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Notizie 1-15 maggio 2017


Ministro cipriota Fokaides in visita in Israele

Focus sulla sicurezza nel Mediterraneo orientale

NICOSIA, 15 mag. - Le minacce legate alla cybersecurity dovrebbero essere una dei principali temi affrontati nel corso della visita di oggi in Israele da parte del ministro della Difesa di Cipro, Christoforos Fokaides, che oggi a Gerusalemme incontrerà l'omologo Avigdor Lieberman. Il terrorismo, la sicurezza energetica e marittima, saranno gli altri temi del colloquio insieme all'ulteriore rafforzamento delle relazioni bilaterali nel campo della difesa. Il ministero della Difesa di Nicosia indica inoltre che i ministri Fokaides e Lieberman rivedranno oggi l'attuazione del programma di cooperazione militare bilaterale e discuteranno sugli ultimi sviluppi legati alla sicurezza nel Mediterraneo orientale. Si tratta della seconda visita del ministro della Difesa di Cipro in Israele nel 2017, elemento che evidenzia l'intensità delle relazioni bilaterali.

(Agenzia Nova, 15 maggio 2017)


Tunisia: premier Chahed al pellegrinaggio ebraico della Ghirba

"Noi siamo aperti alla convivenza delle religioni"

TUNISI - La Tunisia è un paese aperto alla convivenza delle religioni come testimonia l'annuale pellegrinaggio alla sinagoga di Ghriba. Lo ha detto il capo del governo di unità nazionale tunisino, Youssef Chahed, il quale si è recato ieri sull'isola di Djerba insieme ai ministri dell'Interno e del Turismo, rispettivamente Hedi Majdoub e Selma Elloumi, per verificare il corretto svolgimento del pellegrinaggio ebraico. Da parte sua, la Elloumi ha detto che il numero di turisti è aumentato del 30 per cento da gennaio, grazie a un graduale ripristino dei mercati tradizionali e lo sviluppo del mercato cinese, a seguito della cancellazione dei visti d'ingresso. Sono oltre 2.500 i visitatori che hanno partecipato al pellegrinaggio ebraico, su un totale di 12.000 turisti presenti sull'isola di Djerba. Il ministro ha sottolineato che le condizioni di sicurezza di Ghriba hanno contribuito a promuovere l'immagine della Tunisia all'estero. L'ambasciatore degli Stati Uniti in Tunisia, Daniel Rubinstein, ha definito "eccellente" l'organizzazione del pellegrinaggio, dicendosi contenti di aver partecipato a questo "grande evento".

(Agenzia Nova, 15 maggio 2017)


Origami, scienza di carta. Dal Giappone a Israele

Con le pieghe la geometria è più facile

di Ada Treves

 
Il fruscio dei fogli di carta, e il silenzio. La concentrazione, negli sguardi, nei gesti, l'attenzione con cui piccole mani piegano e voltano, osservano e piegano ancora. Da un rettangolo nascono forme e risate. Le lezioni di Origametria sono un misto di gioco e concentrazione, un percorso di scoperta e di rispetto per i limiti imposti dal foglio. E una successione di sorprese: da un foglio escono strutture, giochi, sculture. La geometria si impara cosi, in Israele, grazie alla volontà caparbia di Miri Golan che, appassionata di origami sin da bambina, ha sviluppato un programma che unisce l'arte degli origami alla geometria, approvato dal ministero dell'Istruzione. Il nome, «origametria», è nato quando all'inizio degli Anni 90 l'Israeli Origami Center, da lei fondato, ha iniziato a portare nelle scuole un programma specifico centrato sul riconoscimento delle figure geometriche e delle loro caratteristiche.

 La fondatrice
  Miri Golan ha scoperto l'antica arte degli origami da bambina, grazie alla tv. «Mi divertivo, era rilassante, non sapevo neppure di cosa si trattasse, per me era piegare la carta». La passione non è diminuita con gli anni e nel 1989, è andata in Giappone. «Quando sono tornata ho iniziato a sviluppare un programma per le scuole, che allora non aveva nulla a che fare con la geometria. All'inizio è stata dura, ma il passaparola mi ha aiutata». Non soddisfatta, ci ha unito l'altra sua passione, la matematica: «La geometria non è facile da insegnare, e difficile da imparare. E spesso non è per nulla divertente, anzi! Quando una classe inizia a fare origametria e scopre di poter misurare un angolo senza goniometro, o che basta una striscia di carta per costruire un pentagono, allora tutto cambia». L'origametria è entrata nel curriculum ufficiale delle scuole israeliane, con la recente evoluzione che ha portato alla piattaforma di e-learning e in Italia, grazie alla collaborazione con la professoressa Emma Frigerio, è arrivata fino in Bocconi.

 In Italia
  In realtà il dibattito teorico sull'insegnamento della matematica era già molto sviluppato agli inizi del secolo scorso e in Italia, dove Emma Castelnuovo ha mostrato la strada, puntava su una didattica attiva secondo cui solo seguendo un indirizzo storico-costruttivo è possibile coinvolgere gli allievi in una riscoperta delle leggi e delle proprietà di numeri e figure. La capacità di astrazione e la libertà di giocare con i simboli non è connaturata e l'apprendimento della matematica attraverso attività manuali è più facile e più profondo.
  Gli origami permettono di fare questo passaggio giocando: piegare un foglio porta al riconoscimento delle figure geometriche, e si scopre cosa sono lati, diagonali e simmetrie, ma anche che capire gli angoli è importante, e senza neppure rendersene conto vengono acquisiti i concetti principali. Le bisettrici non fanno più paura e presto si passa alla costruzione dei solidi geometrici. Le frazioni diventano facili: basta iniziare a dividere il foglio in parti uguali. E quando si arriva alle proporzioni è sufficiente mostrare come da un foglio più piccolo con le stesse pieghe si ottenga un risultato finale di una dimensione diversa.
  L'origametria, raccontano con entusiasmo gli insegnanti e i direttori delle scuole già coinvolte nel programma, sviluppa anche altro: dalla motricità fine alla capacità di concentrazione, dal pensiero logico e sequenziale alla coordinazione. Nelle classi aumentano il rispetto per il lavoro degli altri e la capacità di attenzione, e - spiega Dina Vardi, esperta di psicologia dell'educazione - funziona anche come rinforzo all'autostima. «Aiuta a coinvolgere attivamente i bambini e permette loro di sviluppare rapporti più stretti con gli insegnanti, basati su una collaborazione e su una complicità che difficilmente sarebbero possibili altrimenti. Nelle scuole, inoltre, sono state fatte valutazioni comparate fra chi ha seguito origametria e chi no, e la differenza nella facilità di ragionamento logico spaziale, cosi come nella capacità di concentrazione, è evidente». D'altronde la magia matematica degli origami è il cuore delle lezioni di Erik Demaine, professore del prestigioso Mit, e dei Ted di Robert Lang, il fisico e teorico degli origami che in 18 minuti spiega il collegamento fra le cicogne di carta e i telescopi spaziali. Ironicamente, i suoi ragionamenti non fanno una piega.

(La Stampa, 15 maggio 2017)


Commento alle preghiere di Menahem Recanati

Elena Lattes

Nel sedicesimo secolo l'Inquisizione imperava e migliaia di libri vennero bruciati. Tra questi gran parte provenivano dall'ambiente ebraico e, insieme al Talmud e altri commenti biblici, c'erano anche le opere di Menahem Recanati. Testi che in altre parti d'Europa venivano studiati e ristampati.
   Menahem Ben Benjamin nacque a Recanati (da cui prese il nome) nel 1250 e morì nel 1310 circa, fu filosofo e scrittore e uno dei più grandi cabalisti di tutti i tempi. Era particolarmente devoto e desideroso di conoscere il senso più profondo e misterioso della Bibbia, ma seppe ben conciliare la "fede" con la scienza, tanto che acquisì grande importanza anche nel mondo intellettuale della sua epoca e di quella successiva: basti pensare che egli influenzò significativamente il pensiero di Pico della Mirandola il quale tradusse in latino il suo Perush al ha Torah (Commento alla Torah), stampato a Venezia nel 1523.
   Ora, grazie al lungo e preciso lavoro del professor Giovanni Carlo Sonnino e di Nahmiel Menachem Ahronee, docente di lingua ebraica presso la Libera Università degli Studi di Ancona, le Edizioni il Prato hanno pubblicato Perush ha-Tefiloth, il Commento alle preghiere, con testo italiano ed ebraico a fronte. Un testo che era già stato tradotto in diverse lingue e di cui una copia in latino è inclusa nel ms.Ebr.190 della Biblioteca Apostolica vaticana con il titolo "De secretis orationum benedictorum", ma di cui mancava la versione italiana. Un preziosissimo contributo, quindi, che non è rivolto unicamente agli "addetti ai lavori", ma a chiunque sia curioso di conoscere una parte essenziale del pensiero europeo, della teologia cristiana e della concezione neoplatonica.
   Inoltre, sebbene non sia di agevole lettura per chi non vive (o non ha studiato a fondo) le tradizioni e la lingua ebraiche, può aiutare ad avere un'idea delle basi fondamentali di questa cultura plurimillenaria da cui provengono le altre religioni monoteiste e una parte consistente del patrimonio europeo. Scorrendo il testo italiano qualunque lettore non potrà non evincere quanto le preghiere ebraiche sianoparticolarmente incentrate sulle lodi al Signore, siano carenti di richieste personali e soprattutto non contengano alcun anatema o espressione di disprezzo nei confronti di altre popolazioni o culture.
   L'analisi del testo, che lo affronta nei minimi dettagli, fa capire quanto non solo le parole, ma anche le lettere e perfino la punteggiatura assumono un'importanza fondamentale: niente è lasciato al caso, ma tutto si presta a molteplici interpretazioni, favorendo e stimolando il dibattito e il pensiero analitico. La preghiera è infatti considerata il mezzo di collegamento tra le "forze inferiori" (di questo mondo) e le sfere celesti, il mezzo che permette l'unione mistica di due mondi che non sono separati, né vuoti e costituisce un contributo al compimento della Creazione poiché diventa una delle modalità del perfezionamento e dell' attuazione di quest'ultima.
   È perciò fondamentale comprenderne i significati più reconditi e non ridurla a puro gesto meccanico, affinché essa abbia la sua efficacia. L'uomo, non solo recitandola quotidianamente, ma anche studiandola e analizzandola, diventa un soggetto attivo e propositivo che partecipa consapevolmente alla Creazione stessa, divenendone il coprotagonista.
   Altro punto focale, più volte ribadito, è l'unicità della Divinità che si basa sul dualismo di Misericordia e Giustizia. Elementi che non si contrappongono ma si completano, entrambi necessari, sebbene il primo spesso prevalga nettamente sul secondo.
   In sintesi, questo piccolo volume è interessante quindi non soltanto dal punto di vista filosofico o biblico, ma anche da quello linguistico e sociologico.

(Agenzia Radicale, 15 maggio 2017)


KIDOZ: l'idea israeliana per proteggere i bambini dai pericoli di internet

 
KIDOZ: l'idea israeliana per proteggere i bambini dai pericoli di internet. I contenuti presenti sul web sono variegati e purtroppo alcuni bambini inciampano in materiali che non sono propriamente adatti alla visione, per età oppure per la presenza di contenuti espliciti.
KIDOZ, è una rete libera con sede in Israele dedicata alla scoperta di contenuti sicuri per i bambini. Lo scorso anno, KIDOZ è passata da un milione di utenti attivi al mese a 50 milioni. L'idea è nata da un progetto personale di Gai Havkin, co-fondatore e CEO di KIDOZ, il quale ha voluto trovare una soluzione efficace per fare in modo che la figlia giocasse online o vedesse i video in tutta sicurezza.

 Un ambiente online sicuro per i bambini
  KIDOZ è un ambiente online sicuro. Suggerisce quotidianamente nuovi contenuti sulla base degli interessi dei più piccoli ed ogni singolo materiale è controllato manualmente dagli editor.

Questo il commento di Eldad Ben Tora, co-fondatore di KIDOZ:
Prima che diventi visibile sulla nostra piattaforma, ogni clip, gioco e app che promuoviamo viene visionato e classificato per fasce d'età interessate.
KIDOZ non è dedicata solo alla fruizione dei contenuti da parte dei bambini, essa tiene conto anche del lavoro degli sviluppatori.
Aiutiamo gli sviluppatori di app per bambini a fare crescere il loro business in un modo che rispetti il loro marchio e i loro valori. Abbiamo creato un pacchetto di sviluppo (SDK) che si trova all'interno delle applicazioni e suggerisce i contenuti che potrebbero essere rilevanti per i bambini. In questo modo gli sviluppatori di applicazioni possono presentare campagne provenienti da marchi come Hasbro, Mattel e Nickelodeon e guadagnare dal loro traffico (invece di mostrare banner per le automobili e l'assicurazione). Il secondo vantaggio che offriamo è la promozione di app. Gli sviluppatori che vogliono far crescere la loro base di utenti possono chiedere di essere presenti sulla nostra rete. Ad esempio, se hanno sviluppato un'app educativa per bambini in età prescolare, noi li promuoveremo all'interno della categoria mirata.

 L'importanza della privacy dei bambini
  La società opera come una piattaforma chiusa, fornendo applicazioni in un ambiente protetto per i bambini e che rispettano la Child Online Privacy Protection Act (la legge approvata negli Stati Uniti nel 1998 per la protezione dell'infanzia in rete), che proteggere i bambini dal contatto con materiale di natura sessuale reperibile in Internet. Kidoz blocca uno smartphone in modo che un bambino possa giocare solo all'interno del browser KIDOZ.

(SiliconWadi, 15 maggio 2017)


Israele: calo di vendite

Il mercato automobilistico, in Israele, è sceso , in aprile, del 15% rispetto allo stesso mese dell'anno passato, sono state contate solo 19.515 immatricolazioni. Ma il saldo annuo rimane in territorio positivo, con 118.182 vendite, un più 4% rispetto al 2016.
Kia resta leader di mercato nonostante si sia registrata una flessione del 7% (2.744 le vetture consegnate) assieme alla sorella Hyundai, anch'essa in calo del 20%, con 2.499 unità. In questo quadro s'inserisce però la nuova Hyundai Ioniq, che é entrata immediatamente all'undicesimo posto delle auto più vendute grazie alla politica di incentivazioni che favorisce l'acquisto di auto verdi.
Tra le altre marche, da registrare le flessioni di Toyota (-6%) e Skoda (-14%), in controtendenza, invece, Audi (+ 55%), BMW (+64%), Dacia (+24%), Isuzu (+93%), Jeep (+37%), Alfa Romeo (+32%), Cadillac (+41%) e Suzuki (+6%).

(Crisalide Press, 15 maggio 2017)


La rivoluzione di Via, app nata in Israele e sempre più popolare negli Usa

«Cammina fino all'angolo e il minibus verrà a prenderti»

di Paolo Mastrolilli

Daniel Ramot
La rivoluzione dei trasporti sta arrivando anche in Italia. Si chiama Via, è un servizio di minivan o bus che prenoti col cellulare, viene a prenderti all'angolo della strada, costa una frazione dei taxi, e potrebbe decongestionare il traffico nelle nostre città. Come ce lo spiega Daniel Ramot, israeliano di 41 anni, cofondatore della compagnia con Oren Shoval e ceo.

- Dove avete trovato l'idea?
  «In Israele c'è un servizio privato di bus molto popolare, che si chiama sherut. Supplementa il sistema pubblico con mezzi più piccoli, seguendo gli stessi percorsi e facendo le stesse fermate. Abbiamo pensato di unire questo concetto alla tecnologia che consente di rendere più flessibile il servizio, collegando i passeggeri ai veicoli più vicini che vanno nella loro direzione, e condividendo la corsa con altre persone. Prenoti con l'application dal cellulare e mettiamo insieme i clienti che vanno nella stessa direzione, mandando il mezzo a prenderli lungo il percorso. Crediamo che questo sia il futuro dei trasporti di massa».

- Che differenza c'è tra Via, e servizi come Uber o Lift?
  «È più dinamico e meno costoso. A New York, ad esempio, abbiamo una "flat rate" di 5 dollari per corsa. In cambio chiediamo ai passeggeri di contribuire all'efficienza del sistema, camminando fino all'angolo della strada per consentire al mezzo di seguire il percorso più rapido, e aspettarlo. Le nostre auto sono più grandi, ospitano tra 4 e 6 persone, e la maggioranza degli autisti riceve un compenso fisso, oltre alle commissioni».

- È vero che avete un codice di comportamento a bordo?
  «Chi sceglie Via ha un atteggiamento diverso da chi usa i taxi. Non è obbligatorio parlare, ma cerchiamo di costruire un senso di comunità. La mattina le persone sono più taciturne e assorbite dal lavoro, ma la sera diventano più socievoli e chiacchierano, invece di concentrarsi sui cellulari. Ci sono coppie che mi hanno raccontato di essersi conosciute durante una corsa o passeggeri che hanno trovato lavoro».

- Perché questo è il futuro del trasporto di massa?
  «Meno auto, traffico, inquinamento, costi, con un servizio più rapido, efficiente, e adattabile alle esigenze dei clienti. Quando i trasporti pubblici funzionano, come a New York, la maggioranza dei cittadini li usa, ma costruire simili sistemi in tutte le città è difficile e costoso. Noi possiamo offrirli attraverso la nostra tecnologia e a un prezzo più basso».

- Può darci qualche numero per spiegare la scala di Via?
  «A New York abbiamo superato la soglia di un milione di corse al mese; oltre 13 milioni per la piattaforma. Abbiamo 170 dipendenti, la sede a New York, uffici a Chicago, Washington, Londra, Berlino, il servizio clienti a Salt Lake City. Sviluppiamo la tecnologia in Israele e abbiamo raccolto 137 milioni di dollari in investimenti per potenziare la compagnia».

- Dopo New York, Chicago e Washington, dove andrete?
  «Possiamo fornire il servizio completo con partner oppure la tecnologia. In Gran Bretagna lavoriamo con Arriva a Kent, per bus da 12 passeggeri, e pensiamo di aprire a Londra; in Francia siamo a Parigi, con la sussidiaria di Sncf Keolis».

- E in Italia?
  «Siamo interessati a fare qualcosa di simile nel vostro Paese. Non abbiamo ancora un piano concreto da annunciare, ma stiamo cercando di individuare il partner giusto con cui lavorare, e la città dove cominciare. Roma o Milano sono obiettivi ovvi, ma ci sono altre città possibili. Non ci vediamo come una compagnia che perturba il sistema, ma lo supplementa e aiuta gli operatori a diventare più efficienti».

- Pensate di usare bus più grandi?
  «Dipende dalle situazioni. A New York la dimensione giusta è quella dei minivan, ma a Kent abbiamo mezzi più capienti».

- State considerando di usare veicoli senza guidatore?
  «Sì. Riteniamo che sia in corso una trasformazione epocale dei trasporti pubblici, un settore dove vengono investiti trilioni di dollari, e la nostra visione è riorganizzarli. Il pubblico non vuole più avere auto private, ma servizi condivisi, agili e dinamici, che prenoti e usi in base alle tue esigenze. Alla fine di questa trasformazione ci saranno i veicoli autonomi, elettrici, che attraverso la nostra tecnologia andranno a prendere i passeggeri e li porteranno a destinazione. Il servizio sarà più efficiente, meno inquinante, meno costoso. Questo intendiamo fare con Via».

(La Stampa, 14 maggio 2017)


Europa dell'est, allerta antisemitismo: molti rifiutano gli ebrei

di Roberto Zadik

 
Un monumento ebraico vandalizzato al cimitero polacco di Wysokie Mazowieckie
Paesi come la Polonia, l'Ungheria e l'Europa dell'Est in generale hanno avuto enormi responsabilità nella Shoah e poi nel comunismo, massacrando spesso e volentieri gli ebrei del luogo e causando enormi sofferenze. Per questo la diaspora in massa degli ebrei askenaziti, emigrati in Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Sud Africa o America Latina, dall'Argentina, al Messico al Brasile, a causa delle persecuzioni subite ha segnato profondamente la seconda metà del Novecento generando la formazione di nuove comunità nei punti più remoti del mondo.
   A 72 anni di distanza da quelle atrocità, ancora in quei Paesi martoriati dall'occupazione tedesca e poi dal giogo delle dittature, gli ebrei sono ancora oggi molto mal visti e oggetto di antisemitismo. A questo proposito il sito Times of Israel ha recentemente pubblicato un sondaggio realizzato dal Pew Research Center secondo il quale un gran numero, oltre il 20 percento, degli europei dell'Est o si sono rifiutati di rispondere o hanno chiaramente espresso che non vorrebbero avere vicini ebrei e rapporti con persone di religione ebraica e solamente il 10 percento degli interpellati sarebbe disposta nemmeno a accettarli come concittadini e connazionali.
   Indubbiamente si tratta di dati molto preoccupanti, che ben si inseriscono, purtroppo nel contesto di "antisemitismo di ritorno" a livello mondiale. L'indagine è stata condotta dal Pew Research Center sugli abitanti di 18 nazioni. Secondo i dati poca gente accetterebbe apertamente gli ebrei e meno della metà degli intervistati ha risposto in senso contrario. Lo studio è stato condotto dal giugno 2015 al luglio 2016 intervistando circa duemila persone per ogni Paese, e stando alle stime la minoranza ebraica risulterebbe maggiormente accettata rispetto ai musulmani e i Rom, tollerati solo 57 percento mentre il 19 percento li vorrebbe in famiglia. Solo due terzi della popolazione accetterebbe i musulmani come cittadini mentre solo il 27 percento li accoglierebbe in casa.
   A questo quadro molto cupo si aggiungono Paesi molto xenofobi, che erano molto antisemiti anche prima della Shoah. Prima fra tutti la Lituania, e il numero di ebrei dispersi fra Stati Uniti e Sudafrica è molto grande, con il 23 percento degli abitanti antisemiti, seguiti dal 22 percento della Romania, dal 22 percento dellla Repubblica Ceca e il 18 percento della Polonia. Gli intervistati più colti sono andati un po' meno peggio di altri, dichiarando di tollerare in famiglia, come vicini e cittadini, gli ebrei del luogo.

(Mosaico, 14 maggio 2017)


Hebron, il sindaco con le mani insanguinate

Ci sono Paesi dove la legge scandisce i ritmi del vivere civile e ce ne sono altri, dove invece non solo questo non avviene ma vengono addirittura capovolti i valori. E cioè chi infrange e non rispetta i valori elementari e calpesta i diritti umani viene promosso, eletto, diventa un leader ed un esempio per le nuove generazioni Uno di questi paesi è la Palestina.
Tayseer Abu Sneineh, pluriassassino , componente e leader di una cellula terrorista negli anni ottanta è stato eletto sindaco della città di Hebron. Come capolista del partita Fatah....

(Italia Israele Today, 14 maggio 2017)


Israele - Amit Mor: rivoluzione 'verde' del Paese in 20 anni

di Cecilia Scaldaferri

Amit Mor
ROMA - Israele deve puntare in 20 anni a passare piu' di meta' del suo parco macchine ai combustibili alternativi, in particolare veicoli elettrici, sfruttando il gas naturale, di cui e' ricco, e le energie rinnovabili.
E' la visione fortemente sostenuta da Amit Mor, amministratore delegato di Eco Energy, societa' di consulenza finanziaria e strategica, esperto israeliano in campo energetico, da quasi 30 anni consigliere di governi, imprese e istituzioni, pubbliche e private. Parlando con AGI, Mor ha spiegato punto per punto gli argomenti a favore.
"Siamo un Paese piccolo, un''isola' che non e' connessa ne' con i Paesi arabi ne' con l'Europa, a forte vocazione imprenditoriale, con 3 milioni di mezzi in circolazione e ingenti riserve di gas", grazie alla scoperta nel 2009-2010 dei giacimenti Tamar e Leviathan, quest'ultimo considerato tra i maggiori nel Mediterraneo. Ecco perche', di fronte al "problema del cambiamento climatico", il governo israeliano deve "indirizzare molti dei suoi sforzi" a promuovere la 'Clean Transportation Vision', "per dimostrare a se stesso e al mondo che in 15/20 anni e' possibile passare piu' della meta' del parco macchine a combustibili alternativi", puntando in primis sulle "auto elettriche".
"Al momento, produciamo il 60% della nostra energia elettrica dal gas naturale, in cinque anni arriveremo all'80%, in dieci anni il peso delle rinnovabili", a cominciare dal solare, "arrivera' al 15%", ha sottolineato. Certo, e' "una visione di lungo periodo" ma porterebbe "benefici" a tutto il Paese, "mettendo a frutto quello in cui siamo bravi, la tecnologia". "E' facile perche' ha senso da un punto di vista economico - ha insistito con forza - e' una situazione win-win: Si vende piu' gas, con conseguenze per le entrate statali, si tutela l'ambiente e si creano posti di lavoro in Israele" grazie all'indotto tecnologico. Lo sviluppo delle macchine elettriche e senza pilota, vero tema del futuro per Mor, richiede infatti investimenti e ricerca, un terreno sul quale gli israeliani possono competere, forti dell'eccellenza raggiunta nel campo dell'high-tech.

(AGI, 14 maggio 2017)


Dalla strage di Fiumicino al patto con l'Olp, nuove rivelazioni sul "Lodo Moro"

Era il 1973 quando cinque palestinesi furono arrestati ad Ostia: vennero trovati in possesso di missili Strela che intendevano usare per abbattere un aereo israeliano. Nell'ambito delle complesse trattative che portarono alla loro liberazione - e che coinvolsero anche la Libia - l'Olp (l'organizzazione per la liberazione della Palestina) si impegnò ufficialmente a non effettuare più azioni di guerra sul suolo italiano.
   Tuttavia le frange più estremiste della galassia palestinese non accettarono quell'intesa e si resero responsabili della strage di Fiumicino del 17 dicembre del 1973.
   "Fu solo dopo quella tragedia che il cosiddetto Lodo Moro cominciò a diventare qualcosa di davvero strutturato e funzionante, grazie soprattutto al fondamentale lavoro di mediazione svolto del colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi a Beirut, funzionario dei Servizi da sempre molto legato a Aldo Moro", il cui ritorno al ministero degli Esteri avrebbe consentito che il patto prendesse davvero forma.
   A spiegare quel pezzo di storia italiana, apparentemente lontana nel tempo ma ancora oggi attuale, è lo storico Giacomo Pacini, dell'Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell'Età Contemporanea durante il suo intervento al convegno "Aldo Moro e l'intelligence. Il senso dello Stato e la responsabilità del potere", promosso a Rende dal Centro di Documentazione Scientifica sull'Intelligence dell'Università della Calabria.
   Pacini ha presentato una documentazione inedita per tentare di fornire una ricostruzione del cosiddetto "Lodo Moro", ossia di quella sorta di patto di non belligeranza che prevedeva la salvaguardia dalla minaccia di attentati terroristici in cambio della liberazione dei militanti palestinesi arrestati sul suolo italiano, la tolleranza per i traffici di armi verso il Medio Oriente, nonché un impegno a arrivare a un riconoscimento ufficiale da parte delle diplomazie europea dell'Olp come legittimo rappresentante del popolo palestinese.
   Sulla base del materiale che è stato possibile rinvenire, ha sostenuto lo storico, "si evince che i primi contatti tra funzionari dei Servizi segreti italiani e emissari palestinesi avvennero a fine 1972 nell'ambito di una trattativa che portò alla liberazione di due militanti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp) arrestati nel precedente agosto per aver nascosto un ordigno in un mangianastri portato inconsapevolmente su un aereo israeliano da due turiste inglesi".
   Il convegno nell'ateneo cosentino è stato introdotto dal Direttore del Master in Intelligence Mario Caligiuri e ha visto anche diverse relazioni, tra le quali quelle di Ciriaco De Mita e Luigi Zanda.

(CN24, 14 maggio 2017)


Il settimo giorno della guerra dei Sei Giorni

1967- 2017 I territori conquistati 50 anni fa sono W1 pesante fardello per Israele. E la dura disfatta dei regimi arabi laici ha alimentato il jihadismo.

di Lorenzo Cremonesi

 
Nasser butta a mare Israele con un calcio
Egitto, Siria, Giordania e Libano attaccano Israele
Israele schiacciato come un insetto dagli eserciti arabi
Pile di crani ebraici sotto le rovine di Tel Aviv
   
             Vignette apparse sulla stampa araba
          prima della guerra dei sei giorni
Per Israele fu una vittoria straordinaria, quasi magica grazie ai successi militari fulminei su tutti i fronti. Per il mondo arabo si rivelò una sconfitta umiliante, tanto grave da condizionarlo per decenni. La chiamano guerra dei Sei Giorni, anche se in verità fu combattuta in poco meno di cinque. Viviamo tutti ancora sotto l'ombra lunga di quella guerra, affermano coloro che si occupano di Medio Oriente, compresi israeliani e palestinesi, per una volta concordi. Marcò tra l'altro l'inizio della decadenza del nasserismo e del nazionalismo arabo laico, mentre ha prodotto il rilancio dell'islam politico, dei Fratelli musulmani, e ha posto persino le fondamenta di al Qaeda e dell'Isis.
   Le premesse più dirette risalgono al conflitto per Suez del 1956 ( estremo singulto coloniale nell'era della guerra fredda), al termine del quale Usa e Urss costrinsero Israele ad abbandonare il Sinai e la striscia di Gaza. In cambio la penisola venne demilitarizzata con la presenza di un contingente dell'Onu. Undici anni dopo i sovietici, convinti che Israele prima o poi avrebbe attaccato la Siria, spinsero i leader arabi al conflitto, fornendo anche dati d'intelligence falsi, secondo i quali lo stato maggiore a Tel Aviv sarebbe stato in procinto di invadere le alture siriane del Golan. Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, leader popolare del panarabismo, si scagliò contro il «nemico sionista da ributtare a mare». Divenne come prigioniero della sua retorica, tanto che il 17 maggio 1967 chiese il ritiro parziale dei 3.400 caschi blu al segretario generale dell'Onu U Thant. Questi commise un grave errore, sperando di dissuadere l'Egitto: o tutti o nessuno. Nasser non poteva perdere la faccia, era andato troppo in là nell'invocare la «liberazione della Palestina», così cacciò l'Onu e superò la linea rossa posta da Israele, inviando 600 carri armati e centomila uomini nel Sinai. Voleva veramente la guerra? No, almeno non in quel momento, non era pronto, un terzo del suo esercito era impegnato nello Yemen. Ma il conto alla rovescia era innescato.
   In Israele regnava l'indecisione. Il premier Levi Eshkol tentennava. Il suo ministro della Difesa, Moshe Dayan, propendeva per l'azione immediata. Il padre della patria David Ben Gurion paventava un «nuovo Olocausto». A spostare il pendolo a favore dell'attacco fu l'intelligence militare: avevano i numeri in mano, informazioni accurate, il piano comportava un attacco aereo iniziale a sorpresa. Conoscevano i nomi dei piloti egiziani, avevano le foto aeree dei loro jet disposti sulle piste, delle unità di terra nel Sinai. Così il 20 maggio scattò la mobilitazione, con 264 mila israeliani sotto le armi: una situazione che poteva durare solo pochi giorni per evitare la paralisi dell'economia. Alle 7.45 del 5 giugno la prima ondata aerea appare nei cieli egiziani. Hanno volato rasoterra per ingannare i radar. Sono quaranta caccia Mirage e altrettanti bombardieri Mystère. Prima di mezzogiorno la Pearl Harbour egiziana si è compiuta. La guerra è già decisa. Almeno 309 dei 340 aerei da combattimento di Nasser sono torce fumanti. Ma dal Cairo si parla di «strabilianti vittorie». Israele tace e colpisce. «Da Gerusalemme mi comunicavano discreti che, se non mi fossi mosso, loro non avrebbero attaccato la Giordania. Per contro Nasser mi fece avere le immagini dei suoi radar: mostravano decine di aerei in volo sul Sinai. Mi disse che erano i suoi che tornavano dai raid contro i sionisti e che dovevo mandare all'attacco il mio esercito, se volevo poi unirmi e beneficiare della vittoria. Fui imbrogliato, in realtà erano le ondate degli israeliani che avevano ridotto in cenere i suoi», confidò re Hussein di Giordania al «Corriere» nel 1991. Un'amarezza che ben riflette le ragioni della disfatta araba: mancanza di coordinamento, tradimenti, gelosie. La tanto celebrata «unità panaraba» si rivelò vuota retorica.
   Quando arrivano al canale di Suez gli israeliani hanno perso circa 300 uomini, gli egiziani oltre 15 mila. Inoltre 800 tank di Nasser sono cenere o catturati, 10 mila suoi automezzi sono nelle mani degli israeliani. Il 7 giugno è presa anche Gerusalemme Est, 1'8 il Giordano diventa confine. Solo adesso Dayan ordina l'attacco sul Golan, che viene preso in 27 ore. Il 10 giugno a Damasco sventola bandiera bianca.
   Eppure, per Israele quel successo fu anche una maledizione. Riassume lo storico Benny Morris: «Per gli arabi fu evidente che non potevano più sperare di annullarci militarmente. La guerra del Kippur nel 1973 vide Egitto e Siria decise a riprendersi almeno parte delle terre perdute, ma non mirava a ributtare tutti gli ebrei a mare come invece predicava Nasser. Però per Israele si spalancò allora un grave pericolo interno, destabilizzante, esistenziale. Il nuovo controllo sulle regioni dell'Israele biblica vide il connubio tra nazionalismo e religione, incarnata nei movimenti estremisti messianici di coloni che andavano a insediarsi nelle aree conquistate».
   L'occupazione destabilizza e lacera le esistenze degli occupati, ma corrompe e vizia anche gli occupanti, sostiene da anni Amos Oz. Così gli israeliani persero la loro «verginità morale». Il Paese nato dai profughi in fuga dall'antisemitismo europeo, dai miti della resistenza al nazismo, dalla convinzione di aver guadagnato il diritto di esistere anche col sangue della Shoah, si ritrovò a mettere in atto un ampio meccanismo di controllo e repressione tra Cisgiordania e Gaza. A Hebron pochi mesi dopo la guerra arrivò un gruppo di estremisti religiosi che volle celebrare la Pasqua nell'antico edificio della «Tomba dei Patriarchi» per esaltare la cerimonia «del ritorno». Gli stessi dirigenti laburisti ne furono in gran parte contenti, videro in quei ragazzi infervorati dallo zelo religioso e nei loro rabbini esaltati una reincarnazione dei pionieri dei kibbutz. E nacquero ambiguità profonde: Israele offriva la pace in cambio del ritiro sui confini del 1948 (proposta allora rifiutata dai leader arabi), nel contempo si ponevano le basi della colonizzazione a tappeto che oggi ha de facto vanificato la formula «pace in cambio della terra» e aperto per lo Stato ebraico il dilemma del braccio di ferro demografico con i palestinesi.
   Una data tragica e catartica segna questa parabola: 4 novembre 1995. Allora, nella piazza centrale di Tel Aviv, mentre la sinistra celebrava gli accordi di Oslo con i palestinesi, uno dei figli più fanatici dei gruppi ultranazionalisti fioriti dalla guerra dei Sei Giorni uccise uno dei padri di quell'evento: il primo ministro Yitzhak Rabin, che era stato il capo di stato maggiore dell'esercito nel 1967, l'uomo chiave della vittoria. Per tutta la vita aveva temuto di essere eliminato da un arabo. Mai da Ygal Amir, un ebreo nato vicino a Tel Aviv nel 1970, che lo accusava di «tradimento».

(La Stampa, 14 maggio 2017)


Articolo distorto dall'accettazione e dall'uso ignorante o fraudolento di termini come "occupazione" e "colonizzazione". Ma ormai l'ignoranza si è talmente estesa e radicata che non è più riconosciuta come tale. Né molti hanno voglia di riconoscerla, perché per loro sarebbe confermato ancora una volta l'antico stereotipo: gli ebrei rubano. Antisemitismo, null'altro che antisemitismo in veste morale antisionista. M.C


«Il Medio oriente cambia, Hamas si deve adattare»

Intervista a Ahmed Yousef. Il teorico del movimento parla del nuovo Statuto: «Lungo dibattito ma ora tutti d'accordo».

Ahmed Yousef non è più il consigliere dell'ex primo ministro e ora leader dell'ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeb. Resta però uno dei "teorici" del movimento islamico. È considerato uno degli artefici degli emendamenti allo Statuto di Hamas del 1988 annunciati nei giorni scorsi e con cui gli islamisti hanno accettato l'idea della creazione di uno Stato palestinese solo in Cisgiordania e Gaza senza riconoscere Israele e rinunciare alla lotta armata.
   Modifiche che hanno fatto parlare di svolta «moderata» e di «segnali» inviati all'Occidente e al mondo arabo dall'organizzazione fondata trent'anni fa dallo sceicco Ahmed Yassin poco dopo l'inizio della prima Intifada.
   Segnali che, ad oggi, non sono stati accolti mentre Israele, per bocca dello stesso primo ministro Netanyahu, smentisce l'esistenza di novità nello Statuto e afferma che Hamas resta impegnato nella distruzione dello Stato ebraico. Il partito laico Fatah da parte sua ha criticato duramente Hamas per averlo accusato di «tradimento» durante e dopo la firma degli Accordi di Oslo con Israele nel 1993 per poi giungere, 24 anni dopo, alla accettazione del compromesso territoriale con lo Stato ebraico.
   «È presto per valutare le reazioni internazionali e delle altre forze politiche palestinesi, ci dice Yousef accogliendoci nel suo ufficio, House of Wisdom, in un edificio sul lungomare di Gaza city. La cosa più rilevante al momento - aggiunge - è aver fatto delle modifiche che non erano più rinviabili. Lo Statuto del 1988 fu scritto con il linguaggio di quel periodo e non era più rappresentativo di Hamas come lo conosciamo oggi. L'autore di quel testo e chi lo ha assistito non avevano tenuto conto del diritto e della diplomazia che oggi non si possono ignorare» Cambiamenti che non tutti in Hamas hanno accettato di buon grado. Qualche giorno fa, uno dei fondatori del movimento ed ex ministro degli esteri Mahmoud Zahar, ha negato che lo Statuto emendato rappresenti una «strada nuova», in modo da sconfessare la svolta che non ha gradito.
   Con Zahar sarebbe schierato il leader di Hamas a Gaza ed esponente di punta dell'ala armata Yahya Sinwar, contrario alle aperture fatte all'Olp controllata da Fatah e presieduta da Abu Mazen.
   Yousef ammette l'esistenza di differenze, anche ampie, di opinione: «Hamas è una organizzazione complessa ed è normale che al suo interno vi siano visioni diverse. Il nuovo Statuto è frutto di un dibattito che è andato avanti per lungo tempo e di decisioni prese sulla base di un consenso adeguato. Comunque occorreva cambiare e su questo sono stati tutti d'accordo.
   In Medio oriente, aggiunge, «sono intervenute trasformazioni importanti di cui il nostro movimento non può non tenere conto e mano a mano che il ruolo di Hamas ha assunto dimensioni sempre più rilevanti non si poteva restare immobili».
   Yousef non nasconde che il rapporto con lsraele resta il nodo centrale agli occhi della comunità internazionale. Sa che il mancato riconoscimento dell'esistenza di Israele ostacolerà il cammino di Hamas verso la sua legittimazione agli occhi dei paesi occidentali alleati dello Stato ebraico.
   L'Occidente guarda a questo tema da un unico punto di vista, Hamas fa un discorso diverso - spiega - Non disconosce che la Terra Santa abbia un valore enorme per le tre religioni monoteistiche e che in essa vi siano alcuni dei luoghi più santi per queste fedi. Una soluzione perciò è possibile tra i popoli di Islam, Cristianesimo e Ebraismo. Hamas non è schierato contro gli ebrei ma condanna il sionismo e le sue politiche contro i diritti del popolo palestinese. Il nostro scontro è con il nazionalismo sionista, non con l'ebraismo».
   Yousef infine riconosce che gli emendamenti allo Statuto e la presa di distanza dai Fratelli musulmani sono anche la conseguenza delle pressioni su Hamas giunte da alcuni paesi islamici e che sono volti a migliorare le relazioni con varie capitali arabe, a cominciare dal Cairo.
   «Hamas deve guardare al presente e più di tutto al futuro, facendo delle scelte razionali, quindi aderenti alla realtà senza per questo rinunciare ai suoi principi fondamentali».

(il manifesto, 14 maggio 2017)


I “principi fondamentali” di Hamas su cui ora sono tutti d’accordo sono questi: Gli ebrei possono vivere, lo Stato ebraico no. Nulla di strano, in fondo. Non è forse quello che pensano tanti altri, che proprio per questo rifiutano di essere accusati di antisemitismo? Hamas non è un problema internazionale perché rappresenta l’antisemitismo internazionale di ultima generazione: l’antisionismo. M.C.


Se Trump gela i falchi israeliani

Alla vigilia del suo primo viaggio da presidente, The Donald riequilibra la sua posizione sulla questione israelo-palestinese.

The Donald gela l'entusiasmo e le aspettative dei falchi d'Israele. In procinto di intraprendere la sua prima missione all'estero da presidente, Donald Trump corregge il tiro e riequilibra la sua posizione sul conflitto israelo-palestinese, La priorità sul complesso e accidentato scenario mediorientale dell'inquilino della Casa Bianca è ricucire i rapporti con i Paesi sunniti, a cominciare dall'Arabia Saudita. A questo servirà la prima tappa del lungo tour diplomatico del presidente Usa, che porterà Trump a Riad dove ad attenderlo non sarà solo re Salman d'Arabia ma anche altri leader e capi di Stato sunniti, convocati dal re saudita per sancire un riavvicinamento del fronte sunnita dopo l'irrigidimento della nuova amministrazione statunitense rispetto all'apertura all'Iran sciita che ha caratterizzato la politica estera del predecessore di Trump, Barack Obama.
   Mostrarsi troppo "arrendevole" alle pretese israeliane, da parte di Trump, non agevolerebbe questo riavvicinamento ed ecco dunque i più stretti collaboratori del tycoon americano far filtrare alcune anticipazioni, politicamente alquanto succose, su cosa dirà e farà Trump nella sua tappa israeliana.
   La prima anticipazione è che l'inquilino della Casa Bianca, pur ribadendo con forza il "patto di ferro" con l'alleato israeliano, non annuncerà Io spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, come pure aveva promesso nella sua campagna elettorale. A prevalere è un principio di realismo, fortemente sostenuto dal segretario di Stato, Rex Tillerson, che pone l'accento sulla necessità da parte americana di non lasciare alla Russia di Vladimir Putin il monopolio delle relazioni con il mondo arabo. Di qui il rinnovato impegno del Pentagono nelle operazioni militari in Siria, con la decisione di sostenere sul campo le milizie curde dell'Ypg, in prima linea nell'assedio a Raqqa la "capitale" siriana dello Stato islamico. Nasce da qui, il riequilibrio trumpiano in Terrasanta.
   Un'avvisaglia c'era già stata quando alla Casa Bianca Trump aveva ricevuto il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas, il 3 maggio scorso. Al leader dell'Anp, Trump ha fatto una promessa pubblica: «Sarò mediatore, arbitro e facìlìratore» per la pace. Un impegno che avrà una sua prima verifica durante la visita Usa a Gerusalemme. Qui, anticipano fonti della Casa Bianca, Trump non espliciterà direttamente il suo sostegno alla soluzione «a due Stati» ma affermerà che la sua amministrazione riconosce il diritto palestinese all'autodeterminazione e che non c'è alternativa alla ripresa di un negoziato diretto tra le due parti.
   Parole, certo. Ma che pesano e molto sul futuro del processo di pace. Netanyahu ne è consapevole e per questo, nonostante le pressioni dell'ala più oltranzista del suo governo, non insisterà sul diritto d'Israele a colonizzare Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania) né accennerà alla promessa di Trump sullo spostamento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme. Il premier israeliano dovrà "accontentarsi" delle chiusure di Trump all'Iran e concedere aperture ai palestinesi. Non è quello che i falchi dello Stato ebraico volevano, ma The Donald ha capito che in Medio Oriente, «America first» significa non rompere con le petromonarchie del Golfo e ridare una chance al dialogo israelo-palestinese,
   Non sarà una "colomba" ma già un Trump pragmatico è un passo in avanti di non poco conto.

(l’Unità, 14 maggio 2017)


Honey & Co. Un ristorante israeliano a Londra e due libri da non perdere

Q.B. QUANTO BASTA - È considerato uno dei gioiellini gastronomici della capitale britannica e il merito è dei due chef israeliani, Sarit Packer e Itamar Srulovich. Il bergamotto, agrume superstar. Hybrid Seletti, piatti e tazze per stupire. Una tisana detox per la coccola serale


Medio Oriente londinese
 
Sarit Packer e Itamar Srulovich
È un piccolo ristorante di Fitzrovia, a Londra. Eppure, al momento Honey & Co. è considerato uno dei gioiellini gastronomici della capitale britannica. Il merito è dei due chef israeliani, Sarit Packer e Itamar Srulovich, che nella vita sono anche (innamoratissimi) marito e moglie. Dopo un periodo alla "corte" di Yotam Ottolenghi, i due hanno deciso di lanciarsi in proprio. Fanno una cucina mediorientale unica nel suo genere: tradizionale ma anche ricca di spunti originali. Il risultato? File interminabili davanti al locale, articoli su riviste e importanti quotidiani come il Guardian. E, da poco, un secondo locale dove si tengono anche momenti di riflessione e showcooking. Ma per conoscerli davvero, sfogliate i loro due libri Honey & Co.: The Baking Book e Food From the Middle East (Saltyard). Per il Sunday Times, libri dell'anno.

Il décor si fa in due
La linea Hybrid di Seletti, con i suoi piatti e le sue tazze bicolori, ci riporta indietro nel tempo. Un tempo fatto di decorazioni antiche fuse con linee e forme moderne. Ideate dal collettivo multidisciplinare CtrlZak, riflettono sulla produzione storica cinese ed europea del Bone China e su secoli di unione tra estetica orientale e occidentale. Prodotte in Tangshan, sono divise a metà, proprio a simboleggiare l'incontro tra queste due culture.

