capo dell’amministrazione della Striscia di Gaza. Nel 2017 è stato eletto capo dell’ufficio politico di Hamas, prendendo il posto di Khaled Meshaal, mentre al comando del gruppo a Gaza gli successe Yahya Sinwar: il ruolo sempre più apicale nelle gerarchie politiche del movimento lo ha reso uno dei leader più influenti, tanto da renderlo nel corso degli anni anche protagonista di varie negoziazioni e conflitti con Israele, incluse le trattative durante il conflitto degli ultimi mesi.
In questi anni, in virtù del suo ruolo, Haniyeh ha lasciato la Striscia e si era stabilito tra il Qatar, a Doha, dove Hamas ha la sua sede politica, con frequenti sortite nella Turchia di Erdogan, a cui lo lega la vicinanza ai Fratelli Musulmani. In questi anni di residenza all’estero ha potuto condurre una vita agiata, che gli ha procurato alcune critiche anche dai palestinesi stessi.
Nonostante la sua vicinanza ai Fratelli Musulmani (sunniti), era interlocutore anche dell’estremismo sciita: curava l’alleanza con l’Iran, tanto che nel gennaio 2020 partecipò al funerale del generale Qassem Soleimani, il capo della forza Quds dei Guardiani della rivoluzione, ucciso dagli Stati Uniti; da quel momento le sue visite a Teheran furono sempre più frequenti, a conferma dell’alleanza tra Hamas e Iran, nota da tempo a intelligence e analisti ma fino ad allora non sancita pubblicamente. Nell’ottobre 2022 incontrò anche il presidente siriano Bashar Assad, stretto alleato di Teheran. Il legame con la repubblica islamica è stato testimoniato una volta di più dal recente soggiorno, volto a partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian.
Il 7 ottobre 2023 ha celebrato e benedetto gli attacchi terroristici che hanno devastato il sud di Israele, con oltre mille morti, feriti, devastazioni e il rapimento di più di 250 ostaggi. Nei mesi successivi è stato tra i principali artefici dei negoziati con Israele per il rilascio dei rapiti: incarnava la linea più “moderata”, rispetto all’ala militare guidata da Sinwar, ma la moderazione nel contesto terrorista di Hamas è un concetto relativo, tanto che Haniyeh non ha esitato a ribadire più volte che il “sangue dei palestinesi” era necessario alla “causa”.
La sua eliminazione implica la fine di un leader terrorista e apre nuovi scenari nel contesto mediorientale, dove Israele deve fronteggiare diversi nemici che hanno il comune denominatore nell’Iran che dello Stato ebraico vuole la distruzione.
Israele reagisce: bombe su Beirut. Nel mirino un leader di Hezbollah
Arriva la risposta alla strage nel campo di calcetto: raid di Gerusalemme sulla roccaforte del Partito di Dio. L'obbiettivo era il braccio destro di Nasrallah, Pioggia di razzi verso lo Stato ebraico. Ora è rischio escalation
di Flaminia Camilletti
Era nell'aria. Ci si aspettava una reazione israeliana come rappresaglia per i 12 bambini e adolescenti uccisi da un razzo lanciato dal Libano sabato scorso sul villaggio druso di Majdal Shams. Così è stato. Intorno alle 19 ora italiana, l'esercito israeliano ha effettuato un raid in un sobborgo meridionale di Beirut, Da'aheh, roccaforte di Hezbollah. Secondo quanto riferito, l'obiettivo dell'attacco era un comandante di alto rango di Hezbollah, preso di mira da un drone israeliano. Si tratta del responsabile della strage del Golan, Fouad Shukr, noto anche come Al Hajj Mohsin, considerato il numero due dell'organizzazione guidata da Hassan Nasrallah. Obiettivo mirato dunque. Poco dopo i media vicini a Hezbollah hanno confermato la morte di un comandante, senza però specificarne il nome, mentre fonti dei miliziani sciiti rendono noto che ci sarebbero almeno due morti. Altre ancora che Shukr si sia salvato. Secondo il Dipartimento di Stato Usa, Shukr ha fatto anche parte del Consiglio della Jihad, il corpo militare di Hezbollah e, secondo la stessa fonte ha avuto un «ruolo centrale» nell'attacco nel 1983 alla caserma dei marines americani a Beirut che uccise 241 militari. Durante la guerra civile siriana «aiutò i combattenti e le truppe pro-regime».
Chiuse le strade intorno alla zona bombardata e crollato l' edificio preso di mira. Secondo il canale saudita Al-Hadth nel luogo dell'attacco si trova un ufficio di coordinamento di Hezbollah e delle Guardie rivoluzionarie iraniane.
Si tratta del primo attacco aereo dell'Idf contro un obiettivo Hezbollah nella capitale libanese dall'inizio della guerra a Gaza, il 7 ottobre.
Non si fa quindi attendere l'annunciata risposta di Hezbollah: dozzine di razzi Katyusha sono stati lanciati verso il Nord di Israele. «Hezbollah ha oltrepassato la linea rossa»: così il ministro della Difesa israeliana, Yoav Gallant. Eppure un alto funzionario israeliano riferisce che Israele spera che questa sia la fine di questo round: «Non vogliamo vedere tutto ciò degenerare in una guerra più ampia. Vogliamo inviare un messaggio molto chiaro che non tollereremo danni ai civili. Faremo tutto ciò che è necessario per difenderci, ma non vogliamo vedere questo trasformarsi in una guerra più ampia. Se la cosa si intensificherà, ora è nelle mani di Hezbollah».
In ogni caso la reazione di Israele era talmente prevedibile che per tutto il giorno la diplomazia internazionale ha invitato Hezbollah a non rispondere a un eventuale attacco israeliano. «La leadership della resistenza deciderà la forma e la portata della risposta a qualsiasi potenziale aggressione», era stata la replica. La milizia libanese risponderà a qualsiasi « aggressione» israeliana, anche se di natura e dimensioni limitate. Così infatti è stato. L'ennesima escalation di questo conflitto, pur attesa, è stata scongiurata da tutti, compresa la premier italiana Giorgia Meloni che ieri invitava Israele a non cadere nella trappola.
«Ogni volta che ci sembra di essere un po' più vicini all'ipotesi di un cessate il fuoco accade qualcosa. Significa che ci sono diversi soggetti regionali che puntano a un'escalation e che puntano sempre a costringere Israele a una reazione», il suo commento.
E c'è preoccupazione per i soldati italiani impegnati nella missione Unifil. «Abbiamo due contingenti, uno a Beirut e un altro al confine tra Hezbollah e Israele. Adesso sono messi in sicurezza, però come ha chiesto il ministro della Difesa Crosetto vogliamo sapere dalle Nazioni Unite cosa intendono fare, forse le regole d'ingaggio vanno modificate visto che la situazione sta cambiando di giorno in giorno». Così il ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Ora resta da capire che dimensioni assumerà il conflitto con gli Stati Uniti che ieri promettevano di aiutare Israele in caso di attacco libanese. Allo stesso tempo l'amministrazione Biden aveva messo in guardia privatamente Israele dal prendere di mira Beirut, sottolineando che ciò potrebbe portare a un'escalation incontrollabile.
Il razzo sulle alture del Golan oltre ai 12 bambini e adolescenti morti ha causato 16 feriti di cui sette ancora in gravi condizioni. Otto dei feriti sono allo Ziv Medicai Center, di cui tre in gravi condizioni; due di loro sono ancora sedati e ventilati. Tutti e tre hanno ferite addominali, ferite al torace e fratture agli arti, afferma l' ospedale. Un bambino è in condizioni moderate e altri quattro sono leggermente feriti, principalmente affetti da ferite da schegge. Il Rambam Medical Center di Haifa afferma che 5 bambini sono ancora ricoverati in ospedale.
Inoltre, ieri pomeriggio un uomo di 30 anni è morto in seguito alle ferite riportate nel lancio di razzi dal Libano sul kibbutz Ha Goshrim, nel Nord di Israele. Secondo l'esercito, nell'attacco sono stati lanciati 10 razzi dal Libano, la maggior parte dei quali è stata intercettata dall'Iron Dome.
(La Verità, 31 luglio 2024)
Scrivo questa newsletter da Washington, DC, la capitale degli Stati Uniti. Sto partecipando al vertice annuale del CUFI (Christians United For Israel), dove ogni anno migliaia di sionisti cristiani si riuniscono per esprimere la loro solidarietà con Israele, anche ai membri del Congresso, mentre i partecipanti alla conferenza incontrano i loro rappresentanti e membri dello staff. Partecipo a questa conferenza ogni anno, soprattutto per applaudire gli sforzi di questa importante organizzazione nel raccogliere sostegno per Israele e nell’istruire i i suoi membri riguardo a Israele. Ma è anche un'opportunità straordinaria per me di interagire personalmente con tanti sionisti cristiani, tra cui molti amici e sostenitori della CFOIC (Christian Friends of Israeli Communities) Heartland.
La conferenza di quest'anno è totalmente diversa da quelle precedenti, sotto molti aspetti. Prima di tutto, l'atmosfera. Di solito, la conferenza è un'occasione per celebrare Israele, gioire della sua esistenza e ringraziare Dio per tutto ciò che ha fatto per la mia nazione. Ma quest'anno, sulla scia del terribile massacro del 7 ottobre e della sanguinosa guerra che ne è seguita e in cui siamo ancora impegnati, l'atmosfera è cupa. I sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre hanno raccontato il loro personale orrore. I familiari degli ostaggi hanno raccontato le loro storie. E come ha riassunto un leader cristiano ieri sera - dobbiamo immaginarci come madre, sorella, padre, fratello di un giovane tenuto in ostaggio a Gaza, di un giovane soldato caduto o ferito, di una famiglia terribilmente ferita da questa guerra. Come israeliana, mi sento distrutta dal 7 ottobre. Il mio spirito rimane forte, ottimista e determinato. Ma c'è qualcos'altro che ci accompagna costantemente. Un fardello che portiamo tutti con noi, quando ogni giorno accendiamo il telegiornale, chiedendoci se qualcun altro è stato ucciso, sperando in una vittoria, nel rilascio degli ostaggi. Ma l'esperienza di stare con dei cristiani, provenienti da un Paese così lontano dal mio, ma che sono veramente con noi, che piangono con noi, pregano con noi, agiscono per noi - è stata davvero sorprendente! Ieri mattina, però, sono stata anche esposta, da vicino, al lato brutto di questa guerra, che si sta manifestando anche negli Stati Uniti. Mentre uscivo dall'ascensore per recarmi alla sessione mattutina della conferenza, ho sentito cantare. Sembrava un coro, che cantava belle canzoni, ma non riuscivo a capire le parole. Qualcuno ha suggerito che potevano essere i partecipanti alla conferenza che pregavano per Israele. Non poteva sbagliarsi di più. Ho seguito la musica e mi sono imbattuta in un gruppo di circa 100 persone, in piedi in una delle hall dell'hotel, con in mano cartelli che accusavano CUFI di genocidio e criticavano Israele per la sua guerra a Gaza. Ho colto parole come "Palestina libera". Queste persone cantavano belle canzoni, ma avevano cambiato le parole per esprimere odio. Erano venuti a distruggere la bellezza che CUFI stava creando.
Sono rimasta scioccata dal fatto che gli sia stato permesso di stare in mezzo alla hall di un hotel e di manifestare in questo modo, senza ostacoli. Grazie a un amico israeliano all'erta, avevo visto sui social media un annuncio di questa manifestazione qualche settimana fa e avevo avvertito la leadership del CUFI, che si era preparata con un rafforzamento della sicurezza. Ma quello che non riuscivo a capire era come l'hotel permettesse una manifestazione nel bel mezzo della sua hall.
Alla fine sono usciti pacificamente. Ma io ero lì in piedi e quando i marciatori sono passati proprio davanti a me, ho perso la testa. Ho gridato "Vergognatevi!". Mi sono avvicinata a uno di loro e gli ho chiesto se aveva parenti che erano stati massacrati in Israele. Ho detto a un altro gruppo che avrebbero dovuto portare la loro manifestazione a Gaza e vedere se ne sarebbero usciti vivi. Le mie parole non sono riuscite a penetrare la loro folle causa, ma dovevo dire qualcosa, per protestare contro la loro terribile posizione. Mentre se ne andavano, mi sono ritrovata a tremare, con rabbia, con angoscia, con un dolore terribile. Continuavo a pensare a mio nipote che era caduto in questa guerra, alle innumerevoli altre persone che conoscevo o che non avevo mai incontrato che avevano pagato il prezzo più alto per proteggere Israele dal male che è Hamas. Ai bambini israeliani che non cresceranno mai, al bambino Bibas dai capelli rossi tenuto in ostaggio a Gaza. Come si può stare dalla parte dei loro assassini e rapitori?
Hanno lasciato l'hotel e noi siamo andati alle sessioni della conferenza. La sicurezza era stretta, ma qualcosa è andato storto. Diversi gruppi di manifestanti, che nascondevano la loro vera identità, si erano registrati alla conferenza ed erano presenti alla sessione della conferenza. John Hagee si è alzato per parlare e ogni pochi minuti un gruppo di manifestanti in mezzo al pubblico si alzava in piedi e gridava "Palestina libera" o qualche altro slogan simile. Ogni volta la sicurezza li accompagnava fuori dalla porta e dall'edificio, mentre i partecipanti alla conferenza continuavano a cantare "Israel Lives" per soffocare i loro orribili messaggi.
L'ultimo gruppo dei manifestanti era seduto proprio accanto a me. Quando ho cercato un posto a sedere, ho visto tre posti vuoti vicino al corridoio centrale. Ho chiesto alla donna seduta lì se i posti erano disponibili e lei mi ha risposto molto dolcemente di sì. L'ho scambiata per un'adorabile sionista cristiana, che si univa a me per sostenere Israele. E poi, all'improvviso, lei e le quattro persone alla sua sinistra sono esplose in canti e grida. La sicurezza mi ha letteralmente scavalcato per raggiungerli e li ha spinti fuori dalla porta, mentre continuavano a urlare e a gridare. Mi sono sentita infangata, sporca. Mi ero seduta accanto a chi sostiene il male che è Hamas. Come hanno potuto entrare nelle sale di una conferenza così degna, cercando di avvelenare i bei messaggi espressi dai nostri amici sionisti cristiani?
Domenica sera abbiamo ascoltato le testimonianze di studenti universitari cristiani ed ebrei che hanno sperimentato il terribile antisemitismo che imperversa nei campus di tutti gli Stati Uniti, compresi alcuni campus "cristiani". Naturalmente avevo seguito tutto questo al telegiornale in Israele, ma vedere gli studenti da vicino e ascoltare le loro storie è stato straziante.
Negli Stati Uniti e nel mondo stanno accadendo cose terribili. Israele sta combattendo una guerra terribile per la sua stessa sopravvivenza, ma molti hanno scelto la strada dell'antisemitismo, del male, delle bugie e delle distorsioni della verità. Ma ci sono persone buone ovunque. Mi sento benedetta per aver partecipato al summit CUFI di quest'anno e per aver potuto crogiolarmi nell'amore per il mio Paese, per il mio popolo e per il nostro Dio, così liberamente e onestamente espresso dai meravigliosi sionisti cristiani presenti quest'anno. Dio vi benedica tutti!
(CFOIC, 30 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Kiryat Shmona - una città fantasma segnata dalla guerra
Case, fermate di autobus enegozi di questa città, ormai in gran parte priva di vita, testimoniano gli attacchi di razzi e droni che si sono abbattuti su di essa incessantemente per quasi dieci mesi.
di Edgar Lefkovits
KIRYAT SHMONA - Le strade sono deserte, i centri commerciali, i negozi e le aziende sono chiusi da tempo, le tracce della guerra sono ovunque. Anche per la città di confine più settentrionale di Israele, che negli ultimi decenni ha sopportato il peso degli attacchi missilistici di Hezbollah in Libano e dei precedenti noti attacchi terroristici palestinesi, i quasi dieci mesi trascorsi dallo scoppio della guerra in seguito al massacro di Hamas del 7 ottobre sono stati un'anomalia.
"Ho vissuto qui tutte le guerre dell'ultimo mezzo secolo, ma non abbiamo mai vissuto nulla di simile", dice Nahum Cohen, 54 anni, agente di polizia di Kiryat Shmona, che vive in città da sempre. Non siamo mai stati separati dalla nostra casa per un periodo così lungo".
L'8 ottobre - il giorno dopo il peggior attacco al popolo ebraico dai tempi dell'Olocausto, con i terroristi di Hamas che si sono infiltrati al confine meridionale con Israele e hanno massacrato 1.200 persone, ne hanno ferite migliaia e ne hanno rapite altre 250 - il gruppo terroristico libanese ha iniziato a lanciare razzi e successivamente droni verso il nord di Israele. Questo ha spinto il governo israeliano a ordinare l'evacuazione di decine di migliaia di israeliani dalle città e dai villaggi dell'area a novembre.
Più di nove mesi e 7.000 proiettili dopo, l'area è ancora deserta: il paesaggio è stato distrutto e la maggior parte dei residenti si è rintanata in stanze d'albergo e rifugi in altre parti d'Israele, mentre le forze di sicurezza sorvegliano la città in loro assenza.
"Gestire una stazione di polizia municipale sotto il fuoco è già molto strano, ma farlo quando quasi tutti i residenti se ne sono andati è una novità assoluta", dice Arik Berkovitch, capo della polizia di Kiryat Shmona. "Niente ti prepara a una cosa del genere".
• IN LINEA VISIVA DIRETTA CON HEZBOLLAH Situata sulle pendici della Valle di Hula, sotto le montagne del Libano, la città di 25.000 abitanti, conosciuta come la "Città degli Otto" per la morte di otto ebrei, tra cui il famoso attivista sionista Joseph Trumpeldor nella battaglia di Tel Hai del 1920 in Galilea, è in linea di vista diretta con Hezbollah, che troneggia sopra di essa, cosicché i circa 3.000 abitanti, per lo più anziani o malati, che sono rimasti o si sono ritirati, non hanno il tempo di cercare un riparo quando i razzi vengono sparati contro la città duramente colpita.
"Nella maggior parte dei casi, si viene a conoscenza di un attacco imminente da due o tre esplosioni", ha detto l'ufficiale di polizia di Kiryat Shmona, Loae Fares, in un'intervista rilasciata a JNS mercoledì. "Nel migliore dei casi, si sentono le sirene e le esplosioni nello stesso momento".
Fares, che è a capo delle operazioni della polizia israeliana nella città, dice che dopo la sua giornata di lavoro nella città deserta, si reca nel suo villaggio druso di confine, nella vicina Horfesh, che ha deciso all'unanimità di non fuggire nonostante le minacce alla sicurezza.
"È davvero triste venire al lavoro ogni giorno e non vedere fuoriquasi nessuno", dice. "Dopo aver corso di casa in casa per salvare le persone dai razzi, torno a casa come civile e devo abbracciare mia figlia di 6 anni che è terrorizzata dal suono delle sirene.
• NON ABBIAMO MAI VISTO NULLA DI SIMILE
Le strade della città di confine sono disseminate dei danni causati dalle centinaia di proiettili caduti da ottobre. I crateri sulla strada principale della città, Herzl Boulevard, vengono riparati rapidamente per consentire alla polizia e ai servizi di emergenza di viaggiare senza ostacoli, ma si vedono danniovunque. Le case, le fermate degli autobus e i negozi di questa città ormai in gran parte spopolata testimoniano i continui attacchi.
Il capo della polizia ha dichiarato che la qualità e la quantità dei razzi e dei missili, così come dei droni, sono senza precedenti.
“Una cosa simile, non l’abbiamo mai vista”, ha detto semplicemente.
I razzi lanciati, di vari tipi e dimensioni, trasportano fino a 150 chili di esplosivo, secondo un esperto artificiere della polizia cittadina.
"Tutti continuano a chiamare per chiedere informazioni sulle loro case", riferisce l'ufficiale di polizia israeliano Shlomi Ben-Hemo, 49 anni, che il 24 luglio ha accompagnato la JNS in un giro di perlustrazione della città e che si occupa anche di controllare e aiutare gli anziani e gli infermi intrappolati nelle loro case.
• OGNI MOMENTO UN ATTACCO Un silenzio inquietante pervade l'aria calda e secca del pomeriggio. Nemmeno i di solito onnipresenti gatti randagi della città si vedono. Passano una o due auto, tra cui una che porta donazioni di cibo per gli anziani rimasti qui e un'altra, del movimento chassidico Chabad-Lubavitch, che distribuisce bevande energetiche ghiacciate e adesivi del Messia ai soldati e ai poliziotti in servizio sotto il sole cocente del pomeriggio.
"Non avremmo mai immaginato di arrivare a questo", dice Ben-Hemo, che ha vissuto in città per tutta la vita, mentre risponde alle telefonate dei suoi familiari, che sono stati evacuati e si informano sulla sua sicurezza.
Dopo che martedì sera numerosi razzi lanciati contro la città sono stati intercettati con successo, mercoledì il livello di minaccia era di livello medio, due su tre. Si temeva che il discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso nel pomeriggio potesse essere usato come pretesto per un nuovo attacco.
Alla fine la serata è trascorsa tranquillamente, ma le autorità di sicurezza sono rimaste in allerta per un attacco che potrebbe arrivare "in qualsiasi momento", soprattutto dopo un attacco israeliano riuscito contro i comandanti di Hezbollah in Libano, per vedere se il gruppo terroristico risponderà con una salva di razzi più grande del solito verso il nord di Israele.
• A PENSARCI MI VIENE LA PELLE D'OCA
L'ufficiale di polizia israeliano indica un condominio che è stato recentemente colpito e dove quattro bambini erano ancora nel vecchio rifugio, con le mani sulla testa e tremanti sul pavimento mentre lui entrava.
"Mi viene la pelle d'oca solo a pensarci", dice.
A differenza del sud di Israele, che quest'anno è diventato un epicentro del turismo di guerra per le persone che visitano i luoghi degli attacchi terroristici del 7 ottobre, la situazione al confine settentrionale di Israele è molto diversa.
“Chiqui non ha niente da fare, non dovrebbe venire”, dice Ben-Hemo.
Un'altra casa nella stessa strada è stata colpita due volte nel giro di una settimana; anche un edificio residenziale e una base militare alla periferia della città - a poca distanza da una città al confine con il Libano - sono stati colpiti dal lancio di razzi.
E le ferite non sono solo fisiche. Ben-Hemo dice che sua figlia di 15 anni ha troppa paura di tornare a casa, anche quando la guerra sarà finita, mentre sua moglie teme che senza un'operazione militare contro Hezbollah al confine, la situazione non sarà tranquilla per molto tempo.
"Abbiamo vissuto tutto questo nella nostra infanzia", dice Yaniv Azulay, 47 anni, rimasto a lavorare in un capannone comunale di fronte al luogo di un attacco missilistico mortale, mentre elenca le varie guerre e operazioni militari degli ultimi decenni. "Cosa posso dirvi? Sono giorni difficili. Noi preghiamo".
Anche i ricordi delle guerre passate, tra cui la seconda guerra del Libano, durata un mese, nel 2006, quando i residenti evacuarono le loro case; e l'infame massacro avvenuto in città esattamente mezzo secolo fa, in cui terroristi palestinesi provenienti dal Libano uccisero 18 residenti, tra cui otto bambini, impallidiscono in confronto all'attuale più lunga guerra di Israele dalla guerra di indipendenza del 1948.
"Il mio sogno, e quello di tutti gli agenti di polizia, è che i bambini tornino in città quando la situazione si sarà normalizzata", afferma il capo delle operazioni di polizia della città.
"Non sappiamo quanto durerà, ma resteremo qui fino ad allora".
(Israel Heute, 30 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
La rappresaglia israeliana contro Hezbollah sarà dura ma “contenuta”
Israele sembra cedere alle decine di richieste da tutto il mondo affinché si eviti una escalation con Hezbollah
Con il Medio Oriente in tensione in vista della prevista rappresaglia israeliana contro Hezbollah per il micidiale attacco missilistico di sabato, i diplomatici occidentali hanno esortato alla de-escalation.
Sembra raccogliere l’invito Israele. Alcune fonti israeliane parlando con la Reuter hanno detto infatti che la risposta sarà seria ma non porterà a una conflagrazione totale.
I funzionari israeliani che hanno parlato con la Reuters hanno detto che Israele vuole colpire Hezbollah, ma non trascinare il Medio Oriente in una guerra regionale,
Altre fonti israeliane hanno detto che l’IDF si sta preparando per la possibilità di alcuni giorni di combattimenti con il gruppo terroristico libanese sostenuto dall’Iran.
Nell’attacco di Hezbollah alla città drusa di Majdal Shams, sulle alture del Golan, sabato pomeriggio, 12 bambini sono stati uccisi mentre giocavano in un campo di calcio, quando sono stati colpiti da quello che Israele ha detto essere un razzo Falaq-1 di fabbricazione iraniana con una testata di oltre 50 kg di esplosivo.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha visitato Majdal Shams lunedì, affermando che “questi bambini sono i nostri figli, sono i figli di tutti noi”.
Netanyahu ha affermato che “Israele non lascerà e non può lasciare che questo passi semplicemente sotto silenzio. La nostra risposta arriverà, e sarà dura”.
Una fonte diplomatica israeliana, parlando a condizione di anonimato, ha detto a Reuters che “la stima è che la risposta non porterà a una guerra totale… Non sarebbe nel nostro interesse a questo punto”.
Il Segretario di Stato americano Antony Blinken lunedì ha parlato con il presidente Isaac Herzog per esortare Israele ed Hezbollah a fare un passo indietro rispetto a qualsiasi escalation.
In un comunicato del Dipartimento di Stato si legge che nella telefonata con Herzog, Blinken “ha sottolineato l’importanza di evitare un’escalation del conflitto e ha discusso gli sforzi per raggiungere una soluzione diplomatica che permetta ai cittadini di entrambi i lati del confine tra Israele e Libano di tornare a casa”.
Secondo un anonimo diplomatico libanese, i funzionari libanesi hanno avuto una lunga serie di telefonate con Amos Hochstein, un consigliere anziano del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden che spesso si occupa di negoziati delicati in Libano, nel tentativo di evitare l’escalation.
La Casa Bianca ha poi ribadito che Israele ha tutto il diritto di rispondere a Hezbollah dopo l’attacco di sabato, ma che è “fiduciosa” che si possa evitare una conflagrazione più ampia.
Il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, John Kirby, ha dichiarato ai giornalisti che i funzionari statunitensi e israeliani hanno avuto conversazioni a “più livelli” durante il fine settimana e che il rischio di un conflitto totale è “esagerato”.
“Nessuno vuole una guerra più ampia e sono fiducioso che saremo in grado di evitare questo esito”, ha detto Kirby in una telefonata con i giornalisti. “Abbiamo tutti sentito parlare di questa ‘guerra totale’ in più momenti negli ultimi 10 mesi, quelle previsioni erano esagerate allora, francamente pensiamo che siano esagerate anche adesso”.
La missione di pace UNIFIL nel sud del Libano ha dichiarato di aver intensificato i contatti con Israele e le autorità libanesi per stemperare le tensioni. “Nessuno vuole iniziare un conflitto più ampio, ma un errore di calcolo potrebbe scatenarlo. C’è ancora spazio per una soluzione diplomatica”, ha dichiarato il portavoce dell’UNIFIL Andrea Tenenti.
Un diplomatico occidentale, il cui Paese è coinvolto negli sforzi diplomatici per evitare una grave escalation, ha dichiarato all’Associated Press di non credere che la risposta israeliana sfocerà in una guerra totale.
“È chiaro che [Israele] vuole prendere posizione, ma senza sfociare in un conflitto generalizzato”, ha detto il diplomatico. “È sicuro che ci sarà una rappresaglia. Sarà simbolica. Potrà essere spettacolare, ma non sarà un motivo per entrambe le parti di impegnarsi in un’escalation generale”.
Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, nel frattempo, ha minacciato che un attacco israeliano al Libano avrà gravi conseguenze per lo Stato ebraico.
I media iraniani hanno riferito che parlando con il presidente francese Emanuel Macron, Pezeshkian ha affermato che “qualsiasi eventuale attacco israeliano al Libano avrà gravi conseguenze per Israele”.
All’inizio di quest’anno, l’Iran ha lanciato il suo primo attacco diretto a Israele, lanciando più di 300 missili e droni verso lo Stato ebraico. La maggior parte di essi è stata abbattuta dalle difese aeree israeliane e dal coinvolgimento dei suoi alleati.
L’attacco iraniano è arrivato in risposta a un presunto attacco aereo israeliano su un edificio vicino al consolato di Teheran a Damasco due settimane prima, che ha ucciso sette membri del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, tra cui due generali.
All’interno del Libano, lunedì si è svolta un’intensa attività diplomatica, mentre il Paese si preparava alla risposta israeliana all’attacco di Hezbollah.
Il primo ministro libanese ad interim Najib Mikati ha tenuto “intensi contatti diplomatici dopo le recenti minacce israeliane contro il Libano”, tra cui una telefonata con il ministro degli Esteri britannico David Lammy, che ha “rinnovato l’invito a tutte le parti a esercitare la moderazione per evitare un’escalation”, ha dichiarato l’ufficio di Mikati in un comunicato.
Lammy ha scritto sui social media di aver chiamato Mikati “per esprimere la mia preoccupazione per l’escalation della tensione e di aver accolto con favore la dichiarazione del governo libanese che invita a cessare ogni violenza”.
“Entrambi abbiamo convenuto che l’allargamento del conflitto nella regione non è nell’interesse di nessuno”, ha dichiarato.
Sempre lunedì, il capo delle relazioni estere di Hezbollah, Ammar Moussawi, ha incontrato il Ministro degli Esteri libanese Abdallah Bou Habib, secondo quanto riferito da un diplomatico libanese e da un funzionario di Hezbollah.
Bou Habib ha sottolineato la necessità di “autocontrollo per evitare una guerra regionale”, anche durante i colloqui con il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano Jeanine Hennis-Plasschaert.
Domenica sera, i ministri israeliani hanno autorizzato Netanyahu e il suo capo della difesa a decidere “modalità e tempi” della risposta.
I terroristi di Hezbollah lanciano razzi nel nord di Israele dall’8 ottobre, attirando attacchi di rappresaglia israeliani e minacciando di allargare il conflitto tra Israele e Hamas oltre i confini di Gaza.
Finora, le schermaglie hanno provocato 24 morti civili da parte israeliana, oltre alla morte di 18 soldati e riservisti dell’IDF. Ci sono stati anche diversi attacchi dalla Siria, senza alcun ferito.
Hezbollah afferma che 383 sui membri sono stati uccisi da Israele durante le schermaglie in corso, soprattutto in Libano ma anche in Siria. In Libano sono stati uccisi altri 68 agenti di altri gruppi terroristici, un soldato libanese e decine di civili.
La tragedia di Majdal Shams ha scosso profondamente Israele e tutto il mondo ebraico. Sabato pomeriggio, un colpo diretto di un missile Falaq 1 di produzione iraniana, inviato da Hezbollah sul campo sportivo di Majdal Shams – il principale centro druso in alta Galilea – ha portato alla morte di dodici cittadini arabi israeliani appartenenti alla comunità locale. Erano tutti adolescenti di età compresa tra dieci e vent’anni. Nell’attacco sono rimasti feriti altri diciannove ragazzi. I funerali delle piccole vittime si sono svolti domenica, in un’atmosfera di dolore e rabbia che alberga ormai nella devastata comunità drusa. Shalom ha intervistato Angelica Edna Calò Livnè – Docente a Tel Hai e fondatrice di Beresheet LaShalom, che per tempo ha seguito la comunità drusa in numerose attività artistico-culturali.
- Come definiresti gli eventi di sabato? Quella di sabato rappresenta per tutti una disgrazia da cui non ci riprenderemo. Noi, del kibbutz Sasa abbiamo una bellissima relazione con i drusi, un terzo dei miei studenti vengono da lì, è un luogo che dista solo 5 km da noi. I drusi sono Israele e l’attacco di sabato è a tutti gli effetti un attacco al cuore d’Israele. Il campo da calcio, dove ha avuto luogo la strage era pieno, i ragazzi erano lì per fare un torneo e quelle vite sono state spezzate proprio mentre giocavano. Questa è una tragedia inenarrabile. Loro non hanno colpito solo ragazzi drusi, hanno colpito Israele nel cuore.
- Cosa rappresenta la comunità drusa per il Paese? Posso fare un esempio sulla mia esperienza. All’inizio del periodo pandemico sono stata consulente di una scuola drusa. La loro cultura è molto affascinante ma al contempo introversa, hanno ancora una mentalità molto chiusa. Così, l’allora preside della scuola si rivolse a me, chiedendomi se attraverso il teatro potevo aiutare gli studenti ad aprirsi di più, specialmente perché la loro ambizione li spingeva a cominciare percorsi accademici importanti per cui era importante sviluppare le abilità legate alla socializzazione. Così abbiamo iniziato questo progetto teatrale e abbiamo inserito per 8 anni attività di arte, danza, musica e teatro. La scuola è divenuta la prima scuola in lingua araba in Israele con una proposta molto ampia di attività culturali. Insieme abbiamo realizzato cose straordinarie. I drusi sono una comunità profondamente radicata in Israele, che si sente molto israeliana e noi li sentiamo come tali. Vicino a dove abito ci sono moltissimi villaggi pieni di ragazzi drusi morti in questa guerra. Parlando l’arabo fanno un enorme lavoro per la nostra intelligence, loro sono israeliani a tutti gli effetti. È un popolo che fa parte di noi.
- Cosa aspettarsi dal futuro? Questo attacco dove porterà? Sono nove mesi che siamo sotto i missili e mezza Galilea ad oggi è distrutta, mentre nella regione la maggior parte della popolazione è rimasta senza dimora. Mi chiedo con che diritto si permette l’Iran o il Libano di mandarci più di 500 missili? E perché tutti rimangono in silenzio? In Europa nessuno si permetterebbe una cosa del genere. Ad oggi Israele ha 7 fronti aperti, senza pensare al fronte della Golà, che è un altro discorso importante. Il terribile antisemitismo che dilaga in tutto il mondo è un fronte di guerra che Israele sa di avere aperto. Non so cosa accadrà, ma la tragedia dei drusi ha sconvolto la loro e la nostra comunità. Gente modesta, dalla forte educazione e il cuore buono che ha promesso però una risposta a quanto accaduto sabato.
In febbraio Yuval Shalom Freilich, schermidore israeliano di fama, aveva conquistato la ribalta mediatica. Merito di una vittoria un po’ più speciale di altre, al Doha Gran Prix, in un palazzetto dello sport non proprio entusiasta di ascoltare a fine gara le note dell’inno di Israele.
Già medaglia d’oro nella spada maschile agli Europei del 2019, Freilich aveva la speranza di lasciare un segno anche ai Giochi olimpici di Parigi, forte anche del suo status di numero otto al mondo del ranking. Non è andata così, visto che la sua avventura a cinque cerchi si è conclusa ai sedicesimi di finale del torneo, dove è stato eliminato a sorpresa dall’italiano Andrea Santarelli, poi sconfitto a sua volta negli ottavi.
Sportivamente parlando, il bilancio è negativo. Ma tutto passa in secondo piano rispetto al fatto di esserci stati, a testa alta, tenendo alto anche il nome di Israele oggi spesso delegittimato, ha sostenuto Freilich in una intervista con l’agenzia di stampa francese AFP. «La delusione è forte e sono certo che aumenterà con il trascorrere del tempo», ha riconosciuto a proposito della sconfitta lo schermidore, cresciuto in una famiglia ebraica osservante di origine australiana e nipote di un celebre rabbino. «Ma in una visuale più ampia, mettendo tutto in prospettiva, non posso che dirmi contento. Soprattutto pensando ai miei connazionali: per loro è importante che ci siano degli atleti israeliani a rappresentarli ai Giochi».
• LA PREPARAZIONE
Arrivarci d’altronde non è stato semplice, anche se Freilich non cerca alibi per la sua eliminazione prematura: «Prima che iniziasse la guerra avevamo sparring partner con i quali potevano allenarci in Israele. Dallo scoppio del conflitto non è stato più possibile e quindi sono stato io a dover viaggiare all’estero. Ma va bene così, ciò non ha compromesso in alcun modo la mia preparazione. Il fatto di essere arrivato qui, alle Olimpiadi, resta un risultato fantastico». La corsa per una medaglia olimpica non è comunque finita, assicura l’atleta: Freilich ci riproverà a Los Angeles nel 2028 e non esclude di prolungare la sua carriera fino al 2032, quando i Giochi sono in programma nell’australiana Brisbane. a.s.
Imminente l’uscita del sequel estivo della hit “E’ tutta colpa di Israele”, in voga dal 7 ottobre
Nessuna sorpresa: quando Israele sarà costretto a reagire contro Hezbollah vedremo rilanciare le stesse menzogne già in circolazione da quando si difende contro Hamas
di Jay Tcath
L’attacco di sabato ad opera di Hezbollah contro un campetto di calcio, e il suo tragico bilancio di vittime fra i 10 e 16 anni, potrebbe segnare il punto di svolta della latente guerra tra Israele e la formazione terroristica libanese sponsorizzata dall’Iran.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele è stato una sorpresa. Al contrario, da mesi appare inesorabile che Hezbollah e Israele siano avviati verso una guerra aperta. L’unica cosa che restava da chiedersi era cosa l’avrebbe scatenata e quando. Tragicamente, ora sembra che abbiamo la risposta.
Allo stesso modo, appare inesorabile che 10 mesi di critiche ingiuste rivolte alle azioni difensive di Israele contro Hamas verranno riciclate per calunniare e demonizzare la sua controffensiva dopo gli attacchi crescenti e non provocati di Hezbollah.
Le menzogne si muoveranno lungo alcune direttrici ormai familiari.
CESSATE IL FUOCO. Il 7 ottobre Hamas ha vilmente e coscientemente violato un cessate il fuoco che era in vigore. Nel giro di poche ore l’ha fatto anche Hezbollah dal Libano. I terroristi e i loro fan non invocano mai il cessate il fuoco quando sono all’offensiva. Si mettono a invocarlo a gran voce solo quando Israele reagisce. E chiedono un cessate il fuoco – lo dimostrano i precedenti, come appunto il 7 aprile – al solo scopo di riarmarsi, ricaricarsi e attaccare di nuovo quando è per lo più opportuno (cosa che peraltro dichiarano apertamente). Come per Hamas, anche per Hezbollah il cessate il fuoco è solo una tattica dilatoria, non un passo verso la pace.
GENOCIDIO. Da decenni, ogni volta che Israele reagisce agli attacchi di Hamas e Hezbollah si scatenano accuse infondate di genocidio. Ogni volta, quando le armi tacciono, si registra un ennesimo tragico bilancio di sangue (che si poteva evitare non attaccando Israele), ma non si registra nessun genocidio. Da quando esiste un conflitto fra Israele e arabi palestinesi, la popolazione araba palestinese (così come quella del Libano meridionale) non ha fatto che aumentare. Ovviamente una vistosa crescita della popolazione è incompatibile con un genocidio. Anche il modo in cui combattono le Forze di Difesa israeliane è incompatibile con un genocidio, così come il fatto che Israele facilita l’afflusso di aiuti umanitari, una pratica mai vista né prevista in altre analoghe zone di guerra. Ma non ci sarà da sorprendersi quando in Libano, come a Gaza, il genocidio israeliano verrà di nuovo non commesso, ma denunciato.
DIRITTO INTERNAZIONALE. Come l’attacco del 7 ottobre di Hamas, anche i 10 mesi di attacchi di Hezbollah hanno violato un confine riconosciuto a livello internazionale. Come Hamas, anche Hezbollah prende deliberatamente di mira i civili israeliani: ebrei, cristiani, musulmani e, come è stato con il missile di sabato, drusi. Sia Hamas che Hezbollah si vantano senza vergogna di usare i loro civili come scudi umani, proclamando che tali vittime devono essere orgogliose di conseguire il martirio per la causa. Sia Hamas che Hezbollah tengono rintanati i loro combattenti all’interno di moschee, ospedali, scuole e agenzie umanitarie. Sia Hamas che Hezbollah scatenano guerre senza approntare nessun rifugio per la propria popolazione, ma proteggono accuratamente i loro grandi capi dentro bunker o all’estero. Tutte queste pratiche di Hamas e Hezbollah costituiscono violazioni del diritto di guerra internazionale e dei diritti umani. Ma è Israele che verrà nuovamente accusato di violare quei diritti e quelle leggi.
STOP AGLI AIUTI AMERICANI “INCONDIZIONATI” A ISRAELE. Come la sua guerra difensiva contro Hamas, anche la controffensiva di Israele a Hezbollah scatenerà la richiesta di porre fine delle “incondizionate” forniture di armi dagli Stati Uniti a Israele. La richiesta viene avanzata da chi non sa come funziona la vendita di armi americane a qualsiasi paese, o da chi lo sa ma conta sul fatto che non la sa il grosso dell’opinione pubblica. La legislazione del Congresso che autorizza tali vendite, i sovraimposti regolamenti del Pentagono e i termini aggiuntivi prescritti da produttori e distributori americani sconfessano l’idea che tali vendite di armi siano “incondizionate”. In realtà, Israele rispetta di buon grado tutte le condizioni, il che evidenzia un altro motivo per cui, in quanto unica democrazia nella regione, rimane il più affidabile alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente.
LIBERTÀ DI PAROLA. Una guerra aperta tra Israele e Hezbollah vedrà aumentare ulteriormente i cortei di protesta contro Israele con folle di manifestanti che, in nome della libertà di parola, continueranno a gridare slogan a sostegno del terrorismo jihadista e della cancellazione dello stato ebraico “dal fiume al mare”, occuperanno università, strade, aeroporti, stazioni ferroviarie, vandalizzeranno monumenti storici e memoriali della Shoah, faranno annullare eventi culturali con artisti ebrei, minacceranno e aggrediranno individui e luoghi identificabili come ebraici. Il tutto in nome della “libertà di espressione”. Sarà molto spiacevole, ma non sarà una novità né una sorpresa.
Una sorpresa, invece, controintuitiva sarebbe veder prendere finalmente sul serio ciò che dicono i terroristi, anziché dare ascolto a quelli che in America e in Occidente cercano di giustificarli.
Da sempre, i motivi che adducono Hamas e Hezbollah per la loro feroce guerra contro Israele sono la nuda e cruda verità. Non si tratta di modificare questa o quella linea di confine, questa o quella politica israeliana. Si tratta, in modo tanto semplice quanto terrificante, di eliminare lo stato ebraico dalla faccia della terra.
Coloro che continuano a negare o spazzare sotto il tappeto questa dura realtà dando ogni colpa a Israele, in pratica ci dicono: “Non credete a ciò che da decenni le vostre orecchie sentono dire da Hamas e Hezbollah, non credete a ciò che da decenni i vostri occhi vedono fare da Hamas e Hezbollah”.
Nessuna sorpresa, dunque, quando la hit “è tutta colpa di Israele”, in voga dal 7 ottobre, avrà il suo sequel estivo con Hezbollah.
Purtroppo è probabile che il sequel esca presto, corredato degli stessi falsi argomenti imbastiti dagli stessi attori, il tutto coreografato da terroristi convinti (a ragione?) di poterci propinare ancora una volta le stesse bugie.
(Da: Times of Israel, 28.7.24)
Perché per Israele una vittoria di Trump è necessaria
di Niram Ferretti
• I risultati dell’Amministrazione Trump I fatti non hanno colore né ideologia, si impongono nella loro oggettiva perentorietà. Nessuna amministrazione americana, dal 1948 ad oggi, nel corso di un solo quadriennio ha assommato una serie di decisioni così dirompenti a favore di Israele, come l’Amministrazione Trump.
L’elenco è eloquente: dalla decisione di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele con conseguente spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, decisione che secondo numerosi accreditati “esperti” avrebbe incendiato il Medio Oriente, al riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan. Dalla specificazione, esatta e inequivocabile, che gli insediamenti ebraici in Cisgiordania non violano alcuna norma legale, alla decisione presciente di togliere all’UNRWA, mano longa di Hamas all’ONU i fondi necessari alla sua sopravvivenza. Dalla doverosa decisione di dare seguito alla legge conosciuta come Taylor Force Act, dal nome del giovane ex cadetto di Westpoint assassinato nel 2016 da un terrorista palestinese sul lungomare di Giaffa, che sottrae all’Autorità Palestinese i fondi per remunerare i terroristi, alla chiusura dell’ufficio della medesima a Washington. Dalla decisione di uscire dall’UNESCO dopo le vergognose delibere filoislamiche che hanno privato gli ebrei di ogni legame storico con il Monte del Tempio, il Muro occidentale e la tomba dei Patriarchi a Hebron, all’uscita dal Consiglio per i diritti umani di Ginevra, oggi presieduto dall’Iran, dove sussiste sotto forma della cosiddetta Agenda 7, un dispositivo esclusivamente dedicato alla criminalizzazione di Israele.
A tutto ciò si aggiunge la decisione presa nel 2018 di uscire dall’JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano siglato da Barack Obama nel 2015 all’insegna della politica filoislamica della sua amministrazione, e di seguito la stipula degli Accordi di Abramo, iniziati dal riconoscimento diplomatico nei confronti di Israele da parte degli Emirati, del Sudan e del Marocco e che sarebbe dovuto culminare con quello da parte dell’Arabia Saudita.
• I passi indietro dell’Amministrazione Biden Con la vittoria di Joe Biden nel 2021, ognuna delle decisioni prese dall’Amministrazione Trump, salvo quella relativa allo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme e agli Accordi di Abramo, è stata rovesciata. Il rientro nell’accordo sul nucleare iraniano non è avvenuto, soprattutto a causa del subentro della guerra in Ucraina visto che l’Iran, alleato della Russia, ha provveduto a fornirle i droni per colpire le città del paese sostenuto dall’Amministrazione Biden, anche se, recentemente, sono ripresi i colloqui in Yemen.
Ma il passo indietro gigantesco rispetto a quello fatto in avanti da Trump, è stato di riproporre il più consolidato feticcio di tutte le amministrazioni americane dal 1993 ad oggi, ovvero la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania, nonostante il fatto che i più persistenti oppositori alla sua nascita siano sempre stati i palestinesi stessi, dal 1993 ai giorni nostri. La sua effettiva nascita, infatti, metterebbe fine definitivamente al lucrosissimo ruolo di vittime e vessati che essi si sono attribuiti, e costringerebbe la cleptocrazia palestinese di Ramallah a mostrare di essere in grado di fare funzionare una efficiente macchina statale, per non parlare del requisito fondamentale al suo venire in essere, il riconoscimento non della mera esistenza di Israele, ma della sua legittimità di esistere.
Donald Trump, consapevole dell’inutilità di aprire un tavolo negoziale con l’Autorità Palestinese, aveva deciso di metterla in un angolo rivolgendosi direttamente ai potentati arabi, e mirando soprattutto all’Arabia Saudita, con cui, dopo la lunga stagione di gelo con Barack Obama, si erano riattivati buoni rapporti. Non a caso, il primo viaggio internazionale che Trump fece da presidente eletto fu a Riad. Ed è l’accordo prossimo con l’Arabia Saudita, annunciato da Netanyahu come foriero di una nuova era, nel suo discorso all’ONU del 22 settembre 2023, che Hamas ha fatto saltare con l’eccidio del 7 ottobre 2023 il quale è stato la premessa della guerra a Gaza. Accordo il cui merito, se fosse andato in porto, se lo sarebbe intestato Joe Biden, mentre, se avverrà, sarà unicamente frutto della tessitura diplomatica dell’Amministrazione Trump.
• Le conseguenze di una Amministrazione Harris Una vittoria di Kamala Harris alle presidenziali americane, per Israele significherebbe una costante pressione per i prossimi quattro anni finalizzata alla nascita di uno Stato palestinese, significherebbe la continua delegittimazione di Netanyahu se restasse al potere, significherebbe l’appoggio diretto o indiretto a tutte le iniziative internazionali volte a mettere Israele sul banco degli imputati per la violazione inesistente del diritto internazionale, significherebbe continuare a dare credito all’idea falsa, giù ampiamente mostratosi fallimentare, che Israele può solo cedere terra in cambio di pace, come ha fatto a Gaza e come ha fatto in Cisgiordania anche se non in modo definitivo, consentendo all’Autorità Palestinese di amministrare totalmente l’Area A e in parte sostanziale l’Area B. Significherebbe in altre parole continuare a ripetere vecchi errori, a percorre una via che non può portare a nessun risultato se non quello di indebolire ulteriormente lo Stato ebraico.
L’Iran, che solo Trump ha provveduto a colpire severamente con le sanzioni, e, quando lo ha reputato necessario, mostrandogli, con l’uccisione di uno dei suoi pezzi da novanta, il generale Qasem Soleimani, fatto eliminare il 3 gennaio del 2020, che non avrebbe esitato ad usare le maniere forti, con una Amministrazione Harris, continuerebbe a essere blandito, permettendogli, come è accaduto sotto l’Amministrazione Obama e quindi Biden, di continuare a rafforzarsi a spese di Israele e di tutti gli altri Paesi mediorientali.
• Il vantaggio di riavere Trump alla Casa Bianca La vittoria di Trump rappresenta dunque per Israele una necessità fondamentale. Avrebbe la possibilità di potere gestire Gaza in uno scenario postbellico per tutto il periodo necessario alla sua completa bonifica dai jihadisti di Hamas, di cui, tra i primi a volere la scomparsa ci sono certamente i sauditi. Allo stesso tempo vedrebbe accantonato per i prossimi quattro anni lo spettro dello Stato palestinese, e al suo posto, il proseguimento degli Accordi di Abramo con l’Arabia Saudita, che, va ricordato, non implicavano il venire in essere di uno Stato palestinese, mentre l’Autorità Palestinese verrebbe relegata ad attore subalterno, e soprattutto avrebbe di nuovo un alleato in grado di tenere a bada il principale agente di destabilizzazione del Medio Oriente, l’Iran, a cui sicuramente Trump non concederebbe alcuno sconto, mai come adesso, dopo avere saputo che il regime di Teheran stava progettando un piano per assassinarlo.
Harris e Biden rincorrono Trump sugli ostaggi in mano ad Hamas
Qualche giorno prima di beccarsi la fucilata che per un pelo non lo ammazzava, Donald Trump – in una delle sue quotidiane fanfaronate – dice ai macellai di Gaza: vedete di liberare i “nostri ostaggi” prima che io assuma l’incarico, altrimenti sono cavoli amari. Le parole di un fanfarone, appunto. Ma dotate di qualche innegabile furbizia (“i nostri” ostaggi) e, soprattutto, capaci di parecchia efficacia se – qualche settimana dopo – lo staff del recessivo Joe Biden si affrettava a convocare le televisioni per riprendere il vecchio presidente seduto al tavolo con le famiglie dei sequestrati. E a ruota la regina del contro-deep state delle bellurie obamiane “post-yes, we can” – Kamala Harris – impegnata nell’equilibristica conferenza stampa che in modo penosamente intempestivo recupera ed enumera i profili degli ostaggi americani dopo aver disertato il discorso di Benjamin Netanyahu.