Agrume superstar
Tutti pazzi per il bergamotto. È possibile ottenere una spremuta di questo agrume unico e raro. Si può tagliare a spicchi per le insalate o metterlo nel tè. La buccia infatti è aromatica come quella del limone. Ma io amo usarlo nell'acqua tiepida del mattino, con un'aggiunta di foglia di alloro. Fatelo anche voi!

Detox quotidiano
Chiudere con una tisana la propria giornata è un momento che tutti dovrebbero dedicarsi. Il guru del detox, Henri Chenot, ha lanciato una linea che viene dall'esperienza decennale maturata nelle sue spa. Mix di erbe, frutta e fiori appena raccolti, ne esistono sette miscele: dalla General wellbeing (con rosa canina e ibisco) alla Daily detox (finocchio e melissa), alla Calm & Relax (scorza di arancia amara e fiori di arancio dolce). Da provare, una alla volta.

(Io Donna, 14 maggio 2017)


Israele alla Cina: «Migliaia di jihadisti tornano dalla Siria»

Secondo le informazioni dei servizi segreti

di Paolo Castellano

Un documento d'inchiesta del ministero degli Esteri israeliano ha scoperto che migliaia di musulmani cinesi stanno combattendo in Siria tra le fila delle organizzazioni jihadiste che si oppongono al regime di Assad. La Cina è molto preoccupata per il loro possibile ritorno in patria e i timori si allargano anche sulla sicurezza dei suoi cittadini e sui propri interessi internazionali (per questo recentemente ha incrementato il suo coinvolgimento in Siria stabilendo dei contatti con il regime di Assad). Secondo Ynetnews tradizionalmente la Cina ha sempre attribuito una piccola importanza alla Siria, ma le recenti circostanze hanno cambiato il suo paradigma geopolitico. L'indagine ha segnalato che «l'imminente rientro di decine di migliaia di cittadini cinesi che combattono e vivono in Siria fa emergere il bisogno di monitorarli. La Cina è estremamente interessata ai dati e alle informazioni su di loro. Il nostro convincimento è che sia meglio respingerli sul suolo siriano con l'obiettivo di prevenire il loro ritorno nella regione d'origine».
   I cinesi che combattono in Siria sono membri del gruppo musulmano Uyghur, una minoranza sunnita che parla in un dialetto turco e principalmente risiede nel nord-ovest di Xinjiang. Secondo il documento israeliano, la Cina ha fatto grandissimi sforzi per porre fine alle partenze illegali degli uighuri dal paese, ma nonostante il blocco della strada più breve che attraversa il Pakistan, decine di migliaia di uighuri sono fuoriusciti dal confine meridionale e hanno attraversato una via tortuosa per raggiungere la Turchia.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, maggio 2017)


Cisgiordania: elezioni amministrative boicottate da Hamas

Si vota in Cisgiordania per le elezioni amministrative boicottate da Hamas, il movimento politico-terrorista islamista che governa la Striscia di Gaza dal 2007. In corsa c'è un unico partito, quello di Fatah, a cui appartiene il leader dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas. Tra le incognite principali l'affluenza alle urne.
"Dobbiamo aumentare la percentuale dei votanti per dire al mondo che c'è democrazia in Palestina. Purtroppo non ci sono elezioni a Gaza, ma speriamo e preghiamo che la prossima volta si andrà alle urne in tutta la Palestina", dice il candidato di Fatah Maher Kanawati.
Secondo Hamas, queste elezioni non sono positive per la Palestina ma rafforzeranno solo le divisioni tra la Cisgiordania e Gaza. "Queste elezioni si svolgono sotto il controllo dei servizi di sicurezza della Cisgiordania e con il coordinamento del nemico israeliano. L'obiettivo di questo voto è quello di assicurare il potere a un unico partito politico quello di Fatah", spiega portavoce di Hamas, Fawzi Barhourn.
Secondo gli analisti le prospettive di una riconciliazione sono ancora lontane. Questo voto arriva dopo che Hamas ha rinnovato i vertici del movimento e ha pubblicato la nuova Carta con la quale accetta il confini del 1967 come frontiere del futuro Stato palestinese, ma non riconosce Israele.

(euronews, 13 maggio 2017)


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Alla fine si vota davvero, in Palestina

Dopo averle rinviate più volte, oggi si tengono le elezioni amministrative: ma solo in Cisgiordania, e i candidati provengono quasi esclusivamente da Fatah.

Sono in corso le elezioni amministrative per rinnovare le assemblee locali di 145 città e paesi palestinesi, che negli scorsi mesi erano state rinviate più volte. I seggi hanno aperto alle 7 di mattina locali - le 6 di mattina italiane - e chiuderanno alle 19, le 18 italiane. Non si vota però su tutto il territorio palestinese: le elezioni si tengono solamente in Cisgiordania perché Hamas, il movimento politico-terrorista islamista che governa la Striscia di Gaza, le ha boicottate per protesta contro le modalità con cui sono state organizzate dal governo palestinese. I candidati, inoltre, provengono quasi tutti dal partito laico e moderato Fatah, che sostiene l'attuale presidente palestinese Mahmoud Abbas, perché gli altri partiti principali hanno rifiutato di presentare candidature, anche loro in protesta contro il governo. Harry Fawcett, giornalista di Al Jazeera che si occupa di Cisgiordania, le ha definite "elezioni a partito unico", cioè interne a Fatah.
   Nonostante non abbia presentato propri candidati, Hamas ha comunque invitato i palestinesi a partecipare alle elezioni di oggi, riconoscendo il "ruolo cruciale" che le assemblee locali hanno nell'opporsi a Israele e a promuovere gli interessi degli abitanti della Cisgiordania. Non è ancora chiaro se i primi risultati saranno diffusi stasera o nei prossimi giorni. Ci si aspetta che votino più o meno 800mila palestinesi sui circa 3 milioni che secondo le stime ufficiali abitano in Cisgiordania.
   Le elezioni erano molto attese per vari motivi: principalmente perché in Palestina il Parlamento non viene rinnovato da 10 anni, e le amministrative erano considerate una prova generale in vista delle "vere" elezioni, promesse da anni dal governo palestinese. Originariamente erano previste per l'8 ottobre 2016: a settembre però la Corte Suprema le sospese spiegando che i tribunali della Striscia di Gaza avevano escluso delle liste elettorali di Fatah nonostante non avessero l'autorità per farlo (il governo palestinese non riconosce la sovranità dei tribunali di Hamas sulla Striscia). La Commissione elettorale palestinese, accogliendo la sentenza della Corte, aveva raccomandato al governo controllato da Fatah di ri-organizzarle solo dopo essersi accordato con Hamas per tenerle anche nella Striscia di Gaza: è dal 2006 infatti che Cisgiordania e Striscia di Gaza non votano alle stesse elezioni, e la cosa avrebbe potuto contribuire a riavvicinare Fatah e Hamas. Invece, dopo dei negoziati infruttuosi, Fatah e il governo palestinese hanno deciso di organizzarle lo stesso, solamente in Cisgiordania.
   Dopo la prima sospensione, Hamas aveva descritto come "politica" la scelta della Corte Suprema - che ha sede a Ramallah, la stessa città dove risiede il governo palestinese - spiegando che Fatah temeva una vittoria di Hamas sia nella Striscia di Gaza sia in Cisgiordania. Da diversi anni Hamas è data in vantaggio da diversi sondaggi sia in Cisgiordania sia nella Striscia di Gaza, ma una sua eventuale vittoria alle elezioni legislative causerebbe quasi certamente nuove tensioni con Israele e metterebbe fine al potere di Fatah all'interno delle strutture governative palestinesi.

(il Post, 13 maggio 2017)


Il figlio bin Laden ai lupi solitari: colpite ebrei e americani

ROMA - "Avviso a coloro che cercano il martirio in Occidente": è il macabro titolo di un discorso di Hamza bin Laden, uno dei figli di Osama, in cui si danno direttive ai 'lupi solitari' e si individuano come bersagli principali "gli ebrei, gli americani ed i loro interessi e i membri della Nato e la Russia". Lo riferisce la direttrice del Site Rita Katz su Twitter, specificando che il discorso di Hamza bin Laden è stato diffuso dal network qaedista as-Sahab media oggi, undici giorni dopo l'anniversario dell'uccisione del fondatore di al Qaida. Media inglesi e indiani, inoltre, riportano che Hamza bin Laden, oggi presumibilmente 28enne e da gennaio nella lista nera americana dei terroristi, ha promesso di vendicare il padre, come è emerso da alcune lettere ritrovate nel covo in Pakistan dove Osama fu ucciso dalle forze speciali Usa, nel 2011, ora declassificate. La rivelazione è arrivata da un ex agente dell'Fbi, Ali Soufan, che ha iniziato a occuparsi di al Qaida dopo l'attacco alle Twin Towers.

(ANSA, 13 maggio 2017)


Parlamentare israeliano Bahloul: lavorare per dare spinta ai negoziati israelo-palestinesi

ROMA - Occorre lavorare "per fare in modo che le nuove generazioni abbiano speranze e sogni da realizzare" e "dare spinta ai negoziati" israelo-palestinesi. È quanto dichiarato dal parlamentare della Knesset (il parlamento israeliano), Zouhair Bahloul, intervenendo oggi alla sessione plenaria dell'Assemblea parlamentare dell'Unione per il Mediterraneo (Ap-Upm), che conclude la presidenza di turno italiana. Rivelando all'Assemblea la sua origine palestinese, Bahloul ha dichiarato: "Sono un palestinese che è rimasto in Terra Santa sotto Israele, io vivo all'ombra di questo conflitto. In 66 anni speravo che il conflitto terminasse, l'attuale situazione ha inflitto un colpo a questo ottimismo. Israele è un paese di successo, ma dall'altra parte i palestinesi non hanno nulla. Un palestinese guarda al futuro e vede solo buio".

(Agenzia Nova, 13 maggio 2017)


La banda dei vandali annoiati che ha profanato il Verano

Distrutti e divelti i simboli della tradizione giudaica e gli arredi. Settanta sepolture danneggiate. Fermati quattro adolescenti. I ragazzi delle Roma-bene si accusano a vicenda: "L'idea non è mia". "Non ne so nulla".

di Federica Angeli e Lorenzo D'Albergo

«Non è stata mia l'idea, io non c'entro niente». E l'altro: «Io nemmeno volevo andarci lì, ve lo giuro. Non so cosa ci sia preso. Perché lo abbiamo fatto? Chiedete a loro. Hanno iniziato e poi sono partito anche io». Sentiti dai carabinieri, per ore due dei quattro ragazzini della bravata al Verano hanno giocato a scaricabarile. Davanti alle domande dei militari dell'Arma sulle 70 tombe profanate in una notte di follia al Verano, i giovanissimi protagonisti del blitz si sono atteggiati da politici consumati: rimpallo di responsabilità e via così fino al crollo. Adolescenti della "Roma bene" («Non della "Roma male", questo è certo», spiegano gli investigatori) e tutti minorenni, i quattro studenti ieri sera sono stati costretti dagli investigatori e dalla procura dei minori a ripercorrere le tappe del raid.
   Davanti ai genitori, convocati in caserma in fretta e furia e neri con i figli, hanno cercato di trattenere le lacrime. Poi, nelle prime battute di un interrogatorio andato avanti per tutta la sera, hanno perlomeno confermato alcuni degli elementi già raccolti dai carabinieri. Per esempio, la chiamata al custode dell'Ama. «Siamo rimasti chiusi dentro dopo la chiusura e a quel punto abbiamo telefonato con uno dei nostri cellulari», hanno spiegato. Dopo alcuni minuti, ad aprire di nuovo i cancelli del cimitero per farli uscire e tornare a casa è stato un dipendente della municipalizzata dell'ambiente: «Ci ha chiesto i nomi, i cognomi e se avessimo con noi i nostri documenti. Gli abbiamo detto quello che voleva sapere e siamo andati via». Tradendosi.
   «Vigliacchi profanatori», sono stati immediatamente definiti sui social da chi ha trovato la tomba del proprio defunto sventrata, come fosse stata bombardata. Qualcuno, tanto per aumentare la quota di vergogna delle mamme e papà dei quattro, si è spinto oltre: «Piccoli bastardi, vandali». L'area israelitica, poi i fornetti cattolici e pure il Sacrario militare: i quattro hanno devastato l'area tra la tangenziale e via Tiburtina, lasciandosi alle spalle stelle di David fracassate e spingendo a terra, a volte l'una contro l'altra, decine di lapidi. Senza un criterio, senza seguire alcuna matrice razziale, come assicurano gli inquirenti. Ma con effetti comunque devastanti.
   Le telecamere di sorveglianza del Verano non si sono fatte sfuggire il blitz e la corsa da un comparto all'altro del cimitero. Prima il numero 3 bis, poi il 4. Quei video, che immortalano i ragazzi passare anche a due passi dalla tomba di Eduardo De Filippo, ora sono la prova schiacciante di quel gioco. Della noia diventata distruzione a suon di calci, usando vecchi marmi di sepolture già lesionate dal tempo e dalle intemperie e vasi di rame come armi.
   Tutti insieme al cimitero e poi di nuovo tutti assieme davanti ai carabinieri: il gruppetto - tutti maschi - è rimasto compatto per più di 24 ore. Bloccati in caserma, fermati e ascoltati. Come criminali comuni. Ispirati, però, da chissà cosa: un film, una canzone? Ora spetterà al tribunale dei minori scoprirlo e poi decidere quale sarà il loro futuro.

(la Repubblica - Roma, 13 maggio 2017)


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Il pianto degli ebrei sulle lapidi fatte a pezzi. "Qui riposa mio nonno". "E lì c'è il mio fratellino"

Sventrati anche i fornetti delle tombe cattoliche e offesa la memoria del Sacrario militare .

La processione verso il tempietto del Verano, fiaccata dallo shock e dal primo vero caldo di stagione, è lenta. La rabbia fa stringere i pugni, imperlare la fronte di sudore sotto la kippah. La paura conduce verso il loculo dei parenti, verso le stelle di David, fa inumidire gli occhi ai familiari dei 70 defunti rimasti senza una lapide e tirare un sospiro di sollievo ai nipoti, ai figli e ai fratelli che hanno visto risparmiata la memoria del proprio caro dallo scempio.
   Ieri pomeriggio, nel giorno dell'attacco al Verano, la comunità ebraica si è riunita nel cimitero di via Tiburtina per partecipare suo malgrado a una dolorissisima roulette russa. «Corri, corri... vai a controllare se da nonna è tutto in ordine», dice una donna al figlio. «Andiamo a vedere la tomba di zio», così una coppia di giovani. «Ma Shlomo? Sei andato a vedere?», una moglie al marito. L'escursione, accompagnata dal kaddish, la preghiera rituale per i defunti recitata dal rabbino capo Riccardo Di Segni dopo aver diviso uomini e donne, si conclude con un colpo al cuore per Alberto Fiorentini. Cerca il nonno nel comparto 29, poco distante dall'ingresso israelitico. Tenta di individuare la menorah (il candelabro a sette bracci) di marmo nero che ne distingue la tomba per trovarla a terra, distrutta. «Ci sono andati pesanti», commenta amaro. Poi chiama la zia: «Non so che fare - ripete guardando la foto del nonno, Marco Anticoli - sta anche per entrare lo shabbat e non posso restare nel cimitero. Guarda che hanno combinato. Dovremmo festeggiare la vita e invece ... spero solo che siano andati a casaccio. Che non se la siano presa proprio con noi».
   I cinque ragazzini, minorenni e della Roma bene, che hanno devastato il Verano sembrano aver seguito soltanto un criterio: distruggere le lapidi più nuove, le più luccicanti. Levi, Coen, Di Veroli, Calò, Spizzichino, Perugia, senza risparmiare quelle dei bambini. Massimo, a testa bassa, esce dall'area 28. Lì c'è il fratello, venuto a mancare ancora bambino: «Certe cose non si possono commentare. Hanno usato una lastra di marmo di quelle più antiche per distruggere quella della nostra famiglia. È un orrore, ci devono spiegare quello che è successo».
   La soluzione è in realtà vicinissima. I carabinieri hanno risolto il caso nel giro di poche ore. E la voce corre veloce tra i vertici della comunità. «Qualcuno deve essere rimasto chiuso dentro. Hanno chiamato il custode con il loro cellulare. Li troveranno subito», viene immediatamente rassicurato Massimo. Che, però, non ci sta. Scaccia una zanzara, cerca di farsi strada tra l'erba alta fino alle caviglie. Poi sbotta: «È come quando ci dissero che gli uccellini avevano fatto il nido sull'albero che anni fa è caduto e ha spazzato via cinque lapidi. Ci prendono in giro». Ruben Della Rocca cerca ancora di tranquillizzarlo: «È uno squallore, a prescindere dalla religione».
   Perché - e non è un dettaglio - il raid dei cinque ragazzini non ha risparmiato davvero nessuno. Nel loro mirino, completamente impazzito, sono finiti anche il sacrario militare e le vetrate di un'infilata di fornetti lontani dalla zona ebraica, proprio davanti quella riservata ai musulmani. Ma lo sconforto della comunità ebraica è il più evidente. C'è chi gira per il Verano armato di silicone, chi chiama un marmista. Chi, invece, lascia una rosa sotto il monumento funebre in memoria delle vittime delle deportazioni. Ieri hanno subito l'ultimo oltraggio. (l.d'a.)

(la Repubblica - Roma, 13 maggio 2017)


La fase due in Siria

Hezbollah minaccia: "La prossima guerra dentro Israele". Svelata la ragione dei raid israeliani

di Daniele Raineri

Il villaggio di Jubata, nel versante siriano del Golan
ROMA. Giovedì il leader del gruppo libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha pronunciato un discorso trasmesso in diretta televisiva che è importante per due motivi. Il primo è che ha minacciato Israele e ha detto che la prossima guerra sarà combattuta in territorio israeliano perché "nessun luogo dei territori palestinesi occupati [Israele, ndr] è fuori dalla portata dei missili della Resistenza o dei boots dei combattenti della Resistenza" - dove per Resistenza, in arabo al muqawama, s'intende l'asse tra i libanesi e l'Iran. Hezbollah e Israele hanno combattuto una guerra molto intensa di 34 giorni nell'estate del 2006 e molti osservatori dicono che in questo momento è soltanto sospesa, pronta a riprendere da un momento all'altro (anche se la probabilità che succeda adesso non è alta). Il secondo motivo che rende interessante il discorso di Nasrallah è l'annuncio che il gruppo ha cessato le operazioni al confine est tra Libano e Siria contro le fazioni armate che fanno la guerra al presidente Bashar el Assad perché ormai non c'è più bisogno, il pericolo è finito, da ora in poi basterà l'esercito regolare libanese a garantire la sicurezza in quei luoghi (e quindi a badare che la guerra civile non tracimi in Libano). La campagna per mettere in sicurezza il confine cominciò nell'estate 2012 e finì sui giornali nel 2013 con la presa della città di Qusayr, uno degli snodi più importanti degli antiassadisti, ora è stata dichiarata conclusa con un successo. E questo vuol dire che Hezbollah può usare altrove, in altre parti della Siria, le sue risorse e i suoi uomini induriti da cinque anni di combattimenti - che sono costati al gruppo 1.048 morti secondo la conta aggiornata al mese di aprile.
  Uno dei fronti siriani che Hezbollah andrà a rafforzare ora che il fianco ovest è sicuro è quello sud, sulle alture del Golan al confine con Israele. Il gruppo e gli sponsor iraniani sanno che se in questo momento scoppiasse la guerra sarebbe davvero svantaggioso lanciare missili contro Israele soltanto dal Libano, dalla solita striscia compresa tra il confine e il fiume Litani, perché le truppe israeliane potrebbero invadere e droni e jet potrebbero rispondere in tempo reale e colpire le zone di lancio - e anche distruggere i comandi militari a Beirut. I generali israeliani hanno fatto filtrare sulla stampa la dottrina in caso di conflitto ed è molto dura: prevede bombardamenti massicci per devastare tutte le infrastrutture e incapacitare "in modo definitivo" il gruppo libanese. Sono passati però undici anni dal 2006 e ora c'è una nuova area da sfruttare: la fascia meridionale della Siria, e Assad non può negarne l'uso ai suoi alleati perché deve loro la sua sopravvivenza. Se Hezbollah si arrocca anche sul Golan per colpire Israele è come se raddoppiasse la piattaforma di lancio - non più soltanto il sud del Libano, ma anche il sud della Siria - e quindi ha più speranze di essere efficace.

 Il piano d'attacco di Hezbollah
  E qui si viene alla ragione finalmente svelata da analisti israeliani di così tanti raid aerei di Israele in Siria (almeno 50 a partire dal gennaio 2013, con un'accelerazione da novembre 2016). Finora si diceva in modo generico che era per evitare trasferimenti di armi sofisticate dall'Iran a Hezbollah, incluse le armi chimiche. Ora si comprende meglio. La dottrina militare di Hezbollah e iraniani in caso di ripresa della guerra prevede un bombardamento a pioggia e simultaneo di Israele con un numero altissimo di missili, in modo da sopraffare l'ombrello antimissile che protegge il paese. Per rendere questa strategia efficace c'è bisogno di grandi scorte di missili e pure del tipo più preciso, in modo che i pochi che riescono a passare oltre le difese antimissile di Israele - quindi che non sono intercettati in volo - possano colpire bersagli importanti e non cadano in qualche zona deserta.

(Il Foglio, 13 maggio 2017)


L'identità ebraica tra storia e mito

I Musei Vaticani e il Museo Ebraico dedicano una mostra al maggiore e più antico dei simboli ebraici: dal testo biblico al candelabro del Tempio di Gerusalemme. Dopo la sua distruzione a opera di Tito, nel 70 d.C., venne portato nell'Urbe, dove è infine misteriosamente scomparso.

di Anna Foa

 
Arco di Tito - La Menorà trasportata da Gerusalemme a Roma
La mostra che si apre in Vaticano lunedì 15 maggio, organizzata in collaborazione tra i Musei Vaticani e il Museo Ebraico di Roma, è intitolata "Menerà: culto, storia e mito". La Menorà, il candelabro a sette braccia il cui nome ha la stessa radice di or, luce, è il maggiore e il più antico dei simboli ebraici. La sua storia va dal testo biblico al candelabro del Tempio portato a Roma nel trofeo di Tito alle raffigurazioni nelle catacombe ebraiche al moderno stemma dello Stato di Israele, dove è affiancata da due rametti d'olivo. Il logo della mostra raffigura appunto un particolare segmento dai bassorilievi dell'arco di Tito, che rappresentano il trofeo romano sulla Giudea sconfitta: prigionieri ebrei portano sulle spalle la grande e pesante Menorà in oro. È, di tutte le immagini che abbiamo della Menorà, quella che più si avvicina alla realtà, dal momento che pochi anni soltanto erano passati dal corteo vittorioso di Tito e la Menorà del Tempio era ancora presente agli occhi degli artisti che la scolpirono. Ma una raffigurazione della Menorà in una pietra di una sinagoga di Magdala, scoperta nel 2009 e datata intorno alla distruzione del Tempio, mostra un'immagine differente da quella di Roma, sia nei bracci, non arcuati ma ottagonali, sia nella base. La Menorà era simbolo di saggezza e di illuminazione. Essa ricordava anche, come ricordano i testi, il roveto ardente, e con i suoi sette bracci è stata ancora interpretata come il simbolo della creazione che appunto richiese sette giorni per realizzarsi. La lucerna centrale simboleggerebbe il Sabato. Essa è stata interpretata anche alla luce delle dottrine cabalistiche. La Menorà fu per secoli il simbolo stesso dell'ebraismo. Solo a partire dal XVII secolo essa cominciò ad essere affiancata dal magen David, la stella di David, che ritroviamo ora sulla bandiera di Israele. Nella storia della Menorà, realtà, culto e valore simbolico sono strettamente intrecciati. La sua costruzione è disposta e minuziosamente descritta nella rivelazione fatta da Dio a Mosè, come si legge in Esodo 25, 31-40. La sua base era adorna di immagini di fiori e frutti. Inizialmente era collocata nel Tabernacolo, il santuario trasportabile che accompagnava gli ebrei nel deserto, poi nell'anticamera del Tempio. Scomparve nell'esilio babilonese e fu ricostruita e collocata nel secondo Tempio. Ce la descrive Giuseppe Flavio, che fu testimone della sua traslazione a Roma. La Menorà doveva restare accesa dal tramonto all'alba, ma una o più delle sue lampade restavano accese anche durante il giorno. Nella riconsacrazione del Tempio ad opera dei Maccabei, nonostante fosse sufficiente per un sol giorno, l'olio delle lampade rima-se miracolosamente acceso per otto giorni. Da lì la festa di Hannukka, caratterizzata dall'accensione del candelabro a nove braccia, la hannukia.
  Come il rilievo datole nei bassorilievi dell'Arco di Tito dimostrano, la Menorà ebbe un ruolo speciale nel trionfo di Tito. Era al tempo stesso un oggetto di gran pregio, costruita com'era in oro puro, e il simbolo della Giudea sconfitta. Inizialmente, fu custodita nel Tempio della Pace, il nome attribuito al Foro di Vespasiano, tra i Fori e la Suburra. Durante il sacco di Roma del 455 ad opera dei Vandali di Genserico, fu trasportata a Cartagine con il resto del bottino. Di là fu portata a Bisanzio da Belisario, il generale di Giustiniano, quando questi conquistò Cartagine nel 533, per essere portata in un ulteriore trionfo descrittoci da Procopio. Ed infine sembra essere approdata a Gerusalemme, non sappiamo dove né come. Da allora se ne sono perse le tracce, forse è stata fusa nel sacco di Gerusalemme ad opera dei Persiani nel 614. Si tratta però di notizie prive di fonti certe. Infatti, ben presto, di fronte ad un candelabro errante, e sostanzialmente, dopo Tito, volto a far ritorno nel luogo delle sue origini, la sua localizzazione cominciò ad essere avvolta nelle nebbie del mito. La questione si complicava per il fatto che già nei primi secoli si parlò di una duplicazione del candelabro. Quale era quello originario, strappato al Tempio nel 70 e divenuto il simbolo dell'identità di un popolo in diaspora?
  A Roma, dove l'esistenza della Menorà era quotidianamente testimoniata dai bassorilievi dell'arco di Tito, l'idea che essa non avesse mai lasciato la Città era diffusa. Ne ritroviamo traccia, sia pur vaga, in alcuni testi talmudici e perfino nel viaggio di Beniamino da Tudela, un viaggiatore ebreo del XII secolo. Una delle leggende fiorite intorno al candelabro lo diceva affondato nel Tevere. Era una diceria che risaliva ai secoli del sacco dei Vandali, e che ha forse come punto reale di riferimento il fatto che il bottino fu trasportato fino al mare sul Tevere. Un'altra leggenda lo diceva invece nascosto sotto il Laterano. Priva di basi documentarie, la leggenda sulla presenza a Roma della Menorà è tuttavia sopravvissuta nei secoli, fino ad arrivare agli scavi tentati nel Tevere alla fine del XIX secolo e alla richiesta che sarebbe stata fatta in anni recenti al Vaticano di cercarla nei suoi sotterranei e di restituirla allo Stato di Israele. L'altra ipotesi, che ha una maggiore corrispondenza nelle fonti, è quella che essa sia a Gerusalemme, nascosta o perduta. È questa, ad esempio, la tesi su cui si basa un romanzo di Stefan Zweig, Il candelabro sepolto, scritto nel 1937 e pubblicato in italiano da Skira, per la prima volta autonomamente dagli altri scritti di Zweig, nel 2013 con una bella postfazione di Fabio Isman. In anni molto recenti, nel 2002, aveva per un momento rinforzato la tesi del Tevere la scoperta di una lapide nei giardini del Tempio secondo cui il candelabro sarebbe stato visto, all'inizio del V secolo, in fondo al Tevere a sud dell'Isola Tiberina. Un falso del XIX secolo, ha scoperto l'allora direttrice del Museo Ebraico, la scomparsa Daniela di Castro, creato forse per dar lustro alla già illustre storia degli ebrei a Roma. Il candelabro del Tempio continua ad restare inafferrabile.

(Avvenire, 13 maggio 2017)


Prestigioso settimanale medico dedica un'intera edizione alla sanità israeliana

di Nathan Greppi

 
Il settimanale britannico The Lancet, tra le riviste mediche più lette al mondo, ha recentemente dedicato un interno volume ai progressi e alle sfide della medicina israeliana.
Secondo Ynet, la cosa più sorprendente è che la stessa rivista, nel 2014, aveva attaccato duramente l'operato di Israele nel corso dell'Operazione Margine Protettivo, tanto che il direttore, il Prof. Richard Horton, pubblicò una "Lettera aperta per il Popolo di Gaza."
La lettera del Prof. Horton affermava che le politiche di Israele sono una disgrazia per la razza umana, e ciò gli ha attirato numerose critiche da parte di medici a livello internazionale.
Tuttavia, nello stesso anno Horton fu invitato a tenere un discorso all'Ospedale Rambam di Haifa, dove ha discusso con il direttore Karl Skorecki, il Prof. Rafael Beyar e il Prof. Mark Clarfield dell'Università Ben Gurion del Negev. Mentre era ancora in Israele, Horton ha deciso di indagare maggiormente sul sistema sanitario israeliano, e dichiarò di essere "profondamente pentito" delle sue precedenti affermazioni.
Sull'edizione di The Lancet, pubblicata lunedì 8 maggio in tutto il mondo, gli articoli su Israele sono stati suddivisi in tre macrosezioni: L'Università Ben Gurion, l'Istituto Nazionale Israeliano per la Ricerca Sanitaria, e l'Ospedale Rambam. In tutto sono comparsi dieci articoli scritti da medici e ricercatori israeliani che esplorano numerosi aspetti del sistema sanitario israeliano.
Oltre a elogiare i medici israeliani per il loro impegno, Horton ha riservato aspre critiche a coloro che vogliono boicottare gli accademici israeliani, affermando che il movimento BDS è inefficace e non avrà mai un impatto radicale sull'opinione pubblica. Infine, durante una conferenza stampa tenutasi a Tel Aviv, ha dichiarato che "Questo è l'inizio di una solida collaborazione."

(Mosaico, 12 maggio 2017)


"Il viaggio di Ashkeaz", Enrico Fink racconta il mondo ashkenazita

Nuovo incontro sulle 'edot' alla libreria Sognalibro

FERRARA - Mercoledì 17 maggio alle 18 presso la libreria Sognalibro di via Saraceno 43 si svolgerà un nuovo incontro sulle "edot" inserimenti dalla diaspora nella realtà culturale ebraica italiana: "Il viaggio di Ashkeaz", Enrico Fink racconta il mondo ashkenazita, coordina Rav Luciano Meir Caro.
Con il termine ashkenazim di origine biblica vengono designati gli ebrei insediatesi da secoli nei paesi dell'europa orientale. Analogamente a quanto è avvenuto per i sefarditi, hanno elaborato specifiche tradizioni in vari settori. La peculiarità più nota l'uso della lingua yddish.
A seguito di pesanti persecuzioni si sono diffusi in varie località, anche oltre atlantico. Prima della seconda guerra mondiale costituivano il 90 % della popolazione ebraica, oggi sono notevolmente ridotti di numero.

(estense.com, 13 maggio 2017)


Ritornano le tribù e sfidano l'ordine del mondo

"Così è nato il mio libro sulle identità locali che stanno sgretolando gli stati nazionali".

Maurizio Molinari presenta il suo nuovo libro «Il ritorno delle tribù» (Rizzoli) domenica 21, ore 12, Sala Rossa. Interviene il ministro dell'Interno Marco Minniti. Il saggio del direttore de «La Stampa», descrive un fenomeno che interessa tutto il mondo, da Londra a Erbil, da Washington a Roma, dal Cairo a Gerusalemme: il conflitto che ruota intorno al tribalismo. «Un vento della disgregazione che non solo travolge il mondo arabo ma spazza l'Europa spingendosi oltre la Manica e l'Atlantico, mettendo in crisi anche la stabilità del sistema liberale.

di Maurizio Molinari

 
Un kebab a Erbil, una conversazione a Washington, jalabiye libiche al Viminale ed una passeggiata per Gerusalemme: il libro Il ritorno delle tribù (Rizzoli) nasce «on the road», frutto della rapida sovrapposizione fra conversazioni con persone assai diverse e distanti, che per motivi divergenti hanno attirato, negli ultimi 18 mesi, la mia attenzione sullo stesso fenomeno. A Erbil, la maggiore città del Kurdistan iracheno, attorno ad un tavolo imbandito con mezzè libanesi caldi e freddi il «ministro degli Esteri» locale, Falah Mustafà Bakir, mi ha descritto il tramonto dell'Iraq generato artificialmente dagli accordi di Sykes-Picot nel 1916 come un fatto già avvenuto, digerito, sorpassato: «La guerra fra sunniti e sciiti dura da 1400 anni e non terminerà certo ora» perché si tratta di un «conflitto religioso fra tribù», pensare di risolverlo è irrealistico, meglio pensare di far «convivere le tribù sovrane» dando vita ad una «confederazione». Ovvero, il Medio Oriente sta andando dagli Stati nazionali alle entità tribali. A meno di 900 km di distanza, lungo la Rechov Yafo di Gerusalemme, seduto ai tavolini di «Pera e Mela» Mordechai Kedar, uno dei più seri analisti di Medio Oriente, parla la stessa lingua: «Le primavere arabe hanno segnato l'inizio del tramonto del nazionalismo arabo, si torna alle tribù». Per dimostrarmelo descrive la mappa della regione come un puzzle di novità: «Gli Stati arabi più stabili sono Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti perché composti da singole tribù; le guerre in Yemen, Siria e Iraq sono fra sunniti e sciiti; Isis nasce da una rivolta sunnita; in Libia re Idriss e Gheddafi hanno governato accordandosi, opprimendo le tribù» ed a ben vedere anche Israele in tale contesto «è stabile perché gli ebrei in fondo sono una tribù del deserto, benché forgiata dall'Occidente».
  A poche centinaia di metri da «Pera e Mela» c'è l'Hotel Notre Dame, punto di incontro fra i notabili palestinesi dei quartieri Est. Si vedono anche per parlare di matrimoni fra famiglie. Quelli più osteggiati sono fra arabi di Gerusalemme e Hebron: gli opposti clan sono rivali da quando gli antenati si dividevano fra contadini locali e beduini dell'Hijaz o della Siria. «Appartengono a tribù diverse» mi spiega Hanna Siniora, protagonista di oltre trent'anni di battaglie nazionaliste. La fedeltà ai capi della «hamulot» - grandi famiglie - nelle diverse città arabe della Cisgiordania è tale da portare Kedar a sostenere la teoria degli «Emirati palestinesi» ovvero trasformare Jenin, Nablus, Gerico, Gerusalemme Est, Hebron e Betlemme in una sorta di città-stato federate fra loro come lo sono gli Emirati Arabi Uniti «perché è così che, da sempre le tribù coesistono fra loro»: sovrane e federate.
  Spostandosi in Maghreb, il fenomeno non cambia. Lungo un grande tavolo dalle fattezze irregolari si sono ritrovati al Viminale una sessantina di leader tribali libici. Seduti per gruppi omogenei, ognuno nei propri abbigliamenti tradizionali, i capi di Tebu, Tuareg e Suleyman parlano dei rispettivi territori come realtà separate nello spazio del Sahara che noi identifichiamo come i confini della Libia con Algeria, Niger e Ciad. Chi li accoglie esprime l'interesse dell'Italia a fermare il traffico dei migranti da parte dei network criminali del deserto ed è un linguaggio che i leader in jalabiya comprendono perché si tratta di una minaccia comune. Quando si parla di tribù sono gli interessi concreti a fare la differenza, possono generare solide intese come innescare feroci conflitti. Ma ci sono anche le tribù d'Occidente. Il politologo di Harvard Joseph Nye e l'ex presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, protagonisti bipartisan nei centri studi di Washington, attribuiscono ai «bianchi senza titolo di studio del Mid-West e degli Appalachi» l'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca perché «la globalizzazione ha infierito su di loro ed ora sono in rivolta». E' una ribellione economica - non etnica o militare come avviene nel mondo arabo - ma comune ad altri Paesi dell'Occidente industrializzato: l'Inghilterra del Nord che ha voluto la Brexit, gli elettori delle campagne francesi che hanno votato Marine Le Pen, le periferie delle città italiane che hanno fatto vincere il «No» al referendum costituzionale e gli elettori dei partiti populisti in Olanda ed Austria condividono il rigetto nei confronti di istituzioni, partiti ed establishment a cui attribuiscono disagio, diseguaglianze, carenza di speranze. Certo, si tratta di tribù diverse: nel mondo arabo esprimono rivolte violente e in Occidente di ribellioni economiche. Ma in comune hanno l'avversario: gli Stati nazionali. E' un duello che attraversa il nostro tempo e contribuisce a definirlo, generando conflitti e leader di cui sentiremo parlare a lungo. Per questo non ho resistito alla tentazione di raccontarlo.

(La Stampa, 13 maggio 2017)


Roma: al Verano profanato il settore ebraico, danni a decine di tombe

Croci rotte, lapidi rovinate, stelle di David in briciole, lastre di marmo spaccate. L'allarme lanciato dai custodi. La banda sarebbe stata ripresa dalle telecamere al momento dell' irruzione.

di Fabrizio Peronaci

Allarme per un blitz dai contorni antisemiti al cimitero monumentale di Roma. Almeno dieci tombe sono state profanate nel settore ebraico del Verano da un gruppo di giovani entrati nella notte. Le telecamere avrebbero ripreso la banda al momento di fare irruzione, con il favore del buio, da uno degli ingressi laterali di via Tiburtina. La maggior parte dei danni riguarda tombe a terra: divelte croci e colonnine, ridotte in briciole stelle di David in travertino o altri materiali, frantumate lastre in marmo di copertura dei loculi, scaraventati a terra i vasi dei fiori. L'irruzione si è estesa anche ad altre aree, come quella del Pincetto e le confinanti, dove sono state danneggiate altre trenta o quaranta tombe, mentre nel viale dell'ossario, che costeggia il muro di cinta, decine di piccoli loculi a parete sono stati colpiti, con mazze di ferro o bastoni, provocando la rottura di vetrine, lumini, fotografie, suppellettili sacre. Grande lo sconcerto dei dipendenti del camposanto, al momento dell'apertura.

 Sopralluogo
  Sono stati i custodi ad allertare la direzione della struttura, che dipende dall'Ama, la municipalizzata rifiuti della capitale. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della vicina stazione di San Lorenzo. Il sopralluogo è durato ore, per tutta la mattinata è stato impedito l'accesso dei visitatori nelle zone interessate allo scempio. Transennati i sepolcri maggiormente lesionati o scoperchiati. In primo luogo, gli investigatori puntano a chiarire se i vandali abbiano preso di mira il settore ebraico premeditatamente, e quindi se si tratti di una incursione di stampo antisemita, oppure se la furia devastatrice abbia agito a caso.

 Manca la «firma»
  Non è la prima volta che accade. Nel 2008 al Verano venne profanata l'urna che custodiva le ceneri dei deportati nel campo di sterminio nazista di Mauthausen e sei anni prima, nel 2002, si verificò un precedente del tutto simile a quello di oggi, con una cinquantina di tombe danneggiate. In quel caso, la certezza che si trattasse di un raid ben studiato scaturì da un elemento preciso: vene presa di mira anche un'ara di famiglia di ebrei che si trova lontana dal settore ebraico. Corsi e ricorsi: l'orrore che si ripete. In queste ore, in mancanza di una «firma» del gesto criminale, i carabinieri sono tornati a setacciare metro per metro lo storico cimitero di Roma, in cerca di elementi che possano portare alla cattura dei profanatori.

(Corriere della Sera - Roma, 12 maggio 2017)


L'ambasciatore Usa chiede a Israele di cooperare con Washington per la pace

GERUSALEMME - A pochi giorni dalla visita del presidente Usa Donald Trump in Israele, sia l'ufficio del primo ministro israeliano, sia i funzionari palestinesi a Ramallah stanno provando a ipotizzare le proposte che il presidente Usa illustrerà loro per rilanciare il processo di pace. Lo scrive il quotidiano "Haaretz", che torna però ad esprimere scetticismo, sottolineando come a dieci giorni dal suo arrivo nei Territori palestinesi Trump abbia dato prova di entusiasmo e determinazione, ma non abbia ancora definito una strategia per riportare israeliani e palestinesi al tavolo delle trattative. Il nuovo ambasciatore Usa a Tel Aviv, David Friedman, ha tenuto parecchi colloqui nelle ultime settimane con diplomatici e funzionari israeliani, durante i quali ha ribadito che l'ambizione di Trump è giungere a mediare "un accordo di pace definitivo". Friedman, riferisce il quotidiano, ha sollecitato la leadership di Gerusalemme a sostenere gli sforzi della Casa Bianca e cooperare per garantirne il successo.

(Agenzia Nova, 12 maggio 2017)


«L'ambizione di Trump è giungere a mediare "un accordo di pace definitivo"». Israele può cominciare a tremare.


Le cinque trappole sulla strada di Netanyahu

di Yaakov Katz

Donald Trump nel suo primo viaggio da presidente degli Stati uniti come prima tappa sarà ad Israele il 22 maggio. E sarà un incontro molto importante per più di una ragione. Un incontro che potrà nascondere anche alcune insidie per Benjamin Netanyahu.
Proviamo ad inquadrare i cinque motivi principali e più scottanti.
  1. Trump dovrebbe chiedere a Netanyahu di rinnovare i negoziati di pace con i palestinesi e dare una sorta di ufficialità ai colloqui. Questo vuol dire che Netanyahu dovrà giocare a carte scoperte. Se inizia un dialogo di pace pieno, sarà costretto a rivelare il suo piano, compresi i confini che prevede per un futuro stato palestinese.
  2. Per riprendere con determinazione i colloqui di pace ripresi, Trump potrebbe chiedere a Netanyahu di fare concessioni anche prima che i colloqui inizino. E questo potrebbe significare, ad esempio, il congelamento nella costruzione di insediamenti o un rilascio di prigionieri (come avvenne nel 2013 quando il governo-Netanyahu venne fortemente messo sotto pressione dalla amministrazione Obama. E' vero che Netanyahu ha dichiarato che non sarà più d'accordo su alcun tipo di condizione preliminare. Ma se Trump dovesse forzare la mano…
  3. Ma tutto questo potrebbe creare dei problemi di politica interna per Netanyahu. Il leader di Bayit Yehudi Naftali Bennett, ad esempio, è pronto a sfruttare ogni possibilità per distinguere la sua politica da quella di Netanyahu, per avere maggiore visibilità. E' evidente che Bennett vuole prendere le distanze da Netanyahu e "prendersi" la leadership della destra. Il modo migliore e più facile per lo "strappo" sarebbe quello di uscire dal governo qualora Netanyahu facesse alcune concessioni ai palestinesi.
  4. Netanyahu si trova in una posizione molto difficile e delicata. Da sempre c'è un pessimismo diffuso sullo sfondo delle trattative di pace con la Palestina. E a Netanyahu preme di non essere percepito come l'uomo responsabile del fallimento delle trattative. E nello stesso tempo, comunque vada, vuole che Israele sia vista da Trump come Paese che ha fatto di tutto per conseguire la pace. Netanyahu dovrà muoversi con grande cautela. E l'imprevedibilità di Trump rende tutto più complicato.
  5. E poi c'è l'ultimo grande ostacolo, il dilemma finale. Può Netanyahu firmare l'accordo di pace ed essere ricordato nella storia come primo Premier che ha permesso l'istituzione di uno stato palestinese? A quanto dicono alcuni ministri del suo governo è un'eventualità che di certo non gli piace. Ma se i negoziati avranno successo e un accordo viene messo sul tavolo, Netanyahu dovrà prendere la decisione più difficile della sua vita. E questa è la sua più grande paura.
(Italia Israele Today, 12 maggio 2017)


"Ma se i negoziati avranno successo e un accordo viene messo sul tavolo..." Netanyahu perderà il governo e Abu Mazen perderà la pelle. E il testo dell’accordo sarà presto spazzato via dal tavolo. E’ in grado Trump di far rispettare un qualsivoglia accordo ad Hamas? Domanda semplice, ma sembra che nessuno dei mediatori se la ponga. Hamas non si discute: Hamas è. E’ la spina nel fianco di Israele che tale è e tale deve rimanere. A molti va bene così. E se riprenderà a far piovere missili su Israele, ci si farà dire da Amos Oz, David Grossman, Abraham Yehoshua e Moni Ovadia qual è stato l’errore di Netanyahu M.C.


You will love it

L'Onu convoca 400 ong in Arabia Saudita per un weekend di lusso e di silenzio sui dissidenti frustati.

di Giulio Meotti

ROMA - Perché rinunciare a un lungo weekend all'hotel a cinque stelle Four Seasons di Riad, dove ti aspettano "bagni di marmo con profonde vasche di immersione"? E' quello che devono aver pensato i 2.100 delegati di 400 organizzazioni non governative occidentali convogliate lo scorso weekend nel regno dell'islam per il forum mondiale "Youth and their social impact" organizzato dalle Nazioni Unite. Alle partecipanti del gentil sesso si chiedeva di "vestire pudicamente", possibilmente indossando l'abaya, il lungo abito scuro che maschera le donne saudite. Agli uomini si chiedeva di non dare mai la mano sinistra, "è considerata maleducazione" nell'islam, e "mai porgere la mano alle donne". L'evento è stato organizzato da una fondazione della famiglia regnante saudita e ha visto la partecipazione, fra gli altri, della segretaria generale dell'Unesco Irina Bokova, del fondatore di Wikipedia Jimmy Wales, del francese Jacques Attali e dell'executive di Bloomberg media, Justin B. Smith. Ovviamente perché la farsa funzionasse, tutte queste organizzazioni umanitarie dovevano ignorare che a pochi chilometri dal forum venivano perseguitati Abdullah al Attawi e Mohammed al Otaibi, "colpevoli" di aver fondato una organizzazione per i diritti umani. Le due star del giornalismo occidentale presenti, il capo di Wikipedia e il direttore di Bloomberg, dovevano da parte loro far finta che nelle carceri saudite non languisse un eroe della libertà di parola e di quella openness dell'informazione di cui Wikipedia si fregia di essere pioniera, Raif Badawi, blogger liberale preso a frustate dai regnanti sauditi. Guai a sollevare il caso di W aleed Abu al Khair, che sconta una condanna a quindici anni di carcere per alcuni commenti sui diritti umani. O del giornalista Alaa Brinji, condannato a cinque anni per aver criticato le autorità religiose e sostenuto i diritti delle donne. Un anno fa, i sauditi hanno messo dentro tutta la dirigenza della Saudi Civil and Politica! Rights Association per aver sostenuto le riforme pro democrazia. Di loro non si doveva parlare.

 La condanna delle altre ong
  Dura la condanna delle ong più coraggiose e non asservite. "Purtroppo, l'Unesco non ha parlato da nessuna parte nel suo settimo Forum internazionale delle ong o sul sito della conferenza che l'Arabia Saudita vieta le ong indipendenti e arresta, incarcera e addirittura frusta gli attivisti per i diritti umani", ha detto Hillel N euer, direttore di UN Watch. Il forum dell'Unesco è stato patrocinato dalla ricca fondazione MiSK, una charity guidata da Mohammad bin Salman, il ministro saudita della Difesa che ha guidato il bombardamento dello Yemen che ha ucciso 10 mila civili e imposto il blocco navale alle forniture mediche, "con venti milioni di yemeniti che ora hanno bisogno di assistenza umanitaria e sette milioni di persone che hanno fame". Secondo Neuer, "l'Onu ha mostrato disprezzo per gli eroici attivisti sauditi per i diritti umani arrestati, imprigionati o ingannati e ha dato un premio a un regime che vìola i diritti delle donne, insieme ai valori della democrazia, dell'uguaglianza e dello stato di diritto". Dura anche Human Rights Watch, che ha parlato di uno "schiaffo" agli attivisti dei diritti umani in carcere.
  Ma il forum di Riad dice anche di più.
Ci dice del livello di penetrazione dei regimi islamici nei consigli e nelle commissioni dei diritti umani dell'Onu. L'Unesco, infatti, in sei mesi ha approvato due risoluzioni che hanno cancellato le radici ebraiche di Gerusalemme, mentre i sauditi sono anche riusciti a farsi eleggere alla commissione Onu per i Diritti delle donne. L'ipoteca dei regimi della mezzaluna all'Unesco si potrebbe presto palesare. Il favorito per succedere a Irina Bokova è un politico del Qatar, è saudita quello destinato a diventare il portavoce della conferenza dell'agenzia dell'Onu, mentre sarà iraniano il capo del suo executive board. La chiamano la "troika islamica".
  Anche a questo servono le notti esclusive all'hotel Four Seasons di Riad, il cui motto è: "You will love it".

(Il Foglio, 12 maggio 2017)


Israele favorevole alla zona di de-escalation proposta da Russia ma con riserve

Le autorità israeliane hanno avvisato Mosca che Israele non sarà vincolato dall'iniziativa russa di istituire una zona di de-escalation in Siria, nelle quali sarà interdetto il volo dell'aviazione militare. Lo ha rifertio "Al Arabiya".
Tel Aviv ha accolto con favore l'istituzione di una zona di de-escalation nella parte meridionale della Siria, vicino al confine con Israele e Giordania. Tuttavia Israele si riserva la possibilità di intraprendere azioni militari in caso di necessità ovvero nei casi in cui sia a rischio la sicurezza nazionale.
Il tema della creazione della zona cuscinetto in Siria, secondo i media israeliani, è stato discusso in una conversazione telefonica tra il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. L'ufficio stampa del Cremlino ha comunicato solo che Putin e Netanyahu hanno discusso "la situazione del processo di pace in Medio Oriente ed i problemi della crisi siriana". I media israeliani hanno sottolineato che il primo ministro nel corso del colloquio ha detto che Israele non tollererà la presenza dell'Iran in Siria.

(Sputnik, 11 maggio 2017)


Arriva dall'Israele una donazione a favore degli agricoltori e allevatori colpiti dal sisma

Lo rende noto la Coldiretti che ha ricevuto l'assegno nel sottolineare la costante vicinanza dell'Ambasciata di Israele per alleviare le sofferenze

Gelo nelle zone del sisma
ASCOLI PICENO - Il popolo di Israele attraverso il proprio Ambasciatore in Italia Ofer Sachs ha inteso fare una donazione a favore degli agricoltori e degli allevatori colpiti dal terremoto.
Lo rende noto la Coldiretti che ha ricevuto l'assegno nel sottolineare la costante vicinanza dell'Ambasciata di Israele per alleviare le sofferenze degli agricoltori delle quattro regioni colpite, fin dalle prime scosse. Una attenzione che giunge da un paese come Israele che ha fatto dell'agricoltura un elemento centrale della propria storia, cultura e alimentazione.
"Siamo sinceramente grati per l'importante gesto di solidarietà che ci sostiene nell'impegno per la ripresa di aree a forte vocazione agricola" ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel sottolineare che "si tratta di un gesto importante di amicizia e di incoraggiamento per le migliaia di agricoltori che non vogliono abbandonare il territorio nonostante le pesanti difficoltà che si continuano a vivere a nove mesi dal sisma".

(Piceno Oggi, 11 maggio 2017)


Hamas dimostri di essere cambiata

di Vittorio Emanuel Parsi

Il governo di Netanyahu ha già gridato all'inganno, sostenendo che la nuova «Carta costituzionale» di Hamas mira solo a intorbidire le acque, ma non cambia la sostanza dell'obiettivo finale del movimento islamista palestinese: la distruzione dello Stato ebraico.
   Si tratta di una reazione prevedibile, da parte di uno degli esecutivi israeliani più scettici verso il dialogo con i palestinesi, da quando gli Accordi di Oslo sono stati firmati. E non c'è dubbio che margini di ambiguità esistono nel nuovo «Statuto», che per la prima volta rivendica come confini dello Stato palestinese quelli del 1967, senza però riconoscere lo Stato ebraico. E non è questa l'unica novità della Carta identitaria di Hamas, al governo della Striscia di Gaza da quando, nel 2006, vinse corrette elezioni politiche. Sparisce ogni riferimento alla Fratellanza musulmana, di cui Hamas è storicamente un'emanazione, così come viene esplicitata la differenza tra «sionisti occupanti» e semplici ebrei.
   Ovvio che a Israele tutto ciò non basti: il riconoscimento del diritto a esistere è il minimo che uno Staro possa pretendere dai vicini. Oppure non sia utile: la distinzione tra sionismo e religione ebraica, storicamente ineccepibile, è politicamente indigesta per il governo di Tel Aviv
(e i confini del 1967 è lo stato di Israele per primo a non riconoscerli più). Tutto ciò premesso, la questione è perché Hamas ha scelto di fare un simile passo e quanto sia opportuno o meno ignorarlo. In questa direzione possono essere senza dubbio fornite spiegazioni di natura tattica: la necessità per Hamas di uscire dall'isolamento internazionale e dalla lista dei gruppi terroristici, che lo rende troppo facilmente assimilabile allo Stato islamico, che invece per il movimento palestinese rappresenta un insidioso competitore. Alla stessa categoria si iscrive la presa di distanza dai Fratelli musulmani, arcinemici del presidente egiziano al Sisi, con cui volente o nolente la dirigenza di Hamas deve fare i conti.
   Ma non è detto per nulla che passi sia pur motivati da ragioni tattiche non possano produrre cambiamenti strategici, se non vengono lasciati cadere nel nulla da parte della comunità internazionale. Comunità che ha tutto l'interesse a distinguere tra le tante organizzazioni armate del Medio Oriente e a favorire l'evoluzione politica di Hamas, piuttosto che lasciarla marcire e contagiarsi nel calderone del «terrorismo jihadista». In fondo, anche l'Olp all'origine praticava la strada della violenza. Ed è stato proprio l'incoraggiamento a intraprendere una strada diversa, con il riconoscimento degli sforzi attuati, ad averne cambiato profondamente la natura. «Le parole sono pietre» recita l'antico adagio: è vero ovunque e lo è ancora di più in Medio Oriente, dove nessuna dichiarazione lascia il tempo che trova. O ci siamo dimenticati l'eco disastroso delle parole di Benjamin Netanyahu, quando durante la campagna elettorale affermò che non avrebbe mai applicato gli Accordi di Oslo? Quelle di Hamas non sono ancora parole di pace, ma se non altro vanno nella giusta direzione. Sarebbe un delitto politico sottovalutarle.

(Panorama, 12 maggio 2017)



In risposta a questo articolo, Emanuel Segre Amar ha inviato al direttore di Panorama una lettera che ci ha fatto pervenire per conoscenza.

Signor Direttore,
Parsi non può non sapere che gli Accordi di Oslo che lui ha citato neanche si fosse trattato di un testo sacro, non sono mai stati ratificati dall'OLP ma nell'articolo c'è anche di peggio. Nell'articolo Parsi scrive che l'OLP solo all'origine praticava la strada della violenza cercando di far passare come dato di fatto una menzogna perché la strada della violenza da parte dell'OLP, di Fatah e degli attuali dirigenti dell'ANP continua come un moto perpetuo apparentemente inarrestabile. Mi chiedo e le chiedo: gli attentati, accoltellamenti, bombe molotov e sassate lanciate sulle auto di passaggio, investimenti volontari sulle strisce pedonali o alle fermate degli autobus, sono finiti? I familiari dei terroristi uccisi dalle forze di sicurezza israeliana non ricevono forse dall'ANP ricche pensioni solo perché i loro 'martiri' hanno portato violenza contro gli israeliani? Terroristi assassini non sono tuttora esaltati dal leader di Fatah, pure leader dell'OLP? La triste realtà è che gli atti di violenza non sono diminuiti, quelli che hanno avuto una flessione drastica sono stati gli attentati dei terroristi suicidi che si facevano saltare in aria nei bar o nei ristoranti cercando di mietere quante più vittime possibili fra i civili israeliani. Questo dato, questa flessione, lo dobbiamo ai leader arabi-palestinesi dopo la firma di Oslo o è il risultato della costruzione del muro di difesa voluto da Ariel Sharon? Parsi non può non sapere che all'indomani della firma del trattato di Oslo Arafat ricordò, a chi lo criticava e gli chiedeva spiegazioni, che anche Maometto aveva firmato una tregua per potersi rinforzare quando poi, rotta la tregua, poté sbaragliare il nemico. Perché di fatto, caro direttore, nel mondo arabo la pace non esiste, esistono solo delle tregue momentanee che servono a prepararsi a una nuova guerra. Questo lo so io, lo sai lei e lo sa anche Parsi. Dare poi credito al cambio di parole "sionisti occupanti e semplici ebrei" in un contesto come quello mediorientale è segno di profonda incompetenza o, peggio ancora, di malafede. Non so quale delle due mi metta più paura, perché non si può dare credito ad una organizzazione che nel suo statuto ricorda le parole del Corano che ordinano di uccidere fino all'ultimo ebreo che si nasconde dietro una pietra. Non credo che una testata importante come Panorama possa concedere una "patente di democrazia" ad Hamas (vinse corrette elezioni politiche, scrive!) dimenticando tout court il colpo di stato manu militari che Hamas ha fatto contro Fatah all'indomani delle elezioni, le uccisioni dei suoi leaders nella striscia di Gaza. Non si può altresì nascondere sotto quale tallone militare la popolazione della striscia è costretta a vivere dai quei giorni, per non parlare dello scempio e sperpero che i vertici dell'organizzazione fanno degli aiuti umanitari e dei milioni di dollari in contanti che arrivano da tutto il mondo. Milioni di dollari che dovrebbero finanziare la costruzione di infrastrutture e che invece sono impegnati nell'acquisto di armi di tutti i tipi e nella costruzione di tunnel in una guerra che sta logorando da decenni una popolazione intera. Per finire voglio anche dirle che Parsi non può nascondere le parole del potente leader di Hamas Mahmoud Al-Zafar che ha affermato che l'ottenimento di uno stato palestinese serve a "conquistare definitivamente tutte le terre palestinesi", fino all'ultimo centimetro e questo significa voler distruggere completamente lo Stato di Israele. Nascondere dichiarazioni di questo tipo denota mancanza di onestà intellettuale. Israele è una democrazia moderna e Benjamin Netanyahu ne è il suo Primo Ministro. Parsi è liberissimo di non amare questo uomo politico, anche di odiare Israele, ma non di far passare false verità come dati di fatto, e meno che mai non può farlo infangando le pagine di Panorama.
Distinti saluti,
Emanuel Segre Amar


Danimarca, la comunità ebraica denuncia l'imam di Copenaghen: "Incita all'antisemitismo"

La comunità ebraica danese ha citato in giudizio l'imam Mundhir Abdallah che nelle sue preghiere nella moschea Masjid Al-Faruq nel quartiere popolare di Copenaghen di Norrebro, collegata dai media all'estremismo islamista, ha istigato allo sterminio degli ebrei. In particolare l'imam ha citato un racconto (hadith) della vita del Profeta Maometto il 31 marzo scorso chiedendo ai musulmani di sollevarsi contro gli ebrei. "Il giorno del giudizio non avverrà fino a quando i musulmani non combatteranno e uccideranno gli ebrei" si vede Abdallah affermare in un video su YouTube-. Secondo la rete locale DR, Omar al-Hussein, che uccise a febbraio 2015 due persone nella capitale, aveva visitato la stessa moschea prima di compiere l'attentato. Il danese di origini palestinesi aveva giurato fedeltà ad Isis prima di uccidere una persona ad un centro culturale e poi un ebreo all'esterno di una sinagoga. Alla fine venne eliminato dalla polizia.

(Libero, 12 maggio 2017)


"Jerusalem Post": cresce l'attrattiva del settore tecnologico per i capitali cinesi

GERUSALEMME - Gli Stati Uniti sono ancora la meta privilegiata degli investimenti cinesi nel settore tecnologico, ma i crescenti ostacoli normativi incontrati negli Usa stanno spingendo gli investitori cinesi a guardare con sempre maggiore interesse verso Israele. Lo riferisce il quotidiano "Jerusalem Post" che sottolinea come già dallo scorso anno la prima economia mondiale abbia adottato regolamenti e politiche di orientamento protezionistico, ostacolando le aziende cinesi decise a investire negli Stati Uniti per ampliare il loro know-how tecnologico e aprirsi a nuovi mercati. L'anno scorso, sottolinea il quotidiano, gli investimenti cinesi in Israele sono più che decuplicati, raggiungendo un valore record di 16,5 miliardi di dollari. Tra le principali beneficiarie degli investimenti, start-up israeliane dei settori del web, della sicurezza informatica e della tecnologia medica. Anche se il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha definito Israele "partner ideale" per la Cina nel campo dello sviluppo tecnologico, Gerusalemme ha anche espresso preoccupazione per l'acquisizione cinese di asset finanziari chiave, ad esempio nel campo assicurativo.

(Agenzia Nova, 11 maggio 2017)


Il più longevo TG d'Israele chiude tra proteste contro il governo

Chiude authority per le trasmissioni. Accuse al premier: "Influenza la stampa"

Un'ultim'ora con la quale la conduttrice, Geula Even, ha spiegato ai suoi spettatori che la trasmissione d'informazione avrebbe chiuso, per via di una riorganizzazione delle trasmissioni pubbliche decisa dalle autorità in Israele e che sta scatenando molte proteste nel Paese.
"Voglio ringraziare le persone che hanno lavorato qui - ha detto in lacrime la Even -, questa è stata la mia casa per molti anni. Vi ho trascorso momenti difficili, ma per lo più grandi. Ora in molti perderanno il loro lavoro, spero che ne trovino di nuovi. E spero che le trasmissioni continuino, ancora più forti, anche se in un formato differente".
Ai dipendenti di Un occhio alle notizie non è stato dato un grande preavviso. Il governo di Benjamin Netanyahu ha comunicato la chiusura del programma, che andava in onda dal 1968, soltanto un'ora prima, mentre in Israele in centinaia protestano contro la chiusura della Autorità per le trasmissioni (Iba), accusando le autorità di voler influenzare la stampa con pressioni politiche.
"È successo più in fretta di quanto pensassimo - ha commentato il conduttore Michal Rabinovich -. Pensavano di separarci (dagli spettatori) in un modo un po' diverso". Da mesi Netanyahu spinge per la chiusura dell'Iba, che ritiene necessaria per far procedere un paio di riforme del settore pubblico, mentre la stampa lo accusa di voler mettere a tacere le notizie che considera sgradite.

(il Giornale, 11 maggio 2017)


Israele, la redazione del TG chiuso in diretta canta l'inno nazionale

Nel giorno della chiusura del TG di Channel 1, la redazione si è riunita al completo, in diretta, per parlare della fine del loro programma. Al termine delle trasmissioni lo staff ha cantato l'inno nazionale israeliano. Il programma di news aveva ricevuto la notizia della sua chiusura, in diretta, mentre conduceva la giornalista Geula Even, che ha comunicato la decisione del Parlamento israeliano con la voce rotta dall'emozione.

(la Repubblica, 11 maggio 2017)


Ebraismo e biotestamento: tra autonomia della persona e legge

Il difficile slalom tra religione e fine vita secondo il rabbino Di Segni

ROMA - "Non si può far nulla per accelerare il decesso di una persona, che non è padrona del suo corpo". Parte da qui Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, conversando con il Foglio sul rapporto tra la religione e il fine vita. Tema scivoloso, specie per i risvolti che ha sull'attualità, come dimostrano i recenti casi di cronaca. Se ne è parlato ampiamente ieri sera al Centro ebraico "Il Pitigliani'', in uno degli incontri del ciclo "Corpo e Spirito" organizzati dall'Ospedale israelitico di Roma.
   Assieme a Di Segni, sono intervenuti Giulio Maira, neurochirurgo dell'Istituto Clinico Humanitas di Milano e Giuseppe Remuzzi, ordinario di Nefrologia alla Statale di Milano e autore del libro La scelta. Per quanto riguarda la religione ebraica, osserva il rabbino capo, "è consentito, con tutta una serie di paletti e distinzioni, rimuovere gli impedimenti artificiali che prolungano l'agonia. Il medico, infatti, ha sì il dovere di curare il malato, ma non di prolungarne l'agonia. E' uno slalom difficile". Il problema è culturale, in fin dei conti: "Si è verificata una modificazione del pensiero etico, per cui si è passati da un regime di paternalismo assoluto medico a un regime in cui si rivendica l'autonomia della persona". E questo è in conflitto con i princìpi religiosi ebraici? "Potrebbe sembrare di sì, ma in realtà la questione è assai più complessa. Esistono tanti dubbi sulla validità delle cure e poi c'è la necessità di tutelare il diritto della persona di non soffrire". Princìpi e desideri umani che si scontrano in un conflitto che, nella realtà, "è più teorico che pratico", sottolinea ili Segni. E allora l'ebraismo sembra essere più flessibile, più aperto rispetto alla posizione cattolica, che questo conflitto non lo contempla: "Il pensiero ebraico si muove lungo le sue strade e in alcuni casi non si identifica affatto, sul tema del fine vita, ad esempio, con la dottrina cattolica". Dove? "C'è una pluralità di opinioni, cosa che invece non risulta nel cattolicesimo, dove è presente un'autorità centrale.
   E', direi, una questione di metodo: nell'ebraismo non c'è un'opinione definitiva". Ma perché il "conflitto" di cui Di Segni parlava, è esploso negli ultimi anni? E' solo un cambiamento culturale? "Il fatto è che la tecnologia ci pone davanti a problemi che un tempo non esistevano. E' sufficiente pensare alla definizione stessa della morte. Qualche decennio fa, una persona che incorreva in un incidente cerebrale aveva poche possibilità di sopravvivere. Oggi, con le macchine, la morte cerebrale, la morte cardiaca e quella polmonare sono scindibili". Da qui nascono i dibattiti nel campo della bioetica, l'evoluzione della quale fa sì che - nella religione ebraica, almeno - vi sia chi interpreta un dato fatto in un certo modo e chi lo fa in un altro. "Fa parte del sistema", dice il rabbino capo. Da Riccardo ili Segni, che è anche medico cardiologo, nessuna opposizione al disegno di legge sul biotestamento di recente approvato dalla Camera. "In quel testo ci sono punti molto interessanti e altri problematici. Innanzitutto, questa legge si basa sul principio di autonomia del paziente e, in relazione a questo, abbiamo già visto quali sono i problemi che insorgono". Vanno bene le Dichiarazioni anticipate di trattamento, le celebri Dat che nel mondo cattolico hanno scatenato reazioni negative: "Dare disposizioni, per l'ebraismo, è una cosa buona, non per forza di cose negativa. Il problema, si potrebbe dire, non è quello di dare o non dare disposizioni riguardanti la propria persona. Il problema è cosa si dispone". Anche qui, una differenza d'approccio con la dottrina cattolica. "E in questo campo l'Italia arriva pesantemente in ritardo", chiosa ili Segni. Altro aspetto importante del provvedimento è la sedazione profonda, mentre "Il punto dolente è rappresentato dalla sospensione di idratazione e nutrizione. Questo, per la legge ebraica, non è assolutamente lecito", ed è qui che il giudizio sul disegno di legge si fa negativo. (mat.mat)

(Il Foglio, 11 maggio 2017)


"Il problema è culturale, in fin dei conti", dice l'articolista. No, in fin dei conti il problema è teologico. Ma questo, i colloquianti non lo vogliono dire perché i dibattiti di questo tipo sono tanto più interessanti quanto più si evita di affrontare il nocciolo vero della questione. E il nocciolo della questione in fatti che riguardano la nascita e la morte si esprime in una semplice domanda: esiste un Dio che fa nascere e morire? Sì o no? Se sì, e almeno il rabbino dovrebbe essere d'accordo su questo, qual è la sua volontà? Domande conseguenti: esiste una vita dopo la morte? se sì, dopo il decesso lo stato del defunto sarà migliore o peggiore di quello precedente? Questa seconda domanda è importante proprio in merito all'eutanasia, perché ne fa nascere un'altra: se il malato terminale di cui si ha compassione e di cui si vuole affrettare la fine delle sofferenze, dopo la morte avesse a soffrire più di prima, sarebbe amorevole affrettarne il passaggio all'altra vita senza porsi altre domande? Il laico incredulo potrà negare la realtà di un'esistenza dopo la morte dicendo che non vi sono prove in merito, ma certamente non vi sono prove neanche del contrario. Che il laico discuta di un argomento come questo ignorando il nocciolo della questione o dandogli tacitamente una risposta arbitraria, si capisce; è meno comprensibile che questo nocciolo sia evitato da un religioso che dice di credere in Dio. E' interessante per noi occidentali sederci intorno a un tavolo e colloquiare sul tema della morte, mettendo a confronto pensiero laico, pensiero ebraico, pensiero cattolico, aggiungendovi magari qualche altro pensiero di nuovo conio, perché in questo modo si mantiene alto il volume di un chiacchiericcio tra uomini che impedisce di pensare al fatto che ci potrebbe essere un Dio che ha qualcosa da dire a proposito di morte. A noi, uomini mortali. M.C.


«Non usare l'antisemitismo per colpire la nuova destra»

Lettera al Corriere della Sera. Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
all'indomani delle elezioni francesi vorrei denunciare la strumentalizzazione dell'orrore per scopi politici. Ritengo un'offesa usurpare la sofferenza degli ebrei e di tutte le vittime del nazismo paragonando la Le Pen, Wilders, Hofer, Orban a Hitler o accostando le loro idee politiche al nazionalsocialismo. L'intento politico è creare sensi di colpa nell'elettorato, demonizzando ogni pensiero di destra o diverso dalla linea dettata degli intellettuali «politically correct». Un conto è dire «populista», termine vago. Ma dire «xenofobo», «razzista», «antisemita» colpisce di proposito la coscienza degli elettori speculando per puro calcolo sulla pelle di milioni di vittime. Preciso che non sono di destra, sono un liberale tedesco con origini ebree.
Robert Resmann, Milano


Caro Robert,
sono abbastanza d'accordo con lei, con un distinguo che le dirò. Troppo spesso ci accaniamo in confronti con il passato che non hanno nessuna ragione di essere. Ricordo un bel pezzo di Gian Antonio Stella che ricordava con quale frequenza i protagonisti della politica italiana si insultassero dandosi reciprocamente dello Stalin e del Goebbels, senza rispetto per le vittime e senza senso del ridicolo. La storia non si ripete mai, neppure come farsa. Guardare la modernità con gli occhiali del passato distorce le immagini, non ci aiuta a capire, ci fa commettere errori.
È sbagliato ad esempio leggere l'ascesa del Front National in Francia con la categoria del fascismo, o anche solo del collaborazionismo di Vichy. Le Pen padre è semmai figlio dell'Algeria francese. La figlia rientra nella corrente antiglobalista che percorre altri Paesi. Ha sbagliato però a negare la responsabilità della Francia nella persecuzione degli ebrei, riconosciute per la prima volta da Chirac. Lei si è difesa ricordando che de Gaulle considerava Vichy «nul et non avenu»; sulla stessa linea era Mitterrand, che rivendicò sino alla fine l'amicizia con il capo della polizia René Bousquet.
In questo discorso però, caro Robert, l'espressione «politicamente corretto» non c'entra nulla. Un conto è la mania linguistica, il rigorismo che toglie sincerità, il formalismo vacuo, l'eccesso di zelo che alla fine risulta controproducente. Ma l'altro giorno un lettore confondeva il politicamente corretto con l'antifascismo. Questo è sbagliato. E rischia di confondere le nuove generazioni, che del '900 non sanno molto e quel poco l'hanno appreso online.

(Corriere della Sera, 11 maggio 2017)


In terza media rivive la Storia con ebrei e siriani

di Valeria Strambi

Aprire la porta di una classe di terza media e trovarsi catapultati in un girone dantesco. Attraversare i corridoi, entrare nella classe successiva e in quella dopo ancora e rendersi conto di essere all'inferno. Solo che in questo caso gli inferni sono due e a fare da guida non e' è Virgilio, ma uno studente che accompagna i genitori in un viaggio itinerante dentro la storia contemporanea. La recita di fine anno alla scuola Dino Compagni di Firenze diventa uno straordinario spettacolo teatrale. Occasione per far rivivere il racconto di Federico Benadì, ebreo fiorentino sopravvissuto alle persecuzioni della Seconda guerra mondiale, ma anche un impulso a far riflettere sulle persecuzioni di oggi con la vicenda vera di una famiglia siriana fuggita dalla guerra e rifugiata in Toscana.
   Il progetto "Memoria, le radici del futuro", che ha debuttato la scorsa settimana e sarà riproposto alle famiglie domani pomeriggio alla presenza di Benadì e dei rifugiati della Siria, coinvolge tutti gli studenti delle sette terze medie dell'istituto. Più di 140 ragazze e ragazzi che, da ottobre, hanno iniziato un percorso fatto di ascolto delle testimonianze, scrittura della sceneggiatura, realizzazione di video e disegni e prove di canti e balli. Dietro le quinte gli insegnanti di italiano, storia dell'arte, musica, informatica, matematica ed educazione fisica, coordinati dal tocco professionale dell'attore e regista Giovanni Micoli. «È uno spettacolo diverso, mai un progetto scolastico ha osato tanto - racconta Micoli- il pubblico viene trascinato dentro la storia e ne diventa protagonista. Gli spettatori s'immedesimano in un Federico Benadì entusiasta, da piccolo, per l'arrivo di Mussolini. Ne condividono la sofferenza quando il professore legge dalla cattedra il regio decreto che dispone la cacciata degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche. Provano paura con lui mentre vive da invisibile nelle campagne fiorentine per sfuggire alla cattura. Addirittura, c'è un momento in cui devono sventolare le bandierine con la svastica nazista perché l'ordine è accogliere con gioia l'arrivo di Hitler a Firenze». Le tappe del viaggio sono 12 e 12 sono le scene riprodotte dagli studenti che recitano, ballano, cantano e suonano gli strumenti dal vivo. «A rendere speciale lo spettacolo è la sua trasversalità - commenta la preside, Lucia Bacci - con l'insegnante di italiano hanno realizzato i testi, con quello di musica i canti ebraici e con quello di matematica hanno smontato la 'teoria scientifica del concetto di razza'».

(la Repubblica - Firenze, 11 maggio 2017)


«Erdogan è più affine all'Europa di quanto si pensi»

di Andrea Marcenaro

E' di ieri una notizia che la stampa italiana tratterà di sguincio, quantunque un suo interesse ce l'avrebbe. Recep Tayyp Erdogan, il presidente, chiamiamolo perentorio, della Turchia, il quale appena il giugno scorso aveva ristabilito relazioni diplomatiche con Israele, ha detto che "Ankara lavorerà con il popolo palestinese per impedire la giudeizzazione di Gerusalemme". Ha proseguito invitando "i musulmani di tutto il mondo a recarsi a visitare in massa la moschea di Al Aqsa (sul monte del Tempio di Gerusalemme, ndr), perché ogni giorno di occupazione rappresenta per noi un insulto". E ha concluso la sua giornata accusando Israele di "uccidere bambini". Quisquilie? Può darsi. Ma forse è bene saperle, queste cose, Erdogan è più affine all'Europa di quanto si pensi e si dovrebbe riconsiderarne l'ingresso. Sull'antisemitismo, per dire, qualche sconsiderato lo bollava più indietro della Svezia.

(Il Foglio, 11 maggio 2017)


Ebrei e musulmani insieme: il make-up senza barriere

La vicenda di Mesauda, azienda che ha scelto di assumere persone di etnia differente

di Barbara Millucci

Mesauda in arabo vuol dire fortuna. Ma è anche il nome di una giovane, brillante e dinamica azienda di make up romana che esporta e vende rossetti, gloss e ombretti in tutto il mondo. L'hanno ideata 3 fratelli, attorno ai 40 anni, di religione ebraica, nati a Tel Aviv ma che, come mission, hanno scelto di assumere dipendenti per lo più musulmani, induisti, russi e filippini. Una grande famiglia dove nessuno si deve sentire escluso.
   «Volevamo dare un'impronta internazionale al gruppo cosmetico - racconta il Ceo Amit Buaron - per questo i 24 nostri dipendenti, di cui la metà donne, arrivano dal Pakistan, Bangladesh, Marocco, Russia e Filippine. I musulmani, ad esempio, durante la pausa pranzo hanno un loro spazio dedicato per pregare. E se le donne decidono di indossare il velo non è un problema. Noi, d'altro canto, abbiamo la nostra cucina Kosher. Ognuno in azienda rispetta il diverso, l'altro».
   All'indomani della risoluzione dell'Unesco che di fatto nega la sovranità di Israele su una parte di Gerusalemme (l'Italia è tra i paesi che hanno votato contro) dinanzi ad una testimonianza imprenditoriale importante come quella di Mesauda crolla ogni barriera culturale. «Siamo nati nel 2007 con l'idea di creare una linea make up per trucchi e cosmetici di alto lusso accessibili a un pubblico ampio - aggiunge l'ad - siamo partiti senza grosse risorse. Oggi, però, siamo presenti in tutta Italia e distribuiamo in 20 paesi, per lo più in Medio Oriente, con una rete vendita sempre in espansione». Ad aprile, il Financial Times ha inserito Mesauda Milano tra le mille compagnie europee cresciute più velocemente nel triennio 2012-2015. I 3 fratelli Buaron, tutti e tre con una laurea in tasca presa alla Sapienza di Roma, fatturano 12 milioni in giro per il globo, quasi il doppio di due anni fa. In questo caso i frutti sono visibili anche nelle tante nuance e nell'offerta make up che l'azienda melting pop propone al mercato. «Creiamo noi stessi le formulazioni di ciprie e polveri che vengono poi prodotte e confezionate per conto terzi».
«Stiamo inoltre per ottenere la certificazione halal sui nostri cosmetici, adatta per le donne orientali. Le musulmane prediligono fondotinta molto chiari, usano tanto kajal che ritengono sia d'aiuto contro il malocchio, ed abbiamo lanciato una linea moda adatta alle pelli scure». Pew Research Center stima che solo in Italia le potenziali consumatrici di make up halal passeranno dai due milioni di oggi al doppio entro il 2030. «Le donne ebree, invece, non si truccano molto. Chi lo fa tende ad usare prodotti a lunga durata visto che durante la festività dello Sabbath non è permesso truccarsi». Scelgono rossetti indelebili e smalti semipermanenti di lunga tenuta che possono reggere dal venerdì alla domenica. Prossimi passi: sbarcare nell'e-commerce. Per sentirsi davvero integrati.

(Corriere della Sera Beauty, 11 maggio 2017)


I Giusti di Besleney

di Angelica Edna Calò Livne

Grande emozione nell'Alta Galilea per il conferimento del Premio Begin al Liceo Anne Frank per l'innovazione negli studi sulla Shoah. Da quattro anni gli allievi delle classi superiori partecipano a un progetto ispirato alla "ricerca del significato della vita" di Victor Frankl. Quest'anno il tema principale dei lavori dei ragazzi è stato il caso degli orfani ebrei di Besleney, un villaggio di semplici e onesti agricoltori del Caucaso, in un'area abitata dai popoli circassi. "Quando il pericolo nazista minacciò Leningrado si decise di evacuare i bambini ebrei", scrive Auron nel suo libro La banalità della compassione, storia del villaggio circasso-musulmano nel Caucaso che salvò i bambini ebrei durante la Shoah. È una storia quasi sconosciuta, una storia di donne e di madri che va diretta al cuore. "Il 10 aprile 1942, un convoglio di bambini partì da alcuni orfanotrofi della città. Furono caricati su treni merci e vagarono per quattro mesi sulle strade delle montagne del Caucaso pensando che i tedeschi non avrebbero conquistato la zona. Negli ultimi giorni del luglio 1942, i tedeschi bombardarono il treno e molti bambini rimasero uccisi. I superstiti giunsero al villaggio e i primi che li accolsero furono i bambini. Videro che erano stanchi e malati, cercarono di comunicare con loro ma i bambini di Leningrado non rispondevano. Erano 32 bambini ebrei. 32 madri di Besleney, al ritorno dal lavoro nei campi, li presero tutti con loro nelle proprie case, con le loro famiglie. La mattina del giorno successivo i soldati tedeschi irruppero nel villaggio. Sospettavano che vi fossero ebrei, li cercarono dappertutto e minacciarono di bruciare il villaggio con tutti i suoi abitanti, se avessero trovato un solo bambino ebreo. Durante i 152 giorni in cui i soldati tedeschi rimasero nel villaggio, nessuno denunciò i bambini.
Nel Liceo Anne Frank, situato a Sasa, studiano ragazzi dei villaggi, kibbutzim e moshavim dell'Alta Galilea. Anche del villaggio circasso Richania. Martedì prossimo si svolgerà a Sasa una serata di gala in onore di questo altro piccolo nuovo luccicante gioiello di umanità che si aggiunge alla preziosa lista di "Giusti tra le nazioni" ai quali dobbiamo la nostra vita.

(moked, 10 maggio 2017)


Conversazione telefonica di Putin con il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu

MOSCA - Su iniziativa di Israele, Vladimir Putin ha avuto una conversazione telefonica con il Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu.
Mr Netanyahu si è calorosamente congratulato con Putin e con tutto il popolo russo sul 72o anniversario della vittoria nella seconda guerra mondiale.
Entrambi i leader hanno notato che la Russia e Israele avrebbero continuato la loro decisa opposizione ai tentativi di rivedere i risultati della seconda guerra mondiale, diminuire il contributo dell'Unione Sovietica alla vittoria sulla Germania nazista, e negare l'Olocausto.
Putin e Netanyahu hanno discusso attuali questioni di cooperazione bilaterale, la situazione con l'insediamento di pace in Medio Oriente e la crisi siriana.

(AGENPARL, 10 maggio 2017)


Gino Bartali, ciclisti israeliani pedaleranno su quei 185 km che salvarono 800 ebrei

di Franca Giansoldati

Il mito di Gino Bartali, il suo cuore grande, il coraggioso esempio di Giusto delle Nazioni per avere salvato 800 ebrei con la sua bicicletta, nascondendo nel tubo sotto la sella documenti falsi, saranno celebrati da una squadra di ciclisti israeliani. La prima squadra professionistica israeliana di ciclismo, la Israel Cycling Academy, vuole rendere omaggio alla memoria di Ginettaccio, che sotto il nazifascismo, dal 1943 al 1944, per aiutare gli ebrei perseguitati, pedalò per 195 chilometri da Firenze ad Assisi per trasportare documenti falsi, preziosi per dare una nuova identità a gente perseguitata.
A guidare gli atleti israeliani, il 16 maggio, sarà il team manager Ran Margaliot, che ha fortemente voluto questa iniziativa. «Mio nonno è stato uno dei primissimi ricercatori dello Yad Vashem - racconta Margaliot - Da lui ho appreso che non bisogna dimenticare i torti subiti, ma al tempo stesso che bisogna dare evidenza alle azioni meritorie». La missione di Bartali rientra in questa categoria.
L'autunno del '43 fu uno dei momenti più terribili della guerra. Bartali iniziò a trasportare documenti falsi da Assisi, dove c'era una stamperia clandestina, al vescovo di Firenze che poi li distribuiva agli ebrei per farli espatriare. Percorreva 185 chilometri avanti e indietro in un solo giorno. Se lo avessero scoperto sarebbe stato fucilato.
Nell'autunno del '43 Bartali fu arrestato dalla polizia fascista: a Firenze c'era il comandante Mario Carità, persona crudele e spietata, ma nessuno fortunatamente ispezionò la bicicletta. La medaglia d'oro al valore civile è stata conferita alla memoria di Gino Bartali, dal Presidente della Repubblica Ciampi e nel 2013 gli è stata assegnata dallo Stato di Israele l'importantissima onorificenza di Giusto fra le Nazioni.
La squadra di ciclisti israeliani percorrerà la stessa strada di Bartali il 16 maggio, alla vigilia della tappa del Giro d'Italia con partenza da Ponte a Ema, dove nacque l'asso del ciclismo. In squadra anche il giornalista fiorentino Adam Smulevich, che nel 2010 raccolse su Pagine Ebraiche la testimonianza inedita dell'ebreo fiumano Giorgio Goldenberg (nascosto da Bartali in una casa di sua proprietà alla periferia di Firenze). Ad oggi l'unica testimonianza diretta di quei giorni bui.

(Il Messaggero, 10 maggio 2017)


La Fifa rimuove la risoluzione anti-Israele

Cancellata dall'agenda la mozione palestinese.

ROMA - Ieri la Fifa ha rimosso dal tavolo di discussione la risoluzione contro le squadre di calcio israeliane. La mozione era stata presentata da oltre 170 club palestinesi: chiedeva all'organo internazionale di sospendere la Federazione Calcio Israele dalla Fifa per violazione del regolamento.

(Fonte: Nena, 10 maggio 2017)


"Le trasformazioni sociali, politiche ed economiche in Palestina e Israele dal '45 a oggi"

Tavola rotonda - Sala S. Rita, via Montanara, 8 - Roma
12 maggio 2017, ore 16:30
  • Saluto dell'On. Stefano Fassina - Consigliere Roma Capitale
  • Introduzione a cura delle associazioni organizzatrici
  • Libera Accademia di Roma e Università Popolare dello Sport
  • On. Massimo D'Alema - Presidente della Fondazione di Cultura Politica Italianieuropei e della Foundation of European Progressive Studies FEPS
  • Giorgio Gomel - Direttivo Istituto Affari Internazionali IAI ed European Jewish Call for Reason JCALL
  • Samir Al Qaryouti - Giornalista Stampa Estera Roma, corrispondente Al Jazeera e France24
  • Marco Tarquinio - Direttore responsabile di Avvenire
Invito

(Stefano Fassina, 10 maggio 2017)


Coro anti-israeliano di sinistra a quattro voci: politica, ebraica, islamica e cattolica. Seguirà, alle 18.30, il “Concerto della Schola Cantorum Lar”. Buon diverimento!


Shalom, Berlino

Israele e cultura ebraica nella capitale tedesca

di Mirea Cartabbia

 
Memoriale dell'Olocausto
 
Neue Synagoge
 
Stolpersteine
 
Hackesche Höfe
 
Il cimitero ebraico di Schönhauser Alle
È il tardo pomeriggio di un venerdì buio e compassato, una piccola folla di fedeli sta uscendo dalla Oranienburger Straße Synagoge, un imponente edificio sormontato da una cupola dorata, nel quartiere di Mitte, a Berlino. In alto, proprio sul punto più estremo della struttura, a quota 50 metri, campeggia la stella di David, anch'essa dorata. Tra i fedeli che attraversano spunta anche Joseph. Israeliano, nato e cresciuto a Tel Aviv, si è trasferito ormai più di trent'anni fa nella capitale tedesca. "Ero ancora un ventenne quando sono arrivato in Europa" mi dice con una punta di rimpianto. "La città era molto diversa, questa sinagoga non esisteva nemmeno!".
  In realtà la sinagoga esisteva già, ma non stupisce il fatto che Joseph non se la ricordi. Costruita tra il 1859 ed il 1866 da Eduard Knoblauch e Friedrich August Stüler, con i suoi 3000 posti a sedere era la sinagoga più importante e prestigiosa della Germania. Grazie all'intervento di Wilhelm Krützfeld, ufficiale della polizia durante il periodo nazista, l'edificio fu danneggiato solo molto limitatamente durante la famosa Notte dei Cristalli, fra il 9 e il 10 novembre 1938, quando le SS diedero ordine di distruggere e incendiare tutti i luoghi di incontro della comunità ebraica in Germania. Fu sempre grazie all'intervento di Krützfeld che la sinagoga restò aperta al pubblico per le celebrazioni religiose fino al marzo del 1940. Ma se l'ufficiale riuscì a proteggere l'edificio dai nazisti, non poté fare molto contro le bombe. La navata principale fu sventrata tra il 22 ed il 23 novembre 1943, e poi demolita nel 1958. Oggi solo la facciata conserva il tratto originale. I lavori di ricostruzione iniziarono nel 1988, un anno prima della caduta del Muro, e furono finalmente completati nel settembre del 1991, esattamente 125 anni dopo la prima consacrazione.
  Joseph non è un ebreo praticante, o almeno così dice. Di tanto in tanto frequenta le celebrazioni o si presenta a qualche evento organizzato dall'attiva comunità israeliana berlinese, ma nulla di più. In ogni caso, a suo parere se si vuol parlare di israeliani a Berlino, una visita a questa sinagoga è il punto di partenza imprescindibile. Nel 1995, insieme alla riconsacrazione della sinagoga, è stato inaugurato, a pochi metri di distanza, lo Stiftung Neue Synagoge - Centrum Judaicum Foundation. Il centro è un punto di incontro tra passato e futuro. Da una parte racconta la storia degli ebrei a Berlino, ripercorrendone i momenti salienti e raccontando la storia della Neue Synagoge an der Oranienburger Straße. Dall'altra lavorare con le associazioni, sia giudaiche che non, per promuovere la cultura e l'identità ebraica nella capitale tedesca.
  Per addentrarsi nello spicchio più vivace del quartiere israeliano, bisogna spostarsi di qualche isolato. Questa volta a farmi da guida è Karen, una ragazza israeliana trasferitasi a Berlino da tre anni. Mentre camminiamo da Rosentahler Platz fino alla nostra meta, TorStraße 159, mi racconta la sua storia e di come abbia deciso di mollare un lavoro da consulente ben pagato per trasferirsi in Germania a fare la barista. "Povera ma felice", d'altronde, è il suo motto. Quando arriviamo da Shiloh, il ristorante nel quale mi ha invitata, inizia a spiegarmi quanto importante sia la cultura del pasto nella tradizione israeliana e la sottile differenza, che ancora mi sfugge, tra humus israeliano e quello arabo (più tahini? Più spezie?). Mentre ceniamo, Karen mi spiega che i suoi nonni facevano parte di quella fetta di popolazione che tra il 1933 e il 1945 perse la cittadinanza tedesca e che oggi può riottenerla automaticamente. "Sono così felice di avere una cittadinanza europea. Se avessi solo il passaporto israeliano ci sarebbero così tanti paesi dove non potrei andare.".
  Guardandomi intorno, non vedo molte differenze tra questa zona e una qualsiasi altra parte di Mitte. Sì, è vero che nei dintorni di TorStraße ci sono più ristoranti e snack bar con cucina israeliana del solito ma, in fondo, non sono molti altri gli indizi che possano definire l'identità di questo borgo come specificamente ebraica. E poi, ebraica o israeliana? Karen ride. "Non apriamo un dibattito infinito. Certo, l'identità della zona non è pronunciata come a Neukölln o a Kreuzberg (quartieri ad alta concetrazione di famiglie di origine turca ed araba), ma se ci fai caso anche qui i segnali sono molti. E credimi, la cultura ebraica a Berlino sta rifiorendo, basta anche solo guardare a quanti nuovi locali con cucina tipica israeliana stanno aprendo in questa zona.".
  Quando mi incammino verso Hackescher Markt, noto che in questa zona le Stolpersteine sono decisamente più frequenti rispetto alla già alta media della capitale tedesca. Le Stolpersteine, letteralmente "pietre dell'inciampo", sono dei sampietrini sporgenti ricoperti da una piastra di ottone, che si trovano in diversi paesi europei per ricordare le vittime delle deportazioni naziste. Sopra la pietra viene riportata la data, il luogo di nascita e quello di morte (o presunta tale) delle persone che abitavano nella zona in cui sono posizionate. Berlino, per ovvie e tristi ragioni, ne è piena. Arrivata a destinazione mi trovo nel cuore di quello che era il ghetto ebraico fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Difficile immaginarselo oggi, visto che la piazza, appena fuori dalla stazione della SBahn e a pochi minuti dal quartiere dei Musei, è piena di turisti, circondata da suoi ristoranti impersonali e dai prezzi decisamente al di sopra degli standard berlinesi.
  A pochi passi dalla stazione ci sono gli Hackesche Höfe, un complesso di otto cortili in stile secessionista tedesco e collegati tra di loro. Inaugurati il 23 settembre 1903, i cortili ospitavano diverse attività commerciali: negozi di guanti e pellicce, mobili, caffè e persino una banca. Anche diverse organizzazioni, tra cui la Jüdischen Frauenbundes (l'associazione di donne ebree fondata dalla femminista austriaca Bertha Pappenheim) e la Jüdische Studentenmensa (la mensa per studenti ebrei), trovavano casa nei cortili. Ma il gioiello degli Höfe era Der Neue Club, la sede di una delle prime avanguardie letterarie espressioniste, in cui all'inizio del Novecento si tenevano letture e conferenze. La Prima Guerra Mondiale mise in crisi moltissime attività commerciali e culturali, che dovettero ben presto chiudere i battenti. Con il dominio nazista, i pochi ebrei rimasti furono costretti a fare le valige e nel secondo dopoguerra i cortili vennero per lo più utilizzati come magazzini.
  Oggi, nei 27.000 metri quadrati di spazio, trovano casa circa 40 società commerciali, diverse istituzioni culturali, un cinema, un teatro, un club e persino delle abitazioni private, che dopo i lavori di ristrutturazioni sono diventate tra gli immobili più costosi della capitale tedesca. Ma, a livello culturale, la vera memoria storica ebraica di Berlino è lo Jüdisches Museum, il Museo Ebraico, sulla LindenStraße 9-14, nella Kreuzberg che confina con il limite meridionale del quartiere di Mitte. Progettato dall'architetto polacco Daniel Libeskind, uno dei maggiori esponenti viventi del decostruttivismo, è il più grande museo ebraico d'Europa e ripercorre due millenni di storia ebraica in Germania.
  Il nome della collezione permanente è proprio Due millenni di storia degli ebrei in Germania e parte dai primi insediamenti medievali per arrivare fino alla contemporaneità. Si racconta la storia di personaggi di origine ebraica che hanno segnato la vita culturale, politica e intellettuale della Germania. Tra questi, Glickl baas Judah Leib, vissuta nel XVII secolo e passata alle cronache come la prima donna tedesca a scrivere un'autobiografia, e il filosofo Moses Mendelssohn, padre dell'illuminismo ebraico Haskalah, nonno del compositore Felix e sostenitore di una concezione estetica basata sulla cosiddetta poesia del sentimento. Quando lo visitai per la prima volta, nel 2013, fu la struttura dell'edificio che ospita il museo ad impressionarmi. Innanzitutto per la costruzione, tutto meno che funzionale, ma affascinante. Vista dall'alto ha la forma di una linea a zig-zag e per questo è stata soprannominata Blitz (fulmine): dovrebbe ricordare una stella di David decomposta. Le finestre, sottili e lunghe, sono disposte in maniera completamente casuale e tutto è ricoperto da lastre di zinco. Sin dall'entrata ci si immerge nella storia del popolo ebraico. Si percorrono tre corridoi in pendenza, detti assi. Gli spazi vuoti, voids, che attraversano l'intero museo e si formano nei punti di intersezione delle linee, i dislivelli e le cavità impervie, contribuiscono a creare un'atmosfera greve e pesante, che si percepisce ovunque all'interno della struttura.
  Se lo Jüdisches Museum rappresenta il testamento spirituale di Israele in Germania, per concludere il viaggio entro la comunità ebraica a Berlino, decido di visitare uno dei quattro cimiteri ebraici della capitale tedesca. Secondo i dettami dell'ebraismo, non c'è più nulla dopo la morte, perché la vita non finisce mai, piuttosto si eleva, liberando l'anima dal corpo e avvicinandola alla sua fonte. Per questo, non essendo mai stata in un cimitero ebraico, non ho idea di quale tipo di atmosfera aspettarmi. Il cimitero è quello di Schönhauser Allee, vicino a Senefelderplatz, nel quartiere di Prenzlauerberg, zona nordorientale di Berlino. Qui non viene seppellito più nessuno dal lontano 1880, per questo non mi stupisce il fatto di non trovare visitatori in giro, a parte il custode. Proprio lui mi offre, controvoglia, una piantina su cui viene indicata la posizione delle tombe più celebri del camposanto. Non conosco nessuno dei nomi segnati sulla mappa, mi fermo quindi ad osservare il monumento alla sinistra dell'entrata principale, un blocco in arenaria disegnato da Ferdinand Friedrich nel 1961 per commemorare la distruzione degli edifici circostanti durante la Seconda Guerra Mondiale. Sul monumento si legge: "Hier stehst du schweigend, doch wenn du Dich wendest schweige nicht!”, "Qui resta in silenzio, ma quando te ne vai non restare zitto".
  Seduta su una panchina del cimitero, mi rendo conto di quanto sia difficile provare a raccontare la comunità ebraica berlinese; un'impresa titanica, ostacolata dalla miriade di materiale a disposizione, complici i due millenni di storia degli ebrei nella città, e da istituzioni a volte ostili, incastrate dentro un ambiente talmente geloso delle sue tradizioni da, talvolta, non volerle neppure spiegare o condividerle. Forse è solo una forma estrema di Ahavath Israel, "Amore per il popolo ebraico". E forse io, che quella eredità non l'ho ricevuta, non riuscirò mai a capire sino in fondo.
  (Yanez Magazine, 10 maggio 2017)


Trump potrebbe annunciare summit trilaterale con Abbas e Netanyahu

LONDRA - L'amministrazione Usa starebbe organizzando un vertice trilaterale per sbloccare il processo di pace in Medio Oriente. Lo rivela il quotidiano panarabo edito a Londra "Al Hayat", secondo cui il presidente statunitense, Donald Trump, il capo dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, ed il premier israeliano Benjamin Netanyahu, potrebbero incontrarsi per discutere del processo di pace il Medio Oriente. L'indiscrezione di "Al Hayat" giunge a poche settimane dalla visita dell'inquilino della Casa Bianca in Israele, prevista il 22 maggio. Il quotidiano panarabo non rivela dove e quando l'eventuale vertice trilaterale potrebbe svolgersi. Ulteriori dettagli potrebbero essere diffusi proprio in occasione dell'arrivo a Tel Aviv di Trump.