Il tutto mentre il bifolco con in testa quella scopa di mais sbertuccia agevolmente il duo democratico in avvicendamento, dicendosi stupefatto per l’ipotesi che gli ebrei – dopo essere stati trattati così irrispettosamente – possano votare per quelli che solo obtorto collo trovano parole per ricordare i corpi vivi e i cadaveri trattenuti dai mostri del 7 ottobre. Hai un bel dire che era legittimo non tributare onori a Benjamin Netanyahu. Ma è un’intelligenza pigra quella che non capisce che le ragioni di accusa nei confronti di chi rappresenta Israele sono adoperate da coloro che non contestano allo Stato ebraico di avere quel primo ministro, ma puramente e semplicemente di esistere.
Ed è una coscienza malandata quella che non capisce che Netanyahu, l’altro giorno, al Congresso degli Stati Uniti non rappresentava un paio di ministri fondamentalisti né i manipoli di coloni che in nome della Bibbia sradicano gli ulivi dei contadini palestinesi: rappresentava il diritto degli ebrei – molti dei quali totalmente avversi a Netanyahu – di vivere nella terra che hanno acquistato, lavorato e reso florida. E per la quale hanno combattuto contro chi non vuole libertà per la Palestina, ma una Palestina libera dagli ebrei. Una Palestina Judenfrei.
Scoperchiando questioni che vanno ben oltre la guerra di Gaza, il pellegrinaggio statunitense di Benjamin Netanyahu ha reso plateale il disastro di un’America votata alternativamente alle uscite rozze e furbesche – ma spiazzanti e possibilmente ficcanti – di quello sbruffone o alle inadeguatezze desolanti, agli imbarazzi e ai biascicamenti di un establishment democratico inadeguato per motivi certamente diversi, ma certamente non meno gravi.
La cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi 2024 di venerdì 26 luglio sarà ricordata come un evento maestoso, degno della grandeur francese e inedito per il suo svolgimento sulle acque della Senna e non all’interno di uno stadio olimpico come avvenuto in tutte le edizioni passate. Le barche, con a bordo i 204 paesi partecipanti e la squadra degli atleti rifugiati hanno attraversato il blindatissimo centro di Parigi per concludere il loro percorso di sei chilometri al Trocadero. Il coloratissimo e sfavillante spettacolo di grande suggestione, originale e raffinato, malgrado la pioggia, è partito dal ponte Austerlitz, accanto al Jardin des Plantes, ha toccato l’Ile Saint Luis e l’Ile de la Cité, è passato poi sotto i ponti parigini per permettere agli atleti e agli spettatori di tutto il mondo di ammirare la Ville Lumière in tutta la sua bellezza e i luoghi in cui si svolgeranno alcuni degli sport olimpici: dalla Concorde, alla spianata des Invalides, al Gran Palais. La sfilata delle squadre è stata aperta, come di consueto, dalla Grecia, paese in cui sono nati i Giochi Olimpici, seguita dagli atleti rifugiati, che hanno sventolato la bandiera olimpica. L’Italia ha sfilato per novantunesima dopo Israele. La squadra israeliana, con il Presidente dello Stato d’Israele Herzog sugli spalti, è composta da 88 atleti che gareggiano in 15 discipline sportive, con la speranza di conquistare quattro o cinque medaglie. Portabandiera il judoka Peter Paltchik, ucraino di nascita, vincitore ai Giochi di Tokio del 2020 della medaglia di bronzo nel judo a squadre e la nuotatrice americana di nascita Andi Mure.
Oren Smadga, allenatore della squadra maschile di judo, ha deciso di partecipare ai Giochi nonostante il figlio, Omer, sergente di I classe di 25 anni, sia stato ucciso in combattimento a Gaza poche settimane fa. Oren aveva vinto la medaglia di bronzo per Israele ai Giochi Olimpici di Barcellona del 1992 ” tra tutte le difficoltà e il dolore che devo fronteggiare – ha detto – voglio far sapere al mondo la mia missione e il mio impegno, in particolare in questo momento. Parteciperemo alle gare a testa alta, per raggiungere i nostri obiettivi con lo spirito di fratellanza che ci rafforza.”
“Ci sentiamo come emissari dello Stato d’Israele: i nostri atleti, ogni singolo atleta, sono qui per realizzare i propri sogni, ma c’è un altro livello, una missione nazionale cui ottemperiamo – ha fatto eco Yael Arad, presidente del Comitato Olimpico di Israele – Abbiamo già conquistato la nostra prima vittoria: siamo qui, non ci siamo arresi, dal 7 ottobre abbiamo partecipato a centinaia di gare. Ciò che ci guida è la bandiera di Israele”. Mostrando la spilla gialla che ricorda gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas Yael Arad ha aggiunto: “Questo è ciò che ci guiderà durante l’intera durata delle Olimpiadi. Ognuno di noi è espressione di tutta la forza del popolo israeliano. Portiamo con noi gli ostaggi, i caduti, le famiglie, tutto ciò che rimanda a quanto accaduto il 7 ottobre sarà con noi, nei nostri cuori”.
Il 28 luglio 1904: esattamente 120 anni fa, veniva inaugurato il Tempio Maggiore di Roma. L’anniversario sarà celebrato anche in occasione della prossima Giornata Europea della Cultura Ebraica, il 15 settembre, con una mostra che, proprio nei giardini della sinagoga, racconterà le vicende di una collettività attraverso il suo beth hakneseth.
Il Tempio Maggiore agli inizi del XX secolo rappresentava il simbolo dell’emancipazione degli ebrei di Roma dopo la fine dell’età del ghetto (1555-1870). Dalla Breccia Porta di Pia alle leggi del 1938 gli ebrei sperimentarono una libertà mai vissuta nei secoli precedenti, che permise loro di inserirsi nel tessuto sociale, economico, politico e culturale romano, così come avveniva in moltealtre parti d’Italia e d’Europa. Il Tempio Maggiore segnò anche una cesura rispetto ai modelli cultuali dell’Antico Regime, quando le cosiddette Cinque Scole (Castigliana, Catalana, Nova, Siciliana e Tempio) rappresentavano le diverse collettività ebraiche presenti sul territorio romano. L’architettura della nuova sinagoga rispecchiava lo stile di vita dell’epoca. Se nei secoli precedenti la Scola aveva costituito il centro di tutta la vita ebraica, mentre la nuova struttura monumentale era vissuta prevalentemente per gli aspetti più strettamente cultuali. Il Tempio Maggiore presentava un altare non più al centro della sinagoga,ma sotto l’Aron HaKodesh (l’armadio che contiene i rotoli del Pentateuco); il rabbinato era delegato in tutto e per tutto a svolgere le funzioni religiose, visto che la maggioranza della popolazione stava perdendo la conoscenza dell’ebraico e delle preghiere ad esso associate.
La nuova conformazione poneva anche una certa distanza, fisica e culturale, fra il chazan (cantore) e la keillah (comunità), simboleggiata dagli scalini che conducono alla Tevà(altare). Questi aspetti simbolici sono correlati alla nuova identità e ai relativi comportamenti degli ebrei nell’età post risorgimentale, che producevano, oltre al processo di integrazione, anche quello dell’assimilazione. Peraltro, quella dell’equiparazione dei diritti fu solo un’illusione, come dimostrarono le leggi del 1938 che avrebbero privato gli ebrei di molti dei diritti acquisti nei decenni precedenti e che furono preludio alla Shoah. Proprio il Tempio Maggiore di Roma fu il crocevia di questa falsa speranza: al momento della sua inaugurazione, il 28 luglio 1904, vide la partecipazione del re Vittorio Emanuele III, proprio colui che, 34 anni dopo, firmò le suddette leggi antiebraiche. Durante l’occupazione di Roma, alla sinagoga furono apposti i sigilli. La nuova inaugurazione avvenne con una solenne cerimonia il 9 giugno 1944, a pochi giorni dalla liberazione della città dai nazifascisti. Dopo l’orrore, riprendeva lentamente la vita della comunità ebraica romana e il Tempio Maggiore ne era uno dei principali scenari. Negli anni successivi divenne teatro di altri episodi destinati a segnare la storia degli ebrei e dell’Italia e non solo: proprio qui, il 9 ottobre 1982, si verificò il terribile attentato terroristico di matrice palestinese che tolse la vita al piccolo Stefano Gaj Taché di soli due anni e ferì 42 persone. Ancora una volta gli ebrei furono lasciati soli, soprattutto dalle istituzioni italiane, ancora una volta traditi.
Parallelamente, il Tempio Maggiore fu emblema della forte ripresa della collettività ebraica capitolina che, fra l’altro, tra il 1967 e il 1970 accolse gli ebrei espulsi dalla Libia. Il Tempio Maggiore ha accolto tre papi: Giovanni Paolo II nel 1986, Benedetto XVI nel 2010, Francesco nel 2016. Tali eventi hanno segnato un passaggio epocale nelle relazioni ebraico-cristiane. Più di recente, nei mesi della primavera 2020, durante il lockdown causato dalla nota pandemia il bethhakneseth è stato chiuso per la seconda volta nella sua storia, per un altro motivo tragico e non previsto.
Oggi ci attende un futuro pieno di incognite ma anche di speranze. Alle tante sfide da affrontare dovremo rispondere con una forte coesione interna e con la capacità di aprirci all’esterno senza perdersi. Il Tempio Maggiore sarà nuovamente testimone e protagonista del nostro presente e del nostro futuro.
Hezbollah colpisce il Nord di Israele: Strage di bambini in un campo da calcio
Dal 7 ottobre, i bombardamenti di Hetzbollah dal Libano non sono mai cessati, costringendo all’evacuazione oltre 80.000 israeliani, facendo morti e feriti e causando vasti incendi. Ma ieri hanno toccato il punto estremo con l’attacco a Majdal Shams, dove sono morti 12 bambini e ragazzi che giocavano, oltre 30 i feriti. Hetzbollah (e l’Iran) vuole l’escalation.
Tra le vittime Alma Ayman Fakher Eldin, 11; Milad Muadad Alsha’ar, 10; Vinees Adham Alsafadi, 11; Iseel Nasha’at Ayoub, 12; Yazan Nayeif Abu Saleh, 12; Johnny Wadeea Ibrahim, 13; Ameer Rabeea Abu Saleh, 16; Naji Taher Alhalabi, 11; Fajer Laith Abu Saleh, 16; Hazem Akram Abu Saleh, 15; Nathem Fakher Saeb, 16
Ciao mamma, vado a giocare a calcio. Ci vediamo più tardi. O forse no. Forse non ci vediamo più. Forse non torno più a casa e questo pomeriggio verrai al cimitero a seppellirmi.
Perché questa è la realtà in Israele, specialmente nelle terre più a nord, vicine al confine, verso cui Hezbollah – gruppo terroristico sciita che occupa illegalmente il Libano meridionale – ha lanciato migliaia di munizioni dall’8 ottobre.
Così, sabato 27 luglio, un Falaq-1 iraniano con una testata di oltre 50 chilogrammi di esplosivo ha colpito il villaggio druso di Majdal Shams, sulle alture del Golan, uccidendo 12 bambini e adolescenti che si allenavano in un campo da calcio. Si tratta dell’attacco più mortale dal 7 ottobre.
Le sirene hanno suonato, ma, come spesso accade vicino al confine, tra quando le sirene suonano e quando il razzo colpisce passano solo pochi secondi, un minuto al massimo: un tempo insufficiente per mettersi al riparo. I soccorritori del Magen David Adom hanno descritto scene di carneficina sanguinosa e brandelli di corpi. Il residente druso Zola Abu Salah ha raccontato alla radio militare: «Stiamo parlando di 12 bambini al cimitero in un giorno. C’è tristezza, c’è disastro, c’è tragedia, e poi c’è quello che è successo ieri a noi». Delle 12 vittime, i nomi di 11 sono stati resi pubblici:
Milad Muadad Alsha’ar, 10 anni
Alma Ayman Fakher Eldin, 11 anni
Vinees Adham Alsafadi, 11 anni
Naji Taher Alhalabi, 11 anni
Iseel Nasha’at Ayoub, 12 anni
Yazan Nayeif Abu Saleh, 12 anni
Johnny Wadeea Ibrahim, 13 anni
Hazem Akram Abu Saleh, 15 anni
Ameer Rabeea Abu Saleh, 16 anni
Fajer Laith Abu Saleh, 16 anni
Nathem Fakher Saeb, 16 anni
Inoltre, lo Ziv Medical Center di Safed ha dichiarato di aver ricoverato 32 feriti, alcuni in condizioni gravi.
Il municipio di Tel Aviv illuminato con la bandiera drusa
Hezbollah ha inizialmente rivendicato una raffica di razzi Katyusha e di un razzo pesante Falaq contro Israele come risposta all’eliminazione da parte di Israele di un agente della forza d’élite Radwan dell’organizzazione terroristica.
Anche Tasnim News, l’outlet del regime islamico iraniano – che finanzia e sostiene Hezbollah -, ha inizialmente pubblicato la notizia celebrando la morte di “una decina di sionisti”.
Ma i drusi non sono sionisti, bensì un gruppo etnoreligioso arabo propaggine dell’Islam sciita, e appena si è saputa l’appartenenza drusa delle vittime Hezbollah ha rinnegato ogni responsabilità: «La Resistenza islamica non ha alcun legame con questo incidente», ha dichiarato.
Secondo alcuni, Siria occupata, per altri, Palestina occupata, le alture del Golan sono state conquistate da Israele durante la guerra dei sei giorni nel 1967 e annesse ufficialmente nel 1981. Tra gli arabi non c’è un vero consenso su chi debbano appartenere quelle terre, ma solo sul fatto che, lì come altrove, Israele non dovrebbe esistere. E per questo, nonostante metà della popolazione sia araba, le milizie di Hezbollah continuano a colpire l’area.
Un’analisi dell’IDF indica che il razzo che ha colpito Majdal Shams è stato lanciato da un’area situata a nord del villaggio di Chebaa, nel Libano meridionale.
Il colonnello Avichay Adraee ha identificato il direttore dell’attacco nel comandante libanese Ali Muhammad Yahya: «Nonostante i suoi tentativi di negarlo, Hezbollah è responsabile del massacro di Majdal Shams e dell’uccisione di bambini e ragazzi nel campo di calcio». Hagari, il portavoce dell’IDF, ha avvalorato tali dichiarazioni: «La nostra intelligence è chiara: Hezbollah è responsabile dell’uccisione di bambini innocenti, e ancora una volta la brutalità di Hezbollah come organizzazione terroristica è stata esposta».
Preoccupato per le ritorsioni previste, il governo libanese ha condannato pubblicamente «tutti gli attacchi di violenza contro i civili, palese violazione del diritto internazionale, contraria ai principi dell’umanità», e ha chiesto «una cessazione immediata delle ostilità su tutti i fronti». Il leader spirituale della comunità drusa in Israele, Sheikh Mowafaq Tarif: “Siamo profondamente scioccati per il terribile massacro nell’orribile attacco terroristico. Uno stato governato dallo stato di diritto non può permettersi di mettere in pericolo i propri cittadini. Finora Israele ha cercato di non reagire ma è stata superata ogni possibile linea rossa e nera”. Le sue parole sono destinate a generare solidarietà tra i drusi in Libano. Circa 150.000 drusi vivono in tutto Israele, 25.000 dei quali sulle alture del Golan, 10.000 dei quali vivono a Majdal Shams. Ci sono quattro villaggi drusi sulle alture del Golan. L’attacco di sabato fa ulteriormente leva sul già preponderante malcontento della popolazione del nord di Israele, che percepisce il governo come incapace di garantire la sicurezza dei cittadini, anche dopo nove mesi di combattimenti. Il disordine interno al Paese che spinge per le dimissioni di Netanyahu è peraltro uno degli obiettivi della Repubblica Islamica, la cui stabilità è minacciata da una probabile coalizione del premier israeliano con Trump, qualora rieletto.
Il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americano ha condannato l’attacco e ribadito il sostegno a Israele in una dichiarazione scritta alla CNN:
«Israele continua ad affrontare gravi minacce alla sua sicurezza, come il mondo ha visto oggi, e gli Stati Uniti continueranno a sostenere gli sforzi per porre fine a questi terribili attacchi lungo la Blue Line, che deve essere una priorità assoluta. Il nostro sostegno alla sicurezza di Israele è ferreo e incrollabile contro tutti i gruppi terroristici sostenuti dall’Iran, incluso Hezbollah libanese».
Appreso l’accaduto, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che si trovava negli Stati Uniti, ha ordinato di anticipare il suo ritorno in patria. In una telefonata con lo sceicco Tarif – leader spirituale della comunità drusa israeliana – ha promesso che Hezbollah «pagherà un alto prezzo per questo grave incidente, più di quanto non abbia mai pagato: agiremo di conseguenza».
Il presidente israeliano Isaac Herzog ha condannato l’attacco come un «terribile e scioccante disastro» e ha giurato che Israele avrebbe difeso i suoi cittadini: «Non ci sono parole che possano confortare le famiglie delle giovani vittime che hanno perso la vita senza alcuna colpa».
Anche il ministro degli Esteri Katz ha promesso che Hezbollah, che ha oltrepassato tutte le linee rosse, avrebbe ricevuto una risposta adeguata: «Un paese civile non può permettere che i suoi cittadini e residenti continuino a subire danni. Questa è stata la realtà per nove mesi nelle comunità del nord. Ci stiamo avvicinando al momento di una guerra su vasta scala con Hezbollah e il Libano».
L’esercito ha infatti affermato che durante la notte l’aeronautica israeliana ha colpito una serie di obiettivi terroristici di Hezbollah sia nel profondo del territorio libanese che nel Libano meridionale, tra cui depositi di armi e infrastrutture terroristiche nelle aree di Chabriha, Borj El Chmali e Beqaa, Kfarkela, Rab El Thalathine, Khiam e Tayr Harfa.
La terribile strage dei bambini drusi israeliani apre una nuova fase delle guerra
di Ugo Volli
• L’ecatombe dei bambini In seguito a un colpo diretto di un missile Falaq 1 di produzione iraniana con 50 chilogrammi di esplosivo sparato sabato sera da Hezbollah dall’area di Chebaa in Libano su un campo sportivo di Majdal Shams, il principale centro druso in alta Galilea ai piedi del Monte Hermon, almeno dodici cittadini israeliani appartenenti alla comunità drusa sono stati uccisi, tra cui bambini e adolescenti di età compresa tra dieci e vent’anni. Almeno altri diciannove sono rimasti feriti in vari gradi, tra cui sei sono gravi, e sono trattati all’ospedale Rambam di Haifa. Il missile dei terroristi, uno fra le decine sparate nel pomeriggio e nella serata, ha colpito un campetto di calcio, dove i ragazzi stavano facendo una partita di calcio. È la perdita più pesante che colpisce Israele dopo il 7 ottobre, un crimine orrendo anche perché le vittime sono ragazzi. Ma non si tratta di un caso o di un errore, sia perché i missili di Hezbollah non sono sparati in direzioni approssimative come quelli di Hamas, ma diretti con guida elettronica, sia perché c’è una lunga storia di attacchi diretti ai paesi della Galilea, che per la maggior parte sono stati evacuati per questa ragione. Purtroppo ciò non è accaduto per volontà degli abitanti a Majdal Shams e il tiro diretto da meno di quattro chilometri di distanza non ha permesso l’intervento degli antimissili come Iron Dome.
• Chi sono i drusi I drusi sono una comunità etnico-religiosa sparsa in tutto il Medio Oriente, in Israele sul Carmelo e in Galilea, ma anche in Siria e in Libano. Appartengono a una corrente religiosa iniziatica e molto chiusa che si è distaccata parecchi secoli fa dall’Islam sciita. In generale la loro politica è di appoggiare gli stati in cui sono insediati, per esempio in Israele militano nell’esercito con grande coraggio e distinzione; ma in Siria sono fedeli al regime e in Libano sono per lo più alleati degli sciiti. Questa differente collocazione politica non impedisce alle diverse comunità di essere legate da una grande solidarietà. Abitanti delle montagne, fortemente minoritari dappertutto, sono sopravvissuti nei secoli grazie alla loro compattezza sociale e all’eroismo militare. Sono quindi rispettati e spesso temuti da tutto il mondo arabo. Questa è la ragione per cui Hezbollah, che pure aveva rivendicato la cinquantina di missili sparati ieri sul territorio israeliano, si è affrettato a negare di essere coinvolto in questo orrendo crimine. Ma le prove sono chiare, Israele ha i tracciati dello sparo e i frammenti del missile e ha già compiuto una rappresaglia iniziale sulla batteria di lancio del missile.
• Una situazione intollerabile Questo terribile episodio non si può concludere con la distruzione della rampa di lancio, com’è accaduto decine di volte per i colpi sparati da Hezbollah. Israele non può accettare che la propria popolazione civile sia continuamente minacciata e colpita da Hezbollah, non può subire lo spopolamento della Galilea trasformata nel bersaglio dei missili di Hezbollah, anche perché questo territorio si sta estendendo fino alle città del nord come Tzafat e perfino Haifa. I drusi non accetterebbero l’inazione di Israele e se non fossero tutelati metterebbero in crisi la loro lealtà e tenderebbero a farsi giustizia da soli. Insomma, mentre gli Usa parlano insistentemente di fine della guerra al Sud, quel che questo episodio potrebbe probabilmente provocare è l’accensione del fronte settentrionale. Hezbollah ha già ordinato alle proprie truppe e ai capi di nascondersi in assetto di guerra, l’Iran ha minacciato rappresaglie nel caso di un intervento in Libano, gli alti gradi delle forze armate israeliane hanno segnalato da tempo che l’esercito israeliano è pronto al combattimento. Vari governi occidentali, prima di tutto gli Usa, hanno dichiarato solidarietà a Israele.
• Le ipotesi di risposta È impossibile dire che cosa il governo israeliano deciderà di fare. Netanyahu ha interrotto in anticipo la visita americana e sta tornando in Israele. Questo pomeriggio alle 16 si riunisce il governo per prendere le decisioni definitive. Ci sono diverse strategie possibili. La più limitata è un’ondata di bombardamenti che faccia terra bruciata per i terroristi del territorio vicino al confine, da cui è stato sparato il missile che ha fatto strage a Majdal Shams. Hezbollah non avrebbe il diritto di stare lì, secondo gli accordi presi all’Onu dopo la fine dell’ultima guerra in Libano il territorio a sud del fiume Litani a 10 chilometri circa dal confine, dovrebbe essere smilitarizzato e sotto il controllo di una forza dell’Onu (Unifil, cui partecipa anche un contingente italiano). Ma questo non è avvenuto, anche perché Unifil ha sempre ceduto alla violenza dei terroristi, fino a farsi spesso disarmare e a veder uccisi i propri militari senza reagire. Una seconda possibile scelta è che i bombardamenti si estendano a tutto il Libano, colpendo le infrastrutture e in particolare i quartieri sciiti dove ha sede Hezbollah. È un’ipotesi che rischia di produrre molte perdite anche fra la popolazione civile in mezzo a cui i terroristi si nascondono. Una terza ipotesi è un’operazione di terra, forse limitata fino al Litani, che seguirebbe le tracce di precedenti operazioni israeliane in Libano. Certamente però in ognuna di queste ipotesi bisogna tener conto che ci sarà certamente una reazione di Hezbollah e forse dell’Iran, che significa migliaia di missili sparati su tutto il territorio israeliano, con successive conseguenze, che oggi non si possono prevedere. La guerra iniziata il 7 ottobre sta entrando in una nuova fase, e non certo per una decisione di Israele.
L’attacco di Hezbollah a Majdal Shams e le sue conseguenze
L’attacco a Majdal Shams nella parte settentrionale del Golan, dove sono rimasti uccisi undici tra bambini e ragazzi drusi tra dai dieci ai i vent’anni che si trovavano in un campo di calcio preso di mira dai terroristi proxies del regime di Teheran, è finora il più grave registrato dall’inizio delle ostilità tra il gruppo sciita libanese e Israele e segna una escalation dalle conseguenze imprevedibili.
Quale sarà la reazione israeliana lo si vedrà a breve. Benjamin Netanyahu, saputo dell’attacco ha chiesto di rientrare in Israele anticipatamente dagli Stati Uniti. Una cosa, tuttavia, ci sentiamo di prevederla, l’Amministrazione Biden, cercherà di mitigare la reazione israeliana come ha già fatto il 13 aprile dopo l’attacco dell’Iran, soprattutto ora che è in corso l’ennesimo round negoziale con Hamas, che la Casa Bianca vuole concludere ad ogni costo impedendo ad Israele di raggiungere l’obiettivo militare prefissato, la smilitarizzazione di Hamas all’interno della Striscia.
a guerra vera, quella che si profila con Hezbollah, è inevitabile, e sarà una guerra che metterà a dura prova lo Stato ebraico, diminuendo per importanza e vastità l’operazione militare in corso a Gaza. Si tratterà del fronte più diretto che si aprirà contro l’Iran, il principale destabilizzatore del Medio Oriente, e sponsor diretto di Hezbollah, di Hamas, e degli Houti. L’Iran, che l’Amministrazione Biden ha trattato, fin dal suo insediamento, con i guanti bianchi.
Mancano solo quattro mesi alle elezioni americane di novembre, e mai come in questo frangente, chi siederà nello Studio Ovale avrà un ruolo decisivo per il futuro di Israele. È tutto da vedere se Israele sarà in grado di aspettare fino ad allora prima che scoppi la guerra contro Hezbollah.
Il nuovo Governo britannico non si opporrà più al mandato di arresto contro Netanyahu
Venerdì il Governo britannico ha confermato di aver abbandonato l’idea di contestare il perseguimento di un mandato internazionale contro il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, presso la Corte penale internazionale, sottolineando un cambiamento nella politica estera del nuovo primo ministro del Paese, Keir Starmer.
La decisione segna una evidente divergenza dalla politica statunitense su Israele, che il precedente governo conservatore aveva invece seguito.
Venerdì Downing Street ha reso noto che Starmer, ex avvocato per i diritti umani, aveva deciso che la Gran Bretagna non si sarebbe presentata alla Corte come previsto dal governo di Sunak.
“Questa era una proposta del precedente governo che non è stata presentata prima delle elezioni e che posso confermare che il governo non porterà avanti, in linea con la nostra posizione secondo la quale è una questione che spetta alla corte decidere”, ha detto una portavoce ufficiale di Starmer.
“Il governo crede fermamente nello stato di diritto e nella separazione dei poteri”, ha aggiunto.
A maggio, Karim Khan, il procuratore della Corte penale internazionale, ha annunciato di aver richiesto i mandati di cattura per Netanyahu e per il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’operazione militare israeliana a Gaza, tra cui la morte per fame dei civili.
Khan ha contemporaneamente richiesto i mandati per tre leader di Hamas, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Sunak ha descritto la richiesta di mandati contro funzionari israeliani come “profondamente inutile” e un ministro del governo, Andrew Mitchell, ha dichiarato al Parlamento: “Non riteniamo che il CIC abbia giurisdizione in questo caso”.
All’inizio di giugno, il governo ha chiesto alla Corte internazionale il diritto di presentare obiezioni, e gli è stato chiesto di presentare le proprie argomentazioni entro il 12 luglio. La scadenza è stata prorogata a venerdì, dopo che Sunak ha indetto le elezioni generali.
La decisione di non intervenire nel procedimento del tribunale internazionale segna il secondo allontanamento del nuovo governo britannico dalla politica statunitense su Israele dopo le elezioni generali di questo mese.
La scorsa settimana, David Lammy, nuovo segretario agli Esteri britannico, ha dichiarato che avrebbe ripristinato i finanziamenti alla principale agenzia di soccorso delle Nazioni Unite che aiuta i palestinesi, l’UNRWA.
Il governo sta anche valutando se continuare a vendere armi a Israele, una decisione che dipenderà da un parere legale ufficiale sul fatto che Israele abbia violato il diritto internazionale a Gaza. Husam Zomlot, il cosiddetto “ambasciatore palestinese” nel Regno Unito, ha accolto con favore la decisione di non intervenire nel caso I.C.C., descrivendola come un “passo significativo per allineare il Regno Unito allo stato di diritto”.
Ora nel corso di quel tempo, che fu lungo, avvenne che il re d'Egitto morì; e i figli d'Israele sospiravano a motivo della schiavitù, e alzavano delle grida; e le grida che il servaggio strappava loro salirono a Dio.
E Dio udì i loro gemiti; e Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe.
E Dio vide i figli d'Israele, e Dio ebbe riguardo alla loro condizione.
ESODO 4
Mosè ed Aaronne dunque andarono, e radunarono tutti gli anziani dei figli d'Israele.
E Aaronne riferì tutte le parole che l'Eterno avea dette a Mosè, e fece i prodigi in presenza del popolo.
Ed il popolo prestò loro fede. Essi intesero che l'Eterno aveva visitato i figli d'Israele e aveva veduto la loro afflizione, e si inchinarono e adorarono.
ESODO 5
Dopo questo, Mosè ed Aaronne vennero a Faraone, e gli dissero: 'Così dice l'Eterno, l'Iddio d'Israele: Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto'.
Ma Faraone rispose: 'Chi è l'Eterno ch'io debba ubbidire alla sua voce e lasciar andare Israele? Io non conosco l'Eterno, e non lascerò affatto andare Israele'.
Ed essi dissero: 'L'Iddio degli Ebrei si è presentato a noi; lasciaci andare tre giornate di cammino nel deserto per offrir sacrifizi all'Eterno, ch'è il nostro Dio, onde ei non abbia a colpirci con la peste o con la spada'.
E il re d'Egitto disse loro: 'O Mosè e Aaronne, perché distraete il popolo dai suoi lavori? Andate a fare quello che vi è imposto!'
E Faraone disse: 'Ecco, il popolo è ora numeroso nel paese, e voi gli fate interrompere i lavori che gli sono imposti'.
I sorveglianti dei figli d'Israele si videro ridotti a mal partito, perché si diceva loro: 'Non diminuite per nulla il numero dei mattoni impostovi giorno per giorno'.
E, uscendo da Faraone, incontrarono Mosè e Aaronne, che stavano ad aspettarli,
21 e dissero loro: 'L'Eterno volga il suo sguardo su voi, e giudichi! poiché ci avete messi in cattivo odore dinanzi a Faraone e dinanzi ai suoi servitori, e avete loro messa la spada in mano perché ci uccida'.
Allora Mosè tornò dall'Eterno, e disse: 'Signore, perché hai fatto del male a questo popolo? Perché dunque mi hai mandato?
Poiché, da quando sono andato da Faraone per parlargli in tuo nome, egli ha maltrattato questo popolo, e tu non hai affatto liberato il tuo popolo'.
ESODO 6
L'Eterno disse a Mosè: 'Ora vedrai quello che farò a Faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare; anzi, forzato da una mano potente, li caccerà dal suo paese'.
E Dio parlò a Mosè, e gli disse:
'Io sono l'Eterno, e apparii ad Abraamo, ad Isacco e a Giacobbe, come l'Iddio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro sotto il mio nome di Eterno.
Stabilii pure con loro il mio patto, promettendo di dar loro il paese di Canaan, il paese dei loro pellegrinaggi, nel quale soggiornavano.
Ed ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù, e mi son ricordato del mio patto.
Perciò di' ai figli d'Israele: Io sono l'Eterno, vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi emanciperò dalla loro schiavitù, e vi redimerò con braccio steso e con grandi giudizi.
E vi prenderò per mio popolo, e sarò vostro Dio; e voi conoscerete che io sono l'Eterno, il vostro Dio, che vi sottrae ai duri lavori impostivi dagli Egiziani.
E v'introdurrò nel paese, che giurai di dare ad Abrahamo, a Isacco e a Giacobbe; e ve lo darò come possesso ereditario: io sono l'Eterno'.
E Mosè parlò a quel modo ai figli d'Israele; ma essi non dettero ascolto a Mosè, a motivo dell'angoscia dello spirito loro e della loro dura schiavitù.
E l'Eterno parlò a Mosè, dicendo:
'Va', parla a Faraone re d'Egitto, ond'egli lasci uscire i figli d'Israele dal suo paese'.
Ma Mosè parlò nel cospetto dell'Eterno, e disse: 'Ecco, i figli d'Israele non mi hanno dato ascolto; come dunque darebbe Faraone ascolto a me che sono incirconciso di labbra?'
E l'Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne, e comandò loro d'andare dai figli d'Israele e da Faraone re d'Egitto, per trarre i figlid'Israele dal paese d'Egitto.
Le Forze di difesa israeliane: “Colpito un centro di comando di Hamas in una scuola a Deir al Balah”
I caccia delle Forze di difesa israeliane (Idf) hanno colpito oggi un centro di comando e controllo attribuito al movimento islamista palestinese Hamas all’interno di una scuola a Deir al Balah, nel centro della Striscia di Gaza. Lo hanno dichiarato le stesse Idf in una nota, aggiungendo di aver ucciso nell’attacco membri di Hamas che si nascondevano all’interno della scuola delle Nazioni Unite utilizzata come rifugio per i palestinesi sfollati. In precedenza, il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha riferito che le forze israeliane hanno attaccato l’ospedale da campo della scuola di Khadija, situata nell’ovest di Deir al Balah, uccidendo almeno 30 persone e ferendone più di 100, molte delle quali in modo grave.
Secondo quanto affermato dalle Idf, il centro di comando colpito era utilizzato dai miliziani di Hamas per pianificare ed eseguire attacchi contro i militari israeliani operativi a Gaza e contro Israele, e per sviluppare e conservare armi. Per rendere minimi i danni ai civili, le Idf hanno dichiarato di aver compiuto “molti passi”, tra cui l’uso di “munizioni adatte al tipo di attacco” e la sorveglianza aerea. “Questo è un ulteriore esempio della sistematica violazione del diritto internazionale da parte dell’organizzazione terroristica di Hamas e dello sfruttamento delle strutture e della popolazione civile come scudi umani per i suoi attacchi contro lo Stato di Israele”, hanno affermato le Idf nel comunicato. Nelle ultime settimane, secondo quanto riportato dalle Idf, sono stati condotti più di 50 attacchi aerei contro siti di Hamas incorporati in scuole e altre strutture utilizzate come rifugi per i civili.
Sempre le Forze di difesa israeliane (Idf) nelle ultime ore hanno emesso nuovi ordini di evacuazione per i palestinesi della città di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, perché il movimento islamista Hamas starebbe operando nella zona umanitaria designata da Israele. In una nota, le Idf hanno ordinato ai palestinesi rifugiati nell’area di evacuare temporaneamente verso la zona vicina di Al Mawasi, avvertendo che saranno effettuati pesanti attacchi contro gli operatori e le infrastrutture del gruppo islamista. Attraverso sms, messaggi vocali, telefonate e i media, le Forze di difesa israeliane hanno ordinato ai civili che si trovano nella zona umanitaria designata di spostarsi altrove, sottolineando che “rimanere nell’area è diventato pericoloso”. Una fonte militare citata dal quotidiano “The Times of Israel” afferma che gli ospedali dell’area non hanno bisogno di essere evacuati e che le Idf lo hanno comunicato ai funzionari sanitari palestinesi e a quelli della comunità internazionale.
In una nota, le Idf hanno inoltre dichiarato che i caccia hanno colpito decine di obiettivi nella Striscia di Gaza nelle ultime 24 ore. Secondo le Idf, gli obiettivi includevano un sito di lancio di razzi nel quartiere Zeitoun di Gaza City, nel nord della Striscia, oltre a edifici attribuiti a gruppi terroristici e cellule di miliziani.
Nel frattempo, nel sud di Gaza, la 98ma Divisione delle Idf avrebbe fatto irruzione in diversi siti attribuiti al movimento islamista palestinese Hamas a Khan Yunis, compresi i tunnel, e avrebbe localizzato numerose armi. Infine, nella città meridionale di Rafah, la 162ma Divisione delle Idf ha fatto irruzione in altri siti attribuiti a Hamas e ha ucciso diversi presunti miliziani, si legge nella nota.
Da ritiro Idf a cessate il fuoco, Hamas conferma richieste per accordo
Hamas non indietreggia e insiste sulle ultime richieste contenute nell’ultima proposta di accordo presentata ai mediatori, in particolare sul fatto che ci debba essere un ritiro completo delle Forze di difesa israeliane (Idf) dalla Striscia di Gaza per la liberazione di tutti gli ostaggi. Lo scrive il quotidiano Al-Mayadeen, vicino a Hezbollah, citando una propria fonte, a condizione di anonimato, alla vigilia del vertice previsto per domenica a Roma tra il direttore della Cia Bill Burns, il capo del Mossad Dedi Barnea, il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdel Rahman al-Thani e il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamal.
Secondo la fonte citata dal quotidiano vicino a Hezbollah, Hamas ha chiesto che il ritiro dei militari di Israele dalla Striscia includa il corridoio di Netzarim e quello di Filadelfia. Inoltre Hamas non accetterebbe alcun nuovo accordo per il rilascio degli ostaggi che non includesse un testo chiaro sul raggiungimento di un cessate il fuoco permanente, ha aggiunto la fonte.
Al-Mayadeen scrive anche che la fonte ha affermato che Hamas non è contrario ad assumere temporaneamente l’amministrazione governativa della Striscia con un consenso nazionale, qualora non si dovesse raggiungere un accordo sulla governance di Gaza e della Cisgiordania.
Il ministero della Sanità di Gaza controllato da Hamas ha denunciato che un attacco israeliano contro una scuola, che fungeva da rifugio per sfollati nella città di Deir al Balá, ha provocato almeno 30 morti e un centinaio di feriti. L’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa riferisce che sono stati colpiti un centro medico e un luogo di preghiera all’interno della scuola Khadija, a ovest della città. Israele ha confermato solo gli attacchi nel sud dell’enclave, a Rafah e Khan Yunis, così come nel quartiere Zeitun a Gaza City.
La direzione del vicino ospedale dei Martiri di Al Aqsa ha confermato al quotidiano ‘Filastin’, affiliato ad Hamas, l’arrivo di “decine di morti e feriti” in seguito all’attacco israeliano, anche se non ha potuto fornire un numero preciso vittime. Le squadre di ambulanze e di protezione civile continuano a soccorrere i cittadini e “il numero dei morti potrebbe aumentare in qualsiasi momento”, secondo la Wafa.
Sono almeno 39.258 i palestinesi che sono stati uccisi nella Striscia di Gaza dallo scorso 7 ottobre secondo il ministero della Sanità di Gaza aggiungendo che 90.589 sono rimasti feriti nell’offensiva militare israeliana. Solo nelle ultime 24 ore sono stati uccisi 41 palestinesi e 103 sono rimasti feriti, aggiungono le autorità di Gaza accusando Israele di aver compiuto nell’ultima giornata ”quattro massacri contro le famiglie”.
Israele ha annunciato dal canto suo che “agirà con forza” nel sud di Khan Younis e ha ordinato una nuova evacuazione dei residenti. L’esercito israeliano ha dichiarato di aver annunciato l’ultima evacuazione di massa per le aree meridionali della città di Khan Younis tramite Sms, telefonate, messaggi audio registrati e trasmissioni in lingua araba.
L’ultimo ordine di evacuazione si aggiunge all’evacuazione della scorsa settimana delle aree orientali della città meridionale devastata dalla guerra, che ha costretto circa 180.000 palestinesi a fuggire entro quattro giorni e con pochi beni. Nel suo ultimo ordine, l’esercito israeliano ha affermato che “agirà con forza contro l’organizzazione terroristica” a Khan Younis e ha accusato Hamas di utilizzare “gli abitanti di Gaza come scudi umani”.
Le agenzie delle Nazioni Unite hanno aspramente criticato la politica israeliana di sfollamento di massa della popolazione civile di Gaza e gli attacchi da parte dei suoi militari su aree precedentemente dichiarate da Israele come le cosiddette “zone sicure”.
Quattro raid aerei Usa-Regno Unito hanno colpito l’aeroporto di Hodeidah nello Yemen, ha riferito la televisione Al Masirah, un canale controllato dagli Houthi. Le forze armate statunitensi e britanniche hanno effettuato attacchi congiunti contro gli Houthi dal 12 gennaio in risposta agli attacchi dei ribelli contro le navi nel Mar Rosso.
Una nave militare israeliana, impiegata dalla Shayetet 3 della Marina Militare, in coordinamento con l’Iaf, ha intercettato con successo un drone entrato nelle acque israeliane proveniente dal territorio libanese riporta il Jerusalem Post.
A Parigi tutto è pronto per l’avvio della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi. Tra minacce di attacchi terroristici e sabotaggi delle rete ferroviaria, la capitale si appresta a salutare sfilata degli atleti. Per la prima volta non avverrà all’interno di uno stadio: sulla Senna compariranno 85 imbarcazioni con a bordo le delegazioni dei diversi paesi partecipanti. Israele e Italia, per una questione alfabetica, saranno sullo stesso battello rappresentati dai rispettivi portabandiera. A tenere in alto la bandiera con la Stella di Davide saranno il nuotatore Andi Murez e il judoka Peter Paltchick; il tricolore sarà affidato al saltatore in alto Gianmarco Tamberi e alla schermitrice Arianna Errigo. Tutti e quattro puntano a una medaglia, così come l’australiana Jessica Fox, considerata la più grande canoista di slalom individuale di sempre. Per lei è la quarta Olimpiade e quattro sono le medaglie fino ad ora conquistate. Un bottino che Fox, scelta dal suo paese come portabandiera, spera di aumentare in questa edizione parigina. Per lei, figlia dell’atleta ebrea francese Myriam Jerusalmi e del britannico Richard Fox, competere in Francia rappresenta un ritorno alle origini. Nata a Marsiglia nel 1994, a quattro anni si trasferì con la famiglia in Australia, iniziando a undici anni la sua carriera da canoista, allenata dalla madre, bronzo per la Francia alle Olimpiadi di Atlanta. «Ovviamente il legame con la Francia è molto forte e sarà un momento meraviglioso, speciale e unico poter unire le mie due culture: quella francese e quella australiana», ha sottolineato Fox. Due identità a cui si unisce quella ebraica. «È bello avere il supporto della comunità», ha raccontato la campionessa al sito Kveller nel 2021. Parole pronunciate prima delle Olimpiadi di Tokyo in cui poi ha conquistato il suo primo oro. A Parigi è pronta a ripetersi e al suo fianco ci sarà, oltre alla madre allenatrice, anche la sorella Noemi.
Per molti atleti Parigi rappresenta il debutto ai Giochi. Ad esempio lo sarà per la nuotatrice americana Claire Weinstein, 17 anni. Il 28 luglio si tufferà in vasca per strappare un buon piazzamento nella 200 m stile libero. Su di lei il team Usa punta molto, soprattutto per il futuro. Ma già a Parigi potrebbe salire sul podio. Del resto alle qualificazioni nazionali è arrivata a pochi centesimi da Katie Ledecky, sette volte medaglia d’oro olimpica, che punta a riconfermarsi. Insieme le due parteciperanno alla staffetta 4×200 stile libero. L’agenzia di stampa ebraica Jta ricorda che per il suo bat mitzvah Weinstein ha sposato un progetto di volontariato per avviare i bambini al nuoto, oltre a sostenere un’associazione che aiuta i giovani nuotatori ad allenarsi.
Altra debuttante sarà Sarah Levy, titolare della selezione femminile Usa del rugby a sette. Nata a Cape Town, come per Fox lo sport fa parte dell’eredità di famiglia. Il nonno Louis Babrow è stato una star della squadra sudafricana degli anni Trenta. Di lui il canale Espn ha ricordato un episodio legato a Yom Kippur: nel 1937 la selezione sudafricana – Sprinboks – doveva recarsi in Nuova Zelanda per un match chiave contro gli All Blacks. La partita coincideva però con il giorno più sacro per l’ebraismo e Babrow, per rispettarlo, non sarebbe potuto scendere in campo. Per aggirare il divieto, trovò una sua risposta alla questione, non fondata sulla legge ebraica. Al suo allenatore disse: «Sono un ebreo sudafricano, non un ebreo neozelandese e c’è un fuso orario di otto ore tra Nuova Zelanda e Sudafrica. Quando giocheremo, Yom Kippur non sarà ancora iniziato in Sudafrica». Gli Springboks vinsero quella partita e Babrow fu uno degli uomini chiave. Ma, per sua scelta, quella fu la sua ultima apparizione da rugbista professionista. Tornato in patria divenne medico ed entrò nell’esercito britannico, servendo nella seconda guerra mondiale. Partecipò alla battaglia di Dunkerque, fu ferito a El Alamein, servì anche in Italia. Tornato in Sudafrica, divenne uno strenuo oppositore del sistema dell’apartheid. Un uomo di grande tenacia e valori, ha raccontato la nipote, fonte per lei d’ispirazione.
Fedriga, Fvg concede il patrocinio alla partita Italia-Israele
Il sindaco di Udine lo aveva negato perché 'l'evento è divisivo'
TRIESTE – "Con soddisfazione e orgoglio la Regione Friuli Venezia Giulia patrocinerà la partita Italia-Israele, come avviene regolarmente per eventi internazionali di questa rilevanza. La decisione, già annunciata, è ora concretizzata dando risposta positiva alla richiesta della Federazione italiana gioco calcio ed è stata assunta con la convinzione che, nello sport, non debba esserci spazio per alcun tipo di discriminazione". Lo ha detto il governatore del Fvg Massimiliano Fedriga confermando la disponibilità dell’amministrazione regionale. La partita, valida per la Nations League, è in programma il 14 ottobre allo stadio di Udine e il sindaco Alberto Felice De Toni (centrosinistra) aveva negato il patrocinio considerando l’evento "divisivo".
Per Francesca Albanese, Netanyahu è uguale a Hitler
E’ questa la statura etica e la profondità storico-politica degli esperti dell’Onu che vanno in giro a calunniare Israele su “apartheid” e “genocidio”?
Il post con cui Francesca Albanese approva
e sottoscrive il paragone fra Hitler e Netanyahu
La sedicente esperta di diritti umani per le Nazioni Unite Francesca Albanese ha sottoscritto un post sui social network che paragona esplicitamente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ad Adolf Hitler. Francesca Albanese, che è Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti nei territori palestinesi, ha reagito con piena approvazione a un post su X che accosta un’immagine di Hitler, celebrato da una folla acclamante con saluti nazisti, a uno scatto di Netanyahu accolto questa settimana da membri del Congresso degli Stati Uniti.
“La storia è sempre lì che guarda” era la scritta che accompagnava il post di Craig Mokhiber, un ex funzionario Onu per i diritti umani che lo scorso 28 ottobre, quattro giorni prima del suo pensionamento, si è dimesso dalla carica di direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani accusando l’organismo mondiale di non aver saputo impedire il “genocidio” dei civili palestinesi a Gaza (Nota: la controffensiva di terra israeliana nella striscia di Gaza era iniziata da un giorno). “Questo è esattamente ciò che pensavo oggi” ha scritto giovedì Francesca Albanese a commento del post di Craig Mokhiber che equipara Netanyahu a Hitler.
Giovedì sera, il Ministero degli esteri israeliano ha attaccato Francesca Albanese definendola “irrecuperabile”. “Ancora una volta diffonde odio ignobile e abusa della memoria della Shoah – afferma il post su X del Ministero di Gerusalemme – È inconcepibile che ad Albanese sia ancora consentito usare l’Onu come scudo per diffondere antisemitismo”.
E’ intervenuta anche la missione di Israele presso l’Onu a Ginevra, affermando: “Quando un ‘esperto’ delle Nazioni Unite in carica approva la distorsione della Shoah diffusa dall’ex direttore di New York vuol dire che il sistema è marcio fino al midollo. È giunto il momento di #UNseatAlbanese” (rimuovere Albanese dall’Onu).
Il nuovo ambasciatore di Israele a Ginevra, Daniel Meron, ha usato lo stesso hashtag per denunciare che “Francesca Albanese abusa del suo titolo per diffondere odio e retorica incendiaria”.
Dal canto suo, l’ambasciatrice statunitense presso il Consiglio Onu per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra, Michele Taylor, ha scritto su X che il paragone tra Netanyahu e Hitler è “riprovevole e antisemita”. “Non dovrebbe esserci spazio per una retorica così disumanizzante – ha aggiunto la rappresentante di Washington – I relatori speciali (dell’Onu) dovrebbero impegnarsi a migliorare le sfide sui diritti umani, non a infiammarle”.
Tra i vari esempi citati dalla definizione operativa di antisemitismo redatta dell’Alleanza Internazionale per la Memoria della Shoah, si legge: “Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti”.
Venerdì sera, l’ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield ha detto che Francesca Albanese “non è adatta a questa o a qualsiasi altra posizione alle Nazioni Unite”. “Non c’è posto per l’antisemitismo da parte di funzionari affiliati alle Nazioni Unite incaricati di promuovere i diritti umani – ha scritto Linda Thomas-Greenfield su X – Anche se gli Stati Uniti non hanno mai sostenuto il mandato di Francesca Albanese, è chiaro che non è adatta a questa o a qualsiasi altra posizione all’Onu”.
(Da: Times of Israel)
(israele.net, 26 luglio 2024)
La squadra olimpica israeliana all'aeroporto Ben Gurion in partenza per Parigi
Misure di sicurezza senza precedenti nella capitale francese, già blindata alla vigilia della cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici di Parigi 2024, mentre arrivano potenziali minacce di attentati durante l’atteso evento sportivo. Il livello di allerta è altissimo soprattutto per il rischio di un atto terroristico di matrice islamista, ancora di più dopo l’avviso trasmesso a Parigi da Israele.
• La lettera al ministro degli Esteri francese Il capo della diplomazia israeliana, Israel Katz, ha avvisato la Francia del rischio di attentati terroristici contro la delegazione israeliana da parte di terroristi legati all’Iran. Una lettera al ministro degli Esteri francese Stephane Sejournè, citata dal Times of Israel, paventa un possibile «complotto sostenuto dall’Iran per attaccare la delegazione israeliana alle Olimpiadi di Parigi» da parte di chi «cerca di minare il carattere celebrativo di questo gioioso evento». Gli 88 atleti israeliani presenti ai Giochi di Parigi sono soggetti a protezione 24 ore su 24 da parte dei servizi di sicurezza francesi e sono anche sorvegliati da funzionari dello Shin Bet, per le minacce di cui sono oggetto a causa della guerra a Gaza.
«Attualmente disponiamo di valutazioni riguardanti la potenziale minaccia rappresentata dai terroristi iraniani e da altre organizzazioni terroristiche che mirano a compiere attacchi contro i membri della delegazione israeliana e i turisti israeliani durante le Olimpiadi», ha scritto Katz.
Nelle scorse ore, la procura federale belga ha annunciato l’arresto di sette persone nell’ambito di una serie di perquisizioni in tutto il Paese che avevano come obiettivo le attività di un terrorista e la possibile preparazione di un attentato. «In questa fase non abbiamo dettagli sui luoghi o sugli obiettivi, ma ciò che è stato trovato suggerisce che si stava preparando un attacco», ha detto Arnaud d’Oultremont, un portavoce dell'ufficio del pubblico ministero.
Inoltre, da qualche giorno è in circolazione sui social media un video con un militante di Hamas che minaccia la Francia, ma per esperti di sicurezza sarebbe «un falso» da attribuire alla propaganda filorussa. Nel filmato un uomo, con il volto nascosto da una kefiah e con una bandiera palestinese sul petto, accusa la Francia di sostenere Israele, prima di brandire quella che sembra la testa di Marianna, figura simbolica della Repubblica francese, con un berretto frigio, decapitata e insanguinata. E' stato diffuso da siti e profili social spesso non autenticati e utilizzati per scopi di propaganda e disinformazione da parte di reti russe, anche in Africa.
• La visita alla Casa Bianca Dopo il grande discorso al Congresso, per Netanyahu ieri è stato il giorno degli incontri alla Casa Bianca, prima con il presidente Biden e poi separatamente con la vicepresidente e probabile candidata democratica Kamala Harris. Da quando nel dicembre del 2022 si è costituito il governo israeliano di centrodestra, Netanyahu non era mai stato invitato nella sede della presidenza americana, com’è consueto per i primi ministri di Israele, anche se in questo periodo si è incontrato alcune volte con Biden. Dunque la visita stessa ha un significato politico di riconoscimento e di accordo, pur nelle differenze emerse fra gli alleati in questi mesi.
• Il colloquio con Biden L’incontro di Netanyahu con Biden, probabilmente l’ultimo durante questa presidenza, ha avuto un tono soprattutto affettuoso. Il primo ministro di Israele ha ringraziato di nuovo, come aveva fatto nel discorso al Congresso, il presidente per il suo lungo impegno, esprimendo apprezzamento per una collaborazione durata decenni; Biden ha iniziato il suo intervento ricordando il suo incontro con Golda Meir, cui assisteva un giovane suo collaboratore di nome Rabin. Sono passati più di cinquant’anni… Dopo un colloquio personale, all’incontro hanno partecipato le delegazioni e Netanyahu, inclusi i rapiti e le loro famiglie. Per quel che se ne sa non ci sono state decisioni politiche nuove: Biden ha insistito sulla possibilità di un accordo di cessate il fuoco e Netanyahu ha illustrato la posizione israeliana, che accetta in linea di principio la proposta americana, con le note condizioni. Ma è evidente che le trattative con l’attuale amministrazione non avvengono al livello del presidente, semmai passano per il segretario di stato Blinken, anche lui presente alla Casa Bianca, ma che interagisce continuamente con la leadership israeliana, anche con frequenti visite in Medio Oriente.
• Incontro con Kamala Harris Più nuovo e più delicato era l’incontro con Kamala Harris, personaggio nuovo che potrebbe diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti, con cui Netanyahu non ha avuto quasi contatti in passato. Harris ha un marito ebreo, ma si appoggia ai settori più di sinistra del partito democratico e viene da uno stato, la California, che è la culla dell’atteggiamento “woke” che è tendenzialmente anti-israeliano L’incontro personale, a quanto dicono le indiscrezioni è andato bene, ma subito dopo Harris ha fatto una dichiarazione in cui precisa la posizione sulla guerra, evidentemente pensando alla campagna elettorale.
• La dichiarazione di Harris “Ho avuto un incontro onesto e costruttivo con il primo ministro Netanyahu, gli ho detto che mi assicurerò sempre che Israele possa difendersi, anche contro l’Iran e le sue milizie, come Hamas e Hezbollah. Ho sempre avuto un impegno per l’esistenza e la sicurezza dello Stato di Israele, che ha il diritto di difendersi, ma è importante il modo in cui lo fa. Hamas ha iniziato la guerra massacrando 1.200 persone, alcuni americani sono tuttora tenuti in ostaggio. Ho espresso la mia preoccupazione per la sofferenza a Gaza, l’uccisione di civili e la terribile situazione umanitaria. Ciò che è accaduto a Gaza è devastante: immagini di persone affamate in fuga verso la salvezza, non possiamo ignorarne la sofferenza e la tragedia, non starò in silenzio. Grazie al presidente, ora c’è un accordo sul tavolo. È giunto il momento che la guerra finisca in modo che Israele sia al sicuro, gli ostaggi siano liberati, la sofferenza a Gaza finisca e i palestinesi ricevano il loro diritto alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione. Ho detto a Netanyahu che era ora di concludere l’accordo di tregua”.
• Delusione israeliana La reazione israeliana a questo discorso, in particolare alla richiesta di “terminare subito la guerra” è stata molto criticata. E’ uscita una indiscrezione attribuita a “funzionari israeliani” in cui si dice, fra l’altro: “La dichiarazione di Kamala dopo l’incontro è stata molto più critica di ciò che ha detto a Netanyahu a porte chiuse”, aggiungendo che Netanyahu è turbato dal fatto che Kamala abbia identificato l’obiettivo della trattativa sugli ostaggi come la fine della guerra, mentre Israele sostiene che deve poter riprendere i combattimenti per completare lo smantellamento di Hamas. “Quando i nostri nemici vedono che c’è un divario tra Stati Uniti e Israele, non si impegnano a cercare accordi e puntano verso l’escalation regionale. Ci auguriamo che le critiche pubbliche di Harris nei confronti di Israele non diano ad Hamas l’impressione che ci sia un divario tra Stati Uniti e Israele e di conseguenza rendano difficile il raggiungimento dell’accordo”. In sostanza è chiaro che Harris intende muoversi già in campagna elettorale accentuando la distanza fra Israele e Usa e che se venisse eletta i rapporti fra i due alleati sono destinati a incontrare un periodo difficile. Oggi Netanyahu vola in Florida a incontrare l’altro candidato ed ex presidente Donald Trump.
Kamala Harris danneggia gli sforzi per un accordo sugli ostaggi
di Gabor H. Friedman
Secondo un alto funzionario israeliano, il fatto che Kamala Harris abbia sottolineato pubblicamente la “terribile crisi umanitaria” a Gaza e la necessità di “porre fine alla guerra” è stato dannoso per i negoziati sugli ostaggi arrivati ad un punto cruciale.
La vicepresidente ha sollevato la sua preoccupazione anche riguardo alla situazione umanitaria di Gaza durante il suo incontro con Netanyahu, osserva il funzionario israeliano, aggiungendo che il premier ha offerto ad Harris un resoconto “dettagliato e fattuale” della situazione sul campo a Gaza, e che ha respinto le sue affermazioni riguardo all’acuta insicurezza alimentare, alla sofferenza dei civili e all’alto numero di persone innocenti uccise.
Il funzionario fa riferimento a una direttiva impartita da Netanyahu dopo che Israele era finito sotto tiro all’inizio della guerra per le foto di uomini palestinesi legati e spogliati fino alla biancheria intima dopo essere stati arrestati dalle truppe israeliane. I sospetti erano combattenti di Hamas che Israele voleva confermare non avessero addosso esplosivi. In seguito al clamore suscitato dal filmato, Netanyahu ha ordinato all’IDF di permettere ai sospetti di rivestirsi immediatamente dopo il completamento delle ispezioni.
“Il problema è davvero il danno ai civili palestinesi?”, si chiede il funzionario israeliano.
“Cosa dovrebbe pensare Hamas quando sentirà questo?”, continua il funzionario, suggerendo che tali discorsi porteranno il gruppo terroristico ad inasprire le sue richieste. “Spero che non porti a una regressione nei colloqui, perché abbiamo fatto molti progressi”.
Nonostante la delusione dei funzionari israeliani per le dichiarazioni pubbliche di Harris, essi ipotizzano che i legami con l’amministrazione Biden non si deterioreranno man mano che il vicepresidente e presunto candidato democratico assumerà un ruolo più ampio.
“Siamo su un percorso di cooperazione e di chiusura delle lacune e perfezionamento dei dettagli… ma è per questo che la conferenza stampa di Harris è stata così problematica”, afferma il funzionario israeliano.
Poco prima in un briefing con i giornalisti con riferimento alla conferenza stampa di Kamala Harris dove la vice-presidente aveva espresso “perplessità” sulla guerra a Gaza, un alto funzionario israeliano aveva affermato: “Spero che le dichiarazioni rilasciate da Harris nella sua conferenza stampa non vengano interpretate da Hamas come un chiaro segnale di disaccordo tra Stati Uniti e Israele, rendendo così più difficile la conclusione di un accordo”.
“Quanto più i nostri nemici vedono che c’è un completo allineamento di posizioni tra Israele e gli Stati Uniti, tanto più aumentiamo le possibilità di garantire il rilascio degli ostaggi e diminuiamo le possibilità di una guerra regionale”, ha aggiunto il funzionario israeliano. “Quanto più il divario si allarga tra i nostri paesi, tanto più ci allontaniamo da un accordo e quindi aumentiamo anche la possibilità di un’escalation regionale”.
Nel discorso che ha tenuto ieri al Congresso degli Stati Uniti, interrotto ripetutamente da applausi e standing ovation nei suoi punti più salienti, Benjamin Netanyahu ha messo in luce con chiarezza e determinazione alcuni punti salienti della guerra a Gaza che si appresta a entrare nel suo decimo mese, come conseguenza dell’eccidio perpetrato da Hamas in Israele il 7 ottobre scorso.
Il premier israeliano ha evidenziato che si tratta di una guerra che pone il confronto tra la barbarie e la civiltà. Da una parte i jihadisti che il 7 ottobre hanno fatto il loro ingresso in Israele uccidendo barbaramente 1200 cittadini, uomini, donne, bambini, entrando nei kibbuzim a sud, e, casa per casa, cercando e assassinando nel modo più atroce gli abitanti, quindi rapendone 255, dall’altra, l’esercito israeliano, che, con il massimo impegno di minimizzare la morte dei civili, ha risposto all’attacco subito dichiarando guerra a Hamas. A questo proposito, Netanyahu ha voluto menzionare il colonnello John Spencer, tra i massimi esperti di guerra urbana, il quale ha evidenziato come Israele abbia adottato
“più precauzioni per prevenire danni ai civili di qualsiasi esercito nella storia e oltre quanto richiesto dal diritto internazionale”.
Questo confronto tra barbarie e civiltà, ed è questo uno degli aspetti fondamentali dell’intervento di Netanyahu, pone strutturalmente sullo stesso versante Israele e gli Stati Uniti, e dall’altro l’Iran, la principale forza destabilizzatrice del Medio Oriente, finanziatore di Hamas, di Hezbollah e degli Houti. Netanyahu ha voluto ricordare che il principale avversario dell’Iran non è Israele ma sono gli Stati Uniti.
“Il regime iraniano ha combattuto gli Stati Uniti dal momento in cui è salito al potere. Nel 1979 prese d’assalto l’ambasciata americana e tenne in ostaggio decine di americani per 444 giorni. Da allora, i terroristi per procura dell’Iran hanno preso di mira gli Stati Uniti in Medio Oriente e altrove. A Beirut hanno ucciso 241 militari americani. In Africa hanno bombardato le ambasciate americane. In Iraq hanno fornito esplosivi per mutilare e uccidere migliaia di soldati americani. Negli Stati Uniti mandarono addirittura gli squadroni della morte. Hanno inviato qui gli squadroni della morte per assassinare un ex segretario di stato e un ex consigliere per la sicurezza nazionale. E come abbiamo appreso di recente, hanno persino minacciato sfacciatamente di assassinare il presidente Trump”.
Nel combattere Hamas a Gaza, Israele non sta solo combattendo per se stesso, ma anche per gli Stati Uniti, questo è un concetto che Netanyahu ha voluto ribadire, così come ha sottolineato che gli Stati Uniti, nei decenni hanno provveduto a fornire ad Israele sostegno militare, ma non senza una contropartita rilevante da parte dello Stato ebraico.
“Per decenni, l’America ha fornito a Israele una generosa assistenza militare, e un Israele grato ha fornito all’America informazioni decisive che hanno salvato molte vite. Abbiamo sviluppato congiuntamente alcune delle armi più sofisticate sulla Terra. Scelgo attentamente le mie parole: abbiamo sviluppato congiuntamente alcune delle armi
più sofisticate sulla Terra, che aiutano a proteggere entrambi i nostri paesi”.
La saldatura di intelligence e militare tra Israele e gli Stati Uniti è una saldatura strutturale. Ciò che si congiunge sull’asse valoriale è congiunto su quello pratico. L’Iran e tutti i suoi delegati si pone sul versante opposto, e qui va fatta una considerazione; l’Amministrazione Biden, che Netanyahu ha ritualmente ringraziato per la sua vicinanza a Israele, sta proseguendo nei confronti del regime di Teheran la stessa politica di appeasement messa in atto dall’Amministrazione Obama, e conclusasi nel 2015, con la stipula dell’accordo sul nucleare iraniano. E di fatto, in controluce al discorso di ieri, appare quello precedente a questo, del marzo 2015, in cui Netanyahu metteva in guardia dal pericolo di un simile accordo, non solo per la sicurezza di Israele ma per quella degli Stati Uniti.
Nel 2021 Joe Biden tolse le sanzioni applicate da Donald Trump dal 2018 in poi, scongelando 250 miliardi di dollari bloccati e permettendo alle esportazioni iraniane di greggio di arrivare al loro picco. Nel novembre 2020, quando Biden vinse le elezioni, l’Iran arricchiva l’uranio al 3,67%, mentre adesso è arrivato al 90%.
Auspicare sulla carta la sconfitta di Hamas, mentre, al contempo si arricchiscono le casse del suo principale sponsor e di quello che Netanyahu ha indicato giustamente come un nemico accanito di entrambi i paesi, evidenzia, se ce ne fosse ancora bisogno, come questa amministrazione americana svolga una politica dei due forni che certamente non giova agli interessi di Israele, ma nemmeno ai propri. Donald Trump, che Netanyahu ha doverosamente ringraziato per quello che ha fatto per Israele e con il quale si incontrerà venerdì, è tra coloro che lo sanno meglio.
Parashat Pinchas: il vero valore di un leader e il senso del tempo
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La parashà di questa settimana contiene uno dei grandi principi della leadership. Il contesto è questo: Mosè, sapendo di non essere destinato a guidare la generazione successiva attraverso il Giordano verso la terra promessa, chiese a Dio di nominare un successore. Si ricordò di ciò che era accaduto quando si era allontanato dagli israeliti per soli 40 giorni. Erano stati presi dal panico e avevano costruito un vitello d’oro. Anche quando era presente, c’erano stati momenti di conflitto e, nella memoria recente, c’era anche la ribellione di Korach e di altri contro la sua leadership. La possibilità di una spaccatura o di uno scisma se fosse morto senza un successore designato era immensa. Così disse a Dio: “Che il Signore, il Dio che dà respiro a tutti gli esseri viventi, nomini qualcuno su questa comunità che esca davanti a loro e entri davanti a loro, uno che li guidi fuori e li porti dentro. Il popolo del Signore non sia come pecore senza pastore”. (Numeri 27:16-17) Dio scelse Giosuè e Mosè lo fece entrare. Un dettaglio nella richiesta di Mosè, tuttavia, mi ha sempre lasciato perplesso. Mosè chiese un capo che “uscisse davanti a loro e rientrasse davanti a loro, uno che li guidasse fuori e li facesse rientrare”. Questo è sicuramente dire due volte la stessa cosa. Se esci davanti al popolo, lo guidi fuori. Se entri davanti al popolo, lo fai rientrare. Perché allora dire due volte la stessa cosa?
La risposta viene dall’esperienza diretta della leadership stessa.Una delle arti della leadership – ed è un’arte, non una scienza – è il senso del tempo, il sapere cosa è possibile fare e quando.
A volte il problema è tecnico. Nel 1981 c’era la minaccia di uno sciopero dei minatori. Margaret Thatcher sapeva che il Paese aveva scorte di carbone molto limitate e che non avrebbe potuto sopravvivere a uno sciopero prolungato. Così negoziò un accordo. In pratica, si arrese. In seguito, in modo molto silenzioso, ordinò di aumentare le scorte di carbone. La volta successiva che ci fu una disputa tra i minatori e il governo (1984-1985), c’erano grandi riserve di carbone. La Thatcher si oppose ai minatori e, dopo molte settimane di sciopero, questi ammisero la sconfitta. I minatori possono aver avuto ragione entrambe le volte, o torto entrambe le volte, ma nel 1981 il Primo Ministro sapeva di non poter vincere, e nel 1984 sapeva di poterlo fare. Una sfida molto più temibile si presenta quando sono le persone, e non i fatti, a dover cambiare. Il cambiamento umano è molto lento. Mosè lo scoprì nel modo più drammatico, attraverso l’episodio delle spie. Un’intera generazione perse la possibilità di entrare nella terra promessa. Nati in schiavitù, non avevano il coraggio e l’indipendenza mentale per affrontare una lotta prolungata. Ci sarebbe voluta una nuova generazione nata in libertà.
Se non sfidi le persone, non sei un leader. Ma se le sfidi troppo o troppo in fretta, succederà un disastro. Prima ci sarà il dissenso. Le persone inizieranno a lamentarsi. Poi ci saranno le sfide alla tua leadership. Esse diventeranno sempre più clamorose, più pericolose. Alla fine ci sarà una ribellione o peggio. Il 13 settembre 1993, sul prato della Casa Bianca, Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat si strinsero la mano e firmarono una Dichiarazione di principi destinata a far progredire le parti verso una pace negoziata. Il linguaggio del corpo di Rabin, quel giorno, fece capire che aveva molte remore, ma continuò a negoziare. Nel frattempo, mese dopo mese, il disaccordo pubblico all’interno di Israele crebbe. Nell’estate del 1995, due fenomeni furono particolarmente eclatanti: il linguaggio sempre più offensivo usato tra le fazioni e diversi appelli pubblici alla disobbedienza civile, che suggerivano agli studenti in servizio nelle forze di difesa israeliane di disobbedire agli ordini dell’esercito se fossero stati chiamati a evacuare gli insediamenti come parte di un accordo di pace. Gli appelli alla disobbedienza civile su qualsiasi scala significativa sono un segno di una rottura della fiducia nel processo politico e di una profonda spaccatura tra il governo e una parte della società. Anche il linguaggio violento nell’arena pubblica è pericoloso. Testimonia una perdita di fiducia nella ragione, nella persuasione e nel dibattito civile. Il 29 settembre 1995 ho pubblicato un articolo a sostegno di Rabin e del processo di pace. In privato, tuttavia, gli scrissi e lo esortai a dedicare più tempo a vincere la discussione all’interno di Israele. Non bisognava essere un profeta per vedere il pericolo che correva nei confronti dei suoi concittadini ebrei.
Passarono le settimane e non ebbi sue notizie. Poi, il 4 novembre 1995, a Motzei Shabbat, sentimmo la notizia che era stato assassinato. Andai al funerale a Gerusalemme. La mattina dopo, martedì 7 novembre, mi recai all’ambasciata israeliana a Londra per porgere le mie condoglianze all’ambasciatore. Mi consegnò una lettera, dicendomi: “È appena arrivata questa per lei”.
L’abbiamo aperta e l’abbiamo letta insieme in silenzio. Era di Yitzhak Rabin, una delle ultime lettere che ha scritto. Era la sua risposta alla mia lettera. Era lunga tre pagine, profondamente commovente, un’eloquente riaffermazione del suo impegno per la pace. Ancora oggi è conservata, incorniciata, sulle pareti del mio ufficio. Ma era troppo tardi. Questa, nei momenti critici, è la più difficile delle sfide della leadership. Quando i tempi sono normali, il cambiamento può avvenire lentamente. Ma ci sono situazioni in cui la leadership richiede che le persone cambino, e questo è qualcosa a cui resistono, soprattutto quando vivono il cambiamento come una forma di perdita. I grandi leader vedono la necessità di cambiare, ma non tutti lo fanno. Le persone si aggrappano al passato. Si sentono al sicuro nel modo in cui le cose erano. Vedono la nuova politica come una forma di tradimento. Non è un caso che alcuni dei più grandi leader – Lincoln, Gandhi, John F. e Robert Kennedy, Martin Luther King, Sadat e lo stesso Rabin – siano stati assassinati. Un leader che non riesce a lavorare per il cambiamento non è un leader.Ma un leader che tenta un cambiamento eccessivo in un tempo troppo breve fallirà. Questo, in definitiva, è il motivo per cui né Mosè né tutta la sua generazione (con una manciata di eccezioni) erano destinati ad entrare nella terra. È un problema di tempi e ritmi, e non c’è modo di sapere in anticipo cosa sia troppo veloce e cosa troppo lento, ma questa è la sfida che un leader deve sforzarsi di affrontare. Questo è ciò che Mosè intendeva quando chiese a Dio di nominare un leader “che li preceda e avanzi, che li conduca fuori e li faccia rientrare”. Si trattava di due richieste distinte. La prima – “uscire davanti a loro ed entrare davanti a loro” – riguardava qualcuno che li guidasse dando l’esempio personale senza aver paura di affrontare nuove sfide. Questa è la parte più facile.
La seconda richiesta – quella di qualcuno che “li conduca fuori e li riporti dentro” – è più difficile. Un leader può essere davanti e al contempo vedere, quando si gira, che nessuno lo segue. È uscito “davanti” alla gente, ma non l’ha “condotta fuori”. Ha guidato, ma la gente non l’ha seguito. Il suo coraggio non è in dubbio. E nemmeno la sua visione. Ciò che è sbagliato in questo caso è semplicemente il suo senso del tempo. Il suo popolo non è ancora pronto. Sembra che alla fine della sua vita Mosè si sia reso conto di essere stato impaziente, aspettandosi che le persone cambiassero più velocemente di quanto fossero in grado di fare. Questa impazienza è evidente in diversi punti del libro dei Numeri, soprattutto quando perse le staffe a Merivà, si arrabbiò con il popolo e colpì la roccia, perdendo così la possibilità di guidare il popolo attraverso il Giordano e nella terra promessa.
Guidando il popolo, troppo spesso ha trovato persone non disposte a seguirlo. Rendendosene conto, è come se avesse esortato il suo successore a non commettere lo stesso errore. La leadership è una battaglia costante tra i cambiamenti necessari e quelli che le persone sono disposti a fare. È per questo che i leader più visionari sembrano, nel corso della loro vita, di aver fallito. Così è stato. E così sarà sempre. Ma in realtà non hanno fallito. Il loro successo arriva quando, come nel caso di Mosè e Giosuè, altri completeranno ciò che hanno iniziato. Di Rabbi Jonathan Sacks 5771, 5484
(Bet Magazine Mosaico, 26 luglio 2024) ____________________
Netanyahu negli Usa parla al Congresso: “Batteremo l’Iran anche per gli alleati”
Il premier israeliano a Washington pronuncia discorso bipartisan. Il ricordo del 7 ottobre, con lui Noa Agamani e i soldati feriti. Intanto negli Emirati avanza un piano per Gaza che coinvolge l’Italia.
NEW YORK — «Questo non è uno scontro tra le civiltà, ma tra la civiltà e la barbarie». E la barbarie è manovrata dall’Iran, nemico comune di Israele, Usa e Occidente, contro cui bisognerebbe costruire una “Alleanza di Abramo” per sconfiggere il terrorismo e ridisegnare il Medio Oriente. È il cuore del messaggio lanciato ieri da Netanyahu, nel discorso tenuto al Congresso.
Il premier dello Stato ebraico era stato accolto da scetticismo e proteste, anche per le spaccature della campagna presidenziale, al punto che la candidata democratica Harris e il vice repubblicano Vance hanno disertato l’appuntamento. Però ha scelto un tono bipartisan, ringraziando Biden e Trump, perché l’obiettivo era rinsaldare l’alleanza con gli Usa, chiunque vinca il 5 novembre.
Netanyahu ha iniziato raccontando gli orrori del 7 ottobre, ricordando gli ostaggi come Noa Argamani presente in aula, ed esaltando l’eroismo dei soldati intervenuti a salvare i civili. Poi però si è rivolto contro i manifestanti che fuori dal Congresso contestavano il suo intervento, perché «si sono schierati col male».
Hamas, come Hezbollah o gli Houti, è solo il braccio di questo male, che ha la mente altrove: «L’Iran finanzia le proteste, perché vuole provocare il caos negli Usa». Perciò gli studenti che hanno paralizzato le università americane, e i docenti che li hanno difesi, «sono gli utili idioti» di Teheran. Discorso simile per la Corte dell’Aia, che vorrebbe arrestarlo per crimini contro l’umanità, mentre lui sostiene che «il nostro esercito ha fatto più di quanto richiesto dalla legge per proteggere i civili», usati invece da Hamas come scudi.
Il premier ha inquadrato questi fenomeni nell’antisemitismo risorgente, ma ha puntato il dito soprattutto contro l’Iran, che è il regista degli attacchi, ma dopo Israele mira all’America e all’intero Occidente, come aveva anticipato l’ayatollah Khomeini minacciando l’esportazione della rivoluzione islamica. Perciò ha spiegato che «la nostra lotta è la vostra lotta», e ha usato le parole di Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale per chiedere aiuto: «Dateci gli strumenti per finire il lavoro. Vinceremo, e la nostra vittoria sarà la vostra».
Per il futuro ha detto che «non vogliamo occupare Gaza, ma demilitarizzarla, consegnandola ad un’autorità civile palestinese che non abbia l’obiettivo di uccidere gli ebrei». Da qui si potrebbe partire per ridisegnare l’intero Medio Oriente, partendo dalla “Alleanza di Abramo” che isoli l’Iran.
Sullo sfondo del discorso, e degli incontri di oggi con Biden e Harris, e domani Trump, si muovono passi per cercare una soluzione di lungo termine. Il sito Axios ha rivelato che giovedì gli Emirati Arabi Uniti hanno ospitato ad Abu Dhabi un incontro a cui hanno partecipato il ministro degli Esteri Abdullah Bin Zayed, l’inviato del presidente Biden per il Medio Oriente Brett McGurk e del dipartimento di Stato Tom Sullivan, e il ministro israeliano per gli Affari Strategici Ron Dermer, ex ambasciatore negli Usa e stretto consigliere del premier.
Sul Washington PostDavid Ignatius ha spiegato che lo scopo era discutere un piano per il dopoguerra, partendo dal meccanismo già usato con gli Accordi di Abramo, che potrebbe coinvolgere l’Italia. Il primo passo sarebbe la formazione di un governo unitario gestito dall’Autorità Palestinese, affidato all’ex premierSalam Fayyad. Ciò consentirebbe di avviare la “fase due” del piano di pace illustrato da Biden e passare alla riorganizzazione della regione. L’autorità guidata da Fayyad avrebbe il potere di invitare partner internazionali, col mandato di un anno per stabilizzare Gaza. Si tratterebbe di fornire intelligence, aiuti, ma anche sicurezza.
I Paesi considerati sono Emirati, Egitto, Marocco e Qatar tra gli arabi, mentre fra gli altri sono menzionati Italia, Ruanda, Brasile, Indonesia e un paese dell’Asia centrale. L’operazione verrebbe approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu, per evitare il veto della Russia nel Consiglio di Sicurezza. Seguendo la proposta avanzata dal ministro della Difesa israeliano Gallant, la zona di sicurezza garantita dalla presenza internazionale si espanderebbe progressivamente dal Nord della Striscia verso Sud. L’accordo non c’è ancora, ma il fatto che Dermer abbia aperto la porta lascia sperare che anche Netanyahu non sia contrario.
(la Repubblica, 25 luglio 2024)
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Harris e Vance disertano l’aula durante il discorso di Netanyahu. Scontri alle proteste pro Palestina
La democratica e il vice di Trump si contendono il voto musulmano.
di Anna Lombardi
NEW YORK — Decine di banchi vuoti, almeno un cartello con scritto “criminale di guerra” — stretto fra le mani della deputata del Michigan di origini palestinesi Rashida Tlaib, che per questo ha litigato con la collega della Florida Anna Paulina Luna — applausi bipartisan con tanto di standing ovation (con legislatori rimasti però ostinatamente seduti), e consensi meno caldi dal lato dell’aula dove sedevano i dem.
È un Congresso diviso quello che ieri ha accolto il primo discorso davanti alle camere riunite dal 2015 che il premier Benjamin Netanyahu ha pronunciato in una Washington blindata dove già da martedì si susseguono manifestazioni, scontri ed arresti. Fragorose proteste di migliaia di manifestanti filo palestinesi che hanno assediato il premier israeliano anche davanti al suo hotel, l’iconico Watergate, contro i quali la polizia ha usato anche spray al peperoncino.
Ci sono state defezioni importanti soprattutto fra le file dei dem, ma anche qualche repubblicano si è defilato: come il deputato Thomas Massie del Kentucky, un trumpiano che però ha spesso posizioni di politica estera diverse da quelle del partito. Circa cinquanta erano già state annunciate, altre sono avvenute mentre l’oratore, che ha parlato per circa un’ora, era sul podio. Grande e criticata assente la vicepresidente Kamala Harris che, per ruolo, avrebbe potuto moderare la seduta. «Impegni elettorali presi in precedenza» si è giustificata, ma qualcuno insinua che in un momento politicamente delicato la neocandidata alla Casa Bianca abbia preferito non farsi ritrarre col primo ministro israeliano che incontrerà comunque oggi in privato.
«Una decisione irragionevole e inconcepibile» l’ha attaccata lo speaker della Camera, il repubblicano Mike Johnson, dimenticando di bacchettare l’altro grande assente in ordine d’importanza, il candidato repubblicano alla vicepresidenza J.D. Vance. Anche lui ufficialmente altrove per motivi elettorali ma c’è chi sussurra che la vera ragione dell’assenza sia quella di non lasciare a Harris le intere simpatie dell’elettorato arabo. «Sono solidamente schierato con il popolo di Israele», si è limitato a far sapere.
Tra i numerosi big dell’asinello a non partecipare in tanti avevano definito la loro scelta una «forma di protesta contro i sanguinosi bombardamenti di Gaza». Tra gli assenti anche l’ex speaker della Camera Nancy Pelosi, che invece ha preferito incontrare le famiglie israeliane vittime delle azioni di Hamas, la pasionariaAlexandria Ocasio-Cortez, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Insieme a figure più moderate come il deputato californiano di origini indiane Ami Bera e il potente leader afroamericano della Carolina del Sud James Clyburn. Parole molto dure erano state pronunciate dal senatore “socialista” Bernie Sanders: «Sono d’accordo con la Corte penale internazionale e con la commissione indipendente dell’Onu sul fatto che Netanyahu e Yahya Sinwar siano criminali di guerra». I leader dem di Camera e Senato erano lì al suo ingresso, lo hanno salutato solo con un cenno del capo e se ne sono andati poco dopo; mancavano anche tutti i membri democratici della commissione Esteri del Senato: «Vuol solo rafforzare il suo sostegno in patria e noi non vogliamo essere parte di propaganda politica», hanno detto.
Non uno schieramento compatto, comunque: il senatore moderato della Virginia Joe Manchin e quello della Pennsylvania John Fetterman sono stati gli unici non repubblicani a stringere la mano a Netanyahu dopo il discorso.
(la Repubblica, 25 luglio 2024)
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Il discorso di Netanyahu al Congresso Usa
di Ugo Volli
• UNA PROVA DIFFICILE Con un grande discorso al Congresso americano riunito per ascoltarlo, Benjamin Netanyahu ha superato con successo una delle prove più difficili della sua lunga carriera politica. Era la quarta volta che Netanyahu parlava al Congresso, un record che nessun altro leader straniero ha uguagliato nella storia. Ma le circostanze erano particolarmente difficili. Metà dei democratici, a partire dalla vicepresidente Kamala Harris che per ufficio presiede il Senato, avevano annunciato la loro assenza, con pretesti vari o esplicitamente per boicottarlo. L’America è profondamente divisa in due fronti contrapposti su tutto e purtroppo anche sulla valutazione della guerra di autodifesa di Israele. L’annuncio di qualche giorno fa della rinuncia di Joe Biden a correre per le elezioni presidenziali ha completamente cambiato il quadro politico, vincolando ogni tema a una campagna elettorale estremamente polarizzata e polemica. Il compito di Netanyahu era di cercare di mostrare ai parlamentari e al popolo americano che il sostegno a Israele è essenziale e dev’essere condiviso da tutti. Ci è riuscito con un discorso di quasi un’ora, interrotto da grandi applausi in piedi quasi ad ogni frase.
• IL 7 OTTOBRE Il punto di partenza dell’intervento è che la guerra fra Israele e Hamas “non è uno scontro di civiltà” (secondo la nota analisi di Samuel P. Huntington che un paio di decenni fa ha identificato i conflitti culturali come matrice della politica internazionale contemporanea), ma “uno scontro fra civiltà e barbarie”. Netanyahu ha paragonato il 7 ottobre all’attacco di Pearl Harbour e all’attentato alle Twin Towers (solo “20 volte più grande in rapporto alla popolazione”), ha riassunto i terribili eventi di quel giorno, ha presentato ai deputati Noa Argamani, la ragazza rapita e liberata dopo una lunga prigionia dall’intervento dell’esercito israeliano, e anche alcuni soldati che hanno compiuto in quel giorno atti di eroismo, ha polemizzato molto duramente coi manifestanti anti-israeliani (che “non conoscono la differenza fra bene e male e si schierano dalla parte degli assassini”). Ma ha evitato di polemizzare direttamente coi democratici che li sostengono o “comprendono il loro impulso morale”, come ha detto Kamala Harris di recente.
• RINGRAZIAMENTI Anzi il Primo Ministro israeliano non ha lesinato ringraziamenti al presidente Biden, ricordando la sua visita in Israele dieci giorni dopo il 7 ottobre, il suo autodefinirsi “sionista”, l’appoggio americano da lui deciso in occasione degli attacchi. Lo spirito “bipartisan” è stato rispettato quando poco dopo nel discorso Netanyahu ha citato Trump, non solo per esprimergli solidarietà per l’attentato di pochi giorni fa, ma anche per ringraziarlo di quel che ha fatto durante la sua presidenza: gli accordi di Abramo, lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan.
• L’IRAN Il nucleo del ragionamento politico ha occupato la seconda parte del discorso. La guerra non è solo contro Hamas, ha detto Netanyahu, e neppure contro Hezbollah e gli Houti. Dietro a questi e agli altri gruppi terroristi c’è l’Iran. E l’obiettivo vero dell’Iran non è Israele ma gli Stati Uniti. L’Iran ha capito dalla “rivoluzione islamica” di Khomeini che deve innanzitutto distruggere Israele per unificare sotto il suo dominio tutto il Medio Oriente e poter usare il suo potere per combattere il sistema occidentale guidato dagli Usa e conquistare il mondo all’Islam. Dunque è l’Iran che va sconfitto. Per questo “quando noi combattiamo questa guerra, lo facciamo per noi, ma anche per voi, la nostra guerra è anche la vostra guerra, la nostra vittoria sarà anche la vostra vittoria”. Noi combattiamo, i nostri soldati sono eroici. Ma abbiamo bisogno dell’appoggio dell’America: devo ripetere quel che ottant’anni fa ha detto Churchill: dateci gli strumenti necessari, cioè le armi e noi ci difenderemo e vinceremo anche per voi.
• VISIONI PER IL DOPOGUERRA Dopo aver difeso l’azione dell’esercito israeliano dalle accuse false e infamanti di genocidio a Gaza (perché “è Hamas che usa i civili come scudi umani, che spara da ospedali, scuole, moschee”, mentre Israele si sforza in tutti i modi di evitare i danni ai civili), Netanyahu ha esposto per la prima volta in modo chiaro la sua prospettiva per il dopoguerra. Israele non vuole governare Gaza, ma deve avervi libertà di movimento militare per impedire il ritorno del terrorismo; vi sarà un’amministrazione civile composta da palestinesi non coinvolti con il terrorismo. Sul piano geopolitico più vasto del Medio Oriente, il primo ministro israeliano ha proposto la costituzione di un’ “alleanza di Abramo”, composta da tutti i paesi amici di Israele (o che facciano la pace con esso) e dell’America: come dopo la seconda guerra mondiale l’America costituì la Nato per sconfiggere l’imperialismo sovietico, così bisogna fare ora in Medio Oriente.
• “VI PROMETTO CHE VINCEREMO” Tutta il discorso è stato punteggiato dall’impegno fondamentale di Netanyahu: “vi prometto che vinceremo, sconfiggeremo Hamas e libereremo i rapiti, non avrò riposo fino a che non li avrò riportati a casa. La conclusione del discorso è stato il riconoscimento degli Stati Uniti come garanzia della libertà in tutto il mondo, l’appello a “democratici e repubblicani” a continuare ad appoggiare Israele, l’espressione della gratitudine dello stato ebraico al suo grande alleato, La promessa di fedeltà, la convinzione che “quando stiamo assieme, vinciamo contro tutti i nemici della civiltà”. Un grande discorso, il migliore che si potesse fare in queste circostanze, con l’obiettivo di toccare il cuore dell’America più vera e profonda. Oggi Netanyahu vedrà Biden e domani Trump.
Gli Stati Uniti si oppongono alla designazione dell'UNRWA come "organizzazione terroristica”
Miller ha sottolineato la natura controproducente di queste azioni, affermando che non facilitano in alcun modo la consegna di aiuti umanitari ai civili di Gaza.
Una proposta di legge israeliana per etichettare l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) come "organizzazione terroristica" ha suscitato una forte reazione da parte degli Stati Uniti. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, ha respinto con fermezza questa descrizione mercoledì, invitando il governo israeliano e la Knesset ad abbandonare la proposta di legge.
Miller ha sottolineato la natura controproducente di queste azioni, affermando che non facilitano in alcun modo la consegna di aiuti umanitari ai civili di Gaza. Ha ribadito il continuo sostegno di Washington al lavoro dell'UNRWA, nonostante le attuali tensioni.
La proposta di legge, che ha superato una prima lettura nel parlamento israeliano lunedì, chiede di interrompere tutti i legami con l'agenzia delle Nazioni Unite. Il testo dovrà ora essere esaminato più dettagliatamente in commissione. Israele accusa l'UNRWA, che impiega più di 30.000 persone al servizio di 5,9 milioni di palestinesi nella regione, di avere "più di 400 terroristi" tra il suo personale a Gaza. Queste accuse hanno portato gli Stati Uniti a sospendere i finanziamenti all'agenzia, in seguito alle accuse di un possibile coinvolgimento di alcuni dipendenti dell'UNRWA negli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Da allora, tuttavia, diversi Paesi hanno ripreso a sostenere finanziariamente l'agenzia, tra cui Regno Unito, Germania, Unione Europea, Svezia, Giappone e Francia.
(i24, 25 luglio 2024)
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Giovane soldato della mia comunità in condizioni critiche
Adesso hanno colpito uno di noi. Preghiamo per la guarigione del nostro amico Yoni.
I nostri giovani combattenti non sono mai al sicuro a Gaza
GERUSALEMME - Di Shabbat, come fanno gli ebrei ortodossi, passo molto tempo in sinagoga. Ho il mio posto fisso dove mi siedo al mattino durante le preghiere e di pomeriggio nel mio studio della Torah.
Qualche settimana fa, durante la preghiera del mattino, improvvisamente una famiglia israeliana si è venuta a sedere nei posti dietro di me, cosa che non mi è affatto piaciuta. La mia congregazione è composta per lo più da "chutznikim", persone che come me sono immigrate in Israele da adulte. Quindi, rispetto ai "sabra”, gli israeliani autentici, siamo più civilizzati. Durante la preghiera non si parla, si resta al proprio posto e si cerca di concentrarsi nel colloquio con Dio.
• Una caotica famiglia sacerdotale Questa famiglia invece è composta da alcuni ragazzi che evidentemente hanno difficoltà a stare seduti in silenzio, il che mi disturba durante la mia santa meditazione. Devo dire però che sono molto simpatici, sempre di buon umore. E sono anche Kohanim. In altre parole, sono discendenti del biblico Aron, il primo sacerdote (Kohen) del popolo di Israele.
In quanto Kohanim, questa famiglia ha il compito di recitare la benedizione sacerdotale sulla congregazione durante la preghiera del mattino, e uno di loro è invitato per primo a pronunciare la benedizione sulla Torah prima della sua lettura. In passato, nella nostra congregazione purtroppo non avevamo sempre dei Kohanim durante le preghiere dello Shabbat, adesso invece ne abbiamo regolarmente tre, il che ci fa molto piacere.
Qualche settimana fa ho chiesto al padre come mai il figlio maggiore non era venuto alla preghiera del mattino e lui mi ha risposto che in quel momento era in missione a Rafah, a Gaza. "Kol HaKavod!" (Complimenti!) ho detto: “Possa egli essere sicuro e avere successo!".
Lo Shabbat prima avevo visto il giovane durante le preghiere di mezzogiorno, quando era stato il primo a essere chiamato a recitare la benedizione sulla Torah. Indossava pantaloncini corti, infradito, sorrideva e non sembrava per niente un terrificante militare. Ma quanti diciannovenni con il loro viso lattiginoso hanno l'aspetto di soldati incalliti?
• La terribile notizia Quella domenica mattina, come prima cosa mia moglie mi ha chiesto: "Conosci quel ragazzo della nostra congregazione che è stato gravemente ferito a Rafah?".
"Come, scusa?" Ho pensato di non aver sentito bene e ho subito guardato i messaggi nel gruppo WhatsApp della nostra comunità. Sì, era lì. Il soldato senza nome e gravemente ferito di cui avevo letto la notizia la sera prima era il nostro Kohen! L'avevo visto il giorno prima e in quel momento si trovava in condizioni critiche in ospedale. Probabilmente, al termine dello Shabbat era tornato nella sua unità nella Striscia di Gaza .
Sembra che l'edificio di Rafah dove si trovava sia stato colpito da un missile anticarro.
La nostra congregazione ha immediatamente organizzato incontri di preghiera e persino un autobus per portarci al Muro Occidentale a pregare per il nostro giovane. Da allora recitiamo salmi, preghiamo regolarmente per la sua guarigione e cerchiamo di sostenere la famiglia come possiamo.
Sono passati alcuni giorni e non ho ancora notizie sulle condizioni del nostro santo militare. E devo ammettere che ho paura di chiedere. Finché non sento niente, vuol dire che è ancora vivo, e così deve rimanere.
Se volete unirvi anche voi alle nostre preghiere per Yoni, pregate per una completa guarigione di Yehonatan Aharon ben (figlio di) Yisraela.
(Israel Heute, 25 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
«Abbiamo fornito armi a Israele e non abbiamo deciso di smettere di farlo», ha dichiarato il cancelliere tedesco Olaf Scholz nel corso del consueto incontro estivo a Berlino con la stampa. Al cancelliere è stato chiesto se il recente parere della Corte internazionale di Giustizia – secondo cui Israele deve «porre fine alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati» – possa incidere sul sostegno militare di Berlino a Gerusalemme. Scholz ha replicato che il suo esecutivo non ha preso una decisione in merito e per il momento nulla è cambiato. «Ma naturalmente decidiamo caso per caso», ha aggiunto.
Secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma tra il 2019 e il 2023 Israele ha importato il 69% delle armi dagli Stati Uniti e il 30% dalla Germania.
Intanto il governo Scholz prosegue nella stretta contro le organizzazioni islamiche ritenute pericolose. Dopo aver messo al bando due associazioni legate a Hamas a novembre, ora ha ordinato la chiusura del Centro islamico di Amburgo, accusato di fare propaganda per il regime iraniano e di sostenere il gruppo terroristico libanese Hezbollah. La polizia ha perquisito e chiuso la Moschea Blu di Amburgo, una delle più grandi e antiche del paese e gestita dal Centro islamico.
Secondo i servizi di intelligence tedeschi, ha spiegato la ministra dell’Interno Nancy Faeser, l’organizzazione «diffonde un antisemitismo aggressivo» e «propaga in modo aggressivo e militante l’ideologia della cosiddetta “rivoluzione islamica”» in Germania.
Anche altre tre moschee, a Berlino, Francoforte e Monaco, sono state perquisite e chiuse. «È molto importante per me fare chiarezza: non stiamo agendo contro una religione. Facciamo una netta distinzione tra gli islamisti, contro i quali intraprendiamo azioni dure, e i molti musulmani che appartengono al nostro paese e vivono liberamente la loro fede», ha affermato Faeser.
La Moschea Blu è sotto osservazione dal 1993 e nel 2017 è stata formalmente indicata dalle autorità di sicurezza come «strumento» del regime iraniano. Secondo l’intelligence di Berlino, negli ultimi anni il Centro islamico che la gestisce ha «lavorato attentamente per creare una falsa immagine di tolleranza», mentre in segreto promuoveva «la rivoluzione islamica».
Per Ulricke Becker, direttrice di ricerca del Mideast Freedom Forum di Berlino, il bando del Centro islamico sarebbe dovuto avvenire molto prima. «Non è un centro religioso, ma il più importante avamposto della Repubblica islamica dell’Iran in Europa. Serviva come centro di diffusione dell’ideologia rivoluzionaria ed era direttamente subordinato alla dittatura islamista in Iran», spiega Becker sulla Jüdische Allgemeine. Ora, aggiunge l’esperta, «tutti gli agenti iraniani devono essere espulsi e le strutture del regime in Germania devono essere distrutte». d.r.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha trovato il tempo, durante la sua fitta agenda a Washington questa settimana, di incontrare i leader delle due principali comunità di fede che rappresentano il sostegno americano a Israele: la leadership comunitaria ebraica e i leader cristiani evangelici.
In due eventi separati, mercoledì sera, il Primo Ministro ha ringraziato i leader delle comunità per il loro forte sostegno a Israele.
Il Primo Ministro ha sentito che stanno pregando per la restituzione degli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza, per la protezione dei soldati israeliani e per la sicurezza dello Stato di Israele.
Netanyahu ha anche ringraziato gli evangelici per le loro energiche attività tra i giovani delle loro comunità, incoraggiandoli a continuare a sostenere Israele.
Il Primo Ministro ha affermato di essere molto consapevole del loro profondo impegno nei confronti di Israele e della forza del loro sostegno alla verità e ai valori condivisi.
All'evento cristiano hanno partecipato circa 15-20 leader evangelici pro-Israele. Tra i partecipanti c'erano il pastore di Christians United for Israel (CUFI) John Hagee, il presidente del Family Research CouncilTony Perkins, il direttore esecutivo del Philos ProjectLuke Moon, la televangelista Paula White, il presidente di Friends of ZionMike Evans e Jordanna McMillen, direttrice della Israel Allies Caucus Foundation.
Era presente anche un gruppo di pastori evangelici latini, tra cui Carlos Ortiz.
Sebbene i due gruppi condividano la fede in Dio e siano entrambi incrollabili nel loro amore e preoccupazione per lo Stato ebraico e nella sua difesa, vi sono alcune importanti differenze tra loro. Mentre per quanto riguarda la scelta politica il gruppo ebraico è diviso, i leader cristiani pro-Israele votano quasi unanimemente i Repubblicani.
E mentre la comunità ebraica è al primo posto per lo Stato ebraico, sia in termini di parentela che di responsabilità, la comunità cristiana che sostiene Israele, più numerosa,fa molto di più per assicurare il sostegno politico dell'America a Israele.
"Il nostro messaggio oggi al primo ministro e al popolo ebraico di Israele e degli Stati Uniti è che i cristiani d'America sono fermamente al fianco di Israele", ha detto il pastore Hagee.
"Siamo sconvolti dal modo in cui il nostro governo ha trattato il popolo ebraico e vogliamo che il popolo israeliano sappia che lo sosteniamo fermamente. Riteniamo che abbiano tutto il diritto di essere completamente vittoriosi in questo conflitto militare e siamo qui per dirglielo", ha aggiunto.
Alla domanda se Netanyahu abbia fatto un buon lavoro nel costruire forti legami tra i cristiani pro-Israele, Hagee ha risposto: "Penso che il primo ministro abbia fatto un buon lavoro, punto e basta. Penso che [lo abbia fatto] in un'atmosfera di ostilità in molti ambienti che non merita. Ha fatto un ottimo lavoro nel gestire gli affari dello Stato di Israele. Ma soprattutto con la comunità cristiana. Siamo amici dal 1985 e abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto, e lui ha sempre teso la mano in amicizia".
Il pastore Tony Perkins ha spiegato: "Penso che Israele e il popolo ebraico non abbiano un sostenitore, un alleato e un amico più grande dei cristiani evangelici e credenti nella Bibbia in questo Paese".
"Condividiamo il libro e i valori. E come credenti, crediamo in ciò che dice Genesi 12: 'Coloro che benedicono Israele saranno benedetti'. E così, mentre molti nel mondo si stanno allontanando, noi non lo faremo", ha proseguito.
"Il nostro messaggio al Primo Ministro è: preghiamo per te e crediamo", ha detto. "Io prego per il Primo Ministro ogni mattina, per nome, e prego che, come Dio ha fatto in passato, dove ha manifestato la sua potenza a favore di Israele, lo faccia di nuovo", ha aggiunto.
Perkins ha spiegato perché la maggior parte dei cristiani pro-Israele vota repubblicano e sostiene l'ex presidente Donald Trump alle prossime elezioni.
"Come evangelici, votiamo per i candidati che sono più vicini ai principi e alle verità bibliche secondo cui viviamo. E abbiamo visto una netta divisione tra i due partiti in questo Paese. E l'ultima amministrazione del presidente Trump è stata quella più chiaramente in linea", ha detto.
Il pastore Mario Bramnick ha detto che il suo messaggio al primo ministro è semplice: "Mantenete la linea". Ha aggiunto che la comunità è "così contenta che egli sia forte come leader della nazione di Israele e protegga la sua sovranità e sicurezza".
"A nome di milioni di cristiani, preghiamo per lui. Siamo al suo fianco. Siamo onorati che sia qui e siamo molto orgogliosi che si rivolga al nostro Congresso".
Per Bramnick, le strette relazioni tra le comunità religiose ebraiche e cristiane sono estremamente importanti.
"Lavoriamo molto con la comunità ebraica. Organizziamo molti eventi cristiano-ebraici. Penso che la comunità cristiana, che è a favore di Israele, abbia mostrato per la maggior parte la sua solidarietà e il suo sostegno a Israele. E penso che sia molto importante stare uniti a sostegno del Primo Ministro e del diritto di Israele a difendersi", ha dichiarato.
Bramnick ha sostenuto che la chiave per proteggere la sicurezza di Israele è non cedere alle pressioni dell'attuale governo per la creazione di uno Stato palestinese.
"Una soluzione a due Stati sarebbe molto dannosa e servirebbe solo a premiare il terrorismo che abbiamo visto il 7 ottobre".