(Agenzia Nova, 10 maggio 2017)


Arte e tradizioni, è festa d'Israele

Politici, ambasciatori, scrittori al Maxxi per celebrare il 69esimo anniversario dello Stato

di Paola Pisa

 
L'ambasciatore d'Israele Ofer Sachs con la moglie Ronny
ROMA - Importante ricevimento per celebrare il 69esimo Anniversario dello Stato di Israele. Ad accogliere personalità del mondo politico, culturale, economico, diplomatico, religioso è l'ambasciatore di Israele Ofer Sachs, che con la moglie Hony dà il benvenuto agli oltre millecinquecento invitati. La novità dell'evento è nella scelta di un luogo di Roma moderno e legato all'arte, il Maxxi. Le sale al piano terra sono stracolme, si intravedono le grandi sculture sul piazzale esterno quando l'ambasciatore rivolge i suoi saluti al Presidente del museo Giovanna Melandri, al ministro Marco Minniti, alla ministra Valeria Fedeli, al sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, al presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, e alle molte autorità.
   Ecco il Capo della Polizia Franco Gabrielli, Pier Ferdinando Casini, Mario Giro, Riccardo Pacifici, ex Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Renzo Gattegna. «Benvenuti al "Compleanno" dello Stato di Israele. Sono molto emozionato e felice di essere qui con voi al Maxxi - sottolinea l'ambasciatore Sachs - Il pubblico stasera rappresenta la grande varietà dei settori che ci vedono occupati: cultura, economia, affari pubblici, politica, com unità ebraiche e molti ancora.
   La scelta del Maxxi non è casuale, al di là dei rapporti artistici tra i nostri Paesi, questo museo si trova in una delle città più antiche del mondo e fa da ponte tra antico e moderno». Applaudono gli ambasciatori di Olanda Joep Wijnands e la moglie, di Svizzera Giancarlo Kessler, del Canada Peter Mc Govern, della Grecia Themistoklis Demiris, il Vice Sindaco Luca Bergamo, Furio Colombo, Cesara Bonamici. «La più antica Comunità ebraica all'estero è quella romana. Italia e Israele, Paesi molto uniti, fanno anche intensa attività di ricerca insieme. La nostra è una nazione libera che accoglie tutte le religioni e le genti. Amici, celebriamo anche i cinquanta anni della riunificazione della capitale Gerusalemme». Emozionante la voce della giovane soprano Reut Ventorero che intona la canzone dedicata alla città festeggiata. Seguono gli inni nazionali, gli abbracci, i brindisi.

(Il Messaggero, 10 maggio 2017)


Ministero Esteri d'Israele convoca ambasciatore turco dopo parole Erdogan su Gerusalemme

Il ministero degli Esteri israeliano ha convocato l'ambasciatore turco Kemal Ökem per chiarimenti in merito alle recenti dichiarazioni del presidente turco Tayyip Erdogan contro lo Stato ebraico, segnala il quotidiano Jerusalem Post.

Nella giornata di ieri Erdogan aveva invitato i musulmani a "recarsi in visita il più spesso possibile alla Moschea di Al-Aqsa", che si trova sul Monte del Tempio a Gerusalemme, dal momento che "ogni giorno che Gerusalemme è occupata, è un insulto per la comunità islamica. Ha inoltre criticato il disegno di legge di Israele, che prevede di vietare il richiamo alla tradizionale preghiera dei musulmani a tarda notte e alla mattina presto.
"Coloro che violano sistematicamente i diritti umani nel proprio Paese, non devono dare lezioni all'unica democrazia della regione", — il giornale riporta le parole del portavoce del ministero degli Esteri israeliano Emmanuel Nahshon.

(Sputnik, 10 maggio 2017)


Memorie ebraiche dell'antichità

Il patrimonio della Capitale

"La storia degli ebrei a Roma non ha a che fare solo con quanto terribilmente accaduto durante la Seconda guerra mondiale, ma è una storia lunga e antica, che risale a millenni fa. La presenza ebraica non è dunque a Roma una presenza 'Altra', ma una componente fondamentale della nostra identità". Lo ha detto Marina Formica, direttrice del Centro Romano di Studi sull'Ebraismo dell'Università Tor Vergata, presentando la conferenza su "Le memorie ebraiche dall'antichità all'età moderna: esperienze di ricerca, tutela e valorizzazione" presso la facoltà di Lettere e Filosofia della stessa università.
Al centro dell'incontro, i recenti ritrovamenti archeologici avvenuti in via delle Mura Portuensi, vicino a Trastevere, dove è stato rinvenuto un sito archeologico di grande interesse, con resti ebraici e in particolare alcune antiche sepolture ebraiche.
L'excursus storico e l'illustrazione dei lavori, dal titolo "Il Campo Iudeorum alla luce dei recenti scavi fuori Porta Portese", è stato curato da Daniela Rossi, archeologa del Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo, e dagli studiosi e archeologi Marzia Di Mento e Alessio De Cristofaro.

(moked, 9 maggio 2017)


Piazza da intitolare al Viva Maria, lo sdegno della comunità ebraica: "Atto gravissimo"

Nel giorno della discussione in Consiglio comunale dell'atto promosso da Egiziano Andreani, la presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane ha scritto una lettera al sindaco Ghinelli: "Vi chiediamo di fermare questa ed ogni simile iniziativa".

di Nadia Frulli

 
 
Il consiglio comunale di Arezzo
 
Il consigliere Egiziano Andreani
 
La presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni,
 
AREZZO - Il dibattito resta aperto. L'atto di indirizzo per approvare l'intitolazione di una piazza interna alla Fortezza all'insurrezione del 6 maggio 1799, quella del "Viva Maria", è stato rinviato al prossimo consiglio comunale. E' stato lo stesso Egiziano Andreani, consigliere comunale della Lega Nord e promotore dell'atto, a chiederlo. Mentre proprio questa mattina è emersa una pesante presa di posizione dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane che ha scritto, senza usare mezzi termini, al sindaco Alessandro Ghinelli.
   "Qualora l'amministrazione cittadina aretina dovesse procedere nella direzione indicata dal Consigliere Andreani - si legge nella lettera siglata dalla presidente Noemi Di Segni e da Dario Bedarida, presidente della Comunità ebraica di Firenze - si renderà quindi responsabile di un atto che riteniamo gravissimo e vi chiediamo di fermare questa ed ogni simile iniziativa. Il nostro futuro in questo paese è possibile solo se si mantiene vivo e chiaro il ricordo della reale storia e si agisce con conseguente coerenza".
   Secondo la comunità ebraica, "ad Arezzo vengono presentate tesi revisionistiche che puntano a separare l'insurrezione nel suo insieme dai fatti di Siena e da altri fatti in Toscana, tutti sotto la bandiera ed al grido "Viva Maria". E invece, come ricorda anche quella targa, sono parte della stessa storia, delle stesse abiezioni, della vergogna che macchia l'Italia tutta".
   Andreani, al momento di presentare l'atto di indirizzo, ha chiesto che venisse posticipato ai prossimi consigli comunali. "In questi giorni - ha detto il consigliere - si è scritto tutto e di più e mi è dispiaciuto. Eppure abbiamo avuto un incontro con la comunità ebraica, durante il quale abbiamo portato la nostra documentazione. E non sono emersi elementi storici nuovi. Chiedo quindi che l'atto possa essere posticipato: nel frattempo la comunità aretina, quella scientifica, potrà confrontarsi. Sono disponibile a nuovi incontri con la comunità ebraica e vorrei organizzare un convegno per discutere le varie tesi. Ma tutte dovranno essere avvalorate da documenti storici".
   L'atto di indirizzo di Andreani ha scatenato il dibattito in città. Quella denominata "Viva Maria" fu un'insurrezione che oggi lascia aperti tra gli aretini molti dubbi. Atto di "resistenza" nei confronti degli invasori francesi, come sostiene Andreani? O di antisemitismo, come sottolinea la comunità ebraica? Perché i movimenti del "Viva Maria" si espansero, come ricorda la lettera inviata a Ghinelli, e arrivarono fino all'uccisione in piazza del Campo a Siena in un "orribile rogo", di 13 persone. Gli storici locali, tra i quali Santino Gallorini, invece, nelle loro ricostruzioni mettono in evidenza come per mano di aretini non ci furono morti tra la popolazione ebraica. E il dubbio resta.
   "Il comunicato di questa mattina firmato da Noemi Di Segni - afferma Angelo Rossi, consigliere comunale di OraGhinelli - è durissimo, la comunità ebraica non intende recedere da quella che considera una pagina tragica della loro storia e della storia italiana. Io non sono uno storico e non metto la questione sul piano storico. Sul piano politico però, se una comunità importante come quella ebraica, si sente offesa da questo atto e se questa decisione può offendere una minoranza, allora la questione non può essere ignorata. Ed è per questo che io mi opporrò e sosterrò la proposta delle comunità ebraiche. Quale? Quella di dare voce alla storia e intitolare la piazza in questione inserendo solo una data: quella in cui Arezzo si liberò dagli invasori francesi".
   Quella dell'intitolazione di una piazza ai movimenti del Viva Maria è una vicenda annosa, che più volte e da giunte diverse è stata affrontata. Ai tempi della giunta Lucherini, la piazzetta alla sommità di corso Italia fu proprio intitolata al "Viva Maria". Poi con la prima giunta Fanfani il nome cambio, e adesso quella piazzetta è intitolata alla Madonna del Conforto. Adesso, con Andreani il dibattito si riapre. E tutto lascia presagire che non sarà una discussione breve.

(Arezzo Notizie, 9 maggio 2017)


il presidente turco Erdogan si scaglia contro la "giudeizzazione" di Gerusalemme

GERUSALEMME - Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha dichiarato lunedì che Ankara lavorerà con il popolo palestinese per impedire la "giudaizzazione di Gerusalemme". Le parole di Erdogan, riprese dall'emittente israeliana "Channel 2", sono giunte durante un incontro tra il presidente turco e il primo ministro dell'Autorità palestinese, Rami Hamdallah, in visita ufficiale a Istanbul. Il presidente turco ha anche fatto appello ai "musulmani di tutto il mondo" a visitare la Moschea al Aqsa, situata sul monte del Tempio a Gerusalemme. "Come comunità musulmana, abbiamo l'obbligo di visitare al Aqsa più spesso. Ogni giorno dell'occupazione israeliana di Gerusalemme rappresenta per noi un insulto", ha affermato Erdogan, che poche ore prima aveva anche accusato Israele di "uccidere bambini". Il ministero degli Esteri israeliano ha reagito con una dura nota ufficiale: "Chi viola sistematicamente i diritti umani nel proprio paese - recita la nota - non dovrebbe permettersi di impartire lezioni all'unica democrazia della regione. Israele garantisce la piena libertà di culto a ebrei, musulmani e cristiani, e continuerà a farlo a dispetto delle infondate diffamazioni rivolte contro". Commentando le parole di Erdogan, il presidente della Knesset, Yuli Edelstein, ha dichiarato che il presidente turco "era e rimane un nemico di Israele".

(Agenzia Nova, 9 maggio 2017)


Shekel israeliano: al riparo dai radar Usa

di Claudia Calich

Anche se l'ultimo rapporto del Tesoro statunitense non ha additato nessun Paese come manipolatore di valute, l'elenco delle nazioni monitorate include economie di grandi dimensioni con le caratteristiche seguenti:
     
  1. un surplus commerciale bilaterale con gli Stati Uniti di entità significativa, ossia superiore a 20 miliardi di dollari USA;
  2. un avanzo dei conti correnti pari ad almeno il 3% del PIL, sottoposto pertanto ad analisi più approfondite da parte del Tesoro statunitense;
  3. interventi valutari unilaterali per un valore superiore al 2% del PIL nazionale effettuati in un periodo di 12 mesi, potenzialmente indicativi di una manipolazione della propria valuta.
Israele non figura nell'elenco dei Paesi monitorati, in quanto ha un'economia di dimensioni molto più ridotte (stimate a 318 miliardi di dollari USA alla fine del 2016) e non è uno dei partner commerciali di rilievo degli Stati Uniti (il surplus commerciale bilaterale è molto inferiore ai 20 miliardi di dollari). Tuttavia, un eventuale esame aneddotico condotto sugli altri aspetti di cui si compongono i criteri di monitoraggio probabilmente lo farebbe finire nel club.
La Banca di Israele adotta una politica monetaria che utilizza interventi sia sui tassi d'interesse che sulla valuta. L'inflazione effettiva e attesa al momento sono vicine al limite inferiore dell'intervallo obiettivo dell'1-3% (dopo un biennio di deflazione) e l'economia sta crescendo a un ritmo sostenuto. C'è spazio per mantenere una politica monetaria accomodante, ma ritengo improbabile che i tassi d'interesse svengano portati in territorio negativo dall'attuale livello base dello 0,1%, ora che l'inflazione si sta muovendo nella giusta direzione.
La Banca di Israele considera lo shekel moderatamente sopravvalutato ed è intervenuta sui mercati valutari per limitarne l'apprezzamento, ma anche, in anni più recenti, per neutralizzare i flussi derivanti dalle esportazioni di gas e in altri periodi per mitigare il rischio della sindrome olandese. Secondo il Fondo monetario internazionale (FMI), invece, il corso della valuta è sostanzialmente in linea con i fondamentali. Esistono comunque risultati contrastanti, a seconda della metodologia utilizzata, come capita spesso quando si cerca di inquadrare le valute in un modello: alcuni calcoli indicano infatti una sottovalutazione del 15%, mentre altri segnalano una leggera sopravvalutazione del 4%. Si rimanda alla pagina 50 di questa pubblicazione per maggiori dettagli.
Lo shekel potrebbe essere un'opportunità interessante per gli investitori valutari (che non temono un ulteriore rafforzamento del dollaro USA), se credono che le tendenze favorevoli della bilancia dei pagamenti resteranno intatte, che la Banca di Israele non aumenterà il ritmo degli interventi valutari e che non ci sia margine per altre misure di allentamento monetario.

(Finanza Operativa, 9 maggio 2017)


Ovadia contro Israele: è uno Stato carnefice

L'artista: tradito l'ebraismo.

TRENTO - «La propaganda israeliana a favore dell'occupazione e dell'oppressione del popolo palestinese - un atto ingiustificato che deve finire subito - ha pervertito il senso dell'ebraismo, la straordinaria etica ebraica. Sostituire il governo israeliano con la Torah è la peggiore idolatria possibile. Ma c'è un guaio peggiore che è capitato al popolo d'Israele: diventare non vittima, ma carnefice». Moni Ovadia declina un durissimo attacco contro la politica dello Stato d'Israele nei confronti dei territori occupati dal 1967.


- OMISSIS -

(Corriere del Trentino, 9 maggio 2017)


Quanto riportato è più che sufficiente. Chi vuole, può andare a leggersi il resto sul giornale. Gli ebrei ne hanno passate e subite tante: riusciranno a sopravvivere anche all’infamia di un personaggio come questo “artista”. M.C.


Se Elisabetta non mette piede in Israele

I reali inglesi in 70 anni non hanno mai visitato lo stato ebraico

Il Foreign Office britannico avrebbe annullato i preparativi della prevista storica visita in Israele del principe Carlo, che avrebbe dovuto essere il primo membro della famiglia reale inglese a fare una visita di stato in Israele sin dalla sua nascita, nel 1948. Il quotidiano inglese Sun ha riferito domenica che la visita è stata annullata per evitare di "turbare" i paesi arabi che spesso ospitano membri della famiglia reale britannica e con cui l'Inghilterra intrattiene proficui rapporti commerciali. I preparativi per la visita di Carlo avevano avuto inizio lo scorso marzo quando il presidente israeliano Reuven Rivlin aveva invitato la famiglia reale a visitare Gerusalemme in occasione del centenario della Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917). Il principe Carlo avrebbe anche visitato le tombe dei 16 mila soldati britannici morti nella campagna del 1917 per conquistare la Terra d'Israele/Palestina all'Impero Ottomano. Nonostante i numerosi inviti, nessun rappresentante della monarchia britannica ha mai compiuto una tale visita dalla nascita di Israele, con la fine del Mandato britannico, benché nel frattempo la Corona abbia visitato praticamente ogni altro paese del mondo e tutti i paesi arabo-islamici della regione. Perché il veto vale soltanto per Israele, quando anche l'Egitto ha un ambasciatore a Tel Aviv? Soltanto il pregiudizio può spiegare un simile doppio standard. La presenza del principe Carlo ai funerali del presidente Shimon Peres lo scorso anno e del primo ministro Yitzhak Rabin nel 1994 non sono considerate visite reali ufficiali e non comprendevano incontri diplomatici. Lo stesso vale per una breve visita nel 1994 di suo padre, il principe Filippo, per una cerimonia in commemorazione di sua madre, Alice di Battenberg, sepolta sul Monte degli Ulivi di Gerusalemme. Sotto le bombe naziste di Londra e di Coventry, la regina Elisabetta sfidò il pericolo, mentre le sirene continuamente annunciavano il minaccioso arrivo dei bombardieri tedeschi. Ma mettere piede nello stato ebraico sembra richiedere oggi un coraggio persino maggiore. Assurdo e triste.

(Il Foglio, 9 maggio 2017)


San Marino. Al Kursaal il concerto promosso dall'Ambasciata di Israele

Mika Sade presenta il progetto Birds & Guitars, lunedì 15 Maggio, alle ore 18,30, al palazzo dei Congressi Kursaal.

Birds & Guitars - Mika Sade
SAN MARINO - Appuntamento in musica con il tradizionale concerto primaverile promosso dall'Ambasciata d'Israele in collaborazione con la Segreteria di Stato per gli Affari Esteri e l'Associazione Musicale Camerata del Titano.
In questi anni l'Ambasciata di Israele ha sempre proposto concerti originali, caratterizzati dalla qualità degli interpreti e dalla gradevolezza delle musiche eseguite. Anche quest'anno il concerto in occasione del 69o Anniversario dell'Indipendenza dello Stato di Israele conferma queste caratteristiche. Cantante moderna dalla voce dolce e suadente, Mika Sade propone un programma dalle cadenze Pop, ma con il gusto e la raffinatezza della musica dei "Club".
Come ormai consuetudine, soprattutto per il Concerto dell'Ambasciata di Israele, per motivi di sicurezza l'accesso al Palazzo dei Congressi Kursaal sarà consentito, solo per chi avrà segnalato preventivamente la propria presenza.

(Libertas, 9 maggio 2017)


Mozione contro Israele: l'Unesco si occupi solo d'arte e cultura

Lettera a "il Giornale"

Le agenzie dell'Onu sono più vergognose dell'Onu stessa. L'Unesco, che si dovrebbe occupare solo di arte e cultura, stabilisce che Israele non debba far nulla a Gerusalemme, che è la sua capitale. È vergognoso l'Unesco e sono vergognosi i paesi che si sono astenuti. Spero che Trump mantenga quanto detto in campagna elettorale e sposti l'ambasciata Usa a Gerusalemme. Israele non dia più anche un solo dollaro alle agenzie e il minimo all'Onu e che Trump faccia lo stesso, visto che pone tanta attenzione alle spese inutili.
Marco Bianchi

(il Giornale, 9 maggio 2017)


Giorno e notte nella legittima difesa

Lettera al Direttore di "La Stampa"

di Riccardo Di Segni
Rabbino capo della comunità ebraica di Roma

Caro Direttore, nel vivace dibattito politico e parlamentare sulla nuova legge sulla legittima difesa ha sollevato particolare attenzione la distinzione proposta, e che sembra ora ritirata tra le polemiche, tra notte e giorno. Qualcuno ha fatto notare che questo richiamo alla notte, come tempo in cui il rischio aumenta e c'è maggiore necessità e liceità di difendersi, sia già presente in un testo molto antico, le XII tavole dei romani, databili intorno al 450 avanti e.c. Ma il richiamo alla legge romana è stato fatto per sottolineare l'arcaicità e la rozzezza di questa distinzione, che nel testo delle XII tavole si accompagna ad altre leggi ora improponibili. L'ignoranza diffusa in tema di Bibbia ha fatto sì che non si tenesse conto che molto prima delle XII tavole è il libro dell'Esodo che propone questa distinzione. All'inizio del capitolo 22, versetti 1 e 2, è detto: «Se il ladro viene trovato nel corso di uno scasso e viene colpito e muore, ciò non è considerato spargimento di sangue. Ma se il sole è sorto su di lui, è spargimento di sangue».
   La tradizione giuridica ebraica si è soffermata a lungo su queste scarne righe, proponendo importanti interpretazioni. Rashì, il commentatore dell'XI sec., le riassume in questi termini: «Non è spargimento di sangue, significa che non è un omicidio; qui ti viene insegnato il principio che se qualcuno viene a ucciderti, precedilo e colpiscilo; e questo - lo scassinatore - è venuto con propositi omicidi, perché sa che le persone non si trattengono in silenzio quando subiscono un furto, pertanto è venuto con questo proposito, di uccidere il proprietario se gli fa resistenza». Ma a commento del verso successivo la durezza di questa interpretazione viene mitigata: «Ma se il sole è sorto su di lui è una metafora; se ti è chiaro che è in pace con te, come il sole che è pace per il mondo, così se ti è chiaro che non ha intenzioni omicide, allora se lo colpisci sei considerato omicida. Altri interpretano (la metafora del sole) nel senso che se vi sono testimoni che hanno visto il ladro e avvisato il proprietario questi non ha più diritto di colpire, perché ormai il ladro non ha intenzioni omicide».
   Da queste letture rabbiniche impariamo cose rilevanti nel dibattito attuale: che l'istituto della legittima difesa deriva proprio dalla situazione del furto con scasso in casa, e non viceversa; che la distinzione tra notte e giorno, che la Bibbia propone letteralmente, parlando del sorgere del sole, va intesa in senso simbolico, e riferita non tanto al tempo quanto alla chiarezza delle condizioni in cui avviene il malaugurato incontro tra ladro e proprietario. Se si lavorasse facendo uso della saggezza antica, forse si riuscirebbero a evitare contrapposizioni inutili.

(La Stampa, 9 maggio 2017)


"...
l'istituto della legittima difesa deriva proprio dalla situazione del furto con scasso in casa, e non viceversa". Che vuol dire? Etica situazionista? E' la situazione che fa nascere l'istituto della legge? Bisognerà parlare di legittima difesa soltanto in caso di furto con scasso? E se il tentativo di furto avviene senza scasso perché il ladro è entrato da una finestra lasciata aperta, non è più legittima difesa? Il discorso non sembra chiaro, soprattutto in riferimento alle norme di legge italiana in discussione. Anche il riferimento alla "saggezza antica" richiederebbe una maggiore cautela. Nel testo biblico citato dall’articolo, relativo a quel patto sul Sinai stilato all’inizio fra Dio e Israele, il cui testo si trova nei capitoli da 21 a 23 dell'Esodo, c’è anche questa norma: "Se uno percuote il suo schiavo e la sua schiava col bastone, e quello gli muore fra le mani, sarà punito; ma se sopravvive un giorno o due, non sarà punito, perché è danaro suo" (Es. 21:20-21). Sarebbe saggio fare uso di questa “saggezza antica”, universalizzando nel tempo e nello spazio ciò che fin dall’inizio nasce in modo temporalmente puntuale per un popolo particolare? M.C.


Fatah come Hamas: Israele non ha diritto di esistere

Alto esponente del movimento di Abu Mazen: "A tutt'oggi Fatah non riconosce Israele"

Tra il movimento islamista palestinese Hamas, che controlla la striscia di Gaza, e il movimento Fatah, che fa capo ad Abu Mazen e controlla l'Autorità Palestinese in Cisgiordania, è in corso da anni un durissimo scontro di potere. Ma quando si tratta di Israele, lo stato nazionale del popolo ebraico indipendente e sovrano su una parte della storica Terra d'Israele o Palestina, Fatah e Hamas vanno d'accordo: per loro, Israele non ha diritto di esistere....

(israele.net, 9 maggio 2017)


Netanyahu getta nel cestino il nuovo atto costitutivo di Hamas

Eletto dal consiglio della Shura del movimento islamico, Ismail Haniyeh, ex premier nella Striscia di Gaza, è il nuovo leader di Hamas. Haniyeh sostituirà a capo dell'uffico politico di Hamas Khaled Meshaal. Rispetto al suo predecessore che ha ricoperto i suoi due mandati operando dall'estero, Haniyeh guiderà Hamas dalla striscia di Gaza.
La sua elezione segue un cambiamento politico sicuramente importante da parte di Hamas che, all'inizio della scorsa settimana, ha pubblicato un nuovo atto costitutivo del movimento in cui "ammorbidisce" le sue precedenti posizioni nei confronti di Israele, oltre a prendere le distanze dai Fratelli Musulmani, da cui il movimento è nato.
Elemento, quest'ultimo, che dovrebbe riavvicinare Hamas all'Egitto di al-Sisi perché possa rivedere la posizione del Cairo sul blocco che, ad oggi, attua insieme ad Israele nei confronti di Gaza e dei suoi due milioni di abitanti le cui condizioni di vita risentono, anche, dello scontro politico tra Hamas e il governo di Fatah a Ramallah.
Domenica, Benjamin Netanyahu, dopo alcuni giorni di silenzio, ha commentato quella che molti hanno definito una svolta da parte di Hamas, che invita non più a combattere gi ebrei e gli israeliani in sé, ma Israele in quanto Stato occupante, accettando i confini del 1967 - compresa la striscia di Gaza - come nucleo del futuro stato di Palestina.
In un video, simbolicamente, Netanyahu ha preso il documento, lo ha accartocciato e lo ha gettato in un cestino, definendolo un inganno. Secondo Netanyahu, "il nuovo statuto di Hamas afferma che Israele non ha diritto di esistere, che ogni centimetro della nostra terra appartiene ai palestinesi e che non esiste una soluzione accettabile diversa dal rimuovere Israele."

Inoltre, Netanyahu ha aggiunto che "Hamas ha ucciso donne e bambini, ha lanciato decine di migliaia di missili sulle nostre case, fa il lavaggio del cervello dei bambini palestinesi che frequentano gli asili per convincerli al martirio."
Il leader uscente di Hamas, Khaled Meshaal, ha altresì dichiarato che la lotta di Hamas non era contro l'ebraismo come religione, bensì contro quelli che lui definisce "aggressori sionisti."

(fa.informazione.it, 8 maggio 2017)


La credibilità persa delle Nazioni Unite

di Pierlulgl Battista

Memorizzate bene questa sigla: l'Uncsw, acronimo in lingua inglese della Commissione sullo «status delle donne» che nell'Onu dovrebbe occuparsi della tutela mondiale dei diritti del genere femminile. E' il luogo di un happening non si sa se più tragico o più ridicolo, perché a maggioranza i buontemponi di quell'ente inutile ribattezzato Nazioni Unite hanno decretato a maggioranza l'ingresso dell'Arabia Saudita, uno dei campioni mondiali della persecuzione e della discriminazione delle donne, uno dei Paesi in cui i diritti umani universali sono più calpestati. Del resto, è altamente probabile che percentualmente la maggioranza dei Paesi che hanno optato per questa scelta grottesca sia la sede di altrettante violazioni dei diritti fondamentali delle donne. E poi non è nemmeno una novità, perché in una Commissione Onu sui diritti delle donne era stato eletto l'Iran oscurantista e lugubre in cui le bambine vengono date a forza spose a orrendi anziani che le faranno schiave e anni prima la Libia di Gheddafi era stata eletta come paladina dei diritti umani. Resta da capire perché le Nazioni Unite siano ancora considerate credibili. La totale assenza dell'Onu dai conflitti che insanguinano il mondo ne decretano la desolante inutilità, ma ancora in Europa, ammesso che esista (ma non esiste) un'Europa dotata di un minimo di volontà comune nella politica internazionale, si parla dell'Onu come di un bene da salvaguardare anziché dissociarsene.
   Sono giorni nerissimi per questi organismi internazionali che dovevano difendere la pace e i diritti e sono diventati tribune per i peggior regimi dittatoriali del mondo. E' di queste ore la grottesca risoluzione dell'Unesco che con una spudoratezza non si sa se più dettata da ignoranza, arroganza o puro servilismo ha negato l'ebraicità di Gerusalemme, e per fortuna stavolta con il voto contrario dell'Italia. Tra la scelta della Commissione sui diritti delle donne di includere una tirannia come l'Arabia Saudita e quella dell'Unesco di farsi maggioranza con una risoluzione ostile non solo allo Stato di Israele ma agli ebrei in quanto tali, l'Onu ha nel giro di una settimana raggiunto il livello più alto di discredito. Un Palazzo di Vetro che fa un po' vergognare. E in Italia l'espressione «Nazioni Unite» risuona ancora come un bene da salvaguardare. Ci sarebbe da ridere, se non fosse una tragedia.

(Corriere della Sera, 8 maggio 2017)



L'Onu è illegale

 


Il capo degli Stati maggiori riuniti Usa oggi a Tel Aviv

GERUSALEMME - Il capo degli stati maggiori riuniti Usa, generale Joseph Dunford, incontrerà oggi a Tel Aviv il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ed il capo di Stato maggiore, Gadi Eisenkot. La lotta allo Stato islamico al confine con Israele, la situazione in Sinai ed in Siria saranno gli argomenti principali che verranno affrontati da Dunford e Lieberman, secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Yediot Ahronot". Le forze di Difesa israeliane e l'ambasciata Usa a Tel Aviv non hanno rivelato ulteriori dettagli sul viaggio di Dunford. Il capo degli Stati maggiori riuniti Usa ha incontrato ieri a Washington l'omologo turco Hulusi Akar, con il quale ha discusso degli ultimi sviluppi in Siria ed Iraq, dove Ankara è impegnata a livello militare. Inoltre, la Turchia fa parte insieme a Russia e Iran dei paesi che hanno patrocinato quattro round di colloqui ad Astana, in Kazakhstan, per trovare una soluzione alla crisi siriana. La lotta allo Stato islamico è, secondo il presidente Usa Donald Trump, una condizione imprescindibile per sbloccare il conflitto israelo-palestinese.

(Agenzia Nova, 8 maggio 2017)


Il Belgio mette al bando la macellazione halal e kosher

Il parlamento della Vallonia vieta la macellazione rituale di ebrei e musulmani: anche il parlamento delle Fiandre si prepara a una misura analoga

di Ivan Francese

La regione della Vallonia ha approvato, con voto del Parlamento, il divieto dei riti musulmano ed ebraico per uccidere il bestiame con effetto a partire dal 1 settembre 2019. Anche il parlamento delle Fiandre, spiega il quotidiano britannico The Independent, sta studiando una misura analoga.
Il provvedimento arriva al termine di una lunga campagna di protesta da parte delle associazioni animaliste, da tempo sul piede di guerra contro una pratica che comporta la morte dell'animale per dissanguamento e che per questo è ritenuta da molti inutilmente crudele. Anche la Danimarca, nel 2014, aveva già approvato una norma simile. Sulla stessa linea si sono attestate anche Svizzera e Nuova Zelanda.
La decisione della autorità belghe ha provocato la reazione irritata sia dei rappresentanti degli ebrei che di quelli dei musulmani. I primi si sono espressi attraverso il Congresso Europeo ebraico, che ha "fortemente condannato" la decisione, definita "scandalosa": "Questa decisione - spiega il presidente Moshe Kantor - manda alle comunità ebraiche d'Europa il messaggio tremendo che gli ebrei non sono i benvenuti."
Parole appena meno dure sono arrivate dalle comunità musulmane. I rappresentanti degli islamici del Belgio hanno spiegato che i fedeli musulmani del Paese sono "preoccupati e si domandano se potranno continuare a mangiare cibo halal conforme ai propri riti e alle proprie convinzioni religiose."

(il Giornale, 8 maggio 2017)


Netanyahu vede Steinmeier

L'auspicio che la comunità internazionale sproni i palestinesi ad educare alla pace le nuove generazioni è stato espresso ieri dal premier Benyamin Netanyahu in un incontro a Gerusalemme con Frank-Walter Steinmeier, giunto sabato in Israele nella sua prima visita ufficiale da presidente della Germania. Oggi a Ramallah Steinmeier incontrerà anche il presidente palestinese Abu Mazen. Il colloquio di Netanyahu col presidente tedesco segue di due settimane il polemico annullamento di un suo incontro col ministro degli esteri tedesco Sigmar Gabriel. Era stata, da parte del premier, una protesta per la decisione di Gabriel di incontrare i leader di due Ong israeliane molto critiche della politica governativa nei Territori. Steinmeier ha preferito non inasprire oltre i toni: ieri mattina ha visitato (non per la prima volta) nel Museo dell'Olocausto Yad va-Shem, ha avuto due colloqui amichevoli col capo dello Stato israeliano Reuven Rivlin ed ha incontrato lo scrittore pacifista David Grossman. La relazione tra Israele e Germania, ha sottolineato il presidente tedesco, è troppo importante per fare contestazioni sugli incontri che le delegazioni in visita sono autorizzate ad effettuare nel paese. «Non abbiamo bisogno di nuove regole, e non dovremmo imporre limitazioni» sul tipo di organizzazioni che si possono incontrare, ha affermato Steinmeier incontrando il presidente israeliano Reuven Rivlin.

(Il Messaggero, 8 maggio 2017)


Di Stefano. Imbarazzo nel M5S per l'esperto di esteri anti israeliano

Sarà ridimensionato

di Emanuele Buzzi

 
Manlio Di Stefano
Si stava accreditando come l'uomo della diplomazia internazionale dei Cinque Stelle. Ora, ironia della sorte, rischia di scivolare (politicamente) per una mancata moderazione. Quella relativa ai commenti a un suo post - intitolato «Complici dei danni di Israele» - su Facebook, commenti che hanno ospitato anche una «lista di proscrizione» (bollata così dagli stessi utenti del social network) di personalità di religione ebraica. Lui, Manlio Di Stefano, responsabile del programma Esteri di M5S, è intervenuto quando ormai la polemica era scoppiata da ore e se ne parlava sia sui media sia nel Movimento. «Leggo una totale degenerazione nei commenti, da una parte e dall'altra. In questa pagina mai si è fatta discriminazione in base al credo o ad altre caratteristiche personali e mai se ne farà - ha scritto il deputato 5 Stelle - Chiedo a tutti di moderare i toni e rimanere nell'ambito del dibattito civile». Troppo tardi, secondo i pentastellati. Nel Movimento c'è chi sentenzia: «Questa è stata la pietra tombale sulle sue aspirazioni». Fonti parlamentari confermano che difficilmente si potrà immaginare un ruolo governativo per il deputato palermitano.
   E c'è chi mette in fila gli scivoloni diplomatici dell'ultimo anno. Un excursus che parte dal viaggio del luglio scorso in Israele con Luigi Di Maio, giudicato da molti analisti come un flop e che è costato un raffreddamento dei rapporti tra i due parlamentari. Un viaggio in cui Di Stefano, sollevando perplessità anche nell'opinione pubblica del paese, sosteneva: «La storia ci insegna che Hamas nasce come partito, e che ha vinto in libere elezioni. Poi l'isolamento di Gaza ha cambiato le cose». O ancora il suo intervento - accanto ad alcune personalità controverse - al Festival della solidarietà con il popolo palestinese. E infine la recente missione a Caracas, dove si contano oltre trenta morti in questa primavera di sangue. «Il Venezuela sta vivendo un momento difficile, ma questo non significa che rappresentanti di Paesi esteri abbiano il diritto di ingerire negli affari interni», ha dichiarato Di Stefano dopo un incontro con l'opposizione. Ora i malumori potrebbero frenare la sua corsa, lanciata a giugno del 2016 con la sua presenza al congresso di «Russia Unita», il partito di Putin. All'epoca spiegava al Corriere: «Con la Russia i rapporti sono buoni: per dare idea dell'attenzione su di noi, sono stato il terzo a prendere la parola».

(Corriere della Sera, 8 maggio 2017)


Viceministro agli Esteri della Repubblica Ceca oggi in Israele e Territori palestinesi

PRAGA - Il viceministro agli Esteri della Repubblica Ceca Ivo Sramak è in visita oggi e domani in Israele e nei Territori palestinesi. Lo riferisce il sito del ministero degli Esteri di Praga, precisando che Sramek avrà consultazioni sulla sicurezza con i suoi omologhi israeliani e palestinesi. I colloqui riguarderanno anche la cooperazione politica e lo stato attuale del processo di pace in Medio Oriente. Sramek inaugurerà inoltre il progetto di una clinica realizzata dalla Repubblica Ceca a Gerusalemme Est. A livello diplomatico, la Repubblica Ceca è fortemente impegnata nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Lo scorso marzo il ministro degli Affari esteri ceco Lubomir Zaoralek aveva ricevuto a Praga il suo omologo dei Territori palestinesi Riyadh al Malikim, dopo averlo già incontrato, l'anno scorso a Ramallah, nei Territori palestinesi. In quella occasione il ministro degli Esteri palestinese aveva affermato che la Repubblica Ceca può dare un contributo importante a fronte della controversia sulle nuove colonie israeliane costruite in territori reclamati dai palestinesi, disputa che pesa fortemente sui colloqui di pace israelo-palestinesi.

(Agenzia Nova, 8 maggio 2017)


Festa di Israele, «Gerusalemme città di tre fedi»

MILANO - La Società Umanitaria ha ospitato la Festa di Israele (Yom Hazmaut) che quest'anno, nel 50o anniversario (Yovel) della «liberazione di Gerusalemme» ha avuto come tema proprio la città delle tre religioni: Gerusalemme. Un tema e un approccio particolarmente significativo dopo l'incredibile voto dell'Unesco sulla città santa. Alla presenza del presidente della Comunità ebraica Raffaele Besso, del Rabbino capo di Milano Alfonso Arbib e del segretario degli Amici di Israele Davide Romano, il giornalista Ferruccio de Bortoli è stato premiato come «Amico del popolo di Israele». Tra gli eventi un dibattito sulla Città Santa con rappresentanti di ebraismo, cristianesimo e islam, poi conferenze, stand gastronomici e librari, la consulenza rabbinica e danze e cori della tradizione ebraica.

(il Giornale, 8 maggio 2017)


Chi dice la verità? Netanyahu o Mahmoud Abbas?

(Palestinian Media Watch, 7 maggio 2017)


«Lista di ebrei» sul suo profilo Fb. Di Stefano: non intervengo mai

Il post pubblicato da Manlio Di Stefano su Facebook «Complici di Israele», sul voto contrario dell'Italia alla risoluzione Unesco su Gerusalemme, ha dato vita a un acceso dibattito, tra chi si dichiarava d'accordo con il parlamentare 5 stelle e altri interventi polemici. E tra i commenti è spuntata anche una lista di personalità di religione ebraica, giornalisti, scrittori, attori. «Influenza sionista nei media italiani», si legge, e poi nomi e cognomi, da Roberto Saviano, a Paolo Mieli, da Enrico Mentana a Gad Lerner. Il commento, postato sulla pagina Facebook di Di Stefano da Giancarlo Pezzano, riprende un elenco che già finì al centro delle polemiche, quella «lista di proscrizione» sulla quale la Procura, nel dicembre 2015, apri un fascicolo per minacce e diffamazione, con l'aggravante dell'odio razziale. «Non modero i commenti, il dibattito è aperto sulla mia pagina Facebook», commenta il parlamentare, che ha avuto un ruolo di primo piano nella stesura del programma esteri del Movimento. Neanche se compaiono nomi e cognomi in una «blacklist»? «Chi scrive se ne assume la piena responsabilità». In ogni caso, non sarà cancellato: «Non cancello i commenti. Non lo faccio mai».

(Corriere della Sera, 7 maggio 2017)


Sì allo stato palestinese. Hamas si scrolla la polvere, non il fango

di Rocco Bruno

Hamas ha modificato il proprio statuto affermando, per la prima volta, che accetta la nascita di uno stato palestinese entro i confini del 1967 e che il contrasto con l'entità sionista è politico e non religioso. Escluso da qualsiasi trattativa e convinto di darsi una nuova presentabile veste, Hamas si scrolla di dosso la polvere, ma non il fango. La modifica, nella sostanza, non cambia nulla anche se nelle intenzioni dei leader del movimento dovrebbe consentire allo stesso di rientrare in qualche modo in una qualche fase negoziale. La pre-condizione iniziale di Israele per le trattative è chiara e nota: il riconoscimento all'esistenza dello stato d'Israele; in mancanza non ci sarà alcuna possibilità di dialogo con Hamas. Poco male per Israele più interessato alla sicurezza che alla pace. Il mancato riconoscimento consente ad Israele di continuare a trattare Hamas, come gruppo terrorista.

(il Giornale, 7 maggio 2017)


C'è qualcosa di allucinante nella questione dello "stato palestinese". Una questione di identità, anzi di esistenza. Esiste o non esiste? questo è il problema. Alcuni stati esteri hanno detto che sì, esiste. Dunque è nato, perché in questo mondo la nascita precede l'esistenza. Ma forse non sapevano che all'interno del governo dell'«entità palestinese" c'è una buona parte che fino a poco fa non ammetteva neppure che si parlasse di "stato palestinese". Adesso invece sì. Il governo palestinese in Gaza, chiamato Hamas, solo pochi giorni fa ha accettato "la nascita di uno stato palestinese". Dunque anche i palestinesi di Gaza hanno accettato, pochi giorni fa, la nascita di uno stato palestinese. Non è surreale tutto questo? No, o meglio, bisognerebbe dire sì, ma quando il discorso si avvicina allo Stato d'Israele e a Gerusalemme, il parlare delle persone scivola con estrema facilità in una zona di fantastica irrealtà in cui le leggi della logica non funzionano più. Forse è un preannuncio della parola del profeta Zaccaria (12:2) «Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti". M.C.


Pizzaballa: Gerusalemme, ascoltare la voce dei cristiani

L'appello dell'amministratore apostolico del Patriarcato latino sul futuro della città. Presentata la nuova Guida per la Terra Santa.

di Filippo Passantino

Pierbattista Pizzaballa
Si discute tanto di confini e di assetti futuri a Gerusalemme e non entriamo in questo dibattito politico ma come cristiani siamo parte di quella terra. Quindi, quando se ne dovrà discutere, bisognerà considerare la nostra presenza e le nostre attese». L'arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, da Roma chiede alla comunità internazionale che la voce dei cristiani in Terra Santa venga ascoltata, in occasione della ridefinizione dei confini della città. Un tema di attualità, dopo che gli israeliani hanno pianificato un'ulteriore espansione dei propri insediamenti nella zona che dovrebbe fare parte del futuro Stato palestinese. L'occasione per lanciare l'appello è stata la presentazione, giovedì, della "Guida francescana per pellegrini e viaggiatori" (Edizioni Terra Santa), curata da fra Heinrich Fürst e fra Gregor Geiger, nella sede romana della delegazione della Custodia di Terra Santa. Proprio una guida, secondo monsignor Pizzaballa, può essere «uno strumento per esprimere la nostra presenza, per manifestare che in quei luoghi c'è anche la nostra identità. La Terra Santa è anche nostra non in senso politico, ma in senso storico, spirituale, teologico. E molto importante come noi oggi la leggiamo, vediamo e consideriamo, perché vi apparteniamo non meno di tanti altri». Il progetto originario della guida, riconosciuta dalla Custodia, risale agli anni '60, quando si cominciò a delineare la possibilità di realizzare uno strumento di supporto per viaggiatori e pellegrini. Un progetto che, però, non aveva mai visto la luce fino a oggi. L'amministratore apostolico del Patriarcato ne svela i retroscena. «Quando divenni custode uno dei tanti progetti che presentai fu quello di elaborare una guida in lingua italiana - racconta monsignor Pizzaballa -. All'inizio si pensava a una revisione di un testo già scritto, poi si reputò opportuno prepararne uno ex novo, perché la situazione nel frattempo era totalmente cambiata. Si affidò l'incarico a diverse persone, soprattutto a uno studio biblico, ma nessun progetto andò a buon fine o perché il responsabile andò via o perché morì. Quando uscì questa guida in lingua tedesca si pensò di prenderla come riferimento. E così cominciò il lavoro», oggi racchiuso in 800 pagine. Sono 32 le pagine a colori con le mappe delle principali città e dei siti archeologici; più di 200 i luoghi descritti. Per ogni località sono ricordati i riferimenti biblici, con oltre 180 brani riportati integralmente. Un lavoro che fra Gregor Geiger, docente allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, ha ripreso e aggiornato dai testi che fra Heinrich Fürst, morto nel 2014, gli aveva affidato. «Mi consegnò il file del testo in un vecchio floppy disk- racconta Geiger -. Visitando i luoghi ho notato che qualcosa nel tempo era cambiata. Così ho aggiornato i testi e ho aggiunto al titolo della guida la parola "francescana", perché ho ricordato la visita di Francesco in Terra Santa e ne ho dato una lettura francescana anche grazie ai vari contributi di studiosi della Custodia».

(Avvenire, 7 maggio 2017)


«...
non entriamo in questo dibattito politico», dice l’«amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme», però pretende che gli altri debbano «considerare la nostra presenza e le nostre attese». Ecco che cos’è la chiesa cattolica istituzionale: non entra nel dibattito politico perché ritiene di avere diritti storici, spirituali e teologici superiori a quelli politici, a cui sono sottoposti i comuni mortali. Gli altri devono ascoltare le sue richieste e lei non si sente in dovere di ascoltare nessuno. Quando Pizzaballa pretende che «la voce dei cristiani in Terra Santa venga ascoltata» arroga all’istituzione ecclesiastica cattolica un’autorità che si è data da sola e che moltissimi cristiani non le riconoscono affatto. Tanto meno riconoscono la presenza di una “Custodia di Terra Santa” nella terra che il Signore ha assegnato al popolo ebraico, non al papa. M.C.


Israele è ebraica dai tempi di Abraham

Lettera a "il Giornale"

Condivido quanto scrive Fiamma Nirenstein (il Giornale 3/5). Sono credente e amo Israele perché il mio Signore era Ebreo ed è morto e risuscitato Ebreo, e la Terra di Israele è ebraica fin dai tempi di Abraham conquistata da Giosuè per grazia e volontà di Dio, terra che prima era dei cananei e mai è stata e mai sarà dei palestinesi.
Pasqualina Bertaglia

(il Giornale, 7 maggio 2017)


Alla ricerca dell'identità ebraica

di Gaspare Polizzi

Non è stato facile per Giancarlo Gaeta curare l'edizione italiana postuma del dialogo autobiografico di Imre Toth con lo scrittore ebreo ungherese Péter Vardy raccolto in tre diverse interviste tra il 1987 e il 1999 e variamente rivisto dallo stesso Toth, impegnato in continue riscritture dei suoi testi, pubblicato a Budapest nel 2004, viene ora tradotto in italiano da Francesca Ervas, a partire da una versione francese inedita di Judith Dupont. Si tratta di una delle migliori riflessioni sulla condizione ebraica. Toth aveva dedicato a questo aspetto decisivo della sua biografia e della storia del Novecento Essere ebreo dopo l'olocausto (Prefazione e cura di Bianca Maria d'Ippolito, Postilla di Romano Romani, Cadmo, Fiesole 2002, ora disponibile anche in versione digitale), a sua volta ricavato dal contributo al Convegno Internazionale Olocausto. La Shoàh. tra interpretazione e memoria (Napoli, 5-9 maggio 1997). E alcuni flashes nell'intervista biografico-teorica a mia cura «Deus fons veritatis»: il soggetto e la sua libertà. Il fondamento antico della verità matematica («Iride», 2004).
  Fino ad allora, come scrisse nel 1982 in una lettera a Péter Vardy riportata nella Prefazione, Toth non aveva dato risposta all'interrogativo «qual è l'identità ebraica oggi»: «Per ragioni personali, questa domanda mi ha preoccupato molto e a lungo, proprio perché non trovavo alcuna risposta che avrebbe potuto soddisfarmi... Questa risposta non ho potuto trovarla da nessuna altra parte, se non nella mia produzione». Si tratta di capire come questo libro risponda alla domanda esistenziale e storica, sul piano soggettivo - che cosa ha significato per Toth essere ebreo - e su quello oggettivo - che cosa significa «essere ebreo». Una prima risposta la fornisce Vàrdy: «Nella vita di Imre Toth l'ebraicità è il filo che collega l'individuale al generale, la sua esperienza personale con la storia della scienza»; «Nell'opera di Imre Toth è questo il cantus firmus. Egli non è stato uno studioso esclusivamente centrato sulla sua professione, ma un intellettuale che ha presentato in un rapporto sinottico unico i tesori della storia delle idee, le catastrofi della storia e i valori dell'uomo libero».
  Ma che cosa ha a che fare con l'ebraismo la produzione scientifica di Toth, appartenente alla sua «seconda vita», lontana da quella «prima vita» che si concluse nell'esperienza terribile delle prigioni e dei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale.
  Lo studioso di filosofia e di storia della matematica, docente prima all'Università di Bucarest, poi, dopo la sua fuga in Germania nel 1969, a Francoforte sul Meno, Bochum e Ratisbona, dove fu collega di papa Ratzinger, come si riconosce nell'ebreo comunista in fuga, che evase più volte dal carcere e più volte rischiò la vita, che si salvò per una strana coincidenza, il 6 giugno 1944 (giorno dello sbarco in Normandia), dalla deportazione ad Auschwitz, dove morirono 18863 ebrei della sua città,insieme ai suoi genitori, per rischiare poco dopo di morire schiacciato sotto un grosso blocco di cemento.
  Toth è autore di opere importanti per gli antichisti e gli storici e filosofi della scienza, a partire dal saggio che lo rese celebre, Das Parallelen problem im Corpus Aristotelicum (1967, parzialmente tradotto in italiano da Elisabetta Cattanei con prefazione e introduzione di Giovanni Reale per l'editore Vita e Pensiero nel 1997) integrato ed esteso in Fragmente und Spuren nicht euklidischer Geometrie bei Aristoteles (pubblicato postumo da De Gruyter nel 2010 ).
  Qui Toth esamina diciotto frammenti aristotelici nei quali ritrova una riflessione geometrica non-euclidea già diffusa nell'Accademia di Platone. Seguiranno altre opere importanti, in parte legate all'assidua frequentazione dell'Istituto Italiano degli Studi Filosofici di Napoli e al sostegno di Gerardo Marotta con il quale Toth strinse un'amicizia profonda. Nel primo seminario napoletano del luglio 1993 - Sulla filosofia della matematica di Frege - Toth espresse una critica filosofica e politica dell'opera di Gottlob Frege che non deve aver giovato alla diffusione del suo pensiero in Italia (cfr. ora La filosofia della matematica di Frege. Una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica, a cura di Teodosio Orlando, Quodlibet, Macerata 2015). È nell'opera più singolare - No! Libertà e verità, creazione e negazione. Palinsesto di parole e immagini (1988), vastissimo collage di citazioni in positivo o in negativo sulla geometria non-euclidea - la chiave per rispondere. Come sottolinea Gaeta nella Postfazione, si tratta di «un atto rivoluzionario ricorrente con significativa frequenza nell'intellettualità ebraica del Novecento: «scardinare il continuum della storia», secondo la formula di Benjamin». No! esprime in forma anche artistica - Toth ha praticato con successo l'arte del collage - la cifra del pensiero "ebraico" di Toth: «la fonte dell'esistenza matematica è la libertà dello spirito, vale a dire l'atto della negazione».
  Quella libertà coniugata sapientemente con la verità in La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale (2007), Liberté et vérité. Pensée mathématique et spéculation philosophique (2009), e Platon et l'irrationnel mathématique (postumo, 2011). Sul piano "oggettivo" la risposta è sintetizzata in una pagina del libro: «Gli ebrei sono una categoria unica nell'umanità, un ha pax legomenon della storia, non ce ne sono altre»; «sono sussistiti per due millenni perché c'era bisogno di loro», «hanno assicurato l'unità dell'umanità, sono stati i mediatori tra i campi nemici, tra l'Islam e la cristianità, tra i Greci e i barbari, tra Roma e i barbari»; «il solo fossile vivente della storia europea, che allo stesso tempo progrediva sempre insieme alla propria epoca. Gli ebrei erano dunque sempre dei contemporanei [...] ma anche la sola comunità umana che ha conversato la propria identità, che è rimasta se stessa».
  Imre Roth, ebreo ungherese di Satzmàr, divenuto Toth per salvare la pelle («Kati [...] Mi presentò a sua madre come Imre Toth, maresciallo, ferito al fronte. Di qui il mio nome»), lascia ai posteri la potenza del suo ricordo per ricostruire un mondo di uomini e relazioni, a partire da una piccola città della Transilvania, e per capire che cosa significa "essere ebreo". Ma non dice tutto. Consegnerà a Januaria Piromallo (Il sacrificio di Éva Izsak, chiarelettere, Milano 2014) la storia di una giovane ebrea ungherese fatta suicidare nell'estate del 1944 da Imre Lakatos (alias Imre Lipsitz), filosofo della scienza e allievo di quello stesso Karl Popper che favorì la sua nomina all'Università di Ratisbona.

(Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2017)


Il nuovo leader di Hamas è Ismail Haniyeh

Il centro del potere del movimento islamico palestinese torna nella Striscia di Gaza. Sostituito Khaled Meshal, leader in esilio in Qatar.

 
Ismail Haniyeh
A pochi giorni dalla pubblicazione della nuova Carta che sostituisce quella del 1998, Hamas cambia anche il vertice politico: Ismail Haniyeh ha sostituito Khaled Meshal, leader della fazione islamica in esilio in Qatar, in carica dal 2004. Una scelta - grazie a complesse, e in larga parte segrete, elezioni - che sembra riportare il centro del potere a Gaza City, nella Striscia.

 Vive in una villetta dentro al campo profughi
  Il nuovo capo risiede in una villetta ultra protetta nel campo profughi di Shati ad un passo dal mare, mentre Meshal da tempo viveva a Doha come gran parte dei dirigenti di Hamas. Considerato un pragmatico, ma non per questo meno deciso verso quella che continua a definire «l'entità sionista», Haniyeh - conosciuto anche come Abu Abed, (54 anni, sposato) - è nato proprio in quel campo profughi dove vivevano i genitori originari di Ashkelon.

 Più volte in carcere dopo il 1987
  Più volte incarcerato da Israele per le sue azioni durante la Prima Intifada del 1987, nel 1992 fu espulso nel sud Libano insieme ad altri centinaia di quadri di Hamas e della Jihad Islamica. Mentore di Haniyeh è stato lo sceicco Ahmed Yassin, il clerico fondatore di Hamas e teorico degli attentati suicidi contro lo Stato ebraico, ucciso da Israele nel 2004. La svolta è arrivata nelle elezioni del 2006 quando Haniyeh ha portato Hamas alla vittoria nella Striscia sconfiggendo Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas).

 Stretto contatto con i vertici a Doha
  Un voto la cui conseguenza è stata, l'anno successivo, la rottura definitiva con Fatah - che permane ancora oggi - e la presa del potere dopo una cruenta guerra civile. Haniyeh è diventato così primo ministro della Striscia in un governo di un movimento che la comunità internazionale non riconosce e che considera, in larga parte, organizzazione terroristica. In tutti questi anni - compresi vari conflitti con Israele - Haniyeh ha comandato l'ala politica in stretto contatto con i vertici a Doha.

 Appoggiato dall'ala militare
  Quella che oggi lo porta al vertice di Hamas è stata considerata da tutti gli analisti una nomina senza sorprese e senza rivali. Gli altri candidati finali, Mohammad Nazal e Musa Abu-Marzuq (ex presidente di Hamas), non sembrano aver mai avuto chance reali ed Haniyeh - secondo molti osservatori - ha potuto contare sull'ala militare della fazione guidata da Mohammed Deif e Marwan Issa. Abd Al-latif Alqanou, portavoce di Hamas, citato da fonti locali, ha detto oggi che la nomina di Haniyeh «riflette la forza interna dell'organizzazione e consolida la sua democrazia».

 Emergenza umanitaria a Gaza
  Secondo le stesse fonti, Hamas dovrebbe tenere una conferenza stampa ufficiale sull'elezione prima del 15 maggio. Ma le prove che attendono Haniyeh - sempre vestito all'occidentale - sono la situazione umanitaria disastrosa nella Striscia e la sfida lanciata da Abu Mazen, deciso a non concedere più spazio ad Hamas dopo le annose procedure su una riconciliazione con Fatah mai avvenuta di fatto. E non è un caso che il presidente palestinese abbia deciso nei giorni scorsi di non pagare più il conto delle bollette elettriche nella Striscia.

(Lettera43, 6 maggio 2017)


Bambini in fuga da Hitler e Gran Muftì

Mirella Serri a Grosseto con il suo nuovo libro sui ragazzi di Villa Emma

di Saralandi

Da sinistra, Dianora Tinti, Mirella Serri e Francesca Ciardiello
GROSSETO - Chi sono i ragazzi di Villa Emma di Nonantola (Modena)? Che cosa ci insegna la loro storia che parla dell'orrore dell'antisemitismo e delle persecuzioni razziali durante la seconda guerra mondiale ma anche della generosità fino all'eroismo di coloro che si adoperarono per salvarli?
   Lo racconta magistralmente nel libro "Bambini in fuga" edito da Longanesi la giornalista, saggista e docente universitaria Mirella Serri, ieri a Grosseto per presentare questo suo ultimo lavoro. A ospitare l'incontro con l'autrice, organizzato dalla libreria Mondadori di Grosseto insieme alla scrittrice Dianora Tinti e alla giornalista Francesca Ciardiello, la sala Marraccini di Banca Tema sul Corso.
   La storia su cui Serri fa luce riguarda un gruppo di giovanissimi ebrei di età compresa tra i 6 e i 17 anni e provenienti da vari paesi europei che restano senza genitori perché arrestati e spediti nei campi di lavoro. In realtà sono degli orfani perché la detenzione per i genitori precede la loro fine nelle camere a gas. Il gruppo di fuggiaschi spera però di ricongiungersi coi genitori e invia loro pacchi di cibo e vestiario che tornano purtroppo indietro. Nella fuga per sfuggire alla persecuzione questo gruppo di giovanissimi ebrei arriva a Nonantola. La popolazione si mobilita generosamente malgrado la guerra per aiutarli e offre loro protezione e ospitalità per un anno intero. Ma dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 tutto cambia: Nonantola viene occupata dai nazisti e i ragazzi devono essere messi in salvo in fretta e tenuti nascosti, con la speranza di farli poi espatriare in Svizzera, anche se il loro obiettivo resta andare in Palestina. Nel raccontare la loro complessa vicenda Mirella Serri approfondisce una figura che ebbe un grande ruolo nella Shoah, il Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husayni, esponente dell'islamismo più radicale, collaboratore di Hitler e amico di Mussolini.
   Da Berlino al-Husayni cercò in ogni modo di bloccare l' espatrio e la salvezza degli ebrei, inclusi i ragazzi che avevano trovato ospitalità a Villa Emma di Nonantola, arrivando perfino a costituire una divisione autonoma di SS musulmane nei Balcani per precludere l'ultima via di scampo. Ma per contrasto con il male assoluto incarnato dal Gran Muftì di Gerusalemme brillano anche nel libro le figure degli eroi buoni, tra cui il sacerdote don Arrigo Beccari e il medico Giuseppe Moreali che si occuparono del salvataggio dei ragazzi di villa Emma e che nel 1964 sono stati non a caso i primi due italiani a essere riconosciuti da Israele come Giusti tra le nazioni.
   Al termine dell'incontro di ieri il poeta contadino Benedetto Bruni ha voluto omaggiare Mirella Serri con una sua poesia sul tema dei profughi (ancora inedita perché partecipa a un concorso letterario) e vergata a mano su pergamena dal calligrafo Ettore De Tora.

(Il Tirreno, 6 maggio 2017)


Presentata l'indagine alimentare condotta sui giovani della scuola ebraica di Milano

di Nathan Greppi

MILANO - Giovedì 4 maggio, nell'Aula Magna della scuola di Via Sally Mayer, sono stati presentati i risultati di una ricerca sull'alimentazione degli studenti. Per fare ciò, è stato dato un questionario di aderenza alla dieta mediterranea a 132 studenti dai 4 ai 15 anni. L'indagine, condotta dall'Associazione Medica Ebraica (AME) di Milano in collaborazione con l'IRCCS Istituto Galeazzi, ha adottato un test usato negli USA ed è stata fatta sulla comunità ebraica per vedere come i genitori educano i figli in una comunità multietnica e con abitudini alimentari e religiose diverse dagli altri.
   A moderare il dibattito è stato il Dott. David Fargion, presidente dell'AME di Milano, che ha subito dato la parola al Dott. Maurizio Turiel, primario di Cardiologia all'Istituto Galeazzi. Egli ha iniziato spiegando che tutto è nato per verificare l'idoneità dei ragazzi alle attività sportive del Maccabi. Il tutto doveva essere immediato ma allo stesso tempo puntando su buone qualità e quantità di domande, in modo da ottenere risultati concreti invece che parlare e basta. Il Prof. Turiel ha anche ricordato che proprio in questi giorni a Milano si terrà Food Week, un insieme di 300 eventi che martedì vedrà persino la presenza di Barack Obama.
   In seguito ha mostrato una serie di immagini e dati per spiegare che oggi le diete non servono solo a dimagrire: in Italia ogni anno 160.000 persone hanno un arresto cardiaco (una ogni 3-4 minuti), e le malattie cardiovascolari uccidono molto più del cancro, anche se c'è più interesse verso l'oncologia. Occorre capire come trovare i problemi anche nei ragazzi, perché purtroppo l'elettrocardiogramma non è più sufficiente. Un altro problema è dovuto al fatto che molte persone, sia uomini che donne, continuano a fumare anche dopo aver avuto un attacco cardiaco. Nel 2012 è stata fatta un indagine in tutta l'Italia, e si è scoperto che nell'81% delle donne e nel 74% degli uomini le malattie cardiovascolari sono ereditarie.
   Attraverso dei video il Dott. Turiel ha dato alcuni consigli:
  • Non fumare: è apparso un video girato in un paese del Terzo Mondo in cui i bambini fumano quando sono ancora piccoli. È ormai appurato che il fumo fa venire il cancro ai polmoni;
  • Fare attività fisica regolare; il livello massimo di sforzo non va oltre il numero dei battiti cardiaci. Inoltre, statisticamente chi è tachicardico vive più a lungo di chi è bradicardico;
  • Mangiare sano.
Subito dopo è venuto il turno del Dott. Matteo Breguglio, dietista dell'Istituto Galeazzi. Ha spiegato che una volta si chiedeva perché facesse quello che fa, dopodiché con un video ha spiegato il motivo: molte persone sono convinte di sapere tutto e di potersi curare da sole senza l'aiuto del medico, mentre in realtà questi li deve guidare. Parlando dell'alimentazione, ha raccontato che, secondo recenti scoperte, le popolazioni del Mediterraneo vivono più a lungo, e anche se la dieta non è stata ancora testata sui ragazzi è appurato che in generale fa bene. Purtroppo negli anni l'obesità è aumentata considerevolmente, dal 1975 al 2014 il tasso è più che raddoppiato, e si dice che entro il 2025 un quinto degli italiani sarà obeso.
   Nel test sono state fatte nove domande, otto sul cibo e una sull'alcol nonostante la loro età. Per farlo è stato copiato il KIDMED, un test effettuato in America che è stato usato anche in Spagna su migliaia di ragazzi. Nel caso della scuola ebraica, quelli che l'hanno fatto avevano un età media di otto anni, un peso medio di 27 chili che è nella norma a quell'età, e su una scala da 1 a 12 i maschi hanno ottenuto un punteggio medio di 7 (medio) e le femmine 8 (buono), perché esse sono più attente alla linea. Secondo le ricerche si pensa che i ragazzi mangeranno sempre peggio, e in particolare gli adolescenti che si allontanano dall'ambiente familiare. Infine, il Dott. Breguglio ha dato alcuni suggerimenti, piccoli ma importanti: inserire gradualmente frutta e verdura nei pasti senza sovraccaricare, riducendo zuccheri e fast food.
   A questo punto ha preso la parola Rav Igal Hazan, che ha parlato del legame tra salute e kashrut: kasher significa "idoneo", non conta solo il peso ma anche cosa mettiamo in bocca. La kashrut non serve per la salute fisica, bensì per quella spirituale. Tuttavia, ogni mitzvà serve non solo a preservare la nostra spiritualità ma anche a fini pratici, come lo Shabbat in cui si spengono i telefoni e si passa il tempo con la famiglia. Il bambino deve crescere sapendo che ci sono regole da rispettare. In tutti i cibi, sia biologici che ogm, occorre un certificato rabbinico per evitare le truffe, assicurarsi che sia kasher. Infine, il Rav Hazan ha concluso ricordando che oltre alle regole spirituali ce ne sono altre che i nostri maestri hanno emanato per tutelare la salute.
   
(Mosaico, 5 maggio 2017)


Vercelli, Comunita' Ebraica - Ritorna la rassegna "Via Foa in Concerto"

Ospiti nella Sinagoga di Via Foa saranno i musicisti del gruppo Le' Haim: Angel Harkatz Kaufman, cantore e tenore, Alfredo Scalari alla tastiera, Andrea Testa al violino e Matteo Valicella al contrabbasso

 
Il Gruppo musicale Le' Haim
Domenica 14 maggio 2017 ritorna la rassegna musicale Via Foa in Concerto con un evento dedicato alla donna.
Ospiti nella Sinagoga di Via Foa saranno i musicisti del gruppo Le' Haim: Angel Harkatz Kaufman, cantore e tenore, Alfredo Scalari alla tastiera, Andrea Testa al violino e Matteo Valicella al contrabbasso.
I maestri proporranno un concerto dal titolo Eshet Chail che significa "donna virtuosa" ed eseguiranno vari brani di tradizione chassidica, sefardita, klezmer e alcune note tratte dal folklore yiddish.
Il cantore Harkatz Kaufman si è già esibito a Vercelli in passato, incantando il pubblico con il colore della sua voce. Discendente di una famiglia che dall'Ucraina e dalla Polonia è emigrata in Argentina, proprio a Buenos Aires si è diplomato come tenore lirico all'Istituto Superiore di canto del Teatro Colon.
Il gruppo di cui fa parte, Le' Haim, è nato a Verona ma si è esibito in tutta Italia, spinto dalla necessità di raccontare al pubblico, attraverso le musiche tradizionali, la cultura ebraica. A Vercelli, dove grazie alla rassegna Via Foa in Concerto sono stati molti gli artisti che si sono cimentati con il repertorio tradizionale ebraico, il gruppo troverà un terreno fertile, in uno spazio, quello della Sinagoga, dove la Presidente Rossella Bottini Treves organizza annualmente eventi culturali di alto livello.
Tra i componimenti saranno presentati brani molto conosciuti, come lo Tzur mishelo chassidico, poema liturgico del XIV secolo parte del repertorio dei canti per lo Shabbat, e altri più particolari, come Avreml, danza yiddish composta da Mordecai Gebirtig, un poeta polacco che scriveva per le sue tre figlie e accompagnava le poesie con melodie improvvisate.
Molti saranno i canti d'amore dedicati alle donne, tra i quali Eshet Chail, canto tradizionale chassidico che da il nome al concerto, tratto dal Libro dei Proverbi (31,10-31). Elogio alla donna di valore, che si prodiga per il benessere spirituale e materiale della famiglia e della comunità, si canta prima del pasto dello Shabbat, per ringraziare colei che permette a tutta la famiglia di godere del riposo e della santità della festa.
Il concerto avrà inizio alle ore 18 e per partecipare non è necessaria la prenotazione.
Si comunica inoltre che domenica 21/05 il cimitero ebraico (Corso Randaccio 22) sarà aperto dalle 15 alle 18 per le visite guidate, mentre domenica 28/05, sempre dalle 15 alle 18, sarà aperta la Sinagoga.
Per maggiori informazioni:
Segreteria della Comunità Ebraica di Vercelli:
339 2579283 - segreteria.comunitaebraicavc@gmail.com

(VercelliOggi, 6 maggio 2017)


Trump vede Abu Mazen, 'avremo la pace'

Il presidente dell'Autorità palestinese Mahmud Abbas è stato ricevuto mercoledì alla Casa Bianca da Donald Trump, il quale ha espresso la speranza che possa giungere un periodo di pace tra palestinesi e israeliani. Trump si propone come mediatore nel dialogo tra le parti, ma aggiunge che non ci potrà essere una pace durevole se i dirigenti palestinesi non condannano gli appelli alla violenza. Pur prendendo le distanze dalla soluzione a due stati - da decenni riferimento della comunità internazionale - ha inoltre rivolto un appello, di fronte al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, alla "calma" sull'espansione delle colonie israeliane nei Territori palestinesi occupati
.
"La soluzione dei due Stati" per mettere fine al conflitto israelo-palestinese "può essere un contributo alla lotta al terrorismo", ha detto il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abbas al termine dell'incontro. Quindi vedremo se ci saranno i passi successivi e se la questione palestinese soprattutto avrà la stessa priorità che ora ha la questione coreana o quell'Is sullo scacchiere mondiale. Poi il fatto che Hamas abbia, non dico cambiato, ma rivisto la sua carta fondamentale riguardo i futuri confini dello Stato palestinese, potrebbe essere un'ulteriore indizio in questa direzione, per dire almeno che i negoziati tra Israele e Palestina devono partire da un'unica voce da parte palestinese, cosa che ha detto lo stesso Trump. "Nella mia vita ho sempre sentito che l'accordo più difficile da concludere è probabilmente quello tra israeliani e palestinesi".
"È giunto il momento che Israele interrompa l'occupazione del nostro popolo e della nostra terra dopo 50 anni". Ma Abu Mazen si è detto fiducioso anche sulla possibilità che le parti saranno in grado di risolvere il problema dei rifugiati e dei prigionieri.

(PostGenovaOnline, 6 maggio 2017)


Dunque Trump vuole “fare la pace” tra israeliani e palestinesi. Per Israele non c’è niente di più pericoloso. Trump potrebbe finire per assomigliare ad Ariel Sharon. Anche Sharon era un duro rispetto a tanti altri suoi connazionali dialoganti, ma alla fine della sua carriera, stanco di combattere e desideroso di tranquillità, ha voluto “fare la pace” con i suoi nemici, e con la sua durezza ha obbligato gli israeliani a cedere Gaza ai palestinesi. I quali poco dopo hanno “contribuito alla pace” con i missili di Hamas. Se Trump un giorno per “fare la pace” dovesse mettersi in testa che Israele deve tornare dietro la linea del ‘67, per gli israeliani comincerebbero tempi duri. Perché Trump non è un molle anti-Israele come Obama, lui è un duro pro-Israele. Come Sharon. M.C.


Barkat: "Ecco la nuova Gerusalemme: sarà la capitale dell'hi tech"

Il sindaco, in carica dal 2008, ha rivoluzionato la città: ora è tra i migliori poli di start up. E scommette sull'alta velocità.

di Ariel David

 
La ferrovia ad alta velocità collegherà Gerusalemme all'aeroporto in 20 minuti. Sono anche in costruzione due nuove linee di treni leggeri cittadini
GERUSALEMME - Cosa vi viene in mente se pensate a Gerusalemme? Forse i luoghi santi o le violenze legate al conflitto israelo-palestinese. Probabilmente non pensate a centri di ricerca, auto di Formula 1 che sfrecciano sotto mura millenarie e treni ad alta velocità. Ma è proprio a questo che pensa Nir Barkat, il sindaco che sta cercando di cambiare il volto di una delle più complesse realtà urbane del Medio Oriente. Da lunedì a Roma e Venezia per una serie di incontri della Jerusalem Foundation in occasione della festa dell'indipendenza d'Israele, Barkat ha parlato dei suoi progetti per Gerusalemme.

- È ora di aggiornare l'immagine che il resto del mondo ha della sua città?
  «Decisamente. Oggi Gerusalemme coniuga la storia con l'innovazione e il futuro. Negli ultimi anni, partendo quasi da zero, abbiamo scalato le classifiche dell'hi-tech, diventando uno dei 25 migliori ecosistemi al mondo per le start-up; e l'anno prossimo puntiamo a entrare nella top 20. E poi cresce il turismo: da 2 milioni di visitatori l'anno siamo passati a 4-5».

- A marzo la decisione di Intel di acquistare per 15 miliardi di dollari Mobileye, società basata a Gerusalemme che sviluppa software per auto senza pilota, ha acceso i riflettori sull'hi-tech in città. Si è trattato di un caso isolato?
  «Ci sono tante storie di successo, come OrCam, società che sviluppa occhiali con telecamera e software incorporati per aiutare i non vedenti a visualizzare e interpretare le immagini. In quattro anni siamo cresciuti da 250 start-up a 600, soprattutto nel campo medico e altre nicchie in cui competiamo con poli tecnologici come Tel Aviv grazie anche all'apporto di centri di eccellenza come l'Università Ebraica e l'Ospedale Hadassah».

- Come avete favorito questa svolta?
  «Le nostre ricerche hanno identificato due aree in cui avevamo un vantaggio competitivo: le scienze mediche e le alte tecnologie da una parte, il turismo e la cultura dall'altra. Ho impostato il nostro piano di crescita su queste aree e ho sollecitato l'approvazione di incentivi fiscali che hanno reso più attraente la città per le aziende».

- E sul turismo?
  «Abbiamo lavorato sulla domanda, creando una serie di eventi come la maratona e l'esibizione di Formula 1, e sull'offerta, approvando incentivi fiscali per l'industria alberghiera. Stiamo completando la ferrovia ad alta velocità che collegherà Gerusalemme con l'aeroporto in 20 minuti. E poi c'è la linea della ferrovia leggera in città, altre due sono in costruzione. L'obiettivo è ospitare più di 10 milioni di turisti l'anno».

- Gerusalemme è però ancora una delle città meno ricche del Paese. Molti, soprattutto arabi ed ebrei ultraortodossi, vivono sotto la soglia di povertà.
  «Sì, e per questo lavoriamo su tre fronti: creare posti di lavoro; migliorare l'istruzione adattandola ai bisogni del mercato e riducendo gli abbandoni scolastici; utilizzare i programmi di "welfare" per portare fuori dalla povertà più persone possibile, soprattutto bambini».

- Israele festeggia i 50 anni dalla riunificazione di Gerusalemme. Nell'ambito di un accordo di pace con i palestinesi, sarebbe favorevole a dividere la città per farne la capitale di due Stati?
  «La città non sarà mai divisa. Gerusalemme, come tutte le città del mondo, non può vivere divisa. Gerusalemme potrà funzionare solo se continuerà ad accogliere tutti, a rispettare tutte le religioni e i diversi modi di vivere come fa oggi. I palestinesi devono dimostrare di volere la pace e riconoscere Israele. Abbiamo saputo fare accordi con acerrimi nemici come Egitto e Giordania, ma con i palestinesi stiamo ancora aspettando. Se vorranno la pace troveremo una soluzione».

(La Stampa, 6 maggio 2017)


Israele, il Diritto è pluralista

di Cosimo Nicolini Coen

 
Il prof. Hanina Ben-Menahem
Hanina Ben-Menahem si è formato alla facoltà di Legge della Hebrew University, dove ora insegna, e a Oxford, dove ha ottenuto il suo dottorato. È specialista in filosofia del diritto e in filosofia del Mishpat ivri [diritto ebraico]. Gli interessi di Ben-Menahem, giurista e filosofo, spaziano da Nietzsche al Rambam senza trascurare gli aspetti di attualità legati a Israele. È proprio attraverso questo intrecciarsi di competenze teoretiche e preoccupazioni di carattere sociale che Ben-Menahem mostra l'attualità e l'interesse, anche per l'ebraismo secolare, dei temi provenienti dal Mishpat ivri.

- Professore, lei ha sostenuto il carattere pluralista del diritto ebraico. cosa si intende con questo? E, prima ancora, come definiamo il diritto ebraico rispetto alla tradizione orale [Torà she-be-al pe] che già presentava un chiaro côté normativo?
  La storia del diritto ebraico ha 2000 anni, tutto quello che c'è stato prima, nell'epoca biblica e in quella successiva fino all'inizio dell'Era Volgare non è considerato tale perché non abbiamo sufficienti conoscenze storiche di quel periodo, per cui si parla di diritto ebraico a partire dall'epoca della Mishnà. Da quel momento in poi esso si evolve, come vediamo dai due Talmudim, e tale evoluzione prosegue nel periodo dei Gheonim e successivamente nei differenti centri in Europa e in Africa settentrionale. Fino alla fondazione dello Stato di Israele il diritto ebraico si è sviluppato sotto il dominio di potenze straniere, si parlava solo di diritti che venivano concessi alle diverse comunità di giudicare i propri appartenenti secondo le proprie istituzioni. Il mishpat ivri è maturato nella vastità della Diaspora, attraverso forme molto differenti tra loro. Non è quindi possibile parlare di un unico diritto ebraico, ma di una pluralità di versioni, nello spazio e nel tempo, con un denominatore comune. L'idea fondamentale che, a mio giudizio, ha apportato alla filosofia del diritto è proprio l'istanza comunitaria, la possibilità di parlare di pluralismo giudiziario all'interno di un unico sistema. Ciò non è facilmente accettabile per il pensiero giuridico moderno dove è privilegiata la centralizzazione, ove si deve avere una Corte suprema che stabilisca cosa devono fare gli organismi inferiori.

- Lei ha scritto, in Suqiot ba-mishpat ha-ivri [Questioni di diritto ebraico], che il Rambam voleva "cancellare la mahloqet", la disputa o controversia giudiziaria tra le diverse opinioni in merito di Halakhà. Dal suo punto di vista il tentativo di uniformità messo in atto dal Rambam andava contro il carattere pluralista del diritto ebraico?
  Mi sono molto occupato del Rambam. È possibile dire che questi volesse fare una rivoluzione nella Halakhà e che - Barukh ha-Shem - non vi sia riuscito. A mio giudizio voleva introdurre la concezione greca di un'unica verità che uniformasse tutto il mondo della Halakhà, ma quel mondo si è sviluppato per mezzo di molte discussioni e questo è il suo grande punto di forza. Sicché possiamo dire che egli abbia tentato di "grecizzare" la Halakhà. È molto positivo il fatto che fosse favorevole allo studio della filosofia, della scienza, della fisica; aveva un pensiero aperto al mondo, ma nelle questioni di Halakhà voleva ridurre i margini di libertà dell'uomo, che dovevano essere collocati in una cornice fissa, da lui stesso delineata. Voleva realizzare una rivoluzione nel curriculum studiorum degli ebrei, ove non sarebbe stato obbligatorio studiare la Ghemarà poiché sarebbe bastato lo studio della Torà e del suo libro, il Mishné Torà. La mahloqet era un fenomeno contro il quale si opponeva con decisione. Scriveva in una forma univoca, come se non vi fosse alcuno spazio per un altro pensiero. Nei suoi scritti di Halakhà non condivide con il lettore i dubbi che, presumibilmente, poteva nutrire. Non dice: io sostengo questo ma è possibile che sia anche altrimenti; invece scrive direttamente la decisione nel suo esito finale. Il modus operandi del Rambam non è adeguato a quello della Halakhà. Dicono infatti i nostri saggi che vi è spazio per studiare le due opinioni, la mia e anche la tua, perché attraverso lo studio della mahloqet potrà arrivare un terzo e dire qualcosa di differente, fare un hidush [rinnovamento].

- In base a quanto lei ci ha descritto, però, il carattere pluralista del diritto ebraico sembrerebbe legato a doppio filo alla condizione diasporica. in questo senso sarebbe dovuto venir meno con il ritorno a una sovranità ebraica in terra di Israele?
  Quando fu fondato lo Stato si cominciò a parlare di un diritto che potesse essere espressione della sovranità ebraica ritrovata. Personalmente ritengo che questa sia un'idea estranea al diritto ebraico che non ama una centralizzazione come quella ricercata dal diritto occidentale. Preferisce essere diviso, privo di una struttura istituzionale gerarchica tale per cui si possa dire che la norma si origina dall'alto per discendere progressivamente in basso. Sicché il tentativo di fondare un diritto ebraico nello e dello Stato d'Israele è ai miei occhi molto problematico. Personalmente ritengo che si dovrebbe conservare l'idea che ogni comunità abbia il suo proprio orientamento normativo. Si dice che questa concezione comunitaria sia tipicamente diasporica, personalmente ritengo invece che sia il tratto distintivo del diritto ebraico.

- Per cui secondo lei il diritto ebraico in luogo di essere una fonte per il diritto nazionale, come una parte dello scacchiere politico israeliano vorrebbe, dovrebbe declinarsi su base comunitaria?
  Sì, poniamo: Bnei Brak o Zfat vogliono gestirsi attraverso il riferimento al diritto ebraico? Bene, che lo possano fare! Il punto è che ciò non sia qualcosa di univoco e vincolante per tutto Israele. Penso che ci convenga custodire l'idea di una struttura comunitaria, analogamente a quanto avviene negli Stati Uniti dove vi è una legge federale e le leggi dei singoli Stati. Israele è incomparabilmente più piccola, ma ritengo che la stessa idea si possa attuare anche qui.

- Questo per quanto concerne la sua visione. Quali sono, invece, allo stato attuale i rapporti tra diritto ebraico e diritto israeliano?
  Ci sono stati tentativi affinché la Knesset legiferasse secondo il diritto ebraico, ma c'è stata molta opposizione e sono falliti. L'unico ambito che in Israele è regolato dal diritto ebraico è il diritto di famiglia. Oltre a questo ci sono singole leggi emanate nello spirito del mishpat ivri; ma sono una minoranza molto esigua. Vi sono poi molti tribunali privati che giudicano in base a esso ma questo viene fatto in modalità volontaria, quando da ambo le parti vi è accordo nel ricorrervi, come è tipico dell'arbitrato.

- Y. Leibowitz. grande talmudista, scienziato e filosofo israeliano, prese posizione contro l'assenza di una netta divisione, sul modello illuminista, tra Stato e religione in Israele. Lei cosa ne pensa?
  E' corretto, in Israele non vi è una netta divisione, ad esempio, come si diceva, nel diritto di famiglia. Personalmente vorrei che Stato e religione fossero due categorie distinte. Vi sono però modelli differenti: vi è quello americano ove lo Stato non sostiene nessun istituto religioso, e vi è quello inglese ove vi è divisione ma lo Stato finanzia i diversi istituti religiosi in modo eguale. Sono d'accordo con Leibowitz, penso che lo Stato debba svincolarsi da questa sorta di abbraccio con la religione. Lo Stato deve permettere all'ebraismo di svilupparsi, ma il diritto ebraico non deve dettare legge. Questo significa: chi vuole contrarre matrimonio secondo il diritto ebraico vada dal rav, ma ad essere obbligatorio deve essere solo un contratto di tipo statale, indipendente dalla religione. Oppure, prendiamo l'esempio dello Shabbat. In accordo a quanto dicevo prima, penso che lo Shabbat debba essere gestito da ogni singola comunità sulla base di ciò che vuole, mentre allo stato attuale vi è una legge di tipo nazionale . Ciò non è positivo. E' senz'altro preferibile che ciascuna comunità si organizzi secondo il proprio ordine normativo. A Gerusalemme la maggioranza non vuole che gli autobus circolino di Shabbat? Benissimo, ma che non debba valere anche per Tel Aviv. Questi problemi sussistono perché vi è ancora un legame profondo tra Stato e religione, e questo è ciò che dobbiamo cambiare. Siamo sufficientemente adulti, come Stato, per poterlo fare. Ma vi è ancora molta pressione da parte dei gruppi e partiti religiosi. L'argomento secondo il quale è necessaria una legge unica in tutto il paese mi pare scorretto, e questo precisamente in virtù della storia del diritto ebraico che ci ha insegnato la possibilità di essere un insieme di comunità ove ciascuna presenta delle caratteristiche distinte, anche negli aspetti di Halakhà.

(Pagine Ebraiche, maggio 2017)


L'Italia è un Paese dove investire, dice l'ambasciatore israeliano a Roma

Un Paese che vanta "una solida capacità industriale, accademica, e soprattutto un buon grado di sicurezza", in un contesto globale minacciato dal fenomeno del terrorismo. Ma c'è ancora molto da lavorare perché tra gli investitori israeliani si diffonda una percezione dell'Italia, così come avvertita da Ofer Sachs, ambasciatore diIsraele in Italia da settembre scorso, protagonista, ieri sera a Roma, di unincontro con gli studenti del Collegio universitario dei Cavalieri del Lavoro"Lamaro Pozzani".
   "L'Italia - dice - è veramente un bel Paese dove lavorare insieme. Sfortunatamente la maggior parte degli imprenditori israeliani va negli Stati Uniti, in molti casi nel Regno Unito oppure in Cina o in India. Negli ultimi anni sono stati questi i principali motori dell'industria tecnologica israeliana". Ma la partita non è chiusa. Anzi, assicura Sachs, "è sicuramente parte della mia missione far cambiare idea agli imprenditori del mio Paese".
   Per il giovane diplomatico (45 anni,di cui gli ultimi cinque trascorsi a Bruxelles come rappresentante delle relazioni economiche di Israele con la Ue), è necessario implementare il dialogo e lo scambio commerciale tra l'Italia e Israele.
   Punto di forza del nostro Paese, più volte rimarcato dall'ambasciatore, il grado di sicurezza nello scacchiere internazionale. "Penso che l'Italia debba andare molto fiera di avere al suo interno una situazione di forte sicurezza. E' un chiaro messaggio per chi vorrebbe danneggiarla".

(FTA Online, 5 maggio 2017)


Il premier romeno Grindeanu a Gerusalemme

Bucarest fortemente impegnata in lotta contro il terrorismo

Il Primo Ministro romeno Sorin Grindeanu e Benjamin Netanyahu
BUCAREST - Gli attacchi terroristici in Europa negli ultimi anni sono allarmanti e, purtroppo, anche cittadini romeni sono morti in questi attentati. La Romania rimane ferma nel sostenere la lotta contro il terrorismo. Lo ha detto il primo ministro della Romania, Sorin Grindeanu, nel corso della sua visita ufficiale a Gerusalemme, al termine dell'incontro con l'omologo israeliano, Benjamin Netanyahu. "Condanniamo il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni e sottolineiamo il fatto che non può esserci alcuna giustificazione per tali atti. Nel 2017 Romania e Israele celebrano 69 anni di relazioni diplomatiche ininterrotte. Questa continuità dimostra la forza della nostra amicizia", ha detto Grindeanu, aggiungendo che Israele è "il più vicino alleato e partner" della Romania in questa regione. Il primo ministro romeno ha poi detto che vuole sviluppare le relazioni economiche tra Romania e Israele e ha ribadito l'impegno del governo romeno per l'istituzione, a Bucarest, del Museo di Storia ebraica e dell'Olocausto.