Evans, che dirige il Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme ed è un amico di lunga data di Netanyahu, ha spiegato che "senza il sostegno dei cristiani negli Stati Uniti, ci sarebbe poco sostegno per Israele".
Gli evangelici, ha detto, "sono il fondamento del sostegno all'intero Stato di Israele. Sì, la comunità ebraica è forte in una certa misura, ma gli evangelici sono impegnati al 100% in Israele. E questo perché per noi è un fatto biblico”.
“Tra gli evangelici di tutto il mondo Netanyahu ha più sostegno di Donald Trump. Non c'è nessuno che sia più rispettato dagli evangelici di Benjamin Netanyahu, e questo è in parte dovuto al fatto che ci capisce e si è impegnato a intrattenere strette relazioni con noi fin dall'inizio".
Oltre al discorso al Congresso di mercoledì, Netanyahu ha programmato incontri con il presidente Joe Biden e la vicepresidente Kamala Harris a Washington e con Donald Trump in Florida.
(Israel Heute, 24 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il parere consultivo espresso dalla Corte Internazionale di Giustizia, venerdì 19 luglio scorso, è solo l’ultimo – per ora – capitolo dell’incessante attacco portato avanti dall’ONU ai danni di Israele. Ancora una volta, quello che sorprende, non è tanto il parere della Corte, ma, la reazione di sdegno e sorpresa espressa dal governo di Israele che, ad ogni chiodo messo, da un organo dell’ONU, su quella che dovrebbe essere la bara dello Stato ebraico, esprime stupore e rabbia ma nel concreto non fa nulla per proteggersi. Si ha la netta sensazione che i politici israeliani sottostimino la portata del lawfare intrapreso dai paesi islamici e dai loro alleati all’ONU. Quando un giorno dovranno affrontare le conseguenze di embarghi, sanzioni economiche e boicottaggi decisi dall’ONU, la situazione sarà così grave che rimediare sarà impossibile.
Quello che stupisce più di ogni altra cosa è che la classe politica israeliana sembra del tutto ignara che i paesi islamici, non potendo distruggere Israele militarmente, lo stanno facendo un poco alla volta per mezzo dell’ONU e in maniera apparentemente “democratica e legittima”.
Qui ci occuperemo di uno “strano” legame che intercorre tra le amministrazioni democratiche USA e i passi compiuti dall’ONU contro Israele. Si intende dimostrare che l’ONU sta portando avanti l’agenda politica del partito democratico americano relativo al conflitto tra Israele e gli arabi, impersonificati dai “palestinesi”. La regia di questa agenda politica ha avuto una potente accelerazione con le due amministrazioni Obama (2009-2017) e con quella Biden (2021-2025), che di fatto, per quanto concerne la politica mediorientale, ne è la continuazione.
I capitoli principali di questo legame sono iniziati con Obama e proseguono oggi con Biden, con l’interruzione rappresentata dall’Amministrazione Trump. Si tratta di una agenda politica volta a fare scomparire Israele un po’ alla volta e ha il nome accattivante e seducente di “due popoli per due Stati”, ma, nella realtà, prevede alla conclusione del suo percorso la creazione di un solo Stato per un popolo e questo non è quello ebraico.
• Gettare le basi: Barack Obama Barack Obama, fin dal suo insediamento aveva le idee molto chiare in merito al conflitto israelo-palestinese: fare pressioni politiche unicamente su Israele affinché accondiscendesse a tutte le richieste arabe. Tuttavia, la sua agenda politica incontrò un grosso ostacolo: Benjamin Netanyahu. Siccome il premier israeliano dimostrò fin da subito poco incline a “suicidare” il proprio paese, Obama attuò una duplice strategia: utilizzare l’ONU come mezzo per portare avanti la propria agenda politica e demonizzare Netanyahu fino a renderlo pari al “male assoluto”, trasformandolo in un “ostacolo alla pace” a livello politico e mediatico.
Con Obama presidente si assistette dunque ai seguenti passi:
Riconoscimento dell’inesistente “Stato” di Palestina all’ONU, come Stato osservatore nel 2012.
Ammissione dell’inesistente “Stato” di Palestina presso il Tribunale Penale Internazionale, aprile 2015.
Apertura delle indagini presso il Tribunale Penale per crimini di guerra per l’operazione Margine Protettivo del 2014 e la “questione degli insediamenti”.
Approvazione di una blacklist di aziende che operano in Giudea e Samaria da parte del Consiglio per i diritti umani dell’ONU (unico caso al mondo).
Approvazione della risoluzione 2334 nel dicembre 2016 (quando Trump aveva già vinto le elezioni presidenziali) nella quale si dichiaravano gli “insediamenti ostacolo alla pace”.
Con l’amministrazione Trump (2017-2021) questa agenda politica venne di fatto “congelata” così come vennero congelati i fondi USA all’UNRWA e ai terroristi dell’Autorità Palestinese, e, di conseguenza, si fermarono gli atti di terrorismo nei confronti degli israeliani. Infine, si trovò arenato “congelato” anche il procedimento penale a carico di Israele presso il Tribunale Penale Internazionale. Procedimento ripreso nel febbraio 2021 dopo solo un mese dall’insediamento dell’Amministrazione Biden. Alcune settimane fa il procuratore Karim Khan – insediato con il benestare di Biden – ha avanzato una richiesta di arresto nei confronti di Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant.
Con Biden presidente abbiamo assistito ai seguenti passi:
Rifinanziamento americano dell’Autorità Palestinese e dell’UNRWA e un conseguente drastico aumento del terrorismo antiebraico sfociato nell’eccidio del 7 ottobre 2023.
Creazione da parte del Consiglio per i diritti umani dell’ONU, nel maggio del 2021, di una “commissione perpetua” (unico caso al mondo) per investigare i “crimini” di Israele.
Risoluzione dell’Assemblea Generale, il 30 dicembre 2022, con la quale si chiedeva alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo (quello formulato venerdì 19 luglio) in merito alla legalità dell’occupazione dei “territori palestinesi” da parte di Israele.
Accusa di genocidio a carico di Israele presso la Corte di Giustizia Internazionale, gennaio 2024, presentata dal Sud Africa e non cassata dalla Corte.
Riconoscimento, nel maggio 2024, dell’inesistente “Stato” di Palestina, come Stato membro dell’Assemblea Generale e non più come Stato osservatore. Questo ha portato, come conseguenza politica, al riconoscimento dell’inesistente “Stato” di Palestina da parte di Irlanda, Norvegia, Spagna e Slovenia.
Questi sono, solo, i capitoli principali del libro sulla delegittimazione di Israele che si sta scrivendo all’ONU con la compiacenza americana, ma molto altro è avvenuto e sta avvenendo.
L’agenda politica portata avanti dai democratici americani non ha programmaticamente lo scopo di distruggere Israele ma tuttavia è ampiamente utilizzata dai paesi islamici per il loro intento programmatico: cancellare l’unico Stato ebraico esistente. In pratica, le amministrazioni democratiche sono diventate un strumento politico in mano alle teocrazie islamiche che vogliono perseguire la distruzione di Israele e non la pace nella regione, a meno che essa non coincida con la distruzione dello Stato ebraico (cosa sempre più evidente).
• Soluzione Israele è troppo piccolo e debole per vincere la guerra all’ONU. Solo gli USA possono farlo. Come?
Per prima cosa sperando che non vinca una amministrazione democratica alle prossime elezioni di novembre. Perché l’accelerazione che ha avuto, all’ONU, la guerra di delegittimazione contro Israele non ha precedenti e altri 4 anni a guida democratica potrebbero essere fatali per Israele. Solo un personaggio come Donald Trump, completamente fuori dagli schemi e imprevedibile, potrebbe portare gli Stati Uniti a sospendere tutti i finanziamenti che gli USA danno ai terroristi arabi, e alle organizzazioni internazionali, ad iniziare dall’ONU, le quali, unite, stanno facendo una guerra legale (lawfare) sempre più serrata nei confronti di Israele. Se questo non bastasse gli USA dovrebbero lasciare l’ONU e chiudere il Palazzo di Vetro di New York. Lasciare che l’ONU si trasferisca altrove, magari a Ginevra, come negli anni ’20 e ’30 durante l’esistenza della Società delle Nazioni, e aspettare che imploda e si autodistrugga essendo ormai capitanata da Stati canaglia sempre meno contrastati dalla UE. Infine, rifondarne una nuova attuando le riforme necessarie che impediscano agli Stati che non rispettano i basilari diritti umani di farne parte. Questa è l’unica concreta alternativa al tentativo lento ma inesorabile di distruggere Israele, grazie all’ONU ostaggio dei suoi nemici.
Com’è lontana la Cina se sceglie Mosca, Teheran e Hamas: la crisi di una diplomazia decennale
Cina e Israele: dalla collaborazione economica alla distanza politica. Strette relazioni commerciali con Israele, una “intesa cordiale” e interessi comuni: porti, commerci, high-tech… Un’amicizia che rischia di sfumare a causa della vicinanza della Cina all’Iran e dal rifiuto di riconoscere il massacro del 7 ottobre. Ma oggi la Cina rivendica un ruolo da protagonista sullo scacchiere mediorientale e non rinuncia ad affermare la propria leadership anche qui
di Giovanni Panzeri
Da sempre, la Cina ha tradizionalmente mantenuto un approccio cauto verso gli equilibri mediorientali, adattando la sua politica alla realtà di una regione normalmente soggetta alla supremazia statunitense. Ecco perché, fino a poco tempo fa, la Cina si era generalmente limitata a sviluppare rapporti commerciali ed economici con tutte le potenze della regione, in particolare Iran, Israele e Paesi del Golfo, senza tuttavia cercare di diventarne un referente militare e diplomatico.
La situazione è tuttavia cambiata e, nel corso dell’ultimo decennio, Pechino ha iniziato a mettere gradualmente in discussione la supremazia americana, accompagnando al lancio della Nuova via della Seta (Belt and Road Initiative) una serie di iniziative diplomatiche volte a espandere la propria influenza nella regione e rendere la Repubblica Popolare il principale arbitro nel gestire i conflitti mediorientali. È in questo senso che si possono leggere, ad esempio, la sua partecipazione alle trattative sul nucleare iraniano nel 2015, la riconciliazione tra Iran e Arabia Saudita nel 2023, il riconoscimento del regime talebano in Afghanistan e il recente tentativo di ricomporre il conflitto tra le due principali fazioni palestinesi, Hamas e Fatah.
Il cambio di passo, compiuto da Xi Jinping nel 2014, è stato determinato dal fatto che la Cina ha iniziato a vedere l’estensione della sua influenza nella regione come una necessità fondamentale per la sicurezza nazionale. “Nel tempo -, spiega Alexandra Tirziu nel suo report al GIS (Geopolitical Intelligence Service) –, quest’influenza crescente potrebbe permettere alla Cina (…) di stringere trattati regionali in linea con la necessità di proteggere il suo Stato-partito e perseguire l’obiettivo di formare un ordine globale alternativo”. È da sottolineare che pur intervenendo in modo sempre più deciso nella regione la Cina è finora riuscita a mantenere buone relazioni con tutte le parti in causa, incluso lo stato d’Israele, il principale alleato del rivale americano nel settore, con cui Pechino ha sviluppato nell’ultima decade rapporti economici e commerciali sempre più stretti, nonostante il suo sostegno formale alla causa palestinese e i rapporti con l’Iran. Proprio questa relazione tuttavia rischia di essere messa in forse dallo scoppio del recente conflitto tra Israele, palestinesi e iraniani.
Ma come versa lo stato delle relazioni sino-israeliane oggi? Nel corso dell’ultimo decennio i rapporti commerciali ed economici tra Cina e Israele si sono fatti sempre più stretti e fitti. La Repubblica Popolare è infatti diventata nel giro di pochi anni il principale partner commerciale dello Stato ebraico in Asia e il secondo, dopo gli Stati Uniti, a livello mondiale. Gli investimenti cinesi in vari settori dell’economia israeliana, dall’hi-tech alle infrastrutture fino agli scambi culturali, sono fioriti soprattutto tra il 2013 e il 2019 per poi essere limitati pesantemente dalle pressioni statunitensi sul loro alleato mediorientale. Al contrario i rapporti prettamente commerciali sono rimasti fiorenti, e caratterizzati da una forte esportazione in Israele di prodotti cinesi, aumentata fortemente durante gli anni della pandemia.Tuttavia se i rapporti commerciali sono, per ora, rimasti stretti, negli ultimi anni i rapporti diplomatici si sono fatti gradualmente più freddi, in parte in seguito alle pressioni degli USA, in parte a causa del deciso sostegno cinese alla causa palestinese e all’Iran, anche in seguito allo scoppio del nuovo conflitto il 7 ottobre 2023.
Gli israeliani sono infatti rimasti oltraggiati dall’esitazione cinese nel condannare gli attacchi di Hamas e dal rifiuto di condannare il contrattacco iraniano dello scorso aprile. Di contro, invece, la Cina ha disapprovato fermamente l’intervento israeliano nella Striscia di Gaza, l’attacco israeliano alla sede dei pasdaran iraniani in Siria e sostenuto la denuncia di Israele per genocidio presentata dal Sudafrica alla Corte di Giustizia Internazionale. Una serie di azioni che lo Stato ebraico vede come una negazione del suo diritto a difendersi da parte della Repubblica Popolare.
Inoltre la Cina ha ospitato una delegazione di Hamas e Fatah a Pechino lo scorso aprile, con lo scopo di promuovere la riconciliazione delle due fazioni palestinesi. Come spiega il quotidiano Guardian, Xi Jinping ritiene infatti che “l’unità palestinese sia una precondizione necessaria alla formazione di un coerente piano di governo di Gaza e della Cisgiordania, in qualunque modo si risolva il conflitto”. Dal canto loro, gli israeliani hanno inviato una delegazione parlamentare a Taiwan, firmato una dichiarazione congiunta all’Onu che condanna la Cina per violazioni dei diritti umani contro gli uiguri, sembrerebbe stiano pensando a modi di diminuire la dipendenza dalla Cina nel settore hi-tech e fermare l’acquisizione cinese di una parte del porto di Haifa.
Un sondaggio rilasciato a maggio dall’Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv rivela inoltre che il 54% della popolazione israeliana considera la Cina un paese ostile, mentre solo il 15% la vede come un alleato. Una tendenza completamente invertita rispetto al 2017.
• Le relazioni sino-iraniane Le sempre più strette relazioni diplomatiche e militari sino-iraniane sono inoltre un altro dei fattori che mettono a rischio i rapporti tra lo Stato ebraico e la Repubblica Popolare.
Non a caso, nonostante si fosse precedentemente schierata contro gli esperimenti nucleari iraniani, Pechino si è molto avvicinata al regime persiano negli ultimi anni, sperando di usarlo per contrastare l’influenza americana nella regione. Nel 2021 la Cina ha infatti stretto un accordo di cooperazione venticinquennale con lo Stato iraniano che, come riportato su Limes, prevede “l’investimento di 280 miliardi di dollari nelle industrie iraniane di petrolio, gas e petrolchimica e altri 120 miliardi nelle strutture delle telecomunicazioni e dei trasporti del paese”. A questo accordo è seguita, nel 2023, una serie di 20 accordi bilaterali stretti con il defunto presidente persiano Raisi, durante “la prima visita di stato in Cina di un leader persiano negli ultimi 20 anni”. Dal punto di vista della cooperazione militare, sempre secondo Limes, Pechino rifornisce l’Iran di armi e carburante per missili, oltre ad organizzare esercitazioni militari navali trilaterali con Iran e la Russia, l’ultima delle quali si è tenuta nel 2024.
Questa crescente cooperazione si è sviluppata nonostante le riserve cinesi verso le operazioni degli Houti, sostenute dall’Iran, che hanno bloccato ai commerci navali la rotta che per raggiungere l’Europa passava attraverso lo stretto di Hormuz.
Conclusioni? È difficile prevedere come le relazioni evolveranno in futuro, ma è bene ricordare che, nonostante le tensioni, Israele e Pechino rimangono tuttora stretti partner commerciali, come testimonia tra l’altro il fatto che la Cina sia diventata il principale fornitore di automobili per Israele nel 2024.
Tuttavia, come scrive il Guardian, è chiaro “che siamo ben lontani dal 2017, quando Netanyahu si recava a Pechino parlando di ‘un matrimonio in paradiso’”.
A Londra tutto pronto per accogliere i primi Giochi Europei giovanili Maccabi
di Claudia De Benedetti
Londra ospiterà i primi EMYG, Giochi Europei Giovanili del Maccabi. Dal 30 luglio al 6 agosto, giungeranno nella capitale del Regno Unito giovani provenienti da tutta Europa, da Israele, dagli Stati Uniti e dall’Argentina per un appuntamento in cui alle gare sportive saranno affiancate visite turistiche, incontri culturali e ricreativi, senza naturalmente trascurare la celebrazione dello Shabbat e la conoscenza dell’ebraismo britannico con la sua storia e le sue numerose comunità.
Il Presidente del Maccabi Italia Vittorio Pavoncello è riuscito nella non facile impresa di comporre una delegazione numerosa e motivata che sarà guidata dal Presidente del Maccabi Milano Alfonso Nahum. 43 atleti provenienti da Milano e Roma e 5 dirigenti rappresenteranno l’Italia, partecipando alle competizioni di futsal under 16 e under 18 anni, di basket e di tennis.
I Giochi sono stati progettati dai giovani per i giovani, con l’intento di limitare le formalità e infondere nei partecipanti la condivisione degli ideali del Maccabi, del sionismo, della vicinanza allo Stato d’Israele, alle famiglie degli ostaggi, delle vittime dei pogrom di Hamas del 7 ottobre e della guerra.
Degna di nota è l’attenzione per gli atleti con esigenze speciali per cui sono stati organizzati eventi dedicati e inclusivi in collaborazione con enti ebraici inglesi altamente qualificati e con l’organizzazione dedicata allo sport disabili Special Olympics Great Britain. Il programma educativo e culturale per l’EMYG è stato preparato dal team educativo del Maccabi GB in collaborazione con il dipartimento educativo del Maccabi mondiale e con gli educatori più attivi e stimati dell’ebraismo britannico.
Jonathan Prevezer, presidente del Maccabi Gran Bretagna, ha spiegato: “Siamo entusiasti di poter offrire ai partecipanti un’esperienza straordinaria, crediamo fermamente nello sport come strumento per rafforzare l’identità ebraica e il legame tra comunità ebraiche”. Il Maccabi inglese ha collaborato con il Maccabi Europa per la realizzazione dei Giochi che, nelle edizioni precedenti aperte a tutte le categorie, erano stati ospitati a Roma nel 2007, poi a Vienna, Berlino e Budapest.
“Sono stati anni molto difficili – ha detto David Beesemer, Presidente del Maccabi Europa – La pandemia del Covid, la guerra in Ucraina, i massacri perpetrati da Hamas, la guerra in Israele sono state le sfide cui abbiamo dovuto rispondere senza esitazioni. Il Maccabi GB è un solido partner che annovera una delle nostre più forti organizzazioni territoriali”.
Parigi 2024, la sinistra radicale di Mélenchon getta la maschera: “Niente atleti ebrei ai Giochi”
di Stefania Campitelli
Antifà, pro Palestina e, neanche a dirlo, orgogliosamente antisemiti. A Parigi la gauche radicale guidata da Jean-Luc Mélenchon si prepara alla crociata antiisraeliana ai Giochi Olimpici. Come se non bastassero i guai del dopo voto, con Emmanuel Macron alle prese con il grattacapo della composizione del governo (“si farà ad agosto, ha detto) dalle file della France Insoumise piovono strali contro i ‘nemici ebrei’.
• Giochi olimpici di Parigi, sinistra choc: niente ebrei “Siamo a pochi giorni da un evento internazionale che si terrà a Parigi, i Giochi Olimpici. E sono qui per dire no, la delegazione israeliana non è la benvenuta a Parigi. Gli atleti israeliani non sono i benvenuti ai Giochi Olimpici di Parigi. Dobbiamo usare questo evento e tutte le leve che abbiamo per mobilitarci”. Così uno scatenato Thomas Portes, deputato dell’ultrasinistra. Prima del comizio antisionista in un raduno propalestinese nella Seine-Saint-Denis, intervistato da Le Parisien ha detto la diplomazia francese “deve esercitare pressioni sul Cio affinché la bandiera e l’inno israeliani non siano ammessi durante questi Giochi Olimpici, come avviene per la Russia”. Anche il compagno di partito Aymeric Caron la pensa così: “La bandiera israeliana, macchiata dal sangue degli innocenti di Gaza, non dovrebbe essere sventolata a Parigi”.
• Intimidazioni e minacce di morte agli atleti Il clima per la delegazione israeliana, partita per Parigi in vista dell’apertura dei Giochi di venerdì, è pessimo. Nel weekend alcuni atleti hanno ricevuto minacce di morte e telefonate minatorie. Il primo messaggio inviato per mail è firmato da un’entità che si è identificata come “l’Organizzazione di Difesa del Popolo” (che non esiste). “L’Organizzazione per la Difesa del Popolo annuncia che intende danneggiare qualsiasi presenza israeliana alle Olimpiadi. Se verrete, tenete conto che intendiamo ripetere gli eventi di Monaco 1972”. Addirittura tra cui il portabandiera della Cerimonia di apertura, il judoka Peter Paltchik, e il nuotatore Meiron Amir Cheruti, hanno ricevuto inviti ai loro funerali.
• Arad: ci sentiamo emissari dello Stato di Israele “Ci sentiamo come emissari dello Stato di Israele. I nostri atleti, ognuno di loro è qui per realizzare i propri sogni, ma c’è un altro livello, di missione nazionale”, ha detto Yael Arad, presidente del Comitato Olimpico di Israele, durante una conferenza stampa all’aeroporto Ben Gurion prima del volo. “La delegazione spera ovviamente di tornare in Israele con delle medaglie, ma la nostra prima vittoria è che siamo qui, che non ci siamo arresi, che dal 7 ottobre abbiamo partecipato a centinaia di gare… Ciò che ci guida è la bandiera di Israele”. Le parole dei parlamentari di Mélenchon hanno scatenato la reazione della comunità ebraica francese.
• La comunità ebraica: stanno mettendo un bersaglio sui nostri sportivi Yonathan Arfi, presidente del Consiglio rappresentativo degli ebrei di Francia, ha detto che dal 7 ottobre France Insoumise legittima Hamas e “sta mettendo un bersaglio sulla schiena degli sportivi israeliani”. Poi ha ricordato gli undici atleti israeliani uccisi dai terroristi palestinesi ai Giochi Olimpici di Monaco nel 1972. Il ministro degli Esteri francese, Stéphane Séjourné, ha definito le parole del deputato di France Insoumise “irresponsabili e pericolose” affermando che la delegazione israeliana «è benvenuta». Il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, ha aggiunto che le prese di posizione di Portes “puzzano di antisemitismo” e ha annunciato un dispositivo di sicurezza rafforzato h24 per gli sportivi israeliani.
Nessuno deve entrare nel Monte del Tempio prima della venuta del Messia
La tensione spirituale nel popolo d'Israele è sempre parte della politica del Paese. Per molti all'estero, questo è semplicemente incomprensibile.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Perché i politici israeliani citano versetti della Bibbia e promesse dei profeti nei loro discorsi? Perché l'esistenza di Israele in questa terra viene confermata dalla legge biblica e non dal diritto internazionale? Questo e molto altro continua a emergere nei media israeliani e anche noi ne diamo notizia. Negli ultimi giorni i media del Paese, soprattutto quelli religiosi, sono tornati a tuonare. Che c'entra il redentore con un ministro che entra nel Monte del Tempio?
Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, dopo la sua visita al Monte del Tempio, il 18 luglio 2024
Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, si è nuovamente recato sul Monte del Tempio accompagnato da numerosi agenti di polizia. In una dichiarazione, ha affermato di pregare per il ritorno dei rapiti, in modo che "non si verifichino prese di ostaggi o sottomissioni spietate". Il Ministro degli Interni israeliano Moshe Arbel ha condannato la visita del suo collega di governo Itamar Ben-Gvir al Monte del Tempio ebraico, poche ore dopo che il suo partito ortodosso Shas aveva invitato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu a non preoccuparsi dei voti nella coalizione, ma a far tornare gli ostaggi israeliani adesso, il più presto possibile.
"Sono venuto qui, nel luogo più importante per lo Stato di Israele, per il popolo di Israele", ha detto Ben Gvir sul posto, "per pregare per le donne e gli uomini rapiti nella Striscia di Gaza, affinché possano tornare a casa, ma senza accordi avventati e senza sottomissione". Il contesto reale della sua visita alla spianata del Tempio era l'imminente visita del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti. Subito dopo la dichiarazione dello Shas, ha inviato un messaggio a Netanyahu esortandolo a "raggiungere un accordo e a non preoccuparsi dei voti della coalizione". In cambio, Ben-Gvir ha detto di pregare e di lavorare duramente affinché il Primo Ministro continui ad avere la forza di resistere alle pressioni politiche interne e di lottare fino alla vittoria. Ben-Gvir ha chiesto un aumento della pressione militare e l'interruzione delle forniture di carburante a Hamas e ai palestinesi, al fine di vincere.
Il Ministro degli Interni Moshe Arbel, membro di spicco del partito ortodosso di Arie Deri, ha reagito con critiche alla visita di Ben-Gvir al Monte del Tempio . "È già stato deciso e stabilito, i grandi rabbini di Israele e il Consiglio Rabbinico Capo hanno insistito fortemente affinché fossero erette recinzioni e hanno solennemente avvertito che nessuno può entrare nell'area del Monte del Tempio fino alla venuta di Shiloh (il Messia), che allora sarà in mezzo a noi, e come è scritto: 'Verserò su di voi acqua pura e sarete purificati'". Arbel ha attaccato personalmente Ben-Gvir: "Verrà un giorno in cui il tempo delle continue provocazioni del signor Ben-Gvir finalmente finirà. La Torah - la parola di Dio - non passerà".
Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, prega al Muro occidentale nella Città Vecchia di Gerusalemme il 18 luglio 2024 dopo la sua visita al Monte del Tempio.
Fino a una decina di anni fa, era normale per gli ebrei non entrare nella spianata del Tempio, per non entrare inavvertitamente nel luogo del Santo dei Santi. Dopo la riunificazione di Gerusalemme nel 1967, questa era la regola del Gran Rabbinato. Tuttavia, con lo spostamento a destra dopo il fallimento degli accordi di Oslo, i coloni ebrei sono entrati sempre più spesso nella spianata del Tempio, contro il volere della leadership ortodossa del Paese. Il Gran Rabbinato e i coloni religiosi del Paese sono in disaccordo su questo punto. Gli ebrei ortodossi vogliono aspettare la venuta del Messia per costruire il Tempio ed entrarvi insieme a lui. Invece icoloni, come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, non sono d'accordo e vogliono affrettare la venuta del Messia.
Shiloh (שילו) è un nome dell'Antico Testamento che indica il Messia. Il nome è menzionato solo una volta in tutta la Bibbia, in Genesi 49, dove Giacobbe benedice i suoi dodici figli con parole profetiche poco prima della sua morte e si riferisce al Re e Redentore che verrà:
"Lo scettro non si allontanerà da Giuda, né il bastone del sovrano dai suoi piedi, finché non venga Shiloh, e le nazioni gli obbediranno".
Tradotto, Shiloh significa: portatore di pace, operatore di pace, eroe forte, Messia. In Giosuè 18, Shiloh (שילה) è menzionato come luogo del tempio dopo che i figli di Israele hanno iniziato a conquistare la Terra Promessa:
"E tutta la comunità dei figli d'Israele si radunò a Shiloh e vi eresse il tabernacolo; e il paese fu loro sottomesso".
Chiunque abbia ragione, il punto è che il Redentore d'Israele, il Messia, e Shiloh interessano il popolo di Sion e sono una parte vibrante della politica del Paese.
Il ministro religioso della cultura Amichai Eliyahu, che appartiene al partito di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ha attaccato il suo collega ortodosso Arbel per le sue critiche a Ben-Gvir e ha detto: "Signor Arbel, per duemila anni il popolo d'Israele ha lottato per tornare nella terra dei suoi padri e non ha mai smesso di desiderare il restauro del Monte del Tempio, la casa del nostro Dio. Il tempo della sottomissione di fronte ai media e dell'umiliazione di fronte al nostro nemico passerà più rapidamente di quanto durerà la potenza ebraica e di la capacità di resistere fieramente contro coloro che vogliono distruggerci". Sia Eliyahu che Ben-Gvir sono a favore di una posizione chiara nei confronti dei palestinesi. Non si tratta di una questione politica, ma spirituale. Così la intendono i musulmani e così la intende gran parte della popolazione ebraica del Paese.
Nelle reti palestinesi, la visita di Ben-Gvir al Monte del Tempio è stata presentata nel seguente modo:
Il momento in cui il ministro della Sicurezza nazionale della potenza occupante, Itamar Ben Gvir, fa irruzione nel complesso della Moschea di Al-Aqsa (al-Haram al-Sharif) sotto la pesante protezione delle forze di occupazione.
Per questo motivo i palestinesi hanno riportato la visita del ministro religioso Ben-Gvir alla Piazza del Tempio ebraica in un momento delicato, nel bel mezzo della guerra, cosa che non avveniva per la prima volta. L'agenzia di stampa palestinese ha riferito che Ben-Gvir era accompagnato da numerosi poliziotti; e che i poliziotti israeliani hanno impedito ai fedeli musulmani di entrare nella moschea di Al-Aqsa mentre il ministro visitava il Monte del Tempio. Non so se questo sia vero, ma quello che so è che il Monte del Tempio ebraico è al centro dell'intero conflitto tra Israele e i suoi nemici musulmani. I musulmani non vogliono vedere ebrei sulla spianata accanto alla moschea di Al-Aqsa, e in Israele una parte dell'attuale governo insiste nel far capire ai palestinesi che la spianata del Tempio fa parte della storia biblica e quindi appartiene politicamente a Israele. Questa tensione spirituale nella popolazione si è espressa ancora una volta qualche giorno fa.
(Israel Heute, 23 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
In occasione dei 110 anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Knesset ha celebrato i battaglioni militari ebraici, composti da migliaia di soldati, che hanno combattuto durante il conflitto. All’interno del parlamento israeliano è stata allestita una mostra di oggetti unici provenienti dalla tenuta di Ze’ev Jabotinsky che fanno luce sulla fondazione della legione ebraica.
Moshe Foxman Shaal, direttore del Knesset Museum, ha sottolineato l’influenza dei battaglioni ebraici sulla coscienza ebraica. “Hanno distrutto l’immagine dell’ebreo perseguitato e indifeso e hanno presentato al mondo soldati ebrei pronti a combattere per il loro paese e per l’istituzione della loro patria”.
Tra gli oggetti esposti, oltre a varie lettere e telegrammi, ci sono anche diversi oggetti personali di Jabotinsky, tra cui una bussola militare realizzata dalla S. & Mordan Co., che utilizzò durante il suo servizio nel battaglione ebraico, e il distintivo del suo cappello risalente al periodo del servizio. Il distintivo fu progettato in seguito alla pressione esercitata da Jabotinsky sul generale Geddes, comandante del dipartimento di reclutamento dell’esercito britannico. L’unità di combattimento ebraica portava il suo emblema, a forma di menorah a sette bracci, con il motto coniato da Jabotinsky: la parola ebraica “Kadima” (Avanti).
Tra i documenti presenti alla mostra ci sono anche un telegramma di Joseph Trumpeldor a Ze’ev Jabotinsky e una lettera dei soldati del battaglione di Gerusalemme, allora in Egitto, alla Commissione sionista, in cui si richiedeva cibo kasher, accordi per la preghiera e altro ancora.
La Knesset espone anche una lettera inviata dal comandante del Battaglione dei Muli di Sion, John Henry Patterson, pochi giorni dopo la pubblicazione della Dichiarazione Balfour. Nella lettera, Patterson esorta Edmond James de Rothschild a fare pressione sul War Cabinet inglese affinché invii un battaglione di soldati ebrei addestrati al fronte e consenta loro di partecipare alle battaglie in Israele contro l’esercito ottomano.
La mostra include una rara fotografia di gruppo che mostra Ze’ev Jabotinsky (al centro) con un gruppo di soldati del 38th Royal Fusiliers Battalion. I soldati hanno una Stella di David blu ricamata sulle maniche.
Derek Gee nella cronometro conclusiva del Tour de France – Foto: Noa Arnon
Se ci si dovesse basare sulle speranze della vigilia, l’obiettivo non è stato raggiunto. La Israel Premier Tech (IPT) aveva l’ambizione di vincere almeno una tappa al Tour de France partito da Firenze a fine giugno e appena conclusosi a Nizza. La squadra israeliana ci è andata vicina varie volte, raggiungendo piazzamenti significativi in più di una frazione. Soprattutto con il suo sprinter tedesco Pascal Ackermann due volte terzo.
Ma in casa IPT l’umore non è mai stato così alto. Perché per la prima volta nella sua ancora giovane storia, impresa impensabile appena poche settimane fa, il team israeliano è riuscito a piazzare un suo ciclista nella top 10 della classifica generale. «È solo l’inizio», ha esultato la Israel Premier Tech celebrando la Grande Boucle da inaspettato protagonista del suo Derek Gee, 26 anni, tra gli atleti più competitivi di questa edizione, almeno tra quelli “normali” che hanno fatto altra corsa rispetto ai “marziani” Pogacar, Vingegaard ed Evenepoel. Il canadese Gee le prime scintille del suo talento le aveva già sprigionate al Giro d’Italia dello scorso anno, al suo esordio tra i professionisti, conquistando il simbolico titolo di corridore più combattivo. Anche al Tour la combattività è stata la sua cifra, ma più sapientemente gestita nel corso delle tre settimane di gara. Merito anche dei suoi compagni di squadra, che si sono sacrificati per assisterlo al meglio nelle tappe più dure tra Alpi e Pirenei. Sulle salite del Tour 2024, Gee ha a lungo combattuto con l’italiano Giulio Ciccone, distintosi soprattutto nella prima parte della corsa e beffardamente uscito dai primi dieci all’ultima tappa, per via della deludente prestazione nella cronometro finale.
La Israel Premier Tech festeggia il miglior risultato mai conseguito a un Tour. In passato era già arrivata nella top 10 di una grande corsa a tappe due volte, entrambe con l’irlandese Daniel Martin giunto quarto alla Vuelta di Spagna del 2020 e decimo al Giro d’Italia del 2021. Un’altra top 10 ora alla portata è quella della classifica a punti dei team professionistici che determina anche la presenza nel World Tour, l’élite del movimento ciclistico. In virtù degli ottimi risultati d’inizio stagione, cui lo stesso Gee ha contribuito arrivando terzo al Giro del Delfinato, la Israel ha scalato ben sette posizioni in graduatoria rispetto al 2023. È al momento l’11esima squadra al mondo e in una sfida tutta “mediorientale” punta a scalzare al decimo posto la Bahrain – Victorious, in precedenza quinta. Vento in poppa invece per l’altra squadra del Golfo, la UAE Team Emirates, saldamente prima grazie alle imprese di Pogacar.
Che cosa significa la rinuncia di Biden per Israele
di Ugo Volli
• Un cambiamento significativo
La decisione di Biden di non ripresentarsi alle elezioni presidenziali è una notizia importante per tutto il mondo, ma soprattutto per Israele, impegnata in una guerra difficilissima con un appoggio americano che è stato sì militarmente decisivo in alcuni momenti del conflitto (per esempio all’inizio, quando si temeva un attacco di grandi dimensioni degli Hezbollah in contemporanea con l’inizio della campagna di Gaza, oppure quando ad aprile scorso l’Iran ha cercato di bombardare direttamente lo Stato ebraico), ma per lo più ha agito da freno alla capacità di Israele di difendersi, per esempio impedendo a lungo l’ingresso a Rafah o addirittura bloccando gli indispensabili rifornimenti di munizioni e ricambi. Il giudizio sugli effetti di questo improvviso cedimento di Biden alle pressioni del suo partito sono difficili da determinare oggi.
• La visita di Netanyahu
Per gli americani non è la cosa più importante, ma per Israele è molto significativo che la rinuncia sia avvenuta subito prima della visita di Netanyahu, che parte oggi per gli Stati Uniti e ha un appuntamento con Biden proprio domani alla Casa Bianca, il primo da quando è tornato primo ministro nel 2022. Il viaggio di Netanyahu, che mercoledì parlerà al Congresso in seduta comune, cambia completamente significato in questo contesto. È vero che Biden resta presidente e avrà la responsabilità delle politica americana ancora per quasi sei mesi: è dunque importante chiarirgli direttamente il punto di vista di Israele sulla guerra. Ma anche in questo ruolo è ormai chiaramente una “anatra zoppa” (lame duck, come si dice nel gergo politico americano) che tenderà ad avere sempre meno potere decisionale vero. L’intervento parlamentare di Netanyahu poi si svolgerà nel contesto di una campagna elettorale tornata molto incerta e sarà valutato soprattutto per questo.
• Il difficile giudizio su Biden
È presto per valutare Biden e la sua presidenza. Probabilmente il vecchio politico, che ha frequentato Israele fin dai tempi di Golda Meir, è sincero quando si proclama sionista, cosa che ha fatto ancora due giorni fa. È vero che tiene all’esistenza di Israele, come ha dimostrato anche visitando il Paese in guerra poco dopo il 7 ottobre – un gesto che nessun presidente americano aveva mai fatto. Ma il suo appoggio per lo Stato ebraico si inquadra entro una politica di “equilibrio” con i nemici che lo vogliono distruggere, prima di tutto l’Iran. La sua ideologia è ancora quella di Obama e prima di Carter, con l’obiettivo di una pacificazione con l’Islam e con l’idea che l’America e in generale l’Occidente debba “pagare dei debiti” al Terzo Mondo e che il “rispetto dei diritti umani” venga prima di ogni altra considerazione, incluse le condizioni concrete che li rendono possibili, vale a dire la capacità della democrazia di difendersi.
• Le prospettive
Che cosa avverrà ora nella politica americana è difficile da prevedere. È possibile che la candidatura di Kamala Harris, che come vicepresidente è la scelta più ovvia per sostituire Biden, si consolidi e che dunque le elezioni di ottobre si giochino fra lei e Trump. Il profilo politico della Harris non è ben definito, fra la linea dura contro il crimine e l’immigrazione di certe fasi della sua carriera e l’alleanza implicita con i settori più radicali del partito democratico che sembra perseguire nell’ultimo periodo. Alcune dichiarazioni recenti di “comprensione” per le proteste universitarie contro Israele vanno purtroppo in questa direzione. Il fatto che abbia un marito ebreo non è probabilmente molto rilevante. Ma è possibile anche che emergano nuove candidature di personalità politicamente meglio definite come i governatori di alcuni stati, ma meno note al grande pubblico. È chiaro che il rischio per Israele è la prevalenza dell’ala sinistra dei democratici, chiaramente contraria ormai allo Stato ebraico, che ha avuto parecchia influenza durante gli ultimi anni. Se questo fosse il risultato della nuova candidatura, verrebbe a cadere anche la garanzia parziale offerta dall’orientamento personale di Biden. Non a caso il voto ebraico, tradizionalmente allineato con i democratici, si è riorientato verso Trump, in particolare quello dei molti israeliani che dopo l’immigrazione hanno conservato la cittadinanza americana.
• Il rischio immediato
Oltre alle prospettive future, vi è anche un rischio immediato. La guerra contro Israele guidata dall’Iran si è scontrata in questi mesi coi limiti stabiliti dall’amministrazione americana, ribaditi sul terreno dalla presenza di importanti gruppi aeronavali. Questa è forse la ragione per cui Hezbollah e direttamente l’Iran hanno evitato di utilizzare la maggior parte delle loro forze, limitandosi finora a un conflitto di intensità relativamente bassa sul fronte libanese e siriano. La turbolenza politica negli Usa potrebbe indurre gli strateghi iraniani a sfidare questi ostacoli cercando di forzare la situazione e aprire un secondo fronte di guerra sul terreno mentre le truppe israeliane sono ancora massicciamente impegnate a Gaza. Insomma è possibile il primo risultato della rinuncia di Biden siano degli attacchi per testare la risolutezza americana (e quella israeliana).
Olimpiadi a Parigi, si parte il 26 luglio. Israele è nella stessa barca dell'Italia
La cerimonia di apertura conterà oltre cento leader mondiali attesi in tribuna secondo l'Eliseo
Mancano quattro giorni all'inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi. E sono Giochi di pace in tempi di guerra: perché Parigi 2024 si aprirà in un contesto di forti tensioni geopolitiche, tra il conflitto in Ucraina, la guerra tra Israele e Hamas, e l'allerta terrorismo sempre alta in Francia, tra minacce endogene di 'lupi solitari' che potrebbero entrare in azione o il rischio attentati in larga scala da parte di organizzazioni terroristiche internazionali. Nella République già segnata in quest'ultimo decennio dalla lunga scia di attentati jihadisti che ha straziato la Francia e l'Europa, dalla redazione di Charlie Hebdo fino alla strage sulla Promenade des Anglais a Nizza, passando per Bataclan, Hypercacher, e tanti altri episodi di ultraviolenza e terrorismo, l'attuale amministrazione di Emmanuel Macron promette un dispositivo senza precedenti per garantire la sicurezza di Paris 2024.
Solo per la cerimonia di apertura, il 26 luglio con oltre cento leader mondiali attesi in tribuna secondo l'Eliseo, il ministro dell'Interno, Gérald Darmanin, ha annunciato uno schieramento di 45.000 agenti nell'Ile-de-France, la regione iper-centralizzata di Parigi che concentra in sé quasi il 20% della popolazione d'Oltralpe. Tra le 90 imbarcazioni con a bordo 206 delegazioni che sfileranno lungo la Senna, per sei chilometri, tra la zona di Bercy (est) e la Tour Eiffel (Ovest), uno dei natanti più sorvegliati sarà quello con a bordo le delegazioni di Italia e Israele sulla stessa barca per questioni di ordine alfabetico,.
Nel Paese che conta le comunità musulmana ed ebraica più folta d'Europa, gli israeliani verranno sorvegliati 24 ore su 24, sia nelle gare, sia al Villaggio olimpico e negli spostamenti, incluso da forze di sicurezza inviate da Israele. E a quattro giorni dal via, il ministro degli esteri Stéphane Séjourné ha rassicurato tutti dopo le polemiche sul crescente antisemitismo in Francia: «garantiremo la sicurezza della delegazione israeliana e assicureremo che sia la benvenuta per i Giochi olimpici».
Sopravvissuti a Ostia nel 1946 (Modiano è il quarto da sinistra)
«La vita a Rodi era un paradiso. La città divisa in quattro quartieri: quello ebraico, quello turco, quello greco e poi col tempo vennero gli italiani». (Rahamin Cohen). «Era una vita bellissima, quieta, calma, nessuno ci disturbava» (Stella Franco). «Il nostro non era un ghetto, era un quartiere liberissimo; ognuno poteva uscire liberamente come qualsiasi non ebreo» (Joseph Varon). «A Rodi, c’erano le prigioni. Nessun ebreo è mai entrato in una prigione, mai. Neanche uno» (Alberto Israel). Questo il ricordo di Rodi, l’“isola delle rose”, di alcuni ebrei sopravvissuti alla deportazione ad Auschwitz. Rodi, per secoli parte dell’Impero Ottomano, con le isole del Dodecaneso nel 1912era stata occupata dagli italiani, che nel 1924 ne ottennero la sovranità. Questi, da subito, giudicarono la comunità ebraica locale, composta da oltre 4.500 persone, «ligia alle leggi», dunque affidabile. Quando ne ebbero la possibilità, quasi tutti gli ebrei scelsero la cittadinanza italiana, pur mantenendo come madrelingua il ladino (giudeo-spagnolo). «Abbiamo passato degli anni bellissimi con gli italiani» (Rachele Cohen).
Sami Modiano, deportato e sopravvissuto, con la moglie Selma, che riuscì a nascondersi dai nazisti
Nonostante gli ottimi rapporti con l’amministrazione italiana, a causa della mancanza di lavoro molti giovani emigrarono negli Usa, in Sudamerica, nel Congo Belga, in Rhodesia del Sud e in Palestina, per cui la comunità si dimezzò. «La maggior parte dei ragazzi partiva perché non c’era avvenire per loro sull’isola. Incominciavano a lavorare e una volta più o meno sistemati mandavano a cercare una ragazza di Rodi» (Lea Gattegno). La situazione cambiò bruscamente nel 1938, quando venne estesa anche nel Dodecaneso la legislazione antiebraica. «Mi hanno detto: “Tu non sei più italiano, non vai più alla scuola italiana, sei fuori dalla scuola, fuori dal palazzo del fascio, fuori da tutto!”. Ti tolgono qualcosa a cui vuoi bene… fa male, fa molto male» (Alberto Israel). Nel 1943, nei giorni successivi all’8 settembre, gli italiani – 35mila militari contro poco più di 7mila tedeschi – incredibilmente capitolarono e l’isola passò saldamente nelle mani delle forze di occupazione tedesche, che lasciarono comunque in vita un governo italiano collaborazionista. Per dieci mesi, tuttavia, le autorità naziste non diedero l’impressione di occuparsi della comunità ebraica locale, che visse questo periodo nella più irreale ingenuità.
Rachele Capelluto con le sorelline gemelle Giulia Gioia e Fortunata, uccise ad Auschwitz
Il pericolo sembrava venisse solo dai bombardamenti degli inglesi, che nella primavera del 1944 colpirono più volte il quartiere ebraico, vicinissimo al porto, provocando diversi morti. Molti ebrei, conseguentemente, abbandonarono il quartiere e si rifugiarono nei villaggi vicini. Nel frattempo, in quelle settimane gli italiani completarono un elenco degli ebrei residenti nell’isola, per passarlo alle autorità tedesche. I nazisti avevano in ogni caso già stabilito la sorte che sarebbe toccata alla comunità ebraica, nonostante la guerra fosse ormai persa.
Ad organizzare gli arresti e la deportazione furono il responsabile del Servizio di sicurezza di Atene Anton Burger, uomo di Eichmann, già Comandante del campo-ghetto di Theresienstadt, e il Comandante delle forze armate tedesche dell’isola, il generale Ulrich Kleemann. Il 18 luglio fu diffuso l’ordine, per tutti gli ebrei dell’isola di sesso maschile di età superiore ai 15 anni, di presentarsi alla Kommandantur per un controllo dei documenti di identità. «È venuta una macchina decappottabile e c’erano due o tre tedeschi delle Ss, della Gestapo e un ebreo greco. Lui parlava il ladino e disse: “Dovete fare un controllo delle carte d’identità perché siete tutti sparsi. Venite domani all’aviazione e vi daremo la nuova carta d’identità. Era un traditore, quel figlio di puttana» (Alberto Israel).
Il giorno seguente toccò alle donne e ai bambini. «Fuori dalla caserma c’erano un sacco di donne che piangevano e si disperavano. Poi esce il presidente della Comunità e dice che anche tutte le donne con i figli avrebbero dovuto presentarsi il giorno dopo, con il necessario, piccoli bagagli e tutti i gioielli» (Stella Levi). «Quello che faceva l’interprete diceva “non succederà niente, i tedeschi si comporteranno bene con voi, vi porteremo in un’isola presso Rodi e starete lì fino alla fine della guerra…”. Eravamo brava gente… e ci abbiamo creduto» (Stella Franco). «Ci siamo consegnati, che altro ci rimaneva da fare? Non è che ci fosse un posto poi dove scappare, dove nascondersi» (Virginia Gattegno). «E dopo, man mano, dovevamo passare in fila a depositare i preziosi» (Rosa Levi). «Sa cosa hanno fatto molti? Sono andati nei bagni e hanno buttato lì tutti i gioielli. Perché avevano capito…» (Rachele Alhadeff). «Che sappia io, nessun italiano ha nascosto ebrei. E questo è grave: questo popolo che io ammiravo tanto, così pieno di umanità in tante occasioni, ci ha abbandonato» (Stella Levi).
Un gruppo di giovani ebrei di Rodi (archivio Stella Levi)
In quegli stessi giorni, il giovane console turco, Selâhattin Ülkümen, intervenne con notevole coraggio presso le autorità naziste per impedire la deportazione degli ebrei in possesso della cittadinanza turca, facendo leva sulla neutralità del suo Paese. Ne furono individuati 42, e questi si salvarono. Il 22 luglio, con le vittime ancora sull’isola, venne ordinato il sequestro di tutti i loro beni, mobili e immobili. Il 23 luglio, nello stesso giorno in cui le truppe sovietiche liberavano il campo di sterminio di Majdanek, fu dato l’ordine di imbarco. «Domenica 23 luglio i signori tedeschi fanno partire le sirene, come se ci fosse un bombardamento. Tutti dovevano andare in un rifugio, ma era una messa in scena. Noi, ci hanno messi in fila per cinque, e dovevamo tenere la testa bassa» (Sami Modiano). «La città era morta. Al porto c’erano tre caicchi e hanno messo quasi 600 persone in ognuno» (Alberto Israel). Ed ebbe inizio il viaggio più lungo di tutte le deportazioni naziste. «C’erano ancora gli escrementi delle bestie che avevano portato prima, e urina dappertutto. Ma là dentro non c’erano animali, maiali, capre, ma persone, vecchi con i loro malanni, bambini, neonati, mamme che allattavano, donne che aspettavano…» (Sami Modiano). «Dove ci hanno messi dentro, pidocchi grandi così…» (Stella Benveniste). «Dormivamo a turno sopra le spalle di mamma e di papà» (Rosa Cappelluto). «Ci sono stati morti… abbiamo dovuto buttarli a mare» (Sami Modiano). «Eravamo lì come ipnotizzati. Non capivamo più cosa succedeva» (Alberto Israel).
All’arrivo al Pireo, il responsabile dell’Ufficio dei trasporti annunciò, dopo un controllo, l’arrivo di navi con il seguente carico: «Otto tonnellate di uvette, 37 di vitelli, 82 di carbone, 37 di attrezzi, 14 di oggetti di valore 298 di recipienti vuoti e rottami, 33 soldati e 1733 ebrei». Vennero portati tutti nel carcere ateniese di Haïdari, per gli ebrei del territorio il campo di transito per Auschwitz. Qui, dove non pochi morirono, rimasero dal 31 luglio al 3 agosto.
«Il primo morto ammazzato l’abbiamo avuto ad Haïdari: un uomo che ha cercato di prendere dell’acqua da una fontanella per i suoi figli piccoli» (Sami Modiano). «Non c’era l’acqua, non ci siamo lavati neanche la faccia. Tutto puzzava, tutto sporco, ma non era colpa nostra» (Stella Franco). «Mio nonno è morto di sete lì a Haïdari» (Matilde Cohen).