(Agenzia Nova, 5 maggio 2017)


Niente piogge in Israele. Allarme siccità nel nord del Paese

La parte nord di Israele, quella che maggiormente fornisce di acqua il paese, è entrata in un anno di siccità: lo denuncia il Servizio meteo nazionale spiegando che la zona ha registrato finora solo il 71% di piogge rispetto alla media nazionale annuale. In base a standard climatici internazionali se in un luogo in un anno cade meno dell'80% della media nazionale delle piogge, allora si può parlare di «anno secco». A causa della «preoccupante» situazione l'Autorità delle acque israeliana ha deciso quindi di pompare decine di milioni di metri cubi di acqua desalinizzata nel Lago di Tiberiade - una grande riserva di acqua potabile del paese - in modo da contrastarne la progressiva siccità. La mancanza di acqua nel Lago sta causando - hanno riferito i media - un aumento dei livelli del sale che potrebbe portare ad un degrado dell'ambiente e a rendere l'acqua inservibile per l'irrigazione e per il consumo. Nonostante l'anno secco della parte nord,
Israele non sembra per ora a rischio di mancanza di acqua grazie ai suoi impianti di desalinizzazione. Questo attuale è il quarto anno consecutivo che la zona settentrionale del paese - dove appunto si trova il Lago di Tiberiade - è colpito dalla siccità.

(ANSAmed, 5 maggio 2017)


Gerusalemme non ha alcun bisogno dell'Unesco

Anziché farfugliare scuse e giustificazioni, Israele fa bene ad affermare la verità in modo chiaro e forte

Mi trovavo in Italia, pochi giorni fa, quando l'Unesco ha adottato un'altra delle sue sciagurate risoluzioni che cercano di negare ogni legame fra ebrei, stato ebraico e Gerusalemme. Ovviamente nessuno in Italia si preoccupava minimamente della cosa. L'unica cosa che interessa agli italiani in questo periodo per quanto riguarda l'Unesco è la campagna che mira a convincere l'organizzazione ad includere l'arte della pizza napoletana nella sua prestigiosa lista del patrimonio culturale dell'umanità. Ma se anche la campagna fallisse, ciò non renderà affatto gli italiani meno orgogliosi della loro pizza. Questo è esattamente l'atteggiamento che dovremmo avere anche noi israeliani.
Con o senza l'Unesco, Gerusalemme è e resta il fondamento della nazione ebraica, la capitale d'Israele. Tutti gli altri sono solo graditi ospiti. Non c'è Gerusalemme senza Israele e non c'è Israele senza Gerusalemme. Noi ebrei cercheremo di accogliere tutti gli ospiti a braccia aperte, ma saremo altrettanto e più determinati nel confermare la nostra sovranità su tutte le parti di una città che è sempre stata unica, e nell'invalidare ogni tentativo di mettere in dubbio il suo futuro, sia che il tentativo venga fatto da un'organizzazione internazionale irrilevante e inutile come l'Unesco, sia da chiunque altro....

(israele.net, 5 maggio 2017)


Gerusalemme, il calcio multietnico nel cuore della Città vecchia

Grazie a un progetto italiano bambini arabi e israeliani, ebrei, cristiani, musulmani e armeni giocano insieme. Lo spazio è stato donato da sportivi celebri come Ancelotti, Pellegrini e Valentino Rossi.

di Ariela Piattelli

 
GERUSALEMME - A Gerusalemme, davanti alla porta di Sion, nel cuore della Città Vecchia, a pochi passi dal Santo Sepolcro c'è un campo da calcio. Si trova accanto ad una scuola armena e da li si vedono le mura della città e la spianata delle moschee. Quel campo, donato da celebri sportivi, come Carlo Ancelotti, Federica Pellegrini e Valentino Rossi, è diventato una scuola di calcio e i pulcini del Roma Club Gerusalemme ci hanno giocato il torneo di fine anno. Il club è composto da bambini arabi e israeliani, ebrei, cristiani e musulmani, e da qualche mese anche armeni.

 Un puzzle culturale
  «Con la partecipazione della comunità armena, abbiamo aggiunto un'altra componente importantissima nel puzzle culturale che stiamo costruendo», spiega Samuele Giannetti, vicepresidente del Roma Club Gerusalemme impegnato da molti anni nel progetto multiculturale che mira a creare una forma di dialogo attraverso il campo di calcio, e a dimostrare che vivere insieme è possibile. «In quel campo ci alleniamo due volte a settimana. Vogliamo essere un esempio di civiltà, il nostro club riassume le diverse anime di Gerusalemme - continua -. Solo l'educazione dei ragazzi può migliorare il futuro, e noi li educhiamo alla convivenza attraverso il calcio». Lo sport diventa un antidoto contro l'ignoranza, la diffidenza e la sfiducia. «E' uno strumento di conoscenza reciproca, che va ben oltre il gioco fine a se stesso. D'altra parte se questo campo di calcio non esistesse questi ragazzi non si incontrerebbero mai. Mentre oggi sono loro a portare nelle case e nelle loro famiglie un esempio di dialogo».

 La scuola del dialogo
  La scuola di calcio ospitata nel quartiere armeno è nata da un'idea del Consolato Generale d'Italia a Gerusalemme, che ne ha promosso la realizzazione, grazie alla disponibilità di ospitarla da parte del Patriarcato armeno. «La scuola mira a far giocare insieme bambini delle comunità cristiana, ebraica e musulmana che compongono Gerusalemme - spiega il Console Generale Fabio Sokolowicz -, e ad offrire loro un'occasione per conoscersi meglio in una terra nella quale il dialogo è spesso complicato». Il campo di calcio è stato inaugurato lo scorso settembre dal presidente della Figc, Carlo Tavecchio, a conclusione di un progetto di riqualificazione promosso da "Caritas Gerusalemme" in collaborazione con l'associazione italiana "Assist for Peace", di cui fanno parte personaggi dello sport.

 Il processo di reciproca conoscenza
  «Allarghiamo gli orizzonti di un processo di conoscenza, di un percorso di pace - spiega il presidente del Roma Club Gerusalemme Fabio Sonnino -. Il nostro progetto è una goccia nel mare, ma da qualcosa si dovrà pure iniziare. Il campo è stato donato da sportivi professionisti, e ciò conferma la vocazione dello sport ed unire e non dividere». Al torneo di fine anno era presente anche la Nazionale di calcio dei diplomatici italiani, composta da diplomatici provenienti da Roma e dalle ambasciate sparse per il mondo, in Israele per giocare a Hebron con una squadra composta da rappresentanti della Municipalità e dei cinque Paesi membri della missione internazionale di osservazione presente nella città, e a Tel Aviv con la Nazionale Artisti israeliana.

(La Stampa, 5 maggio 2017)


Dal Belgio alla Svezia, quei paesi europei all'Onu "venduti" ai regimi islamici

Votano contro Israele e per i sauditi sui diritti delle donne. Non c'è nulla che i petrodollari non possano comprare: neppure la famosa politica estera svedese all'insegna del "femminismo", della tolleranza e dei diritti umani.

di Giulio Meotti

ROMA - Cosa hanno in comune dittature come Iran, Cina, Qatar, Sudan e una democrazia fra le più avanzate del mondo, la Svezia? Un voto all'Unesco che, lunedì, ha cancellato le radici ebraiche (e cristiane) di Gerusalemme, accusando Israele di essere "potenza occupante" nella sua stessa capitale e città santa ("fake history", l'ha definita il governo di Benjamin Netanyahu). Stoccolma, infatti, è stato l'unico paese europeo a votare la risoluzione dell'agenzia Onu per la cultura e la scienza assieme ai regimi arabo-islamici nel giorno dell'indipendenza dello stato ebraico (l'Italia ha votato contro la risoluzione, mentre la Francia si è astenuta). Il governo israeliano ha convocato l'ambasciatore svedese, Carl Magnus Nesser, per condannare l'"ipocrisia" del suo governo (poche ore prima del voto, Nesser aveva postato su Facebook un video facendo gli "auguri" allo stato ebraico). Ma la Svezia, nella stessa settimana, non è stata in grado soltanto di apparentarsi a odiosi regimi islamisti che vogliono distruggere Israele, come l'Iran. Anche alla Commissione dell'Onu per i diritti delle donne gli svedesi sono stati maestri di doppiezza.
   Questa commissione, infatti, ha appena ammesso per quattro anni fra i suoi membri un regime dove le donne non possono guidare, dove non possono muoversi senza il marito e che risulta 134esimo su 145 paesi secondo il World Economic Forum's Gender Gap Rating: è l'Arabia Saudita, o come ha scritto il romanziere algerino Kamel Daoud, "un Isis che ce l'ha fatta". Riad è riuscita a entrare nella commissione dell'Onu che dovrebbe difendere i diritti delle donne grazie al voto di alcuni paesi europei, fra cui si ritiene la Svezia (Stoccolma si è rifiutata fino a ora di confermare se abbia votato a favore). Stesso silenzio da parte dell'Inghilterra e dell'Irlanda.
   "La Svezia al 90 per cento ha votato per i sauditi", ha detto Hillel Neuer, direttore di Un Watch, l'organizzazione che monitora le varie agenzie delle Nazioni Unite. Wikileaks ha invece offerto 10 mila dollari a chiunque avrebbe rivelato il voto di Stoccolma.
   Sicuramente c'è un paese europeo che ha votato a favore dell'ingresso dei sauditi: il Belgio, tanto da spingere il premier Charles Michel a chiedere "scusa" per la decisione. Ma non è stata una gaffe, quella belga. Alla delegazione di Bruxelles era stato chiesto espressamente di votare a favore dei sauditi e di far persino sapere ai sauditi, come da leak usciti in questi giorni, che il Belgio nel segreto dell'urna aveva votato a favore del loro regime.
   Il ministro degli Esteri belga, Didier Reynders ha voluto che la delegazione cercasse di "informare i vari candidati, tra cui l'Arabia Saudita" circa il suo sostegno, nonostante il voto fosse segreto. Un anno fa era stato il governo inglese di David Cameron a dare luce verde per l'ingresso dei sauditi in un'altra commissione, quella per i Diritti umani a Ginevra. Non c'è nulla che i petrodollari non possano comprare: neppure la famosa politica estera svedese all'insegna del "femminismo", della tolleranza e dei diritti umani.
   Il Belgio è un grande alleato dei sauditi in Europa, fin dal 1974, quando il re Baldovino offrì alla Casa Saud, in cambio di rifornimenti energetici importanti, il Pavillon du Cinquantennaire con un affitto della durata di 99 anni. A duecento metri dal quartier generale dell'Unione europea, sorge quella che oggi è nota come la Grande Moschea del Cinquecentenario, con cui i sauditi sono diventati l'autorità islamica de facto del Belgio. Anche a distanza di quarant'anni, i custodi della Mecca continuano a incassare la loro cambiale, scritta col tradimento dei valori europei.

(Il Foglio, 5 maggio 2017)


Gestione catastrofi, da Tel Aviv arriva ad Avezzano il professor Kobi Peleg

A sinistra, il prof. Kobi Peleg, uno dei massimi esperti al mondo sulla gestione delle catastrofi
AVEZZANO - L'Abruzzo può diventare la Regione italiana modello del sistema di emergenza. E' questa la sfida che lancia Rivolta Italia Abruzzo, nella persona del presidente Antonio Del Corvo, nel convegno internazionale organizzato con la collaborazione scientifica di "Abruzzo 2020 Sanità Sicura" ed in programma sabato 6 maggio, alle ore 9.30, al Castello Orsini di Avezzano. "Da Abruzzo 2020 Sanità Sicura ad una nuova cultura dell'emergenza sanitaria, civile e militare come interesse pubblico in Abruzzo" è il titolo del convegno.
   Dal terremoto dell'Aquila alla tragedia di Rigopiano, alle emergenze per neve nel teramano: la risposta dell'Abruzzo all'emergenza-urgenza è un nuovo modello basato sulla formazione e sulla cooperazione internazionale. Il convegno di Avezzano vedrà la straordinaria partecipazione del professor Kobi Peleg, Direttore dell'Israeli National Center for Trauma and Emergency Medicine e Responsabile dell' Executive Master for multi-disciplinary program of disaster and emergency management dell'Università di Tel-Aviv. Il professor Peleg è uno dei massimi esperti al mondo sulla gestione delle catastrofi ed ha diretto, partecipandovi, numerose missioni israeliane di soccorso medico.
   Tanto per farsi un'idea, le squadre del professor Peleg sono, tra l'altro, in grado di costruire un ospedale d'emergenza in 12 ore. Israele, peraltro, vanta una storica esperienza e una dimostrata competenza nella gestione umanitaria, sanitaria e logistica intervenendo nei casi di tsunami in Sri Lanka (2004), uragano Katrina a New Orleans (2005), terremoto in Perù (2014),ciclone in Myanmar (2008), tifone nelle Filippine (2009 e 2013),terremoto di Haiti (2010),incendio in un ospedale in Romania (2010),terremoto in Giappone (2011), tsunami e terremoti in Turchia (1999 e 2011),uragano Sandy sulla costa orientale degli Stati Uniti (2012).
   Grazie all'attività di "Abruzzo 2020 Sanità Sicura" il know-how dell'Israeli National Center for Trauma and Emergency Medicine viene trasferito e implementato in Abruzzo. "Abruzzo 2020 Sanità Sicura" è un programma di formazione per gli operatori della rete di emergenza-urgenza della Regione Abruzzo, attivo dal 2014 e diretto da Gabriele Rossi. E' il frutto della collaborazione con il Ministero della Sanità dello Stato di Israele.
   Il convegno sarà l'occasione per fare rete con la partecipazione di Rinaldo Tordera (direttore generale ASL Avezzano, Sulmona, L'Aquila), di Roberto Fagnano (direttore generale ASL Teramo), di Giuseppe Rinaldi e Graziella Patrizi Prefetti di l'Aquila e Teramo, di Alfonso Mascitelli (direttore ASR Abruzzo), Roberto Albani (direttore maxiemergenze sanitarie Regione Abruzzo), Maria Teresa Letta (vicepresidente nazionale della Croce rossa Italiana), Silvio Liberatore (responsabile Protezione Civile Regione Abruzzo). Relatori: i sanitari Gino Bianchi, Maura Coletta, Santa De Remigis, Franco Marinangeli.
   "Rivolta Italia Abruzzo, con questo convegno internazionale organizzato grazie alla collaborazione di "Abruzzo 2020 Sanità Sicura", manifesta la volontà e l'impegno di essere al servizio della territorio e della sua popolazione. Attraverso il confronto, la cooperazione internazionale, la formazione, la capacità di fare rete e lo sviluppo di modelli operativi efficaci è possibile raggiungere l'obiettivo di dare risposte concrete e adeguate alle emergenze- urgenze provocate dalle calamità che hanno purtroppo colpito l'Abruzzo. Da questo convegno deve partire il segnale che è possibile una nuova frontiera della gestione delle emergenze sanitarie e civili e l'Abruzzo può assurgere a regione modello in questo campo".
   "Dopo aver inviato decine di sanitari abruzzesi a formarsi in Israele", - afferma Gabriele Rossi, direttore e project manager del programma di formazione in Israele e coordinatore dei lavori del convegno - "oggi abbiamo l'occasione di continuare in Abruzzo la collaborazione con la sanità israeliana costruendo insieme un piano di intervento in caso di maxiemergenze, coordinato e territorialmente omogeneo tra gli ospedali di Avezzano, L'Aquila e Teramo".
   Il convegno sarà preceduto dai saluti di Antonio Del Corvo (Rivolta Italia Abruzzo), dall'onorevole Giuseppe Moles (Rivolta Italia), dal sindaco di Avezzano Giovanni Di Pangrazio e da Silvio Paolucci, assessore regionale alla sanità.

(marsicanews, 5 maggio 2017)


I Maremmani nel Mondo: un architetto in Israele per costruire una centrale elettrica

"Gli Israeliani sono un popolo sorridente, generoso ed accogliente, che non perde la speranza nella pace e ama vivere la vita."

di Giulia Carri

ISRAELE - Massimo Secches, architetto di Grosseto, ci racconta la sua storia da Israele dove si trova per un nuovo progetto.

- Come hai cominciato a lavorare fuori dall'Italia?

  Tutto è cominciato grazie al mio collega, l'ingegnere Emanuele Manusia. Dopo la laurea ha supervisionato il progetto per un ospedale a Bucarest dove ha conosciuto vari general contractors che ci hanno proposto poi lavori importanti, soprattutto in Est Europa. L'internazionalizzazione del nostro studio è sempre stato obiettivo condiviso da entrambi, rivelandosi una scelta vincente sia per dare respiro al nostro lavoro in momenti in cui il settore arrancava per crisi o per la burocrazia italiana, sia come continuo stimolo professionale proponendoci progetti ambiziosi spesso in aree geopoliticamente complicate.

- Cosa state facendo in Israele?

  Sto seguendo i cantieri di due centrali elettriche alimentate a gas. Uno si trova a Ramat Gavriel 6 km. da Nazareth, l'altro ad Alon Tavor vicino ad Afula sempre nel nord del Paese. Il progetto dura un anno, sono partito a novembre 2016 quindi se non ci sono grossi imprevisti per il prossimo autunno dovrei essere di nuovo in Italia.

- Come ti trovi in Israele al di là del lavoro?

  Israele vive una quotidianità molto difficile. Io sono più lontano dalle aree a rischio, vivo vicino a Nazareth in una zona rurale del Paese, ma dentro le città o all'arrivo in aeroporto comprendi che sei in un territorio che vive un perenne stato di guerra. Nonostante ciò gli Israeliani sono un popolo sorridente, generoso ed accogliente che non perde la speranza nella pace e ama vivere la vita. Lavorare all'estero ti mette naturalmente di fronte a momenti di solitudine e trovare persone ospitali, felici di aiutarti è importante. Confrontarmi con culture diverse è sempre stata una mia grande passione e lavorare ogni giorno con persone di tutto il mondo è una sfida molto stimolante, una continua crescita professionale e personale.

- Nei progetti futuri del vostro studio continuerà questo sodalizio tra la Maremma e il mondo?

  Assolutamente sì. Io ed Emanuele siamo una squadra indissolubile e lo studio è il nostro quartier generale italiano dove uno di noi rimane mentre l'altro è in cantiere. Entrambi amiamo la nostra meravigliosa terra, ma le possibilità che la Maremma e l'Italia adesso offrono per l'ingegneria e l'architettura sono limitate rispetto a tanti altri paesi nel mondo. Per fortuna viviamo in un'epoca che ci permette di minimizzare problemi logistici e comunicativi per lavorare ovunque, questo ci permette di lavorare all'estero mantenendo una solida base in Maremma e continueremo a dare il massimo perché ciò continui.

(Il Giunco, 5 maggio 2017)


Sorrento prima città italiana gemellata con l'israeliana Eilat

di Carmen Davolo

 
Sorrento
 
Eilat
SORRENTO - Sorrento ha stipulato i patti di gemellaggio con Eilat, Israele, ed è la prima città italiana a farlo. Un patto di turismo, giovani e formazione. E per vice ambasciatore Israeliano in Italia, Dan Haezrachy rappresenta "Un ponte tra Israele e l'Occidente" . Nel lungo protocollo d'intesa sono stati fissati i punti salienti: programmare incontri e confronti sui temi dello sviluppo turistico e della tutela della risorsa mare. Incentivare scambi culturali tra i giovani delle due comunità e programmare attività di formazione questi tra i più rilevanti progetti con Eilat, situata nell'estremo sud di Israele.
   Nella sala consiliare del Palazzo Municipale si sono incontrati il sindaco Giuseppe Cuomo, il presidente del consiglio comunale, Emilio Stefano Marzuillo e i componenti della giunta e del consiglio, che hanno accolto l'ambasciatore Dan Haezrachy, vice capo missione dell'Ambasciata di Israele in Italia e i componenti della delegazione della nota meta turistica affacciata sulle rive del Mar Rosso: il sindaco Meir Ytzchak Halevi, il presidente e il segretario della Commissione di Gemellaggio della Città di Eilat, Benny Gamlieli e Shmulik Taggar. Ad accompagnarli nella missione, il console onorario d'Italia ad Eilat, Fred Mandelli.
   "Proprio Eilat fu teatro dell'ultima operazione militare, che porterà alla nascita dello Stato d'Israele, che in questi giorni festeggia il 69mo anniversario della creazione - ha ricordato l'ambasciatore Haezrachy - perciò questa città simboleggia la volontà di lavorare per la pace. Un detto israeliano dice che Eilat è la porta del Sud del Paese verso il mondo. Con il gemellaggio con Sorrento, diventa la porta di Israele per l'Occidente".
   Un rapporto speciale, quello che il governo locale di Eilat intende stringere con la cittadina costiera.
   "Siamo gemellati con tredici città di tutto il mondo, ma non abbiamo mai trovato un'accoglienza così calorosa da parte della gente - ha evidenziato il sindaco Halevi - Senza contare la bellezza di questi luoghi che lascia senza fiato. Abbiamo tanti punti comuni, dalla risorsa mare al turismo come attività trainante: da qui bisogna partire per avviare scambi economici e culturali. Sono certo che questo gemellaggio porterà frutti per le nostre due comunità".
   Un augurio condiviso dal sindaco Cuomo: "Sorrento ed Eilat possono e devono avviare percorsi comuni di sviluppo. Entrambe sono un punto di riferimento, rispettivamente per il turismo italiano ed israeliano. Programmare attività sui temi dello sviluppo turistico, della tutela ambientale e delle produzioni agroalimentari e promuovere iniziative di formazione che coinvolgano i nostri giovani, saranno le priorità dell'accordo di collaborazione che abbiamo sottoscritto oggi".
   La sfida delle smart cities e la possibilità di cooperazione anche in materia sanitaria, sono stati infine al centro dell'intervento del console Mandelli, giunto a Sorrento in rappresentanza del ministero degli Affari Esteri, che ha anche portato il saluto alla cerimonia di Francesco Maria Talò, ambasciatore d'Italia a Tel Aviv.

(la Repubblica - Napoli, 5 maggio 2017)


Una piazza per "Viva Maria" la storia divide ancora Arezzo

La comunità ebraica chiede di non intitolarla all'insurrezione contro Napoleone funestata da episodi di antisemitismo.

di Massimo Vanni

Fu inaugurata da Luigi Lucherini, primo sindaco del centrodestra di Arezzo. Fu tolta da Giuseppe Fanfani, il nipotissimo che riconquistò la città per il centrosinistra. E come la chimera risorge adesso con il sindaco di Forza Italia Alessandro Ghinelli. È la guerra della targa. Del ricordo di 'Viva Maria', l'insurrezione antifrancese e restauratrice del 1799 ricordata dalla Comunità ebraica come una ferita della storia, funestata da pogrom e antisemitismo. La guerra riaccesa dal consigliere leghista Egiziano Andreani.
   Il suo ordine del giorno per intitolare a 'Viva Maria' una piazza all'interno della Fortezza verrà votato lunedì dalla maggioranza di Arezzo. Contro la volontà della Comunità ebraica di Firenze, che si occupa anche di Arezzo, e contro le minoranze. A cominciare da Francesco Romizi di 'Arezzo in Comune'.
   È una guerra destra/sinistra che quasi appare fuori tempo in quest'Italia tripolare. Ma è uno scontro negazionismo/verità storica che racconta comunque un passato capace ancora di scuotere i vivi: «Si apre una ferita democratica che era stata chiusa. Non solo verso gli ebrei», dice il presidente della Comunità ebraica di Firenze Dario Bedarida. «L'insurrezione che prese il nome di 'Viva Maria' è per noi una pagina tragica», aggiunge Bedarida. «L'insorgenza sanfedista rappresenta la reazione ai valori della Rivoluzione Francese, alla dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino», si oppone il consigliere Romizi. Senza molte speranze però, visto che il centrodestra aretino ha tutti i numeri necessari per attaccare la targa 'Piazza Viva Maria'. Anche se non nella piazzetta davanti alla Casa del Petrarca, dove Lucherini affisse la prima e da buon cattolico Fanfani la sostituì con 'Piazza Madonna del Conforto'.
   «Smettiamola con questa storia, qui l'antisemitismo non c'entra: vogliamo solo celebrare l'insurrezione contro lo straniero della nostra città. Con le violenze contro gli ebrei gli aretini non c'entrano», si difende il leghista Andreani, citando fondi e documenti.
   Il bello è che Bedarida due giorni fa si è pure recato ad Arezzo. Ma è solo servito ad aggiungere altre complicazioni: «Quale guerra? Non ero presente ma mi è stato riferito che c'è stata un mezza intesa», dice il sindaco Ghinelli. «Nessun accordo», ribatte però Bedarida. Che raccogliendo l'idea della rivolta liberatoria aveva proposto di sostituire 'Viva Maria' con «Insurrezione 6 giugno 1799». Proposta ricacciata però: «Nessuno capirebbe senza il richiamo a 'Viva Maria'. Che non ha trucidato niente perché è stata solo una sommossa anti-francese», insiste il consigliere leghista. E a questo punto, salvo interventi in extremis di Ghinelli, la targa 'Viva Maria' tornerà ad affacciarsi dai palazzi di Arezzo. E Romizi annota: «Violenze si registrarono ovunque gli eserciti del' Viva Maria' incrociarono comunità ebraiche. E stare a disquisire se siano stati gli aretini o i senesi appare davvero ininfluente dinanzi al giudizio della storia».

(la Repubblica, 5 maggio 2017)


Cyber-sicurezza: Israele seconda solo agli Stati Uniti

Israele si guadagna un autorevole posto per la più alta concentrazione al mondo di aziende che operano nel settore della cyber-sicurezza, seconda solo agli Usa.
Questo è ciò che emerge da un rapporto diramato dalla società newyorkese di dati CB Insights, la quale elenca per il 2017 i nove settori più influenti nella sicurezza informatica e le 30 startup che hanno una tecnologia d'avanguardia e il potenziale per plasmare il futuro di questo settore.
Le aziende di tecnologia sono state valutate secondo una serie di categorie tra cui:
  • Crittografia quantistica;
  • Sicurezza da furto;
  • Sicurezza automobilistica;
  • Sistemi autonomi;
  • Sicurezza delle infrastrutture;
  • Intelligence predittiva.
All'interno del report sono state menzionate 3 aziende israeliane:
Argus protegge veicoli privati e commerciali da attacchi informatici, mentre Indegy, con sede a Tel Aviv, ha creato un software che protegge le infrastrutture dagli attacchi informatici.
Illusive Networks usa la tecnologia dell'inganno, ovvero sviluppa sistemi di protezione mettendosi dalla parte dell'hacker.

(SiliconWadi, 5 maggio 2017)


Balcani, «troppi beni confiscati mai restituiti agli ebrei»

Dal Montenegro alla Bosnia molti Paesi non hanno onorato gli impegni presi. In Polonia meno della metà le proprietà tornate ai legittimi proprietari

di Stefano Gientin

BELGRADO. Alcuni bocciati. La maggior parte spediti dietro la lavagna, rimandati per aver glissato sugli impegni presi malgrado le promesse di quasi un decennio fa.
Gli "alunni" sono gli Stati balcanici e dell'Europa centro-orientale, colpevoli in molti casi di aver fatto poco o nulla per restituire ai legittimi proprietari o ai loro eredi le proprietà confiscate agli ebrei durante la Seconda guerra mondiale e l'Olocausto.
A denunciare il problema è arrivato un ampio rapporto compilato da esperti, ricercatori e analisti indipendenti e sponsorizzato dallo European Shoah Legacy lnstitute (Esli), fondato nel 2010 per «monitorare i progressi relativi alla Dichiarazione di Terezin», si legge sul sito ufficiale dell'Esli.
La dichiarazione firmata nel 2009 da 46 Paesi garantiva di «correggere gli effetti dell'illecita confisca di proprietà e delle vendite forzate» alla quale furono obbligati gli ebrei «e altre vittime della persecuzione nazista» 70 anni fa.
Le rettifiche tardano però ad arrivare, ha messo nero su bianco lo "Studio sulla restituzione degli immobili" alle vittime della Shoah, vera "bibbia" - la prima del genere - sulle legislazioni nazionali in materia di restituzione e su quanto fatto dagli Stati firmatari della Dichiarazione.
Fra di essi, negli ultimi anni «sono stati osservati progressi
sostanziali» a livello generale nell'Europa centro-orientale e nei Balcani. Ma in molti casi, troppi, non si è recuperato il gap che già esisteva con altri Paesi occidentali, che dopo il 1945 si erano adoperati per riconsegnare le proprietà sequestrate, mentre a Est i regimi comunisti «confiscavano gli immobili restituiti», una doppia beffa.
Fra i meno scrupolosi figura la Polonia, dove il 90% della popolazione ebraica venne sterminata durante l'occupazione nazista.
Ma c'è anche la balcanica Bosnia Erzegovina, che con Varsavia fa parte delle nazioni che hanno completamente «fallito nel creare un sistema comprensivo di restituzione delle proprietà private» requisite sia durante la Shoah, sia ai tempi dei rispettivi regimi socialisti. In parole povere, poco o nulla è stato fatto per rispettare gli obblighi assunti nel 2009.
Non sono però soltanto Varsavia e Sarajevo a non aver fatto il proprio dovere. Sempre la Bosnia, e anche il Montenegro «non hanno applicato la legislazione» che prevede il ritorno ai legittimi proprietari delle proprietà
confiscate durante la Seconda guerra e poi nazionalizzate durante il comunismo, mentre in Polonia le riconsegne «sono state meno della metà delle 5.500» oggetto del contenzioso.
Fuori dai giochi, in Lituania, rimangono ancora le proprietà un tempo appartenute ad ebrei e in seguito nazionalizzate ai tempi dell'Urss.
E lo stesso discorso vale per la Croazia - solo 5mila gli ebrei sopravvissuti - «dove la legge sulla restituzione approvata a inizio Anni Novanta copre solo le confische» effettuate all'epoca della Jugoslavia socialista mentre «esclude le proprietà sottratte durante l'Olocausto» a ebrei, rom e serbi dal regime ustascia.
La Croazia, come il Montenegro, continua inoltre a rifiutare - secondo il rapporto - gli stranieri dalla lista dei «potenziali richiedenti».
Complicato anche il discorso sulle proprietà confiscate che non possono essere rese a eredi legittimi, perché morti durante l'Olocausto o scomparsi successivamente, un caso assai comune «Le proprietà senza eredi» dovrebbero essere utilizzate per «finanziare la memoria e «l'educazione» sull'Olocausto, aveva stabilito la Dichiarazione.
Solo Serbia (85% gli sterminati), Ungheria (800mila ebrei prima del 1939, un quarto sopravvisse), Romania, Macedonia e Slovacchia hanno tuttavia adottato qualche norma generale sul tema, mentre Bosnia, Bulgaria, Croazia e Montenegro sono rimaste a guardare. Bisogna cambiare rotta.
«A 70 anni dall'Olocausto, una cospicua parte degli immobili allora di proprietà degli ebrei europei rimane non restituita», ha sottolineato il rapporto. Il numero uno della World Jewish Restitution Organization, Gideon Taylor, ha aggiunto che è «urgente che siano riconsegnati o siano concessi degli indennizzi», fin quando «gli ultimi sopravvissuti sono ancora in vita». Ma il tempo stringe.

(Il Piccolo Balcani, 4 maggio 2017)


"Punti d'incontro": Conferenza del Rabbino Shlomo Bekhor

Mercoledì 3 maggio all'hotel Nettuno di Catania si è tenuto il convegno dal titolo "Punti d'incontro", organizzato dal prof. avv. Corrado Labisi. Ospite d'onore il rabbino Shlomo Bekhor, intraprendendo un percorso di collaborazione sociale, culturale ed economica tra Israele e Sicilia.

 
Rav Shlomo Bekhor
Si è svolto mercoledì 3 maggio all'hotel Nettuno di Catania il convegno dal titolo "Punti d'incontro", organizzato dal prof. avv. Corrado Labisi - magnifico rettore dell'Università Telematica Unisanraffaele e presidente dell'Istituto Medico Psicopedagogico "Lucia Mangano" di Sant'Agata Li Battiati - e moderato dalla giornalista Chiara Immordino. L'incontro, che si è svolto davanti a un parterre di rappresentanti del mondo istituzionale, culturale, politico e imprenditoriale, ha dato il via a un percorso di collaborazione in ambito sociale, culturale ed economico tra Sicilia e Israele. Ospite d'onore Shlomo Bekhor, rabbino capo della sinagoga di Milano, che si è dichiarato «onorato di essere in Sicilia, culla di numerose comunità ebraiche, per iniziare un cammino di cultura, pace, spiritualità tra Israele e Trinacria».
   Il prof. avv. Corrado Labisi, dopo aver definito il rabbino Bekhor «figura straordinaria e promotore nel mondo della cultura israeliana», ha affermato la necessità di «conoscere le nostre radici israeliane. La nostra siciliana e quella giudaica hanno un'unica matrice comune che è la spiritualità. Hitler temeva il popolo israelita - ha continuato il magnifico rettore - perché sapeva che era il popolo prediletto da Dio. E' un onore ricordare insieme qui in Sicilia il 69esimo anniversario dell'indipendenza d'Israele. Oggi è una festa d'incontro di due culture antiche e nobili. Viva israele e viva la Sicilia, Stati liberi».
   Nel corso dell'incontro, il giornalista e docente universitario dell'Università Telematica Unisanraffaele Giuseppe Firrincieli ha fatto un interessante excursus storico sulla presenza giudaica in Sicilia e sulle positive influenze in ambito economico e culturale della dominazione israelita nella nostra regione, citando famiglie e personalità ebraiche influenti nella nostra regione, tra cui la nobildonna Lucrezia Metlu discendente dell'avv. Labisi. «La Sicilia ha bisogno di collaborare con Stati che la amano e la conoscono, iniziando proprio da Israele», ha concluso il prof. Firrincieli.
   Dopo la proiezione di un video del primo ministro Benjamin Netanyahu per festeggiare il 69esimo anniversario dell'indipendenza d'Israele, il rabbino Shlomo Bekhor, presentando alcuni dei suoi libri, ha tenuto la prima conferenza in Sicilia di cultura ebraica basata sull'etica, commentando un brano del IV capitolo delle massime dei padri, parte integrante del Talmud.
   Sponsor dell'incontro l'Istituto Medico Psico pedagogico Lucia Mangano di Sant'Agata Li Battiati, l'Università Telematica Unisanraffaele e l'Associazione internazionale Antonietta Labisi.

(Globus magazine, 4 maggio 2017)


Trump, un alleato per Abu Mazen. "Faremo la pace"

di Giordano Stabile

Per quanto imprevedibile, ieri alla Casa Bianca il leader palestinese Abu Mazen ha trovato in Donald Trump un alleato disposto a puntare su di lui. Diverso è il discorso a casa. Nella Striscia di Gaza il suo ritratto viene bruciato assieme a quello di Benjamin Netanyahu. Centinaia di detenuti nelle carceri israeliani fanno lo sciopero della fame e riconoscono la leadership di Marwan Barghouti, un oltranzista che pure vincerebbe eventuali elezioni presidenziali contro di lui. La prospettiva di un voto popolare che potrebbe rilegittimarlo, dopo otto anni di proroghe nella carica, si allontana sempre più. A Gaza l'unica alternativa ad Hamas sembra essere quel Mohammed Dahlan che 1'82enne presidente ha spedito in esilio. La battuta che gira fra i palestinesi è che se «non ci fosse Israele in mezzo», la Striscia di Gaza e la Cisgiordania si lancerebbero razzi a vicenda.
   Abu Mazen è però l'unico che può contribuire al «grande accordo» sognato da Trump. I contorni sono vaghi. Il leader palestinese ha ribadito che non si può uscire dal solco «due popoli, due Stati» e che Israele si deve ritirare dai Territori occupati. Il capo della Casa Bianca non è incline all'ortodossia diplomatica. Il 22 maggio arriverà a Gerusalemme e potrebbe fare l'annuncio da molti temuto. Spostare l'ambasciata da Tel Aviv alla Città Santa.
   Non ha mancato di dire che la «chimica» con Abu Mazen è ottima. Ma lo è anche con Netanyahu. Conciliare le due posizioni è la cosa «più difficile al mondo», ha ammesso, «ma ce la faremo». Ha insistito che i palestinesi debbono smettere di «incitare alla violenza», cioè pagare indennizzi alle famiglie di detenuti o che hanno perso figli in attacchi contro gli israeliani. Abu Mazen ha ribattuto che solo un accordo di pace è la vera arma per mettere fine al terrorismo.
   È sembrato un scambio più schietto del solito. Lo stile rude è piaciuto al leader palestinese. Teme molto di più una melina infinita da parte degli israeliani, un negoziato interminabile mentre sul terreno la possibilità di creare uno Stato palestinese diventa fisicamente impossibile e Hamas e gli oltranzisti dilagano nei consensi. Meglio una trattativa dura ma che faccia chiarezza. Ora Abu Mazen sembra crederci e alla fine si è lasciato andare: «Con lei alla presidenza - ha detto a Trump - abbiamo di nuovo una speranza».

(La Stampa, 4 maggio 2017)


Israele, la disfida dello «zaatar» l'erba dell'anima palestinese

«Va tutelata, non raccolta». «E nostra». In questi mesi i prati di Cisgiordania e Galilea si coprono di foglioline grigioverdi.

di Davide Frattlnl

 
 
 
Bellicoso: «Non ci piegherete mai, resisteremo a sale e zaatar» (Ismail Haniyeh, capo di Hamas ).
Poetico: «Per due pugni di pietre e zaatar / io dedico questa canzone. Ad Ahmad, dimenticato fra due farfalle» (Mahmoud Darwish).
Biblico: «Poi prenderete un mazzetto d'issopo, lo intingerete nel sangue che è nel catino e con il sangue che è nel catino spruzzerete l'architrave e i due stipiti delle porte; e nessuno di voi uscirà dalla porta di casa sua fino al mattino» (Esodo, 12:22).
Evangelico: «I soldati dunque, posta in cima a un ramo d'issopo una spugna piena d'aceto, gliela accostarono alla bocca» (Giovanni, 19:29).
Nell'insalata di controversie, contese e nostalgie territoriali che è il Medio Oriente, lo zaatar (in arabo) o eizov (in ebraico, tradotto issopo) è la pianta simbolo delle pretese politiche e delle dispute in cucina.
In questi mesi i prati della Cisgiordania e della Galilea si coprono delle foglioline grigioverdi di quello che corrisponde all'Origanum Syriacum, una varietà di maggiorana. Per i palestinesi il suo profumo diffonde la causa nazionalista, per gli ebrei esalta la liberazione dalla schiavitù in Egitto. E per uno chef israeliano come Maoz Alonim rappresenta la possibilità di ricreare sapori che uniscano invece di dividere: «Da Tel Aviv vado a far la spesa a Nazareth - spiega il proprietario di HaBasta - perché provo a proporre i piatti della cucina palestinese ai miei clienti che da anni non mettono piede in un villaggio arabo». Tra marzo e maggio lo zaatar diventa un'altra radice del conflitto che non finisce: i palestinesi vogliono ripetere i gesti vecchi di secoli (piegarsi, strappare, chiacchierare con i compagni di raccolta), le autorità israeliane cercano di proteggere un vegetale a rischio di estinzione con multe fino a 1.200 euro e confische ai posti di blocco militari. «La sfida va avanti dal 1977 - scrive il quotidiano israeliano Haaretz - da quando le associazioni ambientaliste riuscirono a trasformare in legge la lista di 257 piante da tutelare. I palestinesi preferiscono non coltivare lo zaatar, replicano che il sapore di quello selvatico è molto diverso. Continuare a raccoglierlo è una protesta contro una norma emanata dagli "occupanti"».
La diatriba - racconta il giornale - è stata affrontata da un saggio che sarà pubblicato dall'università di Tel Aviv. «È impossibile comprendere l'ingiustizia - argomenta Rabea Agbaria, l'autore araboisraeliano - senza tenere in considerazione il contesto culturale: il significato che hanno lo zaatar e l'andare a prenderlo tutti insieme nel formare l'identità palestinese». Sono le ragioni che hanno spinto Vivien Sansour a tornare dall'estero sulle colline vicino a Betlemme e fondare la Palestinian Heirloom Society: preserva i semi e le tecniche agricole tradizionali da cui - dice - «fioriscono i canti delle donne, i nostri modi di dire, chi siamo come popolo».
La battaglia attorno allo zaatar è anche commerciale, la coltivazione nelle serre e regolamentata permette di aumentare la produzione. La richiesta è cresciuta come la notorietà degli chef che hanno esportato la cucina israeliana nel mondo. A Londra Yotam Ottolenghi lo propone fresco o essiccato - con spezie, sale, semi di sesamo, sommacco siciliano - da spargere sulla focaccia (il manaqish, come da ricetta del Levante). Ika Cohen, pasticciera a Tel Aviv, ha vinto due anni fa il primo premio del concorso internazionale che sceglie le migliori creazioni al cioccolato: ha usato la piantina del Levante per insaporire i suoi tartufi.

(Corriere della Sera, 4 maggio 2017)


L'Isis, nuovo vicino di Israele

Si è installato nei pressi del Golan (Siria) e ha a portata di tiro le aziende agricole ebraiche. Ma gli estremisti non vogliono rischiare, attaccando.

di Giovanni Galli

 
Château Golan, vigneto situato nella zona meridionale delle alture del Golan

Sulle alture del Golan, Israele ha un nuovo vicino: l'Isis, che finora, però, non ha fatto invasioni di campo. La recinzione di confine passa attraverso i cespugli di eucalipto: oltre c'è una fascia di villaggi siriani controllati dallo Stato Islamico. Dal lato israeliano, Yitzhak Ribak coltiva i suoi Merlot, Cabernet, Sauvignon e Syrah. «Le mie uve sono a soli 10 metri dal confine. A volte sento dei boati provenire dal lato opposto. E a volte vedo gente: sembrano pastori, ma chi può saperlo», ha raccontato il viticoltore israeliano al Wall Street Journal. «È pazzesco». Finora, lo Stato Islamico non ha danneggiato i suoi vigneti. «Sono qui tutto solo sul mio trattore e di notte non ho paura». L'area coltivata a vigneto da Ribak si trova alla confluenza di Siria, Giordania e delle alture del Golan annesse a Israele.
  La presenza dello Stato Islamico così vicino alle città e ai villaggi israeliani lungo la linea di demarcazione sulle alture del Golan viene considerata, ovviamente, una minaccia anche se non ci sono ancora stati attacchi transfrontalieri. «Il Golan è ancora un posto tranquillo nel paese», ha detto al Wall Street Journal, Yoni Hirsch, presidente del consiglio comunale di Nov, una comunità israeliana di circa 800 persone a 2 miglia dall'area controllata dall'Isis. «Sappiamo cosa sta accadendo oltre il confine e ci stiamo preparando per quello che può accadere», ha aggiunto. «Sappiamo che in un giorno per effetto della decisione di una persona che sta dall'altra parte la nostra vita può cambiare».
  Il governo israeliano negli ultimi tre anni ha sostituito la vecchia barriera di sicurezza sulle alture del Golan, un altopiano preso alla Siria nella guerra del 1967 in Medio Oriente, con una nuova struttura alta circa 6 metri e dotata di moderni sensori. Ha anche costruito una nuova recinzione più a Sud lungo il confine con la Giordania. «Dal momento che i rischi aumentano si è fatta la recinzione», ha spiegato Hirsch. «Noi non abbiamo alcun dubbio sulla loro ideologia e la loro dedizione alla distruzione di Israele», ha aggiunto il comandante e politico israeliano Effie Eitam, che ha fatto parte del governo di Nov. Lo Stato Islamico ha delle priorità anche nel Sud della Siria, i militanti si sono concentrati combattendo i ribelli più moderati.
  L'Isis ha l'intelligenza di non attaccare Israele perché sa che il paese ha un esercito e che può lanciare attacchi aerei e lo Stato Islamico non vuole aprire un ulteriore fronte, ha riferito al Wall Street Journal il portavoce di un gruppo di ribelli dell'esercito libero siriano conosciuto come Fronte del Sud: «Loro non sono interessati a uccidere gli israeliani, ma sono interessati a uccidere noi».
  Gli ufficiali israeliani sono molto più allarmati dall'Iran e dalla milizia libanese di Hezbollah. Prevenire l'avvicinamento degli iraniani al Golan è una priorità chiave di Israele chiave nel conflitto siriano. Lo Stato Islamico, conosciuto anche come Daesh (acronimo arabo) «non è abbastanza potente per farci paura», ha riferito al Wall Street Journal Ayoob Kara, l'unico ministro arabo nel governo israeliano che dice di essere in contatto regolare con le varie fazioni siriane. «Daesh sta per perdere», ha aggiunto, «Non c'è modo che abbia successo e per la fine dell'anno non vogliamo vederlo in nessuno stato qui intorno. Il problema del Medio Oriente è la capitale dell'estremismo che è l'Iran».
  Israele è stato fortunato, secondo il viticoltore Ribak, che i suoi lunghi colloqui di pace con la Siria, basati sullo scambio delle alture del Golan per un trattato di pace, sono finiti in un nulla di fatto nel 2010. «Se avessimo dato il Golan alla Siria poi sarebbe diventato tutta terra dell'Isis» secondo il viticoltore Ribak che commercia il proprio vino con il marchio Chateau Golan e ha una sua personale ricetta su come risolvere i problemi del Medio Oriente: «E molto semplice. Se tutte le persone qui iniziassero a bere vino, diventerebbero felici e allora non ci sarebbero problemi».