Il 3 agosto, dalla stazione ferroviaria di Atene iniziò l’ultima parte del trasporto, forse ancor più allucinante, che sarebbe durata quasi 10 giorni. «Tutti ammassati, ci si sdraiava a turno. Non mi ricordo che abbiamo parlato. Ci si teneva vicini e basta» (Virginia Gattegno). «Mia mamma è stata tutti quei giorni seduta per terra abbracciata a me che ero tra le sue gambe, con le mani attorno alla mia testa, senza muoversi, con una temperatura nel vagone di oltre 40 gradi» (Alberto Israel). «La disgrazia che è capitata più forte è questa: eravamo accompagnati anche da soldati italiani che avevano aderito ai tedeschi» (Rahamin Cohen).
E poi, il 16 agosto, l’arrivo ad Auschwitz-Birkenau. «Poi siamo arrivati... eravamo già più morti che vivi...» (Virginia Gattegno). Sulla rampa, il medico delle Ss di turno eseguì la tristemente famosa “selezione iniziale”: i giovani vennero divisi dagli anziani e dai “non abili al lavoro”, e alcune giovani madri dai loro piccoli. Degli oltre 1.700 ebrei “selezionati”, 346 uomini e 254 donne furono immessi nel campo; gli altri vennero inviati alla morte col gas. Tornarono in 178, 135 donne e 43 uomini. Il 16 agosto l’antica e mite comunità ebraica di Rodi finì di esistere.
(la Repubblica, 22 luglio 2024)
Teorie di un complotto ebraico dietro al tentato omicidio di Trump raggiungono milioni di persone
di David Fiorentini
L’antisemitismo rimane probabilmente la forma di odio più longeva ancora in circolazione. In ogni epoca ha trovato una nuova maschera dietro la quale nascondersi, evolvendosi in ogni contesto per riproporsi come la profetica soluzione ai più disparati problemi sociali. L’ossessione per un presunto complotto globale dietro le quinte delle principali aule parlamentari, con a capo la setta segreta di turno, è un mito senza tempo, che molto spesso ha individuato nel popolo ebraico il suo principale protagonista. Ormai sono ben note ad esempio le bufale secondo cui gli ebrei avrebbero creato il Covid-19 per manipolare le dinamiche economiche mondiali e poi poter vendere il vaccino per un ulteriore guadagno.
La speculazione più recente oggi giunge dagli Stati Uniti, quando in seguito all’attentato all’ex presidente e candidato repubblicano Donald J. Trump, non si è perso neanche un secondo per additare gli ebrei.
Come riporta a Jewish News il Centre for Countering Digital Hate (CCDH) di Washington DC, svariati post sulla piattaforma X che “hanno falsamente promosso il coinvolgimento ebraico nel tentativo di assassinio sostenendo che un cecchino dei servizi segreti presente al momento indossava un filo rosso al polso, associato alla Kabbalah” hanno ricevuto più di 8,8 milioni di visualizzazioni.
Numeri molto preoccupanti, che mostrano da un lato la crescente presenza di un antisemitismo sempre meno velato, e dall’altro l’incapacità delle piattaforme di social media di moderare e contrastare queste palesi manifestazioni di odio, con il 95% dei post presi in esame che non presentava alcun tipo di fact checking.
“Nel mercato della disinformazione, che in effetti è ciò a cui molte piattaforme di social media si sono ridotte, un mercato di menzogne, i contenuti estremisti sono la tua moneta di scambio”, ha spiegato Imran Khan, amministratore delegato e fondatore del CCDH, auspicando una forte legislazione in grado di costringere i colossi dei social a cambiare le proprie linee guida e prevenire la diffusione dell’odio.
Si accende lo scontro fra Israele e i ribelli Houti dello Yemen
di Ugo Volli
• Il bombardamento
Nella giornata di sabato una potente squadra dell’aviazione israeliana composta di 18 bombardieri F35 e F15 ha attaccato il porto strategico di Hodeida affacciato sul Mar Rosso nello Yemen occidentale. È il principale porto militare degli Houti, i ribelli yemeniti appoggiati dall’Iran, il centro logistico in cui essi ricevono le armi dall’Iran ed è anche la sede della principale raffineria del paese. Il bombardamento è stata la risposta all’attacco di un drone lanciato dagli Houti nella notte fra giovedì e venerdì, che ha colpito il centro di Tel Aviv a pochi passi dall’ex ambasciata americana – un luogo altamente simbolico. Il drone ha ucciso un cittadino israeliano, da poco immigrato dalla Bielorussia e ne ha feriti diversi altri.
• Perché la risposta
Il colpo del drone non sorprende. Si tratta dell’attacco numero 220 proveniente dallo Yemen sul territorio israeliano in questi mesi di guerra. Israele non aveva mai risposto direttamente, in seguito a un accordo con gli Stati Uniti che guidano una coalizione internazionale che cerca di impedire ai pirati yemeniti di bloccare la navigazione internazionale sul braccio di mare che porta al canale di Suez, causando gravi danni all’economia di mezzo mondo. Tutti questi attacchi aerei dallo Yemen non avevano prodotto gravi danni. Ma questa volta gli Houti sono riusciti a raggiungere la capitale economica di Israele, anche perché il loro drone era stato sì rilevato dall’antiaerea ma non riconosciuto come ostile forse in quanto proveniente dal Mediterraneo, cioè da Ovest. C’è stata fra venerdì e sabato una discussione fra chi, soprattutto negli alti gradi militari, voleva una risposta quasi solo simbolica, come fu quella all’attacco missilistico iraniano il 14 aprile, e chi come Netanyahu riteneva necessaria una risposta concreta e dunque pesante. Alla fine è prevalsa l’opinione del primo ministro e l’attacco è stato duro ed efficace. Gli Houti hanno subito minacciato rappresaglie, ma non è detto che ne siano davvero in grado. Un missile sparato dallo Yemen contro Israele nella notte fra sabato e domenica è stato abbattuto da un antimissile israeliano “Arrow”.
• Lontananza
La distanza fra Israele e lo Yemen è di oltre 1800 chilometri (come, per intenderci, fra Roma e Stoccolma). Gli aerei israeliani sono riusciti a percorrerla in andata e in ritorno portandosi le decine di tonnellate di bombe scaricate su Hudeida e tornando sani e salvi. Determinante è stato il rifornimento in volo non solo di aerei cisterna israeliani, ma anche di forze della Nato, fra cui almeno un velivolo italiano; il che significa che al di là delle posizioni politiche, la coalizione occidentale funziona ed è in grado di mettersi in opera velocemente. Bisogna anche tener conto che la distanza fra Israele e i luoghi strategici dell’Iran è inferiore a quella con lo Yemen. Oltre che una lezione per gli Houti, questa operazione è stata dunque anche un avvertimento implicito agli ayatollah: l’aeronautica israeliana è in grado di fare sul loro territorio non solo spedizioni dimostrative come quella di aprile, ma anche bombardamenti pesanti, contro cui le loro armi antiaeree sono impotenti, come si è visto in questi due casi. È un avvertimento importante non solo perché l’Iran è la centrale di comando da cui dipendono tanto gli Houti quanto Hamas, ma anche perché, come ha detto il Segretario di Stato Blinken in un comunicato di sabato cui pochi hanno prestato la giusta attenzione, all’Iran mancano solo due settimane per realizzare le componenti decisive del suo armamento atomico.
• Il quadro strategico
Lo scambio di colpi con gli Houti, atteso da tempo dato che la coalizione internazionale si è mostrata incapace di bloccare l’aggressione dei ribelli yemeniti alla libertà di navigazione nel Mar Rosso, rende evidente uno dei fronti su cui deve combattere Israele. Contemporaneamente, fra giovedì e sabato, vi sono state importanti azioni contro Hamas a Rafah e Gaza City, scambi di colpi molto intensi con Hezbollah in Libano, diverse operazioni antiterrorismo nel territorio dell’Autorità Palestinese; vi è stato poi un tentativo di bombardamento su Haifa partito dall’Iraq ed è stata anche pubblicata la deliberazione del tribunale dell’Aia che ha dichiarato illegittima la presenza israeliana in Giudea e Samaria. Insomma, è sempre più chiaro che quella in corso non è una semplice operazione antiterroristica o una guerra con Hamas, che si potrebbe chiudere con un cessate il fuoco che liberasse i rapiti. Si tratta di una guerra su sei o sette fronti militari e altri politici e giuridici, la cui posta è l’esistenza stessa dello Stato di Israele. È una guerra diretta dall’Iran, di cui pochi in Occidente capiscono l’estensione e l’obiettivo. Israele ha i mezzi e la volontà per vincere. È importante che l’Europa e gli Usa non lo lascino solo, perché il pericolo è grande.
Dopo decenni di lotte e di fronte alla feroce opposizione della leadership ultraortodossa, oggi l’IDF inizierà a inviare gli avvisi di leva alle reclute degli studenti delle yeshiva.
Gli ordini di leva saranno inviati questa settimana a circa 1.000 giovani ultraortodossi in età di leva. A questi ultraortodossi verrà chiesto di partecipare alla procedura di tzav rishon (primo ordine) presso gli uffici di reclutamento. L’IDF sta cercando di evitare un confronto con la società ultraortodossa e ha messo in atto un processo di selezione in cui ha cercato di identificare gli uomini Haredi che sarebbero stati i più facili da arruolare.
Tra le persone identificate dall’IDF come potenziali arruolati ci sono uomini che ricevono una busta paga che indica che lavorano e non passano la maggior parte del tempo in yeshiva, uomini che possiedono uno smartphone e uomini che non erano presenti in una yeshiva durante le verifiche delle presenze effettuate dal Ministero dei Servizi Religiosi.
Nonostante questi tentativi, la leadership spirituale del settore ultraortodosso non accetta il provvedimento. Sul giornale Yated Ne’eman, di orientamento religioso, venerdì è apparsa una vignetta in cui si vedono gli ordini di arruolamento gettati in un cestino all’interno di una yeshiva, mentre gli studenti siedono davanti a un Talmud aperto, un’interpretazione visiva delle istruzioni dei rabbini haredi lituani, guidati da Rabbi Dov Lando, secondo cui gli studenti delle yeshiva non dovrebbero presentarsi per l’arruolamento nell’IDF.
Nei giorni scorsi, anche i rabbini del Consiglio dei Saggi della Torah di Shas si sono uniti all’ordine di non presentarsi, pubblicando una lettera che recita: “A partire da ora, quando non è ancora stata stabilita una nuova legge che regoli lo status dei membri delle Yeshiva, non si deve obbedire a nessun ordine di leva o di arruolamento, nemmeno a uno tzav rishon (primo ordine), e quindi non ci si deve presentare affatto agli uffici di reclutamento”.
I rabbini dello Shas hanno anche aggiunto che “ci sono elementi, guidati dall’Alta Corte di Giustizia e da funzionari legali, che stanno lavorando per danneggiare il mondo della Torah e per danneggiare il popolo della Torah, e quindi è doveroso per noi ora rimanere fermi, e chiarire a queste persone e al mondo che non c’è nessun potere al mondo che possa riuscire, Dio non voglia, a disconnettere gli studiosi della Torah dal Talmud”.
Coloro che non hanno aderito al messaggio sono i rabbini dei principali movimenti chassidici in Israele, i rebbes dei movimenti Gur, Belz e Vizhnitz. I tre non hanno firmato tali lettere e hanno anche detto a coloro che li hanno consultati che in questa fase un giovane ultraortodosso che riceve uno tzav rishon dovrebbe recarsi all’ufficio di reclutamento per non litigare con l’esercito, e che in seguito esamineranno come mantenere l’esenzione per chi studia in yeshiva.
Un’altra voce che si è sentita negli ultimi giorni è quella del rabbino Dovid Leibel, capo della rete di kollel Achvas Torah, che negli ultimi anni ha cercato di creare percorsi personalizzati per gli ultraortodossi nell’esercito. La scorsa settimana, una manifestazione di manifestanti ultraortodossi si è svolta intorno alla sua casa, dopo aver scoperto che egli si sarebbe incontrato con alti ufficiali dell’esercito per discutere del reclutamento di giovani ultraortodossi.
Leibel ha anche tenuto una lezione ai suoi studenti in cui si è opposto allo spirito militante dei rabbini Haredi, dicendo: “A lungo andare, tutto il nostro settore dovrà trovare una sorta di accordo, non è possibile vivere nel Paese e stringere la mano al governo, all’esercito e alla legge e vedere chi batterà per primo le ciglia”.
Il rabbino ha anche fatto riferimento all’opinione di alcuni ultraortodossi che dicono di non arruolarsi perché non fanno parte dello Stato, che non riconoscono. Questi ultraortodossi credono che l’esilio non sia ancora finito, fino alla venuta del Messia ebraico. Il rabbino ha detto: “Ci siamo seduti in esilio con i sionisti, quindi ora dovremmo comportarci come in esilio, chinare la testa davanti ai proprietari terrieri, non andare a ubriacarci e gridare ‘Siamo noi a gestire il Paese’”.
L’IDF ha avuto difficoltà a stimare quanti giovani avrebbero risposto al primo bando di leva. I primi 3.000 ordini decisi nell’ambito della sicurezza saranno distribuiti dall’IDF in tre lotti, ciascuno a distanza di due settimane.
Il generale di brigata Shay Taib questa settimana ha giustificato la decisione di agire in questo modo, dicendo: “Si tratta di una popolazione su cui abbiamo essenzialmente zero dati. Se mi chiedete quanti della popolazione generale si faranno avanti, so come tirare fuori una cifra che si avvicina alla realtà. Questa è una popolazione per la quale non abbiamo dati e non posso stimare quanti si presenteranno. Dopo un ciclo, avremo due settimane di apprendimento e miglioramento, un altro ciclo e un’altra procedura di miglioramento”.
I protocolli dei medici israeliani per assistere gli ostaggi liberati
Allo Sheba Center di TelAviv uno staff di esperti ha elaborato procedure ad hoc per curare i rapiti da Hamas Si credeva che i ricoverati volessero stare da soli, invece desideravano il contatto fisico con dottori e famiglie.
di Luciano Bassani
Il ritorno a casa di persone che sono state rapite e tenute in cattività pone dei problemi inusuali e di difficile gestione sia sanitaria che etico comportamentale. Qual è la prima cosa che dici a un rapito che scende da un elicottero? Che tono di voce usi? Lo abbracci? Lo tocchi? Cosa dici quando ti chiede «Perché mia madre non è qui per incontrarmi?».
«Abbiamo fatto pratica più e più volte finché non abbiamo trovato le soluzioni migliori e le persone più adatte a soddisfare ogni prigioniero», ha affermato il dottor Itai Pessach, medico di terapia intensiva pediatrica, direttore dell'ospedale pediatrico Edmond and Lily Safra presso lo Sheba Medicai Center (Tel Aviv). Pessach dirige la squadra medica speciale dello Sheba che si prende cura degli ostaggi di ritorno. Si stima che delle 251 persone rapite a Gaza dai terroristi di Hamas il 7 ottobre, 120 sono state rilasciate nel corso del tempo. Tutti sono stati trasportati direttamente negli ospedali israeliani, di cui 36 allo Sheba, più che in qualsiasi altro ospedale. In un webinar organizzato dall'American Friends of Sheba Medicai Center il 1° luglio, Pessach ha spiegato che l'ospedale pediatrico è stato ritenuto il centro medico più adatto per prendersi cura di ostaggi di qualsiasi età. «Fin dall'inizio, abbiamo capito che i rapiti avrebbero avuto bisogno di un ambiente tranquillo e protettivo per ridurre l'ansia e di un posto in cui avremmo potuto ospitare anche le loro famiglie, cosa che facciamo sempre nel nostro ospedale pediatrico», ha detto. Inoltre, davamo per scontato - purtroppo erroneamente - che i bambini rapiti sarebbero stati liberati per primi e in tempi rapidi.
«Pensavamo che ci sarebbero voluti alcuni giorni prima che i bambini rapiti venissero restituiti e abbiamo iniziato a prepararci per fornire loro le cure specifiche e delicate di cui avrebbero avuto bisogno. Non potevamo immaginare che persino un'organizzazione terroristica feroce come Hamas avrebbe tenuto prigionieri i bambini per un lungo periodo», ha detto Pessach. Se poi pensiamo che tra i rapiti c'era un neonato di dieci mesi, Kfir Bibas, è difficile farsi qualche illusione con questi personaggi. Circa 120 professionisti sono stati selezionati con cura per essere addestrati nella squadra speciale che ha aiutato gli ostaggi liberati. Tra loro ci sono psichiatri specializzati nei traumi dei soldati e dei prigionieri di guerra, esperti nel trattamento delle donne che hanno subito aggressioni sessuali e personale con esperienza nel lavoro con bambini vittime di violenza. «Abbiamo dovuto raccogliere molto knowhow perché nessun operatore sanitario lo aveva mai fatto prima, né in Israele né in nessun altro posto al mondo», ha detto Pessach. «Non c'era un protocollo basato sulle prove, quindi abbiamo dovuto crearlo». Lo Sheba ha persino chiesto il parere di esperti in traumatologia che avevano avuto a che fare con ragazze rapite da Boko Haram in Nigeria, bambini rapiti dai cartelli della droga in Messico e bambini in zone di guerra come Bosnia e Ucraìna.
«Abbiamo simulato diversi tipi di scenari di ritorno e li abbiamo messi in pratica più volte. Abbiamo svolto un processo approfondito per comprendere il modo giusto di accogliere le persone che hanno subito un'esperienza così orribile e impedire che si verificassero ulteriori danni psicologici». Sulla base delle raccomandazioni raccolte, l'ospedale pediatrico Safra ha predisposto con cura un'area apposita, protetta dalla stampa e dal pubblico, per accogliere gli ostaggi. «Ci siamo assicurati che le luci fossero soffuse perché alcuni di loro erano stati tenuti sottoterra e avevano dovuto acclimatarsi lentamente alla luce», ha detto Pessach.
«Abbiamo sostituito molti mobili per farla sembrare più una stanza di un boutique hotel che una stanza di un paziente. Non sapevamo quali sarebbero state le loro condizioni mediche, ma dovevamo essere pronti a fornire cure avanzate. Siamo stati in grado di passare da una terapia intensiva a una «stanza di hotel» in pochi minuti per fornire le cure mediche necessarie in un ambiente sicuro», ha aggiunto. Il team ha persino pensato di allestire una cucina con chef in cui preparare qualsiasi piatto desiderato dai rapiti rimpatriati, nonché un salone per capelli, unghie e trattamenti per il viso per le ex prigioniere che potessero aver bisogno di questi servizi per «sentirsi esseri umani», ha affermato Pessach. Sono state esaminate le cartelle cliniche di ogni prigioniero per determinare le probabili necessità, come ad esempio occhiali da vista rotti o portati via. Pesach si ricordò di un prigioniero la cui prescrizione specifica per occhiali non era immediatamente disponibile. «Così una persona ha chiesto a un'altra che ha chiesto a un'altra ancora - è così che funzionano le cose in Israele - e in meno di un'ora, nel cuore della notte, abbiamo trovato un optometrista che è andato nel suo negozio, ha preparato gli occhiali e li ha portati allo Sheba».
Un altro motivo per cui l'ospedale pediatrico era il luogo più appropriato per accogliere gli ostaggi è che il personale è esperto nel dare con delicatezza le brutte notizie. «Avevamo molte brutte notizie da dare ad alcuni dei prigionieri, soprattutto ai primi ad essere rilasciati dopo 50 giorni», ha detto «Non sapevano che altri erano stati rapiti. Non sapevano che altre comunità erano state aggredite il 7 ottobre. Non sapevano che alcuni dei loro familiari erano morti e altri erano stati fatti prigionieri. «Volevamo dare questa notizia in modo molto controllato e sicuro, su misura, consultandoci con i loro familiari». Nonostante tutta questa meticolosa preparazione, Pessach ha detto che i protocolli sono stati modificati in base all'esperienza effettiva. La conoscenza accumulata è stata condivisa con altri ospedali che hanno ricevuto ostaggi, e viceversa. Lo staff aveva dato per scontato, ad esempio, che i rapiti di ritorno non avrebbero voluto parlare o essere toccati, come è tipico delle vittime di violenza. Avevano dato per scontato che inizialmente i rapiti avrebbero voluto avere contatti solo con persone selezionate e che avrebbero dovuto essere protetti dagli altri. «Ma invece era il contrario; desideravano ardentemente il contatto fisico con noi e le loro famiglie, e volevano condividere le loro esperienze e il loro dolore. Volevano parlare, e volevano vedere gli amici il più velocemente possibile, per provare gioia e felicità. Non volevano essere lasciati soli», ha detto Pessach. «Ora sappiamo che dobbiamo ancora proteggerli in una certa misura, ma dobbiamo anche dare loro molta scelta. Gli ultimi quattro rapiti che sono tornati volevano davvero interagire con i loro amici e familiari, quindi glielo abbiamo permesso fin dall'inizio», ha aggiunto. «Si tratta di un processo continuo di apprendimento della soluzione esatta appropriata per ogni prigioniero che ritorna». Pessach ha affermato che tutti gli ostaggi hanno subito un trauma psicologico e fisico significativo. E sebbene ognuno abbia sofferto in prigionia, le esperienze e le reazioni individuali sono state molto diverse. «Le loro condizioni dipendevano da dove venivano trattenuti e con chi venivano trattenuti. Quelli trattenuti da soli (alcuni sono stati trattenuti da soli per 50 giorni, quasi senza alcuna interazione umana) hanno avuto un'esperienza molto diversa a livello fisico e psicologico rispetto a quelli trattenuti con altri ostaggi o con familiari», ha spiegato. «Quelli tenuti sottoterra erano esposti a condizioni più dure di quelli tenuti in appartamenti. Anche le persone nello stesso gruppo avevano esperienze diverse a seconda di come i loro rapitori si relazionavano con ciascuno di loro». I bambini che sono tornati a casa, ha aggiunto, erano generalmente più resilienti degli adulti. «Ci sono almeno altri 120 ostaggi ancora a Gaza», ha detto Pessach. «Non possiamo semplicemente sederci e aspettare che tornino. Ogni secondo, le loro vite sono a rischio e la loro salute è compromessa. Noi in Israele e in tutto il mondo dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per assicurarci che tornino. Siamo pronti a riceverli in qualsiasi momento e a dare loro la migliore assistenza possibile, ma non è abbastanza. Abbiamo solo bisogno che tornino qui».
Magdi Allam, o meglio, Magdi Cristiano Allam, da quando, nel 2008, si convertì al cristianesimo, uscendo definitivamente dal perimetro dell’Islam, e dunque diventando apostata, scelta per la quale è prevista la condanna a morte, è da molti anni schierato a fianco di Israele e delle sue ragioni, al punto che Hamas lo ha designato come legittimo bersaglio. Ciò nonostante, con coraggio e determinazione, ha sempre continuato a dire ciò che ritiene necessario dire.
- Nel 2003 ti è stata concessa la scorta a seguito di quello che è stato valutato come un pericolo concreto riguardo alla tua persona. Vorresti brevemente ricordare quali sono le ragioni di questa decisione? «Nel marzo del 2003 ero editorialista ed inviato speciale del quotidiano “La Repubblica”. Mi trovavo a Kuwait City per seguire gli sviluppi della seconda guerra del Golfo, culminata con l’uccisione di Saddam Hussein e il sovvertimento dell’Iraq. L’allora Direttore del Sisde, i Servizi segreti interni, il generale dei Carabinieri Mario Mori, comunicò all’allora Direttore di “La Repubblica”, Ezio Mauro, che dovevo rientrare immediatamente in Italia. Il Sisde era stato informato dai Servizi segreti egiziani, ben presenti a Gaza che fu occupata e amministrata dall’Egitto dal 1948 al 1967, che Hamas mi aveva di fatto condannato a morte per le mie pubbliche denunce sulla stampa e in televisione degli attentati terroristici suicidi perpetrati da Hamas contro i civili israeliani. È da allora che lo Stato mi ha affidato una scorta. La mia esplicita e totale denuncia del terrorismo islamico e della predicazione d’odio dai pulpiti delle moschee contro ebrei e cristiani, Israele e l’Occidente, mi ha portato successivamente a subire condanne e minacce di morte anche da parte di supposti rappresentanti di un “islam moderato” in Italia, legati ideologicamente a Hamas e ai Fratelli Musulmani. Nel 2007, dopo la pubblicazione del mio saggio “Viva Israele”, e nel 2008, dopo la mia conversione dall’islam al cristianesimo ricevendo il battesimo dalle mani del Papa Benedetto XVI, sono stato il civile più scortato d’Italia, a causa dell’impennata delle condanne e delle minacce da parte dei terroristi e degli estremisti islamici».
- Veniamo all’attualità. Recentemente sei stato oggetto di attacchi diretti da parte di Zulfiqar Khan, un predicatore pakistano che si trova a Bologna già noto per le sue invettive contro Israele e per considerare Hamas in modo favorevole. A seguito di ciò hai scritto una lettera aperta al ministro degli Interni Piantedosi. Cosa hai da dire su questa vicenda? Il 30 giugno 2024 ho partecipato a un convegno dal titolo “Il 7 ottobre nella geopolitica di Israele”, a San Miniato, in provincia di Pisa, organizzato dal “Centro Ghesher”. Il 6 e il 7 luglio, sul profilo Facebook del Centro islamico Iqraa, sono stati pubblicati due video di altrettanti sermoni del sedicente imam pachistano Zulfiqar Khan, tenuti di fronte ai fedeli della sua moschea, dal titolo “Scarsa conoscenza di Magdi Allam”, in cui mi condanna e mi rivolge degli avvertimenti. Mi preoccupa il fatto che, nonostante questo sedicente imam, sia già stato diffusamente denunciato dalla stampa per le sue affermazioni violente soprattutto contro gli ebrei, Israele e Stati Uniti, ma anche nei confronti degli omosessuali e della nostra civiltà laica; nonostante il Ministero dell’Interno abbia specificato che è un soggetto “attenzionato” dalle Forze dell’ordine; nonostante sia stata chiesta la sua «espulsione immediata» da parte del vice-Presidente del Consiglio, Segretario federale della Lega ed ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini; nonostante sia stato oggetto di un’interpellanza parlamentare da parte del Senatore Marco Lisei e del Deputato Sara Kelany del Partito di maggioranza al Governo, Fratelli d’Italia, in cui si chiede al Ministro dell’Interno di intraprendere delle azioni nei suoi confronti; ebbene, ciononostante, questo sedicente imam mi ha voluto riservare due sermoni e altrettanti video in 48 ore per condannarmi sostanzialmente come “nemico dell’islam” e “collaborazionista di Israele”. Ho pertanto deciso il 15 luglio di pubblicare una “Lettera aperta” al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, evidenziando che negli ultimi anni, senza una carica pubblica e scarsa visibilità televisiva, la scorta assegnatami si è ridotta notevolmente, a un livello che reputo inadeguato alla mia condanna a morte che resta immutata. Ho fatto presente che lo scrittore Salman Rushdie, condannato a morte nel 1989 per il suo romanzo “I versi satanici” dal Fondatore della Repubblica Islamica dell’Iran, l’imam Khomeini, si è salvato miracolosamente da un attentato terroristico islamico ben 33 anni dopo, il 12 agosto 2022. Perché la condanna del “nemico dell’islam” non decade mai, così come l’obbligo di ucciderlo resta valido fino alla sua morte.
- Il tuo impegno a favore di Israele è un impegno di vecchia data e ben noto. Quali sono, se puoi riassumerle, le ragioni essenziali della tua vicinanza? «Sono nato e cresciuto nei primi vent’anni in un Egitto impregnato di odio assoluto nei confronti di Israele e di un pregiudizio viscerale nei confronti degli ebrei. Sulla carta geografica nei testi di Storia in lingua araba il territorio che va dal Giordano al Mediterraneo e dal Libano al Sinai, veniva indicato come “Palestina”. Israele veniva additato come “entità sionista”, creata dall’imperialismo americano. Il regime autoritario e guerrafondaio di Nasser concepiva Israele come un cancro da estirpare, mobilitando il popolo e investendo tutte le risorse per annientarlo e far trionfare un’unica “Nazione araba”, dal Marocco ad ovest all’Iraq ad est. Ero al Cairo il 5 giugno 1967. Scoppiò la “Guerra dei sei giorni” voluta da Nasser. La Radio annunciava l’approssimarsi della “eliminazione del nemico sionista”. Sentii il fragore delle bombe con cui l’aviazione israeliana distrusse gli aerei militari egiziani a terra, determinando in poche ore la sconfitta dell’Egitto. Avevo 15 anni ed una fidanzatina che, soltanto allora, scoprii che era ebrea. In una società laica non ci si declinava per identità religiosa. Ma allora esplose la caccia all’ebreo. Fui prelevato da casa, trasferito in un centro dei Servizi segreti, mi accusarono di essere una spia di Israele.Presi atto che dall’odio nei confronti di Israele si era rapidamente passati all’odio nei confronti degli ebrei, a prescindere che fossero cittadini egiziani o di altri Stati. Successivamente si è passati all’odio di tutti i “diversi”. Prima i cristiani, anche se sono gli autentici egizi non islamizzati. Poi i musulmani eterodossi, non praticanti, sostanzialmente laici. Infine l’odio contro tutti i musulmani che non si sottomettono all’arbitrio e alla tirannia dei gruppi estremisti e terroristici islamici. Ho così compreso che solo riconoscendo il diritto di Israele ad esistere come Stato del popolo ebraico, si garantisce il diritto alla vita di tutti, ebrei, cristiani, musulmani eterodossi e musulmani praticanti ma non sottomessi ai terroristi islamici. Ecco perché “Viva Israele” è un inno alla vita di tutti.
- Dopo l’eccidio di Hamas perpetrato in Israele il 7 ottobre scorso, abbiamo assistito a un rigurgito di antisemitismo senza precedenti. È qualcosa che ti ha meravigliato o te lo aspettavi? «L’antisemitismo, o più chiaramente anti-ebraismo, ha sempre covato sotto la cenere in Italia e nell’Europa dove si è consumata la Shoah, l’Olocausto di sei milioni di ebrei. Di fatto c’è stata una continuità tra la partecipazione del regime fascista di Mussolini alla Shoah, e la politica filo-araba e filo-islamica dell’Italia repubblicana, dettata dalla strategia dell’Eni, l’Ente nazionale idrocarburi. La necessità di acquisire il petrolio e il gas degli Stati arabi ed islamici, ha forgiato sin dal dopoguerra la politica estera dell’Italia e dell’Europa, a scapito di Israele. L’anti-ebraismo è radicato nel cristianesimo, fondato sul pregiudizio che sarebbero stati gli ebrei a uccidere Gesù. Così come è radicato nelle ideologie della destra nazista e fascista e della sinistra comunista, rappresentando gli ebrei come una casta oligarchica che controllerebbe la ricchezza del mondo e determinerebbe le sorti dell’umanità. Il pregiudizio nei confronti degli ebrei si è riverberato su Israele, gettando ombre sulla sua nascita e mettendo in discussione il suo diritto ad esistere. Si tratta di un pregiudizio radicato e diffuso, presente sia ai vertici delle istituzioni, anche se non palesato, sia tra le masse dove invece viene manifestato esplicitamente e persino violentemente. La conferma la si è avuta quando Israele ha legittimamente reagito alla strage perpetrata dai terroristi islamici di Hamas il 7 ottobre 2023, con 1200 israeliani massacrati in poche ore. Ebbene, si sono capovolte le responsabilità, incolpando non Hamas ma Israele di crimini contro l’umanità e persino di “genocidio del popolo palestinese”.
- Nell’islam ci sono due filoni di antisemitismo, quello originario che troviamo nel Corano e negli hadit e quello di importazione occidentale che soprattutto in Medio Oriente è stato diffuso capillarmente dalla propaganda del Terzo Reich, a partire dalla metà degli anni ’30. Entrambi li troviamo esemplificati nello Statuto di Hamas del 1989. Cosa hai da dire in proposito? Maometto è stato uno stragista degli ebrei, così come il Corano è il testo più anti-ebraico della Storia. Nel 627 a Medina Maometto partecipò personalmente allo sgozzamento e alla decapitazione di circa 900 ebrei maschi adulti della tribù ebraica dei Banu Quraiza, mentre i bambini e le donne furono catturati, seviziati e venduti come schiavi. I terroristi islamici non sono delle “schegge impazzite” che violano e oltraggiano il “vero islam”, ma all’opposto sono i musulmani che più di altri ottemperano letteralmente e integralmente a ciò che Allah prescrive nel Corano e a ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Tutto ciò che fanno i terroristi islamici corrisponde all’attuazione di “fatwe”, responsi giuridici islamici emessi da autorità religiose, vincolanti per i fedeli. Le fatwe si fondano sulla “sharia”, la legge islamica, basata sul Corano, il loro testo sacro che sostanzia e invera Allah; sulla Sunna, la raccolta dei detti e dei fatti attribuiti a Maometto; e sulla Sira, la biografia di Maometto. Anche la decapitazione di neonati e bambini trova una sua legittimazione in delle fatwe emesse dal “Grande imam” dell’Università islamica di Al Azhar, concepita come l’equivalente del “Vaticano dell’islam sunnita”, in quanto principale riferimento sul piano della sharia per la stragrande maggioranza dei musulmani nel mondo che appartengono alla comunità sunnita. Queste fatwe si basano sui seguenti principi: 1) Tutti gli israeliani sono forze di occupazione. 2) Gli attentati terroristici, compresi gli attentati terroristici suicidi, sono operazione di “martirio” e sono legittime sul piano della sharia. 3) L’islam legittima gli attentati terroristici anche per uccidere i bambini e le donne. Il 4 aprile 2002 Ahmed Al Tayeb, attuale Grande imam dell’Università islamica di Al Azhar, equiparabile al “Papa dell’islam sunnita”, quando all’epoca era il Mufti d’Egitto, massimo giureconsulto islamico, legittimò il terrorismo suicida affermando: “Le operazioni di martirio in cui i palestinesi si fanno esplodere sono permesse al cento per cento secondo la legge islamica. La soluzione al terrore israeliano risiede nella proliferazione degli attacchi suicidi che diffondono terrore nel cuore dei nemici di Allah. I paesi, governanti e sovrani islamici devono sostenere questi attacchi”. Sempre il 4 aprile 2002, lo scheikh Mohammad Sayed Tantawi, nella sua veste di Grande imam dell’Università islamica di Al Azhar, ricevendo al Cairo il deputato arabo-israeliano Abdel Wahhab Darawsheh, emise una fatwa in cui sentenziò: “I cittadini israeliani sono forze di occupazione. Quindi le operazioni di martirio sono la più elevata forma di Jihad. Gli attacchi suicidi sono un precetto islamico finché il popolo della Palestina riconquisterà la sua terra e farà arretrare la crudele aggressione israeliana. I giovani che le attuano hanno venduto a Allah la cosa più preziosa. Le operazioni di martirio contro qualsiasi israeliano, inclusi i bambini, le donne e i giovani, sono legittime dal punto di vista della legge islamica. Il popolo palestinese intensifichi le operazioni di martirio contro il nemico sionista, in quanto la manifestazione più alta del Jihad”.Lo Statuto di Hamas ricalca il Corano, Maometto e la storia di 1400 anni di odio islamico nei confronti degli ebrei. Vi si afferma che la Palestina non potrà essere ceduta, anche per un solo pezzo, poiché essa appartiene all’islam fino al Giorno del giudizio. “Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un bene inalienabile (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al Giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa”.L’articolo 7 dello Statuto presenta il Jihād contro il sionismo come rispondente alle parole, proferite secondo Bukhari e Muslim dallo stesso Maometto, per le quali i musulmani combatteranno ed uccideranno gli ebrei. “Benché […] molti ostacoli siano stati posti di fronte ai combattenti da coloro che si muovono agli ordini del sionismo così da rendere talora impossibile il perseguimento del jihād, il Movimento di Resistenza Islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta – le benedizioni e la salvezza di Allah siano su di Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: ‘O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo.”
- Sono anni che la tua voce si fa sentire relativamente all’Islam, di cui denunci senza tentennamenti la sua incompatibilità con l’ordine democratico liberale, esattamente quello che diceva tra gli altri, Giovanni Sartori. Quindi, per te, il problema non è il cosiddetto “islamismo” la presunta degenerazione jihadista dell’Islam, ma l’islam stesso? «Sono stato musulmano per 56 anni. Ho sempre detto che bisogna distinguere tra i musulmani come persone e l’islam come religione. Sono consapevole che ci sono i “musulmani moderati”, persone che antepongono la ragione e il cuore ad Allah e a Maometto. Il problema è l’islam, che è un sistema di potere che salda in modo indissolubile la dimensione religiosa e quella secolare, dove pertanto il peccato diventa reato. L’islam nasce nel 622 quando Maometto, cacciato dai suoi concittadini della Mecca perché si ostina a affermare che bisogna adorare solo il dio pagano arabo Allah, uno dei 360 idoli che componevano il Pantheon politeista arabo, costituisce a Medina la “tribù dei musulmani”, di cui lui assume sia la guida politica, sia la guida religiosa essendosi auto-insignito a “Messaggero di Allah”. Il Corano è concepito come un testo increato al pari di Allah. Pertanto, da 1400 anni i musulmani ottemperano letteralmente e integralmente a ciò che Allah vi prescrive. Mentre fede e ragione convivono armoniosamente nell’ebraismo e nel cristianesimo, l’islam si fonda sulla sola fede.In questo contesto, sono proprio gli integralisti, gli estremisti e i terroristi islamici coloro che più di altri ottemperano letteralmente e integralmente al Corano e a Maometto. Il Corano legittima e ordina di odiare, discriminare e uccidere i miscredenti, a partire dagli ebrei e dai cristiani. Maometto ha perpetrato crimini contro l’umanità, uccidendo, sgozzando e decapitando personalmente i suoi nemici. È stato il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il vero leader politico dei “Fratelli Musulmani” a livello mondiale, il grande burattinaio del radicalismo e del terrorismo islamico, a dire correttamente: “Non c’è un islam moderato e un islam non moderato. L’islam è l’islam”.
- L’Europa di oggi è un continente che sembra del tutto incapace di affrontare la sfida strutturale che pone l’islam, non è già, demograficamente e culturalmente, una battaglia persa? «L’Europa si trova nella condizione in cui versava nel 476, anno della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Siamo una civiltà decaduta, dei popoli condannati all’estinzione, degli Stati nazionali collassati. Oggi, come allora, la causa scatenante del declino è il tracollo demografico. L’Imperatore Caracalla, figlio dell’Imperatore Lucio Settimio Severo, berbero africano di Leptis Magna, nel 212 con la “Constitutio Antoniana” concesse la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero. Era lo “ius soli” dell’epoca. Da Sud arrivarono i berberi per colmare la carenza di contadini nelle campagne. Da Nord affluirono i barbari per consolidare le fila dell’Esercito. E fu proprio un barbaro inquadrato nell’Esercito romano, il generale Odoacre, a destituire con un colpo di stato militare nel 476 l’ultimo Imperatore Romano d’Occidente Romolo Augusto o Augustolo, perché aveva appena 15 anni. L’Impero Romano d’Occidente finì non per la forza dei barbari, ma per la propria intrinseca debolezza. Non fu un omicidio, ma un suicidio. È la stessa realtà che si sta verificando in questa Europa. A fronte di un tracollo demografico senza pari nella Storia, sono gli stessi europei che spalancano le proprie frontiere agli islamici, i nuovi barbari, favorendo la sostituzione etnica e accelerando l’islamizzazione demografica. Di fatto l’Europa è già a un livello avanzato di islamizzazione, innanzitutto a causa della proliferazione delle moschee e delle scuole coraniche, che non sono luoghi di culto pari alle sinagoghe e alle chiese, ma dei presidi territoriali al cui interno si forma la “comunità islamica”, si pratica il lavaggio di cervello per forgiare i combattenti alla “Guerra santa islamica”, si inculca l’odio e si predica la sottomissione all’islam dell’insieme dell’umanità. La differenza è che mentre i barbari europei recepirono la civiltà romana e parteciparono alla fondazione del Sacro Romano Impero, costituito grazie al miracolo di San Benedetto e della rete dei monasteri benedettini, i nuovi barbari islamici rigettano pregiudizialmente la nostra civiltà laica e liberale dalle radici ebraico-cristiane e finiranno per sottometterci alla tirannia dell’islam».
A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio
Il 18 febbraio 1984 fu rinnovato il Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede, originariamente concluso nel 1929 sotto il governo fascista. Dopo quarant'anni di Repubblica democratica, il vecchio Concordato era diventato un oggetto talmente osceno nella sua formulazione clericale che nel paese si cominciava seriamente a parlare dell'opportunità di abolirlo. Tenuto presente che in quegli anni a capo del governo si trovava il socialista Bettino Craxi, fu la stessa Chiesa Cattolica che, nel timore si arrivasse davvero ad abolirlo, spinse la Democrazia Cristiana ad attivarsi per arrivare ad un aggiornamento dello strumento concordatario che lo rendesse presentabile a una popolazione ormai pronta a sganciarsi da certe indicazioni dell'autorità ecclesiastica.
La parte socialista del governo però era meno desiderosa di aggiornare il Concordato, perché moltiavrebbero preferito la sua pura e semplice abolizione. Per qualcuno infatti la presenza nella Costituzione di un paese democratico di un rudere come il Concordato fascista era considerata un vulnus, un'anomalia costituzionale da risanare con la pura e semplice abolizione dell'articolo 7 della Carta che ne regola la presenza.
Poiché però i democristiani si appoggiavano proprio su questo articolo per la difesa del Concordato,altre forze di governo fecero notare che nella Carta esiste anche un articolo 8, ancora inattuato, che prevede la possibilità per lo Stato di fare intese con confessioni religiose non cattoliche, cosa che fino a quel momento non era mai avvenuta. Si arrivò dunque a richiedere l'attuazione dell'articolo 8 come condizione per il mantenimento dell'articolo 7.
Intuito il pericolo, le forze cattoliche di governo corsero ai ripari e si misero a cercare organizzazioni religiose non cattoliche a cui offrire la possibilità di fare intese con lo Stato. La prima in assoluto fu la Chiesa Valdese, che dopo un serio lavoro di elaborazione presentò il testo di una formale richiesta di un'Intesa con lo Stato.
I Valdesi erano consapevoli di assumere una posizione diversa da quella degli altri evangelici, e di poter essere accusati di voler partecipare agli illeciti vantaggi di una posizione di privilegio dei cattolici. Vollero allora che nel testo dell'Intesa fosse ripetuta quasi in ogni articolo la dizione "senza oneri per lo Stato", a marcare la differenza con la Chiesa Cattolica, a cui molti laici rimproveravanoil privilegiato e illecito uso di finanze pubbliche. Purtroppo, dopo pochi anni la Chiesa Valdese non riuscì più a conformarsi a quella solenne dichiarazione, perché si lasciò attrarre dalla ghiotta possibilità di avvalersi dei soldi dell'8 per mille. All'inizio ci fu contrasto interno fra i Valdesi, tanto che lo stesso Moderatore della Tavola Valdese di quel momento si rifiutò, per motivi personali, di sottoscrivere la clausola relativa all'8 mille e si fece sostituire nella firma. Ma il risucchio del Concordato ebbe comunqueil suo effetto e la prebenda istituita dallo Stato per i sottoscrittori di intese fu ricevuta con soddisfazione.
La possibilità di arrivare a concludere intese fu offerta nei primi anni anche ad altri evangelici, tra cui il movimento delle "chiese dei Fratelli". Si aperse allora anche in quelmovimento un intenso dibattito, che in certi momenti prese la forma di una netta contrapposizione: intesa sì o intesa no?
Nel 1986 fu deciso allora di preparare un convegno per discutere il tema, cosa che poi avvenne nel 1989, dopo diversi seminari e studi in sedi locali. Per il convegno furono indicati due relatori: uno a favore delle intese, uno contro.Alla fine, anche per altre ragioni, la richiesta di intesa con lo Stato non ci fu.
Nella convinzione cheal di là della particolare situazione storica di quel tempo, la questione di allora continua a presentarsi in altra forma in ogni generazione, riportiamo il testo della relazione contro l'intesa. Il tema in sostanza riguarda il rapporto fra Dio e Cesare, fra i credenti in Cristo e le Autorità civili. Non è un argomento di poco conto, perché il variare dell'atteggiamento delle Autorità, come sta avvenendo anche negli ultimi anni, pone a tutti domande nuove a cui il credente in Cristo è chiamato a rispondere sulla base di un fondamento antico: le Sacre Scritture. M.C.
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I motivi biblici, teologici e storici per cui non è bene fare intese con lo Stato
• PREMESSA Si può dire ancora qualcosa di nuovo sui rapporti tra chiesa e stato? I passi della Bibbia che ne parlano non sono forse sempre gli stessi? E le interpretazioni che ne sono state date nella storia della chiesa non sono ormai ben note? Non sarebbe più semplice limitarsi a dichiarare da che parte si sta, mettendosi all'ombra di qualche grande dottore della chiesa o di qualche corrente teologica ben assestata?
Effettivamente, non è facile dire cose originali su questo argomento; ma poiché in tutte le cose veramente importanti l'originalità non è affatto importante, anche in questo caso non si tratta di riuscire a sorprendere gli uditori con qualche idea brillante e nuova, ma semplicemente di cercare la verità. Non una verità astratta e teorica, ma, più concretamente, la vera, la giusta strada da percorrere oggi per rimanere nell'itinerario preparato da Dio per i suoi figli.
Questo itinerario dobbiamo percorrerlo noi, e non i nostri progenitori: è naturale quindi che siamo noi a interrogare la Bibbia e a verificare se le risposte trovate nel passato sono proprio autentiche e se, comunque, si adattano alla situazione di oggi. Se le risposte del passato si riveleranno ancora valide e percorribili, sarebbe da pazzi cercarne altre. Se invece non sarà così, lo stesso fatto di averlo capito ci darà indicazioni sufficienti per imboccare quella strada nuova che ci apparirà essere la strada giusta.
La costituzione italiana e la situazione politica del nostro paese ci spingono a considerare di nuovo i rapporti della chiesa con lo stato, a causa della ormai nota questione delle "intese". Siamo quindi costretti a cercare nella Bibbia, con passione, quello che Dio ha da dirci. Dobbiamo farlo con umiltà e fiducia.
Con umiltà, perché dobbiamo lasciare che la Bibbia resti parola di Dio, e quindi non parola nostra, e tanto meno parola nostra a cui abbiamo posto in calce la firma falsa di Dio.
Con fiducia, perché possiamo essere certi che quando apriamo la Bibbia per prendere insieme una decisione di fondamentale importanza, Dio non ci lascia privi della capacità di intendere chiaramente il giusto senso delle sue parole. Se veramente desideriamo fare la volontà del Signore, possiamo accogliere con fiducia l'invito di Giacomo: "Chi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data" (Giacomo 1:5).
Nel tempo della scelta una sola è l'interpretazione giusta delle Scritture; tutte le altre sono sbagliate, anzi ingannevoli, perché sono altrettanti messaggi falsi con cui il Nemico tenta di mettere fuori strada il popolo di Dio.
Rispetto alla vastità del tema, una relazione come questa non può che essere stringata e incompleta, ma vuol essere almeno un tentativo di pensare biblicamente su un argomento che ci riguarda tutti, senza alcuna preoccupazione di apparire conservatore o progressista, di destra o di sinistra. E anche quando le cose vengono dette con forza e convinzione, il desiderio fondamentale è che i lettori facciano come i credenti di Berea, che "esaminavano ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano così" (Atti 17:11).
• LE AUTORITÀ SONO DA DIO Quando il Nuovo Testamento prende in considerazione la società civile organizzata, ne parla quasi sempre in termini di "autorità". In questo articolo verrà usato spesso anche il termine "stato", senza attribuire ad esso particolari significati giuridico-filosofici, ma solo per intendere quel complesso di istituzioni civili che hanno autorità sul singolo cittadino.
La prima affermazione fondamentale che ci viene dalle Scritture è che le autorità sono da Dio. Questo non è mai stato un fatto ovvio e scontato, e non lo è neppure oggi. Anzi, se non ci fossero nella Bibbia affermazioni così chiare, forse molti di noi avrebbero già concluso che le autorità sono dal diavolo.
A rigor di logica la conclusione potrebbe anche essere corretta: se tutto il mondo "giace nel maligno" (1Giovanni 5:19) e Satana è "il principe di questo mondo" (Giovanni 14:30), sarebbe naturale dedurne che i potenti di questa terra sono soltanto dei semplici vassalli che esercitano il potere in nome del "principe".
Ma la Bibbia non dice questo, e noi dobbiamo prenderne atto con tutte le dovute conseguenze.
Se le autorità fossero dal diavolo, i credenti non solo non avrebbero obblighi di ubbidienza nei loro confronti, ma anzi, sarebbero loro ad avere autorità sulle "autorità", perché Gesù Cristo ha vinto il maligno e ha dato ai suoi discepoli il potere di cacciare i demoni (Marco 16:17) e "su tutta la potenza del nemico" (Luca 10:19).
Invece, proprio perché le autorità sono da Dio, i credenti non solo non hanno alcun potere su di loro, ma anzi devono esprimere la loro sottomissione al Signore anche nella doverosa sottomissione alle autorità umane che Dio ha stabilito.
E' notevole il fatto che la Bibbia parli di autorità solo per sottolineare i doveri dei credenti. Ai cristiani si chiede sottomissione, onore e preghiere. Alle autorità non si chiede nulla. E soprattutto, non si chiede nulla che riguardi la chiesa. Non si dice, per esempio, che le autorità debbano essere moralmente sottomesse alla chiesa; non si dice neppure che la debbano onorare standola rispettosamente a sentire tutte le volte che parla di problemi sociali.
La Bibbia presenta con pochi tratti i compiti assegnati da Dio alle autorità, ma non dice che cosa si deve fare quando queste non assolvono i loro compiti. Certamente non conferisce alla chiesa l'incarico di sorvegliarle e di rimproverarle quando si comportano male. Anche se le autorità un giorno dovranno rispondere delle loro opere, la loro fedeltà è un fatto che riguarda Dio e non la chiesa.
• TRA SPIRITUALISMO E CLERICALISMO Tra i diversi errori in cui è caduta la chiesa nei suoi rapporti con lo stato, se ne possono schematizzare due, di tipo contrapposto, che per semplicità denoteremo con i termini “spiritualismo" e "clericalismo".
Per spiritualismo si intende il modo di pensare di coloro che, volendo dare molta importanza alla nuova nascita, tendono a trascurare e svalutare tutto ciò che fa ancora parte della vecchia creazione. Quello che non può essere esplicitamente ricondotto all'opera rinnovatrice dello Spirito Santo nel cuore degli uomini, rischia di essere inglobato complessivamente nel concetto biblico di "carne", e quindi considerato come espressione di peccato.