(ItaliaOggi, 4 maggio 2017)



Parashà della settimana: Acharè Mot - Kedoshim (Dopo la morte - Santi)

Levitico 16:1-18:30, 19:1-20:27

 - La Parashà di Acharè Mot (dopo la morte) inizia riferendo la morte dei figli di Aron, avvenuta durante l'inaugurazione del Mishkan (tabernacolo) perché avevano offerto del fuoco straniero alla presenza del Signore.
Ma non è su questo punto che voglio soffermarmi, bensì intendo mettere a fuoco il legame che esiste tra la Terra d'Israele e il popolo ebraico in rapporto alle mitzvot (precetti).
Tre gravi peccati per cui la Torah ci chiede di scegliere la morte piuttosto che commetterli anche in pericolo di vita. Essi sono: l'idolatria, l'omicidio e l'adulterio, peccati che rendono la terra d'Israele impura per cui i suoi abitanti verranno vomitati a causa della loro condotta.
"Non contaminatevi con questi peccati come si sono contaminati i popoli che I-o ho cacciato davanti a voi. Ma voi osserverete le mie leggi e i miei statuti e non farete nessuna di queste azioni abominevoli così la terra non vi rigetterà".
Cosa significa essere vomitati oppure divorati dalla Terra d'Israele come nel caso degli esploratori?
La risposta a queste domande metterà in chiaro il legame straordinario che esiste tra la Terra e il popolo ebraico, legame valido solo per Erez Israel e per nessun'altra terra.
Cosa dissero gli esploratori ai figli di Israele al loro ritorno dalla spedizione? "Il paese che abbiamo attraversato è un paese che divora i suoi abitanti" (Numeri, 13.32).
Ora gli esploratori, facendo lashon harà (maldicenza) sulla terra che il Signore Iddio guarda tutto l'anno, avevano peccato alterando di proposito il significato della terra che divora per impaurire gli ebrei affinché costoro non entrassero per la sua conquista.
"Divorare" significa invece trasformare il male in bene, praticando le mitzvot, per dare alla terra e al popolo una maggiore kedushà (santità) rispetto alle altre nazioni del mondo.
E' scritto "Erez okelet yochevea" (la terra divora i suoi abitanti) cioè lasciatevi mangiare dalla terra come insegna la Torah non cercate di creare cose se non avete un recipiente dove sistemarle.
Ed è questo il senso di guidare un trattore per lavorare la Terra che può "trasformare" un semplice ebreo per farlo salire verso una maggiore kedushà.
Ma attenzione! La Torah mette anche in guardia sul fatto che la Terra può vomitare i suoi abitanti in caso di condotta negativa da parte di costoro, che rifiutano la pratica delle mitzvot.
Difatti si vomita qualcosa che non si può digerire. In questo senso la Terra di Israele non riesce a digerire tutto quello che non è kasher e pertanto lo vomita come un corpo estraneo.
Cosa chiede D-o Benedetto al suo popolo?
"I-o vi domando di rispettare le mie leggi e i miei statuti e di non commettere alcuni di questi orrori rendendo la Terra impura."
La nostra Torah vuol rivelarci ancora una volta un insegnamento straordinario. La conquista e il possesso della Terra d'Israele non avvengono solo con la forza delle armi ma soprattutto con l'osservanza delle mitzvot affinché D-o Benedetto possa risiedere in mezzo a noi e perché no anche in mezzo al nostro piccolo minian.

La parashà che segue è quella di Kedoshim. Cosa significa la parola Kedoshim? La Bibbia concordata traduce questa parola con ''santi''. Il vero significato di Kedoshim è quello di tenersi lontano dal "male'' per avvicinarsi alla ''santità'' in quanto solo D-o Benedetto è Santo. ''Siate santi perché I-o sono santo l'Eterno vostro D-o'' (Lev. 19.2).
Rashì nel suo commento alla Torah, riporta questa definizione della santità: "Allontanati dalla corruzione e troverai la santità''.
La parashà di Kedoshim è situata nel mezzo dei cinque libri di Torah e il suo invito alla santificazione della nostra vita rappresenta il punto culminante della tradizione biblica. La parashà è un faro di luce su questo ideale della santità a cui l'uomo deve dedicare la sua stessa esistenza.
Quali sono in sintesi gli argomenti principali della nostra parashà?
I doveri verso il povero e lo straniero, lasciando a costoro di usufruire dell'angolo del campo durante la mietitura, l'onestà sociale evitando la menzogna e la calunnia del prossimo, l'appello alla giustizia e il divieto di rapporti sessuali proibiti.
Solo percorrendo questo sentiero rettilineo l'uomo può mettere in pratica il comandamento di ''amare il suo prossimo'' avvicinandosi alla santità.
La parashà offre argomenti etici diversi come è stato detto, ma per semplicità di esposizione ne analizzerò soltanto alcuni.
''Non commettete iniquità nel giudizio, non aver riguardo al misero e non onorare il grande. Con equità giudicherai il tuo prossimo'' (Lev. 19:15).
La Torah comanda di non favorire i potenti nel giudizio né di aver riguardo del povero in tribunale, mostrando un grande rispetto per l'uomo e una grande sensibilità per la miseria umana.
Un giudice difatti in loro nome (ricchezza o povertà) potrebbe falsificare l'esito di un processo, alterando la verità.
Altro punto fermo della nostra parashà è il divieto di praticare l'idolatria.
''Non rivolgetevi agli idoli e non fatevi Dei di metallo fusi. I-o sono il Signore vostro D-o" (Lev. 19:5).
Il culto del Faraone verso il Nilo, considerato da questi una Divinità, consisteva nel praticare i suoi bisogni mattutini nel fiume. Questo rito religioso era ritenuto ''sacrosanto giusto'' dalla società egiziana, condizionata dal potere del Faraone.
Ancora oggi questo pensiero idolatra domina le nostre società. Le varie ideologie sul razzismo, sul terrorismo ecc. che pur essendo delle menzogne passano per verità. Sono in realtà espressioni manifeste di idolatria che vuole giustificare l'ingiustificabile per mantenere il suo potere liberticida sull'uomo.
Voglio ora analizzare un altro argomento riportato dalla parashà di Kedoshim, riguardo ai rapporti sessuali proibiti.
''E qualora un uomo commetta adulterio con la moglie di un altro, verrà fatto morire''. (Lev. 20.10).
Al posto di enunciare teorie come ad esempio "il matrimonio è un'istituzione divina che possiede un carattere sacro'' la Torah proclama una Legge etica il cui significato è quello di conferire un segno di santità all'insieme della morale sessuale.
Ed ancora sullo stesso tema. "Qualora un uomo si unisca con un maschio come con una donna ambedue avranno commesso una cosa abominevole (to'èvà)" (Lev. 20.18)
Ogni forma di depravazione sessuale viene condannata e l'omosessualità viene definita una cosa ''abominevole'' per la sua intrinseca immoralità. Elevare a legge l'omosessualità come accade nelle nostre società, per dare a questa una normalizzazione del tipo contratto matrimoniale è contro natura.
L'uomo in questo modo di fare pretende di trasformare i suoi difetti in ideologia morale per nascondere le sue ipocrisie e le sue menzogne.
Questi tre argomenti scelti dalla parashà di Kedoshim come la giustizia, l'idolatria e la depravazione sessuale non sono stati scelti a caso. Difatti queste regole morali sono presenti anche nel codice di Leggi noachite, la cui osservanza spetta ai figli di Noè. Sarebbe interessante un confronto e un dibattito su questi temi nell'intento di sviluppare un dialogo costruttivo tra esseri umani e non tra religioni. L'etica può unire, la religione può dividere. F.C.

*

 - La tesi di fondo sostenuta in questi commenti è che il primo patto del Sinai, che abbiamo chiamato "patto di redenzione" (Esodo capp. 19-31), è giuridicamente diverso dal secondo, che abbiamo chiamato "patto di conservazione". Il primo patto impegnava entrambe le parti in causa, Dio e popolo; nel secondo, conseguenza della violazione del primo, Dio si sente impegnato a conservare il popolo in virtù delle promesse fatte ai padri, ma si riserva di decidere di volta in volta, nello svolgersi degli avvenimenti storici, i provvedimenti da adottare verso il popolo ribelle, in vista di un "nuovo patto" (Geremia 31:31-37) con il quale si compirà pienamente l'originario progetto di redenzione promesso ad Abramo.
Nello studiare le disposizioni del secondo patto è allora utile esaminare in che cosa esse si allontanano dal primo. Assumendo questo punto di vista, non è difficile riconoscere che l'intera istituzione del "giorno dell'espiazione", il famoso Yom Kippur, è una novità rispetto all'originario patto del Sinai. Nel libro che Dio aveva incaricato a Mosè di leggere al popolo prima della stipula del patto non si trova nulla di tutto questo. I sacrifici di sangue ordinati in quel patto sono soltanto di tre tipi:
1) i sacrifici che servono alla consacrazione dei sacerdoti all'inizio del loro mandato, e alla purificazione dell'altare degli olocausti, (Es. 29:1-37);
2) i sacrifici giornalieri di due agnelli, il mattino e la sera (Es. 29:38-42);
3) l'annuale sacrificio di espiazione sui corni dell'altare dei profumi (Es. 30:10).
Quest'ultimo sacrificio, descritto in un solo versetto, ha una periodicità annuale, ma si riconosce subito che non ha nulla a che fare con quello che poi sarà chiamato "il giorno dell'espiazione".

La sostanziale differenza tra il primo e il secondo patto del Sinai
Nel primo patto Dio aveva deciso di considerare giuridicamente "santo" il popolo, sulla base del sangue versato al momento della stipula del contratto. Pur sapendo che era un popolo di peccatori, Dio aveva deciso di considerarlo "giusto" perché aveva accolto la sua parola, così come aveva fatto con Noè in un altro contesto. Ma quello che Israele ha fatto dopo aver accettato la parola di Dio è paragonabile a quello che avrebbe fatto Noè se a un certo momento si fosse stufato di costruire l'arca, avesse seriamente messo in dubbio il futuro arrivo del diluvio, e abbandonando il deserto fosse andato a stabilirsi al mare. Non so come avrebbe agito il Signore, ma è certo che per lui le cose non sarebbero rimaste come prima.
Nel primo patto i sacrifici servono a far sì che sia vissuto nel concreto quell'accordo di pace già ottenuto con la stipula del patto di sangue. I sacrifici ordinati non servono a togliere i peccati dei singoli a mano a mano che vengono compiuti, ma a permettere che si realizzi nella realtà pratica quel rapporto d'amore che è stato siglato nel patto e deve trovare espressione nell'ascolto ubbidiente della parola di Dio e nell'adorazione.
Nel secondo patto invece il rapporto d'amore fra Dio e popolo è sempre in bilico. Il Signore deve continuamente intervenire con limitazioni, avvertimenti, minacce, punizioni. Il sommo sacerdote adesso può entrare nel luogo santissimo solo una volta l'anno, stando attento a rispettare rigide e pericolosissime regole.
Ma tutto questo non era richiesto nel primo patto. Il sacrificio quotidiano dei due agnelli, il mattino e la sera, sarebbe stato sufficiente a permettere l'incontro amorevole fra l'Eterno e i "figli d'Israele" nella tenda di convegno.
Se si vuole trovare il corrispondente del giorno dell'espiazione nell'originario patto di redenzione, e si vuole vedere da quale altezza è precipitato quello che poi è diventato lo Yom Kippur, si deve leggere attentamente il brano di Esodo 29:38-46. Lì si parla di un luogo accogliente da allestire come un'alcova in cui consumare un rapporto d'amore, non di un luogo pericoloso a cui avvicinarsi con cautela, come verso una centrale elettrica che produce, sì, benefica energia, ma il cui uso mette a rischio chi vi si avvicina senza le dovute precauzioni.
Anche la terribile distinzione fra luogo santo e luogo santissimo, con minacciosi avvisi di pericolo di morte (Numeri 4:19), non si trova nel primo patto. Il Signore ordina a Mosè di costruire un velo "che sarà per voi la separazione del luogo santo dal santissimo" (Es. 26:33), ma solo per dire che il luogo preciso in cui il popolo s'incontrerà con Dio si trova dietro il velo, e appunto per questo merita il nome di santissimo. Tutto qui. Per il resto, nel seguito si parla sempre di "tenda di convegno, dove io m'incontrerò con te" (Es. 30:36), senza altre sottolineature.

Un debito pagato
Con questo si vuole proporre una chiave di lettura di tutta la storia del popolo ebraico, così com'è scritta nella Bibbia. Dal Sinai in poi Israele ha vissuto in debito con Dio, ma restando pur sempre sotto gli occhi di un Dio che aveva deciso di mantenerlo in vita per manifestare la sua potenza e la sua grazia, al fine di arrivare un giorno a provvedere di persona al pagamento del debito mediante la venuta del Messia. E quel pagamento coincide, in virtù della posizione unica in cui si trova il popolo eletto, con il pagamento del debito che tutto il mondo ha con Dio.
"Il giorno seguente, Giovanni vide Gesù che veniva verso di lui e disse: «Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo! Questi è colui del quale dissi: Dopo di me viene un uomo che mi ha preceduto, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma appunto perché egli sia manifestato a Israele, io sono venuto a battezzare in acqua»" (Giovanni 1:29-31).

Ma tu chi sei?
Dopo aver presentato la legge sulla festa dell'espiazione, nei capitoli successivi la Bibbia elenca una serie impressionante di ordini: osservate i miei sabati, non vi rivolgete agli idoli, non rubate, non giurate, non odiate, non vi vendicate, ecc. Davanti a una tale mole di precetti, la reazione più spontanea di chi vuol essere osservante è di cominciare a catalogarli e collocarli: questo sì, questo no, questo forse sì, questo assolutamente no, e così via. Se poi i lettori sono più di uno, nel consesso sorgono subito interessanti e vivaci discussioni. Naturalmente si raccomanda il massimo rispetto reciproco, perché il bello del testo, secondo alcuni, sta proprio nel fatto che dalla sua lettura nasce un interessantissimo dibattito, alla fine del quale ognuno è lasciato libero di pensare e fare tutto quello che gli pare. E' l'imperativo categorico della moralità democratica.
Ma ogni imperativo è sempre logicamente preceduto da un indicativo che ne rivela la ragione e ne costituisce il fondamento. Nel nostro caso, questo è evidente fin dal primo versetto: "Siate santi (imperativo), perché io, l'Eterno vostro, sono santo (indicativo)". E' su quell'indicativo, o meglio, sul soggetto di quell'indicativo che innanzi tutto deve rivolgersi l'attenzione ed eventualmente la discussione. Più di quaranta volte in due capitoli si ripete, in un modo che a noi moderni sembrerebbe ossessivo, l'incessante intercalare: io sono l'Eterno, io sono l'Eterno vostro, io sono l'Eterno, io sono l'Eterno..." Ora, se qualcuno mi si presentasse davanti e cominciasse a darmi degli ordini, come prima cosa io non mi metterei a valutare se sono ordini ragionevoli o no; come prima cosa gli chiederei di brutto muso: ma tu chi sei? come ti permetti di darmi degli ordini?
   Con quell'indicativo ripetuto il Signore voleva rispondere preventivamente a una simile domanda. E dicendo "Eterno" (il tetragramma che non si pronuncia), il Signore non si presenta al popolo come uno sconosciuto, per la prima volta: semplicemente gli ricorda chi Egli è e tutto quello che ha fatto per lui: "Io, l'Eterno vostro, vi ho separato dagli altri popoli" (Lev. 19:24), "Mi sarete santi, poiché io, l'Eterno, sono santo, e vi ho separato dagli altri popoli perché foste miei" (Lev. 19:26).

Esclusivismo che attrae
Il popolo di cui qui si parla è indubbiamente il popolo ebraico. Si suppone allora che chi ne è membro ricordi sempre che appartiene a un popolo che esiste soltanto perché Colui che ha nome l'Eterno ha voluto separarlo dagli altri popoli. Ma perché ha fatto questo? sarà costretto a chiedersi. Che cosa voleva quando l'ha fatto? Che cosa vuole ora?
Quanto a me che scrivo, sapendo con certezza di non appartenere a quel popolo, potrei dire come il Faraone: "Chi è l'Eterno? Io non conosco l'Eterno". E non potendo per motivi tecnici fare quello che tentò di fare a suo tempo il Faraone, potrei assumere l'atteggiamento dell'antisemita moderato di oggi limitandomi a desiderare di essere liberato una volta per tutte da quel fastidioso popolo che non cessa mai di considerarsi "santo", cioè separato da me, come da tutti gli altri che non sono dei loro.
Ma non è così. Leggendo le parole di questa parashà avrei potuto sentirmi escluso, ingelosito, irritato per una strana, ingiustificata, sgradevole preferenza. Invece mi sento attratto. Attratto dalle parole di questo Dio; perché ho imparato a conoscerlo, e quindi ad amarlo. Adesso so che l'amore nascosto in quella parola formalmente così esclusiva: "Io sono l'Eterno, Dio vostro", era destinato ad arrivare anche a chi, come me, non appartiene a quel popolo.
Tra tutti gli ordini elencati in questo passo, ce n'è dunque uno che mi attrae particolarmente, e non è rivolto a me, ma ai membri del popolo: "Quando qualche forestiero soggiornerà fra voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero che soggiorna fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l'amerai come te stesso; poiché anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto. Io sono l'Eterno, Dio vostro" (19:33-34). Grandioso! Un Dio che dà questi ordini al suo popolo mi fa capire che di Lui posso fare anche il mio Dio. Ed è così, per me e per tanti altri come me, che senza essere né voler diventare parte di quel popolo, hanno fatto del Dio d'Israele il loro Signore e Salvatore. M.C.
Con i commenti di oggi si conclude la serie di riflessioni sulla parashà settimanale iniziata un anno fa, esattamente il 5 maggio 2016. Riportiamo alcune parole della presentazione che allora ne avevamo data:
    "Non si tratterà di una lettura ecumenica e neppure di un dialogo, ma dell'accostamento di due diversi approcci al testo biblico, da entrambe le parti considerato come autorevole parola di Dio. Anche le diversità che certamente emergeranno potranno essere per il lettore un invito a interrogarsi sul proprio modo di intendere quel passo e, più in generale, di leggere la Bibbia.”
Crediamo che questo impegno sia stato mantenuto: le differenze di impostazione e argomentazione ci sono state e sono state vissute non solo con reciproco rispetto, ma anche nella convinzione che l’accostamento di posizioni diverse e onestamente argomentate sia di grande utilità.
In un futuro più o meno prossimo pensiamo di arrivare a farne un libro, ma i commenti comunque continueranno ad essere raggiungibili dalla finestra “Parashot”, nella colonna di sinistra della pagina iniziale.
Fulvio Canetti, Marcello Cicchese
(Notizie su Israele, 4 maggio 2017)


L'India prova ad equilibrare le relazioni con Israele e palestinesi

NUOVA DELHI - L'India lavorerà al rafforzamento dei suoi legami con i palestinesi, e potrebbe sottoscrivere un accordo di sicurezza durante la visita a Nuova Delhi del presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, con cui il governo indiano del premier Narendra Modi vuole provare a riequilibrare le relazioni con Israele e palestinesi. Lo scrive il quotidiano di Mumbai "Economic Times". Le due parti stanno negoziando un meccanismo di condivisione delle informazioni per la lotta al terrorismo in vista della visita di Abbas, prevista per il 15 maggio. La visita di Abbas sarà la prima in India dall'insediamento del governo di Narendra Modi, e precederà una visita a Nuova Delhi da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu, in programma per il mese di luglio.

(Agenzia Nova, 3 maggio 2017)


Come ho conciliato le mie due identità

Papà armeno, mamma ebrea. Come una condizione personale è diventata l'occasione per scoprire i tragici parallelismi tra Metz Yeghern e Shoah.

di Cyril Aslanov*

         Foto tratta da "Metz Yeghern. Mostra fotografica sul genocidio armeno al memoriale della Shoah".
         Dal 27 aprile al 24 maggio, piazza Safra 1, Milano


Della mia infanzia parigina ricordo la differenza apparentemente insuperabile fra la parte paterna armena e la parte materna ebraica della mia famiglia. I miei parenti armeni erano quasi tutti vecchi, dignitosi, un poco freddi e distanti, non vi erano molti bambini della mia età e parlavano sempre del loro passato di magnati del petrolio a Baku e della crudeltà degli azeri, cugini e alleati dei turchi, non meno atroci nella loro furia antiarmena.
   Dalla parte ebraica, c'era molta più vita, molti cugini, molto calore, ma spesso si parlava di arresti, di gente nascosta (a cominciare da mia mamma), di zie e zii che non tornarono mai dai campi di sterminio. Si parlava anche di Raissa Bloch, la cugina che era stata consegnata ai tedeschi dalla gendarmeria svizzera perché aveva dei documenti falsi in cui il suo nome fittizio era scritto in modo incoerente: una volta Mirail, l'altra Miraille. Aveva scelto questo pseudonimo in memoria di suo marito Mikhail Gorlin che era stato arrestato e mandato ad Auschwitz prima di lei.
   
Ma io da piccolo non legavo mai le due esperienze storiche. Più tardi, sentii parlare del genocidio armeno e mi indignavo contro gli aguzzini turchi e quasi mi rallegravo quando sentivo alla radio le notizie di liquidazioni di diplomatici turchi da parte di gruppi clandestini armeni in lotta contro il negazionismo turco e contro l'indifferenza del mondo. E poi man mano crescendo, capii tutto ciò che univa le due parti della mia storia familiare, le due componenti della mia identità complessa. Capii che quando le forze di Nuri Pasha, il fratello del sinistro Enver Pasha, attaccarono la Transcaucasia nel 1918 e assediarono Baku, continuavano il progetto genocidiario del triumvirato Talaat Pasha, Enver Pasha, Djemal Pasha.
   Capii che in quest'estensione della guerra fuori dai confini dell'Impero ottomano, la presenza degli armeni in Transcaucasia era considerata come un ostacolo alla creazione di una grande entità panturaniana da Edirne al Turkestan cinese. Capii meglio perché i racconti familiari su fanciulle di quattordici anni vendute come schiave sessuali a vecchi ufficiali turchi, su bambini buttati nell'aria e raccolti alla loro caduta dalle sciabole o dai pugnali dei carnefici, assomigliavano tanto alla lunga enumerazione di crimini orribili che gli ottomani perpetrarono contro i suddetti armeni del Sultano fra 1894 e 1916. Le atrocità commesse in Transcaucasia sono state il prolungamento cronologico e l'estensione geografica del Metz Yeghern, del grande massacro degli armeni nell'Impero Ottomano.
   Parallelamente capii anche tutto ciò che univa la catastrofe della distruzione dell'ebraismo europeo, come la chiamava a ragione Raul Hilberg, alla tragedia armena. In entrambi casi, possiamo vedere un tentativo di eliminare anche nei territori nuovamente conquistati, due minoranze nazionali considerate come inassimilabili, la cui esistenza era percepita come un ostacolo alla ricerca di una purezza etnica, panturaniana da un lato, pangermanica dall'altro.
   Nei due casi, gli storici possono ricostruire i prodromi della tragedia (dal 1894, inizio dei massacri hamidiani per quanto riguarda gli armeni; dai pogrom contro gli ebrei in Ucraina, perpetrati negli anni 1918-1920 dai nazionalisti ucraini che in un secondo tempo, durante la Seconda guerra mondiale, prestarono la mano ai nazisti nella Shoah), la pianificazione del massacro, i mezzi usati: deportazioni; uso di vagoni piombati in cui si moriva di sete; incendi di sinagoghe con tutta la popolazione ebraica dello shtetl dentro e incendi di chiese armene dove erano incastrati tutti gli armeni del villaggio; fucilazioni massicce; bagni di sangue e, in genere, la volontà comune di sradicare assolutamente la presenza ebraica in Europa e la presenza armena in Asia Minore.
   Anche il fatto di mandare gli armeni di Istanbul a Deir ez-Zor, nel deserto siriano, fa pensare alle deportazioni verso i campi della morte. L'unica differenza era che i turchi non avevano trasformato lo sterminio in un'industria come lo fecero i tedeschi. Anche le marce forzate degli armeni nell'immenso deserto cappadocico fanno pensare alle colonne di detenuti che le SS portarono con loro durante la loro ritirata davanti alle forze sovietiche.
   E poi riflettendo meglio sulla similitudine fra le due tragedie e leggendo il libro di Vahakn N. Dadrian, German Responsibility in the Armenian Genocide: A Review of the Historical Evidence of German Complicity, ho capito il ruolo nefasto dei militari tedeschi, alleati degli ottomani nell'organizzazione e nella perpetrazione della strage. Inoltre, l'ammirazione di Hitler per Atatürk e il patto di amicizia fra la Germania nazista e la Turchia di Ismet Inönu, firmato il 18 giugno 1941, mi fecero percepire che, al di là della complicità dei tedeschi con i turchi nel genocidio armeno, vi era un'affinità elettiva, una macabra Wahlverwandtschaft fra il panturanismo e il pangermanismo, fra il nazismo e la dittatura kemalista.
   Molti anni dopo la mia emigrazione in Israele, visitai l'equivalente armeno di Yad Vashem, il museo di Tsitsernakaberd su una collina all'uscita di Yerevan e mi sembrò molto simile a Yad Vashem prima dell'apertura del nuovo museo nel 2005. Ebbi anche la piacevole sorpresa di vedere che durante una visita che effettuò a Tsitsernakaberd, il rabbino capo ashkenazita di Israele di allora, Yona Metzger, aveva piantato un albero per manifestare la sua solidarietà alla memoria del genocidio armeno. Questo e altre prese di coscienza riconciliarono le due parti della mia identità e mi fecero intuire che il combattimento contro la relativizzazione della Shoah doveva passare per il riconoscimento dell'ampiezza della catastrofe armena.
* Cyril Aslanov è professore presso l'Università di Aix-Marsiglia, Accademia della lingua ebraica,
   Gerusalemme.

(Tempi, 3 maggio 2017)


Israele sviluppa l'unità cyber dello Shabak (lo Shin Bet)

di Francesco Bussoletti

 
L'obiettivo è creare un team in grado di affrontare le sfide presenti e future
In Israele nasce l'unità di combattimento cyber dell'agenzia per la sicurezza interna, lo Shabak (Shin Bet). Questa si aggiunge all'Unità 8.200 delle IDF e agli specialisti del Mossad (gli 007 per l'estero). Lo rende noto Tikun Olam. Si chiama Shabacking Team e sta reclutando operatori. Lo fa attraverso la rete, anche con un rompicapo da risolvere. Questo permette di scegliere se "giocare" come un membro del team di sviluppo (homebase) o di ricerca (airplane). Lo scenario prevede che ci sia un agente in pericolo e l'obiettivo è trovarlo e salvarlo. In generale, Shabak sul suo sito internet ha comunque annunciato la disponibilità di diverse posizioni nel settore IT e della cybersecurity. Dalla computer engineering alle infrastrutture, allo sviluppo all'intelligence. L'obiettivo è creare una squadra, in grado di affrontare le ultime sfide e quelle future. Da qui la varietà di posizioni aperte.

 Una carrellata di alcune posizioni che Shabak offre
  Tra i vari lavori che Shabak (Shin Bet) offre in ambito cyber ci sono Social Network Ninja: dedicato alla ricerca, alla caratterizzazione e all'implementazione di tool per estrarre e raccogliere informazioni dai social network e dalle applicazioni per mobile; Virtualization, legata agli ambienti basati su VMware; Big Data/infrastructure, rivolta all'immagazzinamento e al recupero di databe relazionali e non; Vulnerability researcher, specializzata nella ricerca di falle informatiche nei programmi e nei sistemi. Sono tutte specializzazioni che andranno a comporre la nuova forza di cyber 007 israeliani. Questa proteggerà, insieme alle altra strutture, il Paese ebraico dalle minacce della cyberwarfare e del crimine informatico. Con l'attenzione rivolta soprattutto all'linterno della nazione.

 La missione dello Shabacking Team
  Il mantra del Technology Group, lo Shabacking Team, è infatti fornire soluzioni innovative per tutte le unità di Israele nell'ambito della tecnologia e del cyberspazio. E' un gruppo di lavoro unico, che usa il meglio del meglio per produrre soluzioni legate alle operazioni e alle infrastrutture. L'ambiente di lavoro, spiega lo Shabak, è giovane, dinamico e professionale. Inoltre permette ai candidati di sviluppare e influenzare le direzioni del lavoro e della tecnologia del domani. A seguito di ciò, i membri team dovranno avere un elevato livello di professionalità e sempre all'avanguardia nella tecnologia, per essere almeno un passo in avanti rispetto al nemico.

(Difesa & Sicurezza, 3 maggio 2017)


Trump incontra Abu Mazen: Usa mediatori, arriveremo alla pace

Colloquio col presidente palestinese alla Casa bianca

WASHINGTON - La pace in Medio oriente è stata al centro dell'importante incontro alla Casa Bianca tra il presidente americano Donald Trump e quello palestinese Abu Mazen.
"I palestinesi e gli israeliani devono lavorare insieme per raggiungere un accordo che permetta a entrambe le parti di vivere, pregare e prosperare in pace. Gli Stati Uniti non cercheranno di imporre un accordo di pace" in Medio Oriente e faranno "tutto il necessario" per sostenere i negoziati, "che non saranno così difficili come la gente pensa". "Ce la faremo" a trovare un accordo di pace" ha detto Trump in conferenza stampa.
"Bisogna arrivare ad una pace basata sulla soluzione dei due Stati con i confini del '67", ha ribadito Abu Mazen aggiungendo che ciò aiuterebbe la lotta al terrorismo.

(askanews, 3 maggio 2017)


Istituto Rinaldo Franci di Siena: giovedì festa di note per Israele

Dalle ore 18, sul palco dell'Auditorium dell'istituto senese, in Prato Sant'Agostino, concerto per ricordare il 69o Anniversario della fondazione dello Stato d'Israele

La musica del Franci suona per ricordare il 69o Anniversario della fondazione dello Stato d'Israele. Appuntamento domani, giovedì 4 maggio alle ore 18, nell'auditorium dell'istituto Rinaldo Franci, in Prato Sant'Agostino, a Siena per la performance musicale dedicata a Israele. Il concerto che rinnova la collaborazione fra l'Istituto Franci e la Comunità Italia-Israele onlus di Siena, vedrà come protagonisti Paola Zito al flauto; Francesco De Luca alla chitarra; Matteo Canalicchio al pianoforte, allievi dei professori Luciano Tristaino, Marco Del Greco e Matteo Fossi. I giovani talenti del conservatorio senese daranno vita a un concerto dal programma musicale che si snoderà fra l'Ottocento e il Novecento con brani per chitarra di Manuel De Falla - Homenaje (Le tombeau de Debussy) - e Manuel Maria Ponce - Theme varie et finale-, per pianoforte di Johannes Brahms - 4 Klavierstücke op. 119 - e per flauto e pianoforte di Sergej Prokofiev - Sonata op. 94 in re maggiore. Ospite speciale della serata sarà il tenore Marco Di Porto che proporrà il canto tradizionale ebraico Veattà Israel Avdì.

(Siena Free, 3 maggio 2017)


Gerusalemme, il no dell'Italia alla risoluzione dell'Unesco

Alfano: "Voto altamente politicizzato". A ottobre Roma si era astenuta

di Giordano Stabile

BEIRUT - L'Unesco torna a condannare Israele su Gerusalemme ma questa volta il fronte del «no» si allarga e comprende anche Italia e Germania. Per il governo di Benjamin Netanyahu è una mezza vittoria. Anche perché, fra i Paesi dell'Unione europea, sei hanno votato contro, e quattro si sono astenuti, ribaltando l'esito della votazione di ottobre quando in maggioranza non avevano espresso posizione. Tra i dieci che si sono opposti ci sono Stati Uniti, Gran Bretagna, Grecia, Lituania, Paesi Bassi. Ventitré gli astenuti, comprese Francia, Spagna ed Estonia. Nel complesso il testo è passato con 22 voti a favore, 10 contrari, 23 astensioni.

 Il ruolo italiano
 
Il Ministro degli Esteri Angelino Alfano
  Nello schieramento europeo a favore di Israele ha pesato il ruolo dell'Italia. A ottobre Roma si era astenuta ma poi aveva corretto il tiro e promesso allo Stato ebraico un atteggiamento più netto. Fino all'ultimo momento, però, la Farnesina appariva isolata fra i partner Ue. Berlino, che ha mediato a lungo con le controparti arabe per ammorbidire il testo, sembrava orientata all'astensione e a trascinarsi dietro gli altri. In mattinata però il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha anticipato che l'Italia si sarebbe opposta.
  L'annuncio, secondo fonti diplomatiche, ha avuto l'effetto sperato e «altri Paesi hanno seguito l'Italia». Alfano ha poi avuto una conversazione telefonica con Netanyahu. «Poco prima del voto - ha raccontato - avevo annunciato al primo ministro la nostra decisione di votare contro la risoluzione, altamente politicizzata». E il leader israeliano ha «ringraziato l'Italia per questa scelta che rappresenta un esempio».

 Dietrofront tedesco
  Fra gli altri Paesi c'è anche la Germania. A ottobre aveva detto no e ora rischiava di ritrovarsi a parti invertite rispetto all'Italia. È probabile che la scelta italiana l'abbia spinta ad adeguarsi, dopo una settimana burrascosa nei rapporti con lo Stato ebraico. La visita del ministro degli Esteri Sigmar Gabriel in Israele era finita con un mezzo incidente diplomatico. Gabriel ha insistito nel voler incontrare le ong pacifiste che difendono i palestinesi nei Territori occupati e Netanyahu si è rifiutato di vederlo.

 Il fronte arabo
  Il vero motivo dello scontro era la posizione tedesca su Gerusalemme. Berlino aveva ottenuto dai Paesi arabi che presentavano la risoluzione - Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar, Sudan - alcuni cambiamenti significativi, come la cancellazione del passaggio che negava il legame fra il popolo ebraico e la Città Vecchia. Restavano però parti inaccettabili per Israele. Soprattutto i passaggi che lo accusano di essere «una potenza occupante, che ha modificato o cerca di modificare il carattere e lo status della Città Santa». Nonostante l'opposizione israeliana e la mediazione europea, queste parti del testo sono rimaste e ora costituiscono un ostacolo legale per le politiche nella città che Israele considera sua capitale «unica e indivisibile».

(La Stampa, 3 maggio 2017)


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Unesco, no dell'Italia al testo contro Israele

Un anno fa Roma aveva scelto l'astensione, ora lo strappo nonostante l'ammorbidimento della risoluzione e il riconoscimento dell'importanza di Gerusalemme per le tre fedi. Netanyahu ringrazia Alfano. Alla fine anche Germania, Gran Bretagna e Grecia hanno abbandonato il sì o l'astensione per il no a fianco degli Stati Uniti.

di Vincenzo Nigro

Il Comitato esecutivo dell'Unesco, l'agenzia culturale dell'Onu, ieri ha votato ancora una volta una risoluzione contro il comportamento di Israele a Gerusalemme e Gaza. Il testo è stato approvato con 22 voti, ma per la prima volta i voti contrari e gli astenuti sono la maggioranza (23 astenuti e 10 no).
   Questa volta fra l'altro le pressioni di Israele e Usa hanno fatto saltare un accordo negoziato fra i paesi arabi e gli 11 paesi della Ue che sono membri del Comitato esecutivo. In cambio della garanzia di un voto positivo, gli europei sotto la guida della Germania avevano ottenuto da arabi e palestinesi alcune modifiche al testo. La mozione era diventata quindi meno aggressiva per Israele; per esempio, era stato evitato di citare soltanto con la dizione in arabo i nomi dei luoghi di Gerusalemme. Inoltre era stato inserito un riferimento al fatto che «Gerusalemme è importante per le tre religioni monoteistiche, Giudaismo, Cristianesimo e Islam», riferimento sempre assente nelle versioni precedenti.
   La posizione dell'Italia ha però fatto saltare l'accordo dei paesi europei, tanto che alla fine anche Germania, Gran Bretagna e Grecia hanno abbandonato il voto positivo e si sono schierati per il "no" assieme agli Usa. La posizione italiana filo-Israele è figlia dell'ultimo voto su Israele all'Unesco, quello del mese di ottobre, quando in Italia erano scoppiate polemiche anche all'interno del governo. Allora la Farnesina aveva deciso di astenersi come aveva fatto altre volte in passato. Ma il premier Matteo Renzi aveva reagito criticando il ministero degli Esteri e impegnandosi a far cambiare voto nelle prossime occasioni. Allora Renzi aveva definito «allucinante, oltre che incomprensibile e sbagliata» l'astensione italiana: «È il momento di cambiarla».
   Nel weekend il primo ministro di Israele Bibi Netanyahu aveva telefonato al ministro degli Esteri Angelino Alfano, mentre l'ambasciatore a Roma Ofer Sachs ha parlato con i consiglieri diplomatici del premier Gentiloni e con alti funzionari della Farnesina. Ieri Netanyahu ha telefonato ad Alfano dopo il voto per ringraziarlo, come rivela lo stesso ministro italiano: «Avevo annunciato al primo ministro la nostra decisione di votare contro la risoluzione, e avevo anche espresso l'auspicio che altri paesi Ue andassero verso la stessa direzione. Netanyahu ha ringraziato l'Italia per questa scelta che rappresenta un esempio per gli altri Paesi, congratulandosi per il ruolo guida dell'Italia».

(la Repubblica, 3 maggio 2017)


La storia di Gerusalemme e le menzogne dell'Unesco

di Fiamma Nirenstein

 
E' una qualche consolazione che stavolta l'Italia non solo abbia votato contro, ma l'abbia anche annunciato per prima: almeno uno può camminare senza vergognarsi per le strade di Roma o di Firenze. Il disgusto è tuttavia sovrastante, viviamo in un mondo che nega la verità storica per motivi di odio e di vantaggio: l'Unesco, che è una grande, importante, danarosa organizzazione dell'ONU, quella che dovrebbe misurare, determinare, definire la bellezza del mondo come lo crea l'uomo, cioè la cultura, l'arte, la natura, ha di nuovo scelto di imboccare la strada della persecuzione degli ebrei, semplicemente perché la sua maggioranza è islamica, araba, oppure ispirata da interessi legati a quel mondo.
   Noi ebrei siamo dei tipi strani: quando ci sposiamo invece di dire solo «ti amerò e ti sarò fedele per sempre» giuriamo fedeltà a Gerusalemme: «Se ti dimentico Jerushalaim così mi dimentichi la mia mano destra», diciamo da tremila anni nel momento più importante della vita, e lo giuriamo di fronte al rabbino. I Falasha etiopici quando attraversavano a piedi il deserto verso il Sudan in fuga verso Israele, cantavano «Yerusalem» pieni di speranza: baciarono il pavimento dell'aereo (non ne avevano mai visto uno) credendo che fosse già Gerusalemme. David Ben Gurion subito la nominò capitale d'Israele come il re David tremila anni fa. Mai gli ebrei se ne sono andati anche quando sono stati cacciati via: nell'Ottocento erano di nuovo la maggioranza. Gerusalemme oggi sembra un giardino, la città vibra di modernità e di tradizione insieme: accanto a tutti gli uffici del governo, vicino alla Knesset dove siedono con i partiti ebraici anche quelli arabi, da prima della fondazione dello Stato vivono nel pluralismo l'università, gli ospedali dove gli arabi lavorano e vengono curati, le industrie, le scuole, una rete stradale e di trasporti stupefacente, la Città Vecchia col Monte del Tempio e la Spianata delle Moschee, il Santo Sepolcro dove solo la gestione Israeliana, nella storia, ha consentito la piena libertà di movimento. La città che sanguina per gli attacchi terroristi ogni giorno reagisce con determinazione, col sorriso e vincendo sempre. Ieri le celebrazioni del 69esimo anniversario della nascita dello Stato, ha festeggiato solo Gerusalemme. Ed ecco la menzogna dell'Unesco, lo schiaffo in faccia: una risoluzione che stabilisce che la sovranità degli ebrei è cancellata, che tutto appartiene ai palestinesi, che la realtà, la storia, l'amore, non esistono. 20 Paesi hanno votato a favore, 22 si sono astenute (la beffa complice del delitto) e 10 si sono opposte. L'Italia, gli Usa, l'Inghilterra, l'Olanda, la Lituania, la Grecia, il Paraguay, l'Ucraina, il Togo la Germania. Questa lista, per i vostri prossimi programmi di viaggio. Si va a trovare solo chi se lo merita. Sì, anche in Togo, perché no.

(il Giornale, 3 maggio 2017)


"Haaretz": la nuova Carta di Hamas si rivolge ai palestinesi, non agli israeliani

GERUSALEMME - Il nuovo "documento dei principi e delle politiche generali" pubblicato dal movimento palestinese Hamas questa settimana, dove si accetta in linea di principio la costituzione di uno Stato arabo palestinese entro i confini del 1967, non ha come destinatari Israele o i cittadini israeliani: a sostenerlo un'analisi del quotidiano "Haaretz", che sottolinea come la nuova Carta di Hamas continui a negare l'esistenza di legami "religiosi, affettivi e storici fra gli ebrei e la Palestina". Il documento sostiene che il "progetto sionista" non costituisce una minaccia per i soli arabi palestinesi, ma per il mondo arabo e la comunità internazionale nel suo complesso.
   Secondo "Haaretz", dunque, la novità davvero degna di nota all'interno del documento non è tanto l'assenza esplicita dell'impegno alla distruzione di Israele, quanto il fatto che la Carta si rivolga ai palestinesi, tramite l'inclusione di articoli e formule frutto di anni di negoziati con l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), e anche alla comunità internazionale: non ai governi occidentali, ma "agli Stati arabi e musulmani e ai movimenti popolari nei paesi occidentali che sostengono la lotta palestinese contro l'occupazione", scrive il quotidiano israeliano. I contenuti del documento riflettono, secondo "Haaretz", una convinzione assai diffusa tra i palestinesi: le concessioni di Fatah e dell'Olp a Israele sul fronte dei principi fondamentali sono state inutili, ed anzi, non hanno fatto che incoraggiare Israele a intensificare l'espansione degli insediamenti nei territori occupati.
   La Carta di Hamas pare prendere atto anche di una critica mossa nello specifico dai palestinesi al partito, accusato di portare avanti agende esterne - in particolare, quella dei Fratelli musulmani - anziché proporsi come un vero attore politico nazionale.

(Agenzia Nova, 3 maggio 2017)


Unesco approva risoluzione su Gerusalemme. Ma l'Italia vota no

La risoluzione è passata con il sì di 22 paesi, 10 hanno votato contro, 23 si sono astenuti. La risoluzione sostenuta dai palestinesi nega la sovranità di Israele su una parte di Gerusalemme e critica Israele per la gestione. No a risoluzioni politicizzate" dice il ministro Alfano e Netanyahu lo chiama per ringraziare

di Paolo Stella

 
L'Unesco, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura, questo pomeriggio ha adottato a larga maggioranza una controversa risoluzione, che per Tel Aviv di fatto limita la sovranità di Israele su Gerusalemme.
In particolare prevede che ogni decisione della "potenza occupante" israeliana sulla città sia priva di valore.
Il testo, presentato da vari paesi arabi, ha incassato 22 sì. In dieci hanno votato no, tra cui Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania, mentre in 23 si sono astenuti.
Il voto riaccende i riflettori su una città unica al mondo, perché considerata santa dalle tre grandi religioni monoteiste, ed è da sempre al centro dello scontro tra israeliani e palestinesi, che la rivendicano come loro capitale.
Ebbene la risoluzione critica il governo israeliano per i suoi progetti di insediamento nella città vecchia di Gerusalemme e chiede inoltre la fine del blocco su Gaza senza invece citare gli attacchi sferrati da Hamas contro lo stato ebraico.
Decisamente troppo per il nostro ministro degli Esteri: "basta automatismi. L'Unesco faccia cio' per cui e' stata fondata. E cioe' si occupi di istruzione e cultura. Il nostro no ad un testo politicizzato è un passo importante, perché dimostra come l'Italia, quando non condivide, vota contro, spiega Angelino Alfano, che rivendica il merito di aver portato sulla stessa posizione cinque paesi importanti come Regno Unito, Germania, Olanda, Lituania e Grecia".
Il premier israeliano Netanyahu ha ringraziato l'Italia ed ha aspramente criticato il voto di oggi: "non c'è altro popolo al mondo per il quale Gerusalemme sia così importante e sacra come per gli ebrei. L'Unesco nega una verità storica: E cioè che la città è stata il cuore della nazione ebraica".
Ricordiamo che una precedente risoluzione su Gerusalemme est, era stata approvata dallo stesso organismo internazionale lo scorso ottobre. Nel testo, tra le altre cose, si negava il legame millenario degli ebrei con la città vecchia, dove sorge il muro del pianto.
In quel caso l'Italia si era astenuta. Facendo infuriare l'allora premier Renzi. Che aveva definito allucinante il voto e che aveva promesso a Tel Aviv una decisa inversione di tendenza.

(TG La7, 2 maggio 2017)


"Diario Noachide. Un non ebreo ai piedi del Sinai"

Raniero Fontana presenta il suo libro a all'Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv

TEL AVIV - "Incontri con l'autore" all'Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv: ospite della prossima iniziativa, in programma domani, mercoledì 3 maggio, alle ore 18.30, sarà Raniero Fontana che presenterà il suo "Diario Noachide. Un non ebreo ai piedi del Sinai". L'autore converserà con Ariel Rathaus, autore della prefazione, e con Jack Arbib, presidente del Museo U. Nahon di Arte Ebraica di Gerusalemme.
Il "Diario Noachide" di Raniero Fontana è la riflessione di un non-ebreo che vive in Israele e che cerca di entrare a pieno titolo in una storia vivente che ha avuto origine al momento della Rivelazione del Sinai. Fontana è un teologo che è stato allievo, fatto pressoché unico, di una scuola talmudica in Israele e docente al Centro Ratisbonne a Gerusalemme, il cuore del dialogo ebraico-cristiano dove teologi, sacerdoti e laici di ogni confessione cristiana studiavano i testi della tradizione d'Israele. Il suo "Diario" è un ritratto di cosmi umani e intellettuali diversi, offre una panoramica suggestiva sulla cultura ebraica, sulla situazione sociale e politica in Israele, sul rapporto tra ebrei e non-ebrei, sullo stato del dialogo ebraico-cristiano. Un ritratto non-convenzionale, limpido e acuto, come evidenzia nell'intensa prefazione il prof. Ariel Rathaus, docente di Letteratura italiana all'Università Ebraica di Gerusalemme, che sottolinea come all'autore "stia a cuore una totalità tipicamente ebraica che lo stimola e lo affascina: la mitzwah, specifica e specchio ad un tempo del Tutto, del talmùd Torah, lo studio della Torah, come dice la Scrittura: "non si allontanerà questo libro della Torah dalla tua bocca, e lo mediterai giorno e notte" (Gios 1,8)".
   Teologo, filosofo ed ebraista, Raniero Fontana vive e insegna a Gerusalemme. È autore di numerose pubblicazioni. Tra i suoi libri più recenti: "Avodah Zarah. Un'introduzione al discorso rabbinico sull'idolatria" (Milano 2011); "Informe mi hanno visto i tuoi occhi. Piccola miscellanea noachide" (Cantalupa - TO 2012); "Sulle labbra e nel cuore. Il buon uso della parola nel Talmud e nell'ebraismo" (Milano 2014); "André Neher. Le penseur et le passeur" (Gerusalemme 2014); "André Neher, philosophe de l'Alliance" (Parigi 2015).
   Ariel Rathaus insegna Letteratura italiana presso la Hebrew University di Gerusalemme. Ha pubblicato numerosi lavori sui rapporti fra poesia ebraica e letteratura italiana fra Rinascimento e Barocco. In ebraico ha curato la nuova versione del Decameron di Boccaccio e tradotto la Scienza Nuova di Vico. In italiano ha tradotto alcuni fra i maggiori poeti israeliani contemporanei.