Poiché è indubitabile che le autorità fanno parte della vecchia creazione, il primo impulso degli spiritualisti è quello di rifiutarle, anche perché non è certo difficile riconoscere in esse delle effettive manifestazioni di peccato.
E' chiaro però che, sia per motivi biblici sia per motivi pratici, le autorità non possono essere tanto facilmente ignorate. Si arriva così ad un atteggiamento di generica riluttanza: i rapporti con le autorità civili sono tendenzialmente pochi e quasi tutti strumentali; dei personaggi pubblici si parla poco, e quando se ne parla, se ne parla male.
L'atteggiamento spiritualistico è molto diffuso tra gli evangelici risvegliati, e bisogna dire chiaramente che esso è peccato. Con un atteggiamento di questo generenon si dà alle autorità quell'onore che la parola di Dio richiede, e che è loro dovuto per la funzione e il rango di "superiori" che hanno ricevuto da Dio nell'ambito della sua opera di conservazione del mondo, fino al compimento dell'opera di salvezza in Gesù Cristo.
Per clericalismo si intende invece l'errore opposto. Il ragionamento dei clericali è più o meno questo: le autorità sono da Dio, e poiché la maggiore esperta in fatto di cose di Dio è la chiesa, le autorità devono stare a sentire quello che dice la chiesa.
Anche questo è un atteggiamento di peccato: perché quando i cristiani ragionano in questo modo rifiutano di dare alle autorità quella sottomissione che la parola di Dio esplicitamente ordina.
Questo peccato assume la sua forma più evidente nella chiesa cattolica romana, che nei secoli passati ha realizzato concretamente il suo clericalismo riuscendo a conquistare, in una società cristianizzata, una superiorità giuridicamente riconosciuta nei confronti dello stato.
Oggi la chiesa cattolica, pur avendo rinunciato per motivi di forza maggiore ad esercitare un potere giuridico sulle nazioni, non ha tuttavia rinunciato a pretendere per sé un'autorità morale. L'attuale papa illustra in modo efficacissimo questa pretesa ecclesiastica, andando in giro per il mondo a dire a ciascuno il suo, come uno che avendo ricevuto da Dio una particolare sapienza e autorità, può legittimamente pretendere che re, presidenti e governanti di tutte le nazioni della terra stiano ad ascoltare con deferente rispetto le esortazioni, gli ammonimenti e i rimbrotti che lui, suprema autorità spirituale del mondo, si sente in dovere di fare.
Se questo tipo di clericalismo è intimamente connaturato con l'ecclesiologia cattolica, esso è presente anche nella tradizione riformata, sia pure in forme diverse. Anche per i riformati la chiesa può parlare ai re e trattare con i potenti della terra, in forza della sua autorità spirituale. Limitarsi a pretendere per la chiesa un'autorità soltanto morale sullo stato, era un fatto che una volta distingueva nettamente le chiese riformate dalla chiesa cattolica, che invece continuava a restare teologicamente attaccata ai suoi eserciti e ai suoi sbirri. Oggi invece questa differenza si è molto attenuata, perché anche la chiesa cattolica si limita a chiedere per sé il riconoscimento di un'autorità soltanto morale sulla società civile. Il clericalismo protestante trova quindi espressione in quel desiderio intenso di entrare in concorrenza con la chiesa cattolica in fatto di autorità morale sul mondo. Se la chiesa cattolica proclama al mondo certe cose, le chiese protestanti ne proclamano altre; se la chiesa cattolica fa parlare il papa dalla finestra di San Pietro, i protestanti fanno parlare qualche loro personaggio rappresentativo da uno dei loro convegni; se la chiesa cattolica chiede allo stato di riconoscere giuridicamente la sua alta funzione spirituale attraverso le clausole di un concordato, le chiese protestanti fanno vedere al mondo come una chiesa cristiana può accordarsi con le autorità civili per mezzo di intese, senza pretendere per sé privilegi e senza costituire un onere per lo stato; e così via.
E' un tipo di clericalismo che non fa parte della tradizione risvegliata, ma per il suo sapore di novità e per la sua veste dignitosa oggi potrebbe destare un certo interesse anche in questo ambiente.
Ma la pretesa della chiesa di avere autorità morale sullo stato non ha basi bibliche. Da nessuna parte nel Nuovo Testamento sta scritto che la chiesa ha un compito pedagogico nei confronti dello stato. Se la chiesa, in quanto tale, potesse legittimamente insegnare allo stato l'arte del governo, essa gli sarebbe "superiore", perché chi insegna è in una posizione di superiorità rispetto a chi viene istruito. La Scrittura afferma invece che nell'amministrazione delle cose pubbliche i superiori sono le autorità civili, non le autorità ecclesiastiche.
Si può essere certi allora che tutti i fervorini moralistico-paterni che il papa rivolge quasi ogni giorno ai popoli della terra, e tutti i documenti moralistico-politici che certi cristiani si ostinano a indirizzare ai responsabili della politica, non spostano il male che è nel mondo neppure di un millimetro.
Dio non è distratto, e non perde di vista il male che imperversa sulla terra. Ma Dio ha per il mondo il suo piano di salvezza e di giudizio, e in questo piano ognuno è chiamato ad occupare il suo posto. Nessuno può illudersi di contribuire alla causa della giustizia da una posizione che non è la sua, perché se uno dice una cosa vera da una posizione falsa, è la falsità che si diffonde, non la verità.
Nel programma di Dio per la sua chiesa è anche prevista, in casi estremi, la disubbidienza alle autorità civili; ma non è previsto l'atteggiamento di tutela e di giudizio nei loro confronti. Nel capitolo 13 della lettera ai Romani, Paolo presenta i magistrati come "ministri di Dio", adoperando i termini "diaconos" e "leiturgos", usati di solito per indicare coloro che servono il Signore nella chiesa. Se dunque anche i magistrati sono, volenti o nolenti, servitori di Dio, con quale diritto i credenti si azzardano a "giudicare i domestici altrui?" (Romani 14:4)?
• LA FUNZIONE DELLE AUTORITÀ Lo stato, con le sue leggi, i suoi tribunali e le sue carceri, è chiaramente un ordinamento provvisorio. Non era necessario prima della caduta e non sarà più necessario dopo la discesa della nuova Gerusalemme, quando Dio stesso porrà "il suo tabernacolo tra gli uomini" ed "Egli abiterà con loro, ed essi saranno suoi popoli, e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio" (Apocalisse 21:3). Ma oggi, nel tempo della sua pazienza, fino a che Egli è disposto ad esercitare il suo potere in forma nascosta e indiretta, Egli vuole che su questa terra abitata da giusti e ingiusti ci sia un'istituzione, formata da giusti e ingiusti, che abbia la necessaria autorità per mantenere in una certa misura l'ordine e la giustizia.
Le funzioni assegnate da Dio allo stato sembrano essere essenzialmente tre:
Ordinare la convivenza umana per mezzo di apposite leggi;
Porre un argine al male attraverso il meccanismo dello spavento preventivo e della punizione;
Tenere desto il ricordo del giudizio di Dio su tutti gli uomini.
Queste funzioni sono state delegate da Dio alle autorità civili; esse quindi ci rimandano a Lui, e la loro presenza serve a mantenere desto negli uomini il ricordo di Dio nella sua funzione di legislatore e giudice. I parlamenti sono lì a ricordarci che gli uomini non possono vivere senza leggi; i tribunali sono lì a ricordarci che esiste una giustizia e che sul suo metro saranno misurate tutte le azioni degli uomini; le carceri sono lì a ricordarci che il male non resterà impunito, ma ricadrà sulla testa di colui che lo compie.
Queste funzioni non possono e non devono essere svolte dalla chiesa: essa non ha autorità su queste cose. Non ha neppure ricevuto la promessa di una particolare sapienza in merito. Quindi c'è da insospettirsi quando si vedono dei cristiani che, senza ricoprire nessuna carica pubblica, parlano e agiscono come se avessero ricevuto doni di particolare acutezza in fatto di amministrazione della società civile. I cristiani devono sottomettersi alle autorità come tutti gli altri; anzi, devono essere molto più scrupolosi degli altri, perché sanno a Chi realmente essi si sottomettono, e quindi devono farlo "non soltanto a motivo della punizione, ma anche per motivo di coscienza" (Romani 13:5).
L'incarico che lo stato ha ricevuto da Dio serve dunque a conservare questo mondo e a ricordare agli uomini l'autorità di Dio. Nello svolgimento di questo compito, lo stato non può essere né sostituito né istruito dalla chiesa, perché l'opera dello stato riguarda tutti gli uomini, e la responsabilità che ne porta riguarda Dio. Per la chiesa non c'è nessun posto speciale. Lo stato anzi non ha neppure ricevuto da Dio la capacità di riconoscere la vera chiesa, semplicemente perché non era necessario.
• I LIMITI DELLE AUTORITÀ Ma oltre alla possibilità di un'indebita invasione della chiesa nel territorio dello stato, c'è anche la possibilità opposta: cioè che lo stato si assuma compiti che sono di specifica competenza della chiesa.
Il limite fondamentale dello stato è che a lui non è stato affidato alcun compito di salvezza, cioè non ha nessun vangelo da annunciare, nessuna speranza universale da proporre. Quando uno stato, un partito, un movimento politico si presentano come portatori di un nuovo messaggio di salvezza per l'umanità; quando additano agli uomini alti ideali e nobili mete; quando si propongono di curare alla radice i mali della società, e in vista di tali fini chiamano a raccolta tutti gli uomini di buona volontà, ivi compresi i cristiani, si può ragionevolmente pensare che dietro a tutto questo nobile fervore si nasconda lo spirito dell'anticristo, che prima o poi viene fuori nei lutti, nelle stragi e nelle barbarie che inevitabilmente accompagnano questi umani progetti di rinnovamento universale.
La nuova creazione, in cui trova posto la nuova società, ha avuto inizio con Gesù Cristo; e il corpo di Gesù Cristo su questa terra è la chiesa. Alla chiesa quindi, e non allo stato o a qualsiasi altra istituzione pubblica, compete l'incarico di annunciare e di vivere in prima persona l'unica, vera salvezza che Gesù ha portato nel mondo.
Ma la chiesa, che è il germe della nuova società, oggi deve esprimere la signorìa di Gesù partecipando al suo abbassamento e alla sua umiliazione. Quindi deve guardarsi bene dalla tentazione di parlare tanto di "gloria di Dio", solo per innalzare sé stessa. Il suo posto, oggi, è in basso.
• SIATE SOTTOMESSI L'ordine biblico della sottomissione alle autorità deve essere ristabilito in tutta la sua forza. Ben lungi dal favorire il disinteresse egoistico, questo insegnamento della Scrittura è un'esortazione alla partecipazione impegnata, serena e leale alla vita della società. Per esempio, non si può essere sottomessi senza conoscere quello che le leggi richiedono. Quindi, come prima cosa bisogna essere informati.
Essere sottomessi significa poi prendere in seria considerazione gli appelli diretti o indiretti che le istituzioni pubbliche rivolgono ai cittadini affinché collaborino al buon andamento delle attività di interesse sociale.
Essere sottomessi significa anche adoperarsi, con correttezza e lealtà, affinché nel proprio paese vengano abolite leggi inique e introdotte leggi eque, in modo che venga migliorata la qualità morale della convivenza umana.
Infine, essere sottomessi non significa essere servili, perché in qualche caso il buon cittadino è tenuto a denunciare alle autorità competenti le violazioni della legge di cui è testimone e che causano disordini e ingiustizie. Se necessario, il cristiano può e deve fare questo senza timori di svantaggi personali, perché lo fa "per motivi di coscienza", servendo il Signore da uomo libero.
Ma tutto questo i cristiani devono farlo come coscienziosi cittadini, insieme a tutti gli altri cittadini. La conoscenza delle Scritture e la guida dello Spirito Santo saranno per loro un aiuto fondamentale nelle scelte che dovranno fare; ma dovranno guardarsi bene dal pretendere che sia loro riconosciuto uno "status" particolare a causa della loro identità di cristiani.
• IN MANO DEI TRIBUNALI Le autorità sono da Dio, nel senso che è volontà di Dio che in ogni comunità sociale ci siano delle autorità pubbliche. Questo però non significa che l'operato delle autorità rifletta le intenzioni e la natura di Dio. I potenti della terra non portano l'aureola del divino; anzi, tutte le loro opere saranno un giorno giudicate dal Signore, ivi compresi gli abusi e le ingiustizie che avranno commesso nell'esercizio delle loro funzioni.
Tuttavia, anche dietro alle autorità particolarmente ingiuste (perché nei confronti di Dio sono sempre ingiuste) bisogna scorgere la volontà di Dio che permette che ciò accada. Paolo dice: "Le autorità che esistono sono stabilite da Dio": dunque non quelle ideali, ma proprio quelle con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni.
Non occorre certo una grande acutezza per accorgersi che le autorità, che pure hanno il compito di mantenere l'ordine ed esercitare la giustizia, spesso sono le prime a non osservare le leggi della società. Ma questo, Dio lo sapeva fin dall'inizio. Non è quindi il caso di indignarsi troppo e di compiacersi intimamente del proprio elevato senso di giustizia. Tanto meno è il caso di muovere velati rimproveri a Dio perché non fulmina subito il tiranno. Molto meglio è cercare di capire le vie del Signore, chiedendo a Lui la sapienza e la forza per camminare in esse.
Senza pretendere di sondare i misteri della volontà divina, che spesso restano chiusi alla nostra comprensione, si possono indicare almeno due motivi per cui Dio sopporta le autorità particolarmente ingiuste.
Per punire l'iniquità degli uomini e risvegliare la coscienza di alcuni di loro.
Dio permette talvolta che la malvagità esercitata nel privato, diffusa nella popolazione e tollerata da tutti, trovi un'espressione pubblica nella violenza oppressiva dei governanti. In casi come questi la chiesa non è chiamata a scindere frettolosamente le sue responsabilità e ad ergersi a maestra, rivolgendo solenni rimproveri a destra e a sinistra o, addirittura, caldeggiando "la morte del tiranno". Poiché conosce la santità di Dio e la malvagità degli uomini, la chiesa deve essere la prima a ravvedersi, a fare cordoglio, a chiedere perdono a Dio per i suoi peccati e per quelli degli altri. La chiesa è chiamata a santificarsi, a cambiare stile di vita e a cercare la fedeltà al Signore nelle difficili condizioni che Egli permette.
Per mettere alla prova la sua chiesa e darle la possibilità di testimoniare pubblicamente del Signore Gesù Cristo.
La chiesa deve aspettarsi la persecuzione proprio da quegli stati che si sentono chiamati a grandi compiti di salvezza universale. Gli stati che si fondano su ideologie totalizzanti prima o poi s'accorgono che molti cristiani non collaborano, o collaborano con scarso entusiasmo. Essendo dominati da uno spirito di anticristo, le autorità di queste nazioni vedono nella chiesa fedele un'antagonista, e non appena la situazione si fa critica comincia la persecuzione.
Naturalmente la persecuzione arriva perché i cristiani cominciano a disubbidire, a rifiutarsi di sottostare a certe disposizioni delle autorità. I cristiani arrivano quindi al punto in cui la loro coscienza è tesa tra l'ubbidienza a Dio e la sottomissione alle autorità, che pure sono volute da Dio.
Abituati come siamo a parlare con disinvoltura di disubbidienza civile, soprattutto oggi che non costa molto, forse non ci rendiamo conto di quanto sia tragico il momento in cui la chiesa deve opporsi, in nome di Dio, alle autorità che pure sono ordinate da Dio. La società umana vive il suo dramma più intenso quando le due autorità che Dio ha stabilito sulla terra, con compiti e funzioni diverse, arrivano a scontrarsi, o meglio, quando una delle due usa il potere conferitole da Dio per colpire l'altra, opponendosi così, con la violenza e l'ingiustizia, all'azione salvifica di Dio.
E' il momento in cui le autorità, da malvagie diventano demoniache, perché la caratteristica di ciò che è demoniaco sta proprio nell'opporsi a Dio con la forza che viene da Dio. E' il momento in cui si ripete il dramma di Gesù davanti a Pilato.
Pilato dice a Gesù: "Non sai che ho potestàdi liberarti e di crocifiggerti?" (Giovanni 19:10). Gesù non nega questa autorità, ma si limita a ricordare al governatore romano da Chi egli l'ha ricevuta. Gesù non si ribella a Pilato e lascia che eserciti la potestà di crocifiggerlo. Ma riserva a sé stesso l'autorità della parola e del silenzio.
Gesù ha l'autorità della parola. Davanti alle massime autorità di quel tempo, il sinedrio ebraico e il governatore romano, nella posizione di imputato, Gesù dà di sé stesso la testimonianza pubblica più chiara e inequivocabile: Egli proclama di essere il Figlio di Dio e il Re dei giudei. E proprio in questo momento, nella posizione di massima debolezza umana, Gesù esprime la sua vera autorità su Pilato. Gesù ha l'autorità di far giungere al governatore romano la parola di Dio, Egli è la parola di Dio per lui. Gesù è l'unico che comunica la verità a un potente della terra che non sa di essere irretito nella menzogna.
Gesù ha l'autorità del silenzio. Quando Pilato ordina a Gesù di dirgli da dove viene, Gesù tace. Pilato può pretendere l'ubbidienza dai suoi sudditi per tutto ciò che riguarda la convivenza umana, ma non ha l'autorità di pretendere da Gesù informazioni sul Padre celeste. Pilato non ha autorità in questo campo. E Gesù gli disubbidisce, tacendo.
In questo modo Gesù stabilisce il limite che le autorità terrene non possono valicare: la parola di Dio. I potenti della terra possono arrestare, imprigionare, uccidere, ma quando si tratta della parola di Dio essi non possono costringere i testimoni di Gesù Cristo né a parlare né a tacere. I re e i governatori, come tutti gli altri uomini peccatori, sono chiamati a sottomettersi alla parola di Dio, a riconoscerne l'autorità nel momento in cui arriva a loro e li chiama a ravvedimento e a salvezza, perché da quella parola saranno salvati o giudicati.
Se è vero che "il servitore non è da più del suo signore" (Giovanni 15:20), dall'esempio di Gesù davanti a Pilato bisogna dedurre che l'unico momento in cui la chiesa esercita un'autentica autorità sullo stato è quando i cristiani si trovano davanti ai tribunali, accusati per il nome di Gesù Cristo. Gesù l'aveva detto:
"... vi metteranno in mano dei tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete menati davanti a governatori e re per cagion mia, per servir di testimonianza dinanzi a loro e ai Gentili" (Matteo 10:1718).
In tempi normali il compito della chiesa è di ubbidire alle autorità, e non di parlare con loro. Ma in tempi di persecuzione i cristiani sono chiamati a dare la loro testimonianza ai governanti. E sarà una testimonianza autorevole, perché in quei momenti Gesù concede ai suoi discepoli l'autorità che Egli aveva davanti a Pilato. Essi dunque non hanno bisogno di preparare lunghi ed elaborati discorsi in difesa della fede, perché hanno la promessa di Gesù di una particolare assistenza da parte dello Spirito Santo (Matteo 10:19-20).
• DUE LINGUAGGI DIVERSI Un'ultima cosa emerge chiara dal colloquio di Gesù con Pilato: i loro linguaggi sono completamente diversi. Ma non perché le forme espressive e i significati usati dall'uno siano inusuali e oscuri per l'altro: non si tratta di modi diversi di esprimere le stesse cose, di problemi di traduzione che possano essere superati con un po' di buona volontà. Le realtà di cui parlano Gesù e Pilato sono del tutto diverse: quindi è inevitabile che non riescano a trovare un linguaggio comune in cui possano comunicare, per così dire, da pari a pari. Quello di cui parla Gesù è radicalmente nuovo e interamente sconosciuto a Pilato. Egli tenta di costringere Gesù a parlare il suo linguaggio, e non ci riesce; ascolta Gesù che parla nel suo linguaggio, e non lo capisce. Per capirlo, avrebbe dovuto ravvedersi.
Gesù capisce il linguaggio di Pilato e ubbidisce ai suoi ordini, fino a che è giusto farlo, fino a che nell'ubbidienza a Pilato riconosce la volontà di Dio. Al di là di questo, tace. Non tenta nemmeno di spiegare a Pilato le sue buone ragioni: semplicemente, lascia cadere la comunicazione e sceglie la via del silenzio. Dopo aver detto tutto quello che il Padre gli aveva ordinato di dire, Gesù tace e si lascia crocifiggere.
In realtà, non c'è stato nessun colloquio: Dio ha parlato, e l'uomo ha rifiutato di ascoltare.
Di conseguenza non esiste nemmeno un linguaggio comune alla chiesa e allo stato. Ciascuno dei due ha il suo proprio linguaggio, e i due linguaggi sono necessariamente diversi perché si riferiscono a realtà diverse, anche se collegate tra loro nel piano complessivo di Dio.
Dire che chiesa e stato hanno linguaggi diversi non significa che le due parti non possano comunicare fra loro: significa soltanto che per comunicare devono usare o l'uno o l'altro dei due linguaggi, e che non esiste un terzo linguaggio, ottenuto per miscela, che le due parti possano usare per trattare da pari a pari, come due stati sovrani. O si parla il linguaggio dello stato, o si parla il linguaggio della chiesa. Nel primo caso i cristiani, come tutti gli altri cittadini, devono sottomettersi alle autorità, sempre nei limiti dell'ubbidienza a Dio; nel secondo caso le autorità terrene, come tutti gli altri uomini peccatori, devono ravvedersi e credere all'evangelo. In tutti i casi c'è sempre una delle due parti che deve sottomettersi all'altra. Soltanto Dio resta sempre e in ogni caso l'unico sovrano a cui tutti gli uomini devono sottomettersi.
Chiesa e stato possono dunque comunicare fra loro, ma quello che non è legittimo è proprio l'accordo paritetico tra le due parti. Quando chiesa e stato s'incontrano a mezza strada, riconoscendosi a vicenda "pari dignità nella diversità delle funzioni", c'è da temere fortemente che l'unico a cui non sia riconosciuta la dovuta dignità sia proprio Dio. Le due parti s'accordano fra di loro per non doversi sottomettere l'una all'altra nella giusta sottomissione a Dio. E prendono gloria l'una dall'altra per non dover dare gloria soltanto a Dio. E' il caso in cui la parola "intesa" sostituisce la parola "sottomissione" e, qualche volta, la parola "persecuzione". E tutto fa credere che quando chiesa e stato arrivano ad intendersi, la loro intesa non possa che essere come quella di Abramo con il Faraone d'Egitto (Genesi 12:10-20), cioè un accordo fra uomini alle spalle di Dio.
• LA POSIZIONE PARTICOLARE DELL'ITALIA E' chiaroche in questa comprensione dei testi biblici gli accordi paritetici tra stato e chiesa, si chiamino essi "concordati" o "intese", non trovano posto. Nel caso particolare del nostro paese la situazione è poi aggravata dalla presenza di un'istituzione ecclesiastica che svolge un ruolo unico nella cristianità mondiale: la chiesa cattolica romana, con il suo papa che pretende di essere il vicario di Cristo e il suo stato del vaticano che pretende di essere il simbolo e l'anticipazione del governo di Dio sulla terra. La vicinanza di questa istituzione religiosa, dalle sembianze sempre più simili a quelli della donna vestita di porpora e di scarlatto dell'Apocalisse (cap.17), dovrebbe rendere i cristiani che vivono in Italia particolarmente attenti e vigili. E' proprio con questa organizzazione religiosa di peso mondiale che il nostro stato ha dovuto stringere un patto. Un patto che esprime la volontà dell'organizzazione cattolica di mantenere, nel nome di Gesù Cristo, un posto di dominio sulla società civile. Al di là di tutte le valutazioni etiche e politiche che si possono fare, per noi cristiani c'è soltanto una parola che esprime adeguatamente questa situazione: "peccato". Il concordato è peccato, ribellione contro Dio fatta in nome di Dio, presunzione di uomini che si richiamano al nome di Gesù Cristo per non sottomettersi alle autorità civili volute da Dio ed esercitare subdolamente il dominio su altri uomini, inducendoli così a bestemmiare il nome di Gesù Cristo.
Le intese sono una conseguenza di questo peccato. Sono un tentativo umano di porre rimedio a ciò che molti, anche tra gli uomini politici, hanno fin dall'inizio avvertito come un'ingiustizia. Ma una volta che il concordato si è rivelato inevitabile, le autorità politiche non hanno saputo andare al di là di un maldestro tentativo di giustizia perequativa concedendo anche ad altri enti religiosi la possibilità di stipulare accordi con il governo, sia pure in forme e a condizioni ben diverse.
All'origine di tutta la questione delle intese c'è quindi un peccato: il concordato. E adesso, dopo che il peccato è stato commesso e rinnovato, e dopo che i suoi deleteri influssi continuano a farsi sentire su tutta la popolazione, ci sono ancora dei cristiani evangelici che si chiedono se sia lecito o no trarre qualche vantaggio dalle conseguenze di questo peccato.
Pur con errori ed esagerazioni, le chiese dei Fratelli hanno sempre mantenuto vivo il sentimento dell'imminente venuta del Signore. Non è questo il momento di dimenticarsene e di abbassare la guardia. Consapevoli di essere negli ultimi tempi, è nostro dovere rimanere vigili e attenti anche quando, come in questo caso, la tentazione non ci arriva in forma di persecuzione da parte del mondo religioso, ma in forma di seduzione da parte del mondo laico. Una seduzione che potrebbe essere una trappola dell'Avversario per allentare le difese del popolo di Dio e renderlo più vulnerabile per altre tentazioni ben più gravi e rovinose.
Gesù però l'aveva detto: "Guardate che nessuno vi seduca" (Matteo 24:4).
I danni e le vittime del drone che ha colpito al cuore Tel Aviv. Come è riuscito ad arrivare sin lì? Ed è solo uno degli attacchi di prova, condotti dai nemici di Israele, satelliti dell'Iran.
Alle tre di notte di venerdì, un drone è riuscito ad attraversare il cielo di Tel Aviv, sorvolare il mare, entrare in città dalla costa e colpire un edificio che si trova in una zona con alberghi, bar, ristoranti, a pochi passi dalla sede locale dell’ambasciata americana, e uccidere un civile. Poche ore dopo l’attacco gli houthi, il gruppo yemenita armato e pagato dall’Iran, ha dichiarato di aver eseguito l’attacco con una nuova arma, un drone Yaffa, concepito appositamente per colpire Tel Aviv per superare le difese israeliane e non essere intercettato dai radar: Yaffa è il nome della città in arabo.
Il drone è entrato indisturbato e due persone che si trovavano sulla spiaggia di Tel Aviv hanno avuto il tempo di accorgersene, filmarlo, seguirlo fino allo schianto. L’esercito israeliano ha parlato di un errore umano: la sirena che avvisa i cittadini di mettersi nei rifugi non è partita perché i sistemi di difesa sono rimasti immobili di fronte al passaggio del drone che proveniva dallo Yemen. Gli houthi hanno fatto un annuncio trionfante, hanno detto che il loro Yaffa è stato pensato per volare a lungo e a bassa quota.
In questi mesi i nemici di Israele stanno portando avanti attacchi di prova per testare le difese dello stato ebraico con nuove armi. Non fa eccezione il drone che ha ucciso un uomo a Tel Aviv, un Samad di fabbricazione iraniana modificato per l’attacco. La guerra dei droni dell’Iran e delle sue milizie contro Israele è metodica, da quando Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre, il gruppo libanese Hezbollah ha attaccato Israele con circa mille droni. Anche le milizie irachene, sempre sostenute dall’Iran, hanno rivendicato diversi attacchi con droni contro Israele. Gli houthi conducono una guerra contro l’occidente nel Mar Rosso, colpendo le navi che passano per il trasporto commerciale, e finora hanno lanciato tredici droni contro Israele. Tutte queste armi usate per colpire lo stato ebraico sono finanziate da Teheran, che il 14 aprile per il suo attacco combinato contro il territorio israeliano ha usato anche duecento droni oltre a missili balistici e da crociera.
La minaccia di Hamas si è affievolita, il gruppo della Striscia è quasi disarmato e sempre più sotto pressione, tanto che i negoziati per la liberazione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre e il cessate il fuoco stanno motivando una speranza mai sentita prima, ma tutti gli altri fronti che circondano Israele stanno facendo prove per una guerra con armi migliorate, che prima o poi potrebbero essere utilizzate per un attacco coordinato, più grande e da vari lati.
Il mondo ebraico prima dell’Olocausto, mostra a Trani
Opere di tre artisti sopravvissuti ai campi di sterminio
di Fabrizio Ricciardi
Il mondo degli ebrei dell’Europa dell’Est prima dell’Olocausto: i villaggi, le cerimonie, le feste e lo stile di vita di una cultura che stava per conoscere uno degli orrori più grandi della storia dell’umanità. È questo il filo conduttore della mostra dal titolo “La notte dipingevo quadri rossi”, ospitata a partire dallo scorso 18 luglio nell’ex Sinagoga Scola Grande di Trani.
In esposizione 23 tele di tre artisti yiddish provenienti dalla collezione del poeta e scrittore Roberto Malini, che comprende oltre 200 opere di ebrei vittime della Shoah o sopravvissuti ai campi di sterminio.
Un’iniziativa promossa da Fondazione S.E.C.A. e Polo Museale di Trani.
Le opere sono state donate alla Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria che, grazie al grande lavoro compiuto negli ultimi 35 anni da Francesco Lotoro nella salvaguardia della musica scritta nei campi di prigionia, ha dato vita ad un archivio e ad una biblioteca che saranno ospitati, come la stessa collezione, presso la Cittadella di Barletta, negli spazi della ex distilleria.
La sentenza con la quale venerdì, la Corte Internazionale dell’Aja, ha deliberato che Israele occupa abusivamente i territori della Cisgiordania, violando di fatto il diritto internazionale, non rappresenta altro che un ulteriore capitolo della lawfare, l’offensiva giuridica contro lo Stato ebraico, che iniziò a prendere corpo a partire dal 1967, ovvero subito dopo l’esito della Guerra dei sei giorni, quando, contrariamente alle previsioni, Israele vinse la guerra scatenata dagli eserciti arabi guidati da Nasser, che avevano come obiettivo dichiarato la sua distruzione.
A guerra terminata, Israele aveva conquistato Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est, e parte della penisola del Sinai. Sia Gaza che la Cisgiordania erano state destinate alla abitabilità ebraica dal Mandato Britannico per la Palestina del 1922. Questi territori, a seguito della guerra araba di aggressione del 1948, furono rispettivamente occupati da Egitto e Giordania che li detennero illegalmente fino al 1967, anno, appunto, della seconda guerra di aggressione araba ai danni di Israele.
Nel 1951, la Giordania fece un passo ulteriore, annettendosi la Cisgiordania, avendo provveduto nel frattempo a cacciare da essa tutta la popolazione ebraica.
Successivamente, l’ONU produsse la Risoluzione 242, con la quale si stabiliva che Israele doveva ritirarsi da una parte dei territori conquistati, contestualmente al suo riconoscimento da parte degli Stati aggressori, Egitto, Giordania e Siria e degli specifici accordi di pace che avrebbero sancito i confini.
La Risoluzione 242 venne riconfermata in toto dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 338 del 1973. Non veniva fatto alcun utilizzo della designazione “territori palestinesi occupati”. Solo dal 1995 con gli Accordi di Oslo, le rivendicazioni palestinesi iniziarono ad avere una loro legittimità come conseguenza dell’accettazione da parte di Israele dell’OLP nella veste di interlocutore. Con il venire in essere degli Accordi di Oslo i territori vennero disciplinati amministrativamente e suddivisi in tre aree distinte, l’Area A, l’Area B e l’Area C.
Alla luce del diritto internazionale e successivamente alla stipula dei trattati di pace tra Israele, Egitto e Giordania e con quella degli Accordi di Oslo, la definizione “territori occupati” o “territori palestinesi occupati”, perde completamente di legittimità. I territori, infatti, non possono dirsi “palestinesi” in quanto manca ad essi qualsivoglia base giuridica per rivendicarne la detenzione sovrana, così come, con la ripartizione del territorio stabilita dagli Accordi di Oslo, la presenza militare e civile israeliana è strutturalmente concentrata nell’Area C, dove, sempre nel rispetto del dispositivo degli accordi, Israele ha diritto a permanervi e a consentirne lo sviluppo abitativo senza che esso violi alcuna norma contenuta nei medesimi.
La sentenza della Corte Internazionale, ha una valenza squisitamente politica, e va inquadrata nell’ambito dell’incessante operazione di delegittimazione dello Stato ebraico che prosegue senza sosta da quasi sessanta anni.
Due chiacchiere con Israel Katz, Ministro degli esteri di Israele
di Elliot Kaufman
Qualcosa è cambiato a Gaza. Dopo aver rifiutato per mesi le proposte israeliane di cessate il fuoco e aver chiesto ulteriori concessioni, Hamas ha iniziato a offrire le proprie concessioni. Israele è più vicino che mai alla liberazione di molti degli ostaggi rimasti e ha acquisito la capacità di chiedere condizioni che proteggano i vantaggi strategici della guerra.
Se si crede al ritmo dei media – che lo sforzo bellico di Israele è inutile, la sua strategia assente e il suo isolamento politico crescente – è impossibile spiegare questa svolta. Perché, dopo mesi di sprezzante temporeggiamento, Hamas ha iniziato a piegarsi?
“Per due motivi”, dice Israel Katz, ministro degli Esteri israeliano. “Uno: ora capiscono che non ci sarà un cessate il fuoco senza un accordo sugli ostaggi. Secondo, l’IDF sta agendo in modo aggressivo contro i terroristi di Gaza. Particolarmente importante è stato l’ingresso a Rafah”, la roccaforte di Hamas all’estremità meridionale della Striscia.
Israele ha tagliato le vie di rifornimento di Hamas e ora tiene Hamas “per la gola”, come ha detto recentemente il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. I terroristi di alto livello cadono a un ritmo più rapido, mentre l’intelligence israeliana ottiene successi a ripetizione; metà della leadership militare di Hamas è stata eliminata. Anche dopo un grande bombardamento israeliano per uccidere il capo militare di Hamas, Mohammed Deif, che è considerato improbabile che sia sopravvissuto, Hamas ha a malapena attaccato in risposta e si è affrettato a chiarire che non sta abbandonando i negoziati. “Hamas è ora molto più sotto pressione”, afferma Katz. “È questo che ha fatto la differenza”.
L’intelligence israeliana lo conferma. “Vediamo ora i segni di una forte pressione da parte del braccio militare di Hamas. Spingono i leader negli hotel all’esterno – i politici di Hamas, che vivono nel lusso in Qatar – a raggiungere un accordo. Prima non era così”, dice Katz. Il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, “non voleva un accordo prima. Nemmeno quando gli abbiamo offerto tutto”.
Non dovrebbe essere una sorpresa che la pressione su Hamas possa portare a dei vantaggi nei negoziati. Eppure, per mesi le potenze occidentali hanno adottato l’approccio opposto, facendo pressione su Israele affinché ponesse fine alla guerra e lasciasse Hamas vittorioso. Hanno chiesto un “cessate il fuoco immediato”, sempre più slegato da un accordo sugli ostaggi. I gruppi umanitari hanno denunciato Israele e taciuto su Hamas. La Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale hanno minacciato Israele con procedimenti e tribunali fasulli.
“Il motivo principale per cui questo assassino, Sinwar, non ha fatto l’accordo sugli ostaggi è che si aspettava che il mondo fermasse Israele”, dice Katz. “Si aspettava che la Corte internazionale di giustizia, la Corte penale internazionale, il Consiglio di sicurezza, forse un conflitto tra le Nazioni Unite, Israele e l’Unione europea, sicuramente uno di questi avrebbe costretto Israele a capitolare”. Il tempo era dalla parte di Hamas, indipendentemente dal numero di ostaggi trattenuti o uccisi.
Katz ha ricevuto molte lezioni dai funzionari occidentali. “Mi sono seduto con i ministri degli Esteri e mi hanno detto: Non andare a Rafah, non andare a Rafah. Sarà un casino. E io ho detto loro: Cosa state dicendo? Credete che possiamo lasciare Hamas a Rafah e che cinque minuti dopo il nostro ritiro, prenderanno tutta Gaza?”.
L’operazione di Rafah è stata ritardata di mesi, durante i quali Hamas sembrava essere meno sotto pressione che mai. La Casa Bianca ha trattenuto le armi da Israele. Gli avvertimenti di un disastro umanitario si sono riversati da tutte le parti. Il 6 maggio, Israele invase comunque Rafah.
“E avevamo ragione”, dice Katz. “Ora lo sanno tutti, anche gli Stati Uniti, perché tutti avevano avvertito che sarebbe stata una catastrofe. È una guerra, sì. Non è una passeggiata. Ma avevano detto che ci sarebbero voluti quattro mesi per evacuare la popolazione. Ci sono voluti solo giorni”. Più di un milione di gazesi ha rapidamente evacuato Rafah verso le zone sicure designate.
Nessun critico ha ritrattato, ma la pressione su Israele è diminuita silenziosamente. Come se fosse imbarazzato, il mondo ha improvvisamente preso atto che Hamas è l’ostacolo a un accordo sugli ostaggi. La Casa Bianca ha sottolineato il punto, soprattutto dopo aver diffuso il 31 maggio un’offerta israeliana che Hamas ha poi rifiutato. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha ratificato quell’offerta. Persino l’Autorità Palestinese, che ha esaltato il massacro del 7 ottobre, ora incolpa Hamas per la continuazione dei combattimenti. Hamas, l’escluso, ha dovuto ammettere che non c’è alcun cessate il fuoco all’orizzonte a meno che non rilasci gli ostaggi.
Katz sa che un accordo non è ancora garantito. “Si tratta di Hamas, dopo tutto”, dice. “Ci sarà un accordo solo se Sinwar capirà che non ha altra scelta”. Questo significa che non c’è pace per i malvagi. “Le persone che si occupano dei negoziati ci stanno dicendo ora: ‘Non fermatevi, continuate’” – spingono Hamas ancora di più. Il confronto con la realtà del nazionalismo palestinese ha cambiato Israele. “La gente dei kibbutzim del sud – molti erano socialisti e credevano in tutte le idee”, dice Katz. Ora ci dicono: “Siamo contro uno Stato palestinese”. Il 7 ottobre hanno visto a quali scopi sarebbe stato destinato uno Stato del genere”.
I ministri degli Esteri occidentali dovrebbero saperlo bene. “Vi sedete lì, tra i fiordi della Norvegia, e decidete che ci sarà uno Stato palestinese?”. dice il signor Katz. “Non succederà. Noi vogliamo la pace più di voi”. Gli israeliani si oppongono al suicidio. “Nessuno può costringere Israele a farlo, nemmeno il saggio vice primo ministro spagnolo”, dice, riferendosi a Yolanda Diaz, che usa lo slogan di protesta per la distruzione di Israele: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Katz afferma: “Ho detto loro che i giorni dell’Inquisizione sono passati”.
Il 7 ottobre ha cambiato il modo in cui il mondo vede il conflitto? “Non abbastanza”, risponde Katz. “Dimenticano. Ma una cosa che non possono dimenticare sono gli ostaggi”, dice. “Non permettiamo loro di dimenticare”. Spesso porta le famiglie degli ostaggi nei viaggi all’estero e negli incontri con le sue controparti.
Gli statisti occidentali devono affrontare pressioni interne se appoggiano Israele contro i macellai. Alcuni europei temono le loro grandi popolazioni musulmane, dice Katz. Altri si preoccupano dei social media. “Quindi, sarà difficile”, dice loro, ‘ma voi siete dei leader’.
Katz è grato per il sostegno americano e non ha interesse a criticare l’amministrazione Biden. Sull’Iran, pensa che gli Stati Uniti si stiano muovendo nella giusta direzione. Riguardo alle armi ritardate, dice: “Penso che ora sia tutto a posto, ed è molto positivo che i nostri nemici sappiano che è tutto a posto”.
Per quanto riguarda la CPI, [Corte Penale Internazionale] punta il dito contro il procuratore. Karim Ahmad Khan aveva assicurato al Segretario di Stato Antony Blinken e all’allora Ministro degli Esteri britannico David Cameron che prima di prendere una decisione avrebbe dato a Israele la possibilità di fornire prove. “Perché molti Paesi sono arrabbiati con lui? Perché ha mentito loro”, dice Katz. Khan ha cancellato gli incontri con Israele con poco preavviso e si è presentato alla CNN per annunciare che avrebbe chiesto un mandato di arresto per i leader israeliani.
Katz è reduce dai colloqui con gli statisti occidentali alla conferenza dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico a Washington. “Sono andato a dire loro tre parole”, dice: ‘Iran, Iran, Iran’.
Se volete un’anteprima del discorso che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu terrà mercoledì al Congresso, iniziate da qui.
Il mondo può considerare Hamas come un problema degli ebrei, ma gli uomini che comandano a Teheran non sono così facilmente liquidabili. “L’Iran vende l’80% del suo petrolio alla Cina”, dice Katz. “Ora vendono ogni giorno circa 2 milioni di barili. Prima erano solo 300.000”, quando gli Stati Uniti hanno imposto le loro sanzioni petrolifere. La Cina ottiene il petrolio con uno sconto sostanziale.
“Capite bene qual è la competizione nel mondo tra Stati Uniti e Cina”, dice Katz. Ha esposto questo caso al Segretario del Tesoro Janet Yellen, che si è dimostrata ricettiva. “Anche questa amministrazione ha interesse, a causa del conflitto globale, ad essere aggressiva contro l’Iran”, afferma Katz. Ma ha anche un’opportunità. “Ora, poiché l’Iran sostiene la Russia e gli europei hanno paura della Russia – non solo contro, ma anche per paura – gli europei sono disposti a partecipare”.
In questi giorni, l’Europa a volte porta con sé l’America. A maggio, all’Agenzia internazionale per l’energia atomica, gli Stati Uniti non volevano fare scalpore censurando il programma nucleare di Teheran. Alla fine, però, l’hanno fatto perché Francia, Germania e Regno Unito, con l’aiuto di Israele, hanno spinto comunque per la censura.
Katz vede la Repubblica islamica vulnerabile. “L’Iran è come un uovo: duro all’esterno ma morbido all’interno. Dall’interno, la maggior parte della popolazione iraniana è contraria al regime”, afferma. “L’economia è debole, ancora debole. E dopo l’incidente dell’elicottero, in cui sono morti il presidente e il ministro degli Esteri dell’Iran, forse l’esercito iraniano non è così moderno. Quindi, imporre sanzioni efficaci contro l’Iran può cambiare le carte in tavola. Perché non ci sono organizzazioni terroristiche per procura senza l’Iran”.
Vale la pena ricordarlo mentre Israele affronta Hezbollah, l’esercito di Teheran in Libano. Ha iniziato a sparare su Israele l’8 ottobre e da allora ha avuto una lenta escalation, trasformando il nord di Israele in una no-go zone per nove mesi.
Katz avverte che la “guerra totale” è molto vicina. “Noi non la vogliamo e forse loro non la vogliono. Ma non può rimanere così”, dice. “Vi dico: fate pressione sull’Iran. Se volete evitare la guerra, il modo per evitarla è fare pressione sull’Iran e spiegare all’Iran quale sarà il costo”.
Contrariamente a quanto si pensa in Occidente, “un cessate il fuoco a Gaza e un accordo sugli ostaggi non impediranno una guerra con Hezbollah sul fronte settentrionale”, afferma. “Israele non accetterà più il silenzio per il silenzio”. La tranquillità non basterà a 70.000 israeliani evacuati per tornare alle loro case nel nord di Israele. Hanno bisogno di una vera sicurezza, che richiede che Hezbollah lasci il suo arroccamento nel sud del Libano, smilitarizzando la zona cuscinetto come richiesto dalle Nazioni Unite nel 2006.
Si può convincere Hezbollah a ritirare le sue forze? “Ne dubito”, dice Katz. “La mia opinione personale è che ciò avverrà o attraverso una risposta militare israeliana o se l’Iran ordinerà a Hezbollah di ritirarsi”.
Alla fine, dice Katz, il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah “non capisce Israele. Ha un’immagine di debolezza”, ma si sbaglia. “Non vogliamo la guerra, perché non vogliamo nulla in Libano. Ma se ci sarà una guerra, non sarà come a Gaza”, dove la presenza di ostaggi limita l’uso della forza da parte di Israele. “Circa l’80% della nostra forza aerea non viene utilizzata in questo momento”, afferma. Se l’Iran non tira fuori Hezbollah dall’orlo del baratro, lo farà.
Il signor Katz parla a nome di molti israeliani quando dice: “Non chiediamo a nessuno di combattere al posto dei nostri soldati. Per noi è un principio”. Ma Israele non può stare da solo: “Abbiamo bisogno del sostegno americano e di far sapere ai nostri nemici che l’America ci sostiene”.
“Questa non è una guerra normale. L’Iran e Hezbollah, Hamas, gli Houthi e le milizie sciite vogliono eliminare Israele. Distruggere Israele. Non è un gioco. Non abbiamo un’altra patria, ok?”. Al termine del nostro incontro, sospira e affronta la questione da un altro punto di vista: “Non è come l’Olocausto. Sono figlio di sopravvissuti all’Olocausto, che riposino in pace. Ho sentito le storie da mia madre e so tutto. Non è l’Olocausto, ma l’intento è lo stesso. Se avessero il potere di fare la stessa cosa, la farebbero”.
Biden sanziona gli israeliani e consegna miliardi all’Iran
La politica di Biden ha dell'incredibile. Emette sanzioni contro Elor Azaria, un ex soldato che nel 2016 ha sparato e ucciso un terrorista quando era a terra, fatto per cui è stato condannato in Israele e ha scontato la pena, mentre nel contempo consente all'Iran di accedere ad altri miliardi di dollari.
di Gabor H. Friedman
La politica estera degli Stati Uniti ha il pilota automatico? Mercoledì abbiamo appreso che l’Amministrazione Biden sta imponendo sanzioni a un altro israeliano, mentre riemette una deroga alle sanzioni che consente all’Iran di accedere a più di 10 miliardi di dollari di fondi congelati. Le sue priorità riflettono una politica che da tempo è stata superata dagli eventi. Ci ricordiamo dei 10 miliardi di dollari in pagamenti energetici iracheni quando il Presidente Biden li ha sbloccati per l’uso da parte dell’Iran nel luglio 2023, e di nuovo quando ha esteso la deroga alle sanzioni lo scorso novembre e marzo. Come di consueto, l’Amministrazione ha affermato in modo fuorviante che l’Iran può utilizzare il denaro solo per beni “umanitari”, come se i miliardi qui non liberassero miliardi altrove per il principale sponsor del terrorismo al mondo.
A cosa porta gli Stati Uniti questo appeasement? Una volta i funzionari di Biden hanno sussurrato che stavano ottenendo una pausa nell’attività nucleare dell’Iran. Abbiamo ottenuto il contrario. L’Iran ha aumentato le sue scorte di uranio altamente arricchito e ha messo alle strette gli ispettori. Mercoledì Axios ha riferito che l’amministrazione Biden ha inviato una lettera in cui “esprime serie preoccupazioni” sul fatto che l’Iran stia iniziando a lavorare alla costruzione di armi. Davvero? Serie preoccupazioni?
Questa è l’idea della squadra di Biden di essere dura: Inviare una lettera con parole forti, ma non tagliare i miliardi di dollari.
Un’altra speranza era che il denaro avrebbe comprato la calma regionale. Abbiamo ottenuto il contrario. Hamas – finanziato, armato, addestrato e comandato dall’Iran – ha iniziato una guerra uccidendo 1.200 israeliani. Altri proxy dell’Iran hanno attaccato le forze statunitensi. Il 13 aprile l’Iran ha sparato circa 120 missili balistici contro Israele. Biden ha detto a Israele di non rispondere.
Il fuoco continuo di Hezbollah su Israele rischia ora di scatenare una guerra più grande. L’Iran deve sentire la pressione di ritirare il suo proxy, ma perché preoccuparsi quando Biden continua a far divertire Teheran e rimprovera Israele?
L’ultimo israeliano ad essere sanzionato dagli Stati Uniti è Elor Azaria, un ex soldato che nel 2016 ha sparato e ucciso un terrorista che era già stato neutralizzato dopo aver accoltellato un altro soldato. Azaria è stato processato e condannato in Israele e ha scontato la sua pena. Questo accadeva sei anni fa. Gli Stati Uniti ora ripropongono la questione del divieto di visto per Azaria e la sua famiglia.
La mossa è stata fortemente criticata in Israele, anche dal leader dell’opposizione Benny Gantz. Perché Biden sta creando un regime di sanzioni contro gli israeliani, come se non fossero cittadini di un alleato e di una democrazia la cui sovranità e il cui sistema giudiziario esigono rispetto?
La politica mediorientale di Biden sembra paralizzata, anche se il massacro del 7 ottobre e le sue conseguenze hanno cambiato tutto. Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, ha scritto un articolo su una rivista che è andato in stampa poco prima del 7 ottobre. “La regione è più tranquilla di quanto lo sia stata per decenni”, ha scritto. Sull’Iran, si vantava: “Abbiamo rafforzato la deterrenza, combinata con la diplomazia, per scoraggiare ulteriori aggressioni”.
Invece abbiamo avuto una guerra sostenuta dall’Iran e assalti alle forze americane e alle navi commerciali. Cosa ci vorrà perché Biden e i suoi consiglieri riconoscano il loro fallimento e cambino rotta?
Ben-Gvir visita il Monte del Tempio e prega per la restituzione degli ostaggi
Il ministro della Sicurezza nazionale ha ribadito il suo rifiuto di un accordo che escluda la distruzione di Hamas a Gaza.
Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir sul Monte del Tempio a Gerusalemme il 18 luglio 2024
Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha visitato giovedì il Monte del Tempio di Gerusalemme per pregare per la restituzione degli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza.
"Sono andato sul Monte del Tempio questa mattina per pregare per il ritorno dei rapiti - ma senza un accordo qualsiasi, bensì aumentando la pressione militare su Hamas e schiacciandolo ulteriormente", ha dichiarato il leader del partito Otzma Yehudit in una dichiarazione video rilasciata su X dopo la visita.
Secondo un rapporto di Channel 13 di mercoledì, Ben-Gvir ha suggerito ai ministri del gabinetto di sicurezza di ritardare un accordo di cessate il fuoco che includa il rilascio dei prigionieri fino a dopo le elezioni presidenziali statunitensi di novembre, per non dare al presidente Joe Biden un vantaggio politico sullo sfidante repubblicano Donald Trump.
Ben-Gvir avrebbe dichiarato che un accordo in questa fase "sarebbe una sconfitta per Trump e una vittoria per Biden".
Molti ministri hanno attaccato Ben-Gvir per le sue affermazioni, tra cui alcuni del partito di governo Likud del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
"Dobbiamo fare una campagna per il loro rilascio immediato. I rapiti sono lì da nove mesi. Durante questo periodo, le donne possono partorire", ha dichiarato il ministro della Scienza Gila Gamliel.
Ben-Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich hanno minacciato di far cadere il governo se verrà firmato un accordo per porre fine ai combattimenti nella Striscia di Gaza senza prima distruggere Hamas.
Ben-Gvir è un assiduo visitatore del luogo più sacro dell'ebraismo e l'ultima volta ha visitato il Monte del Tempio a maggio.
Dal luogo più sacro del popolo di Israele, che appartiene solo allo Stato di Israele, dico: questa sera riceveremo un'ulteriore testimonianza del perché Hamas deve essere completamente distrutto". I Paesi che hanno riconosciuto uno Stato palestinese oggi stanno premiando i terroristi", ha dichiarato in un video dalla cima del monte.
"E io dico che non permetteremo nemmeno la proclamazione di uno Stato palestinese. E dico un'altra cosa: per distruggere Hamas, dobbiamo andare a Rafah fino in fondo e fare un accordo radicale. Per riportare indietro i nostri ostaggi, dobbiamo fermare [le forniture di carburante a Gaza] e renderci conto che l'umanità vale solo per l'umanità. E controllare questo luogo, il più importante".
Il Monte del Tempio è il sito del Primo e del Secondo Tempio, distrutti rispettivamente dall'impero neobabilonese e da quello romano.
Israele ha liberato il Monte durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, dopo di che ha ceduto l'amministrazione alla Fondazione islamica Waqf sotto la tutela giordana hashemita, mantenendo però il controllo di sicurezza israeliano. (JNS)
(Israel Heute, 19 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nelle prime ore del mattino una persona è morta e altre sono rimaste ferite in seguito a un’esplosione di un drone su Tel Aviv. L’attacco è stato rivendicato ufficialmente dagli Houthi dello Yemen. Il portavoce militare dei ribelli yemeniti, scrive il Times of Israel, ha affermato che il gruppo ha attaccato Tel Aviv con un drone e continuerà a colpire Israele in segno di solidarietà con i palestinesi nella guerra di Gaza. Il forte boato, che è stato sentito in tutto il centro di Tel Aviv, è avvenuto non distante dall’Ambasciata americana, che non ha subito danni.
“L’IAF ha aumentato le sue pattuglie aeree per proteggere lo spazio aereo israeliano. Non ci sono cambiamenti nelle linee guida difensive dell’Home Front Command”
La polizia sta indagando sulla morte di un uomo di cinquant’anni, il cui corpo è stato trovato con ferite da schegge in un edificio vicino. Le squadre di emergenza hanno segnalato almeno quattro persone con ferite lievi da schegge e diverse altre in stato di shock. Sette persone sono state trasportate negli ospedali vicini per le cure.
“Quando i nostri team sono arrivati, hanno visto un uomo di 37 anni e una donna di 25 anni con ferite da schegge alle estremità e alle spalle. Stiamo anche curando persone sotto shock”, ha affermato Magen David Adom. I residenti hanno inoltre riferito che l’esplosione ha causato danni significativi alle loro case.
Parashà di Balàk: La Torà vale più della ricchezza
di Donato Grosser
Balàk, re di Moàv, vedendo la moltitudine di israeliti ai confine del suo regno e sapendo che con la forza delle armi non avrebbe potuto combattere contro di loro, mandò un’ambasciata a Bil’am affinché venisse a maledire il popolo d’Israele. In questo modo egli sperava di eliminare la minaccia. Balàk mandò a dire a Bil’am che se fosse venuto a maledire il popolo d’Israele egli l’avrebbe onorato in maniera smisurata.
I maestri nel Midràsh Rabbà (Bemidbàr, 20:10) spiegano che Balàk intendeva dire che avrebbe pagato Bil’am molto di più di quello che era abituato a ricevere in passato. Bil’am rispose agli ambasciatori di Balàk:”Anche se Balàk mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro, non potrei violare la direttiva del Signore mio Dio, per compiere una cosa piccola o grande” (Bemidbàr, 22:18). Nel midràsh i maestri commentano:”Da qui apprendi che c’erano tre caratteristiche in lui: un occhio malvagio, uno spirito altezzoso e un’anima avida. Un’anima avida, come è detto: “Se Balàk mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro…”. R. Yosef Slalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p. 302) fa notare che nei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 6:9) viene usato un linguaggio simile: “Disse rabbi Yosè figlio di Kisma (un maestro della Mishnà contemporaneo di r. Akivà): Una volta stavo camminando in viaggio e mi venne incontro un uomo; mi salutò e io risposi al suo saluto; poi mi disse: Maestro, di dove sei? Gli risposi: sono di una grande città di maestri e di scrittori. Mi disse allora: Saresti disposto, o Maestro, a venire a stare con noi nei nostri luoghi? Ti darei migliaia di monete d’oro e d’argento. Gli risposi: Se anche tu mi dessi tutto l’argento e l’oro che c’è nel mondo, io non accetterei di risiedere altro che in un luogo ove sia studio della Torà …” (Trad. Joseph Colombo, R. Carabba, Lanciano, 1931).
R. Elyashiv fa notare che i Maestri affermarono che Bil’am aveva un’anima avida perché disse:”Se Balàk mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro…”.
In cosa era differente r. Yosè figlio di Kisma che non venne criticato nello stesso modo? R. Elyashiv risponde: Bil’am disse che non poteva violare la direttiva del Signore anche se avesse voluto. Sarebbe stato più logico che Bil’am avesse parlato di una cosa più vitale e dicesse: “Anche se Balàk mi uccidesse non potrei violare la direttiva del Signore”. Il fatto che avesse parlato di argento e di oro dimostra che la ricchezza era per lui la cosa più importante. Quanto a r. Yosè figlio di Kisma, egli non era soggetto ad alcun impedimento. Semplicemente non aveva alcun desiderio di ricchezze e non vi era alcuna trasgressione per la quale avrebbe dovuto sacrificare la vita. Pertanto poteva dire di rinunciare alle ricchezze pur di poter abitare in una posto dove vi era lo studio della Torà.
Lo stesso quesito di rav Elyashiv venne posto trecento anni da r. Binyamin Hakohen Vitale (Reggio Emilia, 1651-1730). Nel suo commento Avòt ‘Olàm (pp. 107-108) ai Pirkè Avòt (6:9) egli risponde che r. Yosè disse che non avrebbe accettato di abitare in un posto dove non vi era lo studio della Torà per tutto l’argento e l’oro del mondo, per mostrare il valore della Torà che è superiore alle ricchezze. Egli fa notare che nella mishnà precedente dei Pirkè Avòt (6:8) viene citato rav Shimo’n figlio di Yochai che afferma: “La bellezza, la forza, la ricchezza, l’onore, la sapienza, la vecchiezza, la canizie, e i figli, convengono ai giusti e convengono al mondo”. Dopo l’affermazione di r. Shim’on, r. Yosè, dicendo che non avrebbe accettato di abitare in un posto dove non c’era lo studio della Torà per tutto l’argento e oro del mondo, voleva sottolineare che anche se la ricchezza si addice ai giusti, essi non la devono considerare superiore alla Torà. L’affermazione di r. Yosè ha come fonte i Tehillìm (Salmi, 119:72) nei quali Davide, che era re d’Israele e che pur godeva di grandi ricchezze, scrisse: “Più mi giova la legge della Tua bocca che migliaia d’oro e argento” (Trad. Lelio Della Torre, Nobile de Schmid e J.J. Busch, Vienna, 1845).
R. Yosè disse che preferiva la Tora all’oro e all’argento perché “Nel momento della morte non già l’argento nè l’oro accompagnano l’uomo, né le pietre preziose né le gemme, ma la Torà che ha studiato e le opere buone che avrà compiuto” (Avòt, 6:9, continuazione). E così, aggiunse r. Binyamin Hakohen, quando r. Yose morì, gli fecero una grande orazione funebre, come è raccontato nel primo capitolo del trattato ‘Avodà Zarà (18a), e al suo funerale parlarono della sua Torà e delle sue buone azioni, cosa che non sarebbe successa se avesse abitato in un luogo senza studio di Torà.
«Camminando per strada, ho toccato con mano l’odio per l’ebreo»
di Ludovica Iacovacci
«Voi israeliani siete degli assassini di m**, ammazzate i bambini, ammazzate le donne, ammazzate i vecchi. Andate via, vattene da qua». È con queste parole, miste a sputi e spinte, che al centro islamico in viale Jenner a Milano a fine giugno è stato aggredito Klaus Davi, al secolo Sergio Klaus Mariotti, giornalista, opinionista e saggista che sta indagando gli effetti della narrazione mediatica della guerra in Medio Oriente, nei quartieri di Milano, le “zone franche”, dove la presenza di arabi è cospicua. Per iniziare, l’autore si è recato in viale Jenner con l’intenzione di fare domande, su quanto successo dal 7 ottobre in poi, all’imam e ai fedeli del centro islamico che passeggiavano per la strada pubblica. Il giornalista si è trovato oggetto di aggressioni, insulti e sputi da parte di arabi che lo accusavano di essere “israeliano” (Davi non è né ebreo né tantomeno israeliano, ndr). Ilvideo che testimonia il suo spiacevole incontro costituisce una prima parte di un progetto più grande. Bet Magazine lo ha intervistato per saperne di più.
- Sono passate settimane dalla pubblicazione del suo lavoro. A mente fredda, quali conclusioni ne ha tratto? L’inchiesta continua. Sono previste venti puntate. Questo lavoro nasce da un senso di ribellione su un tema riguardo al quale c’è una coltre di silenzio. Ho voluto dare un segnale: nella città più celebrata e mitizzata d’Italia ci sono le stesse dinamiche che vediamo nelle banlieue delle grandi città francesi. Non mi interessa affrontare il tema dell’Islam in generale, ma quanto la narrazione e il dibattito sulla strage del 7 ottobre sta incidendo sulle comunità qui da noi. È un settore delicato dove ci sono grosse lacune narrative e di presa di coscienza. Vado sempre con un intento dialogante e voglia di imparare; e sto imparando. Preciso che voglio che questo lavoro sia mio e del mio team, e tale rimarrà. E nel momento in cui vado da solo e rischiando autonomamente, cosa mi si può dire?
- Come crede che sia stato percepito il suo lavoro dai media italiani? Intanto, rilevo che il mio lavoro non è stato criticato. Quando sono andato in viale Jenner, non ho avvisato le forze dell’ordine perché altrimenti non crei dialogo con le persone. Mi è dispiaciuto che sia uscito un comunicato attribuito alla Questura di Milano nel quale è stato detto che io abbia fatto una sorta di sondaggio: io non faccio sondaggi, sono andato lì a fare domande a frequentatori di una moschea. Ed è stato utile perché è venuto fuori quello che c’è in almeno parte di questa comunità. Su due aspetti bisogna riflettere: il primo è l’immagine dell’ebreo, non dell’israeliano. Chiunque parli bene di Israele diventa un ebreo. In secondo luogo: l’irrazionalità, a cui si aggiunge il controllo del territorio. Queste dinamiche si riscontrano allo Zen a Palermo, a Platì, comune di Reggio Calabria. E avvengono a Milano. Il filmato è molto eloquente, mancava poco perché succedesse qualcosa. Per fortuna non è successo, ma dovremmo porci qualche interrogativo su queste realtà.
- Crede che ci sia abbastanza coscienza generale riguardo a questa situazione? Io ho la netta sensazione che ci sia un deficit di coscienza generale. Milano è divisa in aree, in zone molto nette: la zona ZTL, la zona centro, semicentro, e le periferie. Quest’ultime sono realtà abbandonate, dove lo Stato non mette il naso più di tanto e quindi non c’è presa di coscienza nei termini giusti. Io sono favorevole all’immigrazione, ho vissuto sempre in questi contesti e quindi sostengo i quartieri etnici. Il mio obiettivo è andare a capire che impatto potrebbe avere una narrazione pregiudiziale verso lo Stato di Israele, e quindi verso gli ebrei, in casa nostra. Nessuno su questo si è posto il problema. Per me il punto è che, conoscendo le dinamiche dei territori della criminalità organizzata, vedo che Milano ha intere zone franche dove, secondo le mie stime, il 95% di questi concittadini sono persone per bene ma esiste un 5% – e non è poco – che risponde a strutture che fanno capo a organizzazioni. Nel primo video tutto fila liscio all’inizio: quando i fedeli arrivano, alcuni rilasciano interviste. Dopo mezz’ora giungono altri due soggetti (quelli che hanno lo hanno aggredito, ndr). Qualcuno li ha mandati, escludo l’imam perché non è suo interesse creare il caso, dev’essere stato qualcun altro. I due signori sopraggiunti sono i classici scagnozzi mandati per allontanare, indice di qualcosa all’interno di questi meccanismi di tipo organizzativo.
- Quali sono gli aspetti più allarmanti che il suo lavoro sta facendo emergere? Ho avuto due sensazioni: impunità e sdoganamento. Impunità perché comportarsi così per strada vuol dire sentirsi impunito, controlli il territorio. Sdoganamento perché un comportamento del genere, così virulento, dieci anni fa non sarebbe stato pensabile. Le autorità rassicurano, fanno il loro mestiere, ma noi facciamo i giornalisti, e vediamo che le zone franche ci sono e non sono controllate, non adeguatamente.
- Klaus, lei ha detto: “Dieci anni fa questo non sarebbe successo”. Il conflitto in Medio Oriente sta evidentemente indirizzando masse di persone verso una determinata lettura degli eventi, al punto che gli ebrei (e i non-ebrei che li sostengono) subiscono le ripercussioni di ciò che accade in quella parte di mondo. Loro non hanno detto “ebreo”, hanno detto “israeliano” quando mi hanno insultato. Le parole esatte sono state: “Sporco israeliano, ammazzate i bambini”. Poi diventa un tutt’uno.
- Crede però che da parte loro ci sia differenza a livello di accuse mosse? No. All’inizio loro distinguono perché è stato detto loro di non dire che gli israeliani sono ebrei. Poi, presi dalla foga – e questo uscirà nel corso della seconda parte del lavoro – dicono che gli ebrei controllano l’informazione, la politica, la Meloni. Non c’è distinzione, tutti vengono assimilati. La paura che ho toccato con mano è l’odio per la figura dell’ebreo. Mi sembra di vedere una vignetta degli anni ’30.
- Quali conclusioni ne trae? Sono molto preoccupato. Vedo quest’odio montare, vedo sottovalutazione. Ciò che mi fa specie è che la narrazione pubblica in Italia parla di questo tema come se l’Italia non avesse avuto un ruolo negli anni ’30 e ’40, come se non fossimo stati gli incubatori culturali del nazifascismo. La collettività e lo Stato hanno più doveri verso la Comunità ebraica. Non si può chiedere alle manifestazioni di togliere la kippah, la bandiera LGBT o quella di Israele. Lo Stato italiano è in debito con la Comunità e non può pretendere che gli ebrei tornino invisibili. Deve tutelarla nella sua unicità e peculiarità, anche nella libertà di utilizzare i simboli esteriori della propria identità. Nascondersi non è la soluzione, non si può pretenderlo da coloro che si è discriminato storicamente e che si è contribuito ad annientare. Mi appello alle istituzioni: non date più queste indicazioni agli ebrei, pensate alla loro sicurezza. Non hanno bisogno di parole o di solidarietà, hanno bisogno di fatti. Questo è un momento molto pericoloso per la Comunità. Dove ci porterà lo sdoganamento dell’antisemitismo, che non essendo osteggiato è di fatto consentito? A Worms, Meinz, cuore askenazita nel Medioevo, dicevano: “Qui non sarebbe mai accaduto”. Poi abbiamo visto cosa è successo. Idem a Berlino: “Qui non accadrà mai”, “Non vado via perché qui non succederà” si diceva e poi è accaduta la catastrofe. Colonia era il paradiso dell’ebraismo, si è trasformata in qualcosa di atroce. Mai fidarsi troppo. La differenza è che adesso c’è lo Stato di Israele, e non è da poco. Lo Stato di Israele è una garanzia ed è la differenza rispetto al passato.
(Bet Magazine Mosaico, 18 luglio 2024)
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“Gli israeliani non sono civili, sono tutti militari. E ai bambini insegnano a sparare contro di noi”
Il secondo video di Klaus Davi nei quartieri arabi a Milano
di Ludovica Iacovacci
“I media in Italia sono manipolati dalla comunità ebraica. Questa è la verità. La Meloni è governata da Israele. Come lei, tedeschi, olandesi, tutto l’Occidente. In primis, gli Stati Uniti d’America sono governati da Israele” dicono con sicumera giovani palestinesi intervistati dal giornalista Klaus Davi in via Padova, a Milano.
Dopo l’episodio alla moschea di viale Jenner, il massmediologo ha pubblicato il 16 luglio la seconda puntata dell’inchiesta sulle conseguenze della narrazione mediatica riguardo alla guerra in Medio Oriente nei quartieri delle comunità arabe milanesi. Il giornalista si è recato presso la moschea di via Padova, il cui imam è stato premiato con l’Ambrogino d’Oro nel 2009, e ha percorso la via di Milano realizzando varie interviste ai fedeli del centro islamico.
Il sentimento comune che unisce tutte le voci arabe – per lo più palestinesi ed egiziane – è il profondo odio per lo Stato di Israele. Sul riconoscimento del diritto del Paese ad esistere non c’è neanche una voce che risponda affermativamente. “Stato di Palestina”, “Israele non esiste, non è uno Stato legale” dicono gli intervistati. “Noi abbiamo problemi con gli israeliani dal 1897”, sentenzia un palestinese di Nablus risalendo all’origine temporale del sionismo e facendo attenzione ad usare il termine “israeliani” e non “ebrei”, seppur nel 1897 lo Stato di Israele ancora non fosse stato fondato dato che in quell’anno Theodor Herzl istituì il primo Congresso sionista mondiale che si tenne a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897. “Non è antiebraismo, è antisionismo. Questi sono sionisti, usiamo i termini giusti. Non hanno diritto alla patria nel nostro Paese. Vadano in Germania, in America. Perché non vanno a vivere lì?” argomenta un giovane palestinese rispondendo al perché l’antisemitismo sia in crescita: “Noi siamo semiti”, precisa.
Secondo gli arabi non è vero che l’odio contro gli ebrei è in aumento ed il problema non è di carattere religioso: “Israele è il sionismo, la religione non c’entra”, afferma un palestinese ponendo la questione solo sul piano politico. “Come ebrei li accettiamo; li abbiamo sempre protetti in quanto musulmani, sia gli Stati sia il mondo arabo. Dove ci sono arabi, ci sono ebrei” sostiene il palestinese di Nablus, collocando l’origine dei problemi a “fino a quando non hanno messo piede in Palestina” e – questa volta – e non parla di “israeliani” bensì di “ebrei”.
Se la teoria appena enunciata dai musulmani (secondo la quale l’aspetto politico andrebbe distinto da quello religioso) fosse vera, allora sarebbe inspiegabile perché i palestinesi sostengono Hamas e il massacro del 7 ottobre, pogrom che prima di avere carattere politico ha natura religiosa e antisemita. Per i terroristi e i loro seguaci, la strage è una medaglia da appendere sul petto: “Il comportamento di Hamas è stato giustissimo, più che giusto”, afferma il palestinese di Nablus. Un altro dice di aver festeggiato quel giorno.
Quando Klaus Davi domanda cosa ne pensano dei civili rapiti, donne e bambini, il palestinese di Nablus risponde: “Gli israeliani non sono civili, sono tutti militari. Ai bambini insegnano a sparare contro di noi”. Quando il giornalista sottolinea che Hamas ha ucciso dei bambini israeliani, c’è un coro unanime da parte dei tre palestinesi presenti: “Non è vero. È morto solo un bambino, per sbaglio”.
Gli arabi vantano paragoni inesistenti tra i rapiti israeliani e i prigionieri palestinesi: “Gli ostaggi israeliani rilasciati da Hamas erano felici, sorridenti, tranquilli, dicevano che Gaza li ha trattati bene. I nostri ostaggi palestinesi tornano da Israele traumatizzati”. Del resto, per loro questa narrazione terroristica del 7 ottobre è un’invenzione della stampa “manipolata dalla comunità ebraica” e della politica occidentale “governata da Israele”. Inutile domandare se considerino i componenti di Hamas dei terroristi: “Ma stai scherzando? E i partigiani dell’Italia? Sono dei liberatori. Hamas ha vinto le elezioni nel 2006”.
Giovedì mattina la Knesset, il parlamento israeliano, ha votato a larga maggioranza una risoluzione che respinge la creazione di uno Stato palestinese.
La risoluzione è stata co-sponsorizzata dai partiti della coalizione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu insieme ai partiti di destra dell’opposizione e ha ricevuto persino il sostegno del partito centrista di Unità Nazionale di Benny Gantz.
I legislatori del partito di centro-sinistra Yesh Atid del leader dell’opposizione Yair Lapid hanno abbandonato il plenum per evitare di sostenere la misura, nonostante lui si sia espresso a favore di una soluzione a due stati.
L’iniziativa è stata approvata pochi giorni prima della visita di Netanyahu negli Stati Uniti per parlare a una sessione congiunta del Congresso e incontrare il Presidente Joe Biden alla Casa Bianca.
Già a febbraio, la Knesset aveva approvato una risoluzione sponsorizzata da Netanyahu che rifiutava l’istituzione di uno Stato palestinese, ma la mozione riguardava specificamente l’istituzione unilaterale di tale Stato, in seguito alle notizie secondo cui i Paesi esteri stavano valutando la possibilità di riconoscere uno Stato palestinese in assenza di un accordo di pace con Israele.
La risoluzione – approvata per 68-9 – respinge in toto la creazione di uno Stato palestinese, anche come parte di un accordo negoziato con Israele.
“La Knesset di Israele si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest del Giordano. L’istituzione di uno Stato palestinese nel cuore della Terra d’Israele rappresenterà un pericolo esistenziale per lo Stato d’Israele e i suoi cittadini, perpetuerà il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerà la regione”, si legge nella risoluzione.
“Sarà solo questione di poco tempo prima che Hamas prenda il controllo dello Stato palestinese e lo trasformi in una base del terrore islamico radicale, lavorando in coordinamento con l’asse guidato dall’Iran per eliminare lo Stato di Israele”, ha continuato. “Promuovere l’idea di uno Stato palestinese in questo momento sarà una ricompensa per il terrorismo e incoraggerà solo Hamas e i suoi sostenitori a vedere questa come una vittoria, grazie al massacro del 7 ottobre 2023, e un preludio alla presa di potere dell’Islam jihadista in Medio Oriente”.
Il voto è arrivato mentre il discorso di Netanyahu del 24 luglio stava già causando costernazione tra molti Democratici, molti dei quali sono divisi tra il loro sostegno di lunga data a Israele e la disapprovazione per il modo in cui Israele ha condotto le operazioni militari a Gaza durante la guerra con Hamas.
Mentre alcuni Democratici hanno dichiarato che parteciperanno per rispetto a Israele, una fazione più ampia e crescente non vuole partecipare, creando un’atmosfera straordinariamente carica in un incontro che normalmente equivale a una dimostrazione cerimoniale e bipartisan di sostegno a un alleato americano.
A complicare ulteriormente le cose per Biden e i Democratici c’è la situazione politica sempre più in bilico del Presidente, al quale sempre più spesso viene chiesto di ritirarsi dalla corsa, dato che nei sondaggi è in forte svantaggio rispetto allo sfidante Donald Trump.
Con un ulteriore colpo di scena, la Casa Bianca ha annunciato mercoledì che Biden si sarebbe recato nel Delaware per autoisolarsi dopo essere risultato positivo al COVID. Non è chiaro come questo sviluppo possa influire sul previsto incontro di lunedì con Netanyahu a Washington. Il medico di Biden ha detto che stava prendendo il Paxlovid, che di solito ha un regime di cinque giorni, ma non ha specificato un calendario per il suo previsto recupero.
(Rights Reporter, 18 luglio 2024)
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La risposta della Knesset a Joe Biden
Alla vigilia della sua partenza per Washington, dove parlerà al Congresso il 24 luglio, Benjamin Netanyahu incassa il voto pieno della Knesset alla risoluzione che rigetta il venire in essere di uno Stato palestinese.
La risoluzione, appoggiata dai partiti facenti parte della maggioranza di governo insieme ai partiti di destra all’opposizione, ha ricevuto l’appoggio anche del partito centrista guidato da Benny Gantz. La risoluzione è passata con l’astensione di Yesh Atid, il partito guidato da Yair Lapid e con la prevedibile e marginale opposizione della sinistra.
Il messaggio che arriva a Joe Biden e alla sua amministrazione non può essere più chiaro ed è esplicitato dal testo stesso della risoluzione:
“La Knesset di Israele si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest della Giordania. La creazione di uno Stato palestinese nel cuore della Terra d’Israele rappresenterebbe un pericolo esistenziale per lo Stato di Israele e i suoi cittadini, perpetuerebbe il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerebbe la regione. Sarebbe solo questione di breve tempo prima che Hamas prenda il controllo dello Stato palestinese e lo trasformi in una base terroristica islamica radicalizzata, lavorando in coordinamento con l’asse guidato dall’Iran per eliminare lo Stato di Israele…Promuovere l’idea di uno Stato palestinese in questo momento sarebbe una ricompensa per il terrorismo e non farebbe altro che incoraggiare Hamas e i suoi sostenitori a vederlo come una vittoria, grazie all’eccidio del 7 ottobre 2023, e un preludio alla presa del potere dell’Islam jihadista in Medio Oriente”.
Il testo della risoluzione è finora, a nove mesi dalla guerra a Gaza, la più palese contestazione dell’intento programmatico dell’Amministrazione Biden, nonché una risposta inequivocabile al riconoscimento politico, di fatto senza alcun effetto pratico, di uno Stato palestinese da parte di paesi ostili a Israele come Spagna, Norvegia e Irlanda.
Si tratta anche di una presa di posizione che evidenzia un fatto che dovrebbe essere ovvio ma non sembra esserlo; l’unico paese in grado di decidere se e quando sussistano le condizioni per la nascita di uno Stato palestinese all’interno dei propri confini è Israele stesso. È Israele che detiene la propria sovranità, non gli Stati Uniti, né nessun altro Stato.
L’approvazione della risoluzione rispecchia il sentire della maggioranza degli israeliani, soprattutto dopo il 7 ottobre e mostra come l’opposizione alla nascita di uno Stato palestinese non sia solo una posizione di Netanyahu ma sia ampiamente condivisa.
A quattro mesi dalle elezioni, fortemente indebolito, Biden incassa questo risultato che sconfessa completamente l’impianto ideologico di una amministrazione americana che come poche altre ha lavorato fino ad oggi contro gli interessi dello Stato ebraico.
Il massacro del 7 ottobre ha stravolto ogni paradigma all’interno dell’IDF. Lo ripete più volte l’Addetto per la Difesa presso l’Ambasciata d’Israele in Italia, il Colonnello Liad Zak, riferendosi a diversi aspetti: dalle regole di ingaggio all’uso della tecnologia. Il massacro perpetrato da Hamas e la costante minaccia di Hezbollah al nord hanno stravolto ogni cosa. Per capire cosa sia cambiato in questi mesi all’interno dell’esercito israeliano, Shalom lo ha intervistato.
- Il massacro del 7 ottobre ha traumatizzato tutta la società israeliana: come ha reagito l’esercito? Stiamo combattendo per lasciare ai nostri bambini un futuro migliore. Tuttavia non possiamo ignorare ciò che ha fatto Hamas. È importante ricordare però che noi non siamo animali come i nostri nemici, a cui non importa della propria gente, ama vederla soffrire. Al contrario di quanto lascia intendere certa propaganda, in particolare sui social media, Israele si sta prendendo cura degli aiuti umanitari. Nessuno stato in guerra aiuta il proprio nemico. Noi sì, fornendo acqua, elettricità e cibo.
- La guerra a Gaza è stata, sin dal principio, oggetto di numerose discussioni all’interno dell’opinione pubblica occidentale, che considera la risposta dell’esercito sproporzionata. In che condizioni combattono i soldati nella Striscia? L’IDF sta combattendo contro un nemico che non si fa problemi a nascondersi in mezzo ai civili. Nonostante ciò, il rapporto tra le vittime civili e i terroristi è di 1:1, di gran lunga inferiore alla media di 4:1 che abbiamo visto in altri conflitti. Stiamo rispettando le leggi internazionali di guerra. Siamo un esercito professionale, educhiamo sin dal primo momento i soldati a rispettare determinati comportamenti. Ribadisco, non siamo dei mostri e non vogliamo diventarlo.
- Come mai l’IDF è considerato “l’esercito più morale al mondo”? Nel nostro esercito ci sono delle regole di ingaggio molto rigide, che vengono insegnate, ripetute e migliorate attraverso i debriefing. Ad ogni soldato inoltre viene consegnato un libricino nel quale viene descritto lo “Spirito dell’IDF”, che delinea i nostri valori e, insieme alle regole pratiche che ne derivano, costituisce il nostro codice etico, che guida i nostri soldati e comandanti nelle loro attività quotidiane e operative. Bisogna sottolineare comunque che a seconda dello scenario e del periodo, le regole di ingaggio cambiano, sempre nel rispetto dell’etica.
- Tsahal è riconosciuto e temuto per essere un esercito tecnologico, con armamenti e strumenti all’avanguardia. è sufficiente per vincere una guerra? La tecnologia non è tutto e il massacro del 7 ottobre lo ha dimostrato. Anche i nostri nemici sono migliorati strategicamente, per questo la tecnologia è importante, ma è fondamentale che questa lavori in simbiosi con il fattore umano.
- In questo momento Israele è divisa principalmente su due fronti: Gaza e il confine con il Libano. A che punto sono le operazioni nella Striscia? E al nord, cosa sta succedendo? Con il controllo del Corridoio Netzarim e del Corridoio Filadelfia, a Gaza stiamo per completare la Fase 2. La terza sarà incentrata su missioni mirate supportate dall’intelligence, volte soprattutto al salvataggio degli ostaggi e all’eliminazione dei terroristi di Hamas. Nel mentre ci stiamo preparando per lo scenario a nord. Stiamo organizzando diverse esercitazioni per i riservisti, così da essere pronti in caso di un’eventuale guerra con Hezbollah, che ricordiamo che è finanziata direttamente dall’Iran. Dobbiamo essere pronti ad ogni minaccia.
Incendi di sinagoghe, scuole ebraiche e altri luoghi della comunità ebraica, a Berlino. Il numero delle violenze antisemite è raddoppiato dal 7 Ottobre.
Prima è stata bruciata la sinagoga Kahal Adass Jisroel di Berlino, colpita con le molotov. Ieri gli studenti del ginnasio Tiergarten della capitale tedesca hanno appiccato un incendio al proprio istituto dopo la cancellazione della cerimonia di diploma decisa per paura delle proteste. Poi hanno deturpato i muri esterni del ginnasio con la scritta “Bruciate Gaza? Bruceremo Berlino”.
La direzione del Tiergarten Gymnasium era preoccupata che metà dei diplomandi intendesse utilizzare la cerimonia per manifestazioni filo palestinesi, anti israeliane e antisemite. Felix Klein, commissario federale per la lotta all’antisemitismo, questa settimana ha tenuto una conferenza in cui ha raccontato: “Oggi in pubblico molti ebrei cercano di essere quanto più invisibili possibile. Vanno in sinagoga senza dare nell’occhio, utilizzando altri ingressi per non essere riconosciuti. Gli uomini non indossano più la kippah. Le donne non mostrano più apertamente le loro collane con la Stella di David”.
Secondo un nuovo rapporto che monitora l’antisemitismo in Germania, il numero di incidenti antisemiti è raddoppiato in un anno. 4.782 episodi di antisemitismo, più 80 per cento rispetto all’anno precedente, di cui due terzi dopo il 7 ottobre. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, sullo Spiegel denuncia “zone interdette agli ebrei” nel paese. Se ne va la scrittrice Mirna Funk. Uno studente ebreo di Francoforte si arrende: “Voglio lasciare la Germania”. Hendrik Edelmann non si sente più sicuro e volta le spalle al suo paese. “Vogliono distruggere la vita di persone come me”. “Non voglio vivere in un paese il cui cancelliere porta milioni di musulmani antisemiti che attaccano gli ebrei e le istituzioni ebraiche in Germania”, ha scritto il presidente della comunità ebraica del Brandeburgo, Semen Gorelick. “Non si può vivere in un paese dove non puoi indossare una kippah per strada”.
Jüdische Allgemeine è il giornale degli ebrei tedeschi. Il caporedattore Philipp Peyman Engel in un’intervista alla Welt dice che “l’ebraismo in Germania sta diventando invisibile”. Quasi nessuno osa più uscire per strada con i simboli perché la probabilità di essere aggrediti verbalmente o fisicamente è troppo alta. Berlino si è già “ribaltata”, secondo le sue scioccanti scoperte, le cose non sono diverse in molte città della Ruhr. Ci sono “islamici ed estremisti di sinistra che ci minacciano massicciamente rendendo le nostre vite un inferno”.
Gruppi filo palestinesi e anti israeliani terrorizzano anche il campus dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza, fondata nel 1477 e una delle più antiche d’Europa, distribuendo volantini che inneggiano alla distruzione dello stato ebraico. Gli ebrei si erano stabiliti nella città renana durante l’epoca romana. La maggior parte della popolazione ebraica della città fu deportata e completamente liquidata dai nazisti nel 1943. Oggi a Magonza, su 232 mila abitanti, vivono appena un migliaio di ebrei. Ancora troppi, per i filo Hamas.
Negli ultimi anni, nonostante il loro contributo alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo, i vessilli della Brigata Ebraica sono sempre stati contestati dalle frange più estremiste al corteo del 25 aprile. “E quest’anno, nel contesto della guerra, si è arrivati ad un punto addirittura peggiore, associando due cose che effettivamente non c’entrano nulla l’una con l’altra, paragonando la resistenza dei partigiani a quello che è stato fatto da Hamas”. Così Luca Spizzichino, presidente dell’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia), ha introdotto l’incontro organizzato il 17 luglio dall’associazione dei giovani ebrei su Zoom con Piero Cividalli, ultimo veterano italiano ancora in vita tra coloro che durante la Seconda Guerra Mondiale si unirono alla Brigata Ebraica. Non a caso, la segretaria UGEI Ariela Di Gioacchino ha spiegato che l’incontro è stato reso aperto a tutti, proprio per fare in modo che il maggior numero di persone possibile potesse ascoltare la sua testimonianza.
• L’INFANZIA E L’ADOLESCENZA Nel raccontare la sua infanzia in Italia, Cividalli, che oggi ha 98 anni, ha raccontato che “io ero un bambino italiano come tutti gli altri negli anni ‘30”, e in un primo momento non si rendeva conto di quello che succedeva sotto il regime, anche perché i genitori lo tenevano all’oscuro. “Tutto è andato più o meno liscio fino al ’38, quando ho compiuto 12 anni. E in quel momento sono state promulgate le Leggi Razziali; nel settembre del ’38, mio padre ha riunito me e le mie sorelle, e ci ha raccontato che non potevamo più andare a scuola. La vita cominciò a cambiare; lui perse il lavoro, e siccome era già da tempo un antifascista, decise che dovevamo lasciare l’Italia”.
Ha spiegato che all’epoca erano pochi i paesi che accoglievano gli esuli ebrei; dapprima si stabilirono a Losanna, in Svizzera, e poi nel ‘39 il padre riuscì a portarli a Tel Aviv. Ha raccontato che la sua famiglia “non soltanto era antifascista, ma erano anche molto legati ai Fratelli Rosselli. Anch’io ero molto legato a loro, e quando nel ’37 ho saputo che erano stati assassinati, che il padre delle bambine con cui giocavo era stato assassinato, ho giurato che li avrei vendicati”.
Nel ’39 tornarono in Italia per passare le vacanze dai nonni, e in quel momento “è scoppiata la guerra. Ero malato di scarlattina, e quindi non potevo uscire dalla mia stanza. Siccome per fortuna l’Italia non è entrata in guerra subito, nel settembre del ’39 siamo rientrati a Tel Aviv. È stata una situazione molto traumatica: a 13 anni dovevo imparare una nuova lingua, in un paese nuovo, con usanze diverse”.
• LA BRIGATA EBRAICA Cividalli ha raccontato che nel 1944, quando la guerra era ormai prossima alla fine, “mia sorella si è arruolata nell’esercito britannico. Io non potevo fare da meno: appena compiuti 18 anni, nel dicembre del ’44, mi sono arruolato per combattere il nazifascismo e salvare il salvabile dell’ebraismo europeo”. Dapprima lo mandarono in Egitto per l’addestramento, e poi arrivò in Italia con la Brigata Ebraica, quando ormai il conflitto era già finito. “Quando sono arrivato in Italia, l’ho trovata distrutta non soltanto dalla guerra, ma anche dal fascismo stesso”. Per questo, vorrebbe che gli italiani “sapessero a che cosa li ha portati il fascismo”.
Per dare un’idea della condizione in cui versava l’Italia subito dopo la guerra, ha spiegato che dopo un primo periodo in cui era a Taranto, giunse l’ordine di trasferirsi al nord, a Padova e a Udine: durante il viaggio, durato tre giorni su un treno merci, “ogni due passi ci si doveva fermare a causa delle distruzioni. E poi, c’era tutta questa gente povera che chiedeva l’elemosina, i bambini che venivano a cercare del cibo tra i rifiuti lasciati dai soldati”. Dopo l’Italia, prima di tornare nella Palestina Mandataria venne spedito anche in Austria e in Belgio.
• LA GUERRA D’INDIPENDENZA D’ISRAELE Dopo il ritorno in quello che nel ’48 divenne lo Stato d’Israele, ha spiegato Cividalli, “ho dovuto combattere per davvero, durante la guerra d’indipendenza d’Israele. Sono stato in un kibbutz chiamato Negba, dove eravamo assediati dalle forze egiziane. Ma intorno a noi c’erano truppe di tutti i tipi: iracheni, siriani, arabi locali, tutti combattevano per distruggere questo Stato”.
Tra i ricordi della guerra, ce n’è uno in particolare che si porta dietro con dolore: “Quando sono stato ferito, in una postazione molto avanzata, c’era una ragazza con me che mi ha fasciato e curato. Il comandante mi ordinò di andare in infermeria e poi in una postazione meno pericolosa, mentre la ragazza che mi aveva curato prese il mio posto in prima linea. E la sera stessa, durante quello che avrebbe dovuto essere il mio turno di guardia, è rimasta uccisa. E questo è un dolore che mi porto dietro per tutta la vita, poiché questa ragazza che mi aveva curato è morta al posto mio”.
In seguito, Cividalli ha combattuto anche in altre guerre d’Israele, nel Sinai nel ’56 e in quella dei Sei Giorni nel ’67, fino a quando “ormai ero troppo vecchio per combattere”.
• L’ATTUALITÀ Guardando alla situazione attuale in Italia, Cividalli ha l’impressione che “questo antisemitismo che avevo sofferto nel 1938 non è scomparso, anche se non vivendo in Italia non posso esserne sicuro”. Una delle ultime volte che è venuto in Italia, ha detto di essersi sentito male quando è passato da Predappio, vedendo i negozi con i cimeli fascisti.
Ha inoltre aggiunto che “anche la sinistra italiana è diventata una sinistra fascista, violenta”. In particolare, lo ha inorridito vedere la Scuola Normale Superiore di Pisa rifiutare gli accordi con Israele, soprattutto perché “il mio bisnonno, Alessandro D’Ancona, è stato direttore della Normale, senatore del Regno e sindaco di Pisa. Io e la mia famiglia abbiamo donato alla Scuola Normale tutti i ricordi che avevamo del mio bisnonno. Sono cose così umilianti e così tristi che mi fanno pensare che gli italiani non hanno ancora preso coscienza di tutto il male che sono riusciti a fare. E che ancora stanno facendo”.
Nel 1994, il Rabbino capo di Roma, il grande e indimenticabile Elio Toaff, pubblicava un libro-intervista, Essere ebrei, edito da Bompiani, nel quale rispondeva alle domande di Alain Elkann sul significato dell’identità ebraica. Un libro di grande importanza, che aiutava non solo gli ebrei a capire cosa fossero, o potessero o dovessero essere, ma anche tutti gli uomini a capire quale sia o possa essere la loro identità, e come essa si possa forgiare, trasmettere, trasformare, attraverso un continuo confronto con se stessi e col mondo esterno. Perché ogni identità non è mai qualcosa di statico e immobile: credo che nessuno, alla fine della propria giornata, possa dirsi sicuro di essere la stessa persona che era all’inizio della stessa. E, se ciò è vero per una singola persona, ancor più lo è per un popolo, una religione e una tradizione che coinvolgono milioni di persone diverse.
Come insegnano i saggi, la parola Adam è scomponibile in due sillabe, l’alef iniziale e il successivo dam, che vuol dire sangue. Gli uomini sono tutti uguali, perché hanno tutti lo stesso sangue rosso, ma sono anche tutti diversi, perché ognuno di loro è segnato da un unico e irripetibile alef. E ciò, ovviamente, vale anche per gli ebrei, quantunque inesorabilmente condannati, da una millenaria distorsione, a essere monoliticamente raggruppati nella immaginaria prigione di un’identità fissa, piatta e unica, che, tutti insieme, li accomuna e (spesso) li condanna: sono, dicono, pensano, fanno…
Esattamente trent’anni dopo, viene oggi pubblicato un libro – frutto di un lungo percorso di investigazione e riflessione – di altrettanto interesse, molto diverso dal primo come impostazione, oggetto della ricerca, formazione culturale e impostazione ideologica dell’autore, il famoso demografo Sergio Della Pergola (che al Rabbino, com’è noto, è stato legato per lunghi decenni da uno stretto dialogo intellettuale e sodalizio familiare, essendone il genero).
Il titolo è uguale a quello del 1994, con l’aggiunta di una parola che aggancia l’indagine al momento attuale (forse il più difficile, com’è noto, per l’ebraismo mondiale, dopo la Seconda Guerra Mondiale) e che dà il segno del tempo trascorso: Essere ebrei, oggi. Continuità e trasformazioni di un’identità, Il Mulino, pp. 224.
L’autore inizia la sua investigazione con una serie di domande: «La popolazione ebraica nel mondo e nei maggiori paesi è in aumento o in diminuzione? Nel corso del tempo gli ebrei diventano più religiosi o meno religiosi? Sono più uniti fra di loro o più divisi secondo linee ideologiche, politiche e religiose? Sono sempre più integrati e assimilati nel contesto della società in cui vivono oppure sono sempre più isolati fra loro stessi? Sono maggiormente accettati dall’ambiente circostante o più contestati e discriminati?».
Fornire risposte certe a tali domande (tranne, forse, la prima, che presenta un livello di oggettività: ma forse neanche questo è vero, dal momento che la stessa concezione di chi possa dirsi o essere riconosciuto come “ebreo” è controversa) è, ovviamente, alquanto arduo, ed è difficile trovare solo due persone che la pensino allo stesso modo. Ma Della Pergola, forte del rigore scientifico della sua lunga e prestigiosa carriera accademica, basa la sua indagine su una serie di sondaggi condotti su larga scala, che hanno visto coinvolte decine di migliaia di persone, in molti Paesi, e ai quali egli stesso ha collaborato. Segnatamente: il sondaggio del 2013 sugli ebrei degli Stati Uniti realizzato dal Pew Research Center di Washington, specializzato negli studi sulla religione; quello del 2015, ancora del Pew Research Center, riguardanti le identità, gli atteggiamenti e le percezioni politiche nella popolazione d’Israele; quello del 2018 dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea sulla percezione dell’antisemitismo e della discriminazione nella popolazione ebraica in 12 Paesi dell’Unione Europea, fra cui l’Italia. Sono anche stati utilizzati i materiali raccolti da altre importanti ricerche sugli ebrei italiani, a diversi delle quali ha collaborato lo stesso autore, fin dal lontano 1965. Nel libro, quindi, confluiscono elementi raccolti in un’intera vita di studio, e le varie elaborazioni dei dati vengono riformulate in una nuova versione, offerta ai lettori con grande chiarezza e capacità comunicativa.
«Prima di tutto», avverte l’autore, «occorre comprendere che l’ebraismo è un complesso di elementi cognitivi, esperienziali ed affettivi. Può essere, quindi, osservato e classificato, ma anche percepito e vissuto, sia come un insieme di individui separati sia come un collettivo consolidato e più o meno coerente». È lo stesso oggetto dell’indagine, quindi, a essere, per sua stessa natura, prismatico e sfuggente a un preciso e definito inquadramento categoriale.
L’identità, ricorda l’autore, determina generalmente dei comportamenti, delle azioni: «Se una persona crede in un atto o in un oggetto simbolico o reale, è probabile, anche se non certo, che questa credenza si manifesti in modo concreto e quindi misurabile». Ma può anche accadere il contrario: può infatti «verificarsi anche un’influenza simmetrica, se e quando le convinzioni, le emozioni o i sentimenti interiori (identità) diventano la conseguenza piuttosto che la causa delle opinioni espresse o delle azioni manifestate (identificazione)». Ossia, «in seguito alla ripetizione magari formale e meccanica di atti o di opinioni, una persona può finire per immedesimarvisi”.
La ricerca di Della Pergola, perciò, va necessariamente al di là dell’ambito meramente sociologico e demoscopico, investendo anche i molteplici aspetti intellettuali ed emotivi scaturenti dalla “diade contenuti-identificazione”, e collegandosi a domande di tipo interiore e psicologico: che cosa gli ebrei pensano sia l’ebraismo? perché sono legati all’ebraismo? come esprimono la loro identificazione con esso?
Attraverso pagine di rara lucidità analitica, basate un una rigorosa documentazione e corredate da immagini e grafici di grande utilità didattica, l’autore fa emergere un quadro denso di aporie e contraddizioni, che spesso sorprenderà anche chi pretenda di avere un po’ di esperienza in materia di ebraismo.
Impossibile, ovviamente, sintetizzare in poche righe i risultati della ricerca, anche perché essi appaiono costellati di punti interrogativi. «Come già più volte in passato», conclude l’autore, «i drammi e i dilemmi che coinvolgono la compagine ebraica, e i modi con cui questi sono affrontati nel dominio pubblico, finiscono per costituire una cartina di tornasole della coscienza e della civiltà del presente, e allo stesso tempo interrogano la storia mettendo in discussione alcune delle categorie con le quali l’abbiamo fin qui letta. Da qui dovrà partire domani una nuova pagina sull’essere ebrei oggi».
Diciamo solo che il volume fa capire tantissimo non solo sull’ebraismo, ma anche su quel “resto del mondo” che ad esso si mostra, da sempre, tanto interessato, spesso in modo malato, torbido e morboso. E che dovrebbe essere letto da chiunque voglia capire qualcosa di più di quella “coscienza e civiltà del presente” di cui la percezione dell’ebraismo rappresenta la “cartina di tornasole”.
Italia-Israele, il Comune di Udine nega il patrocinio: "E’ uno stato in guerra". Monfalcone: “Li ospitiamo noi”
L'amministrazione comunale di Udine non ha concesso il patrocinio per la partita di calcio tra Italia e Israele, match valido per la Nations League e in programma nella città friulana il prossimo 14 ottobre. La richiesta, arrivata dalla Federcalcio, è stata negata in quanto non rientra fra le modalità prevista dal regolamento per la concessione del patrocinio da parte dell'ente, che può essere concesso solo per iniziative che non hanno scopo di lucro.
• Il sindaco di Udine: "Israele è in guerra, il patrocinio potrebbe creare divisioni"
La giunta comunale non ha concesso una deroga prevista in caso di evento benefico e per la rilevanza di prestigio di immagine per la città non ritenuta tale in relazione al conflitto israelo-palestinese. "Una deroga al regolamento, concedendo il patrocinio, sarebbe stata una scelta troppo divisiva, essendo Israele uno Stato in guerra. La nostra scelta poteva essere diversa solo se a oggi fosse stato annunciato un cessate il fuoco. Purtroppo così non è", ha spiegato il sindaco di Udine, Alberto Felice De Toni. "La concessione del patrocinio, più che fornire prestigio alla città, potrebbe creare divisioni e quindi problemi sociali", ha aggiunto.
• La risposta di Monfalcone: "Pronti a ospitare la nazionale di Israele"
A fare da contraltare al diniego di Udine è arrivata la proposta della ex sindaca di Monfalcone, oggi parlamentare europea, Anna Maria Cisint, che ha offerto la disponibilità della città a ospitare l’evento o, quantomeno, la nazionale di Israele: "La città di Monfalcone sarebbe sommamente onorata ad ospitare l'incontro Italia-Israele e si rende disponibile a offrire patrocinio e strutture per celebrare questo importante appuntamento sportivo. Il Comune di Udine non perde occasione per distinguersi in termini di faziosità e nella capacità di alimentare divisioni a senso unico, sempre dalla parte delle posizioni più estreme della sinistra. Non accorgersi che lo sport è un elemento di unione e dimenticare che Israele è la vittima del terrorismo di Hamas con 1500 innocenti uccisi è un segno grottesco di una caduta di civiltà che una città come Udine non merita di dover sopportare", ha scritto polemicamente in una nota.
I parenti degli ostaggi diffondono nuove foto: “Ecco la loro prigionia”
Le immagini trovate dall’Idf a Gaza sono state usate dalle famiglie per chiedere a Netanyahu di concludere i negoziati. Intanto crescono le proteste contro il richiamo alla leva per i giovani ortodossi
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME — Ferite, bende e sguardi spaventati. Le immagini della prigionia delle cinque soldatesse israeliane rapite il 7 ottobre fotografano l’angoscia di Liri Albag, Karina Ariev, Agam Berger, Daniela Gilboa e Naama Levy nelle mani di Hamas. Le ragazze, tra i 19 e i 20 anni, stavano svolgendo il servizio di leva. Le prime quattro appaiono in una stanza sedute su materassini per terra. Di Naama è stata pubblicata un’immagine separata. Le foto risalgono a diversi mesi fa e sono state ritrovate dall’esercito israeliano nella Striscia. A sceglierle di diffonderle oggi sono state le famiglie nella speranza di mantenere viva l’attenzione sul dramma degli ostaggi che ad oggi sono ancora 120.
«Potete vedere Karina e le sue amiche nei loro primi giorni di reclusione», ha detto con voce rotta il padre, Albert Ariev. «Karina con uno sguardo esausto e disperato, ha una fasciatura sulla testa. Sulla gamba si possono vedere macchie di sangue fresco. Ci sono i segni delle manette e il gonfiore sui polsi indica che è stata legata per molto tempo». Già a maggio le famiglie avevano reso pubblico il video del rapimento del 7 ottobre. Dopo 284 giorni trascorsi nei tunnel di Gaza, i genitori sono tornati ad appellarsi al primo ministro Benjamin Netanyahu — che si prepara a volare negli Usa la settimana prossima per tenere un discorso al Congresso — per chiedere un accordo che riporti a casa le figlie. «Il premier mi ha chiesto di unirmi a lui», ha dichiarato Ayelet Levy Shachar, madre di Naama. «Gli ho spiegato che non mi è possibile e che non mi sentirò a mio agio con lui finché non avrò visto che i negoziati saranno completati». Nella stessa giornata Netanyahu è stato contestato con fischi e urla alla commemorazione per i soldati caduti nell’operazione Margine Protettivo contro Gaza nel 2014.