(aise, 2 maggio 2017)


Ministro israeliano Erdan: la verità dietro lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi

NEW YORK - Il ministro israeliano della Pubblica sicurezza, Gilad Erdan, esprime sul "New York Times" la posizione di Tel Aviv in merito allo sciopero della fame avviato nei giorni scorsi dai detenuti palestinesi delle carceri di quel paese. Israele, esordisce Erdan, "detiene 6.177 persone per reati legati al terrorismo; molti di questi sono implicati nell'ondata di violenze iniziata nel settembre del Duemila sotto Yasser Arafat, all'epoca leader palestinese, dopo il suo rifiuto dell'offerta di pace usa-israeliana". Di questi 6.177 detenuti, spiega il ministro, in circa 1.200 hanno aderito allo sciopero della fame proclamato da Marwan Barghouti; dal suo arresto nel 2002, accusa Erdan, Barghouti "è stato in prima fila nella ridefinizione del terrorismo come forma di 'resistenza' legittima", e di se stesso come 'moderato'".
   I terroristi arrestati da Israele, sostiene il ministro, vengono definiti "prigionieri politici" per suscitare le simpatie dell'Occidente. Ufficialmente, Barghouti ha lanciato lo sciopero della fame in segno di protesta contro il maltrattamento suo e degli altri prigionieri, Secondo il ministro, però, la protesta "non ha nulla a che fare con le reali condizioni dei prigionieri, che rispondono agli standard internazionali". Ciò si riflette anche nelle richieste presentate dal leader della protesta, che chiede la possibilità "di ottenere lauree universitarie, più visite familiari e più canali televisivi, telefonate pubbliche e visite mediche private".
   In realtà, afferma il ministro, dietro la protesta si cela il fatto che Barghouti dalla sua cella è divenuto in questi anni "uno dei principali attori della scena politica palestinese", che "diffonde regolarmente comunicati in merito agli affari palestinesi e sostiene candidati alle elezioni". Barghouti, spiega Erdan, "è coinvolto nella battaglia per la successione a Mahmoud Abbas, l'anziano leader dell'Autorità palestinese e di Fatah". Barghouti "pare sperare che essere eletto alla successione di Abbas porterà alla sua liberazione dalla prigione", ma la competizione è accesa, e lo sciopero della fame "è un altro passo teso a posizionarsi come successore" dell'attuale leader dell'Anp. Israele, conclude il ministro, non intende cedere alle richieste avanzate nell'ambito di una protesta politica, e invece "lavora con i propri partner e alleati per risolvere i fattori che sostengono e incoraggiano il terrorismo", inclusa "l'incitazione alla violenza da parte dell'Autorità palestinese".

(Agenzia Nova, 2 maggio 2017)


Storie nascoste: quando a Cozze vissero e salparono gli ebrei diretti nella terra

di Imma Furio

 
Biglietto dell'agosto 1947. Firmato da Kvuca Lhava e Chaviva e destinato "al nostro amico Angelo"
MOLA DI BARI - Per quasi tutti i baresi Cozze è semplicemente la frazione di Mola di Bari diventata a partire dagli anni 60 una frequentata meta balneare. Pochi sanno però che questa località tra il 1945 e il 1947 ebbe un importante ruolo in uno degli esodi più significativi del ventesimo secolo: quello degli ebrei che dopo essere sfuggiti alle persecuzioni naziste erano pronti ad emigrare nella futura patria di Israele.
Per raccontare questa storia è necessario tornare indietro nel tempo, precisamente al termine della Seconda guerra mondiale. Il mondo giudaico è scosso dall'Olocausto appena terminato e i sopravvissuti, oltre ad avere negli occhi l'orrore dei lager, hanno la necessità di rifarsi una nuova vita. Il luogo prescelto per partire da zero è la Palestina, area che già da alcuni anni era stata scelta dai Sionisti per rifondare uno Stato ebraico.
Si decide quindi di partire in massa per il Medio Oriente, nonostante il parere contrario del Regno Unito, controllore della Palestina sin dal 1916. Il tutto quindi avviene clandestinamente, almeno sulla carta, perché in realtà gli altri governi europei chiudono un occhio sull'emigrazione in atto, Italia inclusa. Migliaia di ebrei vengono così ospitati in campi profughi in attesa che una nave li trasporti dall'altra parte del Mediterraneo.
E a partire dal 1946 uno di questi luoghi di accoglienza temporanea è proprio Cozze, le cui case disabitate vengono utilizzate per dare un tetto ai rifugiati di passaggio. Comincia così una singolare convivenza tra i pochi abitanti dell'appartata zona (all'epoca borgo di pescatori ancora estraneo al turismo) e nuovi inquilini" provvisori.
«Alloggiavano in abitazioni poco sfruttate - racconta l'83enne cozzese Rita, testimone diretta di quel particolare periodo -. I proprietari infatti si trasferirono qui durante la guerra per sfuggire ai bombardamenti che colpivano le città limitrofe, ma dopo il conflitto erano tornati nei centri più popolosi come Mola e Conversano».
«Ricordo bene che la piazzetta dove oggi c'è la farmacia - prosegue l'anziana - era usata dagli ebrei come spazio comune dove cucinare e mangiare tutti assieme. Spesso scambiavo con loro il mio formaggio fatto in casa con la carne che ricevevano gratis dallo Stato italiano». Un rapporto per nulla scalfito dal fatto di parlare lingue diverse. «Non tutti capivano l'italiano, ma in un modo o nell'altro si riusciva sempre a comunicare», precisa infatti suo marito, l'85enne Giuseppe.
La permanenza dei migranti durò circa cinque mesi, subito dopo la loro partenza verso la Palestina arrivò però un altro gruppo. «Ma anche loro dopo qualche mese andarono via - spiega sempre Rita - e lo fecero di notte, senza che nessuno se ne accorgesse. Il mattino seguente per strada c'erano solo materassi, coperte e altri oggetti utilizzati durante il loro soggiorno. Era il giugno del 1947: rammento che qualche giorno prima ci chiesero dei limoni ma noi, non capendo la richiesta, portammo loro delle ciliegie, frutta tipica di inizio estate».
Gli ebrei si imbarcarono grazie a un pontile rudimentale preparato nel tratto di costa detto pizze affonne (“pezzi profondi"), che si trova accanto al lido Calarena, confine settentrionale della frazione. Pare che i resti di quella struttura siano ancora visibili sott’acqua.
Di questa storia nascosta rimane però qualche prezioso documento. Ottavio, fratello di Giuseppe, ci mostra due immagini in bianco e nero. La prima è una foto di gruppo scattata poco prima di salpare per la "terra promessa", la seconda è un biglietto dell'agosto 1947 firmato da Kvuca Lhava e Chaviva e destinato ad Angelo. La dedica? “Per ricordare la nostra amicizia in Kozze".

(Barinedita, 2 maggio 2017)


Israele sfoggia i suoi nuovi F-35 nel cielo di Tel Aviv

TEL AVIV - Rombano nei cieli di Tel Aviv i nuovi F-35. Per il 69esimo anniversario della nascita di Israele si sono esibiti gli aerei militari realizzati dalla Lockheed Martins. Sulla spiaggia, con le bandiere nazionali, migliaia di persone ad ammirare lo spettacolo. Israele ha commissionato una cinquantina di F35 per mantenere la supremazia militare sui cieli del Medio Oriente.

(RDS, 2 maggio 2017)


L'Italia vota contro la risoluzione Unesco su Gerusalemme: l'annuncio di Alfano

«Ho dato precise istruzioni di voto al Rappresentante permanente dell'Italia presso l'Unesco: votare 'no' contro l'ennesima risoluzione politicizzata su Gerusalemme, tra l'altro nel giorno di un'importante festa nazionale israeliana. La nostra opinione - annuncia il ministro degli Esteri Angelino Alfano - è molto chiara: l'Unesco non può diventare la sede di uno scontro ideologico permanente in cui affrontare questioni per le cui soluzioni sono deputate altre sedi». «Coerentemente con quanto dichiarato a ottobre noi, dunque, voteremo contro la risoluzione, sperando che questo segnale molto chiaro venga ben compreso dall'Unesco», conclude Alfano in una nota.
Israele plaude alla decisione italiana. La nuova risoluzione su Gerusalemme che l'Unesco si appresta a votare oggi, a giudizio israeliano, rigetta la sovranità dello Stato ebraico su qualsiasi parte di Gerusalemme. L'ambasciatore presso l'organismo culturale dell'Onu, Carmel Shama-Hacohen, citato dal Times of Israel, ha definito «senza dubbio uno sviluppo positivo» la posizione dell'Italia annunciata da Alfano.

(Il Messaggero, 2 maggio 2017)


Hamas accetta i confini del 1967 ma rifiuta di riconoscere Israele

Presentata in Qatar la nuova Carta fondamentale del movimento islamista

di Giordano Stabile

BEIRUT - Il leader ideologico di Hamas, Khaled Meshaal, ha presentato in Qatar la nuova Carta fondamentale del movimento islamista che governa la Striscia di Gaza dal 2007. Ci sono alcuni elementi di moderazione rispetto a quella precedente ma Hamas continua a rifiutarsi di riconoscere lo Stato di Israele, definito ancora "entità sionista".

 La replica di Israele: "Fumo negli occhi"
  La novità più importante è l'accettazione dei confini del 1967, la cosiddetta Linea verde, come frontiera del futuro Stato palestinese. In questo modo Hamas in teoria cessa di rivendicare anche i territori a Ovest della Linea verde. Restano però le ambiguità nei confronti dello Stato Ebraico. Israele ha replicato che "non ci sono novità" rispetto a prima. Per l'ufficio del premier Benjamin Netanyahu è soltanto "fumo negli occhi".

 "Lotta armata"
  Meshaal ha ribadito nella conferenza stampa allo Sheraton Hotel di Doha che Hamas "si oppone a ogni piano che offre un patria alternativa ai palestinesi" e che il gruppo "non rinuncerà a liberare", anche con le armi, "ogni pezzetto della terra palestinese". Anche se è disposto, in segno di distensione, a negoziare "uno Stato sovrano indipendente con Gerusalemme come capitale", entro i confini della Linea verde.

 "Entità sionista"
  Il leader di Hamas ha insistito però nel non riconoscere "l'entità sionista", come viene definita Israele in senso dispregiativo, e che "la lotta contro l'occupazione" include anche "la lotta armata". Hamas poi non rinuncia alla diritto al ritorno nelle loro case di tutti i profughi e i loro discendenti, compresi quelli del 1948.

 Rottura con i Fratelli musulmani
  Nel documento Hamas prende anche le distanze dai Fratelli musulmani, proclamandosi un movimento islamico indipendente. La Fratellanza, specie quella egiziana, è stata sempre il punto di riferimento ideologico di Hamas, specie nella Striscia di Gaza, dove è riuscita a radicarsi al potere.

 Abu Mazen a Washington
  La mossa di Hamas arriva alla vigilia della visita del presidente dell'Anp Abu Mazen a Washington, dove avrà il suo primo faccia a faccia con il presidente americano Donald Trump. La Casa Bianca vuole rilanciare i negoziati diretti fra palestinesi e Israele, in vista del viaggio in Israele di Trump, previsto per il 22 maggio.

(La Stampa, 2 maggio 2017)


Hamas e il nuovo documento politico. Segno di debolezza, non di apertura

L'organizzazione terroristica palestinese si dice pronta ad accettare i confini del 1967, ma rifiuta di riconoscere Israele. I toni più morbidi nascondono le difficoltà interne alla Striscia di Gaza.

di Luciano Tirinnanzi

 
Doha, Qatar - Il leader di Hamas Khaled Meshal alla conferenza stampa del documento politico
Il 2017 vorrebbe essere per Hamas l'anno della verità. Ma difficilmente lo sarà. Prima, a metà gennaio, l'organizzazione palestinese che controlla la Striscia di Gaza ha stretto a Mosca un accordo di principio per la costituzione di un governo di unità nazionale con gli esponenti di Al Fatah, l'alter ego che invece controlla la Cisgiordania, e ha annunciato nuove elezioni.
   Poi, il 13 febbraio scorso, ha nominato quale nuovo leader politico Yehiya Sinwar, personaggio di primo piano della resistenza palestinese, considerato un falco estremista dagli stessi militanti di Hamas (arrestato dagli israeliani nel 1988 e condannato a quattro ergastoli, fu liberato nel 2011 insieme ad altri mille detenuti palestinesi, in cambio del rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit, rapito cinque anni prima nei pressi di Gaza).
   Adesso, l'organizzazione ha approvato una modifica del suo programma politico che, in sostanza, accetta la creazione di uno Stato palestinese secondo i confini del 1967, ovvero quelli ottenuti de facto con l'armistizio seguito alla Guerra dei Sei Giorni. Quando cioè Israele, uscito vittorioso dallo scontro con una coalizione araba, ampliò il proprio spazio vitale rispetto al territorio mandatario del 1948 - che aveva dato vita allo stato israeliano - occupando l'attuale Cisgiordania, Gerusalemme Est, Gaza, il Golan e il Sinai (che sarà restituito anni dopo all'Egitto).
   L'armistizio del 1967 è stato la base di una serie innumerevole di colloqui e trattative, ultima delle quali è stata la proposta di Barack Obama di un ritorno a quei confini, con «comparabili e reciproci scambi di terra concordati» tra Israele e Palestina. Come sappiamo, non vi è stato alcun seguito e la nuova amministrazione Trump ha, al contrario, ventilato l'ipotesi di una Gerusalemme capitale dello stato ebraico, come peraltro vorrebbe Israele, suscitando il panico tra le fila palestinesi.

 La mossa di Hamas
  L'odierna - e inedita - decisione di Hamas, tuttavia, è ambigua e certamente non risolutiva. Da un lato, infatti, corrisponde a un evidente tentativo di rompere il crescente isolamento internazionale, offrendo un'immagine di sé all'esterno più "soft". Dall'altro, è una manovra per rimettere l'organizzazione di nuovo al centro della politica e accreditarsi quale unico interlocutore possibile a Gaza, soprattutto dopo che gruppi salafiti-jihadisti alternativi stanno acquisendo sempre più potere all'interno della Striscia, minando l'autorità stessa di Hamas.
   Lo sforzo dell'organizzazione - considerata terrorista oltre che da Israele, anche da Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea e da altre potenze - di rifarsi un'immagine positiva e ammorbidire le proprie posizioni, è evidente soprattutto nei toni: «Il nostro messaggio al mondo è che Hamas non è radicale. Siamo un movimento pragmatico e civilizzato. Noi non odiamo gli ebrei. Lottiamo soltanto contro chi occupa le nostre terre e uccide la nostra gente» afferma il documento. Nel testo, peraltro, non si fa più menzione dei Fratelli Musulmani, in ossequio a Egitto e Stati del Golfo, dove il movimento islamista è bandito.
 
Proteste nella Striscia di Gaza, aprile 2017
   Tuttavia, che questo documento rappresenti solo un restyling d'immagine, si capisce da alcuni dettagli. Intanto, è stato diffuso da Doha, Qatar, per mano dell'ormai screditato leader supremo Khaled Meshal, che da anni vive in esilio e sul quale gravano pesanti sospetti di corruzione. Ma, soprattutto, arriva proprio nel giorno in cui in Israele si sono aperte le celebrazioni per il 69esimo anniversario della nascita dello Stato. Una provocazione, dunque, che la controparte ovviamente non ha gradito.
   Infatti, il vero punto dirimente e base di partenza per qualsivoglia trattativa, è il riconoscimento dello Stato d'Israele. E questo non c'è nel documento. Anzi, si ribadisce il rifiuto categorico a dar vita a tale possibilità: «Senza compromettere il suo rifiuto dell'entità sionista - si legge nel testo - Hamas considera l'istituzione di uno Stato palestinese totalmente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale lungo la linea del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati nelle loro case da cui sono stati espulsi, come una formula di consenso nazionale».
   Una battuta celebre vuole che il motivo del conflitto israelo-palestinese sia "troppa storia e poca geografia". Ed è davvero così. Non si tratta più di rimestare nei fraintendimenti storici (nel 1948 la Palestina non esisteva come stato e la Cisgiordania era, appunto, Giordania), ma di dare seguito alle rivendicazioni territoriali. Nel documento di Doha, infatti, Hamas non rinuncia alla lotta per «liberare tutta la Palestina» e quasi chiama alle armi per boicottare il «progetto sionista».
   Pronta la replica israeliana, che ha rigettato la dichiarazione di Hamas etichettandola come «fumo negli occhi», e sottolineato come l'obiettivo dell'organizzazione resti la distruzione di Israele. Dunque, per ogni passo in avanti nella questione israelo-palestinese, se ne fanno due indietro.

 Hamas e i problemi in casa
  In fin dei conti la mossa di Hamas, per quanto sembri orientata alla politica internazionale, appare allora più come una questione di politica interna, dove è evidente la necessità da parte dell'organizzazione che dal 2006 controlla la Striscia, di conciliare la guida di un governo legittimo a Gaza con l'esigenza di essere ancora percepito dai palestinesi come il movimento di resistenza contro Israele esclusivo.
   Da mesi, infatti, soprattutto Gaza city è attraversata da spinte centrifughe, specie tra la popolazione più giovane, che guarda con curiosità crescente alla capacità di manovra di gruppi salafiti-jihadisti come lo Stato Islamico, potenzialmente in grado di erodere consensi e già molto attivi, specie al confine col Sinai, nel portare avanti la lotta come e più di Hamas.
   Dall'altro, la Striscia è percorsa da proteste e contestazioni continue, come quella di gennaio scorso quando migliaia di persone, stanche della fornitura di elettricità a singhiozzo, sono scese in strada per chiedere ad Hamas una soluzione, accusando direttamente l'organizzazione di non saper porre rimedio a questi disagi.
   Infine, Hamas deve ancora affrontare coerentemente il vero nodo interno, che resta il rapporto conAl Fatah. Il processo di riconciliazione fra i due schieramenti - tassello fondamentale per sbloccare la situazione interna della Palestina e presentare un fronte compatto alle trattative con Israele - nonostante gli annunci, sinora non ha prodotto alcun governo di unità nazionale né proposte credibili. (LookOut, 2 maggio 2017)


Nel 69esimo dell'indipendenza, ebrei ed arabi d'Israele si dicono fieri di essere israeliani

Sondaggio: israeliani inguaribili ottimisti, con i cittadini arabi che più di quelli ebrei vedono un futuro positivo per il paese.

Israele compie 69 anni e la sua popolazione è assai più soddisfatta di quanto sembrerebbe stando all'immagine che ne restituiscono mass-media e conversazioni casuali. E' quanto risulta da un sondaggio pubblicato domenica dall'Israel Democracy Institute, secondo il quale il 71% della popolazione israeliana definisce la propria situazione personale "buona" o "molto buona", e solo il 3% la definisce "cattiva" o "molto cattiva". Un altro 25% definisce la propria situazione semplicemente come "okay".
Questo sul piano individuale. A livello collettivo, poco meno della metà degli intervistati (il 47,5%) dice che la situazione di Israele oggi è "molto buona" o "buona", e solo il 15% la definisce "cattiva" o "molto cattiva". Anche qui, un buon 40% dice che è "okay"....

(israele.net, 2 maggio 2017)


Quelle guide 'speciali' che raccontano l'Isola delle Rose

Sono i pochi sopravvissuti alla Shoah che si incontrano ogni estate a Rodi per parlare con i turisti. Fra loro Sami Modiano.

di Giovanna Coen

 
Sami Modiano spiega ai turisti   
RODI - Una splendida isola nel mare Egeo, meta turistica, destinazione che offre cultura e storia oltre a bellissime spiagge di sabbia o roccia. Ce ne è per tutti i gusti, insomma.
   A Prassonissi, la punta più a sud dell'isola, lo spettacolo incredibile offerto dalle maree rende quel lembo assolutamente unico e, in qualsiasi momento della giornata, destinazione preferita di surfisti di tutto il mondo che su quella spiaggia campeggiano. A Lindos, il passato si vive anche attraverso piacevoli passeggiate in groppa agli asinelli che, come una volta, accompagnano turisti da tutto il mondo fino all'Acropoli. E poi Pethaludes, la Valle delle Farfalle, ameno parco dove miriadi di farfalle si alzano in volo al passaggio dell'uomo. E ancora, Kalithea con le sue terme romane, Epta Pigies con le cascatelle naturali, fino ad arrivare alla baia di Anthony Queen, il ben noto "Zorba il Greco" del cinema internazionale.
   Eppure quest'isola tanto paradisiaca, ha sofferto una ferita che ha colpito in maniera grave la sua storia e che l'ha dissanguata di una parte della popolazione: quella ebraica.
   Quando Rodi era parte del Governatorato italiano (1912-1943), la popolazione ebraica viveva nell'isola ben inserita nell'ambiente, sia dal punto religioso che dal punto di vista sociale con i gruppi circostanti greci e turchi. L' Alliance Israélite Universelle era un brillante istituto altamente qualificato e molto ben frequentato. La Comunità Ebraica aveva un ruolo importante nella società. La famiglia Alhadeff, per esempio, era tra le più note dell'isola, grazie ai grandi magazzini di cui era proprietaria e alla Banca che dirigeva.
   L'Italia rappresentava, per molti ebrei di Rodi, il Paese che aveva garantito loro una patria di appartenenza. Ma quell'Italia che loro avevano accolto cosi benevolmente, non fu in grado di salvarli dalla tragedia che si stava delineando in Europa. Né; poterono far nulla gli amici greci o turchi quel 18 luglio del 1944, quando furono raggiunti da un ordinanza del Governo che vietava loro di uscire di casa e di guardare fuori dalle finestre mentre i loro concittadini e amici di religione ebraica, prima gli uomini e poi donne e bambini, marciavano per raggiungere la Caserma dell'Aeronautica Militare Italiana. Li, questi ultimi, iniziarono a perdere la loro identità di esseri umani. Privati di documenti e qualsiasi altro avere, furono trasportati e rinchiusi nella prigione di Haidari al Pireo e poi - il 23 luglio 1944 - con il Convoglio n. 44R, deportati ad Auschwitz. Furono fatti scendere dal treno una volta giunti a destinazione. Era il 16 agosto.
   Nessuno, dei pochissimi che sopravvissero all'orrore dei campi di sterminio, poté però fare ritorno alla sua amata Isola delle Rose: nell'aprile del 1945, mentre ancora erano rinchiusi nei campi, Rodi fu consegnata alla Grecia.
   Nel tempo i reduci - con il loro numero tatuato sul braccio, simbolo di quella follia che li aveva strappati dalla loro terra senza però mai sradicarli realmente dalle loro radici, contribuendo, anzi, a unirli ancora di più in una grande famiglia - hanno iniziato a tornare a Rodi, a passeggiare per quelle stradine fatte ancora di sassi, fino a ritrovare la Sinagoga "Kahal Shalom" - l'unica rimasta in piedi dopo i bombardamenti della guerra. Insieme con le loro nuove famiglie, tornarono a celebrare a casa le festività ebraiche solenni e passare lì i mesi estivi.
   Oggi, di quei sopravvissuti, solo Sami Modiano ogni anno passa diversi mesi a Rodi e le mattine le trascorre nel cortile della Sinagoga. Parlare con lui è fare un bagno nella storia. Con il suo sguardo tranquillo, aspetta i turisti seduto sulla panchina nel cortile della Sinagoga. Sembra che nulla lo possa scalfire, ma nulla gli sfugge.
   Non racconta solo una sterile pagina di storia, Sami regala tutto se stesso alle persone che incontra, coinvolgendole inevitabilmente in racconti di vita bella vissuta in quelle stradine prima della guerra, e di tragedia anche solo mostrando il numero che porterà sempre tatuato nel cuore, oltre che sul braccio.
   E poco distante da lui, non manca mai Selma. Sua moglie, ma con una storia completamente diversa Con parte della famiglia turca e parte di religione cattolica, non ha mai lasciato l'isola durante la guerra. Ancor più riservata di Sami, si siede in disparte e si preoccupa che, chi tanti anni fa la volle in sposa, non si stanchi, che beva, che abbia sempre tutto ciò di cui ha bisogno. Che senta sempre quell'amore dal quale a soli 12 anni fu strappato dalla brutalità umana.
   Insieme con Sami e Selma, la ricca storia della Comunità ebraica di Rodi è raccontata anche da Itzhak, figlio di sopravvissuti rodioti alla Shoab.
   Accade spesso di incontrare nel cortile della Sinagoga, anche figli e nipoti di sopravvissuti che non si risparmiano nel riportare ai visitatori aneddoti tramandati dai racconti dei loro cari.
   Il 23 luglio è una data che la popolazione ebraica originaria dell'Isola non potrà mai dimenticare. E ogni 23 luglio l'odierna Comunità Ebraica di Rodi non manca di ricordare quella giornata con cerimonie ufficiali che coinvolgono anche le alte cariche civili dell'Isola delle Rose. Sei candele vengono accese in ricordo dei sei milioni di correligionari rimasti uccisi nei campi di sterminio e decine di corone di fiori vengono posate alla base del monumento che da anni, ormai, ricorda nella "Piazza della Juderia" quella che è stata la peggiore disgrazia voluta della Storia.

(Shalom, aprile 2017)


Alla ricerca della Gerusalemme perduta con Dan Bahat

Il Meis ospita uno dei massimi esponenti dell'archeologia israeliana

 
Dan Bahat
Martedì 2 maggio, alle 17, un ospite d'eccezione interviene al Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah - Meis in via Piangipane 81 a Ferrara. A inaugurare il ciclo di incontri "Gallery Talks" è, infatti, Dan Bahat, tra i massimi esponenti dell'archeologia israeliana e mondiale.
"Come vivevano gli ebrei a Gerusalemme prima che i Romani distruggessero il Tempio e li portassero a Roma (70 d.C.)" è il tema che Bahat affronta, conversando con il direttore del museo, Simonetta Della Seta, e alla presenza di Gianluigi Benedetti, nominato ambasciatore d'Italia in Israele.
La più celebre e significativa scoperta dell'archeologo gerosolimitano è il tunnel alla base del Kotel (il Muro Occidentale), che portò alla luce quando dirigeva gli scavi a Gerusalemme, facendo riemergere i resti del Primo e del Secondo Tempio (rispettivamente, quello distrutto da Nabucodonosor II nel 586 a.C. e quello di Erode), dei periodi bizantino e romano, e delle dominazioni crociata, mammelucca e ottomana.
Ma c'è la firma di Bahat anche su molti interventi e rinvenimenti che riguardano Masada, altro luogo simbolo d'Israele: sono state trovate qui le iscrizioni con i nomi degli ultimi dieci zeloti (rigorosi osservanti della legge ebraica), che ricevettero l'ordine di uccidere i compagni e che poi, pur di non consegnarsi alla decima legione romana di Lucio Flavio Silva, che da tre anni assediava la fortezza nel deserto della Giudea, si tolsero la vita.
Con le sue pubblicazioni e il lavoro sul campo, Bahat ha rovesciato molte credenze comuni, illuminando il passato di una nuova luce e creando un terreno fertile per successivi approfondimenti.
Nell'Atlante di Gerusalemme, considerato una pietra miliare, lo studioso ripercorre la storia della città dal primo insediamento fino agli anni Sessanta, adottando uno stile fortemente visivo e divulgativo, con oltre quattrocento immagini a colori, tra cartine, disegni, fotografie, riproduzioni di monete antiche e ricostruzioni di palazzi. E Bahat sta terminando la Storia del Monte del Tempio, dall'epoca cananea al Mandato britannico, 1917.
Al centro delle sue ricerche, i luoghi santi di Gerusalemme, dove ebraismo, cristianesimo e islam si sono incontrati, combattuti e amalgamati al punto da coesistere materialmente nei motivi architettonici, nelle rovine monumentali, nelle fondamenta dei templi.
E uno dei contributi più dirompenti di Dan Bahat riguarda proprio i templi ebraici, che per la vulgata classica erano solo due, il Primo e il Secondo. L'archeologo ha, invece, raccolto le prove dell'esistenza di quattro edifici: uno piccolo, precedente a quello abbattuto dal re babilonese (che diventa così il secondo), e un terzo, risalente al III secolo a.C., che si colloca prima di quello di Erode.
Il Meis ha invitato Bahat a focalizzarsi sul periodo anteriore alla devastazione del Tempio ad opera di Tito e al trasferimento degli ebrei d'Israele a Roma come schiavi, perché si ricollega al momento in cui comincia l'epopea degli ebrei italiani, che è vocazione del museo raccontare.

(estense.com, 2 maggio 2017)


Israele ospiterà gli europei di Judo 2018

di Nathan Greppi

La European Judo Union (EJU) ha recentemente confermato che l'anno prossimo Israele ospiterà i Campionati europei di judo. Ne dà notizia Ynet.
Per ottenere questo risultato, il governo israeliano ha messo a disposizione 6 milioni di shekel (1,5 milioni di euro circa) per finanziare l'evento.
Negli ultimi mesi, il presidente dell'EJU Sergey Soloveychik ha discusso molto della questione con Moshe Ponte, presidente dell'Associazione Israeliana di Judo, e a Maggio incontrerà in Israele il Ministro della Cultura e dello Sport Miri Regev per concordare gli ultimi dettagli.
Ai campionati di quest'anno, tenutisi a Varsavia dal 20 al 23 aprile, Ponte è stato invitato da Soloveychik a imparare come gestire un evento di questa portata, che prevede la presenza di oltre 369 partecipanti da 41 paesi, senza contare tutti gli allenatori e i preparatori.
Per quanto riguarda il luogo dove si terrà il prossimo evento, le opzioni proposte sono due: Il Convention Center di Tel Aviv, dove nel novembre 2016 si sono tenuti i campionati under 23, e il Pais Arena di Gerusalemme.
Riguardo alla decisione dell'EJU, Ponte ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Siamo orgogliosi e felici della notizia. Questa è la prova che i Campionati europei Under 23 sono stati gestiti al massimo livello, e mi congratulo con il nostro presidente, Guy Gur, e con tutto il team dell'Associazione, e spero che tutte le faccende burocratiche e di budget vengano risolte rapidamente affinché i campionati si facciano nel miglior modo possibile. Ciò è motivo di orgoglio per lo sport e per lo Stato d'Israele."
Questa sarà la prima volta che Israele viene scelta. L'Italia in passato ha ospitato quattro campionati, di cui l'ultimo si è tenuto a Genova nel 1983.

(Mosaico, 1 maggio 2017)


Braccio di ferro all'Unesco su Gerusalemme

Domani il voto sullo status. Perché Israele è scettica sulla nuova risoluzione?

di Giordano Stabile

Il duello fra Israele e Germania minaccia di generare un mezzogiorno di fuoco per domani, giorno dell'Indipendenza nello Stato ebraico ma anche data di una delicata votazione all'Unesco. Sul tavolo c'è la risoluzione su Gerusalemme che lo scorso ottobre aveva negato i legami storici fra il popolo ebraico e la Città Vecchia, fatto infuriare un popolo intero e aperto una crisi diplomatica fra Israele e Ue. In questi mesi le cancellerie europee hanno lavorato con le controparti arabe per correggere il testo. Gran parte del lavoro è stato svolto dalla Germania. Il documento è stato ammorbidito, ma ancora non include il legame unico fra Gerusalemme ed ebraismo, preferendo parlare di "occupazione israeliana".
   Il vicedirettore generale del ministero degli Esteri, Alon Ushpiz, ha avuto un colloquio «molto duro» con l'ambasciatore tedesco Clemens von Goetze, ha riferito «Haaretz». Il colloquio si è svolto a ridosso della burrascosa visita del ministro degli Esteri di Berlino, Sigmar Gabriel. Che ha insistito nel voler incontrare le Ong pacifiste e Netanyahu si è rifiutato di vederlo. I contrasti sulla risoluzione Unesco, incluse le critiche alle politiche israeliane nei Territori, sono alla base dello scontro.
   Ora il braccio di ferro rischia di approfondire la ferita fra Israele e Ue. Nel Consiglio dell'Unesco siedono 58 Paesi, 11 dell'Unione. Il testo precedente era stato respinto dai sei Paesi: Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda. In 26 si erano astenuti, Italia compresa. L'Ue si era mostrata spaccata più che mai. Il nuovo testo, con gli arabi che hanno accettato alcune richieste tedesche, punta a unire l'Ue, stabilendo che Gerusalemme «è importante per il giudaismo, il cristianesimo e l'islam». Berlino vorrebbe che i rappresentanti dell'Ue esprimessero la stessa posizione: astensione. Ma Londra, in clima Brexit, la pensa diversamente, mostrando attenzione per le tesi di Israele.
   Resta l'interrogativo su cosa deciderà il premier Paolo Gentiloni che rischia di trovarsi in una posizione scomoda. I rapporti con Israele sono ottimi e in queste ore i contatti sono bilaterali e intensi. Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche chiede «coerenza», dopo che in ottobre l'Italia aveva promesso «basta ambiguità».

(La Stampa, 1 maggio 2017)


Onora il patrimonio e il matrimonio

di Rav Alberto Moshe Somekh

Rav Alberto Moshe Somekh
In febbraio è mancata a New York la nonna di mio genero. Qualche mese prima, per festeggiare il suo centesimo compleanno erano convenute a casa sua decine di discendenti, alcuni dei quali lei forse neppure conosceva. La sua improvvisa scomparsa ha colto di sorpresa i figli che erano giunti in Israele per il matrimonio dell'ennesima pronipote. La defunta era da tempo trisnonna: nonna di numerosi nonni a loro volta. Sia il suo ricordo in benedizione!
   È un quadro al quale da tempo non siamo più abituati in Italia. Penso spesso a coloro che vengono chiamati alla lettura del Sefer Torah nei nostri Battè ha-Kenesset (Sinagoghe, ndr). Quando si tratta di commemorare i loro cari scomparsi molti ricordano a memoria intere file di tombe al cimitero, salvo poi rimanere basiti nel momento in cui gli si chiede di benedire i discendenti e i famigliari viventi: semplicemente non hanno più nessuno. Come diceva Rav Kahanemann di Ponovizh, un individuo diviene orfano nel momento in cui non ha più i genitori; una Comunità diviene orfana allorché non ha più figli.
   C'è un rimedio a tutto ciò? Certamente. Siamo in prossimità di Shavu'ot, la festa del dono della Torah. Nel capitolo che precede i Dieci Comandamenti H. si rivolge a Moshe in via preliminare: "così dirai alla Casa di Ya'aqov, parlerai ai Figli d'Israel" (Shemot 19,3). Rashì spiega che la Casa di Ya'aqov si riferisce alle donne, mentre i Figli d'Israele sono gli uomini. Ci si domanda ulteriormente: perché chiedere il consenso del "gentil sesso" prima della componente maschile del popolo? La Halakhah afferma che in un qualsiasi transazione occorre avere il pieno consenso di tutte le parti coinvolte. Se da una parte ci sono marito e moglie in società, occorre chiedere prima il consenso della moglie, altrimenti l'affare è annullato (Ghittin 55b). Secondo i criteri dell'epoca il timore è che se si facesse l'inverso e si domandasse prima al marito e poi alla consorte sussisterebbe ancora il dubbio che la moglie possa aver accettato soltanto per compiacere il marito. H. si comporta in conformità: prima di offrire la Torah a Israele chiede anzitutto l'assenso delle donne, o meglio, delle mogli. La vita ebraica si basa sul matrimonio ebraico. Non si insisterà mai abbastanza sul divieto del matrimonio misto: un'evasione della legge non può essere un investimento per il nostro futuro. Ora mi voglio soffermare su un altro grave pericolo per i destini del nostro popolo, quello costituito da chi sceglie di non sposarsi del tutto. Più esattamente mi rivolgo ai ragazzi e ragazze ebrei che pur frequentandosi optano per ritardare il matrimonio.
   I nostri Maestri ci insegnano che la Torah ci è stata donata come una sposa. Accettare la Torah - spiegano i Saggi d'Israele - non presuppone una sua conoscenza totale, così come non è possibile, né si pretende che lo sposo conosca già tutto della sposa il giorno in cui decide di convolare con lei (Rashì a Shemot 31,18). Non si deve cioè attendere troppo, temendo di scoprire in un futuro più o meno lontano qualche lato sgradevole nella o nel partner. L'attrazione reciproca, una buona dose di mutuo rispetto e fiducia, nonché un progetto lungimirante di vita comune dovrebbero essere elementi sufficienti per garantire la stabilità del rapporto. Come è avvenuto per secoli fra il popolo d'Israele e la Torah.
   Ma il timore di sbagliare non è l'unico movente della dilazione. Oggi viviamo un'epoca di crisi economica. Particolarmente i giovani faticano a trovare un impiego lavorativo stabile e ciò è spesso invocato come scusa per il rinvio del matrimonio. L'argomento è già affrontato nel Talmud a sua volta. Il versetto "Predisponi fuori il tuo lavoro, approntalo nella campagna e dopo costruirai la tua famiglia" (Mishlè 24,27) è inteso come un invito a sposarsi solo una volta che ci si sia garantiti l'avvenire con i proventi del lavoro (Sotah 44a). Così scrive Maimonide: "Gli uomini sensati cominciano con un lavoro stabile per guadagnarsi da vivere, dopodiché si acquistano una casa e infine prendono moglie ... mentre gli stolti cominciano sposandosi, dopodiché se ne hanno la possibilità si acquistano casa e solo successivamente, alla fine dei loro giorni, cercano un lavoro o vivono di tzedaqah (elemosina, ndr)" (Hilkhot De'ot 5,11).
   Esiste peraltro nel Talmud un insegnamento contrastante. Parlando dei doveri del padre verso il figlio, l'obbligo di aiutarlo a trovar moglie precede quello di insegnargli un mestiere (Qiddushin 29a). In una sua Derashah il Chidà di Livorno (sec. XVIII) scrive a sua volta di non considerare il testo del Maimonide vincolante per il suo tempo, perché il rinvio del matrimonio è causa di trasgressioni (Chadrè Baten, P. Waychì, II, n. 28). Non voglio qui discutere sul piano etico se la liberalizzazione dei costumi nel nostro secolo sia da assumere come un dato di fatto ("così fan tutte") o come spunto per una maggiore attenzione. Mi limito alle considerazioni economiche da cui sono partito. Siamo certi che non ci troviamo di fronte a una semplice convenzione, o meglio una scusa, per quanto buona? Quante spese del tutto voluttuarie affrontiamo con il denaro dei nostri genitori pur rimanendo single! Mi limito a un esempio. Quanti "fidanzati" che vivono ciascuno per suo conto se fossero sposati condividerebbero la stessa casa e dunque risparmierebbero le spese di un alloggio!

(Pagine Ebraiche, maggio 2017)


La favola di Alona, la «regina del Negev» che ha trionfato con la squadra degli ultimi

La milionaria israeliana proprietaria dell'Hapoel

di Davide Frattini

 
La presidentessa Alona Barkat festeggiata dai tifosi
Alona Barkat
Alona
GERUSALEMME - Beersheva sta a un centinaio di chilometri da Tel Aviv, ma è come se la sabbia ricoprisse un altro pianeta. Sonnacchiosa, polverosa, periferica, dimenticata, isolata. Neppure gli investimenti per sostenere l'università Ben Gurion erano riusciti a rilanciare la città in mezzo al Negev, troppo vicina alla Striscia di Gaza e troppo lontana dal resto Paese.
   Il nuovo stadio Turner, 16 mila posti, è una vera «cattedrale nel deserto», visto che si affaccia sulle valli pietrose e qui le famiglie vengono a pregare: per la squadra locale che sabato sera ha vinto il campionato, con tre partite di anticipo. E la seconda volta di fila, quando è successo nel 2016 dall'ultimo titolo erano passati quarant'anni e molte retrocessioni.
   Che sugli spalti a incitare l'Hapoel non vadano solo agguerriti tifosi maschi è l'orgoglio di Alona Barkat, la presidentessa - o regina del Negev come la chiamano i sostenitori. Ha acquistato la squadra nel 2007 in saldo (per 1,7 milioni di euro) perché voleva investire in attività sociali e di volontariato, un'amica le aveva detto che attorno al calcio poteva costruire progetti per i ragazzi di famiglie difficili. Come sono tante a Beersheva, dove la popolazione è composta da immigrati ebrei dai Paesi nordafricani e alla periferia della sua periferia si accampano i beduini.
   Unica donna a possedere una società di calcio in Israele, è diversa dagli altri proprietari anche per le regole che ha imposto ai suoi tecnici: «Ho stabilito che il razzismo e il sessismo non possono entrare al nostro stadio - ha spiegato al giornale online Times of Israel -. Abbiamo giocatori ebrei, musulmani, cristiani. Tutti vengono giudicati in base ai meriti». A differenza di club come il Beitar di Gerusalemme, la cui dirigenza continua a cedere alle pressioni degli ultra razzisti e ormai evita di scritturare giocatori musulmani.
   Le vittorie non sono arrivate subito e Alona è stata guardata con superiorità dall'alto della curva, i tifosi non erano pronti a lasciarsi condurre da una donna. «Prima di comprare la squadra - ha raccontato in un'intervista al New York Times, il quotidiano americano - sono stata solo una volta a Beersheva, anche se sono cresciuta nel sud di Israele». Continua a vivere a Tel Aviv con il marito Eli, fratello del sindaco di Gerusalemme: insieme i Barkat hanno staccato il biglietto milionario degli investimenti nelle start-up tecnologiche.
   L'Hapoel Beersheva ha un budget che è un terzo di quello del Maccabi Tel Aviv - i più titolati, sconfitti sabato e ormai a 11 punti di distanza - e ha battuto anche l'Inter l'autunno scorso in Europa League. Gli ingredienti per la rivoluzione sono stati elencati da Haaretz, il giornale della sinistra israeliana: «Determinazione d'acciaio, una genialità tranquilla per il comando e un'enorme riserva di amore. Condensati in una donna».

(Corriere della Sera, 1 maggio 2017)


Israele: Boom economico per il settore della salute digitale

Israele ha circa 385 aziende attive nel campo della sanità digitale, secondo un rapporto che collega le realtà internazionali con l'innovazione israeliana.
In particolare, vi è un sottosettore, quello degli strumenti per la salute, che è salito alle stelle con circa 174 aziende dedicate (45 per cento del settore nel suo complesso). Questo sottosettore comprende le aziende che forniscono strumenti basati sull'utilizzo di software per aiutare le persone a tenere traccia, gestire e trattare le proprie condizioni di salute.
Il rapporto è stato pubblicato in vista del 16o incontro annuale MIXiii BIOMED 2017, una conferenza internazionale su vita e scienza che si terrà dal 23 al 25 maggio a Tel Aviv.
Il mondo digitale sta rapidamente trasformando il settore sanitario e con esso anche la condizione di passività dei pazienti. Quest'ultimi infatti stanno diventando consumatori attivi di assistenza sanitaria. Gli esperti dicono che Israele sia un giocatore importante in questa tendenza globale di empowerment del paziente, con numerosi dispositivi medici, cartelle cliniche elettroniche e molto altro.
Secondo il rapporto, il settore israeliano della sanità digitale è cresciuto in modo significativo nel 2016. La somma degli investimenti lo scorso anno è stato di 183 milioni di dollari, con un aumento di quasi il 30% rispetto al 2015. Gli strumenti per la salute e le analisi rappresentato oltre il 70% del volume di operazioni del 2015 e del 2016.
Il sottosettore di analisi per la salute, composto da 85 aziende israeliane che raccolgono e analizzano i dati per prevedere, prevenire, diagnosticare e trattare le malattie, ha ricevuto la maggior parte dei finanziamenti negli ultimi due anni: 84 milioni di dollari nel 2015 e 58 milioni di dollari nel 2016.
Un altro sottosettore che ha ricevuto notevoli finanziamenti nel 2016, circa 55 milioni di dollari è quello che si occupa del flusso del lavoro clinico, ovvero quella aziende che consentono a ospedali, cliniche e laboratori di lavorare in modo più efficiente. La tecnologia indossabile è un settore che ha ricevuto 46 milioni di dollari (il 25% del totale degli investimenti) nel 2016.

(SiliconWadi, 1 maggio 2017)


Inaugurato a Gerusalemme il nuovo memoriale dei caduti

Nel giorno del ricordo dei morti per guerra e terrorismo. Più di 23.000 mattoni tutti uguali, ognuno con il nome di un combattente che ha perso la vita nella difesa della moderna comunità ebraica in Terra d'Israele.

Domenica mattina, vigilia di Yom HaZikaron, la Giornata dedicata al ricordo dei soldati caduti nelle guerre per la difesa d'Israele e alle vittime del terrorismo, il presidente Reuven Rivlin e il primo ministro Benjamin Netanyahu hanno inaugurato il nuovo Memoriale nazionale dei caduti sul Monte Herzl, a Gerusalemme.
Situato all'ingresso dello storico cimitero militare nazionale del Monte Herzl, a poca distanza da Yad Vashem, il Museo e Memoriale della Shoà, il nuovo monumento è destinato a commemorare ognuno degli oltre 23.000 combattenti morti nella difesa della moderna comunità ebraica in Terra d'Israele, prima e dopo la nascita dello stato. "Ricordare ogni singolo caduto non è semplice ma è fondamentale - ha spiegato ai giornalisti Aryeh Mualem, direttore del Dipartimento Famiglie e Commemorazioni del Ministero della difesa - Questo è esattamente il posto dove ricordare ognuno di loro"...

(israele.net, 1 maggio 2017)


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