Intanto, secondo la Cnn, la Cia ritiene cheil leader di Hamas Yahya Sinwar stia sperimentando una pressione crescente da parte dei suoi per accettare l’accordo per il cessate il fuoco. Il direttore William Burns avrebbe dichiarato che sebbene Sinwar non tema di essere ucciso, la frustrazione dei palestinesi nei suoi confronti per la morte e distruzione subiti da Gaza stia aumentando a dismisura. Secondo fonti della Striscia ieri i bombardamenti israeliani hanno provocato la morte di 57 persone. Burns avrebbe detto che la chance di un accordo è la più alta da mesi a questa parte. Un discorso che fa eco al messaggio rivolto alle famiglie degli ostaggi dal ministro della Difesa Yoav Gallant, secondo cui il risultato è più vicino che mai. «È fondamentale fare ogni sforzo prima del viaggio del premier a Washington. Dopo, sarà molto più difficile».
Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, l’Idf sarebbe sempre più convinta che il capo dell’ala militare di Hamas Muhammad Deif sia rimasto effettivamente ucciso nel raid israeliano dello scorso sabato. Uno sviluppo che potrebbe favorire il raggiungimento del cessate il fuoco in virtù dell’indebolimento del gruppo terrorista. In Israele nel frattempo alcuni manifestanti ultraortodossi hanno bloccato l’autostrada 4 vicino alla città di Bnei Brak, per protestare contro il tentativo di arruolare gli studenti delle yeshivot (scuole rabbiniche) finora esenti dalla leva, per alleviare la carenza di soldati durante la guerra.
Bat Ye’or, ovvero «Figlia del Nilo», è autrice di studi pionieristici sulla condizione sociale delle minoranze religiose nel mondo islamico. È lei ad aver introdotto i termini «dhimmitudine» ed «Eurabia». Col primo si indica lo stato di sottomissione al dominio islamico di territori e popolazioni; col secondo la teoria geopolitica che mira alla fusione delle due sponde del Mediterraneo. I lavori di Bat Ye’or sono pubblicati in Italia dall’editore Lindau di Torino.
- Nel suo lavoro, specialmente nel celebre “Eurabia”, lei ha messo in evidenza la natura antisionista e filo-araba dell’Unione Europea. Puoi spiegarci, in generale, quali sono gli interessi che legano l’Europa al mondo arabo? Gli interessi sono variati dagli anni ’60, quando la strategia di Eurabia fu elaborata. Tuttavia, non è nata dal nulla. Già dalla Prima Guerra Mondiale, in termini energetici, il petrolio era un elemento essenziale dello sviluppo industriale ed economico per l’Europa e motivava una politica di avvicinamento euro-arabo. D’altra parte, la Francia e la Gran Bretagna erano imperi musulmani già nel XIX secolo, abitati da numerose popolazioni musulmane, le cui metropoli temevano l’ostilità religiosa. Dopo la decolonizzazione, i paesi europei vollero creare con i paesi musulmani una politica mediterranea privilegiata, che escludesse gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Questa strategia fu rivendicata dai circoli gollisti negli anni ’60 ed era accompagnata da una vasta gamma di relazioni commerciali, politiche, strategiche e culturali privilegiate.
Sul piano religioso, l’intero mondo cristiano, in particolare il Vaticano, e il mondo musulmano si sono opposti al sionismo sin dalle sue prime manifestazioni. Solo pochi movimenti di minoranze cristiane erano a favore. Dopo la Dichiarazione di Balfour e la Dichiarazione di Sanremo (1920), che ratificarono la creazione di un futuro Stato Ebraico, si stabilì una collaborazione antisemita internazionale islamo-cristiana. Collaborazione che si manifestò alla Conferenza di Evian (1938) con il rifiuto dei paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti, di accogliere gli ebrei tedeschi e austriaci perseguitati dal regime nazista. Nei paesi arabi, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, le masse arabe e musulmane si entusiasmavano del nazismo e del fascismo; i leader politici e militari arabi suggellarono alleanze con i nazisti, i fascisti e i collaborazionisti. Nel 1947, due anni dopo la pace, la giudeofobia era ancora diffusa in Europa, mantenuta dagli stessi funzionari collaborazionisti rimasti al loro posto dopo la guerra e legati ai popoli arabi dalla stessa ideologia di sterminio del popolo ebraico. La sopravvivenza di Israele dopo l’aggressione di cinque eserciti arabi ben equipaggiati militarmente e sostenuti in Palestina dalle milizie arabo-naziste di Amin al-Husseini (1947-1948), avvenne nonostante l’Europa. Tutti i documenti di quel periodo lo confermano. Da qui la creazione di un organo del tutto speciale, l’UNRWA, per accogliere gli arabi della Palestina che fuggivano dai combattimenti nei paesi arabi fratelli di cui avevano preteso l’intervento militare per sterminare gli ebrei.
Dal 1967-1969 vediamo la rinascita, nella Francia gollista, di queste reti di collaborazione euro-arabe forgiate dall’alleanza dei nazisti con i popoli arabi nella comune volontà politica genocidaria del popolo ebraico. Questa situazione è stata denunciata e combattuta da intellettuali e politici. Il 15 dicembre 1973, a Copenhagen, i nove paesi della Comunità Europea presero ufficialmente le parti dell’OLP e nel settembre del 1977 una dichiarazione in tal senso venne fatta all’ONU. Oramai, gli arabi di Palestina, Arafat e l’OLP incarnano l’arma di distruzione dello Stato d’Israele in favore del movimento antisemita europeo che, sotto la copertura di antisionismo, può esprimersi apertamente nel contesto di una politica convergente dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Questa tendenza diventa molto popolare in Europa ed è una mappa essenziale della sua politica.
- L’Unione Europea si è dimostrata ostile alle sovranità nazionali, considerate eredità di un passato da abbandonare a favore di istituzioni sovranazionali. Israele, al contrario, è uno stato nazionale geloso della sua indipendenza e dotato di una forte identità. In che misura ritiene che i pregiudizi antinazionali dell’Unione Europea abbiano pesato sulla sue relazione con lo Stato Ebraico? Non credo che questi pregiudizi antinazionali abbiano avuto molta influenza sull’antisionismo europeo. L’Europa stessa promuove un nazionalismo inesistente, lo pseudo-palestinismo, che ha creato e sostiene a suon di miliardi. D’altra parte, tutti i paesi arabi sono ultra-nazionalisti, così come la Turchia, la Cina, il Giappone e molti altri paesi. L’Unione Europea vuole sopprimere le frontiere del suo continente, riprendendo un progetto creato nel 1938 da Walter Hallstein che promuoveva un’Europa senza frontiere guidata dal 3 ° Reich e Judenrein. Hallstein, che fu un eminente nazista, fu eletto dai leader europei primo presidente della Commissione europea (1956-67).
Nonostante il fallimento del comunismo, l’internazionalismo fu promosso dai partiti di sinistra. Bruno Kreisky, presidente dell’Internazionale socialista E diventato cancelliere austriaco (1970-83), rafforzò i legami della sinistra occidentale con il mondo islamico. Egli fu il primo statista a invitare Arafat alle Nazioni Unite e a dare una legittimità all’OLP, il cui progetto di sradicamento dello Stato Ebraico fu incarnato dal suo leader, Yasser Arafat, sostenuto dall’Unione Sovietica. Io credo che sia stato il progetto di Hallstein insieme alla politica di fusione e di collaborazione con il mondo arabo a determinare la retorica di un’Europa senza frontiere dall’insieme dei movimenti politici europei. I documenti dell’epoca menzionano la volontà di creare un potente blocco europeo in grado di competere con l’America che sarebbe collegato con gli Stati produttori di petrolio.
- Quale futuro geopolitico e demografico prospetta per il Vecchio Continente? Se le decisioni politiche prese dal 1973 che posero in essere la guerra nascosta dell’UE contro Israele – svelata pubblicamente dalla politica di Donald Trump nel corso della sua presidenza – e che sono state la base dei meccanismi dell’immigrazione musulmana di massa in Europa, con le trasformazioni sociali, religiose, legali e culturali conseguenti, saranno mantenute dalla élite al potere, il futuro è chiaro. Sarà quello del Libano, del declino dell’Europa nella dhimmitudine. Già da molto tempo il terrore jihadista ha soppiantato l’inviolabilità dei diritti umani in Europa, incluso il diritto elementare di ciascuno alla sicurezza.
- Può approfondire questo parallelo col Libano? Le nostre società sono fratturate dall’adesione di milioni di immigrati alla Sharia e dai loro legami con i loro paesi di origine ostili all’Occidente e alla sua civiltà giudeo-cristiana. La partecipazione europea allo jihad contro Israele ha pervertito i valori occidentali a tutti i livelli e diffuso i concetti islamici della cultura e della storia, che oggi impregnano l’Europa. Questa politica fu scientemente concepita, studiata e applicata in tutti i campi, dai comitati congiunti euro-arabi del Dialogo Euro-Arabo creati nel 1974 a Parigi sotto l’egida della Commissione europea, ed è il motivo per cui i capi di stato hanno piena responsabilità per le sue conseguenze. Dal 1973 l’Unione Europea ha instaurato un rapporto di vassallaggio con l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, da cui derivano alcuni vantaggi economici nel breve termine a scapito dei suoi interessi nel lungo termine.
- In tutta Europa, compresa l’Italia, gli intellettuali che criticano l’Islam e il multiculturalismo sono censurati, denunciati e messi a tacere. Basti pensare a Robert Redeker, Eric Zemmour, Georges Bensoussan, Magdi Allam e molti altri. Quale sarà il ruolo del dissenso intellettuale nell’emergente Europa post-identitaria? Io stessa sono stata criminalizzata senza prove, vittima di incitamenti all’odio e di ingerenze illegali ed erronee nella mia vita privata. Queste sono accuse, che non subiscono nemmeno i criminali protetti dalla presunzione di innocenza, hanno reso necessarie misure di protezione. Tale azione piena di odio mirava a screditare tutte le mie ricerche sulla dhimmitudine e la sua espansione in Europa tramite le reti del dialogo euro-mediterraneo guidate dalla Commissione europea e dalla Lega araba. Il totalitarismo intellettuale imposto dal pensiero unico e refrattario a tutte le riflessioni che lo contraddicono mi ha messa al bando dalla società. Essendo ebrea sono stata accusata di complottismo, un’accusa razzista contro gli ebrei proveniente dagli antisemitismi cristiani, ma ancora più virulenta nell’Islam. Pertanto mi considero vittima di un razzismo giudeofobico che ha sporcato il mio onore e la mia reputazione professionale.
Il ruolo della dissidenza intellettuale dovrà seguire criteri specifici in un’Europa che ha già adottato e integrato a livello sociale, giuridico, culturale e politico, alcuni vincoli della Sharia, dei concetti e comportamenti musulmani tradizionali nei confronti dei dhimmi, dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani accusati di apostasia, nei confronti delle donne e del Dar al-Harb, il territorio della miscredenza. A ciò si aggiunge una visione della storia e dei diritti dell’uomo secondo i principi della Sharia, vale a dire della fede e quindi, fondamentalmente, opposti ai criteri occidentali. Inoltre, sarà necessario conoscere l’ideologia jihadista che introduce l’inversione delle nozioni di aggressore e di aggredito, d’innocenza e di colpa, di giustizia e di crimine.
- Cosa dovranno fare gli intellettuali? La dissidenza intellettuale dovrà definire i suoi obiettivi: difendere i suoi diritti democratici e i valori etici della civiltà giudaico-cristiana occidentale. Dovrà conoscere il suo campo di battaglia, che è quello di una dhimmitudine che lei rifiuta per rimanere libera e sfuggire al destino degli ebrei e dei cristiani ridotti allo stato di fossili dalle leggi del jihad e del dhimmitudine. Dovrà integrare e comprendere queste nozioni nella loro storicità e nella loro nocività politica attuale e individuare i loro canali di trasmissione, generalmente legati alla corruzione e all’antisemitismo. Dovrà accogliere i musulmani che prendono parte a questa guerra, perché non è una guerra contro l’islam, è una guerra per mantenere le nostre libertà e le nostre identità. I popoli d’Europa hanno il diritto di rifiutare la dhimmitudine. Tuttavia, tutto ciò di cui vi sto parlando è completamente ignorato dal grande pubblico e dagli intellettuali. E non ci si può opporre a qualcosa che non si vede, che non si capisce e per la quale non esiste una definizione. Ecco perché temo che quella che dovrebbe essere una battaglia di idee si trasformi in una confusione violenta che farà molte vittime innocenti senza portare progressi.
- Nel suo libro più famoso, “Eurabia”, ha anche toccato il tema dell’islamizzazione dei patriarchi biblici e di Gesù. Un movimento che ha espresso posizioni anti-israeliane e antisemite, Black Lives Matter, denuncia le rappresentazioni “bianche” di Gesù. Vede, in questo atteggiamento, un nuovo tentativo di espropriare gli occidentali dalla loro cultura?
Il movimento Black Lives Matter è un movimento violento infiltrato dall’islamismo e dal palestinismo, che sfruttano uno storico conflitto americano per incitare all’odio contro i cristiani, gli ebrei e in generale contro i bianchi americani, al fine di seminare il caos attraverso conflitti razziali e etnici per distruggere l’America. La denuncia di Gesù “bianco” aggiunge un elemento razziale alla giudeofobia e alla cristianofobia islamica che islamizza la Bibbia, cioè le basi dell’ebraismo e del cristianesimo, per impiantarci l’Islam. Molti afroamericani si oppongono a questo movimento che ha incendiato anche le capitali europee. Personalmente, non avrei alcuna obiezione alla rappresentazione umana di Gesù sotto una forma africana se ciò può servire ad avvicinarlo ai cristiani africani. Per i credenti cristiani Gesù è Dio incarnato e il suo messaggio come ebreo è universale.
Mi permetta un’osservazione sul mio libro Eurabia. È forse il più famoso, ma non è il più importante per me. Attribuisco questo ruolo a Il Declino della Cristianità sotto l’Islam, dal jihad alla dhimmitudine , perché è lì che definisco il concetto cruciale di dhimmitudine come caratteristica storica delle popolazioni sconfitte dal jihad in tre continenti, L’Africa, L’Asia e L’Europa. Lì sviluppo gli argomenti e fornisco I criteri. Per me Eurabia è stato uno studio delle manifestazioni della dhimmitudine nel ventesimo secolo in alcuni paesi europei che non furono conquistati dal jihad e i cui governi l’hanno accolta con entusiasmo. Eurabia esamina principalmente la Francia, ma un’analisi degli altri paesi della comunità, l’Italia ai tempi di Aldo Moro (Lodo Moro) e di Giulio Andreotti, della Gran Bretagna, dei paesi scandinavi, in particolare della Norvegia (non membro della UE), darebbe un’immagine molto più cupa.
- Lei ha conosciuto Oriana Fallaci? Puoi dirci qual è il suo ricordo della grande giornalista italiana? Non ho mai incontrato Oriana. Si è messa in contatto con me qualche tempo prima di morire attraverso un amico comune che conosceva il mio lavoro e le ha dato il mio indirizzo. Oriana mi scriveva spesso per informazioni. Soffriva enormemente per non poter tornare in Italia e soprattutto per l’odio che il mondo politico aveva per lei in quel momento, lei capiva molto bene cosa sarebbe successo in futuro. L’incubo che aveva di vedere distruggere la magnifica Italia con i suoi monumenti, le sue opere d’arte, la ricchezza senza pari del suo patrimonio storico, la tormentava incessantemente. Ho provato a consolarla, ma non sono sofferenze che le parole possano lenire.
La Francia ebraica allo specchio del voto: davvero il suo futuro è sempre più fosco?
di Ilaria Myr
«Marine Le Pen sconfitta». «Francia: la destra non sfonda». «La destra si può battere» (Elly Schlein, PD). «La verità è che nessuno può cantare vittoria» (Giorgia Meloni, FdI). Sono solo alcuni dei titoli e delle dichiarazioni uscite subito dopo l’annuncio dei risultati ufficiali delle elezioni legislative in Francia, che si sono svolte su due turni, e che hanno visto il Nuovo Fronte Popolare, costituito dalle forze di sinistra, guadagnare più seggi e il Rassemblement National di Marine Le Pen, uscito vincitore al primo turno, arrivare terzo, addirittura dietro al partito del presidente Emmanuel Macron. Un risultato, però, che non vede un vincitore con la maggioranza assoluta e che sta dividendo l’opinione pubblica francese. A questo si aggiungano le frizioni interne al Nuovo Fronte Popolare, con le diverse componenti in disaccordo su premier e programmi, e l’ingovernabilità è servita. Perché quello che unisce il blocco di sinistra – di cui è capofila La France Insoumise del discusso Jean-Luc Mélenchon - è un’idea sola: fare sbarramento all’estrema destra del RN.
• IL VOTO EBRAICO Al secondo turno, dunque, i francesi si sono trovati a dover scegliere fra un blocco di destra e uno di sinistra, con i partiti più estremisti in testa. Ma come hanno reagito le diverse anime della comunità ebraica francese (ed europea)? Il dibattito è stato molto acceso e di fatto la comunità ebraica francese si sente minacciata dai fondamentalisti islamici, ma è anche scettica nei confronti della nuova narrazione filo-israeliana dell’estrema destra del Rassemblement National.
Non a caso il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF), aveva esortato la comunità a respingere entrambi gli schieramenti. Jean-Luc Mélenchon, nel suo discorso di vittoria, ha promesso di riconoscere uno Stato palestinese, aumentando ulteriormente le preoccupazioni del 92% degli ebrei francesi, convinti che la retorica dell’estrema sinistra abbia contribuito all’aumento dell’antisemitismo.
Dal canto suo, Marine Le Pen ha cercato di migliorare l’immagine del suo partito, rinunciando all’antisemitismo, denunciando l’attacco di Hamas e adottando una posizione pro-Israele. Tanto che di fronte all’ascesa di La France Insoumise, alcune importanti voci ebraiche hanno invitato a votare per il partito di Le Pen. Una è quella di Serge Klarsfeld, noto cacciatore di nazisti in Francia, che ha motivato la sua decisione con la difesa della memoria ebraica e di Israele, ritenendo che l’estrema sinistra sia accusata di antisemitismo e violento antisionismo per attirare i voti degli elettori di origine maghrebina e islamica.
Ma ha fatto lo stesso anche il controverso intellettuale Alain Finkielkraut, che ha dichiarato di esservi costretto non essendoci alternative, descrivendo questa decisione come un «incubo». «Preferirei la destra all’antisemitismo del Fronte Popolare – ha dichiarato in un’intervista sul Corriere della Sera –. Povera Francia, lacerata dagli estremi. Io sono un conservatore, vedo la lingua, la cultura, la nazione disfarsi».
• INTERVISTA A GEORGES BENSOUSSAN
Come dunque hanno votato gli ebrei francesi? Lo abbiamo chiesto a Georges Bensoussan, storico francese di origine marocchina e da anni attento osservatore delle tendenze sociali in Francia, legate in particolare alla componente musulmana.
- Si aspettava un risultato come quello uscito dal secondo turno? No. Solo negli ultimi giorni ho capito che il Rassemblement National avrebbe potuto non vincere, visto il battage mediatico martellante che ha avuto contro, tutto giocato sulla paura degli elettori nei confronti di un partito definito fascista. Ma non pensavo che il Nuovo Fronte Popolare sarebbe arrivato in testa. Detto questo, si deve precisare che l’avanzata di questa coalizione non è considerevole come si crede, perché i risultati ci dicono che il primo partito in Francia è il RN, mentre i gruppi che compongono il blocco di sinistra hanno tutti ottenuto meno deputati del partito della Le Pen. La maggior parte delle persone, poi, non considera che nel primo turno del 30 giugno il Rassemblement National ha avuto più voti del blocco di sinistra (33,14% contro 27,99%, ndr). Quello che è sorprendente, e che viene annunciato a gran voce sui giornali, è che ha vinto la coalizione di sinistra, quando in realtà il paese è molto a destra, fronte rappresentato dal RN, dalla destra repubblicana e da una grande parte del partito del presidente Macron. Quindi il paradosso a cui assistiamo è che la sinistra grida alla vittoria quando in realtà sociologicamente ha perso le elezioni. Basta vedere come quest’anno abbia preso meno voti di 20 anni fa, quando gli elettori erano meno, 38 milioni contro i 49 milioni di oggi. Ciò è dovuto sicuramente al sistema elettorale francese, ma anche al fatto che fra i due turni il ritornello dominante sui media è stato di fare sbarramento all’estrema destra e perché il Fronte Popolare è una coalizione basata sul rifiuto del RN, e non su un progetto politico condiviso. Il RN non solo è il primo partito in Francia, ma è quello in maggiore espansione: ha avuto 55 deputati in più della precedente assemblea, e in tre anni è passato dai sette deputati nel 2021 ai 142 di oggi. Una crescita enorme…
- Come spiegare una crescita tale del RN? La politica borghese francese delle grandi metropoli, che sia di destra o sinistra, non sa più parlare alle classi popolari e a buona parte della classe media, che si sentono abbandonate e non rappresentate dalle classi borghesi delle grandi città, sempre di più ripiegate su sé stesse e sul proprio modo di vivere. Attenzione, però: non è l’immigrazione che spiega il voto al RN, quanto l’abbandono dei servizi pubblici – posta, mezzi di trasporto, polizia – nelle zone più periferiche, tanto che è emerso che più ci si allontana da una stazione ferroviaria più è forte il voto al RN. Basta guardare i risultati per capire che i voti di Parigi sono esattamente il contrario di quelli del resto della Francia: nella capitale il RN è al 7% mentre nelle altre zone del Paese è fra il 35 e il 38%. Di fatto è la classe borghese che è stata rifiutata dal voto al RN, ma questo voto popolare non è andato ai partiti della sinistra, sentita come non più rappresentante delle classi popolari: una sinistra “bobo” (da ‘bourgeois’ e ‘bohemian’, ndr), che vota per i matrimoni gay, per l’accoglienza degli immigrati (che vanno però a insediarsi nei quartieri più poveri) e che non si occupa assolutamente delle questioni che interessano le realtà più svantaggiate. Quindi la scelta di votare RN è popolare e antiborghese, e non, come si è voluto fare credere, un voto fascista. Il risultato è che le classi popolari hanno l’impressione che il loro voto sia stato scippato.
- Cosa ha pesato di più per gli ebrei: la minaccia dell’estrema destra o quella dell’estrema sinistra? In realtà il RN di Marine le Pen non è più percepito da molti ebrei come una minaccia, come un partito di estrema destra né tantomeno fascista: lo considerano piuttosto populista-autoritario. Inoltre, se è vero che nelle file del RN ci sono degli antisemiti (ad aprile, pochi giorni dopo lo stupro di una dodicenne ebrea con movente antisemita, ha dovuto ritirare il sostegno a uno dei suoi candidati, Joseph Martin, che aveva pubblicato un messaggio antisemita sui social network nel 2018. ndr), è anche vero che la sua dirigenza ha rotto con l’antisemitismo e dal 7 ottobre ha avuto delle posizioni impeccabili nei confronti di Israele.
Quello che è lampante è che il voto ebraico rispecchia esattamente quello dei francesi: l’establishment borghese rappresentato dalle istituzioni ha fatto appello a fare sbarramento, non votando né per l’una né per l’altra parte (vedi l’appello del Crif, ndr), ma le comunità “di base” hanno votato RN o Reconquete di Éric Zemmour. Quindi le comunità ebraiche popolari non ascoltano più le indicazioni delle istituzioni ebraiche, così come le classi popolari non seguono più le direttive della classe borghese veicolate dai media benpensanti. La discriminante è l’antisemitismo: ma mentre RN ha fatto – sinceramente o meno non ci è dato sapere – una pulizia degli elementi antisemiti, non si può dire lo stesso della France Insoumise. E poi ci sono gli interessi di classe, e come gli altri francesi molti ebrei non vedono i propri interessi rappresentati e non vogliono una Francia invasa dagli immigrati e islamizzata.
- Secondo lei l’antisemitismo, molto spesso camuffato da antisionismo, nella sinistra e in LFI, rappresenta una minaccia per le comunità ebraiche? Assolutamente sì, una minaccia evidente e forte. Non sarebbe però giusto dire che tutto il blocco di sinistra è antisemita e neanche che lo è LFI. Quel che è certo è che soprattutto il partito di Mélenchon sfrutta il fatto che la popolazione francese è sempre più musulmana: gli ultimi dati del Ministero degli interni stimano che un francese su 5 sia musulmano. Mélenchon ha fatto il calcolo che alle presidenziali del 2022 gli mancavano 300.000 voti per arrivare al secondo turno, e gli strateghi del partito hanno capito perfettamente che li avrebbero trovati nelle banlieue musulmane. Da qui l’ossessione per Gaza, il promesso riconoscimento della Palestina, la presenza di Rima Hassan (l’avvocatessa franco-palestinese e attivista antisraeliana, diventata eurodeputata con LFI alle ultime europee e fotografata con la kefiah al collo vicino a Mélenchon, ndr). Non penso neanche che lui sia antisemita, ma sicuramente gioca sull’antisemitismo, sulla Palestina e su Gaza per portare i voti al suo partito, ben sapendo che i pregiudizi antisemiti sono molto forti nelle famiglie musulmane in Francia. Di fatto si serve dell’antisemitismo come di un trampolino elettorale.
Per gli ebrei francesi è dunque molto pericoloso perché demograficamente non pesano più nulla: si pensa siano circa 400.000 (ma le statistiche etniche sono vietate in Francia), mentre circa 70.000 hanno lasciato il Paese fra il 2020 e il 2023 per Israele, e molti altri per gli Stati Uniti o l’Australia, e si sa che ci sono oggi più di 15.000 richieste di aliyà per Israele in attesa. Quindi si stima che in 25 anni un quinto degli ebrei se ne sarà andato altrove.
Dal canto suo, l’elettorato non musulmano di LFI ha una grande simpatia per la causa palestinese, e quando ci sono dichiarazioni antisemite del partito non vuole vederle, preferendo parlare di antisionismo. Molto forte è il nocciolo profondamente antiisraeliano, che vede in Israele il seguito della colonizzazione francese in Algeria, il colonizzatore bianco, razzista. Cosa che – e in pochi lo dicono -, permette di sbarazzarsi del senso di colpa per la Shoah: “voi ebrei, vittime di ieri, siete i carnefici di oggi, quindi lasciateci stare con la Shoah, non vi state comportando meglio dei nazisti”.
- Cosa augura all’ebraismo francese? Pensa che gli ebrei debbano andare in Israele, come hanno invitato a fare alcuni personaggi pubblici francesi e israeliani, oppure che possano continuare a vivere in Francia? La soluzione non è quella di partire: si deve rimanere, difendendo la vita ebraica e prendendo le misure necessarie per contrastare le manifestazioni di antisemitismo. Ma certo non è facile, vista anche la crescita della popolazione arabo-musulmana. Allo stesso tempo, Israele non è una soluzione per tutti: il costo della vita è altissimo e sia le persone meno abbienti che la classe media non possono permettersi molte cose, come acquistare un appartamento, andare a mangiare fuori, ecc… Quindi gli ebrei francesi sono condannati alla doppia pena: o restano in Francia e subiscono l’antisemitismo, oppure vanno in Israele ma, se non hanno abbastanza mezzi economici, vivono una vita povera. Per questo molti scelgono altre mete.
Per chi rimarrà in Francia, l’unica possibilità sarà diventare invisibile, vivere raggruppati e nel modo più discreto possibile: si toglierà la mezuzà dalle porte, non si metterà il ciondolo con il Magen David o la kippà, e quando si ordinerà un Uber si darà un nome francese. Già ora è una comunità che si sta abituando a vivere all’ombra. E lo sarà sempre di più.
Anche la piazza e la partecipazione alle manifestazioni contro l’antisemitismo ci dimostrano che il clima sta cambiando in peggio. Quello che è sorprendente è che dopo lo stupro della ragazzina ebrea di 12 anni, l’80% dei partecipanti scesi in piazza era costituito da ebrei; soltanto 30 anni fa, nel 1990, per la violazione del cimitero di Carpentras (era stato profanato un cadavere) c’era un milione di persone nelle strade, tra cui moltissimi non ebrei… Persino il Presidente della Repubblica François Mitterrand era sceso in piazza. Invece, alla manifestazione del novembre scorso contro l’antisemitismo Emmanuel Macron ha rifiutato di partecipare.
Gli ebrei a mano a mano stanno capendo che dietro alle belle parole, l’apparato statale li sta abbandonando: non per antisemitismo, ma a causa del rapporto di forza con il mondo musulmano. In questo contesto gli ebrei non contano più niente.
La sorte di Mohammed Deif: ucciso secondo fonti israeliane, si attendono conferme
di Luca Spizzichino
Secondo l’intelligence israeliana, Mohammed Deif, capo militare di Hamas a Gaza, è rimasto ucciso nel raid di sabato scorso di Mawasi nel sud della Striscia. È quanto ha riferito Channel 12. Una fonte autorevole ha sottolineato che è molto probabile che Deif sia stato ucciso nell’attacco, ma che la conferma non è ancora arrivata, ha riferito l’emittente statale israeliana KAN.
Secondo l’Idf infatti, “è certo” che Deif e il comandante del Battaglione Khan Yunis di Hamas Rafa Salameh fossero nello stesso edificio colpito. Ieri l’esercito ha confermato l’uccisione di Salameh. Al contrario per il terrorista soprannominato “Il fantasma”, manca ancora un annuncio ufficiale.
Nelle scorse ore anche dall’intelligence americana sono arrivate “indicazioni” che Israele abbia eliminato il capo militare di Hamas. “Ci sono ancora molte domande sui risultati degli attacchi contro Mohammed Deif”, ha detto l’ambasciatore statunitense in Israele Jack Lew in un briefing per la comunità ebraica americana ospitato dalla Casa Bianca. “Non posso confermare se hanno avuto successo o meno, ma ci sono indicazioni che ci siano riusciti”.
Ieri sera, il Capo di Stato Maggiore dell’IDF Herzi Halevi ha detto che Hamas stava “cercando di nascondere i risultati” dell’attacco. I media israeliani affermano che Hamas sta facendo di tutto per nascondere la sorte di Deif, anche sorvegliando gli ingressi e le uscite dell’ospedale dove vengono curati i feriti nell’attacco.
Isolazionista, contrario all’invio di armi all’Ucraina, ma favorevole al sostegno a Israele, il mondo comincia a scoprire J.D. Vance, il senatore trentanovenne scelto da Donald Trump come candidato vicepresidente per la corsa alla Casa Bianca.
Nella prima intervista dopo la nomina, Fox News ha chiesto a Vance cosa pensa del conflitto a Gaza. «Joe Biden ha reso la vittoria d’Israele sempre più difficile», ha commentato il candidato vicepresidente. «Vogliamo che Israele concluda questa guerra il più rapidamente possibile, perché più si protrae, più la loro situazione diventa difficile. Ma in secondo luogo, dopo la guerra, vogliamo rinvigorire il processo di pace tra Israele, Arabia Saudita, Giordania e così via».
Nei mesi scorsi Vance ha contestato la gestione dell’amministrazione Biden del conflitto, criticando le pressioni esercitate dalla Casa Bianca su Gerusalemme per un uso più limitato della forza a Gaza. «Penso che il nostro atteggiamento dovrebbe essere: «Non siamo bravi a gestire le guerre in Medio Oriente, gli israeliani sono nostri alleati, lasciamo che portino avanti questa guerra nel modo che ritengono più opportuno», ha dichiarato in un’intervista alla Cnn. Per il numero due del ticket repubblicano «se vogliamo imparare la lezione degli ultimi 40 anni, la cosa più importante è sconfiggere Hamas come organizzazione militare». Tenendo presente «l’impossibilità di sconfiggere l’ideologia» dei terroristi palestinesi, bisogna concentrarsi sull’eliminazione «dei comandanti e dei battaglioni addestrati». «Penso dovremmo dare agli israeliani il potere di fare tutto questo».
Ultraconservatore cattolico, in un intervento al Quincy Institute di Washington ha delineato la sua visione del legame con Israele. «Il motivo principale per cui gli americani si preoccupano di Israele è che siamo ancora il paese a maggioranza cristiana più grande del mondo. Questo significa che la maggioranza dei cittadini americani pensa che il loro salvatore – e io mi considero un cristiano – sia nato, morto e risorto in quella piccola striscia di territorio sul Mediterraneo. L’idea che ci sarà mai una politica estera americana che non si preoccupi di quella fetta di mondo è assurda», ha dichiarato Vance. Nello stesso discorso al Quincy Institute, il senatore dell’Ohio è tornato sulla sua decisione di bloccare per settimane un pacchetto sicurezza a favore d’Israele e Ucraina. «È strano che Washington dia per scontato che Israele e Ucraina siano esattamente la stessa cosa. Non lo sono, ovviamente, e credo che sia importante analizzarli separatamente». Dopo aver ribadito il sostegno alla guerra a Hamas, il candidato vicepresidente ha detto di «ammirare gli ucraini che stanno combattendo contro la Russia. Non credo però che sia interesse dell’America continuare a finanziare una guerra di fatto infinita in Ucraina».
A maggio la Cnn ha chiesto a Vance di commentare un’incendiaria dichiarazione di qualche settimana prima di Trump sul voto ebraico negli Usa. Secondo il candidato repubblicano «i democratici odiano Israele» e quindi «ogni ebreo che vota per i democratici odia la propria religione. Odiano tutto ciò che riguarda Israele e dovrebbero vergognarsi perché Israele sarà distrutto». Per il senatore dell’Ohio le dichiarazioni di Trump sono comprensibili. «Penso sia ragionevole guardare a questa situazione e dire che se sei un americano ebreo che si preoccupa dello stato di Israele, che si preoccupa di queste rivolte antisemite (le manifestazioni propalestinesi nei campus universitari), dovresti stare dalla parte dei repubblicani nel 2024».
Sinwar "sotto pressione" e Deif disperso: il crollo della leadership di Hamas
Secondo la Cia, i comandanti di Hamas starebbero cercando di convincere il loro capo ad accettare un accordo di tregua. Ancora incertezza sulla sorte di Mohammed Deif, bersaglio del raid israeliano del 13 luglio.
Sono due le persone in cima alla lista dei bersagli di Israele: il capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar e il leader delle brigate al-Qassam Mohammed Deif. Sono ritenuti i responsabili principali dei massacri del 7 ottobre e sin dall’inizio della guerra il governo ebraico ha indicato la loro eliminazione come uno degli obiettivi principali dello sforzo bellico.
• Yahya Sinwar: il capo di Hamas nascosto e sotto pressione Secondo l’intelligence americana, Yahya Sinwar si nasconderebbe nella rete di tunnel sotto Khan Younis, la sua città natale, e sarebbe l’elemento chiave per la buona riuscita dei negoziati per un cessate il fuoco. Stando a quanto affermato dal direttore della Cia Bill Burns, il capo di Hamas starebbe anche subendo pressioni interne dai suoi stessi comandanti, stanchi di combattere, affinché accetti un accordo per porre fine al conflitto.
Secondo il capo dei servizi segreti statunitensi, che ha parlato al ritiro estivo annuale della Allen & Company a Sun Valley, questa è una situazione completamente inedita di cui entrambe le parti in guerra dovrebbero approfittare per trovare un’intesa.
Nel corso dei mesi, gli 007 israeliani hanno provato più volte a catturare il leader dell’organizzazione terroristica. Nel febbraio scorso, le Idf sono riuscite a penetrare in uno dei suoi covi, dove si era nascosto facendosi scudo con 12 ostaggi. È stato ipotizzato che si fosse spostato a Rafah o che fosse riuscito a lasciare la Striscia e a rifugiarsi in Egitto. Dall’inizio della guerra, Sinwar ha anche inviato numerosi messaggi ai mediatori palestinesi e agli alti ufficiali di Hamas in esilio, nei quali ha sottolineato che l’alto numero di vittime civili a Gaza, definite come “sacrifici necessari”, hanno fatto il gioco del movimento islamista perché hanno aumentato la pressione internazionale sullo Stato ebraico.
• Mohammed Deif: il "fantasma" potrebbe essere morto Mohammed Deif è considerato la mente dietro gli attacchi del 7 ottobre. Sabato 13 luglio, le forze israeliane hanno effettuato un raid aereo nella zona di al-Mawasi, colpendo un edificio in cui si era nascosto assieme al capo della brigata Khan Younis di Hamas Rafa’a Salameh. La morte di quest’ultimo è stata confermata, mentre la sorte del “fantasma di Gaza” è ancora avvolta da un velo di incertezza.
Stando a quanto riportato da Channel 12, la valutazione unanime degli organi di sicurezza israeliani è che Deif sia stato ucciso. Le Idf, inoltre, sarebbero “certe” della presenza di entrambi gli alti ufficiali di Hamas nella struttura colpita al momento dell’attacco. In una conferenza stampa tenutasi alcune ore dopo il bombardamento, il premier Benjamin Netanyahu aveva dichiarato che “non era ancora del tutto certo” che il comandante delle brigate al-Qassam fosse stato eliminato. Secondo il capo di Stato maggiore ebraico Herzi Halevi, inoltre, l’organizzazione terroristica “ha cercato di nascondere” i risultati dell’attacco.
Se la morte di Deif dovesse essere confermata, sarebbe un colpo molto duro per la catena di comando del gruppo islamista, già decimata da una serie di raid mirati delle forze di Tel Aviv sia a Gaza, sia in Cisgiordania, come parte della "strategia della decapitazione".
Una start-up israeliana chiamata "Day 8" trasforma i rifiuti agricoli in proteine. Il mercato per questo prodotto potrebbe essere enorme - l'industria alimentare è già interessata. «Di rifiuti facciamo oro», dicono i fondatori, il cui nome dell'azienda si riferisce al racconto biblico della creazione.
"Day 8" è il nome della start-up israeliana che produce ricercate proteine dai rifiuti agricoli. Gli israeliani Dana Marom e Daniel Rejzner hanno sviluppato un processo industriale per estrarre la proteina RuBisCO dalle foglie verdi di vari frutti e ortaggi come spinaci, banane, pomodori e mais.
La RuBisCO è una delle proteine più abbondanti sulla terra. Le sue proprietà di digeribilità, emulsionabilità e schiumosità sono simili a quelle delle proteine animali come l'albume d'uovo e la caseina. Tuttavia, nonostante la sua diffusione, non è la proteina vegetale preferita dall'industria alimentare.
Uno dei motivi è che si trova solo in piccole quantità (dall'1 al 5%) nelle foglie. Le cellule delle foglie devono essere aperte per l'estrazione, al fine di rimuovere la cellulosa, la clorofilla, i polifenoli e altri componenti senza denaturare la proteina. L'estrazione è quindi molto costosa. È qui che entra in gioco la start-up israeliana "Day 8", fondata nell'estate del 2023.
• “I profitti sono incredibilmente alti" Da un lato, i fondatori utilizzano i rifiuti agricoli, che sono disponibili a un prezzo inferiore. Dall'altro, hanno sviluppato un processo di estrazione più efficiente. Tuttavia, non vogliono rivelare alcun dettaglio.
Il cofondatore Rejzner ha dichiarato al quotidiano economico israeliano "Globes": "Secondo i nostri calcoli, ogni anno possono essere utilizzati 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti agricoli. Crediamo che su larga scala potremo raggiungere prezzi paragonabili a quelli delle proteine di soia sfuse, che costano tra i 3 e i 5 dollari al chilo". Rejzner ha fondato "Day 8" insieme alla collega Dana Marom, che ha già una vasta esperienza internazionale nel campo della produzione di proteine di soia.
Per ogni chilogrammo di banane, c'è mezzo chilogrammo di foglie, che gli agricoltori devono costantemente tagliare, spiega Rejzner. "Si tratta di rifiuti organici che non nutrono il suolo e non portano alcun beneficio all'agricoltore. Per noi inveceè un tesoro. I profitti che se ne possono ricavare sono altissimi. Stimiamo che il potenziale di produzione di proteine dalle sole banane valga circa 7 miliardi di dollari". "Trasformare i rifiuti in oro" è lo slogan sicuro di sé sul sito web dell'azienda.
"Day 8" sembra adattarsi perfettamente a un momento in cui le persone sono alla ricerca di nuovi "superalimenti" ricchi di proteine, ecologici e privi di allergeni. La proteina ottenuta è una polvere incolore, non ha sapore ed è priva di allergeni. Il mercato delle cosiddette "proteine alternative" ha un valore stimato di 18 miliardi di dollari all'anno; la domanda globale di queste proteine è aumentata enormemente negli ultimi anni.
La start-up "Day 8" ha sede nel centro tecnologico "The Kitchen Food Tech Hub" di Rechovot, nel centro di Israele. Il centro di start-up è stato fondato nel 2015 per riunire le aziende del settore food tech. Ha fornito a "Day 8" l'equivalente di circa 600.000 euro di finanziamenti anticipati.
Attualmente Day 8 sta cercando di portare la nuova tecnologia su scala industriale e di richiedere i brevetti per avviare la produzione industriale. Finora sono stati individuati più di 20 potenziali clienti dell'industria alimentare che potrebbero voler integrare la proteina nei loro alimenti.
• Sostituire i sottoprodotti dell'industria lattiero-casearia I prodotti alimentari ad alto contenuto proteico sono già molto popolari, come yogurt e frullati, polveri proteiche e barrette. Le proteine utilizzate oggi sono per lo più sottoprodotti dell'industria lattiero-casearia. "Possiamo sostituirle con quelle che estraiamo dalle foglie", dice Rejzner.
Un altro vantaggio della produzione di "proteine alternative" è la riduzione del consumo di uova. "Le uova sono un problema per le fabbriche alimentari", spiega Rejzner. "Si teme la salmonella, devono essere refrigerate e ci sono problemi di sicurezza alimentare". Una polvere proteica che sostituisca le uova sarebbe quindi molto gradita all'industria alimentare.
Il prodotto della start-up israeliana potrebbe anche servire come alternativa alla carne e al latte. "Le bevande di maggior successo su questo mercato sono il latte di soia, il latte di mandorla, il latte di avena e così via. Ma hanno uno svantaggio: non si possono montare. La nostra proteina fa una buona schiuma e non ha un sapore proprio", spiega il 47enne.
Il nome "Day 8" si riferisce alla settimana di sette giorni della storia biblica della creazione, spiega Rejzner. "Il mondo fu creato perfettamente in sette giorni. L'ottavo giorno il testimone è stato passato a noi e ora dobbiamo prendercene cura".
(Israelnetz, 16 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Washington, Rights Reporter – Secondo una nota dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nella serata di lunedì, i massimi funzionari statunitensi e israeliani hanno tenuto un incontro alla Casa Bianca incentrato sulla lotta contro le minacce poste dall’Iran.
Si è trattato dell’ultima riunione del Gruppo consultivo strategico USA-Israele. Avrebbe dovuto riunirsi il mese scorso, ma gli Stati Uniti hanno rimandato la riunione dopo che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha accusato pubblicamente l’amministrazione Biden di non fornire armi a Israele.
Il team statunitense era guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e dal segretario di Stato americano Antony Blinken, mentre il team israeliano era guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi e dal ministro per gli Affari strategici Ron Dermer. A loro si sono aggiunti alti rappresentanti delle rispettive agenzie di politica estera, difesa e intelligence.
Hanegbi e Dermer hanno tenuto un incontro più ristretto proprio con Blinken.
Durante il Gruppo Consultivo Strategico, Sullivan ha riaffermato il ferreo impegno del Presidente [Joe] Biden per la sicurezza di Israele, anche di fronte ai continui e sconsiderati attacchi contro Israele da parte degli Hezbollah libanesi. Ha sottolineato che Israele ha tutto il diritto di difendersi da questi attacchi e ha affermato il sostegno degli Stati Uniti a una risoluzione diplomatica che permetta alle famiglie israeliane e libanesi di tornare in sicurezza alle loro case, si legge nel comunicato della Casa Bianca.
I due hanno anche discusso degli sviluppi relativi al programma nucleare iraniano e hanno discusso del coordinamento reciproco su una serie di misure volte a garantire che l’Iran non possa mai acquisire un’arma nucleare, si legge ancora nel comunicato.
Le parti hanno discusso degli sforzi in corso per garantire un accordo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, con la parte israeliana che ha ribadito il suo sostegno alla proposta presentata da Biden a maggio.
Netanyahu ha dichiarato sabato di non essersi allontanato di un “millimetro” dalla proposta israeliana sostenuta da Biden.
Tuttavia, ha elencato una serie di nuove richieste che sembrano andare oltre quanto scritto nel testo della proposta ottenuto dal Times of Israel.
Prima di Hamas, nessun’altra organizzazione militare aveva costruito una guerra sul “sacrificio necessario” del proprio popolo.
di Giulio Meotti
Altri cento terroristi di Hamas figurano fra i dipendenti dell'ONU a Gaza. Sono stati trovati i loro documenti che ne confermano l'identità. E' la prova ulteriore che le agenzie ONU, soprattutto UNRWA (che l'Italia continua a finanziare), a Gaza sono colluse con il terrorismo di Hamas.
Israele ha indicato altri cento dipendenti dell’agenzia delle Nazioni Unite a Gaza come membri di Hamas e ha chiesto che fossero licenziati. Si tratta solo di “una frazione” del numero reale di membri dell’organizzazione terroristica, si legge in una lettera al capo dell’agenzia Unrwa, Philippe Lazzarini. Israele ha inviato l’elenco anche ai paesi che aderiscono all’agenzia dell’Onu come donatori, molti dei quali – tra cui Stati Uniti e Regno Unito – hanno congelato i propri finanziamenti dopo gli attacchi di Hamas. Dopo il 7 ottobre era emerso infatti che dodici dipendenti delle Nazioni Unite avevano legami con Hamas.
Il recente elenco inviato a Lazzarini fa nomi, passaporti e numeri di carta d’identità militare di cento terroristi di Hamas a libro paga dell’Onu. Non sembra un caso che il corpo dell’ostaggio tedescoisraeliano Shani Louk sia stato trovato in un edificio dell’Unrwa finanziato con i soldi dei contribuenti tedeschi.
Intanto Mohammad Deif, il comandante supremo delle Brigate Izzadin al Qassam, ala militare di Hamas, è stato preso di mira in un attacco aereo israeliano, sabato mattina, nella zona di Khan Yunis, nel sud della striscia di Gaza, in cui sono morti numerosi civili palestinesi. Insieme a Deif (ricercato da trent’anni come uno dei maggiori responsabili del terrorismo di Hamas), era nel mirino anche Rafa’a Salameh, suo braccio destro e comandante della Brigata Khan Yunis di Hamas. I due si nascondevano in zona civile, le aree di al Mawasi e Khan Younis occidentale, che fanno parte della zona umanitaria designata da Israele. Deif è sulla lista dei massimi ricercati da Israele sin dal 1995 per il suo coinvolgimento nella pianificazione ed esecuzione di un grande numero di attacchi terroristici, compresi molti attentati sugli autobus negli anni 90 e all’inizio degli anni 2000. Deif ha svolto un ruolo di primissimo piano nell’organizzare la carneficina perpetrata da Hamas il 7 ottobre. “Hamas non deve nascondersi tra i civili – ha affermato persino un portavoce di Fatah, citato da Maariv – Perché Deif era nel campo di Al-Mawasi?”.
Un’indagine approfondita del New York Times rivela le tattiche di combattimento di Hamas nella Striscia di Gaza che si basano sul massiccio uso della popolazione civile come scudi umani. Il reportage, basato sull’analisi di video di Hamas e interviste a combattenti di Hamas e a soldati israeliani, descrive uno sfruttamento sistematico per scopi militari dei civili e delle loro infrastrutture, incolpando di fatto Hamas per la guerra in corso, le distruzioni, le morti e gli sfollamenti di popolazione. Il New York Times conferma che Hamas nasconde terroristi, pozzi d’ingresso ai tunnel e depositi di munizioni dentro edifici residenziali, strutture mediche, uffici delle Nazioni Unite e moschee, abolendo intenzionalmente il confine tra combattenti e non combattenti. Il reportage rivela che i terroristi di Hamas indossano spesso abiti civili, a volte anche sandali e tute da ginnastica, prima di sparare contro i soldati israeliani o lanciare razzi da aree civili. Hamas usa anche i civili, compresi bambini, come “vedette” e “informatori”. Prima di Hamas, nessun’altra organizzazione militare aveva costruito una guerra sul “sacrificio necessario” del proprio popolo.
Eden Golan ha rivelato che durante il suo soggiorno a Malmö, per gareggiare all’Eurovision Song Contest, doveva spesso indossare un travestimento per girare per la città. In un post sulla sua pagina Instagram giovedì, Golan ha raccontato di aver indossato una parrucca e un paio di occhiali per alterare il suo aspetto per motivi di sicurezza mentre le proteste anti-israeliane infuriavano nella città svedese.
“Sono passati due mesi dalla finale dell’Eurovision. Due mesi dal folle viaggio che è diventato la mia missione nazionale e personale. Un viaggio emotivo, potente, complesso e impegnativo in un anno che sapevo sarebbe stato diverso da qualsiasi altro – ha scritto Golan – Ho pensato a lungo a quale immagine condividere qui e ho scelto un momento che inizialmente mi sembrava assurdo e divertente, ma non meno spaventoso e pericoloso. Molti sanno che eravamo circondati dalle migliori guardie di sicurezza sempre presenti per proteggere la nostra delegazione, ma non sanno di alcuni momenti in cui ho dovuto travestirmi per uscire liberamente per la città”.
La cantante israeliana ha aggiunto: “La paura che mi riconoscessero a causa del paese da cui provengo, che fa parte di me e mi rende orgogliosa, è incomprensibile per me. Purtroppo, siamo tornati ai momenti in cui una donna ebrea e israeliana deve nascondersi per non essere ferita. Per me, questo è stato un momento che ricorderò per tutta la vita. So che verranno giorni migliori. Prego ogni giorno che arrivino presto. Non dimenticheremo mai quello che abbiamo passato, ma troveremo la forza di andare avanti”.
La cantante ha deciso di sfogarsi sui social a ormai due mesi dalla fine dell’Eurovision, che l’ha vista tra i maggiori protagonisti della gara canora. Una responsabilità importante quella di rappresentare Israele all’Eurovision, in un momento di forte crescita di antisemitismo e antisionismo.